Realismo e antirealismo scientifico


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Realismo e antirealismo scientifico

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comitato scientifico Michael Arndt (Università Tubinga), Luca Bellotti (Università Pisa), Mauro Mariani (Università Pisa), Carlo Marletti (Università Pisa), Pierluigi Minari (Università Firenze), Enrico Moriconi (Università Pisa), Giacomo Turbanti (Università Pisa), Gabriele Usberti (Università Siena)

Analitica propone una serie di testi – classici, monografie, strumenti antologici e manuali – dedicati ai più importanti temi della ricerca filosofica, con particolare riferimento alla logica, all’epistemologia e alla filosofia del linguaggio. Destinati allo studio, alla documentazione e all’aggiornamento critico, i volumi di Analitica intendono toccare sia i temi istituzionali dei vari campi di indagine, sia le questioni emergenti collocate nei punti di intersezione fra le varie aree di ricerca.

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© Copyright 2018 Edizioni ETS Palazzo Roncioni - Lungarno Mediceo, 16, I-56127 Pisa [email protected] www.edizioniets.com Distribuzione Messaggerie Libri SPA Sede legale: via G. Verdi 8 - 20090 Assago (MI) Promozione PDE PROMOZIONE SRL via Zago 2/2 - 40128 Bologna ISBN 978-884675267-3

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Carlo Gabbani

Realismo e antirealismo scientifico Un’introduzione

Edizioni ETS

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INDICE

Premessa CAPITOLO 1 Uno sguardo d’insieme 1.1. 1.2. 1.3. 1.4. 1.5. 1.6. 1.7.

Una prima idea della questione Il realismo scientifico in generale e in fisica Perché gli inosservabili Una questione (anche) filosofica Teorie scientifiche e impegni ontologici Modi di formulare il realismo e l’antirealismo scientifico ‘Realismo’ e ‘antirealismo’ scientifico si dicono in molti modi: una gamma di posizioni 1.8. Ideali scientifici e scienza ideale: di quale scienza stiamo parlando? 1.9. Progressi, rivoluzioni e successi della scienza: questioni aperte per realisti e antirealisti 1.10. Quando la teoria precede l’esperimento: l’argomento delle novel predictions 1.11. ‘Salvare i fenomeni’ o ‘svelare il mondo vero’? Due prospettive sulla scienza

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CAPITOLO 2 Alle origini del dibattito contemporaneo

49 2.1. Il delinearsi della questione tra fine ’800 e inizio ’900 49 2.2. Mach: la scienza come descrizione economica dell’esperienza 50 2.3. Poincaré: la scienza come sistema di relazioni e il suo divenire 53 2.4. La scienza in Duhem: accordo con l’esperienza e autonomia dalla metafisica 56 Box 1: La sottodeterminazione empirica delle teorie e le loro virtù sovraempiriche 58 2.5. Russell tra costruzioni logiche e strutture 61 2.6. Il contributo dell’empirismo logico 64 2.7. Realismo e probabilismo in Reichenbach: gli inosservabili come illata 69 2.8. Carnap dopo Vienna: per la pace perpetua tra realisti e antirealisti 72 Box 2: Il metodo della Ramsey-sentence 75 2.9. Quine: relatività ontologica, naturalismo e olismo 77 2.10. Bridgman e l’operazionalismo 82

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REALISMO E ANTIREALISMO SCIENTIFICO. UN’INTRODUZIONE

CAPITOLO 3 Tra realisti e rivoluzionari 3.1. Una stagione ‘neo-realista’ Box 3: Abduzione e inferenza alla miglior spiegazione 3.2. Popper: le migliori teorie scientifiche come buone approssimazioni alla verità Box 4: La verità come meta ideale dell’indagine scientifica? 3.3. Wilfrid Sellars: le due immagini e la scienza come “misura di tutte le cose” 3.4. Putnam e il no-miracles argument: dal successo della scienza al realismo scientifico 3.5. Hanson e l’osservazione “theory-laden” 3.6. Kuhn: paradigmi e rivoluzioni nella scienza 3.7. Dall’epistemologia alla sociologia della scienza? 3.8. Tra realismo e anarchia: Feyerabend

CAPITOLO 4 Voci, argomenti e temi del presente 4.1. 4.2. 4.3. 4.4.

La natura delle teorie e la loro interpretazione Il pessimismo di Laudan e il divorzio tra successo e verità Le menzogne e l’utilità della fisica secondo Cartwright “Se puoi spruzzarli, sono reali”: Hacking e il realismo sperimentale sulle entità 4.5. Un antirealismo di tipo nuovo: van Fraassen e l’empirismo costruttivo Box 5: Gli strumenti di rivelazione: finestre sull’inosservabile, o mezzi per la creazione di nuovi fenomeni? 4.6. Fine e l’atteggiamento ontologico naturale 4.7. “The Best of Both Worlds”?: il realismo strutturale 4.8. Lo strutturalismo: sviluppi, dibattiti e critiche 4.9. Divide et impera: per un realismo (solo) sull’essenziale 4.10. Work in progress

Bibliografia

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Nessuno sa meglio di te, saggio Kublai, che non si deve mai confondere la città col discorso che la descrive. Eppure tra l’una e l’altro c’è un rapporto. (Italo Calvino, Le città invisibili)

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PREMESSA

Il testo che qui si presenta è stato progettato e scritto come una prima presentazione del dibattito filosofico sul realismo scientifico, per chi non abbia già competenze specifiche in materia. Per quanto nello scriverlo la mole del volume si sia ampliata oltre il previsto, si è inteso conservarne il carattere introduttivo, quanto a livello espositivo e grado di approfondimento dei temi affrontati. Nel trattare del pensiero di Carnap, Sellars, Kuhn e van Fraassen ho, tra l’altro, rielaborato alcuni contenuti di miei precedenti lavori in italiano o in inglese. Sono molto riconoscente a Paolo Bucci, Raffaella Campaner, Elena Castellani, Emanuele Coppola, Mauro Dorato, Mirella Fortino, Roberto Gronda, Luca Lera, Concetta Luna, Matteo Morganti, Alessandro Pagnini, Francesca Pero, Marica Setaro, Kyle Stanford, Paolo Tripodi e Bas van Fraassen che in modi diversi hanno favorito la mia riflessione sui temi di questo libro e/o contribuito a renderlo meno imperfetto. Un debito particolare ho con Enrico Moriconi, che ha accolto con grande disponibilità questo volume nella collana “analitica”. E poi un grazie soprattutto ai miei studenti, per aver reso più luminoso questo tempo. Pisa, agosto 2018

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CAPITOLO 1 UNO SGUARDO D’INSIEME

1.1. Una prima idea della questione Di che cosa parliamo quando parliamo di ‘scienza’? O meglio, al plurale, di scienze sperimentali della natura? Che caratteristiche distintive, che scopi, che possibilità conoscitive hanno queste scienze? Sono capaci di farci conoscere la verità sul mondo nel quale abitiamo? E, se sì, si tratta dell’intera verità per noi conoscibile? Oppure, abbiamo a che fare con saperi o strumenti utili per prevedere, manipolare e ampliare i fenomeni dei quali facciamo esperienza, ma non è la verità sulla natura ciò che dovremmo chiedere loro? Queste scienze ci offrono un punto di vista almeno potenzialmente onnicomprensivo e privo dei limiti connessi alla nostra esperienza quotidiana, ossia quello che il filosofo Thomas Nagel ha chiamato “uno sguardo da nessun luogo”? Oppure, sono frutto di un punto di vista legato a possibilità, finalità e interessi diversi rispetto all’ordinario, ma che ha anch’esso i propri limiti, i propri scopi particolari e i propri ‘punti ciechi’, costituendo, dunque, piuttosto uno sguardo ‘da un altro luogo’ rispetto a quello del senso comune? Le categorie utilizzate dalle discipline scientifiche mature colgono l’articolazione effettiva della natura, oppure sono costrutti che raggruppano i fenomeni solo in base alle nostre prospettive, alle nostre convenienze, alle nostre possibilità contingenti? Le entità e i processi dei quali parlano le migliori teorie scientifiche, ma dei quali non facciamo esperienza diretta, cioè che non è possibile osservare (o, almeno, non ad occhio nudo), dobbiamo ritenere che esistano davvero, oppure si tratta di ipotesi, magari di finzioni, o comunque di mezzi utili (se non indispensabili) per la scienza, e che, però, non è il caso di considerare come il vero ‘arredo ontologico’ del mondo? ‘Realismo scientifico’ e ‘antirealismo scientifico’ sono categorie molto vaste e un po’ generiche che raggruppano due modalità di fondo diverse di guardare alla scienza e dalle quali derivano, in genere, risposte alternative a tutte queste domande. Viviamo in un’epoca nella quale l’indagine scientifica e, di conseguenza, la cosiddetta “immagine scientifica” dell’uomo e del mondo hanno assunto una complessità, una ricchezza, una potenza e una centralità senza uguali. Forse anche per questo, spesso siamo attratti, stupiti, colpiti o spaventati dai risultati e

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REALISMO E ANTIREALISMO SCIENTIFICO. UN’INTRODUZIONE

dalle applicazioni delle scienze, più di quanto siamo portati ad interrogarci sulla natura, il metodo, le finalità e lo statuto del sapere scientifico-sperimentale. Questo libro intende, invece, affrontare proprio quest’ultimo genere di questioni, attraverso una prima introduzione ad alcuni aspetti della discussione sul realismo scientifico. Nel I capitolo si proporrà una breve presentazione sistematica della materia, mentre la restante parte del volume intende ripercorrere in chiave storica le principali tappe del dibattito contemporaneo sul tema, con alcune finestre su argomenti filosofici e snodi teorici rilevanti. La riflessione sul realismo scientifico si ricollega a tutte le questioni enunciate in apertura, e ad altre ancora, interessando un gran numero di discipline scientifiche. Essa, però, si è di fatto sviluppata nell’ultimo secolo con particolare riferimento ad una disciplina in particolare, la fisica, e dando peculiare risalto ad una specifica questione che in quella disciplina aveva acquisito un ruolo centrale: quella della conoscibilità scientifica degli inosservabili. Cerchiamo di capire perché.

1.2. Il realismo scientifico in generale e in fisica Il problema del realismo scientifico in quanto tale può riguardare tutte le discipline scientifiche in egual misura: dalla fisica alla biologia e alla chimica, dalla psichiatria all’economia1. Come detto, però, nella filosofia della scienza del ’900 la discussione in materia si è sviluppata quasi sempre in rapporto alla fisica. E anche se oggi esistono dibattiti e lavori che affrontano il problema concentrandosi soprattutto su altre discipline2, si tratta comunque della disciplina che più ha segnato la storia e il profilo stesso della nostra tematica. Questo per una molteplicità di ragioni. Per prima cosa, la fisica è stata in linea generale la scienza principale alla quale la filosofia ha fatto riferimento e con la quale si è confrontata nel corso del secolo scorso. Quasi tutti i temi e i problemi discussi dalla filosofia della scienza, dunque, sono sorti e sono stati affrontati primariamente in relazione alla fisica e ai suoi sviluppi contemporanei. In prima istanza, è stata probabilmente la natura fondamentale della fisica, il suo occuparsi, cioè, di entità e processi considerati basilari, ad aver giocato un ruolo decisivo, facendo ritenere che quanto emergeva per la fisica potesse costituire un vincolo ed un fondamento anche per quanto riguarda i fenomeni studiati da altre discipline e su altre scale. D’altra parte, il grado di evoluzione della fisica, una disciplina scientifica più antica e più matura di altre, ne faceva il candidato ideale per la disamina di un sapere progredito e già ricco di risultati, svolte, metodi significativi. Allo stesso tempo, i grandi muta1 2

Distinta e più antica è, invece, la questione del realismo in matematica, cfr. Panza-Sereni (2010). Ad esempio, Stanford (2006), specie capp. 3-5; Chang (2012).

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CAPITOLO 1. UNO SGUARDO D’INSIEME

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menti e gli sviluppi novecenteschi della fisica sono, senza dubbio, una delle ragioni dello straordinario interesse epistemologico che essa ha saputo attirare su di sé. Proprio questi sviluppi, del resto, sembravano contribuire in misura significativa a sollevare, appunto, alcune questioni al centro del dibattito sul realismo scientifico. La fisica, infatti, veniva a concentrarsi sempre più su un mondo per noi non direttamente osservabile, e, per di più, sembrava restituirci, soprattutto con la meccanica quantistica, un’immagine del mondo microscopico e delle sue logiche difficilmente riconciliabile con quelle del mondo macroscopico. Tutto questo non poteva che stimolare e accrescere gli interrogativi sulla natura, il compito, le possibilità epistemiche della scienza, specialmente in relazione a quanto essa veniva scoprendo e affermando circa il mondo inosservabile. Inoltre, se, come ha notato Paul Teller, “a mano a mano che le scienze maturano e diventano più complesse, si concentrano sempre più su inosservabili” (2010, p. 818), era in fondo legittimo pensare che molte delle conclusioni alle quali il dibattito sul realismo scientifico sarebbe giunto in riferimento alla fisica avrebbero avuto una larga validità anche quando la chimica, la biologia etc. avessero sollevato questioni analoghe, circa i fenomeni inosservabili studiati da queste ultime discipline. Cercheremo, dunque, di ricostruire il dibattito sul realismo scientifico facendo riferimento essenzialmente alla fisica: non perché sottoscriviamo la tesi di un suo ruolo egemonico (tutt’altro), ma per un dato storico imprescindibile in questa sede. È, però, opportuno almeno richiamare alcune delle questioni che, in altre discipline scientifiche, rappresentano una declinazione degli stessi interrogativi sul valore, la finalità e le possibilità conoscitive della scienza che noi analizzeremo in rapporto alla fisica. Trarremo in questo caso i nostri riferimenti dalla biologia e dalla psichiatria3. Ad esempio, un tema importante dell’odierna filosofia della biologia riguarda le categorie con le quali, in ambito scientifico (ma spesso anche nella vita ordinaria), distinguiamo e classifichiamo sostanze chimiche, vegetali e animali. Potremmo chiederci, allora, se/quando queste categorie individuino (o mirino a individuare) dei generi naturali (natural kinds) realmente sussistenti in natura, o comunque se/quando rappresentino “un modo di raggruppare [le entità individuali] che riflette la struttura del mondo naturale, piuttosto che gli interessi e l’agire degli esser umani” (Bird-Tobin, 2017). Oppure, potremmo domandarci se tali categorie non siano da noi costruite ed applicate sulla base di criteri troppo connessi alle nostre caratteristiche, alle nostre pratiche, ai nostri scopi e ai nostri contesti per poter cogliere l’articolazione effettiva ed autonoma della natura4. La prima alternativa sarà quella caldeggiata dai sostenitori del realismo scientifico, 3 Per un’introduzione alla questione del realismo in economia, si vedano invece: Hausman (2003); Mäki (2012); mentre un classico in materia è: Friedman (1953). 4 Su questi temi, cfr. Hacking (1999); Id. (2007).

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cioè, da quanti ritengono che la nostra migliore scienza ci permetta di cogliere, in qualche misura, la realtà delle cose, mentre la seconda rimanda a posizioni di tipo costruttivista e antirealista. Un caso di dibattito rilevante in quest’ambito è quello sul concetto di ‘specie’, in quanto “unità tassonomiche fondamentali della classificazione biologica”. Possiamo così chiederci se, quando parliamo di specie, cogliamo una effettiva modalità di articolarsi della natura, una giuntura effettiva nello strutturarsi del mondo, e se tutti i nostri concetti di specie abbiano la stessa struttura, oppure vi sia una pluralità di tipologie; ancora: se con tali categorie ci riferiamo a generi naturali, oppure no (cfr. Ereshefsky, 2017). Un’altra declinazione di questo tipo di problema, che genera controversie e scontri anche accesi, la si può trovare in psichiatria, dove è oggi molto viva la discussione sullo statuto, la validità e i correlati delle categorie impiegate nei sistemi nosografici più diffusi. Ad esempio, il dibattito epistemologico che ogni volta precede e accompagna la pubblicazione di una nuova versione del più noto repertorio diagnostico esistente, il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM), si lega anche a questioni di questo genere: che statuto hanno le molteplici categorie diagnostiche che esso introduce? cosa corrisponde ad esse nel nostro mondo? riescono a individuare tipi di patologie realmente distinte? e che oggettività hanno i criteri diagnostici forniti?5 Questioni come quella dei generi naturali possono sembrare quasi una articolazione scientifica e moderna dell’antico problema filosofico degli universali, ossia dell’interrogativo circa lo statuto delle categorie generali e il loro correlato nel mondo. Si tratta di un tipo di problema che si ritrova anche in fisica ed è strettamente intrecciato alle questioni delle quali ci occuperemo. Ad esempio: ‘elettrone’ e ‘neutrino’ individuano dei generi naturali? Ossia, la natura è veramente organizzata in costituenti inosservabili di questo tipo, oppure siamo di fronte a categorie che raggruppano entità disparate in base ad una adeguata condivisione dei tipi di caratteristiche e proprietà che a noi più interessano? Ma in fisica il dibattito sul realismo muove soprattutto da una questione leggermente diversa e forse ancor più basilare di questa: mentre, infatti, fin qui ci siamo chiesti se le singole entità alle quali facciamo riferimento con le categorie scientifiche che usiamo costituiscano davvero un unico tipo naturale, in fisica ci chiediamo, più fondamentalmente, se davvero possiamo/dobbiamo credere che ci sia qualcosa (di inosservabile) in corrispondenza di alcune categorie che impieghiamo nelle nostre migliori teorie. In altre parole, quando ci interroghiamo sulla categoria ‘Quercia’ (Quercus) o ‘Airone’ (Ardea) siamo, in genere, già certi che davvero esistano nel nostro mondo le singole entità alle quali intendiamo riferirci impieSi vedano in tema: Fulford-Thornton-Graham (2006), cap. 13; Thornton (2007), cap. 5; Aragona (2010); Gabbani (2013), cap. 2. 5

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CAPITOLO 1. UNO SGUARDO D’INSIEME

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gando tali categorie, ma ci chiediamo se esse costituiscano qualcosa come un unico tipo naturale omogeneo, oppure no. Invece, quando ci interroghiamo sugli inosservabili nel contesto del dibattito sul realismo scientifico in fisica, il punto di partenza sta nello stabilire se davvero è giusto credere che esistano nel nostro mondo le entità alle quali sembrano riferirsi le categorie via via introdotte dalle nuove teorie. Che poi tali entità rappresentino o no un tipo naturale unitario è già una questione ulteriore rispetto a questa.

1.3. Perché gli inosservabili È ora il caso di chiederci perché la discussione sul realismo scientifico in fisica si sia legata così strettamente, di fatto, alla questione della conoscibilità degli inosservabili. O meglio, perché essa si sia concentrata soprattutto sulla finalità, il valore e la veridicità di ciò che le teorie fisiche affermano e/o affermeranno circa quanto è per noi inosservabile (entità, processi, strutture etc.). In effetti, non si tratta dell’unico tema discusso nel quadro del dibattito sul realismo scientifico in fisica: la questione del ruolo e della natura della spiegazione scientifica (cfr. Campaner-Galavotti, 2012), o i temi della causalità (cfr. Campaner, 20122) e delle leggi di natura (cfr. Dorato, 2000a) sono altri aspetti di grande importanza e ai quali ci capiterà di fare cenno. Inoltre, come vedremo, esistono discussioni ed argomenti concernenti il realismo in fisica che riguardano piuttosto la natura e il valore delle teorie fisiche fondamentali, a prescindere dalla distinzione osservabile/inosservabile. Del resto, anche la conoscenza di ciò che possiamo percepire direttamente con i nostri sensi solleva problemi epistemologici notevolissimi (cfr. infra, 3.5). Ad esempio, le questioni connesse al rapporto tra teoria e osservazione, alla caratterizzazione e alla conoscenza dell’oggetto fisico sensibile, all’applicazione della matematica al mondo dell’esperienza, o alla messa a punto di leggi fenomenologiche sul comportamento di entità osservabili sono tutte di notevole rilevanza, sia in sede storica che teorica. E, più fondamentalmente, gli interrogativi connessi alla affidabilità epistemica della percezione costituiscono da sempre un capitolo decisivo della filosofia (cfr. Calabi, 2009). Tuttavia, dovendo scegliere una tematica che faccia da filo conduttore per una introduzione storico-teorica al dibattito sul realismo scientifico, quella degli inosservabili ha una indubbia plausibilità e un ragionevole primato6. Nessun’altra problematica, infatti, ha avuto, per la discussione su questo tema, la stessa urgenza e forza delle questioni ontologiche ed epistemologiche sollevate dal tentativo 6 Ciò è vero specialmente se (come in questa sede) si intende dare una caratterizzazione descrittiva di ciò che quel dibattito è stato ed è, piuttosto che una caratterizzazione prescrittiva di ciò che esso dovrebbe essere.

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della fisica di “spiegare il visibile complicato per mezzo dell’invisibile semplice” (Perrin, 1913, p. 23, corsivo nell’originale). Questo ha a che fare con il fatto che la fisica sembra progressivamente e sistematicamente dischiuderci un intero mondo altro rispetto a quello direttamente osservabile del senso comune e dell’esperienza ordinaria. Si tratta di un mondo al quale soltanto la fisica ci dà accesso e che, dunque, chiama in causa in tutta la sua radicalità e purezza la questione della finalità e/o del valore conoscitivo attribuito ai risultati di essa7. Ciò perché, se sono in questione entità, strutture, relazioni, proprietà, processi ai quali solo l’indagine scientifico-sperimentale sul mondo inosservabile sembra fare riferimento e darci accesso, allora la nostra posizione rispetto all’esistenza e all’identità di questi ultimi sarà inevitabilmente indice del valore epistemologico ed ontologico che attribuiamo alla scienza (presente e/o futura). Vale a dire che la posizione che prendiamo sugli inosservabili introdotti dalla scienza e sugli enunciati che li riguardano sarà una cartina di tornasole per far emergere la concezione generale che abbiamo circa le possibilità e/o gli scopi dell’impresa scientifica in generale, dal momento che essa è, verosimilmente, la nostra sola chiave di accesso a questi inosservabili (se lo è). Tale questione permette, inoltre, di far emergere quali siano il ruolo e la rilevanza attribuiti alla percezione sensoriale nella nostra conoscenza del mondo esterno: una questione che, in altre forme, è tradizionalmente associata alla contrapposizione tra realismo ed empirismo. Dunque, il tema degli inosservabili, anche al di là dell’interesse che può rivestire in sé, ha qui importanza soprattutto per il suo ruolo euristico, cioè perché ci consente, in modo indiretto, di cogliere e vagliare molti aspetti di concezioni epistemologiche alternative circa le finalità, le ambizioni, il funzionamento e i risultati della scienza. Conviene a questo punto precisare quale sia, in questo contesto, il significato dei termini osservabile e inosservabile, anche perché vi è spesso una certa diversità tra il significato di questi termini in filosofia e quello che essi hanno in fisica. Ad esempio, in genere, in fisica si definisce ‘osservabile’ una “grandezza […] suscettibile di essere misurata. Le variabili dinamiche di un sistema fisico che siano suscettibili di determinazione sperimentale sono chiamate le o. del sistema […]”8. Senza contare che in ambito scientifico e divulgativo si è soliti dire che una entità è stata ‘osservata’ quando è stata in qualche modo rilevata la sua presenza, in sede sperimentale, grazie all’uso di opportune strumentazioni. In filosofia, invece, il punto di partenza della discussione è in genere una caratChakravartty (2017) ha proposto di distinguere tra due definizioni del realismo/antirealismo scientifico. Una, incentrata sull‘analisi delle finalità della scienza (o assiologica): in base ad essa, i realisti sosterrebbero, ad esempio, che la scienza mira a offrirci descrizioni vere del mondo inosservabile; un’altra, incentrata sull’analisi dei risultati della scienza: in base ad essa, i realisti sosterrebbero, ad esempio, che le porzioni concernenti inosservabili delle migliori teorie scientifiche sono vere. 8 Enciclopedia Treccani on-line, ad vocem: http://www.treccani.it/enciclopedia/osservabile/ 7

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terizzazione più restrittiva, stando alla quale quando si parla di ‘osservazione’ si intende fare riferimento a un atto di percezione da parte di esseri umani con normale dotazione sensoriale. Perciò sarà definito ‘osservabile’ quanto è immediatamente percepibile ‘a occhio nudo’ e senza bisogno di inferenze, mentre ‘inosservabile’ quanto non lo è. In particolare, si ritiene inosservabile quanto è in linea di principio non direttamente percepibile da noi, a causa delle proprietà del tipo di oggetto in questione e delle capacità percettive di discriminazione e risoluzione dei nostri sensi (in special modo, della vista). Dunque, non è da considerarsi ‘inosservabile’ quanto non sia direttamente percepibile solo a motivo di una sfavorevole collocazione spazio-temporale dell’oggetto e/o dei possibili osservatori. La osservabilità/inosservabilità è, quindi, una proprietà relazionale, che andrebbe espressa attraverso un predicato diadico: qualcosa non è mai osservabile/ inosservabile-in-sé, ma è sempre osservabile/inosservabile-per-qualcuno. Ciò significa che, quando parliamo sbrigativamente di inosservabili, stiamo in realtà parlando di inosservabili-per-noi, cioè per noi esseri umani, considerati in quanto comunità epistemica che crea la scienza. Se questa concezione di ‘osservabile’ è quella dalla quale ha preso il via la discussione filosofica in materia, è però vero che, nel corso di tale discussione, la sua adeguatezza, la sua univocità e la sua rilevanza epistemologica sono state contestate o ripensate in diversi modi: sia su basi più propriamente filosofiche (cfr. infra, cap. 3), sia facendo riferimento alla concreta prassi sperimentale degli scienziati (cfr. Kosso, 1989). Ad esempio, Dudley Shapere, proprio tenendo conto della pratica scientifica e dell’uso del termine in tale ambito, ha proposto una reinterpretazione estremamente liberale del concetto di osservazione, secondo la quale un X è direttamente osservabile, se è possibile che un ricevitore idoneo ottenga informazioni per via diretta (senza interferenze nella trasmissione) da quell’X9. Si tratta, dunque, di una concezione di ‘osservazione’ nella quale la percezione sensoriale diretta dell’X in questione non è più requisito necessario. Essa, inoltre, fa della osservabilità una proprietà dipendente dallo stato di avanzamento della fisica e delle sue strumentazioni tecnologiche. Questo ci conduce ad una questione di decisiva importanza, anche per chi voglia conservare la tradizionale definizione di osservazione e osservabile, riconducendole alla percezione sensoriale dell’X osservato da parte di un soggetto osservatore. Infatti, potremmo chiederci: davvero quelli che abitualmente sono stati chiamati ‘inosservabili’, come gli atomi o gli elettroni, lo sono ancora? In fondo, con adeguati strumenti tecnologici sembra possibile per gli esseri umani giungere ad osservare, nel senso ordinario di vedere, entità, proprietà e processi Si veda: Shapere (1982), p. 492; su natura e ruolo della distinzione osservabile/inosservabile, cfr. anche: Agazzi-Pauri (eds.) (2000). 9

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non percepibili direttamente (cioè, senza adeguate strumentazioni scientifiche). Si potrebbe, anzi, dire che il progresso tecnologico con i suoi strumenti ci renda sempre più capaci di accedere coi nostri sensi, opportunamente estesi, a un mondo che un tempo era per noi inaccessibile, nascosto10. Per lo più, quelli che tradizionalmente chiamiamo inosservabili sarebbero, allora, soltanto entità e processi che eccedono la portata immediata dei nostri sensi. Di conseguenza, ogni disputa sull’esistenza e la conoscibilità degli inosservabili dei quali parlano le nostre teorie fisiche sarebbe ormai superata e svuotata di senso dal fatto che, in effetti, noi abbiamo accesso empirico/osservativo ad essi, perché li abbiamo resi degli osservabili per noi, con l’ausilio della tecnologia. Si tratta di un argomento significativo e che, per essere valutato in modo appropriato, richiederebbe di analizzare le possibilità e il ruolo dei molteplici strumenti scientifico-tecnologici chiamati in causa, anche per stabilire “se il soddisfacimento di un dato tipo di procedura di rilevamento costituisca un appropriato criterio di esistenza” (Losee, 19933, p. 241). Vi sono, infatti, filosofi, come ad esempio Bas van Fraassen (cfr. infra, Box 5), che hanno contestato l’idea che la rilevazione permessa dalle apparecchiature tecnologiche equivalga sul piano epistemico ad una esperienza di percezione diretta di (ex) inosservabili e, dunque, ci abiliti senz’altro ad assumere gli stessi impegni ontologici ai quali ci abiliterebbe un episodio di vera e propria osservazione. In ogni caso, è necessario ricordare che gli strumenti di rivelazione impiegati dalla fisica contemporanea sono di genere molto diverso: una camera a nebbia non funziona allo stesso modo di un microscopio a scansione elettronica, il quale, a sua volta, è ben diverso da un acceleratore di particelle (come, ad esempio, il Large Hadron Collider, del CERN di Ginevra), con i suoi molteplici sistemi di rivelatori. Sarebbe improponibile, su un piano epistemologico, collocare sullo stesso piano le risultanze procurateci da ognuno di questi strumenti, e, soprattutto, spesso non é affatto plausibile caratterizzare l’esperienza che facciamo quando li utilizziamo come un ‘vedere’ nel senso ordinario del termine11. Inoltre, la questione degli inosservabili sembra essere comunque ineludibile, giunti a una certa scala, dal momento che, come ha notato James Ladyman: anche se decidessimo di considerare gli atomi come osservabili, il problema tornerebbe a ripresentarsi in relazione all’esistenza delle entità da cui si suppone che gli atomi siano costituiti ecc. (Ladyman, 2002, p. 144)

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Per questo già Francis Bacon salutava con favore simili auxilia, cfr. Bacon (1620), libro II, §§

39-40. Sui rivelatori di particelle contemporanei e il loro funzionamento, ad esempio: Ereditato (2017), pp. 110-119 e 311-332. 11

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D’altra parte, quand’anche si volesse affermare che gli strumenti tecnologici ci consentono una vera e propria osservazione, sarà ben diverso riconoscere l’esistenza di qualcosa solo nel caso in cui lo si possa in qualche senso ‘osservare’, oppure già in base a giustificazioni che fanno leva sull’adozione di teorie scientifiche che si riferiscono ad esso e sui loro meriti (successo, capacità esplicativa etc.). In quest’ottica, potremmo dire che, qualunque valutazione si dia della cosiddetta ‘osservazione strumentata’, una posizione di stampo antirealista è quella che non si sente obbligata a credere nell’esistenza degli inosservabili dei quali parlano le teorie almeno se/finché li considera tali. Del resto, l’atteggiamento di un realista scientifico così selettivo da impegnarsi solo per l’esistenza di quanto ritiene (a torto, o a ragione) sia stato ‘reso osservabile’ grazie a strumenti tecnologici non sarebbe troppo distante dalle ragioni e dallo spirito che stanno, in genere, alla base di una posizione antirealista. Questo anche se poi, di fatto, l’inventario delle entità delle quali un simile antirealista ammette l’esistenza potrà risultare molto più ampio rispetto a quello di molti tradizionali antirealisti.

1.4. Una questione (anche) filosofica Si potrebbe a questo punto sostenere che, se la questione del realismo scientifico si ricollega soprattutto all’impegno circa gli inosservabili dei quali ci parlano o ci parleranno le teorie scientifiche, allora si tratta di una questione scientifica, non filosofica. Infatti, è in fondo la scienza stessa che può corroborare o smentire, con argomenti teorici e/o evidenze sperimentali, la credenza nell’esistenza di un dato tipo di entità inosservabile del quale una teoria fisica aveva postulato l’esistenza. In effetti, vedremo come, per lo più, i realisti scientifici adottino un genere di realismo selettivo, cioè un realismo che li porta ad impegnarsi non indiscriminatamente per ogni tipo di entità inosservabile che figuri in qualunque teoria scientifica esistente, ma solo per gli inosservabili la cui esistenza è implicata da teorie scientifiche mature e supportata da adeguate evidenze. Si opera, cioè, una selezione proprio in base a ragioni che sembrano fornite dalla ricerca scientifica stessa. Tuttavia, ciò non significa che il problema complessivo del realismo scientifico sia riducibile ad una questione puramente intrascientifica. Esso pare, anzi, avere dimensioni autenticamente filosofiche ed epistemologiche. Il fatto è che il dibattito sul realismo e l’antirealismo scientifico non riguarda direttamente la questione fattuale dell’esistenza o meno di certi tipi di entità inosservabili12, ma il confronto tra diverse concezioni della scienza, dei suoi risultati e/o delle sue finalità, delle implicazioni razionali connesse all’adozione di certe teorie o strumentazioni sperimentali: è questa diversità di concezioni che poi 12

Su questo insiste, ad esempio: van Fraassen (2017).

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si riflette, quasi inevitabilmente, anche in diverse posizioni rispetto all’impegno ontologico circa gli inosservabili dei quali parlano le teorie scientifiche (presenti o future) e alla verità di quanto esse affermano. Dunque, ad essere decisivo in questa sede non è tanto se/quali inosservabili esistano, ma quali concezioni della scienza, delle sue finalità, delle teorie, degli esperimenti e della razionalità stiano alla base dell’impegno o del non impegno circa l’esistenza di essi (o di alcuni di essi). Per questo non abbiamo qui a che fare con un semplice problema intrascientifico, ma con un problema di riflessione epistemologica sulla scienza. Del resto, una spia del fatto che non è la sola scienza a poter dirimere la questione sembra legarsi già alla seguente osservazione: c’è almeno un senso in cui sia i realisti, sia gli antirealisti scientifici, al giorno d’oggi, accettano in genere la ‘stessa’ fisica. Questo se con ciò si intendono le teorie fisiche che essi utilizzano, gli esperimenti ai quali si rifanno, le applicazioni e i problemi intrateorici ai quali si interessano. Naturalmente, possono esserci singoli problemi intrascientifici, teorici e/o sperimentali, ancora aperti sui quali essi hanno posizioni differenti, ma, anche in questo caso, non è detto che divergano in quanto realisti o antirealisti. Ciò non significa che essere realisti o antirealisti, in effetti, non faccia la differenza, ma sta a dire che quanto primariamente distingue queste due opzioni, più che le teorie, le procedure e le sperimentazioni scientifiche, è l’interpretazione di esse e delle implicazioni che derivano dalla loro adozione e dal loro successo, o, più in specifico, lo statuto attribuito alle porzioni di scienza concernenti il mondo inosservabile. Dunque, realisti e antirealisti possono, per così dire, anche condividere uno stesso manuale di fisica delle particelle, ma si dividono sullo scopo effettivo, sul significato epistemico e sulla portata ontologica delle teorie che esso contiene. In questo senso, realismo e antirealismo tendono ad essere punti di vista alternativi circa l’interpretazione dello stesso corpus teorico-sperimentale13. Tutto questo significa anche che le evidenze scientifiche che gli studiosi valutano come ragioni adeguate per adottare una teoria fisica non sono, in genere, messe in discussione nell’attuale dibattito sul realismo scientifico; al contempo, però, esse, in genere e per lo più, non sono ritenute anche ragioni sufficienti a giustificare una interpretazione di tipo realista o antirealista di quella stessa teoria. Naturalmente, non mancano risultanze sperimentali, o successi teorici che siano stati invocati (ad esempio) dai realisti come argomenti in favore dell’assunzione realista di una data teoria: ma questo equivale, di norma, a interpretare certe evidenze con categorie, inferenze e finalità ulteriori rispetto a quelle caratteristiche del lavoro intrascientifico, nonché filosoficamente controverse14. Per quanto, in passato, siano esistiti anche casi in cui una prospettiva antirealista può aver condizionato perfino il mero utilizzo di certe teorie, cfr. infra, 2.2. 14 Un caso esemplare in questo senso sono gli esperimenti di Jean Perrin sul moto browniano (si veda: Perrin, 1913, capp. 3-4), considerati come possibile prova della realtà degli atomi, cfr. Achinstein 13

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È lecito, dunque, supporre che per affrontare le questioni connesse al dibattito sul realismo scientifico non occorrano solo teorie scientifiche e risultanze sperimentali. In ogni caso, di fatto, fino ad oggi esse non sono bastate a risolvere dubbi e conflitti di opinione, ed è improbabile che questi persistano solo a motivo di una ignoranza in campo scientifico dei maggiori protagonisti del dibattito (le cui competenze scientifiche, al contrario, sono in genere molto elevate). Ciò, evidentemente, non toglie che la ricerca scientifica abbia un ruolo del tutto decisivo in questo dibattito: esso, anzi, ha acquisito la forma e l’importanza che ha proprio in stretto contatto con la ricerca scientifica e continua costantemente a nutrirsi degli sviluppi dell’indagine scientifico-sperimentale, applicandosi appunto alla riflessione su di essa. Ma il genere di domande che la riflessione in materia solleva, il loro grado di generalità, il tipo di concetti impiegati e le forme argomentative alle quali si ricorre fanno del dibattito sul realismo scientifico una tematica di carattere anche filosofico e non permettono di ridurlo solo a una questione interna alla scienza. Soffermiamoci ora, appunto, su uno degli aspetti filosofici più rilevanti in proposito.

1.5. Teorie scientifiche e impegni ontologici Quando facciamo delle affermazioni, quando esprimiamo delle credenze intendiamo di solito impegnarci circa il modo in cui è fatto il mondo, circa entità, processi, proprietà, relazioni che esistono in esso, se le affermazioni e le credenze in questione sono vere. Per converso, includere nella nostra ontologia delle entità significa, tipicamente, fare proprie e credere vere “teorie che hanno un impegno ontologico verso di esse”15. Ma come possiamo caratterizzare meglio il rapporto che esiste tra le nostre teorie e gli impegni ontologici (ontological commitments) che assumiamo, cioè gli impegni circa l’esistenza di qualcosa? Si tratta di una questione molto importante per l’argomento che stiamo affrontando, perché essa si ricollega anche ad una domanda che potremmo formulare così: quando accettiamo una teoria fisica che parla di entità per noi inosservabili, contraiamo un impegno ontologico circa la loro effettiva esistenza nel nostro mondo? Una risposta molto influente in materia di impegno ontologico è stata quella elaborata da Willard Van Orman Quine (cfr. infra, 2.9). In base a questa proposta, l’impegno ontologico che una teoria comporta sarebbe veicolato dai tipi di variabili quantificate che essa introduce, poiché “essere è essere il valore di una variabile quantificata”. In altri termini:

(2002); van Fraassen (2009); Dicken (2016), pp. 132-137. 15 Bricker (2014); per alcuni testi classici del dibattito in materia: Varzi (a cura di) (2008), parte I.

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se si ammette la verità di un enunciato quantificato esistenzialmente, si ammette implicitamente l’esistenza di quelle cose che sono i valori delle variabili vincolate dal quantificatore. (Rainone, 2010, p. 27)

Altri pensatori, sia tra i realisti, che tra gli antirealisti, hanno invece ritenuto che non sia possibile ricavare direttamente dalla sintassi di una teoria quali impegni ontologici comporti l’adottarla, perché è sempre lecito distinguere tra tipi di variabili ai quali associamo un impegno ontologico, ed altri che, al contrario, impieghiamo senza per questo voler sostenere che hanno davvero un correlato nel mondo che la teoria descrive. Il dibattito sul realismo scientifico, per come lo conosciamo, ha probabilmente senso solo nell’ipotesi che sia, almeno in linea di principio, possibile e lecito distinguere, entro le variabili di una teoria scientifica, tra quelle alle quali associamo un impegno ontologico e quelle per le quali tale impegno potrebbe non essere giustificato (o non esserlo ancora). In caso contrario, cioè se accettare una teoria scientifica significasse ipso facto credere esistenti i referenti di tutte le sue variabili quantificate, allora l’intera questione in gioco nella discussione sul realismo scientifico sarebbe risolta, o meglio dissolta, per ragioni che hanno a che fare con il nostro modo di intendere gli impegni ontologici (cioè, con le nostre opzioni di ‘metaontologia’). Tra l’altro, come detto, gli stessi realisti scientifici sono, in certi casi, realisti selettivi, intenzionati a distinguere quali tra le variabili delle teorie fisiche del passato e del presente giustifichino un impegno ontologico circa l’esistenza dei loro referenti inosservabili e quali, invece, no (almeno in un dato momento)16. Dunque, il dibattito sul realismo scientifico, per come attualmente lo conosciamo, sembra richiedere la possibilità di distinguere, in linea di principio, tra adottare, impiegare, trovare adeguata una teoria scientifica, e contrarre un impegno ontologico verso ciò cui essa si riferisce. La questione dell’impegno ontologico connesso alle teorie fisiche può, però, sollevare anche un altro genere di interrogativi. Infatti, anche ammettendo che, quando una teoria parla di un certo tipo di inosservabile, essa impegni chi la adotta a credere che esso esista, potremmo domandarci se questo impegno abbia carattere metafisico, oppure carattere ontico. In una prospettiva di tipo metafisico, l’impegno ontologico porta ad affermare che le entità inosservabili per le quali ci impegniamo costituiscono elementi effettivi della realtà per come essa davvero è in sé stessa (magari gli elementi ultimi e basilari di essa). Invece, in una prospetUn realista selettivo potrebbe affermare che, in effetti, egli è pronto a ritenere giustificato l’impegno verso tutte le entità inosservabili che si riveleranno indispensabili nelle teorie di una futura fisica, idealmente compiuta. Tuttavia, al presente, egli di fatto dovrà comunque operare una distinzione entro le teorie fisiche, per come le conosciamo e per come sono formulate, tra quelle componenti costitutive che giustificano un impegno realista, in base ai suoi criteri, e quelle che non lo giustificano (almeno attualmente). 16

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tiva di tipo ontico, l’impegno ontologico porta ‘solo’ ad affermare che certe entità inosservabili esistono nel mondo al quale noi abbiamo accesso epistemico, ovvero nel mondo per come noi lo conosciamo e descriviamo, allo stesso titolo di tante altre entità osservabili e non immaginarie (alberi, cani, girasoli etc.), senza, però, che questo comporti di affermare che gli inosservabili dei quali parliamo appartengano all’inventario ontologico del mondo, in senso assoluto, o “dal punto di vista di Dio” (come si usa dire). Questa problematica si lega, poi, alla più ampia questione del rapporto tra realismo scientifico e realismo epistemologico in generale. Una posizione di realismo scientifico costituisce, in genere, una forma specifica di realismo epistemologico, cioè di fiducia nella nostra possibilità di conoscere la realtà delle cose, almeno in certi ambiti e grazie a certi metodi disciplinari. Per altro verso, non è necessario che l’antirealismo scientifico si declini sotto forma di antirealismo epistemologico generalizzato. Al contrario, diversi sostenitori di impostazioni non realiste riguardo la scienza hanno ritenuto possibile affermare la conoscibilità di alcune porzioni della realtà, anche se questa conoscenza non sarà una conoscenza di tipo scientifico-sperimentale, e/o non riguarderà la porzione inosservabile del nostro mondo. Ci potremmo anche chiedere quale rapporto il realismo scientifico intrattenga con il naturalismo e, in particolare, con il naturalismo ontologico17. Esso può essere inteso come la tesi secondo cui esiste e/o ha rilievo causale solo ciò che appartiene al mondo della natura, per come quest’ultimo è costituito dalle scienze sperimentali. Stando al naturalismo ontologico, dunque, dovremmo prendere solo gli impegni ontologici che ci dettano le nostre migliori teorie scientifiche (presenti oppure future, attuali oppure idealmente compiute, a seconda delle opzioni in merito). Di per sé, il realismo scientifico non sembra obbligato a sposare un simile naturalismo. È infatti possibile riconoscere un valore veritativo alle teorie scientifiche e impegnarsi per gli inosservabili dei quali esse parlano, senza doversi spingere ad affermare che solo la scienza porta a conoscenze effettive e che gli unici impegni ontologici legittimi sono quelli fissati dalle nostre migliori teorie scientifiche. Essere realisti scientifici, cioè, di per sé non impone di sostenere che l’arredo ontologico del nostro mondo include solo le entità, le proprietà, i processi etc. che la nostra migliore scienza include (oppure includerà). Ad esempio, Hilary Putnam è stato un autorevole realista scientifico che ha rifiutato questa prospettiva, in favore di un “pluralismo concettuale”, basato sulla “negazione che un unico gioco linguistico sia adeguato per tutti i nostri obiettivi cognitivi” (2004, p. 47). Putnam ha infatti sostenuto che non si dà alcun insieme chiuso di oggetti scientifici che comprenda tutti gli oggetti su 17

Per una introduzione al tema: Laudisa (2014); cfr. anche: Boyd (1981).

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cui quantifichiamo – e quelli su cui troviamo indispensabile quantificare – nella nostra vita reale e nel linguaggio in essa impiegato. (Putnam, 2004, p. 56)

È, però, anche vero che esistono forme particolarmente robuste di realismo scientifico che si spingono fino a sostenere quella che, con Wilfrid Sellars (cfr. infra, 3.3), possiamo chiamare tesi della “scientia mensura” (Sellars, 1956, p. 59), ossia, l’idea di una scienza che è “misura di tutte le cose”: di ciò che esiste e di ciò che non esiste. La scienza sarebbe, di conseguenza, ‘misura’ di tutti gli impegni ontologici legittimi. In questo caso, allora, il realismo scientifico sembra essere coniugato e radicalizzato con l’adesione anche al naturalismo ontologico, con il quale esso è senza dubbio ben compatibile. All’opposto, sembra che l’opzione per una forma di antirealismo scientifico sia meno facilmente associata a quella per il naturalismo e, in definitiva, improntata a un ben diverso atteggiamento verso la scienza.

1.6. Modi di formulare il realismo e l’antirealismo scientifico Siamo ora in condizione di esaminare una possibile formulazione più circostanziata del realismo scientifico, specie in rapporto alla fisica. Come ha notato Ian Hacking, però, quando parliamo di realismo scientifico dobbiamo tenere presente che: si tratta più di un atteggiamento che di una dottrina chiaramente formulata. È un modo di pensare al contenuto delle scienze della natura […]. Il realismo e l’anti-realismo scientifico […] possiamo cominciare a discuterli con definizioni lunghe tutto un paragrafo, ma una volta dentro ci imbatteremo in tutta una quantità di opinioni rivali e divergenti. (Hacking, 1983, pp. 30-31)

Dunque, qualunque definizione dettagliata di che cosa sia il realismo scientifico difficilmente sarà condivisa da tutti i realisti scientifici e difficilmente si applicherà altrettanto bene a tutti coloro che nel corso della storia hanno condiviso questo atteggiamento. E, anzi, forse uno degli aspetti principali del dibattito in materia consiste, appunto, nel tentativo di formulare una caratterizzazione plausibile e difendibile di ciò in cui esso consista (per le difficoltà in merito: Hellman, 1983). Detto questo, si è spesso cercato di individuare una serie di componenti essenziali dell’atteggiamento realista. Ad esempio, Newton-Smith (1978, pp. 7172) ha parlato di un “ingrediente” ontologico, uno causale ed uno epistemologico che contribuirebbero a disegnare il denominatore minimo condiviso dai realisti

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scientifici. Più di recente, si è cercato di dare una caratterizzazione della prospettiva realista basata su tre “componenti”18. Ad essa qui, parzialmente, mi rifaccio: – una componente semantica: le teorie scientifiche sono costituite da asserzioni autentiche, dotate di valore di verità, anche quando vertono sul mondo inosservabile; dunque, vi sono termini delle teorie scientifiche che si riferiscono a entità, processi, strutture, forze etc. inosservabili e vi sono enunciati delle teorie scientifiche che vanno intesi letteralmente, come autentiche asserzioni, vere o false, su inosservabili (asserzioni che non sono mai interamente riducibili ad asserzioni concernenti osservabili); – una componente ontologica: la scienza intende e può identificare i/alcuni costituenti effettivi del mondo dotati di esistenza indipendente, compresi quelli per noi inosservabili; dunque, siamo impegnati a credere che gli/alcuni enti, strutture, processi etc. inosservabili ai quali fanno riferimento le migliori teorie scientifiche esistano in modo indipendente da noi (nel senso di non essere, ad esempio, creazione della nostra mente)19; – una componente epistemica (o aletica): la scienza intende e può descrivere e spiegare in modo vero come è fatto il mondo, compreso quello per noi inosservabile; dunque, siamo impegnati a credere che le/alcune affermazioni delle migliori teorie scientifiche circa entità, processi, strutture, forze inosservabili siano vere, o approssimativamente vere (si può anche parlare di “realismo sulle teorie”). La componente epistemica del realismo scientifico fa ricorso, dunque, alla nozione di ‘verità’. Si può, allora, supporre che il dibattito su questo concetto e le diverse teorie in merito giochino un ruolo significativo anche relativamente al nostro tema. Di fatto, alcuni autori, come Arthur Fine (cfr. infra, 4.6), hanno ritenuto che proprio nella scelta del concetto di verità da adottare stesse uno degli aspetti chiave della questione, mentre altri hanno sottolineato come la posizione realista non si basi su alcuna specifica concezione della verità (cfr. Devitt, 19912, p. 41). Tornando alla formulazione del realismo scientifico, le tre ‘componenti’ sopra richiamate richiedono, verosimilmente, un impegno crescente. Risulta, infatti, possibile, ad esempio, accettare (contro lo strumentalismo) la componente semantica di esso, senza accettare quelle ontologica ed epistemica: ovvero, ritenere Cfr. le proposte, pur non del tutto equivalenti, di: Psillos (1999), pp. XIX-XXI; Id. (2006b); Ladyman (2002), pp. 168-169; Chakravartty (2017) § 1.2. 19 Si tende a interpretare questa affermazione di “indipendenza dalla mente” in modi che la rendono incompatibile con una prospettiva kantiana. Ritengo, però, che sia anche possibile una formulazione attenuata di essa, compatibile con una posizione di ispirazione kantiana, secondo la quale gli inosservabili avrebbero la stessa realtà fenomenica degli oggetti osservabili dei quali facciamo ordinariamente esperienza (ad esempio, si potrebbe intendere l’indipendenza in termini minimali: gli inosservabili non sono una mera creazione libera delle menti, alla quale non corrisponde alcunché nel mondo esterno). 18

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che vi siano termini di una teoria che hanno carattere genuinamente referenziale, ma che si riferiscono a tipi di entità che non esistono realmente (o che non sappiamo davvero se esistano), e che, dunque, tali termini concorrano a formare autentiche asserzioni teoriche, ma false (o delle quali non conosciamo il valore di verità). Sembra anche possibile accettare le componenti semantica ed ontologica del realismo, senza accettare quella epistemica: infatti, che esistano le entità alle quali una teoria si riferisce non è sufficiente a garantire che tutto quanto essa afferma su di esse sia vero. Una posizione di quest’ultimo tipo è stata sostenuta, ad esempio, da Ian Hacking (realismo sulle entità), secondo il quale è ragionevole credere che un gran numero di entità inosservabili alle quali fa riferimento la scienza attuale esistano, anche se le teorie che ne parlano, per lo più, non sarebbero da considerare vere (cfr. infra, 4.4). Per questo, oltre che di ingredienti diversi di un solo atteggiamento (il realismo scientifico), si può anche parlare di formulazioni diverse e, in certi casi, autonome di esso. Si può pensare, a questo punto, che l’antirealismo scientifico consista semplicemente nella negazione di una o più delle ‘componenti’ del realismo scientifico, o addirittura nell’affermazione delle proposizioni contraddittorie rispetto ad esse. Così, ad esempio, la componente semantica dell’antirealismo consisterebbe nella negazione del carattere genuinamente referenziale di quei termini delle teorie scientifiche che sembrano rimandare ad inosservabili e del carattere genuinamente assertivo degli enunciati che sembrano vertere su inosservabili: le porzioni di teorie scientifiche che sembrano vertere su inosservabili sarebbero così, in effetti, costituite da meri strumenti di calcolo e formalismi non interpretati, utili solo per sistematizzare, collegare, prevedere e manipolare i fenomeni. Questo è, in effetti, il tipo di antirealismo scientifico che si è soliti definire strumentalismo. Analogamente, la componente ontologica dell’antirealismo consisterà nel negare l’esistenza (nel senso di affermare la non esistenza) dei tipi di entità inosservabili ai quali fanno riferimento le nostre teorie scientifiche, mentre la componente epistemica consisterà nel negare che le asserzioni teoriche su inosservabili siano vere, o approssimativamente vere. Spesso, però, le cose non sono così semplici: non è detto che l’antirealista intenda negare qualcosa che il realista scientifico afferma. Ad esempio, la prospettiva antirealista più influente degli ultimi decenni, cioè l’empirismo costruttivo di Bas van Fraassen (cfr. infra, 4.5), non consiste nella mera negazione di quanto l’atteggiamento realista, nelle sue varie componenti, afferma. Infatti, da un lato, van Fraassen accetta la componente semantica del realismo, dall’altro, contro la componente ontologica del realismo, ritiene (a partire da una diversa concezione della natura della razionalità e degli scopi della scienza) che non dovremmo sentirci obbligati ad affermare l’esistenza degli inosservabili ai quali si riferiscono le teorie scientifiche che accettiamo, ma che non siamo neppure tenuti a negare che essi esistano: essere antirealisti, cioè,

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significa non dover affermare ciò che i realisti sulle entità affermano, e non negarlo. Per questo, si parla anche di agnosticismo, cioè di astensione dal prendere un impegno. Dunque, qualora alcune delle entità inosservabili introdotte dalle teorie scientifiche esistessero realmente, l’empirismo costruttivo non sarebbe in alcun modo confutato. Parimenti, contro la componente epistemica o aletica del realismo scientifico, l’empirismo costruttivo afferma che lo scopo, la finalità delle teorie scientifiche non sia quello di darci un resoconto vero di come stanno le cose nel mondo per noi inosservabile. Infatti, si sostiene che, per quanto concerne la loro porzione che verte sugli inosservabili, non accettiamo le teorie scientifiche in ragione della loro verità, ma della loro adeguatezza empirica, intesa come capacità di fornirci, anche grazie al riferimento ad inosservabili, il resoconto più soddisfacente del mondo del quale facciamo esperienza diretta (per ciò che concerne il mondo osservabile, invece, verità e adeguatezza empirica coincidono). Il concetto di adeguatezza empirica designa, dunque, una proprietà epistemica più debole della verità, perché, se sono in gioco inosservabili, un asserto può essere empiricamente adeguato, anche senza essere vero. Tutto questo, però, non impone all’empirista costruttivo di negare la verità degli asserti scientifici sugli inosservabili: semplicemente, non gli impone di affermarla. Una ulteriore precisazione sembra qui opportuna: l’empirista costruttivo (e in genere l’antirealista) non intende in alcun modo mettere in dubbio il fatto che esista un mondo non direttamente osservabile per noi umani. Questo per il semplice motivo che la osservabilità-per-noi non ha alcun valore ontologico discriminante e sarebbe irragionevole fare delle nostre capacità sensoriali la ‘misura’ di tutto ciò che esiste: già Francis Bacon, d’altra parte, condannava l’errore di credere che “sensum esse mensura rerum”20. Il punto dell’antirealista non sta, dunque, nel negare che esista un mondo per noi inosservabile, ma nel ritenere che le teorie scientifiche non abbiano il fine di farci conoscere la vera natura e la vera articolazione di quel mondo e non possano, comunque, garantire di farlo. Per l’antirealista, i limiti della nostra esperienza non costituiscono i limiti dell’esistente, ma determinano i limiti degli impegni ontologici che è opportuno o, almeno, necessario assumere in rapporto alle nostre teorie scientifico-sperimentali: il mondo, infatti, è quello che è, indipendentemente dalle nostre facoltà conoscitive, ma le nostre affermazioni sul mondo e i nostri impegni ontologici, no.

