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Italiano Pages 240 [236] Year 2013
n. 48 Collana diretta da Claudio Bonvecchio e Pierre Dalla Vigna COMITATO SCIENTIFICO
Paolo Bellini (Università dell’Insubria, Varese) Claudio Bonvecchio (Università dell’Insubria, Varese) Antimo Cesaro (Università degli Studi di Napoli Federico II) Pierre Dalla Vigna (Università dell’Insubria, Varese) Bernardo Nante (Universidad del Salvador, Buenos Aires, Argentina) Giuliana Parotto (Università degli Studi di Trieste) Jean-Jacques Wunenburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)
PAOLO ERCOLANI
QUALCUNO ERA ITALIANO Dal disastro politico all’utopia della rete con un’intervista a Carlo Freccero
MIMESIS Il caffè dei filosofi
© 2013 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana: Il caffè dei filosofi, n. 48 Isbn: 9788857517858 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 0224861657 / 0224416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]
INDICE
RINGRAZIAMENTI
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INTERVISTA A CARLO FRECCERO L’epoca della finzione assurta a unica verità plausibile
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PROLOGO
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IL MECCANISMO PERVERSO
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LA LOGICA DEI NUMERI
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UN MONDO PERFETTO
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(D)EPURAZIONI
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QUALCUNO ERA BERLUSCONIANO
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LA GRANDE OCCASIONE
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I CANI IN CALORE DI INTERNET
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UN NUOVO SOGNO
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COME MUORE UN PAESE
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LETTERA APERTA A SILVIO B.
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LA RISPOSTA DI SILVIO B.
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IL MISTERO DELLE INTERCETTAZIONI
71
UN PAESE DI MERDA
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INDIGNADOS!
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CIÒ DI CUI NESSUNO PARLA
83
QUALCOSA MI HA DISTURBATO
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IL GRANDE SCHERZO
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UN POPOLO DI COGLIONI
95
GLI ALIENI
99
I GRILLI E I TRAVAGLI DELL’ANTI-POLITICA
103
QUALCOSA DI SINISTRA
107
L’ITALIA CHE NON CI PIACE
111
LA RIVOLUZIONE DI CUI NON SI PARLA
113
TERREMOTI
117
CHI GLIELO DICE A BERSANI?
121
MORTE DELLA FILOSOFIA
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L’UTOPIA LIBERALE
129
SPECCHI
133
SE ESISTE UN DIO LO AVETE GIÀ TRADITO
137
LIBERTÀ
141
SE QUESTA È CHIESA
145
VAFFANCULO TUTTI!
149
RIVOLUZIONE
153
CARISMA
157
PERCHÉ D’ALEMA SBAGLIA
161
IL MALE NECESSARIO
165
IL TRADIMENTO
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TERRASANTA E LOGICHE NAZISTE
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LA GRANDE GIOSTRA
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ORA BASTA!
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AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE
185
LA FIERA DELLE VERITÀ
189
CORTOCIRCUITO
193
LA MIGLIORE OFFERTA
199
LE PIAGHE DELLA CHIESA DA MUSSOLINI A MONTI
203
HOMO RELIGIOSUS
207
LA MORTE DELLA POLIS
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SIPARIO
219
PROGRAMMA MINIMO DI RESISTENZA NAZIONALE
229
L’AUTORE
233
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RINGRAZIAMENTI
Un ringraziamento speciale mi sento di rivolgerlo a Carlo Freccero, per l’amicizia che mi ha mostrato ma, soprattutto, per le considerazioni illuminanti e originali con cui ha impreziosito questo lavoro nel dialogo/intervista che abbiamo condotto. Se c’è una persona attraverso cui comprendere il tempo presente, questa è Carlo Freccero. È per me un onore che abbia deciso di elargire questa sua dote al libro e al suo autore. E naturalmente ai lettori! Il mio ringraziamento più sentito va ad Enzo Marzo, che in qualità di direttore di Critica liberale pubblica sulla rivista, ormai da due anni, una mia rubrica fissa («Media/Mente) dalle cui riflessioni è stato tratto materiale fondamentale per questo libro. Un ringraziamento speciale all’amico Antonio Cecere, ideatore del volume e mentore critico, e con lui agli amici dell’Osservatorio filosofico (Mauro Cascio e Marco Rocchi), con i quali portiamo in giro per l’Italia un’idea di filosofia come materia che deve tornare a parlare agli uomini in carne ed ossa, alle loro idee e ai problemi concreti della complessa realtà quotidiana. Un grazie fondamentale alla casa editrice Mimesis, per aver accolto con passione e coraggio un testo così duro ed estraneo alla diplomazia. A vario titolo, poi, e per molteplici ragioni che sarebbe impossibile sintetizzare in poche righe, mi sento di esprimere un grazie umano e scientifico, in rigoroso ordine alfabetico, a Massimo Baldacci, Silio Bozzi, Luciano Canfora, Antonio Carioti, Antonio De Simone, Ilvo Diamanti, Umberto Galimberti, Vincenzo Fano, Giuseppe Davide Galli, Giovanni Lani, Domenico Losurdo (il mio Maestro!), Fiorenzo Martini, Nicola Panichi e Maria Grazia Turri. Il grazie affettivamente più grande va alla mia Famiglia (Anita, Chiara, Lucio, Milena, Nella), e con loro a Sara, cui dedico con amore questo libro!
«È più facile distruggere la scienza che non la fede» (Adolf Hitler) «Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più». (H. Arendt) «Gli italiani hanno piuttosto usanze e abitudini che costumi. Poche usanze e abitudini hanno che si possono dir nazionali, ma queste poche, e l’altre assai più numerose che si possono e debbono dir provinciali e municipali, sono seguite piuttosto per sola assuefazione che per ispirito alcuno o nazionale o provinciale […] Gli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che egli si sia». (G. Leopardi) «Oggigiorno gli aspiranti rivoluzionari digitali possono stare per sempre comodi sul loro divano, o almeno finché non gli si esauriscono le batterie dell’iPad, ed essere visti ancora come degli eroi. In questo mondo non è importante se la causa per cui combattono è reale o meno; fintantoché è agevole da individuare, da sposare e da interpretare, ciò è sufficiente. Se poi fa colpo sugli amici, allora è una vera perla» (E. Morozov) «Chi è qui sì vile, da voler essere schiavo? Se un tal uomo v’è, parli; perché lui io ho offeso. Chi è qui sì abbietto per non amare la sua patria? Se quest’uomo vi è parli; perché lui ho offeso. Aspetto una risposta». (W. Shakespeare, Giulio Cesare, Atto III, scena II)
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INTERVISTA A CARLO FRECCERO L’epoca della finzione assurta a unica verità plausibile
Un’analisi che non intercetta gli snodi attraverso cui si trasforma il mondo umano è destinata alla marginalità, se non all’inutilità. Non credo vi siano dubbi sul fatto che uno di questi snodi fondamentali, ai giorni nostri, è dato dal passaggio epocale che ci ha condotti verso la «società dell’informazione». Fine delle grandi narrazioni (o ideologie), ritorno prepotente del dominio dell’economia sulla politica, stravolgimento degli scenari nazionali e internazionali. Possibile tramonto del dominio occidentale, almeno come si è declinato, e come lo abbiamo vissuto, per tutto il XX secolo. Nel caso italiano, assistiamo a una sorta di crisi infinita almeno a partire dal 1989, l’anno che ha segnato il passaggio epocale e, con esso, la fine di una rendita politica ed economica su cui il nostro Paese si è per troppo tempo adagiato, risultando perfettamente incapace di ridisegnarsi a tutti i livelli (politico, economico, sociale, culturale) per affrontare tempi e condizioni notevolmente mutati. Insomma, se mai fosse vero che ci troviamo di fronte a quello che Oswald Spengler chiamava il «tramonto dell’Occidente», dobbiamo prendere atto che l’Italia sembra recitare la parte di quei paeselli ai piedi delle montagne in cui il sole sparisce ben prima di tramontare effettivamente. Per provare a comprendere cosa è successo al nostro Belpaese (e non solo), tentando di districare qualcuno dei nodi che bloccano il fluire dell’intelligenza collettiva, è mio convincimento che bisogna partire proprio dall’attore principale di questa nuova rappresentazione che abbiamo davanti: la comunicazione. Televisione, Internet, nuova economia, new media. Va analizzata e compresa la rivoluzione che ha caratterizzato i mezzi e la tecnologia della comunicazione, se vogliamo provare a comprendere cosa si nasconde dietro al nuovo (e rivoluzionato) scenario che propo-
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Qualcuno era italiano
ne la società dello spettacolo e della finzione assurta a unica verità plausibile. Per farlo, ho deciso di dialogare con quello che a mio avviso è il più raffinato e completo (perché studioso e operatore dei mezzi di comunicazione al tempo stesso) conoscitore delle dinamiche, spesso nascoste ai più, che caratterizzano il sistema comunicativo. Sto parlando di Carlo Freccero, più volte Direttore di rete a Mediaset come alla Rai, nonché docente universitario e fra i più importanti conoscitori italiani dell’opera di Guy Debord. Freccero, Lei ha studiato approfonditamente Guy Debord e in particolare «La società dello spettacolo», di cui ha curato anche un’autorevole edizione italiana. Cosa mi risponde se le propongo la tesi per cui la società in Rete costituisce la realizzazione quasi pedissequa della grande visione «spettacolare» di Debord? Non viviamo forse, oggi, nell’epoca in cui l’economia e la tecnica hanno conquistato ogni campo dell’umano esistere, fino a condurci, grazie anche a quell’arconte potentissimo e pervasivo che è la Rete, nella dimensione spettacolare per eccellenza (che oggi è data dalla virtualità) in cui «il vero è un momento del falso e il falso un momento del vero»? Diciamo che sono solo parzialmente d’accordo. Il discorso di Debord, per quanto profetico, si proietta nel futuro per una trentina d’anni, dagli anni ’60 agli anni ’90. E sono già molto. Nel momento in cui scrivevo l’introduzione alla società dello spettacolo, l’ipotesi di Debord viveva la sua piena attuazione e godeva del suo momento di maggior splendore. Vorrei ricordare che nella prefazione io interpreto il pensiero di Debord in chiave marxiana, attraverso la lettura che di Marx ci dà Luckács. In questo contesto, spettacolo equivale a contemplazione e non è che la rappresentazione di quel feticismo della merce che Marx tratta nella prima sezione del Capitale. Lo spettacolo, in Debord ed in altri situazionisti come Baudrillard, deriva direttamente dalla necessità di inculcare socialmente il bisogno del consumo e segna il passaggio del cittadino da produttore a consumatore. L’economia di oggi non si regge sul consumo, ma sul mercato, inteso non come mercato di merci e beni materiali, ma come mercato borsistico, finanza. A questa nuova forma di econo-
L’epoca della finzione. Intervista a Carlo Freccero
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mia non servono né la produzione, né il consumo. Per questo lo scenario attuale non è lo spettacolo delle merci, ma la crisi, la privazione dei consumi. Lo spettacolo era allegria, abbondanza, varietà. Oggi è desolazione e inquietudine. Non sogno, ma incubo. Non a caso l’immaginario contemporaneo della fiction è paranoico ed oscuro, costruito sul crimine, sui vampiri, sui serial killer. E la rete esprime paranoia: la sua vocazione è smascherare complotti, rileggere episodi della storia recente in chiave cospirativa, presentarsi come la verità in opposizione al mainstream. Al giorno d’oggi ogni cosa deve essere veloce, immediatamente fruibile, non troppo approfondita ma in grado di esercitare un’influenza decisiva nell’animo del cittadino spettatore/consumatore. L’informazione e la comunicazione in genere, più di ogni altro ambito, sembrano incarnare e realizzare alla massima potenza questa vera e propria apologia dello «smart». Ma il connubio fra queste caratteristiche (velocità, immediata fruibilità, superficialità, potenza espressiva) non è forse la struttura portante di un meccanismo che ci porta sempre più ad essere informati su tutto senza sapere nulla o quasi effettivamente? Le notizie davvero importanti, le malefatte dei politici, le promesse non mantenute, tutto viene dimenticato dallo spettatore stordito dalle troppe informazioni (tutte veicolate in maniera velocissima e superficiale), consentendo a chi detiene il potere di presentarsi ogni volta ripulito e autorevole. Siamo di fronte a un fenomeno studiato, oppure è il frutto fisiologico dell’evoluzione mediatica? Entrambe le cose. Sicuramente ha influito la prevalenza di media come la televisione che, a differenza della pagina scritta, non ha memoria e del computer che, a differenza del libro, deve semplificare, riassumere, sfrondare la notizia riducendola ad un singolo enunciato, ad un Tweet. In questo contesto però si produce, soprattutto a livello politico, l’uso di una comunicazione studiata a tavolino, per condizionare l’opinione pubblica. Il vecchio sistema proporzionale dava importanza ai partiti ed ogni partito elaborava una propria ideologia, una propria teoria e
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Qualcuno era italiano
propri contenuti. Il sistema maggioritario premia la maggioranza, il sondaggio, la fluttuazione dell’opinione e studia la psicologia sociale per catturarla e condizionarla. Non ci sono più programmi, ma slogan per catturare il pubblico. Non si agisce più con il convincimento razionale, ma con la mozione degli affetti. Anche l’informazione non è diretta alla nostra testa, ma alla nostra pancia. Il fenomeno Berlusconi, secondo lei, è come molti teorizzano il frutto di un’operazione trentennale di «istupidimento» del popolo italiano, attraverso l’impoverimento dei contenuti veicolati dalla televisione, oppure va spiegato in altro modo? Insomma, è stata la televisione (che Pasolini definiva «misologa») a forgiare un popolo capace di votare in massa il secondo uomo della provvidenza della storia patria (il primo è stato Mussolini, peraltro non eletto dal popolo, seppure amatissimo, almeno nei primi anni), oppure è stato lo stesso popolo, durante un processo di involuzione o evoluzione, a richiedere e formare questo tipo di cultura televisiva che sembra tanto degenerato? È come per il paradosso dell’uovo e della gallina. Io faccio derivare la politica contemporanea dal sondaggio, dalla rilevazione dell’audience che, come tale, non è altro che l’espressione dei gusti del pubblico. Ma l’audience impone la reiterazione dei prodotti vincenti che, in quanto ripetuti, non possono non condizionare i gusti del pubblico. La ripetizione, come altre tecniche di psicologia sociale, costruisce nel tempo una sorta di verità alternativa al vero, ma socialmente più credibile e condivisa. Diciamo che il conformismo tende sempre a prevalere a livello sociale. E il conformismo è nemico del pensiero critico. Oggi il pensiero critico è obsoleto, ma sopravvive come semplice rappresentazione, artificio, retorica. Nel momento in cui un’affermazione viene ripetuta sino alla saturazione per radicarsi nella nostra memoria, quella stessa affermazione viene presentata come «più vera» rispetto alla versione «comunista» della storia condivisa per tutta la I Repubblica. In queste tecniche Berlusconi è bravissimo. Mentre il ventennio Mussoliniano è passato alla storia come regime, Berlusconi è riuscito nel miracolo di far credere a tutti di non essere al Governo ma all’opposizione. Un’opposizione a
L’epoca della finzione. Intervista a Carlo Freccero
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quei comunisti che, come i tartari del deserto di Buzzati, non compaiono mai, ma aleggiano sempre come un’oscura minaccia. Certo è che, dall’altra parte, la sinistra non ha saputo fare un granché. Subìto e mai affrontato criticamente, il crollo del Muro di Berlino ha condotto la sinistra italiana di fronte a un bivio tanto funesto quanto sterile: da una parte un’ala estrema, radicata a idee di due secoli fa, dall’altra un’ala più moderata che non ha saputo fare niente di meglio che definirsi liberale (appiattendosi sui valori di un liberismo di nuovo in auge che ha prodotto i disastri di cui siamo testimoni). Quale la causa, secondo lei, di questo disastro: una causa culturale, un continuo errore di comunicazione, oppure aveva ragione Debord quando diceva che il Pci, in realtà, era funzionale al sistema spettacolare e quindi ben lungi dal costituire una vera e credibile opposizione al sistema capitalistico (peccato originario che si sarebbero portati appresso tutti gli epigoni del partito comunista, fino al partito democratico)? La sinistra, per giustificarsi ed esistere, ha bisogno di una verità alternativa da contrapporre alla destra. Nel momento in cui la sinistra con la “terza via” di Clinton e di Blair, fa proprio il pensiero unico, e si proclama liberista, pone lei stessa le basi della sua dissoluzione. Oggi viviamo in una società basata sulla comunicazione. Ripetendo oggi enunciati della destra, la sinistra non fa altro che rafforzare la verità dell’avversario, anche quando vuole parzialmente rettificarne le sue affermazioni. A questo proposito mi viene sempre in mente il famoso appello di Nanni Moretti: «D’Alema, dì qualcosa di sinistra! D’Alema, dì qualcosa!». Dire cose di destra, allinearsi al pensiero unico, corrisponde a tacere. Solo la differenza è enunciato. Tutto il resto è ripetizione. Quindi rafforza il discorso del presunto avversario. Questa commistione originaria, che si è sempre più tradotta in un’indifferenziazione culturale, politica e pratica, è forse alla base di quel meccanismo che ha condotto i partiti politici italiani ad aderire tutti, senza pressoché eccezione, ai voleri del mercato, di un
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Qualcuno era italiano
liberismo sfrenato che sta smantellando lo stato sociale, di una finanza internazionale che produce sempre meno persone più ricche, a fronte di un numero sempre maggiore di persone che scendono nella povertà. In virtù di tutto ciò, non le sembra il frutto di una banalizzazione comunicativa, e persino di linguaggio, quella che si limita alla dicotomia casta (portatrice di tutto il male e di tutti i crimini) – popolo (depositario del giusto e dell’onestà, vittima designata)? Ma più in genere, che valutazione ritiene di dare del sistema informativo italiano? Sono da sempre critico con il concetto di casta. Perché una lettura della società in questa chiave, non fa altro che confermare l’esistente. Oggi anche il giornalismo d’inchiesta non mette in discussione il sistema, ma si limita a denunciare i furti, gli sprechi, il malaffare. Il suo messaggio subliminale è «questo è il migliore dei mondi possibili» o meglio «questo sarebbe il migliore dei mondi possibili, se non ci fossero quei ladroni che rubano e girano in auto blu» tutto funzionerebbe senza questo dettaglio. Siamo al fallimento del paese e facciamo le pulci alla mensa del Senato, alle spese di rappresentanza, alle «creste» dell’amministrazione pubblica. L’economia è sana, ma la politica la saccheggia. La moralizzazione del paese lo porterebbe in salvo. Invece non è così. L’onestà e la correttezza non bastano. Libri come «Gomorra» ci mostrano che l’economia «in chiaro» non è altro che il lato visibile di un «nero» in cui non solo non si rispettano le leggi, ma sono le stesse associazioni a delinquere a dettarle. Ma anche questo secondo livello di disvelamento cela in realtà una verità più profonda. Oggi l’economia non è produzione, ma finanza. Ed il liberismo come gioco di mercato senza regole, porta necessariamente alla concentrazione del potere economico nelle mani di pochi, che non sono certo quella classe politica o di amministratori pubblici, contro cui l’opinione pubblica si scaglia. Non intendo dire che la corruzione non esista. Ma non è la corruzione la causa della crisi. La casta è un alibi per il pensiero unico. In realtà, paradossalmente, solo rinforzando la politica si potrebbe porre un freno allo strapotere dei meccanismi economici. Proviamo a spostare il piano del discorso, con una domanda complessa che tenta di andare all’essenza del problema. Cos’è, in
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fondo, che spinge una gran massa di persone a lasciarsi tentare dal grande circo della comunicazione, ad accettare più o meno passivamente quanto esso gli propone, a venerare gli idoli che le due divinità (spettacolo e mercato) gli propongono come unico viatico per il Paradiso terrestre? Insomma, cos’è che conferisce questo potere incredibilmente forte e suadente ai mezzi di comunicazione, vecchi e nuovi, nei confronti dell’uomo, fino a far diventare quest’ultimo uno strumento docile dei messaggi e dei diktat che essi veicolano? Forse che essi sono riusciti a configurarsi alla stregua di nuove divinità, che si fanno venerare e obbedire in cambio di divertimento, intrattenimento, soddisfazione del naturale narcisismo umano che ci spinge a voler comparire sempre e comunque, a dire la nostra su ogni cosa? Più che sulla divinità punto sulla consuetudine. La vita sociale è fatta di condivisione. Nel mondo greco in cui nasce e si forma il concetto di democrazia, lo spazio della condivisione era la piazza, Agorà che rappresentava il centro vitale della polis. Oggi la comunicazione non è più un fatto di frequentazione diretta, ma passa attraverso nuovi spazi condivisi: la televisione, la Rete. Ed anche la comunicazione individuale è sempre più mediata dal telefono. Oggi connessione è sinonimo di socialità. E ci sono persone fragili, adolescenti che arrivano a suicidarsi perché la loro reputazione su internet è compromessa. Viviamo in una polis allargata in cui il dibattito non si fa in piazza, ma nei talk show, ed il pettegolezzo di quartiere è sempre più sostituito dal gossip sui vip. Dove trovare, secondo lei, e ammesso che ve ne siano, spunti per uscire da questa cappa disastrosa in cui sembra essere piombato il nostro Paese? È fuori di dubbio, secondo me, che occorre pensare, fra le altre cose, a un grande progetto di rieducazione civica e culturale della nostra povera italietta. Ma con quali strumenti, se oggi ci troviamo di fronte a quella che Pasolini chiamava «mutazione antropologica», che ci ha portato a leggere sempre meno, a pensare poco e male, a non coltivare la nostra creatività perché spesso e volentieri troviamo i contenuti già pronti all’utilizzo sulla Rete? Che ruolo possono avere, in ambito educativo, i mezzi di comunicazione arrivati a questo punto?
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Qualcuno era italiano
L’introduzione della televisione commerciale e quindi della rilevazione dell’audience, hanno prodotto cambiamenti radicali nel modo di pensare e, conseguentemente, nel sentire comune dell’opinione pubblica, fino a riconfigurare totalmente i valori culturali di un intero popolo. Il concetto di quantità, di maggioranza, si impone sul concetto di qualità e di verità. Non ha valore ciò che è bello o ciò che è vero, ma ciò che piace alla maggioranza degli spettatori/elettori. Non conta più quindi quel concetto di cultura «alta» in senso europeo, alla cui divulgazione era consacrata tutta la funzione pedagogica della televisione servizio pubblico. Il concetto di cultura, in senso europeo, viene sempre più sostituito dal concetto di cultura in senso antropologico, secondo la teoria americana dei «cultural studies». Infine, proprio perché la cultura è superata dal mercato, il capitale culturale, secondo la definizione di Bourdieu, è sempre più sostituito dal capitale economico all’americana. Avere prestigio non significa essere colti, ma consumare, ostentare status symbol. I giovani non vogliono più studiare, ma partecipare ai talent, diventare attori, cantanti, calciatori, veline. E non è dal sistema della comunicazione che ci si può e ci si deve aspettare un progetto educativo, perché esso è consustanziale al processo economico. Sappiamo bene che quest’ultimo non ha fra i suoi obiettivi la crescita personale e culturale degli individui. La sensazione, che forse rappresenta più di una sensazione, è che ancora oggi, anzi forse proprio oggi, si sia realizzato appieno, nel nostro Paese, il modello culturale americano, che vede nel consumo infinito (che quindi richiederebbe uno sviluppo, infinito), nell’ideale del profitto, nell’individuo come imprenditore di se stesso (a discapito dell’idea di collettività e di cooperazione), dei bastioni indiscutibili e perfettamente in grado di pervadere ogni dimensione della vita dell’uomo. Lo pensa anche lei e, eventualmente, ritiene che i mezzi di comunicazione abbiano avuto un ruolo nell’affermare gradualmente (ma inesorabilmente) questa scala di «valori», oppure si sono semplicemente limitati a veicolarli?
L’epoca della finzione. Intervista a Carlo Freccero
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Secondo me l’americanizzazione del paese ha una data ben precisa: l’avvento della TV commerciale. Quindi data dai primi anni ’80 e coincide con il berlusconismo e la sua colonizzazione della cultura, prima saldamente in mano a case editrici orientate a sinistra. L’Italia si allontana dall’Europa o, quantomeno, anticipa l’americanizzazione, peraltro meno completa, degli altri paesi europei. Ho vissuto questa fase storica sulla mia pelle quando Berlusconi esportò a Parigi il suo modello con «la Cinq». Come al solito, il paradosso italiano anticipava il futuro degli altri paesi. Il problema, secondo me, deriva ancora una volta da quanto precede. Senza pensiero critico non c’è praxis, come azione di cambiamento radicale, ipotesi di sovvertimento dell’esistente. C’è invece una mitizzazione del fare come pratica quotidiana di soluzione di problemi spiccioli. È la vittoria dell’attivismo americano. Per il pensiero europeo invece, l’azione scaturisce sempre dalla riflessione. La teoria è la grande lezione del pensiero europeo in tutte le sue declinazioni filosofiche. Ma il post moderno ha decretato la fine delle ideologie, delle teorie. Il pragmatismo odierno, di matrice americana, ci spinge a fare, prima di esserci posto il problema di cosa sia veramente utile. Pensare non serve a nulla. L’intellettuale appartiene alla casta, è un parassita che non si sporca le mani. A questa corrente appartiene il Movimento 5 stelle di Grillo che cerca soluzioni pratiche a problemi contingenti, ma rifiuta, attraverso il suo guru Casaleggio, ogni riflessione macroeconomica. È il discorso che si faceva prima sulla casta. Grillo è pronto a denunciare ogni cosa, escluso il sistema. Lavora sul territorio, sul locale. Fa propria anche una parte della protesta e della paranoia della rete. Ma è incapace di pensare ad una alternativa. Si comporta come lo stolto che, se il saggio indica la luna, concentra la sua attenzione sul dito. In Italia, quello che io chiamo il «secondo ventennio di vergogna nazionale» ha completato l’operazione di distruzione della polis, allargando la divaricazione fra una classe dirigente arroccata nei suoi privilegi, ideologicamente indifferenziata e appiattita sui valori del mercato, all’atto pratico incompetente e inefficiente, e una
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Qualcuno era italiano
popolazione sempre meno interessata a leggere, informarsi, impegnarsi nella politica (il popolo è stato anche espropriato di buona parte del diritto di voto, grazie a una legge elettorale vergognosa). Da questa situazione è uscita la «soluzione» utopistica, imbevuta di quella demagogia e populismo che spesso si sono affacciati sulla scienza nazionale. Sto parlando del Movimento cinque stelle, che vorrebbe incarnare la purezza del popolo, l’ideale della democrazia diretta oggi resa possibile dalla Rete di Internet. Che idea si è fatto di questa situazione? La Rete può effettivamente rappresentare un fattore di libertà, o piuttosto di anarchia, che per definizione è il regno dove trionfa il più forte, e non per forza di cose il migliore? Nel Movimento 5 stelle c’è una contraddizione che è sotto gli occhi di tutti. Da un lato, secondo le teorie del suo ideologo Casaleggio, la Rete rende inutili le elezioni, perché una consultazione dei cittadini è sempre possibile in tempo reale, su qualsiasi problema politico e pratico. Dall’altro è evidente che il M5S non conferisce ai suoi rappresentanti e ai suoi sostenitori/elettori nessuna autonomia decisionale. Lo slogan di Grillo è «uno vale uno!», ma le consultazioni possono svolgersi solo attraverso il suo sito, e l’ultima parola spetta sempre alla Direzione. In realtà la Rete stessa non ha ancora una diffusione completa e non garantisce la comunicazione diretta tra elettori e centro, come Casaleggio auspica per il futuro. Ad oggi, e coi mezzi di cui disponiamo, ha dimostrato di essere operativa soprattutto per convocare riunioni, proteste, per far circolare messaggi altrimenti boicottati. Funziona nell’immediato e sul contingente, ma non è ancora in grado di sostituirsi all’organizzazione di partito che Grillo vorrebbe dichiarare obsoleta. Paradossalmente Grillo, nel momento in cui elogia la Rete è ancora legato al modello televisivo generalista. La maggioranza vince. Non ci sono mediazioni. Dopo il populismo berlusconiano, anche Grillo finisce per incarnare il leader carismatico, che permette alla maggioranza di delegare ad altri le decisioni. Nel suo ultimo libro («Televisione», Bollati Boringhieri 2013), lei sostiene che «la tv è lo spaccato dell’identità sociale di un paese e di
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un’epoca, più della realtà stessa». Allora le propongo un gioco che si faceva da bambini: se lei fosse il Capo assoluto della tv (anche se, per estensione, potremmo parlare della comunicazione in genere), se potesse plasmarla e realizzarla come vuole lei, che televisione dovrebbe essere, perché anche la realtà della nostra epoca e del nostro Paese ci si presenti sotto una luce maggiormente carica di dignità e speranza? Evocando una televisione migliore, Lei ha fatto un ritratto del servizio pubblico delle origini che attribuisce alla Tv una funzione pedagogica. Ma, secondo me questo modello non è più attuabile. Il motivo è che, nonostante i suoi nobili intenti, il servizio pubblico funzionava come complemento di un’istruzione ancora basata sull’autorità del docente e sulla passività dei discenti. La televisione pedagogica era anche autoritaria nella misura in cui imponeva al suo pubblico un messaggio, unidirezionale, dall’alto verso il basso. Oggi la televisione deve adempiere, secondo me, ad un’altra funzione. Non costringere il pubblico a recepire contenuti «alti», ma comunque passivamente subiti, ma stimolare, al contrario, la sua intelligenza e la sua interattività. Secondo me la televisione, superata la dittatura del capitale economico interno e funzionale alla televisione commerciale, deve imparare a valorizzare nel pubblico non tanto il capitale culturale, quanto il capitale intellettuale. Non deve cioè imporre ideologie e contenuti, ma sviluppare l’intelligenza e l’autonomia di giudizio. E questo risultato si ottiene mandando in onda contenuti complessi. Come nei videogiochi, ogni nuovo livello di difficoltà superato implica l’acquisizione di nuove abilità. Come prototipo di prodotto complesso io propongo il nuovo telefilm americano il cui intreccio è sempre più intricato e sofisticato. A ben vedere gli europei hanno sempre esercitato la loro analisi sociale, tramite il pensiero critico. In America, al contrario, è sempre stata la fiction, l’immaginario hollywoodiano prima e il nuovo telefilm oggi, ad esprimere il disagio ed il dissenso.
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PROLOGO
I brevi capitoli che costituiscono questo libro sono stati composti nel biennio maggio 2011 – maggio 2013, con l’intenzione di confezionare un diario fedele degli avvenimenti per me più significativi, e delle riflessioni che ne sono seguite, a partire dalla fine del governo Berlusconi, fino a tutto il governo Monti e all’esplodere del fenomeno Grillo. In un’epoca, quella della Rete, in cui l’opulenza informativa produce una fisiologica indigenza conoscitiva, perché la velocità, la frammentarietà e la superficialità delle notizie impedisce la comprensione profonda degli eventi, e soprattutto la memoria degli stessi da parte della maggior parte dei cittadini, quello del diario cronologicamente ordinato mi è sembrato un modo efficace per andare in controtendenza. Lo spirito di fondo del libro, quindi, consiste nel tentativo di fornire al lettore una cronaca ragionata del vero e proprio tracollo, politico, mediatico, culturale, in cui sembra essere piombato il nostro Paese negli ultimi anni, contemporaneamente ad una crisi economica che sta gettando intere famiglie e persone in uno stato di indigenza economica ed esistenziale. Attraverso il confronto diretto con la cronaca, tramite l’analisi di eventi maggiori o minori, a volte anche per mezzo della recensione di un film uscito al cinema, questo libro si propone di rappresentare uno strumento rigoroso ma vivo (quindi non accademico o puramente teorico), profondamente filosofico ma anche ironico e dissacratore, per riuscire a riflettere sulle cause e le modalità con cui la nostra Italia è piombata in una situazione di caos generale.
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IL MECCANISMO PERVERSO*
Il meccanismo funziona grossomodo così. Il politico di turno (non per forza di cose un politico, ma adesso ci occupiamo di questo), nel bel mezzo di una situazione delicata o compromettente (scandalo, elezioni, crisi internazionale, rendiconto dell’attività svolta etc.), se ne esce con una dichiarazione tanto iperbolica quanto «oscena» e provocatoria. Magari con qualche nota di volgarità, che non guasta mai. I media riprendono la notizia, la esaltano con biasimo o approvazione a seconda della posizione politica del media stesso, l’avversario insorge, i programmi di approfondimento discutono su dichiarazione e reazioni alla medesima ed ecco che il teatrino della politica è servito. Ma soprattutto è raggiunto l’obiettivo primario: sviare l’attenzione dell’opinione pubblica rispetto a ciò che conta veramente. Il merito del problema, la qualità o meno dell’azione politica e di governo svolta dal suddetto politico, i risultati concreti. I benefici o malefici per i governati. È bene dire che non si tratta soltanto delle follie invasate di uno Scilipoti qualunque (che ci faccia o ci sia sarebbe grave comunque, perché è triste ciò che bisogna fare per salire agli onori delle cronache, nel Belpaese). È il dito medio di Bossi, la sfuriata di La Russa, l’offesa condita di falsità della Moratti nei confronti di Pisapia, «ma anche» l’improbabile e improvvido «rendiconto» interno al Pd chiesto da Veltroni a pochi giorni dalle elezioni (tanto per continuare a farsi del male). L’elenco potrebbe essere lunghissimo. Ma è evidente che c’è un maestro assoluto in tutto questo, un conoscitore talmente profondo del meccanismo perverso da far sorgere più di un dubbio sul fatto di trovarsi di fronte al vero e proprio creatore dello stesso. Sì, lui. Silvio Berlusconi, ovviamente. *
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In profonda crisi per via degli scandali personali e della nullità della propria azione di governo, l’eterno imbonitore si inventa l’ennesimo colpo d’ala per non perdere le elezioni a Milano. Fatto che gli sarebbe probabilmente fatale. E allora giù con i giudici cancro del paese, gente che non si lava (come quelli di sinistra in genere) e che vuole ribaltare l’esito del consenso popolare, consegnando il paese a quei comunisti che reintrodurranno la patrimoniale, l’Ici, il colbacco obbligatorio e forse pure la presenza di carne umana (i bambini) nei menù dei ristoranti. Le sue dichiarazioni destano scalpore, reazioni concordi o discordi a seconda dei gusti, ma il risultato è ottenuto: non si parla di Milano, non si parla della nullità del Sindaco Moratti, non si parla di ciò che interessa veramente ai governati. Dove per «interessa veramente», bisogna stare attenti, non si intende ciò che titilla gli istinti più gretti (perché in tal caso ci saremmo in pieno), ma ciò che può contribuire a migliorare o peggiorare la vita effettiva di molti cittadini. Le spiegazioni di questo meccanismo perverso sono sempre le stesse, a seconda delle idee politiche: colpa di Berlusconi & C., incapaci di fare un comizio senza propalare delle rumorosissime scempiaggini; colpa dell’opposizione che si attacca a ogni frase pronunciata in qualunque comizio di un paese sperduto pur di offendere Silvio B., oppure colpa della classe politica in genere che ha toccato veramente il fondo della decenza a fronte di una popolazione che dovrebbe (sic!) essere migliore e più impegnata dei politici cui dà il voto. Sono pochi, invece, quelli che si concentrano sull’inadeguatezza anche e soprattutto dei mass media, affamati della dichiarazione violenta e volgare cui dare il giusto risalto per inscenare il teatrino e vendere più copie. Prassi cui si stavano abituando i vecchi media, ma che oggi con Internet è divenuta la norma. Bisogna dare tutte le notizie, nessuna di esse può essere ritenuta indegna o superflua, perché poi la Rete non perdona e fa risaltare la mancanza del vecchio media (telegiornale o giornale che sia), con la conseguenza di una perdita netta in termini di valore commerciale dello stesso e degli spazi pubblicitari che esso può ospitare. Tutto questo è un risultato del fatto che l’informazione su Internet, malgrado i nobili intenti iniziali, ha rapidamente deviato verso
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un tipo di «commercializzazione» (e banalizzazione a uso di masse disimpegnate) che già aveva caratterizzato il percorso discendente dei media tradizionali, e che ai giorni nostri si sta affermando in maniera sempre più evidente e pervasiva (P.A. Taylor e J. Harris, Critical Theory of Mass Media. Then and Now, McGraw Hill, Maidenhead, 2008, pp. 177-198). E allora tanto vale anche per i vecchi media, quotidiani e telegiornali in primis (perché lasciare campo aperto a Internet?!), concentrarsi sulle notizie più becere e volgari, sulle esternazioni più virulente e improbabili, quelle da condire con qualche foto, filmato o aneddoto scandaloso, perché questo vuole (o vorrebbe) la grande massa del pubblico ormai perfettamente assuefattasi, anche nella dimensione privata del reperimento di notizie o dello svago in Rete, alle logiche totalitarie dell’economia. Si tratta, in fondo, quando parliamo di un pubblico mediamente più involgarito e quindi interessato alle questioni più misere e commerciali dell’umano esistere, di un effetto di ritorno prodotto dalla radicalizzazione di un processo che ha caratterizzato il sistema capitalistico fin dagli albori. Sto parlando di quella «mercificazione dell’umano» in tutti i suoi aspetti (compreso quello intellettuale e intimo), fondata sulla «dislocazione delle frontiere che separano il mercificabile dal non mercificabile», messa in opera dal sistema capitalistico contemporaneo, che oggi come mai prima è stato capace di conquistare una libertà di gioco rispetto alla conquista di sfere e spazi dell’essere umano che un tempo erano tenuti fuori dalle logiche commerciali (L. Boltanski e E. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris 1999, pp. 565-7 e 574). Non sono certamente i mass media, perfettamente inseriti nel meccanismo commerciale e nella logica economica che li permea, a potersi chiamare in qualche modo fuori da questa deriva costante. Se non al prezzo del suicidio. Tanto, in questi tempi in cui tutto è veloce e superficiale, soprattutto le notizie durano lo spazio di una giornata al massimo, inserite in quella logica di «usa e getta» che favorisce la bassa qualità a fronte di una quantità vergognosa ma redditizia sul piano dell’audience. E qui arriviamo al punto vero, l’audience. Ovvero la logica di mercato che sottende a tutto il meccanismo. Bisogna vendere. Vendere cose che non dovrebbero comparire sul bancone del mercato: l’informazione, le notizie, la cultura in genere. La politica soprattut-
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to. Che dovrebbe rappresentare la cosa pubblica, il bene collettivo, la speranza di progresso di un intero paese. Ma queste sono chiacchiere, ideali ormai vuoti. Lo show, di Scilipoti, deve andare avanti. I media hanno interesse soprattutto a vendere. Figuriamoci, poi, quanto è ancora più forte l’interesse di chi, quegli stessi media, li controlla o ne è proprietario. Un cerchio che si chiude. Ma è vizioso!
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LA LOGICA DEI NUMERI*
Velocità, superficialità, quantità. Gli studiosi dei nuovi media concordano sul fatto che queste tre sono le stelle polari della metodologia con cui si produce, si diffonde e si recepisce l’informazione. Non soltanto il pc, ma anche gli smart phone, l’ i-pad e la tecnologia wireless in genere ci consentono di ricevere tutte le informazioni che vogliamo in tempo reale, in presa diretta, mentre stiamo siamo a un incontro pubblico, oppure stiamo gustando un caffè o magari stiamo eseguendo la nostra ora di jogging. L’informazione è certamente più veloce, perché un tempo bisognava aspettare l’ora del telegiornale, o la mattina successiva per comprare il quotidiano. Mentre oggi ci è data in tempo reale. Ma è anche più superficiale, perché gli articoli dei media digitali sono (devono essere!) più brevi, limitarsi al «sodo» della notizia, privi di eventuali schede o commenti di approfondimento. Immancabilmente vengono corredati da fotografie o filmati, possibilmente accattivanti, capaci di «acchiappare» l’attenzione dell’utente e spingerlo a cliccare su questo o quell’altro link. Ognuno può fare la prova: provate a comprare uno dei tre principali quotidiani politici italiani e poi confrontate la versione cartacea con quella digitale. La povertà di contenuti scritti di quest’ultima, e spesso anche di linguaggio e di apparati capaci di fornire approfondimenti al lettore, risalterà facilmente anche a un occhio poco attento. Ma quello su cui voglio soffermarmi in questa sede, brevemente, è il terzo aspetto fondante dei nuovi media: la quantità. Ovvero quella logica quantitativa che costituisce il vero nerbo ideologico sottostante al sistema dei nuovi media. Quella per la quale è importante quante informazioni riusciamo a ottenere, raccogliere e catalogare ma non ciò che sappiamo vera*
19 Maggio 2011
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mente. Logica che ci porta a, o ci illude di, essere informati su quasi tutto senza di fatto conoscere quasi nulla. O comunque, questo è spesso il rischio, senza di fatto conoscere quasi nulla in maniera che non sia soltanto veloce e superficiale, appunto. Un esempio lampante di come questa logica della quantità, comunque insita nella natura umana, abbia di fatto preso il sopravvento nella nostra epoca della società in rete, è dato dai risultati delle recenti elezioni amministrative. Certamente la democrazia elettorale è fondata sui numeri, certamente il criterio della maggioranza e minoranza presuppone la logica numerica e, del resto, chi vince in democrazia è anzitutto chi ha trionfato sul piano dei numeri. Ora, senza voler ricordare che Hitler era salito al potere democraticamente, vincendo cioè la battaglia aritmetica, qualche elemento di pacata riflessione possiamo pure concedercela, malgrado i tempi che non la favoriscono. Per l’ennesima volta si è parlato di fine di Berlusconi, di vento nuovo, di un Paese che sta cambiando la direzione dei propri gusti. Il tutto sulla base dei numeri: a Milano ha preso più voti il candidato dell’opposizione, così a Bologna e Torino e anche a Napoli l’exploit di De Magistris vorrà pur dire qualcosa. Più in generale: il Pd e i partiti del centro-sinistra sembrano guadagnare in termini numerici, mentre Pdl e Lega lasciano molti voti sul campo. A volersi fermare qui e leggendo questi dati succinti e in maniera acritica come spesso li troviamo sui nuovi media, potremmo tranquillamente accodarci a quanto affermato dal segretario del Pd Pierluigi Bersani: «Vinciamo noi, perdono loro!». Ma se ci impegniamo brevemente su una riflessione critica che vada contro quelle semplificazioni favorite dall’informazione, saltano subito all’occhio alcuni aspetti che meriterebbero maggiore attenzione: a Milano sembra vincere un candidato che il Pd non voleva e ha osteggiato in tutti i modi. A Torino il Pd trionfa beneficiando dell’eredità di Chiamparino, elemento assai osteggiato all’interno del partito. A Bologna «la rossa» si supera di pochissimo il 50% e comunque il Pd vede una flessione. A Napoli il Pd tracolla in seguito a una serie di amministrazioni locali disastrose e allo spettacolo indegno delle primarie ritirate (per poi imporre un degnissimo candidato dall’alto, punito dagli elettori). Ma andiamo ancora più in profondità: continua a mancare una visione condivisa all’interno della vasta area del centro-sinistra, quel-
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lo che una volta si sarebbe chiamato un manifesto programmatico, una lista di ideali e valori condivisi. Un programma. Per non parlare del leader. Oggi sono tutti bravi, anche i cattolici del Pd, ad appoggiare il «comunista» Pisapia, così come fa buon viso il Pd a far finta di provare a vincere con De Magistris. Ma al di fuori della logica dei numeri e di una superficiale e contingente unanimità di vedute, è bene sapere che i nodi torneranno al pettine. Che toccherà mettere d’accordo ex comunisti ed ex democristiani, che bisognerà lanciare i giovani sulla base di un programma e di valori veramente condivisi e che diano una nuova speranza al popolo che non si riconosce (più?) in Berlusconi. Perché dire oggi, per l’ennesima volta e ammesso che sia vero, che Berlusconi è finito significa dimenticare che questo signore improponibile e tutta la sua cricca di corifei beneficiati dall’Unto hanno governato per quasi un ventennio. E certamente non significa avere pronta un’azione di governo davvero alternativa e in grado di riformare questo Paese allo stremo!
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UN MONDO PERFETTO*
Un mondo perfetto. Quello della Rete secondo i pionieri della grande rivoluzione digitale. Un luogo in cui l’economia sarebbe stata finalmente libera dai lacci del potere politico, le informazioni a disposizione di ciascuno, gli individui tutti sullo stesso piano. Tanto che il celebre informatico Licklider si spingeva a parlare di un potere, quello offerto dai computer, che dato al popolo si sarebbe rivelato «essenziale alla realizzazione di un futuro in cui la maggior parte dei cittadini sia informata, interessata e quindi coinvolta nei processi governativi» (Mythinformation, in The New Media Reader, Mit Press, Cambridge-London, p. 588). Ma, in contrasto con tale visione agiografica, fin dalle origini della Rete erano presenti delle contraddizioni evidenti: essa nasceva invero per nascondere informazioni (ai servizi segreti sovietici durante la guerra fredda), non certo su iniziativa della libera economia bensì del Pentagono (con tanto di massicci fondi statali), non con l’idea che si diffondesse presso il popolo, ma perché venisse utilizzata da una ristretta tecno-elite al servizio del governo. Ma è ancora di più nella nostra epoca che vale la pena riflettere criticamente, perché, come diceva McLuhan, con queste tecnologie elettriche ci troviamo di fronte a una forma di potere persino più efficace dei totalitarismi di Hitler e Stalin, poiché in grado di entrare nelle nostre case, di violare la nostra sfera intima e modificare le nostre menti. Sì, perché la mente umana e gli impulsi che essa invia al corpo si modificano in base anche agli oggetti che l’uomo utilizza per fare esperienza del mondo in cui vive. Un semplice martello modifica l’utilizzo che possiamo fare del nostro braccio, che è soltanto quello di martellare finché lo teniamo in mano. Figuriamoci allora il grado di alterazione neuronale che possono provocare queste nuove *
28 Maggio 2011
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Qualcuno era italiano
tecnologie così potenti e pervasive, che ormai svolgono il ruolo di intermediari imprescindibili fra noi e i molteplici aspetti della realtà. Pensiamo all’incredibile mole di informazioni di ogni tipo con cui ci investe la Rete, in assenza totale di filtri o certificati di qualità e con una velocità e una frammentazione che superano di gran lunga le nostre capacità di cogliere, elaborare e immagazzinare tutti questi dati. Senza contare la quasi impossibilità di pervenire a una qualunque visione di insieme che fornisca rigore logico e cronologico a questa marea di bit: si tratta di quel «metodo odierno» del Potere che era stato intuito dal filosofo Günther Anders, per cui «veniamo sopraffatti da una tale abbondanza di alberi affinché ci venga impedito di vedere la foresta». Già Platone ci aveva insegnato che le malattie degli occhi, per cui risultano accecati, sono di due tipi e hanno due cause: «il passaggio dalla luce all’ombra e dall’ombra alla luce». L’eccesso di luce, allo stesso modo della sua totale assenza, produce un individuo incapace di pervenire alla conoscenza, condannandolo alla pallida percezione di ombre scambiate per oggetti reali. Se il Potere un tempo riusciva a nascondersi grazie alla censura o alla protezione di un apparato poliziesco, oggi ottiene il medesimo risultato grazie a questa luce abbagliante di cui parlava Platone, cioè grazie all’«opulenza informativa» che ci informa su tutto ma non ci fa conoscere davvero nulla. Senza contare la radicale forza di distrazione di cui è capace la Rete, di cui Google costituisce un esempio lampante, poiché con le sue dinamiche di funzionamento, favorisce tutto tranne che la lettura fatta con calma o il pensiero lento e concentrato. Di vero e proprio «business della distrazione» parla lo psico-neurologo Nicholas Carr, spiegando che l’influsso dei molteplici e contrastanti messaggi che arrivano dalla Rete non soltanto sovraccarica la nostra memoria di lavoro, ma rende anche molto più difficile per i lobi frontali concentrare l’attenzione su un unico oggetto. Insomma, più usiamo il web e più alleniamo il nostro cervello alla distrazione, mentre il web non si distrae per nulla da noi, anche e soprattutto quando siamo off-line o lontano dal nostro pc, come testimoniato dal fenomeno dei clickstream, ossia i residui delle nostre esistenze nel cyberspazio. Fenomeno per cui, non a caso, manifestano grandissimo interesse tutti i motori di ricerca che vogliono conoscere le intenzioni e i gusti del pubblico per scopi commerciali, ma
Un mondo perfetto
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anche i governi, come nel caso dell’Usa Patriot Act, che a seguito dell’11 settembre 2001 consentiva al governo americano di imporre a Google di svelare, su richiesta degli agenti governativi, tutte le informazioni segrete contenute nel database del motore di ricerca. Cioè tutti i movimenti e le richieste degli utenti della Rete! (cfr. P. Ercolani, L’ultimo Dio. Internet, il mercato e la religione stanno costruendo una società post-umana, Dedalo, Bari 2012, cap. IV). C’è poi l’aspetto per cui, di fatto, nella maggior parte dei casi non incontriamo (e spesso conosciamo) più le persone direttamente, ma ci adeguiamo ai tempi e alle modalità (necessariamente impoverite) dei nuovi media, restando in buona sostanza chiusi all’interno delle quattro mura domestiche. Con quello strano senso di onnipotenza che ci è dato dalla possibilità di superare le barriere spazio-temporali, di padroneggiare con un clic tutto il vasto ambito dello scibile umano, mentre in realtà ci siamo consegnati a una tecnologia che pensa, vede, incontra, si informa ed elabora al posto nostro. E che sempre di più possiamo dire che vive al posto nostro. Tutto questo è tanto più vero per la cosiddetta net-generation, i ragazzi nati dal 1995 in poi, cresciuti fin dall’infanzia a pane e web: dovrebbe far riflettere il fatto che ci troviamo di fronte alla prima grande invenzione umana per la quale non è stata prevista alcuna formazione nei confronti dei giovanissimi, abbandonati al virtuale senza alcuna preparazione. Insomma, sempre più il sogno di un mondo perfetto (virtuale) in cui regna la libertà assoluta, sembra presentare i contorni rischiosi di un regno dell’anarchia cialtronesca, in cui a governare è quell’ultimo Dio che l’uomo si illude essere al suo servizio. Ma di cui è invece schiavo inconsapevole.
