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. La retorica d’og gi
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Ezio Raimondi
La retorica d’oggi
il Mulino
Edizione a cura di Andrea Toscani
I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull'insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: http://www.mulino.it
ISBN
88-15-08432-0
Copyright © 2002 by Società editrice il Mulino, Bologna. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.
Indice
Premessa, di Marcello Di Bella
I.
La comunicazione inautentica
15
II.
Itopoinella letteratura e nell’arte
37
III.
Perun’antropologia della retorica
DI
IV.
La rinascita della retorica
75 89
Nota bibliografica
Appendice: La retorica? Bisogna rivalutarla. Conversazione detta Craveri
Indice dei nomi
con Bene-
“O, 111
Premessa
Questo volume raccoglie il testo del seminario sulla retorica tenuto da Ezio Raimondi nel Centro Culturale Polivalente di Cattolica, in quattro pomeriggi tra il 18 e il 21 ottobre 1993, davanti a un pubblico numeroso e attento. La Biblioteca Comunale
di Cattolica, di cui il
Centro Culturale Polivalente costituirà a partire dal 1983 la nuova veste progettata da Pier Luigi Cervellati, si era andata conquistando un nutrito e fedele uditorio soprattutto in relazione alla fortuna di una rassegna annuale come «Cosa fanno oggi i filosofi?». Già un'edizione di tali cicli veniva dedicata, nel 1985, alla retorica, con vari interventi di rilievo (Andrea Battistini, Tullio De Mauro, Umberto Eco, Mario Perniola, Giovanni Pozzi, Paolo Rossi, ecc.) e un
convegno finale coordinato dallo stesso Raimondi. Fu poi Giuseppe Guglielmi, singolare e appartata figura di poeta, critico, traduttore raffinato di Céline, operatore culturale di rango specie nel ramo delle biblioteche e della loro rigenerazione (fu ispiratore, tra l’altro, del Centro), a suggerire di promuovere nuovi orizzonti di lettura da proporre al pubblico poiché, diceva, ci sono testi che «reclamano la scena», «libri in cerca di gloria»: quest’ultima locuzione diventerà la sigla di nuove serie di incontri (organizzati con la collaborazione dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici) di cui il seminario di Ezio
Premessa
Raimondi sulla retorica costituì l’atto fondativo, la posizione delle premesse teoriche, cui seguiranno,
sempre nella stessa tornata tra il 1993 e il 1994, le letture di Battistini su Vico e di Guglielmi, in una delle sue rarissime comparse in pubblico, su Céline. Ora, per iniziativa dell’Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali della Regione EmiliaRomagna, le registrazioni di quelle lezioni sono state recuperate nell’archivio del Centro e, per le cure di Andrea Toscani, trascritte e raccolte nel presente libro, che mette così alla portata di una più vasta cerchia di lettori, nella misura cordiale della conversazione, un’essenziale introduzione alla retorica, ope-
ra d’uno studioso che come pochi altri ha contato nel riportarla all’attenzione della cultura d’oggi. Alle lezioni è parso opportuno far seguire il testo di una lunga e bella intervista resa da Raimondi a Benedetta Craveri, pubblicata sulla «Repubblica» il 27 giugno 2000, in merito alla grande storia della retorica curata da Marc Fumaroli. La cortesia di Benedetta Craveri ha consentito di pubblicare l’intervista nella versione integrale, cui le esigenze di spazio del quotidiano avevano a suo tempo imposto qualche taglio. A Benedetta Craveri e a Paolo Mauri della «Repubblica» va il nostro ringraziamento. MarceLLO DI BELLA
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I
La comunicazione
inautentica
Negli ultimi anni molti filosofi, e in special modo coloro che rivolgono la propria attenzione ai problemi dell’etica e della politica, hanno sottolineato l’importanza della «conversazione», insistendo in particolare sul suo significato di «discorso tra eguali», non monologo di un soggetto, ma piuttosto dialogo tra co-protagonisti. È una formula che, nel momento in cui ci sforziamo di arricchire il lessico precostituito che fornisce la base del nostro ragionare, fa riflettere più di quanto non sembri. Uno dei pensatori che più si è occupato di questi argomenti, un filosofo nordamericano in continuo rapporto con il pensiero europeo, è Richard Rorty: partito dalla filosofia analitica e dal pragmatismo, egli si è poi mosso verso un esistenzialismo più moderno, affermando con decisione sempre maggiore che il filosofo deve andare a scuola dal critico letterario, perché, come il critico, deve conservarsi uomo
di molti linguaggi e di molti libri, una figura aperta e flessibile. Nella sua opera Contingency, Irony, Solidarity, pubblicata in italiano quasi contemporaneamente alla sua uscita anglosassone con il titolo La frlosofta dopo la filosofia, argomentazione sfiora anche la retorica. In un discorso che prende le mosse dalla contemporaneità nel tentativo di individuare alcune delle possibili direzioni future, Rorty sostiene che una società moderna e «liberale» non può e non deve essere soltanto il regno della logica e che per 13
La comunicazione
inautentica
questo, necessariamente, la retorica deve riacquistare i suoi propri spazi. La contrapposizione tra logica
e retorica si inserisce del resto nel solco del suo pensiero: dichiarandosi amico della finitudine e della pluralità, Rorty dimostra di volersi legare all’idea di una verità diffusa, divisa tra vari punti di vista, facendo però attenzione a non ricadere nella vecchia nozione del relativismo. Ma se è vero che egli è un filosofo della pluralità, della finitudine e della molteplicità, risulta già in qualche modo evidente che la retorica ha per lui, nell’interpretazione del mondo contemporaneo, qualche rapporto con il molteplice e il finito. Primo compito, dunque, sarà quello di tornare per un momento indietro nel tempo, nel tentativo di
dimostrare che questo rapporto privilegiato della retorica con il molteplice è stato presente sin dall’origine, con la consapevolezza che, nel dipanare le vicende della storia di questa disciplina, il discorso finirà spesso per intrecciarsi con la storia del pensiero filosofico e, più in generale, con l'avventura dell’uomo occidentale. Ma in retorica occorrono sempre delle prove, si procede sempre con i testi. Così, prima di compiere questo passo indietro, è necessario soffermarsi ancora su due citazioni: da una parte un brano di Nietzsche tratto da un corso universitario dei primi anni Settanta dell'Ottocento; dall’altra una cita-
zione da Essere e tempo di Heidegger, del 1927, dunque già negli incunaboli del nostro Novecento. La scelta cade su questi due testi perché vi si parla di retorica al di fuori di quella che, già da un secolo, era diventata la condanna, il rifiuto di questa disciplina in nome della logica, della filosofia e del razionale. 14
La comunicazione inautentica
Le pagine di Nietzsche sono gli appunti di un filologo che prepara alcune lezioni: si tratta del corso intitolato alla Retorica dell'inverno 1872-1873,
che è possibile leggere anche in francese in uno speciale della rivista «Poetique», il numero 5 del 1971, uscito in un momento in cui gli interessi reto-
rici tornavano prepotentemente alla ribalta nel Novecento, anche se non mancano altri precedenti. In queste pagine, cui bisognerebbe aggiungere anche quelle di un’altra grande opera quale Verità e menzogna in senso extramorale, ratifica un giudizio intorno alla retorica, già consolidato da oltre un secolo e mezzo, ma contemporaneamente propone anche una nuova strada: Lo sviluppo straordinario della retorica costituisce una delle differenze specifiche tra Antichi e Moderni Nei tempi moderni quest'arte è l’oggetto di un disprez zo generale e quando noi Moderni ne facciamo uso i meglio che se ne possa fare non è altro che dilettanti smo ed empirismo grossolano. In regola generale il sen timento per il vero in sé è molto più sviluppato: ma la etorica Mmasg
tn
ha.radici.in.un.popolo.che viveva ancora 1 mitiche
e
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gno assoluto della fede storica; so che non essere educato.
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Il testo di Nietzsche prosegue cercando di proporre per la retorica una nuova strada, quella che arriva a definire la forza della parola come una sorta di «energia nervosa». È la vecchia ipotesi della parola come potere magico, trasformata in forza, in energia, quasi in capacità di percussione. Ma due erano le strade che Nietzsche poneva insieme: da una parte la retorica degli antichi, legata a una precisa società che — egli sottolineava — era una società repub15
La comunicazione
inautentica
blicana. Dall’altra una possibilità che sopravvive agli antichi, l’idea della parola, e dunque della retorica, come energia sonora, come impulso e reazione nervosa, come segno dlun potere. Î la natura del linguaggio
le forme d'espressione, nonliane lo ds ma una sua trasformazione, trasfigurazione €, al limite, falsificazione. In questo modo Nietzsche at| taccava l’oggettivismo della scienza tardo-ottocentesca, portandone alla luce gli impulsi soggettivi nascosti. E il linguaggio non era più soltanto luogo dellagrammatica, ma diventava anche spazio retorico. Riemergeva così una strada che aveva avuto delle premesse, ma che Nietzsche rilanciava per un’età moderna, al punto che anche quando ci si muove al di fuori di sentieri nietzschiani, il discorso sulla re-
torica moderna parte certamente da quegli stessi impulsi profondi. La seconda citazione è una riflessione di Heidegger tratta da una delle opere capitali del Novecento, Essere e tempo, all’interno di un capitolo de-
dicato alla dialettica in cui il filosofo espone i termini del contrasto tra il «Se stesso» e il «Si», l’impersonale: poche pagine che in qualche misura si legano al titolo di queste pagine dedicate alla Comuricazione inautentica. «Si» è la traduzione italiana del Man, o del Or 0 del One, che il tedesco, il francese e l’inglese hanno come formula più riconoscibile del nostro «si» impersonale. Heidegger sostiene che il «Se stesso» si nutre del «Si», ma non si tratta di un movimento dialettico. Dunque l’autenticità — il «Se stesso» è l’autentico, è ciò che è solo mio — passa 16
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attraverso qualcos'altro, appunto il «Si», che non è solo soggetto del discorso, ma anche della chiacchiera, della ciarla, delle parole che si ripetono e che comunicano poco, anche se stabiliscono sempre dei rapporti. In queste pagine, Heidegger affronta quello che chiama il tema della «tonalità affettiva». E difficile tradurre il termine tedesco, che com-
porta altro: la «tonalità affettiva» è un rapporto primario nella ontologia dell’uomo, perché sta a significare il suo collocarsi nelle cose e nello spazio, il suo essere in rapporto con il reale in luoghi sempre determinati. A voler usare un termine romantico ci si potrebbe rifare all'idea di «stato d’animo», ma non si coglierebbero ancora tutte le sfumature dell'originale tedesco. E proprio mentre Heidegger parla della «tonalità affettiva» emerge il tema della retorica. Non si tratta però di retorica fout court, bensì di quello che è forse il più grande testo di retorica, la Retorica di Aristotele. Scrive dunque Heidegger: Non è a caso che la prima trattazione sistematica
delle emozio stata
condotta
Cui nell
ambito
della
analizzate passioni, gli affetti, della
Retorica.
a retorica come
nterpretazione
andi non
«psicologia».
ima@mnnel'secondo
tradizionale
sia [otele
libro
presenta
una sorta di «disciplina»; essa deve
invece essere intesa come la prima ermeneutica sistema-
tica dell’essere-assieme quotidiano. La pubblicità, come modo di essere del Si non solo ha, in generale, una sua tonalità emotiva, ma ne ha bisogno e la «suscita». L’oratore parla in essa e muovendo da essa. Ha quindi bisogno di conoscere le variazioni della tonalità emotiva per suscitarle e dirigerle a proprio vantaggio.