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Bacon (1620), p. 41.

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1.7. ‘Realismo’ e ‘antirealismo’ scientifico si dicono in molti modi: una gamma di posizioni Possiamo ora provare a disegnare una mappa delle principali forme di realismo e antirealismo scientifico, in una sorta di continuo che va dalle forme più esigenti di realismo a quelle di più radicale antirealismo. Si tratta, sia chiaro, soltanto di individuare alcune delle principali macro-opzioni in campo, perché, se dovessimo registrare tutte le posizioni di fatto presenti nel dibattito, l’intero libro si ridurrebbe ad una sorta di lungo elenco. Del resto, già Herbert Feigl nel 1950 prendeva in esame ben nove punti di vista in materia (naive physical realism, fictionalistic agnosticism, probabilistic realism, explanatory realism etc.), aggiungendo di trascurarne altri, pur attestati e diffusi (1950a, pp. 44-52). La forma più impegnativa di realismo scientifico sembra essere quella che, nel paragrafo precedente, abbiamo definito realismo scientifico aletico. Infatti, essa sostiene non solo l’esistenza degli inosservabili introdotti dalle teorie, ma anche la verità (o, almeno, la verità approssimata) di quanto le migliori teorie scientifiche (presenti, oppure solo future) affermano a proposito di essi. Come abbiamo anticipato, esistono però anche forme di realismo scientifico circa le entità, ma non circa le teorie: ossia, forme di realismo più deboli che, pur impegnandosi circa la realtà di almeno alcuni inosservabili della fisica, non si impegnano circa la verità delle teorie fisiche che trattano di essi21. Una ulteriore distinzione, per misurare la portata del realismo scientifico, è quella tra realismo scientifico di carattere metafisico, oppure di carattere ontico (cfr. supra, 1.5). Il realismo scientifico di carattere metafisico è qui inteso come una forma particolarmente robusta di realismo, ossia come la tesi secondo cui la scienza (attuale, oppure idealmente compiuta) ci permette di conoscere quali siano e che proprietà abbiano gli elementi effettivi della realtà per come essa è in se stessa (la scienza come via verso le ‘cose in sé’; cfr. infra, 3.3). Più modesto risulta, invece, quel tipo di realismo scientifico di carattere ontico che si limita a ritenere che siamo impegnati per l’esistenza dei referenti inosservabili delle nostre migliori teorie scientifiche, nel senso che essi esistono al pari delle entità osservabili e non immaginarie del mondo esterno, alle quali facciamo ordinariamente riferimento. Vediamo adesso altri fattori in base ai quali possono distinguersi le diverse forme di realismo scientifico. Esse possono differenziarsi: – in ragione della loro portata: il realismo scientifico può, infatti, avere portata generale, cioè riguardare tutto ciò che la nostra migliore scienza afferma sull’inosservabile, oppure declinarsi come realismo selettivo (o restrittivo). In A tale tipo di realismo, più modesto, si può avvicinare anche il “referential realism” difeso da Rom Harré, cfr. Harré (1986), specie cap. 3. 21

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comune, le due forme di realismo hanno la convinzione che, in linea di principio, la conoscenza scientifica possa legittimare un impegno circa l’esistenza di inosservabili. Mentre, però, una forma globale di realismo richiederebbe di impegnarsi, in linea generale, per tutto ciò che di inosservabile è introdotto dalle nostre teorie scientifiche mature, la grande maggioranza dei realisti sono, in effetti, ben più selettivi nel loro impegno circa la verità della scienza e le entità inosservabili da essa introdotte22. Secondo Campbell, il realismo selettivo sarebbe allora un “realismo realistico”, cioè il più plausibile e aderente alla effettiva pratica scientifica23. Il realismo selettivo può avere molte forme diverse, ma converge sulla tesi che sia possibile tracciare una distinzione, all’interno delle stesse teorie fisiche, tra porzioni di esse alla cui verità possiamo credere e porzioni che invece non giustificano (allo stato delle cose) questa credenza, tra inosservabili meritevoli di impegno ontologico e quelli che invece non lo sono. In genere è anche programmaticamente fissato il tipo di componente delle teorie fisiche meritevole di una interpretazione realista, oppure il criterio (o i criteri) che tale componente deve soddisfare. Ad esempio, si può sostenere che l’approccio realista debba limitarsi ai soli aspetti strutturali delle teorie (cfr. infra, 4.7), oppure alle sole “detection properties” (come nel caso del “semirealismo” di Chakravartty, cfr. infra, 4.8). In genere, l’individuazione di un tipo di componente delle teorie passibile di interpretazione realista rimanda, comunque, alla elaborazione di un criterio che guidi e giustifichi un approccio selettivamente realista. Ad esempio, secondo alcuni realisti, sarebbero gli aspetti delle teorie scientifiche che sono preservati attraverso il mutamento teorico, cioè che si conservano anche quando si abbandona una teoria per un’altra, a meritare un impegno realista circa la loro esistenza (si parla, perciò, di “preservative realism”). Un altro criterio molto influente per il realismo selettivo afferma che dovremmo impegnarci solo per quegli elementi di una teoria che svolgono un ruolo centrale o essenziale nell’effettivo conseguimento dei suoi successi empirico-predittivi (cfr. infra, 4.9). Si noti che, quando si adottano questo tipo di formulazioni, non è detto che al criterio di impegno realista fissato corrisponda sempre uno stesso tipo di componente della teoria verso la quale assumere un atteggiamento realista. – per il ricorso ad argomenti di carattere complessivo e di portata generale a favore di un’interpretazione realista delle teorie fisiche, cioè i cosiddetti “wholesale arguments” (come è, almeno in origine, il no-miracles argument, cfr. infra, 3.4), o invece per l’impiego soltanto di argomenti di carattere particolare, più spe“Minimale” (cfr. Leplin, 1997, cap. 5) è poi quella forma di realismo secondo cui, almeno in linea di principio, esistono condizioni epistemiche che sarebbero adeguate a giustificare la nostra credenza nella verità (almeno approssimata) di alcune asserzioni teoriche su entità non osservabili. 23 Campbell (1994), p. 27. 22

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cifici e limitati, relativi all’interpretazione di alcune teorie fisiche, o di alcune porzioni di esse, cioè, i cosiddetti “retail arguments”24. – per il carattere assoluto, oppure probabilistico. Si può infatti pensare che la credenza nell’esistenza di inosservabili e nella veridicità delle asserzioni teoriche che li riguardano sia semplicemente giustificata o non giustificata, dimostrata o non dimostrata. Sono, però, assai diffuse concezioni più o meno esplicitamente probabilistiche della giustificazione25. In base ad esse, le argomentazioni teoriche e le evidenze empiriche rilevanti renderebbero la credenza nell’esistenza degli inosservabili introdotti dalle nostre migliori teorie scientifiche non ‘provata’, o ‘dimostrata’ in termini assoluti, ma più o meno probabile. Questa concezione può anche coniugarsi con una differenziazione connessa ai singoli tipi di inosservabili: è, cioè, possibile affermare, ad esempio, che la credenza nell’effettiva esistenza di certi tipi di inosservabili goda (attualmente) di un supporto giustificativo superiore rispetto a quella che abbiamo a favore di altri tipi di inosservabili dei quali parla la scienza e, dunque, che l’esistenza dei primi sia da ritenersi (attualmente) per noi più probabile di quella dei secondi. Passiamo adesso ad esaminare brevemente alcune delle forme che può assumere una prospettiva antirealista. In primo luogo, troviamo l’empirismo costruttivo di Bas van Fraassen (cfr. infra, 4.5). Si tratta di una attitudine epistemica che possiamo considerare di antirealismo moderato e che si qualifica come risposta alla domanda sulla natura e i fini della scienza, piuttosto che come risposta alla domanda su che cosa esiste. A partire da questo, si afferma che accettare una teoria scientifica non impone di credere alla sua verità per le porzioni di essa che fanno riferimento ad inosservabili, né di impegnarsi per l’esistenza di questi ultimi. Ciò, come detto, non significa però negare che questi inosservabili esistano: si può, semplicemente, restare agnostici in merito, limitandosi a riconoscere che la loro introduzione è funzionale a darci teorie fisiche empiricamente adeguate. Una forma diversa e più marcata di antirealismo può essere associata alla filosofia del come se, o finzionalismo, elaborato dal filosofo tedesco Hans Vaihinger (1852-1933) in La filosofia del ‘come se’ (1911), con particolare attenzione alla scienza del suo tempo. In quest’ottica, la scienza non mira a darci un’immagine veridica della realtà (meta impossibile da raggiungere), ma solo a fornirci “uno strumento per meglio orientarsi” in essa (1911, p. 29). A questo scopo, essa rappresenterà il mondo ‘come se’ le cose stessero in un certo modo; non solo, però, essa non ci impegnerà a credere che le cose stiano davvero in quel modo, ma Cfr. Magnus-Callender (2004), p. 321; Dicken (2016), cap. 5. Un antecedente classico di queste concezioni, almeno per alcuni aspetti, può essere individuato nel realismo probabilistico di Reichenbach (cfr. infra, 2.7). 24 25

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addirittura ricorrerà liberamente anche a concetti che già sappiamo essere, ad esempio, privi di referente, purché risultino utili. Dunque, la scienza ci fornirà rappresentazioni che sappiamo non essere veridiche, ma che saranno pienamente accettabili, se sono proficue. Applicata poi alla specifica controversia dell’epoca sull’atomismo, questa prospettiva porta Vaihinger ad affermare che il concetto di atomo costituisce “un nodo contraddittorio di rappresentazioni, necessario, comunque, per renderci conto della realtà” (1911, p. 78), precisando poi: “questa rappresentazione ausiliaria viene introdotta in quanto ci agevola. Si tratta letteralmente dell’ipostasi di un nulla, ché altro non è ciò con cui abbiamo a che fare” (1911, p. 208). Giungiamo, così, alla più classica prospettiva di antirealismo scientifico: lo strumentalismo, al quale già abbiamo fatto cenno. Nella sua formulazione sintattica, lo strumentalismo concepisce le porzioni teoriche della scienza “come costrutti sintattico-matematici privi di condizioni di verità, e dunque di qualunque contenuto assertivo” (Psillos, 2007, p. 123). Si tratterebbe, cioè, ‘soltanto’ di strumenti con prescrizioni utili (o necessarie) per classificare, prevedere, manipolare in modo ottimale i fenomeni dei quali facciamo esperienza, ma, di per sé, i termini teorici impiegati non designerebbero alcuna entità, analogamente ad una virgola, o ad un segno più26. Siamo di fronte ad una forma radicale di antirealismo, perché in quest’ottica, dato il carattere non referenziale e non assertivo dei nostri costrutti teorici, essi, a fortiori, non si riferiscono ad inosservabili, anche se può sembrare che lo facciano, e non mirano neppure a descrivere un mondo inosservabile. Una alternativa più moderata alla componente semantica del realismo riconosce, invece, la natura assertiva e il valore di verità agli enunciati teorici della scienza, ma afferma che essi costituirebbero soltanto un modo indiretto e mascherato di formulare generalizzazioni su fenomeni osservabili e sarebbero, perciò, anche interamente riducibili, cioè traducibili in asserti su osservabili (si parla di empirismo riduttivo). In tempi molto più recenti, sono poi emerse anche impostazioni antirealiste ispirate specialmente alla sociologia della scienza (cfr. infra, 3.7). In alcuni casi, esse giungono a interpretare le teorie scientifiche soprattutto come il frutto di dinamiche di interazione, conflitto e negoziazione tra comunità di scienziati e tra scienziati e società. Dunque, sarebbe ingenuo credere che esse progrediscano verso una crescente capacità di rispecchiare oggettivamente la realtà. A questa gamma di prospettive specifiche sulla scienza, varrà la pena di aggiungere, da ultimo, anche una posizione che potremmo chiamare di costruttivismo generalizzato. Ossia, una posizione in ragione della quale nessuna delle nostre pratiche conoscitive e delle nostre “innumerevoli versioni alternative del mondo” 26

Cfr. Dicken (2016), pp. 43-44.

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può pretendere di offrirci la sola descrizione vera, quella che corrisponderebbe a “un mondo già bello e pronto” (Goodman, 1978, p. 111): dunque, anche la scienza, come ogni nostro sapere, non potrà essere interpretata nella prospettiva realista tradizionale. È importante, però, ricordare che esistono anche tentativi di rendere conto degli aspetti soggettivi, ‘situati’ e socialmente costruiti della conoscenza, nel quadro di un approccio di tipo realista: si pensi, ad esempio, al perspectival realism, proposto da Ronald Giere27. Vi sono poi una serie di impostazioni che tendono ad accreditarsi come terza via rispetto alla dicotomia realismo/antirealismo, cioè che intendono proporre un punto di vista che non rispecchi nessuna delle due macro-opzioni tradizionali, in quanto mirano piuttosto a reinterpretare il conflitto, giungendo in qualche modo a superarlo, o, comunque, a renderlo meno rilevante di quanto si è creduto in precedenza. Nella seconda metà del XX secolo, si sono presentate come ‘terze vie’ ad esempio la riflessione in merito del Carnap maturo (cfr. infra, 2.8) e poi la cosiddetta “Natural Ontological Attitude” (NOA) di Arthur Fine (cfr. infra, 4.6). Chiaramente, la terzietà è ciò che questi filosofi hanno tentato di raggiungere e hanno ritenuto di aver raggiunto: che poi davvero le cose stiano così è, invece, molto discusso. Un modo radicale di declinare questa ‘terza via’ è il cosiddetto decostruzionismo, cioè l’impostazione che esprime un certo scetticismo circa l’intera controversia sul realismo scientifico, perché, nei termini in cui essa è abitualmente formulata, sarebbe sviante, figlia di presupposti insostenibili, o fonte di conflitti insolubili28. Simon Blackburn, che ha proposto una decostruzione in chiave pragmatista della disputa, ha notato, tra l’altro, che non sembra possibile voler negare la realtà degli oggetti inosservabili centrali per le nostre teorie più importanti, ma che, al contempo, non si può davvero pretendere di confrontare in maniera oggettiva le teorie scientifiche con una realtà indipendente, per valutare la corrispondenza tra le due. Di conseguenza: “in una prospettiva il realismo sembra quasi indiscutibilmente vero, e nell’altra falso in modo altrettanto ovvio […]” (2002, p. 112).

1.8. Ideali scientifici e scienza ideale: di quale scienza stiamo parlando? Parlando del realismo scientifico abbiamo sottolineato come esso non comporti necessariamente di prendere un impegno circa l’esistenza di tutte le entità alle quali si fa riferimento nelle attuali teorie scientifiche di successo, né di creCfr. Giere (2006); in direzione affine: Teller (2018). A un progetto di “perspectival realism” lavora anche Michela Massimi, si veda, ad esempio: Massimi (2018). 28 Cfr. Jones (1991), p. 201; per un superamento del dibattito tra realismo e antirealismo scientifico, anche Rouse (2018). 27

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dere che queste ultime siano vere. Spesso il realista scientifico qualifica il proprio punto di vista affermando di credere solo alla verità approssimata, o verosimiglianza (truthlikeness), delle nostre attuali teorie scientifiche, oppure precisa che intende riferire il proprio impegno solo alle teorie scientifiche che giudichiamo mature. Addirittura, un realista scientifico potrebbe ritenersi impegnato solo per l’esistenza di enti, processi, strutture inosservabili che figureranno nell’ontologia di una futura scienza, più evoluta della nostra e, magari, idealmente compiuta29. Dunque, dalla convinzione realista secondo cui la scienza intende e può, in linea di principio, darci la descrizione vera della realtà ed è, in linea di principio, meritevole del nostro impegno ontologico, non segue necessariamente un atteggiamento indiscriminatamente realista verso la scienza del presente. Anzi, secondo alcuni la scienza attuale non sarebbe che una tappa provvisoria nel cammino verso una descrizione e spiegazione pienamente veridica della natura, che, però, sarà offerta da teorie scientifiche sicuramente diverse da quelle del presente. Alcuni realisti, inoltre, affermano che questa scienza della natura pienamente realizzata e meritevole di una interpretazione realista sarebbe solo il limite ideale verso il quale converge il progresso scientifico protratto all’infinito, senza, però, mai effettivamente conseguirlo (cfr. infra, Box 4). Nozioni come quelle di ‘scienza matura’ e di ‘verità approssimata’ giocano qui un ruolo indubbiamente importante, ma richiedono anche di essere adeguatamente caratterizzate perché possano qualificare una qualche forma di realismo scientifico30. In caso contrario, rischiamo di avere una tesi realista eccessivamente vaga, o povera di contenuti. Si tratta di una possibile difficoltà che interessa il realismo scientifico (o alcune sue forme), come anche altre posizioni epistemologiche (fisicalismo, naturalismo etc.) che fanno riferimento alla scienza e le conferiscono una speciale autorità esplicativa, ma, al contempo, ritengono che solo la scienza del futuro potrà essere pienamente all’altezza di questo primato. In specifico, il possibile problema connesso a un realismo che fa riferimento non alla scienza così com’è, ma alla scienza come si ipotizza e si spera che sarà in futuro, è che tale opzione, per quanto in linea di principio legittima, rischia di ‘svuotare’ la van Fraassen ha insistito sul fatto che, in via di principio, un realista scientifico potrebbe essere tale senza credere vera alcuna delle teorie scientifiche attuali, né esistente alcuno degli inosservabili da esse introdotti (cfr: Chakravartty-van Fraassen, 2018, p. 17). La notazione è probabilmente corretta, in linea teorica: infatti, le nostre attuali teorie potrebbero non essere ancora le “migliori teorie scientifiche” che, per il realista, meritano di essere credute. Tuttavia, tale atteggiamento non sembra rispecchiare la posizione effettiva dalla grande maggioranza dei realisti scientifici e, anzi, un tale modo puramente programmatico di declinare il realismo finirebbe col minarne il significato e l’interesse (cfr. Psillos, 2006b, p. 690). 30 Per il dibattito sul concetto di verosimiglianza: Psillos (1999), cap. 11; Oddie (2014); Chakravartty (2017), § 3.4; Stanford (2018); per una teoria in merito: Niiniluoto (1987). Si veda, invece, Elgin (2017) per la tesi secondo cui le teorie scientifiche debbono essere semplicemente vere quanto basta per permettere una adeguata comprensione delle tematiche di volta in volta in questione. 29

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posizione in questione di un contenuto determinato, almeno al presente. Se, infatti, non è la scienza attuale, ma una scienza del futuro a dover essere interpretata in senso pienamente realista, allora, o siamo già in grado di precisare quali porzioni della scienza attuale transiteranno immutate anche in essa, oppure, se non sappiamo ancora quali saranno le teorie costitutive e le entità fondamentali di questa scienza del futuro, non siamo neppure in grado di escludere che possa trattarsi di teorie ed entità molto diverse da quelle che caratterizzano la scienza odierna. In fondo, la storia della scienza ci offre esempi di mutamenti scientifici che hanno comportato discontinuità significative rispetto al passato, portando all’abbandono di quanto, alla luce di teorie precedenti, si riteneva esistesse. Che cosa ci assicura, dunque, che il progresso della scienza non ci obbligherà a rivedere sostanzialmente anche la nostra odierna immagine scientifica del mondo? Si giunge, così, a qualcosa di analogo a quello che è conosciuto come il “dilemma di Hempel” per il fisicalismo31, inteso come la tesi secondo cui esiste solo ciò che è parte dell’ontologia della fisica. Se si afferma il fisicalismo con riferimento alla fisica attuale, allora esso è plausibilmente falso, ma se lo si declina in riferimento ad una futuribile fisica compiutamente realizzata, allora esso rischia di essere vuoto, perché non sappiamo quale sarà la sua ontologia e che cosa essa includerà. Analogamente, potremmo dire che, se il realismo scientifico si applica agli inosservabili della scienza che possediamo oggi, allora è alto il rischio che lo stesso progredire di questa scienza smentisca, almeno in parte, la fiducia che avevamo riposto nella veridicità e nell’ontologia dell’odierna immagine scientifica; ma, se riferiamo il realismo ad una futuribile scienza ideale, allora l’opzione sembra farsi tanto più plausibile, quanto più indeterminata nel contenuto (cfr. Allen, 2007). Anche per fare fronte a difficoltà di questo genere, alcune forme di realismo scientifico selettivo hanno allora cercato di individuare e specificare esattamente che cosa già nelle teorie scientifiche attuali sia meritevole di interpretazione realista e, di conseguenza, permarrà immutato attraverso il mutamento teorico (cfr. infra, 4.7-4.9). Una questione affine a questa è quella legata al problema delle formulazioni e delle interpretazioni alternative delle teorie scientifiche e alla conseguente “ambiguità ontologica” ad esse connessa32. Ad esempio: vi sono teorie scientifiche (a partire dalla meccanica classica) che paiono avere molteplici versioni differenti, ciascuna delle quali è legittima, ma comporta impegni ontologici diversi, tratteggiando un diverso ‘arredo’ del mondo. Ma allora, anche ponendo che le nostre teorie scientifiche mature debbano essere interpretate in termini realisti e che costituiscano una buona guida per fissare la vera immagine del mondo, quale 31 Da non confondere con il “dilemma dello scienziato teorico”, sempre di Hempel, del quale tratteremo in 3.1. 32 Si vedano: Jones (1991); cfr. Musgrave (1992); Ladyman (2002), pp. 255-259.

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versione di esse dovremmo scegliere, tra quelle empiricamente equivalenti? e, di conseguenza, quale sarà l’ontologia di chi interpreti in senso realista queste teorie? Proprio in riferimento a questo genere di questioni, Lawrence Sklar è giunto a domandarsi: come possiamo chiedere alle nostre teorie fisiche fondamentali di dirci che cosa c’è nel mondo, quando ognuna di queste teorie è soggetta a molteplici interpretazioni, interpretazioni che spesso sono radicalmente in disaccordo fra loro in merito a quale tipo di mondo la teoria fondamentale sta realmente descrivendo? (Sklar, 2001, p. 47)

1.9. Progressi, rivoluzioni e successi della scienza: questioni aperte per realisti e antirealisti Ci sono alcune caratteristiche rilevanti che siamo comunemente portati ad attribuire all’impresa scientifica e che le diverse opzioni in materia di realismo scientifico sono chiamate, se non a spiegare, almeno a rendere compatibili e armoniche con la loro visione d’insieme circa lo statuto e il compito della scienza. Ad esempio, la provvisorietà e la incompletezza dell’attuale sapere scientifico alle quali abbiamo sopra fatto cenno, sembrano, per altro verso, connesse ad una caratteristica della scienza, ben più attraente: ossia, il fatto che la scienza si accresce nel tempo, e che, se una teoria scientifica viene abbandonata, è perché al suo posto ne subentra un’altra che riteniamo migliore, di maggior valore. Pare, in altre parole, che la scienza conosca il progresso: con l’andare del tempo, ne sappiamo sempre di più e abbiamo sempre maggiori possibilità di descrivere, analizzare, spiegare, manipolare, e prevedere i fenomeni naturali. Si può addirittura ipotizzare che l’ideologia stessa del progresso, che tanto ha influito sulla cultura occidentale in età contemporanea, derivi da una (dubbia) estensione alla totalità della condizione umana di quel progresso che appariva indubitabile in ambito scientifico e, ancor più, tecnologico. Come ha notato Hacking: che alcuni eventi storici esibiscano effettivamente la crescita della conoscenza non è cosa che vada argomentata. Ciò che si richiede è un’analisi che dica in cosa questa crescita consista. (Hacking, 1983, p. 142)

Nessuna seria interpretazione dell’impresa scientifica può, dunque, esimersi dall’affrontare la questione della crescita del sapere scientifico nel tempo, dal renderne conto, chiarendo in che senso e da che punto di vista si possa parlare di ‘progresso’. Ad esempio, il progresso della scienza è stato spesso interpretato, soprattutto in contesti non specialistici, in termini di cumulatività: il sapere scien-

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tifico, cioè, si verrebbe accumulando nel tempo e, dunque, come in una grande costruzione, chi giunge dopo porterebbe il proprio contributo per ampliare e arricchire un edificio che si regge stabilmente sulle fondamenta già poste, in precedenza, da altri. Questa visione lineare del progresso scientifico, però, è stata messa in discussione nel Novecento da studiosi che hanno evidenziato come nella storia della scienza vi siano anche momenti di discontinuità, snodi nei quali si impone un nuovo assetto teorico-operativo che non sembra tanto estendere e completare il precedente, o integrarsi con esso, ma rimpiazzarlo su basi alternative e incompatibili. Si tratta di quegli snodi che Thomas Kuhn ha definito “rivoluzioni scientifiche” (cfr. infra, 3.6). Tanto il progresso, quanto la discontinuità della scienza richiedono, allora, di essere ben compresi e spiegati. Inoltre, per quanto qui più ci interessa, mentre il progresso della scienza sembra, prima facie, un fenomeno dal quale il realista scientifico può trarre conforto, la discontinuità potrebbe, invece, risultare più problematica per il sostenitore di tale approccio, specie nel caso in cui non si trovino elementi preservati attraverso il cambiamento. Addirittura, secondo Worrall: “il realismo non è compatibile con l’esistenza di cambiamenti teorici radicali nella scienza (o ad ogni modo nella scienza matura)” (1989, p. 107). Un altro aspetto della scienza che si lega al suo progresso e che richiede di essere spiegato è la sua efficacia empirica. La scienza è, infatti, straordinariamente efficace ed affidabile nel permetterci di prevedere, manipolare, modificare fenomeni e processi naturali, nel loro funzionamento e nel loro evolversi. In questo senso, possiamo anche dire che la scienza ha successo: essa, cioè, ci permette di interagire con il nostro mondo e di comprenderne aspetti del funzionamento, in modi che sarebbero impensabili senza la scienza e riesce a soddisfare moltissime nostre esigenze teoriche e pratiche. Come si spiegano questa efficacia e questo successo? e che cosa ci dicono del valore epistemico della scienza?33 Secondo alcuni, efficacia e successo costituirebbero un chiaro argomento in favore del realismo scientifico; sarebbe, infatti, lecita l’inferenza dal successo alla verità della scienza. Anzi, studiosi come Hilary Putnam hanno sostenuto che solo il realismo scientifico sarebbe in grado di rendere conto in modo razionale del successo della scienza (cfr. infra, 3.4). Al contrario, studiosi come Thomas Kuhn o Bas van Fraassen hanno proposto una lettura ‘darwiniana’ del mutamento scientifico, in base alla quale sarebbe del tutto naturale che, nella lunga e serrata ‘lotta per la sopravvivenza’ tra le varie teorie scientifiche, si siano affermate quelle più ‘adatte’ alle nostre esigenze epistemiche e più capaci di rendere conto In effetti, la stessa nozione di ‘successo’ della scienza, per quanto intuitiva, richiede una adeguata caratterizzazione e qualificazione. Vi sono, ad esempio, quanti hanno visto il successo rilevante (e da spiegare) della scienza soprattutto nelle sue capacità predittive e quanti, invece, soprattutto nelle sue capacità esplicative (cfr. Doppelt, 2005). Sul nesso tra successo della scienza e realismo: Wray (2017). 33

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dell’esperienza: questo meccanismo spiegherebbe l’affermarsi di teorie efficaci e di successo, senza che ci sia bisogno di considerarle vere (corrispondenti alla realtà), e senza, perciò, immaginare che la scienza compia un cammino di progressiva approssimazione alla verità34. Sul versante realista vi è stato, però, chi ha replicato, comprensibilmente, che quanto si chiedeva di spiegare non è come mai si affermino le teorie efficaci e di successo, ma come mai le teorie che di fatto sono efficaci e di successo, lo sono35. Questa è senza dubbio una richiesta di spiegazione ulteriore, ma è una richiesta che un empirista à la van Fraassen sembra ritenere impropria, o comunque destinata a non poter trovare risposta. In ogni caso, è indubbio che rendere conto del successo empirico della scienza moderna costituisca una delle principali sfide per qualunque posizione filosofica in tema di realismo.

1.10. Quando la teoria precede l’esperimento: l’argomento delle novel predictions Vi è, inoltre, uno specifico tipo di successo empirico delle teorie scientifiche che sembra avere un interesse e un valore speciale per il dibattito del quale ci occupiamo. Semplificando, potremmo dire che si tratta di quei casi nei quali una teoria scientifica ha previsto l’esistenza di un genere di entità (di processi, di fenomeni etc.) che fino a quel momento non era ancora mai stato rilevato o, comunque, di casi in cui una teoria è stata formulata senza fare uso di dati empirici con i quali si è poi trovata in accordo. Si tratta, in altre parole, di quelle situazioni nelle quali risultanze sperimentali di tipo nuovo confermano le previsioni di una teoria che, quando è stata formulata, non si era potuta basare su quei dati, ma era comunque stata capace di anticiparli. Saremmo, dunque, di fronte alla capacità da parte di una teoria non semplicemente di prevedere, ad esempio, come si comporteranno delle entità di tipo già noto (cosa che avviene di continuo), ma di predire l’esistenza stessa di un tipo di entità, o di fenomeni, o di processi etc., della cui esistenza non si aveva ancora notizia o che, ad ogni modo, non era compreso nell’ambito di ciò che la teoria era sorta per spiegare. Per dirla con Hanson, in questi casi: “il modello precede il riconoscimento del fenomeno” (1958, p. 185). Alan Musgrave, riprendendo una distinzione di William Whewell, ha parlato a questo proposito di “novel predictions” (cioè, di previsioni di qualcosa di nuovo), distinguendole dalle più abituali “regular predictions” (cioè, dalle previsioni concernenti tipi di entità o fenomeni già noti). Musgrave ha anche ritenuto che le prime possano costituire “l’argomento finale” in favore del realismo scientifico, 34 35

Cfr. Kuhn (1962), pp. 205-208; van Fraassen (1980), pp. 64-65. Cfr. Kitcher (1993), pp. 155-157; Niiniluoto (1999), p. 198; Psillos (1999), pp. 96-97.

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ossia in favore di una interpretazione realista di quelle teorie capaci di fornirci, appunto, previsioni di qualcosa di nuovo. Più esattamente, egli ha suggerito che, pur senza poter derivare dalle previsioni di qualcosa di nuovo una dimostrazione inoppugnabile della verità di una teoria, sia corretto affermare che: “se una teoria ha successo nel prevedere qualcosa di nuovo, allora è ragionevole supporre (provvisoriamente) che sia vera” (Musgrave, 1988, p. 232). E ancor più sembra accreditare la verità di una teoria il fatto che essa, al momento della formulazione, si accrediti come l’unica tra quelle disponibili ad essere in grado di prevedere un qualcosa di nuovo (cfr. Leplin, 1997). Non è facile analizzare, in breve, esempi storici di questo tipo di situazione, né chiarire l’esatta concezione di ‘novità’ qui in gioco36. Tra i casi spesso citati a questo proposito, vi è, ad esempio, quello che riguarda l’esistenza dell’antimateria. Più in specifico, si tratta della previsione dell’esistenza di una controparte per gli elettroni (con uguale massa e carica elettrica opposta), fatta da Paul Dirac nel 1931, a partire dalle proprietà formali della propria equazione d’onda del 1928. Ciò precedette la effettiva e consapevole individuazione sperimentale di questa controparte, ossia i positroni, rilevati da Anderson nel 1932 e, quindi, identificati da Blackett e Occhialini nell’antiparticella prevista da Dirac37. Ma, anche più recentemente, le cronache hanno dato notizia di come siano stati scoperti il bosone di Higgs, o le onde gravitazionali, in accordo con quanto previsto (rispettivamente) dal cosiddetto Modello Standard e dalla Teoria della Relatività Generale, molto tempo prima di ogni evidenza sperimentale in favore della loro esistenza. Casi di questo genere possono essere analizzati e valutati pienamente nel loro significato epistemologico solo addentrandosi nelle vicende storiche e nel contesto teorico effettivo di ciascuno, ma è ben comprensibile l’inclinazione realista a sostenere che solo una teoria scientifica vera, che coglie la realtà effettiva del mondo inosservabile, possa riuscire addirittura a prevedere l’esistenza di quanto ancora non è noto. È stato, però, fatto notare che l’argomento rischia di introdurre una certa dose di “arbitrarietà rispetto alle teorie nelle quali dovremmo credere” (Ladyman, 2002, p. 244). Infatti, sembra che la giustificazione per credere vera una teoria venga qui a dipendere dal fatto, accidentale, che un certo fenomeno al quale la teoria fa riferimento sia stato osservato solo dopo la sua formulazione o che, in ogni caso, i dati relativi ad esso non abbiano influito sulla formulazione della teoria in questione (nonché dal fatto che, in un certo momento, non vi siano altre teorie capaci di formulare la stessa previsione). Inoltre, potrebbe essere obiettato che nella storia della scienza perfino teorie capaci di nuove predizioni di successo Cfr. Ladyman (2002), pp. 242-247; Alai (2014a); Barnes (2018). Per una ricostruzione divulgativa: Close (2010), capp. 3-4; per una trattazione più approfondita: Monti (1996). 36 37

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si sono rivelate false e hanno postulato erroneamente l’esistenza di entità o fenomeni oggi non più ammessi. Così, per stare all’esempio citato, si è sottolineato che la teoria di Dirac a partire dalla quale era scaturita la giusta previsione circa l’esistenza degli ‘anti-elettroni’ (la “Hole Theory”), in seguito sarà lasciata cadere, come anche il riferimento ad altre entità da essa postulate (come il cosiddetto “Mare di Dirac”)38. Più in generale, sembrano esistere molteplici esempi di teorie oggi ritenute cospicuamente false, dalle quali è stato possibile ricavare delle “novel predictions”39. Sarebbe, dunque, azzardato fare della capacità di fornire delle “novel predictions” un indice della verità di una teoria. Del resto, è legittimo supporre che, una volta assodate le novità empiriche previste da una data teoria, possano emergere, col tempo, molteplici teorie scientifiche alternative capaci di prevedere e spiegare queste stesse risultanze, un tempo nuove. Ma, poiché queste teorie non possono essere tutte vere al contempo, allora non sarà condizione sufficiente per la verità di una teoria il mero fatto di saper prevedere tali risultanze e, al contempo, non pare ragionevole privilegiare una tra queste teorie solo perché è stata la prima a prevederle (senza basarsi su di esse). La più tipica replica realista a queste obiezioni sta in una strategia di fondo alla quale già abbiamo fatto cenno e sulla quale torneremo: essa consiste nel restringere l’associazione tra successo relativo alle novel predictions e verità di una teoria solo a quelle porzioni specifiche della teoria che avrebbero svolto un ruolo essenziale in tali previsioni, cercando poi di mostrare quali siano tali porzioni e come esse non si siano rivelate false, ma si conservino lungo la storia della scienza. Se però questa strategia sia davvero efficace oppure no è questione oggi vivamente dibattuta40.

1.11. ‘Salvare i fenomeni’ o ‘svelare il mondo vero’? Due prospettive sulla scienza Come ricordato, Ian Hacking ha parlato del realismo scientifico (e, dunque, dell’antirealismo) più come di un “atteggiamento”, che come di “una dottrina chiaramente formulata”. Prima di ripercorrere il dibattito contemporaneo in maCfr. Pashby (2012), p. 458. Secondo Monti (1996): “La teoria di Dirac raggiunse le vette del successo conferitole dalla conferma sperimentale dell’esistenza del positrone, nello stesso periodo in cui, sul piano teorico, emergevano i suoi limiti […]” (p. 206). 39 Lyons ha fornito un ampio elenco di teorie scientifiche del passato che oggi riteniamo false e che non solo hanno avuto successo empirico, ma sono state anche capaci di fare delle vere e proprie “novel predictions”: il che sembra mettere in dubbio la tesi che si possa ricavare la verità di una teoria dal fatto che essa ha previsto qualcosa di inedito. Si vedano: Lyons (2002), pp. 70-72; Id. (2006), § 4; Id. (2016), § 2; ulteriori esempi in questo senso sono stati presentati e discussi da: Vickers (2013), § 2; Id. (2017). Per una replica realista e una diversa analisi dei casi presentati da Lyons: Alai (2014b). 40 Si tratta del cosiddetto “deployment realism”, per il quale si veda: infra, 4.9. 38

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teria, può allora essere utile tratteggiare sommariamente lo spirito di fondo di questi due atteggiamenti, di questi due diversi modi di guardare alla natura e ai fini della scienza, anche in chiave storica. Questo perché possa emergere come essi, pur in forme storicamente cangianti, hanno di fatto lungamente accompagnato la riflessione filosofica e la costruzione del sapere scientifico nel mondo occidentale. Con inevitabile approssimazione, sembra anche possibile caratterizzare i due atteggiamenti attraverso due ‘motti’ distintivi, che esprimono la visione che ciascuno di essi ha circa il compito, gli scopi e le possibilità della scienza: da un lato, la scienza come destinata a salvare i fenomeni, per gli antirealisti; dall’altro, la scienza come destinata a svelarci il mondo vero, per i realisti scientifici. “Salvare i fenomeni” (σῴζειν τὰ φαινόμενα), cioè dare adeguatamente conto di quanto appare nell’osservazione, è un motto della filosofia e della scienza greca, in particolare dell’astronomia41. Esso, però, ritorna più volte anche nel dibattito contemporaneo sul realismo scientifico. È stato soprattutto Pierre Duhem a valorizzare il modo di concepire la scienza e la sua finalità propria racchiuso in questa espressione. Egli, infatti, ha sostenuto che, fin da Platone, l’astronomia classica si sarebbe assunta il compito di elaborare modelli matematico-geometrici adeguati a rendere conto delle risultanze osservative (cioè, dei fenomeni, delle apparenze), senza però pretendere che essi avessero anche validità fisica, ossia, senza pretendere che quei modelli fossero veri (o verosimili), cioè che cogliessero la realtà, la natura effettiva delle cose. L’importante era che fossero dei buoni strumenti, utili per fare calcoli e previsioni in accordo con l’osservazione, e capaci di cogliere le regolarità manifeste. Così, ad esempio: Le differenti rotazioni su cerchi concentrici o eccentrici, su epicicli, che bisogna mettere assieme per ottenere la traiettoria di un astro errante, sono artifici costruiti allo scopo di salvare i fenomeni con l’aiuto delle ipotesi più semplici che si possono trovare. Ma bisogna guardarsi dal credere che queste costruzioni meccaniche abbiano la più piccola realtà in cielo. (Duhem, 1908, p. 37)

In definitiva, infatti: l’astronomia […] non coglie l’essenza delle cose celesti, essa ne dà solo una immagine. Questa immagine non è per niente esatta, ma solo approssimativa; essa si limita al pressapoco. (Duhem, 1908, p. 40)

Il motto “salvare i fenomeni” unirebbe dunque un significato prescrittivo e un significato limitativo, per così dire. Infatti, da un lato, esso impone ad ogni teoria, per essere accettabile, di salvare le apparenze, ossia di essere in accordo con i dati 41

Per una storia di questo principio: Mittelstrass (1962), specie cap. IV.

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osservabili che vengono registrati, di descriverli, di prevederli. Dall’altra, però, esso presenta anche una valenza limitativa: in quest’ottica, infatti, tutto ciò che si chiede ai modelli cosmologici (e al lavoro dei mathematici, in genere) è, appunto, solo di produrre calcoli e previsioni in accordo con i dati disponibili, e non di cogliere la vera natura, l’essenza ultima di quanto viene così descritto. Quest’ultimo compito sarà, semmai, riservato ai physici, ai filosofi naturali. Duhem ha sottolineato come una simile concezione dell’astronomia, se, per un verso, le precludeva la possibilità di giungere a conoscere la realtà effettiva del cosmo, la rendeva, però, anche libera dalla necessità di conformarsi, di essere congruente rispetto alle teorie filosofiche circa la vera natura del cosmo che si fossero affermate, consentendo così un fecondo proliferare di ipotesi geometrico-astronomiche, senza che vi fossero eccessivi vincoli di tipo filosofico o teologico alla ricerca. Nella storiografia successiva, mentre sono stati approfonditi la complessità e i molteplici significati del concetto di φαινόμενον,42 la ricostruzione, pur preziosa, di Duhem ha sollevato alcune obiezioni43. Geoffrey Lloyd, ad esempio, ha sottolineato in particolare due suoi possibili limiti: – da un lato, egli ha evidenziato “le ambiguità” della massima in questione. Infatti “essa non implica un programma ben definito, ma veniva utilizzata in riferimento a numerosi programmi abbastanza diversificati” (Lloyd, 1993, p. 431); – dall’altro, ha contestato la validità di una interpretazione strumentalista della gran parte dell’astronomia classica: se è assolutamente giusto dire che i Greci distinguevano, o perfino contrapponevano, matematica e fisica, è un’esagerazione pretendere che essi propugnassero un’astronomia matematica separata dalla fisica o cercassero di liberare l’astronomia di tutte le restrizioni fisiche gravanti su di essa. (Lloyd, 1993, p. 472)

Questo per quanto si possa effettivamente ammettere che: il principale compito dell’astronomo in quanto astronomo era l’elaborazione di modelli matematici dai quali potevano essere ricavate le traiettorie osservate e in vista di ciò gli astronomi greci spesso semplificavano i loro problemi. (Lloyd, 1993, p. 471)

Se passiamo all’età moderna, una prospettiva affine a quella che Duhem ricollegava al motto “salvare i fenomeni” sembra emergere nella anonima e controversa avvertenza, premessa al De revolutionibus orbium coelestium (1543) di Copernico e intitolata Al lettore sulle ipotesi di quest’opera, scritta da Andreas Osiander (1498-1552). Non a caso, Duhem vedeva in tale prefazione “l’eco della 42 43

Cfr. in tema: Owen (1961); Nussbaum (1982); Hadot (2004), cap. 13. Cfr. Lloyd (1993); Lange (1994).

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tradizione”44. E Alexandre Koyré vi scorgeva addirittura un “piccolo trattato di epistemologia positivista e pragmatica” (1961, p. 32). Infatti, in questa avvertenza Osiander, anche per ragioni prudenziali e allo scopo di proteggere l’opera dalle prevedibili reazioni ostili all’ipotesi copernicana, affermava un presunto carattere ipotetico delle teorie contenute nel libro di Copernico. Nel farlo, rimarcava il ruolo puramente matematico del lavoro dell’astronomo ed evidenziava come, non essendo assolutamente possibile per noi individuare le vere cause dei movimenti celesti, il buon astronomo dovesse concepire e inventare ipotesi di qualsiasi genere, grazie alle quali sia possibile, in base ai principi della geometria, calcolare esattamente questi moti, sia relativamente al futuro, che al passato. (Copernic, 1543, vol. II, p. 2)

Dunque: “non è necessario che queste ipotesi siano vere, e neppure verosimili, è sufficiente questo soltanto: che ci procurino un calcolo in accordo con l’osservazione”. Copernico, quindi, secondo Osiander, avrebbe avanzato le proprie ipotesi “non per persuadere qualcuno che le cose stanno così, ma solo perché servano da base corretta per il calcolo”45. Nonostante le effettive intenzioni realiste di Copernico, la discussione sulla possibilità di una fruizione in chiave strumentalista delle nuove teorie astronomiche proseguì anche nei decenni seguenti (cfr. Lerner-Segonds, 2008). La concezione secondo cui le teorie scientifiche non mirano a svelare la realtà effettiva, ma a “salvare i fenomeni” riemergerà poi, nei secoli successivi, connessa, però, al compito della scienza in genere, più che alla funzione dell’astronomia (e senza più avere niente a che fare con una interpretazione strumentalista del copernicanesimo). Tale principio sarà fatto proprio, appunto, da Duhem (cfr. infra, 2.4), che non si limiterà solo ad indagarne la storia. Esso starà per lui ad indicare come la scienza, da un lato, non debba conformarsi ad alcuna interpretazione metafisica preesistente della realtà, ma, dall’altro, non debba neppure pretendere di costituire essa stessa un sapere che coglie direttamente la natura ultima dei fenomeni. Si tratta, inoltre, di un motto che può rispecchiare almeno alcuni aspetti del positivismo ottocentesco, per il quale la scienza avrebbe dovuto trascurare tutte le questioni concernenti le cause dei fenomeni, accontentandosi di cogliere ed esprimere matematicamente le relazioni invarianti tra essi. In questo contesto, l’attenersi ai fenomeni ha, prima di tutto, il significato di un rifiuto di ogni tipo di conoscenza metafisica, per limitarsi, appunto, al solo piano dei fenomeni empirici. Quanto all’empirismo logico novecentesco, solo in misura parziale e precisandone il signi44 Duhem (1908), p. 92. Opinione contraria in: Barker-Goldstein (1998); sull’avvertenza cfr. anche: Mittelstrass (1962), pp. 202-203; Feyerabend (1964), §§ 5-6; Jardine (1979), § 2. 45 Copernic (1543), vol. II, pp. 2-3; cfr. vol. III, pp. 26-35 e 451-460.

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ficato il principio del ‘salvare i fenomeni’ può essere riferito a questo articolato movimento (cfr. infra, 2.6). Ciò, tra l’altro, perché un aspetto decisivo dell’empirismo logico sta nel rifiuto di ammettere ogni dualismo metafisico tra un presunto mondo ‘apparente’ dell’esperienza e un mondo della ‘vera’ realtà. Dunque, si potrà a buon diritto affermare che la scienza è chiamata a rendere conto dei fenomeni, se questo significa affermare che essa è chiamata a rendere conto del mondo dell’esperienza empirica, senza trascenderlo, in cerca di una realtà ontologicamente superiore. Non lo si potrà, invece, affermare se questo significa che le sarebbe precluso l’accesso a un mondo assolutamente reale delle cose in sé, che starebbe ‘dietro’ quello dei fenomeni e che dovrebbe essere colto per vie extra-scientifiche. In questo senso, anzi, con l’empirismo logico si intende prendere congedo da quel dualismo tra livelli ontologici che, in diverse forme, aveva caratterizzato molti momenti della tradizione filosofica, da Platone al Novecento. Più esplicitamente e propriamente, il motto ‘salvare i fenomeni’ per la scienza sarà adottato, quasi al termine del secolo scorso, da Bas van Fraassen che intitolerà appunto “To Save The Phenomena” (1976) il saggio dal quale prende il via la elaborazione del proprio empirismo costruttivo46. Anche nell’empirismo di van Fraassen è pienamente presente il rifiuto della metafisica tradizionale e delle sue categorie, ma vi si aggiunge la convinzione che la nostra conoscenza del mondo empirico e i nostri impegni ontologici siano strettamente connessi alla possibilità o meno di una vera e propria esperienza percettiva delle entità in questione (cioè alla loro osservabilità per noi). In quest’ottica, il compito proprio della scienza non solo non è quello di scoprire un altro mondo (il mondo ‘vero’ che trascenderebbe quello semplicemente fenomenico), ma non è neppure quello di scoprire la verità sulle porzioni di questo mondo per noi non direttamente osservabili. Si tratterà, semmai, di rendere conto al meglio dei fenomeni osservabili che scopriamo o produciamo. “Salvare i fenomeni” è però un motto che, in quanto sintesi del compito proprio della scienza, è stato anche aspramente criticato. Non solo perché vi sono state voci che non si sono riconosciute in esso, ma anche perché la stessa correttezza di questa formulazione è stata messa in discussione. Ad esempio, Bogen e Woodward in un loro saggio influente (1988) hanno sostenuto che nella scienza dovremmo distinguere tra fenomeni e dati. Questi ultimi costituirebbero le risultanze sperimentali, per lo più direttamente osservabili, che possono anche essere impiegate come prova dell’esistenza di fenomeni che in sé stessi rimangono generalmente inosservabili. Dunque, la posizione di quanti ritengono che la scienza dovrebbe limitarsi a rendere conto di quello a cui si ha accesso empirico sarebbe

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Per una replica realista a questo saggio: Glymour (1976).

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più correttamente espressa dalla formula ‘salvare i dati’47. Ad ogni modo, la prescrizione di “salvare i fenomeni” sembra esprimere una complessiva intuizione di fondo circa la scienza, il suo statuto, i suoi compiti e le sue possibilità. Ad essa, come detto, se ne può contrapporre una significativamente diversa e probabilmente ancor più influente nella storia del pensiero, specie moderno: quella secondo cui la scienza avrebbe, invece, il compito di svelarci la realtà del mondo vero, che ordinariamente resta per noi ignoto. Già i maggiori protagonisti e sostenitori della nascente scienza sperimentale della natura ebbero una comprensione realista degli scopi e dei risultati di essa e, dunque, del rapporto tra le teorie che stavano elaborando e il mondo48. Questo vale per Keplero (cfr. Jardine, 1979), ma vale soprattutto per Galilei (1564-1642). Certo, egli riteneva che la nuova scienza dovesse abbandonare il tentativo della metafisica tradizionale di conoscere l’essenza delle cose, attenendosi piuttosto alle proprietà quantitative di esse. Ma ciò significa che saranno diverse rispetto al passato le proprietà degli oggetti investigate dalla scienza e diversi saranno i metodi, o gli strumenti di indagine di questa, e non che la nuova scienza si accontenterà di salvare le apparenze. Al contrario, Galilei nutre la salda convinzione che essa debba farci conoscere i caratteri effettivi della natura, la “vera constitutione dell’universo”. Dunque, per prima cosa, si tratterà di giungere ad una nuova concezione dello spazio e della stessa esperienza sensibile, stabilendo quali siano i caratteri di essa dei quali la scienza deve rendere conto: la nuova fisica, infatti, dovrà concentrarsi sulle proprietà primarie, oggettive e pienamente reali dei corpi (come dimensioni, estensione, forma, stato di moto o quiete etc.) e non sulle qualità secondarie e soggettive (come sapori, odori e colori etc.), che non appartengono ai corpi di per sé soli, ma esistono nella misura in cui dei soggetti entrano in relazione con essi (cfr. Galilei, 1623, pp. 261 e 265). Come notava già Ernst Cassirer: la scienza dell’era moderna ha inizio come un richiamo alla fonte originaria dell’esperienza sensibile […] ma la stessa percezione sensibile, con quanta maggior e più netta chiarezza era colto il compito insito in essa, tanto più riconduceva all’esigenza dell’analisi matematica, di cui d’ora innanzi il concetto trova un nuovo essere e una nuova incarnazione. Man mano che questo nuovo punto di vista prende corpo e si approfondisce […] si configura un rovesciamento completo: ora, come è evidente, è la percezione singola, nella misura in cui non è riconducibile a una pura determinazione quantitativa e non è convalidabile in essa, ad essere considerata come ‘nome’ arbitrario. Il genuino oggetto della natura viene acquisito solo allorché nello stesso mutare e avvicendarsi delle nostre percezioni apprendiamo a cogliere e tener per ferme le regole necessarie e universalmente valide. (Cassirer, 1906, pp. 350-351) 47 48

Per una discussione del concetto di fenomeno, si vedano anche: Massimi (2007), e Teller (2010). Cfr. anche: Losee (19933), cap. 6.

