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Italian Pages 400 [384] Year 2004
samo storia, letteratura, scienza ATTI DELLE GIORNATE DI STUDIO Ravenna, 14-16 novembre A cura di Eleonora Cavallini
PISA · ROMA
ISTITUTI EDITORIALI E POLIGRAFICI INTERNAZIONALI MMIV
A.I.O.N. ANNALI DELL’ISTITUTO UNIVERSITARIO ORIENTALE DI NAPOLI DIPARTIMENTO DI STUDI DEL MONDO CLASSICO E DEL MEDITERRANEO ANTICO SEZIONE FILOLOGICO-LETTERARIA QUADERNI · 8.
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ANNALI DELL’ISTITUTO UNIVERSITARIO ORIENTALE DI NAPOLI DIPARTIMENTO DI STUDI DEL MONDO CLASSICO E DE L M E D I T E R R A N E O A N T I C O Sezione filologico-letteraria A I O N (filol) Direttore responsabile Giovanni Cerri Comitato di redazione Giovanni Cerri ⋅ Giorgio Jackson Luigia Melillo ⋅ Luigi Munzi ⋅ Riccardo Palmisciano Amneris Roselli ⋅ Domenico Tomasco ⋅ Roberto Velardi * Registrato al nr. del Registro Periodici del Tribunale di Napoli ai sensi del D.L. -- nr. . I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo (compresi microfilms, microfiches e riproduzioni fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi. I volumi degli Annali possono essere richiesti in scambio da altre Università o istituzioni culturali rivolgendosi all’Istituto Universitario Orientale, Dipartimento di Studi del Mondo classico e del Mediterraneo antico, Palazzo Corigliano, Piazza S. Domenico Maggiore, Napoli, tel. , fax Manoscritti e contributi per la pubblicazione dovranno essere inviati allo stesso indirizzo. http://www.iuo.it/dipmcma/pubblicazioni *
i s s n - i s b n --- i s b n --- Istituto Universitario Orientale * Il volume è stato pubblicato con contributi di fondi MIUR % e %, nonché del Dipartimento di Storie e Metodi per la Conservazione dei Beni Culturali (Università di Bologna, sede di Ravenna) e della Fondazione Flaminia (Ravenna).
INDICE
Premessa giovedì novembre 2002 ⋅ ore 9:00. presiede antonio panaino Antonio Aloni, L’ira di Era: tracce di committenza samia nell’Inno omerico a Apollo Paola Angeli Bernardini, Etnografia e storia nell’epos di Cherilo di Samo Pietro Giannini, Ibico a Samo
g i o v e d ì n o v e m b r e ⋅ o r e : . presiede walter burkert Maria Grazia Bonanno, Come guarire dal complesso epico. L’Ode a Policrate di Ibico Domenico Musti, Policrate e Pisistrato: un confronto Carmine Catenacci, Policrate di Samo e l’archetipo tirannico Giovanni Casadio, Hera a Samo
v e n e r d ì n o v e m b r e ⋅ o r e : . presiede antonio aloni Antonietta Gostoli, Tradizione astronomica a Samo (Pitagora e Ibico) Lucio Russo, Aristarco di Samo: uno scienziato isolato? Manuela Mari, Il ‘culto della personalità’ a Samo, tra Lisandro e Demetrio Poliorcete Maria Paola Funaioli, Linceo di Samo Donatella Restani, Tradizioni musicali in Duride di Samo v e n e r d ì n o v e m b r e ⋅ o r e : . presiede giovanni cerri Antonio Panaino, Silosonte ‘benefattore del re’ e la conquista persiana di Samo Tommaso Gnoli, Samo in età ellenistica e romana: ricerche storiche ed epigrafiche Antonio Carile, Samo in età bizantina Monica Centanni, Thuc. VIII ss. : Atene-Samo-Atene, prove tecniche di rivoluzione
indice
Sergio Audano, L’exemplum di Policrate in Valerio Massimo: una lettura romana tra retorica e ideologia Elisabetta Berardi, Triste fine di un tiranno. La morte di Policrate di Samo nella Seconda Sofistica s a b a t o n o v e m b r e ⋅ o r e : . presiede maria grazia bonanno Eleonora Cavallini, L’‘isola delle Vergini’: tradizioni mitiche di Samo arcaica nei lirici (Ibico, Anacreonte) e nella poesia ellenistica Walter Burkert, Policrate nelle testimonianze letterarie Claudia Boni, Radina e Leontico a Samo (Stesicoro, Strabone, Pausania) Alessandro Iannucci, Asio ‘parodico’? Lettura di un frammento elegiaco Adele Teresa Cozzoli, Alcuni aspetti della storiografia di Duride di Samo
PREMESSA
Il presente volume contiene i testi delle relazioni tenute nel corso delle Giornate di Studio sul tema Samo : storia, letteratura, scienza, organizzate dal Dipartimento di Storie e Metodi per la Conservazione dei Beni Culturali dell’Università di Bologna (sede di Ravenna), in collaborazione con la Fondazione Flaminia di Ravenna. In tale occasione, studiosi di varia provenienza e estrazione, di Università italiane e straniere si sono riuniti per tracciare insieme, nel confronto di punti di vista diversi, una ‘mappa’ delle culture e dei saperi che verso l’isola dell’Egeo sono confluiti, e da essa si sono diramati, nell’arco di molti secoli, dalla fase pregreca all’età bizantina, trasmettendo fino a noi un’eredità culturale preziosa e affascinante. La scelta di Samo mi è stata suggerita in parte dalla mia personale, lunga frequentazione della poesia di Ibico, ma soprattutto dallo spiccato orientamento interculturale che caratterizza la Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali di Ravenna e i gruppi di ricerca che operano in essa. Mi pareva infatti quanto mai pertinente proporre in tale sede un convegno sull’isola delle Sporadi che, anche a causa della sua posizione strategica, svolse nella storia greca un ruolo decisivo come ponte culturale fra Oriente e Occidente, come crocevia di genti e conoscenze, di scambi commerciali, di tradizioni mitiche e cultuali, di forme di organizzazione dello Stato. Con il tiranno Policrate, in particolare, e poi con l’intensificarsi dei rapporti con Atene, Samo – assieme a quella parte dell’Egeo che si trova intorno all’isola – diventa un luogo ‘cruciale’, quasi baricentrico, fra mondo ellenico e mondo orientale. Alla corte di Policrate, fiorito nella seconda metà del vi secolo, convergono poeti della statura di Ibico e Anacreonte, ma si progettano anche grandiose opere architettoniche (il santuario di Hera) e ingegneristiche (l’acquedotto di Eupalino), destinate a suscitare profonda impressione in Erodoto e nello stesso Aristotele. Nel v secolo, nell’ambito della lega Delio-Attica, Samo, Chio e Lesbo assumono la strategica funzione di «custodi dell’impero», secondo un’affermazione di Aristotele (Costituzione degli Ateniesi ,) ; e ancora dopo il colpo di stato oligarchico ad Atene del , Samo, dove era ancorata la flotta ateniese, diventerà il luogo geopolitico di resistenza, prima, e poi di restaurazione della democrazia attica. Con l’età ellenistica, Samo avrebbe conservato una posizione di primo piano sia per quel che riguarda la produzione letteraria, sia per quanto attiene alle ricerche scientifiche : si deve infatti ad Aristarco di Samo la precoce intuizione di quello che, molti secoli più tardi, verrà chiamato “sistema copernicano”. Questi ed altri temi (fra cui, ad esempio, la produzione epica e tardo-epica samia) sono stati oggetto di numerosi contributi, presentati a Ravenna dal
premessa
al novembre . Al fine di restituire, per quanto è possibile, l’andamento vivace e stimolante di quelle giornate, gli interventi vengono pubblicati nello stesso ordine in cui sono stati effettivamente proposti in quell’occasione, secondo una concatenazione logica a mio parere più incisiva di quanto non potrebbe risultare la rigida progressione cronologica degli eventi trattati. Un ringraziamento particolare va ai Colleghi e amici della Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali di Ravenna, che hanno incoraggiato l’iniziativa non solo con la loro personale partecipazione, ma anche con i molti e importanti suggerimenti: fra loro, vorrei ricordare soprattutto l’attuale Preside Antonio Panaino, il Decano della Facoltà (ed ora Direttore del Dipartimento di Storie e Metodi per la Conservazione dei Beni Culturali) Antonio Carile, nonché Tommaso Gnoli ; inoltre, Alba Maria Orselli, i cui consigli mi sono sempre stati preziosi in questa come in molte altre occasioni. Nella fase organizzativa, ho potuto contare sull’entusiasmo e sull’intelligente efficienza di Alessandro Iannucci, che si è dedicato senza risparmio anche alla risoluzione di alcuni fra i tanti problemi pratici che la preparazione di un convegno necessariamente comporta. Nel corso delle Giornate di Studio, mi sono avvalsa della costante e attenta collaborazione dello stesso Iannucci nonché di Claudia Boni e di Sergio Audano i quali, insieme con Luigi Ferreri, mi hanno altresì prestato il loro aiuto nella revisione dei presenti Atti e nella correzione delle bozze. E, a questo proposito, è doveroso ricordare il cortese quanto prezioso contributo di Camillo Neri all’ultima fase di elaborazione del volume. Un sentito ringraziamento, infine, a Giovanni Cerri per aver accolto questi atti nei «Quaderni» di «a.i.o.n.» (filol). Eleonora Cavallini
g i o v e d ì n o v e m b r e ⋅ o r e : presiede antonio panaino
L ’ I R A D I E R A : TR A C C E D I C O M M I T T E N Z A S A M I A N E L L ’I N N O O M E R I C O A AP O L L O Antonio Aloni
Q uesto intervento avrebbe potuto avere un altro sottotitolo, del tipo ‘le ambiguità del canto, ovvero un cantore con due padroni’. Per cominciare, la doppiezza dell’Inno è un tratto indiscutibile, definita a livello scientifico almeno a partire dalle osservazioni di Ruhnkenius. La doppiezza deriva dal fatto che l’Inno, come è noto, celebra due diverse, e solitamente distinte, epiclesi di Apollo. Di qui, ricordo, è partito Walter Burkert per attribuire la composizione dell’Inno, nel formato conservato dalla silloge, a una precisa commissione di Policrate, in occasione della prima e unica ricorrenza di una inusitata festa per Apollo Delio e Pitico, celebrata a Delo intorno al /. Come diretta conseguenza del contenuto inusitato della festa, nell’Inno sono presenti le tracce di almeno due canti, appartenenti a due tradizioni diverse. Ovviamente non siamo di fronte a qualcosa di riconducibile all’intertestualità letteraria, perché nel canto di letterario, o di letterato, non c’è ancora nulla. Siamo piuttosto di fronte alla compresenza di canti che, pur appartenendo per origine a tradizioni diverse, sono entrambi radicati nella competenza del poeta ; ciò vuol dire che egli li ha appresi e è in grado di riprodurli. Questi canti e queste tradizioni, tuttavia, convivono in modo diverso nella competenza del poeta: una tradizione è quella legata all’origine del poeta e alla sua formazione, l’altra sembra derivare da una conoscenza di canti ascoltati e appresi nel corso del suo vagare fra le feste in città e luoghi diversi. Inoltre, le tradizioni e i canti interferiscono fra loro, talvolta in modo bizzarro. A tutto ciò ho dedicato molte pagine, per cui mi limito a un solo esempio. Prima di permettere a Latona di partorire, l’isola di Delo si fa promettere con giuramento che il dio avrebbe fondato sull’isola un tempio che l’avrebbe resa famosa fra tutti gli uomini. La richiesta di Delo viene tuttavia espressa in termini che pongono alcuni problemi (vv. -). . Alla base di questo lavoro, e di altri sul medesimo argomento, sta un fondamentale saggio di Walter Burkert (). Il fatto che entrambi abbiamo partecipato al convegno ‘samio’ e che i nostri interventi compaiano assieme negli Atti è per me un grande onore. I giorni del convegno sono stati segnati da discussioni, sempre interessanti e istruttive. I punti di disaccordo che ancora restano fanno parte della dialettica della ricerca. . Ruhnkenius : - « Certius est Hymnum in Apollinem, qui in scriptis editisque unus est, in binos Hymnos dividendum esse. Versus enim a∫ll« a¢ge dh` Lhtv` &c. habet solitum Hymni epilogum et finem. Tum sequitur alterius Hymni initium v. (= ) v® a¢na, kai` Lyki´hn kai` MWoni´hn &c. Priorem autem eo loco quem indicavimus finiri, non solum ratio docet, sed etiam veterum scriptorum auctoritas confirmat... ». . Burkert . . Aloni : -, , , -.
antonio aloni
a∫ll« ei¢ moi tlai´hw ge, &ea´, me´gan oçrkon o∫mo´ssai, e∫n&a´de min prv ^ ton tey´jein perikalle´a nho`n e¢mmenai a∫n&rv ´ pvn xrhsth´rion. ay∫ta`r e¢peita pa´ntaw e∫p« a∫n&rv ´ poyw, e∫pei` h® polyv ´ nymow e¢stai.
Ma se tu volessi, o dea, farmi un solenne giuramento, che qui, prima che altrove, egli edificherà uno splendido tempio destinato a essere oracolo per gli uomini; e dopo ... fra tutti gli uomini, poiché certo egli sarà celebrato con molti nomi. (trad. F. Càssola)
La richiesta di fondare un xrhsth´rion, cioè un tempio oracolare, è parsa a molti una svista o addirittura un tentativo di attribuire al santuario delio una prerogativa e una timh´ altrimenti inesistenti. Inoltre, molti studiosi hanno dubitato del testo, al punto che gran parte delle edizioni moderne pongono una lacuna dopo il v. . In realtà, di tale lacuna non vi è necessità, perché il senso è comunque chiaro, e la grammatica è in fondo rispettata. Resta il fatto che il nesso dei vv. - non sia dei più chiari e felici dell’Inno. Io ritengo che la menzione del xrhsth´rion sia una conseguenza del riuso, a proposito di Delo, di materiale narrativo tradizionale e della dizione che stanno alla base del canto dedicato all’epiclesi delfica del dio. Il termine xrhsth´rion è assente dal lessico omerico, e quindi dalla tradizione orientale che sta alla base dei poemi, mentre compare in Esiodo (fr. , M.-W.) e per ben tre volte nel prosieguo dell’Inno ai vv. , e , vale a dire nella sezione delfica. In questi casi, xrhsth´rion designa correttamente l’oracolo che Apollo intende fondare. È anzi elemento tematico di importanza strategica nella ricerca che caratterizza la seconda parte dell’Inno. Nella sua formulazione più ampia, la menzione del xrhsth´rion implica anche, con un nesso che parte dalla immediatamente successiva dieresi bucolica, la menzione delle perfette ecatombe che al dio porteranno quanti fra gli uomini abitano il Peloponneso, l’Europa (quale che sia il significato preciso del termine) e le isole. A proposito del santuario delio, e nella prospettiva ‘ionica’ di Policrate (su cui torneremo) la menzione del Peloponneso è chiaramente eccessiva e fuori luogo. Di qui la necessità, nel caso di Delo, di troncare il riuso del tema e, con un tipico nesso di passaggio a partire . Vv. - (cfr. anche -) : e∫n&a´de dh` frone´v tey´jein perikalle´a nho`n e¢mmenai a∫n&rv ´ poiw xrhsth´rion oiç te´ moi ai∫ei` e∫n&a´d« a∫ginh´soysi telhe´ssaw e™kato´mbaw, h∫me`n oçsoi Pelo´ phn te kai` a∫mfiry´toyw kata` nh´soyw, xrhso´menoi. toi^sin po´nnhson pi´eiran e¢xoysin, h∫d« oçsoi Ey∫rv ^ı . « Qui io intendo innalzare uno de` k« e∫gv ` nhmerte´a boylh`n pa^si &emistey´oimi xre´vn e∫ni` pi´oni nhv splendido tempio / che sia oracolo per gli uomini, i quali sempre / qui mi porteranno perfette ecatombi, / – quanti abitano il Peloponneso fecondo, / quanti abitano l’Europa, e le isole circondate dal mare – / desiderosi di consultare l’oracolo: e a tutti loro il mio consiglio infallibile / io esprimerò, dando responsi nel pingue tempio» (trad. F. Càssola). . Cfr. Mora ; Shipley : -.
l’ira di era
dalla dieresi bucolica, rafforzare il concetto meno impegnativo della universalità del culto del dio. Dalla presenza di due tradizioni nella competenza del poeta, e dal loro interferire, derivano i tratti contraddittori che caratterizzano la dizione dell’Inno, come ha ben messo in luce Janko. Per fare due esempi: le sezioni delia e delfica dell’Inno mostrano nei riguardi dell’impiego del n efelcistico, usato per allungare una sillaba breve, due comportamenti affatto opposti, che si dispongono agli estremi della scala costruita da Janko. D’altra parte, nella sezione ‘pitica’ (quella, per intenderci, meno radicata nella competenza del poeta), l’analisi di Janko mette in mostra la totale incoerenza e quasi la schizofrenia della dizione. A tutto ciò si aggiunge il fatto che l’Inno fu registrato almeno due volte. Rimando ancora una volta alle conclusioni del mio (già troppo citato) libro, completate dalle pagine di Livio Sbardella. A una registrazione in qualche modo connessa con la festa delia, si aggiunse in seguito una scrittura, completa o parziale, effettuata in ambito ateniese. Della prima registrazione è testimone il testo conservato nella silloge (si tratta probabilmente dello stesso di cui parla il Certamen, cap. p. , - Wil., che fu trascritto su una tavola imbiancata e depositato nel tempio di Artemide). Della registrazione ateniese è invece testimone Tucidide (iii ) che cita i vv. - e - con significative e per nulla casuali differenze rispetto al testo tramandato dalla silloge. A attestare la registrazione ateniese del testo contribuiscono anche alcune delle ‘varianti’ recentemente studiate da Sbardella, in particolare quelle ai vv. - e -. Solo che nella mia prospettiva la designazione di ‘variante’ va presa con molta cautela. Si tratta secondo me di differenze dipendenti da diverse registrazioni del testo, effettuate in tempi e in condizioni diversi, anche se attraverso la dettatura del medesimo cantore. Significativa è, a questo proposito, la menzione nel testo tramandato da Tucidide della a∫gyia´ (v. a) lungo la quale si snoda la festa degli Ioni a Delo. Come giustamente osserva Càssola, si tratta della Via Sacra fatta costruire da Pisistrato, che dal porto conduceva prima all’Artemision e poi al tempio di Latona. È questo un tratto decisamente dovuto ai patrocinatori della registrazione ateniese del canto per cui Cineto andava famoso. . Cfr. Janko : - e il quadro a p. . . Si vedano le osservazioni in Aloni : -. . Cfr. Aloni , in part. -; Sbardella . . Sbardella : -. . Càssola : ad a. . Sulle dimensioni del testo ateniese è difficile fare ipotesi. Da un lato c’è Tucidide che, a proposito dei vv. a-a, parla di «conclusione del canto», dall’altro c’è il fatto che a Atene un canto delio-pitico sembra del tutto coerente con la grande attenzione (almeno in apparenza)
antonio aloni
Ma anche la committenza della festa delia è con ogni probabilità duplice. Una storia dei diversi interessi e delle presenze a Delo è stata tracciata da Roux, sembra tuttavia opportuno, almeno a partire dalla metà del vi secolo, sostituire alla rigida successione (Nasso – Atene – Samo) fissata da Roux un modello più articolato, che tenga conto delle vicende complessive che legano fra loro i regimi tirannici di Atene, Nasso e Samo. Non è ovviamente possibile parlare di alleanze, nel senso moderno del termine; da un lato vi è l’aiuto posto in atto da Pisistrato per favorire la presa del potere da parte di Ligdami a Nasso. Dall’altro vi è l’intervento spartano contro Policrate (Hdt. iii - e -), che fallì il suo scopo (e di ciò si riparlerà), ma che riuscì invece a abbattere la tirannide di Nasso. A collegare Samo e Atene, infine, vi è soprattutto Anacreonte, che appare il tramite per rinnovare un legame antico fra le due famiglie di tiranni. Al momento della festa delio-pitica Ligdami e Nasso sono di necessità fuori gioco, ma è certo che ancora prosegue la cordiale intesa (la jeni´h) fra i tiranni di Atene e di Samo, entrambi interessati a rafforzare (o a inventare) una identità ionica funzionale soprattutto ai propri, non sempre coincidenti fra l’altro, interessi. In questo quadro si colloca l’iniziativa di Policrate, che potrebbe anche essere tale (cioè del solo Policrate) soprattutto per la natura delle fonti che ne conservano memoria. Le fonti ateniesi infatti tacciono completamente sulla effimera iniziativa della festa delio-pitica. Anzi per Tucidide l’Inno (nel formato a lui noto) attesta una antichissima festa degli Ioni, cui si lega il nome del sommo poeta Omero. La memoria della festa policratea riemerge alla fine del iv secolo a opera di Menandro (fr. K.-Th. dall’Heautontimorumenos) e di Epicuro (fr. Us. dalle Lettere a Idomeneo), citati come testimoni dalla tradizione paremiografica che tramanda il proverbio tay^ta´ soi kai` Py&i´a kai` Dh´lia. La provenienza geografica di Epicuro è rivelatrice della localizzazione della memoria dell’evento, con o senza la mediazione di Duride, anch’egli di Samo. L’espressione ‘committenza duplice’ è da intendere non tanto come conposta dai tiranni per entrambi i culti apollinei. Anzi, a Atene sembra esservi una maggiore attenzione per Apollo Pitico, come mostrano i monumenti edificati in onore del dio. Proprio uno di questi monumenti, cioè l’altare di Pisistrato il Giovane potrebbe essere stato l’occasione per la performance ateniese dell’Inno e per la successiva registrazione del testo. Su tutto ciò cfr. Aloni . . Roux : -. . Cfr. anche Shipley : -. . Aloni . Inverso al caso di Anacreonte è quello del medico Democede, ingaggiato da Policrate con una somma favolosa mentre si trovava a Atene (Hdt. iii ). Shipley : avanza la possibilità che anche Eupalino, prima di trasferirsi a Samo, abbia lavorato per i Pisistratidi nella costruzione della fontana Enneakrounos. . Cfr. La Bua .
l’ira di era
creto intervento di entrambi i tiranni nel commissionare il canto, ma soprattutto come necessità per il poeta di tenere presente il quadro complessivo in cui si inserisce la festa, in modo da soddisfare non solo il proprio committente diretto, ma anche quanti sono a lui più strettamente legati (insomma, la ‘norma del polipo’). Proprio i segni di questa duplice committenza saranno l’argomento delle osservazioni che seguiranno. Ancora alcune riflessioni vanno fatte circa gli eventi che accompagnarono la festa delia, e le disposizioni dei protagonisti nei riguardi di Delfi. I rapporti dei Pisistratidi con Delfi sono complessi e non riconducibili a una formula univoca. Tuttavia non si sbaglia se si parla di una reciproca diffidenza e di una latente inimicizia, che sarebbe poi esplosa nelle ultime fasi della tirannide, con l’appoggio esplicito dell’oracolo agli Alcmeonidi esuli, fino all’intervento spartano. Per parte loro, i Pisistratidi sembrano approfittare dell’incendio del tempio di Delfi per accreditare un altro santuario oracolare di Apollo, quello di Ptoo ai confini fra l’Attica e la Beozia. La presenza ateniese in questo oracolo – per il resto soprattutto di importanza locale – diviene significativa solo negli ultimi decenni del vi secolo, e sembra spegnersi poco dopo la caduta dei tiranni e la ricostruzione del tempio delfico. Sui rapporti fra Policrate e Delfi abbiamo solo indizi indiretti, oltre alla vicenda dell’istituzione della festa delio-pitica. La rottura del patto di ospitalità fra Amasi e Policrate (Hdt. iii -; Diod. i ,) e l’appoggio del tiranno alla spedizione che riportò Arcesilao, contro il parere di Delfi, a riprendere il potere a Cirene (Hdt. iv ), sono state collegate sotto l’unico denominatore di un atteggiamento antidelfico di Policrate, o più probabilmente viceversa. Una lettura attenta delle fonti che tramandano l’interrogazione di Policrate a Delfi rafforza l’impressione/conclusione che Policrate organizzò la festa delia in contrapposizione con il santuario pitico. Secondo Zenobio (Zenob. Athous , p. Miller) Policrate chiese al dio se dovesse chiamare la sua festa Delia o Pitica. Considerato che la festa fu, con ogni probabilità, organizzata a Delo nell’anno dei giochi pitici quadriennali, non vi è dubbio che la domanda ha decisamente il sapore dell’affronto. Il racconto di Fozio è leggermente diverso e ancora più interessante. La richiesta non riguarda il nome della festa, il tiranno vuole invece dall’oracolo una sanzione circa l’opportunità del momento in cui celebrare la festa. In questo caso la richiesta . Si vedano le acute osservazioni in Musti : . . Aloni . Che poi a Ptoo, oltre ai Pisistratidi, ci siano anche gli Alcmeonidi non deve stupire : fa parte della complessità della politica di Atene arcaica. Va in un certo senso assieme con l’arcontato dell’Alcmeonide Clistene nel . . In generale, cfr. Mora . . Mora : -.
antonio aloni
sembra presupporre una storia precedente e antichissima della festa (e questa in fondo è anche la convinzione di Tucidide), rispetto alla quale l’iniziativa di Policrate si presenta come un ritorno, un recupero di un passato indebitamente dimenticato. E il ritorno al passato, per lo più presunto, è una delle modalità tipiche del cambiamento in una società tradizionale, come insegna la vicenda del ritorno a Solone e alla patrios politeia, predicato da tutte le fazioni politiche, ma soprattutto da quelle antidemocratiche del v e iv secolo. Anche in questo caso, il comportamento di Policrate nei riguardi di Delfi rasenta la spudoratezza. In fondo, la vicenda dell’interrogazione di Policrate a Delfi appare un modo tradizionale per sanzionare l’inimicizia del santuario nei riguardi di qualcuno. Anche il racconto relativo a Clistene di Sicione segue lo stesso schema narrativo, pur se il finale è diverso. Clistene infatti (Hdt. v ) si reca a Delfi per avere dall’oracolo la sanzione del suo intento di togliere a Adrasto i culti che fino a allora i Sicioni gli avevano tributato. La risposta della Pizia è sferzante e anche questa volta ad personam (tay^ta´ soi... nel caso di Policrate, e∫kei^non de` leysth^ra nel racconto in terza persona di Erodoto); mentre Adrasto è il re dei Sicioni, lui Clistene ne è il lapidatore. Clistene, come Policrate, non si cura del responso pitico e prosegue nella sua azione di de-arghizzazione. Una tale cattiva disposizione del committente nei riguardi dell’oracolo apollineo non manca di riflettersi nell’Inno. Vi sono alcune accentuazioni, francamente eccessive, del carattere sanguinario e iracondo di Apollo (su cui si tornerà), nelle vicende che portano alla fondazione del tempio delfico. Ma soprattutto due sono i tratti che sembrano davvero offensivi nei confronti dell’oracolo e dei suoi sacerdoti. Come vedremo meglio in seguito, della preistoria del santuario viene taciuto quasi tutto e soprattutto il nome del mostro divino che era signore a Delfi prima di Apollo e che dal dio viene ucciso. Di Pitone non vi è traccia nell’Inno, nonostante la indubbia importanza che il mostro conservava nei culti e nella memoria di Delfi. Il cantore menziona solo, e dapprima quasi di sfuggita, una dra´kaina (vv. -). La dragonessa non ha nome; solo in fonti posteriori (Call. fr. Pf. ; Dion. Per. -) viene chiamata Delfy´nh, e collegata perciò al nome di Delfi. Nell’Inno non solo viene tolto al santuario il suo, per così dire, eroe eponimo, ma viene introdotta una diversa e poco onorevole eponimia del santuario medesimo. Py&v´ (vv. -) viene fatto derivare dal verbo py´&ein ‘imputridire’, perché il mostro ucciso da Apollo viene fatto imputridire dalla forza del sole. Tutto il passaggio appare giocato sul filo di una ironia irriverente, . Cfr. Clay : -. . Per le altre tradizioni delfiche, cfr. Fontenrose : n. , ; cfr. anche Clay : -.
l’ira di era
che culmina nell’affermazione per noi quasi blasfema, e che in ogni caso non stonerebbe in una commedia di Aristofane, dei vv. - (la traduzione, ovviamente, non può rendere il gioco fra ‘Pito’ e il concetto di ‘imputridire’): e∫j oy© ny^n Py&v ` kiklh´sketai, oi™ de` a¢nakta Py&ei^on kale´oysin e∫pv ´ nymon ktl.
che da allora fino adesso ha il nome di Pito; e gli uomini chiamano «Pizio » il dio, nome che ben gli si addice etc. (trad. F. Càssola)
L’affermazione viene subito opportunamente corretta al verso successivo: « poiché in quel luogo / fece imputridire il mostro la forza del sole cocente ». Una simile, e forse più palese, irriverenza si trova pochissimi versi dopo, quando il dio si accinge a scegliere i sacerdoti per il suo tempio. La scelta di Apollo cade su un gruppo di mercanti cretesi (vv. ss.). Il racconto serve a motivare il culto di Apollo Delfinio (v. ), ma la scelta di un manipolo di mercanti cretesi suscita qualche perplessità. Le note dei commentatori convergono nello spiegare la scelta con la fama dei Cretesi, come sacerdoti di culti antichissimi. Si tratta di una sorta di communis opinio che di norma non necessita neppure di ulteriori precisazioni o rinvii a fonti e studi. Quando questo avviene, come nel commento di Allen, Halliday e Sikes, si fa al più menzione di culti cretesi di Apollo Delfinio. Non vi è dubbio che nella memoria storica dei Greci dell’epoca arcaica Creta fosse sede di una civiltà antichissima, luogo privilegiato di alcune vicende divine e eroiche. Meno certo è che da ciò discenda una sorta di naturale vocazione sacerdotale. Se per un attimo ci liberiamo da quello che a me sembra un presupposto di marca classicistica, non possiamo mancare di notare che nell’epos ai Cretesi è riservato soprattutto il ruolo dei mentitori. La formulazione paradossale di Epimenide risale almeno al v secolo, tuttavia l’origine cretese entra regolarmente in gioco nel caso in cui un personaggio si accinga a raccontare una storia falsa, e a (cercare di) ingannare la buona fede di qualcuno. Non è solo il caso dei famosi racconti cretesi di Odisseo (n -; j -; t -), ma è anche quello del racconto menzognero che Demetra imbastisce per celare la propria identità alle figlie di Celeo (Hymn. Hom. Cer. -). La dea pro. Allen-Halliday-Sikes : ad . Peraltro Allen-Halliday-Sikes sembrano abbastanza scettici circa un rapporto, per così dire genetico, fra Creta e Delfi; si veda - ad . . Cfr. Epim. B DK : Krh^tew a∫ei` cey^stai, kaka` &hri´a, gaste´rew a∫rgai´. Il verso faceva parte, con ogni probabilità, del proemio dei xrhsmoi´ (in realtà una teogonia); nel richiamo a Hes. Theog. mostra un non ambiguo intento parodistico e comico. Le implicazioni comiche furono senz’altro colte da Callimaco, che riprende il primo hemiepes nel prologo dell’Inno a Zeus (i ). Nulla invece colse Paolo di Tarso (Ep. ad Titum i ), ma questo non stupisce. Nel riuso callimacheo l’affermazione suona come un proverbio; resta il dubbio se tale fosse anche per Epimenide, ma è probabile, considerato l’uso epico della figura dei Cretesi (vd. qui subito sotto). In generale su Epimenide, si veda West : -.
antonio aloni
clama un’origine cretese che non ha altra ragione che non sia la natura fallace del proprio discorso. Il racconto di Demetra, al pari dei racconti del ‘cretese’ Odisseo, ha tratti chiaramente ironici, in quanto il pubblico sa fin da principio che il discorso è menzognero. È anzi probabile che l’ironia del discorso di Demetra avesse anche degli intenti più scopertamente comici: il riso è evidentemente un elemento rituale del culto della dea, come mostra nel prosieguo del canto l’episodio di Iambe (Hymn. Hom. Cer. -). Tratti sicuramente comici sono presenti nei discorsi cretesi. Appena sbarcato a Itaca, l’eroe incontra Atena (n ss.), che gli cela la propria identità, ma gli rivela che finalmente è giunto in patria. Si apre così una complessa sequenza, caratterizzata dal fatto che ognuno dei due personaggi cela se stesso e tenta di trarre in inganno l’interlocutore. Ma il ruolo di Atena è diverso da quello di Odisseo ; ella è onnisciente, come è onnisciente – almeno in quel momento – il pubblico. E così il discorso menzognero di Odisseo (n -) è comico, proprio a opera e a spese di Odisseo stesso. Alla fine (n ), il sorriso di Atena fornisce ai fruitori la sicura cifra interpretativa della sequenza. Anche il successivo racconto nella capanna di Eumeo (j -) si apre con un particolare destinato con ogni probabilità a provocare il riso del pubblico, questa volta complice con Odisseo. Come padre del preteso Cretese, Odisseo menziona un Castore Ilacide, un patronimico e forse un nome che hanno tutta l’aria di essere una invenzione del poeta, a causa delle connessioni comiche che palesano. Emerge insomma dall’epos un paradigma tradizionale, dove la menzione dell’origine cretese implica i tratti della menzogna, dell’ironia e del comico. Appare difficile sottrarre a questo quadro il racconto dell’Inno, che è l’unico testimone per quanto riguarda un’origine cretese del sacerdozio delfico. Anche in questo caso (ancora una volta) la trama tradizionale viene piegata nella direzione delle attese di un committente probabilmente piccato per la risposta sarcastica della Pizia alla sua, peraltro irriverente, interrogazione. Facciamo un primo bilancio: l’Inno destinato a una festa a Delo voluta da Policrate raggiunge il difficile risultato di onorare Apollo Delio e Delfico, e allo stesso tempo di esprimere l’intento anti-delfico che sta alla base della festa stessa. Ciò avviene con la cancellazione del nome del dio primordiale di Delfi e di tutta la storia del luogo precedente l’arrivo di Apollo, e con l’invenzione, per quello che ne sappiamo, di una etimologia del luogo alternativa . Come giustamente osserva Hoekstra (: ad j ) sia il patronimico («figlio di uno che abbaia») sia il nome (cfr. Xen. Cyn. ,: kasto´riai scil. ky´new sono dei cani da caccia a Sparta) sembrano non solo inventati ad hoc, ma soprattutto coniati con un chiaro intento comico, al fine di suscitare il riso alle spalle di Eumeo. . Sui mercanti/sacerdoti cretesi sono tornato a parlare in un intervento tenuto all’International Symposium « Apolline Politics and Poetics» presso l’European Cultural Centre of Delphi (- luglio ).
l’ira di era
tra il comico e l’irriverente (se non il blasfemo). A ciò si aggiunge l’accusa al clero delfico di discendere da una stirpe di noti mentitori. È certo che queste caratteristiche del canto compiacquero non solo il committente diretto, ma anche i suoi amici e alleati ateniesi. Ma il peso e la presenza del committente e dei suoi amici non si limitano a questo ; altri segni sono disseminati un po’ lungo tutto il testo. Questi segni si collocano essenzialmente a due livelli: quello della narrazione e quello lessicale. Nel primo caso si tratta di interventi che muovono il racconto nella direzione degli intenti e – perché no? – delle vanità dei committenti. Per quanto riguarda il lessico, possiamo osservare l’uso di singole parole o espressioni, che ancora una volta rinviano al committente e ai suoi amici. Non mi soffermo troppo sugli elementi narrativi e verbali che rivelano la presenza e l’interesse ateniesi per la festa di Delo. Significativa è a questo proposito, nel testo tramandato da Tucidide (iii ), la menzione dell’a∫gyia´ (v. a), di cui ho già detto. Si può aggiungere il ricorso, per due volte (vv. e ), all’aggettivo kranao´w come epiteto dell’isola di Delo. Come ha mostrato M. Skafte Jensen, l’aggettivo fa parte di un sistema tradizionale di elogio di una terra «aspra, ma nutrice di giovani valenti» ; sistema al cui centro c’è la città kranah´ per eccellenza (o per antonomasia), cioè Atene. Da un punto di vista narrativo i tratti ‘ateniesi’ non sono forse molto evidenti, ma esistono e ne parleremo fra poco, quando finalmente arriveremo all’ ‘ira di Era’. Veniamo a Policrate e a Samo. Nella dizione epica, Samo (non solo l’isola di Policrate, ma anche le altre terre dal medesimo nome) manca di un sistema di formule fisse ; per essa vengono per lo più usati epiteti del tutto ornamentali, quali paipaloe´ssh (Sa´moio´ te paipaloe´sshw x nell’Odissea, sempre riferito alla Samo ionica). Nell’Inno Latona vaga per l’Egeo nord-orientale e tocca anche Samo (v. ) : kai` Sa´mow y™drhlh` Myka´lhw t« ai∫peina` ka´rhna
e Samo ricca di acque e le vette eccelse di Micale. (trad. F. Càssola)
Anzitutto è significativo l’accostamento fra Samo e Micale: la festa di Policrate mira a imporsi come festa etnica del mondo ionico, cioè soprattutto di quelle città che fino a qualche decennio prima si riunivano nel santuario panionico di Posidone Helikonios a Capo Micale. La conquista persiana del territorio e la sottomissione di gran parte delle città greche della terraferma aprono lo spazio per un nuovo santuario etnico e per la nuova festa delia. . Jensen -. . Ricordo che le vette eccelse di Micale (monte Raponas m. e Profitis Ilias m.) dominano l’orizzonte a oriente dell’antica Samo (ora Pythagorio).
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L’accostamento ricorda quello più celebre e contestato fra Atene e Salamina nel ‘Catalogo delle Navi’. Vi è poi l’aggettivo y™drhlo´w applicato a Samo: y™drhlo´w ricorre solo una altra volta nell’epos, per descrivere il paesaggio rigoglioso dell’isola delle capre, prospiciente la terra dei Ciclopi (i ). La rarità dell’impiego induce a attribuire a y™drhlo´w pregnanza di significato. E perché allora Samo è y™drhlh´ ? Certo, le acque non mancano nell’isola, come peraltro in tutte le grandi isole dell’Egeo, quelle più fittamente abitate. A mio parere, tuttavia, Samo è ricca di acque soprattutto per un’altra ragione. Naturalmente qui entra in gioco il punto di vista che cantore e committente condividono. Lo straordinario acquedotto costruito da Eupalino divenne nel tempo una delle meraviglie del mondo antico. Esso fu costruito (o concluso) per volontà di Policrate, e fu probabilmente una delle ragioni della straordinaria resistenza al lungo ( giorni) assedio spartano (Hdt. iii ). Si tratta di un tocco, ma indubbiamente un tocco efficace per ricordare e fare ricordare la potenza e la lungimiranza del committente. Dove tuttavia l’Inno rivela le maggiori e più forti connessioni con la committenza è nel trattamento narrativo di Era. Era è la dea di Samo; la vita religiosa dell’isola faceva perno sul culto della dea e sul suo ricco santuario. La presa di potere da parte di Policrate si lega, con ogni probabilità, con una grande festa in onore di Era, il tiranno inoltre intraprese grandi lavori per la ricostruzione del tempio incendiato intorno alla metà del secolo. Il rapporto più immediato fra Era (la dea del committente) e Apollo (il dio della festa) è di segno negativo: Era tenta di impedire la nascita di Apollo, per gelosia verso Zeus, e costringe Latona a vagare per tutto l’Egeo, senza che nessuna terra osi accoglierla per timore della vendetta della potentissima e adirata sposa tradita di Zeus. È un tema tradizionale, che si ripete anche in altri casi: il più simile è quello di Io, ma anche quello di Eracle rientra nello schema. L’Inno a Delo di Callimaco e la Fabula di Igino seguono questo schema, che è tuttavia presente anche nell’Inno, per quanto in modo parziale e quasi incomprensibile. Al v. inizia un catalogo geografico apparentemente dedicato a ricordare i luoghi su cui regna Apollo. Il catalogo si conclude con la menzione di Renea (v. ), e in modo inatteso si apprende che quelli appena nominati sono i luoghi percorsi da Latona alla ricerca di una terra che voglia accogliere il suo parto. L’accoglienza viene regolarmente rifiutata perché tutte le terre «tremavano e temevano molto» (v. ). La ragione del timore non viene detta, se non in modo indiretto nella risposta di Delo alla supplica di Latona. E la ragione è sorprendente e francamente poco . Si veda la precisa descrizione in Shipley : -. . Labarbe . . Pausania (vii ,) accenna cursoriamente al fatto che il tempio di Era a Samo fu incendiato dai Persiani. È probabile che egli si riferisca al tempio di Roichos, e che il fatto sia da collegare alle spedizioni di Ciro e Arpago negli anni ’; cfr. Shipley : -.
l’ira di era
chiara : Delo, come le altre terre, teme la a∫tas&ali´h di Apollo (vv. -). L’accusa è apparsa a alcuni commentatori strana e eccessiva, e li ha indotti a pensare a un Apollo primordiale, lontano dall’ «idea omerica e classica di Apollo ». Che Apollo sia un dio violento e vendicativo, non è un’invenzione del poeta dell’Inno; basti pensare al primo canto dell’Iliade. È invece sorprendente che la violenza del dio venga addotta come ragione preventiva per rifiutare l’ospitalità a Latona. Delo, con una certa fatica, argomenta adducendo la propria piccolezza e aridità come ragioni della possibile ira del dio nascituro. Ma che avranno detto le altre terre, quelle assai pio´terai di Delo ? Dopo la nascita non si fa peraltro più alcun cenno di questa terribile ira, né del giuramento di Latona, ma anzi Delo si copre d’oro, perché il dio l’ha scelta come sua dimora (vv. -). Il timore di Delo e delle altre terre a fronte della a∫tas&ali´h di Apollo appare insomma una motivazione posticcia del vagare di Latona, inventata ad hoc. E la ragione sta nell’Inno medesimo. Le dee più grandi (e più antiche) assistono al parto, solo manca Era (v. ). La notazione ha un seguito, quando si dice che anche Ilitia era assente, in quanto nulla sapeva del parto per i disegni di Era, invidiosa perché Latona avrebbe generato un figlio nobile e forte (vv. -). Nell’Inno tutto si riduce a un semplice zh^low fra madri, una sorta di litigio da giardini pubblici. L’ira di Era verso Latona e suo figlio Apollo viene insomma dapprima cancellata, poi ritorna inesorabilmente per le necessità del canto, ma viene addomesticata e declassata. Ai dolori del parto di Latona si unisce il travaglio del cantore che, per compiacere il committente, non può raccontare una storia in cui la dea di Samo si presenta come la prima, irata e irosa, nemica del dio destinatario della festa. La mancata ira di Era costituisce una rinuncia per il cantore, ma si tratta di una rinuncia temporanea, perché il motivo ritorna in seguito, improvviso e inopinato, e questa volta tutto mirato a celebrare la potenza terribile, seconda solo a quella di Zeus, della dea di Samo, senza con ciò coinvolgere Apollo. Al momento in cui Apollo giunge finalmente a Delfi e uccide la dragonessa, si apre una digressione ampia e apparentemente poco motivata (vv. -) in cui si narra la storia di Tifone. Non è questo il luogo di una analisi . Cfr. p. es. Càssola : ad -. Una attenta analisi critica dei tentativi di spiegare la temuta a∫tas&ali´h di Apollo si trova in Clay : -. Purtroppo l’interpretazione proposta nelle pagine successive (-) appare ancora più fantastica di quelle rifiutate : Delo e le altre isole temono che il dio nascituro voglia scalzare il regno – da poco iniziato – di Zeus. E temono, chi sa perché, che il regno che Apollo vuole imporre «will be both violent and lawless» (p. ). . Il caso di Niobe è diverso; si tratta infatti di una donna mortale che pretende di superare la timh´ di un dio.
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della tecnica della composizione orale; basti dire che il poeta tiene saldamente il filo del racconto per tutta la digressione, per cui non ha nessun problema per tornare al racconto principale, una volta esaurita la storia di Tifone. Molti commentatori ritengono invece che ci si trovi di fronte a una interpolazione. Sarebbe peraltro interessante sapere quali sarebbero state le ragioni e i motivi dell’interpolatore. In realtà, non si tratta di uno ‘scivolone’ del cantore, ma di una deviazione voluta e controllata. Da un punto di vista tematico è evidente che dragonessa e Tifone sono connessi per il fatto di essere entrambi un ph^ma (e di conseguenza condividono un nucleo tematico) : v. (dragonessa) : polla` de` mh^la tanay´pod« , e∫pei` pe´le ph^ma dafoino´n v. (Tifone) : deino´n t« a∫rgale´on te Tyfa´ona ph^ma brotoi^sin v. (Tifone) : deino´n t« a∫rgale´on te Tyfa´ona ph^ma brotoi^sin v. (dragonessa) : foino`n a∫popnei´oys« , o™ d« e∫phy´jato Foi^bow «Apo´llvn v. (dragonessa) : oy∫de` sy´ ge zvoi^si kako`n dh´lhma brotoi^sin.
L’utilizzo di una tale connessione tematica rivela la maestria del cantore nel connettere la digressione alla narrazione principale; ciò non appare tuttavia sufficiente a spiegare l’ingresso di Tifone in una storia che non lo riguarda minimamente. Fattore decisivo per l’ingresso di Tifone nella vicenda dell’Inno è la sua connessione con Era, unita all’importanza che la dea riveste nel rapporto fra committente e poeta. E c’è forse qualcosa di più: la dragonessa sostituisce Pitone, e Pitone è in qualche modo connesso con Era, come appunto fa capire la Fabula di Igino, dove il mostro si adopera per impedire la nascita di Apollo, in un contesto in cui è anche presente la gelosia di Era. Insomma, un collegamento con Era è facilitato in molti modi. Il racconto che ne esce è interessante per molti motivi: anzitutto perché mescola motivi molto arcaici (i collegamenti ctonii di Era, i modi del giuramento) a una motivazione dell’ira molto peculiare: la gelosia di Era per la nascita partenogenetica di Atena da Zeus. La gelosia nei riguardi di Latona si ribalta in una gelosia rivolta esclusivamente verso Zeus, che ha generato una dea potentissima. Fra tutte le possibili ragioni di gelosia, Era si appiglia alla meno evidente e offensiva. Càssola parla di «tratti caricaturali», ma in realtà il poeta fa una mossa magistrale. Infatti, non solo riprende e sviluppa un tema che in precedenza non aveva potuto utilizzare appieno, ma attraverso il motivo della nascita partenogenetica opera una apertura celebrativa nei riguardi di Atena. Ma andiamo con ordine, e torniamo a Tifone. Nella digressione il poeta trascura tutta la storia terribile di Tifone – che a un certo punto pare prevalere addirittura su Zeus – per concentrarsi solo sulle vicende relative alla sua nascita. Da questo punto di vista, l’elemento tematico ph^ma brotoi^sin che apre e chiude la digressione (vv. e ), sembra davvero inadeguato. Ti-
l’ira di era
fone non è Scilla (n ) che attenta alla vita dei naviganti, né la Nemesi esiodea (Theog. ), ma l’ultimo e forse il più pericoloso dei contendenti a Zeus il primato sugli dèi e sul cosmo. Ma evidentemente la discendenza da Era e le ragioni della nascita sono ciò che sta a cuore al poeta. Il fatto che Tifone sia figlio di Era non è per nulla scontato; esistono altre tradizioni che ne fanno un figlio della terra (Hes. Theog. -; Aesch. Prom. ), con un padre che forse è Tartaro. All’interno di una sezione dell’Inno di chiara tradizione continentale, la differenza rispetto alla tradizione esiodea appare significativa. La tradizione esiodea parla invece di un’altra nascita per partenogenesi da Era, adirata con Zeus per la nascita di Atena: è la storia della nascita di Efesto, come è narrata nella Teogonia (vv. -). Nell’Inno, insomma, Tifone sostituisce Efesto, in quanto figlio partenogenetico di Era. Considerati gli aspetti grotteschi e comici che caratterizzano questo dio e le sue vicende, la scelta del poeta è un tributo alla gloria e alla potenza di Era, con una precisa sottolineatura della necessità di attribuirle la sua giusta timh´ (v. : v™w e¢m«a∫tima´zein a¢rxei nefelhgere´ta Zey´w « come Zeus adunatore di nembi comincia ad offendermi » ; trad. F. Càssola). Da questo punto di vista, Policrate non aveva che da rallegrarsi: Era si presenta adesso non come nemica di Apollo, ma come l’unica dea in grado, nella sua ira, di tenere testa e persino minacciare la potenza e la signoria di Zeus. Una bella rappresentazione della propria forza e potenza. Ma l’efficacia della digressione nei riguardi della committenza non si esaurisce qui. Si è già detto che i motivi dell’ira di Era appaiono un poco peregrini : fra tante possibili ragioni di gelosia per le vicende extraconiugali di Zeus, la scelta cade su quella che non implica l’intervento di nessuna rivale. Ciò che conta, e che suscita il dispetto e l’ira di Era, non è la madre, ma la figlia. Se la potenza di Era è paragonabile solo con quella, tuttavia più grande, di Zeus, analogamente, al figlio per partenogenesi di Era – alla fine sconfitto da Zeus – si oppone la figlia per partenogenesi di Zeus, Atena l’invincibile. È questo il sistema di analogie e opposizioni che si ricava dalle vicende narrate nell’Inno. È evidente che da una parte è celebrata la gloria della dea di Samo, ma al tempo stesso si tributa un grande omaggio anche a Atene, attraverso la sua dea eponima e protettrice. Ma questo sistema Era: Tifone = Zeus: Atena si complica nelle parole (vv. -) con le quali Era motiva al cospetto degli altri dèi la sua ira. Era rim. In questo quadro è significativo anche che Era, in attesa di partorire il mostro, si allontani da tutti gli altri dèi, «ma, rimanendo nei suoi templi dalle molte preghiere, / la veneranda Era dagli occhi di giovenca si rallegrava delle offerte a lei destinate» (vv. -; trad. F. Càssola). Fra i templi dalle molte preghiere e dalle pingui offerte, l’ascoltatore facilmente poteva pensare a uno dei più famosi luoghi di culto della dea: l’Heraion di Samo.
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provera a Zeus non solo di avere generato Atena da solo, ma anche il fatto che Efesto figlio di Era è deforme e invalido, al punto che ella stessa tentò di toglierlo di mezzo, gettandolo in mare. Perché, chiede e depreca, non ha voluto generare Atena con lei? Insomma, a Atena si oppone Efesto; dalle parole di Era (v. : oÇn te´kon ay∫th´) Efesto potrebbe essere sia un figlio, per così dire, normale (con un padre, cioè Zeus) o addirittura un altro figlio per partenogenesi. Dal momento che, tuttavia, la generazione per partenogenesi è un fatto eccezionale, non sembra necessario moltiplicare i figli partenogenetici. L’Efesto di cui parla Era, credo proprio che Càssola abbia ragione, è quello dell’Iliade, figlio di Zeus e di Era (A -), scagliato in mare dalla madre per la sua deformità e salvato da Tetide e dalle Nereidi (S -), proprio come si dice nell’Inno. E la comparsa di Efesto a questo punto è davvero bizzarra. È come se nella competenza del poeta si scontrassero una moltitudine di temi diversi e connessi, cui, per una ragione o per un’altra, è difficile rinunciare. Narrare la storia della nascita di Tifone può avere portato il poeta a ricordare un altro racconto circa la nascita per partenogenesi di Efesto da Era, e a questo punto non ha voluto perdere l’occasione di menzionare il dio zoppo. E così ha raccontato la storia più nota relativa a Efesto, quella del volo dal cielo nel mare. Si tratta, oltre che di una brutta avventura per il povero Efesto, anche di una sorta di motivo fisso legato al dio. Non solo la madre, ma in un’altra occasione anche il padre non trova di meglio che scagliarlo dal cielo sulla terra in un momento di ira (A -). Personalmente, non sono in grado di capire se questa menzione di Efesto contribuisca a meglio delineare la potenza di Era; bisognerebbe essere Policrate o uno dei suoi amici. Ma certo la menzione di una tipica – per quanto comica – avventura di Efesto, contestuale alla menzione della potenza di Atena, è un tratto palesemente rivolto a compiacere la parte ateniese vuoi della committenza, vuoi del pubblico. I decenni che immediatamente precedono la performance delia dell’Inno vedono una crescente presenza di Efesto nei culti e nei riti di Atene, in stretta connessione con la dea eponima. . ay∫th´ potrebbe esprimere con enfasi la prima persona, oppure convogliare anche il significato di «da sola» ; cfr. lsj s.v. i b e i . . Càssola : -, ad . . La situazione è analoga a quella descritta da Lord : e definita come «tension of essences ». . Per il culto di Efesto a Samo, cfr. Shipley : -. . Ma il riso e il comico sono un tratto costante delle menzioni di Efesto nei poemi omerici. . Robertson : - e -, e ancora : -. Non c’è accordo circa la presenza di Efesto fra i Dodici Dèi ateniesi in età Pisistratide: si vedano Shapiro : - (tendenzialmente negativo) e Angiolillo : - (più possibilista). A me sembra tuttavia strana l’analisi
l’ira di era
Per concludere, l’ira di Era è lo strumento principale per il cantore per celebrare la gloria e la storia del suo committente samio. Ma accanto a Policrate spuntano, come sovente accade in questo periodo, gli interessi e l’intelligenza dei Pisistratidi. Università di Torino
che Shapiro (: ) propone del cosiddetto kyathos di Lydos: in esso sono rappresentati dodici dèi, fra cui Eracle e anche Efesto. Nulla indica che la scena sia in relazione con l’arrivo di Eracle sull’Olimpo, eppure Shapiro ritiene che il vaso rappresenti egualmente quella circostanza. Più ragionevole mi sembra pensare che il vaso ‘fotografi’ una composizione dei Dodici Dèi peculiare all’epoca in cui fu dipinto: con Eracle e Efesto.
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E T N O G R A F I A E ST O R I A N E L L ’ E P O S D I C H E R I L O D I S A M O Paola Angeli Bernardini i . I l p o e t a e il po e m a e p i c o
Partiamo da una testimonianza dubbia che, secondo l’opinione di autorevoli studiosi (Barigazzi, Wimmel, Bornmann, Bernabé), potrebbe riguardare Cherilo di Samo, ma che, al momento, gli può essere attribuita solo in via del tutto ipotetica. Test. Bernabé = Callim. Aet. fr. ,- Pf. ....verso la Tracia dall’Egitto [voli pure] la gru che gode [del sangue] dei Pigmei. I Massageti a grande distanza lancino saette contro l’uomo [di Media.] Ma [i piccoli usignoli] sono più dolci.
I versi fanno parte del prologo degli Aitia in cui, come è noto, Callimaco espone il proprio programma poetico opponendo all’accusa dei suoi avversari, i Telchini, le ragioni per non aver scelto di comporre un carme unitario e continuo ma, nonostante l’età avanzata, poesie brevi ed esili. Nella difesa callimachea tra gli autori di opere lunghe sono citati Filita e Mimnermo che, tuttavia, sono giudicati migliori per le loro poesie brevi. La contrapposizione è tra un componimento lungo di Filita, di cui non siamo in grado di precisare il titolo, e la sua breve Demetra a cui si riferisce l’espressione callimachea o¢mpnia Uesmofo´row al v. e tra i piccoli carmi di Mimnermo e la sua grande Smirneide cui sembra alludere la definizione h™ mega´lh gynh´ al v. . L’interpretazione dei primi dodici versi del prologo è molto difficile e controversa, ma questa ipotesi di lettura sembra la più convincente e le argomentazioni di G. Massimilla in questo senso sono condivisibili. Nei versi che seguono immediatamente (vv. -) è possibile che Callimaco si riferisca al poema epico Persikà di Cherilo, definito attraverso alcuni temi in esso trattati, vale a dire la lotta tra i Pigmei e le gru e i combattimenti dei Massageti contro i Medi, e attraverso la lunghezza del poema cui Callimaco contrappone la dolce brevità. Della lunghezza dei poemi epici del v sec. a.C. possiamo farci un’idea da . Nel corso del presente saggio le testimonianze e i frammenti di Cherilo – ove non diversamente indicato – saranno citati secondo l’edizione di Bernabé . . Cfr. Sbardella b : -, al quale si rinvia anche per le indicazioni bibliografiche in merito. . La proposta di attribuire la definizione alla Smirneide è stata avanzata da Colonna : - ed è stata ampiamente ripresa (cfr. ad es. Gentili-Prato , ad Test. ,; Cameron : -). . Cfr. Massimilla : - e in particolare .
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quanto sappiamo su altri autori contemporanei a Cherilo, ad esempio Paniassi di Alicarnasso. La Suda attesta che il suo poema epico Herakleia si componeva di quattordici libri per un totale di novemila esametri e che il poema elegiaco Ionikà era in settemila versi (tremilacinquecento distici). Dunque dei componimenti in cui la lunghezza complessiva era più o meno come quella dei primi quattordici canti dell’Iliade. Anche i Persikà di Cherilo dovevano avere, come vedremo meglio in seguito, una notevole estensione. Nulla si può dire sugli altri poemi cherilei di cui parla la Suda. Anche i Persikà in prosa, che tra il v e il iv secolo a.C. fiorirono in Grecia (ad opera di autori vari come Dionisio, Carone, Ellanico, Ctesia, Eraclide, Dinone e naturalmente Erodoto), dovevano avere una notevole estensione: dalle origini della storia persiana al regno di Dario con digressioni sulla Scizia e su altri popoli attaccati dai sovrani persiani. Per quanto riguarda Carone di Lampsaco, ad esempio, per il quale accettiamo la cronologia alta, è da precisare che nei Persikà, oltre alla rivolta ionica e alle guerre persiane del - a.C., egli ha trattato la storia dell’impero persiano fin dal matrimonio di Mandane, figlia di Astiage, re dei Medi, con il persiano Cambise (FGrHist F ), cioè fin dalla sua fondazione. Per i Persikà di Cherilo non è da escludere l’ipotesi di A. Barigazzi che, sulla base della sottoscrizione in un rotolo papiraceo del ii-iii sec. d. C. (P. Oxy. xi ) : Xoiri´loy poih´mata Barbarika´. Mhdik Pers[ika´ (Test. ) – messa in calce a un componimento poetico da un erudito che aveva trascritto e forse commentato il testo – suggerisce che l’opera di Cherilo abbracciasse una grande parte della storia persiana, anche quella anteriore alle spedizioni contro la Grecia. I tre titoli, aggiunti dall’anonimo sottoscrittore e sicuramente non risalenti a Cherilo, possono far pensare a un’opera tripartita e divisa in lo´goi dallo stesso poeta, come ritiene Barigazzi, ma anche (e forse preferibilmente) a un’unica opera in cui l’antico lettore ha individuato tre grandi temi. L’esempio degli Ionikà di Paniassi che, sempre secondo la Suda (Test. ), contenevano ta` peri` Ko´dron (il mitico re di Atene) kai` Nhle´a (il figlio più giovane di Codro che emigrò verso la Ionia dopo una lite col fra. Cfr. Test. 1 e il commento in proposito di Matthews : -. . Nei testimonia sono presenti riferimenti ai libri i (frr. -), iii (frr. -), v (frr. -), xi (fr. ). . Sugli Ionikà cfr. Schmid : -. . Sono probabilmente da assegnare a Cherilo di Iaso, poeta epico al seguito di Alessandro Magno, i Lamiakà, un’opera di cui conosciamo solo il titolo, così tradito dalla Suda (Test. ), ma corretto da Daub in Samiakà e confermato da Michelazzo in un articolo piuttosto fantasioso. Non è possibile identificare con certezza nessun frammento di questo poema epico. . In particolare per quanto riguarda l’estensione dei Persikà di Dionisio di Mileto cfr. Moggi : - e vd. infra, p. n. . . Il titolo Persika´ è tradito da Erodiano (cfr. Test. ad fr. ) ; il titolo Pershi´w da Stobeo (fr. Bernabé). . Barigazzi : -.
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tello) kai` ta`w «Ivnika`w a∫poiki´aw (le colonie ioniche) è indicativo. Lo stesso Cherilo, come vedremo, definisce nell’incipit del poema (fr. ) il suo racconto lo´gow. L’ultima parte del poema – quella indicata dal sottoscrittore col termine Persika´ – doveva riguardare le spedizioni di Dario e di Serse contro la Grecia ed era la sezione che probabilmente più interessava il pubblico contemporaneo di Cherilo e i lettori che vennero dopo, tanto che la Suda definisce così l’intero poema : e¢grace de` tay^ta. th`n «A&hnai´vn ni´khn kata` Je´rjoy. Anche Erodoto, del resto, nei primi quattro libri delle Storie distingue i Medi dai Persiani, anche se in seguito, nei libri dedicati a Dario (v-vii) e a Serse (viiix), Medi e Persiani generalmente si identificano. L’ipotesi che Cherilo, sulla scia di Dionisio di Mileto, vissuto quasi mezzo secolo prima, e poi di Carone di Lampsaco e di Erodoto, abbia narrato anche la storia persiana antecedente a Dario ha, dunque, buone probabilità di essere corretta. L’anonimo autore della sottoscrizione più che a tre sezioni distinte sembra riferirsi, in effetti, a tre grandi temi affrontati da Cherilo in un’unica opera. Anche al logografo milesio Dionisio, la tradizione attribuiva, del resto, l’opera Persikà e un’altra opera che da lui o da altri era chiamata Ta` meta` Darei^on che può essere considerata o un’appendice autonoma dei Persikà, composti precedentemente, o un secondo titolo per indicare gli stessi Persikà « con riferimento più specifico al periodo trattato». Non è da escludere, come vedremo, che nella sezione del poema cherileo dedicata a Ciro (forse quella indicata con Mhdika´) potesse figurare il racconto della guerra dei Medi, da lui capeggiati, contro i Massageti alla quale allude Callimaco. Ai Massageti Erodoto dedica un lungo racconto (i -) pieno di passaggi fortemente patetici e di colpi di scena, compresa la morte di Ciro e l’oltraggio della regina Tomiri. Né è impossibile che, secondo una suggestiva ipotesi di Bernabé, nell’opera di Cherilo, nell’ambito della spedizione di Dario contro gli Sciti, figurasse anche il racconto della lotta tra le gru e i Pigmei (la geranomachia cui allude Callimaco), collocata nella città di Gerania nella Scizia o nella Tracia orientale (fr. ). Un argomento epico (Hom. Il. ,-; Oppian. Hal. ,-; Nonn. Dion. , ss.) , ma trattato anche da Ecateo (FGrHist F a e b). Avremo ancora modo di osservare che l’ipotesi di un’influenza erodotea . Così già i primi editori Grenfell-Hunt : . . Così Moggi : . . Per una visione d’insieme del logos erodoteo sui Massageti si rinvia a Asheri : . . Cfr. Bernabé : -. . Non si tratta, dunque, di Pigmei d’Africa, ma di Traci orientali; cfr. Plin. N. H. ,. Si rinvia al libro di Janni : . . Vd. l’ampio apparato al fr. in Bernabé , . . Sui due frammenti vd. il commento di Jacoby in FGrHist, Erster Teil, . Cfr. anche la testimonianza di Aristot. H. A. viii ( a).
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su Cherilo si fonda su argomentazioni abbastanza cogenti. Per il momento il confronto con Paniassi relativamente alla lunghezza media di questi poemi epici che fiorirono nel v secolo a.C. può fornire qualche indicazione anche sulle loro caratteristiche strutturali. Come dimostrano i frammenti superstiti dell’Herakleia, l’unico dei poemi attribuiti a Paniassi che consenta una possibile ricostruzione, per quanto ipotetica, il racconto delle imprese di Eracle si distingueva per la predilezione per i luoghi e i personaggi lontani e fantastici (ad esempio frr. -, Bernabé) e per i particolari nuovi e peregrini (frr. , sulla leonté dell’eroe, o fr. sull’idra di Lerna, o fr. a proposito della discesa di Eracle nel regno dei morti). Huxley ha evidenziato i punti in cui Paniassi si allontana dalla tradizione epica tradizionale proponendo varianti sconosciute o che tali sono per noi. Verisimilmente, per quanto è dato sapere sull’epica di questo periodo, la descrizione di mondi fantastici e lontani e di avventure inconsuete faceva parte dei caratteri di questo genere poetico. È pensabile che nel gusto per l’inusuale e l’esotico esso raccogliesse l’eredità dell’epica post-omerica di tipo etnografico. L’antecedente rappresentato dagli Arimaspeia di Aristea di Proconneso, poeta epico vissuto nel vii sec. a. C., che compose un poema su antichissimi popoli nomadi del Nord, tra i quali anche gli Iperborei , è in tal senso significativo. Anche Cherilo, dopo Paniassi, raccoglie dunque l’eredità di questi poeti che ancora nel v secolo godevano di una vasta fama. Lo stesso Pindaro nella sua opera doveva aver ricordato la figura di Aristea (fr. Maehler). Il fantastico, l’insolito colpiva l’immaginazione di chi ascoltava le storie di questi popoli lontani. Per Cherilo questa esigenza è attestata proprio dal fr. : guidami a un altro racconto, come dalla terra d’Asia arrivò in Europa una grande guerra.
Il valore di lo´gow a¢llow è polisemico: si riferisce, come giustamente indica M. Lombardi, alla «trasfigurazione mitica delle Guerre Persiane», ma anche a un racconto di questo soggetto diverso dai precedenti; un racconto alla ricerca dell’elemento insolito e raro, che stupisca e sorprenda. L’aspirazione al nuovo e la volontà di trovare un cammino non percorso da altri sono chiaramente proclamate nel fr. : Ah ! beato chi in quel tempo era esperto nel canto, servitore delle Muse, quando il prato era ancora immacolato. Ora che tutto è stato spartito e le arti hanno raggiunto il traguardo, . Huxley a: . . Cfr. la raccolta delle testimonianze in J. D. P. Bolton, Aristeas of Proconnesus, Oxford , ss. ; Davies : -; Bernabé : -. . Lombardi : -.
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veniamo ultimi nella corsa e non è possibile, per quanto uno scruti in tutte le direzioni, guidare un carro di nuova fattura.
L’immagine agonistica è derivata dalle gare equestri e comporta più implicazioni metaforizzanti. Innanzitutto il senso generale è chiaro: come già riconosceva il Naeke, il poeta riflette sul suo ‘esperimento’ alludendo da un lato alla ‘chiusura’ dei generi poetici, dall’altro alla propria innovazione. Ogni termine della metafora ha un valore preciso: la divisione tra le varie te´xnai poetiche (v. 3); i pei´rata, cioè, a mio avviso, ta` te´lh ‘il traguardo’, come il termine è spiegato dallo scolio a Pind. Pyth. , in cui pei´rata ha il significato di ‘esito’ (non si può escludere che il termine possa indicare i ‘limiti laterali’, i ‘confini di una corsia’, ma l’idea della separazione è già implicita nel verbo de´dastai ‘tutto è stato spartito’); infine la corsa come metafora dell’attività poetica con la precisazione del carro aggiogato da poco (v. 5). Il poeta è arrivato ultimo, pur avendo un carro «nuovo fiammante ». Il senso complessivo di questo proemio, di per sé innovatore perché introduce per la prima volta nell’epica una questione personale di poetica, è chiaro. Il poeta si rende conto della difficoltà di trovare «nuove vie di canto ». Pur prendendo le distanze dall’epica antica e pur riconoscendo a quest’ultima i vantaggi che le derivavano dall’essere venuta prima e dalle maggiori possibilità che si aprivano ai poeti, Cherilo, attraverso un procedimento retorico non inusuale nelle sezioni proemiali, in realtà vuole sottolineare la novità della sua posizione. Per quanto egli affermi di essere arrivato ultimo, quando ormai tutto è stato detto e i settori poetici sono ben distinti (o, forse, hanno ormai raggiunto il loro meglio), e quindi dichiari l’im. Naeke : . . Schol. Pind. Pyth. ,, - Dr. È chiaro che nel passo pindarico l’espressione pei´rat«a∫e´&lvn indica il risultato finale, ma anche i mezzi per conseguirlo (in questo senso P. Giannini in Gentili : ). Un significato analogo ha l’espressione h™mete´rhw te´xnhw pei´rata in Zeuxis FGE Page, i dove ritengo, contrariamente a Radici Colace : , che pei´rata non abbia il significato di ‘mezzi esecutivi’ come in Od. ,, ma quello di ‘limite finale’, perché, come si ricava dal distico seguente dell’epigramma, colui che raggiunge questi pei´rata ha in mano la vittoria (dei´jaw nika´tv) e non arriverà secondo e perché, come mi suggerisce L. Bravi, l’epigramma di Zeusi è una chiara replica a Parrhasius FGE Page, ii , in cui il pittore afferma di aver raggiunto i te´rmata te´xnhw. Per il senso di pe´raw come ‘limite massimo’ in rapporto alla te´xnh vanno segnalati Posidipp. Com. fr. , Kassel-Austin (PCG vii ) e ora (ma molto ipotetico) Posidipp. fr. , Austin-Bastianini. . Così intende De Martino : e . . La traduzione di De Martino di neozyge´w, ‘nuovo fiammante’, rende bene l’idea del contrasto – ad arte evidenziato da Cherilo – tra l’essere arrivato ultimo nel tempo e le possibilità aperte a chi dispone di un carro completamente nuovo. Così anche a p. . . Per la bibliografia relativa si rinvia a Radici Colace : . . Sull’invocazione alle Muse nel poema epico ellenistico e sul riferimento ai poeti precedenti cfr. Fantuzzi-Hunter : -. . Per la metafora della via nella lirica corale relativamente alla poesia vd. Bernardini : ss. . Cfr. Ritoók , ma relativamente all’epica omerica e all’epica esiodea.
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possibilità di trovare un modus nuovo e diverso, in realtà vuole affermare proprio il contrario. Al pari dei grandi poeti che lo hanno preceduto e che in genere nel proemio non esitavano a ribadire la difficoltà di «trovare le porte di canti non mai detti», Cherilo all’inizio del poema richiama l’attenzione sul suo tentativo di non omologarsi a quanti hanno arato un campo già arato da altri. E perché non pensare anche a una poesia che rifiuti le divisioni toppo nette (date´omai significa ‘dividere’, ‘spartire’) e che cerchi di andare oltre i pei´rata già raggiunti? Una poesia epica che si riallacci sì a Omero e che – secondo un’ottica propria di quel periodo – ponga su una linea di continuità la guerra di Troia e le guerre persiane, ma che aspiri anche al nuovo. A questo punto il confronto con il proemio dell’Elegia per la battaglia di Platea di Simonide (frr. a- Gentili-Prato ) si impone. Simonide suggerisce una serie di ‘distinguo’ che separano il suo dal proemio omerico: il destinatario dell’invocazione è un eroe (Achille) e non una divinità; la Musa è invocata come e∫pi´koyrow (v. ), assistente e alleata; Omero ha ricevuto la verità dalle Muse (vv. -), mentre Simonide è stato testimone degli eventi che narra. Egli si presenta, tuttavia, come epigono di Omero che resta il modello inimitabile dell’epos. Cherilo, come abbiamo visto, più che un epigono sembra sentirsi un innovatore e, a ben vedere, mediante l’artifizio letterario, già felicemente sperimentato da altri poeti, di negare la possibilità di dire cose nuove, sottolinea proprio la sua aspirazione alla novità. Per questo non condivido l’opinione di Eva Stehle quando, paragonando la posizione di Simonide e quella di Cherilo rispetto a Omero, ritiene che Simonide, «crea spazio per la sua poesia», mentre Cherilo accentua la sua consapevolezza di « arrivare troppo tardi». Il poeta di Samo allude solo al tema nuovo rispetto all’epica omerica, cioè un tema di storia contemporanea? Oppure si riferisce anche al modo di presentare la materia del suo canto? A quest’ultima domanda la critica degli ultimi decenni, da Häussler a Barigazzi, da P. Radici Colace a M. Lombardi, ha cercato di dare una risposta mettendo in luce soprattutto la spinta innovativa di Cherilo sotto il profilo della tecnica compositiva e della costruzione formale che preludono all’epos . Bacch. fr. Snell-Maehler. . Si pensi al peana pindarico ad Apollo, in cui il dio esorta il poeta a non percorrere la via battuta da tutti e a cercare una strada più individuale (fr. h,- Maehler = C,- Rutherford). . Ognuno di questi punti è stato oggetto di analisi da parte degli studiosi che si sono occupati del proemio dell’elegia; per una visione d’insieme cfr. Aloni : -. . Vd. Stehle : . Né direi, con Salvato : -, che Simonide si faccia portavoce di «una nuova tecnica narrativa che supera i confini della lirica tradizionale e dei componimenti tipici della melica corale». Il confronto è con il cantore della guerra di Troia, non con gli altri poeti corali. . Häussler : -.
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alessandrino. Il rifiuto dello stile epico tradizionale e la propensione verso l’originalità linguistica, verso una «lexis ricca di glosse e di neologismi», sono stati visti come l’innovazione cherilea più rilevante. Più rilevante anche rispetto alla scelta del tema di scottante attualità delle guerre persiane. A tal proposito va precisato che questa scelta e al tempo stesso i rapporti di Cherilo con i syggrapheis che lo hanno preceduto, come Dionisio di Mileto e Carone di Lampsaco, autori, come abbiamo visto, di Persikà in prosa, e in particolare i rapporti con Erodoto sono stati trattati più cursoriamente e, in qualche caso, sottovalutati. Tralasciando l’aspetto stilistico e formale dei frammenti, è proprio su questi ultimi che noi vorremmo, invece, soffermarci. ii. I l t e m a d e l l e G u e r r e P e r s i a n e Il rapporto tra Erodoto e Cherilo, riferito dalla Suda in termini aneddotici (ammirazione del giovanetto per lo storico e legame amoroso tra i due) e non facile da spiegare sul piano cronologico perché in contrasto con le altre notizie biografiche relative al samio, può essere stato suggerito dal fatto che ambedue gli scrittori si sono occupati del grande tema delle guerre persiane. Non va, tuttavia, dimenticato che nel corso del v secolo a.C. diversi generi letterari videro il fiorire di numerose opere dedicate a questa vicenda che coinvolse le sorti di tutto il mondo ellenico. L’impatto delle guerre persiane era stato, del resto, troppo rilevante e invasivo perché non ci si interrogasse sugli antefatti, sui popoli con i quali ci si era confrontati e scontrati, sulle ragioni di una vittoria difficile e in forse fino all’ultima battaglia. Se si formò una ‘vulgata’ in merito a questo evento assolutamente eccezionale, ciò è dovuto all’attenzione che i poeti, i logografi, i tragediografi – portavoci del comune sentire e testimoni delle emozioni del popolo – dedicarono all’episodio per tutto il corso del v secolo e anche dopo. Frinico e Eschilo ne fecero il tema di alcuni drammi; Epicarmo di una commedia intitolata Persai; Timoteo compose il nomos I Persiani; Simonide elegie ‘storiche’ ed epigrammi. Anche Pindaro (Istmiche e ; ditirambi, frr. - Maehler) e Bacchilide (il ditirambo , I giovani e il ditirambo , Teseo) testimoniarono nei loro versi la forza d’urto della guerra nell’esistenza delle varie poleis greche, Atene prima di tutte, ma anche Egina e Tebe. Bacchilide, ancora dieci anni dopo la fine delle guerre persiane, nell’Epinicio (vv. -) presentava Creso, il primo difensore delle città greche d’Asia contro le mire espansioni. Lombardi : ss. . Per l’esame delle notizie biografiche si rinvia a Radici Colace : -. Per il sincronismo con Paniassi cfr. Matthews : -. . Per la bibliografia cfr. Radice Colace : -, n. .
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stiche dei Persiani, come un re pio e virtuoso che lottava contro l’invasore. Ad Empedocle è attribuita una Je´rjoy dia´basiw, un poema intitolato anche Persikà, che la figlia del filosofo (secondo Ieronimo di Rodi), oppure sua sorella (secondo Aristotele) avrebbero bruciato perché imperfetto. Ma è soprattutto Simonide che divenne un modello per il corpus di poemi dedicati ad esaltare la vittoria dei Greci sui Persiani. Un modello così famoso che, come giustamente osserva D. Boedeker, «virtually all apparently contemporary poems on the Persian Wars (including, of course, epigrams) were attributed to him». L’influenza dei componimenti simonidei in metro elegiaco relativi alle guerre persiane sulla produzione letteraria coeva è stata ampiamente studiata e qui interessa solo come premessa per ricostruire quell’ideale filo conduttore che da Simonide, attraverso Erodoto, porta fino a Cherilo. Ricordiamo che Simonide compose i poemi elegiaci, ora editi da Gentili-Prato (Per la battaglia navale all’Artemisio; Per la battaglia di Platea) ; i poemi elegiaci su Il regno di Cambise e Dario e su La Battaglia navale di Serse; un componimento elegiaco per i morti a Maratona. A questi si aggiungono il carme in metro lirico La battaglia navale di Salamina (fr. Page) e il threnos per i morti alle Termopili (fr. Page). È appena il caso di menzionare gli epigrammi (FGE Page v-xxiib, di cui un gruppo consistente, x-xiv, riguarda la città di Corinto) attribuiti dagli antichi a Simonide e celebranti battaglie, atti di valore, morti eroiche dei soldati che difesero la libertà della Grecia nel conflitto contro i Persiani. iii. Rapporti con Erodoto Secondo la ricostruzione di R. Drews, prima dell’opera di Erodoto gli antichi Persikà in prosa avevano come scopo principale la narrazione del «Great Event » e della peripeteia della Persia. L’ascesa e la caduta della Persia attirava quasi esclusivamente l’interesse di questi primi storici delle guerre persiane. È con Erodoto che il racconto non si limita alla storia persiana, ma l’orizzonte si amplia e si allarga l’interesse per la geografia, la zoologia, l’et. In tal senso Bright : -. Naturalmente questo è solo un aspetto della polifunzionale presenza del re lidio nel carme bacchilideo. . Diog. Laert. viii = Emp. A Diels-Kranz. . Boedeker : . . Il poeta compose un secondo carme sulla battaglia navale all’Artemisio in metro lirico (fr. Page). . Suda, s. v. Simvni´dhw (iv , - Adler) ; Eudoc. Viol. , (, Flach). . Schol. Aeschyl. - Vita Aeschyl. , (Aeschyl. Test. , Radt). . Cfr. Drews : -. . Di parere diverso è Moggi : n. che intravede nei Persikà anche interessi mitologici, etnografici, geografici relativi alla Persia.
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nografia anche delle regioni che sono venute a contatto con la Persia, come la Lidia, Babilonia, l’Egitto. Più tardi Cherilo coniugò nel suo poema l’interesse etnografico e geografico con l’interesse per gli eventi storici del passato recente. Proprio su questo versante relativo ai rapporti con gli altri componimenti, poetici e non, che in forme diverse e con modalità esecutive richieste da occasioni diverse, affrontarono la narrazione del rilevante evento storico contemporaneo la critica ha poco insistito, privilegiando, come abbiamo visto, la posizione di Cherilo nella storia del genere epico, considerandolo ora un epigono dell’epica omerica, ora un anticipatore dell’epica ellenistica. Dallo storico di Alicarnasso, più vecchio e ammirato, il poeta di Samo apprende un modo di raccontare gli avvenimenti che pone in primo piano la storia dei popoli, i loro usi e costumi. Una storia che non è lontana dalla narrazione in versi di poeti epici come Aristea di Proconneso o Paniassi. Nell’epigramma di Alicarnasso, attribuibile ad Antipatro di Sidone (IG xii , = Panyas. Test. Bernabé), che commemora i due concittadini Erodoto e Paniassi, al v. l’opera di ambedue gli autori è definita con il termine molpai´. Come sottolinea Matthews, l’iscrizione, che risale a ca. il a.C., riflette probabilmente, nell’uso di tale vocabolo, l’idea che in questo periodo si aveva delle storie erodotee, non come vero e proprio documento storico (tali erano considerate le opere di Tucidide e di Senofonte), ma come racconto dilettevole e intrigante (cfr. al v. l’espressione »Hrodo´toy gly´kion sto´ma). Non è un caso, del resto, che in epoca alessandrina ad ogni libro erodoteo venisse assegnato il nome di una Musa. L’accostamento tra Erodoto e Paniassi mediante il termine unificante di molph´ indica che le storie di Erodoto erano considerate affini ad altri generi poetici che trattavano vicende storiche, come gli Ionikà di Paniassi in distici elegiaci. Il grado di parentela tra le storie di Erodoto e i Persikà di Cherilo va inquadrato nell’ambito di questa vicinanza non solo tematica tra le due opere, vale a dire il racconto delle guerre persiane, ma anche strutturale e narratologica, che comporta, cioè, l’inserimento di digressioni etnografiche, la ricerca dell’insolito e dello straordinario. Rileggiamo un’osservazione di M. Dorati a proposito delle cosiddette rubriche etnografiche presenti in Erodoto: «I confini tra poesia e storiografia, tra poesia ed etnografia, sono del resto, in queste prime fasi, in cui ancora non esistono distinzioni professionali, quanto mai scarsamente definiti : la prima storiografia e la prima etnografia sono di fatto una storiografia e un’etnografia poetiche, né i prestiti sembrano procedere a senso unico». È quanto abbiamo detto a proposito della presenza del tema persiano nei vari generi letterari che fiorirono tra la fine del vi secolo . Matthews : . . Dorati : .
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a.C., per tutto il v e agli inizi del iv: tra la storiografia pre-erodotea ed erodotea e l’epica coeva che affronta lo stesso tema la parentela è più stretta di quanto non faccia supporre la diversa forma espressiva in prosa o in versi. I rapporti tra l’epica post-omerica e la syggraphé sono stati, del resto, già evidenziati nella querelle che, più in generale, riguarda le prime voci della storiografia greca. Del pari è stata evidenziata da L. Porciani la connessione del logos epitaphios e delle prime forme di storiografia locale con la poesia epica. La comunicazione orale di quest’ultima, così come quella del logos epitaphios, delle cronache locali e della storia genealogica, può spiegare questo tipo di legame. Un legame che si attenuerà solo con l’irrigidimento dei generi letterari che imporrà regole più precise e separazioni più nette tra le varie forme di racconto. L’interesse per i barbari e per la loro diversità rispetto ai Greci era, ad esempio, un tratto comune a tutta la poesia greca arcaica, sia epica che lirica, e alla storiografia antica. Come precisa Dionigi di Alicarnasso nell’operetta De Thucydide (cap. ,-) gli antichi storici (a∫rxai^oi syggrafei^w) come Euagon di Samo, Deioco di Proconneso, Eudemo di Paro, Democle di Figea ed Ecateo di Mileto, Acusilao di Argo, Carone di Lampsaco, Amelesagora di Calcedone e poi Ellanico di Lesbo, Damaste di Sigeo, Xenomede di Ceo, Xanto di Lidia ecc. redigevano storie sia dei Greci che dei barbari (oi™ me`n ta`w »Ellhnika`w a∫nagra´fontew ™istori´aw, oi™ de` ta`w barbarika´w), ma separatamente, secondo una divisione per popoli e città e «pubblicandole separatamente » (xvri`w a∫llh´lvn e∫kfe´rontew). La novità attribuita da Dionigi a Erodoto è, invece, quella di aver riunito in un’unica opera storica eventi riguardanti sia l’Europa che l’Asia in un lungo arco di tempo. Si può discutere sulla validità di questa affermazione, ma ciò che qui interessa rilevare è che si riconosce a Erodoto un ruolo di prv^tow ey™reth´w nella concezione di una storia ‘universale’ in cui sono parimenti coinvolti Greci e barbari. Quel che conosciamo di Cherilo è purtroppo molto poco, ma non così poco da non poter identificare i punti di contatto con una simile concezione erodotea della storia. In quest’ottica trova anzitutto una spiegazione la sequenza delle tre definizioni usate da chi ha apposto la sottoscrizione in calce al poema cherileo: . Porciani : -. . I racconti genealogici di Acusilao di Argo, ad esempio, danno la misura di questa vicinanza con l’epica; vd. in proposito Calame (in particolare ss.). . Come più volte sottolinea Porciani, per Jacoby, naturalmente, la storiografia locale non precede ma segue la grande storiografia ; una posizione oggi per lo più non condivisa dagli storici. . Cfr. Schwabl (in particolare ss.). . Per l’opposizione Greci-Persiani in occasione delle guerre persiane si rinvia a Diller (in particolare ss.). . Dion. Hal. De Thuc. , .
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Barbarikà, Medikà, Persikà. L’opera, come si è visto, doveva essere sicuramente abbastanza lunga da contenere sezioni dedicate al regno di Ciro e Cambise, alle spedizioni di Dario e all’attacco di Serse. Doveva contenere descrizioni, excursus mitici, narrazioni di battaglie. Di tutto questo materiale che procurò a Cherilo una vasta fama, tanto che egli venne considerato una specie di Omeride e ottenne per decreto che il suo poema venisse letto insieme a quelli di Omero, è rimasto ben poco. Ma da quello che possediamo il rapporto con la storiografia erodotea risulta abbastanza evidente. Si tratta di un vincolo riconosciuto da alcuni studiosi che, a partire da Naeke e poi da Schmid, Barigazzi, Huxley, hanno provveduto ad elencare le consonanze dei frammenti di Cherilo con le storie di Erodoto. R. Drews può addirittura affermare : « The fragments of Choerilus’ epic leave no doubt that Herodotus’ Histories were the prose antecedent of Choerilus poem». Lo spoglio dei loci similes o delle parentele tra il racconto erodoteo e i frammenti del poeta di Samo non esaurisce, tuttavia, la questione. Ci si deve interrogare, piuttosto, sulla natura di tali corrispondenze. La dimensione antropologica ed etnografica che negli anni più recenti è stata privilegiata nell’esegesi delle storie di Erodoto e l’attenzione posta sugli aspetti performativi della produzione storiografica più antica possono far luce sul terreno comune che è alla base dell’esperienza letteraria di Erodoto e di Cherilo. Quindi una ricerca che tenga conto da un lato del modello di rappresentazione dei barbari, dall’altro delle attese del pubblico che ormai era a conoscenza di un’ampia produzione poetica e storiografica sulle guerre persiane. Qualche esempio renderà più chiaro il discorso. Consideriamo il fr. : ...e i Saci pastori, Sciti di stirpe. Ma essi abitavano l’Asia portatrice di messi. Distanti erano dai nomadi, uomini giusti.
Il passo potrebbe riferirsi alla spedizione di Dario contro gli Sciti o forse appartenere a un catalogo delle truppe di Serse che attraversano l’Ellesponto, nel qual caso andrebbe collegato col fr. che segue. Poiché la sua collocazione resta un problema aperto, vale la pena di fare alcune considerazioni sul . Cfr. Suda s.v. Xoiri´low (iv , Adler). . Naeke : ; ; e passim. . Schmid-Stählin, Gesch. d. Gr. Litt. i : - e in particolare n. . . Barigazzi : . . Huxley b : - e passim. . Cfr. Drews : . . Il frammento è tradito da Strab. vii , che cita Eforo (FGrHist F ) per il quale la menzione degli Sciti avrebbe luogo durante la costruzione del ponte di barche attraverso il Bosforo da parte di Dario (e∫n tW^ diaba´sei th^w sxedi´aw hÇn e¢zeyje Darei^ow) in occasione della spedizione contro gli Sciti ; così Barigazzi : e Huxley b : . Espungono la frase Naeke : e altri, per cui vd. Bernabé ad fr. , che attribuiscono la menzione alla spedizione di Serse.
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suo contenuto. I versi sono una spia del passaggio degli Sciti da pastori nomadi ad agricoltori che coltivano il grano. Aggiungono, inoltre, la prerogativa generale del rispetto della giustizia da parte dei popoli nomadi, inserendosi in una lunga tradizione che esalta tale qualità degli Sciti, da Ellanico (FGrHist. F b) a Erodoto (iv ) a Eschilo (TrGFr ; Radt). È chiaro che si tratta di una caratterizzazione basata su elementi abbastanza generici, riguardanti caratteri morali che spesso vengono attribuiti a popoli che vivono in regioni lontane e inaccessibili, ma è degno di nota che Cherilo si adegui a questa rubrica etnografica. Fr. 6 Dietro quelli attraversò (l’Ellesponto) una stirpe mirabile a vedersi; facevano sortire dalla bocca un parlare fenicio, abitavano sui monti Solimi presso un lago salato; coi capelli irti sulla sommità del capo, erano rasati in tondo. Sopra la testa portavano teste scorticate di cavalli essiccate col fumo.
La lingua, il vestiario e la foggia di capelli come ‘segnali’ etnici sono stati ampiamente studiati. Essi vengono come anticipati dall’epiteto &aymasto´w (v. 1) che distingue questo popolo tra tutti quelli che partecipano alla spedizione dei Persiani contro l’Ellade. Proprio Erodoto nel proemio delle Storie precisa che oggetto del racconto sono le imprese mega´la kai` &vmasta´. Il &vmasto´n era, dunque, un tratto peculiare della historie e il successo dell’opera dipendeva dalla descrizione di erga, popoli e situazioni mirabili e sconosciute. Il popolo descritto non è quello dei Giudei, ai quali è proibito un simile taglio di capelli, ma quello degli Etiopi orientali, un popolo al quale Erodoto presta molta attenzione. Rileggiamo la sua descrizione in vii : «Nell’aspetto, non differiscono in nulla dagli altri Etiopi, salvo che per la lingua e per la capigliatura : ... portavano sul capo delle pelli strappate dalla fronte dei cavalli con le orecchie e la criniera: la criniera serviva loro da cimiero, mentre le orecchie del cavallo si ergevano rigide e dritte...». Di tutte le varie rappresentazioni degli Etiopi (ii gli Etiopi Nomadi; iii e vii gli Etiopi confinanti con l’Egitto ; iv gli Etiopi trogloditi) Cherilo sceglie quella degli Etiopi d’Asia, che sono presentati da Erodoto, schierati insieme agli Indi, in occasione della rassegna dell’esercito di Serse a Dorisco, dopo aver passato l’Ellesponto. Il poeta epico sceglie la digressione etnografica più pertinente, quella, cioè, che nel modello è inserita nel racconto che lo riguarda più da vicino: il racconto della spedizione persiana con il ‘catalogo’ delle truppe schierate in un . Al v. ay∫ta´r come in Hom. Il. , in clausola metrica (ay∫ta`r e¢naien) è avversativo: i Saci erano pastori, ma diventarono abitanti dell’Asia e produttori di frumento. . Per alcuni esempi cfr. Dorati : n. . . Così, invece, Radici Colace : . Sulla questione si rinvia a Lloyd-Jones – Parsons ad fr. : -.
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unico luogo. Non si deve, infatti, dimenticare che l’argomento principale del poema cherileo era, come attesta la Suda, th`n «A&hnai´vn ni´khn kata` Je´rjoy. La spedizione di Serse e la sua sconfitta – ripetiamolo – ne erano il fulcro narrativo. Per questo ritengo che il fr. faccia parte di questa opera e non di un ipotetico poema dal titolo Samiakà, come suggerisce Michelazzo che ritiene che la menzione della ‘samaina’, la tipica imbarcazione dei Sami, fosse fatta da Cherilo nel poema sulla guerra tra Atene e Samo del - a.C. Il verso « La veloce nave samia che ha la prora a forma di cinghiale» poteva riferirsi a un episodio che ebbe luogo dopo la battaglia di Micale, quando una delegazione di Sami, giunta per nave presso lo spartano Leotichide, che si trovava con la sua flotta nelle acque di Delo, lo assicura della loro fedeltà e poi riprende il largo (Hdt. ix -). Erodoto descrive la ‘samaina’ in iii e poi, dopo Cherilo, ne parla Plutarco, Per. ,. È vero che la posizione dei Sami nell’ambito delle guerre persiane è oscillante, ma dopo Salamina essi si schierarono a fianco dei Greci (Hdt. ix , ). La valorizzazione da parte di Cherilo del ruolo dei Sami, il cui comportamento durante il conflitto era stato discutibile, non può stupire. Si pensi, ad esempio, alla valorizzazione degli Spartani e dei Corinzi nell’elegia simonidea per Platea. Ma i versi che meglio potrebbero rendere l’idea di come veniva trattato l’episodio centrale della vittoria dei Greci e della sconfitta dei Persiani a Salamina sono, pur con i dubbi legati alla problematica attribuzione, quelli del fr. . Non affronteremo, infatti, in questa sede la difficile quaestio della paternità dei frr. di P.Oxy. (frr. a- Bernabé = Adesp. Pap. - Lloyd-Jones – Parsons) e di P.Oxy. (fr. Bernabé = Adesp. Pap. Lloyd-Jones – Parsons) che restituiscono versi epici forse relativi alle battaglie di Salamina e di Platea, ma di ricostruzione e di attribuzione molto incerta. Essi richiederebbero un esame troppo lungo e complesso che ci ripromettiamo di fare in altra sede. Soffermiamoci, invece, sul fr. . Ho tra le mani la mia ricchezza, un coccio di calice rotto da ambo i lati, relitto di uomini a banchetto, e così molti altri vasi il soffio di Dioniso spinse sulle sponde di Hybris.
L’ipotesi di Hermann (accettata da Huxley) che il soggetto parlante sia Serse dopo la sconfitta di Salamina è suggestiva, ma problematica sotto di. Cfr. supra n. . . Michelazzo : ss. . Ved. infra n. . . Lloyd-Jones – Parsons : pensano a un’età più tarda. . Traduco seguendo Kinkel , fr. e Huxley b : , xersi`n o¢lbon. Per tutte le altre proposte vd. l’apparato critico in Bernabé : . . Huxley b : .
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versi punti di vista. Poiché Ateneo attribuisce i versi a un poeta epico di nome Cherilo, la prima questione è se si tratti di Cherilo di Samo o di Cherilo di Iaso. Proprio la citazione di Ateneo, che introduce i versi con l’affermazione di Ctesia sull’uso dei Persiani di far bere in un calice di argilla come segno di a∫timi´a, può giocare a favore di Serse come personaggio loquens e dell’autore samio dei Persikà. La seconda questione riguarda il parallelo (suggerito da Huxley, ma giudicato irrilevante da West) con Erodoto viii , in cui sono descritti i rottami delle navi persiane affondate, spinti sulla spiaggia della costa attica, di nome Coliade, dal vento dell’ovest. Attraverso la metafora marinara dell’ubriachezza/ naufragio e dei vasi rotti/relitti delle navi il poeta rende il pathos della tragica situazione del re persiano che ha visto naufragare la flotta e i suoi piani. Il punto di vista sulla sconfitta di Salamina sarebbe in questo caso quello del perdente Serse. Anche nei frammenti considerati sopra (cui forse può aggiungersi il fr. : « intorno alle fonti aretuse/innumerevoli truppe roteavano, simili ad api che volano fitte », che può richiamare alla memoria l’arrivo dell’armata persiana a Celene, presso le sorgenti del Meandro, o la descrizione delle truppe schierate ad Abido contemplate da Serse), l’esercito sembra descritto dal punto di vista dei Persiani. Ma che gli eventi venissero considerati anche, e principalmente, secondo l’ottica ateniese, cioè dei vincitori, è dimostrato dal fr. in cui è riportata la notizia che Cherilo parlò nel suo poema di Orizia, figlia del re ateniese Eretteo e sposa di Borea, rapita mentre coglieva fiori presso le acque del Cefiso. A Borea e a Orizia, in occasione della spedizione di Serse, gli Ateniesi offrirono sacrifici «pregandoli di venire loro in aiuto e di distruggere le navi dei barbari » (Hdt. vii ). Al pari della molteplicità degli interessi nella geografia, zoologia, etnografia, che è tipica della ™istori´a, e che deriva dalla più antica syggraphé, ancora vicina all’epica nel trattare la materia mitica, storica e geografica, la molteplicità dei punti di vista sembra una prerogativa della ricostruzione storica erodotea. »Istori´a delle azioni umane e degli eventi (e a partire da Erodoto aspirazione di ogni storiografia), con una pretesa di imparzialità e di equidistanza, a differenza dell’elegia storica precedente e coeva in cui è più facilmente ravvisabile un determinato orientamento derivante da una determinata committenza. Di recente, a proposito dell’elegia simonidea per Platea (frr. a- Gentili-Prato ), lo hanno dimostrato vari studiosi (A. . . . . . .
Athen. xi a-b. Così anche Radici Colace : . West : . Hdt. vii . Hdt. vii . Cfr. Drews : .
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Aloni, A. Schachter, C. Catenacci, L. Sbardella ), pur con qualche divergenza di opinione. Anche l’elaborazione di temi storici in versi epici o elegiaci in epoca precedente, come i poemi sulla fondazione di Elea e di Colofone di Senofane, la Smirneide di Mimnermo sulla storia di Smirne, i Korinthiakà di Eumelo, era dettata dall’esigenza di narrare i fatti dall’angolatura che coincideva con quella della città da celebrare. Una prospettiva che consentiva al poeta di maneggiare genealogie ed eventi a seconda della parte per la quale egli componeva. iv. La PERFORMANCE del poema Siamo così arrivati all’argomento finale. Se il poema di Cherilo si faceva portavoce di una pluralità di angoli visuali – anche se una dimensione atenocentrica non è da escludere – quale era la sua destinazione? A Cherilo, come abbiamo visto, era stato tributato l’onore di essere recitato in pubblico insieme ad Omero, molto probabilmente ad Atene. La notizia, riportata dalla Suda, che per ogni verso gli veniva dato uno statere d’oro quasi sicuramente è frutto di confusione con Cherilo di Iaso. Ma lo stesso scambio può essere indicativo del successo, anche economico, del poeta di Samo (ad es. secondo Plutarco, Antiloco, un poeta non altrimenti noto, ricevette dal generale spartano Lisandro, in situazioni analoghe, il cappello pieno di denaro per un poema epico in suo onore). In ogni caso, esempi affini di ricchi compensi fanno supporre che i poeti-rapsodi fossero in quest’epoca ben retribuiti. Senza pensare ai rapsodi del passato, di cui abbiamo un efficace ritratto nello Ione di Platone, si può ritenere che la celebrazione poetica di imprese degne di ricordo, come quella della guerra dei Greci contro i Persiani, avesse una destinazione pubblica e una notevole risonanza cittadina. Il successo di Che. Aloni propende per la committenza spartana e la performance in occasione di una pubblica festa panellenica dopo la vittoria dei Greci sui Persiani. . Schachter crede in una committenza spartana e in una esecuzione del carme in Troade, presso il promontorio Sigeo. . Catenacci pensa a una committenza lacedemone-peloponnesiaca con valorizzazione del comportamento dei Corinzi a Platea. . Sbardella a pensa a una committenza e a un contesto esecutivo spartani. . Cfr. da ultimo West : - (in particolare ). . L’importanza delle genealogie nell’epica, nei poemi elegiaci e poi nella syggraphé non ha bisogno di essere illustrata. Cfr. supra n. . A proposito delle Genealogie di Acusilao è significativo l’aneddoto riportato dalla Suda (s.v. « Akoysi´laow, a Adler) secondo il quale lo storico si sarebbe basato su un testo tradito su tavolette di piombo trovate da suo padre in occasione di lavori nella casa di Argo. Sulla collocazione di Acusilao nella tradizione del racconto teogonico-genealogico si rinvia a Calame : -. . Così Kinkel : e Lloyd-Jones – Parsons : . Su Cherilo di Iaso vd. Naeke : ss. . Plut. Lys. ,- (Choeril. Test. Bernabé ).
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rilo di Samo è ben documentato. Plutarco nella Vita di Lisandro (,-) definisce le tappe di questa fortunata carriera: soggiorno presso la corte del ricco committente; rivalità poetiche; gratificazioni e conseguimento di premi. Dal ritratto plutarcheo emerge la figura di un poeta cortigiano che doveva sempre stare accanto al suo signore «per celebrarne le imprese con la sua arte poetica ». Un poeta che quando va alla corte di Archelao di Macedonia, secondo la testimonianza di Istro, riceve uno stipendio di ben quattro mine, cioè quattrocento dracme al giorno che spende nell’amore della buona tavola. La fortuna del poeta di Samo presso Lisandro spiega forse perché i Sami, dopo la resa della città a Lisandro del a.C., decisero di chiamare ‘Lisandrie’ le feste che precedentemente si celebravano in onore di Era e che, accanto a gare atletiche, comprendevano gare di citarodia, e perché a queste feste partecipavano poeti come Antimaco di Colofone e Nicerato di Eraclea Pontica con opere epiche che celebravano l’importante personaggio. Antimaco, anche se sconfitto nella contesa, fu molto famoso nell’antichità per i suoi poemi epici e Nicerato è definito rapsodo da Aristotele ed e∫popoio´w da Prassifane. Come si adatta questa configurazione di ‘poeta di corte’ di Cherilo con il ruolo che abbiamo finora assegnato alla sua opera epica? Un’epica storica da recitare nelle piazze, nelle feste, negli agoni poetici, all’interno dei grandi palazzi ? Credo che abbia ragione R. Häussler nel presentare il Cherilo presso Lisandro e presso Archelao come precursore dell’epos storico encomiastico ellenistico che maturerà nella realtà politica delle corti ellenistiche. Un ruolo, dunque, ancora una volta innovativo. Scrive Häussler: «mit seinem Griff nach der Geschichte sind die Dinge in Fluss gekommen». A questo traguardo si giunge – tanto per tornare a una metafora agonistica – passando anche attraverso l’esperienza dei Persikà. Università di Urbino
. Cfr. l’esaustivo commento al passo di Piccirilli : -. . FGrHist F (Test. Bernabé). . La fonte di questa notizia è Duride di Samo (FGrHist F ). . Sul moltiplicarsi in Grecia delle feste agonistiche comprendenti anche agoni musicali tra il v e il iv sec. a.C. cfr. da ultimo Bernardini . . Plut. Lys. , e in merito cfr. Ziegler : -. . Test. ; fr. Matthews (= Matthews : ). . Rhet. iii ,a. . 98 F Wehrli. . Häussler : .
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I B I C O A SA M O Pietro Giannini
La presenza di Ibico a Samo è attestata esplicitamente solo dalla Suda (s.v.). Un altro sicuro indizio è costituito dall’encomio per Policrate (fr. S Davies) che, attribuito ormai concordemente a Ibico, non può essere stato composto ed eseguito che sull’isola di Samo. Come si vede, una documentazione diretta piuttosto scarsa. Tuttavia, un’attenta lettura dei frammenti del poeta può darci qualche altro elemento utile per ricostruire i tempi ed i modi della sua attività sull’isola. A questa attenta lettura intendo affidarmi, cercando di rispondere a due esigenze tra loro connesse: ) storicizzare i fenomeni, cioè collocarli in un tempo ed in uno spazio definiti ; ) considerare i fenomeni in concreto, cioè nella concretezza dei tempi e dei luoghi in cui si manifestarono. Ovviamente, il tempo e lo spazio a cui facciamo riferimento sono l’isola di Samo ed il vi sec. a.C. Ma, prima di giungere a questo ambito, occorre tracciare delle brevi coordinate relative alla vita di Ibico prima del suo arrivo a Samo. Ibico era nato a Reggio, colonia di Calcidesi dell’Eubea, a cui si erano associati sin dall’inizio elementi messeni. Ibico apparteneva presumibilmente alla componente calcidese, come risulterà più chiaro da ciò che diremo in seguito. Ebbe una vita di cantore girovago, come dimostra l’episodio raccontato da Imerio (Or. , Colonna) : mentre si recava da Catania ad Imera cadde dal carro e si fratturò una mano, e per un certo tempo non potè suonare la lira. Quest’ultimo particolare fa pensare ad un cantore solista, ma non è in contrasto con l’attività corale perché si potrebbe riferire sia alla fase preparatoria di canti poi eseguiti da un coro, sia anche ad una attività monodica che si accompagnava a quella corale. Per quanto riguarda i temi della sua poesia in questo primo periodo della sua vita, dobbiamo dire che non abbiamo molti indizi sicuri di componimenti riferibili a questo tempo; tuttavia, non sembra accettabile la tesi che egli si sia rivolto esclusivamente a temi epico-lirici alla maniera di Stesicoro. Pur non potendo escludere che egli abbia composto canti di ampio respiro narrativo, occorre rilevare che molti dei riferimenti mitologici pre. . . .
Su questo vd. Giannini . Cfr. Strab. vi , p. e vd. Vallet : ss. Cfr. le riserve di Gentili : - e Angeli Bernardini : . L’individuazione di due periodi distinti nell’attività di Ibico, uno magno-greco, caratte-
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senti nella produzione di Ibico sono riconducibili alla tematica amorosa e quindi possono rientrare a pieno titolo nella lirica erotica (in particolare omoereotica), in cui il mito ha la funzione di enfatizzare la vicenda amorosa o la bellezza della persona celebrata. Si tratta di poesia encomiastica, che richiede una precisa ambientazione simposiale. L’esistenza di una poesia pederotica in Magna Grecia è ipotizzabile sulla base della notizia, data da Ateneo (xiii a), che Stesicoro compose dei pai´deia o paidika´. Ma non bisogna nemmeno dimenticare che uno degli ambiti culturali in cui l’omosessualità era comunemente accettata era la città ionica di Calcide, come attesta l’uso del verbo xalkidi´zein nel senso di paiderastei^n, testimoniato da Esichio e dalla Suda (s.v.) con preciso riferimento alla città dell’Eubea. Ciò trova conferma in un canto pederotico (conservatoci da Plutarco nell’Amatorius), che era corrente presso i Calcidesi (fr. Page) : qui si afferma che «insieme al valore, anche Eros che scioglie le membra fiorisce nelle città calcidesi ». E Reggio, nonostante la sua origine mista, era considerata una città calcidese, come testimonia Tucidide a più riprese (iii ,; vi , e ,). Quindi, nessuna meraviglia che Ibico abbia praticato questo genere di poesia già in Magna Grecia, anche se non abbiamo elementi per attribuire a questo periodo della sua vita alcun testo specifico. Da Reggio Ibico andò a Samo. Così è detto nell’unica testimonianza che documenta esplicitamente la presenza del poeta nell’isola, la Suda. Alla voce ÊIbykow leggiamo (secondo il testo dei codici): «Ibico...Reggino di stirpe. Da lì (cioè da Reggio) si recò a Samo quando su di essa dominava Policrate il padre del tiranno (oçte ay∫th^w h®rxen o™ Polykra´thw toy^ tyra´nnoy path´r). Era questo il tempo di Creso, l’Olimpiade o ». Come è noto, la notizia presenta un solo punto veramente problematico: il nome del padre del tiranno Policrate, che qui coincide con quello del figlio, in Erodoto (iii ,) è Ai∫a´khw. Per sanare il contrasto sono state scelte in sostanza due strade: ) ritenere che sia in errore la Suda e quindi correggerne variamente il testo ; tra tutte le proposte la più attendibile mi sembra quella di Schmid e Stählin, che mutano Polykra´thw in Polykra´toyw, quindi o™ Polykra´toyw toy^ tyra´nnoy path´r (« il padre del tiranno Policrate») ; ) ritenere che sia in errore Erodoto, il quale avrebbe confuso il padre del tiranno con il padre di un precedente Policrate, che fu attivo nella o Olimrizzato da produzione epico-lirica, l’altro samio, dedito a poesia erotica, risale a Flach : ss. (che sviluppa suggerimenti di Schneidewin : ss.). . Cfr. Angeli Bernardini : ss. . Vd. Dover : s. . Cfr. Schmid-Stählin : n. .
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piade (- a.C.), come dimostrano alcune notizie biografiche relative ad Anacreonte, ad Anassimandro ed a Pitagora. Non è questa la sede per affrontare la questione nei dettagli, perché essa, come si è appena detto, è connessa con altre notizie cronologiche. Qui basti dire che, qualunque sia la soluzione adottata, dalla notizia della Suda risulta che Ibico si recò a Samo quando su di essa dominava (h®rxen) il padre del tiranno (qualunque fosse il suo nome) nell’Olimpiade o, cioè negli anni a.C. La nozione di ‘comando’ presente nel verbo h®rxen ben si adatta al ruolo di preminenza, di tipo tirannico, che i membri della ‘famiglia’ di Policrate avevano assunto a Samo dopo la caduta del regime aristocratico dei gevmo´roi, e che si tramandarono di padre in figlio (non senza qualche interruzione, che giustificherebbe, secondo Barron, la notizia di Erodoto che Policrate conquistò il potere «con una rivolta», e∫panasta´w). Questa circostanza spiega la mentalità in un certo senso ‘dinastica’ che vediamo operante nel padre di Policrate, secondo il racconto di Imerio. In un’orazione purtroppo mutila (Or. , ss. Colonna) il retore riferisce che il tiranno Policrate, quando era ancora e¢fhbow (cioè ragazzo attorno ai anni), poiché era ‘appassionato’ (h¢ra) della poesia e del canto, chiese al padre di assecondarlo in questa sua passione. Il padre chiamò a Samo il poeta Anacreonte e ne fece il maestro di poesia del figlio in modo che questi, sotto la sua guida, esercitasse nel canto la «virtù regale» (th`n basilikh`n a∫reth´n) e realizzasse la preghiera di Omero di essere migliore del padre (il riferimento implicito è alla preghiera di Ettore riguardo al figlio Astianatte nel vi libro dell’Iliade, vv. -). Tralasciando alcune delicate questioni testuali (presenti nel passo o™ dh` goy^n th^w »Ro´doy Polykra´thw h¢ra moysikh^w), che però non incidono sul senso complessivo del passo, emerge con evidenza l’idea, presente nel padre di Policrate, di dover consegnare il potere al figlio e quindi la necessità di una sua formazione regale. Sembra possibile affermare che nel padre di Policrate operasse il modello epico di Fenice, pedagogo di Achille (come conferma lo stesso Imerio, che subito dopo cita questi personaggi del mito come modelli del rapporto maestro-allievo). Mi sono dilungato un poco su questo episodio, anche se non riguarda Ibico, perché mi sembra che chiarisca bene l’ambiente familiare in cui Ibico si trovò, giunto a Samo. Dico ‘giunto a Samo’ perché io non credo che Ibico sia stato ‘chiamato’ a Samo per la sua fama poetica, come di solito si crede. Se questa fosse stata la circostanza, ne sarebbe rimasta traccia, come per Anacreonte. Ciò incide anche sulla determinazione dell’età che aveva Ibico . Cfr. Sisti : ss. ; ma vd. già Barron : in part. . . Cfr. Barron : . . Cfr. Barron : ; Sisti : . . Cfr. Sisti : s.
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quando si recò nell’isola, e che di solito è collegata alla sua a∫kmh´, alla notorietà (convenzionalmente intorno ai anni) : niente lo lascia supporre ed Ibico potrebbe essere giunto anche in età più giovane. Un altro indizio che si può ricavare dalla notizia della Suda è che egli si recò direttamente da Reggio a Samo, senza tappe intermedie. L’idea che durante il tragitto si sia fermato nella Grecia continentale (per esempio a Sicione) poggia sull’interpretazione di alcuni frammenti (frr. e Davies), ma essi sono così esigui (in realtà si tratta di notizie da fonti indirette) che non giustificano deduzioni così nette. Essi potrebbero trovare altre spiegazioni. Dunque, in un giorno della o Olimpiade Ibico giunse a Samo. Ma, prima di procedere oltre, è bene porsi una domanda: perché proprio a Samo? Si può tranquillamente rispondere che Ibico si recò a Samo a causa degli stretti rapporti che esistevano tra l’isola e la città di Calcide, madrepatria di Reggio. Tali rapporti sono evidenziati da diverse circostanze. Nella quasi leggendaria guerra lelantina, che oppose Calcide ad Eretria, Calcide ebbe come alleata Samo, mentre Eretria fu aiutata da Mileto (Hdt. v ). È interessante notare che questa antica amicizia è ricordata in un documento epigrafico samio del circa a.C. (IG xii , n. ) : in questa epigrafe è menzionato l’intervento di un cittadino di Calcide, Antileonte, che, proprio sulla base di questi antichi rapporti (r. ss. : diafyla´ssvn th´n te fili´an th`n Xalkidey^si kai` Sami´oiw y™pa´ rxoysan), mediante il pagamento di un riscatto liberò dalla prigione e dalla morte alcuni generali Sami arrestati dagli Ateniesi. Si può pensare che i buoni rapporti tra Samo e Calcide si estendessero anche alle colonie calcidesi d’Occidente. Erodoto racconta (vi -) che, al tempo della rivolta ionica, gli abitanti di Zancle (poi Messina), anche questa colonia calcidese, «mandavano messaggeri nella Ionia (evidentemente quella dell’Asia Minore) e invitavano gli Ioni a Calatte, volendo fondare là una città di Ioni. All’invito di costoro i Sami, unici tra gli Ioni, andarono e con loro i fuggiaschi di Mileto». Successivamente questi Sami furono avvicinati da Anassilao, tiranno di Reggio (altra città calcidese) che li dirottò su Zancle, la quale fu dunque occupata da loro. Il passo di Erodoto, con il ritorno insistente dei termini « Ivni´a e ÊIvnew, sia in rapporto a Samo sia in rapporto alla colonia calcidese di Zancle, illustra a sufficienza la stretta affinità culturale tra queste città e spiega perché Ibico, dovendo allontanarsi da una città calcidese, si recò proprio a Samo: egli si mantenne nell’ambito dell’area culturale ionica, in quella che poi era la Ionia per eccellenza, come sappiamo da Erodoto (passim). La connessione di Ibico con la ‘casa’ di Policrate (o di Eace) è attestata esclusivamente, ma sicuramente, dall’encomio del giovane tiranno (fr. S . Cfr. Bowra : ss. . L’editio princeps è di Habicht : -.
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Davies). Non era una casa aristocratica (lo dimostra la funzione politica antitetica ai gevmo´roi da essa assunta), ma era una famiglia ricca, quasi certamente per i commerci. La ricchezza della famiglia è implicita nella notizia di Ateneo (xii de) che Policrate, «prima di diventare tiranno (cioè quando era ancora in seno alla sua famiglia) si procurò ricchi tessuti e vasellame e li faceva utilizzare a coloro che celebravano nozze o altre cerimonie più importanti ». Se poi questa concessione avvenisse dietro pagamento (cosa non improbabile per Policrate) o per liberalità, non sappiamo; comunque avremmo qui la testimonianza del primo servizio ‘per nozze e ricevimenti’ della storia. L’origine commerciale della ricchezza è dimostrata anche dall’attività successiva di Policrate, che era più propriamente una pirateria mascherata. La flotta imponente di cui egli dispose (e che fece pensare già agli antichi ad una talassocrazia) non fu creata da lui ex novo, ma ebbe certamente un nucleo familiare originario. Occorre dire che, nella casa di Policrate, Ibico non ebbe mai una collocazione precisa. Se dobbiamo dar credito all’episodio riferito da Imerio (cui abbiamo accennato sopra), il pedagogo, per così dire, ‘ufficiale’ del giovane Policrate fu Anacreonte. Questi conservò una posizione di preminenza anche dopo che Policrate divenne tiranno e sino alla fine di quest’ultimo: il messo del satrapo Orete (che attrasse Policrate nella trappola finale) trovò il tiranno disteso nella sala del simposio ed accanto a lui Anacreonte (Hdt. iii ,). Ibico ed Anacreonte vissero dunque nello stesso ambiente, ma non sappiamo sino a quando. Ad un certo punto Ibico, non si sa per quali motivi, andò via da Samo e, quando il tiranno morì, non era più alla sua corte, come lascia intendere il racconto di Erodoto. Che però Ibico ed Anacreonte siano stati insieme in quella corte per un certo periodo di tempo, lo fa capire un passo delle Tesmoforiazuse di Aristofane, che ci dà anche un altro interessante particolare. Ai vv. sgg. il poeta tragico Agatone, che è in vesti femminili per esigenze di ‘imitazione letteraria’, per giustificare ulteriormente il suo abbigliamento ed il suo portamento, dice che «non è elegante vedere un poeta rozzo e peloso» e subito cita come esempi «il famoso Ibico, Anacreonte di Teo ed Alceo, i quali diedero sapore alla musica, portavano la mi´tra e si muovevano con grazia alla maniera Ionica». Aristofane allude qui evidentemente alle innovazioni musicali introdotte da Alceo, Anacreonte e Ibico e che consistevano nell’adozione dell’a™rmoni´a ionica, ‘molle e rilassata’ secondo la tradizione antica, e dei conseguenti passi di danza ‘aggraziati’ (cui allude il verbo dieklv^nto) ed anche all’assunzione di abbigliamenti esotici come la mi´tra, propriamente un turbante: la vediamo indosso ad . Cfr. Shipley : e . . Cfr. Gentili : ss. . Su tutto cfr. Prato : ss.
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Anacreonte in una scena di komos raffigurata su un vaso di Copenhagen e, se stiamo alla testimonianza di Aristofane, anche Ibico dovette portarla. Tutto questo non può essere accaduto che alla corte del tiranno Policrate, di cui gli antichi sottolineavano la particolare propensione alla tryfh´ (Clito ap. Athen. xii c) ad imitazione in particolare della mollezza dei Lidi: e questo, secondo Clearco (ap. Athen. xii ef) fu la causa della sua rovina. La mi´tra era appunto un copricapo lidio, come testimoniano ad es. Alcmane (fr., s. Davies = , s. Calame) e Saffo (frr. a,; b, Voigt). La corte tirannica di Policrate fu un luogo profondamente permeato dall’e¢rvw paidiko´w, come dimostra ampiamente la poesia di Anacreonte, che ne coglie il riflesso simposiale. Ciò rispondeva ad un preciso intento di Policrate che, come dice Ateneo, era peri` ta`w tv^n a∫rrh´nvn o™mili´aw e∫ptohme´now, «eccitato dalle relazioni con i maschi» (xii e). Il termine usato da Ateneo, e∫ptohme´now, esprime un profondo coinvolgimento e sconvolgimento personale, non una semplice propensione. Una analoga atmosfera di propensione all’amore efebico doveva essere presente nella casa del padre di Policrate, dove Ibico era giunto. Il famoso encomio (fr. S Davies) non può essere stato eseguito che quando il Policrate a cui è diretto era ancora efebo, perché altrimenti non avrebbe senso l’elogio della sua bellezza e non avrebbe senso il paragone, cardine dell’elogio, con gli efebi famosi del mito Cianippo, Zeuxippo e Troilo. È un paidiko´n che non può essere stato eseguito che in un simposio, a cui è presente lo stesso giovanetto lodato, come dimostra l’allocuzione diretta kai` sy´ (v.). Questa circostanza comporta la necessità di definire le ragioni della presenza. Data l’assenza di motivi erotici strettamente personali ed il carattere ‘oggettivo’ dell’elogio, è assai probabile che l’occasione del canto non sia un simposio ristretto, ma un simposio che si svolge nella «cornice allargata di un cerimonia ufficiale » (come ha chiarito Cingano), il che spiegherebbe anche il suo carattere corale. Si potrebbe pensare che il giovane Policrate sia oggetto di una celebrazione festiva, come ad esempio l’Autolico del Simposio di Senofonte. In ogni caso l’encomio è un paidiko´n, uno di quei pai´deioi yçmnoi che, come Pindaro afferma nell’Istmica (vv. sgg.), gli antichi poeti «subito scagliavano a chiunque era bello ed aveva la dolcissima stagione che suscita il ricordo di Afrodite dal bel trono». Nel denso dettato pindarico, come chiarisce lo scolio, è contenuto un riferimento ad Alceo, Ibico ed Anacreonte ed a tutti coloro che, anche prima di loro, si erano dedicati ai paidika´. Il rimpianto di Pindaro è per un tempo in cui i poeti rivolgevano gli omaggi agli efebi r™´imfa, « subito », cioè spontaneamente, in contrapposizione ai suoi tempi, in cui il . Riprodotto in Perrotta-Gentili : di fronte a p. . . Cfr. Cingano : ; vd. anche Vetta : .
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canto è ottenuto per denaro. Pindaro si riferisce qui sicuramente ai canti celebrativi di vittorie agonali; meno probabile sembra l’implicazione dei canti d’amore, che saranno rimasti spontanei. L’encomio di Ibico sarà stato spontaneo a causa della riconoscenza per l’ospitalità concessagli; egli non avrà altra ricompensa se non la gloria per il suo canto così come il suo canto procurerà al ragazzo fama per la sua bellezza (cfr. i vv. -). L’encomio è stato a lungo oggetto di attenzione e quasi tutto è stato già detto. Qui voglio sottolineare due aspetti, l’uno di contenuto l’altro di forma, che possono essere messi in rapporto più stretto con l’ambiente di Samo. . Sotto l’aspetto del contenuto occorre sottolineare che, oltre al rifiuto della materia epica (che, per i temi luttuosi, non è adatta all’ambiente simposiale in cui si svolge il canto), Ibico compie delle scelte mitologiche di chiara marca non-omerica: una è la definizione di Agamennone (vv. -) non solo come «figlio discendente dal nobile Atreo» (come in Omero) ma anche come « Plistenide », definizione che si riscontra solo in Esiodo (fr. Merkelbach-West) e Stesicoro (fr. Davies) ; l’altra è la scelta dei modelli di bellezza, che sono Cianippo, Zeuxippo e Troilo, a svantaggio di Achille, che in Omero è l’eroe più bello dei Greci insieme a Nireo di Sime (Il. ii ss.). Lasciando da parte quest’ultimo, che era «fiacco » (a∫lapadno´w), Achille poteva essere un buon modello per un efebo. Invece Achille è solo modello di valore guerriero, insieme ad Aiace Telamonio, e per la bellezza troviamo proposti Cianippo e Zeuxippo. Questi due non hanno alcun posto nei poemi omerici mentre sembrano appartenere alle tradizioni locali di Argo e di Sicione. Quanto a Troilo, egli è ricordato fuggevolmente nell’Iliade (xxiv ) con una caratterizzazione bellica (™ippioxa´rmhn), ma in Ibico gli è attribuita una fama di bellezza che è condivisa da «Troiani e Danai» (v. ) : una associazione che, se non ha una funzione totalizzante (cioè ‘tutti’), non si riesce a capire quale altro significato possa avere. In realtà è difficile dare un significato a queste sottolineature non-omeriche, anche tenendo conto del fatto che ÊArgow (sia come città sia come regione) nel componimento ha un ruolo preminente quale punto di partenza della spedizione, sottolineato ben tre volte (v. : ÊArgo&en o∫rnyme´noi, v. : Ai∫gai^on dia` po´nton a∫p« ÊArgeow, v. : ka´llistow a∫p« ÊArgeow). Credo che la spiegazione di questi particolari vada cercata nel contesto politico-culturale dell’isola di Samo, nel tempo in cui il canto fu eseguito. Per costruire un contesto significativo, provo a suggerire degli elementi: . Cfr. Gentili : s. . Cfr. Barron : . Sull’atteggiamento di Ibico verso Omero vd. anche Cavallini : ss. . Cfr. Cingano : .
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a) Samo è a breve distanza da Chio, isola su cui si conservava la tradizione schiettamente omerica nella famiglia degli Omeridi; e Samo intratteneva con Chio rapporti ostili, come lascia presumere la stretta amicizia tra Chio e Mileto, nemica di Samo, al tempo della lotta contro i Lidi (come ricorda Erodoto, cfr. i , ) ; b) Samo aveva antichi rapporti di alleanza con Corinto e con Sparta, ma nel corso del vi secolo tali rapporti si erano deteriorati a causa di atti di pirateria che i Sami avevano compiuto nei loro confronti: dei Corinzi liberando i giovinetti corciresi che Periandro aveva inviato ad Aliatte per farli evirare, degli Spartani rapinando il cratere che essi avevano mandato in dono a Creso e la corazza di lino che Amasi, faraone d’Egitto, aveva offerto in dono a Sparta. Questi atti, insieme ad altre motivazioni, furono all’origine dell’attacco che Spartani e Corinzi sferrarono al tiranno Policrate nel a.C. (Hdt. iii ; -). Se questo cambiamento di politica comportasse anche un avvicinamento ad Argo, nemica tradizionale di Sparta e Corinto, non saprei dire. Sta di fatto che la statuetta bronzea di un kouros con la dedica Polykra´thw a∫ne´&hke è stata trovata nell’Heraion di Argo: la scrittura, argiva, è stata datata dalla Jeffery al - a.C., ma la statuetta, come rileva Dunbabin (citato dalla stessa Jeffery), è di stile greco orientale. Non è possibile che l’offerente sia il Policrate tiranno (come crede Shipley), ma potrebbe essere un suo antenato. . Sul piano formale, la struttura metrica dell’encomio presenta una singolare mescolanza di elementi diversi: ad una strofe ed una antistrofe, costituite da alcmani e da un hemiepes e un enoplio, segue un epodo in cui a enopli succedono, al v. emiasclepiadeo + reiziano e, al v., coriambo + emiascepiadeo. Come si vede, una struttura in cui coesistono cola dattilici (gli alcmani), cola di tipo kat’enoplion (hemiepes, enoplio, reiziano) a cui si aggiungono in fine di epodo ritmi eolici (coriambo ed emiasclepiadeo). La singolarità consiste nel fatto che i metri dattilici e kat’enoplion sono già nella tradizione magnogreca (essi ricorrono in Stesicoro) e quindi fanno parte del bagaglio pregresso di Ibico, mentre i ritmi eolici appartengono alla tradizione lesbica, che Ibico ha potuto conoscere (o almeno conoscere meglio) a Samo. Quindi Samo è il luogo in cui Ibico ha potuto realizzare questa fusione di generi metrici, fusione che assume ulteriore significato se consideriamo che l’hemiepes maschile del o colon della strofe/antistrofe in alcune realizzazioni . Ancora oggi vi è una forte ostilità tra Chio e Samo, come ricorda Shipley : vii e . . Su possibili atteggiamenti filo-argivi di Ibico vd. Barron : s. (di diversa opinione Bowra : ss.). . Cfr. Jeffery : . . Cfr. Jeffery : , n. . . Cfr. Shipley : . . Gli aspetti metrici dei testi sono stati trattati in Giannini : ss.