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(D)EPURAZIONI*
In un Paese in cui i comunisti vengono evocati a sproposito da almeno un ventennio, osservare quel che succede nei media fa venire voglia che comparissero veramente, i comunisti! Armati di epurazioni! Basti prendere due casi tanto sconcertanti quanto significativi. Il Tg1 e il Tg 2, fra gli altri, multati sonoramente e come mai prima era avvenuto (si è arrivati ai limiti dell’oscuramento disciplinare) per aver dato uno spazio spropositato alle solite giaculatorie di Silvio B in seguito alla batosta delle elezioni amministrative. Lui da solo ha occupato il triplo dello spazio riservato a tutti gli altri leader politici! L’altro caso riguarda quel signore di brillanti promesse mancate rispondente al nome di Sgarbi Vittorio, lautamente pagato dalla Rai (cioè da noi) per allestire un programma televisivo che ha fatto flop sotto tutti i punti di vista. Voluto con forza da quell’ex direttore generale della Rai che, dopo aver attaccato e boicottato in tutti i modi programmi di grande successo come Annozero e Report, si era fatto pure riservare un’imperdibile rubrica all’interno della sciagurata trasmissione dello Sgarbi Vittorio. Ora, verrebbe ingenuamente da porsi qualche domanda: ma quale potrà mai essere la competenza tecnica di questo direttore generale così incapace di valorizzare i programmi premiati dall’audience salvo incoraggiare e finanziare quelli inguardabili? Con quali criteri è stato scelto? Quale competenza specifica può aver mai spinto il servizio pubblico ad affidare una trasmissione televisiva in prima serata a un signore che di professione fa lo scrittore di cose artistiche e che finché si ferma a ciò sarebbe pure bravino, peccato che ogni tanto gli prenda quella sindrome da idrofobia incontenibile che lo spinge a incazzarsi mortalmente, diventare tutto verde e spaccare ogni cosa *
26 Maggio 2011
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Qualcuno era italiano
come un ossesso per un tempo imprecisato, come accadeva a un noto personaggio di un telefilm degli anni settanta del secolo scorso? Che Paese è mai quello che riserva a personaggi di tal fatta e nani e ballerine i soldi pubblici con cui, in teoria, mettere su programmi di cultura e informazione? Che Sgarbi non sappia fare televisione è sotto gli occhi di tutti, e del resto non l’ha mai fatta (altro conto è saper comparire in televisione, in genere per recitare l’ormai patetica parodia di se stesso). La destra politica e governativa del nostro paese è così sprovvista di persone competenti e capaci da affidarsi al ridicolo Mauro Masi e al patetico Sgarbi Vittorio per compensare i programmi ben fatti, e ben visti, di professionisti che o provengono da una cultura di sinistra o non accettano di piegarsi a una cricca di governo che vuole soltanto dei servi e possibilmente sciocchi? Masi Mauro è stato lautamente pagato e prontamente rimosso (in notevole silenzio) da un incarico che non sapeva ricoprire, mentre il non programma dell’ipertricotico incazzoso è stato soppresso dopo la prima, raccapricciante, puntata. Ma qualcuno dovrebbe giustificare questo sperpero di soldi pubblici! Qualcuno dovrebbe pur rendere conto del perché si vanno a boicottare trasmissioni pregevoli (seppur discutibili, come ogni cosa del resto) di valenti professionisti, premiati dall’audience e dall’acquisto degli spazi pubblicitari mentre nessuno, e dico nessuno, dell’area governativa si è sentito in obbligo di spiegare lo sperpero di denaro pubblico per finanziare direttori e conduttori a esser buoni improvvisati. E il Tg1? E il Tg2? Ed Emilio Fede? E Mimun? Ma che Paese è mai quello che, in un’epoca di crisi economica e sociale strozzante, con intere generazioni di ventenni, trentenni e persino quarantenni che vedono mortificate le loro abilità e i loro sacrifici di studio e di lavoro, spesso costretti a fuggire all’estero o a rinunciare ai propri sogni, fornisce l’esempio di gentucola incompetente o deontologicamente indegna e genuflessa verso il potere fatta assurgere agli onori delle cariche professionali più alte e più ben pagate?! Quando imparerà questo Paese a indignarsi, a non tollerare più questa difesa inconcepibile di reucci e reginette del nulla, di ministri cialtroni e volgari, di politici ignoranti, puttanieri e affaristi, ma, soprattutto, quando smetterà di tollerare questo vero e proprio scandalo che vede la morte della meritocrazia e del premiare quei giovani e quei professionisti che sanno fare il proprio lavoro, a tutto vantaggio
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di figli e nipoti di, raccomandati da, genuflessi al potente di turno?! È triste un paese dove si è passati dai portaborse personali ai leccaculo personali. A ognuno il suo, e il potente di turno saprà come premiarlo riservandogli un posto che ormai è oro, per un Paese e per un’epoca di vacche così magre e di sconfitta generazionale. Si è detto spesso che i media sono lo specchio di un Paese. Beh, allora il nostro specchio riflette cose brutte e tristi, dove l’incapacità, la volgarità, l’incompetenza e soprattutto la deferenza al potente vengono premiate a tutto discapito del merito. Cosa curiosa, visto che tutti si definiscono liberali, ma neanche tanto visto che l’ignoranza diffusa rende lecito il dubbio che questi signori sappiano effettivamente cosa è il liberalismo. È triste dirlo, faccio fatica ad ammetterlo anche con me stesso, ma siamo arrivati a un punto in cui lo sconforto è tale da far pensare che una soluzione utile (e parziale) potrebbe essere data da una bella epurazione di tutti questi personaggi incolti e indegni, figli di un ventennio sciagurato e colpevoli di lasciare un Paese allo stremo e che non ha più nulla da offrire ai giovani migliori. Mai come oggi una bella epurazione di queste «trote» e di questi «minchiolini» appare in realtà come una depurazione benefica e necessaria. Non vorremmo, non vogliamo vederli più! E non sarei mica tanto sicuro che questa sinistra, se mai saprà preparare una nuova classe dirigente, eliminerà veramente questi squallidi servi incompetenti, visto che essa per prima non ha saputo fare pulizia al proprio interno di quei dirigenti che con la loro incompetenza hanno reso fin troppo facile il trionfo di una destra così impresentabile eppure vincente. A dimostrazione del fatto, potrei dire, che i comunisti non ci sono proprio più!
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QUALCUNO ERA BERLUSCONIANO*
Qualcuno era berlusconiano perché è cresciuto con i telefilm degli anni Ottanta! Qualcuno era berlusconiano perché di professione faceva il comico! Qualcuno era berlusconiano perché a un certo punto i giudici hanno cominciato inspiegabilmente a indossare le toghe rosse! Qualcuno era berlusconiano perché i tempi erano veramente brutti, ma non voleva porre limiti al peggio! Qualcuno era berlusconiano perché meglio lavati fuori che puliti dentro! Qualcuno era berlusconiano perché la Coop ha alzato i prezzi! Qualcuno era berlusconiano perché il conflitto di interessi era una frase troppo complicata! Qualcuno era berlusconiano perché lui aveva un bel sorriso, era simpatico e poi i bonsai sono tanto chic! Qualcuno era berlusconiano perché la sinistra ha sempre avuto il monopolio della cultura. E qualcun altro perché la destra ha sempre aspirato soltanto al monopolio! Qualcuno era berlusconiano perché è stato un grande Presidente, dedito alla causa, lungimirante, saggio, votato al bene comune e al prestigio della bandiera nel mondo. E infatti il Milan ha vinto tanto con lui! Qualcuno era berlusconiano perché Obama era troppo abbronzato! Qualcuno era berlusconiano perché non è mai stato così divertente comprare il giornale come nell’epoca in cui, grazie a lui, avevano diritto di parola e di sproloquio elementi come La Russa e Santanché!
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30 Maggio 2011
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Qualcuno era italiano
Qualcuno era berlusconiano perché Emilio Fede, al Tg1, era veramente sprecato! Qualcuno era berlusconiano perché “cazzo, su un milione di nuovi posti di lavoro, uno dovrà pur toccare a me!”. Qualcuno era berlusconiano perché il pericolo comunista era veramente forte! Qualcuno era berlusconiano perché lui si è accorto per primo che il pericolo comunista era veramente forte. Qualcuno era berlusconiano perché lui era rimasto l’unico ad accorgersi del pericolo comunista. Qualcuno era berlusconiano perché il pericolo comunista si era suicidato pur di non dare soddisfazione a lui! Qualcuno era berlusconiano perché i comunisti erano tutti convinti di essere portatori della verità assoluta, e poi avevano fatto il Liceo Classico! Qualcuno era berlusconiano perché “se è stato capace di fare i soldi grazie alle proprie abilità, sarà capace di farli anche grazie al popolo italiano”! Qualcuno era berlusconiano perché Veronica era una brava persona ma una pessima attrice! Qualcuno era berlusconiano perché il marito non era una brava persona ma in compenso era un grande attore! Qualcuno era berlusconiano perché in Italia c’è il sole, i monumenti artistici, spiagge favolose, città d’incanto. Non si può avere tutto! Qualcuno era berlusconiano a propria insaputa! Qualcuno era berlusconiano perché la storia non insegna nulla! Qualcuno era berlusconiano perché è risaputo che un imprenditore è interessato all’arricchimento della comunità! Qualcuno era berlusconiano perché non capendo niente di politica, in compenso trovava comprensibile il suo programma! Qualcuno era berlusconiano perché non lo ha mai sfiorato il dubbio che l’imprenditore più inquisito della storia patria, l’uomo più perseguito dalla giustizia e da indagini della magistratura, il politico più imputato delle nefandezze più gravi (corruzione, mafia, prostituzione minorile), non fosse proprio un esempio di rettitudine. In compenso i magistrati ancora mettono i calzini bianchi! Qualcuno era berlusconiano perché lui era amico dello zio d’America e della nipote dello zio d’Egitto!
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Qualcuno era berlusconiano perché si sentiva a proprio agio ad essere rappresentato nel mondo da un tipo che aveva come amici e sodali il “duo mignotta” Emilio Fede e Lele Mora, che ora pare stiano provando a vendere il Colosseo agli americani! Qualcuno era berlusconiano perché si sentiva a proprio agio ad essere rappresentato da un tipo che, se Barack Obama si fa accompagnare da Bruce Springsteen e Bob Dylan, lui da Mariano Apicella! Qualcuno era berlusconiano perché lui aveva il coraggio di dire e fare pubblicamente quello che parecchi italiani dicono e fanno senza diventare presidente del consiglio! Qualcuno era berlusconiano perché soltanto un grande paese come l’Italia poteva realizzare il sogno di portare Alberto Sordi al governo! Qualcuno era berlusconiano perché dall’altra parte hanno fatto di tutto a tale scopo! Qualcuno era berlusconiano perché quelli di sinistra puzzano e sono dei coglioni. E offendono pure! Qualcuno era berlusconiano perché la corruzione dei giudici, l’associazione mafiosa, la distruzione dell’impianto istituzionale dello stato, Calderoli e La Russa ministri, lo sfruttamento della prostituzione minorile e lo sputtanamento internazionale sono nulla in confronto al pericolo comunista! Qualcuno era berlusconiano perché tanto Giorgio Gaber è morto! Qualcuno era berlusconiano perché siamo sempre stati amanti delle canzonette e la patria del bel canto, perché Sanremo è Sanremo e allora…“meno male che Silvio c’è!” Ps C’era pure qualcuno che non era berlusconiano. Ma pazienza!
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LA GRANDE OCCASIONE*
La grande occasione potrebbe anche essere l’ultima. Quella di risollevare il nostro Paese, di porre le basi per costruire una classe politica rinnovata e, finalmente, all’altezza delle terribili sfide cui ci mette di fronte un’epoca di grandi rivolgimenti economici e sociali. La sensazione, però, volendo andare al di là del conformismo imperante sui media, è che corriamo seriamente il rischio di lasciarla andare senza fare nulla o quasi. Poniamo il caso infatti, ancora tutto da dimostrare, che il regime «al sonnifero» di Silvio B. sia veramente alla frutta. Giochiamo pure ad accettare con entusiasmo gli slogan tanto decantati dai media nostrani, che il vento è cambiato, che il popolo italiano si sta risvegliando e, con esso, la coscienza civica e culturale di un intero paese non più disposto a tollerare demagogie populistiche e incompetenze furfantesche. Prendiamo per buona questa versione e analizziamo i fatti col presupposto tranquillizzante di una riscossa ormai imminente. Cosa vediamo? Vediamo, per esempio, il ricomparire di un fenomeno assai inquietante. La riapparizione delle interviste fiume a un signore, Massimo D’Alema, che ancora una volta, con la puntualità di un’allergia primaverile, torna a pontificare con spocchia tanto fastidiosa quanto immotivata su cosa bisogna fare per far tornare il centrosinistra alla guida del paese. Dispiace che a prestarsi a questa pratica ormai logora e patetica sia un giornalista valido e intelligente come Massimo Giannini. Con la sua solita aria da fine statista e profondo conoscitore della «macchina» politica, il «multi-ex» della sinistra (sinistrata) italiana (ex segretario, ex presidente del consiglio, ex direttore de L’Unità etc.), discetta con incurante saccenza e impavida assenza di auto-ironia dimenticandosi di essere il capostipite di un’intera generazione di dilettanti allo sbaraglio che è riuscita a
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6 Giugno 2011
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Qualcuno era italiano
combinare i disastri più assurdi, fino a regalarci il secondo ventennio di vergogna della storia patria. D’Alema, ma anche Veltroni, anche gli ex Dc e l’intera dirigenza del centro-sinistra sono riusciti a ripudiare con assenza di critica ed elaborazione culturale, e senza la capacità di un progetto nuovo, la storia alle proprie spalle per consegnarsi mani e piedi, e con loro un intero popolo, alla sciagura di un imprenditore spregiudicato e mediaticamente furbissimo e alla sua cricca di nani, ballerine e servi sciocchi. E anche nel caso delle recentissime elezioni, non dimentichiamolo per favore, il signor D’Alema e il signor Veltroni, e insieme a loro tutti quelli che pateticamente si sono fatti un restyling di immagine priva di contenuto, erano quelli che si erano opposti a Pisapia perché un estremista non poteva conquistare la borghesia milanese, quelli che a Napoli hanno messo su un disastro per poi candidare un uomo politicamente nullo, quelli che ancora oggi si accapigliano sul fatto se sia più vincente andare con Casini e col Terzo Polo (sic) oppure allearsi con Di Pietro e la sinistra radicale. Dimenticando un piccolo particolare, quello che interessa veramente tutti noi: andare dove? Non tanto con chi, ma dove? Per fare cosa? Per cambiare questo paese in che modo? Quali le grandi riforme che hanno in mente? Investire sulla ricerca? Riformare il fisco e in quale direzione? Tornare a spendere per l’istruzione pubblica, oppure continuare a elargire regali assai costosi alle scuole private della Chiesa? Costruire un paese veramente laico, in cui la centralità dell’individuo sia quella del cittadino e non del fedele di qualche religione? Pensare una riforma seria della giustizia o tornare a vincere per rimettere in quel dicastero nientemeno che l’ineffabile Clemente Mastella, come avvenne nella precedente e sciagurata avventura? Invece no, questi geni che da vent’anni fanno da patetico contraltare alla dittatura «cazzara» di Silvio B., in questo appoggiati da media stanchi, privi di idee e di slanci critici, con gente che sta lì dentro grazie al patrono politico di turno, ancora si accaniscono se il candidato deve essere Bersani, Vendola, un salvatore della patria esterno (Monti, Draghi?), ragionano fittamente se rifare l’Unione oppure no, se andare da soli o in compagnia, se spostarsi un’anticchietta a sinistra o un cetriolino al centro. Che magnifica sensazione che danno di avere imparato dalla storia! Storia recente, poi, manco toccherebbe leggere più di tanto quei volumoni che i non laureati
La grande occasione
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D’Alema e Veltroni non hanno letto e anche se li avessero letti… Ok! Stop, basta così. Il senso è chiaro, credo. Insomma, vogliamo accorgerci che bisogna mettersi a tavolino e ripensare una nuova Italia? Che bisogna studiare e poi scrivere un programma degno di questo nome, che bisogna restituire agli elettori un progetto per il paese, un ideale per le generazioni future, un manifesto programmatico delle cose da fare per sperare di essere all’altezza dei grandi cambiamenti epocali? Si è voluto fare un partito, il Pd, unendo pateticamente le due tradizioni socio-culturali che per decenni si sono più combattute nel nostro paese. E adesso si vede. Quando arriva il momento di non essere uniti nell’opposizione al «cazzaro» di turno, ma di unirsi per pensare un paese nuovo e delle politiche riformistiche, è fin troppo evidente che tornano a galla i retaggi del passato. Di chi ricorda la scuola bigotta del libro Cuore e di chi ancora vive della rendita sciagurata del Sessantotto. Ed è solo un esempio. Così non si va da nessuna parte e invece di aspettare che Silvio B. crolli, sarebbe ora di cominciare, già da subito, già da ieri, ad azzerare questa classe dirigente (sic) del centro-sinistra e i loro ridicoli partiti post-moderni (tanti generali e poche truppe, poche idee ma ben confuse!) e costruire una grande casa comune unita innanzitutto da un programma di riforme, sulla scuola, sulla politica industriale, sulla giustizia, sulla laicità dello stato, sull’idea dell’Italia che vogliamo. Se non si farà questo, se i soliti noti aspetteranno il crollo di Silvio B. per tornare al potere per i soliti cinque mesi (in attesa di azzuffarsi su tutto e anche di più), allora non avremo imparato nulla, non cambierà davvero nulla e avremo perso quella grande occasione, che forse è anche l’ultima, di costruire un paese unito degno veramente di questo nome! Ps Dimenticavo, la cosa buffa, anche se non c’è da stare allegri per niente, è che tutta questa giaculatoria partiva da un presupposto volutamente dato per scontato, ma che non lo è affatto: la fine di Silvio B. Calcolando che neppure questa è acquisita, mi scorre come un brivido di terrore al pensiero di quanto tempo dovrà ancora passare prima che potrò smettere di leggere le illuminanti interviste a quel grande e furbissimo statista che è Massimo D’Alema…
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I CANI IN CALORE DI INTERNET*
«Gli uomini sono tutti cani in calore», è la sentenza caustica e definitiva di Maureen Dowd sul New York Times dell’8 giugno, a commento dell’ennesima vicenda che vede un politico americano coinvolto in uno scandalo sessuale. Si tratta di Anthony Weiner, deputato liberaldemocratico di quarantasei anni, sorpreso in chat erotiche, con tanto di scambio di fotografie porno, con ragazze molto più giovani. Galeotto fu Internet, ovviamente. Penosa la sua difesa, retaggio dell’atavico puritanesimo americano: «Non ho mai fatto sesso fuori del matrimonio». Già, perché «tweeting is not cheating» (twittare non è tradire). Buffo, o forse eloquente, che in inglese il sostantivo twitter vuol dire cinguettio, ma esprime anche uno stato di ansia, di agitazione. Il bravo maritino è stato ovviamente messo alla gogna, cacciato da tutti i consessi, costretto a pubblica abiura, merdificato e despecificato dalla specie umana. Ora, a parte il fatto che non mi risulta che nessuno abbia messo in luce il vero aspetto per cui i cittadini americani dovrebbero avere dei dubbi sul suo valore come rappresentante al congresso (uno che non si limita a spedire foto del suo aggeggio, ma ci mette anche la faccia, fa riflettere sulle sue doti, intellettive…), a parte questo credo ci sia di che riflettere. Gli uomini sono tutti cani in calore, degli hot dogs in libera uscita dai Mc Donald di tutto il mondo? Possiamo anche prenderlo per buono, purché l’onestà intellettuale ci porti a precisare che il deputato americano aveva trovato pane per i suoi denti, ragazze più o meno giovani assai lusingate di essere al centro delle attenzioni, seppure virtuali, di un uomo bello e potente. Ci sarebbero delle affinità col nostro Paese, se non fosse che all’omuncolo nostrano non si addice propriamente l’aggettivo bello, e anche sul potente pare che ci si
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13 Giugno 2011
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Qualcuno era italiano
dovrebbe accordare. Ma sorvoliamo altrimenti il discorso si farebbe troppo complicato. Insomma, un banale esercizio assai prolifico in filosofia, ricondurre problemi complessi alla semplicità originaria, ci fa capire che torniamo sempre all’essenza dell’essere umano: quell’istintualità animale che abbiamo bellamente rimosso in secoli di faticosa costruzione della civiltà. Basta questo per capire che il maschio sente l’istinto di corteggiare, conquistare, attirare l’attenzione della femmina (non di tutte, una per volta almeno), ed ella prova piacere nell’essere oggetto di attenzioni, di interesse e di corteggiamenti da parte dell’uomo. È persino pleonastico scriverlo, eppure ce ne dimentichiamo spesso, o meglio non siamo spesso disposti a riconoscerne le fisiologiche conseguenze. Internet, le chat, i giochi in rete, la possibilità di interagire in una realtà, quella virtuale, che esalta certe dinamiche più sofisticate e, perché no, perverse (perché più sottili, meno dirette) dell’accoppiamento umano, non ha fatto altro che presentare un nuovo scenario di potenziale espressione di queste pulsioni coessenziali all’essere umano. Siamo noi a dimenticare, piuttosto, che secoli di civilizzazione ci hanno spinto a dotarci di sovrastrutture comportamentali tutt’altro che naturali, come l’accoppiamento prolungato, il dovere di fedeltà a vita a uno stesso uomo o donna, la creazione di un ambiente meraviglioso e letale quale è la famiglia (Monicelli docet!). Non è mia intenzione qui ritirare fuori discorsi atavici, figli di un ribellismo sessantottino o di un libertinismo seicentesco (quest’ultimo assai più nobile, per la cronaca) ormai consegnati alla storia e alla sensibilità di ciascuno, però è fuori di dubbio che, come insegnava il grande Freud, per le pulsioni represse e per la faticosa costruzione di una civiltà umana (che abbia rimosso l’animalità), c’è un prezzo da pagare, che egli chiamava «disagio», che è tanto più dirompente e si presenta in maniera tanto più pervertita (non perversa, stavolta) a seconda di quanto è stata lunga nel tempo e frustrante nei modi la rimozione. Pensiamo ai fenomeni di pedofilia, non a caso concentrati in un ambiente, quello della Chiesa, sessuofobico e repressivo per antonomasia. Internet, a ennesima riprova del suo potenziale rivoluzionario, costituisce da questo punto di vista un luogo in cui uomini e donne possono tornare a manifestare liberamente le proprie pulsioni, perché si tratta di una dimensione totalmente nuova, dalle potenzialità
I cani in calore di internet
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infinite e dalle dinamiche che titillano le fantasie più ludiche. Certo, che anche Internet sia luogo di perversioni e pervertiti è fuori di dubbio, perché anch’esso paga lo scotto di essere frequentato da soggetti che sono repressi nella società vera, vittime di meccanismi coercitivi che li spingono sovente al ridicolo (e la perversione fa comunque parte delle possibilità del genere umano). Come nel caso del citato deputato americano, o nel caso del nostro cane che prova ad avere rapporti sessuali col peluche con cui di solito gioca. Ma nei confronti del cane siamo decisamente più accomodanti, ci fa tenerezza, ci suscita simpatia. All’uomo, questo essere civilizzato e depositario di tante doti sovranimali, ciò non è consentito senza che subentri il giudizio inappellabile e moraleggiante, come nel caso della columnist di un grande quotidiano del paese bigotto per eccellenza. Dimentica, la signora, che se per i maschietti il rischio è spesso dato dal ridicolo, per le femminucce è dato dal non casuale proliferare di patologie ansiose e di disturbi dell’identità. Uomini e donne, insomma, paghiamo entrambi un grande obolo a quella grande conquista che chiamiamo civiltà, e non porta da nessuna parte impancarsi a giudici moralisteggianti di quello o quell’altro caso. Sarebbe una grande battaglia dei liberali quella del tentativo di riscoprire anche la dignità animale dell’individuo, al fine di ricostruire una società in cui il piacere, il divertimento, il corteggiamento e persino i giochini più o meno erotici e perversi (fra adulti consenzienti, sia chiaro!), tornino ad avere quella dignità che, a pensarci bene, non hanno mai avuto. Innanzitutto perché a trionfare non sia quella (falsa) morale bigotta che nella storia, il suo insegnamento è chiaro, ha solo finito col produrre la “doppia morale”, quella per cui a preti, ricchi e potenti di turno era concesso tutto e anche di più. Proprio in nome della stessa morale in nome della quale erano stati eletti o che dicevano di imporre per far guadagnare alle nostre anime il regno dei cieli.
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UN NUOVO SOGNO*
Fra i tanti elementi inquietanti emersi dalla vicenda della P4, la presunta lobby di potere occulto che vedrebbe al centro del proprio essere la figura di Luigi Bisignani, e all’apice della piramide l’ineffabile e immarcescibile Gianni Letta, ce n’è uno sicuramente meno rilevante, in ambito penale e politico, ma assai sconfortante a livello etico e culturale. Infatti, dalle intercettazioni telefoniche pubblicate sui media emerge un’Italia ancora arroccata sulle raccomandazioni e sui privilegi di casta ottenuti dai figli di papà, spesso anche se non sempre dei «bamboccioni» (questi sì) venuti su grazie alle grandi o piccole conquiste dell’autorevole genitore, incapaci di profondere una qualsivoglia abilità ma in compenso investiti di ruoli tanto centrali e lusinghieri quanto ben pagati. L’aspetto beffardo, oltre tutto, è che in questo ennesimo scandalo della società italiana, a fare la parte di chi contattava il potente occulto di turno, Bisignani appunto, per raccomandare figli, nipoti, amiche e persino mogli, sono stati personaggi che negli ultimi mesi si sono distinti per un’accorata morale sul bisogno di tornare (e quando mai?!) a un paese veramente meritocratico. La lista è lunga e, come nella migliore tradizione dell’Italietta più becera, ben al di sopra delle distinzioni politiche. A cercare sotterfugi rispetto al vero merito sono stati, fra gli altri, fra i tanti altri che a dire il vero arrivano ben vicino alle vite di tutti noi, l’implacabile e professorale Ministro Gelmini (ah, il potere degli occhialini nel costruire un’autorevolezza inesistente, dovremmo rifletterci…), il figlio di Umberto Bossi, aulicamente ribattezzato dal padre «il trota», noto per essere stato pluribocciato persino alle scuole serali, la compagna di Luca Cordero di Montezemolo, senza contare i tanti figli e parenti di giornalisti ben piazzati nei posti migliori. Per *
22 Giugno 2011
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Qualcuno era italiano
non parlare dei casi quantomeno sospetti, come le mogli di illustri personaggi del Pd prontamente salite sugli scranni parlamentari, la figlia di Eugenio Scalfari che da anni lavora al Tg5 (e che magari sarà bravissima, ma insomma, casualmente fa proprio la giornalista, sempre casualmente nell’insospettabile covo del nemico). Fermiamoci per non scadere nel moralismo, magari ricordando che queste pratiche indegne e antiche non si fermano alla pletora di potenti e straricchi, ma arrivano, come abbiamo detto, a lambire le nostre esistenze di cittadini normali, dove figli, parenti, amici e amanti di qualcuno hanno prontamente beneficiato del proprio status per ottenere un lavoro che, altrimenti (e soprattutto in questi tempi terribili), sarebbe stato esposto alla durissima legge del merito. Non è mia intenzione accodarmi all’ennesima giaculatoria contro la casta, per denunciare populisticamente i ricchi e potenti di turno di fronte all’immacolata limpidezza del popolo sovrano. Tutt’altro, qui dobbiamo prendere atto di una pratica talmente diffusa e culturalmente data per scontata, da aver contaminato anche le falde più nascoste del nostro Paese, arrivando a costituirsi come vero e proprio substratum di un intero sistema paese. Il guaio è che rinunciare al merito, ad approntare una vera riforma (questa sì, visto che si parla tanto di riforme!) che consenta di mettere i vari posti di lavoro a disposizione delle persone più valide e meritevoli, equivale a distruggere un intero Paese, poiché sempre di più saranno gli ingegneri, i medici, gli avvocati, i docenti etc., inadeguati rispetto a un mondo che cambia e che richiede competenze adeguate e rigorose. Rinunciare al merito significa spezzare i sogni delle giovani generazioni, capaci di impegnarsi per apprendere e migliorare soltanto se consci di poter realisticamente aspirare ad occupare posti adeguati alla propria formazione. Qui è stato, a pensarci bene, il grande fallimento della troppe volte annunciata «rivoluzione liberale» di Berlusconi, che invece di tagliare i fondi per la ricerca avrebbe dovuto mandare gli ispettori nelle varie Università, per tagliare i troppi rami secchi di chi poco studia, poco lavora e pochissimo produce. Qui è stato il vero fallimento degli eredi del Pci, incapaci di dare alla propria gente un «nuovo sogno», perché puntare sul merito vuol dire mettere al centro della propria azione un valore e una facoltà davvero democratici, ben al di sopra delle distinzioni di classe sociale, razza, genere e soprattutto censo.
Un nuovo sogno
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Avremmo dovuto insospettirci quando, a partire dai primi anni Novanta del secolo scorso, in seguito al tracollo seguito a Tangentopoli, tutti si affannavano a proclamarsi liberali, attribuendosi la patente di «più» liberale dell’avversario di turno. In filosofia il tutto confina paurosamente col nulla (e i tutti con nessuno), e soprattutto i parvenu dell’apologia del mercato (vedi i suddetti eredi del Pci) hanno dimenticato che anche l’ideologia liberista, a cui si è lasciato colpevolmente campo aperto (coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti), si è sempre ben guardata dall’abbracciare il valore del merito. Il caso del tanto decantato Hayek è emblematico: considerato da più parti il più grande liberale del Novecento, si è ben preoccupato di precisare che la meritocrazia è impossibile e persino ingiusta, perché per realizzarla veramente ci vorrebbe un intervento dello Stato volto a togliere i privilegi proprietari, castali e famigliari e creare artificialmente un terreno il più possibile rispondente al criterio delle pari opportunità. Apriti cielo! Ma questo è comunismo! Eppure mai come oggi non andremo da nessuna parte, non salveremo il nostro Paese dalla miseria economica, culturale e soprattutto professionale in cui lo abbiamo cacciato se non sapremo aprire le sorgenti del merito. Ci hanno detto che non è più l’epoca del posto fisso, non più l’epoca dei diritti acquisiti e della pensione garantita. Può anche star bene, ma allora si sappia che non è più neppure l’epoca in cui il figlio dell’avvocato, del medico o del giornalista deve per forza di cosa seguire le impronte del genitore o del raccomandante di turno. Si tratta, prima ancora che di una battaglia di civiltà, di una delle ultime possibilità di rialzare un paese dallo sfascio in cui è piombato. C’è bisogno di un nuovo sogno, per la Politica con la maiuscola, per le giovani generazioni, per invogliare i tanti ragazzi e ragazze a lottare nuovamente al fine di migliorare le proprie conoscenze e la propria persona. Questo sogno si chiama merito. Per favore, non fatelo degenerare in incubo!
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COME MUORE UN PAESE*
Per comprendere amaramente come muore un Paese, il nostro paese, un’istantanea può bastare assai più di tante parole. E il tempo, unico vero dio della nostra fuggevole dimensione umana, fa il resto. È ciò che mi è capitato sfogliando un vecchio giornale, in cui c’era la foto di Bettino Craxi che uscendo dall’Hotel Raphael venne sommerso da un lancio di monetine da parte della folla inferocita. Sono passati quasi vent’anni e la cosiddetta prima repubblica stava tramontando sull’onda di tangentopoli. E dire che Bettino Craxi, buono statista (non di più, per favore), era «accusato» di essere «semplicemente» il segretario di un partito fra i più coinvolti nello scandalo delle tangenti, colui che «non poteva non sapere» quello che stava accadendo». L’unico politico italiano, per la cronaca, che avesse avuto le palle di andare in Parlamento e pronunciare un discorso coraggioso: questo è il nostro paese, così funziona il sistema, con queste dinamiche va avanti l’Italia da ormai molti anni. Non ebbe neppure l’ardire di tirarsi fuori, chiamò dentro tutti, invitò a un estremo, drammatico, inascoltato gesto di corresponsabilità tutte le forze politiche ed economiche perché si avesse la forza di ammettere e, forse, ricostruire qualcosa di diverso. Niente più di questo, con la grande colpa del limitarsi a dire che «siamo tutti colpevoli, quindi non è colpevole nessuno», lui per primo. In quegli anni l’Italia era un paese malandato ma mai come oggi. Si riusciva a trovare lavoro, l’economia ancora girava, i giovani potevano coltivare speranze ragionevoli. Di lì a breve ci sarebbe arrivato il conto di anni di governo sciagurati e irresponsabili, fondati su un benessere spropositato i cui costi venivano scaricati sulle generazioni future, grazie a quel fardello chiamato debito pubblico. Niente più di questo, che pure era tantissimo e oggi lo sappiamo, ahinoi, molto bene. *
6 Luglio 2011
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Qualcuno era italiano
Tutto ciò non impedì che uno dei tre uomini politici più potenti dell’Italia venisse investito dalla furia popolare all’uscita del suo albergo in cui risiedeva a Roma. Il popolo insorse, sulla scia delle inchieste giudiziarie e degli scandali che scoppiavano diuturnamente. Il contrasto con l’oggi è disarmante. Pensate voi se Bettino Craxi fosse stato come il capo del nostro governo di oggi, che mentre il paese tracolla, i giovani non trovano lavoro, gli adulti lo perdono, le famiglie e le imprese sono allo stremo, lui si fosse divertito a mettere su delle orge con ragazzine di ogni età insieme al duo mignotta Emilio Fede e Lele Mora (ma chi diavolo frequenti, figlio mio?!), avesse fatto leggi pro domo sua per non pagare 750 milioni di euro a un avversario imprenditoriale sconfitto grazie alla corruzione di un giudice, leggi per non essere inquisito, per salvare le proprie imprese, circondandosi di una cricca di incompetenti leccaculo che occupano i posti vitali della cultura e dell’economia del nostro paese soltanto per fare gli interessi loro e di chi lì ce li ha messi. Con un ministro Tremonti che, ma quando la finiremo di considerarlo un genio?! (beati monoculi in terra caecorum!), approva delle finanziarie disastrose, incompetenti, irresponsabili, di cui lui per primo si deve vergognare per esempio annullando la conferenza stampa di presentazione alla stampa, col motivo del «maltempo». Maltempo? Mala tempora, semmai, i tempi nefasti di un paese che sta morendo travolto innanzitutto da una mentalità disonesta e infingarda che si è ramificata in tutti i gangli vitali della società. Una società dove non esiste più il merito, dove va avanti chi è più bravo ad allisciarsi il potente di turno, dove si pensa a sistemare figli, nipoti e amanti prima che sia troppo tardi, perché tutti si stanno accorgendo che fra un po’ salta il sistema. Ma anche una società, mi sia consentito di dirlo, in cui si è persa persino la fantasia di una sana indignazione, che non è certo quella del tirare monetine o compiere atti violenti, ma non può essere neppure quella di un popolo che ancora in larga parte, malgrado tutte le schifezze che gli vengono propinate, acclama, riverisce e sotto sotto ammira Silvio B., un cazzaro professionale che ha tenuto in ostaggio esclusivamente per il proprio tornaconto un intero paese proprio nel ventennio più drammatico, quello in cui ci sarebbe stato bisogno di governi forti e seri. Il secondo ventennio vergognoso del nostro paese in meno di un secolo, è bene ammetterlo, di cui è colpevole tutta una classe dirigente (a destra come a sinistra, sia chiaro!), che
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dovrebbe avere il coraggio di fare come Bettino Craxi fece solo parzialmente: ammettere pubblicamente tutto il disastro e andare a casa in massa. Lasciando spazio a forze giovani e sperabilmente migliori. Ma come possiamo seriamente aspettarci ciò se dopo questo ventennio non solo non si tirano più monetine (atto condannabile), non ci si indigna, non si cacciano via a pedate figurine politiche di infima levatura e vergognosa loquela, ma addirittura si ammirano certi personaggi figli del potere più bieco e della corruzione più in cerca di servi sciocchi?! Cosa si può sperare, infine, da un’Italia in cui solo vent’anni fa, pur in mezzo a un disastro, queste considerazioni sarebbero parse a dir poco qualunquiste, mentre oggi, ahinoi, si rivelano come un banale, triste, spento ma irrefutabile quadretto di un paese arrivato al canto del cigno?! Ps Non so voi, ma io avrei qualche sospetto anche che si tratti di un cigno. Forse un anatroccolo. Non proprio brutto, ma da qui al cigno ce ne corre assai…
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LETTERA APERTA A SILVIO B.*
Signor Presidente del Consiglio, chi le scrive non ha alcuna stima di lei, non l’ha certamente votata e si è augurato, per quasi vent’anni, che anche il popolo italiano non la votasse col largo consenso di cui sappiamo. Certo, a voler misurare la sua vicenda personale con il metro cinico di questa epoca triste, quella per cui conta soltanto il successo ottenuto, magari con cinismo e perché no con astuzia e imbroglio, si potrebbe anche provare ammirazione per un uomo che è stato capace di costruire un impero, essendo partito dal piano bar sulle navi da crociera. Ma, lei mi perdonerà, non mi riesce proprio. Non mi riuscirebbe neanche se fossi qui a scriverle in qualità di imprenditore, ma il fatto che la sua veste, da troppi anni a questa parte, sia quella di colui che dovrebbe curare gli interessi del popolo italiano, le vicende della nostra meravigliosa e triste nazione, lo trovo degradante e umiliante. Sì, lo so, possiamo dircelo a «quattr’occhi», lei è stato capace di fotterci tutti. Grazie alle sue indubbie doti di comunicatore e al suo staff esperto di messaggi pubblicitari, con un’accorta campagna cognitiva e culturale, prima ancora che mediatica e dis-informativa, lei non ha convinto soltanto il popolo dei presunti sprovveduti e ignoranti di cose politiche, ma anche persone dotte e impegnate sul fatto che il nostro paese andava salvato dal pericolo comunista, da una masnada di nipotini di Stalin che non vedevano l’ora di prelevare i nostri conti in banca, requisire le nostre case e tutte le proprietà e istituire un infelice regime liberticida che ci avrebbe condotti dritti fino ai gulag. Ma soprattutto, gliene va dato atto, lei ha umiliato una classe politica vecchia, incapace di comunicare, irretita all’interno di schemi vetusti e logori, quella classe politica della sinistra che pensava *
18 Luglio 2011
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Qualcuno era italiano
(illusi!) che bastasse tangentopoli e qualche abiura del passato per prendere il potere nel paese e non lasciarlo più. D’Alema, Veltroni e compagnia bella, ancora persi nei loro collettivi di morettina memoria, nelle formule intellettualistiche estranee al sentire della gente comune, con le loro giacche di velluto tristi, sono stati spazzati via dal ciclone della sua comunicatività, fatta di sfondi azzurri, di slogan semplici e diretti, di proclami tanto assurdi quanto accattivanti (il nuovo miracolo italiano, il milione di posti di lavoro etc.). Un’abilità comunicativa immensa, tanto che ancora oggi rimane, pesante come un macigno, il dubbio se sia stata più la sua grandezza di comunicatore, o l’imbelle passività dei suoi avversari (unita alla beotaggine di buona parte del popolo, rincoglionito da decenni di telefilm e telenovele propinateci, manco a dirlo, dalle sue televisioni), a rendere possibile questo secondo ventennio di vergogna della storia patria in meno di un secolo. Tanto che persino fra coloro che si schierano da una parte che non è la sua, e spesso si tratta di menti lucide, aperte e liberali, ci si divide sul modo di opporsi alla sua persona (e al retroterra culturale che lei si è portato dietro), su quanto si possa essere diventati estremisti o poco liberali nell’assumere toni gravi e netti. Il tutto è triste perché, mutatis mutandis, non può non tornare alla mente il primo ventennio di vergogna del nostro paese, quando proprio molti liberali (non Gobetti, non Matteotti, non Gramsci, che all’inizio era vicino alle posizioni liberali) acconsentirono al regime fascista, lo legittimarono e nobilitarono in nome, pensate un po’, del pericolo comunista che arrivava dalla vicina Unione Sovietica. Ora, a parte il fatto, amaro, che i decenni passano per il nostro Paese senza che noi ce ne accorgiamo, perché le questioni e le divisioni rimangono tristemente le stesse, c’è da prendere atto che neppure fra i suoi oppositori si è affermato un concetto tanto semplice quanto doveroso per ogni persona che abbia a cuore la libertà: che lei è il nemico della libertà e che pur di farla tornare a casa bisognerebbe unire le forze e trovare un sentire - e un agire – comuni nell’abbattimento del suo regime nefasto e disastroso invece che dividersi su intellettualistiche (bene che vada) questioni di lana caprina. Buone per gonfiare l’ego degli intellettuali, ma assai sterili ai fini di una entrata, finalmente, del nostro paese nella casa comune della modernità e della dignità.
Lettera aperta a Silvio B.
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Qualunque cosa succeda e succederà lei ormai ha vinto, è inutile nasconderselo o costruirsi versioni rassicuranti. Magari il suo regime è alla fine, come pensano in molti, ma questo non può sorprendere, perché l’eternità non è fra le facoltà concesse al nostro umano esistere. Insomma, che lei crolli dopo vent’anni è assai più normale del fatto che lei abbia goduto per così lungo tempo di un consenso fondato sul nulla. Perché nulla lei ha fatto per il bene del popolo italiano, nulla di liberale c’è stato nella sua azione di governo, mentre la lista delle sue nefandezze, malefatte, incompetenze e umiliazioni del pubblico decoro sarebbe fin troppo lunga. Spesso si dice che nella fine di una cosa, che sia un rapporto amoroso o la vicenda di un governo, si vede la qualità di quel rapporto o di quel governo. E la sua fine la dice lunga, fra orge con minorenni, sputtanamenti internazionali, discredito dell’onore nazionale, improvvisazioni e ingiustizie nella politica economica. Per non parlare della classe politica di centrodestra che lei ci lascia: tutti elementi che fin dalla fotografia di identità potrebbero andare bene per un trattato di psicopatologia applicata o per un’operetta di paese che insceni una comica sui matti e ridicoli del posto. A proposito di prima repubblica si parlava di «nani e ballerine» in senso metaforico. Lei è riuscito a fare pure peggio, perché possiamo pure fare a meno della metafora e tenerci quelli che a tutti gli effetti, persino nella fisiognomica, sono dei nani e ballerine. Arrivo alla conclusione: magari a lei non gliene frega nulla, non è nella sua sensibilità né nel suo bagaglio culturale. Forse non serve a nulla dirle che lei ha l’occasione di compiere un estremo gesto di responsabilità (almeno ora, almeno alla fine), forse lei ha troppo bisogno del potere per salvare le sue vicende giudiziarie. Forse non le interessa che il nostro Paese è allo sbando, allo sfascio etico, professionale, politico. Che siamo irrisi da tutto il mondo, attaccati da una speculazione finanziaria che annusa la nostra debolezza, che i nostri ministri e deputati sono degli affaristi spregiudicati e degli incompetenti da barzelletta che ci condurranno allo sfascio mentre sempre più giovani e famiglie sono allo stremo. Forse a lei non importa nulla. Ma se dovessi per caso sbagliarmi, e se per caso lei avesse modo di leggere questa missiva, la prego, la prego con tutto il cuore. Se ne vada!
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LA RISPOSTA DI SILVIO B.*
Caro signor Ercolani, premetto subito che ho letto casualmente la sua missiva, e solamente perché in questo periodo ho poco da fare. Il Paese viaggia infatti a gonfie vele in maniera autonoma ed io, una sera di queste, curiosamente costretto a letto da un ritorno del problema al tunnel carpale (di solito io le mie sere le occupo diversamente, fra cene eleganti e feste intellettuali), mi sono imbattuto nelle sue farneticazioni prive di ogni riscontro. Del resto io non conosco né lei né la rivista che ha voluto pubblicare la sua lettera a me indirizzata. Mentre da quello che vedo voi conoscete benissimo me. Questo la dovrebbe già dire lunga sulla siderale distanza di valori fra me e voi. Questo avrebbe dovuto, in effetti, farmi abbandonare la lettura. Ma ultimamente mi sto esercitando col computer e con l’inglese, due grandi innovazioni che del resto ho diffuso nel Paese fin dalle scuole primarie, e poi non resisto alla fantasia. Anzi, a tal proposito suggerirei alla vostra rivista di pubblicare le foto dei redattori: a lei la vedo benissimo vestito da infermiera, anche se un po’ cattivella, pronta a dispensare medicine amare, iniezioni dolorose e notizie cattive ai suoi pazienti. Ma insomma, lei come moltissimi altri mi accusa di ogni nefandezza, mia sarebbe la responsabilità di tutto, terremoti, tsunami, incidenti termonucleari. Manca solo che sia mia la responsabilità, che so, della prostituzione minorile, manca che mi accusiate di aver nominato senatore il mio cavallo, o consigliere regionale la mia cavalla, e poi il quadro del mostro è completo! Del resto voi comunisti siete così, bravi a dileggiare e screditare l’avversario, fenomenali inventori di quadri sociali e politici assai cupi e apocalittici, quando la realtà è ben diversa. Sì, è diversa. Il Paese va a gonfie vele. Siamo stimati e considerati in tutto il mondo. Io ho il numero di cellulare di Putin e lo chiamo *
29 Luglio 2011
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Qualcuno era italiano
quando voglio. Le dirò di più, mi risponde entro il terzo squillo. Sempre. Obama mi adora, da quando gli ho suggerito la mia marca di cerone, che ti dona quel colorito da abbronzatura soft, non troppo appariscente, per non parlare delle scarpe col tacco nascosto (avete visto quanto sembra alto?). La Merkel fa la ritrosa in pubblico, ma in realtà mi telefona tutte le sere prima di coricarsi, perché dice che le metto allegria e la faccio ridere. Presto la avrò ospite a una delle mie elegantissime cene e, pensi un po’, verrà vestita da Merkel! La gente mi adora, il popolo mi osanna, ho distribuito a piene mani ricchezza, benessere, sicurezza sociale, prospettive per le nuove generazioni. Dovrebbe vedere, Lei che si diverte tanto a criticarmi, come sono adoranti le tante massai che vengono sotto i miei studios a Palazzo Chigi, con che occhi pieni di gratitudine mi guardano ringraziandomi per Beautiful e Cento Vetrine! E i giovani, questi ragazzi che saranno il futuro del nostro paese, la nuova classe dirigente, come mi esprimono la loro riconoscenza per le immense prospettive di lavoro create dal Grande fratello e la Fattoria (voi bolscevichi li chiamate reality show ma in realtà sono dei veri e propri master qualificatissimi, che inseriscono nel mondo che conta davvero!), per non parlare delle ragazze, che grazie a me hanno capito di poter contare su una nazione che le apprezzi per quello che sono, per quello che sanno fare (si spera bene, del resto spesso verifico personalmente) e anche per quello che hanno fra le gambe. E non mi si venga a dire che ho pensato soltanto a quelli più colti e benestanti, perché se è vero che master internazionali come il Grande fratello e la Fattoria sono riservati alla crema della gioventù nazionale, è anche vero che ho creato una miriade di occasioni anche per i meno dotati e colti: pensiamo alla Corrida, solo per fare un esempio. Potrei andare avanti per molto, ma francamente trovo inutile parlare con gente come lei, che vive fuori dal mondo. Non posso certo pensare di convincere chi per partito preso non vuole intendere ragioni. Non ho tempo per queste sciocchezze, devo pensare alla campagna acquisti del Milan, alla campagna acquisti del Parlamento, a quella delle olgettine e, come se tutto questo non bastasse, devo pure trovare un lavoro all’amico Bondi, poveraccio. Lui è una persona
La risposta di Silvio B.
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sensibile e delicata, un poeta disadattato dei tempi moderni, pensavo che l’avrei salvato affidandogli la cultura (e che sarà mai, è passata pure di moda!), invece adesso mi tocca correre ai ripari. Magari gli affido il Cnr, vedrò. Comunque, sarei ipocrita se la salutassi con gli auguri. Sappiamo bene entrambi che di me parleranno i libri di storia, mentre lei e la sua rivistina cadrete nel dimenticatoio. Come tutti i comunisti. Preferisco utilizzarvi per salutare gli italiani, il mio unico faro e l’unico vero pensiero di tutta la mia azione di governo e persino di tutta la mia vita: ehilà ragazzi, brava gente, smettete di leggere riviste come queste! Smettete proprio di leggere, andate a divertirvi, spendete, godetevi la vita. Al resto ci pensa il vostro Silvio. Anche a darvi una magnifica estate di sole!
