Poesie (1943-1979)


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Poesie (1943-1979)

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Ipoeti dello Specchio

BARTOLO CATTAFI POESIE 1943-1979

“Arnoldo Mondadori Editore

Sempre vocazionalmente distante dagli umori mutevoli e dalle implicite ma pressanti richieste dei tempi, Bartolo Cattafi (1922-1979) è venuto vivendo e componendo, nei decenni della sua esperienza, un’opera la cui singolarità, la cui naturale forza e freschezza sembrano avere progressivamente guadagnato risalto, dimostrando tutta la necessità di questa poesia, offrendoci

la garanzia della sua inalterabilità, profondità e durata. Oltre a un’ampia e rappresentativa scelta da tutti i suoi libri, queste Poesie 1943-1979 offrono un significativo gruppo di inediti e un folto Apparato filologico, critico e bibliografico. Giovanni Raboni, curatore del volume con Vincenzo Leotta, mette opportunamente in risalto le bipolarità presenti nella poesia di Cattafi, nel suo incessante

«movimento», nel suo «entusiasmo espressivo». Bipolarità che si possono riassumere, volta a volta, nel prevalere del momento figurativo su quello figurale, del registro descrittivo su quello speculativo, di una realistica attenzione per il concreto rispetto a una

metaforizzazione più nettamente implicata nell’astratto. Eppure, sottolinea Raboni, «non c'è in Cattafi trascrizione fedele del dato naturale 0 empirico che non sia scompaginata, ghiacciata, resa “mostruosa” e traslucida dal soffio

dell’astrazione e del mito né, d'altra parte, figurazione così assoluta e puramente mentale da non occupare sulla pagina (e nell’onda di rifrazioni che questa suscita) tutto lo spazio che compete agli oggetti reali». In questa spontanea fedeltà a se stesso

WITHDRAWN From Toronto Public Library

Dello stesso autore

Nella collezione Lo Specchio Le mosche del meriggio L’osso, l’anima

L’aria secca del fuoco La discesa al trono Marzo e le sue idi

L’allodola ottobrina Chiromanzia d’inverno Nella collezione Gli Oscar | Poesie scelte

Bartolo Cattafi

POESIE 1943-1979 a cura di Vincenzo Leotta e Giovanni Raboni

ARNOLDO

MONDADORI

EDITORE

ISBN 88-04-33356-1

© 1990 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano «I edizione marzo 1990

INTRODUZIONE di Giovanni Raboni

1. Ci sono, nella storia della poesia di Cattafi, due momenti cruciali che si

contrappongono quasi simmetricamente fra loro; cruciali, vorrei sottolineare, non tanto per gli sviluppi di cui costituiscono l’annuncio, quanto per i percorsi di lettura ai quali danno accesso. Depositi testuali di questi due momenti sono la plaquette Qua/cosa di preciso (1961), primo nucleo o campionatura della raccolta L’osso, l’anima (1964), e — a distanza approssimativa d’un decennio — le «Sedici poesie dallo Stretto» apparse nell’«Almanacco dello Specchio» (1, 1972) e quasi contemporaneamente confluite in L’aria secca del fuoco. (Entrambi i gruppi di testi, naturalmente, sono rappresentati in questo volume; la nota finale aiuterà il lettore a ricostruirne la posizione all’interno delle rispettive sezioni cronologiche.) Le diciannove poesie di Qualcosa di preciso documentano con grande evidenza, se confrontate con il paesaggio complessivo offerto da Le mosche del meriggio (1958, ma riassumente la produzione del decennio 1945-1955), il passaggio, non brusco ma netto, da una prevalente figuratività a una prevalente figuralità, da un registro sostanzialmente descrittivo e narrativo a un registro sostanzialmente astratto-speculativo (aperto, con frequenza, a inflessioni oniriche e cadenze «oracolari»), da un sentimento del viaggio come metafora della vita a una pratica materiale-allegorica di viaggio dentro la metafora: tendenze di cui le trecento pagine di L’osso, l’anima costituiscono

un’inequivocabile, clamorosa conferma e che Cattafi sembra riprendere e rielaborare, in questa fase, da alcune esperienze decisive dei decenni precedenti (Montale, Ungaretti, gli ermetici), ma con un tasso di oggettualità e una sensibilità materica che lo avvicinano piuttosto alle avanguardie europee — non solo letterarie (per esempio Beckett, con Kafka sullo sfondo), ma

anche e forse soprattutto pittoriche (per esempio Wols, con il surrealismo alle spalle) — degli anni Quaranta e Cinquanta. Uno spostamento pressoché speculare documentano le «poesie dallo Stretto». Dopo un silenzio di più di otto anni (dalla fine di dicembre del ’62 ai primi di marzo del ’71, come informano in negativo i frontespizi dell’Osso e dell’Aria), Cattafi illumina di colpo uno scenario violentemente mutato, anzi, se così si può dire, violentemente ricomposto: il suo ritorno «anacroni-

stico» alla fisicità e alla figuratività non potrebbe essere più radicale né più toccante; la ripresa del discorso appare fittamente, umilmente intessuta di episodi «veri», trasfigurati solo dalla luce esplosiva e candente di una pronuncia che come nell’Osso (ma qui con implicazioni metriche e tonali più dirette) tende in modo irresistibile alla forma epigramma. Come è avvenuto per Qualcosa di preciso, anche il segnale dato con le

«Sedici poesie» viene corposamente ribadito dal fitto volume (duecento pagine, oltre trecentocinquanta testi) in cui esse trovano sistemazione. Letta (e leggibile) integralmente e d’un fiato, «come un romanzo», tutta la prima parte dell’ Aria (non soltanto «Lo Stretto», ma anche le sezioni successive sino a, perlomeno, «Linea di costa») ha l’arrischiata vivacità, la grazia schietta e incantevole di una tarda e, si capisce, immaginaria fioritura neorealistica: come se Cattafi, reimmergendosi nell’avventura del linguaggio dopo una così lunga vacanza o astinenza, avesse sentito la necessità, anche, di ritrovare e

ricertificare «letteralmente» le proprie radici: non a caso il suo (temporaneo) ritorno stilistico alla descrittività primaria del segno e all’immediatezza del racconto lirico è al tempo stesso un ritorno a nomi e luoghi originari che nell’Osso risultavano ormai assenti, o «messi in cifra» sino alla cancellazione.

2. La conversione da fisicità ad astrazione che si annuncia in Qualcosa di preciso e lo spostamento inverso di cui offrono una recisa testimonianza iniziale le «poesie dallo Stretto» sono (l’avevo premesso) immagini utili per accertare la poesia di Cattafi come insieme, come organismo spaziale, assai più che per descrivere la sua processualità, il suo divenire nel tempo. Che vi siano momenti come questi, in cui il movimento appare in qualche modo compiuto e sospeso (e osservabile, così, come punto d’«arrivo» o di «ritorno», come sosta ad uno dei suoi estremi) non toglie, evidentemente, che a contare sia soprattutto il movimento in quanto tale. Ed è comunque un fatto che già all’interno dell’Aria e segnatamente nella sezione finale, «Tenebra e azzurro», il cammino verso l’abolizione o l’occultamento dell’aneddoto e la

XII

rimozione del verosimile in favore del puro groviglio di segni, del reperto immaginario, del referto sibillino, dell’icona luminosamente irriferibile sembra riprendere più recisamente, più univocamente ancora che nell’Osso. Sarebbe un’ingenuità poco scusabile e pochissimo produttiva voler identificare, e segnalare una per una, tutte le tappe di quella che può apparire ma non è una vicenda di alterni «avanzamenti» e «indietreggiamenti» (impossibile, oltretutto, decidere in modo non arbitrario quali movimenti abbiano dirit-

to al primo e quali al secondo di questi termini). La verità è che non ci sono né tappe né vicenda; o meglio, la vicenda è molto semplicemente quella della vita di Cattafi, e non c’è dubbio che ciò che la conclude, ossia la profonda «letteralità» della morte, sia l’unico traguardo e al tempo stesso l’unico epilogo che sia lecito immaginare e assegnare anche alla storia della sua poesia. Non spostamenti alterni e successivi, dunque, ma spostamenti interni, organici, assestamenti interminabilmente necessari e oscuri Ciò che a tutta prima sembra contrapporsi e, contrapponendosi, formare nel tempo un diagramma oscillatorio o spezzato, a guardar meglio disegna invece una linea doppia e intrecciata, il grafico di una vibrazione continua, ostinata, enigmaticamente funzionale; e tutte le coppie di oppostidi cui mi sono valso poco fa per suggerire diversità e mutamenti potrebbero benissimo esser riprese per evocare la sostanziosa ambiguità di una persistenza tanto precaria quanto invincibile, il prodigio di una precisione mirabilmente «sfasata». Dalla prima all’ultima battuta, dall’avventurosità

euforico-ansiosa

di Nel centro della

mano alla solennità atrocemente disadorna di Chiromanzia d'inverno, la poesia di Cattafi è attraversata e vivificata dalle scariche di questa bipolarità al tempo stesso dissestante e costitutiva, da questa «lotta» fra un + e un — che esclude ogni tesaurizzazione e assicura, in cambio, il continuo rinascere da se

stessa di un’energia infinitamente intatta, l’instancabile, paradossale min porsi di un entusiasmo espressivo tipicamente aurorale. Credo non occorra insistere più di tanto su questo punto, secondo me non meno lampante che decisivo; nessun lettore leale, ossia disposto a lasciar | agire il testo, potrà sottrarsi all’irrecusabilità del fatto che non c’è, in Cattafi, trascrizione fedele del dato naturale o empirico che non sia scompaginata, ghiacciata, resa «mostruosa» e traslucida dal soffio dell’astrazione e del mito né, d’altra parte, figurazione così assoluta e puramente mentale da non occupare sulla pagina (e nell’onda di rifrazioni che questa suscita) tutto lo spazio che compete agli oggetti reali. Catturare e mostrare le ombre come cose salde, e viceversa, appartiene specificamente a questa poesia almeno nella

misura in cui inerisce genericamente ad ogni possibile definizione o ipotesi di poesia; e pochissimi libri di questi decenni danno l’impressione di poter risultare alla lunga, in tale senso, altrettanto compatti e probanti. Altri autori della sua generazione potranno esserci sembrati, via via, più «attuali», più ricettivi o tempestivi di Cattafi nel cogliere e registrare gli umori e i colori dell’epoca; ma nessuno, a mio parere, offre le stesse garanzie di durata 0

appare già adesso così inalterabilmente leggibile. Se esiste, come è probabile, un prezzo da pagare per figurare nell’immediato (o anche, perché no — ma è una scommessa più ardua — nel futuro) quali «interpreti» o «testimoni» del proprio tempo, credo proprio che Cattafi si sia sempre, con tranquilla alterigia, rifiutato di pagarlo; ciò che unicamente ha inteso e saputo interpretare (e testimoniare, e infaticabilmente ripetere) è il gesto essenziale, primordiale,

la funzione primaria e (nel senso giuridico del termine) «indisponibile» della poesia; e non è dunque il caso di sorprendersi se i suoi testi, col passare degli anni, sembrano acquistare in freschezza o addirittura in novità, mentre quelli di autori suoi coetanei, e non dei meno celebrati, con il defluire dei fatti o

delle emozioni collettive che ne alimentavano il senso si asciugano e si screpolano sino a farsi inopinatamente indecifrabili e muti. 3. Molte volte, nel corso della lunga amicizia che mi ha legato e ancora, al di là della morte, mi lega a Cattafi, mi sono chiesto se la bipolarità attorno alla quale si è organizzata per intero, come ho cercato di mostrare, la storia della sua poesia, non avesse in qualche modo origine o non trovasse comunque dei riscontri «naturali» in certi aspetti osservabili o intuibili della sua personalità e, oggettivamente, nella storia stessa della sua vita: curiosità e pretesa alquanto scorrette o perlomeno ingenue, me ne rendo conto (Proust — il Proust che accusa Sainte-Beuve — se ne sarebbe scandalizzato), e tuttavia irresistibili davanti a un sistema espressivo in cui il gettito d'immagini obbedi-

sce palesemente a un ritmo non meno necessario e non meno organico di quello del battito cardiaco (la sistole corrispondendo per ipotesi — e per metafora — a un minimo, la diastole a un massimo di permeabilità al reale e di dipendenza dal visibile). L’unica risposta non eccessivamente frammentaria che, al riguardo, io sia

riuscito sinora a formulare si basa su quella che vorrei chiamare la doppia

cittadinanza ideale di Cattafi, cioè sull’adesione totale e spontanea con la quale egli sembrava appartenere a ciascuno dei due luoghi nei quali prevalentemente visse, la Sicilia e Milano. Quando lo conobbi (poteva essere la fine

del ’61 o l’inizio del ’62 e a farci incontrare fu Vittorio Sereni — circostanza alla quale ho pensato poi così spesso e con tanta commozione da dubitare, ormai, d’essermela inventata), a colpirmi prima d’ogni altra cosa fu proprio la sua incantevole scioltezza cittadina, la grazia sicura e appena ritrosa con cui attraversava ambienti e situazioni; non c’era traccia, in lui, dell’imbarazzo

o dell’avidità o del rancore dell’«immigrato»: Milano era perfettamente sua,

suoi i grigiori, le dure penombre, le delicate o atroci soffocazioni in cui chi

non ci sia nato sì perde tanto facilmente d’animo e che lui respirava invece a pieni polmoni come se il nord fosse il suo elemento, come se non ne avesse mai abbastanza. Eppure, pochi anni dopo, vendute finalmente certe terre il cui ricavato lo restituì a un benessere economico momentaneamente perduto (non per questo la sua esistenza milanese aveva smesso nel frattempo di svolgersi, Dio solo sa come, nei modi propri d’un rentier raffinato e generoso), Cattafi, di colpo, tornò a vivere in Sicilia, e niente, a chi andava a trovarlo

nella sua casa fra i limoni, pareva più inscindibile dalla sua persona di quell’aria, di quella luce, di quei ritmi amabili, fantasiosi e indolenti... Sarebbe troppo facile, beninteso, ravvisare in questa specie di bigamia perfettamente equilibrata e felice (ogni volta che tornava dalle nostre parti ritrovava subito con immutata passione le delizie del livido e dello smorto, dei tramonti invisibili, degli interni assediati), in questa capacità di nutrire due amori così diversi fra loro ma comunicanti, è chiaro, con strati ugualmente

profondi delle sue inclinazioni e dei suoi pensieri, una sorta di pendant fisiologico e sentimentale alla costitutiva «doppiezza» della sua poesia. Dotato di un gusto e di un’immaginazione di straordinaria prontezza e duttilità (una delle tante prove possibili sono i quadri che dipinse per diletto, ma con risultati nient’affatto dilettanteschi, verso la fine degli anni Sessanta, durante la

lunga interruzione del lavoro poetico), non può certo sorprendere che Cattafi fosse capace di «sentire» con la stessa intensità il fascino della grande luce e quello dell’incolore, di appassionarsi al prepotentemente vero non meno che al rischiosamente possibile (e viceversa). Ma, se non m’inganno, nel suo equanime dividersi fra l’una e l’altra di queste vocazioni ambientali c'era ben altro e di più che una semplice disponibilità estetica; c’era, in profondità, quello stesso bisogno di essere e contemporaneamente non essere, di vivere con i vivi e al tempo stesso con i già morti e i non ancora nati, di farsi insieme copista e cabalista, «tifoso» dell’incarnazione e testimone del verbo, che costituisce la pulsione originaria, il motore inesauribilmente vitale, il «funzionamento» non altrimenti descrivibile o esplicabile della sua poesia.

