Retorica ad Alessandro 8845279243, 9788845279249

La "Rhetorica ad Alexandrum" è l'unico testo conservato integralmente all'interno di una vasta produ

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Collana......Page 2
Frontespizio......Page 3
Copyright......Page 4
Sommario......Page 5
Dedica......Page 6
L’autore......Page 7
Eikos, ethos, kairos.L’arte di ottenere sempre ragione e ‘le ragioni del lupo’......Page 16
Mule «fglie d’asini» o «fglie delle cavalle dai piedi rapidi come la tempesta». L’arte di comunicare e la potenza della parola......Page 47
Note all'introduzIone......Page 76
Notizia biografica......Page 164
Retorica ad Alessandro......Page 166
Prima parte......Page 176
Seconda parte......Page 226
Terza parte......Page 292
Note al testo......Page 379
Bibliografia......Page 611
Indice generale......Page 647
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Retorica ad Alessandro
 8845279243, 9788845279249

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A cura di Maria Fernanda Ferrini

[Aristotele] Retorica ad Alessandro BOMPIANI TESTI A FRONTE

BOMPIANI testI A frONte Direttore

GIOvANNI reAle

[aristotele] retorica ad alessandro Testo greco a fronte

Introduzione, traduzione, note e apparati di Maria Fernanda Ferrini

BoMPiani testi a fronte

Direttore editoriale Bompiani Elisabetta Sgarbi Direttore letterario Mario Andreose Editor Bompiani Eugenio Lio

ISBN 978-88-587-7159-4 © 2015 Bompiani/RCS Libri S.p.A. Via Angelo Rizzoli 8 - 20132 Milano Realizzazione editoriale: Vincenzo Cicero – Rometta Marea (ME) I edizione digitale 2015 dqa edizione Testi a fronte giugno 2015

Sommario Introduzione Note all’Introduzione

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Notizia biografca

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Retorica ad Alessandro

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Note al testo

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Bibliografa

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A mia Madre carissima e amatissima al suo sguardo e al suo sorriso

IntroduzIone ouj pavntessi qeoi; cariventa didou`s in ajndravs in, ou[te fuh;n ou[t∆ a]r frevna~ ou[t∆ ajgorhtuvn. (omero, Odissea 8, 167 s.)

L’autore I codici hanno questo titolo: ∆Aristotevlou~ rJhtorikh; pro;~ ∆Alevxandron1; il termine rhetorike compare solo in esso e non all’interno dell’opera, dove è utilizzato il nesso politikos logos, per indicare una categoria generale, comprendente i diversi tipi di discorso2. Il Medioevo conosce il trattato come autenticamente aristotelico3; nel rinascimento, invece, sono espressi dubbi sulla sua paternità4. erasmo da rotterdam pone il problema dell’attribuzione, richiamando in particolare l’attenzione sull’assenza dello scritto dalla lista delle opere aristoteliche, in diogene Laerzio5, e sull’abitudine di Aristotele di andare direttamente all’argomento, senza prefazione6. Pochi anni dopo, Pier Vettori, nei suoi Commentarii7, dichiara esplicitamente che l’autore non può essere Aristotele: uerus libelli auctor è ritenuto invece Anassimene di Lampsaco8, storico e retore del IV secolo a.C.9 Gli editori Leonard Spengel e Manfred Fuhrmann identifcano senz’altro in Anassimene l’autore dell’Ars rhetorica10. Pierre Chiron utilizza invece il titolo tradizionale, e lascia anonimo il trattato; la dicitura «Pseudo-Aristote»

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ha la funzione di ricordare che il trattato è trasmesso tra le opere aristoteliche: questo non signifca, specifca Chiron, «que nous récusons formellement l’attribution d’une “strate” du texte à Anaximène de Lampsaque, ni que nous éliminons la possibilité d’un rapport entre le traité et Aristote»11. un passo di Quintiliano è alla base dell’attribuzione ad Anassimene, già in Pier Vettori: «Anassimene volle che parti generali fossero la giudiziale e l’assembleare; sette, invece, le specie: esortazione, dissuasione, elogio, biasimo, accusa, difesa, indagine (quella che chiama exetastikon); di queste, le prime due appartengono al genere deliberativo, le due seguenti al dimostrativo, le ultime tre al giudiziale»12. Il numero (sette), il nome e l’ordine di presentazione delle specie oratorie coincidono, in Quintiliano, con ciò che si legge all’inizio della Retorica ad Alessandro, dove tuttavia si ha una tripartizione di generi, non una bipartizione, e il genos dikanikon è enumerato per ultimo (1421 b 7-10), non per primo: Quintiliano non ricorda tra le categorie più ampie, stabilite da Anassimene, il genere epidittico, mentre applica subito dopo la divisione aristotelica in tre generi13. Anche Siriano parla di due generi (duvo gevnh), presentati nello stesso ordine di Quintiliano, e di sette specie, ma riferisce questa divisione ad Aristotele14. Similmente, una dicotomia dei generi sembra indicata nella lettera apocrifa, se, come sembra, il termine politikos (1421 b 3 s.) ha qui un’accezione diversa rispetto al suo uso nel trattato15. La lettera, che funge da dedica e da prefazione, è forse all’origine dell’attribuzione del trattato ad Aristotele16: l’opera, vi si legge alla fne (1421 a 38-b 2), consterebbe di due libri, i cui autori sarebbero Corace e Aristotele; il libro di Aristotele farebbe parte degli scritti per teodette17.

IntroduzIone

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oltre al problema della paternità dell’opera (o di sue parti), emerge la questione dello stato attuale del nostro testo, delle aggiunte, e delle alterazioni, non puramente meccaniche, che il testo ha subito nel corso della sua trasmissione: alcuni passi sono stati riscritti, come prova anche il confronto della tradizione medievale con il Papiro Hibeh 26 (285-250 a.C.).18 Sono in genere considerate aggiunte la lettera apocrifa (1420 a 3-1421 b 6) e la sezione fnale (1446 a 36-1447 b 7)19; le modifcazioni risalirebbero a una data ancora più tarda della lettera apocrifa: in particolare, il rifacimento dell’inizio avrebbe forse teso a rendere la dottrina della Retorica ad Alessandro coerente con quella di Aristotele20, che distingue tre generi21. escluse alcune sezioni, il trattato è collocabile nel IV secolo a.C. Per questa datazione esiste un indizio interno (la menzione nel passo 1429 b 18 s. della spedizione dei Corinzi in Sicilia, nel 344/ 343 a.C.), che offre un terminus a quo; il terminus ante quem è fornito dal Papiro Hibeh 26, del III secolo22. Anche il contenuto rinvia a questo periodo (fra il 340 e il 300)23: l’opera si rifà a due tradizioni, quella empirica e quella sofstica, che si sono sviluppate a partire dai primi retori siciliani fno a Isocrate24. essa è inoltre l’unico testo conservato integralmente all’interno di una vasta produzione di technai rhetorikai, cui fanno più volte accenno sia Platone sia Aristotele, e il primo di una serie di trattati sistematici, di manuali pratici, in Grecia e a roma25. opportunamente, pertanto, è stato messo in evidenza come l’opera sia un’insostituibile testimonianza, per noi, della più antica tradizione retorica, una fonte di indicazioni sulla formazione dei più famosi oratori attici26.

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Controverso, ma di grande interesse, è il rapporto con la Retorica di Aristotele, che costituisce, in questo ambito, un testo fondante, un signifcativo momento di svolta nell’impostazione e nella terminologia, dopo il quale si assiste a un profondo cambiamento nei metodi e nelle fnalità, anche se la dicotomia tra retorica anteriore e posteriore ad Aristotele non può sempre considerarsi netta. Si inserisce in questo insieme di problemi anche la questione dell’infuenza della Retorica ad Alessandro sulla produzione retorica posteriore, e della struttura dei successivi trattati, greci e latini27. Preliminarmente, sembrano condivisibili sia l’opinione di Chiron, che rilevando alcune somiglianze tra le due opere, ritiene possibili dei contatti, sia la sua prudenza: egli preferisce parlare «d’archaïsme doctrinal global» della Retorica ad Alessandro, rispetto alla Retorica di Aristotele, piuttosto che di anteriorità cronologica in senso stretto, a causa della diffcoltà di una datazione precisa dell’opera di Aristotele28. Il confronto tra i due testi permette anche di apprezzare quanto fondamentale e decisivo sia stato il contributo di Aristotele all’affermarsi di una retorica che dialoga con altre discipline, e che, come teoria della comunicazione, è oggi al centro di un rinnovato interesse in ambiti disciplinari anche molto diversi. nel commento ai singoli passi, si farà costante riferimento alle analogie e alle differenze dottrinali; genericamente, si può dire che esistono numerosi punti di contatto fra le due opere, ma che il livello intellettuale, l’impostazione, lo stile e la fnalità sono radicalmente distanti. In Aristotele le singole questioni e i singoli aspetti argomentativi sono inseriti in un contesto epistemico più ampio, che manca totalmente nella Retorica ad Alessandro, come vi manca la nozione di metodo: la differenza essenziale consiste proprio nel fatto che Aristotele introduce nella retorica l’apparato concet-

IntroduzIone

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tuale della dialettica, e la collega alla rifessione etica e politica. Il trattato ha la tipica impostazione pragmatica e prescrittiva, non documentaria, del manuale scritto da un retore di professione, che non si attarda in considerazioni teoriche, nonostante qualche tentativo di defnire nozioni basilari, che dà consigli pratici su come cavarsela in ogni circostanza, infuenzato dal relativismo sofstico (pur con tracce di moralismo isocratico), e preoccupato sempre di suggerire come non rimanere mai a corto di argomenti, e anzi come averne sempre in abbondanza: egli si concentra sulla ricezione e sull’effcacia persuasiva degli argomenti, piuttosto che sulla loro validità logica o di fatto, sul ‘verosimile’ (eikos) piuttosto che sul ‘vero’. Si notano inoltre un frequente utilizzo della prima persona singolare, diversamente da quanto accade nei trattati aristotelici29, e un ricorso a esempi creati dall’autore stesso, che non attinge, tranne in un caso, alla tradizione letteraria, differenziandosi anche in questo da Aristotele: l’esempio, inoltre, è per il retore semplicemente una formula, o un fatto accaduto, analogo o opposto a ciò di cui parla, mentre per Aristotele esso può essere una parte dell’argomentazione entimematica. Più in generale, il retore offre molto brevemente modelli di discorso, da analizzare o da imitare. L’orizzonte concettuale è ristretto: la retorica è una techne a sé, quasi fne a sé stessa, e intesa unicamente come arte di avere sempre la meglio nelle controversie e nei dibattiti. Impostazione didattica ed empirica, adozione di un meccanico procedimento per defnizioni e divisioni, che Chiron chiama «para-philosophique»30, carenza di rifessioni sul metodo (salvo 1423 a 15-20), sulle fnalità della retorica, sui fondamenti logici e psicologici della persuasione costituiscono le principali caratteristi-

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che che lo contraddistinguono rispetto ad Aristotele31. d’altra parte in esso è sviluppata una dottrina della ‘prova’, dell’argomentazione (nei capitoli 7-14), di rilevante signifcato storico, seppure in funzione di situazioni concrete e immediate, improntata a un sostanziale pragmatismo, e non sostenuta dalla dialettica32. Le analogie dottrinali possono essere spiegate ipotizzando l’utilizzazione di fonti comuni, oppure la reciproca dipendenza; la diffcoltà di questa ultima ipotesi è legata, come si è detto, alle incertezze sulla datazione: la Retorica ad Alessandro è databile con suffciente approssimazione; molto più diffcile è assegnare una data alla Retorica33. Chiron arriva ad alcune conclusioni, dopo aver esaminato se la Retorica ad Alessandro possa essere considerata un’opera composita, come lascerebbe intendere la lettera apocrifa, un’opera scritta tutta o in parte da Aristotele, o da Corace, o da Anassimene, e dopo aver illustrato i problemi testuali, i possibili rifacimenti e le aggiunte, e valutato la possibilità (in alcuni casi molto remota) di accedere alla forma originaria dell’opera34. nella forma più antica che possiamo raggiungere (attraverso il Papiro Hibeh 26), la Retorica ad Alessandro è stata scritta all’incirca tra il 340 e il 300: per il suo carattere arcaico, il 340 sembra una datazione probabile; Quintiliano che scrive nel I secolo d.C. attribuiva ad Anassimene una dottrina corrispondente, relativamente alle specie del discorso, a quella che leggiamo nella Retorica ad Alessandro, ma la sua testimonianza diverge, come si è detto, dal testo attuale per il numero dei generi, e per l’annessione del discorso d’esame al genere giudiziario; la lettera apocrifa, forse del II secolo d.C., attribuisce la Retorica ad Alessandro in parte ad Aristotele, in parte a Corace, mentre il titolo che leggiamo nei manoscritti la attribuisce interamente ad Aristotele. nell’antichità, l’attribuzione ad Aristotele

IntroduzIone

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è testimoniata dalle citazioni di Ateneo (III secolo d.C.)35 e di Siriano (V secolo d.C.). Chiron esclude l’ipotesi di una compilazione pura e semplice di sezioni giustapposte da parte di autori diversi, riconoscendo al trattato un carattere unitario, pur nella eterogeneità: un unico autore avrebbe messo insieme, con sistematicità, coerenza e capacità di sintesi scarse, un materiale di diversa origine, non per documentare, ma per trarne delle norme; ciò spiegherebbe le disuguaglianze nella terminologia e nel metodo, e le ripetizioni36. L’attribuzione ad Aristotele non gli sembra plausibile date le divergenze essenziali tra il retore, che scrive la Retorica ad Alessandro, e il flosofo, che scrive la Retorica. Inconcludenti sono giudicati i tentativi di accostare il trattato a una supposta opera giovanile di Aristotele, i Theodekteia. L’attribuzione a Corace non è confermata dal confronto con ciò che sappiamo su questo autore, anche se l’infuenza della retorica più antica, anche siciliana, sul nostro trattato è indubitabile. L’attribuzione ad Anassimene di Lampsaco di una «couche» del trattato (dove si trovava già tutto l’essenziale del trattato attuale, cioè le specie oratorie e la teoria di due generi) gli sembra plausibile; tuttavia essa, fondata su un’unica testimonianza, che contiene per di più aspetti dottrinali diversi da quelli che conosciamo attraverso il testo conservato, non è certa37. Il trattato è come si è detto un testimone molto antico, in rapporto ad altri documenti conservati: la ricca storia che lo precede, o che lo affanca, è rintracciabile in esso, in parte e con la dovuta cautela: il precoce costituirsi di una vulgata, in cui confuiscono acquisizioni comuni, rende l’individuazione delle reciproche dipendenze molto rischiosa e incerta; alcune teorie, o meglio nozioni e procedure, dovettero essersi inoltre costituite in data antica,

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e non sono attribuibili con sicurezza a un preciso autore, ma rappresentano l’evoluzione di intuizioni e interventi anche anonimi38. I sofsti e i retori del V e del IV secolo che hanno maggiormente infuito sullo sviluppo e sugli orientamenti della retorica, e di cui si ha qualche eco anche nella Retorica ad Alessandro (senza che ciò implichi necessariamente una loro conoscenza diretta da parte dell’autore), sono Protagora, Gorgia, Prodico, trasimaco, Antifonte, Ippia, teodoro di Bisanzio, Isocrate, Alcidamante: tra questi, Chiron tende a considerare predominante l’infuenza di Isocrate sul nostro trattato39. Molti altri confronti sono possibili con la pratica oratoria, con i discorsi dei maggiori oratori attici, con tucidide e con euripide, come si vedrà nelle note di commento ai singoli passi. La mancanza di informazioni precise sul contenuto dei trattati retorici prearistotelici, il formarsi di una vulgata, e anche i problemi testuali e di trasmissione impediscono spesso, come si è detto, di collegare affermazioni e consigli, che leggiamo nel nostro trattato, a un preciso autore o a una scuola; tuttavia i possibili confronti sono numerosi e contribuiscono a delineare anche gli originali apporti di questo trattato. esso ci apre uno spiraglio di osservazione sulla vita sociale e politica, sul diritto greco, sulla retorica e sull’eloquenza nello stadio intermedio fra i primi autori di technai rhetorikai e Aristotele, «plus précisément entre Isocrate et Aristote, vers la fn de la période de production des orateurs attiques»40. Inoltre, esso conferma l’essenziale identifcazione della retorica greca con la prassi agonale (i discorsi sono una forma di agon), che coinvolge tutto il sapere antico. Lo stretto collegamento della retorica greca con la rifessione sul linguaggio, che alcuni tendono a compendiare nel pregnante signifcato che il termine logos ha

IntroduzIone

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in un celebre frammento di eraclito41, è evidente anche nella Retorica ad Alessandro, pur se in essa non si presta la stessa attenzione a scelte lessicali e stilistiche, come in altre opere dello stesso genere (ma incentrate ormai sull’arte del parlare e dello scrivere bene), contenenti peraltro un’elaborata teoria del discorso, qui invece solo in embrione. In questo trattato emergono invece le potenzialità argomentative del linguaggio, volte ad assicurare la vittoria all’oratore, e si coglie un altro aspetto caratteristico della retorica antica, altrettanto vitale e attuale: oltre che come mezzo di persuasione, essa si confgura essenzialmene come teoria della comunicazione linguistica nello spazio costituito e controllato della polis, in cui si assegna istituzionalmente un ruolo preminente alla parola ‘pubblica’, che traduce in dibattito i possibili confitti, sia privati sia pubblici. Forme e funzioni della parola si modifcano nei diversi contesti culturali e comunicativi; allo stesso modo, diversa è anche la consapevolezza che si ha del discorso persuasivo, legato alla nozione di ‘parola effcace’, come espressione di un’abilità ‘poetica’, o più direttamente volto a ‘scrivere nell’anima’42, o ad assicurare a un messaggio, o piuttosto a un discorso ‘politico’, la migliore e più favorevole ricezione da parte di un pubblico. La Retorica ad Alessandro ha quest’ultima fnalità, e insegna come trovare, esporre e utilizzare gli argomenti capaci di rendere convincente ogni volta il discorso, un discorso incentrato sul destinatario e con una funzione essenzialmente conativa; l’opera sviluppa pertanto una techne della persuasione e dell’argomentazione, come suo strumento, e un abbozzo di teoria della comunicazione, avviata in ambito sofstico43: il politikos logos che essa pone come proprio oggetto, prima di ogni altra distinzione, designa tutti i discorsi riguardanti i rapporti tra il

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cittadino e lo stato, e tra cittadini (o anche tra stati), nelle varie situazioni decisionali o confittuali o contrattuali che si verifcano nei diversi ambiti e momenti dell’attività del cittadino e della vita della polis.

eikos, ethos, kairos. L’arte di ottenere sempre ragione e ‘le ragioni del lupo’ La lettera apocrifa (1420 a 6-1421 b 6) è redatta in uno stile gorgiano, ed esibisce un sapere trito, sedimentato in una vulgata flosofeggiante, in cui si mescolano reminiscenze isocratiche, platoniche, aristoteliche, tradizioni biografche e dossografche, caratteristiche del genere epistolare e protrettico o parenetico. essa costituisce in ogni caso un’importante testimonianza sulla ricezione di Aristotele all’epoca della seconda sofstica, in cui è molto probabilmente da collocare44. Il trattato, che non ha introduzione, si articola in una prima parte, in cui si parla dei gene e degli eide del discorso politico (1421 b 7-1427 b 38); in una seconda (1427 b 39-1436 a 32), che tratta degli strumenti utili per ogni tipo di discorso; e in una terza (1436 a 33-1446 a 35), che analizza le parti del discorso. La terza parte è stata distinta, da alcuni commentatori, dalle prime due, per un’impostazione molto più concreta, per usi lessicali diversi e disparità di natura dottrinale: essa viene indicata come sezione B, rispetto alla sezione A, che comprende le prime due parti45. Le incoerenze non sembrano tuttavia così nette: l’impressione che si ricava dalla lettura è quella di una sostanziale unità; il procedere per aggiunte, per associazioni, il tornare sul già detto sono caratteristiche comuni alle due parti del trattato, e in genere a molti trattati antichi46.

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Seguono delle annotazioni aggiunte (1446 a 36-1447 b 7): il testo spurio potrebbe essere tuttavia più esteso, e riguardare anche la sezione immediatamente precedente, dedicata alla preparazione morale dell’oratore47. La nozione di pistis (pivsti~) è centrale in questo trattato: esso si allinea così alle altre technai nello sforzo di individuare dei criteri di argomentazione e dei punti di forza su cui fondare la validità e la credibilità del discorso, e quindi il suo successo, il suo favorevole accoglimento da parte di chi legge o ascolta. La centralità della pistis si comprende bene, considerando che in Grecia, in molti ambiti, compreso quello giudiziario, la decisione si prende (o il giudizio si dà) in base alla dichiarazione delle parti, che hanno così un ruolo più attivo e determinante in confronto ad arbitri o a giudici: la conoscenza dei fatti emerge dalla contrapposizione dei discorsi, dall’agon48. Il termine pistis copre un’area semantica ampia: nei diversi contesti, emergono i signifcati, peraltro strettamente connessi e interdipendenti, di ‘fducia’, di ‘convinzione’, ‘fede’, di ‘credibilità’, di ‘garanzia’, di ‘prova’, di ‘argomentazione’. esso è un nome d’azione connesso con peithomai (peivqomai, cfr. latino fdo; fdes), come peitho (peiqwv), la ‘persuasione’, collegata per i Greci alla ‘fducia’ riguardante i rapporti interpersonali all’interno di una comunità: si tratta quindi di accezioni che defniscono essenzialmente esperienze dell’uomo, in quanto animale ‘politico’, dotato di linguaggio, del logos, nella pregnanza del suo signifcato. nell’oratoria del V secolo è ormai consolidato il passaggio dal signifcato generico di fducia accordata a qualcosa o a qualcuno, a quello più tecnico di garanzia, di ‘prova’ (pegno o oggetto materiale, o più spesso discorso), che sostiene e motiva questa

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fducia, e per estensione la sezione del discorso dedicata all’illustrazione delle pisteis. La nozione retorica di ‘prova’ (da distinguere dalla nostra concezione della ‘prova’ in ambito giuridico e scientifco) compendia in modo effcace la complessità e l’ambiguità della pratica oratoria antica: nelle assemplee e nei tribunali domina istituzionalmente la parola49. Aristotele utilizza di frequente questo termine, e gli affni peithein, pisteuein, pistos, pithanos nella sua Retorica; la funzione della retorica, tuttavia, non è per Aristotele il persuadere, ma l’individuare il modo di persuasione adatto in ciascun caso: la sua opera si caratterizza essenzialmente come trattato teorico, anche se assume talora l’andamento di un manuale. La defnizione della retorica come «facoltà di scoprire il possibile mezzo di persuasione riguardo a ciascun soggetto» (e[stw dh; rJhtorikh; duvnami~ peri; e{kaston tou` qewrh`sai to; ejndecovmenon piqanovn – I 2, 1355 b 25 s.) è introdotta signifcativamente da una formula tipica del linguaggio della geometria (e[stw, ‘sia’50), di una techne cioè dimostrativa, quasi per dare maggiore forza al collegamento fra dimostrazione dialettica e argomentazione retorica, affermato all’inizio, collegamento che amplia gli ambiti riconosciuti alla retorica. L’uso del termine dynamis connota questa disciplina come ricerca di mezzi possibili e come indagine sul metodo, come potenzialità e abilità prima ancora che come attività e attualità (energeia), diversamente dall’impostazione pragmatica, o più pratica che teorica, della Retorica ad Alessandro51. La centralità della pistis non è infatti disgiunta, in Aristotele, da ciò che ne costituisce il ‘corpo’, il nucleo, cioè l’entimema, dati la complessità della nozione di ‘persuasione’ nell’antropologia aristotelica, e il tentativo di ancorare la retorica alla dialettica: una credenza o una

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convinzione sono sempre il frutto di una dimostrazione, che deve essere condotta correttamente52. nel rivolgere una critica ai vari autori delle technai ton logon, egli sottolinea il fatto che si sono fermati ad elementi accessori ed estranei al soggetto, e «non dicono nulla a proposito degli entimemi, che costituiscono il nucleo dell’argomentazione – oiJ de; peri; me;n ejnqumhmavtwn oujde;n levgousin, o{per ejsti; sw`ma th`~ pivstew~»53. In una delle sue accezioni tecniche54, pistis indica nella Retorica lo strumento logico per organizzare e ordinare logicamente il materiale, è un metodo che dà una forma logica al soggetto, inducendo così nell’uditorio quella condizione mentale che si defnisce ‘convinzione’, persuasione: questo signifcato di pistis, che implica un procedimento dimostrativo per arrivare a una krisis, è applicabile all’entimema (al sillogismo retorico), in particolare, ma anche all’esempio: «è chiaro che il metodo proprio di una tecnica riguarda le argomentazioni, che l’argomentazione è un tipo di dimostrazione (poiché si crede soprattutto quando si suppone che una cosa sia stata dimostrata), che una dimostrazione retorica è un entimema [...], e l’entimema un tipo di sillogismo»55; «tutti gli oratori costruiscono le loro argomentazioni dimostrando o attraverso gli esempi o attraverso gli entimemi, e in nessun altro modo oltre a questi»56. Aristotele distingue fra pisteis entechnoi, tecniche, cioè interne e inerenti alla techne, e atechnoi, non tecniche, esterne ed estranee (potremmo dire preesistenti, o a sé stanti) a essa: la distinzione ha la funzione di delimitare il campo di analisi e di applicazione della techne retorica, il suo ambito; le prime sono da ‘trovare’ e da ‘costruire’, le altre da ‘utilizzare’57. Alle pisteis atechnoi (cioè le leggi, le testimonianze, i contratti, le confessioni ottenute con la tortura, i giuramenti) dedica una breve analisi, nel parla-

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re del discorso giudiziario, dove trovano la loro naturale collocazione58. Più articolata e completa è invece l’analisi delle altre, che sono tecniche, proprio perché realizzate all’interno del discorso, da cui unicamente deve scaturire la loro capacità di convincere59. Le tre pisteis entechnoi sono defnite e individuate in relazione agli elementi che compongono il discorso nella sua interezza, che consiste in un processo o evento in cui sono necessariamente coinvolti colui che parla, ciò di cui si parla, colui a cui si parla60, e in cui sia chi parla sia chi ascolta hanno un ruolo ‘attivo’, nel senso che orientano l’impostazione e le caratteristiche del discorso stesso, collocandosi al suo interno. «Le argomentazioni offerte per mezzo del discorso sono di tre specie: le prime dipendono dal carattere dell’oratore, le seconde dalla possibilità di predisporre l’ascoltatore in un dato modo, le ultime dal discorso stesso, in quanto dimostra o sembra dimostrare qualcosa»61. Le pisteis entechnoi sono pertanto ethos, pathos e logos. Aristotele raccoglie e rinnova la rifessione sofstica e isocratica sul potere della parola e sui procedimenti di comunicazione, mettendone in rilievo la complessità delle componenti e delle variabili, che fanno di ogni discorso un ‘evento’ in una prospettiva logica, antropologica, sociologica e psicologica di cui si apprezzano l’acume e la modernità62. nella Retorica ad Alessandro, si distinguono due tipi di pisteis. Il primo gruppo proviene «direttamente dalle parole, dalle azioni e dagli uomini», e consiste nelle verosimiglianze (ta; eijkovta), negli esempi (paradeivgmata), negli indizi (tekmhvria), negli entimemi (ejnqumhvmata), nelle massime (gnw`mai), nei segni (shmei`a), nelle prove (e[legcoi – 1428 a 16-22); il secondo è costituito dalle

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argomentazioni aggiunte (ejpivqetoi): opinione (dovxa), testimoni (mavrture~), giuramenti (o{rkoi), confessioni ottenute con la tortura (bavsanoi – 1428 a 22 s.). La classifcazione in due gruppi ricorda quella aristotelica, e potrebbe rifettere una concreta e diffusa pratica oratoria (forse più complessa della teoria stessa), piuttosto che indicare una reciproca dipendenza fra i due testi. Le differenze sono tuttavia sostanziali, come si vedrà anche nelle singole note di commento, e riguardano in particolare l’appartenenza di entrambi i gruppi all’arte retorica, per il retore; mentre per Aristotele è netta la separazione: solo le pisteis entechnoi sono di competenza della retorica, perché sono le sole a risultare dal metodo proprio di questa techne63. Preliminarmente si osserva che la prima pistis atechnos è il nomos, nella Retorica, e la doxa è la prima pistis epithetos nella Retorica ad Alessandro64. L’inserimento, da parte di Aristotele, della legge tra i mezzi ‘esterni’ di prova non sorprende se si pensa alla fgura del giudice in Grecia, non necessariamente esperto di diritto. esso può essere anche considerato come rispondente a una questione ‘di diritto’, nel processo euristico oltre che nell’argomentazione retorica, o semplicemente un rifesso di una necessità e di una pratica procedurale: la legge può essere trattata come una pistis, ma ha uno status diverso rispetto agli altri mezzi di persuasione. In ogni caso si deve distinguere fra la presentazione formale di una legge e il suo ruolo in tribunale: da ciò deriva l’ambiguità del suo trattamento65. Il secondo gruppo (pisteis epithetoi) inoltre corrisponde solo approssimativamente a quello delle pisteis atechnoi: a parte la diffcoltà connessa con la menzione (in un primo momento sibillina) della doxa (si tratta, come sembra, dell’opinione dell’oratore), non vi compaiono le

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leggi e i contratti, che avranno invece una loro funzione argomentativa in seguito. Le leggi in particolare saranno utilizzate come pisteis, pur se così non catalogate; esse costituiscono un materiale di cui l’oratore può servirsi, elaborandolo, cioè ‘organizzandolo’ logicamente, anche se esso ha già una propria confgurazione e una propria funzione probativa: il retore dà consigli sulla manipolazione di argomenti tratti dalla legge. nel trattato si distingue inoltre fra pistis e dikaiologia66. di fatto, e più in generale nella pratica oratoria, né le forme peculiari dell’argomentazione né le ‘prove non tecniche’ rimangono sempre sullo stesso piano, vincolate alla stessa funzione, se si escludono quella preminente del ‘convincere’, e il tipico ricorso alla contrapposizione dei punti di vista (ek ton enantion). nel primo gruppo delle pisteis sono elencate insieme nozioni che in Aristotele non si collocano allo stesso livello epistemologico, pur essendo, tutte, forme tipiche dell’argomentare retorico; il retore dà semplicemente una lista, enumerandole in modo catalogico. È nota la centralità, nella Retorica, del concetto di entimema, il «corpo della persuasione», il sillogismo retorico dotato anche di una funzione euristica, seppure fnalizzata alla pratica67. esso può basarsi sull’eikos, sul semeion, sul tekmerion, sul paradeigma68; la massima può diventare una parte dell’entimema69. nella Retorica ad Alessandro, esso è invece una pistis ‘accanto’ alle altre, come le altre, e non, gerarchicamente, al di sopra di esse. Sinteticamente, si può osservare che le defnizioni che il retore dà di ciascuna pistis, e l’esame delle loro differenze70, non si basano sulla struttura logica di ognuna, ma su un sapere tradizionale, su una semplice descrizione, derivata dall’uso; inoltre non si tiene conto

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del fatto che questo tipo di argomenti può essere incluso nell’entimema. La nozione di eikos implica una relazione di somiglianza con ciò a cui si applica (fatti, eventi o entità di varia natura), e si inserisce in una lunga tradizione poetica, storiografca e retorica, nella rifessione flosofca e scientifca, in technai quali la fsiognomica e la medicina. Il participio neutro eikos è una delle formazioni nominali connesse col perfetto eoika, e rinvia originariamente al campo semantico dell’immagine, della rappresentazione visiva, diventando poi anche una parola del lessico intellettuale, come il termine epieikes, di uso frequente e pregnante nella Retorica di Aristotele, diversamente da quanto accade nella Retorica ad Alessandro. Il termine è tecnico nella retorica, come in altre discipline: reso generalmente in italiano con ‘verosimile’, ‘probabile’71, ‘ragionevole’, ‘naturale’, esso esprime la sensata relazione che si può stabilire tra fatti o entità o concetti, l’aspetto normativo e generale di un adeguato, appropriato, attendibile e plausibile legame, fondato su opinioni e consuetudini largamente accettate e condivise. La defnizione che ne dà la Retorica ad Alessandro (il verosimile consiste nella corrispondenza di ciò che si dice con gli esempi che gli ascoltatori hanno in mente – 1428 a 25 s.) può essere considerata emblematica della sua accezione retorica. L’eikos ha una fondamentale funzione di collegamento all’interno del discorso, e tra gli avvenimenti in esso esposti o ricordati: è la prova retorica per eccellenza, quella più versatile e polivalente72. Hermes bambino, nell’Inno omerico a lui dedicato, si difende argomentando che, nato da poco, non avrebbe potuto rubare le vacche («non somiglio – e[oika – a un ladro di buoi» – v. 265): nella sua difesa sono insistentemente utilizzati i verbi di ‘vedere’ e di ‘sentire’73.

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È interessante osservare, anche in ambito retorico, come si integrino e come si oppongano, di volta in volta, le nozioni di verosimiglianza e di evidenza (enargeia), in relazione ai poteri e ai limiti della parola, del discorso74. Il retore consiglierà spesso il ricorso a questa pistis, associandola alle nozioni di doxa, di pathos, di ethos (e[qo~ – nel senso di ciò che abitualmente si fa) e di kerdos (il ‘vantaggio’, come possibile e unica motivazione delle azioni umane, a prescindere dalle inclinazioni naturali e dal consueto modo di comportarsi – pathos, ethos e kerdos sono suddivisioni dell’eikos, sue ideai): ciò che importa è trovare la via d’accesso alla mente dell’ascoltatore (il pubblico di un’assemblea o i giudici di un tribunale), facendo leva sulle convinzioni e sulle concrete esperienze dell’uditorio, per averlo dalla propria parte. Il ricorso all’argomento del verosimile sembra assicurare in ogni caso un successo: anche quando si è costretti a confessare, si potrà dire che gli uomini ‘per la maggior parte’, o ‘sempre’ (h] ta; plei`sta h] ta; pavnta) si comportanto allo stesso modo; e se anche questo non fosse possibile, si potrà fare appello alla sfortuna e all’errore, e chiedere il perdono, invocando i pathe che turbano la mente di ‘tutti’ gli uomini (1429 a 10-20). L’associazione tra il verosimile e ciò che accade ‘la maggior parte delle volte’ avvicina l’esposizione del retore all’analisi che Aristotele fa della nozione di eikos, nella Retorica: l’eikos è ciò che accade ‘per lo più’ (wJ~ ejpi; to; poluv), ma non in senso assoluto, secondo la defnizione data da alcuni; piuttosto, nell’ambito di ciò che può essere diversamente da come è, esso sta in rapporto a quello rispetto a cui è eikos, come il generale rispetto al particolare75. Similmente, negli Analitici primi, l’eikos è una premessa ‘endossale’ (provtasi~ e[ndoxo~), conforme all’opinione comune: nell’ambito di ciò che accade per lo

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più, è eikos ciò che si sa che è accaduto o non è accaduto, che è o non è; per esempio si sa che gli invidiosi odiano o che gli amati amano76. nella Poetica, il concetto di eikos ha una funzione preminente e strutturale: a esso si lega la coerenza della mimesi77. nonostante i punti di contatto (l’eikos rientra in un sapere condiviso, valido ‘per lo più’), Aristotele pone l’accento sul carattere relativo e non assoluto dell’eikos, distanziandosi così dalla tecnica eristica, sulla possibilità che accada anche ciò che è contrario al verosimile, e sul carattere insidioso di questo argomento78. Inoltre, la defnizione che ne dà la Retorica ad Alessandro si inserisce in una tradizione eminentemente retorica (vi è implicito l’effetto sull’uditorio, dovuto al ‘legame’ che si instaura così fra oratore e pubblico, come si dice d’altra parte subito dopo)79; mentre nella rifessione flosofca, la nozione di eikos ha una valenza logica e gnoseologica. Il suo carattere di generalità rende l’eikos adatto a diventare premessa degli entimemi: qui risiede la differenza fondamentale fra le due impostazioni: nella Retorica ad Alessandro, l’eikos è una pistis distinta dalle altre, elencata per prima forse proprio perché ritenuta rappresentativa e in un certo senso riassuntiva delle altre80, mentre in Aristotele, la pistis più importante è il sillogismo retorico, l’entimema, di cui l’eikos può essere una premessa.81 Strettamente connessa con la preminenza riconosciuta a uno strumento della dialettica (il sillogismo), seppure adattato alla retorica, è la rifessione sul rapporto fra l’eikos e la verità, di cui esso può essere uno strumento, se correttamente introdotto e valutato, caso per caso82: questo aspetto non interessa al retore, che non fa mai riferimento alla verità del giudizio, ma solo al successo di chi parla, di chi si difende o di chi accusa83.

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dal punto di vista aristotelico, l’entimema, in quanto logos persuasivo, forma insieme con le altre due pisteis tecniche, l’ethos e il pathos, il ‘corpo’ della persuasione: la complessità della natura umana implica che il discorso, per convincere, sappia parlare alla parte razionale e a quella emotiva dell’uomo, tra le quali non c’è netta opposizione, per Aristotele84. Il pathos non deve essere d’altra parte un banale e generico appello emotivo, ma una pistis che si realizza nel discorso, dispone l’ascoltatore in un certo modo e lo induce a provare un’emozione, che infuisce sul giudizio: «La persuasione si realizza tramite gli ascoltatori quando questi siano condotti dal discorso a provare un’emozione: i giudizi non vengono emessi allo stesso modo se si è infuenzati da sentimenti di dolore o di gioia, oppure di amicizia o di odio. A questo aspetto soltanto, gli attuali autori di trattati rivolgono la loro attenzione»85. In questa pistis si compendia la forza psicagogica del discorso, unanimemente riconosciuta; dal punto di vista aristotelico, essa non è tuttavia un mezzo puramente estrinseco, ma scaturisce dal metodo proprio della techne retorica. nella Retorica ad Alessandro il pathos è una delle tre ideai dell’eikos86. Aristotele dedica un’ampia analisi ai vari pathe, presentati a coppie contrapposte87, mentre relativamente più breve è l’esame della pistis basata sul parlante, cioè l’ethos: «La persuasione si realizza per mezzo del carattere quando il discorso sia fatto in modo da rendere credibile l’oratore: noi infatti crediamo alle persone affdabili in misura maggiore e con più prontezza riguardo a ogni questione in generale, e completamente, in quelle che non comportano certezza assoluta ma varietà di opinioni. e questo deve risultare proprio dal discorso, e non dalle opinioni preesistenti sul carattere dell’oratore. non dobbiamo pensare come certi autori di tecniche retoriche che

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nei loro trattati affermano che l’affdabilità dell’oratore non contribuisce in nulla alla persuasione; al contrario, il carattere rappresenta, per così dire, l’argomentazione più forte»88. L’esame di questa pistis è tuttavia integrabile con l’analisi delle aretai e di alcuni pathe, con la classifcazione degli ethe, in quanto da esse si traggono gli stessi mezzi utili «per porre sé stessi o un’altra persona in una determinata luce»89, con i consigli su come rendere ethikos (cioè espressivo di caratteri) un discorso, e con le osservazioni riguardo alla deixis e alla lexis, capaci di esprimere caratteri (ethikai)90. Il concetto di ethos nella Retorica non è d’altra parte univoco91. L’ethos costituisce una nozione fondamentale della pratica logografca, come sembra emergere anche dalla Retorica ad Alessandro92; ma controversa è la valutazione di quanto la nozione aristotelica di persuasione attraverso l’ethos debba alla tradizione precedente: un contributo a questa controversia può venire anche dall’analisi della funzione che l’ethos ha nella Retorica ad Alessandro93. In essa, l’ethos non rientra direttamente tra le pisteis, diversamente da quanto accade nella Retorica, dove, come si è letto, «rappresenta, per così dire, la pistis più forte»94. tuttavia, questa nozione ha una sua rilevanza argomentativa anche nel nostro trattato; preliminarmente è da tener conto di una oscillazione, nella tradizione manoscritta, fra h[qoı ‘carattere’ e e[qo~ ‘abitudine’, e talora di un loro alternarsi e sovrapporsi nell’argomentazione95: tecnico, nella retorica è solo il primo termine, anche se il secondo rientra fra i topoi consigliati. In particolare, la nozione di ethos si intreccia spesso con quella di eikos, che è la prima delle pisteis elencate: è verosimile aspettarsi che gli uomini si comportino allo stesso modo in certe occasioni; pertanto si potrà utilizzare questo argomento

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per difendersi, quando altri argomenti hanno fallito. oppure, nel discorso di esame, che non dovrà in nessun caso avere un carattere aggressivo, sarà utile valutare parole, azioni o pensieri, in relazione ai predicati del ‘giusto’, del ‘legale’, dell’ ‘utile’, e cercare ogni contraddizione interna, o in rapporto al carattere della gente onesta o alla verosimiglianza96. È inoltre signifcativo che nell’individuare le tre ideai del verosimile97, la seconda sia costituita dall’ethos (e[qo~), da ciò che ciascuno fa per abitudine98: la prima, come si è visto è il pathos, e la terza è il kerdos. Qualora l’interesse e l’abitudine siano invocati contro l’accusato, egli sarà sempre in grado di difendersi, dicendo che l’azione che gli viene imputata non è stata per lui di nessun vantaggio, o altrimenti che né lui né le persone come lui hanno l’abitudine di commettere azioni simili, o di comportarsi così99. Ciò che ha peso argomentativo è proprio la conformità con certi comportamenti e inclinazioni consueti dell’uomo, con ciò che è riconosciuto da tutti valido ‘per lo più’: si rientra così nella nozione retorica dell’eikos. nel discorso di esortazione o dissuasione, il giusto, l’utile e gli altri predicati offrono gli argomenti da utilizzare, caso per caso: per esempio, l’ethos (e[qo~ – consuetudine) non scritto condiviso da tutti gli uomini o dalla maggior parte di essi rientra nel predicato del ‘giusto’100; in questo modo, quando si interverrà a sostegno del mantenimento dei culti ancestrali, si dirà che è ingiusto trasgredire i costumi e le abitudini tradizionali (ta; pavtria e[qh)101. un emblematico succedersi di fonti relative ad ambiti diversi si ha nella trattazione dell’entimema: nel cercare elementi e risorse per gli entimemi, bisognerà osservare «se il discorso non si contraddice in qualche punto, oppure se i fatti sono in contraddizione con il giusto, la legge, l’utile, il nobile, il possibile, il facile, il verosimi-

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le, o con il carattere dell’oratore o con il naturale corso delle cose – h] tw≥` h[qei tou` levgonto~ h] tw≥ ` e[qei tw`n prag­ mavtwn»102. Il corso naturale delle cose (ta; tw`n pragmavtwn e[qh) e l’opinione dell’oratore (hJ dovxa tou` levgonto~) sono indicati come le pisteis più adatte alle demegorie, insieme con gli esempi e gli entimemi: se ne consigliano la disposizione e l’utilizzazione, senza escludere altre pisteis, l’eikos e la gnome103. L’espressione ethos tou legontos104, che si salda all’altra espressione correlata, doxa tou legontos105, sembra rinviare alla Retorica106; in realtà, non si tratta di una pistis tecnica, realizzata all’interno del discorso e risultante da esso, ma dell’immagine acquisita dall’oratore nel corso di una vita improntata a principi etici, cui si fa riferimento in un capitolo (38), peraltro sospetto. In ogni caso l’ethos tou legontos risente di un’impostazione più isocratica che aristotelica: dal punto di vista aristotelico, non contano la fama dell’oratore né l’attrattiva che egli esercita sull’uditorio, in quanto sono elementi esterni al discorso; la sua credibilità deve risultare dal discorso stesso. La defnizione secondo cui i logoi sono ‘immagini’, ‘ritratti’ del carattere e del costume (oiJ de; lovgoi tw`n hjqw`n kai; tw`n trovpwn eijs i;n oi|on eijkovne~)107 ha un suo fondamento nella tradizione, che riconosce una stretta relazione fra un individuo e il suo modo di esprimersi108; nell’idea che la parola rifetta il carattere (il ‘ritratto’ di un uomo è affdato alla parola e all’azione, più che alla descrizione fsica, almeno fno all’ellenismo), e più generalmente nella concezione del discorso come immagine delle cose 109. nel contesto assume tuttavia rilievo, perché ci si riferisce al racconto che l’oratore fa riguardo alla vita di un uomo che si vuole denigrare, alla pura esposizione, senza aggiunta di espedienti accessori, di skommata, capace, da sola, di far emergere la realtà: si tratta quindi di

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un carattere che prende corpo dal discorso stesso, a cui si riconosce un valore mimetico110. dell’ampia rifessione sull’ethos e sulla sua rappresentazione111, la Retorica ad Alessandro accoglie il consolidato rapporto fra parola e carattere: si osserva che la gestualità e l’atteggiamento fsico dell’oratore, il suo porsi al pubblico anche con l’espressione del volto, degli occhi in particolare, il timbro e la tonalità della voce non rientrano fra le raccomandazioni e i consigli dati dal nostro autore112. Appare tuttavia signifcativo che questo rapporto sia mediato da un termine (eikon) che fa riferimento allo statuto dell’immagine. Il termine kairos (kairov~), l’opportunità, il tempo giusto (nella nozione estesa di ‘tempo’, il termine rimane nel greco moderno), assume un’accezione più specifca nel corso del V secolo nell’ambito di molte technai, in particolare la medicina, la politica e la storiografa, la retorica: nella varietà, nella molteplicità e complessità delle concrete situazioni, occorre saper cogliere e calcolare l’occasione, la circostanza o il momento opportuno, favorevole, appropriato, e valutare la ‘giusta misura’, per un effcace intervento. Il successo di questa parola è legato all’imporsi delle technai, come espressione della capacità dell’uomo di trionfare sulle diffcoltà: così afferma l’autore della Meccanica del C.A., proprio all’inizio della sua trattazione, citando le parole del poeta Antifonte113. La nozione espressa da kairos appartiene a un ambito semantico vicino a quello di metis (mh`ti~)114, riguarda lo stesso ampio campo d’azione, quello della contingenza: si tratta di un’intelligenza pratica, che permette di affrontare ogni situazione, pronta ad afferrare l’attimo, data la tradizionale fuggevolezza del kairos, che Lisippo rappresentò in una sua famosissima opera115. Il fne è l’azione o la parola ogni volta effcace.

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L’eikos e il kairos costituiscono a livelli diversi, più intellettuale e meditato il primo, più pratico ed estemporaneo il secondo, due mezzi applicati e teorizzati anche nella retorica, pur se controversi sono l’origine della teoria stessa del kairos, fatta risalire a Gorgia o a Protagora, e il suo legame con l’eikos116. nel Fedro, Platone spiega quali sono i criteri seguiti dai retori nei loro discorsi117, e quali devono invece essere quelli del dialettico118, considerando che l’arte di fare i discorsi richiede da parte dell’oratore la conoscenza dell’essenza della cosa di cui tratta, della natura dell’anima cui si rivolge, l’essere in grado «di cogliere il momento giusto per parlare e quello per tacere – kai­ rou;~ tou` povt e lektevon kai; ejpiscetevon», e il saper «discernere l’opportunità o la non opportunità – th;n eujkairivan te kai; ajkairivan – dello stile conciso e dello stile commovente, di quello dell’indignazione e di quante altre forme di discorsi abbia imparato, allora l’arte è realizzata in modo bello e compiuto»119. Il dialettico sa come deve parlare, ma conosce anche con chi e quando deve parlare: esiste una ‘giusta misura’ imposta dalle capacità ricettive dell’anima dell’interlocutore, secondo un principio di comunicazione e di percorso dialettico che Platone applica in ogni dialogo120. Platone reinterpreta il kairos dei retori, forse alla luce della nozione di kairos nella medicina: riaffermandone il valore, nel diffcile cammino verso la verità, lo associa al metrion, prepon, harmotton. In ogni caso, esso va ben al di là delle qualità formali, che emergono invece nella multiforme nozione isocratica del kairos, pur se l’aspetto estetico non è in Isocrate separato da quello etico121. nella Retorica ad Alessandro, il termine kairos è utilizzato la maggior parte delle volte nel senso corrente, di ‘momento’, ‘circostanza’, ‘occasione’, senza particolari

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accezioni tecniche, tranne in alcuni passi. trattando dei mezzi di persuasione comuni a tutti i tipi di discorso, e in particolare degli aitemata, si invita a servirsi opportunamente (kata; to;n kairovn) dei predicati del giusto e dell’ingiusto, in modo che non sfugga il carattere delle richieste degli avversari, e si possa intervenire di conseguenza122. In due luoghi, il termine compare insieme con altri predicati e con la nozione di ananke, di tyche, e di to harmotton. A conclusione di una lunga esposizione riguardante il modo di procurarsi la benevolenza dell’uditorio, e tutte le risorse possibili per demolire gli attacchi diretti alla persona dell’oratore (e i pregiudizi nei suoi confronti), o al tema che tratta o alle parole che dice, anche prevenendoli, si consiglia di chiamare in causa, oltre all’argomento dell’utile, la necessità, la sorte, le circostanze (tou;~ kairouv~), cioè quegli elementi che sfuggono alla responsabilità umana123. Parlando della ricapitolazione, si afferma che essa è utile in tutte le circostanze (para; pavnta~ tou;~ kairouv~); ma è particolarmente opportuno e conveniente (mavlista d∆ aJrmovttei) ricorrervi nei discorsi di accusa e di difesa, di esortazione e di dissuasione124. La generalizzazione o la banalizzazione125 dell’uso del termine è tipica del IV secolo; meglio si potrebbe dire che la nozione basilare, che ne aveva fatto una parola chiave nell’ambito delle technai, assume altre forme ed è espressa da altri termini, con alcuni dei quali kairos è stato in concorrenza anche prima. nell’Etica Nicomachea, il kairos è collegato chiaramente alla categoria del tempo126; tuttavia, Aristotele nel presentare il modo in cui intende trattare delle azioni, afferma la necessità che chi agisce ponga attenzione al kairos, «come avviene anche nel caso della medicina e dell’arte del pilotare la nave»127. Si può dire che nelle opere etiche, la nozione di ‘adattamento’ alle mutevoli

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circostanze, a ciò che è sottoposto al cambiamento128, insita nel concetto di kairos, è assunta in parte in quella di phronesis, di un sapere ‘opportuno’ ed ‘effcace’, che ha per oggetto le realtà che possono essere diverse da quello che sono e su cui si delibera in vista di un’azione, e che implica la conoscenza dei particolari, oltre a quella degli universali, e un calcolo129. La nozione aristotelica di phronesis, coerente con la dottrina etica del flosofo, ha dei legami con la tradizione retorica precedente: essa viene considerata il frutto di una reinterpretazione, da parte di Aristotele, della dottrina retorica del kairos, che invita l’oratore a parlare adattandosi ai desideri e alle attese particolari del proprio uditorio130. Anche nella Retorica di Aristotele, l’uso di kairos in senso tecnico è limitato; tuttavia in un passo è signifcativa la sua presenza. nel diffondersi a parlare di come catturare l’attenzione dell’ascoltatore, uno dei tre elementi coinvolti nel processo comunicativo, di cui Aristotele sottolinea costantemente la complessità, e di come mantenerla viva in ogni parte del discorso, osserva che essa può venir meno ovunque meno che all’inizio, quando tutti sono attenti; di conseguenza bisogna richiamarla al momento opportuno (o{pou a]n h\≥ kairov~), con formule ed espressioni, di cui offre degli esempi, accennando anche a come si comportava Prodico, quando gli uditori sonnecchiavano131. Aristotele sottolinea inoltre il fatto che non è sempre ‘utile’ (ouj sumfevrei) suscitare l’attenzione dell’ascoltatore: qualche volta bisogna anche distrarlo e farlo ridere132. Come nell’Etica Nicomachea, inoltre, la phronesis è collegata strettamente al bouleuesthai 133, ma soprattutto, nel diverso contesto della Retorica, appare come una qualità per cui gli oratori possano risultare persuasivi, integrandosi così con il concetto di ethos tou legontos:

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«tre sono i motivi per cui gli oratori risultano persuasivi: sono quelli che determinano la persuasione, a parte le dimostrazioni logiche. essi sono la saggezza – frovnhsi~, la virtù – ajrethv, la benevolenza – eu[noia134». roland Barthes tenta di riassumere così una presentazione degli ethe dell’oratore (distinti dai pathe che connotano il pubblico e le sue reazioni): essi «sono i tratti del carattere che l’oratore deve mostrare all’uditorio (poco importa la sua sincerità) per fare buona impressione: sono le sue arie. non si tratta quindi d’una psicologia espressiva, ma d’una psicologia immaginaria (in senso psicanalitico); io devo signifcare quello che voglio essere per l’altro. È la ragione per cui – in questa psicologia teatrale – è meglio parlare di toni che di caratteri: tono: nel senso musicale ed etico che la parola aveva nella musica greca. [...] Per Aristotele, ci sono tre “arie” che insieme costituiscono l’autorità personale dell’oratore: 1) frovnhsi~: è la qualità di colui che delibera bene, che pesa bene il pro ed il contro: è una saggezza obiettiva, un buon senso ostentato; 2) ajrethv: è l’ostentazione d’una franchezza che non teme le proprie conseguenze e si esprime per propositi diretti, improntati ad una lealtà teatrale; 3) eu[noia: si tratta di non urtare, di non provocare, d’essere gradevole (e forse anche simpatico), d’entrare in una complicità compiacente nei confronti dell’uditorio. Insomma, mentre parla e svolge il protocollo delle prove logiche, l’oratore deve anche dire incessantemente: seguitemi (frovnhsi~) stimatemi (ajrethv) e amatemi (eu[noia)»135. nella Retorica ad Alessandro si fa esplicito riferimento all’eunoia, nel fornire consigli su come procurarsi la benevolenza dell’uditorio; in questo stesso contesto, si individua anche un riferimento implicito all’arete (l’oratore farà valere la propria onestà nella gestione degli affari pubblici, la scelta di sacrifcare i propri beni, invece di

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approfttarsi di quelli pubblici), e alla phronesis (l’oratore dirà che altre volte è stato utile seguire le sue proposte)136. Fra le aretai dell’oratore, nella Retorica, è compresa, l’epieikeia (ejpieivkeia), connessa con la credibilità dell’oratore e con il suo ethos, come è evidente dal passo della Retorica già citato137; questa qualità si impone, in quanto il discorso persuasivo comporta la discussione su una pluralità di opinioni e di soluzioni: chi possiede questa qualità, che coinvolge la sfera intellettuale ed etica, ed implica una valutazione corretta dei casi particolari, adattamento e fessibilità, riuscirà con e nel suo discorso ad essere persuasivo, avviando l’ascoltatore verso un processo di mathesis, di facile apprendimento (eumatheia)138. essa ha una precisa valenza in ambito giuridico, e applicazioni nell’oratoria: è riconosciuta l’importanza che ha e conserva, dal punto di vista teorico, la dottrina dell’epieikeia elaborata da Aristotele, considerando il suo stretto rapporto col nomos e col nomikon, e il suo legame con la gnome ariste o dikaiotate139. Anche la nozione di to epieikes (to; ejpieikev~), l’equo, il giusto, il corretto, svolge una funzione rilevante nell’argomentazione retorica, collegandosi a un’ampia rifessione etica, politica e giuridica, dall’antichità ad oggi, sulla giustizia e sulla legge: il rapporto tra legge e giudizio formulato dai giudici viene subito posto all’inizio della Retorica aristotelica140; in generale, Aristotele confgura come problematica la relazione fra equità e giustizia, fra legge non scritta e legge scritta. «Ciò che è equo sembra giusto, e l’equità è una forma di giustizia che va al di là della legge scritta – to; ga;r ejpieike;~ dokei` divkaion ei\nai, e[stin de; ejpieike;~ to; para; to;n gegrammevnon novmon divkaion»: così si legge nella Retorica141, in accordo con quanto Aristotele afferma nell’Etica Nicomachea, dove si pone la questione del rap-

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porto fra equità e giustizia, fra equo e giusto: «L’equo, pur essendo migliore di una certa forma di giusto, è giusto [...]. Pertanto sono la stessa cosa giusto ed equo e, pur essendo tutti e due buoni, è migliore l’equo. Crea la diffcoltà il fatto che l’equo è sì giusto, ma non è il giusto secondo la legge, bensì è un correttivo del giusto legale – to; ejpieike;~ divkaion mevn ejstin, ouj to; kata; novmon dev, ajll∆ ejpanovrqwma nomivmou dikaivou»142. L’aporia (l’equo è sinonimo di ‘buono’, ma è anche diverso dal giusto) è risolta facendo dell’equo una specie (non un genere) diversa dal giusto, e migliore di un certo tipo di giusto, cioè il giusto legale. La sua superiorità sta nell’essere un epanorthoma, un correttivo del giusto legale, necessario in quanto la legge riguarda l’universale, e non può prevedere tutti i casi particolari e concreti. Ciò non dipende da una mancanza della legge, né da un errore del legislatore (nella Retorica, invece, Aristotele prende in considerazione anche l’eventuale negligenza o disattenzione del legislatore), ma dalla natura delle cose: la correzione dell’equo consiste pertanto non in un superamento di quanto la legge prescrive, ma in un ‘adattamento’ della regola universale al caso particolare, in una riconduzione alla situazione concreta, che la legge non disciplina. Conformemente, si delinea uno schizzo dell’uomo ‘equo’, fessibile e non rigoroso, nel senso peggiore, nell’applicare la legge143. Il termine epieikeia non compare nella Retorica ad Alessandro; vi compare invece il termine epieikes (ejpieikhv~), usato per indicare il buon cittadino, la brava persona144; oppure in una signifcativa serie di predicati che qualifcano il perdonare gli errori: epieikes, dikaion, sympheron145. In essa, si potrebbe scorgere quasi una oculata e mirata disposizione degli argomenti, secondo l’opportunità (la pertinenza e l’adeguatezza al caso particolare), una più

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generale idea di giustizia, il vantaggio ricavato; in ogni caso, la successione dei due termini, epieikes e dikaion, acquista rilievo alla luce dell’analisi aristotelica. un altro passo, in cui compare epieikes, offre un interessante esempio del peculiare amalgama e della sedimentazione di teorie retoriche, di diversa provenienza, e di tradizionali concezioni, in questo trattato. nell’ultimo problematico capitolo, il metodo retorico viene esteso alle regole di vita, e si insiste sulla cura che bisogna avere non solo dei propri discorsi, ma anche della propria condotta di vita: il tema del rapporto fra ergon e logos, fra bios e logos, è tradizionale. L’affermazione secondo cui la preparazione e l’organizzazione della vita personale dell’oratore contribuiscono all’effcacia persuasiva delle sue parole e alla conquista di una ‘buona’ reputazione (sumbavlletai ga;r hJ peri; to;n bivon paraskeuh; kai; pro;~ to; peivqein kai; pro;~ to; dovxh~ ejpieikou`~ tugcavnein – 1445 b 32-34) rinvia a quanto dice Aristotele a proposito di «certi autori di tecniche retoriche»: essi erroneamente sostengono «che l’affdabilità dell’oratore non contribuisca in nulla alla persuasione – th;n ejpieivkeian tou` levgonto~ wJ~ oujde;n sumballomevnhn pro;~ to; piqanovn; al contrario, il carattere rappresenta, per così dire, l’argomentazione più forte – kuriwtavthn e[cei pivstin to; h\qoı»146. Il confronto con Aristotele sembra in un primo momento stringente, quasi verbale; in realtà, Aristotele fa dell’ethos una pistis tecnica, come si è detto. da tutta l’argomentazione seguente inoltre è maggiormente evidente il fatto che l’autore della Retorica ad Alessandro segue più da vicino Isocrate. Il passo del Fedro, prima citato, si conclude esaminando ancora le nozioni di ‘verosimile’, ‘vero’, ‘persuasivo’, e ribadendo che l’unica via da seguire è quella più diff-

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cile e lunga, cioè la via della verità, in contrapposizione alle «ragioni del lupo»147. Platone ne espone alcune: nell’arte dei discorsi è meglio seguire una via facile e non accidentata, cioè il verosimile, come illustra un esempio, che in parte ricorda uno simile proposto dal nostro retore148; inoltre non occorre che l’oratore «sia a conoscenza di verità intorno a cose giuste e buone – dikaivwn h] ajgaqw`n pevri pragmavtwn, o anche intorno agli uomini che per natura e per educazione sono tali». Signifcativa è la motivazione addotta da chi sostiene queste convinzioni, motivazione che, seppure esasperata ed esagerata da Platone, sembra corrispondere bene a quanto avveniva (e ha continuato talora ad avvenire, mutatis mutandis) nella pratica oratoria: «nei tribunali, della verità intorno a queste cose non importa proprio niente a nessuno, ma importa ciò che è persuasivo – to; paravpan ga;r oujde;n ejn toi``~ dikasthrivoi~ touvtwn ajlhqeiva~ mevlein oujdeniv, ajlla; tou` piqanou`. e questo risulta essere il verisimile; e a esso deve attenersi chi intende parlare con arte. e, anzi, talvolta non si devono esporre neppure i fatti medesimi, qualora non si siano svolti in maniera verisimile, ma appunto solo quelli verisimili, e nell’accusa e nella difesa. e, in generale, chi parla deve seguire appunto il verisimile, e mandare a spasso con molti saluti la verità. È appunto questo verisimile che, trovandosi da un capo all’altro del discorso, porta a compimento tutta quanta l’arte»149. I termini aletheia (ajlhvqeia) e alethes (ajlhqhv~) ricorrono relativamente poche volte nella Retorica ad Alessandro, e senza particolare enfasi, tranne in qualche passo in cui si insiste sull’opportunità di far valere il vero e il giusto come argomento a proprio favore150. La ricerca di ciò che ‘in ogni occasione’ possa risultare persuasivo, di ciò che è opportuno e vantaggioso dire caso per caso, tenendo conto delle circostanze, degli

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umori, delle reazioni e delle disposizioni dell’uditorio, sia nelle assemblee pubbliche sia nei tribunali, orienta la trattazione, e sembra ben illustrare ciò che osserva Platone nel Fedro, a proposito di chi scrive sull’arte dei discorsi. La preoccupazione dominante del retore è quella di suggerire ogni volta la scappatoia argomentativa appropriata, rassicurando continuamente il lettore che seguendo i suoi consigli non rimarrà mai a corto di argomenti, anzi ne avrà a disposizione in abbondanza. I verbi euporein (e il suo opposto aporein) e lambanein, e il sostantivo euporia (e aporia) sono tra i termini più ricorrenti ed emblematici di questo trattato che si propone come guida, come repertorio pratico, come strumento per comporre discorsi vincenti; la loro frequenza, così come quella delle preposizioni ek e apo seguite dal genitivo, e degli avverbi hothen e pothen, per indicare la fonte da cui attingere, sottolineano la dimensione euristica, e talora anche teorica, del trattato. Il ricorso a tutti i possibili argomenti, quali essi siano, e soprattutto la presentazione di una tecnica che guida l’oratore a sostenere una posizione, in ambito deliberativo, o a difendere una causa di qualsiasi natura, giusta, ingiusta o dubbia, sono stati oggetto di critica già nell’antichità. L’eristica e la retorica dei sofsti non godevano di buona fama, ma erano messe in pratica oltre che dagli oratori, nelle assemblee e nei tribunali, anche dagli storici, soprattutto nei discorsi che essi attribuiscono ai loro personaggi, dai comici che vi ricorrono sicuri del successo di queste tirate, dai tragici che rifettono abitudini, orientamenti e tendenze culturali del tempo151. Anche un lettore moderno, pur consapevole delle tecniche, dei rischi e dei tranelli della comunicazione, e del basso livello cui può arrivare il dibattito quotidiano o politico, può rimanere sconcertato, soprattutto se pensa

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allo svolgimento di una causa giudiziaria, ma anche incuriosito, se non disorientato, dalla disinvoltura con cui il retore propone ogni volta una soluzione, prospettando in aggiunta quella successiva, di riserva, se la prima non ha successo, e così via fno a che non siano state esaurite tutte le possibili eccezioni, secondo una particolareggiata, seppur elementare, casistica. Questa casistica si basa infatti su un calcolo dell’utilità e della convenienza, nelle singole situazioni, e non implica una valutazione del caso particolare attraverso il criterio dell’epieikeia nell’intento di smussare o risolvere eventuali confittualità; d’altra parte solo raramente, nella Retorica ad Alessandro, si illustrano casi di contrasto fra leggi o principi152. Potremmo dire, con Platone, che i suggerimenti dati dal nostro retore mirano alla persuasione «che fa credere» e non a quella «atta a insegnare intorno al giusto e all’ingiusto»153. normalmente, si prescinde da considerazioni riguardanti la verità o la correttezza, in sé, di ciò che ci si propone di dire o di fare (il che non implica il trascurare le regole logiche): i problemi connessi con l’etica sono assenti. Il vero, il giusto o l’utile per la comunità vengono invocati solo come argomenti per sostenere e far valere il proprio punto di vista, in una particolare contingenza, più che come criteri oggettivi di valutazione e di riferimento. Ma proprio questa trattazione volta a scopi pratici, e che solo di rado si eleva a teoria o a considerazioni di merito, che non ha alcuna ambizione di proporre modelli ideali di vita politica (tranne delineare vagamente un comportamento coerente fra vita e parola), nel senso più ampio e originario del termine, e dove non c’è nessuna tensione tra ciò che è (ciò che gli oratori fanno) e ciò che dovrebbe essere, data la concentrazione sul ‘deve’, ci introduce in un sistema di comportamenti che dovevano essere diffusi, di procedure correnti, di valori condivisi.

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La rifessione flosofca e giuridica lascia tuttavia in essa le sue pur deboli tracce; sarà interessante notare come nozioni etiche ormai radicate, e principi considerati dai Greci una loro conquista siano associati e talvolta banalizzati in una sorta di morale pragmatica e convenzionale, che certamente il trattato rispecchia, e che non è il frutto isolato di un autore, o di una scuola. L’ampio corpus delle orazioni deliberative, epidittiche e giudiziarie, e molti discorsi che gli storici mettono in bocca ai loro personaggi, confermano d’altra parte l’impostazione della Retorica ad Alessandro, volta a considerare l’effetto immediato di ciò che si dice, in una determinata situazione, di fronte a un uditorio. Meriterebbe inoltre un approfondimento la nozione di ‘utile’ (per sé e per la città, o per la città), spesso ricorrente insieme con quella di ‘giusto’, come in alcuni discorsi degli storici greci154. Aristotele, nella Retorica, oppone un parlare apo dianoias a un parlare apo proaireseos: «non si deve parlare per un calcolo, come fanno gli oratori di oggi, ma come se si trattasse di un intento morale: dire non “Io volevo”, o “Ho scelto così”, ma “Anche se non ne traggo alcun guadagno, è meglio così”, poiché il primo è il modo di esprimersi di un uomo prudente, il secondo quello di un uomo di valore, in quanto è proprio di un uomo prudente perseguire il proprio utile, di un uomo di valore il bene. e se non sembra credibile, si deve aggiungere la causa, come fa Sofocle. un esempio è il passo dell’Antigone, dove essa dice di preoccuparsi più del fratello che del marito o dei fgli, poiché se questi muoiono se ne possono avere altri: “Quando invece la madre e il padre sono scesi nell’Ade,/ non può nascere un altro fratello”. Se non hai una causa da addurre, di’ almeno di non ignorare che quel che affermi è incredibile, ma che tale è la tua natura, poiché gli uomini non

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credono che qualcuno faccia qualcosa di sua spontanea volontà se non per interesse personale»155. In un altro passo, egli collega l’ ‘utile’ con il genere deliberativo, il ‘giusto’ con quello giudiziario, il ‘bello, nobile’ con quello epidittico: to sympheron (o il suo contrario, to blaberon), to dikaion (o to adikon), to kalon (o to aischron) sono tre diversi ‘fni’ dei tre generi156. «un indizio del fatto che per ognuno di questi generi il fne è il suddetto è il seguente: sugli altri argomenti talvolta si può anche non discutere, come, ad esempio, chi sostiene una causa può non contestare che un fatto sia accaduto o abbia provocato un danno, ma non ammetterebbe mai di aver commesso ingiustizia: non ci sarebbe infatti bisogno di un processo. Analogamente, chi consiglia spesso tralascia il resto, ma non potrebbe ammettere di dare consigli svantaggiosi o di dissuadere da cose utili, mentre spesso non si preoccupa per nulla del fatto che sia ingiusto ridurre in schiavitù i vicini o chi non ha commesso alcun torto. nello stesso modo, chi loda o biasima non prende in considerazione il fatto che uno abbia compiuto azioni utili o dannose; spesso, tuttavia, si può anche lodare qualcuno perché, tenendo in scarso conto il proprio vantaggio, ha fatto qualcosa di bello, come, ad esempio, si loda Achille perché venne in soccorso all’amico Patroclo, pur sapendo di dover così morire, mentre avrebbe potuto vivere. Per lui una simile morte era più bella, anche se il vivere costituiva l’utile»157. nella Retorica ad Alessandro non esiste una ripartizione di questi, e di altri predicati (il legale, il piacevole, il facile) per genere del discorso, ma semmai per specie; nella pratica, il ricorso a essi è dettato dalla contingenza158. d’altra parte, anche Aristotele ammette un uso ancillare dei predicati, all’interno dei vari generi, subordinato a quello proprio di ognuno di essi159. Più generalmente,

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in Aristotele emergono l’esigenza di giusti equilibri fra atteggiamenti diversi e la ricerca di distinzioni fra comportamenti o inclinazioni non sempre necessariamente in contrasto, fra il giusto e ciò che sembra giusto160. In entrambe le opere si conferma in ogni caso il potere emotivo che dovevano esercitare sul pubblico il sentimento dell’interesse e del bene della polis, ben radicato nel pensiero greco, e la loro relazione con l’idea del giusto. L’approfondimento di questi aspetti, affrontati dai commentatori soprattutto riguardo a erodoto e a tucidide, non può ovviamente non tener conto di un’ampia problematica concernente l’etica greca, le concezioni sulla giustizia e sull’utilità pubblica, sul bene della città, in cui, almeno idealmente e in alcune fasi storiche, si identifca il bene dell’individuo; più generalmente, la questione della giustizia ha per i Greci un legame stretto con il cosmo, in quanto ordine e proporzione161. nel caso degli storici, inoltre, vi sono implicate la visione che essi hanno dell’agire umano in generale, la volontà di ‘caratterizzare’ i personaggi, attraverso i quali lo scrittore veicola idee e convinzioni personali, le fnalità narrative e argomentative, che possono variare per i singoli personaggi, e l’utilizzazione di tecniche retoriche, il gioco di assimilare o contrapporre, di defnire e ridefnire, senza per questo che la storiografa sia tout-court riducibile alla dimensione retorica, tuttavia in essa non secondaria162. ogni volta si dovrà valutare attentamente quale elemento prevalga, quale sia l’intento dell’autore e che cosa voglia comunicare al lettore o all’ascoltatore. In modo meno complesso, ma non meno interessante, la Retorica ad Alessandro ci pone di fronte all’essenzialità e alla centralità di alcune nozioni, e contemporaneamente alla loro banalizzazione, e alla loro riduzione a strumenti argomentativi in vista dell’effcacia del discorso, facendo-

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ci intravedere una prassi consuetudinaria nei rapporti tra individui e tra stati. Il prevalente interesse per l’effcacia del discorso, che trova una misura nell’impatto che esso produce sull’ascoltatore, inducendolo ad accogliere il punto di vista dell’oratore, se costituisce un orizzonte argomentativo ristretto, si pone tuttavia sulle tracce di una più ampia e tradizionale ricerca sul rapporto tra linguaggio e comunicazione, sugli aspetti antropologici, psicologici e sociologici della trasmissione e della ricezione dei messaggi, sulla necessaria fessibilità e consapevolezza che l’oratore o il poeta o lo scrittore deve avere, considerando anche i contesti di fruizione e la destinazione dell’opera. Così si apprezzano, anche nella Retorica ad Alessandro, alcune pur fugaci osservazioni di psicologia empirica, del tutto condivisibili; al retore interessa principalmente insegnare come modulare opportunamente il discorso; le problematiche etiche e logiche sono assenti: il rispetto delle regole del ragionamento è solo funzionale a una oculata presentazione che mira alla vittoria, e che è orientata dal fuido criterio dell’eikos. Il discorso è notoriamente assimilato, nella cultura greca e in altre culture, a una ‘via’, a un ‘percorso’, secondo una metafora viva anche oggi. Aristotele teorizza e amplia questa assimilazione spaziale attraverso il concetto di to eusynopton, di ‘ciò che può essere facilmente abbracciabile con lo sguardo’, e lo applica al discorso che deve avere un inizio, una fne e una determinata dimensione ‘organica’, che permettano all’ascoltatore di capire, di ricordare e di seguire con interesse: il discorso è nello stesso tempo un sentiero che si segue passo passo, e un’area che si deve poter dominare dall’alto, integrando un punto di vista odologico e uno cartografco dello spazio163.

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Questa profondità epistemologica, programmaticamente diretta alla mathesis dell’ascoltatore, ma implicante altri processi ed effetti della comunicazione, è del tutto assente nella Retorica ad Alessandro, in cui tuttavia l’attenzione alla disposizione delle parole, all’ordine degli argomenti, anticipati o rinviati, alla scelta dei momenti opportuni di dire o non dire, presuppone che l’oratore abbia per così dire in mente una mappa del discorso, e lo diriga nel senso voluto, orientandolo avendo presente il fne, cioè la persuasione. La lettura di questo trattato, essenziale e schematico, quasi irrigidito nella sua impostazione empirica, ci permette in ogni caso di cogliere interessanti sviluppi della retorica, non solo nel confronto con Aristotele o con la tradizione precedente. Forse proprio la sua dimensione empirica e il suo scopo pratico, senza ambizioni teoriche, consentono il sedimentarsi in esso di una topica e di procedimenti di varia provenienza, sia tradizionali sia in evoluzione, e la presenza di abbozzi di teorie anonime, che solo in seguito saranno connesse con precise fgure di retori. La diffcoltà di collegamenti certi è data non soltanto dalla nostra limitata conoscenza della retorica prearistotelica, ma talora anche dal modo di esprimersi del retore, talora confuso e poco chiaro, oltre che dai problemi testuali, cui si è fatto cenno. È inoltre da tener presente il possibile contributo di altre discipline, oltre alla retorica, considerando anche la varia formazione di chi affronta questi temi, almeno fno al IV secolo compreso. I commentatori hanno solitamente dato rilievo ad alcuni passaggi che sembrano consolidarsi in questo trattato, per esempio il passaggio dall’eikos all’ethos, che implica un approfondimento della correlazione fra una tipologia dei differenti aspetti della condizione umana e la prevedibilità o non prevedibilità dei comportamenti.

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Strettamente connessa è la questione della causa o della motivazione di ciò che si fa, affrontata in modo particolare da Aristotele, che molto probabilmente mette ordine in un insieme di rifessioni antecedenti, inserendole in un sistema coerente: il tradizionale dibattito sembra trovare eco nel ripetuto consiglio del retore di far ricorso al motivo della ‘sfortuna’, della ‘cattiva sorte’, che giustifca anche l’appello al perdono. Probabilmente derivato da una teoria antica, e ben attestato nella pratica oratoria, è il procedimento di accumulazione164; in gran parte canoniche dovevano inoltre essere ormai la teoria dell’elogio165, e la partizione del discorso166, rispetto alla quale è netta la differenza con Aristotele167, e delle pisteis. tra le ricerche anonime che preparano il terreno a teorie destinate a prendere corpo dopo Aristotele, e ad assumere un posto considerevole nell’insegnamento dei retori, viene ricordata la teoria detta degli ‘stati della causa’, di cui si avrebbero delle tracce nella Retorica ad Alessandro, e negli oratori168. A questa indubbia rilevanza della Retorica ad Alessandro, nell’ambito di una tecnica in evoluzione, sospesa tra arcaismo e innovazione, in bilico fra teorizzazione e insegnamento pratico attraverso modelli, in un importante momento di passaggio, vanno aggiunti altri aspetti di sicuro interesse: la nozione di prova, di indizio, di segno, la teoria dell’argomentazione e un abbozzo di teoria del discorso169, anche se le questioni stilistiche, che hanno spesso un predominio in altre opere di retorica, sono invece qui affrontate non tanto in funzione dell’eleganza e dell’accuratezza espressiva, quanto dell’effcacia persuasiva del discorso: il trattarne rientra nella più generale ricerca di tutti gli espedienti di cui può disporre l’oratore per avere punti di forza.

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Mule «fglie d’asini» o «fglie delle cavalle dai piedi rapidi come la tempesta». L’arte di comunicare e la potenza della parola L’arte della parola (rhetorike techne) non è un’invenzione dei Greci, come è ovvio, ma, diversamente da quanto è accaduto per altri popoli antichi, nella loro cultura essa è appunto techne, un sapere cioè fondato su regole e metodo, oggetto di indagine teorica, di valutazione epistemologica, e di dibattito sulla sua essenza e sulla sua fnalità: la rifessione sulla parola si integra con quella sul suo dinamico rapporto con la realtà, sull’essere e sul pensiero, e sui processi della conoscenza e della comunicazione, sui rapporti individuali e sociali. La problematica interazione fra pensiero, parola e realtà, la loro corrispondenza o la loro discrasia sono già note al dibattito antico e all’espressione dei poeti. tutte le technai dell’antica Grecia hanno costituito, fn dal loro imporsi come tali e dal loro primo confuire nella redazione di manuali o di trattati scritti, materia di confronto fra impostazioni diverse, confronto destinato a continuare nelle epoche successive, e a riemergere con sempre rinnovata ricchezza, fno a oggi. La storia della retorica, in particolare e in modo peculiare, è percorsa da una serie di dicotomie, pur all’interno di una sostanziale unitarietà della disciplina e di una fondamentale identità, imperniata su un sistema di norme di pensiero e di scrittura, sull’interazione con la vita politica e sociale, con le problematiche flosofche, estetiche ed etiche. La prima differenziazione riguarda proprio l’atteggiamento di chi nell’antichità esprimeva diffdenza verso di essa, opponendole la scientifcità e la verità della dialettica e della logica, o di chi esaltava invece la sua determinante funzione nella formazione culturale ed etica

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dell’uomo, nella paideia: il ben noto contrasto di opinioni fra Platone e Isocrate ne è un immediato esempio. Questo diverso atteggiamento di Platone e di Isocrate ha in realtà una comune radice, cioè il riconoscimento (da parte di entrambi, ma con diverse conseguenze epistemologiche) del potere della parola, ben espresso già dai poemi omerici; ne deriva una consapevolezza degli effetti positivi o negativi del suo buono o cattivo uso, della varietà dei mezzi a disposizione dell’oratore, in vista di un fne da raggiungere a ogni costo e identifcato, nell’opinione prevalente, con la ricerca del pieno assenso dell’uditorio170. La parola prende corpo e fnisce con l’acquistare autonomia rispetto alla realtà, alle cose e al pensiero stesso. La parola e l’azione defniscono gli ambiti che caratterizzano personaggi ed eroi omerici, attraverso una complementarità più volte ribadita, per cui un eroe eccelle ‘necessariamente’ come oratore e ‘attore’ (nel senso etimologico del termine): nei poemi il racconto e il discorso diretto si alternano in modo signifcativo, e numerosi sono i termini che designano differenti tipi di discorso e modi in cui si prende la parola; l’importanza della parola in omero è un tratto ben sottolineato anche dagli antichi171. Quando si deve scegliere che cosa fare o dire, o tra il fare e il dire172, si valuta, secondo le modalità espressive della ‘deliberazione fra sé e sé’, proprie dell’epica e riformulate poi nella tragedia, quale risoluzione sia più effcace nella singola circostanza in cui ci si trova. Attorno al duplice atteggiamento verso la retorica ruotano inoltre altre fondamentali questioni: retorica come techne, come episteme o come tribe; come teoria o come pratica; come tecnica che si può apprendere e trasmettere o come abilità che si possiede ‘per natura’; come arte o scienza del ben parlare o del persuadere,

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del comunicare o del convincere; come fertile discussione e ‘amuleto di giustizia’, o come subdolo raggiro che ‘nasconde l’arte con l’arte’, miranti rispettivamente alla verità e alla giustizia, o alla vittoria, al di là del ‘giusto’ e del ‘vero’173. Controverso è stato anche il suo rapporto con la politica: la retorica è stata uno strumento di manipolazione delle menti, di indottrinamento, di esercizio di forza da parte del potere politico o religioso, oppure una manifestazione evidente della libertà di parola, e quasi fattore di libertà a livello individuale, anche a causa del valore paideutico che alcuni le hanno riconosciuto. tutto ciò dipende ovviamente dai periodi storici, e dai diversi regimi politici che si sono succeduti nel corso del tempo. Per l’antichità, e pensando soprattutto alla Grecia e ad Atene, si può dire che la retorica si è identifcata maggiormente con il dibattito e con il diritto di espressione: la persuasione diventa oggetto di ricerca epistemologica, che si prefgge scopi ed effcacia immediati, ma anche un modo ‘politico’ (in senso greco) di arrivare a una deliberazione in comune (nei limiti in cui questo è possibile per il sistema democratico ateniese, per esempio), di affrontare nei e coi discorsi i confitti di interessi e di idee, e i rapporti di forza presenti in tutte le società. Laurent Pernot insiste sull’affermarsi della retorica «come il modo civile e umano di gestire questi confitti e questi rapporti di forza», anche se talora essi sono messi in gioco e acuiti proprio per mezzo dei discorsi174. Più generalmente, la retorica greca esprime, a livello verbale, lo spirito agonistico tipico della civiltà greca, come le gare tra i poeti, le contrapposizioni teoriche tra flosof e tra scienziati: l’agon retorico è possibile all’interno dello spazio regolato della polis, in cui domina il logos, spazio protetto e separato dal mondo incolto e selvaggio.

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un’altra caratteristica molto attuale di alcuni trattati antichi di retorica è che essi sono anche trattati di estetica: il discorso è valutato dal punto di vista stilistico, oltre che per la sua effcacia persuasiva. Considerazioni di carattere tecnico riguardano la struttura del periodo, la concatenazione e la scelta delle parole; i consigli si associano spesso all’esemplifcazione, ricorrendo a passi di poeti o di prosatori, come è ben evidente per esempio dal trattato sullo Stile di demetrio, dalla Composizione verbale di dionigi di Alicarnasso, o dall’anonimo trattato sul Sublime. di tutto ciò è carente, come si è accennato, la Retorica ad Alessandro, che cita un solo esempio letterario (il Filottete); anche in essa sono tuttavia presenti abbozzi di teorie o nozioni riguardanti il periodo e il lessico. Aristotele scrive una Poetica, una Retorica, una Politica: oggi la formula ‘retorica di’, ‘rhetoric of’ può ricorrere nel titolo di libri e saggi, che sarebbero stati intitolati, in un passato anche recente, ‘poetica’, ‘politica’, ‘teoria’, ‘ideologia’175. La retorica in parte recupera la funzione di strumento critico per studiare e valutare le forme di espressione, il discorso, e in parte rinnova quella di analisi del pensiero in campi diversi, in contrasto con l’accezione negativa e logora della parola retorica, quale «modo di scrivere e di parlare ampolloso e risonante, enfatico e sostanzialmente vuoto, privo o povero di impegno intellettuale, civile e morale», e anche in riferimento a modi di agire e di comportarsi, visti negativamente176. La realtà epistemologica della retorica appare più complessa e stimolante; così anche gli studi di retorica antica hanno oggi ampliato i loro orizzonti esplorativi. «Questo sviluppo si può spiegare con due ragioni principali. da una parte, esso si inserisce in un progresso generale delle scienze dell’Antichità, il quale, intensifcando le ricerche in tutti i campi, con i mezzi e le esigenze

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attuali, favorisce fra le altre cose l’esplorazione metodica di questo settore della cultura antica che una volta era stato un po’ trascurato e che ancora non è conosciuto completamente. La storia della retorica è una nuova angolazione per comprendere meglio l’Antichità. d’altra parte, la retorica antica per sua stessa natura entra in consonanza con alcune preoccupazioni del pensiero moderno e postmoderno, per esempio lo strutturalismo, il formalismo, l’intertestualità, il linguaggio delle arti, la storia delle mentalità, la nuova storia letteraria, l’etica, la politica: da qui il favore attuale di cui gode [...]. Il favore della retorica non è d’altronde limitato agli studi di antichistica; si può osservare anche a proposito di altri periodi. La retorica antica da questo punto di vista ha lo statuto privilegiato di fonte e di modello»177. L’obiettivo della vittoria e non della verità è considerato da thomas Hobbes una caratteristica della retorica178; allo stesso modo Arthur Schopenhauer vede nella dialettica eristica, opposta alla logica e rigorosamente separata da essa, niente altro che una tecnica dell’argomentazione fnalizzata a ottenere la vittoria nel contendere, senza curarsi della verità: alcuni ‘stratagemmi’, che egli espone nel trattatello solitamente indicato, in italiano, col titolo L’arte di ottenere ragione, potrebbero essere messi a confronto con la Retorica ad Alessandro, e soprattutto con la sua impostazione. egli include «nella dialettica di Aristotele sofstica, eristica e peirastica», e la defnisce «come l’arte di ottenere ragione nel disputare». Se si ha ragione nella questione che si discute si è avvantaggiati, ma questo non è necessario: l’arte offre «altri stratagemmi, i quali, proprio perché sono indipendenti dall’avere ragione oggettivamente, possono anche essere adoperati quando si ha oggettivamente torto: e se le cose stiano proprio così,

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non lo si sa quasi mai con assoluta certezza. Il mio punto di vista, dunque, è che la dialettica va separata dalla logica più nettamente di quanto abbia fatto Aristotele, lasciando la verità oggettiva, nella misura in cui essa è formale, alla logica e limitando la dialettica all’ottenere ragione: e, in secondo luogo, che sofstica ed eristica non vanno separate dalla dialettica così come fa Aristotele: poiché questa differenza riposa sulla verità materiale oggettiva, sulla quale non possiamo venire in chiaro con certezza preventivamente, ma dobbiamo dire con Ponzio Pilato: “che cos’è la verità?”. Infatti veritas est in puteo: ejn buqw≥` hJ ajlhvqeia, secondo il detto di democrito (diog. Laert., IX, 72). È facile a dirsi che nel contendere non bisogna avere di mira altro se non il portare alla luce la verità: il fatto è che non si sa ancora dove essa sia: si viene fuorviati dagli argomenti dell’avversario e anche dai propri. del resto re intellecta, in verbis simus faciles: poiché si è soliti prendere nel complesso il termine dialettica come equivalente a logica, vogliamo chiamare la nostra disciplina dialectica eristica»179. nell’esporre uno degli stratagemmi (n. 21), si afferma: «quello che importa non è la verità, ma la vittoria»180. Aristotele in effetti enumera e discute, nella Retorica, un ampio repertorio di mezzi di persuasione, come fa l’autore della Retorica ad Alessandro, nella consapevolezza che l’argomentazione diversa di uno stesso tema o la presentazione diversa di uno stesso soggetto produce effetti differenti, come dimostra il verso di Simonide, citato da Aristotele: chiamare le mule fglie delle cavalle dai piedi rapidi come la tempesta, invece che fglie di asini, rende le mule un soggetto degno di un carme di lode181. dal punto di vista aristotelico, la retorica «può essere defnita la facoltà di scoprire il possibile mezzo di persuasione riguardo a ciascun soggetto. Questo compito infatti

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non appartiene a nessun’altra tecnica, poiché ognuna di esse si prefgge di insegnare e di persuadere in relazione alla materia che le è propria: a esempio la medicina intorno alla salute e alla malattia, la geometria intorno alle proprietà delle grandezze, l’aritmetica intorno ai numeri, e allo stesso modo anche per le altre tecniche e scienze. La retorica, invece, per così dire, sembra essere in grado di scorgere il mezzo di persuasione intorno a qualsiasi soggetto proposto. Per questo possiamo dire che essa non possiede una tecnica che riguardi un genere particolare e defnito di soggetti»182. esiste per Aristotele, come per gli oratori, una dimostrazione retorica, anche se egli critica, come Platone, i loro procedimenti abituali; in ogni caso, la teoria o la concezione della dimostrazione esposta negli Analitici secondi non è l’unica possibile nell’indagine scientifca. nella Retorica egli elabora una teoria dimostrativa, incentrata sul concetto di entimema, diversa dal sillogismo per la forma, per le premesse da cui parte, e per rigore metodico: essa non porta a conclusioni irrefutabili, ma contribuisce al formarsi di un’opinione su ciò che è oscuro e controverso. L’indagine teorica e l’applicazione pratica dei due procedimenti, nei diversifcati ambiti dell’indagine aristotelica costituiscono una questione complessa e aperta; qui interessa mettere in rilievo la duttilità del metodo in relazione all’oggetto di studio, e il contributo della retorica. Così, si delineano il carattere teorico della retorica, la nozione del ‘possibile’, basilare per comprendere lo statuto epistemologico della retorica, e anche gli aspetti comuni alla retorica e alla dialettica, come si dice proprio all’inizio del trattato, in cui la relazione tra retorica e dialettica è espressa dal termine antistrophos: «entrambe riguardano oggetti la cui conoscenza è in un certo qual modo patri-

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monio comune di tutti gli uomini e che non appartengono a una scienza specifca. da ciò segue che tutti partecipano in un certo senso di entrambe, perché tutti, entro un certo limite, si impegnano a esaminare e sostenere un qualche argomento, o a difendersi e ad accusare»183. La maggior parte degli uomini, continua Aristotele, fa tutto ciò «o senza alcun metodo, o con una familiarità che sorge da una disposizione acquisita – oiJ me;n eijkh≥` tau`ta drw`s in, oiJ de; dia; sunhvqeian ajpo; e{xewı»; da qui la necessità, per chi affronta il problema da flosofo, e non semplicemente da tecnico, di individuare un metodo, esaminando ‘la causa’ per cui «raggiungono il loro scopo tanto quelli che agiscono con familiarità quanto quelli che lo fanno per impulso spontaneo»184. In Aristotele l’analisi oggettiva delle risorse offerte dalla techne, studiate in sé e per sé, e prescindendo, in un primo momento, da considerazioni riguardanti la ‘verità’ del contenuto delle proposizioni, si presenta come necessità metodica: gli strumenti della retorica diventano ‘oggetto’ di indagine, come qualsiasi altro strumento. Ciò tuttavia non lascia al margine il ‘fne’ della ricerca, che va oltre quello del risultato immediato, né l’esigenza etica: le nozioni di vero e di giusto non costituiscono, come nella Retorica ad Alessandro, dei semplici predicati su cui far leva, ma sono parametri di riferimento adattati all’oggetto, ‘adeguati’ alla situazione reale. Queste nozioni non sono pertanto in contrapposizione con quelle di eikos, di endoxon, di epi to poly, né la verità esclude gli endoxa: «È funzione della stessa facoltà scorgere il vero e ciò che è simile al vero – tov te ga;r ajlhqe;~ kai; to; o{moion tw≥` ajlhqei` th`~ aujth`~ ejsti dunavmew~ ijdei`n, e nel contempo gli uomini hanno una suffciente disposizione naturale per il vero e nella maggior parte dei casi colgono la verità. Pertanto, un’abile disposizione a mirare al probabile è propria di

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una persona che è altrettanto abile nel mirare alla verità – dio; pro;~ ta; e[ndoxa stocastikw`~ e[cein tou` oJmoivw~ e[conto~ kai; pro;~ th;n ajlhvqeiavn ejstin»185. La retorica è una techne che riguarda i mezzi per argomentare, ma non costituisce di per sé un sapere sugli argomenti trattati caso per caso186; ciò comporta sia che in essa debbano confuire altri saperi (è stretta in Aristotele, come si detto, la relazione fra retorica e flosofa), sia che essa possa essere utile a molti altri saperi: la conoscenza delle regole e degli schemi dell’argomentazione retorica investe anche nell’antichità, come ben noto, altre technai (per esempio la medicina), e in genere ogni esposizione, orale o scritta, volta alla comunicazione o alla persuasione. La rivalutazione della retorica ai nostri giorni, non più relegata allo studio delle fgure e dei tropi impiegati in ambito esclusivamente letterario, o solo considerata in relazione alla stilistica, scaturisce anche da questo aspetto còlto da Aristotele: il campo della retorica è estensibile (dato che non ha un oggetto determinato) a tutte le forme di discorso (letterario, scientifco, flosofco, giuridico, artistico), ad altri e fondamentali aspetti del linguaggio (stretta è la relazione fra linguistica e retorica) e della comunicazione, e dell’espressione in genere, legandosi strettamente alla società e alle ideologie, ai gusti, alle forme politiche e alle istituzioni del momento. La tendenza predominante è quella di analizzare o verifcare l’effcacia e la correttezza del discorso, dal punto di vista scelto e per un fne determinato; il problema etico e flosofco della sua validità, o della sua conformità a determinati valori (il vero, il giusto, l’utile prima di tutto), si pone anch’esso in ogni epoca, anche se con modalità e fnalità diverse. L’accento posto sulle cause, dovuto all’impostazione flosofca che Aristotele dà alla propria indagine, oltre a essere un requisito essenziale perché un sapere possa co-

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stituire una techne, e non una semplice raccolta di consigli o di procedimenti, come i numerosi manuali retorici cui Aristotele fa spesso riferimento, e come in gran parte la stessa Retorica ad Alessandro testimonia (pur con qualche signifcativa eccezione), comporta sia un approfondimento delle potenzialità dei singoli mezzi, sia interessanti osservazioni sulle dinamiche della ricezione, sulle complesse interazioni tra oratore, discorso e pubblico, dipendenti da una molteplicità di fattori, di situazioni esterne e di disposizioni interiori. Le tre variabili, di cui ha concretamente tenuto conto tutta la produzione letteraria antica, in poesia e in prosa, non sempre emergono nelle diverse teorie con la stessa importanza e con lo stesso rilievo. La Retorica ad Alessandro privilegia il punto di vista dell’oratore, cui si danno linee guida e suggerimenti tecnici: le altre due sono strumento (discorso) e oggetto (pubblico e giudici) di persuasione. uno dei contributi più stimolanti della Retorica aristotelica appare la consapevolezza, in essa variamente espressa, della complessa dinamica della comunicazione: l’effcacia della parola non è tanto considerata in sé, o nei suoi fni immediati, ma valutata nel processo comunicativo; in quest’opera sono inoltre messe a frutto anche le ricerche condotte nei trattati sull’Anima e sulla Percezione, nei trattati biologici, nei trattati di etica e di logica. Confuiscono così in essa lo studio delle passioni e dei caratteri, la lista delle aretai, la teoria dell’entimema, cioè del sillogismo tipico della retorica, la nozione di eudaimonia e di phronesis. L’esposizione delle tecniche di persuasione e le partizioni del discorso, che costituiscono il nucleo dei manuali criticati da Platone nel Fedro, diventano analisi del perché un discorso risulta persuasivo, e tipologia del discorso, che astrae dalla minuzia delle parti e coglie l’es-

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senziale: l’impostazione flosofca si salda con la ‘neutralità assiologica’ della tecnica187. In questo modo Aristotele mostra anche la possibilità di un’unità fra teoria e pratica, che doveva essere naturale nel modo di pensare antico, pur se esistevano, com’è ovvio, esperienze individuali e abilità diverse. Questa interazione e questo dialogo costante, fra i due livelli, possono essere effcacemente condensati da un’affermazione di Laurent Pernot: il fenomeno retorico, nella sua specifcità, «è consistito precisamente nel cercare di pensare l’attività del discorso come una totalità complessa, che va dal problema intellettuale all’atto sociale»; per gli antichi, «la retorica era un sapere produttivo, un corpo di conoscenze e di regole che permetteva una performance verbale effcace»188. retorica come teoria e pratica della comunicazione, oltre che della persuasione, può essere una più comprensiva e generale defnizione della retorica antica, e attualissima189. Aristotele concilia notoriamente opposte valutazioni della retorica, in bilico fra techne e episteme, fra eristica e flosofa, e ci riesce anche ancorandosi all’analisi platonica sull’evento comunicativo. La diffusione scritta del sapere, attraverso il libro, tra il V e il IV secolo indusse Platone a rifettere sul nuovo strumento di comunicazione, sulla parola scritta, responsabile di un indebolimento della memoria, e incapace di rispondere, di entrare attivamente nel dinamismo della dialettica, più inerente alla parola parlata, secondo il punto di vista espresso soprattutto nel Fedro. Per questo, pur ricorrendo alla scrittura (in apparente contrasto con la sua posizione, come notarono già gli antichi), egli non rinunciò al dinamismo della parola parlata: scelse il dialogo come struttura del discorso scritto e si servì del mito per ‘narrare’ le pro-

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prie idee, riconoscendo a esso un’effcacia comunicativa nell’ambito della vita sociale, un potere di seduzione e di persuasione. Si tratta di un mito da cui è tuttavia assente ogni elemento mimetico, e volto a contenere i nuovi valori della politeia: «dunque un mito come metalinguaggio appropriato a un contenuto nuovo, come travestimento seduttivo della rifessione flosofca»190. Platone analizza diversi tipi di discorso in relazione a diversi tipi di uditorio, a differenti modalità di trasmissione e di ricezione dei messaggi, destinati a ‘imprimersi’ nella mente, in modo subdolo e spesso occulto: da qui, la necessità di un controllo, perché gli schemi scelti parlino alla razionalità di chi ascolta, e non alla sua emotività; e la distinzione fra un discorso dialettico dimostrativo, volto alla verità, e il discorso persuasivo, che porta alla doxa, alla passiva ricezione, a una progressiva assuefazione, che ostacola ogni avanzamento, e che si vale essenzialmente di una retorica «non dell’argomentazione, ma dell’intregrazione culturale»191. L’analisi delle dinamiche della comunicazione e della loro infuenza sulle menti da parte di Platone non è l’unica nel mondo antico, ovviamente, ma resta forse la più incisiva e penetrante a livello psicologico (e psicanalitico, potremmo dire), sociologico e antropologico, oltre che ‘narratologico’ (distinzione fra diegesi, mimesi, discorso misto). Aristotele, come si è detto, si pone sulla sua scia soffermandosi costantemente sugli aspetti di ricezione e di comunicazione, pur rivalutando la mimesis, in quanto mathesis, e la retorica come tecnica basata sulle pisteis. Parallelamente all’affermarsi della retorica come arte e strumento della comunicazione, si consolida il concetto di retorica come comunicazione ingannevole e deviante, sottilmente pericolosa e inquietante, e si diffonde il topos della retorica dell’anti-retorica192 (accuse rivolte ai com-

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positori di discorsi scritti e a coloro che insegnano ad altri come difendersi, e punizioni per chi inganna, trovano un rifesso anche nel nostro trattato), che ha avuto espressione letteraria soprattutto nella tragedia, nella commedia e nella storiografa, e che ha infuito sullo sviluppo della teoria politica antidemocratica, e sul giudizio dei flosof. Già in omero ci sono d’altra parte spunti di metaretorica, di metafction, di consapevolezza e di (auto)rifessione sul doppio uso della parola, in direzione della verità o della menzogna, sulla sua ambiguità, e sulla bugia in vista di un ‘nobile’ fne; le Muse di esiodo dichiarano esplicitamente: «noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, ma sappiamo, quando vogliamo, cantare cose vere»193. Il collegamento tra retorica e democrazia è un luogo comune spesso ribadito, che rischia tuttavia di lasciare in ombra altri aspetti, e di semplifcare un processo più complesso: il problema è strettamente connesso con la controversa questione delle origini della retorica, che tende, progressivamente e più profcuamente, a essere sostituita o in ogni caso integrata con un’accurata indagine sulla ‘retorica prima della retorica’194. Mogens Herman Hansen dà rilievo a questo collegamento: «La democrazia ateniese era una democrazia assembleare; inoltre, l’elevato numero delle persone presenti nel tribunale popolare non meno che nell’Assemblea, faceva sì che i dibattiti consistessero necessariamente in una serie di discorsi rivolti a un uditorio da parte di cittadini politicamente attivi. Il potere politico, quindi, era basato sull’eloquenza e la richiesta di eloquenza diede vita a un genere di prosa completamente nuovo, la retorica. La retorica nacque intorno alla metà del quinto secolo a Siracusa e ad Atene, i due pilastri della democrazia in occidente e oriente, e la stretta connessione fra

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politica e retorica si mantenne per tutto il resto dell’antichità. I tre generi della retorica erano tutti politici: l’orazione deliberativa pronunciata davanti all’Assemblea o al Consiglio; l’orazione giudiziaria, davanti al tribunale popolare, e l’orazione per occasioni speciali, come l’orazione funebre di Pericle. Si diffuse quasi subito tra i leader politici l’abitudine di prendere lezioni di retorica, spesso da “sofsti” itineranti, e a partire all’incirca dal 420 a.C. alcuni politici cominciarono a pubblicare i loro discorsi. Lo scopo può essere stato quello di prolungare il dibattito politico fssando un contributo orale in forma scritta. Ma anche quando le questioni politiche e i processi pubblici avevano da tempo perso la loro attualità, le vecchie orazioni continuarono a essere lette come letteratura e come esempi scolastici di eloquenza. Come nel campo architettonico si diffuse una lista delle Sette Meraviglie del mondo, così si diffuse una lista dei Magnifci dieci maestri dell’arte retorica, che erano tutti o cittadini ateniesi (Antifonte, Andocide, Isocrate, demostene, eschine, Licurgo e Iperide) o meteci ateniesi (Lisia, Iseo e dinarco). [...] La maggior parte [delle orazioni] fu scritta per clienti dietro ricompensa; solo poche furono pronunciate dagli oratori stessi e queste, di solito, in processi “politici”. Particolarmente importanti per noi sono le orazioni superstiti di accusa (pronunciate in processi pubblici) per aver proposto decreti anticostituzionali o leggi inopportune; esse infatti contengono lunghi brani relativi alla struttura e al funzionamento delle istituzioni democratiche, e difese ben formulate degli ideali del governo popolare»195. L’indagine sulle origini ha costituito un tema tradizionale degli studi, in questo ambito e in molti altri, come noto, il cui approfondimento ha comportato un arricchimento delle conoscenze, ma talora anche una prospettiva

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troppo limitata per un fenomeno che coinvolge l’attività stessa delle relazioni umane, e che implica la consapevolezza, ben evidente già da omero, dei possibili ‘percorsi’ della parola, e il riconoscimento dell’abilità oratoria come valore, al pari della forza nel combattere. La ‘Persuasione’ (Peiqwv) è la prima delle oceanine, «che sulla terra agli uomini nutrono la giovinezza insieme ad Apollo signore e ai fumi», elencate nella Teogonia di esiodo196; la potnia Peitho è tra le divinità che adornano l’immagine seducente di Pandora, dentro al cui petto «il messaggero Argifonte menzogne e discorsi ingannevoli e indole scaltra pose», destinata a infuire sul destino degli uomini197. In esiodo, sono pertanto compresenti due diverse nozioni di Peitho, come sarà anche in seguito. La Persuasione è «rappresentata nella letteratura e sulle pitture vascolari non solo come nozione letteraria e intellettuale ma anche come personifcazione di una potenza umana e come divinità, provvista di una genealogia mitologica e oggetto di culto nei santuari [...]; essa simbolizza ora la seduzione e l’inganno, ora il rifuto della violenza e una ricerca di equilibrio nelle relazioni sociali»198. Così Pernot, che accenna al posto signifcativo che essa occupa nel lungo periodo che si estende dal mondo omerico al mondo classico (dall’VIII al V secolo), periodo che vide anche l’affermarsi della prosa, e quindi delle condizioni che favorirono ulteriormente non solo il riconoscimento delle potenzialità di un discorso regolato da norme volte a garantirne l’effcacia, ma anche la loro valutazione e trattazione teorica o la loro esposizione manualistica. Il fenomeno istituzionale giudicato più determinante è stato considerato l’avvento della polis; con esso tuttavia non sono tanto da connettere le origini della retorica, praticata e, in una certa misura, concettualizzata già da

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tempo, quanto la sua estensione e la sua caratterizzazione come logos politikos, la sua capillare e pervasiva compenetrazione in tutti gli ambiti della vita sociale e politica, e nelle technai, che si affermano nel contesto della polis, e che affdano le loro conquiste intellettuali e le loro acquisizioni sia all’elaborazione scritta sia al discorso orale, pubblico, in modo particolare ad Atene. tutto il teatro classico, tragedia e commedia, testimonia nel modo più effcace, artisticamente, e più immediato la diffusa consapevolezza del potere della parola, della sua capacità evocativa e ‘rappresentativa’ (la parola scenica ha una precisa funzione); del suo essere strumento ineguagliabile di verità o di menzogna, di suggestione e di persuasione; della sua ambiguità e degli artifci inerenti al suo uso, apprezzati o irrisi e temuti: i personaggi mitici o storici vi fanno ampiamente ricorso nei discorsi con sé stessi, nei dialoghi e nei dibattiti. Considerazioni simili possono valere per il collegamento considerato preferenziale tra retorica, oratoria e regimi democratici; in realtà, anche nei regimi oligarchici vi è spazio per la deliberazione nell’ambito di determinate strutture a questo deputate199. Inoltre, le stesse elegie di Solone (vissuto nel VII-VI secolo) sono veri e propri discorsi politici, in cui egli spiega e difende la propria azione legislativa e politica, esortando i suoi cittadini e attaccando gli avversari o denigratori200. Quando la democrazia diretta ateniese arriva alla sua conclusione, l’attività oratoria non fnisce, ma si trasforma. La differenza non sta nella possibilità o nelle occasioni del ricorso all’orazione, pubblica o privata, ma nelle modalità, situazioni e caratteristiche della sua attuazione. In questo senso l’oratoria ateniese del V e del IV secolo mostra le proprie peculiarità, che il passo di Hansen citato riassume201. tuttavia se il collegamento fra oratoria

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ateniese e democrazia ateniese è un fatto non contestabile, esso non si pone come causa, ma semmai come quadro più ampio e articolato, rispetto al passato, in cui la retorica trova spazio e applicazione: in ogni caso non spiega da solo e non esaurisce la varietà delle forme che assume l’arte della parola; si potrebbe quasi dire che entrambe, oratoria e democrazia, hanno una radice comune nello spirito di confronto, di competizione e di ‘giusta eris’ che anima la cultura greca, e che ne costituisce l’essenza. L’eroe omerico è tale perché sa combattere sia con le armi sia con la parola. La democrazia diretta comportava, come è stato messo più volte in evidenza, che tutti i cittadini aventi diritto potessero partecipare attivamente alla vita politica sia ricevendo incarichi e ricoprendo cariche pubbliche, sia attraverso il voto: la partecipazione a essa era sentita come un valore positivo, era incoraggiata anche con riconoscimenti; il principio di rotazione era, almeno virtualmente, attuato, nel senso che tutti avevano la possibilità di partecipare a turno al governo202. Pur nei concreti limiti di applicabilità di questi principi nelle sedute delle singole assemblee, anche per motivi di spazio e di disponibilità di tempo del singolo cittadino di diritto, le fonti testimoniano quanto discorsi e dibattiti venissero pubblicizzati e richiamassero una folla di uditori (ogni assemblea si trasformava in una forma di spettacolo, come di frequente anche oggi), e quanto fossero chiassose queste adunanze di popolo, di cui l’oratore doveva saper interpretare umori, disposizioni e opinioni, per averne il controllo e per far accettare il proprio punto di vista, come si constata anche dalla lettura della Retorica ad Alessandro203. «Le assemblee non erano costituite solo da cittadini, ma erano attorniate da un ulteriore pubblico di ascoltato-

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ri: gli spettatori si accalcavano non solo intorno ai tribunali e al Consiglio, ma anche intorno all’Assemblea quando lo spazio era troppo ristretto perché tutti partecipassero alla seduta. e quando le sedute erano terminate, la discussione continuava nell’Agora e nel luoghi di lavoro. ogni cosa doveva essere resa pubblica, o oralmente o per iscritto; le assemblee non erano solo organi decisionali, ma anche la tribuna in cui molte questioni erano portate all’attenzione del maggior numero possibile di cittadini – ad esempio, i rendiconti regolari della situazione fnanziaria da parte dei magistrati, i decreti onorifci nei confronti di coloro che si erano resi benemeriti verso la comunità, e gli avvisi relativi a questioni di diritto privato quali le eredità e le “ereditiere” (epikleroi). Presso il Monumento degli eroi venivano affsse proposte di legge, atti d’accusa dei processi pubblici, liste di chiamata alle armi e simili. Leggi, decreti e inventari di magistrati venivano incisi su pietra e collocati in ogni luogo ad Atene e al Pireo: inoltre, nel Metroon, i leader politici potevano consultare tutti i documenti di cui avevano bisogno per le loro orazioni. era un segno distintivo della democrazia avere un codice scritto di leggi che poteva essere letto da tutti; più volte poi nelle iscrizioni viene ripetuta la formula che una proposta o decisione deve essere pubblicata in modo che possa essere letta da chiunque voglia»204. La dimensione scenica, teatrale caratterizza la vita ateniese e corrisponde anche a un’esigenza di visibilità e di controllo, di dire e proclamare l’evidenza, o ciò che si vuole presentare come evidente205. Il principio dichiarato come basilare della costituzione democratica è la libertà (eleutheria)206. La concezione antica dell’essere liberi si defnisce anche in relazione al suo contrario, cioè l’essere schiavi207; esiste inoltre nell’antichità una differenziazione del signifcato di eleutheria in

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tre diversi contesti: sociale, politico, costituzionale; solo in quest’ultimo essa rappresenta un valore specifcamente democratico. Ampio è stato ed è il dibattito sul concetto antico di eleutheria e sulla sua valutazione nelle diverse costituzioni, connesso anche con la questione sulla nozione dei diritti individuali (tra i quali rientrano la protezione della persona, della casa e del patrimonio privato, come si deduce anche dalla lettura della Retorica ad Alessandro), e con l’esaltazione della libertà di parola, che ha ovviamente favorito la partecipazione politica attiva, lo sviluppo dell’oratoria sotto molteplici forme, l’espressione e il confronto delle idee, anche se famosi processi fanno constatare gli inevitabili limiti, ostacoli e interessi che impedirono talora il rispetto di questo ideale, tuttavia proclamato più volte come tipico dell’ ‘illuminata’ Atene democratica208. La nozione di libertà e i suoi due aspetti, cioè la libertà di partecipare alla vita politica e la libertà dall’oppressione politica, si associano a una distinzione tra sfera privata e sfera pubblica (peraltro non perfettamente sovrapponibile con la distinzione moderna fra l’individuo e lo stato)209, di cui si ha rifesso anche nel nostro trattato. In esso non compaiono invece quei termini formati con il primo elemento iso- che indicano una uguaglianza (isonomia, isegoria, isogonia, isokratia), nozione che tende a convergere con quella di libertà nella teoria politica democratica greca. In uno dei numerosissimi consigli su ciò che conviene o bisogna dire in determinate circostanze, il retore utilizza il verbo parrhesiazesthai (parrhsiavze­ sqai): l’oratore dovrà sottolineare e contrapporre la propria libera e franca trattazione di un soggetto a quella di chi invece esita a parlare apertamente210. Il suo uso nel contesto non sembra pregnante, ma piuttosto generico: il parlare liberamente (parrhsiva) ha invece una precisa va-

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lenza ideologica in trattazioni riguardanti i regimi politici e il rapporto fra libertà e uguaglianza211. L’interesse che suscita la lettura della Retorica ad Alessandro sta proprio nel farci vedere di scorcio una realtà sociale, e le relative istituzioni, non da un punto di vista ideologico, ma dalla prospettiva di chi deve sapersela cavare in diverse circostanze, facendo appello a leggi, a radicate convinzioni e a tradizionali atteggiamenti, se sono in accordo col suo operato, oppure, nel caso contrario, manipolandoli o adattandoli a proprio vantaggio, o limitandone l’impatto negativo sulla propria causa o proposta. Il problema dell’interpretazione della legge, o meglio, pensando all’esperienza greca, dell’utilizzazione della legge e del rapporto tra legge e oratoria emerge anche nella Retorica ad Alessandro, seppure solo indirettamente, attraverso i consigli che il retore dà caso per caso: uno dei più frequenti è di richiamare i giudici al giuramento che hanno prestato di agire in conformità a esse, nel rispetto di esse212; inoltre, to nomimon è uno dei predicati basilari nell’argomentazione213. tra le abilità dell’oratore deve esserci la conoscenza delle leggi per poterle utilizzare a proprio favore, ricorrendo a quelle che possano risultare effettivamente rilevanti per sostenere la propria causa, o per indebolire quella dell’avversario, come documenta ampiamente anche il corpus delle orazioni pervenute; era usuale presentare e discutere la legge cui si faceva appello: se i giudici la conoscevano, era utile ricordarla, in modo che votassero di conseguenza; ma più spesso l’esibirla era una necessità procedurale, considerando che i giudici in Grecia non erano dei professionisti, e potevano non essere a conoscenza di una legge. Anche nella Retorica ad Alessandro si confgura così una varietà di usi e di ‘valutazioni’ delle leggi, per trar-

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ne vantaggio: oltre alla più generica distinzione fra leggi scritte e non scritte, e al giudizio ‘secondo natura’ o ‘secondo la legge’ (o secondo entrambe), l’oratore può ricorrere ad altri argomenti: esistono leggi buone e utili allo stato, eque e uguali per tutti i cittadini, e leggi cattive o nocive, inique; leggi apprezzate e valide da tempo oppure no; leggi chiare e leggi ambigue, leggi che presentano antinomie, e che mutano nel tempo214. Il richiamo al giuramento fatto dai giudici è signifcativo, se si tiene conto dell’immagine che le fonti danno dei tribunali del tempo, dei rischi che si correvano e della facilità con cui i giudici potevano essere infuenzati da oratori particolarmente capaci e persuasivi, e indotti così a giudicare più in base a reazioni emotive che a ponderate valutazioni, conformemente alle leggi215. L’autorità, nei tribunali greci, non era un’esclusiva dei giudici: il ruolo della pubblica opinione e della ‘morale popolare’ (ben rifessa anche nella Retorica ad Alessandro) aveva un peso maggiore, e i giudici potevano essere facilmente ingannati; leggi e processi erano inoltre elemento integrante della vita pubblica. oltre a numerose orazioni, le commedie di Aristofane, e in particolare la descrizione dei ‘privilegi’ dei giudici, esposti da Filocleone (in una sorta di makarismos, di autocompiacimento), nelle Vespe, possono effcacemente farci capire, pur tenendo conto della dimensione e dell’esagerazione comica, in che cosa poteva trasformarsi un tribunale, quali argomentazioni potessero prevalere su quelle propriamente legali, e come i giudici, che non erano dei tecnici e che non erano sottoposti al rendiconto, come gli altri magistrati ateniesi, potessero essere manipolati216. Questi aspetti si collegano alla struttura delle istituzioni democratiche, e alle caratteristiche del diritto greco, alla nozione di ‘giudizio’ e alla distinzione fra krinein

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e dikazein217, alla fgura del dikastes, sorteggiato per prestare temporaneamente servizio come membro di un dikasterion, alla sua impreparazione a svolgere questo compito (a meno di non aver acquisito una certa esperienza e competenza: è il caso dei logograf), considerando anche che non tutti ad Atene sono come Filocleone, smaniosi di partecipare ai processi. Più generalmente, il giudice è chiamato a dare il proprio giudizio sulla base dei discorsi che le parti fanno e delle prove che esse adducono, non sulla base di una personale e indipendente inchiesta218. Senza necessariamente ridurre la sua fgura a quella di un passivo ascoltatore, non bisogna dimenticare il ruolo fondamentale della parola nella creazione di opinioni e nella formulazione di giudizi. Quanto corrisponda alla realtà l’immagine data dalle fonti antiche è stato tema di dibattito fra gli studiosi moderni, al di là dell’ovvia constatazione della possibilità dell’errore umano, allora come adesso. Chi tenta di ridimensionare il loro severo verdetto, fa appello al senso del rispetto della legge da parte degli Ateniesi, al loro ideale di legalità, che si sforzarono di mettere in pratica e che sentivano, almeno formalmente, connesso e connaturato con il loro sistema di governo: tutte le istituzioni politiche erano regolate dalle leggi; non bisognerebbe inoltre sottovalutare la capacità della media degli Ateniesi di intendere le nozioni basilari del loro codice di leggi, e di saper distinguere tra validi argomenti e sofsmi legali219. Atene era certamente fera delle proprie leggi, come garanti di una possibile convivenza e di una vita, all’interno della polis, conforme alla dikaiosyne e all’arete, in senso ampio; questa fducia teorica non oscura tuttavia la consapevolezza del loro uso strumentale e della loro ambiguità, come mette in evidenza anche la Retorica ad Alessandro220.

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Il nostro trattato testimonia sia il senso del rispetto della legge, e della legalità come valore imprescindibile, o meglio come ‘predicato’ fondamentale da utilizzare nei discorsi, sia la possibilità di far leva sui sentimenti dell’uditorio, e di volgere la legge a proprio favore. Pur se di scorcio, e indirettamente, esso può essere considerato una fonte per la prassi giudiziaria e per il diritto greco, che conosciamo in modo frammentario221. Aristotele critica proprio quei trattati che insegnano a manipolare i giudici222, ma dichiara anche la necessità che le leggi siano formulate correttamente, constata che esse possono non essere chiare, ma ambigue (così si legge anche nella Retorica ad Alessandro), e ammette il loro uso nell’argomentazione retorica, «per esortare o dissuadere, per accusare o per difendere»223. Il trattare delle leggi nell’ambito di un’opera di retorica è un inequivocabile riconoscimento dello stretto legame fra retorica, politica, etica e logica: bisogna defnire che cosa si intende con adikein, le cause, le circostanze e le inclinazioni che portano l’uomo ad agire ingiustamente, nella consapevolezza o nell’inconsapevolezza, in quanto giudicare l’azione di un uomo (così come di un personaggio tragico224) implica qualcosa di più che il giudizio su un fatto oggettivo, sul misfatto in sé225. Indagare sulle ragioni, sulle disposizioni mentali (i romani parleranno di mens rea), sulle circostanze esterne, sulle aggravanti, sulla scelta consapevole di un atto, volontariamente compiuto, o sull’ignoranza di commettere un atto ingiusto, di ciò che si sta facendo si impone quindi come un’argomentazione non puramente ‘retorica’, ma di rilevanza legale e logica226: questo è il vero soggetto del discorso, non altri aspetti che gli sono invece estranei; intorno a esso verte la dimostrazione che mira al vero o al verosimile. «È evidente che il compito di chi sostiene una causa è limitato alla dimostrazione che il fatto in questione è

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vero oppure non è vero, che è avvenuto oppure non è avvenuto; se esso sia importante o irrilevante, giusto o ingiusto – negli aspetti, cioè, che il legislatore non ha defnito –, deve deciderlo il giudice stesso e non apprenderlo da chi sostiene la causa. Soprattutto, leggi formulate correttamente dovrebbero esse stesse defnire, per quanto possibile, tutti i casi, e lasciare quanto meno possibile alla discrezione dei giudici, in primo luogo perché uno o pochi uomini assennati e in grado di legiferare e giudicare sono più facili a trovarsi che non molti; in secondo luogo le legislazioni sono il risultato di rifessioni protratte nel tempo, mentre le sentenze vengono emesse sul momento, e di conseguenza è diffcile che i giudici possano stabilire correttamente ciò che è giusto e opportuno. tra tutte, però, la ragione più importante è il fatto che il giudizio del legislatore non è rivolto al caso particolare, ma riguarda il futuro e l’universale, mentre chi è membro di un’assemblea popolare o giudice decide di questioni presenti e specifche: costoro spesso sono infuenzati da amicizia, odio e interesse privato, sicché non possono più vedere il vero in modo adeguato, ma il loro giudizio è oscurato dal piacere e dal dolore personale. Quanto al resto, dunque, come si diceva, si deve abbandonare all’autorità del giudice il minor numero possibile di questioni; quanto invece al fatto che una cosa sia avvenuta o non sia avvenuta, che avverrà o non avverrà, che sia o non sia in un dato modo, è necessario lasciarlo alla discrezione dei giudici, perché non è possibile che il legislatore preveda questi fattori»227. La discussione su questioni legali occupa una piccola parte della Retorica, rispetto alla trattazione sugli ethe, sui pathe, sui mezzi retorici e sullo stile, ma essa non è slegata dal contesto, anzi ne fa pienamente parte; si è osservato inoltre che alcuni suggerimenti sull’uso delle

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leggi non avrebbero trovato applicazione nei tribunali ateniesi, ma altri sono giuridicamente fondati228. Criticare il ricorso ai mezzi di persuasione emotiva, suggeriti dagli autori di manuali tecnici, e dedicare poi molta attenzione proprio ai pathe e agli ethe, potrebbe sembrare una scelta incoerente da parte di Aristotele. In realtà essi vengono assunti fra le prove tecniche, e non escludono i mezzi logici di persuasione, anzi si integrano con essi229; la dimostrazione deve così risultare ‘dal discorso’, dall’argomentazione: dove ci sono buone leggi, i contendenti dovrebbero limitarsi all’esposizione dei fatti, senza qualifcarli e senza ricorrere all’elemento emotivo, lasciando ai giudici il compito di valutarli. Ma la legge, oltre al fatto che può non essere chiara, per sua natura ha un valore generale, e il legislatore non tiene conto del fatto singolo, ma dell’universale230. La Retorica ad Alessandro defnisce la legge come una convenzione, un accordo voluto dalla comunità, che stabilisce regole di condotta per ogni circostanza; nel trattato trova eco anche il concetto di legge (novmo~) o costume (e[qo~) tradizionali, non scritti231. La distinzione tra diritto naturale e diritto positivo, tra leggi non scritte o consuetudini e leggi scritte, e la possibilità di appellarsi alle prime232, come a norme riconosciute da tutti e rese valide dalla tradizione, e la rifessione su ciò che giusto o ingiusto, da diversi punti di vista, trovano come noto la loro più compiuta espressione artistica nell’Antigone di Sofocle: proprio questa tragedia viene ricordata da Aristotele, per esemplifcare «un comune concetto di giusto e di ingiusto secondo natura», insieme con un frammento di empedocle sul divieto di uccidere un essere vivente233. All’inizio della Retorica, la critica rivolta da Aristotele ai trattati tecnici sembra accogliere l’accusa espressa

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da Socrate nel Gorgia di Platone234. Il superamento della loro impostazione implica anche che la retorica possa invece risultare utile al raggiungimento della verità e della giustizia; l’uomo ha d’altra parte, sottolinea Aristotele, una naturale propensione al raggiungimento del vero. «La retorica è utile perché la verità e la giustizia sono per natura più forti dei loro contrari, sicché se i giudizi non sono formulati nel modo corretto, se ne deve concludere necessariamente che è per propria colpa che si viene sconftti: e ciò è degno di biasimo. Inoltre, anche se possedessimo la preparazione scientifca più accurata, non potremmo grazie a essa parlare e convincere facilmente alcune persone. Il discorso scientifco, infatti, rientra nei compiti dell’insegnamento, ma questo non può aver luogo, e le argomentazioni e i discorsi devono essere costituiti attraverso le nozioni comuni [...]. dovremmo inoltre essere in grado di sostenere in modo convincente tesi opposte [...]. delle altre tecniche, nessuna può provare tesi opposte: solo la dialettica e la retorica lo fanno, perché entrambe riguardano gli opposti»235. trattando più da vicino del discorso di accusa e di difesa, Aristotele distingue tra legge idios, «la legge scritta in base alla quale si amministra uno stato», e «che ogni singolo popolo ha fssato per sé stesso» (sia scritta sia non scritta), e una legge koinos, che pur non essendo scritta è riconosciuta da tutti, ed è «conforme a natura»236. La differenza incide sulla valutazione della colpevolezza nei singoli casi, insieme con gli altri criteri individuati e riguardanti la motivazione dell’azione e le variabili di cui tenere conto nel giudicare237; esistono inoltre azioni su cui il legislatore non si è espresso238. Più generalmente, è stretta la connessione fra lo studio delle costituzioni e la tematizzazione della giustizia239: la giustizia (dikaiosyne) è un’arete politica, perché essa è l’ordine della comunità

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politica, ed è sia del singolo sia della città240. La nozione arcaica di arete, insieme con quella di diritto, o forse più di questa, orienta d’altra parte il modo in cui la primitiva comunità greca si dà regole di convivenza civile241. È saldo e motivato pertanto l’ancoraggio della retorica alla legge, alla politica, all’etica e alla logica. La nozione del giusto e dell’ingiusto guida l’operato delle prime fgure di legislatori in età arcaica (zaleuco, Caronda, dracone, Solone, Licurgo), senza che si perda tuttavia l’iniziale idea essenzialmente pragmatica della giustizia242. Il termine dike ha le due fondamentali accezioni di ‘regola’, ‘norma’, e di ‘giustizia’, ‘diritto’: la giustizia può essere personifcata o considerata come valore in sé, o vista come giustizia pronunciata e ascoltata, come ‘giudizio’, e specifcamente come ‘azione giudiziaria’, ‘processo’, e conseguente ‘sentenza’243. La nozione di dike si estende a diversi livelli, umano, divino, cosmico, e mantiene nel corso del tempo una fondamentale ambiguità, anche dopo che il signifcato del termine evolve, nel lento e progressivo passaggio dalla cultura orale a quella scritta. In particolare, essa può riferirsi all’ordinamento sociale (nel senso di ‘giustizia distributiva’, o ‘correttiva’, o di quella che regola scambi e rapporti fra i singoli o fra i gruppi di persone), e alle intenzioni e ai comportamenti dei singoli (nel senso di correttezza, rettitudine morale): l’indistinzione antica fra etica e politica deriva anche dal fatto che si può parlare della giustizia come arete sia del singolo sia della città, come se la realizzazione fosse la stessa. L’idea pragmatica, e non aprioristica della giustizia, fondata su una concezione universale di che cosa sia giusto o ingiusto, assegna a dike la funzione di un oggetto di scambio, da attribuire o restituire a chi è stato offeso o danneggiato: le controversie si risolvono in un dibattito pubblico, in cui si narra l’accaduto, come molte scene

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dei poemi omerici dimostrano, attraverso un processo di negoziazione di carattere retorico fra le parti contendenti244. Il passaggio all’idea di giustizia come principio normativo si compie con Platone, impegnato anche in una defnizione (linguistica e ontologica) e in una descrizione della dikaiosyne; a ciò si arriva anche rielaborando modi di pensiero e comportamenti radicati nella cultura greca (momenti essenziali di questa rifessione e di questo percorso sono esiodo, Solone, eraclito, Parmenide, eschilo, erodoto), che continueranno in ogni caso ad operare: Socrate chiede a Cefalo: «Questa cosa in sé stessa, la giustizia – th;n dikaiosuvnhn, diremo così semplicemente che consiste nell’esser veritieri e nel restituire ciò che si sia ricevuto da qualcuno, oppure [...]»245. nella pratica processuale, la delineazione del giusto e dell’ingiusto quale appare dal diritto positivo, dal sistema delle leggi, non è un prerequisito per avere un verdetto favorevole246. La legislazione greca manca di sistematicità e di esaustività, come nota anche Aristotele, e la rifessione su di essa, o la discussione su singole leggi, è spesso più di carattere flosofco che strettamente giuridico247. nel mondo greco mancano fgure di giudici infallibili, come Salomone248, di esperti in materia di leggi: una competenza in questo ambito era acquisita da chi informalmente consigliava i contendenti o i politici, o dai logograf di professione; ma ciò suscitava sospetto, come si intravede anche dalla Retorica ad Alessandro249. Queste succinte considerazioni su temi molto vasti e centrali nella cultura greca, e per i quali il dibattito è ancora aperto sono intese come invito a inserire in un quadro più ampio l’impostazione del nostro trattato. La nostra sensibilità ai temi della giustizia, della colpa e dell’innocenza, della responsabilità e del diritto, può farci valutare come puramente opportunistico il fatto che

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il retore non tenga conto se non di ciò che può risultare risolutivo nelle diverse circostanze: questo è il suo unico interesse, e ogni altra valutazione resta esclusa; come si è detto, sorprende quanto raramente sia utilizzato il termine aletheia, in confronto all’uso del termine eikos. L’intenzione di servire da manuale non spiega tutto; la ricerca della contrapposizione e l’ancoraggio al paradeigma, all’analogia, costituiscono lo sfondo argomentativo, che si traduce nel trattato in un gioco delle parole, o meglio degli argomenti e con gli argomenti: si può trovare sempre qualcosa da dire per difendersi, o contrattaccare, per trovare un modo di sostenere la propria tesi: l’obiettivo della vittoria e la fducia nella parola vanno di pari passo. Al di là dell’essenzialità dell’esposizione e dell’argomentazione, si sedimentano in questo trattato il multiforme aspetto del kairos e della metis, il tradizionale spirito ludico (espresso dai Greci in ogni attività del corpo e della mente), l’attitudine al confronto e alla contrapposizione dei discorsi, nel rispetto di regole logiche, che si combinano anche con i caratteri di contingenza e di arbitrarietà della parola, e con una plasticità della tecnica, o delle tecniche, del diritto ateniese250. Si comprende allora quale potere avessero la parola e la capacità di convincere: gran parte della retorica antica insiste sul modo di acquistarsi la benevolenza dell’uditorio; le stesse pisteis non sono ‘prove’, nel senso che noi diamo a questo termine, ma ‘argomentazioni’ che sostengono e strutturano il discorso, sono ‘mezzi di persuasione’. Più generalmente, nella Retorica ad Alessandro emerge il carattere agonale, e non maieutico, del logos.

note ALL’IntroduzIone 1 Sulla tradizione manoscritta del trattato, vd. i Prolegomena all’edizione di Spengel (rist. 1981); Fuhrmann 1965 e le sue edizioni del 1966 e del 2000; Chiron 2000; 2002 (ed.), p. CLV ss.; Funkhaenel 1860; Fuhr 1904 e 1906; Wilke 1911; Colonna 1968; douglas 1968; Schenkeveld 1968; Buchheit 1969; Kennedy 1969; zwierlein 1969; Harlfnger 1964, p. 250; 1971, pp. 27; 54; 65; 72; 189; 318; 1980, pp. 456; 466. d’ora in poi, si rinvierà all’edizione di Chiron (2002) con il solo nome dell’autore. Il titolo del trattato deriva dalla lettera premessa, che si pretende indirizzata da Aristotele «to his pupil Alexander during the period of his eastern Campaign, with a present of one (or two) works on rhetoric» (Cope 1867, p. 401). 2 Vd. 1421 b 7; 1445 a 40; cfr. 1420 a 8; 1421 b 3 s., nella lettera apocrifa. Sulle implicazioni di questo nesso, e sulla comparsa, nel IV secolo, del termine rhetorike, vd. in particolare Schiappa 1990; 1999, pp. 155-161; Halliwell 1994, p. 224; Kennedy 1994, p. 50; Walker 2000, pp. 17-41 (si seguono l’emergere, nel tempo, dei termini poiesis, logos e rhetorike, e le loro accezioni); timmerman/ Schiappa 2010, p. 118 ss.: la ricorrenza del nesso politikos logos in una testimonianza relativa a Gorgia (82 A 29, II p. 278, 12 s.), e nelle opere di Isocrate e di Platone, e la sua assenza in Aristotele suggeriscono che esso «was attached to the sophistic, not the Aristotelian school» (p. 125); per l’uso che ne fa Isocrate, vd. eucken 1983, p. 12 ss. La questione dell’attestazione della parola rhetorike si connette strettamente con l’indagine sulle origini della retorica, e con il passaggio da una cultura orale a una scritta. nella Retorica ad Alessandro non sono utilizzati neanche i termini rhetor e rhetoreia: il verbo rhetoreuein ha una sola ricorrenza (1444 a 33).