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IL MISTERO DELLE INTERCETTAZIONI*
A me non piacerebbe che le mie telefonate finissero su tutti i giornali. Mi capita di dire qualche parolaccia, di vantarmi di qualche fatto che finisco immancabilmente con l’esaltare o alterare a mio favore, posso pure arrivare a criticare il mio capo e, vabbé, visto che sto facendo un outing parziale le dico tutte, ad affermare che la mia amata Roma, per la quale sognavo di scendere in campo fin da bambino (per giocare a pallone…), quest’anno c’ha una squadra che fa cagare e la città un traffico di merda! Ok, sboccacciato il giusto, lievemente isterico, pronto a usare il telefono, e l’interlocutore, come valvola di sfogo delle mie nevrosi diurne e notturne. Anche soltanto immaginare di ritrovarmi a leggere questi miei sfoghi un po’ beceri sul giornale mi provoca una certa inquietudine e vergogna. Da questo punto di vista posso immaginare la frustrazione, e persino la rabbia, del nostro capo di governo, che evidentemente «scopa» tanto ma non abbastanza da sfogare tutte le sue nevrosi e, puntuale come una domanda di Marzullo, finisce per alternare alle castronerie dette in pubblico quelle dette al telefono: l’Italia paese di merda, di me si può dire solo che scopo, quella è brava in una performance, l’altra in due performance, con tanto di risposte ancora più signorili e costumate da parte di quel beato circoletto di anime poetiche di cui si circonda («Presidente, ma mi dica lei quale donna non sarebbe felice di venirle a fare un…se solo lei la chiama al telefono!?»). Che poi, sia detto per inciso, verrebbe da chiedersi per cosa altro ha tempo questo uomo vigoroso se sta sempre a copulare e a regalare soldi all’operatore telefonico della Colombia! Ma vabbé, sorvoliamo. Ora, pare che ci sia il panico tra il suo staff e fra la compagine governativa perché starebbe per uscire un’intercettazione in cui questo altissimo statista del nostro capo di governo si rivolge a proposito *
19 Settembre 2011
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Qualcuno era italiano
della Merkel affibbiandole il titolo di «culona». Che poi, anche qui, verrebbe da chiedersi e chiedergli: ma caro Silvio, proprio nei confronti del capo di governo della Germania quelle parole?! Cioè del paese che per ora sta trainando quel che resta dell’economia europea e sta salvando il «culone» della sua amata Italia?! Ed ecco che per l’ennesima volta si grida allo scandalo. Giudici e giornali vengono messi alla berlina dai servi sciocchi dell’aitante presidente e dai sedicenti liberali (benpensanti) perché è sconveniente e disonorevole che in un paese serio come l’Italia si possano leggere su tutti i giornali le frasi del presidente del consiglio. Invece, evidentemente, che il suddetto presidente si esprima in quei modi e frequenti certa gente è ritenuto perfettamente normale e persino onorevole! Stranezze di un paese in cui, insieme al capo, speriamo che le classi dirigenti future avranno il coraggio di mandare via a pedate un sacco, ma proprio un sacco di gente. Ma al di là di tutto, ad uso esclusivo di chi non lo sapesse, sveliamo l’arcano di come sia possibile leggere le frasi del presidente sui giornali. Giudici infingardi? Giornalisti disonesti? Nulla di tutto questo. Nell’ordine le cose vanno più o meno così. In presenza di notizie di reato una persona viene messa sotto indagini. Lì, se ritenuto opportuno, si procede anche a intercettazioni telefoniche. La magistratura inquirente raccoglie le prove della notitia criminis e deposita la memoria accusatoria, allegando anche le prove accessorie, fra cui le intercettazioni telefoniche. Una volta che l’indagato e la difesa dello stesso vengono informati, la memoria accusatoria viene depositata e, a quel punto, la legge prevede che siano liberamente consultabili da chiunque. Da chiunque, chiaro?! A questo punto sta alla professionalità, all’intuito, al coraggio del giornalista e alla libertà della testata per cui lavora andare a leggersi tutte quelle, in genere lunghissime, memorie accusatorie ed eventualmente pubblicare le intercettazioni telefoniche. È pienamente lecito, siamo nel pieno rispetto della legge. A questo punto potrebbe scattare l’ultima obiezione. Non è giusto che vengano pubblicate quelle conversazioni sputtanatorie prima dell’eventuale condanna dell’imputato. Si rovina una persona prima che si sia dimostrata la sua colpevolezza. Ma allora io mi chiedo: se al potere politico è spesso e volentieri concesso (e il nostro triste paese lo sa bene) il diritto al segreto di Stato, cioè a secretare certe notizie in omaggio
Il mistero delle intercettazioni
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all’interesse nazionale, perché non è ammesso lo stesso principio anche quando l’interesse nazionale è quello del popolo (e non del potere che vuole nascondere le proprie malefatte1**)? Ossia, non è interesse nazionale, cioè della nazione tutta, del popolo intero sapere che il proprio capo del governo passa buona parte del proprio tempo a mercanteggiare carne umana con briganti, faccendieri e puttane varie invece che trascorrere quello stesso tempo per curare gli interessi del suo amato paese di merda che sta andando a fondo?! E che per puro caso il suddetto signore si trova a governare?!
1
Già nel 1984 Norberto Bobbio (Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, p. 19) parlava della tendenza verso una «computer-crazia» che si sostituiva alla democrazia nella misura in cui non favoriva certo «il massimo controllo del potere da parte dei cittadini», quanto piuttosto «il massimo controllo dei sudditi da parte del potere». Del resto la celebre definizione di democrazia fornita da Karl Popper, quella per cui è democratico quel sistema in cui i governanti possono essere messi liberamente in discussione e quindi sostituiti (Conjectures and Refutations, Routledge, London 1974, pp. 344 ss.), risulta svuotata di significato in un contesto in cui è il Potere a poter controllare i cittadini ma non il contrario.
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UN PAESE DI MERDA*
Un banale esercizio di aritmetica potrebbe risolvere la questione e porre fine sin da ora a questo capitolo. Il capo del governo italiano dichiara testualmente, non sapendo che le sue telefonate con un amico erano intercettate, che «l’Italia è un paese di merda« e che «di me si può dire tutt’al più che scopo, niente di più!». Ed ecco il banale esercizio di aritmetica: si prende la prima parte, quella per cui il capo del governo di un paese afferma perentoriamente che quello stesso paese è di merda, poi si aggiunge la sua ulteriore frase, che di lui che ne è il cittadino più influente si può tutt’al più dire «che scopa», si sommano le due dichiarazioni e, senza troppo penare, si capisce agevolmente come mai viviamo in un paese di merda. Ma l’aritmetica non è particolarmente in voga e, del resto, cavarsela con una semplice addizione non sembra condurre molto lontano. Certo è che, a parte i soliti e ormai patetici corifei del premier, che evidentemente si sono definitivamente convinti che il liquido bruno in cui nuotiamo è qualcosa di lindo e profumato (e hanno cominciato a farci i tuffi per divertimento, certi di convincere anche il popolo bue!), l’insurrezione moralistica è stata generale. A parte il fratello bello di Gigi D’Alessio, il buon Angelino Alfano che, con evidente sprezzo del ridicolo, non ha trovato niente di meglio da fare che ricandidare a capo del governo per le elezioni del 2013 l’autore delle frasi sull’Italia paese di merda, la condanna nei confronti del «Capocacca» è stata virulenta e senza appello. Non senza alcuni elementi di ragionevolezza, bisogna ammetterlo. In diciassette anni di predominio quasi incontrastato da parte di Silvio B., di abile e sapiente capacità di controllo di tutti i gangli vitali del paese e di occupazione dei luoghi cardine del potere, un qualche ruolo di non secondaria importanza, questo baldo e vitale *
5 Settembre 2011
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Qualcuno era italiano
settantenne «che scopa», lo dovrà pur avere svolto nell’infausta operazione di merdificazione dell’intero stivale. Eppure, ci sia consentito dirlo anche a noi, onanisti della penna e non solo, coloro che si sono limitati alla condanna moralistica e senza appello delle frasi del premier, mi riferisco soprattutto agli esponenti dell’opposizione, non hanno fornito un grande contributo alle sorti del paese. Sì, perché nella foga di liberarsi finalmente del «porco», ritenendolo ogni vola giunto al capolinea, non hanno dato l’impressione di essere in possesso di una visione onesta del paese, con la quale armarsi di proposte per uscire dalla situazione di grave crisi in cui esso si trova. Blandire il popolo è quasi un dovere da parte dei politici di professione, ma l’esagerazione non paga, soprattutto in una fase quanto mai drammatica quale è quella in cui ci troviamo oggi. Una fotografia sommaria e senza pregiudizi del paese, infatti, non mostra soltanto una classe politica squalificata, incompetente e priva di visioni «alte» per il futuro, ma anche un popolo che in buonissima parte, laddove gli è possibile, evade le tasse, cerca di sistemare figli, parenti e amanti alla faccia della meritocrazia, non legge libri, non si informa, non studia o cerca di farlo il meno possibile, si occupa del proprio orticello senza neppure considerare di vivere al’interno di una res publica, si dà pena per la prima giornata del campionato di calcio che rischia di saltare perché i giocatori, poveracci, sono costretti a scioperare per non pagare il contributo di solidarietà. Un popolo che sempre più se la prende con gli immigrati, con il diverso, con gli «altri» in genere, che in un drammatico crescendo rossiniano sono diventati tutti gli altri, perché questo è se non si comprende che nella situazione attuale di crisi terribile e forse irrimediabile, chi più ha deve rassegnarsi a una patrimoniale che dia fiato ai polmoni della macchina statale. Siamo un paese che vede i suoi giovani perdersi, bene che vada andare via, umiliati da una precarietà ormai strutturale e vergognosa, in cui i loro meriti non vengono neppure considerati. Un popolo che si ritrova le frasi del proprio capo di governo sbattute su tutti i giornali, fra puttane, faccendieri e malavitosi di ogni sorta! Insomma, bisogna avere il coraggio di dirlo, con intenti ben diversi da quelli del capo del governo, il nostro Paese presenta moltissimi elementi per essere definito un paese di merda e non sarà certo la retorica nazionalistica a tirarcene fuori. Saremo noi stessi
Un paese di merda
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se e quando sapremo prendere atto della questione, impegnandoci tutti quanti per venirne fuori con chiarezza di intenti e con un’onesta disponibilità al sacrificio commisurato alle proprie possibilità. Ps Signor capo del governo. Insomma, sì, lei stavolta ha avuto in qualche modo ragione nelle sue affermazioni telefoniche. Non v’è dubbio che lei «scopi», ma pare proprio che lo faccia pagando profumatamente, spesso delle minorenni, circondandosi di criminali e faccendieri di ogni risma, soprattutto impegnando molto del suo tempo a contrattare carne umana mentre il Paese, quello stesso paese che diceva di amare quando è «sceso in campo» (ops!), tracolla per una crisi di cui lei è il primo responsabile (se non altro per la posizione che oggettivamente ricopre). E allora, signor presidente, se nella sua aulica e sciagurata visione del nostro Paese, immerso in un magma liquido indistinto, che lei ha avuto la bontà di definire come «merda», dovesse riuscire a individuare una concrezione solida proveniente dal liquido stesso, insomma uno «stronzo», tanto per parlar fuori di metafora, la pregherei seriamente di farsi venire dei fondati dubbi, lei che è un esperto dello «scendere in campo», rispetto all’identità del medesimo. Glielo chiede tutto il suo amato paese di merda!
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INDIGNADOS!*
Sta per crollare tutto! Il secondo ventennio di vergogna del nostro Paese sta per giungere al termine e già si possono scorgere i sintomi tipici della caduta dell’impero, così abilmente descritti dallo storico Gibbon nella sua opera monumentale sull’ascesa e caduta dell’Impero romano. Grande è la confusione sotto al cielo, grande è il rischio che la comprensibile esasperazione di un popolo, soprattutto dei più giovani, possa sfociare in una demagogia populistica non aliena alla violenza. Sì, perché ormai è intollerabile questo governo, e con esso tutta la cricca di faccendieri, puttanelle e incompetenti servili di cui il Cavaliere ha voluto contornarsi, è intollerabile che mentre le banche e l’alta finanza continuano a fare quello che gli pare, la benzina e i prezzi salgono alle stelle incontrollati e nella distrazione più totale da parte di chi dovrebbe vigilare, mentre la gente non arriva più a fine mese e i giovani disperano di trovare una lavoro, è intollerabile che chi ci «governa» pretende di imporre all’agenda del paese le intercettazioni, il processo breve, la prescrizione corta e dio solo sa quale altra diavoleria finalizzata a un solo scopo: salvare il sedere (non solo quello della poltrona) di Silvio Berlusconi. È intollerabile questa classe dirigente composta da gente palesemente ignorante e inadeguata, boriosa e supponente al pari soltanto della propria incapacità. Ma quando si alzerà qualcuno, quando i paludati e seriosi Galli della Loggia, Panebianco e notisti di tal fatta scriveranno a chiare lettere che non doveva essere consentito, non è consentito e non lo sarà mai più (sic!) che a occupare posti di potere e di rilievo siano personaggi presi pari pari dal Bagaglino come La Russa e la Santanché, la Gelmini e la Carfagna (che non parla più né più si vede, *
14 Ottobre 2011
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Qualcuno era italiano
chissà come mai…), rispetto ai quali ci siamo piano piano abituati a considerare dei semi-geni personaggiucoli mediocri e pavidi come Tremonti, Frattini, Maroni e persino Letta? I ragazzi cominciano a scendere nelle piazze, la gente comincia a essere esasperata e disperata, è assolutamente necessario che qualcuno stacchi la spina a questa sciagura nazionale prima che la situazione degeneri sul serio e la violenza prenda il posto della protesta. Questa gentaglia che ci governa, è ora di dirlo apertis verbis, non ha la capacità ma neppure l’autorevolezza per suggerire e guidare un cambio di passo. Un popolo esasperato e affamato può discutere con una classe dirigente seria e presentabile, mentre con degli incapaci irresponsabili può soltanto abbandonarsi all’estremismo di piazza, alla demagogia pericolosissima (e illusiva) della democrazia diretta. Ieri ho sentito dire a una bella ragazza dai capelli rossi, nella trasmissione di La 7 Piazza Pulita, che è ora di restituire il potere al popolo, che il popolo si governerà da solo e farà tutto da solo visto che questa classe dirigente, politica ed economica, non è in grado di offrire soluzioni (né un decoro che invogli a un minimo di rispettabilità). Con tutta l’adesione e l’empatia che provo con chi si indigna per la condizione del nostro Paese, scorgo però una deriva non tanto pericolosa quanto sterile. Non esiste, infatti, il popolo, non incontriamo per strada un signore di nome «popolo», figuriamoci se esso può governare qualcosa o addirittura un intero paese. Esistono bensì gli individui, le persone, che solo e soltanto in presenza di istituzioni partecipative e democratiche possono costituirsi come una collettività che opera per il bene di ciascuno e di tutti. È bene non dimenticarla questa fondamentale conquista della nostra modernità! Siamo a un passaggio fondamentale del nostro Occidente: è ora di dire che il sistema capitalistico sta entrando in una crisi forse insuperabile questa volta (perché non ci sono più colonie da conquistare e sfruttare, né guerre da intraprendere senza mettere a rischio il pianeta), che occorre pensare a un nuovo sistema economico e sociale, a una nuova cultura del vivere insieme e del produrre ricchezza per tutti. È ora di ridistribuire la ricchezza che in questi decenni si è sciaguratamente concentrata in pochissime mani, è ora di affermare con forza il criterio della meritocrazia (non ci sono più posti? Bene, intanto cominciamo a rimettere in discussione i posti consolidati,
Indignados!
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cacciamo via chi fa poco o nulla pensando che il suo posto di lavoro sia intoccabile!), è ora di tornare a investire sulla cultura e sulla ricerca, motori unici e irrinunciabili di qualunque società che voglia progredire nel difficile consorzio umano1**. È ora di ridisegnare anche il sistema dei valori, perché forse non possono essere più il profitto, il potere, la sopraffazione del più debole, la servitù volontaria verso il potente di turno a regolare il comportamento dell’essere umano. È ora di ricostruire dei cittadini ragionevolmente colti e impegnati nel sociale, capaci non di quella sterile forma di impegno che è l’interazione in Rete, bensì di quell’agire politico consapevole che deriva anzitutto dalla conoscenza, dal pensiero autonomo e critico e dalla voglia di migliorare il proprio micro e macro cosmo. Trent’anni di sguaiata televisione commerciale e di un abbrutimento culturale e valoriale hanno finito col produrre individui mediamente gretti, disinteressati al bene comune e ferocemente rinchiusi nel proprio egoistico particolare. Ecco perché a gestire questo passaggio epocale, a ricostruire un intero Paese, non può essere questa classe dirigente così sputtanata e incapace ma neppure quell’entità indistinta e indecifrabile che è il «popolo». Quella ragazza dai capelli rossi sbagliava pur avendo migliaia di ragioni, e sbaglierebbe chiunque pensasse che esista veramente un regime in cui il popolo sovrano governa direttamente l’economia e la politica del paese in cui vive. Ben venga invece l’indignazione del popolo, la sua voglia di scendere in piazza e manifestare pacificamente tutta la sua rabbia contro una classe politica ed economica inadeguata. E che non venisse in mente a nessuno di scatenare contro queste persone le forze di polizia, spingendole verso atti ignobili come a Genova nel 2001, salvo poi promuovere vergognosamente quei dirigenti condannati 1
Il nocciolo della questione è quello per cui ci troviamo di fronte a due concezioni profondamente diverse dell’uomo. Da una parte quella democratica, e dall’altra quella ispirata dai «valori» del liberismo, secondo cui l’uomo deve comportarsi da animale a-politico concentrato esclusivamente sul proprio guadagno. Kenneth S. Friedman (Myths of the Free Market, Algora Publishing, New York 2003, p. 199) configura questo secondo tipo di uomo come un «idiota», inteso nel senso etimologico del termine non come una persona dalle limitate capacità intellettive, bensì come un individuo disinteressato alle faccende dello stato e ai bisogni della comunità.
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Qualcuno era italiano
da un tribunale per aver prodotto prove false a malmenato giovani indifesi. Ben vengano gli indignados, ben venga la fine di un’epoca, chiamata postmodernismo, in cui si pensava che non esistessero fatti ma solo interpretazioni (Nietzsche), in cui si invitava al pensiero debole (e all’azione ancora più debole), in cui persino in architettura e urbanistica l’ambiente circostante diventava più importante degli individui in carne ed ossa (alle brutture politiche si sono accompagnate quelle architettoniche, in questi anni sciagurati). Ben venga la nuova voglia di darsi da fare per il proprio paese, di mandare via a calci nel sedere questa cricca di impresentabili, facendo presente alla presunta opposizione che anche lì c’è poco da ridere, perché anche lì risiede una buona parte di responsabilità per lo sfacelo in cui siamo piombati. È un momento difficile e delicatissimo, quello in cui si impone l’azzeramento di tutto, la distruzione necessaria del marcio che non funziona più e che rischia di incancrenire l’organismo. È il momento in cui le persone sagge e responsabili (ce ne sono?), nella classe dirigente come fra il popolo e i manifestanti, devono evitare di lasciarsi andare alla difesa irrazionale della propria poltrona o alla violenza disperata di chi non ne può più. Facile a dirsi, meno facile a farsi. Ma sia chiaro, fin da adesso e prima che si arrivi al fatto brutto: fra i due, chi porta e porterà la responsabilità più grande è la classe dirigente, quella di coloro che godono di privilegi e ricchezze scandalose in questa epoca di penuria (scandalose sempre, ma oggi ancora di più!). Pretendere la saggezza dal «popolo», per di più un popolo comprensibilmente angosciato ed esasperato, è cosa ardua e pericolosa. E forse, ormai è il caso di dirlo anche se sottovoce, non è nemmeno più giusto. Perché qualcuno ha superato da quel dì i limiti della decenza e della tollerabilità. Dovranno andare a casa tutti, da Berlusconi a Minzolini passando per tutte le figure che hanno contribuito a distruggere questo sciagurato paese. Ma senza illudersi, per favore, che per vent’anni quello stesso popolo che oggi si indigna li ha votati e acclamati. Bisognerebbe capire il perché e come fare perché ciò non accada più, mentre ci si indigna.
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CIÒ DI CUI NESSUNO PARLA*
Non c’è più tempo! È inutile prendersi in giro, almeno quanto è criminoso, come sta facendo il nostro (non) governo, pensare di rimuovere ancora il dato essenziale: la crisi economica e finanziaria sta affossando l’Europa e, esattamente come farebbe un virus, cercherà di infiltrarsi attraverso le parti deboli dell’organismo, di cui l’Italia è in cima alla lista. Mai ci si può permettere di avere un governo che non governa, ma farlo in questo momento così delicato e drammatico rischia di rivelarsi come l’atto criminale che affonda non solo il nostro Paese ma l’Europa tutta. L’Unione europea ci impone una politica di sviluppo, quella che il nostro governo non è mai stato in grado di approntare neppure quando godeva di una maggioranza inaudita, figuriamoci oggi che è impantanato fra divisioni, mercanteggiamenti e terrori da fine impero. Con quello che dovrebbe essere la sua guida, il Presidente del consiglio, sputtanato sotto tutti i punti di vista e disperatamente attaccato alla poltrona non certo per l’interesse nazionale (che imporrebbe anzi che egli la lasciasse, quella poltrona, e anche alla svelta), ma per continuare a godere dell’immunità senza la quale sarebbe già stato travolto dai suoi conti irrisolti con la giustizia. Fin qui quello che ormai sanno, o dovrebbero sapere, tutti quelli che non siano ancora obnubilati dalle chiacchiere di Silvio B. o, peggio, che non siano dipendenti dalla sua sopravvivenza al potere, come accade a molti ministri/e e parlamentari improbabili e impensabili per qualunque altro paese minimamente serio. Ma c’è una cosa di cui nessuno o quasi parla, con la nettezza e con la responsabilità imposte da un momento tanto delicato e decisivo. Mi riferisco alla condizione impresentabile e poco rassicurante in cui versa l’opposizione. Sì, perché è inutile e criminoso prendersi in *
23 Ottobre 2011
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Qualcuno era italiano
giro: Silvio B. avrebbe dovuto dimettersi da quel dì, ma è sempre da quel dì che dall’altra parte si naviga a vista, senza bussola e senza neppure una meta credibile e condivisa. Se prendiamo per buona, e l’opposizione lo fa con la dovuta enfasi morale, la situazione drammatica che ci troviamo a vivere, allora è onesto ammettere che tanto è criminale Berlusconi a non porre fine a questa tragica farsa, quanto lo è un’opposizione che ancora non è stata in grado di agire con realismo e responsabilità. Vogliamo provare a dire le cose come stanno? Proviamoci. È ora di sciogliere quel partito barzelletta che è il Pd, frutto della geniale coglioneria di chi pensava che avesse un senso unire due tradizioni che si sono combattute per un secolo, mettendo di fatto insieme le due chiese più chiuse e restie al cambiamento che erano presenti sul territorio patrio. Da qui l’atavica incapacità a schierarsi con determinazione su quasi ogni questione importante. Con il Pd dovrebbero avere la buona coscienza di sciogliersi anche l’Idv (che potremmo ribattezzare l’Italia dei Voltagabbana, altro che valori…) e quelle frattaglie sparse provenienti dalla tradizione comunista e socialista che ormai assomigliano a partiti del capo (senza coda) per il solo fatto che spesso e volentieri non c’è altro membro oltre il capo stesso. Non si illudano questi signori, perché essi portano una grossa responsabilità per come è ridotto il Paese, ed è certamente irresponsabile da parte loro pensare di potersi (ancora una volta) sostituire a Silvio B. senza nulla modificare, senza approntare (oggi, non domani) un programma serio, con un candidato altrettanto serio, un vice e una lista di ministri assai competenti e ferrati in materia (tanto per evidenziare lo stacco dalla sciagura dell’attuale compagine governativa). Azzerare tutto per ricostruire con maggiore serietà e coerenza due movimenti, uno più laico e più a sinistra, l’altro più centrista e legato ai valori tradizionali, mandando finalmente a casa gli impresentabili signori che altro lavoro non hanno mai fatto che non fosse quello di produrre sconfitte su sconfitte e sbagliare puntualmente tutte le strategie (D’Alema, Veltroni etc., tanto per limitarsi ai cognomi…). Due movimenti più coesi e coerenti al proprio interno, che abbiano eliminato le foglie secche e i potentati atavici e incancreniti che li bloccano, potrebbero finalmente elaborare un programma serio e riformista, capace di segnare una svolta e di rendere finalmente manifesti i punti programmatici che li distinguono dall’attuale go-
Ciò di cui nessuno parla
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verno (che di punti programmatici non ne ha) e per i quali il popolo italiano dovrebbe votarli. Ma non domani, quando auspicabilmente Silvio B. sarà caduto, ma oggi, subito, ora! E con una promessa solenne: che non si azzardino a salvare in qualche modo, e quindi recuperare con cariche di alcun tipo, i personaggi vergognosi e incompetenti che hanno reso possibile il perpetuarsi della tragica farsa berlusconiana. Che nessuno debba più ascoltare gli editoriali genuflessi di un «Minchiolini» qualunque, o ammirare il bell’aspetto di qualche avvenente signorina a cui è stato affidato un nuovo incarico grazie al nuovo indirizzo che ha fra le gambe. Che nessuno più debba tollerare macchiette impresentabili come Scilipoti e compagni, che con evidente disprezzo del Paese (e della psicoanalisi) hanno avuto l’ardire di nominarsi «Responsabili». Galli della Loggia ha recentemente scritto sul Corriere che indignarsi è inutile, è un moralismo che non porta da nessuna parte perché in realtà quello che serve è darsi da fare, agire con proposte concrete e coerenti. Benissimo, una volta tanto diamogli pure ragione. Ma attenzione, sì, attenzione perché questa è davvero l’ultima spiaggia. Se non si sarà restituito decoro e credibilità alle istituzioni, se non si ridarà fiducia ai giovani, innanzitutto recuperando l’imperativo categorico della meritocrazia, si sarà costretti a rispondere a Galli della Loggia con i suoi stessi argomenti. Sì, perché a quel punto, a quelli come lui bisognerà dire che è perfettamente inutile indignarsi per la violenza disperata e frustrata di chi scende in piazza. Se quello che si deve fare non verrà fatto, nessuno, davvero nessuno avrà l’autorità morale per poter condannare gli altri. Manca poco per arrivare a questo disastro. Fermiamoci finché siamo in tempo!
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QUALCOSA MI HA DISTURBATO*
«Qualcosa mi ha disturbato, non so bene cosa ma qualcosa mi ha disturbato». È la frase simbolo, quasi un’epitome, che il regista italiano Paolo Sorrentino fa ripetere al memorabile protagonista del suo ultimo film, This must be the place, impersonato da un sublime Sean Penn. Una grande opera d’arte, senza dubbio, possiamo definirlo già ora un «classico», non tanto, e non solo, per citare Calvino, perché si tratta di un’opera che non finirà mai di dire quello che ha da dire, quanto perché ciò che ha da dire vale in più ambiti, riguarda il mondo umano nel suo complesso, fa vibrare le corde di quello strumento ineffabile e spesso scordato che è la vita. Un po’ come ne La linea d’ombra di Conrad, la storia vuole rappresentare quell’esperienza cruda, dolorosa e in un certo senso mortale (perché una parte di noi deve morire) che è l’approdo all’età adulta, in cui tocca abbandonare le bambole, i giochi, il trucco e, soprattutto, la «spensieratezza», altro grande pilastro di questo film. Un colpo di genio, una di quelle ispirazioni che fanno trascendere un artista per collocarlo nel regno misterioso dell’oltre-umano, ha condotto lo sceneggiatore e regista a immaginare una grande ex rock-star (i tratti sembrerebbero quelli di Robert Smith, indiscusso leader dei Cure), ormai oltre i cinquant’anni, imprigionata anche fisicamente e nell’immagine improbabile che dà di sé (truccatissimo e mentalmente bruciato), annoiata e ricchissima, richiamata alla vita «vera» dalla morte del padre. Un padre con cui, ovviamente, c’era stato un grande contrasto e che il figlio, protagonista di una vita alternativa ed estrema, accusava dell’accusa peggiore che i figli fanno ai padri: di non avergli voluto bene, di non aver riconosciuto la sua identità, per quanto diversa e in contrasto con i modelli di una famiglia borghese. *
3 Novembre 2011
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Qualcuno era italiano
È proprio in occasione della morte di questo padre che Cheyenne, il protagonista del film, ne scopre l’identità fondante: quella di un ebreo che aveva passato tutta la vita a dare la caccia al suo carceriere che lo aveva più volte umiliato. Qui avviene lo scarto, il cambiamento repentino del corso degli eventi, quello che gli antichi filosofi atomisti chiamavano clinamen (volendo indicare lo scostamento improvviso e imprevisto all’interno di un movimento che appariva sempre uguale, meccanico), e che nel caso di Cheyenne rappresenta l’ultimo treno che ti offre la vita per diventare adulto. Per superare l’eterno bambino che si porta dentro, l’eterno artista maledetto per palchi di fuoco su folle ardenti, la persona iper-sensibile che soffre per i colpi che sferza il mondo degli adulti e che incolpa questo mondo senza capire che anche lui dovrà superare la linea d’ombra e diventarne parte. Cheyenne è un uomo lento, la sua lentezza fisica (riprodotta in maniera commovente da quell’attore integrale che è Sean Penn) è il miglior sintomo di quella lentezza nel crescere che il protagonista ha curato con un’attenzione certosina, illudendosi di poter rimanere nel mondo di quelle favole che troppo facilmente si tramutano in incubi (due ragazzi si suicidarono, seguendo in maniera troppo coinvolta i testi delle sue canzoni). È con quella lentezza innaturale ma capace di fargli cogliere il mondo con gli occhi di un bambino tremendamente saggio, che Cheyenne sale su quell’ultimo treno che gli offre la vita e diventa adulto, attraverso un viaggio catartico per l’America (e per i campi elisi della propria anima) che lo porta a trovare lui quel carceriere del padre, per punirlo della stessa sorte toccata al genitore: l’umiliazione. Cheyenne ripete più volte lungo il film quella frase, «qualcosa mi ha disturbato», in genere per rimarcare un episodio che ha offeso o turbato la sua fragile sensibilità, la sua ingenua ma testardissima voglia di avere a che fare con un mondo puro, onesto, rispettoso di tutti. Cheyenne aveva già imparato nella sua vita di grande rock star che quel mondo puro non esiste, che è una fiction meravigliosa che soltanto gli occhi del bambino sanno scorgere, ma che presto devono abbandonare se non vogliono essere schiacciati dal peso di una vita che procede come uno schiacciasassi, cannibale crudele di illusioni e mondi fatati.
Qualcosa mi ha disturbato
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Ora lo impara anche da persona capace di diventare adulta, di fumare quella prima sigaretta (lui, rock star che aveva coltivato ogni vizio ed eccesso) che ricorda l’ultima de La coscienza di Zeno, quando si scontra con una realtà poco rock e molto tragica quale è stata la vergogna dell’Olocausto. Cheyenne è ora cresciuto. Ha abbandonato il mondo delle favole e dei trucchi, del rossetto sulle labbra e di capelloni improbabili per un signore di cinquant’anni. Ha superato la sua noia (scambiata per depressione) di chi viveva un’esistenza anacronistica (letteralmente senza tempo, fissata, morta), con questo grande viaggio ha, in un colpo solo, trovato se stesso, imparato il mondo e le sue crudeltà, e superato l’eterno contrasto con la figura paterna che assilla ogni essere umano. Si è finalmente pacificato con se stesso e con la propria identità. Sì, è cresciuto. Un solo elemento è rimasto intatto e un po’ bambino in questa sua grande impresa di crescere: la capacità di indignarsi e di farsi «disturbare» dalla violenza e dalla disonestà, da chi con abile retorica (come il carceriere del padre) vorrebbe mascherare e persino giustificare l’ingiustificabile, l’atroce, l’osceno. È per questo che quella frase, «qualcosa mi ha disturbato, non so bene cosa ma qualcosa mi ha disturbato», è anche l’ultima che il personaggio ormai cresciuto pronuncia nel film, punendo il nemico di quel padre che lui per primo non aveva saputo amare. Ecco, quando anche il nostro Paese imparerà a lasciarsi disturbare dalla disonestà e dall’abile prosopopea di chi vuole governarlo imponendo valori egoistici e distruttivi, tentando di far passare per normale quella che in realtà è subordinazione del più debole, solo allora anch’esso avrà preso finalmente quell’ultimo treno verso una maturità che appare ancora molto lontana e che forse, ormai, raggiungeremo comunque troppo tardi. Esattamente come accade a Cheyenne con il suo luogo del dramma risolto.
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IL GRANDE SCHERZO*
Noi italiani, è cosa nota, siamo un popolo di burloni. Abbiamo lo scherzo nel Dna, la burla nel sangue, la commedia nell’epidermide. E dire che siamo riusciti a fregarli tutti, tutto il mondo! Con un’operazione di incredibile creatività e arte della recitazione, infatti, abbiamo convinto l’intero globo di essere un popolo di beoti, pronti a consegnarci ancora una volta a un uomo basso, calvo, virile e fornito di un’oratoria suadente e roboante! Che grande miracolo che abbiamo compiuto, altro che Totò e Peppino nella vendita del Colosseo ai malcapitati turisti! Di più, molto di più! E gli stranieri, nessuno escluso, a cascarci come polli, a riempire le pagine dei loro giornali con dossier sui misteri dell’Italia e sulle incredibili performance della sua classe dirigente! Poveretti! Ma io mi chiedo e dico, cari stranieri, davvero voi pensavate che fosse possibile, a noi popolo con ancora qualche vecchio vivente che si ricorda del regime di Mussolini, mettere al governo un signore vigoroso e pettoruto, con tanto di scarpe coi tacchi, soltanto perché ci prometteva «un nuovo miracolo italiano», «un milione di posti di lavoro», «pane e fica per tutti»?! Davvero avete pensato che noi potessimo affidarci a un mezzo (bell’in) busto del genere? E non avete neanche subodorato lo scherzo quando abbiamo cominciato a far dire a questo signore che i giudici erano comunisti, i giornali erano comunisti (e anche i giornalai!), le televisioni in mano ai comunisti, che insomma eravamo l’unico paese industrializzato dove il comunismo si era realizzato con buona gioia della vecchia Talpa?! Neppure un barlume vi è sorto quando lo mandavamo in giro per i vostri paesi, a fare le corna alla Merkel, le avances alle belle primo
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17 Novembre 2011
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Qualcuno era italiano
ministro, a baciare anelli, a giocare con Putin a chi ce l’aveva più lungo e a chi faceva il peto più fragoroso?! Cioè, cari popoli stranieri, voi non vi siete accorti che non poteva essere altro che uno scherzo neanche quando gli facevamo raccontare che «me ne sono fatte soltanto otto, del resto mica posso accontentarle tutte!», oppure che lavorava venti ore al giorno ed era talmente stanco che le altre quattro le passava tra cene eleganti e spettacoli culturali ad Arcore?! Neanche un pizzico di intuizione quando gli abbiamo fatto rispondere, di fronte ai giornali stranieri che (tra i più delicati) lo definivano «unfit to lead», che l’Economist era comunista e il Financial Times bolscevico?! Ma insomma, cari popoli stranieri, ve la siete proprio cercata questa grande burla! Cioè, dico, voi pensavate che per davvero noi potessimo avere ministro uno come Ignazio La Russa, che fa più ridere dell’imitazione di Fiorello, oppure Daniela Santanché, nota frequentatrice dei viali di Oxford, pensavate per davvero che il nobile parlamento italiano si esprimesse per Ruby nipote di Mubarak (e Brunetta gemello di Mister Magoo nonché Alfano fratello bello di Gigi D’Alessio)?! Voi avete creduto per davvero che l’Italia fosse quel paese in cui nobili editorialisti di importanti giornali non denunciassero uno scempio simile, se fosse stato vero?! In cui la Chiesa, severa custode della morale e della dottrina al punto di negare il funerale col rito cristiano alla moglie di Welby (cattolicissimi entrambi) solo perché aveva scelto l’eutanasia, non si pronunciasse per due decenni contro un signore che pagava le minorenni per farci sesso (forse la pedofilia è tollerata…), salvo poi esserne costretta in quanto – e solo in quanto, si badi bene - le cose erano divenute di dominio pubblico grazie alle intercettazioni?! E poi avete davvero creduto che a sinistra si potesse assistere a questo teatrino senza riuscire a inventarsi nulla che non fosse la reiterata e sciagurata riproposizione del duo D’Alema-Veltroni, espertissimo in sconfitte e disastri ma conditi di nobili parole e dottissimi ragionamenti? Ma soprattutto, poveri popoli stranieri, voi avete davvero creduto che questa incredibile e straordinaria messa in scena tutta italiana potesse finire in questo modo, con un golpe orchestrato nientemeno che da un Presidente della repubblica comunista (lo vedi che aveva
Il grande scherzo
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ragione, il povero Silvio!), pronto a sostituire un governo di destra, dietro ordine dei mercati (oddio, già mi perdo…), con un nuovo esecutivo composto da banchieri e manager?! Cioè, davvero voi avete creduto a tutto questo?! E avete pure il coraggio di fare i sorrisini durante i summit quando si accenna alla povera Italia?! Cari ragazzi, non solo avete dimostrato scarso intuito e debole intelligenza nel non capire che non poteva che essere tutto un grande scherzo (vabbé, gli scherzi son belli quando durano poco, ma sono dettagli, e poi a noi piace così!), ma vi siete rivelati pure rancorosi nel farcela pagare in questo modo, con tutto questo astio e con l’aggressione alla nostra economia! In fondo stavamo scherzando, mica abbiamo provato a vendervi il Colosseo per davvero! Ma davvero vi siete incazzati, dai?! Ma se non ci fossimo noi, questo mondo non sarebbe infinitamente più triste e monotono?!
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UN POPOLO DI COGLIONI*
In questa epoca caratterizzata da una sovrabbondanza di notizie, che ci vengono propinate in maniera sempre più superficiale e veloce, la nostra naturale tendenza a dimenticare si rivela sempre più forte. Eppure basterebbe un esercizio di memoria per ricordarsi un evento assai significativo per quanto episodico. Anche perché spesso sono proprio gli episodi, per definizione minori, a possedere la capacità di inquadrare una realtà molto più di trattati e analisi approfondite. Ed è proprio da un episodio quanto mai significativo che è partita la deriva del nostro Paese, il secondo ventennio di vergogna nazionale dopo la lunga parentesi del fascismo. Ricordo ancora quelli che sono stati dei veri e propri miti per molti esponenti della mia generazione e non solo, personaggi anche ironici e colti, rappresentativi di valori buoni e ispirati al buon senso, come i compianti Corrado e Raimondo Vianello, gettare nel cesso decenni di onorata e rispettabile carriera di comparse nelle case degli italiani per dichiarare proprio sugli schermi tutto il loro fervido e convinto appoggio alla discesa in campo di Silvio B. Si è fatto presto ai giorni nostri, e tutto sommato si è rivelata anche un’operazione semplice, a deprecare la prostituzione delle varie Ruby, a pensarci bene povere anime vogliose di sfondare nel mondo dello spettacolo e inebriate dalla cultura del soldo facile, ma ci si è ben guardati, all’alba di questo disastro epocale che è stato lo «sgoverno» dello psiconano, quando ancora si poteva fare qualcosa, a denunciare con la giusta energia quello che di fatto era un atto di prostituzione somma da parte di fior di professionisti dello spettacolo. Quale differenza, in fondo, tra gli spettacolini in maschera che queste ragazze dovevano mettere in mostra per compiacere i pru*
10 Novembre 2011
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Qualcuno era italiano
riti del Sultano, e gli spettacolini altrettanto artefatti e comunque a pagamento che i signori della televisione hanno dovuto mettere in mostra a quel tempo (era il 1994, una vita fa!) per compiacere il proprio datore di lavoro? Siamo sempre e perfettamente all’interno di una logica mercificatoria e che esalta il potere del più forte e del più ricco sul più povero, sempre all’interno di quel «mondo capovolto» di cui parlava Debord, in cui «il falso diventa un momento del vero e il vero un momento del falso» (La société du spectacle, Gallimard, Paris 1967, § 9), non si sa più chi è persona e chi personaggio, chi sta recitando un copione e chi svendendo la propria dignità. L’unico elemento che unisce tutto, l’unico vero e universalmente riconosciuto produttore di senso, è quel denaro con cui il forte e potente si permetteva e si è permesso di piegare ai propri voleri la dignità delle persone, che fossero o meno entusiaste di lasciarglielo fare, che fossero o meno consapevoli di essere la triste realtà rappresentata da quello specchio sempre più deformato che nel tempo è diventato l’Italia. Soltanto quella peculiare ipocrisia perbenista e bisognosa di modelli positivi, oltre che radicalmente maschilista, tipica della nostra cultura, ha permesso che tanto venissero sbertucciate le olgettine quanto poco venissero biasimati i professionisti dell’apparenza (o uomini di spettacolo che li si voglia chiamare). Eppure era proprio allora che si affermava, e legittimava, come mai prima il principio sovrano della prostituzione, quella stessa prostituzione che il nostro Paese cattolico e quindi bigotto non vuole riconoscere nella sua versione più cruda e popolare (pensiamo alle case chiuse, ma anche alle tante povere donne lasciate in mano alla malavita, donne che pure forniscono uno dei «beni» più richiesti, fatto curioso per una società di mercato…), ma che invece è stato prontissimo a riconoscere e promuovere nella sua versione più elitaria: quella del sussiego al sovrano, del chinare la testa di fronte al potente di turno, arrivando persino a convincersi nel fondo della propria anima di quanto egli sia buono, bello e bravo. Da questo punto di vista le olgettine hanno rappresentato una pur significativa parentesi che non serve a capire. Quello che invece serve alla comprensione è prendere atto del fatto che da Corrado e Raimondo Vianello si è passati a Ferrara e Minzolini, ma anche a un Parlamento che, eletto dal popolo, è stato prontissimo a esprimere la propria convinzione che Ruby fosse la
Un popolo di coglioni
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nipote di Mubarak (che vergogna, neanche fosse il Parlamento di Paperopoli pronto a giurare che Qui, Quo e Qua fossero i nipoti di Paperino e dello spirito santo dei paperi!). Uno dei drammi del nostro Paese, che ne hanno minato la credibilità e onorabilità fin dalle fondamenta, è stato proprio questo esondare della fiction nella realtà, dell’artefatto nel naturale, del falso nel vero. In questo modo siamo diventati una fiction costante, siamo stati per diciassette anni un telefilm di Mediaset a cui molti hanno avuto anche l’ardire di affezionarsi, mentre per il troppo guardare la tv sempre più persone disattendevano gli studi e si costruivano, nel mondo reale, una realtà fatta di subordinazione e di creduloneria rispetto alle fanfaronate del primo degli imbonitori. Oggi troppe persone, alla puntata finale di questa fiction, pensano che sarà agevole ripartire dopo essersi liberati del fanfarone: ma è illusione allo stato puro. Non ci si può concentrare sul fanfarone e sul disastro oggettivo in cui ci ha condotti senza cercare di comprendere perché lo hanno votato convintamente in tanti e per così tanto tempo. Perché siamo un popolo che arriva a difendere l’indifendibile e lo fa anche con entusiasmo? Perché anche tante persone perbene e dignitosamente acculturate si sono per tanto tempo imbarcate nell’impresa titanica di difendere l’indifendibile, di giustificare quella che era evidente fin dall’inizio si trattava di una masnada di affaristi cinici e incompetenti, votati al solo totem del proprio tornaconto e sempre pronti a vendersi al miglior offerente? Perché perfino tanti grandi intellettuali, tante nobili firme dei giornali e della tv sono venuti meno al dovere di denunciare con forza e coraggio quella che era anzitutto una deriva culturale e civile di un intero Paese, madre del crollo anche economico e sociale? Perché abbiamo sempre di più accettato di assomigliare, anche nella vita reale e diurna, a quel popolo di coglioni che la sera si riunisce a bocca aperta e cervello chiuso di fronte al varietà o alla fiction di turno, incapaci di comprendere che quella fiction rappresentava in realtà la nostra tragica dipartita da un mondo di buon senso e dignità? I risultati sono universali. Oggi che cade il grande imbonitore lo spettacolo continua però ad andare avanti, perché ormai siamo chiusi da troppo tempo dentro a quella scatola magica che spegne le nostre menti e ci convince di ogni cosa. Ecco perché non c’è una sinistra che sia in grado di produrre un programma alternativo (sì, alternativo per esempio alle ricette ultra-liberiste e sanguinose della
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Qualcuno era italiano
Bce!), non c’è una destra seria capace di affidarsi a qualcuno che non sia un picchiatore o un imbonitore, un centro serio capace di dire ed esprimere qualcosa di diverso dai desiderata di quella istituzione moderna e liberale (sic!) che è da secoli la Chiesa! Ma ecco perché, soprattutto, non emerge un popolo, una società civile che sia per davvero superiore, eticamente, culturalmente, spiritualmente, a quei politici che dice tanto di disprezzare dopo averli ricoperti di voti. Arrivati a questo punto, con un Pese in ginocchio e intere generazioni costrette al precariato eterno, dobbiamo prendere atto del fatto che siamo tutti noi gli artefici della nostra condizione, rinunciando ai facili capri espiatori e alla solita ricerca di un colpevole che regolarmente non siamo noi. Perché la situazione di oggi è talmente drammatica da rendere realistica persino la battuta di Karl Valentin, l’amico cabarettista di Brecht, quando affermava che «un tempo il futuro era migliore!». Ed è proprio da qui che, orfani del futuro, dobbiamo renderci conto di quella coglioneria strutturale in cui siamo piombati e darci da fare per uscire in maniera seria e responsabile da questa melma. In attesa di recuperare questo futuro, fino a quel momento dobbiamo accontentarci di aver recuperato soltanto la piena legittimità di alzare al cielo un grido corale e unanime, da popolo unito (vero, Bossi?) e capace di una necessaria solidarietà (vero, signori che vi siete arricchiti in questi anni sciagurati?). Qual è il grido? Beh, è ovvio: Forza Italia!
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GLI ALIENI*
Nell’Urbe lo sanno tutti del grande spavento che si è preso sua santità Benedetto XVI dopo aver conosciuto il detto secondo cui a Roma nevica ogni morte di papa. Ma il capo della cristianità, fortunatamente, fra le tante cose è fornito di un efficientissimo staff, che lo ha prontamente tranquillizzato con questa argomentazione: «santità, non c’è da preoccuparsi per la sua incolumità, la neve è dovuta al fatto che oggi nessun esponente del governo italiano se n’è uscito con una stronzata!». Sì, perché era ormai qualche giorno che nessun esponente del governo Monti aveva ben visto di uscirsene con una frase particolarmente gradevole. Il clima, soprattutto quello di Roma, è sensibile, e una tale inopinata latitanza ha prodotto sconvolgimenti meteorologici tali da condurre alla sonora nevicata. Ma ora è tutto a posto, perché i nostri eroi hanno ricominciato con rinnovato entusiasmo. È sceso in campo (un deja vu!) persino il grande capo in persona, Monti, per illuminare la popolazione sul fatto che il posto fisso è monotono, che i giovani devono darsi una svegliata e aprire la propria mente a quei veri e propri rave party che sono i lavori a progetto. Una goduria per il corpo e per l’anima! E poi il vice ministro Michel Martone, che grazie alle altolocate amicizie di papà è diventato professore ordinario all’Università (con un percorso a dir poco discutibile e sospetto), ha visto bene anche lui di librarsi in una poesia delicata quanto illuminante: «Chi non si laurea entro i 28 anni è uno sfigato!». Da ultima, ma confidiamo che i professori stiano spremendo le loro fulgide menti perché non sia così, ci ha pensato la ministra Cancellieri, affermando beata e sorridente che i ragazzi di oggi devono
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9 Febbraio 2012
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Qualcuno era italiano
smetterla di volere il lavoro vicino a mamma e papà e darsi da fare per andare all’estero. Ora, a parte il fatto che non si è mai sentito il governo di un Paese, per di più incaricato di salvarlo dal baratro, che si occupa del Paese stesso invitando la sua gioventù ad andarsene via. È quantomeno curioso. Mettiamo anche da parte il fatto che questi tecnici e professori, che sembrano così capaci nel fornire suggerimenti per risolvere la piaga della disoccupazione, hanno tutti (o quasi) più o meno risolto il problema, a livello personale o dei propri figli, in maniera totalmente contraria rispetto alle pur nobili dichiarazioni. Lasciamo perdere queste ed altre contraddizioni per carità di patria (tanto ci ha già pensato la Rete a sputtanarli a dovere!). Sappiamo tutti che è sempre valsa, fin dai tempi del Medioevo, e noi siamo un Paese con forti retaggi medioevali!, la cosiddetta «doppia morale», per cui ciò che viene imposto come dogma al popolo, si dà tranquillamente per scontato che non deve valere per ricchi, nobili, clero e privilegiati in genere. Sappiamo anche della provenienza del governo Monti, emanazione dell’aristocrazia economica più fondamentalista e «antipatica», non a caso al potere senza alcun pronunciamento popolare ma saldamente sostenuto da quegli stessi partiti che hanno fallito in tutto e per tutto. E che ora sono costretti, perché questo è il loro prezzo da pagare (neppure tanto alto, ancora, perché quello alto deve ancora arrivare, e sarà lo scioglimento dei suddetti partiti!), a votarsi alla causa di quella borghesia ricca e intellettuale che ha sempre avuto il deretano coperto. Lasciamo perdere queste cose sostanziali e concentriamoci su una soltanto, apparentemente superficiale, accessoria, ma in realtà molto eloquente. Ma io dico e mi chiedo, quale diavolo di misteriosa combinazione neuronale fa sì che dei professori illustri, ben pagati, provenienti da famiglie altolocate, con infanzie e adolescenze da culetto nel burro e carriere già pronte, per di più consapevoli di stare chiedendo dei sacrifici immani al popolo italiano (e anche qui ci sarebbe da dire, sull’originalità, l’equità e la vis riformatrice assenti nelle menti di questi reazionari miracolati dal fallimento della politica!), se ne escano con frasi così malaccorte e offensive nei confronti della stragrande maggioranza del suddetto popolo?! Non gli basta essere
Gli alieni
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dei miracolati che hanno avuto sempre tutto facile per diritto ereditario, non gli basta poter sistemare figli e parenti con la semplicità con cui noi terrestri schiacciamo una mosca, no, questi alieni non si accontentano e vogliono anche riservarsi il diritto di dileggiare un intero popolo?! Io sarò schematico, lo ammetto, forse anche un po’ rigido e limitato, ma se sento una persona fare delle affermazioni particolarmente idiote, sono tendenzialmente portato a pensare che tale persona non sia poi così distante dal centro dell’idiozia stessa. Che questi signori così dotti e preparati (un governo di idiozia tecnica non si era mai sentito!) non si siano accorti che siamo entrati da quel dì nell’epoca dei nuovi media, in cui ogni minima affermazione (figuriamoci le massime idiote poi!) viene propagata con la sonorità di un peto eseguito sopra a un diffusore stereo di un concerto di Vasco Rossi?! Che la Rete sa tutto, è in grado di sapere tutto, scopre le magagne dell’oratore malaccorto in pochi minuti?! E questi dovrebbero essere i salvatori della patria?! Cioè, veramente l’alternativa del nostro infelice paese è quella fra un pagliaccio truffaldino, ma grandissimo comunicatore, e dei fighetti col culetto super coperto che, forse proprio per questo, non riescono a trattenersi dal «far trombetta» della propria bocca, per parafrasare padre Dante?! Non so perché, davvero, ma mi ronzano in testa i Maya… P.s. Per il week-end sono previste nuove nevicate a Roma. Si vede che i nostri alieni, almeno nel fine settimana, si riposano.