| Nell’interpretazione di Heidegger, dunque, il secondo
libro della Retorica
di Aristotele è una de
La comunicazione
inautentica
«ermeneutica sistematica dell’essere-assieme quo-
tidiano», un apparato di interpretazione dei comportamenti dell’uomo, e dunque un’antropologia fondata sull’analisi della «tonalità affettiva», del
rapporto primario dell’uomo con gli altri uomini e con le cose. Questo porta a due ulteriori importanti considerazioni: innanzi tutto suggerisce la necessità di stabilire, tra retorica ed ermeneutica, un rapporto assai più stretto di quanto solitamente
non si faccia, anche dopo la strada aperta da Gadamer con Verità e metodo. Inoltre, se la retori-
ca è il luogo in cui si vive e si riconosce il molteplice quotidiano, si comprende meglio anche l’affermazione di Rorty ripresa in apertura secondo cui non è possibile pensare a una società in cui la retorica non trovi spazi — anche se il filosofo americano, con ogni probabilità, non pensava a questa pagina di Essere e tempo. Ma perché Heidegger si ferma sul secondo libro della Retorica di Aristotele? Intanto indica un grande testo, tutt'altro che superato: ciò che è venuto dopo, la psicologia, è meno di quanto Aristotele avesse percepito in quelle pagine. La retorica si fonda sulla psicologia ma va alla conoscenza di cose che non sono soltanto semplici funzioni psicologiche. E la «tonalità affettiva» è qualcosa di più delle emozioni in quanto semplici momenti psicologici. In secondo luogo Heidegger si propone, fuori da tradizioni filosofiche di tipo idealistico, la fondazione di una filosofia dell’esistenza — «esistenzialismo» è troppo poco —, di una fenomenologia della vita quotidiana di là da Husserl, con nuove logiche che non sono più quelle del soggetto assoluto schellinghiano, fichtiano, hegeliano e postidealistico. Ed è su questa strada che la retorica aristotelica viene proposta non 18
La comunicazione
inautentica
solo come una strada del passato, ma come il sentiero di una riflessione che può ancora avere un significato profondo, da riprendere e sviluppare. Non sto dicendo che Heidegger è un neoaristotelico, anche se la sua formazione comprende un mondo medievale pervaso di aristotelismo; ma certo egli vede quella zona di Aristotele come qualcosa che non appartiene solo al passato. Non è qui il caso di ripercorrere la lunga storia della retorica — ciò che in parte è ancora da fare. Mi propongo invece un esercizio forse meno impegna-
tivo, che potrebbe però finire per essere più ambizioso: capire meglio certe ragioni profonde di quella storia e, ripercorrendole, tornare al mondo contem-
poraneo per tentare di individuare alcune direzioni e suggerire alcune risposte.
Possiamo cominciare col dire — e Nietzsche lo aveva intuito benissimo — che la retorica è un’invenzione dei sofisti, in contrapposizione ad altre filosofie. Essa si propone come una problematica del linguaggio che mette in discussione le verità semplici della filosofia. Dai sofisti emerge Platone, che distingue tra una buona e una cattiva retorica e vuole però, perché sia buona, «inverarla nel vero», che non è il molteplice ma l’uno. Dopo Platone, Aristotele intende dare un’interpretazione più equa e più ampia della retorica all’interno di una costruzione sistematica dell’uomo che reggerà per molti secoli, anche là dove sembra venire meno e dove retorica, logica, poetica, etica e politica sono intimamente congiunte, pur rappre-
sentando province diverse dell’essere umano. Per Aristotele la retorica è un momento all’interno di una teoria generale del comportamento dell’uomo come ente pubblico, una zona che pertiene al lin105,
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guaggio in quanto fondatore del comportamento sociale. Una faccia è poi la poetica, che però riguarda soltanto un ambito più specifico, cioè l’epica e il dramma. E se la retorica appartiene alla sfera del comportamento pubblico, è anche intimamente congiunta all’etica, come mostrano i contatti tra la Retorica el Etica nicomachea. Vediamo per un momento, per poi dipanarne una serie di considerazioni, come si presenta La
Retorica di Aristotele. Abbiamo già appreso da Heidegger che il secondo libro verte sulle passioni. Ma il termine paztbe, che i latini traducevano con affectus, dice di più del termine passzon:: si tratta della vita delle forze che sono in noi, a voler usare
dei termini approssimativi ma che ben rivelano l’ampiezza dell’oggetto. La Retorica è divisa in tre libri. Il primo spiega quali sono gli strumenti argomentativi e operativi
della retorica, quali ragionamenti usa e come si differenziano le sue interne specializzazioni. Aristotele distingue tra il discorso pubblico, che riguarda la giustizia e che possiamo quindi chiamare «giudiziario», e il discorso deliberativo, che serve invece a
prendere decisioni. Infine individua una terza categoria discorsiva che non ha queste finalità immediate, che parla più in generale dell’uomo, per lodarlo o per biasimarlo: il discorso «epidittico» o «dimostrativo».
Quali sono gli strumenti principali e come si colloca la retorica nei confronti della logica? La retorica è altro dalla logica, questo è chiaro. Nella logica si parla del vero necessario, nella retorica si parla dell’uomo di ogni giorno e delle sue verità probabili, verosimili, di cui si deve discutere, di cui manca forse una misura assoluta. 20
La comunicazione
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La retorica ha punti di contatto con la dialettica, ma è altro anche dalla dialettica. E mentre Platone aveva stabilito che se la retorica si allontana dalla logica del vero ricade nel falso, per Aristotele essa ha un suo spazio, tocca certe province dell’uomo, e acquista quindi una funzione positiva. La retorica ha bisogno di prove, di indizi, di
testimonianze, di esempi, di argomentazioni, che non sono del tipo logico-sillogistico, ma costituiscono ragionamenti più brevi, più semplici, che con il termine tecnico aristotelico chiamiamo «entimemi». Per poter persuadere e conquistare qualcuno alla propria tesi sono necessari ragionamenti semplici,
che vanno comunicati direttamente, riguardano di solito un’operazione orale e in ogni caso si celebrano, attraverso l’oratoria e l’eloquenza, tramite il contatto diretto con qualcuno. E qui comincia il secondo libro: il contatto si stabilisce conoscendo ipathe, le passioni, le emozioni di colui a cui-ci si rivolge, imparando a usarle, perfino a giocarle. L’oratore deve avere un carattere, e cioè un ethos, mentre dalla parte degli uditori deve esserci una disponibilità di pathos, di sentire: chi parla deve stabilire un consenso, in quanto sentimento, in quanto legame in primo luogo emotivo. Il terzo libro è invece quello più tecnico, nel discorso corrente della retorica: ci si interroga sulle forme specifiche della scrittura, il tipo di periodo da usare, le cadenze, gli espedienti nella costruzione della frase... Siamo in quella che si chiama tecnicamente la zona della elocutio, della elocuzione, 0, col
termine greco, della /exzs. | Ci troviamo dunque di fronte a un sistema totale, in cui si distinguono tre elementi: c’è chi parla,
chi ascolta, e ciò di cui si ragiona. In termini lingui21
La comunicazione
inautentica
stici si tratta di quello che viene definito un «sistema comunicativo»: un parlante e un destinatario, tenu-
to presente fin dal principio, in un rapporto «faccia a faccia», quasi di tipo agonistico. Il discorso deve fondarsi sulle probabilità e sulle credenze comuni, giacché per convincere qualcuno bisogna ricorrere a valori che anch'egli riconosce come tali: non dunque i valori assoluti ma credenze, opinioni correnti, ciò che nella società — Atene e poi il mondo che va di là da Atene — si riconosce quotidianamente come valido e a cui ci si può appellare. A voler impiegare una formula moderna, si tratta di una teoria del consenso, ma del consenso motivato, perché si fon-
da su cose che crediamo tutti, come le verità della vita sociale. Si potrebbe parlare di 72577, cioè di qualcosa che non è in discussione e ci permette di conoscere altro. I commentatori, in modi diversi, hanno perce-
pito che in questo modo, lo voglia o non lo voglia Aristotele, la retorica diventa l’attività nella quale viene alla luce il momento problematico dell’uomo: non le verità assolute bensì quelle in conflitto, di cui si deve discutere, di cui ci si deve convince-
re. Per questo qualche interprete ha sottolineato che, stando a queste considerazioni, la retorica è il luogo del molteplice, della pluralità, delle differenze a confronto e in dialogo, il luogo della moltepli-
cità interrogativa, in cui si pongono problemi piuttosto che dare soluzioni, e si è invitati a prendere decisioni. Dunque la retorica s’intreccia ancora più strettamente con il mondo problematico dell’etica e della politica, e vi è come un fermento all’interno del discorso aristotelico che, anche oltre le sue stesse
intenzioni, individua nella retorica il luogo in cui 22
La comunicazione
un’interrogazione nascosta
accompagna
inautentica
il grande
sistema dei valori che riguardano l’uomo. La storia della retorica antica vede altri capitoli, e un testo di così grande rilievo s’inabissa, resta tagliato fuori per alcuni secoli dal pensiero occidentale: il mondo medievale conosce la Retorica di Aristotele solo a lacerti, attraverso Cicerone, che la
rilancia a un nuovo livello più specificamente romano, con altre ragioni e altre esigenze etiche, di-
minuendo forse però l'ampiezza dell’orizzonte aristotelico. Nel mondo medievale circola soltanto l’Aristotele «letterario», quello di una certa versione della Poetica, mentre la Retorica viene finalmente recuperata e tradotta soltanto in piena età umanistica, fra Quattro e Cinquecento, quando la crisi del pensiero medievale, dopo l’Occamismo e lo Scotismo, dà luogo a una nuova idea di cultura che riscopre la retorica in contrapposizione al rigore e alla rigidità della filosofia, facendone una teoria del dialogo, del colloquio umano, della conoscenza dell’uomo come singolo e come ente pubblico. A questo punto la Retorica di Aristotele può entrare nel nuovo sistema e arrecare un ulteriore complemento. Ed è proprio ciò che accade successivamente quando — da Copernico in poi, con Galileo e tutti i grandi scienziati tra la fine del Cinquecento e il Seicento — viene affermandosi la scienza moderna, e l’aristotelismo, insieme ad altre filosofie antiche, inizia il suo lento declino in Occidente. Tuttavia l’etica aristotelica, insieme con la reto-
rica, resta ugualmente un elemento primario, anche perché nel mutare della società due categorie sono rimaste inattaccabili: quella dell’onore e quella del valore, entrambe legate ancora all’idea di un 04)
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mondo eroico feudale e neo-feudale che fra Cinque e Seicento va verso la formazione degli stati assoluti. La Retorica aristotelica rientra così nella tradizione occidentale, inserendosi nel nuovo grande apparato e trasformandosi progressivamente in una
teoria del comportamento: basta pensare al Cortegiano di Baldassar Castiglione che è appunto una dottrina del comportamento fondata su Cicerone e Aristotele. E sempre fra Cinque e Seicento un altro motivo aristotelico, comune alla Poetica e alla Retorica, il
problema della metafora, viene ripreso e analizzato in modi nuovi, arricchendosi di esperienze diverse. L’uomo viene ora percepito come una metafora di se stesso, in quanto ente culturale che costruisce un'immagine di sé: una nozione che tende a diventare generale proprio in questo periodo, e che però ha di nuovo una giustificazione aristotelica, rafforzata anche dalla riscoperta della filosofia stoica e della sua idea dell’uomo come attore di se stesso. Dire che l’uomo è metafora di sé è anche dire che l’uomo è una maschera. Ma quanto più emerge, rispetto al passato, un’idea di società come luogo in cui il gioco della forza si fa sempre più terribile — la Corte e lo Stato assoluto — tanto più l’idea della maschera e della retorica divengono non soltanto un modo di comportarsi quanto un modo di difendersi. Si percepiscono, più che in passato, i pericoli del commercio tra il vero e il potere, e la retorica diventa anche, per usare una parola di quel secolo, uno strumento della dissimulazione, cioè del sapersi presentare parlando in modo che le verità che pronuncio non vadano a mio rischio, poiché il potere è sempre in agguato. Tutto questo emerge in alcune pagine straordi24