4. Non saprei se (e, soprattutto, come) far coincidere la relazione di cui ho appena parlato con un’altra relazione di cui è impossibile non rinvenire la presenza e l’importanza nell’opera poetica di Cattafi così come era impossibile non avvertirne l’influsso nei gesti e, per così dire, nella tonalità della sua.

vita. Sto parlando della relazione oscura e lampante, e oscuramente simmetrica, che collega il suo vitalismo — così evidente nell’appassionata precisione dei dettagli fisici e dei segnali «avventurosi» (verrebbe voglia di dire hemingwaiani, pensando alla sua costante e in qualche modo ingenua ammirazione per il grande scrittore americano) che sostengono le sue metafore, non escluse le più astratte, inabitabili e funeree — al tema, non meno

ricorrente e

implicitamente dominante anche là dove la superficie del testo trasmetta immagini esaltanti o gioiose, della sconfitta biologica, della dissoluzione, del-

la morte. Non si tratta (non si tratta soltanto) di un’ambiguità di segno negativo, pessimistico, comportata e maturata per lui come per tutti dall’esercizio dei propri diritti espressivi, ma di una vocazione «nominale», non meno impellente di quella che tante altre volte lo spinse a mettere al sicuro nel cerchio magico della pronuncia gli oggetti amorosamente selezionati dai sensi e dalla memoria. È, questo doppio impulso, semplicemente una variante — una variante a un livello più profondo — di quella che poco fa, scherzosamente, ho chiamato bigamia? Forse; ma non ne sono affatto sicuro. «Stare bene» nel pensiero della morte non meno e non diversamente che nella durata della vita implica, credo, una disponibilità, una dedizione d’un qualche grado ulteriore — qualcosa di davvero non lontano, forse, dalla tensione o temperatura

religiosa che lettori di non secondario acume hanno riscontrato non soltanto nelle poesie esplicitamente religiose di Cattafi ma, più significativamente, nell’insieme della sua poesia, nel modo stesso, originario e costante, in cui

essa si costituisce e ci appare. Non voglio dir nulla di questo; i testi sono lì, ogni lettore può cercare per suo conto se e fino a che punto l’ipotesi sia o gli risulti fondata; identificata e classificata la metafora dal punto di vista del suo funzionamento preferisco resistere alla tentazione di scavalcarla, di correre al di là di essa per raccoglierne — e, peggio, imporne ad altri — il significato ultimo e forse ultimativo. Ci sono, in ogni caso, a sollevarmi insieme dalla

pretesa e dalla rinuncia, le poesie in cui il tema religioso è presente in modo letterale, costituisce l'argomento e per così dire la materia prima del testo; e tutti possono vedere come esse si infittiscano nell’ultima parte della storia di Cattafi sino a un quasi assoluto predominio. Il bisogno di abbracciare i simboli elementari della fede, di appropriarsi degli strumenti «pratici» della

devozione e della preghiera si fa irresistibile — questo sì possiamo dirlo — a mano a mano che all’idea della morte si sostituisce nel suo animo il senso della morte, la «vista» sulla morte. Né può sorprendere, penso, che a questa esperienza estrema corrisponda per Cattafi, stilisticamente, una delle fasi, l’ultima, di prevalenza del concreto sull’astratto, del racconto sull’allegoria:

niente è più letterale della morte nel momento in cui la sua eccessiva e irreversibile vicinanza impedisce ormai di farne — come tante altre volte, anzi per tutto il resto della vita — un uso figurale. E niente è più consolante e struggente da ricordare, per chi gli sia stato vicino in quei giorni, della disperata e lucidissima serenità con cui il nostro amico visse, fra tanti altri congedi, anche questo nuovo e ancora una volta «metaforico», certo, ma stavolta definitivo,

distacco dalla metafora. Giovanni Raboni

XVII

Avvertenza

Le poesie selezionate sono state riunite in serie diacroniche progressive, a prescindere dai singoli libri e dalla loro articolazione in sezioni, di cui però si dà conto nelle note. L’ordine di successione è lo stesso con cui esse figurano nelle raccolte principali, secondo il criterio, non strettamente cronologico, adottato già per le Poesie scelte, a cura di G. Raboni, Mondadori, «Gli Oscar», Milano 1978. Nel caso di testi più volte

dati alle stampe, la lezione accolta è quella dell’ultima edizione, mentre nelle note si registrano le varianti.

NOVEMBRE

Le mosche mature cadono a gambe in aria quando viene il pettirosso e i morti si accendono davanti ai piedi piccole fiamme per un giorno

LE ROTTE BIANCHE

(Il vento è mite dove nasce) Andremo sulle vergini onde butteremo i rimpianti le tristi zavorre seguiremo le rotte bianche d’un albatro

INNANZI A TE

Nudo sono innanzi a Te

un filo di paglia mi può trafiggere

Esultanze d’allodole nelle feste calme del cielo In terra l’oliva imbruna il verde svanisce

al ticchettio terso del pesa

EOLIE

Le Eolie le azzurre parole sono sorte nell’acqua nel mattino di gioia come vergini calme con un faro bianco nel cuore una linda nuvola sopra.

AL TUO PASSARE

In un rossore

di cinabro antico riaffiora il mare

I tramonti si raccolgono

nel cavo di conchiglie che un giorno s’apriranno al tuo muto passare

10

COL SOLE DISCESO

Col sole disceso il mare sommesso

appena arriva a toccare la riva La terra è un fiato di fumo azzurrino da dove escono le rondini ebbre con l’ali indietro e cadono

11

Stravolto uccello in un lampo il sole | riporta abbacinato. al limite celeste;

e quivi muore.

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NELLE A pi

S'INALBA

S’inalba il vacuo mondo, si schiude inerte la mano,

sfuggente il monotono ronzare della mosca,

un suono di tedio nella luce bianca

13

IN UN GIORNO DI LUCE SOSPESA

In un giorno di luce sospesa ritorno a mezza costa del colle, m’affaccio con cuore sommesso alla casa, alla vecchia custode

d’un ricordo odoroso nel tempo, nel limite polveroso di altri anni. Un amore rinchiuso si svela, una sera di mele marce,

di ragnatele.

L’INVERNO SI FA FUMOSO

L’inverno si fa fumoso nella stanza, attizza lacrime, resine stridenti.

(L’inverno passato succiato nella pipa dolce assieme al tuo odore,

rame ricche di fiamme nella veglia, la festa di noi due col caldo rosso in mezzo alle gambe,

a cavalcioni, col nostro vino a fianco.) Crolla un tizzone,

la lanterna del sonno è sempre quieta.

17

‘DOMANI

Domani apriremo l’arancia il mondo arancia nel verde domani,

si poserà la nuvola lontana con le zampe guardinghe di colomba sopra il tetto di tegole vecchie sopra il tempo piovuto rugginoso, serberò al tuo petto quell’odore d’arancia viva, di verde domani.

18

NELL’ATRIO, IN ATTESA

Rimangono in un mucchio scolorito rose e urine nell’atrio. Ignoto è il regno, alba e attesa, crepuscolo di nubi dove Dio s'annida, come un colombo gutturale. Oscuro è il regno, ospite nell’atrio mano incerta e straniera stacca al vento la lampada incostante, scendila al petto per leggerci l’epigrafe, sugli occhi se le statue biancheggiano, se un triste insetto stria la nostra mente. L’arpa celeste insiste nelle stanze tra un biondo cerchio di scheletri e di sedie;

arpa che ancora insisti, uccello della morte lenta, sul fuoco polveroso.

19

BRUGHIERA

La stagione finisce in questo suono di eriche e di vento. Va’ amore, o macchia'della mente, rosa triste

desisti dal dominio. Là in esilio riluce il vagabondo frammento d’una stella, l’altra sorte

travolta in altri cieli. (Danza ancora allo specchio col piede smuovi la cipria d’un raggio invernale, e piega il collo piega il collo al solletico d’un topo impaziente.) La stagione è finita; ancora vivono il dente infisso nel centro della mano,

ciò che la spina lentissima ci scrisse. Una lampada gracile, l’allodola rientra incerta, s'addentra sull’immoto colore di brughiera.

20

L’AGAVE

Abbandona la sabbia siciliana, la musica e il miele

degli Arabi e dei Greci, rompi i dolci legami, questo torpido latte delle radiche,

discendi in mare regina sonnolenta verde bestia con braccia di dolore come chi è pronto al varco; nelle grandi città, nelle nevi, nel bosco, nel deserto carovane camminano in eterno;

viaggia assieme all’anima fredda dei gabbiani assieme al cuore fecondo al pesce pregno che arricchisce la rete più lontana e la mano lentissima di Dio venuta in volo da un nido di nebbia.

21

DAL CUORE DELLA NAVE

Così è il sole divelto dallo zenit corpo stanco in viaggio alla deriva come la rosea memoria già lontana. Puoi cogliere dal cuore della nave alga e antracite, i fiori dell’abisso gli occhi verdi del prato e del mare, e qui in petto ho una macchia a sinistra come di nafta che non lascia il golfo, in più i simmetrici polmoni, ancora ansiosi e sudati, quasi due gigli estivi. Il nostro sangue nel gracile topo come vibra impazzito, come un intimo uccello un pensiero irreale quando il cielo s’approssima e al battello le campane s’inclinano nel freddo.

IL TRENO PER PARIGI

Il treno per Parigi fatto d’acciaio di luce d’antracite lanciato tra le biade,

la Francia all’alba era

una quercia ornata di colombe. Nave allegra e severa, entrai nel velluto dei re, in un cielo

di cupo azzurro e d’altissime vele vidi scoccare l’astro della tua rugiada.

(1952)

23

TIRO A SEGNO

In quest’aria la rosa si rovina; partendo dal più grande dei cerchi concentrici,

giungendo al centro del vivo colore trovare che di già vi pascola la nera la dura la vera cheratina d’un insetto definitivo...

Dio vi salvi con la vostra Regina. (Londra, 1952)

24

MIO AMORE NON CREDERE

Mio amore non credere che oggi il pianeta percorra un’altra orbita, è lo stesso viaggio tra le vecchie stazioni scolorite,

vi è sempre un passero sfrullante nelle aiuole un pensiero tenace nella mente. Il tempo gira sul quadrante, giunge un segno di nebbia sopra il pino il mondo pende dalla parte del freddo. Qui le briciole a terra, la brace del camino, le ali,

le mani basse e intente. (Lowonsford, 1952)

LIFFEY RIVER

La Birra Guinness ha molte porte scure sui docks e qualche lume sparso in un lento regno di chiatte e di vagoni,

di ruggine vagante lungo il fiume, dove il cigno e il gabbiano sono amici col petto bianco puntato contro il fango. Più avanti, a lato della foce,

un prato di trifoglio nella pioggia:

in mezzo vì s'ammucchiano le nostre giacche, le anime e i loro segreti scoloriti, le belle bottiglie tracannate da una gola tenera, feroce. E Cristo passa, astro avvolto di nebbia o nido per le stanche farfalle che partono da noi, dolce luce d’olio. (Dublino, 1952)

26

PRINCE’S STREET

Le grandi ombre sospese nella nebbia toccano il suolo, vanno

nell’erica degli alti territori, i Re a cavallo con fiaccole di fosforo,

i Maghi, gli Emblemi, i Cavalieri. Non ho l’unguento da mettere sui margini né la statua che colmi questa nicchia quando il falco ha fatto il suo viaggio dal pugno a un cuore. Copriti il buio del petto, il vuoto sibilante se il vento entra in Prince’s Street come . in un lungo sentiero illuminato. Nella tasca del nero impermeabile che sventola al mio fianco c’è il fiammifero spento, c’è il leggero tabacco che fumano i fantasmi. (Edimburgo, 1952)

DA NYHAVN

Non ho molto da dirti, alle ventuno

il mondo comincia a farsi bello come il globo che pende sulla porta Si può bere, ballare,

parlare di cose scollacciate baciare le statue colorite, dentro vi bollo bene, nel bordello

di musiche e di mescite. Nessuno sa che contrabbando compio col petto tatuato, che tesoro brucia nella grotta e che grigia cartuccia, che miccia nelle mani.

Mi scordo della prora, domani farò la rotta esatta, ora ho l’esempio, il budello,

la fame dritta e secca dei gabbiani (Copenaghen, 1952)

PLAZA DE TOROS

Il gelsomino s’allarga sulla calda crosta dei muri, un tempo in alto,

intorno, vedette e astrologhi avvistavano nubi avverse o amiche, le stesse stelle d’Arabia.

Siamo immagini inscritte senza sosta in questo cerchio, manichini, uomini ed emblemi

di due colori, come qui è la pelle del toro, rossa, nera. Scuotiamo in tasca l’obolo che avemmo,

l’oro nobile e allegro, il tetro piombo. Il toro ha fuoco, ha forza, fedele a ciò che dice l’aspra voce del sangue, ci sospinge. Così accadono fatti,

si gioca a testa e croce ed una viva vernice tinge l’arena, qualcuno esce, di là dal perimetro, nell’ombra. Resta un traffico, una festa di formiche

trafelate. Una scena estiva.

(Siviglia, 1953)

29

PARTENZA DA GREENWICH

Si parte sempre da Greenwich dallo zero segnato in ogni carta e in questo grigio sereno colore d’Inghilterra. Armi e bagagli, belle speranze a prua, sprezzando le tavole dei numeri i calcoli che scattano scorrevoli come toppe addolcite da un olio armonioso, in un’esatta

prigione. Troppe prede s’aggirano tra i fuochi delle Isole, e navi al largo, piene, panciute, buone

per essere abbordate dalla ciurma sciamata ai Tropici votata alla cattura di sogni difficili, feroci. Ed alghe, spume,

il fondo azzurro in cui pesca il gabbiano del ricordo posati accanto al grigio disteso colore degli occhi, del cuore, della mente, guano australe ai semi superstiti del mondo.

(1953)

ANTRACITE

Fabbriche e treni perdono lucore, invecchiano, sbiadiscono col tempo,

sconfinano nel bigio della nebbia. L’antracite perdura, abbasso, nera, fragile, dura, riflessi di metallo, terra chiusa e remota

a lumi spenti. Ne intendo i segni, i cippi calcinati del confine, l’ala del fossile confitta sulla costa le mani rattrappite dei compagni naufraghi morti nel golfo senza mare. Può darsi avvenga domani un altro rogo non l’aperta l’allegra combustione che macchia l’aria di fumo e d’amaranto,

la soffocante perdita dell’anima noi incastrati nell’ombra. Penso alla pioggia, alla cenere, al silenzio che l’uragano lascia amalgamati nella vergine lapide di melma dove drappelli d’uomini e di bestie verranno ancora a imprimere un transito nel mondo,

all’alba ignari sul nero cuore del mondo

31

IL GIORNO DOPO

L’autunno ha mari teneri, ha colori

che calme navi tagliano; cadranno foglie e cieli sospesi per un filo. Andare sino all’albero, sedersi, entrare in confidenza con l’inizio

di radiche più avide e vive verso il basso. Abbiamo accanto povere fredde cose, bucce, bottiglie, frammenti di memoria,

più in là c’è il mare. «L’ultima domenica», e ci trovi ancora ansanti, il cuore

un poco stanco per la festa, branco che più non fugge, prede colorite dal ferro irto nel mondo dal vino, dai fuochi solitari. Ci vinse

questa striscia di fumo sulla terra, fu sempre obliqua l’ombra che ci seguì in silenzio.

32

LIBERO E TRISTE

È ancora primavera. All’alba vedo verde, fertile, untuosa, la convessa

polpa del mondo. Più tardi il sole aizza le voraci colonie di microbi lì inscritte inserite come un vivo epitaffio nel cuore delle cose volte a un biondo colore;

nel meriggio calano le mosche. M°’appare la bandiera che non ha medaglie l’albero brullo, vagante senza frutti né fronde lo straniero disceso

da una scala improvvisa una domenica che può dovunque morire libero e triste senza mai dire i nomi

le opere, i motivi al corvo e all’uomo a uno sciame deluso di farfalle.

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STORIA

Dov'è l’antica Grecia con dracme sonore come il mare d’Omero? Non ne so nulla, ho un tondo

gettone di telefono, passo quando un colore di semaforo consente vinco la fame, i fiori sono cari solo donne e cadaveri li amano,

ma nel palmo sudato della mano c'è malamente incisa qualche cosa. Avrò forse un’anima che giunge più in alto dei pali del telegrafo come il passero, l’uccello d’ogni giorno.