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I GRILLI E I TRAVAGLI DELL’ANTI-POLITICA*
In Politica (sì, con la maiuscola, perché si intende il termine nella sua derivazione nobile da pólis) dovrebbe valere il contrario di quanto accade in biologia, secondo il prezioso insegnamento che ci ha impartito Charles Darwin. E cioè non dovrebbero prevalere i più «adatti», coloro che meglio sanno adattare la propria conformazione ai mutamenti dell’ambiente esterno, bensì i migliori, coloro che sono in grado di elaborare ideali forti e intenti progettuali concreti, sulla base dei quali aspirano a modificare la realtà esteriore adattandola nella maniera maggiormente possibile a quegli stessi ideali e intenti. Dopo aver convinto della loro bontà la maggioranza degli aventi diritto al voto. La buona Politica è problema, il cui significato etimologico (dal greco pro-ballein: gettare innanzi) attesta al tempo stesso la capacità e la volontà di guardare avanti, di gettare il cuore oltre l’ostacolo e innalzare la propria visione del mondo al grado sommo del «progetto». La cattiva politica, o quantomeno la politica sterile, è protesta, termine la cui etimologia attesta il fermarsi al presente, propria di chi si fa testimone di una situazione attuale ritenuta inopportuna e negativa. Può sembrare un esercizio noioso o cattedratico, ma qui risiede buona parte dei problemi del nostro Paese (e non solo). Abbiamo festeggiato con troppa enfasi la fine delle ideologie, ma non ci siamo accorti che con esse morivano anche le idee, gettando nel gabinetto quell’idea suprema per cui la politica è nulla senza una riflessione teorica e programmatica che la sottende, fondamento imprescindibile per giungere a un manifesto programmatico. Oggigiorno, a partire da un libro tanto fortunato quanto incapace di provocare riflessioni ulteriori e approfondite (La casta di Stella e *
3 Maggio 2012
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Qualcuno era italiano
Rizzo), si fa presto a prendersela con la casta, a rimarcare le turpitudini e miserie della classe politica che ci governa, tracciando una linea netta e comoda (di qua noi, il popolo buono e vittima, di là loro, i governanti sporchi e cattivi). Ma la verità è che noi non capiamo molto, e soprattutto possiamo fare ben poco per modificare la triste realtà, se ci limitiamo alla protesta contro figure indubbiamente indegne come quelle dei politici che ci mal-governano. Sarebbe meglio, piuttosto, spingerci più in là e arrivare a chiederci come è possibile che elementi improponibili, pittoreschi e di una incompetenza cialtronesca e truffaldina, riescano a pervenire sugli scranni più alti della nostra Italietta. Ma porre la questione in questi termini implicherebbe una riflessione ben più complessiva, che non si accontenta del facile colpevole (il politico corrotto, la casta). Bisognerebbe chiedersi dove erano i professori che hanno spazio sui giornali, dove erano i notisti e prestigiosi commentatori, dove molti giornalisti quando stava accadendo lo scempio. Sì, lo scempio, quello di un Paese che abbandona volutamente la cultura e l’idea stessa di formazione delle nuove generazioni, di un sistema che si lascia dettare l’agenda soltanto dagli interessi economici e dall’ideale del profitto riducendo tutto a conformismo e magma indistinto. Ecco allora che, nello specifico del discorso che stiamo facendo, si può capire come il livello, il livello generale di competenza, specchiabilità, capacità, di un’intera classe politica e dirigente si abbassa fino a un livello per cui è tecnicamente possibile che gentucola insignificante e malavitosa ricopra gli stessi incarichi (se non più alti) di politici colti e preparati, che anzi finiscono con lo sparire perché ritenuti noiosi da un sistema che vuole lo spettacolo e aborre l’argomentazione approfondita e articolata. Che risultano perdenti perché meno capaci di stringere accordi vincolanti con realtà sospette e ambigue. Politici in via di estinzione, o forse già estinti, che ancora hanno la malattia dell’ideologia, di un manifesto programmatico portante su cui fondare ideali e sogni ma anche progetti e soluzioni innovativi e adeguati a un Paese malato. Che non siano soltanto la fredda e sterile contabilità di ragionieri salvifici, ma neppure la verità superficiale urlata da populisti demagoghi alla ricerca del facile consenso o, peggio, del plebiscito popolare.
I grilli e i travagli dell’anti-politica
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In pochi altri posti come in Italia si può notare come l’anti-politica è soltanto l’altra faccia di una cattiva politica, di un sistema che è tanto marcio, corrotto, incapace di profondità e riflessione, da generare in maniera spontanea brutture al proprio interno e brutture all’esterno. È una brutta politica quella con cui abbiamo a che fare tanto quanto è brutta la società civile che l’ha votata e la vota, e che ancora oggi, o forse proprio oggi, sa darsi gli strumenti per uscirne in maniera degna ed efficace. Grillo è un bravo comico e un serio professionista dello spettacolo, ma è triste quel Paese che non vede altra via di uscita che consegnarsi a un comico (reo confesso quantomeno, visto che quanto a figure esilaranti abbondiamo anche fuori dalla nobile stirpe dei suscitatori di riso). Travaglio è simpatico quanto una cacca sciolta pestata nel giorno in cui ci si è dimenticati di indossare le scarpe, ma certamente è uno che sa fare il giornalista e sa comunicare. Ma è comunque triste quel Paese che si affida a coloro che dalla protesta indifferenziata e non portatrice di progetti seri e articolati traggono beneficio soltanto per il tornaconto proprio e del giornale per cui lavorano. Insomma, anche qui ha vinto Darwin, e ben lungi dal sopravvivere i migliori, dobbiamo assistere a una triste «evoluzione» in cui sopravvivono i più adatti. Che in questo caso sono i più furbi. Politica o anti-politica che sia.
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QUALCOSA DI SINISTRA*
Sarà anche vero che la Storia è maestra di vita, come insegnava Cicerone, ma è altrettanto vero che la sinistra italiana, fra i tanti, non ha mai avuto alcuna intenzione di abbeverarsi alla sua fonte sapienziale. Non si tratta tanto di ricordare i risultati devastanti, ogni volta che la sinistra si è accordata con il centro. Peraltro evidenti, e a solo danno della sinistra stessa. Il punto è un altro. E ancora una volta tocca risalire al peccato originale dei progressisti nostrani: il 1989. Un evento subìto, mai digerito, foriero di complessi di inferiorità e aneliti a una legittimazione moderata che, di fatto, gli hanno impedito di ritrovare una nuova identità di sinistra per i tempi moderni. Finalmente fuori dagli stereotipi vecchi e superati del secolo precedente e in generale di tempi ormai defunti. Come non ricordare il piglio pateticamente compunto e professorale di Massimo D’Alema nei dibattiti televisivi degli anni Novanta del Novecento. Mentre Berlusconi menava fendenti e costruiva il suo efficacissimo carrozzone di nani e ballerine proiettati contro i fantomatici comunisti, l’erede di Baffone, ridotto giustamente a Baffino, propalava frasi scontate e istituzionalissime, con tanto di tono da «ormai sono un uomo di Stato, lo vedete tutti che sono un serissimo statista, intellettuale, preciso, affidabile, ben lontano dalle molotov dei miei compagni di una volta!». E infatti fu impietosa e geniale, come quasi sempre, l’ironia di Nanni Moretti: «D’Alema, di’ qualcosa di sinistra, per favore, di’ qualcosa di sinistra!». Macché, la sinistra era andata a farsi benedire. A dimostrazione che non c’era più, e da tanto tempo, nemmeno nel vecchio Pci, uno
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11 Maggio 2012
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Qualcuno era italiano
straccio di idea di sinistra, e né si riusciva a elaborarlo neppure oggi che i tempi erano cambiati e il Muro caduto. Così arriviamo alla storia più recente, da cui i nuovi capi della sinistra, cioè sempre Baffino, ormai imbiancato, e «volevo andare in Africa» Veltroni, continuano imperterriti a non imparare nulla. Eppure c’è stata l’Inghilterra di Blair, la Spagna di Zapatero e, oggi, la Francia di Hollande. Con le dovute differenze, tre esempi di sinistra che ha saputo darsi un programma, ricompattarsi dietro a ideali e programmi forti prima ancora di cercare alleanze improbabili e che prescindessero da un progetto. Hollande ha avuto il coraggio di criticare il diktat mercatista, di opporsi a quel «fondamentalismo del mercato» (J. Stiglitz, Globalization and its Discontents, Norton & Company, London – New York) che domina sulla scena ideale e politica da ormai troppi anni, coi risultati disastrosi che sono sotto gli occhi di tutti. Senza vaneggiare rivoluzioni, espropriazioni o impiccagioni dei capitalisti, il capo dei socialisti francesi ha voluto e saputo restituire un’identità alla sinistra, programmando, elaborando e persino dicendo qualcosa di sinistra. Cercando una sintesi felice tra il meglio della teoria liberale e il buono che pur c’è stato e c’è nella spinta socialista. E che mai come oggi si rivela indispensabile per contrastare il pensiero unico del profitto e della stabilità dei conti come indiscusse divinità di un mondo sempre meno umano. Ma da noi niente. Questi geni della sinistra italica, mai ripresisi dal crollo di quel contenitore vuoto (di idee e progetti di governo reale) che era il Pci, con la fine del grande partitone non hanno saputo far altro che vergognarsi del proprio passato, rinnegare ogni minima cosa che anche soltanto odorasse di sinistra (fortuna che da noi la guida è a destra, altrimenti avrebbero cambiato pure quella!), ricercare un nuovo abito che fosse lindo, carino, rassicurante, buono per essere accolti alle feste della borghesia che conta. E ancora oggi è così, tra foto di Vasto rinnegate un giorno sì e l’altro pure, e corteggiamenti timidi ma eccitatissimi al grande centro di Casini, venerato come un grande membro capace di riempire il grande vuoto della sinistra e colmare di orgasmi ripetuti l’aridità asciutta del progressismo italiano. Il Pci non poteva governare, non sarebbe mai potuto salire al governo. Nel suo caso era comprensibile un’incapacità di elaborare progetti seri e radicali di gestione alternativa di un paese. Ma per-
Qualcosa di sinistra
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petuare quel male è un delitto che pesa sulla coscienza dell’intera classe dirigente della sinistra italiana: non si può accontentare tutti, non si può essere «omnibus» come i giornali. Questa pratica è figlia di un’idea malsana che deriva dalla prima repubblica: quella di non contemplare l’alternanza. Di illudersi di riuscire a mettere insieme tutti i partiti che contano e tutte le idee, in un calderone indistinto che non serve a nulla ma illude di far durare il proprio governo per sempre. Le recenti elezioni amministrative hanno insegnato che il Pdl perde tanti voti che non vanno certo alla sinistra. E prima o poi li riprenderà quei voti, e tornerà a governare questo Paese come ha sempre fatto. La sinistra dovrebbe finalmente svegliarsi e mirare ai propri voti, ai tanti che si astengono delusi da una politica priva di ideali forti e progetti, che inevitabilmente degenera nel carrierismo spesso truffaldino. Insomma, premesso che sarebbe ora di azzerare la classe dirigente, mandando finalmente Veltroni in Africa (ché tanto è contento) e D’Alema a Guantanamo (a tenere corsi di democrazia e bon ton politico ai talebani!), sarebbe finalmente ora che la Sinistra italiana cominciasse a dire qualcosa di sinistra. Invece di perdersi nelle azioni sinistre con cui ci ha deliziato fino ad oggi!
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L’ITALIA CHE NON CI PIACE*
E se facebook fosse uno specchio della realtà che vogliono imporci? A cominciare dall’assenza di un tasto «non mi piace», opzione evidentemente impensabile in tempi in cui il potere tecnico-economico abolisce la critica, a tutto favore di un conformismo piatto e meccanico. In cui il consenso è l’unica opzione possibile, per chi volesse abbandonarsi al gesto rivoluzionario di esprimere una propria opinione, non accontentandosi del silenzio generalizzato1**. L’Italia, come molti altri paesi dell’Occidente industrializzato, vive tempi cupi e drammatici, con tante persone che perdono il lavoro e la dignità, con giovani che neppure lo trovano e tanti altri che hanno persino smesso di cercarlo. Drammi umani, famigliari, che a volte sfociano nel gesto più estremo per un essere vivente: togliersi l’unica cosa che davvero possediamo. La vita. C’è di che riflettere, commuoversi e disperarsi per le sorti di tante persone che scendono negli inferi di una vita indegna di essere vissuta. Una sorte che potrebbe colpire presto anche noi. Ecco allora che pianti e disperazione ci sembrano consoni in questa epoca, ma pensare che quelle lacrime calde e sincere, e quei gesti di disperazione sentita e patita, si riferiscano in realtà al ritiro agonistico o al cambio di maglia di Del Piero, Gattuso e compagnia calciante, cioè di ex ragazzotti che hanno accumulato miliardi rincorrendo una palla, per di più in mutandoni e calzettoni lunghi (un’offesa al decoro estetico, l’abbinamento!), fornisce lo specchio fedele di un’Italia che non ci piace. Ci potrebbe piacere, invece, e anche molto, l’idea che l’organo più importante e simbolico del Paese, cioè il Parlamento, si riunisca al gran completo e pieno di entusiasmo per fare leggi ed esprimere pronuncia* 1
20 maggio 2012 Non per caso Geert Lovink (Dark Fiber. Tracking Critical Internet Culture, MIT, Boston 2002, p. 137) applicando l’analisi della psicologia di massa al fenomeno Internet, scrive di un nuovo campo di studi che ha a che fare con sistemi su larga scala «pieni di amorfi e di masse di utenti più o meno anonimi».
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Qualcuno era italiano
menti a favore dei cittadini e del vivere sociale. Già, se non fosse che al gran completo, questi signori pagati profumatamente e contornati da onori e privilegi di ogni genere, li abbiamo visti quando si trattava di deliberare che Ruby era la nipote di Mubarak (sarà stato lo zio o il nonno? L’arcano non fu sciolto), mentre pochi giorni fa, quando si trattava di deliberare sui finanziamenti ai partiti, soltanto venti deputati sparuti riempivano il luogo tanto solenne quanto sputtanato. Ci piace un Paese in cui Umberto Bossi, leader carismatico del partito anti-Roma ladrona, venga comunque inquisito dalla magistratura per aver usato e abusato dei soldi pubblici, provenienti da Roma (che poi saremmo tutti noi che paghiamo le tasse, tanto per non dimenticarlo), per elargire ai figli le paghette da cinquemila euro al mese, senza contare le spese per la benzina, le discoteche, il dentista, gli alimenti delle prime e seconde mogli, la laurea comprata per il figlio coglione (nel frattempo fatto eleggere in politica con altri quindicimila euro di stipendio al mese), e chissà che altro ancora. Adesso si capisce perché ci raccontano che la vita al Nord costa di più. Ammazza quanto di più, però. Ci piace meno leggere, ancora su Repubblica di oggi, che la base è ancora con Bossi, lo difende, accusa la magistratura a orologeria, invoca il complotto (non si capisce bene se contro i padani, i colpiti da ictus, i padri di figli coglioni o tutte e tre le categorie insieme). Quanti ce ne stanno, viene da chiederci, di italiani così? Che ancora difendono chi ci ha condotto al tracollo, trasformandosi in servi eterni (qualunque cosa accada, qualunque nefandezza attui il ducetto di turno), per di più non pagati da nessun’altra moneta che non sia la gioia di ventidue ragazzotti in mutande che inseguono la palla con una divisa variamente colorata? Gioia che comunque non è neppure esente da lacrime e dolori atroci, visto che i suddetti ragazzotti invecchiano e un giorno tristissimo devono ritirarsi, per la sofferenza indicibile e inconsolabile del popolo dei tifosi. Martoriato, coglionato, ora anche in buona parte disoccupato, ma felice di poter vivere quel sentimento che alimenta il corpo e lo spirito come la fede calcistica. Verrebbe da chiedersi di fronte a quale ulteriore mutazione antropologia ci troviamo. Vorremmo illuderci che non è sempre stato così, che l’uomo non è questo. Che il popolo italiano, nella maggioranza più larga, prende le distanze da tutto questo rincoglionimento generalizzato, triste e patetico. Dove diavolo sta questo tasto del «non mi piace»?!
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LA RIVOLUZIONE DI CUI NON SI PARLA*
Affrontata con la consueta superficialità da buona parte dei media tradizionali, è stata invece una grande lezione di comunicazione quella impartita da Beppe Grillo, quando ha rimbrottato il candidato sindaco di Genova per essersi concesso alle telecamere di Ballarò. Del resto, non bisogna dimenticare che ci troviamo, in ordine cronologico, di fronte al secondo grande esperto di comunicazione (in questo caso anche di nuovi media, oltre che dei vecchi) che decide di impegnarsi fattivamente nelle vicende della politica italiana. E tanto è vero che la politica è divenuta anzitutto comunicazione politica, ormai da molti anni e con la complicità di un sistema elettorale che favorisce i personalismi, quanto c’è poco da sorprendersi che le abilità del comico producano successi elettorali. Successi elettorali che si fondano su una logica banale e riduttiva: buoni contro cattivi. Qui il senso della reprimenda di Grillo all’esponente del Movimento cinque stelle di Genova: ormai in Tv ci vanno «loro», la casta, i corrotti, quelli bravi a blaterare e litigare su tutto salvo poi accordarsi per difendere i propri privilegi e un meccanismo che garantisce potere e ricchezza anzitutto agli eletti, togliendolo quasi del tutto agli elettori. Insomma, i cattivi vanno in tv, mentre “noi”, i buoni, i diversi, il nuovo che avanza inesorabile e spazzerà quella pleiade di affaristi buoni a null’altro, dobbiamo marcare netta la diversità, con quello che nella politica di oggi è il gesto più simbolico ed evidente: la distanza dal teatrino mediatico. Tanto Silvio B (pseudo seconda repubblica) costruì la sua fortuna sull’uso modernizzato (e quasi monopolistico) del mainstream comunicativo, quanto Beppe Grillo (pseudo terza repubblica) e il movimento che a lui si richiama stanno ottenendo successi sulla base del passaggio dai vecchi media (televisione, radio, giornali) ai nuovi (la Rete), nonché sull’idea per cui la Rete siamo tutti noi, nessuno *
25 Maggio 2012
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Qualcuno era italiano
si senta escluso, con tanto di assunto finale e conseguente secondo il quale tutto quello che promana dalla Rete non ci escluderà mai, coinvolgendoci in questo caso persino nel governo effettivo delle città e, chi mai può dirlo, del Paese*1. Insomma, una sorta di realizzazione della vecchia utopia di democrazia diretta, resa stavolta possibile dalla grande forza connessa e connettiva di Internet. Diciamo subito che ci sono punti di incontro fra la «rivoluzione»” di Silvio B e quella di Beppe G. A partire dalla più macroscopica: il gioco facile che hanno avuto e hanno entrambi nel colmare il vuoto lasciato da una classe politica «regolare» a dir poco inadatta, noiosa, ancorata a logiche vecchie e inefficaci, a una comunicazione politica rigida e patetica, e naturalmente gravata profondamente da scandali e scandalucci che permettono al nuovo che avanza di presentarsi come l’eroe salvifico, quell’eroe che Bertold Brecht non augurava a nessun popolo sano e fortunato. L’eroe è tale anche perché riesce a dare la sua immagine, il suo volto e persino il nome al movimento, che ne diventa una sua emanazione indistinguibile. E poco hanno da scandalizzarsi i vecchi politici che gridano al populismo: questa cosa è stata resa possibile da un sistema elettorale scellerato che ha personalizzato la politica e messo i nomi e gli eroi ben al di sopra delle idee (che infatti latitano). A fare il partito personale ci hanno provato in molti, a Berlusconi e Grillo è solo toccata la bravura di saperlo fare meglio (ad oggi). È il mercato, ragazzi, quello che voi politici presentate come il dogma indiscutibile e di cui non potete lamentarvi quando i suoi responsi non vi soddisfano! Inoltre, la capacità di entrambi, Silvio B e Beppe G, di richiamare alla «politica» quelli che se ne astenevano da tanto tempo, ma soprattutto quei giovani che hanno più di una ragione per avercela coi partiti tradizionali: niente meritocrazia, niente lavoro, gerontocrazia a tutti i livelli, a cominciare da un Presidente della Repubblica quasi 1
Si tratta della versione proposta, fra gli altri, da Michael Hardt e Antonio Negri (Empire, Harvard University Press, Cambridge 2000, p. 103), per i quali la cultura della Rete rappresenta una nuova occasione per il riemergere della «moltitudine», che opposta alla vecchia unità precostituita del «popolo», si rivela come un piano di singolarità e un campo aperto di relazioni che non è omogeneo o identico con se stesso, ma produce una relazione indistinta ed inclusiva verso coloro che ne sono fuori.
La rivoluzione di cui non si parla
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novantenne che parla accoratamente soprattutto ai «giovani», esortandoli, come in questi giorni di commemorazioni per Falcone e Borsellino, a usare il loro vigore per riaffermare la legalità e il senso dello Stato. Eppure quei giovani vedono lo stesso Napolitano non farsi problema alcuno a firmare il mandato di sottosegretario a un signore, De Gennaro, condannato per i fatti di Genova 2001. In cui sono stati picchiate selvaggiamente migliaia di giovani innocenti, con la fabbricazione da parte delle istituzioni statali di «prove» artefatte e testimonianze false. Così come non c’era nessuno a ostacolare Silvio Berlusconi, portabandiera del «nuovo miracolo italiano», oggi non sembra esservi nessuno in grado di ostacolare un movimento che ritiene di rappresentarci tutti, grazie al collante straordinario offerto dalla Rete. Il primo doveva salvarci dai comunisti, il secondo intende salvarci da una classe politica e dirigente che, e come dargli torto!, si presenta nella sua quasi totalità incapace, anacronistica e truffaldina. Silvio B marcò la sua distanza, a livello di tecnica della comunicazione, con i monologhi registrati che le televisioni compiacenti avrebbero poi diffuso senza batter ciglio, mentre Grillo insegna al suo movimento una nuova e più moderna forma di quello che Nietzsche chiamava «pathos della distanza»: non ci andiamo proprio in televisione, non ci sputtaniamo all’interno del teatrino tragicomico inscenato dalla vecchia politica. Utilizziamo la Rete e con essa rivoluzioniamo il sistema! Silvio B ebbe gioco facile nel presentarsi come il migliore di tutti, Grillo e il suo movimento sembrano averlo altrettanto agevole nel mostrarsi come i rappresentanti di tutti. Siamo a un gradino ulteriore, testimoni di una nuova grande trasformazione. Di qui l’apparente (apparente?) magma indistinto che sembra connotare il Movimento cinque stelle, l’assenza di un’identità definita, visto che ormai destra e sinistra sembrano essere state superate dalla storia. Se il Movimento è tutti e tutti sono il movimento, grazie al collante straordinario della Rete, non solo risulta arduo pretendere di rintracciarvi degli elementi distintivi e connotanti, ma persino senza senso. Questi ci sembrano i tratti fondamentali di una rivoluzione che da tecnologica e comunicativa si è fatta (anche) politica e rappresentativa. Negarne la portata potenzialmente dirompente, o rubricarla nell’alveo insignificante di una presunta anti-politica, come pur all’inizio hanno provato a fare i nostri politici vecchi corrotti e
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ormai incapaci a fiutare ogni barlume di cambiamento, rientra fra le tante sciocchezze che ormai ci propina da anni una classe politica fra le più inadeguate del mondo industrializzato. Il punto critico, semmai, riguarda i capisaldi «teorici» di questa rivoluzione tecno-politica: la logica manichea del buoni/cattivi, onesti/corrotti, casta/popolo della Rete può portare a qualcosa di buono per il nostro Paese, specie in quest’epoca di crisi economica che richiede idee forti e decisioni tutt’altro che indistinte? È saggio, prima ancora che realistico, fondare la politica di un intero movimento, che in caso di vittoria alle elezioni nazionali diventerebbe di un intero paese, su una diversità fondata sull’onestà di coloro che la compongono? Il Nietzsche di Al di là del bene e del male (§ 259) ci può far sorgere più di un dubbio, quando riconosce che la vita è anzitutto volontà di potenza, indole innata che ha l’uomo di prevaricare gli altri e di affermare a ogni livello il proprio interesse. Lo «sfruttamento» non è proprio di una società guasta, imperfetta o primitiva, scriveva il pensatore tedesco, bensì concerne «l’essenza del vivente». Se chi aspira a governare l’Italia è mosso da intenti veramente onesti, deve spogliarsi dell’abito di un’onestà tanto assoluta quanto improbabile e calarsi sul piano effettivo dei programmi per il Paese. Qui e ora deve dire cosa vuole fare nel concreto rispetto alla politica economica, a quella estera, all’istruzione e la sanità, alle misure per riformare e rilanciare una macchina stanca e logorata. E soprattutto deve liberarsi al più presto dell’artificio retorico e populistico di presentarsi come il governo di tutti, perché come ricordava il vecchio reazionario francese dell’Ottocento De Bonald, «Quando gli spiriti scaltri e in malafede convincono il popolo che esso è il sovrano, gli offrono, come il serpente a Eva, il frutto proibito» (L. de Bonald, Pensée sur sujét divers, Leclère, Paris 1858, p. 379). Questo Paese dimentica spesso la storia, ma almeno oggi proviamo a ricordare che tutte le volte che qualcuno ha offerto al popolo italiano tale mela, ne è seguito in tutti e due i casi un ventennio di vergogna e miseria.
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TERREMOTI*
Il terremoto che colpì la città di Lisbona nel 1755 ebbe non soltanto il potere di produrre morti e disastri, ma anche di intaccare in maniera profonda e irrimediabile la fiducia nelle «magnifiche sorti e progressive» del secolo illuminista. Pagine e pensieri, proclami e riflessioni improntate al più fervido ottimismo sulle sorti del mondo umano, sorretto da quel grande e potente Essere che è la Ragione, trovarono una smentita feroce nel terrificante (parola che non a caso si richiama alla terra) evento sismico. Le parole di Voltaire, scritte l’anno successivo, sembrano imprimere con il sangue della fronte l’impietosa marcia indietro a cui sono costretti i filosofi illuministi: «Il male è sulla terra. Significa prendermi in giro dire che mille sventure producono la felicità. Sì, il male c’è, e pochi uomini vorrebbero ricominciare da capo la loro vita, forse nemmeno uno su centomila» (Mélanges, Bibliothèque de la Pléiade, Paris 1961, p. 309). La fede nei Lumi venne smorzata da una scossa tellurica. L’uomo si era riscoperto minuscolo ingranaggio di un meccanismo che lo sovrasta insondabile. Terribilmente mortale ed esposto al minimo errore del «sistema», perfettamente in grado di provocare l’esito massimo: la morte. In questi giorni il nostro triste Belpaese è colpito anch’esso da un terremoto che sta scuotendo costruzioni e coscienze, per di più in quella zona magnifica e centrale che è l’Emilia Romagna. Ma a differenza dell’evento tragico del Settecento, questo terremoto non arriva implacabile a smentire una scena idilliaca e foriera di buone speranze. Anzi, si presenta come il più triste suggello di un Paese allo sbando.
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7 Giugno 2012
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Qualcuno era italiano
Un Paese che mostra crepe spaventose in tutte le sue, più o meno edificanti, colonne portanti. Traballa il Vaticano, presunta culla delle coscienze e deposito della morale cristiana, che in realtà, e per l’ennesima volta, si mostra col volto mefistofelico del potere più turpe e nascosto, colluso con la malavita e dedito alle peggiori nefandezze in onore di Mammona. Crepe, scosse e disastri anche nel tempio nostrano della vera coscienza civile: il calcio. Migliaia di compatrioti invasati che si accapigliano ad ogni partita per le sorti di ragazzotti in mutandoni che vestono la bianconera o la giallorossa, la nerazzurra o la rossonera, quando in realtà sembra tutto stabilito da poteri forti che sovrastano, con gli stessi giocatori pronti a scommettere, a vendere le partite, a prostituirsi ancora una volta in nome del dio denaro. Bisognerebbe stendere un velo pietoso, e invece non è tempo di pietà neppure per la politica e il Parlamento, che dovrebbe essere la culla della legalità e del buongoverno, mentre ancora una volta si dimostra il regno dell’opportunismo più bieco, dell’affarismo truffaldino, di una logica corporativa che sempre e comunque favorisce le spartizioni (vedi il vergognoso caso delle nomine rigorosamente partitiche all’Agcom), ma anche la protezione reciproca dalle «persecuzioni» della legge e dei magistrati (vedi il Parlamento che respinge le richieste di arresto per Lusi, centrosinistra, come per De Gregorio, centrodestra). Stiamo parlando di un Parlamento che aveva creduto alla storia di Ruby nipote di Mubarak, e che oggi legifera senza vergogna confermando le misure durissime e anti-popolari del governo Monti. Immaginiamo con quanta credibilità, con quale capacità di suscitare nei cittadini quello spirito di unione nazionale che pure sarebbe necessario di fronte a una crisi così grande e complessa. Cosa manca per completare questo quadro lugubre, per segnare irrimediabilmente la dignità e persino la simbologia di un Paese che non ha più quasi nulla da dire da tanto tempo? Una cilecca di Rocco Siffredi? I Ricchi e Poveri che vincono il festival di Sanremo (così fin dal nome si recupera l’unità nazionale)? Marchionne che si compra una Mercedes di seconda mano? Saviano che per una volta elabora un concetto profondo risparmiandoci, sempre per una volta, lo sguardo inutilmente contrito e cogitante? Possiamo fingere di non vederlo, ma questi terremoti sono accomunati da una serie di elementi: le costruzioni incerte e con mate-
Terremoti
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riali inadatti, gli operai richiamati a lavorare in condizioni di scarsa sicurezza; i calciatori a cui non bastano le enormi ricchezze e svendono l’onore dello sportivo; le alte sfere Vaticane che abbandonano le anime e la morale per questioni assai più mondane come il potere e il denaro; i politici che hanno smarrito da quel dì anche il minimo senso di appartenenza a un’idea o ideale, la destra e la sinistra che ormai sono svolte improvvise buone tutt’al più per gli automobilisti. Dovevamo pagarlo, prima o poi, l’abbandono dell’educazione civica (alzi la mano chi l’ha studiata a scuola, pur essendo materia prevista dai programmi ministeriali!), lo svilimento di tutto ciò che è cultura profonda e sentita. Il tutto sacrificato in nome della logica economica e quantitativa, che possiamo riscontrare anche nelle ridicole proposte «meritocratiche» dell’attuale Ministro dell’Istruzione Profumo: in ogni istituto si elegga lo studente più bravo! Alle imprese che lo assumeranno promesse di ingenti facilitazioni fiscali. Ma davvero possiamo pensare di risolvere le cose così?! Di uscire da questo pantano economico, politico, etico e culturale, sì culturale, con queste sonore cazzate (scusi Profumo, ma non ci veniva altro termine!), che galleggiano tra il burocratichese e la genuflessione incondizionata alle logiche economicistiche?! Forse siamo alla fine della nostra civiltà. Niente di strano, ne sono finite tante, e i segnali di corruzione e prossimità all’epilogo erano proprio quelli che ci troviamo oggi di fronte agli occhi (chi ricorda il Gibbon di Nascita e caduta dell’Impero romano?). Del resto Occidente significa tramonto. Che il corso della storia, della nostra storia di occidentali, parimenti a quello della luce, sia arrivato al suo epilogo?! Che abbiano davvero ragione, ‘sti benedetti Maya, tornati beffardamente in auge in questi tempi di terrori irrazionali e profezie mancate, per la loro bravura a prevedere tutto. Ma proprio tutto. Tranne forse l’arrivo di quei conquistadores che avrebbero posto fine alla loro splendida e nobile civiltà.
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CHI GLIELO DICE A BERSANI?*
«Ueh, ragassi, siam mica qui a contare quante sono le barzellette di sinistra nel nuovo libro di Totti?!». Sembra di sentirlo, il buon Bersani, con quella sua aria da emiliano verace, col piglio del candidato ufficiale della Sinistra (sic!) alle prossime elezioni nazionali. Come se non bastasse il piglio, il Nostro ci mette pure un po’ di insano cipiglio, quella’aria greve e contrita di chi si sente investito di una missione catartica, di chi dovrà salvare il Paese, finalmente, dopo decenni di governo della destra o del centro-sinistra cui è stato però imposto un candidato di centro (Prodi). Insomma, Pigi Bersani si sente già in tasca la vittoria, e con lui tutta la schiera di faccendieri, notisti, notabili e cacasenno del PD. E non fanno nulla per non darlo a vedere. Sono convinti di vincere e se ne vantano. Del resto, Berlusconi è alla frutta, la Lega è moribonda, la destra non è pervenuta, Grillo è ritenuto un fenomeno evanescente e comunque irrilevante in ambito nazionale, Monti sarà odiatissimo dopo aver spremuto le tasche degli italiani (ovviamente con l’appoggio convinto del PD). Insomma, tocca finalmente agli eredi del Pci e della Dc, in quel connubio strampalato e sciagurato che è il PD, il governo non può che piombare in braccio a loro per inerzia, per mancanza di alternative, perché gli altri hanno tutti compiuto disastri o ingiustizie. I mezzi di comunicazione fanno di tutto per suffragare questa convinzione ma, è bene dirlo, le cose non stanno affatto così. Del resto qualche dubbio sarebbe segno di sanità, da parte di chi almeno negli ultimi vent’anni non ne ha azzeccata una. Da parte di chi l’Ottantanove e la caduta del comunismo realizzato l’ha soltanto subìti, facendo finta di rinnovarsi e vestirsi di un vestito nuovo, *
21 Giugno 2012
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Qualcuno era italiano
senza in realtà elaborare uno straccio di idea nuova, di programma alternativo, di visione finalmente laica e concreta per accompagnare l’Italia nel ventunesimo secolo. Così come la caduta del Muro l’hanno vissuta alla stregua di un evento naturale improvviso e inaspettato, regalandoci infatti il ventennio sciagurato di Berlusconi, adesso gli eredi del Pci vogliono credere, e farci credere, che il governo del Paese gli piomberà tra le braccia, per la semplice ragione che tutti gli altri hanno fallito, che la destra è implosa e che non rimane nessun altro tranne loro. Ma qualcuno dovrà pur dirglielo, a questi buontemponi entusiasti e tronfi, che si atteggiano a statisti e uomini responsabili, che le cose non andranno così. Se non si affrettano a cambiare registro, infatti, a darsi finalmente un nuovo programma (di sinistra, sì), a elaborare un progetto per il Paese che sappia entusiasmare e convincere, la storia gli riserverà il solito destino con cui si è divertita a buggerarli fino ad oggi. I furbi aspettano, i poteri forti sanno che l’attesa è oggi fondamentale, ma quando sarà il momento individueranno un nuovo salvatore della Patria, una nuova coalizione moderata e genuflessa ai voleri delle tre madri di questo paese (la Chiesa, la Confindustria, la massoneria di stampo piduista, collegata alla malavita organizzata e ai servizi segreti deviati). E vinceranno! Vinceranno perché il popolo italiano questo vuole, perché esso in maggioranza è moderato o perfino di destra, avvezzo al populismo e ai salvatori della patria, ai furbi e potenti che si candidano al potere manifesto. In questo senso Grillo e i grillini, probabilmente loro malgrado, svolgeranno il ruolo utile e improduttivo di un anti-potere incapace di assurgere al potere, capace di scaldare i cuori e i muscoli degli italiani fino a quando non arriverà la figura paterna e autorevole, l’uomo in grado di garantire continuità pur nel cambiamento di facciata. È bene dirlo, per l’ennesima volta e sempre inascoltati: finché rimarrà in vita il PD, questa accozzaglia di ideologie lontane e inconciliabili, questo letto impuro pronto a ospitare chi si genufletteva a chiese vecchie e chi si genuflette a chiese immortali, la sinistra non avrà un progetto (e quindi un candidato) capace di convogliare le menti migliori e le forze più giovani del Paese, per imprimere quella svolta che appare sempre più indispensabile ma preclusa. D’Alema, Veltroni, Fassino, ma anche i vecchi notabili della ex Dc, signor Bersani, prendete atto di questa cosa, sciogliete quella
Chi glielo dice a Bersani?
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roba ridicola che è il vostro partitino accozzaglia, azzerate tutto e liberate veramente le energie riformatrici del centro-sinistra italiano. Dite di volere davvero la società civile?! Va bene, allora andatevene, azzerate tutto, lasciate che forze nuove siano capaci di elaborare programmi realistici e concreti, su cui sinistra e centro-sinistra possano eventualmente trovare una sintonia per dare una svolta al Paese. Tutto il resto è operazione di facciata, prolungamento dell’agonia, ma soprattutto illusione che il governo del Paese vi piomberà nelle mani per inerzia. Ma sapete bene che quella stessa inerzia è la vostra da tanti, troppi anni! L’inerzia degli ex (ex comunisti, ex democristiani, ex tutto), che hanno fatto finta di allearsi in un partito farsa solo per sopravvivere al cambiamento, per continuare a gestire il potere e i pubblici denari. Ma così non siete capaci di nulla, non certo di elaborare un programma serio, coerente e condiviso per l’Università e la scuola, per la sanità, per la politica economica e fiscale, per le riforme costituzionali. Quanto ancora volete prolungare questa agonia?! Quanto ancora volete continuare a pettinare le bambole fino a che non arriva l’«adulto» di turno che vi ricorda che i giochi da bambini li dovreste aver già abbandonati. Da un pezzo, poi!
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MORTE DELLA FILOSOFIA*
Quando un Paese comincia a mostrare segni di cedimento strutturale, i medesimi sintomi, e situazioni oltremodo simili, risultano riscontrabili in molteplici ambiti della vita sociale e collettiva. Un po’ per deformazione professionale, e molto per convinzione sincera e profonda, credo che uno fra i più significativi, tra questi ambiti, riguardi la filosofia e gli studi filosofici in genere. Disciplina spesso (e non sempre a torto) esecrata per la sua autoreferenzialità a dir poco oscura (gli specialisti non si capiscono neanche fra di loro), ma significativamente sempre presente sulle pagine dei quotidiani, nelle trasmissioni televisive, nei luoghi del chiacchiericcio «in autentico». Uccidere la disciplina fondata sul pensiero è impresa tristemente agevole: è sufficiente bloccare il flusso delle idee, chiudere i rubinetti delle nuove leve, e dei nuovi pensieri, e ridurre la filosofia a un acquitrino stagnante e maleodorante. Si tratta di una riproduzione, in piccolo, di quanto avviene nel macrocosmo della società italiana, dove la gerontocrazia regna sovrana e incontrastata e il ricambio generazionale rappresenta la nuova utopia, con i soliti noti che godono dei privilegi più consolidati e i giovani promettenti che devono andarsene via o rassegnarsi all’inattività più frustrante. Qualche esempio? Prendiamo il più lampante, quello che si riferisce ai grandi organi di informazione e al «mercato» delle recensioni. Escluse rarissime eccezioni, i grandi vecchi recensiscono sempre gli stessi autori, che poi sono i loro stessi colleghi pronti, con immancabile puntualità, a restituirgli il favore alla bisogna, ovviamente in occasione dell’uscita di un nuovo libro. Questo meccanismo, nello specifico della filosofia, contribuisce come pochi altri a riprodurre all’infinito conflitti teoretici triti e ri*
28 Giugno 2012
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Qualcuno era italiano
triti, impregnati di un passato che non passa e di un futuro a cui non si vuole dare spazio. Come nel caso del recente dibattito, preso dalle colonne di Repubblica, sul «neo-realismo» come fine del postmodernismo, con conseguente ritorno a delle verità, seppur minime e prese a prestito dalla vita quotidiana. Protagonisti, a vario titolo e in maniera più o meno diretta, i giganti come Maurizio Ferraris e Gianni Vattimo, con tanto di illustri e autorevoli colleghi che li seguono a ruota nello sforzo concettuale di ribadire cosa è vero e cosa no, quanta porzione di verità sia riscontrabile o meno in questa o quella situazione. A parte il fatto che nessuno osa dare il minimo spazio a giovani studiosi per sapere cosa ne pensano, è più che legittimo chiedersi quanto, al giorno d’oggi e con i problemi che attanagliano le società occidentali, sia utile per una materia fondamentale quale è la filosofia incartarsi in ragionamenti autoreferenziali, prima ancora che vecchi, che poco o nulla possono incidere sulla realtà concreta di un mondo in crisi. Sì, perché risulta quantomeno ozioso, per non dire di peggio, in un’ epoca in cui l’economia capitalistica mostra cedimenti strutturali, le giovani generazioni in larga parte private anche di un barlume di speranza nel futuro, e la cultura umanistica relegata a un ruolo sempre più marginale e di distrazione, impegnarsi in dibattiti leziosi sul fatto che esista la Verità o meno, su cosa sia vero e cosa no, e come eventualmente rintracciare queste parti di vero. La verità (senza la maiuscola) c’è ed è drammaticamente sbattuta in faccia alle nuove generazioni, e rispetto a ciò una materia come la filosofia dovrebbe piuttosto interrogarsi su quanto la nostra epoca sia diventata «irrazionale» e «misologa» (per usare un’espressione che Pasolini riprendeva dal Fedone di Platone), quindi indisposta a concedere spazio al pensiero e alla riflessione critica profondi e argomentati1.** 1
Varrebbe piuttosto la pena interrogarsi su un’epoca, la nostra, che è figlia della società dell’immagine e di un mezzo, quello televisivo, che soprattutto in Italia ha contribuito fortemente a formare la coscienza critica e l’opinione pubblica. Non solo e non tanto in appoggio all’«uomo televisivo» per eccellenza, Silvio Berlusconi, quanto piuttosto a detrimento di ogni forma di senso comune che non sia improntata sulla futilità, sulla superficialità, sull’intrattenimento disimpegnato e, più in generale, sull’abdicazione della ragione rispetto alla comprensione dello spirito del
Morte della filosofia
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Ma come farlo se i grandi vecchi parlano soltanto di loro e fra di loro, reiterando polemiche ataviche spesso e volentieri scollegate dall’attualità e frutto di diatribe personali? E dire che i giovani, specie sulla Rete, danno giustamente spazio e voce anche agli studiosi affermati, quello stesso spazio che a loro viene puntualmente negato nei luoghi che contano. Bravissimo e autorevole lo studioso Vito Mancuso, che quando viene invitato da Fazio (all’interno di una pletora ristrettissima, composta di nomi illustri), vede le copie vendute del suo ultimo libro raggiungere picchi vertiginosi, ma è mai possibile che lui, come pochi altri, sia ospite immancabile di tutte le trasmissioni che contano, e che puntualmente non si sognano di invitare anche volti nuovi e studiosi che abbiano qualcosa da dire senza per forza essere già famosi o facenti parte di una pletora intellettuale ben precisa?! Per non parlare di quei docenti di filosofia che dall’alto delle loro cattedre consolidate e intoccabili non contribuiscono più da anni alla produzione letteraria, al progresso degli studi su una materia, la filosofia, centrale se si vuole provare a capire dove stiamo andando2**. Forse bisognerebbe ripensare all’intoccabilità di quei posti acquisiti, soprattutto in quest’epoca che non offre posti nuovi. La tanto citata America manda a casa quei ricercatori e docenti che non risultano all’altezza. Da noi è così impensabile e scandaloso anche solo pensarlo? Possibile che in epoca di mancanza di posti di lavoro ve ne debbano essere molti, quelli già acquisiti, che risultano intoccabili a prescindere da ogni minimo criterio di merito?! Né credo ciò valga soltanto per le materie umanistiche, ovviamente.
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tempo. Significativo il fatto che uno dei più grandi esperti della Tv, Carlo Freccero, afferma che «la televisione è incompatibile con la razionalità» (Televisione, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 31) Alain Badiou nel suo Manifeste pour la philosophie (Seuil, Paris 1989, pp. 18 e 19) scriveva che la filosofia si incarica di pensare il proprio tempo attraverso l’analisi comparata delle procedure che la condizionano. Volendo con ciò dire che questa disciplina, e in ciò risiede la sua imprescindibile unicità, ha per oggetto certamente la verità, ma non nel senso dell’illusione arrogante di produrne una definitiva, quanto piuttosto nel tentativo di scovare in maniera analitica il punto di congiunzione in cui si incontrano le molteplici verità che caratterizzano un’epoca. L’unica disciplina che si innalza rispetto ai particolarismi delle varie scienze con lo scopo di pervenire all’analisi del punto di congiunzione razionale delle verità.
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Qualcuno era italiano
Del resto, un altro modo per uccidere la filosofia, è proprio quello di non farla e di non farla fare. Nell’epoca in cui la «misologia» di cui già parlava Pasolini (Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, p. 139), è assurta a prassi consolidata e senso comune. Sappiamo che il sonno della ragione genera mostri, ma qui ci troviamo di fronte a una consapevole, sistematica e sciagurata somministrazione di sonniferi. In un Paese che, anche prescindendo dalla materia del pensiero per eccellenza, rischia seriamente di non svegliarsi più.
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L’UTOPIA LIBERALE*
La verità, vi prego, sul liberalismo! Sempre citato, costantemente ricercato, il liberalismo costituisce in realtà l’oggetto non perfettamente identificato della tradizione occidentale in generale, e di quella italiana nello specifico. Sì, perché questa corrente di pensiero che si richiama alla libertà individuale, finisce col presentare svariati problemi non appena si tenta di declinare in maniera più puntuale i contorni di tale libertà. Per non parlare dei disagi che si frappongono quando ci si vuole concentrare su quali dovrebbero essere, nello specifico, gli individui a cui riconoscere la titolarità della libertà liberale. Già, perché è bene non dimenticare che tutto il liberalismo di stampo classico, almeno fino a John Stuart Mill (escluso e compreso al tempo stesso), ha convissuto pacificamente con delle evidenti clausole di esclusione dalla libertà individuale pur teorizzata con tanta enfasi: donne, cittadini al di sotto di un certo reddito o non proprietari, tutte le razze non bianche, sono stati i grandi esclusi dalla libertà liberale per decenni e persino secoli (Cfr. D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, Bari 2005). Ciò non toglie, e sarebbe sciocco e pretestuoso pronunciarsi altrimenti, che il liberalismo, entità filosofica e politica al tempo stesso, ha costituito il tassello principale e vincente della grande costruzione occidentale, permeando coi suoi valori e le sue pratiche tutto il meccanismo valoriale e funzionale della civiltà in cui viviamo. Il punto vero, spesso non riconosciuto e neppure accennato dagli apologeti del liberalismo, residenti in gran numero nella nostra Penisola, è che tale tradizione è risultata vincente grazie alla sua capacità di trasformarsi in maniera duttile, spesso e volentieri facendo proprie non poche delle istanze provenienti dalle correnti di pensiero ad essa avverse, come il socialismo e la democrazia.
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Se non si coglie questo punto, non si capisce come possano essere rubricati sotto la voce «liberali» lo schiavista John Locke e il fustigatore dell’imperialismo John Hobson. Oppositori irriducibili del suffragio universale come Constant e Burke in compagnia di Popper, per il quale era impensabile escludere un individuo qualsiasi dal diritto di esprimere la propria preferenza. Per non parlare della contraddizione esistente fra i liberisti irriducibili (Smith, Spencer, Friedman, Mises, Hayek), facenti parte della grande casa liberale alla stessa stregua di interventisti come John Stuart Mill, Hobhouse, Dewey, Rawls, lo stesso Popper (cfr. P. Ercolani, La storia infinita. Marx, il liberalismo e la maledizione di Nietzsche, La Scuola di Pitagora, Napoli 2011). Riflettere seriamente sulla tradizione liberale e sull’identità del liberalismo contemporaneo, che è uscito da molteplici contraddizioni e modificazioni alla radice, vuol dire compiere un’operazione assai faticosa e che richiede un’auspicabile assenza di pregiudizi ideologici (per quello che è umanamente possibile). Un’operazione che, per dirla tutta, potrebbe minare fin dalle fondamenta l’idea stessa che esista “il” liberalismo, a fronte invece di una compresenza di correnti che pur richiamandosi alla matrice comune prevedono nella realtà delle contraddizioni e delle opposizioni radicali. Questa pur lunga premessa, tuttavia esposta agli inevitabili rischi di una sintesi eccessiva, credo possa essere utile a tutti coloro che, nella nostra Italia, coltivano l’utopia liberale, che definisco in questo modo anche perché proprio in Italia non abbiamo mai (o quasi mai) avuto al governo delle personalità riconducibili all’identità liberale o a un partito liberale. Nel nostro Paese è costante il «ritorno» periodico di tante (ma non così tante!) persone volenterose che vorrebbero vedersi affermare finalmente una forza di chiara identità liberale, pronta a governare secondo le direttive e i valori del liberalismo. Nei tempi più recenti ciò è avvenuto in seguito a Tangentopoli, quando la crisi dei partiti di massa spinse alcune persone a ritenere l’utopia liberale un po’ meno utopica. In quell’epoca il tutto avvenne all’insegna della riscoperta di un pensatore come Popper, liberale sì, ma interventista, democratico e convinto che la politica avesse il compito di controllare l’economia e difendere i più poveri dai più ricchi (After the Open Society. Selected Social and Political Writings, Routledge, London – New York, p. 277)..