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L’altra caratteristica decisiva della nuova fisica sta, appunto, nel fatto che essa dovrà essere formulata in termini matematici perché lo stesso “grandissimo libro” dell’universo è “scritto in lingua matematica”, come Galilei afferma. Proprio per questo, volerlo conoscere prescindendo dalla matematica sarebbe “un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto” (1623, § 6, p. 38). Ad essere ‘scritto’ in caratteri matematici, in questa prospettiva, è l’intero universo e, dunque, sarà possibile sviluppare anche una fisica terrestre di tipo matematico, per lo studio dei fenomeni empirici osservabili sul nostro pianeta. La nuova fisica, assumendo lo stesso carattere matematico della realtà che studia, aspira così legittimamente a proporre teorie non solo utili e in accordo con i dati osservativi, ma capaci di decifrare in modo veridico il libro della natura. Alla luce di ciò, Koyré è giunto a scrivere che per Galilei: Il reale incarna il matematico. In tal modo non è presente in Galileo uno scarto tra l’esperienza e la teoria; la teoria, la formula, non si applica ai fenomeni dall’esterno, non questi fenomeni, ma ne esprime l’essenza. (Koyré, 1966, p. 157)49

Anche la “strategia galileiana” per legittimare l’impiego e l’affidabilità degli strumenti osservativi, come il telescopio, ha un chiaro carattere realista e, anzi, secondo Philip Kitcher conterrebbe in nuce quella che é, ancor oggi, la via migliore per argomentare in favore del realismo scientifico (cfr. Kitcher, 2001). È, infine, il caso di aggiungere che Galilei si confrontò apertamente con la prospettiva strumentalista. Infatti, in conclusione del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), Simplicio propone, come “saldissima dottrina”, quello che è tradizionalmente chiamato “l’argomento di Urbano VIII”, perché attribuibile anche a Maffeo Barberini, il Papa dell’epoca. La premessa dell’argomento sta nel riconoscere come ci siano molteplici modi diversi e “anco dall’intelletto nostro inescogitabili” nei quali Dio potrebbe aver organizzato il mondo, perché esso ci appaia nell’esperienza esattamente così come di fatto ci appare. Data questa premessa, “soverchia arditezza sarebbe se altri volesse limitare e coartare la divina potenza e sapienza ad una sua fantasia particolare” (1632, vol. I, p. 504). In altre parole: come può lo scienziato pretendere e provare che le sue teorie, non solo sono in accordo con l’esperienza, ma colgono la effettiva struttura profonda della realtà scelta da Dio, tra le molte alternative che aveva a disposizione perché il mondo apparisse così come appare? Ciò, è sottinteso, richiederebbe di mostrare che tutte le alternative possibili alla teoria proposta siano fattualmente false, o implichino contraddizione, dal momento che solo la contraddizione pone un limite alla libertà di Dio (cfr. Galilei, 1632, vol. II, pp. 898-903). Possiamo conCorsivo nell’originale; su questi temi, cfr. Minazzi (1994); De Caro (2012); Agazzi (2014), cap. 1; Ferrarin (2014). 49

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siderare l’argomento come una sorta di formulazione teologica, particolarmente radicale, della tesi secondo cui le evidenze empiriche a noi accessibili non potrebbero mai determinare univocamente quale sia la sola teoria vera (cfr. infra, Box 1). Per quanto Galilei faccia rispondere a Salviati che si tratta di una “mirabile e veramente angelica dottrina”, il fatto stesso di attribuire questa tesi a Simplicio è stato ritenuto, fin dagli inizi, un modo per sminuirne la forza e il giudizio di Salviati, per quanto lusinghiero, non impedisce a Cassirer di affermare che del completo accordo tra matematica e natura, dell’armonia fra il pensiero e la realtà, [Galileo] è certo per convincimento soggettivo, antecedente ad ogni riflessione filosofica. (Cassirer, 1906, p. 344)

Un realismo programmatico risulta presente in misura significativa anche tra gli scienziati posteriori. Ad esempio, Newton (1642-1727) coltiva l’ideale di una stretta compenetrazione tra matematica e filosofia naturale, sulla base della quale la scienza non si accontenterà di formulare congetture plausibili, ma pretenderà di fare affermazioni circa leggi e proprietà effettive della natura50. Contemporanei di Newton sono grandi microscopisti come van Leeuwenhoek (1632-1723), o Hooke (1635-1703) e Swammerdam (1637-1680). Questo ci ricorda che, con lo sviluppo della ricerca e delle tecnologie scientifiche, la scienza tenderà, per quanto lentamente, a concentrarsi sempre più sullo studio sperimentale di un mondo non direttamente accessibile ai sensi (sull’impatto del microscopio: Wilson, 1995). Potremmo allora dire che, davanti a questi sviluppi, l’atteggiamento realista non si limiterà ad asserire che la scienza ci permette di conoscere la verità nascosta della natura, ma affermerà che essa ci permette addirittura di cogliere la verità della natura nascosta. La verità nascosta della natura era quella che solo la nuova fisica matematica, secondo un pensatore come Galilei, avrebbe potuto decifrare, dal momento che il “grandissimo libro” dell’universo ci sta, sì, “continuamente […] aperto innanzi a gli occhi” (1623, p. 38), ma, al contempo, è anche “scritto in una lingua non accessibile all’esperienza comune” (Blumenberg, 1981, p. 70), ossia quella della matematica. Nell’età contemporanea, invece, secondo i realisti la scienza si dedicherà soprattutto a farci conoscere la verità su un universo che è necessariamente del tutto sottratto ai nostri occhi: esso, cioè, costituisce un ‘libro’ che non solo non sappiamo decifrare correttamente col senso comune, ma che con la comune dotazione sensoriale non possiamo neppure iniziare ad aprire. Invece la scienza, con le sue strumentazioni sperimentali e le sue teorie, ci permetterebbe (o ci permetterà), secondo i realisti, di portare alla luce la verità su un mondo nascosto, perché troppo piccolo, o troppo lontano (nello spazio-tempo) per poter essere colto direttamente da noi. Per molti realisti, 50

Cfr. Mamiani (1990); Guicciardini (2011), specie pp. 67-69.

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questo mondo sarebbe anche il ‘mondo vero’, cioè quel mondo nel quale si trovano i veri costituenti e le vere cause dei fenomeni direttamente percepibili che compongono il mondo del senso comune: solo conoscendo questi costituenti e queste cause potremo avere una conoscenza effettiva della realtà. I realisti scientifici ritengono, dunque, che la scienza possa dischiuderci l’accesso ad un piano di realtà al quale non potremmo accedere in altro modo, che essa ci permetta di conoscerlo, che siamo impegnati a credere che esso è approssimativamente fatto come le nostre migliori teorie scientifiche mature ci dicono, o, comunque, che esistono almeno alcune delle entità, delle proprietà e dei processi dei quali esse parlano. Siamo, così, di fronte a due possibili atteggiamenti complessivi circa il carattere, le finalità e i limiti del nostro studio della natura, che nel corso della storia hanno avuto declinazioni e formulazioni tecniche diversificate, complesse e anche alternative tra di loro. Si può, perciò, convenire con Feyerabend sul fatto che non siamo qui semplicemente davanti a una divergenza circa qualche questione specifica e circoscritta, ma a una “controversia fra ideali diversi di conoscenza” (1958, p. 37; corsivo nell’originale), o alla contrapposizione tra due differenti “concezioni della conoscenza umana” (come le definisce Popper, 1965). Sarà allora utile tenere presenti, sullo sfondo, questi due ideali nell’affrontare i prossimi capitoli, anche se è giusto ricordare che l’attuale dibattito sul realismo scientifico spesso non si svolge su un simile livello di generalità, e che non tutti coloro che hanno dato un contributo significativo ad esso hanno inteso compiere una scelta di campo in questo senso. Ciò si lega anche al fatto che la ricerca in corso ha, spesso, la forma di una discussione molto tecnica e settoriale della quale il lettore rischia, a volte, di smarrire il senso complessivo e la portata di fondo. Tuttavia, si ha a che fare (di norma) con tecnicismi necessari perché l’elaborazione teorica in materia possa avere un carattere non semplicemente pregiudiziale, portando ad acquisizioni teoriche effettive, ad approfondimenti specifici e ad avanzamenti condivisi, pur nella diversità permanente di alcune opzioni di fondo. Passiamo, dunque, ad esaminare alcuni degli snodi principali di questo dibattito in età contemporanea. Chi scrive, pur valutando e apprezzando in misura differente i diversi punti di vista che saranno presentati, non si identifica integralmente in nessuno di essi.

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CAPITOLO 2 ALLE ORIGINI DEL DIBATTITO CONTEMPORANEO

2.1. Il delinearsi della questione tra fine ’800 e inizio ’900 Il dibattito sul realismo scientifico, per come lo conosciamo oggi, affonda le radici nella riflessione filosofica che si sviluppa verso la fine dell’Ottocento, specialmente in relazione alle nuove teorie fisiche e, in particolare, a quelle componenti in esse che paiono dischiuderci un mondo non direttamente percepibile. È in questo contesto, ad esempio, che si sviluppano interpretazioni stando alle quali, quando accettiamo e impieghiamo queste teorie scientifiche, non siamo impegnati a credere all’esistenza di un mondo ‘nascosto’ come quello che esse sembrano disegnare. In effetti, già in pieno Ottocento, il positivismo invitava a restringere la conoscenza all’ambito dell’esperienza, senza spingersi oltre i confini di questa. Pertanto, c’è in esso una possibile radice dell’atteggiamento antirealista, anche se il positivismo sembra differire in misura significativa dalle principali forme contemporanee di strumentalismo e antirealismo scientifico. Per richiamare in breve qualche aspetto dell’atteggiamento positivista, possiamo ricordare come esso: · afferma che la scienza deve scoprire le leggi costanti che regolano i fenomeni, abbandonando l’aspirazione ad una conoscenza della natura ultima della realtà, in termini di essenze e cause, poiché un simile sapere non sarebbe affatto raggiungibile. Più in generale, si nega la possibilità di estendere la conoscenza (scientifica o meno che sia) a quanto eccede la portata della nostra esperienza sensibile; · sostiene, anzi, che non dovremmo in alcun modo fare riferimento a entità delle quali non possiamo avere esperienza (l’etere, ad esempio), neanche come entità ipotetiche, introdotte al solo scopo di rendere conto più efficacemente dei fenomeni. In ottica positivista, non sarà possibile neppure legittimare la presenza di termini e asserti che sembrano vertere su realtà inosservabili attraverso una loro reinterpretazione di tipo strumentalista (cfr. Misak, 2000, pp. 36-37); · considera l’osservazione adiuvata da strumenti tecnologici (come un microscopio) una valida estensione, in linea di principio, della esperienza percettiva diretta, pur senza esasperarne l’importanza. Questo apre alla possibilità di

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giudicare conoscibile anche qualcosa che non sia percepibile a occhio nudo, nella misura in cui la tecnologia ce lo renderà osservabile. Ad esempio, Comte, nel trattare della biologia, entro il quadro del proprio Corso di filosofia positiva, afferma che un punto di forza di questa disciplina (rispetto, ad esempio, alla chimica) consisterebbe nel poter ricorrere a “apparecchi artificiali destinati a perfezionare le sensazioni naturali, soprattutto per ciò che riguarda la visione”. Infatti, nonostante abusi ed esagerazioni, è pur vero che i microscopi: “permettono di meglio apprezzare una struttura, della quale possiamo acquisire i dettagli meno percettibili” e, inoltre: “conducono talvolta a osservare direttamente il funzionamento elementare delle parti organiche minori, base ordinaria dei principali fenomeni vitali” (Comte, 1838, lezione XL, pp. 314-315). Potremmo, dunque, dire che, nell’ottica positivista, la scienza non può includere alcun riferimento a ciò che eccede l’esperienza percettiva, ma i confini dell’esperienza percettiva possono essere ampliati dal progresso della tecnologia. Se però vogliamo conoscere le posizioni che hanno fatto da sfondo principale al dibattito contemporaneo sul realismo scientifico, dobbiamo soffermarci soprattutto sul pensiero di tre scienziati che operarono tra Otto e Novecento e dettero anche un contributo imprescindibile all’epistemologia: Ernst Mach, Jules Henri Poincaré e Pierre Duhem.

2.2. Mach: la scienza come descrizione economica dell’esperienza Ernst Mach (1838-1916), era per formazione un fisico e matematico, dotato di una vivissima attenzione alla storia delle scienze e di una rara capacità di riflessione filosofica sui loro metodi e risultati. Insegnò nelle Università di Graz, Praga e Vienna1. Critico verso i sistemi metafisici tradizionali, Mach propone di concepire il mondo naturale come interamente costituito da elementi che possiamo cogliere coi sensi e che, (solo) per questo motivo, “di solito chiamiamo sensazioni” (1883, p. 471). In questa prospettiva, quelle che comunemente consideriamo ‘cose’ sarebbero piuttosto “complessi relativamente stabili di sensazioni” (ovvero, di elementi), dei quali trascuriamo le “piccole continue variazioni”. Anche antiche e venerabili nozioni come quelle di ‘sostanza’ e ‘io’ andranno, di conseguenza, considerate come semplici simboli con i quali individuiamo in modo vantaggioso conformazioni riconoscibili di elementi individuali tra loro connessi. Questi elementi costituenti di tutte le cose, secondo Mach, non possono essere classificati Per una introduzione al suo pensiero: D’Elia (1971); Blackmore (1972); Frank (1973), capp. II-III; Parrini (1997); Id. (2017); Banks (2003); Pojman (2009). 1

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ricorrendo alla distinzione fisico/psichico, rispetto alla quale sono neutrali; di conseguenza, grazie a una concezione del mondo basata su di essi, tutta una serie di contrapposizioni e dicotomie tradizionali verrà meno e si avrà una visione fortemente unitaria della realtà e del sapere (cfr. Banks, 2003, cap. 9). Se passiamo, invece, alle concezioni di Mach circa il carattere e il compito della conoscenza scientifica, egli ritiene (anche sotto l’influenza del pensiero di Darwin) che la conoscenza sia un frutto e un fattore del processo evolutivo e che il pensiero scientifico rappresenti un raffinamento di quello comune, legato alle necessità pratiche di conservazione, orientamento e adattamento all’ambiente. Dunque: “il pensiero scientifico chiude la linea continua di evoluzione biologica che ha inizio con le prime, semplici manifestazioni vitali”2; e addirittura: “possiamo interpretare ogni interesse scientifico come un interesse biologico indiretto” (Mach, 1905, p. 445). Proprio per questa sua natura di strumento utile al perseguimento di determinati scopi, il sapere scientifico deve permetterci di avere a che fare in modo vantaggioso con i fatti dell’esperienza, opportunamente selezionati, analizzati ed interpretati dallo scienziato. Un tale sapere, dunque, deve farci “risparmiare esperienze”, offrendoci, con il minimo dispendio intellettuale, la massima quantità di informazioni rilevanti sugli aspetti e le relazioni che caratterizzano questi fatti. In particolare, secondo Mach: tutta la scienza ha lo scopo di sostituire, ossia di economizzare esperienze mediante la riproduzione e l’anticipazione di fatti nel pensiero. Queste riproduzioni sono più maneggevoli dell’esperienza diretta e sotto certi rispetti la sostituiscono. (Mach, 1883, p. 470)3

Per queste ragioni, si potrà dire, ad esempio, che “la fisica è l’esperienza ordinata economicamente” (Mach, 1896, p. 152) e, d’altra parte, sempre per questo suo carattere economico, si dovrà riconoscere che “essa ci presenta sempre i fatti sacrificando qualcosa della loro interezza, con esattezza non maggiore da ciò che è richiesto dal bisogno del momento” (1896, p. 160). Sbagliano, secondo Mach, quanti, in ragione dei successi della scienza, si spingono a concludere che essa abbia “il potere di giungere fino al fondo dello sconfinato abisso della natura, nel quale ai nostri sensi non è dato penetrare” (1896, p. 145). Secondo il filosofo austriaco, infatti, compito delle teorie e degli esperimenti scientifici è quello di far emergere e descrivere le connessioni tra i diversi tipi di fenomeni, o, meglio, “la varia e molteplice dipendenza reciproca degli elementi” (Mach, 1905, p. 16), in modo che possiamo orientare le nostre aspettative circa il corso delle cose e sappiamo ricavare una conoscenza di ampia portata dall’analisi di pochi dati. Un 2 3

Mach (1905), p. 4; cfr. Id. (1896), cap. IX. Cfr. Mach (1883), pp. 480-483; si veda anche: Blackmore, 1972, cap. 12.

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interprete d’eccezione, Robert Musil, ha così compendiato il pensiero di Mach: Ogni scienza della natura si limita semplicemente a descrivere l’accaduto invece di spiegarlo. Le leggi naturali, per di più, non sono altro che tabelle per la descrizione dei fatti, simboli matematici che equivalgono a tali tabelle, e le teorie scientifiche non sono altro che nessi nei quali noi disponiamo queste tabelle tra di loro […] Né la singola legge né la teoria dicono di più di quanto la conoscenza delle esperienze che ne stanno alla base direbbe già di per sé. (Musil, 1908, pp. 3-4)

Uno degli aspetti del pensiero di Mach più controversi, complessi, e centrali per il nostro discorso è legato al suo rifiuto di ammettere l’esistenza degli atomi, per come venivano introdotti nella fisica dell’epoca, e, ancor più, di farne l’elemento fondante per una nuova concezione complessiva dell’universo, magari erede delle vecchie metafisiche. È questo, tra l’altro, un aspetto che lo pose in contrasto con Ludwig Boltzmann e gli attirò le dure critiche di Max Planck. Il rifiuto di accettare la realtà degli atomi emerge con forza a più riprese negli scritti di Mach, anche se, di recente, sono stati analizzati e discussi possibili spunti di ripensamento degli ultimi anni della sua vita (1910 circa), legati all’emergere di alcune evidenze sperimentali grazie all’impiego di nuovi tipi di rivelatori. Bisogna, inoltre, sottolineare che, pur non condividendo le convinzioni dei sostenitori dell’atomismo dell’epoca, Mach non si spingeva a escludere, in linea di principio, la possibile utilità strumentale della teoria atomica come “modello matematico per la riproduzione dei fatti” (Mach, 1883, p. 478), per quanto, di fatto, egli nei propri lavori non faccia più ricorso a tale ipotesi dopo il 1863 (cfr. Blackmore, 1985, p. 302). Le resistenze di Mach all’atomismo del tempo si legano a motivazioni e argomentazioni di portata e carattere diversi. La loro esatta natura è ancora oggetto di discussioni tra gli studiosi: alcuni sottolineano soprattutto quelle più immediatamente interne al dibattito scientifico dell’epoca, mentre altri valorizzano specialmente quanto nei suoi argomenti si situa su un livello epistemologico più ampio e generale4. Di fatto, alcune affermazioni di Mach esprimono soprattutto delle riserve metodologiche, connesse, tra l’altro, al grado di avanzamento e controllabilità sperimentale esibiti dalla teoria atomica dell’epoca: essa, infatti, gli pare situarsi nell’ambito delle costruzioni prive di adeguate connessioni con dati di esperienza, al punto che l’atomo non potrebbe essere visto neppure come un’astrazione o un’idealizzazione legittima, a partire da qualcosa che ci sia empiricamente dato. 4 Per la letteratura in tema: Blackmore (1972), Appendix; Id. (1985); Id. (1989); Laudan (1976); Feyerabend (1984); Wolters (1989), § 4; Id. (1990); Banks (2003); Pojman (2009), § 5.3; Bächtold (2010); Parrini (2017), § 5. Per la distinzione tra livello scientifico ed epistemologico: Bächtold (2010), § 4.1.

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Allo stesso tempo, Mach intende anche far valere delle avvertenze limitative rispetto ad una interpretazione epistemologicamente ‘ingenua’ (dal suo punto di vista) del concetto di ‘atomo’, così come di altri concetti delle teorie fisiche. Ad esempio, egli scrive: se già la comune “materia” può essere considerata un simbolo mentale assai naturale, che si dà solo inconsciamente per un complesso relativamente stabile di elementi sensibili, ciò deve valere tanto più per gli atomi e le molecole – costruzioni artificiali e ipotetiche – della fisica e della chimica. (Mach, 1886, p. 271)

Si tratterà, allora, di riconoscere che i concetti basilari della nuova meccanica sono da considerare semplicemente come strumenti utili per rendere conto dei fenomeni propri di un dato ambito, nella misura del possibile e dell’utile, senza guardare ad essi con un atteggiamento realista e riduzionista, cioè, con una eccessiva aspettativa riguardo al loro potere esplicativo complessivo: la scienza mancherebbe alla propria dignità se nei mezzi economici e mutevoli da lei stessa creati, cioè nelle molecole e negli atomi, vedesse qualche cosa di reale oltre il fenomeno, e se dimenticando quel metodo prudentissimo che è una recente conquista della sua più audace sorella, la filosofia, creasse una mitologia meccanica, da sostituire alla mitologia animistica o metafisica […] l’atomo sarà sempre un mezzo per rappresentarci i fenomeni, come le funzioni della matematica. (Mach, 1896, pp. 160-161)5

In questo senso, tra l’altro, come ha notato Feyerabend, Mach sarebbe stato convinto che la propria concezione del mondo, articolata in termini di elementi neutrali costitutivi, presentasse un decisivo vantaggio rispetto all’atomismo, poiché, mentre non riteneva possibile spiegare gli elementi/sensazioni attraverso il moto degli atomi, doveva essere possibile rendere conto degli atomi (qualora esistessero) in termini di elementi: “Gli elementi, come Mach li intende, sono dunque più fondamentali degli atomi”6.

2.3. Poincaré: la scienza come sistema di relazioni e il suo divenire Jules Henri Poincaré (1854-1912) è stato uno dei principali matematici e fisici della sua epoca. I suoi volumi principali consacrati a tematiche di filosofia della Cfr. Laudan (1976), pp. 172-174. Feyerabend (1984), p. 201; cfr. Banks (2003), p. 13. Secondo Blackmore, più radicalmente, in Mach sarebbe presente l’idea di una incompatibilità tra la prospettiva basata sugli elementi situati nello spazio tridimensionale della sensazione e la realtà degli atomi (1972, pp. 322-323; cfr. anche: Bächtold, 2010, §§ 3.5 e 4.4). 5 6

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scienza sono: La scienza e l’ipotesi (1902), Il valore della scienza (1905) e Scienza e metodo (1908). Nell’ambito della filosofia della scienza, il suo nome è stato in genere associato specialmente (e riduttivamente) alla interpretazione dei principi geometrici impiegati dai fisici nella descrizione dello spazio come convenzioni (convenzionalismo moderato). Secondo Poincaré, infatti, i sistemi geometrici con i quali descrivere lo spazio fisico non sono il frutto necessario della logica, né si può pensare di stabilirli a priori; ma non sono neppure determinati in base all’esperienza e alla sperimentazione7. Piuttosto, i fisici sceglieranno, tra i diversi sistemi geometrici che sono stati creati, quelli che intendono impiegare, e, nel farlo, si baseranno su criteri di semplicità, di comodità generale, di coerenza e di non-contraddittorietà (mentre sarà impropria ogni valutazione in termini di verità empirica di tali sistemi). Nel compiere questa scelta essi godranno di una certa libertà, che però non va confusa con l’arbitrio. Infatti, se l’esperienza non può determinare in maniera univoca e generalizzata la scelta del fisico, essa però la “guida”, al punto che “qualora fossimo trasportati in un altro mondo” (Poincaré, 1902, p. 7), saremmo spinti ad adottare altri principi geometrici. Se la scelta delle risorse di cui servirsi è, in parte, demandata alle opzioni degli scienziati, il linguaggio matematico, in quanto tale, risulterà comunque indispensabile. Scrive Poincaré: senza questo linguaggio, la maggioranza delle analogie intime delle cose ci sarebbe rimasta sempre ignota; e avremmo sempre ignorato l’armonia interna del mondo, che è, come vedremo, la sola vera realtà oggettiva. La migliore espressione di questa armonia è la legge. (Poincaré, 1905, pp. 6-7)

Una simile armonia è costituita dai sistemi di rapporti oggettivi che tutti gli osservatori esperti possono individuare nell’universo e il valore della scienza consiste appunto nel darci la possibilità di conoscere tali rapporti, cioè nel fatto che essa, pur incorporando componenti convenzionali, può giungere alla formulazione di leggi valide circa i rapporti fisici. Infatti, osserva Poincaré, “ciò che la scienza può attingere non sono le cose in sé, come ritengono i dogmatici ingenui, ma solo le relazioni tra cose” (1902, p. 5). La scienza, cioè, non coglie la realtà circa la natura profonda delle entità delle quali parlano le teorie: su questo piano le sue affermazioni sono sempre grossolane ed effimere. Del resto, per Poincaré, la verità ultima sulla natura delle cose non solo non può essere colta dalla scienza,

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Cfr. Parrini (1997), pp. 576-579.

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ma nulla è capace di farcela conoscere e se qualche dio la conoscesse, non potrebbe trovare parole per esprimerla […] Quando dunque una teoria scientifica pretende di insegnarci che cosa sia il calore, o l’elettricità, o la vita, essa è condannata già prima. (Poincaré, 1905, p. 192)

La conoscenza scientifica si colloca, piuttosto, sul piano dei rapporti formali che sono spesso rapporti non immediatamente evidenti e, tuttavia, costitutivi degli stessi oggetti. Dunque: “La scienza è […] un sistema di relazioni […] è soltanto nelle relazioni che l’oggettività deve essere cercata; sarebbe vano cercarla negli enti considerati isolatamente gli uni dagli altri” (Poincaré, 1905, p. 191). Possiamo, dunque, parlare a questo proposito di relazionalismo ontologico, inteso come una forma di realismo strutturale, cioè che riguarda non gli enti, ma i rapporti strutturali tra di essi. Questa impostazione non fa, però, di Poincaré un antirealista in linea generale riguardo le entità introdotte dalle teorie scientifiche. Infatti, mentre è vero che la scienza non potrà darci una conoscenza della natura ultima delle entità delle quali parla, se sia opportuno o meno affermare che tali entità esistono è qualcosa che dovrà essere valutato selettivamente, caso per caso. Stump ha perciò osservato: Poincaré è molto pragmatico e sostiene che alcune entità teoriche dovrebbero essere considerate come utili finzioni e altre come realtà che hanno trovato conferma. Non ritiene che gli oggetti teorici siano inconoscibili in linea di principio, pensa piuttosto che si debba guardare allo stato attuale della ricerca sperimentale per capire se la credenza nell’esistenza di una particolare entità teorica sia giustificata o meno. (Stump, 1989, p. 339)8

Così in rapporto al problema (allora assai dibattuto) dell’esistenza degli atomi, la posizione di Poincaré evolverà dallo scetticismo di La Scienza e l’ipotesi (1902), a una visione positiva negli ultimi anni, quando riterrà che vi siano maggiori evidenze sperimentali in loro favore (e scriverà: “L’atomo del chimico è ora una realtà”). Il relazionalismo di Poincaré ha una significativa ricaduta sulla questione relativa alla natura del mutamento e del progresso nella scienza, e anche riguardo al rapporto tra le teorie scientifiche odierne e del passato. Poincaré rifiuta lo “scetticismo superficiale” secondo cui la scienza ha proceduto e (dunque) procederà attraverso rivoluzioni distruttive che cancellano interamente l’esistente, per creare qualcosa di inedito e privo di rapporti con quanto lo precedeva. La storia insegna invece, secondo Poincaré, che le nuove teorie conservano il più delle volte tratti importanti di quanto rimpiazzano, almeno a livello di struttura. Il punto è che, se 8

Cfr. anche: Heinzmann-Stump (2017).

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una teoria scientifica “ci ha fatto conoscere un rapporto vero, questo rapporto è definitivamente acquisito e lo si ritroverà sotto un nuovo travestimento nelle altre teorie che verranno successivamente a regnare al suo posto” (Poincaré, 1905, p. 193). Perciò teorie scientifiche successive come, ad esempio, quella di Fresnel e quella di Maxwell si contraddicono circa la natura della luce, ma concordano circa la sua struttura, cioè l’insieme delle relazioni che intercorrono tra i costituenti di questo fenomeno (pur concependo tali costituenti in modi differenti). Analogamente, più teorie possono esprimere le medesime relazioni anche se esse non hanno luogo “almeno in apparenza, tra gli stessi oggetti” (Poincaré, 1902, p. 247). Per questo Poincaré può ammonire che: non bisogna paragonare il cammino della scienza alle trasformazioni di una città, in cui i vecchi edifici sono inesorabilmente abbattuti per fare posto alle costruzioni nuove, ma all’evoluzione continua dei tipi zoologici, che si sviluppano incessantemente, e finiscono col diventare irriconoscibili agli occhi volgari, ma in cui un occhio esercitato ritrova sempre le tracce del lavoro anteriore dei secoli passati. Non bisogna credere dunque che le teorie non più di moda siano state sterili e vane. (Poincaré, 1905, pp. 7-8)

La riflessione di Poincaré eserciterà un notevole influsso sulla filosofia successiva e le sue idee verranno riprese esplicitamente anche a fine ‘900, da John Worrall, nel proporre il realismo strutturale (si veda: infra, 4.7).

2.4. La scienza in Duhem: accordo con l’esperienza e autonomia dalla metafisica Pierre Duhem (1861-1916), al quale abbiamo già fatto cenno, è stato un fisico ed epistemologo, ma anche un importante storico della scienza, autore, ad esempio, del monumentale: Il sistema del mondo: storia delle dottrine cosmologiche da Platone a Copernico (10 volumi). La lezione di Duhem è abitualmente considerata emblematica del punto di vista antirealista sulla scienza, per quanto essa sia più articolata di quanto viene in genere ricordato. Inoltre, egli ha avuto intuizioni importanti circa il controllo empirico delle teorie scientifiche e il rapporto tra una teoria nel suo complesso e le sue singole parti9. Secondo Duhem: Una teoria fisica non è una spiegazione; è un sistema di proposizioni matematiche, dedotte da un ristretto numero di principi, che hanno lo scopo di rappresentare nel modo più semplice, più completo e più esatto, un insieme di leggi sperimentali. (Duhem, 19142 , pp. 23-24, corsivo nell’originale)

 9

Si veda: Duhem (VO); per la cosiddetta tesi di Duhem-Quine, cfr. infra, 2.9.

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In questa interpretazione, dunque, la scienza non mira a darci delle spiegazioni causali, o dei modelli della realtà, ma ad elaborare rappresentazioni e classificazioni ordinate delle leggi a cui obbediscono i fenomeni, per come essi sono stati osservati, selezionati ed elaborati dalla fisica10. In quest’ottica, la verità di una teoria fisica non è perciò data dalla sua capacità di svelarci la natura ultima che soggiace alle apparenze, ma dalla sua capacità di rendere conto dei fenomeni: “l’accordo con l’esperienza è, per una teoria fisica, l’unico criterio di verità” (Duhem, 19142, p. 25). Il riferimento alla ‘semplicità’ è poi spia di come Duhem condivida la convinzione di Mach sulla funzione economica delle teorie fisiche, che devono veicolarci la maggior quantità di informazioni rilevanti nel modo meno dispendioso. Alla luce di queste idee, secondo Duhem, dobbiamo evitare di attribuire un valore metafisico alla scienza ma, al contempo, anche di subordinarla a verità, o presunte verità, di tipo metafisico. Infatti, se le teorie scientifiche non mirano ad essere spiegazioni vere del mondo sottostante alle apparenze, ma a fornirci una rappresentazione ipotetica in accordo coi fenomeni rilevati, allora, da un lato, non è legittimo delegare ad esse il compito di farci conoscere la realtà per come essa è in se stessa, ma, d’altra parte, non c’è nemmeno bisogno che esse siano congruenti con le prospettive metafisiche di volta in volta più accreditate. Si giunge, così, al rifiuto di riconoscere un ruolo metafisico alla scienza, come nel positivismo; ma, a differenza che nel positivismo, questo non accade perché Duhem dubiti della possibilità di una conoscenza metafisica in generale, bensì perché ritiene che fisica e metafisica siano entrambe legittime, ma anche indipendenti l’una dall’altra. È proprio per questo che le domande filosofiche circa la natura della realtà, o circa l’esistenza di una realtà distinta dalle apparenze “non competono al metodo sperimentale, che conosce soltanto le apparenze sensibili e non potrebbe scoprire nulla che le oltrepassi” (Duhem, 19142, p. 12). Per converso, “nessuna metafisica dà insegnamenti abbastanza precisi e dettagliati che da essi sia possibile ricavare tutti gli elementi di una teoria fisica” (19142, p. 19). Può sembrare sorprendente che a questo quadro interpretativo Duhem, in un testo intitolato La fisica del credente (1905), aggiunga (assieme alla critica della teoria atomica) anche affermazioni che sembrano far rientrare in gioco una lettura realista della scienza. Infatti, rifacendosi al celebre mito della caverna di Platone (La Repubblica, libro VII) egli scrive: Il fisico, schiavo del metodo positivo, somiglia al prigioniero della caverna; i mezzi di conoscenza di cui dispone non gli consentono di vedere nulla se non una successione di ombre che si profilano sulla parete opposta al suo sguardo. Egli indovina tuttavia che questa teoria di sagome, i cui contorni sfumano davanti ai suoi occhi, altro non è se non il 10

Cfr. Fortino (2005), cap. II; Ariew (2018).

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simulacro di una successione di figure solide ed afferma l’esistenza delle figure invisibili al di là del muro che egli non può superare. Il fisico afferma così che l’ordine secondo cui dispone i simboli matematici per costruire la teoria fisica è un riflesso sempre più netto di un ordine ontologico secondo il quale si classificano le cose inanimate […] Affermando che la teoria fisica tende a una classificazione naturale conforme all’ordine secondo cui si dispongono le realtà del mondo fisico, il fisico ha già oltrepassato i limiti del campo dove il suo metodo può legittimamente esercitarsi; a maggior ragione tale metodo non può scoprire la natura di quest’ordine né dire quale esso sia. (in: Duhem, 19142, p. 335)11

L’“atto di fede” dello scienziato (Duhem, 19142, p. 32) consente, dunque, allo scienziato di credere o avvertire (senza poterlo dimostrare) che la conoscenza dei fenomeni via via offertaci dalla scienza costituisca una “classificazione naturale”, cioè rifletta proprietà e rapporti effettivi della realtà, per quanto quest’ultima resti inaccessibile, in quanto tale, allo scienziato. Si assume, cioè, che esista un progresso effettivo che tende a una sorta di corrispondenza armoniosa tra l’immagine dell’universo osservabile restituitaci dalla scienza e le strutture ontologiche soggiacenti ad esso (che sono oggetto di indagine da parte della metafisica). Questo, d’altra parte, non muta, secondo Duhem, le finalità e le possibilità proprie della scienza in quanto tale, che rimangono soltanto quelle di rappresentare e classificare il comportamento dei fenomeni, osservati e interpretati dai fisici. In definitiva, nello scienziato vi sarà, da un lato, una sorta di ‘fede realista’, ossia, la convinzione insopprimibile che l’ordine fenomenico progressivamente colto dalle nostre migliori teorie scientifiche corrisponda a un sistema reale di relazioni ordinate sottostanti. D’altra parte, però, il fisico resterà comunque “incapace di motivare tale convinzione” (19142, p. 32), perché siamo davanti a qualcosa che “l’analisi dei metodi attraverso i quali si costruiscono le teorie fisiche […] è incapace di giustificare e impotente a reprimere” (Ibidem). BOX 1

La sottodeterminazione empirica delle teorie e le loro virtù sovraempiriche Per sottodeterminazione empirica delle teorie si intende il fatto che sia possibile formulare due o più teorie scientifiche tra loro incompatibili, ma che si accordano tutte con i dati empirici disponibili. Questi ultimi, di conseguenza, non sembrano in grado, di per sé soli, di determinare quale sia la sola teoria vera e da scegliere. La sottodeterminazione può avere carattere debole, o “transitorio” (Sklar), ossia essere legata alla momentanea mancanza di maggiori risultanze sperimentali, che potrebbero eliminare la sottodeterminazione e permetterci di individuare la teoria vera. C’è, però, chi sostiene che la sottodeterminazione caratterizzi in linea di principio le nostre teorie scientifiche, costituendo una condizione insuperabile. In quest’ottica, anche nelle 11

Per una critica all’idea dei ‘fenomeni’ quali ombre della realtà, cfr. invece: Massimi (2007).

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migliori condizioni epistemiche possibili (dunque, in presenza di tutti dati empirici che possiamo ottenere), le teorie rimarrebbero comunque sottodeterminate dall’esperienza12. Ciò comporta che, per rendere conto di un qualunque insieme di fenomeni, saranno disponibili, o almeno concepibili, più teorie tutte ugualmente compatibili con quei fenomeni (ossia, empiricamente equivalenti), ma incompatibili tra di loro. Poiché tali teorie risulteranno tutte corroborate in egual misura dall’esperienza, non sarà possibile determinare su basi solo empiriche quale sia la sola corretta, o anche solo quella da preferire13. Si parla, perciò, di teorie “empiricamente indecidibili”. La tesi della sottodeterminazione sembra suggerire che, in linea generale, l’inferenza dal successo empirico di una teoria, alla verità di essa potrebbe non essere legittima. Ad esempio, Duhem scriveva: Se le ipotesi di Copernico riescono a salvare tutte le apparenze conosciute, se ne può concludere che queste ipotesi possono essere vere, ma non si può concluderne che esse sono certamente vere; per legittimare questa conclusione bisognerebbe provare prima che nessun altro insieme di ipotesi potrebbe essere immaginato in modo da salvare altrettanto bene le apparenze. (Duhem, 1908, pp. 137-138)

Una possibile strategia di risposta al problema della sottodeterminazione è stata quella di interpretare teorie scientifiche ugualmente adeguate ai dati empirici considerandole del tutto equivalenti, cioè, come teorie che si differenziano sul piano linguistico, ma sarebbero analoghe quanto al contenuto effettivo e potrebbero, perciò, essere considerate formulazioni diverse della stessa teoria. Si tratta di una strategia cara alla tradizione positivista, propensa a considerare equivalenti due teorie con le medesime conseguenze osservative, ma che è stata declinata anche in termini realisti (cfr. Sklar, 1985). Un’altra strategia è quella secondo cui dovremmo preoccuparci della sottodeterminazione solo qualora fossero effettivamente presenti in un dato momento alternative teoriche rilevanti e tra loro empiricamente indecidibili, e non semplicemente perché, in linea di principio, sarebbe sempre possibile concepirne qualcuna14. Di fatto, si è aggiunto, questa eventualità non sarebbe così frequente. Kyle Stanford, però, ha mostrato come nella storia della scienza sia accaduto più volte di trovarsi nelle condizioni di non poter (ancora) concepire l’alternativa alla teoria scientifica allora dominante, che si sarebbe in seguito affermata, scalzandola. Anche oggi, dunque, la circostanza che una teoria di successo sembri non avere rivali potrebbe dipendere solo dal fatto che non siamo ancora in grado di concepire teorie alternative, empiricamente equivalenti o perfino superiori ad essa, anche se tali teorie potrebbero esistere ed emergere un domani (si tratta del problema delle cosiddette “unconceived alternatives”)15. Così, ad esempio: Quine (1975), p. 124; cfr. anche: Newton-Smith (1978). Cfr. Boniolo-Vidali (1999), pp. 609-626. 14 Cfr. Dorato (2007), pp. 200-201. 15 Si veda: Stanford (2006). Stanford ha proposto quella che ha chiamato “nuova induzione sulla storia della scienza” (‘nuova’ per distinguerla dalla cosiddetta “induzione pessimista” di Laudan, cfr. 12 13

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In ogni caso, la sottodeterminazione empirica è in genere presentata come uno degli argomenti principe in favore dell’antirealismo (cfr. Ladyman, 2002, cap. 6). Essa, infatti, sembra suggerire che non dovremmo impegnarci per gli inosservabili introdotti da una certa teoria scientifica, dal momento che esistono, o potrebbero comunque sempre essere formulate teorie alternative ad essa (anche per la porzione concernente gli inosservabili), ma altrettanto capaci di accordarsi con tutti i dati osservativi. Vi sono, però, anche filosofi come Quine che hanno riconosciuto l’importanza di questo fenomeno, senza darne una lettura antirealista (cfr. infra, 2.9). Alcuni, anzi, proprio rimarcandone la pervasività, hanno sottolineato come esso riguardi tanto la porzione delle teorie scientifiche che si riferisce ad inosservabili, quanto quella che concerne gli osservabili: esso, dunque, non potrebbe essere impiegato specificamente a sostegno dell’antirealismo scientifico16. Si noti, tuttavia, che, con un simile argomento, il problema posto dalla sottodeterminazione alla pretesa di verità delle nostre teorie non è risolto, ma semmai esteso. Complementare alla sottodeterminazione empirica delle teorie è, d’altra parte, la cosiddetta sovradeterminazione teorica dell’esperienza, in ragione della quale si afferma che non tutte le costruzioni teoriche concepibili (o anche esistenti) sarebbero egualmente adeguate rispetto all’esperienza disponibile: proprio questo renderebbe allora possibile, almeno in linea di principio, una qualche forma di controllo empirico delle teorie. Il fenomeno della sottodeterminazione empirica può, inoltre, contribuire a spiegare il rilievo accordato alle cosiddette virtù sovraempiriche delle teorie scientifiche. Si tratta di caratteristiche come, ad esempio, semplicità, economicità, bellezza, fecondità, intuitività, plausibilità etc., che possono distinguere differenti teorie dotate di eguale adeguatezza empirica. Ci sono buone ragioni per sostenere che una teoria che appare maggiormente dotata di virtù sovraempiriche sia, in genere, preferibile ad altre empiricamente equivalenti ad essa, a condizione che intendiamo attribuire un valore a quelle virtù. È invece più difficile stabilire se questo renda tale teoria anche più probabilmente vera. Ad esempio, siamo abitualmente inclini a ritenere che, a parità di portata empirica, una teoria più semplice sia preferibile ad una che lo è meno; ma questo comporta anche che una teoria più semplice abbia maggiori probabilità di essere vera? Secondo alcuni studiosi la semplicità sarebbe anche un indizio della veridicità di una teoria. Altri, invece, sostengono che non ci sia ragione di pensare che la natura in quanto tale si conformi ad esigenze economiche che sono, semmai, proprie dei soggetti conoscenti.

infra, 4.2): “lungo la storia della ricerca scientifica e virtualmente in ogni ambito della scienza, abbiamo occupato ripetutamente una posizione epistemica in cui potevamo concepire solo una o poche teorie ben confermate dalle evidenze disponibili, mentre in seguito la ricerca abitualmente (se non invariabilmente) avrebbe rivelato delle alternative ulteriori e radicalmente distinte, che sono confermate dalle evidenze precedententemente disponibili tanto quanto le teorie che eravamo inclini ad accettare sulla base di quelle evidenze” (2006, p. 19). 16 Cfr. Okasha (2002), pp. 73-78.

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2.5. Russell tra costruzioni logiche e strutture Nel 1914 il filosofo inglese Bertrand Russell (1872-1970) affermava che la “massima suprema della filosofia scientifica” sarebbe la seguente: “Wherever possible logical constructions are to be substituted for inferred entities”, ossia, che, ogni volta che è possibile, è bene che le costruzioni logiche sostituiscano le entità inferite (Russell, 1914b, p. 150). Qual è il significato di questa affermazione? e perché essa dovrebbe valere come una sorta di ‘rasoio di Ockham’ della filosofia scientifica? Secondo Russell, affinché la fisica sia davvero una disciplina verificabile, fondata sull’osservazione e sulla sperimentazione, essa dovrà assumere come propria base solo quanto può esserci offerto dall’esperienza, cioè i dati sensoriali (sense-data), ossia: “certe macchie di colore, suoni, sapori, odori, ecc., insieme con certe relazioni spazio-temporali” (1914b, p. 141). A questi dati sensoriali noi abbiamo un accesso epistemico diretto e immediato (acquaintance) e possiamo essere immediatamente certi che esistano, almeno finché ne facciamo esperienza. Non possiamo, invece, avere una conoscenza immediata degli oggetti fisici, e neppure di quelli che Russell chiama sensibilia, cioè i sense-data quando non sono, però, in relazione con alcun soggetto senziente. Russell non sta sostenendo la tesi metafisica secondo cui esistono solo dati sensoriali, ma la tesi epistemologica secondo cui essi sono la base certa e primitiva di tutta la nostra conoscenza empirica del mondo esterno. L’analisi epistemologica di Russell ha una portata di carattere del tutto generale: sia gli oggetti fisici inosservabili, sia quelli macroscopici (dal tavolo al bicchiere), costituiscono, in base ad essa, entità inferite a partire dai dati di senso e delle quali in sé non si dà acquaintance. Tuttavia, per quanto qui più ci interessa, non c’è dubbio che le entità inosservabili della microfisica (molecole, atomi, elettroni) siano per eccellenza entità inferite, che non possono esserci date immediatamente nell’esperienza. Al punto che, se vogliamo verificare attraverso osservazione ed esperimenti le affermazioni delle teorie scientifiche che riguardano oggetti di tal genere, dobbiamo prima stabilire una correlazione tra queste ipotetiche entità inosservabili e i dati di senso, così da ricavare da questi ultimi una forma indiretta di conoscenza e controllo. Ciò comporta, però, una radicale inversione rispetto al modo abituale di concepire le cose in fisica. Scrive infatti Russell: Nella fisica come essa viene comunemente esposta i data del senso appaiono come funzioni degli oggetti fisici: quando talune onde colpiscono l’occhio, vediamo taluni colori, e così via. Ma in realtà sono le onde a essere dedotte dai colori e non viceversa. La fisica non può considerarsi validamente basata sui data empirici finché le onde non saranno espresse come funzioni dei colori e degli altri data sensoriali. (Russell, 1914b, p. 142)

Ecco che allora, se la fisica deve essere un sapere basato su osservazione ed esperienza, è necessario compiere un rovesciamento che riconosca come gli og-

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getti fisici non sono che una costruzione logica, effettuata sulla base dei dati di senso disponibili. Secondo Russell, il modo generale di procedere per ottenere questa costruzione logica dovrebbe ispirarsi alle tecniche costruttive affermatesi in matematica. In particolare, quando abbiamo a che fare con proposizioni che si riferiscono a presunte entità inferite, dovremmo considerare quali proprietà devono avere tali entità ipotetiche, perché le proposizioni siano vere. Fatto ciò, con l’aiuto di un po’ di ingegnosità logica, noi costruiamo allora qualche funzione logica di entità meno ipotetiche aventi la proprietà richiesta. Sostituiamo la funzione così costruita alle supposte entità inferite, e così otteniamo una interpretazione nuova e meno dubbia del corpo di proposizioni in questione. (Russell, 1914b, p. 151; cfr. Id., 1914a, p. 107)

Si tratta, riconosce Russell, di un’opera di sostituzione alla quale lavorare come ad un ideale da perseguire, ben sapendo quante difficoltà ne impediscono una realizzazione completa. In ogni caso, dovremmo almeno attenerci al principio per cui: le entità inferite dovrebbero, tutte le volte che sia possibile, essere simili a quelle la cui esistenza è stabilita, piuttosto che, come accade per il Ding an sich kantiano [la cosa in sé], qualcosa di completamente diverso dai data da cui nominalmente parte la deduzione. (Russell, 1914b, pp. 151-152)

Ci siamo soffermati su questa impostazione perché avrà una particolare fortuna e influenzerà, sotto molti aspetti, anche il prosieguo del dibattito filosofico in tema, a partire dalla Critical Scientific Theory di Charlie Dunbar Broad (cfr. 1923, cap. 8). Essa segnerà, in modo rilevante, anche la ricerca di empiristi logici come Rudolf Carnap, tanto che la “massima suprema della filosofia scientifica” figura in apertura del suo La costruzione logica del mondo (Carnap, 1928); e ancora negli anni ‘50 la critica di questa impostazione avrà un ruolo centrale nella filosofia della scienza (cfr. Feyerabend, 1960, § 3). Un secondo importante contributo di Russell alla riflessione sul realismo scientifico si lega, invece, alla centralità da lui accordata alla nozione di struttura, ad esempio nel saggio del 1927, L’analisi della materia. La conoscenza scientifica è qui vista essenzialmente come conoscenza strutturale: La fisica ha dato una risposta ad alcuni problemi riguardanti la struttura, ma ne ha lasciati aperti altri. Alcuni dei problemi aperti sono destinati a restare per sempre senza risposta. Cioè: è possibile un’ulteriore analisi dei termini che per la fisica sono i termini ultimi e, se lo è, che significato ha far congetture attorno alla loro natura? Nella scienza abbiamo le prove della struttura fino a un certo punto, mentre oltre quel punto non abbiamo alcuna prova. (Russell, 1927, pp. 337-338)

La fisica può darci una conoscenza di alcuni aspetti della struttura del mon-

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do fisico, “e la struttura è quella che può essere espressa per mezzo della logica matematica” (Russell, 1927, p. 314). Le teorie fisiche introdurranno anche dei termini che, almeno per la scienza di una data epoca, sembrano costituire i “particolari ultimi del mondo” (cioè, i suoi costituenti elementari): ma di essi la scienza non ci permette di conoscere la natura intrinseca (le loro proprietà di primo ordine, come si suol dire). Anzi, più in generale, noi non possiamo mai conoscere i caratteri qualitativi e intrinseci degli oggetti fisici del mondo esterno. In sintesi, perciò, secondo Russell: “il solo atteggiamento legittimo nei confronti del mondo fisico, appare l’agnosticismo più completo circa tutte le sue proprietà, eccettuate quelle matematiche” (1927, p. 332). La conoscenza scientifica sarà, dunque, solo conoscenza strutturale, ed essa per Russell non riguarderà direttamente gli oggetti, cioè la natura delle loro proprietà e relazioni, quanto piuttosto le proprietà formali, esprimibili in termini logico-matematici, di queste relazioni: ossia, i caratteri strutturali, appunto. Ciò che possiamo sapere, in definitiva, è che rispetto a certe relazioni, delle quali non conosciamo la natura, il mondo esterno è strutturato in un certo modo (sul concetto di struttura: Russell, 1927, cap. 24). Si può aggiungere che Russell, pur riconoscendo che elettroni e protoni “in un senso o in un altro” (p. 476) certamente esistano, é scettico rispetto all’idea che essi rappresentino davvero i “particolari” di base, i costituenti ultimi del mondo. Così, oltre a sottoscrivere la massima secondo cui “ciò che è comodo da un punto di vista logico, è probabile che sia artificiale” (1927, p. 355), afferma: L’elettrone possiede delle proprietà molto comode, ed è quindi probabilmente una struttura logica sulla quale concentriamo l’attenzione appunto a causa di queste proprietà. Può darsi che una serie accidentale di particolari sia raccoglibile in gruppi ciascuno dei quali possiede proprietà matematiche semplici e facilmente maneggevoli. Ma non abbiamo alcun diritto di supporre che la natura sia stata così cortese verso il matematico da creare particolari in possesso esattamente delle proprietà che il matematico stesso desiderava scoprire. (Russell, 1927, p. 388)

Per alcune di queste idee, diversi realisti strutturali (cfr. infra, 4.8), di recente, hanno fatto riferimento a Russell, vedendo in lui il precursore di una forma di strutturalismo (cfr. Frigg-Votsis, 2011). Al contempo, è appunto come reazione alle tesi di Russell che sono sorte anche le prime obiezioni di fondo allo strutturalismo (o, almeno, ad alcune delle sue declinazioni). Ad esempio, Max Newman (1897-1984), in un saggio del 1928, ha sostenuto che la conoscenza strutturale (almeno per la concezione restrittiva che ne ha Russell) non sarebbe autenticamente informativa, poiché si può dimostrare che per un qualunque insieme di oggetti (purché con un numero adeguato di elementi) esiste sempre un sistema di relazioni rispetto al quale tale insieme ha la struttura in questione, quale che essa

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sia17. Russell stesso sembrò riconoscere la forza di questa obiezione (cfr. Demopoulos-Friedman, 1989, p. 192), ammettendo di non voler in effetti restringere la conoscenza del mondo esterno ai soli aspetti strutturali. Inoltre, negli anni ’40, scriverà: Vi sono alcuni che negano che la fisica abbia bisogno di dire alcunché circa quanto non può essere osservato; a volte io stesso sono stato uno di loro. Ma mi sono convinto che una simile interpretazione della fisica è nel migliore dei casi un gioco intellettuale, e che una accettazione onesta della fisica richiede che si riconosca quanto avviene di inosservato. (Russell, 1944, p. 701; in risposta a: Nagel, 1944).