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Il termine rhetorike è propriamente aggettivo, in questo caso di techne: è formato con il suffsso –ikos molto produttivo nel corso del V e del IV secolo, proprio nel periodo di maggiore dibattito sulle technai, e particolarmente ricorrente nella prosa scientifca e flosofca aristotelica e nella koine; esso esprime il rapporto, la relazione, l’appartenenza, la pertinenza. Il termine può essere usato come sostantivo: he rhetorike. Lo stesso accade per i nomi di altre technai di antica tradizione, ma che ebbero un pieno riconoscimento epistemologico e una classifcazione nell’ambito del sapere solo più tardi; diversamente da più antichi termini come astronomia, geometria, i nomi di altre discipline arithmetike, logistike, harmonike, mechanike, optike, poietike, politike presuppongono il termine e la nozione di techne (o di episteme o di theoria). 3 Sulle traduzioni medievali del secolo XIII (translatio vaticana; translatio americana; traduzione della lettera dedicatoria e delle prime linee del trattato), vd. Grabmann 1932 (in un primo momento, egli attribuì la translatio vaticana a Guglielmo di Moerbeke); dittmeyer 1933 e 1934; Lacombe 1939, pp. 17 s.; 78 s.; 169-173 (cfr. Lacombe 1955, p. 1046 s.); Fuhrmann 1965, p. 99 ss.; 2000, pp. XXX-XXXVI; Stapleton 1978; Vanhamel 1989, pp. 347-349; Chiron 2000, pp. 20-23; 2002, p. 54; p. CLXI s. (ed.). 4 Per le questioni sull’autenticità di alcuni trattati, cosiddetti minori, del C.A., sollevate prevalentemente nel rinascimento, vd. le mie note introduttive ai Colori (1999); ai Problemi (2002); alla Fisiognomica (2007); ai Colori e ai Suoni (2008); alla Meccanica (2010); alle Piante (2012). nel periodo umanistico si diffonde la conoscenza della Retorica ad Alessandro, forse anche grazie alla sua organizzazione come manuale; Marsh, nel suo saggio dedicato all’analisi della traduzione di Francesco Filelfo, richiama l’attenzione sul fatto che gli umanisi erano avidi lettori e scrittori di manuali contenenti precetti e schemi, che potessero essere facilmente assimilati dagli sudenti (1994, p. 351), e sottolinea l’importanza della traduzione: «Filelfo’s translation represents the frst ancient Greek rhetorical treatise translated in the Quattrocento» (p. 352). essa è confuita in alcune edizioni del C.A. (compresa l’edizione del Bekker); la traduzione italiana di Matteo Franceschi (1574) è probabilmente condotta su quella latina del Filelfo, ricordata nella lettera di dedi-

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ca («I precetti delle cause ciuili ad Alessandro furono portati dalla Greca nella Latina lingua una sol volta da M. Francesco Filelf: mentre egli legea nello studio di Bologna: ma nella volgare non mai d’alcuno; per quanto io ho potuto sapere»). Sulla formazione del Filelfo (per il quale Aristotele è stato un punto di riferimento costante), sul codice probabilmente utilizzato (il Laurentianus 60,18), sul periodo (1428-1430) e luogo (Bologna-Firenze) di redazione, sulle prime edizioni a stampa e sulla fortuna della sua traduzione, vd. anche Buhle, nella prefazione alla sua edizione, V p. XI; Calderini 1913; Grabmann 1932, pp. 23-25; Garin 1950, pp. 69-71; Lacombe 1955, pp. 1113 (nr. 1630); 1257 (nr. 1935); Harlfnger 1971, pp. 64 s.; 290; 410; Cranz 1984; Gualdo rosa 1986; Fuhrmann 2000, p. VIII; Fiaschi 2007, in particolare pp. 97-100; Cortesi/ Fiaschi 2008, I p. 78-84. 5 Vite dei flosof V 22-27. 6 erasmo scrive nell’epistola dedicatoria della sua edizione di Basilea, datata 1531: «rhetorica ad Alexandrum, quamuis apprime docta, tamen duplici nomine dubitari potest an sit illius germana: primum quod oratorum more praefatur, id quod alibi nunquam, sed semper ad rem festinat: dein quod huius diogenes non meminerit» (f. 4r). Sui giudizi di altri umanisti, relativamente all’attribuzione, vd. Fabricius, BG III p. 223 s.; Finckh 1849, p. 1. L’opera forse compare nell’Appendice al catalogo detto Anonimo di Menaggio. Paul Moraux collega in un titolo unico (peri; ∆Alexavndrou h] peri; rJhvtoro~ h] politikou`) due opere, distinte invece da rose (1971, p. 20), leggendo peri; ∆Alexavndrou h] ktl, e non peri; ∆Alexavndrou hV; si tratterebbe dell’apocrifa Retorica ad Alessandro. Moraux, tenendo conto della lettera di dedica, ritiene di poter restituire così il titolo che l’opera aveva nell’appendice: «Conseils à Alexandre, ou sur l’orateur ou l’homme politique, – uJpoqhvka~ pro;~ ∆Alexavndron, h] peri; rJhvtoro~ h] politikou`» (1951, p. 258). Vd. anche Chiron, p. XLV, n. 89; 2002, p. 53 s.: si fa notare «le caractère externe» degli argomenti portati da erasmo, e si richiama l’attenzione sull’inizio del trattato Sul Cosmo per Alessandro (1, 391 a 1-b 8: questo primo capitolo di dedica e di elogio della flosofa ha un carattere protrettico, vd. reale, in reale/ Bos

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1995, pp. 59-61), e dell’ Etica Eudemia (I 1, 1214 a 1-6, 1217 a 17; 7, 1217 a 18 : peprooimiasmevnwn de; kai; touvtwn ktl). Vd. Fazzo 2003, p. 24. 7 Commentarii in tres libros Aristotelis de arte dicendi. Positis ante singulas declarationes graecis verbis auctoris, Florentiae, In offcina Bernardi Iunctae, 1548. 8 L’attribuzione è proposta nelle rifessioni introduttive («Capita, quae perpendi debent, ante legitimam operis declarationem»). L’opera, sostiene Pier Vettori, è stata falsamente attribuita ad Aristotele: oltre al diverso genus dicendi e alla varietas opinionum, altri indizi portano a questa conclusione; pertanto egli si impegna a dimostrare prima di tutto che il libellus non è di Aristotele, poi quale ne sia il vero autore, «non malo (ut opinor) indicio». Si tratta del confronto con un passo di Quintiliano: «ut addam autem nunc cuius librum eum esse putem, Anaximenis Lampsaceni esse censeo, ductus in primis hoc argumento, quod Quintilianus in tertio libro cum diuisionem artis dicendi traderet, quam Anaximenes hic, magni nominis rhetor, fecerat, hanc ipsam affert, quam auctor huius rhetorices probat». Anche Pier Vettori, come erasmo, fa notare inoltre l’assenza del trattato dalla lista di diogene Laerzio. Vd. anche Buhle, nella prefazione alla sua edizione, V p. IV ss. 9 Secondo la Suda (s.v. ∆Anaximevnh~), Anassimene sarebbe stato maestro di Alessandro (= 72 t 1, II A p. 112; cfr. t 8 – Ps.Callistene I 13 – p. 113 FGrHist.: didavskalo~ (sc. ∆Alexavndrou) ... rJhtorikw`n de; lovgwn ∆Anaximevnh~, filosofiva~ de; ∆Aristotevlh~). un quadro riassuntivo delle testimonianze e degli studi su Anassimene è delineato da Chiron, p. LXXXIII ss.; 2003, p. 569 ss.; Walker 2000, p. 51 s.; Brzoska 1894; Kroll 1940, coll. 1052-1054. 10 Vd. in particolare le introduzioni alle rispettive edizioni del 1850 (rist. 1981) e 2000. Signifcativa è in ogni caso l’affermazione di Fuhrmann: se la Retorica ad Alessandro è stata scritta poco dopo il 340 a.C. da un sofsta, «utrum Anaximeni an aequali alicui attribuamus quid refert?» (p. XL). dopo Spengel, l’attribuzione ad Anassimene è stata ripetutamente discussa: molti studiosi l’hanno accolta, altri contestata (le diverse posizioni sono riassunte nella prefazione di Forster 1924, in Sánchez Sanz 1989, p. 12 ss.; Chiron, pp. XLI ss.; LXXV ss.;

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2003, p. 557 s.); solo con qualche sporadica eccezione (vd. per es. Gohlke nella prefazione alla traduzione del 1959, p. 5 ss., in cui rinvia a un suo precedente studio del 1944; altri autori che riconoscono la paternità aristotelica sono ricordati da Chiron 2002, p. 53, n. 6), sono sembrati evidenti il carattere apocrifo della lettera e la falsità dell’attribuzione ad Aristotele. Velardi (2000) immagina uno scenario più complesso: Anassimene sarebbe l’autore, ma avrebbe sacrifcato il proprio nome per assicurare una maggiore circolazione e diffusione della propria opera. Vd. più avanti le note di commento alla lettera. 11 Chiron, p. VIII, n. 2; vd. anche 2002, p. 73 (la scelta di indicare come nome dell’autore Pseudo-Aristote ha dei vantaggi: essa specifca il canale di trasmissione del testo; conserva lo statuto di ipotesi all’attribuzione ad Anassimene; non lascia intendere che abbiamo accesso «à la couche la plus ancienne de ce texte»). L’attribuzione ad Anassimene, sostiene Chiron, è basata su un’unica testimonianza, mentre i collegamenti con Aristotele, anche a livello testuale, «are strong and ancient» (2007, p. 103). nell’Année philologique, la bibliografa relativa a questo trattato, dopo il 1966, anno della prima edizione di Fuhrmann, è data sotto il nome di Anassimene, vd. Chiron 2002, p. 53, n. 6. 12 La formazione dell’oratore III 4, 9: «Anaximenes iudicialem et contionalem generalis partes esse uoluit, septem autem species: hortandi, dehortandi, laudandi, uituperandi, accusandi, defendendi, exquirendi (quod ejxetastikovn dicit); quarum duae primae deliberatiui, duae sequentes demonstratiui, tres ultimae iudicialis generis sunt partes». La traduzione dell’opera di Quintiliano, qui e altrove, è citata dall’edizione in tre volumi (Milano 20012), di cui il primo (libri I-IV) è curato da Stefano Corsi, con introduzione di Michael Winterbottom, il secondo (libri V-VIII) da Cesare Marco Calcante e Stefano Corsi; il terzo (libri IX-XII) da Cesare Marco Calcante. 13 Sulle valutazioni degli studiosi riguardo a questa importante testimonianza di Quintiliano, che tuttavia non nomina espressamente la Retorica ad Alessandro; sul numero dei genera, sull’analisi in sette specie, che non si trova altrove, e sulla teoria dell’exetastikon eidos, non altrimenti attestata, vd. per es. Finckh 1849, p. 7; Cope 1867, p. 406 ss.; Ipfelkofer 1889, p. 10 s.; Hinks 1936; Maff

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1985; rossitto 1989; Sánchez Sanz 1989, p. 12 ss.; Mirhady 1994; La Bua 1995; Chiron XLII ss.; LXXVI ss.; LXXXIX ss.; 2002, p. 72 s.; 2003, p. 571 ss.; 2003 (La théorie de l’éloge); 2007, p. 101 ss. La stessa bipartizione, riferita ad Anassimene, sembra presupposta da dionigi di Alicarnasso (Iseo 19, 3); vd. anche Filodemo, Retorica II p. 254, 20 ss. Sudhaus. 14 Commentari a Ermogene II p. 11, 17-12, 2 rabe; cfr. il testo dato da Walz (Rhetores Graeci IV p. 60, 9-15). Sui problemi sollevati dalla testimonianza di Siriano, che attribuisce ad Aristotele una divisione estranea alla sua Retorica, vd. Chiron, p. LXXVIII ss. 15 nel trattato, come si è detto, il termine è utilizzato per indicare l’eloquenza prima di ogni divisione in generi; qui invece l’aggettivo «désigne l’éloquence politique au sens moderne du mot, c’est-à-dire l’éloquence délibérative des Grecs» (Chiron, p. LXXXI; 2002, p. 67). Cfr., all’inizio della lettera, 1420 a 8. 16 Il confuire della Retorica ad Alessandro nel C.A. ha avuto molto probabilmente delle conseguenze sulla trasmissione del testo. Le testimonianze di Quintiliano, di Siriano e il papiro del III secolo permettono di accedere a un testo più antico: il confronto tra questi testimoni antichi e la tradizione medievale rivela «des adaptations linguistiques superfcielles et assez banales, mais aussi des phénomènes plus troublants, qui sont de l’ordre de la réécriture». La lettera apocrifa attribuendo il trattato ad Aristotele ne ha probabilmente assicurato la sopravvivenza, ma questa attribuzione ha comportato alcune deformazioni, volte ad armonizzarlo con la Retorica autentica (Chiron 2002, pp. 72-74). Vd. anche Chiron 2003, p. 560; Moraux 1951, p. 259. riassumendo, questa è secondo Chiron la ricostruzione più probabile della storia del testo: «the insertion of a frst textual layer of the treatise, which may have been written by Anaximenes, into the period shortly after the middle of the fourth century (c. 340), seems very likely. [...] then the text was circulated and at least one copy was kept in a philosophical library of the egyptian town of oxyrhynchus. this is most probably the frst layer of text read by Quintilian at the turn of the frst century Ad. In the third century, under the name of Aristotle, Athenaeus (11. 508a) cited a defnition of the law that corresponds verbatim to a passage of

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the apocryphal letter. It seems reasonable to think that by then the Rhetoric to Alexander had been integrated into the Corpus Aristotelicum owing to the attaching of the letter to the treatise that, according to a few other clues, dates back to the second century. this is confrmed by its mention in a late list of the works by Aristotle. In the ffth century Ad, the commentator Syrianus reproduced several passages of the Rhetoric to Alexander, among them the incipit, which he quoted in an almost identical version as Quintilian’s report (seven species, three genres) but which he attributed to Aristotle. therefore one may think that it was after Syrianus that the text of the Rhetoric to Alexander was revised and adapted so that it should match the doctrine of its supposed author. the comparison of Papyrus Hibeh 26 with the text inherited from the mediaeval tradition corroborates the hypothesis that the text was amended» (2007, p. 102 s.). 17 teodette di Faselide è un retore e tragediografo del IV secolo, allievo di Isocrate, di Platone e di Aristotele, che in un passo peraltro problematico della sua Retorica (III 9, 1410 b 2 s.) fa riferimento ai Theodekteia. Le liste antiche elencano una tevcnh~ th`~ Qeodevktou sunagwghv (diverge l’indicazione della divisione in libri), tra le opere di Aristotele, vd. rose 1971, pp. 15, 82; 21, 27; 135-145; Moraux 1951, pp. 98-101; 202; 259; 317. Le interpretazioni degli studiosi contrastano molto tra di loro: alcuni ritengono che si tratti di un’opera di teodette; altri, di un’opera di Aristotele pubblicata da teodette, o attribuita a teodette (un quadro riassuntivo si può leggere in dufour/ Wartelle 2003, III p. 113 s.; Chiron, p. LX ss.; 2003, p. 566 ss.; vd. inoltre Wendland 1904, p. 513 ss.; Solmsen 1934; Moraux 1951, pp. 98 ss.; 259; Barwick 1966 e 1967; Goebel 2002, p. 75, n. 7; Martano 2007; Matelli 2007). un legame fra la Retorica ad Alessandro e teodette è stato proposto da Patillon (1997), favorevole a considerare la Retorica ad Alessandro una tarda compilazione di opere divenute probabilmente rare, e databile al VI secolo d.C.: «L’ossature et les chap. 1-28 seraient une partie des Théodecteia d’Aristote, qui serait notre auteur 1, et les chap. 29-37 seraient repris d’un traité attribué à Corax, dont l’auteur serait notre auteur 2. L’état A du texte, dont on a une trace dans des fragments de papyrus, correspondrait aux Theodecteia que lisait Syrianus.

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L’état B correspondrait à une réécriture partielle du compilateur» (p. 123 s.). Si tratta in ogni caso soltanto di un’ipotesi di lavoro, come ammette lo stesso Patillon. Favorevole a una datazione tarda («le premier ou le second siècle tout au plus avant l’ère chrétienne; peut-être même serait-il plus sûr de la placer après cette ère») è anche Barthélemy Saint-Hilaire (1870, p. 182: la datazione tarda è messa in relazione con le caratteristiche dell’opera, composta da un professore di Alessandria o di Atene per i suoi allievi: essa si confgura come un manuale in cui confuiscono altre opere «trop graves ou trop étendus pour être mis aux mains des élèves», e che ha i meriti e i difetti di ogni manuale: «de la netteté, mais de la sécheresse; de la précision, mais aucune profondeur; de l’ordre, mais aucun système»). La tradizione fa dei siciliani Corace e tisia i primi redattori di un manuale di retorica; anche in questo caso tuttavia l’interpretazione delle fonti diverge; vd. per es. Wendland 1904, p. 509 ss.; Wilcox 1943; Goebel 1989; Cole 1991. Chiron si sofferma a lungo sui possibili legami tra Corace e la Retorica ad Alessandro, ma conclude che non è possibile sostenere che la terza parte di questo trattato sia «de la main de Corax» (pp. LXVI-LXXV; 2003, p. 568 s.). Cfr. Baumhauer 1986, p. 13. 18 Vd. l’edizione di Grenfell e Hunt 1978 (1906); turner 1978 (1955), p. V. La citazione dell’inizio del trattato da parte di Siriano, diversa, come si è visto, dal nostro testo tràdito è un’altra prova della possibile riscrittura di alcuni passi. Vd. Patillon 1997; Chiron, p. XLI ss.; LXXXVIII ss.; XCIV ss.; CIII: «l’enquête sur l’état actuel du texte fait apparaître qu’à la possible refonte subie par le texte au niveau des grandes divisions (...) s’ajoutent des adaptations linguistiques – liées aux habitudes des copistes et à l’infuence de leur milieu culturel –, ainsi que des traces, tantôt nettes, tantôt insaisissables, de retouches plus concertées apportées, souvent à l’occasion d’une diffculté textuelle, à la terminologie. Mais ces retouches paraissent relativement peu nombreuses et d’importance minime pour le sens». Vd. anche Chiron 2000, p. 18 ss. 19 Il dubbio può ragionevolmente riguardare anche il capitolo 38 (1445 b 24-1446 a 35), che affronta una materia parzialmente diversa (il parallelismo tra condotta di vita ed eloquenza) e non

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annunciata: il trattato sembra avere la sua conclusione con una tipica formula di chiusura (1445 b 22 s.); d’altra parte, l’atetesi non è sicura, e gli editori non la indicano. Vd. Chiron pp. X ss.; 111, n. 725; 2003, p. 556; e qui il commento al passo. 20 Vd. Chiron p. LXXXVIII s. Sulla questione dei generi, vd. qui la nota 13; Spengel, p. 99 ss. (la seconda edizione e il commento di Spengel sono citati dalla ristampa del 1981, col solo nome dell’editore); Fuhrmann 1960, p. 12 s.; Chiron, p. LXXXIX ss. una posizione diversa rispetto all’opinione condivisa dalla maggior parte degli studiosi, «riguardo alla supposta “contaminazione” del proemio della Rhetorica ad Alexandrum con la tradizione aristotelica», esprime La Bua 1995, p. 275 ss. (vd. qui la nota 27 del commento). 21 Retorica I 3, 1358 a 36-1359 a 29. 22 «Ce terminus peut être fxé très raisonnablement en 300» (Chiron, p. XL; 2000, p. 19; 2003, p. 556 s.). Cfr. Baumhauer 1986, p. 13. Walker tende a considerare il trattato «as an early Hellenistic document»: due altri manuali di retorica romana conservati, ma della fne dell’ellenismo, sono l’anonima Rhetorica ad Herennium, e il De inventione di Cicerone (2000, p. 48). L’autore riassume così il proprio punto di vista: «In sum, what we fnd in the Rhetoric to Alexander appears to be an appropriation of the teachings of an earlier sophistic logôn technê – visible chiefy in the encomium of logôn philosophia, the “core” principles of argument and style, and the discussion of exetastic discourse – but a technê reduced and adapted to the interests of a socially ambitious clientele that wants primarily, and perhaps only, to learn the methods of civil and bureaucratic politikos logos practiced by the political elite in a Hellenistic kingdom» (55). 23 Chiron, p. CLV: «par son contenu, le traité s’inscrit pleinement dans la rhétorique du IVe siècle». 24 Chiron (2007, p. 98 s.) riassume in sei punti l’infuenza della tradizione empirico-sofstica sulla Retorica ad Alessandro: ricorso all’eikos, inteso come il principale mezzo di persuasione; intrinseca reversibilità e opponibilità degli argomenti; uso polivante della terminologia tecnica; importanza data alla determinazione dei tempi, agli interventi tempestivi; combinazione di argomenti, a fronte di un’incapacità di analizzare i loro modelli logici, riducen-

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doli agli schemi semplici (induzione e deduzione); il modo di presentare i consigli e i precetti. L’infuenza della tradizione flosofca si rivela soprattutto dove si dà enfasi all’aspetto della causalità; più problematico è il rapporto con la Retorica di Aristotele (2007, p. 100 s.). Vd. anche Chiron 1998, p. 349 ss.; Baumhauer 1986, p. 13. utile è ricordare l’argomentazione tipica dei trattati del Corpus Hippocraticum. Vd. Jouanna 1984. 25 Vd. Fuhrmann 1960. 26 Chiron, p. X. Altrove Chiron (2007, p. 90 s.) indica in questo rapporto con l’oratoria più antica una delle ragioni dell’importanza del trattato; l’altra è la documentazione di dottrine di cui esso rimane l’unico o il più fedele testimone: per esempio, non si ha menzione dell’exetastikon eidos in altri trattati. Il suo essere in sintonia con la pratica del tempo si rivela in molte occasioni (quando si parla di leggi, di culti, di ambascerie e missioni diplomatiche, di comportamento del pubblico), e in alcuni procedimenti che richiamano la dokimasia e l’euthyne; lo stesso si può dire per la trattazione dell’aitema, per il riferimento all’attività dei sicofanti (p. 97 s.) Il rapporto fra oratoria e retorica, e l’infuenza dei manuali tecnici sulla pratica oratoria sono tra le questioni controverse, in questo ambito di studi. Per un primo orientamento, vd. Mirhady (1996), che riassume alcune posizioni divergenti a proposito della provklhsi~ eij~ bavsanon, e che tende in genere a circoscrivere l’infuenza dei manuali sull’oratoria. Molto dibattuta è in particolare la questione se i trattati di retorica rifettano la reale pratica giudiziaria del tempo, soprattutto riguardo all’uso, alla manipolazione e forse all’interpretazione delle leggi (vd. più avanti). Il problema si pone anche per la Retorica di Aristotele (vd. trevett 1996; todd 2005; Mirhady 2007, p. 2; Schenkeveld 2007). Kennedy circoscrive l’importanza del trattato (esso vale come esempio di un manuale dell’epoca e come testimonianza di tecniche in uso nei discorsi del IV secolo), e afferma che gli oratori possono non aver conosciuto questa particolare opera, ma probabilmente essi conoscevano qualcosa di simile (1994, p. 51). Alcuni versi delle Nuvole di Aristofane, tra gli altri, possono essere signifcativi, al di là dell’esagerazione comica, di diversi atteggiamenti di fronte alle leggi. Allo spavento di Strepsiade, che

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teme la legge, Fidippide contrappone la propria sicurezza e consumata abilità, interpretando capziosamente la legge, che, a suo parere, la gente non intende bene: – (Fid.) Ma cos’è che temi? – (Streps.) L’ultimo del mese: il giorno vecchio e nuovo. – (Fid.) C’è un giorno che è vecchio e nuovo? – (Streps.) Sì: e quel giorno – dicono – depositeranno la cauzione del mio processo. – (Fid.) Se la depositeranno, la perderanno. È evidente: un giorno non può essere due. – (Streps.) non può? – (Fid.) e come potrebbe? A meno che una donna sia nello stesso tempo vecchia e giovane. – (Streps.) eppure, la legge è questa. – (Fid.) Secondo me, non comprendono bene lo spirito della legge. – (Streps.) e quale sarebbe? – (Fid.) Il vecchio Solone era un democratico [...] (vv. 11781187; traduzione di G. Mastromarco, torino 1983). Cfr. eschine, Contro Timarco 6; demostene, Contro Androzione 30. 27 Vd. Solmsen 1941; enos 1993; i saggi editi nel volume curato da Fortenbaugh e Mirhady (1994); Kennedy 1994; Vickers 1994; Pernot 2006. Le infuenze sulla retorica peripatetica sono analizzate nel volume curato da Mirhady 2007. Il curatore, nell’introduzione, mette in rilievo il duplice carattere della Retorica di Aristotele, come trattato retorico e come manuale per aspiranti oratori, e tende a dare maggiore rilievo, diversamente da altri studiosi, all’infuenza della tradizione tecnica, rispetto a quella sofstica e flosofca. In realtà, se anche nella Retorica è evidente l’intento di suggerire all’oratore argomenti validi, soprattutto in alcune sezioni dell’opera, nel contesto più ampio domina il carattere speculativo. Cfr. reinhardt 2007, p. 90 ss.; Calboli Montefusco 2007, p. 105 ss. 28 Vd. Chiron, pp. VIII n. 5; LX; CV, n. 244; Chiron 2002, p. 54 ss. I due testi appartengono «grosso modo» allo stesso periodo (seconda metà del IV secolo a. C.); bisogna considerare tuttavia che la composizione della Retorica di Aristotele è oggetto di dibattito. La tesi dell’anteriorità della Retorica ad Alessandro, in rap-

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porto alla Retorica, gli sembra la più verosimile: è poco credibile che il retore abbia ignorato le innovazioni aristoteliche e anche le divergenze con alcune sue posizioni, espresse soprattutto nel terzo libro della Retorica; d’altra parte, aggiunge Chiron, l’ipotesi di una composizione «intercalée» (Retorica I-II; Retorica ad Alessandro; Retorica III) costituisce solo una pista di ricerca (2003, p. 564). Altrove Chiron, riprendendo il problema del rapporto fra le due opere, ricapitola alcuni punti: l’esistenza di una fonte comune può spiegare il trattamento delle pisteis ‘aggiunte’; altre somiglianze possono essere dovute a interventi ‘aristotelizzanti’, in seguito al confuire del trattato nel C.A.; la possibilità di un contatto fra i due autori, Anassimene e Aristotele, «private tutors» entrambi di Alessandro. Si può anche sostenere che la Retorica ad Alessandro fu scritta fra due probabili periodi di composizione della Retorica (il periodo accademico, intorno al 350, e il secondo soggiorno ad Atene, intorno al 333): «this appealing hypothesis would in the frst place offer an explanation for the mark Aristotle left on the Rhetoric to Alexander». Il rimprovero che Aristotele fa agli autori dei trattati precedenti, cioè di trascurare la dottrina delle prove (I 1, 1354 a 11-31), non riguarda la Retorica ad Alessandro. «on the other hand the change of direction of the original project of the Rhetoric after the frst chapter of the work, that is to say the opening to persuasion through ethos and pathos, could be the result of the infuence of a treatise of the same type as the Rhetoric to Alexander, if not of that work itself» (2007, p. 101). Mirhady considera il confronto fra le due opere utile anche per capire la composizione stratifcata della Retorica (2007, p. 13). Anche Grimaldi, sostenitore dell’unità e dell’originalità della Retorica, afferma: «we fnd in Aristotle an advanced and more developed analysis of matter seminally present in Anaximenes» (1972, p. 80). Ancora, Woerther, attraverso l’analisi della nozione di ethos, così come appare nei primi due libri della Retorica e nel terzo, ripropone il problema dell’autenticità dell’ultimo libro (2007, p. 203). 29 Cfr. per esempio Fisiognomica 806 a 27; 809 a 26; 811 a 1; Meccanica 855 b 9 e 18, e le note ad loc., rispettivamente in Ferrini 2007 e 2010. Vd. van der eijk 1997, p. 115 ss. 30 Chiron p. IX n. 8. Il procedimento per defnizioni e divisioni rispecchia un metodo flosofco che sia l’Accademia sia il Peripato

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hanno affnato, ma appare un modo di organizzare didatticamente la materia, più che il frutto di approfondimenti, di rifessione sul telos e sulla methodos dell’attività di persuasione, vd. le considerazioni di Aristotele sulle technai dei retori di professione, nella Retorica I 1, 1354 a 11 ss. 31 un articolato e riassuntivo confronto fra la Retorica ad Alessandro e la Retorica di Aristotele, si può leggere in Chiron 2003, p. 560 ss.; 2007, p. 100 ss.; Mirhady 2007, p. 4 ss.; Kennedy 1994, p. 49 ss.; relativamente al confronto più indagato (le pisteis), vd. Mirhady 1991; Chiron 1998; Calboli Montefusco 2007, p. 105 ss. 32 Braet (1996), come si vedrà anche più avanti, dà molto rilievo al contributo della Retorica ad Alessandro alle norme di argomentazione, che fniscono per coincidere con quelle dei teorizzatori moderni. Vd. anche Chiron (2002, pp. 55, n. 16; 61 s.), che parla di «rationalité pragmatique». Interessanti sono anche i passi in cui si sfora il tema politico e flosofco della democrazia e dell’oligarchia (1424 a 8-b 26), ben sviluppato nella flosofa e nella storiografa. Fuhrmann osserva che il manuale non offre un effettivo sistema di teoria retorica (1960, p. 15): tuttavia si nota uno sforzo in direzione di una sistematicità, pur se continuamente compromessa dal dominante empirismo. 33 Vd. la nota 28. 34 Vd. pp. XLVII ss.; LIII ss.; LXVI ss.; LXXV ss.; LXXXVIII ss.; CVI: «notre sentiment est que ces modifcations n’ont pas altéré gravement la substance du traité, comme en témoigne l’archaïsme d’un grand nombre de points de doctrine et de certains traits de la terminologie, mais ce n’est là qu’une opinion et, en l’absence de preuve, la prudence s’impose: une reconstitution précise et sûre de la forme du traité primitif nous paraît actuellement hors d’atteinte». Vd. anche Chiron 2003, p. 568 ss. Per quanto riguarda l’attribuzione ad Anassimene, Chiron dichiara che egli è «un assez bon candidat à l’attribution»: è sia un oratore sia un retore, si è interessato all’eloquenza deliberativa (ciò coincide con una priorità che essa ha nel trattato) e agli aspetti dimostrativi della retorica (vd. la teoria dell’argomentazione nei capitoli 7-14, e le critiche di Aristotele ai retori che lo hanno preceduto). Inoltre, egli è un sofsta (la sofstica impronta di sé il trattato); il

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suo stile è isocratico (i consigli stilistici dati nel trattato rifettono le tendenze isocratiche); avrebbe insegnato le tecniche di improvvisazione (nel trattato vi si allude – 1445 b 26; vd. qui la nota di commento ad loc.). «Quant à sa position de “collègue” d’Aristote auprès d’Alexandre – malgré leur possible inimitié –, elle n’est pas sans jeter une certaine lumière sur l’enigme des contacts relevés [...] entre la Rh. Al. et la Rhétorique» (p. 571). Cope ritiene invece che lo stile del trattato escluderebbe l’attribuzione ad Anassimene: «Anaximenes was a professed rhetorician, and had therefore studied Greek composition» (1867, p. 408 s.). da un retore come Anassimene ci si attenderebbe un linguaggio diverso; inoltre molti termini e locuzioni, utilizzati nella Retorica ad Alessandro, sembrano più propri di uno stadio tardo della lingua (p. 409 ss.). Incline, nel complesso, a dichiararsi a favore dell’attribuzione ad Anassimene, sulla base di meno opinabili evidenze esterne, conclude tuttavia richiamando alla prudenza: «It is certainly possible that Anaximenes may in spite of his rhetorical education and practice have been really chargeable with the solecisms which the text of the rhet. ad Alex. presents: or on the other hand these may be corruptions or interpolations of incompetent transcribers or critics: but as we have not attained to complete certainty upon the question I think it would be as well if the name of Anaximenes on the title page of Spengel’s next edition were replaced by the more modest ‘Anonymus’» (p. 413 s.). 35 I sofsti a banchetto XI 508 a: si cita una defnizione della legge, contenuta nella lettera apocrifa (1420 a 25-27 – vd. nel commento la nota 5), attribuendo il testo a Aristotele: «cela signife que du temps d’Athénée, c’est-à-dire dans la première moitié du IIIe siècle, la lettre existait et que la Rhétorique à Alexandre était entrée, désormais, dans le corpus aristotélicien» (Chiron 2002, p. 71). 36 Vd. pp. XII; XLVII ss.; 2003, p. 564 s.: indizi di sutura, difetti strutturali, usi lessicali diversi e cambiamenti di signifcato di una stessa parola, in parti diverse (la ‘frontiera’ sarebbe costituita dal capitolo 29), sono indiscutibili. Bisogna tuttavia, sostiene Chiron, essere prudenti: le differenze possono essere in relazione alla diversità delle infuenze; inoltre la lettura comunica un’impressione di unità. Si notano interdipendenze fra la terza parte e le prime

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due, unità di pensiero e di stile: «Si la matière et la terminologie sont indiscutablement hétérogènes, et trahissent des infuences extérieures, voire des interventions tardives sur le texte, il paraît diffcile de dénier au traité l’unité de pensée e de style» (p. 565). 37 Vd. pp. LIII ss.; LXXXIII ss.; CIV ss. Vd. qui anche la nota 34. 38 un’esauriente esposizione della produzione retorica prearistotelica si ha in navarre 1900 e in radermacher 1951; vd. anche Kroll 1940; Grimaldi 1972, pp. 73-81; enos 1993; Kennedy 1994; Vickers 1994; Chiron, pp. CVII-CL; Pernot 2006. 39 Vd. in particolare pp. CXXXI-CXLVIII. Chiron si sofferma brevemente anche sui teorici del IV secolo più giovani di Isocrate: Iseo, Callippo, zoilo (pp. CXLVIII-CL). Vd. anche Walker 2000, p. 177 ss. 40 Chiron, p. CLV. 41 22 B 45, I p. 161 d.-K.: «I confni dell’anima non li potrai mai raggiungere, per quanto tu proceda fno in fondo nel percorrere le sue strade: così profondo è il suo logos» (vd. reale 2006). de Meyer osserva che il termine logos impiegato da eraclito evoca la parola, il linguaggio, ma anche ciò che è espresso dal discorso, «cette sorte de parole intérieure qui se projette dans le discours» (1997, p. 5). 42 Vd. Gorgia 82 B 11, 13 s., II p. 292 s. d.-K. (Encomio di Elena): «Poiché la persuasione, insita nella parola, modella anche l’anima come vuole, bisogna conoscere in primo luogo i ragionamenti degli studiosi di cose celesti, i quali, ponendo un’opinione in luogo di un’altra, eliminandone una e proponendone un’altra, fanno apparire chiare agli occhi della mente cose incredibili e oscure; in secondo luogo, le inevitabili competizioni oratorie, nelle quali un solo discorso, scritto con arte e detto non secondo verità, riesce a dilettare e a persuadere una folla numerosa; in terzo luogo, le discussioni dei discorsi flosofci, nella quali si mostra come la rapidità d’intelletto renda facilmente mutevole la convinzione dell’opinione. Lo stesso rapporto intercorre sia tra la potenza di un discorso e la disposizione dell’anima, sia tra l’azione dei farmaci e la natura del corpo. Come, infatti, alcuni farmaci espellono dal corpo questo o quell’umore, e alcuni fanno cessare la malattia, altri la vita, così anche alcuni discorsi addolorano, altri dilettano,

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altri spaventano, altri predispongono gli ascoltatori al coraggio, altri in forza di qualche cattiva persuasione, avvelenano e incantano l’anima»; Platone, Fedro 277 b-c. 43 Vd. Baumhauer 1986, in particolare p. 139 ss. La teoria retorica dell’argomentazione è ben distinta, anche nell’antichità, dalla teoria della dimostrazione, più propria della scienza; tuttavia esse presuppongono operazioni logiche simili, anche se diverso è il punto di partenza adottato. Vd. Aristotele, Topici I 1, 100 a 27-30. Cfr. dubois et alii (Gruppo m) 1980; Perelman/ olbrechtstyteca 1989; desbordes 1990; Pera 1991; Braet 1996; de Meyer 1997; Chiron 1998, p. 349 s.; Calboli Montefusco 1999 e 2007; timmerman/ Schiappa 2010; Asper 2013. 44 Vd. Wilamowitz 1899; Wendland 1904; Patillon 1997, p. 122 ss. Chiron, p. XLV ss.; 2002, p. 72. Velardi ritiene invece che autore della lettera sia lo stesso Anassimene (2000, p. 222; già Wendland aveva ritenuto la lettera opera di un falsario). Chiron si domanda come mai la lettera, che costituisce per la maggior parte degli studiosi moderni un falso molto evidente, abbia potuto ingannare, nel corso di tanti secoli: i dubbi sulla paternità sono derivati prima di tutto dall’esame del trattato (2002, p. 54). dopo aver ripercorso gli argomenti esterni e interni che escludono la paternità aristotelica del trattato, e dopo aver messo in evidenza le incoerenze, l’ecclettismo concettuale e stilistico della lettera (pp. 56-61; vd. qui il commento ai singoli passi), esamina i motivi per i quali l’inganno ha potuto avere successo: la strategia del falsario si comprende meglio, se si tiene conto anche dell’immagine che il pubblico antico aveva di Aristotele, e dell’abilità del falsario nel dare «détails authentifants» (pp. 61-70). Chiron conclude con alcune ipotesi sull’origine della lettera: il falsario vive in un’epoca in cui la formazione retorica non è separata dalla formazione flosofca; in cui la lettera, la tesi, il protrettico costituiscono dei generi codifcati e insegnati; e in un momento particolare nella storia della ricezione dell’opera di Aristotele. «Il est douteux qu’un auteur antérieur au médio-platonisme ait pu fondre ainsi des thèmes platoniciens et aristotéliciens. Il est avéré d’autre part [...] que le Protreptique a joui d’une vogue certaine jusqu’au IIe siècle ap. J.-C. Vers l’aval, l’école péripatéticienne allait

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bientôt ne plus commenter que les textes scientifques, et il existe – avec Atticos et Alexandre d’Aphrodise, c’est-à-dire dans la seconde moitié du IIe siècle ap. J.-C. – une sorte de raidissement et de retour à l’exactitude et à la différenciation dans l’utilisation des doctrines de Platon et d’Aristote» (p. 71; cfr. rashed 2000, p. 32). La datazione oscillerebbe fra il I secolo a.C. e il II d.C.: il II secolo d.C., periodo in cui forisce la seconda sofstica, appare la data più probabile; essa coinciderebbe con l’ipotesi di Moraux sulla presenza della Retorica di Alessandro nell’Appendice al catalogo dell’Anonimo di Menaggio (vd. qui la nota 6; questa appendice non può essere stata aggiunta, secondo Moraux, «avant le premier tiers du second siècle de notre ère»; «la lettre et la conclusion furent certainement composées avant le troisième siècle de notre ère, puisque Athénée, le plus ancien témoin de l’ouvrage, en cite un passage en l’attribuant explicitement à Aristote» – 1951, pp. 249; 259). Sulle motivazioni del falsario, Chiron avanza un’ipotesi, basandosi su quanto egli dice a proposito dei ‘sofsti di Paro’ (p. 71 s.). Vd. anche Chiron 2003, p. 558 ss. Cope sottolinea il fatto che l’autore della lettera (chiunque egli sia, e qualunque possa essere stato il motivo della sua falsifcazione: «Victorius opines that the object was to give an additional pecuniary value to the work by fathering it upon the distinguished philosopher»), nel suo sforzo di dare «an air of reality to his letter, by making Aristotle assume the style of a tutor in writing to his former pupil», dimentica quanto siano radicalmente cambiate le relazioni tra i due, da quando Aristotele dava lezioni «to the little Alexander at the Court of Philip», e che quel tempo era ormai molto lontano. La falsifcazione non potrebbe essere più evidente: «never did a spurious document more manifestly betray itself by want of skill and inappropriateness in the composition» (1867, p. 401). 45 Sulla struttura del trattato, vd. per es. Campe 1854; Ipfelkofer 1889; Fuhrmann 1960; Patillon 1997; Chiron, pp. XII; XLVII ss. 46 nell’ambito del C.A., vd. in particolare i trattati sui Colori, sui Suoni, la Fisiognomica e la Meccanica. Ciò non esclude che in essi emergano una nozione centrale e un criterio dominante di analisi: nella Retorica ad Alessandro è la pistis, nei Colori, il concet-

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to di mixis; nella Meccanica, la fgura del cerchio; nella Fisiognomica, il semeion specifco; nei Suoni, la teoria della plege, dell’urto. 47 1445 b 24-1446 a 35. Vd. la nota ad loc. 48 Vd. Butti de Lima 1996, p. 19 ss.; p. 50: «Le prove, anche quando determinate in modo relativamente specifco da norme procedurali, rimangono sempre nella sfera d’azione delle parti». nel suo lavoro dedicato all’analogia tra lo storico e il giudice, e nella sua analisi della prassi giudiziaria ateniese, egli affronta alcuni quesiti, lucidamente esposti nella Nota introduttiva di Luciano Canfora: «esiste una funzione di inchiesta nella pratica giuridica ateniese? a chi spetta “ricercare la verità” nel processo attico? in che misura la ricerca della verità (espressione che tucidide farà propria in un celebre passo del proemio) è compito del giudice? La conclusione cui l’Autore perviene è che altre sono le fgure cui compete tale ricerca, e che tale ricerca s’intreccia inestricabilmente con le esigenze della retorica» (p. VII). Vd. anche todd 2005. Si può parlare di una dinamica agonale del processo, fn da omero, e di una dimensione teatrale di ogni performance orale. 49 desbordes interpreta le pisteis degli oratori come «“raisons” à l’appui»: «ce sont des moyens, des facteurs de persuasion, les garanties qui engagent à faire confance à l’orateur, mais qui ne lui gagnent pas automatiquement et nécessairement cette confance. en argumentant, on table sur la raison pour persuader, tout en sachant qu’il n’y a pas de lien nécessaire entre raison et persuasion. de façon paradoxale, on considère que les pivstei~ sont potentiellement persuasives parce qu’elles tiennent de la preuve, de la démonstration véridique, mais on sait que le fait qu’elles ne soient pas vraiment des preuves ne leur ôte pas ce caractère d’effcacité potentielle». dato il carattere ambiguo delle pisteis, la retorica antica non ci appare come una teoria unifcata, «oscillant toujours entre logique et esthétique, en passant par politique et psychologie. [...] la persuasion peut être obtenue aussi bien par une apparence de preuve que par une preuve réelle. Mais, au bout du compte, si démontrer est dissocié de persuader, argumenter le sera aussi, et la persuasion pourra être obtenue par n’importe quoi, un sophisme, un bon mot ...». Il dibattito e il contraddittorio assomigliano così a una partita a scacchi, di cui il giudice potrebbe ignorare le regole; data questa situazione, la retorica si è sforzata

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di ridurre il margine di incertezza, e di applicare il criterio del prepon, «la règle des règles, qui enjoint à l’orateur de dire ... ce que la situation demande» (1990, p. 83 ss.). 50 Cfr. Meccanica 848 b 13; 849 a 2 e passim; Ferrini 2010, p. 56 s. nella Retorica ad Alessandro una delle formule introduttive più ricorrenti e insistenti rinvia alla prescrizione, attraverso l’uso di aggettivi verbali, di ciò che si deve o si dovrà ‘dire’, ‘trovare’ o ‘fare’. 51 Vd. Retorica I 1, 1354 a 1-6 («La retorica è antistrophos alla dialettica: entrambe riguardano oggetti la cui conoscenza è in un certo qual modo patrimonio comune di tutti gli uomini e che non appartengono a una scienza specifca. da ciò segue che tutti partecipano in un certo senso di entrambe, perché tutti, entro un certo limite, si impegnano a esaminare e sostenere un qualche argomento, o a difendersi e ad accusare» – vd. anche infra; la traduzione della Retorica è, qui e altrove, con qualche adattamento, di Marco dorati 1996); 1, 1355 b 8-17: «Che la retorica non tratti di un unico genere specifco di soggetti, ma sia come la dialettica, e che sia utile, è evidente – è inoltre evidente che la sua funzione non è persuadere, ma individuare in ogni caso i mezzi appropriati di persuasione, proprio come avviene per tutte le altre tecniche: non è infatti compito della medicina rendere sani, ma procedere con la guarigione fn dove sia possibile, poiché si possono curare convenientemente anche coloro che non sono in grado di recuperare la salute. Inoltre, è chiaro che rientra nella medesima tecnica scorgere ciò che è persuasivo e ciò che è apparentemente persuasivo, proprio come rientra nella dialettica riconoscere il sillogismo vero e il sillogismo apparente»); 2, 1355 b 25-34 («La retorica può essere defnita la facoltà di scoprire il possibile mezzo di persuasione riguardo a ciascun soggetto. Questo compito infatti non appartiene a nessun’altra tecnica, perché ognuna di esse si prefgge di insegnare e di persuadere in relazione alla materia che le è propria: ad esempio la medicina intorno alla salute e alla malattia, la geometria intorno alle proprietà delle grandezze, l’aritmetica intorno ai numeri, e allo stesso modo anche per le altre tecniche e scienze. La retorica, invece, per così dire, sembra essere in grado di scorgere il mezzo di persuasione intorno a qualsiasi soggetto propo-

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sto. Per questo possiamo dire che essa non possiede una tecnica che riguardi un genere particolare e defnito di soggetti»). La distinzione fra dynamis (facoltà) e proairesis (intenzione), in questo contesto argomentativo (1, 1355 b 17-21), traccia un confne fra dialettica e sofstica, utile per capire l’argomentazione seguente, e il rapporto fra retorica e verità, dal punto di vista aristotelico: di essa si deve tener conto nel dibattito riguardante la ‘moralità’ dei suggerimenti, e la validità dei consigli dati da Aristotele. Il tentativo di Aristotele di ancorare la retorica alla dialettica è un punto di riferimento anche nell’epistemologia moderna, in una rinnovata consapevolezza dei fattori implicati nella presentazione e nella comunicazione delle conoscenze e dei risultati acquisiti in ogni ambito disciplinare, letterario, flosofco, scientifco e artistico, e di ciò che si intende per ‘argomentazione retorica’: esso ha contribuito a trasformare la retorica in una scienza totalizzante. Il processo di formulazione (scritta, orale, visiva o uditiva) di un messaggio, di una composizione, di una teoria segue delle regole, intuitive o meditate, nel guidare il lettore, l’ascoltatore o lo spettatore a cogliere il contenuto, ed eventualmente a concordare con l’autore. «noi non dobbiamo (né, comunque, potremmo) eliminare dalla scienza i desideri soggettivi e le convenzioni sociali; piuttosto dobbiamo cercare di portarli dentro la scienza senza sacrifcarne le sue innegabili caratteristiche di sapere rigoroso e obiettivo. Sosterremo qui che ciò è possibile purché si passi dal metodo alla retorica. Ciò equivale a trasferire la scienza dal regno della dimostrazione al dominio dell’argomentazione e a concepire i vincoli non in termini di regole ma in termini di certi fattori cui fanno appello interlocutori concreti in discussioni concrete». Così Pera, sulla scia di Kuhn (1991, p. 61). Facendo riferimento all’analisi aristotelica, riguardante il ruolo degli endoxa e dell’entimema nella retorica, precisa che la differenza fra argomenti dialettici e argomenti retorici non è «di carattere strutturale o epistemico; è piuttosto di carattere pratico»; «nella scienza non si può pensare di persuadere un uditorio se non difendendo le proprie posizioni in un dibattito e rispondendo agli attacchi» (p. 63). 52 I 1, 1355 a 3 ss. 53 I 1, 1354 a 14 s. 54 Sulle accezioni di pistis in Aristotele, vd. in particolare Gri-

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maldi 1972, p. 57 ss., che ne distingue cinque (oltre al signifcato ristretto di «part of a speech» e al più ampio di «“pledge” or “word of honor”», la parola acquista nella techne retorica questi valori: «(1) pistis as a state of mind, i.e. belief or conviction, which results when a person accepts a proof or demonstration; (2) pistis as the logical instrument of the reasoning process in deduction or induction; (3) pistis as source material» – p. 58); Barthes 1993, p. 60 ss.; Baumhauer 1986, p. 141 s.; Carey 1994, p. 26; Piazza 2008, p. 45 ss.; natali 2014, p. 311 ss. 55 I 1, 1355 a 3-8. 56 I 2, 1356 b 6-8. 57 I 2, 1355 b 35-39: «Alcune argomentazioni sono ‘non tecniche’, altre sono ‘tecniche. Intendo per argomentazioni ‘non tecniche’ quelle che non sono fornite da noi stessi, ma sono preesistenti, come le testimonianze, le confessioni ottenute con la tortura, i documenti scritti e cose del genere; ‘tecniche’ quelle che è possibile fornire grazie a un metodo e dipendono da noi. di conseguenza, delle prime ci si deve servire, mentre le seconde è necessario inventarle». Cfr. Platone, Fedro 266 d-e. Genericamente si può dire che le pisteis atechnoi sono più immediatamente collegabili con le modalità arcaiche della prova; quelle entechnoi, con le potenzialità logiche del discorso: funzione retorica e funzione euristica restano diffcilmente dissociabili. Le pisteis entechnoi presuppongono a loro volta una distinzione fra il discorso in quanto prova e il discorso in quanto narrazione, una distinzione di fatto spesso labile. L’esigenza di delimitare l’ambito di una techne è ben presente anche nella Poetica, vd. per es. 6, 1450 b 16 s.; 7, 1451 a 6 s. Questa distinzione serviva, secondo Paolo Butti de Lima, più a fni retorici che a una caratterizzazione procedurale; in ogni caso, attraverso essa si chiarisce «il modo in cui interagiscono le disposizioni tanto retoriche quanto procedurali nella pratica giuridica» (1996, p. 44). L’autore parla di «una raffgurazione unitaria dei mezzi di prova», sia nei discorsi giuridici sia nei trattati di retorica, «tuttavia, quanto al rapporto interno tra le prove, questo sistema si presenta assai complesso e terminologicamente impreciso. [...] Si vede la complessità procedurale del sistema probatorio quando si cercano di determinare i campi di applicazione di ognuna delle prove. Si possono designare genericamente tutte le prove con

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tekmēria e/o martyria. tuttavia, se le testimonianze, come funzione precipua del sistema probatorio, hanno una loro specifcità, lo stesso non si può dire delle altre prove. Se per tekmērion si intende la prova che si ottiene con l’argomentazione, non si può non considerare la funzione retorica che vi è correlata; se invece indica la prova “materiale”, essa ha un livello di applicazione relativamente ristretto» (p. 50). La distinzione non è inoltre sempre rilevante per comprendere l’uso dei mezzi di prova nei discorsi giudiziari: «Il tentativo aristotelico (e forse prearistotelico) di distinzione non escludeva i vari modi di disposizione retorica delle atechnoi pisteis (Retorica, 1375 a 22 sgg.) e cercava di rendere uniforme un uso terminologico che di fatto non lo era. Gli stessi termini – sēmeion, tekmērion – che indicano alcune entechnoi pisteis (appartenenti quindi alla logica dell’argomentazione) possono anche designare le prove materiali. Inoltre, se non tutte le prove “non tecniche” rimangono sullo stesso piano [...], nemmeno possiamo considerare alla stessa stregua le forme dell’argomentazione, come gli indizi e la verosimiglianza, che rimandano [...] in modo diverso ai fatti accaduti» (p. 65). 58 I 15, 1375 a 22-1377 b 12; cfr. III 17, 1417 b 21 ss. (vd. in particolare 1418 a 26 s.: «Base dei discorsi giudiziari è la legge, e quando si possiede un punto di partenza, è più facile trovare una dimostrazione»). «dagli argomenti recati dall’oratore per provare il proprio assunto (pivstei~ e[ntecnoi), Aristotele distingue le prove raccolte durante il periodo istruttorio (pivstei~ a[tecnoi) – la retorica romana usa rispettivamente, traducendo, le due espressioni probationes artifciales e probationes inartifciales – ed egli stesso le classifca, con precisa rispondenza alle fonti oratorie, in cinque categorie: novmoi, mavrture~, sunqh`kai, bavsano~, o{rko~» (Biscardi 1982, p. 266). 59 Schouler si interroga sul senso di questa partizione: «ceux preuves “atechniques” ne sont pas exactement extra-techniques, hors de la rhétorique, elles sont plutôt, par rapport à la tekhnê, neutres, situées donc dans le non-art. [...] Ce sont des matériaux bruts qui n’ont encore fait l’objet d’aucun traitement. Les Latins ont judicieusement traduit “atechnique” par inartifcialis» (1997, p. 39). La prova inartifcialis può essere contemporaneamente

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«hors de la rhétorique et dans la rhétorique, antérieure et intérieure», perché di fatto la retorica «réintègre la preuve non-technique, puisqu’elle la livre aux assauts des preuves techniques» (p. 40). Cfr. desbordes 1990; Mirhady 1990 e 1991. 60 Retorica I 3, 1358 a 37-b 2. 61 Retorica I 2, 1356 a 1-4. 62 «Lo studio penetrante dell’uditorio trasforma alcuni capitoli degli antichi trattati di retorica in veri e propri studi di psicologia. Aristotele nella sua Retorica, parlando di uditori classifcati in base all’età e alla condizioni di fortuna, ha inserito numerose descrizioni sottili e tuttora valide di psicologia differenziale» (Perelman/ olbrechts-tyteca 1989, p. 22). un quadro suffcientemente riassuntivo degli studi che danno rilievo alla modernità della Retorica di Aristotele è offerto da natali 1994; 2000; 2014; Mirhady 2007. Vd. anche la nota 189. decisive per la rivalutazione della retorica, legata principalmente ai nomi di Perelman e di Gadamer, sono sia l’esigenza aristotelica di distinguere varie forme di razionalità, sia la centralità assunta dallo studio, in ambiti diversi, degli aspetti legati alla comunicazione, e al rapporto tra pensiero e linguaggio, in alcune correnti flosofche, secondo cui si dimostra «non solo che il pensiero si lascia analizzare in modo controllabile solo nella sua espressione linguistica, ma anche che la forma più controllabile di quest’ultima è il suo uso nella comunicazione, perché solo nell’esercizio concreto della comunicazione si mette alla prova la dimensione semantica, cioè referenziale, del linguaggio stesso» (Berti 2000 – La presenza, p. 87). 63 «A fare da spartiacque tra le due prospettive è [...] la nozione di metodo, assente nella Rhetorica ad Alexandrum e così cruciale, invece, nella Retorica» (Piazza 2008, p. 168 n. 2). In genere si osserva che una lettura troppo aristotelizzante del trattato rischia di non fa emergere le rispettive peculiarità. Il sistema delle prove in Aristotele, nella Retorica ad Alessandro, in Gorgia e in Antifonte, nella tragedia (in eschilo – il processo di oreste – e in euripide) è analizzato da Goebel 2002. un’origine retorica comune alle varie trattazioni sulle pisteis è molto probabile, ed è sostenuta, tra gli altri, da Mirhady, che individua in teodoro di Bisanzio il possibile «forerunner»: la sua

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formulazione di un sistema di pistosis e epipistosis (vd. Platone, Fedro 266 e) potrebbe rifettersi nella denominazione scelta da Anassime: epithetos pistis (1991, p. 8). Il sistema è più complicato in Anassimene che in Aristotele, ma la divisione in pisteis atechnoi e in pisteis epithetoi è simile, perché le parole, le azioni e gli uomini, da cui derivano le argomentazioni, «take somewhat the same position as the technical pisteis of Aristotle (pragmata, ēthos and pathos), even if they do not correspond exactly» (p. 7). Vd. anche Mirhady 2007, p. 4. Cfr. Cicerone, Dell’oratore II 114 ss., in particolare 115-117 («tutta l’arte del dire poggia su questi tre mezzi di persuasione: dimostrare la veridicità della propria tesi, accattivarsi gli ascoltatori e provocare nel loro animo qualsiasi emozione richiesta dalla causa. Per dimostrare la veridicità delle sue tesi, l’oratore ha a disposizione elementi di due specie: la prima non è di sua invenzione, ma è costituita dalle prove insite nel fatto stesso e addotte secondo modalità precise: documenti, testimonianze, accordi, convenzioni, interrogatori, leggi, senatoconsulti, sentenze emesse in precedenza, decreti, pareri di esperti, e tutte le altre prove, se ve ne sono, che non sono escogitate dall’oratore, ma all’oratore fornite dalla causa e dalle parti. La seconda specie consiste interamente nella discussione e nell’argomentazione dell’oratore. riguardo al primo genere, bisogna prestare attenzione al modo di utilizzare le prove; riguardo al secondo, anche a come trovarle» – vd. ed. introdotta da e. narducci, Milano 20017, utilizzata anche altrove); Quintiliano, La formazione dell’oratore V 1 ss., in particolare 1, 1 s. («Quasi tutti hanno accordato il loro consenso alla prima divisione, che risale ad Aristotele: ci sono alcune prove che l’oratore riceve da elementi esterni alla retorica, e ce ne sono altre che egli stesso trae, e in certo modo fa nascere dalla causa; perciò chiamarono quelle atechnoi, cioè indipendenti dall’arte retorica, . di quel primo genere sono sentenze precedenti, dicerie, confessioni ottenute attraverso tortura, patti, giuramenti e testimoni, fattori sui quali si fonda la maggior parte delle contese forensi. Ma proprio in quanto di per sé privi di arte, il più delle volte essi vanno sostenuti o smentiti ricorrendo alle migliori risorse dell’eloquenza. Perciò mi sembra che meriti dure critiche chi ha interamente rimosso dalla propria precettistica questo tipo di prove»).

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Questa posizione iniziale, rispettivamente di nomos (Retorica I 15, 1375 a 24) e di doxa (l’opinione dell’oratore, «his attitude toward the facts» – dianoia kata ton pragmaton) indicherebbe, secondo Mirhady, che entrambi gli autori «in some way observed aspects of the original frst non-technical pistis in their accounts»: si tratterebbe dell’enklema, dell’atto d’accusa scritto (dike, graphe, eisangelia) che comportava «a statement about specifc facts and an application of the law». Aristotele tratta dell’applicazione della legge, considerandola la base della discussione in tribunale (Retorica III 17, 1418 a 26), in termini flosofci e senza entrare nei dettagli dell’enklema; Anassimene invece parla della legge altrove, e sostituirebbe così l’enklema con un concetto che riguarda l’esperienza e l’obiettività dell’oratore (1991, pp. 9-11). Carey non condivide l’identifcazione sostenuta da Mirhady: è più facile pensare che i due autori abbiano sviluppato indipendentemente un più semplice schema della tradizione (1996, p. 33). La legge è per Aristotele, almeno in contesti forensi, un mezzo di persuasione; formalmente, l’inclusione della legge fra le pisteis atechnoi rifette la pratica corrente. «there were no lawbooks, and there was no text of relevant laws available to the jurors. It was up to the individual litigant to provide his own excerpts from the law in order to prove his case»; così le leggi erano presentate come ogni altro documento riguardante il caso. Carey fa notare inoltre che le formule per introdurre sia le testimonianze sia le leggi fnirono, nel IV secolo, per sovrapporsi, con il risultato che in tribunale non si percepiva la differenza tra legge, deposizioni, contratti, torture e giuramenti. È importante tuttavia distinguere fra presentazione formale delle leggi e ruolo della legge nei tribunali: «Firstly, laws were protected procedurally in a way which distinguished them from other atechnoi pisteis. [...] Law is privileged in its protection by the death penalty. It is also privileged in the decision-making process, since the jurors swore to vote according to the laws and decrees of the Athenian assembly and Boule» (1996, p. 33 s.). 65 Vd. le osservazioni di Carey, nella nota precedente. In alcuni passi della Retorica, modi diversi di argomentazione sembrano collegati a una differenza tra questioni di fatto e di diritto: I 1, 1354 a 26-31 (cfr. 1354 a 21-26); 13, 1373 b 38-1374 a

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17; III 17, 1417 b 21-30. Vd. anche Retorica ad Alessandro 1442 b 32-1443 a 5. Il dibattito riguardo alla distinzione tra questione ‘di fatto’ e questione ‘di diritto’ nella rifessione greca è aperto, vd. per es. Maff 1976; talamanca, in Bretone/ talamanca 1994, p. 42 s.: facendo riferimento all’inserimento dei nomoi nelle pisteis atechnoi, l’autore commenta: «Ciò può sembrare sorprendente dal nostro punto di vista, ma bisogna tenere conto del fatto che le pisteis aristoteliche, entechnoi o atechnoi che fossero, non erano che gli argomenti con i quali l’oratore induceva gli ascoltatori – nell’oratoria forense, i giudici – ad assentire alla tesi che egli difendeva, mediante quella tecnica del ‘convincimento globale’ [...], che, per quanto riguarda la prassi giudiziaria, affondava del resto saldamente le radici nelle strutture sociali ed istituzionali della giustizia attica. In questa impostazione i nomoi sono trattati alla stessa stregua delle altre pisteis, immediatamente di quelle atechnoi (alle quali essi appartengono), ma anche – mediatamente – di quelle entechnoi. Questa è già di per sé una constatazione interessante, perché è evidente che, all’interno di una tale teoria, non trova spazio la distinzione, per noi corrente, fra questione (e giudizio) di fatto e questione di diritto, in quanto tutte le argomentazioni, in fatto e in diritto, sono sentite sullo stesso piano per ottenere il convincimento dei giurati». Più genericamente, si deve tener conto delle disposizioni procedurali e del principio vigente nel diritto attico, secondo cui «iura non novit curia: il giudice è obbligato a giudicare secondo la legge, ma non a conoscerla, e quindi neppure a tenerne conto se non è debitamente allegata. La parte, che non produce la legge, rinuncia implicitamente a valersene» (Biscardi 1982, p. 266 s.: l’autore fa riferimento alla distinzione aristotelica delle pisteis). Butti de Lima riassume così alcuni punti del dibattito: «non si può in realtà affermare che la distinzione tra questione “di fatto” e “di diritto” fosse sconosciuta nella rifessione greca. È vero che la teoria retorica degli status, in cui si distingue tra le congetture sui fatti – stochasmos – e la discussione sulla premeditazione, sul diritto ecc. (e cioè la distinzione tra krinomenon aphanes e krinomenon phaneron), viene sviluppata soltanto in periodo ellenistico. tuttavia, c’erano già prima le basi di questa rifessione: nella Re-

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torica aristotelica, ad esempio, la differenza tra questioni di fatto e di diritto permette modi diversi di argomentazione. Ma si tratta di una distinzione che non assumerà mai un aspetto fortemente contrastante: ai fni persuasivi degli oratori possono porsi sullo stesso piano (almeno secondo le teorie retoriche) questioni di fatto, di diritto, della premeditazione e della gravità del fatto. Per capire questa situazione è necessario che si tengano presenti gli aspetti procedurali prima considerati: l’assenza cioè di un maggior potere d’azione e di una funzione di inchiesta attribuibili ai giudici, e la mancanza di una funzione qualsiasi di “consiglio” legata a una esperienza legale (tranne appunto quella dei logograf), fattori che comunque accentuano la possibilità dell’uso retorico della legge» (1996, p. 51 s.). 66 Retorica ad Alessandro 1438 a 25; 1443 a 4; b 13; cfr. 1421 b 13; 1432 b 33. Vd. Chiron, p. XLVIII; Maff 1976, p. 120 s. 67 Vd. per es. Retorica I 1, 1354 a 14 s.; 1355 a 3-14; 2, 1356 a 34-b 25; e la nota di commento alla Retorica ad Alessandro 1430 a 23. Sull’apporto aristotelico alla defnizione e specializzazione di un termine già esistente, vd. per es. Grimaldi 1972; Burnyeat 1994; Piazza 2000; 2008, pp. 122-135. 68 Retorica I 2, 1357 a 31 s.; b 3-6; II 25, 1402 b 13-24. Vd. Grimaldi 1972, p. 104 ss. 69 Retorica II 21, 1394 a 25-28; b 17-21. 70 1428 a 25-1431 b 8. 71 «Per quanto corrette, entrambe queste traduzioni comportano dei rischi. In particolare, la prima sembra sottendere (se non addirittura generare) un’opposizione tra eikos e verità che non era invece nel signifcato originario ed è lontana dallo spirito aristotelico. La seconda, invece, orienta verso un’interpretazione “probabilistica” (in senso moderno) anch’essa assente nell’antica nozione di eikos» (Piazza 2008, p. 168). 72 «L’eikos, invece di effettuare, come nel caso delle altre prove, una deduzione da un fatto che è esterno alle conoscenze generali dell’ascoltatore, semplicemente stabilisce collegamenti tra informazioni in parte riconoscibili. Perciò esso ha un ruolo determinante all’interno della retorica, diventando la prova retorica per eccellenza. Come si sa, già la techne di tisia e Corace consisteva

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probabilmente nella presentazione di argomentazioni svolte per mezzo dell’eikos, attraverso le quali si realizzava il principio protagorico del “rendere più forte l’argomento più debole”». Così Butti de Lima (1996, pp. 70 e 72), che continua mettendo in evidenza come l’aspetto eminentemente retorico dell’argomentazione per mezzo dell’eikos faccia emergere, nella sua applicazione e nella rifessione su di esso, una contrapposizione tra funzione retorica («riferita a un dibattito “presente” e a una situazione agonistica, la cui soluzione implica un discorso sul passato, ma non necessariamente la presentazione della “verità”») e funzione euristica («in cui il discorso sull’accaduto e la scoperta della verità sono necessariamente correlati»). 73 Inno a Hermes (IV) 261-277. «Figlio di Leto, cos’è questo severo discorso che hai pronunciato? davvero sei venuto qui a cercare le vacche abitatrici dei campi? non ho visto, non so, non ho sentito altri parlarne; non posso informarti, non posso chiederti un premio per averti informato; e non somiglio a un ladro di buoi, uomo vigoroso. Io non mi occupo di queste cose; altre m’interessano di più: m’interessa il sonno, e il latte di mia madre; avere fasce intorno alle spalle, e un bagno caldo. Che nessuno sappia da dove è nata questa contesa – tovde nei`ko~: in verità, grande prodigio sarebbe, al cospetto degli dei immortali, che un bambino appena nato varcasse la soglia con vacche abitatrici dei campi; tu dici una cosa assurda. Io sono nato ieri: i miei piedi sono delicati, e dura sotto di essi è la terra. Se vuoi, pronuncerò un giuramento solenne, sulla testa di mio padre: affermo di non essere io il colpevole, e non ho visto nessun altro che sia il ladro delle tue vacche – qualunque cosa siano queste vacche: io le conosco solo per sentito dire». (trad. di F. Càssola, Milano 1975). Cfr. l’inizio dell’Inno 17-19: «nato all’aurora, a mezzogiorno suonava la lira, e dopo il tramonto rubò le vacche di Apollo arciere, nel giorno in cui lo generò Maia veneranda, il quarto del mese». nella Retorica ad Alessandro (1431 a 13-15) si fa un esempio simile. Kennedy, riferendosi alla scena della disputa fra Apollo e Hermes in questo inno, sottolinea che Hermes impiega «what is apparently the earliest specifc example of argument from probability (eikos) in Greek: is he, a baby, “like” (eoika) a cattle thief? (265); that is, is it “probable” that he could have stolen cattle?» (1994, p.

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14). Il ricorso al giuramento per discolparsi fa invece parte della procedura legale tipicamente arcaica. 74 Vd. in particolare i saggi raccolti da Lévy/ Pernot 1997; l’introduzione al volume, dal signifcativo titolo Phryné dévoilée, fa riferimento a questo aneddoto celebre nell’antichità, in cui si confrontano il ‘dire’ e il ‘vedere’ di fronte ai giudici: la vista viene in aiuto della parola, muovendo i giudici a compassione, «l’évidence est mise au service de la rhétorique, avec tant d’effcacité que cette synergie aggressive, qui s’en prenait simultanément aux yeux et aux oreilles, inquiéta le tribunal» (p. 6). Le questioni relative all’enargeia (e all’energeia) e all’ekphrasis hanno delle implicazioni flosofche, letterarie, artistiche, scientifche; il ‘porre sotto gli occhi’ (vd. Aristotele, Retorica III 10, 1410 b 34; 11, 1411 b 22-25), attraverso la parola, è un obiettivo costantemente perseguito. In ambito retorico, esse sono al centro delle teorie dell’argomentazione, della descrizione e del sublime. Il termine enargeia è attestato relativamente tardi, ma il procedimento e la nozione che esso implica sono ben rappresentati fn dall’inizio della letteratura greca. In Aristotele, è nota la confusione che si registra nella tradizione manoscritta fra energeia e enargeia. 75 Retorica I 2, 1357 a 34-b 1. 76 Analitici primi II 27, 70 a 3-6. L’eikos è una protasis endoxos, probabile e convalidata dalla comune opinione, da una doxa che a sua volta scaturisce dall’osservazione di eventi che si ripetono; l’esempio è attinto dal comportamento umano, ricorrente, anche se non strettamente necessario. La defnizione di eikos come premessa ‘endossale’ non deve essere confusa «con l’identifcazione platonica tra eikos e opinione della moltitudine»: si tratta piuttosto di «un sapere non indiscutibile e tuttavia largamente condiviso» (Piazza 2008, p. 57). 77 Vd. per es. 9, 1451 a 36-b 10: «da ciò che si è detto è chiaro che compito del poeta non è dire le cose avvenute, ma quali possono avvenire, cioè quelle possibili secondo verosimiglianza o necessità – kata; to; eijko;~ h] to; ajnagkai`on. Lo storico e il poeta non si distinguono nel dire in versi o senza versi [...]; si distinguono invece in questo: l’uno dice le cose avvenute, l’altro quali possono avvenire. Perciò la poesia è cosa di maggiore fondamento teorico

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e più importante della storia perché la poesia dice piuttosto gli universali, la storia i particolari. È universale il fatto che a una persona di una certa qualità capiti di dire o di fare cose di una certa qualità, secondo verosimiglianza o necessità, il che persegue la poesia, imponendo poi i nomi» (trad. di d. Lanza, Milano 200417). 78 «Come accade nelle argomentazioni eristiche, un sillogismo apparente nasce dal confondere ciò che è assoluto e ciò che non è assoluto ma solo un caso particolare [...]; così anche nella retorica un entimema apparente si basa su ciò che non è verosimile in senso assoluto ma è verosimile in un caso particolare: e ciò non è universale, come dice anche Agatone: “Forse qualcuno potrebbe dire che proprio questo è verosimile, che agli uomini accadano molte cose non verosimili” [fr. 9 Snell; cfr. Poetica 18, 1456 a 2325]. Infatti accade anche ciò che è contrario al verosimile. e se è così l’inverosimile è verosimile. Ma non in senso assoluto: come nel caso delle dispute eristiche, il fatto di non aggiungere la circostanza, il rapporto e il modo crea l’inganno, e così succede anche qui, perché il verosimile non è assoluto ma solo particolare. La tecnica di Corace è tratta da questo topos. “Se un uomo non è verosimilmente sospetto per l’accusa che gli è rivolta – ad esempio se un uomo debole è accusato di violenza – dirà che non è verosimile; se è verosimilmente sospetto – ad esempio robusto – dirà che non è verosimile, proprio perché sarebbe sembrato verosimile che apparisse colpevole”. Lo stesso vale per gli altri casi, perché è inevitabile che un uomo si presti o non si presti a essere verosimilmente sospetto per un’accusa: entrambe le possibilità appaiono verosimili, ma una è realmente verosimile, l’altra lo è non in assoluto ma nel modo che si è detto. ed è proprio questo che signifca “rendere più forte l’argomento più debole” [80 A 21, II p. 260 d.-K.; cfr. B 6 b, II p. 266; Aristofane, Nuvole 889-1104; Platone, Apologia di Socrate 18 b]. Per questo gli uomini si sdegnarono giustamente per la dichiarazione di Protagora: si tratta infatti di una menzogna e di un verosimile non reale ma apparente e che non si trova in nessuna tecnica se non nella retorica e nell’eristica» (Retorica II 24, 1402 a 3-28). Il generale opposto all’universale, e «la possibilità di contrarietà» costituiscono il nucleo del concetto di verosimile in Aristotele, vd. Barthes 1993, p. 72.

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diversa è la posizione di Platone, che contrappone la nozione di eikos a quella di verità, vd. in particolare Fedro 267 a; 272 d-273 d. 79 1428 a 25-34. Süss individua nella Retorica ad Alessandro (che egli attribuisce ad Anassimene) un importante contributo: «In der rhetorik des Anaximenes begegnen wir auch dem ersten Versuch, die rednerische Wirkung des Eijkov~ psychologisch zu begründen» (1910, p. 113); il syneidenai dell’ascoltatore (1428 a 30; 33) è inteso come un sympaschein. 80 In base al criterio dell’evidenza, l’eikos è inerente anche alle altre pisteis, utilizzabili in altre technai, e sembra avere una rappresentatività concettuale comprensiva delle altre, pur se ognuna ha una sua specifcità. 81 Vd. Grimaldi 1972, p. 104 ss.; 1980, p. 61 ss. e passim; Goebel 2002, p. 86 ss. (dal confronto fra la Retorica e la Retorica ad Alessandro sul tema dell’eikos, l’autore fa emergere il carattere più arcaico di questa nozione nella seconda – p. 99); 1989; Piazza 2000, p. 67 s.; 2008, pp. 54 ss.; 134 s. 82 La prospettiva da cui guarda Aristotele è anche quella di chi giudica: «dal momento che il verosimile non è ciò che è sempre, ma solo ciò che è per lo più, è evidente che gli entimemi di questo genere possono essere sempre confutati sollevando un’obiezione, ma che la confutazione può essere apparente e non sempre vera. Chi solleva l’obiezione confuta mostrando non che l’argomento non è verosimile, ma che non è necessario. di conseguenza grazie a questo paralogismo chi si difende ha sempre un vantaggio sull’accusatore; dal momento che questi dimostra attraverso il verosimile, e che non è la stessa cosa confutare dimostrando che un argomento non è verosimile o che non è necessario, e ciò che è vero “per lo più” si presta sempre all’obiezione (altrimenti non sarebbe vero “per lo più”, ma sarebbe vero sempre e di necessità), allora, quando la confutazione avviene in questo modo, il giudice pensa o che l’argomento non è verosimile, o che non sta a lui giudicare, ragionando erroneamente, come abbiamo detto, poiché egli non deve giudicare soltanto in base agli argomenti necessari, ma anche a quelli verosimili – in questo consiste il “giudicare servendosi della miglior facoltà di giudizio”–, e dunque non basta confutare un argomento perché non è necessario, ma si deve confutarlo perché non è verosimile. Questo accadrà qualora l’obiezione sia basata

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soprattutto su ciò che si verifca per lo più: essa può risultare tale in due modi, in considerazione o del tempo o dei fatti, ma nel modo più effcace se accade in considerazione di entrambi, perché una cosa è tanto più verosimile quanto più grande o più frequente è il numero dei casi simili» (Retorica II 25, 1402 b 20-1403 a 1; cfr. I 1, 1354 a 26-31; 13, 1374 a 27-b 11). 83 Cfr. Aristotele, Retorica I 1, 1355 a 21 ss. «Quoique la logologie sophistique ait laissé plus que des traces chez Aristote, il ne faut pas oublier que ce dernier assigne à la rhétorique la mission de dire le vrai et le juste. Chez le rhéteur, cette préoccupation n’existe pas»: Chiron 2003 (La théorie de l’éloge), p. 22 s. Cfr. Pernot 1993, p. 515 ss. Il rapporto tra verità e verosimile o probabile è invece dominante nella rifessione flosofca, e collega strettamente storiografa e retorica «nel senso che lo storico, analogamente all’oratore, deve ricostruire lo svolgimento dei fatti sulla base di testimonianze ed elementi di prova, che convalidino l’attendibilità della testi esposta», Gentili/ Cerri 1975, p. 22. Vd. anche Butti de Lima 1996, pp. 75 s.; 151-170; l’autore, insistendo sul diverso carattere probatorio dell’eikos in confronto ad altri mezzi di prova, dotati di una funzione induttiva (segni, indizi, testimonianze), delinea diverse valutazioni degli studiosi, utili per avvicinarsi alla complessità degli aspetti implicati: «Si è spesso indagato sulla funzione di questa argomentazione nei vari campi del sapere greco nel V e nel IV secolo. Si è quindi considerato il suo legame con la sofstica e la retorica, la sua funzione nell’oratoria giudiziaria e nelle cosiddette forme del sapere “scientifco”. Si è poi cercato di ricomporre il suo uso all’interno delle opere storiografche [...] di erodoto e di tucidide. L’argomentazione per eikos appare così come una “novità”, considerata all’interno delle forme di argomentazione razionale messe in atto nel V secolo. essa, però, è caratterizzata da un’ambiguità, che si rifette nel modo in cui gli studiosi contemporanei ne hanno trattato l’ “evoluzione”. da una parte l’eikos si presenta come una nuova forma di razionalità, che verrà utilizzata in maniera non “scientifca” dalla sofstica; d’altra parte, come strumento “sofstico” o “retorico” per eccellenza, come già l’aveva considerato Platone. In quest’ultimo caso vanno considerate le testimonianze della nascita siciliana della retorica, la cui tecnica [...]

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consisterebbe nel confronto fra argomenti sviluppati attraverso l’eikos; a queste testimonianza si aggiunge la presenza assai frequente del termine nei discorsi giudiziari. nel primo caso, invece, ci si richiama alla “necessità” dell’argomentazione per eikos nella costituzione di qualsiasi sapere “scientifco”» (p. 152 s.). 84 nell’antropologia aristotelica, il rapporto tra giudizio ed emozione è complesso: essi non si escludono, ma si integrano, vd. nussbaum 2004 (L’intelligenza delle emozioni). Gadamer, in una lezione dedicata alla dialettica in Platone e in Aristotele, tenuta a napoli, delinea così l’interpretazione heideggeriana di Aristotele, e la sua attenzione anche per l’Etica e la Retorica: «nello scritto di Heidegger troviamo un impulso, una provocazione intellettuale che ci fa vedere un nuovo Aristotele, cioè un Aristotele per il quale il lovgo~ è il linguaggio com’è nella vita, come esso accade non solo nel contesto scientifco, ma anche nella vita pratica. [...] Il tema della Retorica è il linguaggio normale della vita quotidiana [...]. È il linguaggio che è sulla bocca degli uomini come essi lo parlano comunicando fra loro. rifacendosi al contesto della retorica, quindi, Heidegger riconosceva l’inseparabilità della dimensione logica del pensiero dalla sfera delle emozioni, direi dalla vita emozionale. Questo, del resto, era anche il grande merito della teoria greca della retorica» (2000, pp. 33-35). 85 Retorica I 2, 1356 a 14-17; vd. anche 1, 1354 a 11-18 (vd. il testo citato nella nota 222); II 1, 1377 b 28-1378 a 5 («Il fatto che l’oratore appaia in un dato modo è più utile nell’oratoria deliberativa, il fatto che l’ascoltatore si trovi in una data disposizione, invece, in quella giudiziaria, in quanto le cose non sembrano uguali per chi prova sentimenti di amicizia o di odio, per chi è incollerito o tranquillo, ma sembrano completamente diverse, o diverse quanto a importanza: se il giudice prova sentimenti d’amicizia nei confronti di colui che deve giudicare, penserà che questi non ha commesso alcuna ingiustizia, o che ne abbia commessa una irrilevante, se invece gli è ostile crederà il contrario. A un uomo che desidera qualcosa e ha buone speranze di ottenerla, qualora si tratti di una cosa piacevole, sembrerà che ciò debba realizzarsi e risultare positivo, mentre il contrario si avrà per chi è indifferente o maldisposto»); 1378 a 19-22. 86 Vd. 1428 a 34- b 7; 1429 a 16 s. Cfr. 1440 b 27 ss.

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Retorica II 2, 1378 a 30-11, 1388 b 30. Retorica I 2, 1356 a 4-13; vd. anche II 1, 1378 a 6-19. 89 Retorica II 1, 1378 a 17 s. 90 Retorica I 8, 1366 a 8-16; 9, 1366 a 23-32; II 12, 1388 b 31 ss.; III 7, 1408 a 25-32; 16, 1417 a 16-36; 17, 1418 a 15-21; a 38-b 1. 91 Aristotele fa riferimento all’ethos in tutti i suoi ambiti di ricerca: pertanto, questa nozione si presenta complessa, riferendosi a realtà molteplici ed eterogenee. Woerther, nella sua introduzione (2007, p. 7 ss.), riassume le classifcazioni di ethos nella Retorica (ethos dell’oratore, ethos dell’uditorio, ethos in relazione allo stile, ethopoiia, e al discorso stesso inteso come soggetto dinamico, come organismo vivente), ripercorrendo alcuni fondamentali studi sull’argomento (i testi di Cope 1867; Immisch 1898; Süss 1910; Kennedy 1963; Grimaldi 1988, sono parzialmente citati – vd. Annexes, p. 307 ss.): l’ethos come mezzo tecnico di persuasione non è esclusivamente legato all’oratore. L’autrice si domanda se non sia da cercare e da cogliere una funzione unifcante per questa nozione, assimilabile «à un concept-outil, un concept heuristique» (p. 16): «par un double mouvement de réappropriation-resystématisation, le philosophe est parvenu à fournir une lecture cohérente des données de la rhétorique traditionnelle en les intégrant dans son propre système de pensée» (p. 17). Condotto uno studio linguistico e semantico di ethos nella letteratura anteriore ad Aristotele, e analizzato il modo in cui Aristotele dialoga con la tradizione precedente, l’autrice si sofferma sulla Retorica, mettendo in rilievo come la nozione di ethos, defnita negli altri trattati, sia adattata e trasposta nella prospettiva propria della retorica. Alla fne, si conferma il valore euristico del concetto di ethos, in ambito biologico, etico-politico, poetico e retorico (p. 304). La novità di Aristotele consiste essenzialmente nell’impostare metodicamente la materia retorica, e nel considerarla alla luce della sua logica. 92 1434 b 26-30: l’interpretazione del passo è controversa, vd. la nota ad loc. 93 un confronto fra i due testi è condotto per es. da Süss 1910, p. 107 ss. Hagen 1966, p. 20 ss.; Baumhauer 1986, p. 158 ss.; Schütrumpf 1993; Woerther 2007, p. 91 ss. 88

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Woerther dà rilievo allo statuto discorsivo dell’ethos in Aristotele, mentre nella Retorica ad Alessandro e in Isocrate prevarrebbe «la valeur référentielle du caractère de l’orateur». Isocrate afferma con vigore l’infuenza che la vita reale dell’oratore esercita sulla forza persuasiva del suo discorso, stabilendo una totale continuità fra il soggetto del discorso e la persona che lo pronuncia (Antidosi 278). Così anche l’autore della Retorica ad Alessandro classifca la doxa tou legontos fra i mezzi di persuasione aggiunti, alla stessa stregua dei testimoni, dei giuramenti e delle confessioni ottenute con la tortura. Aristotele, da parte sua, rifuta sia la concezione di chi ritiene che l’onestà dell’oratore non abbia parte nella forza persuasiva del suo discorso, sia le dottrine di chi fonda la forza persuasiva del discorso sull’onestà reale dell’oratore e non su quella che può produrre il solo discorso. «Ce passage d’une doctrine “référentielle” à une doctrine de l’èthos défni comme un élément immanent au discours s’accompagne d’une modifcation touchant la nomenclature même de la rhétorique, puisqu’Aristote recourt au terme d’h\qo~ – inédit jusqu’alors dans ce domaine – pour désigner le moyen de persuasion lié à la personne de l’orateur» (pp. 206-208). In Aristotele, continua Woerther, l’ethos retorico non ha un valore mimetico come nella Poetica (6, 1449 b 36-1450 b 12) e nella Politica (VIII 5, 1340 a 18-21); egli evita di inserire questa nozione in una problematica legata alla rappresentazione: con l’uso dei verbi phainesthai e dokein, quando parla dell’ethos dell’oratore, Aristotele sottolinea «le rejet, constitutif de l’èthos, de toute référence à la personne réelle de l’orateur: ce moyen de persuasion est défni comme l’image de l’orateur créée par le discours». Situandosi nell’ambito dell’apparenza, l’ethos assume uno statuto «phénoménal». I verbi phainesthai e dokein esprimerebbero anche l’idea che «les vertus de l’èthos ne sont que des artefacts, voire des simulacres»; ci si allineerebbe così all’affermazione del carattere ingannevole della retorica, tanto biasimato da Platone (p. 208 s.). Ciò tuttavia non porta a concludere, dal punto di vista aristotelico, che «l’ ‘apparence’ vertueuse» dell’oratore sia un elemento mistifcatorio; occorre invece distinguere fra lo statuto tecnico e puramente discorsivo, separato da ogni considerazione morale reale, e le condizioni della sua funzione in un enunciato particolare,

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in cui l’ethos deve essere sostenuto, per rivelarsi effcace, «par un bon choix préférentiel». L’ethos pertanto non è mai affrancato da un rapporto con il reale; la sua forza persuasiva dipende dalle intenzioni morali dell’oratore. nella Retorica, pertanto, Aristotele si riappropria della tradizionale dottrina della doxa tou legontos, accordando a essa uno statuto puramente retorico e discorsivo; il ricorso al termine ethos, preso dalle opere etiche, conclude Woerther, si spiega in parte con l’importanza che ha la nozione «de choix préférentiel, dont la qualité détermine la valeur morale de l’orateur et partant, l’effcacité de son discours» (p. 211). Per diverse valutazioni del ricorso ai verbi phainesthai e dokein, e del rapporto fra ethos reale del parlante (referenziale) ed ethos apparente (retorico o discorsivo), vd. Grimaldi 1972, p. 95 ss.; Piazza 2008, p. 97 s. 94 I 1, 1356 a 13 (il passo I 2, 1356 a 4-13 è citato più estesamente sopra). L’affermazione non è in contraddizione con l’altra, secondo cui l’entimema costituisce ‘il corpo della persuasione’: pathos ed ethos sono pisteis in quanto ‘fonti’ che offrono ‘materia’ da inserire nella forma argomentativa propria della techne retorica, l’entimema. La centralità dell’entimema non esclude il contributo delle altre pisteis; vd. Grimaldi 1972, p. 53 ss.; Conley 1984; Butti de Lima 1996, p. 66 s.; Piazza 2008, p. 50. 95 Vd. Bonitz 1961, p. 217 a 20 s.; p. 315 b 57 s.; Ferrini 2007, p. 53 ss. Aristotele si sofferma sui due termini nell’Etica Nicomachea II 1, 1103 a 14 ss., e nell’Etica Eudemia II 2, 1220 a 38 ss. Vd. la nota di commento al passo 1429 a 10-14. 96 1429 a 10-14; 1437 a 37; 1445 b 2-b 17. 97 1428 a 35 s. 98 1428 b 8 s. 99 1443 b 33-36. 100 1421 b 35 s.; cfr. 1422 a 1. 101 1423 a 34 s.; cfr. 1447 b 2. 102 1430 a 26-29. 103 1438 b 32-1439 a 6. 104 1430 a 28 s., vd. nel commento la nota relativa; cfr. 1441 b 21; 1446 a 14. 105 1431 b 9, e passim. 106 I 2, 1356 a 2-5.

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1441 b 19 s.; cfr. 1434 b 26-30, e la nota ad loc. Vd. il saggio di Müller 1977, che partendo dall’aforisma di Buffon (Le style est l’homme même) delinea brevemente la fortuna di questo topos, le sue variazioni e le sue valenze nel tempo, a partire dall’Antichità fno al Settecento; tosi 1991, p. 71 s.: la sentenza oi|on oJ trovpo~, toiou`to~ oJ lovgo~ «è la volgarizzazione di un assunto, lievemente diverso solo dal punto di vista formale, che Platone mette in bocca a Socrate nella Repubblica» (III 400 d-e: «Il buon ritmo e il cattivo ritmo tengon dietro, per assimilazione, l’uno alla bella dizione, l’altro a quella opposta, e così anche l’armonico e il disarmonico, se è vero, come si diceva poco fa, che il ritmo e l’armonia dipendono dal discorso, e non il discorso da loro. – È proprio così, disse lui, devono essere conseguenti al discorso. – Quanto poi al modo dell’espressione discorsiva, dissi, non è forse conseguente al carattere dell’anima? – Come no? – e tutto il resto da questa forma della dizione? – Sì. – dunque il buon discorso, la buona armonia, la buona grazia e il buon ritmo dipendono da un buon carattere: non si tratta di quella stupidità che chiamiamo eufemisticamente ‘semplicità’, ma di una intelligenza veramente disposta in modo buono e bello rispetto al carattere.» – La trad. è di M. Vegetti, Milano 2006). Meritano attenzione anche altri passi platonici, in cui si fa riferimento ai discorsi dia eikonon, o all’onoma in quanto eikon, vd. per es. Timeo 29 b («intorno all’immagine e all’esemplare di essa, bisogna riconoscere questo, che i discorsi hanno una affnità con le cose stesse di cui sono espressione» – periv te eijkovno~ kai; peri; tou` paradeivgmato~ aujth`~ dioristevon, wJ~ a[ra tou;~ lovgou~, w|npevr eijs in ejxhghtaiv, touvtwn aujtw`n kai; suggenei`~ o[nta~); Crizia 107 b-d; Sofsta 234 b-c; Cratilo 430 a-432 d (in particolare 431 d). 109 notoriamente la tradizione attribuisce a Simonide la defnizione della pittura come poesia muta e della poesia come pittura che parla, secondo una concezione che è alla base del frequente parallelismo, nella letteratura greca e latina, fra le due arti (vd. 108

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Plutarco, La gloria di Atene 3, 346 F; cfr. Questioni conviviali IX 15, 748 A). un momento molto signifcativo della rifessione sulla rappresentazione dell’ethos nell’arte è documentato dal testo dei Memorabili di Senofonte (III 10, 1-8; cfr. Memorabili II 1, 21-34 = Prodico 84 B 2, II p. 313 ss. d.-K.). 110 Qui si discute non dell’ethos dell’oratore, ma della sua capacità di comporre un discorso che permetta di rivelare l’ethos ‘reale’ della persona di cui si parla: nel contesto si oppongono signifcativamente i termini idea e ousia. Si nota anche nella Retorica ad Alessandro una complessità di questa nozione, non riducibile tout-court alla tradizionale doxa tou legontos. 111 rinvio qui brevemente alle mie osservazioni (Ferrini 2007, pp. 18 ss.; 53 ss.; 93 ss.; 96 ss., e passim nelle note di commento). 112 diversamente, questi aspetti della comunicazione non verbale avranno spazio nella retorica seguente, vd. per es. Cicerone, Dell’oratore III 213-227; Quintiliano, La formazione dell’oratore XI 3, 1-184. 113 847 a 11-24: «oggetto del nostro stupore sono i fenomeni che accadono normalmente in natura e di cui ignoriamo la causa, e i fenomeni contrari, dovuti ad abilità e a interventi dell’uomo per suo proprio benefcio. La natura opera spesso in contrasto con il nostro vantaggio, perché il suo corso è sempre lo stesso, immutabile, mentre è vario e di volta in volta mutevole ciò che è utile per noi. Così, quando bisogna agire violando la natura, la diffcoltà ci imbarazza e richiede una specifca abilità: quella particolare abilità che ci soccorre, davanti alle diffcoltà di questo genere, noi la chiamiamo per questo mechane. È dunque proprio vero il detto del poeta Antifonte: “là dove siamo vinti dalla natura, prevaliamo con l’arte”. Si tratta dei casi in cui, per esempio, ciò che è piccolo domina ciò che è grande, ciò che ha in sé poca forza muove gravi pesi: quasi sempre questi casi problematici noi li defniamo di pertinenza della mechane». Vd. le note di commento, in Ferrini 2010. L’esaltazione della techne, di cui il prologo costituisce uno dei numerosi esempi, contrasta d’altra parte con una diffusa consapevolezza anche dei suoi limiti. Vd. per es. Platone, Politico 294 a-b: «La cosa di maggior valore non è che abbiano forza le leggi, bensì che l’abbia l’uomo che è re con intelligenza. Sai perché? [...] Perché una legge non potrà mai ordinare con precisione la cosa

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più buona e più giusta per tutti, includendo insieme il massimo di equità. Infatti, le disuguaglianze degli uomini e delle azioni e il fatto che nessuna mai delle vicende umane porta, per così dire, tranquillità, non permettono neppure che alcuna arte – nessuna, quale che sia – possa dimostrare, in nessun campo, qualcosa di semplice e di valido per tutti i casi, e per tutto il corso del tempo». La complessità del reale e i molteplici fattori in gioco richiedono di volta in volta all’uomo un’adattabilità, e si oppongono a ogni sistema e a ogni regola: «tel est le paradoxe du kairos: tout en dénonçant une lacune de la connaissance – l’absence de règle universelle –, il permet d’en triompher» (trédé 1992, p. 19). 114 Vd. detienne/ Vernant 1999 (in particolare, p. 35 ss.); trédé 1992, p. 18: «Kairos est en fait lié à un certain type d’intelligence portant sur le contingent – qu’on l’appelle logismov~, gnwvmh, dovxa ou frovnhsi~ –, et qui permet à l’action humaine de s’exercer dans des circonstances indéfniment variées». 115 L’originale è come noto perduto, ma si hanno raffgurazioni che probabilmente suggeriscono il tipo di kairos da lui realizzato. una delle tre principali testimonianze letterarie, un epigramma di Posidippo, potrebbe costituire una descrizione vicina all’originale: «Chi è lo scultore, e di dove? – di Sicione. – Il suo nome, qual è? – Lisippo. – e tu chi sei? – Il Momento – Kairo;~, signore di ogni cosa. – Perché stai in punta di piedi? – Corro sempre veloce. – Perché hai due ali ai piedi? – Io volo col vento. – Perché tieni un rasoio nella destra? – Come segno, per gli uomini, che io sono più tagliente di ogni lama afflata. – e perché hai la chioma sul volto? – Per chi viene incontro, che l’afferri, per zeus. – e per quale motivo non hai capelli dietro? – una volta che io gli sia sfrecciato accanto sugli alati piedi, nessuno, per quanto lo brami, mi afferrerà da dietro. – Perché lo scultore ti ha modellato? – nel vostro interesse, o straniero, e nell’atrio m’ha posto come ammaestramento» (142 Austin/ Bastianini, Milano 2002). Cfr. Imerio, Orazione 13; Callistrato, Immagini 6. 116 Protagora 80 A 1, II p. 254, 1 s. d.-K.; Gorgia 82 B 11a, II p. 302, 15; B 13, II p. 303, 27-30. Sulla controversia, vd. untersteiner 1996, III pp. 121; 124; 131 n. 26; V p. 178 ss.; XVI p. 464 ss.; trédé 1992, p. 248 ss.; noël 1998; Woerther 2007, p. 234 ss.

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Gorgia, Alcidamante e Isocrate restano in ogni caso punti di riferimento essenziali per la formulazione della dottrina del kairos; le rifessioni su di esso sono spesso in relazione con la consapevolezza delle infnite variazioni del logos, e con la concezione dell’oratoria come «un véritable art de la création, ouvert à l’interprétation, et dont la réactualisation constante par l’auditeur ou le commentateur n’épuise jamais tous les sens, ce qui l’inscrit, en somme, dans notre conception moderne de la littérature» (noël 1998, p. 245). Sul rapporto fra la nozione di kairos e quella di ‘genere’ del discorso, vd. Haskins 2004, pp. 7 s.; 57-79. 117 Fedro 266 d-269 d: vengono ricordate le partizioni del discorso (proemio, narrazione, testimonianze, indizi, verosimiglianza, conferma e riconferma), si nominano alcuni retori, fra cui tisia e Gorgia «i quali videro come siano da tenere in pregio più le cose verosimili che quelle vere» (267 a). essi «con la forza del discorso, fanno apparire le cose piccole grandi e le grandi piccole, e le cose nuove in modo antico e le antiche in modo nuovo, e hanno scoperto la brevità dei discorsi e le lungaggini che non fniscono mai su tutti gli argomenti» (267 a-b). 118 Fedro 269 d-272 b: Socrate afferma che nell’oratoria, come in altri campi, si può raggiungere la perfezione, se si associano le doti naturali a episteme e a melete, a ‘scienza’ e a ‘esercizio’; il metodo da seguire in questa arte deve essere tuttavia diverso da quello applicato da Lisia e da trasimaco. Il metodo seguito dalla medicina è lo stesso di quello dell’arte oratoria: «in tutt’e due si deve dividere una natura: nell’una quella del corpo, nell’altra quella dell’anima» (270 b). entrambe devono in ogni caso avere una visione unitaria del corpo e dell’anima: il metodo dialettico implica sia una visione sinottica sia un procedimento diairetico. «Il metodo che proceda senza le cose che ho detto somiglierebbe al procedere di un cieco. Invece, chi con arte persegua una qualsivoglia cosa, non bisogna paragonarlo né a un cieco, né a un sordo. Ma è evidente che, se uno vuol trasmettere discorsi fatti con arte a qualcuno, dovrà dimostrare con precisione l’essenza della natura di ciò a cui rivolgerà i discorsi: e questo sarà l’anima. [...] Appunto a questo tende tutto il suo sforzo, perché egli cerca di produrre persuasione. [...] È evidente, dunque, che trasimaco e chiunque

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altro voglia offrire con serietà l’arte oratoria, prima di tutto e con tutta precisione dovrà descrivere e far vedere l’anima, se per sua natura è una e uguale, o se, invece, come la forma del corpo, è multiforme. Ciò appunto, diciamo, è il dimostrare la natura di una cosa» (270 d-271 a). oltre alla necessità di conoscere l’essenza, bisogna conoscere la dinamica dell’agire e del patire propria dell’anima, attraverso cui avvengono la comunicazione e la ricezione dei messaggi; inoltre, l’oratore, che conosce i diversi tipi di anime e di discorsi, sa da quali discorsi certe anime possono essere persuase, e a quali sono invece insensibili. nelle ‘arti del fare discorsi’, i retori non danno le regole veramente essenziali, ma solo le accessorie, non conoscendo il metodo corretto (271 b-c). Cfr. 259 e ss. 119 Fedro 271 c-272 a: «dire espressioni giuste non è cosa facile; ma come bisogna scrivere, se si vuole farlo con arte, per quanto è possibile, voglio dirtelo. [...] Poiché la potenza del discorso consiste nella guida delle anime – lovgou duvnami~ tugcavnei yucagw­ giva ou\sa, chi vuole essere oratore è necessario che sappia quante forme ha l’anima. Le forme di anima sono tante e tante, tali e tali, e, di conseguenza, alcuni uomini sono di un certo tipo, altri di un altro tipo. e poiché ci sono forme di anime così suddivise, anche dei discorsi ci saranno tali e tante forme, ciascuna di tipo diverso. Perciò, alcuni uomini di un certo tipo, per queste ragioni, saranno facilmente persuasi da discorsi di un certo tipo per certe cose, invece certi altri uomini di altro tipo, per queste stesse ragioni, saranno diffcili da persuadere. dunque, dopo aver considerato queste cose quanto basta, chi vuole essere oratore, osservando in realtà come queste cose esistano e operino, deve essere capace di tenere dietro a esse con acuta sensibilità, altrimenti in lui ci saranno solo i discorsi che aveva ascoltato a suo tempo, quando frequentava la scuola. Quando, poi, sia in grado di dire in modo adeguato quale uomo da quali discorsi venga persuaso, e, quando quest’uomo si trovi a essere presente, sia capace di accorgersene e di dire a sé medesimo: “Questo è quel dato uomo e questa è la natura intorno alla quale a suo tempo si riferivano i discorsi, e poiché ora di fatto è qui presente, a essa bisogna fare questi discorsi in questo modo, per convincerla di determinate cose”. Quando, dunque, in possesso di tutte queste cose sia in grado di cogliere il momento giusto per parlare e quello per tacere, e sappia di-

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scernere l’opportunità o la non opportunità dello stile conciso e dello stile commovente, di quello dell’indignazione e di quante altre forme di discorsi abbia imparato, allora l’arte è realizzata in modo bello e compiuto; ma prima no». La via prospettata è quella più diffcile e lunga: a essa si oppone quella facile e breve proposta dai retori, che Socrate espone, dato che «è giusto riferire anche le ragioni del lupo» (272 c). 120 Vd. reale, nella nota di commento: «Platone spiega non solo quali debbano essere i criteri da seguire nel fare discorsi, ma rivela quali siano stati i criteri da lui stesso seguiti nel comporre i suoi scritti. [...] Platone si concentra su tre punti decisivi. 1) In primo luogo, l’arte del fare discorsi deve basarsi sulla conoscenza dell’ “essenza” della cosa particolare di cui tratta, nonché dell’ “intero” di cui essa fa parte, acquisita con metodo dialettico. 2) Inoltre, poiché l’arte del fare discorsi ha di mira l’anima di coloro che vuole convincere, deve conoscere la “natura dell’anima” cui si rivolge, sia in generale, sia in tutte le sue articolazioni specifche. In modo particolare deve conoscere i vari tipi di anime e i vari tipi di discorsi ai quali tali tipi di anime si dimostrano sensibili, e dai quali si lasciano convincere. 3) Infne, la vera arte del fare discorsi deve essere in grado di comporre scritti che abbiano una portata proporzionale alla capacità di recezione delle anime alle quali si rivolge: saper scegliere i momenti giusti, le persone giuste e quindi con chi parlare e con chi tacere. [...] ogni dialogo di Platone presenta la cosa di cui tratta non già secondo le regole imposte dalla cosa stessa considerata in astratto, bensì nella giusta dimensione imposta dalle capacità recettive dell’anima dell’interlocutore, che dà il titolo allo scritto» (1998, p. 250 s.). nel Fedro, afferma Gadamer, «la retorica non è solamente ko­ lakeiva, adulazione e quindi demagogia, ma anche una forma di comunicazione del vero e del bene, sulla base di presupposti, per così dire, psicologici, cioè sulla capacità del retore di capire come l’ascoltatore possa essere raggiunto e stimolato dal suo discorso. Questo era l’aspetto positivo della ben nota critica di Platone alla retorica dei sofsti, e in questo senso il Fedro apriva la strada verso una nuova teoria della retorica, che Aristotele delineerà nei tre libri della Retorica, l’opera che espone la tecnica oratoria e le modalità del suo insegnamento nell’Accademia platonica» (2000, p. 35 s.).

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Si può proporre un rapido confronto con le considerazioni di Francesco Bacone sull’ineffcacia dei discorsi di chi parla senza tener conto del tipo di uditorio cui si rivolge, e senza conoscere «il momento opportuno, ora di parlare, ora di tacere» (Cassandra, sive Parrhesia — ed. it. a cura di e. de Mas, Uomo e natura Scritti flosofci, roma-Bari 1994, p. 139 s.). 121 Vd. trédé 1992, pp. 252; 282-294; 260-282; Woerther 2007, pp. 234-238. 122 1433 b 24-27. 123 1437 b 23-26. trédé analizza il concetto di kairos soprattutto nell’ambito della techne medica (gli autori del Corpus Hippocraticum), politica e oratoria (erodoto e tucidide, demostene ed eschine); traccia una storia della parola e della nozione che essa esprime analizzando omero, esiodo, Pindaro; i riferimenti al teatro, tragedia e commedia, sono volutamente più sommari, nella convinzione che non si possa studiare il ruolo del kairos in Sofocle o in euripide «au même titre que chez le médecins de la Collection hippocratique», perché «si l’intrigue tragique offre le spectacle d’une liaison de circonstances, de moments décisifs, de kairoi, l’enchaînement des événements et des actions y reste soumis à la loi du nécessaire et du vraisemblable. [...] L’action tragique subvertit ainsi le kairos technique, cet art de calculer les moyens pour les adapter exactement aux fns visées». non sembra tuttavia pienamente condivisibile la conclusione secondo cui il kairos, nell’universo tragico, non sia altro che «le masque du destin» (1992, p. 20 s.). 124 1444 b 22-25. 125 e anche la degradazione, la riduzione del signifcato del termine a mero opportunismo politico: sono le circostanze a determinare ogni decisione, a orientare la scelta di una linea politica; sia gli stati sia gli individui devono trarre il partito migliore da esse. Vd. per es. eschine, Sulla corrotta ambasceria 164 s.: «tanto il singolo individuo quanto la città devono adattarsi alle circostanze per conseguire i vantaggi migliori. Cosa deve fare un saggio consigliere? non deve dare i consigli migliori in relazione alla circostanza presente? Cosa deve fare invece un accusatore malvagio? non deve incriminare l’azione compiuta e non far menzione delle circostanze in cui essa fu compiuta?» (cfr. 80).

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I 4, 1096 a 26 s.; «Poiché il bene si predica nella stessa estensione di signifcato dell’essere (infatti si predica nella sostanza, come dio o come intelletto; nella qualità, come virtù; nella quantità, come misura; nella relazione, come utilità; nel tempo, come occasione; nel luogo, come residenza; e così via), è evidente che non potrebbe essere un alcunché di comune, universale e uno: infatti non si predicherebbe in tutte le categorie, ma in una sola» (a 23-29). 127 II 2, 1104 a 8-10 (le due technai ricordate sono fra quelle canoniche); cfr. per es. I 13, 1102 a 18 ss.; II 5, 1106 b 16-23 («la virtù etica ha per oggetto le passioni e le azioni, e in queste vi sono eccesso, difetto e il mezzo. Ad esempio, avere paura, esser coraggiosi, desiderare, adirarsi, avere pietà, in generale provare delle sensazioni e provare dolore ammettono un troppo e un poco, ed ambedue non vanno bene. Ma provare queste passioni quando si deve e nelle circostanze in cui si deve e verso le persone che si deve e in vista del fne che si deve e come si deve, è realizzare il medio e al tempo stesso l’eccellenza: il che è proprio della virtù»; cfr. Ippocrate, Antica medicina 9: Platone, Fedro 268 a-b). Come nelle technai così nell’etica, l’arete tende al ‘medio’. «Le kairos n’est donc plus que le temps envisagé comme bon; mais le mevson aristotélicien hérite en quelque sorte des caractères du kairos hippocratique. [...] Ainsi le mot kairos, en cette fn du IVe siècle, voit son emploi délimité et surtout banalisé. Il est rattaché à la catégorie du temps et ne désigne plus guère désormais que “l’instant propice”, les “circostances de l’heure”. Ce n’est plus le mot clé des technai. Il s’efface même au sein de la tevcnh rJhtorikhv laissant place au couple de dérivés – eujkairiva et ajkairiva –, qui désigne sans ambiguïté les deux faces de son action. et quand on retrouve certaines des valeurs qui furent un moment attachées au kairos, elles ont changé de nom» (trédé 1992, p. 298 s.) 128 Cfr. Platone, Politico 294 b (il passo è citato nella nota 113). 129 nell’Etica Nicomachea (VI 5, 1140 a 24-b 30), la phronesis è defnita «una disposizione vera, accompagnata da ragionamento, che dirige l’agire, concernente le cose che per l’uomo sono buone e cattive» (1140 b 4-6; cfr. b 20 s.); è signifcativo che, in questo stesso contesto, per esemplifcare le qualità del phronimos, venga ricordato Pericle, considerata l’estensione di questa arete all’am-

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bito politico. Vd. anche Etica Nicomachea 8-9, 1141 b 8-1142 a 30 (in particolare 1141 b 12-14: «l’uomo che delibera bene in senso assoluto è colui che mira al migliore dei beni realizzabili per l’uomo secondo un calcolo – oJ d∆ aJplw`~ eu[boulo~ oJ tou` ajrivstou ajnqrwvpw≥ tw`n praktw`n stocastiko;~ kata; to;n logismovn), e il commento di zanatta: «Saggezza e politica costituiscono una sola ed unica disposizione (anche se le loro defnizioni sono diverse) e la politica stessa è saggezza. Come saggezza universale essa è legislazione, determinazione, cioè, della norma morale ed istituzione delle leggi della polis. Come saggezza particolare concerne l’uomo, sia come individuo singolo (ed ha il nome di saggezza simpliciter), sia nella sua dimensione familiare (ed ha il nome di economia), sia infne nei suoi rapporti con gli altri membri della città (ed ha il nome di politica). In quest’ultima dimensione essa comprende una forma deliberativa ed una giudiziaria» (2007, p. 914). Cfr. Kullmann 1989; Fortenbaugh 1992, p. 223 ss.; Woerther 2007, p. 237; Halliwell 1994, p. 219 ss.; Haskins 2004, p. 114. 130 Vd. Woerther 2007, p. 237 (e pp. 235-238). L’autrice si sofferma brevemente anche sulla diversa concezione di Platone (p. 237 s.). Bisogna in ogni caso ricordare che Aristotele non fa della retorica un sapere pratico, in quanto lo scopo è di analizzare i mezzi per convincere, e non per agire. 131 Retorica III 14, 1415 b 9-17. 132 Retorica III 14, 1415 a 36-38. 133 Retorica I 9, 1366 b 20-22: «la saggezza è una virtù dell’intelletto, grazie alla quale si possono prendere buone decisioni a proposito dei beni e dei mali connessi con la felicità»; cfr. 1366 b 1-3; 7, 1363 b 14 s.; 1364 b 17-19. 134 Retorica II 1, 1378 a 6-8 («Infatti, gli oratori cadono in errore, nei discorsi che pronunciano o nelle deliberazioni che propongono, o per tutti questi elementi, o per uno di essi: o non si formano opinioni corrette per mancanza di assennatezza, oppure, pur formandosi opinioni corrette, non dicono quello che pensano per malvagità, oppure sono assennati e onesti, ma non sono benevoli, perché è possibile non consigliare per il meglio pur conoscendolo. non vi è nient’altro, oltre a questi elementi, e dunque chi sembrerà possederli tutti risulterà immancabilmente persuasivo per gli ascoltatori. I mezzi per sembrare assennati e seri devono essere

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ricavati dalla classifcazione delle virtù, perché è in base agli stessi elementi che un uomo potrà porre sé stesso o un’altra persona in una determinata luce. Per quel che riguarda la benevolenza e l’amicizia se ne deve trattare nella sezione dedicata alle emozioni» – ll. 9-19); cfr. eschine, Contro Ctesifonte 169 s. 135 1993, p. 86 s. Cfr. Piazza 2008, pp. 95-97. 136 1436 b 19-28. Woerther considera questo passo «un dernier témoignage de cette caractérisation tripartite de l’orateur» (2007, p. 219). L’autrice tenta di ricostruire la tradizione prearistotelica, riguardo alle aretai dell’oratore, e di seguirne gli sviluppi. La nozione di persuasione attraverso il carattere, espressa dalla presenza delle tre aretai, sembra attestata per la prima volta in omero, in due passi dell’Iliade in cui si dà rilievo alla capacità oratorie di nestore (1, 247 ss. – in particolare 250-259; 9, 93 ss. – in particolare 103-105). Propone inoltre il confronto anche con tucidide, La guerra del Peloponneso II 60, 5; [Senofonte] La costituzione degli Ateniesi I 7; Isocrate, A Nicocle 21; Antidosi 279 s.; Platone, Gorgia 486 e-487 b. (vd. anche Schütrumpf 1993). Soffermandosi sulla differenza fra la Retorica e la Retorica ad Alessandro Woerther delinea così «le double déplacement» operato da Aristotele: «(1) si, d’après le Pseudo-Aristote, la bienveillance accompagnée des deux autres “vertus” doit être exprimée dans l’exorde du discours, c’est en vue d’obtenir la bienveillance des auditeurs: la bienveillance est ici décrite comme un sentiment réciproque, tandis qu’Aristote la défnit dans les Éthiques comme une amitié (filiva) non partagée et unilatérale; (2) chez l’auteur de la Rhétorique à Alexandre, le rôle de la bienveillance et des autres qualités – que l’on a assimilées à la vertu et à la prudence aristotélicienne – est confné à l’exorde du discours, tandis qu’Aristote étend leur portée à l’ensemble du discours puisqu’il les inclut dans l’un des trois moyens de persuasion techniques» (p. 220). Il carattere largamente tradizionale dell’idea aristotelica di persuasione attraverso il carattere viene invece affermato da Fortenbaugh 1992, p. 220. 137 Retorica I 2, 1356 a 4-13; vd. anche II 1, 1378 a 6-20. 138 Retorica III 14, 1415 a 38-40; cfr. I 13, 1374 a 26-b 23; III 17, 1418 a 40 s.; Etica Nicomachea V 14, 1137 a 31-1138 a 3.

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Vd. Biscardi 1982, p. 366. L’autore ricorda che, nella storia della civiltà greca, la preminenza della legge è stata sempre riconosciuta, almeno in linea di principio. «L’importanza preponderante della legge nel diritto greco è dimostrata dallo sforzo costante, a cui il popolo di Atene e delle altre città della Grecia antica non si sottrasse nell’intento di dare alle proprie leggi la più grande autorità morale e religiosa, di perfezionare i procedimenti tecnici dell’attività legislativa e di porre le leggi stesse al riparo dalle riforme arbitrarie. nondimeno, si sarà più volte verifcato il caso che altre forze ed anche l’equità – nel caso-limite di un confitto fra il novmimon e il divkaion – abbiano preso il sopravvento, soverchiando il diritto nascente dalla legge. tutti sanno – per citare un esempio fra i più clamorosi – come si svolse il processo di Ctesifonte, ove due uomini e due politiche diverse si fronteggiarono: da una parte, l’accusatore di Ctesifonte, eschine, e la politica flomacedone, dall’altra il suo rivale, demostene, e la politica antimacedone. era più che evidente che eschine e i suoi alleati avevano dalla loro la legge, mentre demostene – che pronunciò in questa occasione forse la più bella delle sue arringhe, il discorso ‘per la corona’ – e con lui i difensori della libertà della Grecia non avevano niente su cui far leva, tranne la causa di una giustizia ideale. Ciò nonostante eschine rimase sconftto. Ma, dal punto di vista giuridico, si trattò senza dubbio di una prevalenza surrettizia o abusiva dell’equità sulla legge. Molti testi oratorii, in cui si invoca l’applicazione delle norme legislative, esaltano la giustizia della legge e la saggezza del legislatore. e perché? Perché, all’inverso – ecco qui l’essenza del ragionamento – dato che la legge è lo specchio dell’equità, se una legge appare contraria all’equità o alla giustizia in senso materiale, ciò signifca quasi sempre che ci si è sbagliati nella sua interpretazione e che la si deve intendere in modo diverso, richiamandosi appunto alla gnome dikaiotate. tutto ciò non può, del resto, far meraviglia in un ambiente giuridico dai tratti della polis greca, e di Atene in particolare, dove la legge era sì astrattamente concepita come la fonte del diritto per eccellenza, ma dove accanto al novmo~ e[ggrafo~ trovava posto il novmo~ a[grafo~, dove i giudici erano laici e non professionisti, dove il voto di assoluzione o di condanna veniva espresso dai membri della giuria senza una previa discussione collegiale in camera di consiglio, perché si temeva che le opinioni

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degli altri potessero alterare gli immediati suggerimenti della coscienza individuale» (p. 368 s.). Per l’ampia e articolata analisi della nozione di epieikeia in ambito flosofco e giuridico, e per i numerosi riferimenti bibliografci sull’argomento, vd. Meyer-Laurin 1965; Mirhady 1990; talamanca, in Bretone/ talamanca 1994, p. 41 ss.; Biscardi 1999, p. 287 ss.; Hesk 2009, p. 150 ss.; vd. anche Schiavone 2005, p. 126 ss. (ius aequum / aequitas; vd. Retorica a Erennio III 2, 3). Sulla nozione di gnome dikaiotate, vd. nel commento le note 186; 413; 416. Conformemente a ciò che si ritiene più giusto giuravano gli eliasti, in mancanza di una legge cui far riferimento; vd. per es. demostene, A Leptine sull’esenzione dalle imposte 118: «rifettete attentamente, Ateniesi, anche su un altro punto: siete venuti qui per decidere, dopo aver prestato giuramento secondo le leggi [...] e avete giurato di pronunciare la vostra sentenza con la massima equità su fatti non regolati da alcuna legge – kai; peri; w|n a]n novmoi mh; w\s i, gnwvmh≥ th≥` dikaiotavth≥ krivnein» (cfr. Contro Timocrate, 149-151). numerose testimonianze antiche relative al giuramento eliastico sono raccolte, tra gli altri, da Biscardi 1982, p. 362 ss.; Hansen ne ricostruisce e ne riassume a grandi linee il contenuto, sulla base di citazioni tratte da varie orazioni: «darò il mio voto in conformità alle leggi e ai decreti approvati dall’Assemblea e dal Consiglio; ma, se non c’è nessuna legge, in conformità a ciò che ritengo sia più giusto, senza favoritismi od ostilità. Voterò solo sulle questioni sollevate nell’accusa, e ascolterò senza parzialità ugualmente accusatori e difensori» (2003, p. 271). Vd. qui anche la nota 232. 140 Retorica I 1, 1354 a 31 ss.; 13, 1373 b 1 ss.; 15, 1375 a 25-b 25; cfr. Politica III 11, 1282 b 1 ss.; 14, 1286 a 7 ss.; 16, 1287 a 23 ss.; Etica Nicomachea V 2, 1129 a 26 ss.; demostene, Contro Aristocrate 96 s. 141 Retorica I 13, 1374 a 26 s. 142 Etica Nicomachea V 14, 1137 b 8-13; cfr. Platone, Politico 294 a-b (vd. il passo citato nella nota 113). una casistica (senza nome specifco) con la soluzione delle questioni sollevate di volta in volta è esposta nell’Etica Nicomachea IX 2, 1164 b 22-1165 a 35; cfr. VIII 11, 1159 b 35 ss.; Etica Eudemia VII 11, 1244 a 1 ss. nei Topici si dà il nome di ethikai protaseis ai dilemmi di questo tipo:

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‘bisogna obbedire ai genitori o alle legge, in caso di discordanza?’ (I 14, 105 b 20-23). 143 Etica Nicomachea V 14, 1137 b 11-1138 a 3; cfr. V 10, 1135 a 8-13; VI 11, 1143 a 19-24; 13, 1144 a 13-20. «Il termine ejpanovr­ qwma (correttivo) [...] esplicita la superiorità dell’equo sul giusto legale: ché, se ha bisogno di essere corretta, la legge ha insito o può produrre un errore. Questo, ovviamente, non può consistere in una contravvenzione del giusto, giacché la legge stessa in un certo senso lo incarna. epperciò la correzione che l’equo opera sulla legge non esprime affatto un superamento di quanto essa detta, bensì una sorta di riconduzione a un piano che, di per sé, è assente dalla legge: e sarà [...] il piano del particolare concreto. La “superiorità” dell’equo sul giusto legale consiste esattamente in questa capacità di adattarlo alla situazione, onde possa effcacemente esprimersi» (zanatta 2007, p. 578, n. 7). 144 1422 b 39; 1429 a 3; cfr. Etica Nicomachea V 14, 1137 a 34-b 1; IX 8, 1168 a 33-35, e passim; Bonitz 1961, p. 271 b 36. 145 1444 a 12. 146 Retorica I 2, 1356 a 10-13 (il passo è citato più estesamente sopra). 147 Fedro 272 c: levgetai gou`n, w\ Fai`dre, divkaion ei\nai kai; to; tou` luvkou eijpei`n. nella Fisiognomica del C.A., il lupo è associato all’insidia (811 a 17; vd. la nota ad loc. in Ferrini 2007). In genere, dopo omero, il lupo diventa simbolo di astuzia, di inganno e di avidità. tra i molti proverbi che stigmatizzano indole e comportamento del lupo, vd. in particolare, nelle raccolte di zenobio e di Gregorio di Cipro, rispettivamente V 2 (s. v. Luvkou dekav~ – Leutsch/ Schneidewin 1958, I p. 115; Lelli 2006, p. 273: «Il gruppetto di Lupo: proverbiale. Presso il tribunale di Atene fu innalzata una statua dell’eroe Lupo, che aveva aspetto ferino: qui si riunivano i corrotti e i sicofanti. Per il tribunale l’indennità era di un triobolo al giorno»); II 66 (s. v. Luvkou rJhm v ata – Leutsch 1958, II p. 78); cfr. diogeniano II 49 («una combriccola di lupi: per chi traffca furbescamente. Per metafora dall’animale: è infatti rapace» – Lelli 2006, p. 275; Leutsch/ Schneidewin 1958, I p. 202, s. v. ∆Agora; luvkeio~). 148 Fedro 273 b-c; cfr. Retorica ad Alessandro 1442 a 28 ss., e nel commento la nota 399. Vd. anche Aristotele, Retorica II 24, 1402 a 17-20.

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Fedro 272 d-273 a. Vd. rispettivamente 1431 b 4; 1432 a 23; e 1431 b 12; b 17; 1432 a 18; 1437 b 32; 1438 b 7; b 9; cfr. l’uso di alethinos, detto del testimone (1431 b 24), e dell’avverbio alethos nell’espressione tecnica ajlhqw`~ ejgkalei`n (1437 a 20). 151 L’euporia di argomenti è funzionale alla poikilia del reale. Sul rapporto fra teatro e retorica esiste una vasta bibliografa; come primo orientamento, vd. Bers 1994; Castelli 2000; todd 2005; rosenbloom 2009; Sansone 2012; Major 2013; Villacèque 2013. 152 un’analisi dei frammenti di teofrasto (628-630; 534; 614; 650 FHS&G) in cui si delineano le sue concezioni riguardanti la legge, l’equità, la giustizia e l’utilità, e una casistica è condotta da Saunders (1998), che, basandosi soprattutto sul fr. 534, mette in evidenza alcuni punti di contatto e alcune divergenze fra teofrasto e Aristotele, e fra teofrasto e gli Stoici, nel trovare i modi e i criteri per risolvere confitti di principio, o per acuirli. Questa è, in breve, la sua conclusione sul rapporto con Aristotele: «theophrastus, as he is reported in 534 FHS&G, is attempting to make Aristotle’s analysis of moral dilemmas more precise and more useful, by enlarging and refning its conceptual basis. the enterprise adds something, but not a great deal, to theophrastus’ stature as a philosopher. nevertheless the stance he adopts is creditably independent [...]. theophrastus [...] sought more nuanced calculations, namely of commensurability, perhaps taking his inspiration from equity as practised in the courts; and these calculations allow for the possibility of avoiding crude disjunction in expressing outcomes» (p. 93). 153 Platone, Gorgia 454 e-455 a. 154 Il rapporto tra retorica e storiografa è stato affrontato da molti studiosi, in particolare riguardo a erodoto e a tucidide. Vd. per es. Moraux 1954; enos 1993, p. 27 ss.; Butti de Lima 1996, p. 79 ss.; Pelling 2012, con ampia bibliografa sull’argomento. Moraux analizza i discorsi di Cleone e diodoto, in tucidide (La guerra del Peloponneso III 37-48); il confronto con la Retorica ad Alessandro, che egli ritiene verosimilmente di Anassimene, si giustifca in quanto in essa confuiscono, senza originale rielaborazione, i precetti tradizionali della retorica anteriore alla probabile 150

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epoca di composizione del trattato (340): «nous pouvons donc légitimement confronter sa doctrine avec les productions oratoires du Ve siècle» (p. 7). A questa analisi fa esplicito riferimento Pelling (2012), dando rilievo tuttavia a questioni sollevate anche da altri studiosi. L’utilità della Retorica ad Alessandro per spiegare tucidide si basa sul presupposto che essa rifetta «some rhetorical realities that are independent of thucydides himself; but can we be sure that RaA [Rhetorica ad Alexandrum] is not itself infuenced by thucydides?» (p. 284). Sembra più facile ammettere che entrambi si fondano su schemi convenzionali; inoltre il dare maggior peso alle differenze che alle somiglianze viene giudicato come un procedimento più sicuro, in questo tipo di ricerca. L’autore si sofferma poi sulla polarità del sympheron e del dikaion in Aristotele, in erodoto e in tucidide (p. 296 ss.), senza far alcun riferimento alla Retorica ad Alessandro, dove essa ha invece un ruolo altrettanto importante. 155 Retorica III 16, 1417 a 24-36. Vd. Sofocle, Antigone 911 s.; cfr. erodoto III 119, 3-6. Il motivo è novellistico e popolare, e ricorre anche altrove. 156 Retorica I 3, 1358 b 20-29. 157 Retorica I 3, 1358 b 29-1359 a 5. 158 Retorica ad Alessandro 1421 b 23-32. 159 Retorica I 3, 1358 b 24-27. Indicativa della maggiore problematicità che implica il rapporto tra l’utile e il giusto in Aristotele, è la distinzione fra comportamento in pubblico e comportamento in privato: «Poiché gli uomini non lodano le stesse cose in pubblico e in privato, ma in pubblico lodano soprattutto ciò che è giusto e nobile, mentre in privato desiderano soprattutto ciò che è utile, un altro ‘luogo’ consiste nel cercare di trarre dall’una o dall’altra di queste premesse il suo opposto. Questo luogo è il più effcace tra quelli che hanno a che fare con i paradossi» (Retorica II 23, 1399 a 30-34). 160 Vd. Retorica II 14, 1390 a 33 s.: gli uomini nel pieno della maturità «non vivono solo in funzione del kalon, né solo in funzione del sympheron, ma di entrambi»; I 6, 1362 b 27 s.: la giustizia è un bene perché è utile – sumfevron – per la comunità; I 15, 1375 b 3 s.: «anche ciò che è davvero giusto è reale e vantaggioso – sum­ fevron, ma non lo è ciò che sembra giusto».

