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Italian Pages 379 [392] Year 2021
CORPVS INSCRIPTIONVM LATINARVM CONSILIO ET AVCTORITATE
ACADEMIAE SCIENTIARVM BEROLINENSIS ET BRANDENBVRGENSIS EDITVM
AVCTARIVM SERIES NOVA VOLVMEN QVINTVM
DE GRUYTER MMXXI
PRAENESTE TRA ARCHEOLOGIA ED EPIGRAFIA
a cura di Marietta Horster e Maria Grazia Granino Cecere
DE GRUYTER 2021
Dieser Band wurde im Rahmen der gemeinsamen Forschungsförderung von Bund und Ländern im Akademienprogramm mit Mitteln des Bundesministeriums für Bildung und Forschung und des Regierenden Bürgermeisters von Berlin, Senatskanzlei – Wissenschaft und Forschung erarbeitet.
Gedruckt auf säurefreiem Papier, das die US-ANSI-Norm über Haltbarkeit erfüllt. ISBN 978-3-11-076950-0 e-ISBN 978-3-11-077094-0 Bibliographische Information der Deutschen Nationalbibliothek Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über http://dnb.dnb.de abrufbar. Library of Congress Control Number: 2021948483 © 2021 Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston Druck und Bindung: CPI Books GmbH, Leck Gedruckt auf säurefreiem Papier Printed in Germany www.degruyter.com
Indice generale Ortwin Dally Premessa — VII Abbreviazione bibliografiche — IX Marietta Horster Corpus Inscriptionum Latinarum XIV e Praeneste — 1 Sandra Gatti Note sul tempio del foro di Praeneste — 11 Diana Raiano Praeneste, elementi per una ricostruzione topografica della città bassa: il foro, le terme e il macellum — 73 Leonardo Bochicchio Sculture dal Foro di Praeneste: alcune riflessioni su dispersioni, riutilizzi e rinvenimenti recenti — 147 Luciano Camilli Appunti sull’instrumentum inscriptum prenestino. Tesserae monumentorum e pondera — 185 Franca Taglietti L’ instrumentum inscriptum prenestino: una nota a proposito di signacula ex aere — 207 David Nonnis – Fernando Gilotta Specula et vascula Praenestina: dalla scoperta e dispersione a una proposta di seriazione cronologica — 231
Gianluca Tagliamonte Gli strigili iscritti da Praeneste: un aggiornamento bibliografico — 263 Maria Grazia Granino Cecere Manifestazioni peculiari del culto di Fortuna Primigenia nelle iscrizioni prenestine — 275 Giovanna Di Giacomo A proposito dell’ara sepolcrale di Hortensia Eunoe e di altre antichità scoperte nella contrada ‘Le Colonnelle’ presso Gallicano nel Lazio (CIL XIV 4276–4277) — 305 Vincenzo Fiocchi Nicolai La basilica di S. Agapito alle Quadrelle e le sue iscrizioni — 337 Indice delle fonti letterarie e epigrafiche — 371
Ortwin Dally
Premessa Praeneste è nota al grande pubblico, ma anche agli esperti, soprattutto per il santuario a terrazza tardorepubblicano della Fortuna Primigenia. Tuttavia, la città ha una storia molto più antica, che risale alla cosiddetta epoca orientalizzante. Dopo la fondazione di una colonia sullana, la città si sviluppò in un luogo di villeggiatura della famiglia imperiale, tra cui Augusto, ma anche di scrittori e studiosi come Orazio, Plinio il Giovane o Simmaco. Grazie alla sua longhissima storia e al suo ricco patrimonio culturale, la città è anche un luogo ideale per ricerche sullo sviluppo storico-culturale dall’antichità al Medioevo in un quadro regionale e sovraregionale. L’Instituto di Corrispondenza Archeologica, il predecessore dell’Istituto Archeologico Germanico, si era quindi già occupato intensamente del patrimonio culturale della città. Inizialmente, il ricco mondo di immagini delle cosiddette Ciste Praenestine fu al centro dell’interesse accademico. All’inizio del XX secolo, il nome di Richard Delbrueck fu associato allo studio dell’architettura monumentale nel suo pionieristico compendio “Hellenis mus in Mittelitalien”, in cui Delbrueck parlò a lungo anche del santuario della Fortuna Primigenia. L’epigrafia si è affermata come un ulteriore pilastro della ricerca durante il XIX secolo: nel corso dello studio intensivo delle iscrizioni latine dell’Italia iniziato a Roma, che è principalmente associato ai nomi di Theodor Mommsen e Wilhelm Henzen, Praeneste ha giocato un ruolo importante, non solo per il noto calendario, ma anche per le diverse testimonianze delle élite tardo-repubblicane e imperiali. Nella seconda metà del XX secolo, Maria Grazia Granino Cecere e l’ex direttore Hans-Georg Kolbe si sono occupati sistematicamente del ricco patrimonio epigrafico della città. Sono quindi particolarmente felice della pubblicazione degli atti di una Giornata di studio “Praeneste tra archeologia ed epigafia”, svoltasi presso l’Istituto Archeologico Germanico di Roma il 10.1.2019. L’iniziatrice è stata Maria Grazia Granino Cecere in collaborazione con il DAI Roma. Il ricco programma, che ha fornito uno spaccato dello stato della ricerca su Praeneste, si è chiuso con la conferenza della professoressa Marietta Horster, direttore del CIL presso la
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Ortwin Dally
Berlin-Brandenburgische Akademie der Wissenschaften, che ha fatto il punto sul CIL e ne ha chiarito la posizione. È stato anche chiaro che Praeneste è un caso di studio molto fruttuoso non solo per il passato, ma anche per il futuro del CIL. Il seguente volume raccoglie non solo il suo contributo, ma anche quelli di altri relatori. A loro va il nostro ringraziamento così come alla Soprintendente e architetto Dott.ssa Margherita Eichberg della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area Metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria, alla Dott.ssa Marina Cogotti, direttore del Museo Archeologico Nazionale di Palestrina e a Maria Grazia Granino Cecere, che ha sviluppato e promosso con energia il progetto del convegno. Desidero ringraziarli così come la città di Palestrina, l’Università La Sapienza di Roma e il dipartimento CIL della Berlin-Brandenburgische Akademie der Wissenschaften per aver reso possibile la conferenza e la stampa, resa possibile dalla casa editrice De Gruyter. Infine, non mi resta che augurare al volume la ricca accoglienza che merita. Ortwin Dally Leitender Direktor des DAI Rom
Roma, 18.8.2021
Abbreviazione bibliografiche AA AIIN AJA ALMA AMAP AnalBolland Analysis Archeologica AnnInst AnnFaina Antiqua et Mediaevalia AntTard AquilNost ArchCl Arctos Aristonothos ASAA Athenaeum AttiMemTivoli BABesch BAntFr BCom BdA BullInst BNum Boreas BSFN BCTH Cahiers Glotz Chiron CivClCr
Archäologischer Anzeiger Annali dell‘ Istituto Italiano di Numismatica American Journal of Archaeology Archivum Latinitatis Medii Aevi Atti e memorie della Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze Analecta Bollandiana. Revue critique d’hagiographie Analysis Archaeologica. An International Journal of Western Mediterranean Archaeology Annali dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica Annali della Fondazione per il Museo Claudio Faina Anuari de Filologia. Antiqua et Mediaevalia Antiquité tardive. Revue internationale d’histoire et d’archéologie Aquileia nostra Archeologia classica. Arctos. Acta philologica Fennica Aristonothos. Scritti per il Mediterraneo antico Annuario della Scuola Archeologica Italiana di Atene e delle Missioni Italiane in Oriente Athenaeum. Studi di letteratura e storia dell’antichità Atti e memorie della Società tiburtina di storia e d’arte Bulletin Antieke Beschaving Bulletin de la Société nationale des antiquaires de France Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma Bolletino d’Arte Bullettino dell’ Instituto di Corrispondenza archeologica Bollettino di numismatica Boreas. Münstersche Beiträge zur Archäologie Bulletin de la Société Française de Numismatique Bulletin Archéologique du Comité des travaux historiques et scientifiques Cahiers du Centre Gustave Glotz Chiron. Mitteilungen der Kommission für Alte Geschichte und Epigraphik des Deutschen Archäologischen Instituts Civiltà Classica e Cristiana
X Daidalos
Abbreviazione bibliografiche
Daidalos. Studi e ricerche del Dipartimento di science del mondo antico Epigraphica Epigraphica. Periodico internazionale di epigrafia EtrSt Etruscan Studies. Journal of the Etruscan Foundation Eutopia Eutopia. Commentarii novi de antiquitatibus totius Europae Gerión. Revista de Historia Antigua Gerión Hermes Hermes. Zeitschrift für klassische Philologie Hesperia Hesperia. Journal of the American School of Classical Studies at Athens Hortus ArtiumMedievalium Hortus Artium Medievalium. Journal of the International Research Center for Late Antiquity and Middle Ages Instrumentum Instrumentum. Bulletin du Groupe de travail européen sur l’artisanat et les productions manufacturées dans l’Antiquité Jahrbuch des Deutschen Archäologischen Instituts JDAI Journal des Savants JS JWCI Journal of the Warburg and Courtauld Institut Latomus Latomus. Revue d’études latines LIMC Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae Mediterranea. Quaderni annuali dell’Istituto di studi sul Mediterranea Mediterraneo antico MEFRA Mélanges d’Archéologie et d’Histoire de l’école Française de Rome, Antiquité Memoirs of the American Academy in Rom MemAmAc MonInst Monumenti inediti dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica, Roma Mythos. Rivista di storia delle religioni Mythos Nikephoros Nikephoros. Zeitschrift für Sport und Kultur im Altertum Notizie degli scavi di antichità NSc Orizzonti. Rassegna di archeologia Orizzonti OudhMeded Oudheidkundige mededelingen uit het Rijksmuseum van Oudheden te Leiden Palladio Palladio. Rivista di storia dell’architettura Pallas. Revue d’études antiques Pallas ParPass La parola del passato PBSR Papers of the British School at Rome Picus Picus. Studi e ricerche sulle Marche nell’antichità PAPhS Proceedings of the American Philosophical Society Prospettiva. Rivista di storia dell’arte antica e moderna Prospettiva RACr Rivista di Archeologia Cristiana RAN Revue archéologique de Narbonnaise
REL RendLinc RendPontAc RH RM RSP Saguntum ScAnt SEBarc Spoletium StEtr StMisc Temporis Signa VeteraChr ZKuGesch ZPE
Abbreviazione bibliografiche XI Revue des études latines Atti dell’Accademia nazionale dei Lincei: Rendiconti Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia Revue historique Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, Römische Abteilung Rivista di Studi Pompeiani Saguntum. Papeles del Laboratorio de Arqueología de València Scienze dell’ Antichità: Storia, archeologia, antropologia Sylloge Epigraphica Barcinonensis Spoletium. Rivista di arte, storia, cultura Studi Etruschi Studi miscellanei. Seminario di archeologia e storia dell’arte greca e romana della Università di Roma Temporis Signa. Rivista di archeologia della tarda antichità e del medioevo Vetera christianorum Zeitschrift für Kunstgeschichte Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik
Marietta Horster
Corpus Inscriptionum Latinarum XIV e Praeneste* Molte tematiche relative all’antica Praeneste, sulle quali ancora oggi s’incentra la ricerca, hanno fondamento negli studi sistematici intrapresi nella seconda metà dell’800 in merito a quanto si andava rivelando dell’antica città del Lazio. Una sintesi dei risultati di allora si può trovare nell’erudito resoconto di O. Marucchi nell’ultima edizione della sua Guida archeologica di Praeneste, pubblicata postuma nel 1932. Dall’inizio del XX secolo, questa guida e molti altri studi specifici sono stati facilitati dalla raccolta e dall’edizione critica delle iscrizioni di Praeneste da parte di H. Dessau nel volume XIV del Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL) del 1887 e dei loro addenda nella Ephemeris Epigraphica IX nel 1913. La discussione sulla tesi dei due fori, sulla connessione funzionale tra città alta e città bassa, su quella strutturale e civile fra la città ed il santuario della Fortuna, d’importanza sovraregionale, sulla individuazione della funzionalità dei singoli edifici, per citare solo alcuni esempi, hanno determinato nuovi esiti negli ultimi decenni, ma anche confermato alcune vecchie ipotesi. Il presente volume si propone di offrire una visione dello stato delle conoscenze di molteplici aspetti e soprattutto di mettere a fuoco particolari tematiche affrontate dalla ricerca attuale1. *
Vorrei ringranziare Andreas Rohweder (Mainz), Markus Dohnicht (CIL/BBAW, Berlin) e soprattuto dott.ssa Anika Strobach (Berlin) per il loro supporto. Dott.ssa Strobach è anche stata risponsabile per la produzione del volume. 1 Un importante passo intermedio è stato offerto certamente da Muzzioli 1970. Una selezione di contributi epigrafici, archeologici e storici di particolare importanza pubblicati negli anni precedenti sono riuniti in Coarelli 1978. Qualche tempo prima, la conoscenza delle ricchezze di Palestrina preromana e romana era stata diffusa dal libro di Romanelli del 1967, riccamente illustrato. Grande inoltre è stato l’impegno del Comune di Palestrina, sotto la cui egida sono stati organizzati tre Convegni, i cui Atti sono stati pubblicati nel 1989, 1992 e 1994. I singoli saggi in questo volume prendono in esame gli scavi degli ultimi 100 anni e le significative scoperte avvenute o nuove interpretazioni di alcune più antiche. Ora il presente volume, anche se non offre una bibliografia di ricerca coerente su Praeneste dagli anni 1850, fornisce una valida chiave di accesso. Sulla città bassa e alta di Praeneste e sulla questione dell’esistenza di due fora, si vedano soprattutto i contributi di Sandra Gatti e Diana Raiano, nel caso di quest’ultima anche l’attribuzione dei vari contesti di ritrovamento nei possedimenti e vigneti di Palestrina nei secoli passati. L’intervento di Leonardo Bochicchio offre un buon approccio alla comprensione della funzionalità del foro e degli edifici annessi, con alcune tesi sorprendenti. Il contributo di Giovanna Di Giacomo sulla località ‘Le Colonnelle’ offre un aiuto simile per
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Marietta Horster
Il ritrovamento di nuove iscrizioni ha contribuito a metter in luce nuove tematiche. Attraverso una significativa ripresa della ricerca epigrafica su Praeneste, guidata soprattutto da Maria Grazia Granino Cecere, è stata possibile una comprensione più profonda di molti testi già noti e, di volta in volta, interpretazioni alternative di documenti descritti e conservati da tempo e di testi perduti trasmessi esclusivamente attraverso i manoscritti; ma soprattutto l’emergere di nuovi argomenti rivelati da testi nuovi. Tale lavoro ha comportato conseguenze significative per le intuizioni storiche e per la demografia del Latium vetus, sullo sviluppo urbano in età imperiale di Praeneste in particolare2. Il presente volume testimonia sia il lungo lavoro di collaborazione tra più studiosi su e per le iscrizioni di Praeneste e del suo territorio, sia i rapporti di Praeneste con il Latium vetus, con Roma e, nel periodo repubblicano, con altri centri in Italia, attraverso molti contesti di decorazione e di sviluppo architettonico, di storia politica, di stato sociale ed economico3. Pertanto, non solo per la grande quantità di documenti epigrafici ora noti provenienti da Praeneste, vi è una grande differenza rispetto a quanto si sapeva dagli anni 1850 – gli anni in cui Wilhelm Henzen (1816–1887) a Roma e altri iniziarono le loro ricerche a Palestrina e Theodor Mommsen (1817–1903) iniziò a realizzare l’idea di un Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL) all’Accademia di Berlino. Negli anni 1850–1880, quando fu raccolto il materiale per il Latium vetus e Palestrina, la preoccupazione principale fu quella di riunire, documentare ed editare le iscrizioni nel modo più completo possibile sulla base dell’autopsia, che Mommsen aveva adottato da Bartolomeo Borghesi (1781–1860) come una delle condizioni fondamentali per un’edizione del testo scientificamente affidabile. Ovviamente l’autopsia da parte dell’editore o di un collega affidabile è ancora oggi un prerequisito per un’edizione, come del resto anche il fatto che la collezione sia completa; ma oggi si tratta anche di presentare gli oggetti già noti, descritti, i cui testi sono stati a suo tempo editati, attraverso tutta la loro materialità e nel loro contesto di trasmissione. Inoltre, gli studi su e con i testi epigrafici relativi a Praeneste sono ormai comprendere tale tratto del territorio di Praeneste (topografia antica, nomenclatura e geografia moderna) e permette inoltre uno sguardo sulla storia delle collezioni moderne (la villa ‘Tritone’ di Lord Astor a Sorrento). 2 Anche se finora limitato principalmente all’élite, sia locale che dell’impero, non solo le iscrizioni funerarie ma anche l’instrumentum domesticum offrono qui numerosi approcci. Sull’élite si veda Granino Cecere 2018; sull’instrumentum i contributi di Luciano Camilli su pesi e tessere e di Franca Taglietti sui sigilli. 3 Questo è uno dei risultati importanti dei contributi estremamente istruttivi di Fernando Gilotta e David Nonnis sugli specula e i vascula, ma anche di Gianluca Tagliamonte sugli strigiles, che con i loro rispettivi materiali e approcci diversi (repertorio esplorativo e sviluppo di una cronologia da un lato, bibliografia di ricerca dall’altro) rivelano intuizioni su una Praeneste vitale e ricca di influenza romano-latina.
Corpus Inscriptionum Latinarum XIV e Praeneste 3
così numerosi, che il commento minimo o addirittura inesistente, ancora usuale nel XIX secolo, può difficilmente soddisfare le esigenze di un corpus epigrafico di oggi. A ciò si vanno ad aggiungere le nuove scoperte di oggetti descritti e la riscoperta di alcuni manoscritti dei secoli precedenti, che sono aumentati in modo significativo dalla fine della prima edizione del CIL sotto l’egida di Mommsen. Oltre a ciò, ci sono molti eccellenti progetti di edizione regionale e sistematica, anche digitale, in modo che il CIL non è più, per la maggior parte, il solo corpus in cui si presentano i nuovi reperti e dove si edita il numero conosciuto di tutte le iscrizioni di una città. La nuova edizione prevista delle iscrizioni dell’antica Praeneste e del suo territorio all’interno del CIL ispirerà ulteriori studi. Come hanno dimostrato gli ultimi volumi del CIL per l’Italia e la Spagna, questo non crea affatto ridondanza: al contrario, il riferimento ad una seconda edizione o ad un supplementum di tale qualità semplifica il lavoro, permette una maggiore efficienza nella ricerca e stimola nuove domande e ulteriori studi. Anche in tempi in cui l’uso della biblioteca non è stato possibile affatto o solo in misura molto limitata, come è avvenuto nel corso nel 2020 e 2021 a causa della pandemia, l’offerta di eBooks dei volumi CIL più recenti fornisce una base sicura per ricerche specialistiche al di fuori del privilegio di utilizzare una grande biblioteca di studi classici4. Ciò che nel XIX secolo fu inteso da Mommsen per le iscrizioni latine dell’Imperium Romanum e da Giovanni Battista de Rossi (1822–1894) per le iscrizioni latinocristiane della città di Roma come una sorta di repertorio criticamente curato, per il quale il commento erudito era piuttosto un ostacolo perché rallentava il lavoro, fu poi continuato da alcuni organi di pubblicazione concepiti intelligentemente e messi in atto perfettamente5. Concependolo come raccolta di strumenti di lavoro importanti, rapidamente disponibili e finalizzati alla ricerca storica, filologica ed archeologica, Henzen, in quanto direttore dell’Istituto 4
Tutti gli eBooks del CIL, compresi i volumi Auctarium come questo, concedono l’accesso aperto all’editore de Gruyter dopo 3 anni. 5 Dalle lettere e da alcune osservazioni nel corpus emerge quanto Mommsen si rammarichi e senta come un deficit il fatto di non poter approfondire le singole iscrizioni. Tuttavia, il successo della raccolta e del consolidamento così come la velocità della pubblicazione hanno compensato questo svantaggio. Sul carattere repertoriale, cfr. Eck 1995; sulla velocità nel contesto della critica ai colleghi francesi ed al loro lavoro in Algeria, Buonocore 2003, 180 n. 85 (lettera a de Rossi, 14. 09. 1880), citata anche da Kajava 2009. Accenni di rammarico si trovano in Kajava 2009, 37 come l’osservazione su CIL X 6331 Cui otium erat … plura sine dubio excipiet – “Se solo avessi avuto tempo … allora avrei potuto certamente decifrare di più”. Simón 2005 offre un’introduzione particolarmente sintetica, ma che nomina la varietà delle imprese su larga scala e l’enorme massa delle pubblicazioni. Dopo aver letto queste poche pagine, appare comprensibile – se non addirittura inevitabile – la verbosità a volte quasi ingiustificata delle lettere, che richiedono un’approfondita ricerca da parte degli editori, così come la mancanza di indizi per l’utente dei corpora epigrafici, in parte ovvi.
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Marietta Horster
Archeologico Germanico di Roma, creò nel 1872 una forma di supplemento per il Corpus Inscriptionum Latinarum, ovvero il suo partner di cooperazione a Berlino: l’Ephemeris Epigraphica (EE). Il volume IX, previsto come l’ultimo di questa raccolta, fu pubblicato nel 1913 e proprio in questo trovarono posto anche i nuovi reperti di Praeneste e le aggiunte a quelli già noti. Come sostituto di successo del concetto di Ephemeris, i Supplementa Italica furono creati per il territorio italiano nel 1981. Dopo la pubblicazione del Corpus Inscriptionum Latinarum XIV sul Latium vetus nel 1887, gli scavi e le ricerche a Palestrina, iniziati con grande energia nel 1881 da Orazio Marucchi (1852–1931), ebbero ampio seguito. Gran parte dei risultati furono pubblicati dal Marucchi stesso e soprattutto da Dante Vaglieri nelle Notizie degli Scavi, nel Bullettino Comunale e negli Atti della Pontificia Accademia. I nuovi rinvenimenti, incentrati particolarmente nel primo decennio del ’900, presentarono disegni e descrizioni precise degli oggetti e dei loro contesti di ritrovamento, delle loro misure e molto altro ed hanno stimolato la realizzazione di una prima raccolta museale nella sede dell’Associazione Archeologica Prenestina, embrione di quello che sarebbe diventato nel secondo dopoguerra il Museo Archeologico Nazionale. I circoli di studiosi, i circoli di esperti, ma soprattutto la collaborazione fra gli istituti (archeologici) di Roma con i loro direttori e collaboratori ed i protagonisti del CIL di Berlino da una parte e gli insigni studiosi italiani dell’antichità dall’altra hanno creato la base sulla quale sono state portate avanti le ricerche incentrate sull’affascinante Tempio della Fortuna di Praeneste e sull’altrettanto incantevole struttura della cosiddetta Aula Absidata con il prezioso e ammirato mosaico del Nilo, nonché sulla storia della città e le sue testimonianze archeologiche ed epigrafiche6. In ogni caso, il metodo di citazione (CIL XIV …; Eph. Epigr. IX …) della maggior parte dei riferimenti epigrafici, che si è ridotto a poche lettere e sequenze numeriche fino ai giorni nostri, facilita la comunità internazionale di studiosi a lavorare sui fenomeni culturali, economici, religiosi, sociali e politici di Praeneste dal V secolo a.C. alla tarda antichità cristiana7. Del comitato edito6
Sul santuario della Fortuna Primigenia e il suo ruolo per Praeneste, Roma e l’Italia, soprattutto in epoca repubblicana, e allo stesso tempo al progresso delle conoscenze e al cambiamento degli interessi e dei modi di rappresentazione: Fasolo – Gullini 1953 con una ampia presentazione di edifici, tecnica e reperti, così come la loro integrazione nella storia della città e nella storia stilistica; nuovi dati in Zevi 1978; un’importante analisi sul culto Champeaux 1982/1987; riassumendo i suoi molti anni di studio su Palestrina e il Santuario della Fortuna, Coarelli 2012; Miano 2018, 17–46. Sul mosaico del Nilo cfr. lo studio di Meyboom 1994, nonché la concisa e chiara esposizione in Fiasco 2017. 7 Cfr. tuttavia, nel contributo di Nonnis e Gilotta in questo volume, anche le influenze culturali, linguistiche e artigianali etrusche sulla produzione di oggetti in metallo, che non devono
Corpus Inscriptionum Latinarum XIV e Praeneste 5
riale che guidava il CIL, composto da Theodor Mommsen, Wilhelm Henzen e Giovanni Battista de Rossi, Wilhelm Henzen fu colui che assunse la responsabilità dell’edizione dei corpora di iscrizioni di Roma e del Latium vetus8. Sembrava opportuno affidare il Lazio che circonda Roma e l’attribuzione non sempre chiara delle iscrizioni ai diversi centri ad una sola persona, come sottolinea Hermann Dessau (1856–1931) nella praefatio di CIL XIV, riferendosi a dei testi fissati per iscritto sotto la responsabilità della SPQR trovati sul territorio di Tibur e dell’Ager Albanus. I confini tra il vecchio e il nuovo Lazio furono determinati piuttosto ‘pragmaticamente’, con le città e le presunte aree di insediamento dei latini, i municipia latini e le colonie dei romani che assumevano un ruolo importante9. Secondo quanto trasmessogli dalle sue fonti, Livio sostiene come Praeneste fosse uno dei primissimi membri della lega latina, la quale partì nel 406 a.C. per poi stringere un’alleanza con Roma (Liv. 2, 19). Così iniziò la storia molto movimentata delle relazioni tra Roma e Praeneste. Nonostante queste vicissitudini politiche, la venerazione dei romani verso il santuario della Fortuna continuò a manifestarsi ripetutamente nel corso dei secoli10. Dal 1856 Henzen fu il primo segretario dell’“Instituto di corrispondenza archeologica” tedesco, fondato nel 1829, che divenne il “Kaiserlich Deutsches Archäologisches Institut” nel 1874 e infine, dopo una breve interruzione, il “Deutsches Archäologisches Institut”11. I numerosi compiti dell’Istituto e delle ampie e fondamentali edizioni di Henzen nel CIL delle iscrizioni di Roma, dei Fasti e degli Acta Fratrum Arvalium portarono in seguito ad una ridefinizione delle aree di competenza per l’edizione della documentazione epigrafica del La-
essere trascurate. Anche nel IV e III secolo a.C., in un ambiente romano-latino, questi specchi e cistae (pseudo)etrusche apparentemente incontrano ancora il gusto del mercato. 8 H. Dessau, Praefatio in CIL XIV, p. V. 9 H. Dessau, Praefatio in CIL XIV, p. V sq. 10 Cfr. ad esempio dalla letteratura dell’inizio del XX secolo, Bradshaw 1920, 237–239 sull’evidenza letteraria del ruolo di Fortuna per i potenti di Roma, dalla prima guerra punica all’imperatore Teodosio, sotto il quale le attività nel santuario, tollerate fino ad allora, terminarono al più tardi nel 392; ibid. 241–244 sul santuario e il suo arredamento secondo l’evidenza testuale. Sul santuario della Fortuna Primigenia, cf. nota 6 e Granino Cecere in questo volume. 11 Blank 2009, 7–11 con una breve biografia di Henzen; Andreae 1993, 23 su Henzen come progettista innovativo e scienziato impegnato al servizio dell’Istituto: “Er hatte sein ganzes Leben allein dem Archäologischen Institut in Rom geweiht und ist der einzige Leiter dieses Instituts, dem die Ehre einer Büstenaufstellung auf dem Kapitol [im Saal der kapitolinischen Fasten] zuteil wurde. In den Institutspublikationen hat er nahezu 400 Arbeiten veröffentlicht, von denen viele grundlegend bleiben. Er hat als erster Institutsleiter eine Ausgrabung veranstaltet [1867–1871 im Hain der Arvalbrüder].” Andreae, ibid., 28 sulla chiusura dell’Istituto nel 1915 in Campidoglio, l’esproprio, poi la restituzione nel 1920 e infine la riapertura nel 1924 in via Sardegna.
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zio, che fu quindi affidata a Hermann Dessau12. Infatti a partire dal 1850 gli scavi ad Ostia, così come a Palestrina e in altri centri non lontano dall’Urbe avevano portato alla luce talmente tanto materiale, e in particolare di carattere epigrafico, che, sebbene l’argomento della dimensione storica dello stretto legame storico oltre che territoriale tra Roma e il Lazio continuasse a sussistere, il lavoro non poteva assolutamente più stare nelle mani di una sola persona. Solo nel 1878, tuttavia, la responsabilità del CIL XIV fu trasferita a Hermann Dessau13. La consegna delle schede di Henzen avvenne a Roma nello stesso anno. Le varie fasi testuali o bozze di scheda sono ben documentate attraverso i diversi manoscritti per CIL XIV 3006 (figg. 1a–b). Henzen le considerava già come un utilissimo sottoprodotto del lavoro sulle iscrizioni di Roma, emerse durante gli studi nelle biblioteche di Roma e durante l’elaborazione del patrimonio dei musei e delle collezioni romane. Anche de Rossi e Bormann vi avevano contribuito14. Con l’eccellente lavoro preparatorio, i viaggi nel Lazio, i buoni contatti con i colleghi in Italia e i responsabili locali, il giovane Dessau fu in grado di presentare il volume in soli 9 anni nell’aprile del 1887, nonostante il cambio di aree di competenza15. È stata pubblicata solo una modesta parte del carteggio di Dessau specificamente sul lavoro a Praeneste, e il contributo di M. G. Granino Cecere nel pre12 W. Henzen pubblicò, in parte in collaborazione con E. Bormann, in parte anche con C. Hül-
sen, CIL VI 1 (1876); VI 2 (1882); le Falsae in VI 5 (1885); VI 3 (1886) e postumo Hülsen pubblicò CIL VI 4 (1894). Nel 1874 gli Acta fratrum Arvalium erano già stati presentati separatamente da lui. Cfr. anche i riferimenti alle basi in miniatura, alle pigne, ai capitelli in miniatura e ad altri piccoli oggetti pubblicati da Henzen dal 1855, CIL XIV 3046–3310, alcuni dei quali avevano trovato la loro strada nelle collezioni di Roma e fuori. 13 Pochi riferimenti al lavoro di Dessau sul e per il CIL si trovano in Wannack 2007, 19: dal 1885 era stato responsabile dell’archivio e della sala delle iscrizioni a Berlino, per il cui inventario, completato nel 1888, aveva ricevuto un pagamento annuale; p. 20 sulle difficoltà del lavoro a Ostia (Wannack cita qui uno stralcio della lettera edita poco dopo da Glock – Schmidt 2009, 180–182, nr. M 26), così come poi poco più sulla collaborazione di Dessau ai volumi africani, CIL VIII. 14 Cfr. dalle iscrizioni di Praeneste, ecco alcuni esempi di de Rossi: CIL XIV in 2947 descripsit de Rossi, recognovimus Mommsen et ego [Dessau], 2968 descripsit de Rossi, recognovi ipse [Dessau]; similmente una selezione all’opera di Henzen XIV 2872 descripsi [Dessau] ex ectypis duobus quae olim Henzeno miserat Bonanni; 2917 descripsit Henzen, recognovi ipse [Dessau]; o anche Bormann circa 3006 recognovit Bormann descriptam olim ab Henzeno. 15 Cfr. l’elenco dei viaggi e dei contatti dal 1855 in CIL XIV, p. 294. Per Praeneste si tratta soprattutto di magistrati e studiosi locali come Pietro Cicerchia e il canonicus della città dal 1864, Daniele Bonanni. Qui, come negli altri volumi italiani, Enrico (Henricus) Stevenson (1854–1898) avrà sempre un ruolo, ma anche i primi risultati di scavi di Orazio Marucchi trovano la loro espressione nel CIL, per esempio menzionati in XIV 2994; 3415; 3427a; 3421; 3428, i risultati successivi, invece, ad opera in particolare di Dante Vaglieri, solo nelle Ephemeris.
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Figg. 1a–b Selezione di alcune delle pagine di preparazione per il CIL XIV 3006 con le note di diversi collaboratori
sente volume rappresenta ad oggi una delle poche pubblicazioni di tali scritti16. Nel volume CIL XIV sul Latium vetus, i numeri 2846–3431 e 4223 a/b riuniscono le iscrizioni di Praeneste conosciute fino a quel momento, eccetto i fasti. Questi ultimi erano già stati pubblicati in CIL I, dedicato alle iscrizioni repubblicane17. Le iscrizioni che possono essere appartenute al territorio della città sono state presentate con i numeri CIL XIV 2825–2845 e 4276–4277. Ampie aggiunte all’epigrafia di Palestrina seguirono venticinque anni dopo, trovando posto nella già citata Ephemeris IX. Il totale delle iscrizioni si è moltiplicato nel frattempo, con particolare riguardo all’ dell’instrumentum domesticum. I contributi nel presente volume offrono una prima visione della ricchezza del materiale ora conosciuto, che sarà pubblicato in una edizione di tutta la documentazione epigrafica prenestina in un prossimo volume del CIL. Il lavoro che qui si presenta raccoglie l’esito di una 16 Dessau a Mommsen: Glock – Schmidt 2009, 249–250, nr. M 141 senza data, su questo Gra-
nino Cecere nel presente volume e 250–251, nrr. M 143 sq.; a Hirschfeld: Glock – Schmidt 2009, 2009, 269– 271, nr. H 12; a Stevenson (junior): Buonocore 2009, 145–154, nrr. S 3 e S 5 – S 11. 17 Sul calendario CIL I 311 e Eph. Epigr. IX 740–741 (cf. CIL I², pp. 231–239; InscrIt XIII 2, 17 e frammenti successivi), l’opera di Henzen e il contesto della sua scoperta e presentazione nei dintorni della basilica di S. Agapito alle Quadrelle, vedi Fiocchi Nicolai nel presente volume.
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Marietta Horster
Giornata di Studio che l’ospitante Istituto Archeologico Germanico di Roma con il suo direttore Ortwin Dally ha reso possibile il 10 ottobre 2019 e che Maria Grazia Granino Cecere ha organizzato.
Fig. 2 Preparazione della scheda di XIV 2960
Mommsen continuò ad essere attivo come consulente per le iscrizioni di Praeneste anche negli anni dopo il 1878. Di ciò si trovano solo poche tracce nella corrispondenza con Stevenson, soprattutto riguardo a CIL XIV 2960 (fig. 2)18. Nonostante il suo entusiasmo e la sua conoscenza della regione, lasciò il Latium vetus con le città ricche di tradizioni ed iscrizioni di Lanuvium, Gabii, Tibur, Tusculum, Ostia, Praeneste e poche altre nelle mani di Hermann Dessau. Riguardo al Latium vetus Mommsen si limitava a coordinare in sottofondo, consigliando e corrispondendo con i responsabili di questa zona prolifica di iscrizioni, che ospitava tante antiche città ricche di tradizione e un paesaggio costellato di ville, residenze amate di personaggi influenti nella vita dell’Urbe. Nella corrispondenza, in parte pubblicata, è rintracciabile l’intensità della comunicazione, ma anche quanti prerequisiti richiedessero questi scambi epistolari, nei quali il ricercatore moderno difficilmente può comprendere immediatamente a quale 18 Corrispondenza di Mommsen a Stevenson, Buonocore 2003, 313 del 16 aprile 1879 (= id.
2017, 784); 334 di fine anno 1879 (= id. 2017, 818); vedi anche Buonocore 2013, 165, nota 489 sul lavoro a Palestrina.
Corpus Inscriptionum Latinarum XIV e Praeneste 9
iscrizione ci si riferisca, perché un’analogia o un riferimento sia stato ritenuto appropriato e quale corpus testuale fosse costantemente disponibile nelle teste e nei quaderni degli studiosi. E’ questo che il presente volume vuole testimoniare, così come l’impegno di presentare l’edizione delle iscrizioni di Praeneste in un volume del Corpus Inscriptionum Latinarum in pochi anni: è espressione di una comunicazione altrettanto intensa, ma che ora si avvale anche di altre forme di cooperazione, con l’obiettivo di rispondere adeguatamente alle richieste moderne di assistenza e di possibilità di accesso alle informazioni.
Bibliografia Andreae 1993 = B. Andreae, Kurze Geschichte des Deutschen Archäologischen Instituts in Rom dargestellt im Wirken seiner leitenden Gelehrten, MDAI 100, 1993, 5–41. Blank 2009 = H. Blank, Le Scienze dell’Antichità nell’Ottocento. Il carteggio fra Adolphe Noël des Vergers e I segretari dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica Wilhelm Henzen e Heinrich Bruun, Bologna 2009. Blondel = P. Blondel, État actuel des ruines du temple de la Fortune a Préneste, MEFR 2, 1882, 168–198. Bradshaw 1920 = H. Bradshaw, Praeneste: A Study for its Restoration, PBSR 10, 1920, 233–262. Buonocore 2003 = M. Buonocore, Theodor Mommsen e gli studi sul mondo antico. Dalle sue lettere conservate nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Università di Roma “La Sapienza”. Pubblicazioni dell’Istituto di Diritto Romano e dei Diritti del Oriente Mediterraneo LXXIX), Napoli 2003. Buonocore 2009 = M. Buonocore, Le lettere di Hermann Dessau conservate nella Biblioteca Apostolica Vaticana, in: M. G. Schmidt (ed.), Hermann Dessau (1856–1931). Zum 150. Geburtstag des Berliner Althistorikers und Epigraphikers. Beiträge eines Kolloquiums und wissenschaftliche Korrespondenz de Jubilars, Berlin 2009, 125–156. Buonocore 2017 = M. Buonocore, Lettere di Theodor Mommsen agli Italiani, Roma 2017. Champeaux 1982 = J. Champeaux, Fortuna. Recherches sur le culte de la Fortune à Rome et dans le monde Romain des origins à la mort de César, Paris 1982 (vol. 1); 1987 (vol. 2). Coarelli 1978 = F. Coarelli (ed.), Studi su Praeneste, Firenze 1978. Coarelli 2012 = F. Coarelli, Palestina e il santuario della Fortuna Primigenia, in: H. von Hesberg – P. Zanker (ed.), Architettura romana: Le città in Italia, Roma 2012, 298–309.
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Marietta Horster
Eck 1995 = W. Eck, Mommsen e il metodo epigrafico, in: P. Croce Da Villa – A Mastrocinque (ed.), Concordia e la X Regio. Giornata di studi in onore di Dario Bertolini. Atti del Convegno, Portogruaro, 22–23 ottobre 1994, Padova 1995, 107–112. Fasolo – Gullini 1953 = F. Fasolo – G. Gullini, Il santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina, Roma 1953. Fiasco 2017 = A. Fiasco, Discover the Nile Mosaic of Palestrina: A Guide. Palestrina 2017. Glock – Schmidt 2009 = A. Glock– M. G. Schmidt, Die Briefe Hermann Dessaus aus der Staatsbibliothek und dem Archiv der Berliner Akademie, in: M. G. Schmidt (ed.), Hermann Dessau (1856–1931). Zum 150. Geburtstag des Berliner Althistorikers und Epigraphikers. Beiträge eines Kolloquiums und wissenschaftliche Korrespondenz de Jubilars, Berlin 2009, 157–368. Granino Cecere 2018 = M. Granino Cecere, Epigrafia e ceti dirigenti nella Praeneste romana. V. Gli ordini senatorio ed equestre, RendPontAc 90, 2017–2018, 351–377. Kajava 2009 = M. Kajava, Mommsen come epigrafista, in: F. Mannino – M. Mannino – D. F. Maras (ed.), Theodor Mommsen e il Lazio antico. Giornata di studi in memoria dell’illustre storico, epigrafista e giurista (Terracina, Sala Valadier, 3 aprile 2004), Roma 2009, 33–41. Marucchi 1932 = O. Marucchi, Guida archeologica della città di Palestrina, l’antica Praeneste, Roma ²1932. Meyboom 1994 = P. G. P. Meyboom, The Nile Mosaic of Palestrina. Early Evidence of Egyptian Religion in Italy, Leiden 1994. Miano 2018 = D. Miano, Fortuna: Deity and Concept in Archaic and Republican Italy, Oxford 2018. Muzzioli 1970 = M. P. Muzzioli, Praeneste. Pars altera. Forma Italiae, Regio I 8, Roma 1970. Romanelli 1967 = P. Romanelli, Palestrina, Napoli 1967. Simón 2005 = F. M. Simón, Theodor Mommsen (1817–1903): Aproximación a una actividad apasionada, in: J. Martínez-Pinna (ed.), En el centenario de Theodor Mommsen (1817–1903): Homenaje desde la Universidad Española, Malaga 2005, 17–24. Wannack 2007 = K. Wannack, Hermann Dessau. Der fast vergessene Schüler Mommsens und die Großunternehmen der Berliner Akademie der Wissenschaften, Hamburg 2007. Zevi 1979 = F. Zevi, Il santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina. Nuovi dati per la storia degli studi, Firenze 1979.
Crediti Figg. 1–2: Archivio del Corpus Inscriptionum Latinarum, BBAW.
Sandra Gatti
Note sul tempio del foro di Praeneste Riassunto: Nel foro di Praeneste si conservano le strutture in opera quadrata di un grande tempio, inglobate nell’edificio della Cattedrale di Sant’Agapito. Il monumento è stato oggetto nel tempo, a partire dal XVI secolo fino ad oggi, di differenti ipotesi ricostruttive e delle più diverse interpretazioni, che hanno oscillato fra edificio sacro (tempio di Fortuna o di Giove) ed edificio civile (curia o basilica). Il contributo affronta per la prima volta lo studio analitico dei resti e degli elementi architettonici ad esso ipoteticamente pertinenti, proponendo una possibile ricostruzione del tempio, che vide almeno due fasi: la prima, risalente alla fine del IV – inizi del III sec. a.C., in cui l’edificio è probabilmente un tempio a pianta tripartita di tipo etrusco-italico; la seconda forse risalente all’inizio del I sec. a.C. Lo studio si dedica anche all’inquadramento dell’edificio nell’ambito della topografia della città compresa entro le mura, con particolare attenzione all’evoluzione della struttura della piazza forense e della viabilità circostante. Abstract: In the forum of Praeneste, the structures of a large temple in opus quadratum are preserved, incorporated into the Cathedral of St. Agapitus. From the 16th century until today, different hypotheses and interpretations regarding the monument’s use and character have been made, ranging from a sacred building (temple of Fortuna or Jupiter) to a civic institutional building (curia or basilica). For the first time now, this contribution pursues an analytical study of the temple’s remains and of those architectural elements that might pertain to the temple. It thus proposes a possible reconstruction of the temple, which saw at least two phases. The first phase can be dated between the end of the 4th and the beginning of the 3rd century BCE, when the building had probably been a tripartite temple of the Etruscan-Italic type. The second phase possibly dates back to the beginning of the 1st century BCE. The study also includes the contextualisation of the building within the urban topography inside the city walls, with particular attention to the evolution of the structure of the forum square and its surrounding road network.
I monumenti del complesso inferiore di Palestrina sono stati oggetto a partire dall’anno 2000 di un serrato susseguirsi di interventi di restauro, recupero e documentazione, promossi e diretti dalla Soprintendenza, grazie ai quali è stato possibile acquisire una serie consistente di elementi conoscitivi nuovi, che costituiscono un contributo determinante ed innovativo per rileggere il complesso forense ed approfondire la fisionomia e la storia edilizia dei suoi monumenti principali.
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Sandra Gatti
Oltre al recupero del Ninfeo dei Pesci1 (il c.d. Antro delle Sorti), che era rimasto murato e inaccessibile per quasi cinquanta anni e che è stato oggetto di nuove indagini2, le novità più importanti per la conoscenza del foro della città sono quelle emerse dal restauro dell’Aula Absidata, già rese note3.
Fig. 1 Le strutture del tempio visibili in Piazza Regina Margherita
Ulteriori importanti elementi sono stati acquisiti inoltre attraverso i recenti interventi di restauro e documentazione nell’area del complesso degli edifici del foro, ma i dati nuovi e i temi da approfondire sono più numerosi di quelli cui si potrà dare spazio in questo contributo, nel quale si concentrerà dunque l’attenzione soltanto sull’edificio in opera quadrata di tufo inglobato nella Cattedrale di Sant’Agapito (fig. 1), rinviando ad altra occasione la pubblicazione complessiva sull’area forense4. 1
Uso questa denominazione, credo più asettica e meno fuorviante di quella “pittoresca” invalsa finora, seguendo l’esortazione lanciata da Fausto Zevi nel 1989 (Zevi 1989, 39). Preciso anche, ad evitare fraintendimenti, che quella che è stata in passato indicata come “Area Sacra”, in quanto identificata erroneamente come parte del c.d. “Santuario Inferiore” di Fortuna Primigenia, è qui indicata come basilica (civile), secondo l’identificazione ormai corrente. 2 Sull’argomento v. Gatti 2004 e Gatti 2013, 9–24. 3 Gatti 2017; si veda ora Coarelli 2019, 85–147, che ritorna sulla identificazione dell’Aula Absidata e del c.d. Antro delle Sorti come sedi di culti egiziani (Serapeo e Iseo); anche la basilica (c.d. Area Sacra) viene ricostruita (come già proposto da Krumme 1990) come un semplice portico, addossato al lato nord, una sorta di dromos funzionale ai due santuari. 4 Le nuove indagini hanno riguardato sia l’Erario e le strutture antiche ad esso immediatamente adiacenti, sia il portico a due ordini che prospettava sulla piazza. Inoltre è stato effettuato il recupero degli elementi lapidei, scultorei e architettonici, depositati da decenni sul piano del portico dorico, nello spazio sottostante l’ambiente dove fino a prima della guerra si trovava il
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Noto fin dal Palladio5 e Pirro Ligorio6, il monumento fu descritto dagli architetti francesi del XIX secolo7; nel 1863 P. Cicerchia e F. Fontana vi eseguirono saggi di scavo8, ma determinanti furono soprattutto le indagini condotte da Dante Vaglieri negli anni 1907–1909, a seguito delle quali venne messo in luce il lato orientale del podio in opera quadrata9. L’edificio è stato oggetto nel tempo di differenti ipotesi ricostruttive e delle più diverse interpretazioni, che sostanzialmente hanno oscillato fra l’identificazione con un edificio sacro (tempio di Fortuna, o di Iuppiter – Puer, Tonans, Arcanus o Imperator –, o ancora Iunonarium) e un edificio civile (la curia o la basilica), senza tuttavia che ne venisse elaborato uno studio di dettaglio. Una disamina completa e approfondita degli studi sul monumento e delle varie ipotesi sulla sua funzione è nel lavoro del 1986 di Hans Riemann10, a cui si rinvia, il quale lo ritenne tempio di Fortuna. Museo della Associazione Archeologica Prenestina, avviandone la catalogazione. Lo studio è in corso da parte di Leonardo Bochicchio, di Diana Raiano e di chi scrive. Anche il recentissimo intervento di restauro della cripta della Cattedrale, promosso dalla Curia Vescovile (con la consulenza scientifica di Andrea Fiasco: v. Fiasco 2019), ha consentito l’acquisizione di molti nuovi dati che andranno attentamente approfonditi. 5 Nella pianta di Andrea Palladio (Zevi 1979, fig. 2 e nota 24), risalente al 1547, il tempio è rappresentato come una struttura a pianta rettangolare, priva di colonnato, con una scalinata sulla fronte. 6 Nella ricostruzione di Pirro Ligorio del 1560, documentata dalla copia appartenuta a F. Orsini e attribuita da H. Egger (Egger 1903) a G. Rainaldi (Delbrück 1907, fig. 45 c; Zevi 1979, figg. 7–8; Merz 2001, fig. 59 e fig. 200), l’edificio è periptero ed è indicato dalla dicitura “Basilica” (Fernique 1880, 110, suppone che si tratti di un riferimento alla Basilica cristiana); nella copia di Vienna (Delbrück 1907, fig. 45 c1; Bradshaw 1920, 244 e fig. 4), invece, la peristasi non c’è, l’edificio ha una pianta quadrangolare e una gradinata tutto intorno, un accesso sulla fronte e su ciascuno dei lati lunghi, mentre sul muro di fondo sono tre ulteriori aperture; all’interno, verso la parete nord, sono segnati altri gradini; all’esterno, di fronte all’edificio, ad una certa distanza (oltre la strada?), è raffigurata una ampia scalinata, particolare su cui torneremo più avanti. 7 Nella tavola di Huyot 1811 (in Merz 2001, 168, fig 187), il tempio viene ricostruito periptero sine postico, esastilo; P.-A. Paris elabora nei primi anni dell’800 alcune piante di Palestrina (si rinvia a Pinon 2007, 242–254): in due di queste (Pinon 2007, tav. 15 e fig. 15) che rappresentano le rovine esistenti non compaiono strutture antiche in corrispondenza della Cattedrale, mentre in un’altra (Pinon 2007, fig. 16) è ricostruito un tempio pseudo periptero, con opistodomo, accesso sul retro e gradinata sulla fronte; Fernique 1880, 110; Blondel 1882, 176–177, la indica come la costruzione più antica di Praeneste e ne riporta anche le misure dei lati ovest (m 22,35) e sud (m 10,85), conservati per una altezza di sei assise di blocchi (cm 60 x 60), annotando inoltre di aver fatto alzare alcune lastre di pavimentazione all’interno della chiesa e di aver trovato solo sepolture. Bradshaw 1920, 258, afferma che non ci sono prove dell’esistenza di un colonnato. 8 Cfr. Riemann 1986, 362; per lavori di scavo alla fine del XIX secolo v. Marucchi 1899. 9 Vaglieri 1907, 289–295 e 473–476; Vaglieri 1909, 217–221. 10 Riemann 1986, in particolare 357–394, con bibliografia precedente a nota 19, al quale si rinvia, senza dover qui ripercorrere nuovamente tutte le diverse interpretazioni. Richiamiamo
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Nel 1989, durante un importante convegno di studi su Praeneste, Mario Torelli propose l’identificazione dell’edificio con il tempio di Iuppiter Imperator da cui, secondo il racconto di Livio, nel 380 a.C. sarebbe stata portata via la statua di culto per dedicarla sul Campidoglio a Roma11: l’episodio avviene dopo l’occupazione da parte dei Romani, guidati da Cincinnato, degli otto oppida che erano sotto il controllo di Praeneste, a seguito della quale la città fa atto di deditio12. Se l’ipotesi fosse corretta, il tempio dovrebbe risalire, nella sua fase originaria, almeno alla fine del V o agli inizi del IV sec. a.C.13: anche se non ci soltanto alcuni punti chiave delle ricerche, utili allo scopo del nostro lavoro: Blondel 1882, 176–177, lo cita come tempio; Orazio Marucchi (Marucchi 1881, 250 ss, in part. 254–255, Marucchi 1882, Marucchi 1885) interpreta l’edificio come basilica perché ritiene originali le aperture sui muri laterali e di conseguenza ricostruisce un edificio aperto con arcate; poi nel 1907 (Marucchi 1907, 308–310) sostiene invece l’identificazione con lo Iunonarium ricordato da CIL XIV 2857, “un edificio, forse anche civile, ma posto sotto la tutela di Giunone”, ritenendo che nei segni sul muro in opera quadrata, ora facciata della Cattedrale, sia da riconoscere il solarium visto a Praeneste da Varrone (ling. lat. 6, 4) (Marucchi 1884; su questo tema v. Zevi 1979, 22); questa idea sarà accettata e ripresa da Riemann (Id. 1986, in part. 394) che di conseguenza, riconoscendo come antica anche l’apertura ad arco sulla facciata, immagina un tempio privo di pronao, con una peristasi, dorica o corinzia, sugli altri tre lati; Delbrück 1912, 2, si limita ad osservare come l’edificio sotto la Cattedrale non avesse un peristilio e che gli elementi architettonici ad esso attribuiti da Vaglieri siano piuttosto pertinenti al “santuario inferiore”; Vaglieri 1907, 291, ricostruisce l’esistenza di un peristilio e ipotizza l’identificazione con la basilica civile; anche per Magoffin 1908, 43 e 54–55 è una basilica; Bradshaw 1920, 258, ritiene incerta l’identificazione e riporta l’opinione corrente che sia la curia della Praeneste presillana; un cenno sul tempio in Kähler 1958, 192 e fig. 2; Fasolo – Gullini 1953, 49, sospendono il giudizio, senza escludere tuttavia l’identificazione con lo Iunonarium formulata da Marucchi; in seguito G. Gullini (Gullini 1983, 142–144 e nt. 57 e Gullini 1992, 533 e 544) ha proposto di identificarlo con il tempio di Fortuna dove si conservava la statua della dea coperta di lamine auree. In anni più recenti hanno prevalso le identificazioni con un tempio di Iuppiter: Champeaux 1982, 73–83, vi riconosce l’aedes Iovis Pueri ricordata da Cicerone; Pensabene 2001, 60, con riferimento alla iscrizione CIL XIV 2852, ha proposto Iuppiter Tonans; Zevi 1979, 17; Coarelli 1982, 131; Id. 1996, 457 e Torelli 1989, 15, Iuppiter Imperator; v. infine Zevi 1979, 8 e nota 63; Id. 1989, 45–46. Per i culti di Praeneste cfr. Ceccarelli – Marroni 2011, 355–422. Si veda ora: Di Fazio 2019, 335–372. 11 Torelli 1989, 17–18, connette l’epiteto Imperator alla funzione “trionfale” del dio, in modo analogo a Iuppiter Capitolinus a Roma: ambedue le epiclesi della divinità andrebbero dunque a replicare, ciascuna rispettivamente nella propria città, le funzioni religiose e politiche del culto etnico di Iuppiter Latiaris sul Monte Albano. Sul culto di Iuppiter Imperator si rinvia a Riemann 1983. 12 Liv. 6, 29, 8. Cfr. Oakley 1997, 607–624. Sulle ostilità di Praeneste nei confronti di Roma v. Chiabà 2019, 43–46. M. Menichetti (Menichetti 1995, 26–27) ha proposto di riconoscere la raffigurazione di Iuppiter Imperator nel fregio di una cista prenestina conservata a Berlino, in cui ha letto una allusione all’aition dei Vinalia con la vittoria di Enea e Ascanio su Mezenzio, che si era appropriato del vino, ed un nesso con l’episodio del trasporto della statua della divinità a Roma da parte di T. Quinzio Cincinnato: la cista sarebbe dunque ispirata ad un sentimento antiromano, in cui l’antica sopraffazione di Mezenzio diviene il simbolo della recente arroganza del dittatore romano. 13 Sull’argomento v. ora Diosono 2019, 25–26, e infra 33–35.
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sono indizi archeologici in tal senso, la possibilità dell’esistenza del culto già in epoca arcaica o tardo arcaica è senz’altro reale. In quella stessa occasione Fausto Zevi14 ha dedicato a questo edificio alcune fondamentali riflessioni, evidenziando per la prima volta la significativa presenza, a coronamento del podio, di una modanatura a doppio cuscino, con un pronunciato toro a quarto di cerchio sovrapposto ad una gola rovescia molto espansa e rigonfia, elemento determinante per il suo inquadramento cronologico e tipologico15. Come evidenziato da Zevi, infatti, questo tipo di modanatura, di cui è palese la derivazione dagli altari arcaici di area latina, a partire dalla serie lavinate, trova un confronto preciso in una ristretta serie di podi templari, che includono Sora16e Isernia17, di dimensioni imponenti, e San Silvestro di Cascia18, e questo ha portato a fissarne la cronologia tra la fine del IV e i primi decenni del III sec. a.C. Uno studio dettagliato del monumento, con particolare attenzione agli aspetti dimensionali e metrologici, è stato poi affrontato da Giorgio Gullini nel 199219, nell’ambito del suo lavoro sui rapporti fra architettura italica ed ellenismo alessandrino, nel quale ha esaminato le caratteristiche architettoniche dell’intero complesso inferiore di Praeneste. In tale contributo Gullini ha tentato una ricostruzione delle fasi più antiche di questo settore urbano, riconosciute sostanzialmente nei terrazzamenti in poligonale e nelle strutture in tufo con orientamento divergente dagli edifici in opera incerta, arrivando a delineare almeno due terrazze alle spalle del tempio20; quest’ultimo, considerato “centro architettonico” di tutto l’insieme, sarebbe dedicato a Fortuna. Il podio in opera quadrata di tufo viene interpretato come fondazione della peristasi in travertino di un tempio periptero sine postico, cui appartiene anche il “monumentale crepidoma in calcare e travertino”, che risalirebbe alla stessa fase “sillana” della c.d. “Area Sacra” (la basilica) e dell’Aula Absidata. A questo edificio Gullini assegna due blocchi di epistilio a due fasce21, 14 Zevi 1989. 15 In Fasolo – Gullini 1953, 29 e in Gullini 1992, 543, i blocchi modanati sono ritenuti in
posizione di reimpiego.
16 Mezzazappa 2003, 101–104, con bibl. prec.; Valenti 2013, 79–80; Frasca 2013. 17 Cefalogli 2014, 155–156 e 173–174. 18 Coarelli – Diosono 2009; Diosono 2017; Coarelli 2019, 129, sottolinea come l’adozione
di questo tipo arcaizzante a Villa San Silvestro sia particolarmente significativa in quanto M. Curio Dentato, probabilmente coinvolto in modo diretto nella colonizzazione viritana della zona di Cascia, promuove invece a Roma la costruzione del tempio C di Largo Argentina, un periptero sine postico. Questa circostanza, in effetti, ci sembra rinforzare proprio il fatto che i due edifici sacri aderiscono a due tradizioni diverse che ne condizionano la rispettiva tipologia. 19 Gullini 1992, in part. 543–545 e 582–584. 20 Negli spazi dove poi saranno costruite la basilica e l’Aula Absidata. 21 Gullini 1992, fig. 4, f, g.
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trovati negli scavi del 1907 sotto la scala del Seminario, uno dei quali con iscrizione a grandi lettere incisa nella superficie stuccata, con i resti del cognomen Scato22, noto a Praeneste per membri della gens Magulnia, ma anche per un Dindius. Invece sono ritenuti in posizione di reimpiego le modanature a cuscino, che vengono ricostruite come sagome indipendenti l’una dall’altra, in origine sistemate come base e cimasa del podio di un più antico edificio in tufo, ipotizzato anch’esso periptero sine postico, con epistilio ligneo e rivestimenti fittili23. Questo tempio, secondo l’A., alla fine del III sec. a.C., a seguito o di una ricostruzione totale o, più probabilmente, di un restauro parziale, avrebbe avuto epistilio e timpano in travertino, come dimostrerebbe la discussa iscrizione prenestina della collezione Zeri con dedica a Fortuna da parte di un L. Aulius L.f. Caisi(anus)24. Premesso che, a nostro parere, di questa ipotesi molti sono gli elementi di dettaglio non convincenti, che non possono essere discussi in questa sede, e tralasciando sia la datazione ad età “sillana” del complesso inferiore, ormai ampiamente superata, sia l’identificazione con il tempio di Fortuna, che deriva dalla teoria dei due santuari della dea, superiore e inferiore, sempre sostenuta da Gullini, vanno tuttavia sottolineati almeno due elementi sostanziali che inficiano questa ricostruzione sulle fasi del tempio. Il primo è rappresentato dal fatto che le modanature a doppio cuscino del podio sono evidentemente in posto, mentre il secondo è che, come è stato evidenziato con chiarezza dal recente riesame da parte di David Nonnis del documento25, non solo l’interpretazione dell’iscrizione è più problematica rispetto a quanto sostenuto da Gullini, ma soprattutto la sua incerta provenienza non assicura affatto la pertinenza al nostro tempio. Messo dunque da parte l’aspetto interpretativo, lo studio di Gullini resta comunque prezioso perché per la prima volta registra le misure dei resti conservati dell’edificio26.
22 23 24 25 26
Eph. Epigr. IX 771 = CIL I2 846 = Granino Cecere 2005, n. 770 (EDR122496). Gullini 1992, 543. Degrassi 1971, 22–23; per ulteriore bibliografia v. EDR078462. Nonnis 2017–2018, 301, nt. 15; Nonnis 2021, 476–489. Gullini 1992, in part. 543, nt. 70: larghezza della cella m 11,02, lunghezza m 22; larghezza totale dello stilobate m 23,30; la larghezza della peristasi è ricostruita pari a m 6,24. L’A., esclusivamente sulla base dei rapporti proporzionali teorici, propone anche una ricostruzione dell’elevato con colonne alte m 8,17, epistilio di cm 75,8, cornice di cm 49,9, fino ad una altezza totale al colmo del tetto di m 13,60. Per la lunghezza totale del tempio immagina 100 piedi (con 1 piede = m 0,29385). In precedenza solo Blondel 1882, 176–177 (cfr. supra nota 6) aveva rilevato le dimensioni dei resti dell’edificio.
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Lo studio dell’area forense è stato poi affrontato da Stefano Pittaccio27. Senza entrare qui nel merito delle sue conclusioni, che in gran parte si allineano con la lettura di Gullini, va rilevato il tentativo di una analisi oggettiva dei resti dell’edificio sacro, per il quale, oltre alla elaborazione di un rilievo piuttosto preciso, per la prima volta è presa in considerazione, pur con molte riserve, la possibilità di una ricostruzione per la fase più antica come tempio etruscoitalico (con le modanature a doppio cuscino in posto) a tre celle, o una cella e due alae, sia pure con cella molto allungata28, mentre in seguito – in età sillana, seguendo la cronologia proposta da Gullini – l’edificio sarebbe stato trasformato in un periptero sine postico29. Anche se rispetto a questo quadro complessivo non ci sono in realtà molti elementi conoscitivi nuovi, vorremmo comunque tentare un riesame approfondito e puntuale del monumento, reso possibile anche da un rilievo strumentale dei resti conservati30, che consente forse di avanzare alcune ipotesi sull’aspetto dell’edificio, anche se non univoche e non prive di aspetti che restano irrisolti. I resti del tempio in opera quadrata di tufo consistono in primo luogo in due parti del podio: il lato lungo orientale, nello scavo di Piazza Regina Margherita, e un tratto del lato nord, nella cripta della Cattedrale. Si conserva, inoltre, la fronte della cella, anch’essa in opera quadrata, che costituisce oggi la facciata della chiesa. Un dato molto importante di cui tenere conto è che questo edificio ha un orientamento diverso da tutto il complesso tardo repubblicano degli edifici del foro e anche dal santuario di Fortuna, rispetto ai quali è sensibilmente ruotato verso sud-est (tav. 4), e coerente, invece, sia con i ninfei di via del Borgo, sia con la fronte in opera quadrata del Ninfeo dei Pesci, sia, infine, con il muro di 27 Pittaccio 1997 e soprattutto Pittaccio 2001, in part. 43–44, 104–109 e 169–171. In questo
lavoro più che la lettura archeologica, di particolare interesse è lo studio (per la Cattedrale in part. 66–67), analitico e molto documentato, delle fasi post-antiche degli edifici del settore forense, prezioso per comprendere gli interventi che nel tempo ne hanno determinato spoliazioni e profonde trasformazioni. 28 In cui il tempio avrebbe avuto podio e crepidoma in tufo e trabeazioni lignee con decorazione fittile: Pittaccio 2001, 104. 29 Secondo questo Autore le misure della cella sono: lunghezza m 24,45 (dalla fronte al margine nord del podio), larghezza sulla fronte m 10,93; nella seconda fase, tardo repubblicana, il tempio avrebbe avuto un podio notevolmente largo, pari a m 28,80 (misura ottenuta ribaltando verso ovest le dimensioni del settore est conservato), con cella rastremata prospetticamente verso il fondo. Pittaccio (2001, 171, nota 23) lascia in sospeso le ipotesi sulla lunghezza del tempio (forse m 37,50?), osservando a questo proposito come un edificio che avesse rispettato le proporzioni “tuscaniche” (1:2) avrebbe invaso la strada antica corrispondente all’attuale Corso Pierluigi (ritenuta il “decumano massimo”). 30 I rilievi si devono ad Alessandro Pintucci, che ringrazio per la sua disponibilità e per il suo lavoro prezioso: v. Appendice.
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sostruzione – parimenti in opera quadrata – che corre lungo il margine meridionale di Corso Pierluigi (tav. 4, n. 4): una impostazione degli assi urbani, dunque, che sembra senz’altro precedere la grande ristrutturazione della città realizzata nell’arco del II sec. a.C.31.
Fig. 2 Il podio del tempio
Fig. 3 Le modanature a doppio cuscino all’estremità nord del podio
Del lato orientale del podio (tav. 1; tav. 2, n. 1) sono visibili quattro filari di blocchi, posti per testa e per taglio in modo regolare, dei quali i primi tre hanno una altezza media di cm 60, mentre quello superiore misura solo cm 45, per una h. tot. di m 2,25; la parte più esterna della struttura, compresa la facciavista, è stata evidentemente distrutta e smontata nel corso tempo, ma il limite originale del podio è testimoniato dal margine dei blocchi di fondazione affioranti sul piano di calpestio dello scavo (fig. 2; tav. 4, n. 1). All’estremità nord di questo fianco del podio, presso quello che doveva essere l’angolo nord-est, è visibile una piccola parte
31 Cfr. Gatti 2004; Gatti 2013, 11; Demma 2010–2011, 11–19.
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del lato settentrionale, che presenta giunture perfette e facciavista accuratamente levigata, nonché le modanature a doppio cuscino chiaramente in posto sui due filari più alti (h. cm 60 quella inferiore e cm 45 quella superiore) (fig. 3; tav. 2, n. 2). Nella cripta della Cattedrale32 un breve settore del lato nord del podio è in vista (tav. 3, n. 1; tav. 4, n. 2) nel punto in cui nel 1973 fu eseguito uno scavo per posizionare i pilastri in cemento armato di sostegno del solaio del presbiterio33. In questo stesso punto, come si apprende da Marucchi34, si trovava il primitivo accesso alla cripta dalla navata centrale della chiesa, testimoniato anche da una pianta pubblicata dallo studioso prenestino nel 193235 (fig. 4), la cui realizzazione probabilmente determinò lo smontaggio di parte del podio per ottenere quella che viene definita come una Fig. 4 Pianta della cripta della Catte“scala”, larga quanto la navata centrale. In drale di O. Marucchi, 1932 basso sono due filari di blocchi leggermente sporgenti e con faccia vista non rifinita, appartenenti alla fondazione; al di sopra si vedono i quattro filari dell’elevato
32 Sulle vicende della trasformazione del tempio in luogo di culto cristiano e poi in Cattedrale si
rinvia a Pittaccio 2001, 70–71 e 75, ed ora a Fiasco 2019. Va qui ricordato soltanto che nell’anno 898 le spoglie del Santo furono traslate in questo edificio dalla basilica martiriale fuori città, in loc. Quadrelle. Poi, durante il pontificato di Pasquale II (1099–1118), sotto il vescovo Conone, la costruzione antica in opera quadrata, che già era divenuta chiesa paleocristiana ad unica navata probabilmente entro il V sec. d.C., fu trasformata in una chiesa a tre navate (aprendo grandi archi nelle pareti laterali) e dotata di una cripta. Il lato nord del tempio fu demolito per ampliare in lunghezza la chiesa, che andò così ad invadere con il presbiterio e l’abside parte della basilica romana retrostante. L’altare, sotto il quale dal IX secolo erano conservate le spoglie di Sant’Agapito, fu spostato verso nord e di conseguenza nel punto della loro originaria ubicazione viene realizzata la cripta, consacrata nel 1116, dove fu posto un reliquiario. La costruzione dei muri delle navate laterali proseguì fino al XIII secolo. 33 Si tratta dei lavori, promossi dalla Cattedrale e diretti da Furio Fasolo negli anni 1972–1974, connessi con lo spostamento in avanti dell’altare per rivolgerlo “ad populum”, che rese necessaria la realizzazione di nuove strutture di sostegno del pavimento della chiesa in sostituzione dei vecchi pilastri in mattoni. Devo le informazioni alla cortesia di Andrea Fiasco che ha coordinato il recente recupero e riallestimento didattico della cripta. 34 Marucchi 1917, 22, nota 1. 35 V. Riemann 1986, fig. 2.
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Fig. 5 I resti del podio del tempio nella cripta della Cattedrale
del podio, dei quali i due più alti erano quelli decorati in faccia vista dalle modanature a doppio cuscino36 (fig. 5). Inoltre del tempio si conserva gran parte della fronte della cella, inglobata nella facciata della chiesa (fig. 6; tav. 2, n. 3; tav. 3, n. 2; tav. 4, n. 3). È realizzata in opera quadrata molto accurata, con blocchi perfettamente accostati posti per lo più per testa e messi di taglio in corrispondenza degli spigoli37: questa 36 Ne abbiamo la certezza dalla perfetta coincidenza delle quote tra questi filari e quelli visibili
all’esterno ed inoltre dalla identità delle misure dei blocchi, dal basso verso l’alto alti rispettivamente cm 60, 60, 60 e 44. 37 Le mura di Palestrina in opera quadrata (in realtà fodera del nucleo in cementizio), concordemente riferite al II sec. a.C., presentano invece una tecnica completamente diversa, con blocchi rigorosamente alternati su ogni filare per testa e per taglio.
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Fig. 6 La facciata della Cattedrale che ingloba la fronte della cella del tempio
tecnica trova confronto in alcuni tratti delle mura di Tusculum, datate al IV–II sec. a.C.38, con quelle di Lavinium, presso la porta per Ardea, della metà del VI sec. a.C.39, e con le mura di Ardea, nella parte riferibile all’ampliamento di epoca medio repubblicana40. La struttura, tuttavia, è stata molto rimaneggiata nel tempo per cui la sua lettura non è priva di aspetti problematici. Dopo i pesanti danneggiamenti del
38 Quilici – Quilici Gigli 1993, in part. 247–251. 39 Jaia 2016, 202–203. 40 Morselli – Tortorici 1982, 38, 62 e 93.
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Vitelleschi nel 143741, la parete antica fu obliterata nel 1839 dalla costruzione di un avancorpo, composto da un portico e dalla soprastante Loggia delle Benedizioni; il manufatto, a causa della precaria situazione statica, aggravata dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, fu demolito nel 1957 e in quella occasione si intervenne con pesanti integrazioni con blocchi di peperino dell’opera quadrata originale, andando anche ad evidenziare alcuni solchi obliqui nella parte alta, ritenuti da alcuni, a partire da Orazio Marucchi, la traccia dell’orologio solare visto a Praeneste da Varrone (ling. lat. 6, 4)42. Sembra senz’altro il risultato di interventi post-antichi anche la grande finestra coperta ad arco posta sopra il portale di ingresso, come indica il taglio dei blocchi sullo stipite, incongruente rispetto alla tessitura dell’opera quadrata, e la sagomatura artificiosa dei blocchi all’imposta dell’arco. Nonostante tutto ciò, l’altezza massima totale della parte sicuramente originale è pari a ben m 11,60, a partire dalla risega dello spiccato originale dell’elevato, ancora ben visibile alla base della facciata43. Appartengono inoltre all’edificio antico sia il primo tratto delle pareti della navata centrale della chiesa sia i pilastri della stessa, che sotto i rivestimenti e gli intonaci di epoca moderna sono in realtà in opera quadrata, come fu visto 41 L’edificio non fu coinvolto nella distruzione della città voluta da Bonifacio VIII nel 1298, ma
nel 1437 subì le devastazioni del cardinale Giovanni Vitelleschi, commissario militare del papa Eugenio IV che lo aveva incaricato di colpire la famiglia Colonna, allora proprietaria del feudo di Palestrina: in questa occasione il portale di bronzo e gli stipiti marmorei furono asportati e risistemati nel palazzo del Vitelleschi a Tarquinia: cfr. Petrini 1795, 149 e 176. 42 Marucchi 1884; Id. 1885, 44–65; Id. 1918; Id. 1928; Id. 1932, il quale (dopo una prima identificazione con la basilica civile: Id. 1881, 252) ritenne di riconoscere nell’edificio sotto la Cattedrale lo Iunonarium. Riemann 1986, 391, richiamando anche le osservazioni di Bradshaw, ritiene che il solarium sia pertinente al tempio della fine del IV sec. a.C., che non doveva avere una peristasi né un pronao, come proverebbe anche la finestra ad arco della facciata (finestra che ritengo non originale), ma doveva ergersi isolato sul podio. Sulla questione v. Zevi 1979, 22. A questo proposito va solo notato che non solo le secolari vicende dell’edificio (tra gli interventi post-antichi va ricordata anche la costruzione nel secolo XVIII, a ridosso della facciata della chiesa, della cabina dei mantici dell’organo, poi demolita nel 1927: cfr. Marucchi 1928, 176) non garantiscono che i solchi siano antichi, ma soprattutto la certezza ormai acquisita che si tratti di un tempio, che doveva necessariamente avere un pronao, esclude la possibilità di un orologio solare posto sotto un tetto; a meno che non si debba immaginare la possibilità di un pronao a cielo scoperto, con una apertura nel tetto, per specifici motivi rituali, come è documentato nel caso del tempio B di Pietrabbondante (La Regina 2014, 179–180) o del Capitolium di Cosa (Brown et al. 1960, 90–102): l’eventualità potrebbe avere un certo fondamento tenendo conto che, come ricordato da A. La Regina (cit.), secondo Varrone (ling. lat. 5, 66) il perforatum tectum era proprio dei templi dedicati a Dius Fidius, antica dizione di Iuppiter, e secondo Vitruvio (1, 2, 5 e 3, 2, 8) per Iuppiter e per le divinità celesti si costruivano templi ipetrali. 43 A giudicare da un rilievo della facciata di Furio Fasolo, pubblicato da Gizzi 2001, 410, fig. 36, esisterebbero altri tre filari di blocchi conservati al di sotto dell’attuale piano di calpestio: si dovrebbe trattare, eventualmente, di parte della fondazione o del nucleo interno del podio.
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in passato44 e come si è potuto verificare in occasione di restauri anche in tempi recenti (anni 2001–2002) (figg. 7–8).
Fig. 7 Uno dei pilastri della Cattedrale durante i lavori di restauro 2001–2002
Fig. 8 Rilievo della tessitura muraria della parete della navata centrale della Cattedrale
44 Marucchi 1882, 247–248.
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Fig. 9 Il muro di sostruzione in opera quadrata visibile in un ambiente di Piazza Garibaldi
Questi pilastri sono quanto resta delle pareti della cella dopo che furono aperte le arcate di comunicazione con le navate laterali45: questo ci consente di conoscere non solo lo spessore del muro antico (circa m 1,07–1,10), ma anche la larghezza esatta della cella del tempio, pari a m 8,70 all’interno (m 10,85 all’esterno), mentre la lunghezza all’interno è di m 20,45 (m 22,62 all’esterno compresi i muri). Conosciamo anche la larghezza dello spazio fra il muro laterale est della cella e il margine del podio, pari a m 8,45. 45 Cfr. nota 32.
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Fig. 10 Pianta di Palestrina di P. Blondel (1882). B: muro di sostruzione
Sulla base di questi elementi siamo in grado, basandoci sull’asse centrale dell’edificio, di ricostruire una larghezza del podio totale di circa m 27,80 (94 piedi di cm 29,6); mancano totalmente, invece, elementi per stabilire la profondità del pronao e dunque la lunghezza totale del tempio. Per questa dimensione esiste un limite massimo obbligato, che è rappresentato dal muro di terrazzamento in opera quadrata, già noto fin dalla bibliografia ottocentesca e ancora per lunghi tratti esistente (figg. 9–10; tav. 4, n. 4), che contiene un dislivello di circa 5 metri rispetto al ripiano sottostante46. Questa sostruzione è realizzata in opera quadrata di tufo, la stessa tecnica del tempio, con il quale la struttura condivide esattamente lo stesso orientamento: tale elemento fa supporre che essa appartenga dunque alla stessa sistemazione urbana dell’edificio sacro, precedente i grandi interventi degli ultimi decenni del II sec. a.C.47. Un altro ostacolo pressoché insormontabile per poter formulare delle ipotesi sulla configurazione del tempio è costituito dal fatto che non si conoscono 46 Blondel 1882, tav. IV–V; Fernique 1880, 109–110; Magoffin 1908, 27–28; Tedeschi
2012, 311; questo terrazzamento è stato visto nel tempo in vari punti da Piazza della Liberazione fino davanti alla Cattedrale. Probabilmente è segnato anche nella pianta e nel prospetto del Thon, nel livello intermedio fra via degli Arcioni e il complesso inferiore (Nibby – Thon 1825, tav. 1; Merz 2001, fig. 194). 47 Cfr. supra 17–18. Su questo aspetto rinvio a Gatti 2004, 62; Gatti 2013, 14, nota 34.
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elementi architettonici, anche erratici, che possano essere ad esso assegnati con certezza48; poco emerge anche dalla bibliografia pregressa e dai documenti d’archivio. Probabilmente la causa va ricercata nell’ampio reimpiego del materiale da costruzione dell’edificio antico che fu attuato con l’ampliamento della chiesa, quando, a partire dall’inizio del XII secolo, fu trasformata in tre navate49. Ne è testimonianza un disegno di Rodolfo Lanciani del 1882 conservato all’Archivio Centrale dello Stato50, che raffigura un prospetto della struttura interna della parete orientale della chiesa, composta da blocchi squadrati, scaglie, rocchi di colonne ed altri elementi architettonici, tra cui una modanatura a cyma reversa ed una grande cornice (fig. 11).
Fig. 11 R. Lanciani, “bozzetto di una piccola parte del muro orientale” (1882)
Esaminiamo dunque brevemente i dati disponibili su questo aspetto. 48 Il problema era già stato evidenziato da Fasolo – Gullini 1953, 28 e 30. 49 Cfr. supra nota 32. 50 ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione generale Antichità e Belle Arti, Divisione Monu-
menti e Scuole d’Arte, 1891–1897, busta 433. Il disegno è inserito in una relazione di Lanciani sulle scoperte effettuate nella Cattedrale di Palestrina. Come segnalato al Ministero in una lettera del Sindaco di Palestrina Gregorio Pantanelli del 19 aprile 1882, in occasione di scavi per la sistemazione delle tombe all’interno della chiesa si rinvennero “basamenti di colonne dell’Antico Tempio della Fortuna Prenestina”; il Direttore Generale Giuseppe Fiorelli dispose quindi (nota del 25 aprile 1882) di inviare sul luogo l’Ingegnere degli Scavi.
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Fig. 12 Pianta della Cattedrale di Sant’Agapito
Antonio Petrini ricorda che nel 1751 in occasione di lavori eseguiti nella cappella del Salvatore (ora cappella del Sacramento, posta in fondo alla navata sinistra della chiesa: fig. 12, H) “si scoprì una magnifica fabbrica colonnata di gusto romano, che fu sconsideratamente distrutta”51. È probabile che si trattasse di una parte del portico dorico, un settore del quale è ancora oggi inglobato, ed in situ, all’interno della parete nord della cappella. L’accenno alla sua distruzione, tuttavia, rende possibile che si tratti di un altro tratto dello stesso portico oppure di diversa struttura, anche se, a nostro parere, è difficile (ma non impossibile) che fosse una parte della peristasi del tempio, il cui limite nord andrebbe a lambire appena l’area di ingombro della cappella. 51 Petrini 1795, 9 e 279. I lavori furono eseguiti perché dopo la distruzione di Eugenio IV del
1437 era crollata la volta che divideva la chiesa superiore dalla cripta con i corpi dei Santi e di conseguenza nel rifabbricare la Cattedrale il piano di calpestio della Chiesa era divenuto più basso, mentre il pavimento della Cappella era rimasto “10 palmi” più in alto: fu dunque effettuato uno scavo per abbassarne il livello.
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Nel 1882, in occasione di restauri alla chiesa, in fondo alle due navate laterali si scoprirono la strada basolata e alcuni rocchi di colonna. Marucchi52 descrive due rocchi scanalati, che – probabilmente sbagliando – definisce di tufo (tutti quelli oggi noti sono di calcare), indicandone il diametro di cm 80 e la distanza tra l’uno e l’altro pari a m 2,60, allineati sull’asse della navata destra e posti sulla strada basolata, più un altro rocchio nella cappella sul fondo; inoltre altre tre colonne nella cappella del Rosario della nave sinistra, allineate in senso ortogonale all’asse della chiesa, e ne deduce l’esistenza di un portico. Il Fiorelli53, invece, parla di rocchi di colonne di ordine dorico, sfaccettate nel terzo inferiore, con diametro di cm 90 nell’imoscapo e cm 70 nel sommoscapo, alcune trovate in posizione verticale, altre riutilizzate nei muri delle navate laterali insieme a massi di travertino, che attribuisce con certezza al peristilio dell’edificio in opera quadrata. Si deve osservare che se da un lato la descrizione di Marucchi porterebbe alla identificazione dei ritrovamenti con elementi del portico dorico54, dall’altro l’indicazione fornita da Fiorelli di cm 90 del diametro all’imoscapo dei fusti di colonna sembra escluderne la pertinenza, poiché le colonne del portico oggi visibili hanno tutte un diametro all’imoscapo di cm 80–8255; tra l’altro non dovrebbe trattarsi di una svista, poiché la stessa misura di cm 90 è presente nella relazione di Lanciani del 1882, già ricordata, relativa a questo ritrovamento56. In ogni caso di queste ipotetiche colonne di diametro maggiore oggi non c’è traccia e le notizie restano in sostanza molto confuse. Di grande importanza, ed estremamente fruttuoso, fu lo scavo nella Piazza Savoia (ora Regina Margherita) di Dante Vaglieri, che propose per l’edificio l’identificazione con la basilica civile o, più probabilmente, con il tempio di Fortuna ed attribuì ad esso sia i numerosi rocchi di colonne in calcare ricoperti di stucco portati in luce negli scavi del 1882, sia vari frammenti di basi e di capitelli corinzi57 e, soprattutto, il noto architrave su cui è iscritto il nome di M. Terentius Varro Lucullus. 52 Marucchi 1882, 245–247. 53 NSc 1882, 301–302. 54 Così anche nel muraglione in opera quadrata citato da V. Cicerchia in NSc 1885, 79, è da rico-
noscere il muro di fondo del medesimo portico.
55 Delbrück 1907, Abb. 3; Vaglieri 1907, 290; Fasolo – Gullini 1953, fig. 42. Stesso diame-
tro hanno all’imoscapo le colonne della basilica. Le misure sono state da me verificate direttamente. 56 Cfr. nota 50. Il dato potrebbe trovare una conferma nelle parole di P.-A. Paris, il quale nel suo “examen” delle rovine di Palestrina scrive che esistono del tempio “tambours de colonnes, d’un plus grand module que toutes celles qui sont encore à leur place dans divers lieux de cette enceinte”: v. Pinon 2007, 251. 57 Vaglieri 1907, 291–292, figg. 5–6; in Vaglieri 1909, 217, fa cenno – non si vede su quali basi – ad un portico di colonne di peperino rivestite di stucco.
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Infine dallo studioso locale Antonio Sbardella si ha notizia della scoperta, agli inizi del Novecento, in occasione di scavi intrapresi dalla Associazione Archeologica Prenestina, di un rocchio di colonna in pietra tufacea e di altri conci di pietra utilizzati nella “sottofondazione dell’edificio”58: se l’indicazione del materiale fosse corretta, il dato potrebbe essere prezioso, in quanto si tratterebbe di una colonna sicuramente non pertinente al portico dorico né alla basilica, dove sono tutte di calcare. Ancora più complessa è la questione che riguarda la possibile pertinenza dei numerosi elementi di fregio/architrave in calcare trovati nel tempo nell’area del complesso inferiore, alcuni dei quali con iscrizioni a grandi lettere incise sul rivestimento di stucco lungo il fregio59. Un riesame complessivo di tutti gli elementi conservati ed oggi rintracciabili, porta, tenendo conto del profilo e delle dimensioni, ad individuare sostanzialmente due gruppi omogenei. Il primo comprende epistili alti 76 cm, caratterizzati dall’architrave a due fasce digradanti60, in cui rientra il blocco con la nota iscrizione che ricorda un personaggio con il cognomen Scato61, quasi certamente un membro della gens Magulnia, come si può dedurre dalla coincidenza con l’analogo testo dell’iscrizione vista a suo tempo da Fra Giocondo62. In un secondo gruppo si possono riunire alcuni blocchi di epistilio alti 71–72 cm, con tre fasce lisce sull’architrave, al quale appartengono due frammenti con iscrizione: uno, ben noto, con il nome di Varro Lucullus63 e l’altro che reca solo poche lettere, integrate a suo tempo dal Gullini come fundamentis, ma più probabilmente da riferire alla parola faciundum oppure reficiundum64. 58 Sbardella 1922, 84. 59 Su questo si rinvia al recente lavoro di David Nonnis 2017–2018, 308–315. Gullini (Fasolo –
Gullini 1953, 38–40) riconobbe quattro serie di epistili; Gullini 1992, 570, circoscrive tre serie, differenziate in base all’altezza. Sulla questione v. anche Lauter 1979, 440; Zevi 1979, 17, nota 63. 60 Fasolo – Gullini 1953, fig. 57 (inv. 114882); Gullini 1992, fig. 4 g (inv. 114883). 61 Vaglieri 1907, 474, fig. 2; CIL I2 856 (EDR122496) = Granino Cecere 2005, n. 770; Granino Cecere 2014, 239–240; Nonnis 2017–2018, 310, fig. 3; Fasolo – Gullini 1953, figg. 58 e 362. 62 CIL XIV 3008 (EDR161062); Nonnis 2017–2018, 311–312, fig. 4. 63 CIL I2 742 (EDR072227; inv. 23616); Fasolo – Gullini 1953, 271, fig. 361; Granino Cecere 2005, n. 769; Nonnis 2017–2018, 310. 64 CIL I2 3088 (EDR122509); Fasolo – Gullini 1953, 272, fig. 363; Nonnis 2017–2018, 309– 315. Questo frammento (ora conservato nella basilica (inv. 23653), in stato più frammentario rispetto alla foto pubblicata da Gullini) proviene dagli scavi di Dante Vaglieri del 1907, in un saggio eseguito a sud della fontana che all’epoca si trovava sul fianco orientale della Cattedrale di S. Agapito (cfr. Vaglieri 1907, 290, fig. 1, E); insieme a questo si trovarono altri due frammenti epistilio, ora non rintracciabili, con alcune lettere iscritte: v. Nonnis 2017–2018 cit. sopra.
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A questi due gruppi si aggiungono ulteriori due blocchi di altezza pari a 62 cm, con due fasce, che sembrano rimanere isolati65. Gullini attribuisce il secondo gruppo al colonnato corinzio della fronte meridionale della basilica, cui sarebbero da riferire anche alcune cornici con sagome sia su un solo lato sia su ambedue i lati66; invece gli epistili del primo gruppo, leggermente più alti e con due fasce, che data ad età sillana, apparterrebbero al livello inferiore del portico, posto alla quota della piazza forense, il quale avrebbe così colonne di ordine dorico ma un epistilio ionico67. Di diversa opinione già Vaglieri, che riferì invece al nostro tempio il frammento di epistilio con il nome di Varro Lucullus68. Fausto Zevi ha poi approfondito la questione69, ipotizzando che questo fregio/architrave si possa riferire alla trasformazione in Capitolium dell’antico tempio prenestino, quando viene aggiunta la gradinata in calcare e travertino che si addossa al podio preesistente. Basandoci esclusivamente sulle caratteristiche tipologiche e dimensionali degli epistili, dobbiamo riconoscere che non ci sono elementi dirimenti per una attribuzione certa all’uno o all’altro degli edifici forensi; ci sembra che si possa soltanto constatare l’esistenza di almeno due serie da attribuire ad edifici diversi, anche se verosimilmente inseriti in un contesto architettonico omogeneo per stile e dimensioni. Diversa la riflessione tenendo conto dei dati cronologici e storici, sui quali torneremo a breve: le iscrizioni dimostrano per il secondo gruppo una cronologia posteriore all’82 a.C., mentre per la prima serie, con due fasce, vista la presenza di gentilizi delle famiglie più eminenti della città libera, è altamente probabile una datazione precedente, anche se di poco, da assegnare ancora allo scorcio del II sec. a.C. o subito dopo70. Ultima osservazione in merito ai possibili materiali riferibili all’edificio va riservata alla documentazione epigrafica. Oltre alla discussa iscrizione che ricorda la dedica a Fortuna di una serie di elementi architettonici, già sopra ricordata71, che Gullini riferisce al tempio del foro, ma della quale non solo è del tutto incerto sia il luogo di rinvenimento che il contesto, ma anche la lettura del testo epigrafico, molte altre iscrizioni sono state rinvenute nel corso del tempo nei 65 Un blocco, rinvenuto da Vaglieri (1907, 475, fig. 6 = Fasolo – Gullini 1953, fig. 66 = Gul-
66 67 68 69 70 71
lini 1992, fig. 4 a) sotto la scala del Seminario, è lungo m 2,50: Gullini (Fasolo – Gullini 1953, 47) ne ricostruisce la collocazione originale sopra le semicolonne della facciata dell’Aula Absidata. A questo epistilio va aggiunto però un frammento di identica forma e dimensioni conservato nella basilica, inv. 114886. Gullini 1992, 543–545 e 570–583. Fasolo – Gullini 1953, 38–40; le cornici alle figg. 54–56; cfr. anche nota 60. Vaglieri 1907, 292–295. Zevi 1979, 17, nota 63; Zevi 1989, 42. Rinvio a Nonnis 2017–2018, 312–313. V. Egger supra nota 6.
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pressi della Cattedrale e, più in generale, nell’area del c.d. complesso inferiore, ma sono tutte per lo più fuori contesto e trasportate nei secoli soprattutto come materiale da costruzione e quindi nessuna è con certezza riferibile al tempio; anzi, al contrario, sono in gran parte dediche a Fortuna Primigenia, in prevalenza di età imperiale72. Merita inoltre particolare attenzione il ritrovamento di numerose terrecotte architettoniche in un riempimento che, nella prima età imperiale, fu costipato all’esterno dell’Aula Absidata, tra la sua parete orientale ed il banco roccioso73. Si tratta in particolare di decine di lastre di rivestimento, cornici, tegole e soprattutto antefisse della serie della potnia e despotes theròn74 (fig. 13), materiale in cui sono stati visti due successivi sistemi decorativi, riferiti alla seconda metà del IV–III e al III–inizi I sec. a.C.75. Anche se per la maggior parte si tratta di elementi riferibili a tipi noti anche in altri contesti prenestini76, l’ottimo stato di conservazione che spesso comprende la policromia, e la molteplicità di elementi della stessa serie (che furono trovati anche negli scavi Vaglieri nella piazza77) autorizzano ad ipotizzarne la provenienza da un edificio molto vicino; è dunque assai probabile, vista anche la congruenza cronologica, che appartengano proprio alle diverse fasi di decorazione architettonica del tempio della Cattedrale nella sua forma con copertura lignea e fino alla eventuale probabile ricostruzione in pietra. A parte gli interventi dovuti alla trasformazione in luogo di culto cristiano, la storia edilizia del monumento mostra dunque almeno due fasi certe: la prima, in opera quadrata di tufo, in cui il tempio, di proporzioni notevoli, si erge su 72 Sull’argomento rinvio a Zevi 1979, 12–14. Ricordo, solo per completezza, una piccola lastra
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marmorea recante una iscrizione che nomina Giove, rinvenuta negli scavi del 1907: Vaglieri 1907, 685 = Eph. Epigr. IX 763 (EDR160622); cfr. Ceccarelli – Marroni 2011, 388–390 e Di Fazio 2019, 345, nota 756, e 345–347 per le altre fonti epigrafiche relative al culto di Giove (Arkanus, Optimus Maximus e Puer) a Praeneste. Scavi condotti dalla Soprintendenza nel 2003. Anche se le antefisse raffiguranti la potnia theròn costituiscono un tipo diffusissimo prevalentemente nel II sec. a.C., è interessante notare che l’accoppiamento di antefisse con potnia e despotes di questa tipologia, che a Palestrina sembra documentato anche nel santuario di Fortuna, trova confronto solo nel tempio dello Scasato a Falerii già nel III sec. a.C. (cfr. Comella 1993; Strazzulla 1977, 28), i cui legami e contatti con Praeneste in epoca medio-repubblicana stanno emergendo in modo sempre più evidente. Le terrecotte sono state studiate da Alessandra Tedeschi per un dottorato di ricerca presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano: A. Tedeschi, I complessi sacri e i culti di Praeneste tra l’età arcaica e l’età tardo repubblicana, dottorato di ricerca in Archeologia dei processi di trasformazione, ciclo XIX, a.a. 2006–2007. Per esempio dalle aree soprastanti del santuario di Fortuna (Fasolo – Gullini 1953, 261–262; materiale inedito conservato nei depositi) e di via del Borgo (documentazione archivio Soprintendenza rm-met). Vaglieri 1907, 297–301 e 687–688.
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Figg. 13a–e Antefisse e antepagmenta dallo scavo del 2003 sul fianco orientale dell’Aula Absidata
alto un podio decorato da modanature a doppio cuscino, che indicano una datazione almeno alla fine del IV-inizi del III sec. a.C.; la seconda, di cui sappiamo molto poco, in cui il podio viene circondato da una imponente scalinata di travertino e calcare (tav. 4, n. 5; tav. 2, n. 4), che sul lato orientale doveva comporsi di almeno 8–9 gradini, la quale, appoggiata su un consistente riempimento di terra e scaglie calcaree e tufacee, si addossa al podio preesistente, obliterandolo completamente ma anche ampliandolo. Un altro tratto della stessa gradinata fu visto poco più a sud in occasione degli scavi del 1907, sempre lungo il fianco orientale del tempio (tav. 4, n. 6). Per quanto riguarda la fase più antica un elemento determinante – già a suo tempo colto da Fausto Zevi78 – per proporne una datazione ed ipotizzare la forma dell’edificio è rappresentato dal confronto con i templi di Sora, Isernia e Ca-
78 Zevi 1989; v. supra 30.
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scia, che presentano il medesimo tipo di podio con identiche modanature79, tutti verosimilmente templi etrusco-italici a tre celle o una cella e due ali; nel caso di Sora e Isernia edifici poliadici – come forse a Praeneste – delle rispettive città. In questa serie si deve ora prendere in considerazione anche il tempio B di Castrum Inui ad Ardea, datato al 490–480 a.C., che ebbe poi due successive fasi di ristrutturazione, l’ultima delle quali fissata dagli editori alla fine del IV sec. a.C.80. Si tratta di un tempio ad alae, in antis, su podio, decorato da una modanatura con due echini contrapposti, di cui l’inferiore è appena più sporgente, chiusa in alto da uno spesso abaco e poggiante su un plinto ornato alla base da un listello. Anche se, a causa della forte erosione della pietra tufacea in ambiente costiero, il profilo di questa modanatura appare meno arrotondato rispetto agli altri esempi, con un profilo rigido quasi “a clessidra”, il podio del tempio ardeate sembra potersi inserire a buon diritto nella serie con modanature a doppio cuscino, di cui costituirebbe l’esempio più antico finora noto81. A questi si affianca anche il tempio del foro di Fregellae, recentemente pubblicato82. Il piccolo edificio è a cella unica, con corte ali, prostilo tetrastilo, e presenta due fasi costruttive: la prima coincidente con l’inizio della colonia, intorno al 300 a.C., la seconda degli inizi del II sec. a.C., in cui è di ordine ionico. Oltre alla rilevanza della sua decorazione architettonica, l’elemento di maggior 79 Negli studi di Ingrid Edlund-Berry sulle modanature architettoniche in Italia Centrale (Edlund-
Berry 2005; Ead. 2008; Ead. 2016; Ead. 2017), nei quali esse sono esaminate in realtà come categoria astratta, applicata indifferentemente ad edifici, altari, capitelli, terrecotte, ecc., il caso prenestino viene ignorato; le modanature a doppio cuscino di Sora, Isernia e Cascia vengono considerate una variante di quelle con profilo a semicerchio, a toro (di origine etrusca: “etruscan round” di L. M. Shoe), ma, poiché non sarebbero note a Roma, l’A. prospetta la possibilità che costituiscano il riflesso di una antica tradizione latina. 80 Di Mario 2007; Id. 2012, 470; Id. 2016, 29 e 34–35. 81 Di Mario 2012, 470, ritiene gli esempi di Sora e Cascia più recenti, ma non sono esplicitate le ragioni per le quali la modanatura dovrebbe appartenere alla fase di costruzione del tempio e non, eventualmente, a una di quelle successive. 82 Battaglini et al. 2019, in particolare Diosono 2019, con il profilo della modanatura a fig. 3. Seguendo l’opinione di Zevi (1989, 43) avrei qualche perplessità sul comprendere nella serie (come sostenuto da Castagnoli 1959–1960, 166) il tempio di Casalinaccio di Ardea (datato al 500–480 a.C.), poiché della modanatura si conserva solo la parte inferiore e non vi è certezza della sua appartenenza ad una sequenza più complessa, con la presenza di un elemento superiore: v. Shoe 1965, 84–86; Di Mario 2007, 31. In tal modo l’esempio di Ardea Casalinaccio potrebbe essere riferito ad un tipo ben attestato anche in Etruria, che vede un’unica modanatura arrotondata, dilatata in larghezza, posta alla base del podio, come per es. nel tempio grande di Vulci (Edlund-Berry 2016, fig. 6; secondo Colonna 2006, 155–156, la modanatura potrebbe essere stata aggiunta all’inizio del IV sec. a.C. al preesistente tempio costruito all’inizio del V sec. a.C.). Nel tempio dell’Ara della Regina a Tarquinia a questo elemento ne è sovrapposto un secondo a semicerchio (Potts 2011, 43; Edlund-Berry 2008, 444, fig. 5), con un profilo analogo a quello del tempio di Sant’Omobono a Roma (Edlund-Berry 2008, 442, fig. 1; Ead. 2016, 267–268, fig. 2b). Sono comunque tutte modanature con profilo molto diverso dalla serie “latina” qui in esame.
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interesse, su cui ha giustamente insistito Francesca Diosono, è il podio decorato da una modanatura a doppio cuscino con profonda gola intermedia (fig. 14), che, insieme all’altare sagomato in modo analogo, correttamente viene inserito nella citata serie di podi arcaizzanti cui appartiene anche il tempio prenestino83. La Diosono propone di rialzare la datazione dell’edificio di Palestrina all’inizio del V sec. a.C., alla stessa epoca dunque del tempio di Casalinaccio di Ardea, in quanto essi rappresentano gli unici due esempi in città latine libere e non in colonie. In realtà per quanto riguarda il tempio di Praeneste, le caratteristiche tecniche dell’opera quadrata e i confronti per gli aspetti planimetrici e per la forma del podio sembrano tutti orientare per una cronologia tra la fine del IV e i primi decenni del III sec. a.C. Ciò non esclude, comunque, che questo tempio abbia avuto una fase precedente, forse di diversa fisionomia. A Praeneste Iuppiter rappresentava un culto di grande rilevanza ed il dio era venerato con vari appellativi, come attesta anche la documentazione epigrafica, per cui l’attribuzione a Giove del tempio del foro, posto in una posizione fulcro nella città, già proposta da molti, sembra altamente probabile84. In questo senso la notizia fornita da Livio (Liv. 6, 29, 8–10) della asportazione da Praeneste della statua di Iuppiter Imperator, dopo la vittoria sulla città da parte di Cincinnato nel 380 a.C. e della sua dedica sul Campidoglio a Roma, tenendo anche conto che le epiclesi della divinità si vincolano talora a particolari momenti storici potrebbe sicuramente rappresentare un forte indizio dell’esistenza del luogo di culto già da epoca più risalente.
Fig. 14 Podi di templi: A: Ardea Casalinaccio; B: Praeneste; C: Fregellae; D: Sora; E: Villa San Sivestro di Cascia; F: Isernia 83 Concordo con Francesca Diosono (Diosono 2019, 21 e 26) sul fatto che altari e piccole strut-
ture con modanature a doppio cuscino siano in realtà una categoria meno connotata, anche dal punto di vista cronologico, rispetto ai templi con podi così decorati, che formano invece uno specifico e circoscritto tipo architettonico. 84 Zevi 1989, 46–48.