2.6. Il contributo dell’empirismo logico Il contributo dell’empirismo logico ha un ruolo decisivo nella vicenda che ricostruiamo, per il valore delle idee elaborate dai suoi esponenti e perché, nel complesso, esse rappresenteranno per lunghi decenni la received view in filosofia della scienza, alla quale aderire o contro la quale reagire (sulla base di ricostruzioni più o meno fedeli delle idee effettive degli empiristi logici). L’esperienza del cosiddetto empirismo logico si ricollega in particolare al lavoro di filosofi, ma anche matematici e scienziati, che per un certo periodo (gli anni ’20-’30 del Novecento) frequentarono gli stessi ambienti e si riunirono regolarmente per discutere di questioni filosofiche e scientifiche, dando vita ai cosiddetti Circolo di Vienna (Wiener Kreis) e Circolo di Berlino (Die Gesellschaft für empirische Philosophie). A Vienna il movimento prese vita attorno a Moritz Schlick (1882-1936) e tra i maggiori esponenti possiamo ricordare almeno Hans Hahn (1879-1934), Otto Neurath (1882-1945), Rudolf Carnap (1891-1970); per l’ambito berlinese, invece, possiamo ricordare almeno Hans Reichenbach (1891-1953) e Carl Gustav Hempel (1905-1997). L’attività di questi circoli fu interrotta e dispersa dall’avvento del nazismo che obbligò i principali esponenti del movimento ad abbandonare Germania e Austria (mentre Schlick fu assassinato). Cercheremo qui di individuare alcune convinzioni di base che hanno rappresentato un significativo patrimonio largamente condiviso tra gli empiristi logici, o che, comunque, sono state di fatto recepite come costitutive dell’identità e della proposta del movimento. Del resto, non è un caso che il ‘manifesto’ del Circolo di Vienna, intitolato La concezione scientifica del mondo (1929), sia un testo a più mani, firmato assieme da Hahn, Neurath e Carnap. Non potendo esaminare, in questa sede, l’intero spettro delle questioni affrontate dagli empiristi logici, ci Si vedano in proposito: Demopoulos-Friedman (1989); van Fraassen (2008), cap. 9; Votsis (2003); Massimi (2011), § 1.3; Frigg-Votsis (2011), §§ 3.3-3.4. 17

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limiteremo a richiamare alcuni nodi, particolarmente rilevanti per il nostro specifico tema18. Un’avvertenza, però, è necessaria. Parlando del Circolo di Vienna, si è ricordato come “nonostante la sua esistenza sia stata relativamente breve, anche alcune delle sue tesi più centrali andarono incontro a cambiamenti radicali” (Uebel, 2016, § 1): e questo vale a maggior ragione per l’empirismo logico in genere. Al contempo, fermo restando il carattere cooperativo di questa esperienza, i maggiori esponenti del movimento nutrirono anche convinzioni significativamente diverse tra di loro. Questo significa, tra l’altro, che molte delle tesi epistemologiche dell’empirismo logico che saranno poi attaccate da altri celebri filosofi “trovarono degli oppositori già all’epoca all’interno del Circolo stesso” (ibidem). Possiamo, ad ogni modo, ricordare che: – Il movimento intende promuovere la scienza e una complessiva “concezione scientifica del mondo”, in quanto la scienza viene considerata come paradigma di razionalità, conoscenza intersoggettiva e cumulatività del sapere. Troverà spazio anche l’idea che si debba andare verso una progressiva unificazione delle scienze, per quanto questa unificazione sia concepita in modi diversi dai diversi autori. – In parallelo, si propugna un rinnovamento della filosofia, a partire dal rifiuto della metafisica, considerata priva di valore e significato sul piano conoscitivo e capace, semmai, di avere un valore soltanto sul piano espressivo, cioè nel dare voce ad un particolare atteggiamento verso l’esistenza. In una prima fase, questa critica della metafisica si fonda sul principio secondo cui il significato delle proposizioni sintetiche dipenderebbe dalla loro verificabilità empirica, cioè dalla possibilità di stabilirne (effettivamente, o almeno in linea di principio) la verità o la falsità per mezzo dell’esperienza19. Tale verificabilità sarebbe preclusa nel caso degli asserti metafisici. – Negli anni ’30, però, la teoria verificazionista del significato sarà messa in discussione proprio da alcuni dei maggiori esponenti dello stesso Circolo di Vienna, dando avvio a quella che è stata chiamata liberalizzazione dell’empirismo. Tuttavia, tale idea è rimasta lungamente associata all’immagine più diffusa di questo movimento. – Al rifiuto della metafisica si salda anche il rifiuto della filosofia trascendentale di Kant e dei giudizi sintetici a priori, cioè non derivati da esperienze. Tuttavia, ciò non significa negare la validità della distinzione tra giudizi analitici e giudizi sintetici, né di quella tra a priori e a posteriori. Inoltre, alcuni empiristi logici difendono il ruolo di un a priori relativizzato nella scienza, affermando che Per delle ricostruzioni d’insieme sull’empirismo logico: Barone (1986); Hempel (1989); Friedman (1989); Parrini (2002); Richardson-Uebel (eds.) (2007); Psillos (2011a); Uebel (2016); tra le antologie di testi in italiano: Pasquinelli (a cura di) (1969); Trinchero (1978); Ferrari (a cura di) (2000). 19 Si veda: Misak (1995), cap. 2. 18

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in ciascuna teoria scientifica svolgono un ruolo costitutivo alcuni giudizi che valgono come degli a priori, non in assoluto, ma relativamente a quella teoria (cfr. Reichenbach, 1920). Quanto al nuovo compito della filosofia: “anziché stabilire specifiche «proposizioni filosofiche», ci si limita a elucidare proposizioni, in vero proposizioni della scienza empirica […]” (Hahn-Neurath-Carnap, 1929, p. 96); tale chiarificazione richiede un’analisi metodica che si avvale di un linguaggio logico-simbolico rigoroso e, naturalmente, di una salda competenza scientifica da parte del filosofo. Le tradizionali dispute filosofiche, come quella circa la realtà del mondo esterno sono prive di senso, tra l’altro perché fanno ricorso ad un concetto metafisico (e perciò invalido) di realtà. A tale nozione metafisica di realtà andranno sostituiti un concetto empirico di realtà e la concezione secondo cui “qualcosa è «reale», nella misura in cui risulta inserito nel quadro generale dell’esperienza”20. Per Carnap, il concetto empirico di realtà è: “il solo a comparire nelle scienze della realtà. Tale concetto è quello mediante il quale un monte accertato geograficamente è distinto da un monte leggendario o immaginario, e un sentimento vissuto da uno simulato” (Carnap, 1928, § 170, pp. 394-395). La base di evidenze osservative della conoscenza scientifica è costituita da enunciati sintetici di base che attestano un’esperienza immediata del soggetto che li formula. Tali enunciati sono in genere chiamati enunciati protocollari. Sorgerà, però, entro il movimento empirista, una controversia sulla natura e il ruolo di tali enunciati (Protokollsatzdebatte). Ci si chiederà, ad esempio, quale sia il linguaggio più adatto per formularli, se quello fenomenistico (adottato da: Carnap, 1928), oppure quello fisicalista (favorito da Neurath e, in seguito, dallo stesso Carnap); su che cosa essi propriamente vertano (esperienze vissute elementari, oppure oggetti percepiti?); se essi possano o meno rivestire il ruolo di fondamento della conoscenza empirica; se sia possibile o no ricondurre a enunciati di questo tipo ogni affermazione scientifica valida; se sia possibile sottoporre ciascuno di essi individualmente al controllo empirico, o se si debba testarne la coerenza nel quadro dell’intero sistema teorico (come pensava Neurath). Le teorie scientifiche possono essere ricostruite come sistemi assiomatici di enunciati, essenzialmente entro il quadro di una logica del primo ordine. Si tratta della cosiddetta interpretazione sintattica delle teorie (o received view)21. Tra i termini del discorso scientifico che non sono costanti logiche, vi sono due gruppi di costanti descrittive (due linguaggi) che hanno una particolare rilevanza: quello dei termini osservativi e quello dei termini teorici. 20 21

Hahn-Neurath-Carnap (1929), p. 79, corsivo nell’originale. Cfr. Suppe (ed.) (19772), pp. 6-61; Giunti-Ledda-Sergioli (2016), pp. 18-24.

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– I termini osservativi sono quelli che si riferiscono a quanto può essere rilevato attraverso un processo osservativo, mentre sono termini teorici quelli che si riferiscono a quanto non è oggetto di esperienza diretta22. Quello osservativo e quello teorico sono due vocabolari stabilmente distinti e danno origine a due porzioni distinte della teoria scientifica. Si tratta anche di componenti della teoria gerarchicamente ordinate, alla luce del primato epistemico del livello osservativo. Per lo più, si ritiene che il piano osservativo sia anche quello che garantisce la possibilità di un controllo empirico degli asserti teorici, visto, in genere, come un controllo oggettivo e le cui metodiche valide sono invarianti nel tempo. – L’interpretazione del linguaggio osservativo è fissata, completa ed è stabile attraverso il cambiamento teorico. Quanto al linguaggio teorico, i termini appartenenti ad esso sono implicitamente definiti dai ruoli loro attribuiti dalla teoria; inoltre, è possibile ricollegarli ai termini osservativi grazie ad un sistema di regole di corrispondenza che garantiscono anche ai termini teorici un significato e una applicabilità empirici. In seguito, Carnap e altri sosterranno che questa procedura consenta solo una interpretazione parziale dei termini teorici, ma non una loro esaustiva definizione vera e propria in termini di osservabili. Nel quadro di questo dibattito, si giungerà, poi, alla diffusa consapevolezza che, in ogni caso, la riconduzione dei termini teorici a una base osservativa non rende possibile la loro sostituibilità/eliminabilità nel discorso scientifico (cfr. infra, 3.1). Con ciò abbiamo posto le premesse essenziali per la trattazione da parte degli empiristi logici della questione dell’esistenza dei possibili referenti non osservabili dei termini teorici e, in particolare, di quelli introdotti in teorie scientifiche largamente accettate. Un testo di grande efficacia a questo proposito è Positivismo e realismo di Moritz Schlick, apparso nel 1932 sulla rivista «Erkenntnis»23. In questo saggio, Schlick esprimeva la sua opzione per un realismo scientifico che sia declinato come realismo empirico, cioè che dia al predicato ‘reale’ il significato ordinario e non metafisico, sopra ricordato. E, in coerenza con un’impostazione verificazionista, affermava: “Il positivismo logico e il realismo non sono pertanto in contrasto; chi riconosce la validità del nostro principio dev’essere conseguentemente un realista empirico” (Schlick, 1932b, p. 111). In questo senso, gli inosservabili delle migliori teorie fisiche saranno reali, proprio come gli oggetti di esperienza ordinaria. Schlick afferma: 22 23

Sui termini teorici si veda più ampiamente: Andreas (2017). Di Schlick si vedano anche: Schlick (19252); Id. (1932a).

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atomi e campi elettrici, o altre nozioni che entrano nel discorso del fisico, rappresentano proprio ciò di cui constano, secondo le sue teorie, le case e gli alberi: sono tutte entità reali nello stesso senso. L’obiettività delle montagne e delle nuvole è identica a quella dei protoni e dell’energia […] In effetti, noi siamo convinti da tempo che l’esistenza delle cose postulate dal fisico, per sottili e ‘invisibili’ che siano, si verifica, in linea di principio, esattamente allo stesso modo che la realtà di un albero o di una stella. (Schlick, 1932b, p. 104)

Dunque, è pienamente possibile ammettere l’esistenza di atomi o elettroni ed altri inosservabili, purché sia chiaro che dichiararli ‘reali’ non significa assumerli come “cose in sé” o “entità metafisiche”, ma semplicemente come elementi a pieno diritto della realtà empirica. Essi non rappresentano delle ‘cose in sé’, non perché alla scienza sia precluso l’accesso a un presunto ‘mondo vero’, afferrabile solo per altre vie, ma perché, parlare di tale ‘mondo vero’, contrapponendolo al mondo ‘apparente’ dell’esperienza sensibile, significherebbe cadere in un gergo metafisico privo di valore conoscitivo. Secondo Neuber, nell’ambito della tradizione dell’empirismo logico si sarebbero poi sviluppati tre tipi di realismo empirico relativi alla scienza: quello probabilistico di Reichenbach, quello semantico/pragmatico di Feigl e quello invariantista del filosofo finlandese Eino Kaila (cfr. Neuber, 2017, § 3). Sui primi due avremo modo di tornare più avanti (cfr. infra, rispettivamente 2.7 e 3.1). Per concludere questa panoramica d’insieme, sembra utile rilevare come, in questa fase, il fulcro del contributo dell’empirismo logico al dibattito sul realismo scientifico stia, primariamente, proprio nell’aver ripensato le condizioni di un impiego controllabile e non metafisico del concetto di ‘reale’24. Non a caso, questo modo nuovo di impostare la questione emergerà come un patrimonio comune, anche nelle situazioni in cui si faranno più marcate le differenze in merito all’interpretazione più adeguata delle teorie scientifiche e delle loro componenti non osservative. È, ad esempio il caso del contrasto tra Philipp Frank (18841966) e Herbert Feigl (1902-1988) a proposito del “semantic (empirical) realism” di quest’ultimo, avversato da Frank (e anche da altri empiristi logici)25. Pur nelle differenze specifiche che emergono, quanto continua ad accomunare coloro che si sono formati alla scuola dell’empirismo logico è, appunto, la consapevolezza di dover abbandonare una nozione metafisica di realtà, in favore di quella che anche Feigl definisce “nozione empirica e scientifica di realtà” (1950a, p. 51). Soltanto questo permetterebbe di evitare quella deriva della discussione sulla realtà (e sulla realtà degli inosservabili, in specifico) che la svuoterebbe di ogni autentico valore conoscitivo, e anche di superare la contrapposizione tradizionale tra rea24 25

Cfr. anche: Uebel (2016), § 3.4. Cfr. Feigl (1950a); Id. (1950b); Frank (1950). Sul realismo di Feigl, cfr. infra, 3.1.

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listi e antirealisti. Infatti, sia il realista scientifico che l’antirealista scientifico, se pretendono di affermare che le entità inosservabili introdotte dalle nostre migliori teorie scientifiche sono/non sono reali, nel senso di appartenere/non appartenere al mondo delle cose in sé, concepito in modo assoluto, diranno qualcosa di insensato, prima ancora che di falso. Perciò, secondo la lezione di Schlick, tanto al realista quanto all’antirealista metafisico, l’empirista non dirà che sbagliano, ma semplicemente: “non ti capisco” (Schlick, 1932b, p. 111).

2.7. Realismo e probabilismo in Reichenbach: gli inosservabili come illata Gli esponenti dell’empirismo logico hanno continuato a fornire contributi importanti e innovativi, anche per le nostre tematiche, ben oltre gli anni viennesi o berlinesi. È questo il caso di Hans Reichenbach e dell’importante monografia del 1938 Experience and Prediction. Ci limiteremo, in questa sede, a ripercorrere un argomento interessante e ingegnoso proposto da Reichenbach nel II capitolo di questo saggio (1938, § 14, pp. 114-129), in favore della possibilità di inferire l’esistenza di entità inosservabili26. La trattazione che esamineremo si inquadra nella più generale convinzione di Reichenbach secondo cui oltre a parlare di ‘verità’ o ‘falsità’ di una proposizione in termini assoluti, ha senso parlare anche del ‘peso’ (Weight) di una proposizione, quando, senza poterla verificare in modo diretto ed assoluto, dobbiamo esprimerci sul valore e sul grado di probabilità di essa (cfr. 1938, pp. 24-28). Secondo Reichenbach sarebbe proprio questo il caso delle affermazioni che vertono sugli inosservabili e/o su eventi futuri. Prima di esaminare il ragionamento di Reichenbach, però, è importante, sulla scorta di Psillos (2011a), sottolineare un aspetto più generale della posizione di Reichenbach (e, come vedremo, anche di altri empiristi logici). Infatti, se la legittimazione dell’impegno circa l’esistenza di un certo tipo di inosservabile si fonda, per Reichenbach, su giustificazioni probabilistiche, invece l’adozione di una cornice concettuale realista nel quadro della quale tale impegno sia possibile non si fonda su ragioni di tipo probabilistico, bensì su una decisione pragmatica, libera, ma basata su ragioni27. Dunque, una volta scelto di muoversi all’interno di un framework concettuale entro il quale, in linea di principio, è possibile at26 Su questo argomento: Salmon (2005), capp. 1-3; Psillos (2011a); Id. (2011b); per una disamina più tarda del tema: Reichenbach (1951), cap. XI. Sull’approccio complessivo di Reichenbach al tema: Neuber (2017), § 3.1. 27 “[…] la scelta di un framework in quanto tale (a differenza di quella di un’ipotesi all’interno di esso) non è (e non può essere) una questione di probabilità ed evidenza. Non possiamo parlare di probabilità di un framework nel suo insieme, soprattutto perché l’attribuzione di probabilità è dipendente da un framework” (Psillos, 2011a, p. 306).

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tribuire esistenza indipendente a entità inosservabili, si tratterà di capire se e a quali condizioni siamo di fatto giustificati nell’attribuire realtà a dei particolari inosservabili. L’argomento che ci interessa muove da quella che può essere considerata come un’ennesima variazione sul mito della caverna platonico. Immaginiamo un mondo nel quale l’intera umanità sia imprigionata dentro un enorme cubo, al di fuori del quale vi sono degli uccelli che per i prigionieri non è mai possibile vedere direttamente, ma che proiettano la loro ombra attraverso le pareti traslucide sopra le quali essi volano (chiamiamola ombra diretta). Fuori dal grande cubo vi è un sistema di specchi che riflette l’ombra degli uccelli anche sopra pareti del cubo che essi, in realtà, non stanno sorvolando (chiamiamola ombra riflessa). Che cosa potranno giungere a conoscere circa il mondo esterno gli uomini imprigionati nel cubo? Secondo Reichenbach, col tempo un novello Copernico “scoprirà che le macchie nere hanno la forma di animali” (1938, p. 116), ne arguirà che esse sono l’effetto di entità che si trovano nello spazio esterno al cubo le quali hanno esistenza autonoma rispetto alle ombre che causano sulla parete e si convincerà anche che, quando due ombre identiche compaiono simultaneamente su superfici diverse, esse sono dovute ad una causa comune, cioè, ad una stessa entità (ne sono, rispettivamente, l’ombra diretta e l’ombra riflessa). Reichenbach prevede che simili affermazioni incontrerebbero, però, obiezioni di stampo positivistico, basate sul fatto che tutto ciò che è possibile sapere dei presunti animali al di fuori del cubo dipende da ciò che osserviamo delle macchie nere sulle pareti e, dunque, le presunte credenze circa animali esterni al cubo non aggiungerebbero, in fondo, alcun contenuto empirico effettivo a ciò che possiamo conoscere ed esprimere limitandoci a parlare soltanto delle macchie nere. Naturalmente, proseguirà il positivista, una differenza effettiva tra le due interpretazioni ci sarebbe qualora qualcuno potesse uscire dal cubo e osservare direttamente gli uccelli, testando finalmente l’ipotesi circa la relazione tra le macchie nere e quegli uccelli dei quali il nuovo Copernico ipotizza che esse siano le ombre. Ma poiché, per ipotesi, nessuno nel cubo può mai osservare direttamente gli uccelli, allora non ci sarebbe differenza effettiva di significato fisico tra parlare semplicemente di macchie e parlare di ombre dovute a presunte entità reali esterne e inaccessibili. Reichenbach afferma che l’argomento del positivista appare valido solo presupponendo un concetto assoluto di verificazione, di controllo delle ipotesi: cioè, solo presupponendo che il controllo di una ipotesi consista nel confermarla con certezza, o nel rigettarla definitivamente. Egli ritiene, però, che questo sia uno standard poco realistico e troppo esigente. È invece possibile (e decisivo) che l’ipotesi del novello Copernico, pur non potendo essere verificata in termini assoluti da dentro il cubo, abbia comunque un peso, una probabilità, una plausibilità maggiori,

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rispetto alle ipotesi di chi nega che le macchie nere sulle pareti siano ombre causate da animali esterni al cubo. Infatti: “a giudicare in base ai fatti osservati l’ipotesi di Copernico appare altamente probabile” (1938, p. 120). Ecco, afferma Reichenbach, “i fisici hanno scoperto gli atomi in modo analogo a quello in cui sono stati scoperti gli uccelli nel mondo cubico” (1938, pp. 212-213), e, se anche noi non osserviamo direttamente il singolo atomo come facciamo con una palla da tennis, in certe condizioni possiamo rilevarne gli effetti e le tracce, come le ombre degli uccelli nell’esempio. La nuova concezione probabilistica che qui emerge permette, secondo Reichenbach, di cogliere il significato di affermazioni che vanno oltre i fatti empirici dati e di riconoscere la plausibilità anche di certe affermazioni che riguardano gli inosservabili della microfisica. Termini e asserti scientifici riferiti ad inosservabili avranno, inoltre, un significato non interamente riducibile al discorso su osservabili e saranno, dunque, ineliminabili. Reichenbach denomina illata, cioè entità che sono inferite, le entità come gli uccelli del mondo cubico e gli inosservabili della nostra microfisica, ossia “cose come l’elettricità, le onde radio, gli atomi e molti gas invisibili” (1938, p. 212). Esse non sono oggetto di osservazione, ma sono il frutto di una inferenza probabilistica a partire dalle entità immediatamente osservabili per noi, che Reichenbach chiama concreta. L’argomento di Reichenbach ha la forma di una “inferenza alla miglior spiegazione”, dunque, si applicano ad esso alcune delle osservazioni che valgono in genere per tale tipo di inferenza (cfr. infra, Box 3). Inoltre, l’argomentazione di Reichenbach potrebbe essere in parte sviante quando fa riferimento a una presunta causa (gli uccelli) che sarà magari inosservabile per gli abitanti del mondo cubico, ma è invece a noi ben nota per esperienza diretta (cfr. anche: Salmon, 2005, pp. 23-24). Di conseguenza, quando udiamo l’affermazione che la causa di certe ombre sarebbero degli uccelli, inevitabilmente, associamo a tale causa tutta una serie di proprietà che vanno al di là del semplice essere la presunta causa di quelle ombre e che ci permettono di affermare che conosciamo l’identità della causa. Nel caso degli inosservabili della fisica, invece, ci troviamo, per definizione, in una condizione di limitazione epistemica ben più radicale (infatti, non abbiamo mai esperienza diretta di essi). Perciò la eventuale affermazione che certe evidenze siano proiezioni (segni, effetti, tracce) di un qualche tipo di entità inosservabile che esiste realmente non ci permetterà di conoscere alcunché di questa causa, tranne il fatto che essa è, per ipotesi, la responsabile dei presunti effetti osservati. Si tratta, dunque, di un’inferenza che, anche qualora fosse legittima, porterebbe ad affermare che una causa inosservabile deve esservi, più che quale essa sia.

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2.8. Carnap dopo Vienna: per la pace perpetua tra realisti e antirealisti Anche Rudolf Carnap, nella fase più matura della propria riflessione, sviluppa una interpretazione della questione del realismo scientifico che ha sia elementi di continuità, sia elementi di novità rispetto alla stagione del Circolo di Vienna28. Rimane costante in Carnap il rifiuto dell’opzione realista, inteso in primis come rifiuto del realismo metafisico. Tale rifiuto si lega alla critica delle dispute filosofiche tradizionali che mirano a stabilire che cosa in assoluto sia ‘reale’, ‘vero’, ‘esistente’ in sé. Carnap intende evidenziare, al contrario, come i giudizi di verità, esistenza e realtà acquistino significato certo solo all’interno di uno specifico sistema di riferimento concettuale, che sia già stato assunto. Dunque, in conformità con la lezione dell’empirismo logico, la tradizionale idea realista per cui l’arredo ontologico delineato dalle teorie scientifiche corrisponderebbe approssimativamente alla realtà vera e propria del mondo esterno, prima di essere vera o falsa, esprimerebbe qualcosa di cui non è neppure chiaro il significato. Non esisterebbe, infatti, la possibilità di commisurare la conformità del discorso scientifico a qualcosa come il mondo ‘in sé’, colto al di fuori di qualunque cornice concettuale. Il bersaglio di Carnap è, perciò, in primis quella forma di realismo scientifico che ha contratto un impegno di tipo metafisico con i referenti dei termini introdotti dalle teorie scientifiche29. Quando, però, ci chiediamo se all’interno di una stessa cornice teorica sia possibile introdurre una distinzione tra l’impegno di esistenza che è opportuno assumere per gli elementi osservabili, e quello relativo agli elementi inosservabili ai quali si fa riferimento, la risposta di Carnap appare negativa. Questa risposta non solo si sposa con il rifiuto del realismo metafisico sopra richiamato, ma è qualcosa che risulta motivato dalle stesse ragioni. Si è detto, infatti, come è sempre e solo relativamente ed internamente ad una data cornice concettuale che le affermazioni concernenti l’esistenza di qualcosa assumono un chiaro valore cognitivo. Entro simili cornici, il concetto di ‘reale’ impiegato non sarà più quello metafisico tradizionale, bensì quello “empirico, scientifico, non-metafisico”, che impieghiamo, ad esempio, quando affermiamo che in questo mondo i cavalli sono reali a differenza degli unicorni. Ora, essere ‘reale’ in questo senso, significherà semplicemente “essere un elemento del sistema” 30. Dunque, se ci interroghiamo sull’esistenza di un certo tipo di entità (poniamo quelle per noi non direttamente osservabili) entro un dato sistema linguistico-concettuale, la questione riguarderà soltanto la presenza di quel tipo di elementi in tale sistema. Il riferimento è a: Carnap (1950); Id. (1956); Id. (1963); Id. (1966); Id. (19742). La stessa critica, però, vale anche per quella forma di antirealismo che situi la propria negazione di esistenza sullo stesso piano metafisico scelto dal realista per le proprie affermazioni di esistenza. 30 Carnap (1950), p. 328; cfr. Id. (1956), p. 274. 28

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Se, dunque, adottiamo un sistema nel quale sono presenti riferimenti a simili entità, la risposta circa la loro esistenza: “è affermativa, naturalmente, analitica e ovvia” (Carnap, 1950, p. 337). Esternamente ad un sistema linguistico, invece, le questioni generali di esistenza dovranno declinarsi come questioni prevalentemente pragmatiche, cioè concernenti la scelta complessiva del più efficace tra i diversi linguaggi alternativi disponibili: ad esempio, la scelta tra un linguaggio con forme di espressione che designano tipi di entità non osservabili (e che, dunque, ne afferma l’esistenza), oppure uno che non include tali forme (e che, dunque, non afferma l’esistenza di essi). Ma una decisione di questo genere, sebbene “influenzata dalla conoscenza teorica” (1950, p. 330; cfr. pp. 336-337), non equivale in alcun modo alla riproposizione della classica pseudo-questione metafisica nella quale è implicata la possibilità di vagliare, in assoluto, la corrispondenza tra tale sistema complessivo e la realtà. Infatti: “una pretesa affermazione della realtà del sistema di entità è una pseudo-affermazione senza contenuto conoscitivo” (1950, pp. 339-340). Alla luce di questo tipo di analisi, Carnap ritiene di aver posto le premesse per uno stabile superamento di quello che considera l’annoso dibattito tra realisti e antirealisti, decostruendo le premesse stesse del conflitto. I realisti, infatti, non dovranno pretendere che l’adozione di una cornice teorica entro la quale si parla di ‘elettroni’ o di altri inosservabili equivalga ad affermare che, in senso assoluto e indipendentemente dalla teoria, nella realtà in sé, esistono effettivamente elettroni, o altri inosservabili ai quali la teoria si riferisce. I non realisti, d’altra parte, non dovranno pretendere di fare un’affermazione che, collocandosi sullo stesso piano, neghi ciò che il realista metafisico afferma. Si noti che questa proposta di superamento del contrasto tra realisti e antirealisti non si lega soltanto ad una specifica presa di posizione in filosofia della scienza, ma ad una opzione anti-metafisica molto più generale. La stessa che porta Carnap a rimarcare come quanti impieghino un linguaggio che parla di numeri, classi e punti nello spazio-tempo non dovranno temere di essere per ciò stesso compromessi verso certe dottrine «ontologiche» nel senso metafisico tradizionale. I tradizionali problemi ontologici circa la «realtà», in un presunto senso metafisico, dei numeri, delle classi, dei punti spazio-temporali, dei corpi, delle menti, ecc., sono pseudo-problemi senza alcun contenuto conoscitivo. (Carnap, 1956, p. 273)

Il rifiuto del realismo metafisico non è, dunque, qualcosa di specificamente legato agli inosservabili delle teorie scientifiche: le tradizionali compromissioni metafisiche vanno abbandonate sia che si tratti di elettroni o numeri, sia che si tratti di colori, cavalli o tavoli. Detto questo, Carnap sembra, però, disposto ad ammettere la realtà empirica

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degli inosservabili ai quali si riferiscono le teorie scientifiche che accettiamo, proprio come, in base alla sua teoria, non possiamo che ammettere la realtà empirica di alberi e tavolini, se le cornici teoriche che adottiamo quantificano su entità di questo genere. Questa conclusione, però, sembra rendere la posizione di Carnap più che una opzione di neutralità tra realismo e antirealismo scientifico, un modo legittimo ed originale di declinare una forma di realismo scientifico, seppur priva di valenze metafisiche. Infatti, mentre ciò che si chiede all’antirealista scientifico di abbandonare pare costituire un elemento essenziale della sua impostazione di antirealista, al realista scientifico si chiede ‘soltanto’ di non formulare in termini metafisici una dottrina che, spogliata di essi, risulta, in buona sostanza, accettabile per Carnap. Inoltre, uno dei motivi per cui, secondo Carnap, la sua impostazione della questione garantirebbe un superamento del tradizionale contrasto tra realisti e antirealisti sta, come detto, nella parificazione dell’impegno ontologico che, a suo parere, si contrae verso tutte le variabili non logiche effettivamente introdotte entro la cornice concettuale che si adotta31. Infatti, se contrarre un certo impegno di esistenza non è altro che decidere se un certo termine dotato di forza referenziale è parte del sistema teorico che si sceglie, allora non si potrà poi pretendere di introdurre distinzioni fra generi diversi di impegno, in corrispondenza con tipi diversi di variabili. È possibile, però, che questo assunto non sia in accordo con alcune intuizioni, a prima vista plausibili e che, in ogni caso, sono in genere presupposte nel dibattito contemporaneo sul realismo scientifico. Infatti, tale dibattito risulta comprensibile e giustificato solo a condizione che si accetti, almeno in via di principio, la possibilità e la sensatezza di una distinzione, interna alla cornice concettuale che si adotta, tra quelle variabili non logiche che meritano un pieno impegno ontologico, e quelle per le quali tale impegno non è (o non è attualmente) giustificato. Se, invece, accettare una teoria scientifica significasse ipso facto credere esistenti i referenti di tutte le sue variabili quantificate, allora l’intera questione in gioco nella discussione sul realismo scientifico sarebbe probabilmente improponibile, per ragioni che hanno a che fare con il nostro modo di intendere gli impegni ontologici. Si noti, inoltre, che la differenziazione interna relativa agli impegni di esistenza che è qui in questione non fa appello a un concetto metafisico di realtà, ma rimanda soltanto alla necessità di poter distinguere, almeno in linea di principio, tra adottare, impiegare, trovare adeguata una teoria scientifica, e contrarre un impegno ontologico verso tutto ciò cui essa si riferisce. Naturalmente, queste osservazioni critiche nulla tolgono alla rilevanza della proposta di Carnap che, anzi, sembra oggi più che mai al centro di un vasto 31

Cfr. Coffa (1991), p. 363.

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dibattito32. Sul piano storico, vale poi la pena di aggiungere che una prospettiva “irenica”, di reinterpretazione e superamento del conflitto tra realisti e antirealisti sarà difesa anche da Ernest Nagel (1901-1985), autore, tra l’altro, di una delle sintesi di filosofia della scienza più celebri del dopoguerra: The Structure of Science (Nagel, 1961). Nel capitolo dedicato allo status delle teorie scientifiche, Nagel constata che in fatto di realismo scientifico “coloro che rispondono in modi diversi non sono spesso in disaccordo né su questioni comprese nella regione dell’indagine sperimentale, né su punti di logica formale, né su ciò che concerne la procedura scientifica” (Nagel, 1961, p. 149). Egli ritiene, perciò, che le apparenti contrapposizioni dipendano dal fatto che esistono molteplici significati di ‘reale’ e, di conseguenza, molteplici criteri per attribuire o meno realtà a qualcosa. Ma, se il realista metafisico e l’antirealista non concordano sul significato di ‘reale’, è chiaro che potranno sembrare in disaccordo nel giudicare, ad esempio, se un elettrone sia reale o meno, pur avendo in effetti le stesse convinzioni in proposito: “In breve, l’opposizione tra i due punti di vista è un conflitto di preferenze su modi di esprimersi” (1961, p. 160). BOX 2 Il metodo della Ramsey-sentence Tra i metodi presi in considerazione in questa fase da Carnap, in rapporto alla questione del realismo scientifico, vi è anche il cosiddetto metodo di Ramsey (o di Ramsey-Lewis), che deve il proprio nome al logico di Cambridge Frank Plumpton Ramsey (1903-1930; cfr. Ramsey, 1929). Si tratta di una tecnica di logica formale che ci abilita a sostituire i termini non osservativi presenti in una teoria, grazie all’introduzione di variabili quantificate, ciascuna delle quali è caratterizzata da quello stesso set di proprietà che erano attribuite a un ente o una proprietà inosservabili postulati dalla teoria di partenza. Più in specifico, il metodo mira a trasformare una teoria data (TC), che abbia un numero finito di assiomi e sia composta da postulati teorici (T) e regole di corrispondenza (C), in un enunciato della logica del II ordine nel quale, permangono i termini osservativi, ma tutti i termini teorici sono sostituiti da altrettante variabili predicative, esistenzialmente quantificate (enunciato di Ramsey: RTC). Assumiamo, ad esempio, che la nostra teoria di partenza faccia riferimento a entità e proprietà non direttamente osservabili come elettroni, quarks, spin. Con il metodo di Ramsey, procederemo a trasformare i predicati che li designano in altrettante variabili, per cui, ad esempio, ‘elettrone’ sarà sostituito da una variabile quantificata e questa, a sua volta, potrà essere definita facendo riferimento a una serie di ruoli funzionali fissati dalla teoria. In questo modo, l’enunciato al quale giungiamo avrà le stesse conseguenze os32 Si vedano: Creath (1985); Coffa (1991), pp. 359-384; Pasquinelli (a cura di) (1995); Price (1997); Psillos (1999); Id. (2008); Parrini (2002), pp. 173-201; Bird (2003); Friedman (2008); Id. (2011a); Perfranceschi (2010); Blatti-Lapointe (eds.) (2016).

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servative e lo stesso potere esplicativo e predittivo della teoria di partenza; esso, però, non includerà più termini non osservativi, come ‘elettrone’. Carnap è tornato più volte, in forme non sempre coincidenti, sull’uso di questo metodo e Stathis Psillos ha mostrato l’originalità creativa del suo approccio (Psillos, 1999, pp. 48-61). Egli sembra ritenere che, a partire da questa tecnica, sia possibile non tanto rendere sufficiente per la scienza un mero linguaggio osservativo, ma considerare le variabili di un linguaggio teorico (estensionalmente) identiche ad oggetti astratti di tipo logico-matematico, prescindendo, così, dal riferimento a “oggetti fisici inosservabili, come atomi, elettroni, etc.” (Carnap, 1963, pp. 941-942). Tuttavia, non sembra il caso di sopravvalutare la valenza antirealista di questa tecnica, se Carnap stesso scriverà: Con la via adottata da Ramsey per parlare attorno al mondo fisico, termini come «elettrone» spariscono. Ciò non significa in alcun modo che svaniscano gli elettroni, o, più precisamente, che spariscano quelle cose, qualunque esse siano, del mondo fisico che sono indicate con la parola «elettrone». L’enunciato di Ramsey, con i suoi quantificatori esistenziali, continua ad asserire che esiste qualcosa nel mondo esterno che ha tutte quelle proprietà che i fisici assegnano a un elettrone. Esso non ne pone in questione l’esistenza – la «realtà» – piuttosto, propone un modo differente di parlarne. La questione fastidiosa che, così, viene evitata non è «esistono gli elettroni?», bensì «qual è il significato esatto del termine “elettrone”?». (Carnap, 1966, p. 314 = Id., 19742, p. 252)

Si tratta di qualcosa che era stato notato già in precedenza da Carl Gustav Hempel: la proposizione di Ramsey associata a una teoria interpretata evita il riferimento alle entità ipotetiche solo nominalmente, non sostanzialmente, col rimpiazzare costanti simbolizzate da lettere latine con variabili simbolizzate da lettere greche. Infatti, anch’essa asserisce l’esistenza di certe entità […] senza garantire maggiormente che si tratti di entità osservabili o almeno del tutto caratterizzabili in termini di queste. (Hempel, 1958, pp. 159-160)

Dunque, con il metodo di Ramsey più che venir meno il riferimento a quanto è inosservabile, quello che sembra mutare è il modo in cui lo individuiamo, designiamo e caratterizziamo. Non a caso, più di recente, il dibattito sul metodo di Ramsey è ripreso nell’ambito del realismo strutturale (cfr. infra, 4.7-4.8): in tale contesto, infatti, si è avanzata l’idea che le relazioni strutturali inosservabili introdotte da una teoria possano essere analizzate in termini di enunciato di Ramsey, e che l’enunciato di Ramsey di una teoria colga ed esprima adeguatamente il contenuto empirico e strutturale di essa33. È giusto infine menzionare anche un altro metodo formale, per quanto di carattere diverso, che è stato preso in considerazione in vista della eliminazione dei termini non osservativi: esso è legato al teorema di Craig, dimostrato nel 1953, dal logico statunitense William Craig (1918-2016). Da esso si ricava come esista una procedura 33

Cfr. Worrall (2007), p. 147; Frigg-Votsis (2011), § 3.3.

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effettiva tale per cui da ogni teoria del primo ordine che possieda una lista finita di assiomi (fissabile attraverso una procedura di tipo ricorsivo) si può ottenere una teoria funzionalmente equivalente, i cui assiomi sono formulati avvalendosi solo di uno specifico sottoinsieme del vocabolario della teoria originaria: ad esempio, solo del vocabolario osservativo della teoria di partenza. Così, la teoria ottenuta potrà rimpiazzare la prima, almeno in linea di principio, senza perdite di contenuto sul piano delle conseguenze osservabili34.

2.9. Quine: relatività ontologica, naturalismo e olismo La riflessione di Carnap che abbiamo appena ripercorso matura anche grazie al suo confronto con il pensiero di Willard Van Orman Quine (1908-2000), un filosofo, a sua volta segnato dalla lezione di Carnap, che fu lungamente attivo presso la Harvard University e straordinariamente influente. Qui ci occuperemo solo di alcuni aspetti del suo pensiero, particolarmente rilevanti in rapporto al nostro tema35. Un tratto significativo è legato al modo in cui Quine, rielaborando la lezione di Russell, concepisce l’impegno ontologico. Infatti, scrive Quine: si può dire che riconosciamo un’entità di un certo tipo se e solo se pensiamo che il dominio delle nostre variabili includa una tale entità. Essere è essere il valore di una variabile. (Quine, 1939, p. 137; cfr. Id., 1948, p. 29; Id., 1951, p. 199)

Siamo, cioè, impegnati per l’esistenza di tutti i tipi di entità ai quali si riferiscono le variabili quantificate che compaiono nelle versioni più economiche delle teorie che accettiamo e la cui esistenza è necessaria perché gli enunciati di tali teorie siano veri. Si capisce perché Carnap, nel proporre la tesi secondo cui essere ‘reale’ significa essere un elemento del framework teorico che si adotta, abbia dato atto che “Quine fu il primo a riconoscere l’importanza dell’introduzione di variabili come indice dell’accettazione di entità” (Carnap, 1950, p. 339). Ne segue che anche il programma di Quine di dedurre gli impegni ontologici di una teoria dalla sua sintassi36, rende, in linea di principio, inevitabile l’impegno ontologico per gli inosservabili quando si assumano teorie scientifiche nelle quali la quantificazione su tali tipi di entità è indispensabile. Quine rifiuta, però, la demarcazione, proposta da Carnap, tra questioni interne ed esterne ad una cornice concettuale, nonché tra cornice concettuale e singo-

Si vedano: Craig (1953); Id., (1956); Hempel (1958); Maxwell (1962); Putnam (1965); Dicken (2016), pp. 46-53; Psillos (2017), § 3, e il fascicolo monografico di «Synthese» 164 (2008), n. 3. 35 Per una introduzione d’insieme: Origgi (2000); Orenstein (2002); Hylton (2007); Rainone (2010). 36 L’espressione si deve a: van Fraassen (1991), p. 459. 34

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le teorie ad essa interne (cfr. supra, 2.8)37. Con ciò, egli rifiuta anche l’idea di una contrapposizione netta e fissa tra questioni che sarebbero puramente linguistiche e pragmatiche, ad altre invece di tipo fattuale e conoscitivo38. Allo stesso tempo, anche Quine, come Carnap, conferisce un’importanza decisiva alla dimensione pragmatica nel definire i nostri impegni ontologici. Un tratto significativo della prospettiva ontologica di Quine è, anzi, il modo in cui in essa convivono pragmatismo e naturalismo: al punto che si è potuto parlare di un “realismo naturalistico o pragmatico” (Rainone, 2010, p. 106). In Due dogmi dell’empirismo egli afferma: In quanto empirista, continuo a considerare lo schema concettuale della scienza uno strumento, in definitiva, per predire l’esperienza futura alla luce di quella passata. Gli oggetti fisici sono introdotti dal punto di vista concettuale come utili intermediari – non tramite una definizione in termini di esperienza, ma semplicemente come postulati [posits] irriducibili, simili, dal punto di vista epistemologico, agli dèi di Omero. Da parte mia, in quanto fisicalista laico, credo negli oggetti fisici e non negli dèi di Omero; e ritengo che sia un errore scientifico fare altrimenti. Ma dal punto di vista del fondamento epistemologico, gli oggetti fisici e gli dèi di Omero differiscono solo quanto al grado e non quanto al genere. Entrambi i tipi di entità entrano nella nostra concezione soltanto come postulati culturali. (Quine, 1951b, p. 62)

Anche Quine, dunque, esclude l’idea stessa di poter valutare i nostri schemi concettuali (inclusi quelli della scienza) in base ad una loro fantomatica “corrispondenza con la realtà”: Possiamo migliorare a poco a poco il nostro schema concettuale, la nostra filosofia, mentre continuiamo a dipendere da esso in quanto nostro sostegno; ma non possiamo staccarcene e confrontarlo in modo oggettivo con una realtà non concettualizzata. È, quindi, privo di significato, a mio giudizio, indagare la correttezza assoluta di uno schema concettuale come specchio della realtà. (Quine 1950, p. 103)

Il pragmatismo che caratterizza le nostre “decisioni ontiche” sta a dire che esse sono sempre in funzione degli scopi che ci proponiamo di conseguire con le nostre teorie; di conseguenza: “la presente ontologia provvisoria degli oggetti fisici e delle classi sarà immediatamente abbandonata quando troveremo un’alternativa che serva meglio a questi scopi” (Quine, 1966, p. 303). 37 Si veda: Quine (1951a). Per Quine, tra l’altro, la distinzione di Carnap rimanderebbe alla distinzione tra asserzioni analitiche e asserzioni sintetiche, che egli ritiene insostenibile. Quine propone, piuttosto, una distinzione, contestuale e di grado, tra “questioni di categoria” e “questioni di sottoclasse” (1951a, p. 201). 38 Non è qui possibile soffermarsi adeguatamente sulle critiche di Quine a Carnap e sulle sue proposte alternative, si vedano: Origgi (2000), pp. 63-68; Rainone (2010), pp. 39-47; Tripodi (2015), pp. 128-144.

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A questa prospettiva pragmatica Quine unisce, però, la ferma convinzione che quello della scienza sia “il nostro unico schema concettuale serio” (1966, p. 310) e che la descrizione adeguata del mondo sia da ricercare esclusivamente entro tale schema concettuale: “è all’interno della scienza stessa, e non in qualche filosofia che la precede, che la realtà deve essere identificata e descritta” (Quine, 1981, p. 21). In questo senso, per quanto riguarda la domanda su che cosa c’è, “il giudice finale è il metodo scientifico, per amorfo che sia” (Quine, 1960, p. 34). Sarebbe, invece, inutile cercare un punto di vista filosofico ‘fuori’ o ‘sopra’ la scienza, un “esilio cosmico” (come egli lo chiama) dal quale sottoporre a scrutinio l’ontologia delle teorie scientifiche, o distinguere tra quelle meritevoli di interpretazione realista e quelle che non lo sono. Compito della filosofia sarà, semmai, quello di “perfezionare […] dall’interno” il sistema della scienza, cercando di esplicitare, precisare, “ripulire” l’ontologia implicita degli scienziati (1960, p. 336). La conciliazione tra pragmatismo e ontologia naturalista39 è favorita dalla convinzione di Quine che qualunque entità (alberi, numeri, persone etc.) introdotta in qualunque schema concettuale sia un postulato ipotetico che impieghiamo per cercare di organizzare al meglio l’esperienza. Se le cose stanno così, allora ovviamente anche le entità inosservabili introdotte dalla scienza non saranno che postulati e strumenti. Ma, al contempo, esse lo saranno, appunto, in modo strutturalmente analogo a come lo sono anche gli oggetti fisici macroscopici e familiari delle quali parliamo ordinariamente: la postulazione di molecole è diversa dalla postulazione dei corpi del senso comune principalmente nel grado di sofisticazione. In qualunque senso le molecole della mia scrivania sono irreali e una finzione dell’immaginazione dello scienziato, nello stesso senso la scrivania stessa è irreale e una finzione dell’immaginazione della razza. (Quine, 1966, p. 308)

I motivi per cui postuliamo oggetti scientifici sono, anzi, spesso più chiari di quelli per cui, nella preistoria, cominciammo a postulare le cose ordinarie, dando vita a un processo di “reificazione” che la scienza non fa che estendere40. D’altra parte, perfino i dati sensoriali, che dovrebbero essere spiegati dagli oggetti postulati dal senso comune o dalla fisica, sono a loro volta essi stessi dei postulati della teoria psicologica, collegati alla “stimolazione fisica degli organi periferici” (Quine, 1966, p. 309). In ogni caso, l’equiparazione funzionale dei diversi tipi di entità fisiche va nel senso della accettazione tendenziale dell’esistenza sia degli oggetti ordinari (come le scrivanie), sia di entità inosservabili (come le molecole). In entrambi i casi, come detto, l’introduzione entro una teoria di un certo tipo di oggetto fisico 39 40

Cfr. Hylton (2007), pp. 18-23; Rainone (2010), pp. 98-107. Cfr. Quine (1995), cap. 3.

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è funzionale ai benefici epistemici che ne conseguono (ad esempio: semplicità, portata, fecondità etc. delle teorie). Al contempo, secondo Quine, questi benefici “sono la migliore evidenza della realtà che potremmo domandare (in attesa, ovviamente, di evidenza dello stesso tipo per qualche ontologia alternativa)” (1966, p. 309). In altre parole, attraverso le proprie variabili quantificate ogni teoria ci presenta una propria “ontologia provvisoria” e sempre rivedibile, ma “relativamente definita” (1966, p. 303) e nei confronti della quale siamo impegnati, nella misura in cui accettiamo la teoria. Alla luce di tutto ciò, è chiaro che, per Quine, parlare di un oggetto come di un postulato non significa, per ciò stesso, suggerire che esso sia irreale. Il punto, semmai, è che ci troviamo di fronte ad una pervasiva sottodeterminazione empirica delle teorie (cfr. supra, Box 1), ovvero abbiamo spesso evidenze solo parziali, indirette, mutevoli a suffragare le nostre affermazioni circa i corpi fisici ai quali ci riferiamo (si tratti di molecole, o di scrivanie): evidenze, cioè, che sono compatibili anche con un assetto delle cose almeno parzialmente difforme da quanto affermiamo. Questo significa che, rispetto ai dati empirici in nostro possesso, c’è sempre la possibilità di molteplici costruzioni teoriche alternative, perché l’esperienza non determina la teoria in maniera univoca e integrale. Ma, per Quine, la sottodeterminazione è una condizione che non riguarda solo alcune particolari teorie (come quelle che si riferiscono ad inosservabili) ed é, al contempo, una condizione in certa misura insuperabile, cioè, che non vale solo rispetto ai dati che possediamo, ma “persino relativamente a tutta l’osservazione possibile” (Quine, 1975, p. 124). Al contempo, però, egli ritiene che non dovremmo concludere che dove c’è sottodeterminazione, allora c’è per forza finzione, perché altrimenti, proprio per la pervasività della sottodeterminazione, finiremmo, paradossalmente, per poter attribuire “piena realtà solo a un dominio di oggetti per cui non c’è assolutamente alcun sistema autonomo di discorso”41. Tra l’altro, nota Quine, non solo le teorie sono sempre sottodeterminate dall’esperienza, ma gli enunciati di esse (trattino di alberi o di elettroni) “hanno generalmente ben poco o nessun senso empirico se non come frammenti di un sistema globalmente significante che li contiene” (Quine, 1966, p. 311). Si affaccia, così, un terzo aspetto della filosofia di Quine su cui vale la pena di soffermarsi: l’olismo. Un olismo che riguarda sia il piano semantico (cioè, il significato degli enunciati), sia il piano epistemologico (cioè, il controllo empirico del loro valore di verità). Quine denomina riduzionismo il punto di vista secondo cui è possibile attribuire un significato a ciascun singolo enunciato, riconducendolo a certe esperienze immediate, e poi anche sottoporre a controllo empirico il singolo enunciato, separatamente dal resto del sistema teorico al quale esso appartiene. A 41

Quine (1966), p. 312; cfr. Hylton (2007), pp. 320-323.

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questa prospettiva, Quine contrappone una visione del controllo empirico di tipo olistico (dal greco ὅλος/ὅλον: tutto, intero). In base ad essa: le nostre asserzioni sul mondo esterno affrontano il tribunale dell’esperienza sensibile non individualmente, ma soltanto come un corpo unico […] l’unità del significato empirico è la scienza nella sua interezza. (Quine, 1951b, pp. 59-60)

L’immagine della scienza che Quine propone è allora quella di “una costruzione fatta dall’uomo, una costruzione che viene a contatto con l’esperienza soltanto lungo i margini” (ibidem). Quando lungo questi margini sorgono dei conflitti, cioè quando alcuni asserti entrano in conflitto con l’esperienza, allora si impongono degli aggiustamenti, che, però, possono essere di molti tipi differenti e riguardare molte componenti diverse della teoria: non è, infatti, l’esperienza a dettare il da farsi, proprio perché essa sottodetermina il sistema teorico in questione. In linea di principio, sul piano formale, questa possibilità di scelta, secondo Quine è tale che “qualunque asserzione può essere considerata vera, se facciamo aggiustamenti sufficientemente drastici in un’altra parte del sistema” (1951b, p. 61). La visione olistica dei sistemi teorici è conosciuta, a ragione o a torto, come tesi di Duhem-Quine. Infatti, Quine stesso fa appello al punto di vista di Pierre Duhem (cfr. supra, 2.4), secondo il quale non è mai una singola proposizione scientifica, una ipotesi fisica isolata a poter essere testata sperimentalmente. Per Duhem, l’esperienza può indicarci l’inadeguatezza di un certo costrutto teorico complessivo, ma non può dirci dove esattamente si annidi l’errore, né che cosa debba essere modificato, e come: dovrà essere il fisico a scoprire quale sia la “tara” che mina la teoria (Duhem, 19142, p. 243). Questa impostazione si fonda sulla cosiddetta tesi della non separabilità, ossia, sull’idea che una singola ipotesi non possa produrre specifiche previsioni osservative da sé sola, ma soltanto in connessione con l’intero sistema teorico al quale appartiene. Ne segue che essa non possa neppure essere falsificata dalla semplice constatazione che il fenomeno previsto non si è prodotto (tesi della non falsificabilità), poiché “se il fenomeno previsto non si produce, non è soltanto la proposizione contestata ad essere messa in difetto, ma tutta l’impalcatura teorica che il fisico ha usato” (Duhem, 19142, pp. 208-209). Molto si è discusso sulla effettiva coincidenza tra l’approccio di Duhem e quello di Quine, che sembra avere carattere più generale e più radicale42. Quine stesso, da ultimo, ha riconosciuto alcune di queste differenze come, ad esempio, il fatto che il discorso di Duhem si riferisse soltanto alle teorie fisiche. Conte42 Per altro, Duhem non sembra disposto a sotenere, come Quine, che in caso di conflitto del nostro sistema teorico con l’esperienza, possiamo fare aggiustamenti tali, al suo interno, da salvaguardare una qualunque sua asserzione da noi prescelta. Cfr. Ariew (2018), § 2.1.

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stualmente, Quine ha anche rimarcato la loro diversa prospettiva di fondo sulla scienza: una differenza è quella tra l’atteggiamento finzionalista di Duhem verso la fisica e il mio atteggiamento realista. Esso è dovuto al mio naturalismo, che non riconosce verità più alta di quella che cerchiamo nel nostro sistema scientifico complessivo del mondo. (Quine, 19982, p. 619)43

2.10. Bridgman e l’operazionalismo Prima di concludere questo capitolo è giusto dare conto anche del contributo di Percy Williams Bridgman (1882-1961), un illustre fisico sperimentale americano (ricevette il premio Nobel per la fisica nel 1946), che fu anche un teorico originale e, a partire dalla riflessione sul proprio lavoro e sui recenti cambiamenti rivoluzionari avvenuti nella propria disciplina, propose una interpretazione del discorso scientifico nota come operazionalismo, o operazionismo44. Tradizionalmente, secondo Bridgman, i concetti scientifici sarebbero stati definiti o caratterizzati nei termini delle proprietà (effettive o presunte) di quello a cui essi si riferiscono (così, ad esempio, ‘atomo’ designerebbe un tipo di entità con le proprietà x, y, z etc.). Se accettiamo questa impostazione, però, nota Bridgman, nuovi risultati sperimentali e/o nuove teorie potranno sempre portarci a dover ammettere che nel mondo non esiste niente che possegga le proprietà definitorie di alcuni dei concetti scientifici impiegati fino ad allora. Ad esempio, se accettiamo la teoria della relatività di Einstein, il concetto newtoniano di ‘tempo assoluto’ diventa privo di un referente e andrà abbandonato. Proprio perché non si ripetano crisi teoriche di questo genere, l’operazionalismo propone una diversa concezione del significato dei concetti scientifici: quanto determina il significato dei concetti scientifici è, appunto, la loro componente operazionale, cioè quella che individua l’insieme di operazioni necessarie allo scienziato per misurare ciò a cui il concetto si riferisce. Questa componente è necessaria per Bridgman affinché un concetto scientifico abbia significato, e, anche se essa può non esaurirne interamente il contenuto, rimane che: “nelle situazioni di un qualche interesse per me, e penso anche per altri fisici, non è necessario preoccuparsi d’altro che degli aspetti operazionali del significato” (Bridgman, 1969, p. 152). Per questo, in prima approssimazione, si potrà di fatto dire che “i 43 Per il dibattito innescato dalla tesi di Quine: Harding (ed.) (1976); contro l’olismo epistemologico ha argomentato Adolf Grünbaum, a partire da: Grünbaum (1960); per un raffronto tra Duhem e Quine, cfr. Boniolo-Vidali (1999), pp. 397-410; Crupi (2002); Fortino (2005), capp. 6-7; Rainone (2010), pp. 84-86; Ariew (2018), § 2.1. 44 Si veda anche: Chang (2009).