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(vv. , , ) presenta all’inizio lo spondeo invece del dattilo assumendo così la forma di un emiasclepiadeo (– – – ∪ ∪ –). In sostanza una forma ambigua, di confine tra kat’enoplion e coriambi. La presenza di forme metriche di confine, stavolta tra genere dattilico e coriambico, caratterizza anche un altro componimento che possiamo assegnare con una qualche probabilità al periodo samio: il fr. Davies. Ribadisco qui l’interpretazione, da me sostenuta, che vede in esso il contrasto tra il mondo vegetale, interessato dall’eros solo in primavera, ed il poeta, coinvolto dalla passione amorosa in ogni stagione della vita. La prima parte è incentrata sulla descrizione del giardino delle Vergini, in cui a primavera fioriscono i meli Cidoni, «irrigati dalle correnti che provengono dai fiumi », e le piante della vite. Invece il poeta è tormentato senza posa da Eros (personificato) che si avventa su di lui «come il Tracio Borea lampeggiante di fulmini ». Premesso che io non credo che il giardino qui descritto sia un giardino simbolico, mi sembra che i tratti che sono stati messi in evidenza nella parafrasi del frammento siano compatibili con l’ambiente geografico di Samo per le ragioni sotto indicate. . I meli Cidoni. Questa varietà di meli era originaria dell’isola di Creta, secondo la communis opinio rappresentata da Plinio il Vecchio (Nat. xv -) ; questi ci informa anche dell’esistenza di diverse varietà (plura eorum genera), delle quali ricorda alcune. Era quindi un albero non esclusivo dell’isola di Creta, i cui frutti sono già noti ad Alcmane (fr. Davies = Calame) ed a Stesicoro (fr. , Davies). Questa pianta non è incompatibile con l’isola di Samo, alla cui flora, secondo la testimonianza di Aetlio di Samo (ap. Athen. xiv f), quindi buon conoscitore dei luoghi, appartenevano «fichi, uva, meli e rose», ed anche una pianta non identificata, chiamata o™momhli´w. Insomma, pur non escludendo i significati simbolici ed erotici più volte sottolineati, i meli Cidoni potevano ben stare in un vero e proprio giardino, noto al poeta. . L’irrigazione delle piante mediante canali derivati dai fiumi. Senza pensare a particolari opere di ingegneria idraulica (che pure a Samo ci furono per opera di Eupalino, cfr. Hdt. iii ), non è inopportuno ricordare che Samo era rinomata nell’antichità per la sua abbondanza di acqua: essa è y™drhlh´ nell’Inno omerico ad Apollo (v. ), Callimaco nell’Inno a Delo ricorda la « mammella molle di acqua» (dia´broxon yçdati masto´n, v. ) dell’isola che . Cfr. Giannini . . L’ambiente geografico di Samo è accuratamente descritto da Shipley : -. . Da dove aveva tratto il nome, probabilmente dalla città di Kydvni´a, fondata da Minosse o dai Tegeati (secondo la testimonianza di Paus. viii ,) e poi colonizzata dai Sami scacciati da Policrate (Hdt. iii ,). . Vd. Shipley : e n. . . Per tutti vd. Bowra : .
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non aveva ancora il nome di Samo, ma si chiamava Partenia; Esichio ricorda che Anacreonte aveva chiamato Samo a¢sty Nymfe´vn (fr. Gentili) e giustifica ciò col fatto che l’isola divenne poi ey¢ydrow. Ancora oggi, secondo la descrizione di Shipley, « il regime delle acque piovane è alto in rapporto alla Grecia continentale, ... vi sono fonti perenni in diverse parti... e ci sono diversi corsi d’acqua abbastanza ampi, incluso uno che scorre tutto l’anno (il Rema Pyrgou) ». . Il vento Borea. Anche se questo vento e la sua origine dalla Tracia sono noti fin da Omero, può essere interessante notare che (come ci informa Shipley) oggi i venti prevalenti a Samo sono quelli che vengono dal nord. È solo per curiosità che ricordo ancora che (sempre secondo Shipley) « temporali, che possono portare anche grandine, sono frequenti, specialmente in maggio e giugno». Insomma, tutti questi particolari inducono a individuare nel ‘giardino delle Vergini’ un vero e proprio giardino di Samo, cioè, come osserva Gentili, un orto sacro dove era vietato l’accesso alle persone estranee (come l’a∫kh´ratow leimv ´ n di Artemide descritto da Euripide nell’Ippolito, vv. ss.) e sacro ad Afrodite, come dimostra la presenza dei meli e come assicura il confronto con la figurazione saffica della gelida acqua mormorante tra i rami del melo nel giardino di Cipride (fr. Voigt). Ritornando alle forme metriche del componimento da cui avevamo preso l’avvio, è da sottolineare nei primi versi la presenza dell’ibiceo, che nel contesto del carme può essere interpretato sia come misura dattilica (trimetro dattilico con chiusa cretica, come nell’alcmanio archilocheo noto ad Efestione [p. , s. Consbruch] e presente in Ibico nell’encomio a Policrate, v. ) sia anche come misura coriambica (gliconeo con ‘base’ dattilica). Ma occorre osservare che l’ibiceo può essere inteso anche come forma catalettica del decasillabo alcaico, che ricorre volte nel componimento (vv. e ). Gli altri metri presenti (alcmanio ed hemiepes femminile) realizzano ancora una volta una mescolanza tra generi diversi, dattilici ed eolici, con prevalenza stavolta dei metri eolici. Ancora a Samo sembra essere stato composto il fr. Davies, nel quale il poeta, all’avvicinarsi di Eros sotto l’aspetto del cacciatore, trema come un cavallo da corsa che in vecchiaia scende in gara con cavalli più giovani. Se il motivo della vecchiaia non è convenzionale (e come potrebbe esserlo in una cultura legata strettamente alla realtà ed alla vita, come quella greca arcaica ?) il frammento è stato composto a Samo, perché io sono convinto che . . . . .
Sulle tradizioni mitiche relative a Samo vd. infra la relazione di E. Cavallini. Cfr. Shipley : . Cfr. Shipley : . Cfr. Shipley : . Cfr. Perrotta-Gentili : s.
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Ibico, partito dall’isola per non si sa quali motivi, sia poi approdato, senza ulteriori tappe, al luogo dove trovò la morte per mano dei predoni, luogo che è da collocare nelle vicinanze di Corinto: lo dimostra l’accenno alla Sisyfi´h gai´h nell’epigramma di Antipatro di Sidone (Anth. Pal. vii ,) e lo conferma la leggenda delle gru (ge´ranoi), che è legata alla regione della Gera´neia, prossima a Corinto. Questo frammento presenta un’altra singolarità, quella di essere un paidiko´n composto in metri anapestici ( tetrametri seguiti da un dimetro, da hemiepes femminile + enoplio ed ancora da misure anapestiche); questa struttura trova il riferimento più pertinente nella Gerioneide di Stesicoro. Una forma di citarodia applicata all’ambito omoerotico. Ciò dimostra che a Samo Ibico utilizzò sia i ritmi della sua formazione magnogreca, sia i ritmi eolici, conosciuti in Oriente. I frr. e Davies offrono una visione di Eros come forza della natura cieca e violenta, che induce alla follia. Non so se questa visione sia una conseguenza dei contatti con il mondo greco orientale (sotto l’influsso di Saffo) o se (come penso più probabile) sia una concezione costitutiva della natura del poeta. Sta di fatto che questo modo di presentare Eros si confrontò, nel simposio samio, con l’altro, meno drammatico e più giocoso, di Anacreonte, almeno per il periodo in cui i due poeti furono compresenti nell’isola e nella famiglia di Policrate. Ma questo sarebbe un capitolo del tutto nuovo ed avrebbe bisogno di un autonomo svolgimento. Qui basti ribadire che il simposio di Samo fu il luogo in cui l’eros fu più ampiamente ‘rappresentato’ nella Grecia arcaica. Lo studio di questa ‘rappresentazione’ dovrebbe tener conto di una certa convenzionalità che, se pure non inficia la forza e la varietà personale dei sentimenti espressi, ha tuttavia dei moduli che convogliano la comunicazione amorosa nell’ambito simposiale (penso ad esempio alla frequenza del modulo dhy^te, presente sia in Anacreonte sia in Ibico). Per completare il quadro dei debiti di Ibico verso Samo bisogna ricordare i frr. e Davies. Nel primo si parla di Kya´raw, lo strathgo´w dei Medi. Sia che il termine Kya´raw debba considerarsi forma sincopata di Kyaja´raw (Ciassare), come sostiene la fonte antica, sia che debba intendersi come un nome greco che riproduce da vicino la forma elamitica del nome di Ciro, è probabile che Ibico sia venuto a conoscenza di questo personaggio a Samo più che in Magna Grecia. Ancora, nel fr. si dice che Ibico fu il primo poeta a chiamare con lo . . . . .
Vd. Giannini . Cfr. Vetta : . Sulla concezione dell’eros in Anacreonte basti vedere Gentili : . Su questo argomento interessanti osservazioni in Cavallini : n. . Vd. apparato critico ad loc.
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stesso nome la stella della sera e la stella del mattino. Poiché la scoperta dell’identità di questi astri è dei Babilonesi, ma fu divulgata in Grecia da Pitagora, è probabile che Ibico ne sia venuto a conoscenza a Samo perché, quando Pitagora si recò in Italia nel - a.C., Ibico ormai era partito da Reggio senza farvi più ritorno. Questo particolare dimostra in Ibico una insospettata attenzione verso novità scientifiche, che tuttavia potevano anche essere utilizzate nell’ambito della tematica omoerotica, come prova il riferimento alla stella del mattino nel partenio di Alcmane (fr. , Davies = , Calame). Tematica nella quale Ibico rimase meritamente famoso presso gli antichi. Università di Lecce
. Cfr. Bowra : . Sulle conoscenze astronomiche a Samo in età arcaica vd. infra la relazione di A. Gostoli. . Secondo la lezione «Or&i´aı : vd. Gentili : ss.
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Tra epos e storia: le genealogie di Cianippo e dei Biantidi in Ibico (Suppl. Lyr. Gr. Page) e nelle fonti mitologiche greche, «zpe» , , -. L’opera di Ibico e Stesicoro nella classificazione degli antichi e dei moderni, in Lirica, -. L’omosessualità nella Grecia antica, tr. it. Torino (London ).
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giovedì novembre ⋅ ore : presiede walter burkert
COME GUARIRE DAL COMPLESSO EPICO L ’O D E A PO L I C R A T E D I I B I C O Maria Grazia Bonanno 1. U n a ‘ n u o v a ’ o d e e n c o m i a s t i c a la scoperta di P. Oxy. , che aveva restituito ben quarantotto versi di un componimento súbito intitolato Ode a Policrate ovvero Encomio di Policrate, Snell annotava: «Il valore di questo carme ... è però spesso misconosciuto ; si contesta l’attribuzione a Ibico, si nega che il destinatario Policrate sia il tiranno di Samo, o si afferma che la poesia è semplicemente noiosa e brutta». Presto, tuttavia, la quasi totalità degli studiosi si dichiarava per la paternità ibicea, indicando proprio in quest’ode (ora fr. Davies) il manifesto del nuovo programma del poeta, il quale dice di non voler cantare le lacrimevoli vicende della guerra di Troia, bensì la bellezza di Policrate. Una diversa valutazione storico-letteraria, comunque, già divideva gli interpreti. Sulla base della sola tradizione indiretta, Schneidewin aveva a suo tempo ritenuto di risolvere la questione della dilagante presenza di paidika´ accanto alle testimonianze su carmi di argomento mitico ed eroico, ipotizzando una conversione poetica di Ibico: giunto alla corte del tiranno di Samo, il poeta sarebbe passato da una produzione epico-lirica di tipo stesicoreo a una composizione di carmi erotici, sperimentando un nuovo tipo di melica e gareggiando, per così dire, in anticipo con il collega, anche di corte, Anacreonte. La scoperta della nostra ode ancor più convinceva studiosi quali Bowra e poi Sisti circa la «tesi ‘evoluzionistica’, tendente a identificare una netta bipartizione all’interno dell’attività poetica ibicea», mentre Gentili, successivamente, individuava le ragioni della ‘nuova’ posizione di Ibico nella «normativa arcaica del genere poetico» che «comporta una rigorosa selezione dei contenuti in rapporto all’occasione del canto». La via di Samo non sembra in effetti una precoce metafora della via di Damasco. Ibico si dimostra, da sempre, un abile selezionatore di miti, sì eroici ma pure erotici: una sorta di
D opo
. Fr. Davies. Il papiro edito la prima volta nel (Hunt) ha súbito sollecitato una serie di autorevoli interventi, da Wilamowitz a Maas, Page etc., cfr. Barron : n. , con ricca bibliografia. . Così Snell : n. . . Sul problema dell’attribuzione, Stesicoro o Ibico, ma per la prevalenza di quest’ultimo, cfr. Barron : ss. . Cfr. Bowra : ss. . Cfr. Sisti : e ss. . Così Cavallini : . . Così Gentili : .
maria grazia bonanno
erotizzazione e, più spesso, di ‘omosessualizzazione’ del mito – come intuiva Dover – trova conferma anche nei più recenti ritrovamenti papiracei, che a loro volta illuminano materiali da più tempo disponibili. Uno schema ideologico, oltre che formale, analogo a quello del nostro carme è infatti reperibile nell’ampio frammento conservato da P. Oxy. (fr. Davies), dove Ibico interrompe il racconto delle vicende dei Dioscuri per celebrare la bellezza del committente. La tradizione indiretta, che aveva selezionato alcuni fra i più bei carmi del poeta di Reggio (né solo a giudizio degli antichi), si è di molto arricchita – e, come quasi sempre, problematicamente – grazie alle scoperte papiracee del secolo scorso: la più ‘sublime’, per la letteratura greca, tradizione diretta ha messo in crisi, anche nel caso di Ibico, i filologi affezionati a un’immagine sempre parziale e comunque dovuta alla selezione – quindi all’esigenza o al gusto – di chi ha ‘salvato’ questo o quel testo, talora magari scegliendo fior da fiore. Sull’estetica del nostro frammento, se cioè la poesia sia «noiosa e brutta» avremo modo di ritornare. Quanto invece all’identificazione dell’elogiato bel Policrate, la questione è stata affrontata con dovizia di particolari, nel suo fondamentale lavoro, da Barron e da altri discussa con alterni ripensamenti. In breve, secondo la notizia della Suda, il poeta si recò da Reggio a Samo durante l’Olimpiade liv (- a.C.). Non tutti accettano tale cronologia, poiché Ibico risulterebbe più vecchio di Anacreonte per almeno una generazione : non resterebbe che prestare fede alla cronaca di Eusebio nella versione di Girolamo, secondo cui Ibico «agnoscitur» al tempo dell’Olimpiade lxi (-). Forse le due attestazioni potrebbero non essere del tutto incompatibili, se è vero che Policrate acquistò il potere nel (Hdt. iii , smentisce peraltro l’esistenza di due Policrati omonimi, poiché il padre del celebre tiranno si sarebbe chiamato Eace), ma è anche vero che, per quanto Ibico dovesse già godere di buona fama prima dell’ingresso a Samo, non si è obbligati a datare l’incontro proprio al momento del suo arrivo. Converrà, credo, fermarsi alla certezza che il destinatario sia il giovinetto Policrate, descritto da Imerio come appassionato moysikh^w kai` melv^n, tale che il padre chiamò a corte il dida´skalow Anacreonte. Nulla di strano che Ibico cercasse i favori della stessa corte mediante l’elogio del ‘promettente’ . Cfr. Cavallini : ss. . Fr. Davies , per cui cfr. il commento di Cavallini : ss. . Cfr. supra e n. . . Cfr. Barron : ss. . S.v. ÊIbykow. ... ei∫w Sa´mon h®l&en. oçte h®rjen Polykra´thw, toy^ tyra´nnoy path´r. xro´now de` oy©tow o™ e∫pi` Kroi´soy, o∫lympia`w nd». . Concordo qui con la ragionevole opinione di Simonini : ss., cui rinvio per un sintetico stato della questione. . Or. , ss. Colonna.
come guarire dal complesso epico
Policrate, e che il laudandus fosse giovane risulta dall’epilogo del carme. La cui formulazione estrema, una vera e propria sfragi´w col nome proprio al vocativo (Poly´kratew) sembrerebbe ‘relegata’ negli ultimi tre versi pur essendo la motivazione del canto, così da costituire un finale a sorpresa: almeno a giudizio di coloro che si sono chiesti perché mai il poeta, a loro avviso, abbia parlato di tutt’altro dal primo verso superstite fino al quarantacinquesimo. Ma rileggiamo l’intera ode, secondo l’edizione di Davies , che in nulla si discosta da quella di Page, tranne che per estendere, a torto, la crux di lo´gv[i (v. ) al successivo &nat[o´]w (v. ). ...]ai Dardani´da Pria´moio me´˙ g« a¢s]ty periklee`w o¢lbion h∫na´ron ˙ ˙˙ ˙ ÊArg]o&en o∫rnyme´noi ˙ Zh]no`w mega´loio boylai^w ˙ ˙
ant.
5
ja]n&a^w »Ele´naw peri` e¢idei ˙ ˙ ˙ dh^]rin poly´ymnon e¢x[o]ntew ˙ po´]lemon kata` [d]akr[yo´]enta, ˙ ˙ Pe´r]gamon d« a∫ne´[b]a talapei´rio[n a¢]ta ˙ xry]soe´&eiran d[i]a` Ky´prida. ˙
ep.
10
ny^]n de´ moi oy¢te jeinapa´t[a]n P[a´ri]n ˙ ˙ ˙ ..] e∫pi&y´mion oy¢te tani´[sf]yr[on y™m]nh^n Kassa´ndran Pri]a´moio´ te pai´daw a¢lloy[w ˙ ˙
15
Tro]i´aw &» y™cipy´loio a™lv ´ si[mo]n ˙ ˙ a®m]ar a∫nv ´ nymon, oy∫dep[ ˙ h™r]v ´ vn a∫reta`n y™p]era´fanon oyçw te koi´la[i ˙
ep.
na^ew] polygo´mfoi e∫ley´sa[n ˙ ˙ ˙ Troi´]ai kako´n, hçrvaw e∫s&[loy´w. ˙ ˙ tv ^ n] me`n krei´vn «Agame´[mnvn ˙ a®rxe Pleis&[eni´]daw basil[ey`]w a∫go`w a∫ndrv ^n ˙˙ ˙ ˙ « Atre´ow e∫s[&loy^ p]a´iw e¢kg[o]now. ˙
ep.
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20
==== . Cfr. l’apparato ad l. di Page : . Quanto al «vexatum » &nato´w, ce ne occuperemo più avanti.
maria grazia bonanno
25
kai` ta` me`[n a£n] Moi´sai sesofi[s]me´nai ˙ ˙ ˙ ey® »Elikvn´id[ew] e∫mbai´en lo´gv[i, ˙ ˙ &nat[o`]w d » oy¢ k[e]n a∫nh`r ˙˙ ˙ ˙ diero`w ta` eçkasta ei¢poi,
str.
nav ^ n oç[ssow a∫ri]&mo`w a∫p « Ay∫li´dow ˙ ˙ Ai∫gai^on dia` [po´]nton a∫p« ÊArgeow ˙ ˙ h∫ly´&o[n e∫w Troi´a]n ˙ ™ippotro´fo[n, e∫n d]e` fv ´ tew ˙ ˙
ant.
x]alka´sp[idew, yi©]ew «Axa[i]v ^ n. ˙ ˙ ˙ t]v ^ n me`n pr[of]ere´statow a[i∫]xma^i ˙ ˙ ....]. po´d[aw v ∫ ]ky`w «Axilley`w kai` me´]gaw T[elam]v ´ niow a¢lki[mow Ai¢aw ˙ ˙ ...]...[.....] lo[.].yrow.
1p.
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30 ————
35 ====
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........ka´lli]stow a∫p« ÊArgeow ˙ ........Kya´ni]pp[o]w e∫w ÊIlion ] ]..[.]... ...............]a xryso´strof[ow çYlliw e∫gh´nato, tv ^ i d« [a¢]ra Trvi´lon ˙ v ™ sei` xryso`n o∫reixa´lkvi tri`w a¢pef&o[n] h¢dh ˙
ant.
———— 45
Trv ^ ew D[a]naoi´ t«e∫ro´e]ssan morfa`n ma´l« e∫´iskon oçmoion. ˙ toi^w me`n pe´da ka´lleow ai∫e`n kai` sy´, Poly´kratew, kle´ow a¢f&iton e™jei^w v ™ w kat« a∫oida`n kai` e∫mo`n kle´ow.
———— « ... di Priamo Dardanide la grande / ricca famosa città distrussero / muovendo da Argo / per volere del grande Zeus / e per la bellezza della bionda Elena / ingaggiando una lotta che fu molto cantata / nella guerra fonte di lacrime, / e su Pergamo infelice salì la Rovina / a causa di Cipride dall’aurea chioma. / Ma ora non desidero cantare / né Paride ingannatore di ospiti / né Cassandra dalle caviglie snelle / e gli altri figli di Priamo / e il giorno inglorioso della presa / di Troia dalle alte porte, / e neppure (narrerò) / l’arrogante valore degli eroi / che concave navi dai molti chiodi / portarono – male per Troia – nobili eroi; / li guidava il potente Agamennone / della stirpe di Plistene, re condottiero di uomini / figlio del nobile Atreo, sangue del suo sangue. / Queste imprese le Muse sapienti, Eliconie, / bene potrebbero narrare col canto, / ma un uomo mortale, pur capace, / non saprebbe
come guarire dal complesso epico
dire i singoli fatti / il numero di navi che da Aulide, / attraverso il mare Egeo, da Argo / vennero a Troia / nutrice di cavalli, e in esse gli uomini / dagli scudi di bronzo, figli di Achei: / fra questi il più valente nella lancia, / ... Achille dal piede veloce / e il grande e forte Aiace Telamonio / ........................................ / ... bellissimo, da Argo, / (venne) ad Ilio Cianippo / ........................................ / (e Zeuxippo, che) la Naiade / .............................. Hyllis / dalla cintura d’oro generò; a lui Troilo / Troiani e Danai molto assomigliavano / nell’amabile aspetto, come l’oro / fuso tre volte è uguale all’oricalco. / Assieme a loro sempre, per la tua bellezza, anche tu avrai, Policrate, fama perenne, / come perenne sarà, per il canto, / anche la mia fama».
. G i u d i z i e pr e g i u d i z i Onde mitigare la ‘sorpresa’ del troppo breve finale, Fränkel completava exempli gratia le quattro triadi, inventando un esordio dove il poeta avrebbe in assoluto esaltato la bellezza come «la cosa più potente» (di qui una prima dichiarazione all’«incantevole fanciullo» Policrate, oggetto del canto), un tempo fatalmente impersonata da Elena, causa, per volere divino, di quella grande guerra che aveva inflitto agli uomini dolori smisurati, e alla città di Troia la più distruttiva delle umiliazioni. Una tournure ad anello adatta a ‘correggere’ «la costruzione e la coerenza interna del brano assai lungo», dove l’autore « parla con molta cura di cose che, come egli dice, non ha intenzione di trattare » e, dopo «s t r a n i g i r i di parole» loda all’improvviso «la bellezza di un fanciullo di nome Policrate» : ben lontano dalla «lingua risoluta e avvincente » dei già noti carmi ibicei qui si avrebbe uno stile «convenzionale e banale, non solo nell’aggettivazione ma anche nelle idee e nelle strutture ». Infine, per Fränkel, una fastidiosa sensazione di «prolissità », ingenerata dalla « passione per le enumerazioni» (che peraltro lo studioso altrove riconosce allo stesso Ibico), sarebbe enfatizzata proprio dall’improvvisa se non inattesa brevità della conclusione. Già Page, del resto, pur non nutrendo alcun dubbio sulla paternità ibicea del nuovo frammento, e tuttavia esaminandolo puntigliosamente quanto severamente dal punto di vista metrico, linguistico, stilistico, contenutistico, aveva trovato che «nothing is more surprising than the poorness of its quality » : addirittura «spiritless and trivial» il canto, tristemente obbligato dalla committenza, si giustificherebbe solo perché il poeta «writes not from inspiration but from habit or necessity». A giudizio di Bowra, l’abbondante uso di epiteti esornanti, inutili perché né «belli » né «illuminanti di per sé», stupisce in Ibico per l’insolita conven. . . . .
La traduzione è di Cavallini : e . Cfr. Fränkel : . Id. : ss. Lo spaziato è nostro. Id. : n. (di qui la tentazione di attribuire il carme a Stesicoro). Così Page : .
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zionalità dell’aggettivazione, appiattita sulla tradizione omerica: l’encomio dedicato al giovane Policrate «non è precisamente un capolavoro», manca delle qualità propriamente ibicee e, per giunta, «non è molto divertente». Anche per Sisti, se la lingua del carme non si discosta da quella riscontrabile nel resto della produzione di Ibico, sorprende, almeno in rapporto al già conosciuto del poeta, «l’artificiosa e convenzionale omericità dello stile» : ciò che insomma «più colpisce in quest’ode, oltre alla convenzionale imitazione dell’epos, è l’abbondanza delle ripetizioni e le frequenti forzature sintattiche, affatto aliene dal rigore espressivo di Ibico e dell’architettura un po’ barocca, ma suggestiva e raffinata delle sue strofe, in particolare dei frr. e ». Di «un abus quasi provocant d’épithètes homériques» si lamenta Péron, il quale piuttosto s’interroga sulla volontà, o meno, del poeta «de se dégager des influences épiques et de tourner définitivement le dos a sa periode de jeunesse ». A parte qualche propensione per la tesi ‘evoluzionistica’, si affaccia qui il problema di fondo, che ha generalmente inquietato gli interpreti dello ‘strano’ encomio ibiceo, «car ici les thèmes épiques sont simultanément refusés et énumérés, ce que sous-entend de sa part une attitude purement rhéthorique» : un atteggiamento, da parte del poeta, che consisterebbe «á mettre en valeur le traitement qu’il s’apprête à faire d’un sujet contemporain par une évocation rapide, sur le mode négatif, de sujets appartenants au passé ». Una propensione, insomma, a sperimentare la tecnica della praeteritio, del resto attestata, avverte Péron, in Alcmane e Pindaro: l’appiattimento sulla dizione omerica, imputato a Ibico, si giustificherebbe grazie a tale intenzione ‘puramente’ retorica. Anticipo qui una mia (quasi) certezza, in attesa d’affrontare più avanti la riconosciuta, ma non ancora chiara, intenzione retorica di Ibico. Come non c’è una netta bipartizione tra un passato e un presente poetico ibiceo, così non c’è alcuna sofferta transizione da un passato epico a un presente ‘cortese’, da Troia a Samo per intenderci. La scelta narrativa in funzione dell’encomio è certamente tematica, ma pure rivelatrice di un’attitudine, tutta ibicea, a rielaborare selettivamente lo stesso racconto mitico, quale che sia, piegandolo all’elogio della bellezza e dell’eros. Si conferma così quella ‘erotizzazione’ del mito cui sopra accennavamo. Nell’Ode a Policrate vi è un disegno, non solo strutturale, che mira ad affrancare la poesia lirica, le cui radici pur affondano nella tradizione omerica, appunto dal ‘complesso’ epico. Le modalità di tale (auto)terapia sono . . . . .
Così Bowra : e . Così Sisti : e . Così Péron : . Cfr. supra e n. . Così Péron : .
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varie, ma insieme convergono incisivamente sull’intera forma del contenuto, al fine di ‘addomesticare’ il my^&ow, nel suo svolgersi a tratti persino desultorio eppure conseguente fino all’epilogo, che vedrei, e vedremo, più disteso di quello che è apparso finora, e anzi scandito come in due tempi: nell’ultimo s’innesta, coerentemente e senza alcun effetto di a∫prosdo´khton, l’allocuzione finale. . L a f o r m a d e l c o n t e n u t o Se nulla di sorprendente offre l’assetto metrico e la forma linguistica può apparire almeno prima facie di marca già stesicorea, la narrazione, così spesso accusata di lungaggine in contrasto col ‘fulmineo’ finale, non provoca affatto quella sensazione di prolissità che Quintiliano, ad esempio, rimprovera a Stesicoro, poeta che «sostiene l’epos sulla lira». La diegesi di Ibico procede « di scorcio e in sintesi» e, abusando ancora delle parole di Perrotta (dedicate a Teocrito!), festinat e addirittura ruit verso la fine. La forma è congruente rispetto a un contenuto né trito né convenzionale, dove alla struttura metrica triadica sembra fortuitamente corrispondere, lungo tutto il racconto, una scansione logicamente tripartita: ) il poeta non desidera cantare la lacrimevole guerra di Troia, causata dalla b e l l e z z a di Elena, né desidera ricordare Paride traditore dell’ospite né Cassandra dalle c a v i g l i e s o t t i l i , né tanto meno inneggiare all’a r r o g a n t e valore degli eroi giunti per mare a distruggere la città di Priamo, guidati dal potente Agamennone; ) il poeta giustifica l’insistito rifiuto per la debolezza delle proprie forze, inadeguate a e n u m e r a r e i s i n g o l i fatti e, u n a p e r u n a , t u t t e le navi salpate dall’Aulide e cariche dei figli degli Achei, inclusi Achille e Aiace: un modo elegante per sottrarsi al canto di guerra kat« e∫joxh´n, di quella guerra di Troia che aveva fatto piangere vinti e vincitori; ) il poeta preferisce soffermarsi sulla memoria del bellissimo Cianippo, principe argivo, figlio o nipote di Adrasto, e di Zeuxippo, principe sicionio figlio di Hyllis : il primo era uno dei guerrieri più giovani e «dunque presumibilmente dotato di efebica bellezza» ; al secondo Danai e Troiani (insieme !) rassomigliavano, per l’amabile aspetto, Troilo – lo stesso Troilo, bello come un dio, ucciso da Achille fuori della rocca di Ilio secondo un altro . Cfr. in merito la dettagliata analisi di Sisti . . Sulla presunta prolissità ibicea, cfr. supra e n. . Quanto al celebre giudizio di Quintiliano (x , ), cfr. Cavallini : e n. . . Cfr. Perrotta : e . . Così Cavallini : . Sull’identificazione dei due giovani eroi, Cianippo e Zeuxippo, cfr. rispettivamente Barron : ss., e Barron . Notevole, per Cianippo, la ricostruzione di Cingano .
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racconto di Ibico – come l’oro sta all’oricalco. Una sorta di défilé di bellezze maschili, anzi di pai^dew kaloi´. Troilo, il figlio di Priamo che per Omero era un guerriero forte e dunque adulto (Il. xxiv ), è qui ringiovanito da Ibico, evidentemente memore di altra tradizione epica e interessato non più alla guerra ma alla bellezza, anzi a una gara di bellezza efebica praticata per intervalla insaniae: quasi a sospendere la follia del combattersi a vicenda, la finzione poetica rappresenta e Greci e Troiani impegnati a confrontare Troilo con Zeuxippo. Ne esce vittorioso e∫ro´essan morfa´n il primo, come l’oro tri`w a∫pe´f&on, tre volte raffinato, è superiore all’oricalco, una lega comunque preziosa se non, forse, rame puro nativo. Il paragone non indica uguaglianza, ma superiorità dell’uno (Troilo) sull’altro (Zeuxippo), anch’egli comunque più che bello: vedo qui riproposto il cosiddetto schema-dey´terow, di tradizione omerica, quando il ka´llistow Nireo era giudicato (però tra i soli Greci) appena inferiore ad Achille, e di memoria alcmanea, dove Agido di poco cedeva to` ‡ei^dow ad Agesicora. A questo punto, e non certo ex abrupto, giunge (vv. ss.) il conclusivo toi^w me`n pe´da ka´lleow ai∫e`n kai` sy´, Poly´kratew, ktl.
Assieme ai sullodati pai^dew, due dei quali però sconosciuti a Omero, anche Policrate per la sua bellezza avrà fama perenne, come perenne sarà, per il canto, la fama del poeta. Piuttosto che una struttura ad anello – in cui la storia inizierebbe con il ricordo della rovinosa guerra di Troia causata dalla bellezza di Elena la bionda, a sua volta dominata da Cipride dall’aurea chioma, e finirebbe lietamente, in séguito a « une sorte de mouvement de pendule» dai Greci (vv. -) ai Troiani (-) e poi nuovamente dai Greci (- e - ?) ai Troiani (-), con la celebrazione della bellezza di Policrate – mi sentirei, dunque, di riba. Fr. Davies ; cfr. in proposito il commento di Cavallini : ss. Quanto all’età di Troilo vd. infra e cfr. Kossatz-Deissmann . . Cfr., in proposito, le puntuali osservazioni di Simonini : . . Ritengo quindi inutile ogni dialettica tra paragone di uguaglianza o di (netta) superiorità, su cui ancora insisteva (non solo) Simonini : (con bibliografia). Cfr. rispettivamente Il. ii ss. e Alcm. , Cal. In Il. xi ss. è Pisandro il più forte dei Mirmidoni súbito dopo il solito, perfetto Achille. Sullo schema, individuato da Puelma, mi sono soffermata in Bonanno : ss. . Seguiamo l’interpretazione di Wilamowitz, ripresa e puntualizzata da Tammaro : ss. Cfr. anche Gentili : ss. : non sarà da accogliere il segno di interpunzione del papiro in fine v. , per cui la frase significherebbe : « essi (scil. i bei giovani eroi appena nominati) parteciperanno sempre della bellezza. Anche tu, Policrate, avrai fama perenne...», ma in tal modo «verrebbe a mancare l’esplicito riferimento alla bellezza di Policrate», cfr. Cavallini : . . Per l’integrazione congetturale ad hoc di Fränkel, cfr. supra e n. . Per una struttura anulare propende anche Gianotti : . . Secondo il noto modulo di van Groningen : , citato da Gianotti l.c.
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dire una sequenza tripartita: dopo l’iniziale j’accuse alla guerra (ma con l’eloquente menzione di Elena e Cipride accomunate dall’oro dei capelli), e dopo il rifiuto di cantare la guerra senza neppure un accenno di patriottismo, è possibile rintracciare una curiosa quanto armonica sintesi tra Danai e Troiani, concordi nel giudicare la bellezza di Troilo e Zeuxippo. Bellezza ed eros sembrano perfino in grado di sospendere la guerra: nella dimensione metapoetica di una memoria selettiva dell’epos, funzionale all’elogio di Policrate, unico fine dell’ode. A ben vedere, un’analoga armonia interessa la fama e del laudandus e del laudator, per due distinte virtù (ka´llow e a∫oida´), l’una del giovin signore e l’altra del cantore sofo´w. Non stupirà che a una così estrosa eppure logica struttura, malgrado la (quasi) communis opinio, corrispondano lingua e stile affatto appiattiti sulla tradizione omerica. Spetta a Maehler il merito di avere aperto la via a una più adeguata valutazione dell’ode di Ibico, osservando come «schon seine Sprache ist keineswegs ‘konventionell und banal’, ... denn ... beobachten wir an der Wortwahl bei Ibykos das Bestreben, die homerischen Wendung zu variieren und neue Komposita zu bilden». Una preziosa indicazione da Laura Simonini intelligentemente raccolta e sviluppata con particolare attenzione al lessico, senza trascurare il sagace giudizio dello stesso Maehler, più in generale sullo stile della lirica corale arcaica, cui lo studioso riconosce « einen anspruchvollen, ja zu weilen esoterischen Charakter; sie zeigt manieristische Elemente». L’aggettivo ‘manieristico’ può ben sostituire ‘barocco’, con qualche maggiore motivazione letteraria in senso tipologico. Basterà qui attenersi al lessico, dove, sull’inevitabile sfondo omerico – peraltro rivisitato anche nel contenuto, con cui concorrono riferimenti ai perduti poemi del Ciclo, segnatamente alle Ciprie – s’insinuano la tradizione degli Inni, quella esiodea nonché lirica, senza contare alcuni apporti assolutamente originali. Alcuni esempi: v. h∫na´ron : nel senso di distruggere e∫nai´rv ricorre nell’Iliade sempre riferito a per. Quanto alle ‘impareggiabili’ Moi´sai sesofisme´nai (v. ) e alla loro incidenza nel discorso ibiceo, vd. infra. . Così Maehler : ss. Cfr. Simonini : . . Da altri studiosi usato appunto per Ibico, tutti a proposito dello stile altrove esibito dallo stesso poeta nei suoi carmi ‘migliori’ caratterizzati «dal vigore espressivo» e «dall’architettura un po’ barocca, ma suggestiva e raffinata, delle sue strofe, in particolare dei frr. e » : così Sisti , cfr. supra e n. . . Qui Simonini : si avvale della terminologia di E. R. Curtius «per una serie di procedimenti stilistici che caratterizzano la letteratura ‘manieristica’» (amplificatio, metafora e, sul piano formale, asindeto, iperbato, assonanza etc.): per la bibliografia relativa, cfr. nn. e . . Per gli esempi più sotto elencati farò spesso tesoro delle osservazioni della Simonini : ss. ; ebbi anche modo di leggerle in forma di appunti prima della loro pubblicazione, quando già mi interessavo, parallelamente, al lessico dell’ode durante un mio corso di lezioni dedicate allora (fine anni ’) al ‘nuovo’ Ibico.
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sone, una sola volta nell’Odissea a cose (xix ) ; il verbo, qui riferito a me´g« a¢sty, ritornerà in un passo lirico di Sofocle, po´liw e∫nai´retai (OC ). v. peri´ : in Omero di norma si trova unito a un oggetto concreto, qui all’ei®dow jan&a^w »Ele´naw, dove l’aggettivo non è mai da Omero dedicato a Elena, da Saffo notoriamente sì. v. poly´ymnon : attestato in h. Bacch. , e qui riferito a Dioniso, ricorrerà in Anacr. Gent. e in un passo lirico di Euripide, Ion , detto ancora di Dioniso. v. talapei´rion : assente nell’Iliade, nell’Odissea è sempre riferito a persona, qui a Pergamo (personificata, dunque come già me´g« a¢sty di v. , qualora si volesse una prosvpoii´a ibicea ispirata dall’uso omerico). v. jeinapa´tan : detto di Paride compare in Alcae. ,; in Pind. Ol. , ed Eur. Med. (Giasone). v. tani´sfyron : ignoto ad Omero e di sicura tradizione esiodea (Th. , Sc. , fr. , ), qui non a caso riferito alla bella Cassandra è attribuzione inedita per la figlia di Priamo, magari sofisticata ma non certo banale (vd. infra) : in h. Cer. è epiteto di Persefone come poi in Bacch. , e ,. vv. - a∫reta`n / y™p]era´fanon : è accostamento ardito, dove l’aggettivo, di creazione esiodea, è sempre usato in senso negativo: ne deriva un ossimoro per così dire ideologico, una sottile denuncia della virtù funzionale alla guerra. v. xalka´spidew : detto di guerrieri in Pind. Ol. , e Bacch. ,, è epiteto di Ares in Pind. Isthm. ,. v. xryso´strof[ow : qui attestato per la prima volta, ritornerà in un passo lirico di Soph. OC . L’aggettivazione manieristica comporta una diffusa e palese ridondanza: vv. ss. me´g(a) ... periklee`w o¢lbion ; vv. ss. a™lv ´ si[mo]n ... a∫nv ´ nymon ; vv. ss. koi´la[i ... po˙ ˙ lygo´mfoi ; vv. ss. &nat[o`]w ... diero´w ; v. me´]gaw ... a¢lki[mow], non a caso memore ˙ ˙ di una conflatio di due clausole iliadiche: me´gaw Telamv´niow Ai¢aw e Telamv´niow a¢lkimow Ai¢aw.
Qualche discreta attenzione, oltre a e∫pi&y´mion di v. , merita, a v. , diero´w. L’epiteto che ha inutilmente imbarazzato vari interpreti, non è affatto superfluo : nel sottolineare la vitalità del poeta lirico, l’espressione &nat[o`]w... a∫nh`r / diero`w concede all’uditorio, magnanimamente e con una ridondanza tutta ibicea, la memoria del vitalissimo aedo di Il. ii ss., (super)dotato di dieci lingue e altrettante bocche, nonché di voce instancabile e cuore di bronzo, ma pur sempre inadeguato dinanzi all’impareggiabile sapienza delle Muse. Qui, per il disinvolto Ibico, le Muse sono tuttavia sesofisme´nai come sesofisme´now era il timoniere esiodeo (Op. : le navi polygo´mfoi di v. ritornano al v. dell’ode), mentre alle Muse lo stesso Esiodo aveva ricono. La prima ricorre ben dieci volte, la seconda in Il. xii . . Come ritiene, ad esempio, Sisti : ss. ; cfr. Barron , ss., che tende invece a sbarazzarsi di &nato´w sostituendolo con a∫dah´w. Della funzione e del significato di diero´w che rinvia «a una azione concreto-astratta di forza vitale» mi sono occupata in Bonanno -: ss. (cfr. : ss.).
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sciuto, sul monte Elicona, l’ei∫de´nai pa´nta. Si evoca dunque una te´xnh delle Muse, ma già laicizzata, di cui il poeta, nel suo più piccolo kh^pow lirico, abitualmente si avvale per farsi valere, senza complessi di natura epica. Che sia l’inconscio ibiceo a umanizzare l’arte delle divine e impareggiabili Muse? E che cosa veramente importa cantare, ora, al ‘nuovo’ Ibico? Il singolare e∫pi&y´mion è la chiave di volta, annunciata dalla stessa originalità verbale, perché il poeta si possa dichiarare in favore di un programma inedito. Il modulo negativo introdotto da oy¢te... e∫pi&y´mion formalmente ripete l’alcmaneo oy∫k a∫le´gv : come Alcmane non si ‘curava’ di Liceto, Enarsforo e degli altri figli di Ippocoonte, per cantare invece la ‘luce’ di Agido invaghita dell’ancor più fulgida Agesicora, così a Ibico non ‘sta a cuore’ cantare Paride, Cassandra e altri figli di Priamo, preferendo celebrare la bellezza di Policrate. Esichio chiosa a∫le´gei. fronti´zei (a 2323) ed e∫nhlegh´w. e∫n e∫pi&ymi´aı v ¢ n (e 3004), istituendo tra i due esempi letterari una fortunata sintonia formale e sostanziale; l’e∫pi&y´mion di Ibico è peraltro affine, semanticamente, al kata&y´mion postomerico, ‘according to one’s mind’, piuttosto che all’omerico ‘in the mind’, sinonimo di e∫n&y´mion. Risulta ormai sempre più chiaro come la tradizione omerica, nella nostra ode tutt’altro che predominante, abbia tuttavia (né potrebbe essere altrimenti) ancora un senso: quello di una tradizione metabolizzata e perciò più ‘naturalmente’ trasgredita se non contraddetta. E un ruolo primario sicuramente gioca, in rapporto alla tradizione epica e nell’assetto complessivo del carme, la cosiddetta praeteritio, da taluni invece chiamata recusatio e perfino recusatio-excusatio, urtando la sensibilità di qualche latinista (ma non solo) geloso dell’uso retorico del termine, che pertiene la poesia specialmente di età augustea. . Le Muse veritiere di Th. , cui il poeta attribuisce il sapere ta´ t« e∫sso´mena pro´ t« e∫o´nta (v. ), come del resto il poeta di Il. ii : ¢iste te pa´nta. Sulle reminiscenze esiodee nella nostra ode aveva già richiamato l’attenzione Accame : , come ricorda Gianotti : n. , il quale legge il sesofisme´nai ibiceo come «la prima testimonianza di collegamento di un termine formato sulla radice sof- con la sfera divina», mentre è noto che in precedenza sof- indica solo l’abilità pratica dell’uomo, come appunto in Hes. Op. (e non solo). L’interpretazione di Gianotti : ss. (che in qualche modo comporta una precoce evoluzione della sfera semantica di sofi´a e sofo´w) attribuisce qui alle Muse ibicee «un sapere universale». Sospettiamo che il valore esiodeo di sesofisme´now persista in Ibico (ma v. infra). . Cfr. v. : mi sono occupata dell’espressione in Bonanno , specialmente ss. (cfr. : ss.), súbito () accogliendo il prezioso confronto istituito con il ‘rifiuto’ ibiceo da Pavese : . . Cfr. vv. ss. e Bonanno : ss. : quanto al cosiddetto schema-dey´terow da Alcmane adottato per le due protagoniste del partenio, ma, a nostro avviso, anche da Ibico, cfr. supra e n. . . Per maggiori dettagli, cfr. Bonanno : ss. : e∫nhlegh´w (l’e∫nhlegei´w esichiano crocifisso da Latte) è palmare correzione di Chantraine. . Cfr. Bonanno : e n. : che kata&y´miow, riferito da Eumelo alla Musa che «andava a genio » a Zeus Itomata, già modello dell’e∫pi&y´mion ibiceo, ipotizza De Martino : .
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Quanto al ‘teatro’ dell’elaboratissimo concerto ibiceo, fatto di parole cantate e musicate ma presumibilmente anche danzate, il nostro poeta risponde a una committenza diversa da quella di Alcmane, ma nulla vieta che l’eclatante somiglianza fra la struttura del ‘grande’ Partenio e quella del non meno ‘grande’ Encomio (somiglianza sulla quale ritorneremo) riguardi anche l’esecuzione in entrambi i casi corale, cittadina e en plein air l’una, l’altra presumibilmente chiusa all’interno di una corte e destinata a un pubblico ‘aulico’, partecipe di una solenne cerimonia. L’instaurazione della tirannide a Samo – una forma di governo che non è certo quella di Sparta arcaica né dei sistemi variamente aristocratici, vigenti ad esempio a Paro e a Lesbo – determina precisamente quanto Maehler suggerisce con la consueta ampiezza di sguardo storico-critico: «Die Musen des Ibykos singen nur für einen exklusiven Kreis von Gebildeten, und in dieser Sphäre fühlt sich der Dichter dem Fürsten an Rang ebenbürtig». . ‘ P r a e t e r i t i o ’ o ‘r e c u s a t i o ’ ? Resta in piedi la questione del ‘rifiuto’ ibiceo ma, come si è visto, già alcmaneo, e anche stesicoreo, simonideo, e infine, come si vedrà, pindarico e bacchilideo. Una questione per cui mi è capitato di riflettere fin da quando mi sono interrogata, la prima volta, sulla sintonia tra Alcmane e Ibico, entrambi d’accordo nel voler abbandonare un tema di guerra per passare all’encomio – pronubi bellezza ed eros – vuoi di una par&e´now vuoi di un pai^w. Le aggiornate condizioni – imposte dal nuovo committente e dal ‘suo’ pubblico, nonché dai nuovi ritmi della musica e della danza e dai nuovi spazi e tempi dell’esecuzione – sono affrontate da una identità autoriale sempre più consapevole, orgogliosa, quasi risentita. La scelta ibicea di cantare la bellezza di un altolocato efebo ben si situa, già si è detto, anche logisticamente, alla corte del signore di Samo, «che fu una delle realizzazioni più brillanti di un’età che apprezzava la magnificenza principesca». Abbiamo già apprezzato anche la notizia di Imerio circa la sollecitudine del padre di Policrate nel procurare . Già Vitale : ss. parlava di un encomio che «sarà stato cantato da un coro di giovinetti » ; anche Bowra : pensava che il nostro carme fosse cantato da un coro, «un e∫gkv´mion corale, il cui scopo principale era quello di magnificare il figlio del tiranno». Sulla prospettiva di « una certa variabilità e fungibilità di generi» nell’attività poetica di Ibico e sulla sua capacità di adeguare «forme e contenuti del suo canto alle diverse occasioni» (così Cavallini : ), cfr. Bernardini : ss., ma sul sicuro «carattere di ufficialità dell’ode a Policrate» (così ancora Cavallini : n. ), cfr. Bernardini : ss. nonché Cingano : ss. e n. (il quale giustamente esclude che il nostro solenne encomio possa classificarsi tra i paidika´). . Così Maehler : . . Durante il mio primo corso senese (A. A. -) dedicato al Primo Partenio di Alcmane, per passare un paio di anni dopo al ‘nuovo’ Ibico, cfr. supra n. . . Così Bowra : .
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Anacreonte quale dida´skalow nelle arti liberali e ludiche amate dal figlio. Ibico non è Anacreonte, ma «si muove nello stesso mondo riflettendone in parte lo spirito » : di qui l’altro celebre giudizio di Aristofane, quando fa dire ad Agatone che un poeta avrebbe dovuto possedere l’eleganza musicale già esibita da Ibico e Anacreonte in Ionia (Thesm. ss.). Par superfluo ribadire la compatibile alternativa lirica tra canti monodici (tradizionalmente simposiali) e corali (solennemente ‘aulici’, come nel nostro caso): alla corte di Samo, dove il culto della bellezza e dell’eros (efebico) era sentito e praticato, Ibico – e∫rvtomane´statow peri` ta` meira´kia e capace di cantare, come attestano le liriche monodiche note per tradizione indiretta, la violenza di Eros in toni passionali e sofferti – grazie al nostro papiro ci consegnerebbe un componimento in cui, da poeta unicamente teso a complimentarsi con il bel Policrate, direbbe lungo quasi l’intero carme «quel che egli non vuol dire». Il rifiuto del tema ‘guerra’ è invece sincero, percepibile anche nel ricordo delle vicende troiane (sintomatica la greca e ‘dissonante’ y™pera´fanow a∫reta´), e rispondente a una intenzionalità (quasi) sempre manifestata, con varie motivazioni, nel milieu lirico, né solo erotico. Tuttavia, la formulazione del rifiuto così come espressa dal nostro Ibico – fuorviante, in ogni caso, la dizione ‘palinodia’ per l’Ode a Policrate – ha suscitato riflessioni e perplessità, ripensamenti e contrasti (anche terminologici) forse eccessivi. Quando appunto mi imbattei nell’oy∫k a∫le´gv di Alcmane – una sorta di sfida per cogliere il senso dell’intero Partenio che si potrebbe intitolare ad Agesicora e Agido – subito apprezzai l’illuminante locus similis, da Pavese individuato nell’Ode a Policrate di Ibico: in entrambi i casi diventava possibile riconoscere una struttura diegetica basata, secondo Pavese, sulla praeteritio, con cui il poeta prende congedo dalla materia mitica e passa ad altro argomento. Ma, a parte il singolo confronto alcmaneo peraltro non adeguatamente raccolto dagli studiosi ibicei, l’Ode a Policrate sembrava destinata a rimanere un caso ‘unico’ e ‘isolato’, fin dalla sua nascita letteraria, per la presenza di un’inedita struttura. Page osservava che «the story progresses through a series of perfunctory phrases introduced by rhetorical device of praeteritio», riscattando almeno in parte la ‘banalità’ dell’assunto tematico in virtù di una sorta di rivendicazione perfino entusiastica «of respectable competence in . Così ancora Bowra : . . Così la Suda s.v. ÊIbykow, cfr. supra n. . . Cfr., in proposito, la pertinente introduzione di Cavallini : ss. e specialmente ss. (con bibliografia). . Così Bowra : . . Così Péron già nel titolo. . Cfr. supra n. .
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the composition». Bowra si era chiesto invece, a proposito dello schema compositivo, perché mai, in un carme fino a prova contraria appartenente alla lirica corale greca e composto per lodare il giovane Policrate, Ibico dedichi intere strofe non a «elogi » o «miti » o «massime », ‘canonicamente’ come ci si aspetterebbe, bensì a una serie di temi (mitici) che poi dichiara di non voler cantare: «this is not the way to tell a myth, and there is no real parallel to it in Greek choral poetry». In seguito Campbell, avvertendo un qualche analogo disagio, ‘estetico’ oltre che pragmatico, affermava che «the poem is distingued... by its use of praeteritio (, , ), a device effective and amusing enough in oratory but alien to lyric poetry». Isolata e contraria, sia pure limitatamente al piano strutturale dell’ode, restava l’opinione di Pavese, il quale, oltre al confronto alcmaneo, andava rintracciando una serie di « semantemi » ricorrenti nella lirica corale, esposti in un lavoro pionieristico (di un anno successivo al giudizio tranchant di Campbell), dove la praeteritio ‘figurava’ insieme con altri «temi » e «motivi » nel quadro di un’abbondante casistica relativa soprattutto a Pindaro e Bacchilide. Da parte sua, Sisti – mentre Fränkel già si era espresso sul «ripetuto gesto del rifiuto » ibiceo, tuttavia insufficiente a «ingannare », cioè occultare o alleggerire la pesante influenza dell’epos sulla lingua e sul contenuto dell’ode – intitolava il proprio studio sull’Ode a Policrate, decisamente, Un caso di ‘recusatio’ in Ibico, introducendo il termine recusatio nella storia della critica sul ‘rifiuto’ ibiceo, con il conforto analogico dell’ode oraziana ad Agrippa. Analogia súbito confutata, in base a un preciso argomento, da Barron: «the similarity of Ibicus’ poem to Horace’s ode ... is illusory ... Moreover the theme of recusatio is thoroughly Hellenistic in sentiment, and cannot in fact be paralleled before that period». Distinguendo correttamente la praeteritio, «a rhetorical device of emphasis», dalla recusatio, «a genuine refusal», Barron tentava poi di istituire una corrispondenza tra gli eroi omerici menzionati nella prima parte del carme, e resi immortali dall’aedo epico, e il lodato, in conclusione, bel Policrate, reso immortale dal poeta lirico. Al di là dell’esegesi contenutistica, grazie a Barron cominciava final. Così Page : . . Così Bowra : . . Così Campbell : . . Cfr. Pavese : ss., il quale ha più di recente () dedicato un imponente ed esaustivo volume ‘semantematico’ all’opera di Alcmane, Simonide, Pindaro, Bacchilide. . Cfr. Fränkel : e n. . . Cfr. Sisti : . . Così Barron : e n. . . Così ancora Barron : e ss. . Comunque non persuasiva per la mancata evidenza nell’ode di una tale finalità ideologica e poetica, che presupporrebbe un confronto oggettivamente competitivo con l’epos omerico : Ibico sembra altrimenti atteggiato e ‘mirato’ (ma vd. infra).
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mente a emergere un interrogativo di ordine formale, nella fattispecie retorico : è legittimo attribuire al termine praeteritio il valore asettico adottato, per primo, da Pavese? Non mi pare che finora sia intervenuta una risposta né chiara né univoca, a prescindere dalla quasi totale disattenzione all’uso (tecnico o no?) di praeteritio per la nostra ode. Quanto a recusatio, il termine, inaugurato da Sisti e recepito da Gentili, è stato poi riusato da Simonetta Nannini in un intervento, comunque apprezzabile, Lirica greca arcaica e recusatio augustea, già nel titolo schierato dalla parte di chi, appunto in termini di recusatio, riteneva plausibile una sostanziale continuità tra poesia greca arcaica, ellenistica, quindi augustea. Sul versante latino D’Anna, occupandosi della sesta bucolica virgiliana, rivendicava invece, e nettamente, l’invenzione della recusatio – dopo l’exploit ellenistico di Callimaco in esemplare polemica con epica e tragedia – ai poeti latini, cominciando da Lucilio in preda agli stessi malumori callimachei, e giungendo a Virgilio, il primo a servirsi della più mite recusatio-excusatio. D’Anna ritornerà sul medesimo argomento per sottolineare l’uso improprio del termine recusatio quanto appunto a Ibico, e per ribadire la legittimità della recusatio callimachea e poi luciliana, nonché l’invenzione virgiliana della recusatio-excusatio o, più semplicemente, excusatio. Esprimendo, anzi, il proprio disappunto per l’invocazione, da parte di Gentili (dopo Sisti), della recusatio, a proposito non solo di Ibico ma persino dell’aedo omerico di Il. ii ss., ispiratore appunto del rifiuto ibiceo, D’Anna insisterà ancora sulla competenza assolutamente latina, quanto alla recusatio-excusatio, «a cominciare dai poeti della seconda metà del I sec. a.C.: Virgilio, Orazio, Properzio, Ovidio » : non si tratta, insomma, di «un generico rifiuto di scrivere un qualsiasi componimento poetico per un qualsiasi motivo», poiché, non più antica di Callimaco, la recusatio riguarda la polemica tra generi letterari e indica il rifiuto di un genere (l’epica per lo più e la tragedia) per un genere più ‘tenue’ e magari ‘nuovo’. Sulla necessità della presenza codificata dei generi letterari e della scelta, da parte del poeta, (a partire da quello ellenistico), di un genere (né l’epos né la tragedia, all’apice della valutazione aristotelica) che coinvolga nel ‘proprio’ e ‘nuovo’ programma il ristretto pubblico dei ‘propri’ e ‘nuovi’ fruitori, interverrà poi Serrao, il quale continuerà la polemica di D’Anna contro il dilagante abuso del termine recusatio, ma indicherà in Teocrito, e non più in . Che ne ‘virava’ tuttavia il senso, come si è visto, persuasivamente, cfr. Gentili : ss.
. Cfr. Nannini : ss. . D’Anna : ss. . D’Anna : ss. . D’Anna : .
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Callimaco, il prv^tow ey™rhth´w in verità della più sottile recusatio-excusatio. Infine, non « come voce di dissenso», ma almeno come «chi non ha voluto mescolarsi al coro dei consensi» sull’impropria recusatio « e non ha usato promiscuamente i due termini» (cioè praeteritio e recusatio), Serrao cita Pavese, appellandosi peraltro a una definizione, certo ineccepibile, di praeteritio quale «figura di pensiero intesa a dare maggiore rilievo a quanto si dice per disteso, con l’affermare, invece, che non se ne vuole parlare o che è inutile parlare » (Cesare taccio che per ogni piaggia / fece l’erbe sanguigne etc., insomma ; senza contare che I’ vo gridando: Pace, pace, pace reciterà, in ultimo, la Canzone portavoce del moderno poeta!). Non credo tuttavia utile, ai nostri fini, né elogiare Pavese perché fuori dal coro di chi ancora confonda le due ‘figure di pensiero’ in questione, né stigmatizzare chi eventualmente continui a chiamare recusationes una serie di « prototipi » greci non ancora tecnicizzati. L’unica via d’uscita credo sia possibile a partire dal riconoscimento non solo alla recusatio ma anche e soprattutto alla praeteritio della funzione retorica che le compete. Per fare chiarezza, ma senza polemiche, basterà riprendere in mano qualche manuale ad hoc: uno per tutti il classico Handbuch di Lausberg. . R e t o r i c a d e l l a t r a n s i t i o La praeteritio altro non è, per definizione, che «die Kundgabe der Absicht, gewisse Dingen auslassen », e negli abbreviati Elementi di retorica si può sinteticamente apprezzare il caso in cui la stessa figura – quando in primis consista nell’interruzione di una frase già cominciata, ma si dà anche l’interruzione del pensiero senza pregiudicare la compiutezza della frase – costituisce di per sé una reticentia. Alla praeteritio spetta comunque una prerogativa o, se si vuole, una caratteristica : l’i r o n i a , che è tratto tipico dell’artificio retorico in questione. A una tale ironia, fondata sull’affermazione o ‘sentimento’ del contrario, già si richiamavano, del resto, le definizioni degli antichi: oçtan dokoy^nte´w ti paralei´pein mhde`n h©tton le´gvmen ay∫to´. La praeteritio può anzi considerarsi come una forma dell’ironia, essendo un espediente retorico atto . Serrao : ss. . Serrao : e . . I meriti indubbi di Pavese sono altrove: nella classifica sistematica e ragionata (cfr. supra e n. ) dei «semantemi », secondo la sua dizione, in tutta la lirica corale arcaica. . La felice dizione è di De Martino , già nel titolo. . Così Lausberg i: . . Cfr. Lausberg i: . . Così, ex. gr., Alex. Schem. iii, p. , Spengel ; alle non poche testimonianze citate da Lausberg va aggiunto Schol. Dem. i . Per l’essenziale elemento dell’ironia, si possono citare (prima e dopo Lausberg) almeno altri due autorevoli manuali moderni, cfr. Volkmann : , e Martin : . Sulla ‘figura’ della praeteritio, cfr., più di recente, anche Celentano .
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a conferire all’argomento esposto un’importanza maggiore o minore di quella che avrebbe in una trattazione ‘non partigiana’. Nulla di tutto ciò traspare dal nostro Ibico, come da tutti i lirici corali puntualmente vagliati proprio da Pavese: il valore intrinseco dell’argomento ‘preterito’ non viene né aumentato né diminuito, e il poeta si limita ad affermare che, per una qualche ragione, preferisce non parlare di alcuni argomenti. Anche per la reticentia, possiamo tranquillamente affermare che nella lirica corale greca manca la sua forma primaria e più tipica: la praecisio ovvero l’intenzionale interruzione di una frase già cominciata. Nella lirica, dunque, le presunte praeteritiones o eventuali reticentiae, prive come risultano degli elementi più caratteristici, si riducono a schemi banalmente quanto praticamente simili : non a caso, l’evidente affinità, da un punto di vista tecnico-funzionale, induce Lausberg a classificare entrambe le figure entro uno spazio retoricamente comune, sotto l’identica denominazione di figurae per detractionem. Semplificando i rispettivi schemi, abbiamo: per la praeteritio, trattazione di un tema (A), formula di praeteritio ‘non voglio trattare’ (B) trattazione di un tema preterito (A), formula di transitio ‘passiamo ad altro’ (C), trattazione di un altro tema (D) (talvolta le sezioni A e C mancano); per la reticentia, trattazione di un tema (A), formula di reticentia ‘voglio tacere’ (B), formula di transitio ‘passiamo ad altro’ (C), trattazione di un altro tema (D) (talvolta le sezioni B e C mancano).
Sembra però funzionale – alla struttura compositiva già individuata in Alcmane e Ibico ed estensibile ai poeti di tutta la lirica corale (e non solo) – una fusione dei due schemi in uno, definibile quale ‘schema di transitio’, dove si intrecciano più formule, di rifiuto (vero o finto che sia) e/o di interruzione, infine – et pour cause – di passaggio: trattazione di un tema (A) formula di praeteritio e/o reticentia (B) trattazione del tema preterito (A) formula di transitio (C) trattazione di un altro tema (D). . Cfr. Lausberg i: , nonché Martin l.c. . Cfr. supra e n. . . Cfr. Lausberg i: ss.
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Uno schema coincidente con una, almeno, delle varie sottospecie di reticentia illustrate da Lausberg, la transitio-aposiopesis, questa sì rappresentata in tutta la lirica greca arcaica: «alio transeundi gratia» (Quint. ix ,). Scusandoci per la ‘schematica’ pedanteria di cui sopra, vorremmo ulteriormente rilevare che il termine asettico transitio quale formula di passaggio da un tema a un altro, però m o t i v a t o di volta in volta dall’autore, ha anche il pregio di scagionare tale formula da ogni presunzione ironica, dove per ironia si deve necessariamente intendere una c o m p o n e n t e i n t r i n s e c a alla figura retorica della praeteritio. D’accordo nell’evitare anche il termine recusatio, o recusatio-excusatio. Ammettiamo il suo reiterato e già constatato abuso, almeno formale, per i «prototipi » greci della ‘poesia del rifiuto’, ma riteniamo si tratti, nella sostanza, di un peccato veniale: il negarsi non a un genere letterario stricto sensu per abbracciarne un altro, ma più semplicemente a un tema epico-guerresco preferendogli un canto lirico-encomiastico, resta pur sempre una dichiarata volontà di ‘dimenticare’ l’epos, di liberare il proprio inconscio letterario di poeta novus, afflitto da un genere talora riconosciuto come troppo alto, non importa se sinceramente o meno. Si dà appunto qui l’unica ironia possibile, però e s t e r n a alla figura retorica del nuovo discorso lirico, pronunciato (quasi) all’unisono da Alcmane e Ibico: entrambi non ironizzano sulla propria intenzione (vera !) di abbandonare quel mito e passare alla celebrazione della bella Agesicora o del bel Policrate, ma semmai sorridono nel dichiararsi inadeguati (falso!) al troppo arduo canto di guerra che pure costituisce l’esordio dei propri rispettivi carmi. Lo schema sopra descritto, cui non si sottrarranno neppure Senofane e Anacreonte, appartiene, però variamente motivato, a tutti i lirici arcaici, da Stesicoro a Simonide, a Bacchilide, a Pindaro. Basterà qualche esempio prima di concludere ritornando a Ibico: ancora e sempre sulla base del suo incontro a distanza spazio-temporale con Alcmane, al fine di apprezzarne le reciproche identità e differenze, essenziali per ridefinire, il più chiaramente possibile, il ‘nuovo’ programma poetico dell’Ode a Policrate. Adottando lo schema di transizione, sempre motivata, sarà agevole perseguire una linea diacronica e, dunque, storicamente significativa, sottesa ai più diversi componimenti della lirica soprattutto corale. La ‘modulazione’ di . Id., p. , nonché Martin l.c. . Mentre da Pavese in poi il termine è pressoché sempre applicato, ad Alcmane, Ibico etc., catacresticamente, e sempre senza riguardo per la necessaria ironia interna (sull’ironia esterna, vd. infra). . Cfr. supra e n. . . In Alcmane, tuttavia, l’abbandono del my^&ow per paura di yçbriw s’intreccia con l’avvicinamento al presente, su cui incombe il medesimo timore di oltrepassare il limite, in un clima meno ‘laico’ di quello ibiceo, cfr. Bonanno : e ss. . Per i due testi, citati da Gentili, vd. infra.
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ciascuna transitio evidenzierà la sempre più consapevole presenza dell’Io dell’autore, che dà conto delle proprie scelte, spesso richiamandosi alla normativa poetica dettata dall’occasione del canto. Nell’evolversi del genere lirico, l’autorialità emergente del poeta ragiona in termini, più o meno espliciti, di ‘leggi’ e ‘regole’ che condizionano un contenuto nonché una forma (struttura) del canto. Abbiamo già apprezzato una persuasiva valutazione del ‘rifiuto’ ibiceo alla luce della « normativa arcaica del genere poetico» : vi aderiscono anche Senofane e Anacreonte, i quali «in elegie di carattere programmatico» – e cioè Xenoph. , ss. W. che esclude ma´xaw die´pein Tith´nvn ktl. in favore di &ev^n promh&ei´hn ai∫e`n a∫ga&h´n, e Anacr. Gent. dove il simposio vieta nei´kea kai` p o´ l e m o n d a k r y o´ e n t a le´gein, e vuole che il simposiasta sappia ‘mescolare’ Moyse´vn te kai` a∫glaa` dv^r« «Afrodi´thw – dichiarano di voler escludere «qualsiasi racconto di guerre, tumulti o violente contese. Dunque, non proprio un programma poetico che ... respinge dal proprio repertorio argomenti eroici, ma piuttosto una rigorosa selezione dei contenuti in rapporto all’occasione del canto, al quale si addice l’elogio della bellezza». Stesicoro aveva già invitato le Muse ad abbandonare i temi di guerra per cantare motivi di gioia: le nozze degli dèi, i banchetti degli uomini, le feste dei beati (fr. Davies) : Moi^sa sy` me`n pole´moyw a∫pvsame´na ped« e∫moy^ klei´oisa &ev ^ n te ga´moyw a∫ndrv ^ n te dai´taw kai` &ali´aw maka´rvn ...
Non conosciamo il contesto e dunque non sappiamo se così si annunciasse l’abbandono di una precedente e più ‘grave’ narrazione, ma palesemente si dichiara una volontà programmatica di escludere i temi di guerra in un’occasione che si presume gioiosa e, forse, celebrativa. Ancora Stesicoro (fr. S Davies) ]kvy∫ fata` &..[ ˙ ]ka´matow kai` a∫m[ ] [ ]fy´lopiw a∫rgale´a[ ] [ ]ma´xai t« a∫ndro[ktasi´ai te ∪ – ∪ di]aprysi´oi [ ]ow çippvn[
permette, sia pure in pochi versi estremamente lacunosi, di coglierne il . Per cui cfr. soprattutto Rossi : - . Così, brillantemente, Gentili : . Sarà qui il caso almeno di accennare al rifiuto saffico (fr. V.) d’intonare il &rh^now in una dimensione spazio-temporale che ‘nol consente’: e∫n Moisopo´lvn do´mv ı , ovvero all’interno del tiaso. Sul celebre frammento, cfr. da ultimo, Palmisciano : ss. e ss.
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senso generale: non si deve parlare del rumore estenuante della guerra, né delle battaglie che uccidono gli uomini. È anzi possibile inquadrare il frammento nello ‘schema di transizione’ grazie alle affinità formali e sostanziali percepibili nel più generoso fr. Davies di Ibico (vd. infra), dove sembra rintracciabile un «riferimento alla spedizione compiuta dai Tindaridi Castore e Polluce e dai loro alleati spartani e arcadi contro la città attica di Afidna, ove Teseo si era rifugiato con Elena dopo il ratto di quest’ultima» : il ricordo della vittoria di Sparta su Atene doveva essere funzionale in questo carme «appunto incentrato sull’elogio di Sparta e di un suo cittadino». Qui West rinvia proprio all’Ode a Policrate, per lo schema che noi abbiamo definito ‘di transitio’, cfr. vv. ss. : ].en oy∫ fato´n e∫stine[ ]vn teke´essi. se` d« ay®[ ]en katade´rketai ktl.
« Non è possibile parlare di ciò per i figli dei mortali» (o alternativamente, ricordando la nostra ode, «tranne che per i figli degli immortali»). Il poeta passa così a cantare, e lodare, chi gli sta a cuore: «te, invece, (canto?) / bellissimo tra gli uomini / cui il sole volge lo sguardo; / ... simile d’aspetto agli immortali; non vi è un altro così (bello) / (né) tra gli Ioni, né ... / né tra coloro che abitano Lacedemone famosa per gli uomini».
Anche il celebre Encomio per Scopas di Simonide è strutturato sulla transitio. Senza entrare nella questione esegetica del complesso e ‘filosofico’ carme, ci preme citare il v. s. oy∫de´ moi e∫mmele´vw to` Pitta´keion / ne´metai (così vicino al ny^]n de´ moi oy¢te ... e∫pi&y´mion ibiceo !), che in sostanza consente al poeta di ˙ passare da un argomento eccelso (il perfetto virtuoso: xalepo´n tuttavia e∫s&lo`n e¢mmenai) a uno inferiore (l’elogio dell’uomo medio: mhd« a¢gan a∫pa´lamnow / ... / y™gih`w a∫nh´r). . U n a d i g r e s s i o n e p i n d a r i c a e ba c c h i l i d e a Tra i numerosi esempi di Pindaro e Bacchilide c’è solo l’imbarazzo della scelta, poiché la transitio è diventata, per così dire, rituale e più che codificata : interessante semmai distinguere, via via, i temi ‘tralasciati’ e le relative motivazioni. Ad esempio Pindaro, in Nem. , ss., dopo aver introdotto i fatti luttuosi della guerra tra gli Eacidi con l’uccisione di Foco per mano di Telamone e . Così Cavallini : . . La traduzione è di Cavallini : . Qui, tuttavia, West : ss. intende dimostrare la stretta somiglianza di Stesicoro, autore a suo avviso del carme, con Ibico (che dipenderebbe dal primo appunto nell’encomio in onore di Policrate); cfr., in proposito, il commento di Cavallini : . . Cfr., rispettivamente, vv. e ss. (con le parole del testimone).
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Peleo, passa a sidari´tan e∫painh^-/sai po´lemon, apparentemente violando la norma ‘lutto vs gioia’ in realtà contrapponendo alla funesta contesa le imprese degli stessi Eacidi, imprese gloriose quanto prodighe di o¢lbow (v. ). Più pacificamente, in Isthm. , ss. il poeta accenna ai tristi motivi della guerra, lamentando la sorte di Tebe dopo Platea, ma súbito soggiunge: paysa´menoi d« a∫pra´ktvn kakv ^ n / glyky´ ti damvso´me&a kai` meta` po´non, dove si annuncia il canto del vincitore, la sola dolcezza che può liberare dal dolore. In Paean. , ss., l’eclisse di sole fa presagire al poeta tristi eventi (guerre, contese, disastri naturali), ma egli non li tratta perché deve darsi al canto in onore dei Tebani (vv. ss.). Un caso meno evidente è forse individuabile in Isthm. , ss., dove, celebrando Strepsiade, Pindaro menziona un parente, morto in battaglia, del vincitore, e così si esprime: e¢tlan de` pe´n&ow
oy∫ fato´n. a∫lla` ny^n moi / Gaia´oxow ey∫di´an o¢passen / e∫k xeimv ^ now. a∫ei´somai xai´tan stefa´noisin a™r-/mo´zvn. All’indicibilità, riferita al dolore, súbito segue il desiderio di cantare la vittoria, la testa cinta di corone: qui il pindarico oy∫ fato´n sembra richiamare i citati koy∫ fata´ di Stesicoro e oy∫ fato´n di Ibico,
non senza un’ambigua e più forte concisione di pensiero e stile. Quanto alla contrapposizione tra il lutto passato e la gioia presente che fa deporre il dolore, è motivo già riscontrato in Isthm. , dove però l’avvento della gioia dopo la tristezza si dava per grazia divina. Passando a Bacchilide, un bell’esempio è offerto dal racconto della discesa all’Ade di Eracle, quando l’eroe incontra Meleagro (che lo intrattiene sulle proprie tristi vicende) e si commuove e quindi chiede di Deianira che vorrebbe fare sua sposa, ma il poeta s’interrompe perché deve cantare la vittoria di Ferenico, il cavallo di Ierone, o™ klenno`w / possi` nika´saw dro´mvı (, ss.). Altrove, lo svolgimento di un tema gnomico è interrotto da un’eloquente formula di transitio, oy¢t(e) ... a™rmo´-/zei m]a´xaiw fo´rmiggow o∫mfa` / kai` ... xoroi´ (, ss.), che prepara alla doverosa gioia di cantare il vincitore Cleptolemo, ma anche il tempio di Poseidone Petreo, etc. (vv. ss.). Il passaggio al tema celebrativo, ny^n xrh` ... keladh^sai (v. ) è peraltro introdotto dal motivo del kairo´w (v. ), qui con valore non gnomico ma di momento opportuno per passare ad altro tema: lo stesso valore che kairo´w sovente assume anche in Pindaro, cfr. ex. gr. Ol. , ss., eçpetai d« e∫n e™ka´stvı / me´tron. noh^sai de` kairo`w a¢ristow. Ancora, mentre indugia su un termine gnomico dedicato all’affannosa ambizione umana verso la gloria e lungo le strade più diverse, Bacchilide in un (quasi) sussulto richiama se stesso a non ‘sviare’ dall’immediata opportunità di lodare il vincitore di turno: ti´ makra`n g[l]v^[s]san ∫i&y´saw e∫lay´nv / e∫kto`w o™doy^, poiché dopo la vittoria spetta all’uomo la gioia (, ss.). Fin qui il sistema della transitio ci ha consentito di apprezzare una discreta e varia casistica di temi e motivi: primo fra tutti l’abbandono dei tristi argomenti di guerra per dedicarsi alla gioia dell’encomio (reale scopo del carme, sia o meno un epinicio), da Stesicoro a Ibico, a Bacchilide, a Pindaro; il pas-
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saggio (etico) dalla lode dell’assoluto a quella del relativo, in Simonide; l’improvviso tacere su una discesa agl’inferi per celebrare una splendida vittoria equestre, in Bacchilide ; l’interruzione di una gnome d’argomento bellico per cantare un’altra nobile vittoria equestre, ancora in Bacchilide; di nuovo l’interruzione di una gnome per affrettarsi a lodare il vincitore nella corsa all’Istmo, sempre in Bacchilide. Persiste comunque la normativa lirica (non solo corale) che da sempre aveva escluso determinati contenuti in rapporto all’occasione del canto di lode. Tuttavia, in Pindaro e Bacchilide assistiamo a una evoluzione dello schema di transitio che può interrompere la trattazione non solo del mito, ma pure della gnome o dello stesso tema celebrativo, come, ad esempio, in Ol. , ss., dove Pindaro racconta sì le vittorie della stirpe di Senofonte corinzio (vincitore a sua volta e destinatario dell’epinicio), ma non può enumerarle tutte per rispetto dell’opportunità e della giusta misura: eçpetai d« e∫n e™ka´stvı / me´tron. noh^sai de` kairo`w a¢ristow (v. ). Pindaro è in effetti l’alfiere di una modulazione tematica che giustifica l’abbandono di un argomento non più per il suo contenuto, ma per la misura che all’argomento in questione spetta in rapporto alle altre sezioni del carme: con il fine di costruire un mosaico di più argomenti reciprocamente ben calibrati. Lo schema di transitio finisce insomma per regolare la ‘variata’ struttura dell’epinicio. Lungi dall’inutilmente riprendere, qui, l’ormai superata questione della ‘coerenza’ strutturale dell’epinicio pindarico, sarà però il caso di tracciare brevemente un quadro delle ‘leggi’ che regolano una tale costruzione poetica, leggi denunciate dallo stesso autore e di volta in volta motivate in occasione, appunto, di ogni transitio. Innanzitutto il poeta, com’è noto, insiste sulla varietas che iuvat (l’opera) e insieme delectat (l’uditorio), motivando così l’abbandono, uno dopo l’altro, dei temi trattati, specie quando si corra il rischio di indugiare eccessivamente : in Pyth. , ss. il canto passa da un tema all’altro come le api volano di fiore in fiore ; in Nem. , ss. è come intarsiato d’oro, d’avorio e di corallo; in Pyth. , ss. deve sì variare da tema a tema, ma a ciascuno il poeta sa dedicare breve spazio, cfr. Pyth. , ss. baia` d« e∫n makroi^si poiki´llein / a∫koa` sofoi^w. Qui spicca il ricorrente motivo del makro`n (ostile al braxy`) me´tron, dell’argomento troppo lungo per essere svolto esaustivamente data la breve misura del carme e il non piccolo tema da trattare. Anche l’a∫sxoli´a o l’a∫pori´a sono validi motivi per non riuscire a narrare ‘tutto’ distesamente. Dal punto di vista dell’uditorio, è il ko´row a imporre al poeta di non dilungarsi sullo stesso tema. Di qui il kairo´w che signoreggia al punto di indicare il me´tron più adatto all’occasione. La transitio è, in ultima analisi, lo stru. Cfr. anche Isthm. , ss. ; Nem. , ss. ; , ss. . Cfr. Pyth. , ss. ; Nem. , ss. ; , ss. . Cfr. Pyth. ,; Nem. , ss. ; , ss.
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mento i n d i s p e n s a b i l e alla struttura dell’epinicio, la necessità che incalza il poeta ‘per legge’: ta` makra` d« e∫jene´pein e∫ry´kei me te&mo`w / v©rai´ t« e∫peigo´menai. Un caso a parte costituiscono le transitiones pindariche motivate dal rispetto dovuto agli dèi. Non è la ragion poetica ma la coscienza etico-religiosa a sconsigliare di seguire il mito tradizionale che, ad esempio, voleva Pelope consumato a banchetto dagli dèi: al caso famosissimo della prima Olimpica, se ne possono aggiungere altri, tutti condizionati dalla motivazione di evitare la kakagori´a : tacere è bello, quando si rischia follemente di oltraggiare la divinità. In ogni caso, le transitiones sono brusche perché ormai scontate, anche per il pubblico. Un bell’excursus hegeliano riguarda proprio i cosiddetti ‘voli’ senza tuttavia nominare Pindaro e giudicando invece Orazio: dopo un «corso calmo», dice Hegel, il poeta può passare con «voli lirici» e «senza mediazione» da una rappresentazione all’altra, anche «molto remota» ; il poeta, tuttavia, come posseduto da una sorta di mani´a, sembra si agiti senza freno e contro «l’intelletto raziocinante» : tali «slancio » e «lotta » peculiari di alcuni generi lirici sarebbero riprodotti «artificialmente » da Orazio, il quale imiterebbe «con fine calcolo simili voli che apparentemente rompono la connessione del tutto ». Pindaro, – l’autore kat« e∫joxh´n di epinici il cui Io apparentemente ex abrupto, in realtà adottando precise ‘misure’, passa da un argomento all’altro – conduce alla perfezione una formula strutturale tipica della lirica arcaica, specialmente corale, e già nota ad Alcmane, poi a Stesicoro, a Simonide, soprattutto a Ibico : si tratta di voli, per così dire, strettamente controllati fin dalle origini della lirica greca. In Pindaro (e Bacchilide) la transitio agisce però in funzione di una brevitas compositiva ormai divenuta chiarissima a chi ascolta. È dunque possibile, come s’è visto nella decima Pitica, che il poeta esordisca con un breve elogio della Tessaglia e di Sparta per súbito interrompersi (v. ti´ kompe´v para` kairo´n) e passare alla lode del vincitore: anche perché l’uditorio, esperto di kairo´w intende ‘al volo’ il senso della transitio in questione. Oltre alle ‘fluttuanti’ modulazioni e motivazioni presenti nella lirica della prima età arcaica, si afferma una nuova serie di insistenti ragioni espresse da altrettante parole chiave : kairo´w, me´tron, a∫sxoli´a, a∫pori´a, ko´row, kakagori´a. Alle antiche ed esplicite formule di passaggio, oy∫k a∫le´gv, parh´somew, oy∫ fato´n, koy∫ fata´, oy¢te e∫pi&y´mion, oy∫de` e∫mmele´vw, si sostituiscono immagini di transizione allusive o metaforiche, la cui frequenza testimonia la defini. Nem. , ss. ; cfr. Ol. , ss. ; Pyth. , ss. ; ,. . Vale la pena di rileggere l’intero capitolo dell’Estetica dedicato alla lirica, cfr. Hegel ii: ss.
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tiva acquisizione di una struttura tradizionale ma tecnicamente rinnovata per un pubblico sempre più edotto del ‘metodo’. Basta qui accennare alle metafore desunte dalla sfera navale o da quella agonale, oppure il canto è visto come una strada da percorrere; mentre va ricordata almeno un’affinità immaginifica tra Pind. Nem. , ss. a∫pomny´v / mh` te´rma probai`w a¢kon&« v ç te xalkopa´raon o¢rsai / &oa`n glv ^ ssan e il già citato Bacchyl. , ss. ti´ makra`n g[l]v ^ [s]san ∫i&y´saw e∫lay´nv / e∫kto`w o™doy^. Pindaro vede l’attività poetica muoversi nel Bildfeld agonale, Bacchilide guarda all’ei∫kv´n della via giusta ma abbandonata, peraltro in concorrenza con un’immagine usata dallo stesso Pindaro, e proprio in una transitio, cfr. Pyth. , ss. h®r«, v® fi´loi, kat« a∫meysi´poron tri´odon e∫dina´&hn, / o∫r&a`n ke´ley&on ∫iv ` n / to` pri´n. Pindaro e Bacchilide sono ormai assolutamente indenni da ogni ‘complesso epico’: entrambi cantano i miti più disparati e, come si sa, in modo ‘nuovo’ eppure ‘veritiero’: «se già Alcmane e Stesicoro erano orgogliosi di essere ‘trovatori’» mentre prima spettava sempre alla Muse indicare e ammaestrare, Pindaro in particolare «ha la coscienza di un’autonomia che gli consente di superare di molto gli altri lirici corali in quanto non solo ‘trova’ ma anche ‘cerca’». E, dal canto suo, Bacchilide compone lo splendido sedicesimo Ditirambo, dove, «al di là di una forte componente cromatica e pittorica», gli epiteti sono così preziosamente funzionali da realizzare «una fitta trama di suggestioni e di immagini, con le quali il poeta allude a parti del racconto non narrate esplicitamente», e da indurre il pubblico, affatto ignaro del mito, a integrare e addirittura prevedere lo sviluppo narrativo o a completarlo, dal momento che «il racconto si conclude senza narrare l’evento capitale» cui sembra tendere l’intero canto, e cioè la morte di Eracle. Sull’interessante versione del mito, che merita il raffronto con quella tragica di Sofocle, non è il caso qui di soffermarsi, come pure va appena accennata la facoltà, rivendicata da Pindaro per la propria poesia, di non restare ferma in un luogo come la statua su un piedistallo, ma di sapersi muovere nello spazio e, dunque, non solo conservarsi nel tempo. . Cfr. Pyth. , ss. ; , ss. ; Nem. , ss. ; , ss. ; , ss. . Cfr. Ol. , ss. ; , ss. ; Nem. , ss. . Cfr. Ol. , ss. ; Pyth. , ss. . Così, felicemente, Snell : , il quale s’intrattiene più avanti sull’«indagare » pindarico ( ss.). . Così Simonini : , in un acuto saggio sul celebre ditirambo. . Cfr. in proposito Simonini : . . Una bella pagina, in proposito, scrive ancora Snell : , che forse ‘esagera’ nel suo pur mirabile excursus pindarico (cfr. specialmente ss.). Qualche umore più temperato suggerisce la sorprendente considerazione a proposito del confronto tra Pindaro e il ‘meno aristocratico’ Bacchilide, che non sarebbe poi così importante che i due «intendano diversamente la loro ‘sapienza’ poetica», l’uno notoriamente affermando di possederla fya^ı, l’altro riconoscendone l’acquisizione solo grazie alla ma´&hsiw.
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. P e r u n a r i d e f i n i z i o n e d e l ‘ r i f i u t o ’ i b i c e o La precedente digressione si è resa necessaria per poter rileggere con il senno di poi, e quindi nella sua cifra auspicabilmente più autentica, l’Ode a Policrate di Ibico. Si sarà capito, comunque, che qui interessa attingere una diacronia della ‘poetica del rifiuto’ e, dunque, cogliere l’evoluzione dei modi e delle forme di quella ‘figura’ che abbiamo definito ‘schema di transitio’, in vista di una risoluzione storicamente apprezzabile. Ibico, come già Alcmane nel cosiddetto Primo Partenio, forse articola ‘doppiamente’ il proprio schema di transitio ricorrendo a una iterazione: l’annuncio oy¢te ... / ... e∫pi&y´mion (vv. ss.) potrebbe essere ribadito da oy∫d« e∫peley´somai (v. ), mentre certamente Alcmane esordiva con oy∫k a∫le´gv (v. ), poi confermandolo con parh´somew (v. ). L’insistenza sembrerebbe mirata a richiamare l’attenzione di un uditorio ancora poco smaliziato circa una tale e nuova ‘retorica’ del discorso poetico, dove si annuncia l’aspirazione dell’autore a passare dal mito all’encomio, dal passato al presente. Sia Alcmane che Ibico sono impegnati a tralasciare un tema di guerra in premurosa attesa di dedicarsi, l’uno alla lode di Agido e Agesicora, l’altro all’elogio di Policrate, però con una ben differente premessa: Alcmane narra la sconfitta degli arroganti figli di Ippocoonte, una saga di interesse ‘locale’, nella fattispecie spartano, dove a punire il peccato di yçbriw interveniva Eracle, e forse non mancavano i Tindaridi, Castore e Polluce, in difesa di Elena contro Teseo. Ibico, invece, osa rifiutare il racconto epico per eccellenza, la ‘grande guerra’ narrata da Omero e ora ricordata solo in quanto lacrimevole, e con un ritmo ‘sincopato’, tale da consentirne una menzione sintetica e progressivamente mirata alla lode del giovane e bel figlio del committente: già la prima delle tre sezioni del mito (e della stessa ode) forse, non per caso, contiene, sotto l’egida di Cipride, i nomi di Elena, Paride, Cassandra, i tradizionali belli dell’epos, dove perfettamente si spiega l’epithetus ornans tani´sfyrow inedito ma funzionale per Cassandra, la più bella delle figlie di Priamo (Il. xiii ), simile all’aurea Afrodite (xxiv ). La seconda digressione sul valore però ‘arrogante’ degli eroi guidati da Agamennone, non può tacere Achille, considerato perché valente nella lancia come nella corsa, dunque accoppiato al grande e forte Aiace: una sorta di parentesi tra la bellezza più accreditata presso Omero e quella efebica, narrata in terza e con. Per la possibile analogia della scansione che stiamo per illustrare, cfr. già Pavese : . . Ho analizzato, seguendo Pavese, la sicura iterazione alcmanea, che comporta un ‘ritorno’ presumibilmente sullo stesso mito, in Bonanno : ss. . Cfr. Calame ii: . . Qui peraltro Ibico lo considera figlio di Plistene, d’accordo con Esiodo e non con Omero, cfr., in proposito, il commento di Cavallini : .
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clusiva istanza, di due eroi fra i meno noti della saga troiana, cui si accompagna il più bello tra i giovani combattenti (greci e troiani), a sua volta seguito ‘naturalmente’ da Policrate, giovane e bello, e come tale degno di figurare toi^w me`n pe´da appunto, di entrare nel mito, purché ‘erotizzato’. Una conclusione logica dunque, ai vv. -, come abbiamo già avuto modo di osservare. E, se non temessimo il rischio di qualche esagerazione, potremmo ancora notare che, come Archiloco si era ‘ispirato’ all’eccezionale, in Omero, Tideo (piccolo ma forte e coraggioso) per raffigurare il proprio ideale guerriero antiomerico, così Ibico ricorda assieme ai due giovani combattenti Cianippo e Zeuxippo, notevoli non per la forza in quanto non ancora adulti, il bellissimo e per l’occasione anche ‘ringiovanito’ Troilo, ispirandosi a lui perché eccezionale fra gli eroi omerici, tutti più o meno forti e adulti. Vorremmo infine rilevare che l’Io consapevole del poeta intende anche misurarsi con l’Io magnanimo del committente: l’occasione encomiastica favorisce, da un lato, la possibilità di stigmatizzare, con grazia, la guerra in assoluto più luttuosa, almeno in letteratura, dall’altro, nobilitare la conclusiva dichiarazione di lode includendo il nome di Policrate in una serie di o∫no´mata ky´ria appartenenti ai pai^dew kaloi´ già illustrati dalla tradizione epica e tuttavia non omerici, tranne l’ ‘eccezionale’ Troilo: pai^dew con cui Policrate può competere quanto non solo a ka´llow, notoriamente peribile, ma anche e soprattutto a kle´ow, imperituro assieme al sicuro kle´ow del lirico a∫oido´w delle sue lodi. Sapientemente in bilico tra le due condizioni estreme, ed esemplari, vissute da Simonide – invitato da Scopas, poiché aveva indugiato troppo sul canto di Castore e Polluce, a farsi pagare metà del prezzo dai Tindaridi; un’altra volta capace viceversa di chiedere il doppio ad Anassila di Reggio, che aveva preteso e ottenuto un epinicio per le proprie mule – Ibico concede al committente niente di più che una fama ‘equa’, destinata a durare tanto quanto la fama del proprio canto. Nel teatro di corte, a Samo, il poeta non può che atteggiarsi diversamente dall’aedo ospitato nel megaron di epica memoria: il nuovo spazio scenico nonché l’occasione e l’esecuzione corale fanno dell’Ode a Policrate di Ibico la prima (almeno fra quelle a noi pervenute) dimostrazione di come il poeta lirico possa superare la tradizione epica in primis omerica senza alcun complesso di colpa. Nei modi e nelle forme che abbiamo avuto modo di appu. Si tratta dei due notissimi aneddoti raccontati, rispettivamente, da Cic. Or. , e Aristot. Rhet. iii , b . . Ovviamente solenne, come già abbiamo volentieri ammesso d’accordo con gli specialisti dell’opera ibicea e, in generale, di lirica arcaica, cfr. supra e n. . Non sono da confondere lo spazio con l’occasione e con la finalità del canto (il simposio è, ad esempio, un’occasione, mentre l’encomio è un fine) : in Ibico abbiamo la corte, la festa, l’encomio. Interessante sarebbe uno studio dello spazio che muta anche col mutare del tempo, dal me´garon all’ay∫lh´, dallo spazio davanti alla tenda (in guerra) al tiaso, all’a∫gora´ etc., dallo spazio sacro a quello profano, e via indagando.
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rare : il prezioso stile ‘manieristico’ secondo la dizione di Maehler (e prima di E. R. Curtius), ma, accanto alle assonanze formali, non sfigurano le dissonanze di pensiero, se non callidae iuncturae, quali abbiamo individuato in y™pera´fanow a∫reta´ oppure in &nato`w (a∫nh`r) diero´w, nell’ambito di una ridondanza aggettivale, non più formulare bensì ripensata e ricercata; l’ordito narrativo che si dipana in tre tempi, scanditi in vista di un conciso finale : lungo un fil rouge pacifista nel contenuto, a sua volta sotteso, con qualche sussulto di brevità diegetica, in un’armonica forma strutturale; il diffuso erotismo (vero tabú dell’epos omerico), prima annunciato, quindi sospeso, infine ripreso e ‘condensato’ in una brillante sfragi´w encomiastica. Tale kli^maj si avvale di uno studiato schema di transitio, dove la ‘modesta’ dichiarazione di rifiuto, volutamente di circostanza, ‘assolve’ il poeta, legittimato non soltanto a eludere, ma pure a sorpassare l’amata-odiata Tradizione. Università di Roma ‘Tor Vergata’
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XV,
«Deut-
P O L I C R A T E E PI S I S T R A T O : UN CO N F R O N T O Domenico Musti . O c c u p a n d o s i di Samo e del suo celebre tiranno, Policrate, delinearne il profilo storico-culturale mediante un confronto con l’ateniese Pisistrato non è una scelta qualunque, non è uno fra i tanti confronti possibili. Pisistrato costituisce invece un termine di confronto rivelatore, non solo perché di lui tanto sappiamo dalla tradizione storiografica, ma anche e soprattutto perché l’insieme della tradizione che lo riguarda converge sostanzialmente sul giudizio positivo di Aristotele che egli governasse più come un cittadino che come un tiranno. Ma il politikv^w di Aristotele conteneva implicitamente molto di più, anche una caratterizzazione culturale, che risulta ben diversa da quella adottabile per il tiranno di Samo. Il carattere tirannico di Policrate includeva anche un rapporto particolare con la fisionomia politica e culturale dell’Oriente, che è qui il mio argomento, e che incide non poco sulla rappresentazione, antica e moderna, del personaggio. Se si pensa ai rapporti di amicizia di Policrate con l’Egitto e in modo particolare con il re Amasi, ben attestati, e ai complessi rapporti, che tuttavia contatti significano, con l’ambiente persiano, questo versante orientale della storia di Samo e, almeno in parte, della figura di Policrate si arricchisce alquanto. Al confronto, Pisistrato è figura molto più ‘cittadina’, e quindi molto più occidentale. Più contenuti, anche se non assenti e neanche scarsi, sono i suoi contatti con le realtà estranee al mondo greco. Si può dire invece che una gran parte della Grecia, da Argo a Nasso ai Tebani, collabori all’instaurazione della sua tirannide e alla conservazione o al recupero del potere da parte dei suoi figli. Per quanto riguarda poi i contatti con ambienti extragreci, vanno ricordati i mercenari che Pisistrato si procura dall’area tracomacedone, nel terzo suo tentativo di conquista del potere, e trace è (secondo una precisazione sulla nazionalità della donna, che Aristotele, Ath. Pol. ,, fa, e che il più antico racconto di Erodoto, i [che parla di una donna del demo di Peania], non contiene) la donna che rende possibile la sceneggiata della finta Atena che riconduce Pisistrato in città e al potere. L’Atene del vi secolo a.C. è, del resto, tutt’altro che indifferente all’occupazione di posizioni strategiche nell’area traco-macedone, nella regione del Pangeo e nell’Asia minore nord-occidentale, e l’area conosce anche la creazione – non scoraggiata da Pisistrato – di un dominio personale di Milziade I nel Chersoneso e al Sigeo, preludio del dominio di Milziade II a Lemno e nell’area relativa. Più distante il rapporto di Pisistrato con la Persia, che invece si stringerà in . Aristotele, Ath. Pol. , e , (ma^llon politikv^w h£ tyrannikv^w).
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misura notoriamente più intensa e drammatica nel periodo di governo dei figli. Da un punto di vista culturale, Pisistrato, il tiranno ‘cittadino’, è figura alquanto più ‘casalinga’ di Policrate, e a questo profilo corrisponde anche il contesto della sua azione politica. Oltre al giudizio di Aristotele che abbiamo già ricordato, e agli analoghi giudizi che la tradizione conserva (Pisistrato non cambia le leggi e si limita ad occupare i posti di comando; la sua età viene ricordata come una nuova età di Crono, un’età, dunque, di semplicità e di giustizia), oltre a questi giudizi correnti vanno tenuti presenti tre grandi dati storici di contorno, che parlano forse anche più delle tradizioni e dei giudizi degli storici antichi: () il regime tirannico di Pisistrato doveva fare i conti con una città che aveva espresso e che largamente condivideva l’alta coscienza civica di un Solone; () la stessa opposizione di Solone a Pisistrato non assunse carattere violento, ma si tenne nei termini della moderazione e saggezza a lui consueta: egli si limitò dapprima ad ammonire, a segnalare il pericolo, a dissuadere i cittadini dal tollerare la tirannide di Pisistrato, ma, a cose fatte, si ritirò, per così dire, in sdegnoso silenzio ‘sull’Aventino’; () il clima politico ateniese era così avanzato e maturo da consentire un civilissimo tipo di conflitto ; e quando fu passata la tirannide di Pisistrato e dei Pisistratidi, l’esito storico, anche per l’intervento di Sparta, fu, attraverso faticosi passaggi, l’avvento della democrazia: ad Atene, come non altrove, la tirannide è l’ “anticamera della democrazia”. Ad Atene in effetti tutto il treno delle forme politiche è spinto più avanti, rispetto al resto della Grecia. E la tirannide di Pisistrato contribuì, in maniera solo apparentemente paradossale, al rafforzamento dell’idea di stato: con lui si afferma la fiscalità ; la stessa presenza di una guardia del corpo è un passo nella direzione della materializzazione dell’idea di ‘stato’, come di un potere che è distinto dai singoli cittadini, perfino dalla loro totalità, e al di sopra di essa; Pisistrato provvedeva d’altra parte, oltre che al rafforzamento delle strutture cittadine, anche, e congiuntamente, alla promozione della campagna: forse con la stessa creazione delle Grandi Dionisie, ma certo con l’istituzione del credito fondiario (nello stesso tempo in cui egli, sul piano fiscale, introduceva il prelievo di una imposta del cinque o del dieci per cento del reddito annuo). Se consideriamo congiuntamente il credito fondiario, da un lato, e il prelievo di imposte dirette, dall’altro, possiamo dire che Pisistrato ai cittadini, o meglio agli agricoltori (e proprietari terrieri), che con i cittadini largamente s’identi. Arist. Ath. Pol. ,: div´ıkei d« o™ Peisi´stratow, vçsper ei¢rhtai, ta` peri` th`n po´lin metri´vw kai` ma^llon politikv ^ w h£ tyrannikv ^ w. e¢n te ga`r toi^w a¢lloiw fila´n&rvpow h®n kai` pra^ıow kai` toi^w a™marta´noysi syggnvmoniko´w, kai` dh` kai` toi^w a∫po´roiw proeda´neize xrh´mata pro`w ta`w e∫rgasi´aw, v ç ste diatre´fes&ai gevrgoy^ntaw. . Sulla tirannide come anticamera della democrazia ad Atene, vd. D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Roma-Bari , p. . . Thuc. vi ,; Arist. Ath. Pol. ,.
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ficavano, con una mano dava e con l’altra toglieva. Ma questo è appunto quello che di norma uno stato ben ordinato fa (e deve fare) con i suoi cittadini, secondo un principio generale di bilanciamento tra il dare e l’avere: là dove naturalmente la qualità dell’azione politica è diversa, e diversamente va giudicata, a seconda della misura e del modo in cui si esercita questa duplice azione statale, e dal tipo di equilibrio, più o meno giusto, che s’instaura tra queste due funzioni dello stato. Anche sotto il profilo culturale, non c’è nulla di particolarmente ‘esotico’ nella politica di Pisistrato: e questo è un tratto dell’ambiente in cui egli opera, come anche delle sue scelte personali, che con le caratteristiche e le tradizioni del suo ambiente sono fortemente coerenti. E analoga coerenza c’è tra l’azione di Policrate e la tradizione culturale e politica di Samo, come costituita al momento della sua ascesa al potere, che fissiamo per lo più al a.C., e che conobbe, dopo anni, una conclusione violenta, ben diversa dalla fine di Pisistrato che, come Aristotele, Ath. Pol. ,, dice con frase tipica, e∫gkategh´rase tW^ a∫rxW^, “invecchiò nella tirannide”, cioè concluse la sua esperienza tirannica solo per vecchiaia e quindi in modo naturale: anche questo, un tratto ‘casalingo’ del potere tirannico di Pisistrato. È invece possibile misurare per vari aspetti la diversità di Policrate, il quale, tutto sommato, appartiene alla generazione tirannica dei Pisistratidi, più che a quella dello stesso Pisistrato. . Per lo specifico tema del rapporto con l’Oriente, e in particolare con il mondo egiziano, è già di per sé significativa la cornice storiografica che Erodoto, esperto di Samo, di Atene, di Egitto, insomma di tutti i referenti della storia di Policrate, assegna alla sua tirannide. Policrate compare in chiusura (capitolo ), del ii libro erodoteo, egittologico per eccellenza, e in varii capitoli del iii, a proposito delle relazioni mediterranee dell’Egitto e in particolare del re Amasi. In ii Erodoto parla degli a∫na&h´mata di Amasi a Cirene (una statua dorata di Atena e un proprio ritratto dipinto) ; a Lindo, nell’isola di Rodi (due aga´lmata di marmo di Atena e una corazza di lino), e nel Heraion di Samo (due ritratti del faraone, ei∫ko´new difa´siai, in legno). Due dunque le statue in marmo di Atena, dedicate da Amasi a Lindo; mentre a Samo, come a Cirene (dove la dea Atena viene onorata con una statua dorata), Amasi associa la propria immagine a quella della dea, sotto la cui protezione evidentemente intende collocarsi. . Herodot. iii : e∫pileja´menow de` o™ Ê Amasiw to` bybli´on to` para` toy^ Polykra´teow h®kon, e¢ma&e oçti e∫kkomi´sai´ te a∫dy´naton ei¢h a∫n&rv ´ pv ı a¢n&rvpon e∫k toy^ me´llontow gi´nes&ai prh´gmatow kai` oçti oy∫k ey® teleyth´sein me´lloi Polykra´thw ey∫tyxe´vn ta` pa´nta, oÇw kai` ta` a∫poba´llei ey™ri´skei. Pe´mcaw de´ oi™ kh´ryka e∫w Sa´mon dialy´es&ai e¢fh th`n jeini´hn. toy^ de` ei¢neken tay^ta e∫poi´een, çina mh` syntyxi´hw deinh^w te kai` mega´lhw Polykra´tea katalaboy´shw ay∫to`w a∫lgh´seie th`n cyxh`n v ™ w peri` jei´noy ® n to`n Polykra´tea ey∫tyxe´onta ta` pa´nta e∫stratey´onto Lakedaimo´nioi, a∫ndro´w. : «Epi` toy^ton dh` v e∫pikalesame´nvn tv ^ n meta` tay^ta Kydvni´hn th`n e∫n Krh´tW ktisa´ntvn Sami´vn.
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Dunque, il tema della dualità ricorre più d’una volta nel testo erodoteo, per gli a∫na&h´mata di Amasi; in un caso (Heraion di Samo) questa dualità è specificata come duplicità, per le ei∫ko´new di Amasi, in legno, collocate naturalmente all’interno, “dietro le porte” (forse la porta d’ingresso e quella di uscita, in posizione assiale); e il “dietro la porta”, o “le porte”, sembra indicativo di una funzione seriale, e anche strutturale, delle ei∫ko´new, immediatamente correlate come esse sono alla struttura architettonica del tempio, e, in quanto difa´siai, anche in stretta correlazione fra di loro. Difa´siow è appunto un aggettivo che non indica un semplice e nudo due, ma una dualità che presenta una interrelazione tra i due elementi in gioco: non è un semplice due, è piuttosto un doppio, un duplice, ed è aggettivo che altre volte Erodoto usa con questo valore: ) per indicare due versioni della medesima storia (iii , proprio per il contrasto tra Policrate e Orete); ) per indicare i due tipi di scrittura in uso in Egitto, la scrittura geroglifica e quella demotica (ii , ). Per analogia, l’aggettivo (di affine formazione) trifa´siow vale per tre omologhi duelli (anzi, come ci par meglio di dover dire, un triplice duello, trifa´siai monomaxi´ai), di un soldato contro un soldato, di un cavallo contro un cavallo, di un cane contro un cane, presso Traci e Perintii (Erodoto, v ) : una triade, un terzetto, che, del resto, giustamente il Greek-English Dictionary di Liddell-Scott-Jones distingue dal semplice trei^w (così come distingue, in maniera analoga, anche se forse non del tutto chiara, tra due significati di difa´siow). È opportuno applicare alla voce difa´siow una distinzione (due - duplice), analoga a quella che sussiste tra tre e triplice: parola, quest’ultima, che associa fra di loro, nel momento stesso in cui le distingue, le singole unità in questione (che invero sono tre coppie di animali duellanti). Insomma, quella del diphasios è una dualità che include una specularità, una reciprocità (tipo ‘copia conforme’ o anche, eventualmente, ‘copia’ difforme, ma pur sempre copia, difforme al suo interno, pur a fronte di una corrispondenza di fondo, che è alla base stessa dell’accoppiamento). Dunque, le due ei∫ko´new-ritratto offerte a Samo da Amasi sono una dualità che si configura come un principio di serialità, quale è dato ritrovare nelle raffigurazioni pittoriche e scultoree dell’antico Egitto. Senza pretendere di dar qui una risposta al problema di quanto si possa parlare di un’origine della plastica greca da quella egiziana, certamente si deve parlare, per taluni casi specifici (e a questi ci limitiamo di proposito), della presenza di elementi egiziani nella scultura greca. E, a questo riguardo, è notevole il fatto che proprio a Samo, a una data (ca. a.C.), anteriore di qualche decennio all’ascesa al potere di Policrate ( a.C. ?), ma anche anteriore di qualche anno all’inizio del regno di Amasi, durato all’incirca dal al a.C., si abbiano realizzazioni scultoree che mostrano l’influenza egiziana sulla cultura artistica dell’isola. Faccio riferimento alla importante scoperta (negli scavi tedeschi diretti da Helmut Kyrieleis e pubblicati nel )
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dei frammenti di un kouros colossale nel Heraion di Samo, o, più precisamente (come sembra risultare dallo studio sistematico in particolare dei frammenti di gambe) da distribuire fra d u e kouroi, provenienti dalla Via Sacra del Heraion, dei quali, per la loro collocazione originaria, l’uno definibile come orientale, l’altro come meridionale. Ora, quanto alla tipologia del grande kouros, edito nel , è stato ben mostrato dal Kyrieleis come la parte posteriore della capigliatura del grande kouros presenti una struttura che richiama elementi particolari di statue egiziane da Karnak e da Gizah; possiamo allora dire che la parte posteriore di questo kouros mostra con chiarezza un ‘incontro’ tra arte figurativa egiziana (nei capelli), che Kyrieleis ha sottolineato, e un profilo greco nella rappresentazione dei glutei (del resto lo studioso tedesco ha mostrato come il grande kouros samio presenti un trattamento complessivo sinuoso e molle, al confronto con l’aspetto cubico, squadrato, comunque con le linee più nette, dei kouroi attici o anche di kouroi ‘delfici’, come Cleobi e Bitone). Si può perciò dire che è proprio a metà del retro della statua samia che si incontrano il gusto orientalizzante (più propriamente, egittizzante), che caratterizza la capigliatura, e lo stile greco che emerge nella rappresentazione sinuosa dei glutei. A parte questo aspetto, mi piace sottolineare, che, con la individuazione di frammenti di un secondo kouros a Samo, accanto al grande kouros, ci s’imbatte in una dualità che richiama il gusto egiziano per le rappresentazioni seriali, di cui la dualità è solo la forma embrionale ed elementare: dualità che trova una plausibile analogia nella duplice offerta di statue (difa´siai, con quel significato pregnante, che, come abbiamo visto, compete all’aggettivo) da parte di Amasi, nel Heraion di Samo. Dunque, l’influenza egiziana c’è in dettagli nel grande kouros, ma anche nella concezione generale della funzione delle statue in un contesto architettonico. Proprio per la loro serialità, le sculture egiziane diventano, in certo qual modo, parti stesse dell’architettura, di cui esprimono e mettono in evidenza la grandiosità (c’è quello che si può chiamare un ‘trattamento architettonico’ delle sculture, a fini di espressione monumentale). . Dal confronto qui istituito tra Policrate e Pisistrato, emergono dunque . Cfr. H. Kyrieleis, Der grosse Kouros von Samos, Bonn , tavv. , e ; , ma anche , , , ; per il kouros colossale (kouros di Isches) del Heraion di Samo, dall’area della Via Sacra, e per i confronti con particolari di statuaria egiziana, tavv. , (statue da Karnak e da Gizah); i confronti sono fatti in particolare tra la parte posteriore della capigliatura del kouros samio e la resa della barba in statue egiziane (cfr. p. ). In generale, sul tema delle influenze egiziane sulla statuaria greca, ibid., pp. ss., ss. Che si debba contare sul ritrovamento di frammenti di d u e kouroi distinti a Samo, risulta dal fatto che, nel gran numero di frammenti rinvenuti, e che per lo più appartengono al kouros grande, si trovano frammenti di gambe, che non si accordano, quanto a misure, fra loro, op. cit., pp. s. ; ).
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analogie, ma anche e soprattutto differenze, tra la temperie culturale e politica e il gusto artistico di aree greche fra loro diverse, quali l’Attica o la Grecia centrale, da un lato, e la grecità micrasiatica o egeo-orientale, dall’altro. Ciò vale anche per i rapporti politici in cui sono coinvolti Pisistrato da un lato e Policrate dall’altro, quando l’interlocutore è un principe orientale. Il re di Lidia Creso, nella sua richiesta di aiuto contro il re persiano, ha, come interlocutori e potenziali alleati, Sparta da un lato e l’Atene pisistratea dall’altro. La risposta greca fu negativa, come sappiamo, e anticipava almeno in parte (per quel che riguarda Sparta) il rifiuto riservato agli Ioni ribelli alla Persia sotto la guida di Aristagora. Mezzo secolo prima, al tempo di Creso (ca. a.C.), Sparta ed Atene (l’Atene di Pisistrato) rappresentavano i vertici della società cittadina greca : Policrate appare invece coinvolto in una relazione di fili´a con il re d’Egitto Amasi ; e verso la Persia figura in una condizione come di vassallo, di governatore dipendente (quasi già in quella funzione di ty´rannow-yçparxow del re di Persia, bene illustrata a suo tempo da Santo Mazzarino come una particolare forma di tirannide). E Policrate non è neanche capace di un comportamento leale verso i due partners orientali, che gli conosciamo: poiché il tiranno, secondo Erodoto, prima tradisce l’egiziano Amasi per prestare aiuto ai Persiani (da cui, come è stato plausibilmente congetturato, si aspettava il conferimento di una posizione dominante nell’Egeo, anche se sotto la tutela del Gran Re), poi cade in sospetto presso lo stesso satrapo persiano Orete, e subisce una proditoria e terribile esecuzione mortale, finendo il suo corpo crocifisso come quello di un cane. Come abbiamo visto in riferimento al grande kouros (o meglio ai kouroi del Heraion di Samo), le intense relazioni del tiranno di Samo con l’Egitto rivelano un background di importanti influenze egiziane sull’arte samia, anche per un periodo anteriore ai suoi anni di governo; e per la stessa serialità che esibisce, l’offerta statuaria di Amasi al Heraion costituisce un tratto di influenza egiziana, così come la monumentalità del santuario di Hera ci rinvia alla monumentalità templare dell’Egitto. Dunque, le strette relazioni di Policrate con il mondo egiziano sono preparate da una storia culturale analoga di Samo tout court. Inoltre, se, dal punto di vista della forma del potere politico, Pisistrato e Policrate hanno in comune il fatto di fondare una dinastia familiare, la tiran. S. Mazzarino, Fra Oriente e Occidente, Firenze (Rizzoli : Milano ), pp. , , , e soprattutto ss. . V. note seguenti, per i problemi cronologici e storici riguardanti le imponenti opere samie (Herodot. iii ), la loro pertinenza al periodo di Policrate o ad epoca precedente, e conseguentemente concernenti il problema più generale della datazione delle influenze egiziane sull’arte e sulle grandiose costruzioni di Samo.
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nide di Policrate nasce come dominio di tre fratelli: con Policrate governano i fratelli Pantagnoto e Silosonte, della cui presenza Policrate si libera in successione. Ora, la divisione del potere fra tre fratelli, addirittura tre, richiama possibilità di organizzazione del regno che sono caratteristiche dell’Egitto faraonico come lo saranno, certo qualche secolo più tardi, dell’Egitto tolemaico. Eppure, proprio a Samo c’è un esperimento di isonomia (per così dire, di democrazia), dopo la fine di Policrate. Ma mentre la fine dei Pisistratidi ad Atene, nel /, apre le porte alla isonomia clistenica, vera e autentica democrazia – e si tratterà di una istituzione di straordinario destino storico – a Samo (altro ambiente, altra cultura, altra forza della presenza suggestiva ma diversa dell’Oriente) l’esperimento di Meandrio (un nome di persona che lega straordinariamente questo personaggio all’ambiente che oggi definiremmo egeo-anatolico) è soltanto episodico, e cede il passo al rientro al potere, anch’esso effimero, di un membro della famiglia del tiranno, Silosonte (Pantagnoto era stato precedentemente ucciso). . C’è un’altra opera in cui si evidenzia l’influenza della cultura egiziana a Samo (e questa volta, con maggiore sicurezza quanto ad attribuzione personale a Policrate) : una costruzione gigantesca, in questo caso di carattere ‘laico’, nel senso di genericamente ‘utilitario’, il grandioso o¢rygma (tunnel, galleria, o più precisamente, come è stato ben mostrato, una do p p i a galleria) per la conduzione dell’acqua attraverso un monte, con la perforazione dell’altura : l’acquedotto, costruito a Samo dall’architetto Eupalino di Megara. Ora, ) la gestione centralizzata dell’acqua, da parte di un potere sovrano; ) la grandiosità del progetto, e persino () il suo porsi come sfida alla natura (una sfida di quel tipo e di quelle dimensioni, che i Greci non ebbero né cari né familiari), riconducono alla rappresentazione che i Greci davano delle opere dei re orientali (rappresentazione che è del resto ovviamente sottesa alla stessa definizione, diffusa fra i moderni, di opere particolarmente grandiose come ‘faraoniche’). Riguardo al primo dei tre punti qui indicati, siamo anche noi moderni abituati a trattare una gestione centralizzata delle risorse idriche come espressione di monarchie orientali (per quanto riguarda l’antichità, le monarchie dell’Egitto o della Mesopotamia), e ad esse si dà talvolta il nome di monarchie o di società idrauliche, in cui il signore dell’acqua è per ciò stesso il signore dell’economia e della vita. Su questo tema ho avuto il piacere di discutere, presso l’Università “La Sapienza” di Roma, nell’anno accademico /, una bella dissertazione di laurea. La Grecia, notoriamente, non ha né le condizioni geografiche né le tradizioni storiche e politiche per la crea. Nikolaos Arvanitis, I tiranni e le acque.
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zione di monarchie accentratrici che gestiscano programmaticamente e sistematicamente la distribuzione e l’uso dell’acqua; d’altra parte, varii tiranni greci, già in età arcaica, provvidero a fornire le loro città di opere atte a soddisfare il fabbisogno idrico, finalizzato ai più diversi scopi, opere che ben si possono definire monumentali. Tuttavia la grandiosità dell’o¢rygma di Samo, dovuto ad Eupalino (e ricordato, accanto al grande molo e al Heraion, in Erodoto, iii , come una delle tre più grandi costruzioni di tutta la Grecia), trasmette, nella tradizione antica, un’immagine ben diversa da quella delle pur monumentali, ma più modeste, fontane di Corinto, o di Megara, o della stessa Atene, che certo ospitava, con l’«Ennea´kroynow, una costruzione di notevole respiro, che già nella denominazione ‘plurale’ della prima parte del termine, significa una particolare estensione. Ma che la grandezza dell’«Ennea´kroynow fosse cosa diversa dalla grandiosità dell’o¢rygma samio, lo rivela, come subito vedremo, la stessa seconda parte del termine. Intanto, dalla ricerca attuale, di cui Arvanitis tiene ben conto, risulta chiara la diversità di dimensioni fra la celebre «Ennea´kroynow di Atene (il sistema delle Nove krh^nai, con tutti i problemi di ubicazione del percorso), da un lato, e il tunnel samio di Eupalino, dall’altro. La differenza fondamentale, dal punto di vista della struttura, sembra consistere nel fatto che il sistema idrico ateniese era, almeno in parte, a cielo aperto e non comportava l’adozione di soluzioni tecniche ardite, né di vere sfide tecnologiche, quali comporta l’orygma di Samo. Dal punto di vista filologico, debbo dire che persino la terminologia ci aiuta a collocare in un diverso quadro l’esperienza idraulica di Pisistrato e quella di Policrate. L’o¢rygma di Samo richiama l’o∫ry´ttein insistentemente usato da Erodoto per raccontare la spedizione di Serse e il suo scavo e ‘attraversamento’ del monte Athos, inteso al fine di evitare i rischi di una circumnavigazione : una sfida, questa, alla natura, mediante la creazione di una div^ryj, che per eccellenza sarà (per lo stesso Tucidide, iv ) la div^ryj toy^ basile´vw, il “canale (artificiale) fatto scavare dal re”, il “canale del re”. «Ennea´kroynow richiama invece nel nome la presenza di molteplici (nove) krh^nai, che sono altrettanti punti terminali del flusso d’acqua, altrettanti ‘capi d’acqua’, fontane: ma il nome non contiene nessuna traccia di una sfida alle leggi della natura, sfida destinata ad essere pagata cara, come tutto quello che va al di là della naturale sobrietà e modestia. Ad Atene i canali di alimentazione delle fontane sono solo degli o∫xetoi´, cioè dei ‘contenitori’, delle ‘condotte’, dei canali che non appaiono frutto di un cospicuo e ardimentoso scavo, ma di un lavoro, in parte comportante un interramento, ma più limitato e prudente (pur se sistematico e razionale). Anche in questo, Atene, con la sua ti. Id., in partic. capp. . (Il Tunnel di Eupalinos a Samo) e . (Atene, l’Enneakrounos e l’acquedotto dei Pisistratidi), rispettivamente pp. - e - del testo digitato e stampato.
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rannide, ci appare come più modesto occidente, ed esprime una misura ‘cittadina’, di contro alle dimensioni grandiose e perfino spericolate delle realizzazioni monumentali delle monarchie orientali, con cui la grecità si confronta. Nel passo di Aristotele sulle “opere policratee” di Samo (Pol. v b -), queste sono affiancate ad altre realizzazioni grandiose di despoti e tiranni, come, per cominciare, le piramidi d’Egitto, cui seguono gli a∫na&h´mata a Olimpia dei Cipselidi di Corinto e la costruzione, ad Atene, da parte dei Pisistratidi, del tempio di Zeus Olimpio (opere che, per poter essere realizzate, impongono fatiche e povertà ai sudditi, come commenta Aristotele). D’altra parte, le opere samie celebrate da Erodoto (iii ) come “le tre costruzioni più grandi di tutta la Grecia” (il tunnel di Eupalino, il molo dell’isola e il tempio opera di Reco) costituiscono un ristretto canone di Meraviglie del mondo greco (diverso dal celebre canone delle Sette meraviglie del mondo, che si costituirà in ambiente e in età alessandrini), ed esibiscono una grandiosità e uno sfarzo particolari, rispetto alle realizzazioni ‘cittadine’ come l’Olympieion di Atene (che in ogni caso fu destinato a restare, nell’età dei Pisistratidi e ancora a lungo, incompiuto). Per sopraggiunta, le opere “policratee” ricevono, come si vede, in Aristotele una denominazione personalistica, che non ha riscontro nelle citate opere dell’Atene pisistratica (semmai, un qualche riscontro lo si ha nella denominazione, di tipo dinastico, degli a∫na&h´mata dei Cipselidi). In Aristotele, Politica, l.c., l’elenco delle opere di straordinaria e costosa grandezza si apre, come già detto, con la menzione delle piramidi d’Egitto, cioè con un termine di confronto prettamente ‘orientale’ (e ‘pezzo’ essenziale del futuro canone delle Sette Meraviglie), e contiene solo premesse, in senso analogico, per altri ‘pezzi’ del medesimo fortunato canone, che dovette costituirsi definitivamente solo nel primo quarto del iii secolo a.C., quindi in una età posteriore sia ad Erodoto sia ad Aristotele stesso. . La talassocrazia policratea richiama invero quella minoica, come possiamo dedurre dai suggerimenti, concordi per gran parte, di Erodoto (iii ,) e Tucidide (i ,; iii ,), in quanto l’una e l’altra talassocrazia, in epoche diverse, ma in analogo àmbito insulare, comportano l’imposizione di tributi, perciò l’esazione di un fo´row dai soggetti. Un fo´row, certo, lo . È anche da notare che, tra Erodoto e Tucidide, ll.cc., complessivamente viaggiano insieme dati ) sulla talassocrazia samia, ) sulla purificazione di Delo, sulla consacrazione di Renea ad Apollo, l’Apollo di Delo, ) sugli agoni istituiti da Policrate, ) sulla istituzione, la restituzione e il progressivo arricchimento, di feste quadriennali (penteteriche), subentrate a precedenti feste delie, con cori, agoni musicali e ginnici e, alla fine, anche ippici: un ‘pacchetto’ di manifestazioni, un ‘programma’, di tipo pitico, realizzato, per quanto riguarda gli Ateniesi del v secolo a.C., una prima volta nel a.C., anno pitico (programma certo poi replicato).
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impose anche Atene, nel V secolo, ai suoi alleati della lega detta delio-attica. Atene emerge e domina nelle acque del mare Egeo, ma, nonostante tutto, primeggia fra città formalmente sue seguaci, come entità politiche teoricamente alla pari : non suddite, ma alleate, alleate certo di una potenza egemone. E secondo una storia, nota già ad Erodoto, un comportamento ‘smisurato’, esagerato, appare la decisione di Policrate di legare con una catena l’isola di Renea a Delo, per offrirla all’Apollo delio, nella forma di una servitù ‘reale’ (cioè ‘di cosa’), analoga a una servitù di tipo ‘personale’, ben nota in àmbito persiano: una servitù segnalata appunto con tanto di catene. Una storia greca, questa della purificazione e consacrazione ad Apollo delio di Renea, che si conclude con un finale orientale, che ci parla di catene e di doylei´a, anche se vuole esprimere in primo luogo la pietà del tiranno verso il dio greco Apollo. In questo comportamento policrateo si esprime dunque un sentimento greco, di ey∫se´beia, mediante un dimostrativo gesto persiano : quello della riduzione di una parte del paesaggio naturale in condizioni di ‘servitù’, ad opera di un padrone e sovrano divino! E con la smisuratezza orientale delle costruzioni di Policrate si può confrontare, sì, la grandiosità dell’Olympieion di Atene, ma con l’attenuante, di fatto, dell’incompiutezza dell’opera pisistratea, che dovrà attendere almeno l’epoca di un sovrano ellenistico, l’Antioco VI Epifane re di Siria. Dunque, ad Atene e Samo compaiono tirannidi fra loro diverse, ma anche culture diverse : si confrontano, da una parte, una cultura ‘cittadina’ con il suo senso del limite e il rispetto della legge come regola consuetudinaria, dall’altra parte un regime che ama lo sfarzo e che è, fin dalle origini, implicato in un sistema di relazioni internazionali, e proteso verso progetti grandiosi, che significano però anche un tentativo della grecità arcaica di uscire dai confini di una cultura (politica ed oplitica) sobria e modesta. Ma il regime policrateo presenta, accanto alle luci della fortunata prosperità e della sontuosa grandiosità, le pesanti ombre della pirateria: il tutto accompagnato da un lugubre presentimento di declino, confermato dalla fine atroce del tiranno. Samo rappresenta una potenzialità greca sviluppàtasi oltre misura, caratterizzata, e in parte distorta, da comportamenti che non appartengono alla norma della tradizione greca. Si deve invece mettere in evidenza un tratto che assimila la tirannide di Policrate a quella di Pisistrato (e, meglio ancora, alla tirannide dei Pisistratidi, che sono cronologicamente, e caratterialmente, un miglior termine di confronto con Policrate): la presenza di una vera e propria ‘corte’, i cui amori sono cantati da poeti che alle corti di Policrate e dei Pisistratidi via via approdano e trovano accoglienza. Costante delle corti tiranniche è l’eros, in particolare di un tipo caratteristicamente greco, quello dei paides. Così Policrate, oggetto di canti celebrativi della sua bellezza o di quella dell’omonimo figlio, ‘salva’ i ragazzi corcirei che il tiranno di Corinto Periandro intendeva consegnare al re di Lidia,
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Aliatte, e∫p« e∫ktomW^, cioè “per evirazione”. Verso i paides sono dunque diversi i comportamenti di un tiranno greco e quelli di un sovrano orientale. I Lidi, e altri popoli dell’antico Oriente, li destinano all’evirazione, ne cambiano il sesso ; i Greci praticano invece apertamente l’omosessualità, sono, per così dire, maschilisti, più che emascolinizzatori. Di queste tendenze erotiche partecipa, non tanto Pisistrato, del quale pur si narrava fosse stato paidikà di Solone, ma la ‘seconda generazione’ tirannica, cioè uno dei figli, Ipparco (oppure Tessalo che sia, a seconda delle diverse tradizioni); e il folle amore di costui per Armodio avvia la rovina del Pisistratide e dell’intera dinastia, con la conseguente cacciata di Ippia, dopo l’assassinio del fratello. La propensione viziosa (nella storia della tirannide ateniese) dei figli di Pisistrato è il tratto di costume di una ‘seconda generazione’ tirannica, quella che di norma sperpera le qualità della prima, ed avvia il decadimento del potere dinastico : l’erotismo sfrenato è invece caratteristico della corte di Policrate stesso, in prima (e anche ultima) generazione. . Congiuntamente all’attività di conquista, ma anche alle relative iniziative cultuali di Policrate nell’Egeo, va considerata la notizia, fornita da paremiografi e lessicografi greci, cioè da Zenobio, da Fozio e dal lessico Suida, quindi da autori greci tardi (che si distribuiscono tra il ii e il x secolo d.C.), circa l’espressione proverbiale Py´&ia kai` Dh´lia. Desidero sottolineare questo aspetto, perché l’espressione proverbiale ora citata, e usata in relazione a Policrate e, più specificamente, alla sua data di morte, conferma in maniera lampante come i Greci conoscessero (nel senso che avevano nozione chiara di) una possibilità di ‘concomitanza’, di ricercata e voluta concomitanza, tra una nuova festa e le grandi e tradizionali feste panelleniche (le Olimpie o le Pitiche o le Nemee), nell’arco ampio dell’anno in cui si iscrivevano le festemodello, allo scopo di operarne una imitatio, che poteva essere, a seconda dei casi, ) semplice riproduzione, ) nobile competizione o, in casi estremi ), vera e propria concorrenza fra la festa di nuova istituzione e la grande festa-modello panellenica, che, nella festa di nuova istituzione, trovava un’ulteriore occasione di celebrazione di una divinità panellenica (fosse Zeus o Apollo o eventualmente un’altra divinità), per le cure di una città, di un sovrano, di un tiranno, e così via di seguito. Ora, i passi lessicografici e paremiografici, presi in considerazione, mostrano, senza ombra di dubbio, e al ri. Cfr. su questi temi v. sempre H. Berve, Die Tyrannis bei den Griechen, voll., München , pp. , -, (eros alla corte di Policrate; episodio di Periandro-Aliatte, ecc.); e sulle diversità generazionali nella storia delle tirannidi, D. Musti, Storia greca cit., p. . . Data di morte al a.C., stando a Zenobio e ai paremiografi su Pythia e Delia (cfr. V. La Bua, Il papiro Heidelberg e altre tradizioni su Policrate, in Quarta Miscellanea greca e romana, Roma , pp. -; Id., Sulla conquista persiana di Samo, ibid., pp. -; e W. Burkert, cit. infra nel testo, p. ), e il è anno pitico.