L’utopia liberale
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Ai giorni nostri, la vergognosa degenerazione della classe politica nostrana spinge i soliti (pochi) volenterosi a ricercare una nuova utopia liberale, un partito finalmente serio e composto di persone preparate e collegato con i grandi paesi della tradizione liberale (Gran Bretagna e Stati Uniti su tutti). Per molti di questi volenterosi (ma non tutti), la battaglia per l’utopia liberale deve essere oggi condotta all’insegna del pur liberale Hayek, autore che si opponeva al suffragio universale, che detestava anche soltanto l’idea di giustizia sociale e che riteneva il mercato l’unico vero elemento di giustizia e sviluppo di una società libera, in cui la politica dovrebbe recitare un ruolo quanto più possibile minimale (cfr. P. Ercolani, Il Novecento negato. Hayek filosofo politico, Morlacchi, Perugia 2006). Ma anche questa mia riflessione è passibile di un eccessivo schematismo intellettualistico. Eggià, perché chi vive in Italia sa bene che le grandi crisi della politica e della classe dirigente che si trovava a rappresentarla, non sono mai sfociate in movimenti liberali nobili e dotti, condotti da personalità competenti e specchiate. La crisi della politica, in Italia, è sfociata di volta in volta nel fascismo, nel qualunquismo, nel populismo di Berlusconi o nell’a-politica demagogica del Movimento Cinque Stelle (non anti-politica, si badi bene, ma proprio assenza di una teoria politica di base, identificabile, fatto potenzialmente pericolosissimo, come ben sapeva la Arendt quando descriveva il fenomeno totalitario). Oggi i liberali o sedicenti tali, spesso e volentieri onestamente convinti, si trovano a fare i conti con un liberalismo che in realtà gli sfugge, la cui identità è multiforme, le applicazioni svariate e adattabili alle più diverse situazioni. Proviamo a schematizzare, per l’ultima volta: oggi, chi veramente coltivasse il nobile e ambizioso progetto di costituzione di una forza liberale è costretto a sciogliere, in via preventiva, almeno alcuni grandi nodi. Se si vuole costituire un manifesto programmatico, i fondamenti teorici sono imprescindibili al fine di indicare chiaramente la strada che si vuole percorrere e soprattutto dove si vuole arrivare. Questa forza dovrà essere liberista (come per esempio il governo Berlusconi non si è mai neppure sognato) o interventista? Dovrà privilegiare le politiche a favore del mercato, delle imprese e delle classi sociali più agiate (Hayek, Friedman, movimento neo-conservatore americano, tea party), oppure quelle che vedono nel benes-
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sere della classe media e del popolo, quindi della giustizia sociale, un elemento imprescindibile di crescita del paese (Dewey, Popper, Stiglitz etc.)? Aggiungiamo pure un ultimo elemento, ovviamente sentito in particolar modo nella nostra Italia: dovrà essere un partito ancora una volta attento (e quasi prono) ai voleri del Vaticano e delle alte sfere ecclesiastiche (come per esempio sta facendo il governo Monti), oppure potremo aspirare a un liberalismo che finalmente decreterà anche da noi la netta separazione tra sfera politica e sfera religiosa, relegando quest’ultima nella pur nobile dimensione individuale e, di conseguenza, superando gli atavici e ormai insopportabili privilegi concessi a un’istituzione anacronistica e spesso viziata dal malaffare quale è la chiesa cattolica (come fin dall’inizio si è riusciti a fare negli Stati Uniti)? È possibile sciogliere questi nodi, che evidentemente ne portano con sé anche altri? Possono, coloro che si ispirano alla nobile e imprescindibile tradizione liberale, trovare un’unità di idee, valori, intenti e prassi concrete, che superi le grandi contraddizioni insite in un ideale, quello liberale, che non a caso lo stesso Benedetto Croce definiva «meta-politico»? Insomma, liberali di tutto il mondo e dell’Italia nella fattispecie, siete davvero capaci di unirvi o ci regalerete ancora una volta, per l’ennesima volta, un’utopia che, per giunta, a differenza di altre utopie, non possiede neppure tutto questo fascino e questa poesia agli occhi del popolo?
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SPECCHI*
Ci stanno raccontando che il paese vive un’emergenza straordinaria. In nome della quale il popolo tutto è chiamato a sopportare tutta una serie di sacrifici, di misure e di provvedimenti che inevitabilmente ne stanno impoverendo la qualità della vita. Da mesi accade tutto questo, ma ora sembra che il governo Monti, non a caso alle porte dell’estate, voglia realizzare ciò per cui è caduto il governo Berlusconi: il grande piano, impostoci dall’Europa, richiestoci dai mercati, di taglio selvaggio della spesa pubblica. Una misura che colpirà la qualità dei servizi sociali, già scadente, impoverirà la macchina sociale (scuole, ospedali, università pubbliche, per le quali sembra si vogliano tagliare duecento milioni di euro, a fronte di aumenti per l’istruzione privata), farà perdere il lavoro a decine di migliaia di lavoratori pubblici, abbasserà probabilmente gli stipendi e le tredicesime. Insomma, quel che l’Europa, e i mercati (sempre loro, questo fardello invisibile ma potentissimo, buono per giustificare ogni scempio dello stato sociale, in un’epoca post-umana in cui il benessere di una nazione si misura col Pil e con lo spread e non con la qualità della vita delle persone che la compongono) hanno imposto alla Grecia un anno fa, in piccolo tocca anche a noi. Ogni minimo criterio di equità e giustizia sociale è stato espunto dall’agenda del nostro governo, che non prova neppure a colpire i veri poteri forti (patrimoni, alta finanza, banche, chiesa, etc.), mentre sembra dilettarsi a snervare una popolazione ormai allo stremo, fra terremoti, costo crescente della vita, lavoro che non c’è, dramma dei giovani. Né ci si deve meravigliare: il governo Monti è un governo liberista, impregnato di valori hayekiani che attribuiscono al mercato delle qualità taumaturgiche e alla giustizia sociale tutti i mali possi*
5 Luglio 2012
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Qualcuno era italiano
bili. Un vero governo di destra, insomma, non a caso attaccato sguaiatamente dal ridicolo e patetico centro-destra nostrano. Un governo della vera destra moderna che non a caso non è stato eletto dal popolo italiano, che semmai gradisce la destra antica di duci e ducetti, impregnata di populismo e demagogia, incompetente e anche un po’ cazzara, come si direbbe a Roma. Naturalmente, un vero governo della vera destra che, nella nostra Italietta dal labile confine tra il comico e il tragico, è appoggiato invece con ostentato senso di responsabilità e acume statistico (sic!) dalla sinistra, la quale non può e non riesce a fare altro, mancando di qualunque minimo progetto alternativo e credibile per la guida del Paese. Perché sia chiaro a tutti i signori del Pd e non solo: un progetto serio e alternativo di governo del Paese doveva cominciare già prima, col riuscire a tirarlo fuori dal pantano e dalla crisi in cui tutta la classe politica e dirigente lo ha piombato. Non pensiate di risultare credibili quando vorrete tornare a muovere le leve del comando dopo che il lavoro sporco lo avete fatto fare a un governo ultraliberista ed elitario! Se la politica nostrana può essere vista come lo specchio del Paese, allora è evidente che siamo messi veramente male. La pseudo-destra del Pdl cerca di boicottare un governo di vera destra (perché si compie un’operazione facile ad accusare la sinistra di non essere moderna, ma anche la destra moderna deve dire come si schiera rispetto al liberismo economico, che oggi rappresenta la bandiera della destra moderna); la pseudo-sinistra del Pd, per contrasto paradossale, lo appoggia con profonda convinzione (con qualche dovuta concessione all’ipocrisia, tipica di chi fa finta di incazzarsi col ditino alzato salvo poi genuflettersi del tutto al momento del voto). Tutto questo la dice lunga su chi ci ha governato, a destra come a sinistra, negli ultimi vent’anni. Lo sa bene il Presidente Napolitano, che di fronte a questo scempio che abbiamo appena descritto, essendosi dato come curioso obiettivo quello di individuare chi rappresenta «lo specchio del Paese», non ha invitato al Quirinale i terremotati, non una rappresentanza dei lavoratori o dei giovani disoccupati, ma neppure i ricercatori del Cern che proprio in questi giorni hanno contribuito a una scoperta sensazionale.
Specchi
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Macché, la prima carica dello Stato riceve con tutti gli onori, e in pompa magna, la nazionale di calcio italiana. Composta, è bene ricordarlo, da ragazzotti che non paghi di guadagnare milioni di euro scommettono sulle loro stesse partite, che possono e devono rispondere sempre alle solite domande perché altrimenti vedono «froci» dappertutto, all’interno di un mondo, quello del calcio appunto, in cui noi italiani ci distinguiamo per i «biscotti» (puntualmente smentiti dalla serietà altrui), per una stampa che cerca il pettegolezzo o la polemica e raramente informa, ma soprattutto per un «culo» (sì, culo!) che puntualmente ci fa vincere i mondiali o arrivare miracolosamente in finale a questi europei, favorendo l’oblio di tutti gli scandali e scandalucci che lo riguardano. E bravo il nostro Presidente Napolitano, visibilmente emozionato e memore del suo passato di sinistra (sic!) nel coccolare il figliol prodigo Balotelli, che adesso vogliono fare di tutto per presentarci come il portabandiera degli immigrati in Italia (cui è sacrosanto riconoscere la cittadinanza, sia chiaro!), quando in realtà ne costituisce, ancora una volta, lo specchio più fedele. Pare che una sua ex, una certa signora Fico (il destino del nostro paese ormai si gioca anche sull’aspetto grottesco dei nomi), abbia dichiarato di aver fatto un figlio con super Mario Balotelli. Il quale pare abbia risposto, come da copione, che se ciò è vero, il tutto è avvenuto a sua insaputa…
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SE ESISTE UN DIO LO AVETE GIÀ TRADITO*
Il male umanamente più turpe, quello che Kant chiamava «male radicale», si ripresenta ancora una volta con l’atto di violenza da parte di un adulto, di un «testimone di Dio» (quale Dio, verrebbe da chiedersi, con portatori della sua Parola di tal fatta…), su una creatura giovanissima. Siamo a Fano, nelle Marche, in provincia di Pesaro e Urbino, dove sembra che alla fine degli anni novanta reiterati casi di pedofilia siano stati immancabilmente nascosti dalle autorità ecclesiastiche (alle forze di polizia), quando era Vescovo del capoluogo di provincia il Cardinal Bagnasco. Il Portavoce del Vescovo di Fano, Fossombrone, Cagli, comuni che sorgono sulla Flaminia che dall’Adriatico si staglia in direzione Roma (il cuore dello Stato Pontificio, insomma), è stato arrestato perché colto in flagrante presso una spiaggia di Fano, mentre molestava una ragazzina di 13 anni. Baci, palpeggiamenti, il seno scoperto. Stavolta, però, non nel buio mefitico di una sacrestia, ma incredibilmente davanti ai bagnanti allibiti. Il bagnino ha chiamato le forze dell’ordine, che hanno immediatamente arrestato Giangiacomo Ruggeri, 43enne subito scoppiato in lacrime, che si è difeso come un «bambino» che non sapeva bene cosa stesse facendo, riferisce il corrispondente de La Stampa di Torino, Al disgusto e allo sconforto generato da simili turpitudini che abitano il proscenio umano, non può accompagnarsi la meraviglia, purtroppo. Sì, perché oltre ai filosofi, ci ha pensato Sigmund Freud, padre di quella psicoanalisi non a caso tanto avversata e persino odiata dalla Chiesa, a insegnarci un paio di cose fondamentali sulla natura umana (pochi decenni dopo quello che Darwin ci aveva insegnato sulla natura animale e vegetale). Essa, la natura umana, non è la casa del bene, non è quel luogo armonico e irenico, oltre che *
16 Luglio 2012
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Qualcuno era italiano
trasparente, che ci viene raccontato dalle anime belle, ma è anche terreno fertile per pulsioni nere e disumane, ospite inquieto ed inquietante di istinti brutali e distruttivi. E del resto, per i dubbiosi della scienza psicoanalitica, c’è il teatro oggettivo della storia umana a testimoniare di guerre continue, prevaricazioni, uccisioni, stupri, desideri di possesso e annichilimento da parte dell’uomo verso il suo «fratello». Insomma, la teoria della natura umana anche corrotta e malvagia è ampiamente dimostrata da quel laboratorio empirico che è la storia, che non a caso portò il teologo Sergio Quinzio, in un suo splendido libretto di molti anni fa, a parlare di «confitta di Dio» (S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi 1992), intendendo non tanto un essere personificato e divino, quanto il messaggio di amore, fratellanza, carità e rispetto del prossimo e della vita umana in tutte le sue forme di cui si è fatta portavoce unica la Chiesa (non solo cattolica). Ma sin qui, appunto, siamo all’interno di una lezione che, seppur rimossa e vissuta con disagio dall’homo religiosus, non presenta elementi di sorpresa e meraviglia, poiché tanti sono stati i pensatori che, puntualmente messi all’indice, ne hanno scritto con passione e tormento al tempo stesso. Occorre un ragionamento ulteriore, un’analisi che spinga oltre la palla, che ci faccia fare un passo avanti nella comprensione di ciò che non si vuole comprendere. Questo passo va fatto per entrare nel cuore della «santità» della Chiesa. Ed è entrando nel cuore che possiamo far emergere le due contraddizioni fondamentali di questa istituzione secolare. Una afferente alla natura umana, l’altra al terreno dell’oggettività politicosociale. In estrema sintesi, la contraddizione umana: sempre Freud, e gli studi maggiormente analitici e clinici che a lui si sono ispirati, hanno dimostrato in maniera ragionevolmente inoppugnabile che l’uomo è un contenitore di istinti e pulsioni, anche sessuali, legati alla sfera che rende possibile il perpetuarsi di quella Natura di cui noi siamo ingranaggi e strumenti. Pulsioni e istinti, insomma, fanno parte di un’energia talmente forte e pervasiva, potremmo dire cosmica, che quell’individuo che decidesse di rimuoverli, reprimerli, o che non imparasse a incanalarli e viverli in maniera adulta, se li vedrebbe esplodere in modo incontrollato e incontrollabile, in una forma a quel punto patologica e presumibilmente foriera di violenza
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e malessere nei confronti di altri individui (più deboli e indifesi, o semplicemente sottomessi, emotivamente o socialmente). Quanto questo problema riguardi un’istituzione che per scelta e dottrina ha deciso di coltivare uomini e donne che si privano, e quindi reprimono, dei fortissimi e quotidiani istinti fisiologici di cui siamo portatori, è cosa fin troppo agevole da considerare. Un luogo, un’istituzione come la Chiesa, composta da individui maschili e femminili comunque portatori di una sessualità con tutti gli annessi che ne derivano, non può che rappresentare il luogo della pentola a pressione di cui parlavamo, ossia di una realtà in cui persone innaturalmente represse, controllate e insoddisfatte subiscano il peso inaffrontabile della natura, cedendo non tanto al peccato quanto alla violenza brutale di un’energia che fuoriesce incontrollata e perversa, laddove innaturalmente compressa e rimossa per anni. La dice lunga, a tal proposito, la cronaca del fattaccio di Fano, che parla di un sacerdote che si comportava come un «bambino»… All’aspetto umano, va comunque aggiunto quello politico-sociale. Cioè quello che ha a che fare con un’istituzione bloccata e incapace di redimersi, pronta a chiedere scusa con enfasi pari soltanto al ritardo e alla reiteratezza (pensiamo al caso Galileo, le cui scuse mezzo millennio dopo servono a ben poco, calcolando che la Chiesa rifiuta ancora le conquiste della scienza, come abbiamo visto). Chi non ricorda le scuse, ancora una volta, contrite e tormentate di Benedetto XVI soltanto l’anno scorso, quando emersero casi di pedofilia all’interno della Chiesa cattolica in tutto il mondo. Le sue parole furono inequivocabili e durissime, e naturalmente gli organi di informazione gli diedero uno spazio enorme. Già, peccato che veniamo a scoprire che ancora una volta, alle parole espresse con enfasi e passione, non seguono i fatti. Il regolamento interno all’istituzione ecclesiastica non è mutato, tanto che né il Vescovo ne alcun altro prelato è tenuto a denunciare alle autorità civili il prete pedofilo. Prete pedofilo che, in mancanza della pena giuridica, subisce bene che vada quella ecclesiastica. Una pena orribile: il trasferimento ad altra parrocchia (gli si spezza il cuore, possiamo immaginare)… Del resto, il caso del sacerdote di Fano la dice lunga ancora una volta: arrestato solo perché colto in flagrante dai bagnanti, perché stando alla cura di santissima romana Chiesa era potuto arrivare a
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ricoprire incarichi assai rilevanti, fino a divenire il portavoce del Vescovo. Filosofi, psicoanalisti e scienziati hanno provato ad aprire occhi e menti. Senza contare quel magnifico verso di una canzone di Guccini, in cui, con fare arrabbiato e sconsolato, il cantautore quasi vomitava che «se c’è, come voi dite, un Dio dell’infinito, guardatevi nel cuore, lo avete già tradito!»
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LIBERTÀ*
Che poi, a rifletterci bene, di questo si tratta. Secoli di teoria liberale, un mare di saggi e libri sull’argomento, ma la vera forza, che al tempo stesso è anche il suo limite, del liberalismo sta in questo: si parla di libertà. Del resto non sono io a scoprire che questa teoria nacque per combattere e sostituirsi all’assolutismo, al potere totale e totalizzante di un governo o di un’oligarchia sugli individui. Libertà si andava cercando, e la si trovò al prezzo di tante contraddizioni, errori e sviste clamorose, faticosissime costruzioni migliori delle precedenti. Per le quali, più di una volta, si è dovuto buttare giù per intero il palazzo precedente. In questi ultimi tempi, su una rivista come Critica liberale si è ravvivato il confronto sul liberalismo, a partire dalle considerazioni del Direttore Enzo Marzo sul partito (liberale) che non c’è, con tanti interventi seri e ponderati fra cui quello dell’amico Paolo Bonetti, in risposta a un mio articolo. Bonetti è un maestro del liberalismo, su questo non si discute, e il suo articolo ha contribuito a fare chiarezza teorica. Mi permetto di rilevare soltanto un limite, quello che a me pare tale, la cui chiarificazione credo possa contribuire al confronto. Un limite che del resto è nei fatti della storia italiana: l’assenza di un vero e grande partito liberale, sempre evocato, spesso idealizzato, sovente costruito o ricostruito (con esiti tra il ridicolo e il fallimentare), mai pervenuto! Il limite, che pervade il pregevole intervento di Bonetti, e che sottende a molti degli altri articoli, mi sembra sostanzialmente questo: considerare e quindi vivere e praticare la teoria liberale come se si trattasse di un ideale regolativo trascendente, sempre facilmente correggibile, buono per tutte le battaglie e tutte le bandiere, con *
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obiettivi di volta in volta rinunciabili in nome del fatto che l’obiettivo sommo, la fonte di ogni cosa e libertà, risiede in un Iperuranio imperscrutabile dal pianeta terra. Insomma, a questo prezzo, ci si avvicina troppo a quel regno che Popper – per criticare la teoria comunista – chiamava della «nonfalsificabilità», presentandosi quindi come un ambito non scientifico, evanescente, utilizzabile e modificabile dagli opportunisti di ogni risma. Ma, e qui il fatto più grave, un intendimento della teoria liberale in questi termini spiega fin troppo bene come mai non si sia mai pervenuti (in Italia) a una forza politica in grado di rappresentare la stessa (che è anzitutto teoria della libertà) con un programma e delle azioni concrete. «Ciò che è noto – scriveva Hegel – proprio perché è noto spesso non è conosciuto», e credo che in questo caso ci si trovi di fronte a qualcosa di simile. Non è il caso dell’autorevole Bonetti, né dei molti che sono intervenuti sulle colonne di Critica liberale, ma credo che questa epoca in cui tutti si sono proclamati liberali, abbia condotto a una sterilizzazione del liberalismo stesso, fino al punto di smarrire il vero punctum crucis di questa fondamentale tradizione: la libertà dell’individuo. Liberale si autodefinisce Berlusconi, e molti esponenti del Polo delle libertà, che hanno tollerato e protetto un regime di monopolio e di bieco autoritarismo statale; liberale si autodefinisce Fini, liberali si sentono gli eredi della tradizione comunista e socialista, i radicali. Tutti saliti di corsa sul treno del vincitore, salvo poi scoprire che si trattava di un treno fantasma, perché a non essere pervenuta, fra tanti sedicenti liberali, è ancora una volta la libertà dell’individuo. Essì, perché con questo caldo, siamo ancora qui a chiederci quando mai la nostra povera Italietta vedrà davvero una forza politica in grado di difendere e promuovere le libertà di individui moderni e consapevoli. Di quali libertà stiamo parlando? Beh, che ogni partito politico si faccia un bell’esamino di coscienza e si chieda quand’è l’ultima (o anche solo la prima) volta in cui ha difeso la libertà del singolo dai dogmi della Chiesa; la libertà del singolo di vivere in un contesto davvero meritocratico, dove non vanno avanti figli di, parenti di, amanti di; la libertà del singolo di operare in un contesto economico veramente concorrenziale, ove la corruzione, la burocrazia, i monopoli e quant’altro non abbiano rovinato tutto; la libertà della persona di decidere della propria vita ed, eventualmente,
Libertà
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della propria morte, di interrompere una gravidanza, di non vedersi discriminato perché gay, lesbica, ateo, o semplicemente onesto e non disposto e cercare strumenti furbeschi o truffaldini per scalzare qualcun altro. La lista sarebbe lunghissima, perché il treno delle libertà è fornito di tanti binari e un numero infinito di passeggeri. Fare i conti con la questione centrale della libertà, riflettere sugli errori commessi e su ciò che si potrebbe fare per diventare un Paese finalmente moderno, meritocratico, libero da chiese e dogmi, è quanto potrebbe qualificare una forza politica come liberale1.** Non averlo fatto, aver assistito a sedicenti liberali pronti ad appoggiare il ducetto di turno (dai tempi di Mussolini fino al ridicolo e tragico Berlusconi), a farsi cantori di regimi sciagurati e ignoranti, autoritari e fuorilegge, è quanto da tanti e troppi decenni ci (s)qualifica come Italia. Dobbiamo farlo qui e ora, in nome di una cosa concreta e meravigliosa che vogliamo ostinarci a chiamare libertà!
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«L’assenza di libertà, la sottomissione a un potere assoluto, che sia quello della Chiesa, di un Principe o dello Stato, distrugge la fiducia e produce lo scontro reciproco, con la conseguenza di antagonismi e violenze. Il liberalismo ha fatto di ciascun individuo il custode e il vero responsabile dell’ordine sociale. Ciò che non ha mai smesso di affermare fin dalle sue origini, è che la libertà individuale non è affatto anarchica, ma una forza sociale strutturante, e che la dominazione e la sottomissione alla volontà di altri rappresentano le fonti più genuine di divisioni, violenze e disordini» (C. Audard, Qu’est-ce que le libéralisme, Gallimard, Paris 2009, p. 729).
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SE QUESTA È CHIESA*
Poco più di un mese fa scrissi per Critica liberale un articolo molto duro, cui avevo dato come titolo provocatorio «Se esiste un Dio lo avete già tradito». Si trattava di denunciare l’ennesimo caso di pedofilia, stavolta nella provincia di Pesaro e Urbino (precisamente a Fano), dove un conosciutissimo e influente sacerdote, don Giacomo Ruggeri, era stato colto in atti osceni in luogo pubblico con una ragazzina di 13 anni. Grazie alla perizia e abilità degli investigatori, il pedofilo venne ripreso dalle telecamere e incastrato da filmati tanto sconcertanti quanto oggettivi. Tanto è vero che il potente sacerdote, ex portavoce del Vescovo, responsabile degli Scout e al centro di incarichi importanti, è ancora in carcere malgrado la richiesta di scarcerazione da parte dell’avvocato difensore. Avvocato per il quale sembrerebbe che la Curia abbia speso ben 30 mila euro. Senza contare i soldi che, stando ad alcune indiscrezioni di fonte giornalistica, sarebbero stati spesi per foraggiare la famiglia (molto povera) della ragazzina, visto che il padre della stessa si era molto arrabbiato un anno fa col prete, quando venne a sapere delle di lui attenzioni per la figlia, salvo poi giurare ai quattro venti la sua innocenza. Nel mio articolo, perché ovviamente non si tratta di colpire il mostro (in questo sono esperti gli uomini di Chiesa), volevo più che altro denunciare la prassi consolidata, e mai messa in discussione, all’interno della Chiesa: quella per cui i regolamenti interni consentono di fatto la protezione di queste figure, quando non l’incolumità, gravate alla peggio di una condanna a far danni in un’altra parrocchia. Scrivevo che malgrado ci fossero state le scuse inequivocabili e durissime di Benedetto XVI per i troppi casi di pedofilia nel mondo, eravamo circa a un paio di anni addietro (il Papa aveva parlato di una Chiesa «assoggettata al peccato»), il regolamento interno alla *
28 Agosto 2012
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Chiesa non era stato cambiato per nulla. Riservatezza del Vescovo che viene a sapere di un caso di pedofilia, nessun obbligo di denuncia alle autorità civili, processo interno che culmina, male che vada, nel trasferimento ad altra parrocchia (possiamo immaginare con quale dolore e angoscia incontenibili per il pedofilo). Veniva, e viene alle persone di buona volontà e di mente lucida il dubbio di un’intenzione di fondo volta alla protezione di questi sacerdoti che si macchiano di un delitto fra i più orribili. Per quell’articolo, ripreso da alcuni organi locali della Provincia di Pesaro e Urbino, ho ricevuto insulti, persino qualche velata minaccia, e una serie lunghissima di reprimende pelose in cui mi si rimproverava di non considerare che «c’è una comunità che soffre» (mentre invece la ragazzina godeva, evidentemente posseduta da Belzebù!). Un autorevole e serio sacerdote, mio amico e con incarichi all’interno dell’ecclesia di Pesaro e Urbino (don Marco Di Giorgio), è intervenuto persino sul sito di Critica liberale, con parole ponderate e lodevoli, chiedendosi con dolore «chi poteva immaginare che un sacerdote così amato covasse una tale malattia?». Già, chi poteva immaginare, se non fosse che poi si è appreso dagli organi di informazione che il medesimo sacerdote era rimasto invischiato, un anno prima, in un altro caso, con la stessa ragazzina. E chissà quanti altri episodi non sono arrivati a conoscenza di chi può informare. Per quanto riguarda le alte sfere della gerarchia ecclesiastica, peccherei di ipocrisia, o sarcasmo, se dicessi di provare meraviglia. Nessuna meraviglia! Mi sconcerta e addolora invece il comportamento della cosiddetta Chiesa di Cristo, quella composta da tutti i fedeli, dai tanti uomini e donne «chiamati» (questa l’etimologia del termine Chiesa) da una fede comune a farsi promotori e portatori della parola di Cristo, del suo messaggio fondato sulla centralità della persona e sul rispetto delle sue prerogative. Come fanno questi tanti, troppi fedeli, a non ricordarsi del Cristo, da loro ritenuto figlio di Dio, che combatteva i potenti per difendere i più deboli, ed oggi insorgono con minacce, insulti e richieste tenaci di silenzio su una vicenda che ha visto e vede l’ennesimo caso di un potente togato che si approfitta di una creatura debole e immatura?! Nessun frutto dolce può nascere dalla radice amara e malata del dogma, della Verità indiscutibile e riservata ai pochi potenti, dell’omertà che rifugge ogni critica e ogni tentativo di migliorare un mon-
Se questa è Chiesa
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do umano esposto inevitabilmente all’errore (perché anche la Chiesa è umana, e se ne dovrebbe ricordare ogni volta che è così pronta a denunciare i peccatori di turno!). Niente di buono nasce nel mondo umano laddove si bandisce il dialogo aperto e franco! Se fosse stato uno zingaro, o peggio ancora un gay, al posto di questo don Ruggeri, la lapidazione morale sarebbe stata certa e unanime, ma siccome è di un prete che si tratta, del rappresentante di un’istituzione che deve per forza ispirare rispetto e venerazione, allora la Chiesa dei fedeli chiamati dalla fede in Cristo si scopre votata alla prudenza, al silenzio per carità rispettoso, all’omertà e alla violenza nei confronti di chi vuole scoprire il velo di infamia. A cosa penseranno, le persone che sono state così facili all’insulto, alla minaccia, alla reprimenda nei confronti di chi ha voluto denunciare, a cosa penseranno nelle loro preghiere a Dio che immagino sentite e colme di contrizione? Quale servizio penseranno di aver rivolto alla Chiesa di Cristo, alla comunità di uomini e donne accomunate dalla fede in quel grande messaggio di amore e speranza, dopo essersi abbandonati e arresi al silenzio più correo, al predominio del forte sul debole, all’offesa dell’istituzione nei confronti della persona? Dopo aver covato ed espresso odio e riprovazione verso chi voleva denunciare? Saranno così certi di aver risposto nel modo adeguato a quella «chiamata» del proprio Dio? Quel Dio che si è fatto uomo, quell’uomo che la Chiesa ancora non riesce a rispettare!
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VAFFANCULO TUTTI!*
I parrucconi, lo so, non lo titolerebbero così un articolo o un capitolo di un libro. Troppo volgare, improprio, inopportuno per un Paese tanto raffinato, in cui le delicatissime anime bucoliche e intellettuali popolano in gran numero i gangli vitali della società, dagli scranni parlamentari fino alle trasmissioni televisive. Quindi, vediamo, un titolo più opportuno avrebbe potuto essere questo: l’eterna utopia della democrazia diretta. È quanto continua a ronzarmi in testa ogniqualvolta mi imbatto nell’unica novità politica degli ultimi tempi: il movimento di Grillo. La teoria fondativa e ispirativa del Movimento 5 stelle, infatti, suona in questo modo: una realtà orizzontale, priva di gerarchia alcuna, che trae ispirazione teorica ed operativa dal mondo della Rete. Insomma, questo il succo del «loro» messaggio: il movimento siamo tutti! Questi tutti hanno finalmente modo di esprimersi e partecipare, tutti quanti appunto, grazie a quella nuova e splendida realtà veicolativa che è la Rete. La domanda sorge spontanea: ma se il Movimento 5 stelle è composto da «tutti», chi diavolo mai sono gli «altri»? Sembrerebbe presto detto: la casta, l’attuale classe dirigente e politica, coloro che in tutte le sfere e gli ambiti della società hanno rivestito un ruolo di comando e di potere, contribuendo a sprofondare il Paese in quell’acquitrino maleodorante che è sotto gli occhi, pardon: sotto il naso, di tutti. Evidentemente, tutti questi signori, il cui numero e la cui identità sono imprecisati per ovvie ragioni, anche qualora navigassero su Internet non potrebbero ritenersi appartenenti a quell’indistinto popolo della Rete che costituisce l’humus ideologico e operativo del M5S. Per una sorta di conflitto di interessi, potremmo dire. Non possono essere al tempo stesso i colpevoli della decadenza attuale e i salvatori della patria. *
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Ma torniamo al concetto del «tutti», o di quella democrazia diretta che, almeno da Rousseau, costituisce una delle grandi utopie dell’epoca moderna. L’ideale è nobile e facilmente condivisibile: lo stesso termine democrazia ne svela la natura, nella misura in cui si parla di potere (cratos) del popolo (demos). Non per caso lo stesso pensatore ginevrino si esprimeva in termini di «volontà generale», alla ricerca di un sistema di governo, o di un contratto sociale, che realizzasse finalmente la possibilità per ciascun individuo di esercitare un ruolo riconosciuto e rispettato nell’ambito del consesso civile1.** Questo anelito, inevitabilmente, si riaccende con nuovo vigore ogni volta che la società vive il trauma della scissione fra privilegiati e subordinati: ai tempi di Rousseau si trattava degli intollerabili privilegi dell’aristocrazia, a fronte della miseria del popolo; ai giorni nostri della sempre intollerabile supponenza, alterigia, sfrontatezza e inadeguatezza di una classe politica e dirigente in contrasto alla crisi sociale in cui è piombato il ceto medio e popolare. Il problema, perché problema c’è, si presentava allora e si presenta oggi sotto una duplice veste: da una parte si tratta di come individuare, distinguere, accreditare questi «tutti» o questa «volontà generale»; dall’altra di capire chi prenderà il potere, perché qualcuno prende sempre il potere, una volta che a questi «tutti» sarà riuscita l’impresa della grande rivoluzione o del vaffanculo collettivo. Perché anche, e forse soprattutto, all’interno di un movimento indistinto e apparentemente anarchico vige quella «legge ferrea dell’oligarchia» di cui parlava Robert Michels agli inizi del secolo scorso. 1
Rousseau filosofo della democrazia diretta e, quindi lontano ispiratore del Movimento di Grillo? Certamente è lui ad aver parlato della «sovranità che non può essere rappresentata», perché essa consiste nella «volontà generale» e, quindi, «nel momento in cui un popolo si dà dei rappresentanti non è più libero», anzi, «non è più». Ancora più curioso il fatto che nello scritto sul governo della Polonia, il ginevrino attenuasse questa posizione rassegnandosi ad ammettere l’idea di rappresentanza, ma mitigandola con delle misure che ricordano molto da vicino quelle dei grillini: convocazione periodica delle assemblee, mandato imperativo per i deputati, revoca del mandato stesso in caso di tradimento della volontà generale etc. (J.J. Rousseau, Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1959-69, tomo III, pp. 428-31, e 978-81). Certo è che dovrebbe far riflettere, e molto, il fatto che si sta parlando di un pensatore che aveva provato a delineare I primi tratti della democrazia in un periodo storico in cui essa non esisteva per nulla. Ben diversamente da quanto è concepibile nell’anno 2013 di nostro Signore!
Vaffanculo tutti!
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E quindi, volenti o nolenti, qualcuno il potere lo deve prendere, in maniera chiara e legittimata, a meno di non volersi abbandonare alla legge, altrettanto inesorabile, del più forte. Ai tempi di Rousseau e della rivoluzione francese, l’indeterminatezza del concetto di volontà generale, che si tradusse facilmente in un’indeterminatezza e fumosità del programma politico generale (dove si vuole arrivare? Governati da quale ideale e partito politico?), portò inevitabilmente a un turbinio di grandi conquiste politiche e sociali mischiate però a contraddizioni, conflitti, ghigliottina e morti. Quando il programma è fumoso, inespresso, estremamente duttile e quindi adattabile alla bisogna, ai conflitti del momento, o agli umori di chi da dietro tira i fili, la deriva verso un sistema totalitario è pressoché certa, come ci insegnò Hannah Arendt nel suo Le origini del totalitarismo. E, del resto, anche un signore appartenente a un’epoca molto lontana come Platone, sapeva benissimo che è proprio la democrazia, l’ideale irrealizzabile del potere di tutti, a sfociare più facilmente nella dittatura (Repubblica, VIII, 562b). E qui torniamo all’utopia del «tutti», mai come oggi inebriata di nuova linfa da quel mondo anarchico, panteistico e cazzaro che è stato reso possibile dalla Rete. Un mondo perfetto in cui ognuno trova voce e spazio, ognuno può intervenire su tutto, ognuno può sentirsi partecipe di ogni vicenda e, soprattutto, perfettamente informato su ogni cosa grazie all’ausilio potentissimo di un link. Pensiamoci bene: quando mai, prima di facebook, twitter e i social network in genere, ci capitava così frequentemente di discettare e «postare» su argomenti così diversi nello spazio breve di una sola mattinata?! Questa nuova «realtà» (non a caso chiamata virtuale), ci ha reso tutti edotti, tutti statisti, opinionisti, agitatori sociali e, oggi, con Grillo e il M5S, esponenti fattivi e irrinunciabili di un movimento politico che si propone di rivoluzionare l’Italia (fenomeni del genere, mutatis mutandis, si presentano anche negli altri paesi, pensiamo ai Pirates in Germania). I segnali inquietanti non mancano, gli indizi di una scarsa democrazia dentro al movimento, le epurazioni immotivate, decise misteriosamente da uno o due personaggi che in realtà, alla faccia del potere di tutti, sembrano usufruire di un potere assoluto. Non voglio condannare il movimento di Grillo, sia chiaro, e anzi dico subito di appartenere a quella schiera, presumo ampissima, di
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persone che non ne possono più di una classe politica e dirigente così incapace, verticistica e ammantata di privilegi tanto immotivati quanto eterni. Ma non dimentico che nulla nasce dal nulla: un popolo più ignorante, più volgare, con scarso senso dello Stato, sta dietro a quella classe politica che esso stesso ha prodotto e votato. Pensare che la massa indistinta dei «tutti» possa costituire una soluzione pacifica e opportuna può rivelarsi una nuova utopia foriera di guai, pensare che il «popolo della Rete» possa assurgere facilmente al ruolo di «ultimo Dio», vuol dire dimenticare che la storia è stata fatta da gente che si è riservata il monopolio dell’interpretazione dei messaggi di quel dio. Chi si entusiasma in maniera acritica per la portata rivoluzionaria e salvifica del M5S, farebbe bene a tenere sempre impresso nella mente il grande insegnamento di Le Bon sulle folle, che «non hanno mai avuto sete di verità. Davanti alle evidenze sgradevoli, si ritraggono, preferendo deificare l’errore, se questo le seduce. Chi sa illuderle diventa facilmente il loro padrone; chi tenta di disilluderle è sempre la loro vittima» (Psicologia delle folle, Longanesi, Milano 1996, p. 144). E poi non si capisce perché mai il Pino, Luigi, Giovanni e Luisa che incontriamo ogni giorno, spesso e volentieri sono persone cui non affideremmo neppure il gatto, mentre se li vediamo come autorevoli esponenti del «popolo della Rete» dovrebbero assurgere al ruolo di geni assoluti. Il mio è un appello al Movimento di Grillo. Sia realistico, renda un servizio a se stesso e quindi alla nazione che aspira a governare: stenda un programma unico e condiviso, elegga dei rappresentanti locali, regionali e nazionali (perché la presunzione di assenza di gerarchia produce altri tipi di gerarchia assai meno democratici e pacifici), si dia una gerarchia democraticamente eletta e, soprattutto, modificabile dopo un determinato tempo. Esca, insomma, dall’utopia dell’indeterminatezza, dall’indistinzione del «tutti» (il tutto confina pericolosamente col nulla!), dalla panacea della democrazia diretta. Glielo chiede una persona, ma confido nel fatto che siamo tantissimi, che di vaffanculi ne dispone in quantità industriali, in questa società del privilegio per gli incapaci e della frustrazione per chi aspira alla meritocrazia. Ma caro Grillo, mi creda, glielo dico da comico mancato (e magari rompiballe riuscito): mandarci tutti, a quel Paese, mi darebbe la stessa soddisfazione del non mandarci nessuno. Aggiusti la mira, per favore!
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RIVOLUZIONE*
L’articolo più facile del mondo! Di questo si tratta. Avete presente, no, una cosa del tipo: si scrive da solo, promana spontaneamente dalle viscere, esonda dagli argini stretti della decenza. Una decenza che si è andata a far benedire! E allora ecco l’articolo più facile del mondo, talmente facile che c’è solo l’imbarazzo rispetto all’inizio. Da cosa iniziamo? Vogliamo parlare dei supereroi? Ok, un bel sospiro, un abbozzo di training autogeno facendo sfiorare alla memoria la figura seria e compita di Giorgio Almirante, e adesso via: «er Batman»! Io credo che se gli intellettuali di sinistra, quelli che hanno fatto il classico, o anche solo le «zecche» (per usare la tipica espressione con cui i neofascisti apostrofavano i ragazzi di sinistra), avessero voluto descrivere tutto il retroterra volgare, ignorante, malavitoso e burino (sì, burino!) che da parecchio tempo a questa parte caratterizza il retroterra della destra italiana, pur con tutta la capacità dialettica del loro eloquio non ci sarebbero riusciti con la stessa efficacia: «er Batman»! Che dire: un’ epitome! D’accordo, un poco gioca anche lo straordinario potere ironico dei romani, che con un solo termine riescono a rendere il mondo variegato di una personalità. Come quando, per descrivere il tipo sempre preciso, profumato, benvestito e, naturalmente, col capello messo a regime dal gel, tirarono fuori la definizione mitologica di «er pomata». Ma Batman li batte tutti, perché non ci si può neppure attaccare a un minimo di rigore logico: non si sa bene da dove derivi, cosa voglia significare, eppure significa tutto. E quel tutto lo intendiamo tutti! Lo sapevamo, le persone di buona volontà e discrete letture lo hanno sempre saputo, e non parliamo per forza di uomini e don*
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ne di sinistra (pensiamo a Montanelli, uno serio punto e basta!), lo sapevamo che la destra italiana è in larga parte questo. Ignoranza, volgarità, machismo a profusione (che spesso nasconde nevrosi e manie, per non dire di peggio), totale mancanza di rispetto per le istituzioni, allergia alle regole e chi più ne ha più ne metta. Altro che il culto della Patria, ideale forse bigotto ma che può essere declinato concretamente (si vedano gli Stati Uniti). Questi non sanno neppure dove sta di casa, la Patria, la Nazione, la res publica, e in un Paese in cui queste cose le ignora proprio la destra, è segnale dell’infima cultura nazionale di quel Paese stesso. Hanno tagliato i fondi per le politiche sociali, per le famiglie, per l’istruzione, per attribuirsi stipendi, rimborsi, regalie, privilegi scandalosi, proprio nel momento in cui il Paese è allo stremo, la popolazione strozzata da una crisi per la quale non si vede via di uscita, le persone faticano a sopravvivere dignitosamente. Ma sarebbe sciocco, scorretto e persino demagogico attribuire tutta la responsabilità di questo scempio a quattro fascistelli (o fascistoni che di si voglia) miracolati. Sì, perché intanto se sono stati miracolati, non è solo colpa di Berlusconi, che per i suoi interessi ha massacrato il senso civile e la cultura politica di un intero paese (questo il lascito più drammatico del ventennio di vergogna), portando alla gloria e sulle poltrone puttane, cortigiani, affaristi, incompetenti e malavitosi. È colpa anche di una sinistra che latita e si è smarrita da tanto tempo, che non ha mai saputo e voluto impiegare energie per rifarsi un’identità e fornire il Paese di un nuovo progetto (cioè un collante) in nome del quale unirsi e migliorare se stessi e la società in cui si vive. Una sinistra, o pseudo-tale, che si è persa in litigi e faide interne, che si è vergognata di tutto il suo passato (anche quello buono) fino a concepire quel minestrone impresentabile che è stata l’unione fra ex comunisti ed ex democristiani. Una sinistra che, seppur forse con responsabilità e sfracelli di minor portata, ha più che partecipato alla grande torta che la casta ha ingrandito sempre di più in questo ventennio di seconda repubblica, forse con minore clamore, certamente senza gli eccessi esilaranti e vergognosi di cui sono stati e sono capaci i burini della destra, ma il risultato non ci ha portato molto lontano. A volerla ridurre a una faccenda di super-eroi, insomma, se a destra hanno avuto «er Batman», a sinistra ha imperato l’«uomo
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invisibile», con gli esiti complessivamente nefasti che sono sotto gli occhi di tutti. A volersi concedere una sintesi estrema, ma del resto questo è l’articolo più facile del mondo, potremmo dire che è così che si è arrivati al fallimento della politica. Un fallimento rappresentato dall’extrema ratio: la ricerca di un terzo super-eroe, un tecnico. Ma anche qui, mutatis mutandis per carità, le cose vanno maluccio. Super Mario Monti, infatti, sta spolpando un’intera popolazione, con picchi di pressione fiscale mai raggiunti (a fronte di acquisti di beni che mai sono stati così bassi da che esiste la Repubblica italiana), con imprese che chiudono ogni giorno, o minacciano di andarsene se il governo non le aiuta (vedi il cantore del liberismo Marchionne), con famiglie ormai ridotte allo stremo. I mercati e i big dell’economia pare che siano contenti di come ci stiamo muovendo, ma non so quanto ciò possa soddisfare la popolazione. In compenso Super-Mario che fa, come se tutto questo non bastasse? Da una parte giustifica la politica di lacrime e sangue con la ragione dell’emergenza assoluta in cui siamo piombati, e dall’altra ancora non produce con la stessa energia e celerità le leggi più basilari e indispensabili (come quella sulla corruzione), rinviando ogni volta il pagamento dell’Imu da parte degli esercizi commerciali legati alla Chiesa. Per quest’ultima cosa, tanto per farsi un’idea, rischiamo una multa di dieci milioni di euro (!) da parte dell’Unione europea se non facciamo qualcosa entro fine anno. Bagnasco è incisivo e fa bene a gridare «vergogna!» contro i politici, ma nel vedere la trave altrui omette in scioltezza la trave dentro casa sua (perché ormai è una lotta fra travi, le pagliuzze non risultano più pervenute da quel dì!). Come ti giri siamo messi male. Talmente male che, a volerla dire tutta, finisce col convincere poco anche l’idea della rivoluzione. Omettiamo pure il fatto che nell’epoca di facebook la maggior parte della popolazione va a letto la sera convinta che lo spirito di Che Guevara si sia impossessato di lei solo perché ha postato sulla propria bacheca qualche link «tosto», oppure ha messo un « like» su qualche frase eversiva oppure ancora, bene che vada, ha annunciato la propria partecipazione (virtuale, ovviamente) a qualche evento quasi del tutto campato in aria ma assai eversivo e sovversivo. Ma il punto vero è un altro. Ossia, chi la deve fare questa rivoluzione? Chi è quel soggetto antagonista che risulta indispensabile
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anche solo per immaginare una rivoluzione? In quella francese c’era il terzo stato, la borghesia alleata col popolo affamato dal Re e dall’aristocrazia; nella rivoluzione americana c’erano popolazioni che volevano veder riconosciuti i propri diritti politici e sociali contro una madrepatria (l’Inghilterra) che non ne voleva sapere. Persino il Sessantotto, per arrivare a tempi più vicini, malgrado le fumosità e le utopie intellettualistiche, vedeva in studenti, operai e persone bene istruite un nocciolo duro pronto a insorgere per realizzare una società meno bigotta e meno bloccata sui privilegi e sui valori borghesi (in senso deleterio). Le rivoluzioni arabe di questi tempi hanno visto insorgere popolazioni affamate e umiliate da dittatori imposti spesso e volentieri dall’Occidente cristiano, unificate dal recupero di un’identità culturale e religiosa oltre che dalla voglia di ritagliarsi società più moderne e rispettose della dignità individuale. Ma da noi, sì da noi, pensiamo alla nostra Italietta, chi è quel soggetto rivoluzionario che dovrebbe fare la rivoluzione? Il popolo della Rete? Il popolo in genere esasperato dagli scandalosi privilegi della classe dirigente? E chi è questo popolo, da cosa è unito, da quale grande progetto ideale, da quale comune sentire che sia in grado di preparare una società nuova e diversa fin dal giorno dopo l’auspicabile riuscita dell’atto rivoluzionario? Perché il popolo, questo popolo, dovrebbe essere tanto migliore di quei politici che pure dal popolo stesso sono fuoriusciti? Da esso sono stati votati a ripetizione, e non veniamoci a raccontare che persone dotate di minimo buon senso e minima capacità osservativa (quindi niente geni) non si sarebbero accorti dei criminali da operetta (e da tragedia) a cui assegnavano il voto! Uno dei grandi problemi dell’Italia, è bene dirlo, consiste anche nel suo popolo di elettori. È anche sua, e ben forte, la responsabilità di aver legittimato una classe politica così scadente e vergognosa. A queste condizioni, anche fosse minimamente possibile e realizzabile, si farebbe una fatica enorme a individuare chi dovrebbe fare la rivoluzione. Ma anche contro chi, nello specifico, è assai arduo. Rischiamo di stare tutti quanti da una parte e dall’altra. Dalla parte dei colpevoli e dei rivoluzionari. Ma come diavolo abbiamo fatto a riuscirci? Forse che siamo un popolo di super-eroi?