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NFL CERCHIO

Qui nel cerchio già chiuso nel monotono giro delle cose nella stanza sprangata eppure invasa da una luce lontana di crepuscolo può darsi nasca un’acqua ed una nebbia il mare sconosciuto e il lido dove per prima devi imprimere il tuo piede calando dalla nave consueta, transfuga

che il rombo frastorna in corsa nella mente,

lungo le belle curve di conchiglia. Sarà prossimo il centro: là s’appunta il nero occhio, la nostra perla di pece sempre in fiamme, serrata tra le ciglia, che per un attimo, in un battito ribelle intacca il puro ovale dello zero.

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ARCIPELAGHI

Maggio, di primo mattino

la mente gira su se stessa come un bel prisma un bel cristallo un poco stordito dalla luce. Dal soffitto si stacca neroiridato ilare il festone delle mosche,

posa su grandi carte azzurre riparte e lascia ronzando isole minime, arcipelaghi forse d’Africa e d’Asia. Intanto in cielo sempre più si svolge la mesta bandiera della luce. Prima di sera l’unghia scrosta l’isole le immagini superflue. Le carte ridiventano deserte.

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SOTTOZERO

A novembre andammo sottozero.

Il fiume aveva foglie gialle di platani e colori su cui l’occhio patisce: acciaio, bitume, quello della biscia che scorre lungo i sogni velenosi. Nella cabina da tempo sommersa (primo piano d’albergo, rue de Tours) indossammo la maglia più pesante, mangiata dalle tarme. L’unico modo per fingerci vivi era colpire il cuore: poi tirare l’ossidata maniglia dell’allarme.

IN ALTOMARE

Poi problemi e pericoli scomparvero, vedemmo nella tersa atmosfera cose precise, numerate, in fila lungo le linee che dalla finestra si tendono fino all’orizzonte. Muovere acque, rompere molecole, fendere l’aria furono gesti facili, passare dal moto alla quiete e viceversa un gioco. Pesava in cielo il cerchio del futuro rinfrescato talvolta dall’odore celeste dell’ozono da uno scroscio di pioggia. Prima d’estate — sirene percorrevano i quartieri — pensammo a chiare immagini di fuoco. Non vi furono incendi. Ma navi rumoreggiano col vento ‘ stormiscono coi platani coi panni dei cortili, navi che ci riportano nell’alto mare da dove uscimmo, dove

un palmo d’azzurro costa parecchio ed è tutto malcerto, anche l’azzurro

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QUALCOSA DI PRECISO

Con un forte profilo, secco, bello, scattante,

qualcosa di preciso fatto d’acciaio o d’altro che abbia fredde luci. E là, sul filo della macchina, l’oltraggio

d’una minima stella rugginosa che più corrode e corrompe più s’oscura. Un punto da chiarire, sangue d’uomo, briciola

vile oppure grumo perenne, blocco di coraggio.

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APERTURA D'’ALI

E l’apertura d’ali? Essa varia; ve n’è di micron, di centimetri, di metri. Dipende dal modello, dalla materia, dalla

forza motrice; il motivo, la quota da raggiungere Ripiegate, richiuse, accantonate sotto un serto verdissimo, nell’Eden

pasto a tarme felici; oppure sottoghiaccio coi relitti, ossa regali, mammut, mosche spente in fondo all’ambra del tempo. Camminammo più a lungo che potemmo, spesso vedemmo, alto nella memoria, doloroso, un bianco stormo di brandelli... (appena un gioco, un aiuto, una finzione se sulla scena del deserto il fuoco s’apprende alla pelle delle prede se il gelo aggruma nomi disumani). Un battito d’ali su per le vaste pareti della memoria non ci sottrae all’ombre che ci seguono; la iena, il lupo, gli angeli abietti dall’obliquo incedere.

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METRI

Quanto secchi e squadrati i nostri metri di mondo. Navigammo nei mari, su ogni azzurro

portammo il taglio della chiglia, l’ombra altera di vele... Finché la forza dura e il cuore sbaglia. Il naufragio avvenne senza vento, con calma, con freddezza, la misura era colma, lontano dalle coste, a metà strada

tra un angolo e una porta. Sul fondale un vermiglio abat-jour di lampada al tramonto, il mare era una tacita striscia di pittura.

MUOVERE UN DITO

Un messaggero riportò gli eventi: «Rottura al centro, ripiegano le ali». Non chiedemmo che centro, quali ali, gli eventi giungevano in ritardo. Da gran tempo fioriscono i commerci siamo in buoni rapporti col nemico. Talvolta ritorna il messaggero a ricordarci monotoni eventi. Daremo aiuto alle milizie in rotta? Forse muovere un dito, un solo filo

per salvare l’impero. Noi pacificati, così lontani dal luogo della lotta...

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AUTOCONDANNA

Non fummo né abili né attenti,

non vedemmo le cose, c’era buio. Comparve un esile barbaglio, era il filo di fiamma d’una torcia o d’altro dramma che riguarda l’uomo. Le cose cominciavano a chiarirsi. Chiedemmo arnesi d’emergenza, sedia, benda, un gruppo di fucili repentini.

Alle spalle, che importa, ciò che conta è la porta d’uscita per salvare l’unica cosa amata, a lungo amata,

trafugandola al mondo, alla chiarezza.

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SOPRATTUTTO

Pregustava la mente di svernare nei nostri luoghi diletti. Il dispaccio ci colse alla sprovvista: le più care, le più ricche province (abitanti fedeli, clima mite,

bella vista sul mare) d’un sol colpo perdute, divelto e deriso il nostro nome. Un amore più forte, un uragano aveva spinto i confini sullo sfondo. Riprendere le fila, ragionare. Soprattutto guardare dall’angolo più scomodo. La vista è opaca. Piove, distanza, aria perturbata. Difficile chiarezza è l’umiltà.

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PISTOLET AUTOMATIQUE

Marca MAB modello D brevettato calibro sette e sessantacinque fabbricata in Francia portata da un soldato tedesco che la ebbe dal Reich rubata in un’isola per gioco da un ragazzo indi denunziata al questore che le mise in regola le carte. Buon fuoco buon fumo se la mano non trema se per un fatto personale il dito è allegro e pronto sul grilletto. Libera scelta tra noi stessi e il mondo

DA QUI NON PUOI

Da qui non puoi vederlo devi ancora salire o scendere gradini: rotola perduto, spinto da qualche vento sulla sabbia sull’acqua trascorsa della tua clessidra. Intanto ami, abbracci, ignori perché di là dal morbido, dal tenero, dal caldo

avverti un’ambigua rigidezza. Non sai ch’è morto e ignori l’anima aguzza, d’acciaio,

che ti scruta e attende il come il quando il dove.

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PREISTORIA

La radio tace, non giungono soccorsi. Soltanto s’ode il lupo o il nostro stesso muggito quando è l’ora. Il cibo è magro, scovarlo con l’occhio affaticato, scannarci per un tubero, una bacca.

Le nebbie qui durano da sempre, vietato varcarle. E preistoria. Scoprire senza selci l’altro fuoco.

LA PAZIENZA

Dovemmo fare cataloghi dividere le cose metterle nel calibro pesarle. I conti non tornavano, le cose sovente cambiavano colore, consistenza, sapore, dimensione.

A occhio allora scegliemmo, a fiuto, fidando nell’istinto.

I risultati non furono migliori. In ogni caso ci volle sofferenza la pazienza che logora la polpa perché l’osso risplenda.

S1

GIUSTIZIA

Decretammo una fine a buon diritto. Il boia venne subito. I patti erano un lavoro pulito, presto e bene Il boia accondiscese. Quando tutto fu pronto, la scure in alto, tutto

disposto sopra il ceppo, diventammo perplessi ci pentimmo, orrore e amore urlarono,

s’opposero. Tentammo d’interrompere l’azione. Il boia fu inflessibile. La scure doveva scendere, la macchina

non scattava a vuoto. Allora offrimmo un cambio, proponemmo una permuta con teste

disponibili, docili, innocenti.

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BAEDEKER

Il faro è visibile, vicino,

il mare anche nell’alto inverno è caldo, sabbia candida e fine,

in questa stagione non è caro. E non è vero. In questa e in ogni altra stagione se fai parte del quadro darai un’orribile moneta. Scivola, vola,

non immergere un dito,

non indagare sulle squame d’indaco. I vecchi ingranaggi sono pronti e precisi, prudenti. Udrai anche cantare. Scappa, metti ali ai piedi tappi di cera agli orecchi.

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INIZIO

Ebbe inizio nell'ombra, in un angolo lontano dai luoghi normalmente frequentati. Quando la spora attesa, il virus remigando giunse alla terra promessa, in qualche approdo del cuore per mettervi le tende. In tal modo nacquero premesse di frutti estivi,

fiammeggianti pericoli, calure. Si richiese l’aiuto d’amuleti,

di formule inutili, d’auguri finché l’opera pervenne a compimento. Indi ebbe inizio una nuova attesa.

UN 30 AGOSTO

Si vide subito che si metteva bene: eventi macroscopici nessuno, il sole ad un passo da settembre diede la prima razione alle isole di fronte,

il mare mandò lampi di freschezza, il caldo soltanto fra tre ore,

un immenso celeste, ancora un giorno per l’uva e gli altri frutti di stagione, tra i pochi rumori di paese l’ossigeno sibilando disse di non farcela più con quel suo cuore. Di primo mattino la morte di mia madre.

SS

A NOI DUE

Come di colpo s’è ristretto il mondo che sapore salato di metallo stretto in bocca e guardi il sole a che punto del giro da che parte vorrai averlo alle spalle tenterai di tenermelo negli occhi dove la prima botta spazio alle spalle per saltare indietro veniamo al dunque a noi due a bordo non è rimasto più nessuno

qui comincia e finisce il nostro mondo: i nostri corpi i noti sentimenti le armi in dotazione primo sangue secondo terzo quarto i mille modi di mettere assieme carne metallo anima unghie denti.

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OGGI

Oggi ignorando tutto di questo giorno, se d’Avvento o Passione,

ignorando i colori, le pianete, m’inginocchio nella tua casa sotto la tenda che portiamo ovunque per aprirla per chiuderla a tua offesa, aprirla ancora, nei boschi in fuga, su secche, su frangenti,

dal capolinea a un punto della corsa. Non frugarmi, non chiedere. Tu sai il perché d’un labbro che tremando si sporge più dell’altro. Accoglimi. Assieme ai pesci sguazzanti all’ingrasso nell’acqua del Giordano nella tua conca di marmo,

ai due cani ringhiosi clandestini che baruffano nell’angolo più buio della tua navata.

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NOMI, MEMORIE

Aereo andirivieni senza senso cose senza nome che forse un giorno chiamammo pietre frecce passioni arroventate corpi tondi ed aguzzi piccioni viaggiatori aquile falchi allodole angosciosi richiami nella notte guerre umane. Tutto mi passa intorno e in alto, in un fruscio.

Non discerno non vedo nebbia mossa dal vento non so nulla nulla mi può colpire Ciò che ebbi e fu selce assassina calda crosta di pane cuore umano giace in questo posto, qui di pochi centimetri profondo

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ma non più trovabile, perduto nella gran sabbia che si stende ovunque dove non è possibile permangano nomi, memorie

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COME VANNO LE COSE

Ti spiattello in faccia come vanno le cose: vanno male. Benché abbia perso lo spirito e la lettera della fede in quella sfera che tu conosci,

sono ancora inquieto. Non mi tornano i conti, le misure, il modo

che ha il mondo di girare. Ti faccio l'esempio dei consunti oggetti: i caldi i cogniti compagni delle nostre stanze con qualcuno congiurano a mio danno, mutano volto,

stranieri appena giunti a questa soglia, allusivi e furbi,

ammiccanti con strane luci negli occhi, missive minacciose nelle mani. E la foglia caduta che un giorno colsi col piede e feci mia s'è staccata,

mi svolazza intorno mi rinfaccia un corpo pesante il passo del mio piede

LA BESTIA

E come fai a sapere a prevedere che se affondi il braccio in un’acqua di pretto celeste scatta su dal nulla con tumulto di bolle l’immonda bestia che ti azzanna e per sempre ti avvince il braccio. Dolcemente golosa del tuo sangue dovrai nutrirla nasconderla coprirla con la manica della giacca.

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INQUILINI

Sbatter di porte girare di chiavi nella toppa morti nel vostro letto dietro le vostre porte e morte intermittente entrare e uscire mani irose impazienti . al pomo delle porte passi © i nuovi arrivati con valigie e fagotti con otri di vento inquieti portatori di mistero nelle stanze a voi morti a voi vivi con filo ritorto appunto speranza e fiducia chiedo clemenza creature del mio piano a metà o del tutto interrato.

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L'OSSO

Avanti, sputa l’osso: pulito, lucente, levigato,

senza frange di polpa, l’immagine del vero, ammettendo che in questo unico osso avulso dal contesto allignino chiariti, concentrati, quesiti fin troppo capitali. Credo che tu non possa farcela; saresti cenere nella fossa,

anima da qualche parte

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METODOLOGIA

Inutile farla lunga, girarla, rigirarla allo spiedo, al rovello dell’attenta osservazione, l’analisi, la sintesi, i discorsi sul metodo. Si muore dalla noia.

C’è un modo d’aggredire la questione. col coltello.

AQUILE, MOSCHE, LEPIDOTTERI

Seccamente dichiaro su questo tema assurdo: non amo gli alati. Aquile, mosche, lepidotteri fuori del mio interesse. Fuori dei piedi. Senza alzare il tono della voce ripeto che l’argomento fuoco falena il basso l’alto l’ali bianche le nere le squame le piume le membrane gli angeli dall’ali dolorose gli esorcismi del giorno e della notte ripeto: argomento da lasciare alla porta. Un’inutile porta chiusa a chiave per Loro, inutilmente.

Appunto: fate pure, parlate di corda, in questa casa senza nome né numero la vecchia operazione.

SAGOMA

Non me la sono mai passata liscia vengo da tanti posti dove sono rimasto con le dita schiacciate senza alcuna iattanza ora vi dico che sono qua in piena luce immobile spalle ad un muro di questa stanza colore della sagoma preciso allenato tranquillo attendo con pazienza ma ignoro cosa per voi sia meglio cuore piedi viso colpire il centro una zona di mezzo pelle di striscio estrema periferia.

DI RITORNO

Sono stato a lungo in quelle zone un soggiorno spossante sono tornato sporco di fuliggine emaciato gli occhi troppo sensibili alla luce potrei lavarmi tentare di rifarmi ripartire ancora se ci fosse un corpo da curare una piccola base di partenza e invece non c’è più niente un grumo rovente di pensieri e voi stessi non mi capite perché non è venuto il vostro tempo.

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METEOROLOGIA

Durevoli tuoni a nord,

narici dilatate per tirare più ossigeno, aria di dramma,

occhi lampeggianti, impermeabile buono per un quai delle nebbie. Avemmo una partenza nebulosa, seguì tutta la scala fahrenheit. Il cuore copia il tempo, emette bollettini discordi, dolorosi,

cose scritte nel quadro del barometro. Infine a sorpresa venne fuori il quanto mi dai mi devi molto questi sono pochi. L’alte e basse, le alterne

pressioni simulate, messinscena i cumuli ed i nembi: mai era stata in possesso di meteore, d’occhi simili al cielo per un lampo per un palmo pulito di sereno

TABULA RASA

D'accordo, amore. Espungiamo dal testo perle d’acqua su petali, le frange estese, le bolle della schiuma. Le cose lietamente necessarie Togliamo anche l’acqua l’aria il pane. Giunti all’osso buttiamo fuori della vita l’osso, l’anima,

per credere alla tua tabula che mai avrà l’icona, l’idolo, la cara calamita?

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AVVISO

Ora che ne sapete i connotati i contrassegni salienti, se l’incontrate in qualche sfogatoio per il gregge, se vi dice muoio, vivo nel fuoco, sono

giovanna d’arco al rogo, se strizza l’occhio o ancheggia o sbatte l’ali e tenta di darvi traversie,

sappiate che non il corpo ma l’anima ha impestata. Mandatela all’inferno se ne avete il potere, col suo foglio di via.