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Filippo Coarelli, aggiungendo a questo gruppo di templi, in via del tutto ipotetica, anche il tempio di Alba Fucens su Colle San Pietro (le cui modanature, tuttavia, sono totalmente scomparse), pensa che si tratti dunque di un tipo “coloniale” che recupera un prototipo arcaico, destinato ad enfatizzare, in maniera voluta, le più antiche tradizioni della città, ed estraneo all’architettura di epoca medio-repubblicana di Roma, nella quale invece a questa quota cronologica è già diffuso il modello del periptero sine postico85. In effetti a Roma la presenza di edifici sacri con questo tipo di modanature non sembra essere attestata86, così come nelle colonie di diritto romano. Se a suo tempo Castagnoli87 ipotizzò, ma solo in via del tutto ipotetica, che il modello originario di questa serie architettonica fosse rappresentato dal Capitolium romano, Fausto Zevi88 ne propose invece la dipendenza dal santuario di Iuppiter Latiaris, culto comune di tutti i Latini, dove forse doveva trovarsi un altare – o più altari – con simili profili, non a caso ripetuti in città e colonie latine: la diffusione di questi podi arcaizzanti, dunque, posteriore allo scioglimento della lega latina, sarebbe da mettere in relazione proprio con l’avvio della colonizzazione latina nel Latium adiectum. La lista dei centri latini in cui è presente questo tipo architettonico, simbolo forse della propria autonomia culturale e “memoria” della propria identità, rispetto al momento delle considerazioni di Fausto Zevi si è ora ulteriormente allungata e questo, evidentemente, sembra dargli ulteriormente ragione. A Praeneste, città libera, la costruzione (o ricostruzione) del tempio in questa forma non può configurarsi come conseguenza dell’influenza romana o di una conquista politico-militare da parte di Roma, ma, anzi, se la cronologia dell’edificio al massimo entro l’inizio del III sec. a.C. è corretta, più probabilmente va interpretata come manifestazione di orgoglio cittadino e rivendicazione della propria identità, in quanto la città, dopo lo scioglimento della lega latina, al contrario di molti dei centri del Lazio sottomessi a Roma e ridotti a municipi, mantenne invece la propria autonomia nella condizione di città federata, anche se colpita dalla pesante decurtazione del proprio territorio. Il modello di podio con le modanature a doppio cuscino, una sorta di altare ingigantito, le cui origini sono appunto da individuare negli altari arcaici di area latina noti a Lavinium, viene adottato anche ad Ardea, nel tempio B di Castrum Inui (terza fase di IV sec. a.C.), ed esportato – identico – nelle colonie 85 Coarelli 2011, 105 e 129. 86 Anche tenendo conto che la maggior parte dei templi è nota nella forma di età imperiale o al
massimo della tarda repubblica, tuttavia la quantità dei monumenti e degli scavi eseguiti nel tempo a Roma fa pensare che il dato possa non essere casuale. 87 Castagnoli 1959–1960; Id. 1984. 88 Zevi 1989, 45.
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latine di Fregellae, e poi di Sora ed Aesernia, dove è applicato nei templi poliadici delle città, anch’essi di dimensioni imponenti89, proprio come evocazione della propria specifica cultura religiosa e della memoria tradizionale, e dunque come simbolo rappresentativo latino e non romano: non va dimenticato, infatti, il ruolo primario svolto dalle comunità latine nel processo di conquista e romanizzazione (o latinizzazione) della penisola ed il contributo in termini di uomini dato per la fondazione delle colonie90. Valenza ancora superiore assume l’adozione del modello nel tempio di San Silvestro a Cascia, riferibile alla colonizzazione viritana in Sabina. A parte il caso di Fregellae, dove il tempio è a cella unica con corte ali e di dimensioni ridotte, tutti gli altri sono dunque a pianta tripartita: alcuni elementi sembrano deporre anche per il tempio prenestino a favore di una analoga ricostruzione, che risulterebbe ben adeguata ad un tipo tradizionale di edificio sacro che intende recuperare antichi modelli arcaici non solo nelle modanature, ma anche nella planimetria .
Fig. 15 Tratto di muro in opera quadrata sul lato est della Cattedrale
Il più significativo è la presenza di un breve tratto di muro in blocchi di tufo (finora sfuggito a tutti gli studi precedenti), lungo circa m 1,70, conservato lungo il lato est della Cattedrale, nell’angolo accanto al campanile (fig. 15; tav. 2, n. 89 Sull’argomento si rinvia all’ampio approfondimento di Diosono 2019, 25–28, con riferimenti. 90 Su questo tema, molto dibattuto, cfr. Gabba 1989, in part. 11; Bispham 2006; Roselaar
2011, 527–529.
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6; tav. 3, n. 3; tav. 4, n. 7): le quote assicurano che il filare inferiore appartiene alla platea del podio, mentre il filare superiore, di cui restano solo due blocchi per una larghezza di m 1,05 (proprio tanto quanto la larghezza dei muri della cella), deve essere riferito all’alzato. Con questo dato concorda quanto è documentato in uno schizzo, molto preciso, di Vincenzo Cicerchia conservato all’Archivio di Stato (fig. 16), inserito negli appunti confluiti nelle Notizie degli Scavi del 188291, dove in corrispondenza del muro orientale della Cattedrale è indicata con chiarezza la presenza di un ulteriore tratto di muro in opera quadrata a doppio filare di blocchi (tav. 4, n. 8): anch’esso si trova ad una quota superiore a quella del podio. Questi due tratti di opera quadrata risultano perfettamente allineati e vanno dunque certamente riferiti all’alzato del muro laterale della cella o dell’ala orientale92.
Fig. 16 Disegno di V. Cicerchia del 1882: ritrovamenti sul fondo della navata orientale della Cattedrale
Altro importante elemento da considerare è la larghezza dello spazio fra il muro laterale della cella e i margini del podio, pari a ben m 8.45, misura che sembra agevolmente corrispondere ad una suddivisione della larghezza secondo il cano91 ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione generale Antichità e Belle Arti, Divisione Monu-
menti e Scuole d’Arte (1891–1897), Monumenti, II Versamento, busta 433. Devo la segnalazione ad Andrea Fiasco, che ringrazio. 92 Questo primo filare di alzato può essersi conservato poiché interrato, o riutilizzato come fondazione, nelle fasi successive dell’edificio.
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nico rapporto 3:4:3 della tripartizione della pars postica: infatti suddividendo in questo modo la larghezza totale del podio, così come ricostruita, pari a m 27,80, risultano infatti tre parti di m 8,34:11,12:8,34, misure che sostanzialmente – senza considerare i muri e immaginando le linee progettuali – collimano rispettivamente con la larghezza della cella (m 10,85) e degli spazi laterali (m 8,45). Per quanto riguarda la lunghezza del tempio la ricostruzione resta problematica. Se prendessimo a modello gli analoghi templi di Isernia e Sora, che hanno un rapporto di 2:3 fra larghezza e lunghezza, dovremmo immaginare per l’edificio prenestino circa m 43,15 di lunghezza, dimensione impossibile perché andrebbe addirittura a sopravanzare il margine della terrazza delimitato dalla sostruzione in opera quadrata (tav. 4, n. 4); dunque si dovrà ipotizzare un edificio con pars postica piuttosto allungata e pronao non troppo profondo. Infatti l’articolazione dei ripiani urbani in terrazze deve aver imposto una sensibile riduzione della pars antica, nonostante la struttura di base del tempio si adegui sostanzialmente al tradizionale impianto tuscanico, l’unico ragionevolmente ipotizzabile per un tempio su podio con modanature arcaizzanti. Tra i molti templi coevi possiamo richiamare, quale esempio calzante, quello di Celle a Falerii, datato alla seconda metà del IV sec. a.C., il cui podio misura m 28 x 36 (con un rapporto di 7:9), dunque molto simile a quello di Palestrina – largo m 27,80 secondo la nostra proposta di ricostruzione – per le grandiose dimensioni, adeguate alla divinità poliade della città falisca, quasi identiche sia nella larghezza, sia nella lunghezza della pars postica (Falerii m 24, Praeneste m 22,62); il pronao, con due file di quattro colonne e aperto lateralmente, è profondo “solo” m 10, poco meno della metà della pars postica, tripartita, articolata probabilmente in cella e due ali93. La riduzione del pronao, presente a Falerii e ipotizzabile anche a Palestrina, a fronte di una pars postica piuttosto allungata, con un rapporto reciproco (come spesso attestato) di 3:2 o 5:3, si inserisce in quel fenomeno di commistione – o almeno di una divisione meno rigida – fra il modello tuscanico e il modello periptero greco, fenomeno già ben avviato fin dal IV sec. a.C., il cui esito sono templi peripteri di proporzioni tuscaniche o templi a pianta tripartita, ma con pronao aperto sui lati, come nel caso di Falerii94. 93 Colonna 1985, 110–112; Comella 1986, 178–180; Albers 2007; sul culto v. Ferri 2011,
il quale ipotizza, in occasione dell’assedio e della deditio della città nel 241 a.C., una evocatio della divinità ed il trasferimento della statua della dea a Roma, dove Giunone Curite ebbe un tempio nel Campo Marzio. 94 Sul tema si rinvia a La Rocca 2012, in part. 63–78. Cfr. anche Pensabene 1990, 279–281.
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Ipotizzando un rapporto di 7:9 tra larghezza e lunghezza, analogo a quello del tempio falisco, l’edificio di Praeneste potrebbe avere una lunghezza di circa m 35,60; applicando il rapporto di 5:3 fra le due partes, postica e antica, si arriva ad una dimensione analoga, pari a m 36,12: ambedue comunque compatibili con l’ampiezza della terrazza. Comunque la si voglia declinare, la ricostruzione lascia aperta una serie di interrogativi. Ci sembra imprudente dunque andare oltre con maggiori approfondimenti sugli aspetti dimensionali o persino tentare di formulare ipotesi sul sistema geometrico e sui moduli progettuali alla base della pianta, in quanto al di là delle ipotesi non abbiamo elementi sicuri per stabilire la lunghezza della costruzione. Si trattava comunque di un edificio, evidentemente simbolo dell’orgoglio cittadino e dedicato ad un culto molto rilevante nella città, di dimensioni grandiose, che in epoca medio repubblicana non trova molti confronti95: oltre al tempio di Celle a Falerii, ricordiamo, tra gli altri, il tempio di Giunone Moneta a Roma (m 24,50 x 30)96; il tempio di Sora (m 24 x 36)97, appartenente alla stessa “serie” laziale; il tempio di San Leucio a Canosa (m 28 x 33)98. In ogni caso la fronte dell’edificio doveva arrivare grosso modo fino al margine della terrazza e dunque affacciarsi direttamente sullo spazio sottostante, oggi corrispondente a Piazza Garibaldi, area dalla quale doveva essere possibile l’accesso al grande tempio su alto podio, verosimilmente attraverso una imponente scalinata, forse perpetuata dalla scala attuale che si trova esattamente in asse Fig. 17 Palestrina. 1: Ninfeo dei Pesci; 2: basilica; 3: Aula con la porta di accesso alla Absidata; 4: Cattedrale; 5: Piazza Regina Marghericella del tempio, oggi portata; 6: Piazza Garibaldi le della Cattedrale. Sembra 95 A parte edifici di età arcaica o tardo arcaica come il tempio dei Castori a Roma (m 27,50 x
37,50): Cristofani 1990, 62–63, nr. 3–4.
96 La Rocca 2012, 64–65, con bibliografia precedente. 97 Cfr. nota 16. 98 Pensabene 1990.
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Fig. 18 Palestrina. 1: Ninfeo dei pesci; 2: basilica; 3: Aula Absidata; 4: Cattedrale; 5: Piazza Regina Margherita; 6: Piazza Garibaldi; 7: via Petrini; 8: sito della struttura in opera quadrata; 9: scala di accesso alla Cattedrale
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Fig. 19 Dettaglio della struttura in opera quadrata in Piazza Garibaldi: pianta
confermare questa ipotesi la presenza di una struttura in opera quadrata di tufo ancora visibile in Piazza Garibaldi (fig. 17, n. 6), situata proprio in asse con la cella del tempio e congruente con il suo stesso orientamento (tav. 4, n. 9; fig. 18, n. 8; figg. 19–20), che è quanto resta di una platea molto più grande misurante m 5x5,50, in cui si innestava un altro muro in opera quadrata99, scoperta nel 1890. Questa struttura potrebbe essere stata strettamente connessa all’edificio sacro, costituendo forse un basamento o la platea dell’altare o ancora la base della scala di accesso (fig. 18, n. 9), in modo tale che lo spazio di pertinenza del tempio fosse articolato forse su due livelli diversi100. 99 Marchetti 1890, 38–39: si rinvenne “una larga platea a più ordini di pietre quadre, la quale
copre un’area di circa 30 mq e si eleva di m 1 sul nuovo livello della piazza. Detta platea ha una fronte di m 5 ed uno spessore di m 5,50. Lateralmente, sulla destra, si è pure rinvenuto un muro di opera quadrata, simile, con paramento integro e ben conservato, che intestando alla platea forma con essa un angolo di 100°”. V. anche Bradshaw 1920, 252, fig. 10. 100 Ricordiamo alcuni esempi significativi di una tale sistemazione noti in Etruria e risalenti ad epoca medio repubblicana: il tempio dell’Ara della Regina a Tarquinia è posto su una spettacolare terrazza su due livelli, collegati da scala e rampa, affacciata sulla piazza di fronte (Colonna 1985, 70; Id. 2006, 161); il tempio di Fiesole, inserito in un pendio scosceso, si erge su podio alto sulla fronte m 3,30 ed era accessibile attraverso una ripida scalinata divisa in due rampe da un ripiano intermedio (Colonna 1985, 93–95); infine, soprattutto, il monumentale tempio di Celle a Falerii, della seconda metà del IV sec. a.C., costruito su un enorme basamento lungo 50 m, articolato su due ripiani posti a quote diverse, analogamente al caso di Tarquinia (Colonna 1985, 110–112). Nel Lazio possiamo citare il tempio di Giunone sull’Acropoli Minore a Norba, con rampe e terrazze (Quilici Gigli 2012, 414).
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Fig. 20 Struttura in opera quadrata in Piazza Garibaldi
Nella stessa Piazza Garibaldi si ha inoltre notizia di altri resti antichi, come strutture in opera quadrata, ricordate da Blondel e Huyot101, e alcuni tratti di strada “a poligoni di calcare” orientati in senso nord-sud che dal fronte meridionale di via degli Arcioni salivano verso Piazza Regina Margherita102. Sul tempio, e sulla piazza sottostante, converge l’antichissima viabilità che ha condizionato la struttura urbana di Praeneste (fig. 21), corrispondente al percorso naturale di collegamento della città con la sella fra Colli Albani e Monti Lepini e poi con la costa103, percorso lungo il quale, almeno a partire dal III periodo laziale, si sviluppa non a caso la necropoli principale. Questa direttrice presupporrebbe un accesso alla città da sud, che tuttavia è impossibile definire 101 Blondel 1882, 175, riferisce di aver visto nelle cantine intorno a Piazza Garibaldi assise di
blocchi di tufo risalenti a costruzioni molto remote; questi resti potrebbero probabilmente corrispondere a quelli rilevati nella sua pianta, sul lato est della piazza, raffigurati come una struttura muraria a pianta rettangolare orientata nord-sud; la stessa compare anche nella pianta di Huyot, dove è posta invece all’angolo nord-est della piazza. 102 Sono ricordati da Nibby 1848–1849, 503 (sotto casa Tomassi e sotto casa Petrini), da Cecconi 1756, 42–43, nota 10, “nel giardino della famiglia Petrini” (che corrisponde allo stesso palazzo della famiglia Petrini citato da Nibby, indicato nel Catasto Gregoriano alla part. 41) e sotto una casa posta al centro della piazza, forse di proprietà Tomassi secondo il Nibby (secondo Tomassi 2002, 233, s.v. via della Mola, corrispondente alle partt. 827–829 del Catasto Gregoriano). 103 Cfr. Fasolo – Gullini 1953, tav. I; Kähler 1958, 189–193; Quilici 1989, 55.
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Fig. 21 Praeneste. Schema della topografia della città in epoca medio-repubblicana
nella sostanziale incertezza che grava sulla ricostruzione del tracciato delle mura urbane, sia per quanto riguarda il margine meridionale dell’abitato più antico, sia per la c.d. città bassa104. 104 Secondo l’interpretazione più diffusa le mura dovevano in origine chiudere lungo il tracciato
della attuale via degli Arcioni, dove, a partire dal II sec. a.C., il circuito in opera poligonale sarebbe stato sostituito dai grandi muraglioni in opera quadrata di tufo (opera quadrata che fodera una poderosa struttura in cementizio), che assumono funzione sostruttiva. In seguito un’ampia parte di questo perimetro (nel tratto ad ovest del Propileo) fu rifatta in opera incerta. Sull’argomento rinvio a Gatti 2011, 154–155. Per quanto riguarda l’eventuale fortificazione del pianoro della città bassa L. Quilici (Quilici 1989, 58–60) ha ricostruito una cinta muraria in opera quadrata del IV–III sec. a.C. sui tre versanti ovest, sud ed est: l’ipotesi però si scontra con il dato archeologico del ritrovamento, in più occasioni, di sepolture di epoca medio-repubblicana nell’area del pianoro.
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Fig. 22 Palestrina. Il Propileo (in secondo piano) e la fondazione in cementizio della rampa o scalinata che dava accesso in città (in primo piano)
In passato era stato ipotizzato un ingresso posto esattamente al centro dei due corpi di fabbrica in opera incerta, di cui quello occidentale – un grandioso ninfeo – è convenzionalmente conosciuto come “Propileo”, ed in asse con l’edificio sotto la Cattedrale105. In questo punto, infatti, si interrompe il circuito murario in opera quadrata (poi integrato da un ampio tratto in opera incerta); da qui doveva partire un’ampia scalinata o rampa, forse articolata in tre ripiani, di cui sono ancora leggibili con chiarezza le tracce nel nucleo cementizio (fig. 22), la quale, superato il dislivello del primo ripiano urbano sostruito dalle mura, doveva arrivare alla quota di Piazza Garibaldi. Se la costruzione del monumentale Propileo risale quasi certamente al tardo II sec. a.C., più incerta resta la cronologia di questa grandiosa monumentalizzazione dell’accesso originario con l’ampia rampa/gradinata, che potrebbe essere stata realizzata verosimilmente solo dopo l’82 a.C. e dopo l’istituzione della colonia sillana, quando l’assetto difensivo della città non aveva più motivo di essere: prima di questa data Praeneste doveva essere ben difesa, tanto che vi si rifugia Mario il Giovane in cerca di salvezza e che la città sopporta l’assedio, fino ad arrendersi, ma senza essere in realtà presa (App. bell. civ. 1, 397–439). 105 Magoffin 1908, 71; Riemann 1986, 160; Fasolo – Gullini 1953, 18. Questo ingresso,
rappresentato in forma di grande scalea, è stato ricostruito anche da Pirro Ligorio (Merz 2001, fig. 54) e da Andrea Palladio (Merz 2001, fig. 59).
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Si può dunque sostenere l’ipotesi che l’area della attuale Piazza Garibaldi sia verosimilmente da identificare con la piazza forense di epoca medio repubblicana, o almeno come parte di essa106, sulla quale doveva prospettare dalla terrazza superiore (sostruita dal muraglione in opera quadrata) il grandioso tempio di Giove, elevato su alto podio e accessibile da una scala di collegamento fra i due livelli. Non meraviglia, infatti, in una città di estensione ridotta e adagiata lungo un pendio piuttosto ripido, una articolazione – già in epoca medio-repubblicana – in terrazze monumentali, ristrette e allungate, ottenuta con opere di contenimento imponenti che andarono a modificare le pendenze e ad ampliare i pochi spazi pianeggianti praticabili, secondo una strategia di strutturazione urbana su terrazzi artificiali che ben conosciamo anche in altre città del Lazio107, naturalmente adattata volta per volta alle singole situazioni topografiche, orografiche e funzionali, in particolare per quanto riguarda le aree forensi108. Fig. 23 Palestrina, immagine satellitare da Google Earth: 1: tempio sotto Il ruolo centrale di questo spazio urbala Cattedrale; 2: Piazza Regina no109 emerge anche da una attenta lettura Margherita; 3: Piazza Garibaldi; della viabilità urbana. 4: tempio di Piazza della LibeQui, infatti, conduce direttamente il razione; 5: porta antica presso Porta S. Martino; 6: Porta del tracciato, oggi ripercorso da via Petrini, che Sole; 7: basilica; 8: Aula Absidaproviene dalla Porta del Sole (fig. 23, n. 6; ta; 9: santuario di Fortuna Prifig. 24): come hanno dimostrato recenti migenia; 10: Propileo 106 L’idea non è nuova: è già in Magoffin 1908, 28, che interpretò la piattaforma di opera quadra-
ta come la base di una statua di qualche personaggio famoso, ad es. il M. Anicius distintosi nel 216 a.C. nell’assedio dei Cartaginesi a Casilinum (sul quale v. Nonnis 2017–2018, 298). Un cenno alla possibilità di un foro su due livelli in Lauter 1979, 438, per il quale i resti in opera quadrata di Piazza Garibaldi possono essere la fondazione dell’altare. Anche F. Coarelli (Coarelli 1996, 455–457) ha prospettato la possibilità di un foro articolato in due parti, su livelli diversi, quella inferiore a Piazza Garibaldi e quella superiore, dove doveva essere il monumento di Verrio Flacco ricordato da Svetonio (gramm. et rhet. 17, 2), corrispondente a Piazza Regina Margherita. La possibilità del foro in questo sito è esclusa invece da Riemann 1986, 394. 107 Il riferimento è alle “terrazze italiche” già a suo tempo delineate da Gullini (Gullini 1983, 119–189); sul tema si rinvia ai recenti approfondimenti di Palombi 2019, in part. 127–130; nello stesso volume anche Cifarelli 2019, 158–163. 108 Cfr. infra 50. 109 Ricordiamo, a margine, che lungo via della Mola (stradina che si dirama dalla piazza verso sud), nell’orto della famiglia Grossi, fu trovata l’iscrizione onoraria per Lucio Cesare, quale patrono della città: CIL XIV 2910 a (EDR121218); si rinvia in proposito a Granino Cecere 2019, 388–390.
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Fig. 24
Porta del Sole: la strada basolata
scavi della Soprintendenza, già resi noti da Filippo Demma110, questo accesso risale almeno alla fine del IV-inizi del III sec. a.C. e si apriva nelle mura in opera poligonale attraverso una porta con stipiti in tufo. La strada proveniva da sud-est con un percorso che si doveva raccordare con il prolungamento della via Prenestina verso Cave, forse sito di uno degli oppida prenestini. L’antichità di questo accesso è dimostrata anche dalla presenza subito all’esterno di un luogo di culto dedicato a Iuno Palostca, testimoniato da una iscrizione111. Più incerta la ricostruzione della viabilità che doveva collegare questo settore urbano con l’accesso alla città da ovest, corrispondente con ogni probabilità al sito della porta di epoca medievale che si apre nelle mura in opera quadrata poco più a sud della settecentesca Porta San Martino112 (fig. 23, n. 5). Tranne un primo tratto, ipotizzabile come percorso antico per la sopravvivenza nel tessuto viario attuale (la prosecuzione di via Petrini), che dalla piazza si dirige verso ovest, per la parte successiva non disponiamo di elementi sicuri; tuttavia ci sembra un indizio significativo la presenza lungo questo ipotetico asse del tempio venuto in luce in anni recenti in Piazza della Liberazione (fig. 23, n. 4), 110 Demma 2011, in part. 169–180. 111 EDR072733; Torelli 1989, 25–26; Colonna 1998, 92–100 (= Colonna 2005, 2139–2143),
fig. 4; Cavallero 2018a, 11 e 195–196, Cat. I, 63, Tav. XXXIVb.
112 Cecconi 1756, 43; Nibby 1848–1849, 496; Magoffin 1908, 77–78; Marucchi 1932, 32–
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datato alla prima metà del II sec. a.C.113, la cui fronte prospettava verso sud, presupponendo l’esistenza nell’area antistante di una strada o di una piazza. Questo allineamento, sostanzialmente rettilineo fino alla porta occidentale della città, sembra testimoniato anche nella mappa del Catasto Gregoriano (fig. 25), ed in altre piante storiche della città114, in cui è evidente una fronte continua di edifici proprio fino all’angolo ottuso che formano le mura dove si trova la porta antica.
Fig. 25 Palestrina. Catasto Gregoriano, Comarca 157
Oltre alla viabilità convergente sull’area sottostante il tempio, un asse stradale certamente risalente alla fase medio repubblicana dell’edificio è quello che passa 113 Tedeschi 2002; Tedeschi 2012; Di Fazio 2015. Di questo edificio sono venute in luce le fon-
dazioni in opera quadrata di tufo, con blocchi disposti per testa e per taglio, che consentono di ricostruire un tempio periptero sine postico su podio, con pronao aerostilo, tetrastilo, con due file di colonne sulla fronte e cinque sui lati, misurante 100 x 61 piedi (m 29,5 x 18; cella 16,24 x 11,20). L’orientamento è congruo con il tempio sotto la Cattedrale e le fontane del Borgo, quindi l’edificio dovrebbe risalire ad un momento precedente la grande ristrutturazione urbana della città che vide anche la realizzazione degli edifici del complesso inferiore e del santuario di Fortuna Primigenia. L’edificio è datato, al più tardi, entro la prima metà del II sec. a.C. Prospettava scenograficamente verso valle e doveva trovarsi in una piazza terrazzata, delimitata a nord dal muro a blocchi di tufo che costituisce la sostruzione del terrazzamento superiore, su cui corre l’attuale Corso Pierluigi. Il dislivello fra il piano di spiccato del tempio e la pavimentazione del livello superiore è di circa m 6. 114 Lo stesso è evidente anche nelle piante di Blondel 1882 e di Bradshaw 1920, tav. XXVII.
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con andamento est-ovest sul retro del tempio, tangente al podio, ancora in parte visibile sotto la scala dell’ex Seminario vescovile e all’interno della cripta della Cattedrale (fig. 26; tav. 4, n. 10), dove si può verificare la larghezza originaria di m 3,96: la strada è pavimentata con basoli di calcare di dimensioni molto irregolari e per un breve tratto mostra leggeri segni del passaggio di carri115.
Fig. 26 La strada all’interno della cripta della cattedrale
Va subito notato che questa strada è indipendente dalla breve rampa basolata stradale (tav. 4, n. 11) che, con andamento nord-sud, la raccorda con la pavimentazione del foro, a grandi lastre rettangolari di calcare, posta ad una quota leggermente più bassa. Questa rampa, infatti, realizzata con basoli di minore grandezza e molto più regolari, si addossa alla strada preesistente con una linea di giunzione molto evidente: essa fu dunque certamente costruita insieme alla gradinata, come dimostrano i settori della pavimentazione quasi triangolari – “a ventaglio” – del basolato, determinati dall’andamento curvo a seguire la gradinata stessa (fig. 27).
115 Una situazione molto simile è a Sora, dove una strada basolata doveva correre tra il lato poste-
riore del tempio e il portico retrostante: cfr. Mezzazappa 2003, 122–123.
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Fig. 27 La strada (a sinistra) che passa dietro al tempio e la rampa (a destra) che segue la gradinata
Conosciamo solo questo breve tratto della strada più antica e dunque è pressoché impossibile formulare ipotesi fondate sul suo possibile tracciato nell’ambito della topografia urbana a questa quota cronologica, anch’essa sostanzialmente ignota nella sua fisionomia precedente la grandiosa ristrutturazione tardorepubblicana116. Sembra tuttavia possibile supporre, anche con l’aiuto delle probabili sopravvivenze nella maglia viaria post-antica, che verso est la strada passasse davanti all’Erario – struttura sicuramente preesistente alla costruzione della soprastante Aula Absidata – per poi salire verso il santuario di Fortuna, seguendo probabilmente il tracciato della attuale via Thomas Mann, andando così a costituire un collegamento fra i due principali luoghi di culto della città. Verso ovest, invece, possiamo solo immaginare che con ogni probabilità proseguisse almeno fino all’ambiente in opera quadrata117 situato nell’area antistante il Ninfeo dei Pesci118. 116 Una ipotesi sulla strutturazione del complesso inferiore nella fase “preellenistica” è già in
Delbrück 1907, fig. 44 c; si veda, inoltre, Gullini 1992, 531–543; Gatti 2003, in part. 61–62 per la fase più antica del Ninfeo dei Pesci. 117 Gatti 2003, 58–59, figg. 11 e 12, A; cfr. Delbrück 1907, fig. 46. Anche questo ambiente è in opera quadrata ed è, con ogni probabilità, coevo all’Erario, con cui condivide orientamento, allineamento della fronte, tecnica edilizia e sostanzialmente dimensioni. 118 Solo a livello di ipotesi di lavoro si potrebbe immaginare che da questo punto la strada potesse forse biforcarsi e piegare a destra verso nord, per consentire la salita anche da questo lato verso
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Se questa ricostruzione coglie nel segno, allora la grande piazza forense (di cui conosciamo parte della pavimentazione a grandi lastre rettangolari) situata sul livello corrispondente alla attuale Piazza Regina Margherita, sulla quale prospetta l’Aula Absidata e il portico a doppio ordine davanti alla basilica, si deve riferire ad un intervento successivo, forse da ascrivere alla stessa fase – o quanto meno allo stesso progetto – di costruzione dei grandi monumenti tardo ellenistici del complesso inferiore119.
Fig. 28 Veduta del lato orientale del tempio
Il tempio vede in seguito una seconda fase, di cronologia tuttora incerta, quando al podio viene addossata una imponente gradinata in blocchi di calcare e travertino, conservata lungo i lati est (tav. 3, n. 4)120 e nord del tempio (tav. 4, n. 5 e n. 12). Sul lato orientale si conservano sei gradini, realizzati in lunghi blocchi di calcare, ma in origine, per arrivare alla quota della sommità del poil santuario di Fortuna (forse collegandosi al tratto di basolato che, con andamento est-ovest, costeggia l’angolo sud-ovest del Ninfeo dei Pesci: cfr. Delbrück 1907, tav. X; Gatti 2003, fig. 1, n. 12), mentre girando a sinistra verso sud poteva raccordarsi con l’asse stradale oggi ripercorso da Corso Pierluigi, dalla Cattedrale a Porta San Martino. Questo ipotetico percorso, un po’ tortuoso, ma non anomalo in un abitato a sviluppo non programmato, ben si spiegherebbe con l’ipotesi dell’esistenza del grande tempio collegato attraverso una scala o rampe, in un unico blocco senza interruzioni, con la piazza sottostante, che potrebbe aver determinato il passaggio della strada sul retro. 119 In concomitanza con questo intervento la strada che passa dietro al tempio diventa secondaria e probabilmente nel passaggio davanti all’Aula Absidata potrebbe essere divenuta un percorso porticato. 120 Un ulteriore tratto, più a sud dello stesso lato, fu portato in luce dagli scavi di Vaglieri: Vaglieri 1907, 290, fig. 1, E, e fig. 4.
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dio, dovevano essere almeno nove o dieci e la larghezza della scala essere pari a circa m 3; qui la scalinata, che – si badi bene – in parte copre la pavimentazione a grandi lastre di calcare della piazza forense, fu costruita appoggiandola su una consistente massicciata di terreno e pietrame, ormai quasi completamente asportata, addossata al podio più antico121 (fig. 28). Con una ampia curva intorno all’angolo nord-orientale del tempio e diminuendo progressivamente il numero degli scalini, la gradinata, munita Fig. 29 Cripta della Cattedrale: la gradinata che si adanche di due paracarri, gira e dossa al podio sovrapponendosi al basolato stradale va ad addossarsi al lato nord del tempio, dove i gradini sono soltanto quattro, poiché si appoggia sul preesistente basolato stradale che si trova ad una quota più alta122 (fig. 29; tav. 3, nn. 5–6). Questa gradinata, che amplia ulteriormente il monumentale podio in opera quadrata, crea molti problemi dal punto di vista interpretativo123, poiché risulta in effetti difficilmente conciliabile non solo con l’ipotesi di un tempio etruscoitalico, ma anche di uno pesudoperiptero (come talora è rappresentato il tempio prenestino), o comunque, più in generale, con il modello della struttura tipicamente italica, caratterizzata, come è noto, per i condizionamenti dovuti agli
121 Anche gran parte dei blocchi del podio del tempio sono stati depredati, probabilmente fin dalla
tarda antichità per trarne materiale da costruzione. Non sappiamo se la massicciata della gradinata è stata in gran parte scavata in occasione delle indagini eseguite all’inizio del XX secolo. 122 Il tratto ovest della gradinata conservato nella cripta mostra in sezione al di sotto dei gradini di calcare e travertino due blocchetti di tufo, sui quali i primi si appoggiano. Fasolo – Gullini 1953, 29 (e v. ora anche Fiasco 2019, 331) sostengono che questi blocchetti di tufo siano un crepidoma più antico; l’idea non mi sembra condivisibile perché se ne vedono solo due in questo unico punto e non altrove; tra l’altro un crepidoma (di soli due gradini?) sarebbe incompatibile con un tempio su alto podio, di tipo etrusco-italico, così come ne proponiamo ora la ricostruzione. 123 Cfr. per es. Fasolo – Gullini 1953, 30.
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aspetti religiosi, da frontalità, unico ingresso e alto podio, funzionali all’isolamento del templum. Basandoci sui pochi dati disponibili, possiamo formulare solo alcune ipotesi. L’intervento potrebbe essere connesso ad una sostanziale modifica dell’assetto urbano e dell’edificio sacro, proprio in concomitanza con la creazione della nuova grande piazza forense sul suo fianco orientale, momento in cui il grande podio potrebbe essere stato trasformato in una imponente piattaforma, forse con portico praticabile; persa la sua originaria funzione legata all’isolamento e alla frontalità dell’edificio, esso sarebbe divenuto solo una sorta di platea, accessibile anche dai lati e dal retro, forse in modo da consentire il passaggio tra i due settori dell’area urbana124. In alternativa l’aggiunta della gradinata potrebbe essere stata motivata da particolari esigenze rituali, per le quali era necessario facilitare l’accesso al podio, o perchè connessa all’esistenza di accessi secondari, dal lato e dal retro del tempio, analogamente a quanto è stato ipotizzato per i templi di Sol Indiges a Lavinium125, dell’Ara della Regina a Tarquinia126 e di San Leucio a Canosa127 dello stesso arco cronologico. Ma l’aggiunta della gradinata, sempre che esistesse sui quattro lati, potrebbe invece indicare la totale ricostruzione dell’edificio in forme decisamente ellenizzanti, con la trasformazione del tempio – verosimilmente – in periptero e la creazione di un crepidoma tutto intorno al podio di stampo greco. Si tratterebbe, in questo caso, di una scelta ben precisa e molto singolare, per la quale si potrebbe trovare un parallelo, per esempio, nel tempio romano di San Salvatore in Campo, identificato da tempo con il tempio di Marte in circo Flaminio, voluto dal console del 138 a.C. Bruto Callaico ed opera di Ermodoro di Salamina128. Una simile scelta, che adotta un modello che a Roma è voluto dalla aristocrazia ormai permeata di cultura greca, appare difficilmente immaginabile nella Praeneste libera, orgogliosa delle proprie origini e delle tradizioni latine e governata da élite locali convinte seguaci di Mario, oppositore della tradizione ellenizzante e tenace sostenitore dell’uso di materiali tradizionali in architettura, 124 La conservazione dei muri della cella fino al Medioevo, quando avviene la trasformazione in
chiesa cristiana, fa necessariamente supporre che il tempio, anche durante la tarda repubblica e poi l’età imperiale, abbia continuato ad utilizzare in qualche modo la struttura in opera quadrata. Per la questione della differenza fra podio del tempio e piattaforma v. Potts 2011. 125 Jaia 2012, 603–605. 126 Colonna 1985, 70; Colonna 2006, 161. 127 Pensabene 1990, 273–274. 128 Zevi 1976, 1055–1064; Tortorici 1988 propone tre possibilità diverse di ricostruzione, una delle quali come tempio periptero con crepidoma; Coarelli 1997, 495; Zevi 1976; Cavallero 2018b; La Rocca 2011, 11–14, con bibliografia precedente a nota 65; Kosmopoulos 2012 e 2014.
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mentre sarebbe meglio comprensibile negli anni successivi all’82 a.C. Immediatamente dopo la strage dei prenestini voluta da Silla, che annullò quasi totalmente le antiche famiglie locali, la nuova classe dirigente della colonia militare, guidata dal possibile deductor M. Terentius Varro Lucullus, dando un segno di forte discontinuità avrebbe cosi volutamente cancellato l’aspetto italico del tempio simbolo della città, contraddistinto dalla cifra spiccatamente latina ed arcaizzante del suo imponente podio, con grandi modanature a doppio cuscino, e probabilmente ancora con tetto di legno e decorazioni in terracotta, per sostituirlo con un capitolium, dedicato alla triade simbolo di Roma129 e costruito secondo un modello “alla greca”, già adottato nell’Urbe e ormai patrimonio delle élite romane più colte e raffinate130. Se questa ipotesi fosse fondata, ben si adatterebbe al tempio così ridisegnato l’architrave trovato nella piazza con l’iscrizione che ricorda Varro Lucullus131. In sostanza molti sono i dubbi destinati per ora a rimanere insoluti sulla fisionomia di questo edificio, in particolare nella sua seconda fase, della quale resta incerta la cronologia. Tuttavia, concludendo, sulla base dei dati fin qui illustrati e delle riflessioni proposte, possiamo forse formulare un’ipotesi ricostruttiva di sintesi (tav. 5). Della Praeneste medio repubblicana, oltre alla notissima necropoli e agli importanti interventi sulle mura, riusciamo forse ora a cogliere anche una impegnativa sistemazione urbanistica, che comporta la realizzazione di un poderoso terrazzamento fra il secondo e il terzo livello urbano e soprattutto la costruzione (o ricostruzione?) di un grandioso edificio sacro inserito in uno scenografico complesso monumentale terrazzato. Il tempio, su alto podio (m 2,20) e di dimensioni imponenti, pari a circa m 28 x 36, era a pianta tripartita, alto almeno 15 metri, allineandosi per misure e tipologia con i maggiori templi poliadici coevi dell’Etruria e del Lazio. Forse lo spazio sacro antistante si articolava in due livelli diversi collegati da una scala, probabilmente centrale; l’edificio, posto su una terrazza urbana sostruita da un muraglione in opera quadrata, dominava la primitiva piazza del foro, posta ad 129 Una vicenda analoga e parallela è quella del tempio di Giove a Pompei, trasformato in tempio
della Triade Capitolina nei primi anni della colonia sillana: v. Pesando 2015, 460.
130 È appena il caso di ricordare che l’architetto Ermodoro aveva già realizzato a Roma, fra il 146
ed il 133 a.C., il fastoso tempio di Giove Statore, in marmo e probabilmente periptero, situato nella porticus Metelli, opere pienamente inserite nella koiné microasiatica. A questo complesso Eugenio La Rocca (La Rocca 2011, 9–11) ha proposto di attribuire un frammento di capitello in marmo pario, con pulvino decorato di foglie d’acanto ed abaco con kyma lesbio, il cui prototipo va probabilmente individuato nei capitelli dello Smyntheion di Chryse, gli stessi cui da cui certamente dipendono i capitelli delle semicolonne interne del primo ordine dell’Aula Absidata: v. Gatti 2017, 94–102, figg. 31–35. 131 Cfr. Zevi 1989, 44–46.
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una quota inferiore e situata proprio lungo l’asse di accesso principale alla città da sud. Si tratta naturalmente di un tipo di sistemazione urbana non isolato, ma per il quale è possibile individuare confronti in altre città del Lazio, dove nello stesso periodo troviamo contesti forensi con analoghe caratteristiche. Oltre al caso di Tusculum132, e forse di Tibur133, particolarmente significativo è l’esempio di Cora, anch’essa come Praeneste rimasta città libera fino al 338, che presenta il foro articolato in tre terrazze poste a quote differenti: su quella intermedia, sostenuta da un muro poligonale tardo arcaico di I maniera, si trovano, in posizione dominante affacciati sulla terrazza del foro, l’edificio dei capitelli figurati e il tempio dei Dioscuri, già esistente alla fine del V e poi con una fase di fine IV–III sec. a.C. in blocchi di tufo e colonne lignee134. Anche il tempio di Sora, cui dobbiamo particolare attenzione per la identità della forma del podio e per le analoghe imponenti dimensioni, si trova su un’ampia terrazza sopraelevata, ottenuta grazie ad una estesa opera di sostruzione in opera quadrata del lato meridionale della collina della Cattedrale135, sotto alla quale si apriva la piazza forense, con una evidente raffinata impostazione scenografica di epoca medio-repubblicana. Studi recenti hanno permesso di riconoscere che anche a Verulae il foro, al centro del quale si trovava il tempio poliadico, è sistemato su un poderoso terrazzamento in opera poligonale di IV maniera, risalente alla fine del III-inizi del II sec. a.C.136. Un ultimo esito di questo tipo di sistemazione, risalente agli ultimi decenni del II sec. a.C. si conosce ad Assisi137. Del resto un simile intervento ben si inserisce in quello che ormai si sta delineando come un fenomeno comune a molte città del Lazio antico fra IV e III sec. a.C., vale a dire un impegno per il progressivo ampliamento di acropoli e piazze forensi con l’utilizzo di terrazze artificiali sostruite138. Come gli studi più recenti stanno dimostrando, infatti, l’esplosione delle grandiose architetture in epoca tardo repubblicana non è certo improvvisa, ma 132 Dupré et al. 1999, 49–68; Dupré et al. 2002, 74–78; Remola Vallverdù – Sanchez Gil
de Montes 2011, 310, fig. 4.
133 Giuliani 1970, 50 e 91; Mari 2017, 133–137; Palombi 2019, 125, nota 31, segnala come la
sostruzione in opera quadrata sotto il teatro potrebbe essere sia sostruzione stradale sia sostruzione del santuario medio-repubblicano. 134 Palombi 2003a, in part. 223–225; Id. 2003b; Id. 2012, 400–404. 135 Mezzazappa 2003, 101–103 e 107–108 per il problema della identificazione del foro; Frasca 2013, 432. Per la possibile attribuzione del tempio al culto di Ercole v. Demma – Cerrone 2012. 136 Gatti 2019. 137 Strazzulla 1983, 153. 138 Palombi 2019, 127.
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trova le sue radici nella fase precedente, medio-repubblicana per così dire “matura”, vale a dire almeno dal III sec. a.C., quando questi centri sono laboratori di sperimentazione di nuovi modelli di concezione dello spazio, di nuove prospettive e nuove forme – secondo quel processo di ellenizzazione noto anche in altre espressioni figurative ed artistiche – realizzate a partire dall’inizio del II sec. a.C. anche grazie all’impiego, a volte anch’esso ancora sperimentale, di nuove tecniche edilizie, come per esempio il cementizio. E’dunque probabile che la piazza forense sia stata ampliata, o comunque ulteriormente monumentalizzata, anche sulla terrazza superiore, ad est e forse anche ad ovest dell’edificio sacro, solo con la grandiosa ristrutturazione della seconda metà del II sec. a.C. e con la realizzazione dell’imponente blocco monumentale degli edifici del foro, che, con i suoi prospetti e i suoi colonnati continui che fungono da fondale, si va a collocare alle spalle del tempio più antico, rispettandolo ed anzi mantenendolo come punto focale di questo settore chiave della città, cristallizzato nella sua veste antica; le due parti della piazza restano collegate dalla strada preesistente che passa fra il tempio e la basilica. Successivamente al podio del tempio viene addossata la gradinata, su due o più lati dell’edificio, e con ogni probabilità esso assume un aspetto diverso. Nello stesso momento il lastricato della piazza del foro viene raccordato con una rampa alla strada più antica, in parte coperta dalla scalinata. Il fatto che la gradinata passa anche alle spalle del tempio, restringendo la strada fino a quel momento carrabile, assicura la posteriorità di questo intervento rispetto alla soluzione tardo-ellenistica, che aveva invece conservato il tempio nella sua forma originaria: infatti se in questa fase si fosse inteso raccordare il tempio ai nuovi edifici, si sarebbe certo adottata la soluzione di una sua organica continuità architettonica, che probabilmente avrebbe eliminato la strada. Se dunque questo percorso, certamente di antica origine e a lungo mantenuto, testimonia la volontà di isolare il tempio latino, la nuova gradinata pare essere sicuro indice delle volontà di trasformare l’edificio medio repubblicano, anche se non sappiamo esattamente in che modo, forse attenuandone le valenze simboliche. L’area forense, posta nel cuore dell’area urbana, risulterebbe dunque dalla tarda età repubblicana articolata su due diversi livelli, con l’antico tempio che resta in posizione centrale e dominante. Questa proposta di ricostruzione dell’assetto della piazza forense si intreccia inevitabilmente con una delle informazioni principali sulla topografia della città che abbiamo dalle fonti antiche. Ci si riferisce al passo di Svetonio (gramm. et rhet. 17, 4) in cui si ricorda il monumento dedicato al grammatico Verrio Flacco, una statua posta “in superiore (altro manoscritto in inferiore) fori parte contra (o circa?) hemicyclium in quo fastos a se ordinatos et marmoreo parieti
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incisos publicarat”. Il passo, come è noto, è uno degli elementi che ha dato origine alla teoria della esistenza di due fori a Palestrina. Ma Svetonio – a ben vedere – non parla di due fori separati, come pure in passato è stato ipotizzato dai più, bensì di due parti di un unico foro139: sarebbe impossibile, tenuto conto della totale discontinuità topografica fra i due siti, riconoscere le due parti rispettivamente nel foro “intramuraneo” e nell’ipotetico foro sillano nella città bassa140. Alla luce di questa nuova ricostruzione, potremmo forse immaginare che l’autore parli di un solo foro, diviso in una parte inferiore e una superiore, articolato appunto in due terrazze contigue, che oggi sopravvivono fra Piazza Regina Margherita e Piazza Garibaldi. Resta, tuttavia, lo spinoso problema141 della consistente quantità di iscrizioni di carattere pubblico e civile, di dediche, di basi onorarie e ritratti imperiali rinvenuti nel tempo nella città bassa, mentre ben poco di tutto questo è stato trovato nell’area forense, dove, viceversa, sono state scoperte numerose dediche alla dea Fortuna di età imperiale. D’altra parte si deve anche tenere presente che da un lato di tutta la pur ingente documentazione epigrafica prenestina riferibile a questi due settori urbani, quasi nessuna iscrizione è stata trovata in situ – e si sa bene quanto questo genere di reperti sia sottoposto nel tempo a spostamenti e riutilizzi –; dall’altro anche che l’attenta e recente revisione dei resti archeologici della città bassa da parte di Diana Raiano142 ha accertato non solo la diffusione dei luoghi di ritrovamento delle epigrafi sull’intero pianoro, indebolendo qualsiasi ipotesi di localizzare in un punto preciso l’eventuale foro, ma anche l’assenza di strutture riconducibili con certezza ai tipici edifici forensi, a fronte dell’esistenza di un imponente edificio termale di età imperiale e, forse di sedi di collegia. La nostra ricostruzione, comunque, non esclude affatto la concreta possibilità che fin dalla prima età imperiale, la vita cittadina si fosse in realtà spostata più a valle, dove erano stati realizzati nuovi importanti edifici, arricchiti da raffinati apparati decorativi e scultorei; questo spiegherebbe anche come il vecchio foro, ormai svuotato di significato dal punto di vista politico e cristallizzato nella forma assunta con la costruzione dei grandi monumenti tardo-ellenistici143, 139 L’idea è già in Zevi 1979, 21–22 e poi in Coarelli 1996, 454–455: quest’ultimo Autore, tut-
tavia, ammette anche l’esistenza a Palestrina di un secondo foro “sillano” in corrispondenza di Madonna dell’Aquila. 140 Si veda il contributo di D. Raiano, in questo volume. 141 Già esaminato da Zevi 1979, 21–22. 142 D. Raiano, Praeneste. Forma Urbis, tesi di Dottorato di Ricerca in Topografia Antica, Facoltà di Lettere e Filosofia, Dipartimento di Scienze dell’Antichità, Università di Roma Sapienza, a.a. 2013–2014. 143 Da notare che tutti gli edifici del complesso inferiore, come del resto il santuario di Fortuna, non mostrano interventi di modifica o di restauro di rilievo, almeno per quanto oggi visibile,
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possa eventualmente essere rimasto soprattutto come “luogo della memoria” della città libera e per questo idealmente connesso con l’altro elemento identitario cittadino, il celebre e antico santuario della Fortuna Primigenia, tanto da divenire sede di dediche alla dea144.
Tavole – Appendice (Alessandro Pintucci) I rilievi che si presentano in questa sede sono il frutto di una breve campagna di documentazione intrapresa al fine di migliorare l’apparato grafico e cartografico disponibile per il tempio inglobato nella Cattedrale di Palestrina, oggi appena percepibile tra le murature della Cattedrale di Sant’Agapito, che nel medioevo ne prese materialmente il posto. La difficile lettura e percezione del monumento, non solo per un pubblico di non addetti ai lavori, ma anche per chi si avventurasse a studiare il complesso, hanno suggerito per il nuovo rilievo l’utilizzo di tecniche di rappresentazione tridimensionale, che consentissero di collocare precisamente nello spazio le parti che compongono il monumento, cancellando, almeno virtualmente, le strutture appartenenti alle fasi successive all’epoca classica e realizzando una nuova sinossi volumetrica del complesso; la notevole distanza temporale dagli ultimi rilievi integrali del tempio, inoltre, ha giustificato l’esigenza di una nuova documentazione che consentisse, tra l’altro, di verificare lo stato dei resti murari ancora visibili sia all’esterno della chiesa che nella rinnovata cripta di Sant’Agapito. Non, dunque, un’adesione al conformismo del 3d a tutti i costi, ma una scelta precisa dettata dal contesto in studio. Al rilievo fotogrammetrico e strumentale sono stati affiancati i dati ricavati attraverso i tradizionali strumenti della topografia antica, in particolare la cartografia storica: dell’area del foro, attualmente ancora in fase di studio e di acquisizione attraverso il rilievo topografico, si è scelto di rappresentare in pianta solo le strutture utili all’inquadramento del tempio, rimandando ad altra sede l’analisi delle altre.
rispetto alla forma originaria in opera incerta. Nel settore nord orientale della piazza forense, quasi davanti all’angolo est dell’Aula Absidata, in età augusteo-tiberiana viene costruita la fontana semicircolare in opera laterizia che F. Coarelli identifica con il monumento di Verrio Flacco (Coarelli 1996); probabilmente sotto l’imperatore Claudio nel foro viene innalzato un obelisco in granito rosso. Ma della restante parte della antica piazza nulla sappiamo. 144 Sull’argomento si veda Zevi 1979, 12–14. Per la frequentazione del santuario di Fortuna Primigenia in età imperiale sulla base della documentazione epigrafica cfr. Granino Cecere 2007, 364–366.
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Tav. 1 Prospetto del podio del tempio, lato orientale
Per la realizzazione del nuovo rilievo è stata creata una snella maglia topografica in Piazza Regina Margherita con uno strumento GPS NRTK ad alta precisione, dalla quale si è partiti per i rilievi con stazione totale delle mire utilizzate per la presa fotogrammetrica delle singole parti: da esse è stato realizzato un unico modello tridimensionale comprendente tutti gli elementi rilevati, ripuliti di ogni superfetazione non utile allo studio. Dal modello 3D sono state ricavate le rappresentazioni bidimensionali planimetriche e degli alzati, proiettando su un unico piano tutti gli elementi disponibili e utili alle diverse viste; su queste rappresentazioni sono stati vettorializzati gli elementi di interesse e formulate le proposte ricostruttive. Prospetto del podio Le superfici verticali dei blocchi appartenenti al podio del tempio presentano diverse tracce di lavorazione a gradina, non è chiaro se risalenti alla fase di messa in opera o in quella in cui il podio fu parzialmente demolito e coperto dai gradini in travertino. Uno dei limiti della vettorializzazione tradizionale delle strutture murarie, rispetto alla vecchia lucidatura a china, è la sensazione di maggiore rigidità del prodotto finale, che appare non di rado freddo e innaturale: per raggiungere un risultato migliore si è utilizzata una tavoletta grafica e il ‘plugin freehand editing3’ per Qgis 3.X, che consente un lavoro molto naturale con la penna, paragonabile a quello su un foglio di carta, e un risultato finale più simile al disegno tradizionale. Inoltre, per migliorare l’effetto china, si è utilizzato uno stile delle linee sfumato sui margini, che risultano, così, più morbidi.
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Tav. 2 Tempio, prospetto longitudinale del lato orientale.1: podio; 2: modanature a doppio cuscino; 3: fronte della cella; 4: gradinata in calcare; 5: tratto di podio e di alzato della cella o ala orientale (sotto il campanile della chiesa)
Sezione S-N La tavola rappresenta il lato lungo del tempio, visto da est: è visibile il podio (compresa la modanatura sormontante a doppio cuscino), diviso in diversi scampoli murari, parti dell’alzato, compresa la facciata originariamente appartenente alla cella templare e ora alla Cattedrale di S. Agapito, i gradini aggiunti nell’ultima fase intorno al tempio, il piano stradale antico, attribuibile, sul lato est, alla fase in cui sono stati realizzati i gradini intorno al tempio. Le ipotesi ricostruttive sono tutte rappresentate con linee tratteggiate: volutamente nella ricostruzione si è omesso di inserire alcun colonnato, che avrebbe avuto, comunque, solo valore indicativo. Sezione E-O La tavola rappresenta il lato corto del tempio visto da nord, dunque dal retro. Si possono notare il piccolo tratto di podio scavato nella cripta e quello presente nell’area archeologica di Piazza Regina Margherita, i gradini aggiunti nell’ulti-
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Tav. 3 Tempio, sezione trasversale. 1: parte del podio conservato nella cripta della Cattedrale; 2; fronte della cella; 3: tratto di podio e di alzato della cella o ala orientale (sotto il campanile della chiesa); 4: gradinata in calcare e travertino, lato orientale; 5: gradinata in calcare e travertino, lato settentrionale (nella cripta della Cattedrale)
ma fase, il piano stradale antico, la facciata della cella del tempio e dell’attuale cattedrale, posti, per la verità, sul lato opposto, ma utili per restituire l’ampiezza del vano. Anche in questo caso le proposte ricostruttive sono rappresentate con linee tratteggiate mentre le strutture attestate con una linea continua. La forma e le dimensioni del timpano sono puramente ipotetiche e con unico scopo rappresentativo. Pianta In questa planimetria le strutture appartenenti al tempio sono posizionate sullo stralcio catastale del centro storico di Palestrina: con la linea continua sono rappresentate le strutture attestate, con una linea continua più spessa quelle che appartengono al complesso Basilica – Aula Absidata e al sistema sostruttivo di Piazza Garibaldi, queste ultime desunte dalla carta ottocentesca del Blondel; con linea tratteggiata le proposte ricostruttive.
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Tav. 4 Pianta delle strutture del tempio. 1: margine orientale del podio; 2: parte del lato nord del podio; 3: fronte della cella; 4: muro di sostruzione della terrazza del tempio; 5: gradinata in calcare e travertino, lato est; 6: gradinata in calcare e travertino, lato est, tratto scavo Vaglieri 1907; 7: tratto di podio e di alzato della cella o ala orientale (sotto il campanile della chiesa); 8: muro in opera quadrata documentato dal disegno di Cicerchia 1882; 9: struttura in opera quadrata in Piazza Garibaldi; 10: strada basolata; 11: rampa basolata; 12: gradinata del lato nord; 13: pavimentazione della piazza del foro a grandi lastre rettangolari di calcare
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Tav. 5 Pianta generale della zona del foro
Sono, inoltre, rappresentati con due tratteggi differenti le murature appartenenti alla Cattedrale costruite riutilizzando i muri del tempio e quelle che, pur poggiandosi con ogni probabilità su strutture antiche, sono di origine medievale o moderna.
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Crediti Figg. 1, 2, 3, 5, 9, 13, 15, 20, 22, 24, 27, 28 e 29: foto dell’autore; fig. 4: Marucchi 1932; figg. 6 e 26: ortofoto: cortesia A. Fiasco; figg. 7, 8 e 12: Piccarreta – Di Paola 2002, 16, fig. 29; 17, figg. 35 e 36b; fig. 10: Blondel 1882; fig. 11: Archivio Centrale dello Stato; fig. 14: Diosono 2019, fig. 5; fig. 16: Archivio Centrale dello Stato; figg. 17 e 23: immagine satellitare da Google Earth; fig. 18: rielaboraz. da rilievo TAU 1985, Archivio Soprintendenza sabap-rm-met; fig. 19: disegno archivio Soprintendenza rmmet; fig. 21: Quilici 1989, 56, fig. 3a; fig. 25: Archivio di Stato di Roma; tavole: autore Alessandro Pintucci.
Diana Raiano
Praeneste, elementi per una ricostruzione topografica della città bassa: il foro, le terme e il macellum Riassunto: Il presente contributo riguarda l’urbanistica della città bassa di Praeneste alla luce di nuove e recenti acquisizioni e della revisione e aggiornamento di vecchi dati; in particolare si affronta il nodo topografico della seconda piazza forense, detta anche foro sillano. Riesaminando le varie argomentazioni che nel corso del tempo hanno contribuito a tramandare acriticamente, come dato di fatto acquisito, l’esistenza di un secondo foro nella città, è emerso un diverso quadro, molto più sfumato e meno certo, sia riguardo la sua localizzazione e cronologia sia, in ultima analisi, riguardo la sua stessa esistenza. L’approfondimento sui luoghi di rinvenimento dei documenti epigrafici ha evidenziato, ad esempio, come la grande dispersione e diffusione delle iscrizioni in varie zone della città bassa impedisca di attribuire loro un effettivo valore topografico e di individuare grazie ad esse un’area circoscritta per il secondo foro. E ciò è valido anche per i frammenti dei Fasti. Dall’analisi delle strutture archeologiche, in particolare quelle nell’area della chiesa di Madonna dell’Aquila, ne è derivata una proposta di ricostruzione planimetrica delle Terme pubbliche prenestine, uno dei luoghi privilegiati per l’esposizione di basi onorarie, statue e ritratti che normalmente venivano ricondotte ad un ambito forense e, nel nostro caso, in particolare al secondo foro prenestino. La revisione degli impianti urbanistici della città bassa ha evidenziato poi il venir meno della connessione del secondo foro con la deduzione della colonia post 82 a.C. e la relativa cronologia alla età sillana. Ma è dunque mai esistito un secondo foro nella città bassa di Praeneste? Abstract: Recent finds cast new light on the urban planning of the lower town of Praeneste. By examining the new information and revising old data, this contribution concentrates especially on the topography of Praeneste’s second forum, also known as the forum of Sulla. The uncritical acceptance of earlier arguments had made the existence of a second forum in the city a confirmed theory. The re-examination of these arguments, however, draws a different picture, which contains more nuances and less certainty regarding the location, the chronology and, ultimately, the very existence of a second forum. An in-depth study of the find spots of the inscriptions has shown, for example, the wide dispersion of the inscriptions in various parts of the lower city. As a consequence, these inscriptions were not associated with a specific topographical value as published in an important place as a forum. This is also true for the fragments of the Fasti. The inscriptions are therefore no argument to identify the area of the lower town under review as a second forum. The analysis of archaeological structures of this area may give way to
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Diana Raiano
a different interpretation. The space around the church of Madonna dell’Aquila provides the basis to propose a planimetric reconstruction of the public baths of Praeneste. Baths used to be one of the preferred places for the display of honorary inscribed bases with statues and portraits. Such honorific monuments are often interpreted as forum-related, so this would be an argument for the existence of a second forum in the lower town of Praeneste. However, a review of the urban layout of the lower town has shown little that allows linking the theory of a second forum to the dedication of the colony after 82 BCE, and of this part of the city to the period of Sulla’s domination: More than ever we should ask if a second forum in the lower town of Praeneste ever existed.
Uno dei temi più complessi e interessanti riguardo l’urbanistica di Praeneste concerne il foro cittadino1 e, in particolare, l’esistenza di una seconda piazza, spesso definita anche come foro sillano o forum duplex2, ubicata nella cd. città bassa di Praeneste. Città bassa è il nome dato al pianoro, ampio ca. 40 ettari, posto a meridione della linea delle mura che racchiudono la parte alta dell’abitato e delimitato naturalmente, ad occidente e ad oriente, dalle valli dei Sardoni e dello Spedalato3, mentre a sud un sensibile dislivello lo separa dalla zona riservata alla necropoli della Colombella4. Il terreno è caratterizzato da un’inclinazione digradante verso sud, con una pendenza media dell’8–10 % (contro il 30 % della città alta), con decisi salti di quota e doppi pendii, morfologia che ne condizionò l’insediamento e influì nell’orientamento delle strade e degli edifici (fig. 1). Mentre la parte superiore del nucleo urbano entro le mura ha visto per secoli, fino ai nostri giorni, un continuo tessere e ritessere sulla stessa trama edilizia, il pianoro inferiore a partire dall’epoca post-antica era tornato progressivamente ad essere un’area rurale. Paesaggio che, senza sostanziali cambiamenti, era perdurato fino all’immediato dopoguerra con pochi casali, chiesette di campagna e resti monumentali antichi emergenti fra orti e vigne. 1
Cfr. contributo di Sandra Gatti in questo stesso volume. A Sandra, collega e cara amica, dedico questo lavoro con un sincero ringraziamento per tutti i consigli, gli spunti, le indicazioni culturali, e non solo, che mi ha offerto generosamente in questi anni, per l’affetto che mi ha dimostrato sempre e che contraccambio, perché il suo esempio e stimolo sono stati davvero fondamentali. Ovviamente la responsabilità di errori, sviste e di qualsiasi altra mancanza è solo ed esclusivamente mia. 2 Cfr. Appendice 1. 3 Entrambe le valli erano attraversate da corsi d’acqua; al centro del pianoro scorreva un altro corso d’acqua entro un modesto avvallamento con un percorso lievemente ondulato, orientato NNE-SSO; il fosso non è più visibile ma è ancora graficizzato nei catastali recenti e se ne è rintracciato lo sbocco nel punto in cui incrocia Via Madonna dell’Aquila. L’acqua deve aver continuato a scorrere fino a pochi secoli fa, visto che nell’800 la contrada viene chiamata “Cascata delle acque” (Raiano 2018a, 527–528 e 530–531). 4 Magoffin 1908, 55. Quilici 1989, 54.
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Fig. 1 Carta generale di Palestrina. Legenda: 1. Santuario; 2. Tempio sotto la Cattedrale; 3. Foro intramuraneo; 4. Abitato entro le mura; 5. Valle dei Sardoni; 6. Via Prenestina (attuale Via Pedemontana); 7. Santuario di Ercole; 8. Necropoli della Colombella; 9. Valle dello Spedalato; 10. Area della Città bassa di Praeneste
Un repentino scarto di direzione si determinò con la brutale espansione urbana degli anni compresi fra il 1956 e il 1976, momento di massima crisi per la tutela dei beni archeologici, quando fu edificato il nucleo inferiore del centro moderno di Palestrina; le nuove costruzioni, per lo più abusive, fecero scempio dei resti antichi sepolti da secoli sotto metri di interro, e molti contesti furono irrimediabilmente distrutti senza alcuna documentazione5. Un articolo di Lorenzo Quilici del 19796, la cui lettura induce una profonda desolazione, e le riprese aeree, dal 1941 al 1977, documentano il veloce ed incontrollato fenomeno di urbanizzazione che ha di fatto compromesso ed eliminato, spesso irreversibilmente, la possibilità di indagare compiutamente l’antico centro (fig. 2). La consulenza scientifica di Quilici alle indagini della magistratura fece sì che lo studioso potesse acquisire una notevole mole di informazioni, poi pubblicate nel 1980 in un fondamentale studio di sintesi storico-topografico della
5 Duole constatare che anche gli scavi programmati in quegli anni dalla Soprintendenza alle
Antichità non vennero pubblicati, se non con stringate notizie (Scrinari 1973, 592–593; von Sydow 1976, 360–367), e hanno lasciano ben poche tracce nella documentazione d’archivio. 6 Quilici 1979.
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Fig. 2 Riprese aeree della città bassa. 1. AM 1941; 2. AM 1961; 3. IRTA 1977; 4. Google Earth 2019
città bassa7, della quale elaborò la prima carta archeologica8, aggiornata nel 19899 (fig. 3). Nell’ultimo trentennio, grazie all’attività di tutela del patrimonio svolta da parte della Soprintendenza, con scavi programmati e scoperte fortuite, sono 7 Quilici 1980. A fronte dei numerosissimi studi sulla Praeneste alta dal Rinascimento in poi, fo-
calizzati principalmente sul complesso del Santuario di Fortuna Primigenia, viceversa alla città bassa ed in particolare alla sua area forense erano state riservate soprattutto notizie antiquarie e archeologiche stringate e piuttosto acritiche, in genere dovute a scoperte occasionali. Per la bibliografia precedente cfr. Quilici 1980, 171–177. Per la bibliografia fino al 2017 cfr. Pinci 2017. 8 Riguardo alle rappresentazioni cartografiche, solo nel 1953 con il volume di Fasolo e Gullini viene redatta una prima pianta topografica generale comprendente anche le evidenze a valle, sebbene queste siano state genericamente definite come strutture idrauliche, “villarecce” o a carattere residenziale, senza una specifica trattazione e nessun accenno all’area forense. Fasolo – Gullini 1953, Tav. 1 (nn. 30–51) e 470–472. La carta elaborata da Quilici è stata dunque preziosa per tutti gli studi successivi, sebbene risenta del fatto che molte evidenze sono state graficizzate con valore puramente indicativo, senza un’effettiva corrispondenza con i resti, per la maggior parte ormai distrutti o ricoperti. 9 Quilici 1989.
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Fig. 3 Carta archeologica città bassa da Quilici 1989
Fig. 4 Carta archeologica città bassa da Raiano 2013–2014
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emersi nuovi e preziosi dati per la revisione e rielaborazione di quella carta archeologica, studio nel quale non si poteva prescindere dall’affrontare il tema del foro10 (fig. 4). È così man mano emerso che, nel corso del tempo, l’assunto dell’esistenza di una piazza forense nella città bassa fosse stato consolidato da una serie di argomentazioni le cui premesse derivavano dalle conseguenze e queste da quelle, in una sorta di circolo vizioso dove la dimostrazione era solo apparente. Da un certo momento in poi, infatti, l’esistenza di un secondo foro viene accolta e tramandata come un dato di fatto acquisito e presentata in maniera acritica. Tuttavia, riesaminando le varie tematiche, il quadro che emerge dall’analisi di vecchi dati aggiornati e dalle recenti acquisizioni, sembra avere contorni più sfumati e perdere l’aura di certezza. Schematizzando possiamo così raggruppare tali argomenti: 1. La tradizione antiquaria 2. I rinvenimenti epigrafici 3. Le fonti letterarie: Svetonio e il monumento di Verrio Flacco e i fasti prenestini 4. Le fonti archeologiche: strutture monumentali e una platea di lastroni di travertino 5. La storia istituzionale: la fondazione della colonia sillana 6. I confronti con altri centri con doppio foro “La tradizione antiquaria” La “radicata tradizione” dell’esistenza di un foro nella città bassa è stata inizialmente condizionata dalla convinzione, perseguita dal Rinascimento fino a parte del XX secolo, che il Santuario della Fortuna Primigenia si estendesse per tutta l’area compresa all’interno delle mura fino a Via degli Arcioni, o fosse suddiviso in “santuario superiore” (l’area della Cortina) e “santuario inferiore”, comprendendo in quest’ultimo la cd. Basilica, l’Aula Absidata, il c.d. Antro delle Sorti-Ninfeo dei Pesci e l’edificio antico sotto la Cattedrale di S. Agapito. Il foro di Praeneste, come conseguenza logica della visione di una “cittàsantuario” che non lasciava spazio per altri luoghi pubblici civili, veniva perciò ipotizzato nel pianoro sottostante, dove sin dal 1400, fra gli orti e le vigne, 10 La ricerca sul foro fa parte di un lavoro più ampio, di prossima pubblicazione, che partito dalla
ricerca di dottorato (Raiano 2013–2014), è volto a definire la topografia antica e la forma urbana della c.d. città bassa di Praeneste. La fig. 4 è una prima elaborazione, non completa di tutte le evidenze e, dunque, provvisoria.
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emergevano imponenti resti architettonici e si succedevano frequenti rinvenimenti d’iscrizioni, di sculture e di altre antiche testimonianze11 (fig. 5).
Fig. 5 Pianta di Praeneste da Petrini 1795
Infatti, le opere dal XVII alla metà del XIX secolo12 indicavano come forum vaste vigne o genericamente tutta la zona a nord di Via Madonna dell’Aquila, 11 Delle iscrizioni in particolare si interessarono vari studiosi dal ’500 in poi, dall’800 inserite
in importanti raccolte epigrafiche: CIL I², CIL XIV, Eph. Epigr., Imagines (Granino Cecere 2005); in generale per la storia degli studi: Muzzioli 1970, 7–11. 12 Nel manoscritto di un anonimo, identificato dal Petrini nel Pennazza, che scrive sotto i Principi Barberini nella metà del 1600 (Historia Praenestina) il luogo del foro prenestino viene indicato nella Vigna Thorzoli (vigna B); Cecconi 1756, 68–69 scrive che l’antica Praeneste, essendo celebre e molto frequentata, per ragioni politiche ed economiche, ebbe più e diversi Fori, fra i quali il principale era adorno di statue e di monumenti di benemeriti cittadini e, seppur dubbioso sull’antico suo sito: “ma sembra assai verisimile che questo era tra le vigne del Cavalier Petruccini, e del Cavalier Terzoli” (vigna A e vigna B). Petrini 1795, 50: “Il foro poi si estendeva dalle radici del Tempio [ovvero dal cd. Propileo] fino alla via Prenestina, cioè fino alla moderna chiesa suburbana detta dell’Aquila: formava, per quanto accenna Svetonio, due ripiani, l’uno superiore, l’altro inferiore; ed era adornato di portici, di statue e di altri magnifici edifici, de quali rimangono ancora rovine, ed avanzi degni di ammirazione” (vigna A, vigna B, vigna C e vigna Q); cfr. anche la riproduzione panoramica della città (ponte dei Sardoni) e tav. I, Carta topografica del territorio prenestino allegata alla Storia di Palestrina, fig. 5; Nibby 1837: fra la Chiesa di S. Lucia e quella della Madonna dell’Aquila (vigna A, vigna B e parte di vigna C). Per le vigne indicate vedi fig. 9.
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ed anche se alla fine dell’800 prende l’avvio una trattazione e documentazione scientifica con gli studi di Fernique e Blondel13, comunque eredi della visione rinascimentale della “città-santuario”, i loro lavori, se pur preziose fonti di informazioni su edifici, complessi e strutture oramai non più visibili, contribuirono a consolidare un equivoco ermeneutico che si è trascinato fino al recentissimo passato14. Se le sintesi di Delbrück e del Marucchi15 fanno ancora riferimento a quella prospettiva, già Vaglieri nei primi anni del ’900 e gli studi di Mingazzini e Kähler16, pubblicati nei decenni centrali del secolo, assumevano posizioni critiche e, dando una lettura “laica” degli edifici del cosiddetto “santuario inferiore”, proponevano di individuarvi il più antico foro e la basilica civile di Praeneste. D’altronde nel 1872, in un ambiente in opera quadrata di tufo, aperto su piazza Savoia (ora Regina Margherita), era stata scoperta un’iscrizione17 incisa sui blocchi della parete di fondo, grazie alla quale il vano fu identificato inequivocabilmente come il pubblico aerarium cittadino, costruito fra il 150 ed il 130 a.C. dagli edili della Praeneste libera. Ed inoltre i saggi di scavo18, realizzati sempre in piazza Regina Margerita nei primi anni del ’900, misero in luce l’area pavimentata con grandi lastre calcaree, le colonne e i gradini del portico che prospettava sulla piazza, la cella e la gradinata del tempio sotto la Cattedrale e una costruzione in opera reticolata con ammorsature in laterizio, probabilmente una fontana19. Veniva riconosciuto dunque l’antico foro di Praeneste (o Foro primitivo come venne indicato), con l’edificio templare20 sul lato occidentale e sul lato settentrionale l’erario e un portico che permetteva l’accesso al livello superiore retrostante (fig. 6). Ma, anche dopo il riconoscimento del foro nel centro urbano entro le mura e degli esatti limiti del Santuario di Fortuna, la critica moderna ha continuato ad indicare nella città bassa una seconda piazza forense, sebbene questa localizzazione non fosse puntuale né ci fosse un accordo unanime fra gli studiosi21 (cfr. Appendice 1).
Fernique 1880; Blondel 1882. Gullini 1983 e Gullini 1989; Wattel-de Croizant 1986; Champeaux 1987. Delbrück 1907; Marucchi 1885; Marucchi 1912; Marucchi 1932. Vaglieri 1909; Mingazzini 1954; Kähler 1958. A scoprirla fu l’ispettore onorario Cicerchia e pubblicata da Dessau nel 1881. CIL I² 1463 = CIL XIV 2975, cf. EDR110716 (con bibliografia aggiornata): M. Anicius L.f. Basso M. Mersieius C.f. / aediles aerarium faciendum dederunt. 18 NSc 1907, 132–138 e 289–305 (Vaglieri); Vaglieri 1909, 229–274. 19 Cfr. nota 74. 20 Cfr. contributo di Sandra Gatti in questo stesso volume. 21 Quilici 1980, 172–177 con bibliografia precedente. 13 14 15 16 17
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Fig. 6 Palestrina, Piazza Regina Margherita: 1. lastricato, gradinata e tempio del foro; 2. disegno del 1907 degli scavi in piazza; 3. Disegno del 1907 della fontana
Una “radicata tradizione”, dunque, quella del secondo foro nella città bassa, dalla maggior parte degli studiosi localizzato nell’area di Madonna dell’Aquila (in varie direzioni, a nord, a nord-est, a nord-ovest), per i resti monumentali incorporati nella chiesa e nel romitorio attiguo e soprattutto per i rinvenimenti di sculture e di documenti epigrafici che venivano ricondotti ad un ambito forense. Rinvenimenti epigrafici Sebbene siano spesso proprio i monumenti epigrafici a fornire indicazioni preziose sull’ubicazione del foro nei contesti urbani antici, sull’esistenza di edifici forensi e sull’aspetto della piazza nei vari periodi storici, bisogna altresì considerare che, nel caso dei ritrovamenti nella città bassa, questi, avvenuti fra il 1500 ed il 1700 per più della metà dei documenti (47 su 89), sono spesso giunti a noi con scarsi dati sulle circostanze della scoperta e fuori dal loro contesto originario, come si evince dalla tabella sottostante (tab. 1, cf. fig. 7). La colonna 2 indica non solo i documenti epigrafici rinvenuti in giacitura secondaria ma anche quelli che risultano reimpiegati già in antico: oltre le note
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Diana Raiano Tab. 1 Giacitura e natura del ritrovamento delle iscrizioni nella città bassa Legenda: Colonna 1 ritrovamenti da scavo o citati nel CIL con il termine rep., effossa. Colonna 2 rinvenimenti in giacitura secondaria o di riutilizzo. Colonna 3 iscrizioni viste, citate nel CIL in vinea, in horto, in foro. Colonna 4 nessun dato sul ritrovamento.
lastre dei Fasti utilizzate nella basilica di Sant’Agapito a Quadrelle, la lastra di calcare22 con fregio dorico e dedica Iovi Optimo Maximo del I a.C. fu posta
Fig. 7 Foto area della città bassa rielaborata con l’indicazione dei vari luoghi citati. Legenda: 1. Antica porta presso S. Martino 2. Serbatoio di via degli Arcioni 3. Via degli Arcioni 4. Ingresso alla città murata e cd. Propileo 5. Porta del Sole 6. Stazione ferroviaria 7. Via della Martuccia 8. Mattatoio 9. Via Madonna dell’Aquila 10. Chiesa di Madonna dell’Aquila 11. Viale Pio XII (stradone di S. Rocco) 12. Serbatoio dell’ospedale 13. Via Prenestina 14. Chiesa di S. Giovanni 15. Ex Chiesa di S. Rocco 16. Colombella 17. Via Prenestina per Cave 18. Chiesa di S. Lucia 19. Via Ceciliana 22 AE 1989, 133; Granino Cecere 1989. Il dato sul luogo esatto del ritrovamento è stato rintrac-
ciato grazie da una foto storica dell’Archivio SBAL.
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a chiusura di un cunicolo presso l’edifico tardo imperiale del c.d. Macellum, e due basi onorarie23 di III sec. d.C. furono reimpiegate lungo la crepidine della via (fig. 4, P) (fig. 8). Tre iscrizioni24 fra quelle rinvenute nel pianoro citano espressamente il foro nel testo epigrafico25, senza ovviamente essere per questo indicatori dell’esatta posizione della piazza forense poiché, a dopo oltre provenire da vigne diverse, questo tipo di documenti, come noto, veniva esposto anche in altri edifici pubblici o nelle sedi di collegia. Inoltre, altre due iscrizioni con menzione del foro sono state rinvenute una nel territorio di Castel Fig. 8 Lastra con dedica a Giove Ottimo MassiSan Pietro26 e una nella città alta27. mo reimpiegata a chiusura di un cunicolo antico (AE 1989, 133) Comunque, per cercare di circoscrivere il luogo del secondo foro nella città bassa, si sono posizionate in pianta le vigne dove si rinvennero i documenti epigrafici ad oggi editi28, cercando le corrispondenze fra le carte del 23 La base con dedica a M. Aurelius Eupraepes (AE 1987, 230) e la base con dedica a L. Arellius
Petronius Karus (AE 1998, 286).
24 CIL XIV 2934 (vigna C) dedica post mortem al senatore Postumius Iulianus datata al IV sec.
d.C.; CIL XIV 2924 (vigna B) dedica di una schola per accogliere la statua e le tabulae hospitales della famiglia senatoria degli Instieii, già conservate ante curiam vel in porticibus fori; l’iscrizione non fornisce dati topografici significativi, se non che nel foro vi fossero curia e portici; Eph. Epigr. IX 776 (vigna h) dedica dei collegia prenestini alla memoria di P. Aelius Apollinaris Arlenius trovata nel 1903 in giacitura secondaria, la statua rinvenuta insieme al piedistallo iscritto non sembrerebbe essere quella citata nell’iscrizione (Gatti 1903; Ricci 2018). 25 Non sono state rinvenute finora iscrizioni che ricordino interventi di ricostruzione, restauro o pavimentazione del foro, come per altri fora in Italia (Spanu 2014, 24, nota 18). 26 CIL XIV 2919, rinvenuta nella Chiesa di S. Nicola (probabilmente nel territorio di Castel S. Pietro) Cecconi 1756, 181 “sul dorso del Monte Prenestino”. Datata al IV sec. d.C. di Barbaro Pompeiano cui viene eretta una statua in foro. 27 CIL XIV 3015, iscrizione funeraria di L. Urvineius Philomusus, che cita statuae in foro locus datus est. Datata al I sec. d.C. è stata rinvenuta nel 1676 nel giardino di Giampietro Aloysi (centro storico). Fora 1996, 51–53. 28 Per i notevoli spostamenti che questi documenti hanno avuto nel tempo, un caso emblematico è quello di un’importante frammento di base modanata iscritta d’età repubblicana, in corso di
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Comarca 157 e 158 del Catasto Gregoriano29 (il primo catasto generale geometrico particellare dello Stato Pontificio30, datato al 1819) e la relativa documentazione censuaria31, servendosi di altre fonti archivistiche32 (soprattutto i Catasti Pontifici e relative Assegne) e bibliografiche33 per i periodi antecedenti e successivi al 1819 (fig. 9). Le vigne indicate con le lettere alfabetiche corrispondono ai maggiori luoghi di ritrovamento, nel tempo appartenute a vari proprietari e infine suddivise in lotti più piccoli (frazionamenti indicati con lettere minuscole). Vigna A: corrisponde ai mappali 952 e 949 (Comarca 157) del Catasto Gregoriano. I proprietari sono stati: Carlo Agapito Apollonio (nel ’600), Petruccini (nel ’700), Barberini Sciarra (almeno dal 1778 e risultano ancora proprietari nel 1819)34, Galeassi (dal 1870)35 e infine Cassa Rurale (1915). Vigna B: corrisponde al mappale 953 (Comarca 157) del Catasto Gregoriano. I proprietari che si sono succeduti sono: la famiglia Thorzoli, o Torcioli-
studi e dunque al momento non inserita nel dossier epigrafico, che, rinvenuta da parte di chi scrive come recinto di un’aiuola in un terreno della città bassa (vigna O), risultò provenire dallo smantellamento di una scalinata del Borgo, quindi dal centro urbano, e verosimilmente quindi il suo sito originario sarà stato il Santuario della Fortuna Primigenia; siamo molto lontani rispetto al luogo di rinvenimento. 29 Depositata presso l’Archivio di Stato di Roma (sez. I, Comarca 157 – Palestrina –, e sez. II, Comarca 158 – Colle Martino). Dando queste corrispondenze si presuppone una verosimile continuità nel mantenimento dei limiti delle proprietà, sebbene non si possano escludere delle variazioni dalle indicazioni sei-settecentesche alla redazione della planimetria gregoriana. 30 Sarebbe stato molto utile rintracciare le carte relative al precedente catasto, detto Piano perché emanato da Pio VI nel 1777. Questo nasceva privo di rilevazioni cartografiche ma a Palestrina la Comunità aveva invece fatto eseguire una carta particellare, incaricando un geometra di Gallicano, Francesco Tranquilli. Purtroppo nell’Archivio di Stato di Roma la carta non c’è, e non è stato possibile consultare l’Archivio Comunale di Palestrina. La carta venne esaminata invece dal disegnatore francese Huyot presso gli eredi Cecconi. 31 Brogliardi del 1919 del Catasto Gregoriano ed elenchi censuari nel Fondo Ufficio Tecnico Erariale (UTE) per i passaggi di proprietà post-unitari (i primi sono depositati alla sede centrale dell’Archivio di Stato di Roma, i secondi nella sede distaccata di Via Galla Placidia). 32 ASR: Catasti Pontifici; Camerale II; Archivio notarile mandamentale di Palestrina. 33 Cecconi 1756; Petrini 1795; raccolte epigrafiche cinquecentesche; CIL I²; CIL XIV; Eph. Epigr. 34 ASR, Catasti Pontifici, coll. II, b. 3302, f. 1964 “Assegna dei terreni esistenti nel territorio della città di Palestrina appartenenti agli Ecc.mi Sig.ri Principi Cornelia Costanza e Giulio Cesare Barberini di detta città”: f. 2967v: “Vigna ossia possessione vitata, con alberi di olivo, denominata li casini del Petruccini circondata di muri da due lati, posta nel territorio della Città di palestrina fuori di Porta S. Martino, incontro la Chiesa di S. Lucia, confinante da due lati colla strada romana, da piedi colli Beni di Innocenzo Palma e dall’altro lato colli beni del S. Collegio di S. Girolamo di detta città …”. 35 Cfr. Agnoli 1998, 166, nota 35.
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Fig. 9 Pianta delle principali vigne della città bassa. Base catastale del Gregoriano – Comarca 157 e 158
Terzoli (nel ’600–700), poi Palma (almeno dal 1778 e risultano proprietari nel 1819), infine Scavalli-Borgia (dal 1870 fino ancora al 1918)36. Vigna C: relativa ai mappali 948, 955 e 956 (Comarca 157) del Catasto Gregoriano. Nel 1778 questi terreni sono di proprietà dei Padri Dottrinari, titolari della chiesa di S. Girolamo posta in città37. Nel 1811 le part. 955 e 956 vengono vendute ai Frattini, che a loro volta nel 1877 le venderanno alla famiglia Fiorentini. La part. 948 all’epoca della redazione del Catasto Gregoriano (1819) è di proprietà della famiglia Porto e poi dal 1877 di Bonanni Paolo (vigna f). Vigna D: terreni relativi alle part. 83 e 85 (Comarca 158) di proprietà di Iacobelli Giulio (nel 1819) e di Marini Prete Luigi, Prete Primo, Barnaba, Ciro, Clemente, Raffaele (post 1870). Vigna E: part. 37 (Comarca 158) del Catasto Gregoriano, sul lato occidentale della via di S. Rocco. Nel 1750 risulta come Vigna Bellezze, nel 1778 possedimento di Flaminio Pantanelli Bellezza, per poi passare ai Religiosi del Convento SS. Trinitari di S. Lucia (post 1870), al Demanio nazionale (dal 1875) e ai Barberini (dal 1877). 36 Cfr. Zevi 1976, 41, nota 11. 37 ASR, Catasti Pontifici, coll. II, b. 3302, f. 2967; ASR, Catasto Rustico del 1813: al n. 19 del
libro, la proprietà orto, a prato agli Arcioni dei Dottrinari di Palestrina viene venduta nel 1811 a Frattini Filippo.
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Vigna f: suddivisione della vigna C, corrispondente alla part. 948 (Comarca 157); all’epoca della redazione del Catasto Gregoriano il terreno è di proprietà della famiglia Porto e poi di Bonanni Paolo (dal 1877). Sito G: corrisponde al luogo spesso indicato come “rovine della Chiesa di Madonna dell’Aquila”, “nell’area della chiesa”, part. 1032 del Comarca 157, e in parte forse indicanti anche le rovine esistenti nella part. 953 (Comarca 157), già Vigna B. Vigna h: frazionamento delle part. 955 e 956 del Catasto Gregoriano, (Vigna C)38, corrispondente alle part. 78 e 79 F. XVIII del Catasto Rustico dei Terreni, appartenenti dal 1902 a Carlo Sbardella. Vigna I: orti Barberini, dentro le mura. Part. 881, F. XVII del Catasto Rustico dei Terreni. Sito L: sito Carrara Pubblica, voc. Bocca Piana o Valle Losbrindo. Nel territorio ad occidente della città. Sito M: località Quadrelle. Nel territorio ad oriente di Palestrina. Sito N: località Valvarina. Nel territorio a sud-ovest della città. Vigna O: part. 1029/1030 (Comarca 157), di Ferrari PierCarlo (nel 1819) e Rischia Rufoli, di Rossi Giovan Battista (post 1870) e di Andrea Rossi (dal 1901). Vigna P: Vigna Sbardella part. 96039, fuori Porta del Sole. Vigna Q: part. 957 e 958. La part. 957: Iacobelli, Verzetti, Pinci, Frattini. Part. 958: Iacobelli, Arena Luigi, Bernardini, Sbardella. Sito R: fuori porta S. Martino Vigna S: part. 1034: Rischia, Barberini (campo sportivo). Vigna X: corrisponde ai luoghi genericamente citati come “in foro”, “nei pressi del foro”, che possono essere compresi all’interno delle Vigne A, B ,C e G. Sono stati presi in esame 89 documenti epigrafici (Appendice 2: dossier epigrafico) 36 dei quali sono perduti mentre i restanti sono per lo più conservati a Palestrina40, molti nei magazzini del Santuario di Ercole a Tivoli e alcuni esposti in altri musei41 (tab. 2). Da un’analisi dei vari dati scaturiscono una serie di considerazioni. 38 Il terreno, prima dei Dottrinari, poi dei Frattini e dal 1877 dei Fiorentini, era stato suddiviso
in due parti nel 1897 e comprato da Bernassola e da Pinci; quest’ultimo ne aveva venduto una parte di 7000 mq a Carlo Sbardella nel 1902. 39 Cfr. Pensabene 2001, 43, fig. 2. 40 La maggioranza nel Museo Archeologico Nazionale ed al Complesso degli edifici del foro, ma anche nel cortile del Comune e nell’area archeologica di Via degli Arcioni. 41 Musei Vaticani, Museo Nazionale Romano, Museo Archeologico Nazionale di Napoli e Villa Medici di Cerreto Guidi di Firenze.
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Tab. 2 Quantità iscrizioni per vigna/sito
La più evidente e significativa, ai fini della localizzazione del secondo foro sulla base del rinvenimento dei documenti epigrafici, è la distribuzione e diffusione delle iscrizioni su una porzione della città bassa senza dubbio troppo vasta per poter attribuire loro un effettivo valore topografico. Alcune vigne però necessitano di qualche approfondimento. La vigna B risulta essere uno dei luoghi con il maggior numero di iscrizioni, tuttavia per più della metà di esse, poiché rinvenute fra il 1500 ed il 1600, sussiste una notevole incertezza sulla loro effettiva provenienza42, mentre quasi tutti i rimanenti documenti furono recuperati nello scavo del 190843. Di queste epigrafi, grazie al giornale di scavo dell’Archivio Gatti44, si riesce a rintracciare con precisione i luoghi di rinvenimento45, tutti nei pressi dell’impianto termale di Madonna dell’Aquila di cui si tratterà a breve (v. infra p. 78 sqq.) (fig. 10). 42 Come per le note le are dedicate alla Pax e Securitas di Augusto (CIL XIV 2898–2899), il cui
luogo di ritrovamento viene citato per la prima volta da Cecconi (Cecconi 1756, 68–69 e 150, nota 10), uno o due secoli dopo la scoperta, e quindi “non si può escludere si tratti di una supposizione erudita, originata dalla persuasione che monumenti ufficiali come i nostri non potessero avere se non nel foro la loro naturale collocazione” (Zevi 1976, 39–40). 43 NSc 1909 (Gatti). 44 ACS, Archivio Gatti, fasc. 22, Fuori Roma, f. nn. 10179–10182; 10184–10186; 10189–10195. 45 Eph. Epigr. IX 785: nel vestibolo della cd. Curia (fig. 17, n. 85a); Eph. Epigr. IX 786: nella terra sopra l’ipocausto (fig. 17, n. 87); Eph. Epigr. IX 787: tolte le lastre di marmo dell’ambiente (fig. 17, n. 86); Eph. Epigr. IX 876: cavo a nord est della cd. Curia verso la vigna Sbardella a 5 m di profondità; EDR160631: a nord ovest della cd. Curia fra terra di scarico.
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Fig. 10 Dall’Archivio Gatti. 1. Dettaglio giornale di scavo 9–10 dicembre 1908; 2. Frammento rinvenuto nello scavo (Eph. Epigr. IX 787) esposto nel Complesso degli edifici del foro di Praeneste, cd. area sacra; 3. Frammento rinvenuto nello scavo (Eph. Epigr. IX 785) esposto nel Complesso degli edifici del foro di Praeneste, cd. area sacra, dopo il recupero dei marmi dal portico (2020); 4. Dettaglio giornale di scavo 16 dicembre 1908
La vigna C ha restituito nel tempo 17 documenti epigrafici (26 con quelli delle sue parcellizzazioni – vigna f e h) , oltre a statue e mosaici, la maggior parte rinvenuti nel 1778 nei terreni indicati come di proprietà dei PP. Dottrinari46, (12 iscrizioni, oltre a sculture e mosaici, in gran parte confluiti nel nuovo Museo Pio-Clementino)47 che confortarono molti studiosi sulla presenza del foro nei pressi della Chiesa della Madonna dell’Aquila48. 46 Pietrangeli 1958, 119–122; ASR, Camerale II, b. 18. 47 Il territorio di Palestrina, come molti altri dello Stato Pontificio, venne esplorato in quell’anno
sotto il pontificato di Pio VI, su iniziativa della Camera Apostolica proprio per ricercare oggetti antichi che andassero ad incrementare le collezioni del museo voluto dal pontefice. I lavori erano sotto il controllo del Commissario delle Antichità, Giovan Battista Visconti e della persona di fiducia pratica di lavori di scavo, Venceslao Pezolli. Pietrangeli 1958, 119–122. 48 Petrini 1795, 286–287: “In molti siti della nostra campagna, e segnatamente nella contrada detta dell’Aquila, ov’era l’antico Foro, furono aperti né mesi di aprile e maggio di quest’anno alcuni scavi; ed uscirono alla luce delle Iscrizioni, delle statue ed un pavimento in mosaico, ove sono rappresentati volatili, quadrupedi, ed alberi, il quale fu trasportato nel Museo Pio Clementino.” Furono questi rinvenimenti, ed in particolare la base di Postumio Giuliano del IV d.C. (CIL XIV 2934), che “rassicurarono” sul sito dell’antico foro lo studioso di antichità prenestine, Pietrantonio Petrini “siccome è stata a nostri giorni scoperta in quegli orti, che re-
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Un malinteso topografico. Infatti Petrini, storico contemporaneo alle scoperte, indica la contrada Aquila e non la chiesa e poi, soprattutto, le ricerche archivistiche49 hanno permesso di accertare che i terreni nel 1778 di proprietà dei religiosi siano da identificare, con buona approssimazione, nell’areale dei mappali 948, 955 e 956 – Comarca 157 del Catasto Gregoriano, quindi relativi ad una zona molto ampia, compresa fra gli Arcioni e la Chiesa della Madonna dell’Aquila. Altri documenti d’archivio hanno poi confermato che i rinvenimenti del 1778 avvennero anche notevolmente distanti da Madonna dell’Aquila, come il mosaico “in contrada larconi”50, e dunque i cavi settecenteschi e le relative iscrizioni ivi trovate, interessarono diversi appezzamenti di terreno della vigna C; anche se è difficile individuare i punti precisi, probabilmente lontani fra loro, di certo ne consegue che le scoperte del 1778 possono aiutare in maniera molto limitata a localizzare il foro. Della vigna E, che ad una prima scorsa sembra poco coinvolta da rinvenimenti epigrafici (solo uno dei fasti dei magistrati della città) 51, scopriamo, allargando lo sguardo, che doveva invece essere un’area piuttosto importante. Il terreno, ricco di strutture imponenti52, viene interessato anch’esso nel 1778 dagli scavi pontifici che fruttarono la somma di 10 scudi al proprietario Flaminio stano alquanto superiori alla Chiesa Suburbana detta dell’Aquila, siamo restati assicurati, che ivi era l’antico Foro Prenestino”. Dopo di lui le scoperte in questione vengono collegate sempre al toponimo Aquila, ma con riferimento più alla chiesa che alla contrada, restringendo di molto l’areale. 49 ASR, Camerale II, Tit. II, Antichità e Belle Arti, b. 18. ASR, Catasti Pontifici, coll. II, b. 3302, f. 2967. 50 Raiano 2018b, 421–424 e 428–431, figg. 1,3–8, in particolare 422, note 10–11. Il mosaico è descritto nel Diario di Roma, 11 luglio 1778 (Archivio di Stato di Perugia – sezione di Spoleto, Fondo Manoscritti, Archivio Campello n. 28, Diario di Roma) dove si descrive “un pavimento a mosaico bianco e nero con rabeschi e animali di buon contorno, in mezzo del quale è un quadro rappresentante un aquila, che all’ombra di un albero di melagrane divora una lepre di assai bella espressione”, ora esposto nella Sala degli Animali nel Museo Pio Clementino al Vaticano (Pietrangeli 1958, 121). Marocco 1835, 97, trattando dei Padri Dottrinari, scrive: “I padri Dottrinari sono di gran utile alla gioventù, e negli orti che loro appartenevano alla Via degli Arcioni vennero scavati oggetti pregevolissimi, alcuni dei quali abbelliscono il Museo Vaticano”. 51 CIL XIV 2966. Diviso poi in tre ulteriori pezzi di cui frg. a conservato a Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 4111; frgg. b + c ai Musei Vaticani, Lapidario Profano ex Lateranense, settore D, inv. 25401. Cecconi 1756, 26–27; Petrini 1795, 325, n. 5. Cfr. EDR122067. Granino Cecere 2005, 744. 52 Alcune ancora conservate e citate da Cecconi 1756, 78–79; Marucchi 1885, 120; Marucchi 1932, 113. Quilici 1980, nn. 98; 102; 103 (la grande cisterna detta dell’ospedale); 125; 127; 129; 130. Altre strutture sono state invenute in scavi recenti. Un importante complesso è stato distrutto nel 1958: Quilici 1980, n. 101 (si conservano capitelli in calcare e in marmo e frammenti di trabeazione, inseriti nell’edificio moderno); da fotografie d’archivio si evince la grandiosità delle strutture distrutte.
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Fig. 11 Capitello corinzio di lesena murato in un casale (vigna E)
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Pantanelli Bellezza “per il suo terzo della robba ritrovata nella sua vigna”53, anche se purtroppo non viene dato l’elenco dei ritrovamenti. Nel ’900 la località, di proprietà della famiglia Angelini, era nota con il nome Il paradiso per la ricchezza di strutture romane, emergenti e sotterranee, e di magnifici mosaici54; ancora sono visibili, murati in un antico casale, i reperti marmorei55, rinvenuti durante la costruzione dell’adiacente edificio moderno56 databili all’età imperiale e riferibili verosimilmente ad un edificio pubblico (fig. 11).
Tab. 3 Quantità delle iscrizioni per titulorum distributio 53 ASR, Camerale II, b. 18. 54 Quilici 1980, n. 90. Tomassi 2002, 33. 55 Una grande base di colonna ionica, un grande capitello corinzio di lesena, due frammenti di
trapezoforo, l‘uno alato, l‘altro con zampa ferina, un rilievo con cornucopia e frutti, altri frammenti minori. 56 Quilici 1980, n. 97.
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Tab. 4 Quantità delle iscrizioni per titulorum distributio suddivise per ambito cronologico
Senza entrare troppo nel merito, le tabelle qui elaborate offrono qualche spunto di riflessione. Poche le attestazioni di iscrizioni sepolcrali, prelevate e spostate da monumenti funerari senza dubbio non presenti nella città bassa in età imperiale; dei frammenti di fasti si tratterà meglio al par. 3 e, escluse le incognite, emerge la netta superiorità di onorarie e sacre. Per tutte le 18 iscrizioni onorarie (e anche per le tre dubbie) i dati più evidenti sono l’esclusiva datazione all’età imperiale, con prevalenza del periodo dal II al IV sec. d.C., e la distribuzione che interessa le vigne che occupano tutto la fascia centrale e settentrionale del pianoro (A – B – C – h – x). Le iscrizioni sacre invece sono ascrivili sia al periodo repubblicano (di cui solo 4 su 13 possono essere assegnate eventualmente alla fase sillana) sia a quello imperiale (con una maggiore concentrazione fra I e II d.C.) e la loro diffusione investe tutto il pianoro, anche le vigne periferiche. Per le iscrizioni apposte su un edificio da chi lo costruì o lo restaurò, indicate come opera pubblica, la maggior parte delle sette attestazioni, distribuite fra la vigna A, B, C, ed il sito G, si colloca in età repubblicana (di cui le due verosimilmente d’età sillana sono una dedica di un’aedes e di una porticus da parte dei duoviri – CIL XIV 2980 – e l’altra relativa al rifacimento di balnea e adduzione
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di aqua a cura dei duoviri – CIL XIV 3013); le uniche due d’età imperiale57 sono state rinvenute nella vigna A.
Tab. 5 Quantità delle iscrizioni per titulorum distributio suddivise per vigne e per ambito cronologico
Riteniamo dunque che i documenti epigrafici fin qui considerati non possano essere utili a ricostruire la posizione di una piazza forense; tale ubicazione è certo plausibile per alcuni di questi, ma l’ampia distribuzione su tutto il pianoro impedisce di individuare un’area circoscritta. Discorso differente per i fasti, il cui luogo originario di esposizione si può, con un margine di sicurezza maggiore, collocare nel foro e dunque il loro sito di rinvenimento potrebbe fornire un aiuto prezioso per rintracciare la piazza forense.
57 Per Praeneste e i Giulio-Claudii nella documentazione epigrafica: Granino Cecere 2019, in
particolare per l’epistilio CIL XIV 2911 relativo a Tiberio: Granino Cecere 2019, 397 e 405, fig. 6.