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Il dibattito flosofco e politico gravita intorno a questo modello, e alle domande che esso pone riguardo all’ordine delle città, e al problematico rapporto tra legge e natura. nelle diverse teorie sulla giustizia, sviluppate all’interno di una rifessione più vasta che comprende l’uomo, la polis, il cosmo e tutti gli esseri viventi, che in esso abitano e occupano un posto ‘determinato’, la giustizia può indicare la conformità a una norma (naturale, divina, positiva) o l’ideale cui la norma si ispira, e implicare le nozioni di uguaglianza e di ordine, di equilibrio fra le parti. Il rapporto fra physis e nomos (che si interseca con quello fra aletheia e doxa) è oggetto di valutazione con i Sofsti: le leggi politiche sono prevalentemente considerate solo nel loro aspetto positivo, come norme fnalizzate alla sopravvivenza e all’utilità di un’intera comunità o anche all’interesse del tiranno. Questa tradizionale antitesi acquista con Antifonte una nuova ampiezza e profondità: le sue posizioni (vd. le due opere frammentarie La verità e La concordia) sulla legge positiva devono essere valutate nel contesto di un’articolata discussione, e non implicano necessariamente l’idea di una società senza leggi, quanto l’esigenza di defnire più precisamente, e con maggiore consapevolezza dei problemi connessi, le comuni concezioni sulla giustizia e sull’utilità, ciò che sarà d’altra parte un obiettivo di Platone. 162 Vd. per es. il saggio, con ricca bibliografa, di Ginzburg 2000. La sequenza dei termini storia, retorica, prova, già nel titolo, introduce al nucleo argomentativo: la prova è inerente sia alla storia sia alla retorica. «La riduzione della storiografa alla retorica è da una trentina d’anni il cavallo di battaglia di una dilagante polemica antipositivistica dalle implicazioni più o meno apertamente scettiche». essa risale a nietzsche e continua a essere sostenuta sulla base di questi presupposti: «la storiografa, come la retorica, si propone unicamente di convincere; il suo fne è l’effcacia, non la verità; non diversamente da un romanzo, un’opera storiografca costruisce un mondo testuale autonomo che non ha alcun rapporto dimostrabile con le realtà extra-testuali cui si riferisce; testi storiografci e testi di fnzione sono autoreferenziali perché accomunati da una dimensione retorica» (p. 51 s.). Questa concezione della retorica, osserva l’autore, non coincide con quella che emerge dalla Retorica di Aristotele, fn dall’inizio dell’opera: «In

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tono reciso Aristotele respinge sia la posizione dei sofsti, che avevano inteso la retorica soltanto come arte di convincere attraverso la mozione degli affetti, sia la posizione di Platone che nel Gorgia aveva condannato la retorica per lo stesso motivo. Contro entrambi Aristotele identifca nella retorica un nucleo razionale: la prova, o meglio le prove. Il nesso tra la storiografa, così come è stata intesa dai moderni, e la retorica, nell’accezione di Aristotele, va cercato qui: anche se [...] la nostra nozione di “prova” è molto diversa dalla sua» (p. 52 s.). Vd. anche Butti de Lima 1996, p. 127 ss. 163 Vd. Poetica 7, 1450 b 32-1451 a 15; 23, 1459 a 17-b 7; 24, 1459 b 19 s.; Retorica III 9, 1409 a 36-b 6. Sulla nozione di spazio odologico, vd. Janni 1984; Purves 2010. 164 Vd. Retorica ad Alessandro 1426 b 2 ss. (cfr. Aristotele, Retorica I 7, 1365 a 16 ss.; II 23, 1397 b 14 ss.), e la nota di commento. 165 Vd. Retorica ad Alessandro 1440 b 5 ss.; cfr. Platone, Menesseno 237 a; Simposio 195 a. Sulla teoria dell’elogio, vd. Pernot 1993. 166 Retorica ad Alessandro 1436 a 33 ss.; cfr. Platone, Fedro 266 d-e. Vd. Calboli Montefusco 1988. 167 Vd. Retorica III 13, 1414 a 31 ss. 168 Sulla dottrina degli status (constitutiones, stavsei~), le cui «pietre miliari [...] furono senz’altro l’ambiente peripatetico-accademico prima ed ermagora di temno dopo», vd. Calboli Montefusco 1986 (p. 1); Martin 1974, p. 28 ss.; Patillon 2009. «dans sa forme hermagoréenne, il s’agit d’un complexe algorithme (“arbre” de choix) codifant de manière exhaustive l’analyse des situations de controverse et la découverte des arguments pro et contra. or les prémices de cette théorie, à savoir un certain nombre de notions et de distinctions (dans la terminologie postérieure: conjecture, qualifcation, antilepse, excuse, contre-accusation, antinomie, lettre et esprit de la loi, amphibologie, etc.) commandant des arguments ad hoc, peut-être développées au départ en relation avec des facteurs institutionnels, ont été repérées à la fois dans la Rh. Al. et chez les orateurs, notamment Lysias. C’est le gage de l’ancienneté de ce type d’analyse» (Chiron, p. CLIII s.). Vd. per es. Lisia, Contro Eratostene 34; Contro Agorato 49; 51; 84; Contro Filocrate 5. 169 Il ricorso a mezzi indiziari accomuna la retorica ad altre discipline e alla ricerca scientifca: essi costituiscono la base di un

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percorso logico e dialettico; vd. diller 1932, p. 26. Braet, come si è anticipato, sottolinea il contributo della Retorica ad Alessandro allo studio dell’argomentazione. Col suo saggio (1996) intende dimostrare il confuire, nella tradizione retorica antica, dello sforzo per ottenere risultati e del rispetto della razionalità (in contrasto con il tradizionale modo di concepire la retorica antica semplicemente come una guida alla persuasione); lo sviluppo, fn dall’inizio, di norme implicite per l’argomentazione, all’interno di una struttura retorica; la corrispondenza di queste norme con quelle dei teorici moderni dell’argomentazione. La scelta di concentrarsi sulla Retorica ad Alessandro, invece che sulla Retorica di Aristotele, è motivata dal fatto che la prima, essendo un manuale pratico, rappresenta meglio la tradizione retorica rispetto alla «atypical» Retorica di Aristotele; inoltre, di tutti i manuali retorici, è quello «which best fts the negative image that modern normative argumentation theorists are fond of painting of classical rhetoric» (p. 348). nonostante i sofsmi e l’opportunismo esibito, e non celato, quest’opera «consists largely of precepts which, from a rational standpoint, are quite acceptable and contains the seeds of a whole series of doctrines found in modern normative argumentation theory» (p. 349). In molti casi si nota una continuità fra alcuni concetti e criteri moderni, e il loro «embryonic» complemento nella Retorica ad Alessandro; si tratta in particolare del concetto di stasis, degli schemi e dei topoi dell’argomentazione (p. 356). 170 Quintiliano (La formazione dell’oratore II 15) riassume effcacemente la diffusa opinione della retorica come vis persuadendi: «Anzitutto, che cosa sarebbe la retorica? essa viene defnita in vari modi, ma presenta un duplice problema: c’è infatti dissenso o sulla qualità della disciplina stessa, o sul signifcato delle parole che si usano per descriverla. La prima e più importante differenza di opinioni concerne quanto segue: alcuni ritengono che possano essere chiamati oratori anche uomini moralmente discutibili; altri, al cui parere ci uniamo, desiderano che quella qualifca e l’arte in questione vengano riconosciute soltanto a uomini onesti. Fra quanti poi separano l’abilità nel parlare da una vita che sia oggetto di più alta e desiderabile gloria, alcuni hanno chiamato la retorica soltanto “capacità” – uim, alcuni “scienza” – scientiam, ma non “virtù” – uirtutem, alcuni “pratica” – usum, alcuni “arte”

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– artem, sì, ma staccata da scienza e virtù, altri addirittura “un tralignamento dell’arte”, cioè kakotechnia – prauitatem quandam artis, id est kakotecnivan. Costoro generalmente hanno creduto che il compito dell’oratoria risieda nel convincere o nel parlare in modo adatto a convincere; questo scopo, infatti, può essere raggiunto anche da chi non sia onesto. Si sente dunque assai spesso la defnizione secondo la quale “retorica signifca capacità di convincere” – rhetoricen esse uim persuadendi. Ma questa di convincere io la chiamo appunto “capacità” – uim, moltissimi “potere” – potestatem, alcuni “facoltà” – facultatem. Perché la terminologia non provochi dubbi: con uis intendo dynamis (uim dico duvnamin – 15, 1-3). Quintiliano continua ricordando Isocrate, Platone, Cicerone, e osserva che la convinzione si può raggiungere anche con altri mezzi (denaro, infuenza, autorevolezza e dignità dell’oratore, l’aspetto, un volto che suscita pietà, oppure la bellezza – riguardo a quest’ultimo mezzo di persuasione, viene ricordato il celebre episodio di Frine); per questo, alcuni «hanno ritenuto d’essere più precisi», nell’intendere la retorica «come “capacità di persuadere attraverso la parola” – uim dicendo persuadendi. defnizione cui nel suddetto dialogo procede Gorgia, quasi costrettovi da Socrate, e dalla quale non dissente teodette, appartenga a lui o ad Aristotele, come si è creduto, l’opera di retorica che va sotto il suo nome; in essa si legge che il fne della retorica è “condurre con la parola gli uomini ove l’oratore desideri” – ducere homines dicendo in id quod actor uelit. Ma neppure questa defnizione è suffcientemente comprensiva» (15, 10 s.). Si ricordano altre defnizioni e altre differenti opinioni, citando anche dalla Retorica di Aristotele, sull’oggetto, sull’ambito della retorica, sulle sue affnità con altre discipline e sulla fgura dell’oratore: riferirle tutte sarebbe impossibile, conclude Quintiliano (15, 37), dopo aver esposto il proprio punto di vista: «noi, avendo iniziato a formare il perfetto oratore e volendo anzitutto che sia un uomo onesto, torniamo a quanti di questa disciplina posseggono un’idea più corretta. Alcuni hanno giudicato che la retorica coincida con la politica: Cicerone la chiama “parte della scienza politica” (la quale poi coincide con la flosofa); altri, fra cui Isocrate, l’hanno identifcata con la flosofa. Ma ecco la defnizione della sua essenza che le si adatterà meglio: “la retorica è la scienza del parlar bene” – rhetoricen esse bene

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dicendi scientiam; defnizione che infatti racchiude in una volta sia tutti i pregi dell’orazione, sia, contemporaneamente, le qualità dell’oratore, il quale certo non può parlare bene se non è onesto. Lo stesso risultato raggiunge la defnizione che Crisippo mutua da Cleante: “scienza del parlar rettamente” – scientia recte dicendi» (15, 33 s.; Crisippo, fr. 292, II p. 95 SVF; cfr. frr. 293-294). 171 una raccolta dei passi omerici relativi all’oratoria si può trovare in radermacher 1951; vd. anche enos 1993, p. 1 ss.; Kennedy 1994, p. 13 s. e passim; toohey 1994; Vickers 1994, p. 38 ss.; Pernot 2006, p. 15 ss.; dentice di Accadia Ammone 2012; Knudsen 2014. 172 Vd. per es. Odissea 6, 141-148: «odisseo fu incerto se implorare la bella fanciulla prendendole le ginocchia, o pregarla con dolci parole, così, da lontano, che la città gli mostrasse e desse dei panni. e così pensando, gli parve che fosse più utile restare lontano e pregarla con dolci parole: che la fanciulla non si irritasse prendendole le ginocchia. e subito le fece un discorso dolce e accorto». odisseo sceglie signifcativamente la parola: il suo lungo e abile discorso (vv. 149-185), che risulterà vincente, testimonia l’attenzione e il valore che il poeta assegna alla parola. 173 Vd. Distici di Catone I 26, 2 (ars deluditur arte); elio Aristide, A Platone sulla retorica I 48-77; in particolare I 49: «In seguito a ciò si scoprì la retorica e si presentò come una difesa della giustizia – fulakthvrion dikaiosuvnh~ – ed un legame della vita umana affnché le faccende non venissero decise con le mani né con le armi, né con il prendere in anticipo, né col numero né con la grandezza, né con alcun altro mezzo ingiusto, ma la ragione distribuisse il giusto con tranquillità. Perciò questo è il principio e la natura dell’eloquenza e questo il suo proposito: salvare tutti gli uomini e respingere la violenza con la persuasione. essendo stata scoperta per tali e così importanti cose è la sola che ci ha reso la vita degna di essere vissuta, conducendo da sé stessa all’armonia le case private e i pubblici affari delle città e rendendo sempre bello a tutti l’insegnare e l’apprendere, ed essendo la prima ad insegnare dovunque, a fuggire e ad odiare la mancanza di ragione e i tumulti» (trad. di Ferrante 1997). Segue un interessante paralellismo tra la retorica e la legge, entrambe necessarie a una convivenza pacifca e giusta, in cui ciascuno abbia secondo il merito, e alla vit-

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toria dei giusti, con gli strumenti capaci di assicurare l’equilibrio, la stabilità e la salvezza della comunità umana (vd. anche II 110). L’opera è una apologia della retorica (come l’Antidosi di Isocrate), in risposta al Gorgia di Platone. Sul motto ars deluditur arte, derivato dai Distici di Catone, e sulla sua diffusione, vd. tosi 1991, p. 128. d’Angelo (2005) ripercorre la storia del principio del ‘nascondere l’arte con l’arte’ (ars est celare artem, dissimulatio artis) nei campi più disparati, oltre che nell’oratoria e nella retorica, a partire dall’antichità. esso trova nel genere giudiziario «il vero terreno di elezione» (p. 27); tuttavia manifesta «anche una tendenza assai marcata a debordare da regola specifca del genus iudiciale a principio valido per tutta la retorica. La credibilità e l’adeguatezza alla materia non sono infatti scopi specifci dell’oratoria giudiziaria, ma riguardano tutta l’ars. e in effetti il principio che nell’arte retorica l’arte va nascosta se si vuole essere effcaci è spesso affermato in via del tutto generale, e sembra essere un precetto assai antico: antico, verrebbe da dire, quanto la retorica stessa» (p. 32). Aristotele, nella Retorica, parlando della lexis e delle sue aretai, distingue ciò che è prepon nella poesia o nella prosa; in ogni caso, il poiein deve restare nascosto (dei` lanqavnein poiou`nta~), e si deve «dare l’impressione di parlare non artifcialmente, ma naturalmente, perché quest’ultimo modo è persuasivo, mentre l’altro ottiene l’effetto contrario, in quanto gli uomini accusano l’oratore, come se tendesse loro delle insidie, nello stesso modo in cui accusano chi adultera il vino [...]. La parola usata in senso proprio e comune e la metafora sono le uniche a essere utili per lo stile dei discorsi in prosa. ne è prova il fatto che è soltanto di queste che tutti si servono: tutti infatti parlano per mezzo di metafore e di parole usate in senso proprio e comune, e di conseguenza è evidente che se un oratore compone bene vi sarà un che di esotico nello stile, ma l’arte non sarà notata e vi sarà chiarezza. Questa, si è detto, è la virtù del discorso retorico» (III 2, 1404 b 18-37; cfr. [Longino] Il sublime 22, 1). Ciò che l’autore del trattato sulla Meccanica appartenente al C.A. dice, a proposito dei demiourgoi che costruiscono degli strumenti («Gli artigiani sfruttano questa proprietà del cerchio e costruiscono uno strumento nascondendo il principio su cui il

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meccanismo si basa, in modo che sia visibile solo quella parte del congegno, che suscita meraviglia, ma ne sia nascosta la causa» – 848 a 34-37), rifette un principio largamente condiviso da chi ‘costruisce’ discorsi o oggetti, servendosi delle parole o della materia; mechane e thauma sono due concetti strettamente connessi: far apparire degli effetti stupefacenti e nello stesso tempo nascondere il meccanismo che li produce sono obiettivi perseguiti nella costruzione di automata e di teatrini meccanici, i cui congegni non erano visibili. Come nel caso delle marionette si cercava di tener nascoste le mani che muovevano i fli per dare l’impressione che le marionette si muovessero da sé, così anche nel caso degli automata il meccanismo restava e doveva restare nascosto (vd. Ferrini 2010, pp. 17 s.; 71 s.; e ad loc.). 174 2006, p. 197. 175 Questo aspetto è stato giustamente messo in rilievo da Francesco Caparrotta nella sua nota alla traduzione della Retorica dei Greci e dei Romani di Pernot (2006, p. 13). 176 Vd. Vocabolario Treccani, roma 19972; cfr. Luigi Spina nella postfazione alla Retorica di Pernot (2006, p. 227 s.). La valutazione negativa della retorica, intesa come ampolloso e affettato modo di scrivere, è ben espressa da Alessandro Manzoni nella sua Introduzione ai Promessi sposi: nell’arte letteraria si richiede «bensì un po’ di rettorica, ma rettorica discreta, fne, di buon gusto». «Il buon secentista», al contrario, «accozzando, con un’abilità mirabile, le qualità più opposte, trova la maniera di riuscir rozzo insieme e affettato, nella stessa pagina, nello stesso periodo, nello stesso vocabolo. ecco qui: declamazioni ampollose, composte a forza di solecismi pedestri, e da per tutto quella goffaggine ambiziosa, ch’è il proprio carattere degli scritti di quel secolo, in questo paese. In vero, non è cosa da presentare a lettori d’oggigiorno: son troppo ammaliziati, troppo disgustati di questo genere di stravaganze» (ed. a c. di n. Sapegno e G. Viti, Firenze 19789, p. 6 s.). 177 Vd. Caparrotta in Pernot 2006, p. 13 s. nei moderni studi di retorica e nelle teorie moderne del discorso (in particolare a partire dalla prima pubblicazione dello studio di Perelman e olbrechtstyteca) è facile cogliere la ripresa e la rivalutazione della retorica classica, trasformata in una scienza totalizzante; già Aristotele pe-

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raltro, all’inizio della sua Retorica, come si è visto, non assegna né alla retorica né alla dialettica un oggetto specifco, anche se in quel contesto l’accento è posto sulla persuasione, e non sulla conoscenza o sulla comunicazione della conoscenza. 178 De cive XII 12, p. 294 s. Molesworth: «Il carattere di Catilina, che più di chiunque altro fu atto alle sedizioni, fu, secondo Sallustio, di avere “molta eloquenza, poca saggezza”. Sallustio distingue la sapienza dall’eloquenza, attribuendo la seconda come necessaria ad un uomo nato per i disordini; e negandogli la prima, perché prescrive la pace. Ma l’eloquenza è duplice. una è l’esposizione chiara ed elegante dei pareri e dei concetti dell’animo; e nasce in parte dalla contemplazione delle cose stesse, in parte dall’intelligenza delle parole, accolte secondo un signifcato proprio e defnito. L’altra sommuove le passioni dell’animo (come la speranza, il timore, l’ira, la misericordia), e nasce da un uso metaforico, e adattato alle passioni, delle parole. La prima intesse il discorso a partire da princípi veri; la seconda, da opinioni già accolte, quali che siano. L’arte della prima è la logica; l’arte della seconda è la retorica. Il fne della prima è la verità, il fne della seconda è la vittoria – Illius ars logica; hujus rhetorica est. Illius fnis veritas est; hujus victoria. entrambe hanno il loro impiego, quella nel deliberare, questa nell’esortare. La prima non è mai disgiunta dalla saggezza; la seconda lo è quasi sempre. Che questa eloquenza potente, separata dalla scienza delle cose, cioè dalla saggezza, sia il vero carattere di coloro che eccitano e spingono il popolo a innovazioni, lo si comprende facilmente dallo stesso compito che costoro hanno di fronte» (trad. di Magri 2005). Sono noti d’altra parte l’interesse di Hobbes per Aristotele e per la sua Retorica (che tradusse e compendiò), e la rifessione sulle potenzialità e sui pericoli della retorica: «La retorica viene assimilata a un tipo di sapere emozionale, non razionale, capace di generare discordia più che unità di vedute e di intenti. una delle sue caratteristiche è quella di essere una delle cause principali delle sedizioni politiche; anzi, gli autori di ribellioni devono essere uomini eloquenti, buoni oratori. Ma l’eloquenza procede parallelamente alla mancanza di sapienza. Hobbes condivide con Aristotele la preoccupazione per il diffondersi di un’arte retorica pericolosissima per la vita dello Stato. I demagoghi, quali sono

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sicuramente i sofsti, rappresentano delle mine vaganti, capaci di attentare alla sicurezza della polis. Infatti il persuadere della possibile “verità” di qualsiasi proposizione equivale alla rottura dell’equilibrio, fortemente voluto da Socrate e Platone, incentrato sull’unità del valore, che mette la polis al riparo da pretese individualistiche, sia sul piano conoscitivo che sul piano morale e politico. Si può affermare che, dopo la scoperta di euclide, Hobbes legge la Retorica aristotelica alla luce della dicotomia tra conoscenza razionale e conoscenza emotiva» (Carotenuto 1994, p. 14 s.). Similmente si esprime John Locke, a proposito della retorica: «Poiché l’arguzia e la fantasia sono meglio accolte nel mondo che non l’arida verità e la reale conoscenza, il discorso fgurato e l’allusione nel parlare ben diffcilmente verranno riconosciuti come imperfezioni o abusi della lingua stessa. riconosco che, nei conversari in cui cerchiamo piuttosto piacere e diletto che non informazione e miglioramento, gli ornamenti che vengono tratti dall’arguzia e dalla fantasia diffcilmente potranno essere fatti passare per delle pecche. tuttavia, quando vogliamo parlare delle cose quali sono, dobbiamo concedere che tutta l’arte della retorica, a parte l’ordine e la chiarezza, tutte le applicazioni artifciali e fgurative delle parole, che l’eloquenza ha inventato, ad altro non servono che a insinuare idee errate, a muovere le passioni, e con ciò trarre fuori strada il giudizio; e perciò, invero, si tratta di perfetti inganni; e ne deriva ancora che, per quanto lodevoli o ammissibili possano esser resi tali inganni dall’eloquenza nelle arringhe e nelle orazioni popolari, in tutti i discorsi che pretendono di informare o di istruire è certo che dovranno essere interamente evitati; e, dove è questione di verità e di conoscenza, non si potrà fare a meno di pensare che essi siano una grave pecca, o del linguaggio, o della persona che fa uso di tali artifci. Sarà qui superfuo notare in che consistano e quanto svariati essi siano; i libri di retorica, che abbondano nel mondo, potranno istruire in materia coloro che desiderino tale informazione; ma qui non posso fare a meno di osservare quanto poco l’umanità si curi e si preoccupi dell’accrescimento della verità e della conoscenza, se si pensa che le arti dell’errore ricevono privilegi e compensi. È evidente quanto gli uomini amino ingannare ed essere ingannati, dal momento che la retorica, quel potente strumento di errore e d’inganno, ha i suoi

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professanti uffciali, è insegnata pubblicamente, ed è sempre stata tenuta in grande reputazione; e non dubito che si giudicherà grande audacia, se non vera brutalità, l’aver detto contro di essa anche soltanto ciò che precede. L’eloquenza, come il bel sesso, ha in sé fascini troppo potenti per tollerare che mai si parli contro di essa. e vana cosa è denunciare quelle arti dell’inganno, nelle quali gli uomini trovan piacere a essere ingannati» (Saggio sull’intelligenza umana III 10, 34 – ed. it. con introduzione di C.A. Viano, romaBari 1999, vol. II, p. 571 s.). 179 Vd. ed. a cura di Volpi 1992, p. 77 s.; e il saggio di Volpi, in particolare p. 92 ss. Cfr. democrito 68 B 117, II p. 166, 4 d.-K. Sul titolo del trattatello (nella prima edizione è Dialektik; nella terza: Eristische Dialektik oder Die Kunst, Recht zu behalten, in 38 Kunstgriffen dargestellt), ricavato in parte dal testo stesso, dato che il manoscritto non ne reca alcuno, vd. Volpi 1992, p. 11. 180 Volpi 1992, p. 45. 181 Aristotele riferisce un aneddotto su Simonide, che aveva fama di essere un poeta avido di denaro, in un contesto in cui si esamina l’uso stilistico degli epiteti: «Simonide, quando il vincitore di una corsa di mule gli offrì una somma modesta, non volle scrivere un epinicio, mal tollerando di comporre per dei “mezzi asini”, ma quando gli offrì una somma suffciente scrisse l’epinicio: Salve, fglie delle cavalle dai piedi di tempesta! – Caivret∆ ajellopovdwn quvgatre~ i{ppwn [fr. 10/ 515 Page] sebbene fossero anche fglie degli asini» (Retorica III 2, 1405 b 23-28). Sulla fgura di Simonide come prototipo di una nuova concezione dell’intellettuale, vd. Gentili 1984, pp. 153 ss.; 211 s. 182 Retorica I 2, 1355 b 25-34. Vd. sopra, la nota 51. 183 Retorica I 1, 1354 a 1-6. Gastaldi si sofferma sulla pregnanza del termine antistrophos in questo contesto, proponendo anche una breve rassegna di alcune traduzioni in italiano (‘analogo’, ‘controcanto’, ‘speculare’) e in altre lingue (2014, p. 351 ss.). 184 Retorica I 1, 1354 a 6-10. 185 Retorica I 1, 1355 a 14-18. A diversi tipi di realtà corrispondono strumenti differenti di conoscenza. 186 nello Ione, uno dei dialoghi in cui Platone analizza i complessi aspetti della comunicazione, si arriva gradatamente alla conclusione che né il poeta né il rapsodo hanno conoscenza tecnica

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e specifca delle cose che dicono: il loro talento deriva dall’essere ispirati (entheoi); si realizza così una sorta di catena, di attrazione magnetica, di effcace contagio ‘psichico’ che coinvolge tutti, emittenti e destinatari del messaggio (vd. per es. 533 d-535 a). La metafora del magnete ripropone e reinterpreta in un certo senso la concezione secondo cui la parola è dotata di potenza magica e di forza psicagogica autonoma (cfr. Gorgia 82 B 11, 8-14, II pp. 290-293 d.-K.). Aristotele dà uno sviluppo e un orientamento diverso ai problemi posti da Platone: il tema della ricezione, il rapporto fra techne ed episteme, la questione dei modi e dei mezzi della comunicazione, affrontati anche nei suoi studi di retorica, hanno permesso a questa disciplina di riemergere, nel corso del tempo, e oggi in particolare, dalla marginalità e dalla settorialità, e di conquistarsi nuovi spazi. 187 Vd. Aubenque 1976, p. XII: «C’est cette neutralité axiologique qui permet à Aristote de considérer pour elles-mêmes les structures et les présuppositions du discours rhétorique». 188 Pernot 2006, p. 9. 189 «risulta abbastanza evidente come il forire, negli ultimi decenni, degli studi sulle scienze del linguaggio, e sulla comunicazione in particolare, ha ridato spazio alle teorie retoriche, soprattutto alle classifcazioni aristoteliche – ad esempio, all’individuazione della triade fondante oratore-discorso-uditorio –, che hanno accompagnato tanti studi pioneristici di semiologia e di pragmatica della comunicazione (basti ricordare il nome di umberto eco)» (Spina in Pernot 2006, p. 231). 190 Gentili nella prefazione a Cerri 1996, p. 15 s. 191 Vd. Cerri 1996, pp. 21 s., 38 s., 84; cfr. Havelock 1973; reale (Platone) 1998, p. 15 ss. 192 Jonathan Hesk (2000) ha condotto uno studio sulla rappresentazione del raggiro e della bugia nell’Atene classica, focalizzandosi soprattutto sul rapporto tra inganno e retorica dell’identità ateniese (p. 20 ss.), sull’ideologia dell’inganno militare (p. 85 ss.), sulla nozione di ‘noble lie’ (p. 143 ss.), sull’oratoria ateniese e sulla retorica «as the technology of lies» (p. 204 e ss.), e sulla sua ambiguità: «rhetoric is represented both as a technology of pernicious lying and as a means of securing justice» (p. 295). La cultura democratica ateniese appare percorsa da un’inquietante e dinamica argomen-

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tazione sui problemi e sulle occasioni della frode che coinvolgono tutta la cittadinanza; lo studio è condotto guardando anche a realtà storiche e politiche contemporanee: dal confronto con il modo in cui la società ateniese affronta e gestisce l’inganno, l’autore intende richiamare l’attenzione sui pericoli di una certa rassegnazione o indulgenza, in epoca moderna e postmoderna, nei confronti della ‘politica’ e dell’ ‘etica’ dell’inganno. Conclude chiedendosi se il pensiero politico occidentale, che ha le sue radici in Grecia, risolverà mai «the problems which deception poses for democracy» (p. 291). 193 esiodo, Teogonia 27 s. Il verso richiama l’Odissea: «fngeva dicendo molte menzogne simili al vero» (19, 203); odisseo, che si presenta nelle vesti di etone cretese, racconta a Penelope ciò che sa del suo sposo, con un abile, persuasivo e suggestivo discorso in cui si mescolano verità e menzogna. 194 Vd. per es. Cole 1991; Kennedy 1994; Schiappa 1999; Pernot 2006; Major 2013; e più in generale i saggi raccolti in Arnason/ raafaub/ Wagner 2013. 195 Hansen 2003, p. 31 s. 196 esiodo, Teogonia 346-349. 197 esiodo, Opere e giorni 60-89; cfr. Teogonia 570-590. 198 Pernot 2006, p. 21. 199 Vd. Pernot 2006, p. 22. 200 una tradizione identifcò in Solone il padre della democrazia ateniese; in realtà le riforme decisive in senso democratico, e di democrazia ‘diretta’, sono quelle di Clistene prima, di efalte e di Pericle dopo. «Anche se Clistene non aveva realmente fondato la democrazia così come si sarebbe presentata dopo le riforme di efalte e l’istituzione della mistoforia da parte di Pericle, egli aveva nondimeno creato le condizioni che l’avrebbero resa possibile, iscrivendo nello spazio della polis l’isonomia, l’uguaglianza grazie e di fronte alla legge, che rimane una delle più grandi invenzioni di Atene» (Mossé/ Schnapp-Gourbeillon 1998, p. 210). Sul codice soloniano di leggi, e su alcune fonti che riferiscono a Clistene l’inaugurazione della democrazia, o solo la restaurazione di quella soloniana, vd. Hansen 2003, pp. 55 ss.; 433 ss.; 436; 442. 201 Atene è defnita da Hansen come l’esempio migliore di uno stato importante governato da una democrazia diretta. «Questa forma di governo fu introdotta da Clistene nel 508/7 a.C. e abolita

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dai Macedoni quando conquistarono Atene nel 322/1. Sappiamo che numerose altre città-stato greche ebbero costituzioni democratiche; ma di fatto tutte le testimonianze di cui disponiamo riguardano Atene». Atene fu una democrazione diretta, anche se è da respingere «come erronea la nozione comune che la democrazia greca fu sempre “diretta”» (2003, p. 17 s.). riguardo alla democrazia del IV secolo, di cui Hansen si occupa più specifcamente, egli pone la questione se si debba considerare “radicale” come quella del V secolo o più “moderata” come quella attribuita a Solone (p. 436). «Se potessimo tornare al tempo di demostene e chiedere a un ateniese comune: “Chi è kyrios ad Atene?” tutte le fonti indicano che l’immediata risposta sarebbe stata: “le leggi” (hoi nomoi). Se tuttavia gli venisse chiesto: “Quali persone sono kyrioi?” egli probabilmente direbbe: “Il demos è kyrios”; ma in tal caso impiegherebbe il termine demos per indicare la totalità del popolo, cioè lo stato di Atene, e non la gente comune o i poveri come ci avrebbero risposto Platone o Aristotele. Ma supponiamo che l’interrogazione procedesse ancora di un passo con la domanda: “Come e dove il demos ateniese esercita il suo supremo potere?” la risposta attesa sarebbe: “nell’ekklesia sulla Pnice dove il popolo si riunisce e prende decisioni su tutte le questioni importanti”. Questa è in verità la risposta che Aristofane suggerisce nei Cavalieri [42], dove i due schiavi (i generali demostene e nicia) chiamano il loro padrone Demos Pyknites, “Signor demos della Pnice”. Questa è anche la risposta che si trova in altre fonti del quinto secolo, ad esempio in orazioni di Antifonte e Andocide, e nella descrizione di Senofonte del processo dei Generali. nelle fonti del IV secolo manca però vistosamente il passaggio dal demos detentore del potere supremo al demos detentore del potere supremo in ekklesia. Ci viene invece detto che sono i giurati nei dikasteria ad essere kyrioi o kyrioi panton. Il tribunale popolare è messo in primo piano rispetto all’Assemblea popolare, ed è talvolta individuato, a scapito dell’ekklesia, come il supremo organo di governo. talvolta viene anche detto che i dikasteria sono sopra le leggi. Se gli Ateniesi non riuscirono a creare qualcosa di nettamente diverso dalla democrazia “radicale”, ciò signifca che forse non è quello che cercavano di fare. essi volevano semplicemente modifcare la loro costituzione e istituire un certo controllo sugli illimitati poteri del popolo. Lo

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scopo della riforma è chiaro: gli Ateniesi intendevano evitare un ritorno alle crisi politiche e alle catastrof militari della guerra del Peloponneso. nonostante i flosof, diffcilmente si può negare che gli Ateniesi nel quarto secolo fossero stanchi dei principi “radicali” estremi e stessero cercando di sostituirli se non con una democrazia “moderata”, almeno con una “modifcata”, in cui i tribunali e i nomothetai fossero gli organi di controllo investiti del compito di mantenere al loro posto l’Assemblea e i leader politici e di ristabilire il rispetto delle leggi» (pp. 440-442). 202 Vd. per es. Aristotele, Politica VI 2, 1317 b 2 s. («una delle caratteristiche della libertà è che le stesse persone in parte siano comandate e in parte comandino – ejleuqeriva~ de; e}n me;n to; ejn mevrei a[rcesqai kai; a[rcein»; cfr. VII 14, 1332 b 25-27); euripide, Supplici 406-408. Cfr. erodoto, Storie III 83, 2. L’attività politica, nel senso di partecipazione alla vita della polis, era un valore in sé, un fne in sé e non solo un mezzo di autoaffermazione, vd. per esempio in Aristotele la celebre defnizione dell’uomo come politikon zoon (Politica I 2, 1253 a 2-10; cfr. Ricerche sugli animali I 1, 487 b 33-488 a 14). 203 Cleone, nel discorso che gli mette in bocca tucidide, accusa gli Ateniesi di assistere agli interventi degli oratori come si accorre a uno spettacolo, di essere adescati dall’eloquenza e dalle novità, di essere smaniosi di primeggiare con la parola e di gareggiare con altri in abilità oratoria, e di restare ammaliati dal piacere dell’ascolto, somigliando così a spettatori di gare sofstiche più che a cittadini solleciti del bene comune (La guerra del Peloponneso III 38, 4-7). Su questi aspetti e sulle caratteristiche fondamentali della democrazia del IV secolo, vd. Hansen 2003, pp. 442-465. 204 Hansen 2003, p. 452 s. 205 Le dimensioni ideali della città nella Politica di Aristotele devono uniformarsi al desiderio di visibilità e di controllo, di libertà e di ordine interno, di autosuffcienza e di facile difendibilità: come ogni ‘organismo’, prodotto dalla physis o dalla techne, la città deve essere eusynoptos (Politica VII 4, 1326 b 22-25; 5, 1327 a 1 ss.; cfr. 4, 1325 b 33-5, 1327 a 10): la polis ideale deve essere facilmente visibile, non solo relativamente al numero della popolazione che la abita, ma anche relativamente all’area che copre (cfr. Isocrate, Antidosi 172; eschine, Contro Ctesifonte 118).

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Platone, nelle Leggi, a proposito delle leggi musicali e della progressiva confusione dei generi, parla di passaggio a una deteriore ‘teatrocrazia’, associandovi una rifessione di carattere politico: «I teatri, da silenziosi che erano, si riempirono di urla assordanti, quasi fosse il pubblico in grado di intendere ciò che è bello e ciò che non lo è; e così, al posto dell’aristocrazia dell’arte sorse una forma di deteriore ‘teatrocrazia’. e se almeno in questa ‘teatrocrazia’ si fosse formata una sorta di democrazia di uomini liberi, il fatto non sarebbe stato poi così grave. Invece, da tale atteggiamento verso la musica si è originata fra di noi la falsa opinione di saper tutto su tutto, un gusto per la trasgressione e, di conseguenza, per la libertà senza limiti. La presunzione del sapere tolse ogni remora e la mancanza di timore generò l’impudenza. In effetti, il non avere più rispetto per l’opinione di chi è migliore, per effetto della presunzione è, per così dire, l’aspetto deteriore dell’impudenza, perché nasce da una certa forma di libertà spinta all’eccesso» (III 701 a-b). 206 «Base della costituzione democratica è la libertà: così si è soliti dire, quasi che in questa sola costituzione gli uomini partecipino di libertà, perché è questo, dicono, il fne di ogni democrazia» (Politica VI 2, 1317 a 40-b 2; in tutto questo passo, Aristotele espone le idee dei demotikoi). Cfr. per es. erodoto, Storie V 78; tucidide, La guerra del Peloponneso II 37, 2; VII 69, 2; euripide, Supplici 403-408; 429-441; Platone, Repubblica VIII 557 b; demostene, A Leptine sull’esenzione dalle imposte 105-108. 207 diversamente dal concetto politico moderno e astratto di libertà, a meno che la nozione di schiavitù non sia assunta metaforicamente. una breve ma lucida esposizione del dibattito antico e moderno sulla nozione di libertà, a livello individuale e istituzionale, si può leggere in Hansen 2003, p. 117 ss. 208 Si possono ricordare noti processi, tra cui quello di Socrate, vd. Hansen 2003, p. 122; Canfora 2011, p. 3 ss.: il processo fu “politico” in senso specifco «perché si colpiva in lui l’ispiratore (o il presunto ispiratore) degli uomini risultati maggiormente nocivi alla città (Alcibiade e Crizia), ma anche politico in un’accezione più vasta, in quanto il processo alle “idee” era di fatto un modo alquanto terroristico di esercitare un controllo sulle devianze». utile è anche considerare come si giungeva a un giudizio e chi erano i giudici: «semplici cittadini non esperti del diritto».

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riguardo al rapporto fra pubblico e privato, Hansen puntualizza che la sfera pubblica, cioè la sfera della polis, «era specifcamente una sfera politica: la polis non regolava tutte le questioni, ma solamente una gamma limitata di attività sociali, mentre questioni come l’istruzione, l’industria, l’agricoltura e il commercio erano lasciate all’iniziativa privata. Inoltre, agli Ateniesi era in genere concesso di pensare e dire ciò che volevano su ogni cosa, purché, per esempio, non profanassero i Misteri, o non creassero senza la dovuta autorizzazione nuovi culti o associazioni religiose. Questo fatto non è negato da quegli storici che enfatizzano l’onnipotenza della polis, ma viene controbattuto con un’altra osservazione: se gli Ateniesi nella loro assemblea decidevano di interferire nell’istruzione, produzione o qualsiasi altra cosa, essi erano autorizzati a farlo, e nessuno poteva sostenere che fosse una violazione dei diritti individuali» (2003, p. 125 s.). 210 Retorica ad Alessandro 1432 b 17-19. 211 Vd. [Senofonte], La costituzione degli Ateniesi I 12; cfr. euripide, Ippolito 421-423; Fenicie 390-392; Ione 671-675. 212 Retorica ad Alessandro 1432 a 2; b 38 s.; 1443 a 17 s. Vd. le note di commento. 213 Retorica ad Alessandro 1421 b 24 e passim. 214 Vd. per es. Retorica ad Alessandro 1424 b 15-26; 1443 a 10-b 14; 1444 b 7-20. Cfr. Lisia, Per l’uccisione di Eratostene. Discorso di difesa 2936; demostene, Sull’ambasceria tradita 7 s.; eschine, Contro Timarco 18-20. La rilevanza che la durata nel tempo di una norma, la memoria e l’appello alla tradizione hanno nella costruzione di una ragione giuridica è nota, e pone il problema del rapporto fra tempo e diritto (vd. Bretone 2004). Per l’antichità si possono qui brevemente ricordare un frammento di esiodo (fr. 322 M.-W.: novmo~ d∆ ajrcai`o~ a[risto~), i patria e archaia nomima di Platone (Leggi VII 793 a-d), l’articolata analisi di Aristotele del rapporto fra nomos, chronos, ethos (e[qo~), nella Politica (II 6, 1264 b 26-12, 1274 b 28; in particolare 8, 1268 b 25-1269 a 28). 215 Vd. per es. Platone, Gorgia 454 b-455 a; Fedro 266 d-273 c; Aristotele, Retorica I 1, 1354 a 24-26; Senofonte, Apologia di Socrate 4; Isocrate, Contro Callimaco 9-12 (dove sono chiaramente

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espressi i rischi e i pericoli che si corrono nei processi); demostene, Contro Aristocrate 206. Particolarmente effcaci appaiono le rappresentazioni di processi e di fgure di giudici nelle commedie di Aristofane, che mette in scena e denuncia la dimensione passionale dell’attività dicastica, lo scadimento e lo svuotamento della nozione di ‘giudizio’, la mistifcazione della giustizia, il fenomeno dei sicofanti, e il potere dell’oratoria nei tribunali; vd. per es. Vespe 88-112; 242-244; 319 b-322; 508-511; 548-630; 1367; Uccelli 30-45; 108-111; 1433-1435; 1468; 1478/9; 1694-1705; Acarnesi 375 s.; 846 s.; Cavalieri 1316 s.; 1358-1361; Nuvole 207 s.; 620; Donne all’assemblea 655-688; Pluto 917 s.; cfr. Ferecrate fr. 102 K.-A. Il diffuso gusto per le sottigliezze sofstiche in materia giudiziaria è testimoniato da molte altre fonti. Plutarco riferisce che Santippo, indignato con suo padre, andava raccontando, per far ridere la gente, «ciò che Pericle faceva in casa e i discorsi che teneva coi Sofsti. un giorno, ad esempio, che un atleta di pentatlo aveva colpito e ammazzato involontariamente col giavellotto epitimio Farsalo, Pericle aveva sprecato, narrò Santippo, una giornata intera a discutere con Protagora chi, a rigor di termini, bisognava considerare responsabile dell’incidente: se il giavellotto, colui che l’aveva scagliato, o i giudici di gara» (Vita di Pericle 36, 5 – 172 A). nell’approfondimento delle relazioni fra tribunali, teatro, assemblea, scuola flosofca, oratoria forense, anche la Retorica ad Alessandro può offrire il suo contributo. 216 Vd. Aristofane, Vespe 550-600. dover mette in rilievo proprio l’importanza dell’oratoria giudiziaria come documento della morale popolare corrente, sottolineando il rischio a cui si esponeva chi prendeva la parola in tribunale: «Poiché non c’era un controinterrogatorio dei testimoni e i dicasti non ricevevano nessuna guida oggettiva in fatto di interpretazione delle norme di legge, era della più grande importanza che l’oratore si presentasse sotto una veste idonea a suscitare una buona impressione. egli non avrebbe potuto permettersi di esprimere o lasciar intendere di avere delle convinzioni o dei princìpi che potessero risultare offensivi per il collegio giudicante; nello stesso tempo era importante che egli attribuisse al suo avversario una maschera suscettibile di screditarlo. Per questo motivo l’o-

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ratoria forense dovrebbe essere considerata la nostra principale fonte di informazioni sulla morale popolare. Chi contribuiva alla formazione di una decisione politica parlando nell’assemblea non parlava sotto la minaccia di sanzioni immediate e, di conseguenza, poteva concedersi più libertà di un oratore forense nel proporre una morale non ortodossa; ma se voleva davvero che la sua proposta fosse accolta – e possiamo presumere che egli mirasse a salire, anziché a scendere nella scala del prestigio sociale e politico – era improbabile che si arrischiasse ad addurre un’argomentazione in serio contrasto con i valori morali accettati da una rilevante porzione del suo uditorio» (1983, p. 56 s.). Sui meccanismi escogitati per risolvere i problemi posti dal sistema giudiziario ateniese, sull’attribuzione di funzioni giudiziarie anche ad altri organi, su metodi alternativi di composizione delle liti prima di comparire in tribunale (esperienza che doveva risultare traumatica, per chi non vi fosse abituato), sull’utilizzazione politica e tattica dei processi, sulla mancanza di una cultura legalitaria (nonostante che anche l’eroe comico invochi talora a testimoni gli spettatori – vd. per es. Acarnesi 926 e Pace 1119 – e che Atene fosse fera delle proprie leggi) e sull’attività dei sicofanti, vd. la nota riassuntiva di Humphreys 1997, p. 550 ss. L’autore segnalando lo spostamento dell’interesse, da parte degli storici, dall’oratoria politica ai discorsi forensi, e facendo riferimento a indagini di antropologi e giuristi che «hanno suscitato un nuovo interesse per la documentazione greca concernente le modalità di citazione delle norme in tribunale, e per la collocazione dei tribunali nell’ambito delle strategie di competizione politica o familiare», conclude: «un misto di fede utopica nei confronti della legge, a livello teorico, e di scetticismo, a livello pratico, risulta attraente per il nostro senso del paradosso e della contraddizione, per i nostri atteggiamenti sempre più ambigui nei confronti dell’imperio della legge» (p. 564 s.). 217 Sulla nozione di giudizio nel diritto greco, vd. Gernet 2007: l’acquisizione di una funzione giuridica del giudizio viene collocata nella vita delle poleis, anche se l’attitudine agonale che lo caratterizza, fn dall’inizio (l’autore richiama la ‘scena giudiziaria’ dello scudo di Achille, nell’Iliade 18, 497-508), non viene mai meno. nel contesto di un processo inteso come ‘lotta’, l’attività del ‘giu-

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dicare’ (dikazein) è dichiarare la vittoria «conformemente alla regola delle prove: come dire che il giudizio risulti meccanicamente dalle prove, il che equivale a dire che la concezione del giudizio è una concezione formalista» (p. 74 s.). Per un’analisi più generale di questo concetto in ambiti diversi, vd. i saggi raccolti nel volume curato da Salvatore nicosia (2000). nel suo saggio, il curatore esamina i termini connessi con la radice del verbo krinein, che esprime il concetto del giudicare nella sua accezione più ampia. «Più specifco è invece dikavzein, che è un “giudicare” secondo i principi della “giustizia” (divkh, hJ), del diritto e delle leggi, sempre in riferimento ad una situazione ‘formale’ e in qualche modo istituzionalizzata: presuppone una controversia, implica un’azione giudiziaria, un “processo” (divkh ha anche questo valore), si concreta nell’emissione di un “voto” (yh`fo~, hJ) che è anche una sentenza da parte del “giudice” (dika­ sthv~, oJ), in un luogo destinato all’amministrazione della giustizia (dikasthvrion, tov, “tribunale”). Krivnein esprime invece un concetto assai più generale, rinvia alla capacità valutativa della mente, a prescindere dall’oggetto al quale essa si applica. Dikavzein è insomma una funzione del giudice, krivnein una facoltà dell’uomo, in tutte le circostanze della vita, comprese quelle propriamente giudiziarie» (p. 215 – si cita dalla ristampa del saggio, nella raccolta degli scritti dell’autore, Ephemeris 2013). «Ancorato alla concreta materialità del lavoro agricolo, e funzionale alla designazione della più complessa, faticosa e diffcile fra le occupazioni di una società cerealicola, il krivnein greco ha attraversato nei secoli uno straordinario percorso di concettualizzazione e di astrazione, che non ha mai del tutto obliterato la dimensione materiale delle origini» (p. 227). Il termine derivato krivs iı ha fnito con l’indicare «un fondamentale atto cognitivo, consistente nel distinguere cogliendo le differenze (e nell’assimilare in base alle analogie), nel cogliere le relazioni specifche tra le cose e tra le persone, nell’attribuire valori, meriti e responsabilità, nel dirimere la confusione caotica, nell’ordinare e dare forma alla complessità del mondo e della vita umana» (p. 227 s.). 218 Sull’ampio e dibattuto argomento, strettamente connesso con il carattere e l’interpretazioni delle fonti (letterarie ed epigrafche), con il ruolo delle leggi o delle singole personalità degli ora-

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tori nei processi, e con quello del diritto greco, che si confgura più come ‘flosofa del diritto’ o come esperienza empirica, che come approfondimento tecnico e scientifco, e sistematica elaborazione teorica, vd. per es. Harris/ rubinstein 2004, nell’introduzione (p. 2: «It is true that the average citizens who judged cases in Athenian courts did not receive professional training and did not have access to extensive records of previous decisions in similar cases; this may lead us to think that the Athenian legal process must have differed in some major respects from its modern counterparts in europe and north America. on the other hand, this does not necessarily mean that the Athenians held radically different views about how the courts ought in principle to determine the outcome of any particular legal dispute») e passim, nei saggi raccolti nel volume da essi curato. Biscardi sottolinea che esisteva una coscienza giuridica diffusa in Grecia, pur in assenza di specialisti del diritto: tra i caratteri distintivi dell’ordinamento di Atene e delle altre città greche è da contare «l’assenza di ogni elaborazione del diritto (o addirittura di una nozione teorica di diritto), che corrisponde allo stadio empirico della coscienza giuridica», diversamente da quanto accadrà nella giurisprudenza romana. «A dir vero, il problema giuridico in Grecia è inscindibile da quello morale e politico; ed il fatto che non sia mai esistita una scienza del diritto non signifca per niente la mancanza di una coscienza giuridica. Al contrario, in difetto di qualsiasi diaframma, del genere di quello che potrebbe essere costituito da una classe di giuristi, fra percezione immediata e rifessa del fenomeno giuridico nella coscienza sociale, il problema del diritto è avvertito da tutti ed affora nell’opera dei tragici, dei comici, dei flosof e degli storici. Per questo lo studio del diritto greco non può prescindere da quello dei vari generi letterari: poiché nella Grecia antica il diritto non appare oggetto di conoscenza riservata a un ristretto numero di specialisti, ma è un sentimento comune a tutto il popolo e che investe tutte le manifestazioni della vita» (1982, p. 13 s.). Perentoriamente, Schiavone afferma che il diritto «è una forma inventata dai romani. [...] fu soltanto a roma che l’inevitabile disciplinamento presente in ogni aggregazione comunitaria venne riservato in modo precoce a un severo specialismo di ceto, poi

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trasformatosi in una tecnologia sociale con uno statuto forte, che avrebbe isolato per la prima volta e per sempre la funzione giuridica e i suoi esperti, i ‘giuristi’ (una parola sconosciuta a qualunque lingua antica, tranne il latino), staccandoli da ogni altra produzione culturale o centro istituzionale – dalla religione, dalla morale, dalla stessa politica – permettendone un’identifcazione autonoma, netta e defnitiva. da allora in poi il diritto si sarebbe presentato in ogni sua immagine, anche la più semplice e povera, come oggetto a parte – un corpo compatto, duro e impenetrabile – e si sarebbe sempre riconosciuto attraverso il dispiegarsi di dispositivi dotati di una razionalità speciale e potente. La sua separazione sarebbe apparsa come una peculiarità dell’occidente» (2005, p. 5 s.). Al di là della perentorietà dell’affermazione, si osserva di fatto la mancanza, in greco, di un termine specifco per indicare il ‘diritto’ (ius), in senso oggettivo, anche se ciò non è di per sé determinante: dike può avere anche l’accezione di ‘diritto’; esistono inoltre altri termini che indicano una disposizione giuridica di varia natura (themis, nomos, thesmos, psephisma, rhema, rhetra). Se la nozione di iuris prudentia, come scienza giuridica depositaria di una conoscenza altamente specialistica, resta estranea al mondo greco, si può tuttavia parlare di ‘esperienza giuridica’ greca (vd. Stolf 2006, p. 17 ss.). Saunders ritiene legittimo parlare anche di una ‘Athenian jurisprudence’: «Athenian jurisprudence is utterly sui generis: there is no need whatever to treat roman concepts and practice as defnitive. the Athenians had their own legal experts: themselves». riconosce in ogni caso il confuire di principi diversi (morali e religiosi, economici e politici, come anche puramente legali) nell’ampio e complesso codice legale ateniese, e la diffcoltà di analizzarli e di individuare i loro rapporti reciproci, considerando anche la vastità e la diversità delle fonti: nello studio della cultura greca, la legge «has always been something of a Cinderella» (1998, p. 81 s.). Le questioni riguardanti la competenza del giudice ateniese, il suo grado di conoscenza dei fatti, la possibilità o l’impossibilità di indagare su di essi, la sua responsabilità, e la distinzione fra i compiti degli arbitri, dei magistrati e dei giudici sono esposte in effcace sintesi da Butti de Lima, che così conclude: «Se si può parlare di un “sapere” giuridico, esso si determina attraverso la

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discussione tra le parti in tribunale, e non all’interno degli organi amministrativo-decisionali. non si verifcano, in questo modo, né lo sviluppo di un sapere specialistico sul diritto, né la possibilità di un “controllo” dei fatti in discussione da parte di questi organi, che porti direttamente alla decisione» (1996, p. 25). Cfr. dover 1983, p. 56 n. 5 («I giudici popolari ateniesi – dikastaiv, “dicasti” – costituivano un corpo assai grande – in qualche caso persino di cinquecento o mille persone – che si formava però di giorno in giorno. tutti i cittadini maschi al di sopra dei trent’anni potevano ripetutamente fare i dicasti senza incontrare diffcoltà di rilievo»); Stolf 2006, pp. 41 ss.; 123 ss. Sull’organizzazione e sui poteri dell’Assemblea popolare, del tribunale popolare e del Consiglio dei Cinquecento; sulle procedure e sulle fasi di una causa davanti al tribunale popolare; sui requisiti e sulle funzioni dei magistrati, e sul modo in cui venivano scelti (in gran parte, per sorteggio), vd. Hansen 2003, pp. 189 ss.; 265 ss.; 361 ss.; 290 ss.; 331 ss. 219 Il rapporto tra retorica e legge è al centro dell’analisi già nell’antichità, come dimostrano anche l’attenzione che gli dedica Aristotele, e il posto che egli assegna al nomos, primo fra le pisteis atechnoi. nel famoso processo di Ctesifonte, in cui riesce vincitore demostene, che non aveva la legge dalla propria parte (vd. qui anche la nota 139), Quintiliano fa osservare una diversa, ma determinante, dispositio degli argomenti da parte dell’accusatore, eschine, e del difensore, demostene: «La dispositio è l’opportuna distribuzione degli elementi e dei loro componenti nelle sedi a essi appropriate. Ma ricordiamo che generalmente la disposizione stessa muta sulla base dell’opportunità e che una stessa questione non deve essere sempre discussa per prima da entrambe le parti. Possono servire da dimostrazione in proposito, per tralasciare tutti gli altri esempi, anche eschine e demostene; nel processo di Ctesifonte essi seguirono un ordine inverso; l’accusatore iniziò dalla questione giuridica, nella quale gli sembrava di essere in posizione di forza, mentre il difensore antepose a essa quasi ogni altro punto che consentisse di preparare il giudice alla questione giuridica. Infatti alle due parti conviene informare trattando per primi punti diversi, altrimenti la discussione si svolgerebbe sempre secondo l’arbitrio dell’accusa: infne, nell’accusa recipro-

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ca, quando entrambe le parti si difendono prima di accusare l’avversario, l’ordine di ogni punto della trattazione deve di necessità essere diverso» (La formazione dell’oratore VII 1, 1-3). Signifcativo è anche quanto afferma Plutarco circa il comportamento dei giudici: «A questo punto fu portata in tribunale la denuncia che era stata sporta contro Ctesifonte a proposito della corona durante l’arcontato di Cheronda, poco prima della battaglia di Cheronea; ma fu discussa soltanto dieci anni dopo, durante l’arcontato di Aristofonte, e divenne celebre quanto nessun’altra causa mai dibattuta, sia per la fama degli oratori che vi intervennero, sia per l’onestà dei giudici che la giudicarono. Questi, benché gli accusatori di demostene fossero in quel momento più forti di lui e sostenuti dai Macedoni, non lo abbandonarono al momento della votazione e lo assolsero con un verdetto così limpido, che eschine non ottenne nemmeno un quinto dei voti» (Vita di Demostene 24, 2 – 857 A-B). La maggior parte degli studiosi moderni riconosce a eschine un corretto ragionamento dal punto di vista legale; Harris invece individua un fondamento legale nella difesa di demostene, che sostiene «a narrower interpretation of the statute», mentre eschine adotta «a broad interpretation of the statute»: l’interpretazione di demostene sarebbe confermata da alcune iscrizioni contenenti decreti riguardanti il premio di una corona. Harris conclude che non conosciamo le ragioni per cui il tribunale assolse Ctesifonte, «but one cannot argue that in fnding him innocent the court fagrantly ignored the laws about crowns». Il successo di demostene non fu il trionfo della retorica sulla legge, ma la vittoria di legge e retorica (1994, pp. 141-148). Sull’uso retorico della legge (possibile, dati gli aspetti procedurali della causa, le istituzioni, e la fgura dei giudici, e quindi da non considerare necessariamente connesso alla speculazione sofstica), nella Retorica di Aristotele e nella Retorica ad Alessandro, vd. in particolare Mirhady 1990; 1991: 1996; Carey 1996. In ogni caso bisogna distinguere fra un’utilizzazione del testo della legge, anche in modo contraddittorio, da un’argomentazione retorica sulla legge in generale, facendo ricorso alla nozione di legge comune, di legge non scritta, e al rapporto tra giusto e equo, tra giusto e utile.

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Moltissimi sono i passi della letteratura greca che contengono defnizioni della legge o rifessioni su di essa, che hanno avuto una profonda e duratura infuenza: il ruolo della legge fu in Grecia uno dei principali elementi di identità culturale e di senso di appartenenza a una comunità diversa dal mondo ‘barbaro’; noto è d’altra parte il dibattito, che si impone con i Sofsti, sul complesso rapporto tra nomos e physis. Qualche riferimento: eraclito 22 B 44, I p. 160; B 114, I p. 176 d.-K.; eschilo, Eumenidi 483 s.; Sofocle, Edipo re 863-871; euripide, Medea 536-538; Supplici 311-313; 429-437; Oreste 485-487; 492-495; Ione 442 s.; erodoto, Le storie III 38, 4; VII 104, 4; tucidide, La guerra del Peloponneso II 37, 3; Platone, Apologia di Socrate 32 c; Critone 50 a-54 c; Protagora 337 c-d; Gorgia 482 e-484 b; Repubblica IV 419 a-421 c; V 472 b-473 c; Leggi I 644 b-d; III 681 c-d; IV 714 b-716 b; 718 c-724 b; VI 766 c-771 a; VII 793 a-e; IX 857 b-859 b; 862 a-863 a; [Platone], Defnizioni 415 b; eschine, Contro Timarco 4-6; demostene, Contro Aristogitone (I) 15 s.; 20-22; Contro Midia, sul pugno 224 s.; Senofonte, Memorabili I 2, 40-46; IV 4, 7-25 (nel colloquio con Ippia, Socrate sostiene che è giusto ciò che è conforme alla legge: to dikaion e to nomimon si identifcano); elio teone, Esercizi di preparazione, II pp. 128-130 Spengel. Vd. anche la nota 233, e i passi della Retorica e della Politica di Aristotele ricordati nelle note seguenti. 221 La conoscenza del diritto greco è frammentaria, se si esclude la legislazione di Gortina (Creta era famosa per le sue leggi e per i suoi mitici legislatori e giudici – vd. Platone, Minosse 318 b-321 d; Critone 52 e; Repubblica VIII 544 c; signifcativamente, Platone ambienta le Leggi a Creta), il cui testo è quasi integro (vd. Gagarin 2004). Il problema delle fonti è in questo ambito molto rilevante, in mancanza di una specifca letteratura tecnico-giuridica: tra esse sono da considerare anche alcuni trattati di retorica. Le fonti dirette e indirette del diritto greco, o dei diritti greci (come alcuni preferiscono dire, vd. una delinezione del problema in Stolf 2006, p. 3 ss.) sono elencate e discusse, riguardo ai problemi interpretativi e di metodo che il loro studio comporta, per esempio in Biscardi 1982, pp. 17-35: si tratta dei testi legislativi attici, delle leggi greche non attiche, dei documenti epigrafci di natura non legislativa, delle orazioni giudiziarie, delle opere dei poeti comici e tragici, degli storici, dei lessicograf, delle opere che rifettono

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costituzioni e leggi greche (le Leggi di Platone; la Politica e la Costituzione di Atene di Aristotele; la Costituzione di Atene attribuita a Senofonte), la palliata romana e i retori latini, ostraka e papiri. Ampi sono inoltre l’arco temporale e l’area geografca: «Per diritto greco si intende il complesso degli ordinamenti giuridici vigenti nel mondo greco e greco-orientale dalla formazione storica del popolo greco (1200-1100 circa a.C.: invasione dei dori e fusione di questi con le popolazioni mediterranee preesistenti), fno all’età ellenistica ed oltre, ossia fno alla soglia della compilazione giustinianea ed all’avvento di quel sistema che dicesi propriamente diritto bizantino. entro questi confni cronologici, l’acme dello sviluppo storico fu raggiunto dall’ordinamento delle poleis greche principalmente nel corso del V e IV secolo a.C. Si può dire anzi che il diritto greco è soprattutto diritto delle poleis» (Biscardi 1982, p. 7 s.). Per una ‘protostoria’ del diritto greco, e in particolare per le norme che regolano la vita sociale nel mondo omerico, vd. Cantarella 1979. 222 Retorica I 1, 1354 a 11-26: «Fino a oggi quanti hanno composto una Tecnica retorica hanno lavorato solo su una piccola parte di tale soggetto: infatti solo le argomentazioni rientrano nella tecnica, mentre gli altri elementi sono accessori, e inoltre questi scrittori non dicono nulla a proposito degli entimemi, che costituiscono il nucleo dell’argomentazione, mentre rivolgono la maggior parte della loro attenzione ad aspetti estranei al soggetto. Il pregiudizio, la compassione, l’ira e simili emozioni dell’anima non sono in rapporto con il soggetto ma sono dirette al giudice. Pertanto, se in tutti i processi ci si comportasse come attualmente ci si comporta in alcune città – specialmente in quelle dotate di una buona costituzione – questi autori non avrebbero più nulla da dire; poiché tutti pensano che le leggi dovrebbero imporre una simile condotta, o addirittura applicano tale principio e impediscono di parlare al di fuori del soggetto, come accade nell’Areopago. e in questo hanno ragione, perché non si deve sviare il giudice conducendolo all’ira, all’odio o alla compassione: ciò equivarrebbe a deformare lo strumento di cui ci si deve servire per una misurazione». L’Areopago era ritenuto il tribunale di fronte al quale l’abile o ineffcace presentazione del caso non infuiva sul verdetto. È signi-

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fcativo, tra gli altri, un passo di eschine: «Prendete per esempio il consiglio dell’Areopago, il più scrupoloso tribunale della città. Ho avuto modo di osservare recentemente che in questo tribunale molti sono stati condannati, benché fossero eccellenti oratori e avessero prodotto testimoni, e so, al contrario, che alcuni, che erano pessimi oratori e che non confortavano i fatti con testimonianze, vinsero la causa. In effetti, i membri dell’Areopago non pronunciano la loro sentenza solo sulla base del discorso che viene fatto in difesa dell’imputato, o di testimonianze, bensì sulla base di ciò che essi stessi sanno e dei risultati della loro indagine. ed è questa la ragione per la quale questo tribunale mantiene la sua buona reputazione nella città» (Contro Timarco 92). 223 Vd. Retorica I 1, 1354 a 26-b 16 (il passo è citato più avanti); 15, 1375 a 25-b 25: «Parliamo innanzitutto delle leggi e del loro uso per esortare o dissuadere, per accusare o per difendere. È evidente che, qualora la legge scritta risulti contraria alla causa, ci si deve servire della legge comune e dei criteri di equità in quanto più giusti. e si deve sostenere che servirsi ‘della miglior facoltà di giudizio’ – gnwvmh≥ th≥ ` ajrivsth≥ – vuol dir questo, attenersi non totalmente alle leggi scritte; che l’equità resta sempre uguale a sé stessa e non muta mai, e neppure la legge comune, in quanto è conforme alla natura, mentre le leggi scritte lo fanno spesso: ed è questa la ragione per cui sono stati scritti i versi che si trovano nell’Antigone di Sofocle, in cui essa si difende dicendo che la sepoltura che ha dato va contro la legge di Creonte, ma non contro la legge non scritta [... – sono citati i versi 456 e 458]. e si dovrà dire anche che ciò che è davvero giusto è reale e vantaggioso, ma non lo è ciò che sembra giusto, e di conseguenza quella scritta non è legge, in quanto della legge non svolge la funzione; e che il giudice è come chi deve saggiare l’argento, e deve distinguere la giustizia adulterata da quella pura; e inoltre che l’uomo migliore è quello che si serve e si attiene alle leggi non scritte piuttosto che a quelle scritte. Se la legge è in qualche punto contraria a un’altra legge che gode di approvazione generale o è in contraddizione con sé stessa (ad esempio, talvolta una legge stabilisce che tutti i contratti siano validi, mentre un’altra proibisce di fare contratti contrari alla legge), e se è ambigua, ed è pertanto possibile rigirarla e vedere se si adatti meglio nel senso dell’utile o del giusto, allora ci si deve avvalere

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di questa possibilità – eij ajmfivbolo~, w{ste strevfein kai; oJra`n ejpi; potevran th;n ajgwgh;n h] to; divkaion ejfarmovsei h] to; sumfevron, ei\ta touvtw≥ crh`sqai. Se le condizioni in base alle quali fu stabilita la legge non sussistono più, mentre sussiste la legge, si deve cercare di rendere palese questa situazione e di combattere la legge per questa via. Se invece la legge scritta è adatta alla causa, si dovrà dire che quel servirsi “della miglior facoltà di giudizio” non esiste perché vengano pronunciate sentenze contrarie alla legge, ma perché il giudice non sia accusato di spergiuro, se non comprende cosa dice la legge; che nessuno sceglie ciò che è bene in senso assoluto, ma ciò che è bene per lui; che non c’è nessuna differenza tra il non avere una legge e il non servirsene; che nelle altre professioni non c’è alcun vantaggio nel pretendere di “saperne più del medico”, perché un errore del medico non è tanto dannoso quanto l’abitudine a disubbidire a chi comanda; e che cercare di saperne più delle leggi è esattamente quello che viene proibito nelle leggi più stimate». Vd. anche nel commento la nota 413. Cfr. Costituzione degli Ateniesi 9, 2; 35, 2; Politica III 11, 1282 b 1-13: «La discussione della prima diffcoltà [a chi debba appartenere la sovranità] rende evidente soprattutto questo, cioè che le leggi, se ben poste, debbono essere sovrane e che chi esercita l’autorità, siano una sola o più persone, deve far valere la sua sovranità solo in quei casi in cui le leggi non possono essere formulate con precisione, in quanto non è facile tracciare distinzioni universali in tutti i campi. Ma a quali requisiti debbano rispondere le leggi ben fatte non è ancora chiaro, sicché in parte resta ancora insoluta la diffcoltà iniziale. Infatti necessariamente le leggi sono buone o cattive, giuste o ingiuste analogamente alle costituzioni di cui entrano a far parte; almeno questo è evidente, che esse devono adattarsi alla costituzione nella quale vengono inserite. Ciò posto, è chiaro che le leggi rispondenti alle condizioni richieste da una buona costituzione sono giuste, mentre quelle rispondenti alle condizioni richieste da una costituzione degenerata non lo sono». nella Retorica ad Alessandro si danno consigli su come comportarsi nei casi in cui la legge sia ambigua (1443 a 31 ss.). 224 Vd. Poetica 13, 1452 b 30-1453 a 22; 14, 1453 b 14-1454 a 8; 15, 1454 a 16-b 15.

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Retorica I 10, 1368 b 1-7: «dovremo ora dire, a proposito dell’accusa e della difesa, da quanti e quali elementi si debbano formare i sillogismi. Si devono prendere in considerazione tre elementi: in primo luogo per quali e quanti motivi si commette ingiustizia, in secondo luogo con quale disposizione d’animo, e in terzo luogo nei confronti di quali persone, e la disposizione di queste ultime. Procederemo con ordine nell’esposizione, una volta defnito il “commettere ingiustizia”. defniamo “commettere ingiustizia” come il danneggiare volontariamente e contrariamente alla legge». 226 Retorica I 10, 1368 b 1-14, 1375 a 21. Gli stessi temi sono affrontati nelle opere etiche, anche se dal punto di vista della morale individuale e sociale, della giustizia ‘distributiva’ e non di quella ‘riparatrice’. La ricerca della cause costituisce in ogni caso il denominatore comune. 227 Retorica I 1, 1354 a 26-b 16. 228 Vd. per es. Maff 1976 (che richiama l’attenzione sulla contrapposizione fra dato storico reale e prospettiva ideale); il commento di Grimaldi (1980) ad loc.; Mirhady 1990, p. 397; Harris 1994, p. 140 ss. Carey (1996) sottolinea il ruolo della retorica come guida per il modo di trattare questioni di legge, e analizza, da questo punto di vista, la Retorica di Aristotele e la Retorica ad Alessandro, sviluppando il dibattito riguardante non tanto «the morality of Aristotle’s advice», quanto «the more basic question of the soundness of his advice», e soffermandosi sul confronto fra le due opere. Fa notare che le leggi erano introdotte in tribunale (come testimonia ampiamente il corpus delle orazioni) proprio come ogni altro documento riguardante il caso, e fanno parte della strategia dell’oratore: «there were no lawbooks, and there was no text of relevant laws available to the jurors. It was up to the individual litigant to provide his own excerpts from the laws in order to prove his case» (p. 33). Sottolinea inoltre un’importante distinzione da tener presente fra presentazione formale della legge e ruolo della legge nei tribunali, ricordando che le leggi erano privilegiate, rispetto alle altre atechnoi pisteis, in quanto erano protette: la pena per aver introdotto una legge inesistente era la morte – vd. demostene, Contro Aristogitone (II) 24; inoltre i giudici giuravano di votare in accordo con le leggi e i decreti dell’Assemblea ateniese e della Boule. Si confgura così una fondamentale ambiguità nel

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trattamento della legge nell’oratoria: «Formally it is treated as a means of proof; but it is given a status quite distinct from other means of persuasion» (p. 34). 229 Si ricordi la defnizione della retorica, come «facoltà di scoprire il possibile mezzo di persuasione riguardo a ciascun soggetto» (Retorica I 2, 1355 b 25 s.). 230 Retorica I 13, 1374 a 18-b 22; cfr. Politica III 11, 1282 b 1-6; IV 4, 1292 a 30-38 (dove ricorrono i termini nomos e psephisma); Etica Nicomachea V 14, 1137 b 11-32. All’inizio della Retorica (I 1, 1354 b 4-8), Aristotele distingue, come si è visto, fra il ruolo del legislatore e quello del giudice. Si può osservare quanto della rifessione aristotelica rimanga in quella dei moderni. I Greci sono stati fra i primi a sviluppare un’idea, e un ideale di legge, e a esaminare i problemi posti da questo ideale. 231 Retorica ad Alessandro 1420 a 25-27; 1422 a 2-4; 1424 a 9-12; 1421 b 36; 1422 a 1; 1446 a 23 s. Cfr. Aristotele, Politica III 16, 1287 b 5-8, dove si distingue fra hoi kata grammata nomoi e hoi kata ta ethe: «Le leggi che riguardano i costumi – oiJ kata; ta; e[qh – sono ancor più vincolanti e vertono intorno a cose più importanti delle leggi scritte – tw`n kata; gravmmata novmwn, sicché un uomo, se può governare in modo più sicuro che non le leggi scritte, non può mai dare un affdamento maggiore delle leggi fondate sui costumi». Per i riferimenti alla Retorica, vd. infra. Come noto, nomos è, tra i termini che indicano la legge in greco, quello che fnisce per imporsi sostituendosi gradatamente a thesmos; esso indica ciò che è conforme alla regola, la legge in generale e la legge scritta. Harris (2004, p. 19 ss.) esamina il valore e l’uso di questo termine, e ricorda brevemente il vivace dibattito antico su che cosa sia da considerare tale, sui i motivi e sulle fonti della legittimazione del nomos, invitando a evitare «the eurocentric assumption derived from modern jurisprudence that law must be enacted by a legislature and be expressed in formal, written statutes» (p. 21). nel far riferimento a studi antropologici, in cui si identifcano quattro «basic attributes of law», comuni a tutti i sistemi legali, afferma che essi risultano contenuti anche nei nomoi di Atene e delle altre città greche: la legge viene fatta valere da un’autorità, ha un’applicazione ampia o universale, regola la

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condotta tra gli individui e tra essi e la comunità intera, contiene una sanzione (p. 22). Sui termini utilizzati per indicare la ‘legge’, e sulle distinzioni operate nel tempo, vd. Biscardi 1982, p. 344 ss.; Hansen 2003, p. 241 ss.; Stolf 2006, p. 123 ss. 232 In diversi passi della Retorica, Aristotele utilizza contrapponendole le espressioni koinos nomos e idios nomos (I 10, 1368 b 7-9), koinos nomos e gegrammenoi nomoi (I 15, 1375 a 32 s.): il koinos nomos è ‘secondo natura’ (kata physin – 1375 a 32; cfr. 13, 1373 b 6 s.), e rinvia dunque alla nozione di diritto naturale. In un altro passo, in cui Aristotele distingue fra l’idios nomos e il koinos nomos, l’idios nomos è a sua volta distinto in agraphos e gegrammenos (I 13, 1373 b 4-6); in questo caso, l’agraphos nomos non è il diritto naturale, ma sembrerebbe assimilabile, sostiene talamanca, «a quella che noi chiamiamo ‘consuetudine’» (1994, p. 36). talamanca si chiede quale rapporto abbiano questi signifcati di agraphos nomos con il divieto di ricorrervi, neppure in un solo caso, che leggiamo in Andocide: NOMOS. ∆Agravfw≥ de; novmw≥ ta;~ ajrca;~ mh; crh`sqai mhde; peri; eJnov~ (Sui misteri 85 e 87; cfr. 91, dove si ricorda il giuramento di votare kata tous keimenous nomous). La questione è complessa e riguarda anche il rapporto tra equità e diritto positivo, la nozione di epieikeia, in ambito giuridico, il giuramento degli eliasti di attenersi alla gnome dikaiotate, e i criteri decisionali cui si ispiravano i giudici: «alcuni ritengono che il legalismo del sistema attico, espresso nel modo più preciso dal nomos di Andocide, non trovasse – al livello normativo – nessun correttivo e fosse sostanzialmente rispettato nella prassi dei tribunali ateniesi, a prescindere dai grossi processi in cui erano in gioco preminenti interessi politici; altri sono invece convinti, pur da punti di vista non sempre coincidenti, che rispetto a tale legalismo si avessero in concreto e in astratto deviazioni più o meno cospicue. Fra questi ultimi, alcuni hanno insistito sulla rilevanza dell’equità su un piano normativo, ed altri sul modo di procedere sostanzialmente arbitrario adottato dai giurati nella loro decisione (il che, fra l’altro, avrebbe praticamente vanifcato qualsiasi prescrizione di attenersi al corpo delle leggi vigenti)» (p. 41 s.). L’autore ritiene che il divieto di ricorrere all’agraphos nomos vada letto «in rapporto con la revisione del corpo legislativo portata a termine alla fne del V secolo a.C., dopo la cacciata dei trenta e la restaurazione della democrazia»; resta il fatto che la

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legge su di esso, ricordata nell’orazione di Andocide, non viene utilizzata «come topos retorico nella prassi concreta degli oratori attici e neppure a livello della contrapposizione aristotelica fra koinos (agraphos) nomos e gegrammenoi nomoi» (p. 36 s.). Vd. anche Cerri 1979, p. 96 ss. Macdowell commenta ricordando la necessità di distinguere tre tipi di agraphoi nomoi: la legge divina, i costumi sociali e «laws of the state which were not offcially inscribed in the basileios stoa»: a queste ultime farebbe riferimento il nomos citato da Andocide (1990, p. 125 s.). nella codifcazione del 403/ 402, gli Ateniesi approvarono una legge che Hansen chiama legge di defnizione, in quanto appunto defnisce ciò che in futuro dovrà avere valore di ‘legge’; essa è citata o parafrasata in numerose fonti, ma la citazione più completa e più antica si trova nell’orazione di Andocide. La legge comprende tre importanti riforme: la proibizione della legge non scritta; la distinzione tra leggi e decreti; il principio secondo cui le leggi sono norme superiori, «sovraordinate ai decreti» (2003, pp. 253-259). riguardo al primo punto, Hansen osserva che con questa disposizione venne ridotto il ruolo della consuetudine come fonte del diritto: «nel quinto secolo nomos signifcava sia consuetudine sia legge; nel quarto secolo, nel linguaggio comune, continuò ad avere entrambi i signifcati, ma in contesti legali il concetto di ‘legge’ venne ad essere limitato a una norma scritta approvata dall’organo legislativo dello stato. Ciò non vuol dire che il diritto consuetudinario non giocasse alcun ruolo come fonte normativa. È importante notare che la proibizione della legge non scritta era diretta ai magistrati. Il giuramento, che i giurati del tribunale popolare prestavano ogni anno, iniziava così: “darò il mio voto in accordo con le leggi e con i decreti approvati dall’Assemblea e dal Consiglio. Ma se non vi è alcuna legge (su un punto) esprimerò il mio giudizio in base a ciò che ritengo più giusto”. ora, il diritto di giudicare in conformità al proprio senso di giustizia implica il diritto di ricorrere alla legge non scritta e alla consuetudine, se non vi è alcuna legge scritta su una questione. Presa insieme al Giuramento eliastico, la legge di defnizione rivela quindi un aspetto fondamentale della democrazia del quarto secolo: i magistrati sono sotto la legge; ma i giurati, essendo i guardiani della legge, possono in certe circostanze essere considerati sopra la legge, anche se nor-

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malmente si chiede loro di seguirla, ed è loro concesso un potere negato ai magistrati» (2003, p. 253 s.). Harris (2004, pp. 31-34) richiama opportunamente la distinzione, in alcuni contesti, tra legge e ‘legge stabilita’, meritevole quest’ultima del più grande rispetto per aver superato la prova del tempo e dell’esperienza; e il diritto che hanno i cittadini di disobbedire a un ordine che non sia in accordo con le leggi (vd. Senofonte, Memorabili IV 4, 1-3). L’espressione hoi keimenoi nomoi appare signifcativamente in tucidide, nella sua analisi della lotta civile, che dissolve ogni ordine e legalità (La guerra del Peloponneso III 82, 6). Cfr. Aristotele, Politica IV 8, 1294 a 5. Più generalmente, è opportuno non confondere una semplice distinzione fra leggi scritte e non scritte, da un’antitesi spesso cercata secondo il modello dei dissoi logoi, e della tipica argomentazione retorica a partire da opposti punti di vista. 233 Retorica I 13, 1373 b 6-17: «Vi è un comune concetto di giusto e di ingiusto secondo natura, di cui tutti hanno una sorta di predizione, anche se non vi sia alcun contatto reciproco né un accordo: in Sofocle, ad esempio, Antigone sembra dire che è giusto seppellire Polinice, anche se è vietato, in quanto ciò è giusto per natura: “non da oggi infatti né da ieri, ma da sempre vive questa legge, e nessuno sa quando sia apparsa”. e così dice anche empedocle, a proposito del non uccidere ciò che è vivente, in quanto ciò non è giusto per alcuni e ingiusto per altri: “Ma la legge che governa tutte le cose si estende ininterrottamente per l’etere dal vasto dominio e per l’infnita luce”». Vd. Sofocle, Antigone 456 s.; empedocle 31 B 135; I p. 366 d.-K. Cfr. Sofocle, Antigone 450-460 («Questo editto non zeus proclamò per me, né dike, che abita con gli dei sotterranei. no, essi non hanno sancito per gli uomini queste leggi; né avrei attribuito ai tuoi proclami tanta forza che un mortale potesse violare le leggi non scritte, incrollabili, degli dei, che non da oggi né da ieri, ma da sempre sono in vita, né alcuno sa quando vennero alla luce. Io non potevo, per paura di un uomo arrogante, attirarmi il castigo degli dei»); Edipo re 863-871 («Mi sia dato serbare reverente purezza, di atti e di parole, secondo le leggi che vigono eccelse, nell’alto cielo generate. L’olimpo soltanto ne è padre: non le produsse prole di uomini effmeri, né mai oblio le assopirà. Vive in esse un dio possente, che non invecchia»); Elettra 1095 s.; Edipo a Colono 1382;

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euripide, Supplici 19; 311; 563; Oreste 495; tucidide, La guerra del Peloponneso II 37, 3; Platone, Protagora 337 c-d; Leggi VII 793 a-e; demostene, Per Ctesifonte, sulla corona 275; Contro Midia, sul pugno 224 s.; Senofonte, Memorabili IV 4, 19 s.; Ciropedia VII 5, 73; Cicerone, Tuscolane I 13, 30; Plutarco, Vita di Licurgo 13, 1 s. (47 A): «Licurgo non mise per iscritto nessuna legge, anzi una delle sue ordinanze, le cosiddette retre, vieta espressamente di farlo. egli pensava che se i principî più imperiosi e importanti per la prosperità e la virtù di una città sono inculcati fn dall’inizio nelle coscienze e nelle abitudini dei cittadini, vi rimangono immutati per sempre, poiché la convinzione che l’educazione crea nei giovani costituisce un legame più forte della costrizione, assolvendo per ciascuno di essi la funzione di legislatore». L’Antigone è stata letta come una tragedia che mette in scena il confitto fra leggi non scritte e leggi scritte, fra leggi degli dei e leggi dello stato, o tra la famiglia e la religione da una parte, e lo stato dall’altra, fra Creonte, difensore delle leggi dello stato, e Antigone che le viola. In realtà Antigone ha un forte argomento legale a suo favore: Creonte ha emanato un kerygma, non un nomos (7 s.; 26-34). Vd. Harris 2004, pp. 34-49: il contrasto fra Creonte e Antigone riguarda il signifcato della parola nomos. La lettura dell’Antigone come espressione di antinomie (stato/ famiglia o genos, politica e religione, legge positiva e legge naturale, legge e etica, stato e libertà individuale), spesso desunte da schemi ideologici della cultura moderna, si è imposta per lungo tempo, anche grazie alla nota interpretazione di Hegel. Sulla necessità di un’analisi diversa, che tenga anche conto della situazione giuridica del tempo, di precisi riscontri nel linguaggio giuridico-politico dei tragici, e delle testimonianze antiche relative ai divieti di sepoltura, sul signifcato degli agrapta nomima, nel contesto dell’Antigone, sul confronto con le Supplici di euripide, sul progressivo mutamento del valore dell’espressione tradizionale agraphos nomos, nella seconda metà del V secolo, richiama l’attenzione uno studio di Cerri (1979). Se la contrapposizione domina spesso nella tragedia greca, il giusto non sta inequivocabilmente da una parte o dall’altra, e le contrapposizioni non sono mai così nette: in rilievo sono piuttosto la condizione umana e la rifessione del poeta su di essa e sulle problematiche etico-politiche. Creonte alla fne cambia opinione e dice:

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«temo che sia meglio osservare fno al termine della propria vita le leggi stabilite – tou;~ kaqestw`ta~ novmouı» (1113 s.). Bisogna inoltre chiedersi quale effetto potessero produrre sul pubblico ateniese le due posizioni, di Antigone e di Creonte, pensando anche ai numerosi testi di carattere storiografco e oratorio che affrontano lo stesso problema del divieto di sepoltura per cittadini accusati di tradimento, o che si richiamano alle stesse categorie giuridiche di legge scritta o non scritta, contrapponendole, o al contrario non prospettando nessuna eventuale confittualità tra la legge e chi è al potere (vd. il celebre discorso di Pericle, in tucidide, La guerra del Peloponneso II 37). Il problema del rapporto fra diritto e potere è posto nella Repubblica di Platone: l’autonomia del diritto viene basata sull’essenza universale e trascendente della giustizia. La distinzione tra diritto naturale e diritto positivo, tra il modello perfetto e ideale, fondato sull’immutabilità della natura umana, e le molteplici, mutevoli e imperfette situazioni reali storicamente determinate, si è notoriamente e durevolmente imposta nella rifessione flosofca e giuridica dell’occidente. 234 La retorica vi appare come una disciplina mal defnita e mal defnibile, artefce di persuasione e di lusinghe, un sapere superfciale o un’apparenza di sapere, non fondandosi su una conoscenza effettiva del proprio oggetto (non è quindi una techne), inutile o utile solo a scopi ‘immorali’: essa è espressione di una maniera deviata di concepire la politica. Molto diversa, come noto è la valutazione di Isocrate (vd. per es. Antidosi 253 ss.). 235 Retorica I 1, 1355 a 21-36; cfr. il passo immediatamente precedente (1355 a 14-18), già citato. 236 Retorica I 10, 1368 b 7-9; 13, 1373 b 4-6; vd. anche le note 230-233. 237 Vd. le note 225 e 226. 238 Retorica I 1, 1354 b 4-6; 13, 1374 a 18-37; cfr. Politica III 11, 1282 b 1-6; 15, 1286 a 9-27; Etica Nicomachea V 14, 1137 b 13-19; Costituzione degli Ateniesi 9, 2. 239 Vd. Etica Eudemia VII 9, 1241 b 13-17. nel terzo e nel quarto libro della Politica, le rifessioni sulle costituzioni e sulle leggi, sulla eunomia si intersecano costantemente; cfr. il celebre passo, in cui si defnisce l’uomo un politikon zoon (I 2, 1253 a 1-18).

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Vd. per es. Politica I 2, 1253 a 19-38; III 9, 1280 b 23-1281 a 10; III 12, 1282 b 14-23; III 16, 1287 a 23-32; IV 8, 1294 a 1-9; il quinto libro dell’Etica Nicomachea. 241 «Per i Greci l’obbligo di adoperare una stessa misura per le proprie azioni e per quelle degli altri è implicito fn da principio nell’idea del diritto. diritto, divkh (dike), è la parte che tocca a ogni singolo. Suum cuique sarebbe la massima giuridica positiva; dikaiosuvnh (dikaiosyne), la giustizia, è la tendenza ad agire nella propria cerchia in modo che ognuno riceva quello che gli spetta e non passare i limiti della propria cerchia. Ma come determinare la parte che spetta al singolo? nel diritto di proprietà, che fornisce il modello a questa concezione del diritto, è la tutela della proprietà e la “giusta” punizione di ogni sopruso. Qui veramente il bene non è altro che il male non compiuto. In realtà, le esigenze morali postive che la primitiva comunità greca impone al singolo e che ogni singolo riconosce, non sorgono dall’idea del diritto, ma dall’ajrethv»; così Snell 1963, p. 245. 242 Per un primo orientamento riguardo a queste fgure e ai loro codici (scritti e orali) di leggi, vd. Camassa 1996; Humphreys 1997; M. noussia / M. Fantuzzi, a c. di, Solone, Milano 2001. La codifcazione scritta delle leggi determina un paradosso: da una parte, essa è dettata dall’esigenza, che si impone con il formarsi delle poleis, di rendere le leggi vincolanti e imperanti; dall’altra favorisce la loro alterazione o modifcazione: il problema del mutamento delle leggi si presenta proprio quando esse vengono affdate alla scrittura, e non quando vige il diritto consuetudinario orale. Scrive Camassa: «Per prevenire l’inevitabile rischio dell’alterazione non v’era altra strada percorribile se non quella dell’assoluto divieto di modifche e aggiunte, A che cosa si mirava con tale divieto? evidentemente il fne perseguito era uno e uno solo: consentire ai cittadini di riudire nuovamente e all’infnito la parola del loro nomoteta. una parola fssata per iscritto, ma non per questo modifcabile. Prestata a un mezzo inaffdabile, che evoca per i Greci (e non solo per i Greci) sottili insidie e tradimenti infniti, la parola del legislatore si ripete, si deve ripetere, sempre uguale a sé stessa. ricerca di una parola scritta inalterabile, non soggetta alle norme che regolano il mezzo da cui è veicolata. A ben vedere, si cerca così di riproporre, nel regno della parola scritta, un’esperienza già

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compiuta. e l’esperienza non è altro che quella del diritto consuetudinario orale: esso propriamente appare a quanti vivono sotto il suo dominio come qualcosa di assoluto e di immutabile» (1996, p. 576). 243 «La notion de “règle, usage” a conduit à celle de “justice”, vue sous un aspect surtout humain (à la différence de qevmi~)» (Chantraine 1999, s.v. divkh). Vd. Biscardi 1982, pp. 351-360. 244 Vd. per es. Cantarella 1979; Havelock 1983; dentice di Accadia Ammone 2010; Knudsen 2014. 245 Platone, Repubblica I 331 c. Il termine dikaiosuvnh, formato con il suffsso – suvnh, che già dall’epoca omerica dà vita a un gruppo compatto di astratti, è una formazione nuova e indica la qualità del divkaio~, parola da cui deriva (vd. Chantraine 1979, p. 211 s.; 1999, p. 283 s.v. divkh). Havelock indugia su questo passo della Repubblica e sull’uso di dikaiosyne, in contrapposizione a dike (1983, p. 380 s.). L’autore si ferma nella sua analisi a Platone, e non prende in considerazione Aristotele, ma accenna solo al fatto che «la sua “giustizia distributiva” non rappresenta in essenza altro che una razionalizzazione della dikē omerica» (p. 19). 246 Vd. Harris 1994, p. 130. 247 Le Leggi di Platone costituiscono il più esteso trattato in questo ambito; vd. la nota 221. 248 Il mitico Minosse, re di Creta, svolge nell’Ade la stessa attività che gli era caratteristica in vita (omero, Odissea 11, 568-571); nel Gorgia di Platone è giudice dei morti (vd. anche la nota 221), come radamanto ed eaco, anch’essi fgli di zeus, che a loro dà questo incarico: «Ho costituito a giudici i miei tre fgli: due dell’Asia, Minosse e radamanto, e uno dell’europa, eaco. Costoro, quando gli uomini saranno morti, li giudicheranno sul prato, dal cui trivio si dipartono le due vie: l’una diretta alle Isole dei Beati, l’altra diretta al tartaro. e radamanto giudicherà quelli dell’Asia ed eaco quelli dell’europa. A Minosse darò il privilegio di essere arbitro supremo, nel caso che gli altri due si trovino in diffcoltà, affnché la sentenza sulla destinazione degli uomini sia la più giusta» (523 e-524 a; cfr. Apologia di Socrate 41 a). Cfr. Odissea 4, 563 s. 249 La fama di Antifonte come oratore e il sospetto che la sua abilità suscitava sono effcacemente testimoniati da tucidide. An-

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tifonte è presentato come un uomo di grandi capacità, come effcace organizzatore e ideatore, instancabile nel perseguire il proprio intento, di carattere schivo: «non si presentava volentieri a parlare in assemblea né in alcun’altra sede di dibattiti, ma veniva guardato con sospetto dal popolo per la sua fama di abile oratore, eppure non vi era un altro così bravo nell’assistere chi, dovendo affrontare un dibattito in tribunale o nell’assemblea popolare, si rivolgesse a lui per un parere». tucidide esprime infne la propria ammirazione per l’orazione che Antifonte pronunciò per difendersi, e che gli sembra la migliore difesa mai sostenuta fno ad allora (La guerra del Peloponneso VIII 68, 1-2), come riconosce anche Quintiliano. Antifonte «fu il primo», secondo Quintiliano, «a mettere un discorso per iscritto, compose nondimeno un trattato di retorica ed ebbe fama d’essersi splendidamente difeso» (La formazione dell’oratore III 1, 11). La sua techne era intesa essenzialmente a fornire modelli e ad avviare all’eloquenza; l’opera che ci è pervenuta (oggi si tende a considerare l’Antifonte oratore e l’Antifonte sofsta come un’unica persona) fa emergere la sua fgura di consulente e di teorico: in essa si associano pratica oratoria, insegnamento dell’eloquenza e rifessione flosofca. 250 Vd. Gernet 2001, p. 141. taddei, nelle osservazioni introduttive alle Études, mette in evidenza la costante relazione della dimensione ‘tecnica’ e di quella sociale negli studi di Gernet (p. 50 s.), e si chiede se non sia più opportuno parlare, invece di ‘tecnica’, di tec ni ch e d el d i r itt o , «intendendo con questa espressione non la reifcazione procedurale di autonomi principi astratti, ma le modalità procedurali che sono il prodotto di una lunga pratica consuetudinaria» (p. 63). È un’opinione condivisa da molti studiosi che non si abbiano elaborazioni tecniche del diritto greco almeno fno alla speculazione aristotelica.

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Aristotele nasce a Stagira. Il padre nicomaco era medico. Anche la madre Festide proveniva da una famiglia di medici. È probabile che, essendo nicomaco diventato medico alla corte dei Macedoni, Aristotele abbia vissuto, almeno per un certo periodo, a Pella, dove aveva sede la corte. Platone si reca in Italia Meridionale e a Siracusa presso dionigi; l’Accademia fu, nel frattempo, forse diretta da eudosso. Aristotele giunge ad Atene ed entra nell’Accademia, proprio nel momento in cui Platone era assente. Muore Platone, e alla direzione dell’Accademia gli succede il nipote Speusippo. Aristotele lascia Atene e si reca, probabilmente, prima ad Atarneo, invitato dal tiranno ermia, e subito dopo ad Asso, città che il tiranno aveva donato ai platonici erasto e Corisco, per le buone leggi che gli avevano preparato, e che avevano ottenuto grande successo. Aristotele dirige una scuola ad Asso, insieme a Senocrate, erasto e Corisco. Aristotele dirige una scuola a Mitilene in Lesbo, dove conosce teofrasto e inizia una stabile collaborazione con lui. Filippo il Macedone sceglie Aristotele come educatore del fglio Alessandro, per intercessione di ermia. ermia è fatto prigioniero e ucciso dai Persiani. Alessandro assume la reggenza, e di conseguenza interrompe i suoi studi. L’educazione impartita da Aristotele ad Alessandro dura quindi circa un triennio. Muore Speusippo, che era succeduto a Platone nella direzione dell’Accademia. A Speusippo succede Senocrate. Con lui Aristotele aveva già interrotto i rapporti, che diventeranno sempre piu polemici.

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Alessandro succede al padre Filippo. Alessandro distrugge tebe e consolida la propria infuenza su Atene. 335/334 Aristotele, avvalendosi della situazione politica a lui favorevole, ritorna in Atene e fonda la sua nuova Scuola, il Liceo, in antitesi con l’Accademia. dal punto di vista giuridico solo con il successore teofrasto il Liceo verrà formalmente riconosciuto, ma di fatto già con Aristotele la Scuola funziona regolarmente. 323 Muore Alessandro Magno e in Atene ha luogo una dura reazione antimacedone. 322 A motivo dei suoi legami con Alessandro, Aristotele, per sicurezza, deve fuggire da Atene, e recarsi a Calcide, dove aveva una casa materna. Pare che gli avversari minacciassero di intentargli (nascondendo i motivi politici sotto la maschera di motivi religiosi) un processo per “empietà” (analogo a quello che avevano intentato contro Socrate). 322 (ott.) Aristotele muore a Calcide, dopo pochi mesi dal suo arrivo, all’età di sessantadue anni. Per quanto concerne la cronologia delle opere di Aristotele non si può dire nulla con sicurezza. È possibile che alcune parti delle opere esoteriche (di Scuola) siano state composte anche già a partire dal periodo di Asso. Ma le ipotesi fatte non solo si sono rivelate mere congetture, ma anche in larga misura decettive. Le stesse opere essoteriche pubblicate da Aristotele, che si riteneva risalissero al periodo accademico, dal punto di vista cronologico risultano in realtà problematiche. È certo in ogni caso che Aristotele le ha sempre citate e si è riconosciuto sempre in esse, senza eccezioni, il che mette in forse la tesi che le vorrebbe tutte quante opere giovanili.

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[aristotele ad alessandro, salute! 1 nella tua lettera, mi dici che spesso ci hai inviato molti delegati a sollecitarmi di redigere per te i procedimenti dell’oratoria politica1. in tutto questo periodo di tempo2, io ho procrastinato non per negligenza, ma perché cercavo di illustrarti la materia in maniera così accurata, come non ha fatto nessun altro di quelli che ne trattano. 2 È naturale che io avessi questa intenzione: tu devi impegnarti ad acquisire la capacità oratoria più celebrata, nello stesso modo in cui ti preoccupi di indossare la veste più splendida di tutti gli altri3. certo, è più nobile e regale possedere uno spirito assennato, che avere indosso una veste appariscente4: 3 è inconcepibile primeggiare nell’azione, e poi dare l’impressione di restare indietro al primo venuto nella parola, soprattutto se si sa che in un regime democratico si ricorre sempre, in ogni questione, alla legge, mentre si ricorre alla parola, se si è sottoposti al potere monarchico. 4 come la legge comune abitualmente assicura l’ordine delle città indipendenti, indirizzandole verso il meglio, così la tua parola potrà essere utile a chi è suddito del tuo regno. ancora, la legge è per così dire l’espressione di un patto defnito in base a un accordo della comunità cittadina, e indica come biso-

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gna comportarsi in ciascuna occasione5. 5 inoltre sai bene, come credo, che noi apprezziamo e riteniamo persone eccellenti sotto ogni aspetto coloro che usano la ragione e scelgono sempre di agire in conformità a essa, mentre disprezziamo e riteniamo persone rozze e selvagge coloro che agiscono senza di essa. 6 in suo nome, puniamo i malvagi che hanno dimostrato la loro perfdia, e imitiamo i buoni che hanno manifestato il loro valore. abbiamo così trovato il modo di stornare i mali futuri, e possiamo godere del bene presente. ancora grazie a essa evitiamo le diffcoltà incombenti, e ci procuriamo i vantaggi che altrimenti non avremmo: come è auspicabile una vita senza dolore, così è desiderabile un’accorta ragione6. 7 ti converrà sapere che per la maggior parte degli uomini costituiscono un modello o la legge, oppure la tua vita e la tua parola7. Pertanto, devi fare ogni sforzo per eccellere fra tutti, Greci e barbari, in modo che chi si impegna in questo intento, realizzi al meglio l’imitazione della tua vita e della tua parola con i principi del valore, e non si lasci così andare ad azioni indegne, ma desideri essere partecipe della tua eccellenza8. 8 ancora, divina fra tutte le facoltà umane è la capacità di deliberare; è necessario così che tu non sprechi la tua energia in cose accessorie e di nessuna rilevanza, ma che tu voglia apprendere il fondamento stesso della buona deliberazione9. chi, dotato di senno, contesterebbe il fatto che l’agire senza aver valutato è segno di sconsideratezza, mentre farsi guidare dalla ragione e compiere una cosa da essa

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suggerita è segno di cultura? 9 si può constatare che tutti i Greci meglio governati indugiano a ragionare prima di passare all’azione; anche i barbari che hanno il prestigio maggiore ricorrono a essa prima di agire, ben sapendo che la valutazione dell’utile alla luce della ragione è la roccaforte della salvezza. Questa è la roccaforte che bisogna ritenere inespugnabile, non quella, considerata invece sicura, costituita di edifci, dai quali speriamo la salvezza10. 10 Ma esito a scrivere di più, per non dare l’impressione di pavoneggiarmi, argomentando su aspetti molto noti, come se non ci fosse su di essi un accordo unanime11. Perciò, lascerò perdere, e accennerò solo a un tema su cui è possibile discutere per una vita intera: ciò per cui siamo superiori agli altri animali è ciò per cui anche noi, che abbiamo ottenuto dalla divinità il dono più prezioso, risulteremo superiori agli altri uomini. 11 anche tutti gli altri animali provano desiderio, collera e passioni simili, ma nessuno di loro ha l’uso della ragione, eccetto l’uomo12. sarebbe dunque la cosa più assurda se disprezzassimo la causa del vivere bene, e non ci curassimo di essa per pigrizia, proprio noi che viviamo più felicemente degli altri animali solo grazie alla ragione13. 12 ti esorto ancora, come ho già fatto, a dedicarti all’eloquenza flosofca: come la salute è custode del corpo, così la cultura è custode dell’anima14. se questa diventa la guida, non ti accadrà di subire insuccessi nelle tue azioni, ma riuscirai a conservare, diciamo così, tutti i beni di cui sei venuto in possesso. 13 a quanto detto aggiungo che se il guardare con

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gli occhi ci procura piacere, il vedere con lo sguardo acuto dell’anima è motivo di stupore15. inoltre, come il comandante è il salvatore dell’esercito, così la parola, unitamente alla cultura, è la guida della vita16. Ma ritengo che sia giusto, per il momento, tralasciare questi e simili argomenti. 14 nella tua lettera, mi raccomandi di non lasciare questo libro nelle mani di nessun altro17: ma sai bene che gli inventori tengono alla loro creazione, più di quelli che ne fruiscono; allo stesso modo, i genitori amano i fgli nati da loro, più dei fgli adottivi18: come si muore per i propri fgli, così si muore per le proprie idee19. 15 i cosiddetti sofsti di Paro, per esempio, non hanno cari i loro discorsi, ma li mettono in vendita per denaro, perché essi, pigri e incolti come sono, non li hanno prodotti20. sono io pertanto a raccomandarti di proteggere questa opera, così che non sia rovinata da nessuno per denaro, data la sua giovane età, e che ottenga una fama imperitura, una volta arrivata alla maturità dopo una decorosa vita insieme con te21. 16 come ci ha indicato nicanore, abbiamo inoltre raccolto tutto ciò che di compiuto qualche altro retore ha scritto sullo stesso argomento nei propri trattati22. tu riceverai questi due libri, di cui uno è il mio, e fa parte dei trattati scritti per teodette23, l’altro è di corace24. Per il resto, tutto ciò che vi è scritto riguarda in modo particolare le norme politiche e giudiziarie25; pertanto, per ciascuno di questi campi, tu potrai pienamente disporre delle seguenti note redatte per te26. sta’ bene!]

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Prima parte Generi e specie del discorso politico 1. 1 tre sono i generi dei discorsi politici: il deliberativo, l’epidittico e il giudiziario27; e sette le loro specie: l’esortazione, la dissuasione, l’elogio, il biasimo, l’accusa, la difesa, e l’esame, specie autonoma oppure funzionale a un’altra28. 2 Questo è dunque il numero delle specie dei discorsi, di cui ci serviremo sia nel parlare in pubblico, davanti al popolo, sia nelle arringhe relative ai contratti, sia nelle riunioni private29. saremo in grado di parlarne con maggiore pertinenza, se ne elenchiamo le potenzialità, gli usi e la realizzazione, specie per specie30. Esortazione e dissuasione cominceremo con l’esaminare l’esortazione e la dissuasione, dal momento che esse ricorrono molto frequentemente sia nelle riunioni private sia nelle assemblee pubbliche. 3 in generale, l’esortazione consiste nel promuovere certe scelte, discorsi o azioni, al contrario della dissuasione che consiste nell’ostacolarli31.

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Argomenti 4 Ferme restando queste defnizioni, chi esorta deve dimostrare che ciò a cui egli incoraggia è giusto, legittimo, utile, moralmente bello, piacevole e facile a farsi32; altrimenti, quando si sprona ad affrontare delle diffcoltà, bisogna dimostrare che la cosa è possibile e la sua esecuzione necessaria33. 5 chi dissuade, invece, deve impedire qualcosa ricorrendo ad argomenti contrari34, deve cioè affermare che farlo non è giusto, né legittimo, né utile, né bello, né piacevole, né possibile, oppure che è faticoso e non necessario. in tutte le azioni c’è questa o quella qualità; così nessuno rimane mai senza parole nel sostenere un proposito o l’altro35. Defnizioni degli argomenti 6 in conclusione, questo è ciò cui deve mirare chi esorta o chi dissuade. Per parte mia, mi sforzerò di defnire ogni argomento, e di spiegare da dove trarremo materia per i nostri discorsi36. 7 È giusta la consuetudine non scritta, comune a tutti gli uomini, o alla maggior parte, di distinguere tra azioni buone e cattive. essa consiste nell’onorare i genitori, nell’aiutare gli amici, nell’essere riconoscenti nei confronti dei benefattori: non sono le leggi scritte a imporre agli uomini questo modo di comportarsi, o uno simile, ma si usa fare così secondo una consuetudine non scritta e per una legge universale37. ecco dunque le azioni giuste.

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8 la legge è un accordo comune all’interno di una città, che stabilisce per iscritto come bisogna comportarsi in ciascuna situazione38. 9 È utile custodire i beni presenti, o acquisirne di nuovi, oppure allontanare i mali presenti o impedire i mali prevedibili39. 10 l’utile del cittadino comune lo considererai distinguendo tra corpo, anima e beni acquisiti. Per il corpo sono utili la forza, la bellezza, la salute; per l’anima, il coraggio, la saggezza e la giustizia; amici, denaro e possedimenti fanno parte di ciò che si acquisisce40. il contrario di tutto questo è nocivo41. 11 l’utile per la città consiste in questo: concordia, potenza militare, ricchezza e abbondanza delle entrate, valore e numero degli alleati; in una parola, riteniamo utile tutto ciò che è analogo a questo, e nocivo il contrario. 12 sono nobili le azioni da cui chi le fa trarrà buona fama o dimostrazioni di onore42. sono piacevoli le azioni che procurano gioia43. sono facili le azioni che si portano a termine in pochissimo tempo, con pochissima fatica o dispendio44. Possibili sono tutte le azioni realizzabili. inevitabili sono le azioni che non dipendono da noi, ma da una necessità divina o umana45. Fonti degli argomenti ed esemplifcazione 13 Queste sono le azioni giuste, legali, utili, nobili, piacevoli, facili, possibili e inevitabili. ne tratteremo adeguatamente se partiremo da ciò che si è detto, da

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ciò che è simile o contrario a esse, e dai giudizi già pronunciati da dèi o da uomini stimati, o da giudici, oppure dai nostri avversari46. 14 Ho prima chiarito la natura del ‘giusto’; ecco esempi di ciò che è conforme al giusto: «come riteniamo giusto obbedire ai genitori, così è opportuno che i fgli imitino le azioni dei loro padri»; «come è giusto ricambiare il bene a chi ce lo ha fatto, così è giusto non fare del male a chi non ce l’ha fatto»47. 15 ecco dunque come bisogna concepire ciò che è conforme al giusto; e lo spiegheremo attraverso i suoi contrari: «come è giusto punire chi ha fatto del male, così è opportuno benefcare chi ha agito correttamente»48. 16 la tua concezione del giusto si baserà sul giudizio di persone stimate, in questo modo: «non siamo certo i soli a odiare i nostri nemici, e a fare loro del male: anche ateniesi e spartani ritengono che sia giusto punire i nemici»49. 17 Procedendo così, utilizzerai il giusto in molti modi. in precedenza, ho defnito che cosa sia il ‘legale’: quando esso ci sia utile, bisogna far riferimento al legislatore stesso e alla legge50, poi a ciò che è simile alla legge scritta. Un esempio potrebbe essere questo: «come il legislatore punisce con gravi pene chi ruba, così bisogna punire severamente chi inganna, perché chi inganna ci ‘ruba’ la giusta comprensione»; oppure: «come il legislatore ha stabilito eredi i parenti più vicini di chi muore senza fgli, così è opportuno che io ora prenda possesso dei beni di questo affrancato: io sono il parente più vicino di quelli

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che lo hanno affrancato e che sono morti; è giusto pertanto che io abbia potere sugli affrancati»51. 18 Questo è dunque un esempio del modo in cui si intende la conformità con ciò che è legale. Per il contrario, vale invece l’esempio seguente: «se la legge vieta52 di spartirsi i beni pubblici, è chiaro che il legislatore ha giudicato ingiusto il comportamento di tutti coloro che se li dividono tra loro; se poi le leggi ordinano di onorare chi ha curato gli affari pubblici con competenza ed equilibrio, è chiaro che ritengono meritevole di punizione chi ha danneggiato il bene pubblico». 19 la legalità diventa pertanto evidente in questo modo, partendo dal suo contrario53; diverso è l’esempio, se si parte dai giudizi precedenti: «non sono il solo a dire che il legislatore ha promulgato questa legge per questi motivi: anche in precedenza, i giudici hanno espresso lo stesso voto a proposito di questa legge, quando lisiteide ha esposto argomenti simili a quelli che io ora sostengo»54. 20 in conclusione, se si procede così, si avranno a disposizione molti modi per illustrare la legalità. l’utile in sé è stato defnito prima. nei discorsi bisogna introdurlo, se se ne ha l’opportunità, servendosi di esso come degli argomenti sopra descritti55: procedendo come si è detto a proposito del legale e del giusto, anche l’utile deve emergere sotto molte forme. 21 ecco possibili esempi di ciò che è conforme all’utile: «come in guerra è utile schierare in prima fla i combattenti più coraggiosi, così nel governo

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conviene che gli uomini più perspicaci e più giusti siano a capo del popolo»; «come è opportuno che i sani stiano attenti a non ammalarsi, così è opportuno che le città in cui regna la concordia veglino per evitare discordie interne»56. 22 Procedendo in questo modo, si potranno moltiplicare i casi di conformità con l’utile. se invece si parte dai contrari, l’utile emergerà in questo modo: «se è vantaggioso onorare i cittadini onesti, sarà anche utile punire i disonesti»; «se pensate che non convenga combattere da soli contro i tebani, sarà opportuno allearsi con i lacedemoni, prima di fare guerra contro di essi»57. 23 Questi sono dunque esempi di evidenza dell’utile. ciò che è stato giudicato vantaggioso da uomini stimati, bisogna introdurlo così: «i lacedemoni, che avevano vinto gli ateniesi, ritennero conveniente non ridurre in schiavitù la loro città58; a loro volta, gli ateniesi59 ritennero conveniente risparmiare i lacedemoni, pur potendo eliminare sparta60». 24 in conclusione, se si procede così, si avrà molto da dire riguardo al giusto, al legale e all’utile. Quanto al bello, al facile, al piacevole, al possibile e al necessario, si proceda allo stesso modo. si avrà quindi abbondante materiale anche in questi casi. Temi su cui si delibera 2. 1 Passiamo ora a defnire su quanti e su quali temi deliberiamo nei consigli e nelle assemblee, e su quali

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fondamenti.61 se ne avremo una chiara conoscenza, saranno i fatti stessi a suggerirci le parole appropriate ogni volta che deliberiamo; inoltre, se abbiamo una lunga familiarità con le forme generali di argomentazione, saremo in grado di applicarle facilmente in ogni circostanza62. Per questo motivo bisogna classifcare i soggetti su cui si delibera abitualmente e in comune. 2 in generale, i temi sui quali63 parleremo in pubblico sono sette. di fatto, le nostre deliberazioni o i nostri discorsi, in consiglio e davanti al popolo, riguardano necessariamente i culti o le leggi, o la costituzione politica o le alleanze o i patti con le altre città; oppure la guerra o la pace, oppure le entrate dello stato64. Questi sono dunque i temi su cui delibereremo o parleremo davanti al popolo: analizziamoli pertanto separatamente e esaminiamo il modo in cui possiamo trattarne. Culti 3 Riguardo ai culti, sono necessariamente tre le linee del discorso65: o diremo che i culti devono essere mantenuti così come sono o che devono essere cambiati, perché siano più sontuosi, o al contrario meno fastosi66. Quando vogliamo sostenere che bisogna mantenerli come sono, trarremo spunto67 dal ‘giusto’, e diremo: «tutti i popoli considerano ingiusto trasgredire i costumi ancestrali»; oppure: «tutti gli oracoli prescrivono agli uomini di compiere i riti in modo tradizionale»; o ancora: «si devono man-

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tenere in particolare le pratiche religiose dei primi fondatori delle città, che hanno innalzato templi agli dèi». 4 Ricorrendo all’ ‘utile’, diremo: «dal punto di vista economico, sarà di vantaggio, sia ai privati sia alla comunità, se le cerimonie sacre saranno celebrate in modo tradizionale»68; «dal punto di vista del coraggio, i cittadini ci guadagnano, perché acquisteranno audacia e senso di emulazione, se gli opliti, i cavalieri e le truppe leggere sfleranno tutti insieme»69. 5 Quanto al ‘bello’, la motivazione sarà valida, se ne risultano feste splendide e spettacolari; quanto al piacere, se si ha anche una certa varietà [nello spettacolo] nelle cerimonie religiose; quanto al ‘possibile’, se in queste celebrazioni non ci sono defcienze o eccessi70. 6 Quando parliamo a favore del mantenimento dei culti, così come sono, dobbiamo dunque procedere in questo modo, sulla base di ciò che è stato detto, o di ciò che gli si avvicina, e delle spiegazioni che è possibile dare riguardo alla nostra argomentazione. invece, quando consigliamo un cambiamento delle cerimonie, fnalizzato a un incremento di magnifcenza, avremo plausibili motivi per mutare la tradizione, se diciamo: 7 «l’aggiunta ai culti esistenti non vuol dire la loro abolizione, ma il loro accrescimento»; ancora: «È evidente che gli dèi sono più benevoli verso coloro che li onorano di più»71; ancora: «neanche i nostri antenati hanno celebrato i riti sacri sempre allo stesso modo, ma riguardo al culto divino hanno legiferato considerando le circo-

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stanze e la prosperità sia dei privati cittadini sia della comunità»; ancora: «così noi ci regoliamo anche in tutti gli altri ambiti, nell’amministrazione delle nostre città e delle nostre case». 8 e procedendo come si è detto per i casi precedenti, esponi anche il vantaggio, il lustro e il godimento che potranno derivare alla nostra città da tutto questo nuovo apparato. 9 Quando invece vogliamo ridurlo al minimo, bisogna innanzitutto portare il discorso sulle circostanze, dicendo: «ora i cittadini si trovano in condizioni peggiori rispetto a prima»; poi: «Gli dèi non gioiscono della dispendiosità delle offerte, ma della venerazione di chi le fa: è ragionevole che sia così»72; ancora: «sia gli dèi sia gli uomini giudicano grandemente folle chi non tiene conto delle proprie possibilità»; e ancora: «in materia di spesa pubblica, si decide in base alla buona o alla cattiva situazione fnanziaria, e non solo in base alle esigenze umane». 10 Queste, e altre simili, saranno dunque le risorse argomentative a nostra disposizione nel trattare di questioni concernenti le cerimonie sacre. defnirò anche i requisiti del rito migliore, in modo che sappiamo fare proposte e legiferare al riguardo. il rito migliore in assoluto è quello rispettoso degli dèi, moderato nei costi, utile militarmente, splendido e spettacolare. 11 sarà rispettoso degli dèi, se non vengono abolite le usanze tradizionali; moderato nei costi, se non viene dissipato tutto ciò che è portato in processione; splendido e spettacolare, se si abbonda con l’oro e cose altrettanto preziose,

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ma senza dispendio; utile militarmente, se cavalieri e opliti, con equipaggiamento completo, accompagnano la processione73. 12 seguendo questi criteri allestiremo la cerimonia religiosa migliore; sapremo inoltre, in base a ciò che si è già detto, come parlare in pubblico su ciascuna forma di rito74. Legislazione 13 in maniera simile, passiamo ora a trattare delle leggi e della costituzione politica. Per dirla in breve, le leggi sono convenzioni decise dalla comunità cittadina, che per iscritto defniscono e stabiliscono regole di condotta per ogni circostanza75. 14 nei regimi democratici, per legge si devono attribuire con sorteggio le magistrature meno importanti, che sono anche le più numerose, perché così si evitano contestazioni. le magistrature più importanti devono invece essere assegnate per elezione, con voto popolare: così il popolo, che ha il potere di concedere le cariche a chi vuole, non avrà invidia di chi le riceve; le persone più in vista, d’altro canto, si comporteranno ancora più onestamente, sapendo che la buona reputazione di cui godranno presso i cittadini non sarà per loro senza proftto76. 15 ecco come bisogna legiferare riguardo all’attribuzione delle magistrature in democrazia; per quanto riguarda poi gli altri aspetti dell’amministrazione, trattarne nel dettaglio, uno a uno, comporterebbe un lungo lavoro. Per abbreviare: bisogna fare

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attenzione a che le leggi dissuadano il popolo dal tramare contro i ricchi, e nello stesso tempo suscitino nei ricchi l’ambizione di elargire volontariamente denaro per le liturgie pubbliche77. 16 si potranno ottenere questi risultati se ai ricchi saranno concesse per legge onorifcenze in cambio delle loro elargizioni a favore della comunità, e se, tra i meno abbienti, i coltivatori e gli armatori avranno una considerazione maggiore rispetto ai piccoli commercianti. così facendo, i ricchi serviranno volentieri la città, e il popolo preferirà il lavoro alla delazione78. 17 inoltre, bisogna stabilire leggi effcaci che impediscano una nuova distribuzione delle terre e la confsca dei beni di chi ha servito la città, e infiggere severe punizioni ai trasgressori. È anche necessario riservare uno spazio pubblico per la sepoltura dei morti in guerra, in un posto bello alle porte della città, e provvedere al sostentamento dei loro fgli, fno alla maggiore età79. 18 in conclusione, questa è l’impostazione delle leggi in un regime democratico. nel caso delle oligarchie80, occorre che per legge le cariche siano equamente distribuite tra tutti coloro che partecipano alla vita politica81: queste cariche dovranno essere, per la maggior parte, assegnate con sorteggio, mentre le più importanti devono essere date con voto segreto, sotto giuramento e con norme rigorose. 19 in un regime oligarchico, bisogna inoltre infiggere pene molto severe a chi si comporta in modo oltraggioso e tracotante nei confronti di al-

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cuni cittadini: il popolo si indigna se rimane privo di cariche, ma tollera ancora meno l’essere oggetto di abusi. ancora, bisogna risolvere al più presto i contrasti tra cittadini, senza lasciarli durare a lungo; non si dovrà neppure convogliare la massa dalla campagna alla città: in conseguenza di questo radunarsi, i vari gruppi si coalizzano e rovesciano i regimi oligarchici82. 20 in generale, nei regimi democratici occorre che le leggi impediscano alla maggioranza dei cittadini di attentare ai beni dei ricchi; in quelli oligarchici, bisogna dissuadere quelli che governano dall’abusare dei più deboli e dal calunniare i cittadini83. 21 in base a quanto detto, saprai a che cosa devono mirare le leggi e la costituzione dello stato. chi vuole parlare in favore di una legge, deve dimostrare che essa è equanime nei confronti dei cittadini, coerente con le altre leggi, utile alla città, favorendo soprattutto la concordia, o altrimenti, l’onestà dei cittadini, le entrate pubbliche, la buona reputazione della comunità cittadina, la potenza politica, o altro di questo genere. 22 se invece si vuole parlare contro, si dovrà esaminare prima di tutto se la legge non si applica a tutti i cittadini, poi se non è coerente con le altre, o addirittura contraria; inoltre se non è utile a nessuno degli scopi esposti, o al contrario addirittura dannosa84. ecco dunque gli argomenti di cui potremo ampiamente disporre nel fare proposte o nel discutere, in materia di leggi e di costituzione pubblica.

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Alleanze e rapporti con altre città 23 affronteremo ora la trattazione delle alleanze e dei patti con le altre città. i patti e gli ordinamenti sono necessariamente regolati da trattati uffciali; farsi degli alleati è necessario in queste circostanze: quando da soli si è deboli, o quando è prevedibile una guerra, o perché si è convinti che l’alleanza con alcuni distoglierà altri dal farci guerra85. 24 Queste, e molte altre simili, sono dunque le motivazioni per farsi degli alleati. Quando tu vuoi parlare in favore della formazione di un’alleanza, devi mettere in rilievo che esistono le circostanze di cui si è detto, e dimostrare prima di tutto che gli alleati sono fdati, che già in passato sono stati di aiuto alla nostra città, che sono molto potenti e vivono nelle vicinanze; o se no, presenta congiuntamente tutte le possibili motivazioni del caso86. 25 Quando invece vuoi impedire l’alleanza, puoi mettere in rilievo prima di tutto che non c’è al momento necessità di stringerla, poi, che i potenziali alleati non sono fdati, e poi ancora che ci hanno danneggiato in passato, ; o se no, che vivono in un territorio lontano e che non è possibile per loro venire in nostro aiuto in tempo utile87. Queste e altre simili motivazioni ci permetteranno di parlare ampiamente contro o a favore della formazione di alleanze.

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Pace e guerra 26 Passiamo ora a desumere allo stesso modo le principali forme di argomentazione al riguardo della pace e della guerra. Questi sono i motivi che si adducono per fare guerra a qualcuno: «in passato siamo stati oggetto di aggressione; per questo, ora che si presenta il momento favorevole, bisogna vendicarsi e punire gli aggressori»; oppure: «ora che siamo oggetto di aggressione, dobbiamo combattere per difendere noi stessi, i nostri familiari o i nostri benefattori»; oppure: «dobbiamo portare aiuto ai nostri alleati, che sono aggrediti»; oppure: «ciò nell’interesse della città, o per assicurarne la fama o la prosperità o la potenza o qualche altra cosa del genere»88. 27 Quando esortiamo a fare la guerra, dobbiamo raccogliere il maggior numero possibile di motivazioni, e poi dimostrare che la maggior parte dei fattori che assicurano la vittoria in guerra è a favore di quelli a cui ci rivolgiamo89. 28 in guerra, si vince sempre o per la benevolenza degli dèi, che noi chiamiamo fortuna, o per la superiorità numerica e la forza fsica, o per la disponibilità di denaro, o per la capacità del comandante, o per il valore degli alleati, o per la posizione favorevole. in conclusione, quando esortiamo a fare guerra, utilizzeremo ed esporremo questi o simili argomenti, scegliendo quelli più adatti alla situazione, minimizzando le risorse degli avversari, e ingrandendo e amplifcando le nostre.

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29 se invece tentiamo di impedire una guerra incombente, dobbiamo dimostrare prima di tutto che non c’è per essa nessuna vera giustifcazione, o che i motivi di rancore90 sono insignifcanti e trascurabili; poi dimostreremo che fare guerra non conviene, esponendo nel dettaglio i disastri che gli uomini subiscono a causa di essa. inoltre, bisogna dimostrare che gli avversari hanno dalla loro parte quei fattori che in guerra favoriscono la vittoria: si tratta dei fattori appena enumerati. 30 Questi sono gli argomenti utili, quando si deve evitare una guerra incombente; se invece essa è già in atto, e tentiamo di farla fnire, bisogna dire innanzitutto questo, nel caso che le persone cui ci rivolgiamo stiano vincendo: le persone sensate non devono aspettare di subire uno scacco, ma devono fare la pace, quando hanno la meglio. Poi si dirà che è nell’ordine della cose il fatto che la guerra porti alla rovina anche molti di quelli che prevalgono, mentre la pace salva gli sconftti, e fa sì che i vincitori godano dei beni per cui hanno combattuto91. Bisogna anche parlare diffusamente dei numerosi e imprevedibili rivolgimenti che possono avvenire in guerra. 31 con questi argomenti si deve dunque esortare chi ha la meglio in guerra a concludere la pace. a coloro che hanno subìto degli scacchi militari, ci rivolgeremo invece invitandoli a considerare la situazione stessa; il fatto che non devono lasciarsi trascinare dall’ira nei confronti degli aggressori, indotti a ciò dalle loro disgrazie; i pericoli che sono derivati dal non aver stipulato la pace; e infne il fatto che è

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preferibile consegnare una parte dei loro beni a chi è potente, piuttosto che essere defnitivamente vinti in guerra, e andare così in completa rovina insieme con i loro beni. 32 in breve, dobbiamo essere consapevoli di questo: solitamente tutti gli uomini pongono fne alle guerre che hanno intrapreso, quando capiscono che i loro nemici sono nel giusto, quando sono in disaccordo con gli alleati, o quando sono stanchi della guerra, o quando temono gli avversari, o hanno discordie interne. così, riunendo questi e simili argomenti, e scegliendo quelli più adatti alle circostanze, non sarai a corto delle risorse necessarie per parlare al popolo sui temi della guerra e della pace. Finanze 33 ci rimane da esaminare la questione delle entrate. Prima di tutto, bisogna accertarsi se una parte delle ricchezze della città è stata trascurata, non dà proftto, e non è nemmeno riservata agli dèi. Mi riferisco per esempio a dei terreni pubblici lasciati nell’abbandono, che venduti, o affttati, a cittadini privati, potrebbero costituire una rendita fnanziaria per la città: si tratta del tipo di entrata più usuale. 34 se niente del genere esiste, è necessario ricavare gli introiti dalle imposte sulla proprietà, oppure stabilire che i poveri offrano il loro personale servizio in situazioni di pericolo, i ricchi offrano denaro e gli artigiani le armi92.

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35 in breve, quando si avanza una proposta in materia di introiti, bisogna affermare che essi sono equamente distribuiti fra i cittadini, che sono duraturi e di vasta portata, al contrario di quelli proposti dagli avversari. conosciamo così, da ciò che si è detto, i temi su cui parleremo al popolo, e la ripartizione che ci permetterà di dare forma ai discorsi, sia quando esortiamo sia quando dissuadiamo93. ora proponiamo un nuovo soggetto, e defniamo nell’ordine le specie dell’elogio e del biasimo94. Elogio e biasimo 3. 1 in breve, la specie dell’elogio consiste nell’amplifcazione delle scelte, delle azioni e delle parole degne di considerazione, o nell’attribuzione di qualità che non esistono; la specie del biasimo consiste nel contrario: si minimizzano le qualità positive e si amplifcano quelle negative95. lodevole è tutto ciò che è giusto, legale, utile, bello, piacevole e facile da compiere96. si è detto in precedenza di che natura sono queste qualità, e dove potremo attingerle in gran numero97. 2 chi pronuncia un elogio, deve dimostrare con il suo discorso che l’uomo di cui fa l’elogio o le sue azioni possiedono l’una o l’altra di queste qualità, sia che si tratti, direttamente o indirettamente, di un’opera sua, o abbia nell’azione oggetto di lode la sua origine, la sua motivazione, o il suo fattore indispensabile98.

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Parimenti, chi biasima qualcuno deve dimostrare che l’oggetto del suo biasimo ha qualità opposte. 3 99 ecco un esempio di azione conseguente: dal dedicarsi alla ginnastica deriva la salute del corpo; con l’evitare la fatica fsica si fnisce per diventare deboli; dalla pratica della flosofa100 deriva una maggiore acutezza di pensiero; dalla negligenza deriva l’indigenza. 4 esempio di azione fnalizzata: ci si sobbarca molte fatiche e pericoli per essere premiati; oppure, per compiacere chi si ama, non ci si preoccupa di nient’altro. 5 esempio di fattore indispensabile: non si vincono battaglie navali, senza marinai; non ci si ubriaca, senza bere101. se si procede nella ricerca di argomenti di questo tipo, come è stato indicato, ne avrai molti a disposizione per l’elogio o per il biasimo. Amplifcazione e attenuazione 6 Per riassumere: tu potrai amplifcare o minimizzare tutti questi argomenti, procedendo in questo modo, e dimostrando prima di tutto che molte cose negative o positive sono scaturite dalla persona di cui parli, come ho spiegato poco prima. 7 Questo è un metodo per amplifcare. il secondo consiste nel riferire una cosa ritenuta importante: positiva, se il tuo discorso è di carattere elogiativo, negativa, se è di censura; poi, nell’accostare a essa ciò di cui tu parli, per un confronto, esponendo dettagliatamente i punti più forti della tua argomentazione, e i più deboli dell’altra, così che la tua risulti decisiva.

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8 il terzo consiste nel contrapporre alle cose che tu dici quelle più deboli che rientrano nella stessa categoria: così, ciò che tu dici apparirà più importante, come più alti sembrano gli uomini di statura media, quando sono messi accanto a uomini più bassi102. 9 sarà poi sempre possibile amplifcare in questo modo: se una determinata cosa è stata giudicata buona, il suo contrario, se ne parli, apparirà un gran male; e parimenti, se qualcosa è ritenuto un gran male, sembrerà un gran bene quello che tu presenterai come il suo contrario103. 10 esiste anche un altro modo di amplifcare il bene o il male, se tu dimostri che la persona ha agito deliberatamente, deducendolo dal fatto che ha premeditato a lungo le sue azioni, che mirava ad agire a fondo, che le ha perseguite per molto tempo, che nessun altro le ha tentate prima, che ha agito di concerto con persone con cui nessun altro si è associato, che ha agito per scopi cui nessun altro ha mirato, che ha agito volontariamente, con attenzione e premeditazione, e che se tutti si comportassero allo stesso modo, avremmo buona o cattiva sorte104. 11 Bisogna inoltre proporre argomenti verosimili, e amplifcarli, accumulandoli in questo modo: «È verosimile che chi si preoccupa dei propri amici, rispetti anche i propri genitori; e chi rispetta i genitori vorrà operare anche per il bene della propria patria». in breve, apparirà grande, sia nel bene sia nel male, tutto ciò che tu indicherai come causa di molte cose105. 12 si deve poi valutare quale sarà l’effetto della tua trattazione, a seconda che essa sia divisa

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in parti o presentata nella sua interezza, ed esporla nella maniera in cui risulti più rilevante106. 13 Procedendo così, otterrai amplifcazioni numerose ed effcaci. le tue parole riusciranno invece a sminuire le azioni buone o cattive, con un procedimento contrario, come si è detto per le cose importanti, soprattutto se dimostrerai che esse non sono causa di niente, oppure di pochissime cose e insignifcanti107. 14 in base a tutto ciò, ora sappiamo come amplifcare o sminuire quello che vogliamo, quando pronunciamo un discorso di lode o di biasimo. Gli spunti per amplifcare sono utili anche in altri tipi di discorso, ma la loro effcacia è massima quando si elogia o si biasima. ecco dunque da dove derivare risorse riguardo a queste specie di discorso108. Accusa e difesa 4. 1 Passiamo ora a esaminare, parallelamente a quanto è stato fatto, la specie dell’accusa e della difesa, che riguarda l’attività giudiziaria, gli elementi di cui consta e l’uso che se ne deve fare109. in breve, il discorso di accusa consiste nell’esposizione di delitti e di colpe, quello della difesa nella confutazione di colpe e di delitti contestati o supposti110. Accusa 2 Queste sono le funzioni delle due specie di discorsi; pertanto, chi accusa, quando l’accusa è di malvagità, deve affermare che le azioni degli avver-

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sari sono ingiuste, illegali, nocive per l’insieme dei cittadini; quando invece l’accusa è di stoltezza, deve affermare che quelle azioni sono nocive alla persona stessa che le fa, vergognose, odiose e destinate all’insuccesso. sono questi, insieme con altri simili, gli attacchi da dirigere contro i malvagi e gli stolti111. Valutazione della pena 3 l’accusatore deve anche fare attenzione e considerare per quali delitti le leggi fssano pene, e quelli per i quali i giudici sono chiamati a stabilire la punizione112. Quando sia la legge a defnire la pena, l’accusatore deve mirare solo a dimostrare che il fatto è avvenuto. 4 Quando invece sono i giudici a valutare l’oggetto dell’accusa, bisogna amplifcare113 i delitti e gli errori degli avversari. in particolare, si deve dimostrare che l’accusato ha commesso il crimine volontariamente e di proposito, senza lasciare niente al caso, anzi con minuziosa preparazione114. 5 se tuttavia non fosse possibile procedere così, e tu ritieni che l’avversario sosterrà che un errore l’ha fatto, in qualche maniera, o che si era proposto di operare onestamente, ma che ha fallito per cattiva sorte, bisogna togliergli la possibilità di ottenere il perdono115, dicendo all’uditorio: «non si deve agire e poi ammettere di aver fatto un errore, ma si deve stare attenti prima di agire»; poi: «anche se lui ha sbagliato o ha avuto sfortuna, è più meritevole lui di punizione per il suo insuccesso e per il suo errore, che chi non è incorso in nessuno

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dei due casi; inoltre: «il legislatore non assolve chi ha commesso un errore, ma lo obbliga a renderne conto, per evitare nuovi errori116». 6 dì anche: «se si presta ascolto a chi si difende così, ci saranno molti che commetteranno deliberatamente degli atti ingiusti: se va bene, faranno quello che vogliono; se va male, diranno che hanno avuto sfortuna, e così non saranno puniti»117. l’accusatore deve dunque impedire il perdono, basandosi su questi argomenti, e deve dimostrare che l’operato degli avversari ha causato molti mali, ricorrendo all’amplifcazione, secondo quanto esposto precedentemente. Difesa 7 in conclusione, la specie del discorso accusatorio si articola e si attua così; quanto a quello di difesa, esso consiste di tre metodi [da cui si può trarre una difesa]118. chi pronuncia il discorso di difesa deve dimostrare che egli non ha fatto niente di ciò di cui viene accusato; oppure, se è costretto ad ammetterlo, deve tentare di dimostrare che l’atto commesso è legale, giusto, nobile, e utile alla città. se non gli è possibile dimostrare questo, deve ascrivere l’azione a errore o a sfortuna, e dichiarare che i danni da essa derivati sono stati insignifcanti, e tentare così di ottenere il perdono119. 8 tra delitto, errore e sfortuna, distingui in questo modo: presenta come delitto il fare del male con

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premeditazione, e dì che per questi atti ingiusti bisogna essere puniti molto severamente; deve essere invece qualifcata come errore un’azione dannosa compiuta per ignoranza120. 9 come frutto della cattiva sorte presenta il non riuscire a mettere in atto nessuna buona intenzione, non per propria colpa, ma a causa di altri o della sorte. dì anche che il commettere ingiustizia è proprio dei malvagi, mentre il fallire lo scopo e l’essere sfortunati nelle proprie azioni non è una peculiarità esclusivamente personale, ma è una prerogativa comune sia di chi giudica sia di tutti gli altri uomini. Reclama dunque il perdono, se sei costretto ad ammettere qualcuna di queste imputazioni, dichiarando come comune all’uditorio la possibilità di sbagliare e di avere sfortuna121. Valutazione della pena 10 il difensore deve a propria volta preoccuparsi di conoscere i delitti per i quali le leggi fssano la pena e quelli per i quali sono i giudici a valutarla122. Quando è la legge a defnire la pena, bisogna dimostrare che non si è assolutamente commesso il fatto, o che si è agito nel rispetto della legalità e della giustizia. 11 Quando sono i giudici ad avere il potere di stabilire la pena, non bisogna affermare, come nel caso precedente, che il fatto non è stato commesso, ma tentare di provare che il danno causato all’avversario è stato minimo e involontario. Questi e simili argomenti ci offriranno abbondanti risorse da utilizzare nei discorsi di accusa e di difesa.

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ora ci resta di parlare del tipo di discorso investigativo. Esame (discorso investigativo) 5. 1 sommariamente, si può dire che l’esame123 consiste nel mostrare le scelte, le azioni o i discorsi124 contrastanti fra di loro o con la condotta di vita altrui. chi indaga deve cercare se il discorso che esamina, o le azioni della persona esaminata, o le sue scelte siano in contrasto tra loro125. 2 ecco il metodo da seguire: considerare se in passato l’uomo è stato prima amico di qualcuno, per diventare poi nemico e poi di nuovo suo amico; oppure, se è autore di altre azioni contraddittorie o indicative di bassezza morale126; oppure, se è possibile che in futuro si comporterà in maniera da contraddire la sua precedente condotta, se gli si offrirà l’occasione. 3 Parimenti osserva anche se per caso dice il contrario di quello che ha detto precedentemente; oppure considera se è possibile che dirà ancora il contrario di ciò che sta dicendo o ha detto127. 4 e allo stesso modo osserva se ha preso decisioni contrarie ai suoi precedenti proponimenti, o se lo farà presentandosene l’occasione. analogamente, scopri ciò che di contrastante c’è nella vita della persona esaminata, rispetto agli altri esemplari e apprezzati comportamenti128. in conclusione, se procederai così, nel discorso di carattere investigativo, non tralascerai nessun metodo di indagine.

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5 Una volte distinte tutte le specie di discorso, bisogna utilizzarle, in base alla convenienza, o ciascuna separatamente, o congiuntamente, combinando le loro potenzialità e funzioni. esse sono certamente molto diverse, ma nella pratica sono convergenti; ed è come per i tipi umani: gli uomini sono in parte simili e in parte diversi per aspetto e per l’impressione che comunicano129. defnite le specie, passiamo a enumerare i loro requisiti comuni, ed esaminiamone l’uso130.

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Seconda parte Argomenti, procedimenti, mezzi espressivi comuni alle varie specie di discorso 6. 1 in primo luogo, il giusto, il legale, l’utile, il bello, il piacevole, e i predicati analoghi, secondo la distinzione proposta all’inizio, sono comuni a tutte le specie di discorso, ma si ricorre a essi soprattutto nell’esortazione131. 2 in secondo luogo, l’amplifcare e lo sminuire sono necessariamente utili in tutte le altre specie, ma se ne avvantaggiano soprattutto l’elogio e il biasimo.132 3 in terzo luogo, le argomentazioni che devono essere impiegate in ogni ramo dell’oratoria sono utilissime nei discorsi di accusa e di difesa, perché in essi si richiede un dibattito serrato133. in aggiunta, ci sono le anticipazioni, le richieste, le ricapitolazioni, l’ampiezza del discorso e la misura della sua estensione, la brevità, il modo di esprimersi: l’impiego di questi e simili mezzi è comune a tutte le specie di discorso134. 7. 1 in precedenza ho dato defnizioni del giusto, del legale e di predicati simili, e ho esposto dettagliatamente il loro uso; ho parlato anche dell’amplifcazione e della minimizzazione. ora, darò spiegazioni su altri temi, cominciando dalle argomentazioni.

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2 ci sono due tipi di argomentazioni: alcune provengono direttamente dalle parole, dalle azioni e dagli uomini, altre si aggiungono alle parole e ai fatti. Verosimiglianze, esempi, indizi, entimemi, massime, segni, prove sono argomentazioni che scaturiscono direttamente dalle parole, dagli uomini e dai fatti; sono invece aggiunte l’opinione, i testimoni, i giuramenti, le confessioni ottenute con la tortura. 3 Bisogna conoscere quali sono esattamente le caratteristiche di ciascuna argomentazione, e da dove potremo di volta in volta attingere abbondante materiale per i nostri discorsi, e in che cosa queste argomentazioni differiscono fra loro135. Pisteis: vie e strumenti di persuasione Il ‘verosimile’ 4 il ‘verosimile’ sta nella corrispondenza di ciò che si dice con gli esempi che gli ascoltatori hanno in mente136. intendo dire, per esempio: se si afferma di volere la grandezza della propria patria, la prosperità dei propri amici e l’insuccesso dei nemici, e cose simili, tutto ciò potrà sembrare nel complesso plausibile, perché ogni ascoltatore è ben consapevole del fatto che anche lui ha gli stessi desideri su questi e altri simili temi. Quando facciamo un discorso dovremo pertanto preoccuparci sempre di capire se avremo la connivenza degli ascoltatori a proposito del tema di cui parliamo, perché allora è plausibile che essi crederanno fermamente alle nostre parole137.

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5 in conclusione, questo è il verosimile nella sua essenza, e noi lo divideremo in tre classi138. la prima consiste nell’avvalersi, in sostegno del nostro discorso di accusa o di difesa139, delle passioni che sono tipiche della natura umana. Per esempio, se si prova disprezzo o paura nei confronti di qualcuno140, anche se ciò si è più volte ripetuto141, o invece gioia o dolore, o desiderio, oppure se si smette di provarlo, o [se sono ricchi o]142 se si sperimenta qualche altra reazione psichica o fsica, o qualsiasi altra sensazione che tutti possiamo avere143: questi e simili sentimenti sono comuni alla natura umana e pertanto noti all’uditorio144. 6 sono questi dunque i sentimenti naturali e abituali negli uomini; di essi, noi diciamo, ci si deve avvalere nei propri discorsi. Un altro aspetto del verosimile consiste nell’abitudine (si tratta di ciò che ognuno di noi solitamente fa); un terzo, nel vantaggio: in vista di esso spesso scegliamo di agire facendo violenza alla nostra natura e al nostro carattere145. Utilizzazione del verosimile 7 defnito tutto ciò, bisogna dimostrare, riguardo all’argomento che affrontiamo nel persuadere o nel dissuadere, che il fatto, in favore o a sfavore del quale parliamo, è davvero così come noi lo descriviamo; oppure, che fatti simili a questo avvengono come noi diciamo, o la maggior parte delle volte o sempre.

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8 così bisogna dunque applicare l’argomento della verosimiglianza nel trattare dei fatti. Per quanto riguarda gli uomini, dimostra nel tuo discorso di accusa, se ti è possibile, che l’accusato ha compiuto spesso, in passato, questo atto, o atti simili. cerca di spiegare che egli ricavava un vantaggio dall’agire così: gli uomini, per la maggior parte, antepongono il proftto a ogni altra cosa, e di conseguenza ritengono che oltre a essi anche gli altri agiscano sempre con questo scopo146. 9 in conclusione, se ti è possibile applicare l’argomento della verosimiglianza traendolo direttamente dalla parte avversaria, introducilo così; oppure deduci comportamenti abituali da chi ha carattere simile. intendo dire: se la persona che accusi è un giovane, dì che egli ha fatto le cose che fanno le persone della sua età, perché si darà credito anche alle tue accuse, considerata la similarità. il risultato è lo stesso, se tu dimostri che i suoi amici sono come tu dici che lui è: si penserà che egli ha le stesse inclinazioni dei suoi amici, dato che li frequenta147. 10 così dunque l’accusatore deve procedere nella ricerca del verosimile. chi si difende deve prima di tutto dimostrare che né lui né alcuno dei suoi amici né i suoi pari hanno mai commesso in passato nessuno dei fatti imputati, e che non avrebbero avuto alcun vantaggio ad agire in questo modo148. 11 se è noto che tu hai commesso in precedenza questo stesso fatto, bisogna chiamare in causa l’età, o avanzare qualche altro motivo che possa con buon

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fondamento spiegare la tua colpa di allora. e dì anche che quello che hai fatto non ti è stato vantaggioso allora e che nemmeno adesso ti avrebbe giovato. 12 se poi tu non hai commesso niente del genere, ma lo hanno fatto alcuni tuoi amici, bisogna affermare che non è giusto che tu149 sia screditato a causa loro, e dimostrare che altri della tua cerchia sono onesti: così tu renderai dubbia l’accusa. se gli accusatori dimostrano che alcuni tuoi pari hanno fatto la stessa cosa, dichiara che è assurdo addurre come prova del tuo coinvolgimento, in uno dei capi di accusa, il fatto che altri risultano colpevoli. 13 in conclusione, se neghi di aver commesso l’azione di cui sei accusato, bisogna che tu ti difenda con argomenti plausibili, così da rendere l’accusa non convincente. se invece sei costretto a una confessione, fai del tuo meglio per assimilare le tue azioni al modo di comportarsi della maggioranza degli uomini, dicendo che essi, per la maggior parte o tutti, commettono questa azione o azioni simili, così come è capitato a te di fare. 14 se non ti è possibile dimostrarlo, si deve fare appello alla sfortuna o all’errore, e si deve tentare di ottenere il perdono, invocando le passioni, tipiche di tutti gli uomini, che ci turbano la ragione, si tratti dell’amore, dell’ira, dell’ubriachezza, dell’ambizione, e di altri sentimenti simili. concludendo: con questo metodo procederemo molto effcacemente nella ricerca del verosimile.

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Esempio 8. 1 esempi sono azioni già compiute, e simili o contrarie a quelle di cui parliamo150. Bisogna servirsene quando ciò che tu dici non è convincente, ma tu vuoi mostrarne l’evidenza (nel caso che l’argomento della verosimiglianza non lo renda credibile), in modo che l’uditorio capisca che un’altra azione simile a quella di cui tu parli c’è stata, così come tu dici che è avvenuto, e per questo dia più credito alle tue parole151. 2 ci sono due tipi di esempi, in quanto alcuni fatti accadono come ci si può ragionevolmente aspettare, altri no152. le cose che accadono secondo l’attesa sono credibili, le altre no. 3 Faccio un esempio, per intenderci. nel caso in cui si dicesse che i ricchi sono più giusti dei poveri, e si facesse riferimento ad alcune azioni giuste dei ricchi, ecco che tali esempi appaiono conformi a ciò che ci si aspetta, perché si può constatare che la maggior parte degli uomini ritiene i ricchi più giusti dei poveri153. 4 se al contrario si denunciasse il comportamento ingiusto di alcuni ricchi, per denaro, si getterebbe discredito sui ricchi con l’utilizzazione di un esempio contrario a ciò che si ritiene verosimile154. 5 Parimenti, nel caso in cui si portasse come esempio di ciò che si ritiene conforme all’attesa il fatto che un tempo i lacedemoni, o gli ateniesi, sconfssero gli avversari con l’aiuto di un gran numero di alleati, e si volesse indurre l’uditorio a procurarsi molti alleati, ebbene, gli esempi di tal genere sono certamente conformi all’attesa, perché tutti ritengono che in

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guerra il numero abbia un peso non piccolo nel conseguimento della vittoria155. 6 se invece si volesse provare che esso non è causa di vittoria, si potranno utilizzare come esempi fatti accaduti contro ogni verosimiglianza. si dirà allora che gli esiliati ateniesi per prima cosa si impadronirono di File con cinquanta uomini e combatterono contro un numero maggiore di uomini che erano in città e che avevano come alleati i lacedemoni, riuscendo così a far ritorno nella propria città156. 7 oppure si ricorderà il caso dei tebani: quando i lacedemoni e quasi tutti i Peloponnesiaci invasero la Beozia, i tebani da soli si schierarono a leuttra e vinsero l’esercito dei lacedemoni157. oppure ancora: dione di siracusa con tremila opliti prese il mare, sbarcò nella sua città e sconfsse dionisio, che aveva un esercito molto più numeroso158. 8 e parimenti, i corinzi soccorsero i siracusani con solo nove triremi, e nondimeno sconfssero i cartaginesi, che bloccavano i porti di siracusa con centocinquanta navi, e che occupavano tutta la città, a eccezione dell’acropoli159. in breve, questi e simili fatti, contrari a ogni ragionevole aspettativa, tolgono di solito credibilità ai consigli basati sulla verosimiglianza. Impiego degli esempi 9 Questa è dunque la tipologia degli esempi, e ciascuno dei due tipi è da utilizzare quando noi parliamo di fatti attesi, mostrando che per lo più le azioni si realizzano in questo modo; oppure, quando

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parliamo di fatti inattesi, riferendo di casi in cui i risultati di un’azione sono stati quelli sperati, nonostante ci si attendesse il contrario. 10 Quando però sono i nostri avversari ad argomentare in questo modo, bisogna spiegare che i casi da loro addotti sono frutto della buona sorte, e dire che tali esiti sono rari, mentre sono frequenti quelli di cui tu parli. così dunque bisogna utilizzare gli esempi160. 11 in ogni caso, quando riferiamo di fatti inattesi, è necessario raccoglierne il maggior numero possibile, e mostrare che i risultati attesi non si verifcano più spesso di quelli inattesi. 12 Bisogna inoltre utilizzare esempi ricavati non solo secondo il metodo esposto, ma anche basandosi sui contrari161. ecco possibili esempi di quello che intendo dire: tu presenti il caso di alcuni che hanno trattato i loro alleati con arroganza, e della conseguente fne della loro amicizia, e dici: «noi al contrario manterremo a lungo salda l’alleanza, se ci comporteremo con equità e imparzialità nei confronti dei nostri alleati». 13 o ancora: tu sostieni che altri hanno cominciato una guerra senza essere preparati, e che per questo sono stati sconftti, e concludi: «se noi ci prepareremo adeguatamente per affrontare la guerra, avremo le migliori aspettative di vittoria». 14 i fatti passati e presenti ti offriranno molti esempi, perché le azioni sono quasi sempre in parte simili e in parte diverse tra loro: questo è il motivo per cui avremo abbondanza di esempi e potremo replicare facilmente agli esempi addotti da altri162.

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adesso conosciamo i vari tipi di esempi, e sappiamo come usarli e da dove trarne in buon numero163. Indizio 9. 1 indizio è ogni fatto che contraddice il contenuto del discorso, oppure ogni punto in cui il discorso contraddice sé stesso164. Gli ascoltatori, per la maggior parte, giudicano che non c’è niente di sensato nelle parole o nei fatti, in base alle contraddizioni presenti nel discorso o nell’azione. 2 avrai a disposizione molti indizi, esaminando se il discorso del tuo avversario è in contraddizione con sé stesso, o se le sue azioni contraddicono le sue parole. ecco che cosa sono gli indizi, e come potrai procurartene in abbondanza. Entimema 10. 1 entimema è ciò che contraddice sia ciò che si dice o si fa, sia tutto il resto165. ne troverai molti seguendo il metodo indicato per il discorso investigativo, e osservando se il discorso non si contraddice in qualche punto, oppure se i fatti sono in contraddizione con il giusto, la legge, l’utile, il bello, il possibile, il facile, il verosimile, o con il carattere dell’oratore o con il naturale corso delle cose166. 2 Questi sono gli entimemi da scegliere e utilizzare contro gli avversari; a vantaggio della nostra argomentazione dobbiamo invece proporre i contrari, provando che le nostre azioni e i nostri discorsi si

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oppongono all’ingiusto, all’illegale, all’inutile, alla malvagità umana, e in breve a tutto ciò che è considerato un male. 3 ognuno di questi argomenti deve essere ridotto alla forma più breve possibile, ed esposto con il minor numero di parole. in conclusione, questo è il procedimento con cui riusciremo a costruire un gran numero di entimemi e a utilizzarli al meglio. Massima 11. 1 Una massima è l’esposizione condensata di un’opinione individuale riguardante fatti generali167. ci sono due tipi di massime: una è conforme alle attese, l’altra contraria. 2 Quando enunci una massima conforme all’opinione comune, non c’è affatto bisogno di giustifcarla, perché il detto è noto e credibile. invece, quando enunci una massima paradossale, devi spiegarla brevemente, per evitare lungaggini e incredulità. le massime addotte devono sempre adattarsi bene ai fatti, in modo che il detto non appaia maldestro e slegato dal contesto168. 3 Potremo costruirne in gran numero partendo o dal soggetto stesso, o ricorrendo all’iperbole o al paragone169. Quelle che traiamo dal soggetto stesso sono queste: «non mi sembra che si possa diventare buono stratega, se non si ha esperienza in questo campo». eccone un’altra: «Rientra nel comportamento degli uomini sensati mettere a proftto gli esempi del passato170, e tentare così di evitare gli errori dovuti a mancanza di rifessione».