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QUINTA COLONNA

Tra silenzi sospesi, brulicanti,

qualche notizia d’ambiguo bagliore giunta per caso. Pensammo soprattutto a una leggera forma di pazzia ad un atteggiamento involontario, stranezze della vita in altro clima,

vergine e vario il mondo di frontiera. Invece poi si seppe che ammazzavi per aprirti il passo, andavi armi e bagagli col nemico. Abile, attenta,

avendo sotto mira

altre nuove spalle da colpire.

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LA TUA FARINA

Il tuo gioco monotono continua con i dadi truccati, con le carte,

coi molti mezzi di cui dispone il cuore. Situazione satura,

interruzione brusca.

E poi brusca ripresa, assi di troppi semi, per sempre assi dalla precisa provenienza manica. | E il tempo passa, anni e fatiche in fumo,

la tua farina in crusca. La tua cassa che paga.

DIETRO, DENTRO

Dietro il muro, la siepe, il paravento, dietro un foglio di carta, dietro un velo d’elastica coscienza,

dietro pelle ossa tessuti della tua cassa toracica, nel centro

quasi, un poco a sinistra, dentro i quattro scomparti della pompa, dentro al fetido buio biologico...

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FRETTA

Mi domando se sia molto male che tu mi dica fa’ presto che non voglia al di là delle porte della pura e semplice superficie, nel profondo, i impegnare la zona tesa all’alto la parte vaginale. così prossima al cuore . alla tua anima. Da dieci a venti minuti per giungere al bollore

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PER CONGEDO

Dopo tante parole una cosa concreta: aguzza, spuntata, tremante, ben ferma,

buona per pergamena per carta straccia, secca bagnata d’inchiostro verdebile,

biancosperma, la mia penna te la tiro in faccia

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CABLO

Antonio Andrea Alessandro Concetta Domenica Rosetta Renzo Nicky Roberto Lillo Licio Giuseppe Primo Giuseppe Secondo

(ordinali con semplice funzione distintiva) imbarcata d’amici diguazzanti nella bell’acqua estiva delle buone annate il cablo presente solo per dirvi che nessuna scialuppa può salvare chi sempre girò in tondo nel vortice. Da un sacco di iuta spedito nel profondo alla Nave Ammiraglia giunga questo saluto

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A VITTORIO

Mio amico,

oggi è il dieci settembre millenovecentosessantadue e fa ancora caldo benché siano le undici di sera. La città è Milano la stessa città dove tu vivi.

|

Seduto a questo tavolo bruciato dalle cicche, senza più vernice, bollato dal fondo dei bicchieri, nella casa che conosci.

Ti scrivo per dirti che quanto prima me ne vado. Da uomo a uomo voglio dirti grazie e chiederti scusa delle cose che fui costretto a darti

quello che fu possibile cavare, la farina la crusca uscite dal mio sacco,

di cui ci sarà presto l’inventario. Vorrei che tu fermassi nella mente

la mia vera sostanza soprattutto che dalla tua ebbe

luce, vento, profilo

— ignoro che profitto seppe trarne la mia greve difficile sostanza. E rientri nei calcoli la sola verde foglia velenosa,

forma di lancia rivolta di più verso il mio petto (conosci i modi offerti dalla vita di saggiare la morte, tu, con le tue mani, di attrarla a te, puntartela sul petto

per insania, viltà verso la vita?). Tutto fu cotto ad un vero fuoco. Ed ora tutto è in un fermo vetro trasparente. Questa amicizia fu per me qualcosa che non può con l’altro connettersi, eguagliarsi nell’amalgama, bigia spuma, buon sasso,

sabbia sfuggente, e tu fosti ineguagliabile qualcuno alta onda smagliante nel gran mare, cuore saldo e preciso illimitato cuore fantasioso. Questa immagine ho avuto, questa mi porto chiusa dentro il sacco. Dovrei dirti di come me la passo, l’ansia, l’affanno

— buffi gesti del muscolo cardiaco —, l’aria che manca se di poco m’affaccio al luogo dove andrò. Comunque ti formulo la mia speranza-promessa: appena posso

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da una cella celeste o infernale farti una buona tenace, terrestre compagnia. Ti dovevo tanto. Ti saluto.

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ANABASI

Aruspici ed auguri s’opposero. Sulla soglia un piede s’impuntò, nel viaggio avemmo presagi che solo pochi ignorano. Anabasi e non un’ombra di rimpianto per i calmi quartieri, l’estivo l’invernale. La mente non capisce questo amore per certi posti remoti dell’interno, insidiosi, inospiti, di barbara bellezza. Non capisce la necessaria perdita nei boschi.

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CONFINE

Secco duro gessoso apparve il disegno del paese Là portammo le nostre leggi, sistemi di peso, di moneta, di misura.

Il mondo si concluse entro un confine di pietre abbacinanti, non vedemmo al di là quell’altro mondo: valido, vittorioso

quando ci travolse. Vagammo a lungo nei luoghi perduti. Il paese ci apparve in movimento, fertile, fluido, mutevole,

ricco di regole e di merci, emporio e scalo di molte regioni. Secco duro gessoso sovente è l’occhio, le mani, lo scalpello lo assecondano,

foggiano cose a nostra somiglianza. î

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LA NOTIZIA

Il messaggero giunse trafelato disse che ormai correva solo per abitudine il rotolo non aveva più sigilli anzi non c’era più rotolo, messaggio, non più portare decrittare leggere scomparse le parole l’unica notizia essendo visibile nell’aria scritta su pietre pubbliche in acqua palese ad alghe e pesci. Volgere appena l’occhio. Tutto apparve concorde con un giro centripeto di vortice

un senso precipite d’abisso.

MARE

Messo dentro tutto in ordine piegato la barca i remi il mare liscio crespo turbato tinte chiare e cupe i venti leggeri dell’estate quelli più pesanti per l’inverno corri a prendere il treno spacca in due la folla arriva issati parti perdilo i fa lo stesso siediti a terra e viaggi lo stesso è tutto mare altissimo mare,

te la sogni la terra.

TIMONIERE

Quindi andai da lui e gli dissi Ti prego accosta a dritta è quello l’arcipelago del cuore. Mi guardò e sorrise, mi diede un colpo sulla spalla, invertì come un fulmine la rotta e fuggimmo agli antipodi dell’isole mettendo nelle vele molto vento. Aveva al timone mani salde,

occhi acuti per tutto, isole, scogli, cuori.

Comunque ero caduto in tentazione. Era questo lo scopo delle isole.

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LA PALMA AFRICANA

Non a caso qui cresce la palma africana che sul collo porta una vecchia criniera di vecchia bestia tigliosa. E qui le bestie fameliche s’aggirano sono nell’aria,

negli angoli. Una fame perenne ed un viluppo di membra infocate sulla sabbia breve sollievo attinto alla gola delle prede. Le stesse donne saggiamente s’adeguano all'ambiente termico hanno abitudini eccessive portano un peso di belle forme cibo e fonte indicibile di fame. Queste sono le regole e le leggi che tu stesso abbracci: sappi che da gran tempo anche tu carnefice sbatti sul muso dei mostri la tua pelle

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LETTERA DALL’ENTROTERRA

Dovrei ora parlarvi dell’estate in questo posto vetrocemento asfalto acciaio ma l’agosto ha frescure insospettate luce di mare tende verdi drizzate sulla costa. qualche uccello sul molo (benché di molto qui si sia addentro nella terra e voi direte che pazze fantasie). Finito ch’ebbe il fuoco di smussarsi persi i troppi spigoli taglienti riconobbi la vera compagnia . ogni cosa che onoro è sppess al muro non più in giro mescolata all’altro. Così si cambia genere di vita si ricorda l’estate nell’inverno in una cella spersa nella terra messinscena col mare con la memoria

SUL FINIR DELL’ESTATE

Non fuggimmo nel Sud a prolungarla, Gli andammo incontro. Sul finir dell’estate partimmo per paesi boscosi, posti in alto, di arduo accesso,

di difficile clima. Con una maglia di lana, con qualche fiammifero bagnato. Gli andammo il più possibile vicino. Per provocarLo, leggere, tentare.

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LA CAMPAGNA D’AUTUNNO

Li lasci in disparte, non ci pensi e l’estate è finita,

in questa luce tornano con ali pesanti, misuri l’inclinazione dello scafo. Merce cattiva bilanciata male,

di troppi gradi andato fuor di squadra. Ombre, caligine, orizzonte ventoso. Anche qui folate, nodi d’aria ancora molto lenti. Appena a riva il tempo per qualche sasso, conchiglia, ripartire. La campagna d’autunno. Pensa all’acqua all’orribile tempesta che irrompe nel bicchiere, al terribile fuoco che tu porti in tasca, in una busta

di fiammiferi.

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LA SCATOLA CINESE

Mi correte addosso dai quattro angoli urlando e disputate a morsi entro di me banchettate miei nemici e compagni. Anch'io metto le mani nella scatola cinese, mangio, con vertigine guardo i gradini infiniti della scala.

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CAPUT VIARUM

Città chiamata dai Romani Caput viarum caput di molte strade viottoli indigene trazzere che portano ai nomi greci d’ Agrigento Segesta Selinunte Siracusa agl’Iblei Nebrodi Peloritani Madonie coni assenti in un triste celeste all’isole Pelagie Egadi Eolie frammenti sparsi d’una stessa zolla a Partinico Partanna Portella della Ginestra soprattutto a Palermo al Palazzo con l’ironico nome dei Normanni al covile alla reggia dei ladroni al bazar d’un fetido levante dove c’è tutto fuorché il plotone d’esecuzione

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MESSINA

Ricca grassa seduta nel posto giusto quasi un’elvetica mediterranea teneva banco e cassa. La povera Messina. Fu quel suo male un tempo sconosciuto annidato alla base alle radici la terra e il mare sommossi oscillanti incredibili nemici. E la guerra. E chi successe alla guerra e chi succede a chi successe e non fa succedere...

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BUDDACI

Dalla padella nella brace e da Scilla a Cariddi pensa nuotando da una morte all’altra il tipico pesce dello Stretto detto buddàci.

95

GANZIRRI

Con una forte artigiana per lavorare a cottimo assieme a letto andavamo alle porte di Messina dove i laghi si chiamano Ganzirri e quasi quasi sono confusi con lo Stretto. Dall’acque di quattro stagioni traevano trecce di mitili e noi pronti con l’acquolina in bocca per tutte quelle forme di peccato il vino già messo nella brocca i freschi lenzuoli di bucato.

TIRRENO E JONIO

Si cambiano sovente i connotati diventano violenti schiumano sul luogo dello scontro e le seppie schizzano inchiostro le triglie s’aggirano torve come squali i passeggeri si tengono alle maniglie se l’acciuga avanza come un mostro.

MOSAICO DI VILLA ROMANA A S. BIAGIO

A tre chilometri l’acqua marina ad altrettanta distanza certe terme d’acqua rugginosa non cerca l’una non vuole l’altra il pesceverme giunto in questa stanza strisciando al buio dei millenni sul tappeto di tessere pesce spada musivo nudo allo scoperto in secco ora davvero fiocinato — forma d’abisso nella luce piena.

SOTTO LE ROCCE DI TINDARI

Scaturiti dalle rocce destatisi da un sonno millenario volano goffi gracchiando storditi dai dardi della luce tra loro si lanciano richiami e intese in antica combutta con suoni greci arabi latini. Qui ogni mese fu buono con o senza l’erre per caccia pesca rapina su queste rocce lasciarono scialbi detriti di guerre anfore colme di storia e di guano Quello col becco più adunco forse è Verre.

A FANFARA PERDUTA

Cosa non si sacrifica sull’ara della Patria? Mariti e parenti erano fieri che a cominciare fossero stati

a plotoni affiancati gli ansanti bersaglieri anche se poi a fanfara perduta nascevano bambini con la testa pennuta.

100

Va

IL COLONNELLO

SABBATINI

Il colonnello Sabbatini del 17° Distruzione di Forlì ci prendeva per granatieri alti e grossi ce la faceva lunga e dura invece eravamo fanti mingherlini già diventati fantocci col ripieno di segatura.

101

VOI SICILIANI E NOI ITALIANI

Il giorno dello sbarco il generale Roatta si volse a noi dai muri: «Voi Siciliani e noi Italiani respingeremo lotteremo vinceremo». Roteò poscia la sua sciabola di latta. Bei tempi quelli, e non duri.

102

A DICEMBRE BADOGLIO

A dicembre Badoglio ricominciò a scocciare, dovetti cercare un male

in qualche frattaglia, dal fronte della licenza

passare alla battaglia per il foglio di congedo illimitato illuminato

103

LA LITTLE ITALY

Non ci voleva gran fiuto la Little Italy per noi era già troppo grande Sbarravamo con cura porte e finestre. Mostrine appiccicate con lo sputo non così la pistola alla cintura

104

VENERE

SEGRETA

Ci si sfogava con la Venere segreta solitaria è sfuggevole bastarda fantasiosa nascosta dietro un albero una porta a gambe aperte all’impiedi coricata seduta. Gemeva quando il fuoco s’alzava furioso curvandoci col suo soffio e l’unico binario non poteva portarci al capoluogo.

105

POLPETTE

Davanti ad un brandello di carne spiaccicato sulla carta mia madre era sempre in bilico se aggiungere molto pangrattato o le patate bollite e schiacciate. Mi tiravo in disparte me ne andavo nell’ombra a rigirarmi in bocca una foglia del mio albero il basilico.

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NELLA FESTA DELLA SANTA PATRONALE

Ottanta giorni prima di Natale nella nera pignatta nell’acqua biancastra schiuma e sbuffa la testa di maiale il vino alza la cresta nel boccale se non bevessi vino non mangiassi maiale sarei un’ala — appuntata ai piedi patronali.

107

LE ALICI

Pensa come sarebbe bello metterle tutte assieme a strati a suoli incrociati l’alice araba accanto a quella ebraica la turca con la greca la negra e quelle ammiraglie come le alici Tibet Andorra Lussemburgo San Marino a serena cottura in salamoia... E poi quando il rosso ti stanca passa a masticare il nero il giallo l’olivastro il bianco se il di per sé per intero t’annoia o t’allappa la bocca dosa mescola spiaccica illuditi col sistema tavolozza tanto tutto è per sempre l’alice uomo la stessa pappa.

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SALVIA GINEPRO ROSMARINO

L’isola ha folti ciuffi di salvia ginepro rosmarino ramoscelli cedevoli ai venti di settentrione vestiti di verdesperanza e scaglie lische di pesce isolano essiccate dal sole sugli scogli. Si sbaglia chi arrivando a queste coste crede che dietro alle grandi essenze d’aroma si stendano lunghe mense montagne d’arrosti fumiganti. Le tre piante pazienti

da secoli profumano l’aria e aspettano invano

che da un giunga un Portatrici miti eredi

luogo lontano bastimento carico di... di favole odorose di caste talee

se posso vi cambio in blocco con forti articoli animali milizie giustiziere

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vipere scorpioni vedove nere tutt’insieme scattanti appena suona il passo di quel piede.

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AL NOME DI LOURDES

Perché s’infuriano i manzi nell’arena al nome di Lourdes chi si muove chi s’agita furente sotto la loro pelle? Conosciamo il Maligno egli sovente entra ed esce da noi. Falli fumare stridere schiumare sferza quel fuoco con la Tua acqua.

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NEL CANTIERE

Oggi sono di turno nel cantiere le squadre di Namur Besangon Lancaster Limburgse Meath Kilmore Milano e quelli sciolti volandieri che arrivano alla rinfusa gialli bianchi neri meticci fogliasecca. Lavorano ai Tuoi piedi questa roccia la fondono negli alti forni del cuore

la plasmano la lustrano ciascuno lascia l’orma d’un dito d’una mano sulla roccia statua interminata altare scultura monumento

o limpida torre luminosa sempre più alta perché con loro cresci su questo basamento nella Valle.