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significati sono operazionali” (ibidem), ossia che “in generale, per concetto noi non intendiamo altro che un gruppo di operazioni; il concetto è sinonimo del corrispondente gruppo di operazioni” (Bridgman, 1927, p. 37), e dunque che “se non si conoscono le operazioni non si conoscono i significati” (Bridgman, 1969, p. 151). Così, ad esempio, “il concetto di lunghezza risulta […] fissato quando sono fissate le operazioni mediante cui la lunghezza si misura” (Bridgman, 1927, pp. 36-37) e, analogamente: “il concetto di tempo è determinato dalle operazioni con cui misuriamo il tempo stesso” (1927, p. 87). Ne consegue che un concetto scientifico al quale non è associato uno specifico gruppo di operazioni risulta privo di significato. Questo sarebbe stato appunto, secondo Bridgman, il caso di un concetto come quello di ‘tempo assoluto’ (e dei concetti assoluti in genere) che oltrepassavano impropriamente i limiti dell’esperienza attuale, cioè i limiti delle possibili operazioni sperimentali effettive. Ma se le cose stanno così, allora non si tratterà tanto di dire che il tempo assoluto in realtà non esiste in natura, quanto di affermare che quello di ‘tempo assoluto’ era un concetto destituito di significato. Per converso, un concetto caratterizzato tramite operazioni univoche e dirette, non sarà mai a rischio di rivelarsi invalido con il procedere dell’attività teorica e sperimentale della scienza, poiché esso è stato definito in termini di operazioni effettive possibili e, dunque, si limita strettamente “all’attuale campo di esperienza”. Inoltre, ogni domanda formulata tenendo presente la caratterizzazione operazionale dei concetti è una domanda alla quale sarà possibile rispondere attraverso un gruppo finito di operazioni. Così per Bridgman: le nostre teorie si riducono in ultima analisi a descrizioni di operazioni realmente eseguite in situazioni reali e perciò non possono portarci su posizioni incompatibili o contraddittorie, in quanto incompatibilità e contraddizione non si verificano nelle situazioni fisiche reali. Risolviamo così di colpo il problema di costruire i nostri fondamentali concetti fisici in modo tale da non doverli più rivedere alla luce di nuove esperienze. (Bridgman, 1936, p. 11)

Si noti, come, ogni volta che ad uno stesso termine si associano gruppi di operazioni non equivalenti, saremo in realtà di fronte a due concetti diversi, pur se denominati tramite la stessa parola, infatti: “nel cambiare le operazioni noi abbiamo effettivamente cambiato i concetti” (Bridgman, 1927, p. 51). Così, ad esempio, è molto diverso il concetto di ‘lunghezza’ che impieghiamo riferendoci ad un oggetto macroscopico come un tavolo, oppure riferendoci al diametro di un elettrone. Possiamo, dunque, dire che per Bridgman non ha significato parlare di una data proprietà fisica senza avere una procedura per determinarla. Al contempo, egli afferma che, quanto a tali procedure, noi abbiamo il dovere e la libertà di scegliere quelle che l’esperienza mostrerà essere per noi più convenienti e op-

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portune nei contesti pratico-sperimentali effettivi (dunque, non in base a semplici analisi epistemologiche teoriche). Data questa impostazione, per Bridgman non avrebbe senso parlare in termini di ‘natura ultima’ o ‘indipendente da noi’ per i correlati di concetti di tal genere. E, in questa ottica, si comprende anche perché Bridgman contesti il carattere reificante di molti concetti fisici, come ‘energia, ‘luce’ etc., che ci induce a trattare al modo di un oggetto statico esterno, ciò che in realtà un oggetto non è (cfr. Bridgman, 1969, pp. 188 segg.). È però anche il caso di ricordare come, se Bridgman afferma che “tutta la nostra conoscenza è in termini di esperienza” (Bridgman, 1927, p. 66), egli ritenga, al contempo, che le strumentazioni tecnologico-sperimentali permettano un’autentica “estensione” dell’esperienza: ragione per cui anche alla scala microscopica sarà possibile sviluppare concetti e conoscenze in senso pieno, almeno tanto quanto è possibile estendere su tale scala le operazioni sperimentali effettive di osservazione. Scrive Bridgman: noi aumentiamo ed estendiamo con l’uso di strumenti il materiale offertoci dai nostri sensi, di modo che l’effettivo significato di alcuni dei nostri più importanti concetti può essere definito solo in termini di operazioni con strumenti. Gli strumenti ottici ci mettono in grado di ampliare il mondo visuale fornitoci dal nostro occhio. Questa estensione può essere di diverso grado. (Bridgman, 1969, p. 365)

Così ad esempio: una goccia d’acqua costituisce una semplice lente d’ingrandimento con la quale si possono distinguere in un filo ritorto le singole fibre, troppo piccole per essere viste a occhio nudo, ma che tuttavia sappiamo esserci perché ce la mettiamo noi stessi quando prepariamo il filo. Qui abbiamo una prova della “realtà” dell’oggetto fuori dalla portata dei nostri sensi […] Queste esperienze giustificano l’estensione del concetto di mondo reale oltre la portata della nostra vista. (ibidem)

Possiamo, dunque, considerare la posizione di Bridgman come una forma di realismo operativo-sperimentale. Abbiamo con ciò concluso la panoramica sommaria di alcuni dei principali autori, temi e argomenti che hanno accompagnato il sorgere e il radicarsi del dibattito sul realismo scientifico. Nei prossimi capitoli avremo modo di vedere, tra l’altro, come, in molti casi, quelli esaminati non siano solo aspetti importanti della storia passata della filosofia della scienza, ma contributi per più versi ancora importanti alla riflessione in corso.

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CAPITOLO 3 TRA REALISTI E RIVOLUZIONARI

In questo capitolo affronteremo alcuni importanti sviluppi del dibattito sul realismo e l’antirealismo nel trentennio circa che va dagli inizi degli anni ’50 alla fine degli anni ’701. Attorno alla metà del Novecento si assiste ad una significativa diffusione di prospettive realiste in filosofia della scienza, dovuta a esperienze e ricerche solo in parte collegate e convergenti, ma che danno il tono almeno ai primi anni della fase trattata in questo capitolo. Successivamente, nuovi argomenti e nuove proposte di tipo realista e di tipo antirealista si intrecciano e convivono (come suggerisce il titolo del capitolo), di modo che sarebbe probabilmente una forzatura voler stabilire una linea di tendenza prevalente e più significativa. Per ragioni espositive si è, però, preferito rendere conto prima di alcuni dei principali sviluppi di carattere realista che caratterizzano questa fase e poi di quelli di carattere antirealista. Questo non deve indurre a credere che il trentennio qui preso in esame veda un andamento lineare dal predominio di posizioni realiste all’imporsi di quelle antirealiste2. Del resto, il succedersi dei paragrafi non corrisponderà sempre alla linea cronologica degli eventi: così, ad esempio, il no-miracles argument di Putnam, pur venendo qui esposto prima della riflessione di Kuhn sulle rivoluzioni scientifiche, è ad essa posteriore di più di un decennio. Di seguito, dunque, ricapitoleremo alcuni aspetti di questa iniziale tendenza realista (3.1), mentre nei paragrafi successivi (3.2-3.4) ci soffermeremo singolarmente su alcuni filosofi e argomenti centrali per l’approccio realista nei decenni in questione, per poi analizzare autori e temi che mettono in discussione, o addirittura rifiutano apertamente, l’orientamento realista nel guardare alla scienza e alla sua storia (3.5-3.8).

1 Si tenga però presente che due degli autori che, per ragioni espositive, sono stati trattati nel precedente capitolo, cioè Carnap e Quine, sono attivi anche (Carnap), o soprattutto (Quine) in questi anni. 2 Secondo Psillos (2017), anzi, negli anni ‘70 si sarebbe prodotto un “realist turn” in filosofia della scienza, in ragione di argomenti come il no-miracles argument (cfr. infra, 3.4).

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3.1. Una stagione ‘neo-realista’ Un primo aspetto che favorisce la prospettiva realista sulla scienza si lega alla direzione prevalente assunta negli Stati Uniti dalla tradizione che si richiama all’empirismo logico. Come abbiamo visto, su diverse tematiche rilevanti sono già gli stessi protagonisti della prima fase di questo movimento ad approdare, nel corso degli anni, a una ‘liberalizzazione’ che va molto oltre gli esiti della prima fase della loro ricerca. Al contempo, la generazione degli esponenti più giovani della tradizione empirista svolge un ruolo molto influente nel superamento di quella che, a torto o a ragione, è vista come la received view neopositivista circa la natura e il funzionamento della conoscenza scientifica3. Si diffonde, infatti, in questi anni una duplice tendenza: da un lato, (a) quella a ritenere che ci siano ottime ragioni pragmatiche per “scegliere il framework realista” (Psillos, 2011a), cioè per decidere di adottare una cornice concettuale per la scienza che vada nel senso del realismo empirico e, dunque, entro la quale sia possibile riferirsi ad inosservabili;4 dall’altro, (b) quella a ritenere che termini e asserti teorici abbiano un riferimento fattuale a inosservabli e un significato che eccede il piano osservativo: essi sono dunque, al contempo, dotati di valore di verità, ineliminabili e irriducibili al discorso osservativo. Naturalmente, non mancano filosofi, come Gustav Bergmann (1906-1987), tenacemente legati all’idea che l’ontologia debba basarsi su un “principle of acquaintance” e che le teorie scientifiche non comportino alcun impegno circa l’esistenza delle entità teoriche5. Ma quelle indicate sopra appaiono come le linee di tendenza prevalenti, al punto che Wesley Salmon parlerà di alcuni tra i principali esponenti di questa generazione come di “empiricist/ realists” (Salmon, 2005, p. 18). In questo senso, può essere considerato emblematico il percorso di Herbert Feigl (1902-1988), allievo di Schlick e, una volta emigrato negli USA, fondatore del Minnesota Center for the Philosophy of Science. Già nel 1935, in un intervento dal titolo rivelatore, Sense and Nonsense in Scientific Realism, aveva sostenuto, in accordo con le idee di Schlick e Carnap, che l’unico significato possibile e accettabile di ‘reale’ è quello empirico, di carattere non metafisico6. Successivamente, il notevole saggio programmatico Logical Empiricism sembra costituire il manifesto di una nuova fase nella vita di quel movimento: una fase segnata maggiormente da un’attitudine ricostruttiva, mentre fin lì, secondo Feigl, aveva prevalso la componente distruttiva e riduttiva (come, in certa misura, sarebbe inevitabile quando Cfr. supra, 2.6; si veda anche: Pagnini (1999), pp. 695-696. Si tratta di una posizione di fondo in consonanza con l’opzione pragmatica di Reichenbach per un framework realista (cfr. supra, 2.7), e, in certa misura, anche con alcune idee coeve di Carnap. 5 Cfr. Bonino (2009). 6 Cfr. Feigl (1936); sul pensiero di Feigl: Psillos (2011a); Neuber (2014); Id. (2017), § 3.2. 3 4

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un movimento di “giovani iconoclasti” deve affermarsi). Dunque, si tratterà, da lì in poi, di evitare di maneggiare il rasoio di Ockham con troppa disinvoltura7. Per le questioni che ci interessano più da vicino, la via sembra a Feigl già aperta dal “realismo empirico”, adottato “dalla maggioranza degli empiristi logici” (Feigl, 1949, p. 15). Esso permette a buon diritto di considerare reale “ciò che è collocato nello spazio-tempo e costituisce un anello entro le catene di relazioni causali” (1949, p. 16) e, dunque, anche le entità non direttamente osservabili introdotte dalle nostre migliori teorie scientifiche. È poi nel saggio del 1950 Existential Hypotheses. Realistic versus Phenomenistic Interpretations che troviamo, espressa in termini più tecnici, “l’idea del Feigl maturo circa la sintesi tra realismo scientifico ed empirismo logico” (Neuber 2014, § 3). Feigl muove dalla convinzione che non sia possibile liberarsi del contrasto tra realisti e anti-realisti, ad esempio etichettandolo come uno pseudo-problema (cfr. Feigl, 1950a, p. 36). Dovendo, quindi, inevitabilmente affrontare la questione, egli propone una forma di realismo semantico e pragmatico. Se esaminiamo le nostre teorie scientifiche ci accorgiamo che la scelta di ricorrere a concetti e asserzioni che vertono su inosservabili si è rivelata assai utile e fruttuosa dal punto di vista empirico, al punto da risultare essenziale per il conseguimento degli obiettivi che tipicamente caratterizzano l’indagine scientifica. D’altra parte, non appare sostenibile la pretesa di ridurre/tradurre tutti questi asserti teorici in asserti osservativi, per legittimarli. Infatti, gli asserti (e i termini) non osservativi hanno un loro irriducibile “surplus di significato” rispetto a tutto ciò che è accertabile e asseribile sul piano osservativo: e questo surplus si lega appunto al loro “riferimento fattuale” ad entità non osservabili8. In altre parole: Feigl era convinto che termini come ‘atomo’, ‘forza’ o ‘campo elettromagnetico’ non possano essere ridotti a termini puramente osservativi che descrivono le nostre esperienze dirette […] ad esempio, il riferimento del termine ‘atomo’ sarebbero gli atomi reali e non degli esempi di ‘costruzioni logiche’ sorti a partire dai dati sensoriali (o da altri tipi di cose direttamente percepibili). (Neuber 2014, § 3)

Dunque, ragioni pragmatiche ci inducono a decidere di accettare una cornice concettuale per la scienza che includa il discorso su inosservabili; inoltre, l’analisi semantica di questo genere di discorso ci porta a riconoscerne il carattere genuinamente referenziale e la irriducibilità. Non sarà più, dunque, l’osservabilità o la riducibilità ad osservabili a fungere quale criterio di ammissibilità di un certo tipo di entità teoriche entro il quadro della nostra descrizione scientifica del mondo, ma il contributo decisivo che il rimando a tali entità ci procura sul 7 Cfr. Feigl (1949), p. 13; il saggio apparve in prima versione nel 1943 e fu quindi ripubblicato nel 1949 in apertura della raccolta Readings in Philosophical Analysis. 8 Feigl (1950a), p. 48 (corsivo nell’originale); si veda anche: Id. (1950b).

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piano esplicativo, predittivo etc. Giungiamo così a legittimare la possibilità di impegnarci in favore della realtà empirica degli inosservabili. Anche Carl Gustav Hempel (1905-1997), per quanto dissenta dalla specifica proposta di Feigl (cfr. Hempel, 1950), si muove in quegli anni nella direzione di una forma di realismo sematico, stando al quale i termini teorici hanno riferimento fattuale ad inosservabili, e danno vita a enunciati su inosservabili dotati di valore di verità, indispensabili per la scienza e irriducibili. In particolare, nel saggio del 1958 The Theoretician’s Dilemma (Il dilemma dello scienziato teorico) egli si chiede se nella scienza “lo sconfinamento in un dominio di cose, di eventi, o di caratteristiche non direttamente osservabili possa venir del tutto evitato” (1958, p. 115). A prima vista, l’analisi di Hempel sembra condurre verso una risposta positiva a questo quesito. Infatti, egli giunge alla formulazione di un suggestivo paradosso, chiamato, appunto, paradosso dello scienziato teorico (o “paradosso delle teorie”) e la cui premessa centrale sembra ispirata a risultati come quello di Craig (cfr. supra, Box 2). Si affema che: se i termini e i principi generali di una teoria scientifica rispondono allo scopo, cioè stabiliscono precise connessioni tra i fenomeni osservabili, possono venir omessi, dato che ogni catena di leggi e di proposizioni interpretative assolvente tale compito è rimpiazzabile con una legge collegante direttamente antecedenti e conseguenti osservativi. (Hempel, 1958, p. 116)

Da ciò segue facilmente che, se i termini teorici rispondono al compito, allora sono superflui (nel senso di eliminabili), ma, se non rispondono allo scopo, allora lo sono a maggior ragione: dunque, lo sono in ogni caso. Si tratta di una conclusione paradossale, ma che, secondo Hempel, non è cogente e sarebbe, anzi, basata su di una “falsa premessa” (1958, p. 168). Infatti, egli sottolinea, “attualmente non siamo certo in grado di formulare dei definientia osservativi per tutti i termini teorici di uso corrente, né, quindi, sappiamo come rendere questi superflui in linea di principio” (1958, p. 145). Più in specifico, secondo Hempel, neanche proposte come quella di Craig (e ancor meno quella di Ramsey) ci permettono di rimpiazzare in modo soddisfacente tutti i termini osservativi presenti nelle nostre teorie, senza perdere in efficacia, fecondità euristica ed elasticità (cfr. 1958, § 23). Perciò, in conclusione, sembra corretto, su basi pragmatiche, giungere a una conclusione favorevole all’adozione di un framework realista. Infatti: nella misura in cui la utilizzabilità a scopo di sistematizzazione induttiva, la economicità, e la fertilità euristica sono ritenute caratteristiche essenziali di una teoria scientifica, è impossibile rimpiazzare i termini teorici con formulazioni in termini di semplici osservabili senza che ne derivino notevoli svantaggi. (Hempel, 1958, p. 168)

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In questa fase storica, si assiste, però, anche a una più radicale messa in discussione della distinzione netta e stabile tra linguaggio osservativo e linguaggio teorico. E anche questo tende ad andare a vantaggio di una forma di realismo scientifico. Infatti, la messa in dubbio di una separazione netta tra i due linguaggi sembra portare con sé l’idea che non sia possibile impegnarsi per l’esistenza di ciò di cui parliamo nel primo tipo di linguaggio, e negare, invece, l’esistenza di quanto apparterrebbe al piano del discorso cosiddetto teorico. Un argomento in favore della relativizzazione di questa distinzione è basato sull’idea che non esista una linea di demarcazione netta e immutabile tra quanto è osservato e quanto, invece, è solo postulato, o inferito. Ad esempio, un realista come Grover Maxwell (1918-1981) ha sostenuto, in un celebre articolo sullo statuto ontologico delle entità teoriche, che vi sia una sostanziale continuità tra episodi chiaramente osservativi come vedere/vedere attraverso una finestra/vedere attraverso le lenti di un paio di occhiali, e casi tradizionalmente considerati più problematici, come vedere attraverso certi tipi di microscopi (cfr. Maxwell, 1962, p. 7). Dunque, non esisterebbe un confine oggettivo, definito e immutabile tra quanto pertiene all’osservazione e quanto invece alla teoria, vi sarebbero solo delle distinzioni contingenti e contestuali, valide finché non mutano le condizioni scientifico-tecnologiche e percettive di riferimento. La linea di distinzione tra osservabile e inosservabile sarebbe in continuo movimento, perché la tecnologia amplia costantemente il novero di ciò che possiamo considerare osservabile (con strumenti). Questo comporta anche che, in ultima analisi, risulta impossibile individuare quale sia il linguaggio osservativo e demarcarlo stabilmente da quello teorico, tanto è vero che per Maxwell “qualunque termine (non logico) è un possibile candidato come termine osservativo” (1962, p. 11). Egli propone, anzi, di reinterpretare i termini osservativi, intendendoli non più come termini che si riferiscono a fenomeni ‘osservabili’, ma come termini descrittivi che figurano negli “enunciati rapidamente decidibili” (l’espressione è di: Feyerabend, 1958), cioè in quegli enunciati che un soggetto competente può decidere immediatamente e senza ragionamenti inferenziali se asserire o meno, quando descrive un’esperienza. La classe degli enunciati rapidamente decidibili non è fissata una volta e per sempre: l’evoluzione della scienza, infatti, può renderci capaci di descrivere istantaneamente una nostra esperienza con termini scientifici ignoti alle generazioni precedenti, o che, comunque, i nostri antenati non erano in grado di impiegare in asserti osservativi non inferenziali. Quella di Maxwell è, dunque, una mossa che va nella direzione di depotenziare il legame tra linguaggio/enunciati osservativi e una classe ben definita di fenomeni, allo scopo di far emergere l’implausibilità di un impegno ontologico differenziato a seconda che si abbia a che fare con la componente osservativa di una teoria, oppure con quella non osservativa. In definitiva, la linea divisoria tra osservativo e teorico:

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è un fatto accidentale dipendente dalla nostra dotazione fisiologica, dallo stato attuale delle nostre conoscenze e dalle strumentazioni di cui disponiamo e, di conseguenza, non ha alcun significato ontologico. (Maxwell, 1962, pp. 14-15)9

Può essere interessante ricordare che, in una fase successiva, Maxwell tornerà a riconsiderare la natura e il ruolo della distinzione tra osservabile e inosservabile (cfr. Maxwell 1970a; Id., 1970b). E si può anche aggiungere che il suo realismo si declinerà sempre più come realismo strutturale (ossia, limitato alle caratteristiche strutturali del mondo fisico), ispirandosi apertamente a Russell e a Ramsey; la stessa adozione dell’espressione ‘realismo strutturale’ si deve a lui10. Un ulteriore aspetto connesso alla fortuna del realismo scientifico in questi anni è l’emergere della cosiddetta scuola dei realisti australiani, tra i protagonisti della quale possiamo ricordare in particolare John L. Mackie (19171981), John (Jack) Smart (1920-2012), David Malet Armstrong (1926-2014) 11. In particolare, Smart, australiano di adozione, pubblica nel 1963 l’influente Philosophy and Scientific Realism, che riprende i contenuti di lavori apparsi nel decennio precedente, prospettando una interpretazione realista della scienza e accordando un certo spazio non solo alla fisica, ma anche alla biologia e a problemi di psicologia e filosofia della mente. Smart intende mostrare come, su un piano filosofico, “le particelle elementari della fisica siano entità altrettanto rispettabili dei tavoli e dei galvanometri” (Smart, 1963, p. 27). Secondo Smart, il compito del filosofo non è quello di difendere la realtà di questa o quella entità inosservabile: spetterà, infatti, alla fisica stabilire quali siano esattamente le entità microscopiche presenti nel nostro mondo. Compito del filosofo sarà, invece, esclusivamente mostrare come non ci sia niente che ostacoli, in linea di principio, la piena legittimazione ontologica delle entità teoriche dei fisici. Si tratterà, cioè, di superare le resistenze di principio a proseguire la serie: stelle, pianeti, montagne, case, tavoli… microbi; aggiungendo elettroni, o quant’altro di inosservabile la fisica ci insegnerà che esiste (cfr. 1963, p. 36). A favore del realismo, Smart porta, tra l’altro, il seguente argomento: se, nonostante la scienza fisica funzioni, avessero ragione coloro che interpretano gli inosservabili come semplici finzioni, allora ci troveremmo di fronte a una “coincidenza cosmica” (1963, p. 39; corsivo nell’originale). Infatti, solo se la teoria ci dice come è fatto il mondo, allora non è sorprendente che essa funzioni; se, invece, essa funzionasse senza, però, cogliere la vera realtà delle cose, allora saremmo davanti a un caso troppo fortunato per non essere stupefacente. Troviamo in questa Su questa analisi, cfr. Kosso (1989), pp. 8-12. Maxwell (1970a), p. 192; su questa impostazione: Psillos, 2001; sul realismo strutturale, si veda: infra, 4.7-4.8. 11 Per il pensiero di Armstrong: Armstrong (1978); Id. (1983); cfr. Calemi (ed.) (2016). 9

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inferenza di Smart il nucleo essenziale del cosiddetto no-miracles argument in favore del realismo, che esamineremo più avanti (cfr. infra, 3.4). BOX 3 Abduzione e inferenza alla miglior spiegazione Spesso gli argomenti dei realisti scientifici fanno appello a un genere di ragionamento chiamato inferenza alla miglior spiegazione (sulla scorta di: Harman, 1965) e anche, più genericamente, abduzione (sulla scorta di Charles Sanders Peirce, che la impose all’attenzione e le attribuì particolare importanza)12, oppure retroduzione. Con inferenza alla miglior spiegazione (IMS) si intende un ragionamento in base al quale, dal fatto che una ipotesi sia la migliore spiegazione disponibile di un dato stato di cose, si inferisce la verità di tale ipotesi (cfr. Lipton, 1991; Id., 2013). Adattando uno schema già presente in Peirce, possiamo articolare questa inferenza nel modo seguente: – Si dà il caso che A, e nessuna conoscenza già disponibile spiega in modo soddisfacente A13; – Ma se assumiamo l’ipotesi T, allora A risulterà spiegato al meglio delle nostre attuali possibilità; – Dunque, abbiamo ragione di inferire che l’ipotesi T sia vera. Lipton ha osservato che, in base all’IMS, “le ipotesi sono suffragate da quelle stesse osservazioni di cui si suppone che ci diano la spiegazione” (Lipton, 2013, p. 226). Adattando questo tipo di ragionamento al tema che ci interessa, diremo ad esempio: – Viene rilevato in natura un certo fenomeno fisico sorprendente (o un certo insieme di dati sorprendenti) che desideriamo spiegare; – Una teoria fisica, che fa riferimento a certi processi, entità, relazioni inosservabili, costituisce la migliore tra le spiegazioni di quel fenomeno disponibili al momento; – Dunque, abbiamo ragione di inferire che quella data teoria sia vera e che esistano realmente i processi, le entità, le relazioni inosservabili ai quali essa fa riferimento. Quando poi l’IMS viene impiegata a sostegno di un atteggiamento complessivo verso la scienza, essa risulterà generalizzata in questa forma: – Si rilevano in natura innumerevoli fenomeni sorprendenti (o insiemi di dati sorprendenti) che desideriamo spiegare; – In linea generale, le nostre migliori teorie scientifiche costituiscono la miglior spiegazione disponibile in materia; – Dunque, in linea generale, abbiamo ragione di inferire che le nostre migliori teorie scientifiche siano vere. Da un punto di vista, puramente logico, l’IMS non è, come detto, un’inferenza di tipo deduttivo e non sembra costituire un tipo di ragionamento cogente, cioè un’in12 13

Cfr. Peirce (SC), specie pp. 565-587; Fadda (2013), cap. 5, pp. 89-101. Peirce definirebbe A un “surprising fact” (cfr. Peirce, CP, § 189, p. 117).

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ferenza per cui, data la verità delle premesse, segua necessariamente la verità della conclusione. Al contempo, è indubbio che si tratti di un tipo di inferenza razionale, ordinariamente impiegata nel contesto della ricerca scientifica. Alcuni suoi sostenitori hanno proposto di considerarla, in un’ottica moderata, come una argomentazione che permette di concludere almeno che la miglior spiegazione disponibile è quella che è più ragionevole considerare vera, o che è più probabile che sia vera. Qualunque cosa se ne pensi, la forza dell’IMS nel supportare un’interpretazione realista della scienza pare dipendere, tra l’altro, dalla presenza o assenza di possibili alternative alla ‘miglior spiegazione’ disponibile, nonché dalla effettiva forza esplicativa che si riconosce a quest’ultima. In quest’ottica, ha osservato van Fraassen, come possiamo essere certi che quella che noi adesso consideriamo la miglior spiegazione lo sia in assoluto, e non semplicemente rispetto alle alternative disponibili? Come possiamo, cioè, escludere che essa sia solo la meno insoddisfacente tra le spiegazioni, tutte lontane dal vero, attualmente in nostro possesso (“the best of a bad lot”)? D’altra parte, più volte, nel corso della storia, gli scienziati di una data epoca non sono stati in condizione di concepire alternative a quella che, in quel momento, appariva come la miglior spiegazione, ma che, in seguito, è stata soppiantata dall’emergere di altre teorie ad essa superiori14. In questo senso, non è forse vero che, se l’IMS fosse stata applicata in passato, avrebbe indotto i nostri avi a considerare vere teorie poi rivelatesi false, solo perché allora rappresentavano la migliore spiegazione disponibile? A queste osservazioni, alcuni critici dell’IMS aggiungono l’argomento secondo cui non c’è motivo di pensare che i fattori che, plausibilmente, rendono migliore, sul piano epistemico, una spiegazione rispetto ad un’altra (la semplicità, l’economicità, la ricchezza di connessioni teoriche, etc.), debbano renderla anche più probabilmente vera. Alcuni difensori dell’IMS, invece, hanno ritenuto che essa possa costituire un valido argomento a sostegno del realismo scientifico in una versione opportunamente qualificata e rinforzata. In particolare, si tratterebbe di imporre come vincolo che l’ipotesi la cui verità è in gioco “non sia solo la migliore tra le potenziali spiegazioni disponibili, ma sia anche soddisfacente (Musgrave) o sufficientemente buona [good enough] (Lipton)”15. Inoltre, un realista potrebbe ritenere che l’inferenza alla miglior spiegazione sia particolarmente persuasiva una volta coniugata con la convinzione che, se le nostre migliori spiegazioni scientifiche non fossero vere, il loro successo pratico sarebbe qualcosa di inspiegabile. Si tratta del cosiddetto no miracles argument, che esamineremo in seguito e che può essere a sua volta considerato anche come un caso sui generis di inferenza alla miglior spiegazione (cfr. infra, 3.4).

14 È questo l’argomento delle “unconceived alternatives” di Stanford (2006), al quale abbiamo fatto cenno nel Box 1. 15 Douven (2017), § 2.

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3.2. Popper: le migliori teorie scientifiche come buone approssimazioni alla verità Avendo trattato nelle pagine precedenti del processo di ‘liberalizzazione’ e/o superamento di alcune tesi rilevanti nella storia dell’empirismo logico, può essere utile soffermarsi ora brevemente anche sul contributo di Karl Raimund Popper (1902-1994), probabilmente il più noto al largo pubblico tra i filosofi della scienza attivi in questo periodo. La prima opera importante di Popper, la Logica della scoperta scientifica (1934), era stata, infatti, uno dei principali attacchi all’impostazione dell’empirismo logico, al punto che, per lungo tempo, è invalsa l’immagine (encomiastica) di Popper come di colui che avrebbe ‘ucciso’ l’empirismo logico, un movimento che egli aveva potuto conoscere direttamente, essendosi formato nella città e negli anni del Circolo di Vienna. La Logica della scoperta scientifica conteneva, tra l’altro, la celebre critica popperiana della logica induttiva e la sua difesa della falsificabilità (al posto della verificabilità), quale criterio capace di distinguere (o demarcare) asserzioni empiriche di tipo scientifico, rispetto a quelle di carattere metafisico (che non sarebbero falsificabili). Già in quella sede, Popper concludeva la propria trattazione negando alla scienza di poter essere vera, certa, definitiva: “La nostra scienza non è conoscenza (episteme): non può mai pretendere di aver raggiunto la verità, e neppure un sostituto della verità, come la probabilità”. Al contempo, però, Popper aggiungeva anche: e tuttavia la scienza ha qualcosa di più che un semplice valore di sopravvivenza biologica. Non è solo uno strumento utile. Sebbene non possa mai raggiungere né la verità né la probabilità, lo sforzo per ottenere la conoscenza, e la ricerca della verità, sono ancora i motivi più forti della scoperta scientifica. (Popper, 1934, § 85, p. 308)

Alla luce di questa concezione giovanile, nel dare sinteticamente conto delle idee di Popper in fatto di realismo scientifico, ci limiteremo a fare riferimento a due suoi testi particolarmente connessi al tema: l’importante saggio Tre differenti concezioni della conoscenza umana (compreso in Congetture e confutazioni: Popper, 1965) e il primo volume del Poscritto alla Logica della ricerca scientifica, ampiamente dedicato (nella prima parte) a tematiche di questo genere e che ha per sottotitolo: Il realismo e lo scopo della scienza (Popper, 1983). Il Poscritto, come rileva il Curatore, è un’opera che mira a “correggere, estendere e sviluppare” i contenuti del volume del 1934 al quale abbiamo fatto cenno e, anche se fu scritto “soprattutto durante gli anni 1951-56” (Popper, 1983, p. 11), è stato pubblicato solo molti anni dopo, nel 1983. In primo luogo, possiamo ricordare che Popper si schiera a favore del realismo metafisico, qui inteso come tesi dell’esistenza reale di un universo indipen-

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dente da noi. Infatti, anche se esso in ultima analisi “non è né dimostrabile, né confutabile”, Popper crede nel realismo metafisico e ritiene che vi siano fortissimi argomenti in suo favore, così come ve ne sarebbero per mostrare l’assurdità dell’idealismo16. Per Popper, anzi, il realismo metafisico “costituisce una sorta di retroterra che motiva la nostra ricerca della verità” (1983, p. 116). Quanto poi alla ricerca scientifica e alla sua capacità di conoscere questa realtà, Popper muove dalla convinzione che, al giorno d’oggi, l’antirealismo sia divenuto la concezione prevalente della scienza. Addirittura, secondo Popper: il punto di vista strumentalistico (come io lo chiamerò) è diventato un dogma riconosciuto […] Esso può ben dirsi oggi il «punto di vista ufficiale» della teoria fisica, giacché è condiviso dalla maggior parte dei più importanti teorici della fisica (per quanto facciano eccezione Einstein e Schrödinger). (Popper, 1965, p. 173)

Lo strumentalismo prevarrebbe tra i fisici, soprattutto perché darebbe l’illusione di essere un modo di tenersi lontani dalla filosofia. Secondo Popper, però, lo strumentalismo rappresenta una rottura radicale e pericolosa rispetto a quella che egli chiama la “concezione galileiana della scienza” (1965, p. 179) e in base alla quale la scienza non mira ad essere solo uno strumento utile, ma anche una descrizione vera delle cose: lo scienziato mira a trovare una teoria o descrizione vera del mondo (e soprattutto delle regolarità che presenta, o «leggi») che costituisca anche una spiegazione dei fatti osservabili. (Popper, 1965, pp. 179-180; corsivi nell’originale)

Questa concezione della scienza è anche quella che Popper fa propria: “Mi schiero con Galileo contro lo strumentalismo”17. La critica dello strumentalismo è per lui essenziale anche in rapporto all’opzione per il falsificazionismo, perché egli ritiene che le teorie non potrebbero, in linea di principio, essere confutate e falsificate se fossero soltanto strumenti di previsione (cfr. Popper, 1965, pp. 194-197). La difesa della concezione galileiana della scienza, da parte di Popper è, però, accompagnata da una duplice cautela. Da un lato, che la scienza miri a darci una descrizione vera del mondo non significa che possa giungere all’essenza delle cose (per questo l’adesione al realismo si sposa con il rifiuto dell’essenzialismo). Secondo Popper, anzi, lo strumentalismo di molti filosofi del passato si spiegherebbe proprio come conseguenza della convinzione che la scienza non sia in grado di cogliere l’essenza delle cose e di dare spiegazioni ultime: convinzione giustificata e condivisibile, ma, osserva Popper, è un errore passare dall’affermare 16 17

Cfr: Gattei (2008), pp. 133-135. Popper (1965), p. 202; cfr. Id. (1983), p. 141.

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che la scienza non descrive l’essenza ultima delle cose, ad affermare che, dunque, essa è solo uno strumento che non descrive nulla. D’altra parte, secondo Popper, non è mai possibile giungere alla certezza circa la verità delle teorie scientifiche che attualmente accettiamo. Non possiamo, cioè, mai considerarle più che congetture o ipotesi: noi siamo quindi sempre alla ricerca di una teoria vera (vera e rilevante), anche se non possiamo mai esibire delle ragioni (ragioni positive) per mostrare di aver effettivamente trovato la teoria che stavamo cercando. (Popper, 1983, p. 63)

Allo stesso tempo, però, afferma Popper, “sostengo che descrivere una teoria come migliore di un’altra, o superiore ad essa, o che altro, equivale ad indicare che essa appare più vicina alla verità” (1983, pp. 62-63). In altre parole, anche se non possiamo mai dare per sicura la verità di una teoria scientifica, l’adozione di una teoria scientifica ben corroborata, a preferenza di altre, si lega alla credenza ragionevole che essa sia non solo più utile e più potente delle alternative, ma anche più dotata di “somiglianza alla verità [truthlikeness] (o «verisimilitudine» [verisimilitude])” (1983, p. 93; corsivo nell’originale). Così, afferma Popper: ciò che noi crediamo (a torto o a ragione) non è che la teoria di Newton o quella di Einstein siano vere, ma che siano buone approssimazioni alla verità, sebbene passibili di venir soppiantate da altre migliori. (Popper, 1983, p. 93)

L’idea popperiana di verosimiglianza è stata così sintetizzata: diciamo che una teoria è più vicina alla verità di un’altra se e solo se derivano da essa più proposizioni vere ma non più proposizioni false, o almeno altrettante proposizioni vere, ma meno proposizioni false. (Buzzoni, 1982, p. 171)18

A differenza della veridicità, la verosimiglianza è una proprietà graduata e, dunque, potrà essere posseduta in misura maggiore o minore dalle diverse teorie. Questo dovrebbe permettere anche di effettuare valutazioni comparative tra le teorie, seppur con le limitazioni già rilevate: benché possiamo ragionevolmente credere che il modello di Copernico, rielaborato da Newton, sia più vicino alla verità di quello di Tolomeo, non c’è modo di stabilire quanto sia vicino: anche se potessimo definire una metrica per la verisimilitudine […] non saremmo in grado di applicarla a meno di non conoscere la verità, il che è impossibile. (Popper, 1983, p. 97)

18

Cfr. anche: Dorato (2007), pp. 168-170; Gattei (2008), pp. 80-85; Oddie (2014), § 1.2.

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La verità è vista come un’“idea regolativa” (1983, p. 64; corsivo nell’originale) che orienta la ricerca scientifica. Resta da capire se davvero le qualità che rendono una nuova teoria scientifica superiore e preferibile rispetto ad altre possano essere considerate anche motivazioni valide per congetturare e credere (pur senza averne la certezza) che essa sia complessivamente più vicina a quella verità delle cose che non conosciamo e come, altrimenti, si possa giustificare questa convinzione19. Si deve, comunque, rilevare come il ricorso di Popper all’idea di una verosimiglianza delle nostre migliori teorie scientifiche abbia dato un contributo decisivo a promuovere la ricerca in merito20. Si tratta, d’altra parte, di una tematica che concerne tutte quelle interpretazioni che suppongono vi sia un progresso della scienza verso la verità, ma, al contempo, fanno di quest’ultima una meta ideale, non raggiunta al presente e, forse, mai pienamente conseguibile (cfr. infra, Box 4). BOX 4 La verità come meta ideale dell’indagine scientifica? Di fronte ai limiti mostrati dalle teorie scientifiche passate o anche presenti, diversi filosofi hanno sostenuto come la veridicità non sia una proprietà che possiamo attribuire alle teorie scientifiche in nostro possesso, quanto piuttosto un limite ideale al quale la ricerca scientifica, con la sua capacità autocorrettiva, tende ad avvicinarsi sempre più, senza però che vi sia un momento in cui esso è compiutamente conseguito. In genere, si fa risalire questa visione del sapere scientifico al filosofo statunitense Charles Sanders Peirce (1839-1914), che scrisse tra l’altro: “La verità è quella concordanza di un’asserzione astratta con il limite ideale verso cui una ricerca senza fine tenderebbe a condurre l’opinione scientifica […]” (Peirce, CP, 5.565, p. 394), e ancora: “L’opinione il cui fato è che da ultimo si trovino d’accordo su di essa tutti coloro che indagano, è ciò che intendiamo per verità, e l’oggetto rappresentato in quest’opinione è il reale” (Peirce, 1878, p. 224). Secondo Peirce, in altri termini, abbiamo motivo di sperare che con il continuo avanzare della ricerca scientifica l’errore diminuisca, un po’ come in matematica, quando dobbiamo approssimare la costante π con un valore numerico finito, potremo avere un risultato tanto più corretto, quanto più aggiungiamo decimali. Non possiamo qui analizzare le radici storiche e i significati specifici di queste concezioni della verità e della realtà in Peirce21. Ciò che più ci interessa è il fatto che a queste affermazioni si sono più volte richiamati quanti oggi difendono il cosiddetto realismo convergente: ossia, la tesi secondo cui il progresso scientifico converge idealmente verso una corrispondenza piena con la realtà delle cose. La tesi della convergenza non è costitutiva di ogni forma di realismo scientifico in quanto tale22, ma secondo alcuni, come Putnam, abbandonare l’ideale regolativo di una descrizione 19 20 21 22

Cfr. Buzzoni (1982), pp. 173-175. Si vedano: Niiniluoto (1987); Cevolani-Crupi-Festa (2011). Si vedano: Delaney (1993), pp. 51-66; Hookway (2002), cap. 2; Burch (2014), §4. Cfr. Devitt (19912), pp. 123-127.

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scientifica ‘stabile’, verso la quale la scienza tende, significherebbe addirittura abbandonare un aspetto decisivo della mentalità scientifica (cfr. Putnam, 1994, p. 497). Al contempo, diverse obiezioni sono state mosse a impostazioni come quella di Peirce23. Una obiezione sottolinea (in connessione col tema della sottodeterminazione, cfr. supra, Box1) che non è affatto detto che la scienza stia progredendo verso un unico sistema teorico vero, corroborato dall’esperienza e capace di escludere qualunque ipotesi alternativa. Un’altra critica sottolinea, invece, che mentre possiamo constatare e riconoscere con metodi oggettivi la ricchezza, la portata, l’efficacia e la profondità, indubbiamente crescenti, delle nostre teorie scientifiche, appare assai difficile dimostrare che questo equivalga a/implichi un loro progressivo avvicinarsi a cogliere la verità sulla realtà delle cose in sé stesse. Ciò specialmente perché, per ipotesi, ancora non conosciamo questa verità ultima e appare problematico parlare di maggiore o minore approssimazione ad un termine che resta ignoto. Il recente dibattito filosofico sull’idea di verosimiglianza ha perciò cercato di specificare in base a quali parametri sarebbe possibile giudicare e comparare il grado di verosimiglianza di proposizioni e teorie (per una introduzione al tema: Oddie, 2014). Una variante di questa impostazione è quella secondo cui la scienza progredisce indefinitamente verso una oggettività e una unificazione teorica sempre più vaste, che, però, non equivalgono ad un approssimarsi a cogliere la realtà delle cose in sé. Si tratta di una prospettiva alla quale ha dato voce, ad esempio, Ernst Cassirer, scrivendo, a proposito della conoscenza scientifica: qui non si tratta di mostrare gli ultimi e “assoluti” elementi della realtà, nella cui considerazione il pensiero possa per così dire acquetarsi, ma di un processo progressivo e senza fine in virtù del quale il relativamente “necessario” sottentra in luogo del relativamente contingente, il relativamente “invariabile” in luogo del relativamente variabile. Mai si può affermare che questo processo è definitivamente giunto fino a quelle ultime “invarianti dell’esperienza”, che ormai sottentrano in luogo dell’immutabile realtà delle cose, né si può dire che possiamo afferrare per così dire con le mani queste invarianti. (Cassirer, 1929, p. 266)

Altri filosofi, come Thomas Kuhn o Bas van Fraassen, hanno proposto di leggere l’evolversi delle teorie scientifiche in una prospettiva radicalmente diversa rispetto a quella del realismo convergente. In analogia con quanto fatto da Darwin per l’evolversi degli organismi viventi, si tratterebbe di abbandonare ogni lettura teleologica del sapere scientifico, cioè che concepisca la scienza come “un processo di evoluzione verso qualcosa”, per considerarla piuttosto “un processo di evoluzione a partire da stadi primitivi” (Kuhn, 1962, p. 205). La scienza sarebbe caratterizzata da una crescita di articolazione, ricchezza e capacità operative, favorito dal conflitto tra teorie e, quindi, dalla selezione delle più adeguate ai nostri scopi: ma questo progresso non presupporrebbe, né rivelerebbe un progredire della scienza verso la verità (cfr. supra, 1.9).

23

Si vedano già: Frank (1932), pp. 247-250; Quine (1960), pp. 35-36.

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3.3. Wilfrid Sellars: le due immagini e la scienza come “misura di tutte le cose” L’impostazione forse più radicale e di più ampio respiro in favore del realismo scientifico che emerge in questi decenni è probabilmente quella di Wilfrid Sellars (1912-1989), uno dei maggiori filosofi statunitensi del XX secolo. Sellars ha proposto una concezione della filosofia come sapere di sintesi, che mira a fornire una visione complessiva il più possibile ampia di come stanno le cose. In un suo celebre saggio, La filosofia e l’immagine scientifica dell’uomo, ha anche rilevato che al giorno d’oggi il maggior ostacolo alla sintesi alla quale la filosofia aspira sarebbe costituito dalla presenza di due “immagini” dell’uomo: quella “manifesta” e quella “scientifica”. Si tratta, secondo Sellars, di due immagini, che possiedono essenzialmente lo stesso grado di complessità, ciascuna delle quali si presenta come un’immagine completa dell’uomo-nel-mondo, e che egli deve fondere in un’unica visione, dopo averle esaminate separatamente. (Sellars, 1962, p. 34)

A che cosa pensa Sellars, parlando di ‘immagini’? In prima approssimazione, il termine ‘immagine’ designa un tipo di concezione complessiva dell’uomo e del mondo che deriva da una modalità specifica di guardare ad esso. L’immagine manifesta sarebbe padroneggiata da lungo tempo e pressoché ovunque dalla grandissima maggioranza degli esseri umani adulti, senza bisogno di una formazione specifica; l’altra immagine, quella scientifica, invece, è stata edificata progressivamente e soprattutto negli ultimi secoli, grazie alle acquisizioni delle moderne scienze sperimentali della natura. Entrambe le ‘immagini’ hanno lo statuto di “tipi ideali”: esse costituirebbero, cioè, due astrazioni, due costrutti artificiali che Sellars concepisce assommando in ciascuno di essi le caratteristiche distintive, i risultati e le possibilità tipiche di un dato modo di guardare all’uomo e al mondo. Così, l’immagine scientifica individua quella che potrà essere un giorno la concezione idealmente compiuta dell’uomo e del mondo offertaci dalle varie scienze sperimentali della natura, una volta maturate e perfezionatesi. A proposito della cosiddetta immagine manifesta Sellars scrive che essa “è, in primo luogo, la cornice concettuale nei termini della quale l’uomo giunse ad essere consapevole di se stesso come uomo-nel-mondo” (1962, p. 36): ciascun uomo, cioè, prende coscienza di sé e del mondo nel quale vive entro il quadro delle categorie, dei ragionamenti e dei riferimenti che l’immagine manifesta gli mette a disposizione. Anche per questo, Sellars potrà dire che il destino dell’immagine manifesta fa tutt’uno con il destino dell’uomo per come fin qui lo abbiamo conosciuto. Il fattore che secondo Sellars differenzia l’immagine scientifica dall’immagine

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manifesta consisterebbe nel fatto che, mentre quest’ultima limita se stessa a entità ed eventi “percepibili o accessibili introspettivamente”, l’immagine scientifica “postula oggetti ed eventi impercettibili allo scopo di spiegare la correlazione tra le cose percepibili” (1962, p. 64). Sellars non si sofferma in dettaglio sulle modalità o i vincoli di questa postulazione, ma la sua caratterizzazione indica un criterio che, nel momento del sorgere e del costituirsi dell’immagine scientifica, la demarca strutturalmente rispetto a quella manifesta, poiché solo la prima può includere quanto risulta per noi inosservabile. Non che per Sellars il confine tra quanto è osservabile e quanto, invece, è postulato teoricamente sia “eternamente fissato” (deVries, 2005, p. 11), o che l’immagine manifesta sia per principio immutabile: anzi, è concepibile che un giorno, grazie alla familiarità con la scienza, impareremo a cogliere in maniera immediata e non inferenziale la presenza di quanto inizialmente era stato solo postulato. Ma, al di là di questi possibili sviluppi, il punto è che l’immagine scientifica, nella lettura di Sellars, nasce e si distacca da quella manifesta perché, andando oltre ciò a cui l’esperienza ordinaria di fatto ci ha dato accesso, fa appello a elementi dei quali non abbiamo avuto percezione. Proprio grazie a ciò, essa è in grado di offrirci una descrizione e una spiegazione delle cose superiori a quelle che possiamo trovare nel quadro dell’immagine manifesta. Inoltre, l’immagine scientifica, sebbene cronologicamente e metodologicamente affondi le radici nel quadro dell’immagine manifesta, pretende di essere un’immagine completa, ossia di definire una cornice concettuale che costituisca l’intera verità su tutto ciò che ad essa appartiene. Quindi, per quanto dal punto di vista metodologico sia uno sviluppo interno all’immagine manifesta, l’immagine scientifica si presenta come un’immagine rivale. (Sellars, 1962, p. 66)

Questa rivalità sta alla base del timore, da parte di Sellars, di uno scontro, di un “clash” tra le due immagini, cioè di un conflitto sistematico tra descrizioni e spiegazioni di carattere scientifico-sperimentale e descrizioni e spiegazioni basate esclusivamente su ciò che è accessibile ordinariamente. Non possiamo qui soffermarci sul modo in cui, secondo Sellars, l’immagine scientifica potrebbe, in linea di principio, rendere conto anche dei fenomeni che risulta più difficile affrontare in termini naturalistici, né possiamo esaminare lo stato odierno del conflitto tra le due immagini24. È invece il caso di aggiungere qualcosa circa la concezione che Sellars ha della scienza e del suo status. Richiamiamone almeno tre aspetti: – Realismo scientifico La diagnosi di Sellars circa il rapporto tra le due immagini si lega strettamente 24

Cfr. deVries (2005); O’Shea (2007); Gabbani (ed.) (2012); Lavazza-Marraffa (a cura di) (2016).

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alla sua opzione per il realismo scientifico, poiché la possibilità che immagine manifesta e immagine scientifica competano e si contrappongano circa le vere descrizioni e spiegazioni delle cose presuppone, tra l’altro, una interpretazione realista delle teorie scientifiche. Sellars è, appunto, un realista scientifico e afferma apertamente: “per come la vedo io, avere una buona ragione per sostenere una teoria è ipso facto avere una buona ragione per sostenere che le entità postulate dalla teoria esistono” (Sellars, 1963, p. 91). – “Scientia mensura” Sellars non ritiene semplicemente che le teorie scientifiche vadano interpretate in accordo coi dettami del realismo. È anche convinto che, almeno in linea di principio, la teorie scientifiche possano estendersi a descrivere e spiegare tutto ciò che esiste; anzi, egli ritiene che dovremmo impegnarci solo per l’esistenza di ciò che, in linea di principio, la scienza può descrivere e spiegare: parlando da filosofo, non ho problemi a dire che il mondo del senso comune degli oggetti fisici nello spazio e nel tempo è irreale – a dire, cioè, che non esistono cose del genere. Oppure a dire, in modo meno paradossale, che per quanto riguarda la descrizione e la spiegazione del mondo, la scienza è la misura di tutte le cose, di ciò che è in quanto è, di ciò che non è in quanto non è. (Sellars, 1956, p. 59)

Si tratta di una tesi estremamente più radicale del semplice realismo scientifico . Si può, infatti, senza dubbio adottare il realismo scientifico senza per questo ritenere che tutto ciò che esiste possa essere conosciuto per via scientifica, e perfino senza ritenere che tutto ciò che può essere da noi conosciuto possa essere conosciuto nell’ambito della scienza. Sellars sembra, dunque, adottare qualcosa di simile a quello che Thomas Nagel ha definito “un criterio di realtà epistemologico – secondo cui solo ciò che può essere compreso in un certo modo esiste” (Nagel, 1986, p. 18). Si tratta, chiaramente, di una opzione filosofica e non scientifica, che è anche alla base della convinzione di Sellars che l’immagine scientifica abbia complessivamente un primato su quella manifesta, almeno per quanto riguarda il descrivere e lo spiegare, e che, dunque, in caso di conflitti, debba essere la scienza a prevalere. 25

– Gli oggetti della scienza ideale come vere “cose in sé” Questo primato della scienza è declinato da Sellars affermando anche qualcosa di più, cioè che gli oggetti di una immagine scientifica idealmente compiuta avranno, rispetto al mondo dell’immagine manifesta, un ruolo analogo a quello delle ‘cose in sé’ kantiane, rispetto al mondo fenomenico. Egli scrive: “sono gli 25

Cfr. Brandom (2015), p. 61.

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‘oggetti scientifici’, piuttosto che gli inconoscibili della metafisica, ad essere le vere cose-in-sé” (Sellars, 1968, p. 143). E afferma ancora: per come la vedo io, un realista scientifico coerente deve sostenere che il mondo dell’esperienza quotidiana è un mondo fenomenico nel senso kantiano, e che esiste solo come contenuto delle rappresentazioni concettuali che si danno o possono darsi, la possibilità del quale non è spiegata, come in Kant, dalle cose in sé conosciute solo da Dio, ma dagli oggetti scientifici circa i quali, a meno di una catastrofe, conosceremo sempre di più col passare degli anni. (Sellars, 1968, p. 173)

In altri termini, gli oggetti di una immagine scientifica idealmente compiuta sarebbero i veri costituenti della realtà e i veri titolari dei poteri causali all’opera nel nostro mondo, dunque, anche i veri responsabili di quelle apparenze che scambiamo per la realtà nell’attuale immagine manifesta. Dal punto di vista di Sellars, perciò, il realismo scientifico è a tutti gli effetti un “metaphysical issue”26. È bene sottolineare che le categorie kantiane di noumeno e fenomeno sono impiegate da Sellars al servizio di una concezione della scienza assai diversa da quella di Kant. Infatti, come ha osservato Robert Brandom: mentre per Kant le conclusioni della scienza naturale (newtoniana), al pari delle descrizioni appartenenti all’immagine manifesta, descrivono una natura empirica che appartiene al dominio dei fenomeni, la versione di Sellars della distinzione, naturalizzata e non più trascendentale, prevede una scienza che tratteggia il regno dei noumeni. (Brandom, 2015, p. 59)

C’è però un caveat che dobbiamo tenere ben presente. Sellars, infatti, è convinto che la nostra attuale scienza non sia ancora quell’immagine scientifica idealmente completa che può fare da “misura di tutte le cose”, e ritiene addirittura che essa, nel suo assetto attuale, abbia dei limiti di fondo che le impediscono di poterlo diventare in futuro, se non dopo una vera e propria rifondazione categoriale (e, dunque, non attraverso un mero accrescimento cumulativo). Più nello specifico, Sellars ritiene che la scienza attuale sia strutturalmente inadeguata a rendere conto delle qualità sensibili delle quali facciamo esperienza (come i colori) e della loro “omogeneità fondamentale”. Perché anch’esse possano trovare una adeguata controparte nel quadro dell’immagine scientifica, quest’ultima dovrà allora essere riconcepita, fin nelle sue categorie basilari, in modo da giungere a un’immagine non più basata su particolari di base discreti, e che renda finalmente possibile trovare dei “successor concepts” (concetti eredi) adeguati anche per i colori dell’immagine manifesta (cfr. Sellars, 1971, p. 410). A delineare alcuni tratti di questa nuova cornice metafisica d’insieme Sellars si dedicherà nella maturità (cfr. Sellars, 1981). 26

Sellars (1976), p. 316; cfr. Gabbani (2018).