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4 di questo tipo sono dunque le massime che potremo ricavare dal soggetto stesso; le seguenti sono quelle che otteniamo con l’iperbole: «ciò che fanno i ladri mi sembra più pericoloso di quello che fanno i pirati, perché i primi portano via i beni di nascosto, gli altri alla luce del sole»171. 5 con l’iperbole costruiremo dunque massime di questo tipo. ecco ora esempi di massime tratte dal paragone: «chi truffa e si appropria di denaro si comporta, mi sembra, come chi tradisce la propria città: entrambi frodano coloro che hanno fducia in loro, una volta che se la sono conquistata»172. 6 Un altro esempio: «i miei avversari si comportano, mi sembra, come i tiranni. Questi ultimi pensano di non dover essere puniti per i misfatti che sono loro a commettere, e invece infiggono pene eccessive per i crimini di cui accusano altri. Parimenti, i miei avversari, se hanno qualcosa che mi appartiene, non lo restituiscono, ma se io ho qualcosa che è di loro proprietà, pretendono di recuperarlo con gli interessi. in conclusione, costruiremo molte massime, procedendo in questo modo. Segno 12. 1 Una cosa è segno di un’altra, ma non una qualsiasi è segno di un’altra qualsiasi, né ogni cosa è segno di ogni altra173: piuttosto, è segno ciò che normalmente precede una cosa, o avviene contemporaneamente a essa, o dopo di essa174. 2 inoltre, un

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evento non è solo segno di ciò che è accaduto, ma anche di ciò che non è accaduto; allo stesso modo, anche il non accaduto è segno non solo di ciò che non è, ma anche di ciò che è. Un segno fa credere, un altro fa conoscere: il migliore è quello che fa conoscere; subito dopo viene quello che rende un’opinione molto plausibile175. 3 in breve: saremo in grado di introdurre nel nostro discorso un gran numero di segni, a partire da ciascuna cosa fatta, detta o vista, presa una a una, e dall’importanza o meno dei risultati che ne conseguono, cattivi o buoni, o ancora dai testimoni e dalle loro testimonianze, da coloro che assistono noi o i nostri avversari, dai nostri stessi avversari, dalle richieste formali, dai tempi e da molte altre fonti176. ecco dunque dove potremo attingere, per procurarci segni in abbondanza. Prova assertiva, dimostrazione 13. 1 la prova consiste in ciò che non può essere diversamente da come noi lo esponiamo177. essa si basa su ciò che è necessario per natura, nel senso che noi [o il nostro avversario] sosteniamo; oppure su ciò che è impossibile per natura, o impossibile nel senso che gli avversari sostengono178. 2 Per esempio, è necessario per natura il fatto che gli esseri viventi abbiano bisogno di nutrirsi, e così via; è invece necessario nel limitato senso da noi sostenuto il fatto che chi è fustigato confessi quello che il suo fustigatore gli ordina179. 3 ancora, è impossibile

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per natura il fatto che un ragazzino rubi una quantità di denaro che non potrebbe in realtà portare, e che se ne sia andato con essa. altro esempio: se il nostro avversario dice che a una certa data noi abbiamo stipulato un contratto ad atene, ma noi siamo in grado di dimostrare all’uditorio che a quel tempo eravamo in un’altra città, le sue affermazioni risulterebbero impossibili180. 4 da questi o da simili ragionamenti potremo ricavare molte prove. abbiamo così esaminato brevemente tutte le argomentazioni che scaturiscono dal discorso stesso, dalle azioni e dal comportamento degli uomini. analizziamo ora in che cosa differiscono. Differenza tra i procedimenti analizzati 14. 1 il verosimile differisce dall’esempio, in quanto l’uditorio ha già una propria nozione del verosimile; 2 gli esempi invece < ... > possono essere tratti dai contrari o dai simili, mentre gli indizi si costruiscono solamente in base alle contraddizioni, che riguardano il discorso o l’azione181. 3 da parte sua, l’entimema presenta questa differenza rispetto all’indizio: l’indizio è una contraddizione riguardante il discorso o l’azione, mentre l’entimema assume anche le contraddizioni riguardanti altri generi di cose182; oppure: l’indizio non possiamo utilizzarlo, se non esiste una contraddizione nei fatti e nei discorsi, mentre l’oratore può reperire entimemi attingendo a molte fonti.

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4 le massime differiscono dagli entimemi, in quanto questi consistono solo di contraddizioni, mentre è possibile esibire le massime insieme con le contraddizioni, o anche semplicemente da sole. 5 i segni differiscono dalle massime e da tutti i mezzi di persuasione esposti per il fatto che tutti gli altri inducono un’opinione negli ascoltatori, mentre alcuni segni fanno anche sì che i giudici abbiano una chiara conoscenza; e per il fatto che non ci è possibile procurarci la maggior parte degli altri mezzi, ma è facile procurarci molti segni183. 6 la prova differisce dal segno, perché alcuni segni inducono soltanto un modo di pensare negli ascoltatori, mentre ogni prova guida i giudici verso la verità. 7 così, in base a quanto detto conosciamo quali sono le argomentazioni tratte dai discorsi stessi, dalle azioni e dagli uomini, dove potremo attingere per averne in abbondanza, e in che cosa differiscono. ora passiamo ad analizzare ciascuna argomentazione aggiunta. Argomentazioni aggiunte Opinione dell’oratore 8 l’opinione dell’oratore consiste nel far conoscere ciò che pensa sui fatti. devi dichiarare di essere esperto nelle cose di cui parli, e dimostrare che ti è conveniente dire la verità su di esse. chi contraddice deve prima di tutto mostrare che il suo avversario non ha nessuna esperienza nelle cose su cui, nono-

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stante tutto, dichiara la propria opinione184. 9 se questo non è possibile, bisogna provare che anche gli esperti spesso sbagliano, e se non è ammissibile, bisogna dire che per gli avversari non è di vantaggio rivelare la verità sui fatti. Questo è dunque l’uso che faremo delle opinioni dell’oratore, sia quando dichiariamo le nostre, sia quando contraddiciamo quelle degli altri. Testimonianza 15. 1 la testimonianza è un’ammissione rilasciata volontariamente da chi sa185. inevitabilmente, ciò che si testimonia è credibile o non credibile, o di incerta credibilità: questo vale anche per il testimone, che può essere attendibile, o inattendibile, o di dubbia attendibilità186. 2 Quando ciò che si testimonia è credibile, e il testimone è veritiero, non c’è bisogno di aggiungere un commento187 alla testimonianza, a meno che tu non voglia introdurre brevemente nel discorso una massima o un entimema, per una ricerca di eleganza. Ma quando il testimone è sospetto, bisogna provare che un uomo così non testimonierebbe il falso né per riconoscenza, né per vendetta, né per guadagno188. 3 Bisogna spiegare anche che non si ha interesse a testimoniare il falso; di fatto, i vantaggi sono scarsi, mentre è penoso essere smentiti: se si è scoperti, si è puniti, per legge, non solo con un’ammenda in denaro, ma anche con il disonore e con il discredito. 4 in questo modo, renderemo i testimoni credibili.

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Quando invece parliamo contro una testimonianza, bisogna mettere in cattiva luce il carattere del testimone, se è un poco di buono, o esaminare attentamente la sua testimonianza, se non è convincente, oppure anche parlare sia contro la persona sia contro la sua testimonianza, riunendo insieme tutti i punti più deboli dei nostri avversari. 5 Bisogna anche indagare se il testimone è amico della persona a favore della quale testimonia, o se è implicato nel fatto, in un modo o nell’altro, o se è nemico della persona contro cui testimonia, o se è un povero: si sospetta che questi testimoni dicano il falso, perché agiscono o per riconoscenza, o per vendetta o per guadagno. 6 diremo anche che il legislatore ha promulgato la legge contro le false testimonianze, tenendo conto di questi casi; sarebbe pertanto assurdo che i giudici, che hanno giurato di giudicare nel rispetto delle leggi, si fdassero di loro, quando invece il legislatore non dà a essi credito. ecco come renderemo inattendibili i testimoni. 7 È anche possibile portare una testimonianza surrettizia, in questo modo: «lisicle189, testimonia in mio favore»; «io non lo farò, per gli dèi: quest’uomo ha agito così, nonostante che io cercassi di impedirglielo». con questo trucco, rifutando di testimoniare, si dà una falsa testimonianza, senza essere per questo perseguiti. ecco dunque come ci serviremo di una testimonianza surrettizia, quando essa ci tornerà utile. Ma se sono gli avversari a farlo, noi denunceremo la loro azione scorretta, e li inviteremo a produrre testimonianze scritte. in base a queste

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indicazioni, ora sappiamo come utilizzare testimoni e testimonianze. Confessione ottenuta con la tortura 16. 1 la confessione ottenuta con la tortura è un’ammissione da parte di chi sa, ma che non confessa spontaneamente190. Quando è nel nostro interesse darle peso, bisogna dire che sia i privati cittadini sia le città si procurano le argomentazioni dalle confessioni ottenute con la tortura, quando si tratta rispettivamente di questioni molto gravi o molto importanti. inoltre, bisogna dire che la confessione ottenuta con la tortura è più credibile di quella dei testimoni, perché spesso ai testimoni conviene mentire, mentre a chi è sottoposto a tortura è di vantaggio dire la verità, in quanto così metterà subito fne alle proprie sofferenze. 2 Quando invece vuoi rendere non credibile la confessione ottenuta con la tortura, devi dire prima di tutto che i torturati diventano nemici di chi li ha consegnati alla tortura, e che per questo in molti casi calunniano i loro padroni191; poi, che spesso fanno ai loro torturatori confessioni che non corrispondono a verità, per mettere fne al più presto alle loro sofferenze192. 3 devi inoltre mostrare che anche molti uomini liberi193, sottoposti a tortura, hanno mentito contro sé stessi, perché volevano sfuggire alle sofferenze che provavano. a maggior ragione si pensa pertanto che gli schiavi vogliano evitare la loro punizione, mentendo contro i padroni, piuttosto che ri-

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futarsi di mentire e sopportare così molte sofferenze fsiche e morali, per non danneggiare altri. in base a questi e a simili argomenti, riusciremo a rendere convincenti o non convincenti le confessioni ottenute con la tortura194. Giuramento 17. 1 il giuramento è una dichiarazione fatta invocando gli dèi, che non comporta prove195. Quando vogliamo amplifcarne la validità, bisogna dire così: «nessuno vorrà spergiurare, per paura di essere punito dagli dèi e disonorato dagli uomini»196; e spiegare che è possibile sfuggire alla vista degli uomini, ma non a quella degli dèi197. 2 Quando però sono i nostri avversari a ricorrere al giuramento, e noi vogliamo sminuirne l’importanza198, bisogna mostrare che gli uomini che si comportano male sono quegli stessi che non si preoccupano di spergiurare: se un uomo pensa di fare del male e di sfuggire alla vista degli dèi, questo stesso uomo pensa che non sarà punito nemmeno se spergiura199. avremo molto da dire in materia di giuramenti, procedendo nel modo appena esposto. 3 Riassumendo: come ci eravamo proposti, abbiamo ormai esaminato attentamente tutte le argomentazioni, e indicato non solo le potenzialità di ciascuna, ma anche le loro differenze e la loro utilizzazione. adesso passeremo a dare istruzioni su altri espedienti, che appartengono alle sette specie e sono utili in tutti i discorsi200.

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Altri espedienti comuni a tutti i discorsi 18. 1 l’anticipazione201 è l’espediente con cui riusciremo a prevenire le critiche degli ascoltatori e gli argomenti di chi parlerà contro di noi, e a eliminare le diffcoltà che potrebbero presentarsi202. 2 Bisogna anticipare le critiche degli ascoltatori in questo modo: «Forse alcuni di voi si sorprendono del fatto che io, che sono così giovane, mi sono messo a parlare in pubblico di questioni importanti203»; o ancora : «nessuno si irriti con me e replichi che io mi accingo a darvi dei consigli su argomenti che altri esitano ad affrontare con franchezza al vostro cospetto204». 3 Pertanto, quando esiste la possibilità che alcune cose risultino spiacevoli all’uditorio, bisogna ricorrere all’anticipazione e presentare le ragioni per le quali appare giusto che tu dia consigli: indicherai così la mancanza di oratori o la gravità dei pericoli o l’utilità pubblica o qualsiasi altra motivazione di questo tipo, con la quale potrai vanifcare la diffcoltà che può presentarsi. 4 se nondimeno gli ascoltatori continuano a far sentire il loro rumoroso dissenso205, bisogna dire brevemente o sotto forma di massima o di entimema206: «È veramente assurdo essere venuti per deliberare al meglio, riguardo alla situazione, e poi pretendere di deliberare bene senza voler ascoltare gli oratori»; o ancora: «È buona abitudine o alzarsi e dare consigli di persona o ascoltare chi dà consigli e poi votare le proposte come sembra opportuno»207.

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5 così dunque bisogna servirsi delle anticipazioni e far fronte al clamore e alla disapprovazione nei discorsi rivolti al popolo. Parimenti, nelle orazioni giudiziarie ci serviremo dell’anticipazione nel modo descritto208. e se il clamore si leva all’inizio del nostro intervento, lo fronteggeremo in questo modo: 6 «come non considerare assurdo il fatto che mentre il legislatore ha stabilito di concedere due discorsi a ciascuno degli avversari209, voi che siete giudici e avete giurato di giudicare secondo la legge non volete poi ascoltare nemmeno un discorso? e non è assurdo che, mentre il legislatore si è preoccupato di fare in modo che voi votiate conformemente al vostro giuramento, dopo aver ascoltato tutti i discorsi, voi ne tenete così poco conto da ritenere di conoscere già tutto con esattezza, senza attendere nemmeno l’inizio dei discorsi?». 7 oppure diremo: «come non considerare assurdo il fatto che mentre il legislatore ha stabilito che in caso di parità di voti vinca l’accusato, voi decidete al proposito in modo contrario, tanto da non ascoltare la difesa di chi è stato incolpato? e non è assurdo che, mentre il legislatore ha concesso questo vantaggio, nei voti, agli accusati, perché corrono il rischio maggiore, voi subissate con il vostro clamore coloro che si difendono dalle accuse tra paura e pericoli, invece di prendervela con coloro che accusano senza correre rischi?». 8 ecco dunque come fronteggiare il clamore, se si leva all’inizio. se invece esso comincia quando il discorso è già avviato210, e se sono in pochi ad agi-

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tarsi, bisogna rimproverarli e dire loro: «ora è giusto ascoltare per non ostacolare un retto giudizio da parte degli altri; una volta che si è ascoltato, si potrà fare come si vuole». 9 se è la maggioranza ad agitarsi, non te la prendere con i giudici, ma dà la colpa a te stesso: il rimproverarli suscita la loro collera; prendertela con te stesso e ammettere di esserti sbagliato nel tuo discorso, ti varrà il perdono. Bisogna anche pregare i giudici di ascoltare con benevolenza il discorso, e di non manifestare in anticipo il loro pensiero riguardo a questioni su cui si accingono a votare segretamente. 10 in breve, riusciremo a far fronte alle agitazioni e ai clamori, dimostrando succintamente o con massime o con entimemi che gli agitatori avversano ciò che è giusto, le leggi, l’utile della città, e ciò che è bene: in questo modo si è nelle migliori condizioni di porre fne all’agitazione dell’uditorio. 11 da quanto esposto, sappiamo come servirci delle anticipazioni, al cospetto di un uditorio, e come fronteggiare il clamore. adesso, illustrerò211 come bisogna anticipare ciò che probabilmente diranno gli avversari: «Forse egli piangerà sulla propria miseria, di cui tuttavia non sono io la causa, ma il suo modo di vivere»; o ancora: «Vengo a sapere che egli dirà questo o quello»212. 12 Quando parliamo per primi, così dobbiamo anticipare ciò che probabilmente diranno gli avversari, in modo da vanifcarlo o indebolirlo: gli argomenti denigratori, una volta anticipati213, non sem-

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breranno così importanti all’uditorio che li ha già ascoltati, anche se essi sono solidi214. 13 se parliamo per secondi, e gli avversari hanno anticipato ciò che abbiamo intenzione di dire, bisogna precorrerli a nostra volta e annullare così gli effetti della loro anticipazione: 14 «Questo mio avversario non solo ha riversato su di me una serie interminabile di menzogne, al vostro cospetto, ma ha anche anticipato e denigrato le mie parole, ben sapendo che io lo avrei confutato; e lo ha fatto perché voi non prestiate a esse un’uguale attenzione, oppure perché io non le pronunci davanti a voi, dopo che sono state già denigrate dal mio avversario215. io invece ritengo che voi dobbiate conoscere da me il contenuto del mio discorso, e non dal mio avversario; inoltre, l’aver screditato in anticipo il mio discorso deve essere considerato un segno non piccolo del fatto che nelle sue parole non c’è niente di valido»216. 15 euripide ha abilmente utilizzato questo procedimento nel seguente passo del Filottete: «io dirò – anche se sembra che egli abbia distrutto il mio discorso anticipandolo – che è lui il colpevole. se tu mi ascolterai, conoscerai da me la mia situazione: lui, con le sue parole, rivela solo sé stesso»217. in base a questa esposizione, sappiamo oramai come servirci delle anticipazioni, nel rivolgerci sia ai giudici sia agli avversari.

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Richiesta 19. 1 Quando si fa un discorso, ‘richiesta’ è l’appello dell’oratore al suo uditorio, giusta o ingiusta che sia218. Giusto è chiedere di prestare attenzione a quello che si dice e di ascoltare con benevolenza; ancora, giusto è anche chiedere di dare l’aiuto che la legge permette, o di non votare niente che sia contrario alla legge, o anche di avere comprensione per gli insuccessi. †ingiusta è la richiesta che è in contraddizione con le leggi; altrimenti è giusta†.219 2 in questo consistono le ‘richieste’: le differenze che abbiamo stabilito ci permettono di utilizzarle secondo l’opportunità, tenendo presenti il giusto e l’ingiusto, e di non lasciarci sfuggire le richieste ingiuste rivolte ai giudici dai nostri avversari. da quanto detto trarremo una adeguata conoscenza anche di questa materia. Ricapitolazione 20. 1 la ricapitolazione è un breve richiamo alla memoria, che si deve utilizzare alla fne sia delle singole parti del discorso sia dell’intero discorso220. Ricapitoleremo succintamente nel fare o una rifessione o un resoconto, o nel porre una questione, 221. 2 illustrerò adesso ogni modalità, con esempi.

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esempio di ricapitolazione sotto forma di rifessione222: «io non so che cosa avrebbero potuto fare costoro, se non fosse chiaro che essi ci hanno abbandonato altre volte, e se non fosse ben dimostrato che essi hanno mosso guerra contro la nostra città, e non hanno fatto niente di ciò che era stato concordato». 3 Questo sarebbe ciò che chiamiamo ‘fare una rifessione’. esempio di ricapitolazione sotto forma di resoconto223: «Ho dimostrato che essi hanno rotto per primi l’alleanza, e che hanno preso l’iniziativa di attaccarci, quando eravamo in guerra con i lacedemoni, e che si sono dati da fare col massimo zelo per rendere schiava la nostra città». 4 Questo sarebbe ciò che chiamiamo ‘fare un resoconto’. esempio di richiamo alla memoria sotto forma di linea da seguire224: «Bisogna pensare che non ci è accaduto mai di subire alcunché di male da parte dei nostri nemici, da quando abbiamo stretto amicizia con questi uomini, perché essi ci hanno spesso soccorso, e hanno così impedito ai lacedemoni di distruggere il nostro paese, e ancora adesso continuano a darci il loro consistente contributo in denaro». 5 in questo modo risveglieremo la memoria, raccomandando una linea di condotta. esempio di richiamo alla memoria sotto forma di questione225: «Mi piacerebbe sapere da loro per quale motivo non ci pagano il tributo dovuto. non possono certo essere tanto sfrontati da dire che si trovano nel bisogno, proprio essi che ogni anno ricavano, a quanto risulta, tanto denaro dal loro pae-

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se; e non sosterranno nemmeno di spendere molto per l’amministrazione della loro città, dato che è ben noto come essi spendano molto meno di tutti gli isolani». Questo è il modo di ricapitolare, ponendo una questione. 21. 1 l’ironia226 consiste nel dire qualche cosa, facendo fnta di non dirla, o nel chiamare le cose con un nome contrario227. in un breve richiamo alla memoria delle cose dette, essa prende questa forma: «Ritengo che non ci sia bisogno di dire che costoro, i quali affermano di aver compiuto molte e buone azioni, hanno invece manifestamente fatto molto male alla città, mentre noi, che siamo da loro defniti ingrati, li abbiamo con tutta evidenza aiutati e non siamo stati ingiusti con nessun altro in nessuna occasione». 2 in questo consiste il succinto richiamo alla memoria sotto forma di preterizione. l’esempio seguente illustra come si possano chiamare le cose con nomi contrari: «Questi uomini perbene hanno fatto molto male agli alleati, come è noto; mentre noi, i cattivi, abbiamo favorito il loro bene, come è altrettanto noto»228. sono dunque questi gli usi che faremo della ricapitolazione, nel richiamare brevemente alla memoria, a conclusione sia di singole parti del discorso sia di tutto il discorso. Eleganza formale e dimensioni del discorso 22. 1 adesso esporremo nel dettaglio come si può ottenere un’espressione elegante, e dare al discorso la lunghezza che si vuole229.

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Un modo con cui ottenere un’espressione elegante e ricercata è per esempio la formulazione di entimemi completi o a metà, in modo che siano gli ascoltatori a indovinare l’altra metà230; 2 è necessario inoltre introdurre in aggiunta delle massime231. Una scelta di questi mezzi deve essere presente in ogni parte del discorso232, variando le parole, ed evitando l’accumulo di espressioni simili nello stesso passo233. in questo modo, il discorso risulterà elegante. 3 se si vuole allungare il discorso, bisogna ripartire la materia e spiegare contenuto e carattere di ciascuna parte, ed esporne dettagliatamente l’uso specifco o generico, e le motivazioni su cui si basa234. se vogliamo rendere il discorso ancora più lungo, bisogna utilizzare molte parole per ogni punto. 4 ad ogni suddivisione del discorso bisogna far corrispondere una ricapitolazione, che dovrà essere concisa. Poi, alla fne del discorso, devono essere raccolti tutti insieme i punti precedentemente esposti, uno per uno, e parlare del tema trattato nel suo complesso. con questo procedimento, i discorsi si allungheranno. 5 se si vuole parlare in modo sintetico, si deve racchiudere l’intero soggetto in un solo termine, che lo esprima nella maniera più breve e appropriata235. Bisogna inoltre utilizzare pochi elementi di collegamento e associare il più possibile236. la scelta delle parole deve essere questa, e duplice deve essere il loro uso237. ancora, deve essere eliminata la ricapitolazione concisa dalle singole parti, riservandola solo a quelle conclusive. in questo modo riusciremo a fare discorsi brevi.

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6 se vuoi ottenere un discorso di media lunghezza, devi scegliere le parti più importanti e sviluppare solo queste. Bisogna utilizzare termini di lunghezza media, né molto lunghi né molto corti, e in quantità misurata: certo non parecchi per un solo soggetto. 7 non bisogna inoltre né eliminare del tutto gli epiloghi dalle parti intermedie, né introdurli in ogni parte: piuttosto, bisogna ricapitolare alla fne i punti su cui vuoi richiamare in modo particolare l’attenzione dell’uditorio. 8 Basandoci su tutto ciò, potremo dunque dare ai discorsi la lunghezza che vogliamo. se poi tu vuoi scrivere un discorso forbito, devi prestare la massima attenzione nel far corrispondere i caratteri dei discorsi a quelli degli uomini. ci riuscirai, se osserverai con cura la magnanimità o la meticolosità o la sobrietà dei singoli caratteri238. ciò che si è detto ti permetterà di avere padronanza di questa materia. adesso tratteremo della connessione delle parole239, perché è necessario conoscere anche questo aspetto240. Accostamento e connessione delle parole 23. 1 Preliminarmente, ci sono tre tipi di parole: semplice, composta, traslata241. Parimenti, tre sono anche le collocazioni242: in un caso, un termine che fnisce in vocale si incontra con uno che comincia ugualmente in vocale; in un secondo caso, si comincia e si fnisce con una consonante; in un ter-

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zo, infne, si giustappongono le consonanti con le vocali243. 2 Quattro sono le disposizioni244: la prima consiste nel disporre le parole simili sia in coppia, sia separate; la seconda, nell’utilizzare le stesse parole o cambiarle con altre; la terza, nell’esporre una cosa con una sola parola o con molte; la quarta, nell’enumerare i fatti nel loro ordine o nell’ordine inverso245. ora indicheremo il modo di migliorare l’espressione. Forme dell’espressione e chiarezza espositiva 24. 1 Bisogna cominciare con espressioni binarie, poi chiarire il pensiero. Forme di espressione binaria sono queste: 1) io sono capace di questo e di quello; 2) quest’uomo non è capace, ma un altro sì; 3) quest’uomo è capace di questo e di quello; 4) io non sono capace e neanche un altro lo è; 5) quell’uomo è capace, ma io no; 6) io sono capace di una cosa, mentre quell’uomo non è capace di un’altra246. 2 con questi esempi ti renderai conto di che si tratta in ciascun caso. Io sono capace di questo e di quello: «non solo io sono stato il promotore di questi risultati vantaggiosi per voi, ma ho anche ostacolato timoteo247, quando si preparava a farvi guerra». 3 Quest’uomo non è capace, ma un altro sì: «Questi è incapace di svolgere trattative a vostro favore; quell’altro invece è un amico della città di sparta e sarà senz’altro in grado di fare ciò che voi volete». 4 Quest’uomo è capace di questo e di quello: «non

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solo egli ha dimostrato la propria forza in guerra, ma è anche uno dei cittadini più capaci di deliberare». 5 Io non sono capace e neanche un altro lo è: «con un piccolo contingente io non potrò vincere i nemici in guerra, né potrà riuscirci nessun altro dei cittadini». 6 Quell’uomo è capace, ma io no: «Quest’uomo ha forza fsica, mentre io sono debole». Io sono capace di una cosa, mentre quell’uomo non è capace di un’altra: «io so governare una nave, ma lui non sa nemmeno remare». ecco come potrai realizzare forme di espressione binaria, procedendo allo stesso modo per tutti i soggetti. Vediamo ora come si tratta l’argomento con chiarezza. 25. 1 Prima di tutto, chiama ogni cosa di cui parli con il suo proprio nome, evitando l’ambiguità248. sta’ attento a non mettere le vocali una di seguito all’altra249. abbi cura di collocare opportunamente le cosiddette giunture250. Presta attenzione all’accostamento delle parole: non dovrà generare confusione, né dar luogo a iperbato, perché un tale modo di esprimersi risulta diffcile da capire251. alle parole di collegamento, già inserite, fa’ seguire la correlazione corrispondente. 2 ecco un esempio di corrispondenza tra particelle252: «io, per parte mia – me;n, ero presente dove avevo detto, tu invece – de; – avevi detto che saresti venuto, ma non lo hai fatto». oppure, quando si tratta della correlazione della stessa congiunzione: «tu sei stato la causa sia – kai; – di quei fatti sia – kai; – di questi»253.

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3 così, si è detto delle parole di collegamento: da quanto esposto, si deve dedurre il modo di utilizzare anche le altre. È necessario inoltre che la connessione delle parole non dia luogo a confusione o a iperbato. ecco un esempio di espressione confusa, quando dici: «È terribile che questo – tou`ton – colpisca questo – tou`ton»; perché non è chiaro chi dei due è colui che colpisce. chiarirai il tuo pensiero, se dici: «È terribile che questo – tou`ton – sia colpito da questo – uJpo; touvtou»254. 4 in ciò consiste dunque la confusione nella connessione delle parole255. Per quanto riguarda l’attenzione nel collocare opportunamente le giunture, considera l’esempio seguente: «Questo – ou|to~ oJ – uomo è ingiusto nei confronti di questo – tou`ton to;n – uomo». Qui di fatto, la presenza della giuntura rende chiara l’espressione, mentre la sua soppressione la renderebbe oscura. tuttavia ci sono dei casi in cui accade il contrario256. 5 ecco quello che si può dunque dire a proposito delle giunture. Quanto alle vocali, non le accostare, a meno che sia inevitabile per la chiarezza dell’espressione, o che ci sia una pausa per respirare o un’altra divisione257. 6 Per evitare l’ambiguità, ecco come procedere: alcune parole sono le stesse per parecchie cose (per esempio: soglia – ojdov~ – della porta, e strada – oJdov~ – che si percorre); in questi casi, bisogna sempre aggiungere ciò che denota il senso proprio258.

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se applichiamo questi accorgimenti, il nostro discorso sarà chiaro quanto all’uso dei termini; formuleremo inoltre espressioni binarie seguendo il metodo indicato. Antitesi, parisosi, paromoiosi 26. 1 Parliamo adesso dell’antitesi, della parisosi e della somiglianza, perché dovremo servircene259. È un’antitesi ciò che comporta, nel confronto e nell’opposizione, o lessico o signifcato contrario, o entrambi contrari260. 2 Un esempio di contrarietà sia nei termini sia nel signifcato può essere questo: «non è giusto che questo individuo si arricchisca con i miei beni, e io, che ho ceduto ciò che avevo, vada mendicando». 3 esempio di antitesi solo nei termini: «il ricco e abbiente dia al povero e indigente». antitesi nel signifcato: «io l’ho soccorso quando era malato, ma lui è stato per me causa di molti mali»: in questo caso non sono contrarie le parole, ma le azioni. l’antitesi più effcace è duplice e riguarda sia il signifcato sia il lessico; costituiscono tuttavia un’antitesi anche le altre due forme. 27. 1 si ha parisosi, quando si enunciano due cola uguali; ci può essere un rapporto di uguaglianza tra molti elementi brevi e pochi elementi lunghi, e ci può essere uguaglianza nella dimensione e nel numero261. la parisosi ha questa forma: «h] dia; crhmavtwn ajporivan h] dia; polevmou mevgeqo~ – sia per mancan-

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za di beni sia per estensione della guerra»262. Questi cola non sono né simili né contrari, ma solo uguali tra loro263. 28. 1 la paromoiosi è più complessa della parisosi: non si limita a formare cola uguali, ma li fa anche simili, ricorrendo a termini che si assomigliano, per esempio264: «†dei` se† lovgou mivmhma, fevre povqou tevcnasma — bisogna che tu [?] un’imitazione di parola, simula il desiderio»265. in particolare, bisogna rendere somiglianti le parole fnali, perché sono soprattutto esse a creare la somiglianza266. sono simili le parole costituite da sillabe simili, nelle quali le lettere sono per la maggior parte le stesse, per esempio: «plhvqei me;n ejndew`~, dunavmei de; ejntelw`~ — scarsamente come numero; pienamente come effcacia»267. 2 tutto ciò che non è contemplato dalla techne verrà da sé268. Quanto si è detto in proposito basta, dato che oramai sappiamo di che natura sono gli argomenti concernenti il giusto, il legale, il bello, l’utile, e gli altri, e come procurarcene in abbondanza. conosciamo parimenti i modi di amplifcare e di sminuire 269, e come disporne per i nostri discorsi. 3 allo stesso modo, abbiamo acquisito indicazioni relative ad anticipazioni, richieste degli ascoltatori, ricapitolazioni, eleganza dell’esposizione, lunghezza dei discorsi, composizione stilistica nel suo complesso. 4 acquisita, grazie a ciò che si è detto prima, la conoscenza delle potenzialità comuni a tutte le specie di discorso, delle loro differenze e delle loro funzioni, potremo pertanto essere molto facilitati nello

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scrivere e nel parlare, se ci abituiamo a servircene, e se ci esercitiamo nel loro uso, quando ci prepariamo270. 5 tenendo conto delle singole componenti, potrai così individuare più esattamente la via da seguire nel discorso. spiegherò ora come si devono strutturare organicamente i discorsi, nelle varie specie, quali parti utilizzare per prime, e come271. tratto per primo l’esordio, perché è una parte comune alle sette specie: il suo impiego sarà adatto a ogni circostanza272.

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Terza parte Le parti del discorso L’esordio e la presentazione del tema 29. 1 l’esordio consiste in generale nella preparazione degli ascoltatori e nella sommaria illustrazione del tema a chi non lo conosce, in modo che sappia su che cosa verte il discorso, e possa seguirne la trattazione273. consiste inoltre nell’invitare l’uditorio all’attenzione, e nel disporlo benevolmente nei nostri confronti, per quanto il discorso lo consente274. a questo insomma deve preparare l’esordio; come servirsene, lo spiegherò cominciando dai discorsi deliberativi, e in particolare da quelli di carattere esortativo275. 2 ecco un esempio di come esporre preliminarmente il tema all’uditorio, e renderlo chiaro276: «Mi sono alzato a parlare per darvi questo consiglio: dobbiamo combattere in difesa dei siracusani»; «Mi sono alzato a parlare per esprimere questa mia opinione: non dobbiamo prestare soccorso ai siracusani». Come catturare l’attenzione 3 Questo è insomma il modo di comunicare sommariamente l’argomento277. sapremo poi come catturare l’attenzione dell’uditorio278, se ci richiameremo alla mente quali sono i

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discorsi o le questioni cui prestiamo maggiormente attenzione, quando siamo noi a far parte di un’assemblea deliberativa279. 4 non è forse così, quando si delibera su cose importanti, allarmanti o che ci riguardano da vicino?280 oppure, quando gli oratori sostengono di volerci dimostrare che le azioni cui ci spronano sono giuste, nobili, utili, facili e gradite?281 oppure ancora, quando ci pregano di ascoltarli attentamente?282 5 Riusciremo così anche noi a catturare l’attenzione degli ascoltatori, come noi la prestiamo ad altri: basta tener conto degli argomenti che meglio si applicano, tra quelli ricordati, ai temi da noi trattati, ed esporli all’uditorio283. Come suscitare la benevolenza dell’uditorio 6 ecco insomma come potremo ottenere l’attenzione. ci assicureremo poi la benevolenza degli uditori, valutando bene prima di tutto il loro atteggiamento nei nostri confronti: cioè se sono bene o mal disposti, oppure né bene né male284. 7 se sono ben disposti, è inutile invocare la benevolenza; tuttavia, se vogliamo a tutti i costi farlo, bisogna parlare brevemente e dissimulando, così: «Voi conoscete perfettamente la mia lealtà nei confronti della città, i vantaggi che vi sono spesso derivati dai miei consigli, il mio corretto comportamento in questioni di interesse pubblico, pronto come sono a dare del mio, piuttosto che arricchirmi con il denaro pubblico; ritengo pertanto superfuo ricordarvelo. tenterò invece di dimostrar-

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vi che prenderete la giusta decisione, se vi fderete di me anche adesso»285. 8 nei discorsi davanti al popolo, questo è il modo in cui gli si deve richiamare alla memoria il favore di cui si gode286. se invece l’uditorio non è né avverso né ben disposto, si deve dire che è giusto e utile ascoltare con benevolenza i cittadini che non hanno ancora dato prova di sé. 9 Bisogna poi adulare gli ascoltatori: giudichino le nostre parole giustamente e saggiamente, «come è nelle loro abitudini»287. inoltre, bisogna ammettere i propri limiti, dicendo: «Mi sono alzato a parlare, non perché confdo nella mia abilità, ma perché ritengo la mia proposta utile alla comunità»288. 10 Questo è il modo di procurarsi la benevolenza di un uditorio di per sé né benevolo né malevolo nei nostri confronti. Quando l’oratore è oggetto di prevenzione, ciò riguarda necessariamente o la sua persona, o il tema che tratta, o le parole che dice; la prevenzione poi ha origine nel presente o nel passato289. 11 se si è sospettati di qualche cattiva azione risalente al passato, bisogna per prima cosa rivolgersi all’uditorio prevenendolo, e dire: «non ignoro le calunnie di cui sono oggetto, ma dimostrerò che esse sono false»290. 12 È necessaria poi, nell’esordio, una breve difesa, quando tu abbia qualcosa da dire a tuo favore, ed è necessario screditare nello stesso tempo i giudizi. di fatto, quando si è vittime di una prevenzione riguardante questioni pubbliche o private, ci deve essere stato, o ci sarà, un processo; oppure,

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chi ha formulato l’accusa non vuole andare in giudizio291. 13 in particolare, bisogna sostenere che il giudizio è stato ingiusto292, e che siamo stati vittime di un complotto ordito dai nostri nemici. oppure, se ciò non è possibile, bisogna sostenere che è suffciente il male che ci è toccato allora, e che adesso, concluso il processo su quei fatti, è giusto non continuare a incolparci delle stesse cose. 14 se si aspetta il processo, bisogna dire che tu sei pronto a sottoporti immediatamente al giudizio dell’assemblea che hai di fronte, riguardo alle imputazioni a tuo carico, e che saresti tu a proporre a tua volta la pena di morte, se fosse minimamente dimostrata la tua colpevolezza nei confronti dello stato293. 15 se i nostri accusatori non ci perseguono legalmente, dobbiamo utilizzare questo fatto come segno della falsità delle accuse che ci hanno intentato, perché si riterrà inverosimile che chi ha fondati motivi per accusare non voglia andare in giudizio294. 16 inoltre, è sempre necessario condannare la calunnia, e sostenere che essa è una cosa terribile e diffusa, ed è all’origine di molti mali295. Bisogna poi mettere in evidenza che molti sono stati rovinati già in passato da accuse ingiuste. È necessario anche spiegare che è da insensati, quando si delibera su temi di interesse pubblico, indignarsi per le calunnie di alcuni, invece di ascoltare i discorsi di tutti, e considerare ciò che è veramente vantaggioso296. si deve anche dichiarare [e promettere] la propria intenzione di dimostrare che ciò che ti sei proposto di consigliare è giusto, utile e buono.

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17 Questo è dunque il modo, nei discorsi davanti al popolo, di porre fne alle prevenzioni di cui si è stati oggetto, e che hanno origine nel passato. se si originano dal presente, è invece l’età il primo motivo di prevenzione nei confronti degli oratori. di fatto, l’uditorio è mal disposto verso un oratore troppo giovane o vecchio, perché ritiene che al giovane non spetterebbe ancora di cominciare, mentre il vecchio dovrebbe aver già smesso297. 18 il pubblico è poi infastidito da chi ha l’abitudine di intervenire in continuazione, giudicandolo un intrigante298. la reazione è la stessa, se parla chi non l’ha fatto mai prima, perché si pensa che egli parli in pubblico, cosa che non è solito fare, per un qualche interesse privato299. 19 di questo tipo potranno dunque essere le prevenzioni nei confronti dell’oratore, relativamente al presente. Per farvi fronte, il giovane deve addurre come scusa la scarsezza di oratori intervenuti per dare consigli, e il suo diretto coinvolgimento quando si delibera, per esempio, riguardo alla sovrintendenza alla corsa delle faccole, oppure riguardo alla ginnastica, agli armamenti, ai cavalli, alla guerra: tutte questioni in cui un giovane ha una parte certamente non piccola300. 20 si deve anche dire che, se non si ha ancora la capacità di giudizio, che si acquisisce con l’età, si ha tuttavia quella che deriva da doti naturali e da diligente applicazione301. si deve inoltre mettere in evidenza che lo scacco, in caso di errore, resta nella sfera privata, mentre il vantaggio sarà di tutti, in caso di successo302.

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21 Queste sono le scuse che un giovane deve addurre. il vecchio deve invece basarsi sui pochi intervenuti e sulla propria esperienza, e inoltre sulla gravità e sulla singolarità dei pericoli e su altri motivi di questo tipo303. 22 l’oratore che ha l’abitudine di intervenire troppo spesso deve giustifcarsi sottolineando la propria esperienza, e l’inopportunità di tacere adesso ciò che pensa, dopo i suoi continui interventi nel passato. chi invece non ha l’abitudine di parlare indicherà come pretesto la gravità dei pericoli e l’obbligo, per qualsiasi cittadino, di manifestare il proprio pensiero sulle questioni del momento. 23 in conclusione, questi sono gli argomenti con cui nei discorsi rivolti al popolo tenteremo di esautorare le prevenzioni dirette alla persona dell’oratore. le prevenzioni dirette al tema di cui si tratta nascono quando si consiglia di rompere i rapporti pacifci con chi è inoffensivo o più potente, oppure di concludere una pace disonorevole; o quando si esorta a diminuire le spese destinate alle cerimonie sacre; o quando si propone qualcosa del genere304. 24 nel trattare questi temi, bisogna prima di tutto rivolgersi all’uditorio ricorrendo all’anticipazione, poi chiamare in causa la necessità, la sorte, le circostanze o l’utilità, e dire che di tutto questo non sono responsabili coloro che deliberano, ma la situazione305. 25 con questi argomenti storneremo dai deliberanti le prevenzioni concernenti il tema.

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il discorso che si tiene in un’assemblea pubblica è soggetto ad attacchi quando è lungo, trito o non credibile. 26 se risulta lungo, bisogna attribuire la responsabilità alla molteplicità delle questioni306; se risulta trito, bisogna spiegare che esso si adatta al momento presente307; se risulta non credibile, devi impegnarti a dimostrarne la verità nel corso della tua esposizione308. Disposizione degli elementi nell’esordio 27 tenendo conto di queste considerazioni, affronteremo la presentazione del discorso rivolto al popolo. Ma come lo struttureremo?309 se non siamo oggetto di alcuna prevenzione, né noi, né il discorso, né il fatto, esporremo subito all’inizio il nostro proposito, poi inviteremo l’uditorio a prestare attenzione e ad ascoltarci con benevolenza310. 28 se invece siamo oggetto di una delle prevenzioni di cui si è parlato, preverremo l’uditorio, e relativamente a queste avanzeremo brevemente la nostra giustifcazione e i nostri motivi, e solo allora passeremo all’esposizione, e inviteremo l’uditorio a prestarci attenzione. Questo è il modo di presentare il discorso rivolto al popolo311. Esposizione di fatti Riferimento di un’ambasciata 30. 1 subito dopo, dobbiamo riferire o ricordare fatti passati, o enumerare singolarmente quelli presenti,

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o anticipare quelli futuri312. 2 così, quando riferiamo di un’ambasciata, bisogna esporre compiutamente e chiaramente tutto ciò che è stato detto, prima di tutto perché il discorso abbia la dovuta solennità, dato che si tratterà solo di un ‘riferire’, senza che vi si insinui nessun’altra forma di discorso313. 3 il secondo obiettivo è che gli ascoltatori, nell’eventualità di un nostro insuccesso, non attribuiscano alla nostra negligenza il fallimento, ma a qualche altra causa; oppure, nell’eventualità di un nostro successo, non lo ritengano frutto del caso, ma del nostro impegno314. essi, che non erano presenti alle trattative, ci crederanno se, quando parliamo, riconosceranno il nostro zelo nel riferire accuratamente ogni cosa, senza tralasciare niente315. Requisiti di altre esposizioni 4 Per questi motivi, quando riferiamo di un’ambasciata, bisogna fare un resoconto dettagliato dei fatti, così come sono accaduti. Quando parliamo al popolo di nostra iniziativa, e raccontiamo qualche avvenimento passato o esponiamo la situazione presente, o prediciamo quella futura, bisogna farlo, ogni volta, in modo conciso, chiaro e credibile316. 5 in modo chiaro, perché gli ascoltatori siano informati dei fatti di cui parliamo; in modo conciso, perché ricordino ciò che abbiamo detto; in modo credibile, perché essi non respingano la nostra esposizione, prima che noi riusciamo a consolidare il discorso con argomentazioni e giustifcazioni317.

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6 la nostra chiarezza espositiva scaturirà dalle parole o dai fatti. se noi li esponiamo senza invertirne l’ordine, e diciamo invece prima di tutto le cose che sono avvenute per prime o che avvengono o che avverrano, e presentiamo il resto in una sequenza ordinata318; e se evitiamo di passare a un’altra questione, tralasciando quella su cui abbiamo cominciato a discutere. 7 così, sarà chiara la nostra esposizione relativa ai fatti. Relativamente alle parole, l’esposizione sarà chiara se, per quanto possibile, chiameremo i fatti con i termini appropriati alle cose e con i termini di uso corrente319, evitando anche di invertirne l’ordine, ma disponendoli sempre secondo la loro naturale successione320. 8 la nostra esposizione sarà chiara, se staremo attenti a questo, e sarà concisa, se elimineremo i fatti e le parole superfui, mantenendo solamente quelli la cui eliminazione renderebbe il discorso oscuro321. 9 così, dunque, la nostra esposizione sarà concisa. sarà poi credibile, se, riguardo ai fatti poco plausibili, portiamo motivazioni che faranno sembrare verosimili i fatti che raccontiamo322. in ogni caso, bisogna tralasciare tutto ciò che è troppo inverosimile323. 10 se tuttavia è necessario parlarne, bisogna mostrare di esserne consapevoli, e sorvolare su di essi, trattandone in forma di preterizione324, promettendo nello stesso tempo di dimostrare, più avanti nel discorso, che sono veri, con la scusa che si vuole prima di tutto provare come le cose dette in precedenza siano vere, giuste o altro del genere.

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11 Porremo così rimedio alla diffdenza degli ascoltatori325. in breve, in base a tutto ciò che si è detto, renderemo chiari, concisi e convincenti i nostri resoconti, le dichiarazioni e le nostre esposizioni preventive. Ordine di esposizione 31. 1 tre sono poi i modi della disposizione. Quando i fatti di cui parliamo sono pochi e noti agli ascoltatori, li collegheremo con l’esordio, in modo che questa parte, da sola, non risulti troppo breve. 2 Quando i fatti sono troppo numerosi e non noti, noi li presenteremo in connessione, uno per uno, e faremo capire che sono giusti, utili e degni, così da fare, esponendoli, non solo un discorso semplice e non dispersivo, ma anche tale da catturare l’attenzione degli ascoltatori326. 3 se si ha una giusta quantità di fatti che non sono noti, bisogna incorporare nell’esordio il resoconto, la dichiarazione o l’esposizione preventiva. ci riusciremo, se ripercorreremo gli avvenimenti dall’inizio alla fne, senza aggiungere niente altro, e anzi esponendo i fatti puri e semplici. così sapremo come si devono disporre le narrazioni nel contesto degli esordi327. Conferma 32. 1 alla narrazione segue la conferma, con la quale assicureremo, basandoci sulle argomentazioni, sul

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giusto e sull’utile, che i fatti appena ricordati sono proprio come ci eravamo proposti di mostrare328. Quando dunque 329, bisogna connetterle. le argomentazioni più adatte ai discorsi rivolti al popolo sono da considerare il corso abituale delle cose330, gli esempi331, gli entimemi332 e l’opinione dell’oratore333. ci si può servire anche di qualsiasi altra argomentazione che si renda disponibile. 2 Bisogna disporle così334: prima di tutto, l’opinione dell’oratore, o altrimenti il corso abituale delle cose, dichiarando che ciò di cui parliamo, o qualcosa di simile, accade di solito proprio in questo modo. 3 successivamente bisogna portare esempi, e aggiungere ogni possibile elemento di somiglianza con quanto diciamo335. Bisogna utilizzare gli esempi pertinenti al caso trattato, e quelli più vicini, nel tempo o nello spazio, agli ascoltatori, oppure, se questi non sono disponibili, gli altri più rilevanti e noti336. subito dopo, si deve ricorrere alle massime. Bisogna poi concludere con entimemi e massime anche nelle sezioni dedicate alle verosimiglianze e agli esempi, alla fne337. 4 le argomentazioni dovranno essere aggiunte alla presentazione dei fatti, in questa maniera. se i fatti sono credibili subito, appena vengono esposti, le argomentazioni devono essere omesse, e i fatti già esposti devono essere confermati ricorrendo ai predicati del giusto, del legale, dell’utile, del bello, del piacevole, del facile, del possibile e del necessario. 5 se si può disporre del predicato del giusto, bisogna introdurlo per primo, esaminando dettaglia-

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tamente i fatti alla luce del giusto in sé, di ciò che a esso è simile o contrario, o di ciò che è stato giudicato tale338. e bisogna anche addurre esempi conformi a ciò che tu reputi giusto. ne avrai molti da illustrare, attingendo a ciò che è considerato giusto caso per caso, individualmente, o nella città in cui parli, o in altre città339. 6 completata la nostra esposizione, procedendo in questo modo e concludendo con l’aggiunta di massime ed entimemi, di giusta estensione e diversifcati340, faremo una breve ricapitolazione, se tutta questa parte è lunga, e vogliamo che sia tenuta a mente341. se invece è di media estensione e facile da ricordare, ne faremo una precisa e delimitata sezione, e ne proporremo poi un’altra, nuova. ecco un’esemplifcazione di quello che voglio dire: «Ritengo di avere suffcientemente dimostrato, con il discorso che ho fatto, che è giusto da parte nostra portare aiuto ai siracusani; tenterò adesso di spiegare che agire così è anche vantaggioso». 7 ancora, nel parlare dell’utile, segui la stessa modalità esposta a proposito del giusto, e aggiungi una ricapitolazione o una formula di conclusione alla fne di questa parte; poi ne proporrai una nuova, quella che tu abbia pronta. in questo modo si devono collegare le parti tra di loro e intessere il discorso342. 8 Quando avrai terminato l’esposizione di tutto ciò che può convalidare la tua esortazione, dimostra in aggiunta, e in modo succinto sotto forma di entimemi e massime, che sarebbe ingiusto, svantaggioso, deplorevole e spia-

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cevole non agire così, e contrapponi brevemente il fatto che agire come tu consigli è invece giusto, vantaggioso, encomiabile e gradito. 9 Fatto un uso equilibrato delle massime, delimita e poni fne all’esortazione. in questo modo convalideremo le nostre proposte; successivamente, si passerà all’anticipazione. Anticipazione 33. 1 essa costituisce il mezzo con cui anticiperai e screditerai le eventuali obiezioni avanzate al tuo discorso343. devi minimizzare gli argomenti degli avversari e amplifcare i tuoi, come mi hai già sentito dire, quando ho trattato dell’amplifcazione344. 2 Bisogna poi confrontare argomento con argomento, quando il tuo è più forte, oppure parecchi argomenti con altrettanti, o uno con molti, o molti con uno, ricorrendo a ogni possibile confronto e variazione, attento ad amplifcare i tuoi argomenti, e a indebolire e a minimizzare quelli dei tuoi avversari. 3 Questo è il modo di utilizzare l’anticipazione. Ricapitolazione alla fne di questa rassegna, ricapitoleremo ciò che abbiamo detto, sotto forma di ragionamento, o di resoconto, o di deliberazione o di questione o di ironia345.

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Sollecitazioni emotive 34. 1 se esortiamo a portare soccorso a qualcuno, a privati cittadini o a città, sarà opportuno menzionare brevemente eventuali e preesistenti sentimenti di amicizia, di riconoscenza, di compassione che li hanno legati ai membri dell’assemblea346, perché essi sono particolarmente inclini a venire in aiuto di chi ha con loro questo rapporto347. 2 tutti provano sentimenti di amicizia per coloro dai quali pensano di aver ricevuto doverosi benefci, o essi personalmente o i propri cari, o di continuare a riceverli nel presente o nel futuro, direttamente da loro o con la mediazione dei loro amici. 3 e hanno della gratitudine per coloro dai quali pensano di aver ricevuto del bene al di là del dovuto, o essi personalmente o i propri cari, o di continuare a riceverlo nel presente o nel futuro, direttamente da loro o con la mediazione dei loro amici348. 4 se si dà uno di questi casi, bisogna illustrarlo brevemente, e muovere l’uditorio a sentimenti di compassione. disporremo in abbondanza e a volontà di tali argomenti, capaci di muovere a compassione, se ci rendiamo conto del fatto che tutti provano compassione per coloro che sentono vicini a sé, o che ritengono immeritatamente sventurati349. 5 Bisogna mettere in evidenza che questa è la condizione di coloro verso i quali tu vuoi ispirare compassione, e dichiarare che essi hanno sofferto, soffrono o soffriranno, se chi li ascolta non li aiuterà.

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6 se ciò non è possibile, bisogna dimostrare che le persone per le quali tu parli sono state private, lo sono ancora o lo saranno, dei beni di cui tutti gli altri, o la maggior parte, godono, oppure che non hanno mai avuto benefci, non li hanno o non li avranno, a meno che chi ascolta non si muova ora a compassione. così, con questi argomenti, susciteremo la compassione dell’uditorio. Discorso dissuasivo 7 con argomenti contrari a questi costruiremo invece un discorso dissuasivo, pur procedendo allo stesso modo, con un esordio e un’esposizione dettagliata dei fatti350; parimenti, faremo anche uso di argomentazioni e dimostreremo agli ascoltatori che le cose che si accingono a fare sono illegali, ingiuste, inutili, deplorevoli, spiacevoli, impossibili, gravose e non necessarie. la disposizione sarà identica a quella valida per l’esortazione. Discorso di replica 8 chi fa un discorso per dissuadere, di propria iniziativa, deve dunque disporre così la materia. chi invece replica al discorso esortativo pronunciato da altri, deve prima di tutto presentare nell’esordio i punti che ha intenzione di contraddire, e poi introdurre gli altri elementi dell’esordio, singolarmente351.

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9 dopo l’esordio, la cosa migliore è riproporre, uno a uno, ciascuno degli argomenti preannunciati, e dimostrare che le sollecitazioni dell’avversario non sono giuste, né legali, né utili, e così via352. lo farai provando che le cose dette da lui sono ingiuste o dannose, o di natura simile, oppure contrarie al giusto, all’utile, o a ciò che è stato giudicato tale in passato. Procedi allo stesso modo per gli altri argomenti disponibili. 10 il metodo più effcace di dissuadere è dunque questo. Ma se non è possibile attuarlo, basa la tua dissuasione sull’argomento tralasciato353: per esempio, se l’avversario ha dichiarato che la sua proposta è giusta, tu tenta di provare354 che è deplorevole, inutile, gravosa, o impossibile, o qualsiasi altra qualifcazione tu possa individuare. se l’avversario sostiene che si tratta di cosa utile, tu dimostra che è ingiusta355, oppure aggiungi un altro argomento qualsiasi, di cui tu disponga. 11 devi inoltre amplifcare i tuoi argomenti e minimizzare quelli del tuo avversario, facendo come si è detto a proposito dell’esortazione356. Bisogna anche proporre massime ed entimemi, come si fa nel caso dell’esortazione, vanifcare le anticipazioni, e alla fne ricapitolare. 12 nel discorso di esortazione bisogna inoltre mettere in evidenza o l’amicizia esistente tra coloro per i quali noi peroriamo il soccorso e i destinatari del nostro discorso, oppure il debito di riconoscenza che questi ultimi hanno nei confronti di chi chiede aiuto357.

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se invece siamo contrari a che essi vengano soccorsi, bisogna mostrare che meritano solo la collera, l’invidia o l’inimicizia358. 13 susciteremo sentimenti di ostilità in coloro che cerchiamo di dissuadere, provando che chi chiede aiuto ha fatto del male, di persona o attraverso amici, a essi direttamente o ai loro cari, senza che lo meritassero. 14 susciteremo la loro collera, se dimostreremo che chi chiede aiuto, o i suoi amici, ha umiliato o danneggiato, senza alcuna giustifcazione, direttamente essi o i loro cari. 15 Quanto all’invidia, la solleciteremo, per dirla in breve, nei confronti di chi possiamo dimostrare che ha goduto, o gode o godrà di un’immeritata prosperità; oppure che non è stato mai privato di un bene, né lo è, né lo sarà; oppure che non è stato mai sventurato, né lo è, né lo sarà. 16 Questo è dunque il modo per suscitare invidia, odio o collera; per suscitare invece sentimenti di amicizia, di riconoscenza o di compassione, ci si atterrà al metodo indicato a proposito del discorso esortativo. e questa è la maniera di adattarli e di disporli, a partire da tutto ciò che si è detto359. ora sappiamo che cosa è la specie di oratoria esortativa, in che cosa consiste e come bisogna utilizzarla360. Esordio del discorso di elogio e di biasimo 35. 1 Passiamo adesso a esaminare il discorso di elogio e di denigrazione361. anche in questi casi, bisogna prima di tutto esporre i temi nell’esordio:

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le prevenzioni le demoliremo come nei discorsi di esortazione362. 2 inviteremo all’attenzione tenendo presente ciò che si è già detto a proposito del discorso rivolto al popolo363, e in particolare esponendo fatti stupefacenti e notevoli, e mostrando che il soggetto del nostro discorso e quelli che sono oggetto di lode o di biasimo hanno agito allo stesso modo364. di fatto, la maggior parte delle volte in cui facciamo questo tipo di discorso, parliamo non per contendere, ma a scopo dimostrativo365. 3 Prima di tutto, disporremo l’esordio come nel caso dell’esortazione e della dissuasione. dopo l’esordio bisogna distinguere tra le qualità positive che esulano dal merito personale e quelle che vi rientrano, ripartendole così: tra le prime, inseriamo la nobiltà di nascita, la forza, la bellezza e la ricchezza; tra le seconde, la sapienza, la giustizia, il coraggio, e specchiate abitudini di vita366. 4 È giusto che siano elogiate le qualità attinenti al merito; ma è improprio per le altre367: i forti, i belli, i nobili di nascita, i ricchi non sono da lodare, ma da considerare fortunati368. Genealogia 5 Fatte queste considerazioni, inseriremo la genealogia subito dopo l’esordio, perché in essa risiede il primo e fondamentale motivo di buona o cattiva reputazione, per gli uomini e per gli altri animali369. a ragione, faremo pertanto la genealogia di un uomo

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o di un altro animale, che ne condivide le caratteristiche. Quando invece parliamo di un sentimento, di un atto, di un discorso o di un oggetto, partiremo senz’altro, nel farne l’elogio, dalle sue inerenti e apprezzate peculiarità370. 6 ecco come bisogna procedere con la genealogia. se gli antenati sono personaggi ragguardevoli, bisogna enumerarli tutti dall’inizio fno alla persona di cui si fa l’elogio, illustrando succintamente per ognuno qualcosa di rilevante. 7 se i primi antenati sono ragguardevoli, ma gli altri non hanno fatto niente che meriti considerazione, bisogna soffermarsi sui primi procedendo nel modo appena descritto, ma sorvolare sugli altri, con questo pretesto: dato il gran numero degli antenati, non vuoi dilungarti a parlarne; aggiungerai, come cosa risaputa da tutti, che chi discende da uomini di valore assomiglia con ogni probabilità agli antenati371. 8 se gli antenati lontani nel tempo sono persone insignifcanti, ma quelli vicini sono insigni, bisogna basare la genealogia su questi, dicendo che sarebbe inutile dilungarsi sui primi, e che tu dimostrerai invece il valore degli antenati vicini nel tempo alle persone di cui tu fai l’elogio. È evidente, aggiungerai, che i loro antenati erano persone ragguardevoli; sembra infatti improbabile che da cattivi antenati siano discesi uomini così eccellenti e di valore. 9 se non risulta niente di notevole dall’ascendenza dell’uomo che elogi, dì che la sua nobiltà si impone da sé, in base a una logica deduzione: ha nobili origini ogni persona naturalmente dotata di qualità.

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critica inoltre tutti gli altri che fanno l’elogio degli antenati, ricordando che molti si sono rivelati indegni dei propri, pur insigni. aggiungi infne che un uomo in particolare, e non i suoi antenati, è ora oggetto di lode. 10 nel denigrare, bisogna fare la genealogia, se ci sono antenati indegni, seguendo lo stesso procedimento. Questo è dunque il modo di introdurre la genealogia nei discorsi di lode o di denigrazione. Età e capacità acquisite 11 se l’uomo in questione deve alla sorte qualche riconoscimento sta’ solo attento a dire le cose che si accordano con le varie età, senza dilungarti372. si crede in effetti che la disciplina e l’equilibrio dei bambini siano dovuti non tanto a essi quanto a chi si prende cura di loro; perciò bisogna parlarne brevemente373. 12 Ripercorsi i primi anni in questo modo, enuncia un entimema e una massima alla fne di questa parte e concludila. Quando arrivi alla sua adolescenza, presenta il tuo tema, e amplifca la tua illustrazione delle imprese o del carattere o delle abitudini della persona di cui fai l’elogio, come abbiamo detto all’inizio nel trattare della specie dell’elogio374. spiegherai che questa o quella cosa degna di nota è stata realizzata, in questo periodo della sua vita, dalla persona che elogi, o per suo tramite o grazie al suo comportamento, oppure per sua iniziativa, o per causa sua o non senza di lui375.

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13 Bisogna inoltre portare a confronto azioni famose di altri giovani, e far eccellere su di esse le azioni che tu lodi, esponendo gli aspetti più insignifcanti delle azioni compiute dall’altro, e i più importanti, invece, parlando della persona da te elogiata376. Bisogna inoltre mettere a confronto i fatti di cui tu parli con altri famosi, ma di poco conto: così emergerà la loro grandezza. 14 si devono anche amplifcare le azioni, proponendo argomenti verosimili di questo tipo377: «ci si aspettano grandi progressi, con l’età, da chi in gioventù è stato così amante del sapere»; «certo, chi si sottopone con fermezza alle fatiche del ginnasio, avrà molto caro il duro esercizio della flosofa». con tali plausibili argomenti, riusciremo nell’intento di amplifcare. 15 Quando abbiamo terminato di ripercorrere i momenti della sua adolescenza, introdurremo massime ed entimemi, anche alla fne di questa sezione. Una volta ricapitolato brevemente ciò che si è detto, o conclusa [defnitivamente] questa parte, si passerà a esaminare le azioni compiute dalla persona che elogiamo, da adulta378. 16 cominceremo con l’illustrare il suo senso di giustizia, che amplifcheremo come si è detto, per arrivare così a parlare della sua saggezza, se è opportuno, che tratteremo allo stesso modo. illustreremo poi il suo coraggio, se ne ha, indugiandovi con amplifcazioni, anche in questo caso379. Quando siamo alla fne di questa parte e abbiamo passato in rassegna tutti gli aspetti, faremo una sommaria ricapitolazione di quanto detto, e al termine

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dell’intero discorso aggiungeremo una massima o un entimema. nei discorsi di elogio sarà opportuno utilizzare molte parole per ciascuna cosa, in modo da conferire elevatezza allo stile380. Biasimo 17 allo stesso modo, formuleremo le accuse, se abbiamo a che fare con uomini spregevoli, quando ne esponiamo le azioni381. Bisogna in effetti evitare di schernire le persone di cui parliamo male, limitandoci a ripercorrerne la vita: è il racconto, più che la beffa, a convincere l’uditorio e a danneggiare chi è denigrato, perché la beffa prende di mira l’apparenza più che la sostanza382, mentre i racconti sono quasi dei ritratti del carattere e del costume383. 18 sta’ attento a non esporre azioni turpi con parole altrettanto turpi384, per non svilire il tuo stesso carattere385; parlane invece in modo allusivo, facendo capire le cose attraverso termini applicabili anche ad altre386. 19 anche nei discorsi denigratori, si deve ricorrere all’ironia e mettere in ridicolo ciò di cui l’avversario va fero387. in privato, o in presenza di poche persone, devi screditarlo, ma davanti alla folla attaccalo in modo più convenzionale388. anche nell’amplifcare o nel minimizzare gli attacchi, si dovrà procedere come nel discorso di elogio. così, sapremo ormai come utilizzare queste specie di discorso.

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Accusa 36. 1 ci rimane da trattare della specie dell’accusa e dell’indagine389. esaminiamo allora come comporre e disporre queste specie all’interno del genere giudiziario390. Esordio Come suscitare la benevolenza 2 Prima di tutto, presenteremo nell’esordio l’oggetto del nostro discorso di accusa o di difesa, come nelle altre specie. inviteremo poi l’uditorio all’attenzione con la stessa modalità descritta a proposito del discorso di esortazione e di dissuasione391. 3 †Quanto alla ricerca di benevolenza, chi gode di una disposizione favorevole per il passato o per il presente, e non è oggetto di prevenzione, per aver provocato l’irritazione dell’uditorio nei suoi confronti, o nei confronti del fatto o del suo discorso, deve procacciarsela come si è detto nel parlare di quelle specie. 4 deve invece utilizzare mezzi in parte comuni, in parte specifci392, chi non è oggetto né di benevolenza né di malvolere, per il passato o per il presente, o chi è vittima di prevenzioni dovute al proprio comportamento, o al fatto, o al proprio discorso†393. 5 Questo sarà dunque il modo di accattivarci la benevolenza. chi non è oggetto né di benevolenza né di malvolere deve fare brevemente l’elogio di sé stesso e denigrare l’avversario.

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l’elogio di sé andrà fatto partendo dalle qualità che coinvolgono di più l’uditorio, cioè l’amore per la propria città, l’attaccamento ai compagni, la riconoscenza, la compassione, e così via; la denigrazione dell’avversario dovrà invece basarsi su ciò che fa andare in collera l’uditorio, cioè l’odio per la propria città e per gli amici, l’ingratitudine, la mancanza di compassione, e così via394. 6 Bisogna anche blandire i giudici, lodandoli per la loro equità e competenza395. Bisogna inoltre annoverare ogni nostro svantaggio396, se ci si trova in una condizione di inferiorità rispetto agli avversari nella parola, nell’azione o in qualsiasi altra cosa che riguarda il processo. oltre a ciò si deve introdurre l’argomento del giusto, del legale, dell’utile, e gli altri analoghi397. 7 in conclusione, chi non è oggetto né di benevolenza né di malvolere deve accattivarsi il favore dei giudici, seguendo queste indicazioni. se invece si è oggetto di prevenzioni, e queste hanno radici nel passato e riguardano il discorso, sappiamo come bisogna neutralizzarle, grazie a ciò che si è detto prima398; se poi le prevenzioni hanno radici nel presente e riguardano la persona stessa dell’oratore, è inevitabile che esse siano correlate o all’eventualità che egli sia ritenuto inadeguato al processo in corso, o in contraddizione con le imputazioni, o invece congruente con l’accusa. 8 Risulterà inadeguato, se in età troppo giovanile o troppo avanzata sostiene la causa di qualcun altro; in contraddizione, se si è un uomo forte e si accusa

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un debole di maltrattamenti; oppure se si è violenti e si chiama in giudizio un uomo pacifco, accusandolo di violenza; o se si è molto poveri e si accusa una persona molto ricca di doverci del denaro. 9 Questi sono i casi in cui c’è contraddizione tra le accuse mosse e chi le muove; ci sarà invece congruenza, se un uomo forte è perseguito da uno debole, con l’accusa di maltrattamento, oppure se si accusa di furto una persona che ha fama di ladro399. in generale, quando c’è corrispondenza tra l’opinione che si ha di un uomo e le accuse che gli vengono rivolte, apparirà anche la loro congruenza400. 10 Questi saranno in conclusione i tipi di prevenzione che hanno origine nel presente, e che riguardano la persona stessa dell’oratore. l’attacco è invece diretto al fatto in sé, se si intenta un’azione contro i familiari o gli amici o gli ospiti o le persone care, riguardo a questioni di poco conto o scabrose: questo rovina la reputazione di chi intenta il processo401. 11 indicherò adesso il modo di neutralizzare le prevenzioni di cui si è parlato. sostengo che due sono gli elementi comuni a ogni caso. il primo è questo: se tu pensi che i giudici ti biasimeranno per una questione qualsiasi, anticipali e passa a tua volta all’attacco402. il secondo consiste nello stornare il più possibile sugli avversari la responsabilità dell’azione, o su qualcun altro, se ciò non è possibile, con la scusa che ti sei impegnato nel processo costretto dai tuoi avversari, e non di spontanea volontà403.

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12 Queste sono le scuse da addurre per far fronte a ciascun tipo di prevenzione: chi è giovane metterà avanti la mancanza di amici più grandi di età, pronti a difenderlo; oppure, la gravità dei misfatti o il loro numero, o il limite di tempo fssato, o qualsiasi altro motivo del genere404. 13 se tu parli per difendere un altro, bisogna dire che ne sostieni la difesa per amicizia, o per inimicizia nei confronti dell’avversario, oppure perché eri presente ai fatti, oppure per l’utilità pubblica, o perché la persona che tu difendi è sola e vittima di un’ingiustizia405. 14 se c’è corrispondenza tra la persona dell’oratore e le imputazioni a suo carico, o incongruità con le sue accuse, bisogna ricorrere all’anticipazione, e dire che non è giusto, né legale, né utile giudicare sulla base di preconcetti o di sospetti, prima di aver ascoltato il fatto. 15 ecco come bisognerà neutralizzare le prevenzioni riguardanti personalmente l’oratore. Respingeremo invece gli attacchi concernenti il fatto, stornando la responsabilità sugli avversari, o biasimandoli per gli insulti, l’ingiustizia, l’avidità, la rivalità, la collera, e adducendo come pretesto che non è possibile ottenere giustizia in modo diverso406. così rintuzzeremo le prevenzioni specifche davanti al tribunale: per quelle di carattere generale, faremo come si è detto a proposito delle specie precedenti407. 16 agli esordi giudiziari daremo la stessa struttura degli esordi nei discorsi davanti al popolo; e se-

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condo lo stesso criterio, includeremo nell’esordio il resoconto dei fatti: dimostreremo volta per volta che sono credibili e giusti, oppure li ingloberemo in una sezione a parte408. Conferma 17 a ciò seguirà la conferma, servendoci delle argomentazioni, se gli avversari contestano i fatti; dei predicati del giusto, dell’utile e così via, se invece li ammettono. 18 le prime argomentazioni da mettere in campo sono le testimonianze e le confessioni che abbiamo ottenuto con la tortura, se esistono. Poi, se sono convincenti, si procederà alla conferma con massime ed entimemi; se non lo sono del tutto, utilizzeremo il criterio della verosimiglianza, e successivamente gli esempi, gli indizi, i segni, le prove, e infne gli entimemi e le sentenze409. le argomentazioni devono essere tralasciate, se i fatti sono ammessi, e si deve invece ricorrere alla giustifcazione, come si è detto prima410. in questo consisterà il procedimento della conferma. Anticipazione 19 dopo di essa, introdurremo gli argomenti contro i nostri avversari e anticiperemo le cose che probabilmente diranno411. se negano il fatto, bisogna dare maggiore spazio alle argomentazioni da noi prodotte, e screditare o minimizzare quelle che essi potranno esibire.

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20 se ammettono i fatti e sono in condizione di provare che rientrano nella legalità e sono giusti, secondo le leggi scritte412, noi dobbiamo tentar di dimostrare che le leggi invocate da noi, e quelle simili a esse, sono giuste, buone e utili alla comunità cittadina, e che tali sono state giudicate da molti, al contrario di quelle invocate dagli avversari413. 21 se non è possibile sostenere questo, ricorda ai giudici che essi sono chiamati a giudicare il fatto, non la legge, essi che hanno giurato di votare conformemente alle leggi vigenti. spiega anche che adesso non è il momento adatto per legiferare, e che per questo ci sono giorni stabiliti414. 22 Ma se si dà il caso che il fatto sia stato compiuto quando vigevano leggi ritenute inique, bisogna dire che quella non è una legge, ma la sua negazione: la legge si fa perché sia utile alla città, mentre questa la danneggia415. 23 si deve anche dire che i giudici non commetteranno un’illegalità, se votano in modo contrario a questa legge, ma si comporteranno da legislatori, nell’intento di evitare l’applicazione di decisioni nocive e inique. Bisogna anche far capire che nessuna legge impedisce di adoperarsi per il bene comune, e che invalidare cattive leggi signifca fare del bene alla città416. 24 Quando si tratta di leggi formulate chiaramente, quali che siano, potremo facilmente opporci, utilizzando questi argomenti nell’anticipazione. se si tratta invece di leggi ambigue, e se esse vengono interpretate come a te conviene, tu devi manifestare il tuo consenso; ma se vengono interpretate nel

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senso sostenuto dal tuo avversario, bisogna spiegare che il legislatore non intendeva questo, ma ciò che tu sostieni, e che questa interpretazione della legge va a vantaggio della parte avversa. 25 se non puoi ribaltarne il senso, dimostra che la legge non può dire altro che quello che tu sostieni, pur se confittuale [?]417. se procederai così, utilizzerai con successo le leggi. in generale, se c’è accordo sui fatti e se la difesa sarà fondata sull’argomento del giusto e del legale, si deve partire da qui nell’anticipare ciò che i tuoi avversari probabilmente diranno. 26 se essi ammettono i fatti, ma reclamano il perdono, ecco come bisogna demolire questo argomento di difesa418. Prima di tutto bisogna dire che si tratta di un comportamento detestabile e che tali errori vengono ammessi quando si è scoperti; perciò: «se perdonate quest’uomo, proscioglierete anche tutti gli altri dalla pena». 27 dì ancora: «se assolverete chi confessa l’errore, come potrete votare la condanna di chi non lo ammette?». inoltre si deve dire: «anche se egli ha commesso un errore, non devo essere io a pagare per lui». oltre a ciò bisogna dire: «neppure il legislatore perdona chi ha sbagliato; dunque non è neppure giusto che lo facciano i giudici, che giudicano secondo le leggi». 28 Basandoci su questi argomenti, elimineremo la possibilità del perdono, come abbiamo chiarito all’inizio. in breve, quanto è stato detto ci permetterà di anticipare ciò che l’avversario dirà per persuadere, per giustifcare e per chiedere perdono419.

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Epilogo 29 dopo questa accusa, bisogna ricapitolare sommariamente tutto il discorso, e istillare nei giudici con poche parole, se è possibile, sentimenti di inimicizia, di collera o di invidia nei confronti dei nostri avversari, e invece sentimenti di amicizia, gratitudine o compassione nei nostri confronti420. abbiamo esposto come fare, nella trattazione del discorso rivolto al popolo, e a proposito della persuasione e della dissuasione421: ci torneremo alla fne, nella sezione dedicata al discorso di difesa422. Discorso di difesa Esordio, narrazione, conferma 30 così dunque comporremo e struttureremo il discorso di apertura, in ambito giudiziario e come accusatori. Quando parliamo come difensori, comporremo l’esordio come fa l’accusatore. 31 trascureremo quei capi d’accusa di cui l’uditorio ha ormai preso conoscenza, e metteremo invece in evidenza, dopo l’esordio, quelli su cui l’uditorio si è fatto solo un’idea, per confutarli423. Quanto ai testimoni, alle confessioni ottenute con la tortura e ai giuramenti, li renderemo non credibili nel modo che già hai sentito descrivere424. se i fatti sono credibili, dobbiamo passare dalla difesa incentrata su di essi all’argomento tratto da ciò che è stato omesso425. se risultano credibili quelli che hanno te-

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stimoniato, spontaneamente o sotto tortura, dobbiamo passare alla discussione, all’azione o a qualsiasi altro argomento molto credibile, di cui disponi contro gli avversari. 32 se l’accusa contro di te fa riferimento al tuo interesse o alle tue abitudini, difenditi dicendo prima di tutto che l’azione che ti viene imputata non ti è di vantaggio, o altrimenti, che non siete abituati, né tu né le persone come te, a fare cose simili o a farle in questo modo. 33 così dunque confuterai l’argomento del verosimile426. Quanto all’esempio addotto contro di te, dimostra prima di tutto, se puoi, che esso non corrisponde all’imputazione; o altrimenti porta tu un altro esempio, di senso contrario, che risulti inaspettato427. Quanto all’indizio contro di te, confutalo spiegando i motivi per cui esso implica esattamente un fatto contrario428. 34 Quanto alle massime e agli entimemi, fa’ capire che sono paradossali o ambigui429. Quanto ai segni, fa’ capire che possono signifcare parecchie altre cose, e non solo l’atto di cui ti si accusa430. così, conducendo gli argomenti degli avversari a conclusioni contrarie, o nel terreno dell’ambiguità, li renderemo non convincenti. 35 se da parte nostra ammettiamo di aver fatto ciò di cui ci si accusa, procederemo basandoci sull’argomento del giusto e del legale, e tenteremo di dimostrare che le nostre azioni sono legali e giuste. se questo non è possibile, dobbiamo tentare di ottenere il perdo-

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no431, rifugiandoci nell’errore o nella sfortuna, e mettendo in evidenza che il danno causato è minimo: dimostreremo che sbagliare è comune a tutti gli uomini, mentre commettere ingiustizia è proprio dei malvagi. 36 aggiungi che è opportuno, giusto e utile perdonare gli errori: nessun uomo sa se non capiterà anche a lui di sbagliare432. Metti in evidenza che anche l’avversario ha preteso il perdono per qualche suo errore. Confutazione delle anticipazioni 37 a ciò seguono le anticipazioni fatte dagli avversari. Per tutte le altre avremo abbondante materia di confutazione, partendo dai fatti, ma se ci criticano dicendo che pronunciamo discorsi scritti, o che per noi parlare è un esercizio, o che facciamo i difensori dietro un compenso, bisogna controbattere tali insinuazioni con ironia433. Riguardo al discorso scritto, diremo che la legge non impedisce a te di leggere un testo scritto, né all’avversario di parlare senza averlo scritto: la legge non permette che si facciano determinate azioni, ma consente di parlare come si vuole434. 38 Bisogna anche dire: «il mio avversario pensa che io abbia agito così ingiustamente, da ritenere che io non sarei in grado di portare avanti un’accusa come si dovrebbe, se non scrivessi il mio discorso e vi rifettessi a lungo»435. così dunque bisogna respingere le prevenzioni dirette contro i discorsi scritti. 39 se affermano che noi impariamo l’arte di parlare, e ci esercitiamo in essa, lo ammetteremo e diremo:

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«noi, gli apprendisti come dici tu, non abbiamo la passione per i processi, mentre tu, che non sei esperto nell’arte della parola, sei riconosciuto responsabile di delazione nei nostri confronti, adesso e anche in passato»436. apparirà pertanto vantaggioso per i cittadini che anche lui apprenda la retorica, perché in questo caso non potrà essere un così corrotto delatore. 40 Parimenti, se si dice che noi facciamo i difensori per guadagno, lo ammetteremo in tono ironico, dimostrando che chi ci accusa fa la stessa cosa, e altrettanto fanno tutti gli altri. 41 Poi, distingui tra le specie di compenso, e dì che alcuni difendono per denaro, altri per favore, altri per vendetta, e altri per desiderio di onore. Metti poi in evidenza che tu fai il difensore per rendere un favore, e dì che il tuo avversario lo fa invece per un non piccolo compenso: egli ricorre al tribunale per arricchirsi ingiustamente, e non per evitare di pagare437. 42 lo stesso vale se ci si rimprovera di insegnare ad altri come intentare un processo o scrivere discorsi giudiziari: metti in evidenza che anche gli altri aiutano sempre gli amici, istruendoli o consigliandoli, per quello che possono438. Dialogo con l’avversario ecco dunque il corretto modo di replicare, in casi come questi. 43 Riguardo alle domande e alle risposte che possono intervenire in questa specie di discorso, non bi-

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sogna essere superfciali, e anzi distinguere, quando si tratta di risposte, tra confessione e negazione439. esempi di confessione sono questi: «Hai ucciso mio fglio? – sì, l’ho ucciso quando lui ha levato per primo l’arma contro di me». «Hai colpito mio fglio? – sì l’ho fatto, ma quando mi ha aggredito»440. «Mi hai fracassato la testa? – sì, quando tu di notte hai forzato l’ingresso della mia casa e sei entrato». 44 Queste confessioni si fanno, perché si fondano sulla legalità della propria azione441. i seguenti tipi di diniego, invece, piegano la legge a proprio favore: «Hai ucciso mio fglio? – non io, ma la legge l’ha ucciso». Queste sono le risposte da dare, quando una legge ordina o vieta di fare questa o quella cosa442. in base a tutto ciò, potrai mettere insieme quello che ti serve per far fronte ai tuoi avversari. Epilogo 45 a ciò segue una ricapitolazione, un breve richiamo delle cose già dette443. essa è utile in ogni circostanza, tanto che deve essere utilizzata in ciascuna parte del discorso, e in ogni sua specie. È tuttavia particolarmente opportuna per i discorsi di accusa e di difesa, e inoltre per i discorsi di esortazione e di dissuasione, perché, secondo la nostra convinzione, in questi casi bisogna non solo ricordare ciò che si è detto, come negli encomi o nelle denigrazioni, ma anche disporre i giudici a esser favorevoli nei nostri confronti, e sfavorevoli nei confronti degli avversa-

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ri444. 46 Questa parte del discorso la metteremo alla fne. si può fare un sommario richiamo, con un resoconto di quanto si è detto, oppure proponendo un’attenta rifessione o aggiungendo una questione, riducendo, se vuoi, allo schema dell’interrogazione i tuoi argomenti migliori e i peggiori dei tuoi avversari445. di che cosa si tratta, caso per caso, lo sappiamo dall’esposizione precedente. Sollecitazioni emotive 47 Riusciremo a creare una disposizione favorevole nei nostri confronti, e sfavorevole nei confronti degli avversari, come nel caso dei discorsi di esortazione e di dissuasione, illustrando per sommi capi le occasioni in cui noi o i nostri amici abbiamo reso dei favori, o li rendiamo o li renderemo a coloro che si sono comportati male con noi, a essi personalmente o ai loro cari; o ancora, ai giudici in persona o ai loro cari. spiegheremo anche a essi che è venuto il momento di ricambiare i benefci ricevuti; e inoltre ci atteggeremo a persone degne di compassione, se è possibile446. 48 otterremo questo dimostrando che siamo in amichevoli rapporti con gli ascoltatori, e che siamo immeritatamente vittime di una cattiva sorte: lo siamo stati in passato, o lo siamo adesso, o lo saremo se essi non ci aiutano. se non si può ricorrere a questi argomenti, faremo un dettagliato resoconto di quali beni siamo

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stati, siamo o saremo privati, se non veniamo presi in considerazione dai giudici; oppure spiegando che non abbiamo mai goduto, non godiamo o non godremo di benefci, se essi non ci soccorrono447. con questi argomenti ci atteggeremo a persone degne di compassione, e ci guadagneremo la benevolenza dell’uditorio. 49 con argomenti contrari a questi, attaccheremo invece gli avversari, e solleciteremo l’avversione448 nei loro confronti, dimostrando che gli ascoltatori, o i loro cari, hanno immeritatamente ricevuto del male, lo ricevono, o lo riceveranno da essi o dai loro amici. in questo modo, gli ascoltatori proveranno per essi odio e collera. se non è possibile dire questo, metteremo insieme gli argomenti che ci permetteranno di ispirare invidia negli ascoltatori, nei confronti dei nostri avversari: l’invidia è un sentimento vicino all’odio. 50 in breve, essi saranno oggetto di invidia, se riusciamo a dimostrare che godono di un’immeritata prosperità, e che nutrono ostilità per gli ascoltatori: enumereremo i numerosi benefci che hanno immeritatamente ricevuto, ricevono o riceveranno; oppure spiegheremo che non sono stati mai privati in passato di qualche bene, non lo sono ora o non lo saranno in futuro; oppure che non hanno mai subíto qualche male, non lo subiscono o non lo subiranno, a meno che i giudici non li puniscano adesso. 51 in conclusione, con questi argomenti utilizzati negli epiloghi, solleciteremo benevolenza per noi e malvolere per i nostri avversari. tutto ciò che si è

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detto ci permetterà di strutturare il discorso di accusa e di difesa, nel rispetto delle regole. Discorso d’esame 37. 1 la specie del discorso d’esame spesso non esiste come composizione a sé stante, ma in connessione con altre specie, ed è utile soprattutto per contraddire449. ne tratterò tuttavia in breve, affnché non ignoriamo il modo di strutturarlo, se ci capiterà di esaminare le parole, la vita o l’azione di individui, o l’amministrazione di una città. 2 chi fa questo esame, deve cominciare il discorso allo stesso modo di chi è oggetto di prevenzioni: all’inizio addurremo i fondati motivi che faranno sembrare giustifcata la nostra azione, per procedere poi all’esame450. 3 Questi sono i motivi che faranno al caso: nelle assemblee politiche, diremo che non agiamo così per spirito di parte, ma per informare gli ascoltatori, e poi perché sono stati i nostri avversari ad aggredirci per primi451. nelle assemblee private, varrà come motivazione l’inimicizia, o il brutto carattere di coloro che sono oggetto di esame, oppure l’amicizia nei loro confronti: lo scopo è che essi prendano coscienza delle proprie azioni, e non le ripetano. nelle assemblee del popolo, varrà l’argomento della legalità, della giustizia e dell’interesse comune452. 4 costruito l’esordio con questi e simili elementi, presenteremo ed esamineremo in successione ciascuna parola, azione o pensiero, indicando che essi

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sono contrari alla giustizia, alla legalità e all’interesse privato e pubblico, e considerando ogni volta se sono in contrasto tra di loro, o con il comportamento di persone oneste, o con la verosimiglianza453. 5 Per non dilungarci a parlare dei dettagli: tanto più grande sarà il discredito delle persone esaminate, quanto più numerosi saranno i contrasti che riusciremo a dimostrare agli ascoltatori tra abitudini, atti, parole e costumi comunemente apprezzati, e quelli di coloro che stiamo esaminando. 6 si deve condurre l’esame con pacatezza, e non con aggressività: in questo modo i discorsi che si fanno risulteranno più convincenti per gli ascoltatori, e gli oratori si esporranno di meno alle critiche454. Quando avrai esaminato accuratamente tutti questi punti, e dato a essi risalto, fa’ una breve ricapitolazione alla fne, e ricorda all’uditorio quel che si è detto. in conclusione, questa è la struttura che daremo alle varie specie di discorso, per servircene a regola d’arte455. Preparazione dell’oratore 38. 1 sia nel parlare sia nello scrivere, si deve cercare quanto più possibile di conformare le nostre parole ai precetti esposti, e abituarci a metterli tutti immediatamente in pratica456. ne trarremo numerosissimi e ingegnosi spunti per parlare secondo le regole, nei dibattiti privati e pubblici, o nelle nostre relazioni sociali.

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2 Bisogna inoltre aver cura non solo dei discorsi, ma anche della propria vita, regolandola sui principi esposti, perché la condotta di vita porta un contributo alla capacità di persuadere, e alla conquista di una buona reputazione457. 3 Prima di tutto devi suddividere la materia secondo il sistema generale di divisione che si è appreso, individuando ciò di cui devi occuparti per primo, per secondo, per terzo o per quarto458. Poi devi prepararti, come abbiamo esposto a proposito degli ascoltatori nell’ambito dell’esordio459. 4 ti guadagnerai la benevolenza, se manterrai gli impegni e conserverai gli stessi amici per tutta la vita, e se emergeranno la coerenza dei tuoi comportamenti in ogni circostanza, e il ricorso agli stessi principi. ti si presterà attenzione, se tu intraprendi azioni importanti, nobili, e utili a molti460. 5 Una volta che l’uditorio sia ben disposto, approverà, quando tu arrivi a parlare delle azioni, quelle capaci di allontanare i mali e di procurare i beni, considerandole vantaggiose per sé461; e disapproverà quelle che portano a risultati contrari. 6 le azioni devono avere le stesse qualità dell’esposizione, che deve essere rapida, chiara e convincente462. Riuscirai ad agire in modo rapido, se non cerchi di fare tutto nello stesso tempo, ma se procederai nell’ordine in cui le cose si presentano, una dopo l’altra463; 7 in modo limpido, se non interrompi improvvisamente l’azione per passare ad un’altra, prima di aver completato la prima464; in modo credibile, se non agisci in contrasto con il tuo carattere, e

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inoltre se non fai delle stesse persone contemporaneamente i tuoi nemici e i tuoi amici465. 8 Quanto alle argomentazioni tenteremo, quando si tratta di cose di cui abbiamo una conoscenza, di agire attenendoci a ciò che sappiamo; quando invece siamo nell’ignoranza, ci regoleremo su ciò che per lo più accade, perché in questi casi è più sicuro agire guardando a ciò che è abituale466. 9 Riguardo alla contesa con gli avversari, se è verbale, daremo garanzia da parte nostra a partire dalle parole che abbiamo pronunciato; se si tratta di contratti, faremo altrettanto, se li concludiamo sulla base di leggi non scritte o scritte, con il supporto dei testimoni migliori, e in un defnito limite di tempo467. 10 con l’epilogo, richiameremo alla memoria le cose dette, ripetendole succintamente; ciò che abbiamo fatto in passato lo ricorderemo invece a partire da ciò che facciamo adesso, quando le nostre azioni sono le stesse, o simili alle precedenti468. 11 l’uditorio avrà un atteggiamento amichevole nei nostri confronti, se facciamo cose da cui riterrà di aver ricavato benefci, o di ricavarne ancora nel presente o nel futuro. Realizzeremo grandi cose, se intraprendiamo azioni che determinano molti risultati positivi469. È così che bisogna regolare la propria condotta di vita; quanto alla pratica dell’oratoria, la trattazione che precede sarà la base da cui partire470.

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Miscellanea [Culti 12 come si è detto, bisogna celebrare le cerimonie sacre, con rispetto verso gli dèi, con moderazione nelle spese, magnifcenza nell’allestimento dello spettacolo, e in modo militarmente utile. saranno celebrate nel rispetto degli dèi, se faremo secondo la tradizione; moderate nelle spese, se tutto ciò che è portato in processione non grava sulla spesa complessiva; splendide e spettacolari, se vengono preparate con magnifcenza; utili militarmente, se cavalieri e opliti partecipano armati alla processione471. 13 le cerimonie religiose così allestite saranno eseguite nel rispetto degli dèi. Rapporti di amicizia stabiliremo relazioni di amicizia con chi ha dei modi di vita simili ai nostri, con chi ha gli stessi interessi e con coloro con cui dobbiamo cooperare per questioni di grande importanza: l’amicizia basata su questi presupposti è la più duratura472. Alleanze 14 Bisogna allearsi con uomini che hanno il più alto senso della giustizia, che dispongono di una potente armata, e che abitano vicino; chi ha requisiti opposti, dovrà essere nostro nemico473. Guerra 15 Bisogna fare guerra contro coloro che tentano di danneggiare la città o i suoi amici o i suoi alleati474.

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Difesa del territorio 16 dobbiamo assicurare noi stessi la difesa del territorio, oppure per mezzo di alleati o di mercenari: la cosa migliore è difenderlo da sé; come seconda opzione è da considerare il ricorso ad alleati, come terza a mercenari475. Risorse fnanziarie 17 Riguardo alle risorse fnanziarie, la cosa migliore è provvedervi con le nostre entrate individuali o con i nostri possedimenti; secondariamente, con le imposte sulla proprietà; infne, con il servizio pubblico: i poveri offrono il servizio delle loro persone; gli artigiani, le armi; i ricchi, il loro denaro476. Costituzioni 18 Per quanto riguarda la costituzione, la democrazia migliore è quella in cui le leggi attribuiscono le cariche ai migliori, e in cui il popolo non è privato del voto per alzata di mano né del voto segreto; la peggiore è quella in cui le leggi consentono al popolo di oltraggiare i ricchi477. ci sono due tipi di oligarchie: una è fondata sull’associazione politica; l’altra sul censo478. Alleanze 19 È necessario farsi degli alleati, quando i cittadini non sono in grado da soli di proteggere la loro terra e le loro fortezze, o di tenere lontani i nemici479. si deve rinunciare all’alleanza, quando non c’è necessità di concluderla, o quando i potenziali alleati

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sono troppo distanti, e non possono arrivare in tempo utile480. Il buon cittadino 20 Un buon cittadino è chi procura alla propria città gli amici più utili, e il minor numero possibile di nemici o i nemici meno agguerriti; chi assicura considerevoli entrate senza confscare i beni di nessun privato; chi si comporta rettamente e per questo sottopone a esame chi ha danneggiato la comunità. Doni e relazioni 21 i doni si fanno sempre o nella speranza di trarne un vantaggio, o come ricompensa per benefci ricevuti. i servigi si rendono sempre per ottenerne un guadagno o una onorifcenza, o per puro piacere o per paura. accordi si stringono sempre o per libera scelta o contro la propria volontà: si agisce sempre o per costrizione o per convinzione o per inganno o per un pretesto481. Guerra 22 Quando si combatte, si vince in genere o per fortuna, o per il numero e la forza fsica dei combattenti, o per le abbondanti risorse fnanziarie, o per la posizione favorevole, o per il valore degli alleati, o per la capacità del comandante482. 23 ci si convince della necessità di abbandonare i propri alleati, o perché è più vantaggioso fare così, o perché la guerra è arrivata al termine.

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Giusto comportamento 24 agire in modo giusto signifca uniformarsi ai costumi tradizionali della città, ubbidire alle leggi, tener fede agli accordi privati. Valori 25 il corpo si avvantaggia di una buona costituzione, della bellezza, della forza, della salute; l’anima, della sapienza, dell’oculatezza, del coraggio, dell’equilibrio, del senso di giustizia; entrambi, corpo e anima, si avvantaggiano delle ricchezze e degli amici. nocivo è il contrario di tutto questo483. Per una città è utile una moltitudine di bravi cittadini484.]

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note al testo 1 Il titolo dell’opera deriva dall’intestazione della lettera. la formula di saluto rinvia alle lettere di Platone; vd. in particolare la Lettera III 315 a-b («sarebbe la scelta migliore se io cominciassi la mia lettera proprio con queste parole: Plavtwn Dionusivw≥ caiv­ rein. o piuttosto è meglio che incominci con la solita formula eu\ pravttein, con la quale uso aprire le lettere dirette agli amici?»); Diogene laerzio, Vite dei flosof III 61 (sul passo di Demetrio, Lo stile 228; vd. la nota 11). essa non si legge nel corpus delle lettere di aristotele, tranne nella lettera apocrifa, cui si fa forse riferimento più avanti (vd. la nota 17). l’uso del pronome personale prima al singolare (moi) e poi al plurale (hJma`~), e del verbo dialevgesqai potrebbero costituire una voluta allusione al fatto che aristotele era a capo di una scuola, e alla consuetudine dell’intrattenimento flosofco. Chiron commenta che l’impressione di autenticità comunicata da questi dettagli è rovinata dal costante riferimento a Isocrate, nel seguito (p. 117, ad loc. – come nell’introduzione, il riferimento all’edizione di Chiron è dato con il solo nome dell’editore). In particolare, l’autore giocherebbe sulla polisemia del termine lovgo~ (parola, discorso, enunciato, ragione, eloquenza), riprendendo così l’assimilazione isocratea tra pensiero ed eloquenza (cfr. 1421 a 16; Isocrate, Antidosi 253-257). In realtà si tratta di un topos molto diffuso (cfr. per es. tucidide, La guerra del Peloponneso II 40 s.), soprattutto in ambito retorico. In tutta la lettera, d’altra parte, il ricorso a questa ‘parola’ dà profondità e pregnanza ai concetti evocati (vd. per es. 1420 a 22; b 12; b 14). Il signifcato del termine politikov~ è diverso, come si è detto nell’introduzione, rispetto all’uso che se ne fa nel trattato: nella lettera, sembra indicare l’eloquenza politica nel senso moderno del termine, cioè l’eloquenza deliberativa dei Greci, in opposizione a quella giudiziaria (vd. anche 1421 b 3 s.).

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note al testo

nella lettera, che ha la funzione di dedica e di prefazione, e dalla quale l’opera appare come scritta da aristotele su commissione di alessandro, si notano, osserva Chiron, sia la goffaggine sia l’abilità del falsario. la sua capacità si rivela nelle studiate allusioni a fatti storici, che diano l’impressione dell’autenticità, oppure nel tentativo di creare dei rapporti, degli echi, fra la lettera e il trattato. la menzione dei discorsi politici (1420 a 7 s.) sembra coincidere con l’inizio del trattato, in cui si propone un’analisi dei discorsi politici (1421 b 7): «Mais de l’un à l’autre endroit, le sens de l’adjectif politique change: il paraît dans la lettre désigner le politique au sens moderne du terme, d’où un glissement possible du côté de l’éloquence royale, alors qu’au début du traité il désigne tous les discours qui sont en rapport avec l’activité de citoyen et recouvre à ce titre tant le délibératif que le judiciaire, que l’éloge, le blâme ou l’examen» (2002, p. 67). D’altra parte, appare inadeguato e goffo il modo in cui si cerca di stabilire un raccordo, che appare inesistente o molto labile; l’opera, che si fnge dedicata a un monarca, si inquadra essenzialmente nell’eloquenza praticata nell’ambito delle istituzioni democratiche ateniesi del IV secolo a.C. (tranne brevi accenni al governo oligarchio – 1424 a 39 s.): associando strettamente la padronanza dell’eloquenza all’esercizio del potere monarchico (1420 a 17), la lettera sembra invece promettere consigli «sur l’éloquence autocratique» (vd. Chiron 2002, p. 56 s.; 2003, p. 558; spengel p. 93 – come nell’introduzione, si cita dalla ristampa del 1981). Barthélemy saint-Hilaire sottolinea effcacemente l’inadeguatezza della lettera: «Dans cette lettre, fraude évidente d’un faussaire très-peu adroit, aristote est censé écrire à son élève alexandre, qui est alors en asie. l’ancien précepteur traite le vainqueur de la Perse et le vengeur de la Grèce comme un véritable écolier; et les conseils qu’il lui donne, en lui reccomandant l’étude de la rhétorique, sont pédantesques et ridicules. l’auteur inconnu qui a fabriqué cette pièce suppose qu’alexandre, au milieu même de son expédition, a plusieurs fois écrit au philosophe pour le presser de lui envoyer cet ouvrage» (1870, II p. 156). 2 Il nesso ha creato delle diffcoltà interpretative, dovendosi riferire non al presente, ma a un lasso di tempo anteriore (cfr. l’ementamento ejn touvtw≥ toi`~ crovnoi~ segnalato da spengel, p. 94;

note 2-7

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Wendland 1904, p. 500 e n. 2; Chiron 2002, p. 61). Chiron intende: «si j’ai alors différé», pur considerando la possibilità di un uso tardo del dativo (per il quale rinvia a J. Humbert, Syntaxe grecque, Paris 19723, p. 293 s.). 3 la necessità, per un sovrano, di essere un buon oratore è più volte richiamata nell’antichità. Il riferimento all’abbigliamento esteriore, da curare in vista di un modo di porsi o imporsi, sembra rinviare a Isocrate (vd. A Nicocle 32). anche l’arte dei rapsodi richiede la cura e l’ornamento del loro corpo, perché essi appaiano il più possibile curati, e attenti al loro aspetto (Platone, Ione 530 b). Barthélemy saint-Hilaire osserva, in calce alla sua traduzione («De même, en effet, que tu cherche toujours à te distinguer du reste des hommes, par le vêtement plus somptueux, il est tout simple aussi que tu vises à te rendre maître des plus glorieux effets de l’éloquence»), che le idee espresse sembrano «bien ridicules», quando si pensa che si tratta di due personaggi come alessandro e aristotele: «le faussaire est bien maladroit, et connaît bien mal les choses» (1870, II p. 185 s.). si ignora tra l’altro, osserva Chiron, che nel periodo della campagna d’asia, i rapporti fra aristotele e alessandro erano cambiati: l’esortazione fatta ad alessandro di consacrarsi all’eloquenza politica, di conformare l’abilità oratoria allo splendore della veste, di non lasciarsi vincere dal primo venuto nell’eloquenza può apparire «indiscrète et irrespectueuse» (2002, p. 57). osservazioni simili fa Rackham nell’introduzione alla sua edizione (p. 259 – qui e altrove si cita dalla rist. del 1957). 4 la perifrasi e{xi~ tou` swvmato~ appare un tratto linguistico tardo (vd. Chiron 2002, p. 61). 5 Cfr. 1422 a 2-4; 1424 a 9-12. l’autore tenta con queste citazioni e anticipazioni di creare raccordi fra la lettera e il trattato. ateneo attribuisce questa defnizione ad aristotele (I sofsti a banchetto XI 508 a: novmo~ gavr ejstin, w{~ fhsin ∆Aristotevlh~, lovgo~ wJrismevno~ kaq j oJmologivan koinh;n povlew~, mhnuvwn pw`~ dei` pravttein e{kasta); vd. Chiron, pp. XlV; lIII; 2002, p. 67. 6 le linee 1420 b 5-11 trovano un confronto in Isocrate, Nicocle 7 (= Antidosi 255). 7 Isocrate ricorda a nicocle che i costumi di un popolo assomigliano a quelli di chi li governa, da qui il consiglio a dare un esempio di equilibrio (A Nicocle 31; cfr. 11), e sottolinea che il popolo

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note al testo

tende spontaneamente a conformare la propria vita a quella del sovrano (Nicocle 37 s.). 8 Il verbo kalligrafei`n è di uso tardo (vd. per es. [longino] Il sublime 33, 5; cfr. Chiron 2002, p. 61). la presenza del termine stoicei`on (ombra dello gnomone, elemento, lettera) contribuisce ad arricchire il senso, quasi che si trattasse non solo di un’applicazione di certi principi nella propria vita, ma di tracciare concretamente un proflo (vd. sánchez sanz 1989, p. 46, n. 2: «podría consistir tanto en una biografía o semblanza literaria como en una representación pictórica»). Resta tuttavia qui prevalente il signifcato che il termine assume nella scienza e nella flosofa. 9 Il termine mhtrovpoli~ (1420 b 22) è correntemente utilizzato in greco anche nel suo signifcato metaforico, così come ajkrovpoliı (1421 a 1). 10 nell’Areopagitico (13), Isocrate afferma che il successo è appannaggio di chi sa amministrare bene la propria città, e non di chi si rinchiude tra mura possenti e si circonda di un gran numero di uomini. Chiron ritiene che il passo contenga anche un elogio della diplomazia, più effcace della forza (p. 118, ad loc.). 11 Il desiderio di essere brevi e la preoccupazione di essere accusati di dilungarsi su idee ampiamente condivise sono espressi frequentemente; vd. per es. Isocrate, Lettera a Filippo 13; Antidosi 215; Demetrio, Lo stile 228. Quest’ultimo autore, dopo aver trattato dello stile semplice (ijscnov~), dà consigli su come scrivere le lettere (223-235): «la lettera dev’essere breve e formalmente concisa. le lettere eccessivamente lunghe e stilisticamente troppo enfatiche in verità non sono proprio lettere, ma trattati con apposta la scritta “salve” – caivrein, come molte lettere di Platone e quella di tucidide» (228; sulla problematicità del passo, vd. l’esposizione riassuntiva di Marini 2007, ad loc.). nell’esemplifcare, attingendo a vari autori, come è sua abitudine, Demetrio fa spesso riferimento ad aristotele: «Poiché talora scriviamo a città e a sovrani, dobbiamo elevare un po’ il tono della lettera – perché bisogna tener presente chi è il nostro destinatario – elevarlo sì, ma non al punto da scrivere un trattato invece di una lettera, difetto che presentano, ad esempio, le lettere di aristotele ad alessandro [Lettera t 13a, p. 14 Plezia] e la lettera di Platone agli amici di Dione [Lettera VII]» (234).

note 8-12 12

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la posizione di privilegio che l’uomo ha nei confronti degli altri animali, in quanto possessore del logos, è un tema comunissimo (vd. per esempio aristotele, Politica I 14, 1253 a 7-18), anche se agli animali può essere riconosciuta una razionalità, o in ogni caso delle abilità e anche delle qualità specifche (vd. per es. aristotele, Ricerche s. an. I 15, 494 b 18; IX 1, 608 a 11-20; b 4-6; Riproduzione d. an. III 2, 753 a 11-14; V 2, 781 b 17 s.; i due trattati di Plutarco: Le bestie sono esseri razionali; Il cibarsi di carne). In questo passo è stata colta in particolare una reminiscenza del Protreptico di aristotele, citato da alessandro di afrodisia e da Giamblico: «Ciò per cui differiamo dagli altri animali risplende solo in questo genere di vita, nel quale non c’è nulla di casuale o di non avente un grande valore. anche in quelli infatti vi sono alcuni piccoli sprazzi di ragione e di saggezza, ma essi sono del tutto privi della sapienza teoretica, [che è propria solo degli dei,] così come nelle sensazioni e negli istinti l’uomo è inferiore a molti animali per precisione e per forza» (fr. 29; la traduzione è di enrico Berti – 2000, p. 21, condotta sul testo di Düring 1961). sulla base del frammento si è anche proceduto a emendare il testo (vd. Rashed 2000, p. 29 ss.; Chiron, ad loc.; 2002, p. 68 ss.); gli editori segnalano che le linee 8 tou`to – 9 ajnqrwvpwn non sono tradotte da Francesco Filelfo, e sono espunte da Buhle (vd. Chiron, ad loc.; cfr. Fuhrmann 2000, ad loc. – nel seguito, l’edizione di Fuhrmann, cui si fa riferimento, è la seconda del 2000; solo in alcuni casi si rinvierà esplicitamente alla prima, del 1966). Marwan Rashed, mettendo in evidenza l’eterogeneità del passo della Retorica ad Alessandro, si dichiara a favore di una datazione della lettera tra la fne del I e la metà del II secolo d.C. Gli elementi estranei che vi sono introdotti (per esempio la tripartizione platonica, vd. infra l’osservazione di spengel) permettono di identifcare la personalità del falsario: «non seulement il sait que le Protreptique est une oeuvre exotérique mais, surtout, il lui paraît encore naturel d’en supposer la connaissance à son lecteur, ainsi que de justifer par cette connaissance la lecture d’une oeuvre ésotérique et savante d’aristote». tutto il resto della lettera apocrifa dimostra d’altra parte, continua Rashed, «qu’il ne comprend ni ne connaît le stagirite. Il y a dans ces conditions fort à parier que la phrase du Protreptique qu’il utilise provient non pas d’une

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note al testo

étude sérieuse de cette oeuvre, mais d’une maxime répandue à son époque. Ce n’est sans doute pas un hazard si elle revient deux fois sous la plume d’alexandre et, surtout, si elle est perçue dans le De ideis comme emblématique de la philosophie aristotélicienne. elle devait, vers la fn du IIe siècle, être quasiment passée en proverbe» (2000, p. 32 s.). anche Chiron sottolinea che l’operazione, volta a conferire autenticità alla lettera, risulta «peu susceptible de tromper de vrais lecteurs d’aristote»: si tratta della sola citazione di un’opera autentica di aristotele, ma il senso viene deformato (2002, p. 69 s.). essa può in ogni caso contribuire a far luce sull’epoca in cui il falsario è vissuto: un’epoca «de syncrétisme», in cui la formazione retorica non è separata da quella flosofca; egli deve aver scritto in un momento particolare nella storia della ricezione dell’opera di aristotele: «il est douteux qu’un auteur antérieur au médio-platonisme ait pu fondre ainsi des thèmes platoniciens et aristotéliciens» (2002, p. 70 s.). spengel (p. 97) coglie nella successione dei termini epithymia, thymos e logos (1421 a 10 s.) un’eco della tripartizione platonica dell’anima; vd. Repubblica IV 436 a: «Questo è già più diffcile, capire se compiamo ogni azione con la stessa parte, o se ve ne sono tre e con l’una compiamo un’azione, con un’altra un’altra, cioè con la prima apprendiamo, con la seconda di quelle che sono in noi ci adiriamo, infne con una terza desideriamo i piaceri del cibo, della generazione e tutti quelli loro apparentati, oppure agiamo in ognuna di queste attività con l’anima intera fn dal primo impulso. Questo sarà diffcile da determinare a un livello adeguato» (trad. di M. Vegetti, Milano 2007). 13 Cfr. aristotele, Etica Nicomachea I 6, 1098 a 16-20; 10, 1099 b 26-1100 a 5; 13, 1102 a 13-17. 14 Isocrate, in una breve lettera indirizzata ad alessandro, si felicita con lui del suo rapporto con gli ateniesi (di una parte, almeno), e nell’elogiarlo lo esorta ad abbandonare lo studio dell’eristica e della dialettica per dedicarsi all’eloquenza deliberativa (Lettera V). Chiron ritiene che il redattore di questa lettera ignori la rivalità tra Isocrate e le altre scuole flosofche, riguardo all’educazione di alessandro, e conclude: «Imaginer qu’aristote ait pu adresser au jeune alexandre une recommandation si isocratique d’esprit [...] n’est pas le signe d’un grand discernement» (p. 118 s., ad loc.). In

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ogni caso, la raccomandazione è qui più generica e non entra nel merito dei contenuti. Certamente isocrateo è l’accento posto sulla paideia; vd. Antidosi 181 s. Cura dell’anima e cura del corpo sono d’altra parte principi più generalmente validi, e al centro della rifessione flosofca. 15 anche la visione, più penetrante, che si può avere con gli occhi dell’anima è un motivo ricorrente in flosofa, vd. per es. Platone, Repubblica VII 519 b; 533 d; 540 a; aristotele, Metafsica A 1, 993 b 9-11. Il termine ojxudorkei`n ricorre solo qui nel C.A. (vd. Bonitz 1961, p. 517 b 2). 16 Vd. Isocrate, Nicocle 9; Antidosi 253-257; cfr. Gorgia, Elogio di Elena 8. 17 si riprende un diffuso motivo dossografco, con qualche deformazione (vd. Chiron, p. XlVI, n. 92). Plutarco informa che Filippo scelse aristotele come precettore del fglio e che assegnò loro il santuario delle ninfe vicino a Mieza, come luogo per studiare, discutere e passeggiare in viali ombreggiati. ad alessandro sarebbero state insegnate non solo le scienze morali e politiche, ma anche le materie più diffcili, che si potevano apprendere solo dalla viva voce del maestro. «Quando più tardi alessandro passò in asia, fu informato che aristotele aveva pubblicato alcuni scritti concernenti queste materie. scrive allora al maestro una lettera in difesa della flosofa, ove lo rimprovera in tutta franchezza. ecco una trascrizione della lettera: “alessandro ad aristotele, salute – ∆Alevxandro~ ∆Aristotevlei eu\ pravttein. non hai fatto bene a pubblicare le tue dottrine acroamatiche. In che cosa ci distingueremo dagli altri, se le dottrine in cui fummo educati saranno comunicate a tutti? Io preferirei distinguermi per la conoscenza delle cose più che per la potenza delle armi e di un impero. sta’ sano” – “Errwso» (Vita di Alessandro 7, 6 s. – 668 B; trad. di Carlo Carena, Milano 1974; cfr. la risposta di aristotele, ibid. 7, 8 s. – 668 B-C). anche aulo Gellio distingue fra insegnamenti destinati a un ristretto numero di discepoli, scelti fra i migliori, e insegnamenti cui tutti potevano essere ammessi, sottolineando l’analogia con la distinzione aristotelica fra libri exoterici e libri acroatici (Notti attiche XX 5, 1-6). «Il re alessandro apprese che aristotele aveva divulgato i libri acroatici, nel tempo in cui egli teneva quasi tutta

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l’asia coi suoi eserciti e incalzava lo stesso Dario con battaglie e vittorie; pur essendo in mezzo a tante preoccupazioni, inviò una lettera dicendo che non aveva agito rettamente pubblicando in libri e così rivelando al pubblico quegli insegnamenti acroatici da cui egli stesso era stato istruito. “Infatti” diceva “in quale modo potrò eccellere sugli altri, se quegli insegnamenti che da te ho ricevuto diverranno proprietà comune di tutti? Io preferirei essere il primo per il sapere, piuttosto che per la potenza e la ricchezza». seguono la risposta di aristotele e la citazione delle due lettere in greco (le formule di saluto e di congedo sono in entrambe rispettivamente eu\ pravttein e e[rrwso), il cui testo è tratto, dichiara aulo Gellio, «dal libro del flosofo andronico» (ibid. XX 5, 7-12; cfr. aristotele, Lettera F 1, p. 28 Plezia). 18 Cfr. licurgo, Contro Leocrate 48. Il motivo topico dell’attaccamento degli autori alla propria opera è messo subito dopo (1421 a 32 ss.) in contrasto con l’attività di quei compilatori che saccheggiano le opere altrui, danno ad esse il proprio nome e le vendono poi al miglior offerente. si può notare l’incoerenza di questa denuncia (o l’ingenuità o la goffaggine del falsario), con quanto si fa dire ad aristotele, poco più avanti (1421 a 38 ss.): egli avrebbe selezionato e raccolto il materiale dalle opere migliori di altri retori. D’altra parte è un motivo ricorrente nella tradizione pseudoepigrafca, per cui il falsario si difende preventivamente accusando gli altri di fare ciò che fa egli stesso (vd. Chiron 2002, p. 70). Roberto Velardi esclude che l’espressione tw`n metecovntwn possa riferirsi a lettori o fruitori dell’opera, e propone due possibili interpretazioni: «(1) ‘opere composte da altri autori e fatte passare come proprie’; (2) ‘proprie opere fatte passare come opera di un altro’». l’analogia sarebbe così «tra genitori (a) di fgli naturali (B) e di fgli suppositi (-B), da un lato, e autori (a1) di opere originali (B1) e di opere non originali (-B1), dall’altro» (2000, p. 209 s.). 19 Per i propri discorsi, per le proprie parole; si può intendere: ‘per le idee, o teorie, espresse nei propri discorsi’. Probabilmente, ritiene Chiron (p. 119, ad loc.), ci si riferisce a socrate, o al processo fttizio per il quale è stata composta l’Antidosi di Isocrate. alcuni interpreti suppongono due soggetti diversi del verbo («just as parents die for children, so do inventors for their words»

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– Mirhady); oppure che ci si riferisca unicamente agli inventori («for discoverers have given their lives on behalf of their theories, as on behalf of children» – Rackham); oppure agli uomini in generale («For men have died in defence of their words, as they would die [have died, nell’edizione rivista] for their offspring» – Forster). Chiron traduce: «comme on le fait pour des enfants, en effet, on sacrifce sa vie [in alternativa: «ils ont sacrifé leur vie ...»] à ses discours [o: «à ses idées]». 20 Rimproveri simili sono rivolti da Isocrate agli eristici, che si proclamano didaskaloi e si fanno pagare solo tre e quattro mine (Contro i sofsti 3-8; il numero dei didaskaloi aveva portato a un abbassamento dei prezzi: Gorgia esigeva cento mine, Isocrate non più di dieci; vd. la nota ad loc. nell’edizione curata da G. Mathieu e da É. Brémond, Paris 19724). non si sa a chi si alluda; la dicitura ‘sofsti di Paro’ sembrerebbe proverbiale (cfr. l’uso del verbo anapariazein, nel senso di agire come i Parii, cioè venendo meno agli accordi, violandoli; vd. eforo, 70 F 63, II a p. 59 FGrHist). si è proposta, come confronto, la fgura di eveno di Paro, quale appare dall’Apologia di Socrate di Platone (vd. spengel p. 98: «acute H. Knebel interpres ex Platonis apologia socratis, in qua euenus Parius ceteris sophistis virtutis doctrinam minore pretio professus esse dicitur, hoc fctum esse coniicit»). nell’Apologia, socrate domanda a Callia chi sceglierebbe per educare i suoi due fgli nella conoscenza dell’arete propria dell’uomo e del cittadino: «– C’è qualcuno che ha tale conoscenza, oppure non c’è? [...] e chi è, di dov’è e a che prezzo insegna? – È eveno, o socrate, è di Paro e vuole cinque mine. Io considerai come fortunato eveno, se possiede veramente tale arte e se la insegna a un prezzo così modico» (20 b-c). si avrebbe pertanto, anche in questo caso, un amalgama di reminiscenze provenienti da fonti diverse. Chiron, considerando la lettera databile probabilmente nel secondo secolo, nel periodo della seconda sofstica, si chiede quali possano essere state le motivazioni del falsario: «nous avons tendance à suivre une piste qu’il indique lui-même dans sa diatribe contre le “sophistes de Paros”: l’argent. Il ne fait guère de doute que l’attribution à aristote du traité ne pouvait qu’en augmenter la valeur» (2002, p. 72).

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Il trattato è visto come un giovane uomo o una giovane donna (spengel, p. 98) da salvaguardare e da guidare verso l’età adulta, riprendendo l’assimilazione tra genitori e inventori, poco prima proposta. Chi scrive si preoccupa di raccomandare a propria volta di vegliare sulla paternità e sull’integrità del libro, come alessandro ha chiesto di averlo in esclusiva (1421 a 26 s.). l’auspicio della fama è un topos, quando ci si riferisce ai fata di un’opera; d’altra parte l’augurio di una sua diffusione, se così si deve intendere, sembrerebbe in contraddizione con la richiesta di segretezza (vd. anche la nota seguente). Barthélemy saint-Hilaire commenta così questo passo: «Il serait diffcile de pousser plus loin le mauvais goût, la fausseté des images et l’affectation pédantesque. on a peine à comprendre comment, devant un pareil style, quelques éditeurs ont jamais pu se laisser prendre à un piège aussi grossier, et croire un instant que cette lettre pouvait être d’aristote» (1870, p. 190 s.). Velardi parte dall’opinione espressa da Wendland, nella sua monografa su anassimene di lampsaco (1905), secondo cui la lettera costituirebbe una delle versioni relative al destino degli scritti aristotelici, correggendola in parte. la lettera presenta alessandro non soltanto come ispiratore e destinatario dell’opera, ma anche come promotore del suo deposito in biblioteca: «È questa la tesi che il suo autore tenta di accreditare, non quella che sia stato aristotele a chiedere ad alessandro di mantenere il segreto sull’opera, come vorrebbe il Wendland» (2000, p. 208; cfr. pp. 216 e 224, per l’analogia tra la dichiarazione di paternità e deposito in biblioteca, e la consuetudine arcaica del deposito presso un tempio). Velardi dà rilievo alla metafora genitore/autore, e coglie nel verbo apokeryttein (1421 a 34) un signifcato tecnico (esso rinvierebbe all’istituto dell’apokeryxis): «In questa ulteriore accezione il verbo assume il signifcato di ‘dare pubblico annuncio del disconoscimento di paternità’. nel passo in esame dovremo vedere presenti entrambi i signifcati, che si adattano il primo al referente reale, il secondo al contesto metaforico» (2000, p. 211). Ideatore della lettera, sostiene Velardi, è lo stesso anassimene di lampsaco che, attraverso l’allegoria dell’autore come genitore, dichiara la propria disponibilità a ‘morire’ come autore, rivelandosi così un «falso falsario» (p. 222); l’obiettivo di anassimene è duplice: assicurare alla

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propria opera protezione nella biblioteca di alessandro, e la sua sopravvivenza, attribuendola ad aristotele. la Retorica autenticamente aristotelica ha un’impostazione teorica e storica, la Retorica ad Alessandro ha un carattere manualistico; nonostante le loro differenze, le due opere «possono risultare complementari piuttosto che alternative» (p. 226; sull’abilità di anassimene come falsario, vd. pp. 212 ss.; 224 ss.). Cfr. Chiron 2007, p. 104. solo in una parte della tradizione si legge crhvmasi (1421 a 36); spengel osserva: «crhvmasi] ineptum est, neque cum in multis desit codicibus autorem dedisse puto; veluti virginem hanc artem alexandrum tueri vult, vid. Victorii Var. lect. XIV, 11» (p. 98). 22 nicanore è forse un alto dignitario alla corte di alessandro (Chiron, p. 120, ad loc.; cfr. Velardi 2000, pp. 216 ss.; 223: alessandro è il committente e il promotore del deposito, nicandro è l’intermediario). tutta questa parte è stata giudicata problematica, e non chiara; in particolare ci si domanda quale posto abbia, all’interno del trattato che segue, o in aggiunta a esso, il materiale raccolto, inviato anch’esso o concepito come compilazione preparatoria. signifcative ed icastiche sono le considerazioni di Barthélemy saint-Hilaire (vd. la nota 21) e di spengel («aut ego stupidus et talpa caecior sum qui nullum horum sensum videam, aut ineptus fuit auctor, qui quae nemo intelligere posset, scriberet» – p. 98); Vd. anche Wendland 1904, p. 505 ss.; Chiron, p. 119 s., ad loc.: «on se demande quel est le lien exact entre le contenu annoncé de l’envoi (le traité seul ou le traité et d’autres documents?) et le traité qui suit ou telle ou telle de ses parties; on se demande pourquoi nul rappel n’est fait – ne serait-ce que sous la forme d’une formule de politesse – de la fction de départ (les correspondants supposés ne sont autres qu’aristote et alexandre empereur). on se demande comment, à quelques lignes de distance, “aristote” peut réclamer le secret pour son travail et avouer ingénuement avoir procédé à la compilation de travaux antérieurs. Même une traduction littérale fait diffculté». 23 Vd. Wendland 1904, p. 513 ss.; solmsen 1932, p. 144 ss.; 1934; Barwick 1967, p. 47 ss.; Patillon 1997, p. 123 ss.; Velardi 2000, p. 216 ss.; Chiron, p. lX ss.; 2003, p. 566 ss. Vd. anche, nell’introduzione, la nota 17.