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COME SE IL FIUME GAVE

Come se il fiume Gave che ha sapore di neve perché è neve disciolta tornasse indietro a spargersi sui monti ad essere neve come prima. Lasciano Lourdes a ottobre quando il clima chiude la stagione tornano ad un mondo di montagne ai grani di legno del rosario al camino alle forti mangiate di maiale ad un letto di frasche rumorose ad una basca dolce ibernazione.

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NELLE SHETLAND

Questi li tengo chiusi nel recinto sull’ultimo scoglio a Nord che in Europa possiedo insieme con la Regina dei Britanni. All’altezza di questo parallelo le cose cambiano d’estate la notte non ha spazio la patata il fungo il pomodoro la carota la mela la cipolla vengono per nave dalla Scozia qui cresce un’erba dura nana giallastra sulla torba pastura che fa deformi i ponies dilata una gran pancia su gracili gambe ma la testa è di grande splendore nobile ben sbalzata intelligente un ciuffo arruffato sulla fronte le pecore acquistano un pessimo carattere ottuse ombrose onuste di ricchissima lana i ladri d’aringhe i lesti mendicanti ad ali aperte gridano sfrontati

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gabbiani d’occhio avido instancabili voci i pulcinella di mare si perdono accecati dietro un lampo d’argento di sott'acqua la terna artica disegna l’eleganza su una lastra immensamente simile alla morte. Erano questi i segni e le figure d’una stagione attenta affettuosa d’un album uscito a Nord nell’ultima mia Thule nell’ultima parte della mia vita.

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I FICHI DELL'INVERNO

I fichi dell’inverno vengono ai rami stravolti dal freddo. Chiusi sodi caparbi dissimili dagli estivi svenevoli compagni sono rossi di dentro come un tramonto gelido senza giallo selvatici sospettosi a ogni stormir di fronda serrano fra le labbra asprigne una riga di zucchero. Giunti inaspettati se ne vanno così come sono venuti frammenti erranti nel vuoto e nel buio per un attimo colpiti dalla luce

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LUMACHE

Lumache e lumache le più note sono come levrieri di carne chiara collo di cigno alte eleganti ben portanti Le altre piccole tozze scure meridionali chiuse d’animo e guscio di cellule forti vanno anche all’estero per mezza foglia di lattuga diventano velociste fanno i mille ad ostacoli con sempre più ostacoli finché muoiono.

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OLIVE

Lustre matrone

piccole novizie con la faccia in ombra puttanelle appuntite vi spoglio del vostro velo di cellulosa segretissime polpe trame sottili che dall’avana andate al nero antracite amiche con offerte fantasiose quattro sensi portate su piste di decollo olive drupe fiale d’essenze altamente volatili olio in lunghezza larghezza spessore olio carezzevole e concreto timidi stormi boschivi funghi frutti fondenti rose in un soffio raggrinzite affumicate spiccioli d’un sole fumicoso cibarie sparpagliate sopra i rami ancora aeree ancora aclorurate

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alunne a volte d’un forte acido oleico felicemente fenico

vene che passano d’ottobre e novembre in posti caldi chi nel vetro vi vede accalcate malconce confuse con finta salute

sapore di veleno vorrebbe rifare il cammino

della scala a pioli riportarvi ai rami a una plurima sorte al cielo dei vostri voli.

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Quelle api selvatiche venute da ignote frontiere che spesso vedi vibrare a capofitto su gialle corolle branco nato al di fuori d’ogni ordine e legge simile ai fiori caparbi che predilige e difende — il miele che ne discende è un indocile miele — veementi sfrontate violatrici di spazi riservati a colonie modello messaggere sono e messaggio d’un forte qualcosa splendente di protervia che uova e larve comunque mette nelle tasche dei Santi e muore il giorno dei Morti

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BRAME

Sono nell’ombra acquattato all’ingresso della tana con cinque sensi allargati con cinque zampe pronte a ghermire anche un atomo annonario reo d’inconfessate brame mi beo alla scia odorosa che lasciano le palle dello sporco scarabeo stercorario.

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CAUTELA

Bastarono quattro o cinque lampi sparati tra nuvole d’argento a stendere secca l’estate. Con l’orecchio appiattito contro il suolo ascolti il sopraggiungere dei tonfi d’uccelli maturi sotto i colpi di marroni di mele cotogne ed il franare d’un alto inverno con nuvole con piogge. Calzando cauta lana come fanno i piedi clandestini degli dei vai dietro alla porta del Fato per sapere che decreto borbotta che botta ti prepara.

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TE LA PIANGI

Ammettiamo che tu abbia due gambe che ne voglia una sola vai dal medico e gli dici taglia quella che cresce la sega salta in aria il taglio non riesce. Tanti saluti alla tua stampella. Così infine è per l’anima non puoi mica mandarla sulla forca arrotolarla nella cesta della roba sporca. Ti arrangi ficcato tra le spine te la tieni addosso te la piangi.

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CANCRO

Il sei luglio alle cinque del mattino il tram a vapore partito per Messina emise dall’imbuto fumo faville e un lungo fischio, appena nato girai la testa verso quel primo saluto della vita. Appartengo a una razza bisognosa d’auguri mi dolgo di non potere stringermi la destra con la destra baciarmi le guance quando una volta l’anno mi scorre accanto zampettando all’alba l’acquatico figlio della luna che porta la mia sorte sigillata nel pentagono della sua corazza.

124

PORTA

Semplice e umile discendente da povera pianta squadrata come Dio volle resisti loro rinsaldati in lungo e in largo in ogni fibra segnati con vernice fiammeggiante verranno di notte urlando ad ali aperte su di te a valanga con pugni calci bestemmie avranno teste d’ariete puzza di zolfo.

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PREGHIERA

Ecco i colpi che giungono al cuore aprendo larghi echi dolorosi Tu che tiri le somme dimmi quanto l’anima incespica e batte su un tasto d’inferno in questa terra dimmi la doppia voce del dare e dell’avere dammi una mano d’aiuto nello scacciare i Cesari prenditi il grosso il prezzo più alto il meglio del mio tributo.

126

ARALDICA

Il colpo fu alle spalle ma voltai la medaglia il verso divenne recto e infilai questa gemma nei quarti sanguinosi dello stemma.

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LE MURENE

Dicevano che Caligola desse in pasto gli schiavi a feroci murene erano invece i suoi sudditi che davano in pasto Caligola alla murena caligola se stessi alle proprie murene.

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AL DI LÀ DEGLI ULIVI

Con voce oleata dice Ne extra oleas. Se tenti di andare al di là degli ulivi Atena ti trattiene nera in faccia con l’intera selva con l’ultimo suo ramo

per non farti capire che in quella pagina bianca non c’è traccia di leoni non c’è altra belva altro re all’infuori di te.

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FREDDO, PAURA

Sotto coperte cataste di cuscini testa e tutto ho freddo paura

dal di dentro gratto l'ombelico a mia madre e lei intende sa a cosa miro voglio dirle abbi cura di me

non togliamo le tende non farmi uscire.

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RICONOSCIMENTO

Verso le dodici di oggi venticinque settembre settantuno sulla spiaggia chiamata Marchesana nel golfo tra i due capi di Tyndaris e di Milae trovo — bianca bombata doppiamente bordata di marrone d’ottima fattura siciliana — una conchiglia che fu mia piastra di riconoscimento | la prima volta quando andavo per mare combattendo aspettando la nebbia della morte ed ora chi si ricorda di ‘che tipo fosse la mia anima se cartaginese o romana.

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VIE D’'EAUX

Immerso in una barca piena d’acqua facevo una dolce vita passavo per città d’acque andavo d’acqua in acqua coi teneri colori dei saponi le spume iridate della mente. Faccio una dura vita lupo d’un lungo corso divenuto diverso col carico a bordo che s’ingrossa e il mare che se ne va verso il cielo basso su tutte le furie la durissima acqua intasa tubature depone scorie passando ti lascia nelle vene quel peso di calcare.

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MATURAZIONE

Ad occidente dove al mattino lontano dal sole l’azzurro è più denso c’è fermento di spore larve girini germi e tutti i vari tipi di semenze in attesa che là si tuffi a sceglierli la mano della sorte. Poi gli eletti vanno verso il sole man mano maturano diventano cose eventi persone che bussano alla tua porta ti entrano in mente e con te vivono seduti alla tua mensa.

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GESTO

Non è vero che non successe nulla

quando tirasti fuori la mano dalla tasca e a braccio teso tagliasti l’aria da sinistra a destra dall’alto verso il basso successe che a braccio teso

tagliasti l’aria e ciò ebbe il suo peso l’aria non è più come prima è tagliata.

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APPARIZIONI

Un cielo inquietante dall’assurdo colore di pervinca cosa non capita in simili momenti chi non fa la sua parte entro di me chi non s’affaccia alla ribalta nella rete di esili eventi dal cervo volante al grillotalpa al pesce tinca a quella creatura senza nome cangiante forma ferocia colore

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L’ULTIMO VELO

Da un blocco di materia compatta levigata oppure liquida O gassosa simile al tutto e al niente emergono a colpi d’ala petalo pinna piuma il cèfalo la rondine la rosa ti volano incontro nella mente e quasi affiora anche l’inafferrabile qualcosa che all’improvviso volta le spalle al mondo non rompe l’ultimo velo se ne torna a fondo.

136

PIOGGIA

Quei lampi nel cielo qualcuno che bussa con rapide nocche luminose rotti gli ormeggi in alto strappi i fili accecanti della pioggia corpo estraneo che beve il mondo pioggia cuore e mani paghi di pioggia la lontana poltrona lasciata come una statua sotto la pioggia.

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LA TUA MENSA

La tua mensa imbandita m’inquietava per la tovaglia sconvolta dal vento la finestra aperta sul grande temporale e l'ospite seduto a capotavola bendato con il coltello in mano.

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TENEBRA E AZZURRO

Tenebra e azzurro agitati assieme schiume sovrastanti e temi il cognito abisso ogni ora cangiante e in ogni luogo alla ringhiera t’aggrappi se la luce del faro con orrenda chiarezza t’illustra il saltellare il sabba delle pulci di mare

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LE LINEE DELLA MANO

Le linee della mano con monti valli pianure si staccarono lasciando un’orrida mano levigata sperduta smemorata che si aggira avvolta in una benda bianca.

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FANTASIMA

Tu che t’infili nel letto insieme a me

per far baldoria fantasima con piedi ascelle ed altro non lavati non esorcizzati hai l’odore e l’osceno

profilo della memoria.

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VISITA

Esitò sul filo della soglia entrò e fece il giro della stanza si posò in un angolo d’ombra benché disvelandosi di poco si vide ch’era LIE di struggente bellezza. Mal me ne incolse quando un fremito percorse le sue ali preda d’un vento interiore e foglia fiore vagante farfalla del mio mondo perduto volò via.

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SFINGI

Le sfingi erano poste appaiate agli ingressi e lungo i viali dei templi. Per voi sfociate dall’ombra o dalla luce per voi non vale preghiera o minaccia per voi conta l’artiglio in piena faccia e poi tornare volando appaiate agli ingressi agli alloggi lungo i viali.

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IL RESTO MANCA

Mancavano pagine il marmo dell’epigrafe era scheggiato due sole parole cetera desunt il resto mancante mancanti la testa e i piedi e tutto il resto mancante che testa e piedi divide cetera desunt... cetera desunt.. parole sul frontone d’un tempio vuoto vorticanti col vento come per dirci solo noi ci siamo tutto il resto manca era questo che non sapevate

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ME NE VADO

Un bel giorno me ne vado sono stanco e stufo lascio le stanze i gradini della scala briciole e cenere e tutto il resto avanzato in pacchi e pacchetti che qualcun altro aprirà. Sull’uscio una luce rade il cielo lo fa calvo concavo orrendo mi chiudo nel guscio delle palpebre cammino e incespico in un pacco in un braccio teso in un lamento che dice non pestarmi col piede dammi la mano.

147

QUESTI MITI

Una ragazza sul greto oleandri macigni fioriti chiazze d’acqua cariche di vita un turbine invisibile di polline e poi non farli tornare

appiattiti incolori sullo sfondo prenderli con la forza qui legarli questi miti della primavera a rinsecchire e annerire a mostrare la vera scorza.

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A NINO

È un quadro di larga greve fattura contadini possenti vaste mucche vanno a passi pesanti sulla tela chiazze di terra e luce che un chiodo regge alla tua parete.

Ti vedo sepolto in quella terra fiorire una volta come mughetto una volta come frumento e sempre acerbo sfiorire stelo che scansa zampe e piedi che sfugge al peso dei frutti a tutto quanto un tempo ti travolse.

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CRICETIDE

Cricetide che i rudimenti conosce l’alfabeto della maratona roditore di sterili chilometri saltato su una sfera la faccio ruotare in aria intorno al suo asse saldato a due pareti di gabbia con quattro zampe la fronte corrugata occhi lucenti e muso protesi all’orizzonte compio così viaggi interminati sul rotondo veicolo della mia solitudine topouccello volante tra sbarre con un tonfo infine si smonta col corpo pesante giaccio in fondo alla gabbia le gambe aperte la zampina sul petto come napoleone dopo sedan sèvres sestrière senegal e la megera mi dice mangia

150

la minestra di segala e rape non toccare la caffettiera non è il tuo copricapo ora si smette con le galoppate finisce tutto se ne va la bionda vivandiera del reggimento distrutto

151

AL DAVANZALE

Mentre affacciato al davanzale il cielo guardi e le cose celesti un paio di formiche s’aprono il passo un sentiero tra peli d’avambraccio malebestie in guerra con qualcuno per pinzarti per dirti toglietevi da qui tu e la tua razza dalle finestre scendi vieni con noi

incolonnato nell’ombra.

152

FERRO

C’è un mondo nero qui sotto di ferro di pesantissimo ferro che ancora non conosce gli altiforni e puzza già di fuoco legifera e decide autonomo agisce la sua schiena emerge strappa un manto verde manda com'è giusto i fiorellini a farsi friggere.

SS

E DOVUNQUE

A volte nel rifugio del mio angolo credo di metterti in quel muro — o in quell’altro che nell’angolo s’incontrano mai invece potrò metterti in mostra o coi modi invisibili del cuore in un posto portarti sei in me e dovunque come un salnitro da gran tempo abiti anche i muri.

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SPACCIO

Spalle petto girello mi domando perché non debba esserci una distinta dei prezzi reni polmone cuore e un mattatoio e un pubblico spaccio di carne umana docile dolciastra facilmente assimilabile divorata da sempre dietro una trasparenza di metafora.

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BORMANN

Non era bormann che fuggiva nella pampa ubriaco di pulque e di pisco era un sosia di bormann anch’io sono il sosia di me stesso a volte scappo a cavallo nell’erba alta quanto me e un cavallo a volte mi costituisco

-

156

UN TEMPO

Un tempo costruito con masse d’aria ruotanti è sconvolto l’inchiostro nei quadranti come l’iride in un occhio cieco e piove laggiù tira vento non sono fiori non sono rose cani gialli usano la pianura per camminare a sghembo le guardie appiattite contro i muri fanno crocchiare l’artrosi nelle mani.

157

QUESTI PICCOLI UCCELLI

Questi piccoli uccelli vorrebbero in fondo darti la caccia con un’unghiata strapparti la faccia questa è la loro tristezza quando ti guardano e abbassano le palpebre gialle.

158

LA PROVVIDENZA

In evidenza imbeccata col cucchiaino con due dita

la provvidenza tra livide labbra in ritardo tutto vuoto

tutti partiti.

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COME UNA LASTRA

Che tempo abbiamo intorno a noi liscio teso che pare voglia rompersi come una lastra e se si rompe tutto si versa fuori entra altro saremo pesci convulsi buttati sul bancone della morte boccheggianti girati su un fianco come quando tra morbide alghe credevamo davvero di morire.