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narie, care anche a Nietzsche, dell’Oracolo manuale e arte di prudenza di Baltasar Gracian, uno dei grandi moralisti del Seicento, che, non a caso, sono sem-
pre studiosi di retorica: in quanto dottrina del parlare come comportamento in una vita dominata dal potere assoluto, la retorica tende a diventare una sorta di etica dei moderni. Di Gracian citerò soltanto un detto famoso, in
cui la retorica è anche interna alla frase: «milizia è la vita dell’uomo contro la malizia dell’uomo». Mil: zia/malizia è un gioco di parole, una paronomasia, con un significato profondo. Si vede bene come la retorica, non in quanto teoria dell’immagine ma come teoria del comportamento, diventi, nel corso del Seicento, lo strumento per vivere in maschera e difendersi da una verità che è la verità del potere. E il «grande secolo» il Seicento, quello in cui, nello stato assoluto, si stabilisce anche la divisione tra privato e pubblico: la coscienza vive nel privato, mentre il pubblico appartiene al potere. La parola serve proprio a tutelare la coscienza, per ciò che essa può dire, che deve essere sempre cauto e prudente. Ma il Seicento è anche il secolo della filosofia moderna, del nuovo razionalismo di Car-
tesio. E il razionalismo ripropone e sostiene l’idea di una razionalità univoca, di una verità unica, rispetto a cui la retorica nelle sue diverse forme, come dottrina della metafora o dottrina del comportamento, torna ad essere una provincia del falso. Nasce così una battaglia che, con nuove ragioni, prosegue la contrapposizione già medievale tra logica e retorica: non conviventi, come già per Aristotele, ma contrapposte. La retorica diviene una logica negativa, una logica del falso. Quando Nietzsche
scriveva le pagine citate sopra, aveva EA)
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ben presenti davanti a sé i sofisti greci da una parte e proprio questo Seicento di Gracian dall’altra. Dunque con il Seicento il pensiero moderno esilia la retorica come dottrina del comportamento e della parola metaforica o «ornata». C'è solo un modo di comunicare, il linguaggio semplice della verità; la retorica fa invece ricorso a un linguaggio composito,
mascherato, e proprio per questo va rifiutata. Al centro del dibattito si collocano gli uomini di un Ordine religioso nato nel Cinquecento, i Gesuiti, difensori di una retorica tradizionale, che diventa
quindi ancor più osteggiata in quanto arte del compromesso. Con il Settecento poi la radicalizzazione di questo processo giunge a compimento: tra Locke e Kant, si ratifica l’idea che la retorica rappresenti un uso mendace della parola, lo strumento dello sfruttamento della debolezza di chi ascolta. Nascono nuove discipline che sembrano prenderne il posto, da una parte l’estetica e dall’altra la psicologia (ma la retorica si portava già dentro queste possibilità). E se in un’opera quale l’Antropologia pragmatica di Kant è possibile ancora cogliere insieme le ragioni della vecchia retorica e le nuove prospettive, già in un’opera successiva, la Critica del giudizio, la con-
danna della disciplina è ormai esplicita e il passato viene rimosso dalla dottrina illuministica della verità, che non lascia più spazio alcuno per la retorica. A meno che per retorica non si intendano le nuove esperienze politiche: il Settecento vede in effetti una straordinaria retorica applicata, drammatica, come quella della Rivoluzione e anche di certo mondo anglosassone. Sta di fatto che la tradizione retorica sembra spezzarsi, perché il Settecento tenta, già prima della 26
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Rivoluzione, e ancor più in seguito, di fondare una nuova etica, proponendo un modello complessivo dell’uomo, dove il vecchio edificio viene infranto e
ricostituito. Così la retorica finisce per prendere altre strade, perché questo è anche il secolo della nuova dottrina dei sentimenti, delle pulsioni oscure come delle grandi emozioni: e la retorica della passione, propria in particolare del grande teatro moderno della fine del Seicento, andava già in quella direzione. Ma il Settecento fonda anche l’idea della soggettività moderna, con la teoria del genio, della particolarità, dell’originalità inconfondibile, un ul-
teriore motivo di condanna della retorica, che appariva invece
una
dottrina
dell’imitazione,
della
tipologia, in cui l'individuo diventava se stesso seguendo un copione e applicando schemi generali. Nel suo After Virtue: A Study In Moral Theory Alasdair MacIntyre ha meditato a lungo su questi fenomeni, nel tentativo di ricostruire una storia del-
la filosofia e dell’etica, ma soprattutto cercando di usare questa storia per interpretare la contemporaneità. Secondo MacIntyre non c’è stata, da parte delle nuove filosofie dal Settecento in poi, una sostituzione vera e radicale dell’etica aristotelica intesa come grande sistema: ciò che MacIntyre chiama l’«xemozionalismo» non ha cancellato la dottrina aristotelica della morale, basata su una teoria dei valori. Persino Nietzsche, il più radicale, non è riu-
scito a rimuovere o invalidare il grande disegno aristotelico, tanto che oggi, conclude il filosofo inglese, la filosofia che si rivolge alla pratica deve recuperare proprio l’etica aristotelica.
Il problema della retorica rientra certamente in questo orizzonte di questioni e richiama domande radicali che riguardano, più in generale, il compor25
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tamento dell’uomo. È probabile che il ritorno all’ermeneutica nel nostro secolo sia un’altra faccia del ritorno alla retorica. Questa aveva costruito un homo rbetoricus, individuo delle verità parziali, del-
la finitudine, del mondo quotidiano, in cui si compiono scelte e i valori vengono mediati dalla contingenza e dalle circostanze. Già per Aristotele, la retorica aveva sempre a che fare con le circostanze, era immersa nella terzporalità, a voler usare il termine di Heidegger. Ma — è questa ora la domanda da porsi — la retorica rappresenta una forma di comunicazione autentica o inautentica? Qualcuno ha detto che l’ermeneutica è una risposta alla caducità dell’uomo e un tentativo di risolvere la guerra civile per il testo assoluto. Una volta che si è stabilito che non vi è solo il testo sacro, ma i testi, al plurale, non vale più un unico criterio d’interpretazione, ne esistono vari che rappresenta-
no la pluralità delle posizioni e delle conoscenze. A valere non è più il principio della forza, ma quello della trattativa, della negoziazione, del rapporto. Oggi abbiamo perduto l’idea del progresso lineare di tipo illuministico e scientifico e abbiamo accettato che non vi è una tradizione assoluta, ma piuttosto tradizioni che convivono; abbiamo constatato la for-
za dei conflitti, quanto influiscano i pathe, i pregiudizi. Come si può convivere a questo punto, e in
quali modi? E dove sta la nostra autenticità? La risposta può venire dalla retorica: essa riconosceva che un principio fondamentale dell’uomo è l'imitazione: l’uomo diventa se stesso imitando, emulando, è un insieme di ricordi, è memoria. E se l’uomo è una molteplicità di contingenze e di ricordi, l'antropologia cui possiamo aspirare reca di nuo28
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vo in sé un discorso di tipo retorico. Quando Calvino, alla fine delle Lezioni amzericane, afferma che siamo un insieme di citazioni, non fa altro che sostenere
l’idea secondo cui possiamo essere noi stessi solo attraverso il molteplice, non come forma originale, ma come forma costruita, che si evolve storicamen-
te. Ma stando così le cose, l’inautentico della retori-
ca rispetto alla logica diventa l’autentico dell’uomo per ciò che egli può essere realisticamente, con tutte le difficoltà che corrispondono ai sistemi comunicativi contemporanei e alle forme più sofisticate di convinzione e persuasione.
Se si guarda al passato, la retorica ha sempre portato in sé la dialettica dell’orale e dello scritto. In origine era una dottrina del dire, non dello scrivere. Ma con il Quattrocento si apre un nuovo capitolo nella storia dell’uomo, quello della stampa, con una trasformazione radicale anche delle capacità visive. Oralità e scrittura pertengono quindi a pieno titolo alla retorica. Ma mentre nel corso dell’Ottocento si poteva ancora pensare che, di là da un’oratoria pubblica di tipo politico, si era ormai entrati in una civiltà della scrittura e della grafia, con il Novecento le questioni dell’oralità e della retorica sono state potentemente rilanciate dalla diffusione e dall’impiego dei nuovi mezzi tecnologici. Anche volendo lasciare da parte il fatto che i regimi totalitari della prima parte del secolo sono inconcepibili senza una grande oratoria di massa, amplificata dalla radiofonia o, nel caso hitleriano, consacrata da grandi feste collettive - come accadeva del resto anche nel Seicento -, è sufficiente gettare uno sguardo alla contemporaneità, in un momento in cui la televisione diventa il brusio permanente della nostra vita, per rendersi conto di quanto siano attuali queste 20
La comunicazione
inautentica
problematiche. Scopriamo così che, di nuovo in una luce ambigua -— non solo di forza ma di pericolo, di magia al negativo — la retorica come comportamento verbale è tornata a far parte della nostra vita, non tanto nel senso di amplificazione, di iperbole, quanto piuttosto come uso tecnico di certi effetti per conseguire certi risultati, per persuadere qualcuno, per trarlo al nostro argomento. Chi ha cominciato a muoversi in questa direzione ha visto rinascere in forme nuove e quasi imprevedibili alcune consuetudini del passato, ma soprattutto il ricostituirsi di una serie di categorie che sembravano essersi inabissate al venire meno di un certo sistema, di una certa pratica, di una certa me-
moria. Si prenda la politica contemporanea: nel mondo americano si dibatte da qualche anno il problema di quella che viene definita la «teledemocrazia», la democrazia televisiva, con analisi che
ne prendono in considerazione i pro e i contro facendone emergere le dinamiche nascoste. E se anche non vogliamo sposare la celebre sentenza di McLuhan per cui «il r2ediu77 è il messaggio», certo nella dimensione teatrale-agonistica televisiva conta di più ciò che il personaggio sa essere rispetto a ciò che dice. O meglio, il senso di ciò che dice è talmente improntato dalla sua teatralità che questa finisce molto spesso per diventare determinante. Così, in un dibattito televisivo tra i due pretendenti alla Casa Bianca, la sicurezza ostentata da uno dei candidati si rivela vincente anche nel caso in cui l’avversario disponga di argomenti migliori. E questo perché il giudizio comportamentale visivo è più immediato del giudizio interno dei significati. Si ritorna allora, con i dovuti aggiustamenti, a ciò che Aristotele diceva su come l’oratore guada30
La comunicazione
inautentica
gna il consenso dell’uditorio, ossia costruendosi una credibilità e conquistando la fiducia di chi ascolta. Perché, quando io conosco colui che parla e ho fiducia in lui, gli credo anche se l'argomento è fragile. Tutto questo era evidente fino a quando si è dato un ascolto fortemente ideologico: l’uomo di partito, in quanto era colui che si faceva portatore di un sistema di valori, poteva contare su un patrimonio di credibilità che gli derivava dal proprio ruolo e questo, molto più delle sue parole vere e proprie, risultava determinante per il suo successo. Che cos'è, in definitiva, una marca, una griffe? Anche in questo caso si tratta di un atto di credibilità: nel momento in cui prendo in considerazione il prodotto di una certa marca, sono portato a credere che sia un buon prodotto ancor prima dell'acquisto. E questo è particolarmente vero nei casi in cui ci si muove
all’interno di categorie estetiche, come il mondo della moda e del design. E lo strumento retorico a questo punto diviene anche strumento ermeneutico, per interpretare comportamenti ed effetti della comunicazione nel momento stesso in cui ne esamina i meccanismi di costruzione, nonché per stabilire quando questi tentativi riescono e, in caso negativo,
perché falliscono. Il pubblicitario è del resto un grande studioso di retorica, che in più ha scoperto di poter giocare con un elemento che gli antichi non conoscevano, o conoscevano per altre strade, cioè l’inconscio 0, come più spesso si dice oggi, il subliminale: tutti quei processi squisitamente metaforici che operano al di sotto della soglia di percezione e introducono nel sistema ricettivo accostamenti di senso destinati a influenzare profondamente il ricevente.