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paro da qualunque inopportuna ironia, che quella imitazione poteva estendersi anche all’aspetto cronologico, vuoi nella scadenza, in senso lato (cioè nell’arco dell’anno definito in qualche relazione e in base ai giorni propriamente riservati alla festa-modello panellenica), vuoi nella cadenza, cioè nel ritmo, nella periodicità della festa-modello panellenica, oltre a riguardare l’aspetto, certamente primario e ineludibile, della tipologia della festa imitata. A questo proposito mi piace sottolineare di essere in completo accordo con W. Burkert, sulla data in cui si colloca la notizia di Zenobio (di origine ellenistica o tardo-classica) sui Delia istituiti a Delo da Policrate. La festa pitico-delia di Policrate a Delo, nel a.C., era «an unique suitable situation for the c o m b i n e d Delian-Pythian hymn to Apollo. There was an unique occasion when a great festival at Delos was at the same time a Pythian festival» (pp. -, in partic. p. ). La morte fu probabilmente nel a.C. Policrate celebrò a Delo «Delian and Pythian games co m b i n e d » (p. ). Immediatamente dopo, il tiranno moriva, «late on » (p. , n. , con rinvio a RE xxi, A ). E, sulla questione della data di morte di Policrate, delle fonti sulla festa di istituzione policratea e le relative tradizioni, si vedano i ben documentati e già citati studi di V. La Bua. . Kynaithos, Polykrates, and the Homeric Hymn to Apollo, in Arktouros. Hellenic Studies presented to Bernard M. W. Knox, Berlin, New York (a cura di G. Bowersock, W. Burkert, M. Putnam), pp. -, in partic. p. . . Giustamente Burkert giudica che la primavera del sia più vicina alla catastrofe: cfr. Thuc. iii , (n. a p. ). Dunque egli intende açma come dotato anche di valore cronologico. E punta, nel suo articolo del , come La Bua (per cui cfr. Il papiro Heidelberg, cit. a n. , pp. e -), sulle fonti esplicite (Epicuro e Menandro) di tale materia proverbiale. Siamo in un Ellenismo già avanzante, siamo nel torno di tempo tra iv e iii secolo a.C., magari all’inizio del iii secolo a.C., per la creazione di ‘feste concomitanti’ con le feste panelleniche (e/o per la relativa riflessione). Dunque, circa il a.C., la cultura ellenistica si pregiava di ricollegare temporalmente i nuovi festivals ai vecchi agoni panellenici. Timeo l’attesta per le Olimpie di Sibari (FGrHist F ), mentre Epicuro, Menandro, forse Duride (cfr. La Bua, Il papiro Heidelberg, cit., pp. -), l’attestano per la imitatio Delphorum da parte del samio Policrate. Lo ‘stabilito’ (to` v™risme´non) (Suid. s.v. Py´&ia kai` Dh´lia) può riferirsi naturalmente in primo luogo alle norme e alla tipologia delle celebrazioni pitiche. Ma, per tutto ciò che abbiamo detto, l’allusione ironica nelle parole della Pizia, e le connotazioni temporali chiaramente implicite e però anche esplicite (açma) si estendono anche alla datazione delle Pitiche e alla concomitanza fra Delie di Delo e Pitiche di Delfi, nel quadro dell’anno pitico. In Fozio, del resto (cfr. ed. Naber, v. infra, n. ), il testo del quesito è kata` to`n v™risme´non xro´non : “secondo il tempo stabilito”, che identifica il tempo canonico delle Pitiche delfiche, essendo il tempo dei Delia ancora da fissare. . Cfr. n. prec. Il passo di Erodoto, iii , , permette di datare la morte di Policrate poco prima della morte di Cambise, al tempo in cui questi era malato di cancrena, quindi un po’ dopo la metà del , come i più credono; e v. La Bua, Il papiro Heidelberg, cit., p. n. . Sono le ultime Pitiche/Delie, oltre che le prime. Le prime e le ultime: dunque, poco dopo le Pitiche, il tiranno morrà. Lo dice anche il Burkert; ma açma e kata` to` v™risme´non (kata` to`n v™risme´non xro´non in Fozio, per cui vd. infra n. ) si saldano insieme (diversa datazione in H. W. Parke, Polycrates and Delos, in «Class. Quart.» , , pp. -). Concordo con Burkert, anche quando mette in luce una imitatio competitiva del samio Policrate nei confronti dell’ateniese Pisistrato.
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Scrive la fonte più esplicita sull’argomento, Zenobio, autore considerato di età adrianea (ii sec. d.C.), s.v., nell’ed. Athous, tay^ta´ soi kai` Py´&ia kai`
Dh´lia. h™ paroimi´a ei¢rhtai e∫pi` tv ^ n yçstata kai` teleytai^a poioy´ntvn. Me´mnhtai de` ay∫th^w Me´nandrow e∫n »Eayto`n timvroyme´nv ı (fr. Koerte). Fasi` de` oçti Polykra´thw o™ Sami´vn ty´rannow e™lv ` n »Rh´neian kai` a∫na&ei`w ay∫th`n tv ^ı «Apo´llvni tv ^ı e∫n Dh´lv ı kai` &ei`w a∫gv ^ na ka´lliston h∫rv ´ ta pe´mcaw ei∫w Delfoy´w, pv ^ w dei^ kalei^n to`n a∫gv ^ na, Dh´lia h£ Py´&ia. »O &eo`w a∫pekri´nato ay∫tv ^ı tay^ta´ soi kai` Dh´lia kai` Py´&ia. e∫sh´maine ga`r ey∫&e´vw a∫po&anei^tai. «Oroi´thw ga`r ay∫to`n yçsteron o™ Pe´rshw e∫stay´rvsen. “Per te queste sono Pythia e Delia. Il
proverbio viene detto riguardo a coloro che compiono le più tarde e ultime cose. Lo rammenta Menandro nel Heautontimoroumenos. Dicono che Policrate, tiranno di Samo, avendo preso Renea e avendola consacrata all’Apollo di Delo, e avendo istituito un agone bellissimo, chiese, tramite suoi incaricati inviati a Delfi, con quale nome dovesse chiamare l’agone, Delia o Pythia (scil. entrambi a rigore evocabili in onore di un Apollo che era sia pitico sia delio, e che ora veniva onorato a Delo con una festa che tendeva a confrontarsi con quella tradizionalmente celebrata a Delfi). E il dio gli rispose: per te questi sono sia Pythia sia Delia. Con ciò il dio gli segnalava che sarebbe morto presto. Infatti Orete il Persiano (subito dopo) lo crocifisse”. Ora, è evidente che Pythia e Delia vengono qui considerati proprio sotto l’aspetto cronologico. Lo dice l’uso dei due aggettivi quasi sinonimi (yçstata kai` teleytai^a), tutti e due di senso diacronico, ma con una lieve sfumatura, perché il primo (yçstata) sta a indicare il punto del tempo f i n o a l q u a l e Policrate arriverà, e il secondo (teleytai^a) il punto del tempo o l t r e i l q u a l e Policrate non andrà: ma fra le due indicazioni cronologiche sussiste anche un raccordo sincronico, e il senso generale dell’aneddoto, circa il responso della Pizia al quesito posto a Delfi da Policrate tramite i suoi inviati, è che Policrate non andrà oltre la data delle feste Delio-Pitiche di Delo, che saranno per lui non solo le “prime”, come certamente lo sono delle feste di nuova istituzione, ma anche – e questo è esplicito nell’ironico responso – le “ultime” in assoluto. La vera differenza tra i due tiranni mi sembra quella che ho qui cercato di indicare: la maggiore presenza di tratti orientali nella politica di Policrate e nelle stesse tradizioni samie che lo precedono. . Zenob. Athous , , p. Miller, Zenob. , (Paroem. Gr. i s.). Cfr. Fozio e Suida, citt. a n. seg. . Phot. (ed. Naber) Py´&ia kai` Dh´lia. Fasi` Polykra´thn to`n Sa´moy ty´rannon Py´&ia kai` Dh´lia poih´santa açma e∫n Dh´lv ı pe´mcai ei∫w &eoy^ xrhso´menon ei∫ ta` th^w &ysi´aw a¢gei kata` to`n v ™ risme´non xro´non. th`n de` Py&i´an a∫nelei^n. tay^ta´ soi Py´&ia kai` Dh´lia, boylome´nhn dhloy^n oçti e¢sxata. met« o∫li´gon ga`r xro´non ay∫to`n a∫pole´s&ai synh´bh. «Epi´koyrow d« e¢n tini tv ^ n pro`w «Idomene´a e∫pistolv ^ n tay^ta. Cfr. Suid. Py´&ia kai` Dh´lia. Fasi` Polykra´th to´n Sa´moy ty´rannon Py´&ia kai` Dh´lia poih´santa açma e∫n Dh´lv ı pe´mcai ei∫w &eoy^ xrhso´menon ei∫ ta` th^w &ysi´aw a¢gei kata` to` v ∫ risme´non. th`n de` Py&i´an a∫nelei^n ‘tay^ta´ soi kai` Py´&ia kai` Dh´lia’, boylome´nhn dhloy^n oçti e¢sxata. met« o∫li´gon ga`r xro´non ay∫to`n a∫pole´s&ai syne´bh. «Epi´koyrow de` e¢n tini tv ^ n pro`w «Idomene´a e∫pistolv ^ n tay^ta.
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Ma le Delie imitatrici delle Pitiche sono anche concomitanti con esse, in quel senso lato (l’arco di un anno pitico, probabilmente, o comunque di eventuale altro anno greco), che ho chiarito nei miei studi sui Nikephoria pergameni, i cui agoni sono definiti espressamente e dichiaratamente nei testi isopitico l’uno (quello musico), e isolimpici gli altri (ginnico e ippico). A favore di questa correlazione cronologica, cioè di una sincronia tra Delie isopitiche di Delo e feste Pitiche di Delfi, ci sono varii argomenti. ) Le feste Delie di Policrate hanno luogo, secondo la tradizione paremiografica e lessicografica che abbiamo ricordato, poco prima della morte di Policrate, che avvenne nell’anno a.C., che è un anno pitico. ) Nell’inverno del / gli Ateniesi purificarono Delo, liberandola totalmente dalle sepolture, trasferite nell’isola di Renea, quella che Policrate aveva ‘legato’ con una catena a Delo. Dopo la integrale katharsis, gli Ateniesi celebrarono per la prima volta delle Delie penteteriche. Testo fondamentale è un capitolo di Tucidide, iii , per la storia della purificazione di Delo durante la guerra del Peloponneso; per la periodicità della festa avviata dagli Ateniesi nel /; per il precedente policrateo della parziale purificazione di Delo e la consacrazione di Renea all’Apollo Delio, nonché per le caratteristiche dell’originaria megale xynodos degli Ioni e degli isolani circonvicini a Delo, celebrata nell’Inno omerico ad Apollo e per il progressivo completarsi del ‘programma’ di agoni (un tempo consistente in ginnico e musico, con cori delle città partecipanti), programma arricchito dagli Ateniesi di gare di corsa di cavalli: ora, la katharsis di Delo, l’istituzione di Delia penteterici e l’ampliamento del programma da parte ateniese avvengono proprio in un anno di feste pitiche (/ a.C.). ) La analoga concomitanza temporale tra le Olimpie di Sibari e le Olimpie di Elide è affermata con parole chiarissime da Timeo (che di Olimpiadi e dei loro aspetti cronologici era esperto conoscitore ed utente) in FGrHist F . Varie altre testimonianze di concomitanza temporale tra le feste imitatrici e le grandi feste-modello panelleniche possono essere addotte, e ne darò conto prossimamente. ) Le edizioni critiche del passo di Zenobio e dei passi paralleli di Fozio e del lessico Suida danno tutte la grafia tay^ta´ soi (“queste per te”); ne consegue la traduzione che io ho dato e che ricalca l’interpretazione dell’oracolo data da H. W. Parke-D. E. W. Wormell, The Delphic Oracle, i, Oxford , p. , “It’s both Pythian and Delian to you”. Anche così restano significativi i punti che ho evidenziato con i numeri , , . Ma è difficile non notare che la grafia tay^ta, così come le traduzioni moderne “questi sono insieme Pythia e Delia per te” o “it’s both Pythia and Delia for you”, con il tay^ta come soggetto e Pythia e Delia come predicati, non sono del tutto soddisfacenti né tranquillizzanti: quel questi come soggetto non riesce ad agganciarsi a qualche parola precedente, ed è solo tautologicamente
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da interpretare come anticipazione dei predicati. Poiché notoriamente nella tradizione manoscritta l’archetipo della notizia (che rimbalza da un autore del ii secolo d.C., Zenobio, a testi di vari secoli più tardi, come Fozio e Suida), era in lettere maiuscole (TAYTA), e non aveva spiriti e accenti, c’è da chiedersi se, nulla cambiando nell’archetipo, e solo adottando una grafia diversa, non sia da scrivere tay∫ta´ soi (cioè ta` ay∫ta´), con coronide, per indicare la crasi, invece di tay^ta´ soi. Se lo domandava già il Körte, quando commentava (in Menandri quae supersunt, Teubner , nr. , p. ) : res valde obscura, fortasse scribendum tay∫ta´. Il dubbio di Körte si rafforza e si chiarisce proprio con la mia interpretazione di collegamento cronologico tra data di Delie policratee e data di Pitiche canoniche. Le due forme sono di fatto indistinguibili fra loro nell’archetipo per la grafia (maiuscola), per la pronuncia – entrambe comportano l’accento acuto sull’alpha finale, in un caso (ta` ay∫ta´) strutturale, nell’altro caso (tay^ta´) come supporto all’enclitica che segue –, e perciò sono indistinguibili per il senso generale del proverbio. Dalla grafia che io propongo, tay∫ta´, risulterebbero un testo e una traduzione più agevoli da leggere e interpretare, senza nulla cambiare nella tradizione del testo originario ; si eviterebbe così di introdurre la frase con un pronome dimostrativo di cui non si vedono agganci esterni, mentre Pythia e Delia sarebbero un chiaro soggetto, e tay∫ta´ diventerebbe un comprensibilissimo predicato, anzi sarebbe una ovvia risposta al quesito posto da Policrate alla Pizia, quesito che suonava come un’alternativa: “come debbo chiamare le nuove feste, Pythia o Delia ?”. Tra l’altro, si noti che la lezione Py´&ia h£ Dh´lia che è adottata in ParkeWormell, op. cit., p. , rappresenta una variante (per moderni come per antichi autori), rispetto a Py´&ia kai` Dh´lia nella storia delle edizioni e dei commenti dell’aneddoto. È una variante, la congiunzione h¢, presente in Suida, che riporta il proverbio ben due volte (s.v. tay^ta´ soi Py´&ia kai` Dh´lia e s.v. Py´&ia kai` Dh´lia ; e questa variante viene spiegata in Parke-Wormell, op. cit., p. , come espressione di una alternativa, quale doveva essere il quesito posto da Policrate) ; ed è logico che il dio rispondesse: Pitiche (delfiche) e Delie (di Delo) per te pari son. Questa risposta, chiara e semplice, lascia ogni spazio all’affermazione che, per quanto riguarda il destino di Policrate, nulla sarebbe cambiato per il fatto che la festa avesse un nome o un altro, che richiamasse un epiteto o un altro di Apollo, quello delfico o quello delio. Poiché tutto questo avviene in anno di feste Pitiche, è molto difficile pensare che il dio di Delfi non facesse riferimento, nella sua risposta, a un confronto cruciale con le Pitiche di Delfi. E la domanda di Policrate, se egli agisse kata` to`n v ™ risme´non xro´non, lascia obiettivamente spazio per ammettere che il quesito, inutilmente ansioso, riguardasse tutto ciò che concerneva la celebrazione dell’agone pitico, sia nelle modalità sia nei tempi. Tuttavia, anche se lasciassimo tutto invariato (testo di tante edizioni mo-
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derne e relativa traduzione) e continuassimo a scrivere “queste feste sono per te Pitiche e Delie insieme”, col significato di “comunque ultime”, il commento degli autori che tramandano la notizia (Pisistrato comunque sarebbe morto poco dopo la celebrazione delle Delie di modello pitico), riporta l’aneddoto al significato temporale che è alla sua base, e disillude l’ansioso Policrate, perché il suo destino, in termini temporali, era segnato: e di fatto la celebrazione dei Delia di Delo cade nell’arco e nel cuore stesso dell’anno pitico / a.C. Insomma, se è da scrivere tay^ta´ soi, la concomitanza temporale (oltre che l’analogia tipologica e normativa) con le Pitiche delfiche (alle quali l’Apollo delfico non poteva non fare riferimento) è suggerita dalle considerazioni fatte ai numeri -; se fosse da scrivere tay∫ta´ soi, come io propongo, sarebbe indicata, in termini ancora più direttamente equivalenti a ∫iso-py´&iow (confrontabile con ta∫yta´), quella concomitanza temporale tra Pitiche delfiche e Delie di Delo, che mi interessa mostrare. . Nessuna “invraisemblance”, dunque, nessuna supposizione ”complicata” o “non confortata da paralleli”, nella mia tesi (risolutiva per un difficile problema di ricostruzione cronologica dei Nikephoria pergameni di epoca ellenistico-romana) circa la familiarità dei Greci con la idea di lata contemporaneità di feste di nuova istituzione con le feste-modello: la mia proposta è solida, semplice e ben documentata, se si leggono attentamente i testi! Le fonti di questa notizia, come la fonte (Timeo, FGrHist F ) di una analoga notizia riguardante le Olimpie che sarebbero state istituite dai Sibariti in concorrenza con le grandi Olimpie di Elide, si collocano tra la fine del iv e gli inizi del iii secolo a.C. (Timeo, Epicuro, Menandro, forse Duride) : v. sopra. Dunque, proprio intorno all’inizio del iii secolo a.C., proprio con l’inizio dell’Ellenismo, i Greci mostrano di conoscere la possibilità che feste nuove si aggancino alle grandi feste panelleniche tradizionali, non solo sotto l’aspetto tipologico (che certo sarà stato primario), ma anche sotto l’aspetto della cronologia, come testimoniano casi speciali ma ben esistenti (e non inverosimili!). L’epoca ellenistica si annunciava con lo sforzo di ricollegare temporalmente le nuove feste ai vecchi agoni panellenici. Dunque, il . Ma diversamente ad es. Ph. Gauthier, Bull. Ép., in «Rev. Et. Grecques» , , nr. , o H. W. Pleket, in «SEG » , , nr. , e , , nr. . Pleket trova “complicated” la mia teoria : ma “complicata” essa non è (si veda “Riv. di filol.” , , -) ; complicato sembra invece spiegarlo ai lettori, vista l’esistenza di tante notizie, tanti suggerimenti delle fonti, tante conferme nei riscontri di fatto delle date che alla mia teoria conseguono. Altrove dò analisi anche più particolareggiate. . La versione di Fozio può essere quindi così interpretata: «dicono che Policrate tiranno di Samo, avendo istituito insieme Pitiche e Delie a Delo, abbia mandato a chiedere al dio se la thysia dovesse farla secondo il tempo stabilito, e che la Pizia gli abbia risposto: “Per te sono la stessa cosa Pitiche e Delie”, volendo significare che sarebbero state le ultime. Infatti, accadde che fu ucciso di lì a poco tempo. Così Epicuro in una delle lettere a Idomeneo (Pythia e Delia
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(meglio forse dire il /) è un anno di feste Pitiche. Per rispetto verso Delfi, probabilmente, è solo dopo le Pitiche classiche che si celebreranno le Pitiche-Delie, le Delie, cioè, che si chiamano Pitiche o Delie; e poco dopo muore Policrate. Mi par molto giusto quanto Burkert afferma, in tema di confronto tra Policrate e Pisistrato, che cioè il tiranno ateniese avesse fatto di Delo la base per l’egemonia ateniese sull’area, e che, in questo senso, egli possa aver rappresentato un modello per la politica egea di Policrate. Dopo la morte di Pisistrato (/), Policrate consacra infatti Renea all’Apollo Delio, e questa è una forma di imitazione, di competizione, nei confronti del tiranno Pisistrato, comunque un tratto di affinità fra i due. In tema, poi, di feste sincrone, concomitanti quanto a periodicità (cadenza e scadenza), perciò di lata coincidenza (studiatamente e saggiamente costruita) con la festa imitata, è significativo che anche le Panatenee ricorrano in anni di feste Pitiche, cadendo però in un periodo dell’anno un po’ anteriore a quello delle Pitiche classiche. Stesso identico schema nel caso dei Delia che però probabilmente erano anche leggermente posteriori alla celebrazione dei Pythia delfici : lo spirito della imitatio è infatti, rispetto ai Pythia delfici, correttamente imitativo, nel caso di Policrate e dei suoi Delia, forse invece più fortemente competitivo, nel caso delle Panatenee e della ka´&arsiw operata dagli Ateniesi nel . A Policrate dunque, nell’anno pitico a.C., la Pizia risponde: ‘le tue feste Delie (isopitiche!) sono comunque le ultime’! Non c’è una forma aggettivale migliore di ∫isopy´&iow per rendere il concetto espresso da tay^ta´ (se questa è la lettura e la grafia da adottare). Per quanto riguarda la cosa e la cronologia assoluta, il proverbio dice espressamente: ‘le Delie (isopitiche!) che farai, sono comunque le ultime’ (infatti poco dopo Policrate muore). Ma l’efficacia emozionale della frase risalta anche meglio, se ricorriamo a una traduzione in lingua moderna ; in particolare risulterà chiara ai lettori italiani (che immagino molto interessati alla discussione): ‘Per te le Delie (isopitiche) saranno le prime e le ultime’. Che siano le ultime, è quel che dicono i testi; ma esse sono anche le prime, perché sappiamo che Policrate opera una innovazione. Dal punto di vista del santuario delfico (profetico ed oracolare), riguardo alla data della morte di Policrate, era del tutto indifferente che egli scegliesse un nome o un altro (tanto, quanto a date, a cronologie, Pitiche e Delie sarebbero state la stessa identica cosa). ‘Queste o quelle per te pari son’, abbiamo sopra (p. ) chiosato, adattando al responso della Pizia le celebri parole del duca di Mantova nel verdiano Rigoletto. Non c’è il minimo dubbio: ) che il sono l’oggetto di poih´santa açma e∫n Dh´lvıi) ». E, complessivamente, siamo anche in grado di dire, quando furono celebrate le prime e ultime (perché uniche) Delie di Policrate, di poco anteriori alla sua morte.
domenico musti
tay^ta´ tra Pitiche di Delfi e Delie di Delo, corrisponda concettualmente a un
aggettivo tipo iso- (le Delie, ripeto, senza ombra di dubbio equivalgono ad una festa isopitica) ; e ) cosa che conta ancora di più, non c’è il minimo dubbio circa il fatto che questa identità attenga al tempo, cioè al periodo di tempo, in cui si verrebbero a celebrare le feste Delie di Policrate, nell’arco dell’anno pitico relativo. Che cosa si andrà ad obiettare ancora di fronte a questa trasparente testimonianza? I testi relativi ai Nikephoria, da me ampiamente discussi, permettono di capire senza difficoltà il senso della coesistenza di tratti penteterici duplici, esplicitamente nominati (isopitici ed isolimpici), che, sommati e incrociati insieme, determinano di fatto, non di nome, a Pergamo, la periodicità biennale dei Nikephoria, alla sola condizione che ∫isopy´&iow e ∫isoly´mpiow possano avere, in determinati, riscontrati e verificati casi, valore cronologico. Nello stesso momento in cui il valore anche cronologico di ∫isopy´&iow / ∫isoly´mpiow e sim., sia riconosciuto, l’‘embricazione’, cioè l’intreccio e inframezzamento degli agoni isopitici e di quelli isolimpici, segue immediatamente, per il semplice fatto che le penteteridi Olimpie e le penteteridi Pitiche erano fra loro, appunto, ‘sfasate’ (o, come si suol dire, ‘sfalsate’) di due anni. Per quanto riguarda poi le testimonianze relative ai Pythia/Delia di Policrate, esse non dimostrano necessariamente l’autenticità dell’oracolo, né che Policrate abbia così operato storicamente: ma evidentemente non è questo il problema che qui ci interessa. Ci interessa invece, e moltissimo, che la tradizione greca tarda, di provenienza ellenistica, attesti chiaramente una aspirazione greca ad imitare le feste panelleniche (quelle pitiche come anche quelle olimpiche o quelle nemee), uniformando le nuove feste imitatrici (a volte perfino emulatrici o concorrenziali) alle feste panelleniche prese a modello nei tempi oltre che nei tipi e nelle regole degli agoni. Chi legge i testi relativi, può solo concludere che la tradizione attribuiva a Policrate l’intenzione di istituire delle feste Delie ‘isopitiche’, e che questa isotes, ‘identità’, ‘medesimezza’, riguardava, nel caso di Policrate, specialmente e proprio l’aspetto temporale, circa il quale la Pizia commentava ironicamente: ‘puoi adottare il nome di Pythia o quello di Delia, ma i tuoi Delia e Pythia sotto l’aspetto temporale, che è quello che deve interessarti, sono la stessa cosa’: e quindi – è sottinteso – comunque tu non allontanerai il tempo della tua morte. Infatti, commenta la tradizione paremiografica, ‘poco dopo Policrate morì’. La morte ebbe luogo nel / a.C., punto di concomitanza cronologica tra le imitate Pitiche e le emule ed imitatrici Delie di Policrate, che sono isopitiche in termini cronologici, cioè latamente (ma non troppo vagamente) sincrone con le Pitiche. . Anche nella costruzione del grandioso acquedotto, come per tanti altri aspetti, Policrate ebbe fortuna, e una ‘fortuna sfacciata’ fu, come sottoli-
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neano le fonti, la caratteristica (pregio, ma anche colpa, e quindi fatale condanna) della tirannide di Policrate. È celeberrima la storia dell’anello gettato in mare, ingoiato da un pesce, e restituito al tiranno da un pescatore, a™liey´w (ci son sempre dei pescatori sulla strada di Policrate). Il verbo ey∫tyxei^n (e termini collegati: ey∫tyxi´a, ey∫tyxi´ai ecc.) risuona quasi ossessivo, nel logos di Erodoto : al cap. del iii libro ricorre volte in righe ; e persino inframezzato, per la buona misura, da un ey® pra´ssein ! Come se non bastasse, ai capp. e Erodoto riprende il ritornello, con l’ey∫tyxe´vn ta` pa´nta del sinistro presagio di Amasi, secondo il quale ‘oy∫k ey® teleyth´sein me´lloi Polykra´thw ey∫tyxe´vn ta` pa´nta, oÇw kai` ta` a∫poba´llei ey™ri´skei’ (‘sarebbe finito male uno a cui andava tutto bene, così fortunato in tutto da ritrovare persino le cose che gettava via’!). E, al cap. , anche una notizia su un evento militare, come la spedizione degli Spartani contro la Samo di Policrate, si presenta così nel testo erodoteo (iii ,) : e∫pi` toy^ton to`n Polykra´thn ey∫tyxe´onta ta` pa´nta e∫stratey´onto Lakedaimo´nioi, e∫pikalesame´nvn tv ^ n meta` tay^ta Kydvni´hn th`n e∫n Krh´tW ktisa´ntvn). Dunque, ripetitività ossessiva e paradigmatica della frase della ‘fortuna sfacciata’ (ey∫tyxei^n ta` pa´nta) ; e però anche una op-
posizione al tiranno, che qui è opposizione dei Samii che vanno in esilio e fondano Cidonia a Creta (Chanià), così come della tirannide di Policrate è vittima, e da essa indotto all’esilio, Pitagora, nobile, ricco, saggio. Da Policrate di Samo, dunque, l’opposizione ‘scappa’, perché, diremmo con il linguaggio politico moderno, a Samo ‘non c’era spazio per le mediazioni’, come ve n’era invece ad Atene. E sull’ey∫tyxei^n di Policrate, mi si permetta di fare una considerazione, che è poco più di una battuta: sarebbe stato comunque facile individuare in Policrate il soggetto storico del Papiro Heidelberg , anche se per caso si fosse conservata solo la l. della col. ia, che finisce, fortunatamente appunto, con ty´rannow ey∫tyxe´vn : già questo finale, fortunosamente conservato, della frammentaria l. della i colonna a, avrebbe permesso di identificare con certezza il personaggio in Policrate. Ma poiché le fortune di Policrate non finiscono mai, ecco che nella col. iia del papiro, per sopraggiunta, leggiamo Polykra-, alla l. , e «Oroi´tW, alla l. . Non c’erano ostacoli all’identificazione ! Università di Roma “La Sapienza”
P O L I C R A T E D I S A M O E L’ A R C H E T I P O T I R A N N I C O Carmine Catenacci « P o l i c r a t e – si legge in Erodoto (iii , ) – morì malamente, in modo indegno di lui e dei suoi pensieri perché, se si escludono i tiranni di Siracusa, nessun altro dei tiranni greci è degno di essere paragonato a Policrate per magnificenza (megalopre´peia) ». La tirannide di Policrate a Samo termina tragicamente nel a.C. Controversa è la datazione dell’ascesa al potere. La data tradizionale, cioè la fine degli anni ’, è stata più volte messa in discussione. Validi argomenti inducono a far risalire gli inizi della tirannide ai primi anni del decennio e anche a non escludere un ruolo egemone di Policrate, da solo o con la sua famiglia, già tra il e il . Dai primi decenni del vi secolo Samo vive un periodo di prosperità. Al vertice della gerarchia sociale vi sono le famiglie dei possidenti di terre (i gevmo´roi), ma la fortuna di Samo, già impegnata nel moto di colonizzazione e dotata d’una notevole flotta, è sul mare. Commercio e pirateria costituiscono le attività economiche più importanti e remunerative. Samo è la più orientale delle isole greche. Dista solo un paio di chilometri dalla costa micrasiatica di cui è un frammento geologico. Nel precario equilibrio tra grecità e potenze orientali si decidono l’autonomia e la fortuna di Samo. In questo contesto s’inserisce prepotentemente Policrate, talassocrate audace, principe pirata e munifico, ‘molto potente’, come il nome stesso avverte. Un personaggio influente nella storia e nella cultura greca dell’ultimo passaggio dell’arcaismo. Oltre che dalla flotta imponente e moderna, il predominio sui mari gli è procurato da un’abile politica opportunistica tra le principali potenze del Mediterraneo, sino all’inevitabile caduta nelle mani dei Persiani. A Samo una politica popolare e antiaristocratica, insieme con un cospicuo apparato militare, gli garantiscono il potere interno. Ma la figura di Policrate interagisce con un paradigma storico-culturale complesso e fecondo : il fenomeno delle tirannidi. Le tirannidi arcaiche e tardo-arcaiche rappresentano, come mostrano i primi tentativi di sistemazione in Aristotele, un fenomeno vario e articolato sia nelle cause determinanti sia nelle manifestazioni concrete. Fattori locali s’innestano su dinamiche sociali ed economiche di portata più ampia. Le testimonianze a nostra disposizione sono per lo più disorganiche ed eterogenee, scarne in relazione alla complessità del fenomeno. Tuttavia le tirannidi arcaiche e tardo-arcaiche risultano, già dalle prime testimonianze e nella coscienza dei Greci, . Mitchell : ss. ; Shipley : ss. ; Musti : ai quali si rinvia, insieme a Berve : ss. ; ss., per gli approfondimenti storici sulla tirannide di Policrate.
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come una realtà omogenea: a livello di quadro storico, di lessico e di azione politica, di immaginario collettivo e di autorappresentazione da parte degli autocrati stessi. Nella prima parte di questo intervento, ripercorreremo le testimonianze sulla vita di Policrate e delineeremo una sua biografia. Una biografia che, pur nella sua evidente singolarità storica, presenta una fitta trama di analogie non solo con la carriera di altri tiranni, ma anche con il curriculum vitae dell’eroe del mito. Discuteremo quindi il senso e le ragioni delle vite parallele di tiranni ed eroi con specifico riferimento a Policrate. È evidente che non ci si propone un’indagine di carattere preminentemente storico, ma piuttosto la ricostruzione di un modello storico-culturale, che tuttavia è espressione di quelle realtà storiche e rappresenta un aspetto essenziale delle tirannidi, di ciò che esse davvero furono, come si proposero e vennero recepite nella Grecia arcaica e classica. In grandissima parte le testimonianze di cui ci serviremo sono attinte dalle Storie di Erodoto che, com’è noto, soggiornò a Samo e che si occupa di Policrate in due sezioni del terzo libro (-; -). Le scarse notizie d’epoca successiva confermano il quadro erodoteo, con alcune forzature e anacronismi. Vividi squarci contemporanei sulla Samo di Policrate sono aperti dalla poesia lirica, in particolare dai frammenti di Anacreonte. Il racconto di Erodoto comincia con il riferimento assai conciso alla presa di potere. Policrate figlio d’Eace, afferma Erodoto (i ,), conquistò Samo con una rivolta (e∫panasta´w). Polieno (i ,) più diffusamente narra che Policrate s’impadronì del potere approfittando di una festa alla quale i Sami partecipavano in armi, presso il tempio di Era Pandemos, cinque chilometri circa a ovest fuori delle mura cittadine. Alla fine della processione, Pantagnoto e Silosonte, armati fino ai denti secondo il piano del fratello Policrate, uccidono i cittadini che hanno deposto le armi per compiere i sacrifici, mentre Policrate con alcuni uomini occupa le zone strategiche della città; quindi, anche grazie ai rinforzi giunti da Ligdami tiranno di Nasso, fortifica l’acropoli chiamata Astipalea. Una versione dei fatti cui si allude anche in Erodoto (iii ,) quando Mitrobate afferma che Policrate s’impossessò di Samo con soli quindici opliti. Intelligenza e violenza, le due componenti essenziali d’ogni abilitazione al potere, si fondono in quest’episodio insieme con altri due motivi ricorrenti in diversi Putsch tirannici : il disarmamento dei cittadini e la conquista del potere durante una cerimonia pubblica sacra. Un elemento che in alcune tradizioni può sottolineare piuttosto convenzionalmente l’empietà fraudolenta del gesto, ma che costituisce anche una realtà storica. Una festa cittadina è . Cfr. p. es. Amfitre a Mileto (Nic. Dam. FGrHist F ) o Falaride ad Agrigento (Polyaen. Strat. v ,).
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l’occasione concreta più propizia per un colpo di mano. Non suggerisce forse la Pizia a Cilone, secondo Tucidide (i , ss.), di conquistare la tirannide di Atene durante la più grande festa di Zeus ai cui sacrifici gli Ateniesi partecipano in massa ? L’assassinio di Ipparco alle Panatenee per mano di Armodio e Aristogitone rappresenta per i tiranni una prova al contrario. È naturale che Policrate, alla pari di altri autocrati, occupi subito l’acropoli, il cuore militare e religioso della polis. Giunto al potere, egli governa secondo il perfetto stile tirannico. Manda in esilio e prende ostaggi, vive ‘nel sangue e nell’aver di piglio’. Policrate si sbarazza dei cittadini più pericolosi col pretesto di inviare una flotta a sostegno di Cambise (Hdt. iii ). Quando poi Samo è attaccata dai ribelli, raduna nelle darsene come ostaggi i figli e le mogli dei cittadini minacciando di bruciarli con tutte le darsene, se gli uomini fossero passati dalla parte dei nemici. Policrate non risparmia neppure i suoi fratelli. Dapprima divide il potere di Samo in tre parti uguali con Pantagnoto e Silosonte, ma in un secondo momento si disfa del primo uccidendolo, del secondo cacciandolo dall’isola. L’assenza di scrupoli è pari soltanto alla fortuna. In poco tempo subito s’accrebbero gli affari di Policrate. Tutta la Grecia ne parlava. «Ovunque indirizzasse le sue spedizioni – scrive Erodoto (iii ,) – tutte gli riuscivano felicemente ». Aveva, tra le altre cose, cento penteconteri, mille arcieri e una moltitudine di mercenari. Una poderosa macchina da guerra e da pirateria che gli consentì di dominare Samo, spadroneggiare sul mare, occupare isole e città sulla terraferma, uscire vittorioso da battaglie difficili. Sconfigge i Milesi e i loro alleati lesbi. Il tiranno in persona guida la sortita delle sue truppe contro gli Spartani che stanno scalando le fortificazioni di Samo e alla fine ha la meglio sulla spedizione spartano-corinzia respingendo definitivamente gli oppositori interni. È amico e alleato dei più potenti autocrati del Mediterraneo, di Amasi re d’Egitto e poi, con un disinvolto capovolgimento di alleanze, di Cambise re di Persia, ma anche di Arcesilao iii di Cirene, di Pisistrato e di Ligdami. Un’impeccabile progressione carismatica che, come vedremo, giunge a compimento con l’ignominiosa fine. Alla forza Policrate combina, come già si è visto in occasione della presa di potere, l’astuzia. Per allontanare da Samo i suoi avversari, invita Cambise a chiedergli truppe per la spedizione contro l’ex-amico Amasi. Alla richiesta . Per Pisistrato vd. Hdt. i ,; ,; Aristot. Ath. Pol. ,; Plut. Sol. ,; a Cilone la Pizia dice di conquistare l’acropoli durante le più grandi feste di Zeus (Thuc. i ,) ; l’acropoli è infine occupata da Anassila di Reggio (Dion. Hal. xx ,) e da Falaride (Polyaen. Strat. v ,). . Come accade anche ad altri tiranni, come Clistene di Sicione secondo Nicolao di Damasco (FGrHist F ). . Sull’eccezionale, quasi ‘leggendaria’, talassocrazia di Policrate si veda, oltre ai vari passi in Erodoto (spec. iii ,; cfr. infra, p. ), Thuc. i ,; iii ,. . Hdt. iv ,; ,; ,.
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ufficiale del Gran Re, Policrate allestisce quaranta triremi, vi imbarca coloro che maggiormente sospetta di ribellione e raccomanda a Cambise di non farli tornare mai più. Costoro però si ammutinano e chiedono l’aiuto degli Spartani che organizzano una spedizione contro Samo. Secondo una versione vulgata che Erodoto (iii ,) ritiene alquanto inconsistente, dopo alcuni scontri e quaranta giorni d’assedio, Policrate convince gli Spartani a ritirarsi mediante uno stratagemma. Fa battere una grande quantità di monete locali in piombo e le ricopre d’oro. In cambio di questo denaro gli Spartani lasciano l’isola. Ma per una sorta di contrappasso, va notato, lo stesso Policrate cadrà nell’inganno mortale che gli tende Orete: otto casse piene di pietre ricoperte da un sottile strato d’oro (iii ). Questa versione del ritiro spartano gioca su elementi tradizionali: da un lato la scarsa dimestichezza degli Spartani con le ricchezze; dall’altro la scaltrezza del tiranno e la sua facilità di produrre ricchezze, compresa l’attività di coniazione. Ma si dà il caso che monete di piombo ricoperte d’elettro siano state effettivamente rinvenute a Samo e datino proprio a quel periodo. Comunque si voglia intendere il racconto, è verosimile che la partenza degli Spartani da Samo avvenga grazie a un accordo e a un riscatto. Nell’azione di rapina Policrate non aveva eguali. Depredava tutti senza distinzioni, nemici e amici. Era solito dire che a un amico si fa cosa più gradita restituendogli ciò che gli si è portato via piuttosto che non prendendogli nulla. Una massima spregiudicata e ironica che richiama l’inclinazione all’aforisma di suoi colleghi come Periandro di Corinto o il ‘tiranno elettivo’, per riprendere la terminologia di Aristotele (Pol. a), Pittaco. Policrate risponde a una particolare e inquietante tipologia storica cui appartengono più tiranni : quella di personalità tanto efferate e sinistre quanto culturalmente competenti e raffinate. Il tiranno samio si circonda d’ogni preziosità. Alla sua morte, il reggente Meandrio dedica nel tempio di Era l’arredo dell’appartamento degli uomini di Policrate: oggetti «degni di essere visti » li definisce Erodoto. Tra i suoi tesori Policrate preferiva, come testimonia il noto racconto erodoteo (iii ,), un anello sigillare d’oro e smeraldo, opera dell’artefice Teodoro di Samo. Le testimonianze successive insistono sulla tryfh´ : lusso ovvero lussuria. Secondo Clearco (fr. Wehrli), Policrate riempie la Grecia d’ogni piacere lascivo e di cibi afrodisiaci che inducono alla sensualità e all’incontinenza. Emulando i malaka´ lidi, fa allestire a Samo un angiporto chiamato Laura, un bazar potremmo dire, dove viene esercitata la prostituzione. La sfrenatezza (a∫kolasi´a) lo conduce alla rovina. . Barron : ; cfr. Asheri : . . Hdt. iii ,; cfr. Diod. Sic. x ,; Polyaen. Strat. i ,. . Per le altre testimonianze, oltre il già citato Clearco, vd. Berve : .
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La corte di Policrate è circolo raffinato ed elitario, non indipendente dagli umori volubili del tiranno. Esemplare l’episodio riferito da Erodoto (iii ). Il messo del governatore persiano Orete fu introdotto presso Policrate. Lo trovò disteso nell’appartamento degli uomini e con lui vi era anche Anacreonte ; ma il tiranno samio, che in quel momento era girato verso la parete, non degnò il messaggero persiano né d’uno sguardo né d’una parola. Nei simposi di Policrate (e poi d’Ipparco ad Atene) trova il suo contesto più fertile e consono la poesia di Anacreonte, elegante e arguta, urbana e ironicamente realistica. Secondo la testimonianza di Strabone (xiv = Anacr. test. Gent.), Anacreonte visse in comunione con Policrate che era spesso ricordato nei suoi versi. Purtroppo quasi nulla resta della poesia politica; si segnala il brevissimo frammento in cui vengono nominati «i my&ih^tai che occupano la città sacra» (fr. Gent.). I versi superstiti di Anacreonte riflettono l’atmosfera ricercata e gaia del simposio tirannico, «luogo della professionalità» e «di uno svago quasi quotidiano ». Estetica della charis e slancio erotico, assecondati dall’ebbrezza di Dioniso e dai dolci ritmi delle canzoni ioniche, ispirano situazioni e spirito della festa simposiale. Presenza dominante è, per riprendere le parole di Anacreonte, «il molle Eros / ricolmo di ghirlande fiorite » (fr. Gent.). Elencando le importazioni di Policrate, Alessi di Samo (FGrHist F ) si meraviglia che da nessuna parte sia registrato che egli abbia fatto venire molte donne e molti fanciulli per i quali ardeva. Vivaci figure di etere popolano i carmi di Anacreonte. Ma la sua poesia è animata soprattutto da suggestioni omoerotiche : gli occhi di Cleobulo, la grazia di Batillo, il carattere di Megiste, i capelli di Smerdies. Con arte leggera la voce di Anacreonte rimodella pensieri e valori, esperienze e gusti condivisi dai suoi compagni di simposio e in particolare dallo speciale ospite. Secondo le testimonianze di Massimo di Tiro, Ateneo ed Eliano, il tiranno e il poeta giunsero ad amare lo stesso fanciullo, il trace Smerdies. L’uno lo onorava con oro e argento in profusione; l’altro con i canti. In un accesso di gelosia e d’ira Policrate fece tagliare le morbide chiome del ragazzo, ma prudentemente e non senza ironia Anacreonte attribuì il riprovevole atto allo stesso Smerdies. Non sappiamo fino a che punto queste notizie siano originali o autoschediastiche (due frammenti anacreontei biasimano il taglio d’una morbida chioma), ma certo sono indicative della fama di sensualità estrema che circondava la corte samia, oltre che segnalare l’eros irrequieto del tiranno. Anche Ibico di Reggio giunse a Samo e fu in rapporti con Policrate. Sono . Per l’interpretazione del frammento e una rassegna dei brani anacreontei con possibili riferimenti politici cfr. ora Vetta . . Vetta : . . Max. Tyr. , (cfr. ,; ,; ,; ,) ; Athen. xii e ; Ael. V.H. ix . . Frr. e Gent. Vd. Gentili : ss.
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oggetto di discussione la datazione del soggiorno e l’identità del bellissimo giovinetto Policrate che Ibico canta nel celebre encomio a lui attribuito. L’ipotesi più plausibile e nel complesso più aderente alle testimonianze antiche è quella che colloca l’arrivo di Ibico nella liv Olimpiade (tra il e il ) e che individua nel laudandus il futuro tiranno ancora ragazzo. L’ode sarebbe stata commissionata dal padre, maggiorente della comunità samia e probabilmente membro di una famiglia che, a fasi alterne e per periodi piuttosto brevi, aveva già esercitato un potere assoluto. A proposito di altre ipotesi e in particolare dell’idea che l’encomio sarebbe destinato a un omonimo figlio del tiranno, mi risulta davvero difficile credere che Erodoto, così addentro alle cose samie, non menzioni mai questo figlio giovinetto di Policrate, tanto più che ne ricorda invece una figlia e che non nomina il ragazzo neppure a proposito della successione a Policrate della quale riferisce in dettaglio i vari passaggi da Meandrio (Licareto e Carilao) a Silosonte ed Eace II. Né, per inciso, posso credere che Erodoto sbagli il nome del padre del tiranno: Eace piuttosto che l’omonimo Policrate citato dalla Suda. Policrate non dovette trascurare neppure l’epica, genere poetico di ampia risonanza pubblica. Con ogni probabilità l’Inno omerico ad Apollo, come hanno mostrato Walter Burkert e Antonio Aloni, viene composto in occasione della panh´gyriw organizzata da Policrate a Delo nel /. Autore dell’Inno è, secondo la testimonianza dello scolio (c) alla seconda Nemea di Pindaro, Cineto di Chio, rapsodo di grande fama e figura centrale della tradizione omerica alla fine del vi secolo a.C., che Policrate avrebbe dunque chiamato al suo servizio. Dell’Inno ad Apollo, com’è noto, esistevano in età arcaica due redazioni scritte. La storia delle origini e dei rapporti tra i due testi è complessa, ma qui è sufficiente notare che la trascrizione di uno di questi testi è molto verosimilmente da connettere con l’occasione delle feste deliopitiche volute da Policrate. E non sorprende. Perché, come per i Pisistratidi, l’uso della scrittura e l’attività di uno scriptorium sono tratti caratterizzanti della corte del tiranno samio. Policrate ha uno scriba ufficiale (grammatisth´w), Meandrio, che è suo uomo di fiducia e al quale affida la reggenza. La celebre storia dell’anello è scandita dalle lettere che Policrate e Amasi si scambiano : una linea diretta e riservata tra il tiranno di Samo e il re d’Egitto. È sintomatica infine, sebbene da intendere non proprio alla lettera, la notizia che fa di Policrate e di Pisistrato i primi possessori di biblioteche (Athen. i a). . Sulla questione vd. il saggio di P. Giannini, Ibico a Samo, supra, pp. -. . Burkert ; Aloni . . Cfr. anche la notizia del Certam. Hom. Hes. - Allen ; per un’introduzione all’intricata questione cfr. Cassola : ss. ; Gentili : ss. . In Erodoto i messaggi scritti sono attribuiti quasi esclusivamente, come forma criptica e un po’ esotica di comunicazione, ad ambienti autocratici; cfr. Catenacci : e n. .
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A Samo presso Policrate convengono personalità della poesia e dell’arte, ma anche della scienza e della tecnica. Dietro l’esorbitante compenso di due talenti Policrate riesce a strappare alla concorrenza il crotoniate Democede, di gran lunga il migliore medico del tempo. Alla sua corte, alla maniera dei Pisistratidi di Atene, sono presenti più indovini (Hdt. iii , ) e uno di questi, di origine elea come altri illustri manteis, lo segue nel viaggio fatale a Magnesia (iii , ). Artefici e ingegneri eccellenti, come il megarese Eupalino, sono attivi a Samo in quegli anni e realizzano un imponente piano di edilizia pubblica. Aristotele (Pol. b) parla di e¢rga Polykra´teia. Al termine del primo logos policrateo, dal canto suo Erodoto (iii ) ricorda – senza attribuirle espressamente al tiranno – tre opere dei Sami che sono le più grandi di tutta la Grecia: l’imponente molo, profondo anche venti orge e lungo più di due stadi; il tempio di Era, il più grande che Erodoto abbia mai visto, il cui progetto originario risaliva all’architetto Roico; la galleria di Eupalino, opera ingegneristica davvero all’avanguardia tecnica, che taglia il colle Ampelos per oltre un chilometro e al cui interno passa l’acquedotto che rifornì Samo per più di mille anni sino in epoca bizantina. La precisa datazione delle grandi opere samie e il loro rapporto con Policrate sono stati, negli ultimi decenni, argomento controverso di dibattito. Si può tuttavia concludere che la documentazione storico-archeologica sostanzialmente conferma la realizzazione (inizio e/o completamento) di queste opere negli anni dell’egemonia di Policrate, in linea con la notevole crescita materiale e culturale attestata a Samo già dai primi decenni del vi sec. a.C. Al di là delle tre meraviglie samie, al tiranno vengono ascritti il quartiere portuale Laura e il fossato che circonda le fortificazioni di Samo alla cui costruzione furono costretti i prigionieri di guerra lesbi in catene. È probabile che realizzi un originario progetto di Policrate anche la galleria segreta che dall’acropoli conduceva direttamente al mare (forse in relazione col tunnel di Eupalino) e che fu utilizzata dal suo successore Meandrio per fuggire da Samo (Hdt. iii , ). A distanza di secoli, infine, tra i suoi progetti eccezionali Caligola si propone di ricostruire il palazzo di Policrate (Suet. Cal. ). Quasi una sfida civilizzatrice alla natura. Il passaggio di Policrate lascia segni sul paesaggio di Samo. Nuove costruzioni intervengono sul mare, la terra, gli spazi sacri. Elementi primari della natura come l’acqua sono controllati e largiti alla comunità. L’acqua, alla pari della fecondità e della ric. Sebbene proprio a causa della sua tirannide, secondo le fonti antiche (rassegna in Berve : ), Pitagora lasci Samo. . Shipley : ; Tölle : -. . Sulle caratteristiche tecniche del tunnel si può vedere ora Kienast che tende però a datare l’opera prima di Policrate. . Mitchell ; Shipley ; diversamente Barron . . Hdt. iii , ; sul quartiere ‘bazar’ Laura vd. supra, p. .
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chezza della terra, rientra tra le prerogative regali. Fontane e acquedotti rappresentano un impegno costante dei tiranni (Teagene a Sicione, Pisistrato, Policrate). Non mancano, a quanto pare, innovazioni zootecniche. Policrate, come informano Alessi (FGrHist F ) e Clito ( F ), fa venire cani dalla Molossia e dalla Laconia, capre da Sciro e Nasso, pecore da Mileto e dall’Attica, suini dalla Sicilia. Un’importazione cui probabilmente corrisponde lo sviluppo di attività produttive se si considera che le capre di Sciro erano rinomate per il latte e le pecore di Mileto per la lana, ma che addita anche un sontuoso stile di vita: cani da caccia, cibi squisiti, tessuti pregiati. Policrate rinnova Samo. I tiranni sono una sorta di prv^toi ey™retai´. «Primo della generazione umana », dice Erodoto, Policrate domina il mare. «Per primo », sottolineano altri, fa costruire un nuovo tipo di navi che battezza Samainai e che probabilmente rappresentano una delle ragioni dei suoi successi sul mare. Policrate conia monete. Istituisce leggi popolari come quella che affida ai ricchi il mantenimento delle madri dei caduti in guerra (Duride FGrHist F ). Fonda agoni e sponsorizza feste religiose. In un carme di Anacreonte (fr. Gent.) si celebravano i sacrifici di Policrate alla dea di Samo, Era. E Tucidide ricorda lo spettacolare gesto di Policrate che, signore del mare e di tutte le isole, quando conquistò l’isola di Renea, la dedicò ad Apollo legandola alla vicina Delo con una catena in occasione della solenne celebrazione panionia del /: una cerimonia che marca il primato sulle Cicladi e sul mondo ionico. L’attività di fondazione culturale s’incrocia con la sfera sacra. Strumento privilegiato di mediazione tra il divino e la storia, la religione e la politica, il sacro e il sacrilego è la mantica. Non esiste carriera eroica che non segua il ritmo di predizioni e segni soprannaturali. L’indegna morte di Policrate è preannunciata in più modi. Nei giorni in cui il tiranno prepara il viaggio fatale per Magnesia, sua figlia sogna che il padre, sollevato in aria, è lavato da Zeus e unto dal sole (Hdt. iii ). La ragazza, insieme con indovini e amici, scongiura il tiranno di non partire. Ma Policrate trascura queste preghiere, accecato dalla false promesse di Orete e dalla fame abnorme di ricchezze. D’altro canto, non va taciuta, credo, una qualche consueta ambiguità del segno premonitore: l’essere sollevati in alto, Zeus e il sole rappresentano, in altri casi, simboli della semiotica divinatoria del potere. Tuttavia nel caso di Policrate, come una Cassandra di Samo, ha tristemente ragione la figlia. Il tiranno realizza il sogno morendo crocifisso e quindi sollevato in alto, lavato . Vd. Petre : s. . Duride FGrHist F ; Alessi F ; Plut. Per. ; Sud. s.v. Sami´vn dh^mow ; Phot. s.v. Sa´maina ; Hesych. s.v. Samiko`w tro´pow. . Thuc. iii ,; i ,. . Cfr. Catenacci : e n. .
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dalla pioggia di Zeus e unto dagli umori che il corpo, esposto al sole, produce. Erodoto indugia su un elemento peculiare. Nelle insistenti preghiere al padre affinché non parta, la figlia di Policrate ripete i suoi funesti presentimenti sino all’imbarco. Infastidito, il tiranno minaccia la ragazza di farla restare, al suo ritorno, senza marito per lungo tempo. Ma la figlia risponde che ciò le sarebbe piaciuto. «Avrebbe preferito restare vergine (par&eney´es&ai) a lungo piuttosto che essere privata del padre». Un esempio di devozione filiale che assume la forma specifica della rinuncia alla realizzazione sociale della propria femminilità e che richiama altre specifiche storie, come quella della figlia di Periandro, caratterizzata da un fortissimo attaccamento al padre. Né mancano stringenti riscontri nelle saghe mitiche di potere, come mostrano le personalità di eroine quali Antigone ed Elettra. È quanto meno singolare che, in due delle rare occasioni nelle quali Erodoto descrive spaccati di vita familiare dei tiranni, risaltino due fanciulle come le figlie di Policrate e di Periandro, legate in modo esclusivo e assoluto ai rispettivi padri. Contraltare del rapporto strettissimo tra i tiranni e le figlie è la difficoltà o l’assenza di rapporti con la prole maschile. Se Periandro per esempio vede frustrati tutti i suoi sforzi di trasmettere il potere al figlio Licofrone (Hdt. iii ss.), Policrate non ha figli maschi che gli succedano. È un dato storico l’impossibilità per i tiranni di arrivare alla seconda o terza generazione. La tirannide difficilmente si eredita. È il raro incrocio di qualità personali, situazioni di crisi e favore divino. I tiranni falliscono nella fondazione che più sta loro a cuore : una dinastia duratura. Come aveva previsto Amasi, era destino che una straordinaria fortuna come quella di Policrate finisse malamente, pro´rrizow, estirpata dalle radici (Hdt. iii , ). Torniamo alla mantica. Gli scoli al Pluto (v. ) di Aristofane citano come responso pronunciato a Policrate l’oracolo «Erano un tempo valorosi i Milesi », che è attestato anche nell’opera di Anacreonte (fr. Gent.) e che assume significato proverbiale a proposito «di coloro un tempo felici e ora caduti in disgrazia». Il chresmos è probabilmente da mettere in relazione, come già suggeriva Bowra , con la dura sconfitta inflitta da Policrate ai Milesi. E, se si considerano l’ampia diffusione e il valore proverbiale dell’enunciato, non escluderei la sua presenza in una raccolta cresmologica degli indovini alla corte di Policrate. È tramandato anche un vaticinio delfico per Policrate. Il tiranno samio ha intenzione di istituire a Delo gli agoni sacri ad Apollo. Non sa se chiamarli Deli o Pitici. Chiede consiglio ad Apollo delfico che replica «Per te saranno . Sulla figlia di Periandro vd. Hdt. iii ; cfr. Catenacci . . Bowra : . . Sud. p tay^ta´ soi kai` Py´&ia kai` Dh´lia = Parke-Wormell.
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sia Deli sia Pitici». Il senso del responso è, secondo i testimoni, scostante: per Policrate non c’è nessuna differenza perché di lì a poco morirà. Ma, come è stato notato negli interventi di Walter Burkert e Antonio Aloni, l’oracolo sembra avere un valore più pregnante. La menzione sia di Delo sia di Pito riecheggia le due componenti dell’Inno omerico ad Apollo composto, come si è visto, proprio in occasione della solenne festa patrocinata da Policrate a Delo in onore di Apollo. Un’ulteriore profezia del luttuoso destino che attende Policrate è nel celebre episodio dell’anello (Hdt. iii ss.). Amasi, re d’Egitto e suo amico, scrive al tiranno di Samo esortandolo a disfarsi dell’oggetto al quale è più affezionato. In questo modo Policrate, troppo fortunato e potente per non rischiare una rovinosa caduta, restaurerà l’equilibrio umano di gioie e dolori. Amasi sa che il dio è, secondo una formulazione divenuta proverbiale, f&onero´w. Con dispiacere immenso Policrate decide allora di gettare in alto mare, alla presenza di testimoni, un bellissimo anello sigillare, opera di Teodoro di Samo. Alcuni giorni dopo, un pescatore giunge alle porte del palazzo e chiede di essere ammesso alla presenza del tiranno: una prassi che ricorda le corti dei sovrani orientali. Il pescatore porta in dono un pesce di straordinarie dimensioni, degno – dice egli stesso – di Policrate, della sua potenza e, si potrebbe aggiungere, dei suoi rinomati banchetti. Il tiranno si compiace, promette una ricompensa doppia e invita a pranzo il pescatore che felice torna a casa. All’interno del pesce però i servi ritrovano l’anello. Che cosa ne sia dell’invito a pranzo e del pescatore non ci è dato sapere, ma sappiamo che Policrate informa Amasi del singolare accadimento con una lettera. Il re egizio comprende che Policrate, implacabilmente perseguitato dalla buona sorte, è destinato a una fine terribile e rompe i legami d’amicizia con lui. Neppure la morte atroce, pubblica e predestinata esaurisce la vicenda di Policrate. L’alternanza di esaltazione e abominio coinvolge anche il cadavere. Il suo corpo senza vita, già segnato da una morte tormentosa, è gettato in una fossa comune per poveri e malfattori. Ma, per concludere l’avventurosa storia del tiranno di Samo con le parole di Erodoto (iii , ), poco tempo dopo la morte, la vendetta di Policrate raggiunse Orete che aveva concepito un’azione tanto empia e orribile. Questa la vita di Policrate. Ma la sua carriera, come già accennato, non è unica né senza paralleli. Essa condivide eventi, passaggi e strutture con altre . Il gesto è stato interpretato anche in chiave rituale: alla rassegna di Asheri : s. (matrimonio col mare, ordalia idromantica, sacrificio di consultazione) si possono aggiungere Gernet : ss. ; Burkert : (potlatch) ; Vilatte (ordalia truccata). . Non va tuttavia omesso che in realtà fu Policrate probabilmente ad abbandonare l’amicizia di Amasi in favore di Cambise. . Fulgent. Exp. Serm. Ant. , = [Stesimbr.] FGrHist F .
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carriere tiranniche. Le vite dei Cipselidi, dei Pisistratidi, degli Ortagoridi e di Policrate, per citare solo i nomi più noti, sono accomunate da una serie cospicua di analogie biografiche e comportamentali i cui motivi essenziali si possono così schematicamente riassumere: predestinazione ; infanzia marginale e fatidica ; prova di accesso al potere e omicidio di consanguinei; matrimonio importante (solitamente con esito sventurato per la moglie); abnormità erotica; violenza, cupidigia e istintualità cieca, ma anche intelligenza e capacità benefiche straordinarie; successi carismatici e funzione di giustiziere ; innovazioni tecniche e promozione culturale; attività civilizzatrice e di fondazione; rapporto diretto con la divinità, prima di esaltazione, poi di annientamento ; legame marcato con le figlie ; difficoltà o assenza di relazione con la prole maschile; morte eccezionale e sorte del cadavere; influssi anche dopo la morte. Ora, non si può non cogliere la puntuale corrispondenza di questo profilo esistenziale col dossier biografico degli eroi del mito, in particolare dei miti di regalità, degli eroi che conquistano e detengono il potere; Edipo è l’esempio più rappresentativo. Importanti studi hanno bene illustrato come gli elementi costitutivi di un certo numero di miti (Zeus, Perseo, Edipo appunto e altri) individuino il curriculum di abilitazione e ascesa al potere. Un archetipo che annovera celebri modelli orientali (da Sargon a Ciro il Grande) e illustri omologhi in altre culture mediterranee (Mosè, Romolo, ecc.). Alla peripezia del mito del conquistatore il tiranno arcaico associa il tratto morfologico che, secondo la fondamentale analisi di Angelo Brelich, connota l’eroe greco : la dismisura e il bifrontismo, l’eccesso nel bene e nel male, nel senno e nella violenza, nella fortuna come nella sventura. Il doppio, l’ombra che ogni luce proietta, è intuizione centrale della civiltà greca. Ma le vite dei tiranni costituiscono un’ipostasi del mito del conquistatore nella realtà della Grecia antica. Strutture tradizionali e variabili storiche cooperano. Non c’è né potrebbe esserci uniformità assoluta. L’archetipo non è ancora stereotipo. È un batterio vivo della storia e dell’immaginario. Le strutture originarie devono adeguarsi alla realtà storica del singolo tiranno e del suo tempo ; dipendono poi dalle ragioni e dai percorsi selettivi della tradizione. In un cursus quale quello di Policrate, colpisce per esempio il silenzio sull’infanzia. È probabile che il silenzio derivi, oltre che da una possibile realtà storica, dal posto che le vicende di Policrate occupano nell’economia delle Storie di Erodoto: un apologo sul ciclo delle fortune umane, che risulta piuttosto estraneo allo svolgimento storico dell’opera e che è costretto a riassumere sommariamente ciò che prelude alla fase di apogeo e rovina, . Per gli approfondimenti rimando a Catenacci . . Mi limito a menzionare Delcourt ; Binder ed Edmunds . . Brelich .
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tanto che alla fine Erodoto sente il bisogno di giustificarsi della prima digressione su Policrate (iii , ). Il tratto distintivo del tiranno di Samo è la favolosa fortuna, lo splendore e lo stile regale degni d’un principe d’oriente. Policrate è personalità di confine tra mondo greco e orientale. Interpreta perfettamente lo statuto ambiguo della tyrannis: il sogno segreto d’ogni greco «capace e ambizioso» per usare le parole di Jacob Burckhardt, ma anche il regno della più pericolosa eterodossia e dell’alterità barbara. La fortuna (caduca) di Policrate assume nella tradizione carattere esemplare. Una fortuna, quella di Policrate, totale, senza scampo, inevitabilmente effimera e infine dolorosa. «A lungo non dura la prosperità tra gli uomini/che è molta quando incombe col suo peso » afferma Pindaro (Pyth. , s.) in un’ode dai forti chiaroscuri proprio per un tiranno, proprio l’unico che Erodoto (iii ,) ritiene degno di confronto con Policrate, al capo opposto del mondo greco: Ierone di Siracusa. L’inusitata fortuna del tiranno, combinata con l’ignobile fine, assume valore esemplare della tragica parabola umana di successo e caduta. È la tragedia del potere. Il logos policrateo di Erodoto è un ainos al cui fianco può collocarsi per grandiosità solamente la vicenda di Creso, re della Lidia. La storia dell’anello di Policrate è intessuta di elementi del racconto tradizionale. Nel folklore diversi racconti narrano di cose perdute e poi ritrovate, magari all’interno di animali, o di tentativi falliti di sbarazzarsi di un oggetto. L’anello, oggetto magico per eccellenza, sigilla un atto del destino in combinazione con la natura. Natura che, se attraverso suoi elementi o intermediari come il mare o il pescatore può intervenire nel mito del conquistatore per salvare l’eroe (ad esempio Perseo), qui invece sancisce la fine del tiranno samio. Da questo retroterra folklorico tuttavia la storia di Policrate emerge in maniera distinta legandosi a personaggi e situazioni storiche. Erodoto, che pure interviene più volte nel logos samio con osservazioni di ordine storico-razionalistico, riferisce la storia dell’anello senza alcuna notazione. Quando entrano in scena i tiranni, il tono del racconto sensibilmente muta, si eleva: l’infanzia miracolosa di Cipselo (vi ss.), l’agone principesco per la mano della figlia di Clistene di Sicione (v ), l’anello di Policrate. Il patto narrativo tra narratore e pubblico sembra prevedere per i tiranni uno statuto speciale. Ma la storia dell’anello contiene elementi più precisi e significativi per il nostro discorso. L’anello gettato in mare, la presenza di testimoni e il valore ordalico del gesto, la riemersione inattesa dalle acque e la conseguente scon. . . . .
Burckhardt : . Traduzione di Gentili . Cfr. Aly : ss. ; Thompson : ; . Hyg. Fab. . Hdt. iii , ; , .
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fessione, la personalità autocratica: la storia di Policrate richiama quella di Minosse e della sua sfida con Teseo. Queste analogie, alle quali si possono aggiungere lo splendore della corte cretese, la presenza di un celebre artefice come Dedalo e l’orribile morte procurata con inganno in terra straniera, non sono arbitrarie. «Policrate, se si fa eccezione per Minosse, – dichiara Erodoto (iii ,) – fu il primo dei Greci a progettare il dominio dei mari ; e comunque fu il primo talassocrate della generazione umana». Tiranni ed eroi, storia e mito. Il tiranno Policrate è l’omologo umano del talassocrate eroico Minosse. Erodoto si trattiene a Samo tra il e il a.C. circa. Gli è dunque possibile incontrare anche testimoni diretti, anziani che, meno di sessant’anni prima, hanno vissuto in prima persona la fase finale della tirannide di Policrate. Tra le sue fonti principali figurano i membri delle famiglie aristocratiche con le quali è in rapporti d’ospitalità. Ma va senz’altro tenuta presente anche l’influenza di tradizioni demotiche che egli raccoglie mentre s’aggira curioso, come noi lo immaginiamo, per Samo. I caratteri più evidenti del logos samio nel suo insieme sono la dovizia d’informazioni e la consapevolezza critica. Erodoto cita più versioni d’uno stesso fatto, commenta e giudica l’attendibilità, integra e confronta i dati con notizie raccolte altrove (ad esempio a Sparta). L’atteggiamento di Erodoto e il contesto del v secolo a.C. supportano la fondatezza storica del ritratto di Policrate o quanto meno la sua costituzione e diffusione già nei decenni precedenti. Policrate fu tyrannos e amico dei Persiani. Dopo le guerre persiane e l’abbattimento degli ultimi tiranni della sua famiglia, l’ingresso di Samo nella sfera d’influenza ateniese e il prevalere dell’antitirannismo ideologico, difficilmente sarebbero stati attribuiti a Policrate imprese, grandezza e meriti che non fossero realmente suoi, tanto più dalle fonti aristocratiche di Erodoto a Samo che furono le sue prime vittime. La nozione di tirannide nella Grecia arcaica e classica ha molte facce. Alla fine di un processo di degenerazione semantica che passa soprattutto attraverso l’Atene democratica, la tirannide diventa, nella riflessione storico-filosofica del iv secolo a.C., sinonimo di usurpazione e sopraffazione, potere illegittimo e perverso. Un esito che s’impone nella cultura occidentale, ma che appiattisce la carica ambigua e suggestiva del termine per tutta l’epoca arcaica e parte di quella classica. Nelle valenze originarie ty´rannow indica chi detiene il potere assoluto, un potere straordinario e inopinato, estraneo agli equilibri oligarchici, isonomici e democratici. È voce neutra che può piegarsi . Sui caratteri tirannici di Minosse si veda Calame : ss. . Bacchyl. , ss. . Sulle fonti aristocratiche insiste Mitchell , mentre a tradizioni popolari pensa La Bua .
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tanto alla massima ammirazione quanto alla massima esecrazione, la prima soprattutto in ambiti popolari, la seconda di matrice oligarchica. Merita segnalare almeno cursoriamente che in Erodoto (iii ,) il pescatore si rivolge a Policrate con il vocativo basiley^. Il vocabolo ty´rannow non doveva risultare molesto se alcuni tiranni in Erodoto lo usano per autodefinire il proprio status e se Pindaro lo pronuncia in un contesto eulogistico per Ierone. Tuttavia non abbiamo attestazioni di apostrofi ad autocrati storici con il vocativo ty´ranne. Sebbene sia spesso impiegato come sinonimo di ty´rannow, basiley´w conserva un carattere più solenne e tradizionale e appare l’appellativo più consono per rivolgersi a un tiranno; d’altro canto è chiaro che l’uso di basiley´w in relazione a un tiranno non comporta di per sé che questi si sia ufficialmente fregiato dell’appellativo. Ty´rannow comunque non sembra titolo ufficiale, di corte. È parola d’uso, più efficace quando si vuole rimarcare la forza del potere. Diverse componenti concorrono alla formazione di ogni singola tradizione sui tiranni. È evidente innanzitutto il peso della propaganda (pro e antitirannica), ma non va dimenticato che la propaganda, proprio in quanto strumento di coinvolgimento e di persuasione, si fonda su modelli culturali profondamente radicati e condivisi e che la stessa propaganda promuove eventi reali o si trova a interpretarli. La realtà storica deve poi passare attraverso il filtro della tradizione orale, dei suoi canali e delle sue ragioni, attraverso le strutture del racconto. Un procedimento mitistorico di rappresentazione della realtà. Ma il cosiddetto ‘mito del tiranno’, così come sedimentato nei logoi erodotei, è – per la comprensione del fenomeno storico delle tirannidi – più utile e veridico di tante ricostruzioni successive, molto razionali, ma conformate su schemi anacronistici, spente, distanti dagli eventi e dalla loro percezione originaria. Il mito del tiranno rispecchia l’opinione comune d’età arcaica e, in parte, classica. Illumina il contesto nel quale collocare l’azione e le sorti di quest’eroe popolare. Testimonia forme ritualizzate della politica, più reali e diffuse di quanto spesso ci si renda conto. Il secolo d’oro di Samo, il vi secolo a.C., culmina nella tirannide di Policrate. La testimonianza delle grandi opere, il ricordo dell’egemonia marittima e dello splendore materiale e culturale restano vivi nella memoria collettiva. Su di essi la personalità di Policrate, luci e ombre, grandezza e miseria. Schizofrenica è stata definita, in una pregevole monografia su Samo, la tendenza delle fonti aristocratiche in relazione a Policrate. Una tendenza che . Hdt. iii ,; cfr. ,. . Pind. Pyth. , ss. ; cfr. ,. Altrove Pindaro usa anche basiley´w (Ol. ,; Pyth. ,; ; ,; ,). . Sulla semantica di ty´rannow vd. da ultimo Catenacci : ss. . Si vedano le belle pagine di Murray . . Shipley : .
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tuttavia torna evocata anche da altri nell’interpretazione di altre tradizioni tiranniche. Accanto alla pluralità dei punti di vista, in realtà, non va trascurata la natura intrinsecamente ed eroicamente ambigua della figura tirannica. Una figura di frattura più che di continuità, eccessiva e bifronte, tra esaltazione e maledizione, tra archetipi del potere ed episodi reali, al crocevia tra l’azzeramento violento del vecchio potere e l’introduzione di un nuovo ordine. Colui che crea, il fondatore, per parafrasare le parole di Friedrich Nietzsche, è anche colui che spezza le tavole dei valori, il criminale. Università di Chieti
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carmine catenacci Die antike Stadt Samos, Mainz . Il simposio: la monodia e il giambo, in G. Cambiano, L. Canfora, D. Lanza (a cura di), Lo spazio letterario della Grecia antica, i , Roma , -. Anacreonte e i cospiratori di Samo (fr. G.), «rccm» , , -. Idéologie et action tyranniques à Samos: le territoire, les hommes, «rea», , , -.
H E R A A SA M O Giovanni Casadio
I n principio era la Dea, nient’altro che la Dea. La storia di Samo, fin da prima dell’arrivo degli Ioni al tempo dei favolosi Lelegi, è indissolubilmente legata alla storia della dea Hera e al sorgere del suo culto nel litorale basso, sabbioso e paludoso, alla foce del fiume Imbraso nella parte sudorientale dell’isola, a Km dalla futura capitale Samos (odierna Pythagorion). Gli insediamenti e il culto sono attestati senza soluzione di continuità dalla seconda metà del ii millennio a. C. fino al Tardo Miceneo, e poi di nuovo, con la lacuna dell’oscuro sec. xi, nell’epoca geometrica ed arcaica fino all’epoca classica, seguita da una inesorabile decadenza. Il nome di Hera è inconfutabilmente attestato nelle tavolette in Lineare b di Pilo, precisamente in PY Tn v. : Era aurum vas mulier , associata a Zeus e al controverso Drimios. Non c’è dunque motivo di credere che anteriormente alla migrazione ionica (collocabile del resto in un’estesa fascia temporale dall’xi al ix secolo e, come sembra probabile, per nulla promotrice di una rottura culturale con la fase precedente) la divinità suprema dell’isola fosse un’oscura dea indigena alla quale si sarebbe sovrapposta in età storica l’indoeuropea Hera. Siccome le numerose fonti letterarie che decantano la fama e la grandiosità del tempio di Hera, salvo una che citeremo in extenso di seguito, dicono molto poco sulle origini e la storia del santuario, dobbiamo contare soprattutto sui risultati degli scavi archeologici, cominciati nel e proseguiti a tutt’oggi – a partire dal a cura dell’Istituto Archeologico Germanico d’Atene –, per farci un’idea della rilevanza del culto di Hera a Samo. . Kyrieleis : -; Shipley : - (che discute la questione della presenza dei Carii a Samo, precisando che di essa non esistono tracce archeologiche, mentre è indubitabile l’occupazione micenea fin dal xv secolo : ) ; Pötscher : , n. ; Moggi-Osanna : . . Gérard-Rousseau : -; Kerényi , trad. ingl. : ; Pötscher : -; Casadio : -. Per quanto riguarda Samo è da condividere il sintetico giudizio di Cassola : -: «le ricerche tedesche nello Heraion hanno portato a concludere che il culto greco di Hera, ricollegandosi a un precedente culto indigeno, si inizia in età micenea». . Hdt. i : dedica di un cratere spartano nell’Heraion; Id. ii , : il tempio di Samo è, insieme a quello di Efeso, il più insigne della Grecia, ma non è paragonabile al labirinto egiziano; Id. iii , : menziona l’Heraion come il tempio più grande della Grecia, costruito da Roico figlio di Fileo, indigeno di Samo; Id. iii , : Meandrio, segretario di Policrate, dedica alla dea i tesori del padrone trucidato e crocifisso dal satrapo Orete; Id. iv : l’architetto di Dario, Mandrocle, dedica a Hera un quadro celebrante il ponte di barche sul Bosforo; Id. iv : dedica da parte dei marinai samii di un cratere argolico con teste di grifoni e tre colossi di bronzo; Strab. xiv , (p. C) : il grande tempio all’epoca di Augusto è ormai senza tetto (hypaithros) e ridotto a a una pinakotheke¯, che ospita, oltre appunto a vari pinakes, statue colossali, tra cui quelle di Zeus, Atena ed Eracle, opera di Mirone; Paus. v , (cfr. v , ) : l’altare di Hera Samia è di cenere come quello di Zeus Olimpio; Id. viii , : l’agnocasto che cresce nel santuario di Hera a Samo è il più antico tra gli alberi considerati divini dai Greci, seguito dalla quercia di Dodona (Zeus) e dagli ulivi di Atene (Athena) e di Delo (Apollo).
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Al centro del culto e al centro del temenos stava in origine l’altare destinato ai sacrifici d’animali. Installato alla fine dell’età micenea (xi sec.), assunse dimensioni imponenti all’epoca del massimo fiorire del culto e della città di Samo ( a. C. circa): , x , metri (l’altezza era continuamente modificata dall’ammucchiarsi delle ceneri che non venivano, a quanto pare, rimosse dalla tavola sacrificale), e fu costantemente rinnovato fino all’età romana. Il primo tempio fu costruito nell’viii sec. a.C. (e rifatto nel vii) come un hekatompedos, lungo appunto piedi, equivalenti a m, e largo soltanto , m, con un vistoso rapporto di : tra la lunghezza e la larghezza. Tra il e il fu eretto il primo tempio dittero (cioè con un doppio recinto di colonne su tutti e quattro i lati) ad opera dei famosi architetti Roico e Teodoro. Fu il primo tempio ionico (e quindi il primo tempio greco in assoluto) a cercare di imitare le dimensioni gigantesche dei templi egiziani, in particolare il tempio di Ammone a Karnak, ben noto ai mercanti e mercenari samii che frequentavano la corte del faraone Amasis (-), con le misure seguenti : x , metri. Per cause naturali (terremoto o bradisismo) il tempio cominciò presto a crollare, e toccò al tiranno Policrate (che governò dal al a. C.) intraprendere la costruzione di quello che sarebbe stato uno dei più grandi monumenti dell’antichità e del quale ora resta solo una colonna monca svettante in mezzo alle rovine. Fu costruito utilizzando in parte la struttura preesistente ma spostando il centro più ad ovest, probabilmente per accentuare la distanza dall’altare monumentale, su una selva di colonne (almeno virtuali perché, in seguito alla progressiva decadenza delle fortune di Samo, il progetto non fu mai portato a termine) e con dimensioni veramente monumentali : , x , metri allo stilobate. In epoca romana (al tempo di Augusto: a. C.- d. C.) il simulacro e il culto della dea trovarono ospitalità in un tempio perittero di misure assai più modeste (, x , ), costruito in asse col vecchio hekatompedos e in stretta contiguità con il monumentale altare. Hera regnò in quel luogo fino alla fine del iv secolo, quando dovette cedere il suo posto a un’altra Vergine: una chiesa cristiana fu infatti immediatamente eretta sul posto utilizzando i materiali dell’Heraion. Il lavoro degli archeologi dura ormai da un secolo, attraverso il susseguirsi . Kerényi , trad. ingl. : -; Kyrieleis : -; Id. : . Non sorprendentemente, essendo Hera come Boopis ed Euboia eminentemente connessa col mondo bovino, le vittime più frequenti erano vacche (Hekatombaia: sacrifici di cento bovini). Seguivano a distanza pecore, maiali, capre e anche fauna selvatica come i cervi. La presenza di ossa di coccodrillo e di antilopi (Kyrieleis : ) e anche d’ippopotamo (Kyrieleis : , che fornisce una spiegazione diversa) sono una prova tra le tante della frequenza di rapporti con l’Egitto. . Kyrieleis : -; Id. : ; Shipley : . . Kyrieleis : -; Id. : e ; Shipley : . . Kyrieleis : -; Id. : ; Shipley : . . Kyrieleis : -; Id. : .
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di vari direttori degli scavi che rappresentano importanti tappe nella storia dell’archeologia tedesca in Grecia (Th. Wiegand, E. Buschor, E. HomannWedekind, H. Kyrieleis e, da ultimo, H. Kienast); ma le pietre sarebbero mute se, come sempre, non ci venisse in soccorso il santo protettore della storia dell’arte e della religione greca, Pausania il periegeta. In un excursus narrativo in cui, prima di passare in rassegna le antichità dell’ Acaia, tratteggia le linee essenziali della storia del popolamento ellenico della Ionia, Pausania dedica la sua attenzione a Samo e naturalmente offre una notizia sul più celebre luogo di culto dell’isola. «Alcuni affermano che il santuario di Hera a Samo fu fondato dagli Argonauti e che costoro portarono la statua di culto (agalma) da Argo. I Samii stessi invece ritengono che la dea sia nata nell’isola presso il fiume Imbraso, sotto l’agnocasto che ancora ai miei tempi cresceva nello Heraion. Che questo santuario sia fra i più antichi può essere dedotto in particolare dalla statua. Si tratta infatti di un’opera dell’Egineta Smilide, figlio di Euclide. Questo Smilide visse all’epoca di Dedalo, ma non raggiunse una reputazione pari alla sua» (Paus. vii , ). L’attribuzione dello xoanon a Smilide è confermata da Clemente Alessandrino (Protr. , , ), che cita come sua fonte lo storico locale Olimpico in un opera intitolata Samiakà (FGrHist F ), datata da Jacoby al iii sec. a. C. Il contrapporsi delle due tradizioni, quella vulgata ellenica che fa di Hera la dea argiva per eccellenza, e quella indigena, che naturalmente cerca di riappropriarsi della dea fin dalla sua nascita, è topico in una cultura religiosa multipolare come quella greca (come del resto in ogni tradizione agiografica) ; e va da sé che non ha molto senso interrogarsi su quale delle due sia più genuina: entrambe sono a modo loro vere e trovano conferma nella peculiarità regionale di un culto che è peraltro nelle sue radici eminentemente panellenico. La veneranda immagine di Hera, che Pausania impressionato certamente dalla sua ieratica arcaicità attribuisce a un artista contemporaneo di Dedalo, non è indubbiamente da identificarsi con la svettante statua di kore¯ dedicata da Cheramyes attorno al - a.C., che oggi troneggia in una delle principali sale del Louvre e presenta già la pienezza dell’arcaismo maturo. La solenne figura femminile, ricoperta dal chitone ionico, il mantello e il velo, benché decapitata, documenta l’ineffabile antropomorfismo della teologia greca e al tempo stesso il trasferimento all’essere umano del carattere divino (grandezza, maestosità, ieraticità sovrumana) con risultati di identificazione a livello iconografico tra l’adorante e la divinità oggetto del culto. Il collegamento tra l’Hera di Samo e l’Hera di Argo è fornito in una com. Kerényi , trad. ingl. : ; Pötscher : , n. . . Nonostante la convinzione quasi unanime degli storici dell’arte tedeschi (e certo anche dello storico delle religioni svizzero Meuli : , che sottolinea l’aspetto della dea «als Pfeiler oder Säule ») la statua non può rappresentare «an image of the goddess herself», come è stato persuasivamente stabilito da Carpenter : , non a caso un archeologo appartenente
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plessa storia narrata dallo storico Menodoto di Samo (FGrHist F ), che F. Jacoby data ipoteticamente attorno al a.C. In un’opera di cui possediamo appena un paio di frammenti entrambi pertinenti al culto dell’Heraion (Anagrafe dei notabilia di Samo) questo erudito locale racconta una storia che, nel suo intreccio favoloso arieggiante la nota vicenda di Ifigenia in Tauride, ha più il sapore di un epillio eziologico ellenistico (fuga di Admete figlia di Euristeo da Argo a Samo, dove si dedica alla custodia del tempio della dea; scorreria dei pirati etruschi aizzati dagli Argivi che falliscono nel tentativo di imbarcare e portare via il simulacro della dea) che di una genuina leggenda locale. Di sicuro valore eziologico è la parte finale che è opportuno riportare alla lettera. Gli abitanti di Samo (chiamati da Menodoto Carii, ma in realtà si tratta della popolazione risultante dalla commistione dell’elemento indigeno, i Carii presenti anche nel continente anatolico, con i coloni micenei; lo stesso autore infatti attribuisce la fondazione del santuario ai Lelegi, che sono nelle fonti identificati talora come pregreci, talora come Greci, talora come meticci di disparata provenienza), « sospettando che l’immagine di Hera se la fosse svignata di sua iniziativa la legarono a un ceppo di lygos, tirando i rami più lunghi dall’una e dall’altra parte in modo d’avvolgerla tutt’attorno. Poi Admete la sciolse, la purificò (a™gni´zein) e la rimise sul suo piedestallo così come stava prima. Per questa ragione ogni anno hanno la consuetudine di portare l’immagine sulla spiaggia, di purificarla (a∫fagni´zein) e di collocare attorno ad essa offerte di psaista (focacce d’orzo macinato e impastato con olio e miele). La cerimonia è chiamata Tonea perché accadde che l’immagine fu avvolta strettamente da quelli che per primi andarono alla sua cerca». Menodoto continua ricordando che in seguito un oracolo di Apollo prescrisse «di usare la lygos per fare le corone e quindi cingere le loro teste con gli stessi rami con i quali essi avevano avvinto la dea». Nell’altro frammento di Menodoto, preservato da Athen. xiv p. A, si ricorda che nel peribolo dell’Heraion erano custoditi i pavoni sacri di Hera, che sarebbero stati per la prima volta allevati nell’isola e da lì diffusi nel resto del mondo (FGrHist F ). Uno dei più illustri cittadini di Samo, lo storico alla antiromantica tradizione di studi anglosassone (cfr. del resto J. Boardman, Greek Sculpture. The Archaic Period, London , fig. : ‘Kore’). . Jacoby : -. La disamina della fonte (Athen. xv - E – A) è, al solito, filologicamente impareggiabile e condurrebbe a risultati nuovi e solidi se il grande studioso non ignorasse i risultati dell’indagine archeologica condotta prima e dopo la guerra dalla scuola diretta dal suo compatriota Ernst Buschor. . Sy´llektoi kai` miga´dew li chiama Strab. vii , C . Per altre fonti e discussione vd. Jacoby (Noten) : e G. Naumann, s. v. ‘Leleger’, in Der kleine Pauly (), -. Da notare che secondo la tradizione affermatasi probabilmente già col poeta epico di Samo Asio (vi sec.) Anceo, il re dei Lelegi e fondatore della città di Samos (fr. Kinkel = Bernabé, cit. da Paus. vii , ) era uno degli Argonauti che affiancarono Giasone nella conquista del vello d’oro ovvero, in termini storici, nell’acculturazione ellenica dei popoli indigeni dell’Egeo orientale (cfr. Veneri : -).
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‘tragico’ Duride (- a.C.), in un’opera dal titolo tradizionale (Annali dei Samii) menzionata tra gli altri da Athen. xii E-F (FGrHist F ), per colpire la mollezza dei suoi concittadini ricorda che essi solevano portare monili attorno alle braccia e si recavano a celebrare la festa Heraia «con le chiome accuratamente pettinate sul dorso e sulle spalle». E a rincalzo cita i versi di un autore locale molto più antico, il già ricordato poeta epico Asio (fr. Kinkel = Bernabé = Davies), dal quale egli sembra del resto mutuare la descrizione di questi baldi cittadini agghindati nella stessa foggia delle loro spose. Si tratta certamente di un altro aspetto, a mio parere ritualmente poco rilevante, delle cerimonie che si svolgevano nella sfera della vita religiosa dell’Heraion. Da Polieno (i , ) apprendiamo invece che il sacrificio pubblico nel santuario di Hera era accompagnato da una solenne processione (pompe¯) in armi, che del resto era un elemento tipico del culto della dea. Infine un quadro idilliaco, e molto personale, del culto di Hera è offerto dal poeta epico ellenistico di Samo Niceneto (sec. metà del iii sec. a.C.), il quale in un epigramma ( Powell = Gow-Page) decanta le gioie di un picnic a base di vino e di musica, nei prati presso l’Heraion, lontano dalla città. Il tutto è vissuto come un atto di culto alla dea, «gloriosa sposa di Zeus, signora dell’isola », e come tale consacrato dall’uso rituale di corone di lygos, secondo l’antica costumanza dei Carii. Preziosi dettagli sull’evolversi dell’icona della dea – che Pausania definisce banalmente agalma e Menodoto invece chiama sempre bretas (termine di etimologia non greca che i lessici considerano equivalente al più comune xoanon, immagine lignea) – sono forniti da uno storico locale, citato da Clemente Alessandrino, Protr. , , . In un opera tra le più antiche della storiografia ionica intitolata Annali dei Samii (v-iv sec. a.C.), Aethlios di Samo (FGrHist F ) dice che «la statua (agalma) di Hera Samia prima era un asse (sanis), poi, durante il governo di Procle, fu fatta in sembianza umana. Dopo che si cominciò a dare agli xoana la forma di esseri umani questi presero il nome di brete¯, da brotoi». L’epoca a cui risale l’antropomorfizzazione dell’immagine è sicuramente molto alta, perché secondo la tradizione (cfr. Paus. vii , ) Procle è l’ecista epidaurio che guidò la prima colonizzazione ionica a . Non convincenti i vari tentativi di collegare questa testimonianza ai Tonea (Nilsson : -; Pötscher : -) o alla ierogamia (Avagianou : ) o a presunti riti di passaggio (Fridh-Haneson : ). Veneri : - rileva giustamente che nei versi di Asio è assente ogni nota di biasimo: tryphe¯ e habrosyne¯ non avevano nessuna connotazione negativa in epoca arcaica, specialmente in Ionia. . Cfr. Veneri : -. . Convincente l’analisi di Gow-Page : -. Cfr. Cirio : ; Nafissi : - (il dilemma banchetto cultuale o simposio privato, nei termini posti dall’autore sulle tracce di G. Giangrande, a mio parere non è rilevante). . Con qualche variante la notizia si ritrova in Call. fr. Pfeiffer, Dieges. iv (Iunonis Samiae simulacrum antiquissimum).
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Samo, la quale ebbe luogo dall’xi al ix secolo, secondo le opinioni recenti più accreditate. A parte l’etimologia sicuramente fasulla, la notizia conferma quindi che l’immagine attorno alla quale si forma la leggenda e la liturgia narrata da Menodoto era certamente scolpita nel legno, ma in forma già antropomorfa. Un esemplare tardo di questi brete¯ può essere rintracciato in una statuetta lignea, trovata durante recenti scavi, che risale all’epoca del tempio hekatompedos (attorno al a.C.) e rappresenta certamente la dea Hera. I lineamenti di questa figura, che riassume la quintessenza della grazia femminile secondo i canoni dell’epoca (del resto non molto diversi da quelli attuali : sembra di essere di fronte a una top model, pronta per i famosi concorsi di bellezza menzionati da Alcae. fr. B L.-P., che la tradizione collocava proprio nel temenos di Hera), sono perfettamente sagomati con una perizia artistica che, come vedremo, non s’ispira solo all’eredità della grande plastica minoico-micenea. Un’ulteriore informazione sull’aspetto sotto il quale si presentava il simulacro della dea, almeno in età storica, la dobbiamo a una fonte romana, Varrone (- a.C.), citato verbatim dal cristiano Lattanzio (Inst. Div. i , ). La riprendiamo integralmente: Insulam Samum, scribit Varro, prius Partheniam nominatam, quod ibi Iuno adoluerit ibique etiam Ioui nupserit. Itaque nobilissimum et antiquissimum templum eius est Sami et simulacrum in habitu nubentis figuratum et sacra eius anniuersaria nuptiarum ritu celebrantur. La dea era dunque rappresentata nell’abito e nell’attitudine della nubenda, cioè della fanciulla velata che si presenta allo sposo pronto a denudarla e deflorarla. Un’eco del testo varroniano si trova anche, come c’era d’aspettarsi, in Augustin. Civ. Dei vi , , che – più interessato a evidenziare l’oscenità dei riti pagani piuttosto che gli aspetti evemeristici delle divinità greche come era nel caso di Lattanzio – si limita alla menzione dei sacra: Sacra sunt Iunonis, et haec in eius dilecta insula Samo celebrabantur, ubi nuptum data est Iovi. Il dato incontrovertibile che si desume da queste due fonti è che ogni anno a Samo si celebrava una festa per commemorare le nozze della grande dea indigena col dio supremo Zeus, nozze che, naturalmente secondo la tradizione locale, avevano avuto luogo nella stessa isola dove la dea era nata e cresciuta. Il ritus nuptiarum doveva prevedere una pantomima nuziale con attori specifici, ma trovava certamente la sua consacrazione e giustificazione rituale nella cele. I lessici etimologici sono concordi nel definire la parola «vorgriechisch » (Hofmann), ovvero «méditerranéen sans étymologie» (Chantraine al seguito di Frisk). Forse esiste invece un rapporto, attraverso l’indoeuropeo, col tedesco ‘Brett’, ma ciò non significa che per i Greci dei tempi storici «ein bretas sei eben ein Brett» (Meuli-Merkelbach : , n. ). . Kyrieleis : , Abh. . Il problema dell’immagine di culto di Hera è trattato esaurientemente, con discussione delle fonti letterarie e delle testimonianze archeologiche, dallo stesso Kyrieleis : -, e da Avagianou : , n. , ma senza fare riferimento alla summenzionata immagine.
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brazione collettiva di sponsali tra le varie coppie mature per il cruciale cimento (qualcosa di simile ai Gamelia che avevano luogo ad Atene durante il mese di Gamelione, che – come sappiamo da Esichio – era consacrato a Hera). Le fanciulle di Samo pronte a diventare donne impersonavano esse stesse il ruolo della dea che, per prima e dunque in chiave prototipica, aveva immolato la sua parthenia e offerto sé stessa, come vittima riluttante e al tempo stesso invitante, alla rozza strapotenza del maschio. «Das samische Fest war also eine heilige Hochzeit». L’icona che rappresenta, col massimo della potenza espressiva di cui solo l’arte arcaica era capace, questo momento culminante nella vita di Hera come in quello di ogni donna greca (o, più in generale, di ogni donna appartenente a una cultura premoderna) è stata fortunosamente ritrovata intatta grazie alla natura permanentemente umida del suolo su cui sorge l’Heraion, che permette la conservazione degli oggetti di legno attraverso i secoli. Si tratta di un altorilievo in legno databile alla fine del vii secolo che fu rinvenuto e pubblicato nel dall’archeologo tedesco D. Ohly, e subito interpretato nella sua funzione come pilastro di supporto di un talamo nuziale. Difficile rendere con le parole la forza comunicativa che promana dall’immagine che svela senza pudori il rituale dell’incontro fra i due sessi. Ci affidiamo alla vivida descrizione di Avagianou (: -), che riunisce le due prerogative di essere donna e di essere greca. « Zeus and Hera are portrayed in a frontal position. Hera stands still, while Zeus is moving towards his wife. The gesture of his hand is full of meaning: the fingers of his right hand forcefully grab Hera’s right breast. The god has embraced his bride with his left hand. Hera has also embraced her husband with her right hand, while she grabs the wrist of his right hand with her left hand. This envolves a reversal of the roles of the participants, since it is the groom who always takes hold of his bride’s wrist... Her gesture ... does not show, of course, ‘possession’. It has a mild meaning...; it shows good will and a mollifying reception of Zeus’gesture. It cannot be doubted that the seizure of Hera’s breast by Zeus is a more direct gesture of expressing her possession by him; on the contrary, Hera’s gesture shows her consent for the completed initiation». L’intreccio delle braccia, carico di svariati simbolismi, la pre. Nilsson : . Cfr. Kerényi , trad. ingl. : - (con interessanti osservazioni sul valore ambivalente delle relazioni incestuose del tipo, appunto, di quella tra Zeus e Hera); Bermejo Barrera : spec. (la festa Tonea collocata ad Argo!) e (conclusioni viziate da analisi superficiali e dal tendenzioso revisionismo alla moda); Avagianou : - e passim (trattazione esauriente della letteratura primaria e secondaria, interpretazione condotta con metodo rigoroso). . Ed è un caso virtualmente unico in Grecia: Kyrieleis : . . Cfr. Kerényi , trad. ingl. : ; Fridh-Haneson (l’interpretazione proposta, di una «standing goddess sucking a mortal man» per conferirgli forza e rango divini, è inaccettabile sia dal punto di vista della lettura iconografica sia da quello delle realtà storico-culturali; cfr. Avagianou : ) ; Avagianou : - e - nr. .
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potente esibizione di entrambi i seni in piena nudità come pars pro toto, l’attitudine ieratica degli sguardi dei due protagonisti che fissano l’astante invece di incontrarsi fra di loro: il tutto rappresenta senza mediazioni dottrinali la visualizzazione estrema dello hieros gamos di Zeus e Hera, che è esemplare e prototipico di ogni unione legittima tra due esseri viventi. E non ha molto senso interrogarsi se si tratti dell’immagine di un rituale effettivamente celebrato in età arcaica o della resa plastica del mito che imprime il crisma della ritualità a un momento essenziale della vita sociale. Avendo a disposizione questo magro manipolo di testimonianze, i critici, fin dall’Ottocento, si sono senza interruzione interrogati sulla questione dei rapporti tra i Tonea descritti da Menodoto e gli Heraia (comprendenti la ierogamia cui accenna Varrone) accidentalmente menzionati da Duride. Si tratta evidentemente di due complessi cerimoniali diversi, anche se con mutue implicazioni, e riferibili a momenti successivi dell’anno liturgico di Samo. La festa dal significato più evidente, ed anche quella principale e che ha lasciato più eco nelle fonti antiche, è quella definita genericamente Heraia (o, in latino, sacra Iunonis) che commemorava ciclicamente le nozze primordiali di Hera con Zeus secondo le modalità probabili cui si è accennato più sopra. Non è chiaro invece il significato di vari dettagli contenuti nel racconto eziologico di Menodoto e quindi resta controverso il senso generale del complesso rituale denominato Tonea (o Toneia, o Tonaia: ma la lezione originale del manoscritto sembra da conservare). In questa sede non intendiamo discutere le varie interpretazioni offerte da autorevoli esperti della religione greca, che hanno una certa importanza dal punto di vista della storia degli studi ma che non hanno condotto a una soluzione convincente, come quasi sempre succede con le questioni di eortologia greca. A noi interessa mettere l’accento su quelli che sembrano i tratti essenziali del rituale (e del mito eziologico): ) la dea è legata con i rami della lygos; ) la dea è sciolta dai vincoli e lavata dalle sue impurità nelle acque del mare; ) la dea è avvinta di . Per il concetto e le valenze ermeneutiche cfr. Whitehouse . . Alla stessa conclusione giunge Avagianou : -, dopo avere esaminato accuratamente gli argomenti dei sostenitori dell’esistenza di due rituali diversi (tra cui Ziehen, Buschor, Jacoby, Walter, Meuli, Burkert) e quelli degli studiosi convinti della coincidenza di Heraia e Tonea (Welcker, Roscher, Farnell, Cook, Nilsson, Kerényi, Pötscher, Kipp tra gli altri). . Nafissi : , n. . . E. g. Nilsson : -; Kerényi , trad. ingl. : -; Meuli-Merkelbach : - (indubbiamente la presentazione più lucida e stimolante, anche se purtroppo incompiuta e risultante da una ricostruzione dal ‘Material im Nachlass’); Burkert : ; Id. : -; Nafissi : -; Graf : - (la conclusione che sia il mito sia il rito si adeguino a uno « Spannungsbogen von Auflösung, Gegenordnung und Neuanfang», nel quadro di un rituale di Capodanno, non è argomentata con sufficiente chiarezza); Pötscher : -; Bermejo Barrera : ; Avagianou : -.
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nuovo con i rami della lygos e ricollocata sul suo piedestallo nell’adyton del tempio. Che significa avvincere con i rami di una pianta come la lygos una dea come Hera che rappresenta l’immagine archetipale della donna completamente matura in quanto sposata (teleia), specificamente della moglie riottosa e non sempre affidabile ? Gli studiosi (e le rare studiose) hanno offerto, come si diceva sopra, varie risposte, tutte molto acute e interessanti, basate su paralleli tratti dal mondo folklorico od orientale. Io ho passato la mia infanzia in un mondo rurale, ancora legato a modi di pensare e comportamenti tradizionali (come M. P. Nilsson, che accenna spesso e volentieri a questa sua caratteristica di uomo di campagna). Ricordo molto bene che vari contadini (-e) anziani (-e) (compreso mio nonno e la mia prozia, contadini urbanizzati), quando una donna di casa si comportava in maniera capricciosa – almeno dal loro punto di vista – sentenziavano: «ai miei tempi, se mia moglie diceva o faceva di queste cose, io l’avrei legata al tavolo della cucina» (ovvero, nel caso delle contadine : « mio marito mi avrebbe legato al tavolo della cucina»). Può apparire folklore spicciolo, ma anche quest’aspetto della ritualità agente all’interno del cosmo familiare deve essere preso in considerazione, soprattutto se uno tiene conto dello stato delle relazioni intercorrenti tra Zeus ed Hera fin dalle fonti più antiche e del fatto che nel mito Hera in persona subisce in varie occasioni la pena dei ceppi proprio in ragione della sua indole riottosa. Quello che resta evidente da una simile procedura è che la dea strapotente deve essere in qualche modo ‘contenuta’ e ‘trattenuta’. E naturalmente non è casuale che si ricorra ai vincastri di un arbusto come la lygos invece che ai rami di un’altra pianta. La lygos (o agnos, associato con la nozione di castità per l’assonanza con hagnos), è una pianta ben nota della flora mediterranea, appartenente alla famiglia delle verbenacee e conosciuta bo. Questo non è detto esplicitamente dalla fonte, ma si desume dal fatto che se ogni anno la statua veniva sciolta evidentemente essa era stata rilegata prima di riporla di nuovo nel tempio. Conosciamo le parvenze esteriori del simulacro principale di Hera attraverso le monete di epoca romana (Meuli-Merkelbach : tav. , nrr. -; Kyrieleis : e , figg. e ) : « Die Göttin ist ... gefesselt wie die Ephesierin» (Meuli-Merkelbach : ). Utili precisazioni e ulteriore bibliografia sono fornite da Nafissi : -. . Hera ha un suo modo particolare di rendere pan per focaccia a Zeus: la partenogenesi, la generazione di figli senza aiuto del partner. Oltre al mostro Tifone, anche Efesto e, in certe tradizioni, lo stesso Ares (Kerényi , trad. ingl. : -; Pötscher : -). Nel cosmo mediterraneo una moglie per bene non si deve comportare a questo modo, defraudando il compagno delle sue prerogative virili. . Hom. Il. xv - (cfr. Pötscher : -) ; Alc. fr. L.-P. e Pind. fr. S.-M. (trono magico di Efesto ; cfr. Meuli-Merkelbach : , «Dass diese Fesselung der Hera mit dem samischen Ritual zusammenhängt, hat Wilamowitz schon erkannt »). Sulla ‘Fesselung’ di Hera importanti le osservazioni di Kerényi , trad. ingl. : -; e di Pötscher : , che critica la tendenza di Meuli e Merkelbach a generalizzare il tipo della divinità avvinta da legami vegetali per vedere in tutta una serie di dei e di dee (Artemis, Dionysos, Ares ...) gli eredi di antichi ‘Baumgötter’.
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tanicamente come Vitex agnus castus. Gli arbusti di agnocasto infestano le rive paludose del fiume Imbraso, a sette km dalla città di Samo (oggi Pythagorion), quasi bloccando i passi del viaggiatore con le loro ramificazioni intricate, come ho potuto constatare io stesso durante la mia visita all’Heraion nell’agosto . È interessante accennare al suo nome nelle più importanti lingue europee, perché in certi casi dietro il nome si nasconde anche la sua trasfigurazione nell’immaginario popolare, che per molti rivi attinge al comune sostrato mediterraneo. In italiano si usano gli stessi due nomi che l’arbusto portava in latino; ‘vitice’ o ‘agnocasto’ (agnus castus è evidente rifacimento tautologico del nome greco agnos, interpretato come se fosse equivalente ad hagnos). In inglese, rispetto al più comune ‘withy’, che è termine ambiguo perché si riferisce anche al salice (propriamente ‘willow’), è più specifico ‘chaste-tree’, che è un calco evidente del termine corrente nel latino medioevale. La stessa situazione si riproduce in tedesco. Oltre al comune ‘Weide’, che è evidentemente legato etimologicamente a ‘withy’ (e anche al latino vitex, attraverso vitis), abbiamo il più colorito ‘Keuschlamm’, che – secondo il genio della lingua tedesca – riprende attraverso un calco letterale (basato su due successivi equivoci interpretativi) il latino agnus castus. In spagnolo castus, per incrocio con catus/gato, ha dato ‘gatillo’: il gatto, in un certo senso, ha preso il posto dell’agnello, per un fenomeno di etimologia popolare analogo a quello che si è avuto nel passaggio dal greco al latino (anche in spagnolo, naturalmente, esiste un termine d’uso corrente, ‘mimbre’, che significa genericamente ‘vimine’ e non marca nessuna differenza dal più comune salice). Dallo spagnolo infine deriva il francese ‘gattilier’, in cui si è persa ogni trasparenza semantica. Sia che si usino i rami dell’agnocasto come giaciglio (come nel caso delle Tesmoforie), sia che se ne mangi il frutto o si beva il succo tratto dalla sua macerazione, la costumanza trae origine dal fatto che all’agnocasto è attribuita la proprietà di inibente dello stimolo erotico, secondo il consenso unanime delle fonti antiche, che . Naturalmente, a causa della stagione inoltrata, non ho potuto godere della visione degli arbusti in fiore, che viene descritta con tinte poetiche da uno degli scavatori del sito (ripreso da Kerényi , trad. ingl. : ) : «Lygos bushes push out their blue and white and pale red candles far and wide over the beach flats, in countless numbers». . La vicenda linguistica ha un suo riflesso nel costume, basato sulle nozioni di farmacopea popolare trasmesse attraverso Dioscoride e Plinio. «Christliche Nonnen, denen es schwer wurde ihre Keuscheit zu halten, legten sich oft Keuschlammzweige in das Bett, ‘damit ihrem Klostereide genug geschehe’, oder ein ‘aus dem Keuschlamm destilliertes Wasser’ wurde von ihnen getrunken, um die geschlechtlichen Begierden zurückzudrängen. Darum hiess man die Pflanze auch Mönchspfeffer, piper monachorum oder eunuchorum oder piperella, ‘weil der Same dem Pfeffer ähnlich die Geilheit benimmt, derwegen ihn auch Averrhoes Granum sterilitatis tituliert hat’» (Fehrle : ). Le monache medioevali dovevano controllare gli stessi istinti che stuzzicavano le donne ateniesi alle Tesmoforie, e ricorrevano evidentemente agli stessi mezzi, cioè a una buona dose di autosuggestione. . Tra i latini Plin. Nat. Hist. xxiv , -: ad venerem impetus inhibent (illae arbores). Tra i
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è peraltro confermato dalle cognizioni dell’erboristeria attuale. Legare la dea o la sua statua significa costringerla alla repressione dell’istinto sessuale nella fase stagionale durante la quale il suo partner legittimo è assente. Una pratica molto simile a quella, ben presente nell’immaginario maschile anche se difficilmente messa in atto per difficoltà di ordine pratico, della cintura di castità. Costringere una donna all’astinenza sessuale da un punto di vista razionalistico non sembra equivalente a restituirle la verginità, come avveniva invece a Nauplia in Argolide, dove, secondo un logos aporrhetos ripreso da Paus. ii , -, la dea stessa si bagnava ogni anno nella fonte Canato e in questo modo riprendeva i caratteri della parthenos. Vero è che, anche secondo la tradizione samia registrata da Menodoto, la cerimonia culmina nel lavacro della statua sulla spiaggia, presumibilmente dopo averla sciolta dai rami di agnocasto che l’avvincevano. L’idea – avanzata dall’archeologo umanista E. Buschor nel e divenuta poi corrente presso gli archeologi tedeschi che hanno lavorato a Samo – che con il bagno e i legami di lygos la statua-dea venisse resa di nuovo vergine e rimanesse in questo stato fino al giorno del nuovo hieros gamos, almeno da un punto di vista di storia e fenomenologia comparata delle religioni non appare così peregrina, nonostante le vibrate critiche che le sono state mosse. Il fatto è che a leggere certe fonti antiche pertinenti all’isola di Samo, chiamata dapprima Parthenia secondo una tradizione che risale ad Aristotele (fr. Rose) ed è ripresa da vari poeti ellenistici e in ultimo da Strab. x C (e anche xiv C , dove si precisa che così si chiamava quando era abitata dai Carii), si trae l’impressione che gli Ioni fossero letteralmente ossessionati dalla idea della vergine e della verginità come connotato imprescindibile delle donne dei loro sogni. L’Imbraso, il più importante fiume dell’isola presso l’estuario del quale sorgeva il sangreci Aelian. De nat. anim. ix : o™rmW^w a∫frodisi´oy kv´lyma´ e∫sti, e Galen. (Med. Gr. xi ) : e∫pe´xei de` kai` ta`w pro`w a∫frodi´sia o™rma´w. Per le altre fonti (Dioscoride e gli etimologici) e commenti, non sempre persuasivi, si vedano Nilsson : -; Fehrle : -; Kerényi , trad. ingl. : ; Nafissi : - (del quale accetterei le conclusioni pertinenti al rituale dei Tonea, «i Cari con i legami di vitex avevano costretto alla castità la dea», molto meno i confronti con altre pratiche di hierodoulia, compresa la castrazione dei Galli di Cibele); Pötscher : -; Bermejo Barrera : . . L’agnocasto è definito «anafrodisiaco », seppur con efficacia bassa, in quanto «inibisce il rilascio dell’ormone che stimola il follicolo, portando ad uno spostamento del rapporto a favore degli estrogeni rispetto ai gestageni, producendo effetti ormonali utilizzati contro disturbi connessi alla menopausa » (è anche «emmenagogo » e «galattogeno ») : E. Campanini, Dizionario di fitoterapia e piante medicinali (cit. dal sito http ://www.erbeofficinali.org/dati/agnocasto.htm). . « È un rito di purificazione, che ridava alla dea la verginità; per esso la dea, nell’arco di un anno, era vergine e sposa e poi di nuovo vergine» : Cirio : . . Cfr. Nafissi : -, n. e Avagianou : , entrambi con ricca letteratura. . Apollonio, Euforione (?), Nicandro, Callimaco, puntualmente elencati da Cirio : (ivi l’indicazione fr. Rose è da correggersi in ). Il parere di Aristotele ci è noto solo attraverso una casuale menzione di Plin. Nat. Hist. v : Partheniam primum appellatam Aristoteles tradit.
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tuario di Hera, aveva ricevuto dai primi colonizzatori ioni il nome di Parthenios, certo per marcare anche nella sfera topografica l’incidenza emblematica di questa caratteristica ideale della femminilità. E se il par&e´nvn kh^pow menzionato dal poeta reggino Ibico (fr. Page), che a Samo finì i suoi giorni, è da collocarsi nell’isola Parthenia e precisamente nel temenos della dea sovrana, avremo un’altra sottolineatura dell’atmosfera verginale dominante nel regno di Hera. L’ossessione per la donna sempre-vergine non è esclusiva dei Greci dell’epoca arcaica abitanti in un angolo a levante del Mediterraneo. Come dimostrerebbe facilmente un’indagine antropologica sui miti e riti dell’uomo mediterraneo, è stata (e forse ancora è) diffusa in ogni epoca e in ogni terra bagnata da quel mare illustre. Ma si estende più oltre, certo fino alla penisola araba, che di quel mondo è parte cospicua, culturalmente se non in senso geografico stretto. L’esempio più rilevante ci viene da un libro arabo molto noto e importante, il Corano (Qur‘an: parola araba che significa letteralmente ‘discorso ad alta voce’, recitato da Dio al Profeta), scritto (o dettato a uno scriba) da Muhammad (- dell’Era volgare) dal al circa, sotto l’influsso di esperienze teopatiche, come è stato detto, ma certo dando espressione al sentire profondo della propria cultura di uomo mediterraneo. Qual è la caratteristica essenziale delle huri, le fanciulle ‘occhi-neri’ (anche se letteralmente il termine significa ‘le bianche’, con riferimento al bianco degli occhi in cui spicca l’iride nerissima, considerata segno di bellezza), le fanciulle destinate in spose ai fedeli di Allah e presentate ad essi, i Credenti, i Giusti, insieme ad altre tattili delizie, al momento della loro entrata nei giardini paradisiaci? In tre sure (ii , iii , iv ) del Corano, su tredici che le menzionano, esse sono definite con un termine che si può rendere variamente con ‘purissime’ (A. Bausani) o ‘purificate’ o ‘sempre pure’ (M. M. Moreno), ma che comunque è stato inteso dai commentatori nel senso che esse sono « free alike from bodily impurity and defects of character». Se ci fosse qualche dubbio sul senso preciso del termine altre sure aiutano a dissiparlo. In sura lv è detto che i loro sguardi sono pudichi (cioè guardano solo ai loro mariti) e « né uomo né ginn le ha mai toccate prima d’ora». Ma la caratteri. Call. fr. Pfeiffer, citato da Schol. Ap. Rh. ii . Schol. Ap. Rh. i è ancora più interessante perché a buon diritto (cfr. Kerényi , trad. ingl. : ) smentisce Callimaco nel fissare la successione dei due nomi dati al fiume e collega la toponomastica alla nascita della dea parthenos nell’isola : meteklh´&h Par&e´niow dia` to` e∫kei^ par&e´non e¢ti oy®san tetra´f&ai th`n çHran. . Come sostiene Cirio : , con buoni argomenti. . Basti un esempio letterario dalla Spagna del siglo de oro. In una delle Novelas Ejemplares di M. Cervantes (-), La Tia fingida, doña Claudia, per alzare le quotazioni della sedicente nipote Esperanza, dedita al mestiere più antico del mondo, tutte le volte che questa ha effettuato una delle sue prestazioni si preoccupa di rattopparle alla casalinga l’imene segnacolo di prestigiosa verginità. . Wensinck : .
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stica sensazionale di queste fanciulle, messa bene in luce in sura lvi e chiarita dai commentatori, è che esse sono, per grazia di Dio, vergini sempiterne : il beato defunto è autorizzato a copulare con esse a piacimento (in proporzione ai giorni in cui ha praticato il digiuno del Ramadan o ha eseguito altre buone opere) ma ritrova la sua sposa celeste sempre vergine. La letteratura edificatoria successiva precisa, con notevole intuizione maschilista, che due nomi sono incisi sui due seni delle huri, su uno il nome di Allah (o equivalente), sull’altro il nome del marito e padrone. Per tornare ad Hera, la sposa ideale, la tradizione insiste sul tema peculiare della verginità a tutti i costi anche in altri contesti. Già Omero, Il. xiv -, accenna ad incontri segreti di Hera con Zeus «all’insaputa dei genitori». Il tema è sviluppato da Callimaco (fr. Pfeiffer, con preziosi materiali in apparato), che attribuisce uno spazio di ben anni a questi amori clandestini, che, secondo Schol. Il. I , avrebbero prodotto la nascita di un figlio handicappato, Efesto lo zoppo. Come è stato opportunamente osservato, in mancanza di sponsali ufficiali con il riconoscimento del parentado «Hera ufficialmente rimaneva parthenos». Samo, l’isola dove la dea aveva avuto i natali e dove infine convolerà a giuste nozze con Zeus, era stata anche la sede ideale (un’isola) del lungo flirt tra i due amorosi fratelli (Schol. Il. xiv ). Questa pratica dell’amoreggiamento clandestino privo della sanzione dei genitori (che probabilmente sanno ma fingono di non sapere) è certo universale e nota nel folklore come Kiltgang, con termine mutuato dalle antichità germaniche. Nel caso di Hera essa ha una sua giustificazione precisa nel fatto che, almeno a Samo, essa non sopporta legami troppo stretti e deve restare una vergine indipendente, «wenn der Bräutigam sozusagen nur ein ideeller ist und keine bestimmt ausgeprägte Gestalt angenommen hat». Se l’amore è segreto Hera resta una veneranda parthenos, ma il gioco dura fino a quando la femmina non mostri i segni inconfondibili della gravidanza. Per evitare tale incidente, e al tempo stesso soddisfare i legittimi ardori del maschio divino, nel mito si usano gli stessi succedanei usati dalle giovani coppie in tutto il mondo prima dell’invenzione dei contraccettivi meccanici. In un quadro che era ancora visibile a Samo in epoca ellenistica (e probabilmente era proprio custodito nel tempio, che infatti all’epoca di Strabone era diven. Wensinck : ibid. . Cirio : . Importanti le osservazioni di Kerényi , trad. ingl. : : «Parthenos and Pais ... meant secret love-making ... In Hera the woman and wife was always present from the beginning, in all the forms of a woman’s loving fancy, without her thereby becoming polygamous ». . Come precisa il Duden, Kilt, che originariamente era semplicemente un ‘Arbeit bis zur Nachtzeit’, ha assunto il significato specifico di ‘abendlicher Besuch eines jungen Mannes bei seinem Mädchen’. . Nilsson : ; cfr. ; e inoltre Kerényi , trad. ingl. : - (che chiama Zeus « invisible bridegroom and husband») e Nafissi : n. (con ulteriore bibliografia).
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tato una specie di pinacoteca: cfr. n. ) si mostrava senza pudori la particolare synousia o ‘sacra conversazione’ che intercorreva tra Zeus e la sua partner verginale. L’austero Crisippo, padre dello stoicismo, non ha remore in una sua opera dedicata all’interpretazione in chiave di allegoria naturalistica delle operazioni degli dei, a descrivere il dipinto: la testa di Hera si avvicina al membro di Zeus e la dea si congiunge al dio con la bocca. In questa sede non ci riguarda l’esegesi allegorica di Crisippo (che pure ha un notevole spessore simbolico: Hera come la hyle che riceve da Zeus i logoi spermatikoi) ma il particolare significato che la tradizione indigena (di Argo e di Samo) attribuiva alla fellatio: un nobile escamotage finalizzato a preservare l’intangibile verginità della loro grande dea. Da un punto di vista fenomenologico la realtà di Hera a Samo è caratterizzata da una nota fondamentale dell’eterno femminino mediterraneo: la sua parthenia, per quanto, come osservava un grande storico delle religioni italiano che meriterebbe maggiore considerazione, «una Potnia ‘vergine’ possa a prima vista costituire uno sconcertante paradosso». Da un punto di vista . Clem. Rom. Homil. v : pro`w tv^ı toy^ Dio`w ai∫doi´vı fy´ron th^w çHraw to` pro´svpon. Theoph. Ad Autol. iii : th`n çHran sto´mati miarv^ı syggi´gnes&ai tv^ı Dii´. La notizia che il quadro si trovava a Samo (Clemente parla invece di Argo, ma sappiamo bene che anche lì Hera era vergine eterna) è data da Orig. Cels. iv , che però si limita a dire che Hera fa a Zeus delle cose «innominabili » (arrheta: che è appunto il termine che definisce le azioni mistiche). Mentre i Padri della Chiesa gongolano nel riferire tali particolari, un autore pagano tardo come Diogene Laerzio (in un’epoca in cui era mutato il comune senso del pudore e i Greci sentivano la concorrenza dell’etica cristiana) si sforza di salvare la reputazione di Crisippo (o almeno quella di Hera) negando l’attendibilità della fonte con insulsi argumenta e silentio. . Le quattro testimonianze citate, più una analoga di Cicerone, sono in SVF ii nr. . West : - ricorda che a partire da C. A. Lobeck si è pensato di far risalire l’idea della fellatio divina ai poeti orfici (a cui avrebbe attinto Crisippo), ma nega che ci siano prove al riguardo. . L’argomento è presentato in forma implicita da Kerényi , trad. ingl. : n. (« a reference to the games of the divine couple») e da Nafissi : n. . Come sottolinea Pötscher : , alla base di una tale procedura si ritrova «nur Lust» e non una finalità procreatrice. Avagianou : definisce Zeus «playmate » della vergine Hera senza indugiare sulla qualità dei giochi, ma opportunamente osserva come il complesso delle fonti «emphatically stresses the virgin status of the Samian Hera». . Pestalozza : . Le ulteriori considerazioni del Nostro, maestro di una limpida (ma non banale) psicologia storica, meritano di essere riprese: «Eppure, più si approfondisce la natura della Potnia e più ci si rende conto che la verginità fisica non solo non è incompatibile con gli altri suoi essenziali caratteri, ma ne diviene un necessario presupposto, se è vero – come è vero – che una fiera volontà di gelosa autonomia sta alla base della sua natura divina. (...) la ‘parthenia’ in quanto stato di natura intatto, immacolato, a cui nessuna forza estranea ha mai fatto violenza, è certamente la forma che più e meglio rappresenta e rivendica per sé l’ideale della suprema autonomia e della suprema libertà: l’intemeratum saeptum pudoris – secondo l’ardita e bella espressione di S. Ambrogio – ne diventa il segno straordinariamente espressivo, che la Potnia riacquista, ogni qual volta lo voglia, immergendosi nelle ‘fontaines de jouvence’ del suo tempo». Più in generale, riguardo ai paradossi impliciti in certe verità religiose, vale quanto scrive Eliade : : «Peut-être la fonction la plus importante du symbolysme religieux – important surtout à cause du rôle qu’elle va jouer dans les spéculations philosophiques
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storico dobbiamo osservare che codesta realtà non si forma in maniera automatica e necessitante ma è il risultato del convergere di diverse forze storiche. La stessa immagine di Hera quale ci è nota nella sua testimonianza più antica, lo xoanon della metà del vii secolo (cfr. n. ) non è una invenzione greca, ma riprende con tratti di vivace originalità le sembianze della dea egiziana Neith. La derivazione sembra inconfutabile se si confrontano sul posto, nel Museo Archeologico di Samo a Samos City-Vathy, la predetta statuetta lignea con una statuetta di bronzo egiziana di data molto antecedente (viii-vii sec.), che – non casualmente – è stata collocata al suo fianco nei lavori di ristrutturazione del museo. Si ritrovano la stessa sagoma a colonna, la stessa vita slanciata a vespa, lo stesso polos, naturalmente adattato al gusto ionico. La dea Neith, dea sovrana di Sais, originariamente dea della caccia e della guerra e poi dea madre primordiale, era naturalmente divenuta molto popolare durante la xxvi dinastia, detta appunto ‘saitica’ (- a.C.), che è l’epoca durante la quale si sviluppano al massimo i rapporti tra l’Egitto e l’isola di Samo, per culminare nella famosa amicizia-alleanza tra il faraone Amasis e il tiranno Policrate, che ebbe tristemente fine per i motivi addotti da Erodoto, o altri ancor più machiavellici, poco prima della morte di Amasis nel . Il fatto che la dea di Sais sia unanimemente identificata dalle fonti greche (in primis Hdt. ii passim) con la dea poliade di Atene non esclude affatto la possibilità che a Samo Neith sia stata assimilata a Hera, influendo sulla sua stessa iconografia. Gli scambi tra l’Egitto e le isole greche dell’Egeo risalgono almeno alla vi dinastia (- a.C.), che corrisponde alla fine del Minoico Antico, ma raggiunsero il loro apogeo tra l’viii e il vi secolo proprio nell’isola di Samo, trovando il loro fulcro nell’Heraion, dove i mercanti greci dopo il lungo viaggio si recavano per ringraziare la dea e offrivano come doni votivi gli oggetti più preziosi e caratteristici che avevano acquisito durante la loro permanenza nel Delta (nell’emporio di Naucratis, dove i Samii si erano riservati un temenos per il culto della loro Hera: Hdt. ii , ) e dove parimenti giungevano visitatori stranieri come turisti attirati dalla fama della dea, anch’essi volenterosi di offrire una testimonianza tangibile del loro zelo religioso. Un gran numero di questi oggetti sono stati trovati durante gli scavi e attestano, nella loro abbondanza e varietà, il significato che ebbero per l’evoluultérieures [vd. Crisippo !], – est-elle sa capacité d’exprimer des situations paradoxales ou certaines structures de la réalité ultime, autrement impossible à exprimer». . Kyrieleis : , Abb. ; cfr. . . Cfr. Bonnet : -; Schlichting e soprattutto Ramadan el-Sayed : -. . Esauriente al riguardo Lloyd : -. . Cfr. Vercoutter : - e passim. . Cfr. Shipley : -, -, e -.
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zione dell’arte greca e, mutatis mutandis, della stessa visione religiosa greca. Tra essi è di rilevante importanza per la definizione dei rapporti di acculturazione religiosa tra l’Egitto e Samo uno specchio di bronzo egiziano che figura tra gli ex-voto offerti dalla seconda categoria di visitatori dell’Heraion. Quest’oggetto non sembra avere ricevuto una particolare attenzione nella letteratura archeologica e non è facile rintracciare quando e dove sia stato per la prima volta pubblicato. Utili notizie sono comunque disponibili nella didascalia reperibile nel Museo Archeologico di Samo, dove il reperto è conservato. L’iscrizione in geroglifico è tradotta in questo modo: «A gift of the female servant of Mut – mistress of heaven, giver of life, happyness and health » (segue la firma, indecifrabile). «Her mother is ...» (anche il nome della madre della dedicataria è illeggibile). Sopra l’iscrizione – continua la didascalia, e io stesso ho potuto verificare la lettura – «is an incised representation of a shrine in which sits the goddess Mut, in front of whom a praying woman offers a mirror». Si tratta di una immagine non comune in Grecia, ma l’idea dell’artista egiziano trova un suggestivo parallelo nelle innumerevoli tavole di altare, ancone o retabli del Medioevo e del primo Rinascimento europeo, dove figura la Vergine assisa in trono che riceve dall’offerente umano il dono dell’icona stessa che supporta la rappresentazione. Come osserva di nuovo l’autore della didascalia, «It is extremely unlike that this votive offering was brought to Samos from an Egyptian sanctuary where it had been previously dedicated. The inscribed dedication by a particular individual shows that the mirror was a gift to the deity of the sanctuary in which it was found» (che è appunto il tempio di Hera a Samo). Per concludere, «The Egyptian woman who dedicated to Mut (= Neith) the mirror may well have seen in Hera her own familiar goddess Mut (mirror similar in Heraion of Perachora) ». La dea Mut, della quale la donna egiziana che ha dedicato lo specchio si dichiara serva fedele, è la sposa del dio Amun e le sue fortune sono legate a quelle del grande dio di Tebe: il suo culto fu dunque particolarmente popolare al tempo delle dinastie tebane del Nuovo Impero (- a.C.). Il nome della dea è scritto con l’ideogramma dell’avvoltoio, ma la sfera semantica a cui si richiama è quella della ‘maternità’. Caratteristica della sua personalità è l’attitudine ad amalgamarsi con altre dee materne e bellicose : Bastet, Sachmet, Hathor, Uto, Iside (e anche con Neith, cfr. Ramadan el-Sayed : -). Come Amun diventa alla fine il dio Sole, Mut è venerata come ‘signora del cielo’, e insieme al figlio Chonsu (dio Luna), che è spesso rappresentato come un bambino nel suo grembo, for. Cfr. Kyrieleis : -, che si lascia afferrare dall’entusiasmo nel delineare l’importanza del ruolo avuto dall’Egitto nel fornire stimoli decisivi al sorgere della scultura e architettura greca nelle sue forme monumentali. . Te Velde : , con buoni argomenti, contro Bonnet : (cfr. peraltro ).