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Bisogna, inoltre, sottolineare che per Sellars, se l’immagine scientifica costituisce la misura di tutte le cose nel descrivere e nello spiegare, vi è però anche un limite fondamentale che la caratterizza e che essa non può in alcun modo superare. Infatti, secondo Sellars, l’immagine scientifica non potrà mai fornirci le risorse normative che pure ci sono indispensabili in quanto persone, cioè soggetti agenti che oltre a descrivere e spiegare devono giudicare (‘questo non è giusto’), scegliere (‘preferirei non farlo, ma se è opportuno lo farò’), valutare (‘mi pare che sia all’altezza delle aspettative’) e così via (cfr. Sellars, 1962, pp. 101-106). La cornice concettuale delle nostre pratiche normative ci viene perciò procurata solo nel quadro dell’immagine manifesta, al cui contributo, dunque, non è mai possibile rinunciare completamente: proprio per questo, del resto, l’obiettivo di fondo del lavoro filosofico per Sellars è quello di pervenire a una fusione tra le immagini, a uno sguardo finalmente di sintesi, realmente binoculare.

3.4. Putnam e il no-miracles argument: dal successo della scienza al realismo scientifico Non tutti i realisti scientifici affermatisi in questo periodo hanno nutrito una visione della conoscenza scientifica come quella elaborata da Sellars. Ad esempio, Hilary Putnam (1926-2016), un filosofo che ha dato contributi in molteplici ambiti della filosofia e della logica, ha rifiutato apertamente l’idea della scienza come “misura di tutte le cose”, o come linguaggio al quale ogni conoscenza sia riducibile: “Se il ‘realismo scientifico’ è imperialismo scientifico – fisicalismo, materialismo – non sono un realista scientifico” (Putnam, 1994, p. 492). Al contempo, Putnam ha però tenuto a rimarcare come (al di là di equivoci, o formulazioni infelici) la sua adesione al realismo scientifico, correttamente inteso, abbia costituito una costante del suo percorso: “mi sono sempre considerato un realista scientifico, anche se naturalmente non solo un realista scientifico” (Putnam, MQE, p. 75). In effetti, sono molteplici e diversi i contributi al realismo scientifico offerti da Putnam, in un arco di tempo assai lungo. Ad esempio, si può ricordare come la “teoria causale del riferimento”, sviluppata anche da Putnam, in base alla quale ciò a cui un termine si riferisce non sarebbe determinato da una descrizione teorica associata ad esso, rende possibile sostenere che per i cosiddetti termini teorici vi sia una continuità referenziale attraverso i mutamenti scientifici27. Soprattutto si è soliti attribuire a Putnam la formulazione classica di un argomento estremamente influente nel dibattito del quale ci stiamo occupando. 27 Cfr. Tripodi (2015), pp. 241-245. Inoltre, già nel 1965 Putnam aveva messo in dubbio la valenza antirealista del teorema di Craig (si veda: supra, Box 2), in: Putnam (1965). Per una breve panoramica complessiva dei contributi di Putnam al realismo scientifico: Psillos (2017), § 4.

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Anzi, si tratta di quello che è forse il più importante argomento di portata generale in favore del realismo scientifico28. Stiamo parlando del no-miracles argument (NMA), un ragionamento legato all’idea che solo il realismo scientifico permetta una spiegazione razionale del successo della scienza29. Nel saggio Che cosa è la verità matematica? (1975), Putnam ha sostenuto che esisterebbero due tipi di argomenti in favore del realismo scientifico. – Il primo tipo di argomentazione ha carattere negativo ed è legato ai limiti, agli insuccessi e alla scarsa fecondità, sia scientifica, che filosofica, delle interpretazioni strumentaliste delle teorie; – il secondo tipo di argomenti, invece, ha carattere positivo, essendo basato sui meriti del realismo scientifico, e consiste nel fatto che esso rappresenta “l’unica filosofia che non trasforma il successo della scienza un miracolo”, o “l’unica spiegazione scientifica del successo della scienza” (Putnam, 1975, p. 93): ‘scientifica’, nel senso di fondata sulle stesse procedure inferenziali a posteriori che la scienza impiega nel procedere, al proprio interno. Il dato dal quale si muove è il riconoscimento del successo della scienza come un fatto storico acquisito. Esso è chiamato a fare da premessa per una inferenza dal successo alla verità della scienza. Ora, molti sono propensi a riconoscere che, se una teoria è vera, è ragionevole anche che abbia successo empirico, ossia che sia capace di farci interagire con successo con i fenomeni dei quali tratta, almeno sotto alcuni aspetti. Il punto é, però, se sia lecito, a partire dalla constatazione del successo della nostra scienza matura e dei suoi metodi, inferire che tale scienza è vera, ossia che il successo è dovuto alla (e spiegato dalla) verità delle teorie. La tradizionale risposta antirealista a questa domanda è che l’inferenza abduttiva dal successo alla verità delle teorie non è lecita. Infatti, anche a voler ammettere che (i) la verità della teoria implichi il successo (V → S), non se ne potrà validamente ricavare che (ii) il successo implichi la verità teorica (S → V). Si tratterebbe, infatti, di un caso di fallacia dell’affermazione del conseguente, dal momento che (i) afferma che se una teoria è vera avrà successo, non che solo se è vera avrà successo: dunque, sarebbe sempre possibile che anche teorie non vere abbiano successo30. Secondo Putnam, però, se assumessimo che la scienza abbia successo senza essere vera, rinunceremmo a spiegare perché essa ha successo. Più nello specifico, secondo Putnam, il successo pratico (in particolare, predittivo) delle nostre migliori teorie scientifiche mature per essere comprensibile deve fondarsi: Cfr. Dicken (2016), cap. 3. Su una linea affine si è mosso anche Richard Boyd, cfr. Boyd (1984). Per una panoramica d’insieme, sul tema del rapporto tra successo della scienza e realismo scientifico: Wray (2017). 30 Come vedremo (infra, 4.2), secondo Larry Laudan, che teorie false abbiano successo sarebbe anche un dato di fatto ampiamente attestato in sede storica. 28 29

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sulla referenzialità dei loro termini, compresi quelli che designano inosservabili; sulla verità approssimata delle teorie stesse; III) sulla preservazione del riferimento attraverso i cambiamenti teorici. Dunque, il successo delle teorie, per essere comprensibile, sembra doversi legare al fatto che le teorie scientifiche hanno le caratteristiche che il realismo attribuisce loro. Se così non fosse, tale successo si configurerebbe come un fatto non spiegabile razionalmente, ovvero come l’effetto di una caso estremamente improbabile: come un miracolo, dovremmo dire, o come una “coincidenza cosmica”, per usare le parole di Smart. Sarebbe sbagliato, però, rassegnarsi a non spiegare un fenomeno così importante, quando almeno una spiegazione razionale è a portata di mano: il realismo scientifico, appunto (che, in questo caso, ha la forma di un realismo sulle teorie). Nell’ottica dei suoi sostenitori, la credenza nella verità approssimata delle teorie scientifiche di successo e nel fatto che il mondo sia approssimativamente come esse affermano costituirebbe il frutto di una inferenza alla miglior spiegazione in grande (cfr. supra, Box 3). Anzi, non avremmo a che fare semplicemente con la miglior spiegazione del successo della scienza, ma con l’unica spiegazione disponibile di esso, ovvero con la sola non basata sull’appello a un miracolo. Da questo punto di vista, l’argomento (per i suoi sostenitori) potrebbe anche essere formulato come una sorta di “inferenza all’unica spiegazione possibile” (Ladyman, 2002, p. 220) del successo pratico della scienza: (P1) la nostra scienza matura ha successo pratico; (P2) se il realismo scientifico fosse vero, avremmo la sola spiegazione razionale possibile di questo successo (poiché si assume che sia ragionevole che dalla verità di una teoria segua il suo successo predittivo); dunque: (C) abbiamo ragione di credere che il realismo scientifico sia vero31. II)

Una forma attenuata di questa argomentazione conduce al realismo selettivo o parziale, in base all’affermazione che il successo empirico delle teorie scientifiche sia spiegabile razionalmente solo se sono vere almeno le porzioni di teoria direttamente coinvolte nelle pratiche di successo di tali teorie e, dunque, se realmente esistono almeno quegli elementi introdotti dalle teorie, che svolgono un ruolo essenziale per l’ottenimento del successo empirico da parte di queste ultime32. Una ulteriore restrizione, che può essere associata alla prima, è quella che intende i successi empirici delle teorie come rilevanti nella misura in cui costituiscono 31 Tra le critiche recenti a questo argomento si può indicare: Matheson (1998); Mueller-Fine (2005; per una replica al quale: Putnam, NSR). 32 Su successo e realismo selettivo, si veda: infra, 4.9.

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previsioni di nuovi fenomeni (novel predictions)33. Da ultimo, è importante ricordare un altro filone del dibattito su questo argomento, che concerne gli aspetti probabilistici implicitamente alla base del NMA. In particolare, si è sostenuto che, se l’argomento in questione intende fare del successo delle teorie scientifiche un indice adeguato della probabilità che siano vere, allora esso sarebbe compromesso da problemi di tipo statistico, il più noto dei quali è la cosiddetta Base Rate Fallacy (o fallacia della probabilità primaria). Si tratta di una distorsione legata al fatto che, per ipotesi, ignoriamo e, dunque, non possiamo tenere in considerazione, la frequenza con cui sorgono in fisica teorie vere (e con cui sorgono, invece, teorie false), ossia la probabilità che una qualunque tra le teorie fisiche sia vera (e la probabilità che una qualunque tra le teorie fisiche sia falsa). Ma la conoscenza di tali frequenze sarebbe necessaria per poter valutare correttamente in che misura il successo di una delle nostre teorie (evento condizionato) abbia valore predittivo della verità di essa34.

3.5. Hanson e l’osservazione “theory-laden” Fin qui si sono passati in rassegna argomenti e voci tendenzialmente favorevoli a un approccio di stampo realista alla scienza, emersi grosso modo tra gli anni ’50 e ’70. Nei prossimi paragrafi considereremo, invece, soprattutto analisi e argomentazioni di questi decenni più in sintonia con una prospettiva non realista. Il punto di partenza, paradossalmente, può essere lo stesso dal quale il capitolo ha preso il via per tratteggiare le prospettive a curvatura realista. Infatti, abbiamo visto come l’attacco alla distinzione tra linguaggio osservativo e linguaggio teorico ha potuto giocare in qualche modo a favore del realismo scientifico, nella misura in cui è stato declinato in chiave anti-positivista: se vi è un confine mobile tra livello osservativo e livello teorico, se si può pensare che, con il tempo e con l’evolversi della scienza, anche quello che in precedenza era considerato come Sulle “novel predictions”, si veda: supra, 1.10. Su questo punto, cfr. Howson (2000), cap. 3; Id. (2013); Id. (2015); Magnus-Callender (2004); Worrall (2005); Id. (2007); Dawid-Hartmann (2016), Dicken (2016), § 5.1; Sprenger (2016). Ha osservato Dicken: “supponiamo che vi sia un numero significativamente grande di teorie che sono false (ossia che sia molto bassa la probabilità primaria che una qualunque teoria scientifica presa a caso sia approssimativamente vera). In questo caso, mentre la proporzione di teorie scientifiche false che avranno comunque successo predittivo rimarra bassa, il loro numero complessivo potrà essere davvero molto alto; e, mentre la proporzione di teorie scientifiche approssimativamente vere che hanno successo predittivo rimarrà alto, se non vi fossero molte teorie scientifiche approssimativamente vere sin dall’inizio, esse potrebbero essere in numero significativamente più basso delle teorie dotate di successo predittivo, ma false” (2016, p. 123). In altre parole, non siamo nelle condizioni di escludere che di fatto, se anche esiste un nesso probabilistico che lega il successo alla verità di una teoria, le teorie false e di successo siano più di quelle vere. 33

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linguaggio teorico sia impiegato in modo non inferenziale, allora sembrano indebolirsi le ragioni per fare degli asserti osservativi una base stabile su cui fondare l’intero edificio della scienza e alla quale ricondurlo; e sarebbe erroneo assumere un diverso atteggiamento verso i referenti del linguaggio teorico, rispetto a quelli del linguaggio osservativo. Esiste, però, un altro tipo di critica a questa distinzione, di carattere più radicale e che potrebbe apparire meno favorevole al realismo. Si tratta dell’argomentazione legata alla tesi del carattere teorico dell’osservazione e, dunque, all’idea che il linguaggio e gli enunciati cosiddetti osservativi siano anch’essi tutti contaminati dalla teoria dell’osservatore, una teoria immanente nel linguaggio e nei concetti stessi di cui si fa uso35. Ne seguirebbe, dunque, che né l’esperienza, né i resoconti basati su di essa possano darci una base oggettiva, teoricamente neutrale e condivisa per costruire una conoscenza scientifica valida e capace di cogliere i fatti per quello che sono, e l’assetto indipendente del mondo esterno. Si tratta di questioni che, in parte, erano già emerse nelle discussioni interne all’empirismo logico, ad esempio, nel quadro del dibattito sui ‘protocolli’ (cfr. supra, 2.6). Esse diventeranno, però, centrali nell’ambito della cosiddetta “new philosophy of science”, un’etichetta sotto la quale sono spesso raggruppati pensatori, anche molti diversi tra loro, che tra la fine degli anni ‘50 e gli anni ‘60 del Novecento contribuirono a rinnovare significativamente il dibattito epistemologico. Sono in genere inclusi nel novero: Norwood Russell Hanson (1924-1967), Stephen Toulmin (1922-2009), Michael Polanyi (1891-1976), Imre Lakatos (19221974), nonché Paul K. Feyerabend e Thomas S. Kuhn, sui quali ritorneremo più avanti (cfr. infra, rispettivamente 3.6 e 3.8). È in particolare Hanson, nel suo libro del 1958 I modelli della scoperta scientifica, a sostenere che l’osservazione é “carica di teoria” (theory-laden). La riflessione di Hanson prende il via dalla sottolineatura di come l’esperienza del vedere non possa mai ridursi semplicemente ad un processo fisico-fisiologico di stimolazione della retina, o di attivazione della corteccia visiva, anzi: “uno stato fisico e un’esperienza visiva sono due cose completamente diverse” (Hanson, 1958, p. 18). E questo vale a maggior ragione per l’osservazione scientifica. C’è nel vedere stesso, secondo Hanson, una componente interpretativa, teorica che è necessariamente all’opera affinché possiamo vedere ciò che diciamo di vedere, nel modo in cui lo vediamo. Ma, se esiste una componente interpretativa e teorica nella visione, questa componente potrà senza dubbio variare da persona a persona, da contesto a contesto, da epoca a epoca. Ciò implica che ci sia un senso in cui persone diverse, pur con la stessa dotazione fisica, e in presenza dei medesimi oggetti fisici, non vedono la stessa cosa. È importante cogliere come per Hanson il momento 35

Su questi temi, più ampiamente: Kosso (1992); Boniolo-Vidali (1999), cap. 3.

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interpretativo non sia qualcosa che interviene dopo la visione, quasi che tutti vedessero le stesse cose e poi ne dessero interpretazioni e resoconti diversi, o quasi che questi aspetti riguardassero solo il vedere come, successivo a un vedere che non carico di teoria. Per Hanson, è nella visione stessa che è già presente una componente teorica: “teoria e interpretazione sono “presenti” nella visione fin dal principio” (1958, p. 21). È questo che rende almeno comprensibile la strana e provocatoria domanda che accompagna l’analisi di Hanson: “Keplero e Tycho Brahe vedono la medesima cosa quando osservano il sorgere del sole?” (1958, p. 14; corsivo nell’originale). Secondo Hanson, possiamo dire che essi hanno di fronte uno stesso oggetto fisico e che sulle loro retine si formano le stesse immagini, ma, al contempo, anche che i due fisici vedono cose diverse, perché diversa è la teoria che impregna il loro vedere. Per farci comprendere meglio questo aspetto, Hanson ricorre ad un’analogia basata sulle cosiddette figure prospettiche o gestaltiche. Si tratta di quelle immagini ambigue che, a seconda dell’osservatore, sono considerate come rappresentazioni di un certo animale o oggetto, oppure di un altro. Ad esempio, in una famosa immagine proposta dallo psicologo Joseph Jastrow (Rabbit-duck illusion) alcuni vedono un papero, altri un coniglio, mentre la stessa persona non può simultaneamente vedervi sia un papero, che un coniglio. Naturalmente, c’è un senso in cui due persone che affermano di vedere cose diverse nell’immagine hanno davanti la stessa immagine; anzi, tutto l’interesse del fenomeno si lega proprio al fatto che c’è un senso in cui l’immagine è la stessa. Esiste, però, anche un senso in cui due persone che vedono cose diverse nell’immagine non hanno davanti la stessa immagine: infatti, una fa l’esperienza di vedere un papero, mentre l’altra di vedere un coniglio. Per Hanson, proprio in quest’ultimo fatto risiede l’aspetto filosoficamente più importante. Anche gli scienziati, quando osservano, sono davanti a fenomeni che, analogamente alle figure ambigue, devono interpretare per poterli vedere e li interpretano in base alle teorie che ciascuno adotta: le teorie fisiche forniscono modelli all’interno dei quali i dati appaiono intelligibili. Esse costituiscono una “gestalt concettuale”. Una teoria non si forma accozzando insieme i dati frammentari di fenomeni osservati; essa è piuttosto ciò che rende possibile osservare i fenomeni come appartenenti a una certa categoria e come connessi ad altri fenomeni. (Hanson, 1958, p. 109)

Quello che vale per l’osservazione in sé, vale poi, a maggior ragione, per i resoconti osservativi: “le osservazioni sono influenzate anche dal linguaggio e dalla notazione usate per esprimere ciò che sappiamo” (1958, p. 31). Del resto, scriverà Hanson, noi diciamo che una teoria scientifica è vera quando corrisponde ai fatti, ma che cosa sono i fatti? I fatti non sono semplicemente ‘là fuori’, come oggetti, processi ed eventi, o, almeno, ad essere ‘là fuori’ sono i fatti come

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possibilità strutturali che il mondo ci offre di creare descrizioni di esso (“natural describabilia”); ma, quando parliamo di fatti, quando li descriviamo (“expressed describabilia”), allora i fatti sono inevitabilmente già permeati di teoria (Hanson, 1971, p. 15). Dovrebbe essere chiaro a questo punto perché, secondo Hanson, due scienziati che adottano teorie diverse (un tolemaico e un copernicano, ad esempio) vedano e non vedano lo ‘stesso’ sole, e perché, più in generale, l’osservazione non sembra poter costituire la base epistemica neutrale e condivisa che fonda la conoscenza scientifica e a cui quest’ultima sempre ritorna per essere empiricamente controllata. La messa in discussione del ruolo epistemico del dato osservativo coinvolge in questi anni pensatori con orientamenti differenti. Ad esempio, Paul Feyerabend (cfr. infra, 3.8) scriverà in questi stessi anni che “il significato di un termine osservativo e il fenomeno che porta alla sua applicazione sono due cose del tutto diverse. I fenomeni non possono determinare i significati” (Feyerabend, 1958, p. 29). Mentre Nelson Goodman, parafrasando Kant, affermerà: “l’occhio innocente è cieco e la mente vergine vuota” (Goodman, 1968, p. 13), il che sta anche a dire che, se esistesse uno sguardo che semplicemente riflette in modo oggettivo e ateorico le cose, esso non scorgerebbe neppure il significato, o la rilevanza, di quanto osserva. Giunti a questo punto, però, non è solo la distinzione, cara all’empirismo, tra momento osservativo e momento teorico ad essere messa radicalmente in discussione. Alcuni pensatori, in ragione della teoreticità dell’osservazione, finiscono per mettere in dubbio anche assunti abitualmente associati ad una visione realista della scienza. Ad esempio, si dubita che sia possibile comparare due teorie sulla base della loro diversa capacità di rendere conto degli stessi fenomeni, o che una nuova teoria scientifica possa incorporarne una precedente, o ancora, più fondamentalmente, che la scienza progredisca in maniera continua e cumulativa. Si affaccia, così, per il realista, lo ‘spettro’ di una scienza che dipende radicalmente dai presupposti teorici che di volta in volta ‘guidano’ l’osservazione e la sperimentazione dei diversi scienziati e, dunque, di una scienza che riflette l’attività mutevole dei soggetti conoscenti, molto più che l’oggettiva e stabile articolazione della natura. Emerge, in altre parole, la possibilità di una critica al realismo scientifico non più di stampo empirista, ma, per così dire, di stampo costruttivista (cfr. infra: 3.6 e 3.7). C’è comunque da registrare come questa tesi forte della teoreticità dell’osservazione (cfr. Hanson, 1971, pp. 5-6) abbia attirato, fin dal suo apparire, anche molteplici critiche. Tra l’altro, secondo Ian Hacking l’idea che i resoconti osservativi siano tutti teorici andrebbe resa meno vaga, precisando meglio cosa si intenda per ‘teoria’, visto che, dal suo punto di vista, se si intende ‘teoria’ nel senso specifico e tecnico abituale, allora essa è “banalmente falsa, a meno che non si attribuisca alle parole un senso notevolmente attenuato, nel qual caso l’afferma-

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zione sarebbe vera ma ovvia” (Hacking, 1983, p. 207). Inoltre, possiamo notare come Hanson, da un lato, associa strettamente (e forse eccessivamente) momento percettivo e momento interpretativo nella visione, fino a fonderli assieme, mentre, per contro, sembra minimizzare (forse eccessivamente) il ruolo dei processi fisico-fisiologici in quanto vincolo comune a tutti gli esseri umani, per quanto concerne l’esperienza del vedere. Si potrebbe anche rilevare che, se vale l’analogia con l’esperienza delle figure ambigue, allora c’è almeno un aspetto che Hanson sembra trascurare, ossia, il fatto che, in genere, le persone, in momenti diversi, sono in grado di osservare prima l’una e poi anche l’altra delle cose che queste figure possono rappresentare (ad esempio, prima il papero e poi anche il coniglio, o viceversa). Fuor di metafora, l’argomentazione di Hanson non è, di per sé, sufficiente ad escludere che lo scienziato possa ‘oscillare’ tra più punti di vista teorici alternativi, ossia la possibilità che Keplero e Brahe, ad esempio, fossero in grado di assumere l’uno il punto di vista dell’altro, guardando il cielo. Soprattutto, non sembra venire meno la possibilità che, pur muovendosi entro prospettive teoriche alternative, due scienziati convergano nel considerare un’osservazione, oppure un esperimento come dotati dello stesso significato per entrambi. La presenza di componenti teoriche nell’osservazione, infatti, non comporta necessariamente l’impossibilità, per due o più soggetti con apparati teorico-linguistici differenti, di riconoscere alcuni fenomeni dell’esperienza in termini condivisi almeno quanto basta a permettere un controllo e una comparazione su basi empiriche di quei diversi sistemi teorici. In ogni caso, il dibattito che si accese sul rapporto tra osservazione e teoria in questi anni finì spesso (anche a dispetto della ricerca di Hanson di una “via media” tra realismo e idealismo) per mettere in primo piano gli aspetti costruttivi della scienza, se non quelli relativistici, di discontinuità, di rottura, di dipendenza dal linguaggio e dalle finalità della comunità epistemica che di volta in volta la crea. Del resto, Hanson stesso, trattando del rapporto tra la meccanica classica e la meccanica quantistica, aveva messo in dubbio i tentativi di trovare una continuità e cumulatività teorica nel passaggio dall’una all’altra, giudicando superficiale la convinzione che si potesse considerare la prima come ‘approssimativamente vera’ dal punto di vista della seconda, o come ricompresa nella seconda, quale suo caso limite. In realtà, secondo Hanson, ogni continuità sarebbe qui illusoria: “non c’è una connessione logica ultima fra i linguaggi della fisica classica e della fisica quantistica, non più che fra un linguaggio dei dati sensoriali e un linguaggio degli oggetti materiali”; e questo “anche se in taluni punti i formalismi dei due sistemi possono essere completamente analoghi“ (Hanson, 1958, rispettivamente p. 180 e 183). Nel passaggio dalla fisica classica alla fisica quantistica è intervenuta, si sarebbe cominciato a dire negli anni ’60, una rivoluzione paradigmatica.

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3.6. Kuhn: paradigmi e rivoluzioni nella scienza Parlando di “rivoluzioni paradigmatiche” il pensiero va a quello che è stato probabilmente il libro di filosofia della scienza più influente della seconda metà del Novecento: The Structure of Scientific Revolutions, di Thomas Samuel Kuhn (1922-1996), apparso nel 1962, nella Collana editoriale International Encyclopedia of Unified Science, patrocinata dagli empiristi logici. Kuhn stesso ha ricordato l’importanza per l’evoluzione dei suoi interessi e del suo pensiero di quanto gli accadde nell’estate del 1947, quando era ancora un giovane fisico e, dovendo trattare di storia della meccanica in una lezione di storia della scienza, aveva intrapreso la lettura della Fisica di Aristotele. Il primo impatto con Aristotele fu per lui deludente e gli lasciò l’impressione che la Fisica fosse piena di errori ed assurdità evidenti. Nonostante questo, Kuhn continuò ad approfondire il testo: Ero seduto alla scrivania con la Fisica di Aristotele aperta davanti a me, e in mano una matita. Alzai gli occhi dal testo e guardai distrattamente fuori della finestra; ho ancora bene in mente quell’immagine. D’improvviso, nella mia testa i frammenti si ordinarono in un modo nuovo e si composero insieme. Rimasi a bocca aperta, perché di colpo Aristotele mi parve un fisico eccellente, ma di un genere al quale non mi sarei neppure sognato di pensare. Ora potevo capire perché avesse detto ciò che aveva detto e quale fosse stata la sua autorevolezza. Affermazioni che prima mi erano parse errori madornali, ora nel peggiore dei casi sembravano tentativi che avevano mancato di poco il bersaglio, nel quadro di una tradizione di pensiero straordinaria e in generale valida. (Kuhn, 1987, pp. 29-30; cfr. Id., 1977, pp. ix-xi; Id., 2000b, p. 276)

Secondo Kuhn la difficoltà da lui esperita deriverebbe dal fatto che, nel periodo che intercorre tra Aristotele e l’età moderna, la maniera di studiare la natura è andata incontro a una serie di mutamenti radicali, che costituiscono una rivoluzione scientifica e che segnano in maniera decisiva il nostro attuale modo di praticare e concepire la scienza. Aristotele, dunque, non avrebbe fatto, in modo scadente, la stessa cosa che Newton, oppure Einstein hanno saputo fare meglio, ma avrebbe fatto, in modo eccellente, una cosa diversa da quella che faranno in seguito Newton o Einstein. L’esperienza che abbiamo richiamato costituì per Kuhn un punto di partenza per comprendere quella che secondo lui sarebbe una dinamica fondamentale della storia della scienza in genere: la scienza, infatti, non procede sempre e solo per accrescimenti cumulativi, ma presenta anche momenti di rottura e discontinuità rispetto al passato, a seguito dei quali gli scienziati iniziano a vedere le cose in modo diverso, ad operare in modo inedito, mentre si affermano nuovi modelli circa il giusto modo di fare scienza. Per usare il termine fortunatissimo e polivoco

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di Kuhn, muta il paradigma entro il quale si svolge l’attività scientifica. In base alla ricostruzione di Kuhn, infatti, nel corso dello sviluppo di alcuni saperi, come la fisica, dopo una fase di alta conflittualità e contrapposizione tra diverse scuole di pensiero, emerge e si afferma nella comunità degli specialisti un paradigma condiviso capace di regolare e guidare il modo in cui si pratica quella data disciplina. Il termine ‘paradigma’, per ammissione dello stesso Kuhn, assomma qui più significati diversi, i principali tra i quali sono due: da un lato, esso rappresenta l’intera costellazione di credenze, valori, tecniche, e così via, condivise dai membri di una data comunità. Dall’altro, esso denota una sorta di elemento di quella costellazione, le concrete soluzioni-di-rompicapo che, usate come modelli o come esempi, possono sostituire regole esplicite come base per la soluzione dei rimanenti rompicapo della scienza normale. (Kuhn, 1969, p. 212; cfr. Id., 1977, cap. XII)

Dunque, per un verso, il paradigma come “matrice disciplinare”, e, per un altro verso, il paradigma nel significato (più ristretto, ma più importante per Kuhn) di (risultato) “esemplare”. In quest’ultima accezione, ciascuna specialità scientifica potrà avere al contempo più paradigmi, cosa invece molto più difficile in base al primo significato36. Per capire meglio questa caratterizzazione dei paradigmi dobbiamo, però, comprendere che cosa Kuhn intenda quando parla di scienza normale. Con “scienza normale” Kuhn intende: una ricerca stabilmente fondata su uno o su più risultati raggiunti dalla scienza del passato, ai quali una particolare comunità scientifica, per un certo periodo di tempo, riconosce la capacità di costituire il fondamento delle sue prassi ulteriori. (Kuhn, 1962, p. 29)

In altri termini, parlando di scienza normale si individua quella fase dell’attività scientifica in un dato ambito che viene resa possibile dal fatto che gli specialisti condividono, appunto, uno stesso paradigma che li orienta nelle diverse dimensioni della ricerca. Infatti, “allorché impara un paradigma, lo scienziato acquisisce teorie, metodi e criteri tutti assieme, di solito in una mescolanza inestricabile”37. Un modo particolarmente efficace per veicolare un paradigma sarebbe costituito oggi, secondo Kuhn, dai manuali scientifici che introducono in maniera sistematica alla conoscenza delle teorie e delle applicazioni che caratterizzano una disciplina, o una sub-disciplina. In una fase di scienza “normale”, dunque, gli scienziati, formatisi in modi simili, utilizzando strategie e modelli analoghi, lavorano alla risoluzione degli stessi 36 37

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Cfr. Preston (2008), p. 45. Kuhn (1962), p. 138; sul concetto di paradigma: Hoyningen-Heune (1993), cap. 4.

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problemi ancora irrisolti, o rompicapo (puzzle). Gli scienziati si aspettano che tale risoluzione si collochi entro il quadro del paradigma vigente e, anzi, che essa sia ottenuta proprio grazie a quel paradigma. La scienza normale sarebbe, da questo punto di vista: “un tentativo di forzare la natura entro le caselle prefabbricate e relativamente rigide fornite dal paradigma” (1962, p. 44) e costituirebbe “un’impresa altamente cumulativa” (1962, p. 75). Per rifarsi ad un’immagine dello stesso Kuhn, gli scienziati della fase normale sarebbero simili a scacchisti che cercano di risolvere brillantemente difficoltà inedite, attenendosi a regole di gioco già fissate. È però possibile che, col tempo, nella storia di una disciplina (o di una sub-disciplina) si assommino problemi particolarmente importanti che non si riesce ad affrontare nel quadro del paradigma vigente. Non saremmo più, cioè, davanti a semplici rompicapo, ma a ciò che Kuhn definisce anomalia, ossia al fatto “che la natura ha in un certo modo violato le aspettative suscitate dal paradigma che regola la scienza normale” (1962, p. 76). Ad esempio, la cosmologia tolemaica aveva accumulato nel tempo una gran quantità di difficoltà e discrepanze rispetto alle osservazioni degli specialisti: “Questo riconoscimento preparò il terreno sul quale fu possibile a Copernico abbandonare il paradigma tolemaico ed elaborarne uno nuovo” (1962, p. 93). Dunque, è possibile che, in risposta alla crisi conclamata di un certo tipo di approccio scientifico, comincino ad emergere nuovi fatti, nuove teorie, nuove procedure che, in alcuni casi, finiscono per comporre un vero e proprio paradigma alternativo. Per Kuhn, è solo in presenza di un nuovo paradigma alternativo che un paradigma screditato viene abbandonato (pur dopo molte resistenze); non si abbandona, invece, un paradigma, per quanto fallimentare, in assenza di alternative. Un cambiamento di paradigma costituisce ciò che Kuhn definisce una “rivoluzione scientifica”. Con l’affermarsi di un nuovo paradigma si aprirà poi un nuovo ciclo di scienza normale, incentrato su di esso. La scarsa consapevolezza dell’esistenza di queste rivoluzioni nel corso della storia della scienza dipenderebbe, secondo Kuhn, dal fatto che tale storia, in genere, è ricostruita alla luce e in funzione del paradigma dominante in quel dato momento: in questo modo, anche i paradigmi passati vengono presentati, spesso, non per ciò che essi erano in sé stessi, ma come meri antecedenti imperfetti e parziali del paradigma attuale. Un punto chiave dell’interpretazione di Kuhn, invece, sta nella convinzione che la transizione da un paradigma ad un altro introduca un momento di netta discontinuità e non cumulatività nella storia della scienza. Infatti, quando si adotta un nuovo paradigma, il precedente è abbandonato e quanto lo costituiva (esempi, teorie, metodi etc.) non può transitare immutato nel nuovo. Così, l’avvento di un nuovo paradigma comporterà, da un lato, la comparsa di nuovi me-

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todi, nuovi oggetti, nuove spiegazioni e nuovi valori, dall’altro, la scomparsa di certe risorse esplicative proprie del precedente paradigma; ed è anche possibile che, nel quadro del nuovo paradigma, non si cerchi più di spiegare ciò che in precedenza era possibile provare a spiegare: si parla a questo proposito di “Kuhn loss” (cfr. Kuhn, 1962, pp. 135-136). Il fatto è che i diversi paradigmi sono tra loro incompatibili: paradigmi successivi ci dicono cose differenti sugli oggetti che popolano l’universo e sul comportamento di tali oggetti. Differiscono per esempio riguardo a questioni come l’esistenza di particelle subatomiche, la materialità della luce e la conservazione del calore e dell’energia. […] Ma i paradigmi differiscono anche in qualcos’altro oltre che negli oggetti […] essi determinano i metodi, la gamma dei problemi, e i modelli di soluzione accettati da una comunità scientifica matura di un determinato periodo. (Kuhn, 1962, pp. 131-132)

Un cambiamento di paradigma si lega, dunque, a un “riorientamento della scienza” a seguito del quale “gli scienziati vedono cose nuove e diverse anche quando guardano con gli strumenti tradizionali nelle direzioni in cui avevano già guardato prima” (1962, p. 139). Almeno in questa fase, Kuhn per spiegare la natura di questo mutamento accetta di ricorrere, tra l’altro, all’analogia con la visione delle figure ambigue (che abbiamo già incontrato in Hanson): un paradigma ci farebbe vedere in modo nuovo e diverso gli stessi stimoli che, alla luce di un differente paradigma, vedevamo in un’altra maniera. Tuttavia, Kuhn si spinge ad affermare apertamente che una differenza rispetto al riorientamento gestaltico consiste nel fatto che “lo scienziato è privo della libertà […] di muoversi avanti e indietro tra diversi modi di vedere” (1962, p. 112). In seguito, invece, Kuhn adotterà analogie centrate più che sulla percezione, sul linguaggio; coloro che si muovono entro quadri teorici diversi somiglieranno, perciò, a quanti parlano lingue diverse e non pienamente intertraducibili. Anche per Kuhn, dunque, c’è un senso in cui, mutando i paradigmi muta la nostra stessa esperienza. Ed è importante comprendere che “ciò che avviene durante una rivoluzione scientifica non è completamente riducibile a una reinterpretazione di dati particolari stabiliti una volta per tutte” (1962, p. 151). Questo perché Kuhn (come altri in questo periodo) non crede che esista una base di dati empirici fissati in maniera inequivocabile e oggettiva in un presunto linguaggio descrittivo. Così, se per Hanson l’osservazione scientifica è sempre carica di teoria, per Kuhn essa è sempre guidata da un paradigma. Non deve, peraltro, ingannarci, secondo Kuhn, il fatto che spesso nella transizione da un paradigma all’altro i termini del vocabolario scientifico siano largamente conservati: questo, infatti, non garantisce che rimanga immutato anche il significato associato a ciascun termine. Così, ad esempio, quando si parla di ‘massa’ nel quadro della fisica

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newtoniana non si intende ciò che si intende quando se ne parla nell’ambito della teoria della relatività. Tra le conseguenze più importanti di questa concezione del ruolo dei paradigmi, c’è il fatto che, nel momento storico in cui si tratta di scegliere tra due paradigmi alternativi, per la comunità chiamata a decidere non è mai possibile basarsi unicamente su argomentazioni, esperimenti e valutazioni oggettive, ma si dovrà fare inevitabilmente ricorso anche a ragionamenti, esempi e prove che presuppongono già l’adozione di un determinato paradigma. Dunque, le ragioni della scelta, per quanto possano essere persuasive ed efficaci, saranno, almeno parzialmente, circolari (cfr. 1962, pp. 121 e 138). Certo, ammette Kuhn, si possono invocare quali criteri per la decisione valori, come accuratezza, semplicità, fecondità, coerenza e altri ancora38, ma il modo di declinare, applicare, graduare questi fattori può esso stesso divergere da paradigma a paradigma. Non solo: alcune caratteristiche positive di un paradigma emergente si mostreranno solo molto dopo che esso è stato adottato e proprio come effetto del fatto che esso è già stato adottato. Ad esempio, soltanto dopo l’opera di Keplero il sistema copernicano si rivelò più accurato di quello tolemaico, ma “se Keplero o qualcun altro non avessero trovato altre ragioni per scegliere l’astronomia eliocentrica, questi miglioramenti nell’accuratezza non sarebbero mai stati fatti ed il lavoro di Copernico avrebbe potuto essere dimenticato” (Kuhn, 1973, p. 354). L’adozione di un paradigma si baserebbe, dunque, anche su un atto di fiducia, su una sorta di scommessa circa le sue potenzialità, sulla sensazione che esso “sia sulla strada giusta” (Kuhn, 1962, pp. 190-191). Secondo Kuhn, d’altra parte, coloro che resistono all’adozione di un nuovo paradigma vincente potranno, sì, essere emarginati dalla nuova comunità scientifica che si crea attorno al paradigma emergente, ma non si potrà dire che siano oggettivamente in errore, o che si comportino in modo illogico: “vi sono sempre alcune buone ragioni per ciascuna scelta possibile” (Kuhn, 1973, p. 360). Questo significa anche che non può esistere alcun procedimento meccanico, alcun algoritmo o alcuna dimostrazione che conducano alla decisione oggettivamente corretta nella scelta tra paradigmi alternativi. Più in generale: “nella scelta dei paradigmi, non v’è nessun criterio superiore al consenso della popolazione interessata” (Kuhn, 1962, p. 122). Si profila così la questione della incommensurabilità tra paradigmi. Afferma Kuhn: “la tradizione della scienza normale che emerge dopo una rivoluzione scientifica è non soltanto incompatibile, ma spesso di fatto incommensurabile con ciò che l’ha preceduta” (1962, p. 132). ‘Incommensurabilità’ è termine di origine matematica che vuole qui esprimere l’assenza di una unità di misura comune per paradigmi alternativi. Esso venne impiegato, quasi simultaneamente, prima da 38

Cfr. Kuhn (1969), p. 239; Id. (1973), p. 354.

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Kuhn e poi da Paul K. Feyerabend, anche se in modi non coincidenti39. Quando in La Struttura Kuhn parla di incommensurabilità intende, dunque, affermare che non si può avere la certezza che vi siano una cornice terza e dei criteri neutrali sulla base dei quali confrontare ogni aspetto di paradigmi differenti, arrivando all’unica decisione razionalmente giustificata. L’incommensurabilità intreccia una dimensione metodologica, nel senso che col mutare dei paradigmi possono mutare problemi, regole procedurali e criteri di valutazione che presiedono all’attività scientifica; una dimensione semantica, nel senso che col mutare dei paradigmi possono mutare i significati dei concetti chiave; una dimensione esperienziale, nel senso che col mutare dei paradigmi può cambiare ciò che gli scienziati vedono e, dunque, cambieranno i loro impegni ontologici. Sia per i limiti della trattazione di Kuhn in La Struttura, sia per alcune interpretazioni semplicistiche, l’affermazione della incommensurabilità tra paradigmi è stata letta come se implicasse una visione relativistica, irrazionalista, o scettica della scienza. In fondo, si è detto, se la scelta tra paradigmi non può mai avvenire su basi oggettive, se è ancor meno possibile valutare la loro corrispondenza rispetto alla realtà, o anche solo in rapporto ad una esperienza colta indipendentemente dai paradigmi, se, in definitiva, né chi sceglie un paradigma, né chi lo rifiuta ha oggettivamente ragione o torto, sembra allora che quali paradigmi si affermano non dipenderà dalle argomentazioni razionali in loro favore, dalla superiorità epistemica dell’uno o dell’altro, o dalla rispettiva vicinanza alla verità. Di fatto, il libro di Kuhn si chiude (solo) con l’invito ad abbandonare l’idea che “esista qualche completa, oggettiva, vera spiegazione della natura e che la misura appropriata della conquista scientifica è la misura in cui essa si avvicina a questo scopo finale” (Kuhn, 1962, p. 205; cfr. anche: Id., 1969, p. 247). Negli anni successivi, una maggior comprensione dell’incommensurabilità e delle conseguenze di essa diverrà, per sua stessa ammissione, la “principale e sempre più ossessiva preoccupazione” di Kuhn40. Questo anche per la volontà di mostrare che: intesa correttamente – cosa che io stesso non sempre sono riuscito a fare – l’incommensurabilità non costituisce affatto quella minaccia alla valutazione razionale delle asserzioni di veridicità che ha spesso dato l’impressione di essere. (Kuhn, 1990, p. 138)

Non possiamo qui ripercorrere l’evoluzione di Kuhn successiva a La Struttura41. 39 Cfr. Feyerabend (1962). Sulle rispettive concezioni dell’incommensurabilità: Oberheim-Hoyningen-Huene (2013). 40 Kuhn (2000a), p. 186; cfr. Id. (1991), p. 199. 41 Si vedano in questo senso: Kuhn (1977); Id. (1983); Id. (2000a); Id. (2000b); cfr. Hoyningen-Heune (1993), § 6.3; Gattei (2000); Nickles (ed.) (2003); Bird (2011); Oberheim-Hoyningen-Huene (2013);

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Vale però la pena di accennare almeno a due aspetti rilevanti del suo tentativo. – La distinzione tra progresso e approssimazione alla verità Kuhn sostiene che la scienza vada soggetta ad un tipo di evoluzione analogo a quello che si ha nel mondo della vita (è questa la cosiddetta “analogia darwiniana”). Egli è convinto che si possa, in forza di questo processo, constatare a posteriori come la scienza odierna sia stata capace di superare alcune anomalie esistenti in passato e sia più progredita, nel senso di più ‘adatta’ ad affrontare molte questioni e sfide per noi rilevanti: ad esempio, essa ci fornisce spesso previsioni più accurate rispetto a quelle del passato. Il punto, però, è che questa evoluzione, secondo Kuhn, non procede verso una meta ideale prestabilita, né garantisce una “migliore rappresentazione di ciò che la natura è realmente” (Kuhn, 1969, p. 247). Non varrebbe, cioè, l’inferenza dal successo alla verità; anzi, l’idea stessa di poter ottenere con la scienza “approssimazioni sempre migliori” alla verità e alla realtà sarebbe ingannevole. Come egli afferma, con parole che possono ricordare Carnap42: a mio giudizio, non v’è nessun modo, indipendente da teorie, di ricostruire espressioni come ‘esservi realmente’; la nozione di un accordo tra l’ontologia di una teoria e la sua ‘reale’ controparte nella natura mi sembra ora, in linea di principio, ingannevole. (Kuhn, 1969, p. 247)43

– La distinzione tra incommensurabilità locale e incomparabilità Kuhn ha più volte trattato la incommensurabilità parlando di intraducibilità, cioè dell’impossibilità di tradurre letteralmente e interamente alcuni concetti di una teoria nel vocabolario di un’altra, o di un terzo linguaggio esistente, senza perdite. Ha scritto, ad esempio: “non c’è un linguaggio neutrale o di altro tipo, nel quale entrambe le teorie, concepite come insiemi di frasi, possano essere tradotte senza alcun resto o alcuna perdita” (Kuhn, 1983, p. 36). Egli, però, ha anche precisato che questa intraducibilità avrebbe carattere locale: riguarderebbe, cioè, solo un sottogruppo di termini della teoria (ad esempio, quelli tassonomici), mentre molti altri termini conserverebbero il loro significato, anche attraverso i mutamenti paradigmatici. Non solo: per Kuhn, l’impossibilità di traduzione non implica (più) l’impossibilità, per chi adotta un paradigma, di interpretare correttamente il significato dei termini di un altro paradigma, compresi quelli che non sono traducibili nel suo quadro teorico. Inoltre, la possibilità di una incommensurabilità locale tra teorie non implica necessariamente la loro incomparabilità, sotto molti aspetti rilevanti. Ad esempio, come ha notato Gattei: “i potenziali empirici di teorie incommensurabili possono in effetti venire confrontati: due teoNickles (2017). 42 Cfr. in proposito: Irzik-Grünberg (1995); Gattei (2007), pp. 115-116; Psillos (2008). 43 Si veda anche: Kuhn (1990), p. 156; cfr. Hoyningen-Heune (1993), pp. 262-264.

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rie possono intersecarsi empiricamente e possono quindi essere reciprocamente contraddittorie”44. Del resto, si potrebbe osservare che, se la incommensurabilità implicasse una integrale impossibilità di comparazione tra paradigmi, essi non potrebbero neppure confliggere45.

3.7. Dall’epistemologia alla sociologia della scienza? L’analisi di Kuhn apriva uno spazio per indagini di tipo sociologico sul funzionamento della scienza (e le auspicava esplicitamente), cioè per indagini incentrate sulle modalità in cui la scienza sorge, si afferma, muta in relazione alla comunità degli scienziati e alla società in cui essi operano. Di fatto, a partire dagli anni ‘70 questo tipo di studi diventeranno un aspetto centrale del dibattito sulla scienza, e proprio a partire dalla ripresa e discussione di tematiche kuhniane46. Si tratta, però, di una ripresa che tende a radicalizzare (quando non a travisare) le tesi di Kuhn, giungendo a sostenere che le varie teorie scientifiche sarebbero accettate, rifiutate, comparate dalle diverse comunità in base a fattori essenzialmente dipendenti dai rispettivi contesti storico-sociali e culturali (si parla anche di costruttivismo sociale). Naturalmente, è difficile trovare chi metta in discussione, in linea di principio, la rilevanza di studi storico-sociologici volti a collocare le teorie scientifiche nel contesto sociale, politico, culturale e istituzionale in cui sono sorte, o a ricostruire i processi e i conflitti interni alle comunità scientifiche entro cui si sono imposte47. Ma i programmi di ricerca più radicali che si affacciano in questa fase tendono ad affermare che la modalità adeguata per analizzare le procedure e i risultati della scienza abbia un carattere più sociologico che epistemologico. E quand’anche essi non intendano deliberatamente cancellare ogni ruolo per l’epistemologia e i suoi concetti, di fatto, ne alterano fortemente la natura e il ruolo. Tra gli esempi più noti in questo senso, si può ricordare il cosiddetto programma forte in sociologia della conoscenza, promosso da studiosi come Barry Barnes (1943) e David Bloor (1942), attivi presso la Science Studies Unit dell’Università di Edinburgo48. Il programma proposto è denominato forte, perché non In: Kuhn (2000a), p. 322. Kuhn non è stato, naturalmente, il solo a prendere sul serio le discontinuità nella storia della scienza, cercando al contempo di non cadere nello scetticismo. Tra coloro che, dopo di lui, hanno cercato di offrire una teoria d’insieme del mutamento scientifico che evitasse il relativismo, si può ricordare Michael Friedman (1947), con il suo Dinamiche della ragione, apparso nel 2001. Si veda anche: Friedman (2011b). 46 Cfr. Barnes (1982); Fuller (2003). 47 Per una introduzione alla sociologia della scienza: Bucchi (2010). 48 Si vedano: Barnes (1974); Bloor (1976); Barnes-Bloor (1982); per una reazione critica: Newton (1999). 44 45

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intende impiegare i metodi della sociologia e della storia della conoscenza solo per spiegare come sono sorte e si sono affermate le teorie scientifiche oggi giudicate fallimentari: questo è, infatti, qualcosa che fanno anche i programmi deboli e che non sembra sollevare particolari obiezioni, visto che, se una teoria è stata largamente diffusa in passato e oggi viene giudicata falsa, ha certo senso (anche in un’ottica tradizionale) chiedersi se non abbiano giocato in suo favore fattori sociali, culturali, politici, ideologici etc. Il progetto forte, invece, fa proprio un principio di simmetria o equivalenza (Bloor, 1976, cap. 1), in base al quale si devono applicare gli stessi metodi di indagine anche per comprendere l’affermarsi delle teorie scientifiche attualmente reputate vere (o razionalmente giustificate), nella convinzione che non siano adeguati gli approcci che pretendono di spiegare la loro fortuna in termini di virtù epistemiche oggettive ed extra-storiche. Del resto, anche i criteri di razionalità, i principi di giustificazione delle credenza, la natura e la forza probante di evidenze e risultanze sperimentali sono qui considerati come dipendenti dai contesti storici, e, dunque, non eterni, né universali. Questo postulato di simmetria o equivalenza nello studio dell’affermarsi delle teorie scientifiche, non implica l’equivalenza tra tutte le teorie dal punto di vista della loro verità o falsità; piuttosto, esso asserisce che per tutte le teorie il loro affermarsi deve essere spiegato dal sociologo della conoscenza allo stesso modo, e, cioè, tralasciando considerazioni di verità (o falsità) e razionalità (o irrazionalità) delle stesse, in favore di fattori di tipo storico-sociale (cfr. Barnes-Bloor, 1982, p. 23). Si adotta, dunque, un relativismo metodologico in base al quale lo studio della storia delle teorie scientifiche, del loro diffondersi o del loro declinare, non deve fare ricorso alle tradizionali nozioni epistemiche. Si potrebbe pensare che siamo qui di fronte a una tesi che riguarda semplicemente il metodo della sociologia della scienza, la quale dovrebbe limitarsi a studiare alcuni fattori in gioco nella storia della scienza (quelli tradizionalmente considerati ‘esterni’), tralasciandone altri che cadono fuori dal suo ambito proprio di competenza. In questa prospettiva, allora, mentre l’epistemologia si occupa della validità oggettiva delle teorie, la sociologia della scienza si interesserà a quanto concerne la credibilità di esse, in un dato contesto storico-sociale. Il punto è, però, che la “relativist sociology of knowledge” intende mettere in dubbio proprio la possibilità di una netta distinzione di questo tipo: ciò perché, come detto, si giudica che lo stesso concetto di validità sia, a sua volta, dipendente dai differenti contesti storico-sociali, e che lo siano ancor più le ragioni o le evidenze probanti ad esso collegate (cfr. Barnes-Bloor, 1982, p. 29). Corollario di tutto questo è poi la piena accettazione della incommensurabilità tra paradigmi, come condizione non aggirabile. Infatti: “non è disponibile un’unità di misura appropriata con cui valutare i pregi di paradigmi alternativi” (Barnes, 1982, p. 102). Nelle intenzioni dei protagonisti di questo programma di ricerca (che Kuhn

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stesso giudicherà “un eccesso”, cfr. Kuhn, 1990, p. 138), l’esito relativista non vuole essere un modo per sminuire o mettere in cattiva luce la scienza, ma semplicemente per comprenderne le presunte dinamiche reali. Secondo questi autori, cioè: “lungi dall’essere una minaccia per la comprensione scientifica delle forme di conoscenza, del relativismo abbiamo bisogno proprio in vista di essa” (Barnes-Bloor, 1982, p. 21). Che cosa si potrà dire del realismo scientifico in una prospettiva del genere? Anche esso, in definitiva, sarà reinterpretato in chiave sociologica, semplicemente come una strategia adottata in certe fasi storiche, da certe comunità per dare particolare autorevolezza e stabilità a certe credenze. Si afferma, infatti, che le asserzioni scientifiche di realtà “sono semplicemente parte dell’attività di sostegno alle nostre convenzioni attuali, e anch’esse muteranno con il mutamento delle convenzioni” (Barnes, 1982, pp. 122-123). Si tende, così, a fare anche del tradizionale problema filosofico del realismo scientifico qualcosa che ha a che fare più che con l’epistemologia, con lo studio delle comunità che producono scienza: quello che una determinata comunità considera reale non è un problema filosofico o fisico; è un problema sociologico che comporta l’esame di quelli che la comunità considera come compiti della sua cultura, e del modo in cui specifiche strategie realiste possono dimostrarsi capaci di contribuire a quei compiti. (Barnes, 1982, p. 126)

3.8. Tra realismo e anarchia: Feyerabend Paul Karl Feyerabend (1924-1994) è stato allievo e poi critico di Popper e alcune sue tesi sulla scienza hanno goduto di una larga celebrità, anche per il loro carattere radicale e provocatorio. Al contempo, nell’evoluzione del suo pensiero hanno trovato successivamente spazio alcune delle principali tesi affermatesi tra gli anni ’50 e ’80, dalla critica della distinzione tra osservativo e teorico, alla tesi della incommensurabilità tra teorie, al rifiuto del realismo convergente. Questo può legarsi anche alla presenza di mutamenti di prospettiva nel pensiero di Feyerabend, nonché di posizioni sul significato esatto delle quali ancora si discute. Ad ogni modo, esaminarne ora il pensiero ci porterà a richiamare alcuni degli snodi teorici che abbiamo affrontato lungo questo capitolo. Soffermiamoci, dunque, su alcuni punti di particolare rilievo: · la critica del monismo metodologico · la critica dell’interpretazione positivista della scienza e del ruolo dell’esperienza · la difesa del principio di proliferazione · il rifiuto del realismo convergente

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La polemica contro il metodo (secondo il celebre titolo di: Feyerabend, 1975), o meglio contro il cosiddetto “monismo metodologico”, consiste nel rifiuto dell’idea che esistano condizioni immutabili e vincolanti alle quali la ricerca scientifica dovrebbe attenersi in ogni circostanza, nonché della convinzione che la riflessione teorica possa individuare e prescrivere i giusti canoni metodologici agli scienziati di ogni tempo. Feyerabend respinge questa prospettiva (parlando, più ampiamente, di rifiuto del razionalismo) ed è, dunque, un pluralista metodologico, cioè ritiene che ci siano molti modi di procedere alternativi (e in contrasto con qualunque prescrizione generale) che i buoni scienziati hanno adottato lungo la storia per giungere agli importanti risultati che hanno conseguito. Una attenta disamina della storia della scienza, anzi, mostrerebbe che “c’è un solo principio che possa essere difeso in tutte le circostanze e in tutte le fasi dello sviluppo umano. È il principio: qualsiasi cosa può andare bene [anything goes]” (Feyerabend, 1975, p. 25). Questa conclusione, che rappresenta una forma di “anarchismo metodologico”, non esprime un principio che Feyerabend si rallegra di dover adottare o che intende difendere, bensì un principio che egli si sente costretto ad ammettere, pur “inorridito”, in base ad un esame consapevole della storia della scienza 49. Uno dei momenti più noti di questo suo attacco al metodo è probabilmente il confronto in tema con Imre Lakatos (1922-1974), difensore, invece, di una metodologia dei programmi di ricerca scientifici 50. Le riflessioni di Feyerabend sul metodo sono anche l’aspetto più largamente noto del suo pensiero. Tuttavia, dalla fine degli anni ’50 e per almeno un ventennio, egli ha dato anche numerosi e influenti contributi alla critica dello strumentalismo e del positivismo. Per prima cosa, Feyerabend è convinto che la scelta tra realismo e antirealismo sia di primaria importanza, e ci metta davanti a un conflitto effettivo, non apparente o puramente verbale (cfr. Feyerabend, 1964, p. 106). Inoltre, egli ritiene che un atteggiamento realista sia molto più proficuo per lo sviluppo del sapere scientifico. La natura e la misura dell’opzione per il realismo da parte di Feyerabend in questa fase del suo pensiero è stata diversamente valutata. Secondo alcuni, dapprima (anni ’50-’60), egli avrebbe aderito ad una forma, per quanto eterodossa e ‘congetturale’, di realismo scientifico, in base alla quale le nostre migliori teorie scientifiche descrivono, in modo veridico, un mondo indipendente dalla mente51; secondo altri, invece, Feyerabend ha sempre difeso molte tesi che a noi appaiono incompatibili con il realismo scientifico, perché, in effetti, non avrebbe mai propriamente aderito ad esso: il suo sarebbe “[…] “tutto va bene” non è un “principio” che io difendo, è un “principio” a cui è forzato un razionalista che ami i principi ma che prenda anche sul serio la storia” (Feyerabend, 1987, p. 280). 50 Cfr. Lakatos (1978) e Lakatos-Feyerabend (1995). 51 Ad esempio: Preston (1997), cap. 4; Id. (1997a); Id. (2016). 49

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stato solo un tipo di realismo normativo, stando al quale bisogna guardare alle teorie scientifiche come a tentativi di “interpretazione realistica dell’esperienza” (per citare il titolo di un suo saggio), cioè come espressioni di un’impresa che idealmente si propone questa meta52. In ogni caso, la posizione di Feyerabend si caratterizza per una critica severa della visione positivista della scienza. Egli ritiene che il positivismo si regga su una concezione implausibile degli enunciati osservativi, in ragione della quale il loro significato non sarebbe condizionato e modificato dallo stato delle nostre conoscenze teoriche (tesi della stabilità)53. Invece, secondo Feyerabend, opportuni cambiamenti teorici possono far sì che i termini e gli asserti del linguaggio osservativo ordinario assumano un significato diverso da quello che avevano in precedenza. Ad esempio, se noi passiamo da credere che il colore sia una proprietà intrinseca degli oggetti, a credere che si tratti di una proprietà che dipende anche da caratteristiche dell’osservatore, allora il significato di “A è di colore R” muterà, anche senza che cambino né i fenomeni dei quali parliamo, né le regole per un uso corretto dell’espressione ‘di colore R’ (almeno in contesto ordinario). Questo è per Feyerabend spia di come già l’interpretazione del significato del linguaggio osservativo (e di tutto il linguaggio ordinario, in genere) dipenda dalle teorie che adottiamo e le incorpori: sarebbe perciò illusorio volerne fare il fondamento intersoggettivo, neutrale e immutabile dell’edificio scientifico. Anzi, la componente cosiddetta osservativa e la componente cosiddetta teorica delle teorie scientifica sollevano, secondo Feyerabend, problemi logici e ontologici analoghi. Feyerabend si spinge, così, fino a sostenere che i concetti e gli asserti osservativi non sarebbero semplicemente “carichi” di una componente teorica che si assomma alla componente osservativa, ma “completamente teorici”54. Per questo, se ancora si vuole conservare la distinzione tra osservativo e teorico, bisognerà farne una distinzione di tipo pragmatico, soggettivo e mutevole: infatti, quelli che noi chiamiamo concetti osservativi non saranno altro che i concetti dei quali siamo in grado di fare un certo tipo di uso. Nello specifico: un concetto è osservativo se è possibile determinare il valore di verità di un particolare enunciato che contiene quel concetto e, eventualmente, anche altri concetti osservativi, in modo immediato e basandosi sulla sola percezione. (Feyerabend, 1960, p. 61)

In altri termini, gli enunciati interamente osservativi possono essere valutati senza dover ricorrere a inferenze, calcoli, ragionamenti, come quelli richiesti, invece, da asserti che contengono predicati che chiamiamo teorici. Ma la distin52 53 54

Ad esempio: Oberhieim (2006), cap. 6. Cfr. Feyerabend (1958), p. 20. Feyerabend (1958), p. 50; corsivo nell’originale; cfr. Preston (1997), § 3.1.