Anche la televisione, con il suo apparato di tecni31
La comunicazione
inautentica
che e la possibilità di far convivere e giocare linguaggi diversi, è uno spazio in cui la retorica trova evidentemente nuovi campi d’applicazione. Il montaggio, per esempio, ereditato dalla tradizione del cinema e dalla riflessione dei grandi teorici russi e statunitensi quali Ejzen$tejn o Griffith. Alla base di questa tecnica, per loro stessa ammissione, c'erano i
processi metaforici, l'intento di associare elementi diversi per far nascere qualcosa di nuovo. E in televisione ogni giorno questa invenzione deve essere
rinnovata perché, come nella pubblicità, le sensazioni suscitate nello spettatore tendono a usurarsi, le tecniche a perdere di efficacia, e allora gli accostamenti si fanno sempre più audaci ed elaborati. Ma, alla fine, in questo continuo radicalizzarsi dei
sentimenti rappresentati, il rischio è quello della messa in crisi della distanza tra reale e irreale, tra il
fantastico e ciò che è, il corpo che finge di soffrire e il corpo che soffre, mettendo in moto un meccanismo che finisce con l’incidere sulla nostra costruzione mentale, sulle nostre strutture percettive e persino giudicanti. Ed ecco riemergere il problema dell’autentico e dell’inautentico: è probabile che l’autentico sia una battaglia continua con l’inautentico. Siamo tutti legati a formule e stereotipi, che in qualche modo dobbiamo continuamente reinventare; non
ci è possibile cancellarli, ma è necessario riprenderli in esame, metterli sotto sorveglianza. Sotto questo profilo la nostra coscienza deve essere vigile e non semplicemente cedere a ciò che viene proposto: occorrono sempre distanza e riflessione. Ma quali sono, in definitiva, imodi di persuasio-
ne della vita pubblica e quali i valori a cui ci si richiama? Come convivono verità diverse, e come trovano un punto comune senza distruggersi, ammiDE
La comunicazione inautentica
nistrando e negoziando i conflitti? Mentre, con il Novecento, filosofie di tipo non più idealistico e altre prospettive socio-antropologiche in senso lato riscoprono la funzione della retorica come spazio attraverso cui interpretare reazioni e modi d’essere
dell’uomo, contemporaneamente si assiste all’affermarsi di una vita associata che, tramite le nuove
forme tecnologiche, rilancia tutta una serie di modalità, di stili di vita che, seppure legati ad altre società, venivano riconosciuti anche dalla tradizio-
ne retorica del passato. Così, quasi per paradosso — ma la retorica è luogo di paradossi, accetta i paradossi dell’uomo e riconosce, a differenza della logica, il principio di contraddizione — la retorica che con il venir meno del grande sistema aristotelico era stata riconosciuta per alcuni secoli come luogo del non-autentico,
torna
a essere
un'esperienza
attra-
verso cui discutere della nostra possibile e limitata autenticità. A voler trarre un’ulteriore conseguenza potremmo dire che la «filosofia della retorica» — formula ripresa dal titolo di un libro di Ivor Armstrong Richards — è un modo per assumere l’uomo come molteplice, come contraddittorio, costituito da tradizioni diverse, spesso conflittuali, ma sem-
pre alla ricerca, se non di un’intesa, quantomeno di un dialogo. In questo la retorica continua a essere, come era sempre stata, una fede nella parola che consente agli uomini di amministrare anche ciò in cui non si capiscono, senza ricorrere a qualcosa che è di là dalla parola, la violenza. Se dunque oggi vogliamo parlare di retorica, dobbiamo vederla in modo problematico, entro un orizzonte di questa natura. La storia che ho cercato di raccontare sommariamente ha una tesi molto precisa, che ci riporta a quello che può essere il compi35
La comunicazione
inautentica
to di un’antropologia contemporanea: un’interpre-
tazione dell’uomo che parta dall’uomo anziché da teorie o ideologie, facendo i conti con ciò che è irriducibilmente proprio dell’uomo, e cioè ancora il molteplice, che non si riduce se non attraverso un’autorità, ma che altrimenti deve necessariamente esse-
re negoziato. All’interno di questo cammino la retorica — come oggi qualcuno sostiene — non può che essere una teoria del dialogo, inteso come rete di conflitti, di differenze, dove ognuno resta se stesso e tuttavia deve entrare in rapporto, senza il possesso
di una verità assoluta e totalitaria, ma solo di una verità parziale. Anche gli scienziati riconoscono oggi che nella scienza ha larga parte la retorica, e che quindi esiste una «retorica della scienza», nel senso positivo del termine. Essi sostengono che dobbiamo riconoscere che il nostro mondo è quello di una razionalità finita, dalle tante province che debbono essere messe in rapporto tra loro e che insieme rap-
presentano la complessità del nostro essere, senza che una fagociti le altre. Siamo condannati alla nostra personale molteplicità, che però dobbiamo trasformare in identità, in coscienza
del nostro
wo7
stessi, per dirla di nuovo con Heidegger e concludere così ritornando al punto di partenza.
34
LI
I topoi nella letteratura e nell’arte
Uno dei Le:tmotiven di queste pagine è costituito dalla proposta di stabilire un nesso più profondo tra retorica ed ermeneutica. Già nella tradizione filologica esisteva la consapevolezza di questo legame: come sarebbe possibile, d’altro canto, interpretare un testo senza conoscere le astuzie della sua costruzione?
Un’interpretazione
autentica è
quindi anch'essa frutto di una tecnica di lettura. E se è vero, come sosteneva anche Nietzsche, che per
interpretare è necessario leggere ad alta voce e che l’arte del leggere consiste nel leggere lentamente, retorica, ermeneutica e lettura finiscono col legarsi in maniera ancora più significativa. Tanto nella retorica quanto nella poetica, una delle categorie principali, quando si giunge ad affrontare il momento della «elocuzione» e dello «stile», è quella della metafora, il meccanismo che è alla base della costruzione dellei immagini. È ancora una volta Nietzsche, in alcune pagine celebri di Verità e menzogna in senso extramorale, a impostare il problema per noi. Egli fu a suo modo un filosofo della filologia e dunque un filosofo della retorica: gran parte della sua problematicità deriva da questo doppio abito. La tesi radicale di Nietzscheè che l’uomo vive in una sorta di prigione di metafore e che il suo linguaggio è un insieme di metafore:
DT
1 topoi nella letteratura e nell'arte
Che cos'è una parola? Il riflesso in suoni di uno stimolo nervoso. Ma il concludere da uno stimolo nervoso l’esistenza a una causa fuori di noi è già il risultato di una applicazione falsa e ingiustificata del principio di ragione.
Per Nietzsche la parola non designa qualche cosa, mette piuttosto in moto una forza che agisce su chi ascolta: non esiste coincidenza tra la parola e la cosa. È una tesi che egli riprendeva in parte dalla sofistica greca e che lo portava a negare l’esistenza della «cosa in sé», per parlare in termini kantiani: se non c’è coincidenza tra parola e cosa, allora la parola è sempre una metafora. La «cosa in sé» (la verità pura e priva di conseguen-
ze consisterebbe appunto in ciò) è d’altronde del tutto inafferrabile per colui che costruisce il linguaggio, e non è affatto degna per lui di essere ricercata. Egli designa soltanto le relazioni delle cose con gli uomini e ricorre all’aiuto delle più ardite metafore per esprimere tali relazioni. Uno stimolo nervoso, trasferito innanzi tutto in un'immagine: prima metafora. L'immagine è poi plasmata in un suono: seconda metafora. Ogni volta si ha un cambiamento completo della sfera, un passaggio a una sfera del tutto differente e nuova.
Il rapporto dell’uomo con le cose nel linguaggio si dà attraverso la metafora, che quindi sarebbe costitutiva dell’uomo: un universo di secondo grado costruito sulle relazioni col mondo reale. In ogni caso il sorgere della lingua non segue un procedimento logico, e l’intero materiale su cui e con cui più tardi lavorerà e costruirà l’uomo della verità, l’indagatore,
il filosofo,
proviene
se
non
da una
Nefelococcigia, certo però non dall’essenza delle cose. 38
I topoî nella letteratura e nell'arte
Ragionando in questo modo le astrazioni del filosofo, secondo Nietzsche, non sono altro che im-
magini e metafore invecchiate. Ma allora che cosa resta della verità? Che cos'è dunque la verità? Un mobile esercito di metafore,
metonimie,
antropomorfismi,
in breve una
somma di relazioni umane, che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono
metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete.
Ciò che resta, per dirlo ancora una volta con una formula nietzschiana, è «l’impulso alla verità» che alla fine consiste ‘nel vivere nella non verità delle metafore, perché quella è l’unica verità che è concessa all’uomo. L’uomo razionale opera su astrazioni, su metafore che credono di non essere più metafore; l’uomo intuitivo invece opera direttamente sulle metafore, cioè su qualcosa di primitivo e originario. Diversa sarà la loro reazione di fronte al problema del tragico e del dolore: così il problema della verità si legava, per Nietzsche, a quello della metafora e da qui all’uomo e al suo dolore esistenziale. Richiamandosi in modo paradossale e provocatorio agli elementi più radicali della tradizione retorica — nel caso specifico la sofistica greca — il filosofo poneva al centro da una parte l’effetto di forza che la parola ha su colui che l’ascolta e dall’altra il problema della metafora e delle immagini che divenivano qualcosa di proprio dell’uomo, di originario, di 99
I topoi nella letteratura e nell’arte
irrinunciabile, alla base della stessa razionalità: l’uomo razionale non è che un uomo intuitivo decaduto e impallidito. Emergeva così la questione della funzione esistenziale e dunque anche antropologica della metafora e della retorica, approfondita poi nel corso del Novecento. Si potrebbe assumere a paradigma della
riscoperta della retorica o di alcuni suoi aspetti l’esempio di due grandi studiosi del Novecento quali Aby Warburg e Ernst Robert Curtius: accostarne le vicende, ripercorrerne i passi, su strade diverse, per quanto complementari, non è operazione impropria, dal momento che ebbero modo di conoscersi e che l’opera più importante di Curtius ha proprio Warburg tra i suoi dedicatari. Ai primi del Novecento Aby Warburg ha quarant'anni, è uno
studioso già maturo,
e si muove
all’interno di una disciplina, la storia dell’arte, che
in quello stesso periodo vive un momento straordinario, dall’impressionismo al postimpressionismo fino alle avanguardie, con il futurismo e l’espressionismo. Ma Warburg non vuole fermarsi al mondo delle forme: mentre per un’altra strada si andava verso quello che è stato chiamato il formalismo visivo, egli cercava di esaminare la cultura sedimentata all’interno delle immagini per risalire ai significati che entrano nella costruzione delle forme figurate. E per farlo ricorreva alla celebre dualità nietzschiana di apollineo e dionisiaco, contrapposizione radicale tra il sereno e il tragico. Per definire i significati Warburg prese a studiare le immagini. In arte i significati sono sempre consegnati a figure, a metafore realizzate: il mondo dell’arte è dato dall’insieme di queste grandi immagini, che vivono nella memoria e che si traducono 40
I topoi nella letteratura e nell'arte
via via in scultura e in pittura, trovando i propri significati nella continuità e nei legami con la tradizione. Non a caso ho usato il termine mwezzoria: alla memoria era intitolata una parte della retorica classica, nella consapevolezza che chi parla deve ricordare, deve possedere un tesoro — nel senso pieno del latino thesaurus - di immagini a cui attingere, una tradizione di cui avvalersi e da rimettere in moto e in vita. Warburg partì proprio da questa idea di una memoria non più individuale, ma collettiva, una memoria dell'immaginario, che la civiltà occidentale ricavava dalla classicità, dalla mitologia, dal mondo delle favole e delle leggende, codificate da valori religiosi. In tutto il grande apparato dell’arte occidentale esisteva un flusso di continuità, una vita
profonda senza la quale non è possibile intendere appieno le immagini differenti che, in epoche diverse, spuntano ed emergono; una continuità che lo faceva parlare di Bi/derwanderung, di «migrazione delle immagini»: nuclei di significato che fluivano da scaturigini profonde per raggiungere la luce dell’arte, senza la quale non è possibile intendere le immagini che emergono. Warburg era poi convinto che la classicità non era il mondo sereno e tranquillo che si era istituzionalizzato nell'immaginario occidentale: l’apollineo conviveva sempre con il dionisiaco, la razionalità con l’irrazionalità e con forze più oscure e notturne. Nel ripercorrere la storia e i significati di queste immagini egli si proponeva di raccontare la storia tragica dell’uomo europeo, e per tarlo legava la storia dell’arte alla storia delle religioni, all’astrologia, a tutto ciò che è ricerca di sicurezza — le immagini come forza magica di protezione — mettendo in con-
41
I topoi nella letteratura e nell'arte
tatto l’arte e l’antropologia dei popoli primitivi. Le arti figurative venivano così a legarsi strettamente con la danza, con il dramma, con le operazioni ma-
giche, ma soprattutto con la festa, come grande momento collettivo. Anche se non riuscì a completare il suo disegno, egli riteneva che la storia dell’arte potesse diventare un grande atlante di immagini, in cui scorreva un sapere profondo, mitico, che, partendo dalla classicità, passava attraverso il cristianesimo e che, nel
mondo contemporaneo, usciva dall’arte stessa e si riversava sulle pagine dei giornali o nei cartelloni pubblicitari, facendo rivivere, a livello di clichés, le
grandi immagini del mito. Ciò che andava proponendo, insomma, era una retorica profonda delle
immagini mitiche che non manca di punti di contatto con il pensiero di Vico. Il testo forse più celebre di Warburg, quello che può essere considerato una sorta di manifesto del suo pensiero, è il saggio presentato nel 1912 al X Congresso Internazionale di Storia dell'Arte a Roma,
dedicato al ciclo di affreschi di Palazzo Schifanoia e pubblicato negli Atti del convegno con il titolo Arte italiana e astrologia internazionale nel Palazzo di Schifanoia a Ferrara. Svelando la costruzione astrologica degli affreschi, Warburg ne portava alla luce la dimensione magico-esistenziale soggiacente: l’uomo, per garan-
tirsi dal pericolo del vivere, convenzionalizza le proprie reazioni attraverso rituali che portano al cosmo. Va detto, una volta di più, che quella dello studioso tedesco era una retorica delle immagini e non delle parole, anche se è poi vero che le immagini erano nutrite di cultura verbale, una «sapienza riposta», per dirla con Vico. 42
I topot nella letteratura e nell'arte
Warburg getta così le basi della moderna iconologia, anche se in lui esiste un movente antropologico che nei suoi successori, a cominciare dal più noto e autorevole, Erwin Panofsky, tende a venir meno. La sua Mwemosyne, il progetto incompiuto di un grande atlante della memoria, aveva alla base una retorica delle immagini intesa come disciplina mista che abbatteva le recinzioni tra i saperi, in aperta contrapposizione con quelli che chiamava «i guardiani di Sion», i custodi dei confini.