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mano la triade tebana. Il suo tempio a Karnak (nei dintorni di Tebe) sorgeva presso al santuario, colossale e intricato, del suo sposo Amun, ed era, come quello, oggetto di ammirazione da parte dei visitatori greci. Nella concezione stessa dell’Heraion e nella ideazione dei kouroi colossali allineati lungo la ‘Via sacra’ che conduceva dall’antica Samo (odierna Pythagorion) all’entrata dell’ Heraion, gli architetti greci di Samo cercarono di emulare il complesso monumentale di Karnak. Sul piano religioso ne conseguiva naturalmente l’assimilazione di Zeus ad Amun (per i Greci Ammon) e di Hera alla sua sposa Mut, con la quale la dea greca condivideva la caratteristica essenziale di funzionare come una madre universale e una soccorrevole madonna, alla quale rivolgevano innumerevoli voti e offrivano innumerevoli doni le genti che vivevano sulle due sponde del Mediterraneo. Quello che è caratteristico in questo donario, infatti, è che esso proviene da una donna d’Egitto, la quale, trovandosi in terra greca per un suo particolare affare, non ha esitazioni a riconoscere nella dea sovrana del posto una manifestazione della divinità – con nome diverso ma affini caratteristiche – del suo paese di origine, nella quale essa ha sempre posto la sua fiducia. I Greci peraltro, come è loro costume fin dai tempi di Erodoto, non esitano a chiamare Mut con il nome greco di Hera, senza sentire la necessità di una spiegazione, e a inchinarsi reverenti di fronte alle divinità del sacro Egitto. Altre preziose offerte votive donate al santuario della dea durante l’epoca del suo massimo fulgore nel vi secolo mostrano come Hera fosse proclive ad integrarsi nella sfera del Mediterraneo orientale, incrociando i suoi attributi con quelli tipici di altre grandi dee mediterranee. Si tratta anzitutto di una statua di dea seduta in trono, che è quasi sicuramente Hera. Sul lato sinistro del seggio è infatti incisa una breve iscrizione dedicatoria in lettere ioniche in cui l’offerente, un certo Aeakes figlio di Brychon, dichiara di offrire la statua ad Hera nella sua funzione di commissario sovrintendente (epistates) all’impiego di un certo bottino (syle¯). Ma nello stesso spazio figura anche in bas. Ad esempio Diod, Sic. i , - (la costruzione è attribuita al figlio della coppia, che qui è semplicemente Osiride). Cfr. Burton : . . Così Hera in Alc. fr. L-P, v. ; Mut ha la tendenza, in epoca tarda, ad assurgere «zu einer Universalgöttin» (Bonnet : ), come Hathor e Neith; poi naturalmente deve cedere il campo a Iside e diventa uno dei suoi tanti nomi (nella forma Mouth: Plut. Is. ). . Con Maria Vergine Mut ha comuni molti tratti enumerati sopra. Per giunta, in una litania è definita «Madre del tuo Genitore» (cfr. il dantesco – e tomistico – «Vergine madre, figlia del tuo figlio ...»). . Cfr. in generale Kyrieleis . Interessante l’anathema posto da mercenari samii reduci da pericolose avventure in occidente, recentemente reinterpretato da Manganaro . . Così Diodoro Siculo, nel i l. della sua Biblioteca storica, tutto dedicato all’Egitto, il luogo dove ebbero origine gli dei (i , ). Cfr. Burton : , , , per le allusioni implicite a Mut-Hera. . Meiggs-Lewis : - nr. . Cfr. Shipley : -. La datazione è incerta, dalla metà alla fine del vi sec., perché non è chiaro se il dedicatario sia da identificarsi con Aiakes padre del
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sorilievo un « petit lion dressé sur ses pattes de devant». Coeva a questa immagine, che, nonostante lo scetticismo di alcuni interpreti, non può rappresentare che la dea Hera, si colloca un’altra statua di donna seduta (non identificata da nessuna iscrizione) che tiene sulle ginocchia un leone di cospicue dimensioni. Nonostante che lo stesso Buschor, e anche uno specialista di iconografia metroaca come F. Naumann, sostengano che si tratti di Cibele di cui il leone è ovvio attributo, è più verosimile che si tratti di Hera, proprio perché il leone – che anche altrove non è estraneo alla sfera della dea greca – è un segno di forza e possanza, che nell’isola di Samo sono i connotati esclusivi di Hera. Il leone rampante della prima statua (sicuro attributo di Hera) e il leone accoccolato della seconda (riferibile con probabilità alla stessa dea) fanno comunque pensare a un motivo di origine asianica, e precisamente a un influsso tangibile della dea Madre per eccellenza, la frigia Cibele, che da un capo all’altro del Mediterraneo figura costantemente con un leone sulle ginocchia. L’assunzione di tale motivo per trasferimento dalla dea del continente è tanto più probabile in quanto l’influsso dell’iconografia metroaca è attestato già per un importante rilievo votivo ligneo, trovato negli scavi dell’Heraion, che è databile al vii secolo. Si tratta della peculiare immagine consistente di una testa applicata a un corpo rettangolare inserita nel cavo di un blocco ligneo in forma di parallelepipedo. Il motivo della statuetta all’interno di una nicchia non è certo l’invenzione di un artigiano samio, «rather it has been derived from artistic prototypes such as Oriental ivories or Cybele-reliefs from Asia Minor». In un crocevia del Mediterraneo orientale come Samo, frequentato da marinai, mercanti, cavalieri e dame di ventura di ogni razza, la dea regina e vergine (vergine fu appellata, per quanto non fosse insensibile alle grazie del nobile Leicester, anche Elisabetta I regina d’Inghilterra, del pari protettrice di navigatori e corsari) non disdegnava l’incontro mutuamente fecondante con principesse forestiere della sua stessa tempra. Università di Salerno
tiranno Policrate (circa ) o con l’omonimo nipote di Policrate (circa ) o con un altro Aiace della stessa famiglia. . Levêque : . Cfr. , fig. . . Levêque : . . Cit. da Pötscher : n. . . Levêque : -; Pötscher : -. . Kyrieleis , fig. . . Kyrieleis : .
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Solo dopo la chiusura del manoscritto ho visto i due lavori di Andrea Furtwängler, L’Héraion de Samos : quelques aspects de l’évolution du sanctuaire du Ve siècle à l’époque hellénistique. Essai d’interprétation, e Photini Zapheiropoulou, La relation entre l’Héraion et la ville de Samos, entrambi in Héra. Images, espaces, cultes. Actes du Colloque International de Lille (), ed. J. de la Genière, Naples (Coll. cjb, ), - e - rispettivamente, che presentano un importante apparato iconografico ma non modificano significativamente il quadro storico-cultuale e storico-topografico delineato da Kyrieleis nelle due fondamentali sintesi succitate.
v e n e r d ì n o v e m b r e ⋅ o r e : presiede antonio aloni
T R A D I Z I O N E A S T R O N O M I C A A SA M O ( P I T A G O R A E IB I C O ) Antonietta Gostoli
L ’ isola di Samo ha dato, com’è noto, contributi fondamentali alla storia della cultura greca : uno di questi, forse il più straordinario, è rappresentato dalla scoperta del sistema eliocentrico, elaborata da Aristarco nel iii sec. a. C. Sul carattere genuinamente scientifico di questa scoperta e quindi sull’influenza effettiva che le notizie ad essa relative ebbero nella riscoperta dello stesso sistema da parte di Copernico, ha fornito ampia documentazione Lucio Russo già nel volume La rivoluzione dimenticata (Milano ) e ne riparlerà oggi in questo Incontro di studi. Una serie di notizie attendibili, relative a Pitagora e a Ibico, dimostra come già nella prima metà del vi sec. a. C. l’isola di Samo fosse un centro attivo e all’avanguardia nella ricerca astronomica, dove fu elaborata o perfezionata una delle scoperte fondamentali relativa alla strutturazione delle sfere celesti : l’identificazione in un solo e unico astro di quelli che fino ad allora erano stati ritenuti due astri diversi e che come tali continuarono ad essere trattati a livello di fantasia popolare e di concezione mitica, Phosphoros ovvero Heosphoros e Hesperos (in greco), Lucifer e Vesper (in latino). Dunque la scoperta di Aristarco e il contesto di studi che fiorirono al suo tempo non furono a Samo una novità di epoca ellenistica, bensì la continuazione di un’antica tradizione scientifica radicata nell’isola. Sul problema sopra prospettato (l’identificazione in un solo astro di Heosphoros e di Hesperos) esaminiamo ora le testimonianze antiche: Aët. ii , (Dox. Gr. , ) = Parmen. Vorsokr. A a (i , ) Parmeni´dhw prv ^ ton me`n ta´ttei to`n »Ev ^ ion, to`n ay∫to`n de` nomizo´menon y™p« ay∫toy^ kai` çEsperon, e∫n tv ^ i ai∫&e´ri. me&« oÇn to`n hçlion, y™f« v © i toy`w e∫n tv ^ i pyrv ´ dei a∫ste´raw, oçper oy∫rano`n kalei^ (cf. B , ).
Parmenide colloca per primo nell’etere l’astro del mattino (»Ev^ion = Heosphoros, cioè Lucifero), da lui ritenuto lo stesso astro che Hesperos; dopo di quello il sole, al di sotto del quale pone gli astri che sono nella regione del fuoco da lui chiamata cielo.
In questo passo Aezio attribuisce dunque la scoperta a Parmenide, senza avanzare dubbi in proposito. Viceversa più complessa è la testimonianza di Diogene Laerzio ix = Parmen. Vorsokr. A (i , ) : kai` dokei^ prv ^ tow (Parmeni´dhw) pefvrake´nai to`n ay∫to`n ei®nai çEsperon kai` Fvsfo´ron, v ç w fhsi Fabvri^now e∫n pe´mptvi «Apomnhmoneyma´tvn (fr. Barigazzi).
antonietta gostoli
oi™ de` Py&ago´ran (Vorsokr. A ). Kalli´maxow de´ fhsi mh` ei®nai ay∫toy^ to` poi´hma
(fr. Pf.).
Sembra che per primo (Parmenide) abbia scoperto (pefvrake´nai) che sono lo stesso astro Hesperos e Phosphoros, come dice Favorino nel quinto libro delle Memorie. Altri dicono che il primo a fare la scoperta fu Pitagora. Callimaco invece afferma che il poema non è suo.
Dunque Diogene allega la testimonianza di Favorino per attribuire la scoperta a Parmenide, ma cita contestualmente una diversa opinione corrente, secondo la quale la scoperta sarebbe invece risalita già a Pitagora. In questo contesto problematica appare l’allusione alla posizione di Callimaco: “Callimaco afferma che il poema non è suo”. Che significa ? La sintassi di Diogene, in se stessa, lascerebbe il campo aperto a diverse letture: ) Callimaco negava che il poema Peri` fy´sevw attribuito a Parmenide fosse autentico. Sembra davvero improbabile! Sarebbe l’unica voce in tutta la tradizione antica ad averne messo in dubbio l’autenticità; ) Callimaco negava che fosse autentica in particolare la sezione del poema pertinente all’identità di Lucifero ed Espero. In effetti nel linguaggio della critica letteraria ellenistica proprio questo può essere il significato di poi´hma : sezione strutturalmente autonoma di un poema lungo e articolato. In questo caso Callimaco avrebbe sostenuto che la scoperta spettava a Pitagora e che il suo contenuto fosse stato inserito poi nel poema di Parmenide da un interpolatore successivo, forse un allievo della scuola eleatica. In realtà sembra molto più probabile una terza lettura del brano di Diogene : l’ay∫toy^ dell’enunciato in questione è riferibile più naturalmente a Pitagora nominato nella frase immediatamente precedente (oi™ de` Py&ago´ran) che non a Parmenide, menzionato ancora prima. In questo caso Callimaco, forse nei Pinakes, avrebbe argomentato così: «C’è chi attribuisce la scoperta a Pitagora, chi la attribuisce a Parmenide. In effetti la teoria si trova sia nel Peri` fy´sevw di Parmenide, sia in un poema attribuito a Pitagora. Ma quest’ultimo è apocrifo, come tanti altri scritti attribuiti al maestro di Samo». Diogene Laerzio affronta il medesimo problema anche in un altro passo che fornisce altri elementi di riflessione : Prv ^ to´n te´ fasi toy^ton (Py&ago´ran) ...ei∫w toy`w çEllhnaw me´tra kai` sta&ma` ei∫s. Il verbo fvra´v di solito ricorre nel significato di ‘scoprire’, ‘cogliere in flagrante’ un ladro o qualcuno che macchina insidie (cfr. lsj, s.v.). In riferimento alla scoperta dell’identità dei due astri sembra sottolinearne argutamente l’originalità e l’elemento di sorpresa. . Vedi Ardizzoni : -. . Per questa interpretazione del passo, cfr. Pfeiffer : ad loc. ; Blum : col. . Doveva trattarsi di un poema di filosofia della natura che circolava sotto il nome di Pitagora, secondo Burkert : . Sul problema della pseudo-epigrafia anche nella critica antica, si vedano Cassio ; Centrone . . Diog. Laert. viii = Parmen. Vorsokr. A a (i , ).
t r a d i z i o n e a s t r o n o m i c a a sa m o
hgh´sas&ai, ka&a´ fhsin «Aristo´jenow o™ moysiko´w (fr. Wehrli). prv ^ to´n te ç Esperon kai` Fvsfo´ron to`n ay∫to`n ei∫pei^n, v ç w fhsi Parmeni´dhw.
Dicono che (Pitagora) per primo abbia introdotto in Grecia pesi e misure, come dice Aristosseno il Musico, e per primo identificò Hesperos con Phosphoros, come dice Parmenide.
Interpretando alla lettera questo secondo passo, dovremmo dedurre che Parmenide, nel suo poema, citasse Pitagora, attribuendogli la paternità dell’identificazione dei due astri. Questa ricostruzione contrasterebbe però con quanto affermato dallo stesso Diogene Laerzio nel passo riportato sopra (“Sembra che per primo Parmenide abbia scoperto che sono lo stesso astro Hesperos e Phosphoros... altri dicono Pitagora”). Pertanto la maggior parte degli editori ha preferito correggere o integrare il testo tradito. In realtà non è necessario correggere il testo tradito. Esso può avere benissimo proprio il senso ricercato dai filologi che hanno ritenuto opportuno emendarlo : « Dicono che Pitagora per primo affermò l’identità dei due astri, nello stesso modo in cui afferma Parmenide». In questo caso le due espressioni apparentemente parallele che si susseguono a breve distanza (ka&a´ fhsin «Aristo´jenow o™ moysiko´w... v ç w fhsi Parmeni´dhw) avrebbero invece un significato del tutto eterogeneo. La spiegazione più ovvia dell’oscillazione dei dossografi antichi nell’attribuzione della scoperta potrebbe essere la seguente, tenendo conto delle dinamiche concrete della cultura arcaica: Pitagora, il filosofo del quale si diceva anche che nulla avesse scritto, compì la scoperta o, quanto meno, dimostrò scientificamente e diffuse tra i Greci una scoperta astronomica appresa durante i suoi viaggi in Oriente; Parmenide, che ebbe rapporti stretti con i Pitagorici, ne riconobbe la validità, la verificò a livello di calcoli astronomici e la espose nel suo poema, nella sezione relativa alle sfere celesti. Un frammento di Ibico sembra confermare in pieno questa ricostruzione e spostare a Samo il luogo di origine della scoperta o della sua diffusione : An. Ox. iii , Cramer (Schol. in Basil. Orat. peri` gene´sevw) = Ibyc. fr. Page/Davies . oi™ de´ fasi Parmeni´dhn Casaubon, Cobet, Wehrli; v™w de´ fhsi Fabvri^now Parmeni´dhw Karsten ; v™w de` Fabvri^no´w fhsi Parmeni´dhn Barigazzi, Marcovich. . Cfr. Diels-Kranz : ad loc. . Cfr. Diog. Laert. viii ; Centrone : -. . L’origine babilonese della scoperta è accolta da Bowra : , sulla scorta di Rehm : col. . Ma è opinione generalmente condivisa dalla critica più recente che presso i Babilonesi l’astronomia scientifica, cioè di carattere matematico, non si possa collocare prima del iv secolo a. C. : cfr. Neugebauer : ; van der Waerden : ; Dicks : ; Franciosi : . . Cfr. Diog. Laert. ix = Parmen. Vorsokr. A (i , ) ; Cerri : s. . Parmen. Vorsokr. B - (i -) ; cf. Cerri : .
antonietta gostoli
o™ de` ay∫to`w e™vsfo´row kai` eçsperow. kai´toi ge to` palaio`n a¢llow e∫do´kei ei®nai o™ e™vsfo´row kai` a¢llow o™ eçsperow. prv ^ tow de` ÊIbykow o™ »Rhgi^now synh´gage ta`w proshgori´aw.
Heosphoros e Hesperos sono lo stesso astro. Eppure nell’Antichità sembravano due astri diversi. Il primo a ricondurre ad unità i due nomi fu Ibico di Reggio.
Non risulta da alcun’altra fonte che Ibico si sia occupato di astronomia: evidentemente in qualche sua composizione oggi perduta (un encomio, uno scolio) aveva avuto occasione di alludere ai due astri affermandone l’identità come cosa ovvia. Si potrebbe pensare che abbia ricondotto ad unità i due nomi chiamando l’astro con il nome di Afrodite, ma in realtà questa denominazione è attestata per la prima volta nell’Epinomide pseudoplatonica. Dove, in quale località concreta, la dottrina astronomica avrebbe potuto essere diventata, già nel vi sec. a. C., patrimonio popolare, se non a Samo, la patria di Pitagora, frequentata da Ibico stesso? Secondo la Suda Ibico si sarebbe trasferito dalla Magna Grecia a Samo durante la cinquantaquattresima Olimpiade (-) ; Eusebio invece ne colloca il floruit nella sessantunesima Olimpiade (-), cioè durante il regno del tiranno Policrate. Che sia giusta la cronologia alta proposta dalla Suda (considerata più attendibile dalla critica più recente) o quella di Eusebio, è comunque del tutto possibile che a Samo egli abbia incontrato Pitagora, già assurto al rango di maestro di sapienza prima di trasferirsi a Crotone (intorno al a.C.). Ma la popolarità della dottrina su Espero-Lucifero, quale sembra potersi dedurre dalla menzione quasi scontata che Ibico doveva farne in un suo canto corale o monodico, lascia la porta aperta ad un’eventualità ulteriore, cioè che la dottrina fosse già stata elaborata da astronomi di Samo anteriori a Pitagora e a noi ignoti, i quali potevano averla appresa grazie ai rapporti di Samo con il mondo orientale ed egizio ed averla quindi insegnata al giovane Pitagora. Quest’ultimo la sistematizzò ulteriormente e la trasferì in Occidente, facendone uno dei capisaldi della sua astronomia, recepita dai gruppi pitagorici delle città della Magna Grecia: di qui l’attribuzione della dottrina a lui in particolare. È possibile che Ibico, originario di Reggio, sia venuto a co. Cfr. Achill. Tat. In Arat. Isag. (Comment. in Arat. Rel. , Maass) pe´mptow o™ th^w «Afrodi´thw para` me`n çEllhsin e™vsfo´row prv ^ tow de` ÊIbykow ei∫w eÇn syne´steile ta`w proshgori´aw.
. Per questa ipotesi, si veda D’Alfonso -: n. . Cerri : s. suggerisce che il nome di Afrodite possa essere stato dato all’astro da Parmenide. . Plat. Epinom. b o™ me`n ga`r e™vsfo´row eçspero´w te v£n ay™to`w «Afrodi´thw ei®nai sxedo`n e¢xei lo´gon. . Suda, s.v. ÊIbykow (ii Adler). . Eus. Chron. Ol. lxi (II Schoene) : Ibycus carminum scriptor agnoscitur. . Sisti ; Barron : s. ; Gentili : n. ; Giannini : . . La raccolta delle fonti relative ai viaggi di Pitagora, accompagnata da un’amplissima discussione, in Zeller-Mondolfo : -.
t r a d i z i o n e a s t r o n o m i c a a sa m o
noscenza della dottrina in Occidente? In linea teorica l’ipotesi è possibile, ma non molto verisimile. In Occidente l’identificazione dei due astri continuò ad essere considerata come una ‘scoperta scientifica’, parte integrante dell’insegnamento ‘filosofico’, vuoi di Pitagora, vuoi di Parmenide, proprio come dimostra il dibattito erudito sulla paternità della scoperta. Sembra che nell’Ellade in generale non fosse divenuto ancora elemento di cultura popolare. Ibico invece doveva farne menzione in un canto simposiale, magari erotico o in un canto corale, eseguito di fronte ad un vasto pubblico festivo, non di fronte ad un pubblico di sapienti, né Ibico stesso era scienziato. La localizzazione a Samo sembra davvero la più coerente con i dati in nostro possesso. Solo i poeti ellenistici riprenderanno questo tema parlando di Espero-Lucifero come di due astri in uno, uno in due, ad un pubblico di lettori amante di poesia, ma non esperto di astronomia: per es. Meleagro nell’elegante epigramma «Hoy^w a¢ggele xai^re, Faesfo´re, kai` taxy`w e¢l&oiw / çEsperow, hÇn a∫pa´geiw la´&riow ay®&iw a¢gvn, «Messaggero dell’Aurora, Stella del mattino, salve ! ma torna presto come Stella della sera, segretamente di nuovo conducendo quella che porti via» ; Catullo nel contesto di un epitalamio Nocte latent fures, quos idem saepe revertens/ Hespere, mutato conprendis nomine Eous, « Copre i ladri la notte, ma tu, Espero, li scopri ritornando con il mutato nome di Eoo». Un motivo che si manterrà vitale nella poesia latina e sarà ripreso anche dal poeta inglese Alfred Tennyson: «Sweet Hesper-Phosphor, double name for what is one, the first, the last, thou like my present and my past, thy place is changed, thou art the same». Università della Calabria
. AP xii . . Catull. , s. Che l’astro si manifesti due volte nello stesso giorno, di mattina e di sera, è una finzione cara ai poeti ellenistici. In realtà può essere visibile talora al mattino, prima dell’alba, talora alla sera, dopo il tramonto del sole. . Ciris s., che riprende Callim. fr. Pf. ; Cinna fr. Blänsdorf ; Manil. i ; Sen. Ag. ; Hipp. -; Stat. Theb. vi -. . A. Tennyson, In Memoriam .
antonietta gostoli Abbreviazioni bibliografiche
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A R I S T A R C O D I S A M O : UN O S C I E N Z I A T O I S O L A T O ? Lucio Russo
È ben noto che Aristarco di Samo, nella prima metà del III secolo a.C., elaborò la teoria eliocentrica, attribuendo alla Terra i moti di rotazione e rivoluzione che oggi ci sono familiari: ne abbiamo numerose testimonianze, la più autorevole delle quali è l’Arenario di Archimede. L’importanza della teoria eliocentrica di Aristarco per la storia della scienza è tuttavia in genere minimizzata con vari espedienti. Quella di Aristarco è per lo più giudicata un’intuizione certamente geniale, ma troppo in anticipo sui tempi per potere influenzare significativamente la storia delle idee. Secondo la maggioranza degli storici della scienza l’astronomia sarebbe divenuta per la prima volta veramente eliocentrica solo molti secoli più tardi, grazie a Copernico. Non a caso Thomas Kuhn, dedicando un importante saggio al passaggio dal geocentrismo all’eliocentrismo, che costituisce il prototipo di quelle “rivoluzioni scientifiche” che sono rimaste associate al suo nome, l’ha intitolato The Copernican Revolution e quello che, usando la terminologia da lui introdotta, è il vero creatore del nuovo “paradigma” vi è nominato solo incidentalmente, quasi come se il ricordarlo fosse solo una curiosità erudita. Il trattamento riservato ad Aristarco da Kuhn certo non stupisce, essendo usuale da alcuni secoli, ma l’attenzione dedicata all’antico astronomo nella prima età moderna era stata ben diversa. Non solo lo stesso Copernico era ben consapevole di essere un continuatore di Aristarco, ma ancora nel Seicento l’eliocentrismo era spesso associato più al suo antico creatore che al suo lontano seguace. Uno dei principali artefici del cambio di prospettiva che ha relegato Aristarco nel ruolo di “precursore” di quello che fino ad allora era apparso un suo seguace è Voltaire. Nella voce système del suo Dictionnaire philosophique si legge: Cet Aristarque de Samos est d’autant plus suspect, que Plutarque l’accuse d’avoir été un bigot, un méchant hypocrite, [...]. Mais, me dira-t-on, [...] il résulte toujours évidemment que le vrai système d’aujourd’hui était connu des anciens. Je réponds que non; qu’une très faible partie de ce système fut vaguement soupçonnée par quelques têtes mieux organisées que les autres. [...] N’envions point à Copernic l’honneur de la découverte. Trois ou quatre mots déterrés dans un vieil auteur, et qui peuvent avoir quelque rapport éloigné avec son système, ne doivent pas lui enlever la gloire de l’invention. [...] . Thomas S. Kuhn, The Copernican Revolution. Planetary Astronomy in the Development of Western Thought, Harvard, Harvard University Press, .
lucio russo
Admirons encore davantage la profondeur, la justesse, l’invention du grand Newton, qui seul a découvert les raisons fondamentales de ces lois inconnues à toute l’antiquité, et qui a ouvert aux hommes un ciel nouveau. Il se trouve toujours de petits compilateurs qui osent être ennemis de leur siècle [...]. Ils se font les trompettes de la gloire des anciens. Ils prétendent que ces anciens ont tout dit, et ils sont assez imbéciles pour croire partager leur gloire, parce qu’ils la publient. [...] Que ne disent-ils aussi que les Grecs avaient de meilleurs fusils, de plus gros canons que nous, qu’ils lançaient des bombes plus loin, [...] etc., etc. ?
Per sconfiggere quelli che Voltaire minacciosamente addita come “nemici del proprio secolo” (cioè coloro che avevano osato sottolineare le antiche conoscenze) si dovette, tra l’altro, confinare l’eliocentrismo di Aristarco nel ruolo di episodio marginale. Tra le varie tecniche usate a questo scopo si può ricordare la storia, spesso ripetuta, dell’accusa di empietà che sarebbe stata mossa ad Aristarco : un’accusa che dimostrerebbe come i tempi di Aristarco non fossero ancora maturi per l’idea eliocentrica. L’accusa sarebbe riferita da Plutarco nel De facie quae in orbe lunae apparet, ma in realtà è possibile leggerla solo se si usa il testo plutarcheo emendato da Gilles Ménage (-), il quale, scambiando un accusativo con un nominativo, ha trasformato in accusato un Aristarco scherzoso accusatore . L’ardito intervento di Ménage era stato evidentemente influenzato dai processi a Bruno e Galileo, che suggerivano che in un brano in cui si parlava di eliocentrismo e di empietà quest’ultima dovesse essere attribuita necessariamente al sostenitore dell’eliocentrismo. Va notato che l’emendamento stentò a lungo ad essere accolto: ancora lo stesso Voltaire (in uno dei passi omessi nella citazione precedente) si riferisce al passo di Plutarco nella lezione trasmessa dai manoscritti; solo dopo che la nuova immagine dell’antico eliocentrismo si fu imposta il testo di Plutarco divenne canonico nella versione emendata, rendendo così Aristarco imputato di empietà in tutti i libri di storia dell’astronomia. La convinzione che l’eliocentrismo di Aristarco fosse stato respinto dagli astronomi ellenistici successivi è molto diffusa, ma non ha un adeguato sostegno nelle fonti. Poiché possiamo leggere l’Almagesto, sappiamo con certezza che Tolemeo era geocentrico, ma sulle teorie astronomiche prevalenti nel periodo intermedio tra Aristarco e Tolemeo, vista la perdita totale delle opere astronomiche dell’epoca, è possibile solo avanzare congetture. Il lungo intervallo che separa Tolemeo da Aristarco non è affatto un periodo omogeneo, consistendo di due fasi molto diverse: a un periodo di circa un secolo e mezzo di sviluppo dell’astronomia, cui parteciparono scienziati . Per maggiori particolari sul passo emendato da Ménage, cfr. L. Russo, S. Medaglia, Sulla presunta accusa di empietà ad Aristarco di Samo, «qucc », n.s. (), , -.
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del massimo livello, come Conone di Samo , Archimede, Apollonio di Perge e Ipparco, seguirono un paio di secoli di interruzione delle ricerche astronomiche. È abbastanza naturale congetturare che l’eliocentrismo sia stato abbandonato non nella fase di sviluppo della scienza astronomica ellenistica, ma durante la lunga interruzione dell’attività di ricerca. Ho cercato di dimostrare altrove che tale congettura è confortata da varie testimonianze latine pre-tolemaiche, in particolare di Vitruvio, Lucrezio, Plinio e Seneca . La circostanza che l’eliocentrismo sia attribuito da quasi tutte le fonti al solo Aristarco non significa necessariamente che esso fosse stato respinto da tutti gli astronomi successivi. Del resto non tutte le fonti considerano Aristarco isolato. Sesto Empirico, ad esempio, individua i sostenitori dell’eliocentrismo non nel solo Aristarco, ma nei suoi seguaci (oi™ peri` «Ari´starxon) : oiç ge mh`n th`n toy^ ko´smoy ki´nhsiw a¢nhsiw a∫nelo´ntew th`n de` gh^n kinei^s&ai doja´santew, v ™ w oi™ peri` «Ari´starxon to`n ma&hmatiko´n, oy∫ kvly´ontai noei^n xro´non (Sesto Empi-
rico, Adversus Physicos, ii )
D’altra parte una teoria non è in genere associata a tutti quelli che l’accettano, ma solo al suo autore e a coloro che hanno dato importanti contributi al suo sviluppo. Nel nostro caso sappiamo da Plutarco che almeno uno scienziato non si era limitato ad accettare la teoria di Aristarco, ma quanto meno aveva cercato di migliorarla: po´teron oyçtvw e∫ki´nei th`n gh^n v ç sper hçlion kai` selh´nhn kai` toy`w pe´nte pla´nhtaw, oyÇw o¢rgana xro´noy dia` ta`w tropa`w proshgo´reye, kai` e¢dei th`n gh^n ∫illome´nhn peri` to`n dia` pa´ntvn po´lon tetame´non memhxanh^s&ai mh` synexome´nhn kai` me´noysan a∫lla` strefome´nhn kai` a∫neiloyme´nhn noei^n, v ™ w yçsteron «Ari´starxow kai` Se´leykow a∫pedei´knysan, o™ me`n y™poti&e´menow mo´non o™ de` Se´leykow kai` a∫pofaino´menow ; (Plutarco, Platonicae
quaestiones, viii, i = Moralia C).
Poneva egli [Timeo] la Terra in moto, come il Sole e la Luna ed i cinque pianeti, che egli chiama strumenti del tempo per il loro girare, e doveva pensare che la Terra, ruotante attorno all’asse esteso attraverso tutto, fosse stata progettata non confinata e stabile ma rivolgentesi e ruotante, come successivamente affermarono Aristarco e Seleuco, il primo assumendolo solo per ipotesi e Seleuco invece dimostrandolo [o mostrandolo] anche?
Occorre qui inserire una parentesi sul verbo a∫neile´v, che ho tradotto “rivol. Pur non essendoci rimasta alcuna sua opera, il livello dei risultati di Conone può essere intuito sulla base delle lodi che gli rivolge Archimede. . L. Russo, The astronomy of Hipparchus and his time: a study based on pre-Ptolemaic sources, « Vistas in Astronomy», , , -.
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gere”. Mentre Schiaparelli e Heath avevano dato del brano la stessa interpretazione accolta qui, Dreyer e Neugebauer hanno pensato che Plutarco intendesse riferirsi al solo moto di rotazione. Questa seconda interpretazione deve essere respinta per almeno due ragioni: innanzi tutto il moto di rotazione è chiaramente indicato nel brano dal verbo stre´fv, e non si capirebbe quindi perché Plutarco dovrebbe introdurre il secondo verbo a∫neile´v ; inoltre Plutarco si riferisce esplicitamente ai moti considerati da Aristarco, che sappiamo essere appunto quelli di rotazione e di rivoluzione. A differenza di molti storici moderni, Copernico certamente non aveva avuto dubbi sui moti attribuiti da Plutarco ad Aristarco, visto che cita Plutarco come fonte sull’antico eliocentrismo. Scrivendo il suo trattato, egli dovette scegliere un termine latino per indicare il moto della Terra intorno al Sole. Seguendo le abitudini del tempo, la scelta più ovvia era quella di un calco del termine greco a∫neile´v. Per ottenerlo occorreva tradurre in latino entrambi gli elementi che lo compongono: la preposizione a∫na´ e il verbo ei™le´v. ei™le´v corrisponde esattamente al latino volvo, mentre a∫na´ è reso in latino da re- : si ottiene così revolvo, ossia il termine realmente usato da Copernico. È improbabile che un criterio diverso avrebbe portato Copernico a scegliere lo stesso termine (al quale è associato soprattutto il significato di rotolare) tra i vari verbi latini a disposizione. La corrispondenza tra il termine di Plutarco a∫neile´v ed il moto di rivoluzione “copernicano” non dipende quindi da un anacronismo nel tradurre Plutarco, ma dalla decisione di Copernico di usare un calco del termine plutarcheo. Una ricostruzione del contributo di Seleuco potrebbe essere essenziale per ricostruire gli antichi sviluppi della teoria di Aristarco. Di Seleuco sappiamo però ben poco. Una delle principali testimonianze su di lui è la seguente, di Strabone : fhsi` d« oy®n Se´leykon to`n a∫po` th^w «Ery&ra^w &ala´tthw kai` a∫nvmali´an tina` e∫n toy´toiw kai` o™malo´thta le´gein kata` ta`w tv ^ n zv ı di´vn diafora´w. e∫n me`n ga`r toi^w ∫ishmerinoi^w zv ı di´oiw th^w selh´nhw oy¢shw o™mali´zein ta` pa´&h, e∫n de` toi^w tropikoi^w a∫nvmali´an ei®nai, . Giovanni Schiaparelli, I precursori di Copernico nell’antichità, in Scritti sulla storia dell’astronomia antica, Bologna, Zanichelli, -, parte I, tomo I, p. ; Thomas Little Heath, Aristarchus of Samos, the ancient Copernicus; a history of Greek astronomy to Aristarchus, together with Aristarchus’s Treatise on the sizes and distances of the sun and moon, Oxford, Clarendon Press, (repr. New York, Dover Publications, ), p. . . John L. E. Dreyer, History of the planetary system from Thales to Kepler, Cambridge, University Press, , p.; Otto Neugebauer, A History of Ancient Mathematical Astronomy, Berlin/Heidelberg/New York, Springer, , p. . . Le osservazioni che seguono sono basate su un suggerimento di Maria Grazia Bonanno. . La corrispondenza è ancora più profonda di quanto probabilmente apparisse a Copernico. ei™le´v e volvo sono, infatti, gli esiti, rispettivamente in greco e in latino, di una stessa radice vel/vol.
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kai` plh´&ei kai` ta´xei, tv ^ n d« a¢llvn e™ka´stv ı kata` toy`w syneggismoy`w ei®nai th`n a∫nalogi´an. ay∫to`w de` kata` ta`w &erina`w tropa`w peri` th`n panse´lhno´n fhsin e∫n tv ^ı »Hraklei´v ı geno´menow tv ^ı e∫n Gadei´roiw plei´oyw h™me´raw mh` dy´nas&ai synei^nai ta`w e∫niaysi´oyw diafora´w (Strabone, Geografia, iii, v, ).
[Posidonio] riferisce dunque che Seleuco, quello del Mare Eritreo, parla di una diseguaglianza o eguaglianza in questi [fenomeni] secondo le variazioni dei segni dello zodiaco; dice infatti che quando la luna si trova nei segni equinoziali le mutazioni [cioè le due maree giornaliere] sono eguali, in quelli solstiziali vi è una diseguaglianza, sia in quantità che in velocità, mentre in ciascuno degli altri segni [l’andamento] è in proporzione alla vicinanza [tra la luna ed i segni suddetti]. [Posidonio] dice però che egli stesso, avendo trascorso diversi giorni nell’Eracleo a Cadice al solstizio d’estate in prossimità del plenilunio, non aveva assistito a tali differenze annuali.
Un’altra testimonianza su Seleuco, che riguarda anch’essa i suoi studi sulle maree, merita di essere letta: toi^w te pa´&esi toy^ v ∫ keanoy^ toi^w peri` ta`w a∫mpv ´ teiw kai` ta`w plhmmyri´daw o™mologei^ toy^to ma^llon. pa´ntW goy^n o™ ay∫to`w tro´pow tv ^ n metabolv ^ n y™pa´rxei kai` tv ^n ay∫jh´sevn kai` meiv ´ sevn, h£ oy∫ poly` paralla´ttvn, v ™ w a£n e∫f« e™no`w pela´goyw th^w kinh´sevw a∫podidome´nhw kai` a∫po` mia^w ai∫ti´aw. çIpparxow d« oy∫ pi&ano´w e∫stin a∫ntile´gvn tW^ do´jW tay´tW, v ™ w oy¢&« o™moiopa&oy^ntow toy^ v ∫ keanoy^ pantelv ^ w, oy¢t« ei∫ do&ei´h toy^to, a∫koloy&oy^ntow a∫ytv ^ı toy^ sy´rroyn ei®nai pa^n to` ky´klv ı pe´lagow to` «Atlantiko´n, pro`w to` mh` o™moiopa&ei^n ma´rtyri xrv ´ menow Seley´kv ı tv ^ı Babylvni´v ı (Strabone, Geo-
grafia, I, i, -).
Ciò [l’ipotesi di un unico oceano esteso dalle Colonne d’Ercole all’Asia] si accorda anche meglio con le mutazioni dell’oceano riguardanti i flussi ed i riflussi delle maree ; ovunque infatti si ha lo stesso tipo di trasformazioni, sia per le alte che per le basse maree, come se fosse prodotto dal movimento dello stesso mare e per la stessa causa. Ipparco non è convincente quando afferma contro questa opinione che né l’oceano subisce del tutto le stesse trasformazioni né, ciò concesso, ne seguirebbe che l’Atlantico sia tutto continuo in cerchio, chiamando a testimone dell’andamento non uniforme [dell’oceano] Seleuco di Babilonia.
L’interesse di questo brano è duplice. Ai nostri fini dobbiamo sottolineare soprattutto la fiducia accordata da Ipparco agli studi di Seleuco, che ne dimostra l’attendibilità. La testimonianza ha tuttavia anche un grande interesse in sé, che merita una breve digressione dal nostro argomento principale. Attraverso le parole di Strabone possiamo infatti ricostruire l’argomento con il quale Ipparco aveva sostenuto l’esistenza di un continente intermedio tra gli oceani che noi chiamiamo Atlantico e Pacifico. Si tratta di un argomento apparentemente dimenticato, che sorprende per la sua semplicità ed efficacia. L’esistenza di quella che nel nostro linguaggio è l’America era stata dedotta dalle differenza qualitative tra le maree a ovest della penisola iberica e quelle dell’Oceano Indiano: differenze che, a parere di Ipparco, non erano compatibili con l’ipotesi che si trattasse di un unico mare.
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Tornando al nostro tema principale, per cercare di capire se e in che modo gli studi di Seleuco sulle maree potevano avere svolto un ruolo nella sua prova dell’eliocentrismo occorre considerare alcune altre fonti sull’astronomia pre-tolemaica. Cominciamo col riportare un passo, di fondamentale importanza, di Plutarco: kai´toi tW^ me`n selh´nW boh´&eia pro`w to` mh` pesei^n h™ ki´nhsiw ay∫th` kai` to` r™oizv ^ dew th^w periagvgh^w, v ç sper oçsa tai^w sfendo´naiw e∫nte&e´nta th^w katafora^w kv ´ lysin ¢isxei th`n ky´klv ı peridi´nhsin. a¢gei ga`r eçkaston h™ kata` fy´sin ki´nhsiw, a£n y™p« a¢lloy mhdeno`w a∫postre´fhtai. dio` th`n selh´nhn oy∫k a¢gei to` ba´row y™po` th^w perifora^w th^n r™oph`n e∫kkroyo´menon. a∫lla` ma^llon ¢isvw lo´gon ei®xe &ayma´zein me´noysan ay∫th`n panta´pasin v ç sper h™ gh^ kai` a∫tremoy^san (Plutarco, De facie.., C-D)
Certo la luna è trattenuta dal cadere dallo stesso moto e dalla rapidità della sua rotazione, proprio come gli oggetti posti nelle fionde sono trattenuti dal cadere dal moto circolare. Il moto secondo natura guida infatti ogni corpo, se non è deviato da qualcos’altro. Perciò la luna non segue il suo peso, [che è] equilibrato dall’effetto della rotazione. Ma si avrebbe forse più ragione di meravigliarsi se essa restasse assolutamente immobile e fissa come la terra.
Dobbiamo ovviamente ricordare che con “fionda” (sfendo´nh) Plutarco non intende il gioco da ragazzi che oggi associamo comunemente a tale termine, ma l’arma usata ai suoi tempi dai frombolieri con una tecnica che ricorda l’attuale lancio del martello. Ho esposto altrove la tesi che la fonte di questo brano di Plutarco (e di altri dedicati nello stesso dialogo al moto di corpi all’interno della Terra) sia Ipparco e, in particolare, la sua opera perduta sul moto dei gravi. L’argomento riportato da Plutarco nel caso della Luna fu generalizzato al moto dei pianeti, come è chiaro dalla seguente testimonianza di Seneca: Inventi sunt qui nobis dicerent: ‘Erratis, quod ullam stellam aut supprimere cursum iudicatis aut vertere. Non licet stare caelestibus nec averti; prodeunt omnia: ut semel missa sunt, vadunt ; idem erit illis cursus qui sui finis. Opus hoc aeternum irrevocabiles habet motus: qui si quando constiterint, alia aliis incident, quae nunc tenor et aequalitas servat. Quid est ergo cur aliqua redire videantur? Solis occursus speciem illis tarditatis imponit et natura viarum circulorumque sic positorum ut certo tempore intuentes fallant: sic naves, quamvis plenis velis eant, videntur tamen stare’. (Seneca, Naturales quaestiones, vii, , -). Abbiamo trovato chi ci ha detto: “Sbagliate, pensando che qualche stella interrompa il suo cammino o lo inverta. Non è permesso ai corpi celesti fermarsi né invertire il moto ; tutti avanzano: come una volta sono stati lanciati, così procedono; la fine del loro cammino coinciderebbe con la loro stessa fine. Quest’opera eterna ha moti irrevocabili : se dovessero arrestarsi, quei [corpi] ora conservati dal loro moto regolare cadrebbero gli uni sugli altri. Qual è allora il motivo per cui alcuni . Lucio Russo, Un brano di Plutarco (Moralia, C-A) e la storia della dinamica, «Bollettino dei classici», Accademia dei Lincei, xiv, , -.
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sembrano tornare indietro ? L’intervento del Sole e la natura dei percorsi e delle orbite circolari, disposte in modo che per un certo tempo ingannano gli osservatori, impone loro un’apparenza di lentezza: così le navi, sebbene procedano a vele spiegate, sembrano tuttavia star ferme”.
Il brano di Seneca è chiaro: l’“argomento della fionda”, riportato da Plutarco, che, modernizzando un po’ la terminologia, possiamo chiamare l’argomento dell’equilibrio tra gravità e forza centrifuga, nell’ambito di un’astronomia geocentrica, non può essere esteso ai pianeti. Quando i pianeti invertono il moto apparente (all’inizio e alla fine di ogni retrogradazione) la forza centrifuga dovrebbe infatti annullarsi ed essi dovrebbero precipitare sulla Terra. È invece possibile applicare la descrizione dinamica trasmessa da Plutarco anche ai moti planetari se si accetta l’eliocentrismo di Aristarco e si considerano mere apparenze le retrogradazioni osservate dalla Terra. Nella fonte di Seneca la gravità tra gli astri è in ogni caso equilibrata dalla forza centrifuga, che impedisce che essi cadano gli uni sugli altri. L’argomento riportato da Seneca, mostrando che l’eliocentrismo è necessario per una descrizione che noi diremmo “dinamica” dei moti planetari, fornisce un importante sostegno alla teoria di Aristarco, ma non può esserne considerato una prova. Un aristotelico rimarrebbe convinto che l’argomento dell’equilibrio tra attrazione e forza centrifuga è valido solo nel caso del sasso fatto ruotare dalla fionda, mentre nel caso degli astri non esiste alcuna forza: nel caso della Terra, in particolare, egli sosterrebbe che non vi è né attrazione verso il Sole né forza centrifuga; la terra è semplicemente ferma, senza essere attirata da alcunché. Come provare che realmente esistono due forze opposte, dove, più semplicemente, si può scegliere di non vederne nessuna? Tornando all’esempio della fionda, supponiamo che a ruotare, agganciato alla fionda, non sia un sasso ma qualcosa di deformabile, ad esempio una palla di stracci. Cosa accadrebbe in questo caso? Evidentemente la palla si deformerebbe, allungandosi sia verso il fromboliere sia nel verso opposto. Se accadesse qualcosa di simile alla Terra, le due forze opposte diverrebbero osservabili. La Terra può difficilmente deformarsi nella sua componente solida, ma se fosse sottoposta a un’attrazione verso il Sole e a un’opposta forza centrifuga, le acque dovrebbero presumibilmente sollevarsi in direzione del Sole e nella direzione opposta. L’esistenza osservabile delle maree solari sembra quindi fornire una prova decisiva dell’eliocentrismo e della sua versione “dinamica” riportata da Seneca. Vi è tuttavia una difficoltà : le maree solari sono sì osservabili, ma sono meno rilevanti di quelle lunari, alle quali vanno sommate per rendere conto dei cicli osservabili. Tutto il quadro fin qui proposto diviene quindi accettabile solo se anche le maree lunari trovano la stessa spiegazione. Nel caso delle maree lunari non è però semplice capire l’origine della forza centri-
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fuga : se è la Luna a girare attorno alla Terra, perché anche su quest’ultima dovrebbe agire una forza centrifuga? Per rispondere all’ultima domanda gli antichi astronomi, e in particolare Seleuco, avrebbero potuto ancora una volta usare l’analogia con il fromboliere che fa ruotare la sua fionda. Gli antichi frombolieri, come i moderni lanciatori di martello, sapevano di non poter imprimere velocità al loro proiettile rimanendo esattamente fermi al centro della traiettoria circolare: dovevano ruotare anch’essi, anche se su una circonferenza molto più piccola. Ipotizzando che la stessa cosa accada alla Terra nei riguardi della Luna si ottiene, allo stesso tempo, una teoria sostanzialmente “moderna” delle maree e una definitiva prova dell’eliocentrismo dinamico. Si può essere tentati di congetturare che Seleuco avesse condiviso il ragionamento precedente, ma le fonti considerate finora possono al più rendere plausibile tale congettura. Abbiamo però un’ulteriore importante fonte: un passo di Aezio che collega esplicitamente gli studi di Seleuco sulle maree alla sua teoria dei moti della Terra: Se´leykow o™ ma&hmatiko´w, kinv ^ n kai` oy©tow th`n gh^n, a∫ntiko´ptein ay∫th^w tW^ di´nW fhsi` kai` tW^ kinh´sei th`n peristrofh`n th^w selh´nhw (Doxographi graeci, a, - Diels).
Seleuco il matematico, facendo muovere anch’egli la Terra, dice che la rivoluzione della Luna si contrappone ad un moto vorticoso della Terra.
Il passo appartiene ad un elenco di diverse opinioni sull’argomento delle maree (alle quali si riferisce anche la frase successiva a quella riportata). In questo contesto viene attribuita a Seleuco l’opinione che la Terra sia animata da un moto del quale Aezio riporta due proprietà: a) si tratta di un moto vorticoso. L’espressione di´nh kai` ki´nhsiw è usata da Aristotele in relazione al moto di particelle catturate da un vortice e non è mai usata per indicare la rotazione terrestre; b) vi è qualche forma di contrapposizione (presumibilmente più chiara nella fonte di Aezio) tra questo moto della Terra e la rivoluzione della Luna.
I due punti precedenti sono consistenti con la congettura che Seleuco si riferisse al moto con cui la Terra fronteggia la Luna, trovandosi sempre dalla parte opposta rispetto al comune centro di rotazione. L’analisi condotta fin qui mostra come l’eliocentrismo di Aristarco, lungi dall’avere rappresentato un vicolo cieco nella storia delle idee, avesse avuto in epoca ellenistica importanti sviluppi. Mentre è ben noto che le fonti che riportavano la teoria di Aristarco ebbero un’influenza essenziale su Coper. Aristotele, Physica, a, . Per un’analisi del termine di´nh e dell’espressione di´nh kai` ki´nhsiw si può vedere Lorenzo Perilli, La teoria del vortice nel pensiero antico. Dalle origini a Lucrezio, Ospedaletto (Pisa), Pacini Editore, .
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nico, sembra che la funzione svolta nella prima età moderna dalle testimonianze sugli sviluppi dovuti a Seleuco siano state per lo più ignorate. Tali testimonianze ebbero tuttavia una funzione importante tra il xvi e il xvii secolo nell’indirizzare gli scienziati verso la costruzione di un’astronomia dinamica e una corretta teoria delle maree, come cerco di mostrare altrove. Università di Roma “Tor Vergata”
. Lucio Russo, Flussi e riflussi, Milano, Feltrinelli, .
I L ‘ C U L T O D E L L A P E R S O N A L I T À ’ A SA M O , T R A L I S A N D R O E DE M E T R I O P O L I O R C E T E Manuela Mari i
N ella storia degli onori divini tributati ad esseri viventi nel mondo greco Samo occupa un posto speciale: in almeno tre momenti distinti, tra la fine del v e la fine del iv secolo a.C., le vicende tormentate dell’isola e dei suoi rapporti con Atene vi favorirono sperimentazioni in questo campo; in due casi, in particolare, l’isola fu il laboratorio di iniziative che fecero del culto della personalità una concreta base di potere politico, un fenomeno relativamente nuovo nel mondo greco ancora nella primissima età ellenistica. Il primo momento-chiave è legato com’è noto ai rapporti di Samo con Lisandro, dopo la lunga resistenza e infine la resa nel . L’iniziativa degli onori per il generale spartano venne non dalla po´liw nel suo insieme, ma dalla componente oligarchica di questa, che maggiormente si avvantaggiò dell’esito della guerra : precisazione meno ovvia di quanto sembri, se si considera la sospetta genericità delle fonti antiche su questo punto. La ricca tradizione disponibile attribuisce d’altra parte a Samo un ruolo apparentemente ‘speciale’ nella pur ricca casistica degli onori greci per Lisandro. Un aspetto merita una particolare sottolineatura: la compresenza, nelle iniziative samie a celebrazione del successo e della gloria del generale, di elementi ‘tradizionali’ (sia pure spinti al limite estremo delle loro potenzialità) e di provvedimenti realmente rivoluzionari. Tale compresenza, o ambiguità, non sembra da attribuire specificamente a Samo, ma ricorre nei rapporti intessuti da Lisandro con i Greci, alleati o sconfitti, all’indomani della vittoria su Atene, frutto di una ricerca di consenso che non esita a percorrere strade nuove e audaci, ma è in parte frenata o contraddetta da forze conservatrici, ostili agli ‘esperimenti’ del generale (in primis, ma non esclusivamente, a Sparta). . L’opera di riferimento sul culto di esseri viventi nelle città greche resta Habicht ; più recentemente Badian ; Fredricksmeyer ; Walbank . In questo lavoro prendo in considerazione il possibile ruolo di ‘avanguardia’ giocato da Samo in questo campo: per questa ragione non discuto le testimonianze sul culto dei Tolemei a Samo, non anteriori agli anni ’ del iii sec. a.C. (Hallof-Mileta : ss. ; cfr. IG xii, , , ; , ll. -; ), a un’epoca, cioè, in cui forme di culto dei sovrani si erano ormai consolidate all’interno del mondo greco ellenistico. . Su questa fase Xen. HG ii , , -; D.S. xiv , -. Su Samo fra il e il vd. Gehrke : -; Shipley : -; per la fase conclusiva cfr. Andrewes : -; Bommelaer : -. . Cfr. infra.
manuela mari
Un tratto in qualche misura tradizionale, negli onori samii, è la dedica di una statua del generale a Olimpia, riferita da Pausania in un passo critico verso la caratteristica volubilità dei Greci, e degli Ioni in particolare, nell’acclamare i vincitori. Tra gli esempi di kolakei´a riportati dal Periegeta, l’iniziativa dei Samii si distingue fra tutte per la cornice panellenica, e certo la dedica di una statua (eventualmente, di un ritratto) in onore di un personaggio vivente in un santuario panellenico era un onore eccezionale: non era, tuttavia, privo di precedenti. La critica di Pausania si estende, del resto, alla dedica di statue dei potenti di turno anche nei santuari c i t t a d i n i . Il vero tratto rivoluzionario, negli onori resi a Lisandro nel , è invece, com’è noto, l’attribuzione di un vero e proprio culto: iniziativa che viene riferita dalle fonti appunto a Samo, mentre manca qualunque indizio preciso per altre località. Secondo lo storico samio Duride, citato da Plutarco (Lys. , - = FGrHist F ), Lisandro fu il primo vivente cui le città greche dedicarono bvmoy´w, &ysi´aw e paia^new ; il biografo precisa poco oltre (forse, ma non necessariamente, dalla stessa fonte) che «i Samii» trasformarono le loro feste Heraia in Lysandreia, e l’esistenza a Samo di queste ultime è ribadita da altre fonti (tarde e povere di dettagli) e da una decisiva prova epigrafica. Che Duride si occupasse dei peani per Lisandro in un’opera dedicata specificamente a Samo, i Sami´vn ©Vroi, è detto da Ateneo (xv , E = FGrHist F ), il quale elenca poi altri personaggi cui furono indirizzati peani: sono tutti di epoche successive, a conferma, anche su questo punto specifico, del primato riconosciuto a Lisandro (e dunque a Samo). Nessuna delle fonti ci. Paus. vi , -, secondo cui i Samii passarono disinvoltamente dall’erigere nell’Heraion una statua ad Alcibiade alla dedica olimpica in onore di Lisandro dopo la battaglia di Egospotami. L’efficacia dell’esempio sarebbe stata indebolita dalla notazione che gli autori delle dediche non furono ‘gli stessi’ Samii, ma, rispettivamente, democratici e oligarchici, per cui non sorprende il suo silenzio su questo particolare (Maddoli-Nafissi-Saladino : ss. ; il richiamo pausaniano a Egospotami suggerisce per la dedica una datazione al , o , con Bommelaer : ; quest’ultimo avanza anche l’ipotesi che i Samii eressero anche nella loro isola, oltre che a Olimpia, una statua al generale vittorioso). A Delfi, invece, Lisandro fu egli stesso autore di ricche dediche (cfr. infra). . Per quest’ultimo uso Pausania cita, oltre ai casi di Alcibiade e di Lisandro (e di Eteonico, Farace e altri ufficiali spartani legati a quest’ultimo), anche quelli di Conone e Timoteo (onorati nella stessa Samo e a Efeso); la ‘moda’ esploderà, non a caso, con Antigono e Demetrio (testimonianze e discussione in Mari c.s.). In quel caso, la critica di Pausania si appunta particolarmente sulle statue dei due offerte dagli Ateniesi a Delfi, a sanzione del loro nuovo status di eroi eponimi di due nuove tribù cittadine (x , : le statue furono aggiunte a quelle degli altri eponimi che comparivano nel donario ateniese per Maratona). Il carattere di «onore eccezionale» insito nella dedica di una statua in un santuario panellenico è richiamato, per Lisandro, da Maddoli-Nafissi-Saladino : ; esso è tanto più notevole perché conferito a un personaggio che non è un olimpionico (sul problema, a proposito di Filippo II e della dedica del Philippeion, Mari : s., con fonti e bibliografia) : ma non mancano i precedenti illustri, come Gorgia e il re di Macedonia Alessandro I, alternativamente citati dalla tradizione antica come antesignani in questo campo, per iniziativa propria o altrui (Solin. , ; Plin. Nat. xxxiii , ; Paus. vi , ; x , ; Cic. de Orat. iii , ; per Gorgia cfr. IvO ).
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tate indica più precisamente, come detto, quali cittadini di Samo promossero le diverse iniziative in suo onore: ma non c’è da dubitare che siano stati in primo luogo gli oligarchici cui egli restituì l’isola; è stato suggerito anzi di spiegare gli eventi del anche alla luce di una ‘speciale’ relazione fra gli aristocratici samii e spartani: ma se questa sembra assicurata, per il vii e il vi secolo, da molteplici indizi, più difficile è seguirne le vicende fino alla fine della guerra del Peloponneso e istituire un rapporto diretto con la clamorosa iniziativa in onore del generale vittorioso. Lo spazio concesso da Duride all’argomento e il peso della testimonianza del maggiore storico locale possono aver contribuito a determinare l’unicità di Samo nella tradizione disponibile sul culto reso a Lisandro: sul problema generale della documentazione in materia di culto di esseri viventi (fortemente sbilanciata in favore dei testi epigrafici, e assai irregolarmente distribuita nelle fonti letterarie) richiamava già l’attenzione Chr. Habicht parecchi anni fa, e le sue prudenti considerazioni sull’inopportunità di trarre conclusioni decisive e silentio restano valide. Qualche dubbio è dunque lecito sul fatto che Samo sia stata l’unica città a rendere un culto divino a Lisandro; ma i dettagli specificamente riferiti all’isola sono da accogliere, almeno in ter. Plut. Lys. aggiunge, parlando dei rapporti di Lisandro con il samio Cherilo e con i poeti in genere, la notizia della disputa di agoni poetici nei Lysandreia. Questi sono definiti dai lessicografi, genericamente, una panegyris in onore di Lisandro, con agoni e sacrifici (Hsch. s.v.), o sono attribuiti alla sola Samo (Phot. s.v.) ; la conferma epigrafica di cui nel testo è l’iscrizione su base di statua pubblicata da E. Homann-Wedeking in «AA » : e fig. , ora IG xii, , , : se ne ricava che dei Lysandreia si tennero almeno quattro edizioni (Habicht : -; Bommelaer : n. ) e che vi si disputavano anche gare sportive (vi è menzionato un vincitore nel pancrazio). A sua volta, Ath. xv , E- A elenca una serie di personaggi cui erano stati dedicati in vita dei peani, e fra questi Lisandro è il più antico: anche in questo caso, la fonte è Duride e lo scenario Samo, senza precisazioni sugli specifici promotori dell’iniziativa (FGrHist F : sui Sami´vn ©Vroi e su questo fr. in part. cfr. Okin : -, in part. ss. ; Landucci Gattinoni , s., -, -; sulla provenienza anche del F , citato da Plutarco, dalla stessa sezione dei Sami´vn ©Vroi cfr. Jacoby ad FGrHist F ; Kebric : n. ; Landucci Gattinoni : ). I soli «Samii » sono citati per il culto reso a Lisandro anche in un passo di Athenagor. (supplic. pro Christ. , ) che rigetta sui pagani l’accusa di non onorare « gli dèi della città», abitualmente rivolta ai cristiani: proprio i pagani neanche sanno quali siano le divinità da adorare, visto che ogni città pratica culti diversi; il culto dello stesso Lisandro e quello (eroico) dell’olimpionico tasio Teogene, praticato nella sua patria (Moretti : nr. ; Pouilloux -: i, ss.), sono particolarmente condannati perché indirizzati a personaggi che si erano macchiati di gravi colpe. Neanche Pausania, come detto (n. ) precisa che a erigere statue ad Alcibiade e poi a Lisandro non fu – evidentemente – la stessa componente della cittadinanza; per l’attribuzione dell’iniziativa del culto di Lisandro, in particolare, agli oligarchici si pronuncia Habicht : ; cfr. anche Gehrke : -; Shipley : -. . Cfr. Cartledge , con convincente ricostruzione della «special relationship» per l’età arcaica, che comprende fra l’altro una cospicua presenza di dediche spartane nell’Heraion tra la metà del vii sec. e il ca. (-, con bibl.); meno convincente la trattazione relativa alle propaggini di v sec. ( ss.), e debole, in particolare, la conclusione secondo cui «earlier Spartan interest in the Samian Heraion may have made the renaming of the Heraia seem peculiarly appropriate » ().
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mini generali, ed è difficile anche negare il primato di Lisandro in quest’ambito, sul quale Duride è esplicito: gli uni e l’altro non possono certo esser stati fabbricati per Lokalpatriotismus da uno storico che fu critico feroce delle analoghe iniziative ateniesi in onore di Antigono Monoftalmo e Demetrio Poliorcete. L’eventualità che Plutarco possa aver frainteso o esagerato la notizia sui Lysandreia, come fece per i Demetrieia istituiti ad Atene in onore del Poliorcete (che non sostituirono le feste Dionisie, ma ne costituirono solo una ‘sezione speciale’) è da prendere in considerazione, ma non toglie nulla alla portata eccezionale dell’iniziativa samia. D’altra parte l’enfasi con la quale Duride, stando a Plutarco, affermava che a Lisandro prv´tvı ... »Ellh´nvn ... bvmoy`w ai™ po´leiw a∫ne´sthsan v ™ w &ev ^ı kai` &ysi´aw e¢&ysan, ei∫w prv ^ ton de` paia^new W¢s&hsan non lascia dubbi sul fatto che egli pensasse a onori resi al
generale da vivo: altrimenti si perderebbe il senso di un primato così insistentemente sottolineato. Le rivoluzionarie iniziative del furono in parte, certo, l’effetto della vo. Habicht : ss. : le notizie letterarie sul culto di esseri viventi vengono in gran parte dalle tradizioni locali delle diverse città ; nel caso delle attività di Demetrio ad Atene, in particolare, è in gioco un reale ‘trauma’ nell’identità cittadina, sicché la rappresentazione nelle fonti è polemica e fortemente ideologizzata (Mari ; c.s.). Per Samo, la tradizione sembra viziata, quantomeno nella quantità di dettagli, dallo specifico interesse di un autorevole storico locale, che spiega anche la lunga memoria di un evento come i Lysandreia (cfr. n. ), superiore probabilmente alla sua effettiva durata : contrariamente a quanto sostenuto da Habicht, però, non è certo che Duride parlasse solo del culto samio, e che la generalizzazione della notizia sia dovuta a Plutarco (: -; cfr. anche Badian : ; ancora più imprudente Flower : : «Since Lysander’s cult was undoubtedly limited to Samos, Duris was in a position to rediscover a fact which may have been forgotten by most other Greeks »). Ipercritico, invece, Balsdon : , che non accoglieva le notizie duridee su Lisandro fra i precedenti storici alla divinizzazione di Alessandro pensando a una ‘retrodatazione’, da parte dello storico, di pratiche che gli erano note per la sua epoca. Landucci Gattinoni : s. esclude prudentemente che dai frr. su Lisandro si possa ricostruire il giudizio che Duride dava del personaggio, ma sottolinea comunque l’assenza «di qualsiasi esplicita notazione negativa » sugli onori resigli (a Samo, ed eventualmente altrove ; ipotizza invece una condanna di quelle iniziative, ma senza prove, Okin : s.) ; la studiosa suggerisce inoltre che (anche) per i rapporti Samo-Lisandro Duride si sia servito di tradizioni locali, orali ma anche scritte ( ss., con bibl. ; cfr. Kebric : , ). . Cfr. Nock : -; Schaefer -: ; Nilsson : s. ; Okin : s. Secondo Plut. Demetr. , gli Ateniesi tv^n e™ortv^n ta` Diony´sia metvno´masan Dhmh´tria, mentre l’epigrafia attesta che si trattò di convivenza e non di sostituzione (Mari c.s., con fonti e bibl.). Non è però dimostrabile un analogo fraintendimento per gli Heraia-Lysandreia (nel caso di Demetrio, e di suo padre Antigono, i Samii avrebbero percorso certamente la via dell’istituzione di una festa del tutto nuova: cfr. infra). È da dire inoltre che le posizioni più scettiche sui Lysandreia sono state espresse da studiosi che ancora non conoscevano la testimonianza epigrafica di cui alla n. : così Nock, sulla scia di H.J. Rose, suggeriva che Plutarco potesse aver frainteso i versi di un poeta comico. . Ipercritico Badian : -, secondo cui Duride non dice che Lisandro fu onorato in vita, notazione che nel passo plutarcheo comparirebbe solo nella più dubbia sezione aneddotica del cap. , relativa ai rapporti di Lisandro con i poeti (cfr. infra) : ma è una forzatura del fr. di Duride, in cui l’enfasi sul primato di Lisandro non si spiegherebbe se si trattasse di onori post mortem, assai più comuni (in questo senso Flower : s.). Badian inoltre respinge la validità della prova epigrafica sui Lysandreia (cit. in n. ) ricordando che Homann-Wedeking e Klaffenbach ne datavano i caratteri al iv sec. : le ‘quattro edizioni’ dei Lysandreia sarebbero cioè tutte
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lontà degli oligarchici samii di esprimere gratitudine a Lisandro nella forma più spettacolare, legando a lui il proprio destino, ma furono probabilmente anche l’effetto di una politica deliberata dello stesso generale, che a Samo trovò il terreno di coltura e gli esecutori ideali. Il peana samio di cui Plutarco cita alcuni versi, sempre sulla scorta di Duride (si tratta ancora del F ), fu un passo importante nel tentativo di Lisandro di creare basi nuove al proprio potere in Grecia e, più specificamente, di ridisegnare gli equilibri politici interni a Sparta : per l’esplicito significato cultuale dell’inno, in termini generali, e per le espressioni impiegate nel suo testo, che non ha paralleli nel definire lo spartano to`n »Ella´dow ... stratago´n. È particolarmente istruttivo il confronto con l’iscrizione dedicatoria del tripode delfico per la vittoria di Platea, che secondo una ben accreditata tradizione letteraria menzionava originariamente il solo Pausania, con il titolo di »Ellh´nvn a∫rxhgo´w, e che fu presto modificata, significativamente, in senso ‘collettivo’, a favore, cioè, della lista dei trentuno popoli e città alleati. L’ambizione di Lisandro di modificare le basi dell’accesso ‘eraclide’ al trono a Sparta, allargandolo «a chi era giudicato simile ad Eracle in a∫reth´, nella cosa, cioè, che aveva innalzato quello agli onori divini» (Lys. , -) si spiega infatti anche in riferimento al culto (divino) nel frattempo tributato al generale a Samo, e forse altrove (è noto, peraltro, che sul versante spartano il progetto fallì). postume, da porre tra ca. (ripresa degli stretti contatti Samo-Sparta) e (ripresa del controllo ateniese sull’isola). Ma l’erezione della statua in onore del vincitore dei Lysandreia potrebbe essere di parecchi anni posteriore alle sue vittorie, o addirittura alla sua morte (come Badian stesso, , ammette); non si vede inoltre perché un argomento così incerto debba valere più di una (problematica, ma assai ricca) tradizione letteraria che non può essere ridotta, per le ragioni già dette, a «one word in an anecdote». Considerazioni storiche più generali, convincentemente esposte da Flower : s., portano infine a ritenere assai improbabile che i Samii abbiano cercato di rafforzare i loro rapporti con Sparta onorando Lisandro dopo il . . I termini del peana (to`n »Ella´dow a∫ga&e´aw / stratago`n a∫p« ey∫ryxo´roy / Spa´rtaw y™mnh´somen, v ® / ∫ih` Paia´n), come osservava Bommelaer : ss., innalzano Lisandro al livello di ‘generalissimo della Grecia’, senza alcuna considerazione per l’autorità dei re spartani, con un’audacia resa in parte possibile dall’«éloignement de Samos par rapport à Sparte». Per la originaria dedica a Delfi a nome del solo Pausania del tripode per la vittoria di Platea testimoniano Thuc. i , ; [Dem.] lix ; AP vi, ; Plut., de Herod. malign. , C-D ; Aristodem., FGrHist F , ; F , Suid., s.v. Paysani´aw (p ) ; e cfr. Paus. iii , ; l’iscrizione definitiva, con la lista degli alleati, è Syll. = Tod, GHI = Meiggs-Lewis, GHI . . Il collegamento è da porre con più nettezza di quanto non faccia lo stesso Bommelaer : s. (cfr., e.g., il classico luogo di Aristot. EN vii , a : ka&a´per fasi´n, e∫j a∫n&rv´pvn gi´nontai &eoi` di «a∫reth^w y™perbolh´n). La natura divina, e non eroica, di un culto che comprendeva le feste Lysandreia, l’esecuzione di un peana, sacrifici e agoni è stata efficacemente dimostrata, contro una prevalente opinione contraria, da Habicht : . Del presunto tentativo (fallito) di Lisandro di trovare sostegno ai propri piani di riforma ‘comprando’ oracoli favorevoli riferiscono D.S. xiv , -; Plut. Lys. , -; - (in parte da Eforo, FGrHist F ) ; Nep. Lys. , : cfr. Parke-Wormell : i, -; Parke : , s., s. ; Bommelaer : ss., ss., ss. La tradizione su questo punto è assai problematica (cfr. le valutazioni scettiche di Prentice : -; Smith : -), ma non è il caso di respingerne tutti i dettagli. . Flower difende (contro Habicht : -, tra gli altri), la storicità di un aneddoto
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Che poeti di Samo collaborassero attivamente alle relazioni esterne e alla stessa costruzione di un’immagine pubblica panellenica di Lisandro, inoltre, è confermato dall’attiva presenza di Cherilo nello staff del generale, registrata ancora da Plutarco, forse sempre sulla scorta di Duride (Lys. , , non incluso da Jacoby in FGrHist F : tv^n de` poihtv^n Xoiri´lon me`n a∫ei` peri` ay™to`n ei®xen, v ™ w kosmh´sonta ta`w pra´jeiw dia` poihtikh^w), e dall’attribuzione a un altro poeta samio, Ione, degli epigrammi che accompagnavano il monumento delfico per la vittoria di Egospotami, nel quale la strutturazione stessa del gruppo scultoreo accredita a Lisandro, sia pure solo implicitamente, una dimensione più che umana. di Plut. Mor. C-D, secondo cui il re spartano Agesilao avrebbe respinto un’offerta di onori divini da parte dei Tasii, forse nel , e interpreta l’episodio anche in connessione alla rottura tra Agesilao e Lisandro consumatasi nel : geloso della popolarità del generale soprattutto in area egea, Agesilao con il suo gesto avrebbe marcato la propria distanza dal rivale (nel frattempo morto), ribadito i valori di una eusebeia e di un esercizio del potere più tradizionali, e contrastato il possibile diffondersi del culto di Lisandro (o in generale degli esseri viventi) nell’area sottoposta all’influenza spartana. Il quadro è convincente, anche se l’aneddoto su Agesilao e i Tasii resta problematico, né mi pare dimostrata, ad onta degli sforzi di Flower, la sua derivazione da Teopompo. . Alla quale i Samii concorsero anche, come detto, con la dedica al generale di una statua a Olimpia : è, ancora una volta, un unicum, stando almeno agli esempi raccolti da Pausania (cfr. nn. e ). . Secondo Paus. x , - fu una dedica spartana per la vittoria su Egospotami: vi comparivano una schiera di divinità e, fra queste, Lisandro incoronato da Posidone; in seconda fila (o¢pis&en) erano le statue degli ufficiali spartani o alleati. L’interpretazione di Bommelaer : , secondo cui il linguaggio formale dell’opera suggeriva una dimensione quantomeno eroica per Lisandro (anche per un confronto con il monumento ateniese per Maratona, in cui la statua di Milziade fu aggiunta dopo la sua morte e semplicemente giustapposta a quelle di dèi ed eroi), è da preferire a quella di Habicht : , secondo cui l’associazione di figure voleva solo enfatizzare la gratitudine a Posidone per una decisiva vittoria sul mare. Peraltro Bommelaer distingue a ragione fra «l’affirmation sans retenue de Samos (où le culte a servi à le proclamer chef suprême de la Grèce) et le message allusif du couronnement de Delphes» (, ). Sul monumento delfico vd. anche Bommelaer : - (nr. ) ; Jacquemin : , , n. , , , s., , , (nr. ) ; le iscrizioni dedicatorie sono in Syll. = Tod, GHI = Meiggs-Lewis, GHI : gli epigrammi di Ione di Samo sono da riferire alla statua dello stesso Lisandro, a quella di Polluce e, forse, a quella di Castore (quest’ultimo testo è quasi del tutto perduto) ; non c’è ragione di attribuire allo stesso poeta il testo del peana e quello, pure metrico, della dedica di Olimpia citato da Paus. vi , : l’analisi più approfondita è ancora in Bommelaer , ss. ; immotivata l’ipotesi che si tratti di componimenti composti e aggiunti al monumento delfico nel iv sec. (Jacquemin : ). Tra i poeti vicini a Lisandro Plutarco menziona poi, subito dopo il riferimento a Cherilo, un Antiloco di provenienza ignota e, come competitori nei Lysandreia, Antimaco di Colofone e Nicerato di Eraclea: su questo passo, e sulla sua possibile attribuzione a Duride, Ferrero , ss. (ne emergerebbe una condanna della kolakei´a, quantomeno, dei poeti della cerchia di Lisandro); Landucci Gattinoni : ss. ; su Cherilo vd. ora, in questo volume, il contributo di P. Angeli Bernardini, pp. -. Ancora Plutarco, infine (Lys. , -; , -; Mor. F ; cfr. anche Cic. Div. i , ), ricorda le dediche offerte personalmente da Lisandro a Delfi, che confermano la sua volontà di suggerire una forte ‘personalizzazione’ della vittoria : per l’individuazione di una rivalità ‘delfica’ con il re Agide, che dedicò a Delfi un monumento in cui si definiva «re della terra e del mare» (Plut. Mor. F), forse da una decima del bottino di Decelea, cfr. Parke-Wormell : i, s. ; sull’assenza di un
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Se Lisandro direttamente sollecitò e sperimentò a Samo (non a caso, cioè, in una condizione geograficamente periferica) un modello di ‘culto della personalità’ più difficile da promuovere nella Grecia continentale (nonostante la sua ben nota propensione a utilizzare fin da Sparta stessa la religione come instrumentum regni), gli oligarchici samii si mostrarono particolarmente disponibili a interpretare questo ruolo, così capovolgendo nel modo più teatrale l’immagine dell’isola alleata fedelissima di Atene celebrata dalla vulgata democratica in entrambe le città. Un parallelo interessante ed istruttivo è rappresentato da Anfipoli, che nel aveva rinnegato i rapporti con Atene e la memoria dell’ecista Agnone per onorare lo spartano Brasida come eroe fondatore. Rispetto alle iniziative samie per Lisandro, quello degli Anfipoliti fu un gesto plateale, ma non altrettanto rivoluzionario – si trattava di un tradizionale tributo post mortem – : di certo però, per Atene, fu una ferita altrettanto profonda. Brasida sperimentò – anch’egli in una collocazione geograficamente periferica come l’area tracia e calcidica – il massimo di ‘culto della personalità’ possibile alla sua epoca: da vivo, gli onori «come a un atleta» offertigli a Scione; da morto, il culto eroico da (pseudo-)ecista ad Anfipoli e la dedica (anche) a suo nome del thesauros delfico degli Acantii : nel monumento sarebbe comparsa anni dopo una statua non sua, come molti credevano, ma di Lisandro, che del piccolo edificio si servì (in assenza di un omologo spartano) per marcare ulteriormente la propria presenza nel maggiore santuario della Grecia, attraverso importanti offerte. Il confronto fra Brasida e Lisandro, nei rapporti con le realtà locali e in quello con Delfi (inevitabilmente più complesso), mostra quanto in meno di vent’anni i tempi fossero cambiati, per l’emergere delle grandi personalità all’interno della egualitaria società spartana e per la loro celebrazione su scala locale o panellenica. thesauros degli Spartani a Delfi e l’impiego, da parte di Lisandro, di quello degli Acantii, in parte legato alla memoria dei successi di Brasida sugli Ateniesi, cfr. invece Mari : , . . Cfr. in n. ; cfr. anche le osservazioni di Bommelaer cit. in n. . . Su questo tema fonti, bibliografia essenziale e ampia discussione in Gomme-AndrewesDover : -; Shipley : -. Sulla ‘special relationship’ istituita parallelamente, fin dalla piena età arcaica, tra gli aristocratici samii e quelli spartani cfr. ancora Cartledge . . Thuc. v , : Brasida è sepolto pro` th^w ny^n a∫gora^w oy¢shw ; gli abitanti della città periei´rjantew ay∫toy^ to` mnhmei^on v ™ w hçrv ı te e∫nte´mnoysi kai` tima`w dedv ´ kasin a∫gv ^ naw kai` e∫thsi´oyw &ysi´aw, mentre la figura di Agnone è colpita da una sorta di damnatio memoriae. Cfr. anche il breve accenno di Aristot. EN v , b. . Cfr. Thuc. iv , per gli omaggi a Brasida a Scione, che non comportano forme di culto (to`n Brasi´dan ta´ t« a¢lla kalv^w e∫de´janto kai` dhmosi´aı me`n xrysv^ı stefa´nvı a∫ne´dhsan v™w e∫ley&eroy^nta th`n »Ella´da, ∫idi´aı de` e∫taini´oyn te kai` prosh´rxonto v ç sper a∫&lhtW^) ; gli onori resi ai vincitori, e in particolare agli olimpionici, sono stati spesso indicati come significativo precedente e modello del culto di esseri viventi in Grecia (Nock : n. ; per il caso-limite rappresentato da Filippo II cfr. Mari : ss., con bibl.). L’iscrizione sul thesauros a Delfi recitava Brasi´daw kai` « Aka´n&ioi a∫p« «A&hnai´vn, ma è da ritenere che il nome del generale spartano sia un’ag-
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Il rapporto con Atene è lo sfondo sul quale si devono proiettare anche le fasi successive, protoellenistiche, della storia del ‘culto della personalità’ – ormai culto del sovrano – a Samo. Dopo la cacciata degli armosti installati da Lisandro, i rapporti dell’isola con Atene appaiono più difficili da seguire; la successiva cesura nella storia di Samo come po´liw autonoma è l’introduzione della cleruchia ateniese nel . La liquidazione della cleruchia, decretata da Alessandro nel ed effettivamente realizzata, con la piena restituzione di Samo ai Samii, nel / da Perdicca a nome di Filippo III e Alessandro IV, è la premessa diretta all’istituzione a Samo di un «agone per i re» citato in un decreto cittadino, ed espressione diretta della gratitudine degli ex esuli. Mentre non compare nella tradizione superstite (in gran parte aneddotica) sulla concessione – possibile, dibattuta, o effettiva – di onori divini ad Alessandro, così, Samo è l’unica località in cui sia noto un culto degli effimeri basilei^w che gli succedettero. A spiegare questa nuova (apparente?) unicità di Samo vale senz’altro l’incerta condizione dell’isola, alla disperata ricerca di protettori potenti, e che già nel Poliperconte prometterà di nuovo agli Ateniesi. Ma è da sottolineare anche, ancora una volta, la speciale disponibilità dei Samii a percorrere, nella loro ricerca di patroni autorevoli, la medegiunta post mortem (Pouilloux-Roux : ; Jacquemin : , , , nr. ) : sull’edificio e sulle attività di Lisandro ad esso legate informa ancora Plutarco, mentre Pausania non ne fa parola (Lys. , ; , -; Mor. F ; F ; C-D : sull’iconografia della statua di Lisandro cfr. Bommelaer : -, e n. ). Per la tradizione secondo cui a Pausania ‘il reggente’ non fu consentito (dagli stessi Spartani, nella versione tucididea) nemmeno di dedicare a proprio nome, e con il titolo di »Ellh´nvn a∫rxhgo´w, il tripode delfico per la vittoria di Platea, e per un confronto con aspetti delle attività di Lisandro, cfr. sopra nel testo e in n. . . Cfr. ancora Shipley : -. . Alle Olimpie del Alessandro fece proclamare la sua decisione di far richiamare gli esuli in tutte le città greche (D.S. xvii , ; xviii , -) ; sulle ricadute della decisione a Samo informa un decreto della città in onore di Gorgo di Iaso (Syll. = Heisserer : - = IG xii, , , ), mentre la lettera del re agli Ateniesi sull’argomento, citata da Plut. Alex. , , è da ritenere un falso (Rosen ). La decisione di Alessandro di «restituire Samo ai Samii» e il conseguente malcontento ateniese per l’annunciata rimozione della cleruchia ebbero un peso decisivo nel creare il clima che produsse, alla morte del re, l’ampia rivolta degli stati greci (Errington ; Shipley : s. ; Mari : n. ). I termini del dia´gramma del furono ribaditi da Perdicca, probabilmente nel (D.L. x ; P. Berol. , D ii, ll. -; D iii, ll. -; D.S. xviii , : cfr. Bengtson -: i, -; Seibert : i, ; ii, s. ; Transier : -; Shipley : ss.) ; il decreto onorario per Antileonte di Calcide, al quale doveva essere offerta una corona d’oro [oçt]an toi^w ba[sileo^si to`n a∫gv^|na synte]lv^men, per i benefici a suo ˙ tempo resi ai Samii in esilio, è stato datato da Habicht al e testimonia, per quell’epoca, l’avvenuta esecuzione del dia´gramma (, - [nr. ] ; , s., ; si allinea alle posizioni di Habicht Transier : -). Se ne veda la riedizione di Hallof , con quattro nuovi importanti frr., che mostrano fra l’altro come insieme ad Antileonte fosse onorato suo figlio Leontino e confermano la lettura toi^w basileo^s[i] alla l. (il richiamo all’agone per i re è, in questa ed., alle ll. -) ; circa la cronologia del testo, che Habicht poneva nel , Hallof è più elastico (: siamo comunque fra il e il ; ora in IG xii, , , ). . D.S. xviii , : a Samo è dedicato un paragrafo del dia´gramma del , anch’esso ema-
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sima strada tracciata al tempo di Lisandro (questa volta, verosimilmente, con un consenso più ampio all’interno della comunità cittadina): la forma stessa del culto a suo tempo dedicato al generale spartano può aver fatto da modello diretto della nuova panh´gyriw, anch’essa a contenuto agonistico e (forse) intitolata al nome dei destinatari. L’ipotesi di un rapporto diretto fra le due iniziative vale tanto più se si considera la rarità (se non l’assenza) di altri paralleli negli anni ’ del iv secolo. Più complessa è l’individuazione, all’interno di una tradizione letteraria ed epigrafica notoriamente ricchissima, di una specificità samia negli onori per Antigono Monoftalmo e Demetrio Poliorcete. Entriamo qui in una fase nuova, di crescente affermazione di iniziative di culto vero e proprio per gli Antigonidi e per gli altri Diadochi e poi sovrani ellenistici: la situazione samia andrà allora spiegata, in questo caso, in rapporto non solo ai precedenti locali, ma anche a realtà diverse: fra queste spicca, non a caso, Atene. Per il culto antigonide a Samo, diversamente che nel caso ateniese, disponiamo esclusivamente di testimonianze epigrafiche : un decreto onorario per il celebre attore Polo di Egina, secondo cui un decreto dell’assemblea aveva istituito nell’isola feste « Antigo´neia kai` Dhmhtri´eia a celebrazione di un annuncio di « buone notizie » (nell’interpretazione corrente, la vittoria di Demetrio a Cipro nel ) ; un decreto onorario per Pitocle ed Ellanico di Argo, che attribuisce loro la cittadinanza samia e il filetico Dhmhtriei^w, attestando così l’esistenza di almeno una tribù intitolata ai sovrani antigonidi; un’iscrizione dall’Asklepieion di Cos, che attesta l’esistenza a Samo di un te´menow consacrato alla regina Fila, forse la moglie dello stesso Demetrio. Celebrazioni con carattere di ey∫agge´lia in onore dei due primi Antigonidi, a carattere eccezionale e spesso episodico, sono note da diverse altre località, soprattutto egee e micrasiatiche (Scepsi, Efeso, Bisanzio, forse Ios), ma anche da Atene : esse sono caratteristiche del rapporto tra i due macedoni e nato, naturalmente, a nome dei due re, sicché è verosimile che già in quest’occasione i Samii aboliscano le feste introdotte due anni prima in onore di questi ultimi (Habicht : s.). Per la possibilità di collegare alla promessa di Poliperconte e a un intervento militare ateniese, negli anni successivi, due iscrizioni samie frammentarie che alludono a una minaccia nemica per l’isola (Habicht : -, nrr. -) cfr. Transier : -. . Il confronto, anche formale, con gli onori a suo tempo decretati per Lisandro è già in Habicht : s. . Schede : -, nr. = SEG , , = IG xii, , , (decreto per Polo di Egina: le feste comprendevano evidentemente, come i Demetrieia inseriti ad Atene all’interno dei Dionysia e come le omonime feste tenute in Eubea, competizioni teatrali; nel caso di Samo però, diversamente che negli altri due, non vi è prova di una connessione con le Dionisie: discussione e bibl. in Mari c.s.) ; Schede : -, nr. K = SEG , , = IG xii, , , (decreto per i due argivi, con Habicht : , ) ; l’iscrizione da Cos è stata edita da Laurenzi , nr. (cfr. ll. per la menzione del te´menow e di timai´), che la riferiva appunto alla moglie di Demetrio e la datava
tra il e il , mentre pensavano piuttosto, per la paleografia del testo, alla Fila moglie di Antigono Gonata Robert : n. ; Habicht : s. ; la data più alta è stata riaffermata da Gauthier : n. (non vidi: cfr. SEG , , ; Hallof-Mileta : s.) e ora da Hallof in IG xii, , , .
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le città greche da loro ‘liberate’ o ‘protette’, che partecipano così in una forma spettacolare, e tuttavia non necessariamente cultuale, ai loro successi. Solo a Samo, stando alle fonti disponibili, gli ey∫agge´lia danno luogo a un culto vero e proprio, come suggerisce l’intitolatura della festa che celebra le « buone notizie » (« Antigo´neia kai` Dhmhtri´eia). Il confronto più immediato è con Delo, dove la lega dei Nesioti istituisce a due riprese, tra il e (probabilmente) il , una ‘duplice’ festa biennale, di fatto celebrata ogni anno (intitolata alternativamente ad Antigono e Demetrio, invece appaiati nella festa samia) : è solo un’ipotesi, però, che l’estensione del culto nel seguisse agli ey∫agge´lia del successo di Demetrio a Cipro. Feste intitolate al solo Demetrio sono note, poi, anche ad Atene e in Eubea, senza rapporto apparente con « annunci di buone notizie», e in entrambi i casi in stretta correlazione con le Dionisie (se non si deve addirittura pensare a una vera ‘sovrapposizione’ a queste). A Samo non abbiamo prova di un legame specifico con le feste Dionisie (che vi sono altrimenti attestate); dall’unica testimonianza superstite sappiamo solo che nel programma degli « Antigo´neia kai` Dhmhtri´eia erano compresi spettacoli teatrali. Per la creazione, o ridenominazione, di tribù intitolate ai due Antigonidi (l’esistenza anche di una tribù intitolata ad Antigono è a Samo solo ipotetica, . A Scepsi il culto è sicuro solo per Antigono, cui è dedicata una panegyris annuale, mentre le corone offerte anche ai figli nel non implicano estensione a loro del culto (eroico o divino) riservato al padre (OGIS , in part. ll. ss., ss., ss., con menzione degli ey∫agge´lia : cfr. Taeger -: i, -; Habicht : -; Le Guen-Pollet , nr. ) ; a Efeso sono menzionate varie iniziative celebrative di un successo militare di Demetrio, ma gli ey∫agge´lia e i sacrifici sono offerti a Demetra (Syll. ) ; gli abitanti di Bisanzio offrono statue di Antigono e Demetrio a Olimpia ancora una volta in relazione a un annuncio di «buone notizie», ma non vi sono tracce di un culto (IvO ; - = Syll. -; Paus. vi , : bibl. in Maddoli-Nafissi-Saladino : ) ; a Ios a un Antigono definito Svth´r sono indirizzati sacrifici ed ey∫agge´lia, ma l’identificazione è incerta (IG xii Suppl., , ll. ss., con Habicht : -). Per Atene, infine, sono attestate nel / celebrazioni in memoria dei successi di Demetrio nel Peloponneso, da non confondere però con le vere e proprie manifestazioni di culto introdotte in onore del Poliorcete e di suo padre già negli anni precedenti (Mari c.s.: i frammenti epigrafici relativi erano riediti da Woodhead , cui rinvio per la bibl. prec.; cfr. inoltre Habicht : -; Parker : ; Mikalson : s.). Gli ey∫agge´lia erano celebrazioni occasionali, spesso non ripetute dopo la prima volta (Buraselis : -). . Diverso, come detto (cfr. n. ), il caso di Atene, dove il culto è ampiamente attestato, ma non in correlazione alla celebrazione di ey∫agge´lia. . ID = Durrbach , nr. è il decreto che istituisce i Demetrieia, da affiancare ai preesistenti Antigoneia: esso è da porre probabilmente, con la gran parte degli onori ‘egei’ per Demetrio, nel , dopo la vittoria a Cipro; prevale negli studi l’ipotesi che la festa per Antigono sia invece istituita all’epoca della fondazione della lega dei Nesioti (cfr., con bibl. prec., Buraselis : ss., che per i Demetrieia ammette anche l’alternativa del ; a sua volta Wehrli : - racchiudeva in un solo anno, fra e , le due fasi della vicenda, ma è ipotesi da respingere, con lo stesso Buraselis: cfr. Mari c.s.). In ogni caso, il testo non fa menzione di ey∫agge´lia. . L’alternativa è posta già da Transier : s. ; la coesistenza delle feste in onore di Antigono e Demetrio e del filetico Xhsiei^w, epigraficamente attestata, sembra però suggerire che le
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anche se probabile) e per gli onori a Fila (attestati in verità da una testimonianza problematica, che tralascerò di riesaminare), Samo rappresenta l’unico parallelo noto alle iniziative ateniesi in onore di Demetrio e della sua cerchia. Ciò è tanto più notevole, se si pensa allo sbilanciamento in senso ‘ateniese’ dell’intera tradizione di cui disponiamo sugli onori (cultuali e non) per Antigono e Demetrio: una circostanza non casuale, ma determinata da un lato dalla consueta vivacità della polemica politica cittadina (con conseguente ricchezza, e parziale inaffidabilità, della tradizione letteraria cui attinsero in primis Diodoro, Plutarco e Ateneo), dall’altro dalla straordinaria ricchezza del patrimonio epigrafico ateniese. Che della restante, e ben più frammentaria, tradizione giuntaci dal resto del mondo greco siano sopravvissute, per questo ambito particolare, solo le notizie relative a Samo può invece sì, naturalmente, esser frutto del caso: ma ancora una volta ci troviamo a ragionare in termini di (apparente?) unicità. La creazione (o ridenominazione) di nuove tribù, che solleva Demetrio e suo padre al rango di eroi eponimi, di divinità tutelari del territorio cittadino, è un intervento cultuale e istituzionale particolarmente significativo : ad Atene, prima del il numero delle tribù clisteniche non era stato mai toccato, mentre lo sarebbe stato più volte in seguito, sicché la violazione del tessuto istituzionale dovuta agli Antigonidi, o piuttosto, come nota la tradizione locale di spiriti democratici, ai ko´lakew loro sostenitori, aprì la strada a possibilità nuove, nella storia dei rapporti tra la città e i sovrani ‘stranieri’. Dei numerosi onori elargiti a partire dal ai due Antigonidi, proprio questo risulta, ad Atene, il più durevole, anche (ma certo non solo) per ragioni pratico-organizzative, e incide in modo permanente sulle istituzioni cittadine. Proprio la rilevanza della riforma ateniese delle tribù suggerisce l’idea che l’analoga innovazione samia, che non ha altri paralleli noti nelle città greche e che la maggior parte degli studiosi data al , dopo la vittoria di Demetrio a Cipro e l’anno dopo i
tribù ‘antigonidi’ non si sovrapposero, ma si aggiunsero a quelle già esistenti, sia pure per un breve periodo (così Shipley : -). . Cfr. su questo Habicht : , ; Transier : -, ; Shipley : - (che pensa a una cosciente ‘imitazione’ della procedura ateniese). . Per il temenos intitolato a una Fila a Samo cfr. in n. ; per il culto ateniese di Fila, moglie di Demetrio, identificata con Afrodite, testimonia Ateneo (vi , a, dal comico Alessi; , c, da Dionisio di Trifone). Taeger -: i, e nn. -, vi rinveniva il primo caso di estensione di onori divini alle regine o principesse, cioè alle donne che godevano di una qualche ‘posizione ufficiale’ all’interno di una dinastia: per le amanti esisteva almeno il precedente delle iniziative di Arpalo (è ancora Ateneo, vi , f- b, stavolta sulla scorta di Democare, a ricordare hierà per le amanti di Demetrio ad Atene); anche il presunto progetto di divinizzazione di Olimpiade attribuito ad Alessandro era inteso come post mortem (Curt. ix , e x , ).
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grandi onori ateniesi per i Svth^rew, sia una voluta e diretta risposta a questi ultimi. Un’interpretazione di questo tipo è stata già proposta, per il rapporto tra onori ateniesi agli Antigonidi nel , da un lato, e ‘raddoppiamento’ delle celebrazioni tenute in loro onore dai Nesioti a Delo nel /, dall’altro: Delo, centro sacrale del koino´n insulare, marcherebbe la recente riconquista dell’indipendenza dal controllo ateniese ponendosi in diretta competizione proprio con Atene nella ricerca di un rapporto privilegiato con Antigono e Demetrio. Samo si trova in una condizione non dissimile: l’isola, solo da pochi anni liberata dalla cleruchia ateniese e restituita da Alessandro a una piena funzionalità di po´liw, è comprensibilmente alla ricerca di autorevoli patroni per consolidare questa ritrovata condizione, proprio in funzione antiateniese. Nel variegato panorama della kolakei´a filo-antigonide, così, Samo ambisce a un ruolo particolare, ‘citando’ sia la panh´gyriw delia (e anzi unificando in un’unica occasione festiva gli « Antigo´neia kai` Dhmhtri´eia che la lega dei Nesioti celebrava sdoppiati in due anni), sia le iniziative ateniesi. Anche all’interno dell’ambito egeo insulare, particolarmente vivace nel coltivare i rapporti, in particolare, con Demetrio, Samo riesce a distinguersi, e se l’istituzione o ridenominazione di una o due nuove tribù può essere considerata un calco diretto dell’iniziativa ateniese, l’innalzamento degli ey∫agge´lia al rango di vera e propria festività cittadina non ha invece confronti nella pur ricca casistica relativa alle feste celebrative per Antigono e Demetrio. Per le modalità organizzative e lo stesso significato politico della panh´gyriw samia la omonima celebrazione tenuta in quegli anni a Delo dalla lega dei Nesioti rappresenta dunque un modello solo parziale. La stessa ‘duplicità’ della festa samia non corrisponde, come si è visto, all’alternanza di « Antigo´neia e Dhmhtri´eia rispettata a Delo; essa potrebbe invece derivare da un modello locale, per giunta piuttosto recente: l’agone prima ricordato per Filippo III e Alessandro IV, il cui nome ufficiale, secondo una plausibile ipotesi di Ch. Habicht, era appunto Fili´ppeia kai` « Aleja´ndreia. Questa a sua volta, come lo stesso Habicht ha mostrato, fu a Samo essenzialmente una facile «copia » (ein Abbild) della panh´gyriw ‘di ringraziamento’ istituita per Lisandro : così, se gli onori divini per Antigono e Demetrio guardarono in parte, a Samo, al modello ateniese e ad altri confronti possibili (soprattutto in ambito insulare), per altri aspetti le indicazioni e i confronti più preziosi . Più generico Shipley, secondo cui i Samii crearono le nuove tribù «imitating the Athenians » (: ). . A Delo (sempre per iniziativa dei Nesioti) come a Samo saranno più tardi attestate feste in onore dei nuovi ‘protettori’ Tolemei: cfr. IG xi, , , ll. -; , ll. ss., con Bruneau : -; Habicht : ss. ; Buraselis : ss. ; e, per Samo, cfr. qui alle nn. e . . Habicht : s. ; impreciso Shipley (: e n. ), che parla di feste Basilika « then in many texts c. -c. » (?).
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vengono soprattutto dalla tradizione locale, e dalla piccola catena di eventi che unisce, a Samo, l’epoca di Lisandro a quella dei Diadochi. A Samo, il ‘modello-Lisandro’, e la ripresa rappresentata dal pur effimero culto di Filippo III e di Alessandro IV, valgono dunque a spiegare non solo alcuni aspetti ‘tecnici’ del culto di Antigono e Demetrio, ma forse anche le forme in parte originali che quest’ultimo culto vi assunse, rispetto al restante scenario greco; quanto ai ‘traumi’ che la tradizione letteraria registra ad Atene in rapporto al culto degli Antigonidi, un confronto con Samo (e con tutte le altre località che praticarono in varie forme tale culto) non è invece possibile, per i caratteri diversi della documentazione, cui si accennava. Per Samo è in ogni caso da rimarcare come il ‘culto della personalità’ sia orientato ancora una volta – e più che mai – dalla politica estera: dalle esigenze cioè di trovare negli Antigonidi (e più tardi nei Tolemei) efficaci sostenitori delle velleità di indipendenza dell’isola e del suo desiderio di separare il proprio destino da quello di Atene. iii D’altra parte, l’esperimento samio di Lisandro fece scuola su una scala (geografica e storica) assai più vasta. Il legame fra le iniziative di o per Lisandro e gli audaci esperimenti in questo campo tentati, più ancora che da Alessandro, dalla generazione dei Diadochi, e in particolare proprio da Demetrio Poliorcete, è in effetti suggerito, almeno implicitamente e in termini generali, dalla stessa tradizione antica. Demetrio, come Lisandro, è un audace ‘sperimentatore’, anche in termini di sacra e, più specificamente, di un loro impiego nella ricerca del consenso e nel consolidamento delle basi di potere: dal punto di vista della tradizione ateniese di spiriti democratici, è un a∫sebh´w. In termini più specifici, il peana samio per Lisandro è, nella lista di Ateneo, il precedente più antico (e il più illustre) a quelli eseguiti dagli Ateniesi in onore di Antigono e Demetrio nel . Ateneo parla in quest’ultimo caso, . Fredricksmeyer : individuava un altro (possibile) anello della catena – il primo – nel presunto culto ricevuto in vita dal samio Pitagora: ma la tradizione su quest’ultimo punto, come egli stesso ammette, è assai nebulosa ( s. ; cfr., sul problema generale della biografia del ‘maestro’ nella tradizione pitagorica di stretta osservanza, Musti : ss.) ; essa sarebbe in ogni caso da riferire a un periodo successivo alla sua partenza da Samo (contrariamente a quanto Fredricksmeyer stesso sembra suggerire). . Una apparente diversità è peraltro nel programma di gare: per gli Antigoneia-Demetrieia conosciamo solo competizioni teatrali (cfr. supra), non attestate invece nel cartellone (pure misto) dei Lysandreia. Nell’uno e nell’altro caso le testimonianze di cui disponiamo possono essere incomplete ; ricordo comunque come la combinazione di gare sportive e teatrali restò relativamente rara, nel mondo greco, fino a epoca tarda. . La menzione di gare (e anzi di panhgy´r[eiw]) in onore di Tolemeo (iii) e di Berenice in un testo epigrafico di recente pubblicazione (IG xii, , , ) consente di aggiornare, su questo punto, il quadro di Habicht : n. .
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sulla scia del bene informato Filocoro, di una competizione per autori di peani : ma questo stesso scenario è ipotizzabile già per i Lysandreia di Samo, in cui sappiamo per certo, da Plutarco, che avvenivano gare poetiche (oltre che sportive, attestate da una preziosa testimonianza epigrafica già ricordata). Gli stessi Heraia-Lysandreia rappresentano anche, nella tradizione letteraria superstite, l’unico precedente dei Dionysia-Demetrieia ateniesi, di una festa che, cioè, assumendo il nome dell’‘uomo del destino’ si innestava fin (quasi?) a cancellarla sulle tradizioni cultuali cittadine: e di ridenominazione della festa parla in entrambi i casi Plutarco, certamente in errore almeno nel caso di Atene, come si diceva. Nella tradizione letteraria, il possibile fraintendimento di Plutarco sulla natura dei Lysandreia e dei Demetrieia (forse voluto, e in ogni caso altamente significativo) non è l’unico legame che è possibile tracciare. Non è probabilmente un caso che le fonti cui dobbiamo la maggior parte delle notizie sugli onori eccezionali resi a Lisandro a Samo siano essenziali anche alla nostra conoscenza di quelli tributati dalle città greche a Demetrio e Antigono, con un’attenzione speciale per Atene, naturalmente, e in questo caso senza notizie superstiti su quanto avveniva contemporaneamente a Samo (dove, come abbiamo visto, ci soccorre invece una più frammentaria, ma anche meno contestabile, evidenza epigrafica) : si tratta di Plutarco, di Ateneo e di uno degli informatori-chiave di entrambi, Duride. Lo storico samio fu un anticipatore dell’interesse degli storici greci per la biografia di grandi uomini: di qui la sua importanza come informatore di Plutarco (e di Ateneo) e, più in particolare, il suo ruolo di crocevia di tante notizie (e di qualche deformazione) sul culto degli esseri viventi nel mondo greco. È lecito chiedersi se questo interesse di Duride per le grandi individualità (e per il culto ad esse riservato), figlio di un’epoca che ne fu dominata più di ogni altra della storia greca e certamente stimolato in lui, come è stato spesso rilevato, dalla formazione peripatetica e dal rapporto con Teofrasto, non abbia trovato un catalizzatore proprio negli esperimenti di ‘culto della personalità’ per i quali la sua isola . Per la notizia plutarchea e la testimonianza epigrafica sulle gare nei Lysandreia e per la lista dei peani per esseri viventi in Ateneo cfr. n. ; nello stesso passo di Ateneo compare la citazione da Filocoro ( a = FGrHist F ) a proposito della competizione ateniese (cfr. su questa Mari c.s., anche, più in generale, per il contributo di Filocoro, un esperto in questioni religiose e regole cultuali, alla tradizione ateniese sulle ‘empietà’ legate al nome di Demetrio). Prima della scoperta dell’iscrizione relativa ai Lysandreia, l’attendibilità delle testimonianze letterarie sulle feste era stata posta in dubbio (cfr. n. ) ; su di esse, più generica è la testimonianza di Esichio (cit. in n. ), secondo cui all’interno della panegyris avevano luogo a∫gv^new kai` &ysi´ai. . Cfr., con particolare riferimento all’interesse di Duride per le biografie di personaggi come Alcibiade (al quale la sua famiglia risultava per giunta legata da un rapporto di parentela), Agatocle, Demetrio Poliorcete o Demetrio del Falero, soprattutto Musti : -; : -; cfr. anche Ferrero , , s. ; Kebric : -; Landucci Gattinoni , s., s., -.
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era stata, dal tempo di Lisandro in poi e per le ragioni particolari che ho cercato di mostrare, una sede privilegiata. Questo tratto ricorrente e forte nella storia recente di Samo, e dei suoi rapporti con i potenti dai quali di volta in volta dipese il suo destino, non fu probabilmente motivo di orgoglio per Duride, ma non poté non colpire la sua attenzione, e, forse, contribuì in qualche misura a orientare i suoi interessi di storico. Università degli Studi di Cassino
. Kebric : -, nell’indagare le radici ‘samie’ di certi tratti della personalità e dell’opera di Duride, non considera questa possibilità (analogamente Ferrero : ss., ss.) ; Kebric suggerisce invece che l’interesse dello storico per la poesia tragica e lo stesso carattere ‘tragico’ della sua storiografia possano esser stati stimolati dall’aver assistito, nella stessa Samo, a competizioni teatrali come quelle attestate nell’ambito delle feste per Antigono e Demetrio (cfr. supra). Sull’eventuale giudizio di Duride sul culto samio di Lisandro cfr. in nn. e .
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manuela mari
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LINCEO DI SAMO Maria Paola Funaioli fu esponente notevole della società samia, fratello minore dello storiografo Duride, che gli deve la conservazione di più d’una notizia sui propri dati biografici, cfr. Ath. iv a : »Ippo´loxow o™ Makedv´n ... toi^w xro´noiw
Linceo
me`n ge´gone kata` Lygke´a kai` Doy^rin toy`w Sami´oyw, Ueofra´stoy de` toy^ «Eresi´oy ma&hta´w, syn&h´kaw d« ei®xe tay´taw pro`w to`n Lygke´a ktl., Ath. viii d : Lygkey`w d« o™ Sa´miow, o™ Ueofra´stoy me`n ma&hth´w, Doy´ridow de` a∫delfo`w toy^ ta`w ™istori´aw gra´cantow kai` tyrannh´santow e Suda l : Lygkey´w, Sa´miow, grammatiko´w, Ueofra´stoy gnv ´ rimow, a∫delfo`w Doy´ridow toy^ ™istoriogra´foy, toy^ kai` tyrannh´santow Sa´moy. sy´gxronow de` ge´gonen o™ Lygkey`w Mena´ndroy toy^ kvmikoy^ kai` a∫ntepedei´jato kvmv ı di´aw kai` e∫ni´khse.
Da Samo, Linceo dunque dovette recarsi ad Atene, alla scuola di Teofrasto, e certamente trascorse parte della sua esistenza a Rodi, di cui mostra di conoscere usi e specialità gastronomiche. In nessuna di queste sedi mancò di interessarsi di tutto ciò che può allietare il banchetto: ci restano di lui aneddoti e massime di etere e parassiti (a∫pomnhmoney´mata o a∫pof&e´gmata), frammenti di un trattato sull’arte di comprare il pesce (te´xnh o∫cvnhtikh´), di epistole letterarie (ma apparentemente non fittizie) su banchetti celebri dei signori del momento : Lamia (per Demetrio Poliorcete), Tolomeo (i Soter o ii Filadelfo) e Antigono Monoftalmo; e su aspetti gastronomici svariati. Scrisse bensì un’opera in almeno due libri su Menandro (Ath. vi b-c), ma anch’essa probabilmente consisteva in una raccolta di aneddoti. Non molto altro se ne può dire, dal momento che l’unico frammento conservato è appunto un aneddoto relativo a due parassiti attici, salvo che sarà stata verosimilmente composta qualche anno dopo la morte di Menandro, avvenuta verso il /, quando il poeta cominciò a godere di una reputazione di eccellenza che gli era stata negata in vita. Almeno, però, quest’opera documenta, insieme con la lettera a Posidippo menzionata in Ath. xiv c (fr. D.), gli aneddoti su Alessi (Ath. viii c, fr. D.) e Difilo (Ath. xiii f, fr. D.), una rete piuttosto fitta di rapporti con la consorteria dei poeti comici. Quasi tutto ciò che sappiamo di Linceo, naturalmente, ci è noto da Ateneo, . Osserva Landucci Gattinoni : che Duride doveva essere il fratello più anziano, dal momento che portava il nome del nonno. . Proprio i dati relativi a Duride sono stati messi in dubbio, cfr. Dalby : ss., che ripropone nel passo di Ateneo il tràdito ma&hth´w in luogo di ma&hta´w, congetturato già dallo Schweighäuser, e Landucci Gattinoni : -, che riesamina, per negarne l’autenticità, la questione della tirannide. . Cfr. Nesselrath : n. . . Cfr. Koerte : coll. -; Nesselrath : .
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che lo definisce «delizioso » (hçdistow, viii d : un attributo che lo apparenta a poeti e scrittori di ben altra levatura, in prevalenza comici) e lo nomina volte, dichiaratamente ritenendolo ben conosciuto e accessibile ai suoi lettori : all’opposto, si premura di fornire un ampio estratto della lettera del corrispondente di Linceo, Ippoloco di Macedonia, in quanto «difficile da trovare » (iv a). Di Linceo Ateneo tramanda anche versi dall’altrimenti ignoto Ke´ntayrow : l’unico brano del nostro autore che, inserito fra i frammenti della Commedia Nuova, abbia ricevuto molteplici cure dai filologi. L’unico, anche, che ne esemplifichi l’attività di poeta comico, esplicitamente dichiarata dalla sola Suda. L’evenienza che di un poeta comico sia tramandato un solo titolo (regolarmente da Ateneo) non è rara: per esempio, accade di Stratone (sec. iv fin.), Stefano (sec. iv/iii), Nicone (sec. iv/iii), Euangelo (sec. iii), Sosipatro (sec. iii), Filostefano (sec. iii/ii), Atenione (sec. i?). Accadeva anche, del resto, che un poeta (se non altro, un poeta tragico) non andasse oltre l’opera prima, cfr. Ar. Ran. ss., dove Dioniso afferma che i giovani tragediografi ateniesi sono tutti lvbhtai` te´xnhw, aÇ froy^da &a^tton, h£n mo´non xoro`n la´bW, açpaj prosoyrh´santa tW^ tragv ı di´aı.
Tuttavia, mi pare immetodico negare a Linceo, contro la testimonianza della Suda, la paternità di altre commedie, come tende a fare Nesselrath, e più disinvoltamente la Landucci Gattinoni. La sua stessa identità di poeta comico, giudicata già dal Koerte «nur unbedeutend» risulta, forse un po’ paradossalmente, indebolita dalla relativamente ampia messe di frammenti eruditi e aneddotici a petto dell’unico frammento comico. Di recente, infatti, e per la prima volta, quanto è sopravvissuto di Linceo è stato raccolto e . Anacreonte (Ath. xiv c), Aristofane (ix f, xv b), Senofonte (xi c), Antifane (iv d, xiv f) e Difilo (ix f). . FCG i p. , iv p. s ; CGF, iii s. ; PCG vi . . Plut. Dem. , racconta che Lamia raccolse denaro per allestire in onore di Demetrio un banchetto così celebre da essere descritto da Linceo di Samo. Allora tv^n kvmikv^n tiw oy∫ fay´lvw th`n La´mian e™le´polin a∫lh&v ^ w prosei^pe (evidentemente parodiando la celebre invettiva contro Elena dell’Agamennone eschileo, v. , e insieme rinviando al nome della macchina da guerra costruita da Demetrio, descritta al cap. ,). Mi sembra difficile condividere l’ipotesi di Mastrocinque : che si tratti di Linceo, dal momento che Plutarco l’ha appena nominato per altra impresa letteraria, dove è semmai probabile che Plutarco abbia trovato notizia della facile boutade, probabilmente già lì anonima; Webster : argomenta in favore di Filippide. . « Eine Komödie Ke´ntayrow (vielleicht gab es auch mehr)» (Nesselrath : n. ). . Che traduce addirittura «una commedia» il kvmvıdi´aw della Suda.
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commentato in un saggio di A. Dalby, che se n’era già occupato in precedenza, lamentando che «Lynceus is rather misleadingly categorised as an author of Athenian new comedy because his comedy fragment is all that is found in the standard collections: his other writings remain locked in Athenaeus ». Una volta stampati consecutivamente i frammenti, ancorché senza pretese di organizzazione o di esegesi, Dalby stabilisce per Linceo una griglia capace di contenerne tutta l’opera, esclusa la commedia. A questa, anzi, tende a negare persino la qualifica di commedia, suggerendo che si tratti di « no full-scale play at all, but a playlet, for private reading or performance ». Mi propongo qui di riaffermare l’appartenenza del frammento al genere della Commedia Nuova, suggerendo inoltre un intervento sul testo che mi pare ne aumenti la plausibilità. ma´geir«, o™ &y´vn e¢s&« o™ deipni´zvn t« e∫me` »Ro´diow, e∫gv ` d« o™ keklhme´now Peri´n&iow. oy∫de´terow h™mv ^ n hçdetai toi^w «Attikoi^w dei´pnoiw. (B.) a∫hdi´a ga´r e∫stin a∫ttikh´q (A.) v ç sper jenikh´. pare´&hke pi´naka ga`r me´gan, e¢xonta mikroy`w pe´nte pinaki´skoyw a¢nv. toy´tvn o™ me`n e¢xei sko´rodon, o™ d» e∫xi´noyw dy´o, o™ de` &rymmati´da glykei^an, o™ de` ko´gkaw de´ka, o™ d« a∫ntakai´oy mikro´n. e∫n oçsvi d« e∫s&i´v, eçterow e∫kei^n«, e∫n oçsvi d« e∫kei^now, toy^t« e∫gv ` h∫fa´nisa. boy´lomai de´ g«, v ® be´ltiste sy´, ka∫kei^no kai` toy^t«, a∫ll« a∫dy´nata boy´lomai. oy¢te sto´mata ga`r oy¢te xei^raw pe´nt« e¢xv. o¢cin me`n oy®n e¢xei ta` toiay^ta poiki´lhn, a∫ll« oy∫&e´n e∫sti toy^to pro`w th`n gaste´ra. kate´pasa ga`r to` xei^low, oy∫k e∫ne´plhsa de´. o∫ca´rion ay∫to` toy^to para&h´seiw mo´non, çina tay∫ta` pa´ntew, mh` to` me`n e∫gv ´ , to` d« eçterow.
Si tratta, come si vede, di un dialogo fra un invitato a un banchetto e un cuoco. Il fatto che l’invitato si qualifichi come Perinzio, dichiari Rodio l’o. Dalby : -. . Dalby : ss. e ss. . Dalby : n. . . Dalby : . L’autore asserisce di avvalersi di un suggerimento di G. Arnott. . Devo alla cortesia di M. Ornaghi la conoscenza di un suo lavoro in corso di pubblicazione all’epoca del Convegno, Linceo di Samo in Ateneo e Ateneo in Suda: casi di amplificazione della tradizione diretta (Ornaghi ), che segnalo volentieri perché con acume e dottrina ridiscute le testimonianze su Linceo, dando loro una sistemazione critica. L’autore si propone di dimostrare l’inattendibilità della notizia della Suda sull’attività di commediografo del nostro, attribuendo il frammento ad un poeta incorporato in qualche sua opera, forse Timocle, di cui si sa che scrisse un Centauro. Questo è certamente possibile, e permette comunque di riconoscere nel frammento una commedia vera e propria.
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spite e chiami cuoco il cuoco induce Dalby a stabilire che ci si trova all’inizio della commedia, però in un dialogo improbabile e incapace di sviluppo, non più che una digressione: ma, per esempio, in Men. Mis. -, Clinia, ormai alla fine del terzo atto, si rivolge a un cuoco muto, per dargli indicazioni del tutto irrilevanti ai fini della vicenda. In verità, questa è una situazione perfettamente plausibile fra due personaggi topici della Commedia Nuova, ma, per Dalby, non sufficientemente consueta; anzi, sarebbe unica, per il fatto che al cuoco, insolitamente laconico, vien detto come preparare un banchetto, da parte di qualcuno che non è né il padrone di casa né un servo (« a third party»). L’obiezione al «near-silence » del cuoco è presto contestata rinviando a Men. fr. K.-A. (dallo Ceydhraklh^w), dove gli editori avvertono : « Coquum adloquitur non trapezopoios sicut putabat Meineke, sed vel dominus aedium (ita iam Desrousseaux) vel potius servus (Koerte), cfr. Sam. ss. et Euang. fr.» : ma´geir«, a∫hdh´w moi dokei^w ei®nai sfo´dra. po´saw trape´zaw me´llomen poiei^n, tri´ton h¢dh m« e∫rvta^ıw. xoiri´dion eÇn &y´omen, o∫ktv ` poih´sontew trape´zaw, dy´o, mi´an, ti´ soi diafe´rei toy^toq para´&ew shmian . oy∫k e¢sti kandy´loyw poiei^n oy∫d« oi©a sy` ei¢v&aw ei∫w tay∫to`n karykey´ein me´li, semi´dalin, v ∫ ia´. pa´nta ga`r ta∫nanti´a ny^n e∫stin. o™ ma´geirow ga`r e∫gxy´toyw poiei^, plakoy^ntaw o∫pta^ı, xo´ndron eçcei kai` fe´rei meta` to` ta´rixow, ei®ta &ri^on kai` bo´tryw. h™ dhmioyrgo`w d« a∫ntiparatetagme´nh krea´di« o∫pta^ı kai` ki´xlaw tragh´mata. e¢pei&« o™ dei´pnvn me`n traghmati´zetai, myrisa´menow de` kai` stefanvsa´menow pa´lin deipnei^ ta` meli´phkta tai^w ki´xlaiw.
Se in Men. Sam. -: ei∫ pyn&a´nomai po´saw trape´zaw me´llete poei^n, po´sai gynai^ke´w ei∫si, phni´ka e¢stai to` dei^pnon, ei∫ deh´sei proslabei^n trapezopoio´n, ei∫ ke´ramo´w e∫st« e¢ndo&en y™mi^n ™ikano´w, ei∫ toy∫pta´nion kata´stegon, ei∫ ta¢ll« y™pa´rxei pa´nta,
è un cuoco che parla al servo Parmenone, esibendo proprio la petulante insi. Cfr. Arnott a : , e Ferrari : n.. La scena ha la funzione di provocare un contrasto con la scena che precede, cfr. Handley : -. . Basti rimandare, malgrado l’eccessivo schematismo, a Dohm : ss.
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stenza a cui risponde il parlante del frammento citato sopra, una verbosa allocuzione a un cuoco ritorna, in effetti, in Euang. fr. K.-A. : te´ttaraw - - trape´zaw tv ^ n gynaikv ^ n ei®pa´ soi, eÇj de` tv ^ n a∫ndrv ^ n, to` dei^pnon d« e∫ntele`w kai` mhdeni´ e∫llipe´w. lamproy`w gene´s&ai boylo´mes&a toy`w ga´moyw. oy∫ par« e™te´roy dei^ py&e´s&ai, pa´nta d« ay∫to´pthw e∫rv ^. tv ^ n me`n e∫lav ^ n a¢fele pa´n&« oçs« a£n boy´lW ge´nh. ei∫w de` ta` kre´a mo´sxon e¢labew, de´lfakaw, xoi´royw, lagv ´ w. (A.) v ™ w a∫lazv ` n o™ kata´ratow. (B.) &ri^a, tyro´n, e∫gxy´toyw. (A.) pai^ Dro´mvn. (B.) ka´ndylon, v ∫ ia´ t«, a∫my´lion < > to` pe´raw, yçcow th^w trape´zhw ph´xevn e¢stai triv ^ n, v ç ste to`n deipnoy^nt« e∫pai´rein, a¢n ti boy´lhtai labei^n.
Altri aspetti del frammento di Linceo, taciuti dal Dalby, lo integrano perfettamente nel solco del dibattito gastronomico in commedia, in particolare l’idea che il cibo debba essere adattato all’ospite, cfr. e.g. Men. fr. K.-A. (dal Trofv ´ niow) : je´noy to` dei^pno´n e∫stin y™podoxh´ tinow. podapoy^q diafe´rei tv ^ı magei´rv ı toy^to ga´r. oi©on ta` me`n nhsivtika` tayti` jeny´dria, e∫n prosfa´toiw ∫ix&ydi´oiw te&ramme´na kai` pantodapoi^w, toi^w a™lmi´oiw me`n oy∫ pa´ny a™li´sket«, a∫ll« oyçtvw pare´rgvw açptetai, ta`w d« o∫n&yley´seiw kai` ta` kekarykeyme´na ma^llon prosede´jat«. «Arkadiko`w toy∫nanti´on a∫&a´lattow e∫n toi^w lopadi´oiw a™li´sketai. «Ivniko`w ploy´taj. y™posta´seiw poiv ^ ka´ndaylon, y™pobinhtiv ^ nta brv ´ mata.
citato anch’esso da Ath. iv e dopo Diph. fr. K.-A. (che a sua volta segue immediatamente il nostro frammento: una prova questa certo non ultima della ‘normalità’ di Linceo): (A.) po´soi to` plh^&o´w ei∫sin oi™ keklhme´noi ei∫w toy`w ga´moyw, be´ltiste, kai` po´ter« «Attikoi` açpantew, h£ ka∫k toy∫mpori´oy tine´wq (B.) ti´ dai` toy^t« e¢sti pro`w se` to`n ma´geironq (A.) th^w te´xnhw h™gemoni´a tiw e∫sti`n ay∫th^w, v ® pa´ter, to` tv ^ n e∫dome´nvn ta` sto´mata proeide´nai. oi©on »Rodi´oyw ke´klhkaw. ei∫sioy^si do`w ey∫&y`w a∫po` &ermoy^ th`n mega´lhn ay∫toi^w spa´sai, a∫poze´saw si´loyron h£ lebi´an, e∫f« v ©ı xariei^ poly` ma^llon h£ myri´nhn prosegxe´aw. . « Coquum ipsum se interrogare vidit Thierfelder ap. Koe. ii p. » : così Kassel e Austin ad l.
maria paola funaioli (B.) a∫stei^on o™ siloyrismo´w. (A.) a£n Byzanti´oyw, a∫cin&i´v ı sfoi´h dey^son oçsa g« a¢n parati&W^w, ka´&ala poih´saw pa´nta ka∫skorodisme´na. dia` ga`r to` plh^&ow tv ^ n par« ay∫toi^w ∫ix&y´vn pa´ntew blixanv ´ deiw ei∫si` kai` mestoi` la´phw.
Si può ancora aggiungere Alex. fr. K.-A. : e¢gvge dy´o labei^n magei´royw boy´lomai oyÇw a£n sofvta´toyw dy´nvm« e∫n tW^ po´lei. me´llonta deipni´zein ga`r a¢ndra Uettalo`n oy∫k «Attikhrv ^ w oy∫d« a∫phkribvme´nvw limv ^ı parel&ei^n aÇ dei^ ka&« eÇn eçkaston ay∫toi^w parati&e´nta megalei´vw de`´i .
Malgrado la disperata condizione degli ultimi due versi, è chiaro che qualcuno vuole evitare ad un ospite Tessalo, dunque certamente mangione, il parsimonioso trattamento attico, vivacemente caratterizzato dall’hapax «Attikhrv ^ w, noto anche da Phot. a . La pretesa anomalia non è altro, dunque, che un’ennesima riprova del meccanismo della variazione nel solco della tradizione, sempre verificabile in tutta la commedia attica. Tanto più che mi pare si possa trovare un sia pur sommario parallelo in Plaut. Curc. ss., segnalato dal Dohm, che ritiene che, come là, colui che nel nostro passo assume il cuoco sia un parassita. Ad un parassita pensava anche Dalby in un altro suo precedente lavoro : « Lynceus’ anonymous guest, and Alexis’ young Heracles, are special cases of the generalised ‘greedy uninvited guest’ and ‘hungry hanger-on or client’ ». Ultimamente, invece, è giunto a una conclusione francamente originale : « the Perinthian guest ... represents the author». L’affacciarsi di un grammatico gastronomo sotto pseudonimo a sostener che gli Attici servono pasti troppo striminziti sembrerebbe più insolito, per qualunque opera letteraria, di un cuoco taciturno. E perché poi Linceo dovrebbe dirsi perinzio ? Perinto, sul Mar di Marmara, è bensì colonia Samia, fondata nel a. C., ma ormai nell’orbita di Bisanzio; fu con Bisanzio alleata di Atene nella guerra del / contro Filippo, che l’assediò senza suc. Cfr. anche Arnott b : s. . Cfr. Arnott b : s. . A proposito di cuochi loquaci, già Gomme-Sandbach : osservavano : « in some case the stock characteristic is inverted: the cook of Misumenos says not a word, at least at his entrance and the cook of Aspis tells a tale of unemployment and frustration. Menander’s art is not that of caricature». . P. n. . . Così già Kock ad l.: «invitatus parasitus ad cenam cum coquo conloquitur». . Dalby : .
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cesso. Una fanciulla di Perinto dà il titolo a una perduta commedia menandrea, ma la città è altrimenti ignorata, e probabilmente condivideva la trista reputazione delle città vicine. Nella Samia, Demea, tornando alla patria Atene, instaura infatti un opposto rapporto fra delizie (ateniesi) e spiacevolezza (del Mar Nero): vv. - Po´ntow. paxei^w ge´rontew, ∫ix&y^w a¢f&onoi, a∫hdi´a tiw pragma´tvn. Byza´ntion. a∫ci´n&ion, pikra` pa´nt« ÊApollon. tay^ta de` ka&ara` penh´tvn a∫ga´&« «A&h^nai fi´ltatai, . e¢st« a¢jiai, pv ^ w a£n [g]e´noi&« y™mi^n oçsvn
e una situazione non dissimile è descritta nel già citato Diph. fr., -: a£n Byzanti´oyw, a∫cin&i´v ı sfoi´h dey^son oçsa g« a£n parati&W^w, ka´&ala poih´saw pa´nta ka∫skorodisme´na. dia` ga`r to` plh^&ow tv ^ n par« ay∫toi^w ∫ix&y´vn pa´ntew blixanv ´ deiw ei∫si` kai` mestoi` la´phw.
Perché mai il nostro aristocratico gourmet e uomo di mondo, cittadino di Samo, con consuetudini sia ateniesi che rodie, poiché di quei nobili luoghi rammenta spesso le delizie, dovrebbe mascherarsi da oscuro provinciale? Soprattutto, il Perinzio del Centauro non mostra affatto sofisticata competenza, come ci si attenderebbe da Linceo, ma una ferma volontà di rimpinzarsi (kate´pasa ga`r to` xei^low, oy∫k e∫ne´plhsa de´, v. ), e di quei medesimi cibi che nel disprezzato banchetto attico gli erano stati proposti come entrées. Di contro, il vero Linceo, che pur dichiara di essersi attenuto, nella patria Samo, al principio che ogni convitato potesse bere a suo piacimento in un proprio bicchiere, risulterebbe esser stato, nei fatti, convitato parco e paziente, da quanto gli rinfaccia con scherzosa boria Ippoloco, concludendo . Cfr. von Bredow : s. . Nulla sulla città e sulle sue caratteristiche è evincibile dai frammenti superstiti della Perinthia: è anzi possibile che la fanciulla che dà il titolo alla commedia non apparisse nemmeno in scena, cfr. Arnott a : . . Il titolo di questa pièce, rappresentata forse nel , potrebbe essere in relazione con il ritorno dei cleruchi ateniesi a Samo nel , cfr. Arnott : -, ma c’è chi ha ipotizzato (senza alcun reale fondamento) che la commedia sia stata suggerita a Menandro dal Samio Linceo; si vedano i riferimenti bibliografici in Landucci Gattinoni : n. . . Si veda anche il v. , che serve per commentare l’apparente improvvisa pazzia del medesimo Demea: o™ Po´ntow oy∫x y™gi´eino´n e∫sti xvri´on. . Ad esempio metteva a confronto, a detta di Ateneo, pesci (vii e-f) o coppe (xi b) di Atene con quelli di Rodi. . Citelli : n. rileva infatti che «l’ospite, che viene da Perinto, in Tracia, ... di un pranzo apprezza la quantità più che le raffinatezze ». La ragione sarebbe l’adattamento ai costumi dei barbari da parte dei Greci che vivono loro vicino. . Ostriche e ricci sono considerati antipasto di qualità in Alex. fr. , K.-A. . Ath. xi c : Lygkey`w d« o™ Sa´miow e∫n tW^ pro`w Diago´ran e∫pistolW^ gra´fei. ka&« oÇn xro´non e∫pe-
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il racconto del banchetto di Carano: Ath. iv c sy` de` mo´non e∫n «A&h´naiw me´nvn ey∫daimoni´zeiw ta`w Ueofra´stoy &e´seiw a∫koy´vn, &y´ma kai` ey¢zvma kai` toy`w kaloy`w e∫s&i´vn streptoy´w, Lh´naia kai` Xy´troyw &evrv ^ n. E comunque,
dell’Attica, non dice altro che bene, talvolta ricorrendo al paradosso, cfr. Ath. xiv d (dalla Lettera al poeta comico Posidippo): e∫n toi^w tragikoi^w ...
pa´&esin Ey∫ripi´dhn nomi´zv Sofokle´oyw oy∫de`n diafe´rein. e∫n de` tai^w ∫isxa´si ta`w «Attika`w tv ^ n a¢llvn poly` proe´xein.