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note al testo

Vd. Wendland 1904, p. 509 ss.; Wilcox 1943; Cole 1991; Patillon 1997, p. 123 ss.; Chiron, p. lXVI ss. 25 Chiron sottolinea il fatto che qui si distingue tra discorso politico e discorso giudiziario, mentre nel resto del trattato la categoria del discorso politico ingloba quella del discorso giudiziario, deducendo che il termine politikov~ non è usato nello stesso signifcato: «Cette dichotomie constitue peut-être un indice sur la théorie des genres dans un état antérieur du traité» (p. 7, ad loc.). 26 l’impiego del termine uJpovmnhma (nota, commentario) per defnire l’opera (in precedenza si è parlato di biblivon, lovgoi, bi­ bliva) potrebbe giustifcarsi, ipotizza Chiron (p. 7, ad loc.), con l’intento di prevenire una possibile obiezione da parte del lettore: solo questo suo stadio di elaborazione, di versione preparatoria, piuttosto che quello di una vera e propria edizione, potrebbe spiegare il perché essa non sia già conosciuta. a meno che non si tratti di una falsa modestia, a conclusione di un discorso rivolto a un personaggio di grande rilievo. 27 la menzione del genere epidittico è stata atetizzata da spengel, che la considera una interpolazione di chi riteneva l’opera autenticamente aristotelica; il suo testo (Duvo gevnh tw`n politikw`n eijs i lovgwn, to; me;n dhmhgorikovn, to; de; dikanikovn) si basa soprattutto sulle testimonianze di Quintiliano e di siriano (vd. il commento, p. 99 s.; cfr. Barthélemy saint-Hilaire 1870, II p. 193 s.; Fuhrmann 1960, p. 12, n. 2; 2000, p. Xl s.; Chiron p. lXXXIX ss.; 2003 – La théorie de l’éloge). le questioni sollevate da questo passo si inseriscono nella più generale problematica riguardante lo stato attuale del nostro testo, la possibilità di accedere al testo supposto originario, l’origine e la motivazione degli interventi, eventualmente successivi e condizionati dalle teorie aristoteliche, la loro tipologia e cronologia: modifche di varia estensione, aggiunte o sottrazioni (vd. nell’introduzione le note 12-14; 18; 20). Un’opinione estrema è espressa da Giuseppe la Bua, che capovolge il punto di vista di spengel: «la menzione dei due gevnh e dei sette ei[dh ha origine in un testo “mutato” e non rispondente alla formulazione originaria dell’opera. [...] Quintiliano sembra portavoce di una tradizione che vedeva in aristotele il protos heuretes della tripartizione retorica. [...] Il proemio dell’opera di anassimene attesta triva gevnh tw`n politikw`n

note 24-27

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lovgwn tra cui proprio il gevno~ ejpideiktikovn che la tradizione riteneva “invenzione” di aristotele; è probabile che il contatto con la tradizione peripatetica abbia determinato una “mutazione” del testo originario, privato del to; de; ejpideiktikovn di origine aristotelica e quindi trasmesso all’interno del flone della tradizione “storica” della retorica così come attestato da Quintiliano. non è possibile chiarire [...] se questa contaminazione e la conseguente atetesi siano avvenute all’interno di una parte della tradizione diretta della Rhetorica ad Alexandrum o a livello di tradizione storica e manualistica, e cioè non direttamente sul testo tràdito poi dalla totalità dei codici ma sul proemio dottrinale presente nei trattati retorici; quali che siano state le modalità conoscitive del testo, la tradizione dell’opera di anassimene avrebbe avuto, per ciò che riguarda la parte iniziale, una duplice sorte, da una parte la presenza del testo originario in un determinato flone, confuito successivamente nella tradizione manoscritta a noi pervenuta, dall’altra l’espunzione di un concetto specifcamente aristotelico, determinata dalla tradizione peripatetica dei genera causarum. Quintiliano e siriano avrebbero conosciuto, quindi, la Rhetorica ad Alexandrum già modifcata nella parte proemiale» (1995, pp. 279-281; cfr. Velardi 2000, p. 202, n. 22; Chiron 2007, p. 103). la distinzione tradizionale fra tre generi è fatta risalire ad aristotele; tucidide distingue nettamente solo fra discorso giudiziario e discorso deliberativo (La guerra del Peloponneso III 44, 4); Isocrate fra discorsi composti sia in vista di agones sia in vista di epideixeis, ribadendo la peculiarità dei propri (vd. per es. Panegirico 11 e 17; Antidosi 1). Diogene laerzio attribuisce a Platone una suddivisione dell’oratoria in sei parti (esortazione, dissuasione, accusa, difesa, encomio e biasimo – Vite dei flosof III 93 s.), che prefgura quella di aristotele e della Retorica ad Alessandro: questa tarda testimonianza assomiglia, osserva Pernot, «à une projection anachronique» (1993, p. 27: i dialoghi platonici distinguono, nell’arte della persuasione, la forma privata e la forma pubblica; quest’ultima comprende i discorsi giudiziari e le demegorie, cioè i discorsi pronunciati nelle riunioni dei cittadini; vd. per es. Gorgia 452 d-e; Fedro 261 a-b; Repubblica II 365 d; Sofsta 222 c-d). aristotele rese sistematica una tipologia già operante; la tripartizione (secondo una modalità ricorrente in vari ambiti indagati da

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aristotele) tiene conto dei destinatari, delle situazioni, e del tempo presente, passato, futuro, e implica diverse fnalità; vd. Retorica I 3, 1358 a 36-b 8: «I generi della retorica sono tre di numero: altrettanti sono infatti i tipi di uditorio. Il discorso consta di tre elementi: colui che parla, ciò di cui si parla, colui al quale si parla. Il fne del discorso è diretto a costui – voglio dire all’ascoltatore. e necessariamente l’ascoltatore è uno spettatore o uno che decide, ed è uno che decide rispetto o agli avvenimenti passati o a quelli futuri. In rapporto agli avvenimenti futuri è il membro dell’assemblea a decidere; riguardo a quelli passati, il giudice del tribunale; riguardo all’abilità dell’oratore, lo spettatore. Pertanto saranno necessariamente tre i generi di discorsi retorici: deliberativo – sumbouleutikovn, giudiziario – dikanikovn, epidittico – ejpi­ deiktikovn». sulla nozione di epideixis (‘dimostrazione, esibizione’, ‘prova di eloquenza’, ‘conferenza’, improvvisazione brillante o lettura di un testo accuratamente preparato, che implica un agon, solo nella misura in cui l’oratore si sforza di sorpassare quelli che hanno trattato il soggetto prima di lui), sulla creazione del genere epidittico e sulle sue caratteristiche, vd. Finckh 1849, p. 8 s.; Hinks 1936, pp. 170; 173 ss.; Buchheit 1960; Pernot 1993, p. 25 ss.; 2006, p. 171 ss.; Kennedy 1994, p. 61 ss.; trevett 1996, p. 375 ss. l’accezione del termine politikos, in questo contesto, è quella di ‘relativo alla vita della città (polis)’, in opposizione al discorso che riguarda l’ambito privato, e che può essere collegato, per esempio, all’attività del flosofo o del medico (vd. sánchez sanz 1989, p. 47, n. 13; Chiron p. XIV e n. 22; 2002, p. 67). I discorsi politici comprendono i discorsi agonistici, in cui si discutono tesi contrapposte, sia di carattere deliberativo (cioè pronunciati davanti all’assemblea del popolo), sia di carattere giudiziario (cioè pronunciati davanti al tribunale), in opposizione a quelli di carattere epidittico o sofstico (vd. Pernot 1993, p. 33, n. 98). Più in generale, si oppongono un’eloquenza ‘d’azione’ a un’eloquenza ‘gratuita’ (vd. Retorica ad Alessandro 1440 b 12 s.). Qui tuttavia, il genere epidittico è compreso tra i discorsi politici: «sous réserve de possibles modifcations apportées au texte primitif, ce pourrait être un signe de l’infuence d’Isocrate pour qui les discours d’apparat, pourvu qu’ils traitent de philosophie poli-

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tique, ne sauraient être soustraits au domaine du réel» (Chiron, p. XIV n. 22). Forster intende il termine politikos nel senso di public, e demegorikos nel senso di deliberative; Rackham, intende rispettivamente: public e parliamentary; sánchez sanz: político e deliberativo; Chiron: politique e démégorique; Mirhady: political e demegoric. Chiron spiega di aver evitato di tradurre demegorikos con déliberatif, termine cui corrisponderebbe piuttosto il greco symbouleutikos, in considerazione anche di un’accezione più ampia di demegorikos, usato per lo più da aristotele in opposizione binaria con dikanikos: nella tripartizione, ricorre invece il termine symbouleutikos (pp. 8, ad loc.; XCII, n. 217). Francesco Filelfo traduce: «tria sunt genera civilium causarum, deliberativum, demonstrativum, iudiciale»; similmente Matteo Franceschi che, come si è accennato, traduce probabilmente dal latino del Filelfo e non direttamente dal greco: «tre generi sono di cause ciuili Deliberatiuo, Dimostratiuo, & Giudiciale». «Il genere giudiziale (dikaniko;n gevnoı, genus iudiciale) con le funzioni dell’accusa e della difesa ha come modello il discorso di un avvocato davanti al tribunale, specialmente nel processo penale. la situazione è caratterizzata da un giudizio da pronunciarsi e da eseguirsi, nel dibattito, da parte dell’arbitro della situazione in conformità alla legge, giudizio che riguarda una fattispecie ormai legata al passato, ma che risulta importante nell’attualità del dibattito». «Il genere deliberativo (sumbouleutiko;n gevnoı, genus deliberativum) con le funzioni del consigliare e del dissuadere ha come modello il discorso del rappresentante di un partito politico di fronte all’assemblea popolare. la situazione è caratterizzata dalla scelta decisiva da compiersi nella discussione, da parte dell’assemblea popolare arbitra della situazione, fra più possibilità di future azioni politiche (per esempio, a proposito di una dichiarazione di guerra a uno stato vicino)». «Il genere epidittico (ejpideiktiko;n gevnoı, genus demonstrativum), con le funzioni della lode e del rimprovero ha come modello il discorso celebrativo di un oratore designato in onore di una persona da festeggiare (quindi da lodare)» (lausberg 2002, p. 19 s.). Dal punto di vista più propriamente letterario, il genere epidittico è quello più interessante; oltre al fatto che gran parte della

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lirica di età arcaica ha per tema l’elogio o il biasimo (che rientrano nel genere epidittico, vd. la nota seguente), il carattere fttizio proprio dell’epideixis fece sì che questo genere potesse essere inteso come comprendente tutti i possibili discorsi, e la fnzione letteraria stessa. Il risultato fu che esso sembrò «appartenere alla letteratura piuttosto che all’argomentazione» (vd. Perelman/ olbrechts-tyteca 1989, p. 52: nonostante questa diffusa opinione, gli autori sono dell’opinione «che i discorsi epidittici costituiscano parte centrale dell’arte della persuasione e che l’incomprensione manifestata nei loro confronti nasca da un falso concetto degli effetti dell’argomentazione»; Pernot 1993, pp. 25-42: opportunamente l’autore mette in evidenza «qu’il s’agit d’une forme, non d’un contenu; le mythe de Protagoras, l’apologue de Prodicos sont des epideixeis au même titre que l’éloge d’Hélène ou de Busiris. l’éloge n’est qu’un des contenus possibles de l’epideixis» – p. 27). 28 la precisazione riguardante la funzionalità (1421 b 11) sembra riferirsi all’exetastikon eidos (cfr. 1445 a 30 s.), ma non si può escludere un riferimento al principio generale di combinazione delle specie (cfr. 1427 b 31 s.): così osservano sánchez sanz (1989, p. 48, n. 14) e Chiron (ad loc.), anche se preferiscono intendere che la possibilità di un uso in autonomia o in combinazione sia riferita solo all’esame. la ripartizione per generi riguarda il contesto in cui si utilizza e si pronuncia il discorso, quella per specie a funzioni più precise. la divisione in sette specie, in cui l’exetastikon eidos, non altrimenti attestato, assume una posizione asimmetrica, costituisce probabilmente la particolarità dottrinale più rilevante del trattato (vd. Fuhrmann 1965, pp. 147 ss.; Chiron, pp. XIV s.; lXXVI; 2003, p. 557; vd. anche qui le note 12 e 13 dell’introduzione). l’elenco sembra articolarsi in tre coppie di specie contrapposte, riferibili ognuna a un genere (nella Retorica di aristotele, il genere deliberativo comprende l’esortazione e la dissuasione; l’epidittico, l’elogio e il biasimo; il giudiziario, l’accusa e la difesa), secondo l’ordine già enunciato, cui segue una settima (considerata non peculiare di un genere: non esiste per sé stessa, ma è utilizzabile insieme con altre specie), che non trova riscontro in aristotele: «Dell’oratoria deliberativa fanno parte tanto l’esortazione quanto la dissuasione, poiché sia quelli che danno consigli a livello

nota 28

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privato sia quelli che parlano pubblicamente fanno sempre o l’una o l’altra di queste due cose. In un processo, abbiamo da un lato l’accusa, dall’altro la difesa: le parti in causa devono necessariamente sostenere o l’uno o l’altro di questi due ruoli. nel genere epidittico rientrano la lode e il biasimo. ognuno di questi generi ha un suo tempo specifco: il futuro per chi consiglia (si consiglia, infatti, esortando o dissuadendo, a proposito di avvenimenti futuri); il passato per chi sostiene una causa (è infatti sempre in relazione ad avvenimenti trascorsi che uno accusa e l’altro si difende); per l’oratore epidittico il tempo più appropriato è il presente (tutti, infatti, lodano o biasimano ciò che esiste), ma spesso egli si avvale anche di altro, rievocando il passato e prefgurando il futuro» (Retorica I 3, 1358 b 8-20). nella testimonianza di Quintiliano la species exquirendi (l’exetastikon eidos) è indicata come parte del genere giudiziario, insieme con l’accusa e la difesa. siriano invece distingue fra le prime sei specie, riguardanti l’oratore, e la settima, riguardante gli ascoltatori che esaminano ogni argomento esposto (Commentari a Ermogene II p. 11, 17-12, 2 Rabe; cfr. il testo dato da Walz, Rhetores Graeci IV p. 60, 9-15). Il termine ejxetastikov~ qualifca qui un eidos della retorica, in modo del tutto specifco e peculiare, come gli studiosi hanno costantemente messo in rilievo: sul procedimento dell’exetasis, l’autore ritorna per defnirne, come per le altre specie, le caratteristiche e l’applicazione nella retorica (1427 b 12-30; 1445 a 30-b 23). In aristotele, la nozione di exetasis appare maggiormente collegata alla dialettica; per una dettagliata analisi delle ricorrenze dei termini exetasis, exetazein, exetastikos sia in Platone sia in aristotele, vd. Maff 1985; Rossitto 1989 (p. 193: «Ciò che manca a proposito dell’ejxetavzein in aristotele e in Platone, ossia il riferimento al suo uso in ambito retorico, si trova invece, curiosamente, nella cosiddetta Retorica ad Alessandro, dove il termine compare addirittura come una delle specie di retorica»). nel passo dei Topici, in cui ci si sofferma sull’utilità del trattato (I 2, 101 a 25-b 4), il termine ejxetastikov~ è riferito alla dialettica. I vantaggi che potranno derivarne sono l’esercizio intellettuale, i colloqui e i contatti con altri, che permettono di discutere e valutare opinioni diverse, le conoscenze di carattere flosofco: deter-

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minante è l’apporto della dialettica, data la sua peculiare capacità esaminatrice, indagatrice: tou`to d j i[dion h] mavlista oijkei`on th`~ dialektikh`~ ejstin: ejxetastikh; ga;r ou\sa pro;~ ta;~ aJpasw`n tw`n meqovdwn ajrca;~ oJdo;n e[cei (I 2, 101 b 2-4). nella Retorica è utilizzato il verbo exetazein, nel defnire compiti e ambiti della retorica e della dialettica: «la retorica è analoga alla dialettica: entrambe riguardano oggetti la cui conoscenza è in un certo qual modo patrimonio comune di tutti gli uomini e che non appartengono a una scienza specifca. Da ciò segue che tutti partecipano in un certo senso di entrambe, perché tutti, entro un certo limite, si impegnano a esaminare, a sostenere un qualche argomento, a difendersi o ad accusare – pavnte~ ga;r mevcri tino;~ kai; ejxetavzein kai; uJpevcein lovgon kai; ajpologei`sqai kai; kathgorei`n ejgceirou`s in» (I 1, 1354 a 1-6). sull’accezione del verbo in questo contesto (i quattro procedimenti potrebbero essere riferiti indistintamente alla dialettica e alla retorica; oppure, i primi due andrebbero riferiti alla dialettica e gli altri due alla retorica), vd. Rossitto 1989, p. 192 s. (l’autrice considera l’exetazein come caratteristica precipua della dialettica: «se questa dell’esordio è l’unica citazione del termine che compare in tutta l’opera, e se essa è riferita alla sola dialettica, si è costretti a concludere non solo che aristotele non tematizza affatto l’uso retorico dell’ejxetavzein, ma che per lui, a rigore, l’ejxe­ tavzein né possiede alcunché di specifcamente retorico, né risulta essere di importanza decisiva per procedimenti di tipo retorico»; cfr. Maff 1985, p. 32); Chiron, p. 120, ad loc. («ejxetavzein [...] prend un sens nettement différent, celui de critiquer, vs soutenir, une thèse»). 29 Il termine dikaiologiva è utilizzato in senso diverso in a e in B (vd. nell’introduzione la supposta soluzione di continuità tra le prime due parti del trattato e l’ultima): «il signife dans a plaidoirie, discours du genre judiciaire, puis dans B argumentation juridique ou qualifcation du fait par opposition aux moyens de persuasion» (Chiron p. XlVIII; cfr. sánchez sanz 1989, pp. 27; 29; 48, n. 15). all’inizio si è parlato di discorsi politici, cioè di discorsi che riguardano la vita della città; per questo, è sembrato sorprendente qui il riferimento a un ambito privato. Per spiegarlo, si è pensato all’infuenza di una suddivisione platonica dell’arte della persua-

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sione in privata e pubblica (vd. la nota 27); oppure all’infuenza di alcidamante (Sui sofsti 9). Cfr. Isocrate, Panegirico 11; Antidosi 3; 38, 42; Demostene, Per Ctesifonte, sulla corona 210. opportunamente, come sembra, Chiron invoca il principio di combinazione delle specie, più avanti espresso (1427 b 30-32), e il fatto che una specie ‘politica’ può avere un uso anche in ambito privato (p. 120 s., ad loc.). nella Retorica, aristotele parla di uso sia privato sia pubblico dei discorsi di esortazione e di dissuasione (vd. la nota 28); l’uso privato di forme concepite per un uso pubblico è d’altra parte una pratica comune, anche al di fuori dell’ambito strettamente sofstico. Fra i vari termini che possono riferirsi in greco alla nozione di ‘contratto’, sono utilizzati nella Retorica ad Alessandro: symbolaion (1421 b 13; 1431 a 17; 1446 a 22 – nel senso di contratto tra privati; 1423 a 25; 1424 b 28 – nel senso di convenzione tra città); una sola volta, syntheke (1424 b 29, vd. la nota 38). non vi compare invece il termine synallagma, più volte utilizzato da aristotele, e di signifcato più ampio (vd. per es. Etica Nicomachea V 5, 1131 a 1 ss.; Retorica I 1, 1354 b 25); il verbo synallattein, ‘stabilire convenzioni o relazioni reciproche’, è usato nell’ultimo capitolo (38), nella sezione ritenuta spuria (1446 b 39). sulla classifcazione aristotelica dei rapporti obbligatori, sul concetto di synallagma, e sui termini utilizzati, fn dall’epoca omerica, per indicare un accordo fra le parti, vd. Biscardi 1982, p. 133 ss. 30 Il valore dei termini duvnami~ e crh`s i~ è pregnante: con essi si indicano, rispettivamente, le qualità inerenti a ciascuna specie, le proprietà da cui derivano specifche funzioni e che contribuiscono alla defnizione delle singole specie, e l’utilizzazione che se ne può fare, sia in senso generale, in relazione a un ‘modo di impiego’, sia in senso peculiare, in relazione a una ‘situazione’ o ‘circostanza di impiego’. Più complesso è il senso del termine pra`xi~, genericamente ‘azione’, ma con accezioni diverse, come si vedrà in seguito. In questo caso è stato interpretato nel senso di ‘contenuto’ (Fuhrmann 1960, p. 12, n. 1: Inhalt, Gegenstand; sánchez sanz 1989, p. 48: contenido), oppure nel senso di «mise en oeuvre, mise en pratique»: si tratterebbe della topica, della ricerca dei ‘luoghi’ dell’argomentazione, per ‘trovare’ ciò che si deve dire; in tutta la

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prima parte, essa è in ogni caso preminente (Chiron, p. 121 s., ad loc.). spengel corregge pravxei~ in tavxei~: dal capitolo 29 alla fne del capitolo 37 si tratta della dispositio (vd. pp. 5 e 103; cfr. Campe 1854, p. 107 s.). In questo modo si delineerebbe, attraverso i tre termini, una tripartizione che annuncia il piano dell’intero trattato. Forster (1924: il testo seguito è quello di spengel/ Hammer 1894) così ripartisce: qualities (capitoli 1-5); uses (capitoli 6-28); arrangement (capitoli 29-38). nell’edizione rivista, che si basa sul testo di Fuhrmann 1966, si legge invece: qualities, uses, actions. 31 la successione dei termini proaivresi~, lovgo~ e pra`xi~ sembra rifettere una progressione logica, in un contesto di discorso rivolto all’assemblea, e fnalizzato alla persuasione: si passa all’azione, dopo aver fatto una scelta di principio e spiegato le ragioni. Più avanti, quando si defniscono l’elogio, il biasimo e l’esame, l’ordine è diverso (1425 b 36-39; 1427 b 12-13), e potrebbe essere dovuto al fatto che in questi casi si parla di un’azione già accaduta. anche la distinzione fra adikema e hamartema (1426 b 25-28), quando si parla dell’accusa e della difesa, può implicare una distinzione fra scelta, o intenzione, e azione (vd. Fuhrmann 1965, p. 169). Per l’uso del termine diakwvlusi~ (vd. anche1422 a 7), cfr. Platone, Lettera III 316 b. 32 Il termine kalos, ‘bello’, ‘buono’ (questo secondo signifcato è quello corrente nel neogreco) indica in genere, nel contesto della retorica e dell’etica, la bellezza morale, non disgiunta anche da una connotazione estetica, meno evidente in agathos: la nozione di ‘bello’, coincidente con quella di ‘buono’ può passare dall’oggetto e dal fne del discorso (il ‘bello’ è, aristotelicamente, connesso con il genere epidittico) al discorso stesso. Qui si propone la resa convenzionale con ‘bello’ (beau: Barthélemy saint-Hilaire e Chiron), quando ci si riferisce a uno dei predicati enunciati; in altri casi, quando per esempio si qualifcano le azioni, si preferisce ricorrere al termine ‘nobile’. Francesco Filelfo rende: haec ad quae exhortatur [...] honesta [...]; Matteo Franceschi: le cose, le quali egli persuade douersi fare, sono [...] honeste; Forster e Rackham: honourable; Gohlke: edel; sánchez sanz: noble; Mirhady: noble. laurent Pernot schematizza così i topoi, cui si ricorre anche in questo trattato: «Une trosième liste de lieux comprend les “rubri-

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ques relatives aux fns” (telika; kefavlaia), c’est-à-dire les critères de l’action: – Justice (comprenant la légalité). – Utilité (comprenant la nécessité et la conséquence). – Possibilité (comprenant la facilité). – Beauté morale (comprenant la convenance et l’honorabilité)» (1986, p. 265). aristotele, nella Retorica, dopo aver introdotto la tripartizione dei generi, e defnito i rispettivi oggetti e tempi (vd. la nota 28), parla dei loro fni: «ognuno di questi generi ha un fne differente, ed essendo tre i generi tre sono anche i fni: per chi consiglia, l’utile o il nocivo – chi esorta, infatti, lo fa come se consigliasse per il meglio, chi sconsiglia, come se dissuadesse dal peggio, mentre il resto (il giusto o l’ingiusto, il bello o il brutto) costituisce un’aggiunta; per chi sostiene una causa, il giusto e l’ingiusto – e anche costoro vi aggiungono il resto; per chi loda o biasima, il bello e il brutto – e anche in questo caso a essi sono riferite le altre considerazioni» (I 3, 1358 b 20-29; cfr. 6, 1362 a 15-21: «È evidente, dunque, a quali elementi – futuri o già esistenti – deve mirare chi esorta, e a quali chi consiglia: questi ultimi infatti sono l’opposto dei primi. Poiché lo scopo che l’oratore deliberativo ha di fronte è l’utile – ci si consulta infatti non a proposito del fne ultimo, ma dei mezzi che tendono a tale fne, e questi consistono in ciò che è utile nelle azioni, e l’utile è un bene – dovremo comprendere gli elementi fondamentali del bene e dell’utile in generale»). ogni genere ha, dal punto di vista aristotelico, un telos; qui invece si considera una loro associazione, che resterà nella retorica seguente: i predicati qui elencati saranno defniti telika kephalaia. la diffusione e l’utilizzazione di questi topoi vanno, come noto, ben oltre la trattazione specifcamente retorica, e sono ampiamente ricorrenti in ogni ambito. 33 Questi due predicati aggiunti sono considerati in alternativa all’argomento del ‘facile’; cfr. 1421 b 30. 34 la nozione di ‘contrario’ e il ragionamento polare sono diffusissimi in ogni campo della letteratura greca. Qui esso serve a sostenere e a motivare tesi opposte. Il ricorso alla nozione di ‘contrario’ e di ‘simile’ è frequente in questo trattato, costituendo spesso uno degli schemi argomen-

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tativi preferiti e delle strategie comuni a tutte le specie oratorie, e permettendo un’estesa applicazione dei predicati basilari. essa ha certamente ampio spazio anche nella Retorica di aristotele, dove tuttavia è più rigorosamente sostenuta dalla rifessione teorica condotta soprattutto nelle opere logiche (vd. per es. Topici II 7, 112 b 27-8, 114 a 6) e nella Metafsica (D 10, 1018 a 20-b 4). si propone un confronto con questo passo della Retorica: «Un ‘luogo’ degli entimemi dimostrativi è quello che si basa sui contrari: si deve considerare se il predicato opposto è vero per un contrario, confutando l’argomento se non lo è, affermando, ad esempio, che essere temperanti è un bene, poiché l’intemperanza è dannosa. oppure, come nel Messeniaco [di alcidamante]: se la guerra è la causa dei presenti mali, si deve rimediare con la pace» (II 23, 1397 a 7-12; vd. anche la nota 46). 35 Cioè la persuasione o la dissuasione. È ricorrente, in tutto il trattato, l’uso dei verbi eujporei`n e ajporei`n, in relazione alla costante preoccupazione, da parte del retore, di non rimanere mai a corto di argomenti, e di avere invece a disposizione abbondante materiale cui attingere, e con cui rifornirsi per portare avanti un discorso, una tesi da difendere indipendentemente da ogni altra considerazione di carattere etico. Questa preoccupazione tipica di un retore di professione, osserva Chiron (p. 123, ad loc.), è meno ricorrente nella Retorica di aristotele, vd. per es. I 8, 1366 a 20; 9, 1368 a 19; 12, 1372 a 33; II 6, 1385 a 15; 26, 1403 b 1. Vd. qui l’introduzione. 36 Per indicare dove si potranno cercare o trovare argomenti, o da dove si potrà attingere o partire, ricorrono nel trattato gli avverbi povqen o o{qen, oppure la preposizione ejk con il genitivo, oppure termini generici, usati metaforicamente, come ajformhv (1423 a 33; b 14; 1426 b 18; 1445 b 29) o ejpiceivrhma (1426 b 36), mentre l’uso tecnico di tovpo~ è più raro e in alcuni casi dubbio (1440 a 16 – dove è congettura; 1443 b 30). 37 sono interessanti, anche se diffuse, la defnizione del giusto e il rapporto tra il ‘giusto’ e la legge; più in generale, si esprimono valori ampiamenti condivisi dalla morale comune. Cfr. aristotele, Retorica I 9, 1366 b 9-11 («la giustizia è la virtù grazie alla quale ognuno possiede ciò che è suo ed è in accordo con la legge; l’ingiustizia è ciò per cui si possiede quanto è di altri, non in conformità

note 35-38

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con la legge»); 13, 1373 b 1 ss. Per le nozioni di agraphos nomos e koinos nomos, vd. l’introduzione. 38 Il testo è stato giudicato sospetto: ci si attenderebbe una defnizione del ‘legale’ (to; novmimon) e non della legge (defnizione a cui si farà riferimento, come se fosse stata già data – 1422 b 1 s.); Fuhr (1904, col. 1596) integra pertanto prima di novmoı: . Kassel (1967, p. 122) espunge invece le linee 2 novmo~ de; – 4 e{kasta, considerando che qui sarebbe subentrata «als schlechter ersatz» una defnizione della legge derivata da un passo seguente (1424 a 9-12), dove è al suo posto. Chiron difende il testo dei codici, basandosi sul carattere dell’argomentazione e su confronti con altri autori (p. 123 s., ad loc.). sulle defnizioni e sulla nozione di legge, vd. le note 220; 231233 dell’introduzione. Qui è interessante notare l’uso del sostantivo homologema (cfr. 1424 a 10): il termine syntheke, più ricorrente per indicare la legge come patto, accordo, convenzione scritta, è utilizzato una sola volta, più avanti (1424 b 29), nel senso di ‘contratto’ che regola gli accordi fra stati (vd. qui la nota 29). Può essere utile un confronto con un passo della Retorica, in cui è usato il termine syntheke («Un contratto – sunqhvkh – è una legge privata e particolare, e, mentre non sono i contratti a conferire validità alle leggi, sono le leggi a rendere validi i contratti a norma di legge, e in senso generale la stessa legge è una sorta di contratto – kai; o{lw~ aujto;~ oJ novmo~ sunqhvkh tiv~ ejstin, e di conseguenza chi viola o annulla un contratto, annulla le leggi» – I 15, 1376 b 7-11) e della Politica di aristotele, in cui si usa homologia (I 6, 1255 a 6: «la legge è una forma di accordo – oJ ga;r novmo~ oJmologiva tiv~ ejstin). In Demostene, la legge viene defnita una syntheke koine, vd. Contro Aristogitone (I) 15 s.: «tutta la vita degli uomini, ateniesi, sia grande o piccola la città che abitano, è regolata dalla natura e dalle leggi. Di questi due cardini, la natura è indisciplinata, irregolare e peculiare di ogni individuo; le leggi, invece, sono un elemento comune defnito, identico per tutti. la natura dunque, se è malvagia, spesso vuole il male: ecco perché troverete che gente del genere va fuori strada. le leggi vogliono il giusto, il bello, l’utile; questo ricercano. e quando ciò è stato raggiunto, è venuto alla luce un ordine comune, identico per tutti: tale è la legge, cui

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note al testo

tutti devono obbedire per molti motivi, e soprattutto perché ogni legge è invenzione e dono degli dèi, è decisione di uomini saggi, è correzione di errori volontari e involontari, è patto comune della città – povlew~ de; sunqhvkh koinhv, in base al quale devono vivere tutti i cittadini» (trad. di M.R. Pierro, torino 2000). Per la posizione assunta dai giuristi romani nei confronti della defnizione di nomos come syntheke, nelle fonti greche, vd. stolf 2006, p. 139 ss. 39 Cfr. Isocrate, A Nicocle 6; Areopagitico 16; Sulla pace 132. lo sviluppo maggiore che ha la trattazione sull’utile, rispetto agli altri predicati, è da collegare, osserva Chiron (p. 10, ad loc.), con le considerazioni sul kerdos (1428 b 9 s.), in vista del quale gli uomini sono mossi ad agire, anche facendo violenza a sé stessi. Molto più articolata e motivata è l’associazione tra il bene e l’utile, che dal punto di vista aristotelico sono anche mezzi per raggiungere condizioni ottimali di vita (Retorica I 6, 1362 a 15-1363 b 4); vd. anche la nota seguente. 40 la distinzione tra beni innati e beni acquisiti, fra beni dell’anima, del corpo e beni materiali, fra ‘interno’ ed ‘esterno’ fa parte anch’essa delle nozioni comuni, ampiamente rifesse in questo trattato; vd. per es. Platone, Fedro 237 d; Repubblica X 618 d; Leggi III 697 b; aristotele, Etica Nicomachea I 8, 1098 b 13-15; Retorica I 5, 1360 b 24 s.; 7, 1365 a 29; Riproduzione d. an. I 17, 721 b 29 s.; [aristotele] Fisiognomica 806 a 22-25; Problemi V 14, 882 a 22; 21, 883 a 7. aristotelica è anche la divisione tra utile per il singolo e beni individuali, e utile per la città e beni comuni, vd. per es. Retorica I 5, 1360 b 31-1361 a 9. Per un confronto, vd. in particolare Retorica I 5, 1360 b 19-28: «se tale è la felicità, necessariamente saranno sue parti la nobiltà di nascita, le amicizie numerose, le amicizie utili, la ricchezza, avere buoni fgli, avere molti fgli, una buona vecchaia; e inoltre le qualità fsiche (come ad esempio la salute, la bellezza, la forza, la statura, le capacità atletiche), la reputazione, l’onore, la buona fortuna, la virtù [o anche le sue parti, saggezza, coraggio, giustizia, temperanza – h] kai; ta; mevrh aujth`~ frovnhsin, ajndreivan, dikaio­ suvnhn, swfrosuvnhn]. Un uomo sarà autosuffciente al massimo grado se possiederà tutti i beni interiori ed esteriori: perché non ve ne sono altri oltre a questi. I beni interiori sono quelli relativi

note 39-42

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all’anima e quelli che dipendono dal corpo, mentre quelli esteriori sono la nobiltà di nascita, gli amici, le ricchezze, l’onore». le linee 1360 b 23 h] kai; – 24 swfrosuvnhn sono espunte dagli editori, perché ritenute interpolate (cfr. 6, 1362 b 12-14; 9, 1366 b 1-3). È interessante notare che in un codice latino (Urbanensis 8 – translatio americana) della Retorica ad Alessandro, si legge temperantia dopo sapientia, da qui il dubbio, espresso da Chiron in apparato, se non sia da aggiungere swfrosuvnh dopo sofiva (1422 a 9; cfr. 1441 a 18; 1447 b 4 s.; Pernot 1993, p. 166 s.); nella nota esegetica (p. 124, n. 70; cfr. p. 89, n. 585) in cui rinvia a Pernot, incline a confermare la presenza della swfrosuvnh nel trattato, osserva tuttavia che si tratta forse di un’aggiunta del traduttore. Vd. qui anche la nota 483. Giustizia, temperanza o equilibrio, fortezza o coraggio, saggezza o sapienza costituiscono le quattro virtù civili o politiche (vd. Platone, Repubblica IV 427 e ss.), cosiddette ‘cardinali’. Vd. anche Retorica I 6, 1362 b 10-15: «Volendo elencarli uno per uno, i beni sono necessariamente i seguenti: la felicità, poiché è desiderabile in sé stessa, è autosuffciente e in funzione di essa compiamo molte scelte; la giustizia, il coraggio, la temperanza, la magnanimità, la magnifcenza e altre disposizioni di questo genere, poiché sono virtù dell’anima; la salute, la bellezza e simili, perché sono qualità fsiche e producono numerosi beni». Una maggiore distanza si rileva nel fatto che in aristotele il bene e l’utile sono considerati in stretto legame e costituiscono degli argomenti etici. 41 Questa formula argomentativa è comune anche in aristotele (vd. per es. Retorica I 11, 1372 a 3, e la nota 46), ma la somiglianza è solo apparente. 42 le defnizioni dei singoli predicati consistono nell’enumerare le ‘cose’, i pragmata (vd. i neutri plurali, che si alternano talora con il neutro singolare: 1422 a 1 s.; a 15 ss.; a 21 ss.; 1425 b 39 ss.), le ‘azioni’ che ad essi si conformano, o i comportamenti corrispondenti secondo un sentire comune e diffuso, e non scaturiscono da un’analisi teorica o da un approfondimento della loro essenza. Cfr. per es. aristotele, Retorica I 9, 1366 a 33 s.: «Il bello è ciò che, desiderabile per sé stesso, è degno di essere lodato, oppure ciò che, essendo buono, è anche piacevole per il fatto d’essere buono». Come si è detto, in aristotele il bene e l’utile sono ar-

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note al testo

gomenti etici considerati tipici della retorica deliberativa, mentre il ‘bello’ è un soggetto, insieme con il suo contrario, del genere epidittico. In un altro passo, all’interno di un’analisi della diversità di carattere dei vecchi, rispetto ai giovani, aristotele torna su una defnizione del bello: «i vecchi vivono per l’utile, non per il bello, più di quanto non dovrebbero, perché sono egoisti: l’utile è infatti un bene individuale, mentre il bello è un bene in assoluto» (II 13, 1389 b 36-1390 a 1). l’osservazione di spengel, che, facendo riferimento a questi passi della Retorica (cui potrebbero essere aggiunti molti altri, da altre opere), sottolinea il contrasto, tra ciò che dice il retore e ciò che dice il flosofo, è certo condivisibile, ma ovvia, se si considera l’intero contesto: «hoc aristotele, illud vulgari rhetore dignum est» (p. 110). 43 l’ampia analisi sul ‘piacere’ nella Retorica (I 11, 1369 b 331372 a 3) di aristotele è condotta all’interno della trattazione del genere giudiziario, dopo aver considerato per quali motivi si commette ingiustizia, e con quale disposizione d’animo (I 10, 1368 b 1 ss.): «Per desiderio si fanno quelle azioni che sembrano piacevoli. Ciò che è familiare e ciò che è abituale rientrano tra le cose piacevoli, poiché, quando ci si sia abituati, si compiono con piacere molte azioni che non sono piacevoli per natura. Di conseguenza – per riassumere – tutte le azioni che gli uomini compiono per causa propria sono cose buone o che sembrano buone, oppure cose piacevoli o che sembrano piacevoli. Ma poiché si fanno volontariamente le azioni che si compiono per causa propria, mentre non si fanno volontariamente quelle che non si compiono per causa propria, tutte le azioni che si compiono volontariamente dovranno essere cose buone o che sembrano buone, oppure cose piacevoli o che sembrano piacevoli. e pongo tra i beni anche la liberazione dai mali, o dai mali apparenti, o la sostituzione di un male maggiore con uno minore (poiché sono in un certo modo cose preferibili), e, allo stesso modo, pongo tra le cose piacevoli la liberazione da ciò che è doloroso o sembra tale, o la sostituzione di dolori maggiori con dolori minori, si devono dunque comprendere il numero e la qualità delle cose piacevoli e utili. Già in precedenza abbiamo parlato dell’utile, a proposito del genere deliberativo: parliamo ora di ciò che è piacevole» (I 10, 1369 b 15-31). 44 Cfr. tucidide, La guerra del Peloponneso VI 9-14; 20-23

note 43-46

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(sono i due discorsi rivolti da nicia agli ateniesi, nel tentativo di dissuaderli dalla spedizione in sicilia). 45 le nozioni di to; dunatovn, to; ejndecovmenon, to; ajnagkai`on sono ricorrenti nell’analisi dell’agire umano. I primi due termini sono sinonimi, ma il testo non è puramente tautologico, come ritiene Chiron («le texte grec est ici bien proche de la tautologie» – p. 124 ad loc.): sono confrontabili alcune espressioni aristoteliche (vd. per es. Analitici secondi I 6, 74 b 37 s. – to; sumbai`non a]n ei[h dunato;n kai; ejndecovmenon; Metafsica D 12, 1019 b 30-33); Bonitz (1961, p. 249 a 55) rinvia al proprio commento alla Metafsica Q 3, 1047 a 26: «Una cosa è in potenza se il tradursi in atto di ciò di cui essa è detta aver potenza non implica alcuna impossibilità. Faccio un esempio: se uno è in potenza a sedersi e può sedersi – eij dunato;n kaqh`sqa~ kai; ejndevcetai kaqh`sqai, quando dovrà realmente sedersi, non avrà alcuna impossibilità a farlo» (1047 a 24-27). Con la terza nozione si anticipa un argomento suggerito in seguito, nel trattare dell’elenchos (1431 a 7-13); cfr. 1434 b 32. 46 la nozione di ‘simile’ e ‘contrario’ (vd. le note 34 e 41) è funzionale qui a indicare una ‘fonte’, o ‘luogo’, da cui si può partire, per estendere l’applicazione di un argomento, di un predicato a fatti simili o contrari. la strategia argomentativa riguarda esclusivamente il confronto con atti compiuti, con azioni, o con giudizi espressi, con doxai (sotto questa generica denominazione possono essere comprese le dichiarazioni o le valutazioni di personaggi autorevoli, considerate anch’esse ‘fonti’), e non implica un ragionamento più rigoroso, a livello logico, sui rapporti stabiliti, o che possono intercorrere: si tratta di applicare il principio della similitudine o dell’analogia, e della contrarietà, e di estenderlo meccanicamente e in modo del tutto superfciale, con un procedimento sempre reversibile, a seconda dei casi e della convenienza immediata, che talora sfora il paralogismo. Ciò che conta è non restare mai a corto di argomenti, quali essi siano: la base dell’argomentazione sta proprio in questa serie di predicati, utilizzabili in ogni circostanza. Il riferimento al giudizio di uomini degni di stima rientra nell’argomento di autorità (vd. Pernot 1993, p. 699), ed è ricorrente in questo trattato.

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note al testo

si propone un confronto con un passo della Retorica di aristotele: «Un altro ‘luogo’ è quello che deriva da un precedente giudizio che riguardi lo stesso oggetto, o uno simile o uno contrario, in particolare se il giudizio è condiviso da tutti gli uomini ed è costante nel tempo; altrimenti, se a giudicare così sono almeno la maggior parte degli uomini, oppure i sapienti – tutti o la maggior parte di essi – o gli uomini di valore, oppure i giudici stessi o coloro che i giudici approvano, o coloro cui non si può contrapporre un giudizio contrario – ad esempio le autorità – oppure coloro cui non è decoroso contrapporre un giudizio contrario – gli dèi, ad esempio, o il padre, o i maestri» (II 23, 1398 b 21-26). Chiron adotta una disposizione in colonne, quando esiste una divergenza tra il testo del papiro (PHib. 26; sigla P), datato tra il 285 e il 250 a. C., e quello della tradizione medievale: a sinistra dà le lezioni di P, a destra quelle dei codici. Diversamente da Fuhrmann, non accoglie nel testo alcune lezioni di P, ma le segnala in una colonna distinta, nella convinzione che non sia possibile amalgamare i due testi: «la première question qui se pose est de savoir quelle doit être la place de P dans l’édition. Respectueux de son antiquité, M. Fuhrmann a fait entrer dans le texte un certain nombre de ses leçons. les divergences entre P et la tradition médiévale, dont on a vu la dépendance par rapport à un texte partiellement réécrit entre le Ve siècle et la période de translittération – nous paraissent interdire l’amalgame des deux textes, sauf à fournir au public un texte ayant tout d’une chimère» (p. ClXII s.; cfr. 2000, p. 18 ss.). nella traduzione, Chiron mantiene la disposizione in colonne, e traduce ambedue i testi. Qui invece si traduce il testo dei codici: quello del papiro è indicato in traduzione in nota, quando ci sia qualche divergenza più signifcativa. In questo caso, nel papiro la qualifcazione è riservata ai giudici: «o da dèi o da uomini, o da giudici stimati» (1422 a 26 s.). 47 Gli esempi si conformano, come costantemente anche in seguito, a una morale comune, espressa in vari ambiti. spengel (p. 112 s.) propone il confronto con tucidide, La guerra del Peloponneso VI 16, 4 e con lisia, Contro Agorato 57. 48 Cfr. lisia, Contro Alcibiade (I) 19; licurgo, Contro Leocrate 51.

note 47-52

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Il nesso [to; paravdeigma] è stato espunto, perché ritenuto una glossa fnita nel testo: l’autore non defnisce mai paradeigmata gli esempi che lui porta; i paradeigmata retorici costituiscono in questo trattato uno dei mezzi di persuasione (vd. per es. 1428 a 19; cfr. Chiron, p. 12, ad loc.). 49 Cfr. licurgo, Contro Leocrate 128. 50 nel papiro, il riferimento è «alla legge stessa in vigore» (dia­ goreuvonta novmon – 1422 b 3). Chiron osserva: «la comparaison entre le PHib. 26 et la tradition médiévale est particulièrement instructive ici: une divergence apparemment mineure recouvre une retouche, maladroite certes (diagoreuvein ou ajgoreuvein ne peuvent guère s’appliquer, dans ce contexte, qu’à la loi) mais signifante» (p. 124 s., ad loc.). 51 Il caso prospettato è quello sia della morte, senza fgli, dell’affrancato sia della morte del parente più vicino. le orazioni di Iseo costituiscono per noi una fonte di informazioni su questioni di eredità (klerikoi logoi); vd. in particolare, Eredità di Nicostrato 6 ss.; 15 ss. sulla successione ereditaria, sui principi fondamentali che la regolano nel diritto attico, vd. Biscardi 1982, p. 117 ss. Come noto, la condizione dell’affrancato non era quella del cittadino, ma si avvicina di più a quella del meteco. l’argomento del giusto e ogni altro predicato enunciato sono applicabili in vari campi, come si vedrà ampiamente in seguito; così, qui trova spazio un esempio di carattere giudiziario, pur in un contesto dedicato al discorso deliberativo. 52 Conservando la lezione dei codici ajpagoreuvei. Chiron emenda in ajgoreuvei (‘prescrive’, ‘ordina’), invece di accettare la soluzione suggerita da Reeve di espungere le linee 14 eij – 16 e[krinen: «nous préférons [...] distinguer ici deux illustrations différentes, juxtaposées comme en 22 b 40. au prix d’une correction assez légère [...], le premier cas paraît opposer la répartition temporaire de la propriété publique (des pâturages mis en location, par exemple) à son appropriation défnitive par des particuliers» (p. 125, ad loc.). si può osservare che sarebbe più comprensibile un errore di aplografa, un passaggio da ajpagoreuvei a ajgoreuvei, piuttosto che il contrario. Il papiro si legge, in questo problematico passo, solo a partire dalla metà circa della linea 1422 b 15, e la ricostruzione,

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note al testo

avvertono gli editori (Grenfell/ Hunt 1978, p. 129 – si cita dalla ristampa dell’edizione del 1906), è molto incerta: [nous auta pan­ ta~ adikein o no]m≥[o (fr. d, l. 43, p. 119) [qeth~ ekrinen ei gar tima]s≥[qai (l. 44) ktl. Reeve ritiene che il secondo esempio sia adatto al contesto, ma non il primo, «because the author is discussing not outright illegality, which falls within the compass of to; novmimon, but two ways of bringing within the compass of to; novmimon acts that are not expressly illegal» (1970, p. 237). si fa forse riferimento a regole che disciplinano la concessione di beni pubblici (forse di terre), da parte della polis o di altri enti (vd. Biscardi 1982, pp. 216 ss.; 186 ss.). Probabilmente, non si tratta di due ‘esempi’ (come li considera Reeve), ma di un unico esempio, articolato in due parti giustapposte: nella prima si sottolinea la diretta corrispondenza fra il divieto e la sua motivazione; nella seconda, la deduzione ex contrario (la punizione per chi danneggia il bene comune) si ricava dal premio sancito per chi si comporta diversamente. 53 sul diverso testo del papiro e sulla sua controversa restituzione, vd. Grenfell/ Hunt 1978, frr. (d) e (e), p. 119, 49-51; p. 129 s., ad loc.; Fuhr 1906, col. 1420; Chiron, pp. 13; 125, ad loc. 54 alla linea 23, taujta;, invece di tau`ta, è emendamento di spengel (vd. il commento, p. 116); Kassel conserva tau`ta dei codici, e omette peri; tou` novmou touvtou (1967, p. 122). spengel scrive Lusiqeivdou (i codici hanno lusiqivdou) e identifca il personaggio con un oratore, discepolo di Isocrate (p. 116; vd. Isocrate, Antidosi 93); cfr. Chiron, p. 125, ad loc.: «Il est possible que le rhéteur fasse allusion ici à un homme politique en vue au milieu du IVe siècle, lysithéidès de Kikynna». 55 l’integrazione è di Fuhrmann; Kroll integra tw`n proeirhmevnwn (cioè divkaion e novmimon – 1911, p. 161). 56 Cfr. Demostene, Contro Aristocrate 102 s. 57 Chiron suggerisce che questo esempio fa pensare alla situazione che si crea dopo la battaglia di leuttra, nel 371 (p. 14, ad loc.). 58 Di questo episodio parla senofonte, Elleniche II 2, 16-23; cfr. Isocrate, Plataico 31; andocide, Sui misteri 142; Demostene,

note 53-64

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Sull’ambasceria tradita 65; Plutarco, Vita di Lisandro 15 (441 C ss.). 59 nel papiro si specifca: «alleati dei tebani». 60 Cfr. Demostene, Per Ctesifonte, sulla corona 98. 61 alla linea 1423 a 14, kai; tivnwn, Chiron accoglie l’integrazione di Usener, mentre Fuhrmann espunge kai; tivnwn, seguendo Kayser (1854, p. 285). aristotele nella Retorica riassume nel numero di cinque i principali temi politici intorno ai quali gli oratori tengono i loro discorsi deliberativi: «le fnanze, la guerra e la pace, la difesa del paese, le importazioni e le esportazioni, la legislazione» (I 4, 1359 b 21-23). Cfr. [Platone] Alcibiade secondo 144 e-145 a; senofonte, Memorabili III 6; Demostene, Per Ctesifonte, sulla corona 309. se si considera la città di atene, il bouleuterion è la sala di riunione del Consiglio dei Cinquecento (boule); nell’ekklesia (assemblea) «si riuniva il popolo di atene (demos): la parola demos è spesso sinonimo di ekklesia, e i decreti dell’assemblea cominciavano con la formula edoxe toi demoi, “è stato deciso dal popolo”, o una equivalente» (Hansen 2003, p. 189). «Il collegio di magistrati più importante in una città-stato democratica è il Consiglio (boule). lo dice aristotele nella Politica [VI 8, 1322 b 12-17], spiegando che il Consiglio è il corpo esecutivo e preparatorio dell’organo decisionale, l’assemblea» (Id., p. 361). 62 Il termine ijdeva, in ambito retorico, ha il signifcato tecnico di ‘forma’ o ‘stile’, o ‘procedimento stilistico’. In questo trattato, esso è impiegato con varie accezioni; i suoi usi e la sua ricorrenza sembrerebbero «d’esprit isocratique», osserva Chiron (pp. 126, ad loc.; CXlIV s.). nella sua orazione Contro i Sofsti (16 s.), d’altra parte, Isocrate osserva che non è diffcile avere una buona conoscenza dei procedimenti utili alla composizione di un discorso, se ci si affda a esperti della materia, ma sceglierli, in modo che siano adatti al soggetto che si tratta, distribuirli convenientemente e usarli nel momento opportuno sono azioni che richiedono molta cura, energia, vigore mentale, acume. 63 nel papiro si legge: dhm]mhgorhteon ajnagkai[on (Grenfell/ Hunt 1978, p. 121, l. 103 s.). 64 aristotele, come si è visto (nota 61), elenca sinteticamente cinque temi principali dei discorsi deliberativi. In questo trattato, le decisioni relative al culto e alla religione hanno la priorità.

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note al testo

Un approfondimento delle relazioni fra la legge, la polis e la religione in atene e nelle città greche in generale è proposto dai saggi contenuti nel volume curato da Harris (2004; per un quadro riassuntivo, vd. p. 3 ss.). È forse indicativo del collegamento dei riti con l’ethos non scritto, più che con la legge scritta, il fatto che poco più avanti, quando si elencano i predicati da cui trarre gli argomenti (1423 a 33 ss.) a proposito dei culti, manca il predicato del ‘legale’. spengel commenta: «desideratur secundum ejk de; tou` nomivmou o{ti ... legibus sancitum esse, ne sacra negligantur aut mutentur; fortasse propter verborum similitudinem haec exciderunt, quamvis et divkaion et novmimon arcte nectantur, ut facile negligere potuerit auctor» (p. 121). 65 le congetture trittw`~ (l. 30) e metastatevon (l. 31) sono state confermate dal papiro (vd. Grenfell/ Hunt 1978, p. 121, ll. 117 e 121). 66 Il culto costituisce un tema in cui prevalgono di solito le tendenze conservatrici. Cfr. per es. lisia, Contro Nicomaco 17-23; Isocrate, Areopagitico 29 s.; A Nicocle 20. 67 Il termine aphorme è ricorrente, come si è detto (nota 36), per indicare il punto o la fonte da cui si parte, le risorse che danno impulso e slancio all’argomentazione. Cfr. Isocrate, Elogio di Elena 69. 68 Chiron si domanda: «est-ce à dire que le conservatisme dans les rites, en facilitant le prélèvement du “denier du culte”, favorise plus généralement le versement des impôts? Il est sûr que les particuliers participant au déflé militaire s’équipaient à frais personnels, ce qui facilitait fnancièrement une mobilisation éventuelle» (p. 127, ad loc.). 69 alcune fonti testimoniano la presenza di uomini armati nelle processioni religiose; vd. per es tucidide, La guerra del Peloponneso VI 56, 2 («attesero le Panatenee solenni, occasione unica per i cittadini di non destar sospetti assiepandosi in armi a lato del sacro corteggio»); 58; aristotele, Costituzione degli Ateniesi 18, 4: «la versione che si racconta, secondo la quale Ippia, allontanando dalle armi i partecipanti alla processione, scoprì coloro che portavano i pugnali, non è vera, perché allora non andavano in processione con le armi, ma il popolo introdusse quest’uso successivamente». Cfr. senofonte, L’equitazione 11.

note 65-76

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Chiron osserva che le sflate militari potevano psicologicamente infuire sulla combattività dei soldati, che erano semplici cittadini, e non soldati di professione (p. 127, ad loc.). 70 nella linea 1423 b 5, si può essere incerti sull’interpretazione di eij (in precedenza ricorre o{ti): si possono difendere i culti stabiliti, ‘se’, cioè ‘dal momento che’, ne risulta uno spettacolo. Controverso è invece il testo delle linee 6 e 7: Chiron espunge [pro;~ to; qewrei`sqai] della l. 7, e accoglie l’integrazione (l. 6) di Didot (accolta anche da Mirhady). Fuhrmann inserisce fra le cruces desperationis pro;~ to; qewrei`sqai della l. 6. Mirhady mantiene pro;~ to; qewrei`sqai, in entrambe le linee, e interpreta: «and from the perspective of the noble, that “if they happened this way the festivities were splendid to observe”; from pleasure, “if there is some variety in the observance of the sacrifces to the gods”». 71 Cfr. Isocrate, Antidosi 282. 72 Cfr. [Isocrate] A Demonico 13. 73 Vd. le note 68 e 69. l’espunzione di [kai; qeivwı] (1423 b 37) si basa su 1423 b 39; 1446 a 37 s. 74 Cfr. 1423 a 30. 75 Cfr. 1420 a 25-27; 1422 a 2-4. Vd. l’introduzione. 76 In questa parte, l’autore espone molto concisamente i principi basilari su cui si fondano i regimi democratici e quelli oligarchici (1424 a 39 ss.), cominciando dai primi. le sue considerazioni riguardano l’aspetto puramente organizzativo, senza entrare nel merito del signifcato, o delle scelte politiche: appare preminente l’attenzione a ciò che assicura stabilità ai singoli regimi. le ripetute rifessioni sulle possibili reazioni e sugli umori del popolo rivelano un certo acume, una consapevolezza delle dinamiche della vita nella comunità cittadina. esse sembrano scaturire più dall’esigenza di scorgere elementi di stabilità, che da orientamenti di carattere politico; tuttavia confermano la tendenza dell’autore a fermarsi sugli effetti psicologici immediati che comportamenti o norme, o più in generale discorsi e modalità di argomentazione possono determinare. Vd. anche la nota 80. Il testo della linea 1424 a 12 (aujtw`n th;n qevs in) è controverso, ma il senso è chiaro. Reeve (1970, p. 237) integra dopo qevs in sulla base della l. 37 s., e del modo in cui abitualmente l’autore introduce i suggerimenti. Kayser (1854, p. 288) propone di scrivere th≥` qevsei. 77 Vd. per es. tucidide, La guerra del Peloponneso VI 16, 3; lisia, Sui i beni di Aristofane contro il fsco 57 s.; Difesa 12 s.; Isocrate, Sulla biga 35; Demostene, Per Ctesifonte, sulla corona 105 s. «Una liturgia era un tipo speciale di tassa, perché collegato con la spesa vi era anche il dovere di amministrare qualcosa. era un principio tradizionale che alcune spese pubbliche non fossero a carico dei fondi statali, ma di un uomo ricco che si assumeva la spesa in questione in un certo anno. le liturgie si dividevano approssimativamente in due classi: quelle relative alle feste e quelle relative alla fotta. [...] nel primo tipo il ricco doveva sostenere la spesa per una delle grandi celebrazioni religiose della città e partecipare alla sua organizzazione; la più nota è la choregia, in cui il ricco doveva essere choregos e provvedere all’addestramento e al corredo del coro che si esibiva in ditirambi, tragedie e commedie alle feste di Dioniso o apollo o atena. nel secondo tipo il ricco doveva comandare una nave della fotta e mantenerla a proprie spese: la liturgia era chiamata trierarchia. [...] Poiché atene non possedeva alcuna burocrazia capace di valutare e controllare il patrimonio dei suoi cittadini, il sistema doveva dipendere in parte dall’autovalutazione e in parte dalla valutazione di un altro cittadino. entrambe le modalità sono caratteristiche della psicologia degli ateniesi e dei loro principi democratici. assumersi una liturgia conferiva status e distinzione: era qualcosa di cui ogni cittadino amava gloriarsi e di cui un cittadino politicamente attivo si sarebbe vantato davanti al suo uditorio, specialmente se era accusato in un processo politico» (Hansen 2003, pp. 166-168). 78 nelle linee 1424 a 28-31, così come nelle linee precedenti 1424 a 22-25, il testo del papiro mostra divergenze con la tradizione manoscritta; in particolare è qui da segnalare la lezione [nautiko]u≥~ (‘marinai’ – vd. Grenfell/ Hunt 1978, p. 122, l. 148). Chiron annota: «la réfection (nauklhrou`nta~ au lieu de nautikou;~) manifeste ici un véritable contre-sens: l’armateur n’appartient évidemment pas à la même catégorie sociale que le simple matelot» (p. 20, ad loc.). Per un confronto riguardo all’affermazione conclusiva di questo paragrafo, vd. Isocrate, Areopagitico 24. sulla diffusa pratica

note 77-78

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della delazione e sulla fgura del sicofante, vd. Hansen 2003, p. 288 s.: «In aggiunta al logografo, il sistema ateniese mise in rilievo nella vita giudiziaria un personaggio di tutt’altra natura: il sicofante (sykophantes) o accusatore di professione. [...] Il termine indicava chi usava il diritto di accusa, posseduto da ogni cittadino, per perseguire il proprio vantaggio, talvolta legittimamente, ma generalmente con il puro e semplice ricatto. Il sistema ateniese presupponeva idealmente che un elevato numero di cittadini, senza pensare al proprio vantaggio personale, desiderasse aiutare altri cittadini, o la società in quanto tale, presentandosi in veste di accusatore. Ma in certi casi si manifestava una tale ansia di portare in tribunale un’illegalità, che l’ideale veniva meno e si offriva una ricompensa per un’accusa coronata da successo [...]. Una simile attività da parte di un sicofante, sebbene disprezzata, non era illegale. Ma una minaccia diretta all’intero sistema era rappresentata dai sicofanti che usavano il diritto di accusa per ricattare, minacciando chi avesse commesso un’illegalità di intentargli un’accusa e ottenendo da lui denaro per non farlo, oppure minacciando una persona assolutamente irreprensibile di intentargli un’accusa nella speranza che quella preferisse pagare piuttosto che difendersi in tribunale contro un oratore esperto. Gli ateniesi riconobbero il pericolo e cercarono di affrontarlo, in parte creando procedure speciali contro i sicofanti, in particolare la probole e la graphe sykophantias, e in parte attraverso penalità per il mancato raggiungimento di un quinto dei voti. Quando un cittadino compariva in tribunale come pubblico accusatore, la sua prima preoccupazione era, perciò, di dissipare ogni sospetto che egli fosse un sicofante». nella Politica di aristotele, gli agoraioi anthropoi costituiscono una classe sociale inferiore, insieme con gli artigiani e i piccoli salariati, rispetto agli agricoltori e ai pastori: «Dopo i contadini le popolazioni migliori sono quelle in cui ci sono dei pastori che vivono del prodotto dei loro greggi, perché hanno molta affnità con i contadini; oltre a ciò sono allenatissimi ad affrontare le azioni guerresche, validi di corpo e capaci di vivere all’aperto. si può ben dire che tutte le altre specie di popolazioni, da cui sono costituite le restanti specie di democrazie, sono molto peggiori di queste due: il loro genere di vita non ha alcuna nobiltà e nessuna delle occupazioni cui attendono gli operai, i mercanti e i salariati

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note al testo

– to; plh`qo~ tov te tw`n banauvswn kai; to; tw`n ajgoraivwn ajnqrwvpwn kai; to; qhtikovn – ha qualcosa a che fare con la virtù. Inoltre bazzicando spesso per la piazza e per il centro della città, questa genia, si potrebbe dire, si riunisce facilmente in assemblea; cosa che non fanno i contadini, che sono sparsi per la campagna e che non sentono il bisogno di questi raduni. Dove la campagna è molto lontana dal centro cittadino, è facile che si costituiscano una democrazia buona e un regime costituzionale: infatti il grosso della popolazione è spinto verso i campi, sicché, anche se c’è una massa cittadina, nelle democrazie non bisogna fare delle assemblee senza l’intervento della popolazione delle campagne» (VI 4, 1319 a 1938 – la traduzione dalla Politica è qui e altrove di Carlo augusto Viano, Milano 20135). Cfr. 1424 b 7 s. I piccoli commercianti e tutti coloro che s’aggiravano oziosamente sulla piazza pubblica (ajgorai`oi) sono spesso presi di mira e non godevano buona reputazione; vd. per es. aristofane, Cavalieri 218; Rane 1015; lisia, Per l’invalido 19 s. 79 Cfr. tucidide, La guerra del Peloponneso II 34; Platone, Menesseno 248 d-249 c; eschine, Contro Ctesifonte 154. nelle linee 1424 a 31 Dei`– 32 kai;, il testo del papiro era probabilmente diverso, giudicando da ciò che ne rimane; vd. Grenfell/ Hunt 1978, p. 122, l. 152 s.: epi[qumhsei ..........]n kai peri tou≥ (cfr. p. 133: «perhaps dei toinu]n should be restored»). nella linea seguente (33), l’integrazione e l’emendamento leitourghsavntwn, invece di teleutwvntwn (lezione sospetta, e diversamente emendata, prima della pubblicazione del papiro), si basano su una restituzione di Fuhr, che dopo aver valutato altre congetture, propone la propria: «ich möchte lieber etwa th≥` povlei leitourghs]avntwn oder polla; koinh≥` teles]avntwn (ajnalwsavntwn, dapanhsavntwn)» (1906, col. 1418). Come altrove, è da segnalare il contributo del papiro alla soluzione di un problema testuale già sollevato. Vd. Grenfell/ Hunt 1978, p. 123, l. 155 s.: twn [ 15 letters s]antwn isc[u; cfr. p. 133, ad loc. l’espressione ajnavdaston poiei`n th;n cwvran si legge nella Politica di aristotele (V 7, 1307 a 2). 80 Chiron fa notare che la restrizione di prospettiva (l’alternativa tra democrazia e oligarchia è quella che si offriva alle città greche autonome, e non comprende il sistema di governo persiano

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o macedone) «n’est pas sans intérêt pour la date du traité, qu’on situera plus plausiblement avant Chéronée (338) qu’après» (p. 128, n. 124). 81 Cfr. aristotele, Politica VI 6, 1320 b 19-29: «Ciascuna forma di oligarchia deve essere ricavata da termini contrari rispetto a quelli della democrazia, mettendo in corrispondenza alla forma contraria di democrazia la prima forma di oligarchia che è la meglio contemperata. essa è affne al cosiddetto regime costituzionale, in cui bisogna dividere in due i censi [...]. a chi raggiunge il censo richiesto deve essere concesso di partecipare ai diritti politici, con la conseguenza che, per mezzo del censo, si assorbono entro l’ambito dei cittadini forniti di pieni diritti politici sempre nuovi membri che derivano dal popolo; il che fa sì che quelli che possono adire alle cariche saranno sempre più forti degli altri. e bisogna assorbire dalla parte migliore del popolo quelli che partecipano alla vita politica». È prevista una distinzione di censo per l’accesso alle cariche pubbliche. 82 Cfr. aristotele, Politica IV 12, 1297 b 6-12; V 4, 1303 b 2631; 6, 1305 a 37-40; 8, 1308 a 31-35; VI 4, 1319 a 28-38 (vd. anche la nota 78). 83 alla fgura del sicofante si è alluso in precedenza (1424 a 31), parlando del regime democratico; per questo spengel negli Addenda ritiene che l’espressione kai; sukofantei`n tou;~ polivta~ (1424 b 13 s.) sia da inserire dopo ejpibouleuvein (1424 b 11). Cfr. Fuhr 1904, col. 1597 (si mostra d’accordo con spengel); 1906, col. 1417 s. (si rimette all’autorità del papiro, e richiama un passo di lisia, in cui i trenta sono defniti ponhroi; kai; sukofavntai – Contro Eratostene 5). Reeve ne propone l’espunzione, considerandola un’interpolazione: «since is usually regarded, and not less by anaximenes [...], as a pastime of the plh`qo~ in democracies, its association with oligarchies here is best put down to an interpolator [...], an incidental advantage is that the mevn and dev phrases then balance perfectly» (1970, p. 237 s.). Chiron difende il testo tràdito, confermato anche dal papiro, pur se riconosce che i dubbi sono giustifcati: «n’a-t-on pas vu des sycophantes se mettre au service du régime oligarchique des trente?» (p. 22, ad loc.). D’altra parte, si è già parlato del pericolo rappresentato dai dissensi (1424 b 6 s.).

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note al testo

Cfr. Demostene, A Leptine sull’esenzione dalle imposte 155. I termini utilizzati per indicare un patto sono in greco: sunqhvkh, suvmbolon e sumbovlaion (usati per lo più al plurale), sunavllagma (vd. aristotele, Etica Nicomachea V 5, 1131 a 1 ss.); vd. la nota 29. Qui, la presenza di tavxei~ crea qualche diffcoltà. Forster (edizione rivista) e Mirhady intendono arrangements; Chiron intende traités; Rackham traduce, leggendo kata; tavxei~ ajnagkai`on kai; sunqhvka~ (l’emendamento è proposto dubitativamente da spengel – p. 128, e poi confermato nei suoi Addenda): «Covenants must necessarily be framed in accordance with regulations and common agreements». Vd. anche Wilamowitz 1899, p. 622 s. Riguardo alla qualifcazione di sunqhvka~ (l. 29: kata; sunqhv­ ka~ koina;~), Chiron puntualizza che una traduzione ‘letterale’ esporrebbe a tautologia, e si mostra incerto fra due possibili interpretazioni: entre États o offciels (p. 23 e ad loc.). Il testo (1424 b 32 dia; – 33 pr. tina~) è controverso, e atetizzato da Fuhrmann; Chiron integra (l. 32) ed espunge [o{ti] (l. 33) mirando a una salvaguardia della maggior parte del testo trasmesso. si tratterebbe dell’alleanza dissuasiva, e si alluderebbe ai rapporti diplomatici tra atene e sparta nel IV secolo: dopo leuttra, le due città conclusero un’alleanza dissuasiva, per far fronte alle ambizioni di tebe. 86 Cfr. tucidide, La guerra del Peloponneso I 32-36; Demostene, Secondo discorso per Olinto 1. nella linea 1424 b 38, Chiron conserva la lezione dei manoscritti (th≥` povlei), basandosi su confronti con altri testi (per es. Iseo, Eredità di Nicostrato 19; Platone, Apologia di Socrate 30 a). l’emendamento th;n povlin (per la costruzione con l’accusativo – poiei`n tinav ti – vd. per es. erodoto III 75, 1; Platone, Gorgia 519 b), proposto da Reeve (1970, p. 238: si fa riferimento a Wendland – 1916, p. 488) e accolto da Fuhrmann, ha il vantaggio di evitare lo iato. Il comparativo pleivou~ (1424 b 34) è riferito da Mirhady a summavcou~ (most alliances); così anche Francesco Filelfo (plures socios). 87 Cfr. tucidide, La guerra del Peloponneso VI 13; Demostene, Per i Megalopolitani 19. 85

note 84-92

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la lacuna (1425 a 4), indicata da spengel negli Addenda, trova conferma nel testo del papiro: poih[sa]n≥te≥~ ≥[14 letters ei de mh [w~] m≥akr≥[an (Grenfell/ Hunt 1978, p. 124, ll. 207-209; p. 134, ad loc.); Chiron ritiene che si possa supplire qualcosa come: «ei\q j wJ~ ajsqenei`~ (“ensuite, qu’ils sont faibles”» (p. 130, ad loc.). anche Fuhrmann indica la lacuna, ma accoglie, diversamente da Chiron, la lezione del papiro poihvsanteı. 88 Motivazioni simili per giustifcare la guerra si leggono in molti altri autori, vd. per es. tucidide, La guerra del Peloponneso I 86; andocide, Sulla pace con gli Spartani 13. 89 Per l’integrazione (1425 a 18), vd. Grenfell/ Hunt 1978, pp. 125, l. 230: [w~] ex wn estin perigenesq[ai twi; 135, ad loc.; Chiron, pp. 24 e 130, ad loc. 90 Ci si riferisce probabilmente alla motivazione addotta (1425 a 10 ss.): fare guerra per vendicare un’ingiustizia subita. 91 Il testo è controverso. Fuhrmann indica come locus desperatus le linee 1425 b 1 w|n – 2 ajpolauvein; Chiron accoglie l’emendamento di Richards: ajpolauvein poiei`n. Rackham e Mirhady accolgono la lezione del Parisinus gr. 2038: parevcein ajpolauvein. Cfr. tucidide, La guerra del Peloponneso V 46, 1; Isocrate, Archidamo 50. 92 Il termine timema indica una ‘valutazione della proprietà’, in base alla quale si calcola l’eisphora, la tassa sul patrimonio; vd. Hansen 2003, p. 495, s.v. timema: «(1) ad atene: quella parte del patrimonio di un cittadino (ricco) che forniva il criterio di calcolo per la tassazione (eisphora). (2) nelle oligarchie: il patrimonio necessario per essere un cittadino di pieno diritto della polis, cioè per avere diritti politici». Cfr. pp. 152; 165; 169 («la tassa sulla proprietà, l’eisphora, era in origine una tassa di guerra riscossa sporadicamente, imposta per decreto dell’assemblea; dal 347/6 divenne però una regolare tassa annuale di dieci talenti, mentre l’assemblea poteva sempre imporre eisphorai aggiuntive. la tassa era pagata sia dai cittadini sia dai meteci, ma solo dai benestanti»). Chiron fa notare che l’autore collega la tassa allo stato di guerra e ne fa un’imposta straordinaria: «le rhéteur semble avoir en tête le premier état de ce système fnancier». Chiron ritiene inoltre che egli si riferisca a una situazione in cui il tradizionale cittadinosoldato ha lasciato il posto al mercenario, dato che il contributo

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note al testo

dei cittadini poveri è previsto in caso di mancanza o insuffcienza delle risorse fnanziarie: «Ce genre de détail contribue à ancrer le traité au IVe siècle» (p. 27, ad loc.). 93 Fuhrmann, seguendo il suggerimento dato da spengel in apparato, emenda favnai (1425 b 29) in ajpofaivnein. l’uso del sostantivo mevro~ e del verbo sunistavnai (1425 b 32) farebbe pensare, osserva Chiron, a un problema di composizione del discorso; si tratta piuttosto dell’analisi «qui a permis d’opérer la division de chaque sujet de délibération en plusieurs thèses, puis de chaque thèse en plusieurs arguments» (p. 131 ad loc.). 94 Qui e più avanti (1426 b 22 s.) non si fa più riferimento ai generi, ma solo alle specie. Vd. Chiron, p. lXXXIX ss. 95 l’amplifcazione in connessione con l’elogio costituisce nella retorica antica un fondamento teorico; rientra nei precetti retorici anche l’attribuire alla persona elogiata qualità che non possiede (vd. Pernot 1993, pp. 524 s.; 675 ss.). Cfr. Isocrate, Busiride 4; Platone, Menesseno 234 c-235 a; Simposio 198 d-e. Qui tuttavia la presenza del termine sunoikeivwsi~ crea qualche diffcoltà. Fuhrmann osserva in apparato: «terminus sunoikeivwsiı inferiorem Graecitatem olet»; altrove esso ha un senso diverso (vd. per es. Quintiliano, La formazione dell’oratore IX 3, 64). Pernot, facendo riferimento a questo passo della Retorica ad Alessandro e a queste osservazioni, afferma: «Fuhrmann conteste l’authenticité de cette expression [...], mais, qu’elle soit due à l’auteur ou à un interpolateur, c’est bel et bien un précepte technique» (1993, p. 525, n. 178). 96 spengel, nel commento, richiama l’attenzione sulla presenza del termine pravgmata: l’elogio non riguarda solo praxeis ed erga; si possono elogiare anche proaireseis e logoi. Invita pertanto a valutare «ne male sit vocabulum pravgmata illatum ex seqq. rJav≥dia pracqh`nai» (p. 140). Fuhrmann espunge il termine. Cfr. 1426 a 4 s. e nota 98. 97 Cfr. 1421 b 34 s. 98 oppure: ‘Chi pronuncia un elogio, deve dimostrare con il suo discorso che l’uomo di cui fa l’elogio o le sue azioni possiedono qualcosa di queste qualità, sia che si tratti, direttamente o indirettamente, di un’opera sua, o abbia nell’azione oggetto di lode la sua origine, la sua causa, o non sia stato possibile senza di essa’.

note 93-98

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In questo passo non è chiaro a chi o a che cosa si riferiscano i pronomi: in particolare crea diffcoltà il passaggio dall’anaforico aujtov~ al dimostrativo ou|to~ (1426 a 5-7). Fuhrmann espunge h] toi`~ pravgmasin (1426 a 4 s.): «vide ne semper de homine disserat auctor» (ad loc.). Kayser (1854, p. 288) ritiene che sia necessario il singolare tw≥` pravgmati, «da die Kategorien ejk touvtou und e{neken touvtou auf ein pra`gma unten bezogen werden; für touvtwn verlangt der Gedanke toiou`ton». Pernot prende posizione nei confronti dell’atetesi (1993, p. 131, n. 10): se le persone furono inizialmente i primi oggetti di elogio, nei trattati greci che risentono della pratica sofstica l’elogio si estende ad altre categorie, anche se evocate solo «en passant»; così nella Retorica ad Alessandro, sono oggetto di elogio «animaux et pragmata» (p. 131 s.; cfr. 1440 b 23 ss.). Cfr. p. 689 s. e n. 158. Gli esempi che seguono (1426 a 9 ss.) sviluppano la seconda serie di motivazioni (in cui si usa il pronome ou|to~; sulla probabile lacunosità del testo, vd. la nota seguente). Il pensiero è chiaro nel suo complesso, ma espresso in modo confuso e ambiguo: la nozione di ‘azione’ (in cui si rivela l’ethos di un uomo, secondo un tradizionale punto di vista) si sovrappone a quella di ‘qualità’ a essa inerente, e a quella di chi lo compie. esiste d’altra parte uno stretto legame, nell’elogio, tra qualità positive, persone e azione: «louer consiste à “montrer” et à “démontrer” les qualités et l’excellence de l’objet»; un elemento importante di questo processo dimostrativo, espresso dai verbi deiknynai e apophainein, è «l’idée, fondamentale dans la topique, selon laquelle les actions sont la manifestation des vertus» (Pernot 1993, p. 680). l’intento principale dell’autore sembra in ogni caso quello di formalizzare ed esibire, seppure in modo semplifcato e ristretto a un ambito specifco, una teoria della causalità, in cui si individuano: l’agente, la causa esterna e interna, la causa fnale, e la concausa. Cfr. per es. Platone, Timeo 46 c-47 a; aristotele, Metafsica Z 7, 1032 a 12-1033 a 23. È utile anche ricordare due passi della Retorica di aristotele, in cui si prospetta una casistica simile, e in cui nel distinguere tra epainos e enkomion si introduce una distinzione tra praxis e ergon. «Bisogna anche utilizzare molti dei mezzi dell’amplifcazione, come, per esempio, se un uomo ha fatto qualcosa da solo, per pri-

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mo, insieme a pochi, o più di altri, perché tutte queste circostanze sono onorevoli; inoltre, quanto deriva dal tempo o dall’occasione, se l’azione va al di là delle aspettative; e anche se un uomo ha avuto spesso successo nella stessa cosa, poiché ciò potrebbe sembrare importante, e dovuto non alla fortuna, ma alla sua opera; inoltre, se è per lui che sono stati inventati e istituiti onori che servono da esortazione, e se per lui per primo è stato composto un encomio» (I 9, 1368 a 10-17). «la lode – e[paino~ – è un discorso che pone in evidenza la grandezza della virtù. si deve dunque dimostrare che le azioni – pravxei~ – sono virtuose. l’encomio – ejgkwvmion, invece, riguarda le opere – e[rgwn (le circostanze, come la nobiltà di natali e l’educazione, possono contribuire alla persuasione, poiché è probabile che da buoni genitori nascano buoni fgli, e che chi viene cresciuto in un dato modo riesca nello stesso modo). È per questo che pronunciamo l’encomio di chi ha compiuto delle opere. le opere sono segni di una disposizione morale – ta; d∆ e[rga shmei`a th`~ e{xewv~ ejstin: potremmo quindi lodare anche chi non ha compiuto opere, se ritenessimo che sia tale da compierle» (I 9, 1367 b 27-33; cfr. b 36-38; Platone, Simposio 177 a-c). sui vari termini che afferiscono alla nozione dell’elogio, e sui loro usi in epoche e ambiti diversi, vd. Pernot 1993, p. 177 ss. Più generalmente, è da osservare che la ripartizione fra gli usi di praxis (‘azione’) e di pragma (‘cosa’, ‘atto’, ‘fatto’, ‘materia trattata’, ‘situazione’) in questo trattato non è sempre perspicua; il termine ergon è utilizzato più raramente, e in un senso che si avvicina a quello di pragma (1427 a 21; 1430 a 8; 1441 a 21; cfr. 1424 a 21, e nella lettera 1420 a 17; b 28 dove è in opposizione a logos). Vd. anche la nota 42. 99 si è sospettata una lacuna (vd. Kayser 1854, p. 284), in cui sarebbero andati perduti gli esempi corrispondenti a uJp∆ aujtou` e a di j aujtou` (1426 a 5 s.); la lacuna non è indicata da tutti gli editori. l’integrazione è dovuta a Fuhrmann: to; me;n *** ejk touvtou. 100 sánchez sanz traduce filosofei`n con il termine «estudiar», e rinvia a una nota precedente (p. 46, n. 4), in cui spiega di aver evitato di tradurre filosofiva (1421 a 16; 1441 a 36) con flosofía: il verbo filosofei`n sarebbe da intendere qui nel signifcato che esso ha in Isocrate, cioè dedicarsi allo studio dell’eloquenza

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e perseguire la paideia. Bisogna tuttavia tener presente anche il modo di esprimersi flosofeggiante di questa parte incentrata sulle cause (1426 a 5 ss.). 101 Gli esempi sono in relazione costante, in tutto il trattato, con l’intento pratico dell’autore. la diversità delle connessioni rivela la varietà degli ambiti e degli oggetti di lode e di biasimo, nei sofsti. 102 l’osservazione rifette la diffusa conoscenza delle leggi ottiche (come anche altri trattati del C.A. dimostrano; vd. per es. Problemi X 12, 892 a 16-18), e l’attenzione dell’autore per i fenomeni della percezione e della ricezione in senso ampio, e per i loro effetti. Più in generale emerge in questo passo la validità argomentativa dei contrari (apo ton enantion), del confrontare mettendo in contrasto, contrapponendo (antiparaballein – 1426 a 28), vd. per es. aristotele, Retorica I 3, 1359 a 16-26; 6, 1362 b 30 s.; 9, 1368 a 10-26; III 2, 1405 a 14-16; euripide, Elettra 1084 s. Pernot, considerate le varie forme di confronto previste dai retori (con un termine superiore o uguale, e con un termine inferiore e opposto), riassume i casi presentati in questi passi: «comparaison avec un terme sans valeur, afn de mieux rehausser l’objet, et comparaison d’opposition, pour prêter à l’objet les qualités qui manquent au terme opposé. Ces conseils reposent sur un postulat inverse à celui qui faisait reccomander les points de comparaison illustres». l’autore della Retorica ad Alessandro «ne croit pas qu’à vaincre sans péril, on triomphe nécessairement sans gloire»; al contrario fa notare che un uomo di media statura sembra più alto se confrontato con un uomo di piccola statura, e che un oggetto sembra ‘buono’ se confrontato con uno ‘cattivo’. seguendo questa analisi, il retore offre procedure variabili a seconda dei casi: «Cette manière de voir n’a pas eu une grande postérité chez les théoriciens du genre, à l’exception de quelques indications sur la comparaison d’opposition. Pourtant, elle est féconde, car elle rend compte de la variété de la pratique» (1993, p. 692 s.). seguono esempi, da vari autori, di synkriseis con un termine uguale o superiore, inferiore (p. 693 ss.), ed esempi tratti dalla teoria e dalla pratica oratoria di epoca imperiale, «dans laquelle la comparaison d’opposition reprend un certain rôle après avoir été négligée depuis la Rhétorique à Alexandre» (p. 696 ss.).

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note al testo

Cfr. aristotele, Retorica I 3, 1359 a 22; 9, 1368 a 20. su queste formulazioni e indicazioni, e sull’uso dei verbi ajpofaivnein (1426 a 21) e ajntiparabavllein (1426 a 28), vd. Pernot 1993, pp. 680, n. 106; 690 n. 160; 696. Vd. anche la nota precedente. Il tentativo dell’autore è di offrire una guida generale per far fronte a una grande varietà di applicazioni pratiche. tra i metodi indicati, il primo (1426 a 19 ss.) è più semplice, gli altri (1426 a 23 ss.) sono più articolati, e prevedono una scelta oculata del termine di confronto: si tratta di associare e poi di mettere in contrasto, esaltando o minimizzando. ogni scelta è ‘colorata’ in modo partigiano, ma si basa accortamente su doxai ampiamente condivise. Infne (1426 a 31 ss.) il retore dà un orientamento che riguarda la tecnica del contrasto in generale e il processo di amplifcazione. «l’amplifcatio (exaggeratio; au[xhsiı) è un graduale processo di ingrandimento di un dato naturale coi mezzi dell’arte, nell’interesse della utilitas causae. la amplifcatio è, quindi, uno strumento della parzialità sia nella sfera intellettuale che in quella emozionale. Fonti delle idee della amplifcatio sono i loci» (lausberg 2002, p. 53, par. 71). l’amplifcazione ha «due direzioni partigiane: quella dell’accrescimento e quella della diminuzione» (Id., p. 54, par. 73, 1); l’amplifcazione che attenua si chiama minutio, meivwsiı. È da notare che il termine meivwsiı non compare in questo trattato; il concetto di ‘diminuzione’, ‘riduzione’ è espresso dal sostantivo tapeivnwsiı (1425 b 39; 1428 a 2; 14; 1436 a 17) e, più frequentemente, dal verbo tapeinou`n; una valenza non tecnica ha l’aggettivo tapeinovı. lausberg distingue quattro genera amplifcationis, dal punto di vista del procedimento: incrementum, comparatio, ratiocinatio, congeries (2002, p. 56 s., par. 76-80). 104 Quest’ultimo metodo è di carattere più propriamente giudiziario; cfr. 1440 b 5 ss. sono tuttavia da tener presenti l’inizio della trattazione su questa specie di discorso (1425 b 36 s.), e un passo della Retorica di aristotele: «Poiché l’elogio trae origine dalle azioni, ed è proprio di un uomo ammirevole agire in base a un proposito – kata; proaivresin, si deve cercare di dimostrare che chi agisce lo sta facendo in questo modo, ed è utile che sembri essersi comportato così molte volte. Per questo motivo si devono intendere anche gli avvenimenti fortuiti e quanto deriva dal caso come se fossero dovuti a un deliberato proposito: se si possono

note 103-105

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presentare molti esempi dello stesso genere, infatti, sembreranno segnali di virtù e di un proposito – shmei`on ajreth`~ ei\nai dovxei kai; proairevsew~» (I 9, 1367 b 21-26; cfr. 1368 a 13-15). anche in questo caso, l’assenza di esemplifcazione, l’uso dei pronomi di genere indeterminato e di preposizioni polisemiche, oltre alle incertezze testuali, rendono problematica l’interpretazione. Chiron propone nelle note in calce due possibili alternative alla sua traduzione: 1426 a 39 s. «qu’elle [la personne] a agi de concert avec des gens auxquels personne d’autre ne s’était associé», oppure «qu’elle a agi dans des conditions inouïes»; 1426 a 40 (ejpi; touvtoi~ ejf j oi|~ è un suo emendamento) «qu’elle a poursuivi des buts que nul autre n’avait recherchés», oppure «en poursuivant des buts inouïs». ancora, secondo il testo dato da Fuhrmann (ejpi; touvtoi~ meq j ou}ı), si avrebbe: «en prenant la suite de gens que personne d’autre n’a suivis» (p. 30, ad loc.). Più generalmente si nota, nel trattato, la tendenza alla ripetizione, a dire le stesse cose con parole diverse (vd. wJ~ ejk pollou` proenovhsen 1426 a 37 e wJ~ ejk pronoiva~ 1426 b 1). Pernot richiama l’attenzione sull’argomento di anteriorità nell’elogio, e sull’uso, in tale contesto, di una parola chiave: protos. «Ce mot, au sens temporel, est répertorié par les théoriciens parmi les arguments de l’amplifcation et se rencontre souvent dans la pratique. [...] la Rhétorique à Alexandre, 3, 10 n’emploie pas le mot protos, mais l’expression équivalente “nul autre auparavant”» (1993, pp. 705-709). Questo passo è ricordato da Pernot tra i numerosi altri esempi, in autori diversi: quando si loda, sono importanti la modalità dell’azione lodata e il suo carattere intenzionale, il suo essere frutto di una scelta, e non del caso o della costrizione (p. 709). 105 l’esempio è conforme a noti procedimenti e mostra un graduale passaggio dalla sfera privata a quella pubblica; cfr. lisia, Per l’invalido 20; Contro Filone in occasione della docimasia 23; eschine, Contro Ctesifonte 78. Il verbo ejpoikodomei`n è utilizzato da aristotele in un passo della Retorica, in cui si discute come determinare la superiorità di una cosa rispetto a un’altra, o il loro rapporto: la divisione (diairesis) appare utile per l’effetto che si vuole ottenere. «suddivise in parti, le stesse cose appaiono più grandi, poiché sembra esservi

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note al testo

superiorità in un maggior numero di cose: per questo motivo il poeta dice che a convincere Meleagro a scendere in campo fu la descrizione delle sventure che “toccano agli uomini, dei quali la rocca è conquistata: il popolo perisce, il fuoco consuma le case, altri rapiscono i fgli” [omero, Iliade 9, 592-594 – il testo è parzialmente diverso]. e anche la combinazione e l’accumulazione fanno sembrare maggiore qualcosa, come ad esempio accade in epicarmo, sia perché ciò equivale alla divisione (la combinazione rappresenta una forma di maggiore grandezza), sia perché sembra principio e causa di grandi cose» (I 7, 1365 a 10-18; cfr. II 23, 1397 b 14 ss.; cfr. Meccanica 857 a 2 s.). nell’accumulazione amplifcante, i membri non sono equivalenti, ma si ha una progressione (gradatio, kli`max) dal minore al maggiore. Chiron ritiene che ai[tion (1426 b 7; cfr. 1426 b 15; 1427 a 20 s.) si riferisca a un soggetto non espresso, che egli interpreta come ta; legovmena, cioè gli oggetti della lode e del biasimo, in generale (p. 134, ad loc.), e traduce: «en somme, si tu fais ressortir que ce dont tu parles est la cause de beaucoup de choses, que ce soit des biens ou des maux, cela paraîtra grand»; similmente, sánchez sanz: «Resumiendo, parecerá importante aquello que muestres que es causa de muchas cosas, sean buenas o malas». la diffcoltà del passo è segnalata da spengel: in apparato suggerisce che sia forse da leggere mevga invece di megavla (errore plausibile, dati i neutri plurali che precedono); cfr. la traduzione di Gohlke: «Kurz, wenn man zeigt, daß etwas große Folgen gehabt hat, wird es selber groß erscheinen, im Guten wie im Bösen». Mirhady intende: «In short, if you point out a cause of many things, whether they are good or bad, they appear important». altri traduttori ritengono che ‘un uomo’ sia ai[tion. Forster traduce: «Generally speaking: if you can prove that a man is the cause of many good or bad things, these things will appear to be important»; Rackham: «and in brief, if you prove a man responsible for many things, whether good or bad, they will bulk large in appearance». similmente il Filelfo («summatim autem si multarum sive bonarum sive malarum rerum eum causam ostenderis, eae magnae videantur necesse est» – nella traduzione di Matteo Franceschi eum diventa: «quello, che tu lodarai, ouero biasimarai») e Barthélemy saint-Hilaire («en un mot, si l’on montre que quelqu’un a fait une foule de choses, soit en bien soit en mal, les

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choses paraîtront d’autant plus grandes»). Il fulcro argomentativo è dato dalla nozione di ‘causa’: indicare qualcosa o qualcuno come causa ‘serve’ ad amplifcarne il valore, sia nel bene sia nel male, tanto più quanto più numerosi saranno i beni o i mali ‘causati’; tuttavia ‘le cose buone o cattive’ sembrano piuttosto solo dei mezzi per amplifcare, e non direttamente oggetto della lode. 106 Vd. il passo della Retorica di aristotele, citato nella nota precedente. spengel, nel suo commento (p. 142), fa riferimento alla fgura detta più tardi dai Greci merismov~ (distributio). 107 Rackham aggiunge h] davanti a wJ~ (metiw;n h] wJ~ ktl – 1426 b 14: «you will pursue the opposite method to that which we have described»); in nota suggerisce un altro possibile emendamento: oi|~ per wJ~. sulla varietà dei termini per indicare la nozione del ‘biasimo’, vd. Pernot 1993, p. 481 ss. (in particolare p. 482). 108 aristotele divide così gli argomenti propri ai diversi generi: «nel complesso, tra le forme comuni a tutti i generi oratori, l’amplifcazione è la più adatta ai discorsi epidittici (poiché essi prendono in considerazione azioni sulle quali tutti sono d’accordo, al punto che non resta che conferire loro bellezza e grandezza), gli esempi lo sono per i discorsi deliberativi (poiché è in base agli avvenimenti trascorsi che possiamo congetturare quelli futuri), e gli entimemi per i discorsi giudiziari (poiché un avvenimento passato, per la sua incertezza, richiede soprattutto una causa e una dimostrazione)» (I 9, 1368 a 26-33). signifcativi per un confronto sono anche la conclusione del discorso sul genere epidittico, e l’inizio, subito dopo, della trattazione sul genere giudiziario: «Questi sono dunque gli elementi dai quali si formano più o meno tutti i discorsi di lode e di biasimo, che si debbono tener d’occhio nel lodare e nel biasimare, e dai quali nascono gli encomi e le invettive. se si è in possesso di questi elementi, risultano evidenti quelli contrari a questi, poiché il biasimo deriva dai contrari. Dovremo ora dire, a proposito dell’accusa e della difesa, da quanti e quali elementi si debbano formare i sillogismi» (I 9, 1368 a 33-10, 1368 b 2). 109 l’assenza della relativa o} peri; th;n dikanikhvn ejsti pragma­ teivan (1426 b 23 s.) nel papiro; il passagio dal singolare al plurale (vd. i pronomi o}, aujta; e aujtoi`~ – 1426 b 23-25); l’uso del termine

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note al testo

pragmateiva, presente solo qui, in questo trattato, e nell’insieme la goffaggine dell’espressione confermerebbero, secondo Chiron (p. 134, ad loc.; cfr. p. lXXXIX ss.; 1999, p. 314), che il testo è stato ritoccato. Fuhrmann dà questo testo, accogliendo l’integrazione di Zwierlein, basata sul confronto con altri passi (1969, pp. 74-77): Dievlqwmen de; pavlin touvtoi~ oJmoiotrovpw~ tov te kathgoriko;n kai; to; ajpologiko;n ei\do~, aujtav te ejx w|n sunevsthke kai; wJ~ aujtoi`~ dei` crh`sqai. Vd. anche Fuhrmann 1965, p. 150. 110 le lezioni ejxhvghsi~ e uJpopteuqevntwn sono del papiro; la tradizione manoscritta ha invece ejxavggelsi~ e kaqupop­ teuqevntwn, forme giudicate sospette già prima della scoperta del papiro (Chiron, pp. 31 e 135, ad loc.; 1999, p. 314). Come noto, la composizione con due o più preverbi è una tendenza relativamente tarda della lingua greca. Il termine ejxhvghsi~ è confermato da narratio delle traduzioni latine (translatio vaticana e translatio americana). la distinzione tra adikema/adikia e hamartema/ hamartia è ricorrente in questo trattato, ed è argomentativamente utile quando si chiede o si impedisce il perdono. Adikia e adikema indicano propriamente l’ ‘ingiustizia’, l’ ‘atto ingiusto’ commesso consapevolmente; hamartema e hamartia indicano l’ ‘errore’, la ‘colpa’ (nel greco cristiano passano al signifcato di ‘peccato’). la differenza estesa più avanti al termine atychia (1427 a 30 s.) rifette le classifcazioni e le distinzioni aristoteliche, ed è frutto di quell’approfondimento relativo all’agire umano e alle sue motivazioni, cominciato già con omero, che ha gradualmente portato al passaggio dalla concezione della vendetta privata a quella della pena sottoposta al controllo della comunità. sulle origini della distinzione fra atto volontario e atto involontario, sulle legislazioni di Draconte e di solone, sul contributo dei flosof presocratici (Gorgia in particolare, nel suo Encomio di Elena), di Platone (soprattutto nelle Leggi) e di aristotele (con il quale si profla «una teorizzazione precisa e defnitiva») all’elaborazione del concetto di ‘atto volontario’ e di ‘responsabilità’, e sulla sua infuenza sul diritto penale greco, vd. Biscardi 1982, p. 275 ss., in particolare, p. 304 ss. Come si è visto (nota 108), aristotele nell’introdurre la parte dedicata all’accusa e alla difesa, parla subito del modo di articolare il ragionamento, e della necessità di defnire il signifcato di

nota 110

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adikein: «si devono prendere in considerazione tre elementi: in primo luogo per quali e quanti motivi si commette ingiustizia, in secondo luogo con quale disposizione d’animo, e in terzo luogo nei confronti di quali persone, e la disposizione di quest’ultime. Procederemo con ordine nell’esposizione, una volta defnito il ‘commettere ingiustia’ – to; ajdikei`n. Defniamo ‘commettere ingiustizia’ come il danneggiare volontariamente e contrariamente alla legge [...]. si compie un’azione volontariamente quando si è consapevoli e non si viene forzati. non tutte le azioni che si compiono volontariamente sono compiute in base a un proponimento, mentre tutte le azioni compiute in base a un proponimento sono compiute volontariamente: infatti, nessuno ignora ciò che si propone. I motivi per cui ci si propone di fare del male o di commettere azioni spregevoli, violando la legge, sono la malvagità e la dissolutezza» (Retorica I 10, 1368 b 3-14). aristotele passa poi a esaminare i motivi per cui si compie ingiustizia, e quale è la disposizione d’animo di chi la compie: «tutti gli uomini compiono le loro azioni, senza eccezione, in parte non per causa propria, in parte per causa propria. e delle azioni che si compiono non per causa propria, alcune si fanno per caso, altre per necessità; e tra le azioni che si fanno per necessità, alcune per costrizione, altre per natura. Di conseguenza, tutte le azioni che si compiono non per causa propria si fanno o per caso o per natura o per costrizione. le azioni invece che si fanno per causa propria, e di cui siamo noi stessi i responsabili, sono compiute o per abitudine o per impulso, e di queste inoltre alcune per un impulso razionale, altre per un impulso irrazionale [...]. Di conseguenza, tutte le azioni che si compiono, senza eccezioni, si devono compiere necessariamente per sette cause: per caso, per natura, per costrizione, per abitudine, per ragionamento, per ira, per desiderio – dia; tuvchn, dia; fuvs in, dia; bivan, di j e[qo~, dia; logismovn, dia; qumovn, di j ejpiqumivan» (10, 1368 b 32-1369 a 7). In questo contesto, la distinzione fondamentale, da cui scaturiscono le altre, è tra azione volontaria e azione involontaria. Più avanti, nel valutare le azioni delittuose (13, 1373 b 1 ss.), e nell’approfondire la nozione di equità («ciò che è equo sembra giusto, e l’equità – to; ejpieikev~ – è una forma di giustizia che va al di là della legge scritta» – I 13, 1374 a 26 s.), si specifca per quali azioni può essere previ-

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note al testo

sto il perdono: «le azioni per le quali si deve avere indulgenza – suggnwvmhn – sono eque, ed è equo anche non considerare alla pari gli errori – ta; aJmarthvmata – e le azioni ingiuste – ta; ajdikhvmata, oppure gli errori e le sventure – ta; ajtuchvmata: le sventure sono impreviste e non derivano da malvagità, gli errori non sono imprevisti, ma non provengono da perversità, mentre le azioni ingiuste non sono impreviste e sono originate da perversità. È inoltre equo provare indulgenza per le debolezze umane, guardare non alla legge ma al legislatore e cioè non alla lettera della legge ma al proposito del legislatore; e considerare non il fatto in sé stesso ma l’intenzione; non la parte ma il tutto; non come ora è un uomo, ma come è stato sempre o nella maggioranza dei casi. È equo ricordare più il bene che il male ricevuto, e più il bene ricevuto che quello fatto; sopportare l’ingiustizia; preferire la risoluzione di una questione attraverso la ragione e non per vie di fatto. È equo anche preferire il ricorso all’arbitrato piuttosto che al tribunale, in quanto l’arbitro – diaiththv~ – tiene lo sguardo rivolto all’equità, il giudice – dikasthv~ – alla legge» (13, 1374 b 4-21). Distinzioni parallele si leggono nell’Etica Nicomachea: «tra le azioni volontarie, alcune compiamo per scelta, altre non per scelta: per scelta tutte quelle che compiamo avendo precedentemente preso una deliberazione, non scelte invece sono tutte quelle non procedenti da una deliberazione precedente. essendo tre i danni che si possono compiere nei rapporti con gli altri, quelli che si accompagnano a ignoranza sono errori – aJmarthvmata: quando si è agito supponendo che la persona o la cosa o il mezzo o il fne fossero diversi. [...] Insomma, quando il danno ha luogo contro ogni previsione, si tratta di una disgrazia – ajtuvchma; quando invece non ha luogo contro ogni previsione, però senza malizia – a[neu de; kakivaı, si ha un errore – aJmavrthma (si commette un errore, infatti, quando il principio dell’imputazione risiede nel soggetto; si ha invece una disgrazia – ajtuvchma – quando risiede fuori del soggetto). Quando ha poi luogo con piena avvertenza, ma senza una deliberazione precedente, si ha un’azione ingiusta – ajdivkhma: ad esempio le azioni che si compiono per collera o per quante altre passioni, necessarie o naturali, sopraggiungono all’uomo. Causando infatti questi danni e commettendo questi errori si agisce ingiustamente, ma tuttavia per esse non si è ancora ingiusti

note 110-111

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né malvagi: infatti il danno non è dovuto a cattiveria. Quando invece l’azione deriva da una scelta deliberata si è ingiusti e cattivi – a[diko~ kai; mocqhrov~» (V 10, 1135 b 8-25). In questo passo si distingue ulteriormente tra ‘agire ingiustamente’ e ‘essere ingiusti’ (a[dikon ei\nai). seguono approfondimenti sui motivi delle azioni, sulle scelte, sulle valutazioni del fatto, e considerazioni sulle azioni che si possono perdonare e su quelle imperdonabili: «Delle azioni involontarie alcune sono perdonabili, altre non sono perdonabili. Infatti tutti gli errori che gli uomini commettono, non soltanto ignorando ma anche per ignoranza, sono perdonabili; tutti quelli invece che si commettono non per ignoranza, ma ignorando e a causa di una passione né naturale né umana, non sono perdonabili» (1136 a 5-9; cfr. V 10, 1135 a 8-33; III 1, 1109 b 30-8, 1115 a 3). aristotele, come Platone, «distingue chiaramente tre tipi di atti illeciti, diversamente qualifcati dal diverso atteggiamento psichico dell’agente. Platone, con riferimento più specifco all’omicidio, distingueva omicidio involontario, omicidio commesso per impetuosità (qumw≥`) e omicidio premeditato. aristotele distingue atto ingiusto commesso per errore (aJmavrthma), atto ingiusto commesso consapevolmente senza premeditazione, e atto ingiusto commesso consapevolmente e premeditato (entrambi qualifcati come ajdikhvmata)»; l’ ajtuvchma è il «danno provocato senza colpa che, in quanto tale, non è atto ingiusto» (Biscardi 1982, p. 308). noti versi dei tragici testimoniano la coscienza della complessità dell’agire umano, e la diffusione di nozioni e distinzioni ormai saldamente acquisite e imprescindibili. 111 la necessità di analizzare le motivazioni delle azioni, preminente nel passo della Retorica di aristotele sopra ricordato, e l’intento puramente pratico della Retorica ad Alessandro, in cui si guarda solo al loro risultato, sono qui ben evidenti. Cfr. Retorica I 10, 1368 b 28-32: «Innanzitutto distinguiamo con quali aspirazioni o timori gli uomini si accingono a compiere un’ingiustizia. È evidente che l’accusatore deve esaminare quali e quanti dei moventi, per i quali tutti commettono ingiustizia nei confronti del prossimo, siano presenti nell’avversario, mentre il difensore deve considerare quali e quanti di questi siano assenti». la coppia ponhriva/ ajbelteriva (1426 b 30 e 32) potrebbe riprodurre l’opposizione tra azione ingiusta e premeditata, e errore

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note al testo

o mancata previsione delle conseguenze (vd. i passi aristotelici sopra citati, e cfr. Retorica II 15, 1390 b 29 s.). Il termine ejpiceivrhma (1426 b 36) è tecnico in ambito logico (vd. per es. aristotele, Topici II 4, 111 b 12; VIII 3, 158 a 35; 11, 162 a 16; 14, 163 a 37, e passim); per questo, la lezione ejpiceirhvma­ ta, intesa nella sua specifca accezione di argomentazione logica, è stata giudicata sospetta ed espunta (vd. Chiron, pp. 32 e 135, ad loc.). tuttavia qui il termine, che ha il generico valore di ‘attacco’, ‘azione militare’ (vd. per es. tucidide, La guerra del Peloponneso VII 47, 1), può essere usato in senso puramente metaforico. 112 I processi, sia privati sia pubblici, in cui la pena non era fssata dalla legge, ma doveva essere determinata dai giudici, in base alla proposta delle parti, erano detti agones timetoi, ‘rimessi ai giudici’ (vd. Hansen 2003, pp. 473; 299; 317). Vd. anche il passo già citato della Retorica (nota 110), in particolare I 13, 1374 b 11 s.; b 19-22; 1374 a 18-26 (vd. la nota 118). 113 su questo passo controverso, e sul contributo del papiro alla costituzione del testo (la congettura di spengel timw`s in è confermata dal papiro), vd. spengel, pp. 22 e 144; Grenfell/ Hunt 1978, pp. 128, 316-318; 138 (si propone una restituzione congetturale della parte lacunosa del papiro); Chiron, pp. 32 e 135, ad loc. Fuhrmann dà questo testo: o{tan de; oiJ dikastai; timw`s in, [***] aujxhtevon ejsti; ta; tou` ejnantivou ajdikhvmata kai; mavlista me;n ktl. 114 ) Cfr. lisia, Contro Simone 41-43; Platone, Leggi IX 876 e-877 c (pene per tentato omicidio, e leggi su casi di ferimento premeditato). 115 Cfr. per es. lisia, Contro Alcibiade (I) 41-45; Contro i mercanti di grano 17-22; Contro Nicomaco 26-30; Demostene, Contro Timocrate 66 s. 116 Cfr. per es. lisia, Contro Teomnesto (I) 30. 117 Cfr. per es. lisia, Contro i mercanti di grano 19; Per l’uccisione di Eratostene. Discorso di difesa 36. 118 I tre ‘metodi’, o vie e percorsi possibili (provare che non si è commesso il fatto; dimostrare che il fatto commesso è giusto; fare appello al perdono), sono esposti subito dopo, ed evocano la teoria degli status (vd. la nota seguente). aristotele, nella Retorica, pone al centro della soluzione, nei

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casi di contestazione dell’accusa, la questione della ‘qualifcazione’ (epigramma) dell’atto: «Dal momento che spesso gli uomini, pur ammettendo di aver compiuto una determinata azione, non riconoscono la defnizione – to; ejpivgramma – dell’accusa o il punto sul quale verte la defnizione – ad esempio, quando si ammette di aver preso, ma non rubato, di aver colpito per primi, ma non di aver commesso un atto di violenza, di aver avuto rapporti sessuali, ma non di aver commesso adulterio, oppure di aver rubato, ma non di aver commesso un furto sacrilego (perché l’oggetto non è di proprietà di un dio), oppure di aver coltivato abusivamente un terreno, ma non un terreno pubblico, di aver colloquiato con i nemici, ma non di aver commesso tradimento – per tali motivi si dovranno fssare anche le defnizioni di furto, violenza e adulterio – dia; tau`ta devoi a]n kai; peri; touvtwn diwrivsqai, tiv klophv, tiv u{bri~, tiv moiceiva – perché, qualora si voglia dimostrare tanto che un fatto sussista quanto che non sussista, sia possibile chiarire ciò che è giusto. In tutti i casi di questo genere la contestazione riguarda il fatto che chi agisce sia ingiusto e malvagio oppure non sia ingiusto, perché la cattiveria e l’ingiustizia risiedono nell’intenzione e termini quali ‘atto di violenza’ e ‘furto’ segnalano l’intenzionalità: se infatti si colpisce qualcuno, non in ogni caso si commette un atto di violenza, ma soltanto se lo si fa in vista di un dato fne, ad esempio per disonorare l’altra persona o per il proprio piacere. e neppure se si prende di nascosto si ruba in ogni caso, ma solo se lo si fa per danneggiare la vittima del furto o per impossessarsi di qualcosa. anche negli altri casi si ha la stessa situazione che in questi» (I 13, 1373 b 38-1374 a 17). Fondamentalmente si tratta di applicare il criterio della distinzione, del diorizein (1374 a 30 e 32) e dell’equità (1374 a 26 ss.), ma soprattutto di tener conto del fatto che la legge scritta può aver tralasciato qualcosa, o essere imprecisa, a causa del numero infnito di casi che si possono verifcare. Il passo della Retorica appare di grande rilevanza nella storia del diritto: «Posto che vi sono due tipi di azioni giuste e ingiuste (alcune sono infatti fssate per iscritto nelle leggi, altre non sono scritte), s’è parlato prima di quelle trattate dalle leggi, mentre di quelle non scritte vi sono due tipi, e cioè alcune caratterizzate da un estremo di virtù o di vizio, alle quali si indirizzano biasimo, lode, infamia, onore, e ricompense (ad

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note al testo

esempio, avere riconoscenza per un benefattore, contraccambiare il bene ricevuto, essere disposti ad aiutare gli amici e così via), altre che rappresentano dei punti tralasciati dalla specifca legge scritta. Ciò che è equo sembra giusto, e l’equità è una forma di giustizia che va al di là della legge scritta. Questo fatto si verifca a volte con la volontà dei legislatori, a volte senza: senza la loro volontà, se il particolare è sfuggito alla loro attenzione, per loro volere, invece, se non sono in grado di dare norme precise, ma devono necessariamente fare prescrizioni in generale, non per la totalità, ma solo per la maggior parte dei casi; inoltre, tutte le volte in cui non sia facile porre delle norme precise a causa del numero infnito di casi – di∆ ajpeirivan, ad esempio a proposito della dimensione e del genere di arma in un ferimento: una vita intera non sarebbe suffciente a chi volesse prendere in esame tutte le possibilità – uJpoleivpoi ga;r a]n oJ aijwn; diariqmou`nta. se dunque non è possibile giungere a una defnizione esatta, e tuttavia è necessario stabilire delle leggi, bisogna formularle in termini generali: di conseguenza, se un uomo che porta un anello solleva la mano per colpire o effettivamente colpisce qualcuno è colpevole e commette un reato di fronte alla legge scritta, ma nella realtà non lo commette» (13, 1374 a 18-1374 b 1). la frase [povqen a[n ti~ ajpologhvsaito], espunta dagli editori, costituisce una tipica indicazione marginale del contenuto, fnita nel testo. 119 Il diverso livello in cui si pone la stessa questione (la contestazione di un’accusa), in aristotele e nel nostro trattato, è ben evidente: qui si prospetta una gradualità e si tiene conto solo del risultato che ci si propone di raggiungere, senza far alcun riferimento alla reale motivazione o all’intenzionalità dell’atto, o ad altre distinzioni. Il passo è tuttavia interessante perché contiene un abbozzo di una teoria che si imporrà tra i retori (dopo aristotele e in gran parte indipendentemente da lui), detta degli status della causa: «Dans sa forme hermagoréenne, il s’agit d’un complexe algorithme (“arbre” de choix) codifant de manière exhaustive l’analyse des situations de controverse et la découverte des arguments pro et contra» (Chiron, p. ClIII). Per l’origine e lo sviluppo della dottrina delle staseis (status, constitutiones), vd. per es. Calboli Montefusco: essa rappresen-

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tò nella retorica antica «una delle componenti più importanti, in quanto costituiva l’aspetto più complesso delle regole relative all’inventio». essenziali per la sua formazione furono «l’ambiente peripatetico-accademico prima ed ermagora di temno dopo» (1986, p. 1). ermagora diede defnitva sistemazione a una dottrina preesistente, cui si rifecero i retori posteriori. Un utile schema riassuntivo dell’articolata suddivione delle staseis si può leggere nell’introduzione all’edizione di ermogene curata da Patillon (2009). 120 Per queste distinzioni, vd. i testi della Retorica e dell’Etica Nicomachea, citati nella nota 110. Cfr. Demostene, Per Ctesifonte, sulla corona 274 s.: «Io vedo che presso tutte le comunità umane vicende di questo genere sono defnite e regolate all’incirca secondo il seguente principio: il delitto volontario – ajdikei` ti~ eJkwvn – è oggetto di sdegno e punizione; per quello involontario – ejxhvmartev ti~ a[kwn – si usa indulgenza, anziché punirlo. se un individuo cui non si possono attribuire colpe né errori – ou[t∆ ajdikw`n ti~ ou[t∆ ejxa­ martavnwn – ha dedicato sé stesso a un’impresa giudicata utile da tutti ma ha subito, al pari di tutti, un insuccesso – ouj katwvrqwsen, è giusto condividere la sua pena, piuttosto che biasimarlo o ingiuriarlo. l’esistenza di tali principi, che si può facilmente constatare nel diritto positivo, caratterizza anche le prescrizioni della natura affdate alle leggi non scritte e alle consuetudini degli uomini – toi`~ ajgravfoi~ nomivmoi~ kai; toi`~ ajnqrwpivnoi~ h[qesin. ebbene: eschine è giunto a eccessi tanto disumani di crudeltà e malignità da presentare come capi d’accusa contro di me persino quelle che egli stesso ha defnito sventure volute dal caso – wJ~ ajtuchmavtwn ejmevmnhto» (trad. di a. natalicchio, in Canfora 2000). 121 nella linea 1427 a 37, Zwierlein (1969, p. 77 s.) e Fuhrmann correggono ejxamartei`n in ejxamartein; Chiron conserva il testo tradizionale, motivando tuttavia la propria scelta in un modo non del tutto condivisibile. l’uso dell’infnito aoristo attiene, come noto, all’aspetto dell’azione, e non al tempo; Chiron osserva: «il est plus prudent de dire à des jurés “tout le monde a commis des fautes” que “tout le monde commet des fautes” (p. 136, ad loc.). Reeve propone l’espunzione delle linee 1427 a 38 ouj movnon – a 39 ajlla; kai;: « ‘not only peculiar to oneself but also common...’ is nonsense» (1970, p. 238). In realtà si vuole dare enfasi proprio

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all’esperienza comune, in cui far rientrare quella personale. Il pubblico che assisteva ai processi è composito: far leva su situazioni e sentimenti, che ognuno può aver sperimentato o provato, può avere un’infuenza sull’andamento del processo stesso. 122 Fuhrmann integra dopo il primo kai; di l. 1427 b 3. 123 Il termine ejxevtasiı (e il verbo ejxetavzein) indica in genere una ricerca, un’indagine, ma con accezioni diverse, a seconda dei contesti: si può trattare di una rassegna militare, di una parata (vd. per es. tucidide, La guerra del Peloponneso IV 74, 3; senofonte, Anabasi I 2, 14; Ciropedia II 4, 1); o di un’indagine di tipo socratico, vd. Platone, Apologia di Socrate 22 e; 29 e. aristotele lo utilizza in un passo della Politica, in cui parla delle magistrature e dei controlli da effettuare (VI 8, 1322 a 36; b 35; cfr. b 11). Più generalmente si possono tener presenti il ricorso all’interrogatorio nel metodo storico, e il suo riconoscimento come strumento conoscitivo, che trova nell’Edipo re di sofocle una delle sue più alte espressioni. Per le sue applicazioni in ambito oratorio, vd. per es. lisia, Contro Eratostene 24 ss.; licurgo, Contro Leocrate 28 (vd. la nota 176). Il discorso di esame, annunciato già in precedenza (1421 b 10; vd. la nota 28), sarà ripreso nella terza parte (1445 a 30 ss.): ciò costituisce forse una conferma di una sua autonomia concettuale; qui si mette in evidenza che il metodo dell’exetasis consiste nel mostrare che vi è una contraddizione nel comportamento di chi è sottoposto a esame. «l’exetasis serve a dimostrare che all’interno del discorso o dell’azione dell’avversario si riscontrano parole od atti fra loro in contraddizione. Il che è diverso dal mostrare che le singole dichiarazioni o i singoli atti dell’avversario non trovano riscontro nella realtà o non sono probabili. l’exetasis, nella defnizione che anassimene propone al cap. 5, si avvale dunque di un metodo che si avvicina a settori del sapere diversi dalla retorica, intesa in senso stretto come teoria del discorso persuasivo, in particolare alla dialettica» (Maff 1985, p. 32). Maff richiama la teoria probatoria incentrata sull’eikos e la funzione confutatoria attribuita a tekmeria e a entimemi, in questo trattato, per mettere in evidenza che l’exetastikon eidos sembra confgurarsi «come il polo formale intorno a cui si organizza la concezione dialettica del

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sistema probatorio» (p. 35). suppone inoltre che in questo trattato l’exetasis possa «alludere ad un’organizzazione del dibattito processuale in cui l’interrogatorio aveva o avrebbe dovuto avere un ruolo di primo piano» (p. 36); per dimostrare questo suo assunto, si sofferma brevemente sulla fase che precede il dibattimento vero e proprio, nel processo attico, e cioè sull’istruttoria (anakrisis). «l’obbligo di rispondere alle domande della controparte costituirebbe [...] un ponte tra la fase dialettica (istruttoria) e la fase retorica (dibattimento) del procedimento: gli atti istruttori e in particolare l’interrogatorio fsserebbero le posizioni delle parti da cui prendono le mosse il discorso di accusa e quello di difesa. Il trattato di anassimene fornisce però elementi per ritenere che la distinzione tra le due fasi non fosse così netta e in particolare che una componente dialettica avesse un certo peso anche nella fase dibattimentale. [...] a conclusione [...] sembra dunque di poter avanzare l’ipotesi che lo stesso diritto positivo attico favorisse uno svolgimento dialettico del dibattimento. Il fatto che la legge si preoccupi di assicurare lo svolgimento dell’interrogatorio ci indica che esso poteva assumere un ruolo importante nel procedimento probatorio attico e rafforza la supposizione che per anassimene esso costituisca una procedura conoscitiva atta a fondare un autonomo eidos del discorso, appunto l’eidos exetastikon» (pp. 36 e 38). Maff precisa che per l’autore di questo trattato l’exetasis non si attua esclusivamente attraverso l’interrogatorio, ma può svolgersi anche in forma narrativa, soprattutto quando si applica a un genere di discorso diverso da quello giudiziario (p. 39; cfr. p. 43, n. 34: «è anche dubbio se l’exetasis della testimonianza [vd. 1431 b 34 s.] fosse intesa da anassimene in forma di interrogatorio»). la relazione fra l’interrogatorio e la defnizione proposta dal retore «risulta confermata da due importanti esempi di interrogatorio dibattimentale conservati nelle fonti attiche: quello di Meleto nell’Apologia platonica e quello di eratostene nella omonima orazione di lisia» (p. 38). l’interrogatorio di Meleto mira a dimostrare che le sue risposte contraddicono l’accusa da lui mossa (Apologia 27 a), e «corrisponde perfettamente alla defnizione anassimenea dell’exetasis come metodo con cui si mette in luce che i discorsi dell’avversario si contraddicono»; l’exetasis può d’altra parte «consistere anche nel mostrare che le azioni dell’avversario sono contradditto-

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rie» (p. 39), come nell’interrogatorio di eratostene (lisia, Contro Eratostene 24 ss.). Rossitto, soffermandosi sulla Retorica ad Alessandro, e sull’uso retorico dell’exetasis, analizza i tipi di opposizione che essa individua: l’opposizione «tra scelta e scelta compiute dallo stesso uomo, oppure tra azione e azione, o ancora tra discorso e discorso», e le opposizioni «che hanno luogo sempre riguardo a scelte, azioni o discorsi di una persona, ma questa volta in rapporto ad altro», cioè opposizioni «tra alcuni aspetti della vita di un uomo e i corrispondenti aspetti di un altro tipo di vita che sia altamente accreditato», e che costituisca un endoxon (1989, p. 196 s.). nel primo caso, si ha un generico concetto di opposizione: «lo scopo dell’ ejxevtasi~ nella retorica non sembra proprio essere quello di arrivare a stabilire qualche verità, e nemmeno quello di scoprire qualche falsità, ma solo, almeno fno a questo momento, di “mettere in evidenza un’incoerenza” nel comportamento, nelle azioni o nelle parole di una persona» (p. 197). Da notare inoltre che il confronto è tra comportamenti risalenti a tempi diversi (passato, presente e futuro). nell’altro caso, emerge «il carattere senza dubbio dialettico dell’ ejxetavzein, giacché [...] gli e[ndoxa, cioè le asserzioni notevoli, sono strumenti indispensabili per il procedere della dialettica in generale, e della confutazione in particolare, tanto in aristotele, quanto nel Platone dei primi dialoghi. Da questo punto di vista, pertanto, sembrerebbe che l’ ejxevtasiı della Retorica ad Alessandro si avvicinasse a quella di Platone e di aristotele, giacché, se si mettessero tra loro in opposizione l’atteggiamento di una persona ed un altro atteggiamento corrispondente in modo perfetto al precedente, ma considerato un e[ndoxon, il primo potrebbe realmente ritenersi confutato, cioè rivelarsi insostenibile, e non semplicemente “incoerente”. Vien da chiedersi, però, se lo scopo dell’ ejxevtasiı retorica nel servirsi degli e[ndoxa sia effettivamente quello di “confutare” l’atteggiamento di un uomo, o non piuttosto quello di “mostrarne l’incoerenza”, cioè la deprecabilità» (p. 197 s.). l’autrice conclude richiamando la varietà degli usi e delle valenze (a seconda del contesto) del termine exetasis, che pure ha una propria e precisa fsionomia, corrispondendo a un «tipo di indagine accurata che consente di produrre o di individuare, di mettere in luce o di superare, qualunque rapporto fra opposti: dal-

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le semplici incoerenze, che possono infuenzare un uditorio, alle contrarietà, che sono suffcienti ad invalidare una tesi, alle contraddizioni, che aprono la via verso la verità» (p. 200). 124 Cfr. 1421 b 21; 1425 b 36 s. Chiron mette in evidenza l’uso «casuistique» che un abile oratore poteva fare del termine proairesis (p. 35, ad loc.). la nozione di ‘scelta’/ ‘intenzione’ permette di trattare casi particolari e concreti, o anche solo supposti, in relazione a norme generali e a valori riconosciuti, dando un indirizzo alla valutazione del singolo caso, e trovando una soluzione o un metodo applicabile specifcamente a esso, o anche traendone orientamenti più generalmente validi. 125 scoprire le contraddizioni appare al centro dell’indagine; signifcativo è pertanto il collegamento che più avanti sarà stabilito tra entimema e metodo indicato parlando dell’exetastikon eidos (1430 a 25). nella Retorica, aristotele distingue l’entimema confutativo da quello dimostrativo (II 22, 1396 b 22-24; 23, 1400 b 29 s.); inserisce inoltre fra i topoi quello degli ‘errori commessi’: «Un altro ‘luogo’ consiste nell’accusare o nel difendersi servendosi degli errori che sono stati commessi. ad esempio, nella Medea di Carcino, alcuni accusano Medea di avere ucciso i fgli – essi, quanto meno, erano scomparsi (Medea infatti aveva commesso l’errore di mandare via i fgli). essa però si difese dicendo che avrebbe ucciso non solo i fgli, ma anche Giasone, perché sarebbe stato un errore non farlo, se aveva commesso l’altra azione. In questo ‘luogo’ e specie di entimema consiste l’intera tecnica prima di teodoro» (II 23, 1400 b 10-17). la sezione che riguarda l’esame è particolarmente controversa dal punto di vista testuale. 126 l’espressione 1427 b 19 ejnantivon – 20 fevron ha suscitato perplessità; Fuhrmann la espunge. nella linea precedente (1427 b 18 s.), Reeve propone un’integrazione exempli gratia: pavlin ejcqro;~ ejgevneto [kai;] pavlin fivlo~ tw≥` aujtw≥` touvtw≥: «to be inconsistent it is not necessary to change from a to B and back again to a: it suffces to change from a to B. there is therefore corruption, probably by loss rather than interpolation, in the eij clause» (1970, p. 238). 127 anche in questo caso, il modo di esprimersi appare contorto e ripetitivo. Fuhrmann inserisce fra cruces le linee 1427 b

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22 eijpw;n – 24 eijrhmevnoiı, proponendo possibili emendamenti in apparato. le linee 23 h] – 24 eijrhmevnoiı sono espunte da Buhle, seguito da Rackham; anche sánchez sanz ritiene corrotto il passo. Conservando il testo tràdito, si può intendere: ‘considera se non sarà capace di smentire più tardi ciò che ha appena detto’, oppure ‘considera se non continuerà a smentire ciò che ha appena detto’, sottolineando l’iterazione dei comportamenti. Chiron traduce: «ou s’il n’est pas susceptible de dire encore le contraire de ce qu’il dit ou de ce qu’il a dit antérieurement». 128 Cfr. 1427 b 13 s. (e la nota relativa); 1445 b 11 ss. sui signifcati del termine epitedeuma, vd. Pernot 1993, pp. 163-165: esso può indicare il ‘modo di vita scelto’, «la carrière embrassée dès la jeunesse»; oppure designare, come in questo caso, la condotta e il modo di essere abituale, come rivelatori del carattere. Vd. 1441 a 22. alcuni traduttori intendono ‘rispetto ai suoi comportamenti’ (Forster: «[...] in respect of his other and highly esteemed habits of life»; Rackham: «[...] inconsistent with his other habits of conduct that are estimable»; sánchez sanz: «[...] las contradicciones de la vida del indagado en sus demás actitudes notables»). Bisogna tuttavia considerare che sia all’inizio di questo capitolo (1427 b 13 s.), sia nella ripresa di questo tema (cap. 37, 1445 b 10-16), si propone anche il confronto con la vita di altre persone, quando si procede nell’indagine, che mira a individuare sia ‘contraddizioni interne’, sia ‘deviazioni’ rispetto a un modello di chiara fama (vd. le note 123; 366; 449). si potrebbe anche pensare che a[lla (1427 b 27) sia corrotto, a causa del precedente ta;, come in un altro passo (1427 b 13: pro;~ to;n a[llwn bivon si legge in alcuni codici di siriano, invece di pro;~ to;n a[llon bivon: la lezione è accolta da Chiron in quanto diffcilior). Gohlke traduce: «Ähnlich muß man auch gegenüber sonstigen auffallenden Beschäftigungen die Widersprüche in dem zu prüfenden leben aufgreifen» Chiron: «[...] contraire aux autres conduites honorables»; Mirhady: «[...] with regard to other behaviors that are held in repute»; esplicita è la resa di Barthélemy saint-Hilaire: «C’est de la même façon qu’en prenant dans la vie de celui qu’on examine certains actes, on les mettrait en contradiction avec des actes d’un tout autre caractère». 129 si può intendere così; oppure ‘per la percezione che si ha di essi’, per come appaiono o ci sembrano. Come alternativa alla sua

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traduzione («par la perception qu’on a d’eux»), Chiron suggerisce nella nota in calce: «par leur sensibilité». Kassel ritiene probabile che le parole kai; ta;~ aijsqhvsei~ siano dovute a un interpolatore (1967, p. 122 s.); vd. anche il suo intervento ad 1428 b 3, nella nota 143. Il confronto con i tipi umani è sembrato inoltre vago e non pertinente; sarebbe invece forse il caso di rifettere su una possibile allusione a teorie fsiognomiche, considerando anche lo stretto rapporto che è intercorso fra retorica e fsiognomica fn dall’antichità. 130 Chiron sottolinea l’uso del preverbio pros- (prosdevontai: «les moyens qu’elles requièrent encore en commun»), rinviando all’introduzione, in cui insiste sul rapporto fra la prima e la seconda parte, nella quale peraltro si ha un’ampia panoramica dei procedimenti di argomentazione e dei mezzi stilistici. Il primo di questi mezzi è costituito dai predicati già presentati all’inizio del trattato: «Il y a là un net chevauchement – apparemment conscient, sinon concerté (cf. prosdevontai) – entre les deux parties du traité» (p. XXIII). 131 Cfr. 1421 b 23 ss. spengel propone di integrare, dopo protreptiko;n (1428 a 1), kai; to; ajpotreptiko;n (pp. 26 e 152). Potrebbe trattarsi di un’omissione per omoteleuto; d’altra parte l’esortazione comporta il suo opposto, cioè la dissuasione. 132 Cfr. 1426 a 19 s. 133 In aristotele, la nozione di pistis è al centro del metodo retorico: «il metodo proprio della tecnica riguarda le argomentazioni – ta;~ pivstei~, e l’argomentazione è un tipo di dimostrazione – hJ de; pivsti~ ajpovdeixiv~ ti~, perché noi crediamo a qualcosa soprattutto quando riteniamo che essa sia stata dimostrata; inoltre, una dimostrazione retorica è un entimema, e questo è, per parlare in generale, la più importante delle argomentazioni, e l’entimema è un tipo di sillogismo» (Retorica I 1, 1355 a 4-8). Vd. anche l’introduzione. Il termine pivsti~ (1428 a 4), ‘prova’, ha diverse connotazioni (vd. l’introduzione), a seconda dell’ambito disciplinare, coprendo un campo semantico ampio. Per noi ‘prova’ ha, come fa opportunamente notare Roland Barthes, «una connotazione scientifca la cui assenza appunto defnisce le pivstei~ retoriche»: la resa con ‘prova’,

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o termini corrispondenti nelle altre lingue moderne, si basa essenzialmente su una consuetudine (1993, p. 60). nel contesto di un trattato di retorica, la ‘prova’ consiste nell’ ‘argomentazione’ fnalizzata alla persuasione, ed è da intendere come espediente argomentativo (vd. l’elenco più avanti – 1428 a 25-1432 b 10), ragione probante, via, metodo, e strumento di persuasione: si intersecano le indicazioni di procedimento, suo risultato e mezzo per ottenerlo. Grimaldi distingue almeno cinque accezioni di pistis (1972, pp. 57-68), tra le quali tuttavia sussiste una stretta connessione. nella linea 1428 a 5, mevrh è la lezione tràdita: Fuhrmann esprime il dubbio che sia da scrivere ei[dh; spengel (pp. 26 e 152) propone di integrare mevrh . Il termine sembra assumere in questo contesto il signifcato di ‘categoria’, di ‘specie’, alludendo alle parti in cui si suddivide l’oratoria. nella linea 1428 a 7 tau`ta – devontai, si fa riferimento ai due termini femminili precedenti (l. 6) con il pronome neutro tau`ta (spengel propone dubitativamente di leggere au|tai– p. 26); Fuhrmann la inserisce fra cruces. l’uso del neutro tuttavia si può spiegare e non crea particolari diffcoltà: Chiron suggerisce di estrapolare dal contesto un neutro come ei[dh (p. 138 ad loc.). Il termine ajntilogiva è stato utilizzato precedentemente nel senso di ‘discorso contro’ una proposta, in opposizione a sunhgoriva il ‘discorso a favore’ (1425 a 6 s.). le accezioni possono essere diverse a seconda del genere di discorso, cfr. 1439 b 3; 1445 a 32. Halm (1846, p. 578) suggerisce che forse bisogna scrivere aijtilogiva~ invece di ajntilogiva~; cfr. Kayser 1854, p. 283. 134 Rispetto agli espedienti argomentativi elencati ed esaminati successivamente (1432 b 11 ss.), si omettono qui l’eijrwneiva (1434 a 17 ss.) e l’ajsteiologiva (1434 a 33 ss.; cfr. 1436 a 20). Vd. anche l’elenco proposto più avanti (1436 a 18-22). Fuhrmann integra dopo palillogivai della linea 1428 a 8. 135 spengel defnisce inepta questa tripartizione (1428 a 17 s.; a 21 s.), non attestata altrove; ritiene pertanto che sia forse da espungere kai; dopo pravxewn (1428 a 17 s.) e dopo lovgwn (1428 a 21), vd. pp. 27 e 153. Il confronto con la Retorica di aristotele mostra ancora una volta possibili contatti fra le due opere, ma anche livelli molto diversi di sistematicità e di approfondimento: «Delle argomentazioni

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– tw`n pivstewn, alcune sono ‘non techniche’ – a[tecnoi, altre sono ‘tecniche’ – e[ntecnoi. Intendo per argomentazioni non tecniche quelle che non sono fornite da noi stessi, ma sono preesistenti, come le testimonianze, le confessioni ottenute con la tortura, i documenti scritti e cose del genere; tecniche, quelle che è possibile fornire grazie a un metodo e dipendono da noi. Di conseguenza, delle prime ci si deve servire, mentre le seconde è necessario inventarle» (I 2, 1355 b 35-39). Vd. l’introduzione. aristotele distingue tra pisteis ‘non tecniche’, che non dipendono dall’oratore, anzi sfuggono al suo processo creativo, e pisteis ‘tecniche’, che invece dipendono interamente dall’oratore, dalla sua abilità e dalla sua preparazione: esse sono l’entimema e l’esempio. Roland Barthes (1993, p. 62 s.; cfr. p. 60 ss.) schematizza così questa distinzione: atechnoi «sono elementi costituiti del linguaggio sociale, che passano direttamente nel discorso, senza essere trasformati da nessuna operazione tecnica dell’oratore, dell’autore. a questi frammenti del linguaggio sociale, dati direttamente, allo stato bruto (eccetto la valorizzazione di una collocazione) si oppongono i ragionamenti che, invece, dipendono direttamente dal potere dell’oratore (pivstei~ e[ntecnoi). [Entecnoı qui vuol dire appunto: che fa parte di una pratica dell’oratore, perché il materiale viene trasformato in forza persuasiva da una operazione logica. Questa operazione, a rigore, è doppia: induzione e deduzione. le pivstei~ e[ntecnoi si dividono quindi in due tipi: 1) l’exemplum (induzione); l’entimema (deduzione); si tratta evidentemente di una induzione e d’una deduzione non scientifche, ma semplicemente “pubbliche” (per il pubblico)». Fra le pisteis tecniche, aristotele inserisce l’ethos dell’oratore, le emozioni suscitate nell’uditorio, il valore dimostrativo del discorso (I 2, 1356 a 1-20); fra quelle non tecniche, testi di leggi, deposizioni di testimoni, contratti, dichiarazioni sotto tortura, giuramenti delle parti (15, 1375 a 22-1377 b 12). nella divisione proposta dal nostro autore, si è osservato, le relazioni stabilite non sono esclusive: «le rhéteur semble se borner à indiquer une réserve diversifée où puiser librement, réserve dont l’unité tient surtout à ce qu’elle est distincte de celle où puisent les moyens “ajoutés”. Ces derniers supposent certes une mise en oeuvre de l’orateur, mais sont moins de son ressort, ou – comme

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la dovxa tou` levgonto~ – demandent une longue préparation» (Chiron, p. 138, ad loc.). alla dovxa tou` levgonto~, di cui si tratta più avanti (1431 b 9-19), fa riferimento la dovxa (lezione di un solo codice), di cui si parla qui (l. 22) senza specifcazioni. Dopo ejpivqetoi de;, spengel ritiene che sia necessario inserire dovxa tou` levgonto~ (vd. pp. 27 e 153); Fuhrmann integra . Fuhrmann e Mirhady accolgono l’emendamento del diffcile nesso tw`n eij~ aujth;n [sc. th;n pivstin] lovgwn (1428 a 24), proposto da Zwierlein (1969, p. 78: aujtw`n eijı tou;~ lovgou~), sulla base del confronto con le linee 1421 b 34 s. e 1436 a 18. Mantenendo il testo della tradizione si può intendere: ‘i discorsi per essa, cioè per ciascuna pistis, o relativi a essa, all’argomentazione di volta in volta proposta’. Per la trattazione (con un ordine diverso delle prove, e con integrazione di altre) dei singoli temi qui annunciati, vd. 1428 a 25-1432 b 10. 136 Il nesso to; eijkov~, convenzionalmente reso con ‘il verosimile’, indica ciò che è ‘naturale, probabile, plausibile, credibile’; dal punto di vista della retorica aristotelica, esso indica ‘ciò che il pubblico crede possibile’ (Barthes 1993, p. 21). la nozione di ‘verosimiglianza’ è centrale nella retorica e nell’estetica antica, e fa parte integrante della pratica retorica. aristotele, nella Retorica, dà una defnizione del ‘verosimile’: «Il verosimile è ciò che avviene nella maggior parte dei casi, non così semplicemente come alcuni lo defniscono, ma ciò che, tra le cose che potrebbero anche essere in un modo diverso, sta, relativamente a quello in rapporto al quale è verosimile, in una relazione analoga a quella dell’universale nei confronti del particolare» (I 2, 1357 a 341357 b 1; cfr. Analitici primi II 27, 70 a 3-6). tra i quattro ‘luoghi’ da cui possono essere tratti gli entimemi, aristotele inserisce il verosimile: «I quattro ‘luoghi’ sono: il verosimile, l’esempio, l’indizio e il segno; e poiché gli entimemi sono tratti dal verosimile quando sono basati su ciò che comunemente è o sembra essere, dall’esempio quando sono risultato di induzione da uno o da più casi simili, ogni volta che, preso in considerazione l’universale, si conclude il particolare, dall’indizio quando sono basati su ciò che è necessario e sempre esistente, dai segni quando riguardano l’universale o il particolare, sia esso vero o no; e dal momento che il verosimile non è ciò che è sempre, ma solo ciò che è per lo più, è evidente che gli

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entimemi di questo genere possono essere sempre confutati sollevando un’obiezione, ma che la confutazione può essere apparente e non sempre vera. Chi solleva l’obiezione confuta mostrando non che l’argomento non è verosimile, ma che non è necessario» (II 25, 1402 b 13-24). le nozioni di verosimiglianza e di necessità sono accostate e valutate anche nella Poetica: «Compito del poeta non è dire le cose avvenute, ma quali possono avvenire, cioè quelle possibili secondo verosimiglianza o necessità» (9, 1451 a 36-38). segue la notissima distinzione tra lo storico e il poeta, tra la storia e la poesia: «la poesia è cosa di maggiore fondamento teorico e più importante della storia, perché la poesia dice pittosto gli universali, la storia i particolari. È universale il fatto che a una persona di una certa qualità capiti di dire o di fare cose di una certa qualità, secondo verosimiglianza o necessità, il che persegue la poesia, imponendo poi i nomi. Il particolare invece è che cosa fece o subì alcibiade» (9, 1451 b 5-11 – trad. di D. lanza, Milano 200417; 1a ed. 1987). Più avanti, la citazione del paradosso di agatone («come dice agatone, è verosimile che accadano molte cose inverosimili» – 18, 1456 a 24 s.) è fnalizzata alla spiegazione di una situazione anch’essa apparentemente paradossale, considerando il rapporto tra causa ed effetto (cfr. 9, 1452 a 1-11; 18, 1456 a 19-25), nell’ambito di una tensione dialettica, sempre viva nella Poetica, tra il ‘verosimile’ e il ‘meraviglioso’. Barthes dà ragione della centralità di questa nozione nella retorica di aristotele, che verte sull’entimema, su «una logica volontariamente degradata, adattata al livello del “pubblico”, vale a dire del senso comune, dell’opinione corrente». Questa «retorica di massa» ha una qualche corrispondenza con la politica di aristotele, che è «una politica del giusto mezzo, favorevole ad una democrazia equilibrata, incentrata sulle classi medie e incaricata di ridurre gli antagonismi tra i ricchi ed i poveri, tra la maggioranza e la minoranza; donde una retorica del buon senso, volontariamente sottomessa alla “psicologia” del pubblico» (1993, p. 21 s.). Il verosimile può servire da premessa all’entimema: «È un’idea generale che riposa sul giudizio che gli uomini si son fatti attraverso esperienze ed induzioni imperfette [...]. nel verosimile aristotelico stanno due nuclei: 1) l’idea di generale, in quanto si oppone all’idea di universale; l’universale è necessario (è l’attributo della

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scienza), il generale è non necessario; è un “generale” umano, determinato insomma statisticamente dall’opinione del più gran numero di persone; 2) la possibilità di contrarietà; certamente l’entimema è recepito dal pubblico come un sillogismo sicuro, sembra partire da un’opinione a cui si crede in generale “in modo infessibile”; ma, in rapporto alla scienza, il verosimile invece ammette il contrario: nei limiti dell’esperienza umana e della vita morale, che sono quelli dell’eijkov~, il contrario non è mai impossibile: non si possono prevedere in modo certo (scientifco) le decisioni d’un essere libero» (Barthes 1993, p. 72). Un’effcace sintesi degli elementi di continuità con la tradizione, ma anche di originalità che contraddistinguono la concezione aristotelica dell’eikos, si può leggere in Piazza 2008, p. 54-59. la più generica e sbrigativa defnizione del verosimile, nel nostro trattato, tiene conto essenzialmente della corrispondenza di alcune affermazioni (non di fatti osservabili) specifche con l’esperienza comune, e dell’immediato effetto sull’uditorio, che aderisce a esse, avvertendole come condivisibili. 137 l’autore insiste sulla complicità tra oratore e pubblico, su una identifcazione, che si basa non tanto su ‘fatti’ osservati e valutati, quanto sull’ ‘opinione’ ormai consolidata del pubblico, che l’oratore deve ‘conoscere’, intuire, entrando in connivenza con esso (suvnoiden/ suneidovtaı – 1428 a 30 e 33; sumpavscomen – 1428 b 3). 138 si può proporre un confronto con un passo dell’Antidosi (217) di Isocrate, in cui si afferma che tutte le azioni umane sono motivate dal piacere – hJdonhv, dal guadagno – kevrdo~, e dal desiderio di onori (timhv – cfr. Retorica ad Alessandro 1429 a 18). Isocrate sta parlando di fnalità cui tendono gli uomini che commettono ingiustizia. la suddivisione proposta qui riguarda il pathos, l’ethos e il kerdos. 139 Dell’utilizzazione del verosimile nei discorsi di accusa e di difesa si parla poco dopo (1428 b 18 ss.); si è ritenuto pertanto di dover espungere la linea 1428 a 38 ejn – ajpologei`sqai. Chiron mette in evidenza la casistica, chiaramente giudiziaria, che segue, e ritiene che il retore abbia utilizzato una fonte giudiziaria, omettendo «de lui donner le degré de généralité attendu» (p. 139 s., ad loc.).

note 137-144 140

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Il pronome può rifersi a una persona o a una cosa: ‘qualcuno o qualcosa’. Bekker e Rackham scrivono tina. 141 le linee 1428 a 39 eij [Chiron; h] codd.] – 40 pepoihkovteı, che anticipano il tema dell’abitudine (1428 b 8; b 19; 1429 a 10 s.), sono espunte da Fuhrmann, seguendo Finckh (1849, p. 14). Cfr. 1428 b 18 s., 34 s.; 1429 a 12 s. 142 Gli editori espungono queste parole; Chiron fa notare che il riferimento alla ricchezza, non è del tutto assurdo «dans la mesure où l’argent modife les jugements», ma in questo contesto esso «conduit à donner au mot pavqo~ une acception bien large» (p. 140, ad loc.). 143 Kassel ritiene che sia da espungere l’espressione 1428 b 3 h[ – aijsqhvsewn, considerandola interpolata (1967, p. 123; vd. anche la nota 129). 144 l’ampiezza della trattazione dei pathe nella Retorica (II 1-11) di aristotele contrasta nettamente con il superfciale accenno, qui, a un elemento essenziale invece in aristotele, accanto a logos e a ethos, su cui si basa ogni processo persuasivo, ogni pistis, e la cui analisi mira proprio alla costruzione di argomentazioni capaci di persuadere colui che ascolta. «le argomentazioni offerte per mezzo del discorso sono di tre specie: le prime dipendono dal carattere dell’oratore – ejn tw≥` h[qei tou` levgonto~; le seconde dalla possibilità di predisporre l’ascoltatore in un certo modo – ejn tw≥` to;n ajkroath;n diaqei`naiv pw~; le ultime dal discorso stesso – ejn aujtw≥` tw≥` lovgw≥, in quanto dimostra o sembra dimostrare qualcosa» (I 2, 1356 a 1-4). la pistis basata sull’ascoltatore consiste, in questo ambito, nel pathos. «la persuasione si realizza tramite gli ascoltatori, quando questi siano indotti dal discorso a provare un’emozione – eij~ pavqo~: i giudizi non vengono emessi allo stesso modo se si è infuenzati da sentimenti di dolore o di gioia, oppure di amicizia o di odio. ed è a questo aspetto soltanto che, come abbiamo detto, gli attuali autori di trattati rivolgono la loro attenzione» (1356 a 14-17). nel secondo libro della Retorica, aristotele analizza in profondità una serie di pathe, spesso in coppie contrapposte (l’ira e la calma, l’amicizia e l’odio, il timore e la fducia, il ritegno e l’impudenza, la gratitudine e l’ingratitudine, la compassione, l’indignazione, l’invidia, l’emulazione e il disprezzo), defnendo ogni volta chi è più

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incline a provare un determinato pathos, e in quale disposizione; il tipo di persona verso cui è più probabile provarlo; le cause che lo provocano. successsivamente (12-17), sono analizzati gli ethe, i caratteri, cioè le inclinazioni, gli atteggiamenti e i comportamenti tipici di gruppi di persone, distinte per età (giovani, vecchi e uomini maturi) o per condizione (nobili, ricchi, potenti, fortunati). l’assenza di una teoria generale delle passioni, in aristotele, e d’altra parte la loro attenta analisi, affrontata anche in altre opere, ma condotta in modo capillare solo nella Retorica, hanno sollevato come noto molte questioni. In particolare, e soprattutto in passato, è stato materia di controversia il rapporto fra pathos e logos: è sembrato che l’uno escludesse l’altro, e che fosse incolmabile la distanza tra analisi retorica e analisi flosofca delle passioni. attualmente, riconosciuto il valore cognitivo delle emozioni in aristotele (vd. per es. nussbaum 2004, in particolare p. 369 ss.), si tende a individuare la realizzazione, nell’impostazione aristotelica, di un complesso rapporto tra emozione e giudizio. nell’uomo, animale politico, emotività e razionalità costituiscono un nesso inscindibile, che aristotele ha messo in evidenza, indagando sulla possibilità di un loro equilibrio, nella vita della polis; nell’ambito pur parziale della retorica, e della ricerca di ciò che può risultare persuasivo, sfera linguistica e sfera emotiva si integrano a vari livelli. le stringate considerazioni del nostro autore contengono implicitamente il senso dell’utilità del ricorso ai pathe, utilità e fnalità che sono invece espresse con chiarezza in aristotele, e basate su una motivazione del tutto condivisibile: «Il fatto che l’oratore appaia in un dato modo è più utile nell’oratoria deliberativa, il fatto che l’ascoltatore si trovi in una data disposizione, invece, in quella giudiziaria, in quanto le cose non sembrano uguali per chi prova sentimenti d’amicizia o di odio, per chi è incollerito o tranquillo, ma sembrano completamente diverse, o diverse per importanza: se il giudice prova sentimenti di amicizia nei confronti di colui che deve giudicare, penserà che questi non ha commesso alcuna ingiustizia, o che ne abbia commessa una irrilevante, se invece gli è ostile crederà il contrario. a un uomo che desidera qualcosa e ha buone speranze di ottenerla, qualora si tratti di una cosa piacevole, sembrerà che ciò debba realizzarsi e risultare positivo, mentre il contrario si avrà per chi è indifferente o maldisposto» (Retorica

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II 1, 1377 b 28-1378 a 5). la percezione e la disposizione dell’uditorio, e la capacità, da parte dell’oratore, di cogliere gli umori del suo pubblico, e di atteggiarsi di conseguenza, sono al centro di ogni rifessione sull’effcacia della comunicazione. 145 Cfr. per es. lisia, Areopagitico. Discorso di difesa sull’ulivo sacro 13; Isocrate, Contro Eutinoo 6; Iseo, Eredità di Pirro 66. 146 nella linea 1428 b 18-19, Chiron accoglie l’emendamento di Fuhrmann: aujto;n tou`to to; (i codici hanno to; aujto; tou`to). 147 Cfr. antifonte, Terza tetralogia g 2; d 2; lisia, Per Polistrato 11 s.; Per l’invalido 19 s.; eschine, Contro Timarco 152-154. 148 Cfr. lisia, Areopagitico. Discorso di difesa sull’ulivo sacro 11-29; [Cornifcio] Retorica a Erennio II 5. 149 sui problemi posti dalla trasmissione dei pronomi personali e rifessivi, vd. Chiron 2000, pp. 67-69. 150 l’esempio o caso esemplare è una forma argomentativa tipica non solo della retorica, ma anche della storiografa. Dal punto di vista aristotelico, esso è l’analogo retorico del processo logico dell’induzione (epagoge), ed è uno strumento di dimostrazione, al pari dell’entimema, seppure nella rispettiva specifcità: «tutti gli oratori costruiscono le loro argomentazioni dimostrando o attraverso gli esempi o attraverso gli entimemi, e in nessun altro modo oltre a questi; di conseguenza, dal momento che, in senso generale, è necessario dimostrare qualsiasi cosa per mezzo o del sillogismo o dell’induzione (questo per noi risulta evidente dagli Analitici), necessariamente ciascuno dei primi due deve corrispondere a ciascuno degli altri due. Quale sia la differenza tra esempio ed entimema, risulta evidente dai Topici (dove si è già parlato del sillogismo e dell’induzione): dimostrare sulla base di numerosi casi simili che una cosa è in un certo modo è induzione nella dialettica, esempio nella retorica; dimostrare invece che, se certe premesse sono vere, qualcosa di diverso oltre a loro ne risulta in virtù del loro essere vere – interamente o nella maggior parte dei casi – viene detto sillogismo nella dialettica, entimema nella retorica» (I 2, 1356 b 6-18; cfr. Analitici primi II 23, 68 b 15-24, 69 a 19; Analitici secondi I 1, 71 a 1-11; Topici I 1, 100 a 18 ss.; 12, 105 a 10-19). l’esempio si distingue dal sillogismo induttivo essenzialmente per il non essere esaustivo e per non condurre a conclusioni universali. Ciò lo rende particolarmente adatto al discorso che si

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propone di persuadere e ha fnalità pratiche: la concisione, la facile comprensibilità e accessibilità, e il riferimento immediato a casi particolari costituiscono caratteristiche in grado di favorire il coinvolgimento e l’attenzione del pubblico. l’abilità nel trovare esempi effcaci è essenziale per un retore, che condivide in questo caso con il flosofo, o in genere con uomini d’ingegno, la capacità di ‘cogliere il simile’ (to homoion horan – Retorica II 20, 1394 a 5), capacità essenziale nel creare metafore (Retorica III 11, 1412 a 12 s.; Poetica 22, 1459 a 7 s.; Topici VI 2, 140 a 8-11): «si è già detto che l’esempio è una forma di induzione, e intorno a quali soggetti tale induzione si eserciti. esso non sta né nella relazione della parte verso il tutto, né del tutto verso la parte, né del tutto verso il tutto, ma in quella della parte verso la parte, del simile verso il simile – quando entrambi i termini rientrino nello stesso genere, ma uno sia più noto dell’altro, si ha appunto un esempio» (Retorica I 2, 1357 b 26-30). Barthes mette in rilievo il fatto che fn da aristotele, l’esempio si divide in reale e fttizio, quando cioè i fatti siano effettivamente accaduti, oppure inventati. nel primo caso sono compresi «esempi storici ma anche mitologici, in opposizione, non all’immaginario, ma a quanto viene inventato da sé»; nel secondo caso, si hanno «parabola e favola [...] la parabola è una comparazione corta, la favola (lovgoı) un insieme di azioni»: la natura narrativa dell’esempio lo destina a una lunga fortuna (1993, p. 64). Vd. anche Price 1975; riguardo alla Retorica ad Alessandro, l’autore sottolinea che il paradeigma è essenzialmente «a well-known “historical” event»: mai si fa cenno in questo trattato all’uso di «mythological or fabulous events» come paradeigmata (p. 34). aristotele torna a parlare dell’esempio nella sezione del secondo libro della Retorica, dedicata alle argomentazioni comuni a tutti i generi di discorso: «le argomentazioni comuni sono di due generi: l’esempio e l’entimema. la massima, infatti, è parte dell’entimema. Parliamo in primo luogo dell’esempio, poiché l’esempio è simile all’induzione, e l’induzione è un principio. Due sono le specie di esempi. Una specie di esempio consiste nel parlare di fatti avvenuti in precedenza, un’altra nell’inventarli noi stessi. Quest’ultima comprende da un lato il paragone – parabolhv, dall’altro le favole – lovgoi, quelle esopiche, ad esempio, o quelle

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libiche. [...] le favole si adattano bene ai discorsi deliberativi e hanno il pregio che, mentre è diffcile trovare avvenimenti simili realmente verifcatisi, è facile inventare favole: esse devono essere fatte come i paragoni, sempre che uno sia capace di cogliere l’analogia, e questo è facile grazie agli studi flosofci. È più facile procurarsi argomenti per mezzo delle favole, ma per l’oratoria deliberativa risultano più utili quelli tratti dagli avvenimenti reali, poiché gli eventi futuri per lo più sono simili a quelli del passato» (II 20, 1393 a 24-31; 1394 a 2-8). la scelta di ricorrere all’esempio o all’entimema, o a entrambi, e l’utilizzazione dell’esempio sono così delineate: «si devono utilizzare come dimostrazione gli esempi se non si dispone di entimemi (è da questi infatti che si forma l’argomentazione); se al contrario si dispone degli entimemi, gli esempi devono essere utilizzati come testimonianze, come conclusione degli entimemi, poiché, se vengono posti all’inizio, si crea un’apparenza di induzione, e l’induzione non si addice ai discorsi retorici, a parte pochi casi; posti invece in conclusione sembrano testimonianze, e una testimonianza è in ogni caso persuasiva. e di conseguenza, se gli esempi vengono posti in principio è necessario produrne molti, mentre in conclusione anche uno solo è suffciente, perché anche una sola testimonianza credibile è valida» (1394 a 9-16). l’esempio è così in un certo senso subordinato all’entimema; esso è uno dei quattro ‘luoghi’ da cui si può trarre l’entimema (II 25, 1402 b 13 s.; vd. l’intero passo citato nella nota 136). sull’utilità degli esempi, vd. per es. andocide, Sulla pace con gli Spartani 2; 29; 32; Platone, Politico 277 d; Teeteto 154 c; Sofsta 218 d; [Isocrate] A Demonico 34. 151 Mentre aristotele, come si è visto, collega in qualche misura l’esempio all’entimema, a una struttura logica, il nostro autore fa riferimento solo all’argomento del verosimile, a un mezzo di persuasione, considerando come complementari l’esempio, che attinge al reale, e il verosimile, che attinge a una necessità interna al fatto. l’esempio può anche contraddire il verosimile, come si dirà più avanti (1429 b 6 ss.). Per l’impiego congiunto dell’esempio e del verosimile, si può ricordare lo sviluppo argomentativo dell’Archidamo (34-48) di Isocrate.