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Svetonio e i fasti del monumento di Verrio Flacco Un ruolo di primo piano per l’ubicazione del foro è infatti da assegnare ai Fasti Praenestini e al noto passo di Svetonio58 riguardante la statua di Verrio Flacco e l’emiciclo con il calendario. Spesso la tesi di un secondo foro nella città bassa è stata proprio supportata dal controverso testo di Svetonio, “in superiore (o inferiore) fori parte”, interpretato come l’indicazione di due diversi fori59 o della partizione in due settori del centro antico60. Il rinvenimento dei frammenti dei Fasti Prenestini, che dovevano essere affissi sul monumento del grammatico, non ha aiutato però a dipanare la questione. Infatti, la maggior parte dei frammenti61 del calendario, relativi ai mesi di gennaio, marzo, aprile e dicembre, fu rinvenuta nel 1773 non in situ bensì riutilizzati in un’esedra pertinente ad una costruzione di epoca altomedievale connessa con la basilica funeraria paleocristiana dedicata al martire Agapito a Quadrelle62 (sito M). Altri singoli frammenti furono rinvenuti a più riprese fra la fine dell’800 e gli anni ’20 del secolo successivo ma sempre fuori contesto.
58 Svet. gramm. 17, 4. Statuam habet Praeneste in superiore fori parte [altro manoscritto: in in-
feriore fori parte] contra hemicyclium in quo fastos a se ordinatos et marmoreo parieti incisos publicarat. 59 Zevi 1979, 22: “L’esistenza in Praeneste di un foro superiore e di un foro inferiore non è che una moderna invenzione: Svetonio menziona un solo foro, con una parte superiore ed una inferiore, rispetto a cosa non sappiamo (alla Via Prenestina? Ovvero era effettivamente conformato a terrazze?)”. Diversamente Coarelli 1989, 5 e nota 2: “Ora, da tempo, è stato dimostrato che a Praeneste esistessero due fori: uno corrispondente alla piazza Regina Margherita, e un altro presso la Madonna dell’Aquila, nella parte inferiore di Palestrina”. Lo studioso interpreta l’edificio scavato nel 1907 come l’esedra di Verrio Flacco in superiore fori parte rispetto al foro della città bassa, dove furono trasferiti i fasti quando quel foro sostituì definitivamente quello antico. Cfr. nota 74. 60 Kähler 1958, 224; Torelli 1989, 20–23. 61 Il numero di 10 nella colonna M della tab. 6 non corrisponde al numero reale dei frammenti dei Fasti Praenestini rinvenuti a Quadrelle, per i quali si indica genericamente la gran quantità. CIL I². Inoltre di un altro fr. riportato da Fulvio Orsini relativo al 5 di febbraio concernente la festa della Concordia, non riconosciuto subito come relativo ai Fasti, non si conosce il luogo del ritrovamento e andò smarrito (Marucchi 1885, 99). 62 Poiché s’intravedeva anche una struttura semicircolare, si credette di trovarsi davanti all’hemicyclium di Svetonio e quindi nel foro di Praeneste: Fastorum anni Romani a Verrio Flacco ordinatorum reliquiae, P. F. Foggini, Roma 1779. Gli scavi del 1864 identificarono invece la basilica paleocristiana di S. Agapito, e si chiarì che le lastre dei Fasti erano state riutilizzate: Henzen 1864. Per un riesame e nuove ipotesi sulla sistemazione dei Fasti a Quadrelle cfr. il contributo di V. Fiocchi Nicolai in questo stesso volume.
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Fig. 12 Carta del territorio prenestino (quadro di unione dei fogli catastali) con indicazione siti di rinvenimento dei fasti.
Uno relativo al mese di agosto venne trovato nel 1897 “casualmente fra un mucchio di rottami”63 nel territorio ad ovest della città (sito L); un altro pertinente al mese di febbraio64 fu rinvenuto nel 1903 nella vigna Sbardella (vigna h) in giacitura secondaria65 insieme ad altri marmi ed iscrizioni, mentre nel 1921 fu pubblicato un frammento relativo probabilmente alla fine di ottobre, scoperto “molti anni orsono dentro una maceria in un campo nella località Valvarina”66 (sito N), nel territorio a sud-est di Palestrina (fig. 12). Di altri due frammenti, 63 NSc 1897 (Gatti). 64 NSc 1904, 393–395 (Sbardella); 395–397 (Marucchi); Marucchi 1904, 274–283. 65 NSc 1903b, 575 (Gatti): “in seguito alle recenti piogge si è formata una larga frana, avvallan-
dosi il terreno fino alla profondità di circa 5 m. In fondo a detta rovina sono riapparsi alcuni antichi marmi che quivi erano giacenti, ma non al proprio luogo, sibbene spezzati e frammisti alla terra”. Cfr. fig. 16. 66 Marucchi 1921a; Marucchi 1921b, 315, nota 3. Sbardella 1922, 32–34.
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uno spettante al 15 aprile67 donato agli inizi del ’900 dal Principe Barberini e l’altro68 donato nel 1917 dalla sig.ra Fiumara, non si conosce la provenienza.
Tab. 6 Luogo di rinvenimento dei Fasti prenestini, consolari e municipali
Se si considerano poi anche i luoghi di ritrovamento dei Fasti consulares (vigna C69, vigna I70) e di quelli municipali (vigna C71, vigna E72, sito M73), non si può fare a meno di notare la grande dispersione che, insieme all’indicazione di giacitura secondaria che si desume per alcuni reperti, rende di fatto vano il tentativo di rintracciare l’ubicazione del foro in base al loro luogo di ritrovamento74 (tab. 6). 67 Eph. Epigr. IX 741, cf. EDR072764, frg. p; Granino Cecere 2005, 747. Conservato al Museo
Nazionale Romano – Palazzo Massimo, inv. 10062.
68 EDR072764, frg. r. Conservato a Roma, Museo Nazionale Romano – Palazzo Massimo, ma-
gazzini, inv. 80656.
69 CIL XIV 2963. Petrini 1795, 324, n. 4. Rinvenuto nel 1778. Relativo alle note del 5–7 d.C. 70 Eph. Epigr. IX 778; Granino Cecere 2005, 746. Rinvenuto nel 1896: NSc 1897, 421. Relati-
vo al periodo fra il 14 ed il 37 d.C.
71 CIL XIV 2965 e 2969. Rinvenuti negli scavi pontifici del 1778. 72 CIL XIV 2966. Scoperta nel 1600: Cecconi 1756, 26–27; Petrini 1795, 325, n. 5. EDR122067.
Granino Cecere 2005, 744.
73 CIL XIV 2967. Rinvenuto nel 1864: BullInst 1865, 88. Granino Cecere 2005, 745. 74 C’è comunque da notare che a tutt’oggi nessun frammento di calendario è stato finora rinvenu-
to nell’area di Piazza Garibaldi/Regina Margherita, né negli scavi del 1907 (NSc 1907, 132–138
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E soprattutto va sottolineato che uno solo dei frammenti del calendario proviene dall’area di Madonna dell’Aquila (EDR072764, frg. e)75 e peraltro non in situ, mentre negli studi pregressi si è riportata, senza alcun fondamento, la notizia che se ne fossero ritrovati in numero maggiore, alimentando in tal modo la radicata tradizione del foro a Madonna dell’Aquila76. Il passo di Svetonio, dunque, non sembra affatto contribuire a risolvere il nodo topografico del secondo foro nella città bassa, bensì riguarderebbe, anche alla luce della ricostruzione della piazza forense entro le mura presentata in questo stesso contesto da Sandra Gatti, i livelli, superiore ed inferiore, di un solo foro articolato nelle due terrazze contigue, oggi piazza Regina Margherita e piazza Garibaldi, con l’aerarium, il tempio, i portici, la cd. Basilica e la pavimentazione di lastre calcaree ancora visibili. Evidenze archeologiche monumentali Non potendo puntualizzare il luogo della seconda piazza forense nella città bassa sulla base dei reperti mobili, cerchiamo un riscontro archeologico considerando sia le strutture visibili sia le testimonianze di quelle ormai scomparse, in particolare la citata platea di lastre di travertino nell’area della chiesa di Madonna dell’Aquila, dove la maggior parte degli studiosi ha ipotizzato il foro. Tutta la zona è caratterizzata da architetture imponenti77, con murature in opera laterizia, conservate fino ad un’altezza di 6–7 m, in parte inglobate nella
e 289–305 [Vaglieri]) né in quelli più recenti. Sarebbe al riguardo importante poter accedere e visionare la struttura (6,15 x 7,45 m) rinvenuta nel 1907–08 in Piazza Savoia, attualmente non visibile ma conservata sotto il piano della moderna piazza, in quanto Filippo Coarelli (Coarelli 1978, VII–VIII e Coarelli 1987, 12–17) ne ha proposto l’identificazione con l’emiciclo citato da Svetonio. Diverse le interpretazioni di Marucchi: “Vi era una grande fontana o conserva di acqua, di cui si rinvennero recentemente gli avanzi che sono restati nascosti in un sotterraneo accessibile da un chiusino” (Marucchi 1912, 71) e di Vaglieri che la interpreta come un’edicola sacra (Vaglieri 1909, 266). Zevi non concorda con l’interpretazione di Coarelli, supponendo invece che l’emiciclo di Verrio Flacco fosse nel foro della Praeneste postsillana nei pressi di Madonna dell’Aquila (Zevi 1979, 21–22). 75 Cfr. nota 64. 76 Zevi 1979, 22: “vari frammenti dei fasti consolari e municipali provengano da questa stessa zona [Madonna dell’Aquila]”; Coarelli 1987, 9: “i luoghi di trovamento [dei Fasti] sono particolarmente concentrati nell’area della Madonna dell’Aquila”. 77 A partire da Petrini, molti studiosi hanno riconosciuto in queste rovine un impianto termale ma non è mai stato specificatamente studiato né rilevato, sebbene citato da quasi tutti gli studiosi che si sono occupati della città bassa (Quilici 1980, 192–193, n. 77 con bibliografia precedente; Torelli 1989, 24; Quilici 1989, 66, nota 37).
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cinquecentesca chiesa e nel romitorio78, e da altre strutture in opera mista nelle aree limitrofe con lo stesso orientamento, anche poste sull’altro lato di via Madonna dell’Aquila79 (nell’800 Via Vecchia) (fig. 13).
Fig. 13 Strutture termali di Madonna dell’Aquila (fig. 17, 77d)
La strada ha infatti diviso in due80 i resti archeologici da considerarsi invece come facenti parte di un unico complesso architettonico, nel quale sono da riconoscere le terme pubbliche di Praeneste (fig. 14). Si presume che parte integrante dell’impianto termale sia anche l’edificio posto al confine fra la vigna B e la vigna C, indicato nella letteratura antiquaria 78 Tomassi 2008. Il romitorio è stato demolito nel 2013 perché pericolante, e le macerie ingom-
brano tuttora l’area impedendo la piena visibilità delle strutture antiche, nonché un rilievo di dettaglio. 79 Alcune ancora visibili (Quilici 1980, nn. 76, 77 e 85) altre rinterrate ma documentate negli scavi dei secoli scorsi (NSc 1909 [Gatti]; Quilici 1980, nn. 86 e 87), alcune distrutte (Quilici 1980, nn. 79 e 88). 80 Una pratica ministeriale del 1898 documenta la richiesta di demolizione da parte del Sindaco di Palestrina di un muro posto sulla carreggiata della via che impediva il libero transito dei veicoli: ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale AA.BB.AA, III versamento II parte (1898–1907), b. 753. La demolizione del muro lungo 2,50 m e alto 2,25 m venne accordata in realtà solo parzialmente, autorizzandola di 1 m, ma ciò evidentemente bastò per eliminare del tutto l’ingombrante struttura, tanto che in superficie non ve ne è più alcuna traccia. Preziosa al riguardo quindi la planimetria allegata alla pratica per riconnettere le strutture superstiti a quelle scomparse.
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Fig. 14 Pianta del 1898
come Curia81; proprio in virtù di questa erudita identificazione fu indagato nel 1896 per ricercare frammenti dei Fasti Prenestini, che però non vennero trovati82. L’ambiente83, in opera mista, è articolato all’interno, lungo i lati lunghi, da contrafforti speculari a costituire tre nicchie per lato, mentre su entrambi i lati 81 La denominazione di Curia derivava dall’iscrizione CIL XIV 2924 rinvenuta in zona, fra il
1500 ed il 1600. Cecconi 1756, 69: “In quelle stesse vicinanze eravi la Curia, della quale ce ne fa fede un miserbile avanzo di antica iscrizione … ed io credo che l’antica Curia appunto era quell’edificio lastricato di peperino, e composto di archi di mattoni cotti cogli opportuni occhi per dar lume alla parte interiore, che quivi apparve negli anni scorsi in occasione, che fece rinnovare la stessa vigna in oggi della Eredità Terzoli.”. Marucchi 1885, 92. 82 NSc 1896. 83 Visibile all’interno di un giardino privato, con accesso da Viale Pio XII. Il vano misura 14,20 x 10,40 m, in opera mista, ha muri conservati anche per notevole altezza (2,50–2,70 m), sui lati lunghi sono contrafforti speculari a ca. 4 m di distanza l‘uno dall‘altro, larghi 70 cm, a costituire tre nicchie per lato larghe 3,40–3,90 m e profonde 1,30 m.
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brevi si aprono due ampi varchi con luce superiore ai 4 m Non c’è traccia della pavimentazione, ma gli scavi del 1896 ricordano che “nella parte infima delle pareti e nel pavimento si trovarono avanzi di lastre marmoree colorate”(fig. 15). Gli scavi del 1908 condotti dall’Associazione Archeologica Prenestina84 nella proprietà di Raffaele Scavalli Borgia (vigna B), vennero condotti a sud e a nord della cd. Curia.
Fig. 15 Cd. Curia (fig. 4, sito 85). 1. Planimetria e prospetto; 2. Muro del vestibolo 85a; 3. Particolare della muratura interno ambiente 85b; 4. Vista dell’interno del vano 85b dal vestibolo
Nei pressi del muro di cinta della vigna (a confine con via Madonna dell’Aquila, di fronte la chiesa) si rinvennero vari ambienti termali85 con muri curvilinei e nicchie, nei quali si riconobbero l’ipocausto e le pilae per il sostegno delle suspensurae, ed anche resti di pavimentazioni a lastre policrome marmoree, di cui alcune in situ, condotti per l’immissione di aria calda, fogne al livello inferiore e, a nord ovest di questi, altri ambienti con resti di pavimenti in marmo. 84 NSc 1909 (Gatti). 85 Di questi vani resta visibile, a nord est, al limite del lotto 5000, solo un pilastro in laterizio di
3 x 1,9 m di lato ed alto 7 m, che conserva al suo interno un condotto realizzato con tubi di terracotta per lo smaltimento dei fumi prodotti dalla combustione, e un muro in laterizio lungo circa 2,1 m, alto circa 3 m, a sud-ovest, visibile all’ingresso del lotto 327.
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Fig. 16 Disegno del 1908 della cd. Curia e del vestibolo con indicazioni del lastricato
Consultando il giornale di scavo e i rilievi dell’archivio Gatti86, che conservano memoria di alcuni preziosi dettagli in più rispetto alla pubblicazione del 1909, si evince che, fra il 30 novembre ed il 19 dicembre 1908, gli scavatori spostarono l’indagine a nord e a nord/est dell’edificio cd. Curia, al confine (e sorpassando il limite fondiario) con l’altra proprietà, quella di Carlo Sbardella (vigna f). A nord della cd. Curia rinvennero il vestibolo di ingresso87, un vano di m 10,40 x 5,75, del quale “è stata scoperta la pavimentazione formata con grosse lastre di travertino”, sotto cui correva un cunicolo fognario. In particolare, allargandosi di poco a nord est, a m 2,50 di profondità, venne “scoperto un passaggio largo m 1,12 con muri in opera reticolata, aventi una soglia di pietra locale larga m 0,60 che mette sul pavimento a grosse lastre”, presumibilmente un altro vano lastricato di cui si accenna in pianta parte dei muri (fig. 16). Nonostante gli stessi scavatori non abbiano collegato la pavimentazione rinvenuta ad una platea forense, la critica moderna ha spesso riportato la scoperta 86 ACS, Archivio Gatti, fasc. 22, Fuori Roma, f. nn. 10179–10182; 10184–10186; 10189–10195. 87 NSc 1909, 133, fig. 2 lettera D (Gatti). Nel giornale di scavo al 16 dic. 1908 è citato il rinveni-
mento di una porzione di base iscritta: “Fra la terra e quasi sul piano del pavimento fu raccolto un frammento di grosso cippo marmoreo che misura m 0,40 x 0,45” (Eph. Epigr. IX 785); nel 2020 il reperto è stato recuperato nel portico dorico del Complesso degli edifici del foro (fig. 10).
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di queste lastre come prova del foro nella città bassa, in particolare nella zona di Madonna dell’Aquila88. Lunghe lastre di travertino erano state già viste in passato89 in aree diverse, tuttavia occorre sottolineare che le piazze forensi non erano le sole ad essere pavimentate con lastre lapidee, ma anche la stragrande maggioranza di molti altri spazi aperti di carattere pubblico. Nel caso specifico, le descrizioni e i disegni dell’archivio Gatti indicano inequivocabilmente che quelle rinvenute nel 1908 siano le lastre relative al pavimento del vestibolo e dell’ambiente adiacente ad est, indagato peraltro molto limitatamente; tutti vani, secondo la ricostruzione qui proposta, facenti parte dell’impianto termale. Il complesso, di 70–80 m nel senso NNE/SSO e 90–100 m nel senso ONO/ ESE, si estenderebbe su un’area di ca. 7000 mq e se ne ipotizza la seguente articolazione planimetrica (fig. 17). A NE, lungo l’asse stradale in basoli di calcare90 (fig. 17, S), potrebbe individuarsi l’ingresso (il vestibolo lastricato scavato nel 1908, figg. 15–17, n. 85a), che fungeva da smistamento: ad est nel vano lastricato in travertino (o area scoperta?, fig. 17, n. 85c); ad ovest verso vani, non più visibili (fig. 17, n. 86) in opera mista e pavimentati uno con lastre di cipollino91 riquadrate da lastrine di portasanta, un altro con lastre in marmo bianco; a sud verso l’ambiente (figg. 15–17, n. 85b), la cd. Curia, che, considerata la posizione e la scansione delle pareti, potrebbe aver assolto la funzione di apodyterium, o di ambiente di passaggio verso il settore termale riscaldato. 88 Cfr. Quilici 1980, 214, nota 24: “Per l‘identificazione del foro è da ricordare la presenza di
una grande platea in lastre di travertino intravista in passato a nord-ovest [in realtà a nord-est N.d.A.] della cosiddetta Curia, al n. 26 [n. 85 N.d.A.]”. 89 In vari luoghi: Cecconi 1756, 69 “… è d’uopo credere che il medesimo [foro] fosse lastricato di quelle lunghe lastre di travertino, che nelle suddette vigne [Petruccini e Torzoli, vigna A e vigna B] furono pochi anni addietro scoperte” e Marucchi 1885, 90 “Infatti nelle vigne che circondano l’oratorio [Chiesa di Madonna dell’Aquila, N.d.A.] si è più volte rinvenuto l’antico piano ricoperto di lastre rettangolari di pietra calcarea, indizio sicuro di una piazza, e poi un gran numero di iscrizioni onorarie dedicate ad illustri personaggi ….” 90 Strada ONO-ESE, rintracciata in vari tratti nel 1958 (Quilici 1980, n. 83 distrutta), nel 1968 (Quilici 1980, n. 51 in parte visibile sotto gli edifici moderni) e nel 1974 (Quilici 1980, n. 46 distrutta), ricostruibile per una lunghezza di m 380, a collegare trasversalmente il settore meridionale della città bassa; fig. 17 lettera S. 91 Le lastre di marmo erano “lunghe in media 1,10 m e larghe 0,45 contornate da una fascia di portasanta di 0,09”. Dal giornale di scavo del 10 dicembre 1908: “Tolte le lastre di marmo cipollino del pavimento scoperto il 27 scorso mese, si rinvenne a circa m 1,50 fra la terra di scarico, un frammento di grossa lastra di travertino su cui rimangono incise le seguenti lettere (alte m 0,11) che doveva far parte del fregio di una trabeazione (m 0,49 x 0,43 spessore 0,16) OPER” (Eph. Epigr. IX 787), ACS, Archivio Gatti, fasc. 22, Fuori Roma, f. n. 10183. Fig. 10.
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Fig. 17 Area dell’impianto termale di Madonna dell’Aquila (strutture in rosso)
Questo è il reparto meglio individuabile esposto a sud-ovest, secondo i precetti vitruviani per sfruttare al meglio i raggi solari pomeridiani, e comprendente i diversi ambienti (fig. 17, n. 87) scavati nel 1908 e le imponenti strutture in laterizio ancora visibili presso la chiesa di Madonna dell’Aquila (figg. 13 e 17, n. 77d). Qui si individua il grande vano92 del calidarium, ampio 10 x 15 m articolato con tratti absidati, ed un ipocausto sottostante; da un cortile posto a sud, verosimilmente un’area di servizio a cielo aperto, sono ancora visibili l’imbocco del prefurnio (fig. 17, n. 77e), costituito da una apertura ad arco ricavata nelle pareti dell’ipocausto, e una cisterna93 in opera mista (fig. 17, n. 77f), funzionale alle vasche del calidarium sono ancora visibili da un cortile posto a sud, verosimilmente un’area di servizio a cielo aperto (fig. 18).
92 Il settore meridionale di quest’ambiente è quello meglio conservato: si nota, nonostante la non
perfetta simmetria delle strutture murarie, un’apertura larga 4,5 m, con stipiti in laterizio. Si intravedono, ad un livello inferiore rispetto al piano di calpestio, ora scomparso, strutture in laterizio con archi di scarico. Due contrafforti, sul lato S ed E, erano verosimilmente funzionali a contrastare le spinte della copertura (a crociera?) del vano. 93 Misura m 3,70 x 3,90 con cordoli angolari, su due livelli con murature in opera mista e una sopraelevazione in laterizio; il piano inferiore, adesso non accessibile, risulta da una foto d’epoca inquadrante il prospetto meridionale.
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Fig. 18 Strutture impianto termale di Madonna dell’Aquila: 1. prefurnio, 2. cisterna 3. Esterno cisterna lato meridionale
Anche gli ambienti94 subito a est del romitorio della chiesa, erano di pertinenza dell’impianto termale con muri in opera mista rivestiti di tubuli di terracotta per il riscaldamento95 (fig. 17, n. 79; fig. 19). Questa l’ipotesi di ricostruzione del complesso termale di Madonna dell’Aquila che, nella sua forma monumentale, è databile fra la metà del I e l’inizio del II sec. d.C., realizzato su un impianto precedente, forse meno esteso, attestato dai resti di costruzioni individuati negli scavi del 1896 e del 1908. I primi balnea vennero forniti di acqua attraverso un pubblico acquedotto e ristrutturati in età sillana per decisione del senato locale dai duoviri Vibuleius e Statius, come si evince dall’iscrizione, datata fra l’80 a.C. ed il 50 a.C., (CIL XIV 3013), rinvenuta nel 1778 nei pressi della chiesa di Madonna dell’Aquila (fig. 20).
94 Quilici 1980, n. 79. 95 Dalle foto dell’Archivio Fotografico della Soprintendenza e da un disegno del 1974, gentilmente
fornito dal Prof. Quilici, sono visibili, ai margini dello scasso edilizio che li distrusse, muri in opera mista, per un’altezza di oltre 3 m, rivestiti di tubuli di terracotta a sezione rettangolare; il muro orientato NNE/SSO è lungo più di 12 m con innesti di muri ortogonali sezionati dall’escavazione moderna.
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Fig. 19 Murature in opera mista con resti dei tubuli di rivestimento (sito 79) (1. Foto 1979, 2. Foto 1974)
Fig. 20 Iscrizione CIL XIV 3013
Pertinenti all’apparato decorativo del complesso termale, potrebbero essere le due colonne di marmo cipollino ora all’ingresso della Chiesa e altri frammenti riutilizzati all’interno. Verrebbe da chiedersi se le statue rinvenute sempre nel 1778 negli scavi pontifici negli Orti dei Dottrinari (vigna C) possano far parte della decorazione scultorea delle terme96; in particolare quelle di Asclepio97 ed Igea e la ninfa con una
96 Potrebbero anche essere associati alle altre strutture termali, site nell’area retrostante il ninfeo in
contrada Arcioni: nel 1877 furono in effetti rinvenute, in seguito a scavi nella proprietà Bonanni (vigna f, parcellizzazione della vigna C) delle strutture definite “…delle camere da bagno, ad una delle quali pare appartenesse un musaico bianco e nero molto ordinario” (NSc 1877, 328) oltre a molti frammenti architettonici di epoca imperiale, tra cui un cippo iscritto (CIL XIV 2929). Indicazioni di altri impianti termali nella città bassa: Raiano 2018b, 424; 433, fig. 11. 97 Gruppo di Asclepio, con testa non pertinente, e Igea, Museo Pio Clementino – Galleria delle Statue (inv. 571). Scavo V. Pezolli nel giardino dei Padri Dottrinari (1778). Restauro Gaspare Sibilla (1783). Spinola 1999, 32, n. 33.
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tazza98, ora ai Musei Vaticani, che ben si adatterebbero ad una decorazione di ambienti termali99. Inoltre, nel disegno del giornale di scavo di E. Gatti100 a 11 m di distanza viene anche indicato il cavo dello “scavo già fatto” (fig. 16), ovvero quello del 1903 della proprietà Sbardella101 (vigna h) dove si rinvennero in una fossa di spoliazione vari marmi ed iscrizioni, verosimilmente provenienti anche dall’impianto termale di Madonna dell’Aquila, accatastati in epoca imprecisabile per essere calcinati o riutilizzati. Pertanto, le terme pubbliche prenestine in età imperiale possono in effetti essere considerate come uno dei luoghi privilegiati per l’esposizione di basi onorarie, statue e ritratti imperiali102, come quelle ritrovate nell’area di Madonna dell’Aquila (vigna B, zona G, parte di vigna C e vigna h) e che normalmente venivano ricondotte ad un ambito forense. D’altra parte è pur vero che in molti centri antichi grandi complessi termali sono situati nei pressi del foro: quindi anche l’impianto termale della città bassa di Praeneste, tenuto conto della sua importanza e grandezza, potrebbe esser stato connesso con l’area forense. Se così fosse, secondo la ricostruzione proposta e la viabilità a monte (fig. 17, S) di cui si è detto, per rintracciare tale piazza dovremmo orientarci nelle zone ad est o ad ovest delle terme. Ma nel settore occidentale della vigna B, prossimo alla Via di San Rocco (attuale Via Pio XII), si conservano pochi resti archeologici (la maggior parte distrutti negli anni ’950)103, visibili nei sotterranei di una autocarrozzeria e di difficile lettura per le superfetazioni moderne104. Nella restante parte della vigna B gli unici scarni dati disponibili sono contenuti in un documento inedito105 del 1938, in cui il custode relaziona al Direttore 98 Museo Pio Clementino – Galleria delle Statue (inv. 563). Scavo V. Pezolli nel giardino dei Padri
Dottrinari (1778). Restauro di Gaspare Sibilla (1779–1781). Spinola 1999, 24–26, n. 24.
99 Confronti per esempio ad Ostia: Valeri 2000. 100 ACS, Archivio Gatti, fasc. 22, Fuori Roma, f. n. 10190. 101 Gatti 1903. 102 Manderscheid 1981, 31–35. 103 Quilici 1980, 195, n. 89: “Nel costruire le fondazioni della palazzina del lotto 318, su Viale
Pio XII, nel 1953, si giunse alla distruzione di strutture murarie antiche esistenti nel sottosuolo: denunce del Soprintendente P. Romanelli ai Carabinieri di P. in data 6 e 7. XI. 1953. Abbiamo graficizzato questi rinvenimenti con valore puramente indicativo.” 104 Una struttura muraria in opera quadrata di tufo costituita da tre filari (1,30 m di lunghezza per 1,00 m di altezza), orientata ONO/ESE, un ambiente (4,80 x 2,30 m, h. 3,20 m) coperto con volta a botte, di cui si vede un arco in laterizi, un ambiente (5,70 x 4,75 m) con volta a crociera e grande arco in parete, resti di altre strutture in cementizio. 105 Archivio Storico SBAL, serie IV, Palestrina, b. 828. Vengono in luce “costruzioni in opera incerta – una specie di sotterranei – e blocchi di opera quadrata; qualche frammento di colonna cilindrica scanalata con rivestimento di stucco di pietra tufacea, una colonnina di un metro e 0,40 di circonferenza e due scheletri con copertura di tegoloni laterizi.”
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riguardo gli scavi “per le fondazioni, nella vigna già Scavalli, per la costruzione di quattro fabbriche per conto del Genio Civile”106 (fig. 17, n. 169). Per quanto riguarda il settore ad est, purtroppo non abbiamo alcun elemento, né archeo logico né archivistico, visto che l’edificazione moderna107 ha cancellato ogni traccia. Da una parte, dunque, non ci sono dati significativi per ipotizzare uno spazio forense nei pressi delle terme e soprattutto non risulta traccia di una pavimentazione a grandi lastre, dall’altra le distruzioni limitrofe all’area non permettono ulteriori speculazioni e pertanto su questa possibilità siamo costretti a sospendere il giudizio. Avendo dunque verosimilmente escluso l’area di Madonna dell’Aquila e la vigna B quale possibile sito della piazza forense, consideriamo la vigna C che, malgrado le numerose testimonianze fra iscrizioni, statue e mosaici, è un’area talmente vasta, da Via degli Arcioni fino a Via Madonna dell’Aquila, che risulta difficoltoso poter indicare una precisa localizzazione del foro sulla base dei rinvenimenti. Del resto le evidenze archeologiche che conosciamo nella vigna C non sono pertinenti ad edifici o strutture forensi; nella fascia settentrionale, oltre il monumentale ninfeo in laterizi e un probabile altro impianto termale retrostante108, è attestato un quartiere di abitazioni private su terrazzamenti, prospicienti l’antico asse stradale diretto verso l’ingresso in città, cd. Propileo, fra le quali spicca la ricca domus di via degli Arcioni109. E poi cisterFig. 21 Pianta settore settentrionale ne110, fontane e tabernae (fig. 21). vigna C Più interessanti ai nostri fini le evidenze nell’area centrale dove, con gli scavi degli anni ’60 del ’900, si mise in luce un incrocio stradale, nel quale Valnea Santa Maria Scrinari111 volle riconoscere 106 Sono le quattro palazzine ancora esistenti note come casette del fascio con in facciata la data
dell’anno XVI era fascista, all’angolo fra Via Madonna dell’Aquila e Viale Pio XII.
107 Quilici 1979, 225–229. Nel paragrafo della gestione dal 1953 al 1968 sono evidenziate fra le
tante distruzioni, avvenute anche con i nullaosta della Soprintendenza, quelle nell’area di Madonna dell’Aquila: “fu permesso di fabbricare al di sopra di un grandioso complesso termale noto nella bibliografia archeologica fin dal settecento” e nelle particelle dove erano stati eseguiti gli scavi del 1908 e ad est della cd. Curia (Quilici 1979, 226–227). 108 Cfr. nota 96. 109 Gatti 2003; Raiano 2013, 325–334; Raiano 2018b, 421–424. 110 Gatti – Pintucci – Raiano c.s. 111 Scrinari 1973.
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quello principale tra cardine e decumano della colonia sillana, e un edificio con pianta a ferro di cavallo112 (edificato in opera listata nel corso del III/IV sec. d.C. su strutture precedenti forse residenziali) interpretato come macellum113. Secondo la studiosa l’area era il luogo della seconda piazza forense di Praeneste, tesi poi respinta da vari studiosi114; in mancanza della documentazione degli scavi, solo una nuova indagine archeologica potrebbe meglio chiarire la questione (fig. 22).
Fig. 22 Settore centrale vigna C. 1. Planimetria del cd. macellum e asse viario P (rilievo Archivio disegni SBAL n. 6215); 2. Foto degli scavi anni ’60 del ’900: le strutture visibili sono quelle segnate con un rombo nella planimetria 1; 3. Scavo dell’incrocio fra la strada M e P vista da nord
L’edificio cd. macellum, indagato di nuovo nel 1971, noto principalmente per gli importanti ritrovamenti marmorei115 – il celebre rilievo della serie Grimani e 112 Scrinari 1973; von Sydow 1976, 365; Quilici 1980, n. 26. 113 Non concordano: Zevi 1976, 38–39; Coarelli 1978, IX; Quilici 1980, 176; De Ruyt 1983,
149–151; Quilici 1989, 67.
114 Zevi 1979, 21; Quilici 1980, 176–177. 115 Cfr. bibliografia citata in Agnoli 1998, 159, note 8 e 9.
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l’ara dedicata al Divo Augusto116 – è stato oggetto di una revisione da parte di Nadia Agnoli117. Tuttavia anche l’ipotesi della studiosa circa la destinazione d’uso dell’edificio fa riflettere; suggerisce infatti di riconoscervi una schola, sede del collegium degli Augustales, di norma edificio aperto sulla piazza forense. La congettura si basa sui marmi rappresentativi degli ideali della politica augustea (riutilizzati nell’edificio, probabilmente come un recupero conservativo, con la riproposizione di funzioni e simbolismi analoghi agli originali), ma sembra condizionata dall’assunto della presenza del foro (e del macellum) in un’area “da porre a nord della chiesa della Madonna dell’Aquila, interessando certamente parte delle vigne che si estendevano sotto la via degli Arcioni”. Per la tesi forense vengono portate a supporto varie iscrizioni118 che in realtà provengono da tre vigne diverse (A, B e C). Sembra dunque che la proposta di identificazione si basi su un ragionamento circolare.
Fig. 23 Epistilio marmoreo con iscrizione CIL XIV 2946
L’esistenza della Regio Macelli a Praeneste è d’altronde attestata; la regio è citata in tre epigrafi119 come il luogo nel quale aveva sede il collegium dei cultori di Giove Arcano. L’edificio stesso è testimoniato dal frammento di epistilio mar116 Agnoli 2002, III.9, 243–249; EDR160986. Museo Archeologico Nazionale Prenestino, inv.
23555.
117 Agnoli 1998, 157–181. 118 CIL XIV 2898 e 2899 (vigna B ma il luogo di ritrovamento viene citato per la prima volta da
Cecconi uno o due secoli dopo la scoperta); AE 1998, 286 (reimpiegata presso il cd. macellum, vigna C); CIL XIV 2972 (la base fu rinvenuta in vinea Rodi secondo Cecconi 1756, 193; presso il foro della città imperiale secondo Marucchi 1932, 86–87 e 105, fig. 19; in monte prenestino, nel territorio di Castel S. Pietro, indicazione nel CIL. Luogo incerto.); CIL XIV 2937 (Petrini 1795, 314, n. 6; Cecconi 1756, 94 e 70, la dice ritrovata nell’area del foro – vigna A e B, nel CIL non c’è indicazione del luogo – vigna X); CIL XIV 2946 (vigna A); AE 1987, 230 (reimpiegata presso il cd. macellum, vigna C). 119 CIL XIV 2937; CIL XIV 2972; AE 1998, 286 (Agnoli 1998, 163–167; Agnoli 2002, II, 24). Sul culto di Giove Arcano cfr. anche CIL XIV 2852.
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moreo120 con l’iscrizione che ricorda la costruzione e decorazione del macellum da parte di due patroni della colonia prenestina121, che la funzione di procuratores Augusti rivela di rango equestre122 (fig. 23). Senza dubbio possiamo immaginare che tale struttura fosse realizzata nel pianoro a valle della città murata, carente quest’ultima di spazi sufficientemente ampi per la realizzazione dell’infrastruttura commerciale. Anche per il luogo puntuale di questo complesso architettonico è possibile solo formulare ipotesi, in mancanza di riscontri archeologici e di notizie certe sui luoghi di ritrovamento123 delle epigrafi che lo menzionano, tre delle quattro rinvenute fra il XVII ed il XVIII secolo. La Regio Macelli potrebbe essere localizzata nella fascia sottostante via degli Arcioni124, per gran parte comprensiva della vigna A e di parte della vigna C. Ciò non tanto per i resti emergenti125, pochi a dire il vero e relativi principalmente a cisterne e muri sostruttivi, o per l’epistilio suddetto, per quanto dato prezioso, ma per considerazioni di carattere topografico, quali la posizione centrale e la grande disponibilità di acqua (fig. 24). Il macellum si troverebbe infatti appena fuori le mura, all’incrocio di importanti percorsi (fig. 24, G e B), che dalla Via Prenestina antica conducevano alla porta occidentale di ingresso in città (presso l’attuale Porta S. Martino), e con un regolare reticolo stradale (fig. 24 H, P e Q), funzionale al collegamento con le altre aree del pianoro. Ed inoltre, l’infrastruttura commerciale avrebbe potuto ricevere tutta l’acqua necessaria al suo funzionamento grazie al colossale serbatoio126 imperiale in opera laterizia, 120 CIL XIV 2946. Il frammento marmoreo (alt. 30 cm, largh. 125 cm, sp. 30 cm, alt. lett. 7 cm) è
esposto nella sala del Complesso degli edifici del foro di Praeneste, inv. 23609.
121 Datata al 171 d.C. / 230 d.C., ossia ad un periodo successivo alla trasformazione costituzionale
di Praeneste da municipium a colonia avvenuta nella seconda metà del II secolo d.C.: Granino Cecere 1987, 194–195. Inserito nel Third macella group (Flavian age – 4th century A.D.) in Cristilli 2015, 82. Altri casi di costruzione ed abbellimenti dei macella ad opera di cittadini: Cristilli 2008, 39–40. 122 De Ruyt 1983, 295–301; Cristilli 2008, 35–38. 123 La base CIL XIV 2937 con dedica al patrono L. Statius Prosperus Iulianus, Cecconi 1756, 70 e 94, la dice ritrovata nell’area del “foro” (per lo studioso settecentesco ricordiamo il foro era compreso fra la vigna Torcioli e la vigna Petruccini,- vigna A e B), ma nel Corpus non c’è indicazione del luogo (effossa anno 1665) (vigna X); l’epistilio CIL XIV 2946 risulta in vinea Caroli Agapiti (vigna A); la base rinvenuta nel 1998 (AE 1998, 286; Agnoli 1998, 163–167; Agnoli 2002, II, 24) fu trovata reimpiegata lungo la via che passa a nord del cd. Macellum (vigna C), mentre per CIL XIV 2972 il luogo è citato in agro prenestino. 124 Il pondus, (CIL XIV 4124) oggetto del contributo di Luciano Camilli in questo volume cui si rimanda, rinvenuto nel 1881 non molto lontano dall’area, potrebbe aver avuto nel macellum la sua originaria collocazione. 125 Cfr. i resti evidenziati nell’area nella carta archeologica: Quilici 1980, nn. 9 e 14–20 e 181–183. 126 Cecconi 1756, 78; Nibby 1837, 501–503; Marocco 1835, 76–78; Fernique 1880, 106; Blondel 1882, 170; Marucchi 1912, 40, fig. 6; 114; Quilici 1980, fig. 8; Quilici 1989, 66 e fig. 2, n. 134; Casciotti 2013, 138–141; Gatti – Pintucci – Raiano c.s.
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Fig. 24 Pianta della localizzazione ipotetica della regio macelli
posto immediatamente a monte, del quale è stata calcolata una capienza idrica di circa 10.000 metri cubi. Indiziato dai dati epigrafici127, si potrebbe anche supporre nell’area della vigna A la presenza di un complesso per il culto imperiale128, cui ci riconducono senza dubbio gli acroliti marmorei di Augusto e di Faustina Maggiore dell’antica collezione Barberini, dei quali tuttavia non è nota la provenienza129. La Regio Macelli e le aree per il culto imperiale erano dunque altri luoghi pubblici nei quali l’esposizione di basi e statue onorarie e altre dediche erano consueti, ovvero quei rinvenimenti che in passato venivano associati quasi esclusivamente ad un ambito forense, e nel nostro caso in particolare al secondo foro prenestino.
127 Dalla stessa vigna A provengono tre importanti iscrizioni imperiali: un frammento di epistilio
con grande epigrafe monumentale di Tiberio (CIL XIV 2911), una dedica del senato e del populus prenestino a Giuliano (CIL XIV 2911), un cippo votivo con dedica a Traiano (Eph. Epigr. IX 767, NSc 1894 [Bernabei]), per quest’ultimo documento cfr. Granino Cecere 2020, 221–226. 128 Granino Cecere 2020, 224. 129 Inoltre Cecconi 1756, 150, n. 10, aggiunge che nella vigna Terzoli (vigna B) “fu anche ritrovata la testa della statua di Augusta, la quale fu donata dal Generale Fantoni al pontefice Paolo V”.
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Colonia sillana Oltre gli argomenti finora esposti, non può esser taciuto che la realizzazione di una nuova piazza forense nella città bassa sia stata spesso messa in relazione con la deduzione della colonia sillana istituita a Praeneste dopo i tragici avvenimenti del 82 a.C.130 Da tempo131 ormai è accertato che il primo insediamento nel pianoro non sia da ascrivere alla fase della colonizzazione di Silla132 e oggi, dopo gli scavi e le ricerche sul territorio degli ultimi venti-trenta anni, è possibile restituire una forma più compiuta della città bassa nei suoi vari sviluppi urbanistici e cronologici, dei quali si ripercorrono brevemente le fasi133. Almeno dal III secolo a.C., l’abitato è attestato soprattutto nella fascia centro-occidentale del pianoro, dove risulta il maggior numero di strutture in opera quadrata di tufo, distribuite lungo il più antico asse centrale (fig. 4, M) e lungo quelli ricalcati da Viale Pio XII e Via Ceciliana (fig. 4, B e G), a confermare la priorità di questi tracciati (fig. 25). L’area centrale era utilizzata prevalentemente per usi agricoli ma inizia anche ad ospitare strutture stabili, con qualche impianto abitativo, apprestamenti idraulici (pozzi e cunicoli) e muri sostruttivi per regolarizzare le pendenze, questi ultimi localizzati soprattutto nella fascia immediatamente sotto Via degli Arcioni, dove sono documentate diverse sostruzioni in opera quadrata e in poligonale. Almeno fino alla fine del III secolo a.C., le valli dei Sardoni e dello Spedalato erano ancora extraurbane e i percorsi di ingresso in città affiancati da tombe134, 130 Marucchi 1885, 19 e 89–90; Coarelli 1987, 8: “La città vecchia fu affiancata dalla colonia
sillana; il nucleo originario conservò una sua dignità di centro monumentale, ma i nuovi coloni costruirono una nuova città accanto alla prima, con un suo foro”. 131 Quilici 1989, 54; Gatti 2003, 59; Raiano 2017, 523–524. 132 Non sussiste più alcun motivo per indicare una “città quadrata di epoca sillana, il c.d. Quadrilatero” nel settore delimitato dalla Via degli Arcioni, Via Prenestina per Valmontone, dallo stradone di S. Rocco (oggi viale Pio XII) e Via della Martuccia (oggi della Stazione), come proponevano nel 1953 Fasolo e Gullini, peraltro senza tenere affatto in considerazione le scoperte ampiamente citate nella bibliografia precedente avvenute anche oltre i limiti del c.d. Quadrilatero, e forzando gli assi di orientamento di alcune strade per meglio giustificare la perimetrazione “quadrata” della colonia sillana. 133 Si rimanda per approfondimenti alla prossima pubblicazione sulla Forma Urbis della città bassa ad opera di chi scrive. Studi relativi all’urbanistica della città bassa: sulle domus (Demma 2002a, 26–28; Gatti 2003; Demma 2005; Raiano 2013; Raiano 2017, 517–532; Raiano 2018b, 421–433), sui sistemi di smaltimento delle acque (Raiano 2018a, 525–538) e sulle infrastrutture idriche (Gatti – Pintucci – Raiano c.s.). 134 Attestate nella Valle dei Sardoni (Raiano 2018a, 534), presso l’ex mattatoio – ora biblioteca comunale (scavi 2019 in corso di studio), fuori porta S. Martino (da una foto dell’Archivio fotografico SBAL risulta un cassone di peperino rinvenuto a 5 mt. di profondità nel 1960),
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Fig. 25 Carta con indicazione delle strutture ed attestazioni d’epoca medio repubblicana
aree sacre e piccoli luoghi di culto testimoniati dalle fosse votive di Via della Martuccia, dell’Ospedale e da quelle nei pressi delle porte cittadine135. Anche i santuari, (oltre quello di Fortuna attestato dalle fonti e dalle terrecotte architettoniche) erano dislocati soprattutto nel versante occidentale, quello tiburtino, gabino e romano, in posizione rilevante rispetto alla viabilità136.
all’esterno di Porta del Sole nel Piazzale della Stazione (Marucchi 1913, 22–30; NSc 1914 [Mancini]; Sbardella 1922, 39; Battaglia 1933; Quilici 1980, 203; Pensabene 1983, 235; Quilici 1992, 68; Foddai 2009, 23–24). 135 Per l’iscrizione sacra AE 1914, 72, rinvenuta nel 1913 durante gli sbancamenti per la costruzione della stazione ferroviaria, nella proprietà Sbardella, va sottolineata che la scoperta avvenne, fra le terre di scarico, non in situ: Marucchi 1913, 22–30; NSc 1914 (Mancini). Per l’iscrizione CIL XIV 2902: Henzen 1863, 122–123 e BullInst 1864, 38–39. 136 Santuario di Ercole (Quilici 1992, 60–61; Ceccarelli – Marroni 2011, 412–416), il luogo di culto in loc. Colombella (Gatti – Demma 2012), il santuario di Mater Matuta presso la Chiesa di S. Giovanni lungo la Via Prenestina (Ceccarelli – Marroni 2011, 410 e 421–422), il luogo di culto in loc. La Pescara (Ceccarelli – Marroni 2011, 409) e quello demetriaco nell’area del convento di S. Lucia, posto all’incrocio fra i due importanti percorsi viari antichi (fig. 4 B e G), diretti verso la porta occidentale di accesso alla città (Quilici 1999; Demma 2002b; Demma 2021). Sull’argomento si vedano: Torelli 1989; Colonna 1997; Di Fazio 2015; Di Fazio 2019.
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Ma è soprattutto a partire dal II sec. a.C. che l’insediamento si sviluppa in modo intenso e capillare su tutto il pianoro, anche espandendosi oltre le valli che lo delimitano; le strutture, prevalentemente in opera incerta, sono diffuse e costruite anche in zone precedentemente utilizzate a fini cultuali o sepolcrali, con una progressiva de-funzionalizzazione di alcune aree sacre a favore di strutture residenziali137 e conquistano nuovi spazi sui declivi con la realizzazione di notevoli opere sostruttive (figg. 26 e 27). Le domus, con pavimenti in cementizio a base fittile con tessere calcaree o policrome, spesso si sovrappongono e sfruttano i muri in opera quadrata del periodo precedente, con una maggiore concentrazione nel versante occidentale del pianoro, collegato con la viabilità principale proveniente da Roma e dai centri vicini, in particolare lungo le antiche strade (fig. 4, B, G e M), dove si distribuiscono ricche abitazioni138. Fra le strutture verosimilmente ad uso pubblico edificate nel pianoro in questa fase possiamo annoverare il primo impianto dei balnea di Madonna dell’Aquila139. Almeno dalla metà del II secolo a.C., dunque, l’abitato di Praeneste era distribuito non solo nella città alta entro le mura140, ma anche nella bassa141, fino ai margini delle vaste necropoli. 137 Come è documentato nell’area del Santuario di Demetra con la “casa della Contessa” (Dem-
ma 2002b, 93–96), in quella dell’Ospedale con la “casa dei Grifoni” (Demma 2002a, 26–28; Demma 2005) e di Via della Martuccia (dati inediti). Anche le zone che avevano ospitato nel periodo medio repubblicano piccole necropoli, dal II sec. a.C. vengono destinate ad altra e diversa funzione, con la sovrapposizione di strutture, spesso riconducibili ad abitazioni, in opera incerta di calcare (zona di Valle Zampea: Raiano 2017, 517–518; area ex-Mattatoio: scavi in corso di studio; Piazzale della Stazione: rilievi strutture nelle carte Archivio Gatti). Per le domus nel pianoro censite per i tipi di pavimentazioni (cementizi e mosaici): Raiano 2017; Raiano 2018b, 425, tab. 1. 138 Quilici 1980, n. 21; Di Mario 1991. Domus del piazzale Erg (Viale Pio XII), dati inediti, domus da scavi 2020 convento S. Lucia (dati inediti), domus dei Grifoni (Demma 2002a, 26–28; Demma 2005). 139 Del resto, nel settore centro occidentale della città bassa l’acqua arrivava copiosa dalle sorgenti della Bulliga, immagazzinata nelle numerose cisterne, che sono particolarmente concentrate nella zona fra Porta S. Martino e la Chiesa di S. Lucia e lungo il versante occidentale della città bassa. Anche nel settore centro – orientale le conserve idriche del pianoro risultano numerosissime, distribuite sui vari livelli, a rifornire le tante domus edificate in questa fase; mentre, nel settore sud-orientale, le cisterne sono prevalentemente di piccole dimensioni, funzionali ad un uso essenzialmente agricolo di questa parte marginale della città bassa (Gatti – Pintucci – Raiano c.s.). 140 Le stesse dove furono esposte le teste decapitate dei capi della fazione di Mario dopo la battaglia di Porta Collina nella città assediata da Silla per convincere i cittadini ad arrendersi. App. bell. civ. I.93.433. Sulle mura: Demma 2011; Gatti 2011. Per L’architettura “mariana” a Praeneste: Zevi 1999, 153–183. 141 Se anche questa fosse cinta da fortificazioni come supposto da Quilici 1989, 51 (siti 131 e 133) e 58–60, è difficile a dirsi visto che nessuna struttura riconducibile ad essa è più visibile e
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Fig. 26 Il “trionfo dell’opera incerta”
Fig. 27 Complesso di Valle Zampea, tomba in cassone di tufo e segnacoli a pigna riutilizzati nei muri posteriori
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Ed è in questa realtà, densamente abitata e costruita, che si inseriscono, alla fine della guerra civile, le due iniziative più importanti di Silla a Praeneste, le proscrizioni e la colonia, che innescarono dei significativi risvolti nel tessuto urbanistico sia nel centro entro le mura sia nel pianoro a valle142. La fondazione della colonia dell’80 a.C. fu verosimilmente preceduta da una serie di confische di proprietà143 dopo il massacro dei cittadini maschi adulti che avevano parteggiato per Mario, di cui qualche riflesso è rintracciabile soprattutto nell’edilizia residenziale144. Nel corso del I sec. a.C. si assiste infatti alla realizzazione di nuove abitazioni145 ma soprattutto a ristrutturazioni di impianti precedenti verosimilmente appartenuti ai prenestini mariani uccisi da Silla. Vengono costruite domus più ampie, dotate di peristili e ambienti affrescati e pavimentati a mosaico, con un uso generalizzato dell’opera reticolata di tufo, spesso associata a laterizi nei ricorsi delle pareti e nelle colonne, che progressivamente sostituisce l’opera incerta di calcare146.
neanche documentata in passato (confutata l’attribuzione del rilievo di Traiano ad una porta monumentale: Agnoli 2002, 229, nota 635, cfr. sul rilievo Granino Cecere 2020, 228–230). Per il tratto citato da Quilici sotto la chiesa di San Francesco, parte del circuito occidentale delle mura della città alta: Gatti 2011, 155–156. Fra le varie distruzioni subite da Palestrina forse quella del 1298 da parte di Bonifacio VIII “… ruina la città di Palestrina … insieme colle antiche mura fabbricate ad usi saracinesco con quadre e grandi pietre …” (Cecconi 1756, 276) potrebbe aver interessato ciò che rimaneva del circuito murario in questione. 142 Praeneste, insieme a Pompei, è l‘unica colonia sillana per la quale esistono significative testimonianze archeologiche contemporanee alla fondazione: Zevi 1996; Santangelo 2007, 134–171; Pesando 2015. 143 Proscrizione accompagnata da una legge (lex Cornelia de proscriptione) che legalizzava la confisca dei patrimoni delle vittime e dava impunità al loro assassino: Santangelo 2007, 145. I nuovi coloni, cui erano stati assegnati dei lotti di terreno, dovettero peraltro vendere ben presto le loro fertili proprietà, tanto che Cicerone venti anni dopo, afferma che le campagne di Praeneste appartenevano a poche persone (Cic., leg. agr. 2, 28, 78), Harvey 1975. Lo stesso esito è attestato anche a Tusculum: Muzzioli 2014, 386. Testimonianza epigrafica dei coloni nel territorio da due iscrizioni, quasi identiche nel contenuto, che fanno riferimento ad una lavatio offerta ai coloni, ai residenti e ai visitatori per la generosità di un magistrato locale (CIL XIV 2978 e 2979). 144 L’area cui si fa riferimento è parziale visto che sono escluse dall’analisi le ville del suburbio, nelle terre espropriate ed assegnate ai coloni, nelle quali si potrebbe leggere meglio il segno dei nuovi proprietari. Cfr. per Pompei, Zevi 1996, 132–136; Pesando 2015, 467. 145 Cfr. note 137 e 138. 146 Gatti 2013, 21–23. L’introduzione della nuova tecnica potrebbe anche essere legata alle necessità di ricostruzione dopo la guerra civile, quando serviva materiale da costruzione da reperire e lavorare velocemente ed in grandi quantità, gli scapoli di tufo prestandosi meglio a queste esigenze rispetto a quelli di calcare.
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Diana Raiano
Assodato che da parte del dittatore non ci fu una vera e propria distruzione di Praeneste147, sebbene i danni degli eventi bellici avranno certamente comportato le necessarie ricostruzioni, ciò che sembra emergere è soprattutto un progetto di ristrutturazioni e restauri mirati. Se consideriamo infatti l’ipotesi di Sandra Gatti di ascrivere all’età sillana la seconda fase del tempio del foro cittadino e la monumentalizzazione dell’accesso in città ad est del cd. Propileo, e aggiungiamo la ristrutturazione nello stesso periodo delle terme di Madonna dell’Aquila, attestata dall’epigrafe dei duoviri Vibuleius e Statius, gentilizi non attestati nella Praeneste medio-repubblicana, potremmo ravvisare le tracce di una scelta di incidere su uno spazio urbano già definito e complesso, con interventi, da una parte, significativamente di impatto simbolico (l’ingresso cittadino e il tempio del foro) dall’altra di promozione delle nuove gentes della età coloniale148. Ma, oltre le opere e le ristrutturazioni sopra citate, ciò che è emerso recentemente, grazie agli scavi condotti in maniera stratigrafica, è che lo schema proposto da Quilici149 di un impianto urbanistico realizzato in età sillana all’interno della pianificazione precedente di II secolo a.C. non è più così evidente e per molti aspetti decisamente infondato. Dopo la conquista di Silla e la successiva fondazione della colonia non si evidenzia un cambiamento drastico dal punto di vista della viabilità e le strade con differente orientamento non sembrano rispondere ad una rigida successione cronologica di schemi urbanistici150. La deduzione della colonia militare sillana, dunque, non fu accompagnata da una impattante pianificazione del pianoro che prevedesse un altro foro con gli edifici della curia, basilica e portici, iniziative per le quali non ci sono finora né riscontri archeologici, né epigrafici o documentari.
147 Le fonti tacciono sulle distruzioni perpetrate da Silla, anche se per secoli si è ripetuto il luogo
comune che il dittatore distrusse la città. Cfr. Zevi 1979, nota 72. Santangelo 2007, 137.
148 Cfr. anche a Pompei gli interventi sugli edifici pubblici e le aree sacre dopo la deduzione di
veterani sillani: Zevi 1996, 126–131; Pesando 2015.
149 Quilici 1980, 202–214; Quilici 1989, 60–62 che già notava rispetto alle ipotesi di pianifica-
zioni differenti “Ma manca di fatto un riscontro dei dati archeologici, quale la proposta richiederebbe nonostante la monumentalità di tanti resti, per la mancanza assoluta di dati di scavo”. 150 Gli scavi e le ricerche hanno evidenziato, ad esempio, che dove era ipotizzato il percorso dell’asse 28 del terzo impianto urbanistico, sono venute in luce strutture (Raiano 2013, 333–334) ed anche per la via 3 il tracciato è interrotto da strutture rinvenute nel 1995 e nuovi tratti ne indirizzano il percorso con un altro orientamento; che per alcune domus definite “sillane” è stata anticipata la datazione alla seconda metà del II a.C., per esempio per i siti Quilici 1980, nn. 60 e 72 e Quilici 1989, 61, cfr. Raiano 2017, 518–519 e 521–522; che molte altre strutture rinvenute ed orientate con gli assi dello schema urbanistico “sillano” sono precedenti e che l’orientamento delle strade risulta condizionato dalla morfologia del terreno piuttosto che da seriazioni cronologiche. Cfr. nota 137.
Praeneste, elementi per una ricostruzione topografica
117
E, nonostante le incognite sull’articolazione degli spazi e le fasi cronologiche dell’antico foro cittadino intramuraneo, non ci sembra ci siano elementi determinanti per sostenere che questo abbia cessato totalmente di essere in uso151 dopo la fondazione della colonia, in parallelo con la realizzazione di una nuova piazza forense nel pianoro a valle. Viene dunque meno la connessione del secondo foro della città bassa con la deduzione della colonia e la relativa cronologia alla età sillana. Confronti con i fora duplices repubblicani di Terracina e Ferentino In alcuni casi il secondo foro di Praeneste è stato messo in relazione con i fora duplices di Terracina e Ferentino, intesi come espressione di due centri civici diversi152 o come primi esempi d’età repubblicana di quel processo di duplicazione delle piazze pubbliche153 che, come noto, sarà fenomeno tipico e diffuso in Italia e nelle province solo all’inizio del I sec. d.C. A Terracina la presenza di un secondo foro nella città bassa, il cd. Foro Severiano154, è strettamente collegata al porto che condizionò tutto l’assetto urbano; la piazza, documentata da una pavimentazione in grandi lastre di calcare locale molto lacunose, con i solchi di alcune litterae aureae relative a una lunga iscrizione, rinvenuta nel 1886155 nel punto di incrocio di due, forse tre, strade (l’Appia del 312 a.C., la variante costiera dell’Appia legata al taglio del Pisco Montano, e un’ipotetica via di collegamento al porto), assunse un ruolo di cerniera fra la città alta e i quartieri portuali. Una recente riesamina dei dati da parte di Nicoletta Cassieri156 invita a considerare il cd. Foro Severiano, presumibilmente spazio organizzato come area di mercato già intorno alla metà 151 Oltre a rinvenimenti ascrivibili all’età imperiale, interventi dello stesso periodo sono documen-
tati nella costruzione della fontana scoperta nel 1907 (cfr. nota 74), nell’obelisco dell’età di Claudio e ora da una fase di decorazione con rivestimento marmoreo del settore del portico forense (dati inediti in corso di studio). 152 Zevi 1979, 14 per il quale “Non abbiamo, per Palestrina, alcun accenno all’esistenza di una doppia comunità, antichi abitanti e nuovi coloni; … i coloni di Silla semplicemnte si sostiuirono ai coloni della Fortuna, come Lucano poeticamente chiama gli antichi abitanti”. Coarelli 1987, 8. 153 Gros – Torelli 2010, 254; Fabiani 2014, 112. Per uno studio comparativo delle piazze forensi repubblicane cfr. Lackner 2008. 154 E’ la tradizione cinquecentesca a partire da Baldassarre Peruzzi che indica il luogo come Forum in compito Severianae, ripreso da De La Blanchère 1887; Lugli 1926, 103.: “Il nome di Foro Severiano che gli viene dato usualmente è del tutto arbitrario; anche noi lo abbiamo chiamato così per distinguerlo da quello della città superiore, di cui è ben noto il fondatore: A. Aemilius.” 155 De La Blanchère 1887, 417–418. 156 Cassieri – Gregori c.s. Ringrazio Nicoletta per le anticipazioni del suo lavoro su Terracina.
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Diana Raiano
del I sec. a.C., come una piazza pubblica monumentalizzata fra l’età triumvirale e giulio-claudia, in analogia con il “Foro Emiliano”, con il quale presenta stringenti affinità tipologiche, ma dal quale si differenzia per le spiccate valenze commerciali, come conferma un complesso di horrea recentemente rintracciato ad ovest . Una diversa specializzazione funzionale, dunque, quella fra i due complessi monumentali di Terracina, come in effetti si riscontra anche a Ferentino, dove è stata ipotizzata l’esistenza di un secondo foro, il c.d. foro esterno, sulla base del ritrovamento di numerose iscrizioni di carattere pubblico, ed in particolare onorario, in località La Fata, ai piedi del colle su cui sorge la città sul versante che guarda Frosinone, proprio lungo il rettifilo della via Latina che conduce verso sud. In realtà, tenendo conto che le due aree pubbliche dell’antico centro, il foro e la spianata dell’acropoli, non dovevano avere funzione di mercato, e anche in considerazione del fatto che tutte le iscrizioni sono posteriori alla seconda metà del II sec. d.C., sembra sia più fondato riconoscere in questo sito non un secondo foro, ma il forum pecuarium ricordato dall’epigrafe CIL X 5850. Forum pecuarium che ben si collocherebbe all’esterno dell’area urbana, lungo una agevole viabilità principale e in diretto collegamento con la campagna e i punti di transito157. Conclusioni A questo punto, crediamo sia corretto chiedersi se sia mai esistito un secondo foro nella città bassa di Praeneste. Nelle fonti antiche esso non è attestato158, a parte il controverso passo di Svetonio che, come si è sopra detto, può a nostro parere molto più plausibilmente riferirsi ai due livelli dell’unico foro prenestino effettivamente esistente entro le mura. E neanche i riscontri archeologici conducono in maniera inequivocabile a dimostrare l’esistenza di una seconda piazza forense mentre, piuttosto, individuano certamente altri complessi monumentali, come le terme cittadine. Iscrizioni e sculture rinvenute nei secoli nella città bassa, oltre ad essere state oggetto di possibile spostamento dal foro intramuraneo, potrebbero provenire 157 Cfr. su questo problema Quilici – Quilici Gigli 1994, 164–165 e 244. 158 Oltre Svetonio, le fonti letterarie riguardanti il foro sono esigue. Il foro viene menzionato da
Tito Livio per la statua che fu innalzata in foro nel 216 a.C. a M. Anicio per essersi distinto nella battaglia di Casilinum durante la seconda guerra punica: Liv. 23, 19, 17–18. Bibl. Topogr. 1994, 242–244.
Praeneste, elementi per una ricostruzione topografica
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da altri monumenti pubblici sicuramente presenti nel pianoro, come l’impianto termale di Madonna dell’Aquila, il macellum, o dalle sedi di collegia, luoghi dove la comunità civica di Praeneste è molto attiva fino all’età tardo imperiale, come attestano le diverse basi onorarie di IV sec. d.C. È altresì innegabile che nel pianoro (già dal II secolo a.C. attraversato da una fitta rete viaria su cui prospettavano case, fontane e tabernae) si siano concentrati dalla prima età imperiale159 interventi d’edilizia monumentale prevalentemente pubblica per i quali il nucleo superiore della città non aveva spazi sufficienti. Non solo la monumentalizzazione delle terme, ma anche gli imponenti serbatoi idrici, quello di Via degli Arcioni160 e dell’Ospedale161, sottintendono un impegno economico e ingegneristico tali da poter ascrivere tali costruzioni ad iniziative pubbliche, volte in primo luogo a soddisfare il fabbisogno idrico di una città sempre più densamente popolata. Di rilievo anche il castellum aquae – ninfeo di via degli Arcioni162, contemporaneo al serbatoio poco distante, che costituiva una mostra d’acqua prospettante sul principale asse viario (fig. 4 M) di ingresso alla città alta. Ascrivibili ad interventi d’età imperiale sarebbero anche il Macellum e naturalmente i monumenti a carattere celebrativo della famiglia imperiale o con vera e propria valenza cultuale, dei quali si è ipotizzata la presenza nel pianoro. Se dunque volessimo ipotizzare l’esistenza di un altro spazio pubblico nella città bassa, oltre quelli già citati, non dovremmo attribuirne l’impianto ad un intervento sillano, ma senza dubbio all’età imperiale, visto anche il gran numero 159 Peraltro a Tiberio, come ci narra Aulo Gellio (noc. att. 16, 13, 5), si deve il nuovo statuto
municipale di Praeneste, che idealmente la collegava ad una realtà pre-sillana di autonomia (Granino Cecere 1987, 194–195). 160 Il complesso (m 90 x 33) è costituito da dieci aule semi-interrate parallele, coperte con volte a botte, comunicanti fra loro tramite tre passaggi arcuati presenti su ciascun lato lungo. Gli ambienti (28 x 7 m ca. ed alti più di m 6) occupano una superficie di mq 2500 con una capienza idrica di 10.000 metri cubi. In ottima opera laterizia, ha la fronte meridionale caratterizzata da 23 nicchie semicircolari e una rettangolare al centro, di cui si vedono almeno otto fori di uscita dell’acqua per fontane e giochi d’acqua, a costituire uno sfondo scenografico monumentale per chi si accingeva ad entrare nella città entro le mura. 161 Serbatoio a pianta trapezoidale (lati lunghi: 70 m; lati corti 27 e 35 m) diviso in senso longitudinale da cinque file di pilastri in sei navate, di circa 2000 mq di superficie, con murature in opera mista di reticolato di tufo e laterizi, conservate per un’altezza di 2,50–3 m. 162 Edificio in opera laterizia (16 x 15 m ca.) costituito da due piani con tre cisterne comunicanti fra loro poste all‘interno dell‘edificio sui lati lunghi e corrispondenti alle tre nicchie del fronte esterno orientale. Probabilmente contemporaneo al grande serbatoio poco distante, entrambi rivestiti in ottima opera laterizia e con un’articolazione molto simile delle nicchie semicircolari, alternate a quelle a scarsella. Datato fra la fine del I d.C. e l’inizio del II (Neuerburg 1965, 74–75 e 169–170, n. 94, fig. 150; Letzner 1990, 151, tipo IXA, 416–417, n. 275; età antonino – severiana (Mari 1986).
120
Diana Raiano
di epigrafi e sculture datati in questo periodo rispetto a quelli riconducibili alla fase post 82 a.C. Venuta meno o comunque indebolita la tradizionale localizzazione (dell’ipotetico) secondo foro nei pressi di Madonna dell’Aquila ed escludendo altri settori del pianoro già indagati, rimane aperta la possibilità in futuro, con l’esplorazione archeologica di zone del pianoro libere da edifici perché vincolate o acquisite al demanio, di poter arricchire le nostre conoscenze e aggiungere tasselli per la ricostruzione dell’urbanistica della città bassa, individuando eventuali altri ambiti pubblici di Praeneste.
Praeneste, elementi per una ricostruzione topografica
121
Appendice 1 Di seguito i vari riferimenti bibliografici relativi alle varie tesi sulla localizzazione del foro e fra parentesi i siti rinominati con lettere alfabetiche e posizionati alle figg. 9 e 12: Nibby 1837: “Il Foro della Praeneste sillana si colloca communemente a piè della conserva occidentale del tempio della Fortuna Prenestina [serbatoio di Via degli Arcioni] fra la Chiesa di S. Lucia e quella della Madonna dell’Aquila per molti monumenti ivi trovati …; sembra però fare ostacolo a questa opinione il ritrovamento de Fasti di Verrio Flacco fatto nella contrada delle Quadrelle molto di là distante, mentre Svetonio nella biografia di quel grammatico dice che ebbe una statua in Preneste in inferiore Fori parte contra hemicyclum: in quo fastos a se ordinatos, et marmoreo parieti incisos publicarat. Ma dall’altro canto le molteplici scoperte ricordate di sopra debbono preferirsi a quella di frammenti che poterono andar soggetti a traslocazione.” (vigna A – vigna B – parte di vigna C). Marucchi 1885, 90–114: Il foro era presso la chiesa di Madonna dell’Aquila, la Curia nell’edificio nella vigna Scavalli, il tempio (di Giove Arcano) nelle rovine della chiesa di Madonna dell’Aquila, le taberne del foro nella Vigna Tomassi nella Contrada Cascata delle Acque (sito G – vigna B – parte di vigna C). NSc 1903b, 575 (Gatti): “Nella vigna del sig. Carlo Sbardella, sita non lungi dalla chiesa rurale di Madonna dell’Aquila, cioè nell’area del foro dell’antica Praeneste …” (sito G – vigna h). Magoffin 1908, 58: “The new forum below the city is well enough attested by inscriptions found there mentioning statues and buildings in the forum. … The discovery of two pieces of the Prenestine fasti in 1897 and 1903 also helps to locate the lower forum. The forum inside the city walls was the forum of Praeneste, the ally of Rome, the more pretentious one below the city was the forum of Praeneste, the roman colony of Sulla.” (sito L – vigna h). Vaglieri 1909, 245: foro nelle vigne Petruccini e Terzoli (vigna A – vigna B); 266: “ora io ho seri dubbi che il Foro giù, sulla Prenestina, sia sorto appena nell’epoca sillana”. Marucchi 1932, 89–111: riprende le stesse identificazioni del 1885 ma nella tav. 1 fissa genericamente il forum a sud di Via Madonna dell’Aquila (sito G – vigna B – parte di vigna C). Castagnoli 1963, 889: nella zona della Madonna dell’Aquila (come è provato da iscrizioni) era il Foro della nuova città (sito G). Scrinari 1973, 593: foro imperiale della città proprio nell’area dell’antico toponimo Aquila, a nord della cappella della Madonna dell’Aquila (vigna C). Zevi 1976, 41, nota 11: “Naturalmente è impensabile che tutta l’area fra Madonna dell’Aquila e gli Arconi fosse occupata dal Foro: questo va probabilmente posto, seguendo la maggioranza degli autori, in corrispondenza della Vigna Scavalli, donde provengono inoltre alcuni frammenti dei Fasti Prenestini” (vigna B). Coarelli 1978, V–VI, IX: “… il foro corrispondeva in parte all’attuale Piazza Regina Margherita, come mostra la presenza qui dell’Erarium (V) …, la colonia sillana si estese invece a sud delle mura antiche … tra gli edifici della colonia ci sono noti il foro con i suoi portici (CIL XIV 2924) … (VI e IX)”.
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Diana Raiano
Zevi 1979, 14, 21–22: “Abbiamo visto come la deduzione della colonia sillana comportasse lo spostamento, nella zona pianeggiante verso la Via Prenestina, del centro civile di Praeneste, con il suo foro circondato dai pubblici edifici destinati all’amministrazione municipale.”; “nell’età imperiale l’unica località di Palestrina in cui siano venute in luce iscrizioni di carattere pubblico e civile, nonché le sole dediche e ritratti imperiali di cui sia nota la provenienza, è quella della Madonna dell’Aquila, vale a dire il foro della città sillana …, in uso nei tempi di Verrio Flacco e di Svetonio. Qui erano dunque l’emiciclo dei fasti Prenestini e la statua del grammatico.” (sito G – vigna B). Quilici 1980, 213–214: “il famoso foro della città bassa sia da ricercare là dove è stato quasi sempre indicato, a nord-ovest della chiesa della Madonna dell’Aquila ed a nord-est dell’incrocio della Via Prenestina con l’asse perpetuato dal vecchio stradone di S. Rocco” (vigna B). In nota 24: “Per l’identificazione del foro è da ricordare la presenza di una grande platea in lastre di travertino intravista in passato a nord-ovest [ndA: nord-est] della cosiddetta Curia, al n. 26 [da intendersi con n. 86?]. Purtroppo è questa una delle zone dell’antica città che più ha dovuto subire le devastazioni del recente sviluppo edilizio della città attuale” (vigna B – sito G). Pensabene 1983, 230: “E’ noto inoltre come nell’area dell’antico toponimo ‘Aquila’ a Nord della chiesa della Madonna dell’Aquila si collochino quasi certamente il foro imperiale della città e diversi edifici pubblici, come il Macellum, il collegio degli Augustali e il collegio dei cultores Iovis Arkani” (vigna B – vigna C?). Coarelli 1987, 5–6: “Ora, da tempo, è stato dimostrato che a Praeneste esistessero due fori: uno corrispondente alla piazza Regina Margherita, e un altro presso la Madonna dell’Aquila, nella parte inferiore di Palestrina (sito G). Nonostante le opinioni contrarie, a mio avviso si può considerare dimostrato che il foro precedente alla colonia sillana coincidesse con la piazza Garibaldi davanti S. Agapito e Piazza Regina Margherita … che corrisponderebbe alla parte superiore del Foro”. Coarelli 1989, 120: “… in età imperiale ampie aree pubbliche esterne a questo [il santuario di Fortuna] – e probabilmente lo stesso foro della città libera – furono utilizzate per l’esposizione di dediche alla Fortuna Primigenia: evidentemente dopo la fondazione della colonia sillana il baricentro della vita pubblica si era spostato più in basso, intorno al nuovo foro, mentre il vecchio, perse le sue funzioni originarie, era ormai disponibile per nuove utilizzazioni, ed era praticamente assorbito – ma solo di fatto, non formalmente – all’interno del sovrastante santuario.”. Torelli 1989, 20–24: nella città bassa doveva trovarsi la inferior fori pars del testo svetoniano; il forum duplex di Praeneste non era presso la chiesa di Madonna dell’Aquila come vuole una consolidata tradizione archeologica (lo studioso vi colloca invece le terme e nei pressi anche il santuario di Apollo163), ma bensì “con certezza riconosciuto nella zona immediatamente sottostante le sostruzioni della superior fori pars, tra via degli Arcioni, S. Lucia e lo stradone di S. Rocco” (vigna A e B, ma cita come provenienti dalle stesse vigne tutte quelle trovate nel 1778, che vengono invece dalla vigna C). Quilici 1989, 62: “Nel contesto generale della città inferiore di Praeneste un plurisecolare problema rimane anche l’identificazione del foro, che una radicata tradizione colloca vicino alla chiesa della Madonna dell’Aquila e che l’insieme delle scoperte 163 BullInst 1862, 38–39.
Praeneste, elementi per una ricostruzione topografica
123
avvenute all’intorno sembra confermare (siti 77, 79, 85–88): più in particolare il rinvenimento di una vasta platea di lastroni parallelepipedi di travertino a nord-ovest [in realtà a nord-est] della così detta Curia, nel sito 86 [il sito 86 è in verità pertinente ad un ambiente con pavimento in marmo scavato nel 1908], offre un buon indizio per ricercare eventualmente in quel luogo la grande piazza pubblica (si vedano per esempio i fori di Nomentum, di Terracina, di Roma stessa)” (sito G, vigna B). Agnoli 1998, 166: “Il cosiddetto macellum dunque viene a trovarsi in una zona destinata alla vita pubblica, probabilmente sull’area forense, la cui localizzazione, seppur con molte incertezze dovute alle lacune della documentazione archeologica, è da porre a nord della chiesa della Madonna dell’Aquila, interessando certamente parte delle vigne che si estendevano sotto la via degli Arcioni” (vigna A, B, C). Santangelo 2007, 141: “Many details of the structure of the Sullan colony, however, are unknown. It appears that the old city forum, located in the area of the Cathedral, ceased to be in use after the foundation of the colony. A later forum has tentatively been located in the area of the church of the Madonna dell’Aquila, but its exact location has not been determined yet. Other public buildings have been excavated, but a full report is still pending.” (sito G). Gros – Torelli 2010, 254: “In termini più generali la specializzazione degli spazi pubblici, avviata già in età repubblicana quando sappiamo che Praeneste, Terracina e Ferentinum – per citare solo alcuni centri – possedevano due fora, si accentuò ulteriormente nel corso del I secolo fino ad arrivare alla moltiplicazione delle piazze chiuse con funzioni economiche, rappresentative, amministrative o religiose ….” Fabiani 2014, 112: “Con l’inizio dell’età imperiale si diffonde la tendenza alla duplicazione delle piazze pubbliche, secondo un processo avviato già in età repubblicana in centri come Palestrina (Praeneste), Terracina (Tarracina) e Ferentino (Ferentinum).”
124
Diana Raiano
Appendice 2 Iscrizione
EDR
Giacitura
Data ritrovamento
Luogo ritrovamento
Vigna Sito
Carattere iscrizione
CIL XIV 2890
110698
1
1700?
Vigna Petruccini
A
SACRA
CIL XIV 2911
166590
1
1700?
Vigna Petruccini
A
OPERA PUBBLICA
CIL XIV 2914
120300
1
1657
Vigna Petruccini
A
ONORARIA
CIL XIV 2916
166592
3
1600
Vigna Carlo Agapito Apollonio
A
ONORARIA
CIL XIV 2946
122175
1
1665
Vigna Carlo Agapito Apollonio
A
OPERA PUBBLICA
CIL XIV 3000
113717
3
1600
presso S. Lucia
A
OPERA PUBBLICA
Eph. Epigr. IX 767
071630
1
1894
Vigna Galeassi
A
SACRA
CIL XIV 2849
119437
3
1500–1600
Casa Terzoli
B
SACRA
CIL XIV 2898
119087
4
1600?
Vigna Terzoli?
B
SACRA
CIL XIV 2899
119111
4
1500
Vigna Terzoli?
B
SACRA
CIL XIV 2900
165218
3
1500
Vigna Torcioli?
B
SACRA
Praeneste, elementi per una ricostruzione topografica
125
Specifiche iscrizione
Datazione
Bibliografia
Luogo conservazione
Dedica ad Ercole da parte di un praetor della libera Praeneste, C. Tampius Tarenteinus. Cippo in calcare.
150 a.C./101 a.C.
Cecconi 1756, 59; Imagines 2005, 616
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, sala VIII, inv. 23608
Epistilio. Grande epigrafe monumentale di Tiberio
I d.C. (18 d.C.)
Cecconi 1756, 162; Granino Cecere 2019, 397; 405 con fig. 6a
Perduta
Dedica a Giuliano
IV d.C. (360–363 d.C.)
Suaresius; Cecconi 1756, 218. Imagines 2005, 676
Municipio
Dedica al cavaliere T. Aelius Largus, ricordato come procurator Augusti bybliothecarum
II–III d.C. (171–230 d.C.)
Suaresius
Perduta
Costruzione e decorazione del macellum da parte di due cavalieri procuratori imperiali e patroni coloniae. Fr. di epistilio marmoreo.
II–III d.C. (171–230 d.C.)
Suaresius; Cecconi 1756, 152. Imagines 2005, 771
Palestrina, Complesso degli Edifici del Foro di Praeneste, sala espositiva, inv. 23609
Dedica ex SC di due Saufei in qualità di edili
130 a.C./89 a.C.
Suaresius; Cecconi 1756, 26
Perduta
Cippo cilindrico con iscrizione a Traiano. Valenza cultuale
II d.C. (102 d.C.)
NSc 1894, 96; Granino Cecere 2020
Villa Medici di Cerreto Guidi (FI), inv. Bd. A244
Dedica alla Fortuna Primigenia da parte dell’augur L. Antistius Vetus. Base marmorea.
I d.C. (31–65 d.C.)
Suaresius; Cecconi 1756, 54
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, criptoportico, inv. 23534
Dedica alla Pax Augusta dei decuriones e del populus. Ara marmorea.
I d.C. (1–50 d.C.)
Suaresius; Cecconi 1756, 150, nota 10. Zevi 1976, 39–41
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, sala V, inv. 23553.
Dedica alla Securitas Augusta dei decuriones e del populus. Ara marmorea.
I d.C. (1–50 d.C.)
Suaresius; Cecconi 1756, 150, nota 10. Zevi 1976, 39–41
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, sala V, inv. 23554
Epistilio marmo. Dedica di un sacrarium ai Penati da parte di un eques, pontifex minor e patronus coloniae.
I–II d.C. (71–100 d.C.)
Suaresius; Cecconi 1756, 60; Torelli 1989, 21 e 23; Agnoli 1998, 166, nt. 36; Granino Cecere 2017–2018, 356 (fig. 20)
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, magazzini
126
Diana Raiano
Iscrizione
EDR
Giacitura
Data ritrovamento
Luogo ritrovamento
Vigna Sito
Carattere iscrizione
CIL XIV 2906 a
110707
3
1500–1600
Vigna Torzoli
B
SACRA
CIL XIV 2906 b
110708
3
1500–1600
Vigna Torzoli
B
SACRA
CIL XIV 2915
166591
3
1500–1600
Vigna Torcioli
B
ONORARIA
CIL XIV 2924
166620
3
1500–1600
Vigna Torzoli
B
OPERA PRIVATA
CIL XIV 2942
092708
3
1500–1600
Vigna Torcioli
B
ONORARIA
CIL XIV 2945
166623
3
1881
Vigna Scavalli
B
ONORARIA?
CIL XIV 2955
166042
3
1500–1600
Vigna Torcioli
B
ONORARIA
CIL XIV 2997
119645
1
1867
Vigna Scavalli-Borgia
B
ONORARIA
CIL XIV 3012
110718
3
1500–1600
Vigna Torcioli
B
OPERA PUBBLICA?
CIL XIV 3028
163902
3
1500–1600
Vigna Torzoli
B
OPERA PRIVATA
CIL XIV 3414
163890
3
1500–1600
Vigna Torzoli
B
SEPOLCRALE?
Eph. Epigr. IX 781
122512
1
primi ’900?
Vigna Scavalli
B
OPERA PUBBLICA?
Praeneste, elementi per una ricostruzione topografica
127
Specifiche iscrizione
Datazione
Bibliografia
Luogo conservazione
Consacrazione di un santuario anonimo da parte di due praetores (Saufeio e Magulnio) della Praeneste libera. Cippo in calcare.
150 a.C./101 a.C.
Suaresius; Cecconi 1756, 24. Imagines 2005, 651
Villa Frattini-Fiorentini, ora irreperibile
Consacrazione di un santuario anonimo da parte di due praetores (Saufeio e Magulnio) della Praeneste libera. Cippo in calcare.
150 a.C./101 a.C.
Suaresius; Cecconi 1756, 24. Imagines 2005, 651
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, sala VII, inv. 23530
Dedica a Giulia Mesa (?)
III d.C. (218– 235 d.C.)
Suaresius
Perduta
Lastra marmorea. Dedica di una schola per accogliere la statua e le tabulae hospitales della famiglia senatoria degli Insteii, già conservata ante curiam vel in porticibus fori.
II d.C. (131– 160 d.C.)
Suaresius; Cecconi 1756, 69; Petrini 1795, 71 (a. 139 d.C.); Granino Cecere 2017–2018, 358–359; Granino Cecere 2019, 343, nt. 33
Perduta
Dedica ad un anonimo senatore.
II d.C. (138– 160 d.C.)
Suaresius
Perduta
Frammento con poche lettere […]PROC per un procuratore imperiale?
imperiale
Dessau, CIL
Perduta?
Base. Iscrizione sepolcrale di L. Mantennius Severus figlio del tribuno Lucius Mantennius Sabinus. Posta dal nonno materno Titus Flavius Germanus.
II d.C. (151– 180 d.C.)
Suaresius; Cecconi 1756, 157
Perduta?
Dedica a Publicia Similis, magistra Matris Matutae. Base marmorea.
I–II d.C.
BullInst 1867, 163. Agnoli 1998, 166, nt. 36; Imagines 2005, 639
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, sala III, inv. 23538
Dedicata da duoviri? Vettius..Pulcher. Base con triglifi e metope.
60 a.C./30 a.C.
Suaresius. Cecconi 1756, 101. Imagines 2005, 751
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, criptoportico, inv. 23560
Nome di chi ha curato l’erezione di una statua
II–III d.C. (101–250 d.C.)
Pennazza (v. CIL). Cecconi 1756, 34
Perduta
Testo frammentario
?
Suaresius
Perduta
Iscrizione menzionante supremi magistrati cittadini (praetores e duoviri)
100 a.C./70 a.C.
Vaglieri 1910, 71–72; Imagines 2005, 699
Tivoli, Santuario di Ercole Vincitore, magazzini, inv. 23599
128
Diana Raiano
Iscrizione
EDR
Giacitura
Data ritrovamento
Luogo ritrovamento
Vigna Sito
Carattere iscrizione
Eph. Epigr. IX 785
160633
1
1908
Vigna Scavalli-Borgia
B
ONORARIA?
Eph. Epigr. IX 786
160628
1
1908
Vigna Scavalli-Borgia
B
?
Eph. Epigr. IX 787
160629
1
1908
Vigna Scavalli-Borgia
B
OPERA PUBBLICA
Eph. Epigr. IX 792c
121134
2
?
Vigna Scavalli-Borgia
B
?
Eph. Epigr. IX 876
160632
1
1908
Vigna Scavalli-Borgia
B
SEPOLCRALE
NSc 1909, 134
160631
1
1908
Vigna Scavalli-Borgia
B
?
AE 1987, 230
080328
2
1971
“al cosiddetto macellum”. Reimpiegata
C
ONORARIA
AE 1989, 133
81305
2
1971
Lato esterno del cd. macellum. Reimpiegata come chiusura cunicolo
C
SACRA
AE 1998, 286
160909
2
1998
Reimpiegata lungo la via che passa a nord del cosiddetto macellum
C
ONORARIA
Agnoli 2002, III.9
160986
2
1970
All’interno del cd. macellum
C
SACRA
CIL XIV 2875
122570
1
1778
Scavo dei PP Dottrinari
C
SACRA
CIL XIV 2896
160838
1
1778
“nel sito dell’antico foro”
C
SACRA
CIL XIV 2897
164243
1
1778
“nel sito dell’antico foro”
C
SACRA
CIL XIV 2908
163973
1
1778
“nel sito dell’antico foro”
C
SACRA?
CIL XIV 2917
119771
1
1778
“nel sito dell’antico foro”
C
ONORARIA
Praeneste, elementi per una ricostruzione topografica
129
Specifiche iscrizione
Datazione
Bibliografia
Luogo conservazione
Base. Resti della data della dedicatio
imperiale
NSc 1909, 134; cfr giornale di scavo 16 dic. 1908
Palestrina, Complesso degli Edifici del Foro di Praeneste, cd. area sacra.
Basetta che doveva sorreggere un piccolo busto; iscrizione entro tabula ansata
?
NSc 1909, 134
Perduta
Frammento di fregioarchitrave [---] oper[a ---]
130 a.C. –100 a.C.
NSc 1909, 135
Palestrina, Complesso degli Edifici del Foro di Praeneste, cd. area sacra.
Frammenti di incerta classificazione
IV d.C.
Imagines 2005, 694
Tivoli, Santuario di Ercole Vincitore, magazzini.
I–II d.C. (71–200 d.C.)
NSc 1909, 135
Perduta
Testo frammentario
?
NSc 1909, 134
Perduta
Dedica incisa su una base di statua a M. Aurelius Eupraepes
III d.C. (201– 250 d.C.)
Granino Cecere 1987, 189–210; Fora 1996, 66–67; Agnoli 1998, 166–167; Agnoli 2002, cat. II.23, 192–193
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, sala III, inv. 17316
Dedica di Aeficius e Saufeius a Giove Ottimo Massimo
100 a.C./71 a.C.
Granino Cecere 1989, 145–156
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, Sala IX, inv. 23558
Dedica incisa su una base di statua eretta in onore di Lucius Arellius Petronius Karus.
III d.C. (243 d.C.)
Agnoli 1998, 163–166 e figg. 25–27, 180–181; Agnoli 2002, II, 24
Palestrina, Area Archeologica del Quadrilatero, presso il cd. macellum
Dedica a Divo Aug(usto) sacrum
I d.C. (14–30 d.C.)
Agnoli 2002, 243–249, III.9
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, inv. 23555
Dedica a Fortuna
120 a.C./82 a.C.
Degrassi 1971, 12, nr. 18
Perduta
Dedica a Mercurio: Merc(urio) sacr(um). Trovata insieme ad una statua del dio.
imperiale
Petrini 1795, 309, n. 47
L’iscrizione è perduta. La statua di Hermes è nel Gabinetto del Perseo (Pietrangeli 1988, 156)
Dedica di una statua di Minerva, pra[eco?] et appa[ritores municipi?]
I d.C. (41–100 d.C.)
Petrini 1795, 309, n. 48
Perduta
Dedica di un’aedicula
imperiale
Petrini 1795, 295, n. 5
Perduta
Anicius Auchenius Bassus consularis Campaniae 379–82 d.C., e praef. Urbis Romae 382/3 d.C.
IV d.C. (379–400 d.C.)
Petrini 1795, 321, n. 21. Granino Cecere 2017–2018
Città del Vaticano, Musei Vaticani, Galleria Lapidaria 37, 43, inv. 6960
130
Diana Raiano
Iscrizione
EDR
Giacitura
Data ritrovamento
Luogo ritrovamento
Vigna Sito
Carattere iscrizione
CIL XIV 2926
166621
1
1778
“nel sito dell’antico foro”
C
ONORARIA?
CIL XIV 2934
119818
1
1778
“nel sito dell’antico foro”
C
ONORARIA
CIL XIV 2941
166622
1
1778
“nel sito dell’antico foro”
C
ONORARIA
CIL XIV 2963
169111
1
1778
“nel sito dell’antico foro”
C
FASTI CONSOLARI
CIL XIV 2965
166636
1
1778
“nel sito dell’antico foro”
C
FASTI MUNICIPALI
CIL XIV 2969
166638
1
1778
“nel sito dell’antico foro”
C
FASTI MUNICIPALI
CIL XIV 2980
110712
1
1778
In quegli orti che restano alquanto superiori alla chiesa suburbana detta dell’Aquila, 1778
C
OPERA PUBBLICA
CIL XIV 4124
160877
1
1881
Vigna Tomassi in contrada ‘Cascata dell’acque’, accanto ai resti di una antica strada (zonaforense?) (G. Gatti)
C
PONDUS
AE 1982, 148
078463
2
1948
Presso la chiesa di S. Giovanni
D
SACRA
CIL XIV 2854
164064
1
1778
Vigna IacobelliPignatelli
D
SACRA
CIL XIV 2966
122067
1
“scoperta pochi anni addietro” 1600
Vigna Bellezze
E
FASTI MUNICIPALI
CIL XIV 2929
121181
1
1877
Vigna Bonanni
f
SACRA?
CIL XIV 2950
166624
1
1700
“vigna della famiglia Porto presso la strada vecchia”
f
SEPOLCRALE
CIL XIV 2847
122750
1
1600–1700
“fra le rovine esistenti presso la Chiesa di Madonna dell’Aquila”
G
SACRA?
Praeneste, elementi per una ricostruzione topografica
131
Specifiche iscrizione
Datazione
Bibliografia
Luogo conservazione
cursus di Insteius Paulinus
II–III d.C. (101–250 d.C.)
Petrini 1795, 334, n. 27
Perduta
Dedica al senatore Postumius Iulianus. post mortem.
IV d.C. (385–386 d.C.)
Petrini 1795, 320, n. 19. Granino Cecere 2017–2018, 358
Città del Vaticano, Musei Vaticani, Cortile della Pigna nr. 18, inv. 5159
Dedica ad un senatore patronus del municipio
II d.C. (151– 200 d.C.)
Petrini 1795, 319, n. 17
Perduta?
Frammento Fasti consulares (anni 5–7 d.C.)
I d.C. (1–50 d.C.)
Petrini 1795, 324, n. 4; NSc 1897, 421
Perduta
I d.C. (16–50 d.C.)
Petrini 1795, 324, n. 4; Spadoni 2004, 53–54, nr. 48; Granino Cecere 2019, 398–400
Perduta
I d.C. (età augustea)
Petrini 1795, 324, n. 4
Perduta
Dedica di un’aedes e di una porticus da parte dei duoviri.
I a.C. (80–50 a.C.)
Petrini 1795, 330, n. 18. Imagines 2005, 697
Città del Vaticano, Musei Vaticani, Galleria Lapidaria, 47, 4
Peso
I d.C. (47 d.C.)
Gatti 1884, 67; Marucchi 1885, 97–98; Camilli vd. infra, suo contributo
Roma, Museo Nazionale Romano delle Terme
Aretinae matronae
230–171 a.C.
Degrassi 1971, 129–134
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, sala VII, inv. 23562
Piedistallo di forma conica. Parte di un thesaurus dedicato alla Fortuna pro salute di Caligola (?)
I d.C. (37–41 d.C.)
Petrini 295, n. 8
Perduta (da ultimo a Fermo nella collezione DeMinicis)
q(uaestor).
I d.C. (1–50 d.C.)
Cecconi 1756, 26–27; Petrini 1795, 325 n. 5. Imagines 2005, 744; CIL X 01835 (fr. a)
Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 4111 [frg. a]; Città del Vaticano, Musei Vaticani, Lapidario Profano ex Lateranense, settore D, inv. 25401 [frgg. b + c]
C(aius) Lutatius Cn(aei) f(ilius) Cerco q(uaestor)
120 a.C./100 a.C.
NSc 1877, 328. Zevi 2013, 130–131
Perduta?
I–II d.C. (1–150 d.C.)
Cecconi 1756, 37
Perduta
180–150 a.C.
Cecconi 1756, 39; foto in Marucchi 1932, 87
Perduta? frammento visto a Palestrina, murato nella scala della casa Cecconi poi Sbardella
Dedica ad Apollo?
132
Diana Raiano
Iscrizione
EDR
Giacitura
Data ritrovamento
Luogo ritrovamento
Vigna Sito
Carattere iscrizione
CIL XIV 2976
166667
3
1500–1600
Vigna de ‘Colizi (in horto Nicolai Antonii’ o ‘in d(omini) Colitze horto seu vinea’ (Suarez)
G
SEPOLCRALE
CIL XIV 2999
163875
3
1500–1600
Vigna de ‘Colizi vicino a S. Mariadell’Aquila’
G
OPERA PUBBLICA
CIL XIV 3013
110711
1
1778?
“fra le rovine delle antiche terme presso la Chiesa della Madonna dell’Aquila”
G
OPERA PUBBLICA
Eph. Epigr. IX 768
072004
2
1903
Vigna di Carlo Sbardella
h
ONORARIA
Eph. Epigr. IX 770
072005
2
1903
Vigna di Carlo Sbardella
h
ONORARIA
Eph. Epigr. IX 772
075454
2
1903
Vigna di Carlo Sbardella
h
ONORARIA
Eph. Epigr. IX 774
075454
2
1904
Vigna di Carlo Sbardella
h
ONORARIA
Eph. Epigr. IX 776
072003
2
1903
Vigna di Carlo Sbardella
h
ONORARIA
Eph. Epigr. IX 790
160885
2
1903
Vigna di Carlo Sbardella
h
?
NSc 1904, 393–397
072764
2
1904
Vigna di Carlo Sbardella
h
FASTI
Eph. Epigr. IX 778
122081
1
1897
Nel giardino del Palazzetto Barberini
I
FASTI CONSOLARI
AE 1996, 329a
110730
2
1995
Orti Barberini ad ovest Propileo
I
SACRA
AE 1996, 329b
110731
2
1995
Orti Barberini ad ovest Propileo
I
SACRA
Praeneste, elementi per una ricostruzione topografica Bibliografia
133
Specifiche iscrizione
Datazione
Luogo conservazione
M(arcus) Antistiu[s - - -] IIIIIIvir A[ug(ustalis) fecit sibi et] Plaetoria[e - - -]et libert[is libertabus] pos[terisq(ue).
I d.C. (1–100 d.C.)
C. Saufeius? Samius? C. Feidenatius L. f. pr(aetores) restitue[runt]
130–82 a.C.
Cod. Barb. (cf. CIL)
Perduta
Opera pubblica a cura dei duoviri (rifacimento di balnea e adduzione di aqua)
80 a.C./51 a.C.
Petrini 1795, 354, n. 84. Santangelo 2007, 142
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, sala VII, inv. 6544
Dedica di due fratelli seviri Augustales ad un senatore. Lastra marmorea.
I d.C.
NSc 1903b, 580, nr. 1; Imagines 2005, 727
Tivoli, Santuario di Ercole Vincitore, magazzini
In onore di un senatore Vehilius
II d.C. (101/150 d.C.)
NSc 1903b, 580, nr. 2; Imagines 2005, 715; Granino Cecere 2017–2018
Tivoli, Santuario di Ercole Vincitore, magazzini, inv. 10052
Cursus di un ignoto senatore
II d.C. (101– 200 d.C.)
NSc 1903b, 580, nr. 4; Imagines 2005, 686
Tivoli, Santuario di Ercole Vincitore, magazzini, invv. 10063 [frg. a]; 10067 [frg. b]
Testo molto frammentario
II d.C. (101– 200 d.C.)
NSc 1904, 393–397. Imagines 2005, 686
Tivoli, Santuario di Ercole Vincitore, magazzini, invv. 10063 [frg. a]; 10067 [frg. b]
Dedica di una statua dai collegia prenestini alla memoria di P. Aelius Apollinaris Arlenius.
IV d.C. (351–370 d.C.)
NSc 1903b, 576. Imagines 2005, 646
Tivoli, Santuario di Ercole Vincitore, magazzini, inv. 23587
Testo molto frammentario
?
NSc 1903b, 580, nr. 3
Perduta
Frammento dei Fasti Praenestini. 17 e 18 di febbraio.
I d.C.
NSc 1904, 393–397; Marucchi 1904, 274–283. EDR, frg. e
Roma, Museo Nazionale Romano – Palazzo Massimo, inv. 14791
Frammento dei Fasti consulares
I d.C. (1–50 d.C.)
NSc 1897, 421. Imagines 2005, 746
Roma, Museo Nazionale Romano – Terme di Diocleziano, magazzini, inv. 80655
Personaggi della gens Saufeia e prob. Anicia che ergono un monumento alla Fortuna.
150 a.C./120 a.C.
Gatti 1999, 325–333
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, Criptoportico
Personaggi della gens Saufeia e prob. Anicia che ergono un monumento alla Fortuna.
150 a.C./120 a.C.
Gatti 1999, 325–333
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, Criptoportico
Perduta
134
Diana Raiano
Iscrizione
EDR
Giacitura
Data ritrovamento
Luogo ritrovamento
Vigna Sito
Carattere iscrizione
NSc 1897, 421–424
72764
2
1897
Sito Carrara Pubblica, voc. Bocca Piana o Valle Losbrindo
L
FASTI
CIL XIV 2967
122070
2
1864
Quadrelle
M
FASTI MUNICIPALI
Degrassi, InscrIt XIII 2, 17
072764
2
1773
Quadrelle
M
FASTI
Marucchi 1921a
072764
2
1920
Località Valvarina
N
FASTI
Eph. Epigr. IX 762
113716
1
1903
Vigna Andrea Rossi
O
SACRA
Eph. Epigr. IX 761
122573
4
1907
Fuori porta del Sole (lavori per costruzione di un mulino)
P
SACRA
AE 1914, 72
072733
2
1913
Vigna Sbardella fuori porta del Sole, non in situ
P
SACRA
CIL XIV 2872
119835
4
1868
Fuori porta del Sole
P
SACRA
CIL XIV 2902
110689
1
1864
Fuori porta del Sole
P
SACRA
CIL XIV 3039
160652
1
1786
Vigna/orto Petrini, nei pressi della porta S. Martino
R
OPERA PRIVATA
CIL XIV 3041
160654
1
1786
Vigna/orto Petrini, nei pressi della porta S. Martino
R
OPERA PRIVATA
CIL XIV 3042
160653
1
1786
Vigna/orto Petrini, nei pressi della porta S. Martino
R
OPERA PRIVATA
Eph. Epigr. IX 791
113669
1
1907
Vigna Barberini, già Rischia
S
SACRA?
EDR160978
160978
1
1970
Saggio di scavo all’ex camposportivo, cavo nr. 1
S
SACRA
NSc 1907, 694
166960
1
1906
Vigna Barberini, già Rischia
S
?
Praeneste, elementi per una ricostruzione topografica
135
Specifiche iscrizione
Datazione
Bibliografia
Luogo conservazione
Frammento Fasti Praenestini. Primi di agosto
I d.C.
NSc 1897, 421–424; EDR, frg. q
Roma, Museo Nazionale Romano – Palazzo Massimo, inv. 14791
Frammento Fasti municipali
I d.C.
BullInst 1865, 88. Imagines 2005, 745
Roma, Museo Nazionale Romano – Terme di Diocleziano, magazzini, inv. 254797
Numerosi frammenti dei Fasti Praenestini. Mesi di gennaio, marzo, aprile e dicembre
I d.C.