Di Linceo, dunque, proprio non può trattarsi, qualunque maschera gli si voglia far indossare. E mi chiedo come si possa negare la qualifica di parassita ad un personaggio che alle spalle del suo ospite, evidentemente abituale (dice di conoscerne e condividerne i gusti), largheggia splendidamente, dopo aver lamentato di non aver cinque bocche e cinque mani. Il keklhme´now del v. non è sufficiente a caratterizzare un parassita, qualificando ogni tipo di invitato, cfr. in ogni caso, oltre a Plaut. Capt. s. : iuventus nomen indidit Scorto mihi eo quia invocatus soleo esse in convivio,
Eub. fr. , - ss. K.-A.: ei∫si`n h™mi^n tv ^ n keklhme´nvn dy´o e∫pi` dei^pnon a¢maxoi, Filokra´thw kai` Filokra´thw. eçna ga`r e∫kei^non o¢nta dy´o logi´zomai mega´loyw < > ma^llon de` trei^w,
che esibisce la caratteristica prima del tipo del parassita, la voracità, per cui si può vedere anche Plaut. Men. parasitus octo hominum munus facile fungitur: parla il cuoco Cylindrus, che deve fare la spesa per tre, in modo che neque defiat neque supersit, e decide di farla per dieci. Infine, mi pare che un ruolo di parassita potrebbe inserirsi bene in una commedia il cui titolo Ke´ntayrow, se non ci dice nulla sulla trama, parrebbe rinviare a qualche ‘impresa’ di Eracle, patrono di parassiti. dh´mhsaw Sa´mv ı , Diago´ra, polla´kiw oi®da´ se paragino´menon ei∫w toy`w par« e∫moi` po´toyw, e∫n oi©w la´gynow kat« a¢ndra kei´menow oi∫noxoei^to, pro`w h™donh`n didoy`w e™ka´stv ı poth´rion.
. Un passo, questo, che in qualche modo vorrei ricondurre anche all’ambito familiare di Linceo, dal momento che il fratello Duride scrisse un peri` Ey∫ripi´doy kai` Sofokle´oyw, il cui unico frammento superstite conserva il nome del maestro di auletica di Alcibiade (fr. Jac.). . Il quale sta sacrificando fuori scena; vien detto anche lui disgustato dai cibi attici, ma potremmo anche trovarci, per un comico inganno, davanti a un padrone di casa come quel mikrolo´gow che in Ephipp. fr. K.-A. ricorre ai diminutivi per fare al cuoco la lista della spesa: basterà un gambero o due... . Ampia discussione sui parassiti in commedia è in Wilkins : -. Si veda anche il cap. (The Comic Cook), pp. -. . Commedie omonime furono composte da Aristofane (Dra´mata h£ Ke´ntayrow), Nicocare, Ofelione, Teogneto, Timocle, Apollofane; un Eracle da Folo scrisse Epicarmo, come ricordano Kassel e Austin ad Ar. l.l.
linceo di samo
In ogni modo, il cuoco prontamente si adegua senza sorpresa a una istanza che, pur motivata su basi ‘etniche’, non è altro che la richiesta di aver in dosi abbondanti quelle stesse Delikatessen servite come antipasti in porzioni mignon. Per questo non sono molto persuasa da quanto viene tramandato in Ateneo per i vv. s., su cui già gli editori divergono per l’assegnazione delle battute : Kock (iii s.) conserva il testo senza il cambio di battute congetturato da Dobree, e adottato da Kassel e Austin. Secondo la traduzione di Citelli, che, come Dalby, segue Kock, avremmo: «L’Attica è proprio sgradevole, come una terra straniera», o, nel secondo caso, «(B.) Non ti piace l’Attica ? (A.) Come una terra straniera». La critica del banchetto attico è anch’essa già topica, cfr. il cit. Alex. fr. K.-A. e Dionys. Com. fr. K.-A. Sostenuta, apparentemente, da alterità regionale, perché se Linceo è di Samo, Alessi è di Turi, e Dionisio è di Sinope : ma proprio per questo, non è immaginabile che un poeta davvero je´now ad Atene si spinga, oltre lo scherzo e la battuta, a definire «sgradevolezza straniera » il fatto che (un ospite ateniese) abbia imbandito con eleganza quantità minuscole. Inoltre i passi citati finora mostrano che la sgradevolezza degli stranieri sarebbe di tutt’altro genere. Se non si vede come i versi che seguono possano far considerare di tipo «straniero » la spiacevolezza ateniese, e se si vuole evitare di mettere in bocca a un poeta straniero una sgarberia nei confronti del pubblico, si deve procedere a un ritocco del testo. Io suggerirei di conservare l’interlocuzione offerta da Kassel-Austin, in cui è il cuoco a rilevare, con sorpresa o con ironia o con fastidio, la ‘scandalosa’ affermazione dello straniero. «(A) Non ci piacciono i pranzi attici. (B) Dunque l’Attica è spiacevole? ». Questi allora batterà in ritirata, giustificandosi con un esempio che dev’essere il più possibile clamoroso: lo diventa se si corregge in je´nia, un ‘pranzo per ospiti’, il tradito jenikh´, facilmente attribuibile ad omeoteleuto ; vçsper assumerebbe qui il senso di ‘as it were’ (lsj , s.v. vçsper ii), come in Thuc. iv vçsper a∫koniti´, o in Ar. Ach.192s. o¢zoysi.../ o∫jy´taton, v ç sper diatribh^w tv ^ n jymma´xvn, o in Plat. Phdr. d h™ goy^n a¢ney toy´tvn me´&odow e∫oi´koi a£n v ç sper tyfloy^ porei´aı. Il significato, che gli dà un indignato mangione, sarà che «quasi fosse un pranzo per ospiti, un tale ci ha messo davanti un vassoio etc.». Si ottiene una struttura, per cui si può rinviare, e.g., ad Aesch. Ag. je´nia... pare´sxe dai^ta, o anche Ar. Ach. ss. (citato da Ath. iv f, poco prima del nostro passo, in quanto tv^n barba´rvn e∫mfani´zvn th`n megaleio´thta) : . L’obiezione del Kock all’assenza di tiw nel v. è definitivamente superata, come segnalano Kassel e Austin, dal confronto con passi raccolti in Kühner-Gerth i s., che mostrano la ricavabilità del soggetto dal predicato, come aveva già intuito il Meineke, che deduceva un implicito «Atticus homo». . Così come l’elogio del banchetto attico, di Matrone di Pitane, SH . . Ma si veda la discussione di questo punto in Arnott b : s.
maria paola funaioli PR. ei®t« e∫je´nize pareti´&ei &« h™mi^n oçloyw e∫k kriba´noy boy^w. DIK. kai` ti´w ei®de pv ´ pote boy^w kribani´tawq tv ^ n a∫lazoneyma´tvn.
Università di Bologna - Sede di Ravenna
linceo di samo Abbreviazioni bibliografiche Arnott, W. Geoffrey a b von Bredow, Iris Citelli, Leo
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TRADIZIONI MUSICALI IN DURIDE DI SAMO Donatella Restani
È noto che nel generale naufragio della storiografia ellenistica, la tradizione indiretta ha conservato circa un centinaio di frammenti di Duride di Samo. È invece meno conosciuto che una quindicina di essi, appartenenti sia alle opere storiche sia a quelle letterarie, contengono brevi descrizioni di eventi sonori e di testi di canti. Sono indicati nella tabella seguente: n.ro frammento ed. Jacoby
titolo dell’opera di Duride
76 F 80
?
76 F81
? [peri nomo¯ n]
76 F 28 76 F16 76 F5 76 F70
peri trago¯ idias ta peri Agathoklea historiai Samio¯ n ho¯ roi
76 F 29 76 F36
peri Euripidou kai Sophokleous historiai
76 F52 76 F12 76 F10 76 F13 76 F26 76 F71
historiai historiai historiai historiai Samio¯ n ho¯ roi Samio¯ n ho¯ roi
76 F 23
Samio¯ n ho¯ roi
fonte
numero di esempio
Etymologicum Magnum 513, 26 Lexicon Seg. 451, 31 Bk Ateneo xiv, 636f Ateneo xiv, 618b-c Ateneo x, 434e-f Plutarco, Vita di Alcibiade, 32 Ateneo iv, 184d
es. 1
Didimo, in Demosthenem, 12, 50 Ateneo xiii, 560f Ateneo iv, 155c Ateneo xii, 542b-e Ateneo vi, 253d-f Ateneo xv, 696e Plutarco, Vita di Lisandro, 18 Porfirio, Vita di Pitagora, 3
es. 8
es. 2 es. 3 es. 4 es. 5 es. 6 es. 7
es. 9 es. 10 es. 11 es. 12 es. 13 es. 14 es. 15
Nell’ambito di un’iniziativa più generale tendente ad ampliare il campo delle testimonianze sulla musica dei popoli antichi a quelle di solito trascurate dalle storie della musica, anche questa esigua raccolta di frammenti può contribuire a esemplificare come erano rappresentati alcuni eventi sonori nella storia sociale e nell’immaginario culturale di un ascoltatore colto, e di . Jacoby (d’ora in avanti: «Jacoby »). . Gallo : .
donatella restani
cui non sono documentabili specifici interessi per la trattatistica musicale, appartenuto a una famiglia influente di Samo, tra la seconda metà del iv e il primo quarto del iii secolo a.C. A prescindere dal più o meno diretto discepolato alla scuola di Teofrasto ad Atene, frequentata sicuramente dal fratello Linceo, Duride aveva ricevuto un’educazione raffinata ed erudita, verosimilmente non solo peripatetica. Di certo, gli erano familiari Omero ed Erodoto, le drammaturgie di Sofocle, di Euripide, ma anche opere di autori meno diffusi, come Asio e probabilmente anche Cherilo di Samo, precursore dell’epos encomiastico ellenistico e continuatore degli interessi etnografici e antropologici delle Storie di Erodoto. Inoltre, come è stato affermato, negli sviluppi dei suoi interessi storici e letterari hanno avuto una parte significativa sia il forte legame con le radici samiote e con la matrice culturale greca, viste attraverso la prospettiva ellenocentrica, sia una particolare attenzione per il tipo di racconto che, attraverso le digressioni etnologiche e antropologiche, colpisse i pathe¯ del pubblico. Tali prospettive culturali facevano da sfondo ad alcune curiosità paretimologiche e paranaturalistiche, in cui alcuni strumenti musicali erano associati in modo insolito a luoghi, o a persone o a popoli della geografia sonora mitica. Per esempio : il nome dello strumento le cui corde erano disposte come le cartilagini del pesce kitharos, sarebbe derivato, secondo Duride, «dal monte Citerone (apo tou Kithaironos), dove Anfione cantava, suonava e danzava (emousikeueto) » ; oppure quello della magadis, da un certo Magdi, di origine tracia. Analogamente, l’appellativo Libys dell’aulos, usato, tra gli altri, da Euripide, era riferito da Duride al paese africano di appartenenza del suo protos eurete¯s: I poeti definiscono libico l’aulo, perché sembra che il primo ad inventare l’auletica sia stato un certo Sirite, un libico della tribù dei Numidi; egli fu anche il primo ad accompagnare con l’aulo i canti in onore della Grande Madre.
Riferita nel secondo libro delle Storie su Agatocle, l’improbabile tradizione di un’origine libica dell’auletica, di contro a quella asiatica prevalentemente attestata, faceva probabilmente parte di una digressione funzionale al rac. Sul trattato peri nomo¯ n, cfr. Landucci Gattinoni : n. . . Dalby , ; M.P. Funaioli, in questo volume, pp. -. . P. Bernardini, in questo volume, pp. -. . Landucci Gattinoni : -. . Jacoby F (es. ) ; cfr. Jacoby F (es. ). . Jacoby F (es. ). . Euripide, Alcesti, . . Jacoby F (es. ), trad. it. L. Citelli.
tradizioni musicali in duride di samo
conto della spedizione in Africa guidata da Agatocle, tra il e il a. C., e rientrava pertanto tra i cenni di tradizioni meno presenti in altre fonti pervenuteci (e anche per questo ritenute improbabili). Essi si profilano non solo come thaumasta atti a sorprendere, ma anche come ipotetici frammenti decontestualizzati di un discorso propagandistico, comprensibile solo all’interno delle dinamiche culturali e politiche, nelle quali Duride era immerso in prima persona . Analogamente nelle Storie (historiai), erano evidenziati sub specie musica alcuni fatti relativi ai monarchi persiani e ai protagonisti delle lotte per la successione di Alessandro il grande, sino a Demetrio Poliorcete (- a.C.). A proposito di Dario iii, probabilmente in riferimento alla vigilia di una battaglia svoltasi durante le feste mitraiche, forse quella di Isso o di Gaugamela, Duride annotava, nel vii libro delle Storie: In una sola delle feste celebrate dai Persiani, quella in onore di Mitra, il re si ubriaca e balla la danza (cosiddetta) persiana (to Persikon) : nessun altro in Asia fa questo, ma tutti in quel giorno si astengono dalla danza. I Persiani, infatti, imparano a danzare come ad andare a cavallo e pensano che il movimento insito in questa attività comporti un esercizio adatto (a sviluppare) la forza del corpo.
I gesti della medesima danza erano stati descritti nell’Anabasi da Senofonte, in un catalogo di esibizioni acrobatiche con le armi, di canti e di balli armati, svoltesi davanti a un pubblico di ambasciatori greci presso il governatore della Paflagonia : È la volta di un Misio, che entra in scena con due piccoli scudi, uno per mano. [...] Chiude con la danza persiana (to Persikon), che consiste nel battere gli scudi uno contro l’altro, piegarsi sulle ginocchia e rialzarsi: anche questo numero viene eseguito al suono dell’aulo.
Duride invece riportava la danza nel suo ambito orientale di provenienza, sottolineando il collegamento tra funzione regia, vino e contesto rituale. D’altra parte proprio le differenze tra il modo di raccontare di Senofonte e di Duride erano già state sottolineate da Plutarco, che rilevava come solo lo storico di Samo rievocasse con dettagli poco probabili il ritorno della flotta di Alcibiade ad Atene, che riteneva suo antenato: Crisogono, vincitore nelle gare Pitiche, suonava l’aulos per segnare il ritmo ai vogatori e l’attore tragico Callippide impartiva gli ordini, e l’uno e l’altro indossavano la . . . . . a. .
Pédech : ; Landucci Gattinoni : . Consolo Langher : . Landucci Gattinoni : . Jacoby F (es. ), trad. it. di Landucci Gattinoni : . Senofonte, Anabasi, vi , (trad. it. E. Ravenna), citato anche da Ateneo, Deipnosofisti, I, Su cui, cfr. Kebric : .
donatella restani
tunica lunga, l’abito con lo strascico e tutto quanto l’abbigliamento da gara teatrale [...].
Anche l’educazione auletica sarebbe stata impartita ad Alcibiade «non da un maestro qualsiasi, ma da Pronomo, un musicista di grande fama», il virtuoso celebre per l’actio con la quale accompagnava l’esecuzione e per aver modificato l’aulos in modo da potervi eseguire qualsiasi genere di harmonia. Senza entrare nei dettagli del condizionamento platonico recepito da Plutarco, che smentiva sia l’istruzione auletica sia l’arrivo trionfale, né delle opposte motivazioni riportate da Ateneo, le due testimonianze sono un esempio del modo in cui Duride aveva individuato nella componente musicale, intesa come spettacolo, un elemento utile alla sua equilibrata miscela di elementi storici e narrativi. Ad essa faceva ricorso sia in funzione dell’he¯done¯ en to¯ i phrasai, il piacere legato al racconto gradito al pubblico cosmopolita della prima età ellenistica , sia, vorrei sottolineare, ai fini di una storiografia intesa come azione politica. Da un lato, lo storico non perdeva occasione per rilevare la straordinaria coincidenza tra eventi storici e eventi sonori: narrava come, per esempio, durante una pausa dell’assedio di Metone (fine primavera/inizio estate a.C.), poco prima dell’incidente in cui il re Filippo avrebbe perso l’occhio destro, capitò che tutti gli auleti, tra cui alcuni erano interpreti acclamati, eseguissero, quasi per un segno divino, il nomos detto il Ciclope: Antigenida intonò quello di Filosseno, Crisogono quello di Stesicoro e Timoteo quello di Oiniade. Dall’altro, attraverso le associazioni all’immaginario simbolico degli strumenti musicali e all’uso della danza e del canto, Duride costruiva una rappresentazione orientata, anche dalla sua storia personale, dei modelli di comportamento dei protagonisti politici. Era il caso dello scenario su cui si stagliava lo scontro avvenuto alla frontiera tra l’Epiro e la Macedonia, nell’estate del a.C., tra Olimpiade, sostenuta da Poliperconte, ed Euridice, moglie di Filippo iii Arrideo, alleata di Cassandro: cinque anni prima, nel ⁄ i Sami rientrati dall’esilio, tra cui la famiglia di Duride, avevano istituito un festival in ringraziamento di Filippo Arrideo e Alessandro iv; nel , era fallito il tentativo di Poliperconte, reggente per Arrideo, di restituire l’isola agli Ateniesi. Duride presentava le due donne sul campo di battaglia: la prima avanzò in battaglia al suono dei timpani, più sfrenata di una baccante, . Jacoby F (es. ). . Jacoby F (es. ). . Platone, Alcibiade primo, e. . Plutarco, Vita di Alcibiade, . . Ateneo, Deipnosofisti, xii, d. . Jacoby F . . Landucci Gattinoni : . . Jacoby F (es. ).
tradizioni musicali in duride di samo
mentre Euridice, che aveva ricevuto l’istruzione militare dall’illirica Cinna, armata al modo dei Macedoni.
Di certo gli era noto che auleti, uomini e donne, erano soliti accompagnare Alessandro sin nel campo di battaglia e che suonatori di salpinx davano il segnale di attacco sia per terra sia per mare, ma altresì che l’uso del tympanon, che richiamava, tra l’altro, le sonorità delle Baccanti euripidee, collocava Olimpiade fuori dall’uso greco e macedone di strumenti musicali nell’armatura, con valore apotropaico o come deterrente. Analogamente, nel libro xii delle Storie, scriveva di Poliperconte: quando aveva bevuto, ballava, benché fosse piuttosto anziano e non fosse inferiore ad alcuno dei Macedoni né per esperienza militare né per la stima di cui godeva; e ballava in continuazione con indosso una veste color zafferano e calzari di Sicione.
Anche la trascrizione parziale o integrale dei canti rientrava in questo meccanismo : Duride ha conservato i primi due versi del canto intonato dal coro delle Dionisie, ad Atene, nel /, guidato da Demetrio del Falero, quando fu eletto arconte, di cui denunciava «l’aver stabilito le leggi con cui pretendeva di regolare il modo di vivere degli altri, ponendo la sua vita al di fuori della legge » eccedendo nella sfrenata tryphe¯, e nella smisurata cura della propria immagine pubblica, che gli era valsa l’intonazione dell’elogio adulatorio : « Nobilissimo e bello come il sole, di divini onori l’arconte ti fa omaggio ». Analogo eliomorfismo ricorreva anche nell’itifallo per Demetrio Poliorcete (v. ), che gli Ateniesi, stigmatizzati da Duride, unico a riportarne il testo, avrebbero cantato (eidon) «non solo in pubblico, ma anche in ogni casa». All’opposto, come chi ha vissuto l’esperienza dell’esilio ed è rimpatriato, Duride rievocava l’eroicizzazione, ora confermata anche dai ritrovamenti archeologici, dello spartano Lisandro, che alla fine della guerra del Peloponneso, nell’agosto del a.C., aveva liberato dal dominio ateniese gli abitanti delle isole e delle città dell’Asia minore e li aveva rimpatriati. Se si trattava della prima volta in cui i Greci tributavano tale onore a un vivente, « a loro volta i Sami decretarono di chiamare Lisandrie le feste che si celebravano in onore di Era» e per Lisandro intonarono un peana che era ricordato a memoria (apomnemoneuousi) ancora a distanza di settant’anni. Duride ne ha trascritto l’inizio (arche¯), ritornello compreso: . Jacoby F (es. ). . Ateneo, Deipnosofisti, xii, a. . Euripide, Baccanti, vv. s., , ecc. . Jacoby F (es. ). . Jacoby F (es. ), trad. it. L. Citelli. . Jacoby F (es. ). Su cui vedi l’intervento di M. Mari in questo volume, pp. -. . Landucci Gattinoni : . . Musti : .
donatella restani il generale della sacra Grecia, (che viene) dalla grande Sparta, noi onoreremo con il canto, o ié Peana!
I versi erano riportati nelle Cronache di Samo (Samio¯ n ho¯ roi), nel cui secondo libro menzionava un fatto correlato ad Arimnesto, che registrava (anagraphei) come uno dei figli di Pitagora: Ritornato in patria dall’esilio, Arimnesto avrebbe offerto al santuario di Era un dono votivo di bronzo che aveva il diametro di quasi due cubiti, su cui era stato inciso questo epigramma : « Mi ha offerto Arimnesto, caro figlio di Pitagora, / per avere scoperto molti modi nei rapporti (musicali) (pollas exeuro¯ n eini logois sophias) ». Simo, l’esperto di teoria armonica (ton harmonikon), portato via questo epigramma e appropriatosi della formula (ton kanona), la pubblicò come propria. Ora, erano sette i moduli incisi, ma a causa di quel solo che Simo aveva sottratto, anche gli altri che erano stati scritti nel disco votivo scomparvero contemporaneamente.
Indipendentemente dalle possibili interpretazioni odierne del secondo verso dell’epigramma (in accezione musicale o aritmetica o esoterica) che, forse anche a causa della trasmissione testuale, resta, anche per i filologi e gli storici, di significato incerto se non indecifrabile, vorrei spostare l’attenzione su un altro aspetto del testo, più vicino alla prospettiva della civiltà musicale intesa in senso ampio, vale a dire sul nome dell’offerente e sull’eventuale legame del suo significato con il dono e con il luogo all’epoca di Duride, riproposto attraverso la rievocazione di Porfirio. Se infatti manca una tradizione antica e autorevole per i nomi dei familiari di Pitagora, fatta eccezione per quello del padre, Mnesarco (o Mnemarco), così da dover far ricorso alla documentazione raccolta nelle tradizioni successive, è invece stato di recente ricostruito che proprio la radice mna-/mne¯-, collegabile alla memoria (mne¯me¯) sarebbe stata all’origine di altri nomi fittizi attribuiti dagli stessi ambienti pitagorici ad esponenti di primo piano della tradizione, come per esempio a Spintharos, padre di Aristosseno di Taranto, verosimilmente soprannominato Mnesias. D’altra parte è noto come il pitagorismo riconoscesse un ruolo significativo alla mne¯me¯, sia sulla scorta dei retaggi della ritualità orfico-misterica, che assegnava a Mne¯mo. . . .
Jacoby F (es. ) ; Jacoby F (es. ), trad. it. Landucci Gattinoni : . Jacoby F (es. ), trad. it. Porfirio : , con alcune varianti. Burkert : n. ; Porphyre : ; Landucci Gattinoni : . Visconti : s.
tradizioni musicali in duride di samo
syne un ruolo importante, sia della trasmissione del sapere in età arcaica. In quest’ultimo processo, vale sottolineare che la musica aveva avuto una centralità assoluta, non solo in età ellenistica, ma che essa era ancora pienamente riconosciuta e valorizzata da Porfirio, che ne ribadiva le funzioni all’interno della raccolta di racconti tradizionali sulla vita di Pitagora e sul suo insegnamento, con la consapevolezza di chi fu autore, tra l’altro, di un commentario (hypomne¯ma) agli Harmonika di Claudio Tolemeo, verosimilmente nato per esigenze d’insegnamento scolastico. Tale persistente sistema di significati della memoria trovava nello stretto legame tra Duride e il tempio di Hera, lo spazio più sacro della sua isola natale, il luogo ideale in cui rappresentare i valori della tradizione pitagorica. L’oggetto che ne era diventato il simbolo era il dono votivo offerto al santuario da chi, come il figlio di Pitagora, recava nel nome, o più verosimilmente nel soprannome, Arimne¯stos, il segno di un’ampia capacità di ricordare: su quel disco di bronzo era inciso qualcosa che solo la memoria permetteva di conservare. Vorrei concludere ricordando un secondo manufatto ritrovato nel medesimo luogo, in particolare nella zona Sud-Ovest dell’Heraion, e che è stato riportato alla luce dagli strati di età arcaica, nell’estate del . Si tratta del frammento di un aulos, il primo e sinora unico strumento musicale ritrovato a Samo, di cui, allo stato attuale delle conoscenze, non è possibile determinare né se fosse stato offerto al santuario come dono votivo o fosse usato per accompagnare le cerimonie rituali, o se avesse avuto, in momenti diversi, entrambi gli usi, né se fosse suonato da uomini o da donne. L’aulos ritrovato nell’Heraion e il dono votivo di Arimnesto, quest’ultimo nel contesto delle altre testimonianze di Duride, sono, al momento, solo un paio di tracce che, però, possono, a causa e in virtù della loro esiguità, avere un duplice significato, di bilancio deludente, ma anche di apertura verso nuove prospettive. Laddove le ricerche di antropologia musicale, prevalentemente orientate sull’età moderna e contemporanea, hanno iniziato da una decina d’anni a studiare sistematicamente il patrimonio di tradizioni musicali del Mediterraneo, per arrivare a concentrarsi ora su contesti particolari, come quelli delle isole; analoghi studi di etnomusicologia storica di età antica e medievale iniziano solo ora ad affacciarsi nel panorama degli studi musicologici e a proporre alcune prime indicazioni di . . . . .
Cordiano : s. Porfirio, Vita di Pitagora, , , , -, -, -. Raffa : . Moustaka : . Magrini .
donatella restani
metodi e di percorsi. Ad essi intendono riferirsi anche queste scarne documentazioni raccolte, che testimoniano la presenza della musica in due momenti, rispettivamente uno di età arcaica e uno di età ellenistica, della storia degli uomini e delle donne vissuti a Samo. Università di Bologna - Sede di Ravenna
. Restani, in corso di stampa.
tradizioni musicali in duride di samo
Es. Etym. M. , : ki´&arow. ka&« o™moio´thta tv^n o∫stv^n pro`w ta`w xorda´w. »O de` Doy^riw a∫po` toy^ Ki&airv ^ no´w fhsin, oçti «Amfi´vn e∫kei^se e∫moysike´yeto. Es. Lexicon Seg. , Bekker : [...] Doy^rin de`
«Aristote´lhw fhsi` le´gein, oçti e∫klh´&h «Asia`w (h™ ki&a´ra) a∫po` tv ^ n xrvme´non Lesbi´vn, oiçtinew oi∫koy^si pro`w tW^ «Asi´aı. [...]
Es. Ath. xiv, f : Doy^riw d» e∫n tv^ı Peri` tragvıdi´aw v∫noma´s&ai fhsi` th`n ma´gadin a∫po` Ma´gdiow Uraıko`w ge´now. Es. Ath. xiv, b-c : « Li´byn de` to`n ay∫lo`n prosagorey´oysin oi™ poihtai`» fhsi` Doy^riw e∫n deyte´rv ı tv ^ n Peri` «Aga&okle´a «e∫peidh` Seiri´thw, oÇw dokei^ prv ^ ton ey™rei^n ay∫lhtikh`n, Li´byw h®n tv ^ n Noma´dvn, oÇw kai` kathy´lhse ta` mhtrv ^ı a prv ^ tow ».
Es. Ath. x, e-f : Para` de` Pe´rsaiw tv^ı basilei^ e∫fi´etai me&y´skes&ai mia^ı h™me´raı, e∫n h©ı
&y´oysi Mi´&rW. Gra´fei de` oyçtvw peri` toy´toy Doy^riw e∫n tW^ e™bdo´mW tv ^ n »Istoriv ^ n. «En mo´nW tv ^ n e™ortv ^ n tv ^ n a∫gome´nvn y™po` Persv ^ n tv ^ı Mi´&rW basiley`w me&y´sketai, kai` to` Persiko`n o∫rxei^tai. tv ^ n de` loipv ^ n oy∫dei`w kata` th`n «Asi´an, a∫lla` pa´ntew a∫pe´xontai kata` th`n h™me´ran tay´thn th^w o∫rxh´sevw. Pe´rsai ga`r, v ç sper ™ippey´ein, oyçtv kai` o∫rxei^s&ai man&a´noysi. kai` nomi´zoysi th`n e∫k th^w e∫rgasi´aw tay´thw ki´nhsin e∫mmelh^ tina lamba´nein gymnasi´an th^w toy^ sv ´ matow r™v ´ mhw.»
Es. Plut. Alcib. : »O d« «Alkibia´dhw, ∫idei^n te po&v^n h¢dh ta` oi¢koi kai` e¢ti ma^llon o∫f&h^nai boylo´menow toi^w poli´taiw nenikhkv ` w toy`w polemi´oyw tosayta´kiw a∫nh´x&h, pollai^w me`n a∫spi´si kai` lafy´roiw ky´klv ı kekosmhme´nvn tv ^ n «Attikv ^ n trih´rvn, polla`w d« e∫relko´menow ai∫xmalv ´ toyw, e¢ti de` plei´v komi´zvn a∫krosto´lia tv ^ n dief&arme´nvn y™p« ay∫toy^ kai` kekrathme´nvn. ®Hsan ga`r oy∫k e∫la´ttoyw synamfo´terai diakosi´vn. ÇA de` Doy^riw o™ Sa´miow, «Alkibia´doy fa´skvn a∫po´gonow ei®nai, prosti´&hsi toy´toiw, ay∫lei^n me`n ei∫resi´an toi^w e∫lay´noysi Xryso´gonon to`n Py&ioni´khn, keley´ein de` Kallippi´dhn to`n tv ^ n tragv ı div ^ n y™pokrith`n, stato`n kai` jysti´da kai` to`n a¢llon e∫nagv ´ nion a∫mpexo´menon ko´smon, ™isti´v ı d« a™loyrgv ^ı th`n nayarxi´da prosfe´res&ai toi^w lime´sin, v ç sper e∫k me´&hw e∫pikvma´zontow, oy¢te Ueo´pompow oy¢t« ÊEforow oy¢te Jenofv ^ n ge´grafen. oy¢t« ei∫ko`w h®n oyçtvw e∫ntryfh^sai toi^w «A&hnai´oiw meta` fygh`n kai` symfora`w tosay´taw katerxo´menon. [...]
Es. Ath. iv, , d : Doy^riw d« e∫n tv^ı Peri` Ey∫ripi´doy kai` Sofokle´oyw «Alkibia´dhn fhsi` ma&ei^n th`n ay∫lhtikh`n oy∫ para` toy^ tyxo´ntow, a∫lla` Prono´moy, toy^ megi´sthn e∫sxhko´tow do´jan.
Es. Did. in D. , . »O de` Doy^riw - e¢dei ga`r ay∫to`n ka∫ntay^&a teratey´se[s&ai - «A]ste´ra fhsi` ei®nai toy¢^ n [synestra]teynoma toy^ to` a∫k[o´ntion kairi´vw] e∫p« ay∫to`n (sc. Fi´lippon) a∫fe´ntow tv ko´tvn ay∫tv ^ı sxedo`n [pa´n]tvn tojey´mati lego´ntvn ay∫to`n tetrv ^ s&ai. Ta` me`n ga`r peri` tv ^ n ay∫lhtv ^ n o™mologei^tai kai` para` Marsy´ai, dio´ti synteloy^nti moysikoy`w a∫gv ^ naw
donatella restani
ay∫tv ^ı mikro`n e∫pa´nv th™w symfora^w kata` dai´mona syne´bh to`n Ky´klvpa pa´ntaw ay∫lh^sai, «Antigenei´dhn me`n to`n Filoje´noy, Xryso´gonon de` to`n Sthsixo´roy, Timo´&eon de` to`n Oi∫nia´doy.
Es. Ath. xiii, f : Doy^riw d« o™ Sa´miow kai` prv^ton gene´s&ai po´lemo´n fhsi dy´o gynaikv^n,
«Olympia´dow kai` Ey∫rydi´khw. e∫n v ®ı th`n me`n bakxikv ´ teron meta` tympa´nvn proel&ei^n, th`n d« Ey∫rydi´khn Makedonikv ^ w ka&vplisme´nhn, a∫skh&ei^san ta` polemika` para` Ky´nnW tW^ «Illyri´di.
Es. Ath. iv, c : Doy^riw d« o™ Sa´miow e∫n tW^ tv^n »Istoriv^n e™ptakaideka´tW Polyspe´rxonta´ fhsin, ei∫ me&ys&ei´h, kai´toi presby´teron o¢nta, o∫rxei^s&ai, oy∫deno`w Makedo´nvn o¢nta dey´teron oy¢te kata` th`n strathgi´an, oy¢te kata` th`n a∫ji´vsin, kai` e∫ndyo´menon ay∫to`n krokvto`n, kai` y™podoy´menon Sikyv ´ nia, diatelei^n o∫rxoy´menon.
Es. Ath. xii, b-e: Dhmh´triow de` o™ Falhrey´w, vçw fhsi Doy^riw e∫n tW^ e™kkaideka´tW »Istoriv ^ n, xili´vn kai` diakosi´vn tala´ntvn kat« e∫niayto`n ky´riow geno´menow, kai` a∫po` toy´tvn braxe´a dapanv ^ n ei∫w toy`w strativ ´ taw kai` th^w po´levw dioi´khsin ta` loipa` pa´nta dia` th`n e¢mfyton a∫krasi´an h∫fa´nize, &oi´naw te ka&« e™ka´sthn h™me´ran lampra`w e∫pitelv ^ n, kai` plh^&o´w ti syndei´pnvn e¢xvn. kai` tai^w me`n dapa´naiw tai^w ei∫w ta` dei^pna toy`w Makedo´naw y™pere´bale, tW^ de` ka&ario´thti Kypri´oyw kai` Foi´nikaw. r™a´smata´ te my´rvn e¢pipten e∫pi` th`n gh^n, a∫n&ina´, te ta` polla` tv ^ n e∫dafv ^ n e∫n toi^w a∫ndrv ^ si kateskeya´zeto, diapepoikilme´na y™po` dhmioyrgv ^ n. ®Hsan de` kai` pro`w gynai^kaw o™mili´ai sivpv ´ menai, kai` neani´skvn e¢rvtew nykterinoi`, kai` o™ toi^w a¢lloiw ti&e´menow &esmoy`w Dhmh´triow, kai` toy`w bi´oyw ta´ttvn, a∫nomo&e´thton e™aytv ^ı to`n bi´on kateskey´azen. «Epemelei^to de` kai` th^w o¢cevw, th´n te tri´xa th`n e∫pi` th^w kefalh^w jan&izo´menow, kai` paide´rvti to` pro´svpon y™paleifo´menow, kai` toi^w a¢lloiw a∫lei´mmasin e∫gxri´vn e™ayto´n. h∫boy´leto ga`r th`n o¢cin ™ilaro`w kai` toi^w a∫pantv ^ sin h™dy`w fai´nes&ai. «En de` tW^ pompW^ tv ^ n Dionysi´vn, hÇn e¢pemcen a¢rxvn geno´menow, W®de xoro`w ei∫w ay∫to`n poih´mata Seirv ´menow toy^ Sole´vw, e∫n oi®w h™lio´morfow proshgorey´eto. «Ejo´xvw d« ey∫gene´taw h™lio´morfow za&e´oiw a¢rxvn se timai^w gerai´rei.
Es. Ath. vi, d-f : »O me`n oy®n Dhmoxa´rhw tosay^ta ei¢rhke peri` th^w «A&hnai´vn kola-
kei´aw. Doy^riw d« o™ Sa´miow e∫n tW^ deyte´raı kai` ei∫kostW^ tv ^ n »Istoriv ^ n kai` ay∫to`n to`n ∫i&y´fallon. »Vw oi™ me´gistoi tv ^ n &ev ^ n kai` fi´ltatoi tW^ po´lei pa´reisin. «Entay^&a ga`r Dh´mhtra kai` Dhmh´trion açma parh^g« o™ kairo´w. Xh∫ me`n ta` semna` th^w Ko´rhw mysth´ria e∫rxe&« çina poih´sW, o™ d« ™ilaro`w, v ç sper to`n &eo`n dei^, kai` kalo`w kai` gelv ^ n pa´resti. Semno`n oç&i fai´ne&«, oi™ fi´loi pa´ntew ky´klv ı, e∫n me´soisi d« ay∫to`w,
tradizioni musicali in duride di samo
oçmoiow v ç sper oi™ fi´loi me`n a∫ste´rew, hçliow d« e∫kei^now. ®V toy^ krati´stoy pai^ Poseidv ^ now &eoy^, xai^re, ka∫frodi´thw. ÊAlloi me`n h£ makra`n ga`r a∫pe´xoysin &eoi` h£ oy∫k e¢xoysin v ® ta, h£ oy∫k ei∫si`n, h£ oy∫ prose´xoysin h™mi^n oy∫de` eçn. se` de` paro´n&« o™rv ^ men, oy∫ jy´linon, oy∫de` li´&inon, a∫ll« a∫lh&ino´n. Ey∫xo´mes&a dh´ soi. prv ^ ton me`n ei∫rh´nhn poi´hson, fi´ltate. ky´riow ga`r ei® sy´. Th`n d« oy∫xi` Uhbv ^ n, a∫ll« oçlhw th^w »Ella´dow Sfi´gga perikratoy^san, Ai∫tvlo`w oçstiw e∫pi` pe´traw ka&h´menow, v ç sper h™ palaia`, ta` sv ´ ma&« h™mv ^ n pa´nt« a∫narpa´saw fe´rei, koy∫k e¢xv ma´xes&ai, (Ai∫tvliko`n ga`r, a™rpa´sai ta` tv ^ n pe´law, ny^n de` kai` ta` po´rrv.) ma´lista me`n dh` ko´lason ay∫to´w. ei∫ de` mh`, Oi∫di´poyn tin« ey™re´, th`n Sfi´gga tay´thn oçstiw h£ katakrhmniei^, h£ spi´non poih´sei. Tay^t« W®don oi™ Mara&vnoma´xai oy∫ dhmosi´aı mo´non, a∫lla` kai` kat« oi∫ki´an, oi™ to`n proskynh´santa to`n Persv ^ n basile´a a∫poktei´nantew, oi™ ta`w a∫nari´&moyw myria´daw tv ^ n barba´rvn foney´santew.
Es. Ath. xv, e: Oy∫k e¢xei d« oy∫de` to` paianiko`n e∫pi´rrhma, ka&a´per o™ ei∫w Ly´sandron to`n Spartia´thn grafei`w o¢ntvw paia´n, oçn fhsi Doy^riw e∫n toi^w Sami´vn e∫pigrafome´noiw ©Vroiw a¢ıdesai e∫n Sa´mv ı.
Es. Plut. Lys. : To´te d« oy®n o™ Ly´sandrow oçson oy∫dei`w tv^n pro´s&en »Ellh´nvn dynh&ei`w e∫do´kei fronh´mati kai` o¢gkv ı mei´zoni kexrh^s&ai th^w dyna´mevw. Prv ^ ton me`n ga`r, v ™w ™istorei^ Doy^riw, »Ellh´nvn e∫kei´nv ı kai` bvmoy`w ai™ po´leiw a∫ne´sthsan v ™ w &ev ^ı kai` &ysi´aw e¢&ysan, ei∫w de` prv ^ ton paia^new W¢s&hsan, v © n e™no`w a∫rxh`n a∫pomnhmoney´oysi toia´nde. To`n »Ella´dow a∫ga&e´aw, stratago`n a∫p« ey∫ryxo´roy Spa´rtaw y™mnh´somen, v ®, ∫ih` Paia´n. Sa´mioi de` ta` par« ay™toi^w »Hrai^a Lysa´ndreia kalei^n e∫chfi´santo.
Es. Porphyr. Vit. Pyth. : Doy^riw d« o™ Sa´miow e∫n deyte´rvı tv^nçVrvn pai^da´ t« ay∫toy^ a∫nagra´fei «Ari´mnhston, kai` dida´skalo´n fhsi gene´s&ai Dhmokri´toy. To`n d« «Ari´m-
donatella restani
nhston katel&o´nt« a∫po` th^w fygh^w, xalkoy^n a∫na´&hma tv ^ı ™ierv ^ı th^wçHraw a∫na&ei^nai, th`n dia´metron e¢xon e∫ggy`w dy´o ph´xevn, oy© e∫pi´gramma h®n e∫ggegramme´non to´de. Py&ago´rev fi´low yi™o`w «Ari´mnhsto´w m« a∫ne´&hke, polla`w e∫jeyrv ` n ei∫ni` lo´goiw sofi´aw. Toy^to d« a∫nelo´nta Si^mon to`n »Armoniko`n kai` to`n kano´na sfeterisa´menon e∫jenegkei^n v ™ w ¢idion. ei®nai me`n oy®n e™pta` ta`w a∫nagegramme´naw sofi´aw, dia` de` th`n mi´an, hÇn Si^mow y™fei´leto, synafanis&h^nai kai` ta`w a¢llaw ta`w e∫n tv ^ı a∫na&h´mati gegramme´naw.
tradizioni musicali in duride di samo
Abbreviazioni bibliografiche Burkert, Walter
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donatella restani Trois historiens méconnus. Théopompe – Duris – Phylarque, Paris : Les Belles Lettres, . La Scienza Armonica di Claudio Tolemeo. Saggio critico, traduzione e commento a cura di M. Raffa, Messina: A. Sfameni, . Etnomusicologia storica del mondo antico. Per Roberto Leydi, a cura di D. Restani, Ravenna: Longo (in corso di stampa) Aristosseno di Taranto e il nome del padre, «Rendiconti della Classe di Scienze Morali, storiche e filologiche dell’Accademia dei Lincei», ix/, , -.
venerdì novembre ⋅ ore : presiede giovanni cerri
SILOSONTE ‘BENEFATTORE DEL RE’ E LA CO N Q U I S T A P E R S I A N A D I S A M O Antonio Panaino
S ono ben note le circostanze grazie alle quali, secondo Erodoto (iii -),
Dario I poté estendere, solo intorno al , secondo Gallotta, già nel settembre del , secondo La Bua, ma forse più prudentemente nel - (o meglio subito dopo), come non senza incertezza suggerisce Briant, il suo potere sull’isola di Samo, occupando così un caposaldo di importanza strategica ed economico-commerciale oltremodo rilevante nell’Egeo. Che tale operazione rientrasse in un progetto di più ampio raggio volto ad ottenere un indiscusso dominio persiano anche sul mare e sulle altre isole egee è confermato dalle successive vicende storiche, in particolare dalla conquista di Naxos (Hdt. vi ), che avverrà nel a partire proprio dalla base di Samo (vi ), seguita da quella di Delos, Karystos, etc. (Hdt. vi -). Erodoto si sofferma sulla conquista di Samo dopo aver narrato la storia del celebre medico Democede e le avventure siciliane ad esso connesse, riportando una serie di episodi che probabilmente servivano allo storico per introdurre il tema delle mire persiane verso Occidente. Mi sembra inoltre molto opportuno ricordare che Erodoto aveva avuto occasione di soggiornare per un lungo periodo a Samo in gioventù e che quindi disponeva di informazioni dirette, anche se – come si vedrà – non prive di qualche unilateralità. L’isola di Samo aveva da tempo assunto un’importanza politica e diploma. Gallotta : -; -. . La Bua (a : -, -) insiste sul fatto che Silosonte sarebbe stato quindi il primo tiranno greco imposto direttamente dall’autorità persiana. . Briant : . Le notizie riportate da Malalas (Chron., p. Migne) e Cedreno (Synops. ; p. Migne) riguardanti un’aggressione da parte di Ciro il Grande contro l’isola di Samo sono prive di attendibilità, come ha già precisato la Boffo : -. . Sulla storia di Samo cfr. Bürchner ; vedi anche Gillis : -, n. e soprattutto Shipley . . Briant : ; Gallotta : . . Briant : -; cfr. Olmstead : . Si vedano inoltre le considerazioni critiche di Gallotta (: - e passim) alla tesi del Nenci (: -) secondo il quale le campagne persiane nell’Egeo non sarebbero state altro che iniziative occasionali, provocate dagli intrighi e dalle pressioni di transfughi e rinnegati. La Bua (a : ) attribuisce addirittura a Silosonte la responsabilità di aver ispirato Dario a scegliere la politica dell’imposizione di un ty´rannow yçparxow come suo viceré nelle città greche sottomesse. Vedi ora Luraghi per una revisione storiografica del problema generale della tirannide in rapporto al mondo achemenide. . Waters : . . Si veda La Bua a : e nota con ulteriore bibliografia, nonché le considerazioni più generali presentate in La Bua a proposito del logos samio, suddivisibile in tre parti (iii -; -; -).
antonio panaino
tica di notevole riguardo anche sul piano delle relazioni internazionali, in particolare sotto la considerevole opera di Policrate, personaggio sul quale non ci soffermeremo, se non limitatamente ad alcuni aspetti di particolare pertinenza per il tema qui trattato, data la sua eccezionale complessità. Dobbiamo altresì notare che il tema della conquista dell’isola viene anticipato da Erodoto già sotto la tirannide di Policrate; anzi è in un certo qual modo indicato come una delle possibili cause della sua stessa morte. Infatti, l’odio di Orete, satrapo di Sardi, contro Policrate sarebbe stato indirettamente suscitato da Mitrobate, governatore della provincia di Dascilo (Hdt. iii ). Nel corso di una lite tra i due Persiani su questioni di “valore personale” (peri` a∫reth^w), Mitrobate avrebbe duramente offeso Orete dicendogli così : Tu dunque, dovresti essere nel novero dei valorosi; tu che non hai saputo acquistare al dominio del re l’isola di Samo, così vicina al tuo territorio e così facile a essere conquistata che uno del paese, levatosi in armi con opliti, l’ha occupata e ora la regge da tiranno. Sy` ga`r e∫n a∫ndrv ^ n lo´gv ı , oÇw basile´¨i nh^son Sa´mon pro`w tv ^ı sv ^ı nomv ^ı proskeime´nhn oy∫ prosekth´sao, v © de dh´ ti e∫oy^san ey∫pete´a xeirv&h^nai, th`n tv ^ n tiw e∫pixvri´vn pentekai´deka o™pli´tWsi e∫panasta`w e¢sxe kai` ny^n ay∫th^w tyranney´ei.
Per questa ragione o a seguito di un incidente diplomatico tra Policrate ed un araldo di Orete (Hdt. iii ), il satrapo di Sardi avrebbe definitivamente concepito il disegno di uccidere il tiranno di Samo, anche se, come suggerisce Dognini, Diodoro (x ,) ci offre argomenti più plausibili, in particolare quello dell’asilo offerto da Samo ai fuoriusciti lidi. A partire da questo episodio, nel quale peraltro Policrate agisce senza scrupoli, prima contro la Persia, poi contro i suoi stessi ospiti, che fa assassinare solo per bramosia delle loro ricchezze, La Bua ha sottolineato l’importanza non solo di Eforo, ma soprattutto della sua fonte, ovvero di Euagone di Samo (il più antico autore di ©Vroi Sami´vn), a cui il logos samio di Erodoto, in molti aspetti filo-policrateo, sembrerebbe patentemente opporsi. Resta invece in dubbio se l’azione di Orete, il cui carattere è tratteggiato a fosche tinte da Erodoto, che infatti gli attribuisce non solo l’assassinio di Policrate, ma anche vari altri de. Lenschau ; Gillis : -, n. . Sull’adozione di modelli persiani come segno di prosperità da parte di Policrate di Samo cfr. Miller : , che si riferisce in particolare al paradeisos voluto dal tiranno. . Orete ricopriva tale carica dai tempi di Ciro (Hdt. iii ) ; cfr. Briant : -. A proposito dell’odio di Orete si veda anche la discussione offerta dal La Bua : -, -. . Dognini : -. . Il comportamento violento di Policrate contro gli stranieri è sottolineato da Diodoro (i , ) che vi ravvisa anche il motivo principale della frattura con Amasis. Vedi La Bua : -. . La Bua : -. Cfr. anche La Bua b.
silosonte ‘benefattore del re’ e la conquista persiana di samo
litti (tra i quali quello di Mitrobate e del di lui figlio, Cranaspe, e addirittura quello di un messo di Dario I), fosse stata concepita – almeno così come viene presentata – nell’ambito di un quadro geopolitico organico di espansione, oppure se, dietro l’empio inganno di Orete, Erodoto volesse semplicemente farci sapere che Policrate e Samo erano – comunque fossero andate le cose – sulla lista delle pedine da soggiogare. Per quanto quest’ultima possibilità contenga una verità, mi sembra comunque improbabile che l’omicidio di Policrate rientrasse immediatamente nel novero delle volontà politiche espressamente dettate da Cambise; anzi, che possa trattarsi del contrario, parrebbe confermato dal fatto che Orete ingannasse Policrate proprio facendogli credere di volerlo sostenere nel suo piano talassocratico al fine di ottenere, in un futuro vicino, protezione per se stesso, perché direttamente minacciato dallo stesso Cambise. Orete avrebbe infatti informato Policrate di essere in pericolo, poiché il Gran Re avrebbe voluto manifestamente ucciderlo (Hdt. iii ), fatto che non solo potrebbe corrispondere, dai molti indizi a nostra disposizione, a verità, ma essere stato già noto anche al morituro Policrate. Il fatto poi che lo stesso tiranno, per quanto mosso da avidità (Hdt. iii ), accettasse l’invito di Orete a dispetto di ogni ragione contraria, umana o divina, lascerebbe supporre che le relazioni tra Samo e l’ingombrante “vicino persiano” dovessero essere, al momento, tutto sommato buone, anche se non prive di ambiguità, dovute in certa parte anche alle turbolenze interne all’impero achemenide. In tale complesso quadro, non sarebbe priva di fondamento la supposizione avanzata da Dognini, secondo il quale Orete avrebbe addirittura cercato di dare vita ad un regno indipendente e che per questa ragione avrebbe voluto eliminare Policrate, ormai alleato di Cambise. Si deve infatti rammentare che Policrate aveva già stabilito buone relazioni diplomatiche con Cambise (Hdt. iii ), interpretate da Mazzarino (come poi dal Berve) in termini di vassallaggio (tema su cui ritorneremo), e che, nonostante il fatto che egli fosse stato in precedenza . Cfr. Waters : . . Di una guerra tra Ciro ed i Sami, dopo la caduta del regno lidio, riferisce Malalas (vi ), ripreso letteralmente da Giorgio Cedreno, evento che per Labarbe (: -) potrebbe trovare qualche fondamento storico. . Dognini : -. . Si noti che, secondo Erodoto (iii ), Policrate, all’insaputa dei Sami, avrebbe pregato Cambise di inviargli degli emissari per richiedere truppe da inviare nella spedizione contro l’Egitto. Tale comportamento da una parte serviva a mascherare il tentativo di Policrate di allontanare una serie di cittadini politicamente indesiderabili, attribuendo la necessità di formare un contingente militare non ad una propria iniziativa ma ad una pressione persiana. In ogni caso, tale scambio di missive e di ambascerie conferma l’esistenza di relazioni diplomatiche tra la Persia di Cambise e Samo, e non solo tra l’isola e l’Egitto. . Mazzarino : ; cfr. Walser : -. . Berve , i: .
antonio panaino
amico del faraone Amasis (Hdt. iii ), aveva inviato al Re dei Re una flotta di quaranta triremi, sulla quale aveva fatto imbarcare tra i cittadini “quelli che lui più sospettava di simpatie rivoluzionarie” [tv^n a∫stv^n toy`w y™pv´pteye ma´lista e∫w e∫pana´stasin] con la preghiera (rivolta ovviamente a Cambise) di non farli più ritornare in patria. La sorte di questo contingente samio, aggregato all’armata persiana, rende perplesso lo stesso Erodoto (iii ), secondo il quale è possibile che esso non fosse mai giunto in Egitto, ma che si fosse fermato nelle acque di Carpato. Lo storico greco riporta però anche la voce discordante di altri testimoni secondo i quali tale flotta sarebbe sì arrivata in Egitto per poi fuggirne via. In ogni caso i reduci di tale viaggio si sarebbero poi battuti contro la flotta di Policrate, risultando peraltro vincitori in mare aperto (esito in vero abbastanza dubbio), ma per poi essere sconfitti sull’isola, da cui quindi sarebbero fuggiti alla volta di Sparta, da tempo nemica di Samo. Non si può però dubitare che alcuni Sami si trovassero o si recassero comunque in Egitto al tempo dell’invasione di Cambise, come puntualizza Erodoto (iii ). Tra questi Sami si trovava anche Silosonte (il giovane), figlio di Aiace (i), fratello di Policrate ed esule da Samo [Sylosv^n o™ Ai∫a´keow, Polykra´teo´w te e∫v ` n a∫delfeo`w kai` fey´gvn e∫k Sa´moy], del quale presto vedremo tutta l’importanza. Policrate, infatti, verso il , dopo la presa di potere ed una breve fase di collaborazione con due dei suoi fratelli, Pantagnoto e appunto Silo. Vedi Bilabel ; Waters : -; De Sanctis : ; cfr. Immerwahr : . Sulla rottura dell’intesa samio-egiziana si veda anche Labarbe ; Koening ; Dognini : . La Bua (: -) ritiene che tanto l’episodio dell’anello quanto i riferimenti alla corrispondenza tra Amasis e Policrate servissero anche a giustificare il passaggio di campo del tiranno samio verso Cambise. Bisogna altresì considerare, sulla scorta di Labarbe (: , -), che molto verisimilmente Amasis morì tre o quattro anni prima di Policrate e che quindi l’azione di Policrate a sostegno di Cambise si sarebbe rivolta contro Psammetico iii, figlio di Amasis. . La menzione di “triremi” e non di “penteconteri” in questo passo ha attirato il sospetto del La Bua (: ) sulla possibile recenziorità di questo riferimento nell’ambito della trattazione erodotea. . I possibili aspetti polemici di tale esposizione dei fatti contro la supposta versione di Euagone di Samo sono discussi da La Bua : -. . Cfr. Burn : . Si veda sulla questione anche Mastrocinque e Dognini : . Sul collaborazionismo egiziano si veda invece Huss . . Si veda in proposito Waters : n. . . Cfr. Hdt. iii ; Vedi De Sanctis : -; cfr. Boffo : n. . Si tenga presente anche Luraghi : -. . Vedi Hofstetter , nr. ; La Bua a : . Cfr. anche Fiehn ; Berve , ii: . Si noterà che questo Silosonte deve essere distinto da un omonimo tiranno, ma figlio di Callitele, vissuto intorno al a.C., probabilmente antenato di Policrate e di Silosonte (ii). Si tengano in considerazione i lavori più recenti di Shipley : ; De Libero : -. Si veda, però, anche la nota successiva. . Si veda in particolare il contributo di Labarbe con una dettagliata discussione del passo di Polieno, Strategemata, i , e soprattutto di vi , ove si fa riferimento ad un certo Silosonte, figlio di Callitele, che sarebbe stato tanto gradito al popolo Samio da essere eletto sta-
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sonte, aveva messo a morte il primo e bandito il secondo, indicato da Erodoto (iii ) come “il più giovane” (to`n nev´teron). Per il momento facciamo un breve passo indietro e ritorniamo alla situazione ingeneratasi dopo lo scellerato omicidio compiuto da Orete. Si può senza dubbio ritenere che la morte di Policrate non avesse recato alcun beneficio diretto alla politica persiana, se non l’indebolimento del governo dell’isola, giacché Orete, per quanto non sembri intraprendere nell’immediato alcun piano per invadere Samo, avrebbe ben presto potuto rafforzare la sua posizione non solo su Frigia e Lidia, che ormai controllava, ma anche sulla Ionia e successivamente sulla stessa Samo, venendo così a disporre, come sottolineava La Bua, di una delle più temibili marine da guerra del Mediterraneo. Veritiera o meno che sia la narrazione erodotea (iii -) a proposito dell’astuto espediente utilizzato dal persiano Bageo, figlio di Artonte, per eliminare il ribelle Orete secondo il volere del nuovo sovrano Dario I, risulta indiscutibile il fatto che la figura del subdolo satrapo di Sardi uscisse drasticamente di scena poco dopo la morte dello stesso Policrate e che quindi le sue azioni non rispondessero ad una logica imperiale e centrale. Non si può però escludere affatto che Dario, dopo aver riconquistato il potere, trovandosi nell’impossibilità di una campagna diretta e peraltro non priva di rischi contro Orete che nel frattempo aveva eliminato Mitrobate e si era impadronito della provincia di Dascilo (Hdt. iii -), cercasse una soluzione tanto efficace quanto astuta per liberarsi del ribelle. È quindi verisimilmente in un periodo successivo alle grandi campagne del e del contro Elamiti e Saci che Dario avrebbe potuto occuparsi di Orete e quindi anche del destino di Samo. Ritorniamo allora alla figura, in questo frangente centrale, di Silosonte. Egli per un caso fortunato, secondo Erodoto (iii ), mentre girovagava per le piazze di Menfi indossando una splendida mantellina rossa (xlani´da ... pyrrh´n), si sarebbe imbattuto proprio in Dario, allora una semplice guardia del corpo di Cambise e che non godeva di alcuna reputazione (Darei^ow, doryfo´row te e∫v ` n Kamby´sev kai` lo´goy oy∫deno´w kv mega´loy). L’incontro tra i due avviene, come ha acutamente notato Dorati, secondo i moduli di una tego. Durante la guerra con gli Eoli, tale Silosonte con uno stratagemma si sarebbe impadronito del santuario di Hera. Labarbe (: ) ritiene con diversi argomenti che tale Silosonte debba essere identificato con il fratello di Policrate nonostante l’erroneo riferimento ad un genitore differente. . Si veda Labarbe : -. . La Bua a : -. . Cfr. La Bua a : . . Si veda in proposito Gallotta : n. ; ; si veda altresì la tesi opposta di La Bua a : -. . Sulla condizione di Dario prima della sua presa di potere cfr. Briant : , -. . Dorati : .
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certa teatralità, giacché Erodoto, a differenza di quanto accadrà alcuni anni dopo alla corte di Susa tra gli stessi protagonisti, non introduce alcun interprete fra di loro; anzi, i due sembrano comprendersi immediatamente e si relazionano l’uno con l’altro con una certa franchezza amicale, che lascia perplessi. Questa comunque la descrizione erodotea dell’evento: Silosonte, vedendo che Dario aveva un gran desiderio della mantellina, felicemente preso da divina ispirazione, gli disse: “Io questa clànide non la vendo a nessun prezzo; piuttosto, se è necessario assolutamente che sia così, te la offro”. Avendo lodato questo generoso atto, Dario si prese la mantellina. o™ de` Sylosv ^ n o™rv ^ n to`n Darei^on mega´lvw e∫pi&yme´onta th^w xlani´dow, &ei´W ty´xW xrev ´menow le´gei. «Egv ` tay´thn pvle´v me`n oy∫deno`w xrh´matow, di´dvmi de` a¢llvw, ei¢ per oyçtv dei^ gene´s&ai pa´ntvw toi. ai∫ne´saw tay^ta o™ Darei^ow paralamba´nei to` ei©ma.
Questo gesto di generosità, del quale Silosonte sembra pentirsi immediatamente, quasi si trattasse di vera e propria “dabbenaggine” (di« ey∫h&i´hn), si tramuterà presto in un investimento imprevedibilmente vantaggioso e di cui il greco cercherà di approfittare. Non è un caso, peraltro, che tale episodio sia stato ampiamente ripreso da diverse fonti posteriori. Infatti, Silosonte, saputo dell’ascesa al potere compiuta proprio dall’uomo a cui aveva donato la clànide (Hdt. iii ), si sarebbe recato a Susa e, postosi nell’atrio della reggia (e∫w ta` pro´&yra tv^n basile´ow oi∫ki´vn), avrebbe dichiarato di essere “un benefattore di Dario” (Darei´oy ey∫erge´thw ei®nai). Tale dichiarazione, immediatamente riferita allo stesso Dario dal guardiano della porta, lo avrebbe stupito, giacché il nuovo sovrano non ricordava di avere qualche suo “benefattore” tra i Greci né di essere in obbligo (xre´ow) con alcuno di loro. Fatto quindi introdurre secondo il protocollo, Silosonte viene interrogato dagli interpreti sulla sua identità e soprattutto su “che cosa avesse fatto per proclamarsi benefattore del re” (kai` ti´ poih´saw ey∫erge´thw fhsi` ei®nai basile´ow). Dario, ascoltata ovviamente la traduzione del discorso di Silosonte, si sarebbe effettivamente rammentato senza indugi del regalo ricevuto, dichiarando pertanto: O generosissimo fra gli uomini! Tu, dunque, sei colui che, quando io non avevo ancora alcun potere, mi ha fatto quel dono, che, sebbene di poco conto, era tuttavia un favore della stessa importanza che se io adesso, da qualche parte, ricevessi un grande regalo. Per questo, io ti voglio dare oro e argento senza fine, affinché tu non abbia mai a pentirti di aver fatto una cortesia a Dario, figlio di Istaspe. ®V gennaio´tate a∫ndrv ^ n, sy` kei^now ei®w oÇw e∫moi` oy∫demi´an e¢xonti´ kv dy´namin e¢dvkaw, ei∫ kai` smikra´ all« v ® n ¢ish ge h™ xa´riw o™moi´vw v ™ w ei∫ ny^n ko&e´n ti me´ga la´boimi. a∫nt« v © n toi xryso`n kai` a¢rgyron a¢pleton di´dvmi, v ™ w mh´ kote´ toi metamelh´sW Darei^on to`n »Ysta´speow ey® poih´santi. . Sulla questione si veda già Labarbe : -. . Su tali fonti si veda la discussione puntuale proposta da Labarbe : - e passim.
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A tale discorso Erodoto fa seguire la replica di Silosonte, il quale non domanda beni materiali, ma chiede al Gran Re di restituirgli la patria, sottratta al fratello Policrate, ucciso da Orete, ed ora in possesso di Meandrio, uomo definito “schiavo” (doy^low) da Silosonte, ma che in verità era solo un cittadino di umile condizione. Dario, ovviamente, non può che accogliere la richiesta (Hdt. iii ) e incarica uno dei più importanti nobili persiani, Otane, ben noto per essere stato uno dei sette congiurati (e probabilmente tra questi il più potente e prestigioso dopo Dario), di allestire un corpo di spedizione e soprattutto di eseguire tutto quanto Silosonte gli avesse richiesto. Al di là degli aspetti romanzeschi ben visibili nella descrizione erodotea dell’incontro e del riconoscimento da parte del novello sovrano dell’esule Silosonte, aspetti che però permettono a Erodoto di inserire, secondo un suo schema narrativo non solo la ai∫ti´a della conquista di Samo, ma anche l’idea che le vicende umane siano, come notava La Bua, “ispirate dalla &ei´a ty´xh che dirige le sorti dei mortali” (evocata proprio nella narrazione del felice incontro egiziano tra i due inconsapevoli protagonisti, Dario e Silosonte), ci troviamo però di fronte ad alcuni comportamenti che, a prescindere dalla veridicità o meno dell’episodio, in sé e per sé alquanto inverosimile, hanno ben poco di letterario, mentre sembrano riflettere, almeno in parte, alcune “istituzioni” del mondo achemenide e non insignificanti aspetti della sua ideologia politica, anche se la loro pertinenza “ideologica” deve essere distillata dal racconto in quanto tale. Come vedremo, ci sono ben pochi dubbi sul fatto che Erodoto abbia accolto una serie di tradizioni a favore di Silosonte; in particolare la vicenda della mantellina sembra, come la definisce recentemente Luraghi, un elemento secondario, successivamente elaborato per giustificare l’insediamento di Silosonte, nel quadro di un principio ideologico, quello della benemerenza ottenuta presso il sovrano achemenide. D’altro canto, ritengo eccessivo negare l’esistenza di un qualsiasi rapporto tra Silosonte e la corte achemenide, e forse anche con lo stesso Dario, giacché l’invio di Otane e di un contingente militare non poteva essere attuato senza che la persona del nuovo tiranno non solo fosse gradita, ma anche in un certo qual modo ritenuta affidabile. Ciò presuppone, senza insistere sul fatto che anche fonti avverse a Silosonte, quali quelle raccolte da Aristotele e sopravvissute nei . Come si evince da Hdt. iii , ; sulla questione della famiglia e della “politica” di Meandrio si veda La Bua a : -; molto interessante il recente contributo di Dognini (: -), nel quale si sottolinea l’importanza del ruolo di Meandrio. Cfr. anche Roisman . . Cfr. Briant : . . La Bua a : -. Cfr. Labarbe : -. . Si veda per esempio il lavoro di Labarbe () che nega perentoriamente ogni plausibilità all’evento. . : . Cfr. La Bua : -. . Vedi già Austin : n. , contro cui però si pronunzia Luraghi : n. .
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frammenti relativi alla Costituzione di Samo (vedi oltre), insistono sull’amicizia tra il tiranno ed il Gran Re, una certa concertazione tra Silosonte e l’entourage achemenide più importante, e quindi, in ultima istanza, con lo stesso sovrano. In che misura tale rapporto, inscritto nel topos dell’ “amico” o del “benefattore”, rispondesse ad una reale frequentazione amicale tra i due personaggi è difficile a dirsi; anzi essa appare molto difficile. Più probabilmente il concetto di “amico” non deve essere necessariamente inteso in senso moderno, ovvero come testimonianza di un forte legame privato, ma solo come titolo onorifico, a cui potevano corrispondere, ma di certo non in tutti i casi, anche rapporti di stima e benemerenza più significativa da parte del Gran Re. Il “dono” fatto liberamente da Silosonte viene a giustificare la creazione di un rapporto particolare tra le due persone implicate, ma si carica anche di un valore simbolico, giacché il rosso della clànide suggerisce, come ebbe a puntualizzare Labarbe, una prefigurazione della gloria futura. Si tratta quindi di una sorta di rapporto di obbligazione (xre´ow), termine messo in bocca allo stesso Dario da Erodoto, e questo è l’elemento che permette infatti all’esule samio di dichiarasi “benefattore” del re (Darei´oy ey∫erge´thw). D’altro canto sarebbe un errore di prospettiva supporre che il sovrano fosse obbligato in ogni circostanza a riconoscere un “dono regale” per servigi ricevuti (si rammenti il caso del ricchissimo Pythios, uno dei cui figli viene fatto sacrificare da Serse in modo efferato) ed in ogni caso, la richiesta di Silosonte rientra solo simbolicamente nella semplice dinamica dello scambio di doni, mentre in realtà essa interviene nell’ambito più alto della dimensione politica. Sotto questo profilo, la risposta positiva di Dario è curiosamente motivata da Erodoto come un atto di riconoscenza, una sorta di dono di scambio, mentre in verità ci troviamo di fronte ad una malcelata giustificazione della conquista persiana di Samo, o più semplicemente, secondo una convincente tesi avanzata ancora dal La Bua, ad una versione politicamente favorevole al genos policrateo a cui apparteneva Silosonte. Tale presentazione dei fatti, invece, . La tradizione degli amici personali del re viene comunque continuata anche in contesto partico, come dimostrato dalle iscrizione greche dell’epoca; cfr. Wiesehöfer b : . . Labarbe : -, passim. . Vedi Briant : . Sulla complessità simbolica e sociale del “dono” si veda Mauss . Sulla terminologia greca del “dono” e del “donare” si veda Benveniste : - [: -]. Si noti, però, che in questo episodio il rapporto instaurato tra Dario e Silosonte è mediato da un atto di donazione espresso attraverso il verbo “dare” oppure “offrire” (di´dvmi) e che il “dono” in quanto tale è sempre alluso ma mai definito con un termine tecnico. . Hdt. vii , , -. Si veda Briant : -. Sulla regalità achemenide cfr. Gnoli . . La Bua a : - e passim. Vedi anche Labarbe : -. L’esistenza di una storiografia samia locale è ampiamente discussa da Luraghi : - e passim.
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contrastava fortemente con il giudizio ostile tramandatoci da Aristotele nella Sami´vn politei´a e conservato anche da Strabone (xiv ,), secondo il quale il crudele governo della città messo in atto da Silosonte l’avrebbe spopolata in modo tale da generare il detto, alquanto ironico, che “per volontà di Silosonte (vi era) ampiezza di spazio” (pikrv^w d« h®rjen vçste kai` e∫leipa´ndrhsen h™ po´liw. kakei^&en e∫kpesei^n syne´bh th`n paroimi´an – eçkhti Sylosv ^ ntow ey∫ryxvri´h). Anzi, mi domando se dietro tale proverbio, non si celi addirit-
tura una parodia della tipica formula del linguaggio delle iscrizioni antico persiane, in cui il sovrano spesso dichiara di aver compiuto le sue imprese vasna ahuramazda¯ ha “per volontà di Ahuramazda¯ ”. Risulta comunque chiaro che Silosonte, nel richiedere uno scambio ineguale – la restituzione del potere in cambio della sua clànide – viene a sua volta a obbligarsi sostanzialmente nei riguardi di Dario. Attraverso il “dono reale” e quindi, in forza di tale rapporto, egli si tramuta in un cliente del potere achemenide, come lo ha giustamente definito Briant. D’altro canto è bene rammentare che già Mazzarino aveva definito Silosonte yçparxow dei Persiani, così come lo sarà anche suo figlio Aiace (ii), la cui subordinazione alla politica militare persiana appare indiscutibile. Di fatto, oggi tale giudizio merita qualche riconsiderazione. Infatti, come ha mostrato Luraghi (), nonostante l’impostazione tradizionale, introdotta dal Plaß e fatta propria da altri studiosi, secondo la quale, i Tiranni delle Poleis greche d’Asia Minore non sarebbero stati, almeno nel periodo posto tra Ciro e Serse, altro che dei semplici rappresentanti locali del monarca persiano, conformemente ad uno schema che vedeva la “tirannide” tramutarsi in “uparchia” per conto del “Gran Re”, si sia rivelata talora inadeguata e semplicistica, non si può cadere nell’errore opposto di negare la fondamentale importanza della politica achemenide nella formazione delle tirannidi del tardo arcaismo. È questo proprio il caso di Silosonte, per certi versi paragonabile a quelli di Coe di Mitilene e di Teomestore di Samo (quest’ultimo insediato da Serse per via del coraggio mostrato durante la battaglia di Salamina), i quali rice. Si tengano presenti soprattutto i frammenti , e , (Gigon : ) ; vedi anche La Bua a : -. . Cfr. Gigon : , fr. , . Si vedano anche Heraclide, fr. (Müller , FHG, ii, p. ) ; Zenob. iii ; Eustath. ad Dion. Perieg. ; Them. viii -. . Briant : . . Mazzarino : , con riferimento a Hdt. iii segg. ; iv ; vi ; ; ; . Cfr. Olmstead : ; Picard : . Si veda anche De Sanctis : . . Si noti però che Wiesehöfer (: ) si interroga se sia Silosonte sia Temistocle fossero effettivamente (ovvero a tutti gli effetti istituzionali) divenuti ey∫erge´tai del re. . Aiace di Samo sarà peraltro presente al passaggio di Dario sul ponte sul Danubio (Hdt. iv ). Gallotta : -; De Libero : -, -. . Plaß , i: . . Vedi Luraghi : -. . Si veda ora anche De Libero : -.
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vettero la tirannide sotto forma di dono regale. Luraghi ha in modo originale notato che, sebbene il dono della tirannide possa in un certo qual modo essere paragonato a quello di vaste proprietà terriere o di città, che ci è altresì noto per l’impero achemenide, i due casi non sono privi di importanti differenze, in quanto il possesso di terre e città poteva anche non corrispondere ad alcuna realtà politica locale, mentre l’attribuzione di una tirannide costituiva “una forma di potere radicata nella realtà indigena”, che, almeno inizialmente, fu preferita dagli Achemenidi, perché essa “si inquadrava perfettamente nella rappresentazione del potere come una rete di vincoli individuali di lealtà personale tra superiori e sottoposti, e tra tutti i membri della struttura e il Gran Re ...”. Quando la tirannide non risulterà più la formastato più conveniente, lo stesso Dario non esiterà infatti a far deporre, ad esempio attraverso Mardonio, i tiranni delle città ionie. Tornando quindi alla famiglia di Policrate, non c’è dubbio che essa si troverà in pratica a rappresentare gli interessi della Persia, ovviamente anche nelle versioni più o meno accreditate dei fatti. Bisogna altresì ricordare che proprio una siffatta versione vicina al genos policrateo rappresenta Silosonte come “benefattore” del re, evocando apertamente una categoria, quella degli ey∫erge´tai basile´ow, che non è affatto surrettizia, giacché viene più volte utilizzata in Erodoto, il quale, peraltro, precisa (viii ) che: i Benefattori del re sono chiamati in lingua persiana orosanges oi™ d« ey∫erge´tai basile´ow o∫rosa´ggai kale´ontai Persisti´.
Bisogna notare che il termine utilizzato da Erodoto, o∫rosa´ggai è chiaramente iranico e potrebbe essere interpretato, secondo una plausibile soluzione avanzata già da Schaeder, ma ripresa e migliorata da Schmitt, come la resa greca di un ir. *varusa ha- “assai rinomato”, da compararsi con . Luraghi : -. In proposito sempre Luraghi (: ) ricorda opportunamente che mentre Teomestore fu premiato con la tirannide di Samo da Serse, l’altro eroico trierarco fu solo iscritto tra i “benefattori” del Re. Cfr. Luraghi : . . Vedi Briant ; Sancisi-Weerdenburg . . Luraghi : -. . Luraghi : . . Luraghi : . . Vedi La Bua a : , -. . Cfr. Briant : ; Dandamaev - Lukonin : -. . Liddell - Scott : . . Schaeder : n. proponeva *varu.&anha- “weigepreisen”, con fonetica propriamente persiana. Non credo invece all’ipotesi proposta da Markwart (: ; ma accolta in Gnoli : n. ), che farebbe derivare tale termine da un nomen agentis quale urva&a- “amico” o “affiliato” + un suffisso -n¯ k, -n¯ g; vedi Gnoli : , n. . Difficile, per ragioni di carattere fonetico relative al gruppo iniziale, la derivazione da *hu-varza-ka- “well-doer”, già avanzata dal E. Burnouf e citata senza particolare convinzione dal Frye : e n. . . Schmitt : ; Wiesehöfer : ; si veda invece la discussione con qualche ipotesi al-
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il vedico urus´amsa- “id.” (con un elemento varu-; cfr. av. vouru-o [come primo ˙ elemento di composizione] “molto” ; ed un secondo elemento sa ha-, m. “parola”, un derivato nominale del v. sah- “dire” ; cfr. av. saı h-, ap. &ah-; a.av. se¯ ngha-, se¯ a-; av.r. sa ha- “pronuntiatio”, etc.). Appare però interessante notare che la forma iranica ricostruita, sempre che tale soluzione sia corretta, dal punto di vista fonetico non sarebbe propriamente “persiana”, ma potrebbe essere piuttosto una variante settentrionale (verisimilmente meda), come in diversi altri casi attestati nel linguaggio delle iscrizioni achemenidi. Tali “evergeti” sarebbero addirittura stati iscritti in una lista regia, di cui fanno menzione sia Erodoto (viii ) sia Flavio Giuseppe (Ant. Jud. xi , ) ; ovvero si tratterebbe di una categoria privilegiata riconosciuta dal sovrano, al cui interno si trovava il circolo ristretto degli amici (fi´loi) del sovrano. E probabilmente non è affatto un caso se nei frammenti di Aristotele si afferma che “Silosonte divenne amico di Dario, il re dei Persiani” (Sylosv^n Sa´miow fi´low e∫ge´neto Darei´vı tv^ı Persv^n basilei^). Bisogna poi ricordare che per via della loro qualifica di Ey∫erge´tai, riconosciuta loro da Ciro durante la sua spedizione scitica, Alessandro avrebbe rispettato gli Ariaspi, da cui ebbe cordiale accoglienza nel suo cammino lungo il corso dello Hilmand. Di tale titolo dovevano certo beneficiarsi anche i Tebani per aver strenuamente sostenuto Serse durante la sua invasione. Appare però forse utile precisare che di per se stesso il “titolo” di “evergete” appartiene alla tradizione greca e che molti autori classici ne fecero uso perché ben rispondente al concetto rappresentato nel sistema delle titolature achemenidi dall’iranico o∫rosa´ggai / *varusa ha-. La dichiarazione di Silosonte di appartenere, in forza di un dono passato, a tale novero, è quindi un atto di patente subordinazione al sovrano persiano, al quale il nobile samio chiede ternativa, ma poco verosimile, in Brandenstein - Mayrhofer : -. Da segnalare lo scetticismo di Benveniste (: ) sulle ipotesi proposte. . Sul tipo di composti come *varufarnah- “avente molta luce di gloria” (cfr. gr. «Orofe´rnhw, «Olofe´rnhw), oppure come *varumanah- “dalla mente ampia” o “dai molti pensieri” (cfr. gr. «Oroma´nhw) ; si veda inoltre Hinz a : . . Bartholomae : -. . Bartholomae : -. . Kent : ; Brandenstein - Mayrhofer :-. . Bartholomae : -; cfr. Mayrhofer : -. . Cfr. Schmitt : n. . . Dandamaev - Lukonin : . . Wiesehöfer a : ; : -. Sul rapporto sussistente tra “benefattori” e “amici” del sovrano si veda soprattutto lo studio di Wiesehöfer : - e passim. . Fr. , (Paroemiographi Graeci; Zenobios , ) : Gigon : . . Arriano, Anabasi, iii , ; cfr. Gnoli : -. . Hdt. vii ; ix ; ix . Vedi Wiesehöfer : -. . Si veda Wiesehöfer : - e passim, nonché Oehler e Skard , . . Sul concetto di ey∫ergesi´a si veda Tucidide (i , ) con riferimento a Serse e Pausania.
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protezione e sostegno militare. D’altro canto, gran parte della narrazione erodotea rappresenta un punto di vista abbastanza tendenzioso, in quanto, come presto vedremo, tutte le vicissitudini della conquista di Samo sono rappresentate in modo da assolvere da ogni responsabilità e immoralità politica il fratello di Policrate e ad accusare sia il partito dell’isonomia, rappresentato da Meandrio, che non doveva mancare di sostenitori anche nelle diverse versioni dei fatti di cui abbiamo direttamente o indirettamente testimonianza, sia quello aristocratico. Possiamo ora passare alla seconda parte di questo contributo, ovvero alla conquista persiana di Samo. Dopo la morte di Policrate, il potere era rimasto nelle mani di Meandrio, che proprio dal tiranno aveva avuto l’incarico di reggere il governo. Egli in verità, nel desiderio di essere il più giusto tra gli uomini, parrebbe aver cercato di introdurre la ∫isonomi´h al posto della tirannide, che egli critica espressamente nella persona di Policrate. A questo proposito Meandrio erige un altare di Zeus Liberatore (Dio`w «Eley&eri´oy bvmo`n ™idry´sato), traccia i limiti del sacro recinto (te´menow peri` ay∫to`n oy¢rise) e convoca un’assemblea (e∫kklhsi´hn), durante la quale vuole proclamare l’uguaglianza di diritti e richiedere contestualmente che gli siano riconosciuti sei talenti dal tesoro di Policrate quale sua giusta ricompensa per aver messo il dominio in comune. Egli avrebbe inoltre preteso il sacerdozio perpetuo di Zeus Liberatore. La dura reazione (Hdt. iii -) scatenata da un cittadino di estrazione aristocratica di Samo, un tale Telesarco, spinge Meandrio a farsi tiranno “nella convinzione che se avesse rinunciato al potere qualcuno lo avrebbe fatto al suo posto” (no´vı labv`n v™w, ei∫ meth´sei th`n a∫rxh´n, a¢llow tiw a∫nt« ay∫toy^ ty´rannow katasth´setai). Con un sotterfugio egli fa quindi imprigionare i notabili dell’isola, che però, vengono messi a morte da Licarete, il fratello di Meandrio. Questi, infatti, approfittando di una improvvisa malattia dello stesso Meandrio, vuole mano libera nel domi. Su tutta la questione si veda ancora La Bua, a : -. Si noti comunque che Erodoto non menziona la notizia, riportata da Luciano (Charon, ; Necyoman., ), secondo la quale Meandrio avrebbe tradito Policrate facendolo cadere in un tranello; vedi ancora La Bua a : -, e in particolare , note e e La Bua : -. . Vedi anche Shipley : . Cfr. Luraghi : -. . Sul concetto di isonomia si veda Musti : -. In particolare per il caso di Samo cfr. Dognini : -. . « Io, però, per quanto mi è possibile, non intendo fare quello che rimprovero ad altri; poiché né mi piaceva Policrate, quando trattava da padrone uomini simili a lui, né mi piace chiunque agisca in tal modo» (e∫gv` de` ta` tv^ı pe´law e∫piplh´ssv ay∫to`w kata` dy´namin oy∫ poih´sv. oy¢te ga´r moi Polykra´thw h¢reske despo´zvn a∫ndrv ^ n o™moi´vn e™vytv ^ı oy¢te a¢llow oçstiw toiay^ta poie´ei). (Hdt. iii ). . La Bua (a : -) nota come la reazione di Meandrio rifletta non solo il timore che gli aristocratici volessero riprendere il potere, ma anche che costoro, una volta al potere, gli chiedessero conto della sua amministrazione per conto di Policrate, condannandolo a morte.
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nio dell’isola (iii ). All’arrivo di Otane e Silosonte (iii ), Meandrio ed il suo partito si mostrano però ragionevoli e accettano, “sotto garanzia di tregua” (y™po´spondoi), di abbandonare l’isola. È a questo punto che si verifica una situazione alquanto imprevedibile. Un altro fratello di Meandrio, non molto in senno (y™pomargo´terow), e che per giunta si trovava in un carcere sotterraneo (iii ), vista la delegazione dei nobili persiani tranquillamente assisi, si mette a gridare e – cosa ancor più bizzarra – ottiene udienza dal fratello ; quindi, dopo averlo coperto di insulti, riesce – fatto che appare ben più incredibile della sequela di stranezze che Erodoto ci presenta – a convincerlo ad affidargli il comando delle truppe ausiliarie per ricacciare i Persiani dall’isola. Erodoto spiega (iii ) che Meandrio avrebbe accettato tale proposta non perché divenuto più insano del fratello (oy∫k e∫w toy^to a∫frosy´nhw a∫piko´menow), né perché supponesse di poter prevalere sui Persiani, ma per gelosia nei riguardi di Silosonte, al quale non voleva lasciare intatta la città. Anzi egli desiderava che essa venisse distrutta dai Persiani come rappresaglia per l’affronto che stavano per ricevere. Quindi, mentre Meandrio si metteva in mare, probabilmente attraverso un passaggio segreto che dalla rocca portava alla costa, per poi far vela verso Sparta, dove troverà freddissima accoglienza (come si evince da iii -), Carileo aggredisce la delegazione persiana e ne fa strage, ma non riesce a impedire la reazione del grosso del corpo di spedizione achemenide che cinge d’assedio i Sami nella rocca. A questo punto Otane (iii ) organizza la rappresaglia, ordinando all’esercito di passare per le armi chiunque catturassero, senza distinzione uomini, donne e bambini (o™ de` parh´ggeile tW^ stratiW^ pa´nta to`n a£n la´bvsi, kai` a¢ndra kai` pai^da, o™moi´vw ktei´nein), “indifferentemente che fossero in un luogo sacro o al di fuori di esso” (o™moi´vw e¢n te ™irv^ı kai` e¢jv ™iroy^). Erodoto puntualizza che nel prendere questa decisione il nobile persiano avrebbe deliberatamente dimenticato, ovvero egli sembra trasgredire, gli espliciti “ordini di Dario” (e∫ntola`w ta`w Darei^o´w oi™ a∫poste´llvn e∫nete´lleto), il quale si era raccomandato che “egli non dovesse né uccidere né ridurre in schiavitù alcuno dei Sami, ma che anzi dovesse consegnare a Silosonte l’isola senza che subisse sopruso alcuno” (mh´te ktei´nein mhde´na Sami´vn mh´te a∫ndrapodi´zes&ai a∫pa&e´a te kakv ^ n a∫podoy^nai th`n nh^son Sylosv ^ nti). Dopo il sanguinoso rastrellamento reticolare (saghney´santew), i Persiani (iii ) avrebbero consegnato a Silosonte Samo “priva dei suoi abitanti” (e¢rhmon e∫oy^san a∫ndrv^n), che il generale Otane, però, avrebbe a sua volta fatto ripopolare in seguito ad una visione avuta in sogno e per via di una malattia che lo avrebbe colpito ai genitali. L’esito della conquista, oltremodo drammatico, non solo vede Samo saldamente in mano persiana attraverso il governo formale del “benefattore . La Bua (a : -) con buoni argomenti ritiene che dietro Licarete si celasse la volontà dello stesso Meandrio, il quale non poteva lasciare in vita così pericolosi oppositori.
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del re” Silosonte, ma addirittura sembra implicare un cospicuo ripopolamento dell’isola ad opera di Otane, il che significa probabilmente che i Persiani favorirono il trasferimento di esuli sami, di altri Greci o addirittura di una propria guarnigione, anche se su questo aspetto le fonti non sono chiare. L’intervento di un sogno e la contemporanea affezione ai genitali sono assunti da Otane come un omen, che lo induce in un certo qual modo a espiare la sanguinosa rappresaglia contro i Sami. Probabilmente la malattia che lo colpisce agli organi preposti alla riproduzione e quindi alla fecondità sarebbe da mettersi in relazione allo sterminio perpetrato sull’isola. Resta però il fatto che Erodoto non sembra dare un giudizio morale sul comportamento di Otane, quasi riconoscesse la legittimità dell’azione di rappresaglia in seguito alla rottura di una tregua e all’uccisione degli indifesi maggiorenti persiani. D’altra parte, risulta difficile ammettere che Otane violasse a cuor leggero un ordine di Dario, il quale di certo non poteva immaginare da parte dei Sami un comportamento così scorretto sul piano della diplomazia e per giunta altrettanto suicida da un punto di vista strategico-militare. La cosiddetta “tolleranza” degli Achemenidi, infatti, non va intesa come un concetto astratto, morale, di bontà generalizzata, ma come strumento politico di governabilità da parte di una minoranza, ben agguerrita e militarmente determinata, contro una maggioranza incapace di essere coesa. La rappresaglia, con distruzione di città, deportazioni e saccheggi, fu strumento politicomilitare esemplarmente utilizzato dagli Achemenidi in caso di ribellione; il comportamento di Otane, pertanto, risponde ad un modello generale della politica persiana, che consisteva nel favorire una presa di potere, per così dire, soft, quando possibile (e ciò vale anche dal punto di vista amministrativo, religioso e formale), ma che si poteva rivelare estremamente spietato nei casi di resistenza accanita o peggio di tradimento e ribellione. Le violenze dei Persiani, che a noi oggi appaiono mostruose, non sembrano quindi sconcertare Erodoto, e per molti versi non dovevano turbare la sensibilità politica di molti contemporanei che alla vita, in particolare quella dei cosiddetti “civili” non belligeranti, dovevano attribuire un valore inferiore a quello a cui la moderna sensibilità ci ha abituato. Anche in questo caso, pertanto, Erodoto giustifica, attraverso la sua versione dei fatti (che è però quella di Silosonte e del genos policrateo), la conquista persiana e finisce quasi per nobilitare la figura di Otane, che dopo aver negato quartiere ai Sami di ogni età e sesso, si risolve a ripopolare l’isola sulla spinta di omina allusivi alle sue gesta. In ogni caso Erodoto scagiona assolutamente il re di Persia da ogni responsabilità per gli eccidi occorsi a Samo. Resta però il dub. Gallotta : ; La Bua a : . . Panaino : -. . Vedi Gallotta : .
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bio, sollevato da Mitchell e ripreso da Shipley, che il massacro dei Sami potrebbe essere stato oltremodo ingigantito in chiave anti-persiana (e quindi in questo caso dovremmo ammettere un influsso del genos anti-policrateo), giacché sarebbe abbastanza inverosimile che Aiace (ii), figlio di Silosonte, dopo uno spopolamento così radicale dell’isola, fosse già in grado di inviare una flotta in sostegno a Dario presso il Danubio a soli quattro anni di distanza da un tale eccidio. Anche ammessa la generosità del ripopolamento favorito da Otane, appare ben difficile immaginare che il nobile persiano avesse provveduto a ristabilire sua sponte una cospicua flotta da guerra. Un aspetto interessante di tutta questa vicenda riguarda paradossalmente il fatto che sarebbe stato proprio il “democratico” Otane, almeno secondo la Verfassungsdebatte introdotta da Erodoto (iii -) con riferimento ai tre congiurati Otane, Megabizo e Dario, a reprimere Samo, governata dal cinico, ma anch’egli apparentemente democratico, Meandrio. Come ha notato il Flory, gli argomenti addotti da Meandrio nel concedere l’isonomia ai suoi concittadini sono proprio gli stessi che Megabizo aveva fatto propri contro i pericoli del governo delle masse e che Dario aveva rivolto a sua volta nei riguardi dell’oligarchia. La vicenda di Samo sembra dimostrare, nella narrazione erodotea, che per quanto la democrazia possa essere teoricamente una buona forma di governo, essa si può tramutare in una disgrazia. D’altra parte mi sembrano corrette le circostanziate riflessioni del La Bua, secondo il quale Erodoto, dopo aver iniziato a parlare di Meandrio utilizzando una tradizione a lui più favorevole, per la quale egli sarebbe stato un uomo dikaio´tatow, pronto a concedere la libertà, ma messo in difficoltà solo dalla superbia del partito anti-aristocratico e probabilmente già ostile a Policrate (il quale peraltro aveva prescelto proprio quest’uomo di umili origini come reggente in sua assenza), lo accusa sostanzialmente di pavidità, invidia, ambizione e desiderio di vendetta. Inoltre, il comportamento di Meandrio appare incomprensibile, se non illogico, sia perché non avrebbe opposto immediatamente alcuna resistenza ai Persiani quando ancora era possibile farlo con speranza di successo, sia per il fatto che avrebbe lasciato andare allo sbaraglio il fratello Carileo con i suoi concittadini, rendendo quindi in futuro impossibile ogni ribellione o colpo di mano, proprio mentre egli si recava a Sparta per chiedere aiuto (probabilmente militare) contro Silosonte . Mitchell : . . Shipley : -. . Vedi Shipley : . . Sulla questione si vedano Apffel ; Brannan ; Gschnitzer ; Wiesehöfer ; Balcer ; Dandamaev : -; Gnoli ; : ; Asheri (con una ricchissima nota bibliografica alle pp. -). . Flory : -. . La Bua a : -, passim. . Vedi in proposito La Bua a : -.
antonio panaino
ed i Persiani. Conseguentemente possiamo sospettare che le cose non fossero propriamente andate secondo la versione trasmessaci da Erodoto. Lo stesso tentativo dei Sami di ribellarsi ai Persiani ed a Silosonte mostra comunque una vis fortemente ostile da parte degli isolani, che non si spiega solo come il frutto di una pazzia suscitata da uno dei fratelli di Meandrio. La repressione potrebbe perciò essere stata favorita dallo stesso Silosonte, a cui veniva data l’occasione forse per vendicare antiche offese. Non si può infine trascurare il fatto che, tra le comparse meno insignificanti di questa complessa vicenda, Licarete, proprio quel fratello di Meandrio, che aveva fatto uccidere i maggiorenti sami prigionieri e che nel corso dei successivi accadimenti sembra uscire completamente di scena, parrebbe, come hanno ragionevolmente notato il Waters ed il La Bua, aver trovato un vantaggioso accomodamento privato con i Persiani, giacché lo ritroviamo da essi nominato come governatore di Lemno (Hdt. v ). Restano inoltre alcuni problemi riguardanti la dinamica stessa della conquista di Samo ; come Otane potesse sbarcare a Samo senza incontrare resistenza fa infatti sospettare a Luraghi che l’isola fosse già soggetta alla Persia, almeno dall’epoca di Cambise, ma le fonti, in particolare Erodoto, come egli stesso sottolinea, sono a questo proposito contrastanti. A mio avviso, sarebbe più prudente ritenere che Samo, visti i rapporti tra Policrate e Cambise (si ricordi ancora l’invio di una flotta contro l’Egitto), rientrasse nell’orbita persiana, ma non soggiacesse direttamente al controllo achemenide. Con la presa di potere da parte di Silosonte, la situazione sarebbe mutata radicalmente, anche se non possiamo affermare che l’intervento militare diretto di forze persiane, come nel caso specifico di Samo, fosse la prassi “standard” per insediare un tiranno filo-persiano. In ogni caso, con la sua conquista, “prima fra tutte le città dei Greci e dei Barbari” (poli´vn pase´vn prv´thn »Ellhni´dvn kai` barba´rvn : Hdt. iii , ), Samo era entrata nella grande ecumene dell’Impero achemenide perdendo quella potenza ed autonomia acquisita sotto Policrate, anche se proprio la cerchia policratea conservò i maggiori vantaggi e privilegi generati dalla nuova situazione geopolitica. Il dominio achemenide sarebbe comunque durato sino alla battaglia di Micale ( a.C.), ovvero sino a quando l’isola . Su Carileo si veda ancora La Bua a : -. . Water : n. . . La Bua (a : -) giustamente ritiene che anche in questo caso il silenzio di Erodoto sul ruolo giocato da Licarete proprio nei momenti più cruciali della conquista di Samo non possa verisimilmente essere stato determinato da ignoranza degli eventi, quanto piuttosto da una predilezione per una versione dei fatti che scagionasse Silosonte da ogni responsabilità. Non è inverosimile che proprio Licarete boicottasse il piano d’azione del fratello Carileo e di Silosonte, informandone i Persiani (La Bua a : ). . : -. . Vedi ancora Luraghi : - n. .
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non ritrovò la sua libertà dalla Persia grazie all’intervento del re spartano Leotichida. Bisogna però notare che questo nuovo passaggio di campo operato da Samo verso la confederazione anti-persiana prese forma solo dopo la morte di Aiace (ii), nipote di Policrate, la quale deve essere stata di poco posteriore alla battaglia di Salamina. Con la successiva salita al potere di Teomestore, figlio di Andromadante (Hdt. viii , ) veniva infatti a cessare il dominio del genos policrateo, i cui interessi si erano legati alla Persia. Non si può quindi escludere che anche il complotto contro Teomestore ed il relativo cambio di fronte fossero stati orditi nello stesso ambiente policrateo, peraltro sostenuto dal popolo, come già suggerito dal La Bua, che ha notato, anche in questo caso, come la versione dei fatti riportata da Erodoto, in particolare sul ruolo dei Sami nella liberazione della grecità orientale, rifletta un punto di vista molto “orientato” al quale non mancò una certa vis antiateniese. Università di Bologna - Sede di Ravenna
. La Bua (: -) ha notato come il comportamento a favore della Persia tenuto durante la rivolta ionica di Aiace ii abbia trovato piena giustificazione in Erodoto, che lo scagiona di ogni responsabilità per la disfatta di Lade. . La Bua : -. . La Bua : -; -. . La Bua : -.
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S A M O I N E T À E L L E N I S T I C A E RO M A N A : RICERCHE STORICHE ED EPIGRAFICHE Tommaso Gnoli
G ran parte delle vicende storiche che hanno interessato Samo a partire dal-
l’inizio del v secolo a.C. fino alla cristianizzazione dell’ecumene greco-romana, nel iv secolo d.C., ha lasciato una qualche traccia sulle pietre iscritte provenienti dal più importante santuario di quell’isola. La storia dell’epigrafia samia è in buona parte coincidente con la storia degli scavi nel recinto sacro del santuario di Era, dal quale proviene la schiacciante maggioranza dei testi finora editi. Il recentissimo volume delle Inscriptiones Graecae pubblicato da Klaus Hallof () ha solamente iniziato a colmare la lacuna costituita dall’assenza di una raccolta affidabile della documentazione epigrafica samia. Con i suoi testi questa pubblicazione, la cui storia tormentatissima e più che secolare si è variamente intrecciata, oltre che con due conflitti mondiali e con gli eventi drammatici del lunghissimo dopoguerra tedesco, con i più grandi nomi dell’epigrafia greca germanica e non solo, potendo allineare i nomi di Ludwig Bürchner, Albert Rehm, Martin Schede, Maurice Holleaux, Ernest Buschor, Ernest Fabricius, Paul Jacobsthal, Louis Robert, Günther Klaffenbach e Günther Dunst, Christian Habicht e Peter Hermann, è ancora ben lungi dall’offrire un quadro esatto della situazione epigrafica di Samo. Il volume presenta i testi suddivisi per categorie (decreti pubblici, epistole ed editti regi o imperiali, leggi, cataloghi, iscrizioni onorarie, di opere pubbliche, altari), ma mancano ancora le dediche, numerosissime nel santuario, e le iscrizioni sepolcrali, che costituiranno il secondo tomo del fascicolo, nonché le iscrizioni di Pythagorion, che verranno pubblicate dalla Soprintendenza archeologica dell’isola di Samo. È proprio partendo dalla lettura di questa nuova, grande raccolta, che sono state redatte queste brevi considerazioni sulla storia di Samo. C a r a t t e r i e ti p o l o g i e d e i d o c u m e n t i p u b b l i c a t i i n i g x v i , L’epigrafia di Samo presenta molto raramente criteri di datazione assoluta. La possibilità di datare i testi è affidata quasi sempre o a criteri di datazione esterni, oppure, più spesso, alla paleografia o allo studio dei formulari ivi . Tutte le iscrizioni citate nel presente contributo in neretto si intenderanno prese da questa raccolta. Mi è gradito ringraziare qui il mio amico, Prof. John Thornton, nonché il Dott. Federicomaria Muccioli: a loro questo studio deve molto. . Di particolare rilievo in questo campo Tracy a.
tommaso gnoli
adottati, criteri, questi ultimi, che però consentono solamente una datazione relativa dei testi, in seno alle singole classi di documenti. La dispersione cronologica dei documenti pubblicati da Hallof è apparentemente amplissima, essendo collocabili i testi dai primi decenni del v secolo a.C. alla seconda metà del iv secolo d.C., ma in realtà non è così: la maggior parte dei documenti è inquadrabile in contesti particolarmente significativi della storia di Samo. Va innanzi tutto evidenziata la frequenza relativamente alta di documenti dell’età preellenistica, documenti, che è possibile ripartire, pur con qualche incertezza, in documenti di v secolo, di iv secolo. Altissima è anche l’incidenza percentuale di documenti dell’età ellenistica, databili dalla fine del iv secolo più o meno fino alla metà del ii secolo a.C., testi, mentre oltre di quelli in qualche modo databili sono attribuibili all’età romana, dagli ultimi decenni del ii secolo a.C., cioè, fino al iv secolo d.C. Ma all’interno di questa rozza ripartizione cronologica è facile constatare come alcuni eventi della storia politica dell’isola abbiano prodotto come risultato diretto la pubblicazione di iscrizioni, che, per la loro origine comune, si raggrumano all’interno di ambiti cronologici ristretti. È quindi possibile redigere i seguenti gruppi, sulla base delle suddivisioni tipologiche di Hallof : • Innanzi tutto le iscrizioni pubblicate nei anni, la cifra è in Diodoro (xviii ), della cleruchia ateniese sull’isola, che ebbe termine nel (/ o / – a.C.), in seguito al famoso decreto di Alessandro relativo al rientro degli esuli (Diod. xvii ; xviii ). Questi documenti (), pur differendo molto per tipologia – si va infatti da stele sepolcrali a cippi di confine, da decreti onorifici ad un elenco della boylh´ dei cleruchi etc. –, anche quando non siano stati emessi dal «popolo Ateniese che è a Samo », sono riconoscibili per motivi linguistici, scritti come sono in un perfetto dialetto attico, in nulla diversi che se fossero stati rinvenuti ad Atene. • Cronologicamente contigui a questi sono i documenti (-) contenenti gli onori pubblici decretati a stranieri che avevano aiutato gli esuli Sami al tempo della cleruchia ateniese. Tutti questi testi sono cronologicamente collocabili negli ultimi due decenni del iv secolo e di fatto aprono la ricchissima stagione dell’epigrafia ellenistica a Samo. • Altro gruppo di testi, importante sia da un punto di vista quantitativo sia qualitativo, è quello costituito dalle iscrizioni della media età ellenistica, quando Samo, sotto il protettorato tolemaico, ebbe una intensa attività di. Cfr., p. es., Habicht . . Dunst . . Per gli effetti di questo decreto in particolare ad Atene, cfr. ora Poddighe .
s a m o i n e t à e l l e n i s t i c a e ro m a n a
plomatica e conobbe un forte sviluppo artistico, letterario ed economico. Tale periodo durò dal momento in cui Tolemeo I riuscì ad imporre un suo Nesiarca sulla Confederazione dei Nesioti (episodio variamente databile, su base epigrafica, tra il e il a.C.), fino a quando l’accresciuta debolezza del regno tolemaico produsse un progressivo, forzato disinteresse dell’Egitto nei confronti delle isole dell’Egeo, a partire dall’accesso al trono di Tolemeo iv Filopatore, nel a.C. e fino alla formalizzazione di una tutela esercitata da Rodi a partire dal (Livio xxxiii ,). A questa fase si ascrivono alcune delle più importanti e note iscrizioni di Samo, quali la maggioranza dei decreti relativi all’amministrazione dello stato (-) ; tre decreti onorifici relativi a cittadini Sami, tra i quali il famosissimo decreto in onore di Boulagóras (), che tanto attirò l’attenzione di Rostovtzeff, una sessantina di decreti onorari concessi a stranieri, la totalità dei decreti delle città straniere, ed ancora il decreto di Tolemeo iii relativo agli schiavi fuggitivi (), come la cosiddetta lex frumentaria (), in totale circa documenti. • Meno imponente dal punto di vista quantitativo, ma di estremo interesse dal punto di vista storico, è il gruppo di documenti certamente ascrivibili agli ultimi cinquanta anni della repubblica romana – significativamente si tratta esclusivamente di titoli onorari pubblici. La consistenza del gruppo cresce considerevolmente se vi si affiancano, come credo si debba fare, la cinquantina di documenti di età augustea. • L’ultimo gruppo significativo tra le iscrizioni pubblicate da Hallof è costituito dai documenti databili, con maggiore o minor sicurezza, al iii secolo d.C. Per nessuno di questi è possibile provare con certezza una datazione successiva all’età severiana. Diplomatica dei decreti onorari d e l l a p r i m a e t à e l l e n i s t i c a (- a.C.) In questa sede non si prendono in considerazione iscrizioni appartenenti al primo dei gruppi appena elencati, quello dei documenti emessi da «il popolo Ateniese che è a Samo» – questa espressione la si ritrova in documenti rinvenuti al di fuori dell’isola, come la dedica da Delfi ll. -: «A&hnai´vn o™ dh^mow o™ e∫n Sa´mvi – e ciò sia per motivi cronologici, sia per il fatto che tali testi sono niente affatto significativi dell’habitus epigrafico samio. . Bagnall : -; Shipley : . . Cfr. Merker . . Rostovtzeff -: -; ; ; . . Cfr. Klaffenbach ; Habicht ; Tracy b ; Nenci ; Soverini ; Fantasia . . Herrmann .
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I documenti sui quali ci si vuole qui soffermare sono quelli emessi a Samo nel periodo in cui la politica dell’Egeo era dominata dalle figure degli Antigonidi e di Lisimaco, il primo periodo ellenistico (- a.C.). Innanzitutto si tratta quasi esclusivamente di decreti pubblici, emessi dalla boylh´ e dal dh^mow – molto raramente, e solo in alcuni testi apparentemente tra i più antichi, non viene menzionata la boylh´ –, in onore di individui appartenenti a città straniere che avevano in vario modo aiutato cittadini di Samo, quando costoro dovettero abbandonare la loro patria in seguito alla costituzione della cleruchia ateniese sull’isola, nel ca. Alcuni di questi decreti, quelli che menzionano esplicitamente il periodo di allontanamento dall’isola con espressioni quali e∫n th^i fygh^i, feygo´ntvn h™mv^n, katelhly&o´tvn (katabebhko´tvn) h™mv ^ n ei∫w th`n po´lin, sono stati raggruppati da Hallof, sulla scia di Curtius e di Habicht sotto la denominazione di Decreta fygh^w/fygh´-Urkunden (-).
. Curtius . . Habicht : -.
s a m o i n e t à e l l e n i s t i c a e ro m a n a [«Epi]nviÝdhi [Ey∫]dh´moy »Hrakle[v ´ thi]. ˙
in cymatio vacat ,
e¢doje th^i boylh^i kai` tv ^ i dh´mvi, Lysago´raw kai´oy ei®pen. e∫peidh` «EpinviÝdhw Ey∫dh´˙ moy »Hraklev ´ thw e¢n te toi^w pro´teron ˙ xro´noiw [e]y¢noyw kai` pro´&ymow v £ n diete´[lei kai` koi]nh^i tv ^ i dh´mvi kai` ∫idi´ai toi^w e∫ntyn[xa´noysi t]v ^ n politv ^ n xrei´an parexo´me[now kai` kate]lhly&o´tvn h™mv ^ n ei∫w th`n ˙ [po´lin th`n ay∫th`]n ey¢noian diafyla´ssei [tv ^ i dh´mvi kai` tv ^ ]n politv ^ n toi^w e∫ntygxa´[noysi pa^san xre]i´an parexo´menow diate[lei^, pra´ssvn ta` s]ymfe´ronta tv ^ i dh´mvi [tv ^ i Sami´vn, dedo´x&]ai th^i boylh^i kai` tv ^i [dh´mvi. e∫phinh´s&ai m]e`n «EpinviÝdhw a∫reth^w [eçneke kai` ey∫noi´aw hÇ]n e¢xvn diatelei^ ei∫w to`n ˙ [dh^mon, kai` ei®nai ay∫to`]n ey∫erge´thn kai` pro´[jenon toy^ dh´moy, d]edo´s&ai de` ay∫tv ^ i kai` ˙ [politei´an e∫f« çis]hi kai` [o™]moi´ai kai` e∫piklhr˙ v ^ sa[i] [ay∫to`n e∫pi` fy]lh`n kai` xiliasty`n kai` e™ka˙ [tosty`n] kai` ge´now kai` a∫nagra´cai ka&o´ti ka[i`] [toy`]w a¢lloyw Sami´oyw, dedo´s&ai de` ay∫tv ^ [i] kai` proedri´an e∫n to[i^]w a∫gv ^ sin oi©w a£n h™ po´l[iw] ˙ a¢ghi pa^sin, y™pa´rxei[n] de` ay∫tv ^ i kai` ta` a¢lla pa´nta oçsa kai` toi^w [a¢l]loiw ey∫erge´taiw oçpv[w] ˙ a£n açpantew ei∫dv ^ [sin] oi™ proairo[y´menoi th`n] po´lin ey∫e[rgetei^n, oçti xa´ritaw e∫pi´statai o™ dh^] ˙ mow a∫p[odido´nai toi^w ey∫erge´taiw, tay^ta de`] ei®n[ai kai` ay∫tv ^ i kai` e∫kgo´noiw----------------------------------------------------------
[e¢doje]n th^i boylh^i kai` tv ^ i dh´mvi, ÊAsiow ˙ «Arh´toy ei®pen. [e∫peid]h` Nikome´nhw Menes&e´vw »Ro´diow ey¢noyw v £ n kai` [pro´]&ymow diatelei^ peri` to`n dh^mon to`n Sami´vn a∫ei` [a∫]ga&o´n ti kai` le´gvn kai` pra´ssvn kai` koinh^i kai` ∫idi´ai toi^w paraginome´noiw ei∫w »Ro´don xrh´simon e™ayto`n pare´xetai e∫m panti` kairv ^ i, dedo´x&ai th^i boylh^i kai` tv ^i dh´mvi. e∫paine´sai me`n Nikome´nhn a∫reth^w eçneke kai` ey∫noi´aw hÇn e¢xvn diatelei^ peri` to`n dh^mon to`n Sami´vn, kai` ei®nai ay∫to`n pro´jenon kai` ey∫rge´thn th^w po´levw, dedo´s&ai de` ay∫tv ^ i kai` politei´an e∫f« çishi kai` [o™]moi´ai kai` e∫piklhrv ^ sai ay∫to`n e∫pi` fylh`n kai` xiliasty`n [k]ai` e™katosty`n kai` ge´now kai` a∫nagra´cai ka&o`ti kai` toy`w a¢lloyw Sami´oyw, y™pa´rxein de` ay∫tv ^ i kai` e¢fodon e∫pi` th`m boylh`n kai` to`n dh^mon, e∫a´n toy de´htai, prv ´ t[vi] meta` ta` ™iera` kai` ta` basilika` kai` ei¢sployn kai` e¢kp[loyn] ˙ a∫sylei` kai` a∫spondei` kai` e∫m pole´mvi kai` e∫[n ei∫rh´nhi], tay^ta de` y™pa´rxein kai` ay∫tv ^ i kai` e∫kgo´[noiw, to` de`] ch´fisma to´de a∫nagra´cai ei∫w sth´l[hn li&i´nhn kai`] [s]th^sai ei∫w ™iero`n th^w çHra[w, th^w d« e∫piklhr˙ v ´ sevw kai`] th^w a∫nagrafh^w e∫pime[lh&h^nai to`g grammate´a] ˙ th^w boylh^w.
e a confronto: nonostante le evidenti analogie strutturali e contenutistiche, solo il primo testo è stato incluso da Hallof tra i fygh´-Urkunden.
Tuttavia non sembra pienamente giustificato trattare questi decreti come una categoria a parte, in qualche modo differenziata rispetto agli altri decreti pubblici contemporanei e sempre redatti in onore di singoli cittadini stranieri, che non menzionano esplicitamente la fygh´. La pertinenza di tutti questi decreti ad un’unica, determinata, categoria documentaria ben si evidenzia, ad esempio, dal confronto dei testi e , solo il primo dei quali è stato da Hallof incluso tra i fygh´-Urkunden. Anche se è vero che solo lì ab-
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biamo l’esplicita menzione della fygh´, alle ll. -, tramite l’espressione katelhly&o´tvn h™mv ^ n ei∫w th`n po´lin th`n ay∫th`n, è tuttavia evidente che le circostanze che hanno portato all’emanazione di debbano esser state sostanzialmente analoghe. Il gruppo documentario che qui si prende in esame è quindi costituito, oltre che dai fygh´-Urkunden, anche da un’altra cinquantina di testi (-), dal grado di conservazione estremamente variabile. Questo gruppo di testi, che presentino o meno esplicito riferimento all’esilio, che siano o no, cioè, tecnicamente fygh´-Urkunden, è comunque caratterizzato da una forte rigidità formulare, con un prescritto, estremamente stringato, praticamente limitato alla sola menzione delle autorità emananti il decreto e al nome del proponente la misura onorifica, come si può vedere ad esempio in , : [ ÊEdojen] th^i boylh^i kai` tv^i dh´mvi,ÊAsiow «Arh´toy ei®pen., al quale segue immediatamente la motivazione del decreto, introdotta come di consueto con e∫peidh´, e quindi il nome dell’onorato al nominativo. Benché sia questa la parte che presenta il maggior numero di varianti, anche qui si può notare come la formulazione tenda progressivamente a irrigidirsi in un formulario standard, con indicazioni sempre meno utili alla comprensione dell’effettiva attività evergetica svolta dagli onorati in favore di cittadini di Samo. Per esemplificare, si può prendere in considerazione ancora una volta il testo , il decreto per Epinoides figlio di Eudemos, di Eraclea, onorato poiché ey¢noyw kai` pro´&ymow v£n diete´[lei kai` koi]nh^i tv^i dh´mvi kai` ∫idi´ai toi^w e∫ntyn[xa´noysi t]v ^ n politv ^ n xrei´an parexo´me[now kai` kate]lhly&o´tvn h™mv ^ n ei∫w th`n [po´lin th`n ay∫th`]n ey¢noian diafyla´ssei [tv ^i dh´mvi kai` tv ^ ]n politv ^ n toi^w e∫ntyngxa´[noysi pa^san xre]i´an parexo´menow diate[lei^, pra´ssvn ta` s]ymfe´ronta tv ^ i dh´mv ^ i [tv ^ i Sami´vi] (ll. -). Con-
frontando questa formulazione con quella di , -, si può notare come quest’ultima sia ancora più sintetica, ma non tolga molto in quanto a contenuti (Nikome´nhw Menes&e´vw »Ro´diow ey¢noyw v£n kai` [pro´]&ymow diatelei^ peri` to`n
dh^mon to`n Sami´vn a∫ei` [a∫]ga&o´n ti kai` le´gvn kai` pra´ssvn kai` koinh^i kai` ∫idi´ai toi^w paraginome´noiw ei∫w »Ro´don xrh´simon e™ayto`n pare´xetai e∫m panti` kairv ^ i). Elemento sempre ricorrente nei decreti è quello dell’esser stato xrh´simow, utilis, avendo così mostrato le virtù di ey¢noia e di pro&ymi´a, verso
qualche cittadino di Samo, mentre tutti gli altri elementi, per quanto generici, possono anche non esser presenti: il riferimento a esborsi di denaro, alla concessione dell’alloggio o, in genere, dell’ospitalità. Molto raramente, e solo nel caso dei testi più antichi, si menzionano gli effettivi meriti degli onorati (p. es. Antiléon e suo figlio Leontínos di Calcide avevano salvato dall’esecuzione un buon numero di prigionieri Sami ad Atene, li avevano riscattati, condotti nella loro patria e di lì ne avevano favorito il ritorno a Samo [, iscrizione nota da tempo ma integrata con nuovi frammenti solo nel
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] ; Naosínikos di Sestos aveva fornito il suo aiuto durante una guerra combattuta contro i cleruchi ateniesi e aveva offerto due imbarcazioni per favorire il rientro dei profughi che si erano raccolti ad Anaia, sulla costa di fronte all’isola [] ; Gyges di Toron aveva importato, evidentemente in un momento di forte carestia immediatamente successivo al rientro in patria degli esuli, medimni di grano kata` to`n no´mon []). Segue un’altra parte, anch’essa via via sempre più stereotipa, in cui si decretano gli onori e i privilegi concessi. Introdotta dalla formula dedo´x&ai th^i boylh^i kai` tv ^ i dh´mv ^ i. dedo´s&ai (nome del destinatario in dativo). Tranne il caso eccezionale di un documento tra i primissimi della serie, il già citato decreto in onore dei Calcidesi Antiléon e Leontínos, , dove viene decretata l’erezione di una statua onoraria all’interno del santuario di Era e la concessione di una corona d’oro, i privilegi che venivano normalmente, e direi formulariamente, concessi erano: . elogio pubblico delle virtù del destinatario; . concessione della prossenia e dell’evergesia; . concessione della piena cittadinanza tramite l’iscrizione in una tribù, in una chiliastye, hekatostye e ghenos in seguito a sorteggio «come per tutti gli altri cittadini » ; . concessione di accesso privilegiato di fronte alla boylh´, «subito dopo gli affari sacri e quelli regali» ; . esenzioni fiscali di poter importare ed esportare per mare in tempo di guerra e di pace.
Seguono infine le prescrizioni per la pubblicazione del testo su lastra di pietra, nel tempio di Era affinché possa servire d’esempio alla cittadinanza. Spesso si specifica anche che le operazioni di inclusione del destinatario nella cittadinanza spettano o ad una commissione di cinque membri, oppure al segretario dell’assemblea. È evidente che, dato l’ampio impiego di formule fisse, questi testi non offrono molte possibilità allo storico di comprendere le singole vicende che hanno portato a quelle onorificenze. L’importanza di tali documenti risiede soprattutto nella possibilità di metterli in serie, nel tentativo di disegnare una sorta di geografia della diaspora samia al tempo della cleruchia ateniese. Tale geografia, però, si presenta varia e dispersa per tutto il mondo greco, al punto da non consentire di rintracciarvi i segni delle tradizionali relazioni interstatali greche. Tra gli evergeti dei profughi Sami figurano ad esempio cittadini delle tradizionali competitrici per il controllo della terraferma prospiciente l’isola, Mileto e Priene. Se è vero che la maggior parte dei profughi si insediò nelle città marittime della Ionia e della Caria, con le quali Samo po. Cfr. Hallof a.
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teva vantare strettissimi rapporti economici più che secolari, si devono tuttavia segnalare i casi di personaggi che trovarono rifugio in Sicilia o nell’Ellesponto, al di là, cioè, delle normali rotte commerciali battute dalla marineria samia. A parte l’ovvia esclusione di Atene, molte delle maggiori città greche prestarono il loro soccorso in questa difficile situazione, tanto che, è stato notato, «racial groupings did not influence the giving of help, for several towns listed above are Dorian». In questo quarto secolo di transizione da una età di acceso particolarismo ad un’altra in cui il mondo greco imparò a coagularsi in entità statali più vaste, vi furono episodi, come questo del supporto all’aristocrazia samia in esilio, in cui è possibile ravvisare uno spirito schiettamente panellenico. Un altro episodio del genere, praticamente contemporaneo, è il soccorso prestato dai Greci per la ricostruzione di Tebe ad opera di Cassandro (Diod. xix ; cfr. anche Paus. ix ; Syll.3 ), rasa al suolo da Alessandro nell’autunno del . I due episodi sono tanto più significativi perché rappresentano reazioni a eventi di segno politico diametralmente opposto : l’imperialismo dello stato territoriale macedone nel caso di Tebe, l’imperialismo dell’ultima grande città-stato della madre patria greca, Atene, nel caso di Samo. In entrambi i casi l’unico fattore comune è rappresentato dallo spirito panellenico, generatore di una rete di solidarietà tra i gruppi dirigenti delle più diverse città greche, che prescindeva completamente dai legami tradizionali. L ’ e t à t a r d o - r e p u b b l i c a n a e au g u s t e a Il gruppo dei documenti di età tardo-repubblicana e augustea è costituito da un numero di epigrafi non molto elevato ma del più grande interesse non solo per la storia di Samo e del rapporto dell’isola con la Dominante, ma più in generale per lo studio del vario atteggiarsi di Roma con le antiche realtà politiche dell’Oriente greco negli anni ruggenti dell’imperialismo della media e tarda repubblica. La storia di Samo nel ii secolo a.C. iniziò, lo si è visto, sotto la tutela esercitata da Rodi, a partire dal a.C. (Liv. xxxiii , ). Ben presto, già nel a.C., l’isola cadde per un breve periodo nelle mani di Antioco iii, come ci testimonia Appiano (Syr. , ). Comunque, a partire dalla pace di Apamea, nel , è opinione corrente che Samo abbia potuto mantenere la sua indipendenza, confermando sempre gli stretti rapporti con Rodi e, soprattutto, con Roma, alla quale inviò delle navi nel , durante la iii Guerra Macedonica (Liv. xlii , ), e dalla quale fu costretta ad accettare decisioni a lei sfavorevoli nelle dispute con la vicina Priene per il possesso della fertile pianura di Anaia (Sherk : nr. ). . Shipley : . . Magie : ; Bürchner : ; Habicht : con n. .
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Questo periodo di rapporti formalmente buoni con Roma, ma certamente non eccellenti, e comunque non privilegiati, ci è testimoniato da iscrizioni provenienti non da Samo, ma da Priene, la città vicina e storica rivale della nostra isola, a vantaggio della quale Roma prese diverse decisioni. Non sempre è possibile ricostruire la storia di questi arbitrati a causa dello stato di conservazione dei testi, ma il fatto stesso che essi provengano da Priene dimostra con chiarezza a favore di chi sia stata emessa la decisione dei magistrati romani. Gli eventi drammatici della guerra di Aristonico videro Samo tra le poche città che tentarono una accanita resistenza alle pretese del sedicente successore di Attalo iii (Flor. i , ). Il risultato della guerra fu, nel a.C., la redazione della provincia romana d’Asia. Samo, grazie alla decisione, che condivise con pochissime altre città della costa tra cui Efeso, di non schierarsi col ribelle Aristonico, dovette conservare la privilegiata condizione di città libera. Paradossalmente, però, fu proprio la guerra di Aristonico a causare un inarrestabile declino politico di Samo. Probabilmente a causa del supporto fondamentale fornito da Efeso nella guerra, soprattutto per la brillante vittoria navale conseguita al largo di Kyme dalla flotta efesia su quella di Aristonico (Strabo xiv , C ), la riconoscenza di Roma si manifestò nella scelta di fare di quella città il caput provinciae della nuova entità amministrativa. La decisione non riguardava in alcun modo Samo, che, tecnicamente, da città libera ed alleata, non doveva farne parte, ma è evidente che la contiguità geografica al centro del potere locale ha causato una irrimediabile involuzione nella vita politica della nostra isola, che non sembra aver mai fatto parte del conventus provinciale. L’unico documento che rechi il nome di un proconsole d’Asia in questo periodo precedente lo scoppio della I Guerra Mitridatica è , una dedica posta dal popolo Samio a un Cn. Domitius Cn. f. che, se fosse da identificare con il cos. (come vuole Eilers , ma sono possibili anche altre identificazioni), sarebbe stato uno dei primi proconsoli d’Asia in assoluto, il figlio di quel Cn. Domitius Ahenobarbus pater che, da legato di Manius Aquilius in Caria nel -, aveva contributo non poco alla redazione della provincia. Questo testo – vera l’identificazione del Domitius con il cos. del – costituirebbe la prima attestazione della parola pa´trvn in greco, e sarebbe il più antico esempio di patronato esercitato da influenti membri della classe senatoria romana sulle città dell’Oriente greco. Questo tipo di rapporti politici e personali (che furono alla base delle Foreign clientelae studiate da Badian nel ), di enorme importanza per lo studio della politica romana di età tardo. Macro : ; Jones : -. . Contra Jones : -, ma cfr. ora per l’assoluta scarsità dei governatori romani attestati a Samo Haensch .
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repubblicana in Oriente, è stato argomento di indagine di due monografie recentissime, tra loro indipendenti e quasi contemporanee. Priva di un rapporto diretto con i proconsoli romani, formalmente estranea alla nuova provincia e tuttavia naturalmente solidale con le altre città micrasiatiche dal rapporto con le quali non poteva prescindere, la classe dirigente samia tentò la strada di blandire personaggi più o meno potenti, di entrare stabilmente in rapporti di clientela con diverse gentes romane. Benché i testi che documentano tali tentativi generalmente infruttuosi siano per la maggior parte successivi alla Prima guerra contro Mitridate, è tuttavia significativo il fatto che delle dediche onorifiche (per lo più basi di statue) dedicate a cittadini romani pubblicate da Hallof (-) databili dal ii secolo a.C. al iv d.C., solo la prima, il già citato documento , sia indirizzata a un proconsole d’Asia – a parte le iscrizioni dedicate ai Ciceroni, di cui parleremo tra breve –, e sia questo inoltre l’unico documento della serie precedente l’ingresso formale di Samo nella provincia d’Asia. Il rapporto evidentemente difficile con la Dominante negli anni che vanno dalla fondazione della provincia d’Asia ( a.C.) allo scoppio della I Guerra Mitridatica ( a.C.) deve aver generato un fortissimo risentimento all’interno della società samia. Questo risentimento è molto facilmente verificabile dal comportamento dell’isola durante quella guerra di importanza veramente capitale per i futuri assetti dell’Asia Minore romana. La I Guerra Mitridatica segnò il vero punto di svolta nei rapporti tra Samo e Roma. Benché la nostra isola non venga mai menzionata in connessione agli eventi che portarono alla guerra, è molto facile dedurre che anche a Samo, come in tante altre città della costa dell’Asia Minore, Efeso in primis, si sia proceduto al massacro degli Italici su istigazione del sovrano pontico. Il fortissimo coinvolgimento dell’isola nella ribellione contro il dominio romano in Asia emerge con chiarezza da un passo della Vita di Lucullo di Plutarco (, ), quando si dice che Lucullo riuscì a convincere gli abitanti di Cos e di Cnido a passare dalla parte di Roma e di attaccare insieme a lui Samo: è evidente che, come già era avvenuto precedentemente durante la dominazione Lagide, Samo era la maggiore base di operazioni navali nell’Egeo meridionale, e questa volta era schierata, con ferma determinazione, a fianco del sovrano pontico. È facile immaginare la ferocia dell’assedio posto in essere da Lucullo, nell’, e la durezza delle condizioni che Silla avrà imposto alla ribelle Samo. Il probabilissimo coinvolgimento di Samo, città libera e alleata di Roma, nei Vespri Efesii dell’ deve comunque far riflettere lo storico moderno sulla effettiva qualità dell’imperialismo romano in Oriente tra ii e i secolo a.C. Il non facile equilibrio dei rapporti con Roma si era ormai definitivamente . Canali De Rossi ; Eilers .