160

IL BUIO

In un’ora di grande luce in una grande piazza lastricata di pietra biancastra il buio nasce come una fonte una bestia un volatile una pianta sparnazzante in silenzio cessa allora ogni alito di vento e puoi cadere in quei fili tesi là in mezzo impigliarti crollando in avanti ad occhi spalancati verso il buio sbattere la fronte

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IN AGOSTO L’OLIVA

In agosto l’oliva sovente cade sotto colpi di sole grinze di scuro viola e trova posto fra i piccoli morti prematuri che nell’ombra si mordono le mani alla luce vengono a fare terribili capriole fingendosi vivi

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NUDA E TREMENDA

Filtra dalle fessure negli angoli s'ammucchia e cresce sempre come un’acqua alla gola che si porta dovunque che sempre cresce anche in posti di sole completa la misura divelte le pareti nuda e tremenda un giorno la vedi torreggiante e non puoi entrare in lei sederti guardare respirare seppellirti puoi là dentro in piedi

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È UN DOLCE COMMERCIO

È un dolce commercio

darti questo o quello di me

mani piedi testa ciò che più bolle in pentola coi visceri del mondo solo un eden ebbi fu talvolta l’intreccio delle mie brame belanti con le tue trame.

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IL DECIMO

La spiaggia è azzerata il mare è fermo a nove sono in nove al largo i flutti alti neri crestati aspettano il decimo compagno l’ultimo il più forte per poi lanciarsi uno dietro l’altro le loro stesse spoglie disfatte dallo scontro tappeto all’arco al culmine allo scatto della decima acqua segnata dalla sorte intanto piove una pioggia minuta è forse un manto di minime gocce il tremendo l’immane flutto decumano.

165

IL POSTO

Prenota il posto per la ghigliottina vedrai davvero gigli e gerani al davanzale rotolerà lontano il punto d’incontro d’ogni male e il giglio rimane radicato geranio davanzale male taciuto verniciato

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LA DISCESA AL TRONO

Non è una pausa di riflessione è un raccogliere forze ed elemosine seduti a sommo delle scale prima d’intraprendere la discesa al trono e tutto profondere al fondo roccioso aspro inebriante della disperazione.

167

TESTIMONE

A questo palo che si specchia dopo piovuto non profeta o messia ma muto testimone di sé e d’altro del suo legno fradicio dell’uragano che cartello metteranno mantello di cenci rossi canna scettro in mano.

168

UN BENE INDIVISO

A un certo punto persi il senso del suo del mio nome mi morsicai un braccio credendolo un tentacolo del mostro era mio e del mostro un bene indiviso

portato in qua e in là nella finta colluttazione.

169

È QUESTO

Ecco è questo che butto nella mischia un cuore ferito un polso mal collegato con il resto vorrei riposare in un basso in un alto rilievo l’occhio una quieta mandorla di marmo non muovere un dito.

170

IN QUELLA CHIARA

In quella chiara castità dell’aria c'erano adunate tutte quante le mie primavere a decine a fronte china e grinzosa dinnanzi alla mia fuga di giuda ansante di chi taglia obliquo per la pianura spinosa in cerca d’un legno dolce d’un albero a braccia aperte.

171

UN PRATO

Dopo tante stazioni un prato di trifoglio di qualsivoglia erba agibile palestra pasquale officina dominicale come un vangelo gli ulivi d’allora il Golgota vicino il guanciale i tre morti i cieli assorti nella contemplazione.

172

UN BEL TEMPO

Da un portello dall’alto riquadro aperto in una porta si vede un bel tempo

sopra un muro bianco bordato di gerani una nuvola stanca con riflessi azzurrini di mare che vorrebbe sedersi

riposare farsi tenere le mani nelle mani.

173

L’ULIVO

Come un cane da guardia una civetta è l’ulivo che atena mi mette davanti alla casa ulivo e atena vanno con mani a pettine lisciati nel senso del pelo la terra in catene porge il suo collo al cielo.

174

RIPUDIO

Chi entra in una chioma d’albero si sofferma là dentro si rigira e rinverdito ne esce rinfrescato inerme e agguerrito in un’altra sfera le pianure riarse ripudia le masse impure operanti nel cuore i nemici lucenti come scaglie in ordine sparso sulle nostre pianure.

175

UN SENSO GIUSTO

Tutto quello che passa per le tue mani ha una dolce impronta un senso giusto un sapore di semi sì riscatta dall’onta del suo essere plumbeo ogni ruga si spiana sull’arco della fronte chi da te si diparte a te ritorna come un pane sparito rifiorito nel forno.

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STRELITZIA

Becco crudele

testa cieca di gelido uccello tinnante metallo

sventagliata cresta lamine di croco e di violetto dall’alto del tuo collo

dal piedistallo d’acqua petalo per petalo seccamente rimbecchi il fioco marciume della rosa.

177

LUCE

Come avanza la luce a onde a segmenti a spezzoni fluttuazioni

a shrapnel a trance rotolanti a gorghi alla van gogh a trucioli che si srotolano a sberle in faccia a ditate negli occhi colpi bassi ) tutto colpito ci vuole stomaco fegato per la luce.

178

DALL’ALTRA PARTE

Dall’altra parte della mano tesa del petalo della foglia della rosa dell’aria azzurrina e del nembo del fulmine sghembo tra la pioggia tutto è pazienza e attesa che ribalti la pietra pasquale il lato tombale delle cose dall’altra parte il vero disegno il volto luminoso il regno il regno il regno.

179

ROMBI

Come una trapunta la pelle d’un tonno appena ucciso m’apparve fitta di piccoli rombi vidi così fin dove da che profondo ordito affiora una tenace geometria quale strapiombo unisce una coperta al tonno l’aquilone ai quattro lati della mia solitudine

180

OGGETTI DI NATURA

Oggetti di natura cose colme d’un vuoto sé stesso asseverante che con un sibilo fugge se può la mano giungere aprire fingere di capire.

181

LE NUOVE COSE

In quei piccoli contenitori dove la vita muore da quelle piccole gemme chiuse e umiliate in mano all’uomo nasceranno le nuove cose a collo eretto testa perforante accesissimo fuoco radiche allargate a zampa d’oca una nuova roma.

182

KAABA

Tutto chiuso rimasto tra noi inquietante ingombro scatola nera aerolito kaaba qui piombata bidone d’impotabile celeste miscela lanciato nella greve troposfera dai voli bassi dell’arcangelo gabriele.

183

CON UN SOLO GESTO

Ci si siede ci si sdraia ci si corica e un discorso s’avvìa tra me supino e voi a sviluppo verticale finché la pelle pesante delle palpebre con un solo gesto non vi dice addio alte creature pertiche di luce esseri con ali non più vi vede chi sente la dolcezza dei cento dei millepiedi.

184

I MOSTRI

I mostri del mare e della terra le idre le meduse le chimere

tirali fuori come vongole dal guscio di calcare prova a farti da loro morsicare sbiaditi e mollicci mordono davvero.

185

ARABESCO

Come anice in acqua un filo d’idea si svolge nell’ambiente adatto ondeggia calmo e si volta in volute fresco e frale arabesco ombra sospesa a picco sul reale

186

IPOTENUSA

Sfusi e confusi in quella nebbia di novembre sentimmo al tatto che l’ipotenusa era mostruoso errore audace anomalo lì addosso compartecipe lato scorretto d’un angolo retto.

TROPPO

CHIARI

Nella spianata fitta d’oggetti familiari ti saltano agli occhi cristalli colpiti dalla luce immobili ti guardano antichi abitanti della zona dopo un tempo d’attesa se ne vanno verso altri lidi altri mari vestiti di quei loro mantelli volti troppo chiari per essere capiti.

188

LÀ IN MEZZO

Immensa levigata superficie e là in mezzo sorge un punto fermo deforme imperfezione gravida d’incognite groppo terrestre garbuglio lentisco tamerice che ci risucchia in un giorno di luglio.

189

NEL PIENO DELL’ESTATE

Memore all’improvviso d’una mia vita larvale di sotterra piombai nelle tenebre sull’alto pino d’aleppo ‘vorticando ad ali irrigidite nel pieno dell’estate caddi di schiena lontano da ogni eliso non larva non alato

190

L'ODORE

DELL’OZONO

Nell’occhio acquoso o asciutto appaiono ombre e luci lampi e tempeste come a dire il celeste è un lontano colore di tetto o di parete la tua stanza è questa entro di te rinchiuso ascolta il tuono chiudi la bocca tira su col naso l’odore dell’ozono

191

CAPANNO

Vorrei mettere in ordine e a piombo questa materia grezza malta fango mattoni

farmi il capanno degli attrezzi che poi sono quei quattro gatti di sentimenti e stilemi

due remi per la barca e una candida dea seminuda con pochissime idee per la mente.

192

ALL’OSCURO DI TUTTO

Mi piacciono i cupi cieli sigillati carta da zucchero senza confini rannicchiarmi là sotto all’oscuro di tutto indifeso

in un umido prato in attesa che qualche scatola s’apra cateratta celeste che il fuoco investa terre bruciate

umidi prati.

193

MARZO E LE SUE IDI

Di tutto diffido del pugnale di bruto della tenera carne di cesare dello stesso destino che passi presto il tempo vengano alfine marzo e le sue idi.

194

PIÙ POTERE

Se non siamo sciocchi dobbiamo dare più potere agli oggetti esempio-occhiali pulirsi le orecchie con le aste coi vetri rotti operare un distacco d’ostriche accuratamente cavarsi gli occhi.

195

ALL’ALBA

Piove ma me ne vado metterò domani

le mie cose ad asciugare faccia all’insù o all’ingiù a scolare

sono un tipo aurorale camionabile all’alba arrotabile voglio dire anche da una banale bicicletta.

196

BRIVIDO

Quel brivido attaccato alla schiena come un filo di morte serpeggia e intorno è sparsa la calda vita si versa fuori dei vasi forma fertili chiazze su terrazze d’estate lungo filo d’inverno duro e potente che fa battere i denti la testa ai muri ti tiene stretto in pugno vipera spavalda a testa eretta

197

IN TANE PROFONDE

Una nuvola macchie di verde scuro

boschi in pianura e tutto il resto buttalo alle ortiche non c’è sulla lista i mari se ne stanno con bassissime onde

dietro la diga i mostri dormono in tane profonde.

198

DI COLPO

Come una statua

nell’immensa pianura ultima torre della scacchiera accerchiata dai corvi in volo da nuvole e venti

di colpo cedi nelle fibre profonde chini la testa t'incammini

i piedi nella nera

putredine del mondo.

199

DISTANZA

C’è una fredda distanza lucente e nuda che non si tenta nemmeno di coprire nuda irreparabile lucente tra una pietra e l’altra due sponde due invitati nella stessa stanza che tranquilli la rigirano tra le mani come i due capi di una lama. )

200

BRACCIA

Non so come metterla con queste braccia come metterle in blocco con il resto cose lontane tubi chiusi nei loro pensieri remote anche alla mente che le apre le sventola le incrocia le smuove alla vita e il vero senso ignora delle cose della lepre squartata spiegata ricucita.

201

LEGATI

Se tiri quei fili mi muovo ti muovi snodato la finestra s’apre l’albero si scuote il passero vola legati collegati ciascuno sognando penduli fili rotti un irremovibile sé stesso infime intime inerzie.

202

SE NON SI SPERDE

Queste cose su di sé prese di colpo con violenza con effetto disarcionante. quasi ti danno un eccesso di vigore ©

che ti squilibra e ti squassa il petto queste cose possenti anche fuori d’arcione ti consentono verdi ipotesi progetti a vasto raggio esecuzioni se non si sperde il corpo quasi ad arte disseminato se non si smembra nello slancio se il braccio non parte ‘ al seguito del pugno se la gamba non segue il piede per troppa tristezza.

203

OMBRE

STATUE PRESENZE

Ombre statue presenze madri e figlie sorelle taciturne con voi impastato nella stessa ganga incapace d’altro nel gran mare seguo con l’occhio traiettorie linee d’ombra descritte nello spazio vittorie dell’altro mondo su questo il vostro passo stanco d’ogni sera.

204

FANTASIA

Tutto si è già formato superfici si sono incontrate tese piegate arrotolate in tutta la sfera del possibile fantasia è estrarre dal contesto la figura più piatta aspettare che pian piano alzi la cresta.

205

VIAGGIO

Passando in mezzo a tendaggi d’azzurro e di grigio

semiaperti da un primo piano a un punto d’infinito compi un viaggio tra i freddi colori ad ogni passo perdi calore e vita.

206

UN LEVRIERO

Come in un arazzo

una scena di giardino un levriero seduto accanto

a una vasca d’acqua gelata sullo sfondo le nuvole di marzo

passavano raffiche di frecce stridevano incruente nell’aria di cristallo

c’era qualcosa o qualcuno seduto in un angolo con le mani incrociate

in posizione di stallo

207

ARABA FENICE

Era questo lo scopo della vita rincorrerla su ogni proda prima che bruciasse e che poi per suo conto rinascesse metterle il sale sulla coda.

208

L’INTRIGO

Nell’aria notturna e diurna un furtivo passaggio di fogliami e piumaggi da piante a uccelli da uccelli a piante il viavai di mantelli e brandelli l’intrigo serve per fare saltare all’acquattato arcuato nemico i nervi.

209

FALSE ACACIE

Un blocco di false acacie diritte all'apparenza d’anima invece obliqua pescano in un mare d’ombra producono un verde di sott'acqua supporti d’usignoli e di silenzio tendono forti braccia difendono qualcosa chiuso orto infinito bel serbatoio di ciò che non appare.

210

S'UNISCONO I PEZZI

Sul verde d’un prato s’uniscono i pezzi staccati d’un disegno semplice e complesso nella sua evidenza come un’onda o una rosa ritratta a tutto tondo

e là dentro t’immergi e dolcemente nuoti

sempre più t’allontani dalla calda terra dalla riva del mondo.

211

EGLI

Chi si rigira tra le nostre cose e fa cozzare un guscio contro l’altro? La nostra piaga è un sonno profondo notte vischiosa in noi rinchiusa che egli turba splendendo insinuandosi vivo argento del mondo nel cesto di lumache:

212

PIANURA

Percorrila a piedi la pianura è deserta ormai fuori d’uso le mille porte non sono mai chiuse c’è chi ti guarda da una fessura.

213

SEGNI

Taglia loro la gola col segno d’un coltello appèndili in fila a testa in giù larghi medi sottili che sgoccioli ben bene l’inchiostro dei segni a piè di pagina nei segni-bacile

217

CREAZIONE

In quel muro in quel foglio nell’area bianca che la tua mano cerca

il mignolo bagnato nell’inchiostro sopra strisciato con fiducia azzurro corso d’acqua rapinoso vena arteria in cui scorre a occhi chiusi il mondo.

218

AL VIVO

AI vivo a nudo al vero alla luce del sole

a cruda pagina aperta nel biancocarta

nel neroparola.

219

Scritture sbandate malandati inchiostri x zampe

di gallina inerpicatesi dovunque occasioni mancate d’assenza di silenzio... In calce alla più bella pagina bianca vuota perfetta mai vedrete la croce la sapienza la gloria immensa dell’analfabeta.

220

IL PROBLEMA

Il problema del p ano su cui strisciamo se ruvido o levigato con che potere d’attrito cominciato da tempo si protende s’inarca vola — il problema — all’infinito sul nostro attrito.

221

DISAGIO

La pagina è pista di decollo d’arioso atterraggio il disagio compare quando l’intero bianco scompare a frotte ti entrano le pecore nere

222

GRAFITE

La grafite che ha scritto per tutta la vita ora tace la parola più bella il granello di brace sepolto nel suo buio.

223

REGIONI

Quelle calde compatte regioni variegate d’odore d’origano e di rosa non erano regioni il mondo è privo d’origano e di rose erano inchiostri sapienti distesi su feconda cellulosa.

224

LA RETTA

Quando la linea è retta esce dal foglio puntando verso due poli d’orizzonte oltre i poli lanciata andando all’infinito pura rigida eterea quel tanto di lei che di qui passa può scottarsi in fretta i a contatto con la crosta terrestre tutta s’invola quindi nel fresco dei cieli si sperde eppure è nata qui come un’erba una bestia.