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CARISMA*
Per parlare in termini di politica alta, o di grande politica come diceva Gramsci, e Dio solo sa quanto ce n’è bisogno nel nostro infausto Paese, può essere utile risalire all’etimologia di uno dei vocaboli che, nel bene o nel male, l’hanno qualificata. Il vocabolo in questione è carisma, che deriva dalla radice greca «kharis» (grazia), per poi estendersi nel termine «kharisma», che vuol dire dono. L’uomo carismatico è colui che ha avuto in dono la grazia, per chi ci crede divina, per chi non ci crede si può parlare genericamente di talento. La grazia di affascinare e persuadere i singoli e le folle, attirando su di sé un consenso tale da innalzarlo a guida e rappresentante di un piccolo gruppo o di una porzione importante del consesso umano. Questo tipo di dono, che può riscontrarsi in figure molteplici e diverse del genere umano (artisti, sportivi, insegnanti etc.), caratterizza in maniera significativa quella «professione» che per definizione si espone al pubblico e ne ricerca un consenso indispensabile: sto parlando della politica, ovviamente. Al di là delle considerazioni di merito, è cosa nota perché evidente che il carisma di un Barack Obama, di un Nelson Mandela, di un Enrico Berlinguer e di alcuni altri è inoppugnabile di fronte allo scarso appeal presente in molti politici non soltanto dell’oggi. Certo, Max Weber ci ha insegnato che questo tipo di autorità politica è stato giustamente superato dal mondo contemporaneo: un tempo erano la tradizione e il diritto ereditario a legittimare i sovrani, poi venne l’epoca delle personalità carismatiche, quindi oggi, in tempo di democrazia, è l’opzione razionale e legale a stabilire chi verrà gravato dell’onere di guidare un paese. Insomma, quella grazia non scende più dal cielo, non è più un talento che la natura at*
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tribuisce misteriosamente ad alcuni per negarla ad altri, ma è anche e soprattutto un punto legittimante che proviene dal voto popolare. Certo è, comunque, che il politico carismatico, o anche solo le figure che vengono infuse di carisma per forza di cose e a prescindere dalla grandezza effettiva della personalità in questione (vedi il Presidente americano, ma anche le alte cariche istituzionali), gode di un favore popolare e di un rispetto generalizzato che finiscono con l’assumere un peso rilevante. Quest’ultimo dato è vero ancora di più in una società mass-mediatica come la nostra, dove la ragione tecno-scientifica che c’è dietro all’impianto spettacolare si incarica di imporre alle nostre menti figure magnifiche e indiscutibili, celesti e meravigliose fino a quando non vengono accidentalmente colpite dalla disgrazia di una colpa oggettiva. Insomma, dovremmo chiederci, quanto la società dello spettacolo, il carrozzone dei professionisti della comunicazione, riesce a spegnere il nostro pensiero critico fino a portarci a un conformismo omologato che ci priva perfino del minimo buon senso?1** È tutto complicato? Allora provo a spiegarmi meglio. Prendiamo il caso del Presidente Napolitano. La figura istituzionale merita il massimo rispetto e la considerazione più profonda, ma fino a che punto? Insomma, quanto i magistrati di Palermo hanno buone ragioni quando parlano di un potere assoluto che si conferiva ai vecchi re? Non lo si può neppure intercettare indirettamente, all’interno di indagini delicatissime e centrali per comprendere le vicende dell’Italia contemporanea. Quelle intercettazioni vanno immediatamente distrutte! Non entro nel merito giuridico, ma mi chiedo: cosa vuole dire Napolitano quando dichiara che «c’è qualcuno che vuole colpirmi», salvo poi concludere che «politica e magistratura devono smet1
La società in Rete in cui siamo tutti immersi, rappresenta in fondo la realizzazione concreta di quella «società dello spettacolo» di cui parlava Debord, in cui «l’alienazione dello spettatore a beneficio dell’oggetto contemplato si esprime in questi termini: più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio. L’esteriorità dello spettacolo in rapporto all’uomo agente si manifesta nel fatto che i suoi propri gesti non sono più i suoi, ma di un altro che glieli rappresenta. Lo spettatore non si sente a casa propria da nessuna parte proprio perché lo spettacolo è dappertutto» (La société du spectacle, Gallimard, Paris 1967, § 30).
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tere di percepirsi come mondi ostili»? Il Presidente allude forse al fatto che i magistrati, alcuni magistrati, magistrati specifici vogliono colpirlo? E in che modo? Facendo indagini? Possono sbagliare, questi magistrati, ma perché dichiarare che vogliono colpirlo? Senza contare che, a una mente critica e tutt’altro che estremista, si impone un ragionamento molto chiaro e limpido, alla stregua di un sillogismo: se negli ultimi tempi abbiamo preso atto del fatto che la politica e i politici hanno mostrato un processo di degenerazione e corruzione indubitabili, spesso contrastato da una magistratura che il più delle volte ha fatto il proprio dovere e per questo è stata, a vario titolo, uccisa, isolata, umiliata, denunciata, accusata di complotti ed eversività varie, come non vivere questi ultimi eventi che sfiorano la Presidenza della Repubblica con inquietudine e ansia di chiarimenti profondi? È sufficiente dire che il Presidente è per legge al di sopra della legge e chiudere la faccenda incolpando genericamente i «soliti» magistrati (soliti dopo la nefasta epoca berlusconiana, che ha tentato di delegittimarli in tutti i modi), colpevoli nientemeno che di voler «colpire» la carica più alta dello Stato? E perché, di grazia, dovrebbero colpirla, per prendere loro il potere del Paese?! E che dire, mutatis mutandis e scendendo assai di livello, del buon Maroni. Sì, proprio lui, che da ministro dell’Interno pretese addirittura il diritto di replica in una nota trasmissione televisiva del tempo perché uno scrittore di successo, malauguratamente meridionale, aveva osato affermare che la malavita si stava allargando al Nord? Dove sta, e cosa dice oggi a quel proposito Roberto Maroni, oggi che vengono fuori gli scandali di una regione, la Lombardia, che alla stregua di molte altre si è collusa con la malavita organizzata?! Chi dovrebbe avere, oggi, il diritto di replica alla replica avventata e sciocca dell’allora ministro dell’interno, che ottenne soltanto il risultato di coprire fatti gravissimi e disinformare i cittadini italiani?! Perché nessun giornalista ha il coraggio di chiedere oggi, al Presidente Fini, conto e parere di quanto accadde a Genova nel luglio del 2001, quando lui era ben presente tra i comandi operativi di un’operazione che ha visto piombare un’intera città in una strage civile e sociale, con le più alte cariche della polizia condannate in via definitiva da un tribunale (ancora la magistratura, accidenti!) ma rigorosamente tutte promosse a incarichi (e compensi) superiori dagli organi politici deputati?!
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Tutto questo, e molto altro, ha inciso e incide in che maniera nell’identità e nella vita reale di un Paese come il nostro, in cui mai come oggi l’autorevolezza e la legittimità della politica sono messe drammaticamente in discussione? È forse vero che dobbiamo tristemente rassegnarci a una realtà per cui, quando parliamo della nostra bella Italia, riferendosi al «carisma» dei nostri politici, iniziamo un capitolo dalle stelle delle meravigliose definizioni filosofiche per doverlo terminare nelle stalle di uno scenario misero e penoso?
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PERCHÉ D’ALEMA SBAGLIA*
Premesso che non sono fra quelli che reputano per forza di cose il nuovo più desiderabile del vecchio, o il giovane migliore dell’anziano (uno dei tanti segni che il nostro Pese fatica ad accettare il criterio semplice della meritocrazia: vince chi merita, e basta), credo che la vicenda di Massimo D’Alema porti alla luce molti punti su cui vale la pena riflettere. Dopo la sua intervista a Lilli Gruber, infatti, abbiamo dovuto assistere all’ennesima farsa della tele-democrazia italica. Un grande statista, una personalità superiore, un insegnamento di vera politica, una lezione all’antipolitica di Renzi (e Grillo). Questi alcuni dei commenti che hanno accompagnato la performance del «baffino» nazionale. Eppure balzano agli occhi alcuni segnali sconfortanti: intanto l’inveterata abitudine dei media nostrani alla «servitù volontaria» nei confronti del potente di turno, magnificato ben al di là di ogni più ragionevole (e sana) critica. Quegli stessi media fintamente disprezzati dal leader Pd sono accorsi quasi unanimemente a difesa del grande statista offeso dal rozzo Renzi. A me Renzi non entusiasma, lo dico subito, ma apprezzo ancor meno la difesa a oltranza del potente innalzato sullo scranno della «santità» ben al di là di ogni ragionevole capacità critica. Cominciamo col dato che dovrebbe emergere sopra a tutti gli altri: la solita furbizia cinica e togliattiana del personaggio. Se vince Bersani le primarie, egli non si ricandida in Parlamento (anche perché il suo pesante appoggio al segretario Pd potrebbe essere compensato con incarichi e possibilità di influenza effettiva che vanno ben al di là di un «misero» scranno parlamentare. Se dovesse vince-
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22 Ottobre 2012
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Qualcuno era italiano
re Renzi, dichiara D’Alema con ammirevole spirito battagliero, sarà «guerra» su tutti i fronti. Ma come, il democratico e illustre statista dichiara apertamente che farà la guerra all’eventuale vincitore di libere elezioni democratiche all’interno del partito democratico?! E dove va a finire la considerazione per l’espressione popolare, per giunta non di un popolo qualunque e indifferenziato, ma del popolo della sinistra grazie al consenso del quale D’Alema ha prosperato per decenni?! Questa sarebbe la fulgida lezione democratica di uno che viene dipinto come grande statista?! Il rozzo Renzi dichiara che se perderà le primarie si metterà a disposizione del partito e del candidato premier, mentre il raffinato statista minaccia fin da ora il popolo della sinistra di votare per bene (cioè per Bersani), altrimenti ci sarà la guerra e l’esplosione (peraltro augurabile, per molti versi), dell’intera galassia del centro sinistra. A voler essere cinici quanto D’Alema, si potrebbe dire che a lui è mancata perfino la furbizia di fingersi democratico, di dare l’impressione di accettare il pronunciamento popolare. Cosa che invece ha fatto lo scaltro e «rozzo» Renzi. Del resto, che D’Alema e l’intera classe dirigente proveniente dal vecchio Pci (e dalla vecchia Dc) non brilla per furbizia (né per altre qualità assai più edificanti), lo abbiamo potuto vedere dal fatto che anche grazie a loro tutti, alla loro imperizia e assenza di cultura politica, negli ultimi vent’anni ha potuto trionfare e governare un signore di nome Berlusconi, cioè un «banale» piazzista circondato da servi sciocchi, furfanti furbi e signorine di allegri costumi. Non una parola, su questo punto, è stata pronunciata dal raffinato statista del Pd. Anche qui si vede la distanza di questa classe dirigente dai cittadini «normali»: noi tutti, nel nostro lavoro come nelle nostre occupazioni, paghiamo salatamente i nostri errori e inadeguatezze, l’eventuale incapacità a raggiungere l’obiettivo prefissato. Per questo veniamo puniti, licenziati, spostati di ruolo, sminuiti. Ma D’Alema no. E con lui neanche coloro che da vent’anni non azzeccano mezza mossa politica, rendendo possibile il «secondo ventennio di vergogna nazionale» rappresentato da Silvio B e dalla sua impresentabile cricca al seguito. Un secondo ventennio per il quale il popolo italiano, colpevole anch’esso per il suo voto scellerato, si trova oggi a pagare un prezzo altissimo ai poteri forti e disumani della finanza e dei mercati.
Perché D’Alema sbaglia
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Se in Italia c’è stata una sinistra che non ha saputo fare la sinistra, che non ha saputo rinnovarsi, recuperare il meglio della propria tradizione e costruire un nuovo manifesto programmatico degno di questo nome (un nuovo sogno), è stato anche per colpa dei nipotini di Berlinguer, di cui D’Alema ha rappresentato e rappresenta ancora oggi l’archetipo perfetto. Hanno saputo soltanto rinnegare il passato, pronunciarsi liberali senza esserlo, accodarsi ai poteri forti e con questi programmare affari, litigare fra di loro e dividersi in mille rivoli condannati all’ininfluenza politica e sociale. Regalando un campo apertissimo a Silvio B, in questo modo capace di poter fare quello che più gli pareva. Ora tutto questo dovremmo dimenticarcelo, dovremmo strapparci le vesti e forse anche i capelli per la sorte miserevole e disumana che spetterebbe a D’Alema, Veltroni, Rosi Bindi e tutte le povere anime che hanno disanimato la seconda repubblica. Lo dovremmo fare con la complicità, ancora una volta, di mass media acritici e genuflessi, pronti ad accorrere al capezzale del potente in difficoltà, a fornirgli occasioni in cui recitare un monologo auto-apologetico privo della minima auto-critica. Persino dalle parti de Il fatto quotidiano leggiamo di opinionisti che inneggiano al D’Alema «gigante» in televisione, ma così non si va da nessuna parte. Se l’alternativa più ragionevole per il futuro governo politico dell’Italia, escludendo ad oggi quel pantano di incapaci impresentabili e truffaldini che è la destra, dovesse essere fra l’esagitato e mellifluo Renzi (che finora non ha dato segni di percorrere la strada di una sinistra seria e coerente), e la non premiata ditta di furbetti nipotini di Togliatti e De Gasperi, beh, diciamo subito che saremo condannati all’unica vera scelta possibile: il prolungamento di un governo tecnico o la vittoria di movimenti confusi e pericolosi come quello di Grillo. Con la complicità di tutti, a cominciare da quegli organi di informazione e opinionisti che, ancora una volta, non sanno o non vogliono fare il loro mestiere di puntellatori indefessi e non compiacenti del potere politico.
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IL MALE NECESSARIO*
Mi interesso poco di dei e divinità, ma anche a voler tirare in ballo il Fato, o più semplicemente il caso, c’è di che lamentarsi con quella cattiva sorte che ha assegnato al popolo americano un politico come Barack Obama, fine oratore, portatore di sogni e speranze di cambiamento e giustizia per tutti, lasciando a noi italiani l’ardua scelta fra comici professionisti, autoritari ma raffinatissimi e vigorosi nuotatori come Beppe Grillo, o comici involontari, dispensatori leggiadri di corna sulle teste dei primi ministri, o terrorizzati dalla presenza dei giornalisti perché poi sono costretti a «pensare prima di parlare». Insomma, a voler essere proprio cattivi, potremmo metterla così: a loro Obama, che sul palco emoziona e coinvolge intellettualmente la folla con proclami di un mondo nuovo che saprà ospitare ancora libertà e opportunità per tutti (a prescindere dalla razza, dalla religione, dai gusti sessuali e dalle scelte religiose), a noi Ignazio La Russa che, chi può averlo dimenticato?, da ministro della Difesa urlava a squarciagola davanti alle telecamere di mezzo mondo il suo progetto edificante e irrinunciabile per le sorti dell’umanità: «Riporteremo il Catania in serie B!!!». Che poi, intendiamoci, non sarebbe troppo sano un eccesso di retorica ed entusiasmo rispetto al carismatico Presidente americano. Che persino nel suo linguaggio smentisce coloro i quali, in quel Paese, vorrebbero dimostrarne le radici che lo qualificherebbero come estraneo, diverso, non americano. E invece lui, americano, lo è fin nel midollo, perché quando parla di «sogno», «opportunità», «speranze», «missione», ricorda fin troppo bene i Padri fondatori, che furono anche (e a quel tempo anzitutto) padri conquistatori di terre abitate da altri, feroci declamatori del «lontano west» (far west),
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7 Novembre 2012
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Qualcuno era italiano
gradualmente ma inesorabilmente fatto proprio a suon di retorica del puritanesimo protestante1.** Mai ci saremmo aspettati che l’America, a meno di dieci anni dal tragico evento dell’11 settembre, avrebbe eletto con entusiasmo un presidente nero e dalle chiare radici musulmane (fin dal nome). Quello stesso presidente che, ancora un’astuzia della storia, salito sullo scranno più alto in nome del «cambiamento», sarebbe poi riuscito là dove aveva fallito il suo infausto predecessore: uccidere il nemico assoluto, la fonte di tutti i mali, il degno sostituto del comunismo internazionale: Bin Laden! Quattro anni modesti, i suoi, per chi aveva davvero creduto nella parola d’ordine del cambiamento. Complice un congresso agguerrito e a maggioranza repubblicana, complici tante falde conservatrice presenti anche nel partito democratico, e complice ovviamente la terribile crisi economica, fatto sta che ad esclusione della riforma sanitaria (un fatto storico!) e dell’uccisione di Bin Laden, tutto questo cambiamento non lo si è visto. Ma sappiamo che si tratta di un percorso lungo e accidentato, perché, per usare una metafora affascinante dello stesso Obama, non si può imporre un’inversione di rotta a una grande nave con un paio di mosse. «Il meglio deve ancora venire», è stato lo slogan del presidente neo-rieletto, e noi tutti speriamo che sia davvero così, ma ben sapendo che l’America è un paese selvaggio e cinico (i candidati preparano giorni prima il discorso della vittoria, come quello della sconfitta), dove il Dio denaro si infiltra in ogni anfratto più impensabile ed innocente e l’interesse di ogni progetto è anzitutto interesse americano. Tutto legittimo, per carità, ma è bene saperlo. Le note più dolenti sono quelle per l’Europa e l’Italia, ignorate quando non citate esclusivamente come termine di raffronto negativo nella campagna elettorale statunitense.
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Manifest Destiny era il titolo di un articolo in cui John Fiske, nel 1895, magnificava «l’opera civilizzatrice della razza inglese», cominciata con la colonizzazione del Nord America e destinata a proseguire finché «tutta la superficie terrestre» non sarà diventata interamente inglese, per lingua, religione, istituti e tradizioni politiche, e finché nelle vene dei popoli colonizzati non scorrerà sangue inglese. Solo a quel punto si sarebbe conseguito un mondo totalmente pacificato e «cristiano» (cfr. I profeti dell’impero americano, a cura di P. Bairati, Einaudi, Torino 1975, pp. 238 e 240).
Il male necessario
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Concentriamoci, per ovvie ragioni, sull’Italia. Sul grande limite dei suoi mezzi di (dis)informazione, per esempio, che ci hanno venduto per settimane la favoletta del testa a testa (la tensione fa vendere più copie, si sa), quando sarebbe bastato consultare degli esperti di statistiche e flussi elettorali per capire che Obama avrebbe vinto comunque largamente (anche se non con il distacco del 2008). Ma la campagna elettorale americana, e qui arriviamo al punto nodale, ha evidenziato drammaticamente lo stacco fra l’idea di politica, di classe dirigente, di progettualità e ideologie (nel senso buono del termine), di serietà, vorrei dire, che ancora caratterizza quel Paese (ed ogni nazione che si rispetti), in confronto al teatrino impresentabile che viviamo in Italia. Dove ogni giorno un politico esce sputtanato dall’ennesimo scandalo, dalla ruberia, dal nepotismo, da soperchierie più o meno grottesche, patetiche e intollerabili. Siamo un Paese che al tempo delle ideologie le abbracciò con fin troppo fanatismo, e al momento opportuno le abbiamo abbandonate con troppa foga, senza sapere che idee e ideologie sono il presupposto fondamentale di una politica sensata, razionale, mirata e, soprattutto, non abbandonata al culto della personalità singola impropriamente identificata con la virtù totale. Il panorama che sta davanti ai nostri occhi è sconsolante, inutile negarlo, al punto che l’opzione del governo tecnico sembra l’unica accettabile. O meglio: l’unica in grado di non sputtanarci di nuovo agli occhi del mondo. Per il resto un vuoto desolante: una destra che da quel dì è regno dell’inconsistenza, del malaffare e di pallidi dirigenti che venerano il Capo; una sinistra senza più un programma e un’identità definiti, che vive le sue primarie con enfasi e tormento pari soltanto all’intensità dell’amnesia con cui si dimenticano delle elezioni vere; e come unica alternativa, udite udite, un ex comico autoritario e prepotente (anche e soprattutto con i suoi, figuriamoci cosa potrà fare dopo), di cui non si conosce uno straccio di programma nazionale, una posizione chiara e identificabile rispetto alle grandi questioni che riguardano il Paese (e il mondo intero, in epoca di globalizzazione). In America si è discusso e ci si è divisi su parole che da noi sembrano arcaiche ed extraterrestri: socialismo, liberalismo, liberismo, giustizia sociale, meritocrazia, libertà individuali, diritti delle minoranze. È su questo parole, che piaccia o meno, che si confronta, si divide e quindi si forma una classe dirigente degna di questo nome.
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Qualcuno era italiano
Non sulle nuotatine estemporanee, sulle rottamazioni manco fossimo dallo sfasciacarrozze, sulla difesa di privilegi castali degni degli anni più bui. La sensazione è sconsolante. Il timore è quello di un baratro da cui non riusciamo a uscire, perché non ci sono all’orizzonte idee, persone, progetti in grado di risvegliare il Paese e di far rinascere speranze ed energie. Nulla di neppure paragonabile al carisma e al vigore politico di un personaggio, finora pur limitato, quale Barack Obama. Forse, come spesso ha insegnato la storia, prima di rivedere la luce dobbiamo inevitabilmente passare per un buio totale e prolungato. A diffidare dalle visioni armoniche ed ottimistiche ce lo ha insegnato la saggezza antica, a sapere che l’ordine che governa il tutto è qualcosa di incontrollabile per l’uomo, persino di inconoscibile, mentre «l’evo è un bambino che gioca, spostando qua e là i pezzi del gioco: un regno di bambino» (Eraclito, DK, B, 52). Ma anche la più terrena biologia ci ha insegnato che è solo dalla «guerra della natura», e quindi dalla «carestia» e persino dalla «morte» che può nascere il «risultato più alto», la produzione di forme umane superiori, tanto per ricordare le pagine con cui si concludeva il capolavoro di Darwin (On the Origin of Species, John Murray, London 1859, p. 490). Sarà anche così, e questa, ad oggi, può costituire l’unica, microscopica speranza rispetto a una situazione desolante e priva di sbocchi credibili. I Presidenti americani, nessuno escluso, nel discorso di insediamento ringraziano Dio per averli voluti lì, e si rimettono alla sua benevolenza per garantire la salute e la grandezza della propria nazione. Ma come dicevo all’inizio io non simpatizzo per dei e divinità, scarso esempio di laicità e di rispetto per la volontà popolare (l’unica che conta, in una democrazia matura). Certo è, però, a guardarsi intorno in questa landa politicamente desolata che è l’Italia, che anche l’«amor fati» di nietzscheana memoria risulta assai ostico. Il nostro sarà anche un male necessario, ma per ora non si intravede alcun barlume di luce. Mentre l’irresponsabilità di troppi sembra tragicamente dimenticare che il bene, a differenza del male, nella storia non si è mai presentato come necessario. Tradotto: se non lo costruiamo noi, difficilmente potremo ritrovarlo da queste parti!
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IL TRADIMENTO*
La domanda me la sono posta spesso: a cosa serve chi si occupa di discipline umanistiche? Quale l’utilità sociale, pratica potremmo dire, di chi impiega le proprie giornate su testi di filosofia, storia, sociologia e umanità varia? Di quello che un tempo si sarebbe definito l’«intellettuale»? Romanticamente si potrebbe replicare che queste discipline, proprio perché non servono a nulla, non sono serve di alcuno. Sono libere, arti liberali. Ora, lasciando da parte il non trascurabile fatto che sto parlando da solo, con tanto di domande e risposte (ma Platone sosteneva o no che la filosofia avviene attraverso il dialogo dell’anima con se stessa?!), il tarlo rimane. E Hollywood su questo non è di grande aiuto. Essì, perché a periodi alterni ma costanti spunta fuori l’immancabile film catastrofistico, quello in cui il mondo sta per essere annullato da qualche evento naturale, tanto da spingere il presidente americano all’extrema ratio di convocare le migliori professionalità esistenti (ovviamente americane, ma sono dettagli). E io ogni volta ci spero, sì ci spero di immedesimarmi nel filosofo bello e aitante che viene convocato alla Casa Bianca per contribuire a salvare il mondo. Ma niente, regolarmente c’è l’ingegnere nucleare o spaziale, il climatologo, il biologo, l’eroe muscoloso e tutt’al più, perché non si sa mai che un dio esistesse e allora bisogna guadagnarne il favore, un teologo. La frustrazione è grande, non lo nego. E difficilmente posso sperare che in me non provochi quegli effetti grotteschi che vedo bene prodursi in molti miei colleghi, che piombano in una sorta di delirio di onnipotenza astratto e compensatorio, che li convince di dover contribuire alle sorti dell’umanità, con evidente sprezzo del
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14 Novembre 2012
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Qualcuno era italiano
pericolo, dispensando le proprie riflessioni illuminatissime urbi et orbi, possibilmente con l’aiuto dei potenti mezzi della Rete. Sono rari in me, ma esistono, i momenti di inconsapevole lucidità in cui mi accorgo che difficilmente le nostre (di noi «filosofi») contorsioni sul realismo, vecchio o nuovo che sia, sull’idealismo, sull’attualità di Marx piuttosto che di Croce o Platone, possono essere in grado di incidere in maniera significativa sulle sorti più prosaiche del consorzio umano. Ed è in quei momenti, repentinamente e salvificamente riposti nel dimenticatoio, che mi accorgo che se c’è un contributo che davvero può fornire alla società del proprio tempo colui che ha il privilegio di poter leggere tanti libri, di imparare e ripassare la storia dei tempi passati, di studiare e quindi conoscere le tante cose che, tutte insieme e spesso intrecciandosi, combinano l’organismo reale, beh sì, questo contributo consiste nella capacità di suscitare l’indignazione delle menti ogni volta che si ripresentano fenomeni autoritari e liberticidi, di indirizzare e tenere sveglia la capacità critica dei cittadini, la loro autonomia di pensiero e azione, persino di accendere e orientare il dissenso rispetto al potere vigente se questo assume dei contorni inquietanti e lesivi della libertà. Insomma, chi ha il privilegio di studiare, conoscere, essere informato attraverso la lettura e la fruizione di libri, organi di informazione etc., dovrebbe sentire forte almeno un dovere: quello di far sentire la propria voce contro ogni fenomeno che degrada la libertà, la giustizia, il decoro e l’umanità, sì l’umanità di cui dovrebbe essere portatore ogni governo o classe dirigente di un Paese. Questo dovrebbe fare l’«intellettuale» e questo, puntualmente nel corso della storia, non ha fatto e non fa, come per esempio documentato dall’illuminante libro di Julien Benda (Il tradimento dei chierici), esattamente 85 anni orsono. L’istinto di rinchiudersi nell’astrattezza delle proprie riflessioni, quando non l’indifferenza sprezzante per le questioni pratiche (e quindi prosaiche) del mondo reale, o peggio l’atavica inclinazione dell’intellettuale a cercare un padrone e di lui rendersi fedele – e acritico – servitore; oggi potremmo tranquillamente aggiungere il narcisismo onanistico che ci fa perdere il senso della realtà e ricercare il «mi piace» in maniera compulsiva e mai soddisfatta sulle tante vetrine incantate che ci offre il World Wide Web, a suon di compe-
Il tradimento
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tizioni sterili su chi la spara più grossa elaborando la provocazione (ovviamente intellettuale) che meno ci si aspetta. Tutto questo, e molto altro certo, ha caratterizzato la maggior parte degli intellettuali italiani in questo ventennio di vergogna berlusconiana, in cui proprio coloro che dovevano tenere alta l’asticella dell’attenzione e della critica hanno invece finito col legittimare (a volte limitandosi a commentare come se si trattasse di faccende normali e pacifiche) le vergogne di saltimbanco truffaldini, di dilettanti allo sbaraglio, puttane del corpo e della mente che salivano sugli scranni più influenti e centrali del governo del nostro Paese. Producendo inevitabilmente quel disastro che è sotto gli occhi di tutti, che oggi paghiamo tutti in maniera radicale e spesso drammatica. È con colpevole ritardo, ma per questo dobbiamo farlo in maniera ancora più netta e sonora, che prendiamo atto della vera e propria «emergenza democratica» che riguarda il nostro Paese, in cui vent’anni di vergogna berlusconiana (e inadeguatezza del centrosinistra), con la complicità di troppi intellettuali e giornalisti silenti, compiacenti o «servi volontari», hanno prodotto l’inevitabilità di un governo tecnico a cui si è costretti a concedere tutto: cioè fondamentalmente il massacro dello stato sociale e di diritti sociali acquisiti in decenni di lotte, l’impoverimento generalizzato della popolazione in nome di misure «necessarie» per evitare il baratro ma che, guarda caso, non sfiorano i poteri forti come per esempio la Chiesa, verso la quale gli «intellettuali» al governo stanno, ancora oggi (dopo avvertimenti e minacce dell’Europa di farci pagare una multa salatissima!), studiando ogni cavillo per esentarla dal pagamento dell’Imu sulle attività commerciali. Tutto questo e molto altro va denunciato, le coscienze e le intelligenze interessate alle libertà individuali non possono astenersi da lotte che concernono lo spirito basilare che incarna quella parola magica chiamata appunto libertà. Se non lo faremo un giorno ce ne pentiremo, come dovrebbero pentirsi quei tanti e troppi che hanno scelto di guardare da un’altra parte proprio quando i loro occhi e le loro menti erano quelle con le quali le persone normali (i non intellettuali) potevano farsi un’idea di ciò che stava veramente succedendo.
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TERRASANTA E LOGICHE NAZISTE*
Sono un lettore critico di Piergiorgio Oddifreddi, spesso d’accordo con le sue teorie (note e meno note), ma proprio in questo caso mi accorgo di una divergenza fondamentale, che paradossalmente ha a che fare con la logica che sottende alcuni dei suoi ragionamenti. Ma procediamo con ordine e portiamo alla luce il caso in questione. Domenica scorsa il celebre matematico scrive sul suo blog per repubblica.it un post in cui accusa Israele e la sua politica di guerra nei confronti dei palestinesi, facendo ricorso a questo ragionamento: «Così come i nazisti uccidevano dieci persone per ogni loro soldato che veniva colpito a morte dalla Resistenza, così lo Stato ebraico si comporta nei confronti del martoriato popolo della striscia di Gaza. A quando la denuncia per crimini contro l’umanità anche contro Israele, così come accadde per i notabili nazisti alla fine della Seconda guerra mondiale?». Il post di Oddifreddi è stato in poche ore cancellato da repubblica. it, causando le dimissioni immediate del matematico dal blog. A me la censura non piace, in quasi alcun caso, e certamente qui ci andiamo molto vicini, per usare un eufemismo. Non è la cancellazione «tecnica» delle idee di qualcuno a poterle contrastare, anche se le nuove tecnologie ce ne forniscono l’illusione, quanto l’argomentazione articolata e sensata a poter contrastare un retroterra negativo. Premetto inoltre di essere anche io fortemente critico rispetto alle politiche dello Stato israeliano, così come non mi piace per nulla, anche qui, la logica che spesso le sottende: il fondamentalismo religioso di chi accampa diritti (diritti alla guerra, alla violenza e alla prevaricazione), in nome di un fondamento religioso che vorrebbe far riconoscere quelle terre come proprietà di alcuni (gli ebrei, in questo caso), e non di chi le abita da secoli (i palestinesi). Ricordiamo il nefasto proclama di Theodor Herzl, il teorico del sionismo, *
20 Novembre 2012
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Qualcuno era italiano
che a cavallo tra l’Otto e il Novecento lavorava per la costituzione di uno Stato ebraico in Terrasanta in nome di un motto assai discutibile: «Una terra senza popolo per un popolo senza terra!». Tutto ciò premesso, e non mi pare poco, arrivo al punto che mi preme. E che ha a che fare con la logica, banale e scorretta al tempo stesso, del pur celebre logico Oddifreddi. Sì, perché lui parla di logica nazista nelle politiche dello Stato di Israele incorrendo, proprio qui, in un errore madornale. Non occorre scomodare la «labeling theory» (o teoria dell’etichettamento) per biasimare un’argomentazione che cerca la propria verità nelle premesse ben più che nel ragionamento conseguente (siamo nell’ambito del puro dogmatismo, curioso che Oddifreddi non se ne sia accorto): siccome io ti etichetto a priori, come delinquente, assassino, nazista, nero, ebreo, islamico etc., allora da qui desumo la condanna inappellabile dei tuoi comportamenti, del tuo vivere e delle scelte con cui ti confronti. Era proprio della logica nazista, ricordiamolo, una logica fondata sulla purezza della razza e sull’eliminazione delle razze indegne al fine di creare un impero mondiale di iperborei, procedere politicamente (e militarmente) secondo una prassi che etichettava con marchi indelebili e inappellabili: ebreo, omosessuale, zingaro, asiatico. Una logica fornita di una forza dirompente e indiscutibile, irrimediabile, proprio perché priva di qualunque argomentazione sensata e contestuale: siccome sei ebreo, vai eliminato! Facendo appello a un qualcosa che è accaduto nel passato, riscontrando con mie argomentazioni che il tuo comportamento è (secondo me) identico a quello utilizzato durante quei fatti passati, automaticamente proclamo di condannarti alla stessa pena («crimini contro l’umanità») a cui furono condannati in quel caso i nazisti. Non può essere questa la logica, riduttiva, rivolta al passato, concentrata solo sulle premesse, incapace di giungere a una comparazione articolata e puntuale degli accadimenti passati con quelli odierni, con la quale sperare di comprendere il corso della storia e le vicende del tempo presente. Ci sono epoche diverse in mezzo, contesti mutati, rapporti di potere evoluti (o involuti), senza contare le tragedie, i drammi umani e i contrasti furiosi ormai incancreniti dopo oltre sessant’anni di guerra aperta.
Terrasanta e logiche naziste
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La politica di Israele è per tanti versi condannabile, a mio avviso, e la sua prassi di decennali violenze e soprusi nei confronti dei palestinesi (con tanto di deliberazioni dell’Onu in tal senso) può e deve essere giustamente oggetto di critiche. Ma argomentate e ispirate a una sana volontà di confronto con la realtà presente, perché non si rende giustizia a nessuno operando attraverso semplificazioni sterili e meccaniche, mentre si rischia di mischiare tutto in un minestrone che non agevola l’identificazione delle responsabilità da una parte e dall’altra. Sbagliano, offendendo anzitutto la propria memoria di ebrei, coloro che bollano come nazisti i critici delle politiche di Israele. Anche qui opera una logica tristemente dogmatica e superficiale, assai diffusa in questi tempi: criticare la politica di uno Stato non c’entra nulla con l’identificazione tra quello Stato e un’intera etnia (ebraica); non è bollando aprioristicamente il nostro interlocutore (antisemita!) che si può sperare di contrastare legittimamente i suoi convincimenti. Ma in questo caso ha sbagliato anche Oddifreddi, per ragioni speculari e quindi fortemente simili, perché forse è il caso di rendersi conto, una volta per tutte, che è ora di farla finita (da parte di Israele ma anche dei suoi critici) di tirare in ballo l’obbrobrio del nazismo. Non c’entra nulla, non è così che si comprendono gli avvenimenti della storia. Né quelli passati né quelli dei giorni nostri. Altrimenti, con la stessa logica, qualcuno potrebbe dire che Oddifreddi, o chi per lui, ogni volta che denuncia le tantissime nequizie della Chiesa è come se lavorasse per rimettere in croce Gesù Cristo, e con ciò si offendessero nel profondo dell’animo i milioni di fedeli che ritengono di credere in lui come nel figlio del loro Dio. È forse ora di farla finita, e questo vale a tutti i livelli, in moltissimi ambiti di un Paese (e di un Occidente) che ha smarrito i fondamenti di un argomentare assennato e articolato, capace di non arretrare di fronte a quella che Hegel chiamava «la fatica del concetto». Basta con le semplificazioni giornalistiche, di un giornalismo scaduto ad articoletti da social network che «devono» tutto dire in poche righe, possibilmente suscitando ad ogni costo scalpore e meraviglia (e divisioni). Basta con la logica utilitaristica quanto superficiale di blog, post e cinguettii magnificati dalla illusiva presunzione di comprendere e far comprendere tutto in una manciata di caratteri.
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Qualcuno era italiano
È ora di tornare a dare importanza a una comprensione seria e ponderata dei fatti, soprattutto quando si discute intorno a faccende politico-sociali concrete e quanto mai drammatiche per le sorti dell’umanità o anche solo di una sua parte (ma ogni parte confina seriamente col tutto, in un mondo globalizzato). Basta con la logica dogmatica e semplificatoria di chi, e lo dico da non credente, pretende con la stessa assoluta sicumera di negare nientemeno che l’esistenza di un Dio facendo uso soltanto delle limitatissime facoltà di noi esseri umani. A personaggi così verrebbe da chiedere, in maniera provocatoria, quale Dio mai gli abbia fornito la capacità e gli strumenti per sondare gli abissi profondissimi, ampissimi e forse infiniti dell’universo. Fino al punto di negare categoricamente, e logicamente, l’esistenza di un qualsivoglia Dio. Che non sia uno di loro stessi, ovviamente.
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LA GRANDE GIOSTRA*
Sono sufficienti due esempi per dimostrare tutta l’inefficienza e l’ipocrisia che hanno caratterizzato il (mal)funzionamento della macchina statale italiana. Le sigarette, caso grottesco di prodotto sottoposto contemporaneamente al monopolio di Stato e all’obbligo di riprodurre i ridicoli avvertimenti sui malefici provocati dal fumo; la famiglia, considerato il pilastro portante della società civile, magnificata ad ogni pie’ sospinto dai parlamentari che si proclamano cattolici (la stragrande maggioranza), e che però proprio in Italia risulta essere l’istituzione largamente più ignorata e quindi non supportata dalle politiche statali fin dai tempi del monogoverno democristiano. Anche e soprattutto nel confronto, per esempio, con i paesi del nord Europa che pur si richiamano a una consolidata tradizione laica e socialdemocratica. Con buona pace del Vaticano, abilissimo però nel contrattare con le classi politiche di ogni colore finanziamenti a profusione per le scuole private nonché esenzioni fiscali e privilegi economici di ogni tipo! Si è parlato e si parla, spesso e a vanvera, della nostra Italia come di un paese in cui decenni di egemonia catto-comunista avrebbero prodotto una delle realtà più assistenzialistiche e quindi statalistiche dell’intero pianeta. Non che questo sia del tutto falso, ma se dobbiamo ragionare sulle forme «inopportune» di intervento da parte dello Stato, sarà molto più agevole ricordare l’assistenza nei confronti delle grandi imprese (Fiat su tutti, visto che i governi hanno fatto a gara per proteggere un’impresa che ha sempre costruito autovetture scadenti, in confronto alle altre grandi case automobilistiche del mondo), delle assicurazioni o delle banche, mentre molto più arduo sarà indivi-
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27 Novembre 2012
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Qualcuno era italiano
duare delle politiche sostanziali e lungimiranti nei confronti della sanità, della scuola, della ricerca. Inutile dire che di tutto questo finiamo per pagarne un conto salatissimo proprio oggi, in un’epoca in cui lo spettro della povertà ha colpito anche l’Occidente benestante, facendolo piombare sotto la dittatura delle grandi istituzioni sovranazionali come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. È proprio oggi che ci rendiamo conto dello scotto che hanno comportato decenni di politiche furbe e miopi, ed è proprio oggi che si può imprimere una svolta che faccia comprendere quale considerazione vogliamo avere dello Stato, quali politiche attuare per provare a salvare una condizione di vita dignitosa per milioni di cittadini che di quello Stato ne costituiscono l’ossatura e il motivo di esistenza. Essì, perché qui arriviamo a uno dei noccioli della questione, quasi sempre rimosso: per cosa si lavora, si produce, si organizza una macchina statale a cui affidiamo il potere di regolare parte delle nostre vite: per cosa milioni di cittadini si uniscono sotto una stessa bandiera, all’interno di confini territoriali comuni, eleggendo rappresentanti e governanti che facciano rispettare delle regole valide per tutti e improntate al bene comune? Questa è la vera questione: facciamo tutto ciò per il bene di un termine astratto e impersonale come il mercato, oppure lo scopo primario del genere umano è quello di organizzare una vita su questa terra in cui il maggior numero di individui possibile possa godere dei diritti più ampi e di un benessere sociale tale da consentire un’esistenza dignitosa? Se è quest’ultimo l’obiettivo, e certo c’è da dubitarne quando in Italia un uomo rispettabile come Monti dichiara con la massima serenità di stare in quel posto soltanto per rispondere alle attese dei mercati e dei numeri che essi impongono, allora è evidente che i conti non tornano. Ce lo dimostra, per esempio, il caso americano, ossia del paese che più ha rappresentato nell’immaginario collettivo (ma solo nell’immaginario) il prototipo della nazione in cui il libero mercato e la concorrenza sostanziale sono i due fari portanti di una politica condivisa. È di poco tempo fa, infatti, la rielezione di un Presidente come Barack Obama che come primissimo intendimento del suo ultimo mandato ha proclamato la redistribuzione della ricchezza sociale attraverso politiche in grado di colpire i redditi più alti, i grandi patrimoni e in genere tutte le forme di privilegio sociale.
La grande giostra
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Che effettivamente ci riesca è lecito dubitarne per una buona serie di motivi, ma i suoi intendimenti dichiarati costituiscono un dato di fatto difficilmente smentibile. Non si tratta di invidia sociale nei confronti dei ricchi o di chi ce l’ha fatta, non si tratta di una volontà persecutoria nei confronti delle classi sociali più benestanti. Si tratta di qualcosa di più nobile e sostanziale: se è vero, ed è vero, che l’Occidente si trova di fronte a una crisi economico-sociale come mai prima era accaduto, se è vero che proprio questa situazione di fortissimo disagio consente e richiede misure di sacrificio per tutti noi, allora è anche vero che quelle misure devono riguardare in maniera equanime e proporzionale anche le fasce sociali più benestanti. E questo non soltanto, come si potrebbe credere, per un irrinunciabile dovere morale (quello per cui il termine sacrificio vuol dire originariamente «rendere sacro», in nome del bene del genere umano), ma anche per un altrettanto indispensabile fattore economico che Keynes aveva spiegato all’epoca della grande crisi dell’anno ventinove del secolo scorso: l’impoverimento generalizzato delle classi sociali non ricche (la media e la piccola, che sono anche le più numerose), farà sì che queste non potranno più permettersi di comprare i prodotti delle grandi industrie, costituendo di fatto un circolo vizioso che impoverirà tutti quanti (anche se i più ricchi se ne accorgeranno più tardi). Ma Keynes oggi è bistrattato, considerato una specie di socialista mascherato, quando egli in realtà scriveva di essere perfettamente liberale, di auspicare e desiderare una società in cui la libera concorrenza e il mercato liberato il più possibile dalle maglie dello Stato costituissero i valori portanti, ma poi specificava: «Un conto sono i miei desideri e il modo in cui mi piacerebbe funzionasse il mondo, ben altro conto è affrontare questa grande crisi per la quale è quanto mai necessario un intervento netto della politica (di una buona politica, aggiungiamo noi) con lo scopo di regolamentare gli eccessi e le storture di un’economia che lasciata troppo libera produce disastri e tragedie umane!» (cfr. P. Ercolani, L’ultimo Dio. Internet, il mercato e la religione stanno costruendo una società post-umana, Dedalo, Bari 2012, pp. 93-4). Quest’anno sono dieci anni esatti da che un altro grande economista, Joseph Stiglitz, denunciava in un libro quanto mai illuminante (La globalizzazione e i suoi oppositori) gli orrori di un’economia che voleva fare a meno della politica, ricordando quel «fondamen-
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talismo del mercato» che caratterizza il fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale nell’imporre misure ultra-liberiste e ispirate soltanto ai numeri e al tornaconto dell’alta finanza. I paesi che oggi ce l’hanno fatta, ricordava Stiglitz, sono proprio quelli che non hanno seguito il fondamentalismo economico delle istituzioni mondiali economiche, quelli che piuttosto si sono concentrati nell’attuare delle misure ispirate al bene dei cittadini e allo sviluppo della collettività nel suo insieme1**. Per questo gli antichi, la cui saggezza dovrebbe essere memorabile, chiamavano lo Stato res publica, la cosa di tutti, il bene da cui nessuno di noi è o dovrebbe essere escluso. Da qui bisognerebbe ripartire, su questo dovrebbero darci delle risposte precise e chiare coloro che vogliono farsi promotori della nuova sinistra, invece di giocare come dei bambini insensati all’Xfactor dei politici da prima serata. Queste risposte per ora latitano, e i grandi maestri, quelli del passato come quelli di oggi, vengono troppo facilmente dimenticati nel giro vorticoso e straniante della grande giostra mediatica.
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Non è idea del solo Stiglitz quella secondo cui il Fmi e la Banca Mondiale esercitano un potere tanto influente e pervasivo, quanto fondato su un’assenza di trasparenza nei confronti dell’opinione pubblica. Si tratta, piuttosto, di una vera e propria «cultura della segretezza», che permette a queste istituzioni onnipotenti di imporre delle misure politiche volte al benessere delle lobby economiche, spesso proprio a danno delle popolazioni (J. Stiglitz, Globalization and Its Discontents, Norton & C., New York – London, p. 229; T. Terranova, Network Culture. Politics for the Information Age, Pluto Press, London 2004, p. 131).
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ORA BASTA!*
Non è serio, non è moralmente accettabile, non è spiegabile neppure con il massimo sforzo al buon senso e alla moderazione l’evidente contraddizione per cui, da una parte, il governo Monti impone alla popolazione e alle fasce sociali più deboli un sacrificio esistenziale enorme in nome dei doveri sacri che abbiamo verso l’Europa, mentre dall’altra, in maniera spesso oscura e ipocrita, per accontentare poteri forti, consorterie, banche e quant’altro, prende misure per le quali la stessa Europa potrebbe punirci con multe enormi! Né è accettabile, ma nessuno o quasi sembra accorgersene agli alti livelli degli organi di informazione, che il Governo non si «abbassi» a fornire la minima spiegazione su queste contraddizioni palesi che posso contribuire a minare la pace sociale come poche altre. Si fa presto a prendersela con le manifestazioni di piazza che sfociano nella rabbia, come presto si fa a rubricare con spocchia come anti-politica la disperazione irrazionale di milioni di persone (Il Movimento cinque stelle è già dato dai sondaggi come terzo partito, dopo quello dell’astensione e il Pd…). È fin troppo facile, inoltre, liquidare con superiorità la disperazione di milioni di cittadini solo perché essi, secondo alcuni, non capiscono nulla di economia né delle supreme regole di geopolitica che incombono sul consesso internazionale e quindi anche sull’Italia. Ma la responsabilità di chi ricopre certe cariche politiche ed istituzionali, peraltro profumatamente retribuite, consiste anche nel tentare di far comprendere il senso della propria azione governativa a un pubblico più ampio dei pochi specialisti (che hanno visioni assai discordi, per inciso). Invece non Monti, né Passera, né Grilli e nessuno degli altri illustri componenti di questo governo si abbassano a spiegarci come mai si fa di tutto per esentare gli esercizi commerciali della Chiesa dal pagamento dell’Imu, o il perché del *
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blitz serale, realizzato nella massima segretezza e un minuto prima che scadessero i termini, contro la sentenza della Corte europea che ha bocciato la legge 40 sulla procreazione assistita. O perché mai, ci chiediamo in molti, il governo non è altrettanto rapido e zelante nell’accogliere gli inviti dell’Europa affinché l’Italia si doti finalmente di una legge elettorale seria e rispettosa della volontà popolare? Di una legge contro la corruzione che invogli le imprese estere a investire nel nostro Paese? E sul finanziamento dei partiti, sugli scandalosi benefit di politici locali e nazionali? Cosa c’è, Presidente Monti, forse che queste cose non le può fare, prima ancora che non volere, perché la maggioranza che la sostiene è contraria e le toglierebbe la fiducia? La tragica verità è quindi sempre la stessa: si può e quindi si deve colpire la popolazione più debole perché essa (si pensa) non ha armi, mentre si è costretti a tutelare le realtà forti e protette anche a costo di incorrere in multe salatissime da parte dell’Europa? E con quali soldi, signor Presidente del Consiglio, pagheremo quelle multe? Oltre che immorale, è oltremodo pericoloso pensare che il popolo non abbia armi, e peraltro quando non le ha sul serio o ne viene privato proditoriamente, è la volta che si possono verificare derive drammatiche e che nessuno di noi vorrebbe verificare. Salvare il Paese dal baratro, signor Presidente, è compito immane e senza frutti al sole, ce ne rendiamo ben conto, ma non può essere svolto senza che si eliminino quanto più possibile le solite eccezioni, i privilegi e le isole di intoccabilità che contribuiscono a qualificarci come una nazione poco credibile e ferma all’idea più retriva che si ha del Medioevo. Se è il baratro quello che rischiamo, se è l’emergenza nazionale quella in nome di cui si attuano politiche terribili e mortificanti per milioni di persone, beh allora non sono consentiti distinguo e privilegi, non può risultare accettabile la protezione inspiegabile dei centri di potere. I cittadini fanno e faranno sempre più fatica, oltre che sul piano pratico anche su quello emotivo, ad accettare un peggioramento evidente della propria vita sociale senza che questa emergenza valga per tutti, colpisca tutti e affermi, pur nella difficoltà, un giusto equilibrio rispetto a quella nobile entità chiamata giustizia sociale. Oppure, se è sulla giustizia sociale che non si crede, se è sulla meritocrazia finalmente espunta da titoli nobiliari e famigliari o privi-
Ora basta!
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legi a-priori che non si vuole puntare, si è certamente d’accordo con il premio Nobel all’economia von Hayek, osannato da tanti e troppi sedicenti liberali, ma occorre dirlo con chiarezza e onestà, affinché il popolo sovrano (fino a prova o legge contraria) possa trarne le conseguenze per le elezioni che si avvicinano e che si rivelano essere le più importanti del XXI secolo per la nostra Italia. Su tutto questo e molto altro è necessaria una parola chiara da parte dell’attuale Governo, ma anche un programma finalmente netto e dettagliato anche da parte della sinistra, dopo il teatrino prestabilito di primarie che hanno tanto contribuito ad affermare volti e personalità quanto poco hanno contribuito alla chiarezza dei programmi e di una realistica proposta di governo che si emancipi dalla volontà esclusiva dei mercati e dei poteri «sovra-democratici». Altrimenti, l’unica alternativa percorribile, per molti cittadini, è quella dell’astensionismo, di un movimento grillino altrettanto latitante nell’affermare una struttura organizzativa e un programma credibili per risollevare il Paese, oppure di una deriva di piazza (ammesso che la piazza la si voglia considerare come deriva) che può comportare atti irrazionali e persino violenti. Non si spiega in altro modo la sorprendente tranquillità con cui si tace su tutto ciò, se non con la sicurezza, ai piani alti, che comunque vada l’esito delle prossime elezioni, il risultato è già scritto e non comporterà misure volte al bene comune e alla tutela dei più deboli, ma soltanto decisioni che tenteranno di soddisfare quella vera e propria dittatura dei numeri che ci dicono essere imposta dal governo dei mercati. Mai come oggi torna in auge il motto risorgimentale per cui «o si fa l’Italia o si muore», forse perché quell’Italia veramente unita e improntata al bene dei cittadini e degli individui che la popolano (a prescindere da ideologie, religioni, poteri malavitosi che si alleano con le forze politiche, grandi imprese e manager tutelati dallo Stato etc.) non l’abbiamo mai fatta davvero. O forse perché questa è l’ultima occasione che abbiamo per darci l’identità di un Paese moderno e finalmente liberato non solo dalla dominazione esterna (che al tempo del Risorgimento era degli austriaci, oggi della Bce e degli organismi economici sovranazionali), ma prima di tutto dalla genuflessione tutta interna cui ancora ci prestiamo nei confronti delle chiese, degli idoli impersonali e di una società dello spettacolo che ci riconosce solo fino a quando siamo consumatori passivi e
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ingranaggi fondamentalmente inutili e intercambiabili di una grande macchina che non guidiamo. Chi oggi governa l’Italia e chi si candida a farlo è chiamato a una trasparenza, nonché ad una radicalità, che francamente non scorgiamo a occhio nudo. Non nelle incertezze di un governo Monti, che è immerso in contraddizioni gravi e che profumano di tutela delle elites; non in un centro-sinistra che gioca al partito americano dimenticando che l’America è lontana in tutti i sensi (anche per buona colpa sua); non certo in un centro-destra su cui a stendere un velo pietoso si farebbe torto grave al povero velo. E non in Grillo, la cui unica forza è quella di rappresentare magnificamente quella esplosiva voglia di «vaffanculo» che il popolo italiano sente dentro di sé. Ragazzi, signori, onorevoli, per favore datevi una regolata. Perché quell’«ora basta!» che potete leggere in un banale libello come questo, rischiamo di trovarcelo tutti a subire sotto altre forme e con esiti davvero preoccupanti. Vogliamo, seriamente, finalmente, farla questa Italia?