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compromesso, e tale rimase fin bene addentro al principato augusteo. La situazione economica sull’isola, che naturalmente perse i suoi privilegi ed entrò a far parte della provincia, conobbe nel trentennio successivo la fine della I Guerra Mitridatica il suo momento più difficile. Vi è una evidente interruzione dell’attività edilizia sull’isola – attività invero rallentate già a partire dalla fine del ii secolo a.C. –, mentre praticamente tace l’epigrafia. I pochissimi testi ascrivibili a quel difficilissimo periodo sono però altamente significativi. È noto che Samo fu tra le illustri vittime della pirateria, che divampò implacabile in tutto il settore del Mediterraneo orientale, e non solo, in quel torno di tempo – altra sgradita eredità del tentativo mitridatico. La nostra isola è infatti l’unico toponimo a comparire in tutti e tre gli elenchi, pur differentissimi in quanto a completezza, di località predate dai pirati che ci sono stati tramandati da Plutarco (Pomp. , , che ne nomina ), Appiano (che ne nomina solamente , con Iasos e Clazomene, non citate in Plutarco) e Cicerone (De imp. Cn. Pomp. , tre toponimi solamente). La guerra lampo di Pompeo contro i pirati deve aver molto alleviato le condizioni dell’isola, ed è facilmente comprensibile, quindi, la presenza a Samo di due iscrizioni, una dedicata a Pompeo, che viene salutato come ay∫tokra´tvr, ey∫erge´thw e svth`r th^w po´levw (), l’altra al suo legato nella guerra contro i pirati, M. Pupius Piso Frugi, che viene qualificato come pa´trvn ed ey∫erge´thw, per aver saputo rovesciare la situazione nei momenti difficili (diapepragme´n[on e∫n ^ n prosh] ko´ntvn) (), che devono esdysxere´si] kairoi^w e∫pis[trofh`n tv sere state poste immediatamente dopo la fine della guerra, verosimilmente quando Pompeo attese nell’Asia Minore meridionale la votazione della lex Gabinia. Samo non ricevette gli sperati vantaggi dalla sua riconoscenza nei confronti di Pompeo, anzi: si liberò certamente dal pericolo dei pirati ma venne colpita, come tutte le altre città costiere dell’Asia Minore, da una pecunia in remiges, «denaro per i rematori», una tassa straordinaria imposta alle città costiere dell’Asia Minore per il mantenimento di una flotta contro i pirati, della quale ci parla Cicerone (Flacc. ). Non sempre, però, i rapporti tra Samo e i proconsoli d’Asia furono così insoddisfacenti. Certamente diverso fu il caso del proconsolato di Quinto Cicerone, il fratello minore di Marco. Il caso di questo governo è per noi particolarmente fortunato perché si tratta di uno dei governi provinciali che meglio conosciamo in assoluto, grazie all’incrocio tra fonti letterarie ed epigrafiche, particolarmente fruttuoso proprio nel caso di Samo. Quinto Cicerone ricevette il comando della provincia d’Asia all’uscita di carica della sua pretura – ché ancora in quell’epoca era consentito per degli ex pretori assu. De Souza . . Cristofori .
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mere imperia proconsolari –, nel , e il potere gli venne prorogato per altri due anni, fino al a.C. L’operato di Quinto in Asia ha lasciato tracce cospicue nelle fonti letterarie, in primo luogo nelle due lettere che il fratello Marco gli indirizza (ad Quintum fr., i ; i ). Queste due lettere, con il quadro sostanzialmente opposto che offrono del governo asiatico di Quinto – favorevolissima è la prima, lunghissima lettera, una sorta di manifesto politico ciceroniano per il buongoverno provinciale; francamente critica la seconda, contenente un gran numero di rimproveri su singole decisioni di Quinto – hanno da sempre costituito un fertile terreno di dibattito. Suetonio mostra di conoscere solamente la seconda lettera, quando afferma (Aug. , ) che «Cicerone, in lettere che ci sono conservate, consiglia e raccomanda a suo fratello Quinto, che in questa stessa data ( a.C.) era poco apprezzato come proconsole d’Asia, di prendere a modello il suo vicino Ottavio per farsi benvolere dagli alleati », cosa che ha portato studiosi quali il Magie, a ritenere falsa la prima lettera. Non è questo il luogo per tentare di tracciare un bilancio del proconsolato di Quinto Cicerone in Asia: quel che è certo, è che Quinto seppe farsi amare a Samo. Proprio lì, oppure a Efeso, è da collocare il gustoso episodio raccontato da Macrobio (ii , ) : Neppure al fratello Quinto, Cicerone risparmiò la sua mordacità. Visitando la provincia in cui egli era stato governatore, vide un ritratto di lui poggiante su scudo, raffigurato con un busto enorme secondo la moda, e Quinto era invece di piccola statura ; disse : ‘Frater meus dimidius maior est quam totus’, ‘mio fratello a metà è più grande che tutt’intero’! (trad. N. Marinone).
Marco Cicerone vide l’imago clipeata del fratello quando si recò, nel a.C., a prendere possesso della provincia di Cilicia della quale era stato nominato governatore. Egli da Efeso scrisse il luglio di quell’anno ad Attico, (Att. v ) «siamo arrivati a Efeso il di luglio ... la traversata si è svolta senza pericoli né mal di mare, ma troppo lentamente, a causa della inadeguatezza degli aphracta rodii. Dell’accalcarsi delle delegazioni, dei privati, della folla incredibile che già a Samo era lì ad accogliermi, ma che ad Efeso era diventata prodigiosa, ne hai già sentito parlare, credo, oppure c’è bisogno che te la descriva ? ». È certamente questa la descrizione più vivace del particolare tipo di attaccamento che il proconsolato di Quinto aveva prodotto a Samo. Ed è una testimonianza importante perché permette di constatare come, nonostante le difficoltà evidenti sul piano politico, Samo non avesse conosciuto una reale crisi antropica, essendo assolutamente naturale, e direi fisiologico, il sorpasso di Efeso in virtù del ruolo amministrativo di questa città nell’ambito della provincia. L’attaccamento dell’isola al proconsole Quinto è perfet. Münzer . . Magie : n. . . Su questo cfr. Mamojee , con bibliografia.
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tamente riconoscibile anche sul piano archeologico. È stato infatti individuato sul terreno il monumento dal quale provengono i resti delle iscrizioni che adornavano i sedili di marmo dell’edificio noto col nome di «Esedra dei Ciceroni » (-). L’edificio era sormontato da un gruppo statuario in bronzo raffigurante la famiglia dell’onorato. Sotto le singole statue, come didascalie, erano le iscrizioni, recanti semplicemente l’espressione o™ dh^mow e il nome del dedicatario all’accusativo. Si sono parzialmente conservate quelle di Quinto, quella di una donna, forse Pomponia, moglie di Quinto e quella di Marco, l’oratore. È possibile studiare il gruppo statuario, che è andato completamente perduto, dai buchi che ancoravano le statue al monumento. Certo è che, anche se tali buchi possono risultare compatibili, appare quanto meno audace la proposta di voler identificare il gruppo statuario di Samo con i bronzi dorati di Cartoceto di Pergola. Un’altra iscrizione, meglio conservata, e più esplicita nella motivazione, dedicata a Pomponia, recita: o™ dh^mow o™ Sami´vn Pompvni´an Ti´toy &ygate´ra ey∫ergesi´aw eçneken th^w toy^ a∫n&ypa´toy Koi´ntoy () «il popolo di Samo a Pomponia, figlia di Tito, per l’evergesia
del proconsole Quinto ». Non possiamo sapere esattamente in che cosa sia consistita la evergesia alla quale allude il nostro testo, ma Marco si complimenta con Quinto, nella sua prima lettera, quella positiva, perché urbes compluris dirutas ac paene desertas, in quibus unam Ioniae nobilissimam, alteram Cariae, Samum et Halicarnassum, per te esse recreatas. Possiamo immaginare che Quinto abbia tagliato anche a Samo i debiti che affliggevano molti dei centri urbani dell’Asia Minore, ma sappiamo con certezza che fu lui ad abolire l’ormai inutile tassa per la flotta contro i pirati – ce lo dice il fratello in un passo della Pro Flacco, che è da considerarsi certamente obiettivo, almeno in questo caso. Il trentennio che va dal proconsolato di Quinto Cicerone alla battaglia di Azio non è molto ricco di iscrizioni, e questo in netto contrasto con l’età augustea, l’ultima grande stagione dell’epigrafia samia. Augusto ebbe un rapporto particolare con Samo, dove, come vedremo, soggiornò per ben quattro volte. Troviamo nell’isola dediche indirizzate praticamente a tutta la famiglia di Augusto : la moglie Livia (, ), la figlia Giulia (), Agrippa e una figlia di Agrippa (), Agrippina Minore (), Gaio e Lucio Cesari (), Germanico (), oltre ovviamente, Augusto (, ), che infine, nel / a.C., accontentò i Sami nella loro ormai cinquantennale ricerca della eleutheria. Tuttavia i rapporti tra Augusto e Samo non furono sempre semplicissimi. Il documento che li illustra meglio di tutti non proviene da Samo, ma da una . Böhm . . Sulla Pro Flacco e lo spirito malevolo e polemico che la anima, cfr., su altre questioni, Thornton in Thornton-Gnoli .
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città, la Caria Afrodisia, per la quale non è facile trovare evidenti rapporti con la nostra isola. Si tratta di una vera rarità epigrafica, dal momento che il documento testimonia il rifiuto da parte di Augusto di concedere la eleutheria alla città di Samo (Reynolds : nr. ). Tali rifiuti, ovviamente, non dovevano essere rari, ma rara, e anzi rarissima, è la circostanza che tali testi venissero eternati su pietra. Poiché la quasi totalità delle epigrafi pubbliche a noi pervenute veniva pubblicata a cura e a spese della comunità richiedente, è difficile che si decidesse di registrare tali brucianti sconfitte. Questo documento non fa in realtà eccezione, perché non venne iscritto dai Sami ma dai cittadini di Afrodisia i quali, come viene esplicitamente affermato in questa subscriptio imperiale inviata ai Sami, erano stati gli unici ad ottenere da Augusto il privilegio della libertà (to` fila´n&rvpon th^w e∫ley&eri´aw) tra tutte le città, Samo compresa, appunto, che ne avevano fatto formale richiesta. vac. Ay∫tokra´tvr Kai^sar &eoy^ «Ioyli´oy yi™o`w Ay¢goystow Sami´oiw y™po` to` a∫ji´vma
y™pe´gracen. e¢jestin y™mei^n ay∫toi^w oçti to` fila´n&rvpon th^w e∫ley&eri´aw oy∫de´ni de´dvka dh´mv ı plh`n tv ^ı tv ^n «Afrodeisie´vn oÇw e∫n tv ^ı pole´mv ı ta` e∫ma` fronh´saw doria´lvtow dia` th`n pro`w h™ma`w ey¢noian e∫ge´neto. oy∫ ga´r e∫stin di´kaion to` pa´ntvn me´giston fila´n&rvpon ei∫kW^ kai` xvri`w ai∫ti´aw xari´zes&ai. «Egv ` de` y™mei^n me`n ey∫nov ^ kai` boyloi´mhn a£n tW^ gynaiki´ moy y™pe`r y™mv ^ n spoydazoy´sW xari´zes&ai a∫lla` oy∫x v ç ste kataly^sai th`n synh´&eia´n moy. oy∫de` ga`r tv ^ n xrhma´tvn moi me´lei aÇ ei∫w to`n fo´ron telei^te vac. stella a∫lla` ta` teimiv´tata fila´n&rvpa xvri`w ai∫ti´aw ey∫lo´goy dedvke´nai oy∫de´ni boy´lomai stella
L’Imperatore Cesare Augusto, figlio del divo Giulio, ha scritto ai Sami in risposta alla loro petizione : Voi stessi potete vedere che io ho dato il privilegio della libertà a nessun altro eccetto agli abitanti di Afrodisia, che hanno tenuto la mia parte nella guerra e furono espugnati a causa della loro devozione verso di noi. Perché non è giusto dare il favore del più grande privilegio a tutti, a caso e senza motivo. Io sono ben disposto verso di voi e mi piacerebbe fare un favore a mia moglie che è attiva nei vostri confronti, ma non fino al punto di rompere con i miei propositi. Perché io non sono interessato al denaro che voi pagate come tributo, ma perché io non voglio dare i privilegi più pregiati a qualcuno senza una giusta causa.
L’iscrizione, incisa sul cosiddetto ‘archive wall’, il muro a sud della parodo del teatro della città, insieme a molti altri documenti pubblici, in qualche momento durante il regno di Severo Alessandro, e comunque non prima della fine del ii secolo d.C., è immeditamente stata al centro di un acceso di. Reynolds : xv, .
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battito, prima ancora della sua pubblicazione definitiva da parte di Joyce Reynolds, nel . Ha iniziato Fergus Millar, con l’inclusione e la discussione del testo nella sua monografia su The Emperor in the Roman World, del , immediatamente ripreso da Rainer Bernhardt, in un importante articolo su « Historia » del . Senza dubbio questo testo sembra dare un appoggio formidabile a coloro che sostengono la tesi di una sostanziale equivalenza tra libertà ed esenzione dal tributo, tra e∫ley&eri´a e a∫neisfori´a, come è già stato sottolineato da Millar e da Bernhardt. Tuttavia, in un recente Convegno internazionale tenutosi a Roma nel gennaio , e che fin nel titolo traeva spunto proprio da questa iscrizione, « to` pa´ntvn me´giston fila´n&ropon, città e popoli liberi nell’imperium Romanum», Musti ha avuto modo di sottolineare il fatto che «Roma gioca sempre sul doppio versante del concetto di libertà, quello che consiste nella dissoluzione di condizioni di dominio dei nemici di Roma ... e quello tipicamente greco della libertà/autonomia, a cui però aggiunge, specificandola, la esenzione da tributi e da guarnigioni» ... «(i Romani) propongono quindi fin dall’inizio un concetto di libertà politica, articolato ‘in più pezzi’, che quindi all’occorrenza e in altri casi potrebbero essere combinati in maniera diversa ... Con Roma si poteva essere liberi, anche se ... dipendenti, dipendenti sul piano tributario. Ed è proprio questa condizione che, istituita e inventata giuridicamente, prepara alle città dell’Oriente ellenistico il destino di diventare in età romana quei centri amministrativi di uno stato unitario, che è poi la vicenda tardoantica, medievale e moderna ». Il problema dei problemi, la relazione tra eleutheria e aneisphoria, è quindi in realtà mal posto, oppure è un falso problema. Non esiste una relazione diretta e necessaria tra i due concetti che pertanto, appunto, potranno sempre combinarsi tra loro, e con altri elementi, in maniera diversa. Il testo in esame è anche importante per lo studio della storia dell’isola di Samo in età augustea: inserita nel suo contesto storico l’iscrizione contribuisce a chiarire i rapporti tra il princeps e l’isola, e da questi rapporti riceve a sua volta illuminazione. Innanzi tutto la datazione del mancato provvedimento augusteo. Se il terminus ante quem è ovviamente la concessione della eleutheria all’isola (vd. oltre), le cose si complicano se si cerca di identificare il terminus post. A causa dell’estrema recenziorità del testo trádito, a nulla vale rilevare le stranezze della titolatura di Augusto, qui designato come Ay¢goystow anziché Sebasto´w. Se è da ritenere, con l’editore, che la titolatura di questa subscriptio è frutto di un rimaneggiamento successivo, ne discende che la forchetta cro. Millar . . Bernhardt : ; ; . . Musti : .
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nologica per la datazione del testo vada leggermente ampliata, non valendo più in questo caso come terminus post quem l’adozione del titolo di Augustus da parte di Ottaviano nel a.C., né, del pari, l’adozione del praenomen imperator, assunto da Ottaviano verso la fine del o l’inizio del a.C. È invece assolutamente condivisibile l’identificazione della gynh´ che si dà pensiero dei Sami con Livia, sposata da Ottaviano nel gennaio del a.C., che anche da altre fonti sappiamo essersi effettivamente interessata a Samo e a Era ( e sono due dediche del dh^mow samio a Livia, «moglie dell’imperator, figlio del divo Cesare»). Sono però debolissimi i puntelli alla tesi dell’editore di ravvisare nel po´lemow della l. un’allusione alla guerra di Labieno. Quinto Labieno, dopo aver preso possesso con un colpo di mano della provincia di Siria, approfittando dell’assenza di Antonio, impegnato in Italia nei colloqui con Ottaviano che avrebbero portato nell’ottobre del a.C. al trattato di Brindisi, guidò le truppe partiche al di là del Tauro, alla conquista dell’Asia Minore. La zona che fu maggiormente interessata dalle scorrerie del transfuga romano fu, sembrerebbe, proprio la Caria, la regione di Afrodisia, dove diverse città vennero prese e saccheggiate crudelmente. Particolarmente triste fu la sorte toccata a Mylasa, come sappiamo da una importante iscrizione conservata al Louvre (Syll.3 = Sherk : nr. ). Nonostante la resistenza accanita di alcune altre città, a noi nota oramai solamente dagli onori che saranno in seguito concessi da Augusto alle vittime di queste aggressioni, fu necessario il pronto ritorno di Antonio in Oriente per porre fine a questa incresciosa situazione. Dovettero certamente lottare contro i Parti di Labieno Mylasa (Dio xlviii ,; Syll.3 = Sherk : nr. ), Afrodisia e Plarasa (OGIS = Reynolds : nr. ), Alabanda (Dio xlviii ,), Panamara (Sherk : nr. ), mentre Stratonicea resistette con successo, nonostante un duro assedio (Dio xlviii ,.). Se si concorda sull’attinenza di tutte queste fonti alla resistenza opposta a Labieno dalle città dell’Asia Minore, sembra certamente fuori luogo l’affermazione di Augusto nella nostra iscrizione di non voler concedere to` fila´n&rvpon th^w e∫ley&eri´aw oy∫de´ni ... dh´mvı plh`n tv^ı tv^n «Afrodeisie´vn poiché costoro erano rimasti devoti alla sua persona: che dire allora quanto meno delle altre città che abbiamo appena elencato? Che cosa avrebbe potuto fare Samo in una situazione che sembra non averla minimamente toccata (anzi ! L. Munatius Plancus, allora proconsole d’Asia, poté sfuggire alle truppe di Labieno, proprio rifugiandosi in non meglio precisate «isole ») (Dio xlviii , ) ? . Contra Reynolds : , che però non spiega perché dovrebbe esser preso in considerazione il praenomen. . Cfr. Herrmann : -, nrr. -. . Reynolds : . . Münzer .
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Inoltre, nonostante quanto sostenuto anche da Fergus Millar sulla base di un famoso editto augusteo da Rhosos, in Cilicia (Sherk : nr. ), è preferibile pensare che una comunità dell’Asia Minore si sarebbe rivolta ad Antonio, non a Ottaviano, prima del a.C. per ottenere eleutheria e aneisphoria. L’editore è costretto ad avvicinare il più possibile la datazione di questo testo con il numero del suo dossier, la famosa iscrizione di Solon, nel tentativo di spiegare il perché della pubblicazione ad Afrodisia di una subscriptio che non riguardava quella città. Tuttavia, anche se non posso offrire a questo interrogativo una risposta migliore, spero di riuscire a mostrare che la spiegazione dell’editore è insoddisfacente e che non esistono rapporti evidenti tra i due testi (la nostra iscrizione e quella di Solon, appunto). Le difficoltà cronologiche sopra evidenziate svaniscono se si prova a ritenere che il po´lemow a l. sia la battaglia di Azio. Solamente riferendola allo scontro finale tra Ottaviano e Antonio la fedeltà di Afrodisia al primo acquista quel tratto di eccezionalità che emerge in maniera chiara dall’iscrizione in questione, mentre è possibile intendere in maniera molto più pregnante il ta` e∫ma` fronh´saw a l. . L’altro problema, connesso con quanto appena detto, è rappresentato dalle circostanze che portarono alla pubblicazione della nostra iscrizione sull’‘archive wall’ del teatro di Afrodisia, e cioè come sia giunto ben addentro nella vallata del Meandro questo documento, indirizzato da Augusto alla città di Samo. Una possibilità di spiegazione è certamente offerta dall’ipotesi di Reynolds di vedere in questa subscriptio uno dei documenti che sarebbero stati dati da Ottaviano all’ambasciatore cario Solon al suo ritorno in patria dopo che costui, nel a.C., aveva richiesto alla cancelleria di Ottaviano dei particolari documenti che illustrassero le sue – di Solon – benemerenze nei riguardi della patria, Afrodisia. Questa spiegazione se da una parte soddisfa l’esigenza di spiegare la curiosa pubblicità che questo rifiuto avrebbe avuto ad Afrodisia, va tuttavia incontro a una serie di difficoltà. La prima, di ordine cronologico, consiste nell’obbligo di avvicinare alquanto al a.C. il nostro documento, e quindi di considerare il po´lemow dell’iscrizione riferito alla guerra di Labieno e non alla guerra di Azio, il secondo è che i documenti menzionati nella iscrizione di Solon (Reynolds : nr. ll. -.), richiesti da costui ad Ottaviano, erano in realtà copie di uno specifico editto (e∫pi´krima), di un senatus consultum (do´gma), di un trattato (oçrkion) e di una legge (no´mow) che riguardavano direttamente la città di Afrodisia. Ora, la subscriptio in esame faceva seguito ad un a∫ji´vma, cioè ad una categoria documentaria totalmente differente da quelle qui elencate. Ma, quel che è peggio, la subscriptio riguardava solo incidentalmente Afrodisia, e in nessun modo poteva quindi essere definita come «un documento che riguarda gli abitanti di Afro. Millar : .
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disia ». Non solo, dal testo della subscriptio si evince chiaramente che richieste simili a quella avanzata dai Sami dovevano essere già state inviate da altre città dell’oriente greco, che dovevano aver ricevuto una risposta simile a quella ricevuta dalla nostra isola. Anche per queste altre città Afrodisia avrà certamente costituito l’esempio che, a giudizio del giovane Ottaviano, non avrebbe dovuto essere ripetuto. Allo stato attuale delle nostre conoscenze mi sembra impossibile decidere se la pubblicazione ad Afrodisia proprio della risposta di Ottaviano a Samo sia stata frutto del caso oppure se tra le due città vi fossero all’epoca rapporti (di rivalità?) tali da spiegare il fatto. In base alle considerazioni sopra esposte mi sembra di poter affermare che la forchetta cronologica nella quale vada collocato il nostro testo sia compresa tra il a.C., e il - a.C., anno in cui sappiamo da altre fonti che Augusto concesse ai Sami la tanto sospirata eleutheria (Plin. N.H., v ; Dio liv , ; Eusebius Chron., p. Schoene ; Hier. Chron., p. Helm). In realtà la nostra iscrizione trova il suo contesto più naturale e appropriato se collocata negli anni immediatamente successivi ad Azio. Come è noto, durante i grandi preparativi per il confronto finale con Ottaviano, Antonio passò il mese di aprile del a.C. a Samo e∫n ey∫pa&ei´aiw, «in baldoria» (Plut. Ant. , -) : come ai re, ai dinasti, ai tetrarchi, ai popoli, alle città tutte fra la Siria, la Meotide, l’Armenia, l’Illiria, era stato prescritto di mandare o portare ciò che avevano apprestato per la guerra, così a tutti gli artisti di Dioniso era stato imposto di recarsi a Samo ; e mentre quasi tutta la terra intorno echeggiava di lamentazioni e di gemiti, solo un’isola per più giorni risuonò di flauti e di arpe, coi teatri pieni e concorsi corali. Ogni città partecipò ai sacrifici inviando un bue, e i re gareggiavano fra loro in ricevimenti e doni. Così la gente si domandava che cosa avrebbero fatto da vincitori per celebrare la vittoria coloro che festeggiavano i preparativi della guerra in modo così fastoso (trad. C. Carena).
Ci sarebbe molto da dire su questi giochi sontuosi, così come sull’orientamento ideologico del brano. È comunque altamente verosimile che fu in questa occasione che Antonio asportò dallo Heraion un gruppo statuario opera di Mirone (Strabo xiv , C ), per farne dono a Cleopatra. Di lì la grande armata si trasferì in Grecia, Antonio ad Atene, dove continuò a gozzovigliare. All’indomani del grande scontro navale, alla fine dell’autunno del a.C., Ottaviano passò l’Egeo e approdò per la prima volta a Samo. Nessuna fonte mette in evidenza un qualche rapporto tra la sosta nell’isola di Antonio e quella successiva di Ottaviano. Non solo, il ratto delle statue di Mirone dall’Heraion perpetrato da Antonio dà comunemente una coloritura negativa al rapporto tra Samo e il triumviro. In realtà quella sosta rappresentò per l’isola un momento certamente importante, come testimonia, al di là di ogni opinione preconcetta, il brano di Plutarco sopra riportato, e sembra assolutamente scontato il rapporto di benevola amicizia tra Samo e Antonio. Non
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mi sembra dunque casuale il fatto che Ottaviano ab Actio cum Samum in hiberna se recepisset, turbatus nuntiis de seditione ..., repetit Italiam (Suet. Aug. , ). Né che si ambienti a Samo l’episodio riferitoci da Appiano (BC iv , ), indicativo non solamente delle virtù della pietas di un figlio per il padre e della filantropia del princeps, ma anche delle finalità trionfali che Ottaviano intendeva dare alla sua permanenza samia: C’erano due Metelli, figlio e padre: il padre, ufficiale di Antonio nella battaglia di Azio, fu fatto prigioniero e nessuno lo riconobbe; il figlio invece si era schierato con Cesare e anch’egli aveva combattuto come ufficiale ad Azio. Mentre a Samo Cesare controllava i prigionieri, tra il suo seguito assisteva Metello figlio, mentre il padre veniva spinto avanti scarmigliato, sporco, misero, trasformato dagli avvenimenti. Quando il banditore lo chiamò per nome dalla schiera dei prigionieri, il figlio balzò dal suo posto e riconosciuto a stento il padre lo abbracciò tra le lacrime; poi, contenutosi, disse a Cesare: “Costui ti è stato nemico, o Cesare, e io ho combattuto con te ; egli dovrebbe essere punito e io premiato. Ti chiedo di salvare mio padre in grazia mia, o di uccidere me con lui”. Si levò da parte di tutti un grido di commiserazione, e Cesare concesse la salvezza a Metello nonostante gli fosse stato acerrimo nemico e avesse spesso rifiutato molti doni promessigli qualora, abbandonato Antonio, fosse passato a lui (trad. D. Magnino).
Questa sosta, che fu breve per necessità, doveva avere dunque, nei piani di Augusto, un forte significato politico: egli aveva in animo di sistemare molte cose in Oriente e di offrire, alle ambascerie che si sarebbero dirette da lui da ogni parte, lo spettacolo del pacator orbis nello stesso identico luogo dove lo sconfitto Antonio aveva a sua volta ricevuto quelle stesse delegazioni. È per questo che, alla fine dell’anno, dopo la resa di Alessandria e il suicidio di Antonio e di Cleopatra, Ottaviano fece una seconda visita a Samo, dove, avendo assunto il consolato per il (Suet., Aug. ,), rimase fino alla metà dell’estate. È perfettamente concepibile che in queste due occasioni Augusto abbia trattato le petizioni che gli venivano richieste con misurata fermezza. Credo vada dunque sfumato il giudizio uniformemente positivo sulla politica augustea nei riguardi delle città d’Asia Minore come è espresso, ad esempio, da Macro : si possono infatti ravvisare diverse fasi in questi rapporti. Samo aveva poche speranze di veder accettata la richiesta di eleutheria, ma probabilmente fidava nel fatto di avere a tiro la persona di Ottaviano e nei buoni uffici di Livia ... Ma ci voleva ben altro per ottenere il favore del princeps, in questa fase. Ottaviano rispose additando il caso eccezionale di una delle pochissime comunità che, nei mesi precedenti Azio, si erano (evidentemente) rifiutate di schierarsi con Antonio, facendogli voto di fedeltà: Afrodisia. È impossibile, allo stato attuale delle nostre conoscenze, pronunciarci su come sia giunto ad Afrodisia quel documento. . Cfr. Macro .
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Nell’inverno tra il e il a.C. Augusto sostò altre due volte a Samo, facendone la base della sua lunga sosta in Oriente, che lo vide attivo anche in Siria e, tramite Tiberio, in Armenia. Ormai era passata l’emergenza, il suo potere era quanto mai saldo e indiscusso, tanto da poter mostrare ai sudditi d’Oriente il suo volto più magnanimo: in un noto elenco fornitoci da Plinio (Plin. N.H., iv ; v -, -, , -, ; vi , che sarebbe troppo lungo qui discutere nel dettaglio, tra le città ‘libere’ sono elencate Rodi, Astipalea, Chio, Samo e Mitilene, in Asia Ilio, Cauno, Cnido, Milasa, Alabanda, Stratonicea e Afrodisia, in Bitinia-Ponto Calcedonia e Amiso, in Cilicia Ege e Mopsuestia ... Possiamo essere certi che l’insistenza di Livia abbia avuto una qualche parte in questa decisione, così come possiamo legittimamente ritenere che proprio in quell’occasione, in margine ai festeggiamenti per la concessione della eleutheria alla nobile isola, Augusto abbia dato mostra della sua eusebeia facendo ricollocare nel posto che competeva loro le statue di Mirone trafugate nel da Antonio. Non tutte, in verità, ché del trittico, rappresentante Zeus, Atena e Eracle, il primo prese la strada del Campidoglio (Strabo xiv , C ). Fu quello tra il e il a.C. un inverno straordinariamente operoso, e non tanto per l’attività edilizia che avrà accompagnato come di consueto la sosta dell’imperatore (pure testimoniata da precisamente datato al a.C.), quanto perché è facile immaginare che allora sarà stata ampiamente ridisegnata la mappa amministrativa dell’Oriente romano, sotto il pungolo continuo, ossessivo, di innumerevoli ambascerie che, da tutta l’ecumene e non soltanto dal mondo romano, convenivano a Samo in quell’inverno straordinario, per avanzare più o meno legittime richieste, più o meno valide rivendicazioni. Sarebbe impossibile per noi oggi rappresentarci la multiforme, colorata folla che si dovette accalcare in quei mesi nell’isola, improvvisamente diventata il centro del mondo per una effimera stagione, senza il breve accenno di Strabone (xvii , C ) su una ambasceria di Etiopi che vi fu condotta («[Petronio] ordinò loro di recarsi in ambasceria da Cesare [Augusto], e poiché costoro risposero che non sapevano chi fosse Cesare e dove dovevano andare per incontrarlo, egli diede loro una scorta; ed essi andarono a Samo, dal momento che Cesare era lì e stava per recarsi in Siria, dopo aver inviato Tiberio in Armenia»). Quella degli Etiopi non fu l’unica ambasceria esotica che giunse a Samo in quell’occasione : ecco il racconto di Cassio Dione (liv ,-) (sempre riferito alla sosta del - a.C.) : Augusto, nel frattempo, ritornò a Samo, dove svernò: per sdebitarsi del suo soggiorno concesse la libertà agli abitanti dell’isola, ed inoltre attese all’amministra. Cfr., per una prima informazione, Magie : n. .
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zione di altre numerose faccende. Ricevette la visita di moltissime ambascerie, e gli abitanti dell’India, che già in precedenza ne avevano inviate, si adoperavano a dare dimostrazione della loro amicizia, inviando, oltre a molti altri omaggi, anche delle tigri, che proprio in quell’occasione furono viste per la prima volta non solo dai Romani, ma, come io credo, anche dai Greci. Essi gli diedero anche un fanciullino con le braccia completamente amputate, proprio come le erme. Eppure, nonostante avesse questa menomazione, con i piedi egli era in grado di compiere tutte le operazioni che si eseguono con le mani: tendeva l’arco, scoccava dardi e suonava la tromba ; non so come facesse: io mi limito a scrivere quanto è narrato (trad. A. Stroppa).
Manca il tempo qui di analizzare le differenze, pure significative, dello stesso racconto in Strabone (xv , C -). Particolarmente grave, ai nostri fini, è la diversa localizzazione che il geografo pontico dà della ambasceria. Citando esplicitamente Nicolao di Damasco (FGrHist F ), egli afferma che l’ambasceria fu ricevuta ad Antiochia, in Siria. Si trattò comunque di una ambasceria che si trattenne a lungo da Augusto, seguendolo anche ad Atene, dove uno dei brahmani che la componevano si diede volontariamente la morte, cosa che ha lasciato una profonda impressione sia in Strabone (cfr. anche, oltre al passo sopra citato, Strabo xv , C ) sia in Cassio Dione (liv ,). Nonostante la strettissima contemporaneità di Strabone all’evento – egli stesso afferma di aver potuto direttamente ammirare l’acrobata monco –, e sebbene il fatto che, almeno a giudicare dai particolari che ci vengono riferiti, Nicolao dovette molto probabilmente assistere personalmente all’incontro tra Augusto e gli ambasciatori indiani faccia preferire la localizzazione siriana del primo incontro, resta certo il fatto che gli Indiani seguirono Augusto fino ad Atene, e dovettero quindi necessariamente sostare anche loro a lungo a Samo. Resterebbe da chiarire un’ultima questione relativa al rapporto tra Samo e Augusto : la pretesa deduzione di una colonia nell’isola. L’unica indicazione in proposito viene da due iscrizioni (IGRR iv [suppl. ] e [suppl. ]) contenenti elenchi di sacerdoti del tempio di Era, i nevpoi^ai : e¢tow th^w kolvni´aw. A tal proposito mi sembra perfettamente condivisibile la posizione, necessariamente vaga, di Magie: « in the case of Samos, freedom was granted by the Emperor himself during the visit in B.C., and the city celebrated the event by again instituting a new era, designated, wholly incorrectly, as the “year of the colony”». Alla luce di quanto sopra esposto, sono propenso a ritenere che anche questa «èra della colonia» non fosse al. È confuso su questo punto Daffinà : , che attribuisce senz’altro a Samo la testimonianza di Nicolao. . Cfr. Schede : -. . Su questi elenchi cfr. Buschor ; Hallof b. . Magie : . . Cfr. la stessa opinione in Gardthausen : i ; ii .
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tro che una allusione alla concessione della eleutheria, non fosse niente di più, cioè, che un ‘altro pezzo’ in cui si articolava la libertà politica dei Romani (riprendendo il concetto di Musti). Con l’età augustea si chiude l’ultimo grande momento della storia di Samo. Dopo la partenza dall’isola del pacator orbis Samo rimase quasi silenziosa, sazia della sua nominale libertà, resa sempre meno significativa dal continuo allargamento di questo diritto ad altri centri, una libertà sempre soggetta al capriccio degli imperatori (venne infatti abrogata, non sappiamo perché né se definitivamente, da Vespasiano: Suet. Vesp. ) e che doveva quindi essere continuamente confermata, anche a prezzo di inventare sempre più nobili, e cioè antiche, tradizioni. Tra tutte le prerogative e i privilegi che dovevano essere continuamente difesi, Tacito ci fa menzione della richiesta di difesa dell’asylia, come testimonia la fortunata ambasceria del d.C. (Tac. Ann. iv ) : « Anche in quest’anno si presentarono legazioni di città greche: gli abitanti di Samo chiedevano che si confermasse l’antico diritto di asilo al tempio di Giunone, quelli di Coo al tempio di Esculapio. I Samii si fondavano sopra un decreto degli Anfizioni, i quali ebbero la straordinaria facoltà di giudicare su tutto al tempo in cui i Greci, fondate città in Asia, dominavano quei lidi marini. Né minore era l’antichità del privilegio dei Coi» (trad. E. Cetrangolo).
Progressivamente marginalizzata sul piano politico dall’estrema vicinanza di Efeso, che sembrerebbe non aver mai consentito la scelta di Samo come sede del conventus provinciale, Samo si riconobbe sempre più nel suo grande santuario, fino a quando l’avvento della nuova religione ne consentì l’esistenza. Dopo, per Samo inizia un’altra storia. Università di Bologna - Sede di Ravenna
. Per gli asyla del santuario di Era e per questo passo in particolare, cfr. Rigsby : -. . Per i segni di cristianizzazione all’interno del recinto sacro cfr. Schneider .
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SAMO IN ETÀ BIZANTINA Antonio Carile
L ’ isola di Samo non ha una tradizione storiografica bizantinistica o, più sorprendentemente, occidentalistica paragonabile a siti viciniori come Focea e soprattutto Chio, luoghi forti del dominio genovese: gli Archivi di Stato di Venezia, di Genova e della Città del Vaticano attendono di essere utilizzati a questo proposito. Lo Schneider nel raccolse sull’isola un primo sommario di notizie, parte di fonti narrative parte di reperti archeologici, mentre Samo bizantina viene citata nella bibliografia, anche specifica sull’esercito bizantino, soprattutto come toponimo in contesti di itinerari, fatto che può valere come testimonianza della sua funzionalità di porto di attracco, come nel caso dell’itinerario del pellegrinaggio di Willbaldo nel , peraltro confermata da Beniamino di Tudela nel . L’isola in realtà merita una più puntuale attenzione in primo luogo come centro di produzione vinicola, poi anche di frutta e di bestiame, secondo Idrisi, anche se non come centro di grande proprietà fondiaria; in secondo luogo per il ruolo navale delle sue forze militari nell’impero fino al xii secolo ; in terzo luogo come epicentro della turchizzazione culturale delle isole dell’Egeo all’atto della conquista ottomana. Nel vii secolo Samo e Chio come le isole del golfo Saronico fornirono ai profughi dell’Asia Minore sotto invasione persiana e poi araba sicuri luoghi di rifugio, secondo una tipologia di esodo ben nota dall’Adriatico alla Morea. L’importanza strategica dell’isola è evidenziata dagli investimenti in strut. A. M. Schneider, Samos in frühchristilicher und byzantinischer Zeit, in «Athenische Mitteilungen », () : ss. Per il sistema di tassazione del commercio, si vedano i kommerkia´rioi cfr. Cheynet: , , , , , ; per i kommerkia´rioi di Tiro del circa cfr. Levante. Storia e archeologia del Vicino Oriente, a cura di O. Binst, Milano : . . McCormick : , : il fatto che Willibaldo viaggiasse da Siracusa a Monemvasia e di là attraverso l’Egeo fino a Cos, Samo e Chio, gli fa concludere che l’istmo di Corinto in questo periodo non fosse praticabile, forse per la presenza di Slavi nel Peloponneso. Il viaggio avvenne nel non nel come sostiene Claude: . Koder : (itinerario dell’abate russo Daniele nel -) ; . A. Avramea, Land and Sea Communications, Fourth-Fifteenth Centuries, in Laiou : , . G. Dagron, The Urban Economy, Seventh-Twelfth Centuries, in Laiou: , che la cita come tappa dell’itinerario di Beniamino di Tudela nel . Malamut : , , , , , -, , , -. Malamut : . . Claude : già testimoniato in Gallia nella seconda metà del vi secolo da Venanzio Fortunato ; J. Lefort, The Rural Economy, Seventh-Twelfth Centuries, in Laiou: . Hendy: , e (sull’assenza di magnati nei sei temi di Samo, Tracesiani, Seleukeia, Cilicia, Sebasteia e Melitene, anche se la qualità del terreno coltivabile è considerata “buona” cfr. Malamut : ; mentre l’isola è pescosa cfr. Malamut : ) ; (produzione di vino nel xii secolo ma si veda la discussione in Malamut : -) Hendy: con la carta fornisce un quadro geografico del tema di Samo comprendente le città di terraferma già del tema dei Tracesiani. Sulla flotta nell’impero bizantino cfr. Haldon : n. . Malamut : -.
antonio carile
ture militari, come dimostra la fortezza di Emporio. Tali investimenti debbono aver stimolato la economia dell’isola, che ha fornito serie monetali assai complete, ad esempio per i tempi di Costante II. Costantino VII Porfirogenito prima del , quando assunse effettivamente il governo dell’impero, mentre in precedenza era stato esautorato di fatto dal suocero, che pure governava come suo coimperatore, – consentendogli, per nostra fortuna, di dedicarsi a quegli studi antiquari ed eruditi che ci consentono una visione del mondo bizantino altrimenti inimmaginabile –, si occupa di Samo, sia nell’opera dedicata ai temi sia nel trattato sulle cerimonie, che nel ii libro comprende un resoconto delle finanze e degli effettivi militari della spedizione contro Creta nel . Costantino VII colloca, presumibilmente in ordine cronologico, il tema di Samo come sedicesimo in una sequenza narrativa di diciassette temi orientali. Pertusi data all’-, cioè al tempo di Michele III, la germinazione del tema dei Cibirreoti dal tema dei Caravisiani, – risalente al , secondo Haldon costituito attorno al – ; mentre la Ahrweiler assegna il - come periodo di formazione del tema dei Cibirreoti. Verso la fine del ix secolo erano stati costituiti accanto al tema dei Cibirreoti i due temi marittimi dell’Egeo e di Samo, segno della crescente importanza di questo settore della difesa navale. Le flotte tematiche erano previste per la difesa locale, di contro alla flotta centrale, guidata dal drungario tv^n ploi´mvn, cioè la flotta agli ordini dell’imperatore, corpo previsto per interventi di maggior rilievo. . Per il quadro archeologico dell’isola cfr. Malamut : -, , , , , , . Laiou: - (C. Morrison and J.-P. Sodini, The Sixth-Century Economy). W. Martini - P. Streckner, Das Gymanium von Samos. Das frühbyzantinische Klostergut, Bonn . Malamut : . . Const. Porphyr. De cerimoniis aulae byzantinae, ii, cap. , in PG , cc.-. Per i resoconti finanziari e organizzativi delle spedizioni di Creta dei patrizi Imerio e poi Gongylas cfr. Const. Porphyr. De cer. ii, e (in PG , cc. - e -; per le tre spedizioni cfr. il commento di Pertusi : -; per la spedizione del cfr. F. A. Farello, Niceforo Foca e la riconquista di Creta, in «Medioevo greco. Rivista di Storia e Filologia Bizantina», (), . . Pertusi : -, Const. Porphyr. De them., xvi. Treadgold : , ; n., , - (a p. vengono attribuiti marinai a Samos mentre la fonte ne attribuisce ), n., n., . . Pertusi , tav. ii e pp. , , -, -. Treadgold: -, -, , , , . Ahrweiler : sul termine di costituzione del tema dei Caravisiani (dopo il , forse ), , -, , , , -, ma si veda l’articolo di Cosentino citato a n. . Il tema dei Caravisiani è ignorato nel volume citato a n. su Asia Minor and its Themes. Eickooff: . Haldon : . . Il volume in greco di V. Vlysidou, E. Kountoura, S. Lampakis, T. Lounghis, A. Savvidis, Asia Minor and its Themes. Studies on the Geography and Prosopography of the byzantine Themes of Asia Minor (th-th century), Athens , colloca il tema dei Cibirreoti prima del cfr. p. n. , ma su questo problema cfr. la messa a punto di S. Cosentino, La flotte byzantine face à l’expansion musulmane. Aspects d’histoire institutionnelle et sociale (VIIe-Xe siècles) in stampa in «Byzantinische Forschungen» che data il tema al mentre la prima menzione di Ahrweiler : è al . Koder : .
samo in età bizantina
Nel secolo viii si era già consumata la separazione fra flotta centrale e flotte tematiche, originariamente incluse nel tema dei Caravisiani, sotto il cui comando era il drungario dei Cibirreoti. Il tema marittimo dei Caravisiani era articolato in turme, sotto il comando di drungari: turma di Efeso, turma di Adramittio e quella delle Dodici Isole. Leone III (-) spezzò la grossa compagine del tema dei Caravisiani fra vari drungari (dei Cibirreoti, di Samo e dell’Egeo), innalzando già nel il drungario dei Cibirreoti alla dignità di stratego, titolo spettante al comandante di tema; non sappiamo se, malgrado il titolo del comandante, già in questa data Samo sia stata elevata a tema. Samo divenne tema prima dell’, mentre la turma con relativo drungario, dell’Egeo fu elevato a tema sotto Michele III (-). Questo processo di parcellizzazione amministrativa, merismo´w, ricordato anche da Costantino VII Porfirogenito, investì tutta la costa sudorientale della Anatolia, che fin dalla età romana costituiva la fonte di approvvigionamento del legname di miglior qualità per il fasciame delle navi: non a caso la espansione araba mirò immediatamente a queste regioni. La parcellizzazione non investì invece la provincia ecclesiastica che raggruppava i vescovi del sud dell’Egeo nella e∫parxi´a nh´svn Kykla´dvn, sotto la metropoli di Rodi, con suffraganee le sedi episcopali delle altre isole, prima fra tutte la sede di Samo. Si trattò di una articolazione più capillare del sistema difensivo, con aggravio peraltro del peso economico-militare sulle popolazioni delle isole e delle coste, in un periodo fortunato di espansione militare esterna all’impero, che dalla prima età macedone doveva culminare nel lungo regno di Basilio II (-), i decenni di più larga estensione e influenza dell’impero romanoorientale in età medievale. Il tema dei Cibirreoti acquistò importanza strategica particolare nell’, quando Creta fu conquistata da arabi spagnoli, venendo a costituire l’antemurale contro le marinerie di Egitto, Siria, Cilicia e Creta, sotto controllo arabo, marinerie che assalivano annualmente le coste e le isole. Il No´mow naytiko´w ci illustra chiaramente nelle sue norme i pericoli cui la navigazione commerciale andava incontro in questo settore del Mediterraneo. . Ahrweiler : -. . Ahrweiler : , . Hendy: ; n. . . Oikonomides : , . Philoth. Cletorologion: , . . Const. Porphyr. De themat., p. , e i, . Pertusi : , . . Per la lavorazione del legno cfr. Malamut : . Per la provincia ecclesiastica cfr. Gelzer : -, rr. -b ; Basilii Notitia, ; Nova Tactica, , pp. -, -. Koder : n. ; . Malamut : n. ; ; -, , , . . Ahrweiler : -. Eickhoff: -. Treadgold: -. . Ashburner : cap. -. Letsios: , , . Die Byzantiner und ihre Nachbarn. Die De administrando imperio genannte Lehrschrift des Kaisers Konstantinos Porphyrogennetos fuer seinen Sohn Romanos, Übersetzt, eingeleitet und erklärt von Kl. Belke und P. Soustal, Wien : n., n.
antonio carile
La forza militare della flotta dei Cibirreoti era notevole. Abbiamo i dati tecnici della spedizione guidata dal patrizio e logoteta del dromo Imerio, messa in mare nel da Leone VI contro Creta () : accanto ai dromoni della flotta imperiale (armati per ogni dromone di rematori e di soldati, per un totale di . uomini) accompagnati da pamfili (di cui armati di uomini e di , oltre a Russi per un totale di . uomini che sommati ai precedenti formano un totale generale di . uomini, secondo Costantino Porfirogenito, in realtà . uomini) ; comparivano i seguenti effettivi dei temi marittimi : dromoni (di rematori e soldati) e pamfili ( con uomini ; con ) del tema dei Cibirreoti (. uomini) ; () dromoni ( rematori e soldati) e pamfili ( con rematori ; con rematori) dal tema di Samo (. uomini) ; () dromoni ( rematori e soldati) e pamfili ( con uomini a nave; con uomini a nave) dal tema dell’Egeo (. uomini) ; () e dieci dromoni ( rematori, soldati) dall’Ellade (. uomini). Samo fornì anche macchine pesanti e scale da assedio. la flotta bizantina alla spedizione di imerio imbarcazioni ed effettivi* flotta imperiale
* calcolati per ciascuna imbarcazione dromoni rematori soldati TOTALE . pamfili pamfili
uomini uomini
TOTALE
pamfili
. uomini
TOTALE
imbarcazioni
. uomini
tema dei cibirreoti dromoni TOTALE
rematori soldati .
pamfili pamfili
uomini uomini
TOTALE
pamfili
. uomini
TOTALE
imbarcazioni
. uomini
. Const. Porphyr. De cerimoniis aulae byzantinae, ii, cap. , in PG , c.. Pertusi : -. Malamut : -.
samo in età bizantina tema di samo
dromoni TOTALE
rematori soldati .
pamfili pamfili
uomini uomini
TOTALE
pamfili
. uomini
TOTALE
imbarcazioni
. uomini
tema dell’egeo
dromoni
rematori soldati .
TOTALE
TOTALE TOTALE
tema dell’ellade
pamfili pamfili pamfili imbarcazioni dromoni TOTALE
uomini uomini . uomini . uomini rematori soldati .
Costantino Porfirogenito, o la sua fonte, ci forniscono anche gli effettivi militari completi del tema di Samo: . uomini compresi gli ufficiali (cioè rimasero sull’isola . diploi^ – sostituti – marinai all’atto della spedizione contro Creta). Le truppe tematiche di Samo nel loro complesso costavano annualmente, quanto a roga, centenari libbra e nomismata: cioè libbre e nomismata, pari a . nomismata. Ma bisogna aggiungere che i marinai del tema di Samo ricevevano come forma di sostentamento usuale, accanto alla roga, una concessione condizionale di terre militari per il valore di libbre, pari alla dotazione dei cavalieri. Questa misura economica non valeva altro che per il tema dei Cibirreoti, di Samo e del Mare Egeo; gli altri temi marittimi comportavano dotazioni di terre militari per libbre di valore. Riesce dunque difficile rendere in termini monetari – che non sono quelli effettivamente usati nella economia dell’impero – la importanza economica dei marinai di Samo. La roga infatti non era ripartita paritariamente ma distribuita secondo una scala che privilegiava gli ufficiali, fino alle / libbre d’oro dello stratego, che non avrebbe in teoria potuto fare i suoi investimenti economici nella provincia da lui amministrata. Ma il ricorrere di personaggi della stessa famiglia nella gestione dei temi lascia immaginare i feno. Const. Porphyr. De cerimoniis aulae byzantinae, ii, cap. , in PG , c. . . Malamut : (novella del ). Treadgold: . . Hendy : cfr. n. .
antonio carile
meni economici che conosciamo, per via documentaria, fra i duchi delle Venezie, per il ix secolo, tanto più che l’investimento fondiario in una isola ricca di legname e ben protetta come Samo, solo occasionalmente rovinata da incursioni, dovette essere redditizio almeno fino ai primi decenni del xii secolo, quando iniziarono le molestie delle marinerie occidentali. In complesso i marinai dotati di possessi agrari condizionali, appartenenti alla matricola della flotta, per il valore di libbre, appartengono al ceto dei possessori fondiari medi, anche senza contare i liquidi provenienti dalla roga e dal bottino. Legname, grano, vino e materiali tintori (la ‘mestica’) sono le voci maggiori del commercio, assieme al transito della tratta degli schiavi dal Mar Nero. Accanto ai marinai tematici, di fatto una classe di medio possesso fondiario, l’esistenza delle flotte implica la presenza di un ceto artigianale e commerciale molto diffuso. Dal punto di vista commerciale va detto che il No´mow naytiko´w ci fornisce già a partire dal secolo vii-viii un modello, di lunga durata nel Mediterraneo, di sistema di investimenti navali, diversificati quanto ai rischi, attraverso società di commercianti partecipanti, assieme agli uomini dell’equipaggio, a quote del carico, sistema che Venezia e le città marinare italiane adotteranno in seguito nei loro codici nautici. Costantinopoli e Tessalonica sono i mercati di maggiore sbocco delle merci, ma non sono escluse mete più lontane, come Siria ed Egitto e, quando compaiono i mercanti occidentali, genovesi e veneziani, le isole vengono a godere di un maggior reddito, per il più largo smercio della produzione, destinata all’Europa occidentale. Come tutte le isole, anche Samo è considerata controllabile dal potere centrale tanto da divenire luogo di esilio di grandi personaggi come nel il nobilissimus Costantino. Questi dati ci consentono di immaginare il popolamento dei singoli temi, la loro forza militare complessiva nonché il sistema economico che sottostà alla costruzione delle flotte, implicante il commercio del legname e attività di carpenteria; ma ci consentono anche di evidenziare la capacità di ripresa di queste popolazioni delle isole: nell’-, l’anno della catastrofe di Mileto sotto invasione araba, Samo era stata espugnata e saccheggiata dagli Arabi e lo stratego Costantino Paspalàs era stato preso prigioniero, ma nel l’isola è in grado di fornire effettivi militari per uomini, navi e macchine da assedio, oltre a mille uomini di riserva. Siamo di fronte ad un sistema economico complesso, in cui attività molto articolate (produzione agraria, artigianato, commercio, navigazione, flotta militare) conferiscono alla popolazione un largo raggio di azione e di sviluppo. . Malamut : . Koder : -. . Malamut : . Koder : . . Malamut : -; , : suppone uno iato nel popolamento fra vii e metà del ix secolo, con ripresa demografica dopo l’-.
samo in età bizantina
Sotto questo profilo risultano indici di qualche significato le scarse notizie circa le attività culturali: di personalità culturali conosciamo solo il matematico Nestore (-), che per tre anni insegnò a Samo, mentre il filosofo platonico Skirone, nato a Samo, visse a Syme; e il professore di nome Pitagora, in omaggio al grande isolano dell’antichità, che nel morì nella sua città natale, ci illustra però con il suo solo nome, che cristiano non è, la presenza nell’isola di un ceto che coltiva la memoria storica, secondo l’impianto culturale che conosciamo bene per Costantinopoli. Le arti liberali, fra cui la matematica e la filosofia, erano dunque patrimonio anche del ceto medioalto di Samo fra ix e xii secolo. Il santo Paolo il Giovane di Monte Latmos ci fornisce un ulteriore tocco indiziario sulla situazione demografica dell’isola: egli si rifugiò all’inizio del x secolo per un periodo a Samo, contando di poter vivere indisturbato e lontano dagli uomini, su qualche picco dell’isola. Ma a Samo, come a Latmos, la gente accorre al suo eremitaggio per consigli spirituali e ne determina una ulteriore fuga, alla ricerca della solitudine ascetica di cui il santo necessita e che l’isola non gli può fornire, poco prima della spedizione di Imerio contro Creta. La provincia militare marittima di Samo si evidenzia per noi solo a partire dal Cletorologion, cioè la lista delle precedenze a corte, testo redatto da Filoteo basilikos protospatharios e atriklinis nell’. Il governatore di Samo, lo stratego, riceveva una roga di libbre d’oro l’anno, cioè nomismata – secondo Pertusi e Vryonis – che diventano attorno al . La carica di stratego di Samo era nell’ al ventottesimo posto fra una serie di sessanta axiai dià logou, cioè funzioni temporanee conferite per nomina revocabile. La carica di drungario tou ploimou cioè comandante della flotta imperiale centrale è invece al trentottesimo posto, nella serie delle sessanta cariche dia logou per nomina imperiale. Nella serie completa dei ventisei temi orientali Samo si trovava peraltro al ventunesimo posto. Il comandante militare, stratego, investito del tema, solitamente per un periodo quadriennale, si collocava invece al trentottesimo posto, cioè in un rango considerevole, in una serie di sessantanove precedenze maggiori e circa duecento minori, precedenza determinata dalla combinazione del titolo aulico, vitalizio, e del titolo di funzione, temporaneo. Ad esempio Filoteo, l’autore del Cletorologio, la nostra fonte, nell’ è basilikòs protospatharios (titolo aulico) e atriklinis (titolo di funzione); mentre nel , cioè nel , è basilikòs protospatharios (titolo aulico) e eparchos cioè prefetto di Co. Oikonomides : . Philoth. Cletorologion: , ; , ; ,. Ahrweiler: -. . Oikonomides : . Philoth. Cletorologion: , . Pertusi : . Treadgold: n. Vryonis : .
antonio carile
stantinopoli (titolo di funzione), all’atto della emanazione del libro del prefetto, cioè del trattato legale sulle corporazioni. Lo stratego di Samo era insignito dei due titoli aulici di anthypatos patrikios, di cui il più alto precede il più basso, titoli aulici che gli conferivano una roga vitalizia oltre ad alcune insegne e ruoli rilevanti. Il dodicesimo titolo aulico dal basso quello di patrizio segnava il passaggio ai gradi alti della gerarchia e comportava l’ingresso in senato: aveva come diploma dittici d’avorio con codicilli, consegnati direttamente dall’imperatore, e comportava, secondo Giovanni Lido, il vestiario che vediamo indossato dal San Vitale del mosaico absidale della chiesa omonima a Ravenna: clamide lunga di color grigio con fibula, tunica bianca con fasce decorate e bordo di porpora, segno dell’ordine senatorio, calzoni aderenti e calzature basse nere. Il tredicesimo titolo aulico, quello di anthypatos, comportava invece come insegne codicilli purpurei, ugualmente consegnati dall’imperatore in persona. Le spese consuetudinarie per il conseguimento delle due dignità erano particolarmente alte per quella di patrizio, poiché essa segnava un vero e proprio cambio di ruolo sociale : due libbre ai kitonite, otto libbre di apocombia, cioè i borsellini da lanciare in segno di abbondanza su prepositi e cubiculari aventi diritto a riceverli; nomismata al preposto alla cerimonia; nomismata al corteggio; nomismata per i dittici d’avorio; nomismata per i due tavlia, cioè i ritratti imperiali a ricamo da apporre sui due lati del mantello, o clamide; nomismata al cancelliere per la redazione dei codicilli e nomismata in dono a Santa Sofia : cioè un capitale di nomismata d’oro, pari a , libbre, il prezzo di un ergasterion, cioè officina e negozio, centrale a Costantinopoli di quegli anni. Solo un personaggio di alto rilevo economico e sociale poteva conseguire questo rango. Meno costoso invece risultava il rango superiore, quello di anthypatos, che comportava otto nomismata al cancelliere, quattro al deuteros, e ai prepositi, cioè una spesa di trentasei nomismata, / libbra. Lo stratego di Samo veniva dunque scelto dai ranghi più elevati della gerarchia : al di sopra dell’anthypatos esistono solo cinque gradi di precedenza davanti all’imperatore. Un personaggio eminente come Filoteo, protagonista della politica costantinopolitana nei primi anni di regno del minore Costantino VII (dal al ), di cui salva il trono dalla congiura del generale Costantino Ducas, si deve accontentare, per così dire, del titolo aulico di basilikòs protospatharios, undicesimo titolo dal basso e ottavo dall’alto, supe. Oikonomides : . Philoth. Cletorologion: , . Das Eparchenbuch Leons des Weisen, Einführung, Edition, Übersetzung und Indices von J. Koder, Wien , , -. . Oikonomides : , n. . Philoth. Cletorologion: , -, -. . Oikonomides : n. . Philoth. Cletorologion: , -, -. . Oikonomides : n. . Philoth. Cletorologion: , -.
samo in età bizantina
riore comunque di quattro gradi rispetto al titolo aulico conferito ai duchi italiani. Anche se il tema non era dei più importanti fra i temi orientali, la funzione veniva considerata di grande rilievo e veniva confidata nell’ a persone sperimentate, ricche di connessioni politiche, ben note al regnante di turno e dotate di considerevoli disponibilità economiche. Il duca di Venezia, il duca di Napoli, il duca di Sardegna, ducati periferici dell’impero, in questo stesso secolo ricevono il titolo aulico assai più modesto di hypatos, settimo dal basso in un ordine di diciotto. Segno che il tema di Samo è per il governo di Costantinopoli molto più rilevante dei ducati periferici in Italia. Il tema marittimo si era dunque evoluto da una turma del tema dei Caravisiani, poco prima della costituzione del terzo tema marittimo, quello del Mare Egeo, di cui era stato stratego il padre di san Teofane il Confessore, il cronista anticonoclasta a fondamento di tutta la tradizione scolastica bizantina del secolo ix, tradotto in latino da Anastasio il Bibliotecario nel x secolo, ma soprattutto antenato della madre di Costantino VII Porfirogenito, che ne promosse il culto per motivi di coonestazione dinastica del suo ruolo, messo in forse dal fatto di essere figlio della quarta moglie di Leone VI, cioè frutto di un matrimonio canonicamente non valido, secondo il diritto bizantino. Non conosciamo esattamente la estensione del tema: secondo Costantino VII nel de thematibus, il tema pare ristretto alle isole vicino a Samo: il Pertusi attribuisce le notizie ulteriori di Costantino alla fase in cui era compreso nel tema dei Caravisiani, per cui includeva a nord Adramittio (Edremit), a sud est il porto medievale di Efeso, Phygela (Kusadasi), destinato a fortuna economica in età ottomana; mentre a sud la residenza dello stratego era assicurata da Smirne (Izmir), altro porto destinato a grande fortuna storica, il cui popolamento greco, protagonista della espansione commerciale ottomana del xviii-xix secolo, fu scacciato e disperso in seguito alla guerra greco-turca del . «Quando si verificò il frazionamento dei temi, a causa della rinomanza dell’isola, la fecero sede arcivescovile e capitale del tema dei marinai: cioè furono date in dotazione la costa e il capo antistante Samo, la stessa Efeso, Magnesia, Tralleis, Mirina, Teos e Lebedo fino ad Adramittio e la parte superiore confinante con lo stratego dei Tracesiani, cioè il Comandante dell’esercito di cavalleria». Conosciamo per lo più grazie ai sigilli alcuni comandanti del tema: ) lo . Oikonomides : . Philoth. Cletorologion: , -. . Oikonomides : . Philoth. Cletorologion: , -. . A. Carile, Roma vista da Costantinopoli, in Roma fra Oriente e Occidente, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, xlix Settimana di Studio, - aprile , Spoleto : , n. . . Pertusi : -; -. . Pertusi : , -.
antonio carile
stratego Costantino Paspalàs, che nell’ fu preso prigioniero dal pirata arabo Leone di Tripoli durante il saccheggio dell’isola; ) Teognosto basilikos protospatharios del ix/x secolo ; ) Romano Lecapeno, che da marinaio semplice era diventato stratego di Samo, prima di divenire imperatore () ; ) Giovanni Kourkouas; ) l’armeno Bakurian (Pakurianos) fu patrikios ke stratigòs Samou all’inizio del x secolo (di questa famiglia, strettamente legata ai Comneni, esiste una splendida chiesa-mausoleo a Leninakhan in Armenia) ; ) il magistros Costantino Argiropulo nel x/xi secolo, cioè un membro della potente famiglia degli Argiri, famiglia da cui proviene; ) Basilio Argiro (-), fratello dell’imperatore Romano III Argiro (-) : Basilio era stato stratego di Samo nel , prima di diventare catepano d’Italia. È forse il caso di ricordare che i due Argiri erano pronipoti di Agata, sorella dell’imperatore Romano Lecapeno, antico stratego dello stesso tema: la parentela assicurò il matrimonio con una discendente diretta di Romano Lecapeno, l’imperatrice Zoe, e probabilmente, allo stesso modo, gli interessi di famiglia costituitisi a Samo anteriormente al , portarono gli Argiri, forse residenti a Hierapolis (Pamukkale), ad assumere il governo del tema di Samo ; ) Davide Achrides nel ; ) Giorgio Theodorakanos nel ; ) Eustazio Charsianita nel -, appartengono a famiglie aristocratiche meno testimoniate e dunque di probabile livello inferiore, indice concorrente alla testimonianza della diminuita importanza militare del tema nel volgere dell’xi secolo, dopo il ; ) Teofilatto Agiozacarita (x-xi secolo) ; ) Niceta Xilinita, sebastoforo. Siamo nel complesso di fronte a personalità delle grandi famiglie costantinopolitane dal ix all’xi secolo. Costantino VII tratta Samo con quelle attenzioni antiquarie ed erudite che, agli occhi dell’imperatore del x secolo, ne evidenziano la importanza. Cita una glossa per cui samos in greco antico avrebbe significato luogo alto e compone una galleria tradizionale (origini, personalità salienti, sapienti) di ricordi onorevoli, dalla mitica fondazione ad opera di Anceo e di Samia, figlia del fiume Meandro, al ricordo erodoteo del dominio di Policrate, ai sapienti più famosi nati nell’isola: Pitagora di Mnesarco, Epicuro di Neocle, Melisso e ‘altri molti’ che non cita. Ahrweiler ipotizza che i ‘marinai’ citati da Costantino VII, nel passo riportato sopra circa la estensione del tema di Samo, siano gli abitanti delle Cicladi, che prima della elevazione di Samo a tema avrebbero trovato il loro centro nell’isola: cosa che ne spiegherebbe la successiva evoluzione ecclesia. Pertusi : . Schneider, cit. J.-Fr. Vannier, Familles byzantines. Les Argyroi (IXe-XIIe siècles), Paris : , . A. P. Kazhdan-S. Ronchey, L’aristocrazia bizantina dal principio dell’XI alla fine del XII secolo, (edizione russa del Kazhdan del tradotta da G. Arcetri ed E. Velkovska, trad. delle parti in inglese di S. Ronchey), Palermo : , , , . Malamut : -, , ; - elenca nove strateghi; . . Pertusi : , -; .
samo in età bizantina
stica (metropolis) e politica (arché). Dalle liste episcopali per la verità non risulta che Samo fosse divenuta metropoli, mentre è registrata come vescovado suffraganeo di Rodi. Prima di Costantino VII Porfirogenito Samo sarebbe stata la sede del comando navale delle Cicladi, secondo la ipotesi della Ahrweiler, comando distinto da quello del tema dei Cibirreoti, di cui il centro era Attaleia. I tre temi marittimi che troviamo nel x secolo (tema dei Cibirreoti, xiv tema nell’opera di Costantino VII; del Mar Egeo – xvii tema – e di Samo, xvi tema secondo il de thematibus) sarebbero dunque una evoluzione di una unità amministrativa e militare che forse non coincide con le Dodici Isole Dodecanisos, la cui identificazione pone problemi di fonti che inducono il Koder, a differenza della Ahrweiler, a sostenere che Samo dovesse esserne esclusa. Questi tre temi sono i soli puramente marittimi e sono indicati come “ta tria ploimothemata” in opposizione ai temi terrestri di cavalieri, e anche alla flotta imperiale (basilikon ploimon) e ad altre entità navali provinciali loipoi ploimoi. I ‘marinai’ che nell’viii e ix secolo ebbero Samo come centro, furono i combattenti distintisi contro le flotte arabe, marinai reclutati nell’Egeo e nelle isole agli ordini del drungario delle Dodici Isole (Cicladi) citato nel Taktikòn Uspenskij, forse lo stesso che il drungario del Kolpos, secondo la Ahrweiler. Per l’viii-ix secolo Samo rientra dunque in un sistema di difesa navale che comprende il Ponto (Cherson e Caldia), la Bulgaria (Lykostomion e Develtos), Costantinopoli, la Propontide (Abido, Cizico e Nicomedia); il Mar Egeo (Lemno, Tenedo, Imbro, Chio, Samo); Tessalonica; le coste dell’Ellade ; l’Eubea ; le Cicladi; la Pamfilia (Silleo e Attalia); il Dodecaneso, secondo la toponimia attuale (Rodi e Kos); Cipro, Creta e il Peloponneso, con gli importanti attracchi di Corinto e Patrasso e, più frequentato, di Modone, su cui sta per comparire una documentata ricerca su fonti storiche, su indagini geografiche e su monumenti archeologici di Nanetti; a questi porti si sarebbe poi affiancato quello di Monemvasia; senza contare lo Ionio (Cefalonia) ; l’Adriatico (Durazzo, Dalmazia, Dioclea, Puglia); Malta e la Sicilia, per finire con la Sardegna. Da una novella imperiale della seconda metà del x secolo sappiamo che le flotte dei temi marittimi (Cibirreoti, Samo e Mar Egeo) erano equipaggiate e armate direttamente sul territorio dei temi ad opera della parte di popolazione designata come hypotetagmenoi ploimoi, cioè ‘marinai iscritti’, che venivano indicati come autostoloi, auteretai, cioè responsabili fiscali del costo della costruzione delle navi (autostoloi) e dell’equipaggiamento e armamento delle imbarcazioni, secondo la consuetudine del codice navale, di . Ahrweiler : , . Malamut : -, . Koder : . . Ahrweiler : . . Ahrweiler : .
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concorso di tutta la popolazione, di cui una parte presta effettivamente servizio sulle navi e una parte paga le spese del servizio e del mantenimento delle famiglie dei marinai. La novella imperiale designa questo servizio con l’aggettivo bareia hyperesia, fatto che spiega quanto il Cecaumeno nell’xi secolo dichiara, che i soggetti al servizio cercavano di corrompere gli ufficiali per esserne esentati. Questi carichi pesanti sono compensati con la concessione di terre militari superiori in valore a quelle previste per i marinai della flotta imperiale, che invece ‘servivano a stipendio’ rhogais hyperetoumenoi, centrati su Costantinopoli e costituenti un tagma, cioè un corpo d’attacco, alla diretta dipendenza del potere centrale, e con un potere di condizionamento politico considerevole, all’atto delle successioni imperiali e durante il regime di Leone III e Costantino V. La Ahrweiler vede nel tipo di reclutamento e di compenso in uso nei temi marittimi la ragione per cui si citano come loro parti regioni costiere della Propontide asiatica, regioni che sono al tempo stesso parte del tema di Samo e parte di quelli dell’Opsikion e del Mar Egeo. Infatti una parte della Propontide forniva i marinai del tema del Mar Egeo, flotta incaricata della sicurezza di quella regione costiera che apparteneva peraltro al tema dell’Opsikion ; mentre il litorale ionico, che forniva i marinai di due turme marittime, faceva parte del tema dei Tracesiani, costituito nel continente e fornito soprattutto di cavalieri. La popolazione costiera forse seguiva i temi marittimi per il servizio militare mentre veniva amministrata dai funzionari dei temi costieri in cui era compresa per quanto riguarda la organizzazione civile. Questa, ormai annosa, ipotesi di Antoniadis Bibikou, ripresa dalla Ahrweiler, modellata su certe consuetudini del regime ottomano del xvii secolo, mi sembra scarsamente condivisibile sul piano amministrativo, per il regime bizantino, tenuto conto del costo per la popolazione della doppia burocrazia, mentre è più semplice immaginare fluttuazioni nella estensione del territorio tematico in rapporto alle evenienze politico-militari. La spedizione navale di Imerio, voluta da Leone VI per smantellare le basi dei pirati arabi in Siria, dopo iniziali successi a Cipro e a Laodicea, venne duramente sconfitta dal pirata arabo, il rinnegato Damiano, nell’ottobre , quando il futuro imperatore Romano Lecapeno era stratego di Samo. Lo scontro navale avvenne all’altezza di Samo – fatto che costò ad Imerio l’internamento in un monastero di Costantinopoli, dove morì di rammarico per la fine della sua carriera –, anche se il fine di consolidare il dominio bizantino in Anatolia e di allontanare la pirateria araba fu in effetti raggiunto. Romano . Ahrweiler : -. Malamut : , , . . Ahrweiler : . H. Antoniadis-Bibicou, Recherches sur les douanes à Byzance, Paris , s.v.
samo in età bizantina
Lecapeno passò da stratego di Samo a drungario della flotta imperiale, poiché forse non coinvolto nel disastro di Imerio: ma va ricordato che Romano è l’unico caso di imperatore che sia salito al trono dopo una sconfitta militare in Bulgaria, approfittando della minore età di Costantino VII Porfirogenito. Nel gli strateghi di Samo e di Cefalonia sono inviati in Italia per soffocare la rivolta dei Longobardi dell’Italia meridionale; nel una flotta russa di monossili capitanata da Chrysocheir, parente del gran principe Vladimir, aveva attraversato la Propontide ed era entrata nell’Egeo. Fu combattuta dagli strateghi dei Cibirreoti, di Samo e di Tessalonica nel presso l’isola di Lemno ; nel gli strateghi di Samo e di Chio distruggono nell’Arcipelago una flotta di pirati africani e ripetono la impresa nel : le flotte arabe di Sicilia e di Africa nei loro attacchi al litorale bizantino erano solite scontrarsi con le flotte dei Cibirreoti e di Samo. Impresa araba importante fu peraltro la presa di Mira nel , seguita dal saccheggio delle Cicladi, probabilmente causato dal mancato sostegno della flotta dei Cibirreoti. Ma l’anno seguente la flotta dei Cibirreoti riuscì a riportare un grande successo navale contro gli Arabi nella battaglia delle Cicladi. Il pericolo arabo diminuì dopo la presa bizantina di Messina nel . Le menzioni della flotta dei temi navali non si trovano dopo i primi anni di regno di Costantino IX Monomaco: l’ultima impresa nota è lo scontro navale del contro i Russi davanti a Costantinopoli. La aggressività occidentale sembra avere la meglio anche di Samo, che nel viene saccheggiata per ritorsione dai veneziani: il Morini dissente dallo Schneider sul fatto che i veneziani avessero sottratto in questa occasione le reliquie di san Leone, traslate a Venezia per lo Schneider assieme alle reliquie di sant’Isidoro di Chio. Ancora nel i samioti riescono ad opporsi a sei navi normanne inviate in incursione da Ruggero di Sicilia. L’isola di Samo è comunque uno degli scali marittimi attrezzati e degli arsenali più noti assieme a Cipro, Rodi, Creta, Lesbo, Imbro, Lemno, Monemvasia, Ierakion, Lampsaco, Eraclea, l’Eubea, la Sicilia, i porti calabri (nel senso antico del toponimo, cioè pugliesi, di Otranto e Brindisi), Durazzo, Corfù, Tenedo. L’isola è dunque inserita nel vasto tessuto delle rotte militari e mercantili dell’impero romano di Oriente. Nel il tema di Samo dà il suo . St. Runcimann, The Emperor Romanus Lecapenus and his Reign. A Study of Tenth-Century Byzantium, Cambridge et alias (i ed. ) : , -. Malamut : - dà una diversa valutazione della talassocrazia araba e del suo influsso sul popolamento delle isole. . Brehier : . Malamut : , -. . E. Morini, Note di lipsanografia veneziana. Uno scritto inedito di G. Ghedini (-) su s. Luca di Stiris (-), in «Bizantinistica. Rivista di Studi Bizantini e Slavi», s. ii, () : .
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contributo alla fortunata spedizione cretese di Niceforo Focas. Anna Comnena (iii, ) afferma che la flotta imperiale, dotata di fuoco greco, che Alessio Comneno invia contro i Normanni, fa scalo nell’isola di Samo, in grado dunque di ospitare una flotta militare alla fine dell’xi secolo ; d’altra parte gli arsenali di Samo e di Smirne divennero poi il fulcro del potere navale di Tzachas (-) e degli imperatori di Nicea, privati degli arsenali di Costantinopoli. Le flotte dei temi marittimi non sopravvivono alla riforma dell’apparato amministrativo e militare della fine dell’xi secolo e cedono di importanza di fronte alla flotta imperiale e alla flotta del tema di Cefalonia, destinate agli scontri navali, e alle flotte provinciali, destinate alla sorveglianza costiera. D’altra parte però si accresce la importanza commerciale degli scali di Samo e delle isole come Chio e Lesbo, sulla rotta che va dall’Asia Minore, e dalla Cilicia verso la Siria e l’Egitto, come mostrano gli itinerari dei pellegrinaggi e le constatazioni di Beniamino di Tudela. L’isola non compare nella serie di privilegi commerciali ai Veneziani concessi da Alessio I Comneno e successivamente rinnovati. Samo non compare prima del crisobollo del novembre , concesso da Alessio III Angelo: poiché l’area in cui Samo è compresa è inclusa nei privilegi fin dal (Laodiciam, Antiochiam, Mamistram, Adanam, Tarsum, Ataliam, Strovilum, Chium, Theologum, Fociam) si deve credere che nel la presenza veneziana si fosse intensificata e risultasse più capillarmente diffusa nella zona. La Partitio del include anche Samo. Samo, al pari delle altre isole dell’Egeo, all’inizio del xv secolo, sembra avere connessioni con la eresia turca di Bedreddin di Samavna e del suo discepolo Borkluge Mustafa, la cui ideologia antiaristocratica provocò infine la repressione violenta del sultano. Samo nelle fonti veneziane del xv secolo riproduce, in un ambito insulare contiguo a Chio, una società etnicamente composita e culturalmente sincretistica al pari dei territori turchi di Aydin, di Smirne e di Palatia (Mileto). Pur appartenendo alle nobili famiglie genovesi dei Pisani e poi dei Giustiniani di Chio, Samo, centro del commercio di schiavi greci avviati a Creta, verso il , a seguito delle razzie turche iniziate all’inizio del xiv secolo, era largamente spopolata, fornendo un luogo . Const. Porphyr. De cerimoniis aulae byzantinae, ii, cap. , in PG , cap. , cc. -. Pertusi : -. Koder : . . Ahrweiler : -, -. Vryonis: . Brehier: . Sugli imperatori di Nicea cfr. Brehier : -. Malamut : -, . . Ahrweiler : -. Malamut : . . Malamut : . I trattati con Bisanzio -, a cura di M. Pozza e G. Ravegnani, Venezia , n. , -: . . A. Carile, Partitio terrarum imperii Romanie, in «Studi Veneziani», () : , ; . Malamut : -. Koder : . M. Gallina, Conflitti e coesistenza nel Mediterraneo medievale : mondo bizantino e Occidente latino, Spoleto : . . Koder : .
samo in età bizantina
di rifugio ai fuggitivi turchi di fronte alla invasione di Tamerlano. Samo dunque fin dall’inizio del xv secolo è abitata da popolazione mista, fatto che spiega la influenza di Borkluge e dei suoi predicatori nell’isola attorno al . Il Registro della Massaria di Caffa per gli anni - evidenzia un rinnovato dinamismo del mercato di schiavi a Samo, dove i Genovesi fanno transitare i loro prigionieri di Crimea, destinati sia agli emiri turchi sia all’Egitto mamelucco, sia alla veneziana Creta. Il cronista Ducas, che citerò nella traduzione veneta dei primi del Cinquecento, di cui ho preparato la edizione, sottolinea il persistere delle concezioni di Borkluge a Samo, anche dopo la sua crocefissione ad Efeso: « Et io scriptor, passate queste cose, a caso scontrando l’abbate predicto candioto, et domandando che opinione havea de quello pseudo-abbate, me disse come quello non morì; ma passando in la insula de Samo, lì, come avanti, demora. Ale quale fantasie nisuno deve metter fede». Samo riflette la complessità culturale della Ionia all’inizio del xv secolo e mantiene la sua vocazione marinara anche sotto il dominio ottomano, in cui costituisce un sangiaccato, al pari degli altri temi marittimi dell’Egeo, agli ordini dell’ammiraglio in capo della flotta turca, il Kapudan Pascià, ‘Beylerbey del Mare’ che risiede a Istanbul. L’isola di Samo nell’arco del mondo romano orientale, impropriamente denominato ‘bizantino’, si può dunque immaginare, più che cogliere, sullo sfondo del tessuto dell’impero romeo e poi dello stato neogreco: una società la cui storia politica passa dalla autonomia alla soggezione fra e , mentre la storia culturale e la storia ecclesiastico-religiosa durano fino ad oggi fra i popoli ortodossi. Samo in età bizantina può essere possibile oggi proporre, in assenza di una seria ricerca di archivio a Genova e a Venezia, in una serie di dissolvenze, quali il quadro della talassocrazia bizantina, del conflitto con il califfato, dei rapporti con gli Italiani e i Turchi. L’isola infatti è priva di qualsiasi autonomia e centralità, assorbita nel sistema dell’impero in cui funge come articolazione regionale nel contesto della talassocrazia romano-orientale, che tracolla fra xi e xii secolo di fronte al dominio marittimo veneziano e genovese. Samo nel corso della dissoluzione dell’ellenismo e del potere bizantino in Anatolia, di fronte ai Turchi e agli Italiani, mantenne peraltro la sua funzione di nodo del sistema difensivo marittimo bizantino: nella ripartizione dei feudi del rimane nella porzione dell’imperatore latino di Costantinopoli fino alla riconquista bizantina : nel Giovanni III Vatazes ne fa la base navale dell’Impero di Nicea. . p. = Ducas, xxi . . E. A. Zacharadiou, De´ka toyrkika´ e´ggrafa gia thn mega´lh ekklhsi´a (-), A&h´na : -. Vryonis: -. Su Borkluge cfr. E. Werner, Religion und Gesellschaft im Mittelalter, Herausgegeben von S.P.P. Scalfati, mit einem Vorwort von C. Violante, Spoleto : -.
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Solo con la conquista e dominazione genovese dal al Samo viene derubricata a periferia commerciale orientale della predominanza marittima occidentale, ma al tempo stesso gode della grande fioritura commerciale patrocinata dalla Maona di Chio, che conferì alle isole dell’Egeo, accanto ad un popolamento coloniale genovese, quella circolazione commerciale internazionale e quei collegamenti con i centri italiani, con l’Inghilterra e la Fiandra, che assicurarono lo sviluppo e la circolazione europea della società locale. L’impero ottomano, dopo aver rimodellato la società di Samo, particolarmente sensibile alla assimilazione islamica nel xv secolo all’atto della conquista, avrebbe ricondotto Samo alla sua funzione tradizionalmente ‘bizantina’ : cioè di riserva demografica e di fonte di approvvigionamento per la capitale, Costantinopoli Nuova Roma o Istanbul, chiudendone gli sbocchi occidentali precedentemente assicurati dalla dominazione genovese. Samo presenta fino al xix secolo una sopravvivenza dell’antichità pagana, cioè l’uso medicinale di terra, già connessa con il culto di Artemide, la cui testimonianza risale fino a Plinio: area periferica dunque a tutti gli effetti. Università di Bologna - Sede di Ravenna
. Vryonis : .
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THUC. VIII, 21 ss. : ATENE-SAMO-ATENE, PROVE TECNICHE DI RIVOLUZIONE Monica Centanni
I n questo contributo l’attenzione si focalizza non tanto su un particolare episodio storico ambientato a Samo, quanto piuttosto su alcuni capitoli delle storie di Tucidide in cui Samo appare in primo piano come luogo reale, ma soprattutto come topos dell’immaginario tucidideo (e quindi ateniese). In questo senso l’analisi che qui si propone non intende vagliare l’attendibilità o addirittura la veridicità della ricostruzione proposta da Tucidide, ma si concentra sull’immagine di Samo che Tucidide proietta nella sezione finale della sua opera, analizzando la funzione contestuale di questa immagine all’interno del racconto tucidideo. Il testo di riferimento è il libro viii delle Storie. Circoscriviamo le coordinate spazio-temporali: l’anno è il a. C.; il clima è quello della difficilissima situazione militare e diplomatica in cui versa Atene, reduce dalla disfatta della spedizione in Sicilia. Gli Spartani, con l’appoggio del siracusano Ermocrate, vincitore degli Ateniesi, si mostrano prepotenti, anche in forza della solida alleanza con Dario e Tissaferne, siglata da una serie di accordi in cui Persiani e Lacedemoni si confermano impegnati gli uni gli altri a non attaccarsi, a difendersi reciprocamente se attaccati sul proprio territorio e, soprattutto, a fare «insieme guerra contro Atene e i suoi alleati, o, nel caso, insieme tregua». In questo frangente l’isola di Samo viene presentata da Tucidide come un frammento geologico staccato dalla costa asiatica e però, proprio per la contiguità con il territorio persiano, Samo si propone anche come uno spazio privilegiato in cui si intrecciano e maturano progetti, alleanze e intrighi. Nella poiesis tucididea Samo è dunque una sorta di teatro sperimentale della politica, in cui la realtà storica rappresentasi in anticipo rispetto agli sviluppi reali. Lo storico introduce i capitoli che vedono protagonista Samo con un antefatto ; intorno al a.C. gli Ateniesi avevano promosso nell’isola un colpo di stato democratico: «Avvenne in quel tempo [l’estate del ] la rivolta in Samo da parte del demos contro coloro che erano al potere [gli oligarchi] con l’appoggio degli Ateniesi [h™ e∫n Sa´mvı e∫pana´stasiw y™po` toy^ dh´moy toi^w dynatoi^w meta` «A&hnai´vn] (...) Il demos di Samo uccise duecento di coloro che erano stati al potere, altri quattrocento ne condannarono all’esilio e si sparti. Thuc. viii ,: to`n de` po´lemon to`n pro`w «A&hnai´oyw kai` toy`w jymma´xoyw koinW^ a∫mfote´royw polemei^n. h£n de` kata´lysin poiv ^ ntai koinW^ a∫mfote´royw poiei^s&ai.
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rono la loro terra e le loro case [o™ dh^mow o™ Sami´vn e∫w dikosi´oyw me´n tinaw toy`w pa´ntaw tv ^ n dynatvta´tvn a∫pe´kteine, tetrakosi´oyw de` fygW^ zhmiv ´ santew kai` ay∫toi` th^n gh^n ay∫tv ^ n kai` oi∫ki´aw neima´menoi] : da allora gli Ateniesi giudicandoli ormai fidati decretarono che avessero l’autonomia [«A&hnai´vn te sfi´sin ay∫tonomi´an meta` tay^ta v ™ w bebai´oiw h¢dh chfisame´nvn] ».
Il sanguinoso colpo di stato democratico è la premessa fondamentale per il ruolo che Samo svolge nel racconto tucidideo, e non solo dal punto di vista politico-strategico. Samo sembra essere un luogo che, nell’immaginario contestuale del tempo, svolge un doppio ruolo: esempio e modello di tirannide nel passato, luogo della sperimentazione politica più radicale nel presente. La memoria storica condivisa riconosceva infatti in Samo il luogo in cui l’istituto tirannico aveva trovato una forma paradigmatica, monumentale e magniloquente, e lo spazio in cui la nuova corte aveva perpetuato e rinnovato in forme inedite e raffinatissime (destinate a precorrere lo stile delle corti alessandrine) la tradizione simposiale. Ma Samo, a questo punto del racconto tucidideo, è anche il luogo dell’esperimento democratico estremo. E stando alla versione dei fatti che lo storico ci restituisce, il ‘demos di Samo’ mette in atto il suo colpo di stato non per ragioni interne ma come emissario che agisce in esecuzione di un disegno politico esterno, per un interesse tutto ateniese ; per di più il demos samio va al potere sporcandosi le mani di sangue civile – la condanna a morte di ben duecento oligarchi e la confisca dei beni e delle case di altri quattrocento. Anche il sangue versato e gli espropri violenti sono presentati, nel racconto tucidideo, non come necessitati da ragioni di una nemesi interna alla situazione politica di Samo, ma come una sorta di truce garanzia di affidabilità fornita dal partito del demos agli osservatori e alleati ateniesi «che erano presenti là con tre navi». In cambio di tale ferocia i Sami conquistano la fiducia di Atene che concede all’isola l’autonomia amministrativa e politica. L’insistenza nel testo di Tucidide sulle motivazioni tutte esterne del colpo di stato democratico e sullo stile brutale della sua esecuzione concorre a confermare la rappresentazione di Samo come un laboratorio in cui si rappresentano per paradeigmata gli esiti estremi delle forme politiche in atto: ora della democrazia, come nel passato della tirannide. Almeno dal vii secolo, dal momento in cui sono attestate le prime notizie su rivoluzioni ‘tiranniche’, Samo si presenta come uno degli epicentri della Ionia, centro di sperimentazione e invenzione di istituzioni politiche origi. Thuc. viii . . La compromissione in fatti di sangue varrà di nuovo anche nel , durante i mesi del governo dei ‘Trenta tiranni’, come suggello di alleanza politica irreversibile tra i Trenta e i loro sostenitori del partito filolacedemone, interni ed esterni alla città: questo almeno nella versione dei fatti che Senofonte propone, scagionando Teramene (cfr. Xen. Hell. iii ss.). . Sulle forme democratiche radicali delle città alleate di Atene, vd. Cataldi : ss.
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nali : l’importante isola adiacente alla costa ionica rappresenta il primo affiorare di una identità separata dell’Occidente rispetto all’‘Asia’ e pur mostrando netti i segni di una discontinuità, nell’esperienza di un inizio, la zona in cui vige, dal punto di vista politico e culturale, la koiné ionica, esibisce nello stesso tempo le tracce ancora nitide della provenienza da una mitica origine orientale. Dunque anche per la posizione geograficamente e geopoliticamente strategica dell’isola, Atene trova in Samo, grazie al racconto storico di Tucidide, il luogo di proiezione e verifica delle proprie realissime tensioni narrative. Non diversamente, l’autorappresentazione di Atene offerta dai tragediografi aveva eletto Tebe e Argo a topoi deputati al rispecchiamento della propria immagine inquieta. Con una differenza di genere: riflessione piena nel caso della tragedia, che restituisce in purezza – materializzandolo in scena – il fantasma di Atene; rifrazione angolare nel caso della storia, che lascia filtrare la forma e la figura di Atene attraverso la griglia resistente e opaca di eventi effettivamente registrati nel corpo della città ‘ospitante’. Dopo il a.C. dunque, così come i Peloponnesiaci hanno una base sicura a Mileto, gli Ateniesi guadagnano in Samo una postazione solida e fidata : alla fine dell’estate di quello stesso anno, da Atene salpa per Samo un contingente ateniese formato da opliti ateniesi e argivi, con l’intento di attaccare da là gli Spartani (l’attacco verrà per altro procrastinato); al comando gli strateghi Frinico, Onomacle e Scironide. Dal punto di vista tattico, a questo punto Samo – ormai saldamente democratica – è la base operativa per le manovre diplomatiche e militari ateniesi. In Samo intanto il demos al potere si costituisce in un regime filoateniese estremista, che mette in atto una serie di restrizioni politiche e giuridiche che nella stessa Atene sarebbero state impensabili. Fra i provvedimenti massimalisti si segnalano la revoca di ogni diritto ai latifondisti deposti dopo la rivoluzione democratica e l’interdizione assoluta dei matrimoni tra gli esponenti del demos e i filo-oligarchici. A Samo dunque dopo il a.C. governa un partito del demos che presenta tratti radicalizzati rispetto al suo corrispondente ateniese. Leggiamo in Tucidide che proprio in questo periodo Alcibiade, al bando dalla patria dopo la condanna per lo scandalo delle Erme, elegge Samo come . Fondamentale resta la lezione di Mazzarino : -; -; sull’emergenza della figura del tiranno e sull’accezione arcaica del termine vedi ora Catenacci : ss. . In Erodoto il generale Mardonio parlando a Serse fa riferimento ai Greci definendoli «gli Ioni che abitano in Europa» (Hdt. vii : ÊIvnaw toy`w e∫n th^i Ey∫rv´phi katoikhme´noyw). . Meier : ss. . Thuc. viii , . . Thuc. viii , . . Thuc. viii : toi^w gevmoroi^w metedi´dosan oy¢te a¢lloy oy∫deno`w oy¢te e∫kdoy^nai oy∫d« a∫gage´s&ai par« e∫kei´nvn oy∫d« e∫w e∫kei´noyw oy∫deni` e¢ti toy^ dh´moy e∫jh^n.
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luogo reale e virtuale della sperimentazione dei suoi giochi, sempre più nichilisti, con il potere. A Samo, o meglio mediante Samo, Alcibiade inventa l’intrigo che avrà, alla fine, successo e lo riporterà ad Atene come salvatore; e come si legge in Senofonte, nel Alcibiade partirà proprio da Samo per il suo nostos trionfale verso Atene. Ma torniamo all’inverno del a.C. Alcibiade si trova esule presso Tissaferne : il suo intento principale, in questa fase, è danneggiare gli Spartani con i quali, dopo il periodo passato da profugo presso di loro, i rapporti erano degradati al punto che avevano tentato di ucciderlo in quanto nemico personale del re Agide e soggetto del tutto inaffidabile. Di Tissaferne Alcibiade diventa consigliere e «maestro in tutto» [dida´skalow pa´ntvn] : e quindi comincia a tramare per preparare il suo ritorno ad Atene. Il gioco passa per una complicata politica di logoramento delle relazioni tra Tissaferne e gli Spartani. Come afferma Tucidide «consigliava in questo senso Tissaferne sia perché pensava che per lui fosse la risoluzione migliore, sia perché era il modo per garantirsi il ritorno in patria». Garantitasi la fiducia e l’appoggio del satrapo persiano, Alcibiade cerca un contatto con i suoi concittadini: e lo trova facilmente proprio in Samo. Alcibiade cerca dunque un abboccamento con i trierarchi delle navi ateniesi di stanza nell’isola; manda ai più potenti di loro una lettera, da trasmettere ai migliori cittadini di Atene, in cui afferma che «voleva essere loro concittadino, ma con un governo oligarchico e non sotto un governo di lestofanti né in democrazia [e∫p« o∫ligarxi´aı ... oy∫ ponhri´aı oy¢te dhmokrati´aı] che lo aveva esiliato, e che egli stesso avrebbe fatto in modo che Tissaferne divenisse alleato di Atene ». Da qui parte l’impulso per cui i trierarchi ateniesi a Samo e « i più potenti» cittadini di Atene iniziano a congiurare per abbattere la democrazia. Alcibiade sobilla il movimento antidemocratico agendo dunque tra Samo e Atene: ai comandanti delle navi che passano il mare per incontrarlo sulla costa ionica ribadisce che avrebbero potuto ottenere l’alleanza certa di Tissaferne e la sua completa fiducia se avessero abbandonato la forma democratica. I trierarchi che avevano sopportato il peso della guerra e avevano odi privati e interessi da far valere in città, covano insieme la speranza di mettere fine alla guerra e di tornare in patria, conquistando loro stessi il potere. Perciò si fanno solerti portavoce delle posizioni di Alcibiade: . Xen. Hell. i , -; la vicenda di Alcibiade a Samo richiama l’esperienza di Crizia in Tessaglia, dove il futuro leader dei Trenta organizza una rivolta antifeudale. Negli esperimenti estremi di Alcibiade e di Crizia, entrambi discepoli di Socrate, l’autonomia del politico e della retorica porta a lucente perfezione pratica l’intuizione filosofica dei dissoi logoi. . Thuc. viii ,. . Thuc. viii ,: a¢rista ei®nai nomi´zvn parW´nei, açma de` th`n e™aytoy^ ka´&odon e∫w th`n patri´da e∫pi&erapey´vn. . Thuc. viii ,. . Thuc. viii ,: e∫w to` kataly^sai th`n dhmokrati´an.
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« Tornati a Samo convocarono i loro per ordire una congiura e alla massa dei soldati andavano dicendo apertamente che il re sarebbe stato loro amico e avrebbe dato loro dell’oro se Alcibiade fosse tornato ad Atene e se non fossero stati più governati dai democratici». Solo lo stratega Frinico si mostra sospettoso verso Alcibiade e i suoi progetti: «Non gli sembrava che Alcibiade avesse passione per l’oligarchia o per la democrazia – e così era – ma che gli interessasse soltanto rientrare in patria, dopo essere stato richiamato in qualche modo dai suoi amici [y™po` tv^n e™tai´rvn paraklh&ei´w]». Nell’inciso «e così era» [oçper kai` h®n] si sente emergere chiara la voce dello storico che sulla già parziale prospettiva proposta, fa pesare l’autorità del suo giudizio personale. A questo punto la congiura antidemocratica è attiva. Ma Atene in quegli anni ultimi del v secolo non è una città qualsiasi: le rivoluzioni, qualsiasi ordinamento mirino a sovvertire, non possono ricorrere soltanto alla violenza. Atene è Atene : e, per un paradosso istituzionale su cui la democrazia fonda fin da allora la sua eccezionalità rispetto agli altri sistemi politici, anche l’abbattimento dello stesso ordinamento democratico deve passare per la formalizzazione dell’assemblea. L’abolizione della democrazia deve essere, in Atene, democraticamente messa ai voti. Ecco quindi che nel tra Samo e Atene si mette in scena il rito del potere democratico che esercita il suo diritto istituente e destituente. Tucidide ci conferma con il suo racconto che il rituale democratico, essenzialmente teatrale e rappresentativo, è il passaggio obbligato attraverso cui è possibile fondare, disfare, rifondare le costituzioni. Il teatro della democrazia che si autogiudica – e che si autocondanna – utilizza dunque, in un gioco di rimandi e di riflessi, il doppio scenario di Atene e della ultrademocratica Samo. A Samo l’assemblea dei trierarchi ateniesi congiurati si riunisce, discute e infine decide di mandare ad Atene una delegazione composta da «Pisandro e altri, ché agissero per il rientro di Alcibiade, lo scioglimento della democrazia, l’alleanza con Tissaferne». Tre diversi obiettivi – uno ad personam, il secondo di politica interna, il terzo di politica estera – per un solo progetto, ispirato dallo stesso Alcibiade. Intanto Frinico cerca di sventare il piano di Alcibiade mandando una spia a informare gli Spartani di quanto stava avvenendo. La delegazione guidata da Pisandro giunge in Atene; l’assemblea si riunisce e Pisandro espone il piano in tre punti: alleanza con Tissaferne; revoca . . . . ,.
Thuc. viii ,. Thuc. viii ,. Thuc. viii ,. Thuc. viii -; la delazione fallisce e Frinico pagherà caro questo suo zelo: Thuc. viii
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dell’esilio ad Alcibiade; rinuncia alla costituzione democratica. Il dibattito si accende: in assemblea si alzano voci in difesa della democrazia e di opposizione alla revoca del bando all’empio profanatore dei Misteri. Pisandro mette in atto allora una campagna di persuasione individuale: prende uno a uno gli oppositori e li convince che il ritorno di Alcibiade e l’abolizione della democrazia sono l’unico modo per garantirsi la fiducia del re persiano e guadagnare la sua alleanza; si tratta quindi dell’unica via possibile per mettere fine alla annosa guerra con la vittoria sui Peloponnesiaci. I cittadini ateniesi non più chiamati a rispondere politicamente nelle forme istituzionali del dibattito e della rappresentanza ma presi singolarmente cedono a queste argomentazioni : il demos ateniese nei suoi singoli componenti cede e vota di autosospendersi dal potere [o™ de` dh^mow ... e∫ne´dvken kai` e∫chfi´santo]. Lo storico giustifica questo cedimento del demos attribuendolo alla paura e alla speranza [dei´saw kai açma e∫pelpi´zvn] : paura di soccombere nello scontro con gli Spartani – decisamente più forti dopo la spedizione in Sicilia; speranza di poter ribaltare, poi, di nuovo l’ordinamento oligarchico instaurato. Pisandro intanto per consolidare la congiura prende contatto con «le associazioni già da tempo attive in Atene ed esorta gli affiliati a concordare un’azione comune per abbattere la democrazia» [ta`w jynvmosi´aw ... parakeleysa´menow oçpvw jystrafe´ntew kai` koinW^ boyleysa´menoi kataly´soysi to`n dh^mon]. Il tentativo di accordo tra la delegazione guidata da Pisandro e Tissaferne fallisce per le complicazioni e i tatticismi estremi di Alcibiade; paradossalmente l’esito di tutta l’operazione è un ulteriore patto che sostituisce il rafforzamento dell’alleanza tra Persiani e Lacedemoni. Nel frattempo però, caduto il governo democratico in Atene, di riflesso cade anche a Samo il regime democratico e viene sostituito da una oligarchia. Samo corrisponde puntualmente ad Atene, ma non solo: da Samo parte una doppia delegazione, una guidata da Pisandro veleggia verso Atene e per via si incarica «di istituire l’oligarchia in tutte le città soggette ad Atene in cui approdasse» ; l’altra fa rotta verso Taso dove però l’esistenza di un forte partito di esuli aristocratici ferocemente antiateniesi (e filospartani) produce l’effetto di una rivoluzione che al posto della democrazia istituisce non un regime oligarchico – «quella buona costituzione» gradita ad Atene e a lei soggetta – ma una costituzione aristocratica, da lungo tempo agognata. Nel raccontare l’episodio di Taso, Tucidide dà l’ennesima prova della sua . . . . . .
Thuc. viii ,. Thuc. viii ,. Thuc. viii ,. Thuc. viii -. Thuc. viii ,-. Thuc. viii ,.
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lucidità nella definizione delle correnti ideologiche che movimentano la politica greca della fine del v secolo : l’aristocrazia che gli esuli di Taso agognano, non coincide affatto con quel partito oligarchico, collaborazionista ora con Sparta ora con i Persiani, ora con entrambi, che Pisandro fomenta e vuole insediare al potere in tutte le città dell’area di influenza ateniese. Proprio nel capitolo relativo a Taso (la cui ribellione per altro diventerà un esempio «per altre città soggette ad Atene») Tucidide sottolinea che, a complicare il quadro politico, non è attiva soltanto l’opposizione netta demos/oligarchia, ma esiste un’opzione ‘aristocratica’ antidemocratica che mira a restaurare la «libertà schietta, lontana da quel purulento buon governo degli Ateniesi » : una aristocrazia che sembra ispirarsi ai principi dell’ideologia demo-aristocratica di Pericle, secondo il manifesto che Tucidide aveva composto nell’epitafio per i primi caduti della guerra del Peloponneso. Da Samo comunque, che solo un anno prima era stata il luogo della sperimentazione di un regime di democrazia estrema, parte ora, sia verso occidente sia verso settentrione, il contagio di un vento antidemocratico che – nelle declinazioni oligarchica o al limite, come a Taso, aristocratica – investe tutte le isole dell’area dell’egemonia di Atene. Samo è, ancora, lo specchio fedele di Atene, che proietta moltiplicata a tutto raggio la sua immagine. Quando Pisandro arriva ad Atene gli affiliati delle associazioni antidemocratiche hanno già saldamente in mano il controllo della situazione politica: nel clima avvelenato da vendette e omicidi politici, il demos continua a riunirsi e ad eleggere i suoi rappresentanti in assemblea, ma le deliberazioni avvengono su un ordine del giorno dettato e controllato dai congiurati. Le procedure democratiche sono irreversibili; la prassi della relazione politica fondata sul confronto e sulla votazione dell’assemblea è irrinunciabile: in Atene neppure un regime oligarchico può più rinunciare allo stile democratico di rappresentazione e di teatralizzazione della decisione. Gli oligarchi possono, come nei fatti fanno, adulterare le deliberazioni e le votazioni, condizionare i cittadini con il terrore, blandire il popolo con la promessa di vantaggi, inquinare la serenità delle decisioni insinuando tra i cittadini un sentimento di reciproca diffidenza : ma sono costretti, comunque, a fare passare le loro volontà, i loro disegni, e i loro progetti, attraverso il meccanismo de. Thuc. viii ,. . Thuc. viii ,: e∫xv´rhsan e∫pi` th`n a¢ntikryw e∫ley&eri´an th^w a∫po` tv^n «A&hnai´vn y™poy´loy ey∫nomi´aw. . Thuc. ii -; sull’‘isonomia’ come modello utopico sia aristocratico che democratico, vd. Cerri , -. . Thuc. viii , : dh^mow me´ntoi oçmvw e¢ti kai` boylh` h™ a∫po` toy^ kya´moy jynele´geto. e∫boy´leyon de` oy∫de`n oç ti mh` toi^w jynestv ^ si dokoi´h, a∫lla` kai` oi™ le´gontew e∫k toy´tvn h®san kai` ta` r™h&hso´mena pro´teron ay∫toi^w proy´skepto.
. Thuc. viii ,.
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mocratico dell’assemblea e della votazione. In questo nell’Atene del v secolo la democrazia è comunque, fino alla fine, il sistema formalmente vincente, anche a dispetto delle alterne vicende politiche. L’assemblea riunita dunque decide di delegare dieci cittadini plenipotenziari a scrivere la nuova costituzione: una carta sul modo migliore di governare la città che poi sarebbe stata sottoposta al popolo. Secondo Tucidide la vera anima nera della costituzione oligarchica non era Pisandro, esposto in prima fila nell’operazione, ma personaggi del calibro di Teramene e, sopra tutti Antifonte « uomo straordinario, secondo a nessuno in città a quel tempo per eccellenza e virtù, il più abile e forte di mente e di parola in Atene». Solo una tale presenza fra i congiurati di esponenti abili politicamente ed eccezionalmente intelligenti giustifica, secondo lo storico, il pur effimero successo della rivoluzione oligarchica «giacché era ben difficile privare il demos della libertà a più di cento anni dalla caduta dei tiranni; e il demos di Atene era abituato non solo a non essere sottomesso, ma da cinquant’anni a comandare su tutti gli altri». Dunque l’assemblea del demos riunita a Colono approva senza riserve la carta costituzionale preparata dai dieci. Dal punto di vista dei contenuti la nuova costituzione era alquanto generica: ciascun cittadino poteva esprimere la sua opinione alzando la mano in assemblea e nessuno avrebbe potuto inibire o minare con accuse o denunce tale libertà di espressione; le magistrature sarebbero state rinnovate e dovevano d’ora in avanti essere assolte a titolo gratuito. Il punto forte della proposta stava nell’istituzione di un nuovo organo governativo, formato da quattrocento cittadini «che dovevano governare secondo il modo a loro giudizio migliore, con pieni poteri ». La procedura di insediamento del nuovo organo era basata su una prima scelta di un nucleo ristrettissimo e quindi su un meccanismo di cooptazione : il demos doveva scegliere cinque rappresentanti, che a loro volta avrebbero scelto altri cittadini per raggiungere il numero di Cento; a loro volta ciascuno dei Cento avrebbe cooptato altri tre cittadini, raggiungendo così il numero complessivo di Quattrocento che si sarebbero insediati nel bouleuterion: era poi a discrezione dei Quattrocento convocare e consultare l’assemblea dei Cinquemila, assemblea che si suppone fosse rimasta in carica, con le medesime modalità e procedure di elezione rispetto al precedente regime democratico. L’insediamento dei Quattrocento nel bouleute. Thuc. viii ,: dh^mon jylle´jantew ei®pon gnv´mhn de´ka a¢ndraw e™le´s&ai jyggrafe´aw ay∫tokra´toraw toy´toyw de` jyggra´cantaw gnv ´ mhn e∫senegkei^n e∫w to`n dh^mon e∫w h™me´ran r™hth`n ka&« oç ti a¢rista h™ po´liw oi∫kh´setai. . . . .
Thuc. viii ,. Thuc. viii ,. Thuc. viii ,: a¢rxein oçpW a∫n a¢rista gignv´skvsin ay∫tokra´toraw. Thuc. viii ,.
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rion, al posto dei consiglieri sorteggiati secondo la procedura democratica, avviene nel segno della prepotenza e della corruzione: i Quattrocento si presentano nella sede istituzionale armati e scortati da centoventi uomini; saldano quindi la paga ai consiglieri fino alla scadenza del mandato e li licenziano. Tucidide sottolinea che l’assemblea a Colono si era sciolta dopo aver ratificato senza opposizioni la nuova costituzione, e quindi la decadenza della democrazia, e nota che anche i consiglieri del bouleuterion, democraticamente eletti e sorteggiati, si ritirano davanti ai Quattrocento senza proteste e che nessun altro dei cittadini si ribella. Atene dunque mette in atto senza grossi traumi la sceneggiatura predisposta in Samo da Pisandro e, dietro di lui, da Alcibiade. La congiura di Samo si salda con i progetti rivoluzionari delle associazioni filoaristocratiche attive da sempre in Atene, anche dietro alle quinte dell’unanimismo democratico della stagione periclea. La tendenza oligarchica, nel contesto di un’Atene assuefatta all’assemblearismo e allo stile collettivo-democratico della gestione del potere, si reinventa però in una nuova formula, che verrà chiamata dallo stesso Tucidide, con espressione ossimorica, ‘la tirannide dei Quattrocento’. L’istituto tirannico era stato, fin dal vi secolo, la forma costituzionale in cui emergeva per eccellenza l’aretè individuale : in cui il principe, per sua eccezionale virtù riusciva a spezzare la necessità della perpetuazione dinastica, genealogica di potere. Iscritta nel contesto della consumata democrazia ateniese, la tirannide diventa paradossalmente un’istituzione plurima, collettiva. Nel teatro di Dioniso, nell’Atene del a.C. l’attualità politica trova una rappresentazione di tipo tutto sommato letteralistico. Nell’Edipo tiranno Sofocle (se dobbiamo prestare fede all’ipotesi di una datazione bassa, proprio al , del dramma) metteva in scena il grandioso ‘memento’ tragico contro la punizione degli eccessi – positivi e negativi – della tirannide. Ed Eupoli, ancora nel , nella catabasi dei Demoi rappresentava l’affannoso tentativo di ripescare Pericle dall’Ade, dando la stura all’amara nostalgia – comica e reazionaria – per i bei tempi andati. La storia contemporanea diventa, nel teatro di Sofocle e nella versione comica di Eupoli, il pretesto per una riduzione dell’incandescenza politica a didascalie moraleggianti (per quanto letterariamente sublimi). Tucidide, all’opposto, si rivela più grande drammaturgo dei teatranti suoi contemporanei e riesce a rappresentare la storia di quell’anno cruciale, for. Thuc. viii ,. . Thuc. viii ,: h™ e∫kklhsi´a oy∫deno`w a∫nteipo´ntow a∫lla` kyrv´sasa tay^ta diely´&h. . Thuc. viii ,: h™ boylh` oy∫de`n a∫nteipoy^sa y™pejh^l&e kai` oi™ a¢lloi poli^tai oy∫de`n e∫nevte´rizon.
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nendoci con il suo racconto una riproduzione teatralmente efficace della rivoluzione oligarchica messa in prova a Samo e in atto ad Atene nel a.C. Il racconto tucidideo continua, sottolineando ancora il raccordo necessario tra Samo e Atene. Dopo un primo momento di smarrimento in cui il partito del demos sembra ridotto all’afasia, la reazione al regime dei Quattrocento comincia a prendere corpo: e prima di ogni altro atto si esercita nella restaurazione della democrazia, non ad Atene ma a Samo. A Samo, dunque, ancora in anticipo di una mossa rispetto alla successione degli eventi politici in Atene, si prepara una nuova congiura antioligarchica per la restaurazione della democrazia. Il partito antioligarchico dell’isola trova un appoggio, anche sotto il profilo militare, nell’equipaggio della nave sacra ‘Paralo’, la cui funzione tradizionale era il trasporto annuale della theorìa ateniese da Atene a Delos. Di Paralo proprio in questo passo Tucidide proietta una surreale, straordinaria figura ; una sorta di corsara goletta della libertà, veleggiante per il mare, il cui equipaggio sarebbe stato composto dai più radicali, ultrademocratici Ateniesi : « tutti gli Ateniesi e i liberi cittadini erano a bordo della nave ‘Paralo’ per avversare sempre l’oligarchia, anche quando non ne incombeva il pericolo ». A bordo della nave Paralo sta un’Atene assoluta, erratica, la cui costituzione prescinde dall’effettivo insediamento territoriale. Atene resta Atene comunque, anche se la città è invasa dal nemico: ora chi ‘occupa’ la città è il partito degli avversari del demos, ma in passato, nella stagione gloriosa delle guerre persiane erano stati i barbari, che avevano costretto gli Ateniesi ad evacuare la città e a rifugiarsi sulle navi. E ancora nella straordinaria figura della nave Paralo, Tucidide ci conferma che gli Ateniesi si autorappresentano come un’onda marina, mobile, non solo come abitanti di case radicate sulla ben fondata terra. Questa piena autoconsapevolezza – con la forza strategica che ne deriva – costituisce il carattere di eccezionalità, tutta politica, del carattere ateniese. I Samii dunque, con l’appoggio dei ‘Paralii’ restaurano nell’isola il regime democratico (questa volta senza eccessi e stragi). La nave Paralo fa rotta verso Atene dove l’equipaggio viene arrestato e brutalmente sostituito dai Quattrocento : a questo punto nella Samo ormai nuovamente votata alla democrazia, viene siglato, con un giuramento collettivo, un patto di aggressione contro il regime tirannico di Atene. Non solo: nei mesi tra il e il , la Samo democratica si sostituisce ad Atene e il governo democratico samio . Thuc. viii ,-. . Thuc. viii ,: a¢ndraw «A&hnai´oyw te kai` e∫ley&e´royw pa´ntaw e∫n tW^ nhi` ple´ontaw kai` ai∫ei` dh´pote o∫ligarxi´aı kai` mh` paroy´sW e∫pikeime´noyw. Sulla nave Paralo cfr. anche Aristotele, Const. Ath., ,. . Hdt. vii ss. . Thuc. viii ,.
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agisce per supplenza del governo democratico ateniese deposto dai Quattrocento. Samo – afferma Tucidide – in questa fase si comporta ‘come se’ fosse Atene, radunando presso di sé l’intera flotta e arrivando perfino a chiedere tributi agli alleati. Samo supplisce e anticipa il ruolo di Atene. E Atene puntualmente prenderà spunto dalle vicende di Samo per l’imminente restaurazione democratica, dopo la parentesi del regime dei Quattrocento. Tucidide fa teatro della storia e usa come quinta, come doppio fondo in cui la realtà si rifrange, la scena di Samo. Dell’esperimento prima ultrademocratico, poi oligarchico, poi nuovamente democratico, Samo si propone come il luogo paradigmatico, sperimentale, estremo. Il dato delle agitate vicende politiche della fine del v secolo, essenzialmente antinomico e drammaturgico, viene teatralizzato in una sorta di prova generale nella dislocazione virtuale dell’isola. Giocano su questo doppio livello della rappresentazione necessaria sia i protagonisti dello scontro – Alcibiade in primis, ma anche gli “amici che promuovono il suo ritorno in Atene” tra cui spicca Crizia che sarà un protagonista della scena politica ateniese dell’ultimo decennio del v secolo, fino all’esperimento ultimo dei ‘Trenta tiranni’. E Tucidide, lo storico-drammaturgo, gioca la sua scommessa sullo stesso piano degli attori della sua storia – gli Alcibiade, i Pisandro, gli Antifonte, i Teramene – condividendo l’ambiguità, la genetica complicazione della prospettiva, propria degli eventi e degli scenari della fine del v secolo. Tucidide, il suo stile di racconto che già le fonti antiche assimilano alla poesia tragica eschilea, sta immerso nella luce propria dell’ultima democrazia ateniese : una luce che proietta ombre e che con la sua tonalità chiaroscurale inonda tutto, fatti, personaggi, ambienti. Si tratta – e Tucidide sembra saperlo bene – di un teatro tragico il cui spazio si conquista solo a prezzo di una necessaria rifrazione: e solo in quello scarto, nella differenza di polarità, nella riflessione tra i fatti e la loro rappresentazione, si crea l’ambiente in cui può nascere il racconto della storia e della politica. Università IVAV Venezia
. Thuc. viii ,: e∫xo´ntvn ga`r sfv^n to` pa^n naytiko`n ta´w te a¢llaw po´leiw v©n a¢rxoysin a∫nagka´™ rmv ^ nto. sein ta` xrh´mata o™moi´vw dido´nai kai` ei∫ e∫kei^&en (i.e.: da Atene) v
. Sulla creazione dello spazio politico come luogo della rappresentazione e della ‘giustificazione’ del reale, restano valide le notazioni di Vegetti : -. . Sullo stile antilogico, ed essenzialmente drammaturgico, della narrazione tucididea vd., per esempio, Canfora : ss.
monica centanni Riferimenti bibliografici
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Fra Oriente e Occidente. Ricerche di storia greca arcaica, [Firenze ] Milano . L’arte politica della tragedia greca, [München ], Torino . Il dominio e la legge, in D. Lanza, M. Vegetti, G. Caiani. F. Sircana, L’ideologia della città, Napoli , pp. -.
L ’E X E M P L U M D I P O L I C R A T E I N V A L E R I O M A S S I M O : U N A L E T T U R A R O M A N A T R A R E T O R I C A E ID E O L O G I A Sergio Audano
L a figura di Policrate ricorre assai di frequente in numerosi autori latini, da Cicerone a Valerio Massimo, da Plinio il Vecchio a Giustino, quale paradigma esemplare della mutevolezza della fortuna; grazie alla mediazione delle scuole di retorica anche le vicende del tiranno samio finirono per rientrare all’interno degli innumerevoli e svariati exempla di personaggi illustri, il cui utilizzo era notoriamente finalizzato in particolar modo a giustificare e a corroborare tesi e argomentazioni di contenuto morale o filosofico. A seconda dei generi letterari o della tematica affrontata, l’exemplum poteva essere rielaborato e acquisire così un color retorico più definito, che poteva spaziare, ad esempio nei casi di esortazione alla virtù o alla rassegnazione, dall’eroico al patetico, oppure dall’orrido all’esecrando, quando, invece, lo scopo prefissato dall’autore era quello di dissuadere il proprio interlocutore o, più in generale, il lettore da errori o vizi che avrebbero potuto inevitabilmente condurlo lontano da quello che era indicato come il percorso ideale da perseguire. L’exemplum retorico, proprio per il fatto di collocarsi all’interno di una precisa strategia argomentativa, assolve agli occhi del lettore moderno anche la funzione di fornire preziosi elementi di informazione sulle modalità con cui i Romani si accostavano a fenomeni storico-culturali notevolmente diversi dai propri per la considerevole lontananza nel tempo e sugli strumenti ermeneutici cui essi ricorrevano per la loro interpretazione. Scopo di questo lavoro è appunto quello di tentare almeno un parziale approccio al problema di comprendere se i Romani avessero o meno consapevolezza storica della fisionomia peculiare di alcune esperienze caratteristiche della grecità arcaica, a iniziare dal fenomeno della ‘tirannide’, di cui il samio Policrate era personalità altamente rappresentativa. La risposta negativa può apparire scontata, ma presuppone un approccio critico diverso da quello del passato, che generalmente si limitava all’analisi di questi exempla retorici quali puri repertori di fonti e testimonianze. È, in ogni caso, evidente che i Romani avevano una visione approssimata di quel periodo storico che noi definiamo con terminologia contemporanea . Si veda la definizione di exemplum fornita da Cicerone in Inv. I : exemplum est, quod rem auctoritate aut casu alicuius hominis aut negotii confirmat aut infirmat. . Non sono numerosi gli studi su queste tematiche, con particolare attenzione all’ambito storico-politico, mentre maggiore attenzione è stata riservata alle modalità di ricezione della lirica arcaica soprattutto in Orazio: cfr. Cavarzere , che presenta riflessioni stimolanti e problematiche.
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‘grecità arcaica’, interpretato secondo categorie dedotte dalla propria esperienza storica o culturale, come dimostra l’analisi dell’esempio di Policrate, rielaborato da parte di Valerio Massimo sulla base del dibattito politico sulla tirannia scaturito in seguito alla morte di Cesare, anche grazie all’apporto fornito dalle scuole di retorica. Sappiamo da Cicerone (Tusc. I ) che proprio Erodoto, oltre ad essere ricordato come ‘padre’ del genere storiografico (Leg. I ), è stato l’autore privilegiato all’interno delle scuole retoriche per la creazione di exempla storici o mitologici: la testimonianza ciceroniana deorum inmortalium iudicia solent in scholis proferre de morte, nec vero ea fingere ipsi, sed Herodoto auctore aliisque pluribus, seppur riferita espressamente agli exempla consolatori che circolavano abitualmente all’interno dei paramy&htikoi` lo´goi, può essere estesa più in generale anche ad altre tematiche grazie alla circolazione di episodi, come quello policrateo, la cui valenza gnomica era agevolmente riconoscibile. Ed è proprio lo stesso Cicerone il primo autore latino a menzionare Policrate, utilizzandone l’esempio in un’ottica tutta romana: in De finibus v , il peripatetico Pisone, avviandosi alla conclusione del dialogo, sostiene che il sapiente virtuoso, che è sempre felice, può esserlo in misura diversa, dal momento che accanto alla virtù, la quale è il bene assoluto, ci sono gli altri beni, che sono tali in quanto conformi a natura. A conferma di questa tesi fa seguito un breve manipolo di exempla storici : Marco Crasso, avo del triumviro, e Policrate. Polycratem Samium felicem appellabant. Nihil acciderat ei, quod nollet, nisi quod anulum, quo delectabatur, in mari abiecerat. Ergo infelix una molestia, felix rursus, cum is ipse anulus in praecordiis piscis inventus est? Ille vero, si insipiens – quod certe, quoniam tyrannus – numquam beatus ; si sapiens, ne tum quidem miser, cum ab Oroete, praetore Darei, in crucem actus est.
Del tiranno samio, attraverso le parole di Pisone, Cicerone non si limita a riportare, in maniera più accennata che diffusamente estesa, l’episodio topico del fortunato ripescaggio del pesce, ma lo intreccia ad una riflessione di carattere più generale, che connota Policrate, a dispetto delle prove apparenti di fortuna di cui fu gratificato, come personaggio assolutamente stolido e infelice proprio perché ‘tiranno’: ille vero, si insipiens – quod certe, quoniam tyrannus –, numquam beatus, come Cicerone sottolinea con enfatica evidenza. Si tratta di una caratterizzazione ricorrente anche in altri exempla di tiranni greci, in particolare relativi a Dionigi di Siracusa, ma, mentre altrove il motivo di questa infelicità si giustifica con le privazioni ed i timori che il tiranno deve affrontare per il mantenimento del potere, Cicerone conferisce al per. Per una lettura di ampio respiro del proemio del De legibus cfr. Nicolai : ss.
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sonaggio di Policrate una dimensione di maggiore spessore. Non è quindi la straordinarietà dell’episodio dell’anello, né tanto meno la sfortuna quando lo perde o la sua ritrovata fortuna quando lo recupera in maniera miracolosa, a determinare la cifra specifica del protagonista: Cicerone desidera sintetizzare nella sua figura la cecità intellettuale e morale del tiranno secondo l’interpretazione platonica. Questo particolare pone in rilievo la differenza rispetto al giudizio formulato da Erodoto che, al contrario, aveva più volte sottolineato l’‘intelligenza’ del tiranno samio al punto di commiserarne l’orrida fine : il rovesciamento di prospettiva non si limita esclusivamente alla figura storica di Policrate, ma mette bene in luce come il ruolo del tiranno ‘arcaico’, con i suoi tratti di complessità politica e culturale, risultasse di fatto estraneo alla riflessione politica romana in generale e ciceroniana in particolare. Inoltre emerge con chiarezza come la tirannide di questo periodo non fosse in alcun caso comparabile o rapportabile alle forme tradizionali di governo che Cicerone analizza nel De re publica, e interpretata secondo la concezione platonica di ‘tirannide’, prescindendo da distinzioni legate a singole individualità. Dopo questa menzione nel De finibus, l’analisi della figura di Policrate viene prevalentemente condotta in ambito romano col ricorso a quelle categorie che risentono del dibattito sulla tirannide negli anni immediatamente successivi alla morte di Cesare, nella cui determinazione un ruolo di particolare spicco è stato rivestito dagli scritti di Cicerone realizzati nel biennio - a.C. Un tema che s’impone all’interno dell’ultima raccolta oratoria, le Filippiche, e che si ritrova espresso con uguale rilievo nel contemporaneo De officiis e molto probabilmente nel perduto De gloria, anch’esso di quel periodo, è la riflessione sulla ‘vera gloria’, in particolare quella di Cesare. Come noto, il giudizio ciceroniano sul dittatore appena ucciso non è affatto . Lanza : « la figura del tiranno è un rovescio, anzi un doppio rovescio, il rovescio dell’uomo saggio e il rovescio dell’uomo libero». . Una spia indicativa può essere il ricorso ad un sostantivo tipicamente romano come praetor, nella difficoltà di definire con precisione il ruolo di Orete. . Come notato da Degl’Innocenti Pierini : , l’interpretazione magico-sacrale di Policrate, legata al gesto del lancio in mare del’anello, rimase vitale in un filone della tradizione sul tiranno samio parallelo a quello ‘antitirannico’, in cui si inserisce Valerio Massimo, e che è testimoniato da Plinio il Vecchio N.H. xxxvii ,: felicitatis suae, quam nimiam fatebatur etiam ipse qui felix erat, satis piamenti in unius gemmae voluntario damno videretur, si cum Fortunae volubilitate paria fecisset, planeque ab invidia eius abunde se redimi putaret, si hoc unum doluisset, adsiduo gaudio lassus. L’utilizzo del termine piamentum sembra indicare l’interpretazione in senso ‘espiatorio’ del gesto del tiranno, rilevata anche da Giacomo Leopardi che in Zibaldone del .. scrive : « l’atto di Policrate samio ap. Erodoto che getta in mare il suo anello per procurare a se medesimo una sventura, non è che una penitenza», sottolineando poche righe sopra come il « dogma dell’invidia degli Dei verso gli uomini sembri essere di origine orientale». . Per un’analisi del concetto di ‘vera gloria’ in rapporto al tema della giustizia, con particolare attenzione all’ultima fase del pensiero ciceroniano, cfr. Garbarino ; per un’ampia casistica della presenza di gloria nell’intera produzione di Cicerone, partendo dall’analisi seman-
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tenero : non esita più volte a utilizzare nei suoi riguardi il termine tyrannus, che assume una connotazione chiaramente spregiativa. Può essere utile analizzare in dettaglio un celebre passo (Phil. I ,-) : Illud magis vereor ne ignorans verum iter gloriae gloriosum putes plus te unum posse quam omnis et metui a civibus tuis quam diligi malis. Quod si ita putas, totam ignoras viam gloriae. Carum esse civem, bene de re publica mereri, laudari, coli, diligi gloriosum est; metui vero et in odio esse invidiosum, detestabile, imbecillum, caducum. [34] quod videmus etiam in fabula illi ipsi qui «oderint, dum metuant» dixerit perniciosum fuisse... [35] Sed quid oratione te flectam ? Si enim exitus C. Caesaris efficere non potest ut malis carus esse quam metui, nihil cuiusquam proficiet nec valebit oratio. Quem qui beatum fuisse putant, miseri ipsi sunt. Beatus est nemo qui ea lege vivit ut non modo impune sed etiam cum summa interfectoris gloria interfici possit.
Antonio, il destinatario diretto (ma il vero bersaglio è in realtà Cesare), ha ricercato la gloria del potere al punto da preferire il timore dei suoi concittadini piuttosto che il loro amore: secondo Cicerone, è titolo di vera gloria l’essere caro ai concittadini, il rendersi benemerito col rispetto delle leggi e delle istituzioni, mentre l’essere temuti è una condizione non solo odiosa, ma anche precaria. Cicerone esemplifica questa riflessione con un riferimento al celebre frammento di Accio ( R.) oderint, dum metuant, ricordando l’uccisione di Atreo da parte del nipote Egisto, ma con evidente allusione a Cesare e alla sua morte: utilizzando lo stesso schema di valori adoperato per Policrate nel De finibus, Cicerone arriva a concludere che quanti giudicano Cesare felice sono a loro volta degli infelici, dal momento che hanno le medesime ambizioni di tirannide che li condannano di per sé alla totale infelicità. Analoghe riflessioni compaiono nel De officiis, in un’atmosfera ancora più carica di pessimismo, come si evince dall’esempio di ii , in cui Cicerone espone il punto di vista di chi subisce le conseguenze della tirannide, intesa come la più grande delle follie quando è esercitata ai danni di uomini liberi : omnium autem rerum nec aptius est quicquam ad opes tuendas ac tenendas quam diligi nec alienius quam timeri. Praeclare enim Ennius: «Quem metuunt oderunt: quem quisque odit perisse expetit». Multorum autem odiis nullas opes posse obsistere, si antea fuit ignotum, nuper est cognitum. Nec vero huius tyranni solum, quem armis oppressa pertulit civitas, ac paret cum maxime mortuo, interitus declarat, quantum odium hominum valeat ad pestem, sed reliquorum similes exitus tyrannorum, quorum haud fere quisquam talem interitum effugit. Malus enim est custos diuturnitatis metus contraque benivolentia fidelis vel ad perpetuitatem. Sed iis, qui vi oppressos imperio coercent, sit sane adhibenda saevitia, ut eris in famulos, si aliter teneri non possunt; qui vero in libera civitate ita se instruunt, ut metuantur, iis nihil potest esse dementius. Quamvis enim sint demersae leges alicuius opibus, tica del termine e operando un raffronto con apparenti sinonimi come fama e laus, cfr. Mazzoli .
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quamvis timefacta libertas, emergunt tamen haec aliquando aut iudiciis tacitis aut occultis de honore suffragiis. Acriores autem morsus sunt intermissae libertatis quam retentae.