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note al testo

nella linea 1429 a 26, l’infnito (pepra`cqai) non ha un soggetto espresso; la traduzione che viene proposta rifette l’ambiguità del testo. Chiron considera due possibilità di interpretazione: «comme tu dis qu’elle (sc. l’action que tu donnes en exemple) a été accomplie», oppure: «comme tu dis qu’a été accomplie l’action en cause». Con la prima si rasenta la tautologia; Chiron sceglie la seconda, ma osserva: «l’inconvénient de la seconde interprétation est qu’elle semble exclure l’exemple servant de précédent à une action future, objet d’exhortation, au proft exclusif de l’action passée, relevant du judiciare» (p. 141, ad loc.). Il testo di questo passo è d’altra parte incerto, come dimostrano i vari interventi. 152 Questa distinzione, relativamente all’esempio, non compare in aristotele che lo considera un ragionamento per induzione; la differenza sta ancora una volta nella diversa impostazione: aristotele introduce, anche nella retorica, i concetti della dialettica. 153 Quando l’esempio è conforme all’attesa, esso rafforza la verosimiglianza e si sovrappone a essa. Il ragionamento è essenzialmente di tipo analogico, mentre in aristotele è sia analogico, sia induttivo e deduttivo (vd. Price 1975, p. 82 s.; e i passi della Retorica ricordati nella nota 150). si nota, come anche altrove in questo trattato, un cambiamento di referente: dalla credibilità di un’azione si passa a quella di chi la compie. 154 Qui non vale la conformità con l’attesa, o un’opinione generale e condivisa dalla maggior parte, ma il singolo caso (o casi sporadici, o casi moltiplicati a bella posta, per controbilanciare l’intrinseca debolezza dell’esempio, come si dirà più avanti): l’esempio paradossale può avere anch’esso la capacità di orientare il giudizio, e di rovesciare l’opinione corrente. Chiron defnisce «déroutant pour un esprit moderne» questo modo di procedere: l’esempio ha aprioristicamente una capacità di persuasione, e il retore adotta la strategia ogni volta più conveniente, con abilità manipolatrice e illusionistica. Chiron osserva tuttavia che il rovesciamento si basa sulla consapevolezza di ciò che psicologicamente può indurlo: il retore fa leva sullo spirito di contraddizione e sul gusto della novità; d’altra parte il corso delle cose è spesso inatteso, e l’opinione può essere facilmente indirizzata, se se ne ha la capacità (p. 142, ad loc.).

note 152-159 155

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si passa a esempi utilizzabili nel discorso deliberativo, seguendo lo stesso ordine: prima l’esempio conforme all’attesa, poi l’esempio paradossale (1429 b 6 ss.). Il testo è controverso, e numerose sono le oscillazioni nella tradizione (es. 1429 b 3 protrevpoi e protrevpei; cfr. 1429 a 39 fevroi e fevrei). spengel (pp. 31; 159 s.), seguito da Fuhrmann, espunge 1429 b 3 ta; – 4 ejstivn: [ta; me;n ou\n toiau`ta paradeivgmata kata; lovgon ejstivn], ritenendo che si tratti di una ripetizione di 1429 a 33 s. Chiron mantiene il testo tràdito e accoglie la lezione di un unico codice (n) dh; invece di ou\n: ta; me;n dh; ktl. le questioni principali in entrambi i passi (1429 a 31 ss. e 1429 a 38 ss.) riguardano la funzione dei nessi me;n ou\n e me;n dh;, e l’apodosi delle proposizioni introdotte da eij. Reeve (1970, p. 239 s.) discute questi due punti, considerando «the 100-odd instances» di me;n ou\n (Reeve legge il testo di Fuhrmann 1966) nel trattato, e altri passi in cui l’apodosi di levgw d j oi|on eij è lasciata inespressa (cfr. per es. 1429 b 38), e propone di espungere: [ta; me;n ou\n toiau`ta tw`n paradeigmavtwn] 1429 a 33; [tw`n kata; lovgon ei\nai dokouvntwn] 1429 a 39; [ta; me;n ou\n toiau`ta paradeivgmata] 1429 b 3 s. nel valutare, è opportuno tener conto del valore apodotico che possono assumere questi nessi di particelle e in particolare dhv, e il loro più generale valore logico e inferenziale, di transizione, di progressione e nello stesso tempo di conferma di ciò che è stato detto (vd. J.D. Denniston 1996, pp. 257 ss.; 391 ss.; 470 ss.). appare meno probabile intendere kai; provtrepoi come apodosi senza a[n; cfr. Mirhady: «[...] if someone cited an example [...] he would also be proposing [...]. such examples [...]». 156 Ci si riferisce a un episodio del 403 (restaurazione democratica). senofonte dice che coloro che, sotto il comando di trasibulo, presero File erano settanta (Elleniche II 4, 2; cfr. lisia, Sulla docimasia di Evandro 19; Isocrate, Evagora 28-32). 157 I tebani che vinsero a leuttra (371) erano guidati da epaminonda. 158 Il fatto risale al 357; cfr. aristotele, Politica V 10, 1312 a 3339; Plutarco, Vita di Dione 26-30 (969 B-971 F). 159 la spedizione dei Corinzi in sicilia, guidati da timoleonte, è datata al 344/343 a. C. Cfr. Diodoro, Biblioteca storica XVI 66 ; Plutarco, Vita di Timoleonte 8, 4; Claudio eliano, Storia varia 4, 8.

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note al testo

È l’avvenimento più tardo ricordato in questa sezione: esso costituisce un prezioso indizio per la datazione del trattato (vd. l’introduzione). 160 la trattazione degli esempi si conclude in realtà più avanti (1430 a 11-13). Kassel espunge le linee 1429 b 33 Toi`~ – 36 givne­ sqai, e richiama l’attenzione sul nesso ge mh;n estraneo all’autore e sul verbo fevrwmen: ci si attenderebbe levgwmen. sospetta anche una lacuna dopo ejnantivoi di l. 1429 b 30, perché non ci sono indicazioni sulla confutazione degli esempi conformi all’attesa: oiJ ejnantivoi *** [levgwsi tou`to] *** crh; ktl (1967, p. 123). Questi interventi presuppongono un livello di sistematicità, da parte dell’autore, che sembra invece diffcile postulare; la confutazione dell’esempio conforme all’attesa si attua evidentemente con l’esempio paradossale. Chiron, in apparato, si limita a considerare l’opportunità di espungere solo 1429 b 33 Toi`~ – crhstevon. Demostene oppone all’argomento della frequenza un corretto modo di procedere (Contro Androzione 7; l’enthymema che egli formula è ricordato da altri autori; vd. per es. Quintiliano, La formazione dell’oratore V 14, 4; aulo Gellio, Notti attiche X 19, 2 s.). 161 Cfr. 1422 a 34 s. 162 si nota che nella defnizione di ‘esempio’ si è parlato solo di fatti passati (1429 a 21); d’altra parte, più avanti si consiglia di scegliere esempi vicini nello spazio e nel tempo (1438 b 40-1439 a 2). Il passo ha creato qualche diffcoltà interpretativa (vd. Chiron, ad loc.), ma il senso sembra chiaro, e si basa su constatazioni di ordine generale (somiglianza o diversità dei fatti), che possono essere messe a frutto, sia nel trovare con facilità esempi a conferma di ciò che si sostiene, sia nell’invocare la diversità, quando si confutano gli esempi portati dagli avversari. l’illustrans può essere simile o opposto all’illustrandum (Price 1975, p. 34 s.). 163 Cfr. 1421 b 16 s. 164 sono note l’ampiezza semantica di termini come tekmerion, semeion, aitia, prophasis, eikos negli scritti medici, nella storiografa, nella flosofa, nell’oratoria (in cui tekmeria e semeia costituiscono pisteis capaci di dare sostegno alla tesi dell’oratore), e la loro utilizzazione fuida, in cui si alternano signifcati pregnanti e peculiari o deboli e non specifci. nei confronti di questo lessico delle scienze e delle pratiche professionali, in cui si realizza un

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processo di laicizzazione delle nozioni implicate da questi termini, aristotele compie un’incisiva opera di normalizzazione teorica (vd. in particolare Analitici primi II 27, 70 a 2-b 5; Retorica I 2, 1357 a 22-b 25; altri passi sono elencati e discussi in Grimaldi 1980), pur se il successo di questo approfondimento è più effcace a livello teorico: a livello pratico, si continuano a notare oscillazioni e alternanze. «Ciò non contraddice, tuttavia, il fatto che la revisione terminologica, da un punto di vista teorico, sia stata profonda e abbia inaugurato una solida tradizione, che continuerà nella trattatistica successiva, fn nella retorica romana del I secolo d.C.» (Manetti 1987, p. 104 s.). l’indagine aristotelica relativa alla validità logica delle inferenze basate sui segni costituisce un momento decisivo della rifessione antica su questi temi, destinato a essere costante punto di riferimento. la centralità della questione affrontata è evidente anche nelle opere minori del C. A. (vd. in particolare la Fisiognomica 806 a 19 ss.; 807 a 25 ss.; 808 b 30 ss.; 809 a 19 ss.; 810 a 14 ss.; 814 b 1 ss., e le note di commento in Ferrini 2007). aristotele distingue fra il tekmerion, il segno ‘necessario’ o inconfutabile’, e il generico semeion, che ha caratteristiche opposte; questa distinzione e la diversa tipologia sono connesse strettamente alle tre possibili modalità di sviluppo del sillogismo: «sono infatti tre i modi in cui il sillogismo può utilizzare la premessa che esprime un segno, corrispondenti alle posizioni possibili del medio nelle varie fgure» (Manetti 1987, p. 118). aristotele collega, semanticamente, i termini tekmar e peras (‘compimento’): «Dei segni, l’uno mostra lo stesso rapporto del particolare di fronte all’universale, l’altro dell’universale di fronte al particolare. Di questi, il segno necessario si chiama tekmerion, mentre quello non necessario non ha un nome che lo distingua. Chiamo ‘necessari’ quelli dai quali può essere formato un sillogismo. Perciò un segno di questo genere è detto tekmerion: quando si pensa che non sia possibile confutare quanto è stato detto, si crede, in quel momento, di addurre un tekmerion, qualcosa cioè che si ritiene dimostrato e compiuto – dedeigmevnon kai; pepe­ rasmevnon; nella lingua antica, infatti, tekmar e peras hanno lo stesso signifcato» (Retorica I 2, 1357 b 1- 10). nella Retorica, il criterio della confutabilità è essenziale per valutare le premesse, e le inferenze tratte dai segni: «tra i segni, alcu-

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note al testo

ni sono nella stessa relazione del particolare rispetto all’universale: come, ad esempio, se uno dicesse che del fatto che i sapienti sono giusti è segno il fatto che socrate era sapiente e giusto. Questo è in effetti un segno, ma è confutabile, per quanto l’affermazione possa essere vera: infatti, non può essere ricondotta alla forma del sillogismo. se invece si dicesse che segno che uno è malato è il fatto che ha la febbre, o segno che una donna ha partorito è il fatto che ha il latte, si avrebbe un segno necessario. Dei segni questo è il solo che costituisca un tekmerion, poiché è l’unico, qualora sia vero, a essere inconfutabile. Un altro tipo di segno presenta invece la relazione dell’universale di fronte al particolare: come, ad esempio, se uno dicesse che la respirazione rapida è segno del fatto che uno ha la febbre. anche questo può essere confutato, per quanto possa essere vero: infatti, è possibile che anche chi non ha la febbre abbia diffcoltà respiratorie» (1357 b 10-21). Tekmerion è dunque, generalmente, un indizio sicuro, una prova, un sintomo o un segno di riconoscimento, che permette una congettura o un’induzione; in senso specifco è, come si è visto dai passi aristotelici, una specie di semeion che non si può confutare. nel nostro trattato, si rifette maggiormente il rapporto con un altro passo della Retorica (III 17, 1417 b 36-38: «si deve osservare se l’avversario mente su qualche punto estraneo alla questione, poiché questo sembra un indizio – tekmhvria ga;r tau`ta faivne­ tai – del fatto che mente anche sul resto»), dove si è notata una dipendenza da fonti antiche, vicine alla Retorica ad Alessandro. In questa opera, sottolinea Chiron, il tekmhvrion designa «une contradiction réfutative, fondée sur la tendence de l’opinion à inférer d’une incohérence – qui peut être partielle – la nullité de tout un discours ou de toute une action [...]. la traduction par indice [...] permet d’inscrire l’argument dans la série des pisteis en indiquant qu’il a une force probante inférieure à celle du signe (shmei`on) et de la preuve (e[legco~). Mais la spécifcité de la démarche n’y apparaît pas». l’autore tenta, come aristotele, ma in modo diverso e più vicino a certi usi del termine attestati nel IV secolo, «de fxer au sein d’une théorie générale de l’argumentation des emplois généralement divers et fous du mot tekmhvrion». le altre traduzioni tendono talora a cancellare, osserva Chiron, la differenza con aristotele (Chiron, pp. 143-145, ad loc.). Forster traduce: infalli-

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ble signs; Rackham: tokens, spiegando in nota: «i.e. infallible signs, contrasted with mere signs, which are fallible [...]. the limitation of the term to negative proofs is peculiar to this passage»; Gohlke: Kennzeichen; sánchez sanz: deducciones. nella traduzione di Forster rivista, si legge: evidences; Mirhady sottolinea la differenza con aristotele, e preferisce traslitterare il termine (tekmeria), pur se una resa con contradictions gli sembra possibile. Francesco Filelfo traduce coniecturae. Per quanto riguarda l’impiego del termine negli oratori, non si rilevano distinzioni rigorose e fsse, mentre si notano una tendenza alla generalizzazione e usi vari. Chiron propone come possibile confronto un passo di lisia (Contro Simone 22 s.), pur avvertendo che può trattarsi di mera coincidenza. 165 Il termine enthymema indica un pensiero, una rifessione, una considerazione, oppure uno stratagemma; in ambito retorico assume, con aristotele, il signifcato tecnico di sillogismo specifco della retorica, fondato su premesse probabili. tra il suo signifcato generico e quello tecnico esiste tuttavia una continuità: la ‘rifessione’ e il ‘sillogismo retorico’ riguardano soprattutto questioni relative alla sfera dell’azione (vd. Piazza 2008, p. 122 s.). aristotele ne dà questa defnizione: «Come nella dialettica vi sono da un lato l’induzione, dall’altro il sillogismo e il sillogismo apparente, così accade anche nella retorica: l’esempio infatti è un’induzione, l’entimema un sillogismo, l’entimema apparente un sillogismo apparente. D e f i n i s c o e n t i m e m a u n s i l l o g i s m o r e t o r i c o , e s e m p i o u n ’ i n d u z i o n e r e t o r i c a . tutti gli oratori costruiscono le loro argomentazioni dimostrando o attraverso gli esempi o attraverso gli entimemi, e in nessun altro modo oltre a questi; di conseguenza, dal momento che, in senso generale, è necessario dimostrare qualsiasi cosa per mezzo o del sillogismo o dell’induzione (questo per noi risulta evidente dagli Analitici), necessariamente ciascuno dei primi due deve corrispondere a ciascuno degli altri due» (Retorica I 2, 1356 a 36-b 11; cfr. 1356 b 12-27 – differenza tra esempio ed entimema; 1357 a 7-33; 1358 a 2-28; 1, 1355 a 3-b 18; II 22, 1395 b 21-27; III 10, 1410 b 20-27; Demetrio, Lo stile 30-33; 109). l’entimema è al centro della logica retorica, è il discorso persuasivo per eccellenza, la pistis più importante (Retorica I 1, 1355

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a 7 – kuriwvtaton tw`n pivstewn). la sua fnalità è indirizzare verso una deliberazione; è dunque eminentemente pratica: i contenuti dell’entimema sono i fatti umani, le azioni. In quanto sillogismo che ammette conclusioni per lo più, l’entimema può essere confutato, a meno che non si tratti di un entimema basato su tekmeria, di cui non si può dimostrare la falsità. esso lascia spazio alla discussione, e ha una struttura abbreviata e più semplice, rispetto al sillogismo dialettico, che gli permette di essere compreso più immediatamente e di risultare accattivante e coinvolgente: l’apprendimento, che non richiede uno sforzo eccessivo a un pubblico non abituato a ragionamenti flosofci, è piacevole e facilita il raggiungimento dello scopo che ci si propone (piacere e conoscenza costituiscono un binomio ben evidente anche nella Poetica), anche attraverso un uso accorto della lexis. Il nostro autore dà una defnizione vaga di entimema, ma gli riconosce una valenza logica (confutazione per contraddizione) e una dimensione formale (brevità), che costituiscono una novità rispetto agli ordinari usi del termine, così come nuovo è lo sviluppo della nozione di entimema in aristotele, pur con le sostanziali e notevoli differenze a livello di approfondimento e di sistematicità tra i due autori (vd. Conley 1984). si possono inoltre ricordare i quattro modi diversi per sollevare obiezioni, suggeriti da aristotele: «Confutare signifca proporre un sillogismo contrario o avanzare un’obiezione – e[stin de; luvein h] ajntisullogivsamenon h] e[nstasin ejnegkovnta. È evidente che è possibile formare un sillogismo contrario a partire dagli stessi ‘luoghi’, poiché i sillogismi derivano dalle opinioni comuni e molte opinioni sono opposte le une alle altre. le obiezioni, come si è visto nei Topici, possono essere formulate in quattro modi: dall’argomento stesso, dall’argomento simile, dall’argomento contrario, dall’argomento che è stato giudicato vero» (Retorica II 25, 1402 a 31-36; cfr. Topici VIII 10-11). Che cosa si intenda con l’espressione toi`~ a[lloi~ a{pasin (1430 a 24), si capisce dalla lista fornita poco più avanti (ll. 2729), in cui sono elencati anche i predicati basilari esposti all’inizio (1421 b 24 s.). 166 Come l’indizio, l’entimema punta, come si è visto, sulla contraddizione, ma tiene conto anche della ‘deviazione’ rispetto

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a modelli o valori: da qui il suo legame con l’exetasis (vd. 1427 b 12 ss.). Gli entimemi sono defniti enantioumena al logos e alla praxis: il rinvio all’exetastikon eidos è esplicito (1430 a 25), e pertinente, in quanto il ragionamento si basa anche sul confronto con tradizionali predicati e nozioni, con comportamenti umani e con il corso naturale delle cose (vd. Maff 1985, p. 31 s.). alla linea 1430 a 26, Fuhrmann espunge il tràdito eJautw≥`, basandosi sul fatto che di contraddizioni interne non si parla successivamente (1430 a 31 s.); in questo modo, si evita un accavallamento delle defnizioni di indizio e di entimema. Chiron (p. 146, ad loc.) considera l’intervento ingiustifcato, perché l’entimema è contraddistinto da una norma stilistica, dalla brevità (1430 a 3537); pertanto sembra esserci una distinzione nell’applicazione di questi due mezzi di persuasione: «l’indice utilise une contradiction localisée pour ruiner l’ensemble d’un discours ou d’une action» (cfr. 1430 a 16-18); «l’enthymème, lui, a une portée plus “locale”: ainsi, la contradiction ou la “déviance” servent à faire obstacle à un comportement ponctuel» (cfr. 1432 b 26 s.). Inoltre, «l’enthymème comporte un versant positif» (cfr. 1430 a 31 s.). Chiron ammette in ogni caso che il modo di esprimersi è incerto, e che per avere una corrispondenza più rigorosa con il discorso d’esame, ci si attenderebbe: «en cherchant si le discours ne se contredit pas lui-même, ou l’action, ou le discours avec l’action, ou l’un ou l’autre avec le juste, la loi, etc.». Particolarmente interessante è l’espressione h\qo~ tou` levgontoı (1430 a 28 s.), per un possibile confronto con la Retorica di aristotele, dove tuttavia l’h\qoı basato sul parlante è una specifca pistis tecnica (I 2, 1356 a 4-13; II 1, 1378 a 6-19), insieme con quella basata sul discorso stesso e con quella basata sull’ascoltatore: le tre pisteis risultano in qualche misura collegate. Chiron tende a minimizzare la coincidenza o a considerarla semplicemente di carattere terminologico: nel nostro trattato si tratta dell’immagine acquisita dall’oratore nel corso di una vita vissuta conformemente ai principi esposti più avanti (cap. 38), immagine che si integra, rafforzandola, con la dovxa tou` levgonto~ (1431 b 9-19). In realtà, aristotele afferma spesso che i mezzi, per far apparire sé stessi o il proprio discorso di un certo ‘carattere’, sono gli stessi; essi possono essere ricavati anche dall’analisi delle aretai,

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dei pathe, o dalla classifcazione degli ethe: «è in base agli stessi elementi che un uomo potrà porre sé stesso o un’altra persona in una determinata luce» (Retorica II 1, 1378 a 17 s.; cfr. 13, 1390 a 24-27; I 9, 1366 a 23-28). Fra ethos e logos esiste una stretta e antica relazione, che non riguarda solo o specifcamente il discorso retorico; in aristotele, in particolare, l’importanza riconosciuta al linguaggio nell’uomo, rispetto agli altri animali, fa sì che non si possa immaginare un ethos indipendente dal logos, o ‘non senza logos’. Per questo, anche l’opinione che si ha dell’oratore, la sua fama (doxa), si integra con i suoi discorsi (vd. Piazza 2008, p. 97 s.: l’autrice tende a ridimensionare la netta opposizione fra un «ethos esclusivamente ‘referenziale’, e uno ‘retorico o discorsivo’»). 167 signifcativamente, la trattazione della massima succede a quella dell’entimema, con cui può, aristotelicamente, collegarsi; la massima inoltre è uno dei modi in cui l’oratore manifesta il proprio ethos nel parlare, poiché le massime sono lexeis, modi di esprimersi, che rendono evidenti le preferenze, le intenzioni, l’ethos di chi le pronuncia. anche la massima realizza un apprendimento rapido e piacevole, e ha il vantaggio e l’effcacia della brevità, un requisito fondamentale del discorso che voglia persuadere, insieme con la chiarezza. «la massima è un’a f f e r m a z i o n e che non riguarda il particolare – ad esempio, che genere di uomo sia Ifcrate – ma è di carattere u n i v e r s a l e , e che non concerne tutti gli universali – ad esempio, che il diritto è il contrario dello storto – ma solo ciò che è in rapporto con le a z i o n i e che può essere scelto o evitato in funzione di esse. Di conseguenza, poiché l’entimema è come un sillogismo su argomenti del genere, le conclusioni e le premesse degli entimemi, una volta eliminato il sillogismo, sono all’incirca delle massime» (aristotele, Retorica II 21, 1394 a 21-28). Perché una massima diventi un entimema occorre l’aggiunta della causa, del dia ti (1394 a 31 s.). esistono quattro specie di massime, diversamente bisognose di epilogos (1394 b 7 s.): quelle comunemente accettate e che non richiedono spiegazione; quelle che sono comprensibili anche senza spiegazione; quelle che sono parte di un entimema e quelle che non sono propriamente un entimema, ma hanno un carattere entimematico. «Hanno bisogno di una dimostrazione tutte quelle che esprimono un concetto imprevisto

nota 167

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o controverso; quelle che invece non esprimono nessun concetto imprevisto possono restare senza epilogo. Di queste ultime alcune necessariamente non avranno bisogno di epilogo, per il fatto d’esser già note. [...] nel caso di affermazioni impreviste o controverse non deve mancare l’epilogo, bensì o questo deve precedere e la massima deve essere usata come conclusione [...], oppure dopo aver fatto precedere la massima si deve aggiungere l’epilogo. nel caso di affermazioni non impreviste ma oscure, la ragione deve essere aggiunta nella forma più serrata possibile. In queste circostanze sono adatti sia i detti laconici sia i detti di carattere enigmatico, come ad esempio se si pronunciasse il motto che stesicoro disse agli abitanti di locri: non si deve essere arroganti perché le cicale non debbano cantare a terra» (1394 b 28-1395 a 2; cfr. Demetrio, Lo stile 99 s.; stesicoro, ta 11 Davies). alla defnizione e all’uso della massima, seguono le precisazioni riguardanti i soggetti, le occasioni e i destinatari, come preannunciato (1394 a 19-21). «Pronunciare massime si adatta agli uomini di età più avanzata, ed è adatto a soggetti dei quali si ha esperienza: di conseguenza, parlare per massime senza avere un’età di questo genere è sconveniente, come anche raccontare favole, mentre parlare di ciò di cui si è inesperti è indice di stoltezza e ignoranza» (1395 a 2-6). Un pubblico non colto, non raffnato, sarà il destinatario ideale delle massime. «le massime sono di grande aiuto nei discorsi a causa dell’ignoranza degli ascoltatori, poiché questi provano piacere se qualcuno, parlando in termini generali, s’imbatte nelle opinioni che essi già hanno in relazione a oggetti particolari» (1395 b 1-3). l’oratore deve essere ogni volta in grado di cogliere e di indovinare le attese e le idee del pubblico: «la massima, come si è detto, è un’affermazione universale, e gli uomini provano piacere quando vengono dette le opinioni che essi si sono già formati nel particolare. [...] Di conseguenza, si deve mirare a comprendere quali siano le loro opinioni preconcette, e parlare quindi in termini generali riguardo a esse. Questo è uno dei vantaggi dell’impiego delle massime, e ve n’è uno maggiore: esso r e n d e e t i c i i d i s c o r s i . Hanno un carattere quei discorsi nei quali risulta chiaro il proposito morale. tutte le massime ottengono questo effetto, perché chi pronuncia una massima parla in generale dei propositi morali, e di conseguenza, se le massime

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note al testo

sono moralmente buone, fanno apparire buono anche il carattere dell’oratore» (1395 b 5-17). la gnome è formulata come consiglio o come giudizio, e ha un valore normativo generale. «Un locus communis formulato in una frase che si presenta con la pretesa di valere come norma riconosciuta della conoscenza del mondo e rilevante per la condotta di vita o come norma di vita stessa, si chiama sententia (gnwvmh)»: lausberg 2002, p. 219 s., par. 398. essa è dominante nella cultura greca arcaica. Per l’espressione 1430 a 40 – kaq∆ o{lwn tw`n pragmavtwn, considerata sospetta da spengel (p. 163: «num hoc graecum est? fallor, aut kaqovlou scribendum est»; segue la citazione della Retorica II 21, 1394 a 21-25), Chiron propone (p. 147, ad loc.), come altri prima di lui, il confronto con Isocrate, A Nicocle 52 (kaq∆ o{lwn tw`n pragmavtwn); Areopagitico 28; Antidosi 137 (peri; o{lwn tw`n prag­ mavtwn). Vd. Finckh 1849, p. 15. 168 la necessità di dimostrazione nell’enunciare una massima che esprime un concetto inatteso o controverso è sottolineata anche da aristotele (Retorica II 21, 1394 b 8-10, vd. il passo citato nella nota precedente). Più generalmente, aristotele considera la sapheneia un requisito imprescindibile del linguaggio, una sua arete, un obiettivo cui bisogna mirare anche quando si opera uno scarto linguistico rispetto alla comunicazione ordinaria (vd. per es. Poetica 22, 1458 a 18 ss.; Retorica III 2, 1404 b 1 ss.). anche la conformità e la consonanza con il contesto sono criteri di valutazione del discorso, dal punto di vista sia stilistico sia contenutistico. la nozione espressa dal sostantivo ajdolesciva (vd. 1430 b 5) e dal verbo ajdolescei`n nella Retorica è collegata a quella della prolissità e dell’oscurità, delle chiacchiere inutili; vd. II 13, 1390 a 9; 22, 1395 b 26 s.; III 3, 1406 a 33; 12, 1414 a 25; cfr. Topici V 2, 130 a 33 s.; VIII 2, 158 a 28. In quest’ultimo passo dei Topici, si illustra un possibile errore nel procedimento di indagine, per cui o si chiacchiera invano, oppure non si sa condurre un ragionamento deduttivo – h] ajdolescei` h] oujk e[cei sullogismovn, che consta di pochi elementi. nelle Confutazioni sofstiche, l’ajdolescei`n è connesso con l’attività e la fgura dei sofsti, e con i cinque scopi tipici dei loro discorsi: la confutazione, la falsità, il paradosso, il solecismo, l’indurre l’interlocutore a parlare a vanvera, cioè a fargli dire più

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volte la stessa cosa (3, 165 b 12 ss.; 13, 173 a 31 ss.). la verbosità e il ciarlare connotano tradizionalmente un’abitudine dei sofsti (vd. per es. aristofane, Nuvole 1480-1485; Isocrate, Contro i Sofsti 8). D’altra parte nei Problemi del C.A., si pone la questione del perché non ci sia posto per la verbosità – ajdolesciva – nell’eristica: «Forse perché essa è un sillogismo apparente, e il sillogismo consiste di poche parole? se si dilunga, dopo un po’ risulta evidente il paralogismo, ed è possibile che l’avversario ritiri le concessioni fatte» (XVIII 8, 917 b 4-7). nella Retorica ad Alessandro, l’ajdolesciva è connessa con l’ajpistiva, con un effetto negativo sull’uditorio; è interessante ricordare che socrate, nel Teeteto di Platone, defnisce noioso e sgradito un uomo che parla troppo (195 b), e si dichiara infastidito dal proprio eccessivo parlare: «sono irritato contro la mia scarsa intelligenza e contro questa mia vera e propria mania di chiacchierare. Quale altro nome, infatti, si potrebbe usare, quando uno stiracchia in su e in giù i suoi discorsi, perché non è capace, per ottusità, di giungere a una persuasione defnitiva, e quando non è capace di sbrogliarsi da ciascun discorso?» (195 c; trad. di C. Mazzarelli, in Reale 2008). nel Fedro, il termine ajdolesciva, associato a metewrologiva (270 a; cfr. Cratilo 401 b; Repubblica VI 488 e-489 a; Politico 299 b – sull’uso di questi due termini nel Fedro, vd. Reale 1998, ad loc.), sembra essere usato ironicamente: in genere esso indica le sottigliezze di vane discussioni, il puro gioco di parole (cfr. Parmenide 135 d). 169 Diversi, come si è visto (nota 167), sono i criteri con cui si distinguono i quattro eide di massime nella Retorica di aristotele: i vari casi sono chiariti da esempi letterari (II 21, 1394 b 7-26), contrariamente a quanto accade in questo trattato. a questo proposito si possono osservare anche la diversa funzionalità e il diverso carattere degli esempi, rispetto ad aristotele: qui essi costituiscono piuttosto un repertorio di formule inventate. l’autore si pone di nuovo a metà strada «entre la théorisation et la pédagogie du modèle» (Chiron, p. 147 ad loc.), tra teoria e repertorio pratico. Problematica appare inoltre l’interpretazione dei termini per indicare gli ambiti da cui trarre massime: ijdiva fuvs i~ e paro­ moivwsi~. Chiron si domanda se con ‘natura propria’ si intenda

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«la nature propre de la cause, ou de la notion traitée» (p. 147, ad loc.); le formulazioni esemplifcative fanno pensare che ci si riferisca alla natura propria di ciò di cui si parla. si tratta forse di un modo compresso e un po’ astruso di sottolineare la congruenza e la stretta correlazione con il tema (cfr. aristotele, Retorica II 21, 1394 a 19-21: «Per quel che riguarda l’uso delle massime, una volta defnito che cosa sia una massima, risulterà del tutto evidente riguardo a quali soggetti, in quali occasioni e per quali persone ne risulti appropriato l’uso nei discorsi»). Il termine paromoivwsi~ è utilizzato in senso più specifco in un altro passo (1436 a 5; cfr. aristotele, Retorica III 9, 1410 a 25; Demetrio impiega in questo senso tecnico l’aggettivo paromoios, Lo stile 25; 28 s.; 247). Qui invece prevale il senso del confronto, del trovare somiglianze, dell’assimilare cose apparentemente diverse, tra le quali si possa individuare qualcosa di comune (cfr. 1430 b 20 – oJmoiovtaton; 23 – paraplhvs ion). Questo procedimento è d’altra parte ben evidente anche nella formulazione esemplifcativa dell’iperbole (vd. la nota 171), e implicitamente negli esempi immediatamente precedenti (1430 b 10 ss.): in ogni circostanza, si tratta di ‘vedere’, di cogliere punti di riferimento e di confronto. 170 Il participio tw`n progegenhmevnwn potrebbe riferirsi sia a uomini, sia a cose e a eventi del passato; Reeve preferisce la lezione toi`~ progegenhmevnoi~ paradeivgmasi, rinviando alla linea 1429 a 37 (1970, p. 240). 171 ) l’iperbole di successo e di sicuro effetto è per aristotele una metafora (Retorica III 11, 1413 a 21 s.), e ‘vedere la somiglianza’ è il procedimento cognitivo che sta alla base della metafora (Retorica III 11, 1412 a 12 s.; Poetica 22, 1459 a 8; cfr. Topici VI 2, 140 a 8 ss.). nella Retorica, la frase, in cui si afferma che l’iperbole è utilizzata soprattutto dagli oratori attici (1413 b 1 s.: crw`ntai de; mavlista touvtw≥ oiJ ∆Attikoi; rJhvtore~), è espunta da Kassel. Cfr. Isocrate, Panegirico 88. Per il nostro retore, l’iperbole consiste essenzialmente in un comparativo di maggioranza. la trattazione dell’iperbole in Demetrio (Lo stile 124-127 e 161 s., rispettivamente nelle sezioni dedicate allo stile psychros e allo stile glaphyros) coincide solo in parte con quella di aristotele: il rapporto di somiglianza determina uno dei tre possibili tipi. «l’iperbole è di gran lunga l’elemento più freddo di tutti.

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Ci sono tre tipi di iperbole. Una viene espressa nella forma della somiglianza, come: “nella corsa simili ai venti” [Iliade 10, 437], una della superiorità, come: “Più bianchi della neve” [Iliade 10, 437], l’ultima dell’adynaton, come: “toccò il cielo col capo” [Iliade 4, 443]» (124 – traduzione di n. Marini, Roma 2007). In realtà ogni iperbole è, secondo Demetrio, un adynaton (e dall’adynaton i comici traggono materia per far ridere); per questo è un fattore di ‘freddezza’, con un’eccezione: nell’espressione di saffo «più aureo dell’oro» [fr. 156 Voigt], l’iperbole e l’adynaton non determinano la psychrotes, ma la charis (127). Cfr. Retorica a Erennio IV 44; Quintiliano, La formazione dell’oratore VIII 6, 67-76. 172 si è notata qui una citazione da [Isocrate], A Demonico 30: Mivsei tou;~ kolakeuvonta~ w{sper tou;~ ejxapatw`nta~: ajmfovteroi ga;r pisteuqevnte~ tou;~ pisteuvsanta~ ajdikou`s in. 173 Una defnizione generale del segno (semeion) si legge negli Analitici primi (II 27, 70 a 6-9; cfr. Retorica I 2, 1357 a 32 s.; b 1-21; II 25, 1402 b 13-20; 1403 a 1-14). aristotele, come noto, tentò una normalizzazione del lessico delle scienze e delle technai, riuscendoci tuttavia più a livello teorico che a livello pratico (vd. la nota 164). l’intento era di porre ordine nella terminologia impiegata in modo non specifco, e di ripartire più rigorosamente gli usi di termini quali tekmerion, aitia, prophasis, eikos. si trattò, dal punto di vista teorico, di un’analisi che infuenzò profondamente la successiva indagine retorica. I segni si dividono in segno ‘necessario’, detto tekmerion, e segno non necessario, detto semeion anonymon, che ha un valore probante inferiore rispetto al tekmerion. Vd. Grimaldi 1980, p. 383 ss. 174 la nozione di tempo (cfr. 1431 a 4) interviene in modo discriminante anche nella retorica. la ripartizione canonica nelle tre dimensioni del tempo, associate fn da omero alle manifestazioni del sapere, è collegata da aristotele ai tre tipi di discorsi, a cui corrispondono altrettanti tipi di ascoltatori: lo spettatore (theoros), che assiste nel presente al discorso epidittico, o colui che decide (krites), cioè o il giudice (dikastes), che decide riguardo al passato, o il membro dell’assemblea (ekklesiastes), che decide riguardo al futuro (I 3, 1358 a 36-b 8 – vd. la nota 27). Vd. Pernot 1993, p. 294: «la distinction des trois temps (passé-présent-avenir, avant-

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pendant-après) est une topique usuelle, dans la théorie rhétorique, aussi bien pour analyser la notion de temps elle-même que pour classer des indices ou pour décrire une action (ekphrasis pragmatos)». Vd. anche Butti de lima 1996, p. 57 ss. In questo passo e nel successivo sembrano emergere considerazioni di metodo, di inferenza logica, seppure in modo approssimativo, e senza distinguere tra ‘successione’ e ‘conseguenza’. «Cette imprécision», osserva Chiron, «évoque le sophisme bien connu: post hoc ergo propter hoc» (p. 149, ad loc.). 175 Ci si avvicina alla distinzione aristotelica tra semeion anonymon e tekmerion, ma questo secondo termine non compare; anche la mancanza di esemplifcazione rende generica l’affermazione e limita la rilevanza di un eventuale rapporto. 176 si nota, come nel caso dell’entimema, un ampliamento: il segno permette deduzioni sulla base di fatti concreti, di parole e di comportamenti di tutti i personaggi e di tutti i fattori coinvolti, ma anche giudizi fondati sui risultati (cfr. Retorica I 9, 1366 b 25 ss.). l’accento posto sulla molteplicità della provenienza dei segni sembra congruente con la complessità della pratica processuale. Il termine provklhsiı è utilizzato qui in senso tecnico. Propriamente esso indica un ‘invito’ o un’intimazione a fare qualcosa, una ‘sfda’, che si precisa dal contesto; in ambito giuridico è una richiesta formale, di una parte al proprio avversario, di compiere o lasciar compiere qualcosa, o di ricorrere a qualche mezzo, da cui possa scaturire un chiarimento o una dimostrazione delle proprie ragioni. Può trattarsi di una convocazione, di una ‘citazione’, o di una richiesta di tortura o di giuramento, la cui accettazione o rifuto costituiva in sé un elemento probatorio: negli oratori si usa il termine elenchos (vd. la nota seguente), se la proklesis non è accolta. Vd. licurgo, Contro Leocrate 28-36: «Considerate anche questo, come secondo giustizia io cerchi di appurare la verità intorno a questa faccenda – wJ~ dikaivan th;n ejxevtasin poioumevnou peri; touvtwn. Poiché io credo che voi non dobbiate intorno a così gravi colpe giudicare congetturando, ma conoscendo la verità, né che i testimoni debbano fare la loro deposizione prima di dar prova della loro veridicità, ma a prova avvenuta. Io li chiamai dunque in giudizio con una citazione scritta specifcando tutti questi punti e richiedendo che venissero sottoposti alla tortura i servi di costui

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– proukalesavmhn ga;r aujtou;~ provklhsin uJpe;r touvtwn aJpavntwn gravya~ kai; ajxiw`n basanivzein tou;~ touvtou oijkevta~. Vale la pena di sentirla. e tu dammene lettura. Voi udite la citazione – th`~ proklhvsewı, o signori. nel tempo stesso dunque che leocrate non accoglieva l’intimazione, testimoniava contro sé stesso di essere traditore della patria: poiché chi rifugge dalla prova che può venire dai consapevoli, ammette la verità dell’accusa – oJ ga;r to;n para; tw`n suneidovtwn e[legcon fugw;n wJmolovghken ajlhqh` ei\nai ta; eijshggelmevna [...]. Per quanto dunque si riferisce alla citazione e alla colpevolezza – peri; me;n ou\n th`~ proklhvsew~ kai; tou` ajdikhvmato~ – ammessa dall’imputato, penso che tutti siate ormai suffcientemente informati» (28 s.; 36). Cfr. lisia, Per ferimento premeditato 15; Demostene, Contro Neera 120-125; aristotele, Retorica I 15, 1377 a 19-21= senofane 21 a 14, I p. 115 D.-K. Il nesso ejk tw`n proklhvsewn è reso da Francesco Filelfo con ex provocationibus; Forster, Rackham e Mirhady traducono: from the challenges; sánchez sanz: a partir de los requerimientos; Chiron: des assignations. Hansen dà questa defnizione: «appello rivolto in un processo alla parte avversa affnché produca prove o permetta all’attore di produrne. Una proklesis era una condizione necessaria per effettuare una basanos o per presentare un giuramento come prova» (2003, p. 491). alcune prove (testimoni; contratti, testamenti e altri documenti; testimonianza di uno schiavo resa sotto tortura; giuramenti) potevano essere richieste attraverso «una proklesis – ossia la convocazione di qualcuno (solitamente la parte avversa) per stipulare un contratto in cui questi si impegnava o a produrre la prova o a permettere al richiedente di produrla, in modo che entrambe le parti fossero obbligate ad accettare la verità della prova prodotta se l’avversario aveva accettato la proklesis» (pp. 297298). Vd. anche Biscardi 1982, p. 267 s. (vd. qui le note 191 e 195); Mirhady 1991, p. 5 s.; 1996, p. 119 s.; e la nota ad loc. in calce alla sua traduzione (2011). Butti de lima sottolinea la particolarità del ruolo euristico degli stumenti di prova («rappresentato nei discorsi, ma contrastato, entro certi limiti, nella pratica») nel caso dell’applicazione della proklesis, come «momento del gioco argomentativo tra le parti», e la funzione di richiamo di prove, quali il giuramento e la tortura,

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note al testo

che «non partecipavano al tempo del processo se non per mezzo della proklesis» (1996, pp. 55 s.; 61-63). opportunamente Maff mette in evidenza che il trattato fornisce elementi per ritenere che la distinzione tra la fase istruttoria (anakrisis; di cui si ha conoscenza per via indiretta) e la fase dibattimentale, nel processo attico, non fosse così netta, e che la «componente dialettica» avesse peso in entrambe: «Va osservato prima di tutto che, nel trattare dei semeia, anassimene consiglia di trarre spunto in particolare dalle circostanze in cui il processo si sta svolgendo: testimoni e testimonianze, parti e loro sostenitori, prokleseis (cioè convocazioni di testi, richieste di sottoporre schiavi alla tortura ecc.), tempi ecc. (1431 a 2 ss.). tutto ciò sembra indicare che l’orazione deve tener conto non solo di ciò che è avvenuto in istruttoria ma anche di ciò che avviene in dibattimento; l’acume dialettico dell’oratore si esercita su tutto lo svolgimento del processo; non vi è cesura fra istruttoria e dibattimento» (1985, p. 36 s.). 177 Il termine e[legco~ indica specifcamente il procedimento flosofco che consiste nel mostrare la contraddittorietà della tesi dell’avversario; la defnizione dello statuto logico dell’elenchos risale ad aristotele (vd. Confutazioni sofstiche 1, 165 a 2 s.; Analitici primi II 20, 66 b 4-17; Metafsica G 4, 1006 a 11-18). Il metodo dialettico della confutazione si rifette anche nella Retorica: «la confutazione è un accostamento di termini contrari» (III 9, 1410 a 22 s.); «Due sono le specie di entimemi: gli uni sono dimostrativi del fatto che qualcosa è o non è, gli altri sono confutativi, e la differenza è la stessa che esiste nella dialettica tra confutazione e sillogismo. l’entimema dimostrativo consiste nel trarre conclusioni da premesse sulle quali esiste accordo, quello confutativo trae conclusioni non accolte dall’avversario» (II 22, 1396 b 22-27); «tra gli entimemi, quelli confutativi ottengono maggior successo di quelli dimostrativi, poiché ciò che forma la confutazione è con maggior chiarezza ricavato per via di sillogismo; gli opposti risultano più evidenti quando sono messi l’uno accanto all’altro» (III 17, 1418 b 1-4; cfr. 13, 1414 b 13-15; Etica Eudemia I 3, 1215 a 6 s.: «confutare le diffcoltà sollevate equivale a dimostrare le teorie che a esse si oppongono»). all’elenchos aristotelico si avvicina di più il tekmerion del nostro retore.

nota 177

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nell’oratoria, il valore del termine è più generico (‘prova’), e l’uso più approssimativo e oscillante, associato o a diversi mezzi di prova e alla contestazione di colpa o alla verifca, oppure alla contestazione in contraddittorio. esso si dice, afferma spengel, «de testibus et de quaestionibus»; si pensa per questo che l’elenchos appartenga alle atechnoi pisteis (p. 165). a questo proposito, viene solitamente citato un passo di Demostene: «Io credo che voi dobbiate in primo luogo considerare tra voi stessi che tanto una calunnia quanto un’accusa sono cose del tutto diverse da una prova – o{ti pavmpolu loidoriva te kai; aijtiva kecwrismevnon ejsti;n ejlevgcou. l’accusa – aijtiva – si ha quando ci si serve di semplici dicerie e non si fornisce garanzia di credibilità di quanto si dice; la prova (e[legco~), invece, quando di ciò che si dice si dimostra al tempo stesso anche la verità. È necessario, pertanto, che chi vuole provare – tou;~ ejlevgconta~ – qualcosa produca indizi sicuri – tekmhvria – con i quali mostrarvi la credibilità dell’accusa, oppure esponga argomenti verosimili – ta; eijkovta, ovvero presenti dei testimoni – mavrturaı. Di alcuni avvenimenti, infatti, non è possibile essere testimoni oculari, ma tutte le volte che venga esibito qualcuno di questi mezzi probatorii, voi ritenete a buon diritto di avere una prova – e[legcon – suffciente della verità» (Contro Androzione 22 – trad. di P.M. Pinto, in Canfora 2000). Cfr. Isocrate, Trapezitico 53; licurgo, Contro Leocrate 28-30 (vd. la nota precedente, anche per l’uso di elenchos, nel caso di non accettazione di una proklesis). nel nostro passo, la defnizione di elenchos è vaga e tecnicamente imprecisa (sui problemi testuali, vd. le note seguenti): dagli esempi emerge la nozione di ‘evidenza’ o ‘prova’ di fatto, di ‘asserzione probatoria’, di ‘prova assertiva’ che scaturisce o da una necessità naturale o da un implicita ‘verosimiglianza’, e che serve o a sostenere le proprie affermazioni, o a smentire quelle degli avversari: in quest’ultimo caso, l’elenchos diventa una sommaria prova confutatoria. nell’esempio che sembra maggiormente pertinente a un uso più tecnico (l’assenza da atene nel periodo in cui dovrebbe essere accaduto ciò di cui si viene accusati – 1431 a 15-19), l’elenchos appare una precisa ‘dimostrazione’, una ‘prova’ decisiva, non una generica affermazione basata sul senso comune. Più avanti l’elenchos viene distinto dal semeion, e se ne mettono

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note al testo

in evidenza l’effcacia, la funzione di verifca in vista della verità, confgurandosi come un’affermazione incontestabile (1431 b 2 e 4; cfr. 1443 a 2; 1428 a 21). si constata più volte, in questo trattato, il tentativo del retore di dare un fondamento teorico agli usi di certi termini; esso non sempre riesce, ma lo sforzo in questa direzione rappresenta uno dei contributi più signifcativi dell’opera, in cui si raccoglie l’eredità di una pratica e di una rifessione ampia e diversifcata fno ad aristotele, che costituisce sia un punto di arrivo sia un punto di partenza per altri sviluppi e approfondimenti. la complessa interpretazione del termine, dovuta sia alla genericità e alla problematicità del testo, sia alla consolidata associazione di questo termine con la nozione aristotelica di ‘confutazione’, è già segnalata da Francesco Filelfo, che ritiene opportuno richiamare l’attenzione su di essa: «argumentum [...] (sic enim elenchon interpretamur)». esempi di altre traduzioni: «refutation» (Forster; Rackham); «Beweis» (Gohlke); «refutación» (sánchez sanz); «preuve» (Chiron). Mirhady preferisce traslitterare: «elenchos». 178 Il testo è controverso: Chiron accoglie gli emendamenti di spengel (pp. 36; 166) che integra ed espunge [h] oJ ajntilevgwn]. Fuhrmann ritiene che manchino sia la seconda parte della defnizione (diffcilmente ricostruibile) sia la prima parte della suddivisione (di cui propone una ricostruzione congetturale in apparato), e dà questo testo: e[legco~ dev ejsti mevn, o} mh; dunato;n a[llw~ e[cein, ajll j ou{tw~, **** wJ~ hJmei`~ levgomen kai; ejk tw`n kata; fuvs in ajdunavtwn ktl. la diffcoltà maggiore consiste nell’affermazione di una necessità ‘relativa’ contrapposta a una naturale, opposizione che si conferma subito dopo a proposito della nozione di impossibilità naturale e ‘relativa’. l’argomentazione che deve contrastare la tesi avversaria si costruisce in base a criteri di ‘necessità’ o di ‘impossibilità’ sia oggettivi sia costruiti da chi parla, e non generalmente ammessi anche dall’avversario. Questo sembra avvicinare l’elenchos alla pura fnalità, tipica dei sofsti, di avere la meglio sull’avversario: per aristotele, le confutazioni sofstiche non sono vere confutazioni, sillogismi corretti, ma una loro contraffazione, puri artifci e trucchi verbali. Qui tuttavia il rilievo accordato al punto di vista dell’oratore rientra nell’impostazione generale del trattato,

note 178-181

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volta a suggerire espedienti argomentativi pratici e risolutivi, in ogni circostanza. l’elenchos sembra così oscillare tra la nozione di prova oggettiva e una funzione puramente retorica. 179 Questo esempio di necessità ‘relativa’ (‘secondo noi’) si presenta in modo diverso e viene smentito più avanti (1432 a 19 ss.), a conferma della variabilità di ciò che è opportuno dire caso per caso: ogni volta si tratta di far emergere argomenti proposti come irrefutabili, la cui evidenza si impone o ‘secondo necessità’ o ‘secondo noi’, quasi non ci fosse differenza. 180 Cfr. lisia, Difesa per Mantiteo: «Comincerò col dimostrarvi che non facevo parte della cavalleria sotto i trenta e che non ho avuto alcuna parte nel governo di allora. ancor prima del disastro dell’ellesponto nostro padre ci aveva mandato a vivere presso satiro, nel Ponto, quindi non eravamo in città né quando furono abbattute le mura, né al momento del cambiamento di governo; tornammo invece cinque giorni prima che gli esuli di File rientrassero al Pireo. ebbene, non era verosimile – ou[te ... eijko;~ h\n – che noi, arrivati in un momento simile, volessimo essere coinvolti in rischi che non ci riguardavano, e del resto si sa bene che i trenta non erano certo dell’avviso di far partecipare al governo anche chi era stato assente da atene e per di più non aveva commesso nessun reato; anzi non esitavano a privare dei diritti civili anche chi li aveva aiutati ad abbattere la democrazia! e poi, voler verifcare chi ha servito in cavalleria sulla base del registro è davvero da ingenui: in esso mancano i nomi di molti che pure ammettono di essere stati allora cavalieri, e vi sono iscritti invece alcuni che allora erano fuori città. e questa ne è la prova più sicura – e[legco~ mevgisto~: dopo il vostro rientro voi avete decretato che i flarchi riferissero su chi aveva militato in cavalleria, per esigere da costoro il rimborso del sussidio di equipaggiamento: ebbene, nessuno può dimostrare che io sia stato inserito nella lista dei flarchi, né che il mio nome sia stato trasmesso ai syndikoi e tantomeno che abbia rimborsato il sussidio» (3-7 – trad. di e. Medda, Milano 20136). 181 I procedimenti vengono riproposti nello stesso ordine e in coppia, con differenziazioni e criteri di defnizione poco coerenti: le categorie spesso coincidono. oltre alla semplice ripresa di alcune nozioni che costituiscono i cardini dell’argomentazione logica aristotelica (deduzione e induzione, confutazione), si nota una di-

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note al testo

sposizione in crescendo: dai mezzi che favoriscono un’opinione a quelli che determinano un sapere. Questa progressione si ritrova, come è stato sottolineato, in epoca tarda presso i teorici dello stato di causa congetturale (spengel, p. 166; Chiron, p. 150, ad loc.); ci si può anche domandare se l’ordine adottato corrisponda a una classifcazione dei mezzi impiegati: il verosimile e l’esempio si fondono e agiscono essenzialmente sull’opinione del destinatario; l’indizio e l’entimema utilizzano soprattutto discorsi e azioni dell’avversario; la massima trae la propria forza dall’autorità di chi parla; segno e attestazione sono tratti dai fatti. Chiron defnisce «troublante» l’analogia di struttura tra questa serie e il sistema delle specie e dei generi di discorso presentato all’inizio del trattato, nel suo stato attuale: «3 couples et un “électron libre”» (p. 150, ad loc.). nella lacuna (per omoteleuto secondo le ricostruzioni proposte da spengel, nel commento p. 166 s., e da Fuhrmann, in apparato: ) si esprimeva forse il concetto che gli esempi chiariscono il senso del discorso, quando esso manca di credibilità, e che gli indizi differiscono dagli esempi, in quanto gli esempi ecc. Mirhady non segnala la lacuna. 182 Cfr. 1430 a 24; a 27-29. 183 Il testo è stato giudicato corrotto, ed è stata proposta un’inversione: è facile fabbricarsi altri mezzi di persuasione (tw`n me;n eJtev­ rwn polla; rJad≥ ivw~ e[sti poihvsasqai), ma non è possibile procurarci noi stessi i segni (tw`n de; shmeivwn oujk e[stin aujtou;~ porivsasqai ta; plei`sta – Usener in Chiron, ad loc.). I segni sono derivati dai fatti, e pertanto sono in un certo senso sottratti al controllo dell’oratore; d’altra parte, in precedenza si è parlato di una grande disponibilità di segni (1430 b 38 s.). nella linea 1431 b 2, Chiron accoglie la proposta suggerita da Fuhrmann in apparato («fort. scribendum po­ rivsasqai»), sulla base delle traduzioni medievali (acquirere), invece di poihvsasqai, lezione giudicata sospetta, in quanto si alluderebbe così a un’arbitraria costruzione di segni (ma vd. 1430 b 38: polla; de; poihvsomen shmei`a). Rackham e Mirhady scrivono poihvsasqai. senza necessariamente pensare a una precisa strategia, il ‘costruirsi’ dei segni non sembra estraneo alle intenzioni del retore; d’altra parte non sembra esserci una rigorosa teorizzazione dell’argomentazione illustrata.

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la prima argomentazione aggiunta, che serve da supplemento, non tecnica (vd. Mirhady 1991), è stata oggetto di un vivace dibattito. Ci si è chiesti quale sia il senso esatto dell’espressione dovxa tou` levgonto~: l’oratore in realtà non fa altro che manifestare la propria opinione, quando parla (vd. per es. Hagen 1966, p. 20: «was tut denn der Redner in allem, was er sagt, anderes?»). la supposta tautologia non sussisterebbe, secondo Chiron (p. 152, ad loc.): l’oratore non deve necessariamente parlare a nome proprio (a meno che egli non si identifchi col soggetto impersonale legittimato a parlare per il popolo – vd. Dupont 1987, p. 270): «sa parole doit prendre sa source dans le sujet collectif et impersonnel d’où la loi tire sa légitimité». si potrebbe inoltre pensare, continua Chiron, all’intervento di un oratore professionale, di un sunhvgoroı (vd. 1444 a 20 ss.); d’altra parte, più avanti, la dovxa tou` levgontoı è tra le pisteis tipiche delle demegorie (1438 b 32-34). Più interessante è l’aspetto riguardante il rapporto tra la dovxa tou` levgonto~, pistis aggiunta nella Retorica ad Alessandro, e l’ h\qo~ tou` levgonto~, pistis tecnica nella Retorica di aristotele (vd. le note 135; 144; 166): «le argomentazioni offerte per mezzo del discorso sono di tre specie: le prime dipendono dal carattere dell’oratore – ejn tw≥` h[qei tou` levgonto~, le seconde dalla possibilità di predisporre l’ascoltatore in un dato modo, le ultime dal discorso stesso, in quanto dimostra o sembra dimostrare qualcosa. la persuasione si realizza per mezzo del carattere quando il discorso sia fatto in modo da rendere credibile – ajxiovpiston – l’oratore: noi infatti crediamo alle persone affdabili – toi`~ ejpieikevs i – in misura maggiore e con più prontezza riguardo a ogni questione in generale, e completamente, in quelle che non comportano certezza assoluta ma varietà di opinioni. e questo deve risultare proprio dal discorso, e non dalle opinioni preesistenti sul carattere dell’oratore. non dobbiamo pensare come certi autori di tecniche retoriche che nei loro trattati affermano che l’affdabilità – th;n ejpieivkeian – dell’oratore non contribuisca in nulla alla persuasione; al contrario, il carattere rappresenta, per così dire, l’argomentazione più forte – kuriwtavthn e[cei pivstin to; h\qo~» (I 2, 1356 a 1-13). la nozione aristotelica di persuasione attraverso il carattere rientrerebbe secondo alcuni nella tradizione (Fortenbaugh 1992, pp. 211-220); per altri essa rappresenterebbe un’innovazione (Woerther 2007,

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note al testo

p. 206 ss.). Il contrasto in realtà è solo apparente: si tratta piuttosto di valutare l’apporto teorico che aristotele dà a una tradizionale nozione. Per il rapporto fra ethos reale del parlante, referenziale ed esterno al discorso, ed ethos apparente, retorico o discorsivo, cioè l’immagine di sé, che l’oratore riesce a comunicare con le parole, vd. la nota 93 dell’introduzione. la credibilità dell’oratore sembrerebbe un possibile punto di contatto tra le due opere (vd. alla fne del trattato il capitolo dedicato agli sforzi che l’oratore deve fare, nel corso della propria vita, per crearsi un’immagine di equità, di equilibrio e di moralità – 1445 b 24 ss.). se la defnizione proposta della dovxa tou` levgontoı appare banale e tautologica, ciò che segue pone l’accento sull’empeiria dell’oratore e sull’aletheia delle sue parole: all’opinione che l’oratore ha ed esprime (tou` levgontoı come genitivo soggettivo) si sovrappone così l’opinione che si ha dell’oratore (tou` levgontoı come genitivo oggettivo). È a questa sostanziale ambiguità che bisogna pensare per capire come questo passo della Retorica ad Alessandro possa situarsi nell’ambito di un dibattito che intravediamo dal passo della Retorica, dibattito in cui aristotele si inserisce con determinanti contributi soprattutto riguardo al modo di affrontarlo. l’impostazione più teorica della Retorica comporta che l’ethos sia una pistis tecnica, creata attraverso il metodo (I 2, 1355 b 37 s.), e realizzata unicamente per mezzo del discorso: aristotele è molto chiaro nel dire che la persuasione attraverso l’ethos si ha se l’oratore è degno di fede per le cose che dice e per il modo in cui le dice, non per preconcetti estranei al discorso, cioè per la fama che si è costruita o per l’attrazione che esercita sul pubblico. l’ethos è una funzione del logos, e scaturisce solo dal suo interno: nelle questioni che ammettono una pluralità di soluzioni, è necessario e profcuo che l’oratore mostri quelle qualità intellettuali e morali, e quella capacità di adattarsi alle circostanze e di coinvolgere l’uditorio, che la nozione di epieikeia riassume (cfr. II 1, 1378 a 6-19). sono d’altra parte note la stretta relazione tra ethos, pathos e retorica, e la sua permanenza nel tempo (vd. Ferrini 2012 – Animi, p. 342 s.). l’analisi delle aretai e dei pathe, e la classifcazione dei caratteri (I 9; II 1-11; 12-17) contribuiscono alla realizzazione di un discorso ‘etico’ (espressivo di caratteri), capace di persuadere

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permettendo un’effcace interazione tra oratore e uditorio; è necessario inoltre tener conto del genere del discorso, della destinazione e di situazioni diverse (vd. I 8, 1366 a 8-16; II 1, 1377 b 20-1378 a 19; 13, 1390 a 25-27: «poiché tutti approvano i discorsi che si adattano al loro carattere e le persone simili, non è diffcile scorgere in quale modo gli oratori si dovranno servire dei discorsi per apparire – sia essi stessi sia i loro discorsi – di un certo carattere»; III 16, 1417 a 16-b 8; 17, 1418 a 15-21; 1418 a 38-41; 7, 1408 a 10-36). alla linea 1431 b 14, il testo tràdito (th;n te dovxan oJmoivw~) è controverso: Fuhrmann lo espunge; Chiron accoglie la lettura di Forster (1924): th;n dovxan o{mw~. spengel, in apparato, ritiene dubitativamente che sia da leggere: ajpofaivnetai th;n dovxan. a]n ktl (cfr. Campe 1854, p. 281). Mirhady dà questo testo: a]n levgh≥ ajpofaivnesqai te thvn [sic] dovxan oJmoivw~. 185 Cfr. Demostene, Contro Aristocrate 63 (marturiva sun­ eidovto~). «I testimoni erano, naturalmente, il più importante mezzo di prova; per questo motivo le persone erano sempre chiamate a fare da testimoni agli atti legali importanti come matrimoni, testamenti e prestiti di denaro. tutti gli adulti liberi, compresi i non ateniesi, erano idonei a fare da testimoni, e non semplicemente idonei, ma obbligati ad esserlo se citati. a partire dal 380 circa, tutte le dichiarazioni erano messe per iscritto e affdate al segretario per essere lette a voce alta; ma il testimone era obbligato ad essere presente di persona, per confermare la verità della sue dichiarazioni con la sua presenza e per affrontare la possibile accusa di falsa testimonianza» (Hansen 2003, p. 297). 186 In aristotele, testimoni sono considerati i poeti e tutti gli uomini celebri che hanno espresso giudizi; per gli avvenimenti futuri, possono valere come testimoni anche gli interpreti di oracoli. Inoltre, costituiscono delle testimonianze anche i proverbi. la distinzione principale è tra testimoni antichi e testimoni recenti (Retorica I 15, 1375 b 25-1376 a 17). la differenza più evidente fra le due trattazioni riguarda il collegamento che aristotele stabilisce con la teoria generale dei luoghi (topoi) dai quali si ricavano gli entimemi (1376 a 31 s.; cfr. Retorica ad Alessandro 1431 b 25); tuttavia alcune circostanze

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(testimone amico, nemico, indifferente; di buona, di cattiva o di mediocre reputazione), e la possibilità di non restare mai privi di una testimonianza vantaggiosa avvicinano molto i due testi, anche se la trattazione aristotelica è meno puntuale riguardo a casi essenzialmente giudiziari, e se l’argomento dell’attendibilità o dell’inattendibilità dei testimoni è solo sforato: i più attendibili sono gli antichi, perché non corruttibili (1376 a 16 s.). «Chi non dispone di testimoni da produrre dovrà argomentare affermando che è necessario giudicare in base alle probabilità – ejk tw`n eijkovtwn, ed è questo il signifcato dell’espressione ‘con la miglior facoltà di giudizio’ – gnwvmh≥ th≥` ajrivsth≥, che le probabilità non possono ingannare per denaro, e che le probabilità non possono essere accusate di fornire false testimonianze; chi invece dispone di testimoni e affronta un avversario che ne è sprovvisto, dovrà dire che la probabilità non rientra nella legge e che non ci sarebbe affatto bisogno di testimonianze, se bastasse giudicare in base ai ragionamenti. le testimonianze riguardano in parte l’oratore, in parte il suo avversario, e sono in rapporto in parte con i fatti, in parte con il carattere: è di conseguenza evidente che non sarà mai possibile mancare di una testimonianza vantaggiosa – oujdevpot j e[stin ajporh`sai marturiva~ crhsivmh~. Infatti se non disporremo di una testimonianza che riguardi il fatto, o che sia in accordo con la nostra posizione o contraria a quella dell’avversario, ne troveremo sempre una relativa al carattere, per mostrare o la nostra equità, o la disonestà dell’avversario. Quanto agli altri aspetti che riguardano un testimone – se esso sia amico, nemico o indifferente, se goda di una reputazione buona, cattiva o mediocre, e tutte le altre differenze di questo genere – dobbiamo trarli dagli stessi ‘luoghi’ dai quali ricaviamo anche gli entimemi» (1376 a 17-32). 187 Il termine ejpivlogo~ ha qui l’accezione di aggiunta esplicativa, spiegazione supplementare, commento; altrove ha invece il senso di ricapitolazione (1434 b 22), o di perorazione del discorso (1445 a 26; 1446 a 25). Cfr. aristotele, Retorica II 20, 1394 a 11; 21, 1394 b 7-1395 a 2; III 13, 1414 b 1-13; 15, 1415 a 29-34; 19, 1419 b 10-1420 b 4. 188 I vari casi prospettati in maniera sommaria, a cominciare da questo, sono noti dalla pratica oratoria; vd. per es. licurgo, Contro Leocrate 20; antifonte, Sul coreuta 25 s.; Tetralogia I b 7 ; g 4; lisia,

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Areopagitico. Discorso di difesa sull’ulivo sacro 11 ss.; Iseo, Eredità di Nicostrato 12; eschine, Contro Timarco 90-92. Più interessante è il caso della testimonianza surrettizia (1432 a 2 ss.): si tratterebbe, secondo spengel (p. 171) di una strategia meno rintracciabile negli oratori; propone tuttavia il confronto con lisia, Per ferimento premeditato 4. In mancanza di testimoni, si poteva far credere che essi fossero inutili, fngendo la notorietà del fatto; cfr. aristotele, Retorica III 7, 1408 a 32-36: «Gli ascoltatori vengono impressionati anche da espressioni che i logograf utilizzano a sazietà, come ‘Chi non lo sa?’, ‘tutti sanno’, perché l’ascoltatore, per un senso di vergogna, si riconosce in accordo con l’oratore, per poter condividere quello di cui tutti gli altri sono partecipi». 189 Una parte della tradizione ha Kal(l)ivklei~, forse una lectio facilior: Callicle è uno dei personaggi del Gorgia di Platone e rappresenta un paradigma di ciò che retorica e demagogia potevano produrre nell’atene del tempo. entrambi i nomi sono attestati. la translatio americana ha Lysicles; la translatio vaticana ha Lisides (vd. Kassel 1967, p. 123 s.; Chiron, p. 153, ad loc.). 190 Il termine bavsano~ indica propriamente la pietra di paragone; da qui il signifcato di ‘mezzo per verifcare’, prova, esame, e anche tortura. soprattutto al plurale indica le confessioni ottenute con la tortura. aristotele inserisce le confessioni così ottenute tra le prove non tecniche: «intendo per argomentazioni ‘non tecniche’ quelle che non sono fornite da noi stessi, ma sono preesistenti, come le testimonianze, le confessioni ottenute con la tortura, i documenti scritti e cose del genere» (Retorica I 2, 1355 b 35-37). Una veloce rassegna delle prove non tecniche (leggi, testimonianze, contratti, confessioni ottenute sotto tortura, giuramenti) è contenuta nell’ultimo capitolo del primo libro della Retorica (I 15, 1375 a 24 ss.): esse, come si è visto, non rientrano propriamente nella techne, perché non dipendono dall’oratore, dalla sua capacità di scoprirle, di crearle, e non sono oggetto di rifessione metodologica; inoltre sono utilizzate soprattutto in tribunale e riguardano più specifcamente l’oratoria giudiziaria. tuttavia è utile dare alcuni consigli su come servirsene a seconda della situazione, in quanto possono costituire un effcace strumento per rafforzare la propria posizione e indebolire quella dell’avversario.

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note al testo

Il modo in cui queste testimoninze sono ottenute sembra assicurare a esse un credito; occorre pertanto che l’oratore sappia valutare vantaggi o svantaggi che possano derivarne, e, conseguentemente, amplifcare o svilire il loro peso. Il passo della Retorica è controverso e forse interpolato, ma è di di grande interesse per le rifessioni che contiene, e per un confronto: «le confessioni ottenute con la tortura rappresentano delle testimonianze, e sembrano possedere credibilità, perché implicano una forma di costrizione – aiJ de; bavsanoi marturivai tinev~ eijsin, e[cein de; dokou`si to; pistovn, o{ti ajnavgkh ti~ provsestin. Pertanto, non è diffcile neppure a proposito di quest’ultime indicare gli argomenti attraverso i quali è possibile amplifcarne l’importanza, qualora risultino vantaggiose: sostenendo, cioè, che solo queste, tra le testimonianze, sono vere. se invece risultano sfavorevoli per lui e vantaggiose per l’avversario, un oratore può screditarle parlando della tortura in generale: potrà dire che gli uomini non mentono di meno quando sono sotto costrizione, tanto quelli che riescono a resistere e a non dire la verità, quanto quelli che mentono con facilità perché le torture terminino più velocemente. È necessario essere in grado di addurre a questo proposito esempi di fatti trascorsi che i giudici conoscono [, e si deve affermare che le confessioni ottenute con la tortura non sono sincere, perché molti uomini insensibili, coriacei e forti d’animo riescono a resistere coraggiosamente alle sofferenze, mentre quelli vili e timorosi denunceranno qualcuno prima di vedere gli strumenti di tortura di fronte a loro: di conseguenza, non v’è nulla di credibile nelle confessioni ottenute con la tortura]» (I 15, 1376 b 31-1377 a 7; nell’edizione di Kassel, il testo fra parentesi quadre, espunto da alcuni editori, è riportato solo in apparato). sul ricorso alla tortura in atene e sulla prassi giuridica, vd. thür 1977. Mirhady propone un breve resoconto dei principali studi dedicati a questo argomento, approfondendo alcuni punti e sottolineando l’importanza del tema non solo per capire la posizione degli schiavi, ma anche «the athenian rules of evidence, indeed, their entire method of dispute resolution» (1996, p. 119). nell’esaminare i testi degli oratori, egli individua tre diversi impieghi e funzioni della basanos (pp. 122-127); analizza quindi la posizione dei retori, affrontando di scorcio il più generale proble-

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ma della reciproca infuenza tra oratoria e retorica. emergono in particolare il rapporto tra basanos e martyria e la loro identifcazione in alcuni testi, diversamente da quanto accade in altri, che non confondono tra martyria («the statement of a free male», a supporto della credibilità di ciò che le parti affermano nel processo), e basanos («an extra-judicial means», la cui funzione «is to decide a dispute, just as would the decision of a private arbitrator or the agreed-upon swearing of an oath»). Discutibile, ma interessante per le sue implicazioni, appare la sua affermazione riguardo a una loro identifcazione tout-court in aristotele e nella Retorica ad Alessandro: «aristotle calls basanoi a kind of testimony (martu­ rivai tinev~), while anaximenes calls a basanos ‘an agreement of someone who knows, but is involuntary’; for him the only difference between a marturia and a basanos is whether the ‘agreement’ is voluntary or not. through this identifcation the rhetoricians put the basanos on a par with the testimony of free males. the identifcation comes easily to the modern perspective, as it must have to a sophist» (p. 129 s.). 191 Gli schiavi erano sottoposti a questo tipo di prova; ma i cittadini liberi non ne erano esclusi (vd. 1432 a 24). Hansen dà questa defnizione della basanos: «Interrogatorio di uno schiavo sotto tortura: la procedura aveva inizio con l’invito di una delle parti in causa alla controparte (mediante una proklesis) e l’interrogatorio doveva conformarsi a un contratto concluso a questo scopo tra le parti. Una basanos era obbligatoria se la testimonianza di uno schiavo doveva essere prodotta davanti a un tribunale» (2003, p. 475). nell’illustrare i requisiti delle prove, facendo riferimento alla suddivisione delle pisteis, in aristotele, precisa: «la testimonianza di uno schiavo era valida solo se era resa sotto tortura (basanos). l’interrogatorio poteva essere compiuto solo con l’autorizzazione del proprietario, e perché le informazioni così ottenute fossero accettate come prove era necessario il consenso di entrambe le parti. Casi effettivi di interrogatori di schiavi sotto tortura sono noti solo da processi pubblici, ma la possibilità di un tale interrogatorio era usata come argomento retorico in molte orazioni di diritto privato» (p. 297). alla suddivione aristotelica, che trova precisa rispondenza nelle fonti oratorie, fa riferimento anche Biscardi; riguardo alla basanos, sottolinea che attra-

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verso essa «la deposizione stragiudiziale dello schiavo acquista rilevanza giuridica» (1982, p. 267). nell’ipotesi «che il padrone dello schiavo negasse il proprio assenso alla bavsano~, od anche se egli offrisse, viceversa, alla bavsano~ il proprio schiavo e l’avversario rifutasse l’offerta, la parte interessata alla deposizione dello schiavo faceva mettere a verbale la provklhsi~ relativa, e questa si risolveva in un elemento probatorio a favore della parte stessa». Gli schiavi, così come le donne e i bambini, non potevano testimoniare, se non in casi limitati; pertanto, la deposizione delle donne e degli schiavi «poteva essere raccolta con un atto stragiudiziale, che doveva essere preceduto da un invito formale (provklhsi~) rivolto ad ottenere il consenso del kuvrio~ della donna o del padrone dello schiavo» (p. 267 s.). 192 Vd. il passo della Retorica citato nella nota 190. 193 Cfr. andocide, Sui misteri 43; lisia, Contro Agorato 27 («essi erano ateniesi e quindi non temevano di essere torturati; inoltre erano pronti a partire con te abbandonando la loro patria, perché pensavano che fosse meglio questo che l’ingiusta rovina di molti onesti cittadini per causa tua; tu invece prima di tutto rischiavi la tortura, se fossi rimasto, e comunque quella che abbandonavi non era la tua patria»); 59 («alcuni, poi, volevano sottoporre a tortura aristofane, col pretesto che non era di pura ascendenza ateniese, e convinsero il popolo a votare questo decreto»); aristotele, Costituzione di Atene 18, 4 («armodio fu ucciso subito dai lancieri, aristogitone in seguito, dopo essere stato catturato e torturato a lungo. Denunciò, sotto tortura, molti che erano nobili di nascita e amici dei tiranni»). 194 sull’uso di questo tipo di testimonianze nell’oratoria, vd. per es. antifonte, Sul coreuta 25; lisia, Per ferimento premeditato 10-17; Areopagitico. Discorso di difesa sull’ulivo sacro 34-37; Isocrate, Trapezitico 53-55; licurgo, Contro Leocrate 29 s.; [Cornifcio] Retorica a Erennio II 10. altri testi sono esaminati in Mirhady 1996 (vd. la nota 190). 195 Il termine o{rko~ designa «l’objet sacralisant par lequel on jure» (Chantraine 1999, s.v.; vd. per es. omero, Iliade 2, 755; 15, 37 s.; Inno a Demetra 259; esiodo, Teogonia 400), e correntemente il giuramento. attraverso di esso, si potevano risolvere questioni legali: secondo il diritto greco, si poteva invitare qualcuno a fare

note 192-199

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un giuramento, o, a propria volta, accettare o riufutare l’invito (vd. il passo aristotelico citato nella nota 199). nella Retorica di aristotele, come si è visto, la trattazione del giuramento è immediatamente successiva a quella sulla confessione ottenuta con la tortura, secondo lo stesso ordine seguito nella Retorica ad Alessandro. Questo, insieme con altre convergenze, ha fatto pensare a una fonte comune. È da tener presente in ogni caso che nella Retorica ad Alessandro si esaminano, in questo contesto delle pisteis ‘aggiunte’, supplementari (epithetoi), solo tre delle cinque pisteis ‘non tecniche’ (atechnoi) illustrate e discusse da aristotele (vd. la nota 190). Inoltre, anche la più specifca ripartizione, o meglio caratterizzazione e denominazione delle pisteis, in aristotele, conferma la diversa impostazione del trattato. sulla quinta pistis aristotelica, Biscardi precisa: «nell’età classica il giuramento non ha in atene la stessa importanza che aveva in altre città della Grecia. anche in atene, però, durante l’età arcaica, il giuramento doveva poter essere deferito dal magistrato di sua iniziativa e rispondere ad una vera necessità processuale in quanto, essendo il processo orale, gli unici mezzi di prova erano le testimonianze e il giuramento. Più tardi, invece, durante lo svolgimento dell’ajnavkrisi~ è ammessa la produzione di documenti scritti e l’importanza del giuramento decade: esso viene, ormai, deferito solo per iniziativa di una delle parti mediante provklhsiı, che è nella specie un’intimazione alla controparte per ottenere il suo giuramento o quello di persona soggetta alla sua autorità. anche in questo caso, qualora sia rifutato l’assenso, la provklhsiı viene allegata agli atti processuali» (1982, p. 268). sotto forma di giuramento erano presentate le prove di chi non poteva fare da testimone (vd. Hansen 2003, p. 298). 196 Cfr. licurgo, Contro Leocrate 79 s. 197 Cfr. aristotele, Retorica I 15, 1377 a 25-29. 198 Cfr. Demostene, Contro Timoteo 65-67. 199 la breve trattazione sul giuramento volta a illustrare essenzialmente due circostanze (quando ciò che si giura è di vantaggio o di svantaggio per l’oratore), e a indicare delle strategie da mettere in atto per amplifcarne l’utilità, o per sminuirne il valore, se sono gli avversari a ricorrervi, contrasta qui in modo particolarmente evidente con la più ricca casistica presentata da aristotele.

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note al testo

«Per quel che riguarda i giuramenti si devono distinguere quattro possibilità: o si invita a prestare giuramento e si accetta di prestarlo, o non si fa né l’una né l’altra cosa, o se ne fa una ma non l’altra, e, in questo caso, o si invita a giurare mentre non si accetta di farlo, o si accetta di giurare mentre non si invita l’avversario a farlo. oltre a ciò, c’è il problema se un giuramento sia già stato prestato dall’una o dall’altra parte» (I 15, 1377 a 8-11). segue l’analisi dei quattro casi più semplici, cominciando da quelli negativi: non si invita a giurare; non si accetta di giurare; si accetta di giurare; si invita a giurare (1377 a 11-29). Dopo aver dato i suggerimenti opportuni su che cosa dire nelle situazioni prospettate, si consiglia come procedere quando si ha una combinazione di circostanze diverse: «se è chiaro come si debba parlare in ogni singolo caso, sarà chiaro anche come si debba parlare quando questi casi si combinano a due a due, ad esempio quando uno è disposto ad accogliere l’invito a giurare ma non a chiedere di farlo, quando chiede all’avversario di giurare ma non vuole accettare di farlo, oppure quando è disposto sia ad accogliere l’invito dell’avversario a prestare giuramento sia a domandare lui stesso all’avversario di giurare, o non è disposto a fare nessuna delle due cose. le combinazioni devono necessariamente avvenire sulla base dei casi prima elencati, e sulla stessa base si combineranno di conseguenza anche le argomentazioni» (1377 a 29-b 3). Infne (1377 b 3-11), si danno consigli su che cosa dire nel caso di giuramenti contradditori, dell’oratore o del suo avversario, ricordando anche il giuramento che i giudici devono obbligatoriamente prestare, prima di svolgere il loro compito (ll. 8-10), argomento che anche l’autore della Retorica ad Alessandro utilizza (vd. per es. 1432 a 1 s.). si sottolinea inoltre che il non manter fede ai giuramenti implica un totale sovvertimento (l. 8). 200 Dopo il pronome relativo a} della linea 1432 b 8, è stata proposta l’integrazione sulla base di 1436 a 31 s. (vd. Kassel 1967, p. 125; Fuhrmann, ad loc.). nella stessa linea, il numerale eJpta; (vd. spengel, pp. 41 e 176 s.) è un emendamento: la tradizione ha triw`n, lezione che rinvierebbe ai tre generi (1421 b 7) ed escluderebbe l’eidos exetastikon (1421 b 10), in contrasto con l’affermazione riguardante l’utilità di ciò che segue, riferita a ‘tutti i discorsi’. sulla problematicità del testo e sulle soluzioni proposte, vd. Chiron, ad loc. e p. XCIII s.

note 200-206 201

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Il sostantivo prokatavlhyi~ indica propriamente l’occupazione preventiva di una posizione, in senso militare; in questo contesto indica invece la trattazione preventiva di ciò che può essere oggetto di critica da parte degli avversari o dell’uditorio. Con un valore simile è più spesso utilizzato il verbo prokatalambavnein (‘occupare o conquistare prima’, ma anche ‘afferrare, capire prima’, ‘prevenire’), in alcuni oratori (vd. per es. Isocrate, Panegirico 74; eschine, Contro Ctesifonte 9). In Cicerone, procedimenti corrispondenti sono indicati da un calco del sostantivo greco, anteoccupatio, e da praemunitio (Dell’oratore III 204 s.); Quintiliano specifca che la praesumptio è detta in greco provlhmyi~ (La formazione dell’oratore IX 2, 16: «nelle cause ha effcacia straordinaria l’anticipazione, detta in greco provlhmyiı, che si verifca quando preveniamo una possibile obiezione»; cfr. IV 1, 49: «non inutilis etiam est ratio occupandi quae uidentur obstare [...] quod schema prolempsis dicitur»). 202 Vengono riunite insieme due funzioni diverse dell’anticipazione: far fronte alle osservazioni e alle critiche dell’uditorio, e togliere credito alle ragioni dell’avversario, col presentarle prima che siano espresse; una distinzione è tuttavia fatta più avanti (1433 a 29-32). nella terza parte del trattato, ognuna di esse è utilizzata in parti diverse del discorso (vd. 1437 a 3; b 22; 1439 b 1; 1442 b 17; 1444 a 16). Considerando anche che nei due casi sono diversi i destinatari, e che si sovrappongono gli aspetti preventivi e quelli tesi a porre fne agli schiamazzi, Chiron ritiene probabile che il retore amalgami dottrine eterogenee (ad loc. e p. XlIX). 203 Cfr. 1437 a 32 s. 204 Per questi due enunciati è stato proposto il confronto con l’inizio dell’Archidamo di Isocrate (vd. spengel, p. 177 s.). 205 numerose sono le fonti che documentano la calca e la rumorosa partecipazione del pubblico alle riunioni, alle assemblee e ai processi (vd. nell’introduzione la nota 203). 206 Il termine sch`ma indica nella Retorica ad Alessandro una varietà di forme sia dell’espressione sia dell’argomentazione retorica: la sostituzione di sch`ma a ijdeva (termine ricorrente invece in Isocrate per indicare vari procedimenti stilistici, mezzi di persuasione, e procedimenti di composizione) potrebbe aver origine nel

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note al testo

parallelismo stabilito nell’Antidosi (181 ss.: il paralellismo costituisce un diffuso topos) di Isocrate tra esercizio fsico (ginnastica) ed esercizio flosofco (retorica). Chiron fa notare che l’amalgama tra pensiero ed espressione ha il proprio prolungamento nell’etica (p. CXlIV s.). Più avanti il retore si sforza di stabilire una corrispondenza fra tecnica retorica e perfezionamento morale (1445 b 24-1446 a 35). 207 nella serie di entimemi, che comincia alla linea 1432 b 26, si inserisce, come sembra, una massima (1432 b 30 s.). la formulazione degli entimemi è stereotipa, e presenta una struttura binaria e un gioco di opposizioni: essenzialmente si mette in evidenza un comportamento incoerente, contraddittorio, o un deviare dalla corrente norma di legge. 208 sul riferimento qui, come alla fne della lettera ad alessandro 1421 b 3 s., alle demegorie e ai discorsi giudiziari, con esclusione di quelli epidittici, si sofferma Chiron, ripercorrendo le diverse valutazioni critiche, vd. pp. lXXXIX-XCIV, in particolare p. XCII. 209 Clessidre ad acqua regolavano il tempo assegnato a ciascun contentendente per i discorsi e le repliche, come testimonia aristotele, Costituzione degli Ateniesi 67, 2-3: «Ci sono delle clessidre munite di tubicini di defusso, nelle quali versano l’acqua secondo la misura di tempo in cui si deve parlare. [...] Il sorteggiato come addetto alla clessidra chiude il tubicino dell’acqua quando il segretario si appresta a leggere un decreto, una legge, una testimoninza o un contratto; quando il processo abbia luogo per l’intera giornata, ripartito in sezioni, non chiude il tubicino, ma concede la stessa misura di acqua all’accusatore e all’accusato». Per altri usi e tipi di clessidra, vd. [aristotele] Problemi XVI 8, 914 b 9 ss., e le note 71 e 407 in Ferrini 2002, pp. 526 e 545. 210 Cfr. 1432 b 24 s.; b 32 s.; 1433 a 31 ss.: a seconda dei casi, si tratta di anticipare o di far fronte a una diffcoltà. 211 alcuni editori (Rackham e Fuhrmann) accolgono l’emendamento ajpodeivxw, invece della lezione uJpodeivxw. nella Retorica ad Alessandro, il preverbio ajpo– è più ricorrente di uJpo- con questo verbo: uJpodeiknuvein si legge tuttavia in un altro passo (1443 a 32). 212 Il procedimento, per cui il discorso dell’avversario viene demolito anticipatamente, è ben noto; spesso l’anticipazione viene

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introdotta in modo e con formule simili; vd. per es. lisia, Contro Eratostene 50; Contro Andocide 42; Isocrate, Contro Eutinoo 16; Contro Lochite 5; eschine, Contro Ctesifonte 13; 17; Demostene, Contro Midia, sul pugno 24; licurgo, Contro Leocrate 63. 213 Denigrazione e anticipazione possono essere associate. 214 l’affermazione è giusta dal punto di vista della ricezione da parte del pubblico: il retore mette in evidenza questo effetto, piuttosto che la consequenzialità logica o la correttezza dell’informazione. Vd. qui l’introduzione. 215 Cfr. Demostene, Per Ctesifonte, sulla corona 276. 216 le linee 1433 b 8 eij kai; – 10 ei\nai sono inserite da Fuhrmann tra cruces. Chiron accoglie la lezione eij de; kai;. 217 Fr. 797 K. si tratta dell’unica citazione letteraria del trattato, che ne costituisce peraltro l’unica fonte. Il testo tràdito dai manoscritti è stato variamente emendato, per rimediare a errrori di metrica nel terzo e nel quarto trimetro giambico; vd. Chiron, ad loc.; luzzato 1983; avezzù 1988, pp. 139 e 144. Kannicht dà questo testo: levxw d j ejgwv, ka[n mou diafqeivra~ dokh≥`/ lovgou~ uJpofqa;~ aujto;~ hjdikhkevvnai:/ ajll j ejx ejmou` ga;r tajma; †maqhvsh≥ kluvwn,/ oJ d j aujto;~ auJto;n †ejmfaniei` soi levgwn. 218 socrate, nell’Apologia di Platone (18 a-b), insiste sulla giustizia della propria richiesta: «Prima di tutto è giusto che io mi difenda, o cittadini ateniesi, dalle prime false accuse e dai primi falsi accusatori, e poi dalle accuse successive e dagli accusatori successivi. Infatti ci sono stati molti che mi hanno accusato davanti a voi, già da tempo e per parecchi anni e senza che dicessero niente di vero» (trad. di G. Reale, in Reale 2008; cfr. andocide, Sui misteri 1). la teoria dell’ai[thma è isolata nella retorica antica, ma la pratica è molto diffusa; la richiesta ha la funzione di accattivarsi la benevolenza. spengel (pp. 182-184) elenca molti discorsi, sia giudiziari sia deliberativi, in cui si fanno richieste attraverso tipiche formule introduttive quali aijthvsomai, aijtw`, uJmw`n devomai, dehvsomai uJmw`n, ajxiw` uJma`~ ktl. Vd. per es. antifonte, Sull’omicidio di Erode 4-7; andocide, Sul proprio ritorno 22-24; lisia, Contro Diogitone 3; Isocrate, Antidosi 17; 32; Demostene, Contro Aristocrate 19-21; Filippica I 13 s.; Per Ctesifonte, sulla corona 1 s.; Contro Midia, sul pugno 5-8; eschine, Contro Ctesifonte 61.

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note al testo

sulle formule introduttive e sulla struttura della supplica, in ambito giuridico e letterario, si sofferma Cortés Gabaudan (1986), sostenendo che la retorica si limitò probabilmente a seguire schemi già noti «como eran las plegarias religiosas», con la conseguenza che la supplica fu tanto più effcace in quanto legittimata «desde una perspectiva doblemente religiosa» (p. 98). 219 Il passo è indicato come irrimediabilmente corrotto, in quanto manca la trattazione sulle richieste ingiuste. 220 Il termine palillogiva è utilizzato nel C.A. solo in questo trattato (vd. Bonitz 1961, p. 559 a 52-56). la nozione di ‘ricapitolazione’ (ajnakefalaivwsi~ o ajnavmnhsi~ o ejpavnodo~; recapitulatio) è indicata nella Retorica di aristotele dal termine ajnavmnhsi~ (III 19, 1419 b 13), che nella Retorica ad Alessandro rientra nella defnizione della palillogiva (1433 b 29), dall’espressione ajnamnh`sai ta; proeirhmevna (1419 b 27 s.), dall’avverbio kefalaiwdw`~ (1419 b 32), dal termine ejpavnodo~ (III 13, 1414 b 2). aristotele vi si sofferma in modo particolare nella trattazione dell’epilogos del discorso (III 19, 1419 b 10-1420 b 4): «l’epilogo è composto di quattro elementi: disporre l’ascoltatore favorevolmente nei propri confronti e sfavorevolmente nei confronti dell’avversario; amplifcare e diminuire, suscitare reazioni emotive nell’ascoltatore; ricapitolare. Dopo aver mostrato sé stesso come una persona sincera e l’avversario come una persona falsa, l’ordine naturale prevede che l’oratore lodi, biasimi e dia gli ultimi ritocchi» (III 19, 1419 b 10-15). Il termine palillogiva indicherà nella retorica tarda una fgura della ripetizione (ejpanavlhyi~; iteratio e repetitio, talora distinte a seconda che si ripeta una parola singola o un gruppo di parole – vd. lausberg 2002, p. 133, par. 244). nella Retorica ad Alessandro, è previsto anche l’uso di ricapitolazioni provvisorie (cfr. 1439 a 21 s.; a 29; 1441 b 1; 1444 b 21 s.; vd. Pernot 1993, p. 306 e n. 271). Riguardo alle parti del discorso, è chiara la polemica di aristotele contro l’abuso delle divisioni: necessarie sono solo due parti, l’esposizione e la dimostrazione: «Due sono le parti del discorso: è necessario proporre l’argomento di cui si parla e quindi dimostrarlo. [...] Di queste parti la prima è la proposizione – provqesi~, la seconda l’argomentazione – pivsti~, come se si ponesse la distinzione tra problema e dimostrazione. le

note 219-221

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distinzioni correnti sono ridicole. la narrazione– dihvghsiı, infatti, è propria solo del discorso giudiziario; nel discorso epidittico e in quello deliberativo, invece, come potrebbe esservi una narrazione come quella di cui parlano? o le repliche dell’avversario? o un epilogo nei discorsi dimostrativi? nei discorsi deliberativi, inoltre, si hanno esordio, comparazione degli argomenti, ricapitolazione – ejpavnodo~ – solo quando vi sia contrasto di opinioni – poiché ci sono sia accusa sia difesa – e non nella misura in cui esiste deliberazione. Inoltre, un epilogo non è richiesto da ogni discorso giudiziario – ad esempio quando il discorso è breve o la questione è facile da ricordare, in quanto nell’epilogo si verifca una riduzione della lunghezza. le parti necessarie, dunque, sono la proposizione e l’argomentazione. appropriate a ogni discorso sono queste; e al massimo, esordio, proposizione, argomentazione, epilogo» (III 13, 1414 a 31-b 9). Cfr. Platone, Fedro 266 d ss. 221 Il testo non è sicuro, molte sono le oscillazioni dei manoscritti, anche nell’ordine delle parole, e l’analisi non è chiara; il confronto con un altro passo (1444 b 30-35), in cui si riprende parzialmente ciò che si dice qui, in un contesto tuttavia diverso, è di scarso aiuto, perché il testo è altrettanto incerto. Più utili sono gli esempi che seguono. Cfr. 1434 a 17 e 1439 b 14 (vd. anche la nota 226). Date le numerose varianti della tradizione, il testo degli editori diverge signifcativamente. Bekker e spengel danno questo testo (ma vd. spengel, pp. 46 e 184 s.): h] dialogizovmenoi h] proairouvmenoi h] proserwtw`nte~ h] ajpologizovmenoi. Rackham: h] dialogizovmenoi h] proairouvmenoi h] ejperwtw`nte~ h] ajpologizovme­ noi («In summing up we shall recapitulate either in the form of a calculation or of a proposal of policy or of a question or of an enumeration»). Mirhady: h] dialogizovmenoi h] ajpologizovmenoi h] ejk proairevsew~ h] proserwtw`nte~ («We shall repeat under the headings contemplation, calculation, choosing, or questioning»). Forster (1924), che segue il testo di spengel (1894), traduce: «In recapitulating we use iteration in the form either of a division or of the recommendation of a certain course or of asking questions or of an enumeration»; nella traduzione rivista, in cui si segue il testo di Fuhrmann (1966), si legge: «In recapitulating we use iteration when arguing or narrating or recommending or questioning using irony».

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note al testo

Francesco Filelfo traduce: «iterabimus autem summatim vel ratiocinando vel interrogando vel enumerando vel eligendo». 222 Il verbo dialogivzesqai indica ‘il calcolare, il considerare attentamente’: in questo caso la diffcoltà (ajporw` d j e[gwge) comporta un ragionamento, un calcolo razionale che conduce a un chiarimento. Cfr. Isocrate, Evagora 69; Archidamo 90. 223 Il verbo ajpologivzesqai ha un signifcato simile: ‘rendere conto’; eschine (Contro Ctesifonte 25) lo utilizza nel signifcato specifco di rendere conto delle entrate, del bilancio al popolo. l’esempio di ricapitolazione sembra ispirato proprio a una metafora fnanziaria (vd. Chiron, p. 159, ad loc.); d’altra parte, il verbo ha anche un signifcato più generale di ‘raccontare, esporre’: si tratta di riproporre gli argomenti presentati, non semplicemente enumerandoli, ma scegliendoli secondo un certo criterio (vd. 1444 b 31 ss. e cfr. aristotele, Retorica III 19, 1420 b 1 s.). 224 l’esempio portato fa ritenere che ci si riferisca ai consigli essenziali dati, alla linea di condotta che ci si augura venga scelta. Cfr. Isocrate, Filippo 154; Sulla pace 132. 225 In precedenza è stato utilizzato il verbo proserwta`n (1432 b 32), il cui preverbio pros- potrebbe lasciar intendere, osserva Chiron, che la domanda si aggiunge ad altre; in questo caso: «l’interrogation viendrait donc couronner l’énumération récapitulative des points contraires à la cause adverse» (p. 159, ad loc.). Il valore del preverbio potrebbe in ogni caso essere diverso, e sottolineare che con questa forma di ricapitolazione si coinvolge direttamente l’avversario, chiamandolo in causa per una risposta. Cfr. Isocrate, Filippo 67. 226 Il ricorso all’ironia e all’interrogazione è previsto anche nella Retorica di aristotele, insieme con altri suggerimenti per la ricapitolazione nell’epilogos: «Il punto di partenza è affermare di aver mantenuto quello che s’era promesso, e di conseguenza si deve dire di che cosa si trattava e per quale motivo. si può fare anche partendo dalla comparazione con il caso dell’avversario: paragonare ciò che entrambi hanno detto a proposito della stessa cosa o senza confronto diretto (“Costui sostiene questa cosa a proposito di quel punto, mentre io dico quest’altra cosa e per questi motivi”), o con ironia – ejx eijrwneiva~ (ad esempio: “lui ha detto queste cose, io queste altre. Che cosa avrebbe fatto, se fosse riuscito a

note 222-226

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dimostrare questo e non soltanto quello?”), oppure con un’interrogazione – ejx ejrwthvsewı (“Che cosa non è stato dimostrato?”, o “Che cosa è riuscito a dimostrare costui?”). si può riassumere così, con la comparazione, oppure secondo l’ordine naturale in cui gli argomenti sono stati esposti: prima i propri e poi ancora, se si vuole, quelli dell’avversario, separatamente. nella conclusione del discorso è appropriato l’asindeto, in modo da avere un epilogo e non un’orazione: “Ho parlato, avete ascoltato, conoscete i fatti, giudicate” (III 19, 1419 b 32-1420 b 4). similmente si conclude l’orazione Contro Eratostene di lisia: «termino qui la mia accusa. avete udito, visto, sofferto; lo avete qui: giudicate». nella Retorica ad Alessandro, la trattazione più lunga dell’ironia, rispetto agli altri modi, ha fatto sospettare che questa parte non avesse qui la sua originaria collocazione, ma dopo la trattazione della paromoiosis (vd. Campe 1854, p. 285 s.; Ipfelkofer 1889, p. 36 ss.). Il motivo dello spostamento andrebbe individuato nell’associazione, in aristotele, tra ironia e ricapitolazione. la tesi, secondo Chiron, manca di argomenti validi: si potrebbe sostenere il contrario, e cioè che «aristote est dépendant des présentes analyses» (p. 62, ad loc.). la defnizione di ‘ironia’ contenuta qui e l’uso (con diverse accezioni e funzioni) che aristotele fa del termine nella Retorica non sono peraltro del tutto coincidenti; vd. II 2, 1379 b 30 s. (gli uomini si adirano «contro chi ha un atteggiamento ironico nei loro confronti quando essi hanno invece un comportamento serio, perché l’ironia implica disprezzo»); III 7, 1408 b 18-20 (si sta parlando dello stile e del linguaggio opportuni in diverse circostanze: «questo stile è appropriato anche alla poesia, perché essa è ispirata; deve essere utilizzato in questo modo, oppure parlando con ironia come faceva Gorgia, o come nel Fedro» – cfr. 3, 1406 b 15-19 = Gorgia 82 a 23, II p. 277 D.-K.; Platone, Fedro 238 d; 241 e); 18, 1419 b 4-9 (si parla di ciò che suscita il riso e della sua utilità nei dibattiti, facendo riferimento a Gorgia – «Gorgia diceva che bisogna eliminare la serietà degli avversari con il riso, e il riso, invece, con la serietà – e diceva una cosa giusta» – e alla Poetica, in cui sono stati esposti gli eide geloion, dei quali alcuni sono adatti a un uomo libero, altri no; l’oratore dovrà scegliere quello più adatto: «l’ironia è più degna di un uomo libero della buffoneria, per-

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note al testo

ché nel primo caso si crea il ridicolo per il proprio divertimento, mentre il buffone lo fa per quello di un altro»; cfr. Gorgia 82 B 12, II p. 303 D.-K.; si è ritenuto che il riferimento alla Poetica riguardi il supposto secondo libro sulla commedia). l’eironeia, nozione molto complessa e articolata nei diversi contesti e epoche, viene defnita da aristotele nell’Etica Nicomachea, ma preferibilmente attraverso il confronto con nozioni affni oppure opposte: «la fnzione – prospoivhsi~ – che tende a esagerare sia detta millanteria – ajlazoneiva – e millantatore chi la possiede; la fnzione che tende ad attenuare, dissimulazione – eijrwneiva – e dissimulatore chi la possiede» (II 7, 1108 a 21-23). nell’Etica Nicomachea, essa è essenzialmente un tratto del carattere: tra millanteria e dissimulazione si colloca la mesotes che aristotele defnisce ‘anonima’ (IV 13, 1127 a 13 s.). tra la millanteria e la dissimulazione, atteggiamenti e inclinazioni entrambi da biasimare, perché estremi e per la loro falsità, è giudicata più riprovevole la prima, anche se si riconosce la diffcoltà di tracciare un confne troppo netto: «I dissimulatori, i quali non parlano che per minimizzare, sono in tutta evidenza più raffnati nei loro costumi. tutti infatti riconoscono che non parlano in vista di guadagno, ma per fuggire l’esagerazione. anche costoro rifutano soprattutto le qualità che danno fama, come pure socrate faceva» (1127 b 22-26). Un implicito riferimento a socrate è stato individuato in un altro passo; nell’analizzare la magnanimità (megaloyuciva) e la fgura del magnanimo, si mettono in evidenza le sue qualità di schiettezza e di trasparenza, il suo parlare e agire alla luce del sole, la sua inclinazione a dire la verità (la parrhesia è considerata un’arete dell’uomo libero e privilegio del cittadino, vd. per es. euripide, Ippolito, 421-423): «a meno che non dissimuli ironicamente la sua superiorità» (8, 1124 b 30; cfr. Etica Eudemia II 3, 1221 a 6; III 7, 1233 b 38-1234 a 3: l’uomo ‘veritiero’ costituisce la mesotes tra il dissimulatore e il millantatore). In ogni caso, si conferma il punto di vista da cui si pone aristotele, che connette la nozione di eironeia a un ethos, piuttosto che a un metodo per arrivare dialetticamente alla verità: il socrate di Platone dissimula il proprio pensiero per obbligare l’interlocutore a fare un percorso dialettico, interroga fngendo l’ignoranza (vd. per es. Apologia di Socrate 38 a; Simposio 216 e; 218 d; Sofsta 268 a-d; Eutidemo 302

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b; Repubblica I 337 a; Cratilo 384 a; Gorgia 489 e). la dissimulatio «per mezzo della immutatio grammaticale, in cui un’affermazione che si vorrebbe fare viene trasformata in una domanda che simula incertezza o mancanza di convinzione» è l’ironia «chiamata propriamente “ironia socratica”» (lausberg 2002, p. 237, par. 428/1; vd. anche Büchner 1941; nünlist 2000). nelle Nuvole di aristofane, in cui si mette in scena un ‘altro’ socrate, strepsiade è disposto a tutto pur di scampare ai debiti e sembrare agli occhi della gente un individuo spregiudicato, linguacciuto e ‘dissimulatore’ (449; cfr. Vespe 174; Uccelli 1211). anche dai riferimenti di aristotele all’eironeia emerge una duplice connotazione del termine, negativa o positiva: esso può indicare un raggiro, un atteggiamento subdolo e disprezzabile, o una manifestazione di superiorità intellettuale. nella Fisiognomica del C.A., compare la fgura del dissimulatore, descritto nei suoi tratti distintivi: « segni del dissimulatore: grasso in viso, con rughe intorno agli occhi; il volto ha un aspetto sonnacchioso» (808 a 27-29). Il prototipo dell’ei[rwn sarebbe, secondo alcuni, proprio socrate, considerando la corrispondenza tra questa descrizione e i ritratti di socrate, soprattutto quelli di tipo a, in cui emergono appunto la relativa rotondità e pienezza del viso, le rughe intorno agli occhi, le sopracciglia folte che coprendo l’occhio già piccolo darebbero appunto un’aria sonnacchiosa (vd. Ferrini 2007, p. 240 s., n. 141). 227 l’eironeia è una fgura di parola («come tropo di parola è l’uso del vocabolario partigiano della parte avversa, utilizzato nella ferma convinzione che il pubblico riconosca l’incredibilità di questo vocabolario. la credibilità della propria parte risulterà, quindi, rafforzata tanto che, come risultato fnale, le parole ironiche verranno intese in un senso che sarà completamente opposto al loro senso proprio» – lausberg 2002, p. 128 s., par. 232), e di pensiero: «come tropo di pensiero è in primo luogo ironia di parole continuata come ironia di pensiero, e consiste nella sostituzione del pensiero che si vuol intendere con un altro pensiero che sta in un rapporto di senso contrario al primo e che corrisponde quindi al pensiero dell’avversario» (Id., p. 237, par. 426). Come tropo di pensiero, essa è più differenziata: si distinguono dissimulatio, quando si nasconde la propria opinione con vari mezzi retorici, e

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note al testo

simulatio, quando si fnge di condividere l’opinione dell’avversario (Id., pp. 237-240, par. 427-430). Dalla defnizione che si dà qui (1434 a 17) dell’eironeia, e dall’esempio che segue, si capisce che la nozione corrisponde piuttosto a quella espressa dal termine paravleiyi~, tecnico nella retorica, e usato peraltro subito dopo (1434 a 25, cfr. 1436 b 20 s.). tuttavia è interessante constatare, nella duplice spiegazione, un’intuizione di complessità e un convergere di fgura di pensiero e di fgura di parola: essenzialmente si tratta di una «ironia retorica» che mira a un risultato immediato e gioca «con lo stato passeggero del malinteso e dell’equivoco» (lausberg 2002, p. 239, par. 430/1). Cfr. Demetrio, Lo stile 291: «alcuni si servono spesso dell’equivoco – ejpamfoterivzousin. se li si vuole imitare e impiegare il biasimo senza che sembri tale, si assuma come esempio quel che eschine dice su telauge. Quasi tutto il suo racconto su telauge, infatti, non lascia intendere se sia di ammirazione o di scherno. Questo tipo di anfbolia – to; de; toiou`ton ei\do~ ajmfivbolon, pur non essendo ironia, ne ha tuttavia parvenza». Interessante è l’uso del verbo ejpamfoterivzein, che aristotele impiega soprattutto in ambito biologico, per esseri che occupano un posto intermedio nella scala naturae. la paravleiyiı è inserita tra le fgure di pensiero da Demetrio, che cita come esempio un passo di Demostene: «tratteremo di come la potenza espressiva può generarsi anche dalle fgure; cominciamo dalle fgure di pensiero, e da quella che si chiama preterizione, per esempio: “tralascio olinto, Metone, apollonia e trentadue città della tracia”. Qui Demostene fnisce per dire tutto quello che voleva, eppure afferma di ometterlo, come se avesse da dire altro di ben più potente» (Lo stile 263; cfr. Demostene, Filippica III 26). la preterizione (paravleiyi~; praeteritio) «è un riferimento alla situazione del discorso e consiste nell’annunciare espressamente l’intenzione di omettere la trattazione completa di un oggetto o di più oggetti riferiti nel discorso» (lausberg 2002, p. 228, par. 410); essa è affne all’aposiopesi (vd. Demetrio, Lo stile 264). l’altro procedimento connesso con l’ironia è l’impiego di parole che dicono il contrario (1434 a 18; cfr. 1441 b 23-25; 1444 a 21; a 35 s.); esso è applicato anche nel primo esempio.

nota 227

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Quintiliano (La formazione dell’oratore IX 2, 44-47) accosta e nello stesso tempo distingue questi due procedimenti, attraverso i concetti di ‘fgura’ e di ‘tropo’: «Ho trovato un autore che chiama l’eijrwneivan ‘dissimulazione’ [Cicerone, Dell’oratore III 203]; siccome questo termine sembra denotare in modo insuffciente le potenzialità di questa fgura nel suo complesso, ci acconteteremo naturalmente, come nella maggior parte dei casi, del termine greco. Dunque la fgura dell’ironia non si differenzia affatto nel genere dal tropo dell’ironia (perché in entrambi i casi bisogna comprendere il contrario di quello che si dice), ma all’osservatore attento è facile cogliere che vi è una differenza di specie: in primo luogo perché il tropo è più scoperto e, anche se dice una cosa diversa da quella che vuol fare intendere, tuttavia non ne simula un’altra: infatti tutti gli elementi circostanti sono per lo più in forma non fgurata, come il seguente passo dalle Catilinarie [I 19]: “Respinto da lui, ti trasferisti dal tuo compagno Metello, bravissima persona”; l’ironia risiede solo in due parole. Dunque il tropo è anche più breve. Invece nella fgura dell’ironia la dissimulazione coinvolge il signifcato nella sua globalità ed essa è evidente più che dichiarata, così che in quel caso si ha discordanza a livello verbale, in questo il senso e talora tutto il carattere della causa discordano dal linguaggio e dal tono della voce; difatti anche la vita nel suo insieme sembra possedere un carattere ironico, come sembrò quella di socrate (infatti fu detto ei[rwn, perché recitava la parte di un ignorante che ammirava gli altri come se fossero sapienti); e come una metafora continuata produce un’allegoria, così una sequenza di questi tropi crea la fgura dell’ironia. tuttavia alcuni generi di questa fgura non hanno alcun punto di contatto coi tropi, come, in primo luogo, quella fgura che deriva il suo nome dal negare, e che alcuni chiamano ajntivfrasin: “non procederò con te applicando rigorosamente il diritto, non dirò quello che forse potrei sostenere con successo”». seguono altre citazioni e altri casi che esemplifcano il vario ricorso all’espediente dell’ironia, del dire il contrario di quello che si vuole fare intendere, in diverse circostanze (48-53), e la trattazione dell’aposiopesi (54 ss.). Chiron individua nel passo di Quintiliano (IX 2, 47) «un vestige tardif de la communauté d’origine (faux-semblant), visible ici, de la prétérition et de l’ironie» (p. 160, ad loc.), e propone (p.

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note al testo

Cl) una fliazione della defnizione contenuta nella Retorica ad Alessandro da quella di Zoilo (ÔOrivzetai de; Zwvi>lo~ ou{tw~, sch`mav ejstin e{teron me;n prospoiei`sqai, e{teron de; levgein – RG VIII p. 493, 15 s. Walz; cfr. Kennedy 1994, p. 86, n. 8). sembra importante tuttavia rilevare soprattutto il persistere nel tempo del collegamento tra la nozione di eijrwneiva, il metodo socratico, la pratica oratoria e la teoria retorica. la storia di questo termine vi è strettamente associata; nei vari contesti il suo signifcato può essere diverso: quello più vicino al nostro uso della parola ‘ironia’ è solo uno e tardo (vd. la defnizione data da Quintiliano: «contrarium ei quod dicitur intellegendum est» – IX 2, 44; cfr. 1, 14). Il primo dei Caratteri di teofrasto è dedicato all’ eijrwneiva, un carattere in cui è stato sospettato un consistente intervento di un redattore in epoca molto più tarda. 228 I due esempi si assomigliano: ciò conferma la tesi «de l’homogénéité originelle» della preterizione e dell’antifrasi, nell’ambito dell’ironia (vd. Chiron, p. 161, ad loc.). 229 si suggeriscono qui modalità per dare al discorso una determinata lunghezza, senza però rendere conto delle ragioni a favore del discorso lungo, breve, o di media estensione (questa suddivisione è stata messa in relazione con la teoria posteriore dei tria genera dicendi), a meno di non ricavarle parzialmente dal riferimento agli ethe (1434 b 27 ss.): un logografo deve sapere commisurare la lunghezza e lo stile del discorso all’ethos del proprio cliente, che lo pronuncerà. Il tema era in ogni caso di importanza cruciale. la capacità di dilungarsi quasi senza limite, o di essere estremamente concisi nel parlare, è riconosciuta tradizionalmente ai sofsti. nel Protagora di Platone, il dialogo tra Protagora e socrate rischia di interrompersi per la diffcoltà dichiarata da socrate di seguire (ma anche di comporre – 335 c) i lunghi discorsi di Protagora, che gli fanno dimenticare l’argomento centrale della discussione; da qui l’invito a ridurne la lunghezza: «Ho sentito dire che tu, intorno ai medesimi argomenti, sei personalmente capace, quando vuoi, e sei capace di insegnarlo anche ad altri, di tenere discorsi lunghi, al punto che la parola non ti viene mai meno, ma che sei anche capace di tenere discorsi brevi, al punto che nessuno saprebbe parlare più brevemente di te. ora, se tu vuoi discutere con me, devi servirti di questo secondo modo di parlare, cioè del

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modo conciso» (334 e-335 a). la makrologia e la brachylogia sono riconosciute a Protagora, in quanto sophos (335 b). Protagora non ha intenzione di lasciarsi condizionare (335 a); così, socrate decide di andarsene (335 a-c). Callia interviene per trattenere socrate (335 c-d); altri personaggi fanno da mediatori, tra cui Ippia, ho sophos, che parla per ultimo. Dopo aver evocato l’affnità naturale tra uomini sophotatoi che conoscono la natura delle cose, e che per questo sono convenuti nel pritaneo della sophia, Ippia sollecita un accordo: socrate non dovrà pretendere una rigorosa forma di dialogo per brevi domande e risposte, «ma distenda e allenti le redini ai discorsi, in modo che ci possano apparire più maestosi e più leggiadri»; dal canto suo, Protagora non dovrà fuggire «nel mare dei discorsi, sciogliendo tutte le vele e abbandonandosi al vento, perdendo di vista la terra». entrambi dovranno tenere una via di mezzo, e assicurare la giusta misura dei discorsi (337 c-338 b; cfr. Gorgia 465 e-466 a; aristotele, Retorica III 17, 1418 a 33-38 = Gorgia 82 B 17, II p. 305 D.-K.). Il termine ajstei`o~ (cfr. 1431 b 26; 1434 a 40; b 27) ha il fondamentale valore di ‘urbano’, colto, raffnato, brillante, spiritoso; esso ricorre anche nell’analisi stilistica, e in genere indica una qualità positiva, ma con diverse connotazioni. aristotele lo usa in riferimento alle arguzie, alle espressioni acute, di buon gusto e brillanti, ai ricercati giochi di parole che risultano graditi al pubblico e che ne tengono viva l’attenzione (Retorica III 10, 1410 b 6 s.; 1412 b 2; b 4; 1413 a 20). In particolare è da notare il ricorso di questo termine nell’analizzare l’effetto di mezzi stilistici quali le similitudini ben riuscite (10, 1410 b 15-17), gli entimemi che comportano un veloce apprendimento (10, 1410 b 20 s.), le metafore per analogia, straordinario strumento di conoscenza e di ‘animazione’ (11, 1411 b 22; 1412 a 19), gli apoftegmi (1412 a 22 s.), le concise antitesi (1412 b 28 s.; 31). Considerando la stretta relazione, nell’antichità, tra etica ed estetica, è interessante un passo dell’Etica Nicomachea, in cui il termine ajstei`oı è riferito alle persone: «nella grandezza risiede la magnanimità – megaloyuciva, come anche la bellezza risiede in un corpo grande: coloro che sono piccoli possono essere eleganti e proporzionati – ajstei`oi kai; suvmmetroi, ma non possono essere belli» (IV 7, 1123 b 6-8; cfr. Poetica 7, 1450 b 34-1451 a 6; Politica VII 4, 1326 a 33 s.).

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note al testo

Il mantenere viva l’attenzione dell’uditorio coinvolgendolo è, come si è appena visto, uno degli obiettivi delle espressioni defnite con il termine asteios da aristotele, tra le quali ci sono gli entimemi (III 10, 1410 b 6-27). si constata più volte, nella lettura, il sottile legame tra i due testi: si tratta di un dialogo e di una interazione diffcili da defnire in termini di dipendenza reciproca, ma certamente rintracciabile. Il piacere che deriva dall’apprendimento è, come noto, un caposaldo sia della Retorica sia della Poetica. l’interesse degli antichi verso un attivo scambio fra testo e destinatario si può cogliere anche nel seguente passo di Demetrio: «In questi elementi [to saphes e to synethes], dunque, risiede la persuasività e in quel che dice teofrasto [fr. 696 FHs&G] che cioè, “non bisogna dilungarsi con pignoleria su ogni cosa, ma bisogna lasciare qualcosa alla comprensione e alla deduzione individuale dell’uditorio”. Quando questi capisce quel che hai tralasciato, diventa non solo tuo ascoltatore, ma anche tuo testimone e, al contempo, assume un atteggiamento più favorevole. Infatti lo hai fatto sentire intelligente fornendogli i mezzi per capire. Dire ogni cosa come si fa con gli stupidi è come disprezzare il proprio pubblico» (Lo stile 222; cfr. Quintiliano, La formazione dell’oratore VIII 2, 21). In una parte della tradizione, si legge tovpou e non trovpou (1434 a 35). 231 In un passo della Retorica di aristotele, si afferma la necessità di modifcare talora gli entimemi e trasformarli in massime (III 17, 1418 b 33-38). 232 Fuhrmann inserisce fra cruces la linea 1434 a 38 touvtwn – sugkatalevgein, ritenendo che ci si aspetterebbe la nozione del ‘distribuire’ espressa da un verbo come katanevmein, invece di sugkatalevgein. Chiron integra : il pronome (touvtwn) rinvia agli entimemi e alle massime. 233 Cfr. 1439 a 19 s.; 1434 b 40. aristotele sottolinea la necessità di variare i termini, nel dire le stesse cose: «ciò apre la strada alla recitazione». subito dopo ricorda una performance dell’attore Filemone, e un proverbio («l’uomo che porta la trave – oJ th;n doko;n fevrwn»), il cui preciso signifcato sfugge, ma che deve essere in relazione, forse anche con un tocco di ironia (vd. Killen 1971, p. 186 s.), con l’effetto spiacevole della ripetizione, con l’andamento

note 230-234

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impacciato, lento e monotono del discorso che si ripete (Retorica III 12, 1413 b 22-31). In un altro passo, aristotele cita un verso dell’Oreste (234) di euripide: «cambiare è piacevole, perché è conforme alla natura: la perpetua identità forma infatti l’eccesso della condizione normale, per cui è stato detto: “la cosa più piacevole è il cambiamento – metabolh; pavntwn glukuv”» (Retorica I 11, 1371 a 25-28; la stessa citazione ricorre nell’Etica Nicomachea VII 15, 1154 b 28 s.). Indicative del rilievo e dell’effcacia stilistica riconosciuti alla me­ tabolhv , e della sua associazione con un’altra fondamentale nozione di estetica, la poikiliva, sono le considerazioni di Dionigi di alicarnasso: con questo termine egli intende l’introduzione della diversità nell’omogeneità (levgw ktl th;n ejn toi`~ oJmoeidevs i poikilivan – La composizione stilistica 19, 1-14; cfr. 12, 1-4; 21). Vd. anche [longino] Il sublime 5; 23, 1; Quintiliano, La formazione dell’oratore IX 4, 43 («non è opportuno porre in sequenza verbi e nomi e altre forme simili, perché anche i pregi producono noia se non sono assistiti dalla gradevolezza della varietà – nisi gratia uarietatis adiutae»); 4, 50; X 1, 7 («e so che alcuni ebbero l’abitudine di memorizzare i sinonimi, sia perché, tra molti termini, se ne presentasse più facilmente uno, sia perché, se dopo aver utilizzato un certo termine ci fosse necessità di impiegarlo di nuovo a breve distanza, potessero usarne un altro di signifcato analogo per evitare la ripetizione. Ma questa pratica è non solo puerile e una fatica infruttuosa, ma è anche di scarsa utilità, perché si limita ad ammassare una folla di parole da cui prendere indiscriminatamente la prima che càpita»). In Demetrio, metabolhv assume un signifcato particolare e indica una fgura della correzione o auto-correzione, della ritrattazione (metavnoia, ejpitivmhsiı, ejpidiovrqwsiı, correctio): «C’è un’attrattiva tutta caratteristica di saffo che è tratta dalla correzione – ejk metabolh`ı. si ha quando la poetessa afferma una cosa e poi si corregge, come se si pentisse. Per esempio: “su – dice – alzate l’architrave, falegnami! entra lo sposo eguale ad ares, molto più alto di un uomo alto!” [fr. 111 Voigt]. È come se obiettasse a sé stessa per aver usato un’iperbole assurda, dal momento che nessuno è pari ad ares» (Lo stile 148; vd. Marini 2007, ad loc.). 234 si nota una generalizzazione, probabilmente in funzione di una più ampia applicazione del procedimento. «suddivise in

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note al testo

parti, le stesse cose appaiono più grandi», osserva aristotele nella Retorica, trasferendo anche nell’analisi linguistica la propria rifessione sulla relazione tra grandezze e sul nostro modo di percepire la realtà, che egli sviluppa in altri trattati (Anima, Percezione e percepibili, Metafsica). a conferma, cita versi dell’Iliade (9, 592-594 – vd. la nota 105). lo stesso accade nel caso della combinazione e dell’accumulazione «sia perché ciò equivale alla divisione [...], sia perché sembra principio e causa di grandi cose» (Retorica I 7, 1365 a 10-18). Cfr. lausberg 2002, p. 164 par. 306: «la distributio ([...] diaivresi~, merismov~) è l’accumulazione coordinante». la nozione di parte si applica sia al contenuto sia allo sviluppo argomentativo. 235 oppure: ‘se si vuole parlare in modo conciso, si deve racchiudere l’intero argomento in un solo enunciato, che lo esprima nella maniera più breve e appropriata’ (e poco dopo: ‘bisogna utilizzare enunciati di lunghezza media’ – 1434 b 19 s.). la concisione e la proprietà del linguaggio sono qui affermate, senza che però emerga con assoluta chiarezza quale sia l’oggetto da ‘comprendere’ o ‘defnire’ eJni; ojnovmati: il termine pra`gma può essere inteso genericamente come ‘cosa’ o più specifcamente come ‘materia’, ‘soggetto’, ‘argomento’ del discorso. Problematico è anche il valore di o[noma: una ‘singola parola’, o più in generale un’espressione o locuzione, una frase (cfr. 1434 b 5 s.; b 9; b 19 ss.; 1435 a 1), quasi con il valore che assume il termine rJhm ` a (non ricorrente in questo trattato), per esempio nel Cratilo di Platone (399 a-b; 421 b; 421 e; si distingue invece tra onoma e rhema nel Sofsta 262 a-d; cfr. Cratilo 426 d-e; 431 b). Come noto, l’individuazione dei mere tou logou e la terminologia relativa sono frutto di un lungo percorso di analisi linguistica, che comincia con Platone e con aristotele, e culmina con la Grammatica di Dionisio trace. Gli stoici hanno avuto un ruolo essenziale nell’elaborazione di una teoria delle parti della frase, come riconosce già Quintiliano (vd. la nota 250). nella Retorica ad Alessandro non si fanno distinzioni in questo senso: solo i termini syndesmos e arthron appaiono utilizzati in modo più specifco, mentre onoma ha un uso più generalizzato (non è un particolare e distinto semeion) connesso con l’altrettanto generica attività dell’onomazein: ciò potrebbe giustifcare in questo contesto (e poco dopo) il suo valore di ‘espressione’, ‘locuzione’, ‘enunciato’.

note 235-236

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Francesco Filelfo traduce: «oportet totum negotium uno vocabulo complectatur, et hoc maxime quod in ipsa re brevissimum insit»; Barthélemy saint-Hilaire: «on dit la chose tout entière en un seul mot, qui la résume; et l’on va même jusqu’à choisir le mot le plus court possible qui exprime cette chose»; Forster: «you should include your whole subject in a single word and that word the shortest which is applicable to the subject»; Rackham: «include the whole of an idea in a single word, and that the shortest that is appropriate to the idea»; Gohlke: «darf man die sache nur mit einem Wort umreißen, und zwar mit dem kürzesten angemessenen ausdruck»; Mirhady: «you must incorporate the entire matter with a single expression and it must be the shortest there is for that matter». sánchez sanz fa notare, in calce alla sua traduzione («hay que abarcar toda una cuestión con una sola palabra, y precisamente con aquella que exprese más brevemente esa cuestión»), che si tratta qui di ‘denominare’ la cosa, invece di defnirla, e che più avanti (1434 b 40-a 1) ciò si confgura come uno dei modi della taxis. Chiron intende pra`gma nel senso di chose, pensando che si tratti del referente della parola: «il faut embrasser la chose entière en un seul mot, et qui soit le plus court pour la chose en question». aristotele nella Retorica oppone due diversi modi per ottenere uno stile che mira all’onkos o alla syntomia: nel primo caso, ci si servirà «di una frase – lovgw≥ – invece di una parola – ajnt j ojnovmatoı»; si dirà così «non ‘cerchio’, ma ‘fgura piana i cui punti sono equidistanti dal centro’; per la brevità vale il contrario, una parola al posto di una frase» (III 6, 1407 b 26-29). Cfr. Demetrio, Lo stile 92 s.; Quintiliano, La formazione dell’oratore XII 10, 41. 236 Come noto, il termine suvndesmo~, propriamente ‘legame’, ciò che lega o collega, ‘collegamento’, è utilizzato in vari ambiti, anche scientifci (medicina, astronomia; vd. la nota 250); in ambito linguistico, esso denota due nozioni che sono per noi distinte: congiunzione e particella, gli elementi di collegamento e di raccordo tra parole, frasi, periodi (vd. per es. aristotele, Poetica 20, 1456 b 20 s.; 1456 b 38 ss.; Retorica III 5, 1407 a 20-31; 9, 1409 a 25-27; 12, 1413 b 32-34; Problemi XIX 20, 919 a 22-28; Diogene di Babilonia, fr. 22, III p. 214, 1 s. SVF; Demetrio, Lo stile 23; 53-58; 63 s.; 192-194; 196; 257; 268 s.; [longino] Il sublime 21). Cfr. 1435 a 38 ss.

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note al testo

In un passo della Retorica di aristotele, tra gli elementi che contribuiscono alla maestosità (o[gko~) dello stile, si elencano il non congiungere (mh; ejpizeugnuvnai) i termini, come nell’espressione th`~ gunaiko;~ th`~ hJmetevra~, mentre si dirà th`~ hJmetevra~ gu­ naikov~, se si vuole essere concisi; e il servirsi di syndesmoi, che bisogna invece omettere, se si mira alla brevità, evitando tuttavia che i termini siano slegati (a[neu me;n sundevsmou, mh; ajsuvndeta dev). Gli esempi sono: poreuqei;~ kai; dialecqeiv~ e poreuqei;~ dielevcqhn (III 6, 1407 b 36-40). la concisione è realizzata dall’inclusione dell’aggettivo possessivo tra articolo e nome, e da un participio appositivo, congiunto (poreuqei;~ dielevcqhn invece di ejporeuvqhn kai; dielevcqhn), cioè, più generalmente, da un procedimento che tende a raggruppare (‘aggiogare’: il verbo zeugnuvnai evoca l’immagine del giogo), all’interdipendenza piuttosto che alla giustapposizione. Riguardo al passo della Retorica ad Alessandro, Chiron pensa che si tratti semplicemente di evitare il polisindeto, realizzando coppie di termini coordinati da un solo termine di collegamento (p. 162, ad loc.), e traduce: «Il faut aussi diminuer le nombre des mots de liaison et procéder le plus souvent par couplage». Forster traduce: «you must also employ few conjunctive particles and connect as many things as possibible together»; Rackham: «and you must also use few connecting particles, and couple up most of the words into one clause»; sánchez sanz: «también es preciso usar pocas partículas conectivas y condensar cuanto se pueda»; Mirhady: «you must use only a few conjunctions to connect the most things». spengel osserva: «ex hoc [ta; plei`sta de; zeugnuvnai ktl] fgura quam zeugma dicunt nata esse videtur» (p. 189). 237 le linee 1434 b 14 ojnomavzein – 15 crh`sqai sono state espunte da Kassel (1967, p. 125: si tratterebbe di una nota marginale, «die an den Übergang von Kap. 23 zu 24 gehört») e da Fuhrmann; spengel propone di leggere mh; crh`sqai (p. 189), e sottolinea le diffcoltà di struttura e di signifcato, che potrebbero far pensare a un guasto più esteso. tutto il passo è sospetto: è sembrato che queste linee interrompano il discorso sui syndesmoi, si è notato l’uso assoluto del verbo ojnomavzein, ma soprattuto è apparsa problematica l’interpretazione della levxi~ eij~ duvo.

note 236-237

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Ci si chiede se la levxi~ eij~ duvo implichi lo stesso procedimento espresso dalla formula eij~ duvo eJrmhneuvein (1435 a 4). sánchez sanz e Chiron interpretano allo stesso modo le due locuzioni, rispettivamente: expresión desdoblada e expression à deux termes. Chiron, segnalando un’altra possibile interpretazione della levxi~ eij~ duvo, cioè la «mise en facteur commun» della stessa parola, aggiunge che l’impiego di una parola per due fa pensare all’ellissi, «attendue dans ce contexte» (p. 163, ad loc.). l’interpretazione di Forster («such must be your choice of words; you must make your language serve a double purpose») tiene conto dell’esempio proposto da aristotele (vd. la nota precedente), se si vuole essere concisi si dirà th`~ hJmetevra~ gunaikov~ a preferenza di th`~ gunaiko;~ th`~ hJmetevra~. similmente anche Francesco Filelfo («nominibus ita uti ut una dictio duabus serviat rebus»), e la maggior parte degli interpreti moderni (Rackham: «that is how you must use words. also make a vocable serve two purposes»; Mirhady: «Use wording in this way, but make the expression do double service»). nel valutare, si deve tener conto anche del fatto che l’espressione eij~ duvo eJrmhneuvein è inserita in un contesto (cap. 24) in cui sembra abbozzata una teoria del periodo (anche se il termine periodos non vi compare), teoria che non sembra emergere qui. Per aristotele, il periodo è essenzialmente binario (III 9, 1409 b 16 s.: «il colon è ciascuna delle due parti del periodo: chiamo semplice il periodo con un solo colon»); nello stesso contesto si esaminano gli effetti dei periodi lunghi e corti. In Demetrio, il concetto aristotelico di periodo è ripreso, ma anche superato (Lo stile 10-24); particolarmente interessante per un confronto con il nostro passo (pur nella diversità del contesto) sono alcune considerazioni sulla concisione (suntomiva – Lo stile 137), come attrattiva principale del discorso: «spesso due cose sono espresse in una – duvo fravze­ tai di j eJno;~ –per dare attrattiva. ad esempio un autore [anonimo] ha detto dell’amazzone addormentata: “l’arco era a terra teso, la faretra piena, lo scudo accanto alla testa; le amazzoni non sciolgono la cintura”. Il passo fa riferimento sia all’usanza della cintura, sia al fatto che l’amazzone non l’avesse tolta, due contenuti in un’unica espressione. e da questa concisione scaturisce un che di raffnato» (138).

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note al testo

Con il riferimento alla verosimiglianza e alla corrispondenza tra logoi e ethe, si completa il quadro di questa abbozzata teoria retorica dell’eleganza stilistica. Il passo presenta notevoli diffcoltà interpretative; tuttavia è di grande interesse, perché sfora, seppure superfcialmente e in modo dimesso e poco chiaro, argomenti centrali della teoria e della pratica oratoria (h\qoı / hjqopoiiva). Cfr. aristotele, Retorica II 12-18. Zwierlein (1969, p. 79 ss.) propone l’espunzione delle linee 1434 b 25 ta; – 30 mevtria. Ipfelkofer (1889, p. 43 ss.) richiama l’attenzione sul verbo ejpiqewrei`n (l. 29: ‘osservare’ o ‘considerare’, ‘esaminare’), non più utilizzato nel trattato, e sulla successione delle espressioni hJnivka a]n qevlwmen e a]n de; qevlh≥ı (l. 26 s.). Da notare l’uso di mhvkh (l. 25; cfr. 1436 a 21) in riferimento alle tre dimensioni del discorso, di cui si è discusso, e della congiunzione hJnivka (l. 26), non abituale in questo trattato. Ci si è chiesto se con l’espressione ta; h[qh tw`n lovgwn si intendano i diversi caratteri stilistici da dare ai discorsi, oppure i caratteri dei protagonisti del discorso; e se con la generica indicazione ‘uomini’ si rinvii agli oratori o ai loro destinatari (audience e public intendono rispettivamente Forster e Rackham). Considerando anche che il retore parla qui esplicitamente di un discorso scritto, è forse preferibile ritenere che egli tenga presente il lavoro del logografo, che deve saper redigere per il suo cliente un discorso adeguato alla sua natura e alla sua posizione sociale, imitandone anche il caratteristico modo di esprimersi (vd. sánchez sanz 1989, p. 70, ad loc.; lausberg 2002, p. 240 s., par. 432; Hagen 1966). l’interpretazione della sequenza ta; megavla, ta; ajkribh`, ta; mevtria (l. 29 s.) accresce le diffcoltà del passo: si conferma l’ambiguità, o forse la voluta indifferenziazione, tra caratteri umani e caratteri del discorso. Chiron è incline a cogliervi un valore sia stilistico sia psicologico sia sociologico: «mevgaı signiferait alors à la fois ample, grandiose stylistiquement, grand, noble, psychologiquement et sociologiquement; ajkribhv~ signiferait ramassé, précis, exact, minutieux et peut-être, avec une nuance péjorative, étriqué, mesquin, tout en renvoyant à un public de milieu modeste» (p. 164, ad loc.). Francesco Filelfo traduce: «id autem effcies, si qui magni, qui curiosi, qui mediocres sint mores, consideraris»; Forster: «you

nota 238

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will achive this, if you observe their character, whether noble or petty or ordinary»; Rackham: «you will achive this if you observe their character – noble, petty or average»; Gohlke: «Das wird man erreichen, wenn man das Gewicht der abtönung überlegt und die ausführlichkeit und das rechte Maß»; sánchez sanz: «lo conseguirás si analizas los diversos caracteres: ampuloso, preciso e intermedio» (nella nota si rinvia ai corrispondenti elocutionis genera); Chiron: «tu obtiendras ce résultat si tu prends en considération en outre, parmi les caractères, les grands, les précis et les modérés»; Mirhady: «you will do this if you observe the large aspects of the characters, the precise aspects, and the middle aspects». Gli stessi termini sono ricorrenti sia in ambito etico sia in ambito estetico; solitamente l’akribeia e to akribes indicano una qualità positiva: la precisione e la disciplina di un uomo o il rigore argomentativo del discorso, l’accuratezza dello stile di un’opera letteraria o la cura formale, dei dettagli, di un’opera d’arte. Qui il nesso ta; ajkribh` indica il contrario di ta; megavla, mentre il nesso ta; mevtria rappresenta la medietà; prevale pertanto una connotazione negativa, insita d’altra parte in ciò che di ‘eccessivo’ questa qualità comporta: la pignoleria può essere considerata qualcosa che sconfna nella mikroprepeia. In Demetrio, il termine ajkrivbeia ha il signifcato di accuratezza espressiva e di precisione nell’uso dei vocaboli solo in un passo (Lo stile 274; cfr. Dionigi di alicarnasso, Dell’imitazione p. 80, 8 Battisti). altrove indica lo scrupolo di precisione (41), la pignoleria, la minuziosità (53: la pignoleria è cosa meschina, è segno di mediocrità – mikroprepe;~ ga;r hJ ajkrivbeia); il sostantivo composto ajkribologiva compare invece associato a un concetto molto importante nell’estetica antica, l’enargeia (209): alla cura del particolare descrittivo si fa tuttavia riferimento all’interno della trattazione dello stile ischnos. Vd. anche [longino] Il sublime 33, 1 (ci si chiede se non sia da preferire una grandezza – mevgeqo~ – imperfetta a una ‘corretta’ adeguatezza); Quintiliano, La formazione dell’oratore IX 4, 112 s. (lo stile «deve lasciarsi trascinare e scorrere», e non invecchiare «passando il tempo a misurare i piedi e a soppesare le sillabe; perché questo atteggiamento è proprio di un individuo non solo meschino, ma attento a minuzie irrilevanti – nam id cum miseri, tum in minimis occupati est» – 112).