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AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE*
«Quel che si fa per amore è sempre al di là del bene e del male», scriveva il filosofo Nietzsche nell’opera che porta come titolo proprio Al di là del bene e del male (§ 153). Amore è parola tanto grande e utilizzata nel mondo umano, quanto indifferenziata e applicabile a innumerevoli contesti. Fino a rischiare di sfumare nell’indefinito, in quella terra di nessuno dove certe parole sono buone per tutto e per nulla, o persino per la cartina che avvolge un cioccolatino. In questo caso, voglio intendere la parola amore in un significato che potremmo definire originario, centrale, vitale: l’amore come occupazione e sentimento in grado di esorcizzare la morte (a-mors: assenza di morte, privazione della morte), quindi di valorizzare e fornire di senso e direzione quel «momento» in cui possiamo essere definiti come vivi. Breve o lungo che sia. Se non per amore della propria nazione, della propria vita spesa in buona parte a occuparsi di politica, delle idee in cui in qualche modo dice di aver creduto, almeno per quella forma di «amore di sé» descritta dai moralisti scozzesi del Seicento e tanto vituperata dai cattolici, ho sempre sperato che un uomo come Giulio Andreotti avrebbe regalato un colpo di coda alla sua «cristianissima» esistenza, rifiutando di portare con sé nella tomba molti dei grandi e terribili segreti che hanno costellato la Prima repubblica. Non che ancora l’illustre statista sia passato a miglior vita, intendiamoci, ma sembra ormai oltremodo difficile che questo inquietante signore, che nel bene come nel male ha incarnato l’essenza del nostro Paese, si produca in un empito di amore cristiano per il genere umano, per la creatura somma del Dio che dice di venerare, confidando quanto in possesso del suo sapere rispetto alle tante e troppe notti buie della luminosa Italia. *
11 Dicembre 2012
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Stragi impunite, accordi sottobanco tra malavita e gangli vitali della macchina statale, notti gelide e private del minimo frammento di luce sono quelle che hanno caratterizzato la storia d’Italia fin dalle origini, quando il Paese trovò finalmente la propria unità grazie al «patto dei gentiluomini» (fra la grande borghesia industriale del Nord e i grandi latifondisti del Sud, cioè la Mafia, per parlare fuori dai denti!). Un evento troppe volte dimenticato, sminuito o del tutto rimosso, ma che si lega, tramite un vero e proprio filo rosso attraverso i meandri scoscesi della storia, agli eventi inquietanti dei giorni nostri, in cui si parla di «patto» fra la malavita organizzata e lo Stato in quegli anni cruciali che hanno visto il passaggio dalla Prima repubblica al ventennio di vergogna berlusconiana. L’ennesima vicenda torbida e misteriosa della storia patria, in cui dei magistrati palermitani si sono impegnati a squarciare quel velo di ipocrisia sovrana che sempre ha vestito il potere nel nostro Paese, e per questo sono stati subitaneamente affogati in uno stagno maleodorante di pubblica ignominia, con tanto di uomo simbolo (Ingroia) trasferito in un paese esotico. Ancora una volta si è tirato in ballo lo scontro fra poteri dello Stato, l’illegittimità dell’azione giudiziaria, producendo nei cittadini un senso di soffocamento inerme, di schifo da parte di chi non riesce a comprendere dove potrebbe annidarsi la minima ragione. Eppure basterebbe richiamarsi alla regina del giallo, Agatha Christie, per rendersi consapevoli di un concetto tanto semplice quanto illuminante: in ogni delitto che si rispetti, nell’individuazione di un qualunque colpevole l’elemento fondamentale e maggiormente gravido di spunti chiarificatori è uno solo: il movente. Ecco, un banale esercizio di logica minimale, o di criminologia da dilettanti, può portarci con inquietante serenità a porci questo semplice quesito: nella cosiddetta lotta tra poteri dello Stato, mentre potrebbe essere chiaro l’intento depistatorio di una classe politica che si è macchiata dei mali più nefandi, oltre che del fallimento totale sul piano operativo e di «guida» del Paese, sfugge pressoché del tutto quale dovrebbe essere il movente della procura di Palermo e dei magistrati in genere. Vogliono prendere il potere con un colpo di Stato? Cercano quella fama che permetta finalmente anche a loro di essere invitati come ospiti cantanti e ballanti allo show di Bruno Vespa? Oppure è un fatto di antipatia personale verso alcuni elementi sicuramente illibati e pudendi come il manifesto senatore Mancino, uomo per cui
Al di là del bene e del male
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è sufficiente l’ascolto e la visione delle sue parole e del volto per comprendere che nulla c’entra con la malavita organizzata? Quanto «burocratichese», quanta tristissima e atavica abitudine italica nell’affossare ogni minimo tentativo di scoperchiare il velo, quanto vuoto e inutile formalismo in un Presidente della Repubblica che ricorre a tutti i cavilli possibili e immaginabili pur di fermare l’azione dei giudici. Per carità, con l’avallo certo e indiscutibile della Corte Costituzionale, con la nobilissima motivazione per cui non si tratta di proteggere questo o quello, ma solo la più alta carica istituzionale in quanto tale (il Presidente della Repubblica), e con essa la nazione tutta, il popolo, tutto, tutti noi. Che ancora una volta finiamo disinformati, cornuti e mazziati per di più, perché qui risiede il capolavoro, con il senso del dovere che dovrebbe imporci un sonoro grazie a figure tanto responsabili e preoccupate per il bene generale. Ancora una volta balza alla mente il buon Nietzsche, che sempre nell’opera già citata, ma stavolta al § 199, vergava con la consueta genialità ruvida un ritratto assai eloquente dell’ «l’ipocrisia morale di chi comanda»: «Costoro non sanno difendersi dalla loro cattiva coscienza in nessun altro modo se non atteggiandosi a esecutori di ordini più antichi o superiori (degli antenati, della costituzione, del diritto, delle leggi o perfino di Dio), oppure prendono in prestito sinanche dalla maniera di pensare dell’armento le loro massime da armento, come ad esempio “primo servitore del suo popolo” o “strumento del benessere collettivo”». Eppure viene da chiedersi in cosa consista questo benessere collettivo per un popolo, quello italiano, che da decenni si vede privato anche solo della possibilità di sperare in un barlume di verità, dove poliziotti e magistrati coraggiosi vengono uccisi, isolati o trasferiti in Guatemala, mentre a capo di tutto permane una classe politica priva della minima credibilità, affezionata a una logica di potere che privilegia le elite proprio nel momento in cui colpisce più duro verso le classi sociali che di quel potere sono private. Come può questo popolo, mi chiedo e chiedo loro, conservare nelle istituzioni quel rispetto e quella fiducia che pur sarebbero elemento indispensabile, che spesso vengono evocati in un contesto di desolazione e smarrimento? Come può, soprattutto, questo popolo, in un momento di grande crisi economica e sociale, conservare il rispetto e la fiducia in misure
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governative durissime, quando queste stesse misure colpiscono in maniera sapientemente e prevedibilmente differenziata? Ora che il governo Monti, quello di un signore chiamato a salvare la patria dal baratro, sembra giunto al capolinea, mentre nel centrodestra si riaffaccia Silvio Berlusconi, proponendosi anche lui come salvatore della patria, mentre anche nel centro-sinistra ci si affanna ad auto-legittimarsi come salvatori della patria, il senso diffuso che si diffonde tra una popolazione esausta e sconfortata è proprio quello per cui in mezzo a tanti salvatori a venire meno è proprio l’essenza: la patria. La patria dei misteri irrisolti, delle stragi impunite, dei colpevoli in libertà, dei potenti che fanno il bello e il cattivo tempo riuscendo a rimanere sempre e comunque a galla, la patria in cui nessuno, nemmeno uno dei tanti potenti del passato che tanto sanno e tanto potrebbero, si è preoccupato di lasciarci un testamento storico e intellettuale che finalmente gettasse luce sulla notte infinita della nazione, una patria del genere non è patria ma regno scivoloso, putrefatto e indistinto di una realtà magmatica la cui unica identità è quella di essere al di là del bene e del male, quindi indecifrabile, inabitabile, impossibile da amare per qualunque cittadino degno di questo nome. Proprio in questi giorni in cui ci troviamo a festeggiare il bicentenario della nascita di due grandi geni musicali come Verdi e Wagner, il pensiero corre ancora una volta, e per l’ultima volta, all’opera citata di Nietzsche, precisamente al § 240 che si conclude con queste parole del grande filosofo tedesco, rivolte alla Germania ma quanto mai attuali per la nostra triste Italia: «Questa specie di musica esprime nel modo migliore quel che io penso dei Tedeschi: essi appartengono all’altroieri e al posdomani: non possiedono ancora un oggi!». Questo rischiamo di essere: un popolo dai gloriosi passati e dalle speranze future sempre rimandate. Un popolo senza patria. Senza dignità né verità. Un popolo al di là del bene e del male, e quindi, alla fine, privo di una propria identità. In cui non si scorge neppure il barlume di qualcosa che possa chiamarsi Amore!
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LA FIERA DELLE VERITÀ*
La condizione umana è controversa e sofferta per tante ragioni, molte delle quali vengono fuori in tutto il loro fulgore sotto le festività, come ben sappiamo. Lo abbiamo imparato lungo secoli di riflessione e analisi sull’argomento, ma è fin dall’antichità, in particolare grazie al poco noto filosofo Eubulide di Megara, che l’essere umano ha dovuto fare i conti con il senso di smarrimento e squilibrio che emerge non appena si fanno i conti con la verità. Grazie a una celebre antinomia, passata alla storia col nome di «paradosso del mentitore», infatti, questo filosofo antico evidenziò la distanza incolmabile che separa l’uomo anche solo dal concetto o pensiero di una qualunque verità generica. Il paradosso del mentitore consiste nella lunga fila di paradossi e incomprensioni create da una frase banalissima, da lui pronunciata: «Io mento sempre». Se dice la verità, la frase è falsa (perché lui in quel momento non sta più mentendo). Se non dice la verità, allora vuol dire che almeno una volta egli ha detto la verità, e quindi la frase è comunque falsa. Può sembrare un esercizio onanistico, tipico di quei buontemponi ossessivi, e anche un po’ sfigati, che in genere sono i filosofi, ma è un fatto che sin dall’epoca antica ha messo in evidenza la distanza siderale che separa l’uomo da qualunque possibilità di scorgerla soltanto, o anche nominarla, la verità. Malgrado ciò il genere umano, produttore seriale di illusioni e amante indefesso di una verità da possedere virilmente, ha proseguito il suo cammino più o meno convinto di potersi avvalere di un fido compagno come la verità. Che si trattasse di una verità assoluta, o impiegata come tale, alla stregua di quella delle grandi chiese (ideologie, religioni, psicoanalisi, scienze naturali), o che, in tempi a noi più vicini, riguardasse la *
27 Dicembre 2012
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verità come entità sempre cangiante, al punto da poter essere vissuta soltanto come ideale regolativo che si raggiunge solo parzialmente, in attesa di sempre nuove e imprevedibili raffigurazioni (da Einstein a Popper, volendo sintetizzare al massimo). Il cammino dell’umanità, oggi che siamo nei tempi della Rete e di un fluire velocissimo ed enorme di informazioni a profusione, ci ha condotti verso quello che sembra un terzo tipo di verità. Dopo le verità assolute o dogmatiche, dopo quelle relative o razionali, oggi siamo entrati mani e piedi nell’epoca delle verità immediate, quelle che valgono nello spazio dell’attimo in cui vengono pronunciate. Quelle che difficilmente possono essere smentite, e se anche lo saranno, ciò avverrà quando saranno state già dimenticate, esse e chi eventualmente le ha pronunciate. Per gli esempi, ancora una volta e tristemente, è sufficiente rivolgere lo sguardo al nostro Paese. Quello in cui Veltroni dichiarò che avrebbe lasciato la politica, ben prima del ciclone Renzi, e si sarebbe trasferito in Africa, Casini che si sarebbe assunto le responsabilità se Totò Cuffaro fosse stato dichiarato colpevole, Monti che non si sarebbe mai e poi mai schierato politicamente in quanto uomo delle istituzioni e risorsa nazionale. In cui i politici nostrani, sull’onda della vergogna per i fallimenti e gli scandali, giurarono e spergiurarono che si sarebbero abbassati gli stipendi e i benefit, che avrebbero lavorato di comune accordo per fornire il nostro Paese di una legge elettorale seria e rispettosa della volontà popolare, per non nominare l’abolizione delle province, della lotta finalmente rigorosa contro l’evasione fiscale, per l’abbattimento di quei costi mostruosi, della politica e della macchina statale in genere, che ci hanno condotto al disastro che è sotto gli occhi di tutti. Ma non è solo l’elenco delle verità non vere a smarrire noi cittadini del fu Belpaese, di cui qui abbiamo potuto riportare soltanto una sintesi estrema per ovvie ragioni di spazio. Ci sono le verità necessarie, quelle di chi ci racconta che comunque andranno le elezioni noi dovremo attenerci ai diktat delle banche europee e dei mercati, mettendo da parte anacronistici intenti rivolti a uno stato sociale e a una giustizia sociale degni di questo nome. Poi ci sono le verità ilari, che manco a dirlo sono quelle del prode Silvio B, a settantacinque anni suonati folgorato sulla via di Nietzsche e teorico dei giorni nostri dell’«eterno ritorno». Lui è amatissimo in Europa, il più stimato degli ex capi di governo,
La fiera delle verità
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nel suo governo le cose andavano alla grande, appena torna in sella abolirà l’Imu, ha una splendida fidanzatina di 27 anni che aiuta nella preparazione degli esami universitari, e, udite udite, fra un po’ entrerà a far parte, come quinto componente, nientemeno che dei mitici Rolling Stones. Mancano solo alcuni dettagli, come la crescita dei capelli (ci vuole tempo) e il perfezionamento delle lezioni di musica heavy metal che sta prendendo dal maestro Apicella, e poi anche su questo si potrà innalzare il mitico cartello: «Fatto!». Stendiamo un velo pietoso su Alfano e le primarie, miracolosamente trasformate in originarie (vince Silvio a priori, punto), con tanto di genuflessione immediata di tutti e rientro delle velleità democratiche, perché del resto cosa c’è di più democratico che offrire al popolo l’unto del Signore! Eggià, il popolo. Noi tutti. Che ci apprestiamo ad affrontare quelle che forse saranno le elezioni più importanti della recente storia repubblicana. Un appuntamento elettorale fondamentale, che potrebbe finalmente segnare la fine di epoche sciagurate e inconcludenti, ma che ci vede abbacinati e storditi da tante e troppe verità (non vere, necessarie, ilari) per le quali mancano dei portatori sani e credibili. In grado anche soltanto di illuderci rispetto alla costruzione di un edificio finalmente solido e soltanto nostro. Non sotto il cappello della Nato, come è stato dopo la Seconda guerra mondiale, non sotto lo scacco di istituzioni finanziarie internazionali, in grado di imporci politiche e misure sociali in nome di un disastro non più gestibile prodotto dalle nostre classi politiche dei decenni alle spalle. Vorrei proprio vedere un altro popolo, a doversi orientare in questa penuria di personalità serie e credibili, progetti politici chiari, validi e dagli obiettivi concreti. Finisce un 2012 duro e drammatico per milioni di persone, mentre l’alba del 2013 non è ancora in grado di illuminare sentieri nuovi e salvifici. E intanto la fiera delle verità scorre inesorabile e fulminea sul grande apparato mediatico, lo stesso che ci informa di ogni cosa proprio mentre è nulla che ci fa conoscere davvero, permettendo alle classi dirigenti del Paese di dire tutto e il contrario, di propalarci anche la più grande falsità con il crisma dell’autorevolezza e dell’indiscutibilità: «Ciò che appare è buono, ciò che è buono appare», affermava Guy Debord parafrasando Hegel (G. Debord, La société du spectacle, Gallimard, Paris 1967, § 12), evidenziando in questo
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modo quel grande spettacolo della realtà magmatica ed indistinta in cui siamo piombati. E la verità? La verità è sempre distante dal nostro mondo umano, anche se adesso si diverte ad apparire sotto forma di miliardi di bit di cui a fatica si riesce a riconoscere una forma chiara e comprensibile. Tutti possono dire tutto e smentirlo il giorno dopo, fare riferimento a questo o quell’altro fatto che verrà dimenticato nello spazio di poche ore, sepolto da nuovi bit e rinnovate finzioni. Tanto che adesso potremmo dire di essere entrati di fatto nell’epoca in cui regna il «paradosso della sincerità». Nell’antichità era la menzogna a mettere in luce le contraddizioni dell’umano esistere. Oggi è la verità, o almeno quella modalità strana, poco credibile, e fuggevolmente mutevole con cui l’apparato mediatico ce la propone. Questa è l’epoca in cui la dicono tutti, la verità. Almeno fino alla dichiarazione successiva.
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CORTOCIRCUITO*
Sempre più spesso capita che le persone, che siano studenti o elettori smarriti, si rivolgano a me per chiedermi a chi darò il voto in occasione delle vicine elezioni politiche. Magari con la speranza che proprio da me possa provenire un suggerimento minimamente illuminante. E sempre più spesso si manifesta tutta la mia difficoltà nello scorgere una tale luce interiore, con la conseguente incapacità di poter illuminare in tal senso alcuna persona. I motivi per abbandonarsi a questo tipo di sconforto, che in termini razionali e non emotivi potremmo chiamare con Cartesio «epoché» (sospensione del giudizio), sono talmente tanti da non richiedere sforzo alcuno. Basti citare l’ultimo caso in ordine di apparizione: quello del presidente Monti che, dopo aver gridato ai quattro venti che non avrebbe preso posizione politica, che non si sarebbe mai e poi mai candidato, che era ora di farla finita con i partiti strutturati sulla personalità e sul nome (invece che sulla coerenza e realizzabilità di un programma), ha visto bene di smentirsi senza alcun apparente scrupolo, scendendo nettamente in campo per la leadership del Paese, schierandosi con le forze di centro in parte già esistenti, con una lista che porterà il suo nome in primo piano e, udite udite, dichiarando persino di voler modificare in meglio alcune misure centrali (vedi l’Imu) prese dal precedente governo, che era capitanato dallo stesso Monti quando ancora non aveva informato se stesso di voler fare ancora di più per l’amato popolo italiano. Ora, tenendo conto che il professor Monti era stato chiamato a furor di popolo, e di banche, per salvare la patria agonizzante, a rigor di logica ci si potrebbe chiedere se non era l’uomo giusto ieri, quando voleva imporre una logica libero-mercatista il cui bilancio è stato disastroso, fatta eccezione per lo spread (i cui benefici non toccano in neppur minima parte le finanze delle classi medie e basse, per tutti *
9 Gennaio 2013
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gli altri versi massacrate); oppure non lo è oggi, visto che scende in campo per modificare l’operato del suo stesso governo che avrebbe dovuto nientemeno che salvare l’Italia dal tracollo economico. Se questo è o dovrebbe essere, come da più parti si sostiene, il politico più rappresentativo di una serietà e coerenza indispensabili per un Paese che le aveva perse, allora ci rendiamo conto dello sconforto che può cogliere chiunque si affacci alla finestra per ammirare il panorama della politica italiana. Certo, Aristotele ci ha insegnato fin dai tempi antichi che la verità non è un’entità unica e indifferenziata, ma che essa si può dire in molteplici modi che vanno riconosciuti e valutati secondo il criterio della gradualità. Ecco, la gradualità: quella per cui un signore posato e dall’inglese fluente come Monti può certamente indossare la maglietta fina della serietà e coerenza, dal momento che si è trovato a sostituire un altro signore, che negli incontri internazionali non trovava divertimento migliore che quello di fare il gesto delle corna, durante le foto di gruppo dei capi di governo internazionali. Serietà e coerenza che vengono comunicate, e quindi fissate a mo’ di certificazione incontrovertibile, da quello stesso circuito mediatico ufficiale che, eccettuate rare eccezioni, non ha mai alzato un dito o mosso una parola, per esempio in qualche editoriale dei Tg Rai, per dire: «Signor Presidente Berlusconi, il suo comportamento non è serio e danneggia l’immagine dell’Italia!». Si tratta di una faccenda di non poco conto, visto che uno dei compiti fondanti dell’informazione è quello di vigilare su, ed eventualmente denunciare le, nefandezze compiute dal potere politico, fornendo ai lettori, ascoltatori e spettatori gli strumenti consoni a giudicare chi li rappresenta in parlamento e al governo, e non certamente quello di schierarsi secondo le convenienza di chi li appoggerà nella corsa alla poltrona più importante e remunerata. In un caso (quello del Monti fatto assurgere a emblema della serietà), come nell’altro (quello del Berlusconi, e con lui troppi altri, di cui quasi nessun organo di informazione si è degnato di denunciare al popolo nefandezze e contraddizioni), emerge un ruolo dei mass media che è quello denunciato da Chomsky ed Herman nel 1988 (Manufactoring Consent, Pantheon Books, New York 1988, p. 207), laddove parlavano di «un’agenzia di manipolazione, indottrinamento e controllo al servizio dei potenti e dei privilegiati». Senza
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dimenticare, per inciso, che i mass media americani si sono sempre rivelati molto più indipendenti dal potere e ficcanti dei nostri. E qui credo che arriviamo al punto nodale della questione. Sì, perché ovviamente non ci si può limitare a constatare l’inadeguatezza della classe politica e giornalistica, esercizio che è stato fin troppo agevole per movimenti di protesta e oggi anche di cosiddetta (a torto) antipolitica, puntualmente poi finiti nello stesso pantano da cui non ci si può tener fuori senza un’elaborazione più in profondità di quello che ormai è diventato un habitus mentale e sociale. Quello che indubbiamente può essere rilevato come un cortocircuito politico-mediatico in grado di paralizzare e alla fine incancrenire la società italiana, infatti, presenta una causa più profonda che afferisce all’essenza di ogni sistema paese. Una causa che si è voluta rimuovere per troppo tempo, fino a relegare il campo che la riguarda nella serie dei terreni abbandonati e inservibili. Sto parlando dell’etica, di quella «disposizione» che, stando sempre ad Aristotele, non è insegnabile (né quindi imparabile, cosa ancora più importante, su un libro), in quanto costrutto che si determina gradualmente all’interno del campo vasto e complesso costituito dalle passioni e relazioni sociali (Etica nicomachea, II, 1-4 e 5). L’etica, termine la cui etimologia richiama anche e non per caso il significato del «costume», la si acquisisce individualmente e collettivamente grazie all’esercizio di una vita ispirata anche e soprattutto all’ideale regolativo del «giusto», un criterio oggigiorno inevitabilmente sostituito dal monopolio del «bello», dell’«utile», dell’«egoismo sociale». Può sembrare, e in effetti è sempre sembrato, che si tratti di aria fritta, di idealistiche elucubrazioni da filosofi astratti e avulsi dalla materialità del reale. Ma l’etica aristotelicamente intesa, costituisce un elemento assai centrale e fondante di ogni società, di cui alla stregua dell’aria e del tempo, ci si accorge soltanto quando viene a mancare in maniera irreparabile. Proprio ai giorni nostri, in questo clima da caduta dell’impero, capiamo quella che sembra un’assurda legge ferrea ed inesorabile (che conduce ogni uomo pubblico all’incoerenza e persino all’illegalità), soltanto se teniamo presente di averla volutamente abbandonata, e da molto tempo, rispetto alle pratiche di educazione, istruzione e formazione di quelle che di volta in volta sono state le giovanissime generazioni (non a caso il libro di Aristotele sull’etica era stato concepito a mo’ di insegnamento diretto da impartire a un giovane).
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L’accettazione acritica delle logiche esclusivamente economiche, quelle stesse mai così ben rappresentate come da Monti, per cui l’utile, il profitto, la quantità, il numero e il successo sociale costituiscono l’unico vero metro di valutazione, ha condotto inevitabilmente a un tipo di società condannata a quella che potremmo chiamare «la legge ferrea dello scadimento etico»1.** Ecco che allora ci troviamo di fronte al vero grande elemento che permette di comprendere la totale assenza di punti di riferimento seri, credibili, e soprattutto coerenti: cioè quella sconfitta che ci siamo innanzitutto impartiti da soli, che è sconfitta dell’etica intesa come formazione di un individuo che, oltre alla giacca e cravatta, indossa l’abito interiore dell’etica, intesa come quella facoltà di agire tenendo presente l’ideale del giusto in maniera autonoma e ragionata, consapevole che il consesso umano regredisce, prima o dopo nella sua interezza (gruppo, società, nazione, mondo), se si lasciano prevalere le logiche impersonali dei numeri, della quantità, dell’egoismo (facoltà persino contro-natura, nella misura in cui rimuove il legame indissolubile che ci unisce in quanto individui se non altro della stessa specie, abitanti il medesimo pianeta ed esposti alla medesima e apparentemente tragica fine). In questo, anche in questo emerge la differenza fra l’etica e un’altra facoltà di cui invece si è fin troppo abusato: la morale, troppo agevolmente intesa (e imposta) alla stregua di una dimensione in cui a dettare le regole, ovviamente sacre e sante, e quindi da accettare come una sorta di pacchetto chiuso e immodificabile dalla ragione
1
Tra le figure più autorevoli ad essersi battute contro questa logica esclusivamente (ed ottusamente) economicistica, c’è sicuramente il Nobel Amartya Sen, il quale, richiamandosi ad una lunga ed eterogenea tradizione di pensiero (Aristotele, Petty, Adam Smith, Marx, Stuart Mill e perfino Hayek), ha sottolineato come il grado di sviluppo di una società non può misurarsi soltanto attraverso la logica ristretta degli indicatori economici e numerici, ma va considerata in base a molteplici fattori che hanno a che fare con la «promozione della libertà» degli individui. A tal proposito, va considerata come una svolta epocale la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, che ha esteso il concetto di libertà includendovi anche le tutele economiche, lavorative e dell’istruzione, fino a quel momento escluse dal novero dei diritti imprescindibili dell’essere umano (Development as Freedom, Oxford University Press, London – New York 2001, p. 289; The Idea of Justice, Harvard University Press, Cambridge 2009, p. 380).
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umana, sono dei poteri forti che sovrastano, mercificano, umiliano la dignità stessa dell’individuo. La distruzione dell’etica intesa nel senso che abbiamo ricordato, processo che ha origine lontane nel tempo, ha condotto al cortocircuito che non è soltanto politico-mediatico, ma prima ancora di cultura, di costume, di quell’abito strappato che è diventata l’«idea del giusto» a livello di sentire comune popolare (il popolo tutto). A questo livello, è inutile nasconderselo, è difficilissimo e forse impossibile sperare di produrre dei cambiamenti positivi, perché il marcio è stato coltivato e si è radicato fin dalle radici dell’albero. La soluzione, o le soluzioni, sono quindi difficili da trovare e soprattutto da applicare, ma certamente passano per una rivoluzione culturale nel senso stretto del termine, che innanzitutto preveda il coraggio di tornare a considerare la cultura civica e umanistica, la ricerca e l’elaborazione intellettuale, un pilastro portante di quell’edificio etico che dovrebbe essere ogni società2.* Tutto il contrario, mi sia consentito di dirlo, da quel manifesto di valori mercatistici, moralisticamente appiattiti sul dogma cattolico, e dimentichi della dignità individuale e sociale per i quali il presidente Monti ha ben visto di aggiungere anche il suo nome, alla lunga schiera di candidati al governo del paese, e che invece non sanno governare neppure la propria coerenza individuale.
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La filosofa americana Martha Nussbaum (Not for Profit. Why Democracy needs the Humanities, Princeton University Press, Princeton 2010, pp. 14 e 15) ricorda che dimensioni umane fondamentali, come la libertà politica, la salute e l’educazione, sono poco o per nulla correlate al modello di sviluppo che si è affermato nella nostra epoca. Ciò è tanto vero che paesi come il Sud Africa dell’apartheid, o la Cina dei giorni nostri, vengono posizionati in cima alla classifica delle nazioni progredite in base ad indici esclusivamente quantitativi ed economici. Sennonché, ammonisce Nussbaum, «la produzione di sviluppo economico non equivale alla produzione di democrazia!».
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LA MIGLIORE OFFERTA*
In ogni falso c’è qualcosa di autentico, come sanno bene i filosofi, ma anche gli esperti di arte che smascherano i falsi. Se non altro perché quasi sempre il falsario non resiste alla tentazione di inserire qualcosa di suo, all’interno del grande bluff approntato, magari anche soltanto un particolare impercettibile, dando vita inevitabilmente a qualcosa di autentico. Ma questo dato incontestabile comporta anche il contrario, con molte più ripercussioni sulla realtà quotidiana di tutti noi: in ogni verità è contenuto anche il falso, l’inautentico, ciò di cui faremmo bene a non fidarci anche se ci si presenta con l’espressione più innocente e convincente. Si tratta di una dialettica, quella tra vero e falso, sempre esistita e capace di intrufolarsi in moltissimi ambiti del mondo umano, ma che certamente ha trovato una forma di espressione compiuta in quella che Guy Debord chiamava «la società dello spettacolo». La società che ha raggiunto lo stadio del capitalismo avanzato (e della Politica con la maiuscola retrocessa a dato marginale, a fronte di un’economia che ha invaso e subordinato tutti i campi dell’umano agire e intendere), nell’ambito della quale si realizza quel «mondo capovolto» in cui «il vero è un momento del falso e il falso un momento del vero» (La société du spectacle, Gallimard, § 9). Siamo in un ambito insidioso e tormentato, generalmente rimosso poiché in grado di far traballare tutto il grande impianto delle illusioni umane, di vulnerare in maniera sottile ma devastante l’apparente armonia delle nostre certezze: costruita su una raffigurazione netta e manichea del giusto opposto allo sbagliato, come del vero opposto al falso. Una terra di confine, glaciale e buia al tempo stesso, in cui può manifestarsi con una luce apparentemente artificiale (ma tragicamente autentica) quel grande nulla che sta dietro al grande tutto di un mondo che appare proprio mentre si nasconde. *
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Qualcuno era italiano
Qui risiede forse il dramma più autentico e sofferto dell’uomo, che è homo religiosus proprio nel suo affannoso e mai soddisfatto raccogliere appigli stabili, luoghi confortanti in cui abitare circonfusi di realtà vere e indubitabili, di amori soprannaturali e immortali, ma anche di certezze terrene che invece ci sfuggono come sabbia tra le dita, che ci inondano di correnti gelide proprio mentre eravamo convinti di nuotare in acque tiepide. Una condizione tragica ma seducente, oltremodo difficile da esprimere sotto la forma di concetti razionali, che forse richiede espressioni artistiche come la poesia, non a caso raffigurata da Heidegger come «casa dell’essere» (di cui i poeti sono i custodi). Oppure un film che, come già accaduto in queste pagine, risulta quanto mai efficace nel portare alla luce le zone d’ombra in cui non vogliamo accorgerci di sostare. Già, un film, un capolavoro come l’ultima fatica di Giuseppe Tornatore, La migliore offerta, epitome della fiction o finzione per antonomasia, eppure in grado di parlarci della realtà molto meglio di quanto essa stessa non faccia con il suo semplice, e «reale», apparire ai nostri occhi nella sua nudità. Se è vero che un film parla anzitutto alle emozioni, quello di Tornatore si rivela come un capolavoro anche perché formidabile nel dare da dire (e dare forma) alla mente dello spettatore. Un’opera intensa, che accende l’intelletto e richiede l’attenzione dell’intelligenza, perché costruita su più registri concettuali in grado di rappresentare la dialettica tra vero e falso, tra seduzione e repellenza, in ultima analisi tra amore e morte. Il protagonista maschile vive nella finzione di un personaggio artefatto ed alieno dalla realtà come dal contatto sentimentale con le altre persone. Indossa costantemente dei guanti per non sporcarsi al contatto col reale, e non ama nessuna donna che non sia rappresentata su un quadro famoso e di valore. Il paradosso, tragico, spiazzante, imprevisto, è che proprio quando questi incontrerà una donna misteriosa, di una bellezza fragile quanto fascinosa, anche lei apparentemente avulsa dal mondo e da ogni contatto col mondo esterno (rinchiusa in casa per agorafobia grave), donna di cui si innamorerà follemente pur non potendola vedere mai, separato da un muro che ricorda il virtuale dei rapporti in Rete (la virtualità è verità, è falsità, o è una terza dimensione ineffabile, che apre un campo infinito di possibilità tale da superare la realtà vera?), proprio quando si innamora di questa donna, dicevo,
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ad ella si svelerà e si aprirà come mai era riuscito a fare con nessuno, aprendole la verità del suo cuore e, così facendo, ponendo le condizioni per lo spezzarsi dello stesso. In un gioco costante di specchi riflessi, dove appunto il vero è un momento del falso (il personaggio maschile fintamente duro e misantropo, ma anche quello femminile, che si rivelerà protagonista di una truffa clamorosa), e il falso un momento del vero (il nascondersi dei due, pur in maniera differente, è solo il preludio di un bisogno intenso di svelarsi alla persona giusta: nel caso di lui per riuscire finalmente ad amare, nel caso di lei per riuscire a truffarlo), Tornatore confeziona una pellicola che svela le gigantesche linee d’ombra di quelle che noi vorremmo vivere soltanto come luci: l’Amore, innanzitutto, che è anche, e forse inevitabilmente, strumento di potere, logica del dominio, viatico per una morte certa e dolorosa, perché da noi vissuto come investimento assoluto e totale verso qualcosa che invece è debole e mortale. Di fatto un giallo, una lunga, sofisticata e magistrale costruzione del grande bluff in cui cade l’apparentemente inossidabile protagonista (e noi spettatori con lui), dove però a risultare colpevole non è tanto un personaggio in particolare (pur svelandosi, alla fine, i «colpevoli»), ma la natura umana nel suo complesso, raffigurata nella sua inesorabile, contraddittoria debolezza e malvagità, ma anche nella sua condizione di piccola barchetta costretta a navigare le acque buie e tempestose di un mare che la conduce dove vuole lui, che la innalza o la affonda a proprio piacimento, strumento di un dio burlone e crudele. Molto di quello che non vogliamo, o non vorremmo vedere, è rappresentato in questo film crudo e drammatico, ma straordinariamente eloquente e distruttore di umane illusioni. Efficacissimo nello squarciare quel velo di ipocrita, e disperata finzione, con cui ci piace tanto occultare il profondo e radicale non-senso della nostra umanissima condizione. Che poi è lo stesso, se ci pensiamo con profondità, che consente alla «società dello spettacolo» e ai suoi protagonisti di mettere in scena ogni costruzione e imbroglio, di mescolare vero e falso secondo interessi superiori che sfuggono alla stragrande maggioranza dei più deboli. Quello che consente, a chi detiene il vero potere (economico, politico, religioso, tecnico), ma anche a chi è depositario di una qualunque forma di influenza nei nostri confronti, di ritagliarsi una forza propria dal più grande bisogno di cui siamo portatori: il bisogno d’amore.
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LE PIAGHE DELLA CHIESA DA MUSSOLINI A MONTI*
L’immagine semplificata che all’estero hanno di noi italiani viene spesso riassunta con il trinomio «pizza, spaghetti e mafia». Da un ventennio, ahinoi, si sarebbe potuto aggiungere anche «Berlusconi», se non fosse che, ne siamo certi, almeno fuori dell’Italia non si fa fatica a ritenerlo compreso nel terzo elemento del trinomio. In realtà, non bisogna essere dei raffinati storiografi del nostro Paese per comprendere che c’è comunque un quarto elemento, che ha inciso nella storia patria come pochissimi altri. Potremmo chiamarlo fattore C, ma precisando che purtroppo non ha niente a che vedere con la buona sorte. Tutt’altro! È il fattore Chiesa, o Vaticano che dir si voglia. Una recentissima inchiesta del quotidiano inglese The Guardian (D. Leigh – J.F. Tanda – J. Benhamou, How the Vatican Built a Secret Property Empire Using Mussolini’s Millions, 21 gennaio 2013), ovviamente ripresa da pochissimi organi di presunta informazione nostrani, e comunque sottaciuta dalla stragrande maggioranza, ha riportato alla luce alcuni fatti a dir poco inquietanti. Secondo la ricostruzione dell’autorevole giornale inglese, il Vaticano possiede un capitale immobiliare di dimensioni eccezionali tra l’Inghilterra e la Francia (senza contare quello sterminato in Italia). Ufficialmente intestato a una società off-shore (con tutti i benefici fiscali del caso, quindi), questo patrimonio immenso suscita più di un’inquietudine. Innanzitutto verrebbe da chiedersi cosa se ne fa, di questi palazzi spesso affittati ad attività commerciali e finanziarie di altissimo livello (quindi con fatturati economici ragguardevoli), lo Stato di quella Chiesa che dice di fare della povertà e della carità la sua stessa ragione esistenziale. Ma per una volta evitiamo di fare le anime belle e sorvoliamo su queste considerazioni eccessivamente spirituali. Allora arriviamo al *
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secondo dato che emerge dall’inchiesta. I soldi con cui il Vaticano ha costituito questo capitale immobiliare immenso, circa 650 milioni di euro dell’epoca (seicentocinquantamilioni!!!), è il frutto di soldi versati dallo Stato italiano, nella persona di Benito Mussolini, nel 1929 (per inciso, l’anno della funesta e drammatica crisi economica mondiale, con famiglie intere ridotte alla fame), per risarcire, attenzione alla motivazione, «risarcire la Chiesa della perdita del potere temporale». Uno Stato, quello del Vaticano, che quando ha avuto il potere temporale, governando praticamente su tutta l’Italia centrale, applicava in maniera assai anacronistica la servitù della gleba, la pena di morte, l’esercizio dittatoriale del potere (per inciso: ancora oggi il Vaticano è forse l’unico stato occidentale a tutti gli effetti non democratico, che fino a qualche anno fa prevedeva la pena di morte formale, che non ha mai riconosciuto, insieme alla Cina comunista, i diritti universali dell’uomo stipulati nel 1948, e che ancora ai giorni nostri si è opposto alla mozione dell’Onu per far togliere la pena di morte nei confronti degli omosessuali in quegli stati che ancora la contemplano). Senza contare tutto il grande impegno profuso dalla Chiesa per ritardare l’unificazione dell’Italia, fino ad arrivare al punto di chiamare in aiuto potenze straniere per reprimere con la violenza i moti rivoluzionari italiani. Per queste caratteristiche edificanti e per molto molto altro, quel primo esponente disonesto, infingardo e opportunista che fu il Duce decise di elargire alla Chiesa, in occasione dei Patti Lateranensi del 1929, quella cifra spropositata per «risarcirla» della perdita del potere temporale. Naturalmente con i soldi degli italiani, per di più in un momento di crisi economica drammatica. Con tutte le dovute differenze del caso, dovrebbe essere quasi impossibile, per un Paese fornito di cultura e memoria storica, non inorridire di fronte alla non risposta dietro a cui si è nascosto Mario Monti, intervistato a Ballarò da Floris, riguardo all’esenzione dell’Imu per le attività commerciali della Chiesa. Siamo sempre in un’epoca di terribile crisi, in cui le famiglie impoverite non arrivano più alla fine del mese, in cui la pressione fiscale (anche grazie all’Imu) è salita a livelli inauditi e insostenibili, mentre noi facciamo finta che il Medioevo non sia finito e consentiamo dei privilegi (clerico-fascisti, si sarebbe detto un tempo) a un’istituzione potentissima, ricchissima e francamente non sappiamo quanto dedita effettivamente alla carità e alla povertà.
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E dire che solo un paio di anni fa abbiamo ritenuto di celebrare, naturalmente in pompa magna, il 150° anniversario dell’unificazione italiana, della creazione di uno Stato unito ma non unitario, che non si è mai saputo riconoscere come nazione anche a causa dell’influenza contraria che ha voluto e saputo esercitare la Chiesa, con la compiacenza di una classe politica per lo più genuflessa, opportunista e ipocrita. Si fa presto, in questa epoca triste e sciagurata, a rimarcare la nostra presunta superiorità culturale sull’Islam, innanzitutto perché quest’ultimo sarebbe fondamentalista, non avendo ancora compiuto la separazione tra sfera politica e sfera religiosa all’interno della società civile e del governo degli stati. Meno presto si fa a ricordare che, soprattutto in Italia, questa separazione (mai compiuta davvero), è stata ottenuta grazie al sacrificio di tante vite umane, che hanno combattuto contro uno Stato, quello del Vaticano, alleato e protetto di volta in volta da potenze straniere che uccidevano i nostri soldati, nonché da regimi disumani e assassini come quello fascista e nazista. Ecco il panorama triste, lugubre, con cui l’Italia si presenta alle prossime elezioni. Con un passo indietro, culturale, strategico, politico, di tutte le coalizioni in campo. Una sinistra che è tornata a dividersi in mille rivoli che innanzitutto si combattono fra di loro. Un Pd che ospita al proprio interno, e si allea con, cattolici tutt’altro che «adulti», chiamati a salvare la patria come è il caso di Monti, ma in realtà pronti a genuflettersi a un potere che quella patria unita e laica ha fatto di tutto perché neanche si costituisse1.** Il tutto, in nome di un senso comune diffuso a livello popolare, che per esempio ci differenzia dall’America in modo sostanziale: lì 1
Di certo è stata dimenticata la lezione di Gramsci, che a proposito del Concordato parlava di una «capitolazione dello Stato moderno», del «riconoscimento pubblico ad una casta di cittadini dello stesso Stato di determinati privilegi politici. La forma non è più quella medioevale, ma la sostanza è la stessa. Nello sviluppo della storia moderna, quella casta aveva visto attaccato e distrutto il monopolio di funzione sociale che spiegava e giustificava la sua esistenza, il monopolio della cultura e dell’educazione. Il Concordato riconosce nuovamente questo monopolio, sia pure attenuato e controllato poiché assicura alla casta delle posizioni di partenza che con le sue sole forze, con l’intrinseca adesione alla sua concezione del mondo, alla realtà effettuale, non potrebbe mantenere» (Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, p. 494).
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buona parte della gente è persino invasata a livello religioso, mentre da noi sembra essersi affermata una maggiore secolarizzazione e distanza dalle credenze più ingenue. Ma all’atto pratico le cose non stanno così, perché mentre negli States vige il principio del «ci credo ma non mi piego» (lo Stato riconosce la massima dignità a tutte le religioni, di fatto per non innalzarne nessuna al di sopra delle altre, quindi subordinandole tutte alla Nazione)2**; da noi vige il principio, tipico dell’ipocrisia pelosa dell’Italietta, del «non ci credo ma mi piego» (lo Stato si professa laico, aconfessionale etc., ma di fatto garantisce a Chiesa e clero privilegi degni di uno stato nello stato. E questo è vero anche a livello di sentire comune individuale: quasi tutti siamo laici nella pratica quotidiana, ben restii a seguire i precetti religiosi: ma quando serve ci inginocchiamo, eccome!). Ed ecco come è possibile quell’apparente paradosso per cui è un giornale straniero a venirci a spiegare uno dei motivi sostanziali del fallimento dello Stato italiano, ancor di più in un’epoca globalizzata. Per opportunismo, mancanza di coraggio, indecenza della classe politica, troppo tempo abbiamo trascorso a baloccarci con la «città di Dio», che ci siamo dimenticati quel piccolo particolare di fondare una vera, dignitosa, giusta e libera «città dell’uomo»!3.****
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«In America la religione è un mondo a parte in cui il prete regna, ma dal quale ha ben cura di non fuoriuscire; all’interno di tali limiti egli guida l’intelligenza, ma al di fuori di quelli lascia gli uomini liberi a se stessi, abbandonandoli all’indipendenza e all’instabilità propri della loro natura e dei tempi» (A. de Tocqueville, Un ateo liberale. Religione, politica, società, a cura di P. Ercolani, Dedalo, Bari 2008, p. 261). Che stiamo parlando di un’istituzione ricchissima, piena di proprietà in tutto il mondo, ma anche di fondi di investimento e titoli per un valore enorme; di un’istituzione che devolve percentuali irrisorie dell’8 per mille alle attività caritatevoli e al sostentamento dei poveri, è quanto minuziosamente documentato da Curzio Maltese. Ma in Italia, una popolazione giustamente pronta a denunciare la casta politica, risulta pressoché latitante nell’occuparsi di questa casta religiosa. In ciò favorita dal sistema intellettuale e informativo, che da una parte monta un dibattito monumentale sulla battaglia della Chiesa per vedere riconosciute le «radici cristiane» (nella carta europea), e dall’altra omette che battaglie ben più agguerrite la Chiesa stessa le ha combattute in difesa dell’articolo 52, che di fatto blinda i «privilegi economici» di cui essa gode all’interno dei singoli stati con cui ha stipulato dei concordati (C. Maltese, La questua. Quanto costa la Chiesa agli italiani, Feltrinelli, Milano 2008, p. 151).