Foggini 1779, CIL I², pp. 231–239; EDR frg., a–c, g–p, u–x
Roma, Museo Nazionale Romano – Palazzo Massimo, inv. 14791
Frammento di Fasti Praenestini. 23 ottobre
I d.C.
EDR, frg. t
Roma, Museo Nazionale Romano – Palazzo Massimo, magazzini, inv. 80638
Dedica ad Ercole
120 a.C./51 a.C.
NSc 1903a, 23–25
Tivoli, Santuario di Ercole Vincitore, magazzini
Nomi collegio
120 a.C.–70 a.C.
NSc 1907, 696; CIL I² 1457; Zevi 1979, 14 e 18, nt. 90
Perduta? un tempo conservata a Palestrina, nel Museo dell’Associazione Archeologica Prenestina
Dedica a Giunone Palostcaria
230–180 a.C.
NSc 1914, 195–196
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, sala VIII, inv. 23615
Base. Dedica a Fortuna
II–III d.C. (101–250 d.C.)
Imagines 2005, 654
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, sala VII, inv. 10104
Dedica a Turpenus pater
150–120 a.C.
BullInst 1863, 123; Granino Cecere 1997; Imagines 2005, 608
Palestrina, Comune
Fistula in piombo relativa a una proprietà del prefetto del pretorio Attianus
II d.C. (101– 150 d.C.)
Granino Cecere 2020
Perduta
Fistula in piombo nome del plumbarius
I–II d.C. (51–200 d.C.)
Granino Cecere 2020
Perduta
Fistula in piombo nome del plumbarius
I–II d.C. (51–200 d.C.)
Granino Cecere 2020
Perduta
Tat…L Dindios. Capitello abaco
250–181 a.C.
Imagines 2005, 765
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, inv. 7169
Dedica alla Fortuna in esametri
II d.C. (170 d.C.)
Gamberale 1990, 119–137
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, inv. 23600
Testo frammentario
?
NSc 1907, 694
Perduta
136
Diana Raiano
Iscrizione
EDR
Giacitura
Data ritrovamento
Luogo ritrovamento
Vigna Sito
Carattere iscrizione
NSc 1907, 694
166961
1
1906
Vigna Barberini, già Rischia
S
?
NSc 1907, 694
171331
1
1907
Vigna Barbeini
S
FIRMA ARTISTA?
CIL XIV 2880
113699
1
primi ’900?
“In un orto agli Arcioni”
X
SACRA
CIL XIV 2937
163864
1
1665
Cecconi la dice ritrovata nell’area del foro (vigna Torcioli e Petruccini), ma nel CIL non c’è indicazione del luogo
X
ONORARIA
CIL XIV 2982
121376
1
1850–1883
“In una vigna presso l’antico foro prenestino” riferito da Alfonso Bernardini all’ispettore Cicerchia
X
FASTI DI UN COLLEGIUM?
CIL XIV 3290
120851
3
1500–1600
In foro
X
SEPOLCRALE
CIL XIV 2991
119770
3
1500–1600
Presso S. Rocco
?
ONORARIA
EDR072764, frg. r
072764
4
1917
Ignoto. Dono Sig.ra Fiumara
?
FASTI
Eph. Epigr. IX 741
072764
4
1909?
Ignoto. Dono Principe Barberini all’Associazione archeologica Prenestina
?
FASTI
La legenda per la colonna Giacitura: 1 Ritrovamenti da scavo o citati nel CIL con il termine rep., effossa 2 Rinvenimenti in giacitura secondaria o di riutilizzo 3 Iscrizioni viste, citate nel CIL in vinea, in horto, in foro 4 Nessun dato sul ritrovamento
Praeneste, elementi per una ricostruzione topografica
137
Specifiche iscrizione
Datazione
Bibliografia
Luogo conservazione
Testo frammentario
?
NSc 1907, 694
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, inv. 10096
?
?
NSc 1907, 694
Tivoli, Santuario di Ercole Vincitore
Transenna marmorea con dedica alla Fortuna Primigenia?
100 a.C./30 a.C.
Zevi 1979, 18, nt. 90
Palestrina, Complesso degli Edifici del Foro di Praeneste, depositi, inv. 23602 (ex 875)
Dedica dei cultori di Giove Arcano della regione del macello al patrono L. Statius Prosperus Iulianus
III d.C. (201– 300 d.C.)
Cecconi 1756, 94 e 70; Petrini 1795, 314, n. 6; Agnoli 1998, 165
Perduta
?
II–III d.C. (171 d.C./300 d.C.)
NSc 1883, 19. Imagines 2005, 711
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, magazzino, inv. 10110 [frg. a]; periit [frg. b]
Vatronia M f.
250 a.C./101 a.C.
Suaresius. De Bellis 1997, 211, 4
Perduta
Base. Dedica al patrono coloniae Aulio Munio Evaristo
II–III d.C. (171–250 d.C.)
Cecconi 1756, 32; Agnoli 2002, 191–192; Imagines 2005, 647
Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, sala III, inv. 23537
Frammento Fasti Praenestini
I d.C.
EDR072764, frg. r
Roma, Museo Nazionale Romano – Palazzo Massimo, magazzini, inv. 80656
Frammento dei Fasti Praenestini. 15 aprile
I d.C.
Vaglieri 1910, 72– 73. Degrassi, Inscr. It. 13.2, 17, pp. 128–129. Imagines 2005, 747, EDR072764, frg. p
Roma, Museo Nazionale Romano – Palazzo Massimo, inv. 10062
138
Diana Raiano
Bibliografia Agnoli 1998 = N. Agnoli, Palestrina: il cosiddetto Macellum, RendLinc, ser. 9, 9.1, 1998, 157–181. Agnoli 2002 = N. Agnoli, Museo Archeologico Nazionale di Palestrina: le sculture, Roma 2002. Battaglia 1933 = G. Battaglia, Tomba scoperta in occasione dell’allargamento della Via Vecchia presso la stazione tramviaria, NSc 1933, 182–191. Bibl. Topogr. 1994 = G. Nenci – G. Vallet (ed.), Bibliografia topografica della colonizzazione greca in Italia e nelle isole tirreniche: XIII siti Orvieto – Pisa, Pisa/ Roma 1994. Blondel 1882 = P. Blondel, L’état actuel des ruines du temple de la Fortune à Préneste, MEFRA 2, 1882, 168–198. BullInst 1862 = (Th.) Mommsen, in: Adunanze, BullInst 1862, 38–39. BullInst 1864 = (W.) Helbig, in: Adunanze, BullInst 1864, 38–39. BullInst 1865 = (G.) Henzen, in: Adunanze, BullInst 1865, 88. BullInst 1867 = G. Henzen, Iscrizioni prenestine, BullInst 1867, 181–184. Casciotti 2013 = L. Casciotti, Gli acquedotti di Praeneste. Nuove ipotesi sul tempio della Fortuna Primigenia, Urbino 2013. Cassieri – Gregori c.s. = N. Cassieri – G. L. Gregori, Il ‘rilancio’ di Terracina tra età triumvirale e giulio-claudia. Quadro storico-archeologico-topografico. Atti del Convegno “La città greco-romana: modelli possibili per lo sviluppo dei centri contemporanei. Grecia e Roma. Aspetti della vita sociale, politica e culturale”, Potenza 2–5 ottobre 2019 [in c.s.]. Castagnoli 1963 = F. Castagnoli, s.v. Palestrina, in: EAA 5, 1963, 887–891. Ceccarelli – Marroni 2011 = L. Ceccarelli – E. Marroni, Repertorio dei santuari del Lazio, Roma 2011. Cecconi 1756 = L. Cecconi, Storia di Palestrina, città del Prisco Lazio, Ascoli 1756. Champeaux 1987 = J. Champeaux, Fortuna. Recherches sur le culte de la Fortune à Rome et dans le monde romain des origines à la mort de César (2 vols.), Rome 1987. Coarelli 1978 = F. Coarelli, Studi su Praeneste, Perugia 1978. Coarelli 1987 = F. Coarelli, Il monumento di Verrio Flacco nel foro di Praeneste, Palestrina 1987 (Riedito nel 1996: Il monumento di Verrio Flacco nel foro di Praeneste, in: F. Coarelli, Revixit ars. Arte e ideologia a Roma. Dai modelli ellenistici alla tradizione repubblicana, Roma 1996, 454–469). Coarelli 1989 = F. Coarelli, Il Santuario della Fortuna Primigenia. Struttura architettonica e funzioni cultuali, in: B. Coari (ed.), Urbanistica ed architettura dell’antica Praeneste. Atti del I Convegno di Studi Archeologici, Palestrina, 16/17 aprile 1988, Palestrina 1989, 115–135.
Praeneste, elementi per una ricostruzione topografica
139
Colonna 1997 = G. Colonna, Culti dimenticati di Praeneste libera, in: Le Fortune dell’età arcaica nel Lazio ed in ltalia e loro posterità. Atti del III Convegno di Studi Archeologici, Palestrina 15–16 ottobre 1994, Palestrina 1997, 87–102. Cristilli 2008 = A. Cristilli, Tra evergetismo e culto imperiale: le statue-ritratto dal Macellum di Pompei, RSP 19, 2008, 35–43. Cristilli 2015 = A. Cristilli, Macellum and Imperium. The relationship between the Roman State and the market-building construction, Analysis Archaeologica 1, 2015, 69–86. De Bellis 1997 = A. Franchi De Bellis, I cippi prenestini, Urbino 1997. De La Blanchère 1887 = M.-R. De La Blanchère, Découverte d’une place à Terracine, MEFRA 7, 1887, 414–418. De Ruyt 1983 = C. De Ruyt, Macellum, marché alimentaire des Romains, Louvain-laNeuve 1983. Degrassi 1971 = A. Degrassi, Scritti vari di Antichità, IV, Trieste 1971. Delbrück 1907 = R. Delbrück, Hellenistische Bauten in Latium, I, Strassburg 1907. Demma 2002a = F. Demma, Palestrina, scavi nell’area dell’ospedale Bernardini: una ricca domus tardo-repubblicana e nuovi dati per la topografia della città bassa, in: Il Lazio regione di Roma. Catalogo della Mostra, Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, 12 luglio–10 settembre 2002, Roma 2002, 27–29. Demma 2002b = F. Demma, Palestrina, S. Lucia: gli scavi presso la ‘casa della Contessa’, in: Il Lazio regione di Roma. Catalogo della Mostra, Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, 12 luglio–10 settembre 2002, Roma 2002, 93–110. Demma 2005 = F. Demma, La ‘Casa dell’Ospedale’ e il mosaico dei grifoni, in: S. Gatti (ed.), Il mosaico dei grifoni. L’edilizia privata a Praeneste, Palestrina 2005, 43–57. Demma 2011 = F. Demma, Praeneste: dati nuovi sulle mura, Atlante tematico di topografia antica 21, 2011, 161–182. Demma 2021 = F. Demma, Vulcano, Ulisse e Demetra: variazioni latine sul tema delle origini, MEFRA 133, 2021, 97–139. Di Fazio 2015 = C. Di Fazio, Il tempio di piazza della Liberazione e il culto di Giunone a Praeneste. Aspetti, funzioni e significati, Analysis Archaeologica 1, 2015, 117–134. Di Fazio 2019 = C. Di Fazio, Latinorum Sacra. Il sistema religioso delle città latine: luoghi, culti, pratiche, Roma 2019. Di Mario 1991 = F. Di Mario, Palestrina (Roma). Viale Pio XII Resti di una domus tardo repubblicana, Bollettino di Archeologia 10, 1991, 50–52. Fabiani 2014 = F. Fabiani, L’urbanistica: città e paesaggi, Roma 2014. Fasolo – Gullini 1953 = F. Fasolo – G. Gullini, Il santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina, Roma 1953. Fernique 1880 = E. Fernique, Études sur Préneste, ville du Latium, Paris 1880. Foddai 2009 = E. Foddai, Corpus Speculorum Etruscorum. Italia 6. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Fasc. 2, Roma 2009.
140
Diana Raiano
Foggini 1779 = P. F. Foggini, Fastorum anni Romani a Verrio Flacco ordinatorum reliquiae ex marmorearum tabularum fragmentis nuper effossis collectae et illustratae, Roma 1779. Fora 1996 = M. Fora, Epigrafia anfiteatrale dell’Occidente Romano. IV. Regio Italiae I: Latium, Roma 1996. Gamberale 1990 = L. Gamberale, Dearum prima propago. Un carme epigrafico inedito alla Fortuna Primigenia, in: Dicti studiosus. Scritti di filologia offerti a Scevola Mariotti dai suoi allievi, Urbino 1990, 119–137. Gatti 1884 = G. Gatti, Antichi pesi inscritti del Museo capitolino, BCom 12, 1884, 61–73, tavv. VI–VII. Gatti 1903 = NSc 1903b. Gatti 1999 = S. Gatti, Nuovi documenti epigrafici da Praeneste, in: Le Fortune dell’età arcaica nel Lazio ed in Italia e loro posterità. Atti del III Convegno di Studi Archeologici, Palestrina 15–16 ottobre 1994, Palestrina 1999, 325–333. Gatti 2003 = S. Gatti, Praeneste. Contributo per la conoscenza dell’area urbana della “città bassa”, in: J. R. Brandt – X. Dupré i Raventós – G. Ghini (ed.), Lazio e Sabina. Atti del I incontro di Studi, Roma 2003, 53–60. Gatti 2011 = S. Gatti, Le mura poligonali di Praeneste, Atlante tematico di topografia antica 21, 2011, 139–159. Gatti – Demma 2012 = S. Gatti – F. Demma, Praeneste: un luogo di culto suburbano in località Colombella, in: E. Marroni (ed.), Ostraka, Sacra Nominis Latini. I santuari del Lazio arcaico e repubblicano. Atti del Convegno Internazionale, Roma, Palazzo Massimo, 19–21 febbraio 2009, Napoli 2012, 341–369. Gatti 2013 = S. Gatti, Tecniche costruttive tardo repubblicane a Praeneste, in: F. M. Cifarelli (ed.), Tecniche costruttive del tardo ellenismo nel Lazio e in Campania. Atti del Convegno, Segni 3 dicembre 2011, Roma 2013, 9–24. Gatti – Pintucci – Raiano c.s. = S. Gatti – A. Pintucci – D. Raiano, Praeneste: l’acqua per gli uomini, l’acqua per gli dei, in: P. Zanovello – I. Riera – E. Tamburrino (ed.), Atti del Convegno “L’acqua e la città romana”, Feltre, 3–4 novembre 2017, [in c.s.]. Granino Cecere 1987 = M. G. Granino Cecere, Base con iscrizione onoraria nel Museo Nazionale di Palestrina, in: Miscellanea Greca e Romana XI, Roma 1987, 189–210. Granino Cecere 1989 = M. G. Granino Cecere, Una dedica a Giove nel Museo Nazionale di Palestrina, in: Miscellanea Greca e Romana XIV, Roma 1989, 145–156. Granino Cecere 1997 = M. G. Granino Cecere, L’ara di Turpenus Pater ed altre iscrizioni dell’antica Praeneste al Palazzo: testo della conferenza tenuta nell’Aula Consiliare del Comune di Palestrina il 16 novembre 1996, Palestrina 1997. Granino Cecere 2005 = M. G. Granino Cecere, Supplementa Italica – Imagines. Latium vetus praeter Ostiam (CIL XIV, Eph. Epigr. VII e IX), Roma 2005. Granino Cecere 2017–2018 = M. G. Granino Cecere, Gli ordini senatorio ed equestre, RendPontAc 90, 2017–2018, 351–377.
Praeneste, elementi per una ricostruzione topografica
141
Granino Cecere 2019 = M. G. Granino Cecere, Praeneste e i Giulio-Claudii nella documentazione epigrafica, in: A. Bencivenni et al. (ed.), Philobiblos. Scritti in onore di Giovanni Geraci, Milano 2019, 387–405. Granino Cecere 2020 = M. G. Granino, Traiano a Praeneste, ArchCl 71, 2020, 221– 235. Gros – Torelli 2010 = P. Gros – M. Torelli, Storia dell’urbanistica. Il mondo romano, nuova ed. rev., Bari ²2010. Gullini 1983 = G. Gullini, Terrazza, edificio, uso dello spazio. Note su architettura e società nel periodo medio e tardo repubblicano, in: Architecture et société de l’archaïsme grec à la fin de la république romaine. Actes du colloque de Rome (2–4 décembre 1980), Paris 1983, 119–189. Gullini 1989 = G. Gullini, Tradizione ed innovazione nelle fasi edilizie del Santuario della Fortuna Primigenia fra il III e il I secolo a.C., in: B. Coari (ed.), Urbanistica ed architettura dell’antica Praeneste. Atti del I Convegno di Studi Archeologici, Palestrina, 16/17 aprile 1988, Palestrina 1989, 69–86. Harvey 1975 = P. Harvey, Cicero leg. agr. 2.78 and the Sullan Colony at Praeneste, Athenaeum n.s. 63, 1975, 33–56 (riedito in F. Coarelli [ed.], Studi su Praeneste, Perugia 1978, 185–208). Henzen 1863 = G. Henzen, Iscrizioni prenestine, BullInst 1863, 122–124. Henzen 1864 = G. Henzen, Scavi prenestini, BullInst 1864, 70–75. Imagines 2005 = Granino Cecere 2005. Kähler 1958 = H. Kähler, Das Fortunaheiligtum von Palestrina Praeneste, Annales Universitatis Saraviensis 7, 3/4, 1958, 191–239. Lackner 2008 = E. M. Lackner, Republikanische Fora, München 2008. Letzner 1990 = W. Letzner, Römische Brunnen und Nymphaea in der westlichen Reichshälfte, Münster 1990. Lugli 1926 = G. Lugli, Forma Italiae I. Vol. I,1 Ager Pomptinus, Anxur-Tarracina, Roma 1926. Magoffin 1908 = R. Van Deman Magoffin, A study of the topography and municipal history of Praeneste, Baltimore 1908 (riedito in F. Coarelli (ed.), Studi su Praeneste, Perugia 1978, 49–143). Manderscheid 1981 = H. Manderscheid, Die Skulpturenausstattung der kaiserzeitlichen Thermenanlagen, Berlin 1981. Mari 1986 = Z. Mari, Palestrina, Via degli Arcioni, mostra di fontana(?), in: Th. Ashby (ed.), Un archeologo fotografa la campagna romana tra’800 e ’900. British School at Rome, 18 aprile – 7 maggio 1986, Roma 1986, 112–113. Marocco 1835 = G. Marocco, Monumenti dello Stato Pontificio e relazione topografica di ogni paese, 8: Lazio e sue memorie, Roma 1835. Marucchi 1885 / 1912 / 1932 = O. Marucchi, Guida archeologica della città Palestrina, l’antica Presente, Palestrina 1885; ²1912; ³1932.
142
Diana Raiano
Marucchi 1904 = O. Marucchi, Nuovi studi sul tempio della Fortuna in Preneste e sopra i suoi musaici. Con appendice sopra un nuovo frammento del calendario di Verrio Flacco, BCom 32, 1904, 233–283. Marucchi 1913 = O. Marucchi, Di un’antichissima e singolare iscrizione testè rinvenuta in Palestrina relativa al culto locale della dea Giunone, BCom 41, 1913, 22–30. Marucchi 1921a = O. Marucchi, Un nuovo frammento del calendario prenestino di Verrio Flacco, NSc 1921, 277–283. Marucchi 1921b = O. Marucchi, Di un nuovo frammento del calendario prenestino di Verrio Flacco, in: Dissertazioni pontificia accademia romana di archeologia ser. 2, tom. 15, Roma 1921, 313–322. Mingazzini 1954 = P. Mingazzini, Note di topografia prenestina. L’ubicazione dell’antro delle sorti, ArchCl 6, 1954, 295–301. Muzzioli 1970 = M. P. Muzzioli, Praeneste. Pars altera. Forma Italiae. Regio I, 8, Roma 1970. Muzzioli 2014 = M. P. Muzzioli, Il problema delle assegnazioni sillane nel Tuscolano, in: M. Chiabà (ed.), Hoc quoque laboris praemium. Scritti in onore di Gino Bandelli, Trieste 2014, 377–389. Neuerburg 1965 = N. Neuerburg, L’architettura delle fontane e dei ninfei nell’Italia antica (Memorie dell’Accademia di archeologia, lettere e belle arti, vol. 5), Napoli 1965. NSc 1877 = (s. a.), Palestrina, NSc 1877, 272–273; 327–328. NSc 1894 = F. Bernabei, Di un’iscrizione onoraria a Traiano, NSc 1894, 96. NSc 1896 = A. Sogliano, Nuove ricerche nell’area dell’antico foro prenestino, NSc 1896, 330–331. NSc 1897 = G. Gatti, Di due nuovi frammenti del calendario di Verrio Flacco, rinvenuti presso la città, e di un altro frammento che appartiene ai fasti consolari prenestini, NSc 1897, 421–424. NSc 1903a = G. Gatti, Antichità rinvenute in vicinanza dell’abitato, NSc 1903, 23–25. NSc 1903b = G. Gatti, Iscrizioni onorarie scoperte nell’area dell’antico foro prenestino, NSc 1903, 575–581. NSc 1904 = A. Sbardella, Di un nuovo frammento di un calendario di Verrio Flacco scoperto nell’area dell’antico foro prenestino, NSc 1904, 393–395. NSc 1904 = O. Marucchi, Note illustrative del frammento del calendario, NSc 1904, 395–397. NSc 1907 = D. Vaglieri, Scavi di antichità eseguiti per conto dell’Associazione Archeo logica Prenestina, NSc 1907, 132–144 e 289–304; D. Vaglieri, Scoperte varie di antichità, NSc 1907, 683–696. NSc 1909 = E. Gatti, Nuove scoperte nell’area dell’antica città, NSc 1909, 132–135. NSc 1914 = G. Mancini, Rinvenimento di un’iscrizione e di tombe nella proprietà Sbardella presso Porta del Sole, NSc 1914, 195–196.
Praeneste, elementi per una ricostruzione topografica
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Diana Raiano
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Crediti Figg. 6 (1), 11, 13, 15 (2–4), 18 (1–2), 20, 23, 26 e 27: Foto Autore; fig. 1: rielab. da Google Earth 2019; fig. 2 (1): AM 1941, (2): AM 1961, (3): IRTA 1977 e (4): Google Earth 2019; fig. 3: Quilici 1989, 52–53, fig. 2; fig. 4: Raiano 2013–2014, tav. 2; fig. 5: Petrini 1795, Tav. I; figg. 6 (2): ACS, Archivio Gatti, fasc. 22, Fuori Roma, f. 10148 e (3): ACS, Archivio Gatti, fasc. 22, Fuori Roma, f. 10150; fig. 7: AM 1961 (rielab. con l’indicazione dei vari luoghi citati); fig. 8: AE 1989, 133 (Foto 1971 Archivio SBAL); fig. 9: rielab. Autore; figg. 10 (1): ACS, Archivio Gatti, fasc. 22, Fuori Roma), (2): Eph. Epigr. IX 787, (3): Eph. Epigr. IX 785 e (4): ACS, Archivio Gatti, fasc. 22, Fuori Roma; fig. 12: quadro di unione dei fogli catastali rielaborata Autore; fig. 14: ACS, Ministero Pubblica Istruzione, Direzione Generale AA.BB.AA, III versamento II parte 1898–1907, b. 753; fig. 15 (1): Planimetria e prospetto Autore; fig. 16: ACS, Archivio Gatti, fasc. 22, Fuori Roma, ff.10190, 10193; figg. 17, 21, 24 e 25: Elab. Autore; fig. 18 (3): Quilici 1977; fig. 19 (1): Quilici 1979; figg. 19 (2) e 22 (2–3): Archivio SBAL; fig. 22 (1): rilievo Archivio disegni SBAL n. 6215.
Leonardo Bochicchio
Sculture dal Foro di Praeneste: alcune riflessioni su dispersioni, riutilizzi e rinvenimenti recenti Riassunto: Lo scopo di questo lavoro è quello di analizzare i vari ritrovamenti di frammenti di statue antiche nell’area del Foro di Praeneste avvenuti nel corso dei secoli, con un focus sulle possibili corrispondenze tra i reperti, tutti rinvenuti in un contesto secondario, e gli edifici antichi. Il contributo si articola in tre temi principali: a) l’analisi dei ritrovamenti archeologici effettuati nel periodo più remoto, in particolare nel XVII secolo; b) l’analisi dei ritrovamenti effettuati tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento; c) i ritrovamenti effettuati negli scavi condotti nel 1907 dall’archeologo Dante Vaglieri ed il loro collegamento con i nuovi ritrovamenti effettuati tra il 2003 e il 2004 durante il restauro degli antichi edifici del Foro. Abstract: This contribution analyses the various fragments of ancient statues that have been found in the area of the Forum of Praeneste over the centuries. It focuses on possible correspondences between the finds, which were all discovered in a secondary context, and the ancient buildings. The paper is divided into three main sections: a) the analysis of the archaeological findings from the most early times, particularly from the 17th century; b) the analysis of the findings between the end of the 19th and the beginning of the 20th century; c) the findings discovered in the excavations conducted by the archaeologist Dante Vaglieri in 1907 and their connection with the new findings made between 2003 and 2004, during the restoration of the ancient buildings of the Forum.
L’invito a partecipare a questa Giornata di Studi1 mi è sembrata l’occasione opportuna per offrire al dibattito alcuni reperti statuari inediti, ritrovati nel 2014 durante i lavori di restauro del Complesso degli edifici Foro di Palestrina eseguiti dalla Soprintendenza e già segnalati da Sandra Gatti che quegli stessi lavori ha diretto2. 1
Ringrazio sentitamente gli organizzatori del Convegno, in particolare Maria Grazia Granino Cecere, per l’occasione offertami di esporre nella prestigiosa sede del Deutsche Archaeologische Institut di Roma queste mie riflessioni preliminari. 2 I lavori sul Complesso degli edifici del Foro di Praeneste avvennero, infatti, sotto la direzione scientifica della stessa Sandra Gatti (vedi Gatti 2017, in particolare 62–65 e 88), che ringrazio per avermi generosamente riservato lo studio dei reperti statuari ritrovati nelle ultime
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Leonardo Bochicchio
Alla presentazione di questi ritrovamenti mi è parso opportuno premettere, con i limiti insiti in una comunicazione congressuale, un tentativo di contestualizzare il più possibile questo tipo di scoperte nel quadro di analoghi rinvenimenti di opere di statuaria fuori contesto, variamente attestate nell’area del Foro di Praeneste. Ad oggi, dopo una prima importante fase di restauro e recupero dell’area da parte della Soprintendenza (nelle sue varie conformazioni istituzionali che si sono susseguite negli ultimi decenni) il complesso degli edifici che prospettano sul lato settentrionale dell’antico foro di Praeneste, corrispondente all’attuale piazza Regina Margherita a Palestrina, appare ricchissimo di dati per la conoscenza del tessuto urbano antico in uno dei punti chiave della città3. Tuttavia, seppure i resti archeologici siano ormai ben noti e adeguatamente documentati nelle loro caratteristiche architettoniche, una chiara identificazione delle funzioni dei vari settori del complesso è tuttora molto discussa e pone ancora agli studiosi molti interessanti interrogativi, in particolare sulla funzione delle due strutture, l’Aula Absidata e la grotta-ninfeo c.d. “Antro delle Sorti”, che affiancano lo spazio oggi per lo più interpretato come basilica civile (e tradizionalmente denominato “Area Sacra”), sulle quali resta ancora vivo il dibattito scientifico4. Nel quadro di questo dibattito, l’aspetto che ci interessa più specificatamente affrontare con questo contributo nasce dalla considerazione che parte delle difficoltà interpretative dei resti monumentali conservati è determinata, tra l’altro, anche dalla mancata possibilità di identificare con certezza posizione e funzione dell’arredo scultoreo che doveva decorare la piazza pubblica e gli edifici annessi nelle varie fasi cronologiche attestate dai resti monumentali. Questo perché, fasi di restauro. A lei sono ampiamente debitore di molte delle informazioni che seguono (la responsabilità̀ di ogni errore o imprecisione resta ovviamente soltanto mia) e a lei va il mio più
profondo riconoscimento per le preziose informazioni e i generosi consigli dispensatimi nel corso della ricerca e della redazione di queste pagine. È gradito compito anche ringraziare gli amici Diana Raiano e Roberto Darelli per le preziose indicazioni ricevute. 3 Il grande rinnovamento edilizio in chiave monumentale e scenografica che vide, nei decenni finali del II sec. a.C., la ricostruzione del santuario della Fortuna, coinvolse contemporaneamente anche il Foro e, più in generale, tutta la città antica di Praeneste nel suo complesso (vedi Gatti 2017, 57; cfr. anche Gatti 2013, 11). In particolare sul tempio in opera quadrata di tufo inglobato dalla Cattedrale di S. Agapito si veda il contributo di Sandra Gatti in questo volume; sulla cosiddetta Aula Absidata inglobata nell’edificio dell’ex Seminario Vescovile si veda Gatti 2017 (e la bibliografia precedente ivi citata), con fondamentali osservazioni anche sull’Erario (vedi Gatti 2017, 79) e sulla c.d. “area sacra”/basilica civile (Gatti 2017, 55–62 e 79). Sulla grotta-ninfeo tradizionalmente detta “Antro delle Sorti” vedi Gatti 2004. Se sono difatti oggi, grazie anche ai recenti lavori di restauro della Soprintendenza, ben chiare e leggibili le caratteristiche degli edifici citati, disposti lungo i lati settentrionale e occidentale della piazza, molto meno nota e dibattuta negli studi è, al momento, la documentazione archeologica della piazza forense vera e propria (vedi Vaglieri 1909; Coarelli 1987) e le possibili soluzioni architettoniche che dovevano delimitare l’area forense a sud e a est. 4 Vedi Gatti 2004 e Gatti 2017 per una disamina delle proposte di esegesi più accreditate.
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come vedremo, i ritrovamenti di frammenti di sculture da scavi documentati risultano quasi tutti in giacitura secondaria5 mentre, parallelamente, per molte importanti testimonianze scultoree della Praeneste antica non sono invece note informazioni precise sul contesto di ritrovamento6. Esiste infatti una notevole quantità di reperti scultorei dell’antica Praeneste, spesso di altissima qualità e di grande interesse scientifico, che le vicende delle scoperte, susseguitesi almeno a partire dal XVI secolo, hanno purtroppo disperso in vari musei e collezioni italiane7, oltre che in tutta Europa e in altri continenti, sia in collezioni private che in musei pubblici8. Di certo manca ad oggi, come già segnalato tempo fa da Nadia Agnoli, uno studio di insieme delle sculture prenestine conservate in altre collezioni e musei italiani e stranieri, da affiancare allo studio delle sculture delle collezioni del Museo di Palestrina9. 5
Farebbero eccezione, sostanzialmente, solo i frammenti di statue rinvenute nel 1856–1857 cadute ai piedi delle loro basi e allineate sul lato sud del selciato di un’antica strada in “Via delle Monache” (oggi Via Anicia, posta immediatamente ad est della piazza attuale e quindi forse da considerarsi al di fuori del foro antico), già segnalate da F. Zevi quali prove della possibilità di dediche a Fortuna anche al di fuori dal Santuario (vedi Zevi 1979, 14 e 18 note 87–88). 6 In generale il problema delle statue da Palestrina prive di dati di provenienza precisi è noto e già in passato evidenziato da chi si è occupato di scultura a Praeneste (da ultimo vedi Coarelli 2019). Fondamentali informazioni, recuperate nella revisione dei materiali in possesso della Soprintendenza operata da Sandra Gatti e Nadia Agnoli, sono confluite nel volume del catalogo delle opere del Museo Nazionale Prenestino, in cui sono stati affrontati casi di studio esemplari, quali quelli della contestualizzazione delle scoperte dei rilievi Grimani e dell’Ara del Divo Augusto in connessione al cd. macellum (vedi Agnoli 2002). 7 Ad esempio numerose sono le statue da Palestrina conservate nelle collezioni dei Musei Vaticani (Pietrangeli 1982, 66–67) spesso prive di notizie precise in merito ai loro contesti di rinvenimento. Preziosa eccezione la documentazione relativa alle statue ritrovate nell’Orto del Dottrinari nel 1778 e collegate alla presenza di un’area pubblica nella zona a sud di Via degli Arcioni (vedi Pietrangeli 1958; cfr. il contributo di Diana Raiano in questo volume). Molti reperti prenestini sono anche confluiti nelle collezioni del Museo Nazionale Romano (su un gruppo di ritratti di età ellenistica da Palestrina vedi Pensabene 1982, in part. 87, nota 2). 8 A titolo esemplificativo si possono qui richiamare alcuni casi, quale quello della statua di Atena tipo Ince conservata al Metropolitan Museum di New York (vd. Lazzarini – Marconi 2014, 121–122. Sulle acquisizioni del Museo newyorkese per il tramite di J. Marshall a Roma e nel Lazio vedi Gatti 2020, 194). Sul caso del Museo di Dresda vedi infra. Anche per una statua a Detroit, proveniente dalla Collezione Odescalchi e detta da Frosinone, è stata ipotizzata una provenienza prenestina (vedi Lindner 2006). Su una testa-ritratto in calcare all’Altes di Berlino dalla vigna Frattini di Palestrina vedi Pensabene 1982, 87, nota 8 (e bibliografia ivi citata). Per inciso si osserva che tale situazione nel campo della statuaria antica prenestina è di certo in gran parte assimilabile alla strettamente analoga, ma più studiata, situazione di dispersione e de-contestualizzazione dei reperti della necropoli di età orientalizzante e medio repubblicana della città antica (vedi Baglione 1992, 162). 9 Vedi Agnoli 2002, 6 e 8, per l’auspicio, ancora non realizzato, che “… questa ulteriore fase della ricerca consentirà certo di ampliare il panorama delle sculture conosciute e quindi di approfondire e di meglio definire la fisionomia artistica della città antica …”.
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Leonardo Bochicchio
Un primo indizio che molte statue (sia in marmo che in bronzo) dovessero decorare i resti monumentali ancor oggi visibili nella zona del foro di Palestrina è dato dalle soluzioni architettoniche stesse adottate per la piazza sia nella ristrutturazione di fine II sec. a.C. dell’area sia nelle trasformazioni in età augustea10. A loro volta le fonti letterarie antiche attestano chiaramente la presenza nel foro di Praeneste di statue, in particolare di statue ritratto onorarie, sin dalla tarda repubblica, secondo l’uso comune ai complessi forensi antichi11. Analogamente è poi ben attestata la presenza di statue nel Foro su base epigrafica, anche se, in questo caso è spesso complesso stabilire un riferimento certo tra le epigrafi e la provenienza delle stesse dalla zona di piazza Regina Margherita, essendo le iscrizioni note per la grande maggioranza di provenienza non accertata o ritrovate in giacitura secondaria12. 10 Come spazi dedicati all’esposizione di statue sono stati riconosciuti, ad esempio, nelle varie rico-
struzioni proposte, le due nicchie che affiancano la porta dell’Aula Absidata sul fronte della piazza. Con maggiore plausibilità, una zona privilegiata per l’esposizione di opere di statuaria può essere individuata nel podio con fregio dorico conservatosi lungo il lato est dell’Aula Absidata (in particolare nell’esedra di modulo maggiore che segna un punto di vista particolare per chi dalla basilica accedeva all’aula, vedi Gatti 2017, 129) così come nelle specchiature del muro settentrionale della basilica e nelle nicchie dei due grandi ninfei (vedi Gatti 2017, 87; sulla presenza di basi per sculture di recente accertate nel Ninfeo di Q. Muzio a Segni, vedi Cifarelli 2020). Anche l’identificazione di Filippo Coarelli dei resti della fontana ritrovata da Dante Vaglieri nel 1907 come sede dei Fasti Prenestini (ipotesi discussa, contra Zevi 1979, 21–22) presuppone che qui, in età augustea o tiberiana, fosse esposta anche la statua ritratto di Verrio Flacco (vedi infra). 11 Doveva trovarsi infatti nel foro della città la statua di M. Anicio, il difensore di Casilino nel 216 a.C. descritta da Livio tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C. Essa fu probabilmente eretta dal pretore all’indomani della guerra annibalica, in contemporanea alla dedica da parte sua di tre signa alla dea Fortuna. (Livio 23, 19, 18: Statua eius indicio fuit Praeneste in foro statuta, loricata, amicta toga, velato capite … idem titulus tribus signis in aede Fortunae positis …) (Nonnis 2018, 299–300, con bibliografia ivi citata e vd. contributo di Granino Cecere in questo volume). A quest’altezza cronologica il “foro” cui fa riferimento Livio sarà stato con molta probabilità quello che ancor oggi riconosciamo in Piazza Regina Margherita, non dovendosi probabilmente porre a quest’altezza cronologica, il problema di un secondo foro nella zona di Via degli Arcioni (sul problema del “secondo foro” prenestino vedi il contributo di Raiano in questo stesso volume, con bibliografia di riferimento). Altro esempio famoso, tra il I e il II sec. d.C., è la notizia della presenza nel foro di Praeneste della statua onoraria di Verrio Flacco, vista da Svetonio nell’emiciclo che ospitava i Fasti (Svetonio, De grammaticis, 17, 4: … Statuam habet in Praeneste, in superiore fori parte, conta hemicyclum: in quo Fastos a se ordinatos, et marmore parieti incisos pubblicaret …). È noto che i preziosi dettagli forniti da Svetonio sono alla base dell’interpretazione di Coarelli dei resti scoperti nel 1907, ai quali lo studioso ricollega anche la propria lettura dell’originaria collocazione dei rilievi Grimani e dei Fasti (Coarelli 1987). 12 Alcune epigrafi ricollegabili a statue onorarie che non menzionano però esplicitamente la posizione delle stesse provengono con certezza dall’area del presunto “secondo foro”; vedi sul tema il contributo di Raiano in questo volume. Sull’epigrafe di L. Urvineus Philomusus, magister del collegio dei liberti della prima metà del I sec. a.C., cui erano state erette statuae in foro a spese pubbliche per atti di evergetismo vd. Granino Cecere 2005, n. 666; sulla base di statua di Q.
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Venendo poi alla storia dei rinvenimenti di opere di statuaria attestati nella zona di piazza Regina Margherita13 non sembrano esserci, allo stato attuale degli studi, testimonianze circostanziate di rinvenimenti precedenti al XVII secolo, benché, come noto, già nei secoli precedenti l’area del Duomo e del Seminario Vescovile fosse già oggetto di interesse da parte degli studiosi dell’epoca, nell’ambito delle ricerche antiquarie connesse alla definizione delle caratteristiche del Tempio della Fortuna14. La prima data significativa in questo senso individuabile con certezza è senz’altro rappresentata dal 1638, quando furono acquisiti dai Barberini i marmi raccolti nel cortile del vescovado e presso la cattedrale15. Insteius, di età antonina, posta ante curiam vel in porticibus fori vd. Granino Cecere 2018, 358–359; sulla statua in foro di Barbaro Pompeiano del 333 d.C. vd. Granino Cecere 2018, 359–360; sull’epigrafe che attesta una statua togata in foro di un P. Aelius Apollinaris Arlenius della metà del IV sec. d.C. vd. Granino Cecere 2005, n. 646 e Granino Cecere 2018, 357; sulla base della statua di Postumius Iulianus dei Vaticani, dedicata nel foro e databile al 386 d.C. vedi Granino Cecere 2005, n. 650 e Granino Cecere 2018, 355 e 358. 13 Il nome attuale sostituisce quello precedente di Piazza Savoia, mentre ancor prima la denominazione poteva variare nei vari autori tra quella di Piazza Maggiore, Tonda, San Agapito o anche, dalla metà del ’700, del Seminario. 14 Vedi Gatti 2017, 55–56. Ipoteticamente una prima fase di distruzione o dispersione di opere di statuaria pagana negli spazi pubblici di Praeneste andrà collocata in epoca tardo-antica o altomedievale, ma non ben definibile cronologicamente, di occupazione cristiana dei resti pagani (la trasformazione dell’isolato del Foro di Praeneste in questo senso è da porsi tra il V e il VII sec. d.C., vd. Gatti 2017, 60–61, cf. Pittaccio 1997, 26 e Pittaccio 2001, 66–68). In questa fase il tempio del Foro viene riconvertito in luogo di culto principale della città e la “rotonda” posta alla sommità del Santuario della Fortuna viene dedicata al culto di Maria (vedi Zevi 1979, 3–4). Tappe altrettanto importanti per il destino di quel che rimaneva dell’apparato scultoreo della città antica saranno poi state rappresentate dalla distruzione della città da parte di Bonifacio VIII nel 1298 nonché da quella voluta poi dal Cardinale Vitelleschi nel 1437 (Caneparo 2017). In questi due tragici frangenti è stato già ipotizzato da vari studiosi lo spostamento di reperti epigrafici o scultorei antichi per preservarli dalla distruzione (vedi Zevi 1979, 12–13; cf. Nonnis 2018, 311). Durante il vescovato del Cardinale Marco Balbo a Palestrina (1478–1491) dovettero poi probabilmente esserci stati scavi e ricerche, che fruttarono verosimilmente il ritrovamento dei Rilievi Grimani oggi a Vienna (vedi Agnoli 2002, 207–217, cf. Zevi 1979, 13). Ancora da studiare il ruolo della famiglia Colonna nei possibili ritrovamenti di reperti statuari a Palestrina nel ’500 (vd. Zevi 1979, 16, n. 27 ricorda, su segnalazione di M. Cristofani, il dono dai Colonna ai Medici di un torso ritrovato nel 1548, poi restaurato come Ganimede dal Cellini e oggi al Museo del Bargello). Le possibilità di indagini sui ritrovamenti più remoti avvenuti specificatamente nell’area del Foro è anche legata, ovviamente, ad una più precisa definizione della data di “scoperta” del mosaico del Nilo, generalmente posta agli anni ’30 del ’600 ma che può forse invece risalire agli anni Quaranta del Cinquecento (più difficilmente al ’400; vedi Zevi 1979, 19–20 e Gatti 2017, 55, con bibliografia ivi citata. Cfr. anche La Malfa 2003; Salari 2012, 349; Guardo – Guidetti 2014, 77–87). 15 Petrini 1795, 246: “… raccolti nell’annesso cortile Vescovile e intorno alla cattedrale si vedevano sparsi molti marmi antichi, e tronchi di statue; … ma niuno si prendeva di essi cura …”. Cfr. anche Agnoli 2002, 31.
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Fig. 1 Palestrina, Museo Archeologico Nazionale di Palestrina: statua di Iside Fortuna, inv. 1491
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A tale acquisizione non è stato possibile però ad oggi ricollegare con esattezza i numerosi reperti della Collezione Barberini poi confluiti nella collezioni statali ma privi di dati di provenienza accurati, con l’unica importante eccezione che a questo nucleo di acquisizione da parte dei Principi dei marmi provenienti dalla zona del Foro di Praeneste può con buona certezza attribuirsi la statua colossale di Iside in marmo bigio, l’unica annotata dalle fonti in ragione della sua eccezionalità, dovuta sia alle dimensioni colossali che alla rarità della tipologia del marmo16 (fig. 1). Come noto, la statua venne descritta già nel ’700 da Cecconi quale “… tronco ceruleo conservato nel Palazzo Baronale …” ritrovato “… tra le ruine del delubro inferiore …”, termine con cui all’epoca si indicava l’insieme del complesso di edifici costituiti dall’Aula Absidata, dall’Area Sacra e dall’Antro delle Sorti, considerati come un unico “Santuario Inferiore” della dea Fortuna17. Proprio la peculiarità del marmo ha poi permesso di ricondurre convincentemente alla statua un frammento di capigliatura femminile dello stesso materiale18, rintracciato nei magazzini della Soprintendenza, e due frammenti, altrimenti informi, ritrovati nei saggi archeologici condotti da Sandra Gatti nel 2000 nella zona antistante la grotta ninfeo del c.d. Antro delle Sorti. I frammenti sono stati ritrovati in strati di riempimento di fosse di spoliazione delle strutture romane, insieme ad altri spezzoni di marmo con segni di fuoco provenienti da una calcara individuata dai saggi di scavo nella zona antistante la grotta, nei punti in cui la pavimentazione a mosaico antico era lacunosa. Tale circostanza va senz’altro a supporto delle testimonianze settecentesche della provenienza della statua da uno degli edifici a nord del Foro e del cd. Antro delle Sorti in particolar modo19. Se si escludono però i dati ricostruibili sulla provenienza della colossale statua di marmo bigio, nessuno dei resoconti dei visitatori che nel corso dei secoli visitano il complesso sembra citare il ritrovamento o la presenza di altre opere
16 Per la statua vedi Agnoli 2002, 31–40. Già il principe Federico Cesi, nelle sue note redatte tra
il 1622 e il 1626, poi trascritte da Stelluti per Suarez, aveva annotato la peculiarità del marmo, segnalandone anche un caratteristico odore sulfureo allo sfregamento – forse per emissione di solfuro di idrogeno? – (… Fortunae signum vestitum plicatili veste multiplexa ex cinereo lapide, qui attritus manu sulphuris odorem emittit …; vedi Suarez 1640–1655, II, 48; Guardo – Guidetti 2014, 83). 17 Cecconi 1756, 51. 18 Agnoli 2002, 31–40; Gatti 2004, 59–60 e 65, nota 32. 19 Gatti 2004, 59–60, 64 e 65, note 32–35; cfr. Agnoli 2002, 31–34; Gatti 2017, 117 e 131. Cf. Coarelli 2019, 134–135.
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di statuaria, mentre le testimonianze si concentrano sostanzialmente sulla descrizione della “cantina” del mosaico20. Una nuova stagione di ricerche sull’area del Foro prende le mosse, possiamo dire, solo a fine Ottocento, ovvero a partire dal 1869, con l’individuazione della grotta del cd. Antro delle Sorti con il suo mosaico da parte di Pietro Cicerchia, ispettore alle antichità e insieme proprietario della casa che ne aveva inglobato i resti antichi21, cui fa seguito, pochi anni dopo, nel 1872, la scoperta, sempre per merito dell’ispettore Cicerchia, dell’epigrafe che permise l’esatta identificazione dell’Erario22. Un’altra importante scoperta legata al Foro di Praeneste, di cui purtroppo non si hanno dati particolarmente circostanziati, avviene poi nel 1881, anno in cui il Marucchi annuncia il ritrovamento, pochi mesi prima dell’ottobre di quell’anno “… nella piazza maggiore (detta oggi Savoia) …”23 (ma poi scriverà “… presso la piazza maggiore”24) di due frammenti di obelisco egiziano in granito rosso25. 20 Il Petrini parlando per l’anno 1640 e dell’acquisto da parte dei Barberini dei reperti conservati
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nel complesso ricorda che “… il pian terreno di questo Delubro fu destinato per cantina, e conseguentemente la sua tribuna, lastricata di mosaico Greco, restò sepolta fra le tenebre, e l’immondezze; né poteva ammirarsi questa preziosa reliquia dell’antichità, se non illuminando il sito con faci, ed usando altre industrie …”. La situazione, dopo l’entrata del mosaico nilotico distaccato nella collezione Barberini, non dovette subire sostanziali modifiche nel tempo se ancora nel 1826 la Commissione per le Belle Arti nel visitare l’Aula Absidata ne segnala le condizioni miserevoli (vedi Zevi 1979, 15, n. 7; cfr. Gatti 2017, 56). Gatti 2004, 53, che precisa che il monumento “… in qualche modo doveva tuttavia essere già noto nei secoli precedenti, anche se se ne era persa la memoria, poiché la sua presenza, pur se con una pianta non realistica, è segnata nel Codice Vaticano Latino 3439 del 1580 ca. …”. Orazio Maruzzi (Marucchi 1885, 48, n. 1) testimonia che l’iscrizione (CIL XIV 2975 = Granino Cecere 2005, no. 749) venne letta per la prima volta da P. Cicerchia in quell’anno e pubblicata per la prima volta dallo stesso Marucchi due anni dopo (Marucchi 1874, 21). Sull’Erario, ed in particolare sulla sua conformazione attuale rispetto a quella originaria, vedi Gatti 2013, 14 e Gatti 2017, 79. Marucchi 1881, 255–256. Marucchi 1882, 248–252. Tornando sul ritrovamento ad un anno di distanza dalla scoperta Marucchi ricollega i due frammenti ad altri due frammenti analoghi ritrovati a Palestrina nel 1791 e conservati nella Collezione Borgia del Museo di Napoli, considerandoli tutti parte di un unico monumento. Per inciso notiamo che l’articolo di Marucchi si chiude con un invito al “ … ministero della pubblica istruzione a rivolgere le sue cure sulla antichità prenestine, a decidersi di eseguire in quel classico luogo una grandiosa escavazione, che sarà compensata senza dubbio da grandiose scoperte …”. Nel 1907, in seguito agli scavi di Vaglieri (vedi infra) Marucchi rivendicherà poi al suo studio di sintesi su Palestrina del 1905 l’impulso che fece sì che “… l’Associazione Archeologica Prenestina testè fondata si determinò a togliere questo gruppo inferiore [scil. gli edifici sul Foro della città antica] dallo stato di indecoroso abbandono in cui giaceva da secoli e restituì questa importante località all’ammirazione degli studiosi …” (Marucchi 1907, 280). I due reperti dopo la scoperta furono conservati dapprima nel palazzo municipale, su iniziativa del Cicerchia, e come prima ipotesi Marucchi li considerò due frammenti dello stesso obelisco,
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Un documento, credo inedito, conservato presso gli archivi della Soprintendenza, testimonia poi di alcuni scavi eseguiti nell’Erario, dal 4 al 9 settembre 189326. Il foglio, rubricato come “Giornale degli scavi”, si compone in realtà in pratica dalla sola “Descrizione dei ritrovamenti” sotto forma di uno scarno elenco dei reperti recuperati27. Tra questi è interessante notare la presenza di due statue ritratto di epoca romana, una virile e l’altra femminile, e di frammenti del panneggio di una terza statua, senza, purtroppo, che vi siamo molti dettagli sulle circostanze del contesto di giacitura delle stesse al momento del rinvenimento, che avvenne con ogni probabilità semplicemente nello sterro generalizzato del locale28. In base alla descrizione riportata per la statua femminile (di proporzioni al vero, acefala e mancante della parte superiore del busto fino al seno) la stessa può essere ragionevolmente identificata con la scultura che appare riprodotta da datare all’età di Claudio e utilizzato come gnomone dell’orologio solare, attestato da un passo di Varrone nel Foro di Praeneste (Marucchi 1881, 255–256). Marucchi tornò poi più volte nei sui studi suoi due frammenti: nel 1885 ripete la tesi già esposta nel 1882 e segnala i due frammenti prenestini come ancora conservati nel palazzo comunale (Marucchi 1885, 83–84), mentre nel 1904 (Marucchi 1904, 253–257) indica i due frammenti esposti nell’Erario (vedi infra) ed ipotizza l’appartenenza comune dei frammenti di Palestrina e dei frammenti conservati a Napoli a due piccoli obelischi gemelli. Cfr. Agnoli 2002, 284–288. Vedi anche Bove 2008 e Bove 2009, 373–375 (con bibliografia precedente, che ritiene più probabile che tutti i frammenti appartengano ad un solo obelisco). Nel 1993 i due frammenti vennero rimossi dall’Erario per un restauro presso i depositi della Soprintendenza al Santuario di Ercole a Tivoli, prima dell’esposizione al Museo Nazionale di Palazzo Colonna-Barberini (cfr. Pinci 1993). 26 Archivio SABAP-RM-MET, Fasc. SAR-LAZ I.1.062. Documento s. n. di protocollo intitolato: “Palestrina. Museo. Collezione Associazione Archeologica Palestrina. Oggetti dell’Erario”. Ringrazio Sandra Gatti per aver sottoposto alla mia attenzione il documento da lei rintracciato negli Archivi della Soprintendenza. 27 Sulla prima pagina: “Giornale degli Scavi / che si eseguiscono all’Erario pubblico del Tempio / della Fortuna in Palestrina / dal giorno 4 al 9 Settembre 1893”. Sulla seconda e terza pagina appaiate una tabella con la “Descrizione dei Ritrovamenti” così descritti dal Custode sorvegliante gli Scavi, Raimondo Giannini, che firma in calce: “Tronco di statua virile in marmo bianco statuario di scalpello fine; detto tronco è avvolto nella toga e rappresenta la parte centrale del corpo; esso è della grandezza naturale.”; “Statua muliebre in marmo bianco greco di grandezza naturale, mancante della testa fino all’altezza del seno, ed è di scalpello mediocre.”; “Quattro frammenti di statua (parti di panneggio) tutti in marmo bianco.”; “Un frammento di antefissa in terracotta ornato di un quadrupede alato.”; “Diversi frammenti di travertino ornati di rosoni.”; “Molti altri frammenti pure in travertino sagomati a cornice di diverse fatture.”; “Un lastrone di marmo greco largo m 0.60, alto 0.20; le fiancate di questo ornate con rosoni.”; “Tronco di mezza colonna in travertino baccellata, alta m 0.33; con un raggio di m 0.39.”; “Un piccolo frammento di bronzo senza forma, con patina propria al bronzo ed in parte ossidato.”. 28 Cfr. nota successiva. Viene da pensare che le statue fossero quindi relativamente lontane dalla loro collocazione originaria, da immaginarsi verosimilmente su basi, e provenienti da uno strato di riempimento di un terrapieno post-antico, in una situazione stratigrafica analoga a quella del ritrovamento del frammento di statua femminile seduta nel saggio di scavo eseguiti dalla Soprintendenza poco lontano nel 2004 (vedi infra nota 59).
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al centro dell’Erario, allestito come antiquarium e deposito di reperti a cura di Vincenzo Cicerchia, in un disegno eseguito dal prenestino Francesco Coltellacci e pubblicato dallo stesso nel 1895 – quindi meno di due anni dopo il ritrovamento –, riproposto pochi anni fa da Angelo Pinci29 (fig. 2).
Fig. 2 Disegno di Francesco Coltellacci riproducente l’Erario di Palestrina nel 1895
Conoscendo cosi l’aspetto della statua esposta nell’Erario, grazie al disegno del Coltellacci, essa può essere agevolmente riconosciuta nella statua che occupa ancora la stessa posizione, al centro della parete di fondo e accanto ad uno 29 Pinci 2013, 248. Francesco Coltellacci parla nell’ Album Ricordo dei Monumenti Prenestini
del 1895 degli scavi avvenuti nell’erario nel 1893 (“… il ministero della pubblica istruzione, in seguito a rapporto del R. Ispettore sig. Vincenzo Cicerchia, lo ha fatto intieramente scavare, restituendolo all’antico suo stato …”) e del ritrovamento di reperti in occasione di tali scavi (… si trovò pure nei lavori di sterro un frammento di statua marmorea panneggiata, rappresentante forse la dea Fortuna, insieme ad altri frammenti minori di decorazioni diverse …) e dell’apertura al pubblico nell’Erario allestito con un’esposizione di reperti a cura di Vincenzo Cicerchia (“… oggi l’erario, mercè i suddetti lavori, è a tutti visibile; e contiene un deposito di antichi frammenti, ivi collocati per cura del sullodato ispettore, fra i quali è notevole quello di un obelisco antico di imitazione, dei tempi dell’imperatore Claudio, che dovea sorgere davanti l’ingresso del Tempio …”). Nel disegno pubblicato da Cicerchia i frammenti di obelisco vanno forse riconosciuti nei due reperti trapezoidali grossolanamente delineati, con forma e proporzioni notevolmente imprecise, a destra della statua muliebre poiché in tale posizione uno dei due rimarrà fino al 1993, come documentato in alcune foto d’archivio della Soprintendenza (vedi infra nota successiva). Nell’Erario allestito come antiquarium, secondo quanto attesta Marucchi nel 1907, avevano trovato posto anche alcune epigrafi ritrovate in zona dopo la pubblicazione del volume XIV del CIL, avvenuta nel 1887 (Marucchi 1907, 285).
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dei due frammenti di obelisco in granito rosso, in una foto rintracciata da Diana Raiano negli archivi della Soprintendenza e relativa al trasferimento del materiale ancora conservato nell’Erario, nel settembre del 1993, verso i depositi della Soprintendenza a Tivoli – per restauri – e poi verso il Museo di Palazzo Colonna Barberini30 (fig. 3). Più problematica l’identificazione della statua togata indicata nel “Giornale di Scavo” del 1893 come di qualità migliore rispetto all’altra scultura rinvenuta (“di scalpello fine”). Fig. 3 Frammento di statua mulieAnch’essa, benché non presente nel disegno bre e frammento di obelisco del Coltellacci, venne inizialmente conservata egiziano (inv. 80548) connell’Erario, come sappiamo da documenti di servati nell’Erario di Palestrina nel 1993 archivio. Nell’Archivio della Soprintendenza è infatti conservato un elenco degli oggetti esposti nell’Erario alla data del 6 settembre del 1900, confrontabile con un altro elenco redatto 9 anni dopo, il 13 agosto del 1909, ma riscontrando invece un elenco datato al 189831. Nei due elenchi compaiono presenti la statua femminile rinvenuta nello scavo del 189332 e i due frammenti di obelisco in granito rosso33. L’elenco del 1909 è però significativa30 Archivio Sabap-Rm-Met, Scansione della scheda fotografica Sar-Laz 120, negativo
193/3765–3794 (data della ripresa: 28/9/93). Cf. Pinci 2013, 248. Ringrazio Diana Raiano per la segnalazione. La statua, databile in base alle caratteristiche visibili in foto tra il I sec. a.C. e al I d.C., non è tra quelle catalogate nel Museo di Palestrina (cf. per la datazione la scultura di tipologia analoga in Agnoli 2002, II.15). Non è stato possibile per ora rintracciarla nei depositi della Soprintendenza a Tivoli o a Palestrina. 31 Archivio SABAP-RM-MET, Fasc. SAR-LAZ I.1.062. Documenti s.no. di protocollo intitolati “Inventario degli oggetti depositati nell’Erario al 6 Settembre 1900” e “Verbale di consegna degli oggetti che si trovano conservati nell’antico Erario di Palestrina” (datato al 13 agosto 1909) con relativo “Allegato I. Inventario degli oggetti depositati nell’Erario al 13 agosto 1909”. In quest’ultimo documento la data del 13 agosto 1909 sostituisce quella, depennata, del 1 gennaio 1898, segno che per le consegne del 1909 è stato utilizzata una copia di un elenco più antico di 11 anni su cui sono stati annotati (con una spunta in blu) gli oggetti mancanti. Anche questi documenti sono per quanto a me noto inediti e sono stati sottoposti alla mia attenzione da Sandra Gatti. 32 Nell’elenco del 1900 al no. 2 “Frammento di statua muliebre panneggiata mancante della parte superiore poggiante su mezza colonna scanalata di travertino. Dimensioni 1,40 – 0,60 – 0,50 Provenienza Scavo 1893 Erario”. Indicazione analoga, ma senza menzione della mezza colonna usata come base, al no. 2 dell’elenco del 1909 (“Frammento di statua muliebre panneggiata mancante della parte superiore”). 33 Nell’elenco del 1900 al no. 3 (“Frammento di obelisco egizio di granito») e no. 4 (“Altro simile poggiante su zoccolo in marmo con due patere laterali”). Indicazione analoghe, ma anche qui
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mente correlato anche da una “Nota degli oggetti mancanti tra quelli depositati già nell’Erario” in cui è indicato come assente proprio il frammento di statua virile, probabilmente quindi trasferito altrove nell’arco degli anni coperto dai due documenti34. Si può forse pensare, dato il fervere in quello scorcio di anni dell’attività della Associazione Archeologica Prenestina (nata nel 190635), che la statua possa forse coincidere con quella conservata presso la sede/museo dell’Associazione, che appare raffigurata in una cartolina del 191036. Nell’immagine è visibile, senza indicazione della base su cui poggiava il secondo frammento (forse nel frattempo trasferita altrove, vd. n. successiva), ai nrr. 3 e 4 dell’elenco del 1909 (“Frammento di obelisco egizio di granito”; “Altro simile”). 34 Archivio SABAP-RM-MET, Fasc. SAR-LAZ I.1.062. Documenti s.no. di protocollo intitolato “Nota degli oggetti mancanti fra quelli depositati già nell’Erario”. Al no. 1 dell’elenco è indicato “frammento di statua virile paludata, in marmo, contenente la parte media del torso di una figura di personaggio imperiale o consolare, di buona modellatura. Provenienza: Dallo scavo dell’Erario 7 settembre 1893”. Sono indicati come provenienti dal medesimo scavo anche gli altri 8 oggetti dati come mancanti e confrontabili con l’elenco datato al 9 settembre 1893 nel “Giornale degli scavi” (vedi supra): al no. 2 “no. 6 frammenti della cornice dorica del donario, o mensa del Tempio della Fortuna”, al no. 3 “frammento di piede (calcagno) di una statua di marmo della misura di m 0,13 x 0,11 x 0,08”; al no. 4 “Plinto quadrangolare in marmo di metri 0,62 x 0,40 x 0,21 recante due borchie o rosoni scolpiti ai due lati”; al no. 5. “Rocchio o tamburo di colonna dorica di diametro 0,70 x 0,34”; al no. 6: “ Frammento di figurina muliebre in terracotta, rappresentante una Vittoria o genio alato, 0,11 x 0,12”; al no. 7: “altro frammento simile con palmette e volute di nascimento con tracce di minio”; al no. 8: “Un disco di laterizio con buco nel mezzo, diam. 0,11” e, infine, al no. 9 “Ferro – Un avanzo di lamina di ferro a cui aderiscono due frammenti di legno, 0,10 x 0,045”. 35 La data è indicata da Marucchi (Marucchi 1932, 7). Alla recente fondazione della Associazione e ai suoi scopi istituzionali accenna il Vaglieri nelle Notizie degli Scavi del 1907 (vedi infra) e, con parole simili, ne è data notizia in un trafiletto pubblicato nella rivista Ausonia del 1907, a p. 200. Sulle modalità operative dell’Associazione a inizio ’900 è significativo, ad esempio, l’intervento della stessa nel recupero e nel ricovero del Museo dell’Associazione della dedica a Iuno Palosticaria rinvenuta nel 1913 durante i lavori per la costruzione della ferrovia a Porta del Sole, registrato da Orazio Marucchi (Marucchi 1913, 23). Per una serie di opere di statuaria oggi al Museo di Palazzo Barberini è documentata una prima esposizione nella sede dell’Associazione (vedi Agnoli 2002, II.1, II.2, II.6 e III.20; cfr. anche infra nota 45). 36 Il locale adibito a sede dell’Associazione e a Museo si trovava nell’angolo sud-ovest nel cortile del Seminario, con accesso da esso e comunicante anche, con una porta, con i locali della cattedrale posti subito a nord della Cappella del Sacramento (come dimostra il verbale dell’ispezione del 1917 di Enrico Stefani, vedi infra). Infatti il vano è indicato con la didascalia di “museo”, ad esempio, nel rilievo edito da Bradshaw nel 1920 (Bradshaw 1920, plate XXIX; Merz 2001, fig. 209). Il locale venne distrutto dai bombardamenti, ma non mi sono noti dettagli su come i reperti che oggi si trovano nelle collezioni del Museo Statale vennero messi al sicuro, prima o dopo l’evento (nessun accenno in Fasolo – Gullini 1953, 45–48 che descrive l’esito di alcuni saggi di scavo eseguiti da Gullini nell’area, contestuali a opere di restauro delle murature danneggiate dagli eventi bellici. Per il rilievo delle strutture antiche del portico e del muro di contenimento ivi visibili si veda Pittaccio 1997, 21–24 e Pittaccio 2001, 45. Cf. anche Gatti 2017, 79 e Fasolo – Gullini 1953, 45–48). Alcuni reperti epigrafici e architettonici si trovavano fino a poco tempo fa accatastati disordinatamente in più strati sul fondo del vano, al
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Fig. 4 Palestrina, il Museo dell’Associazione Archeologica Prenestina nel 1910
poggiata al muro sulla destra, una statua di togato acefala e priva delle gambe che in base alle dimensioni ed allo stato di frammentarietà potrebbe corrispondere alla sintetica descrizione data dall’elenco del 1893 (fig. 4). Se pur si tratta della stessa statua recuperata con lo sterro dell’erario, di essa non è stato finora possibile seguire oltre le tracce. Richard Delbrueck, che si dedicò allo studio e ai rilievi diretti del complesso ellenistico di Palestrina fra il mese di agosto del 1905 e il febbraio del 1906, lasciandocene un’accuratissima descrizione, non accenna in alcun modo alla presenza di statue nella zona del complesso37. disotto della quota del solaio crollato del vecchio Museo. Tuttavia tale situazione non derivava, come potrebbe presupporsi, direttamente dei danneggiamenti dovuti ai bombardamenti del 1944, poiché alcuni scatti fotografici del novembre del 1975 conservati nell’archivio della Soprintendenza testimoniano di una situazione di minor accumulo dei reperti di maggior modulo sul fondo del vano, in una situazione di relativo ordine, mentre, per contro, l’area della basilica romana prossima al vano si mostra ingombra di un cumulo di materiale lapideo di pezzatura minore disordinatamente accatastato (Archivio SABAP-RM-MET, copia della scheda fotografica SAR-LAZ neg. A 75, nrr. 607–610; materiale fotografico segnalatomi da Diana Raiano). Nei primi giorni dell’ottobre del 2020 si è concluso l’intervento della Soprintendenza volto al recupero del materiale archeologico presente sul fondo del vano, che, mentre scrivo, è in corso di restauro. 37 Come noto, il Delbrueck segnala che le rovine si presentavano seriamente danneggiate e variamente riutilizzate modernamente con l’istallazione di un fienile e di varie abitazioni nella zona della basilica, con la presenza di un granaio e dei resti di un chiostro nel cortile del coro del
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La più vasta esplorazione archeologica della zona del Foro – e quella che ha restituito il numero maggiore di frammenti statuari – segue però di pochi mesi i sopralluoghi del Delbrueck per la registrazione dei dati dei suoi rilievi, ed anzi si svolse proprio mentre il primo volume dell’opera dello studioso tedesco era in stampa38. Si tratta degli scavi condotti nel 1907 prima dall’Associazione Archeologica Prenestina (nata con l’intento esplicito di formare un museo di archeologia della città attraverso nuovi scavi39) e poi da Dante Vaglieri, per il Ministero della Pubblica Istruzione, quando questo subentra all’Associazione per l’eccezionale rilevanza dei ritrovamenti40. Vaglieri, nel resoconto apparso in più fascicoli delle Notizie degli Scavi di quell’anno, fornisce diversi elenchi dei reperti più significativi ritrovati nelle operazioni di sterro, suddividendoli in base alle varie fasi delle operazioni compiute. Un primo elenco corrisponde ai materiali provenienti dallo scavo eseguito nella parte più orientale della piazza e nella zona della fontana monumentale ivi rinvenuta41; un secondo elenco riporta quanto rinvenuto “… tra le terre
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duomo e del seminario vescovile all’interno della Sala Absidata (Delbrueck 1907, 47 :“Die Ruinen sind sehr beschädigt und verbaut. Im Bezirk steht eine Scheune und Wohnhäuser, im Hofe der Chor des Domes S. Agapito, ein Kornspeicher, Ruinen eines Kreuzganges, den Apsidensaal nimmt das Seminar ein, früher bischöfliche Residenz”). Il fienile (Scheune) è anche indicato in pianta dallo studioso, alla fig. a di p. 48, nell’angolo sud-est del cortile, di fronte alla grotta ninfeo dell’Antro delle Sorti (cfr. Gatti 2017, 56, nota 15). Un primo limitato intervento migliorativo, dovuto all’azione dell’Associazione Archeologica Prenestina, viene registrato solo dieci anni più tardi, in un sopralluogo compiuto il 2 febbraio del 1917, da Enrico Stefani, che tuttavia chiude il suo resoconto con la riflessione della necessità di intervenire sul complesso per restituirgli il dovuto decoro :“… credo che lo Stato un giorno o l’altro dovrà pensare a liberare dalla servitù privata questo complesso grandioso di edifici, spogliandolo delle moderne superfetazioni che lo deturpano e ne impediscono la completa visione …” (Archivio di Stato di Roma; Ministero P.I./Educazione Nazionale/Direzione Generale AABBAA/IV versamento 1908–1924, Fascicolo Rinvenimenti e scavi n 8; documento protocollato Reale Soprintendenza ai Musei e agli scavi della prov.ia di Roma, no. prot. 172, no. di pos. 7-XI, 20 Feb 2017 “Palestrina – Ispezione Archeologica”). Ringrazio Diana Raiano per aver sottoposto alla mia attenzione copia di questo preziosa testimonianza, anch’essa credo inedita, da lei rintracciata durante le sue ricerche di archivio. Delbrueck 1907, 47. “… Gegen Ende des Druckes hat die Societät archeologica Prenestina begonnen, auf Piazza S. Agapito auszugraben …”. Vaglieri 1907, 19, premette al resoconto degli scavi alla Necropoli della Colombella, iniziati contestualmente a quelli nel foro che la Società Archeologica Prenestina è “… sorta con lo scopo di fare in quel territorio ricerche scientifiche e di costituire un Museo locale …”. Vaglieri 1907, 289 Vaglieri 1907, 135–138. In questo primo elenco le opere di statuaria elencate sono 4: “… un torso di statua virile ignuda, marmorea, mancante del collo e delle braccia, ripiegata innanzi fortemente (m 0,50), che ricorda per la posizione e la conformazione affusolata del corpo il motivo dell’Ares Ludovisi …” correlato di una foto alla fig. 6; “… la parte inferiore di una statua
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…” nello scavo tra la fontana e la cattedrale42; un terzo ed un quarto elenco rendicontano infine delle due fasi di progressivo svuotamento di un profondo pozzo43collegato a due cunicoli44 individuati sotto le scale di ingresso al Palazzo del Seminario.
muliebre panneggiata, in marmo bianco (m 0,90), la parte superiore era riportata …” (senza foto); “… la parte anteriore di una testa muliebre marmorea molto corrosa; i capelli, divisi sulla fronte, cadono sulle orecchie e si annodano sulla nuca (m 0,19) …” (senza foto); e “… un trapezoforo marmoreo a forma di grifo (alt. m 0,50) …” (senza foto). 42 Vaglieri 1907, 295–297. 14 i frammenti di statuaria elencati: una “… testa di giovane, in marmo a grana fine, con capelli ricci (alt. m 0,25) …” illustrato da due foto alle figg. 8 e 9; “… statuetta marmorea. Rappresenta una donna vestita di chitone, manto con peso e cinto (alt. m 0,26) …”, illustrata da due foto alle figg. 10 e 11; una “… parte superiore di busto marmoreo (m 0,11 x 0,33). Il vestito potrebbe ricordare la Kora prassitelica di Firenze e di Vienna …” (senza foto); una “… testa di giovane (ritratto) con capelli sulla fronte (m 0,20) …”, illustrata alla fig. 12; un’altra “… testa di giovane (ritratto) con ciuffo di capelli sull’occipite. (m 0,23) …”, illustrata alle figg. 13 e 14; la “… parte anteriore di testa femminile con capelli a grosse treccie, coperta di manto (m 0,20 …). Il panneggio e l’acconciatura ricorda l’Ercolanese maggiore di Dresda …”, illustrata alla fig. 15; una “… testa muliebre con cuffia sulla parte posteriore, dalla quale escono i capelli che sono in alto annodati; dei nastri, l’uno passa sulla fronte e l’altro sull’alto della testa (m 0,18) …” illustrata alle figg. 16 e 17; una “… testa muliebre con grandi ricci e manto (m 0,27) …”, illustrata alla fig. 18; un “… frammentino di torso di bambino (m 0,15) …” (senza foto); un “… frammento di torsetto virile …” (senza foto né misure); una “.. gamba di grande statua, mancante del ginocchio e di tutto il piede (m 0,55) …” (senza foto); una “… gamba di grande statua, che era in antico riportata (m 0,35) …” (senza foto); un “… braccio piegato, con perno di ferro …” (senza foto né misure) e infine una “… parte anteriore di piede calzato; all’annodatura del nastro vi è un mascheroncino (m 0,10 x 0,10) …”. 43 Vaglieri 1907, 476–479. Il primo elenco, che corrisponde allo scavo del pozzo fino alla profondità di 5,50 m, include una “… grande testa muliebre (alt. m 0,30) con capelli avvolti a nodo dietro alla nuca, tenia ed un foro in alto …”, illustrata alle figg. 11 e 12; un “… torso di statua virile nuda, forse seduta (alt. m 0,60) …, illustrato alle figg. 13 e 14; un “… torso di statua femminile con tunica e manto (alt. m 0,40) …”, illustrato alla fig. 15; una “… testa di giovane (alta m 0,20) …”, illustrata alla fig. 16; un “… frammento di statua femminile cui un lembo di manto copriva l’inguine (alt. m 0,30) …”, illustrato alla fig. 17 ed una laconica indicazione di “… altri frammenti di statue …” privi di foto di corredo. 44 Vaglieri 1907, 683–690. Il secondo elenco corrisponde allo svuotamento del pozzo fino al fondo dello stesso, a 6,38 metri di profondità, ed allo sterro dei due bracci del cunicolo che da esso si dipartivano. Alcuni frammenti di statuaria sono elencati, ma privi di foto di corredo: una “… testina di statuetta femminile, in marmo a grana grossa, con capelli divisi sulla fronte, annodati dietro la nuca (Diana?) (m 0,11) …”; “… testa virile in marmo a grana grossa con lunghi capelli ricci (ritratto) (m 0,22 x 0,15) …”; un “… frammento, riportato, di grande statua panneggiata, con parte di mammella (m 0,40 x 0,20) …”; un “… frammento di coscia di grande statua (m 0,20 x 0,17) …”, un altro simile “… con parte di panneggio (m 0,30 x 0,20) …; un “… frammento di gamba (m 0,20 x 0,15) …”; un “… frammento di polpaccio di grande statua (m 0,25 x 0,20) …”; un “… avampiede nudo di statuetta, riportato (m 0,08 x 0,08) …”; un “… frammento di basetta di piccola statua con piedino …” senza misure; una “… mano, riportata, di grande statua (m 0,15 x 0,12) …”; una “… manina, riportata, di statuetta in marmo a grana grossa (m 0,09 x 0,06) …” e, infine, un’ “… altra simile …” alla precedente.
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Alcuni dei pezzi fotografati nella pubblicazione di Vaglieri vennero conservati ed esposti presso il Museo dell’Associazione Archeologica Prenestina; riconoscibili grazie alla già citata immagine della sala espositiva (fig. 4)45 e riscontrabili in parte in un elenco dei reperti dati in consegna a tale museo datato al 31 gennaio 1908 – quindi a pochi mesi dagli scavi – dove le opere sono suddivise tra quanto di proprietà dell’Associazione in seguito agli scavi stessi e quanto, in diritto di percentuale, di proprietà del Ministero46.
Fig. 5 L’insieme dei reperti statuari ritrovati negli scavi condotti di Dante Vaglieri in piazza Regina Margherita a Palestrina nel 1907 e documentati fotograficamente
45 Nell’immagine sono riconoscibili nella sede dell’Associazione sicuramente il “torso di statua
virile ignuda” (Vaglieri 1907, 135, 137 fig. 6; cf. infra) esposto in fondo alla sala al centro, riconoscibile dalla vistosa frattura in corrispondenza della spalla destra, e probabilmente la “… testa di giovine …” (Vaglieri 1907, 295 e 298, figg. 13–14, cf. infra) posta su un’alta base a destra. 46 Archivio SABAP-RM-MET, Fasc. SAR-LAZ I.1.062. Documenti dattiloscritti s.no. di protocollo intitolato “Catalogo del Museo Municipale di Palestrina”. I reperti ritrovati negli scavi diretti dal Vaglieri si ritrovano ai nrr. dell’elenco da 458 a 531 (indicati come provenienti “da P.zza Regina Margherita”) e ai nrr. da 532 a 611 (indicati come provenienti da “sotto la scala principale del Seminario”). Sui reperti conservati nella raccolta non si sofferma invece puntualmente la già citata relazione dell’ispezione del Ministero del 1917 compiuta da Enrico Stefani, che così descrive sinteticamente l’esposizione del piccolo museo indicando tra reperti meritevoli di particolare considerazione alcune delle teste in marmo ritrovate nello scavo del 1907: “ Soltanto una parte del materiale è collocato in scaffali; l’altra è disposta in basi, su cartoni od ammucchiata qua e là sul pavimento della stanza e quindi alla portata di tutti. Oltre ad una raccolta di pesi, stili, aghi crinali, lucerne, strigili, vasetti, monete imperiali, frammenti di terrecotte votive, cippi sepolcrali e qualche iscrizione, meritano speciale considerazione due teste muliebri ed una di atleta in marmo alla grandezza del vero; un grande sarcofago semplice di tufo, una bella serie di pigne; qualche busto funebre; alcuni frammenti di una lastra in bronzo dorata con decorazioni a palmette rilevate; un bel gruppo di specchi, alcuni dei quali con figure incise, una figuretta di guerriero in avorio; qualche antefissa e lastra fittile con decorazione figurata” (vd. supra).
Sculture dal Foro di Praeneste 163
Mentre non è stato possibile al momento individuare con certezza nessuno dei più di venti reperti di statuaria menzionati dal Vaglieri ma non fotografati, le serie di fotografie dei 13 pezzi ritenuti più significativi dallo scopritore e pubblicati nelle Notizie degli Scavi (fig. 5) ci permettono di riconoscere agevolmente quasi tutti i reperti riprodotti nelle foto tra le opere studiate da Nadia Agnoli e pubblicate nel catalogo del Museo Nazionale di Palestrina, dove molti sono oggi esposti47. L’unico reperto assente dal riscontro tra le opere fotografate nel 1907 e i pezzi oggi rintracciabili nelle collezioni statali, è costituita dalla scultura, indicata da Vaglieri sommariamente come “… torso di statua virile nuda, forse seduta (alt. m 0,60) …” e fotografata sia di fronte che di spalle alle figg. 13 e 14 di p. 477 delle Notizie48 (fig. 6). Dopo il 1907, non vi è ulteriore traccia documentaria del reperto, che tuttavia è attestato da un testimonianza come conservato nel cortile del Seminario a Palestrina ancora nel periodo tra il 1922 e il 193449. Nella scheda dedicata al reperto nel catalogo del volume “L’opera da ritrovare” del 1995 la scultura è indicata quale replica del tipo del c.d. Narcisso degli Uffizi, copia di epoca romana del I–II sec. d.C. di un originale greco del IV secolo a.C., riproducente uno dei Niobidi morenti50. Nella pubblicazione, dedicata al patrimonio artistico italiano disperso all’epoca della seconda guerra mondiale, la statua è indicata come rubata nel 1943 dalle truppe tedesche di occupazione a Palestrina51 e nell’unica notizia bibliografica a corredo si segnalava come essa fosse stata esposta in una mostra ospitata all’Antikesammlung di Basel nel 1960 come parte di una collezione privata di Bonn (e considerata un originale greco di IV secolo)52. 47 Agnoli 2002, vedi infra. 48 Vaglieri 1907, 477. 49 Traggo il dato da una testimonianza raccolta dalla Soprintendenza ed allegata agli atti dell’in-
dagine ancora in corso da parte del Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale. 50 Al tipo statuario testimoniato della scultura degli Uffizi, anche solo da quanto visibile dalle foto a disposizione, il torso ritrovato dal Vaglieri è certamente ravvicinabile per la posa di gambe e braccia e per l’inarcamento del busto (cfr. Geominy 1992, che regista la statua di Palestrina al n. 56 della voce Niobidai del LIMC). 51 Morozzi – Paris 1995, 23, cat. 7. 52 Schefold 1960, 242, n. 311 “um 380 … Privatbesitz, Bonn”. La mostra sembra aver rappresentato il presupposto per la creazione stessa del Museo (l’Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig, fondato nel 1961 e inaugurato nel 1966, con il decisivo contributo della collezione Ludwig, vedi Berger 1994). Il volume VI del LIMC (Geominy 1992), che precede di tre anni “L’opera da ritrovare”, in realtà indica già l’opera tra le collezioni del museo svizzero, citando, oltre al catalogo della mostra del 1960, la guida del Museo di Basel edita sei anni dopo (Schefold 1966, 20–21).
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Fig. 6 Torso di Niobide, dagli scavi condotti di Dante Vaglieri in piazza Regina Margherita a Palestrina nel 1907
Fig. 7 Basilea, Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig, Torso di Niobide da Palestrina, inv. BS 229
Sculture dal Foro di Praeneste 165
Nel 2002 la scultura viene segnalata per la prima volta alla Soprintendenza tra le collezioni del museo di Basilea (fig. 7) dove si trova a tutt’oggi, esposta nella Oberlichtsaal con il numero di inv. BS 229 ed etichettata in esposizione come “da Palestrina” e – dubitativamente – come un’originale del IV sec. a.C. Con l’eccezione della statua di Niobide a Basilea, come detto, degli altri 12 frammenti statuari pubblicati dal Vaglieri 10 sono oggi ricompresi nel catalogo del Museo di Palestrina53 mentre due soli reperti, conservati nei depositi, non sono confluiti nel volume54. 53 Cfr. Agnoli 2002, 289–291. Il primo reperto indicato da Vaglieri, il “torso di statua virile ignu-
da” alla fig. 6 di p. 137 delle Notizie degli Scavi del 1907 (Vaglieri 1907, 135) corrisponde al no. I.24 del catalogo del museo prenestino (inv. no. 64, 669, 87435; Agnoli 2002, 99–102) come “Torso maschile tipo Hermes che si allaccia il sandalo” (indicato come “… recuperato nel riempimento del pozzo individuato sotto la porta del seminario …”, ma in realtà proviene “… dagli sterri della piazza … all’angolo est verso via della Mola …” (oggi Via Thomas Mann), che portarono Vaglieri alla scoperta della struttura rettangolare, poi interpretata da Coarelli come monumento di Verrio Flacco. La “testa di giovane … con capelli ricci” alle figg. 8 e 9 di pp. 294–295 (Vaglieri 1907, 295) corrisponde al no. 1.18 (inv. no. 568; Agnoli 2002, 83–85); la statuetta di “donna vestita con chitone” alle figg. 10 e 11 di pp. 296–297 (Vaglieri 1907, 295) corrisponde al no. I. 22. (inv. 577; Agnoli 2002, 93–95); le due teste maschili alle figg. 12–14 di p. 298 (Vaglieri 1907, 295), corrispondono ai nrr. II.8 “testa ritratto di fanciullo” (inv. no. 571; Agnoli 2002, 162–163) e I.16 “testa di fanciullo” (inv. no. 573; Agnoli 2002, 78–80); il frammento di testa femminile alla fig. 15 di p. 299 (Vaglieri 1907, 295), corrisponde al no. I.7 (inv. 11920, 569; Agnoli 2002, 58), e la testa femminile alla fig. 18 di p. 300 al no. I.6 (inv. 570; Agnoli 2002, 55–58). La grande testa muliebre alle figg. 11–12 di p. 477 (Vaglieri 1907, 477), corrisponde al no. I.8 (inv. 11931, 578; Agnoli 2002, 58–60). Nel catalogo del Museo è pubblicato in realtà solo un frammento della testa, quello corrispondente al volto. La testa è però oggi esposta sostanzialmente nello stesso stato di conservazione del 1907, ricomposta con le ulteriori parti superstiti, evidentemente rintracciati solo dopo la pubblicazione di Agnoli (vedi infra). Il torso di statua femminile alla fig. 15 di p. 478 (Vaglieri 1907, 478), corrisponde alla statuetta di Musa danzante al no. I.14 (s.no. Agnoli 2002, 75–76) conservata nei magazzini di Tivoli; nel raffronto tra la foto del 1907 e quella edita nel 2002 il reperto sembrerebbe ora mancante della porzione delle gambe subito al di sotto dell’inguine, anche se l’altezza totale del reperto indicata nel catalogo del Museo (40 cm) è la medesima indicata da Vaglieri. Identico riferimento alla foto del 1907 edita alla fig. 15 di p. 478 è presente anche per la statuetta di medesimo soggetto alla scheda I.13 (inv. 87439, Agnoli 2002, 72–75), che non risulta tra le opere fotografate nel resoconto di Vaglieri. L’ultimo reperto fotografato in Notizie Scavi rintracciabile nel catalogo del 2002, la “testa di giovine” alla fig. 16 di p. 478 (Vaglieri 1907, 478) corrisponde, infine, al no. I.17 (inv. no. 11906; Agnoli 2002, 80–83). 54 Non trovano riscontro nel catalogo del Museo, ma risultano comunque ad oggi conservate presso i depositi del Museo, la testa muliebre pubblicata da Vaglieri alle figg. 16 e 17 di p. 299 (Vaglieri 1907, 296) e il frammento di statua femminile alla fig. 17 di p. 478 (Vaglieri 1907, 478). Purtroppo non mi è stato ancora possibile esaminarli. Nel caso del primo reperto la superficie del volto appare molto consunta e non permette di fare considerazioni sullo stile o sulla datazione del pezzo. Peculiare il trattamento della capigliatura, già annotato da Vaglieri (“testa muliebre con cuffia sulla parte posteriore, dalla quale escono i capelli che sono in alto annodati; dei nastri, l’uno passa sulla fronte e l’altro sull’alto della testa …”). Il secondo reperto consiste in una porzione di statua compresa tra l’ombelico e le cosce di una statua minore del vero resa in nudità ma con scarse tracce di un panneggio all’altezza dell’inguine. Va registrato che il re-
166
Leonardo Bochicchio Collocazione
Inv.
Vaglieri 1907
Agnoli 2002
Datazione proposta
1
Torso maschile tipo Hermes
Museo di Palestrina (Criptoportico)
64, 669, 87435
p. 135, fig. 6 di p. 137
I.24, pp. 99–102
Fine del II sec. a.C./ Inizio del I sec. a.C.
2
Testa maschile
Museo di Palestrina (Sala VI)
568
p. 295, figg. 8 e 9 di pp. 294–295
I.18, pp. 83–85
I sec. a. C.
3
Statuetta femminile
Museo di Palestrina (Sala II)
577
p. 295, figg. 10 e 11 di pp. 296–297
I.22, pp. 93–95
I sec. a. C.
4
Testa ritratto di fanciullo
Museo di Palestrina (Sala VI)
571
p. 295, fig. 12 di p. 298
II.8, pp. 162–163
II sec. d. C.
5
Testa di fanciullo
Museo di Palestrina (Sala III)
573
p. 295, figg. 13 e 14 di p. 298
I.16, pp. 78–90
Inizio del I sec. a.C.
6
Frammento di testa femminile
Museo di Palestrina (Magazzino)
569, 11920
p. 295, fig. 15 di p. 299
I.7, pp. 58
Fine del III sec. a.C./ primo quarto del II sec. a.C.
7
Testa femminile
Museo di Palestrina (Sala II)
570
p. 295, fig. 18 di p. 300
I.6, pp. 55–58
Fine del III sec. a.C./ primo quarto del II sec. a.C.
8
Testa femminile
Museo di Palestrina (Sala II)
578, 11931
p. 477, figg. 11–12
I.8, pp. 58-60
Seconda metà del II sec a.C.
9
Statuetta di musa danzante
Tivoli, Magazzini (?)
s.n.
p. 478, fig. 15
I, 14, pp. 75-76
Fine del II sec. a.C./ Inizio del I sec. a.C.
10
Testa maschile
Museo di Palestrina (Magazzino)
11906
p. 478, fig. 16
I.17, pp. 80–83
Fine del II sec. a.C./ Inizio del I sec. a.C.
11
Torso di Niobide
Antikenmuseum Basel, Oberlichtsaal
BS 299
p. 477, figg. 13–14
_
Copia di I–II sec. d.C. da originale del 380 a.C. ca.
12
Testa femminile
Museo di Palestrina (Magazzino) (?)
_
p. 296, figg. 16–17 a p. 297
_
_
13
Fr. statua femminile
Museo di Palestrina (Magazzino) (?)
_
p. 478, fig. 17
_
_
Fig. 8 Elenco delle sculture ritrovate negli scavi condotti di Dante Vaglieri in piazza Regina Margherita a Palestrina nel 1907
Per l’analisi puntuale e la datazione dei singoli reperti, che coprono un ampio orizzonte cronologico che va dalla fine del II sec. a.C. al II sec. d.C., (anche se perto è descritto con una certa cura al n. 543 dal succitato Catalogo del Museo Municipale del 1908 (vedi supra nota 46) e interpretato come una Venere: “… 543 M 5 12 Torsetto di Venere in marmo bianco di grana grossa, dall’ombellicolo al ginocchio destro, un lembo di marmo, scheggiato dall’inguine destro copre le parti pudiche e si riunisce alla coscia destra. Mis. 0,30 x 0,23 …”.
Sculture dal Foro di Praeneste 167
con una certa prevalenza di opere tardo-ellenistiche) si rimanda allo studio dei singoli pezzi già accuratamente compiuto da Nadia Agnoli (fig. 8). Nel merito va solo precisato che la testa femminile colossale ritrovata da Vaglieri nella prima parte dello svuotamento del pozzo è stata pubblicata nel catalogo del Museo in maniera incompleta, prima che venissero rintracciati e reintegrati tutti i frammenti che la compongono. Pare dunque opportuno proporre in questa sede un’immagine completa della testa esposta nel museo (fig. 9) che permetta di apprezzare pienamente i confronti, già evidenziati da Agnoli sulla base del solo frammento del volto, con una testa colossale in marmo pario dell’Agora di Atene, interpretata da Steward come Demetra e databile alla metà del II sec a.C. (fig. 10)55. Dell’insieme delle sculture rinvenute nel 1907, ad un sguardo complessivo, colpisce soprattutto l’eterogeneità, cronologica e tipologica, dei reperti, così come, in generale, la cospicua presenza di frammenti di opera di statuaria in marmo – spesso di piccole dimensioni – rinvenuti negli scavi eseguiti su tutta l’estensione della piazza, oltre che all’interno del pozzo. Su questi due aspetti già Vaglieri nel merito notava che l’alto numero di frammenti marmorei poteva essere collegato alla presenza di una “… calcara, che si è rinvenuta non lontana …” dal pozzo56. Così anche l’ampio orizzonte cronologico documentato, con opere tardoellenistiche e sculture di piena età imperiale, nonché la diversa tipologia dell’insieme delle sculture (in cui compaiono sia ritratti che opere di statuaria ideale o copie di originali tardo-classici), può giustificarsi come dovuto ad un accumulo in età post-antica nell’area della piazza di materiale marmoreo destinato alla calcificazione, proveniente sia dagli edifici nei dintorni57 ma forse anche da vari altri punti, anche distanti, della città antica. Sopravvissuti fortuitamente al fuoco o al riutilizzo residuale come materiale da costruzione, alcuni reperti sono stati poi ri-seppelliti come riempitivo negli strati di terrapieno della piazza, mentre buona parte di essi veniva gettata nel pozzo per liberare lo spazio pubblico attorno alla cattedrale. Dopo il 1907 e le proficue indagini di Vaglieri non sono registrati altri scavi nella piazza o ritrovamenti di particolare rilevanza nell’area del Complesso 55 Agnoli 2002, 59; cf. Steward 1998 e Steward 2012. 56 Vaglieri 1909, 295. La notazione di “non lontana” dal pozzo esclude senz’altro che essa coin-
cida con la calcara individuata da Sandra Gatti nel 2014 di fronte all’Antro delle Sorti (Gatti 2017, 216, nota 261). Quest’ultima inoltre è stata individuata con una precisa stratigrafia, che dimostrava come essa fosse stata ricoperta già in età antica e non intaccata da interventi recenti (Gatti 2017, 59). 57 Forse proprio dall’Aula Absidata quale luogo privilegiato di esposizione di opere d’arte al pubblico (Gatti 2017, 130, n. 261).
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Leonardo Bochicchio
Fig. 9 Palestrina, Museo Archeologico Nazionale di Palestrina: testa femminile, dagli scavi condotti di Dante Vaglieri in piazza Regina Margherita a Palestrina nel 1907, inv. 578, 11931
Fig. 10 Testa colossale di Demetra dall’agorà di Atene
Fig. 11 Palestrina, Museo Archeologico Nazionale di Palestrina: statua femminile dallo scavo dell’ex-Seminario Vescovile di Palestrina (foto archivio Sabap-Rm-Met)
Sculture dal Foro di Praeneste 169
degli edifici del Foro58 fino alle indagini messe in atto dalla Soprintendenza al momento dell’acquisizione degli immobili allo Stato e concentratesi poi soprattutto nel biennio 2003–2004. Nel 2004 durante dei saggi compiuti della Soprintendenza e tesi ad accertare la resa statica delle murature dell’Aula Absidata prospicienti la piazza è stato rinvenuto un eccezionale torso di statua femminile, in marmo pario, verosimilmente riutilizzato come materiale di riempimento di un terrapieno, prontamente analizzato e poi pubblicato da Nadia Agnoli59 ed oggi esposto al Museo di Palestrina (fig. 11). La studiosa ha convincentemente riconosciuto nella statua un originale greco, da ricondurre all’ellenismo medio ed in particolare, per stile, tramite il confronto con le figure femminili del gruppo di Licosura, alla mano di Demofonte di Messene, con una datazione, di conseguenza, tra la fine del III sec. e il primo quarto del II sec. a.C. (anche se è tutt’oggi vivo il dibattito sulla datazione dell’attività dello scultore)60. Avendo già avvicinato allo stile di Demofonte anche una delle teste nelle dimensioni al vero ritrovate dal Vaglieri nello scavo della piazza61 (fig. 12), tramite il suggestivo raffronto e le stringenti analogie tra la testa di Palestrina e quella dell’Artemide di Licosura (fig. 13), Agnoli propone di collegare testa e torso alla medesima raffigurazione di una divinità femminile in trono ipotizzando infine un collegamento tra questa ed una base, oggi a Berlino, rinvenuta nel 1885 nella zona delle “terrazze del Borgo” (poste immediatamente a monte del complesso degli edifici del Foro, tra la basilica e il santuario di Fortuna, scavate da Filippo Demma nel 200362), che riporta la dedica da parte di Lucius Quinctius Flamininus, quale trionfatore di Leucade e console, di un dono frutto del bottino di opere d’arte sottratte all’isola greca. Il bottino non è descritto esplicitamente dalle fonti, ma è noto che Demofonte aveva eseguito per Leucade una Afrodite Limenis, che Agnoli propone 58 Vedi Zevi 1979, 9, 17, nota 64 e 18, nota 74. Cf. Fasolo – Gullini 1953, 36–37 e 483–484;
Gullini 1973, 765–770.
59 La scultura è stata rinvenuta a un metro di profondità dal livello attuale della piazza, in uno
strato caratterizzato dalla commistione di materiali di epoca antica e moderna (in una situazione, possiamo immaginare, analoga a quella incontrata da Vaglieri), ed un metro più in alto del livello di calpestio antico (testimoniato, in quel punto, chiaramente dalla quota dello stilobate del colonnato del Foro posto di fronte all’erario). Il frammento pertiene ad una figura seduta e poggiata ad una spalliera e riprodotta nelle dimensioni al vero (altezza 57 cm, larghezza 66 cm, profondità̀ 38 cm) con più blocchi imperniati tra loro secondo la tecnica del piecing (vedi Agnoli 2010, 263; cfr. Demma 2012, 3). 60 Agnoli 2010, 270–275. 61 Quindi, come sottolinea Agnoli, i due reperti sono stati ritrovati non lontano l’uno dall’altro (Agnoli 2002, 55–58, I.6.; Agnoli 2010, 280). 62 Demma 2012.
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Leonardo Bochicchio
quindi, con un serrato ragionamento deduttivo, di riconoscere nel busto e nella testa ritrovati a Palestrina63.
Fig. 12 Palestrina, Museo Archeologico Nazionale di Palestrina: testa femminile velata, dagli scavi condotti di Dante Vaglieri in piazza Regina Margherita a Palestrina nel 1907, inv. 570
Fig. 13 Atene, Museo Archeologico Nazionale: testa di Artemide del gruppo di Lykosoura, inv. 17345
Parallelamente ai saggi che hanno portato al ritrovamento della statua studiata da Agnoli ed alle indagini di Demma sulle terrazze del Borgo, nell’ambito dei lavori di sistemazione del Seminario vescovile, la Soprintendenza provvide anche al recupero di parte della volumetria antica dell’Aula Absidata con la rimozione di uno spesso setto murario e dei solai che ostruivano, sui due diversi livelli, l’abside del mosaico nilotico. In questa operazione vennero recuperati una serie di materiali antichi reimpiegati64. In un gruppo di reperti possono riconoscersi i resti di partizioni architettoniche relative all’apparato decorativo della sala stessa, tra cui in particolare un grande architrave ritrovato in più frammenti, varie porzioni dei capitelli pertinenti al secondo ordine delle pareti, nonché numerosi frammenti di elementi
63 Agnoli 2010, 285–292. Cf. Demma 2012, 51–54, che giudica l’identificazione se non certa,
più che probabile.
64 Vedi Gatti 2017, 64.
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calcarei spugnosi, del tipo utilizzato per rivestire la volta e le nicchie dell’abside65. Oltre a questi importanti materiali architettonici, utili all’analisi della decorazione originaria della sala, sono stati recuperati, tra gli elementi del muro, anche frammenti di reperti statuari brevemente presentati da Sandra Gatti ma rimasti sostanzialmente inediti66.
Fig. 14 Palestrina, area espositiva del complesso degli edifici del Foro: statua maschile dal muro post-antico che chiudeva l’abside dell’Aula Absidata
65 Vedi Gatti 2017, 88–89. 66 Vedi Gatti 2017, 88, n. 75.
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Le sculture più interessanti sono rappresentati da un torso maschile semidisteso in marmo (fig. 14)67 e da un frammento di veste panneggiata con cintura in marmo (fig. 15)68; l’elenco dei reperti ritrovati comprende però anche un frammento di busto femminile funerario in calcare tardo-repubblicano (fig. 16)69, un torso di statuetta femminile in marmo (fig. 17)70, alcuni frammenti di un pannello strigilato71 insieme con altri frammenti marmorei più minuti (porzioni di una gamba72, di una coscia73, di una mano con un rotulus e un dito74, di un lembo di manto75 e di panneggio76). Per quest’insieme di reperti, diversamente quindi che per gli architettonici più chiaramente riferibili alla decorazione della sala, si riscontrata una forte eterogeneità cronologica e tipologica che ne denuncia la provenienza più disparata. È dunque lecito il dubbio che buona parte di essi fosse stato riutilizzato come materiale di costruzione reperito non solo in situ ma anche trasportando materiale da molto lontano (da una o più zone extraurbane occupate in antico da necropoli, ad esempio, nel caso del busto in calcare e dei frammenti di sarcofago strigilato, distanti cronologicamente tra loro almeno sei secoli), soprattutto nel caso dei reperti di dimensioni ridotte, forse destinati per lo più alla calcificazione e casualmente sopravvissuti come elementi di reimpiego costruttivo. Tuttavia per gli elementi di maggior dimensione e peso è legittimo per contro ipotizzare, in analogia con i frammenti architettonici ritrovati, una provenienza dalla Sala Absidata o dalle immediate vicinanze, come nel caso del torso maschile. In questo insieme eterogeneo occorre soffermarsi in prima istanza in particolare sul frammento di panneggio con cintura (fig. 15), che per le sue caratteri67 68 69 70
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Largh. 75 cm, alt. 60 cm; prof. 40 cm; per la datazione vedi infra. Largh. 23 cm, alt. 25 cm; prof. 20 cm; per la datazione vedi infra. Largh. 23 cm, alt. 16 cm; prof. 10 cm. Databile genericamente al IV–III sec. a.C. Largh. 17,5 cm, alt. 7,5 cm; prof. 10 cm. Si tratta di un frammento di una piccola statuetta di età imperiale di una figura femminile; lavorata a tutto tondo, se ne conserva la sola parte alta del busto, con una corta porzione del collo, frammentata lungo una diagonale che va dalla spalla destra alla metà circa del braccio sinistro. La possibilità di riconoscere nell’abito affibbiato un chitonisco e la presenza sul dorso di un risparmio di forma rettangolare, posto in diagonale a partire dalla spalla destra e caratterizzato da un foro per la posa di un perno metallico (che farebbe pensare all’alloggio e all’aggancio di una faretra), permettono di ipotizzare che si tratti di una raffigurazione di Diana Cacciatrice, sebbene non sia possibile determinare con esattezza la posizione delle braccia. Due frammenti combacianti: largh. 18 cm, alt. 29 cm; sp. 7 cm. Databile genericamente al III–IV sec. d.C. Lungh. 21 cm; largh. max. 12 cm; alt. 10 cm. Lungh. 27 cm; largh. max. 21,5 cm; alt. 15 cm. Lungh. 8,5 cm; largh. max. 7,5, alt. 9 cm. Diametro del rotulus 7 cm. Lungh. 9 cm; largh. max. 5 cm; alt. 17,5 cm. Lungh. 17,5 cm; largh. max. 16 cm; alt. 9 cm.