225

UN ALBERO

Ecco un albero scritto bene in nero in verde e marrone con le rughe le foglioline di primavera gli uccelli sui rami e gli insetti in processione i piccoli mostri che lo venerano in lungo e in largo e passo passo lo tarlano ma non d’inverno quando dormono nel fitto dell’inchiostro

226

NEL RETTANGOLO

Nel rettangolo dei teoremi inventare i fili intesserli inscrivere ghiotte immagini tendere panie a te stesso mettercele tutte le dieci dita ingresso spalancato che t’inghiotte la vita.

LETTERE

Variamente aggruppate rappresentano il mondo nella puntuta congerie nel tagliente ammasso ci casco e sanguino passo dopo passo.

228

OSSI

Ora spoglie di tutto — vesti e carni corrotte — sono linee e giunture ossi liberi e lieti in un mondo più puro.

229

L'ALBERO PUÒ TORNARE

L’albero può tornare indietro a colpi regressivi di moviola e chiudersi nel seme il discorso restringersi a una sola parola anemofila pronta a ogni volo.

IL VERBO

Scritto su basse pergole funzioni per tutta la vita ci mondi dalle colpe Verbo cedevole e pronto mai alta uva da volpe velenoso acerbo.

231

È LEI

È lei nunzia foglia farfalla con l’ala appuntita che stride e scrive sulla lastra parole impalpabili perdute sull’altro lato della vita.

232

L’ACQUA

L’acqua che passa per le tue mani che ti saltella sul palmo simile a un pesce snello sia che scorra o ristagni fa alla tua bisogna confidati con lei confessati scrivendo su di lei la smemorata non trattiene i nomi.

233

SCRITTURA

Fu una lunga scrittura minuziosa e lenta come un cespuglio a piccole foglie con alti e bassi di tono con cangiante divisa di stagione e tutta si ravvolse intorno a noi stecchi pruni foglie frutti prima di nostra morte.

234

PITTURA RUPESTRE

Non sono ancora nato incubato in caverna dipingo scene di caccia di guerra soprattutto segno fresco e preciso che viene fuori guizzando da un sangue fresco segno preciso come ossa tarso perone metatarso pezzi di calcio apparsi già spolpati.

235

È MATTINO

La fronte è bianca è mattino neanche l’ombra di piedi sulla soglia le foglie sono ferme ai loro rami le forme vuote traverse le transenne devono ancora tingersi e andare per il mondo le penne non è desta la curva torma degli scrivani.

236

CHIOCCIOLA

La chiocciola qui giunta con millenaria lentezza tutto mangia di colpo il cespo delle idee il groviglio dei segni le radici di vita e nel nulla disegna nella piazza pulita un arco di bava schiuma spremuta da un guscio vuoto parte di linea curva d’ignote geometrie.

237

NERO SU BIANCO

La penna non è stata posata sulla carta la carta è ancora tutta bianca bianca è la data bianchi luogo ora provenienza destinazione perché percome e quando chino sulla mia vita scrivo l’atto di presenza mi effondo mi circondo di parole copro colmo comando parole l’assenza certifico attesto la finzione.

238

OVALE

Con che ovale è scritto il tuo volto e la stolta penna ritorna sui suoi passi ti grava d’anni.

239

NIDIATA

Coloniali parole gregarie filiformi da te lasciate in un luogo in un lungo discorso nidiata ora straniera ritornante rimorso fosforo stridente nel sonno della sera.

MOSCA

La mosca ronza sulla parola mosca la stuzzica per farla volare dalla carta la mosca ignora che quell’altra mosca — bisillabo inchiostro sulla carta — non è più sua compagna ma nostra.

241

UN NASTRO

Uscito snodandosi da qualche cavità un nastro a spirale d’inchiostro nulla di nuovo dice nulla ripete giace inutile e smorto tu lo colmi di spicchi di polpe del tuo mondo e lui stride e schiuma quel contatto quel peso non sopporta.

242

PAGINA BIANCA

Ségnala dàlle un connotato spazio circondato d’altro spazio stràppalo come foglia all’immane foresta del non segnato.

243

COME SPORA

Chi formicola in fondo a una mano inerte a un foglio caduto come spora Vive

in quel poco spessore senza frutti né fiori e di sé scrive

della vita che viene alga strisciante muschio fungo lichene

NELL’ABBRACCIO

Schizzati fuori dalle loro tane si spandono nell’aria nell’acqua del mondo sul tepore della terra al sole inchiostri annaspanti cercano di formare

una salda cintura un equatore nell’abbraccio del mondo.

245

I SEGNI E IL SENSO

I segni e il senso dei segni su soggetti scalpitanti... O apatiche scritture membra ammansite materie inerti ammucchiate in fondo all’anno scritte luminose di novembre.

246

Ti vedo sulla spiaggia nella parte di chi non è più sughero né tavola ma elemento leggero d’un altro paesaggio parola illimitata senza più segno e nesso connotato catena tatuaggio.

247

CAMMINO

Tu .che mi scorri accanto come un’acqua fedele nel cammino di volta in volta raddrizzi paesaggi storte visioni alle cose imponi una dolce chiarezza e l’enigma è sciolto tutto in un filo il cammino allungato

251

FORZE

Le linee che da qui scattano da ogni posto e serpeggiando scompaiono forze del mondo oltre la curva giunte al palo d’arrivo

(ciascuna ha il suo) intorno gli s’attorcono e fanno fiori e frutti buttano semi melograne d’autunno.

252

NIDI D'OMBRA

Linee aggrovigliate impolverati garbugli nidi d’ombra potesse il pettine sbrogliarvi cardarvi portarvi al sole passando e ripassando su di voi mettervi in azione fruste schioccanti reti gabbie rifugi amori inesplicati abili annodate conclusioni sciolti e lunghi nell’aria sferzanti il passo lento del mondo.

253

LA LINEA IL FILO

La linea il filo che tu estrai dal folto del disegno è di per sé disegno da mandare a mente da amare quando la giungla la rete il labirinto premono alle porte le spalancano e tu vacilli sotto la loro spinta.

254

SCENA

Tavoli e sedie vuote sulla ghiaia un giardino un viale foglie legate a un filo immobili nell’aria e davanti fra il proscenio e loro i presagi gonfiano il sipario.

255

COSTRIZIONE

Siamo ora costretti al concreto a una crosta di terra a una sosta d’insetto

nel divampante segreto del papavero.

FRATELLI

In fondo alla fossa non ci sono leoni non c’è daniele

ma c’è il prossimo tuo fratellastri e fratelli mostri verdastri nella melma del fiele

257

ATOMI

Franano rumorosi a fondovalle atomi di democrito atomi d’altri poco importa si fermano esibiscono freschezza colorito nuove forme e funzioni sostengono la parte fino a quando partendo da scabre da lisce superfici di strato in strato si levano a sciami sempre più fitti infuriano inventando stranianti coloriti forme funzioni planati finiti l’ululato la tempesta chissà che piega svolta rifiuto del tempo precedente che volto ti aspetta alla finestra che te stesso

inquieto sbirciante sconosciuto.

258

LA VISTA

Orrenda è la vista

(chi sale i tornanti chi s’affaccia alla luce?) di ciò che cede e lento si scuce.

259

FILTRO

Dal fitto reticolo cola sugo con qualche fibra sottile la roba grossa e vile colorata vistosa resta sopra non passa e a me pare di capire la ragione più vera circolare splendente del fondo del bicchiere.

260

RIFUGIO

Questa grigia materia chiusa inutile inerte su cui scivola l’occhio che il dito non sfiora

rifugio recesso polveroso è il mio mondo

per lei invecchio incallito infecondo ne intendo a notte il canto sommesso

di giorno il dolente ruggito

261

Non si evade da questa stanza — . da quanto qui dentro non accade x

ui

SCORIE

Ovunque soffia lo spirito del tempo e mentre soffia lentamente brucia la sua stessa immagine quei grammi di cenere ogni giorno fanno più netta più semplice la vita denudano cose irremovibili loro le scorie volano se ne vanno nei morti paesi della storia.

263

IN TEMA

Qualcuno me li diede li monto assieme lucidi torniti

scabri opachi dentati frastagliati vorrei anche andare fuori tema

ma il tema è chiuso è ciò che si possiede.

264

L’ALLODOLA

OTTOBRINA

S’alzò in volo e cantò invece l’allodola ottobrina prima che giungesse concentrato

il piombo dodici undici dieci.

265

LE PERGOLE

Alti inimmaginabili motivi piovigginìo d’acini d’ampelopsis acini? ampelopsis? le pergole le pergole di Dio.

266

PONTI D’ORO

Vette un tempo coperte da coltri selvose da nuvole da nevi nude e quiete si offrono ad un tiro di schioppo è novembre e il tempo è buono il sole uscito dagli alti capogiri va sulla sua strada d’occidente penso al nemico a immensi ponti d’oro sono lieto del molto ch’è fuggito del poco che rimane alla mia mente

267

SOLE DI TARDO AUTUNNO

Strisciando su cieli bassi stinge un suo succo dolcemente intelligibile gli acini che pilucco mai stati più pieni più dorati.

DODICI DICEMBRE 1976

Svuotata d’ogni senso la foresta sviscerata la folla delle cose polpe legnose pigne rami secchi inutili inerti inetti anche all’incendio aspetto a questo vento di dicembre chi già venne a sospingermi sul ciglio a buttarmi sul fondo degli abissi chi mi fece salire a colpi d’ala oggi sotto la sferza del suo vento aspetto Terza

Domenica d’ Avvento

269

GLI ANNI

PASSATI

Qualcuno a volo radente mi scruta gli anni passati anni un tempo ondeggianti bestialmente ruggenti qualcuno porta scompiglio nel folto dei miei anni tasto taciti segni nodi di fazzoletti non ricordo il perché di tanti miei figli.

270

CRESCITA

Non posso modellarla con dolcezza su sé stessa cresce precipitosamente e m’invade la stanza stravolta infuria

stride con l’unghie ai vetri la mente tesa al punto di rottura l’insania ansante l’insania che con gesti graffianti già esce — fuori si traduce — dalla mente.

271

FUORI DI LEI

Fuori di lei bùttati ad occhi chiusi a mente vuota a cuore freddo ma lei mobilmente spietata ti persegue anche se in lei non credi scatta in tempo la provvida fa sempre un passo davanti al tuo piede.

272

QUESTE COSE TERRESTRI

Queste cose terrestri che scoppiano tra i piedi come rose le raccatti ammirato le porti ai più alti ripiani e perdi il lume degli occhi non vedi le altissime cose cadute in frantumi.

273

SIMMENTHAL

Con dolcezza impazzire al declino di nostra vita su questa proda di sopravvivenza attingo al tascapane e posso dare i nomi più belli al bovino muscolo rosso cotto nel suo brodo.

274

UNA FOGLIA

Un pensiero o preghiera un qualcosa formatosi partito verso l’alto e poi mi viene una foglia che s’infila di taglio fra le mani né bella né brutta né verde né secca. mansueta se ne sta tra le dita e non dico che pianta non dico verbo concetto costrutto a chi accanto obliquo mi guarda non turbo l’intesa segreta il turgore d’un frutto che già preme nel petto

275

METAMORFOSI

. Qui lasciata priva di buccia polpa al sole abbrunita aggrinzita essiccata lieve essenza imprecisa lieta polvere pronta a un’umida vita all’impasto al compatto al disastro più vasto d’una prossima forma.

276

CODA

Balza vibrando nei discorsi turbando idee saltando di dolore in dolore

di gesto in gesto priva però di testa e busto sofferenza acuita

in finissima punta coda di lucertola

vita tagliata fuori dalla vita

277

È QUI CHE DIO

È qui che Dio m'assiste lungo la parte più assurda della curva saldamente incollato su questa traiettoria ad occhi chiusi vinco la vertigine il vuoto la mia storia.

278

IL BULLONE

Il bullone ora unisce sancisce e chiude esclude

altri pezzi altre idee forse anche più forti ora il mondo è montato la vita limitata sullo sfondo si muove la fantasiosa morte

279

IL VAGLIO

Tuoni spacchi sbagli gravissimi del mondo in questa mattina di dicembre porto una briciola una gocciola di sugo chiusa in acino vettovaglie al passero sfinito nel suo misero manto e ora il vaglio della vita (vi passerà il passero ingrossato d’acino e briciola?) s'è ristretto di tanto

PUNTI DI VISTA

Li prendo li piazzo a varia altezza i miei punti di vista e in cerchio ogni punto contrapposto a un altro chi ci capita in mezzo cade fatto a pezzi si scioglie ora che sono forse nel plurimo nel giusto il campo è buio e vuoto chi s’è visto s’è visto l’occhio chissà che altri tiri invano pregusta (era il parziale era solo quello che dava ai rami foglie piume alle ali).

281

PER SOPRAVVIVERE

Regredire andare barcollando a ritroso scolorire deprimere i miei mezzi espressivi abbassare ai minimi valori la pressione arteriosa assumere uno squallido colore fingermi per sopravvivere tra morti imperiosi più morto che vivo.

PAGURO

Gusci e gusci cambiai paguro vagabondo attratto di casa in casa non vidi mai la scia che dietro le spalle mi lasciavo ora fermo per sempre a questo guscio mi domando che assorbo e che trasfondo — protese le mie parti più porose — nella torbida broda circostante

qua vivo e viaggio nell’ansimante flusso dell’osmosi

283

LA MANO

DELL’INFORME

La mano dell’informe agita scuote masse di molli materie di molecole sotto la spinta scivolanti l’una sull’altra verso forme sperate modelli progettati lungo il cangiante cammino fantasioso.

E Dio ci scampi quando la pasta si ferma negli stampi.

ALLA MIA OMBRA

Qualcuno ti cancelli a mia immagine e somiglianza ombra scompagnata che ancora scivoli vacillante sui muri sperduta nelle stanze.

285

A MIO PADRE

Moristi nel marzo ventidue non ti conobbi nacqui quattro mesi dopo per te lontano inerte sconosciuto la mia pietà s’inceppa un amore astratto mi mette in moto fredde fantasie parto dalle zone scure della foto occhi baffi capelli color seppia.

286

DA VIVO E DA MORTO

a Peppino

Emessa la condanna l’affusolata mano del boia con arte

delicata precisa inserì l’embolo l’infarto

morte imbarcata per le Eolie in Sicilia alle undici di sera.

Da anni ti penso ti rivedo ti rivolto da vivo e da morto asciutto nodoso tenerissimo

come se vivo voglio lasciarti in pace senza altri aggettivi senza ronzìo di mosche

senza fiori intrecciati per i morti. Ruotando svincolata nella notte lieve senso ha la luce del faro

svanito l’inganno di costa o d’entroterra per te rattrappito nell’azzurra maglietta marinara.

287

A MOLLERINO

Non le amiche araucarie né una striscia di mare

ragioni più forti l’essere in salvo al sicuro

mi trattengono qui il sentiero l’attesa il modo la maniera

quant’altro della morte mi figuro.

288

A MIA FIGLIA IN PARTENZA

Non è nemmeno un anno che frigni e sorridi a questo mondo apertosi per te inesplicabilmente colorato. Oggi in partenza da Villa San Giovanni in braccio a tua madre dietro un vetro del diretto per Milano fai ciao con la manina al mondo (che qui è lo Stretto di Messina

uomini pensiline un’aria estiva immondi rifiuti ferroviari) saluti forse anche me al seguito del mondo ora che il mondo vive O fa finta di vivere per te

289

‘DOPO I. DUE ANNI

a Elisabetta

Dopo i due anni cominciò maldestra a tentare parole su parole aumentò i suoi numeri e i suoi giochi con la sua grazia intrattenne il mondo e un po’ di lei a volte si scioglieva forse un di più d’acuzie lievemente confusi s’attutivano occhi voce capelli diventava dolcezza purissima dolcezza.

PYRACANTHA

Pyracantha negletta ora debole e vecchio mi rincuori alle tue spine mi volgo alle bacche scarlatte che vista e sangue ravvivano fugando il malocchio so in quale schema metterti a dimora se già ci siamo intesi stenderti in un lungo ingenuo e forte sistema di difesa

(1977)

291

«PUZZLE»

Venti cinquanta cento mosche ronzanti in aria s’accostano si scostano da un centro immaginario pezzi d’un puzzle sempre in movimento se s’unissero invece l’una all’altra saldate nel senso d’un disegno di colpo zittitosi il ronzìo anche codesta cosa avremmo caduta in terra chiara piatta concreta l’aerea segreta fantasia.