Dopo la citazione di un verso tragico, questa volta di Ennio ( J.), in cui si sintetizza con efficacia espressiva il sentimento d’odio verso il tiranno, Cicerone ricorda la morte di Cesare, assimilato a tutti i despoti che sono rimasti vittime dell’odio nei loro riguardi. Come nelle Filippiche, anche qui Cicerone ricorda che il timore è cattivo custode in vista della conservazione del potere, mentre buona guardia è la benevolenza, evidenziando il forte richiamo della libertà che, quando è perduta, si manifesta in modo più vigoroso di quando è pienamente goduta. È su questo retroterra culturale che si innesta l’opera di Valerio Massimo: composta intorno agli anni del I sec. d. C., negli anni di regno di Tiberio, la raccolta dei Facta et dicta memorabilia si presenta, nelle intenzioni dell’autore, come una silloge di informazioni degne di memoria, facta simul ac dicta memoratu digna, raggruppate in ordine tematico. Lo scopo di questa raccolta è di poter rendere tutti questi materiali, che gli altri autori avevano trattato in modo esteso, rapidamente conosciuti senza la difficoltà di dover ricorrere a ricerche troppo complesse, con l’intenzione di rivolgersi molto probabilmente ad un pubblico di non grandi pretese letterarie, proveniente soprattutto dalle province e appartenente in larga misura a quei ceti che si stavano affermando all’interno dell’amministrazione imperiale. Come era già accaduto nella raccolta biografica di Cornelio Nepote e nelle Imagines varroniane, anche Valerio Massimo dedica spazio non solo agli exempla di tradizione romana, ma anche a quelli stranieri, secondo un criterio retorico, che viene enunciato più volte nel corso dell’opera, consistente nel proposito di arrecare diletto al lettore con la loro varietà. È stato opportunamente sottolineato come il sistema di valori proposto da Valerio Massimo risulti « in una fase di irrigidimento» rispetto al relativismo etico che, invece, compare in Cornelio Nepote, più attento a modernizzare il sistema di valori romani anche grazie all’apporto rilevante dei modelli ateniesi che il biografo utilizza nella sua raccolta. Valerio Massimo, al contrario, sembra insistere sui valori tradizionali, forse più consoni alla mentalità dei suoi lettori, ben lontani dall’élite intellettuale che al contrario manifestava maggiore apertura e tolleranza. Passiamo ora all’analisi più dettagliata dell’exemplum di Policrate, che si trova nel vi libro, quinto degli externa exempla del capitolo nove, dove sono rubricate tutte le testimonianze relative al tema De mutatione morum aut fortunae. La struttura dell’exemplum valeriano ha una precisa articolazione tri. Ad esempio nella premessa degli exempla tra cui si ritrova Policrate: vi , ext. , adtento studio nostra commemoravimus: remissiore nunc animo aliena narrentur. . La Penna : .
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partita, che si ripete con uno schema abbastanza definito : l’exordium, talora brusco e senza legami, se non quello tematico, al passo precedente; fa poi costantemente seguito l’evento significativo del personaggio che la tradizione retorica era comunemente solita riportare. La terza ed ultima parte si configura, invece, come una sorta di riflessione dell’autore, che sembra quasi voler coinvolgere il lettore nella formulazione del medesimo giudizio. Valerio Massimo colloca Policrate in una posizione ben precisa all’interno di exempla menzionati a illustrazione di questo tema, a conferma di un uso non banale della strumentazione retorica: i primi tre, quelli di Polemone, Temistocle e Cimone, hanno una finalità positiva e vogliono esemplificare il mutamento in positivo, dal punto di vista morale o caratteriale, di personaggi che avevano dato segni anche drammatici di indegnità morale (è il caso di Polemone, che, inizialmente giovane assai depravato, si converte alla filosofia grazie all’intervento moderato di Senocrate, ovvero quello ancor più emblematico di Temistocle, che col suo comportamento costrinse al suicidio i propri genitori) o incapacità intellettuale (Cimone, considerato d’intelligenza assai limitata). Dopo la menzione, per così dire, ‘a cerniera’ dell’exemplum di Alcibiade, che si caratterizza per il costante mutamento della fortuna dal positivo al negativo e viceversa, sempre al massimo grado e con grandissima rilevanza, segue un gruppo di altri tre esempi, Policrate, Dionigi di Siracusa (personaggio utilizzato più volte da Cicerone come esemplificazione della tirannide) e Siface ai quali, al contrario, la sorte ha riservato una metabolh´ in negativo dell’esistenza, dopo un lungo periodo di felicità, tanto appariscente nelle sue manifestazioni esteriori, quanto in realtà effimero e destinato ad un crudele capovolgimento. Ecco il testo dell’exemplum valeriano : Ad invidiam usque Polycratis Samiorum tyranni abundantissimis bonis conspicuus vitae fulgor excessit, nec sine causa: omnes enim conatus eius placido excipiebantur itinere, spes certum cupitae rei fructum adprehendebant, vota noncupabantur simul et solvebantur, velle ac posse in aequo positum erat. Semel dumtaxat vultum mutavit, perquam brevi tristitiae salebra succussum, tunc cum admodum gratum sibi anulum de industria in profundum, ne omnis incommodi expers esset, abiecit. Quem tamen continuo recuperavit, capto pisce qui eum devoraverat. Sed hunc, cuius felicitas semper plenis velis prosperum cursum tenuit, Orontes Dari regis praefectus in excelsissimo Mycalensis montis vertice cruci adfixit, e qua putres eius artus et tabido cruore manantia membra atque illam laevam, cui . Questa oscillazione sembra rispecchiare un giudizio ambivalente sul personaggio, il cui ritratto “paradossale” aveva indubbiamente affascinato le generazioni precedenti, come conferma la biografia di Nepote: cfr. La Penna : s. . Qui si pone un problema testuale, non rilevato dai più due recenti editori di Valerio Massimo, Combès e Briscoe : l’antroponimo Orontes appare chiaramente un errore (dal momento che nulla a che fare con l’« Oroi´thw erodoteo, che Cicerone, come visto, correttamente traslittera in Oroetes), seppure concordemente attestato dalla maggioranza dei testimoni (l’unica variante, chiaramente deteriore, che ricavo dall’apparato di Combès, è orantes, pre-
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Neptunus anulum piscatoris manu restituerat, situ marcidam Samos, amara servitute aliquamdiu pressa, liberis ac laetis oculis aspexit.
Il nostro esempio si apre ex abrupto con la menzione del motivo dell’‘invidia’, posto in posizione enfatica già nell’exordium, con evidente riferimento a Erodoto che, nella lettera che Amasi re d’Egitto spedì a Policrate, allude all’invidia della divinità per i continui successi ottenuti dal tiranno: «le tue grandi fortune non mi danno piacere, poiché conosco la divinità e so che è invidiosa » (iii ,; trad. Fraschetti). La comunanza esplicita di questo tema sembra comprovare la testimonianza ciceroniana delle Tuscolane circa l’importanza di Erodoto come fonte principale per la creazione degli exempla retorici : Valerio Massimo non coglie, però, il richiamo alla mentalità religiosa arcaica racchiuso nel concetto di f&o´now, visto che il termine invidia rimanda al lessico ideologico romano per indicare uno dei fattori che determinano l’odio popolare verso il tiranno. Si tratta di un’esegesi che si riscontra spesso nelle Filippiche: si è vista già a I ,, sopra citato, ma si ritrova anche a v ,, dove l’aggettivo invidiosus si trova riferito a quella forma di autorità basata sulla ricchezza che, unita alla cupido dominandi, viene scambiata erroneamente per vera gloria e conduce inevitabilmente alla tirannide, oppure a xiv ,, in cui Cicerone sottolinea come la virtus excellentium civium, cioè di coloro che, come lo stesso oratore, si oppongono a ogni forma di tirannide, sia degna di imitatio non di invidia. Inoltre, anche dal seguito della narrazione, nel trapasso dall’exordium all’esempio vero e proprio, si rileva come sia persistente l’utilizzo di categorie ermeneutiche del tutto differenti rispetto alla narrazione dello storico greco, che si richiamano, invece, ad una mentalità assolutamente romana. Valerio Massimo, infatti, vuole porre in evidenza, agli occhi del lettore, la natura, sente in B, il Bernensis latinus bibl. civium del sec. ix, manoscritto che sia Kempf sia Briscoe siglano con A) e nell’epitome di Giulio Paride. L’unico editore a segnalare l’errore è Kempf : , il quale riporta il giudizio di un editore del xvii sec., il Vorst, ad avviso del quale Valerio avrebbe scritto « non satis accurate de Darii regis praefecto». È abbastanza plausibile che si tratti di un errore materiale (o di memoria o di copiatura) da parte di Valerio Massimo (o della sua fonte), ma forse è possibile tentare una spiegazione. La prima ipotesi è quella più ovvia, anche se la meno plausibile, ovvero l’errore di lettura dal greco (il che avrebbe come conseguenza il fatto che Valerio non conoscesse il passo di Cicerone): il passaggio da OROITHS a ORONTHS non mi pare del tutto impossibile paleograficamente (tra l’altro il nome compare senza varianti nel testo di Erodoto). Non mi sentirei però di scartare un’ipotesi diversa: il passaggio tra le due forme sarebbe avvenuto non nella presunta fase di lettura da Erodoto, ma subito dopo, forse per opera non tanto dell’autore quanto di uno dei suoi primi copisti, il quale poteva essere influenzato dal nome Orontes, personaggio dell’Eneide (è uno dei seguaci di Enea che compare nei libri I ai vv. e e vi al v. ). Per un esame aggiornato delle problematiche relative alla tradizione manoscritta di Valerio Massimo cfr. Ortoleva con ricca bibliografia. . Per un inquadramento del concetto di f&o´now nella letteratura del v sec. a. C. cfr. Dickie .
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per così dire, ontologicamente tirannica del personaggio fino al punto da designare esplicitamente i successi immediati e felici di Policrate e la loro quasi immediata realizzazione come espressione di potere assoluto persino sulla realtà : velle ac posse in aequo positum erat. In quest’espressione, infatti, troviamo la precisa formulazione del tiranno come colui per il quale è possibile tutto ciò che vuole. Come è stato osservato, questa espressione, ampiamente presente nelle epistole di Cicerone e destinata a godere di grande fortuna successivamente nell’ambito dell’ideologia imperiale, sintetizza un lungo dibattito, mediato dalle scuole di retorica, che trae la sua origine da un celebre passo del Gorgia di Platone dove sono posti a confronto i retori e i tiranni sul potere che possono esercitare all’interno della polis. Proseguendo nell’analisi dell’exemplum, il punto centrale è costituito dalla narrazione della pesca miracolosa: Valerio Massimo (o la sua fonte) continua a seguire nelle linee generali il modello erodoteo anche se non mancano variazioni significative, ma, a differenza dello storico greco, concentra la sua attenzione sul volto del tiranno, che appare per la prima ed unica volta triste nel momento in cui si priva del suo anello per gettarlo in mare. Se Erodoto, a conclusione della scena del lancio dell’anello, si limitava a constatare che Policrate, una volta compiuto questo gesto, «tornò indietro e, giunto a casa, provava dolore» (iii ,; trad. Fraschetti) manifestando un reale stato animo di tristezza per la perdita del bene prezioso, Valerio Massimo, invece, non avendo colto la valenza sacrilega di questo gesto, rappresenta la reazione quasi nascosta del tiranno, come se volesse celare i suoi reali sentimenti palesati solamente in una smorfia del volto. È anche possibile associare l’espressione perquam brevi tristitiae salebra succussum alla brevità ‘oggettiva’ della durata dell’infelicità di Policrate, subito placata dal rapido recupero dell’anello, ma è più probabile che il valore di brevis sia da riferire alla brevità quasi istantanea della tristezza, che si manifesta esteriormente con il mutamento dell’espressione del volto, piuttosto che all’estensione temporale dell’infelicità del tiranno. L’assenza di reazioni da parte di Policrate per la perdita del bene prezioso costituisce, quindi, un esempio di dissimulazione, uno dei tratti caratterizzanti della descrizione morale del tiranno che nella latinità vanta una lunga tradizione risalente almeno al ritratto sallustiano di Catilina, notoriamente cuius rei lubet simulator ac dissimulator. È la parte finale dell’exemplum quella in cui si può meglio rilevare la capa. Soprattutto da Citroni Marchetti : n. . . Mi limito ad un esempio: ad Att. xiv , , dove, con riferimento ad Antonio, si dice che ciò che vuole gli è lecito, sibi licere quod vellet. . c-e : « POLO. Che cosa? Ma se sono come i tiranni: fanno ammazzare chi vogliono, spogliano e cacciano in esilio chi gli pare, no?... SOCRATE. Sono convinto, Polo, che sia i retori che i tiranni hanno ben poco potere nelle città, come dicevo prima: infatti non fanno praticamente niente di quel che vogliono, ma fanno solo quel che meglio gli pare» (trad. Zanetto).
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cità valeriana di coniugare la tradizione retorica con la dimensione culturale romana. Se in Erodoto, come detto, la morte crudele del tiranno viene compianta ed esecrata come indegna dallo stesso storico (iii ,), Valerio Massimo, al contrario, insiste in un’abbondanza di dettagli che per il loro espressionismo macabro sembrano anticipare alcune descrizioni di Seneca tragico o di Lucano. La focalizzazione dell’autore latino è concentrata esclusivamente sugli abitanti di Samo, anzi, mediante il ricorso alla metonimia, sulla stessa isola che, oramai libera e felice, osserva il corpo del proprio tiranno disfarsi sotto le intemperie, in particolare quella mano sinistra ornata spesso dal prezioso anello. In Erodoto è il mare a rifiutare la tirannide di Policrate e il pesce sembra ‘restituire’ la sovranità espressa dal sigillo: nel nostro passo, invece, è la terra stessa di Samo, nel suo osservare il cadavere assurto a paradigma della mutazione di fortuna, a indicare non solo la condizione esistenziale del tiranno, che è sempre negativa, ma anche il rifiuto per così dire spontaneo e naturale a ogni forma di asservimento. Valerio Massimo intende, quindi, raffigurare Policrate in modo da far risultare la sua figura in modo ‘diverso’ o alternativo rispetto ad Erodoto, soprattutto nel giudizio finale che, secondo i precetti retorici, doveva maggiormente coinvolgere il lettore nella strategia argomentativa dell’autore: la rappresentazione di Valerio propone icasticamente l’immagine del tiranno, il cui cadavere, esposto all’esecrazione popolare con i connotati oramai . L’espressionismo macabro, come mi ha fatto notare il prof. Emanuele Narducci, ha in questa età una persistenza abbastanza consolidata, che dal punto di vista letterario si ricollega al teatro tragico arcaico, in particolare ad Accio, per quanto non sia da escludere il riflesso di una imagerie conseguente ad un episodio storico relativamente recente, ma che aveva profondamente turbato l’immaginario collettivo romano, ovvero le proscrizioni sillane. Anche se gran parte di questa tradizione è andata perduta, è possibile coglierne un’eco notevole in alcuni esempi di particolare intensità, come il proemio del terzo libro del De oratore (iii ,) in cui, nel ricordare la sorte quasi sempre drammatica di molti personaggi, Cicerone si sofferma sullo spettacolo terribile della testa dell’oratore Marco Antonio esposta sui rostri, a poca distanza da quelle di Gaio Giulio Cesare e di suo fratello Lucio Giulio. Inoltre, può avere giocato un ruolo non marginale anche il dibattito contemporaneo, subito entrato nelle scuole di retorica come testimonia Seneca Padre, sulla morte di Cicerone (su cui cfr. Degl’Innocenti Pierini ) : l’insistenza di Valerio Massimo sulla mano di Policrate che era solita indossare l’anello del potere può richiamare per analogia alla mente l’immagine della mano di Cicerone, esposta sui rostri accanto alla sua testa. In entrambi i casi il disfacimento di quella parte del corpo, che era simbolicamente detentrice del comando, si configura più in generale come la dissoluzione dell’intero corpo dello Stato. . Valerio Massimo rimarca la preziosità dell’anello di Policrate trascurandone la funzione originaria di ‘sigillo’ (su cui cfr. Asheri : ). . Si noti come la dimensione retorica rivesta un ruolo non trascurabile nell’elaborazione ideologica del passo : il nostro autore, infatti, non rinunzia ai suoi lenocini stilistici e si concede il ricorso alla doppia metonimia Neptunus e Samos, nella cui contiguità sembra sintetizzarsi il destino di fortuna che Policrate aveva sul mare, mentre il recupero dell’anello era stato interpretato dallo stesso tiranno nel testo di Erodoto a iii , come &ei^on to` prh^gma, trapassando quasi senza soluzione di continuità nella sventura sulla terra.
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quasi del tutto consunti, si pone come il segno della ritrovata libertà che viene fisicamente ‘osservata’ con sentimenti collettivi di gioia e di letizia. Alcuni spunti potevano essere tratti dalla narrazione erodotea: tuttavia l’insistenza dello storico greco sull’emanazione degli umori del corpo del tiranno non ha alcunché di macabro o di ‘espressionista’, ma si giustifica con la spiegazione della visione della figlia di Policrate che aveva visto il padre bagnato dalla luna e unto dal sole. È indubbiamente limitativo supporre che Valerio Massimo riadatti passivamente eventuali esercitazioni retoriche, ed è forse probabile che alcuni elementi caratteristici della sua narrazione, non presenti nel testo erodoteo, si motivino con l‘inquadramento all’interno di ben determinate coordinate culturali romane, sia retoriche che ideologiche. Ho precedentemente posto in rilievo l’importanza ideologica del nesso ‘libertà-gioia’ che troviamo nell’episodio di Policrate: anche in questo caso non mancano delle sostanziali differenze rispetto al testo di Erodoto, frutto di un probabile fraintendimento del testo da parte di Valerio Massimo o della sua fonte: nello storico greco, infatti, Orete, una volta eliminato il tiranno, assegna la libertà (iii ,) non a tutti gli abitanti di Samo, ma solamente a quel gruppo ristretto del seguito di Policrate non composto, come dice in seguito, da stranieri e servi, che invece rimangono prigionieri, ed è verso questo ristretto manipolo che il Persiano rivolge l’esortazione alla gratitudine per il conseguimento della libertà. Al contrario, nel nostro exemplum la libertà riacquisita coinvolge con la sua espressione di gioia l’intero corpo della popolazione, espresso icasticamente, come si è in precedenza notato, dalla stessa isola di Samo. A mio avviso, nella formulazione di questo nesso, oltre al richiamo più o meno corretto a Erodoto, è probabile che si possa anche innestare il condizionamento, forse inconsapevole, ma indubbiamente presente, della più antica tradizione romana che nella cacciata della tirannide di Tarquinio il Superbo vedeva l’esempio più alto della liberazione da quella che, nella coscienza collettiva, era stata la ‘tirannide’ per eccellenza: è significativo come Livio nel raccontare la cacciata del sovrano dica a I ,, che i Romani accolsero al campo di Ardea con gioia Bruto dopo che aveva liberato la città dal dominio dei Tarquini, liberatorem urbis laeta castra accepere, subito dopo che al re era stato impedito di entrare in città con la chiusura delle porte, intimandogli l’esilio. Anche in questo caso ritorna quel nesso ‘gioia/libertà’ che connota ogni abbattimento di regimi tirannici: il corpo . Per un’analisi della tradizione sulla cacciata di Tarquinio e sulla genesi letteraria della saga di Bruto cfr. Mastrocinque , anche se manca un riferimento diretto al nesso ‘gioia/libertà’. . Tarquinio clausae portae exsiliumque indictum. . Valerio Massimo è stato autore la cui ricezione nelle età successive è stata particolarmente ampia non solo in ambito letterario, ma anche artistico, come dimostrano, tra gli altri, Guerrini e Fausti , importanti per l’approccio pluridisciplinare al testo valeriano. Nel
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del tiranno si presenta come una sorta di farmako´w, sul quale si «caricano le tensioni della storia » e si assommano le maledizioni della collettività. Si potrebbe obiettare come nel caso di Tarquinio siano assenti la morte del re e l’esposizione del corpo, ma l’esilio cui fu condannato rappresenta indubbiamente una sorta di ‘morte civile’ che consiste nella privazione di ogni forma di sovranità nei confronti della collettività da parte del rex, il cui ricordo rimase nel tempo esecrabile e maledetto al punto che lo stesso nome di rex finì per suonare all’orecchio romano in termini quasi blasfemi e certamente antitetici al concetto di libertas. Si può, in conclusione, arguire dall’analisi di questo exemplum come i Romani, con Cicerone prima e Valerio Massimo poi, non disponessero degli elementi storico-culturali necessari per l’interpretazione del personaggio di Policrate nella sua straordinaria complessità, che emerge invece dalla narrazione di Erodoto. La tradizione delle scuole di retorica mantiene la sua indubbia vitalità, dal momento che nello storico greco esse trovano la loro prima raccolta di materiali che poi adatteranno ai loro scopi didattici. Dall’analisi del nostro brano emerge, anzi, un’attenzione molto puntuale ad alcuni riferimenti del testo greco, formulati in modo sinteticamente conciso: in ogni caso, il loro utilizzo si intreccia sempre con la memoria culturale romana che porta a sovrapporre alla tirannide di Policrate non solo i tratti tipicamente negativi che erano riservati alla tirannide dall’analisi platonica, ripresa come visto da Cicerone, ma immagini ed esperienza dell’esperienza storica e culturale dei Romani, col risultato di cancellare ogni traccia solo lontanamente positiva che al contrario permane nello storico greco: per un paradosso della storia, Tiberio, dedicatario della raccolta, è diventato uno dei simboli dell’evoluzione assolutistica e ‘tirannica’, ma in senso del tutto negativo, dell’impero.
nostro caso la scena dell’esposizione del corpo di Policrate sembra ricordare per l’analogia della struttura della vicenda alcuni drammatici episodi della storia moderna o contemporanea: dall’esecuzione di Luigi xvi, che nella raffigurazione di numerose stampe del tempo spicca per l’esposizione del capo ‘consacrato’ del re, sul quale si collocava la corona, simbolo del potere esattamente come lo era per Policrate l’anello, a Piazzale Loreto col corpo di Mussolini, in procinto di consumarsi e oramai a tratti irriconoscibile, circondato dalla folla festante per la riottenuta libertà. È interessante notare come il corpo di un potente morto violentemente continui a mantenere simbolicamente una valenza attrattiva molto forte per i suoi seguaci, come se attraverso di esso si perpetuasse in qualche modo il potere che aveva esercitato in vita: nel caso di Mussolini si veda Luzzatto , che non si limita ad essere una pura ricostruzione delle vicende del corpo del duce, ma è attento a focalizzare l’attenzione sulla inquietante dimensione simbolica che il cadavere esercitò su simpatizzanti ed avversari. . Catenacci : . . Giuia : , la quale sottolinea che «libertas e regnum sono due termini antitetici, giacché il secondo implica il concetto di dominio di un singolo sul resto della comunità».
sergio audano Abbreviazioni bibliografiche
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l’EXEMPLUM di policrate in valerio massimo Guerrini, Roberto Kempf, Karl
Lanza, Diego La Penna, Antonio
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Nicolai, Roberto
Ortoleva, Vincenzo
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TRISTE FINE DI UN TIRANNO. LA MORTE DI POLICRATE DI SAMO NELLA SECONDA SOFISTICA Elisabetta Berardi . L a m o r t e d i P o l i c r a t e
T ra gli episodi della vita di Policrate, nelle opere dei retori della cosiddetta Seconda Sofistica (ma anche in autori ‘eccentrici’ come Luciano), ha un notevole spazio il rapporto che il tiranno ebbe con il poeta Anacreonte, cantore degli amori di corte. Il motivo, peraltro, è spesso in concomitanza con il ritratto di Policrate come uomo che indulge a molli piaceri, piaceri ‘ionici’. Tuttavia, l’episodio che ricorre con maggiore frequenza è quello della sua morte. Tutti i passi in questione paiono in qualche modo dipendere dal racconto che ne dà Erodoto nelle Storie. Come è noto, lo storico presenta due possibili motivazioni che spingono Orete, satrapo di Sardi, a uccidere a tradimento Policrate. La prima sottolinea la gratuità dell’insidia tramata contro il tiranno : la decisione di eliminarlo nasce dal contrasto tra Orete e Mitrobate, governatore di Dascilio. Mitrobate rinfaccia a Orete la sua debolezza perché non ha saputo sottomettere Samo al suo potere, mentre Policrate, con un pugno di uomini, si è impadronito dell’isola. Orete, punto nell’onore, decide di assassinare Policrate (iii ). A questa versione, generata con ogni evidenza dall’ambiente filotirannico di Samo, Erodoto appare sostanzialmente aderire. La seconda motivazione, che Erodoto riporta ma cui sembra dare minor credito, implica invece una originaria colpa di Policrate, che durante un banchetto avrebbe offeso, involontariamente o con intenzione, l’araldo di Orete, e si sarebbe attirato di conseguenza l’ira del satrapo. Ma, anche se il precedente comportamento di Policrate non pare la causa che induce Orete a ucciderlo, la sua avidità è ciò che consente alla trappola di scattare ed è vista, nell’etica di Erodoto, in una luce negativa. Orete attira Policrate con l’inganno, promettendogli parte delle sue ricchezze se lo pro. Asheri : . . iii ; presente all’offesa al messo si sarebbe trovato il poeta Anacreonte. Anche questa versione è samia, ma generata dalla fazione ostile al tiranno; sulla attendibilità dell’episodio del banchetto si veda la messa a punto di Asheri : -. Una fonte ‘nera’ sull’empietà e crudeltà di Policrate appare in Diodoro X , , che fornisce una differente motivazione dell’ostilità di Orete : Policrate aveva accolto a Samo dei fuoriusciti lidi, in fuga dal dominio di Orete, ma li aveva poi eliminati per impadronirsi delle loro ricchezze. . iii 123, 1: kai´ kvw ™imei´reto ga`r xrhma´tvn mega´lvw, «e poiché bramava grandemente le ricchezze ». Sulla condanna morale di Erodoto per la brama (çimerow), Asheri , commento a iii , . Nelle Storie Policrate appare raffigurato come tiranno dai tratti asiatici, sul modello dei re persiani ; nel primo logos a lui dedicato, Erodoto non tace che Policrate aveva raggiunto il po-
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teggerà dal re di Persia; simula di fronte a Meandrio, segretario del tiranno, inviato come osservatore, di avere casse ricolme d’oro, ma in realtà queste, sotto il primo strato, contengono solamente pietre. Orete fa leva sia sulla grande avidità di Policrate (iii , ) sia sui suoi ambiziosi progetti di dominio (iii , ). A nulla infatti valgono presso Policrate i molteplici avvertimenti, i presagi degli indovini, le preghiere degli amici, il sogno funesto della figlia : la brama di possedere le ricchezze promesse da Orete è più forte. Quando Policrate, persuaso dal resoconto di Meandrio, giunge, Orete lo uccide a tradimento e ne impala il cadavere, lasciandolo esposto alle intemperie. « Le molte fortune di Policrate – conclude Erodoto – terminarono così» (Polykrate´ow me`n dh` ai™ pollai` ey∫tyxi´ai e∫w toy^to e∫teley´thsan, iii , ). Il motivo dell’avidità di Policrate è un tema ben poco diffuso tra gli autori della Seconda Sofistica. Molto più produttivo è lo spunto offerto dalla chiusa con cui Erodoto suggella la fine del tiranno: la triste conclusione di una vita altrimenti fortunatissima. Anche questo tratto, del resto, si riallaccia a un precedente racconto delle Storie; la vita di Policrate è infatti narrata in due logoi: la conquista della tirannide e l’espansione di Samo (iii -) ; la morte del tiranno (iii -). Nel primo logos si colloca l’episodio dell’ ‘avvertimento’, momento tipico del racconto erodoteo: quando un uomo giunge al culmine del potere o della buona sorte, un monito gli ricorda la fragilità della condizione dei mortali. L’invito alla moderazione è rivolto a Policrate dal faraone Amasi; venuto a sapere dell’irresistibile ascesa del tiranno, Amasi gli invia una lettera in cui lo ammonisce: nessuna fortuna dura in eterno, ed è necessario che nella vita si alternino gioie e sventure. Policrate allora, dando tere con mezzi crudeli, ucciso un fratello, esiliato un altro, tradito gli amici. Per la sua caduta, determinata in primo luogo dall’inevitabile alternarsi della sorte, appaiono anche due corresponsabilità umane: la cupidigia di Policrate e la slealtà di Orete (Immerwahr : e n. ). . La figura di Meandrio, il segretario in cui Policrate riponeva massima fiducia, è quanto meno ambigua (nn. ; ). Sull’episodio delle finte ricchezze di Orete come ‘contrappasso’ per un precedente stratagemma monetario escogitato da Policrate si veda in questo volume Catenacci : pp. -. . Il sogno ha la funzione di ‘avvertimento’ indiretto (si veda da ultimo Milkason : ). La figlia (che in Erodoto non ha nome) sogna che il padre sia lavato in cielo da Zeus e unto dal Sole (iii , ; sul significato del sogno si veda infra, n. ) ; turbata, supplica il padre di non partire, e Policrate, irritato, la minaccia che al ritorno la priverà per molto tempo delle nozze, ma la figlia si dichiara disposta a rimanere più a lungo senza marito piuttosto che senza padre (iii , -). Luciano (La danza, ) testimonia che l’aspetto patetico della vicenda (anche qui, come in Erodoto, la figlia di Policrate non ha nome) era accentuato nel pantomimo in voga ai suoi tempi, in cui si metteva in scena «quanto soffrì Policrate e sua figlia, e la sua peregrinazione in Persia ». La vicenda diede origine con ogni probabilità al romanzo ellenistico Metioco e Partenope, in cui si immagina che il figlio dell’ateniese Milziade ami ‘Partenope’ (ovvero la «fanciulla »), figlia di Policrate; si veda Asheri : e, per la versione persiana della storia, il testo di Burkert in questo volume pp. -. . iii , -. Erodoto vede nella sua fine l’avverarsi del presagio avuto dalla figlia, perché, sospeso in tal modo (in cielo, quindi), era lavato da Zeus, cioè dalla pioggia, ed era unto dal sole, che faceva uscire umori dal suo corpo.
triste fine di un tiranno
ascolto ai suggerimenti di Amasi, decide di gettare in mare un prezioso anello con sigillo, allo scopo di infliggersi da sé una pena volontaria, ma minore di quella che il destino potrebbe riservargli. Tuttavia, la buona sorte sembra perseguitarlo: dopo pochi giorni, per un caso fortuito, l’anello, ritrovato nel ventre di un pesce, torna di nuovo in suo possesso. A questo punto Amasi decide di sciogliere i legami ospitali che aveva stretto col tiranno, per non dover soffrire – commenta Erodoto – quando per Policrate fosse giunta la fine della sua eccessiva felicità. Parte degli editori moderni espunge dal secondo logos dedicato al tiranno la frase immediatamente successiva al commento sull’esaurirsi della fortuna di Policrate, « come il re egizio Amasi gli aveva profetizzato» (tW^ oi™ ÊAmasiw o™ Ai∫gy´ptoy basiley`w proemantey´sato, iii , ). La frase, che compare già in codici antichi, testimonia come, se non per Erodoto, per lettori successivi delle Storie il collegamento tra l’ammonimento di Amasi e la morte di Policrate fosse ovvio e immediato. In una analoga lettura del personaggio data dagli esponenti della Seconda Sofistica (Policrate come vittima della sua ec. iii ss. : il faraone Amasi scrive a Policrate che, per non suscitare l’intervento della divinità invidiosa, è opportuno che scelga un oggetto che gli sia particolarmente caro e lo getti via. Policrate scaglia in mare l’anello, ma dopo pochi giorni giunge alla reggia un pescatore a donargli un pesce di eccezionale bellezza, nel cui ventre viene ritrovato l’anello. Policrate riferisce ad Amasi di questo intervento sovrannaturale, e il faraone comprende che per una così grande fortuna non potrà tardare un terribile rovescio; rompe quindi i suoi legami con Policrate (iii ). Il sacrificio dell’anello non era con ogni probabilità una perdita sufficiente (non era «degna » agli occhi degli dei, Fisher : n. ). Per una messa a punto sulla questione, e sull’aspetto del lancio dell’anello, che si configura come un ‘matrimonio con il mare’, Harrison : e n. ; più in generale, sui tratti archetipici del ‘tiranno’ (lussuria; fortuna; uso della scrittura ; legame con il mare) si veda in questo volume Catenacci pp. -. . Gli storici moderni divergono sull’individuazione di chi, Policrate o Amasi, fosse stato a sciogliere l’alleanza (o meglio, le relazioni amichevoli); su questo, e sull’episodio dello scambio epistolare, sicuramente costruito a posteriori, si veda Asheri : ; Dognini : -. La figura di Policrate, tiranno e quindi liminare tra Grecia e Asia, ben si presta a una comunicazione imperniata sulla scrittura (Hartog : ). . Così per esempio fa Rosén , di cui seguiamo il testo. . Si veda l’apparato di Rosén ad locum e, sulle famiglie dei codici erodotei, Hemmerdinger . Il verbo promantey´omai avrebbe qui la sua unica ricorrenza; il sostantivo pro´mantiw è invece attestato, in riferimento a profeti e sacerdoti (viii , ; i , ; ii , ; vi , -; vii , ; vii , ). Immerwahr (, n. ) difende il testo tràdito, osservando la struttura complessa della transizione da logos di Policrate a logos di Orete, in cui la prima parte riassume in due segmenti il senso del logos che è terminato (l’avvertimento di Amasi, la caduta di Policrate: « le molte fortune di Policrate terminarono così, come il re Amasi gli aveva profetizzato»), e la seconda anticipa gli eventi successivi (la punizione di Orete: «Non molto tempo dopo la vendetta di Policrate raggiunse Orete», iii , ) ; questo schema ricorre anche altrove in Erodoto (per es. iii , ). Notiamo inoltre come la ‘fine’ della fortuna di Policrate sia profetizzata da Amasi (e∫w te´low ... kakv^w e∫teley´thse pro´rrizow, iii , ; e¢ma&e oçti ... oy∫k ey® teleyth´sein me´lloi Polykra´thw, iii , ), e sottolineata da Erodoto (Polykra´teow me`n dh` ai™ pollai` ey∫tyxi´ai e∫w toy^to e∫teley´thsan) : a commento della morte di Policrate, una ripresa ulteriore del primo logos con la menzione di Amasi non parrebbe quindi fuor di luogo, e potrebbe essere genuinamente erodotea.
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cessiva buona sorte), l’ultimo gesto del tiranno, che corre verso le ricchezze promesse da Orete, è quasi sempre taciuto. Nella figura di Policrate è individuato soprattutto un esempio dell’ineluttabile volgersi della sorte con cui si ristabilisce l’equilibrio fra gli uomini, un insegnamento che Amasi aveva saputo comprendere. Questo movimento in due tempi, di eccessivo innalzamento di un uomo e della sua rovinosa caduta, è uno schema ricorrente in Erodoto, di frequente associato al motivo del monito (spesso) disatteso: il ‘potente orgoglioso’ e l’‘ammonimento inascoltato’ che compaiono nel racconto dello scambio epistolare tra Policrate e Amasi, trovano l’espressione più celebre nel dialogo in cui Solone di Atene ricorda a Creso re dei Lidi, allora al culmine della sua potenza, che nessun mortale può ritenersi felice prima che abbia terminato la sua vita e che la divinità è «invidiosa » dell’eccessiva fortuna umana (i -). Creso allontana Solone, convinto che questi abbia usurpato la sua fama di sapienza, ma dopo poco conosce un primo grande dolore, la morte di suo figlio Atys (i ), in cui aveva posto tutte le sue speranze di discendenza (l’altro figlio maschio era muto dalla nascita); perde infine il suo impero e pare destinato a morire sul rogo, nel momento in cui, fraintendendo un oracolo delfico, sceglie di scontrarsi con Ciro (i ). Anche Creso, sia pur in modo parziale, funge a sua volta da ‘consigliere’: salito sulla pira, rivela al vincitore Ciro, re dei Persiani, l’insegnamento di Solone, che ha sperimentato di persona con la sua sconfitta. Ciro riconosce la bontà del discorso di Creso, ma ciò non impedisce che il destino gli riservi a sua volta una tragica fine : successivamente Ciro muore in una battaglia contro i Massageti e la regina Tomiri, sua nemica, ne fa decapitare il cadavere e gettare la testa in un otre colmo di sangue (i ). Sulla linea di uno schema già erodoteo, per i retori della Seconda Sofistica Policrate quindi diviene, come e con Creso, esempio dell’uomo incapace di comprendere la mutevolezza della sorte e di ascoltare consigli di moderazione ; talora assurge a emblema della vittima predestinata dei mutamenti della fortuna. Il senso religioso che permeava il racconto di Erodoto in età imperiale si muta infatti nella percezione dell’onnipotenza della dea Tyche, signora delle vicende umane. La somiglianza tra il destino di Policrate e quello di Creso, come dicevamo, era già messa in evidenza nelle Storie di . i ss. Creso, come è stato notato, ha una ‘seconda carriera’ (Harrison : ) come consigliere di Ciro, e Ciro a sua volta ricalca lo schema già sperimentato da Creso, ascesa, ammonimento, caduta. Su questo, sui limiti di Creso come ‘consigliere’, e sulle altre storie modellate sullo schema ‘potente orgoglioso’/‘consigliere inascoltato’, Immerwahr : -, e il capitolo di Harrison , Solon and Human Fortune, in specie -. Il gioco di coppie che si profila nelle Storie, Creso-Solone, Policrate-Amasi, ha inoltre un incrocio che non pare casuale, il fatto che Erodoto riferisca come Solone abbia fatto visita a Amasi prima che il faraone ammonisca Policrate (i , ; su questo ancora Harrison : ).
triste fine di un tiranno
Erodoto da identiche movenze narrative, sottolineata da riprese linguistiche e concettuali, ed è verisimile, data la costanza con cui l’associazione dei due personaggi si ripresenta nella letteratura successiva, che questa fosse divenuta luogo comune nelle scuole di retorica. Talvolta, alla coppia costituita da Policrate e Creso si aggiunge il nome di Ciro di Persia che, nel giro vorticoso della sorte, spodesta Creso ed è poi a sua volta sconfitto. Esiste comunque nei discorsi della Seconda Sofistica una seconda, minoritaria, immagine di Policrate, considerato come l’unico responsabile della propria fine ingloriosa a causa della sua avidità o della sua lussuria. Questa interpretazione mantiene un tratto comune con la principale lettura del personaggio (cioè Policrate vittima della sorte): il tratto della straordinaria fortuna – o felicità – del tiranno. La prosperità di cui Policrate gode funge così da aggravante in un exemplum di carattere moralistico: benché Policrate possegga ogni bene, prova il desiderio di «avere di più». . P o l i c r a t e e la Ty c h e Osserviamo da vicino il primo gruppo di exempla, che accentuano il ruolo della sorte nella fine di Policrate. Una menzione significativa è contenuta nell’or. del corpus di Dione di Prusa, non a caso intitolata Sulla fortuna. Si tratta di un’orazione ritenuta spuria per motivi di stile e contenuto, e che è con ogni probabilità attribuibile a Favorino di Arles. Policrate vi compare nel proemio, all’interno di un elenco di personaggi storici e mitici e uomini comuni che accusano Ty´xh : . Erodoto I -. Si veda la definizione della divinità «invidiosa » della eccessiva buona sorte umana (Storie i , e iii , ) ; o il peso dato alla sventura di restare senza discendenti (i , e iii , ) ; per questi e altri punti di contatto cfr. Asheri : ; Harrison : -. La somiglianza tra i due dialoghi induce a pensare che la fine di Policrate sia analoga a quella di Creso : conseguenza della sua eccessiva fortuna e del mancato ascolto degli inviti alla moderazione. In realtà, il comportamento di Policrate non ricalca esattamente quello di Creso, poiché egli, almeno in parte, cerca di seguire l’ammonimento di Amasi, ma il tentativo, forse di limitato impegno (si veda supra, n. ), non riesce. In seguito comunque, a causa della sua avidità, Policrate non ascolta gli avvertimenti che gli giungono da ogni parte e cade nella trappola di Orete (supra, p. ). A proposito delle Storie si è anche parlato spesso di ‘tragedia di Creso’ e ‘tragedia di Policrate’ ; sui limiti di questa definizione, in particolare per Policrate, Saïd : -. . Sul ruolo della tradizione nel costituirsi di questi exempla, Barigazzi : s. . Nei testi successivi a Erodoto non c’è la netta distinzione, formulata da Solone nel libro i delle Storie, tra ey∫tyxi´h e o¢lbow, fortuna (transitoria) e felicità (duratura, riconoscibile all’uomo solo dopo la sua morte). Sulla straordinaria presenza del tema della fortuna di Policrate in Erodoto, si veda Musti pp. - in questo volume. . È la seconda orazione del corpus di Dione che porta questo titolo; delle altre (or. , Sulla fortuna ; or. , Sulla fortuna ), la prima è anch’essa con ogni probabilità spuria (traduzione in Amato ), la terza è generalmente ritenuta di Dione. Sulla non autenticità delle orr. e von Arnim : - (che sviluppa dubbi precedenti); per la terza, lo studioso ipotizzò () che si trattasse di un collage di materiale dioneo compiuto dall’anonimo autore delle altre
elisabetta berardi
a∫koy´saiw d a£n ai∫tivme´nvn ay∫th`n kai` gevrgv ^ n kai` e∫mpo´rvn kai` ploysi´vn e∫pi` toi^w xrh´masi kai` kalv ^ n e∫pi` toi^w sv ´ masi kai` Pan&ei´aw e∫pi` tv ı^ a∫ndri` kai` Kroi´soy e∫pi` tv ı^ paidi` kai` «Astya´goyw h™tth&e´ntow kai` Polykra´toyw e™alvko´tow. kai` Pe´rsai de` e∫me´mfonto th`n Ty´xhn meta` toy^ Ky´roy sfagh´n.
Sentiresti rivolgerle accuse da contadini, mercanti e individui facoltosi per aver perso le loro ricchezze; da begli uomini per danni al loro aspetto; da Pantea per la morte del marito, da Creso per quella del figlio ; da Astiage quando fu sconfitto, da Policrate quando venne catturato. I Persiani biasimarono Tyche dopo che a Ciro fu tagliata la gola (, -).
Nel riferire questi exempla, l’oratore manipola con notevole libertà il dato tradizionale ; Pantea, in realtà, accusa se stessa e Ciro per la morte del marito ; Astiage rimprovera Arpago, suo generale e parente, passato dalla parte di Ciro. Creso se, come probabile, compare qui come vittima della perdita del figlio Atys, si scaglia contro Adrasto, da lui purificato e accolto in casa, colpevole di aver ucciso il giovane, e contro Zeus, tutore del focolare e dei sodalizi, nel cui nome aveva ospitato l’esule Adrasto. Nelle Storie inoltre non vi è traccia dei lamenti dei Persiani per la morte di Ciro, né Erodoto ritrae lo stato d’animo di Policrate dopo la cattura. D’altro canto, nell’or. l’oratore non dice espressamente che Tyche intervenga a punire l’avidità di Policrate. Piuttosto la chiusa dell’orazione offre la chiave di lettura dell’intero didue orazioni Sulla fortuna, ma ora si tende a riconoscerne la paternità a Dione (sull’argomento, Desideri : n. ). L’orazione è un discorso indirizzato a un pubblico specifico, un gruppo di abitanti di Napoli (Crosby : ) ; Barigazzi : ss., sviluppando argomentazioni di studiosi precedenti, ne ha rivendicato in modo convincente la paternità a Favorino (si veda anche Barigazzi : -; traduzione italiana del discorso in Amato : -). Contra, Torraca : , n. , che ritiene la questione ancora aperta: le tre orazioni Sulla fortuna potrebbero essere abbozzi di discorso di Dione, materiale destinato a essere amalgamato dall’autore in un testo di ampio respiro, mai composto. . L’analogia di costrutto tra la vicenda di Pantea e quello di Creso fa propendere per traduzioni come: «la morte del marito», per Pantea, «la morte del figlio », per Creso: è probabile che l’autore dell’orazione non si riferisca al fatto che Creso aveva un figlio sordomuto, dalla cui menomazione era afflitto (Erodoto I , supra, p. ), ma al dolore causatogli dalla morte prematura e tragica del figlio Atys, suo erede designato, in cui aveva posto le sue speranze di discendenza (Erodoto I -). . In realtà la prigionia di Policrate dovette durare ben poco; l’autore dell’or. Sulla fortuna vuole rappresentare il momento esatto in cui la sorte del tiranno si rovescia, più che la sua morte, che seguì quasi immediatamente la cattura; per una analoga scelta narrativa, infra, p. (Orete «cattura » Policrate, in Massimo di Tiro). . Per Pantea, Senofonte, Ciropedia, vii , ; per Astiage, Erodoto I . . Erodoto I ; questo è l’unico exemplum in cui l’oratore non manipola il dato tradizionale, ma lo interpreta secondo lo spirito dei suoi tempi: egli identifica infatti Zeus e Tyche (or. , ; ). . Questo anche perché, come nota Barigazzi, la morte di Ciro non segnò la fine della fase espansionistica dell’impero persiano ; l’interpretazione del fatto in chiave di grave sventura era però diffusa in età ellenistica: cfr. Demetrio Falereo, peri` ty´xhw, fr. Wehrli = Polibio , e Barigazzi : .
triste fine di un tiranno
scorso ; la conclusione dell’oratore è che «la vita degli uomini non differisca in nulla ..., nel corso dei rivolgimenti giornalieri, da una processione» (oy∫de`n ... o™ bi´ow tv ^ n a∫n&rv ´ pvn pomph^w diafe´rein e∫n tai^w h™merhsi´aiw metabolai^w, ) : è la sorte a guidarla dando ora all’uno ora all’altro. Tyche ha governato il trapasso del regno dei Medi nelle mani di Ciro (; ) ; ha dato una svolta alla vita di Creso facendolo incontrare con Solone, che intacca le sue certezze di un vita felice () ; Tyche concede e toglie doni agli uomini, umiliando i superbi (-). L’attribuzione a Policrate di lamenti contro la sorte che lo ha tradito e soprattutto la chiusa del discorso, che accenna all’immagine della vita come processione (pomph´), derivano con ogni probabilità da un fondo comune di ispirazione cinico-stoica, ben attestato nelle opere di Luciano. Esso nasce all’interno della similitudine, diffusissima nella letteratura, della vita come teatro o occasione festiva, in cui a ciascuno è assegnato un ruolo per un determinato tempo, scaduto il quale Tyche si presenta a richiedere la restituzione della maschera : molti ‘attori’, a differenza del vero saggio, si rifiutano di abbandonare il loro ruolo. Così, come abbiamo appena visto, nell’orazione Sulla fortuna Policrate si lamenta del ‘cambio di ruolo’, che lo fa, da tiranno, prigioniero. Su questa linea di vorticosa mutevolezza della sorte incontriamo Tyche, Creso e Policrate in un famoso passo del Menippo o la negromanzia di Luciano. Menippo sta contemplando la folla che popola il regno dei morti e così commenta: Toiga´rtoi e∫kei^na o™rv ^ nti´ moi e∫do´kei o™ tv ^ n a∫n&rv ´ pvn bi´ow pompW^ tini makra^ı proseoike´nai, xorhgei^n de` kai` diata´ttein eçkasta h™ Ty´xh ... polla´kiw de` kai` dia` me´shw th^w pomph^w mete´bale ta` e∫ni´vn sxh´mata oy∫k e∫v ^ sa ei∫w te´low diapompey^sai v ™ w e∫ta´x&hsan, a∫lla` metamfie´sasa to`n me`n Kroi^son h∫na´gkase th`n toy^ oi∫ke´toy kai` ai∫xmalv ´ toy skeyh`n a∫nalabei^n, to`n de` Maia´ndrion te´vw e∫n toi^w oi∫ke´taiw pompey´onta th`n toy^ Polykra´toyw tyranni´da metene´dyse. kai` me´xri me´n tinow ei¢ase xrh^s&ai tv ı^ sxh´mati. e∫peida`n de` o™ th^w pomph^w kairo`w pare´l&W, thnikay^ta eçkastow a∫podoy`w th`n skeyh`n kai` a∫podysa´menow to` sxh^ma meta` toy^ sv ´ matow v ç sper h®n pro` toy^ gi´gnetai, mhde`n toy^ plhsi´on diafe´rvn. ÊEnioi de` y™p« a∫gnvmosy´nhw, e∫peida`n a∫paitW^ to`n ko´smon e∫pi. Tyche dà ricchezza a Creso () ; Creso sarà poi sconfitto () ; assiste (; ) e poi abbandona Ciro (). . Un’altra orazione, questa sicuramente di Favorino, Sull’esilio , ll. - (citiamo secondo l’edizione di Barigazzi ) presenta Policrate come abbandonato da Tyche: to`n de` Sa´mion Polykra´thn h™ Ty´xh proy¢doken, «Tyche tradì Policrate di Samo». Barigazzi : s. ritiene che il fugace rimando sia chiaro al pubblico, grazie alla sua notorietà (l’accenno cursorio a un fatto noto è del resto procedimento frequente in Favorino); gli altri editori lo eliminano o lo considerano mutilo, sulla base del testo dell’orazione Sulla fortuna, dove in realtà la vicenda è tratteggiata in modo ben poco più ampio: si veda supra, p. e n. . . In Luciano la vita è spesso paragonata a un’opera teatrale (Nigrino, or. , ; La nave o le preghiere, or. , ; Icaromenippo, or. , ). Sulla genesi e sul diffondersi di quest’immagine Helm , in particolare b : -; Dodds (: -) ; sulla sua successiva fortuna, per influenza sia della letteratura pagana che di quella cristiana, Curtius (: -).
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sta^sa h™ Ty´xh, a¢x&ontai´ te kai` a∫ganaktoy^sin v ç sper oi∫kei´vn tinv ^ n sterisko´menoi kai` oy∫x aÇ pro`w o∫li´gon e∫xrh´santo a∫podido´ntew.
« Ebbene, mentre guardavo quelle anime mi sembrava che la vita umana fosse simile a una lunga processione e che Tyche allestisse e disponesse ogni cosa ... Spesso proprio nel bel mezzo della processione cambia i costumi di alcuni personaggi e non li lascia sfilare fino alla fine come era stato loro assegnato, ma mutando l’abito a Creso lo costringe ad assumere la veste di schiavo e prigioniero di guerra, mentre a Meandrio, che fino a quel momento sfilava fra gli schiavi, fa indossare la tirannide di Policrate e gli permette di portarla fino a un certo punto. Quando poi il tempo della processione è finito, allora ciascuno restituisce l’abito, spoglia il costume insieme col corpo e, tornato com’era prima, non differisce in nulla dal vicino. Alcuni, per ignoranza, quando Tyche si accosta a loro e richiede gli ornamenti, si dolgono e si sdegnano, come se venissero privati di cose proprie e non restituissero, invece, ciò che hanno avuto in uso per breve tempo» (or. , ).
Nella metafora della processione Creso e Policrate assurgono a emblema dell’uomo potente che subisce un capovolgimento per lui inaccettabile prima del termine della sua vita (Tyche «costringe », h∫na´gkase, Creso ad assumere la veste servile), mentre altri, spesso umili, ne prendono il posto. Il fatto che Menippo precisi di veder sfilare Meandrio, segretario e successore di Policrate, fra gli schiavi, è un particolare significativo, su cui torneremo tra poco. In un’altra operetta di Luciano affiora un ritratto ancor più parodico della caduta del potente superbo: in questo ruolo compaiono i tre sovrani delle Storie di Erodoto, Creso, Ciro e Policrate. Si tratta del Caronte o gli osservatori, un dialogo in cui Ermes e Caronte osservano dall’alto l’affaccendarsi degli uomini, in una sorta di dimensione atemporale, in cui passato, presente e futuro coesistono. I due talvolta si avvicinano alle singole realtà e possono udire quanto avviene. La menzione di Policrate nell’operetta è preceduta (e ciò non pare casuale) da un dialogo tra Creso e Solone (or. , -), che ricalca quello delle Storie di Erodoto. Ermes indica a Caronte i futuri snodi della sorte che attende i personaggi, con la consueta alternanza di sconfitte e vittorie : Creso si affanna a portare oro all’oracolo di Delfi che, mal interpretato, lo indurrà a distruggere il suo impero () ; il vincitore Ciro incombe su di lui, e Creso, una volta sconfitto, comprenderà le parole di Solone. Ciro, a . Menippo nel dialogo indica Meandrio come schiavo e successore di Policrate; nella versione di Erodoto è un grammatisth´w che gode della fiducia del tiranno, e che è la prima vittima dell’astuzia di Orete. Gli storici moderni sospettano che Meandrio non fosse caduto nella trappola di Orete, o che almeno si fosse accordato con questi per succedere a Policrate: in effetti, dopo la morte del tiranno, Meandrio ritorna indisturbato a Samo e dopo poco si impadronisce del potere; è evidente che nella presentazione di Meandrio Erodoto deve aver attinto a due fonti contrastanti, di cui una ‘nera’ risalente al clan di Policrate, e che risulta determinante nel racconto dei fatti successivi alla morte di questi; sulla figura di Meandrio in particolare Roisman ; Dognini . Il tradimento di Meandrio appare in un’altra operetta di Luciano, Caronte o gli osservatori; si veda infra, n. .
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sua volta, dopo aver assaporato il trionfo, finirà giustiziato dalla regina Tomiri (). Ma ecco che Caronte è attratto dalla vista di un superbo individuo e ne domanda conto a Ermes: XAR.∫Ekei^now de` ti´w e∫stin, v ® »Ermh^, o™ th`n porfyra^n e∫festri´da e∫mpeporphme´now, o™ to` dia´dhma, v ı© to`n dakty´lion o™ ma´geirow a∫nadi´dvsi to`n ∫ix&y`n a∫natemv `n nh´sv ı e∫n a∫mfiry´tW ; basiley`w de´ tiw ey¢xetai ei®nai. ERMHS Ey® ge parv ı dei^w, v ® Xa´rvn. a∫lla` Polykra´thn o™raı^w to`n Sami´vn ty´rannon paneydai´mona h™goy´menon ei®nai. a∫ta`r kai` oy©tow ay∫to`w y™po` toy^ parestv ^ tow oi∫ke´toy Maiandri´oy prodo&ei`w «Oroi´tW tv ı^ satra´pW a∫naskolopis&h´setai a¢&liow e∫kpesv `n th^w ey∫daimoni´aw e∫n a∫karei^ toy^ xro´noy. kai` tay^ta ga`r th^w Klv&oy^w e∫ph´koysa. XAR. ÊAgamai Klv&oy^w gennikh^w. kai^e ay∫toy´w, v ® belti´sth, kai` ta`w kefala`w a∫po´temne kai` a∫naskolo´pize, v ™ w ei∫dv ^ sin a¢n&rvpoi o¢ntew. e∫n tosoy´tv ı de` e∫paire´s&vn v ™w a¢n a∫f« y™chlote´roy a∫lgeino´teron katapesoy´menoi. «Egv ` de` gela´somai to´te gnvri´saw ay∫tv ^ n eçkaston gymno`n e∫n tv ı^ skafidi´v ı mh´te th`n porfyri´da mh´te tia´ran h£ kli´nhn xrysh^n komi´zontaw.
Car. : – Ma chi è, Ermes, quell’uomo che ha il mantello di porpora allacciato e il diadema ? Il cuoco ha aperto il pesce e gli consegna l’anello ‘nell’isola che il mar circonda; e mostra d’esser re egli il vanto’. Erm. : – Sei bravo a parodiare, Caronte! Ora stai vedendo Policrate, il tiranno di Samo, che ritiene di essere completamente felice; ma anche lui, tradito da Meandrio, il servo che lo assiste, sarà crocefisso dal satrapo Orete, perdendo in un attimo, misero, la sua felicità: questo ho sentito da Cloto. Car. : – Ammiro il nobile agire di Cloto: bruciali quelli, carissima, decapitali e crocifiggili, affinché sappiano di essere uomini e nel frattempo innalzali, affinché da più alto possano cadere con più dolore. Io riderò quando riconoscerò ciascuno di essi nudo nel mio battello, senza più veste di porpora o tiara o divano d’oro (or. , ).
Le tre morti che Caronte invoca per i potenti superbi alludono ai tre notissimi esempi: Creso sarà condotto sul rogo (kai^e ay∫toy´w), Policrate impalato (a∫naskolo´pize), a Ciro sarà mozzato il capo (ta`w kefala`w a∫po´temne). L’avidità (çimerow) di Policrate è taciuta: la sua morte è inevitabile, così come Creso deve essere vinto da Ciro, Ciro da Tomiri, regina dei Massageti: . Il verso risulta dalla fusione di due emistichi omerici: il primo è Od. i ; il secondo emistichio è formulare ed è qui lievemente modificato (Il. vi ; viii ; xiv ). . In questo passo, in modo più esplicito che nel Menippo, Meandrio è additato come traditore di Policrate. Di questo tradimento non vi è traccia nel racconto erodoteo dell’inganno di Orete (supra, n. ) ; successivamente però Erodoto ricorda che gli avversari accusano Meandrio di essere uno schiavo (iii , ; iii , ). Gli storici moderni sono divisi sulla possibilità che Meandrio fosse effettivamente uno schiavo, come peraltro la sua posizione di grammatisth´w parrebbe indicare; sull’argomento si veda Dognini : s. In ogni caso, è più che plausibile che qui Luciano chiami Meandrio «schiavo traditore», non perché convinto della veridicità della tradizione ostile a Meandrio che affiora nelle Storie, ma indotto dal suo stesso contesto (Roisman : n. ) : il tradimento del «servo » è funzionale ad accentuare la rivalsa dei poveri sui ricchi, dei deboli sui potenti.
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Cloto ha già decretato il loro destino. Piuttosto, il passo esplicita un elemento sotteso alla descrizione della processione del Menippo: Policrate è colto in un atteggiamento tracotante, è colpevole di yçbriw. Policrate si vanta della ‘sua’ fortuna ma la Fortuna non gli appartiene. L’exemplum serve da ammonimento ai potenti e appaga anche il sentimento di rivalsa delle classi umili ; in questa direzione, più che nel ricorso a fonti filotiranniche di Samo, si spiega la presenza di Meandrio ‘schiavo traditore’. Luciano pare evidenziare la giustizia della sorte, a scopo oltre che moralistico, consolatorio: essa è la Grande Eguagliatrice, toglie beni transitori dalle mani di qualcuno così stolto e superbo da illudersi di possederli veramente, mentre gli umili assistono alla caduta del potente, quando non ne prendono il posto. Luciano comunque non dà una lettura univoca, fissata per sempre, del destino del ‘potente superbo’. Una carica meno polemica si avverte nel dialogo La nave o le preghiere, in cui anzi pare prevalere l’originaria interpretazione erodotea della vita umana soggetta all’inevitabile alternanza di prosperità e sventura ; Licino, la maschera di Luciano nell’opera, osserva che la divinità è invidiosa dell’eccessiva fortuna dell’uomo: ... v ® a¢riste, a¢dhlon o™po´son xro´non biv ´ seiw ploytv ^ n ... h£ e∫&e´leiw katari&mh´somai´ soi ... e∫ni´oyw de` kai` zv ^ ntaw a∫posterh&e´ntaw v © n ei®xon y™po´ tinow baska´noy pro`w ta` toiay^ta dai´monow ; a∫koy´eiw ga´r poy to`n Kroi^son kai` to`n Polykra´thn poly´ soy ploysivte´royw genome´noyw e∫kpeso´ntaw e∫n braxei^ tv ^ n a∫ga&v ^ n a™pa´ntvn.
... è incerto, carissimo, quanto tempo vivrai nella ricchezza ... O vuoi che ti enumeri ... alcuni che invece furono privati in vita di quello che avevano da una divinità invidiosa di tali possessi? Hai certo sentito parlare di Creso e di Policrate che, divenuti molto più ricchi di te, perdettero in un attimo tutti i loro beni (or. , ).
Per Massimo di Tiro, invece, nel binomio ‘potente orgoglioso’/‘consigliere inascoltato’ è quest’ultimo, il sofo´w, a costituire spesso il fulcro dell’interesse per il racconto erodoteo; Policrate non comprende l’avvertimento di Amasi, Creso quello di Solone. L’intento è chiaro: nel ‘consigliere’ che ri. . Il rivolgersi vorticoso della Fortuna ritorna in un autore del ii secolo d.C., il medico Galeno di Pergamo, aperto (spesso in modo dialettico e polemico) agli influssi della Seconda Sofistica. Nel suo Protrettico all’arte medica (, -) accusa chi si abbandona a Tyche di pigrizia e di incapacità ; gli esempi che adduce (di nuovo Policrate, Creso, Ciro) sono un chiaro segno della forza della tradizione sul costituirsi degli exempla: «Tra tutte queste persone tu vedrai anche il famoso Creso di Lidia, e Policrate di Samo e forse ti stupirai di vedere il Pattolo trasportare l’oro per il primo e i pesci del mare obbedire al secondo [si allude al famoso episodio dell’anello nel pesce, n. ]. Con loro vedrai anche Ciro, Priamo e Dionigi. Ma poco tempo dopo questi prodigi, vedrai Policrate messo in croce, Creso sottomesso da Ciro e Ciro a sua volta da altri ...». Ciro è ucciso, in realtà, non sottomesso: ci troviamo di fronte a un ritratto analogo a quello di Policrate «prigioniero » (n. ). . Si veda supra, n. .
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corda la mutevolezza della fortuna l’oratore identifica se stesso. Massimo menziona la congerie di mali abbattutisi su chi non diede ascolto a moniti improntati a equilibrio e misura; il cenno alle vicende parallele di Creso e Policrate è funzionale sia all’esaltazione della sofi´a di Solone e Amasi, sia al conseguimento del successo presso il proprio pubblico, nel momento in cui Massimo si propone come erede accreditato di un sapere antico (or. , I benefici delle circostanze avverse) : oçtan de` ¢idv pa´nta ey∫tyxoy^nta, kai` kybernh´thn kai` strathgo´n, kai` ∫idiv ´ thn kai` a¢rxonta, kai` a¢ndra kai` po´lin, diapistv ^ tai^w ey∫tyxi´aiw, v ™ w So´lvn Kroi´sv ı, v ™ w ÊAmasiw Polykra´tei. . Kroi^sow me`n ga`r ei®xen ey¢ippon gh^n, Polykra´thw de` ey¢nev &a´lattan. a∫ll« oy∫de`n be´baion, oy∫x h™ gh^ Kroi´sv ı , oy∫x h™ &a´latta Polykra´tei, a∫ll« e∫la´mbanen «Oroi´thw me`n Polykra´thn, Kroi^son de` Ky^row. kai` diadoxh` met« ey∫tyxi´an makra`n a∫&ro´vn kakv ^ n. dia` toy^to So´lvn oy∫k ey∫daimo´nise Kroi^son, sofo`w ga`r h®n. dia` toy^to ÊAmasiw a∫pei´pato Polykra´thn, a∫sfalh`w gar h®n.
Ma quando vedo chi ha successo in ogni circostanza, un pilota o un generale, un privato o un governante, un uomo o una città, diffido della sua fortuna, come Solone fece di quella di Creso, Amasi di quella di Policrate. . Creso regnava su una terra ricca di cavalli, Policrate su un mare solcato dalle sue belle navi, ma niente di ciò era sicuro, né la terra di Creso, né il mare di Policrate; Orete catturò Policrate, Ciro catturò Creso, e una congerie di mali seguì un lungo periodo di prosperità. Questo è il motivo per cui Solone non considerò Creso felice, poiché era sapiente; questo è il motivo per cui Amasi ammonì Policrate, poiché era di saldo giudizio (or. , -).
Negli exempla che Massimo ricorda, nulla è detto dell’atteggiamento di Policrate e Creso, ma indirettamente si evince che la cecità di cui danno prova è riconducibile a una forma di yçbriw : Policrate non ascolta Amasi, Creso Solone, perché esaltati dalla loro presunta ‘felicità’. I due elementi (tracotanza di Policrate e ‘consigliere inascoltato’) si ritrovano insieme in modo esplicito nell’or. (Il vero fine della vita: virtù o piacere?, ). Questa volta Massimo tace la fine di Policrate, ma essa incombe sul ritratto della vana superbia del tiranno : Polykra´thn me`n ga`r oy∫de` to` e∫j Ai∫gy´ptoy noy&e´thma e¢peisen mh` fronei^n me´ga e∫pi` . Alcune orazioni di Massimo di Tiro paiono esser state effettivamente pronunciate, anche se non è possibile stabilire se vi siano state variazioni tra stesura scritta ed esecuzione; il fatto che la maggior parte di esse sia di estensione ridotta fa pensare che costituiscano una singolare innovazione dell’autore, una contaminazione tra il genere della lalia´ sofistica (breve ‘pezzo’ brillante, introduttivo alla performance vera e propria) e il discorso di ammaestramento morale rivolto da un maestro a un pubblico di giovani allievi (Trapp : n. ; n. ; -). Per le orazioni seguiamo il testo di Koniaris . . Erodoto I ; iii . . Erodoto I ss. . Anche in questo caso, secondo un procedimento che abbiamo già visto in Favorino di Arles, la notorietà dell’exemplum ne consente a Massimo un uso sintetico nel discorso (n. ).
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ey∫daimoni´aı, oçti e∫ke´kthto &a´lattan «Ivnikh`n kai` trih´reiw polla`w kai` sfendo´nhn kalh´n, kai` «Anakre´onta e™tai^ron kai` paidika` Smerdi´hn. a∫ll« oiçde me`n e∫oi´kasin oi™ dyna´stai e∫jhpathme´noiw y™po` a™bro´thtow kai` h™donh^w, ey∫prosv ´ pvn kakv ^ n.
« Nemmeno l’ammonimento dall’Egitto poté persuadere Policrate a non essere orgoglioso della sua felicità, poiché possedeva il mare degli Ioni e una flotta di triremi e un bellissimo anello, e aveva Anacreonte come amico e come amante Smerdi. Tutti questi governanti sembrano uomini ingannati da mollezza e piacere, mali seducenti ». (or. , )
Una lettura come quella di Massimo e Luciano, che indicano spesso in Policrate la colpa di tracotanza o lussuria, sottende l’idea di una corresponsabilità del tiranno nella sua fine, avvicinandosi al significato del testo erodoteo, in cui sorte inviata dagli dei e colpa umana congiurano a provocare la catastrofe del potente. Ma veniamo ora alla lettura minoritaria, di Policrate come unico responsabile dei suoi mali. . L ’ a v i d o P o l i c r a t e Non si trova alcun cenno al ruolo di Tyche in un altro discorso contenuto nel corpus di Dione di Prusa, l’or. , Sulla prepotenza, un testo dai toni diatribici e con ogni evidenza destinato alla predicazione popolare. La vicenda del tiranno di Samo è preceduta da esempi mitici e storici di avidità punita, Eteocle e Polinice, Paride e Serse. La rassegna è conclusa proprio da Policrate: kai` mh`n Polykra´thn fasi´n, eçvw me`n Sa´moy mo´nhw h®rxen, ey∫daimone´staton a™pa´ntvn gene´s&ai. boylo´menon de´ ti kai` tv ^ n pe´ran polypragmonei^n, diapley´santa pro`w «Oroi´thn, v ™ w xrh´mata la´boi, mhde` r™aıdi´oy ge &ana´toy tyxei^n, a∫lla` a∫naskolopis&e´nta y™po` toy^ barba´roy diaf&arh^nai.
« Dicono che Policrate, finché governò sulla sola Samo, fu il più felice fra tutti. Ma quando volle intromettersi un po’ negli affari della terra che la fronteggia, salpato alla volta di Orete per impossessarsi di ricchezze, non ottenne neppure in sorte una rapida fine, ma morì impalato dal barbaro» (, ).
La vicenda di Policrate segna uno snodo nella trama del discorso: a questo punto infatti Dione indica le fonti cui ha attinto i precedenti exempla, il mito e la storia, e prosegue poi affermando che anche il dio si preoccupa di inter. Sulla natura dell’or. , una orazione-canovaccio ripetibile in luoghi diversi, anche per l’assenza di introduzioni legate a situazione specifica, nel solco della predicazione diatribica, cfr. Schmid : -; Desideri : s. . Dione dichiara che le fonti di questo e degli esempi precedenti sono racconti mitici tramandati dai poeti e vicende storiche tratte da prosatori («Ho introdotto queste vicende perché fossero a voi di esempio, da tempi antichissimi, e da epoche successive, da racconti poetici e di altra natura», , ). Provengono dal mito (filtrato dal teatro) le vicende dei tebani Eteocle e Polinice ; dal mito (filtrato dall’epos) la colpa di Paride che causa la distruzione di Troia e la
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venire per punire l’avidità. Dione riporta allora due casi esemplari, in cui un oracolo ambiguo spinge il colpevole a una più celere catastrofe: gli Spartani chiedono l’avallo dell’oracolo alla loro ambiziosa espansione in Arcadia; gli Ateniesi cercano conferme dal dio per la progettata spedizione in Sicilia. Entrambi, fidando in un responso che non hanno compreso, muovono all’attacco e sono pesantemente sconfitti. È agevole quindi dedurre che, per l’oratore, Policrate, ricordato in precedenza tra i colpevoli che scontano la loro avidità senza che il dio li spinga alla rovina, trovi il castigo in se stesso, non nel divino o nell’onnipotenza di Tyche: la straordinaria felicità del tiranno termina quando desidera di più. L’or. ha una chiusa molto significativa ; Dione infatti riporta come ultimo l’esempio di Creso, ma il re dei Lidi compare in un ruolo altamente positivo (or. , ). Anche l’aneddoto che lo riguarda ha, come quello di Policrate, la sua fonte in Erodoto; nel libro vi delle Storie è raccontata l’origine della fortuna degli Alcmeonidi: Creso, grato all’ateniese Alcmeone per l’assistenza che aveva dato ai Lidi in visita a Delfi, gli consente di portar via dai depositi quanto può sulla sua persona. Con uno stratagemma Alcmeone si carica in quantità straordinaria di polvere d’oro e Creso, compiaciuto, gli dona ancora altrettanto. Nell’or. l’aneddoto è pesantemente manipolato da Dione per i suoi fini : si racconta di come Creso permetta ad «alcuni uomini » di entrare nei suoi depositi di polvere d’oro, perché portino via quanto più possono sul loro corpo. Gli avidi giungono a riempirsi la bocca, i capelli, le vesti, i calzari in maniera smodata, stravolgendo il loro aspetto; in tal modo Creso smaschera la pleoneji´a attirando il riso su questo vizio: morte di numerosi Achei; dalla storia e da suggestioni teatrali, la figura di Serse che, per aver voluto soggiogare la Grecia, perde infiniti uomini e vede danneggiato il suo stesso dominio asiatico (, -) ; dalla storia, naturalmente, il racconto della morte di Policrate. . . Gli dei, in questa orazione, paiono più «consiglieri inascoltati» che entità «invidiose » come nelle Storie di Erodoto; è pur vero che l’ambiguità oracolare costituisce un filtro alla corretta comprensione dell’ammonimento (che risuona invece chiaro nelle parole di Solone e Amasi) e accelera la punizione del potente. . Sulla prepotenza, or. , -. Per l’oracolo sull’Arcadia, Erodoto I ; per l’oracolo sulla Sicilia, Pausania viii -. . Anche un passo di Massimo di Tiro (or. , , Il vero fine della vita: virtù o piacere?, ) pare collegare direttamente la mollezza ionica di Policrate e la sua morte; ci troveremmo cioè di fronte a una colpa che genera una pena, senza che Tyche intervenga: oy∫de` ta`w Polykra´toyw, ta`w «Ivnika´w, oy∫ le´gv, aÇw kate´laben oy∫de` ey∫sxh´mvn &a´natow, «E non voglio parlare dei piaceri degni della Ionia di Policrate, su cui piombò una morte indecorosa». . vi ; l’aneddoto sottolinea con approvazione l’astuzia di Alcmeone, che si ‘attrezza’ per il trasporto, e il re stesso è compiaciuto per quanto avviene. Lo schema sotteso all’incontro è il medesimo della visita di Solone: la reazione di un Greco scarso di mezzi di fronte alla ricchezza di Creso. Sulla topicità dell’episodio, in cui un Greco mostra la sua tempra, Harrison : . . L’aneddoto è riportato da Dione con maggior esattezza di dettagli e con il giusto protagonista, Alcmeone, nell’or. Sull’invidia (, ), ma anche in questo caso Creso esprime una con-
elisabetta berardi
Dokei^ de´ moi Kroi^sow kalv ^ w o™ Lydo´w, th`n a∫plhsti´an tv ^ n a∫n&rv ´ pvn e∫le´gxai boylo´menow, ei∫w toy`w &hsayroy`w ei∫sagagv ´ n tinaw tosoy^to xrysi´on ay∫toi^w e∫pitre´pein e∫jenegkei^n oçson eçkastow a£n dy´nhtai tv ^ı sv ´ mati. toy`w ga`r polloy`w oy∫ mo´non to`n ko´lpon e∫mplh´santaw, a∫lla` kai` tW^ kefalW^ toy^ ch´gmatow e∫kfe´rein kai` tv ^ı sto´mati, kai` mo´liw porey´es&ai pa´ny geloi´oyw kai` diestramme´noyw.
« Mi sembra che il lidio Creso abbia ben fatto quando, volendo smascherare l’insaziabilità degli uomini, ne introdusse alcuni ai depositi e concedette loro di portar fuori tanto oro quanto ciascuno fosse in grado di caricarne sulla sua persona. Infatti i più non solo si colmarono il seno della veste ma portarono via la polvere d’oro anche sul capo e in bocca e si muovevano a stento, davvero ridicoli e sfigurati » (or. , ).
Nell’or. si attiva tra Creso e Policrate una sorta di attrazione involontaria: benché Policrate non compaia nel ruolo consueto di vittima della sorte, l’oratore infatti è indotto a nominare anche Creso, il suo tradizionale ‘doppio’ nella sventura. L’immagine che Dione dà di Policrate come unico responsabile del suo destino è una lettura minoritaria all’interno della Seconda Sofistica, ma testimonia la vitalità dell’exemplum e la sua forza di attrazione su quello di Creso, o almeno sul suo nome, quando l’esempio di Policrate non è sfruttato nel modo tradizionale. In conclusione, l’insistita frequenza dell’associazione Policrate - Creso nei discorsi sofistici si presta ad alcune considerazioni. In primo luogo è un significativo indizio dell’influsso delle scuole di retorica sul costituirsi degli exempla. Ma soprattutto è una interessante spia dei modi con cui gli oratori della Seconda Sofistica sfruttano e modificano con piena libertà il materiale tradizionale per le loro esigenze di comunicazione. Erodoto era un autore amato dal pubblico dell’età imperiale; l’exemplum di Policrate attinto dalle Storie non è però cristallizzato in una forma definitiva, ma consente molteplici adattamenti e offre vari pretesti argomentativi agli oratori della Seconda Sofistica. La coppia Policrate – Creso soddisfa la necessità di illustrare con nomi famosissimi l’onnipotenza di Tyche, e compare spesso in una catena di trapasso di poteri, che porta da Creso a Ciro (con la morte di quest’ultimo), da Policrate alla tirannide di Meandrio; questa figura consente inoltre l’esaltazione dell’umile accanto alla caduta del potente. La coppia costituita da Policrate e Amasi, a sua volta, così come quella di Solone e Creso, favorisce una sorta di identificazione tra il sofo´w della tradizione e il nuovo sofisth´w, appunto l’oratore. Ed è così sancita l’autorevodanna morale per l’avidità di Alcmeone. Sulla manipolazione dionea di questo racconto cfr. Berardi . . Così in Favorino, Sulla fortuna (Pseudo Dione, or. , -) e in Luciano (Menippo, or. , e, con i limiti sopra accennati alle pp. -, Caronte, or. , e La nave, or. , ). . Si veda Luciano, Menippo, or. , , e Caronte, or. , .
triste fine di un tiranno
lezza di quest’ultimo presso il suo pubblico, nel momento in cui si accinge a dare consigli di sapienza. La vicenda di Policrate, infine, è rappresentata anche secondo uno schema narrativo meno prevedibile, il tiranno come responsabile della sua triste fine, una lettura peraltro possibile e autorizzata dallo stesso Erodoto; non stupisce allora che compaia anche l’exemplum di Creso, in un ruolo ancora più inconsueto. L’oratore soddisfa l’orizzonte di attese del suo pubblico nominando Policrate e Creso, ma piega le loro vicende alle sue contingenti esigenze di comunicazione, la condanna dell’avidità, e trasforma un celebre parallelismo in una opposizione altrettanto efficace. Università di Torino
. È il caso di Massimo di Tiro, I benefici delle circostanze avverse (or. , -) ; Il vero fine della vita : virtù o piacere?, (or , ). . Così in Dione di Prusa, Sulla prepotenza, or. , e, in una certa misura, in Massimo di Tiro, Il vero fine della vita: virtù o piacere?, (or. , ). . Dione di Prusa, Sulla prepotenza, or. , .
elisabetta berardi Abbreviazioni bibliografiche
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ANRW
s a b a t o n o v e m b r e ⋅ o r e : presiede maria grazia bonanno
L’‘ISOLA DELLE VERGINI’ : TRADIZIONI MITICHE DI SAMO ARCAICA NEI LIRICI ( I B I C O , A N A C R E O N T E ) E NE L L A P O E S I A E L L E N I S T I C A Eleonora Cavallini
N ei poemi omerici il nome di Samo non è presente. Nell’Iliade e nell’Odissea si fa menzione soltanto di una Samo (o Same) situata nei pressi di Zacinto (Il. ii , Od. ii , etc.), nonché di Samotracia (Il. xiii ), mentre l’isola delle Sporadi viene ricordata per la prima volta nell’Inno Omerico ad Apollo, dove tra le molte terre che non osano dare asilo a Latona figura anche «Samo ricca di acque » (v. Sa´mow y™drhlh´). Secondo Strabone (x ,), l’assenza del nome di Samo in Omero si spiegherebbe con il fatto che, al tempo della guerra di Troia, l’isola non era stata ancora colonizzata; il geografo aggiunge altresì che « nei tempi più antichi essa non era chiamata con lo stesso nome, bensì Melamphylos (Mela´mfylow : ma si dovrà piuttosto leggere Mela´mfyllow, cfr. infra), e poi Anthemis e poi Parthenia, dal fiume Parthenios, il cui nome fu poi mutato in Imbrasos». In un altro passo (xiv ,), Strabone ripropone l’elenco dei più antichi nomi di Samo, ma colloca al primo posto Parthenia, l’appellativo che l’isola avrebbe avuto «nei tempi più remoti, quando l’abitavano i Cari», quindi Anthemous (variante di Anthemis e di Anthemusa, quest’ultimo – come vedremo – registrato da altre fonti), e di seguito Melamphylos (Mela´mfylow, opportunamente corretto dal Meineke in Mela´mfyllow). Stando alla testimonianza di Plinio (NH v ), la tradizione erudita relativa ai più antichi nomi di Samo risalirebbe quanto meno ad Aristotele: Partheniam primum appellatam Aristoteles tradit, postea Dryusam, deinde Anthemusam (Aristot. fr. Rose) ; mentre per l’appellativo Melamphyllus (registrato anche da Hsch. m Mela´mfyllow. h™ Sa´mow, nonché da Iamb. V.P. ,, Steph. Byz. s.v. Sa´mow ed Eustath. Comm. in Dion. Per. ,), Plinio dichiara di attingere allo storiografo milesio Aristocrito ( F Jacoby). Lo stesso Plinio aggiunge, senza menzionare le proprie fonti, altri dettagli toponomastici ri. Sulla committenza samia dell’Inno, cfr. Aloni in questo volume, e bibliografia ivi citata. . oy∫d« e∫kalei^to tv^ı ay∫tv^ı o∫no´mati pro´teron, a∫lla` Mela´mfyllow, ei®t« «An&emi´w, ei®ta Par&eni´a, a∫po` toy^ potamoy^ Par&eni´oy, oÇw ÊImbrasow metvnoma´s&h. . e∫kalei^to de` Par&eni´a pro´teron oi∫koy´ntvn Karv^n. . Da notare che Stefano si attiene alla successione di Aristotele (Parthenia-Dryusa-Anthemusa), cui aggiunge Melamphyllos. Diversamente, Eustazio segue l’ordine di Strabone (Melamphyllos, poi Anthemis ed infine Parthenia, di cui anche Eustazio fa derivare il nome dal fiume Parthenios). Che in Anacr. fr. G. l’espressione melamfy´llvı da´fnW possa alludere al toponimo Melamphyllos ed essere dunque spia di un’ambientazione samia del frammento, è suggestiva ipotesi del Bergk (ma cfr. Gentili : ).
eleonora cavallini
guardanti Samo: amnes in ea Imbrasos, Chesius, Hibietes, fontes Gigartho, Leucothea, mons Cercetius. Adiacent insulae Rhypara, Nymphaea, Achillea. Di notevole interesse appare soprattutto l’appellativo Par&eni´a, che trova ampio riscontro presso i dotti poeti dell’età alessandrina. In particolare, Apollonio Rodio, nell’elencare i partecipanti alla spedizione degli Argonauti, fa menzione dell’eroe Anceo, il quale, secondo una tradizione riportata da Paus. vii , (ma risalente, secondo quest’ultimo, al poeta samio Asio [fr. Bernabé]), sarebbe stato figlio di Posidone e di Astipalea, figlia di Fenice, avrebbe «regnato su coloro che sono chiamati Lelegi» (popolo della Caria, della quale i primi abitanti di Samo sarebbero stati originari anche secondo il già citato Strabone), e da Samia, figlia del fiume Meandro, avrebbe generato numerosi figli tra cui Samo, eroe eponimo dell’isola. A proposito di Anceo, Apollonio Rodio così si esprime (i ss.) : kai` d« a¢llv dy´o pai^de Poseida´vnow çikonto, h¢toi o™ me`n poli´e&ron a∫ganoy^ Milh´toio nosfis&ei`w «Ergi^now, o™ d« «Imbrasi´hw eçdow çHrhw Par&eni´hn «Agkai^ow y™pe´rbiow. ¢istore d« a¢mfv h∫me`n naytili´hw h∫d« a¢reow ey∫xeto´vnto.
Oltre che per il mito della nascita di Anceo da Astipalea e Poseidone (che garantisce all’eroe e alla sua stirpe l’eccellenza nell’arte nautica), il poeta sembrerebbe rifarsi alla tradizione locale anche per quanto riguarda l’antichità del culto samio di Hera, secondo Apollonio venerata nell’isola già al tempo di Anceo nonché protettrice dell’eroe (cfr. ii ss. «Agkai´vı periv´sion e¢mbale çHrh / &a´rsow, oÇn «Imbrasi´oisi par« yçdasi «Astypa´laia / ti´kte Poseida´vni). In realtà la tradizione samia, secondo cui Hera sarebbe nata
sotto un agnocasto presso le rive dell’Imbraso, e il suo culto avrebbe avuto origine nell’isola stessa (cfr. Paus. vii ,), si contrappone nettamente alla vulgata ellenica, che attribuisce agli Argonauti il trasporto dell’immagine della dea da Argo nonché la costruzione dell’Heraion intorno al suddetto agnocasto (Paus. vii , ). Alla tradizione samia, rispecchiata da Ap. Rh. i s., sembra riallacciarsi anche il relativo scolio, che connette il toponimo Par&eni´h con la presenza di Hera nell’isola quando la dea era ancora ver. basiley´ein de` ay∫to`n tv^n kaloyme´nvn Lele´gvn. . Sull’abilità di Anceo come nocchiero, cfr. altresì [Apollod.] i ,, ove l’eroe sostituisce Tifi alla guida della nave Argo. La Biblioteca sembra però ignorare la distinzione, presente in Apollonio Rodio, tra Anceo figlio di Posidone (Ap. Rh. i s.) e Anceo figlio di Licurgo (Ap. Rh. i ), ed opta per il figlio di Licurgo ([Apollod.] i ,). . Si veda inoltre Call. fr. Pf. con la relativa diegesis, in cui si narra che in origine venne trasportata da Argo a Samo una tavola aniconica (sani´w) simboleggiante la dea, e che solo più tardi, al tempo del mitico Procle (cfr. Paus. vii ,), questa fu sostituita da una statua antropomorfa. Sull’Heraion di Samo come grandiosa opera architettonica si sofferma altresì Erodoto (iii ), che probabilmente si riferisce alla terza fase della costruzione del santuario, appartenente all’età di Policrate.
l’‘isola delle vergini’
gine, prima delle nozze con Zeus (Par&eni´hn th`n Sa´mon fhsi´n. ÊImbrasow ga`r potamo`w Sa´moy, oÇw meteklh´&h Par&e´niow dia` to` e∫kei^ par&e´non e¢ti oy®san tetra´f&ai th`n çHran). Da notare che nello scolio ad Apollonio la succes-
sione dei due nomi attribuiti al principale fiume di Samo risulta invertita rispetto a Strabone, con cui invece concordano Euforione (fr. Lloyd-Jones – Parsons = P.Oxy. , fr. , ss.) :
Par&eni`w (scil. h™ Sa´mow) a∫po` th^w a∫rxh^w e¢xoy[sa] th`n proshgori´an toy^ [«Agkai´oy?] basiley´ontow tv ^ n Lele´gvn[ ] to`n de` ny^n kaloy´menon p[ota]mo`n ÊImbrason Par&e´nion [palai?] v ∫ no´masan,
e soprattutto Callimaco (fr. Pf.) : a∫nti` ga`r e∫klh´&hw, ÊImbrase, Par&eni´oy.
Ed è ancora Callimaco a fornirci altre importanti informazioni sia sulla peculiare denominazione di Samo come nh^sow Par&eni´h, sia sulla presenza, nell’isola, di un’altra dea vergine, vale a dire Artemide. Al v. del terzo inno, infatti, il poeta invoca la dea con queste parole: Xhsia`w «Imbrasi´h prvto´&rone,
ove l’epiteto Xhsia´w si riferisce al culto di Artemide sulle rive del fiume samio Chesios (cfr. il citato Plin. NH v , nonché Etym. M. p. , G. = Themistagor. fr. FHG iv M.). Come osserva F. Bornmann nel suo commento all’inno callimacheo, l’uso dell’epiteto prvto´&ronow sembra alludere ad una priorità, a Samo, del culto di Artemide rispetto a quello di Hera (in contrasto con quanto affermato da Apollonio Rodio, che, evidentemente riflettendo una diversa tradizione mitografica, attribuisce alla sola Hera Imbrasia la signoria dell’isola). È peraltro significativo il fatto che Callimaco (a differenza del citato scolio ad Apollonio Rodio, che faceva derivare da Hera Parthenos il nome Partenio dato al fiume Imbraso) non istituisca alcun collegamento fra il toponimo Par&eni´h e la presenza di Artemide nell’i. L’epiclesi di Hera come Par&e´now è altresì attestata in Arcadia, in Eubea e ad Argo (cfr. Schol. Pind. Ol. vi ). Si noti inoltre che a Nauplia vi era una fonte chiamata Canato, dove, secondo una tradizione di origine argiva, Hera ogni anno si sarebbe bagnata recuperando così la sua verginità (Paus. ii ,). . Si tratta di un frammento di scolio, con ogni probabilità da riferirsi ad Euforione (cfr. Hunt : ss. ; Lloyd-Jones – Parsons : ). Un’ulteriore variante, Par&e´now gh^, è in P. Mag. Berol. , . . Secondo lo scolio al verso callimacheo, tuttavia, il Chesio sarebbe un promontorio (a∫krvth´rion) ; cfr. inoltre Schol. b in Nic. Alex. , nonché Eutechn. Paraphr. In Nicandr. Alex. ss. ( Geymonat), in cui il Chesio è un non meglio identificato luogo (to´pow) sul monte Kerketes (cfr. infra). . : . . Che si tratti di un intenzionale contrasto poetico fra i due autori è sostenuto, sia pur dubitanter, da Cirio : . Per l’ubicazione del tempio di Hera sulle rive del fiume Imbraso, cfr. Strab. xiv , .
eleonora cavallini
sola. Interessante, in questo senso, appare il confronto con Del. ss., ove il poeta, rivolgendosi ad Asteria/Delo, passa in rassegna le peregrinazioni della dea fra le varie località dell’Egeo: h£ Xi´on h£ nh´soio dia´broxon yçdati masto`n Par&eni´hw, oy¢pv ga`r e¢hn Sa´mow, h∫xi´ se ny´mfai gei´tonew «Agkai´oy Mykalessi´dew e∫jei´nissan.
Oltre all’insistenza sulla qualificazione di Samo come isola ‘ricca di acque’ (dettaglio già presente nel citato h. Ap. , e su cui ritorneremo), andrà rilevata l’esplicita indicazione relativa alla maggiore antichità del toponimo Par&eni´h rispetto a Sa´mow, a sua volta destinato ad affermarsi (secondo la tradizione presente in Asio e raccolta dal citato Paus. vii , ) solo con la generazione successiva ad Anceo. È possibile, a questo punto, un’ulteriore considerazione : se, al tempo in cui Asteria vagava senza una sede stabile, la futura Samo era denominata Par&eni´h nh^sow, è evidente che l’appellativo Par&eni´h non poteva derivare da Artemide, in quanto quest’ultima era destinata a nascere in un secondo tempo proprio sul suolo di Asteria (o Ortigia), che, in seguito al parto di Latona, avrebbe finalmente posto radici nell’Egeo e assunto il nome di Delo (cfr. Call. Del. ss.). Se da un lato, dunque, Samo – in quanto Par&eni´h nh^sow – appare particolarmente idonea ad accogliere dee ‘vergini’ quali Artemide e Hera (la cui permanenza sull’isola come par&e´now è tuttavia attestata solo dal citato scolio ad Apollonio Rodio, che forse riflette una tradizione locale), d’altra parte, non è affatto scontato che la denominazione di Par&eni´h nh^sow derivi dalla presenza a Samo di una di . Al v. dello stesso Inno ad Artemide, l’epiclesi ÊArtemi Par&eni´h Tityokto´ne non sembrerebbe fare riferimento a Samo, ma solo alla verginità della dea, da questa strenuamente difesa contro le insidie di Tizio (cfr. Bornmann : ). . Diversamente, Schol. Ap. Rh. i , invertendo la tradizionale successione dei toponimi, sostiene che l’isola sarebbe stata chiamata Par&eni´a dal nome di una non altrimenti nota sposa dell’eroe Samo. . Si noti, tuttavia, che i nomi di Samia, figlia del fiume Meandro e sposa di Anceo, sono evidentemente fittizi e ricostruiti sulla base del toponimo Sa´mow, che a sua volta potrebbe derivare dai preesistenti nomi delle due Samo omeriche, quella del mar Ionio e quella di Tracia: cfr. in proposito Strab. x , nonché xiv , , il quale peraltro osserva come la presunta colonizzazione di Samotracia ad opera dei Samii sia in realtà un’evidente invenzione della propaganda di questi ultimi (alla cui versione sembrano tuttavia dar credito Antipho fr. Blass, Heraclid. Pont. fr. FHG ii M., Apollod. F Jacoby, nonché Paus. vii ,). . Secondo la tradizione mitica riportata da [Apollod.] i ,, Artemide, gemella di Apollo, sarebbe nata per prima e avrebbe aiutato la madre a dare alla luce il fratello, assolvendo così una delle funzioni che la religione greca le assegna, attribuendole gli epiteti di Locheia e Ilizia (cfr. Nilsson : ). Su Ortigia, appellativo dato ad Asteria in seguito alla sua trasformazione in quaglia, e tradizionalmente legato alla nascita di Artemide, cfr. h. Ap. s., nonché [Apollod.] i , con il commento di Scarpi : ). . Cfr. il citato Paus. vii , e relativo commento di Moggi-Osanna : s. Fra le ‘dee vergini’ di Samo figurerà perfino Atena, quanto meno al tempo della lega delio-attica e sotto l’influenza politica di Atene (cfr. Barron : ss.).
l’‘isola delle vergini’
queste divinità femminili, peraltro non autoctone: viceversa, è proprio l’appellativo Par&eni´h ad apparire preesistente rispetto ai tempi in cui la tradizione colloca l’introduzione dei culti di Artemide e Hera nell’isola. Non sembra dunque illegittimo supporre che alla radice del misterioso Par&eni´h vi sia la presenza di altre divinità, presumibilmente legate al sostrato pregreco dell’isola. Utili indicazioni in questo senso provengono da un autore samio, Menodoto ( F Jacoby = Ath. xv ab). Questi narra le vicende di una fanciulla di Argo (dal ‘virgineo’ nome di Admete, figlia di Euristeo), la quale, fuggendo dalla propria città alla volta di Samo, avrebbe avuto in sogno la visione di Hera, e, al fine di rendere grazie alla dea per il felice esito della fuga, si sarebbe occupata di quel santuario «in origine fondato dai Lelegi e dalle Ninfe». Il racconto di Menodoto tenta, in sostanza, di conciliare la tradizione ellenica (che colloca l’origine del culto di Hera ad Argo) con la versione locale, samia, secondo cui il culto della dea si sarebbe sviluppato nell’isola stessa. A riprova dell’intricata, se non inestricabile, sovrapposizione delle molteplici varianti del mito, resta la curiosa ‘cooperazione’ dei Lelegi (il popolo dell’Asia Minore governato da Anceo secondo Asio nonché forse Euforione, e già alleato dei Troiani in Il. x ) e delle Ninfe nella costruzione del più antico santuario di Samo : santuario dedicato ad Hera secondo la tradizione, ma probabilmente – in origine – di pertinenza di altre divinità, forse delle Ny´mfai stesse. A conferma dell’ipotesi che fra le divinità protettrici di Samo siano da annoverarsi anche le Ninfe, vale la pena ricordare il citato Call. Del. , in cui vengono menzionate le ospitali «Ninfe Micalessidi, vicine di Anceo», che accolgono a Samo l’ancora girovaga Asteria. Ma particolarmente significativo risulta un frammento di Anacreonte citato da Esichio (fr. G .= Hsch. a L.) : a¢sty Nymfe´vn,
con il relativo interpretamentum del lessicografo, da cui apprendiamo che ‘la città’ di Samo viene così definita dal poeta di Teo, e∫pei` yçsteron ey¢ydrow e∫ge´neto. Esegesi poco perspicua, da cui parrebbe evincersi che l’abbondanza di acqua non sarebbe stata una prerogativa dell’a¢sty di Samo fin dalle origini, ma sarebbe sopravvenuta in epoca successiva: forse nell’età di Policrate e del grandioso acquedotto di Eupalino, ricordato dal solito Erodoto (iii ) . toy^ ™ieroy^ ... pro´teron de` y™po` Lele´gvn kai` Nymfv^n ka&idryme´noy. Suggestiva, ma non necessaria, la correzione Mily´vn (Meineke) per il tradito Nymfv`n. . Di un culto delle Ninfe è fatta menzione già in Od. xvii ss., ove i cittadini di Itaca attingono acqua ad una fonte circondata da un boschetto di pioppi y™datotrefei^w, e contraddistinta dalla presenza di un bvmo`w ... nymfa´vn (vv. s.). . Interessante il confronto con IG iii a∫gxoy^ Nymfa´vn oç&en a¢rdetai a¢sty «A&h´nhw.
eleonora cavallini
come una delle massime opere edilizie di tutta la grecità. In effetti, stando alla testimonianza di Erodoto, in gran parte confermata dalle scoperte archeologiche, sarebbe stata proprio la ‘città’ (a¢sty), e non l’intera isola – probabilmente ricca di acque già in epoca antica – ad avvalersi della formidabile opera ingegneristica, a quanto pare annoverata anche da Aristotele (Pol. 1313 b ) tra i grandi e¢rga Polykra´teia. Che le Ninfe, soprattutto in qualità di dee delle acque, ricoprano un ruolo fondamentale nella mitografia riguardante l’y™drhlh´ Samo, è d’altra parte confermato da numerose testimonianze. Oltre al già citato Inno a Delo callimacheo, con la menzione delle Ninfe Micalessidi, è opportuno ricordare un frammento di Apollonio Rodio (fr. Powell), in cui si parla del fiume Imbraso, tv ^ı r™a´ pot« »Vkyro´hn ny´mfhn, perikalle´a koy´rhn, Xhsia`w ey∫pate´reia te´ken filo´thti migei^sa.
Si noti che Ociroe, ninfa delle acque – come suggeriscono sia il nome, sia la nascita dal fiume Imbraso nonché da Xhsia´w, dea del fiume (?) Chesio –, è animata da ‘virginei’ propositi, al punto di affrontare il mare su una piccola barca per sfuggire alle insidie di Apollo (cfr. Ath. vii ef, testimone del frammento). Quanto alla di lei madre Xhsia´w (a sua volta figlia di un non meglio identificato ‘nobile padre’), nella versione di Apollonio risulta trattarsi di una divinità singola ; diversamente, negli Alexipharmaka di Nicandro è esplicitamente chiamata in causa una pluralità di dee denominate Ny´mfai Xhsia´dew. Si vedano, in particolare, i vv. ss. : kai´ te sy` draxma´vn pisy´rvn ba´row ai¢nyso gai´hw Par&eni´hw th`n Fylli`w y™po` knhmoi^sin a∫nh^ken, «Imbrasi´dow gai´hw xionv ´ deow hçn te kera´sthw a∫mno`w Xhsia´dessi ne´on shmh´nato Ny´mfaiw Kerke´tev nifo´entow y™po` sxoinv ´ desin o¢x&aiw.
Il passo appare di non facile interpretazione, come conferma l’intricato lavorio degli scoliasti. Lasciando da parte la questione (ininfluente per la nostra analisi) del kera´sthw a∫mno´w (variato in krio´w da Eutecnio), vale la pena soffermarsi sullo scolio c al v. , secondo cui Par&eni´h sarebbe l’antica denominazione di Samo, mentre Fylli´w non sarebbe altro che mi´a tv^n Nymfv^n. Poco oltre, tuttavia, viene prospettata l’identificazione di Fylli´w con Samo stessa, che deriverebbe tale nome da quello della ninfa (cfr. Euph. fr. ,, Iamb. V.P. , [che registra la grafia Fylla´w], nonché Hsch. f ), e l’appellativo è posto in relazione con il termine botanico meli´fyllon (ma la tradizione oscilla tra meli´fyllon e mela´mfyllon, che corrisponde all’antico . Cfr. Gentili : (ed infra). . Documentazione nel commento di Asheri in Asheri-Medaglia : .
l’‘isola delle vergini’
nome di Samo registrato da Strabone, Plinio e dagli altri autori sopra citati). Nella rappresentazione di Nicandro, dunque, predominano elementi che alludono, ancora una volta, all’abbondanza di acque (la «terra dell’Imbraso» è xionv ´ dhw, e nifo´eiw, a maggior ragione, è il monte Kerketes), nonché alla densa vegetazione che caratterizza una terra così riccamente irrigata. Da notare che in Nicandro la «terra Partenia» appare di esclusiva pertinenza di Fillide e delle Ninfe Chesiadi, mentre non viene fatta menzione delle dee maggiori, quali Artemide e la stessa Hera. Converrà, a questo punto, riprendere in esame il fr. Davies di Ibico, in cui il poeta contrappone la serenità di un rigoglioso giardino primaverile alla tormentata condizione del proprio cuore, perennemente devastato dagli assalti di Eros. Questa la prima parte dello studiato dittico (vv. ss.) : h®ri me`n aiç te Kydv ´ niai mhli´dew a∫rdo´menai r™oa^n e∫k potamv ^ n, çina Par&e´nvn kh^pow a∫kh´ratow, aiç t« oi∫nan&i´dew ay∫jo´menai skieroi^sin y™f« eçrnesin oi∫nare´oiw &ale´&oisin.
Nel , il Gallavotti, anche sulla scorta del citato studio di A. M. Cirio, ipotizzava che lo scenario descritto da Ibico fosse da identificarsi con il temenos di Hera situato sulle rive del fiume Imbraso a Samo: lo studioso, pertanto, proponeva di correggere il tradito Par&e´nvn in Par&e´nv (da riferirsi, evidentemente, ad Hera Parthenos), osservando a tal proposito come «sia facile che una forma dialettale insolita come il genitivo in -v, nei codici di Ateneo, sia stata inavvertitamente assimilata nella desinenza al potamv^n che precede ». La proposta del Gallavotti non appare, tuttavia, sostenibile, sia perché risulta quanto meno antieconomico emendare un testo che non presenta problemi di ordine grammaticale e sintattico, sia soprattutto perché il genitivo dorico in -v non è mai attestato nei frammenti superstiti di Ibico. Né può ritenersi convincente l’affermazione che «il carme non appartiene alla prima maniera stesicorea, coltivata da Ibico, ma è già melica monodica, che ha subito la suggestione della lirica eolica e si accosta alla maniera di Anacreonte, presso la corte di Policrate». In realtà, la tesi ‘evoluzionistica’ inaugurata dallo Schneidewin e tendente a identificare una netta bipartizione all’interno dell’attività poetica di Ibico (il quale, da una produzione epico-lirica di stampo stesicoreo, sarebbe passato ad una poesia di contenuto . . . . . .
Gallavotti : ss. Cirio : ss. Gallavotti : . Cfr. Nöthiger : ; Felsenthal : . Gallavotti : . Cfr. Schneidewin : ss.
eleonora cavallini
erotico dopo essere entrato in contatto, presso la corte di Policrate, con le esperienze della melica monodica ed in particolare con la lirica anacreontea), non appare più sostenibile, specie alla luce delle recenti scoperte papiracee che hanno evidenziato la presenza, nell’opera del Reggino, di una considerevole quantità di generi, nonché la tendenza del poeta a distribuire l’elemento mitico in modo variabile, a seconda delle diverse occasioni del canto. Lasciata dunque da parte la congettura Par&e´nv, non credo tuttavia che si debba abbandonare, per il fr. di Ibico, l’idea di una possibile ambientazione samia: viceversa, mi pare che tale eventualità meriti di essere attentamente riconsiderata. In particolare, a favore dell’ipotesi che il frammento si ispiri al paesaggio di Samo giocano alcuni dati significativi : ) l’enfasi con cui il poeta sottolinea l’«abbondanza di acque» (a∫rdo´menai r™oa^n e∫k potamv ^ n), peculiare prerogativa di Samo stando all’Inno Omerico ad Apollo, nonché a Callimaco e Nicandro. Si noti che il luogo qui descritto è percorso da una ‘pluralità’ di fiumi (potamv^n). Potrebbe trattarsi semplicemente di trasfigurazione poetica, ma non è da escludere che Ibico stia invece concretamente alludendo ai fiumi di Samo: l’Imbraso, il Chesio (se veramente di fiume si tratta) e il non meglio identificato Hibiethes; ) l’insistenza sulla ricchezza e densità della vegetazione, che a sua volta deriva dall’abbondanza di acque (ma anche dalla fertilità della terra), e che costituisce un’altra tradizionale caratteristica di Samo, come si evince dagli stessi appellativi Dryusa, Anthemusa, Melamphyllos, Cyparissia e Stephane (in particolare, parlando di Samo, Iamb. V.P. , rileva trattarsi di «quell’isola chiamata Melamphyllos a causa della buona qualità del suolo e della terra»). Giardini o prati fioriti (analogamente a sorgenti e corsi d’acqua) sono, d’altra parte, elemento ricorrente nel Naturgefühl dell’età arcaica, in cui il paesaggio non è mai completamente autonomo, ma riveste per lo più un carattere accessorio e strumentale rispetto ad altre tematiche legate alla sfera dell’umano ed ancor più a quella del divino. Ciò induce a sospettare che Ibico (come già Saffo nell’Ode dell’ostracon) alluda alla presenza e al potere di qualche divinità; ) la presenza di alcuni elementi che parrebbero riconducibili alla simbologia cultuale di Hera, la quale – al tempo di Ibico – doveva essere la divinità più importante di Samo, come si evince dall’iniziativa policratea di riedificarne il santuario (Hdt. iii ). In particolare, è attributo della dea la ‘mela’ (o meglio, la ‘melagrana’: cfr. Paus. ii , ), in quanto simbolo di fecondità, ma anche la rigogliosa fioritura può in qualche modo alludere al potere della dea (venerata ad Argo con l’epiteto di Antheia in quanto garante della fertilità della terra: cfr. Paus. ii , , Poll. iv , nonché Etym. M. s.v. ÊAn&eia). Ma, soprattutto, appare rilevante il ripetuto riferimento alla ‘vite’ : Dioniso, infatti, era oggetto di un culto congiunto con Hera in . Cui rivolge ancora una certa attenzione Mariotti : n.. . nh^son th`n di« a∫reth`n toy^ e∫da´foyw kai` th^w gh^w Mela´mfyllon kaloyme´nhn. . Cfr. Littlewood : .
l’‘isola delle vergini’
Elide (Plut. Quaest. Gr. ab nonché Paus. v ,-), a Creta (Eur. Cret. fr. Cozzoli), a Lesbo (Sapph. fr. V., Alcae. fr. V.) e nella stessa Samo, dove tra i doni votivi dell’Heraion vi erano anche foglie di vite e di edera. Di tale culto comune troviamo testimonianza nel solito Call. fr. Pf. çHrW tW^ Sami´W peri` me`n tri´xaw a¢mpelow eçrpei : probabilmente, questa peculiare iconografia costituiva un riflesso della presenza, nell’isola, dell’antica triade cretese-anatolica composta da Zeus, Madre degli Dèi/Hera e Dioniso/Eracle, e venerata anche a Creta nonché a Lesbo, nella quale peraltro (così come a Samo) la divinità femminile aveva la preminenza (cfr. Alcae. frr. e b V.). Della presenza di Dioniso a Samo sembra altresì essere testimonianza il toponimo Ampelos (principale monte dell’isola secondo Strab. xiv ,).
Tenendo conto, sia pur con la dovuta cautela, di questi indizi, sarà ora il caso di soffermarci sul punto ‘cruciale’ del frammento ibiceo, vale a dire sull’enigmatica espressione Par&e´nvn kh^pow a∫kh´ratow. Piuttosto che a «ragazze non sposate», il contesto farebbe pensare a figure divine, quali Cariti o Ninfe, che dagli autori greci antichi vengono di solito calate in scenari simili a quello del kh^pow ibiceo : che, in particolare, si tratti di Ninfe, è ipotesi condivisa dalla maggior parte degli studiosi. Ma l’identificazione delle Par&e´noi ibicee con le Ninfe appare ancora più probabile se ipotizziamo per il nostro frammento un’ambientazione samia: le Ninfe sono infatti signore della città per Anacreonte (fr. G., cit.), nonché antiche abitatrici della gai´h Par&eni´h per Nicandro (Alex. ss.) ; ma soprattutto, nella tradizione locale rispecchiata dal samio Menodoto, le Ninfe sono considerate mitiche fondatrici nonché originarie custodi (al tempo dei Lelegi e dei Cari, vale a dire proprio all’epoca in cui, secondo Strabone e lo scolio ad Euforione, l’i. Sull’argomento, vedere Kerényi : . . Esposte nel museo di Vathy. . Nella diegesis del citato frammento callimacheo si legge che i tralci di vite posti intorno al capo di Hera, al pari della pelle di leone collocata ai suoi piedi, rappresenterebbero «le spoglie (la´fyra) dei due figli spurii di Zeus, Eracle e Dioniso». Tale interpretazione, che evidentemente riflette la perdita dell’originaria valenza cultuale del rapporto Zeus/Hera/Dioniso, trova un interessante parallelo in Tertulliano (Coron. 7) : Iunoni vitem Callimachus induxit. Ita et Argis signum eius palmite redimitum, subiecto pedibus corio leonino, insultantem ostentans novercam de exuviis utriusque privigni. . Sull’argomento, si vedano le osservazioni di Page : . . Si noti che secondo Pheren. ap. Ath. iii b Ampelos è il nome di una Ninfa Amadriade. Nella tradizione greca, le Ninfe erano considerate ‘nutrici di Dioniso’ a causa dell’usanza, tipicamente ellenica, di bere vino mescolato con acqua (cfr. Phanod. F Jacoby ; Thphr. fr. Wimmer = Ath. ab). . Par&e´nvn con l’iniziale maiuscola è correzione del Boissonade (par&e´nvn A), generalmente accolta dai commentatori di Ibico. . Così Bowra: s. ; cfr. Calame : , Davies : . . Fra cui Schneidewin : (il quale cita a confronto i Nymfai^oi kh^poi di Dem. De eloc. , ove tuttavia il riferimento specifico è alla poesia di Saffo), Farnell : , Wilamowitz : , Fränkel : , Merkelbach : ss., Gentili : s. n. , nonché Mariotti : .
eleonora cavallini
sola era detta Parthenia o Parthenis) del santuario di Hera, alla quale, come si è visto, Samo rivendicava l’onore di aver dato i natali (Paus. vii ,, cit.). Sulla base di queste considerazioni, si può supporre, sia pure con molta cautela, che il frammento ibiceo sia ispirato a miti e culti di Samo, in cui, a prescindere dai successivi e complessi intrecci sincretistici, le divinità indigene sembrerebbero da identificarsi proprio con le ‘vergini’ Ninfe. Né convince l’osservazione del Gallavotti, cui non «pare che la qualifica di par&e´noi si usi per le Ninfe nella lingua comune o liturgica» : a tale proposito, e a conferma della legittimità dell’uso del termine par&e´noi in riferimento alle Ninfe, il Gentili rinvia a Plut. Quaest. Gr. , da cui apprendiamo che ad Eleòn, in Beozia, sono definite par&e´noi le tre figlie di Acidusa, signora della fonte, nonché ad Aristoph. Nub. , in cui le ‘divine’ Nuvole si presentano come par&e´noi o∫mbrofo´roi. Non è, d’altra parte, stato rilevato che in Orph. Hymn. , le Ninfe sono invocate con queste parole: par&e´noi ey∫v ´ deiw, leyxei´monew, ey¢pnooi ay¢raiw.
Senza voler indagare, quanto meno in questa sede, i complessi rapporti fra il rituale orfico e i culti misterici di Dioniso e della triade cretese-anatolica, appare comunque evidente che la qualifica di par&e´noi, in relazione alle Ninfe, non è affatto estranea alla lingua liturgica. È possibile che Ibico abbia tenuto conto di una precisa espressione cultuale; ma non è forse da escludere che lo stesso poeta, precocemente etimologizzando, abbia collegato l’arcaico toponimo Parthenia con le Ninfe, divinità primigenie di Samo, sotto il cui sereno e ordinato governo la natura cresce e prospera nel regolare avvicendarsi delle stagioni. In aperto contrasto con tale rassicurante immagine, Ibico nei versi seguenti descriverà l’angoscioso tumulto del proprio cuore, devastato da un Eros irruente e implacabile, che non conosce regole di sorta. Università di Bologna - Sede di Ravenna . Gallavotti :. . Cfr. Gentili : s. n. . . Da rilevare che Eleòn è la città di origine di Fenice (Il. x ), che nella tradizione samia (As. fr. Bernabé, cit.) risulta essere capostipite, tramite la figlia Astipalea, della stirpe di Anceo. . Si noti che in Orph. Hymn , alle Nuvole è attribuita la stessa qualifica che in , sarà delle Ninfe, ey¢pnooi ay¢raiw (cfr. infra). . Per cui rinvio alle considerazioni di Pugliese Carratelli : ss. . Lo stato verginale delle Ninfe non esclude, evidentemente, la presenza di Eros, protagonista della seconda parte del carme: sull’argomento, si veda in generale Calame : ss. . Cfr. Wilamowitz : ss., secondo cui Ibico intenderebbe sottolineare la profonda diversità esistente fra il mondo della natura, che riserva all’amore la sola stagione primaverile, e la vita dell’uomo, continuamente turbata dagli assalti di Eros.
l’‘isola delle vergini’ Abbreviazioni bibliografiche Asheri, D.-Medaglia, S. Barron, J. P. Bornmann, F. Bowra, C. M. Calame, C. Cirio, A. M. Davies, M. L. Farnell, G. D. Felsenthal, R. A. Fränkel, H. Gallavotti, C. Gentili, B. Hunt, A. S. Kerényi, K.
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POLICRATE NELLE TESTIMONIANZE LETTERARIE Walter Burkert
M onarca-poeta
sembra essere un’accoppiata tipica, anzi addirittura archetipica. Non si tratta di fantasia, ma di realtà: i poeti dipendevano di solito dai ricchi e dai potenti e ne cercavano la munificenza. All’apice della piramide sociale stavano comunque i re o i principi che diventavano così gli interlocutori privilegiati dei poeti. Paradigmatico per la Germania ancora nell’ ottocento è il rapporto di amicizia di Johann Wolfgang Goethe col duca di Weimar ; per l’antichità quello di Augusto con Virgilio e Orazio. Il monarca fornisce al poeta lo scenario adeguato e i mezzi per produrre le sue poesie e determina la ricezione della sua opera, ma ne riceve in cambio la gloria: il poeta può dare o negare l’immortalità. In linea cronologica, l’accoppiata monarca-poeta sembra essere posteriore a quella monarca-mago o monarca-sapiente; più tardi poi quella monarcafilosofo è divenuta la più interessante perché portatrice di conflitti fra potere e sapere, fra potere e spirito che si manifesta in diverse varianti, stimola le fantasie, fornisce materiali per racconti e aneddoti. Nella tradizione dell’oriente antico l’accoppiata monarca-sapiente emerge spesso sia nella letteratura sapienziale egiziana, sia nella figura del saggio Ahiqar a Ninive, sia nella Bibbia nella persona di Salomone che riunisce in sé ambedue i caratteri, di sapiente e di re. Ma il poeta e il cantore mancano: essi non sembrano avere un ruolo distinto né rientrare nella cerchia dei favoriti. È nella Grecia arcaica che poeti, musicisti e filosofi rivestono questa posizione di privilegio, ricevendo tutti per un certo periodo la denominazione di ‘maestri del sapere’, Sofisti. Già Esiodo, nel proemio della Teogonia, chiama la Musa Calliope la «più eccellente di tutte » facendone l’accompagnatrice dei basilees (-). Nei periodi successivi, però, i re scompaiono quasi completamente su suolo greco. Come interlocutori privilegiati di poeti e sapienti rimangono quindi i sovrani non-Greci e, in Grecia, i tiranni. Fra i primi domina la figura di Creso, re di Lidia, quale viene presentata da Erodoto. L’immagine archetipica della coppia re-sapiente viene riprodotta nella scena dell’incontro di Creso con Solone, cui viene per la prima volta nella letteratura greca riferito il termine filosofv ^ n (i ). La ‘virtú amichevole’, cioè la munificenza di Creso resta per Pindaro e Bacchilide un modello cui dovrebbe uniformarsi il tiranno. È Pindaro a raccomandarla a Ierone, il tiranno di Siracusa, nella prima Pitica . Ringrazio Laura Gemelli Marciano, Giubiasco-Zurigo, per la revisione del manoscritto. . Sulla letteratura sapienziale, cfr. W. Burkert, Da Omero ai Magi, Venezia , -.
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(v. ), e Bacchilide due anni dopo richiama, sempre a Ierone, l’esempio di Creso, il re pio e munificente, ricompensato dal dio. Bacchilide è più esplicito sulla relazione diretta della sua Musa con l’areta di Ierone, pienamente consapevole del fatto che è il proprio canto a garantire al tiranno e al poeta la sopravvivenza presso i posteri (iii -). I poeti sono dunque ben consci della loro simbiosi con re e tiranni; e le gare sportive forniscono un’occasione unica per le attività tiranniche e poetiche. Più tardi, ai tempi di Dionisio di Siracusa, sono piuttosto i filosofi a frequentare la corte dei tiranni: Platone rimane l’esempio più illustre di questo tipo di rapporto. L’accoppiata monarca-poeta emerge per la prima volta, a quanto sappiamo, con Policrate di Samo. Troviamo poi i poeti anche alla corte di altri tiranni come i Pisistratidi ad Atene, quasi contemporanei di Policrate. Ipparco, figlio di Pisistrato, accoglie Anacreonte e Simonide (Plat. Hipparch. bc), e assume un ruolo importante nella regolamentazione delle recitazioni omeriche. È da Samo però che viene la prima definizione esplicita del rapporto tiranno-poeta: Ibico, alla fine della sua canzone per Policrate ( Page), dichiara, sulla base dei modelli mitici, che il poeta e il monarca sono accomunati nella ‘gloria immortale’, nel kleos aphthiton. Bacchilide ha riprodotto questo modello nel canto per Ierone. Su questo sfondo si inquadrano le storie su Policrate e i poeti, o gli intellettuali, alla sua corte. I dati basilari sono già stati presentati e discussi nel corso di questo convegno. La testimonianza fondamentale per le nostre conoscenze sul tiranno rimane naturalmente quella erodotea, ma non è l’unica. Erodoto introduce due personaggi alla corte di Policrate, Amasi il re d’Egitto, che assume qui il ruolo del sapiente, e Anacreonte. Per il ruolo di Amasi (-), lo storico moderno si chiederà perché mai un ceramista di Atene debba chiamarsi Amasi, come il re d’ Egitto: è costui un immigrato egiziano, o il suo nome riflette piuttosto la popolarità di cui godeva il re d’Egitto anche ad Atene? Per quanto riguarda Anacreonte, il poeta non solo è menzionato come hetairos di Policrate in Erodoto, ma, come informa Strabone, spesso celebrava il tiranno anche nelle sue poesie. Anche Ibico di Reggio apparteneva alla ‘corte’ di Policrate. In quanto segue vorrei in primo luogo ritornare su alcuni aspetti della figura di Anacreonte presso Policrate. In seguito vorrei soffermarmi su altre due testimonianze sulla ‘corte’ di Policrate e il suo circolo di ‘sofisti’, una tarda, che è però una scoperta relativamente nuova e aggiunge elementi . Cfr. il contributo di Maria Grazia Bonanno in questo volume, pp. -. . Cfr. D. v. Bothmer, The Amasis Painter and his World, Malibu ; Papers on the Amasis Painter and his World, Malibu . . Cfr. n. .
policrate nelle testimonianze letterarie
nuovi alle nostre conoscenze, e una contemporanea a Policrate e da sempre conosciuta, ma reinserita nel suo contesto cronologico solo recentemente, l’Inno Omerico ad Apollo. Cominciamo dunque da Anacreonte, menzionato da Erodoto come intimo di Policrate (iii ). Nei frammenti superstiti dei poemetti di Anacreonte non c’è alcun cenno a Policrate, ma Strabone, che poteva leggerne l’edizione completa, scrive : « Tutta la sua poesia è piena di menzioni di Policrate » ( p. ). A questa testimonianza si possono aggiungere alcune allusioni o citazioni in Massimo di Tiro e in Imerio. Tutte evocano un’atmosfera simposiastica ed erotica che sembra contrastare in certo qual modo con la rappresentazione canonica del ‘tiranno’. A questo ambito, che si può definire ‘anacreonteo’, rimanda anche un tipo di rappresentazioni che illustra un’altra ottica, quella ateniese. Dopo la morte di Policrate infatti Anacreonte si reca ad Atene, da Ipparco, come attesta l’Ipparco platonico (c). Questo soggiorno sembra aver lasciato un’impronta molto marcata nell’immaginario ateniese. Questo risulta da varie rappresentazioni figurative. Repliche di una statua di Anacreonte rimandano un’immagine che sembra essere ben più di una generica rappresentazione idealistica. Questo Anacreonte colla sua chitarra impersona uno stile di vita: è sereno, un po’ ebbro, piuttosto malfermo sulle gambe, ma allegro, festoso, la personificazione stessa del simposio. Testimonianze ancora più dirette della idea di ‘Anacreonte’ in Atene si trovano in un gruppo di vasi a figure rosse con simposiasti portatori di ombrellini, con vesti lunghe, quasi-femminili. Gli specialisti dei vasi attici hanno a lungo discusso se si trattasse di donne mascherate come uomini, colle barbe artificiali – la tesi di Buschor – o piuttosto di uomini effeminati – l’opinione di Beazley. Buschor pensava della festa Skira, perché ci sono indicazioni che skiron può significare ombrellino. Ma finalmente un graffito individuato in una di queste rappresentazioni ha deciso la questione. Dice chiaramente : ANAKREON. I vasi della ‘festa degli ombrellini’ sono dunque divenuti ‘Anacreontic vases’. Rimangono i problemi di interpretazione riguardo alla sostanza o al messaggio di queste rappresentazioni, ma una cosa è chiara : per gli Ateniesi dell’ incirca a.C. Anacreonte è l’emblema d’un thiasos effeminato, della cultura del simposio nel suo aspetto un po’ problematico, ‘molle’, ‘ionico’, per così dire, una forma di vita e di cultura dalla quale gli Ateniesi all’epoca delle grandi guerre prendevano le distanze a favore dello stile ‘dorico’. Al di là delle possibili reminiscenze della presenza di . Max. Tyr. , ; , ; , ; Himer. or. , sg. ; , . . Copia nella Ny Carlsberg Glyptotek, Copenhagen: G. M. A. Richter, A Handbook of Greek Art, London , ; K. Schefold, Die Bildnisse der antiken Dichter Redner und Denker, Basel , ss. . arv , Kleophrades p.; H. Immerwahr AJA , , .
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Anacreonte in Atene al tempo dei Pisistratidi, i suoi poemetti riflettevano evidentemente questo stile di vita, questa atmosfera ‘ionica’. Il significato di uno stile ‘ionico’ era probabilmente diverso su suolo veramente ionico e ad Atene. Per questo l’idea ateniese di Anacreonte non può essere trasferita tout court da Atene a Samo, dal agli anni intorno al . È però opportuno ritornare a Erodoto. La scena in cui compare Anacreonte è inserita in un contesto sull’origine del conflitto fra Policrate e Orete, il satrapo persiano che poi lo farà mettere a morte. Dal punto di vista storico si può pensare che questo conflitto fosse inevitabile; ma i racconti erodotei ne delineano lo sfondo ornamentale (iii ) : « raccontano che Orete avrebbe mandato a Samo un araldo a chiedere non so cosa – infatti non dicono quale –, e che Policrate allora era sdraiato nell’appartamento degli uomini e che c’era con lui Anacreonte di Teo. In ogni modo, sia che trascurasse intenzionalmente gli affari di Orete, sia che si trattasse di un caso, quando l’araldo di Orete si presentò e parlò, Policrate, che in quel momento era girato verso la parete, non si sarebbe voltato né avrebbe dato risposta.»
Abbiamo qui una tipica situazione simposiastica ‘nell’appartamento degli uomini’ : due uomini giacciono sul letto insieme, come nelle pitture vascolari. L’appartamento di Policrate era ornato in modo squisito, il kosmos fu in seguito consacrato nel santuario di Era (Hdt. iii ,). Policrate, giacente, non si gira né si alza, un comportamento impossibile da un punto di vista diplomatico ; il tiranno dà la preferenza al simposio. Ma perché Erodoto nomina Anacreonte in questo contesto? Perché il poeta era la figura tipica del simposio. Già per Erodoto, o anche per Erodoto, Anacreonte era l’emblema della cultura simposiastica, la cui sostanza consisteva nel rilassamento degli uomini dalla serietà degli affari. Misv^ mna´mona sympo´tan ( Page). Un aneddoto più tardo riassume questa problematica: nel il comandante a Tebe rifiuta di leggere la lettera che rivelava la congiura, l’attacco imminente dei congiurati. «A domani le cose serie», ei∫w ay¢rion ta` spoydai^a (Plut. Pelop. , -). Era la catastrofe per lui, come per Policrate. Questo quadro anacreonteo si inserisce in un più vasto contesto storicoculturale : nel vi secolo la cultura del simposio, modello predominante di cultura maschile, è ancora nella sua fase iniziale. Un suo tratto specifico è l’uso di giacere sul letto a banchetto. Sappiamo che questa usanza è arrivata alla Ionia dall’Assiria attraverso la Lidia. Il documento iconografico di base è quel rilievo di Ninive chiamato ‘Assurbanipal’s garden party’ che raffigura il re giacente sul letto sotto la vite, servito da una figura femminile. Una ripresa diretta di questa iconografia è nella ben nota anfora di Monaco del pittore di Andocide, datata all’incirca nel , dunque pressoché contempora. London, Brit. Mus. ; E. Strommenger, Fünf Jahrtausende Mesopotamien, München , fig. ; Andokides painter, Monaco: LIMC iv s.v. Herakles nr. .
policrate nelle testimonianze letterarie
nea al soggiorno di Anacreonte presso Policrate: Eracle sdraiato sulla kline, servito da Atene. Insomma, Ibico e Anacreonte alla corte di Policrate e di Pisistrato rappresentano una fase caratteristica della storia culturale greca di cui, sul versante politico, i tiranni costituiscono le figure di maggiore spicco. Passiamo ora alla testimonianza tarda, forse piuttosto un’invenzione che una testimonianza vera e propria, il romanzo di Metioco e Partenope. Si tratta in realtà dell’affresco più completo della ‘corte’ di Policrate, uno scenario nel quale compaiono i letterati e i sophistai del tempo. Il romanzo ha riscosso un gran successo nell’antichità. Scene di questo romanzo compaiono sui mosaici: esso viene indicato come soggetto per ‘danze’ sulla scena, forse pantomimi. Il suo influsso si fa sentire addirittura nella vita di una Santa, Santa Bartanuba, in lingua copta. Il romanzo completo è andato perduto, ma le nostre conoscenze sono state corroborate recentemente da varie scoperte : Herwig Mähler ne ha radunato e pubblicato nel i frammenti papiracei nel modo più completo, ma la vera sorpresa è costituita dalla scoperta di un poema persiano frammentario che è una evidente rielaborazione del romanzo greco; se i nomi di Partenope e Metioco sono stati sostituiti da ‘Vâmiq’ e ‘Adhrâ’ nel testo persiano, quelli di Policrate, Milziade, Ibico e Anassimene sono ancora riconoscibili. Esiste una edizione del romanzo di Partenope, con ampia introduzione, nella collezione Ancient Greek Novels di S.A. Stephens e J.J. Winkler; in un articolo eccellente del Francesca D’Alfonso ha ritrovato Ibico nel testo e nel contesto del romanzo. Il romanzo di Partenope stimola il confronto con quello di Caritone, Cherea e Calliroe. Caritone prende spunto da Tucidide, Calliroe è la figlia di Ermodoro di Siracusa, mentre l’autore di Partenope, anonimo per noi, parte da Erodoto. Partenope, l’eroina del romanzo, è la figlia di Policrate, e Metioco è il figlio di Milziade. Infatti una figlia di Policrate, anonima, è menzionata in Erodoto (iii ) e assume addirittura un ruolo patetico: quando Policrate parte per andare da Orete, sua figlia ha un sogno premonitore e lo mette in guardia, ma Policrate è soltanto irritato e la minaccia di farla rimanere vergine per lungo tempo. La fanciulla risponde che preferisce rimanere vergine piuttosto che perdere il padre. Questo fornisce evidentemente l’idea-base del romanzo: infatti in molti dei romanzi antichi, la protagonista femminile, nonostante tutte le avventure, i viaggi, le minacce, resta vergine fino alla fine del racconto. Il nome di Partenope è preso dalla mitologia di Samo; Me. H. Maehler, Der Metiochos-Parthenope-Roman, «zpe» , , -; T. Hägg, Metiochos at Polycrates’ Court, «Eranos » , , -; S.A. Stephens, J.J. Winkler, ed., Ancient Greek Novels. The Fragments, Princeton , -; F. D’Alfonso, Anassimene e Ibico alla corte di Policrate, «Helikon » /, / (), -. Non ho ancora visto T. Hägg, B. Utas, The Virgin and her Lover. Fragments of an ancient Greek novel and a Persian epic poem, Leiden . . Schol. Dionys. Perieg. , Geographi Graeci Minores ii .