504 239

note al testo

Il termine suvnqesi~ (‘il mettere insieme’, ‘il comporre’, compositio) è diffcile da rendere a causa delle sue diverse accezioni anche in ambito retorico, in rapporto con analisi linguistiche o stilistiche, diversamente orientate. ‘Combinazione’, ‘accostamento’, ‘concatenazione’, ‘raccordo’ sono altrettante rese possibili; mentre il termine ‘composizione’ non si adatta a questo contesto, perché ambiguo: non si tratta dei syntheta o dei dipla onomata, in opposizione agli hapla (pur se si fa accenno a questa opposizione), ma del nesso o del collegamento delle parole tra di loro, considerato come semplice posizione o collocazione reciproca, oppure come relazione sintattica. Francesco Filelfo traduce: «de nominum vero compositione iam declarabimus»; Gohlke: «nun wollen wir den satzbau erläutern»; sánchez sanz: «vamos a ocuparnos de la composición nominal»; Chiron: «passons aux explications sur l’agencement des mots»; Mirhady: «we shall explain the composition of words»; Forster e Rackham traducono rispettivamente: «we will now treat of the putting together of words»; «we will now explain the putting together of words». Qui, si distinguono subito dopo tre possibili ‘posizioni’ (qevseiı; cfr. il passo di Dionigi di alicarnasso, citato infra) relative delle parole, tre modi in cui esse possono trovarsi insieme, determinando un diversifcato incontro di vocali e di consonanti. successivamente, il nesso suvnqesi~ tw`n ojnomavtwn è utilizzato in un’analisi della struttura del periodo (1435 a 36; b 5 e 10); mentre il nesso suvnqesi~ th`~ eJrmhneiva~ ricorre dopo la trattazione di alcune fgure stilistiche (1436 a 21 s.). In questo passo, prevale l’attenzione all’incontro di vocali e di consonanti, determinato da un modo di ‘accostare’ le parole le une alle altre, senza che peraltro ci si soffermi sugli effetti. Il retore si limita a elencare delle possibilità e non entra in un dibattito che è invece restato sempre vivo nella tradizione retorica. Demetrio ricorda Isocrate e la sua scuola, tra gli scrittori che hanno evitato lo iato (suvgkrousi~), mentre altri se ne sono serviti: «In realtà non bisogna dare troppa sonorità alla composizione – hjcwvdh poiei`n th;n suvnqesin, ammettendo iati alla buona e come capita (il che equivale, infatti, a strappare e frammentare l’enunciato), ma neppure essere troppo vigili nell’accordare continuità alle lettere perché, così facendo, la composizione – hJ suvnqesiı – risulterà forse più levigata, ma meno musicale e assolutamente priva di sonorità,

note 239-241

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dal momento che le è stata sottratta la molta eufonia prodotta dallo iato» (Lo stile 68; cfr. 69-74; 174; 299-301). nel trattato di Demetrio, la suvnqesi~ o il sugkei`sqai pros­ fovrw~ (la collocazione dei termini o l’adeguata struttura della frase) è uno dei tre aspetti (insieme con la dianoia o i pragmata; la lexis o gli onomata) ricorrenti nell’analisi degli stili (vd. 38-74; 204-208; 241-271). all’inizio, un lungo preambolo presenta e defnisce gli elementi della suvnqesi~ (1-35), vero fattore unifcante dell’opera, incentrata «sui problemi della suvnqesi~ e sui connessi aspetti ritmici»: si tratta di «una prospettiva critica che esprime l’esigenza da un lato di assicurare all’oratore una buona dizione e un effetto espressivo sull’uditorio, dall’altro di garantire al pubblico una ricezione chiara ed estetica del messaggio» (Marini 2007, p. 20). Questi sono anche gli obiettivi del nostro retore, che tuttavia rimane ancorato a un’esposizione molto arcaica e rudimentale, insuffcientemente elaborata. la suvnqesi~ ha, nel più famoso e infuente trattato di Dionigi di alicarnasso (peri; sunqevsew~ ojnomavtwn), una centralità analoga a quella che ha in Demetrio; Dionigi la defnisce come una posizione relativa delle parti del discorso tra di loro o, con altra terminologia, degli elementi del linguaggio – hJ suvnqesiv~ ejstin, w{sper kai; aujto; dhloi` tou[noma, poiav ti~ qevs i~ par j a[llhla tw`n tou` lovgou morivwn, a} dh; kai; stoicei`av tine~ th`~ levxew~ kalou`s in (2, 1). la varietà dei temi affrontati da Dionigi ha suggerito agli editori dell’opera di intenderla come «traité de la Composition stylistique», piuttosto che «traité de l’arrangement des mots»: rispetto agli usi di suvnqesiı nei suoi precedenti opuscoli, il termine assume qui «plus d’ampleur, avec le sens plus général de “composition” ou ordonnance des mots, des membres de phrase, des diverses parties et fnalement, de l’ensemble du discours littéraire, et se charge de connotations musicales qui ne sont pas étrangères au mot français de “composition”» (aujac/ lebel 2003, p. 9, n. 1). 240 Chiron offre due interpretazioni possibili: «car ce point aussi fait partie des compétences nécessaires», oppure: «fait partie des caractéristiques nécessaires à tous les discours» (p. 65). 241 la funzione di questa tripartizione non è chiara. Chiron è incline a considerarla di natura semantica: ci sarebbero tre tipi di signifcato, il primo corrisponderebbe a un signifcante unico;

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note al testo

il secondo, pur essendo uno, a un signifcante morfologicamente doppio; il terzo a un signifcante che gli è abitualmente estraneo (p. 164, ad loc.). È forse probabile che alla nozione di suvnqesi~, appena enunciata, il retore abbia associato la concezione dei suvnqe­ ta ojnovmata: ciò confermerebbe il carattere piuttosto compilatorio che sistematico del trattato. l’impressione è in ogni caso quella di un’eccessiva semplifcazione, e nello stesso tempo di una sovrapposizione di nozioni e di analisi diverse: anche il lessico utilizzato rivela oscillazioni e un insuffciente approfondimento teorico. Una ripartizione in nomi semplici e composti (ta hapla onomata e ta dipla onomata sono onomatos eide) è proposta da aristotele nella sezione linguistica della Poetica (21, 1457 a 31-35; 22, 1459 a 4-10), e ripresa nella Retorica, sviluppando la discussione sulla congruità del loro uso in determinati contesti e per determinati effetti (vd. per es. III 2, 1404 b 26-31; 3, 1405 b 35-1406 a 5; a 30 s.; a 35-37; 7, 1408 b 11 s.). l’argomentazione aristotelica ha infuito anche su Demetrio, che si sofferma sull’utilizzazione dei nomi composti (syntheta, synkeimena, dipla onomata ta; suvnqeta/ sugkeivmena/ dipla` ojnovmata), e sui loro effetti stilistici (Lo stile 91-93; 98; 116; 143; 188; 191; 275). sia nella Poetica sia nella Retorica, la trattazione della metafora è talora contestuale a quella dei nomi composti, ma la nozione di metaforav riguarda l’uso che si fa di una determinata parola (che può essere secondo la distinzione proposta nella Poetica h] kuvrion h] glw`tta h] metafora; h] kovsmo~ h] pepoihmevnon h] ejpektetamevnon h] uJfh≥rhmevnon h] ejxhllagmevnon – 21, 1457 b 1-3; cfr. Retorica III 2, 1404 b 26-37), non la sua forma. nella Retorica ad Alessandro, ricorre il termine trovpo~ per indicare i tre tipi di parola, e non ei\doı, come nella Poetica. Il riferimento alla metafora è forse anche da connettere con gli incerti inizi della teoria della metafora (la prima attestazione del termine è in Isocrate, che peraltro ne parla come se fosse già corrente, vd. Evagora 9 s.; fr. 10 Mathieu; vd. anche eschine, Contro Timarco 166 s.), pur se il linguaggio metaforico è impiegato ampiamente già nella poesia arcaica. si può tuttavia anche ritenere che il retore, esprimendosi in modo maldestro, associ i tre tipi di parole a tre stili diversi (il termine trovpo~ può assumere anche questo valore – Francesco Filelfo traduce trovpoi con fgurae), a cui sono diversamente adatte. nella Retorica di aristotele, sono

note 241-243

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elencate quattro cause della ‘freddezza’ dello stile, nell’ordine: parole composte, glosse, epiteti, metafore (III 3, 1405 b 35-1406 b 19; cfr. Poetica 22, 1458 a 21-31). È utile in particolare il confronto con questo passo della Retorica: «Poiché il discorso è formato di nomi e di verbi, e le specie di nomi sono tante quante si sono esaminate nella Poetica, di questi si devono utilizzare raramente e in pochi passi le glosse, i composti e i neologismi (e diremo più avanti dove, mentre la causa è già stata detta: questo uso eleva il linguaggio al di sopra della normalità). la parola usata in senso proprio e comune e la metafora – to; de; kuvrion kai; to; oijkei`on kai; metafora; – sono le uniche a essere utili per lo stile dei discorsi in prosa. ne è prova il fatto che è soltanto di queste che tutti si servono: tutti infatti parlano per mezzo di metafore e di parole usate in senso proprio e comune, e di conseguenza è evidente che se un oratore compone bene vi sarà un che di esotico nello stile, ma l’arte non sarà notata e vi sarà chiarezza. Questa, si è detto, è la virtù del discorso retorico» (III 2, 1404 b 26-37). la rifessione antica sulla metafora è di carattere essenzialmente stilistico e retorico. nella più complessa analisi aristotelica emergono tuttavia anche altri aspetti del metapherein, su cui oggi si è tornati, sottolineandone l’attualità e la validità nella comunicazione e nei più diversi linguaggi settoriali, ben oltre l’uso puramente letterario: la metafora è nello stesso tempo frutto e strumento del conoscere, come intuisce aristotele. 242 oppure: ‘triplice è il modo di collocarle’. alcuni editori (Bekker, spengel, Rackham) preferiscono la lezione sunqevsei~ all’altra, qevseiı, attestata nella maggior parte dei manoscritti. Gli esempi chiariscono che ci si riferisce alla ‘posizione’ reciproca delle parole; nell’ambito del tema annunciato (la synthesis), si considera qui un aspetto, una delle possibili relazioni o associazioni, cioè l’accostamento di termini considerati per la loro valenza fonica, come si può intendere: i diversi incontri e raccordi determinano contatti diversi tra le parole e conseguenti sonorità distinte, anche se ciò non è detto esplicitamente. Cfr. il passo 1435 a 33 s. dove si dà il consiglio di evitare lo iato (vd. le citazioni dallo Stile di Demetrio, nella nota 239). 243 Per la distinzione tra i mere della phone, vd. aristotele, Poetica 20, 1456 b 25 s.

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note al testo

l’uso del termine tavxi~ in questo contesto è sembrato sospetto: propriamente si adatta al primo caso, in cui si prospetta un ‘ordine’ in cui le parole possono disporsi (cfr. 1438 b 14 ss.; vd. lausberg 2002, p. 37, par. 46/ 2), ma non al secondo e al terzo (vd. Forster e Rackham, ad loc.). Francesco Filelfo traduce: «item ordines sunt quattuor»; Forster: «there are four orders in which words can be arranged»; Rackham: «and there are four questions as to arrangement»; Gohlke: «Wortverbindungen gibt es vier»; sánchez sanz: «hay cuatro formas de disposición»; Chiron: «il y a quatre dispositions»; Mirhady: «there are also four arrangements». Qui tavxiı sembra comprendere anche una varietà di scelta stilistica, nel più generale quadro della synthesis, considerando le parole anche come unità dotate di signifcato, oltre che come unità dotate di valori fonici. l’oscillazione terminologica rivela una ancora incerta teoria della synthesis, o un suo abbozzo, e un’arcaica oikonomia del discorso. Cfr. [longino] Il sublime 1, 4: «l’abilità nel costruire il soggetto, il modo di ordinare i fatti e la loro disposizione – th;n tw`n pragmavtwn tavxin kai; oijkonomivan, non dipendono da un passo o da due, ma li intravediamo appena delinearsi dal tessuto intero dell’opera. Il sublime invece, quando al giusto momento prorompe, riduce ogni cosa in briciole, come una folgore, e subito mette a fuoco, nella sua interezza, la forza dell’oratore». 245 I procedimenti descritti (successione delle parole; ripetizione o variazione; denominazione diretta o attraverso perifrasi – cfr. 1434 b 5 s.; b 11; ordine logico – o cronologico – e iperbato) implicano, nella retorica seguente, diversi livelli di analisi: il modo di concatenare le parole, la teoria delle fgure e del periodo, la scelta delle parole, l’organizzazione del discorso. la disposizione (tavxi~) dei termini è giudicata da Demetrio un fattore importante per dare attrattiva al discorso (Lo stile 139): in particolare, viene consigliata la loro disposizione naturale (physike taxis – ibid. 199 s.), che corrisponde in Demetrio a un enunciato in cui il soggetto preceda il predicato. Un’articolata analisi dei vari modi di disporre (harmottein/ tattein) le parole si legge in Dionigi di alicarnasso, La composizione stilistica 5. l’espressione paravllhla tiqevnai (1434 b 39) può indicare qui, come fa notare Chiron (p. 165, ad loc.), la giustapposizione di

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termini simili, o anche il parallelismo, la corrispondenza di parole simili da colon a colon (vd. 1435 b 25 ss.). la nozione di ‘giustapposizione’ è ricorrente in aristotele anche nell’indagine dei fenomeni fsici. 246 Il pronome aujtov~ (‘egli’) si riferisce in questo passo alla persona che dovrà parlare secondo lo schema proposto, presentando sé stesso e le proprie capacità o incapacità (‘si è capaci’ o ‘non si è capaci’), ou|to~ e e{tero~ a una persona diversa da chi parla, e con la quale si stabilisce un confronto; per questo si è scelto di rendere aujtov~ con un pronome di prima persona, quando nell’esempio si ha, in corrispondenza, ejgwv oppure aujtov~ soggetto di un verbo di prima persona (1435 a 22: aujto;~ dunhqeivhn). «aujtov~ dicitur de prima persona quae loquitur, ou|to~ vel e{tero~ de adversario; ita et aristoteles ipse semel Rhet. II, 23 loco vicesimo secundo» (spengel, p. 190). si propone qui, attraverso un tema scelto come modello (capacità o incapacità di fare una cosa o un’altra, riferite a sé stessi o a una terza persona), ma estensibile a ogni altro pragma (1435 a 29 s.), una tipologia di forme espressive che includono o che escludono, contenendo alternative e possibili combinazioni, in cui variano anche i soggetti, così raffgurabile: +/+; -/+; +/+; -/-; +/-; +/-. Il passo è stato variamente giudicato, talora anche molto negativamente. la tradizione è oscillante, nelle linee 4-11, e vari sono gli interventi di lettori antichi, di editori e traduttori moderni: gli esempi che seguono sono stati di guida alla costituzione del testo. spengel (p. 189 s.) vi scorge i primordia «grammaticae et rhetoricae», e propone un confronto con il trattato di aristotele sull’Interpretazione e con la Retorica II 23 (in particolare, 1400 a 16-23). al di là dello scarno elenco, astratto da una chiara contestualizzazione, si può, secondo Chiron, cogliere in questo controverso passo un abbozzo di teoria arcaica del periodo: poco dopo si studiano suoi elementi strutturali (1435 b 25 ss.); anche l’insistenza sul tema della chiarezza confermerebbe la relazione con l’analisi aristotelica. «Dans ce cas, ce travail conjoint sur la logique et l’expression, si hésitant soit-il en effet, serait très éclairant sur les origines de la théorie de la période, dont nous aurions ici les prémices, et tendrait à expliquer la binarité foncière de la période aristotélicienne» (Chiron, p. 166, ad loc.).

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note al testo

In realtà, l’essenza della nozione di periodo, in aristotele, non sta tanto nella sua costituzione binaria (il periodo può essere anche semplice, cioè consistente di un solo colon), né banalmente nella chiarezza (requisito peraltro necessario della lexis, in genere – vd. per es. Poetica 22, 1458 a 18; Retorica III 2, 1404 b 1 s. – e del discorso persuasivo), quanto nel suo essere eusynoptos, eumathes e eumnemoneutos, e di senso compiuto, e nel suo essere ‘organico’. «Per ‘periodo’ intendo una forma di espressione che abbia di per sé stessa un inizio e una fne e una dimensione che possa essere abbracciata con lo sguardo – levgw de; perivodon levxin e[cousan ajrch;n kai; teleuth;n aujth;n kaq j auJth;n kai; mevgeqo~ eujsuvnopton. Un’espressione di questo genere è piacevole ed è facile da comprendere – eujmaqhvı: piacevole perché si trova nella condizione opposta di quella illimitata e perché l’ascoltatore ritiene di volta in volta di acquistare qualcosa e che qualcosa sia stato concluso, mentre è sgradevole non prevedere o non raggiungere la fne; facile da comprendere perché facilmente ricordata – eujmnhmovneutoı [...]. Il periodo deve essere compiuto anche in quanto al senso – dei` de; th;n perivodon kai; th≥` dianoiva≥ teteleiw`sqai» (Retorica III 9, 1409 a 36-b 8; cfr. Poetica 7, 1450 b 32-1451 a 6; 23, 1459 a 3034). Il periodo può essere costituito da cola (due: «un colon è una delle due parti di un periodo»), oppure essere semplice, costituito da un solo colon (ibid. 1409 b 13; 16 s.). nella Retorica ad Alessandro, gli schemi e gli esempi corrispondono a una tipologia di composizione, in cui due frasi esprimono o un’aggiunta o un’opposizione: questo sembra il nucleo argomentativo, che sviluppa il concetto di synthesis e anticipa la trattazione seguente (1435 b 25); l’attenzione è sulla connessione e sulla concatenazione di concetti, giustapposti o opposti. signifcativo può essere, per un confronto, un passo della Retorica di aristotele, anche per la struttura di alcuni esempi: «Un’espressione composta di cola è divisa o antitetica. Divisa è, a esempio: “Mi sono spesso meravigliato degli organizzatori delle feste pubbliche e di coloro che istituiscono le gare ginniche”; antitetica è quella nella quale in ciascun colon un termine è opposto all’altro, oppure uno stesso termine è collegato ai due opposti [...]. Questo genere di stile è piacevole, poiché i contrari sono assai facili da comprendere, e ancor più comprensibili quando posti a contatto, e anche

note 246-248

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perché assomigliano a un sillogismo: la confutazione è infatti un accostamento di termini contrari» (III 9, 1409 b 33-1410 a 23). segue immediatamente la parte relativa all’antitesi, alla parisosi e alla paromoiosi. 247 si tratta forse del fglio di Conone, stratega e infuente uomo politico ateniese del IV sec. (vd. Chiron, p. 166, ad loc.); timoteo fu un discepolo di Isocrate, che gli dedica un elogio postumo nell’Antidosi (101-139). 248 Il consiglio di evitare l’ambiguità scaturisce dal tema annunciato, cioè la chiarezza (1435 a 4 s.); l’ambiguità, o l’uso ‘ironico’ di una parola è stato tuttavia già presentato come una possibile risorsa (1434 a 17 ss.). si nota in genere un sovrapporsi di notazioni che sembrano scaturire da fonti diverse, o suggerite da intenti diversi. Qui prevale l’attenzione allo stile, alle connessioni e ai rapporti sintattici tra le parole, a una synthesis del discorso, forse più adatta a un generica illustrazione di fatti o di pensieri, che alla difesa o all’attacco. Ci si uniforma pertanto a consigli di buon senso. anche in questo caso si nota una successione di argomenti, simile a quella che si legge nella Retorica di aristotele. nel terzo libro, incentrato su questioni di carattere stilistico, dopo aver parlato delle aretai e delle risorse della lexis, aristotele elenca cinque elementi fondamentali per un corretto uso della lingua greca: 1) il rispetto dell’ordine naturale dei syndesmoi; 2) il ricorso ai termini propri e non alle perifrasi; 3) l’evitare i termini ambigui; 4) l’attenzione al genere dei nomi, divisi da Protagora in maschili, femminili e neutri; 5) il corretto uso di singolare e di plurale (III 5, 1407 a 20-b 10). altrettanti sono i consigli dati dal retore, come risulta più evidente dagli esempi. Riguardo ai punti 2 e 3, aristotele dice: «Un secondo elemento consiste nel parlare con termini propri – to; toi`~ ijdivoi~ ojnovmasi levgein – e non con perifrasi; terzo, evitare i termini ambigui – trivton mh; ajmfibovloiı: questo vale se non si ricerca l’effetto opposto, che è quel che si fa quando non si ha nulla da dire ma si fnge di dire qualcosa. Così sono coloro che si esprimono in poesia, come empedocle: i lunghi giri di parole ingannano e gli ascoltatori provano la stessa sensazione della maggior parte di coloro che ascoltano gli indovini [...]. Gli indovini parlano in termini generali delle questioni, poiché in questo modo vi è nel complesso minor

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note al testo

possibilità di errore. si coglierà nel giusto, giocando a pari e dispari, dicendo pari o dispari piuttosto che una cifra precisa, e lo stesso discorso vale se si dirà che cosa accadrà piuttosto che quando, e di conseguenza gli indovini non defniscono il momento. tutte queste ambiguità sono simili, e devono quindi essere evitate, tranne che per il fne che si è detto» (1407 a 31-b 6). signifcativa è la precisazione sull’uso dell’ambiguità, in determinati casi (cfr. I 15, 1375 b 11 ss.; III 18, 1419 a 20 ss.). I criteri della chiarezza e del vantaggio, in vista dell’effcacia argomentativa, sono alla base anche delle osservazioni di Demetrio riguardo all’uso dell’amphibolia: «la scrittura chiara eviti anche le anfbolie, ma impieghi la fgura chiamata epanalessi» (Lo stile 196); vd. la nota 227 per la citazione del passo di Demetrio (291) in cui si confrontano amphibolia e eironeia. 249 Cfr. 1434 b 34-38. si tratta di evitare lo iato (vd. la nota 239). In genere si è inteso che anche il riferimento allo iato abbia a che fare con il consiglio di evitare l’ambiguità, ma è forse più probabile che il retore pensi a una regola stilistica di validità generale. Forster (1924, ad loc.) ricorda in nota il suggerimento di Rhys Roberts: lo scrittore tiene presenti casi di elisione che originano ambiguità, «such as theognis 112, where mnh`ma de; cou`s i or mnh`ma d j e[cousi are possible». Chiron ritiene che non si tratti di questo («il s’agit de poésie, et de tels cas sont rares»): lo iato sarebbe da evitare in quanto fattore di discontinuità sonora, e quindi di oscurità; l’osservazione sarebbe in linea con l’impostazione del trattato, così vicino alla tradizione isocratica (p. 166, ad loc.). la presenza o assenza di iato è collegata tuttavia in genere a effetti sonori e a effcacia espressiva, non propriamente alla chiarezza o all’oscurità, a meno di non considerare le qualità delle vocali che entrano in contatto, o di collegare l’assenza di iato con un andamento stilistico particolarmente fuido e limpido (vd. Dionigi di alicarnasso, La composizione stilistica 14, 7-13). sia Demetrio (Lo stile 72) sia Dionigi (La composizione stilistica 20, 8-22) citano un passo dell’Odissea, in cui si descrive il tormento di sisifo (11, 593-598), come esempio eccellente di mimesis, anche attraverso la synkrousis delle vocali. nell’analisi che Dionigi fa di un brano dell’Areopagitico (1-5) di Isocrate, anche l’assenza di ‘urti’ tra vocali, di dissonanze, contribuisce all’equilibrio, alla

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limpidezza e alla linearità dell’insieme (23, 18-23; vd. in particolare 23, 21 s.). 250 Il termine a[rqron indicherà specifcamente l’articolo solo tardi; vd. Dionisio trace, Grammatica 16, e il commento di Jean lallot (1998, pp. 59; 191-195): «l’usage grammatical du terme árthron remonte peut-être à aristote, Poét. 1457 a 6 [...], en tout cas à son contemporain anaximène de lampsaque (Rhét. [à Alexandre], p. 24, 5 Fuhrmann), qui désigne par árthron le groupe (régulier en grec pour former l’équivalent de nos ‘adjectifs démonstratifs’) pronom + article: hoûtos ho (ánthrōpos) ‘cet (homme)’» (p. 191 s.). Propriamente esso signifca ‘articolazione’, ‘giuntura’ o connessione tra parti o membri; il suo uso sia nell’anatomia sia nella grammatica rifette la concezione di un’analogia strutturale tra corpo umano ed enunciato (vd. Belardi 1985, pp. 9 ss.; 133: syndesmos, kolon e arthron conservano traccia di una «arcaica concezione anatomico-dinamica del “linguaggio articolato”, modellata sullo schema corporeo»). la nozione di ‘giuntura’ o ‘articolazione’ o ‘legame’ tra parti è insita sia nel termine a[rqron sia nel termine suvndesmoı (vd. 1435 a 38), i cui usi specifci saranno distinti successivamente dagli stoici: «Cinque sono le parti del discorso, come affermano Crisippo e Diogene nella sua opera La voce; e cioè o[noma, proshgoriva, rJh`ma, suvndesmo~, a[rqron» (Diogene di Babilonia, fr. 21, III p. 213 SVF; fonte del frammento è Diogene laerzio, Vite dei flosof VII 57). Dionigi di alicarnasso informa che teodette, aristotele e i flosof di quel tempo distinsero tre categorie: onoma, rhema e syndesmos; i loro successori, in particolare gli stoici, portarono il numero a quattro, distinguendo tra syndesmos e arthron; altre distinzioni furono introdotte in seguito (La composizione stilistica 2, 2). similmente Quintiliano, sottolineando che non c’è accordo sul numero delle varie parti del discorso (La formazione dell’oratore I 4, 17): «Gli antichi, fra cui anche aristotele e teodette, ne tramandarono infatti soltanto tre: verbi, nomi e congiunzioni – conuinctiones. evidentemente, ritennero che nei verbi risieda la forza del discorso, nei nomi la materia (poiché l’una è ciò che diciamo e l’altra è ciò di cui diciamo) e nelle congiunzioni la loro connessione. Queste ultime so che dai più sono chiamate coniunctiones, ma il termine che ho usato [convinctio] mi pare resa più appropriata del greco

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syndesmos. a poco a poco i flosof (e in particolare gli stoici) accrebbero il numero delle parti del discorso, e alle congiunzioni furono aggiunti prima gli articoli e poi le preposizioni» (I 4, 18-19). In aristotele, il termine a[rqron è utilizzato soprattutto nelle descrizioni anatomiche, e anche in riferimento all’articolazione della voce (vd. per es. Ricerche sugli animali IV 9, 536 a 4). Molto discusso e controverso è tutto il passo della Poetica in cui aristotele elenca i mere tes lexeos: stoicei`on sullabh; suvnde­ smo~ o[noma rJh`ma a[rqron ptw`s i~ lovgo~ (20, 1456 b 20 s.). alcuni editori espungono il termine a[rqron o anche la sua defnizione (1457 a 6 s.: a[rqron d j ejsti; fwnh; a[shmo~ h} lovgou ajrch;n h] tevlo~ h] diorismo;n dhloi`). Il diffcile e problematico passo della Poetica e questo passo della Retorica ad Alessandro sarebbero le uniche attestazioni, nel C.A., del termine come vocabulum grammaticum (vd. Bonitz 1961, p. 93 b 28-34). Il signifcato di ‘articolo’ sembra emergere nel trattato di Demetrio, di incerta datazione (secondo le varie proposte, si va dal III sec. a.C. al I/ II sec. d.C.). l’autore cita un passo di Isocrate (Encomio di Elena 17; la citazione corrisponde solo in parte con il testo tràdito di Isocrate), per esemplifcare dei cola antitetici nei termini: tw`≥ me;n ejpivponon kai; polukivndunon to;n bivon ejpoivhsen, th`~ de; perivblepton kai; perimavchton th;n fuvs in katevsthsen. subito dopo spiega: ajntivkeitai ga;r kai; a[rqron a[rqrw≥, kai; suvn­ desmo~ sundevsmw≥, o{moia oJmoivoi~, kai; ta\lla de; kata; to;n aujto;n trovpon, tw≥` me;n ejpoivhsen to; katevsthsen ktl kai; o{lw~ e}n pro;~ e{n, o{moion par j o{moion hJ ajntapovdosi~ (Lo stile 23). la Marini (2007) traduce: «“a lui fece la vita travagliata e molto pericolosa, di lei rese l’aspetto ammirato e ambìto”. articolo si contrappone ad articolo, congiunzione a congiunzione, simile a simile e così via: a “fece” si contrappone “rese” ecc. la corrispondenza è in tutta la frase, di uno a uno, di simile con simile». In modo analogo interpretano Chiron (ed. 2002) e ascani (2002); a parte la problematicità della resa di suvndesmoı, ci si può chiedere se a[rqron e suvndesmoı siano proprio distinti (articolo e particella) o assimilati, quasi uno fosse la specifcazione dell’altro, considerando il valore pronominale del comunissimo e inscindibile nesso del tipo ho men/ ho de (tw`≥ me;n ktl, th`~ de; ktl). Un approfondimento potrebbe forse portare qualche contributo sia alla dibattuta questio-

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ne relativa al valore di a[rqron nella rifessione grammaticale, sia a quella relativa alla datazione del trattato di Demetrio. Francesco Filelfo traduce: «advertendum est praeterea ut quos articulos vocant, opportune et apte loces»; Forster: «Be careful to put the socalled ‘articles’ in the proper place»; Gohlke: «sodann achte man auf die sogennannten Geschlechtswörter und ihre richtige stellung» (cfr. nota ad loc.); Rackham: «Be carefull to add the ‘articles’ where necessary»; sánchez sanz: «Presta atención a los llamados artículos para ponerlos cuando haga falta»; Chiron: «veille à ce que les mots qu’on appelle des articulations soient ajoutés à propos»; Mirhady: «Give attention to the so-called articles, that they are placed in the required position». Vd. Ferrini 2014, p. 105, n. 1. 251 Gli esempi seguenti (1435 b 6-10) spiegano che cosa si intende per ‘confusione’: essa si genera quando è diffcile distinguere le diverse funzioni sintattiche degli elementi della frase. Qui si fa riferimento tuttavia anche a una precisa fgura, l’iperbato, di cui la tradizione retorica conosce le insidie ma anche le potenzialità espressive. In questo passo, l’autore collega l’iperbato al mutamento nell’ordine delle parole (synthesis hyperbate), che può trarre in inganno. Indicativo di una più articolata concezione dell’iperbato, è un passo del trattato sul Sublime: esso «consiste in un ordine di parole o di pensieri sconvolto nella sua successione, e costituisce, per così dire, il segno più autentico di una violenta passione». Chi è in preda a un pathos, «sviando ogni momento, benché altro oggetto di discorso si fosse proposto, spesso salta ad un altro, inserendo senza una ragione delle parentesi, quindi di nuovo fa marcia indietro nell’argomento di partenza, e, trascinato rapidamente di qua e di là in balia completa dell’agitazione come spinto da instabile vento, inverte svariatamente e in mille modi l’ordine della naturale concatenazione del discorso; così, presso i migliori scrittori per mezzo degli iperbati l’imitazione vien ricondotta all’operato della natura. Infatti è allora che l’arte è perfetta, quando sembra esser natura; mentre la natura raggiunge il suo scopo quando presuppone l’arte senza che ce ne accorgiamo» (22, 1). l’anonimo continua con un esempio tratto da erodoto, ma riconosce di più a tucidide «capacità eccezionali nel separare, con iperbati, le une dalle altre cose che, per natura, sono assolutamente unite e insepa-

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rabili». successivamente sembra imitare Demostene nel costruire un complesso periodo che esemplifca gli effetti dell’uso prolungato degli iperbati: «Demostene non è ardito come tucidide, ma in questo genere di fgure è prodigo fno alla sazietà, e con l’uso dell’iperbato rende assai veemente il discorso, e, per Zeus, dà perfno l’impressione di parlare a braccio: oltre a questo, egli trascina con sé l’ascoltatore nel pericolo dei suoi lunghi iperbati». solo alla fne del discorso, dopo aver lasciato in sospeso un argomento, inserendone altri, e dopo aver gettato l’ascoltatore nell’ansia e nella paura, con continue interruzioni, di cui non si comprendono l’origine e la motivazione, arriva felicemente al punto, contro ogni aspettativa: in questo modo, «scuote – ejkplhvttei – molto di più gli ascoltatori, grazie al rischio e al pericolo degli iperbati» (22, 3-4 – trad. di F. Donadi, Milano 1991). Quintiliano ricorre a una consolidata metafora architettonica (cfr. Dionigi di alicarnasso, La composizione stilistica 6, 3; 22, 2) nell’introdurre l’illustrazione dell’iperbato: «anche l’iperbato (cioè la trasposizione di una parola) è giustamente annoverato tra i pregi dello stile, perché è spesso richiesto dalla struttura e dall’eleganza della composizione. Difatti lo stile risulterebbe spesso aspro, duro, sconnesso e slegato se le parole venissero ricondotte al loro ordine naturale e se ciascuna venisse congiunta a quella più vicina così come si presenta, anche se non può esservi legata. Dunque certe parole vanno posposte e anteposte, e ciascuna deve essere collocata nel posto adatto come in una struttura di pietre grezze. Infatti non possiamo tagliare e levigare le parole perché si incastrino e si connettano maggiormente tra loro, ma bisogna utilizzarle come sono, e bisogna scegliere il posto adatto a loro» (La formazione dell’oratore VIII 6, 62 s.). Quintiliano distingue tre tipi di iperbato (altri saranno individuati dai grammatici): l’anastrofe (inversione di due parole), l’iperbato in senso proprio («quando per ragioni ornamentali una parola viene trasposta piuttosto lontano»), e la tmesi (6, 65 s.). l’iperbato può essere un effcace strumento stilistico, come si mette in evidenza rinviando all’incipit della Repubblica di Platone: «né alcun tropo può dare ritmo allo stile quanto un opportuno mutamento dell’ordine delle parole, e nelle tavolette di Platone, quelle quattro parole con le quali, nella più bella delle sue opere, dice di esser sceso al Pireo, sono state trovate

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scritte in moltissimi modi solo per la ragione che egli sperimentava l’ordine che producesse il migliore effetto ritmico» (6, 64). sull’iperbato, vd. lausberg 2002, p. 181, par. 331: «l’hyperbaton (trangressio, transiectio, uJperbatovn) è il distacco di due parole in stretto legame sintattico, per mezzo dell’interposizione di un membro della frase (monosillabico o polisillabico) che direttamente non rientra in quel punto. Questa fgura è una fgura di parola che, come fgura di pensiero, corrisponde alla parentesi e come metaplasmo grammaticale alla tmesi». 252 l’esemplifcazione comincia dall’ultimo consiglio dato, e procede in ordine inverso. si tratta di consigli presentati in modo ovvio e semplicistico, e coincidenti con la stilistica isocratica. aristotele, nel raccomandare la correttezza nell’uso dei syndesmoi, la collega con la necessità di una chiara ricezione del discorso: non si devono interporre troppe parole tra di essi, per evitare che il primo termine non venga più ricordato (to eumnemoneuton è, insieme con to eusynopton, un requisito imprescindibile, per la chiarezza e l’effcacia – vd. la nota 246 e cfr. Demetrio, Lo stile 196), quando compare il secondo. «Il fondamento dello stile è costituito dalla purezza linguistica, e questa consiste in cinque elementi. In primo luogo, nelle correlazioni, quando si rispetti il loro ordine naturale ed esse precedano o seguano, come alcune richiedono: così mevn o ejgw; mevn richiedono dev o oJ dev. È necessario che esse si corrispondano fntanto che il primo termine è nella memoria, e che non vengano separate da uno spazio ampio e che una nuova parola non venga introdotta al posto di quella necessaria per corrispondere, poiché ciò raramente risulta appropriato. “Io, da parte mia – ejgw; mevn, dopo che egli mi parlò (perché Cleone venne sia pregando sia domandando) partii – ejporeuovmhn, prendendoli con me”. In questa espressione molti syndesmoi sono introdotti prima di quello che deve corrispondere, e se l’intervallo prima del “partii” è grande, ne deriva oscurità. Un primo elemento, dunque, è la correttezza nell’uso delle correlazioni» (Retorica III 5, 1407 a 20-31; vd. le note 236 e 248). nei Problemi del C.A., è ben espressa la consapevolezza del carattere fortemente idiomatico dei syndesmoi, tanto che se si omettono, il logos non è più hellenikos (XIX 20, 919 a 22-25).

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In lunghi enunciati, Demetrio suggerisce la ripresa della stessa particella, in modo da far ricordare quello che si era detto, e da ricondurre il periodo al suo inizio (Lo stile 196). Demetrio considera i syndesmoi come possibili fattori di esiti stilistici diversi: la minuziosa ricerca di una loro corrispondenza genera la mikroprepeia (vd. la nota 238), ma spesso «più congiunzioni disposte in successione rendono grande il piccolo» (Lo stile 53 s.). alcune particelle non devono essere usate come vuoti riempitivi, «cioè come elementi posticci e accessori»: bisogna servirsene solo se contribuiscono al megethos e al pathos, e se il loro uso è motivato (55-58). anche la loro disposizione è stilisticamente signifcativa: clausole con dev o te vanno in genere evitate, ma possono essere utili in certi casi (257). anche l’anonimo del Sublime invita a considerare gli effetti dell’aggiunta di syndesmoi, facendo esplicito riferimento alle tendenze della scuola isocratica: il pathos si stempererà e si spegnerà nell’uniformità e nella leiotes, e lo stile risulterà snervato e ineffcace (21, 1). «Come se uno legasse le gambe dei partecipanti a una corsa, toglierebbe loro lo slancio, così anche il pathos si adombra di fronte all’ostacolo dei syndesmoi e delle altre addizioni»; esso perde la libertà (eleutheria) del movimento e diventa come un proiettile lanciato da una macchina da guerra (21, 2). si tratta di una metafora tratta dalla balistica e dalla meccanica, che mette in evidenza la traiettoria obbligata, in contrasto con la nozione di eleutheria, centrale nell’argomentazione dell’autore. 253 Per un simile uso dell’espressione ejgw; me;n paregenovmhn (1435 a 40-b 1), vd. la Sintassi di apollonio Discolo (II 49 e 53). nella linea 1435 b 3, Reeve (1970, p. 240 s.) preferisce la lezione corretta del codice Matritensis 4632 (H), ai[tio~ ei\ (su; ai[tio~ ei\, prima della correzione) invece di ai[tio~ suv del resto della tradizione: la più completa corrispondenza tra le due frasi illustrerebbe meglio il caso. Ma l’esempio è suffcientemente chiaro attraverso la correlazione di kaiv. 254 Dall’esempio risulta che la confusione si genera quando è diffcile distinguere le diverse funzioni sintattiche degli elementi della frase. l’anfbolia è indicata tra le sei forme di espressione che causano l’errore, subito dopo l’omonimia (da cui si distingue, in quanto nell’anfbolia è ambigua la struttura della frase, non il singolo termine; le altre fallaciae in dictione sono: synthesis, diairesis,

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prosodia, schema lexeos), nelle Confutazioni sofstiche di aristotele (4, 165 b 24-27; 166 a 6-32). I modi in cui il sofsta può utilizzare l’espediente dell’anfbolia sono molteplici; l’esempio che più si avvicina a quello che si legge qui sembra essere il seguente: to; bouvlesqai labei`n me tou;~ polemivou~ (166 a 6 s.), in cui non è chiaro chi vuole catturare. l’ordine delle parole non è di per sé suffciente a chiarire quale sia il soggetto e quale il complemento. Dell’ambiguità, e di altre forme espressive che possono indurre a interpretazioni errate, tiene ampiamente conto l’esegesi omerica antica, come testimonia la stessa Poetica di aristotele (25, 1460 b 6 ss., in particolare 1461 a 25 s.). Rhys Roberts (1912, p. 177) ritiene che l’autore della Retorica ad Alessandro abbia in mente il verso 610 delle Rane di aristofane, «where (context apart) toutoniv might be not subject but object»; propone inoltre confronti con passi di retori latini, riguardanti l’ambiguità e il modo di ovviare a essa. Quintiliano, in particolare, si serve di un esempio simile per illustrare un’ambiguità di carattere sintattico: «l’ambiguità determinata da due accusativi viene eliminata con un ablativo, ad esempio: Lacheten audiui percussisse Demean diventerebbe a Lachete percussum Demean» (La formazione dell’oratore VII 9, 10). 255 alcuni editori (Fuhrmann e Chiron; vd. anche spengel, p. 192) segnalano qui una lacuna: manca l’esempio riguardante l’iperbato. Ci si può chiedere, tuttavia, se in un testo come questo, che manca di sistematicità, sia strettamente necessario presupporre la perdita di un’esemplifcazione riguardante l’iperbato, considerando anche che la nozione di iperbato non sembra essere stata isolata dal retore, rispetto a quella di synchysis. 256 l’interpretazione di questo diffcile passo si lega strettamente al problema riguardante il signifcato del termine a[rqron (vd. la nota 250). si è pensato a un’eco delle ricerche di Protagora sul genere dei nomi (ricerche note anche a un più vasto pubblico, come lascerebbero intedere le Nuvole di aristofane, 658-693), oppure a considerazioni del retore sull’impiego del deittico, accompagnato dal gesto, quale possibile fonte di oscurità, se il referente è assente o diffcilmente identifcabile (vd. Chiron, p. 168, ad loc.; cfr. Rackham, ad loc.). sembra in ogni caso che si voglia sottolineare una determinante funzione dell’arthron.

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la classifcazione dei nomi secondo il genere, da parte di Protagora, è, come si è visto (nota 248), il quarto degli elementi considerati da aristotele, nella sua analisi del corretto uso della lingua (Retorica III 5, 1407 b 6-9 – Protagora 80 a 27, II p. 262, 12 s. D.K.; cfr. Poetica 21, 1458 a 8-17), a cui fa seguire il giusto accordo nel numero (singolare o plurale). si può tener conto anche di un passo delle Confutazioni sofstiche, in cui si fa riferimento a Protagora e al genere dei nomi, parlando del solecismo, come tecnica sofstica (14, 173 b 17-174 a 5). la possibilità di equivoco e di errore può, in sé, riguardare sia il genere (oJ a[nqrwpoı / hJ a[nqrwpoı) sia il caso (nominativo / accusativo). l’esempio dovrebbe dimostrare che essa è scongiurata dall’arthron; resta problematico se ciò si debba alla sola presenza dell’a[rqron, in quanto connessione di pronome e articolo, formante una unità (ou|to~ oJ/ tou`ton to;n), oppure all’opportuna ‘collocazione’ o all’esatto ‘accostamento’, accordo, di oJ con ou|toı e di tovn con tou`ton. D’altra parte, togliendo i due nessi restano a[nqrwpoı e a[nqrwpon: si avrebbe un’espressione formalmente corretta, il cui signifcato è tuttavia generico, senza effcacia argomentativa. l’accenno ai possibili casi contrari riguarda forse un’utilizzazione mirata di espressioni non altrettanto chiare, per determinati fni. Il modo di esprimersi succinto del retore non permette di valutare eventuali e signifcativi apporti. 257 la tradizione ha la lezione ajnavptuxiı (accolta da Bekker, da spengel e da Mirhady), che propriamente signifca ‘apertura’; anaptissi è un termine tecnico della fonetica, e indica l’epentesi vocalica. I lessici (lsJ e Montanari) danno per ajnavptuxi~ anche il signifcato di ‘spiegazione’, rinviando a questo passo della Retorica ad Alessandro (1435 b 18); cfr. ateneo, I sofsti a banchetto I 1 a. spengel osserva che il signifcato del termine in questo passo («clausulam quandam sententiae intelligere videtur»), non è attestato altrove, «unde H. Knebel, interpres, ajnavpausi~ corrigit» (p. 192). Forster (1924) legge ajnavpneusi~ («a breathing-space»); diversa è la traduzione rivista («a pause»), basata sul testo di Fuhrmann, che accoglie la congettura ajnavpausi~. Rackham segue Forster e scrive ajnavpneusi~ («a pause for breath»). Chiron, non senza qualche esitazione, segue invece l’emendamento di eisemann:

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ajnavyuxi~, «une pause, une respiration»; il signifcato di ajnavptuxi~ «fait diffculté dans un passage sur l’hiatus, car l’anaptyx est le “déploiement”, ou l’émergence d’une voyelle brève entre deux consonnes» (p. 168, ad loc.). la nozione espressa dal termine diaivresi~, in questo contesto, trova un interessante confronto con l’uso del verbo diairei`n in un passo di Demetrio (vd. anche la nota 239), in cui l’autore si sofferma sullo iato e sugli effetti fonici della sua presenza o assenza, mostrando un atteggiamento duttile. l’autore ammonisce a non dare «troppa sonorità alla composizione, ammettendo iati alla buona e come capita», ma a non essere neppure «troppo vigili nell’accordare continuità alle lettere perché, così facendo, la composizione risulterà forse più levigata, ma meno musicale e assolutamente priva di sonorità, dal momento che le è stata sottratta la molta eufonia prodotta dallo iato» (Lo stile 68). sia nel linguaggio corrente sia in quello poetico, osserva l’autore, si creano d’altra parte iati all’interno delle parole, alcune delle quali sono costituite solo da vocali, «come Aijaivh», senza che per questo il loro suono risulti sgradevole (69): «lo stesso vale per forme poetiche come hjevlio~, che, con dieresi e iato voluti – dih≥rhmevnon kai; sugkrouovmenon ejpivthde~, è più eufonico di h{lio~, e così ojrevwn rispetto a ojrw`n. Infatti la separazione – luvs i~ – dei suoni e lo iato hanno una qualche musicalità in più. Moltre altre parole, poi, che risulterebbero sgradevoli per la presenza della sinalefe, con la dieresi e lo iato – diaireqevnta de; kai; sugkrousqevnta – acquistano una maggiore eufonia, come: pavnta me;n ta; neva kai; kalav ejstin. se per sinalefe si dicesse kala[stin, la forma sarebbe più sgradevole e più banale» (70). la diversa ampiezza dell’argomentazione e il diverso approfondimento degli effetti stilistici in Demetrio contrastano con le scarne ed enigmatiche indicazioni del nostro retore. la prima possibilità di deroga al divieto di utilizzare lo iato potrebbe essere connessa con la necessità di ricorrere a determinate parole piuttosto che ad altre, per esigenze di chiarezza; Demetrio, come si è visto, ricorda che il linguaggio corrente crea iati. Più diffcile è stabilire quali siano esattamente i motivi che giustifcano la seconda. Chiron, notando l’originale impiego del termine diaivresi~, nel quadro della teoria dello iato, ritiene che possa trattarsi «de

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ce qu’on appelle aujourd’hui “consonnes articulatoires” (y, Ƒ), qui assurent la division de l’émission sonore et préservent à la fois de l’obscurité et de la vulgarité de l’hiatus». si può pensare anche a fenomeni di aspirazione (p. 69, ad loc.). Un’altra ipotesi è che il retore si riferisca ai diversi effetti dell’incontro di vocali che, pur essendo tutte phonai, non richiedono tutte la stessa modalità di emissione di fato. In questo caso, la breve annotazione sarebbe storicamente molto signifcativa, se si pensa alla dettagliata analisi condotta da Dionigi di alicarnasso sulla pronuncia delle ‘lettere’ in genere, e delle vocali in particolare. Per la pronuncia di queste ultime, Dionigi fa intervenire tre elementi: il fusso d’aria canalizzato dalla trachea, la bocca che assume posizioni diverse, e la lingua che resta immobile. la forma assunta dalla bocca, appena comincia l’emissione di fato, determina il timbro della vocale, mentre la sua durata dipende dal modo di utilizzare il fusso d’aria: le vocali migliori, che producono un suono piacevole, sono le lunghe e tutte le bivalenti che si pronunciano come lunghe, in quanto durano a lungo e non interrompono la tensione del soffo; al contrario, le brevi si concludono bruscamente – ejx ajpokoph`~, con un sol colpo d’aria – mia≥` plhgh≥` pneuvmato~, durano poco e mutilano il suono (La composizione stilistica 14, 8 s.). l’analisi di Dionigi è infuenzata dalle acquisizioni dell’auletica e dagli studi di acustica; anche la scarna e problematica indicazione del nostro retore potrebbe essere suggerita dagli stessi ambiti di ricerca. aristotele d’altra parte dedica molta attenzione alle diaphorai della voce; nel C.A. è confuito inoltre un trattato di grande importanza sui Suoni, in cui l’indagine riguardante l’origine e la produzione dei suoni si intreccia con un costante interesse per la diversità delle voci umane, per le differenti qualità e variazioni, nei diversi contesti, di suoni e rumori, e per la percezione che se ne ha. Il variare dell’intensità dell’impatto, e dell’emissione e propagazione del fusso d’aria, è al centro dell’argomentazione; così, la nozione di diairesis (o nozioni affni, espresse da altri termini) vi è ricorrente (vd. per es. 801 a 1; 804 b 7 s.: subito dopo, si fa un breve accenno alla differenza tra suoni aspirati e non aspirati – vd. Ferrini 2008, ad loc.). si può anche pensare che ci si riferisca alla punteggiatura: essa costituisce sia una pausa ritmica, sia una divisione, ‘separazione’ o

note 257-258

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distinzione delle parole, opposta al procedimento di synthesis, e utile anche, o soprattutto, per capire il senso del discorso. nel passo della Retorica, cui si è fatto riferimento più volte nelle note di questa sezione, si accenna all’effetto ingannevole dei lunghi giri di frase, tipici dei poeti come empedocle (III 5, 1407 a 32-37), e alla diffcoltà di inserire la punteggiatura (diastivxai) nei versi di eraclito «perché non è chiaro se un termine debba essere collegato con il termine precedente o con quello seguente» (1407 b 13-15): in generale, ciò che si scrive deve essere facile sia da leggere sia da pronunciare (1407 b 11 s.). nella Poetica, la corretta diairesis è indicata tra i criteri che possono contribuire alla soluzione di alcune diffcoltà interpretative, legate ad ambiguità di carattere sintattico (25, 1461 a 23-25: si cita un discusso frammento di empedocle 31 B 35, I p. 327, 11-328, 1 D.-K.). 258 In realtà ojdov~ e oJdov~ non sono la stessa parola, non si tratta cioè di un caso di polisemia: le due parole sono pronunciate in modo diverso, rispettivamente senza aspirazione e con aspirazione. l’ambiguità sarebbe possibile nella scrittura, dove si avrebbe identità, solo se il nome fosse «scritto con le stesse lettere e nello stesso modo (ma anche in questo caso si adottano ormai dei segni distintivi); l’identità tuttavia non sussiste, quando il termine è pronunciato»: aristotele fa l’esempio di o[ro~ (monte) e o{ro~ (limite, defnizione) che si distinguono per la prosodia, e non sono identici, nemmeno nella scrittura, se si indicano spirito e accento (Confutazioni sofstiche 20, 177 b 3-7). Così anche in un altro passo, considerazioni simili sono applicate all’esegesi di versi omerici (4, 166 b 1-9; cfr. Poetica 25, 1461 a 21-23). È di grande rilievo la testimonianza aristotelica sull’abitudine di usare segni diacritici (parasemata), che cominciava allora ad affermarsi. 259 Invece del termine oJmoiovth~ si utilizzerà più avanti il termine paromoivwsi~ (1436 a 5). nella Retorica di aristotele, sono illustrati, nella stessa successione, gli stessi procedimenti (antitesi, parisosi e paromoiosi – III 9, 1409 b 33-1410 b 5). antitesi e parisosi e altre fgure stilistiche spiccano nei discorsi, e costringono l’uditorio a manifestare approvazione con i gesti e con la voce: così afferma Isocrate all’inizio del Panatenaico (2-3), annunciando nello stesso tempo di abbandonare, all’età di novantaquattro anni, questi procedimenti stilistici, di sicuro effetto e di immediata presa sull’uditorio.

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note al testo

Pernot nota che il nostro retore è uno dei pochi a non consigliare un loro uso prudente (1993, p. 373). Vd. le note seguenti. 260 Questa distinzione sarà alla base della classifcazione dell’antitesi o tra le fgure di parole o tra le fgure di pensiero. «l’antitesi [...] è la contrapposizione di due pensieri (res) di variabile estensione sintattica. si possono distinguere l’antitesi di frase, l’antitesi di gruppi di parole, l’antitesi di parole singole. Fondamento lessicale sono gli antonimi» (lausberg 2002, p. 209 s., par. 386). l’antitesi è una delle fgure cosiddette ‘gorgiane’ (schemata gorgieia). In aristotele essa consiste nell’opposizione di termini, in ciascuno di due cola, o nel collegamento dello stesso termine ai due contrari (vd. il passo della Retorica III 9, 1409 b 33-1410 a 23, parzialmente citato nella nota 246); gli esempi addotti sono signifcativamente tratti dal Panegirico di Isocrate. si riconosce la piacevolezza di questo procedimento stilistico, che assomiglia a un’argomentazione logica, a un sillogismo: l’antitesi è concepita da aristotele essenzialmente come fgura logica, basata sui contrari (cfr. Retorica II 23), o su ciò che ha la funzione di ‘contrario’, nel singolo contesto. Demetrio invece ne valuta i diversi effetti stilistici, e soprattutto distingue tre tipi di antitesi, forse proprio per infuenza della Retorica ad Alessandro e di teofrasto (fr. 692, II p. 538, 10 s. FHs&G: ajntivqesi~ d j ejsti; trittw`~, o{tan tw≥` aujtw≥` ta; ejnantiva h] tw≥` ejnantivw≥ ta; aujta; h] toi`~ ejnantivoi~ ejnantiva proskathgorhqh≥`), come è stato supposto (vd. Marini 2007, p. 173, ad loc.). la distinzione è tra cola contrapposti per contenuto, per forma e per contenuto, o solo nei termini: «Ci sono periodi costituiti da kola antitetici, o per il contenuto come: “navigando per terra, marciando per mare” [Isocrate, Panegirico 89; lo stesso esempio ricorre nella Retorica di aristotele III 9, 1410 a 10 s.], oppure per entrambi, forma e contenuto, come avviene nello stesso periodo. Ci sono kola antitetici solo nei termini, come nel seguente passo in cui chi paragona elena a eracle dice [Isocrate, Encomio di Elena 17; vd. la nota 250]: “a lui fece la vita travagliata e molto pericolosa, di lei rese l’aspetto ammirato e ambìto”. [...] . la corrispondenza – hJ ajntapovdosi~ – è, in tutta la frase, di uno a uno, di simile con simile» (Lo stile 22 s.).

note 260-261

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Demetrio commenta poi un procedimento stilistico che simula l’antitesi nella struttura, anche se non c’è reale contrapposizione dei cola, e cita la stessa battuta di epicarmo, che aristotele porta come esempio di false antitesi: «“ora ero tra quelli, ora ero presso quelli” – tovka me;n ejn thvnoi~ [ejn thvnwn in aristotele] ejgw;n h\n, tovka de; para; thvnoi~ ejgwvn [fr. 147 Kaibel = 23 B 20a, I p. 201 D.-K.]. lo stesso concetto viene ripetuto, senza che ci sia contrapposizione». Ciò che aggiunge è signifcativo perché mostra la consapevolezza dell’abuso di tali mezzi stilistici, che risultano ingannevoli: «Probabilmente, epicarmo ha impiegato l’antitesi per suscitare il riso e, allo stesso tempo, per prendere in giro i retori» (Lo stile 24; cfr. aristotele, Retorica III 9, 1410 b 3-5). altrove mette in guardia dai possibili effetti negativi dell’antitesi, che insieme con altre fgure può dar luogo a ricercatezze e a formalismi capaci di dissolvere la potenza espressiva (deinotes), e di rivelare o determinare la ‘freddezza’ (psychrotes; vd. Lo stile 27 s.; 171; 247; 250). la trattazione dell’antitesi appare più ampia in Demetrio, rispetto ad aristotele, ma solo se si considera l’antitesi come fgura stilistica, più che come procedimento logico. Il nesso toi`~ ajntikeimevnoi~ ( è integrazione di Kassel – 1967, p. 125, accolta da Chiron) è reso da Rackham «in the opposed clauses», intendendo evidentemente toi`~ ajntikeimevnoi~ kwvloi~. 261 simile è la defnizione che si legge nella Retorica di aristotele, conclusa l’illustrazione dell’antitesi: parivswsi~ d j eja;n i[sa ta; kw`la (III 9, 1410 a 24 s.); immediatamente dopo si passa alla defnizione della paromoiosi: paromoivwsi~ de; eja;n o{moia ta; e[scata e[ch≥ eJkavteron to; kw`lon (1410 a 25 s.). In Demetrio non compare il termine parivswsiı, ma il concetto è espresso dal nesso to; ijsovkwlon: se ne parla nella trattazione del kolon paromoion, di cui l’isokolon è considerato un eidos: «Un’altra forma di paromio è l’isokolon: esso si ha quando i kola presentano sillabe in un giusto rapporto di proporzione – ejpa;n i[sa~ e[ch≥ ta; kw`la ta;~ sullabav~» (Lo stile 25). la Marini traduce in questo modo (‘sillabe in un giusto rapporto di proporzione’), tenendo conto del fatto che nell’esempio citato (da tucidide, La guerra del Peloponneso I 5, 2) il numero delle sillabe, nei due cola, non è uguale: forse Demetrio non pensa a un’uguaglianza nel nu-

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note al testo

mero delle sillabe, ma a un rapporto di giusta proporzione fra i cola (2007, p. 174 s.). In realtà, non è necessario pensare a un rigoroso computo di sillabe; cfr. l’esempio citato nella Retorica ad Alessandro 1436 a 2 s.; la Retorica a Erennio IV 27 s. Quintiliano invita a non lasciarsi andare a minuzie irrilevanti, «passando il tempo a misurare i piedi e a soppesare le sillabe» (La formazione dell’oratore IX 4, 112 – vd. la nota 238). Chiron schematizza così i diversi tipi di isa cola: essi possono essere uguali perché hanno o lo stesso numero di parole (e un diverso numero di sillabe), oppure lo stesso numero di parole e di sillabe, oppure ancora lo stesso numero di sillabe (e un diverso numero di parole). si calcola cioè o il numero delle parole o la loro lunghezza, che varia secondo il numero delle sillabe (p. 70, ad loc.). Il concetto di isocolon è di fatto articolato e più ampio: «l’isocolon (compar, exaequatum membris ; ijsovkwlon, pavrison ; parivswsi~) consiste nella corrispondenza sintattica della composizione di varie parti (rispettivamente di vari membri) di un insieme sintattico». (lausberg 2002, p. 184, par. 336). 262 I due cola hanno uguale numero di parole, ma non di sillabe, a meno di non considerare, come fa Chiron (p. 169, ad loc.), trisillabico per sinizesi il termine ajporivan, ipotesi che sembra tuttavia poco probabile. 263 sull’uso dei termini i[so~ e o{moio~ in geometria, vd. Mugler 1958, pp. 227-231; 302 s. 264 nella Retorica di aristotele, il rapporto di somiglianza riguarda le estremità dei cola: «si ha la paromoiosi quando ogni colon abbia estremità simili. Questo deve necessariamente accadere in principio o in conclusione, e in principio la somiglianza consiste in intere parole, in conclusione nelle sillabe fnali, nella desinenza, nella ripetizione della stessa parola» (III 9, 1410 a 25-29). si tratta essenzialmente di somiglianze di suono: il concetto di paromoiosis (uguaglianza fonica, assonanza) è distinto da quello di parisosis (corrispondenza dei cola). Inoltre, quando aristotele afferma che la stessa frase può presentare contemporaneamente le fgure analizzate, non usa il termine paromoiosis, ma homoioteleuton: e[stin de; a{ma pavnta e[cein

note 262-265

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taujtov, kai; ajntivqesin ei\nai to; aujto; kai; pavrison kai; oJmoiotevleu­ ton (1410 b 1 s.). Cfr. Demetrio, Lo stile 26-29. si è pensato che questo passo della Retorica ad Alessandro abbia infuito sul trattato di Demetrio (vd. Marini 2007, p. 174): si è visto (nota 261) che Demetrio fa dell’isokolon «una forma di paromio» (Lo stile 25). nella Retorica ad Alessandro, la paromoiosi ‘è più grande’ (meivzwn), più ampia, più comprensiva e completa della parisosi, ‘va oltre’ e la ingloba tout-court. In Demetrio, che segue aristotele, la distinzione risulta tuttavia meno chiara, forse anche perché egli è maggiormente interessato agli effetti stilistici di questi procedimenti che alla loro defnizione e alla loro differenza all’interno della comune nozione di isotes. D’altra parte, Demetrio non utilizza il termine paromoivwsiı (e nemmeno parivswsiı), ma to; parovmoion. Come aristotele, individua la paromoiosi all’inizio o alla fne dei cola (Lo stile 25). Il ricorso indiscriminato ai cola che si assomigliano o si oppongono è giudicato rischioso; talora, invece, essi hanno una funzionalità precisa e possono contribuire all’elevatezza dello stile (Lo stile 2729; 247; vd. anche la nota 260). 265 Fuhrmann, Chiron e Mirhady inseriscono dei` se fra cruces; spengel segnala nel commento la corruzione del passo: «puto fuisse e[ce lovgou mivmhma vel simile quid» (p. 194). Molti, ma insoddisfacenti gli emendamenti proposti, volti anche a rendere più incisiva la corrispondenza fra le parole. I termini mivmhma (imitazione, rappresentazione) e tevcnasma (opera d’arte, artifcio, astuzia) fanno ritenere che il consiglio riguardi il mondo dell’arte, poeti o attori (Usener legge povnou tevcnhma – vd. Chiron, ad loc.). Il senso potrebbe essere che una rappresentazione a parole richiede anche una simulazione emotiva, o si accompagna a essa. Francesco Filelfo traduce: «quantum te decet orationis imitatio, tantum adsit delectationis machinatio»; Forster suggerisce questo signifcato, pur nell’incertezza: «If you must imitate the wording, you should simulate the feeling»; similmente Rackham, che legge eij dei` soi ktl tevcnhma: «If you want an imitation of wording, produce a simulation of wishing»; Gohlke: «Brauchst Du des Wortes spiel, mach daraus der sehnsucht Ziel!»; sánchez sanz: «si debes recitar el texto, intenta adaptar el gesto»; Chiron: «†il faut que tu† une imitation de parole, fournis une contrefaçon

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note al testo

de désir»; Mirhady: «You must speak a verbal imitation; offer an emotional fabrication». 266 l’attenzione, consapevole o inconsapevole da parte dei singoli autori, a un’adeguata collocazione delle parole ritenute più signifcative, e alla sua importanza per dare a esse maggiore evidenza e rilevanza, è una costante nella composizione della frase e dei periodi. In greco, le parole enfatiche tendono a essere collocate generalmente all’inizio, talora anche alla fne (vd. Denniston 1993, p. 74 ss.), ma non al centro, perché in questa posizione non attirano l’attenzione, come osserva Demetrio: «Bisogna che nei kola del discorso magnifco prima compaia il peone procatartico e poi segua il catalettico. [...] Perché mai aristotele ha stabilito questa norma? Perché bisogna che l’attacco del kolon, il suo inizio, sia subito magnifco e così la sua fne. otterremo questo effetto se inizieremo e fniremo con una sillaba lunga. la sillaba lunga, infatti, ha in sé qualcosa di grandioso; se posta all’inizio colpisce immediatamente, se posta alla fne lascia l’uditorio in un’aura di grandezza. tutti, del resto, serbiamo un ricordo particolare di quanto viene detto all’inizio e alla fne, e ne siamo colpiti, ma lo siamo meno per quanto viene detto in mezzo, come se risultasse nascosto o si perdesse tra altre parole» (Lo stile 39, cfr. 38-43; teofrasto, frr. 702-704 FHs&G; Cicerone, Dell’oratore III 191-193). aristotele, nell’analizzare il ritmo più adatto alla prosa, il peone (Retorica II 8, 1409 a 2 ss.), distingue due suoi eide opposti, e diversamente adatti a essere collocati all’inizio o alla fne: uno comincia con una sillaba lunga e termina con tre brevi, ed è adatto all’inizio; l’altro invece comincia con tre sillabe brevi e termina con una sillaba lunga: «questo è adatto alla conclusione, poiché una sillaba breve, per la sua incompletezza, la rende mutila. si deve invece concludere con una sillaba lunga, e la fne deve risultare evidente, non per opera del copista o di un segno marginale, ma grazie al ritmo» (1409 a 18-21; cfr. Cicerone, Dell’oratore III 192 s., in cui si ricorda aristotele, e si distingue tra poesia e prosa, per il diverso rilievo dato alla parte iniziale, centrale e fnale). 267 lausberg cita proprio questo esempio nel defnire la paromoiosi: «Un’uguaglianza fonica che, nel caso di differenza semantica, riguarda gran numero di parti di parole si chiama paromoivwsiı. Questa fgura collabora con la paronomasia e con

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il poliptoto: ar. rhet. ad alex. 28 p. 1436 plhvqei me;n ejndew`~, du­ navmei de; ejntelw`~». l’uguaglianza fonica di parti di parole può riguardare specialmente l’inizio o la fne (2002, p. 192 s., par. 357). la frase così strutturata dà in questo caso rilievo al paradosso, cfr. 1429 b 6 ss. 268 la conclusione è sembrata brusca: spengel nota nel commento che si fnisce «contra autoris morem», e ritiene che siano cadute alcune parole (o{sa me;n ou\n hJ tevcnh paraskeuavzei, tau`t j e[stin, o{sa de; ktl – p. 194); Fuhrmann atetizza tutta la frase. Chiron la considera invece ben inquadrabile nell’ambito dei principi che sostengono la retorica di Isocrate, di cui sottolinea più volte l’infuenza (o l’eco) sulla Retorica ad Alessandro. Isocrate sostiene che per essere un bravo retore non è suffciente acquisire conoscenze tecniche, affdandosi a persone veramente esperte: molto impegno diligente, lo sforzo di uno spirito pronto, doti naturali, ed esercizio costante sono altrettanto necessari, quando si devono scegliere i procedimenti di volta in volta adatti al tema, e utilizzarli nella combinazione e nell’ordine dovuti, con l’attenzione sempre rivolta al kairos, alla corretta organizzazione logica del discorso, e all’effcacia del linguaggio (Contro i sofsti 16 s.; cfr. Antidosi 11). 269 Chiron segnala qui una lacuna, dovuta forse a omoteleuto: nella ricapitolazione, non sono ricordate le pisteis (vd. 1428 a 4); Fuhrmann integra dopo tav~ te (1436 a 19). anche spengel fa notare che manca il riferimento alle pivstei~ (pp. 53 e 194). 270 la linea 1436 a 25 ajnalambavnein – progumnavsmata è inserita fra cruces da Fuhrmann: la menzione dei progymnasmata è sembrata anacronistica; il primo trattato conservato è di elio teone. Pernot (1993, p. 57, n. 6: «le mot progymnasmata est suspecté dans ce passage par les éditeurs, qui y voient un anachronisme – parce qu’ils veulent l’entendre au sens de l’époque impériale») ritiene invece che gli esercizi cui si fa qui riferimento siano semplicemente quelli praticati dai sofsti e dagli oratori del V e del IV secolo. Isocrate sottolinea d’altra parte più volte l’importanza di un assiduo apprendistato. 271 si annuncia il tema della terza parte, incentrata sulla struttura delle diverse specie di discorso: esortazione e dissuasione

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note al testo

(cap. 29-34); elogio e biasimo (cap. 35); accusa e difesa (cap. 36); esame (cap. 37). Il concetto di discorso come unità organica è ricorrente nell’estetica antica; basti pensare al Fedro (264 c) di Platone e alla Poetica (7, 1450 b 32-1451 a 6) di aristotele. Vd. Pernot 1993, p. 312 ss. 272 aristotele, come si è visto (nota 220), è polemico nei confronti dell’abuso delle divisioni del discorso; le parti veramente necessarie e appropriate a ogni discorso sono l’esposizione e l’argomentazione: al massimo, si possono prendere in considerazione anche l’esordio e l’epilogo (Retorica III 13, 1414 a 31-b 9). 273 «l’esordio è l’inizio del discorso, quel che sono il prologo in poesia e il preludio nel fauto: tutti questi sono degli inizi, l’inaugurazione della strada, per così dire, per chi procede»: è la defnizione di aristotele nella Retorica (III 14, 1414 b 19-21). Cfr. Isocrate, Panegirico 13; [Cornifcio] Retorica a Erennio I 6-11; Cicerone, Dell’oratore II 315-325; Quintiliano, La formazione dell’oratore IV 1. aristotele continua con una rassegna di vari tipi di esordio nei tre generi dell’oratoria, delle caratteristiche e delle funzioni che esso ha nell’epica e nel dramma. nella Retorica ad Alessandro mancano questa ampiezza dello sguardo e il collegamento con concetti portanti della rifessione aristotelica (to aoriston e to telos), ma il confronto fra i due testi mostra numerosi punti di contatto. la funzione di illustrare il tema è descritta parlando delle caratteristiche del genere giudiziario, ed è messa a confronto con l’epopea e il dramma. «Per quanto riguarda gli esordi dei discorsi giudiziari, si deve considerare il fatto che essi producono lo stesso effetto dei prologhi drammatici e dei proemi epici, mentre gli esordi dei ditirambi sono simili a quelli dei discorsi epidittici: a esempio, “Per te e i tuoi doni o le tue spoglie” [il verso è attribuito a timoteo, fr. 18/ 794 Page]. nei discorsi e nell’epica si ha un’esposizione del soggetto – dei`gmav ejstin tou` lovgou, in modo che gli ascoltatori sappiano in anticipo di che cosa parla il discorso e il pensiero non resti sospeso, poiché ciò che è indefnito porta fuori strada – i{na proeidw`s i peri; ou| h\n oJ lovgo~ kai; mh; krevmhtai hJ diavnoia: to; ga;r ajovriston plana≥.` Chi pone l’inizio, per così dire, nelle mani dell’ascoltatore lo mette nelle condizioni – se vi si attiene – di seguire il discorso – ajkolouqei`n tw≥` lovgw≥. Per questo:

note 272-274

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“Canta, o dea, l’ira” [Iliade 1, 1]; “Parlami, o Musa, dell’uomo” [Odissea 1, 1]; “Portami un altro racconto, come dalla terra d’asia una grande guerra giunse in europa” [Cherilo di samo, fr. 1 Bernabé]. anche i tragici rendono chiaro il soggetto del dramma, se non immediatamente nel prologo, come fa euripide, almeno in qualche parte, come fa sofocle: “Mio padre era Polibo” [Edipo re 774]. lo stesso vale per la commedia. la funzione essenziale e specifca dell’esordio consiste nel rendere evidente quale sia il fne cui tende il discorso – to; tevlo~ ou| e{neka oJ lovgo~; pertanto non si deve ricorrere all’esordio qualora il soggetto sia chiaro o breve» (Retorica III 14, 1415 a 8-25). 274 si può intendere: ‘per quello che è nelle potenzialità della parola’, in genere, oppure ‘per quello che il discorso permette’ tenendo conto dei casi esposti poco dopo (1436 b 15 ss.), e del fatto che il discorso può avere fnalità diverse. aristotele, dopo aver illustrato la funzione principale dell’esordio, passa a considerare altri eide, di cui ci si serve, che egli defnisce ‘rimedi’ e che sono comuni (ijatreuvmata kai; koinav): essi derivano, si traggono «dall’oratore, dall’ascoltatore, dal soggetto e dall’avversario» (ejk te tou` levgonto~ kai; tou` ajkroatou` kai; tou` pravgmato~ kai; tou` ejnantivou – Retorica III 14, 1415 a 25-27). l’uso della preposizione ek farebbe pensare che si tratti dei koinoi topoi (II 23); ma dall’argomentazione seguente emergono piuttosto i koina esaminati precedentemente: «tutti gli oratori devono necessariamente servirsi nei loro discorsi, oltre al resto, anche del luogo del possibile e dell’impossibile – peri; tou` dunatou` kai; ajdu­ navtou, e alcuni dovranno tentare di dimostrare che una cosa accadrà – wJ~ e[stai, altri che è avvenuta – wJ~ gevgone. Inoltre, il luogo relativo alla grandezza – peri; megevqou~ – è comune a tutti i tipi di discorso, poiché tutti si servono della diminuzione e dell’amplifcazione sia nei discorsi deliberativi, sia in quelli di lode o di biasimo, sia nei discorsi di accusa o di difesa» (II 18, 1391 b 2732). le categorie in cui sono raggruppabili questi koina sembrano essere tenute presenti anche nella Retorica ad Alessandro, pur se calate nella pratica. Gli elementi comuni sono defniti ‘rimedi’ (ijatreuvmata), in quanto servono a far fronte alla disattenzione o alla disposizione negativa da parte dell’uditorio. «Quel che si dice a un ascoltatore

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note al testo

deriva dallo sforzo di renderlo benevolo o di suscitare la sua indignazione, talvolta di renderlo attento, oppure il contrario; infatti, non sempre conviene suscitare la sua attenzione, e per questo motivo molti oratori cercano di far ridere i loro ascoltatori. tutto può condurre alla ricettività – eij~ de; eujmavqeian a{panta ajnavxei, se si vuole, e anche ad apparire equi: è a questi oratori che la gente presta maggiore attenzione. Gli uomini prestano attenzione alla cose grandi, a quelle che li riguardano, a quelle che destano stupore, a quelle piacevoli. Pertanto, è necessario generare l’idea che il discorso riguardi cose di questo genere» (III 14, 1415 a 34-b 3). aristotele avverte in ogni caso che gli espedienti di questo tipo per favorirla sono «estranei al discorso» (e[xw tou` lovgou – 1415 b 5; cfr. la defnizione dell’opsis, nella Poetica, come l’elemento più estraneo all’arte e il meno attinente alla poietike techne, pure se di grande seduzione – 6, 1450 b 16 s.), cioè all’argomento in sé, di cui si tratta. essi si indirizzano, infatti, «a un ascoltatore mediocre e disposto ad ascoltare ciò che esula dalla questione, poiché se egli non fosse una persona di questo genere non ci sarebbe alcun bisogno di un esordio, se non per esporre il soggetto per sommi capi, in modo che, come un corpo, il discorso abbia una testa – i{na e[ch≥ w{sper sw`ma kefalhvn» (III 14, 1415 b 4-9). la diversa composizione dell’uditorio, le sue diverse disposizioni e capacità di ricezione, talora la sua superfcialità, sono costantemente oggetto di attenzione, in aristotele come in Platone. Il passo della Retorica è da leggere anche in relazione alle rifessioni sull’opera d’arte come un organismo, sviluppate nella Poetica (vd. la nota 271). aristotele analizza la funzionalità delle diverse parti in relazione all’obiettivo che un determinato discorso vuole raggiungere, ma soprattutto in relazione al loro intrinseco valore: di esse si compone il discorso concepito come ‘sistema’, come insieme organico di parti necessarie e coerentemente strutturate. nella Retorica ad Alessandro, ci si ferma invece alla considerazione dell’uso più appropriato caso per caso, alle indicazioni tipiche di un manuale. sull’emendamento e[ti to; (1436 a 36), vd. Chiron, pp. 72; 171, ad loc. Fuhrmann dà questo testo: ejpi; . 275 Questa dicotomia, osserva Chiron (p. 171, ad loc.), appare assurda, se si considera che l’esortazione, così come la dissuasione,

note 275-280

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sembra, all’inizio del trattato (1421 b 7-9), una suddivisione del genere deliberativo. Da qui la proposta di emendamento da parte di spengel (ejpi; tw`n dhmhgoriw`n kai; tw`n protreptikw`n kai; tw`n ajpotreptikw`n – vd. pp. 54 e 196 s.). In realtà, il kaiv congiunge in questo caso idee correlate in modo appositivo (vd. Denniston 1996, p. 291). Cfr. 1436 b 28 s. 276 Cfr. il passo della Retorica (III 14, 1415 a 8-25) di aristotele, citato nella nota 273. 277 l’esposizione ‘per sommi capi’, o breve, è solitamente considerata peculiare dell’esordio (vd. per es. aristotele, Retorica III 14, 1415 b 8; Isocrate, Panatenaico 33). 278 aristotele precisa che non sempre è opportuno rendere attenti gli ascoltatori: qualche volta, gli oratori fanno del tutto per distrarli (vd. le note 274 e 280 – Retorica III 14, 1415 a 36-38; b 3 s.). 279 È interessante notare come il retore ponga solitamente l’accento sull’esperienza personale, sui suggerimenti che possono venire da essa; in aristotele, hanno maggiore spazio, in questi casi, considerazioni più generali riguardanti il comportamento umano. si tratta di un altro indizio del livello empirico in cui si colloca la trattazione; d’altra parte è anche rilevante e signifcativo che il retore faccia costantemente riferimento a modi di reagire, a una dimensione comunicativa in cui entrano in gioco molti fattori. 280 « Gli uomini prestano attenzione alla cose grandi, a quelle che li riguardano, a quelle che destano stupore, a quelle piacevoli» (aristotele, Retorica III 14, 1415 b 1 s., vd. il passo citato più estesamente nella nota 274). Il contrario vale, se l’oratore ha intenzione di distrarre gli ascoltatori: «se l’oratore vuole rendere gli ascoltatori disattenti, deve convincerli che il soggetto è privo di importanza, che non ha nulla a che fare con loro, che è doloroso» (III 14, 1415 b 3 s.). aristotele fa qualche esempio di come conquistare l’attenzione, precisando tuttavia che questa non è una fnalità esclusiva dell’esordio, ma una caratteristica comune a tutte le parti del discorso; anzi, sottolinea acutamente che il livello di attenzione non può essere sempre lo stesso: l’inizio di un discorso è normalmente ben recepito da un pubblico non ancora stanco, e pieno di aspettative. «l’attenzione in qualunque parte cala più che all’inizio. Per

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note al testo

questo è ridicolo richiamarla in principio, quando tutti ascoltano prestando la massima attenzione. Di conseguenza, si deve dire al momento opportuno: “Prestatemi attenzione, perché nulla di quel che dico è affar mio più che vostro”, oppure “Vi dirò qualcosa di terribile (o di stupefacente), come non avete mai sentito”. Fare così signifca – come diceva Prodico – “mettere in campo un assaggio della lezione da cinquanta dracme, quando gli ascoltatori sonnecchiano” [84 a 12, II p. 310 D.-K.; cfr. Platone, Cratilo 384 b; Quintiliano, La formazione dell’oratore IV 1, 73]. È evidente che all’ascoltatore non si parla così in quanto ascoltatore. tutti coloro che lo fanno cercano di creare pregiudizio o di allontanare dei timori negli esordi» (III 14, 1415 b 10-19). subito dopo vengono citati i versi dell’Antigone (223) di sofocle e dell’Ifgenia in Tauride (1162) di euripide. aristotele, consapevole dei complessi meccanismi della ricezione, sottolinea che lo schema di un discorso deve essere duttile, non solo in vista del kairos, ma dell’effcacia in sé del messaggio. Cicerone sembra riprendere alcune osservazioni di aristotele: «I Greci ci consigliano di rendere il giudice attento e docile fn dall’inizio: l’indicazione è utile, ma non è appropriata più all’esordio che alle altre parti dell’orazione; è più facile all’inizio perché nel momento di massima aspettativa è massima l’attenzione ed è possibile che i giudici siano più disponibili nella fase iniziale. Ciò che si dice nell’esordio risulta più chiaro di quanto si espone nel corso dell’orazione per dimostrare o confutare» (Dell’oratore II 323). 281 Questi temi, presentati qui come fattori per coinvolgere l’ascoltatore, corrispondono in gran parte ai telika kephalaia elencati precedentemente (1421 b 23-25). alla linea 1436 b 10, hJdeva è emendamento di Kayser (1854, p. 288), accolto da Fuhrmann, Chiron e Mirhady: la tradizione ha ajlhqh` (oujk ajhdh`, propone dubitativamente Fuhrmann, in apparato; Rackham scrive ajlhqina;), lezione che è sembrata insostenibile nel contesto in cui ci si riferisce a cose da ‘fare’ (prattein), anche se il tema della verità sarebbe di per sé adatto a suscitare l’attenzione. Il passo è inoltre controverso anche in altri punti (vd. Chiron, p. 73, ad loc.). Fuhrmann espunge ejpideivxousin hJmi`n (1436 b 10) e non ejpideivxein (1436 b 9).

note 281-287 282

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la frase è stata ritenuta tautologica, e forse interpolata (vd. Kassel 1967, p. 125). In realtà, essa potrebbe rifettere la teoria dell’aitema (vd. 1433 b 17 ss.): «Une telle demande explicite, établissant un contrat moral entre l’orateur et son public, n’est ni absurde ni, sans doute, ineffcace» (Chiron, p. 172, ad loc.). Cfr. Retorica a Erennio I 7. 283 Cfr. 1436 b 8-10. 284 Più avanti (1436 b 37 ss.), questi possibili atteggiamenti, di cui tener conto, si integrano con altre considerazioni e valutazioni. 285 Cfr. 1434 a 17 ss. Qui l’esempio dimostra quale accezione abbia il termine eijrwneiva, da intendersi nel senso di paravleiyiı (vd. la nota 227). Viene messa in evidenza, secondo una concezione ben viva fn dalla poesia arcaica, la reciprocità delle azioni. Il dichiarare la propria generosità nelle elargizioni a favore dello stato, e la propria correttezza nel non arricchirsi con denaro pubblico, è un luogo comune dell’oratoria; vd. per es. Isocrate, Panatenaico 12; Demostene, Sull’ambasceria tradita 7. 286 Qui e nelle linee seguenti (29 s.; 36 s.), esiste una possibile ambiguità nell’uso dei dativi (toi`~ diaikeimevnoi~/ toi`~ diabe­ blhmevnoi~), data la presenza degli aggettivi verbali uJpomnhstevon, rJhtevon, poristevon. 287 Più avanti (1442 a 14 s.) questo metodo è raccomandato nei discorsi giudiziari, quando ci si rivolge ai giudici. esso sarebbe raro nei discorsi deliberativi, come sostiene spengel (p. 201). l’elogio e la lode sono d’altra parte tipici del genere epidittico; cfr. aristotele, Retorica III 14, 1414 b 30 s. nel valutare, bisogna tener presenti anche i passi della Retorica, in cui aristotele schematizza le caratteristiche dell’esordio nei tre generi: quello tipico dei discorsi giudiziari sembra essere una ‘fonte’ anche per gli altri (la questione riguarda più generalmente le controverse origini della retorica). «Un’altra fonte nell’epidittica possono essere gli esordi dei discorsi giudiziari, vale a dire l’appello agli ascoltatori per ottenere indulgenza, quando il discorso riguarda un argomento paradossale o diffcile o discusso da molti [...]. Queste sono dunque le fonti degli esordi dei discorsi epidittici: lode, biasimo, esortazione, dissuasione, appello all’ascoltatore» (III 14, 1414 b 39-1415 a 7). Più avanti, richiama gli obiettivi

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note al testo

dell’oratore, citando un verso di omero (Odissea 6, 327: «concedi che io arrivi gradito e degno di pietà tra i Feaci»); conferma la necessità, negli esordi del discorso epidittico, di inglobare nella lode l’ascoltatore, la sua stirpe e il suo modo di vivere (III 14, 1415 b 26-30); e infne torna sulle ‘fonti’: «Gli esordi del genere deliberativo derivano da quelli del genere giudiziario, ma per la sua natura sono assai rari. essi riguardano argomenti che gli ascoltatori conoscono e non c’è bisogno di esordio se non in funzione dell’oratore stesso o dei suoi avversari, o se il consiglio non viene valutato nella sua giusta misura, ma in misura maggiore o minore, ed è pertanto necessario creare o eliminare il pregiudizio, e amplifcare o diminuire l’importanza del soggetto. l’esordio serve per questo o per ornamento, poiché senza di esso il discorso sembrerebbe improvvisato. Di questo genere è l’encomio di Gorgia rivolto agli elei; senza alcun preambolo e nessuna preparazione inizia improvvisamente: “elide, città felice” [82 B 10, II p. 287 D.-K.]» (III 14, 1415 b 33-1416 a 3). l’accento è posto sulla funzionalità dell’esordio in vista della chiarezza del discorso: si devono capire il motivo e il fne per cui si prende la parola. Di questa ampia argomentazione non emergono altro che punti giustapposti, o consigli pratici non ulteriormente approfonditi nella Retorica ad Alessandro. 288 si tratta di motivi e formule ricorrenti, vd. per es. euripide, Ippolito 986 s.; tucidide, La guerra del Peloponneso II 35; lisia, Contro Filone 2; Isocrate, Panegirico 13 s.; Archidamo 6. 289 Il modo di far fronte alla diabole è presentato da aristotele come uno dei possibili eide dell’esordio, utilizzati come ‘rimedi’ e comuni alle tre specie di oratoria, avendo ben presenti disposizioni, ma soprattutto debolezze e incapacità dell’uditorio (sulla sua leggerezza o superfcialità, si insiste spesso). essi derivano, come si è visto (nota 274), «dall’oratore, dall’ascoltatore, dal soggetto e dall’avversario; per quel che riguarda l’oratore e l’avversario, si tratta di tutto ciò che demolisce o crea un pregiudizio – o{sa peri; diabolh;n lu`sai kai; poih`sai» (Retorica III 14, 1415 a 26-29). si nota una seppur parziale corrispondenza fra i due testi; aristotele tuttavia pone l’accento su una distinzione («chi si difende deve replicare all’attacco all’inizio, chi accusa nell’epilogo»), spiegando la ragione: «chi si difende, quando sta per introdurre

note 288-290

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sé stesso, deve necessariamente rimuovere tutti gli ostacoli, e di conseguenza deve in primo luogo demolire il pregiudizio; chi invece vuole creare un pregiudizio deve farlo nell’epilogo, perché gli ascoltatori ricordino meglio» (1415 a 29-34). nella più schematica analisi della Retorica ad Alessandro, si distingue tra la persona dell’oratore e le cose che dice, e si accenna alla diversa origine della diabole nel tempo (cfr. l’articolato collegamento stabilito da aristotele fra i tre generi di oratoria; il tempo, passato, presente, futuro; i fni; il tipo di uditorio – Retorica I 3). 290 Questo punto potrebbe richiamare in parte il primo dei topoi elencati da aristotele, per confutare un sospetto infamante, quando si afferma che bisogna sostenere «che il fatto non sussiste». nella Retorica ad Alessandro afforano anche le altre possibilità argomentative, connesse da aristotele con questo topos, ma sporadicamente e in modo molto meno organico («Un altro ‘luogo’ consiste nell’opporsi al punto in questione, affermando o che il fatto non sussiste, o che non c’è danno, o che non c’è per quella particolare persona, o che non ha l’importanza attribuitagli, o che il fatto non è ingiusto, o che non lo è in misura notevole, o che non comporta disonore o che non ha importanza. Questi sono infatti i punti intorno ai quali verte la disputa, come nella risposta di Ifcrate a nausicrate, poiché egli ammise di aver fatto quello che l’altro affermava e di aver infitto un danno, ma non di aver commesso un’ingiustizia. oppure, se si è commessa ingiustizia, si può controbilanciarla dicendo che se l’azione infiggeva un danno era tuttavia onorevole, e che se era dolorosa era tuttavia utile, o qualcosa di questo genere» – Retorica III 15, 1416 a 6-13). l’esordio, nella Guerra del Peloponneso di tucidide, del discorso di Pericle agli ateniesi, è proprio volto a rassicurarli col rimuovere i motivi di inquietudine e di profonda irritazione nei suoi confronti: «Prevedevo il vostro risentimento che non mi ha colto improvviso, poiché ne avverto in trasparenza le ragioni. Perciò ho ora deciso di convocarvi in assemblea, per ravvivarvi la memoria e correggervi, se qualche irragionevole ombra appanna il vostro atteggiamento, inquieto e tetro nei miei confronti e troppo passivo contro le avversità di quest’ora» (II 60, 1). allo stesso modo, alcibiade si preoccupa di fugare i sospetti, cominciando a parlare agli spartani: «È necessario, innanzitutto, spendere qualche parola sul-

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note al testo

le accuse che gravano su di me, perché non prestiate meno ascolto a ciò che io vi dirò sui temi di interesse comune a causa del sospetto che nutrite nei miei confronti» (VI 89, 1 – la traduzione di tucidide è, qui e altrove, con qualche adattamento, di e. savino, Milano 1974, oppure di a. Corcella, Venezia 1996, a seconda dei libri). 291 Cfr. aristotele, Retorica III 15, 1416 a 26-35. la difesa non sembra generica, anche se l’insieme argomentativo non è molto chiaro (vd. la nota seguente); essa consiste nel gettare discredito sui giudizi, oppure nel contrattaccare a propria volta l’accusatore, per un comportamento incoerente. Pur nell’incertezza del testo, sembrano prospettarsi tre casi: il processo già celebrato, o da celebrare, o che non è e non sarà mai celebrato. Quest’ultimo caso varrà come segno (1437 a 18). 292 la frase 1437 a 10 rJhtevon – krivs iı è inserita da Fuhrmann tra cruces; in apparato suggerisce che forse bisogna scrivere: kai; eij me;n hJ krivs i~ ejgevneto, h] rJhtevon wJ~ ajdivkw~ ejgevneto. spengel propone nel commento: kai; eij me;n ejgevneto, rJhtevon (p. 202), successivamente si parla di un processo che si attende (1437 a 14 s.), e di uno che non avrà luogo (1437 a 17 s.). Gli emendamenti sono volti a restituire un ordine e una chiarezza espositiva, rendendo espliciti i passaggi. Chiron difende l’intelligibilità della frase e traduce: «Il faut dire alors que». 293 spengel (p. 202 s.) mette in evidenza che questa dichiarazione non è comune nel genere deliberativo, ma piuttosto nei processi; vd. per es. andocide, Sui misteri 32; eschine, Sulla corrotta ambasceria 5; 59; 127; 159. 294 Cfr. 1437 a 9 s. l’argomento mette in luce l’incoerenza dell’accusatore (cfr. aristotele, Retorica III 15, 1416 a 26-28). Per questo, osserva Chiron (p. 75, ad loc.), sarebbe più appropriato l’uso del termine tekmerion (vd. 1430 a 14 ss.), invece di semeion (1430 b 30 ss.; cfr. 1433 b 9). si è già detto (vd. la nota 164) dell’uso oscillante di questi termini, anche in autori che propongono una distinzione tra di essi. nel caso della Retorica ad Alessandro, si deve considerare che l’uso di termini diversi potrebbe derivare anche dalle diverse fonti utilizzate. nel passo della Retorica, spesso richiamato nelle note a questa sezione, un topos, da cui trarre argomenti per far fronte alla calunnia, consiste nell’addurre dei segni identifcativi (suvmbola – III 15, 1416 b 1).

note 291-303 295

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«Un altro topos consiste nell’attaccare la calunnia, mostrando quale grande male essa sia, e ciò in quanto essa altera i giudizi e non presta attenzione ai fatti»: così aristotele (Retorica III 15, 1416 a 35-37), immediatamente prima di introdurre il topos tratto dai symbola. 296 Cfr. 1432 b 24 ss. 297 Cfr. 1432 b 15 s. nella Politica di aristotele si legge un interessante accenno all’esenzione dei vecchi dal servizio militare, e forse anche dalla partecipazione all’assemblea e ai tribunali, senza però che vengano precisati i limiti di età; nel passo, si analizza in che cosa consista essere o non essere cittadini: giovani non ancora iscritti nelle liste e vecchi esentati da incarichi sono cittadini, «sebbene non in senso assoluto, in quanto si deve specifcare per gli uni che sono cittadini ajtelei`ı e per gli altri che sono cittadini parhkmakovtaı o con altre qualifcazioni del genere». I giovani sono ‘imperfetti’, minorenni che non hanno raggiunto il telos, la maturità, l’akme; i vecchi l’hanno defnitivamente varcata, sono ‘emeriti’, potremmo dire (III 1, 1275 a 14-18; cfr. Platone, Repubblica VI 498 b-c; licurgo, Contro Leocrate 40; aristotele, Costituzione degli Ateniesi 42, 1: «Partecipano alla costituzione coloro che sono fgli di entrambi i genitori cittadini e vengono registrati fra i demoti all’età di diciotto anni» (trad. a. santoni, Bologna 1999). 298 Cfr. eschine, Contro Ctesifonte 220. loquacità e petulanza sono le innocue e divertenti manie di alcuni personaggi descritti da teofrasto nei Caratteri. 299 Cfr. Demostene, Per Ctesifonte, sulla corona 306-311. 300 Cfr. tucidide, La guerra del Peloponneso VI 12, 2 (discorso di nicia, che sconsiglia di affdare il comando della spedizione in sicilia a alcibiade, anche a causa della sua giovinezza) e 17, 1; 18, 6 (replica di alcibiade); Isocrate, Archidamo 1-6. la lampadarchia è ricordata tra le liturgie costose e inutili nella Politica di aristotele V 8, 1309 a 18 s. 301 Cfr. Isocrate, Archidamo 4. 302 Cfr. tucidide, La guerra del Peloponneso VI 16, 1-3 (vd. la nota successiva); Isocrate, Archidamo 5. 303 l’esperienza dei vecchi è un diffuso topos, e Isocrate lo sfrutta ampiamente all’inizio del Panatenaico. nel discorso che

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note al testo

tucidide mette in bocca a nicia, per dissuadere gli ateniesi dall’intraprendere la spedizione in sicilia, caldeggiata invece dal giovane alcibiade, la serietà e la gravità del momento, e il confronto tra atteggiamenti diversi, dovuti anche alla diversa consapevolezza di come si svolgano le vicende umane, sono in effcace rilievo. Dalle sue parole e da quelle di alcibiade, che seppure non nominato esplicitamente da nicia, si sente personalmente accusato, traspaiono il contesto e l’atmosfera di una pubblica assemblea, in cui si fronteggiano non solo opinioni diverse, ma diversi ‘caratteri’, diversi modi di affrontare e discutere una questione, in un momento di vitale importanza per il futuro di atene. Dal discorso di nicia: «se poi qualcuno, tutto contento di essere stato nominato comandante, vi esorta a fare la spedizione, guardando solo al proprio interesse (tra l’altro è ancora troppo giovane per i posti di comando), tutto teso com’è a farsi bello con il suo allevamento di cavalli e, viste le sue grandi spese, a guadagnare qualcosa dalla carica – ebbene, neppure a quest’uomo consentite di darsi lustro come privato mettendo a repentaglio la città, e pensate che uomini del genere violano i beni pubblici e consumano i beni privati, e che l’affare in questione è serio, e non è possibile per un giovane deliberare su di esso e trattarlo con la dovuta attenzione – kai; to; pra`gma mevga ei\nai kai; mh; oi|on newtevrw≥ bouleuvsasqaiv te kai; ojxevw~ metaceirivsai. Quando io li vedo seduti qui, chiamati a raccolta da lui, ho paura; e chiamo a mia volta a raccolta i più anziani, e li esorto a non aver vergogna, se uno di questi è seduto accanto a lui, di essere ritenuto – qualora voti contro la guerra – un vile, o di non avere – sentimento che potranno avere loro – quel mal riposto amore di ciò che non si ha; e ciò sapendo che sulla base dei desideri ben poche cose vanno a buon termine, mentre moltissime ne riescono quando si pianifca l’azione» (La guerra del Peloponneso VI 12, 2-13, 1). alcibidiade difende il proprio operato, che è di benefcio non solo a sé stesso e ai propri antenati, ma anche alla patria: le sue numerose iniziative, il suo attivismo dentro e fuori atene, e la stessa esibizione di ricchezza sono di vantaggio per la città, rivelando agli stranieri la sua potenza. Proprio la sua giovinezza, per la quale nicia lo giudica inadatto al comando, è invece indicata da alcibiade come il motore della sua dinamicità e della sua intraprendenza, che egli contrappone all’apragmosyne di

nota 303

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nicia: «e fu quella che viene ritenuta la mia ‘giovinezza’ e ‘innaturale follia’, nei rapporti con l’area controllata dai Peloponnesiaci, a gestire tutto ciò con discorsi adeguati e a farlo loro accettare, ottenendo con il suo impeto fducia. Così ora non ne abbiate paura, ma fnché io continuo ad avere successo grazie a essa e nicia ha reputazione di un uomo fortunato, sfruttate i vantaggi che ciascuno di noi due può garantirvi. [...] e l’amore per l’inattività che emerge dai discorsi di nicia, e il suo contrapporre i giovani ai vecchi, non vi dissuadano: ma come sempre abbiamo fatto – come fecero i nostri padri, che con le loro scelte, i giovani assieme ai vecchi, seppero elevarsi a questa posizione – così anche ora, allo stesso modo, sforzatevi di far progredire la città, e pensate che la giovinezza e la vecchiaia, senza la collaborazione reciproca, non hanno alcun potere, mentre quando la parte più debole, quella a metà e quella totalmente salda siano mescolate insieme possono avere la più grande forza; e che la città, se rimane nell’inerzia, si consuma da sola, alla pari di qualunque altra cosa, e nel frattempo le capacità intellettuali di tutti subiscono un processo di invecchiamento» (VI 17, 1; 18, 6). Una simile contrapposizione di tipologie di comportamento, di ethe, in rapporto all’età, si legge nella Retorica di aristotele: in questo contesto, l’analisi dei caratteri è generica ed è impostata secondo le schema eccesso/ difetto/ medietà, proprio in quanto essa deve costituire solo uno strumento per l’oratore, che dovrà poi essere in grado di adattare queste conoscenze generali ai singoli casi specifci. Così i giovani eccedono nei desideri, nell’impulsività, nell’ambizione, sono di indole buona, «perché non hanno ancora assistito a molte azioni malvagie», non sono cattivi e se commettono ingiustizia lo fanno per arroganza non per cattiveria, sono fduciosi, coraggiosi, pieni di speranza, magnanimi, compassionevoli, amanti del riso: tutte queste qualità derivano dalla loro inesperienza; la loro vita passata è breve, a confronto di quella futura, e ciò ha impedito a loro di venire a contatto con gli aspetti negativi (II 12; vd. in particolare 1389 a 16 s.). esattamente opposto è l’atteggiamento dei vecchi, che sono vissuti a lungo e conoscono ‘per esperienza’ il male: gli eventi umani, per la maggior parte, sono phaula e non hanno un esito positivo (II 13; vd. in particolare 1389 b 16 s.; 1390 a 4 s.). Questa caratterizzazione dei vecchi deve

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note al testo

essere valutata nel contesto argomentativo, nel contrasto con quella dei giovani (la medietà è realizzata dall’uomo maturo); si deve inoltre sottolineare che nella Retorica di aristotele, l’analisi degli ethe non riguarda solo la pistis basata sull’oratore, ma tiene conto dell’interazione fra oratore e pubblico. nei Problemi del C. A., un interessante quesito («Perché da vecchi si è più assennati, ma da giovani si impara più velocemente?») mette in luce gli effetti dell’esperienza e dell’inesperienza sulle capacità intellettive e di apprendimento (XXX 5, 955 b 22956 a 10). 304 Cfr. 1423 b 24 ss. Chiron integra , come altri editori (Rackham e Mirhady), pensando a un’aplografa: sumbouleuvein è la lettura suggerita da Rhys Roberts (in Forster 1924). Furhmann invece segue Reeve (1970, p. 241) e dà questo testo ampiamente integrato: hJsu­ civan pro;~ tou;~ mhde;n ajdikou`nta~ ktl sumbouleuvh≥ h] eijrhvnhn ktl (1437 b 19-20). spengel ritiene che sia da espungere mhde;n (l. 19): «neque unquam athenienses se mhde;n ajdikou`si bellum inferre dicere audebant» (p. 211). 305 Cfr. per esempio tucidide, La guerra del Peloponneso III 44; Isocrate, Sulla pace 5; eschine, Sulla corrotta ambasceria 130 ss. 306 In tucidide (La guerra del Peloponneso IV 17), gli ambasciatori spartani giustifcano il loro insolitamente lungo discorso di fronte agli ateniesi, invitandoli ad ascoltare senza pregiudizi: «Ci disponiamo a diffonderci in un più complesso intervento, non per contravvenire al nostro costume, ma poiché nel nostro paese, quando bastano brevi parole, non vige l’uso di gettarne d’avanzo, ma di esprimerci con più libera ampiezza quando le contingenze esigono di perseguire lo scopo cui di necessità si aspira, ponendo in particolare luce, con la parola, qualche specifco lato del problema che possa fruttare un proftto. ascoltateci senza ostili sentimenti e senza il pregiudizio che vi vogliamo imporre una lezione, come a gente sprovveduta; consideratelo piuttosto un invito a richiamare alla memoria un precetto già a voi ben noto: decidere con saggezza» (17, 2-3). Cfr. erodoto III 46. 307 Cfr. Isocrate, Panegirico 8; 74; eschine, Contro Timarco 4. 308 a siracusa, narra tucidide (La guerra del Peloponneso VI 32 s.), giunsero notizie sull’imminente attacco ateniese, notizie cui

note 304-309

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non si diede credito, fnché non si tenne un’assemblea, in cui prese la parola ermocrate: «Vi sembrerà forse che io, alla pari di altri oratori, dica cose incredibili riguardo all’effettiva realtà della spedizione navale; e mi rendo conto che chi afferma o riferisce cose che appaiono incredibili non solo non riesce a convincere, ma fa anche la fgura dello sciocco. tuttavia non sarà per paura che mi bloccherò, nel momento in cui la città è in pericolo, dato che mi sento convinto di poter parlare con una cognizione di causa superiore a quella di chiunque altro. Perché è vero: gli ateniesi sono partiti al vostro attacco – ciò che tanto vi fa meraviglia – con una grande armata» (33, 1 s.). 309 la formula di transizione, attraverso un’interrogativa, è stata considerata non abituale, da parte del retore, in contesti come questi; inoltre sorprende l’uso del verbo kaqivstasqai invece di froimiavzesqai; più avanti ricorre il termine katavstasi~ (1438 a 2). Fuhrmann propone in apparato un’estesa ricostruzione, segnalata da Kennedy (1969, p. 372) tra gli esempi di un eccessivo ricorso agli emendamenti nell’edizione di Fuhrmann. Chiron ricorda una testimonianza di siriano (Commentari a Ermogene II p. 127, 4-6 Rabe) relativa all’uso, da parte di Corace, del termine ka­ tavstasi~ per indicare l’esordio del discorso; ritiene tuttavia possibile che il retore dipenda da Isocrate (o da Corace via Isocrate) per la terminologia relativa all’esordio: probabilmente Isocrate faceva del termine katavstasi~ «un emploi plus vague, au sens d’exorde, analogue à ce que l’on trouve dans la Rh. Al.»; invita anche a tener conto del principio della variatio (pp. lXX; CXXXVIII; 174 ad loc.). Il termine katavstasi~ indica genericamente uno stato delle cose, una condizione, specializzandosi, a seconda del contesto, in varie accezioni. Chiron traduce il verbo kaqivstasqai e il sostantivo katavsta­ si~ con introduire e introduction; tra gli altri traduttori, alcuni mettono in evidenza la nozione dell’esordio, dell’inizio; altri interpretano tenendo conto dei signifcati più correnti dei due termini. Francesco Filelfo: «consultationes igitur ex iis rebus principio constituemus»; «exordia quidem in consultationibus hoc modo sunt constituenda». Forster: «these then are the considerations which will have a place in our public speeches»; «this, then, is the way in which public speeches should be constituted»; Rackham:

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note al testo

«these being the materials out of which we shall construct our parliamentary speeches»; «this is the manner in which public speeches should be constructed»; Gohlke: «Mit diesen Dingen also wird man eine Versammlungsrede beginnen»; «so also soll man die Versammlungsrede eröffnen». sánchez sanz: «Con esto, pues, introduciremos las deliberaciones»; «De esta manera ha de hacerse la introducción de las deliberaciones»; Mirhady: «We shall construct public speeches from this material»; «this is the way we must compose the bases for public speeches». 310 alla l. 1437 b 35 ricorre il termine provqesi~; cfr. l’uso dei termini uJpovqesi~ (1436 a 36); proektiqevnai (1436 a 40); aristotele, Retorica III 13, 1414 a 35 (provqesi~). 311 la linea 1438 a 2 ta;~ – poihtevon è considerata sospetta da Fuhrmann, a causa di un uso tardo del termine katavstasi~; in apparato suggerisce che sia forse da scrivere: ta; prooivmia ... taktevon. Vd. la nota 309. 312 Il termine dihvghsi~ (narratio) compare più avanti (1438 b 28; 1446 a 8). Qui si accenna brevemente a vari contenuti e a varie modalità espositive: riferire fatti non noti, ricordare fatti noti, fatti che possono riguardare le tre dimensioni temporali; a esse aristotele connette, come si è visto, i tre generi dell’oratoria (Retorica I 3, 1358 b 13-20). D’altra parte aristotele considera la dihvghsi~ propria solo del genere giudiziario (Retorica III 13, 1414 a 37-39; 16, 1417 b 12 s.); è inoltre polemico nei confronti della divisione del discorso in quattro parti, comunemente accettata dai suoi predecessori (e da Isocrate in particolare; vd. la nota 220). nel discorso giudiziario è necessaria un’esposizione di fatti e circostanze, per comprendere il caso; si può invece ricorrere a un’esposizione (provqesi~, propositio) di ciò che si vuole dimostrare in tutti i tipi di discorso: provqesi~ e dihvghsi~ sono per lui nel rapporto di genere e specie, secondo Quintiliano (La formazione dell’oratore III 9, 5: «lo stesso aristotele fno a un certo punto innova anche nell’unire al proemio non narrationem, sed propositionem; ma lo fa perché propositio ei genus, narratio species uidetur, e crede che della seconda non ci sia bisogno sempre, della prima sì, sempre e ovunque»). si può ritenere che aristotele tenga presente la distinzione dialettica fra problema e dimostrazione (vd. Analitici primi II 12, 62 a 20 ss.), richiamata esplicitamente nella Retorica III 13, 1414 a 31-37.

note 310-312

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Fuhrmann espunge merivzonta~, ritenendo che esso sia stato inserito qui «inepte» (cfr. spengel, pp. 59 e 214). Il verbo merivzein è stato già utilizzato (1434 b 1), parlando dei mezzi per allungare il discorso; qui invece il contesto suggerisce l’opportunità della concisione e dell’esattezza: non si tratta di ‘dividere’, di ripartire per amplifcare. l’espressione merivzonta~ dhlou`n signifca dunque fare un’enumerazione introduttiva sui punti principali da svolgere, quasi una diairesis, un merismos. aristotele precisa che «la narrazione deve ricorrere ovunque, e talvolta non al principio» (Retorica III 16, 1417 b 10 s.). aggiunge inoltre, a quanto già affermato a proposito della narrazione, propria solo del genere giudiziario (III 13, 1414 a 37-39): «In un discorso deliberativo raramente può trovarsi una narrazione, poiché nessuno narra gli eventi futuri. Ma se c’è una narrazione, sarà di eventi passati, in modo che gli ascoltatori, ricordandosi di quei fatti, deliberino meglio su quelli futuri (ciò può essere fatto criticando o lodando). In tal caso però l’oratore non svolge la funzione del consigliere. se quel che si dice è incredibile, si deve promettere di fornire subito la causa e di dare disposizioni nel modo in cui gli ascoltatori desiderano» (III 16, 1417 b 12-18). Il testo è incerto in alcuni punti; emerge tuttavia, oltre alla funzione propria della narrazione e al suo oggetto, la necessità di eliminare qualsiasi elemento non plausibile, attraverso l’indicazione della causa. 313 l’espressione presbeivan ajpaggevllein è usuale, vd. per es. eschine, Sulla corrotta ambasceria 49. Problematici sono invece gli usi e i signifcati, in questo contesto, dell’avverbio kaqarw`~, del sostantivo mevgeqo~ e del nesso lovgou sch`ma. la preoccupazione dominante non sembra di ordine stilistico, osserva Chiron: si avrebbe un paradosso «dans l’association de la nudité d’un compte rendu et de la grandeur, à moins de penser au couplage, dans le corpus hermogénien, du mode assertif avec la noblesse». Il nesso sch`ma lovgou non rinvierebbe inoltre a una teoria costituita delle fgure, ma può avere «son sens isocratique». serietà, obiettività e fedeltà del resoconto conferirebbero «une grandeur d’ordre éthique» (p. 175 s., ad loc.). Francesco Filelfo traduce: «quo primum quidem gravitatem oratio prae se ferat». Forse si pensa alla dimensione, all’estensione originaria del discorso, senza ampliamenti o sottrazioni, o elaborazioni per scopi

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note al testo

diversi da quello che appare prioritario, cioè il riferire tutto esattamente e fedelmente, e insieme alla solennità che tale resoconto dovrà avere, pur nella sua essenzialità. la maggior parte dei traduttori intende mevgeqoı nel senso di ‘peso’, ‘importanza’ o di ‘ampiezza’ (Barthélemy saint-Hilaire: «afn que, dès le début, le discours ait toute l’ampleur désirable»; Forster: «in order that our speech may carry weight»; Rackham: «in order that in the frst place our speech may have due bulk»; Gohlke: «damit erst einmal die Rede Gewicht bekommt»; sánchez sanz: «para hacer el discurso más largo»; Mirhady: «frst so that the speech may have importance»). nel passo già richiamato della Retorica di aristotele, in cui si tratta della diegesis, emerge il criterio della metriotes: «la narrazione non deve essere lunga, come non deve esserlo l’esordio né l’esposizione delle argomentazioni. In questo caso la proprietà non consiste nella rapidità o nella concisione, ma nella misura, e ciò signifca dire tutto ciò che renderà chiara la questione» (III 16, 1416 b 33-36). Vd. anche la nota 316. 314 Cfr. lisia, Difesa per un anonimo da un’accusa di corruzione 10. I consigli che vengono dati si capiscono meglio, se si ricordano i doveri degli ambasciatori e le denunce a loro carico. Gli ambasciatori, come i magistrati effettivi e tutti coloro che avevano esercitato una funzione pubblica, o fossero stati responsabili di fondi pubblici, erano sottoposti a un rendiconto (euthyna), vd. Hansen 2003, pp. 326 ss.; 481, s.v. euthynai. 315 l’avverbio ajkribw`~ integra la nozione espressa da kaqarw`ı: la precisione è un requisito imprescindibile in questo tipo di resoconto, ma probabilmente non dal punto di vista stilistico; la chiarezza non implica ancora l’enargeia, l’evidentia (vd. Demetrio, Lo stile 208 s.; Quintiliano, La formazione dell’oratore IV 2, 64). 316 Il resoconto di un’ambasciata ha un contenuto defnito, ed è un compito cui si deve assolvere: a questo si contrappone un intervento libero. Della chiarezza, consistente soprattutto nell’evitare le possibili ambiguità, si è parlato in precedenza (1435 a 32 ss.); qui essa si associa a due altri criteri di composizione: concisione e credibilità. aristotele, nella sezione della Retorica in cui affronta il tema della diegesis e della necessità di passare in rassegna le azioni intorno a

note 314-316

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cui verte il discorso, fa una distinzione preliminare: «Un discorso è composto da una parte estranea alla tecnica, poiché l’oratore non è in alcun modo causa delle azioni, e da una parte che deriva dalla tecnica, e cioè dimostrare che l’azione ha avuto luogo, se non sembra credibile – eja;n h\≥ a[piston, o che è di un certo genere, o di una certa importanza, oppure tutte queste cose insieme. Per questo motivo talvolta non si devono esporre tutti i fatti in una narrazione continua, poiché una dimostrazione di questo tipo è diffcile da ricordare» (III 16, 1416 b 19-23). aggiunge poi una nota polemica nei confronti del criterio della concisione, dichiarandosi a favore della metriotes e della chiarezza: «oggigiorno viene assurdamente detto che la narrazione deve essere rapida. Infatti, come disse quell’uomo rispondendo al fornaio che gli domandava se dovesse preparare un impasto duro o tenero: “Perché? Giusto non è possibile?”. la narrazione non deve essere lunga, come non deve esserlo l’esordio né l’esposizione delle argomentazioni. In questo caso la proprietà non consiste nella rapidità o nella concisione, ma nella misura – oujde; ga;r ejntau`qav ejsti to; eu\ [h]] to; tacu; h] to; suntovmw~, ajlla; to; metrivwı, e ciò signifca dire tutto ciò che renderà chiara la questione, o farà credere che è accaduta una certa azione, che è stato infitto un certo danno, che è stata commessa una certa ingiustizia, o che i fatti hanno l’importanza che si desidera. Per l’avversario, è l’opposto» (1416 b 30-1417 a 3). la brevità è richiesta invece quando ci si difende, «perché i punti in discussione sono o che il fatto non è avvenuto, o che non ha comportato danni, o che non c’è stata ingiustizia, o che non è importante, e di conseguenza non si deve perdere tempo su ciò su cui tutti sono d’accordo, a meno che qualcosa non tenda a quello scopo, ad esempio a dimostrare che se il fatto è accaduto non c’è stata tuttavia nessuna ingiustizia» (1417 a 8-12). al criterio della chiarezza, e della comprensibilità da parte del pubblico, sono connessi due altri requisiti necessari: «la narrazione deve essere indicativa dei caratteri – hjqikh;n de; crh; th;n dihvghsin ei\nai»; una prima condizione, perché lo sia, è «rendere chiaro il proposito morale – to; proaivresin dhlou`n» (1417 a 1618). Bisogna inoltre parlare basandosi sui pathe: essi sono noti al pubblico e per questo «diventano segni rivelatori di ciò che non conosce» (1417 a 36-b 3).

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note al testo

si è visto che aristotele fa riferimento a un’opinione diffusa, forse nei manuali di retorica che egli ricorda più volte, senza specifcare; Quintiliano tuttavia individua in Isocrate il suo preciso bersaglio: «ora passerò a spiegare quali siano i criteri da seguire nella narrazione. essa è l’esposizione convincente di un fatto avvenuto o supposto tale, oppure, come la defnisce apollodoro, è un discorso che informa l’ascoltatore circa l’oggetto della controversia. la più parte degli autori, e in specie quelli della scuola di Isocrate, vogliono che sia chiara, breve e verosimile – lucidam, breuem, ueri similem. né importa se per chiara diciamo limpida – perspicuam, per verosimile diciamo plausibile o credibile – probabilem credibilemue. a noi quella medesima divisione sta bene, per quanto anche aristotele abbia dissentito da Isocrate su un punto, deridendo il precetto di brevità quasi fosse inevitabile che l’esposizione risultasse lunga o breve, e non si potesse seguire una via mediana, e per quanto i teodorei abbiano tenuto solo l’ultimo aspetto, non essendo a loro avviso utile esporre in ogni caso sinteticamente e sempre con trasparenza» (La formazione dell’oratore IV 2, 31 s.). Cfr. per es. lisia, Contro Eratostene 3; Contro Agorato 4; Isocrate, Areopagitico 19; [Cornifcio] Retorica a Erennio I 14 ss.; Cicerone; Dell’oratore II 326-330; orazio, Arte poetica 335 s. 317 Ciò che è più facilmente memorizzabile è, dal punto di vista aristotelico, correlato con ciò che è facile da comprendere, e con la proprietà del racconto di essere eusynoptos, vd. Retorica III 9, 1409 b 4 s.; Poetica 7, 1451 a 4-6. Quintiliano esprime con tre verbi (intellegere, meminisse, credere) gli effetti inerenti alle tre virtutes narrationis, già elencate (vd. la nota precedente): «l’esposizione dei fatti è o tutta in nostro favore, o tutta a favore degli avversari, o un misto di entrambe le possibilità. se sarà tutta per noi, ci accontentiamo di queste tre caratteristiche che fanno in modo che il giudice più facilmente capisca, ricordi, si fdi – quo facilius iudex intellegat, meminerit, credat» (La formazione dell’oratore IV 2, 33; cfr. 2, 52 s.). le tre virtutes sono un requisito necessario in ogni parte dell’orazione, ma soprattutto nella sezione in cui si deve informare il giudice, «perché se in essa accadrà che quello non capisca, o non fssi nella memoria o non arrivi a credere, nelle altre ci impegneremo senza esito alcuno» (2, 35; cfr. 2, 40).

note 317-323

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Chiron richiama l’attenzione sul termine dikaiologiva: da qui in poi esso cambia signifcato: «Il signife dans a plaidoirie, discours du genre judiciaire, puis dans B argumentation juridique ou qualifcation du fait par opposition aux moyens de persuasion» (p. XlVIII); in questo passo, egli traduce justifcation, ma ritiene che una traduzione più precisa e più tecnica potrebbe essere: «qualifcation par le juste etc.» (p. 176 s., ad loc.). le pisteis hanno lo scopo di stabilire i fatti, la dikaiologia di qualifcarli attraverso i predicati di base (giusto, legale, utile ...). 318 Cfr. 1438 a 35 s.: la nozione di iperbato riguarda sia il contenuto, l’ordine espositivo, sia i termini e la loro successione, vd. 1435 a 36 s.; b 5 s. Dal punto di vista aristotelico, l’ordine espositivo si confgura essenzialmente come rapporto di causa e di effetto. 319 Cfr. 1430 b 6 s.; 1435 a 32 s. la chiarezza, afferma Demetrio, «risiede in più elementi; in primo luogo nei termini propri, in secondo luogo negli elementi di collegamento» (Lo stile 191 s.). In Quintiliano, l’intelligibilità e la chiarezza sono connesse con un appropriato uso di termini espressivi e non banali, ma nemmeno troppo ricercati e lontani dall’uso comune (La formazione dell’oratore IV 2, 36). 320 Cfr. Demetrio, Lo stile 199 (e qui la nota 245); Cicerone, Dell’oratore II 329: «la narrazione sarà comprensibile se sarà esposta con parole tratte dal linguaggio quotidiano, se rispetterà la sequenza cronologica dei fatti e sarà priva di interruzioni». 321 nella Poetica di aristotele, la nozione di to holon fa da guida nell’individuazione dei criteri che regolano l’aggiunta e la sottrazione di parti, e di ciò che può essere considerato ‘parte’ di un intero (8, 1451 a 32-35). 322 Cfr. Retorica a Erennio I 16; Quintiliano, La formazione dell’oratore IV 2, 52-60. 323 Questa via è indicata come la più facile da seguire, per l’oratore che voglia risultare persuasivo, senza troppa fatica, in un incisivo passo del Fedro di Platone, dove si esaminano «le ragioni del lupo»: nei tribunali conta ciò che è persuasivo, cioè il verosimile. «talvolta non si devono esporre neppure i fatti medesimi, qualora non si siano svolti in maniera verisimile, ma appunto solo quelli verisimili, e nell’accusa e nella difesa. e, in generale, chi parla deve seguire ap-

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note al testo

punto il verisimile, e mandare a spasso con molti saluti la verità» (272 e). la risposta di Platone alle ‘ragioni del lupo’ ripropone il ruolo determinante e irrinunciabile del vero, anche se questa via è la più diffcile (273 d-e). Vd. l’introduzione, e più avanti la nota 399. 324 Cfr. 1434 a 24 s. 325 aristotele, come si è visto (nota 274), defnisce iatreumata le strategie comuni a ogni discorso e a ogni sua parte, e intese a prevenire la disattenzione dell’uditorio, o una sua disposizione non benevola (Retorica III 14, 1415 a 25 ss.). 326 sono previste narrazioni parziali, in relazione alla quantità dei fatti da esporre. aristotele, nella Retorica, osserva che non è sempre opportuno «esporre tutti i fatti in una narrazione continua», perché questa presentazione dei fatti è diffcile da ricordare (III 16, 1416 b 22 s.). si nota un’attenzione al bilanciamento delle parti, in funzione di un discorso compatto, che faccia presa sull’uditorio, coinvolgendolo attivamente e stimolandone le facoltà intellettive (ta;~ dianoiva~). Il ricorso, in questo contesto, ai termini aJplou`~ e poikivlo~ (1438 b 20 s.) suggerisce una notazione stilistica, ma non fne a sé stessa; ciò che emerge è un intento di unitarietà, pur nella distribuzione della narrazione. nello stesso passo della Retorica, appena ricordato, aristotele oppone il discorso semplice, che procede kata meros, al discorso consecutivo, vario, confuso e complesso (kai; aJplouvstero~ oJ lovgo~ ou|to~, ejkei`no~ de; poikivlo~ kai; ouj litov~ – 1416 b 24-26). I termini aJplou`~ e litov~ hanno, in questo caso, delle valenze positive, rispetto a poikivlo~ (cfr. Etica Nicomachea I 11, 1101 a 8 s.): chiarezza e semplicità sono caratteristiche del discorso ben ordinato, nel quale i differenti aspetti della questione sono classifcati e raggruppati, per favorire la memoria. Wartelle ritiene che possa esserci in ciò l’infuenza del metodo platonico delle divisioni (2003, III p. 123, ad loc.). nelle linee 1438 b 15 e 18, si nota, come altrove, un uso indifferenziato di pra`gma e pra`xi~ (vd. la nota 98; cfr. 1446 a 12). sulla presenza del verbo pragmatologei`n (1438 b 20), un hapax nel C.A. (vd. Bonitz 1961, p. 630 a 32), e utilizzato da autori più tardi, vd. Chiron 1999, p. 334. 327 la narrazione può ricorrere ovunque, secondo aristotele: un’unica narrazione continua rischia di non essere effcace, in quan-

note 324-329

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to è diffcile ricordarla (Retorica III 16, 1416 b 22 s.; 1417 b 10 s.). 328 Il termine bebaivwsi~ (1438 b 29) non ricorre altrove nel C.A. (vd. Bonitz 1961, p. 136 a 45 s.), se non nel trattato sulle Piante, in relazione alla nozione di zetesis: «la vita si osserva negli animali e nelle piante, ma negli animali essa si manifesta in modo evidente e chiaro, mentre nelle piante è tenuta nascosta e non è altrettanto palese. È necessario pertanto, preliminarmente, avviare un’estesa indagine per trovarne la conferma – eij~ th;n tauvth~ gou`n bebaivwsin pollh;n ajnavgkh ejsti; zhvthsin prohghvsasqai» (815 a 10-13). Il testo originale del Peri phyton è perduto, e il trattato che leggiamo in greco è la retroversione greca anonima, condotta sulla traduzione latina, condotta a sua volta su una traduzione araba di una traduzione siriaca (vd. Ferrini 2012 – Le piante). aristotele utilizza, nel contesto della Retorica, il termine pivstiı in stretto collegamento con il concetto di ajpovdeixi~: «le argomentazioni devono essere dimostrative – ta;~ de; pivstei~ dei` ajpodeiktika;~ ei\nai. Dal momento che è a proposito di quattro punti che può esservi disputa, si deve fornire una dimostrazione – ajpovdeixin – che conduca al punto in questione» (III 17, 1417 b 21-23). nello stesso contesto si distingue tra l’impiego delle argomentazioni nel genere giudiziario (1417 b 23-30), epidittico (1417 b 31-34) e deliberativo (1417 b 34-38). Come solitamente, il confronto tra i due testi mette in evidenza la prevalente preoccupazione del retore di dare consigli sull’organizzazione del discorso, e la più stringente analisi del ragionamento proposta da aristotele. Un esempio della pratica della conferma, nell’oratoria, può essere offerto da una sezione dell’Areopagitico di Isocrate (36-55), in cui l’esposizione delle praxeis si unisce, programmaticamente, a quella delle aitiai. 329 Chiron tenta di ricostruire il contenuto della lacuna, sulla base della linea 1439 a 7 s. (eja;n de; pisteuvhtai ta; pravgmata ktl): «si les faits ne sont pas crédibles ...». l’idea sembra questa: in caso di narrazione poco coinvincente, bisogna ricorrere a tutti i mezzi di persuasione successivamente. secondo un’altra interpretazione: «si plusieurs moyens de persuasion se présentent, il faut les mettre en oeuvre successivement. or ...». Quest’ultima soluzione si adatterebbe meglio al contesto immediato, ma meno bene al contesto più generale dell’argomentazione (p. 178, ad loc.).

552 330

note al testo

Cfr. 1428 b 8; 1430 a 29; 1439 a 4. Cfr. 1429 a 21 ss. 332 Cfr. 1430 a 23 ss. 333 Cfr. 1430 a 28 s.; 1431 b 9 ss. 334 Chiron accoglie, come altri editori, la lezione w|de del solo codice a (Parisinus gr. 2038, del XV secolo); il resto della tradizione ha wJ~. avverte tuttavia che si tratta di una «réfection» (il retore fa sempre di wJ~ dei` «une complétive»). Forse, conclude, bisogna supporre una lacuna e supplire: Tavttein de; aujta;~ wJ~ dei` (cfr. 1433 a 31-33; vd. p. 178, ad loc.). 335 l’interpretazione è controversa: le diffcoltà interpretative riguardano il signifcato della frase eij oJmoiovth~ tiv~ (Fuhrmann in apparato suggerisce che forse bisogna scrivere a} oJmoiovtatav) e della preposizione prov~: ‘somiglianza con quanto diciamo’ (oJmoiovth~ pro;~), oppure ‘a supporto di quanto diciamo’ (prosaktevon pro;ı – Fuhrmann interpunge: eij oJmoiovth~ tiv~ ejsti, ktl). Francesco Filelfo traduce: «deinde vero exempla afferemus, et si qua est cum his quae a nobis dicuntur, similitudinem adducemus»; Forster: «Following on this we must cite examples, and any point of similarity must be introduced to support what we are saying»; Rackham: «next we must adduce examples, and employ any available similarity to support the statements we are making»; Gohlke: «Daran sind Beispiele zu knüpfen, und wo es eine Ähnlichkeit gibt, ist sie mit den eigenen Darlegungen zu verbinden»; sánchez sanz: «Junto a esto hay que aportar los ejemplos, y aplicar a nuestro caso cualquier semejanza que haya»; Chiron: «Puis il faut apporter des exemples et faire état des ressemblances, si elles existent, avec la situation que nous décrivons»; Mirhady: «after this bring in examples and mention whether there is some similarity to what you are saying». 336 nei Problemi del C.A., molte questioni riguardano le diverse reazioni che si hanno di fronte a ciò che è noto o ignoto. Qui si possono proporre questi confronti: «Perché si preferiscono gli esempi e i racconti agli entimemi nei discorsi oratori? Forse perché si prova piacere nell’imparare e nel farlo rapidamente? Con gli esempi e con i racconti si impara più facilmente, perché essi rappresentano cose note e particolari, mentre gli entimemi sono una dimostrazione che si basa su casi generali, che conosciamo 331

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meno bene dei casi particolari. Inoltre noi crediamo più alle cose testimoniate da molti, e gli esempi e i racconti assomigliano a delle testimonianze: è facile dare credibilità a qualcosa, quando si hanno testimoni. Inoltre, si impara con piacere ciò che ci richiama il noto, e l’esempio e i racconti ci propongono questa somiglianza» (XVIII 3, 916 b 26-35). «Perché mai ascoltiamo i racconti costruiti su un solo episodio con più piacere di quelli che ne narrano molti? Forse perché rivolgiamo la mente preferibilmente alle cose più note, che ascoltiamo con più piacere, e il defnito è più noto dell’indefnito? e l’uno è defnito, mentre il molteplice partecipa dell’indefnito» (XVIII 9, 917 b 8-12; cfr. 10, 917 b 13-16; V 25, 883 b 3-13 e XXX 4, 955 b 9-21; XIX 5, 918 a 3-9; 40, 921 a 32-38). Cfr. Isocrate, Evagora 77; Demostene, Terzo discorso per Olinto 23. 337 le linee 1439 a 5 ejnqumhmatwvdei~ – 6 poiei`sqai sono considerate sospette da Fuhrmann, che in apparato propone di leggere: ejnqumhvmata kai; gnwvma~ fevrein (cfr. l. 19 s.; 1440 a 23). I due termini ejnqumhmatwvdh~ e gnwmologikov~ sono tardi; inoltre si notano la ripetizione del termine teleuthv, e l’impiego non abituale in questo tipo di contesto del medio (poiei`sqai): tutto fa pensare a un rifacimento (vd. Fuhrmann, ad loc.; Chiron 1999, p. 330 s.). l’eventuale alterazione del testo non ha tuttavia conseguenze sul senso del passo, come Chiron mette in evidenza. 338 Cfr. 1422 a 26 ss. 339 si tratta di un’interessante considerazione, che si riallaccia a concezioni relativistiche, particolarmente vive in ambito sofstico. 340 Il termine mevtrio~ si presta a una doppia interpretazione: potrebbe indicare o la lunghezza o il numero: ‘di giusta’ o ‘in giusta’ misura. tenendo conto di passi precedenti in cui si parla della brevità, e della frequente associazione di queste nozioni con un modo di procedere kefalaiwdw`~ (vd. la l. 33; cfr. 1441 b 9 s.), con una ricapitolazione, è forse preferibile pensare che ci si riferisca alla lunghezza, che deve essere contenuta (cfr. l’uso di suntovmw~ nella linea 1439 a 22). Vd. in particolare 1430 a 35-37; 1431 b 25 s. Chiron intende invece che ci si riferisca al numero: «un nombre modéré de sentences et d’enthymèmes variés» (cfr. Gohlke: «mit einigen wenigen sprüchen und Gedankenketten»), e rinvia al passo 1434 a 38 s., dove si parla della necessità di diversifcare e di non mettere

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note al testo

insieme più elementi dello stesso tipo, cioè di alternare massime e entimemi, si può intendere, in accordo con il consiglio di aristotele di trasformare questi in quelle (Retorica III 17, 1418 b 33-38). D’altra parte poco prima, si è prospettata la possibilità di formulare gli entimemi ‘interamente o a metà’ (1434 a 35-37), in modo che gli uditori comprendano da soli l’altra metà. Il passo si inserisce nel contesto della trattazione riguardante la lunghezza che si vuole dare al discorso (1434 a 33 ss.). Vd. anche la nota seguente. Massime ed entimemi sono, come si è visto, quasi costantemente nominati insieme. Per la formula introduttiva o{tan ktl, vd. per es. 1441 a 18; a 38. 341 alla giusta dimensione di un discorso o di uno zoon, aristotele attribuisce molta importanza, proprio in relazione alla facilità di memorizzazione e di visualizzazione dell’intero (vd. la nota 317). In aristotele, questa considerazione riguarda sia l’ambito estetico sia quello retorico, inserendosi nella più generale rifessione sui requisiti dell’opera d’arte in sé e della sua fruizione, da cui scaturiscono sia piacere sia apprendimento. 342 Cfr. 1438 b 5; b 18; b 32. la metafora del tessere, applicata alla composizione del discorso, è antica, vd. per es. Pindaro, Nemea IV 44; fr. 179 sn.-M.; Bacchilide, Epinicio 5, 9 s.; Dionigi di alicarnasso, La composizione stilistica 12, 8; [longino] Il sublime 1, 4. Questa metafora è elaborata e arricchita da luciano: «lo storico sappia cogliere e mettere insieme ciò che è più credibile. Quando poi avrà raccolto tutto o quasi tutto, prima ne ricavi un tessuto di appunti facendone un corpo ancora brutto e disarticolato, poi, messovi ordine vi porti la bellezza, lo colori con lo stile, lo adorni con le fgure e con il ritmo» (Come si deve scrivere la storia, 47 s.). Il senso metaforico del verbo è già in omero, ma nel senso di tendere un’insidia, ordire un piano (Iliade 6, 187; Odissea 4, 678). sia la metafora del tessuto sia la metafora (platonica e aristotelica) dell’organismo vivente sono immagini che esprimono l’intento di dare unità al discorso. Per la ripresa di queste metafore da parte dei retori, vd. Pernot 1993, p. 312 ss. 343 la prokatalepsis è stata introdotta in precedenza tra i mezzi di prova comuni a tutti i discorsi (1432 b 11 ss.); qui diventa una parte del discorso.

note 341-345

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si è visto (nota 220) che aristotele è polemico nei confronti di eccessive partizioni; in particolare, rifuta l’autonomia della confutazione, rispetto alle pisteis: «la confutazione dell’avversario non forma una specie a parte, ma rientra nelle argomentazioni – Ta; de; pro;~ to;n ajntivdikon oujc e{terovn ti ei\do~, ajlla; tw`n pivstewn. Gli argomenti possono essere confutati in parte con un’obiezione, in parte con un sillogismo. tanto nell’oratoria deliberativa quanto in quella giudiziaria chi comincia a parlare deve esporre in un primo momento le proprie argomentazioni, e poi affrontare quelle dell’avversario, confutandole e demolendole prima che egli possa avanzarle – luvonta kai; prodiasuvronta. [...] se invece l’oratore deve parlare per secondo, deve innanzitutto esporre i suoi argomenti contro il discorso avversario, confutandolo e controbattendo per mezzo di sillogismi, soprattutto se egli ha ricevuto consensi» (Retorica III 17, 1418 b 5-14). la maggiore attenzione che aristotele dedica all’aspetto della ricezione, e all’effetto sull’ascoltatore, in confronto con l’impostazione più manualistica del nostro retore, è ben evidente anche dalle considerazioni immediatamente successive ai consigli dati (vd. l’intero passo citato nella nota 423 – Retorica III 17, 1418 b 14-22). Il discorso retorico, secondo gli stoici, si articola in esordio, narrazione, confutazione ed epilogo – ei[~ te to; prooivmion kai; eij~ th;n dihvghsin kai; ta; pro;~ tou;~ ajntidivkou~ kai; to;n ejpivlogon, vd. Crisippo, fr. 295 (SVF II p. 96). 344 1426 a 19 ss. 345 1433 b 31 ss. Per l’uso del termine sch`ma, vd. la nota 206. nel trattare dell’epilogo (vd. la nota 347), aristotele indica la ricapitolazione come il quarto elemento di cui esso si compone: «non resta che richiamare alla memoria quanto è stato detto. Ciò si può adeguatamente fare nel modo che alcuni consigliano, erroneamente, per i proemi: raccomandano, per risultare chiari, di ripetere spesso. Ma nei proemi si deve esporre il soggetto, in modo che non sfugga quale è la questione sulla quale si deve giudicare, mentre nell’epilogo si deve dire per sommi capi ciò che è stato dimostrato» (III 19, 1419 b 27-32). si tratterà dunque di dire di che cosa si è trattato e per quale motivo, paragonando ciò che oratore e avversario hanno detto, «o senza confronto diretto (“costui sostiene questa cosa a proposito di quel punto, mentre io dico

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note al testo

quest’altra e per questi motivi”), o con ironia (ad esempio: “lui ha detto queste cose, io queste altre; che cosa avrebbe fatto, se fosse riuscito a dimostrare questo e non soltanto quello?”), oppure con un’interrogazione (“che cosa non è stato dimostrato?” o “che cosa è riuscito a dimostrare costui?”)» (1419 b 35-1420 a 4). 346 nella Retorica di aristotele, filiva, cavri~ ed e[leo~ sono tra i pathe defniti e analizzati in modo sistematico, nell’ambito di una vera e propria topica delle emozioni, di una esposizione dei ‘luoghi’ da cui trarre pisteis (vd. la nota 144). secondo il metodo seguito, si indaga che cosa siano amicizia, gratitudine e compassione, chi sia più incline a provarle e con quale disposizione d’animo, verso quali persone si provino questi sentimenti, che cosa possa provocarli, e quali siano i loro contrari (II 4, 1380 b 34-1382 a 19; 7, 1385 a 16-b 10; 8, 1385 b 11-1386 b 7). I sentimenti e le reazioni emotive che si devono suscitare nell’ascoltatore, nell’epilogo, sono: compassione – e[leo~, indignazione, collera, odio, invidia, spirito di emulazione e desiderio di contesa (III 19, 1419 b 24-26). ai diversi pathe si ricorre ampiamente sia nei discorsi che gli storici mettono in bocca ai loro personaggi, sia nella pratica oratoria. 347 Il confronto con il passo della Retorica di aristotele, dedicato all’epilogo, è particolarmente indicativo dell’interesse eminentemente pratico del nostro retore, interessato a dare ogni volta consigli utili per ciascun genere di discorso, e molto meno preoccuppato di un’esposizione sistematica e omogenea. «l’epilogo è composto di quattro elementi: disporre l’ascoltatore favorevolmente nei propri confronti e sfavorevolmente nei confronti dell’avversario; amplifcare e diminuire; suscitare reazioni emotive nell’ascoltatore; ricapitolare» (III 19, 1419 b 10-13): per i primi tre punti, si rinvia ai topoi indicati in precedenza (vd. I 9; II 19; II 1-11). I quattro punti trovano corrispondenze nella Retorica ad Alessandro, ma con occasionali riferimenti a questo o a quel genere, o specie. Inoltre, la funzione di ricapitolare è più volte richiamata (vd. per es. 1439 b 12; 1441 b 9; 1443 b 15; 1445 b 20), e non è riservata all’epilogo (1433 b 29 ss.). Chiron ritiene che si possa cogliere in questa esposizione così poco sistematica anche un indizio di arcaismo: «les théories de l’exorde et de la narration sont plus normalisées, comme si sur ces

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questions le rhéteur s’appuyait sur une tradition mieux établie» (p. 180, ad loc.). In realtà, il problema è più generale: il ‘difetto’ di sistematicità e il procedere per aggiunte, avendo per guida una fnalità pratica, che si impone di volta in volta come prioritaria, costituiscono la caratteristica più evidente di questa opera. si è visto d’altra parte (nota 144) come aristotele sottolinei che lo scopo principale degli autori di trattati, suoi contemporanei, sia proprio quello di disporre gli ascoltatori in un certo modo, attraverso la sollecitazione dei pathe. sulla teoria dell’epilogo nella retorica antica, vd. Calboli Montefusco 1988, pp. 79-104. 348 Rientra nello stile di questo trattato proporre talora una particolareggiata seppure sintetica casistica, per esaurire tutte le possibili circostanze ed evenienze, con il risultato di un andamento stilistico faticoso e ripetitivo. Qui si distingue prima di tutto fra amicizia ‘meritata’, che implica una relazione di reciprocità (cfr. aristotele, Retorica II 4, 1381 a 2 s.), e un sentimento di riconoscenza, che si prova per aver ricevuto ‘immeritatamente’, ‘gratuitamente’ del bene. le altre distinzioni riguardano la persona stessa che riceve o dà, e la collocazione temporale del fatto, che potrebbe anche essere suggerita dal rapporto esistente fra tempo e genere del discorso. D’altra parte, aristotele nel defnire quali siano i fatti e le ragioni che suscitano sentimenti di charis, aggiunge la necessità di tener presente anche la categoria del tempo: «Il fatto deve poi essere analizzato in rapporto a tutte le categorie, in quanto si tratta di un favore in funzione della sostanza, o della quantità, o della qualità, o del tempo o del luogo» (Retorica II 7, 1385 b 5-7; cfr. 1385 b 1; 6, 1383 b 13 s.). nella Retorica di aristotele, questi sentimenti sono analizzati capillarmente, come si è accennato, attraverso uno schema di indagine, che si sviluppa poi ampiamente attraverso considerazioni ‘etiche’, psicologiche e sociologiche, con cui si delinea un’effcace rappresentazione del comportamento e delle reazioni dell’uomo, in diverse situazioni. nella Retorica ad Alessandro, invece, l’esposizione si articola semplicemente attorno alle nozioni, opposte, di kata; to; prosh`kon e di para; to; prosh`kon; in entrambe le opere, tuttavia, si pone l’accento sul fatto che non fa differenza se i destinatari di un benefcio siamo noi stessi o i nostri familiari: «Gli uo-

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note al testo

mini amano chi ha fatto loro del bene, a loro stessi o ai loro cari – h] aujtou;~ h] w|n khvdontai» (Retorica II 4, 1381 a 11; cfr. 8, 1385 b 14 s.; 17 s.). Più generalmente è valida e caratterizzante, ed espressa in vari ambiti delle letterature antiche, la concezione della necessaria reciprocità e della ‘transitività’ del sentimento sia di amicizia sia del suo contrario (vd. aristotele, Retorica II 4, 1381 a 1-19). 349 Qui è particolarmente interessante il confronto con aristotele: «Defniamo ‘compassione’ una forma di sofferenza di fronte alla visione di un male manifestamente rovinoso o doloroso che ricade su una persona che non lo merita – tou` ajnaxivou, un male che anche noi possiamo attenderci di subire – noi stessi o uno dei nostri familiari – e che sembra prossimo – o} ka]n aujto;~ prosdokhvseien a]n paqei`n h] tw`n auJtou` tina, kai; tou`to o{tan plhsivon faivnhtai: è evidente che chi potrà provare compassione deve necessariamente essere una persona tale da credere di poter subire un male, lei stessa o uno dei suoi familiari, e che questo male deve essere del tipo di quello di cui si è parlato nella defnizione, o uguale, o simile» (Retorica II 8, 1385 b 13-19; cfr. 1386 b 5-7; Problemi VII 7, 887 a 15-21). tutta la trattazione dell’eleos, nella Retorica, con la distinzione fra to eleeinon e to deinon, è come noto di grande interesse anche in relazione alla nozione di katharsis tragica, di cui l’eleos è un mezzo, insieme con phobos (Poetica 6, 1449 b 27 s.). «Gli uomini provano compassione per le persone che conoscono, quando non siano legati a esse troppo strettamente: nei confronti di queste, la loro disposizione è la stessa che avrebbero se dovessero soffrire loro stessi [...]. Ciò che crea terrore è diverso da ciò che suscita compassione – to; ga;r deino;n e{teron tou` ejleeinou`, esclude la compassione ed è spesso utile a determinare il sentimento opposto, perché non si prova più compassione quando la causa del terrore è prossima. Gli uomini hanno inoltre pietà di chi è simile per età, per carattere, per abitudini, per condizione sociale o per legame familiare, perché osservando queste persone risulta più evidente il fatto che anche a loro potrebbe capitare la stessa disgrazia: nel complesso, infatti, dobbiamo anche qui ritenere che tutto quello che temiamo nei confronti di noi stessi suscita la nostra compassione quando capita ad altre persone» (Retorica II 8, 1386 a 17-29; cfr. Poetica 13, 1452 b 30-1453 a 12; 14, 1453 b 1 ss.).

note 349-352

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la compassione appare, nella teoria e nella pratica oratoria, come pathos più generalmente connesso con l’ekplessein, con il movere; vd. lausberg 2002, p. 52 s., par. 70: «Il grado di emozione più violenta si chiama pathos [...]. l’effetto emozionale cui tende l’oratore, col fne di provocare nell’arbitro della situazione una emozione di tono violento e sconvolgente che possa essere favorevole alla parte da lui rappresentata, si chiama movere [...]. Questo grado di emozione è particolarmente adatto e usabile nella peroratio come impulso acuto d’azione con lo scopo di ottenere un giudizio favorevole alla parte. Il centro di gravità di questo campo di applicazione del pathos sta nel genus sublime. nella poesia il pathos viene attribuito, come effetto, alla tragedia e a certi poemi epici (come all’Iliade). l’effetto emozionale della tragedia conclusa sono compassione e terrore (e[leo~ kai; fovbo~)». 350 Discorso di esortazione e discorso di dissuasione procedono allo stesso modo, ma con argomenti contrari, come ci si può attendere, data la relazione che esiste tra i contrari. spengel (p. 225) propone il confronto con tucidide, La guerra del Peloponneso VI 76-80 (il discorso di ermocrate ai Camarinesi, che cerca di dissuaderli dall’allearsi con atene, discorso cui seguirà quello di eufemo – 82-87, che fa appello a precedenti rapporti di alleanza e difende l’imperialismo ateniese), e con Platone, Fedro 237 a-241 c (socrate capovolge abilmente la posizione di lisia). 351 Il nesso kaq j auJtav (1440 a 7) si può intendere così, nel senso del successivo kaq j e}n e{kaston (l. 8 s.), ‘uno a uno’, ‘singolarmente’; oppure: ‘autonomamente’, ‘indipendentemente’ (Chiron: indépendamment), ‘separatamente’ da ciò che sostiene l’avversario, senza occuparsene più. Francesco Filelfo interpreta singillatim; Rackham, seriatim; Forster, one by one. Gli altri elementi dell’esordio, sono il richiamo all’attenzione e l’invito alla benevolenza. 352 anche in questo caso, si notano divergenze nell’interpretazione: l’espressione oujde; touvtoi~ ajkovlouqa ejf j a} ktl è intesa da alcuni traduttori nel senso ‘né coerenti con quanto l’avversario invita a fare’: «nor consistent with the policy advocated by the opponent» (Rackham); sánchez sanz: «ni consecuente con aquello a lo que exhorta el oponente»; «nor consistent with what the opponent is advocating» (Mirhady).