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Fig. 15 Palestrina, magazzini del complesso de- Fig. 16 Palestrina, magazzini del complesso degli edifici del Foro: frammento di statua gli edifici del Foro: busto funerario in dal muro post-antico che chiudeva l’abcalcare dal muro post-antico che chiudeside dell’Aula Absidata va l’abside dell’Aula Absidata
Fig. 17 Palestrina, magazzini del complesso degli edifici del Foro: frammento di statuetta dal muro post-antico che chiudeva l’abside dell’Aula Absidata
stiche può essere analizzato in connessione con la statua femminile ritrovata nel 2004 e le due teste dalle caratteristiche analoghe ritrovate da Vaglieri. Il frammento mostra difatti lo stesso tipo di marmo pario della statua e delle teste; dal raffronto, nonostante l’esiguità del frammento, appare chiaro che anche il soggetto della statua cui il frammento doveva in origine appartenere è strettamente analogo, trattandosi verosimilmente di un frammento di una figura
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femminile con un peplo cinto in vita, dalle dimensioni strettamente analoghe e reso in stile molto prossimo.77 La cifra stilistica della veste, infatti, è ben leggibile nel frammento, nonostante una significativa usura delle superfici dovuta al suo impiego come materiale di costruzione nel muro, ed appare contraddistinta dalla resa del panneggio che aderisce al corpo in maniera morbida ma allo stesso tempo compatta e materica78, in maniera molto prossima a quella della statua del Museo di Palestrina, soprattutto qualora si raffrontino il frammento con le parti non frontali del busto, a loro volta già convincentemente avvicinate per stile da Nadia Agnoli alle pieghe della veste della Demetra di Licousura. Possiamo ben ipotizzare che il frammento di panneggio ritrovato nel muro che chiudeva l’abside del mosaico nilotico provenga da un altro originale ellenistico, della fine del III o della prima metà del II sec. a.C., raffigurante una divinità femminile delle stesse proporzioni al vero della scultura ritrovata nel 2004 e da ricondurre anch’esso allo stile di Demofonte da Messene. Nello scavo di Dante Vaglieri le teste di proporzioni al vero ritrovate nelle vicinanze del punto che ha restituito il torso di statua seduta furono infatti due, a testimonianza della probabile presenza in una zona limitrofa al Foro di Praeneste di due statue di divinità di medesima epoca e mano. Come abbiamo visto la testa più completa (fig. 12) è stata ricondotta da Nadia Agnoli al busto ritrovato nel 2004 (fig. 11); potremmo di conseguenza oggi ipoteticamente ricollegare la testa no. inv. 569 (fig. 18) a questa seconda statua testimoniata dal frammento, forse anch’essa giunta a Palestrina dalla Grecia come frutto di un bottino di guerra79 o addirittura, in alternativa all’ipotesi di un’Aphrodite Limenis a se stante, in gruppo con l’altra secondo uno schema con due divinità femminili in trono come comunemente ricostruito, sulla scorta di Pausania, per il gruppo di Demetra e Despoina a Lykosura80. 77 La cintura del frammento misura 3 cm; 2,7 cm è invece la misura della cintura del torso del
Museo Prenestino. Ringrazio la direttrice del Museo, arch. Maria Grazia Cocotti, per l’occasione concessami di compiere le necessarie misurazioni sulla statua esposta nel Museo. Il raffronto autoptico tra il frammento e la scultura esposta ha anche permesso di stabilire che esso non rappresenta una porzione mancante della statua, ma appartiene ad una seconda statua analoga. 78 Agnoli 2010, 270–275. 79 Livio ricorda, ad esempio, che lo stesso Lucio Quinzio trionfatore su Leucade nel 197 a.C., celebrò il trionfo anche su Eubea in Eretria, l’anno prima e ne ricavò un ingente bottino (vd. Agnoli 2010, 287). Quanto alla presenza di altre opere di Demofonte in altre città greche il decreto che attesta dell’Afrodite Limenis a Leucade ricorda opere dello scultore in altre sei città, oltre a Leukas: a Lykosoura, a Kranai nell’isola di Cefalonia, a Kythnos, a Melos, a Gereniae ed a Oiantheia (vd. Agnoli 2010, 290). 80 Alcuni incassi sul fianco destro della statua – di difficile spiegazione per Agnoli, che ne ipotizza una funzione di adattamento della figura al piano di seduta (v. Agnoli 2010, 285) – giustificano in parte l’ipotesi della presenza di una seconda figura seduta accanto alla prima. Il fram-
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Fig. 18 Palestrina, Museo Archeologico Nazionale di Palestrina: testa femminile velata, dagli scavi condotti di Dante Vaglieri in piazza Regina Margherita a Palestrina nel 1907, inv. 569, 11920
Questo ulteriore testimonianza scultorea, riafferma dunque una costante già rilevata per la scultura prenestina, che vede uno stretto rapporto di Praeneste, durante il tardo ellenismo, con la Grecia, ed in particolare con le isole dell’Egeo81. Insieme al frammento di panneggio collegato al ritrovamento del 2004, il torso maschile semidisteso di dimensioni maggiori del vero (fig. 14) ritrovato reimpiegato riverso come materiale di costruzione è quello che, per le sue dimensioni, offre maggiori probabilità di provenire dalle immediate vicinanze dell’abside del mosaico nilotico. La scultura è stata restaurata nel 2014 e quindi esposta nel piccolo antiquarium ospitato nella sala con volta a crociera che occupa la porzione sud-orientale dell’Aula Absidata (in passato adibita a cucina del Seminario)82. mento con la dedica di L. Quinto Flaminino si trova inoltre inscritto su un blocco di cornice che rappresenta l’angolo superiore destro del donario, per il quale è stata ricostruita una lunghezza originaria di 123 cm (Demma 2012, 35) che potrebbe ben ospitare un gruppo di due statue, dato che il busto superstite ne occuperebbe esattamente la metà (66 cm). 81 Vedi Sandra Gatti in Agnoli 2002, 5. Come ha notato Nadia Agnoli a Palestrina tutti gli esemplari collocabili cronologicamente entro la fine della repubblica – ed in particolare tutte le sculture che sono state messe in relazione con la produzione egeo-insulare – sono in marmo pario (Agnoli 2002, 16–17). 82 Vedi Gatti 2017, 62, n. 34.
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La superficie della scultura è alquanto danneggiata da diffuse scheggiature, abrasioni e incrostazioni, molte senz’altro dovute all’allettamento nella calce del muro. Il marmo è bianco a cristalli medio-piccoli e lucenti, probabilmente pario. Si conserva la parte superiore della figura, acefala, priva del braccio destro, dell’avambraccio sinistro, del bacino e delle gambe. La statua rappresentava un personaggio maschile di dimensioni superiori al vero, recumbente sul fianco sinistro. Il personaggio è a torso nudo e parzialmente avvolto in un mantello, che copre la schiena, si avvolge intorno al gomito destro e ricade con un lembo superstite tra il braccio sinistro e il petto. Il braccio sinistro è abbassato e piegato in avanti all’altezza del gomito; il destro doveva essere sollevato. La disposizione asimmetrica delle clavicole dimostra che la testa doveva essere ruotata verso destra. La frattura del collo, irregolare e rovinata dall’uso della scultura come materiale di costruzione, non permette di stabilire con certezza come fosse inserita la testa, probabilmente lavorata a parte; analogamente la forte usura superficiale del marmo non consente di riconoscere sul petto o sulle spalle nessuna traccia di eventuali ciocche della capigliatura o della barba. Il braccio destro doveva essere assicurato con un profondo perno, installato in un foro irregolarmente circolare e relativamente piccolo in diametro83; la superfice sembra inoltre solo superficialmente lavorata in corrispondenza dell’alloggio del braccio, il che fa supporre che quest’ultimo doveva essere non molto sollevato e forse appoggiato sulle gambe. L’attacco tra busto e arto era inoltre favorito staticamente ed occultato anche dal panneggio scolpito lungo il braccio, come dimostra la disposizione dell’unico lembo superstite. La porzione inferiore del torso è lavorata per l’inserzione nel blocco in cui erano scolpite le gambe ma priva di perni; anche in questo caso il punto di giunzione tra i due blocchi doveva essere agevolato staticamente e nascosto dal panneggio lungo la linea dell’inguine. Sul retro la scultura è rifinita sommariamente e il mantello reso con larghe pieghe che ricadono rigidamente sul dorso in maniera radiale dalla spalla sinistra. Sulla fronte, anche in mancanza della parte inferiore della statua (dove doveva trovarsi la parte maggiore del panneggio, in contrasto plastico e luministico con il torso nudo), l’animata articolazione delle pieghe del pesante mantello in lembi dall’estremità appuntita è ancora percepibile nei pochi punti superstiti sufficientemente leggibili, lungo il braccio sinistro e nell’estremità destra in basso del torso, lì dove partono le linee convergenti sulla spalla sinistra. Per la tecnica di assemblaggio per piecing, l’uso del marmo pario, la trattazione stilistica del manto, l’uso del trapano “statico” per l’esecuzione del pan83 Alt. max. del foro 3 cm; largh. max. 2,5 cm; prof. 9 cm ca.
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neggio, nonché in base all’impostazione generale per forme e volumi solidi su una struttura corporea salda, ma con un modellato morbido della muscolatura, si propone una datazione della scultura al medio ellenismo, ossia al II secolo a.C. avanzato. L’identificazione del soggetto è ovviamente resa estremamente ardua dall’assenza della testa e delle braccia con in relativi attributi; tuttavia, sin dalla scoperta e dalla breve nota di presentazione del pezzo da parte di Sandra Gatti, l’ipotesi più plausibile è senz’altro quella, già avanzata in tale sede, che si tratti della personificazione di un fiume84. L’ipotesi è stata ripresa di recente anche da F. Coarelli, che suppone si tratti nel Nilo85. Il fisico maturo e opulento, ma non eccessivamente possente, porta difatti a scartare come meno verisimile l’ipotesi alternativa, pur plausibile nel caso di un torso di dimensioni maggiore del vero ma privo di attributi, di un soggetto eroico quale una raffigurazione di Eracle a riposo86. Al contrario, il modellato della muscolatura offre un buon confronto, soprattutto per la resa del ventre e dei muscoli pettorali, con quella del Nilo Vaticano, comunemente ritenuto la copia o la rielaborazione romana più vicina al presunto originale ellenistico della personificazione del fiume africano (fig. 19)87. Un indizio sull’identificazione in questo senso può forse aversi dalla presenza di un’incongrua porzione marmorea tra il braccio sinistro e il petto, oggi sostanzialmente informe a causa dello stato di conservazione del reperto, ma che non ha spiegazioni anatomiche o statiche, se non ipotizzando che servisse da sostegno a un gruppo plastico oggi perduto, ma necessario in antico all’identificazione iconografica del soggetto raffigurato88. È noto che nelle innumerevoli attestazioni di personificazioni di fiumi nell’arte ellenistica e romana, la presenza di gruppi scultorei associati alla figura principale in questo punto della raffigurazione si ha sostanzialmente solo per la
84 Gatti 2017, 88, n. 75. 85 Cf. Coarelli 2019, 135–136, fig. 64. 86 Sul tipo dell’Ercole recumbente vedi, in generale, Bonanno Aravantinos 1984. 87 Sul prototipo ellenistico della personificazione del Nilo e sulla presunta maggior vicinanza della
scultura vaticana ad esso vedi Swetnam-Burland 2009, 440–443. Cf. Jentel 1992, 725–726, Klementa 1993, 9–51. 88 Una riprova può essere la mancata rifinitura della porzione di lembo di mantello che ricade dal braccio in questo punto; le pieghe del manto, infatti, eseguite con la tecnica a trapano statico, mostrano visibili i fori eseguiti dalla punta dello strumento ma poi non ricongiunti a scalpello, probabilmente perché nascosti alla vista dal gruppo plastico perduto.
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presenza di una o più raffigurazioni dei piccoli putti che rappresentano i cubiti raggiunti dell’inondazione del Nilo89.
Fig. 19 Musei Vaticani, Braccio Nuovo – Museo Chiaromonti, Statua del Nilo
Questo particolare iconografico delle personificazioni antiche del fiume egizio in scultura risale ad un modello creato per la raffigurazione del Nilo nella prima metà del II sec. a.C. probabilmente durante il regno di Tolomeo V (210/181 a.C.), che è servito a sua volta come prototipo delle innumerevoli varianti di personificazioni di fiumi successive90. Dato il noto legame tra l’Aula Absidata e l’Egitto e ancor più con il Nilo, considerando la presenza del mosaico policromo nell’abside e vista la provenienza della scultura proprio dal muro che in epoca post-antica era venuto a porsi a diaframma tra l’abside monumentale che ospitava il mosaico ed il resto della vasta sala, l’ipotesi di vedere nel torso una delle prime raffigurazione note della personificazione del fiume assume un aspetto particolarmente pregnante. Appare perlomeno suggestivo, inoltre, che la presenza di una statua del Nilo nell’Aula Absidata fosse difatti già stata ipotizzata da John F. Moffit nel 1997 (ben prima quindi del ritrovamento della statua nel muro), che considerava la presenza di una statua del tipo proprio raffigurato dal Nilo Vaticano come 89 Sull’iconografia della personificazione dei cubiti, variamenti identificati come Paidia, Liberi o
Pecheis vedi Jentel 1994. Cf. Swetnam-Burland 2009, 439.
90 Per l’ipotesi che le prime attestazioni di personificazioni del Nilo vadano datate al regno di
Tolomeo V (210/181 a.C.) vedi Klementa 1993, 9–51; cf. Jentel 1992, 725–726; SwetnamBurland 2009, 440–443.
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necessario completamento dell’immagine del fiume nel mosaico, basando la sua ipotesi sullo stretto parallelismo tra il mosaico e l’ekphrasis condotta in parallelo tra l’immagine del fiume in piena e quella della sua personificazione antropomorfa circondata dai putti/cubiti in una delle Imagines di Filostrato91. Un’ipotesi, che nella formulazione di Moffit aveva già di per sé una certa verosimiglianza, e che sarebbe ora supportata anche da un’evidenza archeologica, per quanto non incontrovertibile. Se questa congettura cogliesse nel segno, la presenza di una personificazione scultorea del fiume Nilo nel contesto della decorazione dell’Aula Absidata avrebbe ovviamente conseguenze di non poco rilievo: unita agli altri elementi “egittizzanti” attestati dai ritrovamenti avvenuti nella zona del Foro di Praeneste, ben potrebbe leggersi dunque, sulla linea della lettura di Moffit, secondo una precisa volontà di creare una combinazione simbiotica di opere d’arte, sfruttando un legame iconografico tra media diversi (un mosaico – a sua volta verosimilmente legato ad un famoso prototipo pittorico – ed una scultura ricollegabile ad un prototipo alessandrino) per rafforzare il messaggio simbolico e allegorico comune. Il legame semantico tra il soggetto del mosaico e quello della statua andava poi ben ad inserirsi nello specifico richiamo simbolico dato dell’uso scenografico dell’acqua all’interno del monumento prenestino (che percolava lungo l’abside e sommergeva il mosaico) senza dimenticare che la personificazione del fiume egiziano aveva, nel culto isiaco, il rango di una vera e propria divinità92, con un preciso ruolo nelle narrazioni eziologiche della mitologia isiaca. Si può dire che in ciò essa assuma, nell’esegesi del ruolo degli edifici del Foro di Praeneste, uno status di prova in fondo analogo a quello rappresentato della stata di Iside in marmo bigio. Nell’ipotesi che quest’ultima trovi la propria originaria collocazione su una base vicina all’Antro della Sorti appare in effetti difficile sottarsi all’ipotesi di un voluto parallelismo con l’ipotizzata presenza nell’Aula Absidata di una statua del Nilo93. Tuttavia, anche accettando l’ipotesi identificativa del torso recumbente con il Nilo, non mi sembra tuttavia che il valore testimoniale del reperto vada spinto fino a farne un apporto d’informazione dirimente sulla lettura o meno in chiave di luogo di culto legato ad Iside o a Serapide dell’Aula Absidata e degli edifici circostanti, potendosi comunque leggere la presenza di una statua del Nilo in 91 Moffit 1997, 228–233. Lo studioso arriva anche a concludere che proprio questa ipotetica
statua del Nilo di Palestrina costituisca il prototipo per la copia di epoca flavia. Sulle ekphraseis del Nilo vedi anche Swetnam-Burland 2009, 447–453. 92 Tale doveva essere anche il ruolo del Nilo dei Musei Vaticani nel contesto dall’Iseo del Campo Marzio di Roma, da cui, come noto, proviene. 93 Gatti 2004, 59–60 e Gatti 2017, 117, n. 192. Cf. Coarelli 2019, 134–135.
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questo contesto sia come statua di culto, sia come opera d’arte collegata al mosaico quale elemento di prestigio di un luogo con esclusivo carattere civile e laico (secondo quella – al momento a mio avviso ancora irrisolvibile – dicotomia esegetica del Foro di Praeneste ben delineata dai recenti contributi in merito di Sandra Gatti e di Filippo Coarelli94).
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94 Gatti 2017, 116–132. Cf. Coarelli 2019, 120–147, che ribadisce la sua interpretazione del
complesso come Iseo-Serapeo.
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Leonardo Bochicchio
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Sculture dal Foro di Praeneste 183
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Crediti Figg. 1, 3, 7, 9, 11, 12 e 18: Archivio Sabap-Rm-Met; figg. 2 e 4: Pinci 2013, 248; figg. 5 e 6: Vaglieri 1907; fig. 10: Steward 2012, 658; fig. 13: Gary Lee Todd/Wikimedia Commons; fig. 14: autore; figg. 15–17: Roberto Darelli; fig. 19: foto Daderot/Wikimedia Commons.
Luciano Camilli
Appunti sull’instrumentum inscriptum prenestino. Tesserae monumentorum e pondera Riassunto: Nel contributo sono esaminati le c. d. tesserae monumentorum e i pondera documentati finora fra l’ instrumentum del territorio prenestino, quasi tutti già presenti nel CIL. La perduta tessera CIL XV 7106 viene analizzata nell’ambito della relativa classe di materiali; è poi riesaminata la serie di pesi in basalto con segni di valore puntinati, trovata dal Vaglieri negli scavi di Piazza Margherita di Savoia (NSc 1907) e conservata nel Museo di Palestrina, alla quale potrebbe appartenere il peso del valore di una libbra proveniente da una raccolta privata locale e acquisito dal museo; vengono infine ricostruite le vicende museali del pondus articuleianun (CIL XIV 4124,2), considerato disperso e ora ritrovato nella raccolta di pesi conservata al Museo Nazionale RomanoTerme di Diocleziano. Abstract: The contribution examines the so-called tesserae monumentorum and the pondera documented so far among the instrumentum of the Prenestinian territory, almost all of which are already present in the CIL. The lost tessera CIL XV 7106 is analysed in the context of the relevant material category. Then the series of basalt weights with dotted value signs, found by Vaglieri in the excavations of Piazza Margherita di Savoia (NSc 1907) and preserved in the Museum of Palestrina, is re-examined, to which the one-pound weight from a local private collection and acquired by the museum may belong. Finally, the museum’s history of the pondus articuleianun (CIL XIV 4124,2) is reconstructed. It was considered missing and has recently been recovered in the collection of weights in the Museo Nazionale Romano-Terme di Diocleziano.
È stata più volte sottolineata la mancanza di studi relativi all’instrumentum inscriptum nel suo complesso e la difficoltà di poterli realizzare; con questo termine infatti si intendono classi, assai diverse tra di loro, di oggetti legati alla vita quotidiana recanti un testo iscritto; il termine sostituisce a buon diritto nella letteratura più recente quello di instrumentum domesticum, utilizzato nei volumi del CIL, che in maniera impropria restringe all’ambito privato la sfera dell’uso di questi materiali eterogenei. L’instrumentum per la varietà e le caratteristiche dei materiali che si possono comprendere in questa dicitura, per la facilità di acquisizione e la conseguente loro dispersione ha attirato l‘attenzione di collezionisti ed eruditi almeno dalla seconda metà del XVI secolo, ma lo studio è stato prevalentemente affrontato con un approccio di carattere antiquario, rivolto ai
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Luciano Camilli
singoli materiali come oggetto di curiosità: questo tipo di approccio, che ne ha messo in secondo piano il loro carattere di documenti utili per la ricostruzione storica, ha fatto sì che difficilmente, anche nei casi più fortunati, si siano conservate notizie precise e verificabili sui pochi contesti di appartenenza, limitando così spesso anche la comprensione della funzione stessa dei singoli oggetti. Gli studi soprattutto del Dressel, sui materiali bollati come laterizi, anfore, lucerne ecc., di cui era stato precursore Gaetano Marini, con l’imponente e sistematica raccolta degli esemplari nei volumi del CIL XV dedicati alle diverse classi, hanno segnato un importante svolta in questo genere di ricerche, sebbene l’enorme sforzo di classificazione di coloro che collaboravano ai lavori del CIL, non potesse ancora, nel contesto culturale dell’epoca, portare all’utilizzo di diverse modalità di approccio1. Il panorama è mutato a partire dalla seconda metà del ’900, soprattutto negli ultimi decenni del XX secolo e in questi anni iniziali del XXI secolo, grazie alla maggiore importanza riconosciuta agli oggetti della cultura materiale e, per quanto attiene al materiale iscritto, ad una nuova e più avvertita attenzione alla cosiddetta epigrafia minore2. Per quanto riguarda Palestrina, l’attenzione fin dall’inizio si è rivolta in particolare a classi che per la loro qualità e per la consistenza numerica delle attestazioni hanno in un certo senso lasciato poco spazio agli altri materiali. Tralasciando i documenti più illustri – dalla fibula alla cista Ficoroni –, si ha una maggiore quantità di studi, anche recenti, per specchi, ciste e strigili, produzioni specifiche sulle quali in questa stessa sede compaiono alcuni contributi frutto del lavoro di preparazione del nuovo volume del CIL3; più disperse, ma quantitativamente significative, le informazioni relative a fistulae e al materiale laterizio bollato di produzione locale: lo studio ora dei più di 500 esemplari al 1
Per una storia dell’instrumentum domesticum v. Di Stefano Manzella 2015, in part. per un elenco delle classi di materiali comprese nel termine inserite nei volumi del Corpus 1169, nota 11; Buonopane 2017 con ampia bibliografia precedente. Cfr. anche Taborelli 2012 per i secoli XVIII e XIX. Sull’uso del termine domesticum e per il passaggio alla definizione instrumentum inscriptum nel convegno di Pecs v. Ormos 1992; Buonopane 2017, 21–22 con altra bibl. Sulla figura ed il ruolo del Marini nello studio dell’instrumentum si veda il volume pubblicato in occasione del bicentenario della sua morte: Buonocore 2015; tra i numerosi importanti contributi ivi raccolti, in particolare Di Stefano Manzella 2015; Mayer i Olivé 2015; v. anche Buonocore 2019. 2 Per riflessioni e aggiornamenti sul tema della cd epigrafia minore si vedano gli atti del primo colloquio dell’Associazione internazionale per lo studio delle iscrizioni minori Ductus, tenutosi a Losanna nel 2008 (Fuchs – Sylvestre – Schmidt Heidenreich 2012), con i successivi incontri. Per l’attenzione a classi diverse di materiali dell’instrumentum inscriptum suscitata nel convegno di Pecs del 1992 (Ormos 1992) v. i successivi convegni della serie Instrumenta Inscripta giunti ormai alla loro IX edizione, programmata a Graz per il 2020. Sulle banche dati epigrafiche comprendenti testi scritti su instrumentum v. Zaccaria 2008, relativamente alla Regio X. 3 Si vedano in questa stessa sede i contributi di F. Gilotta – D. Nonnis e G. Tagliamonte.
Appunti sull’instrumentum inscriptum prenestino
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momento raccolti, che ben documentano l’ esistenza di una produzione locale destinata soprattutto ad un consumo interno e diffusa a corto raggio, sta continuando a fornire molte interessanti novità4. A tutt’oggi il materiale rimane comunque sostanzialmente quello già noto in CIL XIV nella sezione relativa all’instrumentum, a cui si sono aggiunti solo pochi nuovi elementi provenienti dagli scavi effettuati a Palestrina dalla fine dell’8005: per la maggior parte degli esemplari era ignoto già all’atto della redazione del Corpus il luogo di conservazione; la situazione appare ora quasi immutata, ma qualche risultato si è potuto conseguire, per alcune classi come ad esempio per i signacula e potrà permettere il necessario controllo autoptico dei pezzi6. In questo contributo vengono presentati i primi risultati della ricerca su alcuni materiali di varia natura e funzione.
Fig. 1 CIL XV 7106
Il primo documento esaminato è la tabella enea CIL XIV 4120,4 = CIL XV 7106; EDR146551 e 130226 (fig. 1); appartiene alle cd. tesserae monumentorum, secondo la classificazione di Dressel: si tratta di tessere di bronzo raccolte nel CIL XV 2,17, sulla cui natura e funzione si era già da tempo discusso. 4
Un esame preliminare dei bolli laterizi con nomi di magistrato è stato oggetto di un contributo presentato in un incontro di studio tenutosi alla Pontificia Accademia Romana di Archeologia il 10 aprile del 2018: Camilli – Taglietti 2018. 5 Escludendo le classi di materiali più consistenti e significative, in CIL XIV comparivano solo 4123 (anulus aureus) disperso; 4120,4 (tabella aenea) e 4124,2 (pondus) per i quali v. sotto. Ad una prima ricerca che non pretende di essere in alcun modo esaustiva risultano inoltre da interventi condotti fra fine ’800 e inizi ’900 una tessera in osso (Vaglieri 1907, 144, da Via Loreto, contrada San Rocco in un contesto sepolcrale) identificata come tessera lusoria v. Baratta 2019, 139, nr. 48, irreperibile, e una serie di pesi in basalto per i quali v. sotto. 6 Vedi in questa stessa sede il contributo di F. Taglietti. 7 CIL XV 2,1 Tesserae monumentorum et tesserulae nominibus virorum laudabilium inscriptae: Dressel includeva nella classe delle tesserae monumentorum i nrr. 7106–7117 e, per la somiglianza formale e sicuramente per la presenza della formula augurale per gli imperatori i nrr.
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Luciano Camilli
Figg. 2a–b Tessera enea del praefectus urbi Asellus dall’ ager Nursinus. In basso a destra è riprodotta l’immagine in dimensione reale
Sono tabelle quasi quadrate, le cui dimensioni in tutti gli esemplari di cui si conservano le misure sono di circa cm 1,5 x 2 per uno spessore di mm 2 (figg. 2a– b); generalmente scritte sulle due facce, recano di norma, salvo il nr. 7107, da un lato la formula salvo o salvis seguita dai nomi del o degli imperatori e dall’altro un nome seguito dall’indicazione della carica, per lo più quella di praefectus urbi. Solo in due casi (7107 e 7108) è menzionata la prefettura al pretorio, in cinque tesserae (7113–7117) la carica ricoperta non è espressa ma, come già osservava Dressel, anche in queste si deve verisimilmente trattare di quella di praefectus urbi. Ai nomi dei magistrati fa seguito il verbo fecit; In CIL XV 7115–7117 compaiono invece due personaggi per uno dei quali il verbo associato è ancora fecit, mentre per l’altro il termine utilizzato è reparavit. Le iscrizioni sono realizzate in argento con la tecnica del niello. Soltanto negli ultimi tempi si è prestata maggiore attenzione a questa classe di materiali anche se la discussione resta sostanzialmente negli stessi termini posti da Dressel in CIL XV 2,1 p. 8878. La funzione di questi materiali non è ancora del tutto chiarita: ritenuti spesso, per la somiglianza del supporto, il ventaglio dei dati ponderali e l’orizzonte cronologico, exagia9, si è ora più propensi ad accettare la tesi tradizionale di Dressel che li considerava invece congruenti con le attività di ricostruzione e restauro di edifici e di statue, di cui conservare memoria, fenomeno ricorrente
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7118–7119, mentre nutriva forti dubbi sull’appartenenza al gruppo del nr. 7120 osservando come l’esemplare fosse di dimensioni maggiori rispetto ai precedenti, ma molto probabilmente anche per l’assenza della formula beneaugurante. In Elvers 2011 l’elenco aggiornato con la nuova documentazione. Cfr. anche ILS 810–814. V. in particolare Orlandi 1997; Elvers 1998; Elvers 2011. Non è questa la sede per affrontare il tema degli exagia, pesi campione per controllare la validità ponderale delle monete auree, solidus e suoi sottomultipli, in un periodo in cui l’adulterazione del peso della moneta aurea, come risulta dai reiterati interventi legislativi, era assai diffusa. Si vedano ad esempio Kent 1994, 8–11; Bendall 1996. Sull’oro nella Tarda Antichità v. Carlà 2009, spec. 99–116 e per gli exagia in particolare 103–107; sul fenomeno dell’adulterazione, in particolare per l’epoca di Giuliano, v. anche recentemente Drost 2016.
Appunti sull’instrumentum inscriptum prenestino
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nella Tarda Antichità; esse potrebbero essere deposte all’atto degli interventi svolgendo una funzione analoga a quella delle monete nelle fondazioni10. Le tesserae monumentorum, come già proposto da Dressel, testimonierebbero quindi operazioni di recupero o abbellimento di edifici che rientravano a Roma nelle competenze del praefectus urbi, come testimonia anche la grande quantità di iscrizioni, in gran parte basi di statue, avvicinabili per la presenza della formula di auspicio alle tesserae monumentorum. Su questo elemento ha più volte attirato l’attenzione Silvia Orlandi in suoi numerosi contributi, anche esaminando in particolare la tessera di Palestrina11. La tabella in esame, come appare dall’apparato del CIL, è data come proveniente da Palestrina in una lettera del 20 dicembre 1860 inviata a Wilhelm Henzen da Pietro Cicerchia, personaggio significativo per la storia dell’ archeologia prenestina della seconda metà dell’Ottocento12, e dallo stesso Cicerchia donata poi al padre Garrucci che ne dette comunicazione nel Bullettino dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica del 186613: della tessera, come di quasi tutte le altre tesserae monumentorum note, si sono poi perse le tracce. Il testo è il seguente: D / Salvo D(omino) n(ostro) / Valentini / ano pp Aug R / Paulinus / v(ir) c(clarissimus) praef(ectus) / urb(i) fecit; Silvia Orlandi ha convincentemente motivato l’identificazione del Valentiniano nominato con 10 Per le ipotesi al tempo della redazione del Corpus v. Dressel, ad l., 877. Considerano questi
materiali exagia, ad esempio Kent 1994, 9–10 che ne pone la produzione alla fine del regno di Valentiniano, con una nuova forma, in corrispondenza con gli exagia quadrati con monogrammi della pars Orientis; Carlà 2009, 107; propende per la spiegazione di Dressel Asolati 2016, 168; v. anche Bendall 1996. L’ambiguità comunque ancora resta: si veda ad esempio la recente attribuzione alle tesserae monumentorum di un pezzo, forse un exagium per tressis in un catalogo di vendita (Leu Numismatik AG, Auktion 5, 27. Oct. 2019, lot. 589) o la classificazione come peso di un esemplare acquisito nel 2014 dal British Museum da collezione: BM 2014, 8018.2 da confrontare sicuramente con CIL XV 7014a. Sull’uso delle monete in fondazione v. ad esempio alcuni possibili casi presentati in Notiziario del Portale numismatico dello Stato 3, 2013, 51–67; con uno sguardo anche cronologicamente più ampio alle finalità di deposizione in fondazione Perassi 2018, spec. 330–333. 11 Orlandi 1997; Ead. 2010, in particolare 333–335; Ead. 2013; Caldelli – Orlandi 2015. Da ultimo Orlandi 2017, spec. 217–218; nella stessa direzione Elvers 2011, 203–206, v. già Elvers 1998. 12 Dessau (CIL XIV 293–294) descrive l’operato del Cicerchia, che fu socio dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica, ne ricorda la collaborazione e ne lamenta la scomparsa avvenuta il 9 aprile 1882. Una breve notizia biografica con la riproduzione di un ritratto del Cicerchia ne dà A. Pinci in occasione del 190° anniversario della nascita (26 gennaio 1814): Pinci 2004. 13 Garrucci 1866, 58: ‘la nuova tesseretta fu trovata in Palestrina dicesi in una vecchia fabbrica’. La tabella è passata per le mani del Lovatti; non è possibile determinare l’esatta tempistica dei vari passaggi. Non è chiaro se essa fosse o meno ancora nelle mani del Garrucci; la comunicazione è la continuazione della ‘Notizia di alcuni oggetti di privata collezione’ nello stesso periodico alle pagine 22–30, spec. 22–23, in cui Garrucci menziona la dispersione del suo ‘privato museo’. V. anche Orlandi 1997, 34.
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l’imperatore Valentiniano III e collocato la prefettura di Paolino, altrimenti non noto, nel periodo 450–45214. In un recente lavoro K. L. Elvers15 ha ripreso in esame questa classe di materiali redigendo il catalogo di tutti gli esemplari fino ad allora conosciuti: in base alle identificazioni prosopografiche il materiale è collocabile nel corso del V sec. d.C. fino all’età teodericiana; lo studioso ha sottolineato come una definizione meno ambigua di questo materiale sia resa difficile dalla impossibilità di una autopsia di gran parte degli esemplari raccolti, privi di informazioni sui contesti di rinvenimento e per lo più documentati da tradizione manoscritta e dispersi in collezioni private.
Fig. 3
Tessera enea del praefectus urbi Paulinus in collezione privata della Westfalia
Il lavoro di raccolta di Elvers ha preso spunto dal reperimento di due nuove tessere, la seconda delle quali (fig. 3) ha strette relazioni con quella posseduta dal Garrucci16: ha infatti lo stesso testo di CIL XV 7106, ma per la diversa divisione del nome dell’imperatore fra la 2a e la 3a riga e la presenza di un segno d’interpunzione, Elvers non ritiene possa trattarsi dello stesso esemplare. Sono note altre tessere che presentano identico testo e documentate in più esemplari, e anche la mancata unicità delle attestazioni aveva spinto G. B. de Rossi a con14 Orlandi 1997, 37–38. 15 Elvers 2011: l’A. articola il materiale documentato in 18 gruppi. 16 La prima delle due tessere (Elvers 2011, 206–207, Taf. 56, 1 a–b), proveniente da una colle-
zione privata negli anni 90 del XX secolo ora nell’Archäologischen Museum der Westfälischen Wilhelms-Universität di Münster (inv. 2170), documenta un Auxentius senza indicazione della carica e attivo con una coppia imperiale, il R/ di questo esemplare non reca alcuna iscrizione, avvicinandosi per queste caratteristiche al CIL XV 7114 = Elvers 2011 nrr. 13–14, 219–220; viene proposta l’identificazione con Fonteius Litorius Auxentius (PLRE II, 9) p.u. nel periodo 441–445. La seconda tessera proviene dal mercato antiquario svizzero (Numismatica Ars Classica, Zurich, Auktion 5, 1992, nr. 621 = Numismatica Ars Classica, Auktion 54, 2010, nr. 1339) ed è ora in una collezione privata della Westphalia (Elvers 2011, 207–208, Taf. 56, 2 a–b).
Appunti sull’instrumentum inscriptum prenestino
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siderare questi materiali dei missilia che venivano ‘sparse nella dedicazione di opere pubbliche’17. Considerata però la non completa affidabilità delle vecchie trascrizioni non si può del tutto escludere che si possa trattare della ricomparsa dell’esemplare prenestino18. Una ulteriore difficoltà nella compiuta comprensione del fenomeno costitui va per Dressel la notizia del rinvenimento al di fuori dell’area di competenza del prefetto urbano per alcune di queste tessere19. La scarsità delle notizie disponibili, l’assenza di informazioni sui contesti o la dubbia affidabilità di quelle utilizzabili per questi materiali non consente allo stato attuale di andare molto al di la delle posizioni di Dressel20. Una singolare testimonianza delle vicissitudini che hanno spesso coinvolto gli “oggetti minori” prenestini è quella fornita dal peso CIL XIV 4124,2 = ILS 8634 (figg. 4–5)21. Trovato riutilizzato in una tomba moderna del cimitero di Palestrina e rinvenuto nella zona detta “Cascata delle acque” nel 1881, fu pubblicato da Guglielmo Gatti22. 17 De Rossi 1886; non escludeva l’ipotesi dei missilia Orlandi 1997, 33, ma osservava anche
giustamente che le ridotte dimensioni e la preziosità degli oggetti potrebbero aver agevolato uno spostamento dall’originaria località. 18 All’incirca negli stessi anni e nella stessa casa d’asta in cui compare per la prima volta la tessera con il p.u. di Valentiniano, sono venduti (Numismatica Ars Classica/Spink Taisei, Auktion 52, 1994) una considerevole quantità di pesi già al Museo Kircheriano, alcuni dei quali comparivano nella citata comunicazione del Garrucci 1866: cfr. Elvers 1998, in particolare nota 1. 19 Dressel, ad l., 887, lasciando infine aperta la possibilità dei missilia o del trasporto “antiquitus” delle tessere da Roma in altro luogo. Se il rinvenimento di CIL XV 7107 (= CIL V 8118,2 e ILS 810; Elvers 2011, nr. 3, 211) a S. Daniele del Friuli poteva infatti essere coerente con la presenza della prefettura al pretorio, Dressel considerava invece problematica l’esistenza di tessere menzionanti la prefettura urbana a Monteleone Sabino (CIL XV 7111 = CIL IX 6090,8; Elvers 2011, nr. 7, 214–215) e di uno degli esemplari di Audax p.u. sotto Iulius Nepos a Belgrado (CIL XV 7010c = CIL III 6335 e ILS 814; Elvers 2011, nr. 6, 213 s.); ai casi noti a Dressel va ora aggiunta la tessera da Norcia, anche se l’origine collezionistica del pezzo potrebbe non garantire la provenienza locale (v. Cordella – Criniti 1990 [= aggiornamento 2008, 103–113]; Cordella – Criniti 2000, 189–192). Il caso della tessera in esame rinvenuta a Praeneste (CIL XV 7106 = CIL XIV 4120,4; Elvers 2011, nr. 2) potrebbe spiegarsi però anche con l’estensione fino a 100 miglia da Roma dell’area di competenza del prefetto della città. Un esame delle vicende antiquarie del materiale sarebbe anche in questo caso necessario per definire meglio la questione. 20 Nella stessa direzione sostanzialmente le considerazioni di Elvers 2011. 21 Per errore in CIL XIV al nr. 4124 è reduplicato il nr. 2, creando così qualche confusione nelle citazioni; così ad esempio in Berrendonner 2009 sono scambiati i numeri relativi tra un peso da Fidene e quello di Preneste. 22 Gatti 1884, 67. Lo studioso in questo periodo era particolarmente interessato al tema dei pesi: già nel 1881 aveva raccolto quelli con l’iscrizione Artic (Gatti 1881) e più tardi si era interessato alla collezione di pesi capitolina riprendendo la questione nel lavoro del 1884. Sul peso di Palestrina v. anche la breve nota in NSc 1884 redatta dal Fiorelli in base alle informazioni di Vincenzo Cicerchia: Fiorelli 1884, 241–242.
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Luciano Camilli
Fig. 4 CIL XIV 4124,2: pondus articuleianum di cinquanta libbre da Palestrina
Fig. 5 Calco dell CIL XIV 4124,2
Il peso, in marmo bianco, fornito di manico, non conservato, si inserisce fra i numerosi pondera, iscritti o meno, di forma troncoconica su base ellittica, che presentano spesso una maniglia metallica (cfr. ad es. fig. 6)23. L’iscrizione con andamento circolare su più righe ha il seguente testo: Ti. Claud(io) Caes(are) IV, L. Vit(ellio) III / iussu aedil(ium) exac(tum) ad Artic(ul ) I( ) C( ) / L. Fig. 6 Peso in marmo del dispensator Dymas, Museo Nazionale Romano inv. 12779, da Dall’iscrizione, con la data conPalombara Sabina solare del 47 d.C., si ricava che il peso é da cinquanta libbre, convalidato ad Articul(---); Gatti, riteneva, basandosi sulla presenza nel nostro peso delle due lettere alla fine del testo, da lui lette I e forse C, che si potesse affermare che il luogo di conservazione dei pesi, già nell’epoca di Claudio, fosse in Capitolio24
23 Per la tipologia del peso, ad es., oltre quello di fig. 6 Friggeri – Granino Cecere – Grego-
ri 2012, 414–415, VI, 69 i: peso in marmo con dedica di Dymas ai Lari, con confronti (C. Cioffi), vedi un peso in travertino con la scritta exact(um) ad Artic(uleianum) anch’esso privo di maniglia da Ostia (Pavolini 1996, 114, con fig. 48). In generale sui pesi, ancora utile, con molti materiali e informazioni, Corti – Giordani 2001; molti i lavori di edizione di collezioni museali di pesi in questi ultimi tempi; contributi dedicati ai pondera in Instrumenta Inscripta VI (Buora – Magnani 2016). 24 Nella breve nota in Fiorelli 1884, è posta in dubbio la lettura dell’ultima lettera come C, v. infra nota 35.
Appunti sull’instrumentum inscriptum prenestino
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Figg. 7a–b Pondus articuleianum di venti libbre da Luni FIG. 7b
FIG. 7a
Dall’iscrizione risulta che il controllo dei pesi è nelle competenze degli edili, fatto normale in questo periodo. Come è noto exactum, exactum in, exactum ad o altre formule di simile tenore sono presenti su numerosi pesi e sono riferite alla competenza di verificare e convalidare (exigere) l’oggetto da parte dei magistrati25; fra i pesi in cui compaiono tali termini hanno una particolare evidenza, anche numerica, due serie: quella in cui è presente exactum ad Castoris, o espressioni similari26, e quella dei pondera articuleiana, a cui appartiene il peso da Palestrina27. Fra gli esemplari appartenenti a questa serie va segnalato un peso da Luni di recente rinvenimento (figg. 7a–b) che rappresenta l’attestazione più settentrionale nella penisola italica28; il nuovo peso presenta notevoli differenze sia dal punto di vista tipologico che del materiale, una pietra locale di colore tendente al nero; restano tracce dell’esistenza di una maniglia o di un elemento funzionale ad appenderlo a una stadera (si tratterebbe in questo caso di un contrappeso) e sono visibili segni di aggiustamento dell’oggetto al peso voluto; l’iscrizione è resa con grafia puntinata, l’indicazione del peso è poi reduplicata con lettere incise. Il peso, per la forma, il colore del materiale e le 25 V. Berrendonner 2009, 354. 26 Su questa serie v. ora Luciani – Lucchelli 2016 (con bibl.). Gli autori, osservando la distri-
buzione geografica dei pesi della serie, che appare in qualche modo complementare a quella dei pesi che esibiscono la convalida del p. u. Iunius Rusticus, sottolineano la diffusione quasi esclusivamente italica dei pondera articuleiana citando l’opinione, decisamente probabile, della Berrondonner che questi siano anche prodotti in Italia. 27 Sui cd. pondera articuleiana alla fine dell’800 attirò in particolare l’attenzione, come già detto, Gatti con l’esame di collezioni di pesi conservate a Roma: v. su di essi le recenti considerazioni di Berrendonner 2009 e 2012; Daguet-Gagey 2015, in particolare 487–498; 541–550, all’interno di un corposo esame dello sviluppo dell’edilità. Importanti riflessioni sulle competenze di edili e agoranomoi nella raccolta di saggi curata da Laurent Capdetrey e Claire Hasenohr (Capdetrey – Hasenohr 2012). 28 Mancusi – Mennella – Del Soldato 2014–2015 [2018].
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caratteristiche della scrittura, potrebbe costituire una sorta di collegamento con i noti e numerosi pesi in basalto29. La serie, come è noto, è stata messa in relazione ad un qualche intervento in materia di pesi e misure operato nell’ambito delle sue competenze dall’edile Articuleio ed effettuato nel 47, anno in cui Claudio oltre che console per la quarta volta ricopriva anche la censura; nel corso del tempo Articul( ) è stato variamente interpretato con riferimento all’oggetto o alla sua convalida o anche come una indicazione del luogo di conservazione dei pesi campione30. Qualche più dettagliata informazione sulla utilizzazione in antico del peso può probabilmente venire dalla sua provenienza. Già nelle Notizie degli Scavi, si dava notizia da parte del Fiorelli del rinvenimento in una vigna situata nella località “Cascata delle acque”, “nell’area dell’antico forum prenestino, accanto ai resti di un’antica strada, presso la quale non è impossibile … fossero state costruite delle taberne” per “indizi di edifici a reticolato con legamenti di opera laterizia”; il Gatti collegava ovviamente il rinvenimento alle attività di tabernari31. La località Cascata delle acque, da cui proviene il peso, è situata nella città bassa e così veniva chiamata nell’800 probabilmente poiché vi doveva ancora scorrere l’acqua del rivo al centro del pianoro, funzionale al sistema di approvvigionamento, distribuzione e smaltimento delle acque che è stato possibile ricostruire32. Non lontana dal luogo di rinvenimento potrebbe essere posta la Regio Macelli33: la presenza del peso ben si adatterebbe ad una area sede di attività commerciali34. Il pezzo fu recuperato da Vincenzo Cicerchia durante la ricerca di materiali riusati nel cimitero di Palestrina, dove era riutilizzato sulla tomba di Francesca Buratti, moglie del contadino Giovanni Tomassi; la sua acquisizione da parte degli organi di tutela fu oggetto di una lunga diatriba fra il Ministero della Pubblica Istruzione e il Tomassi, in cui ebbe ampio spazio Vincenzo Cicerchia, 29 V. infra. 30 Artic(uleianum) pondus: Gatti 1881 e 1884; Dessau nell’apparato al peso da trenta libbre al
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Kircheriano esaminato in Gatti 1881 (ILS 8633); norma per Höbenreich 1997, 319, probabilmente per suggestione della lex Silia de ponderibus del III a.C: pondera publica exacta ad legitimam normam, Festus 288L, cfr. Crawford 1996, 737; Berrendonner 2009, 335–336, anche per la possibilità che si tratti del luogo di conservazione e di identificare Articuleius. V. anche Mancusi – Mennella – Del Soldato 2014–2015 [2018], 265–266. V. infra. Gatti 1884, 66. Raiano 2018, in particolare per l’identificazione della località, 530. Vedi in questo stesso volume il contributo di Diana Raiano che ringrazio per le utili informazioni. Berrendonner 2009, 364–365. sulle aree preferenziali di localizzazione dei pesi (fora e macella) e sulla scala dei valori ponderali documentati per i pondera articuleiana (367–368); v. anche Bermejo Meléndez – Campos Carrasco 2009 sull’identificazione di ambienti riservati agli edili per la conservazione dei pesi ad Arucci/Turobriga nella penisola iberica.
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divenuto anch’egli dopo la morte del padre Pietro, avvenuta nel 1882, Ispettore agli scavi di Palestrina. La vicenda può essere ricostruita con l’aiuto del materiale conservato all’Archivio Centrale di Stato. Il Ministero aveva deciso di acquistare il pezzo per le collezioni del costituendo Museo delle Terme, ma sorse una disputa sulla determinazione del prezzo in cui ebbe ampio spazio l’esatto luogo di rinvenimento se nella vigna di proprietà, come affermava Giovanni Tomassi, o sulla via pubblica; ci si accordò infine sulla somma di 30 lire anticipate dal sindaco di Palestrina e rimborsate dal Ministero senza che però, con grande disappunto del Ministero stesso, il pezzo fosse realmente consegnato. Dall’ultimo documento si ricava l’arrivo del peso a Roma con l’ingresso nelle collezioni del Museo delle Terme35. Dalla immissione in museo, del peso si sono in qualche modo perse le tracce, è infatti rimasto per moltissimo tempo nei depositi musea li senza inventario e nel corso degli anni si è persa notizia della provenienza, 35 ACS, AABBAA, II versamento, Busta 257, fasc. 4468. Dalla nutrita corrispondenza conservata
nella pratica si possono seguire passo dopo passo le peripezie amministrative del peso. Vincenzo Cicerchia l’8 luglio 1884 comunica al Fiorelli l’invio di un calco dell’iscrizione posta sul peso con delle considerazioni sul luogo di rinvenimento corredate di una piccola pianta basata su quella del Garrucci già utilizzata da Fiorelli. Alla richiesta del Gatti di inviare un calco migliore per poter controllare meglio la lettura delle lettere in frattura, Cicerchia risponde il 20 agosto di aver inviato due calchi in gesso e che, a suo parere, la lettera in frattura sembra essere una S piuttosto che una C; nella pratica sono conservati anche due calchi in velina e grafite dell’iscrizione. Nel corso dei mesi di settembre e ottobre si può seguire il contenzioso per l’acquisto del pezzo; il Tomassi rifiuta l’offerta del Ministero della somma di 20 lire perché il peso è stato “rinvenuto in un suo fondo e non nella pubblica via”. Segue evidentemente una discussione nella quale gli organi del Ministero affiancano una posizione più dura, minacciando velatamente di utilizzare mezzi coattivi, ai toni ufficiali più misurati: una minuta con la scritta ‘sospesa’ sembra riprendere considerazioni presenti nelle lettere iniziali del Gatti. Finalmente il 5 novembre dal Ministero viene inviata al sindaco di Palestrina l’autorizzazione all’acquisto del peso, evidentemente nel frattempo conservato in Comune; nel corso di questo mese viene concluso l’acquisto con l’anticipo della somma di 30 lire da parte del sindaco – pagate con quietanza del 12 novembre al figlio di Giovanni Tomassi, Alfonso –, segue l’autorizzazione al rimborso da parte del Ministero il 27 novembre. Anche la consegna del pezzo al Museo non avviene in maniera tranquilla; all’ inizio del gennaio 1885 il Ministero chiede alla direzione del Museo delle Terme se il peso fosse arrivato direttamente ricevendo una risposta negativa da parte del direttore De Ruggiero datata 23 gennaio. Il 2 febbraio il Ministero rivolge una richiesta urgente al Cicerchia facendo riferimento al suo impegno di consegnare direttamente il peso contenuto in una comunicazione del sindaco di Palestrina del 15 novembre; il 6 di febbraio Cicerchia risponde, ripercorrendo le vicende, affermando che la sua mancata venuta a Roma, promessa al segretario de Municipio, non ha potuto avvenire per circostanze di famiglia e che in Comune “il peso giace vicino al focolare dei paggi municipali”. Il 10 febbraio 1885 si richiede al Sindaco di Palestrina, ricordando gli estremi del pagamento, di far consegnare sollecitamente al Ministero il peso; il signor Vincenzo Cicerchia contesta infatti l’affermazione del sindaco relativa al suo impegno di consegna diretta e dice che il peso si trova tuttora presso il Municipio. Finalmente il 20 febbraio 1885 il capo dell’economato del M.P.I chiede alla Direzione Generale AA.BB.AA la restituzione della somma di 4 lire date al Sig, Giuseppe Arena per il trasporto a Roma di una ‘lapide ponderaria’.
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situazione che sembra aver condiviso con molti altri materiali prenestini, quali ad esempio i bolli laterizi, giunti al museo tra fine ’800 e inizi ’90036. Soltanto più di cento anni dopo, nel 1992, nel corso di una schedatura generale di questa classe di materiali, i pondera sono stati raccolti in un magazzino e inventariati; fra di essi compare inventariato con il nr. inv. 392273 il peso da dieci libbre (ILS 8635) che aveva permesso al Gatti nel 1881 di stabilire la corretta lettura ad Artic(---) (fig. 8)37; anche il pezzo prenestino è stato inventariato in tale occasione e ho potuto riconoscerlo nell’esemplare con nr. inv. 392568, considerato di provenienza ignota, che pesa, stando a quanto indicato nella scheda, kg 15, 8 (fig. 9).
Fig. 8 Pondus articuleianum in marmo di dieci Fig. 9 CIL XIV 4124,2: pondus articuleianum in marmo di cinquanta libbre, da Palelibbre, Museo Nazionale Romano inv. strina, Museo Nazionale Romano inv. 392273 392568
Problemi organizzativi e logistici, e la successiva chiusura dei musei a seguito dell’emergenza sanitaria non hanno ancora purtroppo permesso un controllo autoptico ed una verifica della lettura in particolare dell’ultima lettera. Proprio a tal fine è comunque importante il recupero della attuale collocazione del pezzo. Infine, restando ancora sul tema, vengono qui presi in esame una serie di pesi in basalto (fig. 10) con l’indicazione dei valori ponderali (fig. 11) che furono rinvenuti nel 1907 nello “spurgo di un pozzo” nella Piazza Savoia (poi Margherita di Savoia) insieme ad altri materiali di varia natura e cronologia
36 Vedi Camilli – Taglietti 2018, 336 con nota 167. 37 Gatti 1881, 193–194, Tav. N,1.
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Fig. 10 Pesi in basalto da Piazza Savoia nel Museo Archeologico Nazionale di Palestrina
Fig. 11 Calco con i segni di valore dei pesi in basalto da Piazza Savoia, nel Museo Archeologico Nazionale di Palestrina
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Figg. 12a–b Palestrina, scavi in Piazza Savoia: rilievi del pozzo
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(figg. 12a–b)38; appartengono alla nota tipologia dei pesi in basalto, iscritti o meno, di forma sferica decalottata con i poli appiattiti, per renderne più agevole l’impilaggio nelle operazioni di conservazione e di pesatura. Tale forma è in uso fino all’età bizantina e non fornisce quindi alcuna indicazione cronologica. Con questa tipologia sono attestati sia pesi in basalto, quasi esclusivamente prodotti nell’Italia centrale, sia esemplari realizzati in una più usuale pietra chiara o più raramente in pietra nera, simile nell’effetto al basalto, materiali localmente disponibili. Il basalto (o pietre similari) presenta ottime caratteristiche, “elevata durezza, resistenza all’abrasione e agli urti”, che lo rendevano più idoneo alla produzione di pesi “ufficiali”, che potevano essere distribuiti da Roma alle altre città. La scelta di realizzare pesi in pietre nere locali può essere stata dettata dal desiderio di assimilarli ai pesi con maggiore prestigio e affidabilità39. L’iscrizione, quando presente, consiste quasi sempre nel segno di valore relativo al peso medesimo nel sistema della libbra, reso per lo più, come anche nel caso in esame con grafia puntinata40. Gli esemplari rinvenuti nel pozzo erano pesi da dieci, cinque, tre e due libbre oltre a quelli di tre, due e un’oncia: il valore è indicato con puntini disposti a formare rispettivamente X,V, III, II per i multipli della libbra e con i soli puntini ad indicare la quantità delle once per i sottomultipli; una particolarità che fu immediatamente notata all’atto della scoperta, e che a quanto mi risulta resta ancora tale, è che le indicazioni del valore sono inserite all’interno di un “cerchio codato” che potrebbe essere plausibilmente una Q e che può svolgere anche 38 Vaglieri 1907, 132 per l’inizio degli scavi; 289 per l’importanza dell’intervento che fu assunto
direttamente dall’Ufficio scavi del Ministero della Pubblica Istruzione sotto la direzione del Vaglieri; per l’individuazione e l’inizio dello svuotamento del pozzo da cui vengono frammenti di sculture e iscrizioni insieme a molto altro materiale diverso v. 475–479. La descrizione dello “spurgo del pozzo” continua alle pagine 683–691; in particolare per i pesi 689: viene riportata, insieme ai dati ponderali degli esemplari e a quelli degli esami di laboratorio, una breve nota metrologica di G. Lazzarini, che sull’argomento tornerà più ampiamente (Lazzarini 1908). I pesi sono esposti nel Museo Archeologico di Palestrina; recentemente ne è stata immessa in rete una bella immagine sulla pagina facebook del Museo Archeologico Nazionale di Palestrina MANP @museopalestrina. 39 Per i pesi di forma sferica decalottata v. in generale Corti – Giordani 2001, 283–295, in particolare 283–285 e 291–293 per l’origine centroitalica dei pesi in basalto sulla base dell’esame dei quattro esemplari in pietra nera nelle raccolte modenesi. Numerosi i pesi in basalto in Friggeri – Granino Cecere – Gregori 2012, 411–414 ma, pur essendo riuniti esemplari con diversi valori, non appare probabile, essendo di provenienza ignota, che appartengano a set ponderali; per altri pesi in basalto in varie raccolte museali, recentemente ad esempio Sutto 2016; Mainardis 2016 e Dimartino 2016. Nel contesto della tendenza all’assimilazione con i pesi in basalto centroitalici va certamente considerato il peso rinvenuto a Luni, già citato. In generale Berrendonner 2009, spec. 356–359 sul ruolo dei magistrati nel processo di fabbricazione e di distribuzione dei pesi; v. anche l’ampia e documentata analisi in Pérez Zurita 2011. 40 Di Stefano Manzella 1987, 139.
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funzione decorativa41. I pondera prenestini sono particolarmente significativi; a quanto mi risulta non è nota per questa tipologia di pesi nessuna altra attestazione di un complesso unitario che, come fu osservato fin dall’inizio, costituisce un set ponderale quasi completo, con la sola assenza del peso di una libbra e del semisse; anche in ragione del materiale con cui sono realizzati, essi potevano essere con tutta probabilità pesi campione sui quali controllare gli altri strumenti necessari alla vita della comunità. Le informazioni relative alle condizioni di ritrovamento non permettono di avanzare alcuna ipotesi; certamente va però sottolineato che un tale rinvenimento unitario, sia pure in uno scarico di pozzo, è avvenuto nell’ area forense sulla quale insistevano edifici pubblici come ad esempio l’aerarium42. Pur nell’impossibilità di andare oltre, almeno al momento, nel tentativo di individuare il significato di questo materiale, è però possibile fornire alcuni ulteriori elementi. Come si è detto, il set di pesi si componeva, all’atto del rinvenimento, di sette pezzi, assenti quelli di libbra e semisse. Escludendo i materiali che furono destinati ai due nuovi musei delle Terme e di Villa Giulia e quelli dispersi nel mercato antiquario, i ritrovamenti dagli scavi a Palestrina di fine ottocento – inizi novecento, almeno in parte, furono conservati nel Museo dell’Associazione Archeologica Prenestina, che in quegli anni si stava costituendo43; questi materiali confluirono, come è noto, nel Museo archeologico di Palestrina, al momento della sua istituzione, e tra essi sono i sette pesi da Piazza Savoia. I pesi esposti sono attualmente otto con l’aggiunta di una semuncia che non reca diversamente dagli altri, alcuna indicazione di peso, come spesso accade per questo valore: potrebbe forse trattarsi del peso di mezza oncia di cui si fa generica menzione nelle Notizie degli Scavi dello stesso anno 1907 e ricongiunta, o piuttosto
41 Lazzarini 1908, 71–72 proponeva di vedere nel cerchio codato, se considerato una lettera
Q, il nome del magistrato che aveva convalidato e depositato i pesi nel ponderarium o anche un modo per indicare la corretta posizione di lettura, ad evitare possibili confusioni come nel segno delle tre libbre. Una Q realizzata nella stessa maniera è in un peso, forse una semuncia, nella collezione del Museo Civico di Trieste; la Mainardis, considerando giustamente “troppo criptica” l’ipotesi di guida alla lettura, propone di vedervi il marchio di un’officina e quindi il nome del produttore: Mainardis 2016, 336. Come semplice suggestione mancando ogni indizio cronologico, si potrebbe vedere nella Q la sigla di q(uaestor) in relazione alle competenze di tale magistratura. 42 Sull’area v. in questa stessa sede il contributo di S. Gatti, che ringrazio per le utili indicazioni fornitemi. 43 L’associazione nasce nel 1905: v. Pinci 2007, con una vecchia foto della stanza che ospitava il museo; notizia dell’Associazione, del suo Museo e, in particolare, per una raccolta di pesi Vaglieri 1909, 81–82. Cfr. Marucchi 1932, 60: oggetti provenienti principalmente da scavi degli anni 1907–1909, tra cui in un armadio sulla seconda parete “pesi, strigili, aghi crinali ecc.”.
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attribuita alla serie per la somiglianza44. Va segnalata anche, la presenza nel museo (inv. nr. 7709) di un peso da una libbra (fig. 13) che proviene dall’acquisizione della collezione Tomassi da parte della allora Soprintendenza Archeologica del Lazio. Il peso risulta di un certo interesse, perché della stessa forma e materiale, e con l’indicazione del valore ponderale in un “cerchio codato”, dei sette pesi in esame45; esso potrebbe appartenere alla serie rinvenuta nel Fig. 13 Peso in basalto di una libbra dalla collezione 1907, completandola per la libTomassi. Museo Archeologico Nazionale di Palestrina inv. 7709 bra mancante Allo stato attuale non è possibile fare delle ipotesi suffragate da dati verificabili, ma si può ipotizzare che le vicende del peso da una libbra possano essere intrecciate con quelle dell’Associazione Archeologica Prenestina della quale sono documentati interventi di scavo, fra i quali inizialmente, quello in piazza Savoia, poi assunto direttamente dal Ministero della Pubblica Istruzione. In conclusione l’eterogeneità dei materiali esaminati, seppure unificati dal filo rosso della loro, reale o solo ipotizzata, natura metrologica, unitamente alla assenza e/o genericità delle indicazioni di contesto, rende impossibile giungere, almeno al momento, a risultati che non siano solo preliminari ad una migliore conoscenza dell’instrumentum prenestino nell’ambito del patrimonio epigrafico di Praeneste. 44 I pesi compaiono già in numero di 8 in Quattrocchi 1956, 54, nr. 176; un peso in basalto
di gr 12 è in Vaglieri 1907, 144 in un elenco di materiali, in cui compare anche la tessera ora irreperibile (v. supra nota 5) e un peso in “marmo” di gr 300, rinvenuti però in contrada San Rocco. Una scheda degli 8 pondera è in Marzatico – Gebhard – Gleirscher 2011, 454 (C. Travaglini). 45 Sulla collezione Tomassi e la sua composizione v. Quilici 1983; Quilici 1985; nella raccolta erano anche 18 pesi da telaio, oltre ad un contrappeso e 3 pesi da bilancia. Per Quilici gran parte dei materiali votivi in terracotta della raccolta potrebbero venire dal Santuario di Piazza Ungheria (ma v. Onorati 1992, 603, nr. 29), diversa però può essere la provenienza di altro materiale, tra cui i pesi da telaio. Dalla raccolta Tomassi viene anche un piccolo gruppo di monete: Demma 1997. Per le caratteristiche del “collezionismo tutto municipale” di Palestrina, Quilici 1983, 88. Di un risveglio di interesse della città, connesso anche alla nascita dell’Associazione, parla Vaglieri 1909.
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Gatti 1881 = G. Gatti, Della leggenda EXACT. AD ARTIC nelle iscrizioni ponderali, AnnInst 53, 1881, 181–196; 333–334 (con una Appendice di G. B. de Rossi, sull’epigrafe del centumpondio ercolanese dell’a. 47), 196–203. Gatti 1884 = G. Gatti, Antichi pesi inscritti del Museo capitolino, BCom 12, 1884, 61–73, tavv. VI–VII. Höbenreich 1997 = E. Höbenreich, Annona. Juridische Aspekte der stadtrömischen Lebensmittelversorgung im Prinzipat, Graz 1997. Kent 1994 = J. P. C. Kent – R. A. G. Carson, Roman Imperial Coinage, X. The Divided Empire and the Fall of the Western Parts A.D. 395–491, London 1994. Lazzarini 1908 = M. Lazzarini, Una serie di pesi romani campioni, BCom 36, 1908, 69–76. Luciani – Lucchelli 2016 = F. Luciani – T. Lucchelli, Pondera exacta ad Castoris, in: Buora – Magnani 2016, 265–290. Mainardis 2016 = F. Mainardis, La collezione di pesi romani del Civico Museo di Storia ed Arte di Trieste, in: Buora – Magnani 2016, 327–350. Mancusi – Mennella – Del Soldato 2014–2015 [2018] = M. Mancusi – G. Mennella – M. Del Soldato, Un peso litico con iscrizione da Luni, Archeologia in Liguria, n. s. 6, 2014–2015 [2018], 262–267. Mayer i Olivé 2015 = M. Mayer i Olivé, Gaetano Marini y el estudio del Instrumentum inscriptum: notas sobre su contribución científica a través de la preparación y posterior publicación de sus Iscrizioni Antiche Doliari, in: Buonocore 2015, 1153–1165. Marucchi 1932 = O. Marucchi, Guida archeologica della città di Palestrina, 3a ed., Roma 1932. Marzatico – Gebhard – Gleirscher 2011 = F. Marzatico – R. Gebhard – P. Gleirscher, Le grandi vie delle civiltà: relazioni e scambi fra Mediterraneo e il centro Europa dalla preistoria alla romanità, Trento 2011. Onorati 1992 = M. T. Onorati, Teste votive di Palestrina: recuperi e dispersioni, MEFRA 104,2, 1992, 597–657. Orlandi 1997 = S. Orlandi, “Salvo domino nostro”, MEFRA 109,1, 1997, 31–40. Orlandi 2010 = S. Orlandi, L’epigrafia romana sotto il regno di Odoacre, in: G. Bonamente – R. Lizzi (ed.), Istituzioni, carismi ed esercizio del potere (IV–VI secolo d.C.), Bari 2010, 331–338. Orlandi 2013 = S. Orlandi, Le testimonianze epigrafiche, Bollettino di Archeologia Online IV, 2–3–4, 2013, 45–59 (http//www.bollettino di archeologia online.beniculturali.it/bollettino.php). Orlandi 2017 = S. Orlandi, Les préfets de la Ville et les témoignages épigraphiques dans la Rome tardo-antique, AntTard 25, 2017, 213–222. Ormos 1992 = M. Ormos (ed.), Instrumenta Inscripta Latina, in: Atti del Convegno, Specimina Nova Dissertationum Inst. Hist. universitatis Quinquecclesiensis de Iano Pannonio nominatae, Tomus VI, Pars Prima, 1990, Pecs 1992. Pavolini 1996 = C. Pavolini, La vita quotidiana ad Ostia, Roma/Bari 1996.
Appunti sull’instrumentum inscriptum prenestino
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Luciano Camilli
Crediti Fig. 1: CIL XV 7106; figg. 2a–b: Cordella – Criniti 1990, 154; fig. 3: Elvers 2011, nr. 2; fig. 4: CIL XIV 4124,2; fig. 5: ACS, AABBAA, II versamento, Busta 257, fasc. 4468; fig. 6: Friggeri – Granino Cecere – Gregori 2012, 414, VI, 69 i; figg. 7a–b: Mancusi – Mennella – Del Soldato 2014–2015 [2018], 264, figg. 2–3; figg. 8 e 9: su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo – Museo Nazionale Romano; fig. 10: Marzatico – Gebhard – Gleirscher 2011, 454; fig. 11: ACS, Archivio Gatti, Fasc. 22 – Fuori Roma, nr. 10174; figg. 12a–b: ACS, Archivio Gatti, Fasc. 22 – Fuori Roma, nr. 10163–10164; fig. 13: su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo – Museo Archeologico Nazionale di Palestrina. Figg. 5, 11 e 12 a–b: su concessione dell’Archivio Centrale dello Stato – Roma.
Franca Taglietti
L’ instrumentum inscriptum prenestino: una nota a proposito di signacula ex aere* Riassunto: Vengono esaminati i pochi signacula ex aere del territorio prenestino attestati solo da CIL, che non conservano indicazioni dei contesti di provenienza e sono per lo più dispersi; in qualche caso è stato possibile recuperarne la collocazione attuale. Vengono inoltre presentati tre nuovi signacula già nel museo di Palestrina, provenienti dal sequestro di una raccolta privata, di dubbia provenienza locale: di particolare interesse il signaculum di Q. Urittius Primus, che si aggiunge alle numerose attestazioni su instrumentum degli Urittii, connessi con diverse attività commerciali ad ampio raggio. Abstract: Firstly, this paper examines the few signacula ex aere from the Praenestine territory that are attested in the CIL. The Corpus gives no indication of their origin and the CIL-signacula are dispersed over different places and collections. In some cases, it was possible to detect their current location. Secondly, three yet unpublished signacula are presented. Formerly in the hands of the museum of Palestrina, they were part of a confiscated private collection. However, their Praenestine origin remains doubtful. The signaculum of Q. Urittius Primus is of particular interest. It is to be added to the numerous instrumentum attestations of the Urittii, who were involved in a variety of wideranging commercial activities.
I signacula ex aere costituiscono una classe di materiali il cui studio solo in anni relativamente recenti è stato affrontato in maniera sistematica ed approfondita; non è questa la sede per ripercorrere analiticamente i principali lavori che sono stati dedicati ai signacula in bronzo e alle loro impronte1, vanno però menzionati almeno i molti contributi recenti di Ivan Di Stefano Manzella che costituiscono la più completa messa a punto della materia: sono stati affron*
1
Desidero ringraziare i colleghi ed amici ai quali mi sono rivolta nel corso della preparazione di questo lavoro e che mi hanno anche aiutato con grande disponibilità nel reperimento di testi non facilmente accessibili in questo difficile periodo di chiusura delle biblioteche, a causa della pandemia che ha anche condizionato il reperimento di una migliore documentazione fotografica; in particolare sono grata per informazioni, suggerimenti e consigli a Marco Buonocore, Luciano Camilli, Ivan Di Stefano Manzella, Giorgio Filippi, Maria Grazia Granino Cecere, Claudia Lega e Giovanni Mennella. Dopo il vecchio lavoro di Poggi 1876, un esame complessivo è solo in Dollfus 1967; v. anche Wenger 1923 e l’introduzione di Theodor Mommsen in CIL IX 915–916. Per una messa a punto dei problemi generali si v. anche Cicala 2010, in part. 213–220.
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Franca Taglietti
tati dall’autore gli aspetti più propriamente tecnici e quelli lessicali ed è stato codificato un modello di schedatura di questi materiali, che appare ora generalmente condiviso; sono state inoltre analizzate in maniera approfondita le molte questioni relative alla identificazione e al ruolo dei personaggi menzionati sui timbri e ai possibili materiali su cui questi signacula potevano essere impressi, in ultima analisi è stata quindi affrontata la questione centrale relativa alla natura e alla funzione di questi timbri, utilizzati con ogni evidenza in ambito privato e domestico e in contesti connessi a funzioni produttive e/o commerciali2. Vanno inoltre segnalati i molti importanti lavori analitici su singoli temi, materiali ed ambiti geografici presentati negli Atti del Convegno di Verona apparsi nel 2014 che hanno stimolato ulteriori indagini areali e nuove ricerche multidisciplinari3. Sebbene si tratti di materiali abbastanza diffusi soprattutto in Italia e nelle province occidentali dell’impero, in un ampio arco cronologico che va dalla età repubblicana a quella tardoantica, restano ancora molte incertezze sull’uso preciso di questi signacula. La provenienza per lo più dal mercato antiquario, quasi sempre senza alcuna indicazione di contesto, i vari passaggi di proprietà, per eredità e vendite, di questi materiali particolarmente apprezzati da collezionisti, ne hanno favorito la dispersione ed hanno poi spesso reso difficile ricostruirne la storia4. Le ipotesi più attendibili sulla loro funzione sono quelle di una utilizzazione, come attestazione di proprietà o in connessione ad attività di mercatura, su superfici come legno, pelle, stoffe, papiro con coloranti, su prodotti di fornace quali mattoni, tegole ed anfore, su altre merci deperibili, come ad es. calce, cera, pigmenti5 e su vari tipi di prodotti alimentari. Basti ricordare la notizia di Plinio (n.h. 33, 26) in merito all’uso di timbrare il pane ed il notissimo pane da Ercolano scoperto nel 1748 nella Casa dei Cervi CIL X 8058,18, conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli; il pane è timbrato con il nome di Celer, servo di Q. Cranius Verus; il signaculum è stato identificato a Roma nell’Antiquarium Capitolino e risulta acquistato nel 1945 dall’antiquario Fallani6 (figg. 1a–b). Celer potrebbe essere lo stesso personaggio 2
Di Stefano Manzella 2010; 2011; 2012a; 2012b; 2014; 2017; 2019a; 2019b; 2020a; 2020b; Di Stefano Manzella c.s. [ora 2021]; Di Stefano Manzella – Isola 2004; Di Stefano Manzella – Valchera – Cicala – Braito – Vella 2012; Di Stefano Manzella – Valchera 2019. Si vedano anche Cicala 2012a; 2012b; 2014; 2018; Mennella 2008; 2014. 3 Buonopane – Braito 2014. Tra gli altri si vedano almeno Baratta 2014; Benedetti 2017; Braito 2018a; 2018b; 2018c; Buonopane 2014; 2018a; 2018b. Per i signacula della Gallia Narbonense v. già Feugère – Mauné 2005–2006. 4 V. ad es. Braito 2014a; Gatta 2014; Braito 2015; 2018a; 2018b; 2018c. 5 Si veda ad es. l’impronta su pigmenti bianchi da un’officina sulla Via Stabiana a Pompei con la scritta Attioru(m) (CIL X 8058,6): Di Stefano Manzella 2011, 361; Cicala 2014, 238–239. 6 Antiquarium Capitolino, inv. no. 14005: Loreti 1994, 652–653, no. 4, fig. 7; Cerrito 2016, 130, 8. 9.
L’ instrumentum inscriptum prenestino
Fig. 1a Museo Nazionale di Napoli, pane da Ercolano con bollo di Celer, servo di Q. Granius Verus
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Fig. 1b Roma, Antiquario Capitolino, signaculum di Celer CIL X 8058,18
ricordato dopo la manomissione in un’altra iscrizione di Ercolano CIL X 1403; Quinto Granio Vero, appartiene ad un ramo della gens Grania probabilmente puteolana insediatosi ad Ercolano, dove risulta un fundus Granianus nelle tavolette Ercolanensi (TH 64 e 32)7. Si potrebbe trattare nel caso del timbro su pane di un titulus officinae col nome del titolare della struttura che produce il pane o di un titulus di proprietà; in questo caso avremmo qui indicato il nome di chi porta a cuocere in un forno pubblico l’impasto realizzato in casa. Va comunque segnalato che sul timbro Di Stefano Manzella solleva dubbi, avanzando anche la possibilità che il ritrovamento del pane timbrato possa essere stato il pretesto per creare in epoca moderna un timbro bronzeo corrispondente che poteva certamente per questo motivo essere venduto ad alto prezzo8. Nel territorio prenestino si conoscono pochi signacula attestati solamente da CIL che non conservano contesti di provenienza e sono per lo più dispersi; sono solo 9 quelli presenti in CIL XIV e CIL XV ed anche nel corso della preparazione del nuovo volume del Corpus dedicato al materiale epigrafico prenestino non si è al momento rinvenuto nessun altro esemplare di certa provenienza locale. Tre signacula in bronzo inediti, già nel museo di Palestrina, facevano parte di una consistente raccolta privata sottoposta a sequestro, costituita da oggetti vari, soprattutto metallici, la cui pertinenza al territorio prenestino è tutta da dimostrare, anzi sembrerebbe piuttosto da escludere, in considerazione della natura di altri materiali associati9: ma la questione della provenienza e/o più 7 8
9
Camodeca 2008, 164; Camodeca 2017, 260. In generale sulla timbratura del pane v. ora Di Stefano Manzella 2020a, per il signaculum di Ercolano spec. 1033–1034, con bibl. prec. Per la timbratura di altri prodotti alimentari quali ad es. formaggio e di contenitori di cibi e bevande, Di Stefano Manzella 2011, 357–359. Nella raccolta sequestrata, sono presenti anche 2 signacula in piombo, che non vengono presi in esame in questa sede. Non è stato al momento possibile indicare le dimensioni di tutti i timbri.
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in generale della pertinenza ai vari ambiti territoriali rimane per lo più ancora aperta come pure la conseguente legittimità dell’attribuzione dei materiali ai singoli volumi del CIL se non per convenzione10. Si tratta di tre signacula a lamina rettangolare con testo retrogrado a lettere rilevate e manubrio ad anello: il primo di essi (fig. 2) con testo disposto su due righe riporta il nome al genitivo di un Q. Urittius Primus seguito da una foglia di forma allungata11. Il personaggio non è noto ed anche il gentilizio Urittius non è altrimenti attestato nel materiale epigrafico prenestino: si tratta di un gentilizio di origine celtica, documentato nell’epigrafia lapidaria della Gallia Narbonense nella zona della valle del Rodano e nella Lugdunense12, mentre su Fig. 2 Già Museo di Palestrina, signaculum di Q. instrumentum compare più volte Urittius Primus nell’epigrafia anforica della Baetica; un Q. Urittius Revocatus è attestato ad es. nel carico della nave del relitto di Port-Vendres II, naufragata tra il 42 e il 48 d.C., su anfore olearie Dressel 20, su anfore Haltern 70, contenenti vino cotto e/o olive conservate in questa specie di vino e su anfore vinarie Dressel 2813. Il gentilizio compare ancora, seguito da diversi cognomina di schiavi o liberti, su bolli impressi sulle anse di Dressel 20. A Mainz è attestato un L. Urittius Verecundus su anfore di garum spagnole Beltran II A, di fine I sec. d.C.14. Il signaculum, la cui specifica funzione non è al momento ricostruibile, si aggiunge quindi alle numerose altre attestazioni su instrumentum di Urittii, personaggi che appaiono connessi nell’arco di un paio di generazioni con ampie
10 Sul problema della mobilità sia antica che moderna dei signacula e sulla difficoltà delle attribu11 12 13 14
zioni territoriali si vedano già le riflessioni degli editori del CIL. Testo: Q VRITTI / PRIMI folium. Q con coda orizzontale; T ed I con apici espansi. Gascou 2000; Christol 2002, 329–333. Tchernia 2011, 74; 81–82; sul relitto v. anche Parker 1992, 330–331, no. 875, con bibl. prec. Martin-Kilcher 2002.
L’ instrumentum inscriptum prenestino
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e diversificate attività commerciali, delle quali è stato già altre volte sottolineato il carattere polivalente15. Nel secondo timbro (figg. 3a–b) a lamina rettangolare con testo retrogrado a lettere rilevate e manubrio ad anello compare solo il nome Agathop(us) e C∙ L∙ A∙ sulla parte superiore del manubrio appositamente appiattita per ricevere le lettere. Sono da segnalare le caratteristiche tipologiche del timbro che non sono tra le più usuali: il cartiglio rettangolare è profilato in alto e basso da uno spesso e irregolare listello che sembra mancare sui lati, le lettere sono grandi e spesse. Il testo è costituito da un solo nome servile16, da sciogliere con ogni probabilità in genitivo, mentre nel castone secondario sono in rilievo iniziali di tria nomina17.
Fig. 3a Già Museo di Palestrina, signaculum di Agathopus
Fig. 3b Timbro secondario sul manubrio
Nel terzo signaculum, anch’esso a lamina rettangolare con manubrio ad anello (figg. 4a–b), nel timbro principale con testo retrogrado a lettere rilevate compare al genitivo il nome del servo Ianuarius seguito in seconda riga da iniziali 15 V. anche il ritrovamento a Lione nella Saona di un tappo di botte riutilizzato come tappo
d’anfora con il timbro VRITTI PH[…] impresso a caldo con un signaculum metallico: Berni Millet 2008, in part. 185–186 con bibl.; Tchernia 2011, 81–82 con ampia bibliografia precedente. Per la tipologia dei signacula destinati a marcature a fuoco, caratterizzati da una lunga impugnatura che permetteva di mantenere la necessaria distanza dalla fonte di calore, Baratta 2007. 16 Testo: AGATHOP; sul manubrio Cˑ Lˑ Aˑ. Sul cognomen Agathopus, v. Solin 2003, 10–13. 17 Sul significato di questi timbri secondari, che sono spesso anche a lettere cave, Di Stefano Manzella 2011, 348: potrebbe trattarsi in questo caso del nome del servo delegato alla timbratura e del proprietario del timbro. Un P. Aelius Agathopus, liberto o discendente di un liberto dell’imperatore Adriano compare su un sigillo, a forma di foglia d’edera, nel Museo Archeologico di Verona, probabilmente già nella raccolta Bianchini e di provenienza urbana: v. Buonopane 2012, 384–385, no. 15.
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di tria nomina Qˑ Aˑ P e segno di interpunzione a forma di foglia; nel castone secondario di forma ovale sono sempre in rilievo le lettere Q A P di lettura non certa18 precedute da un tratto verticale.
Figg. 4a–b Già Museo di Palestrina, signaculum di Ianuarius con particolare del timbro secondario sul manubrio
In mancanza di dati di rinvenimento è difficile proporre una datazione dei tre signacula sulla sola base delle caratteristiche paleografiche, in parte connesse alla tecnica e al materiale in cui i timbri sono realizzati, che risultano quindi in generale assai poco significative per definire una cronologia per questa classe di materiali.
18 Testo: IANVARI / Qˑ Aˑ P folium; sul manubrio Iˑ Q A P; la lettura non è sicura; il tratto verti-
cale potrebbe essere una lettera o un elemento decorativo. Q con coda orizzontale.
L’ instrumentum inscriptum prenestino
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A fronte di un totale che è stato stimato in via approssimativa in circa 2650 signacula censiti in vari volumi del CIL a cui vanno aggiunti ora i molti testi editi successivamente – si tratta ovviamente di cifre del tutto parziali e al ribasso –, i 9 esemplari del territorio prenestino sono ben poca cosa19. Un riesame analitico permette di ridurne ancora il numero: va infatti eliminato CIL XIV 4119,3 = CIL XV 8372 attestato a metà del settecento, senza indicazione della forma, nella Storia di Palestrina di Cecconi, già presso l’A.; ripreso poi alla fine dello stesso secolo da Petrini, nelle sue Memorie Prenestine, ricompare ancora negli ultimissimi anni del ’700 nel Codice Vaticano Latino 9110 di Gaetano Marini20. Il testo, trascritto, A∙ORBI, disposto su una sola riga, corrisponde a quello del bollo laterizio di forma rettangolare CIL XIV 4091,60 = CIL XV 2342; BDRICO ad l. (fig. 5) attribuito a produzione prenestina sulla base dell’area di diffusione degli esemplari, che sono molto nuFig. 5 Bollo laterizio CIL XV 2342 di A. Orbius merosi nel territorio. Il bollo può essere datato su base tipologica e paleografica agli inizi del I sec. d.C.; in una dedica alla Fortuna da parte di un collegio, proveniente dal territorio di Palestrina e databile in età repubblicana, compare poi un A. Orbius A. l. Eros (CIL XIV 2883). L’uso di timbri in bronzo per bollare mattoni e tegole è documentato, anche se non diffusissimo, sia a Roma e nel Lazio sia in altri ambiti geografici ed è per lo più ricostruibile solo dal tipo di impronte conservate sul materiale fittile (figg. 6a–g); pochi sono i casi in cui possediamo sia signaculum sia impronta corrispondente. Si può ad es. citare il bollo rettangolare a lettere incavate con testo Sagitti rinvenuto in 3 esemplari in una villa romana presso Collatia21; diversi timbri bronzei con lo stesso testo sono attestati a Ravenna, Bologna, Firenze, Perugia, da Corropoli (nella zona di Teramo), nel Museo di Tolosa e al British Museum22 (figg. 7a–b); un altro esemplare di signaculum o un esemplare da identificare forse con uno di quelli già noti, è pubblicato da Dollfus, 19 Sulla quantità degli esemplari e la loro distribuzione geografica Di Stefano Manzella 2011,
351–352.
20 Cecconi 1756, 103; Petrini 1795, 376, no. 69; Marini, Cod. Vat. Lat. 9110, 167, no. 184.
Sul codice v. ora Di Stefano Manzella 2015, 1166–1167.
21 Steinby 1978–79, 80, no. 195, tav. XXI, 3 = Novum CIL XV S. 370/CIL XV 1405,1, cfr.
BDRICO, ad. l.: dimensioni del bollo cm 4,9 x 2,1; lettere 1,5; sul sito della villa v. anche Quilici 1974, 315, no. 187. 22 Ravenna: Rigato 2014, 206; Bologna: Valchera 2014, 338, no. 39. A Perugia sono conservati due esemplari, entrambi di provenienza ignota, CIL XI 6712,338d = X 8059,353d e CIL XI 6712,388e; v. da ultimo Benedetti 2017, 673, no. 57 e no. 58 di diverse dimensioni (no. 57:
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Figg. 6a–g Esemplificazione di bolli laterizi impressi con timbri metallici di vari ambiti geografici e cronologia: a bollo di L. Venuleius Apro- b bollo di Flavius Doryp(h)o- c bollo di S. Vibius Maurus, rus CIL XI 6689,105 Novum CIL XV 1507/8 nianus, Novum CIL XI 8113, 21/22
d bollo di C. Cassius Sempro- e bollo in planta pedis CIL XV f bollo a forma di lettera S. CIL XV 1686 nianus CIL XV 2164 corr. 775
g bollo di Cornelia Arria Sextia Praetextata CIL XI 6689,32
già nella collezione Froehner, passata a Parigi al Cabinet des Médailles della Bibliothèque Nationale23. In mancanza di diretta autopsia di tutti i timbri che permetta il preciso confronto con le impronte rivenute nella villa, e di analisi archeometriche, rimane aperto il problema se si tratti di più copie dello stesso signaculum o di timbri diversi con lo stesso testo24. Si può ricordare anche il bollo CIL XV 779, con il testo P sagitta AEMILI / ABDATIS attestato ad Arsoli nella Villa Massimo ed il corrispondente signaculum della Biblioteca Vaticana CIL XV
lamina cm 5,1 x 1,8; lett. 1,6; no. 58: lamina cm 5,4 x 2,2; lett. 1,5). In generale Di Stefano Manzella 2010, 273; 2011, 359–360. 23 Dollfus 1967, 144, no. 47. 24 Di Stefano Manzella 2011, 359–360.
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804925, sebbene già il Dressel con buona ragione esprimesse dubbi sulla reale esistenza dell’impronta su laterizio26.
Fig. 7a Signaculum con testo Sagitti
Fig. 7b bollo laterizio con lo stesso testo
Ancora da menzionare il timbro in planta pedis con il nome al genitivo di Agathon in greco, di cui si conoscono più multipli; i timbri, recentemente riscontrati, noti anche attraverso la documentazione manoscritta e verificati ove possibile per autopsia, vengono da Ivan Di Stefano Manzella attribuiti al tipo 2 della sua classificazione (multipli ad exemplum), cioè conformi ad un modello e “legittimamente o fraudolentemente realizzati uno per volta con la cera”. Si conoscono anche più impronte con lo stesso testo di CIL XV 2155 non riconducibili però ai signacula esaminati, ma ad almeno 3 diversi timbri perduti. I bolli sono attestati a Roma nella Catacomba di Domitilla, nel Mausoleo di S. Elena, nella basilica circiforme della Via Ardeatina, nella necropoli della Via Trionfale27; a quest’ultima impronta sembra corrispondere un nuovo signaculum ritrovato in una villa romana nel territorio di Amelia28. Di recente Silvia Braito29 ha poi attirato l’attenzione sulla corrispondenza tra un bollo su tegola al Museo Archeologico di Spalato proveniente dalla basilica cimiteriale di Salona CIL III 14335 ed il signaculum, proveniente dalla Sardegna (Ruinas, loc. Bangius), edito da Tomassetti, visto a Roma presso un antiquario30: si tratta di un timbro a lamina rettangolare e manubrio ad anello con 25 Visconti 1879, 197–229; il signaculum è CIL XV 8049 (Musei Vaticani): Buonocore 1984,
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160, no. 2; Buonocore 1990, 43, no. 31, tav. XXVII, fig. 62; la sua nota pressa è CIL XV 779 (cfr. IX 6083,6 tra i signacula). V. anche Taglietti 1994, 168, n. 21 dove si segnala che il mattone bollato è attestato solo dalle fonti di CIL XV 1; cfr. la cautela con cui in merito si esprime anche E. M. Steinby, in BDRICO, ad. l. Sul dossier Agáthôn Di Stefano Manzella – Valchera – Cicala – Braito – Vella 2012 con ampia bibl; in part. sulla tipologia e funzione dei signacula multipli, 38–39. V. però anche le osservazioni di E. M. Steinby, in BDRICO, ad. l.: la studiosa ritiene che il disegno dell’esemplare dalla Catacomba di Domitilla riprodotto in CIL XV 2155, non possa essere letto Agathonos e avanza la proposta che esistano più timbri, molto simili tra loro, con nomi diversi. Debbo l’ informazione alla cortesia di Giorgio Filippi. Braito 2014b. CIL X 8059,454; Tomassetti 1892, 369, no. 15.
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il testo CAI VALLI / SCIPIONIS, retrogrado su due righe; sul manubrio è inciso a lettere cave C A I. L’ autrice ha rinvenuto un ulteriore sigillo identico (lo stesso edito da Tomassetti o un multiplo?) nel commercio antiquario, venduto nel 2009 a Boston dalla Casa d’aste Skinner Inc. (figg. 8a–b); come l’autrice sottolinea giustamente, la tegola e il signaculum sono stati rinvenuti in due aree molto distanti tra loro, la Sardegna e la Dalmazia, e il fatto che il rinvenimento di entrambi sia documentato dal punto di vista archeologico esclude la possibilità di spostamenti legati a vicende collezionistiche. Queste due singole testimonianze, riconducibili alla stessa persona, ma attestate in luoghi lontani che sembrano privi di qualsiasi altro collegamento potrebbero far supporre che il titolare del sigillo avesse interessi in entrambi i luoghi, forse legati a proprietà fondiarie e a produzioni connesse, o ad attività commerciali a vasto raggio.
Fig. 8a Museo Archeologico di Spalato, te- Fig. 8b signaculum di C. Vallius Scipio nel commercio antiquario gola con bollo di C. Vallius Scipio CIL III 14335
Va infine ancora ricordato il caso, analizzato da Giovanni Mennella, di una anomala corrispondenza tra signaculum di bronzo nel Museo di Antichità di Torino e bollo su tegola attualmente irreperibile: entrambi sono a lettere rilevate e recano lo stesso identico testo Q C P ed un segno di interpunzione solo dopo l’iniziale del prenome31. Il bollo di A. Orbius è a lettere rilevate e presuppone quindi che sia stato impresso con un sigillo a lettere cave scritto da destra a sinistra; per il tipo di impronta e di lettere non sembra impresso con un timbro metallico. E’ molto probabile quindi che nel caso dell‘esemplare prenestino si tratti piuttosto della 31 Mennella 2014.
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trascrizione del bollo laterizio ben documentato a Palestrina, che risulta impresso almeno con 3 timbri diversi con lo stesso testo, e non del suo signaculum, come già sospettato anche dal Dressel32. CIL XIV 4119,3 = CIL XV 8385,2 con A∙ORBI va quindi espunto. Resta invece incerto se possa essere da espungere anche il signaculum CIL XIV 4119,5 = CIL XV 8581 menzionato in Cod. Vat. Lat. 9140, f. 266 di Suaresius, che lo dà già a Palestrina; considerato di dubbia antichità da Dessau, è inserito da Dressel in CIL XV 2,2 tra gli exempla fracta aut incertae vel pravae lectionis. Del sigillo, attualmente non reperibile, non è indicata la forma: il testo su tre righe appare incompleto ed è così trascritto (fig. 9a): AF VINISS V∙ ET NALVINIAE∙ r. 3: N inziale retrograda; nesso in AE.
Bormann, nell’apparato di CIL propone di correggere la N rovesciata iniziale del nome della donna, con una S e di leggere Salviniae ed in r.1 [S]alvini. Si potrebbe più probabilmente invece leggere nella terza riga di testo il gentilizio femminile Naevinia, molto raro e non presente in area laziale, se non nel territorio prenestino, in una dedica a Minerva di fine età repubblicana – inizi I sec. d. C. rinvenuta presso Olevano Romano, dove compare nella forma Nae vineia; lo stesso gentilizio potrebbe forse essere restituito anche in prima riga [N]aevini33. Potremmo quindi avere il nome di una donna associato a quello del marito o del fratello. Resta difficile definire a quali forme organizzative e a quale ambito di utilizzo si possa riferire il timbro34.
32 V. anche Taglietti 1994, 168, nota 21. Sull’ambiguità dei termini timbro e sigillo che spesso
indicano sia lo strumento utilizzato per la marcatura che la sua impronta: Di Stefano Manzella 2011, 346–347. 33 Granino Cecere 1991. 34 Sulle varie forme di associazione attestate sui signacula, anche tra membri della stessa famiglia v. Girardi 2014, in part. 192–193, no. 73. Sul sigillo ritorna Ivan Di Stefano Manzella, che ringrazio per avermi fatto conoscere il suo lavoro ancora in bozze; viene proposta una diversa interessante ipotesi interpretativa del testo che è messo in relazione alla mercatura del vino: Di Stefano Manzella, c.s. [ora 2021].
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Se l’ipotesi di lettura del gentilizio è corretta potremmo essere di fronte ad un testo incompleto e letto male, non da espungere, di cui sembrerebbe confermata la pertinenza ad area prenestina.
Figg. 9a–d Signacula in CIL e timbro della Biblioteca Vaticana: a CIL XV 8581; b CIL XV 8262; c CIL XV 8292; d Signaculum ai Musei Vaticani
Dei rimanenti 7 signacula prenestini è forse possibile recuperare in qualche caso la collocazione attuale. 1 – CIL XIV 4119,8 = CIL XV 8262 (figg. 9b–d): il signaculum è menzionato solo da Cecconi nella Storia di Palestrina, da cui è derivata la scheda di Marini contenuta nel Cod. Vat. Lat. 9110, 160, no. 57; il testo del timbro viene così trascritto: CILIT Con ogni probabilità il signaculum è lo stesso di CIL XV 8292 che Marini riporta con il testo C·L·T con grossi segni di interpunzione tra le lettere35. Questo sigillo si trova ora nella Musei Vaticani, collezione del Museo Profano, Galleria Clementina IV, vetrina 7, inv. 6591036. 35 Marini, Cod. Vat. Lat. 9110, 165, no. 134d. 36 Buonocore 1984, 164–165, no. 34 = Buonocore 1990, 50, no. 49, tav. XXXV, fig. 86. Di-
mensioni cm 4,2 x 1,3 x 1,2; lett. 0,8–0,9.
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Si tratta di un timbro rettangolare con manubrio ad anello; i tratti allungati interpretati come una lettera I in CIL XV 8262 dovrebbero essere i segni di interpunzione fra le iniziali dei tria nomina, come già proposto dubitativamente da Dressel. Il signaculum prenestino è quindi quasi certamente riconoscibile in quello conservato ai Musei Vaticani, già della Biblioteca Apostolica Vaticana. 2 – Ancora un recupero è quello di CIL XIV 4119,2 = CIL XV 8323 (fig. 10). Si tratta di un sigillo di forma rettangolare con manubrio ad anello e testo retrogrado disposto su due righe. Il signaculum è pubblicato da Dollfus37. C MAECENATIS PLOTIANI
Fig. 10 Signaculum con C. Maecenatis / Plotiani
Sull’anello di presa è impressa una spiga incavata38. Ne è noto un solo esemplare da Palestrina menzionato nelle schede manoscritte di Pietro Cicerchia. Il sigillo già nella collezione Froehner risulta ora conservato a Parigi nel Cabinet des Médailles della Bibliothèque Nationale, alla quale la collezione passò in eredità. W. Froehner, che fu conservatore del Museo del Louvre dal 1867 e conservatore degli oggetti d’arte delle residenze imperiali per volontà di Napoleone III, possedeva una collezione assai eterogenea di materiali vari e di diversa origine: egli acquistò il sigillo nel marzo del 1901 dal banchiere svizzero Alfred Bourguignon, la cui raccolta era costituita per lo più da oggetti provenienti dall’Italia centromeridionale39. 3 – Possibile ma meno sicuro il recupero nel Museo di Antichità di Torino di CIL XIV 4119,1= CIL XV 8293. Nel museo torinese è conservato un sigillo a lamina rettangolare con manubrio ad anello40; il testo retrogrado è disposto su due righe (fig. 11). LABERIAE PALLADIS 37 Dollfus 1967, 137, no. 13; 142, figg. 7, no. 5 e 8 bis, no. 9: dimensioni del timbro cm 6,3 x
2,2.
38 Sul significato di questi elementi decorativi Di Stefano Manzella 2011, 348. 39 La collezione fu venduta a Parigi nel 1901 (Sambon & Canessa, Parigi, Hotel Drouot, 18–20
marzo 1901). Sulla figura del collezionista v. Iasiello 2017, 304–305; Voukelatos 2018. Su Wilhelm Froehner, v. Hellmann 1992. 40 Dimensioni: cm 6,2 x 2,3 x sp. 2,3; diam. manubrio 1,8 x 1,9; lett. 0,6.
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Un esemplare con questo testo è indicato in CIL già a Palestrina: Suaresius, Cod. Vat. Lat. 9140, f. 23641, da cui lo trae Marini Cod. Vat. Lat. 9110, 165, no. 135. In r.1 è riFig. 11 Museo di Antichità di Torino, Signaculum di Labeportato un nesso in AE. ria Pallas Un secondo esemplare è citato in CIL a Milano nella collezione di Amilcare Ancona, venduta all’asta dagli eredi nel 1892 poco dopo la morte del collezionista42; l’esemplare è stato ora riconosciuto da Giovanni Mennella tra i materiali del Museo di Antichità di Torino, dove sono confluiti anche altri 29 sigilli della collezione Ancona43. Nel sigillo torinese non compare il nesso AE segnalato in Suaresius. Amilcare Ancona (1839–1890), funzionario nella pubblica amministrazione dell’Italia postunitaria a Firenze e poi a Roma, dopo aver partecipato alle guerre di indipendenza, fu collezionista e commerciante d’arte famoso negli anni centrali dell’800; nella sua importante raccolta, costituita da materiali archeologici, per più di 4000 pezzi, da materiali delle civiltà precolombiane, da autografi, da opere d’arte antiche e moderne, era anche un grosso nucleo di signacula aenea; un lotto di 156 pezzi venne venduto all’asta milanese e andò disperso tra vari musei italiani ed europei ed in collezioni private. In anni recenti ne sono stati rintracciati dei nuclei abbastanza consistenti nel Museo di Antichità di Torino, in varie collezioni milanesi e nell’ Antikensammlung di Berlino44. Il materiale Ancona era stato acquistato dal collezionista per lo più sul mercato antiquario di Firenze e di Roma e Lazio. Non è al momento possibile affermare con sicurezza se ci troviamo davanti a due multipli, o di fronte allo 41 Giuseppe Maria Suarez (1599–1677) bibliotecario di Francesco Barberini, fu autore della prima
storia di Palestrina pubblicata nel 1655.
42 L’asta si tenne a partire dal 17 maggio 1892, presso l’impresa di vendita G. Pertusi a Milano;
la raccolta per l’occasione venne inventariata da Pompeo Castelfranco che curò anche la pubblicazione del catalogo: “Catalogo della collezione di Antichità del fu Amilcare Ancona (da vendersi per conto degli eredi). Oggetti preistorici, etruschi, greci e romani in bronzo, terra cotta, vetro”, Milano 1892. Per una descrizione delle caratteristiche del catalogo, quattro copie del quale sono conservate nella Biblioteca d’Arte del Castello Sforzesco di Milano v. Braito 2018a, 154–155. 43 Mennella 2008, 1317, no. 11. 44 Su Amilcare Ancona e la sua raccolta, i suoi rapporti con personalità di rilievo del mondo archeologico dell’epoca e sulla corrispondenza con Theodor Mommsen, Mennella 2008; Braito 2018a.