Il termine iconologia non è invero una parola coniata in anni recenti: si intitolava appunto così
un’opera paradigmatica di Cesare Ripa della fine del Cinquecento, un repertorio di immagini corredate di commenti che esplicitavano i motivi della raffigurazione. Impiegando tutto il sapere enciclopedico di allora, dai testi sacri a quelli profani, Ripa rendeva ragione del perché, ad esempio, le personificazioni dell’avarizia, della saggezza o dell’adulazione andassero rappresentate in un certo modo. Questo dizionario di immagini, ciascuna corredata della sua spiegazione, allo stesso tempo istituzionalizzava tali pratiche e le rilanciava per il futuro: sicché Warburg aveva alle sue spalle un’enciclopedia della retorica che aveva messo insieme parola e immagine. D'altro canto, fin dalla Retorica di Aristotele era
chiaro il principio secondo cui primo compito dell’oratore è quello di «far vedere» le cose, di dare alla parola un massimo di evidentia come dicevano i latini, mentre i greci usavano il termine erdrghesa — da non confondere con enérgheta: la parola eloquente, la parola che ha effetto, deve presentare il suo argomento come una cosa viva, come un’immagine. Per suscitare emozione e persuasione, per
movere e delectare, occorre che lo spettatore parte43
I topoîi nella letteratura e nell'arte
cipi all'evento, lo «veda» a tal punto da restarne coinvolto drammaticamente, come se si svolgesse davanti ai suoi occhi. Nel corso del Cinquecento si va in direzione di una retorica tecnica, come è ap-
punto l’iconologia, in cui alle immagini sono associate parole che esplicitano e spiegano le immagini stesse. Si tratta, all’interno della retorica cinquecentesca, della tradizione specifica delle imprese e degli emblemi: in entrambi i casi abbiamo un'immagine associata a un motto o a una vrscriptio. Ma mentre
nell'impresa il soggetto è un individuo eroico, un membro dell’élite, della classe dirigente, l'emblema è piuttosto una verità morale rivolta a tutti, all'uomo in generale: in entrambi i casi abbiamo un'immagine verbalizzata in cui il commento è parte integrante della raffigurazione. E proprio in virtù di questo rapporto, i teorici del nuovo aristotelismo tra Cinque e Seicento parlavano dell’impresa e dell’emblema come di forme di metafora. Per l'emblema, in
particolare, possiamo rifarci alla formulazione tecnica presente nel Canzocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro — uno dei testi più significativi non solo per la retorica secentesca: Emblema
è metafora,
adornamento
di fregi delle
sale o degli apparati, significante alcun documento morale o insegnamento dottrinale, per mezzo di figure iconologiche o fabulose ed erudite rappresentazioni assai più libere che le imprese.
Era la manifestazione di un pensiero che andava alla ricerca dell’unità di immagine e parola, una retorica nuova che si ricongiungeva all’enciclopedia e alla sapienza verbale del passato, e che resse fino a quando questo passato continuò a essere un patrimonio comune.
44
I topoi netla letteratura e nell'arte
Come accade per il vecchio sistema retorico, anche l’iconologia viene meno nel corso del Settecento: la grande pittura romantica di Friedrich e Constable, per non citare che alcuni nomi, si muove in altre
direzioni; anche il paesaggio, che nasce nel Seicento, quanto più si rivolge alla realtà, tanto più esce da questo sistema di immagini, di metafore €; alla fine, di convenzioni. Warburg non citava esplicitamente questa tradizione ma, per vie proprie, la riprendeva, spostandola però dal mondo della rappresentazione a quello dell’antropologia e della vita religiosa. In questo era un erede indiretto di Vico che, contro Cartesio,
aveva assunto la grande retorica rinascimentale e barocca trasformandola in un’antropologia dell’uomo primitivo. Con la sua retorica delle immagini, Warburg prosegue, all’interno della moderna storia dell’arte, su questo cammino fermandosi alle soglie del Novecento, quando ormai il sapere antico e la sua cultura figurativa possono rinascere soltanto a
frammenti. Ed è quindi dalla retorica che viene questa tecnica d’analisi delle immagini, le stesse della tradizione antica, che giungono fino a noi frantumate, separate dal sapere omogeneo in cui avevano avuto origine, destinate a essere consumate e rein-
ventate nel presente. In forme molto più consapevoli e molto più deliberate, anche l’opera più celebre e importante di Ernst Robert Curtius, pubblicata nel 1948, Letteratura europea e Medio Evo latino, si propone di recuperare alla modernità la retorica antica attraverso la descrizione di un grande sistema di immagini che lo studioso, ricollegandosi esplicitamente alla tradizione classica, definisce topoi o loci. Oggi è noto che Curtius iniziò a elaborare que45
I topoîi nella letteratura e nell'arte
sto libro verso la fine degli anni Venti, giungendo a ripensarne le ragioni più profonde con l’avvento del nazismo nei primi anni Trenta. Il libro copre un arco di tempo che ha il suo centro nel Medioevo e si esaurisce nel Seicento, con poche puntate verso il Settecento, e sembra alquanto paradossale che il primo stimolo per un’opera di questo genere giungesse da alcune riflessioni su un’opera straordinariamente moderna come l'Ulisse di Joyce. Curtius va alla ricerca del «sistema retorico della tradizione occidentale», convinto che la retorica
costituisca l'elemento di continuità tra le letterature durante il passaggio dal latino alle lingue nazionali, fino al Settecento. Anche Curtius conviene che il sistema si spezza nel corso del XVIII secolo: Goethe è l’ultimo scrittore che riesce ancora a vivere, con la sua modernità, all’interno di questa grande tradizione. Poi, come un edificio che crolla, il sistema si frantuma per rinascere, ma solo a frammenti, nell'opera di alcuni autori contemporanei, come Joyce.
Per Curtius la storia della letteratura era rimasta un’operazione arcaica che mancava di scientificità, e lo studio della retorica e della sua tradizione costituiva il fondamento su cui una disciplina moderna che aspirasse a un qualche grado di sistematicità doveva appoggiarsi. Il sistema retorico, che nasceva all’interno della letteratura, offriva la possibilità di
esaminare la storia letteraria da una prospettiva più ampia di quella di una tradizione nazionale, attraverso un punto di vista che permetteva di prendere in considerazione le continuità e le trasformazioni. La retorica, con gli apparati e le istituzioni che le corrispondevano — le università medievali, le scuole,
ecc. — era il legame che consentiva di individuare le 46
I topoi nella letteratura e nell'arte
forze profonde che scorrevano all’interno della letteratura. Se Warburg aveva identificato nella mitologia un sistema di raffigurazioni divenuto retorica delle forme successive, Curtius si soffermava sulla retori-
ca isolandone un elemento, l’insieme delle grandi immagini costitutive che vivono nel tempo, i topoi che dall’antichità giungono sino a Géngora e Gracian, passando per Dante e giungendo, ormai come relitti, fino a Joyce. Dalla retorica il critico ricavava la possibilità di una topica, o metaforica, storica: una griglia, una struttura attraverso cui le vicende letterarie e i testi trovavano un loro ordine, una loro
correlazione profonda. Non si tratta di una storia lineare, somiglia piuttosto a quella che i francesi chiamano una «lunga durata», un ciclo, un sistema, un thesaurus che, con tutte le trasformazioni, so-
pravvive al trascorrere dei secoli. E noto che Curtius manometteva consapevolmente il concetto di topos della tradizione retorica per trasformarlo in una inventio di immagini. Forzando in questo modo il termine classico, lo studioso è però riuscito nel tentativo di dimostrare, all’interno della cultura occidentale, l’esistenza di grandi immagini che si riproducono nel tempo generando altre immagini. La letteratura le codifica attraverso la retorica, ma la loro origine è al di là della letteratura stessa e le loro radici affondano nella memoria comune, nell’immaginario collettivo. E prendendo in esame un mondo fatto di visioni e dotato di una ricchissima dimensione onirica come quello medievale, Curtius si richiamava alla funzione fabulatrice propria dell’uomo secondo Bergson, nonché agli archetipi di Jung. Eroe e protagonista del libro è Dante: gli altri 47
I topoîi nella letteratura e nell'arte
scrittori, impiegati come esempi della «migrazione
delle immagini», vanno e vengono all’interno dell’opera; Dante invece la percorre tutta e, nella sua
ambizione di scrivere un nuovo libro sacro che congiunga il mondo antico e quello cristiano, diventa l’esempio che incarna al meglio questo grande insieme. Sempre dalla retorica Curtius ricavava, ancora una volta in contrasto con la storiografia letteraria tradizionale, una specie di tensione permanente che percorreva il sistema letterario muovendosi tra i due poli del classicismo e del manierismo: il primo — potremmo dire con una certa semplificazione — era il polo dell’ordine, il secondo quello del disordine e della trasgressione. In questa contrapposizione il classicismo tende all’unità e il manierismo al molteplice, la retorica del classicismo tende a scomparire, quella del manierismo a manifestarsi e a diventare ostentazione. Muovendosi trasversalmente, lo studioso ritro-
vava questa tensione in diverse epoche, identificando nel Seicento il momento culminante. Secondo Curtius tale polarità aveva origine nella classicità, si riproponeva nel mondo medievale e, attraverso i secoli, giungeva fino al presente, a Joyce e agli altri grandi esempi del manierismo moderno. L’opera di Curtius si chiude poi con una teoria della memoria e della dimenticanza dal sapore neppur troppo vagamente nietzschiano: Se riprenderemo la nostra trattazione storica, ad un certo punto ci renderemo conto che il dimenticare è, in taluni casi, altrettanto necessario del ricordare. Occor-
re saper dimenticare molte cose, se si vuole custodire ciò che è essenziale. Ecco la relativa verità della fabula rasa. La sua idea contraria, il thesaurus, si è man mano
modificata.