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note al testo

Il confronto con le altre ricorrenze del termine (1427 b 40; 1442 a 19; b 35; cfr. 1435 b 2, dove esso è utilizzato a proposito della necessaria correlazione delle parole di collegamento) suggerisce il signifcato di ‘seguente’ («neque quae ea sequuntur», traduce Francesco Filelfo); o di ‘analogo’, conforme alle qualità appena elencate. Il riferimento sembra essere ai predicati presentati all’inizio (1421 b 24 s.), e alle loro estensioni (1422 a 21 ss.; cfr. le linee immediatamente successive 1440 a 11-13): qui se ne ricordano tre, e si rinvia brevemente agli altri che vi sono associati. Questo tipo di discorso non comporta la narrazione: la situazione è stata esposta dall’avversario (vd. Chiron, p. 87, ad loc.). 353 Il testo è controverso: tovpou è un emendamento (cfr. 1443 b 30); la tradizione ha trovpou (vd. trovpo~ nella linea precedente). altri emendamenti sono proposti da Fuhrmann (che scrive: ejk tou` paraleleimmevnou tovpw≥), e da Kassel (ejk tou` para­ leleimmevnou [trovpou] – 1967, p. 126). Chiron spiega che, se il testo adottato è corretto, il termine tovpoı rinvia a uno dei predicati fondamentali più volte richiamati (p. 181, ad loc.). Divergono anche le interpretazioni riguardanti l’argomento tralasciato, dall’avversario, o dalla persona cui idealmente il retore si rivolge. altra diffcoltà è data dal verbo ajpotrevpein; Chiron traduce «dissuade à partir du lieu omis», e osserva che il verbo signifca di solito “dissuader de”, ma «rapproché de ejk, on peut aussi le comprendre ainsi: “détourne (sc. le débat) de l’argument que tu omets” (faute de pouvoir le réfuter)». 354 sull’uso delle forme atematiche o tematiche di questo verbo, vd. Wendland 1916, p. 486. 355 Come esempio della contrapposizione tra l’utile e il giusto, si ricordano i due discorsi che tucidide fa pronunciare ai Corciresi e ai Corinzi, di fronte all’assemblea ateniese (La guerra del Peloponneso I 32-36; 37-43). 356 Vd. 1439 b 5-10. 357 Il passo è controverso in parecchi punti. Fuhrmann inserisce tra cruces le linee 1440 a 25 ejn – 29 uJpavrcontaı, rinunciando a ogni mutamento del testo tradizionale; in apparato espone le diffcoltà del passo, e propone una ricostruzione di ciò che l’autore avrebbe approssimativamente scritto: dei` ajpofaivnein oi|~ oujk ejw`men bohqei`n e[cqra~ h] ojrgh`~ h] fqovnou ajxivou~ o[nta~.

note 353-360

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si ritorna al discorso di esortazione, già trattato (1439 b 15 ss.), senza una chiara forma di transizione; la prima frase manca del verbo reggente (ci si aspetterebbe dei`), e presenta nella tradizione un anacoluto (uJpavrcousan è emendamento di spengel, invece della lezione uJpavrcein: vd. i participi ojfeivlonta~ e uJpavrcontaı); si ricordano la philia, la charis, ma non l’eleos (vd. 1439 b 17); il verbo protrevpein (1440 a 27) ricorre altrove in questo trattato nella diatesi attiva, così come quasi sempre ajpotrevpein (1440 a 30; cfr. 1425 a 35). tutto l’insieme argomentativo manca d’altra parte di chiarezza: il retore prima tratta brevemente della dissuasione (1439 b 36-1440 a 3), poi considera il caso in cui un oratore parli per secondo e si opponga al discorso precedente (1440 a 3 ss.): ci si può domandare, osserva Chiron, «si les présentes remarques sur l’épilogue ne s’inscrivent pas dans ce cadre, ce qui expliquerait le caractère à la fois positif et négatif des passions évoquées (quand on s’oppose à un discours précédent, on peut avoir à contredire un effort de persuasion et un effort de dissuasion)» (p. 181 s., ad loc.). 358 Questi tre sentimenti sono oggetto di defnizione e di analisi nella Retorica di aristotele (II 2; 4; 10). Cfr. Isocrate, Antidosi 31; Demostene, Contro Midia, sul pugno 196. 359 Il testo è dubbio: rimane incerto a che cosa si riferisca il pronome anaforico aujtavı (1440 b 2 – ci si attenderebbe aujtav); il dimostrativo tou`ton, e non tovnde, si adatterebbe meglio a una formula di conclusione. Ci si chiede inoltre quale sia qui la differenza tra i due verbi (sunqhvsomen de; kai; tavxomen); cfr. 1441 b 31 s., dove ricorrono ancora insieme, e 1445 a 29, dove è invece usato solamente il secondo. stando a spengel (pp. 67 e 227), le parole aujta;~ tovnde to;n trovpon sarebbero forse da espungere (vd. anche Fuhrmann, ad loc., e la nota seguente). 360 anche qui il testo è sospetto: sembra strano che alla fne della sezione si nomini solo la specie dell’esortazione, dato che si è trattato anche della dissuasione. spengel (p. 67) propone dubitativamente l’integrazione , che comporterebbe tuttavia altri interventi. Fuhrmann suggerisce che forse si dovrebbe espungere tutta la frase 1440 b 2 to; me;n ou\n – 4 crhstevon, e scrivere ejntevcnw~ ta;~ protropa;~ kai; ta;~ apotropa;~ invece di aujta;~ – crhstevon; cfr. Zwierlein 1969, p. 81 s.; Kassel 1967, p. 126.

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note al testo

subito dopo si passa alla coppia elogio/ biasimo; la correlazione (me;n ktl de; ktl) tra un termine unico e una coppia di termini è sembrata squilibrata (vd. Chiron, p. 183, ad loc.): questa osservazione appare meno pertinente, data la funzione delle particelle (me;n ou\n ktl de; ktl). Chiron esamina i vari interventi e prudentemente conclude che ogni emendamento risulta non pienamente convincente, considerando anche lo stato più generale di «délabrement» che caratterizza la fne di questo capitolo e l’inizio del successivo (ibid.). 361 Il termine kakologikovn (nella translatio americana si legge vituperativam) è la lezione del codice a (Parisinus gr. 2038, del XV sec.), dopo la correzione, invece di katalogikovn. Il termine è un hapax ed è stato considerato sospetto (vd. Chiron, p. 89, ad loc.; 1999, p. 323); tuttavia il retore utilizza il verbo kakologei`n e il sostantivo kakologiva (cfr. aristotele, Retorica II 4, 1381 b 7, dove ricorre il termine kakolovgo~). 362 Fuhrmann inserisce tra cruces le linee 1440 b 6 kai; – 7 proqevseiı; ritiene inoltre che siano cadute alcune parole prima di kai; peri; touvtwn. Il referente del pronome touvtwn non è d’altra parte problematico: si può intendere ‘in questi casi’, oppure ‘in queste specie di discorso’. 363 Cfr. 1436 b 5-15. 364 anche in questo caso Fuhrmann considera il passo come irrimediabilmente corrotto (dal terzo kai; di l. 10 a i[son di l. 11), qui forse fondatamente, nonostante l’abuso che questo editore fa delle cruces. numerosi sono gli emendamenti proposti da altri commentatori, anche nella linea seguente. Chiron atetizza il terzo kaiv di l. 10, avvertendo tuttavia in nota che il passo è molto controverso, e che la traduzione proposta («et aussi du fait qu’on affrme soi-même des choses étonnantes et éclatantes, [et] à l’instar des actions dont on révèle que les personnes louées ou blâmées les ont accomplies») non pretende di risolvere defnitivamente il problema. Qui si traduce mantenendo la congiunzione: il senso può essere che si tende a stabilire un parallelismo tra il caso di cui si parla, e un generale modello di riferimento (un endoxon), già consolidato, secondo un criterio più volte ribadito. 365 si stabilisce un’opposizione tra l’oratoria che ha uno scopo immediato, con rifessi su eventi reali, e una che non lo ha (cfr.

note 361-366

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Isocrate, Antidosi 1; Panatenaico 271). l’impiego del termine ejpivdeixi~ è qui di particolare interesse, ma anche discusso (vd. Finckh 1849, p. 8 s.; spengel, pp. 228-230), in relazione al problema dell’esistenza del discorso epidittico come genere a sé, distinto dagli altri, nel testo che si suppone originario (vd. l’introduzione); in genere, il termine indica la dimostrazione di una competenza tecnica, in tutti i campi, non soltanto nell’ambito dell’eloquenza. 366 le abitudini rivelano il carattere, secondo un consolidato e intrinseco rapporto, e una concezione diffusa nella letteratura e nell’arte, cui aristotele dà un fondamento teorico, rifacendosi anche ai termini e[qo~ e h\qo~ (Etica Nicomachea II 1, 1103 a 14-b 25). Vd. spengel, p. 230; Ipfelkofer 1889, pp. 47-51; süss 1910, pp. 108-111; Pernot 1993, pp. 138 ss.; 163-165. Vd. anche la nota 128. la ripartizione tra qualità innate e acquisite, e tra qualità che sono il frutto di impegno personale e quelle che dipendono dalla sorte, da circostanze esterne, è un tema ricorrente in vari ambiti, fn dalla poesia arcaica. Vd. anche la nota 40. Il retore sembra introdurre questa distinzione più come indicazione generale di metodo (subordinare l’elogio al merito, scegliere oculatamente le qualità da elogiare, in relazione alla persona di cui si parla), che di contenuto e di struttura di questa parte. Poco dopo si passa infatti a trattare della genealogia, che non rientra nei meriti personali. Il termine e[ndoxo~ (famoso, reputato degno di stima, di lode, di considerazione, insigne, generalmente apprezzato, conforme all’opinione comune) ricorre in diversi nessi in questo trattato, e con diverse connotazioni (vd. 1422 a 16; a 26 s.; a 38; 1423 a 3; 1425 b 37; b 39; 1427 b 27; 1430 b 2 s.; 1440 b 25; b 28; b 32; b 39; 1441 a 5; a 9; a 14; a 25; a 27; a 30; 1445 b 13), e implica una valutazione di qualità positive (il suo contrario è a[doxoı), relativamente a ciò che costituisce un modello di riferimento; così, il suo signifcato è spesso pregnante, in quanto può presupporre un confronto con abitudini o comportamenti, in questo caso (cfr. 1427 b 27; 1445 b 13), di persone ‘che hanno credito’, ‘di chiara fama’ (vd. le note 123 e 449; 128). Rackham traduce il nesso ejpithdeuvmata e[ndoxa con l’espressione «creditable habits», e in nota suggerisce: «synonym for swfrosuvnh, temperance or soundness of mind» (vd. qui la nota 483).

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note al testo

si può intendere che l’elogio sulla base delle altre qualità è un inganno, una simulazione (cfr. l’uso del verbo kleptesthai nella Retorica di aristotele: III 7, 1408 b 5; 2, 1404 b 24; 1405 a 30), in quanto le altre non sono dovute al merito, ‘si sottraggono’ all’elogio o al merito, anche se subito dopo si passa sopra a questo scrupolo in maniera disinvolta, trattando ampiamente della genealogia. altri intendono: ‘sono introdotte sottobanco’ (vd. Chiron p. 185, ad loc.), in confronto a quelle qualità che sono lodate apertamente. «on les loue ‘furtivement’», intende Pernot (1993, p. 139; cfr. p. 147). Chiron traduce: «pour les qualités extérieures c’est indu»; nella nota, richiama l’attenzione su altre interpretazioni: «les qualités extérieures sont “volées”, sc. on ne les mérite pas» (p. 186). In ogni caso, non sembra in discussione la legittimità o l’illegittimità dell’elogio. Francesco Filelfo rende così l’intero periodo: «horum autem quae in virtute posita sunt, iure laudantur, extraria autem subducuntur»; Forster: «the qualities which pertain to excellence [virtue, 1924] are proper subjects of eulogy; those which fall outside it [virtue, 1924] must be disguised»; Rackham: «those belonging to virtue are justly eulogized, but those external to it are kept in the background»; Gohlke: «Das lob der Güter der tugend ist gerecht, das der andern erschlichen»; sánchez sanz: «son digno motivo de encomio las cualidades propias de la virtud; las ajenas a ella hay que hurtarlas»; Mirhady: «those internal to virtue are justly praised; the external are deceptive». 368 si distingue tra epainos e makarismos, come in aristotele, ma non tra epainos ed enkomion; inoltre in aristotele lo statuto del makarismos (makarizein, nel retore) è diverso. «Poiché l’elogio – oJ e[painoı – trae origine dalle azioni –ejk tw`n pravxewn, ed è proprio di un uomo ammirevole agire in base a un proposito – kata; proaivresin, si deve cercare di dimostrare che chi agisce lo sta facendo in questo modo, ed è utile che sembri essersi comportato così molte volte. Per questo motivo si devono intendere anche gli avvenimenti fortuiti e quanto deriva dal caso come se fossero dovuti a un deliberato proposito: se si possono presentare molti esempi dello stesso genere, infatti, sembreranno segnali di virtù e di un proposito. la lode – e[paino~ – è un discorso che pone in

note 367-368

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evidenza la grandezza della virtù. si deve dunque dimostrare che le azioni – ta;~ pravxei~ – sono virtuose. l’encomio – ejgkwvmion – invece riguarda le opere – tw`n e[rgwn (le circostanze, come la nobiltà di natali e l’educazione, possono contribuire alla persuasione, poiché è probabile che da buoni genitori nascano buoni fgli, e che chi viene cresciuto in un dato modo riesca nello stesso modo). È per questo che pronunciamo l’encomio di chi ha compiuto delle opere. le opere sono segni di una disposizione morale – ta; d j e[rga shmei`a th`~ e{xewv~ ejstin: potremmo quindi lodare anche chi non ha compiuto opere, se ritenessimo che sia tale da compierle. Ritenere qualcuno felice o ritenerlo beato – makarismo;~ de; kai; eujdai­ monismov~ – sono, considerati in sé stessi, un’identica cosa, ma non equivalgono alla lode e all’encomio, bensì, proprio come la virtù rientra nella felicità, anch’essi fanno parte dello stimare qualcuno felice» (Retorica I 9, 1367 b 27-35; cfr. II 9, 1387 a 11-15). anche nell’Etica Nicomachea si distingue tra epainos ed enkomion: l’elogio ha per oggetto l’arete come fonte di buone azioni; l’encomio ha per oggetto gli erga sia del corpo sia dell’anima (I 12, 1101 b 31-33). Gli dèi sono elogiati attraverso l’attribuzione di qualità umane che fniscono per sminuirli e renderli ridicoli: di realtà ed entità superiori «non c’è elogio, ma qualcosa di maggiore e di migliore [...]: sono gli dèi che noi proclamiamo beati e diciamo felici, e tra gli uomini sono quelli più vicini agli dèi – tw`n ajrivstwn oujk e[stin e[paino~, ajlla; mei`zovn ti kai; bevltion ktl: touv~ te ga;r qeou;~ makarivzomen kai; eujdaimonivzomen kai; tw`n ajndrw`n tou;~ qeiotavtou~» (1101 b 22-24). Cfr. Etica Eudemia II 1, 1219 b 13-16: «sono cose diverse la felicitazione, l’elogio e l’encomio – eujdaimo­ nismo;~ kai; e[paino~ kai; ejgkwvmion; l’encomio appartiene all’opera singola, l’elogio dice che tale è uno in universale, la felicitazione è del fne» (le traduzioni dell’Etica Nicomachea e dell’Etica Eudemia sono, qui e altrove, rispettivamente di M. Zanatta, Milano 200710, e di P. Donini, Roma-Bari 1999, con qualche variazione). tutto questo passo della Retorica ad Alessandro è stato molto discusso. lo stretto rapporto con aristotele ha fatto pensare a un’interpolazione; ci si è chiesti inoltre se l’origine della distinzione prospettata sia, oltre che aristotelica, anche sofstica e isocratica; e se il retore intenda intercalare una parte fra l’esordio e la genealogia, o dia solo indicazioni su cui rifettere per defnire il

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note al testo

contenuto dell’elogio; vd. Chiron, p. 184 ss., ad loc.; Pernot 1993, pp. 131 ss. (in particolare, pp. 131 s.; 134; 139 s.; 146 s.); 511 ss.; Id. 1986, p. 41 n. 39. 369 Da considerazioni generali e ‘teoriche’ si passa a un’argomentazione che apparentemente ne prescinde; l’uso del verbo dialogizesthai potrebbe forse indicare che si deve tener conto delle distinzioni fatte nel dare piena evidenza alle qualità connesse con il merito individuale, e nell’inserire le altre surrettiziamente; oppure, nella consapevolezza del loro carattere surrettizio, si consiglia di evitare di porle al centro dell’elogio. Più probabilmente, si tratta di sovrapposizioni, da parte del retore, di indicazioni di metodo (di diversa origine, come si è detto) e di contenuti codifcati. Cfr. Isocrate, Evagora 12 ss. aristotele afferma che la nobiltà di natali e l’educazione «possono contribuire alla persuasione, poiché è probabile che da buoni genitori nascano buoni fgli, e che chi viene cresciuto in un dato modo riesca nello stesso modo» (Retorica I 9, 1367 b 29-31, vd. il passo citato più estesamente nelle note 98 e 368). Di particolare interesse è il confronto con un passo del Menesseno di Platone, nel contesto in cui socrate riferisce il discorso di aspasia sui caduti per la patria: «Da dove potremmo cominciare a tessere le lodi di uomini valorosi che, in vita, per il loro comportamento virtuoso, furono la gioia dei loro cari e che, con la loro morte, hanno conquistato la libertà per i vivi? È bene, a parer mio, procedere secondo natura e, come essa li generò nobili, così seguirla anche nelle lodi. essi nacquero nobili, poiché ebbero la vita da padri nobili; esaltiamo innanzi tutto la loro buona nascita e, in un secondo momento, il modo in cui furono allevati ed educati, per giungere infne a dimostrare come il compimento delle loro imprese sia stato conseguente e degno di queste premesse. Il primo fondamento della loro buona nascita sta nell’origine dei loro antenati, non straniera, che ha permesso ai discendenti di non essere, nel paese, dei meteci provenienti dal di fuori, ma autoctoni che di fatto hanno abitato e vissuto nella patria di origine» (237 a-b; trad. di M.t. liminta, in Reale 2008). segue l’elogio dell’attica come terra madre. Il termine zw≥`on viene generalmente inteso, in questa linea e nella successiva, come ‘animale’; Chiron invece lo intende nel sen-

note 369-370

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so di ‘essere vivente’. In realtà, sembrerebbe di cogliere nelle due ricorrenze una valenza diversa: ‘esseri viventi’ nella prima, e ‘animale’ nella seconda. Differenziano la traduzione Gohlke (Tier e Geschöpf) e Rackham (animals e domestic animal). Più generalmente si può osservare che anche le piante, inserite nella scala naturae, sono considerate zonta (esseri viventi), ma non zoa (animali – su questo tema e sul relativo dibattito antico e moderno, vd. il trattato sulle Piante del C.A., in Ferrini 2012); a esse si riconoscono in ogni caso qualità diverse, che le contraddistinguono e le ordinano in una sorta di gerarchia: l’albero, per esempio, è visto come la pianta ‘perfetta’ rispetto ai frutici, suffrutici ed erbe; esso è al vertice della classifcazione botanica. D’altra parte, nell’ambito della fsiognomica, almeno di questa epoca, primeggia il confronto tra caratteristiche di uomini e di animali; rinvio qui brevemente al trattato sulla Fisiognomica del C.A. (vd. Ferrini 2007), all’inizio del primo e dell’ottavo libro delle Ricerche sugli animali di aristotele (vd. in particolare I 1, 487 a 28-488 b 28; VIII 1, 588 a 16-589 a 9). anche per un animale si possono utilizzare i termini eugenes e gennaios: essere un animale eugenes signifca provenire da una buona stirpe, da una nobile razza; essere gennaios signifca non aver degenerato dalla propria natura. Così anche del leone si può dire che è eugenes e gennaios; anzi il leone è l’animale che maggiormente possiede le qualità che contraddistinguono gli uomini dotati di qualità positive (Ricerche s. an. I 1, 488 b 18-20: eujgene;~ me;n gavr ejsti to; ejx ajgaqou` gevnou~, gennai`on de; to; mh; ejxistavmenon ejk th`~ auJtou` fuvsew~; cfr. Retorica I 9, 1367 b 29-31; II 15, 1390 b 18 s.: hJ d j eujgevneia ejntimovth~ progovnwn ejstivn; 1390 b 21-23: e[sti de; eujgene;~ me;n kata; th;n tou` gevnou~ ajrethvn, gennai`on de; kata; to; mh; ejxivstasqai th`~ fuvsew~). nel tempo, l’elogio si estende ad altre categorie, oltre agli uomini e agli dèi, quali animali e piante, ma anche oggetti ed entità inanimate, vd. Pernot 1993, pp. 131 e 133 s., e qui la nota successiva. 370 le linee 1440 b 26 toigarou`n - 29 ejpainevsomen sono state considerate interpolate, ed espunte da Fuhrmann. Chiron fa notare che la distinzione è invece sensata, e che un tardo interpolatore avrebbe semmai esteso la genealogia anche agli esseri inanimati (p. 91, ad loc.); vd. Pernot p. 131, n. 10 (e qui la nota 98).

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note al testo

Problematica è sembrata l’interpretazione del termine pathos, come oggetto di elogio; Cope ritiene che pathos signifchi qui probabilmente «a disposition or character, an ‘affection’ in a wide but peculiar sense: not, I think, here “emotion”. Buhle, indolem. It may be merely ‘a quality, property, or accident’» (1867, p. 450 s.). 371 Cfr. aristotele, Retorica I 9, 1367 b 30 s. (vd. le note 98; 368 e 369). Il ragionamento procede in modo circolare, basandosi sull’eikos, sull’evidenza e sulla necessaria deduzione da un assunto. 372 nella linea 1441 a 15 è stata indicata da alcuni editori e commentatori una lacuna per motivi sintattici (anacoluto) e di contenuto; altri intervengono emendando il testo in alcuni punti. Un nuovo tema è stato introdotto, ma qualcosa manca, relativamente o ad altre qualità che provengono dall’esterno, o alla trattazione riguardante le varie età, a cominciare dall’infanzia. Forster (1924) sospetta la lacuna e restituisce questo senso congetturale: «If the subject of your eulogy owes some distinction to good luck, , observing this one principle that you say what befts his various ages; and do not speak at too great lenght». Questa integrazione congetturale è omessa nella traduzione rivista; essa troverebbe un confronto con un passo della Retorica di aristotele (I 9, 1367 b 21-26), in cui si invita a presentare come dovuti a una proairesis gli avvenimenti fortuiti (vd. testo nelle note 104 e 368). Dopo la distinzione fra meriti intrinseci e meriti estrinseci, il retore passa ora a una distinzione di carattere cronologico: la prima fase della vita si collega ancora con i meriti estrinseci. Da qui forse l’invito a parlarne brevemente; si deve tener conto tuttavia anche della scarsa considerazione che la cultura antica ha avuto per l’infanzia, in quanto età dell’ ‘imperfezione’, del mancato raggiungimento di un telos. la correlazione fra carattere ed età è esaurientemente esposta da aristotele nella Retorica (II 12-14), prima di affrontare l’analisi dei beni che provengono all’uomo dalla tyche, e del loro rapporto con il carattere (II 15-17): la nascita fa parte di questi, insieme con la ricchezza e il potere.

note 371-379 373

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Come si è detto, l’invito alla brevità può avere diverse motivazioni. Cfr. Isocrate, Evagora 22; eschine, Contro Timarco 39: «Considerate, o cittadini d’atene, con quanta moderazione mi accingo a procedere nei riguardi di timarco. tralascio, infatti, di parlare di tutte le brutture che egli commise da fanciullo a danno del proprio corpo; tiriamoci una linea sopra, come è stato fatto per gli avvenimenti che si sono verifcati sotto i trenta o anteriormente all’arcontato di euclide o tutte le altre volte che ci sia stata una simile prescrizione. la mia accusa verterà, invece, su quanto egli ha commesso nell’età della ragione, nell’adolescenza, quando aveva ormai cognizione delle leggi dello stato: a questo vi prego di prestare viva attenzione» (trad. di P. leone, vd. la nota 384). nel passo del Menesseno di Platone, già ricordato (vd. la nota 369), l’educazione e l’allevamento (spesso visti in stretto parallelismo, in molti ambiti, vd. Ferrini 2012, pp. 57; 82 e passim) costituiscono argomenti distinti, nell’elogio, rispetto alla nascita e alle successive imprese: l’attica, la terra madre per eccellenza, produce il nutrimento adatto ai suoi fgli (frumento, orzo, ulivo) e introduce gli dèi come maestri (237 e-238 b). 374 Cfr. 1425 b 36 ss. 375 Il testo è controverso in parecchi punti; sembra tuttavia che questo tipo di distinzioni rientri nelle abitudini stilistiche dell’autore, vd. 1426 a 5-7. si può ritenere che si tratti di un tentativo di ancorarsi alla speculazione flosofca, fondata sulla nozione di causa. 376 Un’applicazione di questo metodo si ha per esempio nell’Evagora di Isocrate (33-39); cfr. Demostene, Contro Midia, sul pugno 143 ss.; eschine, Contro Ctesifonte 257 ss. 377 Cfr. 1426 b 2 s. 378 Cfr. Isocrate, Evagora 23. Il testo (l. 1441 b 2 s.) diverge nelle diverse edizioni; pevrati è un emendamento di Finckh (1849, p. 18; cfr. 1439 a 38 s.): Forster (1924) sospetta una corruzione più estesa, anche se il senso risulta suffcientemente chiaro. 379 Probabilmente l’ordine in cui si succedono le qualità enunciate rifette una gerarchia di valori. Cfr. Isocrate, Nicocle 29 s. (le aretai di maggiore valore, e di maggiore utilità sia all’individuo sia alla società, sono la sophrosyne e la dikaiosyne); 44 (certe qualità

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note al testo

emergono e sono apprezzabili maggiormente in determinate circostanze ed età). 380 Cfr. 1434 b 5 s. Demetrio, nell’introdurre la trattazione dello stile megaloprepes, afferma che esso «risiede in tre elementi: nel pensiero, nel lessico, in una confacente disposizione dei termini» (Lo stile 38). Gli aspetti puramente stilistici sono in genere trascurati dal nostro retore, ma acquisteranno in seguito una grande importanza, anche nell’elogio (vd. Pernot 1993, p. 335). 381 l’uso del verbo pragmatologei`n (cfr. 1438 b 20) ha suscitato delle perplessità (vd. la nota 326). alcuni editori (Bekker, spengel e Rackham) accolgono la variante pragmavtwn kakologou`nteı, che si legge nel codice n (Neapolitanus gr. 137), dopo la correzione; vd. anche spengel, p. 238. Chiron commenta che il suo impiego qui non è chiaro: se si tratta di preferire il racconto dei fatti all’invettiva in sé, secondo quanto si dice subito dopo, ci si attenderebbe gavr (p. 188). si può osservare che dev (1441 b 15) può assumerne il valore. Invece della lezione kathgoriva~ sono stati proposti dubitativamente gli emendamenti kakhgoriva~ (spengel, p. 238 s.) o ka­ kologiva~ (Fuhrmann, ad loc.); in realtà alcuni termini, anche se più propri del discorso giudiziario, possono essere utilizzati anche nel discorso celebrativo o denigratorio, e viceversa, come ci si può attendere, e come lo stesso spengel afferma. 382 Chiron, fondandosi sulla nozione di confronto insita nel verbo stocavzesqai, intende in modo diverso rispetto agli altri traduttori: «car les brocards visent l’apparence plutôt que l’être», pur ammettendo che si sarebbe dovuto dire più esplicitamente h] th`~ oujs iva~. Un lettore moderno può fare un collegamento con la storia della caricatura, e con le sue fnalità, e con la fsiognomica (vd. la nota seguente). Diverge anche l’interpretazione del termine oujs iva, inteso da alcuni come termine del linguaggio comune; altri invece vi colgono il signifcato che esso ha nel linguaggio flosofco. si è visto che anche altrove il retore sembra volersi rifare a metodi e a concetti della flosofa. Francesco Filelfo traduce: «nam huiusmodi quidem sales ad ideam vel substantiam referuntur, sermones vero sunt ingeniorum morumque veluti imagines»; Forster: «for scoffng

note 380-383

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is directed against outward appearance and circumstance, while statements about a man are the picture, as it were, of his habits and character»; Rackham: «since scoffs are aimed at men’s appearance or their possessions, but narratives mirror their characters and manners»; Gohlke: «Denn spot geht auf Gestalt und sein, bedeutungsvolle Worte sind wie ein Bild von Gesinnung und artung»; sánchez sanz: «se debe esto a que las mofas apuntan al aspecto de uno o a lo que uno es; en cambio, la palabras actúan como imágenes de su carácter y de su comportamiento»; Mirhady: «Ridicule takes aim at appearance or at wealth; reports are in a way refections of the character and personality». 383 la relazione stabilita tra skomma e idea, e tra logos, ethos e tropos è di grande interesse; altrettanto interessante è la compresenza dei termini ethos e tropos, che possono indicare entrambi il ‘carattere’, ma con connotazioni diverse: il primo indica ‘il modo abituale di essere’, il secondo ‘il modo di comportarsi’. a meno che essi non siano utilizzati come puri sinonimi, la loro compresenza rivela forse l’attenzione dedicata a questi temi nella cultura del tempo, in ambito etico e retorico, anche per impulso della fsiognomica. Pur nella brevità dell’affermazione, e nell’assenza di ogni chiarimento aggiuntivo, si colgono qui una consuetudine, rifessa in molti luoghi della letteratura greca, che consiste nel gioco dell’eikazein, e una più generale concezione secondo cui la parola e l’azione sono espressione del carattere. Da notare, ancora, l’uso del termine eikon, che indica non solo l’immagine, il rapporto di somiglianza tra due entità, ma anche il ritratto: in Grecia, il ritratto è essenzialmente rappresentazione dell’ethos, prima ancora che dell’aspetto fsico. È signifcativo inoltre il confronto con i passi della Riproduzione degli animali e della Retorica, in cui aristotele accenna, rispettivamente, a imitatori caricaturali e fsionomi, e a coniatori di motti di spirito. nel parlare di strani mostri, di cui si favoleggia, aristotele contrappone la realtà alla somiglianza (e[sti d j oujqe;n w|n levgousin, ajll j ejoikovta movnon), e commenta: «spesso i parodisti rassomigliano alcuni degli uomini non belli chi ad una capra spirante fuoco, chi ad un montone che sta dando cornate. e vi era un fsiognomo che riconduceva tutte le espressioni a quelle di due o tre animali, e spesso parlando giungeva a persuadere» (Riproduzio-

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note al testo

ne d. an. IV 3, 769 b 18-21 – trad. di D. lanza, torino 1996). nella Retorica, la nozione di skomma è introdotta insieme con quella di to kainon e di to paradoxon, esaminando l’uso di parole inattese, contraffatte o stravolte per scherzare o per ingannare: il loro effetto stilistico e la loro effcacia comunicativa sono valutati in base al criterio dell’evidenza e della ‘convenienza’ (III 11, 1412 a 26-b 4). Così anche per Demetrio, nelle battute «è implicita una sorta di spiritosa comparazione»: si tratta di un procedimento consentito; da evitare sono invece le battute che si confgurano come villanie (Lo stile 172; cfr. ateneo, I sofsti a banchetto IX 391 b: «anche agli assioli – skôpes – piace imitare e dal loro nome, cioè da skôpes, defniamo skóptein il contraffare e il prendere di mira le persone che si vogliono canzonare – skoptómenoi –, in quanto ci esercitiamo a comportarci come essi»). nell’ambito della trattazione dello stile glaphyros, si distingue fra to geloion e to euchari (163): la distinzione riguarda vari aspetti, tra i quali l’effetto che ne scaturisce: «la risata in un caso, l’elogio nell’altro» (168). Vd. nell’introduzione le note 108-110. 384 Cfr. 1445 b 16 s. l’invito, rivolto ad altri o a sé stessi, a moderare i toni e a rifettere sul linguaggio usato è ricorrente negli oratori (vd. per es. Demostene, Contro Midia, sul pugno 79; Per Ctesifonte, sulla corona 129), che pure spesso si lasciano andare a triviali invettive. eschine sottolinea che questa moderazione non è sempre possibile: «Chiuso il discorso sulle leggi, voglio ora esaminare, come mi sono proposto all’inizio di questa orazione, i costumi di timarco, perché possiate sapere quanto essi differiscano dalle vostre leggi. Vi prego, o cittadini di atene, di perdonarmi se, costretto a parlare di una condotta di vita per natura ignobile, ma ch’è, nondimeno, quella di timarco, sarò indotto a usare qualche espressione che somiglia alle sue azioni. In effetti, non sarebbe giusto da parte vostra censurare me se, nell’intento di informarvi, esporrò qualche situazione in termini espliciti, ma piuttosto l’imputato qui presente, giacché la sua condotta di vita è stata così turpe, che chi descrive le azioni da lui compiute, si trova nell’impossibilità di dire quel che vuole, senza dover fare ricorso a espressioni di quella specie. Cercherò tuttavia di evitarle il più possibile» (Contro Timarco 37 s. – la traduzione è qui e altrove di P. leone, in Marzi et alii, torino 1977).

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l’interpretazione del passo è controversa. «De peur de salir ton caractère», traduce Chiron, intendendo che si tratti dell’ethos tou legontos (vd. 1430 a 28 s.; 1446 a 14), e individuando qui «une autre amorce de la théorie de l’éthos» (p. 189, ad loc.). similmente intendono sánchez sanz («para no dejar una mala impresión de tu carácter») e Mirhady: «so that you do not create prejudice against (your own) character». Forster invece interpreta: «so as not to violate conventional feeling» (cfr. 1441 b 26 s.); Rackham traduce: «in order that you may not traduce his character», ma in nota osserva che forse si dovrebbe omettere la negazione [mh;]; il senso dell’intera frase sarebbe: «‘to discredit his character, do not openly specify his base actions but merely hint at them’». si potrebbe anche intendere: ‘per non svilire il carattere del tuo discorso’. Woerther, facendo riferimento a questo passo (1441 b 15-23), insiste sulla corrispondenza e sullo stretto legame tra «le caractère réel (h\qo~) de celui qui parle» e «l’image morale qui se dégage de son discours»; si anticiperebbe così il contenuto dell’ultimo capitolo dedicato alla preparazione morale dell’oratore, in cui si stabilisce «une analogie entre la vie morale et le discours» (2007, p. 93 s.). la parola è eikon del carattere, si è detto poco prima (1441 b 19 s.): tra essi ci deve essere corrispondenza, secondo un topos diffusissimo, ed entrambi hanno un ethos (vd. 1434 b 27 s.); l’ambiguità dell’espressione è in relazione alla pregnanza del termine ethos in questo contesto. 386 Ci si è chiesto se si tratti della metafora o dell’eufemismo. la metafora è stata, come noto, oggetto di rifessione da parte di aristotele: il suo signifcato epistemologico, ben evidente nell’analisi aristotelica, viene oggi pienamente accolto e confermato, in vari ambiti della ricerca. Dell’eufemismo (eujfhmismov~), come contributo alla potenza espressiva (deinovth~), parla Demetrio: esso rende «benevolo il malevolo – ta; duvsfhma eu[fhma – e sacro il sacrilego» (Lo stile 281). Il termine eu[fhmo~, tecnico in ambito religioso (‘che serba religioso silenzio’, e quindi ‘che evita parole di cattivo augurio’), indica ‘benevolo’, ‘di buon augurio’, ‘eufemistico’, e anche ‘allusivo’, nel contesto di Demetrio. Vd. lausberg 2002, pp. 104, par. 177, 1 (l’aptum sociale «bandisce dall’uso certi

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note al testo

verba propria – “tabu” – sostituendoli con tropi»; «la sostituzione di una parola proibita da un tabu si chiama “eufemismo”»); 240, par. 430, 2 b. l’esempio portato da Demetrio (l’aneddoto delle Vittorie d’oro) è lo stesso che leggiamo in Quintiliano: nel passo, non compare il nome specifco della fgura, ma si parla di schemata «con i quali si esprimono concetti spiacevoli in termini più attenuati». Quintiliano aggiunge che «dire una cosa diversa da quella che si vuole far intendere è un procedimento del tutto simile all’allegoria» (La formazione dell’oratore IX 2, 92). l’espressione aijnigmatwdw`~ eJrmhneuvein sembra in sé contraddittoria, se si intende il verbo in senso specifco come ‘spiegare’: qui il suo signifcato è ovviamente più generico. l’ainigma, come possibile fonte di oscurità, compromette la chiarezza del discorso, che resta, dal punto di vista aristotelico, l’obiettivo primario: nel creare una metafora bisogna evitare di farne scaturire un enigma, e contemperare scarto linguistico e chiarezza (Poetica 22, 1458 a 23-34). 387 Cfr. 1434 a 17 ss. 388 Cfr. Platone, Simposio 194 a-c: diverse sono le disposizioni, le reazioni e gli atteggiamenti di fronte a una folla di persone, e a una folla indistinta, oppure di fronte a un pubblico ristretto, e a un pubblico scelto e intelligente. 389 Problematico è il fatto che nella tradizione manoscritta si menziona solo il discorso di accusa e non quello di difesa; inoltre il discorso di esame, qui associato al genere giudiziario, è trattato separatamente più avanti (1445 a 30 ss.; cfr. 1421 b 10), anche se il legame fra essi sembra confermato (vd. 1445 a 31 s.; cfr. 1428 a 4-7). spengel integra (vd. pp. 72 e 240); Fuhrmann . Chiron si chiede se non sarebbe invece preferibile sostituire to; ejxetastikovn con to; ajpologikovn (p. 189, ad loc.). l’inclusione del discorso d’esame nel genere giudiziario è d’altra parte ben chiara nell’eco che se ne ha in Quintiliano: «anassimene volle che parti generali fossero la giudiziale e l’assembleare; sette, invece, le specie: esortazione, dissuasione, elogio, biasimo, accusa, difesa, indagine (quella che chiama ejxe­ tastikovn); di queste, le prime due appartengono al genere deliberativo, le due seguenti al dimostrativo, le ultime tre al giudiziale» (La formazione dell’oratore III 4, 9).

note 387-396 390

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si vuole forse distinguere, con i due verbi suntiqevnai e tavttein, il dare forma all’insieme e l’organizzare le parti. 391 Cfr. 1436 a 33 ss., e in particolare 1436 a 40-b 15, per le due funzioni qui richiamate: presentazione della materia e appello all’uditorio. 392 Cfr. 1442 b 25 s. 393 Il testo delle linee 1441 b 36-1442 a 5 risulta molto incerto e alterato: molteplici sono gli interventi. Furhmann e Chiron lo inseriscono fra cruces. Il senso generale è tuttavia intellegibile; cfr. 1436 b 16-1437 b 32. 394 si tratta di argomenti di largo impiego in ogni tipo di oratoria, e svolti in forme molto varie; cfr. per es. tucidide, La guerra del Peloponneso II 60; VI 92; Platone, Apologia di Socrate 24 b-c; Isocrate, Antidosi 131 s.; licurgo, Contro Leocrate 3; eschine, Contro Ctesifonte 168. sull’elogio di sé stessi, nella tradizione retorica, vd. Pernot 1998. 395 Cfr. per es. antifonte, Sull’omicidio di Erode 4; andocide, Sui misteri 8 s.; lisia, Difesa per un anonimo da un’accusa di corruzione 22; Contro Simone 2; Isocrate, Antidosi 170; eschine, Sulla corrotta ambasceria 24; Contro Ctesifonte 8; [Cornifcio] Retorica a Erennio I 8. 396 Precedentemente (1436 b 34-36) è stato suggerito di esibire un atteggiamento di modestia (vd. la nota 288); qui si consiglia di sottolineare gli svantaggi della propria situazione, in confronto a quella degli avversari. Il topos è parodiato da Cratino (Damigiana, fr. 197 K.-a.); vd. anche aristofane, Acarnesi 497-500; antifonte, Sull’omicidio di Erode 1-7; 75; andocide, Sui misteri 6 s.; lisia, Contro Eratostene 3; Contro Filone 3 s.; Platone, Apologia di Socrate 17 a-18 a; Isocrate, Antidosi 25 s.; Demostene, Per Ctesifonte, sulla corona 3 s.: «Ho molti svantaggi rispetto a eschine in questo processo: due, ateniesi, davvero rilevanti. Il primo è la posta in gioco: perché non è la stessa cosa ora, per me, perdere il vostro favore, e, per costui, non vincere la causa: per me ... – ma all’inizio del mio discorso non voglio dire nulla di poco piacevole – mentre costui mi accusa senza rischiare nulla di importante. Il secondo è la naturale inclinazione di tutti ad ascoltare con un certo compiacimento gli insulti e le accuse e a provare invece fastidio per

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chi tesse le proprie lodi: delle due parti, dunque, a eschine tocca quella che procura piacere a chi ascolta, a me resta quella, per così dire, che urta tutti. e se, per evitare questo, ometto di parlare delle mie azioni, sembreà che io non possa rispondere nel merito a ciò che mi viene contestato né dimostrare per quali motivi credo di meritare un segno di onore; se, al contrario, passo all’esame dei miei atti e della mia politica, sarò costretto a parlare di me a ogni passo. Cercherò, dunque, di farlo con tutta la misura possibile: ma di ciò che sarà necessario dire per la materia stessa della causa, è giusto che porti la responsabilità colui che ha intentato un simile processo» (trad. di a. natalicchio, torino 2000). 397 Cfr. 1427 b 40; 1440 a 10; 1442 b 35. In questa formula, le rese del termine ajkovlouqo~ variano; Forster traduce: «and the like»; Rackham: «and connected matters»; sánchez sanz: «y lo demás»; Chiron: «et ce qui s’ensuit»; Mirhady: «and things that follow from them». Ci si riferisce, come altrove, ai predicati, agli argomenti di base del discorso: talora se ne ricordano solo alcuni (vd. 1436 b 30 s.), e in qualche caso si rinvia agli altri, con questa formula. 398 Il testo della linea 1442 a 22 è controverso (vd. anche la nota 393). Gli interventi degli editori sono diversi; Chiron segnala una lacuna dopo to;n della linea 22, e ritiene che bisognerebbe forse scrivere: («et portent sur le discours»). Fuhrmann integra: ejk tou` paroicomevnou crovnou aiJ diabolai; w\s in peri; to;n lovgon ktl. Cfr. spengel, p. 247. si può osservare in generale che molti interventi di editori e commentatori sono metodicamente molto discutibili, dato il carattere poco sistematico del trattato. 399 I casi prospettati qui, ricorrendo alle nozioni espresse da termini generici come uJpenantivo~ e oJmologouvmeno~, sono in parte gli stessi illustrati nella Retorica di aristotele, a proposito delle argomentazioni eristiche e della tecnica di Corace, nella sezione dedicata ai topoi degli entimemi apparenti (II 24). «Come accade nelle argomentazioni eristiche, un sillogismo apparente nasce dal confondere ciò che è assoluto e ciò che non è assoluto ma solo un caso particolare [...]; così anche nella retorica un entimema apparente si basa su ciò che non è verosimile in senso assoluto,

note 397-399

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ma è verosimile in un caso particolare [...]. accade infatti anche ciò che è contrario al verosimile, e di conseguenza è verosimile anche ciò che è contrario al verosimile. e se è così, l’inverosimile è verosimile. Ma non in senso assoluto: come nel caso delle dispute eristiche, il fatto di non aggiungere la circostanza, il rapporto e il modo crea l’inganno, e così succede anche qui, perché il verosimile non è assoluto ma solo particolare. la tecnica di Corace è tratta da questo ‘luogo’. “se un uomo non è verosimilmente sospetto per l’accusa che gli è rivolta – ad esempio se un uomo debole è accusato di violenza – dirà che non è verosimile; se è verosimilmente sospetto – ad esempio se è robusto – dirà che non è verosimile, proprio perché sarebbe sembrato verosimile che apparisse colpevole”. lo stesso vale per gli altri casi, perché è inevitabile che un uomo si presti o non si presti a essere verosimilmente sospetto per un’accusa: entrambe le possibilità appaiono verosimili, ma una è realmente verosimile, l’altra lo è non in assoluto, ma nel modo che si è detto. ed è proprio questo che signifca “rendere più forte l’argomento più debole” [Protagora 80 a 21, II p. 260 D.-K.; cfr. aristofane, Nuvole 889-1104; Platone, Apologia di Socrate 18 b]. Per questo gli uomini si sdegnarono giustamente per la dichiarazione di Protagora: si tratta infatti di una menzogna e di un verosimile non reale ma apparente e che non si trova in nessuna tecnica se non nella retorica e nell’eristica» (II 24, 1402 a 3-28). sulla nozione più tecnica di eikos è incentrata anche l’argomentazione di socrate nel Fedro di Platone, in cui si ripropone, nell’ambito dell’esame delle ‘ragioni del lupo’ (vd. la nota 323), la questione dei nessi strutturali fra il verosimile, la verità e il persuasivo (vd. Reale 1998, ad loc.). «Certamente tu hai studiato a fondo tisia. allora anche questo tisia ci dica, se intende dire che il verisimile sia qualcosa di diverso rispetto a ciò che sembra alla moltitudine. [...] e avendo fatto questa scoperta, come sembra, di sapienza e di arte insieme, scrisse che, se un uomo debole ma coraggioso, che ha malmenato un uomo forte ma pusillanime e gli ha portato via il mantello o qualche altra cosa, viene citato in tribunale, bisogna che né l’uno né l’altro dicano il vero. Ma il pusillanime deve dire di non essere stato malmenato da un uomo che era solo ma coraggioso, e questi deve confutarlo, dicendo che erano loro due soli, e servirsi dell’argomento: “Come potevo io, debole come

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note al testo

sono, malmenare uno forte come lui?”. e quello non ammetterà la propria viltà, ma, cercando di dire un’altra bugia, offrirà subito all’avversario la possibilità di un’altra confutazione» (273 a-c). 400 le interpretazioni del passo divergono, anche in relazione al diverso modo di intendere i due pronomi come anaforici o come rifessivi (1442 a 35): la maggior parte degli editori scrive peri; aujtw`n e auJtoi`ı, Chiron scrive peri; auJtw`n e aujtoi`ı, Mirhady peri; auJtw`n e auJtoi`ı. Come noto, l’uso del rifessivo in greco dipende dal punto di vista di chi scrive: in una stessa frase possono trovarsi un rifessivo e un pronome personale riferiti alla stessa persona. Chiron traduce: «en somme, ceux qu’entoure une réputation cohérente avec elles paraîtront en accord avec les charges qui pèsent sur eux» (cfr. Gohlke: «Überhaupt wird man allen, deren Ruf den anschuldigungen entspricht, die anklagepunkte zutrauen»). nella nota (p. 192) spiega che l’espressione è tautologica solo apparentemente, perché la doxa introduce un elemento nuovo, un criterio per valutare l’accordo tra l’uomo e l’accusa mossa contro di lui. In realtà non si tratta di un elemento nuovo, perché esso è stato già introdotto nell’esempio del ladro (1442 a 33 s.). si può anche osservare che se aujtoi`ı è anaforico di ejgklhvmasi, ci si aspetterebbe una loro diversa posizione all’interno della frase. Chiron sintetizzando il senso delle altre interpretazioni, che si basano su auJtoi`ı, si chiede come il giudice possa avere accesso alla ‘vera’ personalità dell’accusato. Ma non è in primo piano la questione della valutazione della corrispondenza fra opinione e carattere, quanto quella tra la personalità di un uomo e l’accusa che gli viene rivolta. Francesco Filelfo traduce: «ut autem omnia uno complectamur verbo, hi quorum moribus similis est hominum opinio, videbuntur criminibus esse obnoxii»; Forster: «In a word, there will seem to be consistency with the charge in the case of persons who cause an opinion to be formed about them which corresponds with their character»; Rackham: «and in general, the charges will be thought to be consistent with the litigants if their reputations tally with their actual personalities»; sánchez sanz: «en general, parecerá acorde con los cargos todo aquel que tenga una fama que cuadre con su propia persona»»; Mirhady: «In general, those having reputations that are like their actual personalities will appear to match the charges».

note 400-402 401

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Cfr. per es. lisia, Contro Diogitone 1; Contro Simone 3; Iperide, Per Eussenippo 1-3. 402 l’interpretazione del passo non è unanime: il sostantivo tou;~ krita;~ (1442 b 4) è inteso da alcuni come soggetto di ejpi­ plhvxein, da altri come oggetto (‘anticipa i giudici con quegli argomenti con cui tu sei convinto che essi vorranno colpirti, intimidirti, e passa all’attacco’; ‘anticipa quegli argomenti con cui tu ritieni possibile che i tuoi avversari vorranno far presa sui giudici, e passa all’attacco’); invece di aujtou;~ kai; della tradizione (1442 b 5), si è congetturato kai; aujto;~ (Zwierlein 1969, p. 83; Kassel 1967, p. 126; ma cfr. 1437 b 38, per la costruzione del verbo prokatalam­ bavnein): la congettura è accolta da Fuhrmann. Chiron intende: «premièrement, pour les points que les juges, d’après toi, vont mettre en cause, anticipe sur leur réaction et mets-les en cause toi-même». Francesco Filelfo traduce: «alterum quidem ut quibus rebus correpturos iudices adversarios putes, his eos praeveniens corripias»; Barthélemy saint-Hilaire: «s’il y a des considérations par lesquelles vous supposez qu’on essayera de frapper les juges, il faut s’emparer soi-même de ces considérations et en émouvoir l’esprit des juges à son proft»; Forster: «First, when you think your opponents are likely to impress the jury, anticipate them and make the impression yourself»; Rackham: «the frst rule is this – whatever arguments you think your adversaries will use to make an impression on the judges, anticipate them and make the impression yourself»; sánchez sanz: «uno consiste en sorprender a los jueces anticipándoles aquello con que pienses que el oponente va a sorprenderlos»; Mirhady: «First, whatever you think may have an impact on the judges, anticipate your opponents and make the impact». Gohlke (che traduce: «der eine ist: womit die Richter vermutlich einschüchtern werden, das nehme man vorweg und schüchtere selber damit ein») intende stoicei`a come Gesichtspunkte, e nel commento (pp. 107 e 110) richiama l’attenzione sull’uso di tovpo~ (1434 a 35 – dove tuttavia una parte della tradizione ha trovpou e un’altra tovpou; 1443 b 30) e di stoicei`on rinviando al passo della Retorica di aristotele, in cui le due nozioni sono accostate: «per ‘elemento’ e ‘luogo’ intendo la stessa cosa, poiché elemento e ‘luogo’ sono qualcosa che include molti entimemi» (II 26, 1403 a 16 s.).

580 403

note al testo

Cfr. per es. lisia, Contro Eratostene 3; Isocrate, Antidosi 26 s.; Demostene, Per Ctesifonte, sulla corona 4. 404 Cfr. 1437 a 39 ss.; 1442 a 15 ss. Chiron fa notare che la pratica oratoria è più diversifcata; per un confronto, per altri motivi associati o per atteggiamenti ambivalenti nei confronti dei giovani oratori, e dell’età, vd. per es. lisia, Contro Eratostene 1-3; Contro Filone 2-4. 405 Cfr. per es. lisia, Per Callia 1. emerge in questo passo l’attività del synegoros (synegorein), fgura di rilievo, insieme con il logographos, nel complesso sistema ‘accusatorio’ («cioè basato sulle accuse mosse da privati») ateniese, in cui tra l’altro «era vietato dalla legge pagare un altro cittadino che comparisse come proprio avvocato in tribunale»: «la legge richiedeva alle parti in causa di presentare da sé le loro ragioni, ma esse potevano dividere il loro tempo con uno o più synegoroi» (Hansen 2003, pp. 284; 287; 296). «si poteva, se la giuria lo permetteva, dividere con un amico o un parente il tempo a propria disposizione per parlare, e nei processi politici era quasi normale che sia l’accusa sia la difesa fossero suddivise fra parecchi oratori di ciascun gruppo. Un avvocato del genere era chiamato synegoros (“compagno di parola”). Un ulteriore modo di ottenere un aiuto qualifcato era di rivolgersi a chi scriveva discorsi per professione, spiegargli il caso e fargli scrivere un’orazione che sarebbe stata poi ripetuta e recitata in tribunale: durante il quarto secolo la composizione di discorsi divenne un’attività professionale in cui si specializzarono sia meteci sia cittadini (logographoi). Il logografo poteva assistere il suo cliente anche nella preparazione del processo, così che egli era il parallelo ateniese più vicino al moderno avvocato. naturalmente gli spettava un compenso; perciò la logografa rappresentava un’infranzione del fondamentale principio ateniese che mirava a proteggere la democrazia dalla professionalità facendo intentare a ogni cittadino la sua causa: la legge vietava di pagare i synegoroi, ma non di pagare i logographoi» (Id., p. 287 s.; vd. anche p. 494, s. v. synegoros: «avvocato. amico o – supposto – parente di un accusatore o di un accusato che, con l’approvazione dei giurati, agiva come consigliere e condivideva il tempo assegnato per parlare con la parte che appoggiava»). Vd. anche Biscardi 1982, p. 269; e qui la nota 433.

note 403-407 406

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Cfr. per es. lisia, Contro Diogitone 1; Isocrate, Antidosi 27 s.; eschine, Contro Timarco 1-3. 407 l’interpretazione dei termini i[dio~ e koinov~ in questo passo (1442 b 25 s.; cfr. 1442 a 4 s.) diverge: alcuni intendono, rispettivamente, ‘privato’, ‘personale’, o ‘particolare’, ‘specifco’, e ‘pubblico’ ‘riguardante la vita pubblica’, o ‘comune’ a tutte le specie di discorso. Diverso è anche il modo di intendere ei\do~, che ricorre due volte nella linea 27: con lo stesso e più usuale (in questo trattato) signifcato di ‘specie’ di discorso, oppure con il signifcato, nella prima ricorrenza, di ‘forma’, ‘maniera di fare’, ‘procedimento’, come in 1433 b 11; si prospettano così fondamentalmente due linee intrepretative: ‘le prevenzioni comuni a tutte le specie le rintuzzeremo come indicato a proposito delle specie precedenti’; oppure: ‘per quanto riguarda le prevenzioni di carattere pubblico, ci serviremo di tutti i procedimenti descritti nel trattare delle specie precedenti’. Queste le singole interpretazioni. Francesco Filelfo: «privatas igitur calunnias apud iudices ita diluemus: communes vero omnibus speciebus solvere poterimus, quemadmodum in superioribus dictum est»; Barthélemy saint-Hilaire: «Pour tous les griefs particuliers, devant les tribunaux, voilà les moyens que nous aurons à employer; et quant aux griefs généraux et communs à toutes les formes de discussion, nous les repousserons par les règles que nous avons antérieurement posées»; Forster: «this is how we shall get rid of personal prejudices in the law courts; those which concern a man’s public life we shall refute by the various methods prescribed for the kinds of oratory already dealt with»; Rackham: «this is how we shall dissipate private prejudices in the case of the judges [si accoglie la variante dikastw`n], public ones we shall remove by all the methods that have been described, as has been said in the case of the previous species of oratory»; Gohlke: «so also wird man den besonderen Verunglimpfungen vor Gericht entgegentreten, die öffentlichen wird man auf alle arten bekämpfen, die bei den früheren Redegattungen geschildert sind»; sánchez sanz: «los prejuicios que se dan de manera particular en los tribunales los desharemos de este modo; en cuanto a los que son comunes a todas las especies, lo haremos como queda dicho en las especies anteriores»; Chiron: «Voilà donc comment nous ruinerons, devant les tri-

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note al testo

bunaux, les préventions qui leur sont particulières. Pour ce qui est des préventions communes à toutes les espèces, nous procéderons de la manière décrite à propos des espèces précédentes»; Mirhady: «We shall refute private prejudices before the courts in this way and public ones with all the forms of argument that have been discussed with regard to the earlier species». l’autore ha distinto fra prevenzione diretta alla persona dell’oratore, o al fatto, o al discorso (1436 b 37-39; cfr. 1442 a 3-5). 408 Vd. 1438 b 14 ss. l’inserimento della narrazione in sezioni diverse trova conferma nella pratica oratoria, vd. per es. lisia, Per l’uccisione di Eratostene 6-26 (il racconto dei fatti è a parte, dopo l’esordio). 409 la lettura di un passo del Fedro di Platone ci fa intravedere l’ordine consigliato nei manuali di retorica, dopo l’esordio, e illustrato da socrate: «– al secondo posto viene la ‘narrazione’, e le relative ‘testimonianze’. In terzo luogo vengono gli ‘indizi’ e in quarto luogo la ‘verisimiglianza’. Infne, vengono ‘conferma’ e ‘riconferma’, come mi pare che dica quell’eccellente dedalo di discorsi che è il Bizantino. – ti riferisci al grande teodoro? – e come no? e poi ci sono ‘confutazione’ e ‘controconfutazione’, come vanno fatte nell’accusa e nella difesa» (266 e-267 a). 410 sul termine dikaiologiva e sul suo signifcato nella seconda parte di questo trattato (‘qualifcazione del fatto’, qualifcazione o argomentazione giuridica), vd. la nota 317. Cfr. 1438 a 25; e più avanti 1443 b 13. 411 Cfr. 1432 b 11 ss.; 1439 b 3 ss. 412 alla linea 10, mevllwsin è congettura di spengel : eja;n de; oJmologou`nte~ fw`s in (vel mevllwsin) e[nnoma kai; divkaia ajpo­ faivnein, tou;~ gegrammevnou~ novmou~, ou}~ hJmei`~ parecovmeqa ktl (vd. pp. 259 s.; 76); la tradizione ha w\s in. Fuhrmann inserisce fra cruces le linee 1443 a 10 w\s in – 12 novmou~, nella convinzione che il passo sia più ampiamente corrotto, e lacunoso. l’integrazione è di Chiron. 413 spengel fa notare che una discussione sulla legittimità delle leggi scritte è rara nella pratica oratoria (p. 260 s.); vd. anche Carey 1996. essa è invece affrontata da aristotele, nella Retorica, dopo aver introdotto le cinque pisteis non tecniche (leggi, testimonian-

note 408-414

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ze, patti, confessioni ottenute con la tortura, giuramenti), ricordando anche un celebre esempio letterario, l’Antigone di sofocle. «Parliamo innanzitutto delle leggi e del loro uso per esortare o dissuadere, per accusare o per difendere. È evidente che, qualora la legge scritta risulti contraria alla causa, ci si deve servire della legge comune e dei criteri di equità in quanto più giusti. e si deve sostenere che servirsi ‘della miglior facoltà di giudizio’ – gnwvmh≥ th≥` ajrivsth≥ – vuol dir questo, attenersi non totalmente alle leggi scritte; che l’equità resta sempre uguale a sé stessa e non muta mai, e neppure la legge comune, in quanto è conforme alla natura, mentre le leggi scritte lo fanno spesso: ed è questa la ragione per cui sono stati scritti i versi che si trovano nell’Antigone di sofocle, in cui essa si difende dicendo che la sepoltura che ha dato va contro la legge di Creonte, ma non contro la legge non scritta [... sono citati i versi 456 e 458]. e si dovrà dire anche che ciò che è davvero giusto è reale e vantaggioso, ma non lo è ciò che sembra giusto, e di conseguenza quella scritta non è legge, in quanto della legge non svolge la funzione; e che il giudice è come chi deve saggiare l’argento, e deve distinguere la giustizia adulterata da quella pura; e inoltre che l’uomo migliore è quello che si serve e si attiene alle leggi non scritte piuttosto che a quelle scritte. se la legge è in qualche punto contraria a un’altra legge che gode di approvazione generale o è in contraddizione con sé stessa [...], e se è ambigua, ed è pertanto possibile rigirarla e vedere se si adatti meglio nel senso dell’utile o del giusto, allora ci si deve avvalere di questa possibilità. se le condizioni in base alle quali fu stabilita la legge non sussistono più, mentre sussiste la legge, si deve cercare di rendere palese questa situazione e di combattere la legge per questa via» (I 15, 1375 a 25-b 15). Il richiamo a una giustizia e a un’utilità più generalmente valide e condivise, anche nella Retorica ad Alessandro, è di grande interesse, perché dimostra l’eco, pur se lontana, di questioni molto dibattute in ambito flosofco: il punto di vista essenzialmente retorico, cioè il vantaggio che si può trarre da un’argomentazione di questo tipo, non ne diminuisce l’importanza, anche se ne ridimensiona la portata teorica. 414 Come al solito, a ogni argomentazione utile se ne affanca un’altra, altrettanto utile e persuasiva, quando la prima non sia so-

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note al testo

stenibile, in cui si ribalta completamente ciò che è stato affermato precedentemente. l’impossibilità di sostenere il proprio assunto, in questo caso, è dovuta al fatto che non c’è contrasto fra le leggi citate, o all’opposizione non fra leggi, ma fra due diversi modi di interpretare una stessa legge: alla lettera, o secondo lo spirito e le intenzioni che la animano. Dibattiti simili si possono leggere, per es., in lisia, Contro Teomnesto (I) 6 s.; Contro Alcibiade (I) 5 s. nella Retorica di aristotele, alle rifessioni e ai suggerimenti riguardanti il caso di una legge scritta che risulti ‘contraria’ alla causa, seguono quelli riguardanti il caso inverso. «se invece la legge scritta è adatta alla causa, si dovrà dire che quel servirsi ‘della miglior facoltà di giudizio’ non esiste perché vengano pronunciate sentenze contrarie alla legge, ma perché il giudice non sia accusato di spergiuro, se non comprende cosa dice la legge; che nessuno sceglie ciò che è bene in senso assoluto, ma ciò che è bene per lui; che non c’è nessuna differenza tra il non avere una legge e il non servirsene; che nelle altre professioni non c’è alcun vantaggio nel pretendere di ‘saperne più del medico’, perché un errore del medico non è tanto dannoso quanto l’abitudine a disubbidire a chi comanda; e che cercare di saperne più delle leggi è esattamente quello che viene proibito nelle leggi più stimate» (I 15, 1375 b 16-25). 415 Fuhrmann inserisce fra cruces le linee 1443 a 20 to; – 21 novmoi~; [to;] è espunto da Rackham, che scrive: para; mocqhrou;~ dokou`nta~ ei\nai novmou~ ktl. se si interpreta il nesso preposizionale para; mocqhroi`~ nel senso di ‘in contrasto con cattive leggi’, l’argomentazione non sembrerebbe appropriata a un discorso di accusa. Chiron propone di interpretare: «sous le règne de lois qui semblent être perverses». si torna alla possibilità di mettere in discussione le leggi, con argomenti simili a quelli esposti in precedenza, ma questa volta si tratta di leggi riconosciute da tutti come inique. Il fatto che la Retorica ad Alessandro abbia maggiormente presente, rispetto alla Retorica di aristotele, la pratica oratoria, fa sì che i casi prospettati siano più numerosi, sebbene essi rientrino nei criteri di valutazione enunciati da aristotele. 416 sembra che la nozione espressa da to; koino;n eu\ poiei`n (1443 a 27), l’agire in vista del bene comune, abbia la stessa fun-

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zione che il nesso gnwvmh≥ th≥` ajrivsth≥ ha nella Retorica di aristotele (I 15, 1375 a 29 s.; b 16 s.; cfr. Etica Nicomachea VIII 11, 1160 a 13 s.; le note 186 e 413, e nell’introduzione le note 139 e 232): si tratta di un criterio di valutazione che sopravanza ogni altro. Per il nesso aristotelico, cfr. Demostene, Contro Beoto (I) 40; Polluce, Onomastico VIII 122. Cfr. tucidide, La guerra del Peloponneso VI 14 («e tu, o pritano, questi punti che ora ho esposto, se ritieni che sia tuo dovere curare gli interessi della città, e vuoi dimostrarti un buon cittadino, mettili ai voti, e proponi agli ateniesi di riaprire la discussione. se hai paura a proporre una nuova votazione, fallo pensando che, alla presenza di così tanti testimoni, non potresti certo subire l’accusa di violare la legalità, mentre per converso, se la città ha mal deliberato, tu ne saresti il medico; e che allora si ricopre bene una carica, quando si arrecano più benefci possibile alla patria, oppure quando, per quanto attiene alla propria volontà, non le si arreca alcun danno»); lisia, Contro Alcibiade (I) 4 («Poiché questa è la prima volta, giudici, da quando abbiamo concluso la pace, che giudicate su un caso come questo, è naturale che voi siate non soltanto giudici ma anche al tempo stesso legislatori, nella consapevolezza che in base al vostro giudizio di oggi si regolerà in futuro la città per questi casi. ora, mi sembra che il dovere di un buon cittadino e di un giudice onesto sia di dare alle leggi l’interpretazione che possa essere più vantaggiosa per la città nel tempo a venire»); licurgo, Contro Leocrate 9 («Che non sia stata fssata una pena per siffatte colpe, è avvenuto, o signori, non già per negligenza dei legislatori d’allora, ma perché non era mai accaduto nei tempi trascorsi alcunché di simile né si pensava che potesse accadere per l’avvenire. appunto per questo, o signori, è necessario che nella causa presente voi siate non solo giudici, ma anche legislatori. Per tutte quelle colpe infatti che una legge contempla, è facile, prendendo questa come norma, punire i trasgressori; ma quando si tratta di colpe che la legge non ha dichiarato con defnizione particolare, avendole tutte raccolte sotto una sola denominazione, se uno ha commesso colpe anche più gravi ed è in pari tempo reo di tutte quelle contemplate dalla legge, è necessario che il vostro giudizio rimanga di esempio ai venturi» – trad. di e. Malcovati, torino 1977).

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note al testo

Il testo delle linee 1443 a 31-37 è particolarmente problematico: si sospetta una corruzione in parecchi punti, e gli editori adottano soluzioni diverse. Divergono anche l’interpretazione di oJ ejnantivo~ (l. 33), l’avversario, oppure la legge contraria: oJ ejnantivoı (sc. novmo~) spiega Chiron; e del pronome anaforico aujtoi`~ (l. 34), riferito ai giudici o agli avversari. Forster, Rackham e Mirhady intendono che il soggetto di uJpolambavnwsin (l. 31) siano i giudici: così anche Francesco Filelfo («de ambiguis vero legibus si iudices ita senserint [...])». Forster: «When there is ambiguity, if the jury understand a law in a sense which favours you, you must give it that interpretation; but if they give it the construction which your opponent puts upon it, you must tell them that this is not what the lawgiver meant but that he interpreted it as you do, and that it is to the advantage of the jury to put the construction which you do upon it. If you cannot twist the law round, point out that it cannot mean anything but what you say it means» (nella l. 36 si legge: levgein duvnatai oJ novmo~ – vd. infra il testo di Fuhrmann); Rackham: «about laws that are ambiguous, if the jury understand them in the sense favourable to you, you must indicate that interpretation; if they accept your opponent’s view, you must explain that the legislator had not that meaning in mind but the one you put forward, and that for the law to have your meaning is to their advantage. If you cannot turn the law the other way round, show that it cannot possibly mean anything else than what you say» (nella l. 36 si legge: levgein duvnatai oJ novmo~); Mirhady: «Concerning ambiguous laws, if the judges take them in a way that benefts you, you must illustrate this. But if they take them as your opponent says, you must teach that the legislator did not intend this but what you say, and that it will beneft them if the law means this. If you are unable to turn around the law to its opposite, show that the opposing law cannot mean anything other than what you say». Gohlke propone un’integrazione («Bei den strittigen muß man, wenn eine auffassung einem selber günstig ist, diese erweisen. Gilt die gegnerische auffassung, so muß man klarmachen, daß nicht dies der Gesetzgeber im sinne hatte, , was man selber meint, und es ihnen auch Vorteil brächte, wenn man das Gesetz so auffaßte. Ist man nicht imstande, es ins Gegenteil zu verkehren, so beweise man, daß das entge-

nota 417

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genstehende Gesetz nichts anderes meinen kann, als man selber meint»), ma nella nota (p. 110, n. 42) ammette che non è ben chiaro che cosa si debba intendere per ejnantivo~ novmo~ alla l. 36, e che il testo non è sano. Ritiene inoltre che con il pronome suv (ll. 34 e 37) sia da intendere «der leser [...], nicht etwa der Gegner». Chiron traduce: «mais en cas de lois ambiguës, si l’interprétation qui en est faite par les adversaires est conforme à ton intérêt, il faut le montrer; s’ils l’interprètent en sens contraire, il faut expliquer que le sens auquel songeait le législateur n’était pas celui-là, celui que tu dis, et qu’il est dans l’intérêt des adversaires que la loi ait le sens qu’ils lui donnent. si tu n’as pas la possibilité d’opérer ce renversement, montre que la loi contraire ne peut signifer autre chose que ce que toi tu dis». Discutibile è la sua interpretazione oJ ejnantivoı (sc. novmoı), alla linea 33; diversamente intende la maggior parte dei traduttori (vd. anche sánchez sanz: «pero si se interpretan como dice el oponente»; Francesco Filelfo: «quodsi iudex dicat quemadmodum adversarii [...]. verum si nullo modo possis in contrarium sententiam commutare, ostende aliud nihil posse contrariam legem dicere atque ipse dicas»). la linea 36 sembrerebbe confermarla, ma il testo non è sicuro, e si sospetta una corruzione, di ejnantivo~ o di novmo~. spengel ritiene che sia forse da espungere novmoı: «offendit oJ ejnantivo~ novmoı ubi ajmfibovlou~ novmou~ examinat, sed noster posteriorum discrimina qui multa de hac re docent ignorat. neque sensum video aptum; an novmoı delendum est?» (p. 262 s.). Fuhrmann espunge oJ ejnantivo~ e integra duvnatai novmoı. Reeve ripercorre brevemente i principali emendamenti proposti in questo passo, non risolutivi o addirittura in alcuni casi fuorvianti (1970, p. 241). Chiron tenta di ricostruire il senso generale, distinguendo tre casi: «accord avec l’adversaire sur l’interprétation de la loi, désaccord avec possibilité de renversement, désaccord sans possibilité de renversement»; bisogna allora «montrer que, même prise au sens que lui donne l’adversaire, la loi le condamne» (p. 194 s., ad loc.). nella nota 413 si è fatto riferimento al passo della Retorica di aristotele, in cui si affronta il problema delle leggi in rapporto alla causa che si sostiene. Per un confronto è qui particolarmente

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note al testo

signifcativo l’accenno alla possibilità che la legge sia «in qualche punto contraria a un’altra legge che gode di approvazione generale – ejnantivo~ novmw≥ eujdokimou`nti» o sia «in contraddizione con sé stessa (a esempio, talvolta una legge stabilisce che tutti i contratti siano validi, mentre un’altra proibisce di fare contratti contrari alla legge)»; inoltre, «se è ambigua, ed è pertanto possibile rigirarla – strevfein – e vedere se si adatti meglio nel senso dell’utile o del giusto, allora ci si deve avvalere di questa possibilità» (I 15, 1375 b 8-13). nella Retorica ad Alessandro si sovrappongono in modo confuso procedimenti noti, e probabilmente correnti anche nella pratica oratoria, volti a portare la legge dalla propria parte: in questo consiste essenzialmente l’interpretazione della legge, da non confondere con una valutazione giuridica da parte di esperti, come accadrà a Roma. l’amfbologia è un caso considerato per esempio nella Retorica a Erennio I 20. Quintiliano dà un’interessante testimonianza: «tra i giureconsulti sorge frequentemente la questione relativa alla lettera e allo spirito della legge, e gran parte delle controversie giuridiche dipende da questa. non è strano che essa ricorra anche nelle scuole: anche lì viene simulata di proposito. Un primo genere è quello in cui la questione verte sia sulla lettera sia sullo spirito della legge – et de scripto et de uoluntate quaeritur» (La formazione dell’oratore VII 6, 1). la disputa si fa vivace quando nella legge c’è «aliqua obscuritas»; in questo caso le due parti sostengono ognuna la propria interpretazione, cercando di demolire quella dell’avversario (6, 2). «Un secondo genere deriva da un testo chiaro: coloro che hanno preso in considerazione esclusivamente questo l’hanno chiamato “stato dell’evidenza e dello spirito della legge”. In esso una parte si appoggia sulla lettera, l’altra sullo spirito della legge» (6, 4). Quintiliano inserisce le proprie considerazioni nel quadro dello ‘stato di causa’ (6, 12); successivamente si parla, rimanendo in questo quadro, delle leggi confittuali (leges contrariae – 7), del sillogismo (collectio – 8), dell’anfbologia (amphibologia, id est ambiguitas – 9), per concludere con una relazione fra gli stati di causa illustrati (10). 418 Cfr. 1427 a 5 ss. 419 Cfr. 1427 a 18 ss.; 1443 a 4 s.; a 41 s. 420 Rackham accoglie, nella linea 1443 b 15, la lezione tau`ta

note 418-423

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th;n aijtivan del codice Matritensis 4684 del XIV sec. Fuhrmann, seguendo spengel (pp. 78 e 263), espunge th;n aijtivan, e scrive palilloghtevon, invece di ajnalogistevon. Il verbo ajnalogivzesqai, ‘calcolare’, ‘considerare’, ‘esaminare comparativamente’, è impiegato qui nell’accezione di ‘ricapitolare’ (cfr. Platone, Protagora 332 d); Chiron fa notare che non c’è pertanto motivo di emendare ajnalogistevon in palilloghtevon, come fanno spengel e Fuhrmann. sull’importanza della ricapitolazione, nel genere giudiziario, si tornerà più avanti, precisando che essa ha un ruolo anche nel genere deliberativo (1444 b 21 ss.; cfr. 1441 b 10). 421 Vd. 1439 b 15 ss. 422 Vd. 1444 b 35 ss. I rinvii da parte dell’autore ad altre sezioni dell’opera dimostrano la sua visione d’insieme e un certo piano organizzativo della materia, nonostante le incoerenze e le disparità. 423 la strategia consigliata, in caso di non ammissione dei fatti imputati (il caso inverso è prospettato più avanti – 1444 a 5 s.), è di evitare ciò che viene giudicato controproducente e imbarazzante. aristotele sottolinea invece la necessità di neutralizzare subito il discorso dell’avversario (se si parla dopo di lui), considerando il processo comunicativo nella sua complessità, e gli aspetti della ricezione: un’argomentazione ha un’effcacia maggiore, se il destinatario è nelle condizioni di accoglierla, con la mente libera. «se l’oratore deve parlare per secondo, deve innanzitutto esporre i suoi argomenti contro il discorso avversario, confutandolo e controbattendo per mezzo di sillogismi, soprattutto se egli ha ricevuto consensi. l’animo, infatti, come non è ben disposto nei confronti di un uomo contro il quale sono state avanzate in precedenza delle critiche, nello stesso modo non accoglierà neppure il suo discorso, qualora sembri che l’avversario abbia parlato bene. si deve dunque creare spazio nella mente dell’asccoltatore per il discorso che ci si appresta a pronunciare: e ciò si verifcherà eliminando l’impressione prodotta» (Retorica III 17, 1418 b 12-17). D’altra parte, la scelta degli argomenti può essere modulata, a seconda delle concrete situazioni da affrontare, sia che si parli per primo (1418 b 5-12), sia che si parli per secondo: «solo dopo aver combattuto contro tutti gli argomenti dell’avversario, o contro i più importanti, o quelli che hanno ottenuto il maggior consenso, o quelli più

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note al testo

facili da confutare, un oratore dovrà rendere persuasivi i propri argomenti»; come esempio si citano i versi 969 e 971 delle Troiane di euripide, in cui ecuba «attacca per prima cosa l’argomento più ingenuo» (1418 b 18-22). Vd. la nota 343. la fessibilità dell’impostazione aristotelica è la naturale conseguenza dell’attenzione rivolta da aristotele ai meccanismi della comunicazione. 424 Vd. 1431 b 32 ss.; 1432 a 19 ss.; a 38 ss. 425 Cfr. 1440 a 15-21. nel richiamare questo confronto, utile per capire il senso dell’espressione ejk tou` paraleipomevnou tovpou, Chiron osserva che l’ambito è tuttavia diverso: «nous sommes dans le judiciaire, sur le terrain des faits». la situazione è questa: l’accusato non confessa, ma l’accusa presenta una versione credibile dei fatti (se fosse del tutto inequivocabile, si dovrebbe evitare di parlarne, si è appena visto); non resta altro che ‘trasferire’, ‘deviare’ (metabibazein), indirizzare altrove la strategia difensiva. Chiron scrive metabi­ bavzwmen, sulla base della traduzione latina transferamus (translatio vaticana), ovviando così alla mancanza di un verbo principale (la tradizione ha metabibavzonte~), e parafrasa: «si leur version des faits est crédible, il nous faut déplacer notre défense à leur sujet vers le lieu (l’argument) tiré du point (d’ordre factuel) omis (par eux) et sur lequel notre défense est plus solide». si tratterebbe semplicemente di una «stratégie de diversion», limitata ai fatti (p. 195, ad loc.). 426 trattando del verosimile, si sono distinte tre ideai utilizzabili nei discorsi sia di accusa sia di difesa: il pathos, l’ethos e il kerdos (1428 a 34-b 10). Qui si propone una confutazione solo relativamente alle ultime due. Cfr. lisia, Areopagitico. Discorso di difesa sull’ulivo sacro 13; 30-33; [Cornifcio] Retorica a Erennio II 3-5. 427 l’esempio è un argomento per analogia, di cui si è ampiamente parlato (1429 a 21 ss.); qui si intende che esso è ‘addotto contro’ e che bisogna confutarlo. Il retore richiama la serie di pisteis quasi nello stesso ordine già esposto (1428 a 19-21), a cominciare dal verosimile, per concludere con i segni; non si ricordano invece gli elenchoi, forse perché questa nozione è qui in un certo senso implicita. 428 Vd. 1430 a 14 ss. 429 Vd. rispettivamente 1430 a 40 ss.; 1430 a 23 ss.

note 424-433 430

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Vd. 1430 b 30 ss. Vd. 1427 a 27-b 1; cfr. antifonte, Sull’omicidio di Erode 92; Accusa di avvelenamento contro la matrigna 27; lisia, Contro Simone 4; Demostene, Per Ctesifonte, sulla corona 274. 432 la forma composta del verbo (sunempevsoi – 1444 a 14) con due preverbi è sembrata sospetta. Vd. Chiron 1999, p. 320 e n. 24. nell’apparato critico, Chiron segnala che forse è da scrivere sumpevsoi. nel C.A. sunempivptein ricorre solo qui, mentre è utilizzato sunekpivptein (vd. Bonitz 1961, p. 726 b 14-17; 25 s.). 433 l’espressione oJmovse badivzein signifca di per sé ‘procedere verso il medesimo luogo’, andare ‘insieme con’ qualcuno (vd. aristofane, Le donne all’assemblea 875 s.); nel contesto sembra prevalere tuttavia il senso dell’ostilità, del ‘confutare’ (vd. aristotele, Metafsica N 2, 1089 a 3; cfr. Ricerche s. an. VIII 5, 594 b 11; Etica Eudemia III 1, 1230 a 23). Così intende anche Chiron (marcher à l’attaque) che, richiamando l’attenzione su oJmologhvsanteı (1444 a 29), ritiene in ogni caso possibile anche interpretare: «marcher dans le même sens (ce qui donnerait: nous irons dans le même sens que l’accusation en ironisant’)» (p. 196, ad loc.). Francesco Filelfo traduce: «ad haec talia contraveniamus oportet, dissimulandoque [...]»; Forster: «we must meet such accusations with irony»; Rackham: «we must come to close quarters with suggestions of that sort, in a tone of irony»; Gohlke: «dann muß man dem mit verstelltem ernst zu leibe gehen»; sánchez sanz: «es preciso que salgamos al paso ironizando»; Mirhady: «we must proceed against such things directly with irony». tucidide dice di antifonte che era uomo di ingegno e capace di trovare ogni volta il modo di aiutare chi ricorreva a lui, ma anche che per la sua rinomata deinotes come oratore «destava sempre sospetto nel pubblico» (La guerra del Peloponneso VIII 68, 1). Più complesso è l’atteggiamento nei confronti del ‘logografo’ lisia, delineato da Platone nel Fedro (vd. in particolare 257 c-258 d). In genere, qualifcare qualcuno come ‘logografo’ era un modo per metterlo in cattiva luce; sulla fgura e sulla reputazione dei logograf, vd. per es. Isocrate, Contro i Sofsti 19 s.; Antidosi 14 ss.; 30-41; Demostene, Contro Midia, sul pugno 189-192; Per Ctesifonte, sulla corona 173; eschine, Contro Timarco 94. 431

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note al testo

«la logografa era considerata con scetticismo e sospetto, e la professione era poco stimata: numerosi leader politici ateniesi, a esempio Demostene e Iperide, cominciarono come logograf, ma abbandonarono l’attività più in fretta che poterono e non gradivano che venisse ricordata questa fase della loro carriera» (Hansen 2003, p. 288). Vd. qui anche le note 405 e 78. 434 Il pronome toiau`ta (1444 a 23) può riferirsi genericamente a pragmata, oppure a ‘questa o a quella cosa’, a ‘cose simili’ fatte dall’avversario. Il ricorso al logografo, o il farne a meno, e il parlare servendosi o no di note fniscono per non distinguersi. Reeve (1970, p. 241) propone di espungere [. to;n ga;r novmon oujk eja`n toiau`ta pravttein]. 435 Chiron integra considerando che qui il punto di vista è quello della difesa: si è così decisi a far emergere la mia colpevolezza, che non è suffciente accusarmi di aver agito male, ma mi si rimprovera anche di scrivere il mio discorso. senza emendamento (‘il mio avversario pensa di aver agito’), che in realtà non appare strettamente necessario, pur se l’omissione è paleografcamente comprensibile, «le texte est plus spirituel: “Mon adversaire pense qu’il a commis un si grand crime qu’il est persuadé que je n’arriverais pas à l’accuser comme il faut sans le secours de l’écriture et d’une longue réfexion préalable”» (p. 196, ad loc.). emerge in questo passo la consapevolezza delle diverse potenzialità della scrittura, rispetto all’improvvisazione orale: scrivendo, si ha più tempo per rifettere e per elaborare più oculatamente un discorso, in vista dell’obiettivo che ci si prefgge. Il tema della scrittura come strumento comunicativo era ormai centrale nel dibattito del tempo, come dimostrano passi di molte opere, e in particolare il Fedro di Platone. 436 Il tono è ironico, come sopra; cfr. 1434 a 27-29. 437 si intende: ‘come è invece il caso dell’accusato’. sull’attività del sicofante e sui guadagni che ne derivavano, vd. Hansen 2003, pp. 288 s.; 494, e qui le note 78; 83; e 454. 438 Il verbo dikavzein ‘giudicare’ ha nella diatesi media il valore di ‘sostenere una causa per sé’, ‘intentare un processo’. nella Retorica, aristotele spiega i motivi per cui gli autori dei manuali di retorica si soffermano soprattutto sull’oratoria giudiziaria, «sebbene il metodo relativo all’oratoria deliberativa e a

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quella giudiziaria sia lo stesso, e sebbene sia più nobile e più degna di un cittadino la materia deliberativa di quella che riguarda le transazioni tra privati» (I 1, 1354 b 22-25). la critica implicita, osserva Chiron, è che l’oratoria giudiziaria rende economicamente molto (p. 196, ad loc.). 439 l’erotesis (l’interrogazione) è un procedimento di confronto diretto, un interrogatorio dell’avversario o di un testimone, previsto nel processo attico, e ben noto dall’oratoria (Carawan 1983); vd. per es. lisia, Contro i mercanti di grano 5; Contro Eratostene 25; Contro Agorato 29-33; andocide, Sui misteri 14; 101; Platone, Apologia di Socrate 24 c-28 a («Rispondi, o caro. Infatti, anche la legge comanda che si risponda» – 25 d). Uno degli esempi letterari più noti è il dibattito aperto da atena tra il Coro accusatore, che fa domande, e oreste che risponde, nelle Eumenidi (582 ss.) di eschilo. apollo si rivolge ad atena: «tu apri il processo e, come sai fare, decidi di questa disputa» (580 s.); atena alle erinni: «È vostra la parola, dichiaro aperto il dibattito. l’accusatore parlando per primo fn dal principio può spiegare con esattezza il fatto» (582-584). Il Coro rivolto a oreste: «siamo in molte, ma parleremo concisamente. Rispondi dunque, punto per punto nell’ordine dovuto. Dì per prima cosa se hai ucciso tua madre» (585-587). aristotele dà consigli su come, quando e se utilizzarla, servendosi anche di numerosi esempi storici. l’impostazione teorica della discussione fa sì che venga condotta un’analisi incentrata essenzialmente su questioni di logica e sulle nozioni di to atopon, to phaneron, to enantion, to paradoxon, sophistikôs apokrinasthai, to amphibolon. aristotele invita in particolare a prevedere ogni volta dove può condurre il discorso, e a non porre molte domande, considerando l’incapacità dell’uditorio di seguire a lungo un tale serrato dibattito (Retorica III 18, 1418 b 40-1419 b 2). nella Retorica ad Alessandro, il contenuto delle domande farebbe pensare, tenendo conto della teoria degli stati della causa, alla determinazione del punto da giudicare, cioè alla discussione sulla qualifcazione di un fatto ammesso (spengel, p. 268 s.; Chiron p. 197, ad loc.). si può proporre un confronto con un passo di Quintiliano: «Quando sarà chiaro il tipo di causa, allora osserveremo se il fatto

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oggetto d’accusa venga negato, o difeso, o defnito in altro modo, o rimosso da quel genere di processo: dal che derivano gli stati. trovato questo, a ermagora pare poi che si debba esaminare il signifcato di: questione, ragione, oggetto di giudizio e punto essenziale della difesa, o come lo chiamano altri, fondamento. In senso piuttosto lato, ogni questione si intende come ciò su cui si può parlare credibilmente sostenendo una tesi e il suo contrario o sostenendo più tesi. In materia giudiziale essa va considerata in due modi; uno è quello per cui diciamo che la controversia comprende molte questioni e abbracciamo anche tutte le minori, l’altro è quello in cui alludiamo alla questione fondamentale su cui verte la causa. ora parlo di quest’ultimo tipo di questione, decisivo dello stato della causa: se il fatto sia avvenuto, in che cosa consista, se è stato compiuto giustamente. Queste ermagora, apollodoro e moltissimi altri scrittori chiamano propriamente questioni» (La formazione dell’oratore III 10, 5- 11, 3. 440 Cfr. Isocrate, Contro Lochite 1: lochite mi ha colpito ed è stato l’aggressore; l’espressione a[rcwn ceirw`n ajdivkwn è tecnica e designa l’autore di un’aggressione senza provocazione. 441 si confda, cioè, si conta, si fa assegnamento sulla legalità della propria azione, oppure ci si basa su termini di legge. si ammette il fatto, ma se ne riporta la responsabilità sulla vittima, contraccusando; cfr. Demostene, Contro Aristocrate 50; [Cornifcio] Retorica a Erennio I 26. 442 Cioè, quando l’azione è soggetta a essere giudicata da due leggi in sé contraddittorie, per esempio, spiega Chiron, il divieto di uccidere, sancito per legge, e la legge che ordina di uccidere un uomo esiliato che ritorna (p. 197, ad loc.). Il plurale aiJ toiaivde ajrnhvsei~ (1444 b 16) farebbe attendere almeno un altro esempio, oltre all’unico che viene dato: ciò ha fatto sospettare una lacuna. Il verbo paraklivnein, ‘inclinare’, ‘piegare’, ha anche il signifcato di ‘deviare dal giusto’; si cerca di distorcere, o meglio di far pendere la legge dalla propria parte. «Huiusmodi vero negationes legem declinant», intende Francesco Filelfo; «Denials, on the other hand, aim at diverting the course of law», Forster; «Denials like the following give a slight twist to the law», Rackham; «Folgende ableugnungen machen das Gesetz zum Vorspann», Gohlke; «apoyados también en la legalidad se hacen las negativas

note 440-446

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siguientes», sánchez sanz; «Des dénégations telles que celle qui suit, en revanche, tendent à faire pencher la loi de son côté», Chiron; «the following denials refect the law», Mirhady. Cfr. lisia, Per l’uccisione di Eratostene 25 s.: «lui ammetteva di essere in colpa, ma mi supplicava e mi scongiurava di non ucciderlo, di chiedere piuttosto una riparazione in denaro. Ma io gli ho risposto: “non io ti ucciderò, ma la legge della città, che tu, calpestandola, hai ritenuto meno importante dei tuoi piaceri; e hai preferito piuttosto commettere questa colpa verso mia moglie e i miei fgli che obbedire alle leggi ed essere un cittadino onesto”». 443 Vd. 1433 b 29 ss. 444 nel codice Parisinus gr. 2038 (del XV sec.) è stato aggiunto kai; (ajlla; kai; – 1444 b 28), aggiunta che Chiron accoglie nel testo, giustifcandola così: «la récapitulation est d’autant plus nécessaire dans le judiciaire qu’à sa fonction usuelle s’ajoute une fonction émotionnelle». schenkeveld (1968, p. 92) giudica invece inopportuna questa aggiunta, rinviando a Denniston (vd. rist. 1996, p. 3). 445 Chiron, diversamente dagli altri editori, segnala una lacuna, da colmare probabilmente con il participio sunavgonta (cfr. 1431 b 36). altri emendamenti sono proposti da editori e commentatori, anche sulla base del confronto con 1433 b 31-33, dove tuttavia gli esempi che seguono facilitano la costituzione del testo. Il verbo proserwta`n (cfr. 1433 b 32) indica propriamente l’aggiungere una domanda, il ‘domandare in aggiunta’ (vd. aristotele, Retorica III 18, 1419 a 1 ss.; Confutazioni sofstiche 8, 169 b 35); nella Retorica ad Alessandro, il porre delle questioni supplementari rientra fra i modi della ricapitolazione. 446 Usener congettura ajkouvonta~ invece di ajdikouvnta~ (1444 b 37) sulla base di 1445 a 3; a 11; a 14. Cfr. tucidide, La guerra del Peloponneso I 43; andocide, Sui misteri 144-150; Demostene, Per Ctesifonte, sulla corona 5: «ateniesi, voi tutti riconoscerete – credo – che sono imputato insieme con Ctesifonte e che il processo è anzi più arduo per me che per lui: perché qualsiasi perdita è dolorosa e penosa, specie se procurata da un nemico, ma il peggio che possa capitare è perdere la vostra benevolenza e simpatia: perdita tanto più grave, quanto più preziosa è la loro conquista».

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note al testo

Chiron intende che la privazione dei beni e il mancato godimento dei benefci vengano distinti, in quanto nel primo caso si tratta della frustazione di un diritto, nel secondo, della frustrazione di un’attesa. In realtà, l’argomentazione sembra più generica. 448 Francesco Filelfo coglie qui la pregnanza del verbo fqonei`n, il cui signifcato (‘provare invidia e avversione’) anticipa e compendia reazioni e atteggiamenti descritti subito dopo: «adversarios vero calumniis circunventos in invidiam et odium apud auditores ex horum contrariis adducemus». 449 Il discorso d’esame è stato analizzato precedentemente (1427 b 12-30). Per l’espressione aujto; kaq j eJautov, vd. 1421 b 10 s.; cfr. 1431 a 38. Maff (1985, p. 37 s. – vd. qui anche le note 28; 123; 166; 176) si sofferma sui due passi che trattano dell’exetastikon eidos più da vicino, sottolineando che in entrambi trova conferma l’autonomia del procedimento: «una prima volta nel cap. 5 [...], ove si propone una defnizione dell’exetasis a uso retorico; una seconda volta nel cap. 37 [...], nella parte fnale dell’opera dedicata allo studio della taxis». Rispetto al capitolo precedente, tuttavia, la trattazione si amplia «in funzione del ruolo che l’exetasis svolge nella strategia del discorso»: utile «soprattutto nelle antilogie, cioè nei discorsi di replica», essa si presenta, in quanto sezione autonoma del discorso, «come una sorta di antidiabole. [...] Che l’exetasis tenda a mettere in rilievo una contraddizione e acquisti perciò per anassimene un’autonomia sul piano del metodo, mi pare confermato dagli altri passi in cui si menziona l’exetasis». la Rossitto fa notare che, anche in questa parte in cui l’exetasis è considerata nella sua applicazione pratica, «l’autore della Retorica ad Alessandro ha occasione di ribadire che il compito di questa specie di retorica consiste nel “mettere in evidenza” (ajpo­ faivnwmen) le opposizioni che si producono tra l’atteggiamento dell’uomo preso in considerazione quale bersaglio retorico, e quello corrispondente di una persona “accreditata” (ejndovxwn). Ma lo scopo di tutto questo è ora indicato esplicitamente nello “screditare” (ajdoxhvsousi) quell’uomo. Che poi lo “screditare”, dal punto di vista retorico, corrisponda al “confutare”, dal punto di vista dialettico, è pur sempre possibile. non bisogna infatti dimenticare che aristotele, vero “teorizzatore” dell’arte retorica,

note 447-452

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ha pur sempre affermato [...] che la retorica è l’ajntivstrofo~ della dialettica. In questa prospettiva va forse spiegato anche il riferimento iniziale alle “antilogie” (ajntilogiva~), per le quali l’ejxevta­ si~ è detta essere “massimamente” (mavlista) utile. È noto infatti che l’antilogia era la tecnica che, secondo Protagora, consentiva di addurre argomenti a favore e contro riguardo a ogni questione, e che essa è frequentemente nominata anche da Platone come arte del discutere in contraddittorio» (1989, p. 198 s.). Il termine ajntilogiva indica l’opposizione degli argomenti, la contraddizione, la contestazione; qui ci si riferisce forse a una situazione in cui si contraddice un avversario, o si scredita qualcuno, come lascerebbe supporre il seguito. altrove, il termine indica un discorso fatto per ostacolare una proposta di alleanza, nel genere deliberativo (1425 a 6); la contraddizione, la confutazione nel genere giudiziario (1428 a 7); l’obiezione (1439 b 3). Chiron (p. 198, ad loc.) osserva che il retore non prende in considerazione il caso in cui una valutazione obiettiva possa condurre invece a un apprezzamento. 450 Cfr. 1437 b 37-1438 a 1. 451 Cfr. eschine, Contro Timarco 1-3. 452 la successione delle espressioni ejn me;n toi`~ politikoi`~ sullovgoi~ (1445 a 39 s.), ejn de; toi`~ ijdivoi~ (1445 b 2), ejn de; toi`~ dhmosivoi~ (b 5) crea qualche diffcoltà nell’interpretazione, perché non è chiaro in che cosa consista la differenza tra il primo caso prospettato e il terzo: la contrapposizione è tra i primi due; ci si chiede inoltre se lo stesso termine (sullovgoi~) sia da intendere anche negli altri due nessi. Kayser (1854, p. 287) ritiene che queste parole (1445 b 5 ejn de; toi`~ dhmosivoi~ – 6 sumfevron) siano superfue, di troppo, perché non si capisce come possano distinguersi i politikoi syllogoi dai demosioi. Considerando il contenuto (informazione dell’uditorio e risposta a un’aggressione) e i motivi allegati (difesa del giusto, del legale, dell’utile), si può pensare, nel primo caso, a un esame che Chiron defnisce «d’entrée ou de sortie de charge», forse davanti al Consiglio o al tribunale del popolo (p. 199, ad loc.); nel terzo, a un discorso del genere deliberativo. Ugualmente problematico è defnire la natura di una riunione privata, in cui si regolano dei conti, e si corregge un comporta-

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note al testo

mento. se si tiene conto della distinzione, applicata ai discorsi di Demostene, tra demosioi logoi (i discorsi in tribunale, in cause di rilievo pubblico, politico) e idiotikoi logoi (arringhe in cause private – su queste defnizioni, vd. Canfora 2000, nell’introduzione al secondo volume dei discorsi di Demostene), ciò potrebbe chiarire, osserva Chiron, il secondo caso (si tratterebbe dei confitti civili regolati davanti al tribunale; cfr. 1445 b 27 s.), «mais ne ferait qu’obscurcir les deux autres» (p. 199). la questione concerne più generalmente l’impiego delle denominazioni per i vari generi e specie di discorso, e per i vari tipi di riunione, in relazione alle circostanze, alle modalità, alla forma e al contesto comunicativo (vd. Chiron, p. XCVII s.). Più volte, si osservano nel trattato una terminologia incoerente, distinzioni poco chiare e un sovrapporsi di nozioni diverse (cfr. 1421 b 12-14; b 18 s.; 1440 b 13; 1445 b 27 s.). Maff interpreta così la tripartizione: «nelle pubbliche assemblee perché non sfuggano i fatti o perché siamo stati attaccati da altri; nella cause private per il giusto odio verso i nemici o per rendere migliori coloro che hanno sbagliato; nelle cause pubbliche per tutelare ciò che è conforme alla legge, alla giustizia e alla pubblica utilità» (1985, p. 30; cfr. Rossitto 1989, p. 198: «nelle assemblee politiche, nelle questioni private e negli affari pubblici»). Francesco Filelfo traduce: «in civilibus conventibus/ in privatis/ in publicis»; Forster: «in political assemblies/ in private suits/ in public trials»; Rackham: «in political conferences/ in private cases/ in public trials»; Gohlke: «in öffentlichen Versammlungen/ im persönlichen Gespräch/ in Gemeindeangelegenheiten»; sánchez sanz: «en las reuniones políticas/ en cuestiones particulares/ en cuestiones públicas»; Chiron: «dans les réunions politiques/ dans les réunions privées/ dans les réunions du peuple»; Mirhady: «in political meetings/ in private meetings/ in public matters». 453 Cfr. eschine, Contro Ctesifonte 168-170; 181 s.; Demostene, Per Ctesifonte, sulla corona 318 s.; 321. Vd. la nota 449. 454 Cfr. 1445 b 13 s. e 1440 b 19; Demostene, Per Ctesifonte, sulla corona 256-266; in particolare 265 s.: «esamina ora, una accanto all’altra, le nostre vite, pacatamente, senza livore, eschine, poi chiedi a ciascuno di costoro se preferirebbe la tua o la mia sorte. tu insegnavi a leggere; io stavo sui banchi. tu amministravi

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i riti di iniziazione, io stavo tra gli iniziati. tu fungevi da segretario, io partecipavo alle assemblee. tu recitavi le parti del terzo attore, io assistevo agli spettacoli. tu ricevevi fschi, io fschiavo. In politica, tu hai sempre mirato a favorire i nemici, io la patria. tralascio il resto: oggi io sostengo un esame che deve accertare se io meriti il conferimento di una corona e nessuno mette in dubbio la mia completa innocenza; tu invece hai già una solida fama di sicofante e dall’esito dell’agone dipende, per te, la possibilità di continuare a svolgere quest’attività o la necessità di smettere, nel caso che tu non ottenga la quinta parte dei voti. Una bella sorte (non vedi?) la tua: e trovi da ridire della mia?». 455 Chiron nota che questa formula sembra concludere non il capitolo, ma la terza parte (p. 111, ad loc.). si osserva tuttavia che l’argomento seguente, pur se non annunciato, e in un certo senso bizzarro (l’oratore dovrebbe organizzare la propria vita sulle regole della retorica), sviluppa il tema dell’ethos dell’oratore, cui si è fatto più volte riferimento: in questo trattato, esso corrisponde più a un’esigenza di coerenza e di ‘immagine’ (integrandosi con la nozione di doxa), che a una prova tecnica, come in aristotele; quanto si dice qui (1445 b 32-34) potrebbe costituire tuttavia un avvicinamento a questa posizione, pur nelle differenze (vd. la nota 457). Rimane il ragionevole dubbio se tutta quest’ultima parte, di carattere miscellaneo, sia aggiunta, come sembra sicuro per le annotazioni fnali (1446 a 36 ss.). Chiron invita alla prudenza: non si può escludere, egli sostiene, che nella tradizione isocratica la presenza di questo tipo di sviluppo in appendice alla parte propriamente tecnica del trattato sia stata la norma, fno a Quintiliano, al libro XII della sua Formazione dell’oratore. l’altro argomento, che egli considera a favore dell’autenticità, è il legame tra il contenuto di questa parte e la teoria, interna al trattato, della doxa dell’oratore; tali rinvii e richiami sono tuttavia attesi in una sezione che si caratterizza come appendice. Inoltre, il consiglio dato al logografo di professione di adattare l’ethos del discorso a quello di chi lo pronuncerà (1434 b 25-30) corrisponde a una pratica diffusa: non sembra che esso si possa considerare come un’anticipazione: «Quant au caractère forcé de l’analogie entre vie et rhétorique, il n’est pas sans précédent» (p. XII). Contro l’atetesi si dichiara anche in un suo successivo lavoro,

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note al testo

pur riconoscendo le «“acrobaties” proches de l’absurde», con cui il retore tenta in modo artifcioso di «calquer la méthode de formation morale sur la formation technique» (2003, p. 556). 456 Imparare a parlare improvvisando su un tema qualsiasi, senza averlo preparato, rifetterebbe una capacità che Pausania attribuisce ad anassimene: «non v’è nessuno che prima di anassimene abbia inventato il genere del discorso su tema improvvisato» (Guida della Grecia VI 18, 6). Filostrato, nelle Vite dei Sofsti, riconosce nella pratica dell’improvvisazione un elemento costitutivo della professione di un sofsta, e ritiene che ne sia stato l’iniziatore Gorgia (I 482 s. Kayser). 457 l’ethos e la doxa dell’oratore contribuiscono al raggiungimento del fne: persuadere. Questo punto di vista si integra con una più generale concezione, che sembra qui prevalente, del rapporto fra retorica ed etica, tipica di Isocrate (vd. Antidosi 277-280; Contro i Sofsti 21; Nicocle 7). D’altra parte, l’accento posto sulla nozione espressa dal termine paraskeuhv, su una ‘preparazione’ frutto dell’arte, e sulla doxa, sembra connettere la qualità etica più alla techne che a un’esigenza interiore o di natura flosofca. la paraskeuhv implica esercizio, disciplina, organizzazione (e non improvvisazione) e può riguardare sia la persona dell’oratore sia il suo discorso sia gli ascoltatori, come si è detto in precedenza: l’esordio serve anche a preparare l’uditorio (1436 a 33), disponendolo nella maniera più adatta all’ascolto. Bisogna inoltre ricordare che il tema del rapporto fra ergon e logos, fra bios e logos, è tradizionale nella rifessione antica. Interessante è la considerazione di Chiron, secondo cui l’estensione del metodo retorico alle regole della vita corrisponde forse a una preoccupazione di carattere mnemotecnico, e si giustifca col fatto che la vita sociale e l’attività oratoria si svolgono davanti a un pubblico (p. 199, ad loc.). se si confronta il passo della Retorica di aristotele, in cui si afferma che l’ethos rappresenta la pistis più forte, ma anche che la fducia nei confronti dell’oratore deve risultare dal suo discorso, e non dalle opinioni preesistenti sul suo ethos (I 2, 1356 a 1-13: vd. la citazione nella nota 184), con il passo dell’Antidosi di Isocrate, cui si è fatto riferimento, ci si rende conto che il retore segue più da vicino Isocrate. Woerther dà rilievo a questo rapporto: sia Isocra-

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te sia l’autore della Retorica ad Alessandro sottolineano «la valeur référentielle» del carattere dell’oratore. In questo trattato, la doxa tou legontos è classifcata fra le pisteis aggiunte: «le moyen de persuasion lié à la personne de l’orateur, qui consiste à faire connaître sa propre pensée sur une affaire et à manifester son expérience sur les sujets dont il traite, renvoie là aussi à l’avis personnel de celui qui s’exprime et à l’opinion que les auditeurs se font de lui à partir de son discours et de l’attitude qu’il a manifestée tout au long de sa vie de citoyen. Cette expérience apparaîtra, par ailleurs, avec d’autant plus d’évidence si l’orateur exerce sur sa propre vie un travail analogue à celui que requiert la composition des discours rhétoriques». anche aristotele riconosce all’ethos una forza di persuasione, ma la sua posizione si differenzia rispetto alla tradizione retorica, passando «d’une doctrine “référentielle” à une doctrine de l’èthos défni comme un élément immanent au discours» (2007, p. 207 s.). 458 l’interpretazione di pravgmata varia negli interpreti fra ‘atto’/ ‘azione’, e ‘materia’. Chiron intende: «Il faut donc d’abord diviser tes actes selon la division globale de la doctrine – que faut-il entreprendre en premier, en deuxième, en troisième ou en quatrième lieu». In questo modo il parallelismo tra ‘piano’ della vita e ‘piano’ del discorso ha uno sviluppo singolare: la stessa dottrina può servire a entrambi; come si divide il discorso in parti (1436 a 33-1445 b 23), così si divide la propria azione, decidendo l’ordine e la successione dei propri atti (p. 199, ad loc.). similmente intende sánchez sanz: «es preciso, primeramente, clasifcar las acciones con arreglo a las líneas generales de clasifcación de nuestra materia: qué hay que emprender en primer, segundo, tercer o cuarto lugar». Forster traduce: «In the frst place you must divide up your subject-matter according to the general system of division in which you have been instructed, and decide what you must treat of frst, secondly, thirdly, and fourthly»; similmente, Rackham: «First, therefore, you must divide your matter according to the general system of division given by your training, and arrange what topics are to be treated frst, second, third or fourth»; Gohlke: «Zuerst muß man den stoff verteilen entsprechend der ganzen einteilung, wie man sie gelernt hat, und sich entscheiden, was man als erstes, zweites, drittes oder viertes stück zu behandeln habe»; Mirhady: «You must

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note al testo

frst divide the matters according to the entire system of istruction, whatever you must attempt frst, second, third, or fourth». Probabilmente, il parallelismo è qui, semmai, solo implicito, o piuttosto sembra riguardare l’agire retorico, che deve uniformarsi alle regole apprese. È anche da tener presente l’uso problematico in questo trattato, e non sempre coerente, dei termini pra`gma (‘cosa’; ‘atto’, ‘fatto’; ‘materia’, ‘soggetto’, ‘situazione’) e pra`xi~ (‘azione’, ‘fatto’; ‘messa in atto’): spesso i signifcati si sovrappongono. Vd. per es. poco dopo 1446 a 12. Ci si chiede fno a che punto si spinga questa analogia, e soprattutto fno a che punto essa sia organicamente sviluppata, e non si stemperi invece in un amalgama di suggestioni derivate dalla trattazione precedente. Chiron stesso defnisce «forcé» il carattere dell’analogia tra vita e discorso, e sottolinea «le “baroquisme” du projet» (p. XI). tende in ogni caso a ridimensionare il giudizio negativo e ironico di spengel (p. 273: «quis risum teneat, aut sophistam non miretur, arti tam deditum, ut ex huius praeceptis vitae rationem nobis gerendae explicet?» – ad 1445 b 31 s. diakosmou`nta tai`~ ijdevai~ tai`~ eijrhmevnai~), collegando lo ‘sforzo’ del retore all’impostazione isocratica: «même si l’on peut sourire des efforts déployés par le rhéteur pour établir une correspondance terme à terme entre la technique rhétorique et le perfectionnement moral (cf. 1445 b 29-1446 a 32), on remarque que cet effort se fonde sur la même absence de référent abstrait, éternel et absolue, pour le vraie et le bien, et sur la même antériorité de la parole sur la pensée et la vertu que l’on trouve au coeur de la pensée d’Isocrate» (p. CXlV). Vd. anche la nota 457. 459 anche in questo caso Chiron coglie il parallelismo tra vita e discorso, spiegando in nota: «Puis la théorie de l’exorde nous apprendra à nous comporter de manière à susciter l’attention et la bienveillance, et ainsi de suite» (p. 199, n. 727). Forster traduce: «next you must prepare your hearers to receive you, as I have described in dealing with the attitude to be taken towards your audience in proems». si tratta ancora una volta di un ‘agire’ del retore, concretamente impegnato nella ‘formazione’ di sé stesso e nella presentazione di sé, per disporre il pubblico ad ascoltarlo: egli deve offrire un’immagine di cui ci si possa ricordare, conformemente

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alla dimensione anche spettacolare dell’oratoria, messa in costante rilievo nelle fonti antiche. la doxa ha un immediato effetto sulla capacità di persuadere, come è stato appena detto. 460 I tre aggettivi potrebbero far pensare ai tre generi di oratoria, o richiamare succintamente i predicati più volte elencati (vd. per es. 1421 b 24 s.). 461 Cfr. Isocrate, Antidosi 277. 462 la corrispondenza è tra azione (non pensiero) ed espressione, con la solita ambiguità riguardante l’azione in ambito retorico oppure l’azione, il comportamento, in generale. sovrapposizioni fra ethos del discorso, stile, e ethos dell’uomo o del retore si notano anche altrove (vd. per es. 1434 b 27-30): esse tradiscono una sostanziale indistinzione fra i diversi ambiti, in quanto inseribili in una più generale e tradizionale corrispondenza tra parola e azione. Il valore di ajntiv non è qui di contrapposizione (Mirhady traduce: «rather than making your narration rapid, clear, and credible, you must describe the actions as advantageous or disadvantageous»; Gohlke: «und anstatt den Bericht kurz, klar und glaubwürdig zu gestalten, soll man lieber die Dinge selber darnach einrichten»), ma di confronto. Forster traduce: «In order that your exposition may be quick and lucid and may command credit, you ought to make your practical suggestions as follows»; Rackham: «For the purpose of making your exposition rapid, clear, distinct and convincing in style, your practical suggestions must have those qualities». Chiron sottolinea la conformità: «en outre, à l’image de la narration qui doit être rapide, claire et crédible, il faut donner à tes actions des qualités de même nature». nel trattato, i termini utilizzati per indicare la concisione sono suvntomo~ e bracuv~. si è sospettato pertanto (vd. Ipfelkofer 1889, p. 30) che nell’uso di tacuv~ sia da vedere l’infuenza della Retorica di aristotele: alla tacheia diegesis, raccomandata dai manuali di retorica, viene opposta una narrazione improntata al senso della misura, in modo da salvaguardare la chiarezza (III 16, 1416 b 30 ss.; il passo è citato nella nota 316). Vd. Chiron 2004, p. 84 ss. 463 Rackham dà questo testo, seguendo Finckh (1849, p. 19), che suppone una lacuna dopo mh; della linea 10, e integra safw`~ dev, a]n mh; prima di pavnta: a]n mh; ****, safw`~ de; a]n mh; pavnta a{ma pravttein bouvlh≥ ktl.

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note al testo

la nozione di katharotes si estende a molti ambiti, religioso, etico, estetico (si pensi alla katharsis, come telos della tragedia nella Poetica di aristotele), scientifco (nella medicina in particolare, e nella teoria dei colori, dove si integra con la nozione di eilikrineia). In ambito retorico indica la purezza e la limpidezza dello stile (vd. ermogene, Idee I 3, pp. 227-234 Rabe). 465 Cfr. la teoria dell’esame e dell’indizio, 1427 b 12 ss.; 1445 a 30 ss.; 1430 a 14 ss. 466 sulla dottrina delle pisteis, vd. 1428 a 4 ss. Cfr. anche quanto si è detto a proposito dell’elenchos 1431 a 6 ss., e dell’eikos 1428 a 25 ss. Il parallelismo tra piano della vita e piano del discorso è sottilineato diversamente nelle varie interpretazioni, dove diverge essenzialmente il modo di intendere il nesso preposizionale ejk tw`n pivstewn (1446 a 15 s.; cfr. 1446 a 25: ejk tou` ejpilovgou; 1446 a 20 s.). Forster traduce: «as regards proof, where we have sure knowledge, we shall prefer to follow its guidance in prescribing plans of action, but [...]»; Rackham: «From among methods of proof, in matters of which we have knowledge we shall adopt the plan of completing our practical proposals by its guidance; but [...]»; Gohlke: «Mit seinen Beweisen ist man im einklang, wenn man dasjenige, was man gelernt hat, nach den Vorschriften dieser lehre durchführt, worin man aber [...]»; sánchez sanz: «De los sistemas de argumentación tomaremos el llevar a cabo aquellas acciones en las que estemos versados de acuerdo con lo que nuestro conocimiento de ellas nos enseñe; en cambio [...]»; Chiron: «Des moyens de persuasion, nous apprendrons – sur les actions pour lesquelles nous disposons d’un savoir – à les accomplir sous sa conduite: en revanche [...]»; Mirhady: «Regarding proofs, about matters about which we have knowledge, we shall undertake its guidance in dealing with the subjects. But [...]». Il senso sembra questo: ‘partendo da’, ‘facendo riferimento a’ o ‘in conformità con’ ciò che si è appreso con la tecnica delle pisteis, si saprà come pianifcare l’azione: seguire l’episteme, se è possibile, oppure il criterio espresso dalla nota formula hos epi to poly. l’ambiguità riguarda la praxis o del retore o dell’uomo, o di entrambi contemporaneamente: tra l’agire retorico, la condotta di vita e la formazione dell’uomo non si fa distinzione.

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Chiron commenta: «nous avons là une morale semi-rationelle, mêlant la sophistique à la pensée socratique: nos choix dans le domaine de l’action sont tantôt fondés sur la raison, tantôt sur l’expérience au sens large qui fonde une opinion» (p. 200, ad loc.). 467 Il termine bebaiovth~ ha il senso sia di ‘garanzia’ sia di ‘conferma’. nelle altre edizioni, alla linea 1446 a 22, si legge peri; (lezione del codice a – Parisinus gr. 2038, del XV sec.), invece di par j, lezione del resto della tradizione, accolta da Chiron e da Mirhady. la distinzione fra logos e symbolaion implica la distinzione fra un ambito più generale e uno più specifco, economico o giudiziario, o anche politico. Mirhady la defnisce «a sloppy way» di distinguere tra un’oratoria deliberativa e una forense (ad loc.); cfr. l’uso del termine symbolaion in questo trattato (1421 b 13; 1431 a 17; 1423 a 25; 1424 b 28). Forster traduce: «When we have adversaries to contend with, if it is a question of words, we shall obtain confrmation in support of our case from the actual words uttered; in suits about contracts [...]»; Rackham: «as regards the issue with our opponents, on a question of words, we shall obtain confrmation in regard to our case from the actual words used; on questions of contracts [...]»; Gohlke: «Was den Kampf gegen die Widersacher betrifft, so wird man in seinen Reden aus den gegebenen anweisungen sicherungen über sich selber gewinnen, im Verkehr [...]; sánchez sanz: «en cuanto a la controversia con los adversarios, en los discursos haremos la confrmación de nuestros argumentos con los recursos expuestos; en los contratos [...]»; Chiron: «Pour le confit contre nos adversaires, nos paroles seront garanties de notre part par nos paroles antérieures et les contrats le seront si [...]»; Mirhady: «For a trial against adversaries, with regard to the speeches, we shall compose our confrmation from what has been said by us, but with regard to contracts [...]». 468 Cfr. 1445 b 38 s. (dove si è enunciato lo stesso principio di coerenza). Come si è già visto, difforme è il modo di intendere il nesso ejk tou` ejpilovgou. Forster tarduce: «as regards our peroration»; Rackham: «Under the peroration»; Gohlke: «Im nachwort»; sánchez sanz: «Con la conclusión»; Mirhady: «Regarding the conclusion» (vd. le note 466 e 467).

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note al testo

Chiron traduce: «Instruits par l’épilogue», e spiega: «en d’autres termes, ce que nous apprend la théorie rhétorique de l’épilogue pour nos règles de vie, est qu’il faut tenir souvent les mêmes propos, afn que le public de nos futurs discours les ait bien en tête, sans doute aussi afn d’éviter de donner prise à un examen» (p. 113, ad loc.). 469 nell’espressione megavla pravxomen, alcuni commentatori, seguendo Cope, individuano un rinvio alla teoria dell’amplifcazione (1426 a 19 ss.). Vd. Cope 1867, p. 463: «Good will (another topic of the epilogue) may be conciliated by doing what will be considered good services past present or future: and lastly we may apply the topic of ‘amplifcation’, (another of the ordinary topics of the peroration) au[xein, here rendered by megavla pravttein ‘to magnify’, to the conduct of our lives by a multitude of noble actions». Forster traduce: «We shall add weight to our actions»; Rackham: «our actions will be important»; sánchez sanz: «serán importantes las acciones que emprendamos»; Chiron: «notre action aura de la grandeur». 470 si riprendono, invertendone l’ordine, i due temi (condotta di vita e pratica oratoria), che si sono affrontati in quest’ultima parte, non senza ambiguità. 471 Vd. 1423 b 36-1424 a 5. Questa sezione si confgura come un insieme disordinato di note, redatte da un lettore con l’intento di memorizzare e di selezionare i punti per lui essenziali, aggiungendo talvolta osservazioni nuove. si riprendono quasi testualmente dei passi tratti dai primi capitoli: si tratta di una compilazione tarda, volta a costituire una ‘gnomologia etico-politica’ per uso pedagogico o privato (vd. Chiron, pp. 200, n. 743; X). 472 Dell’amicizia si parla in questo trattato essenzialmente come legame vantaggioso, soprattuto tra comunità e popoli, e come sentimento da suscitare o da evocare in chi ascolta, in modo da essere più convincenti. Qui invece si accenna al tema, peraltro diffuso in ambito flosofco, dell’amicizia del simile verso il simile, e delle condizioni che ne assicurano la durata (cfr. 1429 b 38-1430 a 2). Divergenti opinioni (o solo ipotesi dialettiche) sull’azione dei simili o dei contrari nel favorire l’amicizia e il nutrimento (il simile è amico e nutrimento del simile, o il dissimile del dissimile,

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il contrario del contrario), e nel determinare la conoscenza (si conosce attraverso il simile o attraverso il contrario) sono ben documentate nella cultura greca in detti e proverbi, nelle rifessioni dei poeti, nell’indagine flosofca, nell’ottica e nella medicina. sul tema dell’amicizia tra i simili o tra i dissimili, Platone costruisce un intero dialogo, il Liside, in cui si sottopongono a verifca affermazioni della sapienza popolare, alla ricerca (diffcile e senza certi risultati) di defnizioni e di rapporti, che possano essere ritenuti validi. aristotele cerca una mediazione e una sistematica spiegazione logica per opposte concezioni: «sono molte le questioni dibattute a proposito dell’amicizia, prima quella di coloro che la descrivono dall’esterno e ne estendono il signifcato: gli uni infatti credono che il simile sia amico al simile, ragion per cui è stato detto “come sempre, il dio conduce il simile verso il simile” [omero, Odissea 17, 218], e infatti “il corvo sta presso il corvo” [Democrito 68 a 128, II p. 113, 12 D.-K.]; “il ladro conosce il ladro e il lupo il lupo”. I flosof della natura ordinano anche l’intera natura assumendo come principio che il simile va verso il simile; perciò empedocle disse anche che una cagna si accovacciava sulla tegola, perché le assomigliava moltissimo [= 31 a 20 a, I p. 285 s.; cfr. per es. a 86; B 22; 62; 90; 109; I pp. 301 ss.; 321 s.; 335; 343 s.; 351]. Gli uni, dunque, defniscono così il rapporto di amicizia; altri affermano invece che il contrario è amico al contrario: perché per tutti è amico l’oggetto amato e desiderato, e ciò che è secco non desidera il secco, ma l’umido [...]. Queste sono due opinioni intorno all’amicizia, troppo generiche e tanto distanti tra loro; altre invece sono già più vicine e aderenti all’evidenza dei fatti» (Etica Eudemia VII 1, 1235 a 4-b 31). Per altri riscontri, vd. Ferrini 1994-1995. 473 Vd. 1424 b 37 ss. 474 Vd. 1425 a 10 ss. 475 nella Politica, aristotele afferma che nei regimi oligarchici avvengono mutamenti in periodo di guerra, quando i governanti, non avendo fducia nel popolo, sono costretti a servirsi di truppe mercenarie (V 6, 1306 a 19-22; cfr. II 2, 1261 a 24 ss.; III 9, 1280 a 34 ss.; b 8 ss.; IV 14, 1298 a 3 ss.). Vd. anche Platone, Repubblica III 414 b ss.; V 466 e ss.; Leggi VI 755 c. I punti esposti in questa sezione aggiunta corrispondono in parte a quelli contenuti nella ricapitolazione delle diverse epime-

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leiai, necessarie, elencate da aristotele nella Politica VI 8, 1322 b 29-37 (cfr. 1321 b 12 ss.). 476 Vd. 1425 b 19 ss. 477 Vd. 1424 a 12 ss. 478 l’analisi delle politeiai è un tema affrontato notoriamente da flosof e da storici; cfr. la Politica di aristotele V 6, 1305 b 32, dove ricorre lo stesso termine tivmhma (1446 b 25), da intendere nella Politica nel senso di «classe possédant le revenu censitaire fxé» (J. aubonnet, Paris 2002, p. 179, ad loc.). 479 Vd. 1424 b 30 ss. 480 Vd. 1425 a 1 ss. 481 le linee 1446 b 31-1447 a 2 mettono insieme annotazioni sparse, probabilmente tratte da repertori di gnomai, relative a temi etici e alla morale comune. Il termine peiqwv (1447 a 1) è da intendere nel senso di ‘persuasione’ più che di ‘obbedienza’. si possono individuare tuttavia alcuni confronti. la nozione espressa dal termine biva è opposta a peiqwv nella Metafsica G 5, 1009 a 17 s. («alcuni hanno bisogno di essere persuasi, invece altri debbono essere costretti»); ad ajpavth nella Politica V 4, 1304 b 7 s. («le costituzioni si rovesciano a volte con la violenza e a volte con l’inganno»); nella Retorica I 15, 1377 b 5, si defniscono involontarie le azioni compiute perché si è ingannati o costretti (ta; de; biva≥ kai; ajpavth≥ ajkouvs ia – cfr. Etica Nicomachea III 1, 1109 b 35). l’avverbio ajkousivw~ (1447 a 39) qualifca il pravttein di chi ignora determinate condizioni o circostanze, nell’Etica Nicomachea III 2, 1111 a 2. I sunallavgmata (le relazioni) sono distinti in ajkouvs ia ed eJkouvs ia nell’Etica Nicomachea V 5, 1131 a 2 s. Il nesso kata; (th;n) proaivresin è ricorrente in contrapposizione a para; th;n proaivresin, vd. per es. Etica Nicomachea VII 9, 1151 a 6 s.; Metafsica D 5, 1015 a 27 e 33; Fisica II 5, 196 b 18; Politica III 9, 1280 a 34. 482 Vd. 1425 a 20 ss. 483 Vd. 1422 a 7-11, e le note 40 e 41. Rispetto alle qualità fsiche elencate in precedenza, si nota l’aggiunta di eujexiva; rispetto alle qualità dell’anima, sono aggiunte frovnhsi~ e swfrosuvnh (cfr. 1441 a 18; 1442 a 30 dove ricorre il termine swvfrwn). nella nota a questo passo, Chiron afferma che esso non può essere preso in considerazione per sostenere che il retore avrebbe

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inserito la swfrosuvnh fra le qualità dell’anima anche nel passo precedente (1422 a 9 s.), dato che il redattore di queste note mostra «des signes d’initiatives», pur seguendo da vicino il retore (p. 116, ad loc.). Più generalmente è da tener conto di una certa elasticità delle classifcazioni di questo tipo; la lista è inoltre di solito limitata a tre, quattro o cinque qualità: nella Retorica ad Alessandro si elencano tre qualità (1422 a 11 s.; 1441 b 4-7), ma la swfrosuvnh «n’est pas oubliée», secondo Pernot, come si è visto: «pour ne rien dire de l’appendice apocryphe (38, 25), elle fgure dans les qualités de l’enfant (35, 11) et elle se cache peut-être derrière les epitêdeumata endoxa de 35, 3» (1993, p. 167, n. 210). tra le qualità non canoniche che talora si aggiungono, egli porta l’esempio della eujexiva nominata qui (p. 159 e n. 160). la frovnhsiı è notoriamente al centro dell’interesse speculativo delle flosofe ellenistiche, in ambito etico; proprio questo termine emerge con sicura evidenza e importanza alla fne della Fisiognomica del C.A.: «Queste sono le parti che offrono i segni più chiari, ed è anche qui che per lo più si rivela l’intelligenza» (814 b 7 s.; cfr. aristotele, Etica Nicomachea VI 12, 1143 a 25-13, 1145 a 11). la swfrosuvnh è defnita nella Retorica come l’arete «per mezzo della quale, nei riguardi dei piaceri fsici, si ha una disposizione conforme alle prescrizioni della norma» (I 9, 1366 b 13-15; cfr. Etica Nicomachea III 13, 1117 b 23-14, 1119 a 20). la eujexiva (‘buona costituzione o condizione fsica, buona salute, vigore’) rinvia a un ambito più specifcamente medico; dal punto di vista aristotelico essa può coincidere con la salute (uJgiveia – vd. Etica Nicomachea III 14, 1119 a 16; cfr. la relazione stabilita da una parte fra euexia e hygieia, e dall’altra fra kachexia e nosos nei Topici II 8, 113 b 35 s.; e fra il medico, in quanto ‘è produttore’ della hygieia, e il maestro di ginnastica, in quanto ‘è produttore’ di euexia V 7, 137 a 3-7); oppure si può parlare di una politike euexia, che non coincide né con la prestanza fsica degli atleti, né tanto meno con una costituzione malaticcia o incapace di sostenere la fatica, ma che si confgura come medium tra le due: essa potrebbe essere intesa come la migliore condizione fsica necessaria a un cittadino, come una buona attitudine alla vita politica (Politica VII 16, 1335 b 5-11: «la condizione degli atleti non è adatta all’applicazione a una buona attività politica, né si addice al mantenimento

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note al testo

della propria salute e alla procreazione; e neppure la condizione delle persone bisognose di cure e troppo incapaci di sopportare fatiche. la condizione migliore è quella intermedia tra queste due. Bisogna dunque essere esercitati, ma con fatiche non violente e non limitate a un fne solo, come nel caso degli atleti, ma orientate alle attività degli uomini liberi»). nella Fisiognomica ricorre l’aggettivo euektikos, vd. 806 b 22; b 33; 807 b 13. 484 Cfr. 1422 a 11-13; aristotele, Retorica I 5, 1360 b 31-1361 a 11. Pernot mette in evidenza come la teoria retorica cominci a interessarsi alla città nel quadro del genere deliberativo. la Retorica ad Alessandro è fra i trattati che offrono «une analyse plus poussée» di ciò che costituisce il sympheron per uno stato, ma, «contrairement à la trasposition effectuée à propos des personnes, ces traités n’éprouvent pas le besoin de transformer les biens de la cité en topoi d’éloge» (1993, p. 183 s.). Questa conclusione è in realtà interessante, perché pone l’accento su una dimensione etica, che sembra superare quella più immediata del kairos. si può ricordare un passo della Retorica di aristotele, in cui si mettono in rilievo i valori etici e il corretto comportamento individuale all’interno di una comunità: «la virtù, a quanto pare, è una facoltà in grado di procurare e preservare i beni, una facoltà che produce benefci grandi e numerosi, di ogni tipo e in ogni circostanza. Parti della virtù sono la giustizia, il coraggio, la temperanza, la magnifcenza, la magnanimità, la liberalità, la mitezza, l’assennatezza – frovnhsiı – e la sapienza – sofiva. necessariamente, se la virtù è una facoltà benefca, le maggiori virtù sono quelle che risultano più utili agli altri, e per questo motivo si onorano soprattutto gli uomini dotati di giustizia e di coraggio, in quanto quest’ultimo è utile agli altri in guerra, mentre la prima lo è in pace. Vi è poi la liberalità – ejleuqeriovth~: gli uomini liberali spendono e non entrano in competizione per il possesso delle ricchezze, che sono quanto gli altri desiderano in misura maggiore. la giustizia – dikaiosuvnh – è la virtù grazie alla quale ognuno possiede ciò che è suo ed è in accordo con la legge; l’ingiustizia è ciò per cui si possiede quanto è di altri, non in conformità con la legge. Il coraggio – ajndreiva – è la virtù che permette agli uomini di compiere belle azioni nel pericolo secondo quanto impone la norma, e di ubbidire a quest’ultima. Il suo

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contrario è la viltà. la temperanza – swfrosuvnh – è la virtù per mezzo della quale, nei riguardi dei piaceri fsici, si ha una disposizione conforme alle prescrizioni della norma. l’intemperanza è il suo contrario. la liberalità – ejleuqeriovth~ – è un’inclinazione a fare del bene per mezzo delle ricchezze, l’avarizia il contrario. la magnanimità – megaloyuciva – è una disposizione a compiere grandi benefci, la magnifcenza – megaloprevpeia – quella che produce grandezza attraverso delle spese, e i loro contrari sono la meschinità e la piccolezza. l’assennatezza – frovnhsi~ – è una virtù dell’intelletto, grazie alla quale si possono prendere buone decisioni a proposito dei beni e dei mali connessi con la felicità» (I 9, 1366 a 36-b 22; mancano l’indicazione del contrario della frovnhsi~ e la defnizione della sofiva, a meno di non espungere sofiva dall’elenco iniziale: forse il testo è lacunoso). È signifcativo che il redattore di queste annotazioni concluda elencando le qualità fsiche e psichiche dell’individuo, che maggiormente rappresentano la misura e l’equilibrio; l’individuo, di cui si traccia quasi un ritratto, fnisce per identifcarsi con il cittadino. le qualità che egli possiede sono utili anche agli altri, e fanno pertanto di lui un buon cittadino.

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IndIce generale Sommario Introduzione

7

L’autore eikos, ethos, kairos. L’arte di ottenere sempre ragione e ‘le ragioni del lupo’ Mule «fglie d’asini» o «fglie delle cavalle dai piedi rapidi come la tempesta». L’arte di comunicare e la potenza della parola

7

note all’Introduzione

16 47 77

notizia biografca

165

retorica ad alessandro Prima parte Seconda parte Terza parte

167 177 227 293

note al testo

381

Bibliografa

613