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stesso signaculum prenestino, passato attraverso vicende collezionistiche che al momento restano ignote, nella collezione Ancona e di qui al Museo torinese. La piccola differenza del testo nel codice di Suarez potrebbe essere anche considerata un errore di trascrizione. Sigilli con nomi femminili sono ben attestati, anche se sono numericamente molto inferiori a quelli con nomi maschili: si tratta sia di donne libere e di liberte, proprietarie del timbro e dei beni da timbrare, che di schiave delegate alla timbratura di prodotti di altri45. Il nome delle donne sui sigilli testimonia a volte la presenza femminile anche in iniziative di ambito economico di una certa importanza; basti citare ad es. Coelia Mascellina, connessa al commercio del vino forse gallico e dell’olio betico, di cui possediamo il signaculum circolare46 (fig. 12) o Cornelia Arria Sextia Praetextata, la c.f. autrice di una dedica a Roma per Gordiano III nel 239 e menzionata su una fistula ostiense, proprietaria di figlinae doliari nel viterbese, il cui bollo deve essere stato impresso con un timbro metallico47. (fig. 6g)
Fig. 12 Roma, Museo Nazionale Romano. Signaculum di Coelia Mascellina
Di Stefano Manzella ha ben messo in guardia a più riprese sulle difficoltà di distinguere i multipli dalle copie moderne o dai calchi, realizzati per motivi di studio o commerciali, e la necessità di indagare se ci si trovi davanti ad un unico
45 Per il significato Cenerini 2014. 46 Taglietti 1994; Taglietti 2012. 47 CIL XI 6689,32; Chausson 1996, 319–322, figg. 1–2.
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timbro visto e trascritto da persone diverse in epoche diverse e luoghi diversi, come potrebbe essere il caso appena discusso del sigillo di Laberia Pallas48. 4 – Un caso di multiplo potrebbe forse essere quello di CIL XV 8178. Si tratta di un timbro rettangolare con testo disposto su 2 righe e manubrio ad anello; un altro sigillo con lo stesso testo proviene da Pompei. (figg. 13a–b) T · D · M · F ·MEN PANTHERAE T. D(entati) M. f(ili) Men(enia tribu) / Pantherae r. 2: nessi TH e AE.
Fig. 13a Signaculum di T. Dentatius Panthera CIL XV 8178
Fig. 13b Esemplare da Pompei
Il sigillo è menzionato a Palestrina nel Cod. Vat. Lat. 9110, 161, no. 75 da Marini; il secondo esemplare con lo stesso testo ma con ulteriori nessi in r. 1 (MF e ME) e in r. 2 (THE e RAE), è stato rinvenuto nel 1868 nella casa sul Vicolo di Balbo IX, II, 15 e 16 a Pompei (CIL X 8058,29) 49. Sui due sigilli nel nome del personaggio compare anche l’indicazione della tribù, la Menenia, tribù cui appartengono sia Palestrina che Pompei50; il gentilizio abbreviato con la sola iniziale, va sciolto in Dentatius, ben attestato in ambito campano, ma
48 V. ad es. Di Stefano Manzella 2011, 349; Di Stefano Manzella – Valchera – Cicala –
Braito – Vella 2012, in part. 38–39.
49 La trascrizione dei nessi in Marini potrebbe essere non corretta. Per l’esemplare pompeiano v.
Cicala 2014, 239 con figg. 5 e 240 con bibl.
50 La menzione della tribù compare solo in un altro caso sui signacula in CIL II 481: si tratta di
un sigillo di un C. Utius L. f. Pescenninus della tribù Arnensis conservato a Madrid: Gimeno Pascual – Stylow 2001, 143.
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non documentato nel territorio di Palestrina ed in generale nel Lazio, tranne in un’iscrizione funeraria romana di I sec. d.C.51 Nelle Tavolette cerate di Cecilio Giocondo compare T. Dentatius Panthera (tab. CI) insieme ad un suo congiunto Dentatius Faustus (tab. LXXVI)52. Si tratta quindi di un personaggio pompeiano non altrimenti attestato nel centro laziale, che doveva comunque avere proprietà ed interessi anche nell’area prenestina. 5 – Infine ancora un caso problematico di sigillo, di cui sembrano noti molti timbri è CIL XIV 4119,7 = CIL XV 8443 (fig. 14). Signaculum di forma rettangolare con testo retrogrado disposto su una sola riga: ST SOL St( ) Sol( ) o S. T( ) Sol( ).
Fig. 14 Museo di Antichità di Torino Signaculum con ST SOL
Un esemplare a Palestrina è menzionato nelle schede manoscritte di Pietro Cicerchia; due esemplari sono descritti da Bormann e da Dressel a Milano nella già citata collezione di Amilcare Ancona e sono identificabili nel catalogo di vendita del 1892; uno di essi si trovava precedentemente a Roma dove Tomassetti lo descrive in collezione privata53; già presso Pietro Taggiasco, è stato ora riconosciuto da Giovanni Mennella nel Museo di Antichità di Torino54; sappiamo che la collezione di Monsignor Pietro Taggiasco (1816–1871) si era formata a Roma ed era soprattutto costituita di materiali di area etrusca e laziale, soprattutto glittica ed oreficeria55: molti materiali si rintracciano anche nella collezione Ancona. L’altro signaculum era all’atto della redazione del CIL
51 CIL VI 5230 dal Terzo colombario di Vigna Codini. 52 CIL IV Suppl. 3340. V. in generale Andreau 1974, in part. 272–279; per Dentatius Panthera
190 e 277.
53 Tomassetti 1886, 326. 54 Mennella 2008, 1318, no, 18. Dimensioni cm 4,4 x 2,6 x sp. 0,5; manubrio diam. 1,6 x 2; lett.
1,3.
55 La collezione Taggiasco venne venduta nel 1879 dal nipote don Cesare al Museo Archeologico
di Madrid; sulle caratteristiche e le vicende della raccolta v. Palma Venetucci 2006; Palma Venetucci 2007.
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presso Dressel56; ancora un quarto timbro attestato già nei Musei Vaticani da Marini nel Cod. Vat. Lat. 9110, 172, no. 251 non era più reperibile per gli autori del Corpus ed era forse identificabile con un ulteriore esemplare conservato a Vienna visto da Mommsen. Altri esemplari sono a Ravenna nella collezione Classense57e a Bologna, già nella collezione universitaria58. Si tratta di un caso emblematico: non è possibile al momento dire se ci troviamo di fronte ad un unico timbro o a pochi timbri visti e copiati da persone diverse in luoghi diversi o di timbri della stessa persona usati in luoghi diversi o ancora se in qualche caso non si possa trattare di copie moderne. Solo una ricognizione analitica potrebbe permettere di dare una risposta a questi quesiti; ci si può domandare a proposito del signaculum prenestino se questo non possa essere identificato ancora una volta con quello già nella collezione Taggiasco, poi confluito in quella di Amilcare Ancona ed ora a Torino. In conclusione questa breve analisi dei signacula prenestini, assai limitati numericamente e accomunati solo da un generico legame con Palestrina, non ha potuto fornire alcun risultato per definire il contesto archeologico di rinvenimento. Qualunque considerazione sulla funzione di questi timbri in ambito privato o produttivo – commerciale non è quindi possibile; la collocazione attuale infatti è raramente da mettere in relazione al territorio di provenienza e ciò li rende inutilizzabili nella ricostruzione della vita economica e sociale della città e del territorio prenestino. Si è potuto invece individuare l’ubicazione attuale di alcuni di essi, dispersi durante i loro vari percorsi collezionistici, che ne permetterà l’esame autoptico necessario per l’analisi e lo studio secondo procedure di documentazione e registrazione ora codificate e più aggiornati e specifici criteri di indagine.
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56 In generale per la collezione di Dressel all’ Antikensammlung di Berlino: Franken 2014, 200–
201.
57 Rigato 2014, 209, n. 21; 214–15. 58 Valchera 2014, 339.
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Franca Taglietti
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Franca Taglietti
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Franca Taglietti
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Crediti Fig. 1a: Feugère-Mauné 2005–2006, 441, fig. 3; fig. 1b: Cerrito 2016, 130; figg. 2, 3a–b e 4a–b: foto R. Darelli; fig. 5: calco dell’A.; fig. 6a: Camilli-Taglietti 2019, 114, n. 1; fig. 6b: Benedetti 2017, 680, n. 23; fig. 6c: Friggeri 1977, Tav. I,6; fig. 6d: Taglietti 1994, 159, fig. 1; fig. 6e: Di Stefano Manzella 2011, 374, fig. 7; fig. 6f: Di Stefano Manzella 2011, 375, fig. 11; fig. 6g: Chausson 1996, 322, fig. 1; fig. 7a: Benedetti 2017, 682, n. 57; fig. 7b: Steinby 1978–79, Tav. XXI, fig. 3; fig. 8a: Braito 2014b, 487, fig. 1; fig. 8b: Braito 2014b, 489, fig. 2; fig. 9a: CIL XV 8581; fig. 9b: CIL XV 8262; fig. 9c: CIL XV 8292; fig. 9d: Buonocore 1990, Tav. XXXV, 86; fig. 10: Dollfus 1967, 142, n. 5, fig. 7; fig. 11: Mennella 2008, 1324, n. 11; fig. 12: Taglietti 1994, 163, fig. 3; fig. 13a: CIL XV 8178; fig. 13b: Cicala 2015, 239, fig. 5; fig. 14: Mennella 2008, 1324, n. 18.
David Nonnis – Fernando Gilotta
Specula et vascula Praenestina: dalla scoperta e dispersione a una proposta di seriazione cronologica* Riassunto: Ciste e specchi figurati in bronzo costituiscono una delle serie più caratteristiche di manufatti dell’artigianato artistico prenestino. La presente nota verte, nello specifico, su ciste e specchi provvisti di corredo epigrafico scoperti nelle necropoli della città laziale. Si è cercato, attraverso l’analisi contestuale di diversi parametri (dai pochi dati relativi ai contesti agli aspetti tipologico-stilistici dei manufatti, nonché alle caratteristiche linguistiche e paleografiche delle loro iscrizioni), di mettere a fuoco alcune coordinate utili ad un inquadramento cronologico circostanziato di tali oggetti, scandito tra il pieno IV sec. a.C. e i decenni iniziali del secolo successivo. Abstract: Cistae and mirrors made of bronze are the best known and most precious products of Praenestine craftsmanship. This contribution focuses on cistae and mirrors with inscriptions found in the necropolis of Praeneste in Latium. The analysis of the typological and stylistic characteristics of the objects and of the linguistic and palaeographic character of the inscriptions helps to establish a chronological classification of both cistae and mirrors from roughly between the second quarter of the 4th century and the first decades of 3rd century BCE.
1. Una premessa Ciste e specchi in bronzo con decorazione incisa rappresentano una delle componenti che maggiormente connotano la composizione dei corredi femminili delle necropoli prenestine nel corso della media Repubblica1. Come è noto, la principale area sepolcrale di Praeneste, che si estendeva a sud dei limiti della città antica (contrade Colombella, S. Rocco e Bocce di Rodi), fu interessata tra i decenni centrali del XIX sec. e gli inizi del Novecento, da un’intensa e poco *
1
Il presente contributo è frutto di una riflessione congiunta dei due autori. In dettaglio Fernando Gilotta ha curato il la sezione 3, mentre a David Nonnis si devono i le sezioni 1–2 e 4; le osservazioni conclusive (sezione 5) sono invece comuni. Sintetico quadro d’insieme, con bibl. prec., in Ambrosini 2011.
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David Nonnis – Fernando Gilotta
controllata attività di scavo2. Si dispone peraltro di notizie di sporadici rinvenimenti di oggetti pertinenti alle tombe prenestine, tra i quali anche alcuni dei caratteristici segnacoli funerari iscritti, almeno dallo scorcio del XVI secolo3. Gli scarni resoconti a stampa, non sempre perspicui, sono stati utilmente integrati, in anni più recenti, da una proficua ricognizione della consistente documentazione archivistica e catastale, che ha consentito in primo luogo una più circostanziata localizzazione dei fondi, piuttosto parcellizzati se si escludono quelli Barberini, in cui ebbero luogo le scoperte di quegli anni4. La revisione critica delle scoperte del XIX secolo viene peraltro a saldarsi opportunamente con la ripresa di regolari indagini archeologiche promossa dalla Soprintendenza, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso (e tuttora in corso), nella zona della Colombella, in altre aree sepolcrali contermini (ad es. area sepolcrale in loc. Selciata) e nello stesso comprensorio prenestino in relazione a possibili insediamenti minori del territorio (ad es. Cave, loc. San Bartolomeo; Gallicano, loc. Colonnelle), con risultati che, a loro volta, accrescono significativamente le nostre conoscenze sulle necropoli prenestine (articolazione topografica, distribuzione areale e tipologia delle sepolture, composizione dei corredi)5. Le modalità delle indagini archeologiche ottocentesche, che videro tra l’altro spesso direttamente coinvolti noti antiquari dell’epoca, portarono poi non soltanto alla perdita del materiale ceramico e alla dispersione sul mercato dei manufatti di maggior pregio, ma anche alla perdita delle associazioni dei corredi, con ovvie ricadute conoscitive sulla scansione cronologica delle singole deposizioni o di gruppi di sepolture. Non mancano fortunatamente positive eccezioni, esito in parte delle appena richiamate fruttuose ricerche d’archivio condotte da più équipes di studiosi6, anche quale indispensabile premessa all’allestimento di moderni corpora scientifici concernenti proprio le ciste e gli specchi restituiti dalle necropoli prenestine; ad alcuni di tali contesti dovremo anche noi fare a breve riferimento. 2 Punto di riferimento essenziale resta, al proposito, Pensabene 1983; appaiono utili, segna-
tamente per ciste e specchi, oltre alla bibl. cit. a n. 6, Bordenache, Ciste I.1, XVIII–XXIV; Bordenache, Ciste I.2, 413–418; CSE Villa Giulia 2, 17–26 (E. Foddai); CSE Villa Giulia 3, 13–24 (M. S. Pacetti). 3 Pensabene 1983, 235–238. 4 Preziose, in questa prospettiva, le acquisizioni di Onorati 1992 (con il suo apparato cartografico). 5 Per un quadro topografico delle necropoli prenestine cf. Quilici 1992. Un riesame complessivo della documentazione, alla luce delle scoperte più recenti, si deve ora a Sandra Gatti, che attende al complesso studio delle necropoli prenestine (Gatti 2019, 328 s. e 336–346 cui si rinvia anche per la bibliografia relativa a precedenti interventi di scavo coordinati da lei o da altri funzionari della Soprintendenza, quali A. M. Reggiani Massarini e B. Adembri). 6 Cf. Baglione 1992 e 2002; cf. anche, segnatamente per la formazione della collezione prenestina Barberini, CSE Villa Giulia 1, 17–29 (M. P. Baglione).
Specula et vascula Praenestina 233
Questa nota introduttiva, sin troppo schematica, intende soltanto fornire alcune essenziali coordinate di riferimento o meglio lo sfondo per alcune considerazioni volte a verificare la possibilità di un inquadramento più definito, in primo luogo sul piano cronologico, di quel nucleo consistente di ciste e specchi prenestini dotati di corredo epigrafico in lingua latina7. Le osservazioni provvisorie che seguiranno si inseriscono nei lavori preparatori finalizzati alla nuova edizione del capitolo prenestino del CIL XIV, con riferimento alle sezioni specula et vascula aenea Praenestina che, a suo tempo enucleate da Hermann Dessau, già includevano quasi nella sua interezza il materiale documentario a nostra disposizione8; quest’ultimo è poi stato oggetto, nel 2005, di un importante contributo monografico curato da Annalisa Franchi de Bellis (e che rientra in un’articolata serie di suoi studi dedicati all’epigrafia prenestina d’età repubblicana)9, al quale si è affiancata, nel corso dello stesso anno, una raccolta, pressoché esaustiva, della relativa documentazione grafica e fotografica disponibile (corredata di un prezioso apparato critico) ad opera di Maria Grazia Granino Cecere10. Nel complesso si tratta di nove ciste e diciannove specchi trovati nei dintorni di Palestrina in circostanze e momenti diversi, come subito vedremo; ad essi si può almeno aggiungere un ulteriore specchio iscritto ascrivibile a fabbrica prenestina, tra i più antichi della serie, scoperto in una tomba di Orbetello nel 185811. Non è questa la sede per affrontare il complesso tema dell’apparato iconografico di tali manufatti e della sua lettura finalizzata alla decodificazione dei significati ideologici ad esso sottesi; inscindibili da quest’ultimo sono poi,
7
Le necropoli della città laziale hanno peraltro restituito anche un certo numero di specchi decorati con didascalie in etrusco (in genere più risalenti rispetto ad analoghi manufatti con iscrizioni latine): per il corredo epigrafico cf. CIE 8615–8622 e Meiser, ET La 1–10 (da questa serie va espunta CIE 8618 = Meiser, ET La 5 = Cr 8, in quanto iscrizione su specchio di provenienza cerite). Per alcune osservazioni sulla presenza/transito di maestranze dall’Etruria meridionale a Palestrina, scaturite anche dall’analisi degli aspetti grafici delle iscrizioni etrusche che corredano alcuni degli specchi da Praeneste, cf. Maggiani 2002, 17–21; cf. anche infra F. Gilotta. 8 CIL XIV 4094–4104 (specula aenea Praenestina); 4015–115 (vascula aenea Praenestina); cf. anche Eph. Epigr. IX 979–980. Il materiale è poi confluito in CIL I2 547–570; 2497–2499 cf. pp. 903–905. 9 Franchi de Bellis 2005; particolarmente prezioso, anche per l’apparato grafico (apografi), Wachter 1987, 106–177. L’intero dossier è ora anche richiamato nelle appendici I–II del contributo di van der Meer 2016a, 116–125. 10 Granino Cecere 2005, nrr. 777–789 (specchi) e 790–797 (ciste). 11 CIL I2 558 cf. pp. 832 e 904 = CSE Louvre 3, nr. 7 (D. Rebuffat-Emmanuel) = Franchi de Bellis 2005, 78–83; cf., con ult. bibl., van der Meer 2016b, 74 s. (non oltre la metà del IV sec. a.C.).
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evidentemente, le didascalie esplicative dei soggetti/scene rappresentati, uno dei tratti che maggiormente marcano l’apparato epigrafico di tali oggetti12. Ci prefiggiamo piuttosto di esaminare, nel suo complesso, la trentina di ciste e specchi iscritti in base a diversi parametri tra loro correlati, dalla ricostruzione dei contesti di rinvenimento, all’analisi degli aspetti tipologici e stilistici dei manufatti e, da ultimo, ai dati ricavabili e dalle forme linguistiche e paleografiche delle iscrizioni che li accompagnano. 2. I contesti L’assenza di indagini archeologiche condotte scientificamente sino alle ricerche del primo Novecento preclude di fatto, quasi sempre, di ricostruire le circostanze della scoperta e le associazioni con la restante suppellettile del relativo corredo. Gli stessi generici riferimenti al rinvenimento di ciste e specchi ancora non restaurati che compaiono nei primi resoconti rende talora difficoltosa la loro identificazione con manufatti editi con maggior dettaglio negli anni successivi. Le nostre informazioni si riducono pertanto, per lo più, all’anno della scoperta o della prima menzione dell’oggetto o, addirittura, della sua acquisizione in qualche istituzione museale (o addirittura ad un semplice terminus ante quem) eventualmente in associazione al fondo/proprietà e/o alla contrada in cui era venuto alla luce. Al proposito appaiono emblematiche, ad es., le vicende di uno specchio iscritto trovato insieme ad altri anepigrafi e ad alcune ciste in contrada Colombella nel corso di scavi condotti nella proprietà Franciosi nel 1905 è pressoché privi di ulteriore documentazione sul contesto e circostanze di rinvenimento: dopo essere stato immesso subito dopo sul mercato antiquario, lo specchio (insieme agli altri manufatti bronzei) è stato acquistato dallo Stato (1910) ed è confluito nelle collezioni del Museo di Villa Giulia13.
12 Alle didascalie propriamente dette si aggiungono poi, accanto a scambi di battute/esortazioni
(CIL I2 (1986), p. VIII = Franchi de Bellis 2005, 116–119; CIL I2 547 cf. pp. 739 e 832, cf. infra nota 34; CIL I2 560 cf. p. 904, cf. infra nota 35) e iscrizioni di dono (secondo enunciato del testo della cista Ficoroni, cf. infra nota 15 e nel testo), alcuni riferimenti agli artigiani implicati nella realizzazione/incisione di tali manufatti, da vere e proprie firme (oltre al primo segmento del testo che correda il coperchio della cista Ficoroni, si dispone di almeno altre due firme su specchi [CIL I2 552 cf. pp. 714 e 903 = Granino Cecere 2005, nr. 781 = Franchi de Bellis 2005, 57–62 = CSE Villa Giulia 3, nr. 31 (M. S. Pacetti)]; CIL I2 2497 cf. p. 904 = Granino Cecere 2005, nr. 788 = Franchi de Bellis 2005, 105–109 = CSE Villa Giulia 2, nr. 92 (E. Foddai) a sigle onomastiche meno esplicite (cf. infra nota 29). 13 CIL I2 2498 cf. p. 904 = Franchi de Bellis 2005, 110–114 = CSE Villa Giulia 2, nr. 89 (E. Foddai; cf. anche, per la scoperta e le vicende collezionistiche, 20).
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Le scoperte più antiche precedono di molto la stagione degli scavi ottocenteschi ed evidenziano, tra l’altro, il particolare interesse degli antiquari dell’epoca per questa peculiare categoria di manufatti; da segnalare, in questa fase, una certa attenzione rivolta anche ai contesti, come nel caso della “cista mistica di metallo” e della sua “patena” (cioè uno uno specchio liscio) il cui rinvenimento, entro una ‘cassa di peperino’ nel 1786 fuori porta San Martino è descritto da Pierantonio Petrini nelle sue di poco successive Memorie prenestine14. La notizia più celebre resta certamente il rinvenimento, nel 1738 della cista Ficoroni (nei pressi della chiesa di San Rocco)15 e di uno specchio, forse al suo interno, in cui sono rappresentati Poloces, Losna e Amuces16 e del quale si conoscono, tra l’altro, diverse contraffazioni moderne17. Risale invece forse ancora al XVI secolo la scoperta di un altro specchio, di provenienza ignota, con scena pertinente al giudizio di Paride, per la prima volta menzionato nel 1628, ma che troviamo riprodotto graficamente sin dai decenni finali del secolo precedente18. In almeno altri cinque casi, oltre a quello di uno specchio trovato in recenti indagini della Soprintendenza in una deposizione entro cassa litica in una necropoli presso Cave (via della Selce, scavi 2009–2010)19 (fig. 1), disponiamo di informazioni sulla tipologia delle sepolture e sulle eventuali associazioni di ciste e specchi iscritti con altri oggetti di corredo; è forse opportuno, in questa sede, passarli in rassegna, sia pur cursoriamente.
14 Petrini 1795, 26–27 e 288; cf. CSE Villa Giulia 2, 18 s. (E. Foddai). 15 CIL I2 561–562 cf. pp. 722 e 904 s. = Bordenache, Ciste I.2, nr. 68 = Kruschwitz 2002,
25–32 nr. *1 = Granino Cecere 2005, nr. 797 = Franchi de Bellis 2005, 130–140; per il formulario della “firma” cf., di recente, Poccetti 2012. Ci limitiamo poi a richiamare, in merito alla cista Ficoroni, al ruolo di Novios Plautios e alla dialettica Roma – Praeneste sottesa al luogo di produzione e alla committenza, lo status quaestionis di Coppola, Ciste I.3, 108 e le più recenti osservazioni di Ambrosini 2019, 235 s.; Jolivet 2019, 218–220. 16 CIL I2 549 cf. pp. 722 e 903 = Granino Cecere 2005, nr. 778 = Franchi de Bellis 2005, 40–45 = CSE Villa Giulia 3, nr. 1 (M. S. Pacetti, con status quaestionis sul luogo e le circostanze del rinvenimento a 31 s.). In anni vicini (1744) è poi menzionato per la prima volta un altro specchio inciso con didascalie in latino, attualmente conservato al Metropolitan Museum di New York: CIL I2 551 cf. pp. 832 e 903 = CSE U.S.A. 3, nr. 7 (L. Bonfante) = Granino Cecere 2005, nr. 780 = Franchi de Bellis 2005, 52–56; cf. anche CSE Villa Giulia 3, 20 con n. 13 (M. S. Pacetti). 17 Cf. Martelli 2006, 359 (con tav. Ib a 357). 18 CIL I2 553 cf. pp. 722 e 904 = Granino Cecere 2005, nr. 782 = Franchi de Bellis 2005, 63–68; cf. CSE Villa Giulia 2, 17–18 (E. Foddai). Lo specchio è riprodotto anche nel Museum Chartaceum di Cassiano dal Pozzo, con un disegno che dipende da album di fine Cinquecento: cf. Vaiani 2016, 152–154, nr. 46 (con disegno e fotografia). 19 Pizziconi 2012, 366 s. (con fig. 4 a 361), con proposta di datazione al terzo quarto del IV sec. a.C.: Castor // Hẹṛcelẹs (sepoltura 4: specchio associato a peso da telaio, strigile in bronzo, coppa miniaturistica a vernice nera; per lo strigile cf. ora Bochicchio 2019).
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Fig. 1 Specchio da Cave, necropoli di via della Selce
Tra i rinvenimenti più noti, valorizzato in occasione della mostra Roma medio repubblicana20, è da annoverare quello di una peculiare tomba ad incinerazione femminile, che ebbe luogo nella vigna di Giuseppe Galeassi (situata dietro l’oratorio di San Rocco, 15 ottobre 1869), come anche ricaviamo dal resoconto del celebre antiquario Francesco Martinetti presente sul posto al momento della scoperta21; alla deposizione sarebbe associato, come sembra, anche uno specchio recante i nomi di Teti, Aiace e Alcmena, ora al British Museum22: all’interno di una cassa di peperino era collocata un’urna in calcare a forma di tempietto ionico, ispirata a modelli greci23, contenenti ceneri, ossa calcinate e tracce di 20 Coarelli 1973a, nrr. 418–420; cf. anche Baglione 1992, 177, n. 42; Gatti 2019, 341–432,
che segnala il rinvenimento a Palestrina di un’altra urna cineraria a forma di tempietto (anche in questo caso, come sembra, entro una cassa di peperino), significativa ulteriore testimonianza locale di questa peculiare forma di incinerazione. 21 Cf. Helbig 1871, 74 s.; dal suo resoconto dipende anche una successiva descrizione dello Helbig (Barracco – Helbig 1893, 54 s.); ulteriori precisazioni sui materiali da questo contesto funerario in Baglione 1992, 187. 22 CIL I2 556 cf. pp. 722 e 904 = Granino Cecere 2005, nr. 785 = Franchi de Bellis 2005, 84–88: Telis / Aiax / Alcumena; sul soggetto figurato cf. anche van der Meer 2017, 215. 23 Per l’urna cf. anche, oltre la bibl. cit. a n. 20, Martelli 1975, 14 e 17, n. 36; Rinaldi Tufi 1982, 116–118.
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tessuto prezioso (intrecciato con lamine in oro) che dovevano avvolgere i resti di una defunta verosimilmente di elevato rango sociale; per quanto concerne gli altri oggetti di corredo, i resoconti dell’epoca concordano esclusivamente sulla presenza, all’esterno dell’urna, di uno strigile bronzeo con manico configurato (donna che tiene, a sua volta, con la mano sinistra uno strigile)24, oggetto che, presumibilmente non destinato ad un uso pratico, trova almeno due stringenti confronti nelle stesse necropoli prenestine25. Lo specchio iscritto, che qui interessa, è ricordato nei resoconti ottocenteschi soltanto dal Matz26, mentre il Martinetti (e poi lo Helbig) fa invece riferimento ad altri oggetti, una lekythos alabastrina ed elementi (manici?) bronzei di una scatoletta lignea, andati perduti o comunque non identificabili. Nel suo complesso, l’associazione specchio inciso, strigile e contenitore ligneo per cosmetici costituisce, come è noto, uno dei tratti maggiormente ricorrenti nei corredi femminili prenestini medio-repubblicani; nel caso specifico, qualora fosse confermata l’unitarietà del corredo, la datazione orientativa dell’urna e dello strigile figurato ancora nell’ultimo terzo del IV sec. a.C., potrebbe costituire un solido elemento diagnostico utile a determinare la cronologia dello specchio iscritto che qui maggiormente interessa. Allo stesso anno (1869), caratterizzato da un intenso succedersi di scoperte in diversi settori della necropoli27, risale inoltre il rinvenimento, in contrada Bocce di Rodi (tenuta Giuseppe Parmegiani), di un altro specchio iscritto entro una cista; quest’ultima conteneva al suo interno anche uno strigile e una scatoletta ornitomorfa con scomparti per cosmetici, quindi a ulteriore testimonianza di un’associazione non dissimile dal caso appena richiamato. Ad eccezione della cista assegnabile al 350–320 a.C. (andata perduta nel corso del secondo conflitto mondiale, ma documentata da fotografie di archivio), gli oggetti metallici, tra i quali lo specchio in cui è rappresentato Ercole che si accinge (con l’aiuto di Minerva) ad affrontare il leone nemeo, sono tuttora conservati nelle Antikensammlungen di Monaco28 (fig. 2). La breve iscrizione incisa sulla targhetta dello specchio, una sigla onomastica forse da riferire all’artigiano/incisore, è sfuggita 24 Haynes 1985, 312 s., nr. 176 (con fig. 176 a 228 e proposta di datazione all’ultimo quarto del
IV sec. a.C.); cf. anche n. succ.
25 Coarelli 1973b (inv. 13077–13078, dalla collezione Barberini); Proietti 1980, 296, figg.
421–422 (con datazione alla fine del IV – inizi III sec. a.C.). Per questa categoria di ‘Zierstrigilis’ cf. anche Kotera-Feyer 1991, 118 e 133 Anm. 35; Jurgeit 2006, 602 (con n. 23) e 607 (con n. 51). 26 Matz 1870, 98. 27 Per gli scavi tra 1869 e 1870 cf. Pensabene 1983, 248–252. 28 Bordenache, Ciste I.1, nr. 39; Gliwitzky 2015, 278–280; per le circostanze del rinvenimento cf. anche Baglione 1992, 173, nn. 24 e 27 (il 15 marzo del 1870, i Musei Vaticani rinunciano alla prelazione per l’acquisto di una cista, forse da identificare con Bordenache, Ciste I.1, nr. 39). Per un’altra cista dal medesimo fondo cf. Bordenache, Ciste I.1, nr. 17 (Ny Carlsberg Glyptotek).
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a lungo all’attenzione degli studiosi, pur essendo già ricordata a suo tempo dal gesuita Raffaele Garrucci29, del quale è ben noto il variegato apporto alla conoscenza delle necropoli prenestine, dal diretto coinvolgimento in attività di scavo (1862 e 1863), allo studio di ciste, specchi e segnacoli iscritti30.
Fig. 2 Specchio da Palestrina, tenuta Parmegiani – vocabolo Bocce di Rodi
Degna di menzione, per la sua eccezionalità, è anche la notizia del rinvenimento, sul finire del 1868, all’interno di un sarcofago, di almeno tre specchi due dei quali iscritti, venduti direttamente dagli scavatori al barone Tyszkiewicz e, dopo ulteriori passaggi in altre collezioni, acquisiti da tre distinti musei stranieri31 (fig. 3). Resta peraltro incerta la pertinenza al medesimo contesto funerario di altri oggetti menzionati nel 1873 dal Fortnum, tra i quali, oltre ad una caratteristica serie di anelli (del gruppo omonimo, ora all’Ashmolean Museum di Ox29 Garrucci 1877, nr. 541 = Adam 1980, 26, nr. 8, cf. Gliwitzky 2015, 278–280, Abb. 6.27 e
6.30–31 Ser(---), piuttosto che Ter(---); non sembrano motivati i dubbi di L. B. van der Meer sull’autenticità dell’iscrizione (van der Meer 2016a, 120, App. IIA 79). Per sigle affini su specchi prenestini cf. CSE Villa Giulia 2, 94 (E. Foddai): a proposito dello specchio nr. 85, dalla Colombella, recante le lettere AR [o piuttosto AVR in nesso?] incise sul verso del manico). 30 Cf. CSE Villa Giulia 1, 19 s. (M. P. Baglione). 31 1) CIL I2 555 cf. pp. 722 e 904 = CSE Louvre 3, nr. 38 (D. Rebuffat-Emmanuel) = Granino Cecere 2005, nr. 784 = Franchi de Bellis 2005, 78–83, cf. Haumesser 2013; 2) CIL I2 548 cf. pp. 722 e 903 = CSE U.S.A. 1, nr. 39 (R. D. De Puma) = Granino Cecere 2005, nr. 777 = Franchi de Bellis 2005, 32–39; 3) Lambrechts 1978, 133–140, nr. 21 = Adam 1980, 32, nr. 14.
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ford), due ciste (una a corpo ligneo) e due altri specchi con decorazione a rilievo e tendenzialmente più antichi (V sec. a.C.) rispetto ai restanti elementi del corredo. Come già rilevato da Maria Paola Baglione32, anche tenendo soltanto conto, prudentemente, dei soli tre specchi descritti nel 1869, va comunque sottolineata l’anomala presenza all’interno della medesima cassa di ben tre specchi, peraltro tra loro non del tutto sovrapponibili sul piano cronologico.
Fig. 3 Tre specchi rinvenuti a Palestrina (1868) all’interno del medesimo sarcofago
Da ultimo, vorremmo fare cenno ai materiali venuti alla luce tra fine 1877 e inizi 1878 in un settore della necropoli della Colombella durante scavi condotti da Francesco Fiorentini (proprietà di Felice Facciotti), per i quali si è rivelato particolarmente proficuo lo spoglio della documentazione d’archivio da parte di Adriana Emiliozzi, a sostanziale integrazione degli scarni resoconti apparsi nelle ‘Notizie degli Scavi’33. Tra i manufatti allora recuperati ed oggetto di una vasta dispersione museale negli anni immediatamente successivi, si segnalano, accanto ad una trentina di pineae o relative basi iscritte, diciassette ciste e altrettanti specchi incisi, uno dei quali forse identificabile con un esemplare con scena dialogata di gioco, acquisita nel 1898 dal British Museum34. Almeno due ciste erano iscritte: accanto al celebre contenitore decorato con scena di preparazione di banchetto scandito dalle battute che si scambiano inservienti e cuochi35, 32 Cf. Baglione 2002, 112–115. 33 Bordenache, Ciste I.2, 413–418 (A. Emiliozzi). 34 CIL I2 547 cf. pp. 722, 739, 822 e 903 = Granino Cecere 2005, nr. 789 = Franchi de Bellis
2005, 27–31.
35 CIL I2 560 cf. p. 904 = Bordenache, Ciste I.1, nr. 12 = Franchi de Bellis 2005, 121–129;
cf., da ultima, Emiliozzi 2009.
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è nota un’altra cista recante una serie di figure divine con relative didascalie36, che conservava al suo interno, stando ai rapporti dell’epoca, due vasetti in vetro colorato, due scatolette lignee e due eroti (‘puttini’) in legno ‘dorato’. Come anche si desume da questo breve rassegna, nella quasi totale assenza di associazione con ceramica o altri materiali diagnostici37, la possibilità di ricavare elementi utili ad una datazione di ciste e specchi iscritti poggia di conseguenza, in primo luogo, sul loro inquadramento tipologico-stilistico, analisi che potrebbe rivelarsi dirimente per definire anche la cronologia relativa (e quindi forse anche le modalità stesse di composizione dei corredi) di quei casi in cui sono documentati il rinvenimento di uno specchio all’interno di una cista o la contestuale presenza di più specchi all’interno della medesima deposizione. A questi aspetti sono dedicate le considerazioni che seguono. [D. N.] 3. Cronologia tra tipologia e stile Gli studi su ciste e specchi di Praeneste non hanno segnato, nell’ambito specifico della seriazione cronologica, grosse novità rispetto alle ricerche che effettuai nel 2000 per un Incontro internazionale a Tor Vergata e qualche anno dopo, nel 2007, per l’allestimento del Corpus Speculorum Etruscorum (Villa Giulia 1)38. Molte, al contrario, fino a tempi recentissimi, le novità nella ceramografia – settore produttivo per molti aspetti parallelo a quello della caelatura –, che ha visto un costante rafforzamento delle presenze ‘tiberine’ tra le botteghe produttrici e le clientele consumatrici dei migliori prodotti vascolari etruschi a figure rosse di fine V/metà IV sec. a.C. Il dato è rilevante perché ad esso credo si possa accostare in qualche modo la provenienza di due nuovi specchi piriformi prenestini da Cave e dall’agro tiburtino (Lunghezza), distretti geografici partecipi anch’essi 36 CIL I2 568 cf. p. 905 = Bordenache, Ciste I.2, nr. 66 = Granino Cecere 2005, nr. 796 =
Franchi de Bellis 2005, 181–184.
37 Anche per le indagini, meglio documentate, dell’Associazione Archeologica Prenestina (contra-
da S. Rocco, a ovest di via della Marcigliana, 1907), che hanno tra l’altro restituito lo specchio figurato iscritto CIL I2 2497 (cf. supra nota 12), non è stato possibile ricondurre il manufatto (come altri specchi anepigrafi) al corredo di uno specifico contesto tombale: cf. CSE Villa Giulia 2, 21 s. (E. Foddai). 38 Gilotta 2000; CSE Villa Giulia 1, 30–36 (F. Gilotta). Viceversa sono numerosi i contributi su singoli aspetti del repertorio iconografico di ciste e specchi: cf., inter alia, Krauskopf 1993, Gilotta 2002; Colonna 2007; van der Meer 2016a e 2016b, 2017, questi ultimi con lett. di riferimento; per altri aspetti della questione, e.g. Emiliozzi 2009; Thomson De Grummond 2017, in partic. 113 s. (due specchi piriformi). In questa sede farò riferimento esclusivamente al CSE e alle maggiori raccolte epigrafiche apparse in anni recenti, ciascuna delle quali con ricca lett. precedente.
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di quella koiné tiberina che si osserva, oltre che nella appena ricordata pittura vascolare, anche nell’artigianato minore e di cui la caelatura appare interprete autorevole39. Se, dunque, i termini ‘archeologici’ della questione rimangono sostanzialmente immutati, insolita e stimolante mi è apparsa l’idea propostami qualche mese fa per questo incontro da Maria Grazia Granino e da David Nonnis: provare ad accantonare certezze o pseudo-certezze ‘disciplinari’ (in effetti molto poche), con l’obiettivo di elaborare insieme una griglia cronologica che tenga conto anche del dato epigrafico attraverso il riesame del cospicuo gruppo di ciste e specchi dotati di iscrizioni, una trentina circa. Un primo elemento destinato a rendere problematico questo percorso attiene naturalmente alla sfera, prevedibile, della soggettività, tanto nel giudizio formale che nei tentativi di delineare eventuali processi di trasmissione/riproduzione di modelli e delle loro Umbildungen, con chiare ricadute nelle proposte di seriazione. Una difficoltà resa tanto più viva proprio (e paradossalmente) dal ricco apparato epigrafico, che definisce in maniera a noi in larga parte oscura contenuti mitologici o quotidiani e singoli personaggi che di questo mondo dovrebbero essere gli interpreti parlanti. A ciò si aggiunga un secondo dato, che amplia ulteriormente il raggio dell’incertezza nella creazione di ‘stemmi’ stilistico/cronologici: e cioè la possibilità, anche nei rari casi noti di associazioni contestuali, che le ciste e gli specchi fossero già stati in uso per un periodo più o meno lungo prima di essere destinati al corredo funebre e sottratti alle ‘funzioni’ della quotidianità40. In questa sede, dunque, ho pensato di allestire una sintesi ‘visiva’ dei capisaldi noti, con e senza iscrizioni, al cui interno David Nonnis inserirà i dati epigrafici disponibili, dando forza o viceversa mettendo in discussione le cronologie da me proposte. É più che legittimo, naturalmente, non aspettarsi risultati rivoluzionari, ma entrambi crediamo che alla fine la verifica bifronte ci porterà a qualche acquisizione, a qualche piccolo aggiustamento di tiro su entrambe le sponde della ricerca. 39 Cf. Gilotta 1986, 17, n. 83, con un primo riferimento alla caelatura e ad Adam 1980, 72–76;
Ho poi ripreso la questione in Gilotta 2000, 143–150, CSE Villa Giulia 1, 31 s. (F. Gilotta); Gilotta 2016, 137 s.; e in Gilotta 2019, 61. Per lo specchio di Cave, cf. n. 19; per quello da Lunghezza, Musco 2006. Ma in anni recenti si segnalano diversi altri rinvenimenti: e.g., in loc. Lucrezia Romana (Municipio X, tomba a camera 4: Egidi 2006, 372; soprattutto tomba a camera 8: Egidi – Gallo 2006, 372, con corredo degli ultimi decenni del IV sec. a.C.); in loc. Mandriola (Laurentina: Buccellato 2006, 480 s.); ed inoltre in tombe recentemente indagate nella necropoli di Corcolle, culturalmente legata all’ager Praenestinus: Mari 2015, 70 s., 80, 100 e 103, fig. 40 (tomba CX: non è chiaro, tuttavia, quali fossero esattamente gli oggetti pertinenti al corredo; cf. anche Mari 2019, 372–374 con fig. 2, 17: ‘tomba VIII’). 40 Caso emblematico potrebbe essere quello, già di per sé discusso, della Cista Ficoroni, a confronto con lo specchio di Losna, forse rinvenuto nel medesimo contesto (cf. CSE Villa Giulia 3, 29–36: M. S. Pacetti).
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Fig. 4 Specchio da Palestrina (1868), conservato al Louvre
Sia nel 2000 che nel 2007 mi era sembrato che gli specchi riferiti al c.d. Maestro di Alcesti potessero essere considerati a tutti gli effetti proto-prenestini, il vero avvio delle botteghe di caelatores della città ancora verso la prima metà/metà del IV sec. a.C.: le provenienze dalla stessa Praeneste e da Falerii, le iscrizioni etrusche e la marcata impronta attico-lucaneggiante mi inducevano ad agganciarli in qualche modo alle più antiche esperienze ceramografiche ‘tiberine’ cui facevo cenno dianzi (dal Gruppo di Bologna 824 al Pittore degli Argonauti, per arrivare poi agli stessi vasi falisci) e a postulare, attraverso una rete di riferimenti, un intervento a Praeneste di artigiani etruschi provenienti proprio da quel distretto41. In occasione del Convegno Caelatores, i cui Atti sono apparsi nel 2002 A. Maggiani42 formulò un’ipotesi più dettagliata, e su basi soprattutto epigrafiche (con riferimento agli specchi da Praeneste dotati di iscrizioni etrusche), ipotizzando un avvio delle botteghe prenestine ad opera di artigiani 41 Cf. supra note 37–38. 42 Maggiani 2002, in partic. 17–21.
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veienti, forse a seguito di una diaspora provocata dalla conquista romana della città: non possediamo purtroppo, al momento, evidenze che possano confermare una attività di Veio in questo settore dell’artigianato artistico, ma certamente la città tiberina fu tra gli esponenti di maggior rango di quel linguaggio stilistico (riscontrabile soprattutto nella produzione fittile) che fu ricondotto da Mauro Cristofani ai centri etruschi della valle del Tevere43. Un dato del genere non andava in disaccordo con quanto avevo avuto occasione di rilevare, in altre sedi, a proposito della cista Ficoroni, di una sua possibile datazione già verso il secondo quarto del IV sec. a.C., per i suoi legami con la pittura vascolare lucana ed etrusca (Pittore di Dolone, Pittore degli Argonauti) di quell’epoca, contro la persistente tendenza a collocarla verso il 330–20 o verso la fine del IV sec. a.C. su basi esclusivamente antiquarie44. Nella scia della Cista Ficoroni era stato poi da sempre collocato l’altrettanto celebre specchio di Toledo, dipendente da cartoni manifestamente simili e realizzato non sappiamo a quale distanza di tempo dal capolavoro di Novios Plautios, ma certo ingiustificatamente, e frettolosamente, relegato alla fine del IV sec. a.C.45 Attraverso uno specchio di Londra e uno di Bologna entrambi di accertata provenienza prenestina46, e poi attraverso i due specchi del Louvre, da Orbetello e da Praeneste (fig. 4), con iscrizioni latine e anch’essi nel solco di esperienze classicheggianti di marca italiota47, mi era parso che si potesse passare a una serie di documenti da collocare in un momento leggermente posteriore, forse ancora entro i decenni centrali del IV sec. a.C., come la cista Barberini, la cista Révil o la cista Pierpont Morgan48, mentre alla metà/terzo quarto del IV sec. a.C. sembrava si potessero assegnare specchi come BM Br 695 e Berlino Fr 12249, dal sapore, soprattutto quest’ultimo, a tratti già ‘campanizzante’ nella accezione beazleyana del termine. E poi ancora, specchi come Cambridge, Corpus Christi 43 Tra gli altri, Cristofani 1975, 1985. 44 Cf. supra nota 40. 45 CSE U.S.A. 1, nr. 39 (R. D. De Puma). 46 Londra, Br 635: Adam 1980, nr. 2; Gilotta 2000, 150–151, fig. 5; CSE Villa Giulia 1, 32 (F.
Gilotta), con lett. Bologna: CSE Bologna 1, nr. 12 (G. Sassatelli); Gilotta 2000, 150 s., fig. 6; CSE Villa Giulia 1, 33 (F. Gilotta), con lett. 47 Louvre 1728 e 1729: CSE Louvre 3, nrr. 7–8 (D. Rebuffat-Emmanuel); Franchi De Bellis 2005, 78–83 (1729), 92–97 (1728); Granino Cecere 2005, nr. 532 (1729); CSE Villa Giulia 1, 32 (F. Gilotta). 48 Cista Barberini: Bordenache, Ciste I.2, nr. 69. Cista Révil: Bordenache, Ciste I.1, nr. 29. Discussione in CSE Villa Giulia 1, 32 (F. Gilotta). Cista Pierpont Morgan: Bordenache, Ciste I.1, nr. 45; Franchi De Bellis 2005, 160–164; Granino Cecere 2005, nr. 793; discussione in CSE Villa Giulia 1, 33 (F. Gilotta). 49 Londra, B.M., Br 695: Adam 1980, nr. 3; Franchi De Bellis 2005, 69–77; Granino Cecere 2005, nr. 783; Berlino Fr 122: Adam 1980, nr. 6; Franchi De Bellis 2005, 63–68; Granino Cecere 2005, nr. 782. Discussione in CSE Villa Giulia 1, 32 (F. Gilotta).
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College50, Londra Br 71951 o la cista Berlino 623952. Segue un nutrito gruppo di ciste e specchi apparentemente di più difficile collocazione, per i quali mi limiterei, almeno in questa fase della ricerca, a proporre un prudente ‘seconda metà del IV sec. a.C.’: Villa Giulia 2486453, Louvre 173054, New York 96.18.1655, Villa Giulia 5114556, Palestrina 1569757 o le ciste del Vaticano 1228158, Berlino Fr 54259, Vassar College 54.Ia-b60, Villa Giulia 5119861, mentre ad una tradizione formale più avanzata, già forse entro la prima metà del III sec. a.C. (?), ricondurrei, tra gli altri, due specchi rispettivamente conservati a Villa Giulia (24898)62 e Palestrina 155763. Tale griglia, realizzata attraverso lo studio tipologico degli specchi e un confronto specchi-ciste, caelatura-pittura, caelatura-plastica (per questo secondo aspetto rimando ovviamente ai pionieristici studi di Mauro Cristofani e poi di Marisa Bonamici64), pur avendo nel complesso qualche fondamento, non possiede in sé agganci cronologici incontrovertibili. Lascio dunque di nuovo la parola a David Nonnis per le osservazioni di carattere paleografico e linguistico. [F. G.] 50 CSE GB 2, nr. 6 (R. V. Nicholls); Franchi De Bellis 2005, 98–104; Granino Cecere 2005,
nr. 787; discussione in CSE Villa Giulia 1, 32 (F. Gilotta).
51 Adam 1980, cat. n. 4; cf. n. 22. Discussione in CSE Villa Giulia 1, 33 (F. Gilotta). 52 Bordenache, Ciste I.1, nr. 5; Franchi De Bellis 2005, 143–147; Granino Cecere 2005, nr.
53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64
790. Difficile decidere, sulla base delle immagini disponibili, il reale rapporto cronologico tra la cista e lo specchio rinvenuti in loc. Bocce di Rodi (cf. supra nota 28), certamente espressioni di linguaggi stilistici differenti: si sarebbe tentati, ad ogni modo, di riconoscere inflessioni più ‘tradizionali’ nella cista. Una datazione di insieme per entrambi i reperti tra 350 e 320, come proposto sopra, non sembra impropria. CSE Villa Giulia 3, nr. 1 (M. S. Pacetti); Franchi De Bellis 2005, 40–45; Granino Cecere 2005, nr. 778. CSE Louvre 1, nr. 3 (D. Rebuffat-Emmanuel); Franchi De Bellis 2005, 46–51; Granino Cecere 2005, nr. 779. CSE U.S.A. 3 (L. Bonfante), nr. 7; Franchi De Bellis 2005, 52–56; Granino Cecere 2005, nr. 780. Adam 1980, 79; Franchi De Bellis 2005, 89–91; Granino Cecere 2005, nr. 786. CSE Villa Giulia 2, nr. 89 (E. Foddai); Franchi De Bellis 2005, 110–114. Bordenache, Ciste I.2, nr. 101; Franchi De Bellis 2005, 148–159; Granino Cecere 2005, nr. 791. Bordenache, Ciste I.1, nr. 9; Franchi De Bellis 2005, 165–174; Granino Cecere 2005, nr. 792. Bordenache, Ciste I.2, nr. 66; Franchi De Bellis 2005, 181–184; Granino Cecere 2005, nr. 796. Bordenache, Ciste I.2, nr. 83; Franchi De Bellis 2005, 175–180; Granino Cecere 2005, nr. 794. CSE Villa Giulia 3, nr. 31; Franchi De Bellis 2005, 57–62; Granino Cecere 2005, nr. 781. CSE Villa Giulia 2, nr. 92; Franchi De Bellis 2005, 105–109; Granino Cecere 2005, nr. 788. Cristofani 1985; Bonamici 1991; 1996; 2002a; 2002b.
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4. Lingua e paleografia Alcuni spunti utili ad integrare, sul versante cronologico, le osservazioni scaturite dall’analisi tipologica e stilistica di ciste e specchi si ricavano forse dalle forme linguistiche e paleografiche del loro apparato epigrafico. Per quanto concerne l’aspetto linguistico non possiamo qui riesaminare nel dettaglio il complesso e variegato panorama dei teonimi o personaggi del mito utilizzati in funzione di didascalie esplicative, a partire dalla controversa questione dell’eventuale riflesso linguistico della trasmissione di nomi greci per il tramite dell’etrusco, come, ad es., nel caso di Alixentros/Alixentrom65, per il quale si è invero, anche, prospettato un percorso inverso, dalla forma prenestina all’etrusco elacsantre/alcsentre66. Ci limitiamo a richiamare, accanto alle varianti (almeno due) del nome del semidio Ercole (con sincope della vocale interna o con anaptissi)67, forme arcaiche quali T(h)elis (per Thetis)68 o Mirqurios/Mircurios69, quest’ultima a sua volta affiancata dalla variante (più recente?) Mercuris che compare su un’altra cista70. Restando tra i teonimi, un possibile indizio di una cronologia relativamente risalente si coglie forse, quale 65 Alixentrom: CIL I2 553 (cf. supra nota 18, specchio); Alixentros: CIL I2 557 cf. pp. 722 e 904
= Granino Cecere 2005, nr. 786 = Franchi de Bellis 2005, 89–91 (specchio); Alixentr[os?]: CIL I2 566 cf. pp. 722 e 905 = Bordenache, Ciste I.1, nr. 9 = Granino Cecere 2005, nr. 792 = Franchi de Bellis 2005, 165–174 (cista). Ad un possibile tramite/influsso etrusco si è anche, non concordemente, pensato per forme come Amuces di CIL I2 549 (cf. supra nota 16; forma che si distingue da Amucos di CIL I2 548 cf. p. 903, più vicina all’originale greco) e Prosepnai, problematico dativo di CIL I2 558 (per il quale cf. n. 11): cf., con bibl. prec., Mancini 1997, 321–323 e 329 s.; Franchi de Bellis 2005, 42 e 96 s. 66 Cf. Martelli 1994; Mancini 1997, 326–329; status quaestionis in Wachter 1987, 172–175; Franchi de Bellis 2005, 67 s. 67 Hercles/Fercles: CIL I2 563–564 cf. pp. 832 e 905 = Franchi de Bellis 2005, 143–159 (ciste, rispettivamente Hercles e Fercles); Hercele/Herceles: CIL I2 551 cf. pp. 722, 832 e 903 (specchio, Hercele); Pizziconi 2012, 366 s. (specchio, Herceles). Sempre a Praeneste è documentata, in seguito (III sec. a.C.), anche la forma Hercoles (CIL I2 61–62 cf. p. 868 = Granino Cecere 2005, nrr. 613–614). Sulle diverse forme prenestine del nome del dio cf. Wachter 1987, 133 s. § 55e; Mancini 1997, 330 s.; Franchi de Bellis 2005, 55; Prosdocimi 2016, 145 s., n. 78 (su Hercele); per Hercle, come sembra di derivazione etrusca, cf. anche Coarelli 2009 (a proposito di CIL I2 2659 cf. p. 866 dalle rive del lago di Albano, non posteriore agli inizi del IV sec. a.C.) e Bagnasco Gianni 2017, 159 e 164 (n. 10). 68 CIL I2 556 (cf. supra nota 22) (Telis); cf., anche per la forma Thelis/Thelim documentata in Varrone (che cita Ennio), Franchi de Bellis 2005, 86 s. 69 Mirqurios: CIL I2 553 (cf. supra nota 18) (specchio); Mircurios: CIL I2 564 cf. p. 905 = Bordenache, Ciste I.2, nr. 101 = Granino Cecere 2005, nr. 791 = Franchi de Bellis 2005, 148–159 (cista). 70 CIL I2 563 cf. pp. 832 e 904; per l’evoluzione del teonimo, con eventuale passaggio -irc > erc, cf. Franchi de Bellis 2005, 65–67 e 146 (con bibl. prec.). La forma Mirqurius compare peraltro, in epoca notevolmente più recente, in iscrizioni latine di Delo (CIL I2 2240 cf. pp. 1097–1909; 2501 cf. p. 922).
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possibile tratto linguistico arcaico, nel mantenimento della -s davanti a nasale in Losna (per Luna) che compare sullo specchio che sarebbe stato trovato insieme alla cista Ficoroni71 e forse, come sembra, di alcuni decenni posteriore a quest’ultima. Un eventuale analogo indicatore cronologico è forse costituito dall’uscita del nominativo singolare in -ios, che riscontriamo più volte su ciste e specchi, a partire dal nome stesso dell’artigiano Novios Plautios, al già richiamato teonimo Mirqurios/Mircurios72 o alle didascalie Soresios e ebrios incise rispettivamente sul fregio e sul coperchio della cista Pierpont Morgan73. Si tratta di una forma già ampiamente documentata in età arcaica, che dovrebbe tendenzialmente precedere la terminazione in -io(s) con caduta della -s finale, anche se risulta ancora documentata, come sembra, nella piena età medio-repubblicana (III sec. a.C.)74; nello stesso centro laziale essa ricorre anche, sia pur sporadicamente, nelle formule onomastiche dei segnacoli funerari della necropoli75, nonché in una firma (nota da almeno due repliche) incisa a bulino su due strigili (uno dei quali da una tomba di Corchiano) forse di fabbrica prenestina, da assegnare ancora al (tardo?) IV sec. a.C.76 A sua volta, invece, l’uscita in -io(s) sembra conoscere una particolare diffusione nel III sec. a.C. (anche a Praeneste), ma è comunque nota già nel secolo precedente (decenni centrali?), come mostra ad es. una delle due iscrizioni che corredano il coperchio relativo alla deposizione più antica del sepolcro dei Corneli a Roma77. Per quanto attiene uno degli specchi più antichi della serie, resta peraltro incerta la proposta di riconoscere una precoce attestazione del nominativo in -io(s) nel primo elemento del sintagma Taseio filios78, piuttosto da intendere come genitivo in -io proprio per il suo diretto accostamento all’uscita in -ios che immediatamente segue nella didascalia79. La 71 CIL I2 549 (cf. supra nota 16); cf. Vine 1993, 116 s.; Franchi de Bellis 2005, 42–44. 72 CIL I2 553 (cf. supra nota 18); 564 (cf. supra nota 69). 73 CIL I2 565 cf. p. 905 = Bordenache, Ciste I.1, nr. 45 = Granino Cecere 2005, nr. 793 =
Franchi de Bellis 2005, 160–164; tra le didascalie della medesima cista compare anche, in associazione ad Aiax, la forma (patronimico?) Ilios. Sull’interpretazione complessiva del fregio (e della enigmatica figura di Soresios) cf. anche Colonna 2007 (= 2016, 908); van der Meer 2017, 215–217. 74 Cf. CIL I2, Index, p. 1321; la documentazione d’età arcaica (con alcune integrazioni a CIL I2) è raccolta da Maras 2009, 115–116 e tabella 2. 75 CIL I2 91 cf. p. 718 e 863; 112 cf. p. 869; 310 cf. p. 874; per primi due sèmata cf. anche Granino Cecere 2005, nrr. 453 e 511. 76 CIL I2 2437 cf. pp. 722, 844 e 905; v. Freytag Gen. Löringhoff 2009 (testo forse ricostruibile, grazie all’esame congiunto delle due repliche, come L. (?) med Loucilios feced); per l’ipotesi di attribuzione a fabbrica prenestina cf. Gatti – Onorati 1992, 191–193. 77 CIL I2 2834 = VI 49892: L. [C]ornelio(s) Cn. f. 78 In questo senso Franchi de Bellis 2005, 82 s., che propone di riconoscere in Taseio(s) un aggettivo patronimico (si tratta di CIL I2 555, cf. supra nota 31). 79 Cf. Rigobianco 2017 (ediz. online 3).
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forma originaria, come abbiamo visto, sembra peraltro ancora convivere, sia pur in proporzione nettamente minoritaria, accanto a quella in -io(s) ancora nel pieno III sec. a.C. Sul piano fonetico è certamente anche da rimarcare l’uso del grafo in posizione iniziale al posto dell’attesa aspirata in fercles (per Hercles)80 e in felena (per Helena)81, forme ipercorrette riscontrabili anche nell’epigrafia falisca, dove è documentato altresì il passaggio inverso, da a 82. Il mutamento fonetico attestato dalle due didascalie in esame costituisce un evidente riflesso grafico di una contiguità di suono tra le due lettere che era stata rilevata sin dall’antichità e che sembra percepibile nella città laziale forse ancora in età tardo-repubblicana, se si accoglie la lettura tradita da Fra’ Giocondo del grecanico Feliod(orus) (per Heliodorus) in una perduta dedica dei locali magistri collegiorum83. La forma fercles testé ricordata presenta poi la peculiarità grafica della iniziale rovesciata, che richiama, in qualche misura, il parallelo ricorso ad una sinistrorsa in altre iscrizioni prenestine da assegnare al più tardi alla prima metà del III sec. a.C. (non potendosi forse escludere una datazione ancora allo scorcio del secolo precedente)84. A questo proposito, un ulteriore indizio a favore di una datazione alta, difficilmente posteriore alla riforma grafica dell’alfabeto attuata, come sembra, alla fine del IV – inizi del III sec. a.C. (e suggestivamente collegata alla censura di Appio Claudio Cieco), è la mancata distinzione grafica tra velare sorda e corrispondente sonora mediante l’aggiunta del pilastrino al grafo 85, che possiamo riscontrare anche in Luqorcos (resa per il greco
80 CIL I2 564 (cf. supra nota 69). 81 CIL I2 566 (cf. supra nota 65). 82 Sul fenomeno (oscillazione /) cf. Wachter 1987, 149 s.; Bakkum 2009, 79–83; Fran-
chi de Bellis 2013, 132 s. (con analisi anche della documentazione letteraria); Rigobianco 2020, 20 s. 83 CIL I2 1446 cf. pp. 714, 730, 840 e 991 = Franchi de Bellis 2013, 137–140, nr. 1. Forse ancora al III sec. a.C. risale invece la forma Foratia (per Horatia) presente nella perduta base di busto femminile CIL I2 166 cf. p. 871 = Franchi de Bellis 1997, 116, [57]. 84 CIL I2 60 cf. pp. 718, 831 e 868 = Granino Cecere 2005, nr. 775, cf. Franchi de Bellis 2016, 329–335 (lamina con dedica a Fortuna Diovo(s) fileia Primo((c))enia; nello stesso documento, a r. 2, compare ancora la grafia cratia per gratia, che sembrerebbe indicare una possibile anteriorità o contiguità cronologica all’introduzione del grafo : cf. anche n. succ.); CIL I2 457 cf. pp. 722 e 891 (patera a vernice nera con iscrizione suddipinta ((C))emeni Cordi). 85 Sulle “riforme ortografiche” di Appio Claudio (e/o del suo scriba Cn. Flavius), che avrebbe incluso anche l’introduzione della cf. Del Tutto – Prosdocimi – Rocca 2002, 564–590 (A. L. Prosdocimi); Prosdocimi 2015, 78–81; Calderini 2011, 97; Benelli 2019, 109–110 con n. 14 (a proposito della tabula Veliterna); Poccetti c.s. (contributo che si è potuto consultare grazie alla consueta disponibilità dell’autore). Per la tradizionale data recenziore della comparsa del segno (metà/ultimi decenni del III sec. a.C.) cf., ad es., Gaucci 2010–2011, 68; Marengo 2019, 162.
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Λυκοῦργος) di uno specchio parigino86, in Macolnia (per Magolnia)87 della cista Ficoroni o nel sostantivo plurale leces (per leges) della più volte richiamata cista Pierpont Morgan88; lo stesso fenomeno grafico si riscontra del resto nella stessa Praeneste, come mostra, ad es., la resa del gentilizio Acrio(s) (per Agrius) in una serie di marchi, pressoché coevi, su strigili prenestini89. Queste notazioni grafiche ci consentono ora di passare a brevi, ulteriori, considerazioni paleografiche, anch’esse finalizzate, in primo luogo, ad un tentativo di definizione cronologica più circostanziata dei manufatti iscritti. È forse opportuno, a questo proposito, premettere due notazioni di carattere generale. L’irregolarità dei tratti che sembra caratterizzare una parte consistente della documentazione è, almeno in parte da attribuire alla difficoltà degli incisori nell’adattare la scrittura agli spazi disponibili tra le diverse immagini precedentemente realizzate; il fenomeno è chiaramente esemplificato dalla progressiva riduzione dell’altezza delle lettere nella didascalia Pilonicos Taseio filios dello specchio del Louvre già richiamato in precedenza (v. fig. 4), tracciata dall’alto verso il basso in parallelo alla gamba del giovane ostaggio P(h)ilonicos, con ultimi tre segni incisi, per mancanza di spazio al di qua del suo piede90. Si deve, inoltre, tenere conto del fatto, rilevato da Daniele Maras91, che l’alfabeto latino aveva già elaborato, sin dallo scorcio del VI sec. a.C., forme grafiche sostanzialmente stabili ed uniformi, ancora riscontrabili in età mediorepubblicana, se ci eccettua, ad es., l’introduzione, al posto del rho di tradizione arcaica (
ad occhiello chiuso), della provvista di coda e appendice (‘a doppio codolo’) avvenuta al più tardi agli inizi del IV sec. a.C., se non già negli ultimi anni del secolo precedente92. In relazione al dossier in esame, risulta pertanto indicativa, sul versante cronologico, la costante presenza del segno, so86 CIL I2 555 (cf. supra nota 31). 87 CIL I2 561 (cf. supra nel testo e nota 15). 88 CIL I2 565 (cf. supra nota 73); discussione di altre, meno probabili, interpretazioni di leces in
Franchi de Bellis 2005, 163, n. 106; van der Meer 2017, 216 s.
89 Cf., di recente, Tagliamonte 1993, 190, 200 s., A13 (Na. Acrio(s), Na. Ac); per un ulteriore
esemplare della serie (Na. Ac.), dalla necropoli di Montefortino di Arcevia, cf. Belfiore 2006 (che opportunamente mette in evidenza il tratto linguistico che qui interessa); in merito, si rinvia inoltre, in questo stesso volume, al contributo di G. Tagliamonte. 90 CIL I2 555 (cf. supra nota 31); cf. Franchi de Bellis 2005, 82; sullo stesso specchio anche la S finale di Taseos non è allineata al resto del nome per analogo motivo (cf. 78–79). 91 Maras 2009, 105–107 (osservazione che scaturisce dal confronto tra alfabetario tardo-arcaico di Lanuvium e quello inciso/graffito [agli inizi del III sec. a.C.?] su piattello di Genucilia da Alsium [CIL I2 2903, su cui cf. anche Gaucci 2010–2011, 67–71]). 92 Cf. Colonna 1980, 46 e 49 (= 2005, 1640 s. e 1647); cf. anche Maras 2009, 113 s., n. 34 (entrambi con riferimenti ad alcuni specchi prenestini). Al dossier si dovrebbe aggiungere il testo più antico della lamina opistografa da Norba (CIL I2 361 b cf. pp. 720 e 875), anni orsono valorizzata da S. Quilici Gigli (Quilici Gigli 1993–1994, 293–296) e forse ancora da ascrivere al tardo V sec. a.C. (o, al più tardi, al primo quarto del secolo successivo).
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prattutto nella variante con occhiello aperto e appendice più o meno sviluppata, nel panorama grafico dei nostri manufatti93. La serie di ciste e specchi prenestini mostra poi l’ormai avvenuto affermarsi della aperta “a bandiera” con traversa pendente per lo più parallela alla prima asta montante, sorta di vero ‘fossile guida’ per l’epigrafia della media Repubblica (insieme alla cd. ad uncino), peraltro già documentata nel corso del tardo V sec. a.C.94 Tale forma di corsiva, talvolta caratterizzata da una certa asimmetria delle aste oblique o dall’andamento curvilineo di queste ultime95, ricorre anche nella variante con traversa innestata sulla prima asta96 o sostituita da un tratto verticale (“a freccia”)97 e si alterna nel nostro corpus a quella chiusa con traversa obliqua, di tradizione arcaica; quest’ultima ad. es. caratterizza la paleografia di entrambi gli specchi iscritti trovati, come sembra, all’interno del medesimo sarcofago nel 1868, cui abbiamo in precedenza accennato98. Per quanto concerne le altre lettere, quasi tutte trovano puntuali riscontri nella fase più risalente della media Repubblica, dalla semilunata (o “allargata”) che si affianca a quella semicircolare, alla con tratti obliqui discendenti, talora ancora provvisti di codolo inferiore (o con asta prolungata in alto)99, alla di forma analoga, alla ad uncino, anche coricata, alla con aste laterali inclinate e asimmetriche, alla chiusa o aperta in basso (talora di minori dimensioni rispetto alle altre lettere), alla aperta in basso100, alla
aperta con occhiello tondeggiante o a tratti rettilinei (“segmentata”), 93 Cf., ad es. per quanto concerne gli specchi, con riferimento alle fotografie di dettaglio di Fran-
chi de Bellis 2005, CIL I2 552 (Marsuas, Tav. VI c 1); 553 (Tav. VII c 1–2, Mirqurios e Alixentrom); 554 (Tav. VIII c 2, Ario e Melerpanta); 555 (Tav. IX c2, Luqorcos); 558 (Tav. XII c 2, Prosepnai). 94 Maras 2009, 112 s. (A9); cf. anche Colonna 1980, 48 e 50 (= 2005, 1644 s. e 1647). Al dossier può ora aggiungersi AE 2011, 205, cf. Johnston 2015, 255 e 257 (Gabii). 95 Ad es., Franchi de Bellis 2005, Tavv. X c 1–2 (CIL I2 556), XIII a–b (CIL I2 559), XIX c (CIL I2 561), XXIII a 1 (CIL I2 566); la stessa forma corsiveggiante di A ricorre in uno dei bolli su ceramica a vernice nera locale più risalenti: cf. infra nota 100. 96 Cf. Franchi de Bellis 2005, Tavv. VIII c 2 (CIL I2 554, Melerpanta), XXIV c 1 (CIL I2 567, [He- vel Fe]lena, con lettera coricata). 97 Ad es. Franchi de Bellis 2005, Tavv. XV c 1–2 (CIL I2 2498), XVIIIb (CIL I2 560), XXI c 1 (CIL I2 564), XXIII a 1 (CIL I2 566). 98 Franchi de Bellis 2005, Tavv. II a–b (CIL I2 548), IX c 1 e c 4 (CIL I2 555); nel primo dei due specchi compare anche una sprovvista di traversa (in Castor). Cf. supra nel testo e note 31–32. 99 E.g. Franchi de Bellis 2005, Tavv. III c 1 (CIL I2 549), V a–b (CIL I2 551, Hercele; in Iovei asta allungata in alto), IX c 1 (CIL I2 555, Taseos), XXI c 2 (CIL I2 564, Aciles, Diesptr), XXV c 1 (CIL I2 568, Pater); cf. anche Pizziconi 2012 (Herceles). 100 Per altre attestazioni locali di questa forma corsiveggiante di cf. il bollo retrogrado Q. Sam(iari-) impresso su ceramica a vernice nera di produzione locale, che può essere assegnato ancora al IV sec. a.C. (Gatti – Onorati 1992, 210, 236, App. I.12–I.13, con figg. 22–25, con
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alla in genere con occhiello aperto e appendice poco sviluppata, alla con traversa obliqua discendente, alla con tratti asimmetrici. L’impiego della appare, nel complesso, residuale nel sistema delle velari, con due sole attestazioni nel nostro corpus: Luqorcos del più volte ricordato specchio Tyszkiewicz del Louvre e Mirqurios che compare su analogo manufatto che ha fatto parte della collezione Bellori101; a maggior ragione assume forse una certa valenza cronologica la forma stessa di tradizione arcaica della di Mirqurios di quest’ultimo, un coppa con coda dritta (), lettera per la quale non si dispone di sicuri confronti posteriori al V sec. a.C. o agli inizi del secolo successivo102. Chiudiamo questo breve excursus paleografico, facendo riferimento alla fricativa labiodentale /f/ resa graficamente con una forma peculiare di dai tratti obliqui tra loro distanziati e pressoché sprovvista di codolo inferiore che ricorre su uno specchio (fata, fasia)103 (fig. 5) e su una cista (Felena per Helena)104; la lettera in questione, pressoché priva di ulteriori confronti in ambito latino105, è forse da accostare ad un grafema affine (digamma con codolo curvilineo, “corsivizzante”) adottato (accanto a ) per esprimere il fonema /w/ in uno dei principali tipi grafici dell’Etruria ellenistica (ma con precedenti tardo-arcaici), in uso soprattutto (ma non esclusivamente) nel comparto settentrionale106, nelle tavole di Gubbio in grafia umbra (modellata sull’alfabeto etrusco) e in altre iscrizioni (e legende monetali) epicorie della regione107, nonché in diversi sistemi scrittorii d’area osca (dalla Campania all’Italia meridionale)108. La presenza opportuno richiamo, sul piano paleografico, ad alcune ciste); tra i segnacoli della necropoli cf., ad es., CIL I2 284 cf. pp. 718 e 873 = Granino Cecere 2005, nr. 509. 101 Franchi de Bellis 2005, Tav. VIII c 1 (CIL I2 553). 102 Alla documentazione raccolta da Johnston 2015, 255–256 (in merito a AE 2015, 295, da Gabii), andrebbe, credo, aggiunta l’iscrizione norbana CIL I2 361 b già ricordata a n. 92; cf. anche CIL I2, Index (2015), p. 1353. 103 Franchi de Bellis 2005, Tav. XIII a–b (CIL I2 559). 104 Franchi de Bellis 2005, Tav. XXIII a 1 (CIL I2 566); cf. anche l’apografo di Wachter 1987, 154 (nel quale è riprodotto un accenno di codolo all’incrocio tra asta verticale e seconda tratto obliquo). 105 Una attestazione del grafema è forse riconoscibile nella di feced presente nella firma, pressoché coeva, di L. Loucilios apposta sullo strigile conservato a Tübingen (cf. supra nota 76); significativamente potrebbe trattarsi, anche in questo caso, di prodotti di un’officina prenestina. 106 Cf. Maggiani 1990, 182–185 (tipo grafico I A corsivizzante della sua tipologia); per la diffusione di tale grafia nelle didascalie degli specchi etruschi cf. anche Pandolfini Angeletti 2000, 218–219 (cf. anche infra nel testo e nota 108). 107 Cf. Maggiani 1984, 218–220 (Fase A.1); Sisani 2009, 172 s., fig. 21 (tavola sinottica dei tipi alfabetici umbri). 108 Questa forma di digamma compare peraltro anche in diversi sistemi scrittorii della Grecia, tra cui l’alfabeto euboico (e sue colonie): cf. Jeffery 1990, 78 (ϝ3, dalla seconda metà del VI sec. a.C.).
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Fig. 5 Specchio da Palestrina, conservato a Cambridge
di questo grafo corsivizzante in alcune didascalie di specchi figurati etruschi ascritti al V–IV sec. a.C.109 e la sua parallela sostanziale assenza nell’epigrafia latina (ad eccezione, come sembra, delle didascalie in esame) potrebbero forse essere letti come eventuale ulteriore indizio, a livello di scelte grafiche, di quella trama di interazione/influenze tra incisori e/o modelli etruschi e gli inizi della produzione prenestina di specchi, cui si è in precedenza accennato; si tratta evidentemente soltanto di una suggestione che presentiamo con estrema cautela e che dovrà essere sottoposta ad attenta verifica.
109 Alla documentazione richiamata da Maggiani 1984, 219, n. 5 (specchi vulcenti), si possono
forse aggiungere, ad es. CSE Louvre 3, nr. 4 (D. Rebuffat-Emmanuel) = Meiser, ET TA 11, cf. Briquel 2016, 274–277 Cat. 107 (Tarquinia, seconda metà del IV sec. a.C.); CSE U.S.A. 4, nr. 34 (R. D. De Puma) = Meiser, ET OI 67 (Perugia, seconda metà del IV sec. a.C.); CSE Etruria Padana, nr. 51 (G. Baldini) = Meiser, ET Vt 5 (territorio di Volterra, fine IV–inizi III sec. a.C.).
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Se da un lato la paleografia di ciste e specchi, con il significativo ricorso a forme aperte e/o lettere a tratti separati, appare in linea con la tendenza corsiveggiante che caratterizza la scrittura capitale di fine IV – prima metà del III sec. a.C. (come, ad. es. “fotografato” dall’alfabetario di Alsium), merita di essere rimarcata, quale possibile indicatore cronologico da utilizzare sia pur cautamente come terminus ante quem, la completa assenza di altre caratteristiche lettere “corsive” introdotte negli stessi anni, quale la e la rese mediante l’accostamento di due aste verticali110. Stando alla documentazione disponibile, l’uso di tali grafi a Praeneste risulta peraltro piuttosto limitato, con una decina di attestazioni riscontrabili sui segnacoli della necropoli111, cui si possono aggiungere sporadici bolli nominali su ceramica a vernice nera di fabbrica locale112 o isolati graffiti su ceramica113. Non è possibile in questa sede, tentare di mettere a confronto sistematicamente il panorama grafico e linguistico di ciste e specchi, che sembrerebbe rimandare ad un orizzonte cronologico difficilmente posteriore alla prima metà del III sec. a.C., con l’ampia serie documentaria di segnacoli funerari iscritti restituiti dalle necropoli prenestine (ca. 370 iscrizioni nominali, che si scaglionano tra IV e fine II sec. a.C.)114. Accanto a più antichi cippi anepigrafi (o originariamente provvisti di iscrizioni dipinte?), tali sèmata dovrebbero considerarsi, almeno in parte, pertinenti alle medesime deposizioni, anche se quasi mai si è in grado di associare cippo (o busto) alla sottostante sepoltura (e al relativo corredo); poco utile si rivela al proposito, purtroppo, l’unica eccezione, segnalata da Gabriella Bordenache Battaglia e Adriana Emiliozzi, per la quale i resoconti ottocenteschi avevano consentito di abbinare la pinea di una Aulia C.f. trovata al di sopra di un “pilozzo” contenente al suo interno, tra l’altro, una cista con decorazione incisa: entrambi gli oggetti sono andati infatti dispersi e non si è grado pertanto di ricavarne circostanziati indizi cronologici, da utilizzare (per confronto) per altri manufatti affini da altri contesti della necropoli115. Le due serie epigrafiche, non del tutto sovrapponibili per datazione, non risultano peraltro forse perfettamente omologabili sul piano paleografico, a causa della diversità dei supporti e delle rispettive tecniche di scrittura; in ogni caso un loro 110 Sulla comparsa e diffusione di e a due tratti (e di altre lettere corsive) cf. ora Marengo
2019, 166–168.
111 CIL I2 114, 119, 166, 234, 237, 314, 2457, 2458 e 2461. 112 CIL I2 2357 b–c cf. p. 1136; cf. Gatti – Onorati 1992, 206 s. e 235, App. I.11 (con figg.
18–19).
113 Gatti – Demma 2012, 365, fig. 40. 114 Quasi tutto la documentazione è raccolta in Franchi de Bellis 1997; apparato fotografico,
revisione tipologica cronologica di ca. 160 iscrizioni in Granino Cecere 2005, nrr. 442–599.
115 Bordenache, Ciste I.2, XXXIX e 358 s. (ad nr. 113); per il segnacolo funerario cf. CIL I2 95
cf. p. 869 = Franchi de Bellis 1997, 75, [17], 5.
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esame incrociato, eventualmente esteso ad altre coeve categorie dell’epigrafia prenestina, appare comunque, in questa prospettiva, potenzialmente foriero di significativi avanzamenti nell’analisi dell’evoluzione delle forme grafiche e linguistiche tra i secoli IV e III a.C., con importanti ricadute sulle nostre conoscenze delle diverse componenti, fruitrici della necropoli, in cui veniva ad essere articolata la stessa società prenestina (in particolare i suoi ceti dirigenti) nel corso della media Repubblica116. [D. N.] 5. Note conclusive Nel complesso, confidiamo che queste osservazioni, anche se non sistematiche e forse troppo sintetiche, evidenzino sufficientemente le potenzialità conoscitive di uno studio a tutto tondo di questi rilevanti prodotti dell’artigianato artistico prenestino, secondo distinti parametri di ricerca messi tra loro a confronto. I primi risultati appaiono, crediamo, incoraggianti in questa direzione. L’esame dei dati stilistico-tipologici ha infatti portato ad un primo abbozzo di griglia cronologica, in cui si inserisce coerentemente gran parte della documentazione, scaglionata nell’arco di poco più di un secolo, tra la prima metà (o meglio secondo quarto) del IV sec. e tutta la prima metà del secolo successivo. Ad un inquadramento cronologico che non può scendere oltre i decenni finali/ scorcio del IV secolo rimandano peraltro, coerentemente, alcuni dei contesti funerari ricostruibili nelle loro diversi componenti, a partire, e.g., dalla sepoltura 4 della necropoli di Cave – S. Bartolomeo. Lo studio paleografico (degni di nota, ad es., l’aspetto ‘arcaico’ o peculiare di singole lettere, come la chiusa con traversa obliqua o quella aperta dalle aste curvilinee, la che riprende una forma semplificata del digamma o, ancora, la permanenza del ) e linguistico sembra a sua volta legittimare una cronologia di massima di ciste e specchi iscritti non così bassa come era stato proposto in passato, prima delle tesi, fin troppo rialziste, di R. Adam. Nella stessa Cista Ficoroni, ad es., non sembrano porsi ostacoli epigrafici seri a una datazione nella parte ‘alta’ del IV sec. a.C., così come, del resto, le testimonianze ‘arcaizzanti’ dei nomi T(h)elis o Mirqurios/Mircurios potrebbero non opporsi a una collocazione dei relativi supporti bronzei nel pieno IV sec. a.C. (ancora entro il 330 a.C. ca.?), magari non escludendo in via teorica un leggero rialzamento cronologico della cista Vaticano 12281. La medesima tendenza potrebbero indicare ciste e specchi con uscita del nominativo singolare in -ios, che 116 Cf. Coarelli 1992.
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annoverano alcuni esempi illustri (come la cista Pierpont Morgan), a loro volta in grado di ‘aggregarsi’ ad altri reperti ritenuti vicini o dipendenti da ‘teste di serie’ cronologico/stilistiche. Infine, la mancata distinzione grafica della velare sonora, e.g. in leces (anziché leges) ancora nella cista Pierpont Morgan, aggiungerebbe un ulteriore tassello ad una cronologia mediamente alta dell’oggetto e di quelli ad esso contigui. Resta poi sullo sfondo di un simile quadro d’insieme la plausibile eventualità che una parte almeno dei segnacoli funerari iscritti, segnatamente quelli femminili e più antichi, sia da assegnare alle medesime sepolture che includevano, tra gli oggetti di corredo, le ciste e specchi in esame. Nello specifico, qualora anche non fosse possibile verificare datazioni così risalenti (pieno IV sec. a.C.) per tali sèmata (peraltro non da escludere), l’eventuale scarto cronologico potrebbe spiegarsi con una deposizione degli oggetti (evidentemente da connettere alla scomparsa della destinataria/proprietaria) posteriore anche di alcuni decenni alla loro stessa manifattura. Alcune delle riflessioni, che qui abbiamo presentato come ipotesi di lavoro, necessitano evidentemente di un’auspicabile, puntuale verifica, cui varrà la pena sottoporre, in un prossimo futuro (anche su sollecitazione dei lavori per il CIL) tutto il materiale documentario a nostra disposizione. [F. G. – D. N.]
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Crediti Fig. 1: Roberto Darelli; fig. 2: Gliwitzky 2015, 280, Abb. 6.30–31; fig. 3: MonInst IX, 1869, Tab. VII; figg. 4 e 5: Granino Cecere 2005, nr. 784.2 e nr. 787.2.
Gianluca Tagliamonte
Gli strigili iscritti da Praeneste: un aggiornamento bibliografico Riassunto: L’articolo mira ad aggiornare, su basi bibliografiche, il quadro delle attestazioni epigrafiche su strigili dall’antica Praeneste (odierna Palestrina). Se le indagini archeologiche condotte nel corso dell’ultimo trentennio non sembrano avere restituito nuovi esemplari iscritti, esse hanno tuttavia fornito, sul piano contestuale, qualche elemento utile a meglio definire il dato della presenza e della valenza dello strigile nei corredi funerari prenestini di età medio e tardo repubblicana. Anche sul versante dell’edizione dei testi, non si registrano significativi progressi o novità rispetto alle letture già proposte. Per queste ultime restano aperte diverse questioni che investono soprattutto gli strigili recanti testi in lingua latina. Ad ogni modo, le ricerche e gli studi recenti hanno consentito di identificare un gran numero di repliche, altrove documentate, di bolli attestati su strigili di rinvenimento o di probabile provenienza e/o produzione prenestina. Inoltre, sulla base di considerazioni tipologiche relative agli strigili, essi hanno fornito ulteriori elementi per un migliore inquadramento cronologico degli esemplari iscritti (e non) prenestini di età medio-repubblicana: l’avvio della produzione e diffusione dello strigile a Praeneste e, più in generale, in Italia centrale sembra collocarsi attorno alla metà del IV sec. a.C., per raggiungere il suo apice tra l’ultimo quarto del secolo e gli inizi del III sec. a.C. Resta, però, da meglio chiarire il ruolo di Praeneste come centro di produzione. Abstract: The article presents the state of the research on the inscribed strigils from ancient Praeneste (Palestrina), on the basis of an updated bibliography. The archaeological investigations of the last thirty years have not yielded any new inscribed specimens. Nevertheless, these studies give useful insights into the presence and value of strigils as Praenestine funerary objects in the mid- and late Republican age. There have been no new text editions and readings of the inscriptions that have brought about any significant progress or innovation compared to earlier readings. Several questions about the readings remain open, especially concerning the strigils with Latin inscriptions. In any case, recent research has identified a large number of replicas of stamps outside of Praeneste, attested as well on strigils of Praenestine origin and/or production. Moreover, typological considerations have enabled a more precise chronological classification of the inscribed (and non-inscribed) specimens from the Praeneste of the mid-Republican age. The beginning of the production and the prevalence of strigils in Praeneste and, more generally, in central Italy can roughly be dated to the middle of the 4th century BCE, reaching its peak between the last quarter of the century and the beginning of the 3rd century BCE. The role of Praeneste as a centre of production remains to be clarified.
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Gianluca Tagliamonte
A distanza di quasi trenta anni dalla pubblicazione del mio studio sugli strigili iscritti da Praeneste1, il quadro delle attestazioni epigrafiche prenestine riferibili a questa particolare categoria di manufatti non ha registrato significativi incrementi. Le indagini di scavo archeologico condotte nel corso di tale periodo a Palestrina e nell’ager Praenestinus, quasi sempre per motivazioni connesse a esigenze di tutela, hanno ampliato la base documentaria sulle fasi medio e tardo repubblicane della città e del suo territorio, contribuendo ovviamente ad arricchire e precisarne la conoscenza2. Ad essere oggetto dell’attenzione degli archeo logi hanno continuato ad essere soprattutto le necropoli. Le ricerche svolte in tale ambito hanno in qualche modo iniziato a colmare quel “profondo divario tra la grande massa di ritrovamenti decontestualizzati e dispersi”, per lo più di rinvenimento ottocentesco, e “la pressoché totale assenza di notizie sulle modalità di scavo”, evidenziato da M. P. Baglione nel 19903, in occasione del secondo convegno di studi archeologici prenestini, fornendo utili informazioni di carattere stratigrafico e, più in generale, contestuale. Ulteriori precisazioni sono, poi, derivate dalla revisione critica della documentazione archivistica e catastale già avviata4. La più recente acquisizione, da scavo archeologico, di strigili recanti iscrizioni (bolli o altro) resta tuttavia quella dell’esemplare contrassegnato dal marchio di fabbrica Lulullutoi rinvenuto nel novembre del 1991 nella necropoli della Selciata e già edito5. Va però detto che il gruppo di strigili da Praeneste dotati di corredo epigrafico in lingua latina potrebbe essere ulteriormente incrementato, se ad esso si aggiungessero, come pure è stato ipotizzato, sulla base di indizi onomastici e non solo6, l’esemplare di ignota provenienza, già al Museo Kircheriano, con marchio di fabbrica L. Poulilio7 e quello, da Corchiano, con firma med Loucilios feced8. Di quest’ultima firma, peraltro, parrebbe esserci una replica su uno strigile iscritto conservato a Tübingen9 e, anzi, i testi presenti
1 2 3 4 5 6 7 8 9
Tagliamonte 1993c. Per una sintetica rassegna: Gatti 2019, 328 s. e 336–346, con rinvii alla bibliografia precedente. Baglione 1992, 163. Cf. Baglione 2002. Onorati 1992. Tagliamonte 1993b; Tagliamonte 1993c. Gatti – Onorati 1992, 191 e 193; Ambrosini – Maurizi – Michetti 1996, 61, fig. 38; Nonnis 2018, 86; cf. Lorenzini 2002, 45, n. 88. CIL I 1556 = I2 572 = XV 7089. CIL I2 2437 = XI 8130, 1. Cfr. CIL I2 pp. 722, 844 et 905. Freytag Gen. Löringhoff 2009, con lettura L. M. Loucilios feced.
Gli strigili iscritti da Praeneste 265
sui due esemplari in questione potrebbero reciprocamente integrarsi, se fosse confermata la convincente ipotesi formulata da David Nonnis10. Anche sul versante ecdotico non si registrano significativi progressi o novità rispetto alle letture già proposte11. Per queste ultime restano aperte diverse questioni che investono soprattutto gli strigili recanti testi in lingua latina. Se le summenzionate indagini archeologiche non hanno restituito nuovi esemplari iscritti, esse hanno tuttavia fornito, sul piano contestuale, qualche elemento utile a meglio definire il dato della presenza e della valenza dello strigile nei contesti prenestini di età medio e tardo repubblicana. I corredi messi in luce in sepolcreti prenestini di tale periodo12 non di rado hanno restituito strigili bronzei anepigrafi e hanno permesso di ribadire un dato localmente già noto13, quello della non occasionale presenza dello strigile anche nelle sepolture femminili di epoca medio-repubblicana14, come peraltro dimostra proprio il caso dell’esemplare con bollo Lulullutoi sopra ricordato15. Alle indagini sul campo si sono accompagnati, nel corso dell’ultimo trentennio, studi e ricerche che, per quanto riguarda in modo specifico gli strigili iscritti da Praeneste, hanno continuato a concentrarsi sul nucleo di esemplari databili a età medio-repubblicana, già oggetto dei pionieristici studi ottocenteschi di D. Detlefsen16 e di R. Garrucci17. A parte la riedizione di esemplari già noti18, tali studi e ricerche, fra i quali spiccano i lavori di V. Jolivet19, hanno consentito di incrementare in modo considerevole il numero delle repliche, altrove documentate, di bolli attestati su strigili di rinvenimento o di probabile provenienza e/o 10 Nonnis c.s., con proposta di lettura L(oucios) med Loucilios feced. 11 Tagliamonte 1993c. 12 Si vedano, ad es., quelli relativi alla tomba 20 della necropoli della Colombella a Palestrina
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15 16 17 18
19
(Adembri 1995, 496) o alla tomba CX della necropoli di Corcolle (Mari 2013, 342; Mari 2019a, 80, 81, fig. 3, n. 18, e 87; Mari 2019b, 372, 373, fig. 2, n. 18, e 374); cf. Adembri 2003, 28 e 29, fig. 5; Gatti 2019, 344 e 346. Segnalato, con riferimento a ritrovamenti ottocenteschi già in occasione della memorabile mostra su Roma medio-repubblicana: Coarelli 1973, 270–272 e 274–275, no. 419; cf. anche Baglione 1992, 177, n. 42; Gatti 2019, 329 e 341–342. In generale, sull’uso femminile dello strigile: Massa-Pairault 1991; Colivicchi 2006. Vedi, ad es. la tomba 4 di via della Selce, in loc. San Bartolomeo, a Cave: Pizziconi 2012, 359, 360 e 366–367; Gatti 2019, 329. Su tale presenza osservazioni, fra gli altri, in Lorenzini 2002, 35–36 e 44; Colivicchi 2006, 292, n. 69; Gatti 2009, 161; Ambrosini 2011, 192–193; Gatti 2019, 342. Tagliamonte 1993b. Detlefsen 1863. Garrucci 1864. Come, ad es., in Caramella 2000, 142–143, nos. 93.1 e 93.3; Nonnis 2015, 77, 118, 295, 307, 370, 469, 487, 528–529, 544, 604 e 690; Briquel 2016, 325–328, no. 122. Cf., per un orizzonte cronologico più recente, Brunsting – Steures 1992, 107. Jolivet 1995 e 2008.
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Gianluca Tagliamonte
produzione prenestina, arricchendo di nuovi dati le relative carte di distribuzione diatopica degli esemplari censiti20. Un caso particolarmente significativo al riguardo è quello degli strigili contrassegnati dal marchio Apollooro, certamente il meglio attestato fra quelli in lingua e alfabeto greci del periodo. Il numero delle repliche note, stimato in 61 esemplari da V. Jolivet nello studio del 199521, è successivamente salito a circa una settantina, a seguito delle segnalazioni fatte, tra gli altri, da F. Jurgeit22, A. Naso23, dallo stesso Jolivet24, da D. Nati25, M. Bolla e A. Buonopane26, J. Tabolli27 e L. Ambrosini28. Peraltro, è stato proposto29 di attribuire all’opera di Apollooros/Apollo(d)oros anche diversi strigili anepigrafi, contraddistinti da una decorazione accessoria stampigliata (con motivi a stella e palmetta) del tutto simile a quella documentata sugli esemplari iscritti. Quanto all’artigiano, il suo nome e il ricorso alla lingua e all’alfabeto greci ne denunciano chiaramente l’origine. Il rinvenimento a Cuma di uno degli esemplari iscritti, ritenuto da V. Jolivet30 fra i più antichi della sua produzione, potrebbe fare pensare a una sua provenienza magno-greca e a un suo successivo trasferimento a Praeneste31. Neppure da escludere, sulla base della pervasiva presenza di strigili recanti il marchio Apollooro in contesti dell’Italia centrale, l’ipotesi di riconoscere in Apollooros/Apollo(d)oros un artigiano itinerante, poi al diretto servizio di clientele etrusche e celtiche della penisola32. In effetti, per quanto riguarda più in generale gli strigili iscritti riferibili alla seconda metà del IV-inizi del III sec. a.C., resta ad ogni modo confermato, al di là di qualche occasionale presenza nell’Italia meridionale e insulare, il dato che individua nei territori di Etruschi e di Galli Senoni e Boi la preferenziale area di circolazione e attestazione di tali manufatti33. Circa le motivazioni di tale presenza credo che le argomentazioni da me addotte nel lavoro edito nel 199334 mantengano una loro validità. 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34
Vedi, ad es., Caramella 2000, 142, no. 93.2; Belfiore 2006, 269–271. Jolivet 1995, 452–454. Jurgeit 1999, 553–554, nos. 919–920. Naso 2003, 106–108, no. 162, fig. 45, tav. 59. Jolivet 2008, 82, n. 25. Nati 2008, 115, no. 5.4. Bolla – Buonopane 2010, 413–414 e 429, no. 1. Tabolli 2012, 426–428, nos. 1304 ss. Ambrosini 2016, 471–472, con ulteriori rinvii alla bibliografia precedente. Jolivet 1995, 448, t. 9. Cf. Tabolli 2012, 428; Ambrosini 2016, 472. Jolivet 1995, 448. In tal senso anche Ambrosini 2016, 472. Jolivet 1995, 448 e 451; cf. Jolivet 2008, 82, nn. 24–25. Cf. anche Knobloch 2007, 343. Tagliamonte 1993c, 188–189.
Gli strigili iscritti da Praeneste 267
Gli studi condotti nell’ultimo trentennio hanno anche fornito qualche ulteriore elemento di precisazione, sulla base di considerazioni tipologiche relative allo specifico supporto epigrafico, in ordine all’inquadramento cronologico degli esemplari iscritti (e non) prenestini di età medio-repubblicana. Osservazioni al riguardo sono state in particolare espresse da V. Jolivet35, il quale ha fra l’altro ribadito come, al di là di precedenti, sporadiche apparizioni, l’avvio della produzione e diffusione dello strigile a Praeneste e, più in generale, in Italia centrale si collochi attorno alla metà del IV sec. a.C., per raggiungere il suo apice tra l’ultimo quarto del secolo e gli inizi del III sec. a.C. Che Praeneste abbia rappresentato il principale centro di produzione ed esportazione degli strigili presenti nei contesti medio-repubblicani dell’Italia centrale è convinzione diffusa36, fondata su elementi e considerazioni tuttavia, ancora in buona parte, di natura indiziaria. Tali sono la vitalità dell’artigianato artistico prenestino di età medio-repubblicana, in particolare di quello metallurgico (ciste, specchi, ecc.), un dato questo che le ricerche recenti hanno continuato a evidenziare e precisare37; o gli acclarati rapporti che uniscono nel periodo Praeneste alla Magna Grecia, in special modo a Taranto38. Del resto, l’analisi formale e funzionale degli antroponimi riferibili ai nomi degli artigiani o dei proprietari delle officine nelle quali vennero prodotti gli strigili “prenestini” rivela, almeno in qualche caso, la presenza di nomi da intendersi (ad es., Atania) probabilmente come trascrizione latina di idionimi greci in forma dorica, o di indizi morfologici (genitivo dorico: Apollooro), che pure rinviano ad ambiente dorico, lasciando dunque prefigurare la possibilità di una provenienza di tali individui da colonie doriche del Meridione39. D’altro canto, l’individuazione di Praeneste quale centro di produzione dei suddetti strigili è indiziata anche dall’uso stesso della lingua e della grafia latina in un buon numero di marchi di fabbrica presenti su esemplari iscritti. Nella città latina risulterebbero inoltre attestati quelli che parrebbero essere gli esemplari più antichi di strigili iscritti, contrassegnati da bolli in lingua e caratteri greci40 (fig. 1), e in essa appaiono documentati, in una o più repliche, tutti o quasi tutti i marchi di fabbrica su strigili noti per l’età medio-repubblicana. Alla marginalità geografica di Praeneste, in seno all’area preferenziale di attestazione e circola35 Jolivet 1995, 446; Jolivet 2008, 83; Jolivet 2019, 218–220. 36 Jolivet 1995; Belfiore 2006, 271; Knobloch 2007, 343; Jolivet 2008, 80 n. 10, 92; Nati
2008, 115–116; Jolivet 2019, 218–220; ecc.
37 Ad es., in Coarelli 2011, 207–228; Ambrosini 2019, 235 ss.; Jolivet 2019, 218–220, con
rinvii alla bibliografia precedente.
38 Rapporti richiamati, da ultimi, in Ambrosini 2019, 234; Gatti 2019, 345. 39 Vedi supra nota 31; cf. Caramella 2000, 143; Lorenzini 2002, 45. 40 Stando a Jolivet 1995, 446.
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Gianluca Tagliamonte
zione degli strigili iscritti, corrisponde, sul piano della distribuzione diatopica di questi ultimi, una sua evidente centralità, non disgiunta da una sua presumibile funzione propulsiva in direzione settentrionale (Etruria e mondo celtico), quale centro di irradiazione di siffatti prodotti.
Fig. 1 Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Collezione Barberini: strigile con bollo παρ’ Χρησίμου εἰμί.
Non giova, invece, alla probabile o possibile localizzazione in Praeneste delle officine nelle quali venivano realizzati gli strigili in questione il dato onomastico desumibile dai bolli in lingua latina (figg. 2–3). Continuano, infatti, a restare assai tenui, come già notato41, i legami con il repertorio onomastico prenestino di età medio e tardo repubblicana, che pure risulta di una certa consistenza, ancorché il possibile riferimento ad ambito prenestino degli strigili contrassegnati dal marchio di fabbrica L. Poulilio o dalla firma di Louicilios renda più concreta una tale connessione42. Quanto ad alcuni tratti morfologici e fonetici che contraddistinguono lo stock onomastico attestato da strigili prenestini o presunti tali, non si è man41 Tagliamonte 1993c, 193. 42 Nonnis 2018, 86; Nonnis c.s.
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cato di evidenziare la loro eventuale compatibilità con la recente ipotesi di un rialzamento cronologico, nell’ambito del IV sec. a.C., di una significativa parte della produzione dell’artigianato artistico locale in metallo43.
Figg. 2–3 Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Collezione Barberini: strigile con bollo Na(vios) Ac(rios).
43 Si veda il contributo di D. Nonnis e F. Gilotta e D. Nonnis, Specula et vascula Praenestina: dalla
scoperta e dispersione a una proposta di seriazione cronologica, edito in questa medesima sede. Cf. Belfiore 2006, a proposito della mancata notazione grafica della velare sonora nel bollo a leggenda Na. Acrio (Figg. 2–3).