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I topoi nella letteratura e nell'arte
Anche nella retorica, dunque, la tradizione è
conservata e nello stesso tempo messa continuamente in discussione: quando Curtius parla di thesaurus e di tabula rasa forse ripropone la stessa dinamica profonda. Anche per lui, come più tardi per Canetti, lo scrittore deve farsi «custode delle metamorfosi».
E i topoi, in quanto metafore, sono
metamorfosi. Warburg riteneva, analizzando le immagini, che
la metafora ha una funzione magica di protezione; Curtius sostiene che la metafora è invenzione e che,
rispetto a certi archetipi, conserva qualcosa che oltrepassa i confini della letteratura, va più in profondità, attingendo ai. bisogni originari dell’uomo, alla sua struttura esistenziale e quasi carnale. In questo
modo egli poneva le basi di una teoria dell’immaginario che attraverso la storia di questi simboli tende verso le strutture profonde dell’uomo: non tanto una sociologia o un’antropologia quanto piuttosto, grazie all'impiego della retorica come strumento di una storia non idealistica, una fenomenologia e una biologia della letteratura. Ma i topoi — lo sapeva anche Curtius — quando non vengono redenti dall’invenzione diventano clichés, stereotipi, convenzioni che si ripetono. Warburg, che giungeva con la sua ricerca fino alla pubblicistica a lui contemporanea, riscopriva i relitti sconnessi delle antiche mitologie. Curtius arriva fino al mondo politico della propaganda. L’opera che precede Letteratura europea e Medio Evo latino, intitolata Lo spirito tedesco in pericolo, esce proprio negli anni dell’affermazione del nazismo: era evidente come i clichés potessero trasformarsi in violenza, ma Curtius andava ricercando un valore che si richiamasse alla voce della saggezza e della ragione letteraria. 49
I topoî nella letteratura e nell’arte
A questo punto la sua ricerca si ferma; egli non si spinge a indagare quali e quanti siano i clichés in cui siamo immersi oggi: stereotipi affidati all’effimero che si rinnovano nei revival, recuperi ciclici a pochi anni di distanza, che creano l’illusione di un falso passato. Un consumo di immagini che si ripetono e
al tempo stesso si modificano e che riconduce ancora una volta all’alternativa tra autentico e inautentico: topoi e clichés fanno parte di noi e ci bombardano giungendo a predeterminare certe nostre posizioni.
Ma qual è il sapere ordinato a cui possiamo ricondurre la loro decifrazione? Qual è, al di là dell’astuzia che ne regola i meccanismi, l'antropologia che li regge? E come naviga il nostro giudizio critico, in mezzo a questi mari non sempre tranquilli? Che cosa sono i valori di cui oggi si torna a parlare, e
perché l’uomo ne ha bisogno? Anche la retorica, che pure distruggeva a sua volta dei valori, aveva e ha bisogno a sua volta di valori quando diviene una riflessione attraverso il linguaggio sui comportamenti dell’uomo all’interno dei sistemi intersoggettivi che oggi sono amministrati da grandi apparati industriali di massa. Come si determina, a questo punto, il nostro giudizio di coscienza libera che riflette? Anche al di là dall’intransigenza che dovrebbe essere propria di ciò che chiamiamo coscienza, resta il dovere di capire i reticolati all’interno dei quali siamo collocati, cominciando con l’intendere che la nostra individualità è una costruzione spesso preordinata da logiche che non sono le nostre dalle quali possiamo affrancarci solo prendendone consapevolezza. E quanto più si riflette su elementi e strategie che la retorica ha riscoperto facendoli confluire in un sapere antropologico, in senso lato, tanto più aumen50
I topot nella letteratura e nell'arte
ta il numero degli strumenti ragionevoli ma imperfetti a nostra disposizione per orientarci in modo più avveduto. Liberata dalle condanne di oltre un secolo, rivista in una nuova luce di là da certi fatti tecnici, la
retorica, attraverso la parola e il mondo delle immagini che ad essa si accompagna, è oggi un’interroga-
zione razionale sul molteplice che è l’uomo: Con una sorta di antitesi, che è già formula retorica, si potrebbe dirla una «razionalità del molteplice», uno degli strumenti che, superando la contrapposizione tradizionale di razionale e irrazionale, consentono
di praticare quella che molti scienziati contemporanei chiamano la «razionalità imperfetta». Retorica ed ermeneutica sono strumenti che ci insegnano a interpretare l’uomo come ente pubblico che parla, come ente interrogativo, che pone quesiti: strumenti che ci danno il principio di una risposta da cui si generano nuove domande. D’altra parte perché dobbiamo credere alla verità solo come possesso e non anche come ricerca e tensione? Ma se la verità è un panno che ci copre solo in parte, il resto è nostra responsabilità, è nostra scelta razionale, legata al mondo cui apparteniamo e ai suoi costumi, ma con il dovere della consapevolezza che quei costumi non sono i soli e ce ne sono altri. Per questo la retorica oggi non può non essere
una teoria del dialogo: non semplice conciliazione ma verifica e regolamentazione dei conflitti attraverso la parola, senza ricorrere a ciò che è al di là della parola, in nome di una razionalità comprensiva che riesca a capire anche l’altro, le sue ragioni e i
suoi diritti. Qualcuno oggi parla di «uomo dialogale»: l’uomo retorico non può non essere un uomo dialogale, 51
I topoî nella letteratura e nell'arte
con tutto il rischio e tutte le difficoltà che questo comporta. Essere uomo dialogale significa infatti essere più seri di quanto ci siamo proposti di essere, perché dobbiamo essere noi stessi e allo stesso tempo capire un altro che non è noi. Di nuovo dalla retorica ci si muove verso l'etica. Non è neoaristotelismo, anche se certo Aristotele si era posto il problema: quali sono gli erdoxa, le opinioni comuni, i costumi, le credenze attraverso cui ci intendiamo e ci sentiamo, per quanto è possibile, uniti, riuscendo così a capirci? Qualche filosofo oggi parla di «conversazione del genere umano». Un’idea bellissima che deve però confrontarsi con la durezza della storia. La retorica è anche — lo è sempre stata — una dottrina delle circostanze e dei contesti: non analizza la parola in astratto, ma
tiene conto
di circostanze
e contesti,
immergendosi nella temporalità. Abbiamo rinunciato alla superba fiducia in un progresso impregiudicato e fatale, scoprendo che molte cose dipendono da noi. Con le sue limitazioni e le sue interrogazioni la stessa retorica che oggi molte discipline vanno riscoprendo conduce a questo stesso effetto e, come spesso accade, alla fine ci si ritrova con i
problemi della nostra etica di ogni giorno. Il quotidiano è il luogo delle decisioni e ognuno di noi è solo nel momento in cui deve decidere, non è più un ruolo rispetto a un altro: per usare le parole di Heidegger non è più il «Si», ma il «Se stesso».
Di
II.
Per un’antropologia della retorica
Leggere [Lesen], leggere ad alta voce [Vorlesen], fare un'esposizione [Vortragen] esigono tre differenti forme di stile. Leggere ad alta voce è la maniera in cui la voce dev'essere elaborata con il più d’arte, perché deve supplire alla mancanza del gesto. Leggere, la maniera in cui lo stile dev'essere più realizzato, perché qui voce e gesto sono soppressi come modi d’espressione. Si potrebbe chiamare genere naturale, per esempio, quello della lettura a voce alta, se i gesti vi fossero realmente superflui e non avessero bisogno di essere surrogati da qualche cosa (leggere dietro un paravento): in una immobilità assoluta in cui il corpo non dovesse MUOVersi.
Sono ancora parole di Nietzsche, tratte dallo stesso corso sulla retorica da cui abbiamo preso le mosse. «Leggere» in tedesco è Leser; «leggere ad alta voce» — ma vuol dire anche «lezione» — è Vorlesen e il suo equivalente latino è praelectio; «fare un’esposizione» o «mettere davanti» si dice Vortragen, più o meno coincidente con propositio. Quando leggo sto fermo perché il gesto è azione drammatica: la voce da sola deve drammatizzare, deve conferire intensi-
tà senza supplementi, senza accompagnamento. Ma se leggo in silenzio tutto viene come cancellato. Di qui anche la necessità del leggere lentamente, per evitare di sorvolare sulle parole e sulle sfumature dei significati. Esiste dunque un rapporto tra la drammatizzazione, la presentazione in uno spazio vivo e l’atto del leggere. In queste pagine Nietzsche DD
Per un’antropologia della retorica
poneva il problema delle modalità attraverso le quali si realizzano queste funzioni drammatiche della parola. Ancora più interessanti, ai fini dell’argomentazione di questa terza parte, sono le parole con cui Nietzsche apre il medesimo scritto: Ogni commercio tra gli uomini riguarda questo: che ciascuno di essi possa leggere nell'anima dell’altro; e la lingua comune è l’espressione sonora di un’anima comune.
Più il commercio sarà intimo e sensibile,
più la lingua sarà ricca, perché essa cresce o diminuisce con questa anima collettiva. Parlare è in fondo la domanda che io pongo al mio simile per sapere se egli ha la medesima anima che ho io; le più antiche proposizioni mi sembrano essere state proposizioni interro-
gative, e nell’accento io sospetto l’eco di questa antichissima domanda dell’anima a se stessa, ma chiusa in un’altra conchiglia: ti riconosci? Questo sentimento accompagna ogni proposizione di colui che parla. L’uomo che parla cerca un monologo e un dialogo con se stesso.
L'uomo
dialoga con l’altro, domanda
chi è e
contemporaneamente si interroga su se stesso, è sem-
pre in monologo e in dialogo con se medesimo. E questo perché chi parla assume anche solo per un momento, anche senza volerlo, il punto di vista dell’altro e comincia a vedersi decentrato, avviando un’interrogazione anche su di sé.
Alla retorica contemporanea si giunge anche attraverso gli sviluppi della linguistica, che guarda alla retorica come a una forma di dialogicità. Come in filosofia la crisi dei razionalismi assoluti e dei positivismi logici ha infatti portato al recupero di una logica meno perfetta ma più flessibile — la retorica appunto — così in linguistica la crisi dello strut56
Per un’antropologia della retorica
turalismo di tipo formale-matematico, rivolto soprattutto alla scrittura, ha condotto via via alla riscoperta della lingua nella sua esecuzione discorsiva, del dialogo, a ciò che — più tecnicamente — chiamiamo l'enunciazione, l’atto linguistico. Si tratta del problema della performance, dell’«attuazione» della parola, del rapporto vivente, dell'io e del tu che insieme realizzano il prodigio linguistico della comprensione in tutte le sue complicazioni.