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HOMO RELIGIOSUS*
Esattamente cinquecento anni fa Niccolò Machiavelli scriveva il De principatibus, meglio noto come Il principe. Un’opera divenuta così celebre, da essere naturalmente più citata che letta, fino a diventare oggetto di alcuni e clamorosi fraintendimenti spesso e volentieri perpetrati dalla stessa scuola italiana. Uno su tutti, forse il più enorme e significativo: l’idea per cui il grande fiorentino si fosse dato come obiettivo nientemeno che l’unificazione di un’improbabile e immaginifica Italia. Inutile dire che destra e sinistra se lo sono conteso a suon di esegesi più o meno raffinate: esempio di un realismo politico che sconsigliava le pulsioni idealistiche e democratiche, per la prima; grande divulgatore delle sottigliezze dei potenti, di quell’ars dissimulandi con cui le elite soggiogano il popolo con lo scopo di spingerlo verso gli interessi delle classi dominanti secondo la sinistra (incarnata soprattutto da Gramsci). Retorica nazionale in assenza di nazione effettiva, luoghi comuni tanto comodi quanto ipocriti, nonché fraintendimenti ideologici oltremodo interessati, rappresentano alcuni degli ingredienti principali di quel minestrone sempre troppo salato o insipido che è il nostro Belpaese. Paese di poeti e naviganti, certo, di menti eccelse e artisti giustamente riconosciuti nel mondo, ma anche di incredibili ed esilaranti «cazzari», immancabilmente pronti a trovare un popolo che li segue sprezzante del minimo senso del ridicolo e della realtà. Queste cose il dotto e acuto cancelliere fiorentino le sapeva fin troppo bene. Basti solo pensare ai primi tre paragrafi del suo capolavoro, in cui scriveva che «quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende, avvertendo però che, nondimeno, «si vede, per esperienza *
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ne’ nostri tempi, quelli principi aver fatto gran cose, che dalla fede (nel senso di tener fede alle promesse) hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli degli uomini; e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati sulla lealtà». Questa cruda e amara considerazione, già a quei tempi, tempi evidentemente felici rispetto ad oggi (dove di principi che fanno anche grandi cose non se ne vede l’ombra), spingeva Machiavelli a esortare il principe saggio a saper contemperare l’astuzia della volpe con la forza del leone. A sapersi comportare insomma, a seconda delle circostanze, da «gran simulatore e dissimulatore», poiché, e qui risiede l’enunciato vero in ogni tempo, «tanto semplici sono gli uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare» (De Principatibus, XVIII, §§ 1-3). Quella che potremmo chiamare la «lezione antropologica» di Machiavelli, rappresenta la parte che si vorrebbe tranquillamente rimuovere. Proprio perché essa porta alla luce un aspetto che contrasta con la retorica più consueta, che preferisce accanirsi soltanto contro un lato della medaglia, quello del potere detenuto da persone furbe e opportuniste, traditrici del mandato popolare e del compito sovrano di curare il bene collettivo delle genti da loro governate. Si tratta di quella retorica che ancora oggi ci portiamo dietro quando ci impegniamo nell’esercizio, certamente agevole e giustificato, di scagliarci contro la casta politica, puntualmente accusata di curare soltanto i propri interessi a discapito di un popolo sempre più martoriato e sfruttato. Come se esso, il popolo appunto, fosse un corpo sociale per forza di cose virtuoso, composto da individui che mai e poi mai si sognerebbero di curare il proprio «particulare», incuranti del bene collettivo e della crescita della nazione nel suo complesso. Ma il punto centrale è un altro, ed ha a che fare con lo sviluppo politico e sociale delle democrazie occidentali. Democrazie che sono anzitutto rappresentative nel senso che la stragrande maggioranza del popolo delega ad altri, gli «eletti» appunto, la cura (o l’incuria) della res publica, potendosi così concentrare esclusivamente sulla cura dei propri affari, del benessere proprio e della ristretta cerchia di affetti. A questo dato sociale, se n’è aggiunto uno antropologico, che ha a che fare con la mentalità essenzialmente religiosa dell’essere
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umano: essa lo spinge, sulla scorta della consapevolezza dei propri limiti e di una condizione esistenziale di essere gettato in un mondo che non può controllare, a coltivare un atteggiamento di delega delle questioni più alte e importanti a un’entità provvidenziale. Questa, fornita di onnipotenza, onniscienza e capacità di durare per l’eternità, viene posta nell’aldilà o in un immanente aldiqua dall’homo religiosus perché garantisca il lieto fine, l’esito comunque pacifico e armonico delle vicende umane, dispensando così gli individui tanto dall’angoscia rispetto a un finale che ci sfugge totalmente, quanto soprattutto dalla fatica immane di doversi impegnare in prima persona per migliorare, per quanto è possibile, la nostra condizione di esseri fallibili, ignoranti, fragili. Ecco allora comparire Dio, il Mercato, ai giorni nostri la Rete, che a seconda delle situazioni e della bisogna, svolgono il ruolo di entità sovrane perfettamente in grado di governare la complessità del mondo umano, di garantire, a patto che gli siano delegati molti poteri, somma fede e indiscussa venerazione, il progresso e il benessere della comunità intera mentre gli individui, e anzi, proprio perché gli individui si occupano ciascuno ed esclusivamente dei fatti propri. Incuranti del fatto che tanto poco il bene individuale corrisponde al bene collettivo, quanto invece è più facile che il benessere e la crescita della collettività possano più agevolmente irradiarsi anche sui singoli. Ma soprattutto, questo homo religiosus che è prodotto di una società in cui l’economia, la tecnica e la delega degli affari pubblici rappresentano la cifra portante di un progresso che vede l’uomo più come mezzo che come fine, finisce con l’aver introiettato a tal punto l’atteggiamento religioso, da riuscire a scorgere in chiunque, ma davvero in chiunque, l’uomo della provvidenza, colui a cui votarsi anima e corpo malgrado le palesi bugie, i fallimenti miseri, lo scoperchiarsi grottesco delle sue vicende personali intrise di malaffare e vergogna. Si tratta di un meccanismo descritto mirabilmente da Gustave Le Bon alla fine dell’Ottocento, in un’opera che non a caso aveva suscitato la lettura e il vivo interesse di Mussolini e di Hitler. Si tratta de La psicologia delle folle, e questo rappresenta il passo centrale per il nostro discorso: «L’affermazione pura e semplice, svincolata da ogni ragionamento e da ogni prova, costituisce un mezzo sicuro per far penetrare un’idea nello spirito delle folle. Quanto più l’af-
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fermazione è concisa, sprovvista di prove e di dimostrazioni, tanto maggiore è la sua autorità. I testi sacri e i codici di ogni tempo hanno sempre proceduto per affermazioni. Gli uomini di Stato chiamati a difendere una causa politica qualsiasi, gli industriali che diffondono i prodotti con la pubblicità, conoscono il valore dell’affermazione. Tuttavia quest’ultima acquista una reale influenza soltanto se viene ripetuta di continuo, il più possibile, e sempre negli stessi termini. Napoleone diceva che esiste una sola figura retorica seria, la ripetizione. Ciò che si afferma finisce, grazie alla ripetizione, col penetrare nelle menti al punto di essere accettato come verità dimostrata». Questo perché le folle sono dominate dalla «fissità» piuttosto che dalla «mobilità», perché i loro istinti distruttori e rivoluzionari sono «effimeri», a fronte della tenacia estrema mostrata dai loro «istinti conservatori», che dopo una prima esplosione di risentimento, le spinge inevitabilmente «ad acclamare il primo Cesare di cui vedranno apparire il pennacchio» (La psicologia delle folle, Longanesi, Milano 1996, p. 159 e Psychologie du socialisme, Les Amis de Gustave Le Bon, Paris 1982, p. 102). Ecco, ognuno potrà applicare questa cruda lezione al contesto che più lo convince, smettendola, purtroppo, di meravigliarsi perché fanfaroni ormai specchiati e rubagalline di piccolo o altissimo rango riescono immancabilmente a stordire un gran numero di persone con promesse sempre più clamorose e ridicole. Del resto, con tutto il rispetto per le dovute differenze individuali, basta gettare un occhio, anche soltanto superficiale, alle elezioni politiche che la martoriata Italia si appresta ad affrontare, per rendersi conto agevolmente che sono le idee, i programmi, il principio stesso del bene collettivo ad essere state espunte, mentre ormai si parla soltanto di cognomi che dovrebbero incarnare, non si sa bene come e perché, una ricetta salvifica: montiani, berlusconiani, ingroiani, bersaniani, renziani, grillini. Questo siamo diventati, ed è perfettamente inutile nascondercelo. Un Paese di uomini religiosi alla disperata ricerca della figura e della ricetta perfetti, in grado di incarnare soluzioni e salvezze da accettare in blocco oppure scartare, a-criticamente e con buona pace dell’animo offeso. Che si tratti delle altezze di un anziano e serio signore, che vuole convincerci che se ci votiamo anima e corpo al dio Mercato, allora usciremo presto dalla crisi e ritroveremo il benessere perduto; o che
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si tratti delle bassezze di un altro anziano, e meno serio, signore che elargisce la sonorissima stronzata del momento, sapendo che il popolo bue mangia anche la cacca, purché sia calda e fumante. Il buon Machiavelli non poteva immaginare tutto questo. O forse sì, e proprio per questo si guardò bene dall’immaginare e promuovere quella favoletta che tanto ci piace. Sì dai, quella, quella di un Paese unito sotto un’unica bandiera. Quella bandiera che qualcuno voleva usare come carta igienica, proprio mentre intanto si intascava i soldi pubblici per comprarsi appartamenti e regalare il Suv al figlio un po’ tonto. Che fosse proprio il «trota», il Principe che aveva in mente il nostro amato Niccolò?!
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La sensazione è quella che il popolo, sempre di più, si trova a recitare il ruolo di Belluca nella novella di Luigi Pirandello Il treno ha fischiato. Belluca è un uomo debole e dimesso, sfruttato nel luogo di lavoro e subordinato dentro le mura domestiche. Sempre pronto a lasciarsi soggiogare, mansueto fino a provocare fastidio nel lettore partecipe, un bel giorno sente appunto il fischio del treno. Apparentemente un evento normale, un dettaglio, uno di quei tanti suoni che accompagnano la nostra vita senza che ormai ci facciamo più caso. Eppure, stavolta, è proprio quell’evento insignificante e accessorio a sconvolgere l’indefessa mansuetudine di Belluca. Il suo apparente ordine interiore subisce un trauma, lo scorrere pacifico della propria vita di uomo sottomesso vede un’interruzione decisiva. Di quelle che i giornalisti descrivono con la nota espressione «nulla sarebbe stato più come prima». È bastato anche solo un innocuo fischiare del treno perché un uomo controllato fino al midollo scoprisse una propria forma di follia. Di quelle che forse abbiamo tutti, in chissà quale angolo riposto della nostra coscienza, in attesa di chissà quale suono detonante. Il fatto curioso è che Belluca, nel suo «deragliare», non muta in maniera sostanziale il proprio vivere. O meglio, il proprio esistere. Continuerà ad essere sottomesso e mansueto, a porgere sempre l’altra guancia e lasciarsi sfruttare dal prossimo. La sua grande rivoluzione, peraltro non consapevolmente voluta e conquistata, consiste soltanto nel fatto che ogni tanto, quando meno uno se lo aspetta, Belluca comincia a uscir fuori con monologhi senza senso e sconnessi. Eccola lì, la sua grande conquista: una vacanza della mente, un leggero scostamento rispetto allo scorrere della normalità. Ma innocuo. Ancora una volta e come sempre innocuo. *
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Belluca rimane sottomesso e in balìa della volontà altrui, potendo però concedersi, dopo il fischio del treno, un’innocua vacanza della mente che lascerà le cose esattamente come prima. Come non pensare alla condizione sempre più triste in cui è piombato il popolo italiano, martoriato su tutti i fronti ma incredibilmente incapace di reagire se non con vacanze della mente, ispirate alla demagogia, al populismo, al favoleggiamento di un mondo che non c’è né può realisticamente esserci. Vittima di uno smantellamento etico e culturale che, alla lunga, ha prodotto effetti radicali impressionanti. Decenni di fondi tagliati all’istruzione e alla ricerca, commercializzazione e banalizzazione incontrollate del medium televisivo e dei mass media in genere, fino al capolavoro della Rete, che fin dall’inizio nasce come medium superficiale, banalizzante e «misologo» per eccellenza. I dati dell’Istat parlano di meno di un italiano su due che legge almeno un libro nell’arco di un anno, di circa quattro italiani su dieci che leggono un quotidiano tutti i giorni (considerando, poi, che il più comprato è quello sportivo, non rimangono da fare molti conti), di uno su quattro soltanto che usa la Rete per leggere quotidiani, riviste e news, mentre non posseggo aggiornamenti rispetto al dato del 2000 per cui un italiano su quattro non è in grado di comprendere un editoriale. Tagli ai fondi all’istruzione e impoverimento della cultura generale sono dati che colpiscono il nostro Paese da almeno un trentennio. Poiché è frutto dell’utopia, sterile e deresponsabilizzante di questi ultimi tempi, pensare che la Casta politica provenga da un altro mare che non sia quello della nostra società incivile (in cui nuotiamo tutti noi, ognuno con le proprie responsabilità), non ci possiamo meravigliare se, per esempio, la Corte dei Conti della Lombardia dichiara che la corruzione in quella regione è peggiore di Tangentopoli. Peggiore tanto da far parlare di una vera e propria «mercificazione del bene pubblico» (da affrontare, fra le altre cose, con appena sei magistrati della Corte dei Conti in tutta la Lombardia). Peggiore persino sul piano etico: perché nel 1992 chi veniva sorpreso a rubare piombava spesso nella vergogna più nera (non pochi i casi di suicidi), mentre oggi valga per tutti l’arroganza baldanzosa con cui Formigoni proclama tronfio tutti i suoi meriti e le sue capacità. È evidente il nesso tra la diminuzione continua, e la degenerazione, dei dati riguardanti l’istruzione e la cultura, e l’aumento costante
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della criminalità, della qualità crescente nell’appropriazione del bene pubblico da parte di una casta di politici mediamente ignorante, corrotta, corruttibile, incapace. Ma in questo non certamente peggiore né aliena rispetto alla media della popolazione da cui proviene. Parallelamente allo smantellamento culturale, è proceduto di pari passo quello politico-ideologico, per cui ci si è affrettati con imperizia e superficialità scellerate, a dichiarare la fine delle ideologie, dei grandi progetti per la costruzione di società migliori e più libere, delle visioni ampie rispetto al miglioramento della condizione del genere umano su un pianeta che ci sopporta con sempre maggiore fatica. Ci si è dimenticati che questi grandi progetti, questa chiamata a condividere un progetto collettivo, implicava la maggiore partecipazione dei cittadini, degli individui tutti, la loro maggiore informazione rispetto alle vicende delle rispettive comunità, mentre oggi assistiamo disperati al terribile scollamento fra le elite governanti e il popolo, un popolo chiuso nel proprio orticello e sempre più indifferente rispetto alla gestione di quella che non per caso gli antichi chiamavano res pubblica. Certo, gli effetti negativi di un eccesso di politicismo avevano condotto all’ emergere di un homo ideologicus, con la formazione di contrapposizioni spesso all’insegna della violenza. Ma a questo si è sostituito oggi un uomo mille volte più impoverito e deleterio, terribilmente vulnerabile ai condizionamenti e alle imposizioni interessate di chi detiene il potere. Sto parlando dell’homo religiosus, quello che non crede più, seppur in maniera eccessiva, al potere delle proprie idee, della propria ragione, che comunque implicano un certo ruolo attivo e «pensante», ma ha modificato in maniera radicale il proprio bagaglio di credenze in maniera da riporre tutte le speranze in entità onnipotenti e salvifiche, che lo dispensano dall’incombenza della responsabilità proprio mentre lo trasformano da fine in mezzo per scopi e benefici che non sono più i suoi1.** 1
Potremmo spiegare questa propensione atavica dell’uomo occidentale con la vittoria, all’interno del mondo cristiano, di S. Agostino su Pelagio. Ossia con la vittoria di un teologo che rimetteva ogni cosa alla grazia divina, su un monaco che incentrava la propria riflessione sulla responsabilità dell’uomo e sulla possibilità di questi di seguire in totale autonomia tanto la propria coscienza quanto la propria ragione. Insomma, per un S. Agostino che affermava che senza l’aiuto di Dio, senza la sua grazia imperscrutabile (frutto di un dono gratuito che noi non possiamo far nulla per
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Si tratta di un meccanismo ben compreso dal filosofo spagnolo Ortega Y Gasset, quello per cui l’uomo si ammanta di «credenze» a cui aderire totalmente, fino a sostituirle alla realtà, perché a differenza delle «idee» esse non presentano aspetti problematici. Se è vero insomma, che uno storico che voglia comprendere un uomo, o un’epoca deve primariamente investigare il «sistema di credenze» che li caratterizza (Obras Completas, Revista de Occidente, Madrid 1946-1968, tomo IX, p. 500), allora è vero che mai come oggi bisogna studiare le caratteristiche dell’homo religiosus, inteso nel senso di un prototipo disumanizzato di individuo, votato alla delega totale e al disinteresse completo rispetto a un bene comune che verrà certamente garantito (questa l’illusione) da entità immanenti come il Mercato, il Movimento, la Rete. Questo uomo non coltiva più idee sociali (ammesso che gliene rimangano molte di individuali), non si informa più, non gli interessa la conoscenza, reputa una perdita di tempo sterile ogni sforzo che lo costringa ad uscire dal proprio orticello felice. Un uomo che ha perso considerazione per l’etica, per la cultura e l’istruzione, per il bene delle generazioni future, per l’azione mossa da quel motivo fondante che è dato dalla giustizia. Lo faccio perché è giusto! In questo risiede il trionfo di quella logica ispirata all’«innocenza del divenire» (l’espressione è di Nietzsche), una logica imposta dal trionfo dei valori del Mercato e di un’economia che si è appropriata di tutti i gangli vitali del mondo umano. Tanto che oggi non è più possibile fare quasi nulla senza l’avvallo del mercato, senza che la nostra azione debba comportare un valore economico, o senza il benestare delle famigerate leggi del mercato. Persino i governi, ai giorni nostri, non possono più deliberare in nome del benessere dei propri cittadini, in nome di un valore aggiunto per le rispettive comunità, perché sempre più sono vincolati a decidere sulla scorta ottenere), «noi non possiamo superare con il libero arbitrio le tentazioni di questa vita» (Enarr. in Ps., 89,4), c’è stato un Pelagio che teorizzava l’incondizionato libero arbitrio dell’uomo e la sua piena responsabilità rispetto a un agire in grado di compiere la volontà divina, ma anche, nella libertà totale, di scegliere il male (Patrologia latina, 30,16 s.). La vittoria di S. Agostino è stata alla base della produzione di un uomo cristiano deresponsabilizzato, delegante e, in fin dei conti, pronto a genuflettersi a poteri trascendenti cui delegare tanto i meriti quanto le responsabilità, purché lo sollevino dall’assunzione della piena responsabilità (e dello sforzo) rispetto alle proprie azioni.
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di quanto è imposto dalle regole ferree delle istituzioni finanziarie sovranazionali2.*** Dobbiamo prendere atto, in questo panorama indubbiamente lugubre, della «morte della polis», ossia di una dimensione prolifica e democratica (con i limiti del caso) perché abitata da cittadini informati e mediamente interessati al bene pubblico, in cui l’istruzione e la conoscenza vengono considerate dei valori imprescindibili e fondanti di una società che voglia dirsi libera e giusta. All’epoca della polis si sta definitivamente sostituendo quella della «web-anarchia», in cui queste due entità impersonali ma pervasive ed invasive (la Rete e il Mercato), e naturalmente chi sta dietro di esse, ci stanno convincendo che possiamo essere i protagonisti della società senza parteciparvi attivamente, che possiamo essere informati su tutto senza bisogno di conoscere nulla, che un’armonia di fondo è garantita da quell’«ordine spontaneo» creato dalle interazioni economiche e telematiche, ben più che da una ragione tutta umana, e in quanto tale fallibile, che attraverso «prove ed errori» (ma quindi sempre vigile e presente, critica e aperta, partecipativa!) si prende cura del miglioramento dell’umanità. Un’epoca, la nostra, figlia molto di più del presunto «ordine spontaneo» teorizzato da Hayek che non del razionalismo critico di Popper. Un’epoca in cui al centro non v’è la nostra umanità, la nostra ragione, persino le nostre emozioni di esseri umani che si «sporcano» con la realtà e con il contatto diretto con le altre persone e con le situazioni sociali, in cui ci è richiesto di fare esperienza del mondo attraverso degli intermediari impersonali e onnipotenti (la Rete, il Mercato, forse anche un certo tipo di Dio) a cui deleghiamo il compito di vivere al posto nostro, conoscere al posto nostro, stabilire cosa ha valore e cosa può essere espunto dal diritto di cittadinanza nel consesso delle nostre società. Ci viene spiegato che in tutto ciò risiede la libertà, quando invece è di anarchia che dovremmo parlare. E l’anarchia, quello stato di natura 2
Si tratta, in buona sostanza, di quel fenomeno noto con il nome di «neoliberismo», impregnato di un’ideologia volta ad affermare il dogma per cui «non solo il mercato, ma anche il capitalismo assurge al ruolo di principio organizzatore di qualunque cosa. Noi tutti dobbiamo pensarci come delle piccole aziende organizzate intorno alla stessa relazione che intercorre fra investitore ed imprenditore» (D. Graeber, Debt. The First 5,000 Years, Melville House, New York 2011, pp. 376-7).
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da cui siamo faticosamente usciti quando abbiamo costruito le nostre società moderne, più che garantire la libertà certifica il predominio del più forte, di chi possiede gli strumenti economici, tecnologici e ideologici per sottomettere il resto dell’umanità. Anarchica è la pretesa illusoria di smantellare la società come res publica per sostituirla con una presunta e utopistica «comunità» in cui i legami sembrano più forti, quando in realtà sono soltanto più irrazionali ed evanescenti3.**** Oggi che stiamo male, oggi che la crisi distrugge intere esistenze, spegnendo la minima speranza di un futuro pieno e condiviso, proprio oggi che sbattiamo con la faccia contro le utopie economicistiche e tecnologiche di un mondo divenuto post-umano (perché l’uomo è ridotto a mezzo per fini che non sono più i suoi), ci troviamo drammaticamente a constatare la distruzione forse definitiva di quell’arma con cui siamo usciti dal medioevo per entrare nella modernità: la polis, intesa come dimensione in cui l’individuo è attore consapevole, razionale e responsabile della costruzione di un mondo di valori condivisi perché ispirati alla centralità dell’essere umano e dei suoi bisogni. L’Italia è uno specchio tristemente fedele di questa situazione, dove la speranza di riscatto sembra provenire soltanto da movimenti che si richiamano al potere illusorio ed evanescente di una presunta comunità costituita dalla Rete (mi riferisco al Movimento 5 stelle), fintamente contrapposta alle ricette infallibili dei fautori del Mercato, che di fatto rappresentano la proposta alternativa. Quella stessa Italia che, quando Pirandello componeva la novella Il treno ha fischiato, nell’anno 1914, si apprestava ad affrontare il trentennio più lugubre e tragico dell’intera storia europea. Di fronte al quale Belluca non avrebbe saputo fare nulla, se non rinchiudersi in un mondo tutto suo fatto di ignoranza e genuflessione.
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Si tratta di quella tradizione, ribattezzata dell’«anarchismo individualista» o «libertarismo», che si contrappone alla democrazia in quanto «dittatura della maggioranza», vedendo nei diritti collettivi (per esempio i diritti dell’uomo del 1948) l’espressione di un mito funesto e liberticida. Ma è anche quella tradizione che biasima ogni intervento dello Stato a favore dei più deboli come un’indebita interferenza nel meccanismo spontaneo della libertà: libertà che, se ben intesa, include pacificamente la possibilità di morire di fame. Anzi, «la libertà di morire di fame è inseparabile dalla libertà di vivere» (P. Lemieux, Du libéralisme a l’anarcho-capitalisme, Puf, Paris 1983, pp. 18, 26 e 32-3).
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SIPARIO*
Quando la situazione degenera oltre il limite consentito, quando lo sfascio di un Paese raggiunge livelli così profondi e pervasivi al tempo stesso, non rimane che rivolgersi a un principio ragionevole di fondo che radica l’animo umano. Sto parlando della speranza, quel sentimento che da una parte si declina prevedendo la passività impotente del soggetto (sto fermo sperando che il corso degli eventi prenda una piega a me favorevole), ma dall’altra, fin dalla radice etimologica del termine latino spes, indica anche un’aspirazione o tensione che prevede (anche) l’impegno consapevole e fattivo della persona stessa1.** La speranza passiva e sterile, frutto di un anelito nobile e profondo ma incapace di tradursi nella concretezza dirompente, è descritta mirabilmente nel Processo di Kafka. In quest’opera si narra di un uomo che giunge davanti alla porta del paradiso (la Legge), e malgrado essa sia aperta egli si rivolge al custode (la burocrazia, il potere frenante) chiedendo il permesso di poter entrare. Chiedere il permesso per raggiungere quello che è un diritto di ogni uomo, la legge? Il custode non gli fornisce quel permesso. L’uomo si siede e aspetta per giorni e giorni, continuando a chiedere un permesso che gli viene puntualmente negato, con la spiegazione che non è ancora il momento. Passano anni, un tempo lunghissimo in cui l’uomo ha potuto studiare le caratteristiche del custode con precisione certosina, fino a conoscere persino il numero delle pulci presenti nel suo collo di pelliccia. Il tempo è sovrano, forse l’unico dio di cui disponiamo in questa terra (e di cui vediamo e subiamo gli effetti visibili). L’uomo giunge in punto di morte, e volendosi concedere almeno il lusso della curio* 1
11 Marzo 2013 Non a caso il filosofo antico Epicuro, nella Lettera a Meneceo (o Sulla felicità), invitava a ricordarsi che «il futuro non è né del tutto nostro né del tutto non nostro, affinché né ci aspettiamo che assolutamente si avveri né disperiamo come se assolutamente non si avveri» (Opere, Einaudi, Torino 1960, p. 110).
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sità, rivolge la domanda fatidica al custode: «Come mai in tutti questi anni sono stato l’unico a chiedere di poter entrare?». La risposta del custode è fulminante: «Nessun altro poteva passare attraverso questa porta perché questa porta era la vostra. E adesso andrò a chiuderla!». La condizione dell’uomo che si sottomette a un potere vissuto come indiscutibile e insuperabile è quanto mai misera e paradossale, fino al punto di far dimenticare quali sono i diritti più legittimi che quell’individuo può e deve pretendere all’interno di un consesso, quello sociale, in cui il potere dovrebbe star lì per garantire il benessere collettivo e non la propria auto-perpetuazione. Certo, come ben sapeva Shakespeare, «il mondo è tutto un palcoscenico, dove uomini e donne, tutti, sono attori, con proprie uscite e proprie entrate» (Come vi piace: Atto II, Scena VII), così che al momento opportuno, quell’uomo costantemente sottomesso e incapace di far valere i propri diritti, potrebbe trasformarsi da spettatore passivo della propria disfatta ad attore fattivo della propria riscossa. Spogliarsi della speranza nobile ma improduttiva per indossare gli abiti da battaglia della speranza attiva e rivoluzionaria, quella di chi, come il malizioso folletto Puck, costruttore di complotti in Sogno di una notte di mezza estate, afferma: «Si sta recitando? Sarò spettatore. E alla bisogna, fors’anche attore» (Atto III, scena I). Viene in mente quella che potrebbe essere la parabola del popolo italiano ai giorni nostri. Un popolo che per troppo tempo si è ritrovato spettatore (ma soltanto spettatore?) di una commedia farsesca e tragica al tempo stesso, di un lugubre spettacolo andato in onda troppo a lungo e recitato da una classe politica e dirigente troppo spesso indegna e criminale. Mentre oggi gli viene detto che può assumere le vesti dell’attore, di colui che prende in mano la trama della propria esistenza per imprimere una svolta epocale. Il popolo tutto, grazie alla Rete, protagonista di uno spettacolo finalmente nuovo, che si sostituisce al vecchio. La trama è quella di questi ultimi tempi terribili, mentre il proscenio, infausto, è quello del nostro Belpaese. Dove c’è una destra che si caratterizza per la caratura infima, la figura macchiettistica e l’inadeguatezza spesso truffaldina dei propri elementi. Capitanata da un capo-popolo istrione e furbissimo, perfetta sintesi di molti difetti italici e, forse anche per questo, pervicacemente votato e rivotato malgrado la gravità e le miserie delle sue vicende personali e la sterilità della sua azione di governo.
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Dove c’è una sinistra che dopo essersi spogliata del suo vestito ex o post comunista è rimasta nuda pretendendo di convincere se stessa, e un popolo intero, che quella nudità dovrebbe essere la moda irrinunciabile del XXI secolo. Dove il centro, entità sempre un po’ fantomatica, ma oggi sparita del tutto nel magma indistinto della distruzione della polis, non sa più a che santo votarsi perché di santi non ne abbiamo più, e un uomo grigio e di apparato bancario come Monti, oltre che dall’eloquio e dalle politiche noiosamente arcaici ed elitari, intercetta pochi consensi. Ma diciamo di più: dove una classe dirigente intera risulta ormai superata e insopportabile, legata alle poltrone come delle sanguisughe a un cadavere spolpato. Dovrebbero togliersi di mezzo tutti, su questo Grillo ha ragione. D’Alema, Veltroni, Rosy Bindi, Berlusconi, Cicchitto, Gasparri, La Russa, Fini, Casini, Monti, e tanti, troppi altri che rappresentano dei nomi ormai persino impronunciabili senza venir colti immediatamente da un attacco di irritazione! Gente che porta sulle spalle il peso di un ventennio di fallimenti, ruberie, vecchiume ideologico e politico, incapacità manifesta, tanto da aver condotto il Paese in quella situazione di disastro che è sotto gli occhi di tutti. Responsabilità, basterebbe questa parolina magica: lor signori, profumatamente pagati e investiti dei privilegi della casta, dovrebbero assumersi la responsabilità per un Paese che non hanno saputo guidare, portandolo a schiantarsi contro le scogliere di un mondo globalizzato che non consente più cialtronerie, improvvisazioni, anacronismi inefficaci. Il tutti a casa è doveroso e forse anche opportuno: se si vuole ripartire ci si deve spogliare di uomini, idee, dinamiche politiche che sono figlie di un secolo e di un tempo ormai alle spalle. Mai come oggi la resistenza pervicace di una casta potente e impotente al tempo stesso può rivelarsi distruttiva per il Paese. Occorrerà pensare a forze nuove, movimenti politici dotati di persone capaci e soprattutto portatrici (sane) di un programma chiaro ed articolato, in cui non si torni soltanto a distinguere la destra dalla sinistra, i moderati dai progressisti, ma soprattutto chi ha a cuore il benessere collettivo e chi soltanto la perpetuazione meccanica del proprio orticello e del proprio «particolare». Chi è in grado di proporre soluzioni nuove ed efficaci e chi galleggia in uno stagno fermo e maleodorante.
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Dimissioni collettive, ecco ciò di cui ha bisogno il Paese. Non solo dimissioni di personaggi ormai superati dalla storia, ma anche di idee che non sono più in grado di fornire risposte per i problemi di un’epoca terribilmente cambiata. Idea balzana? Mica tanto, in fondo, se pensiamo che si è dimesso un Papa (Benedetto XVI), evento rarissimo nella storia, forse schiacciato dal peso degli scandali sulla pedofilia e sulle banche vaticane non proprio specchiate, ma certamente non più in grado di rappresentare l’istituzione morale per eccellenza in un’epoca che la morale non la conosce più. Se l’attuale classe dirigente non ha il coraggio, la voglia o l’interesse per farlo, questi signori devono sapere che ormai è arrivato il tempo in cui il popolo italiano lo farà per loro, con il proprio voto ma anche con un’esasperazione sociale ed esistenziale che, accompagnata alla terribile crisi economica, potrebbe tradursi e sfociare in qualcosa che mai vorremmo vedere. Una classe dirigente inadeguata e fallimentare, lo vediamo in questi giorni immediatamente successivi alle elezioni, responsabile della distruzione della polis e, con essa, di un vero legame di cittadinanza e di cultura condivisa, sta per essere sostituita da una webanarchia di cui il Movimento Cinque Stelle rappresenta soltanto la punta dell’iceberg. Disoccupazione, disagio sociale, nuove povertà, frustrazioni umane e individuali di fronte ai benefici insopportabili di pochi privilegiati, costituiscono un terreno incredibilmente aperto su cui potrebbe esplodere una guerra sociale di dimensioni enormi e incontrollabili. Pensare che il popolo possa governarsi da solo, senza una classe dirigente competente e democraticamente eletta perché tanto ci sarà la Rete a fornire la misura della «volontà generale», rappresenta una forma di nuova utopia (l’utopia della web-anarchia, appunto) che può essere arginata e (forse, se ancora siamo in tempo) fermata soltanto in un modo: riconoscendo che quell’anelito incontenibile di ribellione e anarchia, di distruzione di ogni forma di rappresentanza e intermediazione fra il popolo e la classe chiamata a governare è anzitutto il frutto di un fallimento storico della generazione che ci ha governato fino ad oggi. Che non può essere negato, che va riconosciuto e punito! Grillo e il suo movimento non sono la malattia, semmai costituiscono il sintomo di quel vero e proprio cancro
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rappresentato da un’intera classe politica divenuta casta, senza più programmi chiari, idee importanti, credibilità personale2.*** La resistenza strenua di questa vecchia classe dirigente, l’attaccamento alle poltrone e ai posti di un potere non più in grado di gestire e rappresentare (perché il potere deriva dal popolo, in democrazia, 2
Il fallimento della classe politica italiana ha origini lontane, che risalgono almeno al dopoguerra, e comprende tutto l’arco delle forze politiche che da destra a sinistra si sono succedute al governo del Paese. Tale fallimento, di fatto, si è declinato attraverso la delega del governo effettivo a centri di potere occulti e delinquenziali, legati a vario titolo alla malavita organizzata, ai servizi segreti deviati, alla massoneria eversiva, ai movimenti dell’estrema destra violenta e alle alte sfere del Vaticano, tutte realtà accomunate da un legame stretto e ambiguo con il governo americano, impegnato a mantenere il dominio sul mondo occidentale (e non solo) attraverso delle operazioni lecite e molto meno lecite condotte e giustificate in nome del pericolo comunista da scongiurare. Questo meccanismo perverso ed occulto, più volte identificato con l’espressione «strategia della tensione», ha raggiunto il suo apice estremo, nonché un’apparente quadratura del cerchio, con il 1989 e con la fine del (presunto) scontro fra comunismo e «mondo libero», allorché a destra è emerso il fenomeno Berlusconi, epitome di quei poteri occulti e deviati che hanno corrotto e insanguinato la vita repubblicana, mentre a sinistra si è deciso di rinnegare in toto tutta la propria tradizione di azione e pensiero, probabilmente per ragioni di potere personale di una dirigenza che è sempre la stessa da decenni, uniformandosi al pensiero unico del liberismo tornato in auge e di un capitalismo che ha ripreso, gradualmente ma inesorabilmente, a smantellare quella giustizia sociale e quelle tutele nei confronti delle classi sociali più deboli che sono state conquistate in due secoli di lotte. Se fino a pochi anni fa, questo scenario ha portato un Presidente onorario della Corte di Cassazione come Ferdinando Imposimato a concludere che «in nessun Paese del mondo occidentale [eccetto in Italia] si è verificata una tale quantità di crimini atroci e per così lungo tempo senza che i colpevoli siano stati scoperti e condannati […] coloro che si sono opposti a questo disegno sono stati spazzati via» (La Repubblica delle stragi impunite, Newton Compton, Roma 2012, pp. 329-330); ai giorni nostri, proprio mentre diamo alle stampe questo libro, il Paese si trova di fronte a uno stallo politico totale, senza una classe dirigente e dei partiti che possano credibilmente realizzare un progetto di riforma che l’Italia attende invano da troppi anni, sospeso fra interessi personali, difesa dei privilegi della casta, subordinazione totale ai poteri economici, progetti velleitari e spesso demagogici e populistici. Inutile dire che anche il disastro economico è figlio dell’inadeguatezza di un’intera classe dirigente (quindi anche imprenditoriale) che non ha saputo aggiornarsi e rendersi competitiva a livello internazionale, dopo la fine della condizione protetta in cui ci siamo trovati col mondo diviso tra il blocco comunista e quello liberale.
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e il popolo gli ha voltato le spalle), costituisce la linfa vitale con cui si alimenta e rinforza sempre di più l’utopia web-anarchica. La resistenza della vecchia classe dirigente, di destra, sinistra, centro, è il fondamento più solido del trionfo di un movimento di popolo (virtuale) che può soltanto sfociare in confusione ancora più improduttiva (bene che vada) o addirittura in una forma aggiornata di autoritarismo distruttivo (male che vada). Soprattutto se le nuove, e concrete, forme di disagio e di richiesta sociale non troveranno ad ascoltarla una rappresentanza degna, capace, in grado di affrontare i problemi con chiavi di lettura rinnovate e adeguate, una rappresentanza che francamente è impensabile che possa provenire da quel miscuglio indistinto, impersonale, spesso cialtrone e «impolitico» per definizione che si ritrova in Rete. Il deterioramento culturale ha prodotto un popolo che nel suo complesso, la massa allo stesso modo dell’oligarchia di governo, ricorda la terribile denuncia di Gadda in Eros e Priapo (1944-45), in cui lo scrittore milanese descriveva con parole furenti il ventennio di vergogna dell’Italia fascista, quello in cui un «cupo e scempio Eros» aveva prevalso sui motivi di Logos. Come non pensare, infatti, guardando all’Italia che ancora vota il duce affetto da priapismo, o che vorrebbe rifugiarsi nell’alternativa del comico distruttore di tutto ciò che non si conforma al suo credo (la fantomatica e impercettibile Rete!), alle parole con cui Gadda descriveva la massa «che ama e idoleggia l’Istrione suo e così com’egli è, o par che sia, lo desidera»; oppure ancora a come inquadrava, col suo linguaggio funambolico e mascherato, il «folle narcissico», «incapace di analisi psicologica, che non arriva mai a conoscere gli altri, né i nemici né gli alleati; perché la pietra del paragone critico, in lui (o in lei) è esclusivamente una smodata autolubido: tutto viene relato alla erezione perpetua e alla prurigine erubescente dell’Io-minchia, invaghito, affocato, affogato di sé medesimo» (Eros e Priapo, Garzanti, Milano 1990, pp. 79 e 143). È in questa situazione degenerata che l’unica via di uscita, l’extrema ratio, la speranza attiva assume le vesti coloratissime ma incerte della «cyber-utopia» grillina. Un intero popolo che, grazie al potere immenso e soprattutto diretto della Rete, può prendere finalmente in mano le sorti della propria Storia, avvalendosi della straordinaria libertà per tutti gli individui, della compartecipazione e dello spirito di comunità resi possibili dalla realtà virtuale.
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A venire titillato dalla cyber-utopia è l’io collettivo della Rete, regredito allo stadio di quello che Fenichel, significativamente in piena seconda guerra mondiale, chiamava «io primitivo» (proprio del bambino), affetto cioè da una forma di narcisismo patologico che non gli fa cogliere la separazione fra sé e il mondo esterno (per Grillo la Rete siamo tutti noi, indistintamente), così che «inglobando in se stesso il mondo esterno o parti di esso, giunge fino a sentirsi onnipotente». Il rischio serio è quello per cui, muovendo da una non accettazione del principio di realtà (secondo cui ogni Io è limitato e distinto dal mondo esterno), questo io globale e onnipotente del popolo in Rete possa in breve tempo ridursi in uno stato di depressione, depressione che nasce con l’accrescersi dei bisogni narcisistici, fino a farlo ripiegare in una forte ostilità verso se stesso generata dall’inevitabile frustrazione degli obiettivi troppo ambiziosi che si era dato (O. Fenichel, The Psychoanalytic Theory of Neurosis, Routledge, London 1999, pp. 35 e 361). Un passaggio indubbiamente epocale, quello del potere autoritario e incontrollato che passa dal fascino delle singole personalità narcisistiche e paranoidi a quello, per molti versi simile, dell’Io globale protagonista in Rete. Io globale che, se ci si riflette bene, si rivela alla stregua di un tutti e nessuno allo stesso tempo, e quindi perfettamente in grado di aprire le porte a nuove forme di confusione sociale dagli esiti imprevedibili. In fondo l’essenza della web-anarchia consiste proprio in questo, e qui risiede la sua utopia funesta, nella capacità di ricreare un terreno in cui se a poter contare sono tutti (tutti i fantomatici connessi), in termini politici è come se non contasse nessuno (chi ha il potere effettivo di decidere, perché alla fine la politica è decisione?): «Tutti quanti esaltano Internet per le sue tendenze decentralizzanti. Tuttavia la decentralizzazione e la diffusione del potere non equivalgono a un minore potere esercitato sugli esseri umani. Né equivale a una condizione di democrazia. Il fatto che nessuno possiede il controllo non vuol dire che tutti siano liberi, come scrive Jack Balkin, della Yale Law School». Il leone autoritario del Potere potrebbe anche essere morto, chiosa Morozov, ma ciò non toglie che ora vi siano centinaia di iene affamate che girano intorno al suo cadavere (E. Morozov, The Net Delusion. The Dark Side of Internet Freedom, Public Affairs, New York 2011, p. 256).
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Non a caso nella Rete non c’è Stato, non v’è la legge, non ci sono regole condivise e valide per tutti. L’eccesso di libertà conduce all’anarchia, ed essa è la dimensione per antonomasia dove prevale il più forte, che spesso non è il migliore, il più preparato, il più giusto. Di sicuro non è il più votato dalla maggioranza degli elettori, perché a quel punto, nella perfetta coincidenza fra elettori e rappresentanti, sarà stata distrutta l’idea stessa di rappresentanza (e quindi la prassi del voto liberamente espresso). Oltre ad essere stato distrutto, in questa apoteosi acritica e religiosa dell’«io collettivo», quell’ideale di individualismo su cui abbiamo costruito una buona parte dell’impianto delle nostre società occidentali. La furia iconoclasta della Rete, del magma indistinto che comprende tutti e non distingue nessuno, all’interno di quella logica economica «massificante» che ha preso nettamente il sopravvento sulle istanze politiche, sembra ricondurre all’attualità quanto si sosteneva in un articolo della rivista «Fortune» nel 1950 (organo più volte in grado, la precisazione è significativa, di articolare il sentimento della grande industria): «Una cosa molto curiosa ha finito col prendere piede in questo paese senza quasi che ce ne rendessimo conto. In un paese dove l’individualismo – indipendenza e autonomia - è stata la parola d’ordine per tre secoli, il punto di vista che ora viene accettato è quello per cui l’individuo di per sé è insignificante se non in quanto membro di un gruppo» (in V. Packard, The Hidden Persuaders, IG Publishing, New York 2007, p. 188). Una classe dirigente ormai vecchia e logora, segnata da fallimenti e inadeguatezze palesi, col suo rimanere pervicacemente attaccata alle luci della ribalta (e dei privilegi), sta contribuendo all’esasperazione popolare. Un’esasperazione che la crisi economica fa diventare anche disperazione, ed essa induce a scorgere nella cyber-utopia l’unica luce in fondo al tunnel. Siamo alla fine di un’epoca. Dobbiamo soltanto capire se a calare sarà semplicemente il sipario, perché lo spettacolo è finito e si è in attesa di uno nuovo. Oppure se a calare sarà una Rete, capace di avvolgere e irretire un popolo che diventerà nuovamente prigioniero. Chissà per quanto tempo.
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P.S. La vita é anche un’avventura meravigliosa. E la nostra Italietta un’isola tutto sommato felice, popolata da artisti, creativi, gente capace di un colpo d’ala quando meno te l’aspetti. Beppe Grillo era fra i miei miti di bambino, un comico straordinario. E oggi, da grande, me lo trovo protagonista di una rivoluzione straordinaria, vero salvatore della patria allo stremo. E adesso guardo con aria di superiorità il ragazzino che lecca il gelato davanti a me. Che diavolo ne può sapere lui, beata innocenza, che fra vent’anni il nostro Belpaese sarà salvato da Checco Zalone...
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Ben lungi dal voler proporre delle ricette salvifiche, e convinto che comunque si possano intuire le cose più urgenti da fare (o su cui agire, e in fretta) dalla lettura del pamphlet, non voglio fornire l’impressione di aver confezionato una critica impietosa dell’attuale classe dirigente senza avanzare alcune idee costruttive su quello che si dovrebbe fare immediatamente per cominciare a uscire dal disastro in cui siamo sprofondati. Idee che, naturalmente, potranno essere sviluppate, precisate, migliorate e rese conformi all’opportunità di un testo di legge nelle sedi deputate a tale scopo. In omaggio a un’«antica» tradizione, quindi in spregio a tutti i timori riverenziali, si tratta di un decalogo. Preciso per correttezza che i primi otto punti sono stati elaborati dal gruppo di persone che ruota attorno alla rivista Critica liberale, gruppo di cui faccio parte e rivista per la quale scrivo ormai da anni. Gli ultimi due, più generici, costituiscono un parto esclusivo della mia mente. 1) Uno statuto pubblico dei partiti che regoli le procedure di decisione interne, garantisca i diritti di ogni iscritto e delle minoranze, preveda un controllo pubblico dei bilanci e stabilisca come principio generale la trasparenza. 2) Una legge sul finanziamento pubblico alle forze politiche che sostituisca gli attuali contributi con un sistema che lega il finanziamento alla volontà dei singoli contribuenti manifestata in sede di dichiarazione dei redditi. Il finanziamento privato deve essere personale e trasparente. 3) Abrogazione di ogni normativa ad personam, dalla legge Cirami sul trasferimento dei processi alla legge ex Cirielli sulla riduzione dei termini della prescrizione, alla legge Gasparri sull’estensione del numero di concessioni di canali televisivi per ogni singolo soggetto, alla legge sulla Depenalizzazione del falso in bilancio, alla
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legge “Tremonti bis” sulla abolizione dell’imposta su successioni e donazioni per grandi patrimoni 4) Una severa legge contro la corruzione che sanzioni il falso in bilancio, aggravi le pene soprattutto per i reati contro la Pubblica amministrazione con conseguente allungamento dei termini di prescrizione e stabilisca la prerogativa di una “corsia preferenziale”, ovvero della priorità assoluta ai procedimenti penali che coinvolgono personalità pubbliche indagate, perché l’accertamento della verità processuale è riconosciuto un interesse dell’intera collettività. 5) L’introduzione, anche nella disciplina italiana, dell’obbligo per la pubblica amministrazione di rendere pubblici e trasparenti i propri atti, mediante l’approvazione di una normativa che - andando oltre la mera affermazione di principio - garantisca a chiunque il diritto di chiedere conto delle scelte e dei risultati del lavoro amministrativo. 6) Una severa legge anti evasione fiscale. 7) Una legge antitrust in materia di controllo dei media e di raccolta pubblicitaria, che riduca drasticamente i tetti attualmente previsti. 8) Una legge sul conflitto d’interessi che impedisca l’elusione delle norme vigenti della legge Sturzo sulla ineleggibilità di chi ricopre cariche sociali o comunque controlla società che siano a vario titolo sovvenzionate dalla Stato o si avvalgano di concessioni pubbliche statali, e che stabilisca la ineleggibilità di tutti i condannati per reati contro la P.A. 9) La costituzione di un gruppo di lavoro competente che ridisegni in maniera strutturale il sistema dell’istruzione e della ricerca, adeguata ai tempi mutati e capace tanto di razionalizzare gli sprechi quanto di reperire nuovi fondi di finanziamento per un settore centrale della vita pubblica. La linea guida primaria dovrebbe essere quella di un rigido e inequivocabile fondamento meritocratico, che colpisca posizioni di rendita che si rivelano improduttive e premi coloro che fanno effettivamente ricerca e dimostrano un alto livello di impegno e qualificazione nelle professioni legate alla cultura e alla trasmissione della stessa. 10) la costituzione di un gruppo di lavoro competente che lavori su una riforma profonda dello stato sociale, per recuperare certamente gli sprechi che pur vi sono, ma che sia in grado di fornire nuova linfa (e nuovi finanziamenti) a un settore quanto mai centrale in tempi di crisi economica così forte e prolungata. Dal prestito di
Programma minimo di resistenza nazionale
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Stato per gli studenti meritevoli e bisognosi, passando per il reddito minimo garantito, fino ad arrivare a misure specifiche per la tutela delle figure lavorative precarie, occorre un ripensamento immediato dei termini e delle dinamiche con cui garantire maggiore giustizia sociale e minore dislivello tra i pochi ricchi e i molti disagiati.
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L’AUTORE
PAOLO ERCOLANI insegna Storia della filosofia e Teoria e tecnica dei nuovi media all’Università di Urbino. È iscritto all’ordine nazionale dei giornalisti ed autore di numerosi articoli per testate nazionali. Collabora all’inserto culturale del Corriere della sera («La Lettura»), è redattore della rivista Critica liberale e membro dell’Osservatorio filosofico. Fra i suoi libri, che più volte hanno suscitato un dibattito acceso sui media nazionali: Il Novecento negato. Hayek filosofo politico (Perugia 2006), Tocqueville: un ateo liberale (Bari 2008), La storia infinita. Marx, il liberalismo e la maledizione di Nietzsche, presentazione di Luciano Canfora (Napoli 2011) e L’ultimo Dio. Internet, il mercato e la religione stanno costruendo una società post-umana, prefazione di Umberto Galimberti (Bari 2012).
IL CAFFÈ DEI FILOSOFI Collana diretta da Claudio Bonvecchio e Pierre Dalla Vigna
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Claudio Bonvecchio (a cura di), La filosofia del Signore degli Anelli Claudio Bonvecchio, I viaggi dei filosofi. Percorsi iniziatici del sapere tra spazio e tempo Sandro Nannini, La nottola di Minerva. Storie e dialoghi fantastici sulla filosofia della mente Eleonora De Conciliis, Pensami, stupido! Maurizio Elettrico, L’Infante Demiurgo. Manifesto estetico dell’artificiale biologico Roberto Manzocco, Twin Peaks, David Lynch e la filosofia Giulio M. Facchetti, Erika Notti (a cura di), Atlantide. Luogo geografico, luogo dello spirito Roberto Manzocco, Pensare Lost. L’enigma della vita e i segreti dell’isola Marcello Ghilardi, Filosofia nei manga. Estetica e immaginario nel Giappone contemporaneo Claudio Bonvecchio, L’eclissi della sovranità Claudio Bonvecchio, La magia e il sacro Frances A. Yates, L’illuminismo dei Rosa Croce Carmelo Muscato, L’enigma della scelta. Un approccio cognitivo e filosoficopolitico Fabio Chiusi, Nessun segreto. Guida minima a WikiLeaks, l’organizzazione che ha cambiato per sempre il rapporto tra internet, informazione e potere Emma Palese, Da Icaro a Iron Man. Il Corpo nell’era del Post-Umano Carlo Magnani, Filosofia del tennis. Profilo ideologico del tennis moderno Marco Teti, Generazione Goldrake. L’animazione giapponese e le culture giovanili degli anni Ottanta Achim Seiffarth, Meditazioni sullo shopping Laura Anna Macor, Filosofando con Harry Potter. Corpo a corpo con la morte Roberto Manzocco, Dylan Dog. Esistenza, orrore, filosofia Claudio Bonvecchio (a cura di), La filosofia di Indiana Jones Vittorio Mathieu, Sciagure parallele. Risorgimento italiano e rivoluzione francese Marcello Barison (a cura di), Borges. Labirinti immaginari
24. Salvatore Patriarca, Il mistero di Maria. La filosofia, la De Filippi e la televisione 25. Alessandro Alfieri-Paolo Talanca, Vasco, il male. Il trionfo della logica dell’identico 26. Otto Weininger, Sesso e carattere, Introduzione di Franco Rella 27. Iris Gavazzi, Il vampiresco. Percorsi nel brutto 28. Claudio Bonvecchio (a cura di), Il mito dell’Università 29. Arnaldo Colasanti, Febbrili transiti. Frammenti di etica 30. Jorge Luis Borges, Cartografia di un destino. Interviste, a cura di Tommaso Menegazzi 31. Antoine Buéno, Il libro nero dei puffi. La società dei puffi tra stalinismo e nazismo 32. Nicoletta Cusano, Essenza e fondamento dell’amore 33. Paolo Bellini, L’immaginario politico del salvatore 34. Alessandro Grilli, Storie di Venere e Adone. Bellezza, genere, desiderio 35. Santiago Ramón y Cajal, Psicologia del Don Quijote e il quijotismo 36. Pierpaolo Antonello, Dimenticare Pasolini. Intellettuali e impegno nell’Italia contemporanea 37. Enrico Cantino, Da Goldrake a Supercar Gattiger. Dal semplice al complesso: tipologie di robottoni dell’animazione giapponese 38. Enrico Cantino, Da Kenshiro a Sasuke. Gli anime guerrieri e il codice d’onore degli antichi samurai 39. Davide Pessach, Semiotica del calcio in TV. I segni dello sport nello spettacolo postmoderno 40. Claudio Bonvecchio, Gian Luigi Cecchini, Marco Grusovin, Simone Paliaga, Adriano Segatori, Mitteleuropa ed Euroregione, Un destino, una vocazione, un carattere 41. Pietro Piro, Francisco Franco. Appunti per una fenomenologia della potenza e del potere 42 Carmine Castoro, Filosofia dell’osceno televisivo. Pratiche dell’odio contro la tv del Nulla 43 Roberto Masiero (a cura di), Pensare l’Europa 44 Angelo Villa, Pink Freud. Psicoanalisi della canzone d’autore da Bob Dylan a Van De Sfroos 45 Donato Ferdori, Stefano Marino (a cura di), Filosofia e popular music 46 Lucrezia Ercoli, Filosofia della crudeltà. Etica ed estetica di un enigma 47 Salvatore Ferlita, Non per viltade. Papi sull’orlo di una crisi