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L’epigrafia, peraltro, documenta la presenza di officine attive nella fabbricazione di strigili in territori dell’Italia centrale, quali l’Etruria44. A tale riguardo si è supposto45 che la presenza di strigili recanti marchi di fabbrica in lingua e alfabeto etruschi costituisca un indizio della partecipazione di artigiani etruschi alle attività produttive delle officine laziali, in primis di quelle di Praeneste, oppure che essa denunci la possibile esistenza di succursali prenestine in area etrusca, determinata da particolari esigenze della locale committenza. Va poi ricordato che recenti acquisizioni epigrafiche, di carattere davvero straordinario, come l’iscrizione latina su spada di tipo lateniano da San Vittore, nel Lazio meridionale46, evidenziano, affiancandosi a testimonianze ben note, come quella dell’iscrizione incisa sulla cista Ficoroni, il ruolo e la vitalità avute in età medio-repubblicana dall’artigianato artistico di Roma, in particolare di quello di ambito metallurgico. È peraltro possibile che la produzione di strigili abbia continuato a trovare in Praeneste una sua sede anche in età tardo-repubblicana. A tale conclusione parrebbe o potrebbe condurre la recente edizione47 di un esemplare iscritto con il marchio di fabbrica Tampiu proveniente da una sepoltura chiusina di età tardo-repubblicana (forse ancora di II sec. a.C.). Pare, infatti, difficile supporre che esso sia giunto nella città etrusca dalla lontana Aquileia, dove sappiamo che, fra la fine della Repubblica (II–I sec. a.C.) e la prima età imperiale, un ramo della gens Tampia fu titolare di una officina dedita alla produzione di strigili48. Piuttosto parrebbe ipotizzabile, per l’esemplare chiusino, una sua provenienza da Praeneste, lungo una direttrice tiberina di espansione settentrionale dei prodotti prenestini già attiva in età medio-repubblicana49. Nella città latina i Tampii potrebbero avere intrapreso, già nell’inoltrato II sec. a.C., l’attività di produzione di strigili prima del loro trasferimento, o meglio di alcuni loro membri, ad Aquileia.
44 Tagliamonte 1993a. 45 Ambrosini 2016, 473. 46 Nicosia – Sacco – Tondo 2012; Nicosia – Tondo – Sacco 2012; Poccetti 2012; AE 2015,
308. Cf. Nonnis 2015, 356.
47 Gliwitzky 2015. 48 Giovannini – Maggi 1994; cf. Buonopane 2012, 203. 49 Nonnis 2018, 87–88.
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Crediti Figg. 1–3: Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, negg. 150181, 150179, 150196.
Maria Grazia Granino Cecere*
Manifestazioni peculiari del culto di Fortuna Primigenia nelle iscrizioni prenestine Riassunto: La ricca documentazione epigrafica che il santuario prenestino della Fortuna Primigenia ha rivelato nel corso del tempo consente di individuare alcune manifestazioni di culto che, se pure raramente documentate altrove, trovano in questa sede diffusa e significativa espressione. Anche Hermann Dessau, nel raccogliere le iscrizioni con dedica alla dea per l’edizione che stava curando del Corpus Inscriptionum Latinarum, notava come tra di esse ne fossero presenti un discreto numero poste nello stesso tempo alla dea ed a privati cittadini, secondo un uso che non trova facili confronti nel patrimonio epigrafico. Nei dedicanti abbiamo quasi sempre, quando definibili, parenti stretti, figli per i padri, padri per i figli, zii per i nipoti, colliberti, che in tal guisa desideravano per i loro cari assicurare la protezione della dea o le rendevano grazie per averla manifestata: il dono alla Fortuna collocato nel suo luogo di culto consegnava anche a una memoria senza tempo la persona che a lei era accomunata nella dedica. Un’altra espressione di culto, raramente attestata altrove, vediamo ampiamente documentata nel santuario prenestino: è il dono alla dea di statue di altre divinità. Signa di Apollo, Isityches, Spes, Aequitas, Mercurius e di altre entità divine non sempre definibili per la frammentarietà dei testi e secondo quanto finora noto, si allineavano nei luoghi della dea, erano a lei dedicate, ad arricchire gli spazi santuariali, e si propongono anche quale manifestazione esplicita del politeismo romano. Abstract: The rich epigraphic documentation that the Praenestine sanctuary of Fortuna Primigenia has revealed over the years discloses manifestations of worship, which, although scarcely documented elsewhere, find common and significant expression here. Hermann Dessau had already collected inscriptions dedicated to Fortuna Primigenia for the edition in the Corpus Inscriptionum Latinarum and noted that a great number of these inscriptions was dedicated to both the goddess and private citizens at the same time. This seems to be a somewhat unique feature in comparison to the custom apparent in the inscriptions. The dedicators, when definable, are almost always close relatives, sons for fathers, fathers for sons, uncles for nephews, freedmen for co-freedmen. They all wished to ensure the goddess’s protection for their loved ones or to thank her for having granted such protection. The gift to Fortuna set up in her place of worship was also supposed to create a timeless memory of the person who was associated with her in the dedication. Instances where statues of other divinities were offered to the goddess are common in the Praenestine sanctuary as well, yet another expression of worship *
Già Università degli Studi di Siena.
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Maria Grazia Granino Cecere
that is rarely attested elsewhere. These statues include signa of Apollo, Isityches, Spes, Aequitas, Mercurius and of other divinities, which cannot always be identified due to the fragmentary nature of the respective inscribed text. According to what has been known so far, such statues were lined up as offerings dedicated for the goddess, thus enriching the sanctuary space as explicit manifestations of Roman polytheism.
In una lettera indirizzata a Theodor Mommsen1, Hermann Dessau, che negli anni tra il 1870 e il 1890 stava attendendo alla realizzazione del volume del Corpus Inscriptionum Latinarum dedicato al Latium vetus, si rivolgeva all’autorità del suo maestro per risolvere un problema relativo a un gruppo di iscrizioni di Praeneste. Notava, infatti, che in almeno cinque documenti epigrafici fino ad allora rinvenuti nel centro cittadino era presente un fenomeno di cui non trovava confronti nel patrimonio epigrafico di cui pure era ampio conoscitore. Si trattava di dediche poste nello stesso tempo alla Fortuna Primigenia, la dea del grande santuario prenestino, e a privati cittadini. Egli chiedeva lumi sul come considerarle, sul dove collocarle nella seriazione per classi di documenti prevista dal Corpus. Lo studioso poneva in evidenza proprio quella che a tutt’oggi appare come una peculiarità delle manifestazioni di culto della dea di Praeneste. Appare opportuno, dunque, osservare da vicino tali documenti, considerando quali siano le tipologie dei supporti, quali le formule usate, quali i destinatari e gli autori delle dediche, esaminandole anche, ove possibile, in ordine cronologico. Al primo secolo d.C. possono ascriversi almeFig. 1 Palestrina, giardini presso no due documenti, l’uno per ragioni prosopograla sede del Comune: dedifiche, essendo inquadrabile nel tempo il destinaca a L. Domitius Agathetario, l’altro perché si fa riferimento all’attività mer, CIL XIV 2886 1
La lettera è pubblicata da Glock – Schmidt 2009, 249–250 (lettera senza data conservata nella Biblioteca Statale di Berlino [StBB-PK, NL Th. Mommsen, Dessau, Mappe 6, Bl. 162–163]). La corrispondenza con il maestro data agli anni 1876–1903, ma certamente la presente lettera precede l’edizione del CIL XIV del 1887.
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produttiva svolta, secondo un uso che s’inserisce di norma in tale ambito cronologico. Si propone per prima la dedica alla Fortuna Primigenia e a L. Domitius Agathemer2 (fig. 1), che svolgeva la sua attività di coactor argentarius ad septem Caesares, forse nel Trastevere3, dedica posta da L. Domitius Epictetus e da Curtia Euphrantis. Agathemer era un liberto di Paride, a sua volta liberto di Domizia, zia di Nerone4, forse come il dedicante Epictetus, se in questo non è da Fig. 2 Parte superiore della stessa, recante il perno riconoscere un figlio5. La dedica è incisa su quelmetallico per sostenere l’oggetto donato la che appare come una base di donario, con un coronamento che viene a definirsi in un plinto circolare, che reca al centro un incavo con i resti di un perno metallico destinato a sostenere l’oggetto donato (fig. 2). Da notare la presenza dell’urceus e della patera sui due fianchi, elementi che ritroveremo su altri documenti simili, a sottolinearne la valenza sacrale. Dovevano essere presenti forse anche sui fianchi della dedica attualmente irreperibile posta a C. Placuleius Iullianus6 o Tullianus7, (fig. 3) accomunato alla dea, per iniziativa del Fig. 3 Dedica a C. Placuleius Iullianus, CIL XIV 2887 padre e dello zio paterno Ampliatus, esercitanti 2
CIL XIV 2886, cf. EDR119643, attualmente collocata a Palestrina, nel giardino antistante la sede del Comune. La superficie iscritta è molto danneggiata, ma a tratti il testo è ancora leggibile: L. Domitio / Agathemer(o) / Paridis / lib(erto), a VII / Caesares / argentar(io) / coactori, / L. Domitius / Epictetus / et Curtia / Euphrantis / Fortunae / Primigen(iae) / d(onum) d(ederunt). L(oco) d(ato) d(ecreto) d(ecurionum). 3 Palmer 1981, 368–369; Andreau 1987a, 313–314; Id. 1987b, 167 e n. 26; Id. 1997, 168, n. 26; LTUR, IV (1999) 266, s.v. Septem Caesares (C. Lega); Tran 2013, 297, n. 162. 4 Su Paris vd. Tac. ann. 13, 19, 4; 20, 1; 22, 2; 27, 3; Svet. Nero 54; PIR2 D 156; Leppin 1992, 270–272 con precedente bibliografia; Molloy 1996, 318–319, no. 25 e da ultimo Evangelisti, c.s. 5 Vaglieri 1909, 228 vuole riconoscere nei due dedicanti i figli di Agathemer per analogia con la dedica di Diocles, vd. infra, ma Euphrantis reca altro gentilizio e nel testo non è indicato alcun rapporto di parentela, come nelle altre dediche simili (vd. infra). 6 CIL XIV 2887, cf. EDR160592: Fort(unae) Prim(igeniae) / C. Placuleio / C. f. Iulliano / C.C. Placuleii / C. f. Iullianus / pater / et Ampliatus / avonculus / vasculari(i) / d(onum) d(ederunt). Per Iulianus vd. Kajanto 1965, 148, documentato anche nella variante con la L geminata Iullianus, vd. ad es. CIL XIII 5786. 7 Per Tullianus Kajanto 1965, 157 e 177.
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tutti l’attività produttiva di vascularii, a quanto sembra non a Praeneste, ma a Roma, dove il raro gentilizio, nella forma Plaguleius, è attestato8. Non un’attività produttiva, ma un mestiere tanto pericoloso quanto foriero di lauti guadagni svolgeva il terzo dedicatario, un personaggio ben noto a quanti si occupano di antichità romane, l’imbattibile auriga C. Appuleius Diocles, l’agitator primus della factio russata. Nel corso della sua quasi fiabesca carriera, minuziosamente narrata nel vasto titulus urbano CIL VI 10048 = ILS 5287, durata circa 24 anni, dal 122 al 146 d.C., egli aveva ammassato una fortuna di circa 36 milioni di sesterzi9. Gerhard Horsmann10 vuole immaginare che al momento del suo ritiro dalle corse nel circo, a poco più di 42 anni di età11, egli sia andato a vivere a Praeneste; e ciò perché qui, nel santuario di Fortuna, i suoi figli Nymphidianus e Nymphidia posero una dedica (fig. 4) in cui accumunarono il padre e la dea12. Ma non è detto che l’agitator eminentissimus abbia scelto di ritirarsi a Praeneste. I figli avranno voluto con un dono rendere grazie alla divinità che aveva protetto il padre nel santuario più importante della dea
Fig. 4 Palestrina, cosiddetta “area sacra” del complesso degli edifici del Foro: dedica a C. Appuleius Diocles, CIL XIV 2884 8 9
CIL VI 15571 e p. 3518, 21227 e 23107, cf. 34143c (CLE 143), 24247 e 24247a. Una traduzione della grande iscrizione urbana, a seguito di un’analisi di alcuni passi del testo, è offerta da Sablayrolles 2008, 295–304, in part. 303–304. 10 Horsmann 1998, 194–198, no. 38 (con precedente bibliografia). 11 Precisamente a 42 anni, sette mesi e 23 giorni, come si ricorda in CIL VI 10048 r.2. 12 CIL XIV 2884, cf. EDR119535, attualmente inserita in un muro: C. Appuleio Diocli, / agitatori primo fact(ionis) / Russat(ae), natione hispano,/ Fortunae Primigeniae / d(onum) d(ederunt) C. Appuleius Nymphidianus / et Nymphidia filii.
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in prossimità dell’Urbe, o, se anche con minore probabilità egli era ancora un protagonista del circo, ne desideravano in tal guisa garantire la protezione. Se nulla può desumersi a causa della frammentarietà del testo a proposito della dedica alla Fortuna Primigenia e a L. Arlenus Adlectus13, l’unica, a quanto sembra, incisa su di una lastra (fig. 5) (come rivela il disegno dello Smetius nel suo manoscritto di Napoli14), ma forse pertinente al rivestimento di una base, di particolare interesse si rivela la dedica a T. Caesius Primus, eretta, esaudendo la volontà paterna, dal figlio Fig. 5 Dedica a L. Arlenus Adlectus Taurinus nel 136 d.C.15 Il lungo testo epigrafico in esametri (fig. 6) di omaggio alla dea ricorda l’attività di grande commerciante di frumento nell’Urbe e nelle regioni del centro-Italia di Primus, la cui effigie doveva essere posta sulla base recante l’iscrizione. Qui, ai versi 3–4 il figlio dice: accipe … effigiem nostri conservatura parentis16. Dunque una statua del padre doveva essere collocata sulla base decorata nel suo coronamento da modii e fasci di spighe. Purtroppo il riuso come larga vasca del blocco marmoreo17 ne ha determinato anche la perdita della superficie superiore, dove dovevano essere visibili le impronte dei piedi della statua e gli eventuali perni di incasso; come del resto al reimpiego può essere attribuita l’eliminazione della modanatura sui fianchi e l’urceus e la patera che vi erano scolpiti (fig. 7). 13 CIL XIV 2885, cf. EDR164052: Fortun[ae] / Primig[en(iae)] / L. Arleno [. .] / Adlecto[- - -?]
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/ - - - - - . Per ragioni di spazio sembra preferibile intendere Adlecto come un cognomen e non quale riferimento a una adlectio. Vagenheim 1994, 99, fig. 11 (Napoli, Biblioteca Nazionale V. E. 4, f. 102, s.v. Deorum dearumque bases et arae. Fortuna). CIL XIV 2852, cf. Eph. Epigr. IX p. 432 = CLE 250 = ILS 3696, cf. EDR119284. Per l’ampia bibliografia sul documento vd. in particolare Tran 2013, 192–193 (con traduzione del testo) e 242. Attualmente la base è conservata a Palestrina, nel Museo Archeologico Nazionale, sala III, inv. 23536. Come si evince dagli ultimi versi del carme (20–24), Taurinus ha posto la statua del padre quale donum per la dea, un dono che consentirà di conservare nel tempo l’opinione positiva del popolo nei confronti di Primus. La base è stata interamente scavata sul retro per realizzare un’ampia vasca secondo quanto suggerito dalla presenza di un foro sul fondo.
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Fig. 6 Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, dedica per T. Caesius Primus, CIL XIV 2852
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Fig. 7 Fianco destro della stessa
Si ha in questo caso espressa con immediatezza quella volontà che già Dante Vaglieri18 vagamente intravedeva come motivazione di fondo di questa prassi di dediche accomunanti privati alla dea: mettere l’individuo menzionato sotto la protezione di Fortuna19. Non necessariamente però il supporto doveva sostenere la statua del personaggio destinatario della dedica insieme alla Fortuna. Ciò sembra suggeri18 Vaglieri 1909, 228. L’archeologo osserva che almeno tre, CIL XIV 2852, 2886 e 2888 recano
la formula l(oco) d(ato) d(ecreto) d(ecurionum) e suppone che fossero collocate fuori dell’area santuariale (p. 228); ma per il corretto intendimento di tale formula vd. Granino Cecere – Mennella 2008, 287–300. 19 E anche garantirne, come nel caso di T. Caesius Primus, la buona memoria dell’individuo nel tempo (vd. n. 16).
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Fig. 8 Palestrina, Museo Archeologico Nazionale, dedica per C. Valerius Dolutius Marcianus, CIL XIV 2888
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Fig. 9 Particolare del coronamento della stessa
Fig. 10 Particolare della superficie superiore per l’alloggiamento del donario
to ad esempio da quanto ad oggi visibile sulla sommità della base, anche questa caratterizzata dalla presenza dell’urceus e della patera sui fianchi, recante la dedica di Valeria Saturnina al padre, C. Valerius Dolutius Marcianus (fig. 8)20 e che rivela sul fastigio del coronamento anche quella alla Fortuna Primigenia (fig. 9)21. Sulla superficie superiore si vedono (fig. 10) infatti un solco con andamento trapezoidale su tre lati con tre profondi incassi e
20 CIL XIV 2888, cf. EDR119738: D(eae) Fortunae Primigeni[ae] / C. Valerio C. fil(io) Men(enia
tribu) / Doltutio Marciano / VIvir(o) Aug(ustali), dec(urioni), / omnibus / honoribus / curiis muneribus / functo, / Valeria / Saturnina patri; / l(oco) d(ato) d(ecreto) d(ecurionum). La base è attualmente conservata nel Museo Arch. Nazionale di Palestrina, nel criptoportico, inv. 23614. Già nota per tradizione manoscritta, è ritornata alla luce nel 1896, nell’area dietro la basilica di S. Agapito, dove era stata utilizzata come sostegno di una piccola cordonata (Borsari 1896, 48). 21 E’ questo l’unico documento tra quelli finora noti in cui il nome della divinità è preceduto dall’appellativo D(ea). Sembra da escludere la possibilità che alla D che precede il nome corrispondesse nella lacuna oggi presente all’estremità destra del coronamento un’altra D per la formula d(onum) d(edit); possibile, del resto, per ragioni di spazio solo se l’epiclesi Primigenia fosse stata abbreviata in Primigen(iae): ma quanti videro il documento ancora integro riportano il testo D. FORTVNAE PRIMIGENIAE (vd. ad es. il disegno di Pirro Ligorio, Neap. lib. 35 pp. 210 e 212 in Orlandi 2008, rispettivamente 196 e 198).
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quattro fori per perni metallici sugli angoli, quanto di addice a un complesso donario e non certo ad una statua. Per ciò che attiene al destinatario della dedica, si tratta di un personaggio, in questo caso certamente prenestino, come rivela del resto anche la sua ascrizione alla tribù Menenia, e soprattutto che aveva svolto un ruolo eminente nella vita della sua città. Nell’espressione “compendiaria” usata dalla figlia, omnibus honoribus, curiis, muneribus functus22, nella menzione del decurionato e in quella del sevirato augustale, a Palestrina eccezionalmente riservato ai maggiorenti locali, si snoda un’intera esistenza d’impegno cittadino. E non a caso di C. Valerius Dolutius Marcianus l’epigrafia locale rivela, attraverso un altro documento, il tempo della sua operatività: egli appare infatti come curator nella dedicatio probabilmente di una statua nell’anno 227 d.C.23. Dunque, a quanto sembra, la figlia aveva voluto collocare un dono, e non di poco rilievo, per la dea nel suo santuario24, accomunando nella dedica a Fortuna quella al padre, sostenuto nel suo operare e nella sua varietà di ruoli a favore della città dalla dea che di Praeneste era protettrice. Nei dedicatari menzionati accanto alla dea, come d’attendersi, possiamo intravedere frequentatori abituali di un santuario come quello della Fortuna, il cui intervento protettivo era particolarmente sentito da chi era dedito al commercio con le sue alterne vicende (come i vascularii o il mercante di frumento su larga scala o il coactor argentarius) o da chi era impegnato in attività rischiose (come Diocles) o d’impegno civile (come Dolutius). Nei dedicanti, d’altro canto, troviamo quasi sempre, quando definibili, parenti stretti – figli per i padri, padri per i figli, zii paterni per i nipoti – o forse colliberti, persone che, avendo a cuore i loro cari, desideravano per essi protezione o ringraziavano la dea per averla manifestata; e il dono alla dea, qualunque esso fosse, posto presso il suo luogo di culto consegnava a una memoria senza tempo anche la persona che alla divinità era accomunata nella dedica. Accanto ai documenti fin qui considerati, per così dire a corollario della loro valenza, desidero presentarne uno ancora inedito, che si può considerare, sep22 Sulla formula da ultimo vd. Torres-González 2018, 349–364, con precedente bibliografia. 23 CIL XIV 2919 e p. 494, cf. EDR122273: Ded(icata) V non(as) Mart(ias) / M. Nummio Albi-
no / L. Laelio Maximo co(n)s(ulibus) / curant(e) C. Valerio Dolutio Marciano. La data del 3 marzo, non riferibile a un giorno sulla cui natura abbiamo informazioni (cf. Herz 1975, 153 e Id. 2003, 47–67), doveva forse coincidere con un evento significativo della realtà municipale prenestina o connesso ad una festività imperiale a noi ignota o dell’associazione per il quale Dolutius Marcianus aveva curato l’erezione della base (vd. ad es. l’indagine in merito svolta sulla base dell’epigrafia ostiense da Bruun 2019). Questa venne riutilizzata nel 333 d.C. per incidervi una dedica per il consularis Campaniae Gabinius Barbarus Pompeianus (vd. Granino Cecere 2017–2018, 359–360). 24 Sulla valenza della formula l(oco) d(ato) d(ecreto) d(ecurionum) nell’ambito del santuario, i cui spazi erano gestiti dal senato locale vd. n.18.
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pur con modalità diversa, motivato dalla medesima finalità. Alcuni anni orsono, durante lavori presso l’antica sede del Seminario vescovile25, si rinvenne una piccola erma. Alla dea, come indica l’iscrizione incisa sul fusto, venne donata l’effige stessa di Quinctia Aucta, perché ne garantisse la protezione o per rendere grazie per averla protetta. Non sappiamo se liberta o ingenua, del suo volto non conosciamo i tratti, andati perduti; tuttavia piace pensare che Quinctia fosse molto giovane, se è possibile riconoscere lungo il margine destro la parte terminale di una delle due trecce che definivano sui due lati il viso (fig. 11). Qui espressamente l’iscrizione dice:
Fig. 11 Palestrina, depositi del complesso degli edifici del Foro: erma di Quinctia Aucta
Quinctia C(ai) [l(iberta) / f(ilia)] Aucta Fortun(ae) Primig(eniae) d(onum) d(at) o d(edit).
e sottende nella formulazione della dedica del ritratto alla dea nel santuario quale fosse l’intenzione dell’offerente26. L’uso di porre erme o ritratti nell’ambito di un luogo sacro per ottenere la protezione della divinità o per ringraziarla per averla ottenuta non è certo fenomeno raro – si pensi, solo a titolo d’esempio, alle erme presenti nel santuario 25 Si rinvenne nell’anno 2003, tra materiale eterogeneo databile prevalentemente tra la tarda re-
pubblica e la prima età imperiale posto a colmare un’intercapedine tra il lato orientale dell’Aula Absidata e un taglio artificiale nella roccia realizzato per la costruzione dell’edificio. Misura solo cm 29 in altezza per la parte conservata, cm 15 in larghezza e cm 11 di spessore; alt. lett. 1,5–1. Attualmente è conservata nei depositi presso il complesso degli edifici del Foro di Praeneste senza no. inv. 26 Le caratteristiche paleografiche sembrano suggerire una datazione ancora nel I secolo d.C.
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Fig. 12 Palestrina, area espositiva del complesso degli edifici del Foro: ara di T. Masclius Quintus, CIL XIV 2907
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di Diana a Nemi27 o a quelle degli aurighi nel sacellum Herculis di Trastevere28 in Roma. Da ultimo, a causa delle difficoltà interpretative che presenta, non vorrei tuttavia tacere la possibilità di inserire tra i documenti considerati uno già noto a Dessau, sebbene solo per tradizione manoscritta, e che recentemente è tornato ad essere per noi visibile29. Si tratta di un’ara30, secondo quanto suggerito dalla patera e dall’urceus sui fianchi (fig. 12) e dalla presenza del focus sulla sommità (fig. 13a). La fronte è delimitata ai lati da lesene31 desinenti in capitelli ornati da cornucopie affiancanti un fiore centrale; in alto, tra questi e il Fig. 13a Il focus dell’ara coronamento modanato, sono raffigurati due eroti sostenenti una ghirlanda, nella cui curva s’intravede un gorgoneion. Il focus, alquanto danneggiato, è racchiuso sui due lati da un motivo decorativo vegetale (un ramo 27 Rinvenute, molto probabilmente non nella collocazione originaria, in una delle cosiddette “celle
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donario” del santuario, quella denominata a da Lord Savile Lumley, che la scavò frettolosamente nell’agosto del 1885, abbellita, come rivela l’iscrizione del mosaico pavimentale, da M. Servilius Quartus (CIL XIV 4183); gli scavi vennero ripresi due anni dopo da Luigi Boccanera e portarono ad altri rinvenimenti; per i recenti restauri della cella vd. Ghini 2012, 127–130; probabilmente nello stesso luogo si rinvennero, con quelle di L. Aninius Rufus, Q. Hostius Capito, Staia Quinta, Licinia Chrysarion e Fundilia Rufa, anche le erme di M. Bolanus Canuleius, L. Faenius Faustus e C. Norbanus Sorex (Granino Cecere 1988–1989, 131–151); sul tema in particolare vd. Boschung 2002, 108–110 (che le definisce statue votive), Fejfer 2008, 285–303 e da ultima Moltesen 2013, 245–248 con precedente bibliografia. Nista 1991. Le sette erme, databili tra l’età neroniana e quella adrianea, sono conservate attualmente nel Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo (Intini 2013, 160–164); la ricchezza dei committenti è suggerita anche dall’alto livello delle botteghe in cui le erme sono state realizzate. CIL XIV 2907 = VI *696, cf. EDR160593. Recentissimi lavori curati dalla Soprintendenza (settembre 2020) hanno consentito di rendere accessibili, portandoli nell’area espositiva del complesso degli edifici del Foro di Praeneste, molti reperti che da più decenni si trovavano al livello del pavimento del foro tardo-repubblicano, in un’area 5–6 metri sottostante al piano di attuale calpestio della cosiddetta “area sacra”, rispondente a quello che doveva essere il pavimento del Museo dell’Associazione Archeologica di Palestrina, crollato durante i bombardamenti del 1944. Misure: alt. 106, largh. 47,5–44, sp. 34–32; campo epigrafico 45 x 28; alt. lett. 2,5. Attualmente l’ara è conservata in una sala espositiva del complesso degli edifici del Foro di Praeneste, senza no. inv. Lesene che, in modo non consueto, non si estendono sui rispettivi fianchi.
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d’edera), agli angoli da due maschere (?), di cui si conserva la parte terminale dei riccioli calamistrati, che definiscono sulla fronte una superficie liscia, forse un tempo destinata a raccogliere un elemento dipinto, di cui però attualmente ad un esame autoptico non si hanno evidenze (figg. 13b–c). Un’ara, dunque, che, anche per il suo apparato decorativo32, potrebbe ben avere una valenza funeraria, ma che reca inciso un testo insolito nella sua sinteticità: T(itus) Masclius Quintus33 sacrum
Figg. 13b–c Lato destro e fronte del coronamento dell’ara
Un testo, infatti, che presenta un solo nome in caso nominativo seguito da sacrum, e che aveva suggerito allo stesso Hermann Dessau di porre il monumento ancora tra le sacre, seppure incerte34. Difficile offrirne un’interpretazione sicura. Certamente un elemento dirimente poteva costituire il luogo di rinvenimento, ma questo non è noto, anche se quanti la videro e la menzionarono per primi35 la collocano presso l’edificio 32 Apparato decorativo relativamente diffuso tra la fine del I secolo e la prima metà del successivo
(Boschung 2002, 30–32 e 108–110); le caratteristiche paleografiche sembrano suggerire forse una datazione ancora nell’ambito del I secolo per l’ara in esame. 33 La I di Quintus è montante. 34 Il formulario usato sembra escludere un riferimento agli Dei Mani, quanto invece indicare con sacrum un’appartenenza alla divinità. 35 Fu vista dallo Smetius e da Metellus (CIL, ad no.), variamente definita cippo, base o ara, e collocata al tempo in palatio episcopi. Come è stato detto, non fu trovata dal Dessau, ma agli inizi
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episcopale, come tante dediche alla Fortuna che nell’area santuariale e forse in prossimità erano un tempo esposte. Ma, per ritornare a quanto detto in precedenza, ribadiamo che ciò che è peculiare del santuario prenestino è la compresenza nel testo epigrafico della dedica alla dea e al singolo individuo, a sottolineare la prossimità di un rapporto, a garanzia di quanto si chiedeva o per ringraziare per quanto ottenuto: non si tratta della realizzazione di un evento desiderato o del conseguimento di qualcosa, ma della volontà di garantire il bene di una persona e di perpetuarne il ricordo nel tempo a seguire. Non è questa la sola peculiarità nelle manifestazioni di culto per la Fortuna Primigenia rivelata dalle iscrizioni prenestine. Una seconda, raramente documentata, ma che, a sua volta, si palesa in ambito prenestino con particolare evidenza, è la dedica alla dea di signa di altre divinità, che possiamo immaginare venissero collocate nell’areale del santuario36. Questo particolare aspetto dell’epigrafia prenestina consente di mettere a fuoco quella che possiamo intendere come la struttura teologica, non solo in età imperiale, del grande santuario cittadino, una sua lettura globale alla luce di quello che è il ritualismo politeistico romano. Si tratta di statue di divinità in vario modo connesse con Fortuna, del cui dominio spesso fanno parte, sentite probabilmente dal fedele come “complementari” alla dea, che con lei operano, di rango inferiore, certo, nel suo luogo di culto, ma non per questo meno necessarie all’azione divina. Il grande, vasto santuario ospitava nelle sue pieghe sacelli, altari, statue di altre divinità. Il documento più significativo in tal senso è la base (ma con urceus e patera sui lati) sulla cui fronte l’iscrizione ricorda come L. Sariolenus Naevius Fastus Consularis, (fig. 14) che l’onomastica rivela prenestino, abbia fatto dono alla Fortuna Primigenia di una serie di signa di divinità37. Tralasciando quella di Trivia eretta nello Iunonarium (con i problemi topografici che questo comporta, qui non esaminabili), Sariolenus collocò in pronao aedis Fortunae, accanto ad una statua di Antonino (se da intendersi, come probabile, Antonino Pio, si ha qui un valido elemento cronologico) un signum di Apollo, uno di Isityches, uno di Spes, uno di Minerva (posto sulla base in esame) con un’ara. del secolo scorso era conservata nel Museo dell’Associazione Archeologica prenestina, poiché lì ebbe modo di osservarla Ralf van Deman Magoffin, che ne offre una seppur cursoria descrizione (van Deman Magoffin 1910, 58). 36 Sul raro uso di dedicare la statua di un dio ad un’altra divinità vd. Palombi 2012, 392, n. 25 e Veyne 1962, 83, n. 3 con precedente bibliografia. 37 CIL XIV 2867, cf. ILS 3687a, cf. EDR119650, attualmente conservata nei Musei Vaticani (per il suo acquisto curato da Orazio Marucchi, vd. Eph. Epigr. IX p. 432), Cortile della Pigna, inv. 5169. Su di un luogo di culto a Giunone in Praeneste vd. da ultima Di Fazio 2015, 132–134.
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Fig. 14 Musei Vaticani, Cortile della Pigna: dedica di L. Sariolenus Naevius Fastus Consularis, CIL XIV 2867
Il caso ha voluto che ci sia giunta notizia attraverso un altro documento epigrafico del dono alla dea di almeno un’altra statua di Spes, e di un materiale prezioso, il coroliticus, una pregiata qualità di marmo di colore bianco tendente all’a-
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vorio38. La statua venne dedicata alla Fortuna da un Ti. Claudius Thermodon39 (fig. 15) probabilmente di Volsinii40; e ciò non stupisce ben sapendo che quella dea faceva parte del corteo di Fortuna, del suo dominio, come rivelano anche i versi d’Orazio41. Quanto a Minerva, non si può non ricordare che è la dea protettrice di quanti esercitavano un mestiere e che era una protagonista del pantheon prenestino già dalla media età repubblicana, essendo presente nell’apparato decorativo di specchi e ciste42, forse anche concepita con Fortuna come due sorores, l’una di aspetto guerriero e virile, l’altra di aspetto femmineo43.
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Fig. 15 Ara di Ti. Claudius Thermodon, CIL XIV 2853
38 Nota da Plin. n.h. 36, 62. 39 CIL XIV 2853 = ILS 3688, cf. EDR163961: Fortunae / Primigeniae / Ti. Claudius / Thermodon
et / Mettia M. f. / Lochias (uxor) eius / simulacra duo / Spei / corolitica d(onum) d(ederunt).
40 Il dedicante è da identificare con l’omonimo personaggio che a Ficulle, nell’ager di Volsinii, è
autore di una dedica a Diana (CIL XI 2683, cf. EDR126846) e di uno speleum cum signis et ara ceterisque per Sol Invictus Mithra (CIL XI 2684 = ILS 4223 = CIMRM 660, cf. EDR126714, ritenuta un tempo di origine urbana, CIL VI 3723). Tale identificazione, già dubitativamente proposta da Dessau, viene confermata da Campbell 1968, 212 e Buonocore 2011, 145–156, in part. 151–152. 41 Hor. carm. 1, 35, 21–24: Te (Fortuna) Spes et albo rara Fides colit / velata panno, nec comitem abnegat / utcumque mutata potentis / veste domos inimica linquis. 42 Si considerino, solo per indicare i più noti, uno specchio e una cista che presentano tra loro significative analogie: lo specchio con iscrizione CIL I2 2498 e add. p. 904, rinvenuto alla Colombella, proprietà Franciosi nel 1905, già collezione Gagliardi, acquistato da Villa Giulia nel 1910 inv. 15697 e trasferito a Palestrina nel 1956 inv. 1514 (Menichetti 1995, 86–87; Id. 1999, 495; Franchi De Bellis 2005, 110–114; Foddai 2009, 102–105, no. 89 e fig. 89 a.b, con precedente bibliografia), in cui Fortuna pone la mano sinistra sulla spalla della dea, che appare al centro, mentre alle sue spalle corre sul carro il giovane Hiaco, nel suo passaggio trionfale verso la maturità; e la cista CIL I2 563, conservata nel Museo di Berlino, Misc. 6239 (Franchi De Bellis 2005, 143–147), in cui Minerva, dinanzi ai componenti del pantheon prenestino, svolge un ruolo di protagonista, toccando le labbra di un giovanissimo Mars nudo e armato, inginocchiato su di un pithos da cui sgorga il vino nuovo, episodio probabilmente riferibile al momento iniziatico di inserimento a pieno titolo nella comunità dei cives della nuova generazione, rispondente nella cadenza calendariale ai Liberalia del 17 marzo (vd. Menichetti 1995, 80–86; Id. 1999, 491–496 con precedente bibliografia e Torelli 2009, 130–133, il quale evidenzia come tale funzione iniziatica di Minerva sia presente anche su due specchi, l’uno proveniente da Bolsena, l’altro da Chiusi). 43 Massa-Pairault 1992, 116.
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Fig. 16 Palestrina, area espositiva del complesso degli edifici del Foro: dedica di Nigrinia Auxesis, CIL XIV 2860
Per Isityches è appena il caso di soffermarsi sulle affinità che rapportano Fortuna a tale immagine sincretica di Isis e di Tyche, che racchiude in sé il carattere primigenio e materno dell’una44 e quello di garante di prosperità dell’altra. E il pensiero va alla Tύχη Πρωτογένεια venerata a Delo già sul finire del II secolo a.C.45 e alla Tύχη Πρωτογενής46, come alla bella statua di marmo bigio di probabile scuola rodia conservata nel Museo47. Che Apollo inoltre fosse particolarmente venerato a Praeneste è documentato anche nel lungo carme di T. Caesius Taurinus, cui si è fatto cenno, laddove si fa riferimento esplicito alla venerazione del padre per Apollo (Apollinis aras) e per Iuppiter Arcanus48 insieme a Fortuna: l’associazione stessa con queste due divinità peculiari del pantheon prenestino ne suggeriscono antichità e importanza del culto e del resto il dio è già presente nell’ambito delle divinità cittadine nella decorazione di alcune ciste, tra le quali la medesima cista del Museo di Berlino, indicata alla n. 42 e in cui vedremo an-
44 Coarelli 1994, 120–129 per il sinecismo tra Iside e Tyche determinatosi in Alessandria e la
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popolarità del culto prenestino già intorno alla metà del II secolo a.C., come mostra l’episodio di Prusia di Bitinia nel 167 a.C. All’opinione di Coarelli si associa con nuovi argomenti da ultimo Miano 2018, 173–176. Inscr. Delos 2072–2073 (rinvenute nel Serapeo C). Inscr. Creticae III, IV 14: nella dedica di Philotas, figlio di Genthios, alla dea e a Zeus Soter Margherita Guarducci, nel proporne una datazione durante il regno di Tolomeo V Epiphanes, riteneva non vi potesse essere riferimento alla Fortuna Primigenia di Praeneste (p. 114); ma probabilmente il medesimo Philotas appare quale autore di una dedica agli dei egizi rinvenuta a Philai in Egitto databile agli aa. 139–120 (SEG 31, 1521) e sono ben noti i rapporti e gli intensi contatti culturali tra il regno tolemaico e i romani già dalla fine del III e gli inizi del II secolo a.C. Agnoli 2002, 31–40, cat. I.1; sul luogo in cui probabilmente la statua era collocata, presso il cd. Antro delle sorti, vd. Gatti 2004, 59–60. CIL XIV 2852 (vd. supra nota 15) rr. 16–17.
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che Liber pater, di cui si dirà in seguito. Nigrinia Auxesis (figg. 16 e 16a) con il liberto imperiale Felix e i suoi dedica alla Fortuna una statua di Aequitas49. Il signum della dea, con la sua inseparabile bilancia nella mano, era collocato su di una colonna. Spesso presente nei luoghi di mercato e di scambio quotidiano a garanzia di pesi e misure50 e dell’onestà e della chiarezza della Fig. 16a Particolare dell’iscrizione transazioni, la sua presenza non stupisce in un ambito dedicato alla Fortuna. Del resto qui L. Marcius Martialis aveva dedicato alla dea un signum di Mercurio, come rivela l’iscrizione incisa su di una grande base, che solo recentissimi lavori di recupero51 hanno consentito di conoscere. Presenta semplici modanature su tre lati e una profonda sbrecciatura nella parte superiore dello spigolo anteriore destro. Qualche lacuna rivela anche il coronamento, mentre chiare e profonde impronte per l’alloggiamento dei piedi “calzati” del dio si leggono sulla superficie superiore (alt. cm 89, largh. cm 61–55, sp. cm 50–43,5); il campo epigrafico è definito da una cornice a listello e gola rovescia (cm 44 x 47,5; lett. 5–2) (fig. 17).52 49 CIL XIV 2860 = ILS 3687, cf. EDR122153. Recuperata nel corso dei recenti lavori, cui si è
fatto cenno alla n. 29, è attualmente conservata nello spazio espositivo del complesso degli edifici del Foro di Praeneste. E’ possibile ora fornirne misure certe (alt. cm 126, diam cm 43; tabella iscritta c. 28 x 36): sulla superficie superiore, solo parzialmente conservata, è presente un profondo incavo, destinato all’inserimento del signum della dea, in parte obliterato da cemento; una ampia e profonda sbrecciatura corre ora lungo la colonna, a sinistra dell’iscrizione. 50 Christol 2012, 244. In AE 2010, 916 si ha l’offerta all’Aequitas Augusta di una mensa ponderaria da parte dell’edile Masclius Secundus. 51 I medesimi di cui si è fatta menzione in precedenza, alla n. 29. 52 Non sono noti il luogo e la data del rinvenimento, certamente però avvenuto prima del 1975, quando forse la base, con un notevole gruppo di reperti, venne fotografata nel luogo dal quale è stata ora portata alla luce.
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Fig. 17 Palestrina, area espositiva del complesso degli edifici del Foro: base del signum di Mercurio eretta da L. Marcius Martialis
Fortunae Primigeniae signum Mercuri L. Marcius Martialis d(onum) d(edit). L(oco) d(ato) d(ecreto) d(ecurionum)53 53 L’ultima riga è incisa in caratteri molto più piccoli in uno spazio delimitato appena al di sopra
della cornice, rivelando come non fosse prevista nell’impaginato iniziale del testo. Le caratteristiche del supporto e quelle paleografiche sembrano anche in questo caso suggerire una collocazione cronologica tra la seconda metà del I e il II secolo d.C.
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Fig. 18 Tivoli, magazzini nel santuario di Ercole Vincitore: due frammenti della base di donario eretta da L. Ruficanus Notus
Fig. 19 Fianco della stessa con raffigurazione di un gallo
Fig. 20 Retro della stessa con raffigurazione di un caduceo
Del dio, protettore anche delle greggi ma soprattutto del buono svolgimento degli scambi e delle attività commerciali54, quale prova d’indubbia devozione sono conservate nel Museo Archeologico prenestino alcune statue55 e ne sono note dediche sacre nella città56. Inoltre, ciò che non manca di destare il nostro inte54 Combet-Farnoux 1980, 219–252; in particolare sul rapporto tra Mercurio e Fortuna 428–
431.
55 Agnoli 2002, 99–102, no. I.24 (Hermes che si allaccia il sandalo); 102–105, no. I.25 (statua di
Hermes); 107–111, no. I.27 (statua di Mercurio seduto; ai due lati sono raffigurati un ariete ed un gallo); 111–113, no. I.28 (statua di Mercurio, similmente con ariete e gallo sui lati del masso roccioso sul quale il dio è seduto). 56 CIL XIV 2896, cf. EDR160838: Merc(urio) / sacr(um). Secondo la testimonianza di Petrini 1795, 45 e 309, no. 47, la dedica si rinvenne nel medesimo luogo, nella proprietà dei Padri
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resse, è che il caduceo e il gallo, suoi attributi, compaiono, purtroppo conservati solo in parte, anche su un fianco e sul retro di una dedica alla Fortuna eretta da un L. Ruficanus Nothus, (figg. 18–20)57 di certo impegnato a Praeneste in un’attività produttiva58 e i medesimi attributi sono presenti, anche associati, su non pochi bolli laterizi di produzione prenestina59. Del pantheon cittadino fa parte anche Liber Pater, già raffigurato, recante il suo tralcio di vite, nell’apparato decorativo di ciste in età medio repubblicana60. E un signum Liberis Patris Panthei venne dedicato alla Fortuna da M. Popilius Trophimus (fig. 21)61, probabilmente un prenestino, dal momento che il suo gentilizio trova numerose attestazioni nell’epigrafia del luogo62. La statua
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Dottrinari, in cui nel corso degli scavi di Venceslao Pezollis nel 1778 fu ritrovata la statua di Mercurio attualmente conservata nei Musei Vaticani, Cortile Ottagono inv. 967 (vd. Andreae et al. 1998, 10*, Tafel 92.93, con precedente bibliografia). Fasolo – Gullini 1953, 285, no. 30 e fig. 393 a p. 287 = AE 2007, 314, cf. EDR137632: Fortunae Iovis pue[ro] / Primigeniae / [L.Rufi]canus Nothu[s ] / - - - - -/ [- - -] ạd dona / [- - -ex v]oto adiecit. L(oco) d(ato) d(ecreto) d(ecurionum). Il personaggio è noto anche da una dedica eretta a Fortuna Iovis puer Primigenia quando ancora era uno schiavo, avendo visto realizzato un responso favorevole ottenuto, a quanto pare, dalla consultazione delle sortes, CIL XIV 2862, cf. EDR119465: Fortunae / Iovis puero / Primigeniae d(onum) d(edit), ex sorte compos / factus, / Nothus Ruficanae / L. f. Plotillae (servus), come attesta l’espressione ex sorte compos factus. Per la formula vd. González Rodríguez – Ortiz-de-Urbina 2017, 253–273, in part. 262 e 265. Ottenuta la libertà, Nothus fa una nuova dedica, quella appunto menzionata supra nota 57. Sulla definizione di Fortuna Primigenia quale Iovis puer vd. da ultimo Hernández Pérez 2011, 86–87 e 92. Il caduceo compare come signum in CIL XIV 4091,43–44 = XV 2330a e b di Hermes, databile alla fine del I sec. d.C., e in CIL XIV 4091,68 = XV 2350a di C. Propertius Felix, databile tra la fine del I e l’inizio del II sec. d.C.; gallo e caduceo compaiono in un esemplare inedito di C. Munatius Fo[- - -], come mi suggeriscono gentilmente i colleghi Luciano Camilli e Franca Taglietti, che si occupano dei bolli doliari prenestini per il prossimo volume del CIL dedicato all’epigrafia della città. Probabilmente anche come protagonista con i suoi Liberalia del momento iniziatico dell’ingresso della nuova generazione nel corpo cittadino. Si consideri, solo a titolo d’esempio, la cista conservata nel Museo di Berlino, Misc. 6239, già menzionata alla n. 42. CIL XIV 2865 = ILS 5467, cf. EDR164046: Fortunae Primig[eniae] / signum Liberis Pa[tris] / Pantheì cum suis par[ergis] / et Cupidines I̅̅ I̅ cum suis lychnuchis et [- - -] / M. Popillius M. f. Trophim[us cum?] / Popillia Chreste lib(erta) et Atili[a - - -], purtroppo perduta. Per la natura metrica del testo vd. Cugusi 2007, 30, che vi identifica un carme strutturato in senari giambici e vuole datare la dedica alla seconda metà del II secolo d.C. Non escluderei però una datazione in età severiana, in considerazione della diffusione che il culto di Liber Pater ebbe quale deus patrius di Severo. Il gentilizio, del resto diffuso, è presente già in età repubblicana, vd. le pinee CIL I2 248 e 249 (L. Popili M. l.; Popilia M. f.), il donario dei tibicines, CIL I2 3070 (L. Popili L. L. l. Phil[- - -]) e molto probabilmente alla base di un ritratto, CIL XIV 3373 (L. Popilli Sex. f., in cui si deve leggere la tribù Men(enia) in luogo di un cognomen Mei, come indicato in CIL, vd. Nonnis c.s.), ma ricorre anche in pieno II secolo d.C. in CIL XIV 2996 (T. Popilius M(ani) l. Epitynchanus e il suo liberto ed heres Banausus) e in CIL XIV 3374 (Popilia[- - -]).
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era corredata da un suo apparato (cum suis parergis63) e da due statue di eroti lychnophoroi, ovvero a sostegno di bracci di candelabro64, in una composizione elaborata e forse, almeno ai nostri occhi, di dubbio gusto.
Fig. 21 Dedica alla Fortuna di un signum di Liber Pater Pantheus
Un signum fu dedicato alla dea anche da M. Terentius Sozon65 (fig. 22), ma lo stato frammentario del supporto non consente di sapere di quale divinità si trattasse. L’epigrafia rivela anche l’esistenza di basi destinate a sostenere un insieme di più statue dedicate alla Fortuna, e di queste l’iscrizione poteva recare anche il solo numero. Di particolare interesse si palesa un documento di cui restano dei frammenti, di cui due quasi contigui (b+c)66 ai quali ritengo si debba connettere un terzo,
63 Vd. Kruse 1986, col. 385. 64 Le lampade offerte con una statua contribuiscono a valorizzarla, permettendo di rendere omag-
gio alla divinità con un’illuminazione periodica o quotidiana, come sottolinea Estienne 2008, 45–60, in part. 52 e 58. 65 Eph. Epigr. IX 746; Granino Cecere 2005, no. 635: Fortunae / Primigeniae / M. Terentius / Sozon / signum / - - - - - - (attualmente conservato a Tivoli nei magazzini del santuario di Ercole vincitore, inv. 23583). Per lo stato ancor più frammentario del testo non possiamo esser certi che anche in Eph. Epigr. IX 752, cf. EDR120768 vi fosse riferimento a una dedica di un signum alla dea. 66 Fasolo – Gullini 1953, 286–287, no. 31 e fig. 394; Champeaux 1982, 71–72; Franchi De Bellis 2016, 331 = EDR164206 (parti b+c, misure: cm 11,5 x 48).
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Fig. 22 Tivoli, magazzini nel santuario di Ercole Vincitore: dedica di M. Terentius Sozon, Eph. Epigr. IX 746
pubblicato separatamente (a)67 e separatamente conservato68, secondo la ricostruzione che propongo (fig. 23):
Fig. 23 Ricomposizione di tre frammenti (a e b+c) di una base con dedica alle sortes di cinque signa da parte di un sacerdos Fortunae Primigeniae
[Fort]unae P[rimige]niae Io[vis pue]ri sor[tibus?] [- - -]nius T͆h͆eoph[ilus? sa]cerdos For[t(unae)] Primig(eniae) lec[t(us) ex s(enatus) c(onsulto) [s]igna n(umero) V. Il materiale è il medesimo, il calcare compatto che caratterizza tanti documenti prenestini, le lettere delle due prime righe presentano una medesima altezza (r.1: cm 2,9; r.2: cm 2,6) ed un’interlinea simile, i tre frammenti sono stati rinvenuti in un medesimo contesto, nel corso degli scavi nell’area del santuario 67 Fasolo – Gullini 1953, 288, no. 40 e fig. 399 = EDR164018 (parte a, misure: cm 10,5 x 15). 68 Il fr. a è attualmente conservato nei depositi presso il complesso degli edifici del Foro di Prae
neste, inv. 23570; i frgg. b+c sono conservati a Tivoli, nei magazzini del santuario di Ercole Vincitore, inv. 23579.
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della Fortuna69 e soprattutto tutti presentano un’ampia superficie di spessore con numerosi incassi (fr. a: cm 15; frgg. b+c: cm 33), relativi al sostegno di una pluralità di statue. Alla r. 3 prima del termine signa nulla è andato perduto del testo: quanto conservato appare centrato rispetto all’impaginazione. Un dente al centro sul quale venne incisa la riga era forse finalizzato, come un modesto tenone, ad ammorsare la base iscritta a una struttura inferiore. Ma l’interesse in questo caso non si limita al riferimento di una pluralità di signa, quanto piuttosto al fatto che la loro dedica sia stata curata da un sacerdos della dea e, a quanto sembra, alle sortes Fortunae Primigeniae Iovis pueri70. Forse proprio tra questi signa di cui l’epigrafe non rivela i nomi delle divinità, e proprio perché la dedica è di un sacerdos71, potremmo individuare quelle entità divine rispondenti a singoli aspetti funzionali, che nel mondo politeista romano sono accanto alla divinità titolare, in quanto rispondenti a una particolare funzione o a un dominio specifico, divinità funzionali minori, recanti nomi noti solo a pochi addetti, come i sacerdoti72. Del resto questa seconda peculiarità nelle manifestazioni di culto della Fortuna Primigenia, che abbiamo visto apparire con tutta evidenza nell’epigrafia sacra prenestina, sembra avere un precedente lontano nel tempo, ma un precedente ben noto. Risale agli anni della seconda guerra punica, al 216 a.C. e lo ritroviamo nelle pagine di Tito Livio73: il pretore Marcus Anicius, che aveva 69 Il fr. a rinvenuto in fase di reimpiego in una muratura moderna, i frgg. b+c sulla rampa di destra
del santuario.
70 Per la pratica divinatoria prenestina attraverso le sortes, affidata al caso e attuata in un contesto
festivo, ben lontana e “incompatibile” con quella romana, affidata a sacerdoti dello stato, gli augures, e alla consultazione dei libri sibillini, prescritta dal senato e attuata dai XVviri sacris faciundis per esigenze storiche contingenti, vd. Santi 2008, 54–56. In tale contrapposizione andrebbe anche inteso il divieto di consultazione imposto dal senato al console del 241 Q. Lutatius Cerco (vd. l’ultimo contributo relativo al noto episodio da parte di Konrad 2015, 153–171, il quale preferisce attribuirlo a C. Lutatius Catulus, console nel 242 e non a Cerco, al quale invece pensa Ziolkowski 1987, 319–332). Per l’oracolo prenestino vd. anche Frateantonio 2011, 174–199. 71 Un altro sacerdos Fortunae Primigeniae lectus ex s(enatus) c(onsulto), di età adrianea, è attestato in CIL XIV 3003, cf. EDR120145. Il dubbio se debba intendersi il senato di Roma o quello locale è ancora espresso da Champeaux 1982, 72, ma, per quanto importante possa essere considerato il santuario prenestino, non vi è motivo di pensare che il sacerdos fosse nominato da Roma. Forse un altro sacerdos (se non un sortilegus) Fortunae Primigeniae è menzionato in AE 1987, 230, cf. EDR080328 databile alla prima metà del III secolo d.C. Sull’ipotesi che anche il retore prenestino Aelianus abbia rivestito tale sacerdozio, vd. Champeaux 1982, 72, n. 313. 72 Per le interessanti riflessioni sulla valenza nella religione romana di quella pluralità di divinità minori che nella tradizione è nota come l’insieme degli Indigitamenta, vd. Perfigli 2004, e in particolare 197–207. 73 Liv. 23, 19, 17–18.
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comandato la guarnigione prenestina, che si era opposta valorosamente ad Annibale nel corso dell’assedio di Casilinum, tornato nella sua città, aveva posto in aede Fortunae ben tria signa a scioglimento di un voto a nome di tutti i superstiti. Che tali signa fossero tutte statue di Fortuna, come pensa Jacqueline Champeaux74, o che piuttosto raffigurassero altre divinità, invocate forse nel momento del pericolo, non è possibile dire. Non sappiamo se Marcus Anicius abbia agito secondo un costume forse già in uso; ma un tale uso avrebbe avuto, a quanto sembra, grande seguito nei tempi successivi. Ancora una volta si deve tener presente che, quando si prende in esame un grande luogo di culto come quello della Fortuna Primigenia a Praeneste, vanno considerati una molteplicità di aspetti, e soprattutto non va dimenticato come sia doveroso, secondo quanto afferma anche John Scheid, avere in mente che “en étudiant les temples comme les résidences d’une seule divinité, nous détrui sons en effet le contexte religieux antique”75, la valenza stessa del politeismo romano.
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Crediti Figg.1, 2, 9–12, 13b–c, 16a e 17: foto Roberto Darelli; fig. 3: CIL XIV 2887; fig. 4: Granino Cecere 2005, nr. 633; fig. 5: Vagenheim 1994, fig. 11; fig. 6: Granino Cecere 2005, nr. 605; fig. 7: foto dell’autrice; fig. 8: Granino Cecere 2005, nr. 643; fig. 13a: foto Diana Raiano; fig. 14: Granino Cecere 2005, nr. 640; fig. 15: Pirro Ligorio, Neap. l. 35, p. 212 – Orlandi 2008, 198; fig. 16: Granino Cecere 2005, nr. 762; figg.18–20: foto dell’autrice; fig. 21: Smetius, Napoli, Bibl. Naz. V.E. 4f. 102 – Vagenheim 1994, fig. 11; fig. 22: Granino Cecere 2005, nr. 635; fig. 23: foto e ricomposizione grafica di Edoardo Cecere.
Giovanna Di Giacomo
A proposito dell’ara sepolcrale di Hortensia Eunoe e di altre antichità scoperte nella contrada ‘Le Colonnelle’ presso Gallicano nel Lazio (CIL XIV 4276–4277) Riassunto: Un esame della documentazione conservata presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma ha permesso di acquisire nuovi dati non solo sul luogo e le circostanze della scoperta dell’ara sepolcrale opistografa di Hortensia Eunoe (CIL XIV 4276), rinvenuta nel febbraio del 1887 nel territorio di Gallicano (appartenente, nell’antichità, all’ager Praenestinus), tra i resti di una villa di otium in contrada ‘Le Colonnelle’, ma anche sui passaggi storico-antiquari che hanno preceduto l’attuale collocazione di conservazione a Sorrento, sulla terrazza della Villa Pompeiana dell’Hotel Bellevue Syrene (ignota agli autori del CIL e al Dessau). Responsabile del trasferimento dell’ara da Gallicano a Sorrento potrebbe essere stato il collezionista Lord William Waldorf Astor, che, agli inizi del Novecento, era divenuto proprietario della confinante Villa Tritone e l’aveva collegata con un lussureggiante parco – museo alla dipendenza con terrazza che, proprio per le trasformazioni da lui apportate, sarà poi denominata Villa Pompeiana. All’interno di questa cornice Lord Astor aveva fatto allestire parte di quella collezione di antichità che, tra il 1890 e il 1905, aveva acquistato soprattutto sul mercato antiquario di Roma, dove, in quegli stessi anni, poteva essere approdata, con il benestare del Sindaco e della Giunta di Gallicano, anche l’ara sepolcrale di Hortensia Eunoe. Grazie a un sopralluogo a Sorrento è stato possibile documentare il ricco apparato decorativo del monumento e proporre alcuni supplementi ed emendamenti al testo in esso iscritto. Di particolare interesse sono la singolare consacrazione dell’ara a Muta T[acita]; la quantità di aggettivi laudativi con cui il marito esalta le virtù della defunta; il modulo formulare che ricorda la data della morte (secura facta est ...) e della sepoltura di Hortensia Eunoe nell’anno in cui furono consoli suffetti Q. Corellius Rufus e L. Funisulanus Vettonianus; e le coordinate temporali della dedicatio dell’ara, avvenuta presumibilmente il 7 maggio del 79 d.C., i.e. Caẹ[sennio Paeto et Calvisio Rusone co(n) s(ulibus)] (questa integrazione ha fornito anche un importante caposaldo ante quem per attribuire il consolato di Rufus e Vettonianus al 78 d.C.). Nelle vicinanze dell’ara sepolcrale di Hortensia Eunoe si rinvenne anche quella che sembrerebbe una cassetta cilindrica in piombo di distribuzione dell’acqua (CIL XIV 4277). Questa recava impresso per tre volte il bollo [- - -]unti v(iri) c(larissimi), composto dal nome e dal titolo di rango del concessionario dell’acqua che, in un determinato momento, era verosimilmente stato il proprietario della villa in contrada ‘Le Colonnelle’.
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Abstract: An examination of the documentation preserved in the Central State Archives of Rome has made it possible to acquire new data not only on the place and circumstances of the discovery of the opisthograph sepulchral altar of Hortensia Eunoe (CIL XIV 4276), found in February 1887 in the territory of Gallicano (belonging, in antiquity, to the ager Praenestinus), among the remains of an otium villa in the district ‘Le Colonnelle’, but also on the historical-antiquarian passages which preceded the current conservation in Sorrento, on the terrace of the Villa Pompeiana of the Bellevue Syrene Hotel (unknown to the authors of CIL and to Dessau). Responsible for the transfer of the altar from Gallicano to Sorrento may have been the collector Lord William Waldorf Astor, who, at the beginning of the twentieth century, had become the owner of the neighboring Villa Tritone and had connected it with a luxuriant park – museum to the dependence with terrace that, due to the transformations he made, it will then be called Villa Pompeiana. In this setting, Lord Astor had set up part of that collection of antiquities which, between 1890 and 1905, he had bought above all in the antiques market in Rome, where, in those same years, it could have arrived – with the approval of the Mayor and the municipal Council of Gallicano – also the sepulchral altar of Hortensia Eunoe. Thanks to an inspection in Sorrento it was possible to document the rich decorative apparatus of the monument and to propose some supplements and amendments to the text inscribed therein. Of particular interest are the singular consecration of the altar to Muta T[acita]; the quantity of laudative adjectives with which the husband exalts the virtues of the deceased; the formula that recalls the date of the death (secura facta est ...) and burial of Hortensia Eunoe in the year in which Q. Corellius Rufus and L. Funisulanus Vettonianus were suffect consuls; and the time coordinates of the altar’s dedicatio, which presumably took place on 7 May of the year 79 AD, i.e. Caẹ[sennio Paeto et Calvisio Rusone co(n)s(ulibus)] (this integration also provides an important terminus ante quem to refer the consulate of Rufus and Vettonianus to the year 78 AD). Near the sepulchral altar of Hortensia Eunoe a cylindrical lead object has been discovered, which could seem to be a water distribution box (CIL XIV 4277). The stamp imprinted three times on this box, [- - -]unti v(iri) c(larissimi), contained the name and the title of rank of the water’s concessionaire, who – at a given moment – was probably the owner of the villa in the district ‘Le Colonnelle’.
Il 26 febbraio del 1887 il Prefetto della Provincia di Roma segnalava alla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione che il sindaco di Gallicano nel Lazio, Giuseppe Sarti, aveva denunciato alcune scoperte avvenute nel territorio del proprio comune1, territorio che, nell’antichità, ricadeva nell’ager amministrato dalla città di Praeneste (fig. 1). Nella contrada vocata ‘Le Colonnelle’ (figg. 1 e 2.1), situata sulla sommità dell’omonimo colle subito a sud-est del centro storico di Gallicano (quota m 276 s.l.m.) e delimitata dal fosso del Traglione a nord e dal Colle di S. Rocco 1 Tutta la documentazione al riguardo, compresa tra il 26 febbraio e il 6 settembre del 1887, è conservata presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma: ACSR, Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti. Antichità e Scavi, II versamento, I serie, busta 253, fascicolo 4386.
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Fig. 1 Carta di Palestrina (IGM F.° 150, I S.E.)
Fig. 2 Carta di Palestrina – Colonna. Gallicano nel Lazio, contrada ‘Le Colonnelle’
a sud, un contadino, Angelo Petrinca, piantando un vigneto in un fondo che gli era stato concesso in enfiteusi perpetua dal comune, aveva riportato alla luce, “tra alcuni sassi e ruderi”, un “cippo funebre” di marmo, “abbastanza ben con-
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servato”, con “emblemi, fregi ed iscrizione”, che – secondo il sindaco – “meritava di essere esaminato da persona competente”. Il 5 marzo il Direttore Generale delle Antichità e delle Belle Arti, Giuseppe Fiorelli, pregava Vincenzo Cicerchia, Ispettore degli Scavi e dei Monumenti di Palestrina, di compiere con urgenza un sopralluogo: desiderava conoscere “immediatamente” le modalità e le circostanze in cui era avvenuta la scoperta e ricevere, “in pari tempo”, una descrizione dell’apparato figurativo del “cippo” e un buon calco cartaceo dell’iscrizione in esso incisa. Il 12 marzo l’ispettore Cicerchia, scusandosi per non aver riferito prontamente sulle antichità rinvenute alle ‘Le Colonnelle’, ottemperava a quanto richiesto e inviava a Fiorelli un “particolareggiato rapporto”, corredato da disegni (figg. 3–4) e calchi in carta velina, che il 14 aprile provvedeva a integrare anche con una “copia più esatta dell’iscrizione” incisa sul “cippo” (fig. 5), comprensiva di “qualche supplemento” emerso in seguito a una più attenta lettura.
Fig. 3 “Cippo funebre” di Hortensia Eunoe. Disegno di Vincenzo Cicerchia allegato al “particolareggiato rapporto” del 12 marzo 1887
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Fig. 4 “Cippo funebre” di Hortensia Eunoe. Disegno di Vincenzo Cicerchia allegato al “particolareggiato rapporto” del 12 marzo 1887
Fig. 5 “Cippo funebre” di Hortensia Eunoe. Disegno di Vincenzo Cicerchia inserito in calce alla relazione integrativa del 14 aprile 1887
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Fig. 6 “Cippo funebre” di Hortensia Eunoe. Facsimile pubblicato in “Notizie degli Scavi di Antichità” da Giuseppe Fiorelli
Grazie a questo “rapporto”, che solo in parte è confluito nelle “Notizie degli Scavi di Antichità”2 comunicate da Fiorelli all’adunanza della Reale Accademia dei Lincei nella prima metà di aprile3 (fig. 6), sappiamo che il “cippo innalzato dalla madre Horten[sia] Euno[mia] e dal marito Ti. Claud[ius] Flor[idus] alla dolcissima Muta”, o meglio, l’ara sepolcrale commissionata da Ti. Claud[ius] Flor[ianus?] per la moglie Horten[sia] Euno[e] era stata scoperta a circa mezzo metro di profondità dal piano di calpestio moderno e a quattro metri di distanza da un “muro in opera reticolata benissimo costruita e ricoperta di stucchi finissimi d’ogni colore, come, per es., rosso, bianco, verdognolo, nero, turchino, e con tracce di segni lineari”. Sempre in prossimità di questo muro Angelo Petrinca aveva rinvenuto anche un’“urna cineraria di piombo di forma cilindrica verticale” – sulla quale ritorneremo – che era “segnata a lettere rilevate da una 2 Fiorelli 1887, 121–124. 3 E precisamente tra il 1 aprile, quando Fiorelli informava Cicerchia che avrebbe tenuto conto della sua relazione “per le consuete comunicazioni alla R. Accademia dei Lincei”, e il 14 aprile del 1887, data in cui Cicerchia perfezionava la prima relazione con alcune integrazioni e rettifiche non figurano nella comunicazione lincea pubblicata nella rivista “Notizie degli Scavi di Antichità”, cf. anche infra, nota 47.
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leggenda” con direzione retrograda4. Altri muri rivestiti “di piccola opera quadrata con legamenti di laterizio” erano stati riutilizzati nella costruzione della casa colonica del fondo; a una quota più bassa rispetto alla casa, verso occidente, si conservava anche “un edificio in parte diruto di opera reticolata” coperto con una volta a botte5; un piccolo riquadro di opera reticolata, infine, era visibile, ancora nel 1970, nel muro esterno del vicino casale detto ‘Il Conventaccio’6. Tutte queste strutture erano verosimilmente riconducibili a diverse pertinenze di una delle ville di otium7 (figg. 1 e 2.1) che connotavano il paesaggio suburbano di Praeneste tra la tarda età repubblicana e l’età imperiale, cui faceva pendant, sul versante opposto del Colle ‘Le Colonnelle’, a una quota più alta (m 313 s.l.m.), la grande villa (figg. 1 e 2.2), alimentata da due cisterne per l’acqua, con annessi un impianto produttivo (un doliarum, due vasche e una cisterna ipogea) e un sepolcreto (forse riservato al personale che vi prestava servizio), che è stata indagata tra il 2006 e il 2011 dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio8. Dal carteggio tra Fiorelli, Cicerchia e il sindaco Sarti si evince che il 1 aprile del 1887 il Ministero della Pubblica Istruzione aveva già formalmente manifestato l’intenzione di acquistare “a buone condizioni” l’ara marmorea di Hortensia Eunoe per trasferirla in uno dei musei statali di Roma. A tal proposito Cicerchia, incaricato da Fiorelli di condurre le trattative della compravendita, il 14 aprile lo informava che il sindaco di Gallicano era favorevole all’alienazione a titolo oneroso e aspettava dalla Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti “l’offerta del prezzo” da sottoporre per l’“accettazione finale” alla giunta comunale. Dopo mesi di silenzio, il 6 settembre del 1887, il Ministero della Pubblica Istruzione, rispondendo a una sollecitazione inviata il 26 agosto dallo stesso Sarti, offriva al comune di Gallicano “sessanta lire” quale corrispettivo per l’acquisizione dell’ara, in ragione della “non integrità” del supporto e “specialmente” dell’iscrizione. La contrattazione, tuttavia, non sembra sia andata a buon fine. Non abbiamo, infatti, notizie in merito all’accettazione del prezzo da parte del sindaco e della giunta di Gallicano. L’unico dato certo è che del monumento epigrafico si persero poco dopo le tracce, tanto che Hermann Dessau nel 1887 non riuscì a esaminarlo per la pubblicazione nel volume XIV del “Corpus
4 CIL XIV 4277 (= EDR169122). 5 Sul contesto archeologico, cf. anche Ashby 1902, 210; Fiorelli 1887, 121 (sulla base della relazione inviata da Vincenzo Cicerchia il 12 marzo del 1887); Muzzioli 1970, 53, n. 28. 6 Muzzioli 1970, 53, n. 28. 7 Così Muzzioli 1970, 53, n. 28 tav. fuori testo (IGM F.° 150, Palestrina, I S.E.). 8 Cesari – Mari 2012, 325–332, figg. 1. 2. 4, cf. anche Muzzioli 1970, 53 s. nn. 29. 30, fig. 57 tav. fuori testo (IGM F.° 150, Palestrina, I S.E.).
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Inscriptionum Latinarum”9 (fig. 7), ma si basò sulla prima edizione curata da Fiorelli nella rivista “Notizie degli Scavi di Antichità” (fig. 6).
Fig. 7 “Cippus” di Hortensia Eunoe. Edizione in CIL XIV 4276
Dobbiamo a una segnalazione la conoscenza dell’attuale collocazione di conservazione dell’ ara sepolcrale: la terrazza della Villa Pompeiana dell’hotel Bellevue Syrene a Sorrento10 (fig. 8) che, in passato, era stata una dipendenza della confinante Villa Tritone. La proprietaria del complesso alberghiero, Elsa Russo, e il direttore Nello Pane11 non conoscevano la provenienza prenestina del monumento epigrafico e, di conseguenza, neppure i passaggi storico-antiquari che ne avevano determinato la migrazione da Gallicano fino a Sorrento. Alla pari dei precedenti proprietari, avevano infatti trovato l’ara già sistemata nella terrazza della Villa Pompeiana e, in tale occasione, avevano provveduto anche a segnalarne la presenza alla Soprintendenza Archeologica di Napoli, che, dopo averla 9 CIL XIV 4276 (= EDR169123). 10 La collocazione a Sorrento, senza ulteriori precisazioni, era già nota a Solin 2008, 300. 11 Che vorrei qui ringraziare non solo per avermi permesso di visionare l’ara sepolcrale il 30 agosto del 2019, ma anche per la disponibilità e l’ospitalità che mi hanno riservato in quell’occasione.
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Fig. 8 Sorrento, Hotel Bellevue Syrene. Attuale collocazione di conservazione dell’ara sepolcrale di Hortensia Eunoe nella terrazza della Villa Pompeiana
catalogata insieme ad altri beni archeologici ivi conservati, l’aveva lasciata in custodia presso la struttura ricettiva. Risalendo indietro nel tempo, non sembra a questo punto irragionevole supporre che l’acquirente dell’ara e il responsabile del suo trasferimento a Sorrento sia stato il collezionista americano, poi naturalizzato cittadino britannico, Lord William Waldorf Astor12, primo barone di Hever Castle nella contea di Kent in Inghilterra. Agli inizi del Novecento, infatti, Lord Astor era divenuto proprietario della villa sorrentina che, dopo la sua morte, assumerà il nome di Villa Tritone13, e l’aveva scenograficamente collegata con un lussureggiante parco, arredato con colonne, capitelli, basi, statue, trapezofori, vasi decorati e sarcofagi14, alla dipendenza con terrazza che, proprio per le trasformazioni da lui apportate, sarà poi denominata Villa Pompeiana. Nelle sale interne di questa dipendenza Lord Astor aveva voluto realizzare una riproduzione della domus 12 Sul personaggio e le sue collezioni di antichità: Strong 1965; Astor 1969. 13 Il nome attuale della villa, costruita alla fine dell’Ottocento dal barone calabrese Labonia, si deve infatti all’olandese Gerard Hero Omko Geertsma che, dopo il 1919, l’acquistò dagli eredi di Lord Astor. 14 Sulla storia, la formazione e la consistenza della raccolta di Villa Tritone (circa 110 pezzi, antichi o all’antica, tra i quali sono comprese anche sculture medioevali e rinascimentali, indicative dello spirito ecclettico di Lord Astor): Gasparri 2010, 610–618.
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dei Vettii di Pompei e probabilmente anche in questa cornice antichizzata, come nel contiguo parco-museo, aveva fatto allestire parte di quella collezione di antichità che, tra il 1890 e il 1905, aveva comprato nel circuito degli antiquari di Napoli, Firenze e Roma15. D’altra parte, la principale fonte di acquisizione dei marmi antichi esposti nella Villa Tritone era, per l’appunto, il mercato antiquario di Roma16, dove in quegli stessi anni poteva ben essere approdata, con il benestare degli organi istituzionali di Gallicano, anche la nostra ara sepolcrale. 1. Il monumento sepolcrale di Hortensia Eunoe e il suo corredo epigrafico (CIL XIV 4276) Il monumento destinato a perpetuare nel tempo il ricordo di Hortensia Eunoe è un’ara parallelepipeda opistografa con zoccolo e coronamento modanati (154 x 45 x 62 cm), mutila sul retro degli angoli superiore e inferiore sinistro e priva della metà destra, segata probabilmente a scopo di reimpiego già in età tardoantica; il coronamento, centinato, era in origine compreso tra due pulvini laterali con strozzatura centrale, decorati da una rosetta a sette petali. Sulla fronte (figg. 9–10) il campo della centina conserva solo parte di uno schema ornamentale ricorrente, composto di due spirali nastriformi, simmetriche e contrapposte, chiuse nelle volute centrali da una rosetta a otto petali e inquadrate ai lati da due semipalmette a rilievo; il dado, occupato dall’iscrizione (a), impaginata sia entro uno specchio epigrafico definito da cornice a gola rovescia (86 x 23; lett. 5–2 cm), sia nello spazio compreso tra quest’ultimo e lo zoccolo (8 x 45; lett. 1,7–1,2 cm), è decorato, all’angolo superiore, con una protome di Giove Ammone e, all’angolo inferiore, con un’aquila retrospiciente ad ali spiegate, due motivi figurativi che dovevano ripetersi specularmente anche nella metà perduta. Sul fianco sinistro (figg. 10–12) campeggia un’elaborata ghirlanda di foglie e bacche di alloro, le cui estremità, in un primo momento, erano entrambe annodate, tramite eleganti tenie con lembi dall’andamento sinuoso, alle corna 15 Il nucleo principale della raccolta di antichità costituita durante il soggiorno in Italia fu trasferito nel 1905 da Lord Astor nella tenuta di Hever, acquistata nel 1903, per essere sistemato nel castello e, soprattutto, nello splendido giardino all’italiana che era stato appositamente creato dall’architetto paesaggista Joseph Cheal: Strong 1965; Astor 1969. Tra questi reperti archeologici si segnalano, in particolare, tre are sepolcrali (CIL VI 8439a, 9052; 27028), due cinerari (CIL VI 21943; 26108 = 34170) e un sarcofago (CIL VI 3834 = 31733) provenienti da Roma: Astor 1969, 1; 5; 8 s. 12, nn. 3; 38; 47; 76; 82; 103. 16 Gasparri 2010, 608–610; 617. A causa dei diversi passaggi di proprietà che interessarono, alla morte di Lord Astor, la Villa Pompeiana, le antichità ivi conservate, pur essendo parte integrante della stessa collezione destinata all’arredo di Villa Tritone e dell’annesso parco, non sembra abbiano ricevuto uguale attenzione da parte degli studiosi.
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Figg. 9–12 Ara sepolcrale opistografa di Hortensia Eunoe
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Fig. 13 Ara sepolcrale opistografa di Hortensia Eunoe
ricurve delle protomi angolari di Giove Ammone: a sinistra, infatti, la testa di Giove Ammone e quella dell’aquila sottostante sono state accuratamente scalpellate e sostituite da un candelabro di pregevole fattura, poggiante su una piccola base, che è stato lavorato a rilievo smussando e abbassando lo spigolo del dado; il fusto del candelabro è composto da un calice di foglie di acanto, una sfinge (?) ad ali spiegate, un doppio calice a due file di foglie, concentriche e
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Fig. 14 Retro dell’ara sepolcrale di Hortensia Eunoe, particolare della centina
opposte, separate da un collarino, e da un cratere; nella lunetta della ghirlanda sono racchiusi una patera, decorata con una rosetta a cinque petali, e due uccelli che stanno imbeccando i loro piccoli in un nido; al di sotto della ghirlanda, tra le ali spiegate delle due aquile angolari, è raffigurata una capra con le zampe anteriori sollevate che sembra in procinto di brucare alcune foglie da un ramo scolpito a bassorilievo. Sul retro (figg. 12–14) il campo della centina è ornato, a destra, da una vacca in atto di allattare un vitello e, a sinistra, da un secondo vitello, contrapposto al primo e forse rappresentato in un analogo schema compositivo; il dado reca una seconda iscrizione (b), incisa entro uno specchio epigrafico definito su tre lati da cornice a listello e, in alto, dalla modanatura del coronamento (36 x 34; lett. 5 cm), la cui superficie è stata però esposta a un’attività di erosione e dilavamento che ha determinato la perdita non solo di tratti della cornice, ma anche di gran parte del testo; lo specchio è incorniciato da una ghirlanda, questa volta resa sommariamente, che è legata con un nastro all’estremità superiore del candelabro (cui presumibilmente corrispondeva, nello spigolo perduto, un altro candelabro); nella lunetta risultante tra il limite inferiore dello specchio e la ghirlanda sono raffigurati un cane e due uomini stanti; al di sotto della ghirlanda, infine, si intravede solo una sagoma, riferibile a un soggetto non identificabile. Passando all’esame dell’iscrizione impaginata sul prospetto anteriore dell’ara (a) (fig. 15), la trascrizione che qui si propone riprende, con qualche miglio-
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ramento e ampliamento, quella suggerita a suo tempo da Vincenzo Cicerchia (figg. 3 e 5–6) e, soprattutto, da Theodor Mommsen nell’edizione in CIL XIV 4276 (fig. 7). Il testo può essere sciolto e integrato come segue (fig. 16): recto (a) Mutae T[acitae] sancti[ssimae] sac̣ [rum]. Horten[siae - lib(erta)?] 5 Euno[eae] Ti(berius) Claud[ius Ti(beri)? lib(ertus)?] Flor[ianus?], coniugi o[bsequentissimae], dominae d[ulcissimae et] 10 indulgeṇ[tissimae et] piissiṃ[ae, bonae] animae locu[pletissimae et] candidis[simae, feminae?] simplici[ssimae atque] 15 iucund[issimae atque] excelleṇ[tissimae atque] benemere[ntissimae, omni] bono digṇ[issimae fecit], cum qua vìxi bo[nam et piam vitam?] 20 compluri[bus annis]. Secura facta est V ìdus Oc̣ [tobr(es) et sepulta III idus mensis eiusdem?] Corellio et Vettoniano co(n)s(ulibus); cụ[rante? Ti(berio)? Claudio? ---], ara dedicata est nonis Maìs Caẹ[sennio Paeto et Calvisio Rusone co(n)‑ s(ulibus)]. a, 1 Mutae T[(iti) f(iliae)] Cicerchia, Mutae T[utelae?] Mommsen; 4 Horten[sius], poi rettificato Horten[sia] Cicerchia; 5 Euno[mia mater et] Cicerchia; 7 Flor[idus - - -?] Cicerchia, Flor[us] Mommsen; 8 o[ptimae] Cicerchia, c[arissimae] Mommsen; 12 locu[pleti] Mommsen; 14–16 simplici[tate - - -?] / iucund[itate et - - -?] / excellen[tia] Cicerchia; 17 benemere[nti omni] Cicerchia, Mommsen; 19 bo[nis et] Cicerchia, bo[nam vitam] Mommsen; 22 CO[- - -] Cicerchia, co[niugis iussu ei] Mommsen; 23 Cae[- - - co(n) s(ulibus)?] Cicerchia.
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Notiamo anzitutto che la consueta formula incipitaria con la consacrazione del monumento agli dei Manes della defunta è qui sostituita con un modulo di non facile decodificazione per la mancanza di confronti, un modulo che Mommsen aveva dubitativamente integrato con Mutae T[utelae] sancti[ssimae] sa[crum] (fig. 7), pensando alla consacrazione del sepolcro alla dèa Tutela, divinità preposta alla sfera della protezione e della sorveglianza, che ben poteva adattarsi alla funzione di sancirne l’inviolabilità e la sacralità al posto dei tradizionali Manes. Tuttavia, se il superlativo sanctissima figura tra gli attributi di Tutela17, l’epiclesi Muta con cui la dèa è invocata nel nostro epitaffio non è altrimenti attestata nelle numerose iscrizioni a lei dedicate. Di gran lunga preferibile sembra dunque una seconda soluzione, quella di restituire il teonimo con T[acita], la dèa silenziosa per antonomasia, evocata per questo nei “Fasti” di Ovidio anche con il nome di Muta18, il cui culto sarebbe stato istituito – secondo Plutarco19 – dal re Numa Pompilio. Nella versione del mito tràdita e sviluppata nei “Fasti” a proposito dei Feralia del 21 febbraio20, che chiudevano i Parentalia riservati al culto dei morti-antenati e costituivano l’ultimo giorno per placarne i Manes21, Ovidio identifica Tacita Muta con la ninfa Lara o Larunda22, madre dei Lares, che Giove aveva reso muta per punirne la loquacità23 e aveva quindi affidato a Mercurio perché la conducesse ad Manes24, ovvero nel luogo adatto ai silentes, gli Inferi, dove sarebbe stata “la ninfa delle acque della palude infernale”. Questo racconto eziologico chiarisce anche perché nei Lemuria del 9, 11 e 13 maggio25, dedicati alle ombre vaganti degli uomini morti prematuramente, i “Fasti” ovidiani qualifichino i Manes 17 Solo in CIL XIII 411 (= ILA 2: Aquitania, Aquae Tarbellicae): Tutelae / sanctiss(imae) / [C]hry san[th(us?)]. 18 Ov. fast. 2, 572; 583: (scil. annosa anus) Sacra facit Tacitae (vix tamen ipsa tacet) / [...] / Protinus a nobis quae sit dea Muta requires, cf. anche (in chiave derisoria) Lact. inst. 1, 20, 35: Quis cum audiat deam Mutam, tenere risum queat? 19 Plut. Numa 8, 11: … καὶ μίαν Μοῦσαν ἰδίως καὶ διαφερόντωϛ ἐδίδαξε σέβεσθαι τοὺς ҅Ρωμαίους, Τακίταν προσαγορεύσαϛ, οἷον σιωπηλὴν ἢ ἐνεάν·… 20 Ov. fast. 2, 569–616, cf. anche A. Degrassi, InscrIt XIII 2, 412–414. 21 Ov. fast. 2, 570: Ultima placandis Manibus illa dies. 22 Ov. fast. 2, 615–616: (scil. Tacita Muta) Fitque gravis geminosque parit qui compita servant / et vigilant nostra semper in Urbe Lares, cf. anche Lact. inst. 1, 20, 35: Hanc (scil. deam Mutam) esse dicunt, ex qua sint Lares nati et ipsam Laram nominant vel Larundam. 23 Secondo la versione ovidiana raccolta in fast. 2, 585–616, Giove aveva strappato la lingua alla ninfa Lara (il cui nome originario era Lala, da λαλεῖν, “parlare a sproposito”) perché costei aveva svelato a Giunone l’amore illecito che lui nutriva per la ninfa Giuturna e a quest’ultima l’espediente che aveva escogitato, d’accordo con tutte le altre ninfe del Lazio, per catturarla e vincerne ogni resistenza. 24 Ov. fast. 2, 609–610: Duc hanc ad Manes, locus ille silentibus aptus. / Nympha, sed infernae nympha paludis erit. 25 Ov. fast. 5, 419–544; 599–602, cf. anche A. Degrassi, InscrIt XIII 2, 454–457.
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Fig. 15 Fronte dell’ara sepolcrale di Hortensia Eunoe, particolare dell’iscrizione
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Fig. 16 Fronte dell’ara sepolcrale di Hortensia Eunoe, ricostruzione del supporto con proposta ipotetica di integrazione
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come taciti26 e, viceversa, i fasti Antiates maiores indichino Tacita Muta, quale divinità destinataria di un sacrificio l’11 maggio, con il nome di Ma[nia]27, non diversamente da quanto attestato in altre fonti (Mania, i.e. mater Larum)28. Sono dunque la natura di divinità infera, l’associazione non solo onomastica ma anche cultuale ai Manes, con i quali condivide il silenzio proprio dei morti, i “sacra” celebrati in suo onore durante i Feralia29 e nel secondo giorno del triduo dei Lemuria30, a spiegare le ragioni per cui il nostro dedicante abbia consacrato l’ara funeraria della moglie a Muta Tacita, optando per una formula di apertura, che, a giudicare da un confronto con il resto della documentazione epigrafica, si rivela del tutto inusuale: la dèa, infatti, appare altrimenti invocata (anche insieme ai Manes, definiti – significativamente – muti e taciti) solo in una sfera sepolcrale parallela ma sotterranea, quella delle defixiones31, per le quali, come è noto, la consacrazione a una divinità infernale era uno dei fattori imprescindibili per assicurarne l’efficacia. Proseguendo la lettura del testo, incontriamo i nomi della defunta, Hortensia Eunoe, e del marito dedicante, un Tiberius Claudius, il cui cognome potrebbe completarsi con Floridus o, più probabilmente, con Florianus per ragioni legate all’impaginazione e alle dimensioni della lacuna laterale destra. Sempre 26 Ov. fast. 5, 421–422: ritus erit veteris, nocturna Lemuria, sacri: / inferias tacitis Manibus illa dabunt. 27 A. Degrassi, InscrIt XIII 2, 10,11 (11 maggio): H Lemur(ia), n(efastus) / Ma[niae], cf. anche A. Degrassi, InscrIt XIII 2, 456; Donati – Stefanetti 2006, 59 (con bibliografia precedente); vd. anche Mancini 1921, 95, che ha suggerito, dubitativamente, la possibilità di integrare l’annotazione con Ma[nibus]. 28 Varr. ling. lat. 9, 61: Videmus enim Maniam mater Larum dici; Macr. sat. 1, 7, 35: … ut pro familiarum sospitate pueri mactarentur Maniae deae, matri Larum; Arnob. nat. 3, 41: Varro similiter haesitans nunc esse illos Manes et ideo Maniam matrem esse cognominatam Larum, nunc aerios rursus deos et heroas pronuntiat appellari, nunc antiquorum sententias sequens larvas esse dicit Lares, quasi quosdam genios et functorum animas mortuorum, cf. anche Fest. 114 L: … aut Mania est eorum (scil. larvarum, i.e. Manium) avia materve; Fest. 115 L: … Sunt qui Maniam larvarum (i.e. Manium) matrem aviamque putant. 29 Ov. fast. 2, 571–582. 30 Cf. supra, nota 27. 31 AE 1921, 95 (= AE 2008, 1080 = AE 2010, 109: Pannonia superior – Siscia), 13. 16. 3–5: ... mutu o fac(iat) ... / Muta Tagita (!) ... // ... adveraro / nos{s}tro omut⸢escant⸣ ne / contra nos lo⸢qu⸣a ...; AE 1958, 150 (= AE 2010, 109: Raetia – Cambodunum), 1–4: Mutae Tacitae ut mutus sit / Quartus, agitatus erret ut mus / fugiens aut avis adversus basyliscum, / ut e[i]us os mutu sit, Mutae!; AE 2015, 1116 (Pannonia superior – Aquincum), 9–13: ... Muta et Tacita! / ⸢Q⸣uomodo Manes muti et ta/citi su ⸢nt⸣, s{e} ic ⸢q⸣ui tibi ant/⸢e⸣pistula⸢m⸣ a⸢d⸣ferent, mu[ti] / et taciti ⸢s⸣ in!; e, infine, AE 2012, 740 (= AE 2016, 728: Baetica – Celti), dove la dea Muta Tacita non è espressamente invocata, ma richiamata dal destino fatale, la riduzione al silenzio, che viene impetrato anche per il destinatario di questa defissione: Marcelus (!) Valerius mutus tacitus siet / adversus C(aio) Licinio Gallo. Qu⸢em⸣admodum / rana sene (!) lingua muta tacita est, sic Mar/cellus mutus tacitus debilitatus siet / advrsus L[i]cinio Gallo.
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per le stesse ragioni, inoltre, l’onomastica dei due coniugi doveva essere corredata dal patronato oppure, meno verosimilmente (cf. il cognome grecanico della donna32), dal patronimico. Nelle righe successive l’uomo esalta in maniera iperbolica le virtù della moglie, ricorrendo a un ampio campionario di aggettivi laudativi che, resi presumibilmente tutti al superlativo (cf. il calcolo delle lettere mancanti), costituiscono sotto il profilo quantitativo un unicum nel panorama dell’epigrafia sepolcrale. Il lungo elogio si conclude con la formula che ricorda la buona riuscita e la lunga durata dell’unione coniugale, che qui sembra espressa con la singolare variante, declinata al positivo, cum qua vixi bo[nam et piam vitam?]33, in sostituzione dell’ordinaria locuzione sine ulla querella. Particolarmente interessanti sono, infine, le ultime tre righe dell’epitaffio (fig. 17), impaginate utilizzando come campo di ripiego lo spazio compreso tra la cornice inferiore dello specchio e lo zoccolo dell’ara. Restituiscono, infatti, una delle prime, episodiche, testimonianze del modulo formulare relativo alla data della morte e della sepoltura34 e, a seguire, le coordinate temporali della dedicatio dell’ara.
Fig. 17 Fronte dell’ara sepolcrale di Hortensia Eunoe, particolare delle ultime tre righe dell’iscrizione
32 Solin 2003, 1310. 33 L’unico confronto è l’espressione cum mea marita egi bonam vitam attestata in CIL VIII 5501. 34 Questo modulo registrerà un incremento tra la fine del II e gli inizi del III sec. d.C. per radicarsi nella prassi epigrafica cristiana con la ben nota formula di depositio: Carletti 2004, 21–48.
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A cristallizzare sul marmo l’avvenuto trapasso di Hortensia Eunoe nella quiete della morte che libera dalle preoccupazioni e dai pericoli della vita è l’inedita l’espressione secura facta est, cui fanno seguito la registrazione del giorno del decesso, (scil. ante diem) V idus Oc̣ [tobr(es)], l’11 ottobre, e, probabilmente, nella metà perduta, l’indicazione del giorno della sepoltura. Quest’ultima, tenuto conto dei tempi necessari alla presentazione delle denuncia di morte e all’organizzazione delle esequie, sarà stata di poco successiva al giorno del decesso35, come ad esempio il 13 ottobre, i.e. [sepulta (scil. ante diem) III idus mensis eiusdem?], oppure, se vogliamo prestare fede a una controversa glossa di Servio36, avrà avuto luogo il nono giorno dalla morte ovvero il 19 ottobre, i.e. [sepulta (scil. ante diem) XIV kal(endas) Novembres?]37. L’anno è espresso con l’indicazione della coppia di suffetti in carica, Q. Corellius Rufus38 e L. Funisulanus Vettonianus39, il cui consolato, certamente precedente per ragioni prosopografiche al 20 settembre del 82 d.C.40, è stato dubitativamente ascritto all’anno 78 d.C.41. 35 Che tra il decesso e i funerali intercorresse un breve intervallo di tempo si deduce, in particolare, dalla lex libitinaria di Puteoli (AE 1971, 88 = AE 2004, 421, cf. anche Castagnetti 2012), che contiene alcune prescrizioni volte a garantire – soprattutto per ragioni religiose e igieniche – la rapidità dei servizi di sepoltura, come, ad esempio, quella che prevede penalità per l’impresa di pompe funebri che ritardi lo svolgimento delle prestazioni relative alle esequie; quella di portare via i corpi dei suicidi e degli schiavi nello stesso giorno della denuncia di ritrovamento dei cadaveri o, al massimo, in quello successivo; e, infine, quella di accordare la precedenza all’espletamento dei funerali dei decurioni e degli impuberi (cf., a questo proposito, Svet. Nero 33, secondo cui il funus acerbum di Britannico fu celebrato il giorno successivo alla morte). 36 Serv. ad Verg. Aen. 5, 64–66: Per nonam diem, alludit ad novemdialia Romanorum sacra pro mortuis: servabantur enim domi cadavera septem dies, octavo cremabantur, nono reliquiae sepulchro mandabantur. 37 Si tratta di una proposta di integrazione basata sul sopracitato luogo di Servio (cf. supra, nota 36) che, tuttavia, è stato messo in discussione con argomentazioni persuasive da Scheid 2011, 144–146. Lo studioso, infatti, attraverso un riesame complessivo delle altre fonti disponibili (ivi comprese le prescrizioni della legge-appalto puteolana, su cui cf. supra, nota 35), è pervenuto alla conclusione che i funerali fossero generalmente celebrati poco dopo la morte: ne consegue che il sacrificio novendiale cui allude Servio, celebrato nove giorni dopo il decesso (novemdialia Romanorum sacra pro mortuis …), al momento della sepoltura della salma (… nono reliquiae sepulchro mandabantur), non sarebbe altro che il risultato di una confusione con il sacrificio novendiale che chiudeva il periodo del lutto iniziato con il seppellimento del defunto, cf., a questo proposito, Apul. met. 9, 30–31: … peractis feralibus officis, frequenti prosequente comitatu, (scil. opifices dominum) tradunt sepulturae. … Iamque nono die rite completis apud tumulum sollemnibus (scil. filia) familiam suppellectilemque et omnia iumenta ad hereditariam deducit auctionem; Porph. ad Hor. epod. 17, 48: Cineres reliquiarum vult intellegi. Nam novemdiale dicitur sacrificium, quod mortuis fit nona die, qua sepultura est. 38 PIR2 C 1294. 39 PIR2 F 570, cf. DNP IV (1998) 771 s.v. Funisulanus (W. Eck). 40 Data cui appartiene la redazione del diploma militare CIL XVI 28, dove Q. Corellius Rufus figura quale legatus Augusti pro praetore di rango consolare in Germania superior. 41 Degrassi 1952, 22, cf. Eck 1982, 302 s. note 81 e 83.
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Nell’ultima riga è ricordata la cerimonia di consacrazione dell’ara, che fu celebrata, forse per cura dello stesso dedicante o di un suo liberto, nonis Mais, il 7 maggio42, di un anno espresso con una seconda coppia consolare, questa volta però in gran parte in lacuna. Restano, tuttavia, in margine di frattura, tre lettere appartenenti al nome del primo membro della coppia consolare, una C, una A e l’asta verticale di una E (ancora integra all’epoca del Cicerchia). Si tratta, con un buon margine di certezza, delle iniziali del secondo gentilizio di L. Iunius Caesennius Paetus43, che assunse i fasci con P. Calvisius Ruso Iulius Frontinus44 proprio nell’anno 79 d.C. I due senatori subentrarono come suffeti a Tito e al fratello Domiziano il 1° marzo del 79 d.C.45 ed erano ancora in carica il 29 maggio dello stesso anno46: un intervallo temporale, dunque, nel quale si inserisce perfettamente il giorno della dedicazione della nostra ara. Questo supplemento fornisce anche un importante caposaldo ante quem per attribuire il consolato di Q. Corellius Rufus e di L. Funisulanus Vettonianus al 78 d.C. perché, come suggerisce il buon senso, la sepoltura di Hortensia Eunoe e la consacrazione del monumento destinato a preservarne la memoria non furono eventi molto lontani nel tempo. Veniamo ora all’iscrizione incisa sul prospetto posteriore (b) (fig. 18), che, a giudicare dall’uguale altezza delle quattro lettere conservate e dallo spazio disponibile nel campo scrittorio, doveva disporsi su tre righe, composte al massimo di 5/7 caratteri e separate da un’ampia interlinea. Della sua solidalità per epoca e contenuto all’iscrizione incisa sulla fronte non vi è ragione di dubitare: le lettere sembrano realizzate dalla mano dello stesso marmorario e la rilavorazione che ha interessato l’apparato decorativo può ben spiegarsi con un ripensamento del dedicante, soprattutto considerando i mesi intercorsi tra la morte di Hortensia Eunoe, la commissione e la dedicazione dell’ara. 42 La scelta di dedicare l’ara il 7 maggio potrebbe essere significante perché questo giorno è in qualche modo collegato alla ricorrenza dei Lemuria e, di conseguenza, alla festa in onore di Mania-Tacita Muta. Secondo Serv. ad Verg. ecl. 8, 82, infatti, dal 7 fino al 14 maggio, le tre Vestali più anziane attendevano alla mietitura, trebbiatura e macinatura rituale delle spighe di farro con cui avrebbero preparato la mola salsa: queste operazioni erano compiute alternis diebus e, pertanto, ricadevano nelle giornate dei Lemuria (9, 11 e 13 maggio) o alla loro vigilia (8, 10 e 12 maggio); il farro, non ancora maturo perché raccolto anzitempo, richiamava, inoltre, quello che era stato il destino terreno dei lemures, uomini morti prima di aver formato una famiglia e di aver generato figli (due elementi necessari per acquisire, dopo la morte, la qualità di parentes-antenati): Sabbatucci 1988, 165 s., cf. A. Degrassi, InscrIt XIII 2, 454. 43 PIR2 C 174. 44 PIR2 C 350. 45 CIL VI 597 (= CIL VI 30801a), cf. anche Kienast et al. 2017, 102, 106 e 110: Vespasiano e Tito ricoprirono congiuntamente il consolato ordinario il 1° gennaio del 79 d.C.; il 13 gennaio Domiziano sostituì il padre e rimase in carica insieme al fratello fino alla fine di febbraio. 46 IGR I 420 (= SEG 36, 923: Puteoli).
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Fig. 18 Retro dell’ara sepolcrale di Hortensia Eunoe, particolare dell’iscrizione
Per queste considerazioni e per la posizione reciproca delle lettere superstiti, non sembra quindi irragionevole riconoscere in questa iscrizione un “estratto” di quella principale, composta della sola formula di consacrazione dell’ara alla dèa Muta Tacita. Il testo, con la prudenza che la frammentarietà impone, potrebbe quindi essere ricostruito nel modo seguente (fig. 19): verso (b) [Mu?]taẹ [Tacitae?] [sac?]r[um?]. b, 1 [Mu?]tae Cicerchia, [- - -]TA+ Dessau; 3 [Ho]r[tensius] Cicerchia, [- - -]R[- - -] Dessau.
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Fig. 19 Retro dell’ara sepolcrale di Hortensia Eunoe, ricostruzione del supporto con proposta ipotetica di integrazione
2. Una cassetta di distribuzione dell’acqua per la villa di un vir clarissimus (CIL XIV 4277) Come già accennato, nel “particolareggiato rapporto” stilato il 12 marzo del 1887 Vincenzo Cicerchia segnalava anche il ritrovamento di un’“urna cineraria di piombo di forma cilindrica verticale”, alta 25 centimetri, che aveva un diametro di 40 centimetri e pesava 26 chili. Il “cinerario” era stato scoperto da Angelo Petrinca a poco più di quattro metri di distanza dal “muro in opera reticolata benissimo costruita e ricoperta di stucchi finissimi”, quindi nelle vicinanze dell’ara sepolcrale di Hortensia Eunoe, ed era contrassegnato da una “marca” con lettere in rilievo che si leggeva “da sinistra a destra” ed era “ripetuta per tre volte e per ogni verso”; “nella parte esterna, oltre alla scritta, presentava pure dei segni in rilievo da una parte e dall’altra” (fig. 20). Questa prima
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Fig. 22 “Urna di piombo cilindrica”. Edizione in CIL XIV 4277
classificazione del manufatto, ripresa sia nelle “Notizie degli Scavi di Antichità” comunicate alla Reale Accademia dei Lincei47 (fig. 21), sia nell’edizione curata dal Dessau in CIL XIV 4277 (fig. 22), veniva però rettificata da Cicerchia nella relazione integrativa inviata a Fiorelli il 14 aprile, quando, “dopo un nuovo esame” dell’oggetto presso il signor Alfonso Bernardini di Palestrina (che nel frattempo ne era divenuto proprietario), l’ispettore si dichiarava persuaso che non si trattasse di un’“urna cineraria”, bensì di un “castellino plumbeo di distribuzione dell’acqua” e che la “marca” fosse “di fabbrica” e individuasse “il proprietario dell’officina plumbaria”. Non è stato purtroppo possibile effettuare un controllo autoptico del reperto perché mancano i dati utili per risalire all’attuale collocazione di conservazione, ma il testo del bollo (lett. 3 cm) che vi era impresso “per tre volte” è noto grazie al disegno (fig. 20) e ai calchi in carta velina (figg. 23–24) eseguiti da Cicerchia in occasione dell’ispezione nel fondo Petrinca:
Fig. 20 “Urna cineraria di piombo di forma cilindrica verticale”. Disegno dei “segni in rilievo” e della “marca a lettere rilevate”, i.e. i due bolli gemelli a e b, inserito da Vincenzo Cicerchia in calce al “particolareggiato rapporto” del 12 marzo 1887
Fig. 21 “Urna di piombo cilindrica”. Facsimile pubblicato in Notizie degli Scavi di Antichità da Giuseppe Fiorelli
47 Fiorelli 1887, 123 (sulla base della relazione inviata da Vincenzo Cicerchia il 12 marzo del 1887), cf. anche supra, nota 3.