L’ultima parte di L’uorzo di parole del linguista francese Claude Hagège è dedicata appunto all’«uomo dialogale» che è anche e soprattutto un uomo retorico: quanto più la lingua è discorsività, è trattativa concreta, è contratto verbale, è flusso della co-
municazione, è «dramma» del parlare e dell’intendersi, tanto più, necessariamente, il problema della
lingua diventa retorico. Anzi, quanto più colui che parla è consapevole del proprio parlare, tanto più diventa un tecnico che si muove nel solco di ciò che, secondo la vecchia nozione di retorica, era da una
parte lo «scuotere» — il yz0vere, il toccare l’altro — e dall’altra il «convincere», il persuadere. Quanto più il parlante «si vede» nella situazione in cui parla, tanto più riesce a gestire il proprio parlare, è in grado di controllarlo, lo rende più efficace. Parlando di retorica possiamo distinguere con Paolo Valesio — su cui tornerò più avanti — tra prassi e dottrina della prassi, retorica ufens e retorica docens,
rbetoric e rbetorics. In italiano, seguendo sempre un suggerimento di Valesio, possiamo impiegare il termine retorica per indicare la pratica e rettorica per indicare la dottrina. E tornando al dialogo, si può dire che nella lingua, quanto più noi parliamo, tanto più dalla retorica ci spostiamo verso la rettorica: da strategie quasi istintive ci spostiamo verso strategie OM
Per un’antropologia della retorica
più consapevoli, più concertate, più efficaci. Mentre avviene questo passaggio, riconosciamo
il nostro
ruolo nel momento in cui parliamo con un altro, ed è qui che nasce la prospettiva in cui diviene legittimo parlare di antropologia della retorica, ossia della retorica come un momento della dottrina dell’uomo e dei suoi comportamenti. Uno degli studiosi che più ha riflettuto su queste idee, scrivendo anche molte delle pagine più intense e significative sull'argomento, è il critico russo Michail Bachtin, vero e proprio antropologo della letteratura. Per Bachtin la parola dialogica è ermeneutica,
polifonia, movimento di voci che si moltiplicano, spirito vivente che scorre tra gli uomini, unico ma
sempre diverso. Il dialogo è la molteplicità delle voci che si fonda sulla libertà irriducibile delle persone che parlano. Per lui, sopravvissuto dell’epoca staliniana, lo studio della lingua e della sua interna
retorica è stato luogo e scuola di libertà: nel parlare del dialogo egli abolisce ogni violenza, perché trova che il dialogo è costituzionalmente anti-violenza. D'altra parte il problema del dialogo ci riporta inevitabilmente a Heidegger e alle sue riflessioni sull’«essere assieme quotidiano». Come abbiamo già ricordato, secondo Heidegger, il nostro linguaggio è sempre in tensione tra una polarità del Se stesso — autentica — e una polarità del Si — inautentica. Continuamente contesa, erosa, consumata da formule e
clichés, da immagini logorate e ripetizioni, la parola si rianima al calore del parlante, trae forza dalla sua passione, dalla drammaticità, dall’interesse e dalla
spinta che lo vivifica in determinate circostanze. Due sono gli aspetti che qui interessano: innanzi tutto il fatto che in retorica si crea sempre, tra due soggetti, una tensione, si stabilisce un rapporto qua58
Per un'antropologia della retorica
si drammatico, in cui chi parla si rivolge a chi ascolta e cerca di guadagnarlo alla sua opinione. In secondo luogo la consapevolezza che la retorica è al contempo l’insieme degli strumenti, verbali e non solo, che il
parlante ha a disposizione per raggiungere il suo scopo. Come si è visto, nella Retorica di Aristotele il
primo e il secondo libro vertono sul primo punto mentre il terzo sviluppa quest’ultimo aspetto più tecnico. Ma, per restare sempre ad Aristotele, c’è un terzo aspetto decisivo all’interno di una riscoperta della retorica in senso antropologico: il problema della metafora come operazione inventiva specifica dell’uomo. L’ingegno, la creatività, l’intelligenza, consistono nello stabilire rapporti tra ciò che è dissimile, nell’intravedere somiglianze nella diversità, che è appunto il carattere peculiare dell’ operazione metaforica secondo Aristotele. È noto poi che, partendo da queste premesse, gli studi più recenti sono giunti alla conclusione che, nello stabilire rapporti, la metafora non
si limita a mettere
insieme
elementi
preesistenti, ma svolge un’attività creatrice, dà origine a qualcosa di nuovo. A questo proposito non sarà privo di utilità soffermarsi ancora su alcune riflessioni di Emanuele Tesauro. Egli ha ben chiara l’idea che la metafora è il principio fondamentale della retorica e di tutto il linguaggio, perché l’uomo è egli stesso metafora vivente. Giocando con le parole da uomo del suo secolo e impiegando la retorica per parlare della retorica, Tesauro ci rivela che per l’uomo la verità non può essere che vestita: è l’uomo stesso a travestirsi, interpretando un ruolo e non coincidendo mai con se stesso. Sempre in bilico tra natura e cul59
Per un’antropologia della retorica
tura — come diremmo oggi — creatore d'immagini, l’uomo proietta un'immagine di se stesso, quanto più si pone in correlazione con un altro. Affermando che l’uomo è una «metafora vivente», Tesauro
intendeva anche che la vita è teatralità, presentazione di sé, strategia — come diceva, più o meno negli stessi anni, Gracian. Lo stesso Ortega y Gasset, filosofo assai più vicino a noi, a proposito della teatralità dell’uomo giunge alle stesse conclusioni: l’uomo è una metafora vivente e la vita consiste nel vedere e nell’essere visto. E la dimensione spettacolare del quotidiano: parlare è sostanzialmente un’azione teatrale, gestire un ruolo, interpretare il personaggio di se stessi, quanto più alla parola si aggiunge un altro apparato comunicativo come quello della gestualità e della presenza fisica, quanto più cioè — per riprendere la nozione heideggeriana da cui siamo partiti — il parlare diviene «tonalità affettiva», immergendosi in una spazialità concreta dotata di intonazione. Numerose sono le analisi che in questi anni, in campi disciplinari differenti, si sono soffermate su questo particolare aspetto di descrivere l’interazione nella vita quotidiana come gioco di ruoli e gestione di identità. E solo in apparenza queste ricerche hanno poco a che vedere con l'oggetto della nostra analisi: dai pochi esempi che prenderò in considerazione — tra i tanti possibili — risulterà evidente che se si assume il modello teatrale per interpretare i com-
portamenti immediati dell’uomo, si finisce necessariamente per ricorrere alla retorica come a un’antropologia drammatica della parola. Traggo il primo esempio dalla sociologia: in un libro celebre, La vita quotidiana come rappresentazione, Erving Goffman analizza accuratamente le 60
Per un’antropologia della retorica
strategie di questa teatralità, giungendo a sostenere che senza di essa non si riesce a stabilire un rapporto con l’altro. La vita è una specie di scena, un teatro senza teatro, in cui valgono tutta una
serie di comportamenti, di procedure, di strategie che trovano una loro giustificazione nella necessità quotidiana di presentare una facciata, di instaurare e gestire un proprio «gioco di faccia», per restare alla terminologia di Goffman. Un'idea che ritroviamo nel linguaggio comune in modi di dire quali: «è tutta una facciata» oppure «quel tizio è solo una facciata». La cosa più importante da sottolineare in questa prospettiva è che, sulla scena della presentazione quotidiana, noi siamo al tempo stesso personaggio e
regista, accettiamo una parte e la dirigiamo, diventiamo, alla lettera, gli interpreti di noi stessi. E la spazialità dentro cui viviamo è fatta di tensioni e di energie, come fosse un palcoscenico. Di qui nasce anche il problema della maschera: siamo noi o il nostro doppio? La maschera è il nostro falso o il nostro vero? Viene a mente Pirandello con le sue riflessioni sulla natura dell’identità e la scoperta che dipendiamo dagli altri per ricevere la nostra parte (spesso più di una) da recitare, fino alla tragicità che scaturisce dal rifiuto dei ruoli e dall’uscita dalle convenzioni, che ci costringono e ci tutelano allo stesso tempo. La vita è dunque una specie di teatralità primaria, su cui poi il teatro vero e proprio ricostruisce le
proprie dinamiche. E se l’uomo è una metafora vi‘vente, non può non essere un’entità teatrale: per
essere se stesso ha bisogno di travestirsi e anche la metafora è un travestimento. Sempre il Seicento scopre la formula del teatro nel teatro, quella che porta 61
Per un’antropologia della retorica
Amleto a rappresentare uno spettacolo che riproduce la sua stessa storia, il suo dramma personale, in
un gioco di specchi che porta allo sdoppiamento della coscienza. Alla fine, torniamo alla citazione di
Nietzsche secondo cui chi dialoga con gli altri finisce poi sempre per parlare anche con se stesso. Il secondo esempio è tratto invece dall’opera di un antropologo, Victor Turner, che oltre ad avere
studiato i comportamenti di popoli non occidentali, in più di un’occasione ha riflettuto su questi temi anche in senso più generale. Il testo, una raccolta di saggi, s'intitola nell’edizione italiana Da/ rito al teatro. Il discorso di Goffman, che rifletteva principalmente l’esperienza dell’uomo medio americano, viene arricchito da uno sguardo più ampio, propriamente antropologico, che non si rivolge solo al mondo occidentale ma si allarga a tradizioni profondamente differenti come quella asiatica e africana e che — com'è detto fin dal titolo — parte dalla sfera delle esperienze liturgico-religiose per giungere al teatro in senso proprio. Traggo per esteso la citazio-
ne che mi interessa dal capitolo quarto, significativamente intitolato «La recitazione nella vita quotidiana e la vita quotidiana nella recitazione»: Acting, come tutte le parole «semplici» anglosassoni, è una parola ambigua: può significare fare delle cose nella vita quotidiana, oppure eseguire una performance sulla scena o in un tempio. Può avere luogo in circostanze ordinarie e straordinarie. Può essere un modo di operare o di muoversi, come l’«azione» di un corpo o di una macchina; oppure può essere l’arte o professione di recitare nei drammi. Può essere il massimo della sincerità (l’affidarsi dell’io a una linea d’azione per motivazioni etiche, magari per raggiungere la propria «verità
personale»), o il massimo della finzione, quando si «re62
Per un’antropologia della retorica
cita una parte» per nascondere qualcosa o per dissimu-
lare. Il primo caso è l’ideale del «teatro povero» di Jerzy Grotowski; il secondo capita tutti i giorni «sul lavoro». Una spia, un truffatore, un agent provocateur, sono tutti abili nel «recitare». Lo stesso individuo, in
situazioni differenti, può nello stesso giorno «inscenare» un'azione [act] o «recitare [to act] divinamente». È tuttavia nel nostro linguaggio corrente questi opposti
coincidono; parliamo di «giocare un ruolo» riferendoci a qualche attività seria della sfera civica, come il ruolo consultivo di un presidente.
Dunque nella parola 4ctrg più che nell’italiano agire — ma actio era un termine ricco di significati —
c'è contemporaneamente la nozione di un comportamento e la professionalità che nasce da quel comportamento, da una parte il reale e dall’altra la finzione, lo specchio del reale rappresentato dal teatro. «Giocare un ruolo» è un’espressione che si ritrova in tutte le nostre lingue occidentali e sta in luogo di «rappresentare un ruolo». Ma perché questa frase che implica già un’arte — quella del giocare — può valere anche nella realtà? Perché possiamo dire «il Presidente della Repubblica ha giocato un ruolo neutro decisivo?». Come sapeva già Vico, certe formule sedimentate nel linguaggio nascondono verità profonde che occorre riportare alla luce. È quella che Heidegger chiama alétheta, la «verità» che viene disvelata, ciò che prima era nascosto e ora non lo è più. Turner prosegue: E d’altra parte parliamo di una «grande interpretazione» sul palcoscenico come della fonte di alcune delle nostre cognizioni più profonde e più «vere» della condizione umana. Perciò acting è insieme lavoro e gioco, solenne e ludico, finzione e verità, il nostro traffico e
commercio mondano e ciò che facciamo o a cui assistia-
63
Per un’antropologia della retorica
mo nel rituale o a teatro. La stessa parola ambiguità deriva dal latino agere, equivalente a to act, poiché viene dal verbo ambigere «vagare», composto da ambi«intorno, attorno», e da agere «fare», che insieme producono il senso di avere due o più possibili significati, di «spostarsi da un lato all’altro» e di «avere una dubbia natura». In entrambi i suoi significati fondamentali, di compiere azioni e di eseguire performance, l’acting è indispensabile per la salute mentale.