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tioco, figlio di Milziade, compare in Erodoto (vi ,) in una storia di rapimento e emigrazione. Naturalmente il figlio del vincitore di Maratona non può essere contemporaneo di Policrate, ma in Erodoto ci sono due Milziadi; essi sono confusi anche nella biografia di Milziade di Cornelio Nepote (). Anche altri romanzi mostrano del resto una certa indifferenza per la cronologia. In seguito alle analogie con quello di Caritone, il romanzo di Partenope può essere datato nello stesso periodo, all’incirca nel primo secolo avanti o dopo l’età cristiana. Nella prima parte di questo romanzo, riportata nei frammenti papiracei e nella elaborazione persiana, Metioco arriva a Samo, viene accolto come ospite da Policrate, incontra Partenope e se ne innamora ricambiato. Il tiranno offre un banchetto – paragonabile al Convivium Septem Sapientium di Plutarco – a cui partecipano, oltre a Policrate e a sua figlia, Anacreonte, Ibico, e il filosofo Anassimene di Mileto. Ibico è nominato nel testo persiano, Anassimene compare sia qui che nei frammenti papiracei. Abbiamo dunque due accoppiate tipiche, monarca-poeta e monarca-filosofo. Il tema del dialogo nel simposio è Eros, sul modello dei dialoghi di Platone e Senofonte. L’amore è d’altra parte anche il tema del romanzo generalmente. Qui il filosofo guida la discussione, la figlia Partenope – stranamente presente al banchetto e alla discussione – è già colpita dall’amore per il giovane; Metioco dal canto suo argomenta contro il potere di Eros. Il fatto che Eros sia definito un pneuma potrebbe far pensare a un dettaglio della dossografia su Anassimene, ma in generale sono i paralleli con Platone che spiccano. Forse a questo proposito c’è anche una finzione letteraria di priorità, colla introduzione di Anassimene, ambientato in un tempo anteriore di cento anni alla profetessa di Mantinea Diotima, a Socrate e a Platone. Come abbiamo detto dunque, Policrate e sua figlia, Anacreonte e Metioco provengono da Erodoto, dove però non compare Ibico. L’autore del romanzo ha evidentemente a disposizione altre fonti oltre Erodoto. Probabilmente poteva leggere di prima mano la poesia di Ibico dove poteva trovare anche Policrate. La vera sorpresa per noi è però Anassimene. I primi filosofi ionici, Anassimandro e Anassimene, non erano infatti figure di primo piano nella tradizione antica. Secondo alcuni moderni storici della filosofia Anassagora e Diogene di Apollonia conoscevano Anassimene, ma questa è solo nostra ipotesi. Platone in ogni caso non li conosceva, e sembra che ben pochi, all’infuori di Aristotele e Teofrasto, abbiano mai avuto fra le mani i loro libri, anche se, ancora in età ellenistica, ii secolo a.C., quello di Anassimandro era presente nella biblioteca del ginnasio di Taormina. Scritti di questo tipo non erano inaccessibili, ma appare che normalmente non si sapeva pratica. A. D. Papnikolaou, Chariton-Studien, Göttingen . . H. Blanck, Anaximander in Taormina, mdai (Rom) , , -.
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mente nulla su Anassimene al di fuori delle notizie riportate da Teofrasto e dalla dossografia di matrice teofrastea. Abbiamo tuttavia tracce della costruzione di una tradizione indiretta nelle epistole pseudopitagoriche in Diogene Laerzio. Sono due lettere, una di Anassimene a Pitagora, l’altra la risposta di quest’ultimo al filosofo di Mileto. Anassimene deplora la tirannide dei ‘figli di Aiace’, cioè di Policrate e suo fratello, e si felicita con Pitagora per la sua emigrazione in Italia; parla anche con una certa ansietà della rivolta imminente degli Ioni contro i Persiani. Nella sua risposta (, s.) Pitagora accenna al fatto che Anassimene è certamente meno invogliato ad emigrare perché proviene da una famiglia nobile, ma gli raccomanda l’impegno politico. L’idea di tale corrispondenza ha le sue radici nella dicotomia ‘Filosofia Ionica – Filosofia Italica’, uno schema tipico delle ‘successioni dei filosofi’ cui Diogene Laerzio fa capo. Anassimene rappresenta la ‘Filosofia Ionica’, Pitagora quella ‘Italica’. Policrate compare in questa prospettiva come il tiranno abominevole. Sappiamo comunque di un’altra tradizione più antica che rappresenta Policrate con gli stessi tratti negativi: risale ad Aristosseno di Taranto, discepolo di Aristotele, l’asserzione che Pitagora lasciò Samo per recarsi in Italia a causa della tirannide di Policrate (Fr. = Porph. V.P. ). Se dunque Aristosseno e le epistole pseudo-pitagoriche rimandano l’immagine negativa del tiranno, il romanzo di Partenope rovescia questa prospettiva costruendo la scena idillica del monarca che si intrattiene a banchetto in un dialogo filosofico con gli intellettuali della sua ‘corte’ sul tema di ‘Eros’. In questo contesto di relazioni fra Anassimene e Policrate si inseriscono anche i dati biografici di Apollodoro sul filosofo ionico: egli pone infatti il floruit di Anassimene nell’anno della conquista di Sardi, e la morte nell’Olimpiade , i.e. /. Come ha dimostrato Felix Jacoby, questi dati sono costruiti sulla base della cronologia dell’invasione persiana, con la quale Apollodoro sincronizza anche Anassimandro, e in riferimento a Policrate. Apollodoro sembra presupporre già una connessione fra Anassimene e Policrate. Abbiamo dunque tre testi paralleli riguardanti Anassimene e Policrate: Apollodoro, le epistole pseudo-pitagoriche, e il romanzo di Partenope. Non voglio pronunciarmi sull’esatta interrelazione dei tre testi. In ogni caso la presenza di Anassimene alla corte di Policrate è una costruzione letteraria, uno scenario costruito su una tradizione filologica, non su una tradizione storica indipendente. Certamente non proviene da Anacreonte: nel testo del romanzo compare il termine filo´sofow che nessuno avrebbe usato nel . . Diog. Laert. xii ; viii sg. Si veda N. C. Dührsen, Die Briefe der Sieben Weisen bei Diogenes Laertios, in N. Holzberg (ed.), Der griechische Briefroman, Tübingen , -, che assume un romanzo in lettere di età ellenistica () ; P. A. Rosenmeyer, Ancient Epistolary Fiction. The Letter in Greek Literature, Cambridge . . Hdt. iii ; cfr. Sylloge Inscriptionum Graecarum nr. . . Apollodoro FGrHist F ; F. Jacoby, Apollodors Chronik, Berlin , -.
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Una testimonianza di tutt’altro genere su Policrate e i poeti si trova invece nell’‘Inno Omerico ad Apollo’. Si tratta questa volta di una connessione indiretta, basata su una deduzione filologica, ma, credo, inevitabile. Le testimonianze fondamentali sono fornite da due testi dei paremiografi, uno nello Zenobio del codex Athous, e uno nel Lessico di Fozio. Zenobio : « Questi sono per te gli agoni pitici e delii: Il proverbio è usato per quelli che compiono la loro azione ultima e finale. Fa menzione del proverbio Menandro nel Heautontimorumenos (Fr. Kassel-Austin). Dicono che Policrate il tiranno dei Samii avesse occupato Rheneia e l’avesse dedicata ad Apollo il dio di Delo. Egli organizzò un bellissimo agone, mandò messaggeri a Delfi e chiese [all’oracolo], come dovesse nominare l’agone, agoni Delii oppure Pitici. Il dio gli rispose: questi sono per te agoni pitici e delii; indicò dunque che sarebbe morto subito dopo».
Il lessico di Fozio ha un testo parallelo, ma non identico: « Pythia e Delia: Dicono che Policrate, il tiranno di Samo, fece a Delo agoni pitici e delii nello stesso tempo, e che avesse mandato a chiedere un oracolo al dio per sapere, se si potessero eseguire i dettagli del sacrificio nel tempo stabilito. Ma la Pizia diede il seguente oracolo: questi sono per te agoni pitici e delii; il dio voleva indicare che questa sarebbe stata l’ultima festa [del tiranno]. Qualche tempo dopo dunque si verificò la sua caduta. Epicuro (fr. Usener ; non in Arrighetti) (menziona) questo [oracolo] in una delle lettere a Idomeneo».
Credo che questa informazione sia da prendere sul serio, anche se non si trova in Erodoto. Ancora nel iv secolo infatti si conservava la memoria di fatti avvenuti ai tempi di Pisistrato e dei suoi contemporanei: si veda Aristotele su Pisistrato (Ath. Pol. , cfr., ). La dedica di Rheneia al dio di Delo è menzionata anche in Tucidide, col dettaglio che Policrate legò Rheneia a Delo con una catena. Ma la notizia dei paremiografi aggiunge la grande festa combinata di delie e pitiche, celebrata a Delo, una festa celebrata solo una volta, e mai più ripetuta. Per Policrate coincide con la fine della sua tirannide e della sua vita. La data di questa festa è dunque da fissare nel a.C., poco prima della morte del tiranno. C’è una piccola differenza fra i due testi di Zenobio e di Fozio riguardo alla domanda all’oracolo: in uno Policrate interroga l’oracolo sul nome da dare alla festa, « come doveva nominare l’agone», nell’altro sui dettagli del sacrificio già stabilito, «si possono eseguire i dettagli del sacrificio nel tempo stabilito ». La risposta sul nome delle feste, fissata in una formula, è divenuta proverbiale : tay^ta´ soi kai` Py´&ia kai` Dh´lia. Ho l’impressione che il testo di . Zen. Ath. , ; la grande edizione di Bühler non comprende ancora questo capitolo. . Thuc. iii , . Il testo di Tucidide è praticamente citato da Zenobio, Tuc.: th`n »Rh´neian ` n »Rh´neian kai` a∫na&ei`w ay∫th`n tv ^ i «Apo´llvni e™lv ` n a∫ne´&hke tv ^ i «Apo´llvni tv ^ i Dhli´vi - Zenob.: e™lv tv ^ i e∫n Dh´lvi. . Si veda n. e M. L. West, Homeric Hymns, Homeric Apocrypha, Lives of Homer, Cambridge, Mass. (Loeb), -.
policrate nelle testimonianze letterarie
Fozio sia più pertinente. Le normali feste delie si facevano in ogni caso, mentre più problematico era aggiungervi un sacrificio per Apollo Pizio; si poneva dunque la questione «se questo sacrificio poteva essere eseguito» in combinazione con le feste delie, «nel tempo stabilito», cioè durante queste feste ; il dio accettò. Possiamo immaginare che vi fosse anche una certa opposizione a Delfi, perché questo sincretismo avrebbe potuto diminuire l’indipendenza del dio di Delfi; da qui l’insistenza sul fatto che la festa non sarà mai più ripetuta. Possiamo comprendere la strategia di Policrate, la sua diplomazia religiosa. Pisistrato aveva usurpato la protezione di Delo prima di lui, come riferisce Tucidide (iii ). Un’azione di venerazione da parte d’un tiranno implica sempre anche una pretesa di potenza. Nel caso di Policrate il sacrificio ad Apollo Delio nasconde l’affermazione di primato fra gli Ioni. Solone aveva dichiarato Atene «la più antica e onorevole terra della Ionia» (Fr. a,). Pisistrato dà una dimostrazione di questa preminenza aumentando la sacralità di Delo con la ‘purificazione’, cioè con l’eliminazione delle tombe. Alla morte di Pisistrato, è Policrate ad usare Delo, il centro degli Iaones, come suo centro; egli spera di diventare il principe «della Ionia e delle isole», scrive Erodoto (iii ,). La Ionia del continente era sotto il dominio dei Persiani, ma le isole erano ancora indipendenti; e per Policrate l’insidiosa proposta di Orete faceva balenare la grande speranza di una Pan-Ionia, se non di una unione di ‘tutta la Grecia’ (Hdt. iii ,). In questa prospettiva Policrate cerca l’appoggio di Delfi, in aggiunta al dominio su Delo. Egli segue il modello di Gige e di Creso, i grandi devoti di Delfi. La politica oracolare si capisce meglio alla luce della relazione dei re di Ninive con le profetesse di Ishtar di Arbela, di cui abbiamo i testi originali mandati al re. Normalmente non dicono nulla di più che: ‘salute al re, non temere nulla, la dea ti protegge’. Apollo aveva dato le stesse risposte a Gige e a Creso. Valevano l’oro che i re avevano inviato. I monarchi e i tiranni alle prese con una potenza fragile e con tanti pericoli avevano bisogno di incoraggiamento e ringraziavano l’oracolo per i messaggi positivi con grandi doni : l’oro di Gige, l’oro di Creso. Policrate non era ricco di monete – Orete, nel suo messaggio insidioso, lo sottolinea (Hdt. iii ,) –, non poteva fare sfoggio d’oro, ma poteva organizzare spettacolari azioni cultuali, come la dedica di Rheneia a Delo, e l’aggiunta Pitica alle feste delie. Delfi consentì – forse non senza opposizione interna. Dopo la catastrofe di Policrate c’era ovviamente confusione, ma c’era anche una esplicazione pronta: il dio aveva previsto tutto: di là il proverbio tay^ta´ soi kai` Py´&ia kai` Dh´lia, a ricordare . Una scelta degli oracoli per Assarhaddon è accessibile in J.B. Pritchard, ed., Ancient Near Eastern Texts relating to the Old Testament, Princeton , ss.
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che la festa era un’azione irregolare, singolare e finale. Per Delfi, il problema era meno grave di quello del crollo di Creso nel . Si può confrontare ancora una volta, nonostante alcune differenze, la situazione di Policrate con quella di Pisistrato ad Atene. Anche quest’ultimo ha una sua linea diplomatica nei confronti di Delo e di Delfi. A Delo intraprende la grande ‘purificazione’ per renderla più sacra. La relazione con Delfi si sviluppa invece su una linea di concorrenza: Pisistrato costruisce ad Atene un tempio di Apollo Pizio, un Pythion, con una vivace opposizione dei cittadini, o almeno di certi cittadini, che non volevano pagare per questo. Sono anche qui i paremiografi a trasmettere sprazzi di luce, rapportando l’azione drastica, « defecare al Pizio», e la repressione altrettanto drastica. Nello stesso tempo, però, gli Alcmeonidi, esiliati da Atene, costruiscono il tempio nuovo ed esemplare di Apollo nel santuario di Delfi; e infatti essi vincono col favore di Apollo. L’oracolo profetizza il rovesciamento dei tiranni a Atene, e alla fine lo realizza. Insomma, l’informazione sull’ultima festa di Policrate a Delo, questi ‘Delia e Pythia’, è pienamente credibile. Ma di questa festa abbiamo con ogni evidenza un documento letterario, l’Inno Omerico ad Apollo. Il testo era noto a Tucidide (iii ), che lo crede opera autentica di Omero e lo usa come fonte storica. Credibile è anche l’informazione che il testo era pubblicato a Delo su una tavola bianca, un leukoma (Certamen lin. Allen). Il problema di questo testo è sempre stata la strana combinazione di una parte Delia con una parte Pizia. Qual è la parte originaria, e come è avvenuta la fusione delle due parti? Ora, se si pensa alla festa di Policrate, la risposta alla seconda questione è subito molto chiara : si tratta evidentemente di un testo composto proprio per questa singolare celebrazione, databile al . L’inno combina l’Apollo di Delo con quello di Delfi, tratta il mito della nascita a Delo e del combattimento col dragone a Delfi e, nell’intermezzo, descrive, addirittura esalta la festa degli Iaones a Delo. Non voglio dilungarmi sul passaggio più famoso, controverso, enigmatico dell’Inno, nel quale il poeta o piuttosto il cantore, il rapsodo presenta se stesso. Credo che si tratti di un enigma intenzionale, e che la soluzione è intendere, in luogo della ‘anonimità’ (a∫fh´mvw) nel v. , «Omero », il cieco di Chio, «di cui tutte le canzoni sono ottime presso la posterità». Il cantore presente alla festa di Policrate è dunque uno degli ‘Omeridi’. Possiamo immaginare una tematica tebana e troiana per i vari canti presentati alla festa, come . Zenob. Ath. ,, ed. Bühler v, , -. . W. Burkert, Kynaithos, Polycrates, and the Homeric Hymn to Apollo, in: W. G. Bowersock et al., ed., Arktouros. Hellenic Studies pres. to B.M.W. Knox, Berlin , - = W. Burkert, Kleine Schriften i, Göttingen , -; The Making of Homer in the Sixth Century B.C.: Rhapsodes versus Stesichoros, in Papers on the Amasis Painter and his World, Malibu , - = Kleine Schriften -.
policrate nelle testimonianze letterarie
la conosciamo anche da Stesicoro e, last not least, dal poema di Ibico per Policrate. In altre città, in questo periodo, troviamo il monumento per gli ‘eroi di Tebe’ sull’agorà di Argo, ma anche l’iconografia della guerra Troiana al frontone del tesoro dei Sifnii a Delfi, e finalmente le recitazioni di Omero alle Panatenee di Atene. Una peculiarità delle ragazze di Delo, esaltate dal cantore, è quella di poter ‘imitare’ il linguaggio e i suoni di tutti gli uomini. Si domanda se questo sia in relazione con gli inizi del teatro a Atene proprio in questi anni, l’introduzione dei tragodoi all’incirca nel . In ogni caso questo coro di Delo si pone in una prospettiva tutt’altro che provinciale: un cantore promette una propaganda di ampio respiro, «e noi porteremo la vostra fama dovunque andremo vagando sulla terra degli uomini, nelle città popolose». Gli Omeridi sono già internazionali. Abbiamo esaminato alcuni aspetti del rapporto di Policrate con poeti e intellettuali. Abbiamo trovato un Anacreonte emblema della cultura simposiastica nel suo tempo, una ricostruzione di un simposio in presenza dei ‘sofisti’ nel romanzo tardo, e una testimonianza indiretta sulla singolare festa di Policrate che combina giochi delii e pitici. È forse soddisfacente che possiamo constatare finalmente che lo spirito poetico risulta superiore alla potenza tirannica. Policrate è scomparso, ma ‘Omero’ non ha conosciuto la fine. Infatti Omero al tempo di Policrate non era più un individuo, ma una organizzazione, una professione, uno stile di poesia e performance. I poeti potevano sopravvivere ai tiranni anche come individui: infatti potevano entrare in collaborazione vantaggiosa con la polis, come Simonide, già vecchio, riuscì a fare a Atene. Il futuro non apparteneva ai tiranni, ma alla polis, e, in seguito, ad un pubblico leggente e colto e alla scuola, un pubblico letterario. Università di Zurigo
. A. Pariente, Le monument argien des ‘Sept contre Thèbes’, in M. Piérart, ed., Polydipsion Argos, Paris , -. . Ipparco procurò il testo di Omero per Atene e organizzò la recitazione della poesia Omerica alla festa delle Panatenee secondo l’ordine originale dei poemi stessi (Plat. Hipparch. b). È difficile decidere se l’Omero di Ipparco ad Atene sia precedente all’Omeride di Policrate a Delo () o posteriore. L’unico indizio è la frequenza crescente di temi omerici nella pittura vascolare di Atene, all’incirca nel a.C. : K. Friis Johansen, The Iliad in Early Greek Art, Copenhagen .
R A D I N A E LE O N T I C O A SA M O (STESICORO, STRABONE, PAUSANIA) Claudia Boni
S trabone (viii ,) è testimone unico di un frammento tradizionalmente attribuito a Stesicoro (ma dai moderni generalmente considerato spurio) appartenente ad un poema intitolato Radina. Il geografo, descrivendo la Trifilia, zona costiera del Peloponneso occidentale, cita questi versi come prova dell’esistenza, in tale area, di un’antica città di nome Samo. L’incipit è il seguente: a¢ge Moy^sa li´gei« a¢rjon a∫oida^w e∫ratv ^ n yçmnoyw Sami´vn peri` pai´dvn e∫rata^i f&eggome´na ly´rai
Orsù, Musa melodiosa, comincia il canto gli inni intorno agli amabili ragazzi samii cantando con l’amabile lira.
La storia che subito dopo Strabone ci racconta ha come protagonisti due giovani, amanti infelici, di questa Samo peloponnesiaca. Radina, promessa in sposa contro la sua volontà al tiranno di Corinto, salpa dalla sua città, spinta dal soffio dello Zefiro, in direzione della città istmica (anche il fratello di lei era stato favorito dal medesimo vento durante un viaggio a Delfi). Il cugino, Leontico, innamorato di lei, la raggiunge a Corinto con un carro. Ma il tiranno, offeso per l’ingiuria ricevuta, li uccide entrambi e ne allontana i corpi su un carro. In seguito, però, pentitosi, li fa riportare in città e dà loro sepoltura. Pausania (vii ,) mostra di conoscere la storia di Radina e Leontico, tuttavia nel testo fa menzione di una Samo che non è l’antica città peloponnesiaca, bensì la famosa isola dell’Egeo. Il periegeta infatti soffermandosi sui &ay´mata ovvero sulle ‘meraviglie’ della Ionia, ricorda che «a Samo sulla strada che conduce al santuario di Hera si trova la tomba di Radina e Leontico, e che coloro che sono tormentati da pene d’amore hanno l’abitudine di andare a pregare su quella tomba». Nell’isola quindi era nota la leggenda dei due giovani e altrettanto noto era il monumento funerario a loro dedicato, luogo di pellegrinaggio di amanti sfortunati. . Il frammento della Radina (fr. ) è classificato come spurio da Page : in seguito all’articolo di Rose : ss. che poneva in dubbio la paternità stesicorea (motivi contenutistici e metrici), dal momento che, tra l’altro, il dokei^ di Strabone (viii ,: kai` h™ »Radi´nh de` hÇn Sthsi´xorow poih^sai dokei^) faceva già pensare ad una tradizione ambigua. Così anche il più recente Davies colloca il frammento (fr. ) tra gli spuria. Di parere contrario Lehnus : ss. che riconosce validità alla tradizionale attribuzione a Stesicoro.
claudia boni
Le notizie riferite dalle due fonti presentano un’evidente contraddizione di carattere geografico. Eventuali dubbi sull’esistenza di una Samo (o Samico) peloponnesiaca sono stati fugati dai ritrovamenti archeologici in questa zona, i quali hanno messo in evidenza che la fortezza di Samikon, nota nel v sec. per la sua posizione strategica, in quanto sorvegliava ogni accesso a potenziali assalitori, sorgeva sulle vestigia di un antico centro abitato. Non tutta la cinta muraria di Samikon, ma solamente una parte, ricalcava le fondamenta di un antico muro. Secondo Strabone (viii , -), infatti, Samo sarebbe stato il nome dell’acropoli di Samikon, città fortezza ubicata nel pedi´on Samiko´n. A sostegno di ciò Strabone afferma che il termine sa´mow indicherebbe genericamente un’altura (e∫peidh` sa´moyw e∫ka´loyn ta` yçch). Si confronti a tal proposito Pausania (v , - e , -), il quale conosce bene Samikon, ma soprattutto sa dell’esistenza di una po´liw Sami´a che sorgeva sulla sommità di una collina (Paus. v , e¢stin [...] xvri´on te y™chlo`n kai` po´liw Sami´a e∫p« ay∫toy^ Samikoy^). Le fonti, Strabone e Pausania, distinguono pertanto un’acropoli di Samo (o po´liw Sami´a) da una piana detta Samikon, e sono concordi nell’affermare che l’antico abitato di Samo potrebbe essere identificato con il sito omerico di Arene (cfr. Strab. viii , e Paus. v , ) sulla base di due passi omerici, Il. ii e, in particolare, xi , in cui si dice che «il fiume Minieo sfocia nel mare vicino ad Arene ». ‘Minieo’, infatti, non è altro che l’antico nome dell’Anigro, il fiume che scorre nei pressi di Samikon (Strab. viii , e Paus. v ,). Ora, secondo la testimonianza di Strabone, Radina da Samo va a Corinto per mare, spinta dallo Zefiro, così come il fratello di lei andando a Delfi. Strabone qui appare piuttosto preciso: se nomina lo Zefiro ed aggiunge il particolare di Delfi, non necessario alla storia nella sua fattispecie, ciò è per dimostrare che la località in questione doveva trovarsi ad ovest sia di Corinto che di Delfi. Lo Zefiro, vento di ponente, sarebbe stato contrario a chi navigasse da est verso ovest, e cioè dall’isola dell’Egeo. Inoltre la leggenda dice che Leontico raggiunge Corinto su un carro: l’impiego di questo mezzo per andare o per allontanarsi dalla città istmica presuppone un itinerario terrestre, il che esclude ancora una volta ogni identificazione di questa Samo con la Samo insulare. I ‘fanciulli samii’ nominati nel passo dello (pseudo?) Stesicoro saranno pertanto originari di questa Samo continentale. Come si spiega allora la variante tramandata da Pausania? A questo proposito vale forse la pena di prendere in attenta considerazione un dettaglio di carattere linguistico riguardante il nome proprio di »Radi´na. . Cfr. Bisbee : ss.
r a d i n a e le o n t i c o a sa m o ( s t e s i c o r o , s t r a b o n e , p a u s a n i a )
Esso, nella forma »Radi´nh testimoniato sia da Strabone che da Pausania, sembra etimologicamente connesso con l’aggettivo ossitono r™adino´w, h´, o´n ‘flessuoso’, ‘sottile’, ‘delicato’, ‘tenero’. »Radi´nh è invece parossitono secondo l’accentazione tipica dei dialetti occidentali (cfr. Praxill. fr. , P. ta`n kefa´lan). Dal punto di vista dorico, tuttavia, »Radi´nh dovrebbe avere desinenza -a (»Radi´na) : il nome sembra una sorta di pastiche linguistico in cui sono presenti elementi dorici e ionici (-h). Questa compresenza di tratti appartenenti a dialetti diversi potrebbe essere dovuta ad una eventuale diffusione della leggenda di »Radi´na in area ionica, ove il nome avrebbe mantenuto la parossitonesi dorica, ma mutato la desinenza -a in -h secondo le norme fonetiche tipiche dello ionico. Così si potrebbe supporre che la leggenda di Radina e Leontico appartenesse al Peloponneso, come testimonia Strabone, ma che nell’isola di Samo si fosse in seguito diffusa (cfr. Pausania) a causa dell’omonimia tra le due località. L’isola inoltre ospiterebbe il monumento funerario (mnh^ma) dei due sventurati amanti (Paus. vii , ). Si tenga presente, a tal proposito, il caso analogo di Hera, cui i Sami rivendicavano l’onore di aver dato i natali, in contrasto con la vulgata ellenica secondo la quale il culto della dea era in realtà stato introdotto a Samo da Argo con la spedizione degli Argonauti. Secondo Pausania (vii , ) essi, infatti, avrebbero recato con sé la statua di Hera e nell’isola le avrebbero dedicato un tempio. Anche nel caso di Radina e Leontico i Sami potrebbero essersi appropriati di un antico mito peloponnesiaco al fine di arricchire il patrimonio mitologico della propria isola, a quanto pare colonizzata solo in epoca posteriore al cosiddetto periodo ‘eroico’. A questo punto vale forse la pena di considerare quanto riferisce lo scrittore samio Menodoto ( F Jacoby = Athen. xv ab) nel Catalogo delle cose notevoli di Samo. Egli narra che Admete, figlia di Euristeo, fuggì da Argo e giunse sana e salva nell’isola. Così, alla dea Hera, apparsale in sogno durante la fuga, decise di offrire un segno della propria gratitudine: ella si sarebbe presa cura del santuario, ivi esercitando la funzione di sacerdotessa. Menodoto, pertanto, è esponente di quella tradizione samia che si impossessa del culto di Hera. Tuttavia egli tenta di conciliare la versione insulare, secondo cui il culto della dea si sarebbe sviluppato a Samo, con la tradizione ellenica che, invece, ne colloca ad Argo l’origine. Allo stesso modo, dunque, i Samii avrebbero potuto appropriarsi anche della leggenda di Radina e Leontico grazie all’omonimia tra le due località: Samo peloponnesiaca e Samo ionica. Università di Bologna - Sede di Ravenna
claudia boni Abbreviazioni bibliografiche
Bisbee, H. L.
Samikon, «Hesperia » , , -.
Davies, M.
Poetarum Melicorum Graecorum Fragmenta, Oxonii .
Lehnus, L. Page, D. L. Rose, H. J.
Note stesicoree: i poemetti ‘minori’ (fr. 277-9 PMG), «SCO » , , -. Poetae Melici Graeci, Oxonii . Stesichoros and the Rhadine-fragment, «CQ » , , .
A S I O ‘ P A R O D I C O ’ ? LE T T U R A D I U N FRAMMENTO ELEGIACO Alessandro Iannucci . Premessa: il testo e il contesto del frammento di Asio in Ateneo xvlo´w, stigmati´hw, polygh´raow, ®isow a∫lh´tW, h®l&e knisoko´laj, ey®te Me´lhw e∫ga´mei a¢klhtow, zvmoy^ kexrhme´now, e∫n de` me´soisin hçrvw ei™sth´kei borbo´roy e∫janady´w.
zoppo, marchiato, vecchissimo, pari a un vagabondo, arrivò il fiutarrosto al matrimonio di Meles non invitato, mendicando una zuppa, e nel mezzo stava ritto l’eroe, emerso dal pantano.
L ’ ipotetica lettura di questi quattro versi nella sola traduzione, e dunque privi della chiarificatrice identità metrica, potrebbe far pensare, almeno in prima battuta, a un testo comico o a una qualche forma di poesia ellenistica, dalla parodia al mimo; si tratta invece di un frammento elegiaco, l’unico a noi noto del poeta epico Asio di Samo, uno dei protagonisti di una tradizione epica non priva di accenti campanilistici iniziata a Samo – l’isola trascurata da Omero – da Creofilo e proseguita dal grande innovatore Cherilo. La particolarità di questi distici, già notata e talora fraintesa dagli antichi, non è sfuggita agli studiosi. Edmond Cougny inserisce appunto il testo di . Il testo qui riprodotto è quello stabilito da Gentili-Prato (vol. i, p. , senza numerazione) e che comunque non discorda dalle precedenti edizioni di Bergk, Diehl e West (ove è il fr. , secondo una numerazione progressiva rispetto alla raccolta dei frammenti epici di Kinkel) se non nelle diverse scelte di punteggiatura. Per un poeta legato all’isola di Samo, ponte cruciale per le relazioni e i contatti interculturali, oltre che commerciali, tra l’Asia e il mondo ellenico (cfr. p. es. Craick ), il nome ‘Asio’ pare visibilmente un nome parlante, in modo del tutto analogo ad altri nomi di poeti quali p. es. il cantore Terci´aw (cfr. Pind. Ol. ,), o l’‘inventore’ del barbiton Te´rpandrow (al riguardo cfr. Livrea ), o ancora l’‘istruttore di cori’ Sthsi´xorow. Al pari del nome risultano incerti anche gli estremi cronologici in cui collocare Asio, presumibilmente attivo nella seconda metà, se non negli ultimi decenni del vi secolo ; sull’argomento cfr. Michelangeli nonché Veneri : , n. . . La Samo egea è ricordata per compiacere Policrate solo dall’autore dell’Inno ad Apollo al v. (sull’argomento cfr. Aloni in questo volume, pp. -, con ulteriore bibliografia), mentre nei poemi omerici i toponimi Sa´mow o Sa´mh sono utilizzati unicamente per la Same ionica e Samotracia ; sarà appunto Asio, per primo, a raccontare la tradizione genealogica di Samia e del figlio di lei Samo nel suo poema (cfr. fr. Bernabé = test. Gent.-Pr.), a compensare il disinteresse omerico (cfr. Huxley : ). L’epica samia, dal suo iniziatore Creofilo – verso cui Omero avrebbe manifestato la propria a∫me´leia secondo Plat. Resp. b-c – ad Asio, fino a Cherilo, il promotore dell’epica storica (sull’argomento cfr. Bernardini in questo volume, pp. ), parrebbe caratterizzata da forti tratti campanilistici e da un atteggiamento irriverente, se non polemico, nei confronti di Omero, secondo la condivisibile ricostruzione di De Martino : -.
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Asio, subito dopo il celebre frammento archilocheo dello ‘scudo’ ( W.), all’inizio della sezione di Epigrammata irrisoria della variegata silloge in cui gli epigrammi dell’Anthologia Palatina e della Planudea sono integrati da uno spoglio della tradizione letteraria e epigrafica. Il frammento di Asio è riportato dai Deipnosofisti di Ateneo (iii b-d) ; ma vi è un’ulteriore fonte di tradizione indiretta, fino a oggi trascurata. Eustazio, infatti, nel suo commento a Od. xvii cita il testo di Asio a proposito della superiorità di Omero nel rappresentare quanti si recano a banchetto per mendicare. Su tale importante testimonianza si tornerà in seguito ; in via preliminare è infatti opportuno soffermarsi sul contesto particolarmente significativo in cui è inserita la citazione di Asio in Ateneo: una sezione dedicata ad alcuni frammenti comici del iv secolo incentrati sul motivo del parassita a banchetto. Al medesimo topos parrebbe infatti appartenere il personaggio abilmente ritratto nei quattro versi del nostro frammento, e bollato appunto come un a¢klhtow (v. ) che irrompe a mendicare (v. kexrhme´now) durante un banchetto nuziale. I meccanismi narrativi della cornice narrativa dei Deipnosofisti che portano alla citazione di Asio risultano, per una volta, accuratamente calibrati, e anzi tesi a una serrata caratterizzazione di alcuni personaggi del dialogo. L’insolita e inattesa presenza di un testo elegiaco di un poeta noto come palaio´w e autore di e¢ph, infatti, si concretizza, attraverso un particolarissimo trait-d’union nel mordace scambio di battute tra due dei dotti a banchetto, Mirtilo e Ulpiano. Mirtilo aveva in precedenza (iii b) sostenuto la propria predilezione per il pesce salato ; un cibo che andrebbe accompagnato con il bere vino freddo, secondo l’opinione del poeta Simonide (toy´tvn o™ Myrti´low a∫koy´saw e¢fh. e∫gv ` d« v £ n filota´rixow, v ® e™tai^roi, xio´now piei^n boy´lomai kata` Simvni´dhn.) Ulpiano coglie l’occasione per citare due frammenti comici di Antifane e Alessi ( e K.-A.) in cui compaiono i termini filota´rixow e zvmota´rixow ma afferma invece di ignorare il locus simonideo cui ha alluso Mirtilo, il quale rimbecca il commensale rimproverandogli di essere solo un «ghiottone » (ga´strvn) per nulla interessato, in realtà, alla questione. E con dotto, quanto feroce sarcasmo, Ulpiano è accusato di essere un knisoloi´xow – ter. Cougny : . . Nell’edizione Gentili-Prato, contrariamente alle precedenti, è indicato un altro testimone per il v. : il grammatico Frinico che glossa il peculiare hapax knisoko´laj con to`n oy∫deno`w a∫ga&oy^ ko´laka, toy^ ai∫sxi´stoy de` pa´ntvn (Anecd. Gr. i , Bekker). . Il dotto battibecco improvvisamente sorto tra Mirtilo e Ulpiano è funzionale al consueto sfoggio di erudizione dei personaggi del dialogo narrato; nell’economia narrativa dei Deipnosofisti tali episodi – confronti verbali, sfide di erudizione – sono pretesto e cerniera per la costruzione di una dotta antologia ‘ragionata’ per temi o, come in questo caso, per glosse particolarissime della letteratura greca ancora nota e conservata nelle biblioteche nell’età imperiale. . Nell’uso del raro termine non è da escludere una sottile allusione ad Alceo che ingiuriò Pittaco appunto come ga´strvn oltre che fy´skvn (fr. V. ap. D.L. i ; cfr. anche Poll. ii ),
asio ‘parodico’ ?
mine il cui significato di ‘chi lecca’, ‘sbava sul fumo dell’arrosto’ rimanda alla figura del parassita – e anzi, soggiunge ancora Mirtilo, un knisoko´laj – alla lettera ‘adulatore del fumo di arrosto’ – secondo un’espressione dell’antico e famoso poeta di Samo, Asio: knisoloixo`w ga´r tiw ei® kata` to`n Sa´mion poihth`n ÊAsion to`n palaio`n e∫kei^non [kai`] knisoko´laj (= test. Bernabé). Mirtilo, dopo la rapida ma puntuta aggressione verbale a Ulpiano, procede dunque nel citare l’epigramma simonideo West = Page, incentrato sul motivo di galateo simposiale già evocato in precedenza, l’inopportunità dei brindisi con il vino caldo. Ma Ulpiano non sembra ancora soddisfatto; mentre riprende di nuovo a bere, chiede anzi con una certa asprezza – e in tono quasi di sfida (pio´ntow oy®n ay∫toy^ pa´lin e∫zh´tei o™ Oy∫lpiano´w) – dove si trovi il termine knisoloixo´w e quali siano i «versi epici» (e¢ph) di Asio in cui è invece attestato knisoko´laj (poy^ kei^tai o™ knisoloixo`w kai` ti´na e∫sti` ta` toy^ «Asi´oy e¢ph ta` peri` toy^ knisoko´lakow ;). Mirtilo, a questo punto, cita il frammento di Asio in questione, mentre per knisoloixo´w e knisoloixi´a ricorda due brevi frammenti del comico Sofilo ; infine, con la menzione di un ulteriore ma non meglio precisato passo del Calabrone (Bombylio´w) di Antifane in cui sarebbe attestato ancora una volta knisoloixo´w ( K.-A.), si conclude questo interessante episodio di intertestuale battibecco tra gli eruditi a banchetto.
allusione in un qualche modo evocata anche dal nome del destinatario cui Ulpiano rivolge l’appellativo : Myrsi´low, variante di Myrti´low, nome diffuso nel mondo eolico (cfr. Fraser-Matthew : ) e, in particolare, nome dell’altro tiranno contro cui fu in lotta il gruppo di Alceo (cfr. frr. e V.). . Il testo tràdito di quest’ultima battuta, come si può notare, è stato modificato da Casaubon – e così recepito da Kaibel – mediante l’inserzione di un kai´ subito prima di kata` to`n Sa´mion e, viceversa, l’espunzione del kai´ tràdito prima di knisoko´laj. Correzioni in sé evidenti, e giustificate dalle successive citazioni di Ateneo; senza tali lievi ritocchi, in effetti, Mirtilo avrebbe accusato Ulpiano di essere knisoloixo´w secondo quanto diceva il poeta di Samo, e di essere inoltre knisoko´laj, mentre i testi citati in seguito indicano invece con chiarezza il contrario (e cioè che Ulpiano è considerato da un lato knisoloixo´w e dall’altro knisoko´laj, termine appunto attestato nell’antico poeta di Samo). . Il verbo zhte´v, qui utilizzato da Ulpiano, pare caratterizzare la cifra di questo personaggio, retore e virtuoso appunto della zh´thsiw, la tecnica di indagine grammaticale e lessicografica diffusa all’epoca. Ulpiano – a prescindere dalla sua discussa identificazione col famoso giurista – è in ogni caso un lessicografo maniacale, soprannominato per questo keitoy´keitow (i d-e ; cfr. anche Suda d ) e spesso bersaglio delle irrisioni dei suoi commensali; Cinulco, in particolare, prende le distanze dai suoi modi di lettura, legati alla ricerca di glosse rare e peculiarissime, e per due volte (viii d-e ; xv c) lo rimprovera di «estrarre solo le spine dei libri» ; al riguardo cfr. Jacob : xxxi e lxxiii s. . Il primo, K.-A., è tratto dall’Ambizioso (Fila´rxow) o∫cofa´gow ei® kai` knisoloixo´w (« sei un ghiottone, e anche uno sbava-arrosto») ; il secondo, K.-A, è invece dai Concorrenti (Syntre´xon^ı skeya´sai / e∫ke´leyse taythni´ tew) o™ pornobosko`w ga´r m« y™po` knisoloixi´aw / xordh´n tin« ai™mati^tin ay™tv me (« il magnaccia pressato dalla fregola d’arrosto / mi ordinò di preparargli una budella al sangue, / questa qui»).
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La citazione del frammento di Asio è quindi inserita nel contesto di una divertita e dotta mise en scène di alcuni motivi tipici della tradizione giambica e comica. La ghiottoneria è evocata già dall’iniziale ga´strvn con cui Mirtilo apostrofa Ulpiano, e introduce la figura del parassita a banchetto cui si riferisce la coppia di rari termini knisoko´laj e knisoloixo´w. Lo stesso a¢klhtow con cui è etichettato da Asio l’intruso al banchetto nuziale (v. ) – già qualificato in modo inequivoco dalla sequela di aggettivi infamanti del v. – richiama il medesimo topos ampiamente diffuso nella commedia di iv secolo. Il motivo è in realtà ben più antico, ed è anzi già attestato prima che nell’archaia, nella stessa matrice letteraria del genere comico, vale a dire nella tradizione giambografica. Ateneo, all’inizio del libro i, cita due frammenti di Archiloco, con ogni probabilità appartenenti a uno stesso carme. Il fr. a W. (ap. Ath. i a) è ricordato a proposito dell’espressione Mykoni´vn di´khn (« alla maniera dei Miconi ») utilizzata da Archiloco in relazione all’abitudine di Pericle – forse lo stesso personaggio e amico del poeta cui è rivolto il compianto del fr. W. – di «irrompere », pur akletos, nei simposi (oçti peri` Perikle´oyw fhsi`n «Arxi´lo-
xow o™ Pa´riow poihth`w v ™ w a∫klh´toy e∫peispai´ontow ei∫w ta` sympo´sia. Mykoni´vn di´khn).
. knisoko´laj è hapax (cfr. Gent.-Pr. ad l.) ; per knisoloixo´w cfr. anche Hesych. k che glossa il termine antifaneo ( K.-A. cit. supra) con li´xnow, e cioè «ghiotto », « goloso », nonché Amphid. fr. K.-A. Ey∫ry´bate knisoloi^xe, ... oy∫k e¢s&« oçpvw / oy∫k o∫lbioga´stvr ei® sy´. . Tra i numerosi esempi basti qui ricordare Alex. K.-A. e∫pi` dei^pnon ei∫w Ko´rin&on e∫l&v`n Xairefv ^ n / a¢klhtow. h¢dh ga`r pe´tetai diapo´ntiow. / oyçtv ti ta∫llo´tri« e∫s&i´ein e∫sti` glyky´ o ancora Antiph. K.-A. (= - Kock) oy©toi de` ta` dei^pna tv^n e∫n tW^ po´lei / a∫forv^si... kai` pe´tontai dejiv^w / e∫pi` tay^t« a¢klhtoi... / oyÇw... e∫k koinoy^... / e¢dei tre´fein to`n dh^mon, a∫ei´ &« v ç sper / «Olympi´asi´ fasi tai^w myi´aiw poiei^n / boy^n toi^w a∫klh´toiw prokatako´ptein pantaxoy^. Il riferimento di Antifane alle ‘mo-
sche’ di Olimpia può essere compreso alla luce del singolare culto descritto da Paus. vi ,; sull’associazione tra akletoi e ‘mosche’ cfr. p. es. ancora Antiph. fr. , K.-A. (ap. Ath. vi e). Di particolare rilievo la presenza di un akletos in un contesto nuziale – come nel frammento di Asio – nella Sacerdotessa di Apollodoro di Caristo, fr. K.-A. : kaino´n ge´ fasi Xairefv^nt« e∫n toi^w ga´moiw / v ™ w to`n «Ofe´lan a¢klhton ei∫sdedyke´nai. / spyri´da labv ` n ga`r kai` ste´fanon, v ™ w h®n sko´tow, / fa´skvn para` th^w ny´mfhw o™ ta`w o¢rneiw fe´rvn / hçkein, dedei´pnhx’, v ™ w e¢oiken, ei∫spesv ´ n. Infine, tra i testi
citati da Ateneo in una sezione del iv libro appunto dedicata alla figura del parassita (f-a) cfr. p. es. Alex. fr. K.-A. ; Theopomp. fr. K.-A. Ey∫ripi´doy ta¢riston oy∫ kakv^w e¢xon, / ta∫llo´tria deipnei^n to`n kalv ^ w ey∫dai´mona, etc. . Basti qui ricordare, p. es., Crat. fr. K.-A. oy∫ ga´r toi sy´ge prv^tow a¢klhtow foita^ıw e∫pi` dei^pnon a¢nhstiw o ancora Ar. Pax ss., in cui il coro ammonisce Trigeo e il servo ad affrettarsi nel compiere il sacrificio, altrimenti Cheride, il celebre suonatore di aulos tebano già ricordato in Ach. , anche se non invitato ( s. a¢klhtow) si presenterà a suonare e alla fine riuscirà ad ottenerne qualcosa in cambio; ancora, in Av. ss. si nota la presenza del medesimo tema in una rappresentazione in chiave parodica di oracoli. . Sui rapporti genetici tra giambo e commedia cfr. soprattutto Degani . . L’espressione sarà ricordata – appunto sulla scorta del locus archilocheo – nella tradi-
asio ‘parodico’ ?
Dopo tale citazione, nella cornice narrativa dei Deipnosofisti è introdotto un ulteriore motivo topico, quello del ritardatario a banchetto. Un personaggio non meglio identificato, giunto appunto in ritardo al banchetto dei sapienti, e evidentemente non invitato (akletos), esordisce con il motto proverbiale a∫ga&o`w pro`w a∫ga&oy`w a¢ndraw e™stiaso´menow h©kon. koina` ga`r ta` tv^n fi´lvn (« da galantuomo sono arrivato per banchettare con galantuomini: i beni degli amici sono in comune»). Subito dopo, introduce una citazione da Archiloco in perfetta liaison con la precedente battuta sulla spilorceria dei Miconi, vale a dire il frammento b W., che in tutta probabilità, insieme a a W., appartiene ad un medesimo carme di co´gow nei confronti dell’amico Pericle: pollo`n de` pi´nvn kai` xali´krhton me´&y, oy¢te ti^mon ei∫senei´kaw oy∫de` me`n klh&ei`w h®l&ew oi©a dh` fi´low, a∫lla´ seo gasth`r no´on te kai` fre´naw parh´gagen ei∫w a∫naidei´hn
bevi molto e pure vino schietto ma non hai portato un contributo... né eri stato invitato... sei venuto come un amico, ma è la pancia che trascina la tua mente e il cuore all’impudenza.
Questi versi sono una delle più antiche testimonianze dei ‘banchetti a contribuzione’ (cfr. v. ) – gli e¢ranoi, o banchetti a∫po` symbolv^n – e, soprattutto, zione erudita e lessicografica (cfr. Hesych. m e Suda m ) ed è già in un certo modo ‘glossata’ da Ateneo (dokoy^si d« oi™ Myko´nioi dia` to` pe´nes&ai kai` lypra`n nh^son oi∫kei^n e∫pi` glisxro´thti kai` pleoneji´aı diaba´lles&ai) che cita anche un passo di Cratino (fr. K.-A.) in cui è appunto chiamato «Miconio », il gli´sxrow (lo ‘spilorcio’, il ‘taccagno’) Iscomaco (to`n goy^n gli´sxron «Isxo´maxon Krati^now Myko´nion kalei^). . Cfr. p. es. Plut. Quaest. Conv. (= Mor. e ss.). . Il primo segmento dell’allusiva battuta rimanda a una sententia attestata per la prima volta in Hes. fr. M.-W., presumibilmente da Le nozze di Ceice, ay∫to´matoi d« a∫ga&oi` a∫ga&v^n e∫pi` dai^taw ¢iasin, sulla scorta dell’omerico ay∫to´matow h©l&e boh`n a∫ga&o`w Mene´laow (Il. ii ). Il proverbio è riecheggiato, o meglio parodiato, p. es., in Eupoli K.A. ay∫to´matoi a∫ga&oi` deilv^n e∫pi` dai^taw ¢iasin. Celeberrima la ripresa di Platone nel Simposio (a), in cui Socrate ne altera il significato giocando sull’omofonia tra a∫ga&o´w e l’ospite «Aga´&vn : il passo platonico è citato proprio in relazione al proverbio in questione dallo stesso Ateneo v a, testimone anche dei summenzionati frammenti di Esiodo e Eupoli (v b) ; al riguardo, cfr. Tosi : s. . La definizione di ‘banchetti a contribuzione’ è in realtà alquanto generica, e rimanda a istituzioni conviviali affatto differenti tra loro nel corso dei diversi periodi storici. L’usanza dell’e¢ranow parrebbe già nota ad Omero (cfr. p. es. Od. i , in cui Atena sotto le veste di Mentore domanda a Telemaco ti´w dai´w, ti´w dai` oçmilow oçd« e¢pleto ; ti´pte de´ se xrev´ ; / ei∫lapi´nh h∫e` ga´mow ; e∫pei` oy∫k e¢ranow ta´de g« e∫sti´n, o ancora, ibid. iv -) ma si tratta, evidentemente, di forme culturali appartenenti alle fasi più recenti della redazione dell’Odissea e non certo diffuse in età micenea. In ogni caso, la fioritura dei banchetti a∫po` symbolv^n è piuttosto da collocare nel iv secolo, in un contesto socio-culturale in cui giocano un ruolo di primo piano anche le donne, le
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della figura dell’akletos, archetipo della maschera comica del parassita ampiamente diffusa, come si è visto, nel teatro di iv secolo. I testi e gli elementi sin qui richiamati a confronto testimonierebbero un’indubbia quanto insolita continuità tra il frammento di Asio e alcuni elementi e motivi topici della tradizione giambografica e comica. Ma un ulteriore passo nella ricerca dei precedenti letterari può forse orientare a una diversa prospettiva esegetica. Il vero archetipo dell’akletos – e probabile modello di Asio – può infatti essere rintracciato già in Omero nella figura di Odisseo mendico e rivale nel ptvxeyei^n con Iro, l’accattone ‘ufficiale’ del banchetto dei proci, usurpatori della casa e degli averi dell’eroe assente. L’ingresso di Odisseo nel megaron in cui si consumava la dais dei proci è descritto a partire dal v. del xvii canto. Odisseo entra (e∫dy´seto) nelle sale (dv´mata) simile a un mendicante, vecchio e infelice (v. ptvxv^ı leygale´vı e∫nali´gkiow h∫de` ge´ronti), appoggiato a un bastone (v. skhpto´menow) e coperto di sudice vesti (v. ta` de` lygra` peri` xroiÜ eiçmata eçsto). Avendo notato lo strano mendico, Telemaco chiama a sé il porcaio (sybv´thw) Eumeo che lo accompagnava, e gli consegna una sua elemosina per l’inatteso ospite, un pane intero e carni, quante ne tenevano le sue mani (vv. s.). E invita dunque Eumeo a riferire all’ospite che gli è concesso di mendicare tra i proci (-), perché per l’uomo bisognoso (v. kexrhme´nvı a∫ndri´) non è buona cosa il pudore (ai∫dv´w). Ma appena Odisseo inizia a mendicare, Antinoo subito rimprovera (nei´kesse) il porcaio, gli rinfaccia l’aver portato in città tale nuovo mendico, e gli chiede se non bastavano gli altri «accattoni » (v. a∫lh´monew) già presenti, «straccioni schifosi, divoratori di avanzi», come traduce R. Calzecchi Onesti, ovvero «accattoni molesti, pulitori di mense», nella traduzione di G. A. Privitera (v. ptvxoi` a∫nihroi´, daitv^n a∫polymanth^rew) ; quest’ultimo verso, in particolare, ricalca l’ingiuria in precedenza rivolta allo stesso Odisseo da Melanzio, il capraio fedele ai proci, su cui si concentra, come si vedrà, l’interessante esegesi di Eustazio (xvii ptvxo`n a∫nihro´n, daitv ^ n a∫polymanth^ra). Una vistosa serie di somiglianze, contenutistiche ma anche formali, accomunano la rappresentazione del parassita nel frammento di Asio e l’entrée di Odisseo al banchetto dei proci. etere : cfr. p. es. Ath. xiii a = Antiph. test. K.-A. ; al riguardo, oltre a Cavallini e , vd. anche Salles , tr. it. : - e Davidson : , n. . Per la definizione di e¢ranow come riunione a∫po` symbolv^n cfr. Ath. viii e. . La risposta di Eumeo è assai nota perché inscrive la categoria dei divini cantori nel ‘ceto artigianale’ (vv. ss.). Quale straniero, sostiene il sybv´thw, qualcuno inviterà (kalei^) di persona se non si tratta di dhmioevrgoi´, o di un indovino, o un guaritore di mali o un carpentiere – vale a dire se non si tratta di stranieri portatori di una specifica te´xnh che li renda socialmente utili ? Questi infatti, sono gli uomini «richiesti », mentre nessuno invita un mendico per farsi « mangiare » da quello (vv. s. oy©toi ga`r klhtoi´ ge brotv^n e∫p« a∫pei´rona gai^an. / ptvxo`n d« oy∫k a¢n tiw kale´oi try´jonta eç ay∫to´n).
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Il ptvxo´w Odisseo è innanzitutto vecchio (v. ge´rvn) così come è polygh´raow l’intruso al banchetto di Melès (v. ). Al v. va inoltre osservata la presenza di kexrhme´nvı dopo cesura come per kexrhme´now al v. di Asio: il participio perfetto medio di xra´v, peraltro, è frequente nell’Odissea proprio per indicare l’attività del mendico, del «bisognoso ». Ancora, ai vv. s., il prezioso unicismo omerico klhtoi´, riferito a quanti siano graditi e ricercati tra gli uomini, in opposizione ai ptvxoi´ che invece nessuno «chiama » (kale´oi), definisce Odisseo akletos allo stesso modo del personaggio di Asio (v. ). Infine i ptvxoi´ sono considerati «vagabondi », a∫lh´monew (v. ), così come è a∫lh´thw, si è già visto, il personaggio di Asio (v. ) ; il medesimo a∫lh´thw, del resto, è già in Od. xvii ss. – nelle parole in cui Odisseo identifica se stesso in un mendico – kai` ga`r e∫gv´ pote oi®kon e∫n a∫n&rv´poisin e¢naion / o¢lbiow a∫fneio`n kai` polla´ki do´skon a∫lh´tW ktl. e in xviii ®Iron to`n a∫lh´thn su cui torneremo. Sin qui le somiglianze, o, in altri termini, la consueta rassegna di loci paralleli. Ma la presenza della fraseologia omerica non sembra spiegarsi solo con la dipendenza di Asio da un preciso e noto modello epico; in taluni casi si tratta piuttosto – e arrivo, finalmente, all’interrogativo che dà il titolo a questo intervento – di un vero e proprio calco parodico. . E l e m e n t i p a r o d i c i Non è questa la sede per entrare nel merito di ciò che distingue e specifica la parodia da altre forme letterarie simili o affini, né, tantomeno, per ripercorrere le tappe che hanno portato da forme embrionali di parodia, specie in Ipponatte, alla costituzione di un genere letterario ben definito con Egemone di Taso, o™ ta`w parvıdi´aw poih´saw prv^tow secondo quanto riferisce Aristotele, Poet. a, s. ; per tutto questo, infatti, si può presupporre e rimandare a quanto sintetizzato da E. Degani sulla scorta di una tradizione di studi che va dallo Stephanus sino a M. Bachtin. E da quelle pagine si può, in ogni caso, assumere un importante presupposto metodologico: episodi, anche precoci e appunto embrionali, di autentica parodia sono riconoscibili con certezza solo in presenza dell’intenzionale distorsione di un determinato modello e, in particolare, nei casi di detorsio Homeri. . Cfr. xvii toi´vı, o™poi^ow e¢oi kai` oçtey kexrhme´now e¢l&oi nonché xix toi´vı, o™poi^ow e¢oi kai` oçtey kexrhme´now e¢l&oi xvii , in cui è ancora Odisseo ptvxo´w a parlare, e, in particolare, Od. xiv a∫ll« a¢llvw, komidh^w kexrhme´noi, a¢ndrew a∫lh^tai, ove si può notare anche il ricorrere di a∫lh´thw, utilizzato da Asio (v. ). . Cfr. anche xvii , xx , etc. . Cfr. Degani . Sulla parodia intesa come uno dei modi della poesia allusiva, ovvero dell’intertestualità, cfr. Bonanno : - e -; più in generale sulla parodia come genere cfr. Beltrametti e la lucida sintesi di Camerotto : -. . Cfr. Degani : .
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Gli intenti irrisori e mordaci di Asio nei confronti del modello epico sono in qualche modo già resi evidenti dal fatto che la comica irruzione del parassita si compie proprio in occasione del banchetto di Melès, in cui si può identificare il mitico padre fluviale di Omero; ma la spia più significativa che orienta a una lettura del testo in chiave di parodia consiste soprattutto nel notevole parallelismo – debitamente segnalato nell’apparato di GentiliPrato – del v. ®isow a∫lh´tW con Od. xviii ®Irow a∫lh´thw. Nel canto xviii dell’Odissea, come si diceva, il falso mendico Odisseo si troverà coinvolto in un singolare agone, da cui uscirà ovviamente vittorioso, con il ptvxo´w Arnéo, meglio noto come Iro. I versi - del canto xviii sono un’importante caratterizzazione della figura tipica del ptvxo´w, in cui si deve notare, in particolare, l’incipitario h®l&e al v. , nella medesima posizione del v. di Asio (in ogni caso di ritmo dattilico anche se in un pentametro e non nell’esametro) : h®l&e d« e∫pi` ptvxo`w pandh´miow, oÇw kata` a¢sty / ptvxey´esk« «I&a´khw, meta` d« e¢prepe gaste´ri ma´rgW / a∫zhxe`w fage´men kai` pie´men ktl. A questi versi segue un primo diverbio, ancora solo verbale con Odisseo (vv. -) ; Iro minaccerà quindi di pestare a sangue il falso mendico, utilizzando un registro linguistico affatto distante dall’abituale semno´thw omerica (cfr. vv. -), ma lecito e anzi adeguato per figure come quella di Iro o ancora per un altro celebre personaggio ‘umile’, l’ai¢sxistow a∫nh´r Tersite (cfr. Il. ii ss.). L’intera scena, peraltro, è preambolo della successiva zuffa in cui lo stesso Omero sembra voler rappresentare una sorta di ‘parodia’ degli agoni. Il verso di cerniera tra il primo scambio di battute (la sequenza dei vv. -) e le minacce di Iro (vv. -), e cioè il v. , è il modello coscientemente distorto da Asio nel costruire il v. del frammento in questione: to`n de` xolvsa´menow prosefv ´ neen ®Irow a∫lh´thw in cui la clausola ®Irow a∫lh´thw è sapientemente trasformata in ®isow a∫lh´tW. Quest’ultima espressione di Asio sembra infatti garantire che il registro letterario sia propriamente quello della parodia per una serie di evidenti motivi formali in cui è possibile ravvisare una concreta detorsio Homeri o, in altri termini, il riutilizzo di specifiche espressioni omeriche, con sottili variazioni finalizzate alla pointe comica. Innanzitutto il nome ®Irow sostituito dall’aggettivo ®isow, allusione rinforzata anche dal xvlo´w iniziale di Asio che pare in qualche modo ricalcare il to`n . Cfr. Welcker : s. il quale suggeriva inoltre che l’intruso al banchetto fosse Creofilo, l’altro poeta epico di Samo. . Il locus parallelus è talmente vistoso da aver indotto Kaibel a ipotizzare, pur solo in apparato, di leggere il verso di Asio come ®Irow e∫feisth´kei, sulla scorta di Bergk il quale aveva ipotizzato che l’akletos in questione potesse forse essere «aliquem Irum». . « E venne un mendico del luogo, che ad Itaca, / in città, mendicava e spiccava per il ventre mai sazio / di mangiare e di bere smodatamente...» ; trad. G. A. Privitera. . Sulla presenza di spunti parodici in Omero, da inquadrare tuttavia nell’ambito del ge´loion, cfr. Degani : .
asio ‘parodico’ ?
de` xolvsa´menow omerico ; a ®Irow sembra peraltro alludere anche l’hçrvw inopinatamente emerso dal fango al v. . Ma la sostituzione di ®Irow con ®isow si
presenta come sottile e arguto aprosdoketon anche in un’altra direzione. Lo stilema di ®isow con dativo è infatti diffusissimo in Omero, ma in iunctura con &eo´w : la formula è solo al plurale ®isa &eoi^si in clausola (cfr. Il. xxi , Od. xi e , H. Ven. ) e in fine del primo hemiepes al singolare ®isa &ev^ı in Od. xv ; con l’aggettivo al singolare si può ricordare, p. es. anche il celeberrimo Sapph. fr. , V. ¢isow &e´oisin. Infine, attraverso ®isow a∫lh´tW – ed è questo, credo, l’elemento di parodia più significativo del frammento – Asio ricalca e stravolge l’aulica espressione omerica ®isow ÊArhi¨, tre volte in clausola (Il. xi , xiii , Od. viii ) e una a inizio di verso (Il. xi ), e riecheggiata ancora in un testo saffico, il fr. , V. ga´mbrow (ei∫s)e´rxetai ¢isow ÊAreyi. Il termine a∫lh´thw, ben appropriato al contesto di Asio come indicano gli stessi precedenti omerici già ricordati, è dunque associato con inattesa iunctura all’aulico ®isow, voce formulare, nel costrutto con il dativo, assai frequente per paragonare gli uomini agli dèi, o, nello specifico ad Ares. Rispetto al modello ®isow ÊArhi¨, l’espressione ®isow a∫lh´thi (in cui, per coglierne appieno lo scherzo verbale, andrebbe conservata la pronuncia flebile di i) si presenta come efficace calco parodico, giocato su un duplice livello di rimandi, entrambi garantiti dalla perfetta assonanza tra modello e innovazione parodiante. In altri termini, mentre ®isow allude a ®Irow, vale a dire all’archetipo stesso dell’accattone o del parassita, a∫lh´thi – vocabolo omerico per la medesima figura – deforma, a sua volta, l’atteso ÊArhi¨. La clausola di Asio, se ne può concludere, è un emblematico quanto denso esempio di aprosdoketon finalizzato alla parodia dell’aulico modello omerico, inequivocabilmente distorto; ma vi sono ulteriori elementi formali di parodia che meritano di essere segnalati. Già il prezioso hapax legomenon polygh´raow (v. ), infatti, pare una caricaturale neoformazione originata sulla scorta dei diffusi composti in poly- presenti in Omero, spesso funzionali a qualificare le virtù degli eroi. Ancora, per i v. ss. e∫n de` me´soin / hçrvw ei™sth´kei si possono confrontare, p. es., Il. v s. ay∫ta`r oç g« hçrvw / e¢sth gny`j e∫ripv ` n kai` e∫rei´sato xeiri` paxei´W, nonché Od. iv s. Thle´maxo´w &« hçrvw kai` Ne´storow a∫glao`w yi™o´w, / sth^san. o™ de` promolv ` n ¢ideto krei´vn «Etevney´w e, infine, xv hçrvw, bh^ de` &y´raze, parista´menow de` proshy´da ; infine, al v. , . Al riguardo, cfr. Degani-Burzacchini : . . Cfr. p. es. poly&arsh´w (Il. xvii ; Od. xiii ), poly´¨idriw (Od. xxiii , etc.), poly´mhtiw (Il. i , Od. xxii ), polymh´xanow (Il. ii ) poly´tlaw (Il. viii , Od. vii , etc.), etc. . Cfr. anche Tyrt. , cit. da Gentili-Prato, ad l.
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con borbo´roy e∫janady´w troviamo un ulteriore esempio di calco parodico rispetto all’aulico ky´matow e∫janady´w ad inizio di verso in Od. v . La lettura del frammento in chiave di parodia parrebbe dunque lecita; ma a questo proposito risulta forse utile un’ultima considerazione che consentirà inoltre di aggiungere un ancora inedito testimone al testo di Asio. Eustazio, come si è già accennato, nel commentario all’Odissea, canto xvii, v. (vol. ii p. Stallbaum), dopo l’esegesi dell’espressione daitv^n de` a∫polymanth´r loda la dejio´thw omerica rispetto ad altre, similari rappresentazioni del ‘mendico a banchetto’, tra cui, appunto, quella di Asio: ei∫w de` to`n toioy^ton »Omhriko`n to´pon parashmante´on ei∫w e¢ndeijin parami´lloy »Omhrikh^w dejio´thtow tv ^ n «A&hnai´oy tay^ta, r™h&e´nta kata´ tinvn pro`w o™moio´thta tv ^ n e∫k Melan&i´oy pro`w «Odysse´a, oi©on, xvlo`w stigmati´aw polygh´raow ®isow a∫lh´tW h®l&e knissoko´laj a¢klhtow, zvmoy^ kexrhme´now.
Riguardo a questo luogo omerico, a dimostrazione dell’impareggiabile abilità di Omero, occorre rilevare tra le parole riferite da Ateneo quelle dette contro taluni a somiglianza di quelle di Melanzio contro Odisseo, vale a dire zoppo, marchiato, vecchissimo, simile a vagabondo giunse, parassita non invitato, mendicando una zuppa.
Non sembra casuale il richiamo ai versi di Asio proprio nel commentare le parole ingiuriose di Melanzio, poi ripetute, come si è visto, da Antinoo (xvii ) nel corso del medesimo episodio in cui Odisseo è travestito da mendico. Il dotto bizantino, a dire il vero, non sembra conoscere l’autore dei versi chiamati in causa. In ogni caso, che si tratti di una intuizione originale ovvero di un confronto istituito da una terza fonte non riportata, la testimonianza di Eustazio risulta di grande valore in quanto conferma che la stessa esegesi antica ravvisava un rapporto di dipendenza tra il modello omerico e il frammento elegiaco di Asio. Un legame che oggi possiamo a buon diritto intendere come precoce quanto interessante esempio di parodistica detorsio Homeri. Università di Bologna - Sede di Ravenna . Cfr. Gentili-Prato, ad l. . Nel caso specifico, peraltro, la parodia non sarebbe, come di consueto, stravolgimento comico di un testo ‘serio’. Il modello omerico distorto, infatti, l’episodio di Odisseo travestito da mendico e il successivo alterco con l’altro mendico Iro, è un testo sostanzialmente comico, caratterizzato da un registro linguistico basso e da un elevato livello di aggressività verbale. Elementi, questi ultimi, già presenti nell’episodio di Tersite, archetipo del ‘comico’ in Omero, e se vogliamo, in termini più generali, origine stessa del ‘comico’ nella letteratura greca. . L’espressione kata´ tinvn peraltro pone non poche difficoltà in quanto il personaggio ‘accusato’ nel frammento è in realtà uno solo. D’altro lato piuttosto che emendare in kata´ tinow potrebbe essere qui preferibile la costruzione di kata´ con l’accusativo, frequentemente usata nel riferire la tradizione indiretta: in questo caso, tra le cose riferite (r™h&e´nta) da Ateneo, Eustazio avrebbe appunto segnalato quelle (tay^ta) che seguono nel frammento citato, “secondo un tale” – kata´ tina – vale a dire Asio, autore a lui ignoto.
asio ‘parodico’ ? Abbreviazioni bibliografiche a) Edizioni Bergk
Poetae Lyrici Graeci, quartis curis recensuit Theodorus Bergk, Lipsiae: Teubner, .
Casaubon
Animadversiones in Athenaei Deipnosophistas, post Isaacum Casaubonum conscripsit Iohannes Schweighaeuser, Argentorati: ex Typographia Societatis Bipontinae, .
Diehl
Gentili-Prato
Kaibel
West
Anthologia Lyrica, i , Poetae elegiaci, edidit Ernestus Diehl, editio altera, Lipsiae: in Aedibus Teubneri, . Poetarum elegiacorum testimonia et fragmenta, ediderunt Bruno Gentili et Carolus Prato, i-ii, Lipsiae: Teubner, , -. Athenaei Naucratitae Dipnosophistarum libri , recensuit Georgius Kaibel, Lipsiae: in aedibus B.G. Teubneri, -. Iambi et elegi Graeci ante Alexandrum cantati, edidit Martin L. West, editio altera aucta atque emendata, i-ii, Oxonii : e Typographeo Clarendoniano, -.
b) Testi citati Bonanno, Maria Grazia L’allusione necessaria. Ricerche intertestuali sulla poesia greca e latina, Roma: Edizioni dell’Ateneo, . Beltrametti, Anna A. La parodia letteraria, in Lo spazio letterario della Grecia antica, i , a cura di G. Cambiano, L. Canfora, D. Lanza, Roma : Salerno Editrice, , -. Camerotto, Alberto Le metamorfosi della parola. Studi sulla parodia in Luciano di Samosata, Pisa-Roma: Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, . Cavallini, Eleonora Le sgualdrine impenitenti. Femminilità «irregolare » in Grecia e a Roma, Milano: Bompiani, . Ateneo, Il banchetto dei sapienti. Libro XIII. Sulle donne, Bologna : Nautilus, . Cougny, Edmond Epigrammatum Anthologia Palatina cum Planudeis et appendice nova epigrammatum uterum ex libris et marmoribus ductorum, iii, Parisis: Editoribus Firmin-Didot, .
Davidson, James, Degani, Enzo
alessandro iannucci
Courtesans and Fishcakes : The Consuming Passions of Classical Athens, London: Harper Collins Publishers, . Poesia parodica greca, a cura di E. Degani, Bologna: Clueb, . Aristofane e la tradizione dell’invettiva personale in Grecia, in Aristophane, eds. J. M. Bremer and E. W. Handley, Vandoeuvres-Genève : Fondation Hardt, , -.
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ALCUNI ASPETTI DELLA STORIOGRAFIA DI DURIDE DI SAMO Adele Teresa Cozzoli
Ogni manifestazione artistica, dalla poesia alla pittura, nella cultura greca,
fin dall’età arcaica, viene concepita come «riproduzione della natura nei suoi aspetti visivi e auditivi o come imitazione della vita umana». Ma, solo nel periodo ellenistico, con Duride, e, solo in conseguenza di determinati presupposti teorici, sembrerebbe che alla storiografia, al pari della poesia e della pittura, venga rivendicata la medesima concezione. Osserva giustamente Strassburger : « I teorici dell’età ellenistica chiamano mímesis lo stile espositivo da essi elevato a nuovo ideale, e con ciò intendono un’imitazione della realtà come in uno spettacolo, imitazione attraverso la quale il lettore sperimenti la stessa compartecipazione dello spettatore a teatro. Si può parlare fatte le debite differenze di ‘realismo’... L’idea di mimesi è una concezione di fondo storiografica suscettibile di ampi sviluppi, un tramite adeguato della rappresentazione storica ..., anche se la fedeltà ai fatti viene sostituita da una realtà fittizia oppure solo potenziale, purché lo scrittore elabori un’autentica esperienza di vita ». Aristotele non sembra aver mai negato che anche la storiografia possa essere mimesi, né sembrerebbe averne mai avuto l’intenzione, data l’importanza che l’imitazione riveste ai fini del processo pedagogico ; e, anche se non esiste nessuna attestazione nelle sue opere al riguardo, per Walbank « una risposta del tutto positiva non è da escludersi». In ogni caso, la dimensione della storiografia come te´xnh mimetica si è ormai del tutto consolidata quando Plutarco, sulla scia della Poetica (a ss.), paragona pittura e storiografia : « le azioni che i pittori raffigurano in svolgimento, i racconti le narrano e le mettono insieme per iscritto come già avvenute. Se gli uni con i colori e le forme, gli altri con i nomi e le frasi, rappresentano le medesime cose, differiscono invece quanto alla materia e al modo dell’imitazione, ma un unico fine è preposto ad entrambi, e il più efficace tra gli storici è chi, per mezzo del pathos e dei caratteri, riesce a visualizzare la narrazione come se fosse un dipinto (o™ th`n dih´gesin vçsper grafh`n pa´&esi kai` prosv ´ poiw ei∫dvlopoih´saw) » (de glor. Ath. f ss.). Nei libri della Biblioteca storica di Diodoro, specialmente nel xx, come fu rilevato già a suo tempo, prima, da Roesiger e, poi, da Schwarz, si ritrovano disseminati nel racconto delle vicende di Agatocle, brani storici dell’opera di Duride e, qual. Cfr. Gentili : ss. . Strassburger : , . . Walbank : s. Per la narrativa e la prosa come espressioni artistiche cfr. Rostagni : . . Roesiger e Schwarz : ss. Cfr. ora Landucci Gattinoni : -.
adele teresa cozzoli
che volta, di peso sono confluite in Diodoro anche importanti osservazioni teoriche sui compiti dello storico. Nel capitolo , in rapporto alle vicende di Agatocle e Bomilcare e al problema di avvenimenti contemporanei privi di reciproca relazione, Diodoro introduce concetti di chiara matrice peripatetica : « si potrebbe muovere rimprovero alla storia – egli scrive – in questo, perché si vede che nella vita molte ma diverse azioni si compiono nello stesso momento, agli scrittori di storia però accade, per necessità, di dover prendere a mezzo il racconto e di distribuire i tempi a vicende che sono contemporanee in maniera che non corrisponde alla loro natura; cosicché la verità dei fatti ha in sé il pathos, mentre il racconto privato di una simile capacità, imita sì gli avvenimenti, ma resta di molto indietro alla (loro) vera condizione ». Dal passo di Duride (-Diodoro) «risulta evidente ) che il fine della ‘mimesi’ è la rappresentazione della ‘verità’ dei fatti e del pathos ad essi inerente ; ) che un discorso storico privo del pathos, che è la sostanza dei fatti, ... resta indietro alla ‘verità’» ; ) e che, quindi, perfino, una narrazione mimetica vi si avvicina, ma non la esprime completamente, proprio perché non è in grado di rappresentare la caotica simultaneità degli avvenimenti. Queste affermazioni esplicitano e chiosano adeguatamente il significato del fr. (FGrHist F ) delle Storie, dove vengono criticati Eforo e Teopompo perché non avevano saputo esprimere con adeguata efficacia la verità storica; essi erano rimasti di molto indietro al raggiungimento della mimesi, avevano curato esclusivamente il gra´fein e trascurato la h™donh` e∫n tv^ı fra´sai. Il verbo fra´sai, in virtù del campo semantico ricoperto e dell’opposizione gra´fein-fra´sai presente nel contesto, rinvia alle potenzialità foniche e aurali della parola e implica come necessarie le competenze oratorie di chi riesce a coinvolgere psicagogicamente il suo uditorio. In Duride emerge però come primario soprattutto l’interesse verso gli aspetti mimetici della narrazione e verso il piacere che essi provocano e, di conseguenza, per lo storico, diviene fondamentale anche l’attenzione nei confronti della o¢ciw (cfr. infra). Egli perseguiva, quindi, una storiografia espressionistica che, nelle intenzioni dell’autore, doveva essere intesa come rappresentazione visiva e in cui il concetto di verità si configura esclusivamente come fedele ‘riattualizzazione del pathos delle vicende narrate’. Dunque, quel confronto tra storiografia e pittura, che compare per la prima volta in Plutarco, s’ispira certamente ai primi capitoli della Poetica di Aristotele, ma riflette, altresì, il dibattito di età ellenistica sul carattere della storia : bisogna immaginare, insomma, un Aristotele passato attraverso la storiografia di iii secolo e risentito ellenisticamente. Duride, infatti, come si è visto, considerava un limite insuperabile al raggiungimento della verità sto. Per l’interpretazione di questo passo cfr. Mazzarino : . . Così Gentili-Cerri : ss. . Cfr. ancora Gentili-Cerri : ss. e s.
alcuni aspetti della storiografia di duride di samo
rica proprio l’impossibilità di riprodurre, nella narrazione, la mimesi di fatti in contemporanea; al contrario, questa simultaneità di rappresentazione, senza ordine di successione e senza rapporto di causa ed effetto, si realizza compiutamente nella pittura, che, perciò, finisce col rappresentare il modello di te´xnh imitativa più adatto ad essere emulato da parte da chi si proponga di essere un buono storico. È communis opinio che la storiografia ‘tragica’ di Duride miri a conciliare poesia e storia, che, cioè, in Duride la distinzione forse puramente descrittiva – e non normativa – di Aristotele si converta in un’associazione o addirittura in un’assimilazione. Si realizzerebbe, quindi, una deviazione dall’originario pensiero del maestro, ma questo avverrebbe sempre nell’ambito di una dialettica irrisolta tra continuità e innovazione. Kurt von Fritz, in un suo famoso intervento alla Fondation Hardt, presentava Duride come lo storico che avrebbe tentato di trasporre nella prassi alcune fondamentali speculazioni peripatetiche. Aristotele, come è ben noto, distingue poesia e storia, perché l’una, esponendo i fatti possibili o quali potrebbero avvenire secondo verosimiglianza o necessità, dice piuttosto (ma^llon) l’universale (ta` ka&o´loy), l’altra, invece, raccontando i fatti avvenuti, il particolare (ta` ka&« eçkaston). In realtà – osserva von Fritz – proprio l’avverbio ma^llon sembrerebbe costituire un indizio che egli non intendeva la separazione di campi in modo rigido e assoluto: forse, qualcuno dei discepoli, addirittura lo stesso Teofrasto (autore di un trattato peri` ™istori´aw), avrebbe potuto approfondire il rapporto tra ta` ka&o´loy e ta` ka&« eçkaston e, di conseguenza, formulare l’ipotesi di una storia rivolta ad esprimere anche l’universale, o, ancora, avrebbe elaborato la teoria di una storia in cui il ta` ka&o´loy venisse dedotto indirettamente dal ta` ka&« eçkaston. Nella lettura della Poetica proposta da von Fritz, dunque, quella parola ‘con un piccolo corpo’, ma^llon (‘piuttosto’), assume una rilevanza eccessiva: ha il ‘grande potere’ di consentire un’esegesi del testo per cui il filosofo revocherebbe in dubbio, e quasi completamente, le sue affermazioni, limitando l’inclinazione della storia ad una sua tendenziale preferenza verso il particolare. Ma è un’interpretazione improponibile, perché la netta separazione tra poesia e storia, tra universale e particolare, è un dato acquisito, mai messo in dubbio, né soggetto ad ambiguità semantiche o teoretiche nella Poetica. Inol. Plutarco tuttavia nel passo successivo (de glor. Ath. a ss.), confondendo i due distinti concetti di ei∫dvlopoiei^n e di e∫na´rgeia, come del resto avviene spesso dopo Aristotele (cfr. Morpurgo- Tagliabue : ss ; e Manieri : ss.), attribuisce a Tucidide, storico per antonomasia, l’e∫na´rgeia e soprattutto connotazioni che sono esclusive della storiografia mimetica. Interessanti osservazioni su questo problema in Manieri . . Per una rassegna critica sulla ‘storiografia tragica’ rimane fondamentale Torraca . . Cfr. Strassburger : e Musti : x s. . von Fritz : -. . Poet. a ss.
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tre, la supposta evoluzione della teoria nei postaristotelici non è documentata e neanche documentabile. E, ancora, le ragioni della differenza tra poesia e storia non si basano su di una relazione astratta tra particolare e universale, riguardano piuttosto l’oggetto della narrazione (poesia e storia) e le sue caratteristiche. Ad un cauto scetticismo sull’esistenza di una storiografia ‘tragica’ come sistema letterario nuovo tout court, influenzato dalle speculazioni peripatetiche, esorta invece Walbank: in sostanza, gli storici d’età ellenistica presenterebbero tratti comuni, ma non si potrebbero determinare referenti culturali esclusivi per identificarne con precisione le origini e lo sviluppo. Questa storiografia, nata dopo Aristotele, che si potrebbe definire ‘tragica’, affonderebbe le sue radici nell’affinità, basata sulla comunanza di argomenti, che era sempre esistita tra le due forme d’arte, storia e tragedia, sul fatto che entrambe facevano appello a forti emozioni, sull’enfasi riservata in tutte e due alle finalità morali e sul comune retroterra rappresentato dalle scuole di retorica. Interessanti suggestioni sono presenti in tutti questi studi. Ma, forse nell’analisi, esiste come una ‘zona d’ombra’. È Duride di Samo, tra gli storici di questo filone, a meritare un’analisi unitaria e indipendente che ne permetta d’indagare la specificità, non perché è stato sempre considerato, fin da Schwartz e da Scheller, il primo esponente o il principale rappresentante della storiografia ‘tragica’, ma perché è un autore strettamente collegato con i circoli poetici del tempo: anzi probabilmente lo si può ritenere addirittura impegnato in prima persona nel dibattito letterario dell’epoca. Nella seconda metà del quarto secolo, a Samo, intorno al nobile Asclepiade fiorisce un circolo di letterati di rilievo, tra cui vanno annoverati personalità come Posidippo ed Edilo. Seppure intrecci di vario tipo non possono essere esclusi (anzi scambi reciproci potrebbero essere certo ricostruibili) questo ‘nido’ di poeti che faceva capo ad Asclepiade si contrapponeva ad un altro, . Walbank : ss. . Le posizioni di Walbank sono espresse, oltre che nel commento a Polibio, in tre importanti lavori e cioè Walbank : -; Walbank : - e Walbank : ss. . Anche Mazzarino : ss. affermava : « ... non possiamo attribuire all’opera di Duride un’importanza estrema, ai fini della formazione di una storiografia ‘tragica’; si dirà, piuttosto, che Duride sembra aver posto con particolare insistenza il problema di una definizione dei caratteri dell’eîdos, o genere, storico, ed averne accentuato i limiti teoretici, che sembravano derivare dalla minore compiutezza della mimèsi storica. Ma una considerazione sui generi letterari non basta a dare un indirizzo al pensiero storico» del iv secolo. . Rispettivamente Schwarz : ss. e Scheller : ss. . Si può affermare che i tre siano quasi contemporanei: Duride visse tra il ca. e il (cfr. Landucci Gattinoni : ss.), Asclepiade tra il e il (cfr. Frazer : ), e Posidippo potrebbe essere tutt’al più un po’ più anziano, se non contemporaneo di Asclepiade, come documenta il nuovo papiro milanese (sarebbe nato cioè nel ca.). . Cfr. da ultimo Sbardella : s.
alcuni aspetti della storiografia di duride di samo
quello che si raccoglieva intorno a Filita nell’isola di Cos. Teocrito, che pure frequentò il circolo di Cos e ne assorbì alcuni tratti, per affermare l’originale creazione della propria poesia bucolica, nelle Talisie, rivendica l’indipendenza sia da Asclepiade sia da Filita: proclama così la sua originalità sia rispetto a Samo, sia rispetto a Cos. Callimaco, nel Prologo degli Aitia, si richiama allusivamente ad una certa tradizione elegiaca rappresentata da Filita e da Mimnermo, si difende dalle violente critiche di due poeti del circolo di Samo, Asclepiade e Posidippo, che, oltre a Prassifane di Mitilene, sono identificati dagli Scholia Florentina con i famigerati Telchini. Questi malevoli critici che rimproverano al poeta la mancanza di unità, di estensione e di compiutezza, principii fondamentali secondo la Poetica per ogni vera opera d’arte, sono seguaci delle dottrine aristoteliche, come del resto conferma la presenza tra di loro di un filosofo del Peripatos, Prassifane. Asclepiade, Posidippo, Edilo, Duride e insieme suo fratello, Linceo, allievo diretto di Teofrasto ed autore rinomato di commedie, documentano, quindi, che Samo fu, già forse prima, ma sicuramente proprio durante il governo del nostro storico, un vivace centro culturale dalle connotazioni ben individuabili e marcate sia letterariamente sia filosoficamente. Dai termini di questa polemica perciò non può prescindere neanche la valutazione della storiografia di Duride. Con Callimaco e Teocrito si assiste al delinearsi di un concetto rivoluzionario di ‘verità’. Simichida –Teocrito, per bocca del suo interlocutore Licida nelle Talisie, si fa consacrare poeta bucolico e definire «rampollo di Zeus tutto plasmato sulla verità» : rivendica così, non solo la propria originalità e indipendenza da qualsiasi modello letterario, ma soprattutto il «carattere intimamente realistico della sua poesia, concepita come immagine vera e diretta della realtà pastorale». Callimaco dice di non voler cantare niente che non sia testimoniato (fr. Pf.) : e sia la riproduzione mimetica delle cerimonie religiose negli Inni, sia la ricostruzione documentaria di riti e tradizioni etiologiche rappresenta effettivamente una ‘poesia della verità’, in cui viene riattualizzato, attraverso l’attestazione nel presente di dati oggettivi e incontrovertibili, il contenuto antropologico del mito (cfr. infra note e ). Ma Callimaco e Teocrito si contrappongono alle teorizzazioni aristoteliche: questi poeti ellenistici dimostrano concretamente come la poesia, in modo contrario alla distinzione di Aristotele, possa rivolgersi al campo riservato allo storico e riprodurre ‘i fatti realmente acca. Cfr. Rostagni : ss. e Frazer : ss. . Serrao : -. . Per l’interpretazione di questi versi molto problematici rimando a Cozzoli : ss. . È la tesi Brink-Pfeiffer (cfr. Brink : ss. e Pfeiffer : ss.) ripresa da Serrao : ss. Per le obiezioni espresse da A. Cameron cfr. Cozzoli : -. . FGrHist T; Suid. l Adler. . Serrao : .
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duti’ e non quelli che potrebbero verosimilmente accadere secondo le regole di verosimiglianza e necessità. Anche in Duride è presente la concezione di una verità storica che sia fedele mimesi dei fatti avvenuti, della realtà; tuttavia, in questo, egli, all’opposto di Callimaco e di Teocrito, ha esattamente attuato la funzione che Aristotele riteneva prioritaria per la storia e negava invece alla poesia. È probabile che i precetti della Poetica fossero semplicemente descrittivi, o s’imponessero come normativi solo per la poesia, o per un certo tipo di poesia (epica e tragedia) : le formulazioni aristoteliche sono però destinate a costituire, dopo Aristotele e indipendentemente delle intenzioni del filosofo, i presupposti teorici che implicano o quanto meno indirizzano ad una scelta storiografica ben definita. Nel capitolo della Poetica (a ss.), questa volta a proposito dell’epica, il filosofo osserva che le composizioni non debbono essere simili alle trattazioni storiche, nelle quali è inevitabile che venga fatta l’esposizione non di un’azione, ma di un periodo di tempo (oy∫xi` mia^w pra´jevw poiei^s&ai dh´lvsin a∫ll« e™no`w xro´noy), cioè – chiarisce ancora – di tutti i fatti che sono avvenuti ad una o a più persone, ciascuno dei quali si trova con gli altri in un rapporto casuale. In un rapporto casuale, anche se avvennero nello stesso tempo – esemplifica il filosofo – si trovano la battaglia navale di Salamina e, in Sicilia, la battaglia d’Imera contro i Cartaginesi; esse non tendono allo stesso fine, né da queste si produce un unico fine (te´low). Si tratta di un’affermazione esattamente complementare a quella che si legge nel capitolo (a ss.), dove viene considerato il carattere unitario della composizione poetica : il racconto epico – spiega Aristotele – è unitario non, come credono alcuni, perché concerne tutte le azioni capitate ad una sola persona; da una sequela di azioni non c’è alcuna unità; bensì l’azione è unitaria e intera se c’è tra i fatti una relazione di causa ed effetto e, quindi, la soppressione di una o più parti o la loro reciproca alterazione provocherebbe un sovvertimento o addirittura, la dissoluzione, dell’unità del tutto. La diversità tra storia e poesia, quindi, non consiste nel fatto che l’una racconta il particolare, l’altra l’universale, piuttosto questa è la conseguenza della loro diversità. Nella riflessione di Aristotele, la battaglia di Salamina e quella di Imera – spiega lucidamente Mazzarino – sono contemporanee per un puro rapporto casuale che può essere oggetto di narrazione storica, ma non per questo finisce di essere un rapporto casuale. La storia perciò, secondo Aristotele, possiede unità di tempo, una contemporaneità d’azione del tutto accidentale, ma non quell’unità d’azione che invece esiste nella poesia, unicamente però come feno. Cfr. Serrao : ss. . Mazzarino : ss.
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meno indotto dall’esterno, dagli autori, dai poeti. È questa la logica conclusione di un uomo di scienza, non è forse una condanna della storia, ma certo comporta notevoli ostacoli per una storiografia che venga intesa come ‘interpretazione degli eventi’, dal momento che la realtà è irrazionale e sfugge al calcolo delle probabilità. In sostanza, la teoria di una storiografia come ‘riattualizzazione mimetica’ dei fatti e non come loro ‘interpretazione’, risulta essere l’unica storia possibile per chi abbia accolto fino in fondo il principio che gli avvenimenti storici sono irrazionali e non possono essere sottoposti ad un’indagine di tipo logico-scientifico. Per dirla con le parole di Eugenio Montale se è vero che «la storia non si snoda come una catena di anelli ininterrotta », che «in ogni caso molti anelli non tengono» e che «la storia non contiene il prima e il dopo», o, ancora, se è vero quello che sentenziava Agatone (TrGF fr. , ), e che Aristotele più volte riprende (Rhet. a ; Poet. a ), se è vero cioè che «agli uomini accadono molte cose non verisimili » (brotoi^si polla` tygxa´nein oy∫k ei∫ko´ta), allora l’unica storia scientifica è costituita da un racconto che visualizzi e∫n tv^ı fra´sai la vita con il suo pathos. La storiografia cosiddetta tragica di Duride, dunque, o meglio la storiografia ‘mimetica’, come preferirei definirla, non rappresenta il risultato di una deviazione o di un travisamento, successivo ad Aristotele, delle sue tesi, bensì è semplicemente nata da una loro piena accettazione fino alle più estreme implicazioni e deduzioni teoriche. Il sincronismo con cui Duride apre le Storie (FGrHist T ) assume perciò un significato più rilevante rispetto a quelli menzionati da altri storici (per esempio Polibio) perché certo presuppone questa concezione. L’anno d’inizio è, infatti, menzionato ricordando tre eventi la cui contemporaneità è del tutto accidentale, analogamente alla battaglia di Salamina e a quella di Imera, tre eventi relativi, per di più, a tre personaggi che non sono suscettibili di alcun collegamento storico: la morte di Aminta di Macedonia, di Agesipoli, re degli Spartani, e di Giasone di Fere rende di fatto il /, proprio per caso, un anno rilevante dal punto di vista storico, senza che si debba solo ipotizzare una ripresa da parte di Duride di una determinata tradizione storiografica precedente. E, in modo più esplicito, il medesimo concetto com. In Poet. a ss. la tragedia raggiunge il te´low che le è proprio come genere letterario attraverso l’azione dei singoli autori che riescono ad esprimere quanto era già in essa in potenza : kata` mikro`n hy∫jh´&h proago´ntvn (scil. i poeti) oçson e∫gi´gneto faneto`n ay∫th^w. . Cfr. Mazzarino : « Aristotele, storico, non ha condannato la storia; e tuttavia ha formulato, senza volerlo, i presupposti per una condanna». . Satura I, La Storia non si snoda ... v. ss. . Gentili : , istituendo un interessante parallelismo con la cosiddetta ‘nouvelle histoire’ in virtù soprattutto del comune interesse antropologico (per quest’ultimo cfr. infra), connota la storiografia greca del iv secolo come una storiografia mimetica «che . . . faceva dello strumento storico e delle sue modalità comunicative il fulcro del racconto storico».
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pare in un altro brano diodoreo, che senz’altro deriva da Duride: in xx , si sottolinea, da un lato, l’imprevedibile risultato della sconfitta presso l’Imera inflitta da parte dei barbari all’esercito di Agatocle, che si presentava superiore per forze e per addestramento militare, dall’altro, l’inaspettata resistenza contro i Cartaginesi dei Siracusani, vittoriosi, sebbene, per le circostanze effettive dell’assedio e per l’esiguità del numero, fossero stati già considerati come soccombenti. Sono due eventi imprevedibili che per Duride (Diodoro) testimoniano, anzi confermano, i postulati aristotelici, l’irrazionalità della sorte e l’assurdità delle vicende che capitano agli uomini contro ogni loro fondata previsione (ei∫ko´tvw d« a¢n tiw parashmh´naito th`n a∫nvmali´an th^w ty´xhw kai` to` para´logon tv ^ n para` ta`w y™polh´ceiw synteloyme´nvn par« a∫n&rv ´ poiw). In questa prospettiva va, certo, inquadrato anche il ricorso di Duride, e poi di Filarco, al teratey´es&ai di cui, forse, entrambi fecero uso eccessivo ; ma il teratv^dew che Polibio rimproverava alla ‘storia tragica’ di
Filarco (ii ss., cfr. infra), aveva un fine ben preciso, serviva a rappresentare e ad accentuare il carattere irrazionale degli eventi e l’assurdità della realtà. Il racconto storico concepito come mimesi della realtà comporta nell’effettiva realizzazione del programma storiografico la necessità di attingere a codici diversi, oltre allo storico, al retorico e al drammaturgico. Le sensazioni che Duride si proponeva di trasmettere nel destinatario con la mimesi si dovevano basare su di un procedimento ben noto e molto studiato, che viene definito sub oculos subiectio da Cicerone, y™poty´pvsiw da altri autori. La sub oculos subiectio – si apprende da Quintiliano in ix , ss. – consiste in «un modo di rappresentare i fatti con le parole, da farli sembrare più veduti che uditi » (quaedam forma rerum ita expressis verbis, ut cerni potius videantur quam narrari); essa si realizza non quando si espone il fatto avvenuto, ma quando si mostra come è avvenuto, nec universa, sed per partes, non tutto complessivamente, bensì nelle sue singole scene. E osserva ancora Quintiliano, nel libro precedente (viii , s.), esemplificando questo schema compositivo: la parola eversio comprende in sé tutte le calamità che conseguono alla distruzione di una città, ma non le descrive; quando invece i concetti compresi in una sola parola si espandono fino a raffigurare i singoli momenti, si produce un effetto completamente diverso e d’impatto emotivo superiore, anche se si rischia inevitabilmente di incorrere in alcune imprecisioni o in eventuali esagerazioni. All’origine delle formulazioni di Quintiliano ci sono importanti antecedenti aristotelici. Nella Retorica (Rhet. iii b ss.) tra i tipi di metafore più brillanti il filosofo inserisce quella che ha come caratteristica pro` o∫mma´tvn poiei^n di rappresentare lo svolgimento di un’azione (oçsa e∫ner. Sul rapporto Duride-Diodoro nella storia di Agatocle cfr. supra nota . . È soprattutto merito di Ullmann : ss. aver insistito su questa componente nella storiografia di Duride, anche se lo studioso la ricollegava principalmente all’influsso isocrateo.
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goy^nta shmai´nei), di animare l’inanimato (kinoy´mena ga`r kai` zv ^ nta poiei^ pa´nta), di descrivere un movimento, una ki´nhsiw (h™ d« e∫ne´rgeia ki´nhsiw). Nel de anima b ss. la fantasi´a, l’immaginazione, è definita una qualità
dell’anima, distinta dal pensiero e dall’opinione, provocata da una sensazione in atto; si tratta dunque della ki´nhsiw di una sensazione, che per di più viene collegata etimologicamente al senso più importante, la vista. La fantasi´a non produce però pathos secondo Aristotele, il suo status è assimilabile a quello di coloro che contemplano un dipinto (vçsper ei∫ &ev´menoi e∫n grafW^). Come da tempo hanno evidenziato importanti studi, dopo Aristotele, soprattutto col de elocutione di Demetrio e poi con lo Pseudo-Longino, verrà esplicitata sia l’e∫na´rgeia del pro` o∫mma´tvn poiei^n, cioè il rapporto biunivoco di causa ed effetto tra la nozione di vigore, di animazione, di azione, e quella di una sua naturale predisposizione all’evidenza, sia il ruolo evocativo dell’immaginazione come anello di comunicazione virtuale tra autore e destinatario. L’anonimo autore del Sublime definisce appunto fantasi´ai e ei∫dvlopoii´ai «ogni idea, da qualunque parte sia venuta, capace di trasformarsi in discorso » (, pa^n to` o™pvsoy^n e∫nno´hma genhtiko`n lo´goy parista´menon) e in modo particolare tutto ciò che venga detto sotto l’impulso dell’entusiasmo e del pa´&ow in modo che il destinatario creda di vederlo (ble´pein) e di averlo sotto gli occhi (y™p« o¢ciw) ; e Quintiliano (vi ,) argomenta ancora: «noi definiremo visioni ciò che i Greci chiamano fantasie: attraverso di esse le immagini di oggetti assenti si rappresentano nel nostro animo in modo tale che ci sembri di percepirle con gli occhi e di averle davanti a noi ». Il concetto diverrà tipico nella critica retorico-poetica e servirà a spiegare una modalità espressiva che ha avuto applicazione soprattutto in ambito drammaturgico: a proposito del termine fantasi´a usato da Platonio per connotare la commedia di Eupoli, Franca Perusino spiega lucidamente che esso implica «un potere operante a livello puramente verbale», che «in virtù della parola » si riescono ad «evocare fatti e persone in modo da renderli visibili e ben presenti», che «in altri termini» si assimilano «all’azione racconti, esposizioni, discussioni che rientrano nel genere narrativo». . Cfr. Morpurgo-Tagliabue : ss. e Manieri : ss. . »H fantasi´a a£n ei¢h ki´nhsiw a∫po` th^w ai∫s&h´sevw th^w kat« e∫ne´rgeian gignome´nh. e∫pei` d« h™ o¢ciw ma´lista ai¢s&hsi´w e∫sti, kai` to` o¢noma a∫po` toy^ fa´oyw ei¢lhfen, oçti a¢ney fvto`w oy∫k e¢stin ™idei^n. Cfr. Manieri : ss. . Cfr. Morpurgo-Tagliabue : ss. e Manieri : . . Cfr. Guidorizzi : . . Cfr. anche Subl. « Se poi raffiguri i fatti passati come si verificassero al presente, allora produci non più una narrazione, ma un dramma» (trad. di Guidorizzi : ). . Perusino : s. Cfr. in proposito anche Bonanno : s. . Del resto già in Poet. a ss. il pensiero, dia´noia cioè «tutto quel che si deve rappresentare con la parola» (tay^ta oçsa y™po` toy^ lo´goy dei^ paraskeyas&h^nai), dimostrare, confutare, procurare le emozioni, grandiosità e meschinità, appartiene più alla Retorica che alla Poetica: la differenza principale consiste nel modo dell’attualizzazione; nel primo caso, spetta all’ora-
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Dunque, da un lato, i confini tra codice retorico e drammaturgico, in questo caso, possono diventare molto sfumati; dall’altro, la cultura teatrale, facilitando ed esigendo nei suoi fruitori una visualizzazione mentale del racconto e dei fatti, anche e specialmente attraverso la parola, costituisce, per eccellenza, l’enciclopedia esemplificativa inesauribile da cui attingere per realizzare, in altri ambiti letterari, il pro` o∫mma´tvn poiei^n di derivazione aristotelica, la riproduzione mimetica attraverso la parola di scene in movimento. Una narrazione per scene e quadri distinti con la menzione di particolari, apparentemente accessori, perché non funzionali all’interpretazione storica, ma alla mimesi, è tipica dei più noti brani di Duride. Una competenza speciale sembra mostrare lo storico nei confronti delle armonie musicali: anzi, in FGrHist F ha utilizzato l’imitazione ritmica che si realizza con la musica e la danza per visualizzare nel destinatario il diverso atteggiamento che contraddistingueva l’avanzata degli eserciti di Olimpiade e di Euridice verso lo scontro decisivo. Finalizzata a destare l’immaginazione visiva del fruitore è non solo la descrizione dell’abbigliamento dei protagonisti delle Storie , ma l’evocazione particolareggiata della ‘scenografia’ : apprendiamo da Duride che Demetrio (probabilmente il Poliorcete) amava portare mantelli scuri con ricami a contrasto, in oro, delle stelle e dei dodici segni dello zodiaco; ed ancora che lo stesso Demetrio, quando ad Atene furono celebrate le feste in suo onore, sul proscenio del teatro fece dipingere la propria immagine in atto di cavalcare il mondo abitato (FGrHist F ). La politica, del resto, in età ellenistica, già a partire da Alessandro Magno, indulge a forme spettacolari e affida spesso la propria propaganda a messaggi più visivi che verbali. A tale aspetto, di cui forse può essere stato, in un certo senso, anticipatore il suo avo ateniese, Alcibiade (cfr. FGrHist F , T ), Duride certo non ha mancato di dare adeguato rilievo. La o¢ciw che egli si proponeva di realizzare nel testo scritto attraverso vari espedienti retorici, doveva trasmettere la h™donh` e∫n tv^ı fra´sai, come si deduce da quanto afferma nel già citato primo frammento delle Storie (FGrHist F ). È nuovamente un concetto di derivazione aristotelica. Ma questa h™donh` e∫n tv ^ı fra´sai non è il piacere tipico provocato dalla tragedia, che risulta «dalla dy´namiw (atta a produrre e¢leow e fo´bow) contenuta nel my^&ow, inventato ... dal poihth´w» – naturalmente – secondo canoni ben precisi e destinato alla più completa realizzazione nella rappresentazione teatrale, bensì tore il compito di realizzarli nel discorso (e∫n tv^ı lo´gvı), nel secondo si devono manifestare attraverso il testo teatrale senza alcuna intrusione soggettiva dall’esterno (a¢ney didaskali´aw). Per il rapporto tra Poetica e Retorica cfr. Rostagni : ss. . Si veda in proposito Guidorizzi : . . Cfr. in questo stesso volume l’intervento di Donatella Restani. . FGrHist F, F, F, F, F, F. . FGrHist F, F. . Sul concetto di o¢ciw in Aristotele fondamentale è Bonanno (cfr. p. ).
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è quello provocato dalle capacità psicagogiche di una narrazione che riproduce ed imita il ‘movimento’, il pathos degli eventi narrati; si tratta insomma di uno status paragonabile al piacere di chi contempla in un dipinto anche cose tremende e paurose mettendo in movimento la sua fantasia (cfr. anche supra). La storiografia mimetica dunque non differisce assolutamente da un fenomeno molto diffuso in età ellenistica, che è stato ben individuato nelle sue molteplici connotazioni da Maria Rosaria Falivene e da Roberto Pretagostini e che sostanzialmente trova i suoi immediati presupposti nella poetica della ‘verità’ (cfr. supra) e nella trasformazione del sistema di comunicazione letteraria: i poeti, confinati, e quasi ‘esiliati’, nell’universo della scrittura, tentano d’incorporare nel testo situazioni di auralità e di riprodurvi scene in movimento, ad esempio la performance di riti o di agoni di tipo tradizionale ; o, semplicemente, utilizzano strutture linguistiche tipiche della comunicazione orale e, spesso fingendo una destinazione diversa da quella effettiva, coinvolgono simpateticamente il lettore (o, attraverso la declamazione, l’ascoltatore) in una ricezione attiva fino a far sì che immagini quasi di vedere le vicende raccontate. Questo tipo di storiografia, quindi, condividendo con la retorica l’aspetto della y™poty´pvsiw, per sua stessa natura, si presta facilmente a trascurare la precisione storica. Se anche Duride, come sembra dai più recenti studi, ha tentato di salvaguardare l’esattezza dei dettagli storici – il suo nome figura . Rispettivamente Falivene : - e Pretagostini : -. Cito da Pretagostini (: ) : « il poeta re-inventa una cerimonia che, per quanto non nell’ hic et nunc della composizione dell’inno stesso, poteva certo aver luogo in una specifica occasione rituale» ; in modo assolutamente analogo, nella storiografia ‘mimetica’, lo storico riproduce virtualmente ogni singolo avvenimento, come per esempio tutto ciò che verosimilmente poteva certo aver avuto luogo nell’assedio o nella capitolazione di una città (cfr. e. g. Duride FGrHist F e supra Quint. viii , s.). . Esula dall’argomento di questo studio un’analisi del problema della catarsi aristotelica: sul tema della catarsi e sul dibattito dall’Ottocento in poi cfr. Luserke e Lanza : ss. il quale mette in guardia contro estensioni ‘moderniste’ non aristoteliche del concetto di catarsi, già di difficile interpretazioni nella stessa Poetica. Giustamente Musti : xi osserva commentando la tesi di Strassburger (: ) : « occorre d’altra parte chiedersi se la hedoné prospettata da Duride sia proprio dello stesso livello della catarsi che Aristotele si attendeva dallo spettacolo nella tragedia ». Una risposta la fornisce lo stesso Aristotele nei capitoli iniziali della Poetica (b ss.) dove afferma che tutti traggono piacere dalle imitazioni: «le immagini particolarmente esatte di quello che in sé ci dà fastidio vedere, come per esempio le figure degli animali più spregevoli e dei cadaveri, ci procurano piacere allo sguardo (xai´romen &evroy^ntew) ». La mimesi in generale è fonte di ‘piacere’, la mimesi, che è propria della tragedia, di un ‘piacere’ specifico realizzato attraverso la catarsi. In ogni caso è innegabile che in età ellenistica la rivoluzione della comunicazione comporti una ridefinizione secondo canoni culturali completamente nuovi di concetti tradizionali e ben connotati come propri del sistema aurale: o¢ciw, mi´mhsiw, h™donh´ e∫n tv ^ı fra´sai, ka´&arsiw. Una forma particolare di ‘catarsi’ o meglio di ’autocatarsi’, completamente diversa da quella aristotelica, compare in alcuni poeti ellenistici come Teocrito ed Ermesianatte, in sintonia con le tendenze della filosofia coeva, o in precursori della poesia ellenistica come Antimaco: per questo specifico argomento cfr. Cozzoli : -. . Un’analisi approfondita si trova ora in Landucci Gattinoni .
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infatti nella famosa iscrizione di Priene tra gli storici Samii degni di credito (FGrHist F ) –, tuttavia dobbiamo supporre che non altrettanto avvenisse in Filarco, poiché Polibio (ii ), in buona o in mala fede, lo accusa di errori grossolani, gli rinfaccia di finalizzare il racconto solo all’e∫kplh´ttein del lettore, di porre sempre davanti agli occhi gli aspetti eccezionali di ciascun avvenimento (peirv´menow e™ka´stoiw a∫ei` pro` o∫f&almv^n ti&e´nai ta` deina´), trascurando così il vero fine della storia, e, infine, lo rimprovera di non aver saputo prospettare perché e come le vicende siano avvenute (ta`w plei´staw e∫jhgei^tai tv ^ n peripeteiv ^ n oy∫x y™poti&ei`w ai∫ti´an kai` tro´pon toi^w ginome´noiw). All’influsso del dibattito di età ellenistica sul valore delle e∫kfra´seiw – ha di recente evidenziato Antonio Martina – si ricollegano alcune
considerazioni di Luciano il quale, nel De conscribenda historia , sembra rispecchiare un concetto tipico di Polibio, quando nota che la descrizione dei luoghi, dei particolari, delle singole azioni ed episodi bellici, in Tucidide, è in rapporto esclusivo con l’interpretazione degli avvenimenti. Ma, in modo forse del tutto incomprensibile a Polibio, per Duride e per il suo continuatore Filarco, questo tipo di racconto storico in cui si ricercavano le cause e si tentava di stabilire il legame tra gli eventi era teoreticamente impossibile. La storia di Duride presenta però anche altri interessanti spunti di riflessione e di contatto con la poesia del tempo. Nella Vita di Demostene (, s.) Plutarco ricorda che l’oracolo Delfico avrebbe predetto il disastro di Cheronea: «Possa io rimanere lontano dalla battaglia presso Termodonte, sì da osservarla come un aquila dalle nuvole e dall’aria ; piange il vinto, il vincitore è distrutto». Il Termodonte scorre in Asia Minore presso la città di Temiscira, la capitale del regno delle Amazzoni ; un altro fiume omonimo è localizzato già da Erodoto (ix ) in Beozia tra Tanagra e Glisa; mentre nessun corso d’acqua di tal nome è noto a Cheronea. Plutarco, perciò, si trova costretto ad una congettura poco probabile per spiegare il contenuto del vaticinio: Termodonte sarebbe l’antico nome dell’Emone, il quale, dopo essersi riempito del sangue dei cadaveri dei Greci uccisi a Cheronea, avrebbe acquistato appunto da ai©ma ‘sangue’ la denominazione di Aiçmvn. Si tratta di un chiaro autoschediasma con cui il biografo ha collegato in sequenza due dati a sua disposizione: ) il Termodonte è il nome di un fiume ; ) la battaglia di Cheronea era stata un carneficina. Molto diversa era l’opinione di Duride, riferitaci dallo stesso Plutarco (FGrHist F ) : il Termodonte, menzionato nell’oracolo, non sarebbe stato un fiume, ma l’eroe fluviale eponimo del corso d’acqua d’Asia Minore. Secondo Duride, prima della battaglia, quando i Greci stavano ponendo l’accampamento, avrebbero rinvenuto un gruppo statuario con un’iscrizione: proprio l’epigrafe posta in calce alle statue permetteva d’identificare i personaggi raf. Martina : -.
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figurati con Termodonte che sollevava sulle braccia un’Amazzone ferita. La validità della notizia di Duride, che si presenta come una vera e propria lectio difficilior, è confermata da quanto Plutarco ricorda nella Vita di Teseo (,) : presso Cheronea (vicino cioè all’Emone-Termodonte secondo la sua fallace etimologia) erano state sepolte alcune delle Amazzoni morte durante la mitica battaglia contro gli Ateniesi, guidati da Teseo; e le zone circostanti – sottolinea Plutarco – mostravano ancora nella sua epoca numerosi monumenti a memoria di quel famoso evento. Duride, in virtù dell’oracolo dato dalla Pizia alla vigilia della battaglia contro i Macedoni («Aspetta la battaglia presso Termodonte, o nero uccello; lì ti verrà servita abbondante quantità di carne umana»), ricollegava, in chiasmo, il mitico e glorioso passato di Atene con la sconfitta disonorante del presente e localizzava anche il luogo esatto in cui erano avvenuti i due combattimenti : proprio l’inaspettato ritrovamento da parte dei Greci del reperto archeologico, insieme alle altre ben note attestazioni monumentali, costituiva per lo storico la prova principale per respingere come falsità la supposta presenza di un fiume Termodonte in prossimità di Cheronea. Il richiamo al mito sotto forma di racconto etiologico, di cui questo non è l’unico esempio, conferisce alla storia una nuova dimensione. Gregorio Serrao, in un lavoro inedito, riprendendo parzialmente alcune sue precedenti affermazioni scriveva : « In Pindaro c’è sempre un’antitesi o almeno una distinzione tra un passato eroico ed un presente da celebrare, ed egli riporta al passato eroico gli avvenimenti del presente, cioè innalza agli eroi del mito gli atleti vittoriosi; mentre i poeti alessandrini considerano il passato mitico solo come la ragion d’essere (ai¢tion) della realtà presente, ed è perciò nel presente che essi cercano la documentazione per interpretare e ricostruire il passato mitico. Nel primo gli avvenimenti storici risultano ingranditi, negli altri gli avvenimenti mitici restano ridimensionati e rimpiccioliti; con un bisticcio di parole (come ho scritto altrove) possiamo dire che in Pindaro si ha una miticizzazione della storia, negli Alessandrini una storicizzazione del . Cfr. e. g. FGrHist F , , , , , , , , , , , , , : sono brani di cui solitamente si rileva uno spiccato interesse etnografico di tipo erodoteo; ma non si tratta di questo. Tra Duride ed Erodoto c’è un salto qualitativo. Quando Duride cita un proverbio, un’usanza religiosa, un costume, o ricorda un monumento c’è sempre insieme l’esigenza di spiegare e di documentare l’evento mitico o storico che ne è stato l’ai¢tion, che ha determinato la nascita di quel modo di dire, di quel costume, o l’edificazione di quel monumento. E sono questi Realien ad attestare al tempo stesso la veridicità delle tradizioni riferite: Duride concepisce quindi la ricerca etiologica non diversamente da come l’intendevano Antimaco, Callimaco e Apollonio Rodio. Cfr. infra. . Si tratta di un seminario, dal titolo Pindaro e i poeti ellenistici, tenuto all’Università di Roma “La Sapienza” su invito di Massimo Di Marco nell’aprile del . Per ulteriori notizie sugli inediti di Gregorio Serrao rimando al mio intervento Studi inediti e ultime riflessioni negli atti della “Giornata di Studio su Gregorio Serrao, studioso di poesia ellenistica”, «Ann. Fac. Lett. Fil. Cagliari» , : -. . Serrao a : .
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mito. Luigi Enrico Rossi, a proposito dei frammenti degli Aitia che riguardano la colonizzazione dell’occidente, ha rilevato giustamente “un’assunzione della storia in quello che era il luogo del mito” ed ha definito tale procedimento “una mitizzazione della storia”. Ma con questa definizione non sono certo d’accordo, perché è proprio la storia posta in luogo del mito a provare inconfutabilmente che Callimaco considerava il mito come portatore di una verità storica. Concetto che del resto oggi è alla base dell’antropologia culturale». Come afferma Serrao non si può definire ‘mitizzazione della storia’ il processo etiologico dei poeti ellenistici, ma unicamente l’atteggiamento pindarico di ‘riportare al passato eroico gli avvenimenti del presente’. Infatti in uno storico d’età ellenistica, in Duride, e non in un poeta, potevano essere compresenti tutti e due questi aspetti: l’etiologia in quanto tale dimostra che, esattamente come i poeti ellenistici, anche Duride ‘considerava il mito come portatore di una verità storica’; l’etiologia introdotta nella storia, grazie al continuo trapasso tra attualità e mito, conferisce al racconto storico una dimensione mitopoetica. È lecito dunque parlare in Duride di una ‘mitizzazione della storia’ e di una ‘storicizzazione del mito’, ma quest’ultima modalità di commistione tra mito e storia non è prerogativa originale di Duride. Anzi la ricerca etiologica basata su una metodologia, che, a partire dalla seconda metà del iv secolo, assume carattere latamente scientifico, potrebbe rappresentare in Duride una nuova forma d’indagine . La citazione contenuta in questo brano è da Rossi : . . Therese Fuhrer (Fuhrer : ss.) ha recentemente richiamato l’attenzione su Istro e Polistefano, due discepoli di Callimaco, che intrecciarono interessi storici e mitografici narrativi e ha messo in relazione la loro opera con la storiografia peripatetica di Duride. La studiosa ha perfettamente ragione nel definire l’atteggiamento programmatico di Callimaco come finalizzato a « dem mythischen Stoff der Dichtung eine historische Dimension zu geben», ma non certo nel continuare a ritenere l’esperimento storiografico di Duride, in contrapposizione a quello callimacheo, sostanzialmente come il tentativo di «die Geschichtsschreibung dichterischer zu gestalten ». La storicizzazione del mito non è esclusiva caratteristica di Callimaco; è propria di tutta la poesia ellenistica, indipendentemente dalla Weltanschauung dei singoli personaggi. In realtà storicizzazione del mito e mitizzazione della storia sembrerebbero costituire due aspetti opposti e complementari almeno in uno storico ellenistico, in Duride, come si è visto. Meriterebbero perciò un’indagine più approfondita anche i frammenti e le personalità di Istro e di Polistefano per chiarire se si debba considerare questa una tendenza generale della storiografia del periodo oppure limitarne la sua presenza in un solo autore. . Per i rapporti di Duride con i circoli poetici del tempo cfr. infra. . Un primo esperimento è già in Antimaco (cfr. Serrao : -). Il problema è piuttosto complesso e non può essere esaurito nello spazio limitato di una nota. Alcune considerazioni sull’argomento sono state da me anticipate in Cozzoli : - e ora si trovano più approfonditamente espresse nella relazione L’Inno a Zeus: fonti e modelli, tenuta in occasione della «Giornata di Studio su Callimaco ( maggio . Università Roma Tre)», i cui atti sono in corso di stampa e a cui rimando per la mia posizione sull’argomento. Ricordo qui solo i riferimenti bibliografici più recenti e che contengono interessanti spunti di riflessione, anche se non tutti ugualmente condivisibili: in primis, sulla peculiarità dell’etiologia ellenistica, vanno menzionate le recentissime osservazioni di Fantuzzi e di Hunter (cfr. Fantuzzi-Hunter : ss) ; inoltre Maria Grazia Bonanno in un saggio di futura pubblicazione, Il poeta doctus (Antimaco
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storica e addirittura costituire in nuce, più o meno consapevolmente, quasi l’approdo naturale per un autore che non credeva nell’interpretazione razionale della storia, intesa come ‘catena ininterrotta e necessaria d’eventi’. Suscita perciò almeno stupore che Duride, un autore di profonde convinzioni aristoteliche, si trovi associato a Callimaco. Proclo, nel commento al Timeo platonico (I c, p. Diehl = Heraclid. Pont. fr. Wehrli, cfr. FGrHist F , Callim. fr. Pf., Antimach. test. Gent.-Pr.), ricorda la testimonianza diretta di Eraclide Pontico, il quale affermava che, mentre in quel tempo i più stimavano Cherilo, Platone al contrario gli preferiva Antimaco: ei¢per ga´r tiw a¢llow kai` poihtv ^ n a¢ristow krith`w o™ Pla´tvn, v ™ w kai` Loggi^now syni´sthsin. »Hraklei´dhw goy^n o™ Pontiko´w fhsin, oçti tv ^ n Xoiri´loy to´te ey∫dokimoy´ntvn Pla´tvn ta` «Antima´xoy proy∫ti´mhse kai` ay∫to`n e¢peise to`n »Hraklei´dhn ei∫w Kolofv ^ na e∫l&o´nta ta` poih´mata sylle´jai toy^ a∫ndro´w. ma´thn oy®n flhnafv ^ si Kalli´maxow kai` Doy^riw v ™ w Pla´tvnow oy∫k o¢ntow ™ikanoy^ kri´nein poihta´w. Platone – afferma lo stesso Eraclide in Proclo – avrebbe convinto il
suo discepolo a recarsi a Colofone per raccogliere l’opera di Antimaco. E Proclo, traendo dall’aneddoto le sue conclusioni, osserva che «perciò parlerebbero senza cognizione di causa Callimaco e Duride quando accusano Platone di non essere in grado di giudicare i poeti». Come si concilia la posizione di Duride con quella di Callimaco, quella di un aristotelico con quella di un antiaristotelico? Duride deve essersi ricordato di Platone e deve averlo criticato nei Sami´vn v ç roi : qui venivano infatti menzionati gli onori concessi a Lisandro dai Sami e le feste indette in suo nome (FGrHist F , F ) e, con ogni probabilità, venivano affrontati anche argomenti relativi alla poesia epica ionica del v e iv secolo (FGrHist F ). Anzi, ci sono fondati motivi per supporre che risalga proprio a Duride il racconto di Plutarco su Lisandro e sulle Lisandree di Samo (Lys. , ss., cfr. FGrHist F ) : in questa occasione si esibirono un certo Nicerato di Eraclea e Antimaco di Colofone, il quale, risultando nella competizione sconfitto, sarebbe stato consolato dal giovane Platone; il filosofo gli avrebbe ricordato come per gli ignoranti l’ignoranza sia un male paragonabile alla cecità per i ciechi. Subito prima di quest’episodio, Plutarco narra che Lisandro prediligeva il poeta Cherilo di Samo e amava portarlo al e altri), “Giornata di Studio in memoria di Gregorio Serrao”, svoltasi a Cagliari il febbraio « Ann. Fac. Lett. Fil. Cagliari» , : ss. ha definito scientifica «l’ansia di ‘verità’ dei poeti alessandrini», proprio in virtù dei rapporti tra letteratura e scienza. Analoghe osservazioni erano state parzialmente accennate già in Bonanno : . Queste intuizioni, come la stessa studiosa ricorda in entrambi i contributi, nascono dalla lettura e dalla presentazione del libro di Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata (Milano , seconda edizione ), avvenuta nel gennaio del . . In un frammento (FGrHist F ) di Duride è citato Paniassi insieme ad Erodoto: il brano sembra corrotto, tuttavia si può desumere che lo storico mettesse in relazione Paniassi, la sua poesia e Alicarnasso con l’isola di Samo. . Cfr. Michelazzo : -.
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suo seguito perché fosse pronto a celebrare le sue imprese. Nel brano in questione, anche se la prospettiva risulta, ovviamente, favorevole a Platone, emerge comunque il legame privilegiato tra Lisandro e Cherilo e il ruolo di primo piano assunto da quest’ultimo. È molto probabile, quindi, che l’implicita contrapposizione Cherilo-Antimaco, evidenziabile in Plutarco e nata in età ellenistica (cfr. e. g. A.P. xi ), si trovasse già nella sua fonte. Duride, infatti, come apprendiamo appunto dal brano di Proclo, citato precedentemente, rifiutava il giudizio positivo di Platone su Antimaco, e lo rifiutava – così si evince anche dal contesto (cfr. infra) – per rivalutare, in contrapposizione ad Antimaco, Cherilo, il suo naturale avversario, che era appunto originario di Samo. Nel testo di Proclo, la citazione di Callimaco come critico di Platone precede e non segue la menzione di Duride come sarebbe più plausibile dal punto di vista cronologico. Ed è anche probabile, come mi suggerisce Luigi Lehnus, che Proclo conoscesse la notizia di Eraclide Pontico e il giudizio di Callimaco su Platone non per via diretta, ma attraverso una fonte intermedia, Longino. Si tratterebbe di quel Cassio Longino, filosofo e retore neoplatonico vissuto nel iii secolo d.C., non privo di vasti interessi eruditi e letterari, che viene nominato immediatamente prima delle citazioni dei due autori, Eraclide e Callimaco (cfr. supra) : ei¢per ga´r tiw a¢llow kai` poihtv^n a¢ristow krith`w o™ Pla´tvn, v ™ w kai` Loggi^now syni´sthsin...
Sicuramente il fatto che Proclo non attinga direttamente a Callimaco, ma che debba essere presupposta tra Callimaco e Proclo almeno una fonte intermedia rende l’interpretazione di questo passo quanto mai problematica. Schneider (cfr. fr. b ad l.) aveva ipotizzato, sia pure con una certa riserva che Callimaco e Duride risultassero associati proprio perché nell’epigramma sulla Lyde Callimaco citava a sua volta il giudizio di Duride su Platone e su Antimaco ; Pfeiffer (cfr. fr. ad l.) ritiene invece che la valutazione delle scarse capacità critiche di Platone dovesse trovarsi in un’opera in prosa, forse nel pro`w Prajifa´nhn e, in ogni caso, sembra mostrare forti perplessità su di un’eventuale menzione di Duride in Callimaco. Quindi, l’associazione di Duride a Callimaco, in questa tradizione, potrebbe essere esclusivamente casuale ed essersi determinata in seguito alla sovrapposizione, o meglio, alla giustapposizione di notizie indipendenti già nella fonte di Proclo, che avrebbe collegato, in maniera indiscriminata, alcuni giudizi negativi su Platone e su Antimaco, espressi in base a motivazioni differenti da due autori diversi. Il poeta di Cirene condanna Antimaco dal punto di vista critico-letterario: egli, in un frammento di un epigramma, etichetta la Lyde paxy` gra´mma kai` oy∫ toro´n (fr. Pf.) e toro´w, come evidenzia un confronto sia con Aesch. Suppl. ss., sia, specialmente, con l’epigramma di risposta di Antipatro di Tessalonica (A. P. vii ), ha il significato di ‘penetrante’; la Lyde era cioè un’opera « troppo lunga e prolissa per poter penetrare nella memoria», «per poter es-
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sere abbracciata con la mente e ricordata nel suo complesso». In sostanza egli si è servito degli stessi criteri aristotelici per stroncare il povero Antimaco agli occhi dei suoi estimatori peripatetici, Asclepiade e Posidippo (cfr. rispettivamente A. P. ix e ii ) : Aristotele, infatti, nella Poetica prescrive per i my^&oi un determinato mh^kow, ma tale che sia in ogni caso ey∫mnhmo´neyton, ossia ‘abbracciabile con la memoria’ e, quindi, anche un peripatetico, secondo Callimaco, non avrebbe potuto che disprezzare l’opera di Antimaco. Duride, invece, come si è visto, proprio nei Sami´vn vçroi in qualche opera di carattere erudito, sottolinea i difetti di Antimaco, critica il suo principale ammiratore (Platone), e, in ogni caso, esalta l’epos storico di Cherilo: quest’ultimo era una gloria di Samo e certo Duride non avrebbe mai potuto trascurarlo. Forse nell’esperimento di Cherilo, la rifondazione dell’epos tradizionale sotto la forma di un’epica storica, egli poteva constatare anche interessi etnografici e mitici consimili ai suoi e, inoltre, ancora vi avrebbe potuto ammirare il tentativo di realizzare quell’interpretazione storica di tipo ‘universale’, che Aristotele aveva negato per principio alla storiografia. Ma è difficile, almeno allo stato delle nostre conoscenze, chiarire, e ancor meno dimostrare, che lo storico, nel giudicare negativamente Antimaco, adottasse già una chiave di lettura peripatetica, analoga a quella callimachea. Se poi la connessione tra Duride e Callimaco nel testo di Proclo non dovesse rivelarsi accidentale, come invece sembrerebbe, allora Callimaco avrebbe potuto citare Duride solo in un’opera in prosa, solo cioè – come del resto ipotizzava anche Pfeiffer – nel pro`w Prajifa´nhn, dove il poeta rispondeva non solo a quanto Prassifane aveva teorizzato nel peri` ™istori´aw, ma soprattutto a quanto aveva esposto nel peri` poihtv ^ n, un dialogo fittizio tra Platone e Isocrate sulla valutazione dei poeti e delle loro opere (cfr. frr. e Wehrli). E l’unico motivo plausibile della menzione di Duride da parte di Callimaco andrebbe ricercato nel fatto che il poeta, sofisticato e ironico polemista, argutamente non intendesse trascurare un significativo riscontro: come ricordava maliziosamente ai Telchini non solo le contraddizioni teoriche in cui cadevano, così avrebbe potuto ricordare che anche un peripatetico ‘doc’, con cui i suoi critici sembrerebbero avere in comune strette corrispondenze, aveva già espresso una valutazione completamente negativa sulla scarsa capacità di fruizione estetica del più famoso ammiratore di Antimaco, Platone. Ma le critiche che rispettivamente Duride e Callimaco rivolgevano ad Antimaco e con lui a Platone, non sono certo paragonabili perché comportano motivazioni che si pongono su livelli nettamente distinti e difficilmente omologabili. Università Roma III . Per tutto il dibattito sulla Lyde accolgo in pieno l’interpretazione di Serrao b : -. . Un’epica poliprospettica come ha affermato Paola Angeli Bernardini (cfr. in questo stesso volume la sua relazione).
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