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a [- - -]unti v(iri) c(larissimi). b [- - -]ṇti v(iri) c(larissimi). c [- - -] v(iri) c(larissimi). a, [Arr]unti Cicerchia, [- - -]inti, restituito dubitativamente con [Vinc]ẹnti, Dessau; c, il bollo non è stato trascritto nella relazione del Cicerchia ma riprodotto solo nell’allegato calco in carta velina (fig. 24), che, tuttavia, è sfuggito all’attenzione del Fiorelli e, di conseguenza, non è stato ripreso dal Dessau in CIL.
Fig. 23 Cassetta di distribuzione dell’acqua. Calco in carta velina dei bolli a e b allegato da Vincenzo Cicerchia al “particolareggiato rapporto” del 12 marzo 1887
Fig. 24 Cassetta di distribuzione dell’acqua. Calco in carta velina del bollo c allegato da Vincenzo Cicerchia al “particolareggiato rapporto” del 12 marzo 1887
Il manufatto potrebbe dunque essere una cassetta di distribuzione che serviva a convogliare l’acqua da un condotto idrico principale in tubazioni minori dirette a diverse utenze, senza alterarne la pressione e la portata. Gli esemplari che è stato possibile rintracciare nella letteratura specialistica sono di forma parallelepipeda e composti di lastre di piombo saldate; possono essere anepigrafi48 48 Lanciani 1880, 197 s. tav. 10, fig. 7a, da cui si diparte la fistula CIL XIV 1985 (= CIL XV 7758: Ostia) contrassegnata dal bollo che forse è integrabile con [ex ofici(na) (!) Iulies (!)
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oppure recare impresso più volte, lungo il perimetro, lo stesso bollo a lettere rilevate, generalmente con il nome al nominativo del plumbarius seguito dal verbo fecit49. Riepilogando i sommari e disarticolati dati forniti da Vincenzo Cicerchia, la nostra cassetta aveva invece una forma cilindrica50 e doveva quindi essere sigillata alle due estremità piane da altrettante lastre circolari. Non abbiamo informazioni circostanziate sul suo stato di conservazione al momento della scoperta ma, accogliendone l’appartenenza a questa classe di manufatti, la mancata menzione di fori passanti per l’alloggiamento delle fistule (e la conseguente confusione con un’urna) lascia supporre che fosse mutila inferiormente. Il corredo epigrafico, infine, constava di due segni e tre bolli con il nome al genitivo del “proprietario dell’officina plumbaria”, dei quali purtroppo non viene precisata la posizione sul corpo del manufatto. Possiamo tuttavia immaginare che proprio la superficie della lastra circolare superstite, per ragioni di maggiore visibilità, fosse quella contrassegnata dai tre bolli gemelli, prodotti da un medesimo stampo (cf. l’uguale forma delle lettere), che erano “ripetuti per ogni verso”, quindi impressi in piano secondo tre differenti direzioni, come del resto sembra potersi desumere dal facsimile (fig. 20) e dal calco in carta velina (fig. 23) eseguito dall’ispettore (seppure con un errato calcolo dello spazio disponibile nel foglio51 – fig. 25). Il differente orientamento dei tre bolli era probabilmente funzionale a riprendere la direzione delle tre fistule inserite nel corpo della cassetta (fig. 26) e a individuare così il proprietario di ciascuna di esse, o meglio, il proprietario dell’acqua che, attraverso di esse, veniva ridistribuita a utenze dislocate in settori diversi di uno stesso immobile. Una funzione analoga era A]quilines sulla base di AE 1977, 164 (Ostia), in cui figura la stessa plumbaria: Bruun 2010, 304. 49 P. Cornelius Cornelianus in CIL XI 3588 (= CIL XV 7775a: Castrum Novum) e CIL XI 7590 (= CIL XV 7775b, cf. Priuli 1986, 194 s. fig. 4: provenienza ignota); P. Postumius Amerimnus in CIL XV 7660c (Roma); Valerius Colonicus in CIL XV 7398c, cf. D’Alessio 2006, 50 s. (Roma). Il nome del plumbarius Aufidius Orfaeus figura invece al genitivo nella cassetta CIL XI 3740 (= CIL XIV 7776: Lorium, forse dall’area della villa imperiale), che su due lati reca anche il bollo Dominorum Aug(ustorum duorum) n(ostrorum) con la titolatura degli imperatori proprietari dell’acqua. 50 Un cassetta anepigrafe di forma analoga, rinvenuta in occasione di ricognizioni nel territorio di Guidonia Montecelio e ora conservata nei magazzini a Tivoli della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, mi è stata gentilmente segnalata dal dott. Zaccaria Mari, che ringrazio. 51 I bolli a e b (3 x 13–10 cm), infatti, risultano parzialmente sovrapposti perché la superficie del foglio di carta velina (27 x 27 cm) non era abbastanza ampia per riprodurli entrambi nella loro posizione reciproca reale (cf. anche il facsimile disegnato in calce alla relazione, nel quale le prime lettere conservate dei due bolli non sono sovrapposte, ma quasi parallele – fig. 20), tanto più considerando che una porzione dello stesso foglio (8–7 x 17 cm) (fig. 25), poi strappata (fig. 24), è stata utilizzata da Cicerchia anche per eseguire il calco del bollo c.
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Fig. 25 Cassetta di distribuzione dell’acqua. Ricomposizione del foglio di carta velina con i bolli a, b, c
Fig. 26 Cassetta di distribuzione dell’acqua. Ipotesi di ricostruzione
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forse assolta anche dalla coppia di segni, che, a ben guardare, erano entrambi formati da una linea orizzontale, una linea verticale e una linea obliqua che si incontravano in un punto: poteva trattarsi di segni d’officina che servivano a indicare sommariamente nel corpo della cassetta la posizione in cui dovevano essere alloggiate le tre fistule e/o a segnalare in modo schematico la direzione di ciascuna di esse. Il concessionario dell’acqua è individuato dal titolo di vir clarissimus quale personaggio appartenente all’ordine senatorio. Del nome al genitivo resta solamente la sequenza finale –unti, che pone alcune difficoltà interpretative. Non si tratta, infatti, della desinenza di uno dei numerosi cognomi noti, ma della terminazione propria di una rosa limitata di gentilizi, tutti particolarmente rari52, ad eccezione di Arruntius e Runtius. Tra questi, tuttavia, solo il primo, cui aveva pensato anche Cicerchia, potrebbe essere riconducibile, almeno in base alle attuali conoscenze prosopografiche, all’onomastica di un membro dell’ordine senatorio. L’integrazione del gentilizio con [- Arr]unti, preceduto in lacuna da un prenome, indirizzerebbe, infatti, a ricercare il concessionario dell’acqua tra gli Arruntii senatorii vissuti tra la fine dell’età repubblicana e la prima età imperiale53, un’eventualità che ben si accorderebbe non solo alla prassi di bollare i condotti idrici, che sembra cominciare a entrare nell’uso in età augustea, ma anche al contesto archeologico di provenienza del nostro manufatto, quello di una villa articolata in diverse dipendenze, il cui primo impianto, caratterizzato da strutture in opera reticolata, potrebbe risalire proprio a questo periodo54. Alla possibile restituzione della lacuna con una formula onomastica bimembre si oppone però l’indicazione abbreviata del clarissimato che, per giunta, non troviamo nella formulazione clarissimus vir, bensì in quella, molto più tarda, vir clarissimus55. Si potrebbe allora supporre che la sequenza -unti appartenga 52 Solin – Salomies 1994, 272: Arruntius, Cossuntius, Ferruntius, Geguntius, Pacuntius (?), Runtius, Semuntius, Suntius (?) e Turuntius. 53 Come, ad esempio, L. Arruntius (PIR2 A 1129), console ordinario nel 22 a.C.; L. Arruntius (PIR2 A 1130), console ordinario nel 6 d.C.; oppure Faustus Arruntius (PIR2 A 1128), ricordato nella lastrina sepolcrale di una sua liberta, Arruntia Musa, cubicularia, proveniente dal monumentum Arruntiorum presso Porta Maggiore (CIL VI 5942). 54 A questo proposito sembra interessante rilevare che la prima fase edilizia della grande villa indagata sul versante opposto del Colle ‘Le Colonnelle’ (cf. supra, nota 8) (figg. 1 e 2.2), situata a una quota più elevata e distante quasi un chilometro dall’area che qui interessa, è databile, sulla base della tecnica costruttiva in opera reticolata, alla prima metà del I sec. d.C.: Cesari – Mari 2012, 328. Pressoché alla stessa epoca sembra riconducibile anche la costruzione della due cisterne in opera reticolata che, a quote leggermente diverse per consentire il deflusso idrico, servivano le diverse pertinenze dell’immobile: Cesari – Mari 2012, 325 fig. 1 A–B, cf. anche Muzzioli 1970, 53 s. nn. 29. 30, fig. 57 (cisterne A e B); Mari 2009, 173–178, fig. 1 (cisterna B). 55 Chastagnol 1979, 5–8; Chastagnol 1988, 41–47.
A proposito dell’ara sepolcrale di Hortensia Eunoe 333
a un cognome, non altrimenti attestato, coniato con il suffisso -ius56, che tanta fortuna ebbe nella formazione di nuovi elementi nominali nel III e nel IV sec., oppure a un signum “in senso proprio”57 (categoria in cui pure prevalgono le nuove coniazioni in -ius58), una possibilità, quest’ultima, che non trova però conforto nel panorama dell’epigrafia acquaria, in cui la nomenclatura dei senatori è generalmente ridotta alle componenti essenziali. Numerose sono pertanto le incertezze che permangono non solo e non tanto sulla funzione del manufatto, quanto sulla posizione e sull’integrazione dei tre bolli gemelli con cui era marcato e, per conseguenza, sull’identità del senatore che, in un determinato momento, era verosimilmente stato il titolare della villa in contrada ‘Le Colonnelle’. Altra questione, destinata a restare aperta, è quella di un possibile rapporto di dipendenza di Hortensia Eunoe o del marito Ti. Claudius Flor[ianus?] nei confronti di un secondo proprietario dell’immobile vissuto in età flavia, che ha seguito o preceduto nel tempo l’anonimo vir clarissimus. Non bisogna, infatti, trascurare la circostanza che la donna trovò sepoltura nell’area del complesso residenziale e che proprio i monumenti sepolcrali di schiavi e liberti che, con diverse mansioni, lavoravano e risiedevano stabilmente nelle ville di personaggi di rango hanno offerto significativi contributi alla ricostruzione della geografia immobiliare e dell’anagrafe catastale dei territori in cui sono stati rinvenuti. In attesa di nuovi dati che siano in grado di fornire utili elementi di confronto e di giudizio, resta comunque l’interesse dei due documenti epigrafici, meritevoli di essere reintrodotti nel dibattito scientifico dopo un oblio durato oltre un secolo.
Bibliografia Ashby 1902 = Th. Ashby, The Classical Topography of the Roman Campagna. Part I, PBSR 1, 1902, 127–285. Astor 1969 = G. Astor, Statuary and Sculpture at Hever, Ipswich 1969. Bruun 2010 = Chr. Bruun, Cognomina plumbariorum, Epigraphica 71, 1–2, 2010, 297–331.
56 Kajanto 1963, 70–86. 57 L’unico signum noto con la sequenza finale -untius, Carnuntius da Carnuntum (CIL VIII 12383), appartiene alla categoria dei signa cosiddetti “separati”, che restano cioè isolati rispetto al testo e agli altri elementi onomastici perché sono generalmente impaginati sopra o sotto le iscrizioni: Kajanto 1966, 57–75. 78. 58 Kajanto 1966, 6. 52–57.
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Carletti 2004 = C. Carletti, Dies mortis-depositio: un modulo ‘profano’ nell’epigrafia tardoantica, VeteraChr 41, 2004, 21–48. Castagnetti 2012 = S. Castagnetti, Le “leges libitinariae” flegree. Edizione e commento (Pubblicazioni del Dipartimento di Diritto Romano, Storia e Teoria del Diritto F. De Martino dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, 34), Napoli 2012. Cesari – Mari 2012 = F. Cesari – Z. Mari, Villa e sepolcreto in località Le Colonnelle a Gallicano nel Lazio (Roma), in: G. Ghini (ed.), Lazio e Sabina 8. Atti del convegno. Ottavo incontro di studi sul Lazio e la Sabina, Roma 30–31 marzo, 1 aprile 2011, Roma 2012, 325–332. Chastagnol 1979 = A. Chastagnol, Les femmes dans l’ordre sénatorial: titulature et rang social à Rome, RH 262, 1979, 3–28. Chastagnol 1988 = A. Chastagnol, Le formulaire de l’épigraphie latine officielle dans l’Antiquité tardive, in: A. Donati (ed.), La terza età dell’epigrafia. Atti del colloquio AIEGL – Borghesi 86, Bologna ottobre 1986, Faenza 1988, 11–64. D’Alessio 2006 = A. D’Alessio, Balneum nell’area del santuario della Magna Mater sul Palatino, in: M. A. Tomei (ed.), Roma. Memorie dal sottosuolo. Ritrovamenti archeologici 1980/2006. Catalogo della mostra Roma, Roma 2006, 50–51. Degrassi 1952 = A. Degrassi, I Fasti consolari dell’Impero Romano dal 30 avanti Cristo al 613 dopo Cristo (Sussidi Eruditi 3), Roma 1952. Donati – Stefanetti 2006 = N. Donati – P. Stefanetti, Dies Natalis. I calendari romani e gli anniversari dei culti, Roma 2006. Eck 1982 = W. Eck, Jahres- und Provinzialfasten der senatorischen Statthalter von 69/70 bis 138/139, Chiron 12, 1982, 281–362. Fiorelli 1887 = G. Fiorelli, VIII. Gallicano – Antichità scoperte in contrada “Le Colonnelle”, NSc 1887, 121–124. Gasparri 2010 = C. Gasparri, Marmi antichi da Roma in Campania. La villa Tritone a Sorrento, in: C. Gasparri – G. Greco – R. Pierobon (ed.), Dall’immagine alla storia. Studi per ricordare Stefania Adamo Muscettola (Quaderni del Centro di Studi Magna Grecia 10), Pozzuoli 2010, 607–620. Kajanto 1963 = I. Kajanto, Onomastic Studies in the Early Christian Inscriptions of Rome and Carthage (Acta Instituti Romani Finlandiae 2, 1), Helsinki-Helsingfors 1963. Kajanto 1966 = I. Kajanto, Supernomina. A Study in Latin Epigraphy (Commentationes humanarum litterarum. Societas Scientiarum Fennica 40, 1), HelsinkiHelsingfors 1966. Kienast et al. 2017 = D. Kienast – W. Eck – M. Heil, Römische Kaisertabelle. Grundzüge einer römischen Kaiserchronologie, Darmstadt 62017. Lanciani 1880 = R. Lanciani, Topografia di Roma antica. I commentarii di Frontino intorno le acque e gli acquedotti. Silloge epigrafica aquaria, Roma 1880.
A proposito dell’ara sepolcrale di Hortensia Eunoe 335
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Crediti Fig. 1: IGM F.° 150, I S.E.; fig. 2: IGM F.° 150 I S.E. – I S.O.; figg. 3–5, 20 e 23–24: ACSR; fig. 6: Fiorelli 1887, 122; fig. 7: CIL XIV 4276; figg. 8–15 e 17–18: autore; figg. 16, 19 e 25: rielaborazione grafica autore; fig. 21: Fiorelli 1887, 123; fig. 22: CIL XIV 4277; fig. 26: disegno autore.
Vincenzo Fiocchi Nicolai
La basilica di S. Agapito alle Quadrelle e le sue iscrizioni Riassunto: Le iscrizioni rinvenute nel 1864 negli scavi della basilica di S. Agapito alle Quadrelle, nel suburbio sud-orientale di Praeneste, insieme a quelle recuperate nelle vicinanze, contribuiscono a delineare il quadro della comunità cristiana della città in età tardoantica; esse forniscono inoltre informazioni sul culto del martire eponimo, dati sul sistema di utilizzazione funeraria della chiesa, oltre che rivelare alcune particolarità nei formulari e nella forma. La basilica, il più importante santuario cristiano di Praeneste, fu mèta di pellegrinaggi alla tomba del santo, le cui spoglie vennero spostate nell’altomedioevo nella “città alta”, in quella che divenne (o già era) la chiesa cattedrale urbana, in sostituzione di una prima chiesa episcopale, ancora da individuare. Abstract: The inscriptions that have come to light during the excavation of the basilica S. Agapito alle Quadrelle and its surroundings in the south-eastern suburb of Praeneste in 1864 give an impression of the Christian community of the city in late antiquity. They contain information on the cult of the martyr who gave the church its name. They provide insight into the funerary practices in the church and reveal some particularities of the inscribed texts’ formula and the form of the funerary monuments. The basilica became the most important Christian church of Praeneste and the tomb of the saint was a destination for pilgrimages. In the early Middle Ages, the saint’s remains were moved to the “upper city” of Praeneste, into what became (or already was by then) the urban cathedral church, replacing a first episcopal church not yet identified.
Lo speciale rapporto che lega la basilica di S. Agapito alle Quadrelle agli studi epigrafici si può far risalire alle stesse circostanze della sua scoperta. Questa avvenne infatti, come si sa, casualmente, nel febbraio 1864, mentre si cercavano altri frammenti del famoso calendario di Verrio Flacco, lì già rinvenuti da Mons. Pier Francesco Foggini negli anni 1769–17711. Le ricerche furono promosse dall’Istituto di Corrispondenza Archeologica, sotto la direzione di Guglielmo Henzen, e condotte in loco dal cultore di antichità prenestine Pietro Cicerchia2. Secondo la testimonianza di Henzen, era stato lo stesso Thedor Mommsen, di passaggio a Roma nel 1862 e fresco dell’edizione del calendario per il primo vo1 2
Foggini 1779. Henzen 1864, 71–72.
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lume del CIL, a sollecitare le indagini archeologiche3. Come è ben noto, queste non fruttarono i risultati desiderati: degli altri otto mesi mancanti del calendario si rinvennero solo due piccolissimi frammenti4; l’emiciclo visto dal Foggini, presso il quale nel ’700 erano state recuperate le lastre, inevitabilmente ritenuto dallo studioso dopo la scoperta quello di cui faceva menzione il famoso passo di Svetonio (de gramm. 17), si rivelò, per uno di quegli scherzi che talvolta la sorte riserva agli studiosi, non quel celeberrimo edificio, bensì una semplice esedra pertinente ad una costruzione di epoca altomedievale connessa con una basilica funeraria paleocristiana; questa, dopo alcune esitazioni iniziali, venne senz’altro identificata con la chiesa del martire prenestino Agapito, della cui esistenza nel suburbio di Praeneste parlavano le fonti (figg. 1 e 2, A)5.
Fig. 1 Pianta della città di Palestrina e del suo suburbio
3 4 5
Henzen 1864, 70–71. Il Mommsen le aveva auspicate già in CIL I 311. Degrassi 1963, 108 e 140, a. d; Roghi 2014, 47. Henzen 1864, 71–74; Scognamiglio 1865, 6; infra 342 sq. Già il Foggini aveva pensato all’esistenza in loco di un “sacello” cristiano, in base al rinvenimento di una colonnina marmorea con inciso o scolpito il “signum crucis”: Foggini 1779, XII.
La basilica di S. Agapito alle Quadrelle e le sue iscrizioni
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Fig. 2 Planimetria della basilica di S. Agapito e degli edifici annessi
Le lastre del calendario – cosa interessante – erano state dunque reimpiegate in una struttura del tutto simile a quella descritta da Svetonio nel Foro di Prae neste: le misure dell’esedra ricostruite da Lucos Cozza in base alla curvatura delle lastre, m 5,44 di diametro, corrispondono al centimetro a quelle fornite dal Foggini (28 palmi)6, e soprattutto corrispondono alle misure desumibili dal rilievo della struttura che, come vedremo, realizzò l’architetto Francesco Fontana (fig. 2, A)7. La cosa non può essere una coincidenza. L’abside si apriva sul lato di fondo di un portico che conduceva alla basilica (fig. 2, A1)8. E’ probabile che il riuso delle lastre si debba alla precisa volontà di conservare (e preservare) la memoria di un prestigioso monumento prenestino in una nuova sistemazione altrettanto prestigiosa (un annesso del santuario cristiano più significativo di Praeneste), secondo un approccio all’antico non nuovo nell’altomedioevo9. In ogni caso, le notizie riportate da Henzen sono importanti per la storia della basilica. L’affannosa ricerca delle tavole dei Fasti – dice lo studioso tedesco – portarono Cicerchia a seguire l’andamento dei muri “intorno ai miserabili 6 7 8 9
Foggini 1779, XIII; Degrassi 1963, 107. Infra 347. Infra 347. Ciò implica, evidentemente, che l’emiciclo con il calendario si fosse in qualche modo conservato fino ad allora.
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avanzi di muraglie della decadenza …, penetrando dappertutto fino a terra vergine”, e a “crivellare” tutto il terreno10. Il risultato di questo metodo di indagine, a dir poco discutibile, fu subito evidente ad Arcangelo Scognamiglio e all’architetto Francesco Fontana, chiamati dal vescovo di Palestrina, il Cardinale Luigi Amat, e dalla neofondata Commissione di Archeologia Sacra a descrivere i resti della chiesa e a realizzare una planimetria delle strutture rinvenute, anche alla luce di ulteriori, limitati scavi ordinati dall’alto prelato (fig. 2)11: i muri della basilica si presentavano allora quasi ovunque completamente smantellati12; quelli dell’emiciclo e degli ambienti annessi in totale rovina13. Nella sua relazione del 1865, lo Scognamiglio ammetteva sconsolato: “Ora dovrei io mostrare e determinare [in pianta] … quale nella nostra basilica sia il vestibolo e l’atrio; quale il chorus o schola canthorum ed il santuario; quale il presbiterio e le rimanenti parti costituenti una basilica cristiana. Ma confesso ingenuamente di non potervi riuscire per il totale disfacimento della medesima; seppure non volessi io dare per fatti certi nude e improbabili congetture”14. In base comunque alla pianta del Fontana (fig. 2) (“vi è voluta tutta la pazienza ed il sapere del Sig. Architetto Fontana per rintracciare e rilevare fra le terre quelle deboli traccie, che a stento il suo occhio perspicace e prattico è riuscito ad avvisare”)15 e alle sue attente osservazioni, il bravo Scognamiglio16 poté ricostruire i lineamenti di una basilica probabilmente a tre navate, con abside schiacciata, dalla corda di circa m 7,50; l’edificio era lungo circa 40 metri e largo 20 (è incerta la presenza di un nartece) e dotato di cripta (fig. 2, e), a quanto pare rettilinea, profonda due metri, lunga quanto la navata centrale, decorata con affreschi e pavimentata con lastre di marmo17. La divisione in navate era ottenuta mediante colonne, 10 Henzen 1864, 71. 73–74. 11 Scognamiglio 1865, 5–6. 12 La distruzione dei muri si deve forse alla volontà di verificare se in essi si trovassero reimpiegate
13 14 15 16 17
le lastre dei Fasti, così come sarebbe avvenuto, pochi anni dopo, sempre ad opera di Henzen, per le strutture murarie della basilica romana dei SS. Simplicio, Faustino e Beatrice sulla via Portuense, presso il santuario dei Fratelli Arvali, smantellate per recuperare le tavole arvaliche: Pergola 1987, 176. Scognamiglio 1865, 7 e 21. Scognamiglio 1865, 7. Scognamiglio 1865, 22. Sullo studioso: Heid 2012, 1152–1153. Scognamiglio 1865, 7 e 20–24, tav. I; vedi pure Marucchi 1885, 147–149; Marucchi 1899, 228–232 e 235; Marucchi 1915, 72–75; Marucchi 1930, 537–538. Le misure della chiesa sono deducibili dalla scala metrica di cui è dotata la planimetria pubblicata dallo Scognamiglio (fig. 2). Questo studioso, in realtà, riteneva che la chiesa fosse a cinque navate. Egli pensava che la facciata dell’edificio si potesse individuare nel muro m (fig. 2) e che essa fosse dotata di un atrio (“entro i limiti l. m. n. o.”), preceduto da un vestibolo (“tra i punti p. q. r. s.”); i due muri paralleli a nord di quello a-r (= α, ζ), evidentemente considerato da Scognamiglio lo stilobate del colonnato che divideva la navata centrale dalla prima navatella nord (infra), erano da lui
La basilica di S. Agapito alle Quadrelle e le sue iscrizioni
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Fig. 3 Planimetria e sezione del settore absidale della basilica di S. Agapito ritenuti relativi, l’uno, α, all’analogo stilobate del colonnato che separava quest’ultima navata da quella estrema nord, l’altro, ζ, il muro perimetrale settentrionale della chiesa (Scognamiglio 1865, 7); tale ricostruzione, tuttavia, male sembra accordarsi con gli avancorpi negli spazi indicati, che risulterebbero attraversati da queste strutture parallele (fig. 2). D’altra parte, lo Scognamiglio non nascondeva il forte grado di incertezza della sua ricostruzione (ibid.), dovuto alla lacunosità e alla degradazione dei muri. Orazio Marucchi, che indagò nuovamente la zona presbiteriale della basilica (infra) e poté verificare lì la presenza dei muri ritrovati nel 1864, non ebbe dubbi nel ritenere la basilica a tre navate (Marucchi 1899, 231), in questo effettivamente corroborato da quanto deducibile dalla sezione da lui pubblicata (fig. 3), dove lo spessore dei muri β e γ, maggiore rispetto ad α, può, come di norma, attribuirsi alla funzione di fondazione dei colonnati destinati a sopportare il maggiore carico dell’elevato del cleristorio (per una situazione analoga: Fiocchi Nicolai et al. 1995–1996, 75). Le dimensioni dell’abside della chiesa, con corda di m 7,50 circa, sembrano, del resto, proporzionate ad una chiesa a tre navate con facciata nel muro δ, chiesa lunga pertanto circa 40 metri, con muro perimetrale nord in α (il muro m, come anche ε – di notevole spessore [fig. 2] –, potrebbero tranquillamente attribuirsi a restringimenti-frazionamenti di epoca successiva); il muro ζ, come vedremo, è possibile fosse addirittura pertinente ad una seconda chiesa situata subito a nord: infra 346. Basiliche più o meno di queste proporzioni erano, per esempio, S. Giovanni a Porta Latina a Roma, S. Sinforosa al IX miglio della via Tiburtina, S. Ippolito all’Isola Sacra e la basilica cattedrale di Porto: Fiocchi Nicolai 2009a, 61, nota 383; Fiocchi Nicolai 2017a, 97.
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trovate negli scavi calcinate per un incendio18. Il pavimento della chiesa risultava interamente occupato da sepolcri “pratticati per ogni verso e sopraposti l’un sull’altro fino a tre ordini”19. A nord dell’edificio, alla distanza di circa 50 metri, fu rinvenuto, appunto, l’emiciclo del Foggini (fig. 2, A), facente parte di una serie di ambienti che si affacciavano Fig. 4 Disegno delle tombe su un portico a pilastri, che univa questo settorinvenute nel settore absidale della basilica re alla chiesa (fig. 2, A1)20. Poche informazioni in di S. Agapito più sull’articolazione della basilica fornirono, tra il 1897 e il 1898, i nuovi limitati scavi condotti da Orazio Marucchi, che portarono nuovamente alla luce il settore presbiteriale dell’edificio, risotterrato dopo le indagini di metà secolo (fig. 3)21; così come quelle successive, sempre molto parziali, fatte eseguire dal medesimo studioso nel 1914 e nel 1929 (fig. 4)22. In questi scavi furono scoperte altre tombe pavimentali a più piani nel settore del presbiterio (fig. 3, tt) (i cui muretti di delimitazione vennero erroneamente interpretati dal Marucchi come relativi ai subsellia per il clero)23 e nell’area immediatamente antistante (figg. 3, tt 1–7; 5–6), dove l’archeologo romano pensò di riconoscere in un blocco murario parallelepipedo (fig. 3, sm) il basamento del sarcofago in cui era stato sepolto S. Agapito, del quale vi è cenno nella passio del santo, un testo assegnabile forse agli inizi del VI secolo; sarcofago che per Marucchi avrebbe coinciso, di fatto, con l’altare della chiesa24. Dietro l’abside, questi riportò alla luce il basolato della strada romana che congiungeva la Prenestina alla Labicana (figg. 1; 7), strada che aveva evidentemente condizionato
18 Scognamiglio 1865, 7. 19 Scognamiglio 1865, 23 (nella pianta di fig. 2 ne sono rilevati alcuni presso il punto e). 20 Henzen 1864, 72–73; Scognamiglio 1865, 21–22 (ove si rileva la “totale rovina” di queste
costruzioni). Per l’interpretazione degli ambienti, infra 346.
21 Marucchi 1899, 225–244. 22 Marucchi 1915, 69–74; Marucchi 1930, 536–541. 23 Marucchi 1899, 228 e 231–232. Tali muretti paralleli compaiono già nella pianta del Fonta-
na: fig. 2.
24 Marucchi 1899, 231–232. Sulla passio, infra 345. La posizione del blocco murario, in base
al confronto tra la pianta del Fontana e quella allegata alla pubblicazione del Marucchi, sembra coincidere con il muro di fondo della cripta vista dallo Scognamiglio (fig. 2, u-u), nuovamente intercettata dallo studioso romano nel 1914 (Marucchi 1915, 72). Nelle indagini del 1929, Marucchi ritenne pure di aver ritrovato il coperchio del sarcofago del martire: Marucchi 1930, 538. Nell’attuale sistemazione (figg. 5–6) sussitono le tombe t2–t3 del rilievo Marucchi di fig. 3, la zona del “basamento” sm e, in più, altre quattro tombe, di andamento est ovest, che non compaiono in tale rilievo (tt 8–11).
La basilica di S. Agapito alle Quadrelle e le sue iscrizioni
Fig. 5 Planimetria e sezioni del settore absidale della basilica di S. Agapito
Fig. 6 Tombe del settore absidale della basilica di S. Agapito (veduta da ovest)
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nel suo sviluppo l’andamento dell’esedra, determinandone la forma schiacciata25. Sia lo Scognamiglio che il Marucchi ebbero l’impressione di trovarsi di fronte ad una chiesa fortemente ristrutturata in età altomedievale, come indicava in modo eloquente la tecnica di esecuzione dei paramenti murari, realizzati in parte con tufelli e mattoni (che Henzen riteneva, appunto, tardoantichi), in parte con blocchi di tufo e pietra alternati a filari di laterizi molto sminuzzati, secondo una maniera che già allo Scognamiglio parve giustamente tipica dell’VIII o del IX secolo26. Questo tipo di muratura si evidenziava soprattutto nel settore absidale, nella cripta (figg. 6–7) e nell’emiciclo prospettante sul portico a nord (l’emiciclo del Foggini) (fig. 2, A)27.
Fig. 7 L’abside della basilica di S. Agapito e la contigua strada romana 25 Marucchi 1915, 72–74; Marucchi 1930, 537–538, fig. 2 (qui in fig. 7). L’andamento forte-
mente schiacciato dell’abside è confermato dal recente rilievo della struttura realizzato dall’architetto P. W. Di Paola (fig. 5) (Di Paola 2015, 39 e 42); tale andamento si deve pure probabilmente alla volontà di comprendere all’interno del settore presbiteriale il sepolcro del martire, posizionato, in origine, a ridosso della strada: Marucchi 1915, 72–74. Sulla via, ricalcata dall’attuale Strada Provinciale 55a (“strada di Valmontone” in fig. 1): Marucchi 1885, 126; Ashby 1902, 273 e 277–278. tav. VI (con errore nella localizzazione della chiesa di S. Agapito). A quanto pare, il Marucchi rinvenne sepolcri anche sopra il lastricato della strada; il che gli fece pensare che il tracciato avesse parzialmente mutato percorso al momento in cui questi vennero realizzati: Marucchi 1915, 73–74; l’epoca di tale eventuale spostamento dipende evidentemente dalla cronologia delle tombe, sulla quale nulla è dato sapere. 26 Henzen 1864, 72; Scognamiglio 1865, 7 e 11; Marucchi 1899, 231 e 235; Marucchi 1915, 74. Per simili murature di età altomedievale, in sintesi: Meneghini – Santangeli 2004, 135–140. 27 Henzen 1864, 71; Scognamiglio 1865, 7 e 21; Marucchi 1899, 231 e 235. La muratura attuale visibile nell’abside è moderna e deve risalire ai restauri del 1929 (fig. 7).
La basilica di S. Agapito alle Quadrelle e le sue iscrizioni
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La chiesa di S. Agapito alle Quadrelle, come è noto, è documentata dalle fonti, per la prima volta, agli inizi del IX secolo, dal Liber Pontificalis, nella biografia di papa Leone III (795–816), che dell’edificio e di una seconda chiesa situata nei pressi curò il restauro radicale dei tetti, resi fatiscenti dalla alta antichità: “Praedictus vero venerabilis pontifex sarta tecta basilicae beati Agapiti martyris quae ponitur in Penestrina, necnon et sarta tecta alterius basilicae iuxta eadem basilicam sitae, quae iam prae nimia vetustate ruitura erant, omnia noviter in melius restauravit”28. Il culto di S. Agapito è attestato a Praeneste già nel secondo venticinquennio del V secolo dal Martirologio Geronimiano che il 18 agosto ricorda la commemorazione del santo con queste parole: “In civitate Praenestina, miliario XXIII, Agapiti”29. La Passio Sancti Agapiti martyris cui si accennava (BHL 125), risalente probabilmente agli inizi del VI secolo e comunque anteriore ad Adone che la sunteggiò nel suo Martirologio scritto intorno alla metà del IX secolo, localizza la sepoltura del martire ad un miglio dalla città, indicazione che coincide perfettamente con l’ubicazione della chiesa delle Quadrelle (fig. 1)30; secondo lo scritto, Agapito, scampato alla morte nel combattimento con le belve nell’anfiteatro di Praeneste, sarebbe stato poi ucciso in un luogo situato “contra civitatem Praenestinam, ubi sunt duae columnae”31; il suo corpo sarebbe stato sepolto dai cristiani della città in un sarcofago nuovo32. Una versione più recente del testo (BHL 126) ricorda altri monumenti antichi di
28 Duchesne 1886–1892, II 29. Per Geertman l‘intervento si collocherebbe negli anni 810–811
(Geertman 1975, 52); vedi pure infra nota 51.
29 De Rossi – Duchesne 1894, 107; Delehaye 1931, 448–449; cf. Saxer 2000, 33–34. Nella
maggior parte dei codici si riscontra un errore nella indicazione del miliario: XXXIII per XXIII; la localizzazione è giustamente riportata invece nel codice di Epternach (al 1° maggio, dove pure il santo è commemorato) e nel Codex Monacensis: Delehaye 1931, 224 e 449. Su S. Agapito e le fonti che lo ricordano si vedano pure Marucchi 1874; Dufourcq 1907, 21–28 e 303–304; Lanzoni 1927, 132–133; Kellner 1930, 404–432; Delehaye 1933, 292–293; Josi 1961, 313–314. 30 Mombritius 1910, 37; Dubois – Renaud 1984, 276–277; per la cronologia della passio: Delehaye 1897, 490–494; Dufourcq 1907, 303–304; Lanzoni 1927, 133; Kellner 1930, 404–432; Ussani 1931, 62, n. 843. Il santo è commemorato anche in alcuni sacramentari, altri martirologi dell’altomedioevo e nel calendario marmoreo di Napoli: Marucchi 1874, 3; Delehaye 1931, 448; Quentin 1908, 54. 339. 437. 488–489 e 694. 31 Mombritius 1910, 37. Nella versione della passio riportata nel Codice Vaticano Reginensis, 551, il luogo del martirio è ricordato come “inter duas vias”, indicazione che, secondo lo Scognamiglio e il Marucchi, potrebbe rimandare al bivio tra la Prenestina e la strada romana che conduceva alla Labicana (supra nota 25), cioè al sito della odierna chiesetta della Madonna dei Cori (fig. 1): Scognamiglio 1865, 23; Marucchi 1874, 24–25; Marucchi 1885, 144; Marucchi 1898, 19–21. 32 Mombritius 1910, 37.
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Praeneste: il Foro, i templi di Giove e di Apollo, il palatium (dei quali evidentemente si aveva ancora memoria in quei tempi)33. Sia lo Scognamiglio che il Marucchi misero senza difficoltà in relazione la notizia del restauro di Leone III con le abbondanti tracce di muri altomedievali individuate negli scavi; a questi restauri è forse pure assegnabile la realizzazione della cripta (fig. 2, e), la cui conformazione rettilinea risulta particolarmente diffusa nelle chiese di VIII e IX secolo34; del resto, una importante fase altomedievale del complesso è pure attestata dalla presenza di alcuni rilievi in marmo con decorazione ad intreccio, pertinenti all’arredo liturgico della chiesa35, e da un’iscrizione che menziona forse il vescovo Costantino che resse la sede episcopale di Praeneste nell’826 (fig. 9)36 Nel passo del Liber Pontificalis relativo ai lavori di Leone III risalta, come si sarà rilevato, la sorprendente presenza di una seconda basilica nei pressi di quella in cui si trovava la tomba di S. Agapito. Di questa seconda chiesa non si individuarono tracce evidenti né negli scavi del 1864, né in quelli successivi; è possibile fosse ubicata subito a nord dell’edificio ritornato alla luce, nello spazio, a quanto pare non indagato nell’800, che intercorre tra l’edificio e l’ultimo pilastro del portico settentrionale (fig. 2). Come voleva Marucchi, il muro di andamento est-ovest situato subito a nord del perimetrale della chiesa e a questo parallelo (ζ) potrebbe in teoria costituire la delimitazione meridionale di tale secondo fabbricato37. Una situazione che richiamerebbe quella riscontrabile in molte delle c. d. “chiese doppie” del mondo antico38. Gli ambienti a nord (fig. 2), secondo l’opinione dell’Henzen e dello Scognamiglio, potevano avere funzione di residenza del clero (nella pianta è individuabile forse un cortile ad ovest)39; tuttavia, considerato il carattere santuariale del complesso, essi potevano pure essere adibiti all’accoglienza dei pellegrini40: il portico dotato di ambienti sul lato di fondo (fig. 2, A1), tra cui la più volte menzionata esedra (A), non c’è dubbio 33 Acta Sanctorum, Augusti III 534 e 536. Per i vari monumenti, oltre ai contributi di S. Gatti e D.
Raiano in questi stessi Atti, si vedano in sintesi Van Deman Magoffin 1908, 23; Zevi 1979, 21; Coarelli 1987, 7; Gatti 2005, 67–90. 34 Cf. Scognamiglio 1865, 11; Marucchi 1899, 235. Per le cripte rettilinee: Palombi 2009, 533–536; Guidobaldi – Sabbi 2015–2016, 474–477; Asciutti 2019, 195–208. 35 Marucchi 1899, 235–236; Stevenson 10571, f. 169 r., 194 r. (due calchi a grafite). 36 Infra 352. 37 Marucchi 1899, 230. 38 Infra 347. 39 Henzen 1864, 72–73; Scognamiglio 1865, 21–22, il quale riteneva, sulla base probabilmente del Foggini (supra nota 5), che l‘esedra A (fig. 2) potesse costituire l‘abside della seconda chiesa ricordata dal Liber Pontificalis nella biografia di Leone III (ma la presenza dei pilastri subito ad est dell’emiciclo rende molto problematico lo sviluppo di un edificio in quel settore). Marucchi 1899, 229–230 considera invece gli ambienti di carattere funerario. 40 Cf. Fiocchi Nicolai 2010, 70.
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potrebbe costituire, come in alcuni santuari di Roma o di altri centri antichi, una struttura di supporto ad un percorso privilegiato, funzionale alla frequentazione devozionale del luogo41. La presenza di una chiesa “doppia”42, sul tipo di quelle attestate in numerose località dell’Impero, pone anche per Praeneste il problema della funzione di questi edifici, sul quale il dibattito è ancora aperto43. Il fatto che nel Liber Pontificalis non si indichi della seconda costruzione l’intitolazione ha fatto ritenere giustamente che essa fosse parte integrante del complesso di S. Agapito44. P. Testini e L. Pani Ermini ipotizzavano che il carattere di “chiesa doppia” potesse rinviare al ruolo di cattedrale di Praeneste svolto dagli edifici del complesso, così come è attestato in altri centri antichi45. Tuttavia, come è noto, le antiche chiese episcopali furono, di norma, regolarmente urbane e solo eccezionalmente esse coincisero con le basiliche martiriali extra urbem46. Nel nostro caso, anche la notevole distanza dall’abitato di Praeneste (fig. 1) rende questa ipotesi assai improbabile47. E’ più verosimile che, al pari di altre “chiese doppie”, il secondo edificio costituisse semplicemente un ampliamento dello spazio cultuale del primo e che magari, ospitando il culto di altri santi, rappresentasse un potenziamento devozionale del complesso religioso48. L’antica cattedrale di Palestrina 41 Sui portici connessi con i santuari martiriali paleocristiani, da ultima Spera 2011, 1299–1330;
Spera 2016–2017, 215–276.
42 Così già Duchesne 1886–1892, II 47, nota 20. 43 A questo proposito: Sodini – Kolokotsas 1984, 255–312; Duval – Caillet 1996a, 22–
37; Duval – Caillet 1996b, 225–234 (e i numerosi contributi sul tema nel medesimo volume); Volpe 1998, 312–317; Brandenburg 2006, 45–49; Brandenburg 2010, 285–322; Chavarrίa Arnau 2018, 111–113. Aldilà dei casi (pochi) in cui coppie di chiese furono costruite contemporaneamente, con funzioni non sempre evidenti, negli altri, una delle due chiese venne ad aggiungersi ad una prima già esistente, spesso con funzione santuariale-memoriale e funeraria, talvolta quale semplice ampliamento spaziale della più antica. 44 Marucchi 1899, 228–229; Pani Ermini – Giordani 1978, 87. 45 Testini 1978, 149–151; Pani Ermini – Giordani 1978, 86–88; Testini – Cantino Wataghin – Pani Ermini 1989, 91; sulla funzione di chiesa episcopale degli edifici geminati, peraltro oggi molto ridimensionata, cf. Sodini – Kolokotsas 1984, 306 e 312; Duval – Caillet 1996a, 35; Duval – Caillet 1996b, 226–227; Volpe 1998, 313. Nelle campagne, “chiese doppie” non di rado ebbero funzione parrocchiale: Duval – Caillet 1996a, 35; Duval – Caillet 1996b, 226; Volpe 1998, 317–318. 46 Testini – Cantino Wataghin – Pani Ermini 1989, 5–232; Cantino Wataghin 2015, 317– 340; Chavarrίa Arnau 2018, 149 e 152–154. Per alcune possibili eccezioni: Cantino Wataghin – Guyon 2007, 291–296; Fiocchi Nicolai 2001a, 336–338; Fiocchi Nicolai 2013, 229. 47 Nelle città di Concordia, Narni e Gabii, dove è forse possibile ipotizzare una coincidenza della chiesa vescovile con un santuario martiriale, gli edifici memoriali sorgevano a ridosso dell’abitato o in zone suburbane dove la città si era sviluppata: Fiocchi Nicolai 2001a, 336–338; Fiocchi Nicolai 2013, 229. 48 Lo Stevenson 10563, ff. 97–99 riteneva che questa seconda chiesa fosse quella cui si riferisce l‘epigrafe CIL XIV 3421, su cui infra 358; non si può neanche escludere che tale secondo edi-
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(città sede di diocesi – si ricorda – già nel 313)49 doveva essere ubicata regolarmente in area urbana, verosimilmente nella c. d. “città bassa”, dove esistevano altri edifici pubblici, oltre che numerose case di abitazione50. In ogni caso, non molto dopo il restauro di Leone III, sul finire del IX secolo, come attesta un documento dell’XI, le spoglie di S. Agapito vennero trasportate nella “città alta” (fig. 1)51, evidentemente nella chiesa che ancora oggi porta l’intitolazione a S. Agapito e funge da cattedrale di Palestrina, chiesa che aveva trasformato (forse già gli inizi del IX secolo) un antico edificio repubblicano – si pensa, il tempio di Giove – e che probabilmente, già al tempo della traslazione, aveva assunto funzione di nuova cattedrale della città, più rispondente ad un abitato ormai evidentemente concentrato nell’area dell’antico santuario della Fortuna Primigenia52. Il trasferimento delle spoglie del martire dovette decretare
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ficio fosse dedicato ai santi menzionati in un’epigrafe altomedievale rinvenuta negli scavi: infra 352. Opt. Milev. 23 (Sources Chrétiennes 412 e 224); sulla diocesi di Palestrina, oltre agli studi di O. Marucchi citati nelle note precedenti, si veda Lanzoni 1927, 132–134; Luttazzi 1993, 8–9. Su questo settore dell’antica Praeneste, Quilici 1980, 171–214 e, in questi stessi Atti, il contributo di D. Raiano, nel quale si esclude la presenza di un Foro alternativo a quello della “città alta”. Acta Sanctorum, Augusti III 530, n. 26 (BHL 129); cf. Scognamiglio 1865, 14–15; Marucchi 1898, 39–41. La datazione del documento si basa sulla menzione di un “Romanus papa”, all’epoca del quale sarebbe avvenuta la traslazione. Nel primo termine sarebbe da identificare il vescovo di Roma Romanus (sulla cattedra di Pietro nell’anno 897) e non un generico aggettivo di papa (che di norma dovrebbe, in effetti, seguire il sostantivo): Scognamiglio 1865, 15; Marucchi 1898, 40–41; Pani Ermini – Giordani 1978, 87. Scognamiglio 1865, 14–20; Marucchi 1885, 160–165; Marucchi 1898, 39–47; Marucchi 1918, 237–243; Marucchi 1930, 540–541. Per l’identificazione del tempio repubblicano, vedi Coarelli 1987, 7 e il contributo di S. Gatti in questo volume. La chiesa di S. Agapito in urbe esisteva certamente e ospitava le spoglie del martire nell’anno 963, come attesta un’iscrizione graffita in un pilastro (Marucchi 1930, 541; Marucchi 1932, 149, fig. 34; Pani Ermini – Giordani 1978, 87), ma forse essa era già in essere nei primi anni del IX secolo, stando ad un altro passo della biografia di Leone III contenuta nel Liber Pontificalis, ove si ricorda la donazione di una tovaglia d’altare alla basilica di S. Agapito situata “in civitate Penestrina” (Duchesne 1886–1892, II 12): l’espressione in civitate sembrerebbe infatti distinguere questa chiesa in urbe da quella “in Penestrina”, cioè presso la via Prenestina (“in Penestrina” è indicata pure la chiesa di S. Secondino al XXX miglio della strada nella precedente biografia di Adriano I (772–795): Duchesne 1886–1892, I 510 (sulla chiesa, da ultimi, Fiocchi Nicolai 2018a, 133; Ronzani 2020, 261–269); “in Aurelia”, nella biografia di Leone IV (847–855), è ricordata la chiesa di S. Maria situata su quella via: Duchesne 1886–1892, II 131; tuttavia, nella biografia di Leone III, i nomi delle strade sembrano preceduti sistematicamente dal termine via: Duchesne 1886–1892, II 1–34). Le due notizie relative agli interventi di Leone III sono databili, secondo Geertman, la prima, agli anni 802–803, la seconda all’810–811: Geertman 1975, 44. 52 e 58; esse sono riferite, entrambe, alla chiesa suburbana di S. Agapito da Duchesne 1886–1892, II 40, nota 59, Testini 1978, 150–151 e Pani Ermini – Giordani 1978, 86–87. La dedica della cattedrale della “città alta” di Palestrina a S. Agapito, cioè al santo più importante della città, potrebbe pure aver preceduto il trasferimento in essa delle spoglie del martire (a Padova, l’intitolazione della chiesa episcopale altomedievale a S. Giustina, la santa
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la fine del complesso delle Quadrelle, distrutto, secondo quanto si poté appurare negli scavi, da un vasto incendio53. Due calcare furono allora riportate alla luce presso l’emiciclo del Foggini; esse erano evidentemente funzionali, come pensò l’Henzen, alla calcinazione dei marmi del complesso paleocristiano, tra i quali forse, purtroppo, le altre tavole dei Fasti Prenestini54. Le epigrafi sepolcrali rinvenute a S. Agapito negli scavi della metà dell’800 e in quelli successivi di fine secolo-inizi ’900 (41) o conservate un tempo in fabbricati rurali esistenti nell’area circostante (8), unitamente ad altri 12 testi, che sappiamo genericamente provenienti da Praeneste, i quali, tuttavia, per forma e contenuto possono ricondursi al materiale scoperto in loco, in totale 61 iscrizioni, di cui purtroppo solo 21 (un terzo!) giunte fino a noi, forniscono informazioni importanti sulla storia della basilica, sulla comunità che la utilizzava come luogo di sepoltura e anche su alcune particolarità strutturali della costruzione55. più venerata nella città, non implicò neanche il trasferimento successivo nella chiesa delle reliquie della martire, sempre restate nel santuario suburbano: Fiocchi Nicolai 2017b, 887; cf. Sannazaro 1989, 223, per altri casi di dediche di chiese episcopali ai santi più importanti della città). Qualora la notizia della donazione della tovaglia d’altare fosse, pur essa, riferibile alla chiesa suburbana, la dedicazione della cattedrale della “città alta” a S. Agapito potrebbe essere ricollegata proprio alla traslazione delle spoglie del santo nella chiesa, avvenuta alla fine del IX secolo (Scognamiglio 1865, 16–17; Luttazzi 1995, 16; Fiasco 2019, 231). Di nessun dato archeologico disponiamo, purtroppo, circa l’epoca di trasformazione in edificio di culto cristiano del tempio repubblicano (Testini – Cantino Wataghin – Pani Ermini 1989, 91); essa, tuttavia, difficilmente poté avvenire, stando alla legislazione tardoantica in materia di tutela degli edifici pubblici romani, prima della metà del V secolo: Caillet 1996, 191–202; Cantino Wataghin 1999, 691–697; cf. Fiocchi Nicolai – Blanco – Davì – Vella 2013, 43, per la trasformazione in chiesa cattedrale di Tivoli di un edificio forense, in questo caso la basilica civile. La dedica ad un santo (S. Clemente) di una chiesa episcopale – anch’essa impiantatasi nell’area del Foro – è documentata a Velletri alla fine del V secolo: Fiocchi Nicolai 2001b, 143–149. Sugli spostamenti delle basiliche episcopali all’interno dei comparti urbani tardoantichi, in sintesi: Cantino Wataghin – Guyon 2007, 301–305; Chavarrίa Arnau 2018, 152; Fiocchi Nicolai 2015, 229–230 (caso di Porto). Sulla chiesa urbana di S. Agapito vedi, da ultimo, Fiasco 2019, 329–333, ove si riferisce del ritrovamento di un probabile reliquiario medievale. 53 Scognamiglio 1865, 7. 54 Henzen 1864, 74. 55 Ringrazio l’amica e collega Maria Grazia Granino per avermi coinvolto nell’impresa della nuova edizione del CIL delle iscrizioni di Praeneste e dell’ager Praenestinus. Le 53 epigrafi rinvenute negli scavi della chiesa sono le CIL XIV 3415 (Granino Cecere 2005, 732; EDR121704) (fig. 8) (1), 3420 (Granino Cecere 2005, 743; EDR122061) (fig. 15) (15), 3421 (Granino Cecere 2005, 737; EDR121799) (fig. 13) (2), 3421 a (Granino Cecere 2005, 741; EDR122057) (13), 3425 (Granino Cecere 2005, 734; EDR121598) (fig. 11, 2) (4), 3426 (EDR164228) (19), 3426a (Granino Cecere 2005, 739; EDR121860) (fig. 11, 5) (11), 3427a (Granino Cecere 2005, 740; EDR121897) (fig. 11, 4) (10), 3428 (EDR160836) (fig. 14) (25), 3428a (Granino Cecere 2005, 733; EDR121400) (fig. 11, 1) (3), 3429 (EDR166925) (22) e 3430 (Granino Cecere 2005, 742; EDR122058) (fig. 12, 1) (8); Eph. Epigr. IX 879 (Granino Cecere 2005, 735) (fig. 11, 3) (7), 880 (EDR160795) (20), 882 (EDR160910) (21), 883 (18),
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Due dediche, ritrovate negli scavi della chiesa, menzionano S. Agapito e permettono pertanto la sicura identificazione dell’edificio: una, forse assegnabile alla seconda metà del IV secolo, metrica, del genere quasi versus, lacunosa a sinistra, costituisce l’epitaffio del giovane Placidiano (fig. 8)56. L’incipit (rr. 1–3) ricorda con parole particolarmente solenni la basilica ([martyris Agapiti? eccle] 885 (EDR160797) (23) e 886 (26); Marucchi 1899, 237, n. 2 (fig. 11, 7) (9), 239–240, nn. 12 (fig. 12, 2) (6), 13 (12), 14 (17), 15 (16) e 18 (fig. 12, 3) (14); Cipollone 2006, 77, n. 17 (5); Stevenson 10570, ff. 157 v. (apografo inferiore) (32), 159 r. (DAI 1968.3158) (31), 159 r. (DAI 1968.3209, frammento di sinistra) (33), 161 v. (apografo superiore) (34), 162 r. (apografo inferiore) (35), 163 r. (DAI 1968.3074, frammento di sinistra) (24), 163 r. (apografo inferiore, a sinistra) (36), 164 r. (DAI 1968.3154, frammento di destra) (37), 166 v. (38), 169 v. (DAI 1968.3155, frammento di destra) (39), 172 v. (calco inferiore; DAI 1968.3238, frammento in basso a destra) (40), 176 v. (calco superiore; DAI 1968.3209, fr. di destra) (41), 188 v. (calco superiore) (27), 189 v. (calco superiore) (28), 191 v. (calco in alto a sinistra) (29) e 194 v. (calco in alto a destra) (30). Le epigrafi un tempo conservate nelle vigne circostanti S. Agapito sono le CIL XIV 3417 (EDR166936) (42), 3430a (EDR166927) (47) e 3431 (EDR166926) (43); Eph. Epigr. IX 881 (EDR160796) (45), 884 (EDR160913) (46) e 887 (44); Marucchi 1930, 539–540 (EDR166937) (fig. 16) (49); DAI 1987.581 (48). Questi i testi genericamente provenienti da Palestrina ma attribuibili a S. Agapito: CIL XIV 3224 (Granino Cecere 2005, 736; EDR121760) (52) e 3427 (Granino Cecere 2005, 738; EDR121846) (fig. 11, 8) (51); Cialdea 1907, 6 (EDR151474) (61); Cipollone 2006, 77, n. 19 (50); Stevenson 10570, f. 64 v. (54); DAI 1968.3048 (55), 1968.3074 (56), 1968.3208 (57), 1968.3071 (58), 1968.3189 (a destra) (59), 1968.3189 (a sinistra) (60); Arch. Fotogr. Sopr. Arch. Lazio 82.729 (53). A queste iscrizioni si aggiungano poi una trentina di piccoli frustuli, che conservano poche lettere, di cui esistono apografi o calchi nelle carte vaticane dello Stevenson (Stevenson 10571). Ancora da Palestrina, ma non attribuibile a S. Agapito, è l’epigrafe tradita da G. Marini in Codice Vaticano Latino 9074, 5569a. In Stevenson 10571, ff. 241–245 sono classificate con la dicitura “Museo Teutonico (Palestrina)” cinque iscrizioni funerarie cristiane, conservate a Roma al Museo del Campo Santo Teutonico, considerate in ICVR I 1364 (= ICVR I 3356; cf. Ferrua 1979, 97), 1374, 1375, 1377 e 1384 di origine urbana; Armellini 1880, 64 ricorda, in effetti, un gruppo di iscrizioni rinvenute a Palestrina, tra le quali la ICVR I 1364; la provenienza da Palestrina delle epigrafi resta tuttavia enigmatica, anche alla luce della mancanza di informazioni circa l’origine di quelle lapidi nella documentazione d’archivio del Campo Santo Teutonico (ringrazio il collega Mons. Stefan Heid per l’informazione). Le epigrafi rinvenute a S. Agapito ancora conservate si trovano, come è noto, in massima parte nel Museo Diocesano di Palestrina, lì sistemate nel 2000 nel nuovo allestimento promosso dalla Curia Vescovile (Tomassi 2006). In quell’occasione le schede delle epigrafi cristiane, con traduzione e breve commento, furono redatte dalla Dott.ssa Valeria Cipollone, sotto la supervisione dello scrivente; esse sono state poi edite in Tomassi 2006, 71–77 (cf. “seconda di copertina” del volume). Si ringrazia la Dott.ssa Maria Teresa Ciprari, Direttrice del Museo, per la disponibilità dimostrata nel facilitarmi il riesame delle epigrafi. Nel testo che segue, le iscrizioni sono talvolta richiamate facendo riferimento alla numerazione 1–61 posta tra parentesi in questa nota. 56 Per un commento al testo, di interpretazione problematica, oltre a CIL XIV 3415, De Rossi 1877, 400; Marucchi 1885, 150–154, n. 81; De Rossi Schede, 10147; Stevenson 10563, ff. 89 v. 97–99; 10571, ff. 165 v. 168 r. (calco); CLE 746; Marucchi 1899, 232–235; Marucchi 1912, 163; ILCV 1008; Marucchi 1930, 538–539; Marucchi 1932, 139–143; Cipollone 2006, 75–76, n. 1; EDR121704. Dell’epigrafe esiste un ottimo calco in Stevenson 10571, f. 168 r. (fig. 8B), dove compare anche parte dell’estremità sinistra, perduta.
La basilica di S. Agapito alle Quadrelle e le sue iscrizioni
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Fig. 8 Iscrizione funeraria di Placidianus (A) e calco a grafite eseguito da Enrico Stevenson (B)
siaeque atria sancti) (r. 2), la quale di lì in poi – dice l’epigrafe – dovrà essere chiamata (nuncupabitur) (r. 1), aula pudoris (r. 3), forse, secondo una congettura di de Rossi, [aedes christ]ianorum (r. 1), e, se l’autore del carme ha integralmente mutuato il verso 3, come pensava il medesimo studioso in base alle due ultime parole conservate, dalla famosa iscrizione dedicatoria di S. Pietro in Vaticano (della metà IV secolo), anche iustitiae sedes, fidei domus57. Il giovane 57 De Rossi Schede, 10147; cf. CLE 315.
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Placidiano era stato tumulato all’interno dell’edificio ([vix puer? ing]ressus letabili tumulo metas) (r. 4)58 e al suo funerale (rr. 5–7) aveva partecipato il santo vescovo della città Iucundus (r. 6); per Placidiano, menzionato nell’ultima riga, si chiede al santo martire Agapito di accoglierlo in Cielo ([- - - accep]tum habeas Agap[ite] sancte rogamus) (r. 11). La parte iniziale del testo usa espressioni che sembrano quelle di un atto fondativo (“la chiesa sarà chiamata …”). Non si può escludere pertanto, come volevano de Rossi, Stevenson e Marucchi, che la famiglia committente di questo dotto elogio funebre, di certo eminente in seno alla locale comunità se al funerale di Placidiano aveva partecipato lo stesso vescovo di Praeneste, avesse svolto un qualche ruolo nella realizzazione dell’edificio, magari contribuendo finanziariamente alla sua edificazione, come era prassi in quei tempi da parte dell’élite59. La seconda epigrafe è quella altomedievale già ricordata, ove il nome di S. Agapito compare al genitivo nella prima riga di uno dei due frammenti in cui ci è pervenuta la lapide (fig. 9A); l’altro frammento (fig. 9B) contiene un elenco di nomi di santi, di cui forse la chiesa possedeva reliquie (ovvero, come pensava Marucchi, di santi di cui a Praeneste si celebrava la festa durante l’anno liturgico)60. Alla riga 3 del primo frammento è possibile fosse menzionato il vescovo Con[stantinus] di Praeneste dell’anno 82661 (definito dominus, come il vescovo Teofilatto in un’iscrizione della cattedrale del 963 e in quella di Conone dell’anno 1116 che commemora un importante rifacimento del medesimo edificio), forse in relazione al restauro della chiesa dell’epoca di Leone III62; forma delle lettere e sistemi abbreviativi sono del resto compatibili con una cronologia della lapide nei primi decenni del IX secolo (l’iscrizione deve risalire comunque 58 Marucchi 1930, 539. 59 De Rossi 1877, 400; Stevenson 10563, ff. 97–99; Marucchi 1885, 150–154, n. 81; Maruc-
chi 1899, 232–235. Sul contributo dell‘aristocrazia tardoantica alla realizzazione degli edifici di culto cristiani nel Lazio, in sintesi, Fiocchi Nicolai 2007, 107–126; Fiocchi Nicolai 2018b, 107–144 (ivi bibl.). Marucchi 1885, 150–153 riteneva l‘epigrafe della prima metà del IV secolo, sulla base dell‘identificazione del vescovo Iucundus (r. 6) con il presule di Palestrina Secundus, presente al concilio del 313 (supra nota 49), il cui nome sarebbe stato erroneamente trascritto nei codici di Optato di Milevi (Marucchi 1885, 152, nota 1): di qui la convinzione che la chiesa di S. Agapito rimontasse ad età costantiniana, cosa che sarebbe stata suggerita, secondo lo studioso, anche dall’interpretazione di un’epigrafe di epoca altomedievale rinvenuta negli scavi (infra 358); della stessa opinione Stevenson 10563, ff. 97–99. La proposta di integrare [domus Placid]ianorum alla r. 1 portava pure Marucchi ad ipotizzare l’esistenza di una famiglia di “Placidiani”, sponsor della chiesa; a questa famiglia, ma in epoca successiva, secondo lo Stevenson, sarebbe appartenuta anche la Placida di CIL XIV 3421, sulla quale vedi infra 358. Ipotesi basate su una catena di congetture. 60 Marucchi 1874, 26–28, n. 1; Marucchi 1885, 152–156, nn. 82–83; Marucchi 1899, 242– 244, n. 22; Luttazzi 1996, 11, n. 25; Cipollone 2006, 74–75, n. 3. 61 Gams 1873, XVI. 62 Marucchi 1918, 240; Marucchi 1930, 541.
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Fig. 9 Iscrizione altomedievale menzionante S. Agapito e altri santi
ad un’epoca anteriore all’abbandono del santuario avvenuto alla fine del IX secolo)63. Nella r. 2 ancora del primo frammento si leggono le quattro lettere finali forse di un nome proprio al genitivo [---]tini, seguite dall’abbreviazione aug(- - - ): Orazio Marucchi, seguito da de Rossi, non esitava ad integrare [Constan]tini Aug(usti) e a riferire nome e titolo all’imperatore della pace religiosa, citato secondo lui nella lastra quale fondatore della chiesa64. Ma l’integrazione resta molto incerta (si potrebbe pure, per esempio, integrare il primo termine [Praenest]tini, parola che ricorre anche nella penultima riga del secondo frammento, e riferire il secondo ad una parola che seguiva; d’altra parte, l’ipotetico 63 Supra 346 e Luttazzi 1996, 11, che propone una cronologia poco più tarda dell‘epoca di
Leone III.
64 Marucchi 1874, 26–28, n. 1; De Rossi 1877, 400; Marucchi 1885, 152–156; Marucchi
1899, 242–244.
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Costantino potrebbe anche essere uno dei tanti imperatori che portarono dopo di lui quel nome in Oriente). Importanti per la cronologia della basilica sono le iscrizioni datate, rinvenute negli scavi dell’edificio o recuperate nei terreni situati nelle vicinanze: una dell’anno 39265, un’altra degli anni 376, 378 o 398 (ma anche – non si può escludere – del 425, 426, 430 e 435) (fig. 12, 1)66 e una terza, contrassegnata dal [consulatu vel post consulatum] Basili v(iri) c(larissimi), del periodo compreso tra il 541 e il 570 (fig. 15)67. La chiesa doveva essere dunque in funzione negli ultimi decenni del IV secolo; la sua utilizzazione continuò fino al VI (e sporadicamente, probabilmente, fino all’altomedioevo, come attesta una croce pettorale in oro, ritrovata in una tomba della chiesa, oggi conservata ai Musei Vaticani, assegnabile al VII–VIII secolo)68. I testi delle iscrizioni, d’altra parte, registrano espressioni e formule tipiche dell’epigrafia funeraria cristiana del IV secolo (dormit, hic dormit, defunctus est69, depositus/a seguito dalla data di deposizione e l’augurio di pace)70; ma più spesso le epigrafi contengono locuzioni diffuse nel V e nel VI secolo, come gli esordi hic iacet, hic requiescit, locus più nome del defunto al genitivo (figg. 11, 2.7; 12, 2), talvolta preceduti da una croce (fig. 12, 2)71. Forse il V secolo, dunque, come in altre chiese funerarie del Lazio, fu l’epoca del floruit delle sepolture nell’edificio72 ed è interessante, in questo senso, che nei testi non compaia mai il monogramma costantiniano, frequentissimo nel IV secolo. 65 CIL XIV 3417; ILCV 2956 adn.; EDR166936; dell’iscrizione si conservava nel 1968 un fram-
mento pertinente alla parte inferiore destra DAI 1968.3021, oggi non più reperibile.
66 L’individuazione della coppia consolare è incerta: CIL XIV 3430; Marucchi 1899, 240, n. 16;
Granino Cecere 2005, 742; EDR122058; Cipollone 2006, 71–72, n. 6.
67 CIL XIV 3420; Marucchi 1899, 240, n. 17; ILCV 2351; Granino Cecere 2005, 743;
68
69 70 71
72
EDR122061; Cipollone 2006, 77, n. 18. Una quarta iscrizione datata, perduta, trovata a Palestrina in un luogo imprecisato, può assegnarsi al 354 o al 360 (e con meno probabilità al 324 o al 300, a motivo della cronologia molto alta per il contesto prenestino): CIL XIV 3419; ILCV 3503 adn.; EDR166935. Henzen 1864, 72; Profili 1864, 351; De Rossi 1864, 16; Scognamiglio 1865, 23–24; Garrucci 1880, 41–42, tav. 432, n. 6; Volbach 1938, 7; Cecchelli 1951–1952, 16–17; Vattuone 2002, 1583; Riganati 2007, 556, fig. 9. Negli scavi, a detta del de Rossi, vennero pure rinvenute lucerne fittili recanti impressi monogrammi costantiniani: De Rossi 1864, 16. Janssens 1981, 73, 93–94 e 262–264; Fiocchi Nicolai 1989, 319–320. Janssens 1981, 258–259 e 276–279; Pietri 1997, 34–39 e 51; Carletti 2008, 39–40 e 46–48. Janssens 1981, 94–95 e 260–262; Pietri 1997, 49–50; Fiocchi Nicolai 2000, 368–369; Fiocchi Nicolai 2009a, 396 e 471; la croce all’inizio del testo compare nelle CIL XIV 3431; Eph. Epigr. IX 879 (fig. 11, 3) e 883; Marucchi 1899, 239, n. 12 (fig. 12, 2); Cialdea 1907, 6. L’epitaffio di Placidiano (supra 360), per il richiamo all’iscrizione di metà IV secolo di S. Pietro e in base alla particolare diffusione delle dediche funerarie in metrica nella seconda metà del IV secolo–V secolo, può probabilmente assegnarsi a tale ambito cronologico: CLE 746; cf. Carletti 2008, 89. Fiocchi Nicolai 2010, 65–69.
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La forma delle lapidi conferma che esse erano poste a chiusura dei sepolcri pavimentali, secondo un uso, come è ben noto, ampiamente documentato nelle basiliche funerarie di Roma e di numerosi altri centri del mondo antico73. Una di esse, del resto, fu rinvenuta dal Marucchi in situ, capovolta in un sepolcro della zona presbiteriale74. Questi sepolcri, a detta dello Scognamiglio, occupavano tutto il piano della chiesa ed erano spesso costituiti da più ordini sovrapposti, fino a tre, così come si può ancora osservare nelle tombe scoperte dal Marucchi nel 1897–1898 rimaste in vista nella sistemazione dell’area presbiteriale voluta dallo studioso (figg. 3–6)75. Come mostrano gli esempi delle basiliche romane, le lastre funerarie costituivano la pavimentazione stessa degli edifici76. Di norma di notevole spessore – tale da poter sostenere il peso di chi vi camminava sopra –, potevano coprire da sole il sepolcro (e quindi essere lunghe quanto la tomba), ovvero, nel caso della particolare tipologia delle tombe “a pozzetto”, diffusissima a Roma in questo genere di chiese – cioè sepolcri ad uno o più piani sovrapposti, con parte “strutturata” che occupa i due terzi della lunghezza della tomba e il “pozzetto” verticale, situato all’estremità, finalizzato all’inserimento progressivo dei defunti, di norma di forma quadrata e di misura oscillante tra i 40 e i 60 cm di lato –, le lapidi potevano chiudere questa cavità, o essere murate sulla superficie superiore della restante parte77. Ne deriva la presenza di lastre di formati differenti: quelle quadrate, di cm 40–60 di lato (poste a chiusura dei “pozzetti”), e quelle rettangolari dalla lunghezza di circa m 1,50/1,60, come è ben esemplificato da alcune lapidi della basilica di S. Paolo fuori le Mura a Roma (fig. 10)78. Gli esempi di Roma mostrano pure che gli epitaffi erano non di rado incisi nella parte sommitale, in modo da lasciare spazio in basso per altri epitaffi, relativi alle inumazioni successive, spesso poi non più eseguiti (talvolta, si possono distinguere i diversi epitaffi)79. Nelle lastre destinate alla chiusura dei “pozzetti” (ma anche nelle altre), il testo risulta di norma inciso in maniera maggiormente serrata, a motivo dell’esiguo spazio a disposizione (fig. 10)80. 73 In sintesi: Fiocchi Nicolai 2009b, 315–338; Fiocchi Nicolai 2016, 619–670 (ivi bibl.). 74 Marucchi 1899, 235, 241, n. 19. 75 Scognamiglio 1865, 23; Marucchi 1899, 231–232 e fig. di 230. Il pesante restauro moderno
76 77 78 79 80
dei sepolcri rende difficile il loro studio, per il quale si rimanda comunque al volume in preparazione I cimiteri paleocristiani del Lazio III, Territorio tiburtino, prenestino e labicano. Fiocchi Nicolai et al. 1995–1996, 93, nota 63 (ivi bibl.); Fiocchi Nicolai 2009b, 328– 330; Fiocchi Nicolai 2016, 628–629. Fiocchi Nicolai et al. 1995–1996, 113, nota 130; Fiocchi Nicolai 2009b, 328; Fiocchi Nicolai et al. 2021, note 78–79. Fiocchi Nicolai 2009b, 328. Fiocchi Nicolai et al. 1995–1996, 115–116; Fiocchi Nicolai 2009b, 328; Nieddu 2009, 116. Fiocchi Nicolai 2009b, 329, figg. 12–13.
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Costituendo la pavimentazione delle chiese, infine, le lapidi mostrano di sovente segni di consunzione da calpestio.
Fig. 10 Iscrizioni funerarie della basilica di S. Paolo f. l. m. a Roma
La maggior parte delle iscrizioni delle Quadrelle (almeno quelle per le quali è possibile una valutazione) rivela, appunto, tali caratteristiche. Si impongono i grandi lastroni, dallo spessore di 5–7 cm, di forma quadrata di 50–60 cm di lato (dunque destinati ai pozzetti), con testi impaginati in alto, spesso dagli esigui spazi interlineari e tracce di consunzione da attrito (fig. 11)81. Altri lastroni di maggiore lunghezza dovevano probabilmente chiudere la parte strutturata delle tombe “a pozzetto” (fig. 12)82 (non è certa la presenza, a motivo dello stato di 81 Hanno queste caratteristiche le lastre indicate alla nota 55 con i nn. 3 (fig. 11, 1), 4 (fig. 11,
2), 7 (fig. 11, 3), 9 (fig. 11, 7), 10 (fig. 11, 4), 11 (fig. 11, 5), 13 (fig. 11, 6), 19 (in base al calco Stevenson 10571, f. 159 v.), 22 (ibid. f. 186 v. [calco]), 43 e 51 (fig. 11, 8). 82 Come le lastre indicate alla nota 55 con i nn. 1 (fig. 8), 2 (fig. 13), 6 (fig. 12, 2; in base allo sviluppo del testo), 8 (fig. 12, 1) e 14 (fig. 12, 3).
La basilica di S. Agapito alle Quadrelle e le sue iscrizioni
Fig. 11 Iscrizioni funerarie della basilica di S. Agapito
Fig. 12 Iscrizioni funerarie della basilica di S. Agapito
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frammentarietà dei pezzi, di lastre di lunghezza tale da poter coprire per intero un sepolcro). Circa lo stato sociale degli inumati, le epigrafi di S. Agapito solo sporadicamente ci forniscono informazioni di un qualche interesse. Certamente un membro di una famiglia appartenente all’élite doveva essere, come si diceva, il Placidianus menzionato nell’epigrafe metrica sopra esaminata83. Così come la Placida, il cui epitaffio fa menzione di una serie di beni immobili (porzioni di fondi, terreni e una casa), probabilmente, come in altri casi, donati alla chiesa per il suo sostentamento, a condizione, dice l’epigrafe, che tali beni non fossero in futuro né donati, né venduti, né fatti oggetto di permuta (fig. 13)84. Certamente un personaggio di alto rango era il vir honestus Martinianus, principalis civitatis (fig. 11, 7), cioè membro del gruppo ristretto dei decurioni 83 Supra 350. 84 Per il testo e la sua problematica interpretazione: De Rossi 1857–1861 ICVR 773; De Rossi
1877, 400; Marucchi 1885, 153–154, nota 1; Stevenson 10563, ff. 97–99; Marucchi 1899, 236–237, n. 1; CIL XIV 3421; Eph. Epigr. IX 463 ad 3421; ILCV 1948a; Fiocchi Nicolai 1994, 241–243; Granino Cecere 2005, 737; Cipollone 2006, 72–73, n. 2; EDR121799. L’espressione della r. 1, dedicaverunt in honorem, come già aveva osservato lo Stevenson (10563, f. 99 r.), sembra proprio rimandare ad un intervento concernente un edificio di culto (la locuzione, nelle epigrafi cristiane, è sempre riferita ad un atto di dedica, spesso di un monumento o un manufatto, a Cristo o ai santi (cf. ILCV III, p. 359); mai è attestata nelle iscrizioni funerarie; nelle epigrafi pagane la dedica in honorem è rarissima tra le funerarie (in EDR, in soli tre casi su 61: CIL V 5947; XIV 286; Molisani 1972, 93–95, n. 3); ciò, di fatto, esclude la possibilità, pur contemplabile, che i beni immobili menzionati nel testo fossero destinati a garantire le pratiche funerarie commemorative per il defunto, come attestato in un buon numero di epigrafi, per esempio, proprio in quelle, ben note, di Praeneste, di Publius Aelius Apollinaris Arlenius e di Postumius Iulianus, degli ultimi decenni del IV secolo (CIL XIV 2934; Eph. Epigr. IX 776; Granino Cecere 2005, 646 e 650 ivi bibl.; cf. Liu 2012, 228–236, che peraltro ritiene cristiani i due personaggi). Stevenson ipotizzava pure che il quod della r. 1, oggetto di dedicaverunt in honorem, fosse riferibile ad un secondo edificio di culto collegato alla chiesa, forse definito oratorium nella parte mancante, edificio che lo studioso tendeva ad identificare con la seconda basilica citata nella biografia di Leone III (supra nota 28 „Sia lo Scognamiglio che il Marucchi misero senza difficoltà in relazione la notizia del restauro di Leone III con le abbondanti tracce di muri altomedievali individuate negli scavi; a questi restauri è forse pure assegnabile la realizzazione della cripta (fig. 2, e), la cui conformazione rettilinea risulta particolarmente diffusa nelle chiese di VIII e IX secolo; del resto, una importante fase altomedievale del complesso è pure attestata dalla presenza di alcuni rilievi in marmo con decorazione ad intreccio, pertinenti all’arredo liturgico della chiesa, e da un’iscrizione che menziona forse il vescovo Costantino che resse la sede episcopale di Praeneste nell’826 (fig. 9 e supra 346); Placida, come si è visto, sarebbe stata una discendente della medesima famiglia del Placidianus ricordato nell’epigrafe CIL XIV 3415 (supra 350); sempre per lo Stevenson, l’iscrizione poteva essere datata, in base alla paleografia, al VI secolo (Stevenson 10563, f. 89 v.). L’uso della locuzione sub die, nell’ultima riga, per indicare il giorno della deposizione della defunta, fa in effetti ritenere l’epigrafe difficilmente anteriore al V secolo, e più probabilmente del VI, quando l’impiego della formula risulta particolarmente diffuso: De Rossi 1887, 62–63; Grossi Gondi 1920, 197 (vedi pure il commento in EDR121799).
La basilica di S. Agapito alle Quadrelle e le sue iscrizioni
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Fig. 13 Iscrizione funeraria di Placida (trascrizione da Marucchi 1885 (il frammento b è perduto) (1); frammenti a, c e d (2)
più influenti per censo (in genere erano grandi possessores), per prestigio e autorità all’interno del consiglio municipale85. Martinianus era sepolto, come si può dedurre dalle caratteristiche della lapide, in una delle comuni tombe pavimentali della chiesa. Un dato che conferma che i membri dell’élite, in un contesto comunitario cristiano, potevano anche rinunciare alla tradizionale autorappresentazione sociale attraverso il monumento funerario, pur di essere sepolti nello spazio sacro di una chiesa, nelle vicinanze della tomba di un martire, nel luogo della preghiera e della celebrazione eucaristica, oltre che della memoria collettiva, così come è attestato in altri contesti86. Ma nella nostra basilica (o nei suoi immediati dintorni) dovevano esser inumati anche i meno abbienti della comunità di Praeneste, come parrebbe suggerire il termine mendiculus, “poverello”, che qualifica il defunto Metilius, per il quale due volte si esprime l’augurio di pace ultraterrena (fig. 11, 3)87 85 Scognamiglio 1865, tav II, n. 7 (apografo della parte sommitale, qui in fig. 11, 7b); Maruc-
chi 1899, 237, n. 2; ILCV 311B adn.; Cipollone 2006, 72, n. 8. Sulla carica di principalis civitatis, De Martino 1975, 513–516. L’epiteto vir honestus sembra attribuito ad un personaggio che riveste una carica pubblica a partire dalla seconda metà del V secolo: Cosentino 1999, 13–50. Nell’apografo edito da Scognamiglio le ultime otto lettere (perdute) sono di difficile comprensione: Cipollone 2006, 72, n. 8. 86 Bodel 2008, 207–208 e 234; Brown 2014, 66–67; Fiocchi Nicolai – Vella 2016–2017, 308–309. 87 De Rossi Schede, 10095; Marucchi 1904, 273; Eph. Epigr. IX 879; ILCV 2298 adn.; Granino Cecere 2005, 735; Cipollone 2006, 75, n. 11; EDR121759. Più difficilmente mendiculus può essere ritenuto, come si è pensato, un cognomen “di umiliazione”, peraltro non attestato
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I nomi dei defunti, sistematicamente espressi col solo cognomen, come è usuale nella tarda antichità88, risultano in genere molto comuni; rari solo Brittus, Titita (fig. 11, 1) e quello, di origine greca, Euhodia89; tre defunti portavano nomi derivanti da divinità pagane (Herculius, Martinianus (fig. 11, 7)), come non è raro tra i cristiani90. Un Petrus, forse un pellegriFig. 14 Apografo di E. Stevenson di un graffito menzionante un Petrus no, ha lasciato traccia del suo passaggio in un graffito inciso su quello che Marucchi ritenne un pluteo della recinzione presbiteriale della chiesa (fig. 14)91. La protezione di S. Agapito, sepolto lì nei pressi, è invocata, come si è visto, nell’iscrizione di Placidiano92, ma anche, forse, in un testo molto frammentario, che la forma delle lettere fa attribuire ad epoca piuttosto tarda (VI secolo?) (fig. 12, 3); vi si può leggere, con il de Rossi, dopo un accenno, nella r. 1, ad una [comme]moratio, probabilmente quella funebre del defunto, forse, nella riga seguente, l’espressione [commen]da(mu)s per sa[n(ctum) Agapitum]93. Per altrove, riferibile ad un secondo defunto: Kajanto 1965, 287 (Mendiculius); ILCV III, p. 112 (Mendiculus). Il testo è stato assegnato al V–VI secolo da de Rossi Schede, 10095 e ad epoca posteriore al VI secolo da Dessau in Eph. Epigr. IX 879. 88 Kajanto 1963, 9–19; Kajanto 1997, 104. 89 CIL XIV 3417 (supra nota 65), 3426 (EDR164228); nell’apografo pubblicato da Scognamiglio 1865, tav. II, n. 12 (l’iscrizione è oggi irreperibile), si legge Eurodia; in un calco a grafite conservato in de Rossi Schede, 10136, nel quale si osserva già perduta l’estremità superiore sinistra della lastra, si scorge l’occhiello della R; giustamente in EDR si ipotizza che Eurodia, cognomen mai attestato, sia errore del lapicida per Euhodia, nome individuale documentato anche tra i cristiani (Kajanto 1963, 83; Solin 1982, 1311–1312. 1439), 3428a (EDR121400; Cipollone 2006, 71, n. 4) e 3430a (CIL XIV p. 538 [index]); sui cognomina Britto e Titita, cf. Kajanto 1965, 175, 201. 90 Cf. Kajanto 1965, 212 e 215; Kajanto 1997, 107–108. 91 CIL XIV 3428; Marucchi 1885, 148–149, n. 80; Stevenson 10571, f. 159 v. (fig. 14) e 185 r. (calco); la lastra è perduta. Da notare la forma della T con barra orizzontale dotata di due apicature oblique. 92 Supra 350. 93 Scognamiglio 1865, tav. II, n. 4; De Rossi Schede, 10130; Marucchi 1899, 240, n. 18; Marucchi 1912, 168, n. 119; Cipollone 2006, 77, n. 16; per il formulario, ILCV 1575–1576; III, p. 329 e 565. E’ incerto se nella parte finale della r. 1 si debba leggere demissa (“finita”,
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Fig. 15 Iscrizione con espressione ora pro me
uno dei sepolti nella chiesa, un’epigrafe, infine, invoca preghiere ([- - - ] ora pro me) (fig. 15)94. “compiuta”), forse da riferire a commemoratio, ovvero de missa (l’uso del termine, in senso liturgico, è già attestato nei testi letterari alla fine del IV secolo: Thesaurus Linguae Latinae VIII 1136–1137 s.v. missa). Da notare la particolare apicatura delle A, per le quali si veda Diehl 1912, tav. 37a (iscrizione della metà del VI secolo). 94 CIL XIV 3420 (supra nota 67). Si potrebbe integrare [et tu qui legis] ora pro me, secondo una formula, mutuata dall’epigrafia pagana, ben documentata nelle iscrizioni funerarie cristiane: Cipollone 2006, 77, n. 18; cf. ILCV III, p. 374; Pietri 1997, 54. Marucchi 1885, 157, n. 86 proponeva: [domne Agapite] ora pro me. L’epigrafe è perduta, come pure l’iscrizione Cialdea 1907, 6; Marucchi 1930, 539–540, fig. 3; Marucchi 1932, 143, fig. 33 (qui in fig. 16); EDR166937, che, nell’ultima riga, registrava un’espressione probabilmente simile: [- - - pat? vel mat?]er ora [pro me? ] (Marucchi 1930, 40 proponeva [- - - in]ter orat[iones]) (tuttavia nella foto pubblicata dallo studioso [fig. 16] non sembrano scorgersi tracce né della prima, né della seconda T, peraltro questa non registrata dal primo editore); Luttazzi 1996, 9, n 5 ipotizzava [- - - presbyt]er ora [pro - - - ], mai attestato. Alla r. 2 si può forse leggere [- - - Primi]tivus ma[rtyr- - - ]; in basso il testo era completato con l’immagine di un pesce accostato ad un’ancora, piuttosto comune, come è noto, nelle iscrizioni cristiane.
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Le iscrizioni contengono spesso irregolarità linguistiche e fenomeni grafofonetici comuni nel latino tardo. Quanto alla forma delle lettere, questa risulta generalmente poco curata, come è tipico delle iscrizioni della fine dell’antichità; fanno eccezioni poche epigrafi, nelle quali i caratteri grafici si rivelano più regolari, anche per la presenza di linee di guida95; due testi registrano alternanza di lettere capitali e minuscole96. Altre due iscrizioni risultano incise su laterizi, evidentemente pertinenti alla copertura delle tombe97.
Fig. 16 Iscrizione funeraria incisa su laterizio
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1), 16–17 (DAI 1968.3048; 1968.3086), 22 (De Rossi Schede, 10131, calco), 41–42 (DAI 1968.3209; 1968.3021), 51 (fig. 11, 8) e 59 (DAI 1968.3189). 96 CIL XIV 3426, in base all’apografo Stevenson 10571, f. 176 r.; Cipollone 2006, 77, n. 17. 97 CIL XIV 3430a (supra nota 90); Marucchi 1930, 539–540 (supra nota 95).
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La basilica di S. Agapito alle Quadrelle e le sue iscrizioni
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Crediti Fig. 1: Marucchi 1885; fig. 2: Scognamiglio 1865; figg. 3, 4: Marucchi 1899; fig. 5: Di Paola 2015; fig. 6: Pani Ermini – Giordani 1978; fig. 7: Marucchi 1932; fig. 8: foto dell’A. e Stevenson 10571, f. 168 r.; fig. 9, 11 (3), 12 (1), 13 (d): foto dell’A.; fig. 10: Filippi 1998, figg. 67. 70. 157. 161. 167. 169; fig. 11: Foto Arch. Sopr. Ant. Lazio A/74, 1209 (1). 1202 (2). 1199 (4a). 1189 (5). 1191 (6). 1194 (7a). 1190 (8), DAI 1968.3056 (4b), Scognamiglio 1865 (7b); fig. 12: Foto Arch. Sopr. Ant. Lazio A/74, 1200 (2). 1197 (3a-c), DAI 1968.3046 (3d); fig. 13: Foto Arch. Sopr. Ant. Lazio A/74, 1201 (a). 1196 (c); fig. 14: Stevenson 10571, f. 159 v.; fig. 15: Foto Arch. Sopr. Ant. Lazio A/74, 1207; fig. 16: Marucchi 1930.
Indice delle fonti letterarie e epigrafiche ActaSS (Augusti III) 530 (BHL 129) — 348 534 (BHL 126) — 345–346 536 (BHL 126) — 346 ActaSS (Maii IV) 144 (BHL 125) — 345 AE 1914, 72 — 112, 134 1921, 95 — 322 1958, 150 — 322 1971, 88 — 324 1977, 164 — 330 1982, 148 — 130 1987, 230 — 83, 108, 128, 299 1989, 133 — 82, 83, 128 1996, 329a — 132 1996, 329b — 132 1998, 286 — 83, 108–109, 128 2004, 421 — 324 2007, 314 — 296 2008, 1080 — 322 2010, 109 — 322 2010, 916 — 293 2011, 205 — 249 2012, 740 — 322 2015, 295 — 250 2015, 308 — 270 2015, 1116 — 322 2016, 728 — 322 App. bell. civ. 1, 397–439 — 44 I.93.433 — 113 Apul. met. 9, 30–31 — 324
Arch. Fotogr. Sopr. Arch. Lazio 82.729 — 350 Archivio SABAP-RM-MET, Fasc. SAR-LAZ I.1.062 — 155, 157–158, 162 Arnob. nat. 3, 41 — 322 Aul. Gell. noc. att. 16, 13, 5 — 119 BM 2014 8018.2 — 189 Cic. leg. agr. 2, 28, 78 — 115 CIE 8615–8622 — 233 8618 — 233 CIL I 311 — 7, 338 1556 — 264 CIL I2 60 — 247 61–62 — 245 91 — 246 95 — 252 112 — 246 114 — 252 119 — 252 166 — 247, 252 234 — 252 237 — 252 248 — 296 249 — 296 284 — 250 310 — 246
372
Indice delle fonti letterarie e epigrafiche
314 — 252 361 b — 248, 250 457 — 247 547 — 234, 239 547–570 — 233 548 — 238, 245, 249 549 — 235, 245–246, 249 551 — 235, 245, 249 552 — 234, 249 553 — 235, 245–246, 250 554 — 249 555 — 238, 246, 248–249 556 — 236, 245, 249 557 — 245 558 — 233, 245, 249 559 — 249–250 560 — 234, 239, 249 561 — 248–249 561–562 — 235 563 — 245, 291 563–564 — 245 564 — 245–247, 249 565 — 246, 248 566 — 245, 247, 249–250 567 — 249 568 — 240, 249 572 — 264 742 — 29 846 — 16 856 — 29 1446 — 247 1457 — 134 1463 — 80 2240 — 245 2357 b–c — 252 2437 — 246, 264 2457 — 252 2458 — 252 2461 — 252
2497 — 234, 240 2497–2499 — 233 2498 — 234, 249, 291 2501 — 245 2659 — 245 2834 — 246 2903 — 248 3070 — 296 3088 — 29 CIL III 6335 — 191 14335 — 215–216 CIL IV Suppl. 3340 — 223 CIL IX 915–916 — 207 6083,6 — 215 6090,8 — 191 CIL V 5947 — 358 8118,2 — 191 CIL VI *696 — 287 1 — 6 2 — 6 3 — 6 4 — 6 5 — 6 597 — 325 3723 — 291 3834 — 314 5230 — 223 5942 — 332 8439a — 314 9052 — 314 10048 — 278 15571 — 278 21227 — 278 21943 — 314
Indice delle fonti letterarie e epigrafiche 373
23107 — 278 24247 — 278 24247a — 278 26108 — 314 27028 — 314 30801a — 325 31733 — 314 34143c — 278 34170 — 314 49892 — 246 CIL VIII 5501 — 323 12383 — 333 CIL X 1403 — 209 01835 — 130 5850 — 118 6331 — 3 8058,6 — 208 8058,18 — 208–209 8058,29 — 222 8059,353d — 213 8059,454 — 215 CIL XI 2683 — 291 2684 — 291 3588 — 330 3740 — 330 6689,32 — 214, 221 6712,338d — 213 6712,388e — 213 6889,105 — 214 7590 — 330 8130 — 264 Novum 8113,21/22 — 214 CIL XIII 411 — 319 5786 — 277
CIL XIV 286 — 358 293–294 — 189 1985 — 329 2847 — 130 2849 — 124 2852 — 14, 108, 279–281, 292 2853 — 291 2854 — 130 2857 — 14 2860 — 292–293 2862 — 296 2865 — 296 2867 — 289–290 2872 — 6, 134 2875 — 128 2880 — 136 2883 — 213 2884 — 278 2885 — 279 2886 — 276–277, 281 2887 — 277 2888 — 281–283 2890 — 124 2896 — 128, 295 2897 — 128 2898 — 108, 124 2898–2899 — 87 2899 — 108, 124 2900 — 124 2902 — 112, 134 2906 — 126 2907 — 286–287 2908 — 128 2910 — 45 2911 — 92, 110, 124 2914 — 124 2915 — 126 2916 — 124
374
2917 2919 2924 2926 2929 2934 2937 2941 2942 2945 2946 2947 2950 2955 2960 2963 2965 2966 2967 2968 2969 2972 2975 2976 2978 2979 2980 2982 2991 2994 2996 2997 2999 3000 3003 3006 3008 3012 3013
Indice delle fonti letterarie e epigrafiche
— — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — —
6, 128 83, 284 83, 98, 126 130 104, 130 83, 88, 130, 358 108–109, 136 130 126 126 108–109, 124 6 130 126 8 95, 130 95, 130 89, 95, 130 95, 134 6 95, 130 108–109 80, 154 132 115 115 91, 130 136 136 6 296 126 132 124 299 6, 7 29 126 92, 103–104, 132
3015 — 83 3028 — 126 3039 — 134 3041 — 134 3042 — 134 3224 — 350 3290 — 136 3373 — 296 3374 — 296 3414 — 126 3415 — 6, 349–350, 356, 358, 362 3417 — 350, 354, 360, 362 3419 — 354 3420 — 349, 354, 361–362 3421 — 6, 347, 349, 352, 356, 358 3421 a — 356 3425 — 349, 356 3426 — 349, 356, 360, 362 3426a — 349, 356 3427 — 350, 356 3427a — 6, 349, 356 3428 — 6, 349, 360 3428a — 349, 356, 360 3429 — 349, 356, 362 3430 — 349, 354, 356, 362 3430a — 350, 360, 362 3431 — 350, 354, 356 4015–115 — 233 4091,43–44 — 296 4091,60 — 213 4091,68 — 296 4094–4104 — 233 4119,1 — 219 4119,2 — 219 4119,3 — 213, 217 4119,5 — 217 4119,7 — 223
Indice delle fonti letterarie e epigrafiche 375
4119,8 — 218 4120,4 — 187, 191 4123 — 187 4124 — 109, 130 4124,2 — 185, 187, 191–192, 196 4183 — 287 4276 — 305–306, 312, 314, 318 4276–4277 — 305 4277 — 305–306, 311, 327–328 7776 — 330 CIL XV 1 — 215 775 — 214 779 — 214–215 1686 — 214 2155 — 215 2330a — 296 2330b — 296 2342 — 213 2350a — 296 7010c — 191 7014a — 189 7089 — 264 7106 — 185, 187, 190–191 7106–7117 — 187 7107 — 188, 191 7108 — 188 7111 — 191 7113–7117 — 188 7114 — 190 7115–7117 — 188 7118–7119 — 188 7120 — 188 7398c — 330 7660c — 330 7758 — 329 7775a — 330 7775b — 330
8049 — 214–215 8178 — 222 8262 — 218–219 8292 — 218 8293 — 219 8323 — 219 8372 — 213 8385,2 — 217 8443 — 223 8581 — 217–218 Novum 1507/8 — 214 Novum 2164 corr. — 214 Novum S. 370/1405,1 — 213 CIL XVI 28 — 324 CIMRM 660 — 291 Cipollone 2006 n. 1 — 350 n. 2 — 358 n. 3 — 352 n. 4 — 360 n. 6 — 354 n. 8 — 359 n. 11 — 359 n. 16 — 360 n. 17 — 350, 362 n. 18 — 354, 361 n. 19 — 350 CLE 143 — 278 250 — 279 315 — 351 746 — 350, 354 Cod. Vat. Lat. 9110 160, no. 57 — 218 161 no. 75 — 222 165, no. 134d — 218 165, no. 135 — 220
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Indice delle fonti letterarie e epigrafiche
167, no. 184 — 213 172, no. 251 — 224 Cod. Vat. Lat. 9140 f. 236 — 220 f. 266 — 217 Cod. Vat. Lat. 10563 97 — 347, 358 98 — 347, 358 99 — 347, 358 f. 89 v — 350 f. 97–99 — 350 Cod. Vat. Lat. 10570 f. 64 v. — 350 f. 157 v. — 350 f. 159 r. — 350 f. 161 v. — 350 f. 162 r. — 350 f. 163 r. — 350 f. 164 r. — 350 f. 166 v. — 350 f. 169 v. — 350 f. 172 v. — 350 f. 176 v. — 350, 362 f. 188 v. — 350 f. 189 v. — 350 f. 191 v. — 350 f. 194 v. — 350 Cod. Vat. Lat. 10571 f. 159 v. — 356, 360 f. 165 v — 350 f. 168 r — 350 f. 168 r. — 350 f. 169 r. — 346 f. 176 r. — 362 f. 185 r. — 360 f. 186 v. — 356 f. 194 r. — 346 ff. 241–245 — 350
Cod. Vat. Reg. 551 — 345 DAI 1968 3021 — 354, 362 3048 — 350, 362 3071 — 350 3074 — 350 3086 — 362 3154 — 350 3155 — 350 3158 — 350 3189 — 350, 362 3208 — 350 3209 — 350, 362 3238 — 350 DAI 1987 581 — 350 EDR 072733 — 46 072764 — 95–96, 132, 134, 136 121846 — 362 151474 — 350 160978 — 134 160986 — 108, 128 164018 — 298 164206 — 297 166937 — 361 166960 — 134 166961 — 136 171331 — 136 Eph. Epigr. IX 463 — 358 740 — 7 741 — 7, 95, 136 746 — 297, 298 752 — 297 761 — 134 762 — 134 763 — 31
Indice delle fonti letterarie e epigrafiche 377
767 — 110, 124 768 — 132 770 — 132 771 — 16 772 — 132 774 — 132 776 — 83, 132, 358 778 — 95, 132 781 — 126 785 — 87–88, 100, 128 786 — 87, 128 787 — 87–88, 101, 128 790 — 132 791 — 134 792c — 128 876 — 87, 128 879 — 349, 354, 356, 359–360 880 — 349 881 — 350 882 — 349 883 — 349, 354 884 — 350 885 — 350 886 — 350 887 — 350 979–980 — 233 Fest. 114 L — 322 115 L — 322 Hor. carm. 1, 35, 21–24 — 291 ICVR I 773 — 358 1364 — 350 1374 — 350 1375 — 350 1377 — 350 1384 — 350 3356 — 350
IGR I 420 — 325 ILA 2 — 319 ILCV 311B — 359 1008 — 350 1575–1576 — 360 1948a — 358 2298 — 359 2351 — 354 2956 — 354 3503 — 354 ILS 810 — 191 810–814 — 188 814 — 191 3687 — 293 3687a — 289 3688 — 291 3696 — 279 4223 — 291 5287 — 278 5467 — 296 8633 — 194 8634 — 191 8635 — 196 Inscr. Creticae III IV 14 — 292 Inscr. Delos 2072–2073 — 292 InscrIt XIII 2 10,11 — 322 17 — 7, 134 108 — 338 140 — 338 412–414 — 319 454 — 325 454–457 — 319
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Indice delle fonti letterarie e epigrafiche
456 — 322 Lact. inst. 1, 20, 35 — 319 Liv. 2, 19 — 5 6, 29, 8 — 14 6, 29, 8–10 — 34 23, 19, 17–18 — 118, 299 23, 19, 18 — 150 Macr. sat. 1, 7, 35 — 322 Marucchi 1899 236–237, n. 1 — 358 237, n. 2 — 350, 356, 359, 362 237, n. 14 — 362 237, n. 15 — 362 237, n. 18 — 356 239–240, n. 12 — 350 239–240, n. 13 — 350 239–240, n. 14 — 350 239–240, n. 15 — 350 239–240, n. 18 — 350 239–240, nn. 12 — 350 239, n. 12 — 354 240, n. 16 — 354 240, n. 17 — 354 240, n. 18 — 360 241, n. 19 — 355 242–244, n. 22 — 352 Molisani 1972 93–95, n. 3 — 358 NSc 1897, 421 — 95 1897, 421–424 — 134 1904, 393–395 — 94 1904, 393–397 — 132 1904, 395–397 — 94 1907, 694 — 134, 136 1909, 133 — 100
1909, 134 — 128 Opt. Milev. 23 — 348 Ov. fast. 2, 569–616 — 319 2, 570 — 319 2, 571–582 — 322 2, 572 — 319 2, 583 — 319 2, 585–616 — 319 2, 609–610 — 319 2, 615–616 — 319 5, 419–544 — 319 5, 421–422 — 322 5, 599–602 — 319 Plin. n.h. 33, 26 — 208 36, 62 — 291 Plut. Numa 8, 11 — 319 Porph. ad Hor. epod. 17, 48 — 324 SEG 31, 1521 — 292 36, 923 — 325 Serv. ad Verg. Aen. 5, 64–66 — 324 ad Verg. ecl. 8, 82 — 325 Svet. gramm. 17 — 338 gramm. 17, 2 — 45 gramm. 17, 4 — 55, 93, 150 Nero 33 — 324 Nero 54 — 277 Tac. ann. 13, 19, 4 — 277 13, 20, 1 — 277 13, 22, 2 — 277 13, 27, 3 — 277
Indice delle fonti letterarie e epigrafiche
TH 32 — 209 64 — 209 Varr. ling. lat. 5, 66 — 22 6, 4 — 14, 22 9, 61 — 322 Vitr. 1, 2, 5 — 22 3, 2, 8 — 22
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