Amleto ci dice qualcosa di più profondo su noi stessi: è una finzione eppure ci parla della nostra realtà più nascosta. Sono sufficienti queste poche battute per intendere come si possano dare modelli di analisi antropologiche, dedicate anche a società lontane dalla nostra, in cui il modello teatrale resta
fondamentale. E questo, con ogni probabilità, è dovuto alla natura intrinsecamente e universalmente umana del teatro, un ente culturale in cui si riflette
qualche aspetto profondo della nostra natura, della nostra duplicità. Vale ora la pena di trarre una prima conseguenza da queste riflessioni. Quando diciamo teatro intendiamo parola e azione, «azione parlata», per usare una formula splendida di Pirandello. Teatralità vuol dire strategia, regolamentazione di me con l’altro, gestione dei ruoli e tentativo di recitare bene il mio, di «fare bella figura». Ma quando si assume la parola come elemento drammatico, allora la parola riporta alla retorica, intesa come l’altra faccia della teatralità, che si nutre della stessa tensione e si manifesta nel dialogo, l'insieme degli espedienti, delle procedure, delle abilità che occorrono per raggiungere un certo fine e gestire bene la propria parte in una determinata situazione. Anche per la retorica, come per il teatro, la situa-
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Per un’antropologia della retorica
zione è fondamentale: non si parla mai in astratto, si parla sempre a qualcuno immerso in una situazione precisa, accettando un contesto dato, considerando le «circostanze». Allorché si esamina la dimensione verbale di questa categoria si scopre che teatralità e ruolo diventano anche momento retorico, se si vuo-
le una «retorica del dramma»: del resto uno studioso come Kenneth Burke definiva appunto la retorica come un’«azione simbolica drammatica». Lungo questo percorso un po’ tortuoso, a tratti persino azzardato, l’oggetto della nostra analisi arriva a congiungersi con l’indagine antropologica di ruoli e comportamenti. Il valore della parola nel dialogo teatrale della vita quotidiana ne fa emergere la dimensione retorica, quanto più colui che parla diventa consapevole di ciò che fa e regola il proprio comportamento, assumendo coscienza del proprio ruolo. Da questo punto di vista la retorica è una tecnica, un modo di agire sul linguaggio nella sua dimensione anche scritta, ma soprattutto concreta, parlata, eseguita; ma si conferma anche come capacità interpretativa di questa stessa tecnica: essendo con-
temporaneamente attore e spettatore, vedo e sono visto, da un lato agisco e dall’altro vedo agire e cerco di capire giò che vedo. Non posso vedere senza interpretare: ancora una volta, la retorica diviene ermeneutica.
Se — per usare le formule negative della tradizione antiretorica fino a Kant — la retorica fa uso di «astuzie», allora è necessario decifrare quelle astuzie per evitare di restarne vittime. Naturalmente esistono gradi diversi di consapevolezza, livelli di comprensione differenti, nelle modalità in cui è possibile penetrare le strategie messe in atto, ferma 65
Per un’antropologia della retorica
restando una soglia minima al di sotto della quale si resta esclusi dalla possibilità di partecipare al «gioco». In altre parole, anche per restare vittima di una certa operazione retorica, debbo essere in grado di decifrarne almeno una parte. Non deve stupire se, discorrendo della retorica,
il discorso piega così spesso in direzione di una più ampia dimensione antropologica, anche in senso tecnico.
Guardando alla storia della nostra disciplina, in particolare al Seicento, ci si rende conto di come, nel tentare una teoria generale della metafora, molti autori avessero già intuito che questa era alla base non solo del teatro, ma anche della festa, della pan-
tomima, del torneo e persino del gioco; e che quindi, anche se con strumenti meno affilati dell’indagine antropologica contemporanea, già si andava aprendo la strada verso queste azioni simboliche in cui l’uomo rappresenta se stesso, inventando generi, istituzionalizzando consuetudini, stabilendo rituali.
In questa rassegna di suggestioni antropologiche non può mancare il nome di Clifford Geertz: in uno dei suoi libri più celebri e interessanti, Interpretazioni di culture, Geertz sostiene che l’analisi antropologica debba avere come scopo la descrizione dei modi di vita «altri», interpretandone funzioni e significati. Egli è convinto che ogni «azione culturale» è alla fine un testo, e come tale va letta e interpretata. Un rituale, una consuetudine, una festa tradizionale non sono testi, ma se — con procedimento metaforico — li assumo come tali sono in grado di descriverli e di tentare una spiegazione sul significato che, al di là dello spettacolo, questi rituali, queste consuetudini, queste feste hanno per coloro che li vivono. Ecco come Geertz, nel saggio intitolato Note sul combat66
Per un’antropologia della retorica
timento dei galliaBali, espone e illustra le sue ragioni: Se si prende il combattimento dei galli, o qualunque altra struttura simbolica sostenuta collettivamente, come
mezzo per «dire qualcosa di qualcosa» (per riprendere una famosa espressione aristotelica), allora ci si trova di fronte ad un problema non già di meccanica sociale ma di semantica sociale. Per l’antropologo, che si preoccupa di formulare dei principi sociologici, non di-promuovere o di apprezzare combattimenti di galli, la questione è che cosa si impara su questi principi dell’esame della cultura intesa come un assieme di testi? Questa
estensione dell’idea di testo al di là del materiale scritto, e perfino al di là di quello verbale, anche se metaforica, non è poi una grande novità. La tradizione medievale della interpretatio naturae che, culminando in Spinoza, tentò di leggere la natura come la Scrittura, lo sforzo di Nietzsche di valutare i sistemi di valore come glosse alla volontà di potenza (o quello di Marx di trattarli come glosse ai rapporti di proprietà), e la sostituzione da parte di Freud del testo enigmatico del sogno manifesto con quello chiaro del sogno latente, tutti offrono dei precedenti, anche se non ugualmente raccomandabili. Ma l’idea resta teoricamente non sviluppata: e il corollario più profondo, per quanto riguarda l’antropologia, secondo il quale le forme culturali possono essere trattate come testi, come opere dell’immaginazione costruite con materiali sociali, deve ancora essere sfruttato sistematicamente. Nel caso in questione, trattare il
combattimento di galli come testo significa porre in evidenza una sua caratteristica (secondo me la più importante) che il trattarlo come rito o come passatempo, le due alternative più ovvie, tenderebbe a mettere in ombra: il suo uso dell’emozione per scopi conoscitivi.
Torniamo di nuovo in un ambito familiare della nostra indagine: il secondo libro della Retorica di Aristotele verte appunto, nell’interpretazione che ne dava Heidegger, sull’emozione intesa come qual67
Per un’antropologia della retorica
cosa di più di singole entità psicologiche. Questa posizione di Geertz trova un’esplicitazione ancora più ampia nella sua esposizione del concetto di cultura, nel saggio introduttivo: Il concetto di cultura che esporrò, e di cui i saggi seguenti cercheranno di dimostrare l’utilità, è essenzialmente
un
concetto
semiotico.
Ritenendo,
insieme
con Max Weber, che l’uomo è un animale sospeso fra ragnatele di significati che egli stesso ha tessuto, credo che la cultura consista in queste ragnatele e che perciò la loro analisi non sia anzitutto una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato. È una spiegazione quella che sto inseguendo: analizzando espressioni sociali enigmatiche in superficie.
L’analisi della cultura, dunque, è una scienza interpretativa, un’ermeneutica, alla ricerca di si-
gnificati, codificati in forme, in tecniche, in procedure, in istituzioni, che mirano a certi effetti e hanno quindi una costituzione retorica. Ciò a cui assisto
manifesta solo una piccola parte di quello che i «testi culturali» studiati dall’antropologia rappresentano veramente per coloro che li vivono. L’«estraneo», il ricercatore, deve in qualche modo entrare in questa dinamica di significati nascosti, invisibili, che si determinano solo all’instaurarsi del
gioco tra i protagonisti e l’atto, tra il pubblico e ciò che accade. Ma quando parliamo di pubblico torniamo a parlare di retorica, che è in fondo, da qualunque lato la si guardi, una teoria del destinatario: chi ascolta deve essere conquistato e ciò avviene solo attraverso qualcosa che è già in comune, per esempio una credenza condivisa durante un rito liturgico. 68
Per un’antropologia della retorica
Se la cultura è un insieme di simboli che agiscono su una comunità, e per interpretarli debbo riuscire a entrare in questo gioco estremamente composito e altamente specializzato, sembra abbastanza ovvio che in questo gioco debba entrare anche la retorica, verbale o non verbale. Ed è ancora più evidente — per riprendere il filo del discorso di questa terza parte e congiungerlo alle riflessioni precedenti — che la retorica, quanto più diventa parola, entra nella vita quotidiana vista nei suoi piccoli rituali o detriti di rituali, in particolare se si considera l’ampiezza del fenomeno dell’«oralità di ritorno» in cui ci immergono oggi i mezzi di comunicazione di massa. La retorica attuale oggi non sarà più dunque una
«retorica ristretta», come diceva qualcuno, ridotta a dottrina dell’elocuzione e amputata di tutte le altre sue parti, bensì di nuovo una retorica «piena», anche se rivista secondo logiche, esperienze e costruzioni sociali assolutamente lontane da quelle in cui nacque questa possibilità: non solo una tecnica, dunque, ma uno strumento interpretativo per un’antro-
pologia dell’uomo contemporaneo. Proprio perché vuole essere la specializzazione del linguaggio comune la retorica ha sempre avuto un rapporto difficile e un contrasto con l’aspirazione a un linguaggio assoluto come quello della logica, che astrae dall’accidentalità del contingente, al punto da venire messa fuori gioco nei secoli in cui questa aspirazione ha prevalso. Quanto più però i linguaggi dell’assoluto, come quelli delle scienze, tendono a diventare parziali e consapevoli dei propri limiti, tanto più ciò che era stato escluso torna di nuovo a essere parte di questa esperienza. 69
Per un’antropologia della retorica
La retorica si è sempre congiunta con il problema dell’emozione e con la ricerca di una razionalità imperfetta. Nel momento
in cui rinasce, recupe-
rando le proprie matrici e rinnovandosi in tutta una serie di nuove possibilità, non può fare a meno di riconoscere la teatralità e l’emozionalità come elementi costitutivi del nostro essere uomini, il che
rappresenta al tempo stesso un pericolo e un’opportunità.
L’impiego di una razionalità del concreto, condannata anche all’errore, sostituisce la fede in una
ragione dogmatica con la fiducia in una ragione problematica, consapevole della possibilità del fallimento. La «ragione retorica» accetta la sfida della temporalità, sa di dover necessariamente confrontarsi con essa per portare avanti i propri progetti,
per farli durare, fino a riconoscere come costitutivo il rischio dell’insuccesso. Non è, a voler impiegare un lessico tradizionale, un’opzione per l’irrazionalità, ma il riconoscimento di una razionalità molteplice, che sa accogliere la contraddizione e quanto non è immediatamente riducibile alla ragione, che è capace di operare anche nella dolorosa certezza che non esistono modelli assoluti da imporre. Questo significa anche riconoscere che la responsabilità è nostra: sta a noi, per quanto ne siamo capaci, nutrire l’esistenza dei progetti in cui decidiamo di credere. In fondo, la rinascita della retori-
ca non è tanto una rinuncia alla razionalità quanto il riconoscimento dei limiti della nostra condizione. E la possibilità stessa di una filosofia della retorica si fonda sulla consapevolezza di dover affrontare problemi che, per loro natura, sono al di là delle nostre capacità. 70
Per un’antropologia della retorica
Ma anche all’interno di questo orizzonte, è nostro dovere non rinunciare al tentativo di rendere la nostra vita più umana e più «giusta». Come si vede, alla fine siamo ancora una volta restituiti alla nostra individualità, alle nostre decisioni quotidiane, al dia-
logo con noi stessi.
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