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zione ha, appunto, un fondamento e una utilità solo di tipo pragmatico, e, nel tempo, può mutare, come di fatto muta, l’insieme dei concetti e degli asserti che ci è possibile impiegare nell’uno, o nell’altro modo55. Potremmo anche dire che c’è un senso in cui tutti i termini di una teoria sono ‘teorici’ (nel senso che nessun termine è incontaminato dalla teoria), e, al contempo, c’è un senso in cui nessun termine è necessariamente ‘teorico’, in senso tradizionale: perché qualunque termine potrebbe diventare, col tempo, immediatamente applicabile, in situazioni opportune, senza bisogno di calcoli e inferenze (e, dunque, diventare ‘osservativo’ nel solo senso legittimo). Così, in definitiva, se il problema delle entità teoriche è il problema dell’esistenza dei referenti dei cosiddetti termini teorici: “Non esiste nessun specifico ‘problema delle entità teoriche’”56. Nel suo attacco al primato dell’osservazione, Feyerabend giunge fino a considerare la possibilità di una scienza senza esperienza (cfr. Feyerabend, 1969). La scienza, si sostiene, non è e non può essere preceduta dall’esperienza (visto che quest’ultima non sarebbe mai comprensibile in assenza di teoria), né dipende necessariamente dall’esperienza per poter essere costruita, compresa e controllata. Ad esempio, afferma Feyerabend (1958, p. 36), un cieco può impadronirsi di una teoria scientifica nella quale compaiano termini di colore (come ‘rosso’), senza che la sua cecità rappresenti un ostacolo insormontabile. Infatti, il significato di un termine osservativo è fissato e comunicato dalla teoria e, quanto alla sua applicazione, basterà che a tale termine venga associato un metodo accessibile anche al cieco, perché egli possa, ad esempio, decidere se e quando siamo in presenza di qualcosa a cui esso si applica correttamente (ad esempio, potrà sapere che quando sente un certo suono, allora è in presenza di qualcosa che definiamo ‘rosso’). Certo, se vedesse, avrebbe probabilmente a disposizione il metodo più rapido per tale decisione, ma altri se ne possono immaginare e, ad ogni modo, il punto è che la competenza scientifica in un determinato ambito non va confusa con l’esperienza diretta di un dato contenuto. In questo senso, Feyerabend ritiene che un cieco che conosce la fisica, se dovesse acquistare improvvisamente la vista, non conoscerebbe, per questo solo fatto, qualcosa di più e di nuovo, ma semplicemente conoscerebbe in modo diverso57. Queste tesi saranno discusse e criticate, tra l’altro, in un importante dibattito che Feyerabend ebbe con Smart, Sellars e Putnam e nel contesto del quale egli esplicitò il proprio “principio di proliferazione” e la connessione tra questo principio e un atteggiamento anti-positivista. In base a tale principio, è opportuno provare a “inventare ed elaborare teorie che sono incompatibili con il punto di vista 55 56 57

Per maggiori cautele in merito: Sellars (1965). Feyerabend (1958), p. 35; corsivo nell’originale; cfr. Id. (1960), p. 68. Si anticipa così un tema che sarà poi lungamente discusso in filosofia della mente, cfr. Jackson

(1982).

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dominante, anche se quest’ultimo dovesse essere altamente confermato e generalmente riconosciuto”58. Alla luce di ciò, tesi come quella positivista della stabilità del piano osservativo appaiono solo come vincoli inaccettabili, visto che non dovremmo mettere limiti a priori ai modi in cui la teoria ci permetterà di riconfigurare l’esperienza. Pluralismo teorico e critica del positivismo sembrano dunque, almeno nell’intenzione di Feyerabend, congiungersi e rendere un po’ meno paradossale che in uno stesso itinerario di pensiero abbiano trovato posto l’anarchismo metodologico e una considerazione realista degli scopi della scienza. Questo non toglie che Feyerabend polemizzi poi apertamente contro il realismo convergente, cioè contro l’idea che la scienza progredisca effettivamente verso la verità (o la verità approssimata). Non solo: riflettendo sull’incommensurabilità, egli arriverà a parlare di “dissoluzione del realismo scientifico”, inteso come convinzione che la scienza scopra e descriva gli oggetti del mondo per come essi sono, e senza modificarli. Si tratterebbe di un’idea insostenibile sia in quanto teoria circa il rapporto dell’uomo con il mondo, sia anche quale “presupposto della conoscenza scientifica”59. Del resto, un realismo scientifico inteso come credenza nel fatto che le nostre migliori teorie scientifiche sono approssimativamente (sempre più) vere rischia di confliggere radicalmente con l’invito di Feyerabend a creare e difendere alternative teoriche radicali anche alle nostre teorie meglio corroborate e di successo. In questo senso, al netto di ambiguità e effettivi cambiamenti di opinione da parte di Feyerabend, sembra che il realismo sia un atteggiamento che egli ha difeso soprattutto per la sua utilità nel criticare la received view ‘positivista’ della scienza e i vincoli empirici che essa, a suo avviso, imponeva, mentre non lo ha condiviso nella misura in cui esso intende proporsi come una teoria sulla scienza, le sue effettive possibilità e il suo metodo, imponendole, a sua volta, dei propri vincoli. Può essere interessante aggiungere che, in anni più recenti, sarà Paul M. Churchland (1942) a riprendere il tema della plasticità dell’osservazione e della permeabilità teorica dell’esperienza, allo scopo di difendere la possibilità di cambiamenti anche molto radicali nella nostra visione del mondo. In un’ottica di schietto realismo scientifico, Churchland difenderà la tesi secondo cui, almeno in linea di principio, un giorno potremmo giungere a vedere le cose in conformità all’unica fonte di conoscenza affidabile, cioè la scienza, liberandoci da quella “immagine manifesta” dell’uomo e del mondo che, a suo parere, rischia di rivelarsi così erronea da dover essere (almeno in parte) semplicemente eliminata60. 58 Feyerabend (1965), p. 105, corsivo nell’originale. In merito si veda anche: Marsonet (2000), pp. 27-34. 59 Feyerabend (1978a), p. 248; corsivo nell’originale. 60 Cfr. Churchland (1979); Id. (1989); Id. (1997); contro questa interpretazione della plasticità della percezione, ad esempio: Fodor (1984).

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Churchland, però, intende così riprendere (e radicalizzare) anche l’idea di Sellars di una scienza come “misura di tutte le cose”. Si tratta di una convinzione che non era, invece, nelle corde di Feyerabend, il quale, anzi, specialmente negli ultimi anni della sua ricerca, enfatizzerà il proprio pluralismo scientifico e metterà ripetutamente in guardia contro il rischio che un approccio esclusivamente scientifico alla conoscenza del mondo finisca per impoverire la nostra visione di esso61. L’itinerario di Feyerabend, con le sue tematiche, i suoi sviluppi e anche le sue contraddizioni, sembra, dunque, riassumere in sé molti aspetti e nodi problematici del periodo del quale ci siamo occupati in questo capitolo.

61

Si veda: Feyerabend (1999), specie parte II; cfr. Preston (1997a), § 3.

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Negli ultimi 40 anni circa, almeno tre grandi tendenze hanno segnato il dibattito sul realismo scientifico. In primo luogo, si è venuta imponendo una nuova concezione delle teorie scientifiche, elaborata negli anni precedenti da diversi filosofi: la cosiddetta interpretazione semantica, che ha largamente soppiantato la cosiddetta interpretazione sintattica, prevalente nella prima parte del Novecento. Su questo aspetto ci soffermeremo subito di seguito (cfr. 4.1), mentre in chiusura del capitolo vedremo come, anche alla luce di questa nuova concezione, si sia sviluppata una crescente attenzione per il ruolo giocato dai modelli e dalle rappresentazioni nella pratica scientifica. In secondo luogo, a partire dagli anni ’80, hanno avuto una larga risonanza una serie di critiche e alternative alla tradizionale visione realista delle teorie. Si tratta di contributi dovuti ad alcuni filosofi della scienza emergenti (Laudan, Hacking, Cartwright, van Fraassen, Fine) che, pur condividendo in genere almeno alcune ragioni dell’antirealismo sulle teorie, giungevano però ad esiti complessivi molto diversi tra loro (cfr. 4.2-4.6). In terzo luogo, anche in risposta a queste nuove proposte, negli anni ’90 si è imposta all’attenzione una forma nuova di realismo: il cosiddetto realismo strutturale, che, almeno negli auspici di Worrall (1989), avrebbe dovuto assommare in sé le intuizioni migliori presenti su entrambi i fronti della disputa e che ha fortemente segnato le fasi più recenti del dibattito sul tema di cui ci occupiamo (cfr. 4.7-4.8). Più o meno negli stessi anni e in risposta alle medesime sfide, è poi emersa anche un’altra forma di realismo selettivo, della quale ci occuperemo in conclusione della nostra rassegna (cfr. 4.9).

4.1. La natura delle teorie e la loro interpretazione Uno degli aspetti più significativi della filosofia della scienza dell’ultimo mezzo secolo è legato al diffondersi di un nuovo modo di concepire le teorie scientifiche. Per quanto questo mutamento non abbia un’implicazione univoca e immediata nel dibattito sul realismo, esso rappresenta un presupposto di importanza decisi-

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va anche per comprendere gli sviluppi di quest’ultimo. Il cambiamento si ricollega all’affermarsi della cosiddetta interpretazione semantica delle teorie, di contro alla tradizionale interpretazione sintattica di esse, tipica, ad esempio, dell’empirismo logico. Nel quadro di quest’ultima, le teorie erano ricostruite come entità linguistiche, sistemi di enunciati in un dato dominio logico (cfr. supra, 2.6). Per gli approcci di tipo semantico, invece, una teoria scientifica è caratterizzata in base ad una serie di strutture che sono i suoi modelli (si è parlato di famiglie, classi, popolazioni o agglomerati di modelli). Come ha scritto van Fraassen: presentare una teoria equivale a specificare una famiglia di strutture, i suoi modelli; e in secondo luogo, a specificare certe parti di questi modelli (le sottostrutture empiriche) come candidati per la rappresentazione diretta dei fenomeni osservabili. (van Fraassen, 1980, p. 95)

Che cosa sia un modello è questione molto dibattuta, ma possiamo almeno dire che si tratta di un’entità di natura extra-linguistica e “che può assumere rivestimenti linguistici diversi” (Psillos, 2007, p. 228). Un modello di una teoria è una struttura in cui la teoria è soddisfatta (e tutti gli assiomi della teoria sono veri in riferimento al modello). Nel caso di una teoria fisica, essa sarà una teoria soddisfacente se i fenomeni dei quali essa intendere rendere conto costituiscono, sotto i parametri rilevanti, un buon modello fisico della teoria in questione. Più esattamente, nella formulazione di van Fraassen, la teoria sarà empiricamente adeguata se tutte le risultanze empiriche in nostro possesso (le apparenze) sono isomorfe alle sottostrutture empiriche di un modello della teoria. Tra quanti hanno proposto interpretazioni di tipo semantico della natura delle teorie possiamo ricordare Patrick Suppes (1922-2014), Frederick Suppe (1940) e Bas van Fraassen (1941), nonché, in Italia, Marisa Dalla Chiara e Giuliano Toraldo di Francia1. Sarà soprattutto a partire dagli anni ‘70 che questa nuova concezione delle teorie diventerà centrale nel dibattito sul realismo scientifico. Come è stato rilevato “in realtà la cosiddetta concezione semantica delle teorie non è mai stata, e non lo è tuttora, una posizione precisamente circoscritta e sostanzialmente unitaria” (Giunti-Ledda-Sergioli, 2016, p. 15). Le interpretazioni di tipo semantico si differenziano, infatti, per il modo di concepire quei modelli in riferimento ai quali si caratterizzano le teorie. Ad esempio, Suppes, che fu tra i primi a delineare questo genere di interpretazione, fin dal saggio del 1960 A Comparison of the Meaning and Uses of Models in Mathematics and the Empirical Sciences, ha proposto (cfr. 1960, p. 12) di ricorrere, anche nelle scienze empiriche, ad una caratterizzazione dei modelli nei termini della teoria degli insiemi (Set/ Model-Theoretic Approach). Invece, van Fraassen e altri aderiscono a un tipo di Si vedano: Suppe, ed., 19772; Suppe, 1989; van Fraassen, 1980, cap. 3; Giere, 1988, cap. 3; da Costa-French, 1990; Winther, 2015. 1

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impostazione chiamata “approccio dello spazio degli stati” (State Space Approach), secondo cui una teoria si identifica con un modello, o una classe di modelli che stabilisce e configura tutti i possibili stati (spazio degli stati) in cui possono trovarsi i sistemi fisici che costituiscono il suo ambito proprio di applicazione2. Il nome di ‘interpretazione semantica’ deriva dal fatto che ci si concentra su ciò a cui le teorie si riferiscono, una volta che le loro formulazioni ricevono un’interpretazione semantica formale (cfr. Suppe, 1989, p. 4). In questo senso, si tratta di una visione delle teorie scientifiche che, come ha notato van Fraassen (1991, p. 5), si caratterizza, in realtà, per il fatto di conferire una limitata rilevanza al linguaggio nel definire una teoria scientifica. Proprio su questo aspetto può innestarsi una delle questioni filosoficamente più rilevanti: infatti, sempre van Fraassen (1980, pp. 86-87) ha rimarcato, in modo piuttosto tranchant, che abbandonare l’approccio sintattico alle teorie permetterebbe di relegare in secondo piano tutte le questioni linguistiche che avevano profondamente segnato la fase precedente della ricerca, come i dibattiti sullo status del linguaggio teorico e, di conseguenza, il teorema di Craig, gli ‘enunciati di riduzione’, e la tecnica della Ramsey-sentence (cfr. supra, Box 2). Allo stesso tempo, in sé l’approccio semantico riguarda, come detto, primariamente la natura e la struttura delle teorie, non la visione realista o antirealista di esse, e tale approccio di fondo, sia pur diversamente declinato, è stato adottato sia da antirealisti, che da realisti e da ‘quasi-realisti’ (come si definisce Suppe, 1989)3.

4.2. Il pessimismo di Laudan e il divorzio tra successo e verità Assieme alla critica al modo tradizionale di concepire le teorie scientifiche, si fanno strada, in questo periodo, anche una serie di critiche all’interpretazione realista delle teorie scientifiche. Le argomentazioni sono, in buona misura, nuove rispetto a quelle già viste, esaminando, ad esempio, il pensiero di Kuhn. Tuttavia, la prima sulla quale ci soffermeremo deriva anch’essa da una rilettura filosoficamente avvertita della storia della scienza. Intendiamo riferirci all’argomentazione proposta da Larry Laudan (1941) e divenuta celebre con il nome di ‘meta-induzione pessimista’. Si tratta propriamente di un’obiezione formulata da Laudan contro il cosiddetto realismo convergente (cfr. supra, Box 4), cioè, contro la posizione secondo cui l’indagine scientifica converge gradualmente verso la verità, le teorie succesSi veda: Giunti-Ledda-Sergioli (2016), capp. 3 e 4. Chakravartty (2001) ha mostrato che l’interpretazione semantica, pur ridimensionando il ruolo del linguaggio, non rende le cose più facili per una posizione realista, come a prima vista potrebbe sembrare. 2 3

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sive preservano e migliorano il contenuto delle teorie precedenti e l’ontologia delineata dalle teorie scientifiche corrisponde progressivamente sempre di più a quella del mondo reale. Come sappiamo, per molti realisti convergenti la verità (almeno approssimata) e il successo referenziale delle teorie scientifiche sarebbero, anzi, l’unica spiegazione razionale del successo della scienza e, per converso, il successo, l’efficacia della scienza legittimerebbero l’inferenza abduttiva alla sua referenzialità e veridicità (almeno approssimata). Laudan mette in dubbio tutto ciò, contestando che esista una simile relazione tra verità, referenzialità e successo (cfr. Laudan, 1981a, p. 22) e lo fa in base a una rilettura della storia delle scienze (si vedano: Laudan, 1981a; Id., 1981b). Secondo Laudan, il punto chiave è che molte teorie scientifiche del passato dotate di cospicuo successo empirico sono teorie che includevano il riferimento ad entità che oggi non riteniamo esistenti. Dunque: “ci possono essere (e ci sono state) teorie di grande successo nelle quali alcuni dei termini centrali non erano referenti”4. Laudan fornisce e discute una vasta gamma di casi di questo tipo, ossia esempi di entità o processi che hanno avuto un ruolo centrale in teorie importanti nella storia passata della scienza e la cui esistenza è stata poi messa in dubbio e, infine, negata. Tra questi: le sfere cristalline, il flogisto, il fluido calorico, l’etere elettromagnetico e l’etere ottico, la forza vitale in fisiologia, la generazione spontanea (cfr. Laudan, 1981a, p. 33). Secondo Laudan l’elenco potrebbe essere esteso a piacere. La morale è che: per ogni teoria scientifica del passato dal cospicuo successo e che oggi riteniamo autenticamente referenziale, si potrebbero trovare una mezza dozzina di teorie di successo che ora consideriamo sostanzialmente non referenti. (Laudan, 1981a, p. 35)

Ma se la referenzialità non è condizione necessaria per il successo di una teoria scientifica, come possiamo pretendere di derivare la referenzialità e, tanto più, la verità di essa dal suo successo? E come si può pensare di derivare da un crescente successo empirico della scienza un suo progredire verso la verità? Alla luce dell’analisi di Laudan, sembra inevitabile osservare che, se davvero molte teorie scientifiche di successo del passato hanno fatto riferimento a entità che, in seguito, la stessa scienza si è incaricata di mettere in discussione, allora sarà difficile escludere che questo possa valere anche per alcune delle nostre migliori teorie scientifiche attuali. Anzi, è sembrato che l’argomentazione di Laudan contenesse quella che è stata chiamata una “meta-induzione pessimista”, cioè la tesi secondo cui, alla luce di molteplici casi del passato, dovremmo rigettare una lettura realista anche delle teorie scientifiche del presente (o di molte di esse), e 4

Laudan (1981a), p. 27; corsivo nell’originale.

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affermare che probabilmente molte siano non referenti e non vere. Propriamente, Laudan nel saggio del 1981 contro il realismo convergente non si spienge a fare queste affermazioni5. Il suo scopo è quello di mettere radicalmente in crisi la stretta associazione tra successo empirico, referenzialità e verità approssimata che è tipica del realismo. Il che, di per sé, non implica di asserire la falsità delle teorie scientifiche in nostro possesso (o di una determinata porzione di esse), né l’impossibilità di un loro progredire verso la verità, ma sembra invalidare chiaramente la pretesa realista di derivare referenzialità e verità della scienza dal suo successo. Inoltre, l’argomento di Laudan tende anche a minare la rivendicazione del realista di poter spiegare il successo delle teorie, tramite l’appello alla loro verità: se, infatti, anche teorie false possono avere successo, allora la verità non sembra poter avere valore esplicativo in proposito e anche per il realista il successo resterà un “miracolo”. Dunque, in base all’analisi di Laudan, la storia della scienza ci mostrerebbe che né il successo implica la verità, né la verità spiega il successo. Non è esplicito che cosa, alla luce di ciò dobbiamo pensare delle nostre teorie scientifiche attuali, ma non c’è dubbio che l’argomento in questione sia diventato uno dei più celebri dell’intera filosofia della scienza, nella misura in cui è sembrato mettere in dubbio che molte teorie scientifiche oggi in auge siano referenziali e vere, a partire da un’induzione su vari casi di teorie false, tratti dalla scienza del passato. Esso ha anche generato un vastissimo dibattito critico. Vi sono, infatti, quanti hanno replicato a Laudan proponendo di limitare l’associazione tra successo empirico e verità (approssimata) di una teoria alle sole componenti di questa che svolgono un ruolo centrale ed indispensabile per l’ottenimento del successo in questione: si è, cioè, sostenuto che il successo della teoria proverebbe la verità soltanto di tali porzioni e che tali porzioni non sarebbero state abbandonate nel corso dell’evoluzione scientifica successiva6. In aggiunta, tra i realisti vi è stato chi ha suggerito che il successo realmente probante per ciò che concerne la verità di una teoria, non sarebbe il successo empirico genericamente inteso, ma, più in specifico, la capacità di fornirci delle “novel predictions” (si veda: supra, 1.10). In quest’ottica, si è affermato che almeno alcune delle teorie false del passato indicate da Laudan come di successo non sarebbero state capaci di simili nuove previsioni e, dunque, la loro falsità non serebbe eccessivamente problematica per un realismo adeguatamente selettivo. Più recentemente, sono state avanzate critiche all’argomentazione di Laudan basate su alcuni aspetti di tipo statistico. Si è infatti rimarcato come, per poter 5 Lyons ha sostenuto che l’argomento di Laudan in realtà non sarebbe affatto una induzione, ma un modus tollens, che si limita a confutare validamente l’assunto realista secondo cui se una teoria ha successo, allora è vera, e lo fa mostrando casi di teorie di successo non vere: tutto questo, senza fare affermazioni sul valore di verità delle nostre attuali teorie scientifiche (cfr. Lyons, 2002, p. 65). 6 Su questo tipo di strategia, si veda: infra, 4.9.

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inferire validamente dalla storia delle scienze la probabile falsità della maggior parte delle nostre attuali teorie scientifiche, sarebbe necessario poter valutare l’incidenza statistica delle teorie false o non referenziali sul totale di quelle adottate in ciascuna data epoca (e non semplicemente rintracciare nel passato molteplici esempi di teorie false e di successo)7. Paradossalmente, si tratta di limiti statistici che, per alcuni versi, possono accomunare la cosiddetta meta-induzione pessimista, cioè il più celebre argomento di tipo ‘globale’ o complessivo contro il realismo scientifico, e il no-miracles argument, cioè il più celebre argomento di tipo ‘globale’ o complessivo in favore di esso (cfr. supra, 3.4). Quanto a Laudan stesso, si può aggiungere che egli ha elaborato una concezione della scienza, la “teoria della scienza orientata verso i problemi”, che mira a rendere conto della natura, del progresso e della razionalità della scienza, anche nel quadro di una dissociazione, sempre possibile, tra successo e verità. Egli sostiene, infatti, che “la scienza mira fondamentalmente alla soluzione dei problemi” e che, proprio per questo, il suo progresso ha a che fare con l’accrescimento della sua “capacità di risolvere problemi” (Laudan, 1977, pp. 24-25, corsivo nell’originale), più che con parametri di conferma, giustificazione, o veridicità crescente delle singole teorie. Lo stesso confronto tra teorie e tradizioni scientifiche alternative dovrebbe situarsi più che sul piano della commensurabilità teorica, o della capacità delle nuove teorie di preservare le precedenti (come caso limite), sul piano della maggiore o minore capacità di risolvere problemi che ciascuna dimostra di possedere. Inoltre, se la capacità di una teoria scientifica di offrirci soluzioni importanti non è direttamente connessa con la sua verità, sarà persino possibile che si giudichino “come realizzatrici di progresso e razionali delle teorie che alla fine risultano false (supponendo, ovviamente, che si possa in qualche caso assodare in modo perentorio che una teoria sia falsa)” (Laudan, 1977, p. 153). In definitiva, dunque, se la scienza mira soprattutto a risolvere problemi e accoglie le nuove teorie nella misura in cui riescono a farlo meglio delle altre, allora la “presumibile falsità delle teorie scientifiche” adottate, oltre a non compromettere la loro possibilità di essere efficaci, “non rende la scienza irrazionale, né la esclude dal progresso”. Infatti, anche l’accettazione da parte degli scienziati di teorie che potrebbero rivelarsi false si baserà pur sempre su ottime ragioni, cioè il loro successo. Il che è, in fondo, un modo meno ‘pessimista’ di mettere in luce quella possibile dissociazione tra successo e verità/referenzialità delle teorie delineata dalle argomentazioni di Laudan contro il realismo convergente8.  7 Si vedano in proposito: Lange (2002); Magnus-Callender (2004); Dicken (2016), § 5.1. La critica in questione assume che l’argomento di Laudan costitusica un’induzione che mira a screditare, sulla base di un certo numero di esempi del passato, le teorie odierne. Contro questa interpretazione: Lyons, 2002. 8 Su altri aspetti del pensiero di Laudan, si veda: Tambolo (2009).

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4.3. Le menzogne e l’utilità della fisica secondo Cartwright Una messa in discussione assai più circoscritta, rispetto a Laudan, del tradizionale punto di vista realista circa il rapporto tra verità e successo nella scienza è quella delineata dalla filosofa Nancy Cartwright (1944), soprattutto nel saggio How the Laws of Physics Lie, apparso nel 1983 e il cui titolo è già largamente rivelatore. Esamineremo qui solo alcuni aspetti della sua analisi9. Cartwright fa propria la distinzione tra leggi fenomenologiche e leggi teoriche tipica degli scienziati e che è diversa da quella abituale tra i filosofi (cfr. supra, 1.3). Tra i fisici, si dicono leggi fenomenologiche quelle che mirano semplicemente a descrivere i fenomeni naturali, siano o meno direttamente osservabili, mentre le leggi teoriche sono quelle che pretendono di spiegare ciò che le prime hanno descritto, facendo appello a componenti fondamentali della natura, su qualunque scala si situino. Cartwright intende assumere una posizione antirealista e strumentalista circa le leggi teoriche e di alto livello, nell’accezione della fisica. Più in particolare, secondo Cartwright, mentre le leggi fenomenologiche della fisica sono ciò che di meglio confermato possediamo, invece le leggi fondamentali della fisica non possono essere considerate vere, stando a tutti i nostri migliori standard epistemici. È il caso di aggiungere che l’antirealismo di Cartwright circa le leggi teoriche si coniuga con una posizione realista circa una serie di entità non direttamente osservabili (cfr. Cartwright, 1983, cap. 5): emerge, così, quella congiunzione tra antirealismo sulle teorie e realismo sulle entità che è stata proposta più ampiamente anche da Ian Hacking (cfr. infra, 4.4). Entrando nel merito, Cartwright intende mostrare come il potere esplicativo delle leggi fondamentali della fisica non implichi la loro verità, ma sia piuttosto dovuto alla loro falsità (cfr. 1983, p. 4). Una tale tesi sembra mettere in discussione la legittimità dell’inferenza alla miglior spiegazione, in base alla quale dal successo delle teorie potremmo inferirne la verità (cfr. supra, Box 3). In effetti, per Cartwright tale tipo di inferenza non sarebbe lecita in generale, ma solo nel caso della spiegazione causale e, dunque, come inferenza dall’effetto alla causa. Questo perché, in tal caso, la spiegazione risulterà accettabile solo nella misura in cui la causa individuata esista realmente; da qui, il motto: “nessuna inferenza alla miglior spiegazione, inferenza solo alla causa più probabile”. Ora, però, a dispetto di quanto si può pensare, secondo Cartwright non è nelle leggi fondamentali della fisica che risiedono le spiegazioni causali:

Per una discussione complessiva del contributo di Cartwright, si può vedere: Hartmann-Hoefer-Bovens (eds.) (2008).  9

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le proposizioni verso le quali ci impegniamo quando accettiamo una spiegazione causale sono dei principi causali assai dettagliati e delle leggi fenomenologiche concrete, specifiche per la situazione in questione, non le equazioni astratte della teoria fondamentale. (Cartwright, 1983, p. 8)

In altre parole, la verità garantita dal successo delle spiegazioni causali riguarda solo i principi causali più specifici e le leggi fenomenologiche, mentre, ad esempio, le equazioni matematiche di base della teoria “non regolano il comportamento degli oggetti nella realtà, ma solo quello degli oggetti entro i modelli” costruiti in conformità ad esse (1983, p. 129). Di conseguenza, sarebbe errato considerare le leggi fondamentali della fisica come descrizioni vere di fatti effettivi del nostro mondo (tesi della fatticità). Prendiamo, per esempio, la legge di gravitazione universale di Newton, secondo la quale la forza con cui due corpi si attraggono è direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato delle loro distanze. Sembra un esempio paradigmatico di legge universale dal valore esplicativo. In realtà, però, non si tratta di una legge ineccepibile, poiché è valida soltanto nel caso ideale in cui sia operante la sola forza gravitazionale. Ma, se aggiungiamo questa clausola restrittiva alla sua validità, allora la legge non si applicherà più a molte situazioni concrete nelle quali sono di fatto all’opera anche altre forze (ad esempio, quella elettromagnetica). Tutto ciò, secondo Cartwright, esemplifica una condizione più generale della fisica: per lo più non vi sono vere leggi di copertura universali, ma semplici generalizzazioni che valgono, al più, ‘ceteris paribus’, cioè a patto che una serie di condizioni rilevanti siano analoghe a quelle considerate nel modello ideale. Questo ci conduce al dilemma per cui o abbiamo una vera legge, ma essa è falsa nella maggior parte dei casi concreti ai quali si applica, oppure dobbiamo limitarne la portata a un numero così ristretto di casi limite da renderla di scarsa utilità. Si potrebbe, però, osservare che se, per tornare al nostro esempio, in un caso concreto sono all’opera sia la gravità, che l’elettricità, allora possiamo cavarcela componendo vettorialmente le forze, ciascuna delle quali agisce in conformità ad una legge ben nota, e ottenere così una forza risultante corretta. Non abbiamo in questo modo una risposta esplicativa e pienamente applicabile? Osserva efficacemente Cartwright: Riconosco che la storia dell’addizione vettoriale è graziosa. Ma non è più che una metafora. Noi sommiamo forze (o i numeri che rappresentano forze) quando facciamo dei calcoli. La natura non ‘somma’ forze. Perché le forze ‘componenti’ da sommare non ci sono, se non in senso metaforico; e le leggi che affermano che esse ci sono devono essere lette anch’esse in modo metaforico […] non è plausibile trattare la forza dovuta alla gravità e quella dovuta all’elettricità come parti in senso letterale della forza effettivamente presente. (Cartwright, 1983, pp. 59-61)

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Il punto, allora, è che il nostro mondo è pieno di fenomeni assai complessi e variegati risultanti dall’interazione di molteplici processi di base. Quand’anche ciascuno di questi processi, per sé preso, obbedisse a delle leggi basilari e semplici, dovremmo comunque ricorrere a una combinazione sofisticata di leggi basilari per poter rendere conto dei fenomeni compositi coi quali in concreto abbiamo a che fare. La conseguenza è che, se vogliamo considerare una legge fondamentale di per sé sola, essa, pur potendo essere vera e avere forza esplicativa, sarà ordinariamente incapace di spiegare la maggioranza dei fatti; se, invece, vogliamo combinarla con altre leggi per avere un resoconto dei fatti complessi che ci interessano, allora essa contribuirà a fornirci uno strumento descrittivo utile alle nostre esigenze, ma non avrà più quella fatticità che le poteva essere attribuita se presa di per sé sola (cfr. Cartwright, 1983, pp. 56-59 e 72-73). In definitiva, quello che facciamo abitualmente in fisica quando dobbiamo rendere conto di un certo tipo di fenomeni reali è costruire dei modelli che sono, in effetti, dei simulacri di quei fenomeni, cioè, ne replicano una certa quantità di proprietà, senza però essere sostanzialmente uguali ad essi. Anzi, in genere, questi modelli attribuiscono agli oggetti modellizzati anche una serie di “proprietà di convenienza”: ossia, fattori ideali, o puramente fittizi che non hanno corrispondenza in natura, ma sono funzionali a collocare il fenomeno nel quadro di una teoria e ad ottenere leggi fenomenologiche sufficientemente accurate per la sua descrizione (cfr. 1983, pp. 151-162). La adeguatezza dei modelli, d’altra parte, dipenderà anche dai nostri specifici scopi: dunque, è possibile che, a seconda delle diverse esigenze, si ricorra a un modello o ad un altro e si giudichi uno stesso modello adeguato o meno. In seguito, Cartwright ha ampliato questa sua analisi, giungendo alla convinzione che non sia tanto il realismo scientifico il suo vero bersaglio critico, quanto quel “fondamentalismo” che non riconosce come il nostro sia un “dappled world” (Cartwright, 1999), cioè un mondo variegato, variopinto, composito, pieno di entità differenti e che si comportano diversamente, al punto che non può essere descritto ricorrendo a un unico sistema piramidale di leggi (magari con al vertice le poche leggi fisiche fondamentali). La nostra conoscenza avrà, piuttosto, l’aspetto di un patchwork dovuto a saperi irriducibilmente diversi, realizzato con il concorso di più metodi, composto di regole quantitative, ma anche di principi qualitativi e nel quadro del quale nessuna singola disciplina può pretendere di svolgere un ruolo unificatore o egemone, né di fornirci una ‘teoria del tutto’.

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4.4. “Se puoi spruzzarli, sono reali”: Hacking e il realismo sperimentale sulle entità In stretta connessione con le ricerche di Cartwright (assieme alla quale animavano all’epoca la cosiddetta Stanford School di filosofia della scienza), è stato Ian Hacking a coniugare gli esiti di un antirealismo sulle teorie con una nuova forma di realismo sulle entità. Ian Hacking (1936) è un filosofo canadese che ha dato contributi filosofici ad amplissimo raggio: dalla filosofia del linguaggio, della probabilità e della matematica, a quella della fisica e della biologia, all’epistemologia della psichiatria e dei disturbi mentali. Qui ci occuperemo del suo pensiero soltanto per quanto attiene più direttamente al realismo scientifico in fisica e, dunque, essenzialmente della proposta da lui avanzata nel volume del 1983 Representing and Intervening, tradotto in italiano come Conoscere e sperimentare10. È, tuttavia, il caso di sottolineare che, a più riprese, Hacking ha espresso perplessità rispetto alla rilevanza del tradizionale dibattito sul realismo scientifico e alla natura delle sue questioni. In questo senso, ripensando al proprio contributo del 1983 a diversi lustri di distanza, Hacking ha sottolineato di aver inteso sfruttare il tema del realismo per promuovere una presa d’atto dell’importanza degli esperimenti, piuttosto che la riflessione sulla pratica sperimentale per legittimare il realismo sulle entità11. Questa attenzione di Hacking agli aspetti sperimentali e alle procedure laboratoriali di costruzione del sapere scientifico, si pone sotto l’insegna del motto: “si pensi alla pratica e non alla teoria”12 e si presenta in aperta discontinuità con la filosofia della scienza dell’epoca e del passato, accusata di essere troppo incentrata sulla teoria. Esaminiamo, dunque, le ripercussioni di questa centralità accordata alla pratica scientifica sulle tematiche qui in discussione. Per prima cosa, Hacking propone di distinguere tra due forme di realismo scientifico, il realismo sulle teorie (che tende a rifiutare), e il realismo sulle entità (che, invece, difende). Il primo tipo di realismo consiste nel credere che le teorie scientifiche siano vere (o approssimativamente vere), nel senso che esse corrispondono alla realtà e che le entità inosservabili delle quali ci parlano esistono e sono fatte come le teorie insegnano. Anche il realismo circa le entità afferma che una serie di entità inosservabili presenti nella scienza attuale esistono realmente, ma il realismo in proposito non si fonda sulle teorie scientifiche in proposito e, anzi, non esclude che la descrizione intrateorica di tali entità possa risultare inadeguata. Mettere al centro il realismo sulle entità, abbandonando quello sulle teorie, significa, secondo Hacking, Per altri aspetti del suo pensiero, si vedano: Hacking (1975a); Id. (1975b); Id. (1990); Id. (1995); Id. (1998); Id. (2002); Id. (2008); Id. (2009); Id. (2014); Vagelli, (2014); cfr. anche: supra, 1.2. 11 Cfr. Hacking (2009), pp. 154-155. 12 Hacking (1983), p. 324; per un’impostazione affine: Giere, 1988, cap. 5. 10

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passare da un’analisi della scienza piuttosto improduttiva, perché incentrata sul rappresentare e sui conflitti tra rappresentazioni e teorie alternative, a un’analisi centrata sul fare, cioè che si concentra sugli aspetti operativi, pragmatici e manipolativi, facendo così dell’attività sperimentale “la base sicura di un realismo non controverso” (1983, p. 155). Ma come è possibile avere ragioni che giustifichino la credenza nell’esistenza di certi tipi di entità inosservabili, se prescindiamo dalla veridicità delle teorie che ne parlano? Hacking sintetizza la propria risposta con lo slogan: “se puoi spruzzarli, sono reali” (1983, p. 26). Come preciserà in seguito (2009, p. 155), lo slogan va inteso per come è formulato e non come se esprimesse un “se e solo se”: con tale slogan, cioè, Hacking intende formulare quello che ritiene l’argomento più adeguato per giustificare l’attribuzione di realtà a certe entità, senza voler con ciò sottintendere che esso sia anche un criterio necessario. In particolare, Hacking intende qui dire che l’argomento più forte per credere all’esistenza di entità inosservabili, come ad esempio gli elettroni, si lega alle effettive e ripetute interazioni sperimentali che è possibile creare con essi, come, ad esempio, quelle che si ottengono quando li ‘spariamo’ con appositi emettitori, in vista dell’ottenimento di un qualche effetto. Più in specifico, tale criterio di realtà è fondato sulla causazione e l’intervento: “dobbiamo reputare reale ciò che possiamo usare per intervenire nel mondo e per agire su qualcos’altro, oppure ciò che il mondo può usare per agire su di noi” (Hacking, 1983, p. 173). Ad esempio, secondo Hacking (1983, p. 310), noi abbiamo progressivamente imparato a conoscere i poteri causali degli elettroni e ad interagire efficacemente con essi per produrre certi effetti, per questo: abbiamo buone ragioni per supporre l’esistenza degli elettroni, quantunque nessuna descrizione articolata degli elettroni abbia qualche plausibilità di essere vera. Le nostre teorie vengono corrette continuamente; per scopi differenti si ricorre a modelli differenti ed incompatibili sugli elettroni, senza ritenere che quelli siano in senso stretto veri, anche se nondimeno gli elettroni esistono. (Hacking, 1983, p. 32)

In termini più generali, dunque: “è possibile credere in qualche entità senza credere in alcuna teoria particolare in cui quelle entità siano inserite” (1983, p. 34). Quando l’interazione sperimentale non è presente, secondo Hacking non è per forza da escludere che possiamo trovare altri argomenti in favore dell’esistenza di un certo tipo di entità, ma potrà anche accadere che non siamo in condizioni di giustificare l’impegno circa la sua esistenza. In ogni caso, Hacking ha precisato di considerare il proprio argomento sperimentale in favore del realismo come quello “più forte”, ma anche di non ritenere che esso sia l’unico, né, d’altra parte, che esso sia “definitivo” o “decisivo” (Hacking, 2009, p. 157), cioè capace di condurre a una dimostrazione certa e risolutiva in ogni caso dubbio.

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Potremmo a questo punto chiederci fino a che punto sia lecito dissociare il realismo sulle entità (o la componente ontologica del realismo scientifico), dal realismo sulle teorie (o la componente epistemica del realismo scientifico). In prima battuta, sembra possibile individuare e giudicare esistente un certo tipo di entità anche senza avere una conoscenza approfondita circa la sua struttura e la sua natura, o anche in presenza di divergenze e mutamenti teorici in proposito (cfr. Hacking, 1983, cap. 6). Al contempo, però, affermare che esiste un certo tipo di entità inosservabile sembra richiedere il concorso di un quantitativo minimo di credenze stabili e vere (almeno approssimativamente) su quell’entità e sul suo comportamento nei contesti sperimentali, anche solo per poterla identificare e reidentificare. La conoscenza del fatto che uno specifico tipo di inosservabili esiste sembra, cioè, presupporre una caratterizzazione descrittiva minima di esso e delle sue proprietà rilevabili, se non vogliamo ridurre l’oggetto inosservabile in questione a un “puro questo”, del quale possiamo dire poco o nulla e col quale possiamo fare poco o nulla13. Per concludere, ricordiamo che negli ultimi lustri l’interesse di Hacking per il costruttivismo sociale lo ha portato a dedicare una speciale attenzione ai saperi concernenti l’uomo e il mondo vivente. Alcune conclusioni concernenti questo tipo d’indagine, però, hanno senz’altro per lui un significato generale: le scienze, per alcuni ricercatori, sembrano coinvolgere la possibilità di venire a conoscere l’essenza della creazione, la mente di Dio. La metafisica del costruzionismo nega che la creazione abbia un’essenza o che vi sia un punto di vista divino. Rappresenta una sfida nei confronti di simili concezioni del mondo […] Il costruzionismo può essere usato per smascherare un’ideologia della scienza, un’ideologia che mira a produrre timore reverenziale. (Hacking, 1999, p. 55)

4.5. Un antirealismo di tipo nuovo: van Fraassen e l’empirismo costruttivo Secondo Arthur Fine il libro con il quale Bas van Fraassen (1941) nel 1980 propose il proprio empirismo costruttivo rappresentò una boccata d’aria fresca nel dibattito sul realismo. In effetti, si può senza dubbio riconoscere che si è trattato del tentativo più significativo degli ultimi decenni di articolare un punto di vista empirista, in una fase in cui le tesi tradizionali dell’empirismo apparivano o 13 “[…] sembra incoerente affermare che crediamo all’esistenza degli elettroni mentre al contempo rifiutiamo le teorie circa gli elettroni, dal momento che è solo attraverso queste teorie che sappiamo come sono fatti gli elettroni e come possiamo manipolarli; se rifiutiamo queste teorie, degli elettroni non resterebbe praticamente nulla” (Frigg-Votsis, 2011, p. 259; in questo senso anche: Psillos, 2006b, p. 692).

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troppo screditate, oppure troppo generiche per qualificarlo rispetto allo specifico dibattito sul realismo scientifico. Si tratta anche della forma più importante di antirealismo degli ultimi decenni. Richiamiamone, perciò, alcuni caratteri essenziali, ricordando che altri aspetti dell’impostazione di van Fraassen sono già emersi nel primo capitolo e nel paragrafo 4.114. L’empirismo costruttivo è stato presentato da van Fraassen come un atteggiamento epistemico (una stance) concernente la natura e le finalità della conoscenza scientifico-sperimentale in quanto tale, prima ancora che come un corpus dettagliato di dottrine. Soprattutto esso non intende essere una risposta alla domanda su che cosa esiste. Infatti, come van Fraassen è recentemente arrivato a scrivere: Esistono gli elettroni? Gli atomi sono reali? Queste non sono domande filosofiche. La domanda se gli elettroni esistano non è più filosofica di quella concernente l’esistenza della Norvegia, delle streghe o di intelligenze immateriali. Le domande concernenti l’esistenza sono domande concernenti questioni puramente fattuali, se ve ne sono, e la filosofia non è arbitro di simili questioni. (van Fraassen, 2017, p. 95)

Un aspetto cruciale dell’empirismo costruttivo come atteggiamento verso la scienza sta, invece, nella convinzione che alla scienza non dovremmo chiedere di fornirci una storia vera sulla natura del mondo inosservabile, ma solo di essere empiricamente adeguata, cioè di rendere conto nel modo migliore dei fenomeni dei quali facciamo esperienza diretta. Da questo deriva anche una tesi circa gli impegni ontologici connessi alle teorie scientifiche, ossia, l’idea che è sempre lecito e autenticamente razionale anche non assumere impegni ontologici per i tipi di entità inosservabili introdotti dalle teorie scientifico-sperimentali che si accettano: “è decisivo […] che se si tratta di un inosservabile, allora sia possibile essere agnostici circa la sua realtà, e perfino asserire che non esiste” (van Fraassen, 2001, p. 151). L’impostazione di van Fraassen, dunque, non impone di negare l’esistenza degli inosservabili introdotti dalle teorie scientifiche, ma considera possibile e razionale anche non impegnarsi circa la loro esistenza. Quanto a impegni ontologici, infatti, l’empirismo costruttivo non chiede di affermare il contrario di ciò che il realismo scientifico afferma: semplicemente invita a non ritenere che l’accettazione di una teoria abbia come conseguenza necessaria, o come conseguenza più razionale, l’assunzione di impegni ontologici circa l’esistenza degli inosservabili da essa eventualmente introdotti. Secondo van Fraassen (1980, cap. 2), in ottica empirista l’accettazione di una teoria scientifica implica solo di considerarla 14 Per approfondire il pensiero di van Fraassen, si vedano: van Fraassen (1980); Id. (1985); Id. (1993); Id. (2001); Id. (2002); Id. (2008); Id. (2009); Id. (2017). Cfr. Churchland-Hooker (eds.) (1985); Monton (ed.) (2007); Dicken (2010); Monton-Mohler (2017).

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“empiricamente adeguata”, ma non l’impegno a credere in essa, ossia a credere che essa sia vera anche in quelle porzioni che si riferiscono ad inosservabili15. Come detto, questo non significa che per van Fraassen crederla vera per le porzioni concernenti l’inosservabile sia irrazionale e vietato: semplicemente, ciò non è necessario, né imposto dal fatto stesso di accettarla16. L’adeguatezza empirica è una nozione più debole della verità: una teoria sarà empiricamente adeguata “se ciò che essa dice intorno alle cose osservabili e agli eventi di questo mondo è vero – ossia esattamente se essa «salva i fenomeni»” (van Fraassen, 1980, p. 37). L’adeguatezza empirica, dunque, coincide con la verità nella misura in cui la teoria ha che fare con quanto è osservabile, ma ciò che una teoria afferma su quanto è inosservabile può risultare empiricamente adeguato, senza per ciò stesso essere anche vero. L’interpretazione che van Fraassen dà delle teorie scientifiche si differenzia tanto dallo strumentalismo tradizionale, quanto dall’empirismo del circolo di Vienna. Infatti, l’empirismo costruttivo: – interpreta i termini non osservativi come termini che realmente si riferiscono ad entità non osservabili, anche se afferma che, accettando una teoria che li incorpora, non ci impegniamo circa l’esistenza di questi referenti; le teorie scientifiche non sono, dunque, strumenti privi di valore di verità e, anche per la porzione concernente inosservabili sono, di fatto, letteralmente vere o false, sebbene non sia in base al loro valore di verità che dovremmo accettarle (o rifiutarle): l’antirealismo di van Fraassen non è, dunque, una forma di strumentalismo (cfr. van Fraassen, 1980, p. 35); – adotta una interpretazione semantica e non sintattica delle teorie scientifiche (cfr. supra, 4.1) e accoglie, inoltre, la critica alla distinzione tra linguaggio osservativo e linguaggio teorico, basata sulla tesi che i nostri termini osservativi sono anch’essi termini teorici e che non esiste osservazione teoricamente incontaminata. Al contempo, però, van Fraassen ritiene che la distinzione, sul piano percettivo, tra quanto è direttamente osservabile per noi e quanto non lo è sia una distinzione che ha un autentico valore epistemologico e che si candida legittimamente a svolgere, per gli empiristi, un ruolo demarcante in qualche modo analogo a quello svolto in passato dalla distinzione linguistica (ormai insostenibile) tra osservativo e teorico. In effetti, come van Fraassen metterà a fuoco sempre meglio, l’accettazione di una teoria comporta, oltre alla credenza nella sua adeguatezza empirica, anche il riconoscimento del fatto che essa è dotata di “forza empirica”, cioè è informativa per noi. 16 Usando un termine ripreso dalla teologia morale, van Fraassen definisce la credenza negli inosservabili introdotti da una teoria scientifica come qualcosa di ‘supererogatorio’ (ciòè, che va oltre ciò a cui si è obbligati). 15

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L’osservabilità e, più in generale, la percepibilità di qualcosa è qui da intendere con riferimento alle normali capacità dirette e non strumentate della comunità conoscente, e in rapporto a condizioni epistemiche ottimali. In altri termini, è osservabile quanto in condizioni ideali può essere per noi oggetto di percezione diretta. Si tratta di una proprietà relazionale e non assoluta: ogni volta che parliamo dell’osservabilità di un certo x, intendiamo dire, più propriamente, che x è osservabile-per-noi. L’osservabilità così intesa non sarebbe, secondo van Fraassen, una proprietà determinata dalle teorie che il soggetto adotta: che cosa sia osservabile per noi ce lo spiegano le teorie scientifiche, ma non dipende dalle teorie scientifiche che adottiamo17. Inoltre, la rilevanza epistemologica dell’osservabilità non sarebbe minata da argomenti come quello di Grover Maxwell sull’esistenza di un continuum che conduce da quanto certamente conta come un episodio osservativo, a quanto senza dubbio non consideriamo tale (cfr. supra, 3.1): infatti, l’argomento dimostrerebbe solo la vaghezza nell’uso ordinario del predicato ‘osservabile’ e, dunque, la possibilità che, in certi casi-limite, ci troviamo in difficoltà nel decidere come applicarlo. Del resto, secondo van Fraassen, non è tanto decisivo dove passi il confine tra ciò che per noi è osservabile e ciò che è inosservabile, quanto il fatto di riconoscere che tale confine esista ed abbia un rilievo epistemologico autentico. Nell’ottica dell’empirismo costruttivo, poi, tale confine non sarà annullato o modificato grazie all’impiego delle strumentazioni tecnologiche (si veda su questo: infra, Box 5). È bene sottolineare che l’osservabilità-per-noi secondo l’empirismo costruttivo non ha alcuna valenza ontologica, perché è, manifestamente, troppo antropocentrica. Essa, cioè, non rappresenta “la misura di tutte le cose”, né individua dei confini al di là dei quali niente esiste. Non si sta, cioè, affermando che, per parafrasare Berkeley, essere è essere percepibile/osservabile. Per l’empirista costruttivo, l’osservabilità non decide, su un piano ontologico, che cosa esista, essa, semmai, determina, su un piano epistemologico, che cosa siamo tenuti a credere che esista quando accettiamo una teoria scientifica: determina, cioè, la portata e i limiti degli impegni ontologici che assumiamo in rapporto alle nostre teorie scientifico-sperimentali. Infatti, il mondo è quello che è, indipendentemente dalle nostre facoltà conoscitive, ma le nostre affermazioni sul mondo e i nostri impegni ontologici, no. Si noti, inoltre, che l’empirismo costruttivo non è una teoria generale riguardante l’impegno ontologico per ciò che non è percepibile, ma, in quanto posizione filosofica circa le finalità della scienza, concerne solo l’impegno cui le nostre teorie scientifiche aspirano e che giustificano, relativamente agli oggetti inosservabili da esse introdotti. Ciò significa, tra l’altro, che niente è detto circa l’impegno riguardante tipi di entità inosservabili che esulano dal framework 17

Si veda: van Fraassen (1993), § 3; sul tema cfr. anche: Muller (2004).

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scientifico-sperimentale (valori, numeri, angeli, fantasmi etc.). La netta distinzione delineata dall’empirismo costruttivo tra la nostra condizione epistemica rispetto al mondo osservabile e quella rispetto al mondo inosservabile può sollevare equivoci e perplessità legittime: forse l’empirismo costruttivo si basa sull’illusione che la percezione ci permetta di conoscere le cose quali realmente sono in se stesse e non tiene conto di quanto vi è di costruito e teorico nellle nostre esperienze percettive? forse van Fraassen coniuga l’antirealismo sugli inosservabili con una forma discutibile di realismo del senso comune circa il mondo osservabile (cfr. McMullin, 2003)? Queste domande possono trovare, almeno parzialmente, risposta se teniamo presente che l’empirismo costruttivo si caratterizza per un rifiuto complessivo della metafisica (cfr. van Fraassen, 2002, cap. 1). Ciò significa che, nell’ottica di van Fraassen, né la percezione, né la speculazione filosofica, né l’indagine scientifica ci danno qualcosa come una conoscenza della natura ultima degli osservabili e la stessa aspirazione metafisica ad una simile conoscenza dovrebbe essere abbandonata. Anche le categorie e le certezze del sapere di senso comune, perciò, non godono di alcuna speciale legittimazione metafisica, o garanzia di inemendabilità. Certo, però, van Fraassen assume che nel mondo per noi osservabile il successo referenziale dei nostri termini ordinari non sia in genere problematico (cfr. van Fraassen, 2008, p. 3) e che l’accettazione di una teoria riguardante il mondo osservabile ci impegni anche a crederla vera. Le cose, invece, non stanno così quando ci spingiamo oltre le possibilità della nostra esperienza diretta. Quanto al ruolo della percezione diretta, esso sembra essere centrale non perché la vista, ad esempio, ci permetta di cogliere le cose per come realmente sono in sé stesse, ma perché si ritiene che essa dia un contributo essenziale e non surrogabile quando si tratta di individuare invarianze, simmetrie, rapporti di dipendenza tra entità e processi e, di conseguenza, quando si tratta di prendere impegni ontologici e dare spiegazioni veridiche (cfr., in qusto senso: infra, Box 5). BOX 5 Gli strumenti di rivelazione: finestre sull’inosservabile, o mezzi per la creazione di nuovi fenomeni? “Per vedere ci vuole una grande intenzione e una grande energia. Solo così si può produrre quello che si vuole vedere” (Daniele Del Giudice, Atlante occidentale)

Uno degli argomenti più significativi in favore dell’esistenza di almeno alcune entità non direttamente percepibili si coagula intorno ad un ragionamento di questo tipo: con adeguate strumentazioni anche molte entità non direttamente percepibili sono divenute ormai osservabili per noi; è proprio grazie a questa possibilità di osser-

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vazione strumentata che è giustificato l’impegno circa l’esistenza di larga parte delle entità introdotte dalle teorie scientifiche, per quanto esse eccedano la portata immediata dei nostri sensi (cfr. supra, 1.3). Che gli strumenti scientifici ci permettano di avere accesso al mondo inosservabile è senza dubbio il punto di vista più diffuso e plausibile. Già Galilei, in una lettera del 1624, parlava di “un occhialino per vedere da vicino le cose minime” (Galilei, 1968, p. 208). È comunque ragionevole pensare che oggi una approfondita discussione di questo tema richiederebbe di valutare nello specifico quale sia il funzionamento e quali siano i prodotti dei vari strumenti di rivelazione impiegati nella fisica contemporanea. Ciò non è possibile in questa sede, ma sarà almeno il caso di ricordare che alcuni empiristi hanno contestato l’interpretazione secondo cui l’osservazione strumentata costituirebbe, in genere, un modo per vedere quanto è invisibile. Ad esempio, Gustav Bergmann ha sostenuto che in base ad un’analisi empirista rigorosa: le stelle e gli oggetti microscopici non sono cose fisiche in senso letterale, ma soltanto per gentile concessione del linguaggio e dell’immaginazione figurativa. La cosa può apparire imbarazzante. Ma quando guardo attraverso un microscopio o un telescopio, tutto ciò che vedo è una macchia di colore che penetra attraverso il campo, come un’ombra sul muro. E un’ombra, per quanto reale, non è certamente una cosa fisica.

(Bergmann, 1943, p. 342) Più recentemente, anche van Fraassen ha argomentato, in altre forme, che la detezione/rilevazione strumentata permessa dalle apparecchiature tecnologiche non equivale ad una esperienza di osservazione diretta e non è detto che ci abiliti ad assumere gli stessi impegni ontologici ai quali ci abilita l’osservazione diretta. Van Fraassen ritiene che converrebbe considerare gli strumenti scientifici più che come “una sorta di finestra sul livello invisibile o sub-visibile della natura”, come mezzi capaci di produrre “nuovi fenomeni, veri e propri fenomeni osservabili dall’uomo” (2001, p. 154). Questo tipo di interpretazione sarebbe auspicabile addirittura già per il microscopio ottico, ma, a ben più forte ragione, varrà per quello a scansione elettronica. Il ruolo degli strumenti scientifici, dunque, non sarà necessariamente quello di darci rappresentazioni o immagini di ciò che non siamo in grado di percepire direttamente, quanto piuttosto quello di creare nuovi fenomeni: autentici nuovi fenomeni osservabili che ogni teoria sarà tenuta a spiegare18. Una tale interpretazione ‘produttiva’ intende rimanere prudenzialmente agnostica circa il rapporto tra i fenomeni che esperiamo grazie agli strumenti scientifici e il mondo per noi non direttamente osservabile, in base alla convinzione che non avremmo ragioni adeguate per pronunciarci in merito. Infatti, secondo van Fraassen, quando abbiamo a che fare con fenomeni prodotti da strumenti di osservazione scientifica non siamo in condizione di stabilire se si tratti di rappresentazioni di inosservabili, oppure di fenomeni che, pur essendo intersoggettivamente condivisi, non hanno alcun carattere rappresentativo. In altre parole, non possiamo decidere se abbiamo a che fare con qualcosa come la copia affidabile 18

Si veda: van Fraassen (2008), pp. 96-99; cfr. anche: Hacking (1983), cap. 13.

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o il riflesso di un oggetto inosservabile, oppure con qualcosa come, ad esempio, un arcobaleno: cioè, un fenomeno che non consideriamo né un oggetto indipendente in sé, né la rappresentazione di un qualche altro oggetto esistente. Il motivo per cui non potremmo stabilire se i fenomeni generati da strumenti scientifici come il microscopio siano o meno rappresentazione di qualcosa che per noi è inosservabile, si lega alle limitazioni epistemiche inevitabilmente connesse a questi prodotti. Infatti, quando sono in gioco inosservabili, non possiamo procedere a quel tipo di confronti e valutazioni che sono, invece, possibili quando abbiamo a che fare con entità osservabili, e che ci permettono di giudicare giustificatamene se qualcosa è o non è una copia/rappresentazione di qualcos’altro (e sotto quali parametri). Per noi, ad esempio, l’immagine di un albero riflessa nell’acqua è effettivamente rappresentazione di un albero (mentre non é né un albero, né un miraggio), perché la possiamo ricollegare/confrontare con ciò che per noi conta come ‘albero’ effettivo, rilevando simmetrie, invarianze, proprietà condivise e non. Ma, quando non abbiamo il metro di misura procuratoci dall’osservazione diretta di ciò che conta come oggetto effettivo, come possiamo giudicare a proposito di un certo fenomeno se e come esso costituisca la rappresentazione di un oggetto (al quale, per definizione, non possiamo avere accesso diretto)? In questa situazione, secondo van Fraassen, non possiamo pretendere di stabilire quale rapporto il fenomeno prodotto sperimentalmente eventualmente intrattenga con le entità inosservabili e, dunque, stiamo postulando che la relazione esista, più che accertarlo (cfr. 2001, p. 160). In discussione non è che quello che vediamo sia il frutto dell’interazione tra i nostri occhi, i nostri strumenti e un mondo situato a una scala per noi inosservabile; il punto è, semmai, in che misura il fenomeno che rileviamo possa essere considerato come l’inosservabile reso finalmente visibile, o, meglio, come una rappresentazione affidabile di esso, analogamente a ciò che avviene quando abbiamo a che fare con il mondo direttamente osservabile. Invece, tra gli argomenti che militano in favore della possibilità di considerare la visione strumentata come un caso di vera e propria osservazione di quanto era fin lì inosservabile, possiamo ricordare l’argomento della coincidenza. In base ad esso, saremmo titolati a ritenere effettivamente osservati quei fenomeni che ci appaiono identici quando sono rilevati con differenti tipi di tecniche e di strumenti: sarebbe, infatti, inverosimile che, se essi non costituissero delle realtà indipendenti, diversi tipi di rilevazione coincidessero19. Inoltre, vi è l’argomento basato sulla prova di affidabilità di uno strumento tecnologico che possiamo ottenere se osserviamo direttamente qualcosa, poi ne otteniamo un’immagine rimpicciolita, e, quindi, controlliamo, applicando quello strumento all’immagine, che quanto ci appare risulti strutturalmente identico a ciò da cui eravamo partiti; oppure, se osserviamo con uno strumento un oggetto macroscopico posto a grande distanza e quindi controlliamo da vicino, attraverso la percezione diretta, che l’oggetto sia conforme a quanto rilevato grazie allo strumento: se le cose stanno così, questo dovrebbe significare che il nostro stru-

19

Cfr. Hacking (1983), cap. 11; Chakravartty (2017), § 2.2.

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mento non distorce, né crea i fenomeni che osserviamo per suo tramite20. Si tratta di argomenti ai quali è difficile non riconoscere una forte presa, anche se in essi svolge un ruolo centrale la osservazione diretta e non strumentata dell’oggetto in gioco: ma questo è qualcosa che, per ipotesi, ci è precluso quando abbiamo a che fare con degli inosservabili. Tali argomenti, dunque, sottintendono che sia possibile estendere la affidabilità delle rappresentazioni ottenute con certi strumenti in relazione agli osservabili, anche agli inosservabili, e che, al contempo, sia possibile stabilire sotto quali aspetti essi rappresentano fedelmente questi inosservabili (cfr. anche: Magnus, 2003).

4.6. Fine e l’atteggiamento ontologico naturale Nonostante gli apprezzamenti riservati da Arthur Fine (1937) al lavoro di van Fraassen21, in una serie di contributi di poco successivi egli delineerà una prospettiva sensibilmente diversa sul conflitto realismo/antirealismo. Si tratta di una posizione, dagli intenti concliatori, chiamata “Natural Ontological Attitude” (NOA). Fine muove dalla convinzione che il realismo sia ormai morto, tanto in fisica (con le interpretazioni più influenti della meccanica quantistica), quanto in filosofia (con il neopositivismo). Si tratterà, dunque, di trovare un “successore adeguato” del realismo “for postrealist times” (Fine, 1984a, pp. 112-113). Egli ritiene che questo nuovo atteggiamento corretto verso la scienza non sia né realista, né antirealista, ma “medi tra i due”, delineando una sorta di base minimale condivisibile da entrambi i punti di vista. Esso, inoltre, esprimerebbe l’epistemologia del senso comune, al punto che si potrà definirlo “atteggiamento ontologico naturale” (1984a, p. 130). Il nocciolo essenziale di esso consiste in quanto segue: “accettare l’evidenza dei propri sensi e, allo stesso modo, le teorie scientifiche confermate” (1984a, p. 127), ossia, crederle vere in senso referenziale e in base al semplice concetto di ‘verità’ ordinariamente in uso (cfr. 1984a, p. 133). Ciò equivale ad ammettere che esistano molecole, atomi e quanto le teorie scientifiche più affermate ci dicono, proprio come crediamo che esistano gli oggetti dei quali facciamo quotidianamente esperienza coi sensi e riteniamo vere alcune affermazioni a loro riguardo. È poi possibile che le nostre credenze in materia siano più o meno forti, in base alle prove sperimentali e al grado di conferma dei quali di volta in volta disponiamo. Per Fine, l’atteggiamento ontologico naturale consiste nel compiere questa scelta, limitandosi ad essa: nessuna ulteriore affermazione è necessaria, né autorizzata dalla NOA. Come detto, secondo Fine, anche realisti e antirealisti, dovrebbero accettare il ‘nocciolo essenziale’ della NOA, mentre si differenzierebbero 20 Cfr. in questo senso: l’argomento della griglia, in: Hacking (1983), pp. 241-242; e la cosiddetta strategia galileiana, in: Kitcher (2001), § 6. 21 Per il confronto di Fine con l’empirismo costruttivo: Fine (1984b), pp. 142-147; Id. (2001).

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(tra loro e dal sostenitore della NOA) in un secondo momento, per ciò che aggiungono a tale nocciolo condiviso. Ad esempio, l’antirealista, potrà aggiungervi una peculiare concezione della verità (di tipo, poniamo, non corrispondentista, ma pragmatista, convenzionalista etc.). Invece, a caratterizzare il proprium dell’impostazione realista, in aggiunta al ‘nocciolo essenziale’, secondo Fine sarebbe l’enfasi sul fatto che atomi, molecole etc. esistono realmente, cioè l’affermare che essi, non solo sono esistenti allo stesso modo degli oggetti di esperienza, ma costituiscono la ‘vera’ realtà, corrispondono alla struttura ontologica effettiva, basilare e indipendente del mondo esterno, resa finalmente accessibile dalla scienza (cfr. Fine, 1984b, p. 137). In altri termini, per Fine, il realista è qualcuno che pretende di assumere un punto di vista (stance) esterno alla pratica di costruzione della scienza, valutandone i risultati in termini assoluti (cfr. Fine, 1984a, p. 131). Ma secondo Fine questa pretesa sarebbe infondata e il sostenitore dell’atteggiamento ontologico naturale non si sogna di sottoscriverla. La NOA si propone, dunque, come prospettiva “minimale” e “parsimoniosa” in filosofia della scienza, guardando, per contro, con scetticismo alle tradizionali pretese sia realiste che antirealiste di giungere a caratterizzazioni più corpose dell’impegno ontologico o del concetto di verità (e forse per questo essa fu vista con simpatia da un filosofo come Richard Rorty). La ‘naturalità’ di questo atteggiamento consisterebbe, per Fine, appunto nel fatto che esso non aggiunge ‘additivi’ filosofici discutibili all’interpretazione delle teorie scientifiche, fidando nel fatto che “la scienza è aperta a fornirci tutte le risorse e il nutrimento di cui abbiamo bisogno noi che studiamo la scienza” (Fine, 1996, p. 176). Nonostante Fine si mostri convinto di una crisi irreversibile del realismo scientifico e rifiuti esplicitamente alcuni assunti tipici dell’atteggiamento realista (la fiducia nell’inferenza alla miglior spiegazione, l’idea di un progresso cumulativo della scienza etc.), la NOA non pare troppo distante da una qualche forma di realismo empirico. In fondo, la tesi del realismo empirico è quella secondo cui dovremmo credere all’esistenza delle entità non direttamente osservabili introdotte dalle teorie scientifiche confermate, così come crediamo a ciò di cui facciamo esperienza; e dovremmo farlo riconoscendo, appunto, che sia le entità osservabili che quelle inosservabili non sono comunque le ‘cose in sé’ delle quali parlava la metafisica tradizionale. Sembra, allora, che un aspetto problematico della ‘mediazione’ di Fine stia in questo: il cuore dell’atteggiamento ontologico naturale consiste nel fare proprio ciò che varie forme di antirealismo ritengono non sia consigliabile (o obbligatorio) fare, cioè equiparare l’impegno ontologico per quanto è inosservabile a quello che contraiamo verso ciò che è oggetto di esperienza diretta22. 22

Che la NOA sia fondamentalmente una forma di realismo scientifico è sostenuto, con un’ampia

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4.7. “The Best of Both Worlds”?: il realismo strutturale Nel 1989 apparve un celebre articolo di John Worrall (1946), un filosofo attivo presso la London School of Economics, dal titolo: Structural Realism: the Best of Both Worlds. Si tratta di un saggio destinato a segnare profondamente il dibattito degli ultimi decenni. Worrall vi presentava il realismo strutturale come il tipo di impostazione filosofica capace di fare salve, al contempo, le ragioni principali in favore del realismo scientifico, come il no-miracles argument di Putnam, ma anche le principali ragioni contrarie ad esso, a partire dalle argomentazioni di Laudan23. Worrall ha difeso la propria tesi a partire dal caso dell’ottica contemporanea. Non c’è dubbio che, sul piano empirico, essa abbia dimostrato un chiaro progresso e una indubbia crescita cumulativa quanto alla capacità della fisica di trattare con successo un numero sempre maggiore di fenomeni ottici diversi. Al contempo, però, sul piano teorico, le teorie sulla natura della luce che si sono succedute hanno attribuito ciascuna alla luce una costituzione incompatibile con quanto affermava la teoria precedente: dall’idea secondo cui un fascio di luce consisterebbe in un effluvio di particelle materiali che si muovono nel vuoto, alla concezione della luce come vibrazioni che si propagano meccanicamente in un mezzo solido elastico chiamato “etere luminifero” (Fresnel), all’idea che si tratti di una oscillazione che si propaga in un campo elettromagnetico (Maxwell), fino all’emergere della teoria dei fotoni, che fa riferimento a delle particelle, ma di tipo del tutto nuovo (cfr. Worrall, 1989, pp. 107-108). Addirittura, di certe entità, come l’etere luminifero, che svolgevano un ruolo centrale in una precedente teoria, in teorie successive si affermerà che non esistono affatto. Secondo Worrall la sfida posta da queste discontinuità teoriche nella storia della scienza va presa così sul serio che, se non fosse possibile individuare elementi di effettiva continuità soggiacenti ai mutamenti (ossia elementi che si preservano nel cambiamento), il realismo scientifico sarebbe insostenibile. Al contrario, quanto in una teoria scientifica si dovesse conservare attraverso il cambiamento teorico sarebbe un buon candidato per una interpretazione realista: il conservarsi attraverso il mutamento teorico sarebbe, cioè, un buon indice della verità approssimata di una componente della teoria. Ora, secondo Worrall, vi sarebbero, in effetti, componenti delle teorie scientifiche che si conservano attraverso le rivoluzioni scientifiche. Queste componenti, però, non sono costituite dagli aspetti contenutistici, cioè, ad esempio, dei tipi di entità dei quali, di volta in volta, le teorie parlano, ma dagli aspetti strutturali e formali, cioè, delle relazioni disamina, da Musgrave (1989). 23 Per una esposizione in italiano del suo punto di vista, si veda: Worrall (1995); Worrall è anche curatore di una ampia antologia di testi sul realismo scientifico: Worrall (ed.) (1994).

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invarianti tra i fenomeni che sono espresse dalla formulazione matematica della teoria, dalle sue equazioni. Così, secondo Worrall: sembra corretto affermare che Fresnel fraintese completamente la natura della luce, ma nonostante ciò non è un miracolo che la sua teoria abbia goduto del successo empirico predittivo che aveva, dal momento che la teoria di Fresnel, come la scienza ha compreso in seguito, attribuiva alla luce la struttura giusta. (Worrall, 1989, p. 117; cfr. Id., 1995, p. 193)

In altre parole, anche se non crediamo più che che la luce consista di vibrazioni che si trasmettono attraverso un etere luminifero, questo non toglie che “la teoria di Fresnel ha esattamente la struttura giusta – il fatto è ‘solo’ che quanto vibra, in base alla teoria di Maxwell, sono le intensità del campo elettrico e magnetico” (Worrall, 1989, p. 119). La teoria di Fresnel, cioè, è in buona sostanza strutturalmente corretta, anche se essa, nel complesso, non è vera. Ed è proprio per questo che, ad esempio, le equazioni di Fresnel rimangono valide anche nel quadro, del tutto differente, della teoria di Maxwell, ove riappaiono, reinterpretate in modo differente, ma immutate. Più in generale, secondo Worrall: è ragionevole credere che le nostre teorie di successo sono (approssimativamente) corrette a livello strutturale (e anche che questa è la rivendicazione epistemica più forte che è ragionevole fare a loro riguardo). (Worrall, 2007, p. 125)24

Per Worrall, gli aspetti essenziali di questa impostazione si troverebbero già in Poincaré, la cui lezione, però, sarebbe stata dimenticata (cfr. supra, 2.3)25. Infatti, in risposta all’idea che il rapido succedersi di teorie scientifiche diverse mostrasse la crisi della scienza, Poincaré aveva affermato che le equazioni distintive della teoria di Fresnel rimanevano vere anche dopo l’avvento della teoria di Maxwell, permettendo sempre di prevedere con successo i fenomeni. E aggiungeva, più ampiamente: non si dica che in tal modo riduciamo le teorie fisiche al ruolo di mere ricette pratiche; queste equazioni esprimono delle relazioni e, se le equazioni restano vere, significa che tali relazioni conservano la loro realtà. (Poincaré, 1905, p. 241)

C’è anche un altro aspetto dell’analisi di Poincaré che Worrall trova condivisibile: secondo Poincaré non avremmo ragione per pensare che Maxwell, ad 24 Worrall (2007, p. 147) ha anche sostenuto che l’intero contenuto cognitivo di una teoria (dunque, sia il contenuto empirico che quello strutturale) è colto dall’enunciato di Ramsey di essa (cfr. supra, Box 2). 25 Tra gli antesignani dello strutturalismo potremmo in effetti menzionare anche Russell o Cassirer e, in modo assai più prossimo, Ernan McMullin (1978); Id. (1984), pp. 26-30.

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esempio, sia riuscito a conoscere la natura della luce e la sua costituzione meglio di Fresnel, ma soltanto che abbia ulteriormente arricchito la nostra conoscenza delle relazioni strutturali che caratterizzano i fenomeni ottici. Poincaré ritiene, anzi, che “la natura ci nasconderà in eterno” gli oggetti reali che la compongono, e che “le vere relazioni tra questi oggetti reali sono la sola realtà che potremmo raggiungere” (1905, pp. 241-243). Worrall, in accordo con lui, afferma: “è un errore pensare che potremo mai “comprendere” la natura dell’arredo basilare dell’universo”26. In altri termini, le relazioni strutturali sono qui considerate come tutto ciò che le teorie scientifiche ci permettono di conoscere con certezza e la cui conoscenza viene preservata attraverso il mutamento teorico (si parla di “preservative realism”): le porzioni di teoria che le riguardano saranno, dunque, anche quanto merita un’interpretazione realista. Non abbiamo, invece, ragione di assumere un impegno realista verso le entità inosservabili postulate dalle varie teorie scientifiche. In questo senso, si può considerare il realismo strutturale come un realismo selettivo qualificato, cioè che esplicita programmaticamente quale sia la componente delle teorie scientifiche meritevole di impegno realista e quale no. Questa conclusione permetterebbe anche, secondo Worrall, di rispondere in modo soddisfacente alla sfida posta al realismo dalle rivoluzioni scientifiche, conciliando l’effettiva discontinuità teorica sul piano degli oggetti postulati dalle teorie scientifiche, con una adeguata spiegazione razionale del successo della scienza, che sarebbe garantito dal realismo riguardo agli aspetti strutturali. Sia la tesi che gli aspetti strutturali siano preservati, sia l’opzione realista ad essi associata sollevano, però, questioni rilevanti. In primo luogo, si è sostenuto che, nel corso dell’evoluzione scientifica (almeno in certi casi), alcuni aspetti strutturali delle teorie scientifiche andrebbero persi anch’essi e che, dunque, non si potrebbe affermare, in modo indiscriminato, che la componente strutturale delle teorie costituisca un elemento che viene sempre preservato nell’evoluzione della scienza matura27. In secondo luogo, anche ammesso che Worrall abbia efficacemente individuato un elemento delle teorie scientifiche che viene preservato attraverso il mutamento teorico, ciò sembra costituire una condizione necessaria, ma di per sé non sufficiente per difendere il realismo scientifico: si tratta, infatti, di capire perché questo elemento strutturale sia anche meritevole di interpretazione realista e, su questo punto, Worrall pare rifarsi essenzialmente ad argomenti già noti, come l’inferenza dal successo alla verità e il no-miracles argument. Come ha scritto efficacemente Hasok Chang “anche quando siamo in presenza della 26

Worrall (1989), p. 122; sull’interpretazione del pensiero di Poincaré, cfr. anche: Massimi (2011),

§ 1.2. 27

Cfr. Kitcher (2001), pp. 169-170; Stanford (2006), § 7.4; Chakravartty (2004), p. 164; Lyons

(2016).

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preservazione, non è affatto chiaro che cosa siamo autorizzati a inferirne”, infatti: “lunga è la strada dalla preservazione al realismo”28. Soffermiamoci, però, ora sulle questioni e gli sviluppi principali che la suggestiva proposta di Worrall ha suscitato e richiesto di approfondire negli ultimi decenni.

4.8. Lo strutturalismo: sviluppi, dibattiti e critiche Gli ultimi venti anni hanno visto un ricchissimo dibattito sul realismo strutturale29. La prima cosa da sottolineare è che, a partire da Ladyman (1998), è usuale distinguere tra due diverse forme di realismo strutturale, quello epistemico e quello ontico30. Prima di esaminarle, va notato che esse hanno in comune il fatto di riconoscere una qualche forma di cumulatività alla conoscenza scientifica e, al contempo, di non impegnarsi per la referenzialità di tutti i termini introdotti nelle nostre migliori teorie scientifiche (cfr. French-Ladyman 2011, § 2.2). Detto questo, dobbiamo distinguere tra: – Realismo strutturale epistemico (ESR; o ‘restrittivo’): tutto ciò che possiamo conoscere scientificamente del mondo fisico sono gli aspetti strutturali di esso, mentre non possiamo conoscerne gli aspetti non strutturali, come la natura intrinseca degli oggetti individuali. Questa nostra limitazione epistemica si associa, però, alla tesi che esista (o, come minimo, che possa esistere) qualcosa di più oltre a tali aspetti strutturali: ad esempio, degli oggetti inosservabili che istanziano le relazioni in questione; ma, in ogni caso, non è possibile conoscerli in quanto tali. La forma epistemica del realismo strutturale sarebbe quella che coglie meglio quanto sostenuto (non senza ambiguità) da Worrall nel saggio del 198931. L’ESR può assumere forme diverse a seconda della concezione che si ha della conoscenza strutturale e della sua portata (cfr. Ladyman, 2014, § Chang (2003), pp. 912 e 910; cfr. anche: Psillos (1995), § 4. Come introduzione complessiva al realismo strutturale, si vedano: Bokulich-Bokulich (eds.) (2011); Frigg-Votsis (2011); Landry-Rickles (eds.) (2012); Ladyman (2014). La nozione formale di struttura è così sintetizzata da Frigg-Votsis (2011): “Una struttura S consiste (a) di un insieme di oggetti non vuoto U, che forma il dominio della struttura, e (b) di un insieme indicizzato e non vuoto R (ossia una lista ordinata) di relazioni su U; R può contenere anche relazioni a un posto (ossia proprietà monadiche)” (p. 229). Ciò significa che quelle che comunemente chiamiamo relazioni sono qui concepite come relazioni poliadiche e quelle che abitualmente chiamiamo proprietà sono concepite come relazioni monadiche. 30 Per una terza forma di realismo strutturale, il realismo strutturale metodologico, si veda: Landry (2012). 31 Si veda, più ampiamente: Frigg-Votsis (2011), § 3. Per una difesa di tale forma di strutturalismo, ad esempio: Morganti (2004). 28 29

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3). Ad esempio, si può ritenere che la conoscenza strutturale riguardi anche le proprietà relazionali dei relata (cioè, delle entità in relazione, in sé inconoscibili). Oppure, in maniera più restrittiva, si può ritenere che la conoscenza strutturale sia relativa alle sole proprietà di secondo ordine, ossia alle proprietà di relazioni e di proprietà, ma non direttamente alle relazioni e proprietà dei relata stessi (così la pensava Russell). – Realismo strutturale ontico (OSR; o ‘metafisico’): tutto ciò che possiamo conoscere scientificamente del mondo inosservabile sono gli aspetti strutturali, perché essi sono gli unici effettivi costituenti della realtà, nel senso che tutto ciò che davvero esiste è struttura. Questa forma di realismo strutturale ontico è stata proposta soprattutto da Steven French e James Ladyman32. Quelli che tradizionalmente consideriamo oggetti dovranno essere riconcepiti come realtà secondarie, totalmente dipendenti dalle relazioni, o venire eliminati dalla nostra concezione del mondo (cfr. French, 2010). Di conseguenza, i concetti di ‘sostanza’, ‘ente’, ‘oggetto’ individuale andranno abbandonati, o almeno reinterpretati come concetti euristici che hanno una mera utilità pratica per soggetti dotati del nostro tipo di esperienza percettiva. Altri filosofi, pur sottoscrivendo OSR, hanno invece adottato posizioni non eliminativiste rispetto alle entità individuali, sostenendo un realismo strutturale moderato33: in questa prospettiva, esistono allo stesso titolo delle relazioni anche le entità individuali, ma esse non hanno proprietà intrinseche, bensì solo relazionali (le relazioni sono, cioè, i modi in cui esistono gli oggetti). Il primato attribuito dall’OSR alle strutture rispetto alle entità individuali sarebbe conforme, secondo i suoi proponenti, ad alcuni esiti della fisica contemporanea, se si assume, ad esempio, che nel quadro della meccanica quantistica risulti problematico conservare le tradizionali nozioni di individualità e identità34. Per converso, è da sottolineare come OSR implichi un forte revisionismo rispetto al nostro tradizionale apparato concettuale e, verosimilmente, anche un radicale ripensamento di molte convinzioni metafisiche tradizionali35. Molteplici obiezioni sono state sollevate contro il realismo strutturale ontico (per una sintesi delle quali si veda: Ladyman, 2014, §5). In particolare, rispetto alla forma eliminativista, vi è quella secondo cui devono pur esistere entità Si vedano: Ladyman (1998); French-Ladyman (2003); French-Ladyman (2011). Così, ad esempio: Esfeld (2004), § 3; Esfeld-Lam (2010). 34 Cfr. French-Ladyman (2003); per una critica a questa tesi: Morganti (2011); per una sintesi in tema: Frigg-Votsis (2011), pp. 265-269. 35 Questo almeno per quanti assumono che la sola metafisica possibile debba basarsi sulla nostra migliore scienza, cfr. in questo senso: Ladyman-Ross-Spurrett-Collier (2007); Ross-Ladyman-Kincaid (eds.) (2013). 32

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individuali, per quanto inconoscibili, perché sia possibile che si istanzino delle relazioni. Almeno nel nostro quadro concettuale ordinario, infatti, non sembra possibile concepire relazioni senza relata e, perciò, le relazioni non potrebbero essere tutto ciò che vi è. Dunque, come ha sostenuto, tra gli altri, Chakravartty: “uno non può affermare in modo intelligibile la realtà delle relazioni senza essere anche impegnato a sostenere che alcune cose sono in relazione”36. In risposta, si è fatto appello alla possibilità di elaborare una concezione rivista delle relazioni, quali elementi basilari della realtà che non collegano individualità non-predicabili come le sostanze37. Un’altra questione connessa alla possibilità o meno di prescindere dagli oggetti individuali e dalle loro proprietà è quella secondo cui essi svolgerebbero un ruolo essenziale nei processi causali e, dunque, costituirebbero una componente imprescindibile delle spiegazioni scientifiche, al punto che eliminarli significherebbe trovarsi poi in difficoltà nel rendere conto della causazione38. Altre obiezioni riguardano, invece, più ampiamente ogni forma di realismo strutturale. Ad esempio, si è obiettato che non sarebbe possibile tracciare, entro la scienza contemporanea, quella netta distinzione tra struttura e contenuto di una teoria che il realismo strutturale presuppone e che le stesse proprietà delle entità sarebbero definite in termini strutturali39. Di conseguenza, un atteggiamento davvero realista verso tutti gli aspetti strutturali collasserebbe in una forma tradizionale di realismo scientifico. L’obiezione varrebbe a maggior ragione nel caso dello strutturalismo ontico. Il fatto è che, come ha notato van Fraassen (2006, pp. 292-293), la distinzione tra contenuto e struttura della natura sembra perdere di significato quando si afferma che ad esistere è solo la struttura. Infatti, se in natura non esistono davvero contenuti, da una parte, e relazioni strutturali dall’altra, ma solo queste ultime sono reali, allora pare cadere anche la possibilità di formulare la distinzione tra struttura e non-struttura che qualificherebbe il realismo strutturale40. Nel quadro di questa discussione (e conservando la distinzione tra forma e contenuto), van Fraassen ha anche proposto quello che ha definito come “empirismo strutturale”41. In base ad esso, ci sarebbe un senso in cui è accettabile l’idea che sia struttura tutto quello che possiamo conoscere grazie alla scienza (e non in assoluto), ma le strutture in questione non dovrebbe36 Chakravartty (1998), p. 399; cfr. anche: Psillos (2001), § 3; Chakravartty (2003); Dorato (2007), pp. 176-177. 37 Cfr. Mertz (2003), p. 128; Morganti (2004); Frigg-Votsis (2011), pp. 262-263 (che sintetizzano anche altre possibili risposte da parte dei realisti strutturali ontici di tipo eliminativista). 38 Cfr. Psillos (2006a), § 4; in risposta: French-Ladyman (2011), § 2.6. 39 Si vedano, in questo senso: Psillos (1995), § 5; Stanford (2006), § 7.4. 40 Per una risposta strutturalista: Ladyman (2001), pp. 73-74. Cfr. anche: Frigg-Votsis (2011), pp. 257-258. 41 van Fraassen (2006), § 4; cfr. anche: Id. (2008), cap. 11.

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ro essere viste come strutture nascoste della realtà. Si intende, invece, sostenere che entro la scienza rappresentiamo i fenomeni empirici come incorporabili in certe strutture astratte che sono i modelli teorici (e queste strutture astratte sono descrivibili solo fino all’isomorfismo strutturale). La conoscenza scientifica dei fenomeni empirici consisterà, perciò, nel rappresentarli attraverso modelli, sempre selettivi e solo parzialmente accurati, e questi modelli sono delle strutture matematiche astratte. Parlando del dibattito sollevato dallo strutturalismo, sarà poi il caso di menzionare anche il “semirealismo” difeso da Anjan Chakravartty42, che si propone, in una certa misura, di riconciliare realismo strutturale e realismo sulle entità (cfr. Chakravartty, 1998, p. 401). Il semirealismo limita l’impegno realista alle sole “detection properties”, cioè a quelle proprietà che svolgono un ruolo causale e vengono rilevate in sede sperimentale grazie ai nostri strumenti di misura. Al contempo, si crede anche alle strutture, interpretate come relazioni tra proprietà detettive. Proprietà di questo genere vengono contrapposte da Chakravartty alle cosiddette “auxiliary properties”, attribuite in sede teorica a certi oggetti fisici, ma che non svolgono un ruolo essenziale nei processi sperimentali di rilevazione e circa la realtà delle quali non sarebbe necessario impegnarsi. Al contrario, le “detection properties” sarebbero autenticamente conosciute dalle nostre migliori teorie e quanto sappiamo di esse si conserverebbe attraverso il mutamento teorico.

4.9. Divide et impera: per un realismo (solo) sull’essenziale Altre forme di realismo selettivo o parziale, diverse dal realismo strutturale, sono sorte in anni recenti. Ad esempio, a partire dalle tesi di Philip Kitcher e poi soprattutto di Stathis Psillos, si è sviluppata una forma di realismo in base alla quale dovremmo impegnarci solo per quegli elementi di una teoria che svolgono un ruolo centrale o essenziale nell’effettivo conseguimento dei suoi successi empirico-predittivi, e la cui esistenza sarebbe, dunque, l’unico aspetto della teoria confermato da questi successi (conferma selettiva)43. A partire da Kitcher, questi elementi centrali sul piano operativo della costruzione di previsioni e spiegazioni di successo sono anche stati definiti “working posits” e contrapposti ai cosiddetti “presuppositional posits” di una teoria, cioè a quelle componenti di essa che, pur essendo presupposte dagli schemi di spiegazione e previsione della teoria, non sono operativamente impiegate in essi. Un realismo di questo genere può prendere il nome di “deployment realism”, perché è circoscritto, appunto, a quelle componenti delle teorie che sono effettivamente ‘mobilitate’, ‘dispiegate’ nelle previ42 43

Cfr. Chakravartty (1998); Id. (2004); Id. (2007). Cfr. Kitcher (1993), p. 149.

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sioni empiriche di successo. Sviluppando una strategia di questo genere, Psillos (1999, capp. 5-6) ha parlato di un “divide et impera move”: si tratterebbe, infatti, di salvare il realismo scientifico distinguendo, entro una teoria, tra aspetti degni di un impegno realista, perché hanno fornito dei “contributi essenziali” ai suoi successi, e quanto in essa, invece, non sarebbe oggetto di un impegno realista ben giustificato44. Questo permetterebbe anche di rispondere adeguatamente alle sfide al realismo provenienti dalla storia della scienza (si pensi agli argomenti di Laudan): infatti, se anche una teoria di successo può, nel complesso, essere falsa, essa sarà da ritenersi vera almeno per quelle porzioni essenziali al suo successo empirico. Tali porzioni sarebbero, poi, anche quelle che si preservano attraverso il mutamento scientifico. Questo tipo di approccio, inoltre, si collega, in genere, alla tesi secondo cui ad avere forza probante della verità di una teoria non sarebbe qualunque tipo di successo empirico, ma solo le cosiddette “novel predictions” (cfr. supra, 1.10). Si può notare come, a differenza che nel realismo strutturale, in questa forma di realismo selettivo non si individua un tipo di componente delle teorie fisiche meritevole di una interpretazione realista, ma un criterio che dovrebbe consentire di identificare, in ciascuna delle diverse teorie scientifiche, la porzione alla quale guardare in ottica realista. I problemi di un simile realismo sembrano legarsi, tra l’altro, alla difficoltà di individuare esattamente e isolare compiutamente le componenti di una teoria che sono essenziali per i suoi successi predittivi (e di farlo in maniera non solo retrospettiva)45. Inoltre, si tratterebbe di dimostrare che le componenti essenziali per i successi empirici delle teorie (e perfino per le loro “novel predictions”) non possono essere false, o, almeno, che di fatto non si sono già rivelate false in più occasioni, per quanto concerne teorie scientifiche di successo del passato (come, invece, secondo alcuni, sarebbe accaduto, non di rado)46. In ogni caso, di fronte a questo proliferare di forme diverse di realismo selettivo47, Psillos (2017, § 8) ha osservato che, nell’attuale dibattito, i contrasti più accesi riguarderebbero non tanto la distinzione osservabile/inosservabile, ma il Psillos (1999), pp. 108-110. “alcuni critici hanno osservato che solo retrospettivamente i realisti selettivi sono in grado di identificare quali elementi in una teoria siano dei working posits. Essi non sono in condizione di indicare quali siano in una teoria attualmente accettata gli autentici working posits che saranno conservati nel futuro e quali invece i meri presuppositional posits che saranno perciò abbandonati in futuro” (Wray, 2017, p. 42). 46 Per una critica: Doppelt (2005); Stanford (2006), cap. 7; Lyons (2006); Id. (2016); Vickers (2017), specie § 4. In difesa di esso: Alai (2014b); Id. (2018). 47 Una forma di realismo selettivo circa le proprietà inosservabili è anche il “realismo eclettico” proposto da Juha Saatsi (cfr. Saatsi, 2008). Per nuove proposte di realismo selettivo, si veda: Harker (2013); Peters (2014). Al realismo selettivo è stato dedicato, di recente, un importante convegno internazionale, dal titolo: “Quo vadis selective scientific realism?” (Durham University, agosto 2017). 44 45

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problema di stabilire, “entro” l’inosservabile, quali aspetti non direttamente osservabili del mondo descritto dalla scienza siano “epistemicamente accessibili” e quali no (o, potremmo invece dire, quali meritino un impegno realista e quali no). La valutazione di Psillos sembra cogliere un tratto effettivo delle dinamiche in corso, almeno limitatamente al piano quantitativo.

4.10. Work in progress Il dibattito sul realismo scientifico è oggi uno degli ambiti più vivaci ed internazionali della filosofia della scienza, numerosi sono i progetti in corso o le pubblicazioni di ampio respiro appena compiute48, e si presta una attenzione sempre crescente alle lezioni che è possibile trarre dalla storia della scienza. Del resto, proprio da un esame attento della storia della scienza sono venuti argomenti di grande rilievo come, ad esempio, la cosiddetta induzione pessimista, o l’argomento delle “unconceived alternatives” di Stanford49. Non meno significativa è la centralità attualmente riservata all’analisi delle pratiche scientifiche effettive, inclusa quella del costruire teorie50. Una rinnovata rilevanza hanno poi aquistato le tradizionali questioni connesse ai rapporti tra fisica e metafisica e alla loro continuità/discontinuità, nonché i temi che più si presterebbero, secondo alcuni, a una lettura in chiave metafisica (la questione della causazione, le nozioni di possibilità e necessità, il tema delle leggi di natura etc.)51. Inoltre, uno degli temi di indagine più importanti emersi negli ultimi anni è quello concernente la natura, lo statuto e le finalità dei modelli scientifici e l’attività di rappresentazione scientifica del mondo fisico. Si tratta, senza dubbio, di qualcosa che si ricollega anche alla vasta diffusione di una interpretazione di tipo semantico delle teorie scientifiche, declinata, appunto, in termini modellistici (cfr. supra, 4.1); così come un antecedente rilevante del dibattito sul rapporto Come l’importante Saatsi (ed.) (2017); ma si veda anche: Agazzi (ed.) (2017), nonché il volume 9 (2018) della rivista “Spontaneous Generations. A Journal for the History and Philosophy of Science”, dedicato a: “The Future of the Scientific Realism Debate: Contemporary Issues Concerning Scientific Realism” (URL: https://spontaneousgenerations.library.utoronto.ca/index.php/SpontaneousGenerations). 49 Si veda in proposito un recente progetto di ricerca inglese dal titolo: Scientific Realism and the Challenge from the History of Science (URL: http://community.dur.ac.uk/evaluating.realism/index. html). 50 Si vedano: Rouse (1996); Soler-Zwart-Lynch-Israel-Jost (eds.) (2014); significativa in proposito è anche l’esistenza di una Society for Philosophy of Science in Practice (URL: http://www.philosophy-science-practice.org/en/). 51 Per l’attuale riflessione sui rapporti tra fisica e metafisca, si vedano le raccolte: Ross-Ladyman-Kincaid (eds.) (2013); Bigaj-Wüthrich (eds.) (2015); cfr. anche: Agazzi (2014). Nel quadro di un simile dibatttito sulla “metafisca della scienza”, si sono potute profilare recentemente posizioni “neo-aristoteliche” o, per contro, “neo-humeane” (cfr. Psillos, 2013). 48

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tra modellizzazione dei fenomeni e loro idealizzazione si trova già nei lavori di Nancy Cartwright (cfr. supra, 4.3). Un saggio che può essere considerato rappresentativo della crescente attenzione a queste tematiche è l’articolo di Hughes (1997) nel quale si identificavano tre componenti particolarmente centrali della modellizzazione in fisica: denotazione (elementi del mondo fisico sono denotati da elementi del modello), dimostrazione (il modello ci dà la possibilità di dimostrare delle conclusioni teoriche) e interpretazione (tali conclusioni devono essere interpretate per poter fare previsioni sperimentali). Più in generale, il dibattito sembra essersi articolato specialmente su due piani, connessi, ma distinti. Da un lato, ci si è concentrati su questioni di ordine molto generale relative a come un costrutto astratto possa fungere da rappresentazione di qualcosa che appartiene al mondo fisico (ad esempio: esistono o no proprietà, magari di tipo relazionale, che valgano come condizione necessaria e/o sufficiente perché qualcosa rappresenti un dato target?). D’altra parte, proprio nello spirito di una crescente attenzione alla effettiva pratica di costruzione della scienza, il dibattito ha riservato uno spazio sempre maggiore a analisi concernenti le modalità con cui, in concreto, gli scienziati, nel corso del loro lavoro, creano modelli e ne fanno uso per rappresentare i fenomeni sui quali fanno ricerca52. La riflessione sul ruolo dei modelli nella scienza può intersecare in vario modo la discussione sul realismo scientifico. Si è sostenuto, ad esempio, che gli scienziati facciano sovente ricorso a più modelli, tra loro incompatibili, per rendere conto adeguatamente di un dato processo fisico e che questo costituirebbe un chiaro argomento in favore di una visione antirealista della scienza. Naturalmente, non sono mancate le repliche realiste circa la pertinenza e/o la forza di questo argomento e il dibattito sul tema è ancora in corso (cfr. Frigg-Hartmann, 2012, § 5.1). Da ultimo, è giusto aggiungere che al dibattito odierno sulle tematiche connesse al realismo scientifico contribuiscono validamente anche studiosi italiani, operanti in Italia e all’estero53. Dopo questa carrellata di argomenti, autori, distinzioni, opinioni contrapposte, punti di vista che si eclissano e riemergono, qualcuno potrebbe essere tentato di pensare che ci troviamo di fronte ad un dibattito sterile e poco costruttivo, all’ennesimo “campo di lotte e battaglie senza fine” (per usare un’espressione Per una introduzione e una bibliografia ragionata in tema di modelli: Suárez (2010); Id. (2014); per una importante raccolta di saggi sul tema: Morgan-Morrison (eds.) (1999); per una raccolta più recente: Agazzi (ed.) (2013). Per una introduzione ad ampio spettro sulla storia della modellistica matematica: Israel (20124). Sull’importanza dei modelli nella storia della scienza sono poi ancora da vedere i lavori di Mary B. Hesse, cfr. ad esempio: Hesse (1966). 53 Si vedano, solo a titolo di esempio: Alai (2014a); Id. (2014b); Id. (2018); Castellani (ed.) (1998); Ead. (2005); Ead. (2012); Cei (2005); Id. (2010); Dorato (2000b); Id. (2007); Massimi (2007); Ead. (2011); Ead. (2016); Ead. (2018); Morganti (2004); Id. (2011); Id. (2016). 52

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kantiana). Certo, non abbiamo qui quel progredire consensuale e cumulativo che caratterizzerebbe, secondo Kuhn, le fasi “normali” dei saperi paradigmatici. Eppure, vi sono senza dubbio ricerche, argomenti e intuizioni che la maggior parte degli specialisti, di qualunque orientamento, giudicano come contributi imprescindibili, mentre ne ritengono, concordemente, altri ormai superati. Così, anche se non vi sono conclusioni complessive accettate da tutti, c’è progresso nella ricchezza della nostra comprensione delle questioni in gioco e dei loro molteplici aspetti, delle possibilità teoriche esistenti, del loro significato e delle loro conseguenze. Cresce, infatti, l’ampiezza delle questioni affrontate, la ricchezza dell’analisi e delle strumentazioni impiegate, la consapevolezza delle implicazioni e dei limiti delle differenti opzioni e dei possibili modi di formularle. In Scientific Thought, Broad ha affermato che alla fine di un lungo percorso di riflessione filosofica su un problema quello che pensiamo in materia non sarà in nessun caso uguale a ciò che pensavamo all’inizio. E questo perfino nel caso in cui il punto di vista complessivo nel quale ci riconosciamo fosse rimasto apparentemente lo stesso dal quale eravamo partiti e alcune delle parole che impieghiamo per esprimerlo fossero rimaste le stesse: infatti, ciò che era vago e confuso, spesso incoerente o parziale si è in genere meglio definito e meglio articolato, nuove distinzioni sono state introdotte e, dove c’erano soprattutto scelte istintive o pregiudiziali, ora vi sono anche argomenti, mentre sono state soppesate molte obiezioni e si sono abbandonati aspetti impropri o non essenziali della tesi di partenza che, seppure permane, esce da questo processo trasformata e arricchita (cfr. Broad, 1923, pp. 13-15). Tutto ciò, verosimilmente, vale per i singoli, ma anche per le comunità di studiosi nel loro complesso: la comunità filosofica è oggi in grado di offrire una proposta di realismo scientifico capace di rendere ragione di un maggior numero di aspetti della scienza e di tenere conto di un maggior numero di obiezioni, rispetto al passato; ed è, allo stesso tempo, in grado di offrire una proposta di antirealismo scientifico capace di rendere ragione di un maggior numero di aspetti della scienza e di tenere conto di un maggior numero di obiezioni, rispetto al passato. E anche chi non optasse per alcuna delle alternative di fondo, o addirittura valutasse che non ci sono le condizioni per assumere alcuna posizione di ordine generale sulle questioni in gioco, difficilmente potrà affermare di non aver appreso nulla di importante sulla scienza da un secolo e più di riflessione filosofica in materia. Dunque, se possiamo parlare di un lavoro filosofico ancora in progress non è soltanto perché si tratta di una ricerca che non si è conclusa, che non è giunta alla meta, ma anche perché si tratta di un percorso di riflessione caratterizzato da autentici progressi nella comprensione, anche se essi non si traducono in una concorde unanimità di fondo e anche se, su molte delle principali questioni, non vi è un unico punto di vista condiviso da tutti gli specialisti.

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BIBLIOGRAFIA

[Dato il carattere introduttivo di questo volume, quando sia presente una traduzione italiana dei testi citati, il riferimento bibliografico riguarda solo quest’ultima, mentre tra parentesi tonde si indica l’anno di pubblicazione dell’originale in lingua straniera. Tutti i rimandi e le citazioni nel corso del volume si basano sulle versioni italiane citate. Tutti gli indirizzi delle risorse online citate sono stati controllati fino ad agosto 2018]

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a–n–a–l–i–t–i–c–a L’elenco completo delle pubblicazioni è consultabile sul sito www.edizioniets.com alla pagina http://www.edizioniets.com/view-Collana.asp?col=Analitica

Pubblicazioni recenti 14. Carlo Gabbani, Realismo e antirealismo scientifico. Un’introduzione, 2018, pp. 180 13. Hykel Hosni, Gabriele Lolli, Carlo Toffalori (a cura di), Le direzioni della ricerca logica in Italia 2, 2018, pp. 440 12. Mauro Mariani, Logica modale e metafisica. Saggi aristotelici, 2018, pp. 384 11. John Stillwell, Da Pitagora a Turing. Elementi di filosofia nella matematica. A cura di Rossella Lupacchini, 2018, pp. 192 10. Ettore Casari, La logica stoica. A cura di Enrico Moriconi, 2017, pp. 124 9. Enrico Moriconi and Laura Tesconi (eds.), Second Pisa Colloquium in Logic, Language and Epistemology, 2014, pp. 376 8. Wilfrid Sellars, L’immagine scientifica e l’immagine manifesta. Raccolta di testi a cura di Carlo Marletti e Giacomo Turbanti, 2013, pp. 574 7. Luca Tranchini, Proof and Truth. An anti-realist perspective, 2013, pp. 176 6. Laura Tesconi, Essays in Structural Proof Theory, 2013, pp. 134 5. Luca Bellotti, What is a model of axiomatic set theory?, 2012, pp. 188 4. Lolli Gabriele, La guerra dei Trent’anni (1900-1930). Da Hilbert a Gödel, 2011, pp. 242 3. Marletti Carlo (ed.), First Pisa Colloquim in Logic, Language and Epistemology, 2010, pp. 190 2. Moriconi Enrico, Strutture dell’argomentare, 2009, pp. 176 1. Bellotti Luca, Teorie della verità, 2008, pp. 140

Edizioni ETS Palazzo Roncioni - Lungarno Mediceo, 16, I-56127 Pisa [email protected] - www.edizioniets.com Finito di stampare nel mese di novembre 2018

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