(1977)

292

L’ESTINZIONE

In questo momento la vespa è il nemico uccidila e non badare alla fine d’una specie di strisce gialle e nere d’ali membranose d’ago velenoso tutt'al più vuol dire che domani deserta la buccia crespa delle mele mézze moriremo dopo meravigliosamente dopo la fine delle vespe.

(1978)

293

DI QUA, DILÀ

Un piede di qua e l’altro di là tutto è lieve e smussato pane vino con un mezzo sapore d’eternità.

(1978)

294

PRIMA DI MORTE

scompare ogni puntiglio viene meno

il punto da ribattere svanisce nell’aria sprofonda nel terreno e faggio pioppo tiglio tutta l’erba è un fascio un odoroso fieno

(1978)

295

OCCHIALI

T’aiutano ad avere con dovizia dettagli e visioni d’assieme i due vetri tondi i due culi di bottiglia di bicchiere emersi da un fondo d’immondizie scrostati illimpiditi e come se fossero sgrossati memori d’un pessimo silicio t’aiutano a vedere Chi viene

di là dal dettaglio dall’assieme

(1978)

296

NEBBIA A CIMBRO

Scende densa la nebbia su cimbro frazione di vergiate provincia di varese via aprile venticinque al numero diciotto la nebbia edifica in lunghezza profondità larghezza VARESE CIMBRO VERGIATE assieme assegna APRILE coi numeri DICIOTTO VENTICINQUE sono però così disincarnato da svincolarmi pago d’un paio di cose confuse larvali innominate

(1978)

297

IN CAMMINO

Stanco debole indegno mi trascino piango per le mie cose trascinate lieto di non avere in me che cose amate.

(1978)

298

FRANCOIS

T’invidio Ossa Dure celta dal duro occhio celeste cadi di schianto in ginocchio sul gradino più basso

(col tuo peso lo incrini) Vero spirito e vero corpo greve e leggero davanti alla Signora

le braccia allargate le palme verso l’alto eri di quelli che salivano d’un balzo gradini e montagne che i Mori li facevano a pezzettini.

(1978)

299

. LA BATTAGLIA

Da un lato il rinfresco a battaglia interrotta il ristoro bar Samovar pane prosciutto cotto spremuta di pompelmo elmo sudato posato sul bancone dall’altro lato della strada l’oro e il clangore di qualche fantasia scudo spada corazza petto nudo la battaglia vuota la ben drappeggiata allegoria.

(1978)

CHIROMANZIA

D’INVERNO

L’inverno scacciò le zingare chiromanti dal cancello dell’istituto dei tumori chi entrava invece andava al caldo si spogliava s’infilava a letto si teneva ben stretto nell’ascella il termometro ingerita la pillola fidata togliendole ridandole fiducia mandava lontano i suoi pensieri (strade d’autunni estati primavere d’altre ancora stagioni immaginate) si guardava da sé il palmo della mano.

(1978)

301

MEVATRON

6

Il Mevatron 6 l’acceleratore lineare il padellone ruotante bianco e arancione aveva l’apparenza d’un enorme aggeggio eclatante da mettere in giardino per fugare visioni invernali

sulla spiaggia del mare nei giorni di nuvolo di pioggia lui la lima Es che disgregava il male suoi i raggi di sole crepitante passavano tra le costole dritti nel parenchima

(1978)

LIBERTÀ

Oh sì non alzo abbasso le mie ali ai Tuoi piedi mi metto libero lieve occhi socchiusi aspetto assorbo accetto dall’ultimo al primo i Tuoi soprusi (Cimbro, 29-30 novembre 1978)

303

DURATA

Non c’è carica non c’è

prevedibile durata c’è la verga di cera ma la fiamma impinguata di cera impazzisce nella sala ventosa del re. (Cimbro, 1° dicembre 1978)

PASSERO

Tutti tagliati i tardivi granturchi bruciati i mucchi di tutte le sterpaglie estinte e nel ricordo già stinte le battaglie

la mente mistificante vede. la neve e sulla neve il passero malmesso intirizzito tracotante. (Cimbro, 4 dicembre 1978)

305

LA GRAZIA

Sarebbe dunque in questo lividore d’aria la grazia che fa cadere a fiocchi gelo candore oblio? e dove metteresti l’altra grazia che c’imbratta la faccia di fiamme e fumo che ci rammenta d’essere schiatta di legna da ardere al buon Dio. (Cimbro, 4 dicembre 1978)

NEL GRIGIO

Qui nessuno sa dire ciò che sei tutti tacciono o dicono di tutto

ma nel grigio quel giallo sfolgorante o amaranto che sia o rosso-arancio

lo slancio di quei gridi di finestre che sbattono nel vento... (Cimbro, 6-7 dicembre 1978)

307

PENNACCHIO

Betulla mutilata anche se a linfa morta martoriata ma nella spoglia stagione

un suo ramo è vestito di foglie ondeggia orgoglioso il pennacchio di carnevale nel venerdì di passione. (Cimbro, 9 dicembre 1978)

308

PRONTO

Sempre pronto all’altro: atterrare lo spirito che vola convertire in cibo terrestre pane companatico minestra condurre il passero alla sua manciata di scagliuola (Cimbro, 11-12 dicembre 1978)

309

GEOGRAFO

Non ho altro da dirvi ho detto tutto quel che dovevo su mari monti selve tribù amiche-nemiche non ho altro da dirvi per mentirvi tutto ho stravolto mutato adattato a un diverso disegno ho parlato di me ho confessato andando dal massiccio montuoso all’alga all’erba spinto dalla bisogna ad una verità vestita di menzogna. (Mollerino, 18 dicembre 1978)

310

I MANDARINI DI POMPEI

Le sette piante di mandarino cresciute davanti all’Albergo Rosario di Pompei hanno frutti a dicembre bacati dalla mosca che cadono al posto giusto per essere schiacciati Citrus nobilis fango giallastro sotto ruote e tri spirito che sale spremuto da tutti i pori olio essenziale. (Pompei 16 — Mollerino 20 dicembre 1978)

311

AL MOMENTO

GIUSTO

Queste quattro cose quadrate bigie sfilacciate di buon senso vecchie di anni e anni a mo’ di busta chiuse con l’automatico mettile a notte dove vuoi da loro colerà miele selvatico si smuoveranno semiasfissiate le locuste urlerà terribile Giovanni. (Milano, La Madonnina, 22-23 gennaio 1979)

312

PROMESSA

Riscriverò a lungo minuzioso lento rientrerò nel folto delle messi

riscoprirò il pruno dentro l’occhio l’unica cosa che m’interessi.

(Cimbro, 3 febbraio 1979)

313

CODADIGALLO

Non ricordo né colore né novero di penne agitate dal vento dall’arrogante andazzo ci sono forse state strenne iridate sfrangiate arcuate. ad adornare il culo? (Cimbro, 6 febbraio-16 febbraio 1979)

314

FUGA DALL’ANGELO

Ecco il pallido l’incipriato colui che ha per trisavolo l’arcangelo gabriele colui che m’insegue per curve segrete su per asettiche spirali tentando d’imbrattarmi con l’uva più pingue del diavolo. (Cimbro, 12 febbraio 1979)

315

IN TE

In te in te confido tutto ho rubato al mondo sei il Cubo la Sfera il Centro

me ne sto tranquillo tutto t’è stato ammonticchiato dentro. (Cimbro, 12 febbraio 1979)

316

STATO PURO

Oh loro sì che possono raffinare lingotti ridurli a un lieve stato puro di natura ombre macchie presenze rifulgenti scintille incancellabili negli occhi. (Cimbro, 4 marzo 1979)

317

NOTA AI TESTI a cura di Vincenzo Leotta

C. sottoponeva a continue e severe verifiche il suo lavoro di poeta, prima, durante e talvolta anche dopo la pubblicazione, dando alle fiamme, insieme con le testimonianze della loro storia segreta, i testi non consegnati alle stampe. Queste operazioni, se da un lato erano dettate da una coscienza critica vigile sin dagli esordi, dall’altro esplicavano una funzione, per così dire, terapeutica, liberatoria, ricorrendo puntualmente alla fine di ogni stagione poetica. L’ultima, la più deprecabile per noi, risale al 30 settembre e al 1° ottobre 1978, quando, nella villa dei suoceri a Cimbro (Varese), bruciò egli stesso tutti i manoscritti e i dattiloscritti delle poesie edite e inedite, conservando solo le due raccolte Codadigallo e Segni, in corso ancora di definizione.! Sfuggì tuttavia alla sua autocensura, per una fortunosa circostanza, un abbondante e

prezioso materiale, disseminato in varie casse dimenticate nella sua abitazione milanese di via Venini e in quella dello zio Enrico Barresi, in contrada Mollerino di Terme Vigliatore (Messina). Dopo la morte di C., fedeli a una promessa che, nel dicembre del 1978, gli avevamo fatto, di aiutarlo, non appena fosse ritornato da Milano, a ordinare lo studio e la biblioteca della sua casa di Terme Vigliatore, abbiamo catalogato insieme con Ada, la moglie del poeta, le carte reperite, sistemandole in apposite cartelle così numerate: I: 6 quaderni autografi e 7 fascicoli dattiloscritti, con correzioni manoscritte, di cui

daremo una dettagliata descrizione nella nota riguardante la produzione inedita degli anni 1943-45. II: 18 fascicoli, di cui 17 dattiloscritti, con correzioni e integrazioni autografe, e 1 manoscritto, oltre a 34 fogli sparsi, in parte manoscritti, in parte dattiloscritti. Com1 Questa e altre notizie sono tratte dai Diari in cui C. — a parte alcune agendine, saltuariamente segnate, degli anni precedenti —, dal 1° gennaio 1971 all’11 marzo 1979, con puntigliosissima precisione, annotava gli avvenimenti quotidiani, fornendo utili elementi per la sua biografia e per la sua stessa poesia, soprattutto per quanto , attiene alla datazione dei singoli testi e alla loro organizzazione in volume.

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prendono tutti i testi di Ne/ centro della mano, Partenza da Greenwich, Le mosche del meriggio, e perciò ascrivibili agli anni 1945-55, con varie poesie escluse da queste

raccolte e mai pubblicate. III: fascicolo di 46 fogli dattiloscritti, con correzioni manoscritte, raggruppati sotto la comune denominazione di Eredi della Grecia e altri versi e divisi in due sezioni, intitolate l’una Senza potere alcuno, l’altra Eredi della Grecia;

172 fogli sparsi, di carta vergata da macchina, di cui alcuni datati, in parte manoscritti, in parte dattiloscritti con varianti autografe. Sia il fascicolo dattiloscritto Eredi della Grecia e altri versi sia i fogli sparsi contengono poesie incluse ne L’osso, l’anima con molte ripudiate e inedite. Inserto di 16 fogli, in parte manoscritti, in parte dattiloscritti, con il testo completo di Lame. IV: 5 quaderni autografi, di diversa qualità e formato, con testi datati, nel loro insie-

me, dal 22 marzo al 12 dicembre 1971, e precisamente (tra parentesi le sigle con cui le indicheremo): 22 marzo-20 aprile [Q71;]; 21 aprile-2 ottobre [Q71,]; 7-20 maggio

[Q71;]; 12 luglio-11 settembre — le prime due composizioni però non sono datate — [Q71,]; 2 ottobre-12 dicembre [Q71;]; 564 fogli sparsi, di cui 330 manoscritti e 234 tra dattiloscritti e fotocopie di dattiloscritti con correzioni autografe; alcuni sono numerati e distribuiti in sezioni. Nei quaderni autografi e nei fogli sparsi figurano i testi inclusi ne L’aria secca del fuoco o esclusi da questa raccolta e mai dati alle stampe. V: 8 quaderni autografi, di vario numero di fogli e formato, con testi scritti, complessivamente, tra 1’8 marzo 1972 e il 28 maggio 1973, quasi tutti datati. Questi gli estremi cronologici di ciascuno e, tra parentesi, le sigle con cui li indicheremo: 8 marzo-11 giugno 1972 [Q72;]; 25 giugno-25 agosto 1972 [Q72,]; 27 agosto-2 ottobre 1972 [Q72;]; . 6 ottobre-9 novembre 1972, con due abbozzi, «Sovente il gettito» e «Il resto», datati ‘ 21 e 14 gennaio, presumibilmente, 1973 [Q72,]; 9 novembre 1972-15 gennaio 1973, in

seguito corretto in 31 dello stesso mese per l’inserzione di 5 fogli [Q72-73]; 3 febbraio-14 marzo 1973 [Q73;]; 15 marzo-9 aprile 1973 [Q73,]; 12 aprile-28 maggio 1973 [Q73:];

raccolta dattiloscritta, con correzioni autografe, delle poesie di La discesa al trono e di Marzo e le sue idi, con molti fogli sparsi, manoscritti e dattiloscritti, non datati ma ascrivibili agli anni 1972-73. Sia i quaderni autografi che i fogli sparsi contengono, con numerosi inediti, i testi confluiti nei seguenti volumi: I/ buio, Quattro poesie e quattro acqueforti, Ostuni, La discesa al trono, Ipotenusa, Marzo e le sue idi, Nel rettangolo dei teoremi, Dieci poesie

inedite, Segni.

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VI: fascicolo di 12 fogli dattiloscritti, numerati da 1 a 12, con i testi di «12 dediche», non datate ma scritte tra il febbraio e il novembre del 1976; 6 foglietti piegati in due, autografi, con tredici componimenti datati dal 19 al 31 otto-

bre 1977, di cui quattro inclusi tra le «dediche», sei fanno parte di L’a/lodola ottobrina e tre sono inediti;

redazione dattiloscritta definitiva, con correzioni autografe, del testo completo di L’allodola ottobrina.

VII: bozze di stampa, alcune impaginate, di Le mosche del meriggio, Qualcosa di preciso, L’osso, l’anima, L’aria secca del fuoco, Il buio, La discesa al trono, 18 dedi-

che.

A queste cartelle vanno aggiunte le raccolte, in parte manoscritte, in parte dattiloscritte, Segni e Codadigallo, con le «Ultime poesie», autografe, composte tra il 10 febbraio e il 4 marzo 1979. A tale classificazione faremo riferimento, quando occorra, nelle schede concernenti

le poesie antologizzate. Antologie, quotidiani e periodici sono segnalati solo se forniscono elementi utili alla datazione dei testi in essi pubblicati, oppure se questi ultimi presentano varianti di qualche importanza rispetto alla lezione accolta in volume. La data dei singoli testi, se congettura di chi scrive, è inserita tra parentesi quadre; anche quando è desunta da indicazioni dell’autore, giova avvertire che essa si riferisce alla prima stesura e non alle successive rielaborazioni, raramente datate o databili. A scopo documentario, di alcuni componimenti si riportano le varianti più significative e, talvolta, l’intera versione delle redazioni autografe, dattiloscritte o a stampa antecedenti la lezione finale.

Il titolo, se diverso da quello definitivo, è delimitato da parentesi quadre. I refusi sono stati tacitamente corretti.

1943-45 I testi qui proposti sono tutti inediti, almeno in volume. Di eventuali pubblicazioni in antologie o riviste non è stata trovata traccia, fatta eccezione per il componimento Eolie (v. infra). I testimoni, manoscritti e dattiloscritti, come da tavola: 1.

Manoscritti Quaderno di 97 ff. non numerati e scritti su entrambe le facciate, oltre a vari ff.

bianchi, per un totale di 136 testi poetici e 14 brevi scritti prosastici. Mancano dati cronologici ma, dal confronto con gli altri quaderni in cui non sono riprodotte le poesie qui rifiutate o cassate, 22 di numero, si deduce che questo quaderno, che

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indichiamo con Q), è il più antico tra quelli rintracciati e, presumibilmente, da ascrivere alla primavera del 1943, quando C., secondo la sua stessa dichiarazione, diede

inizio alla sua attività poetica (in G. Spagnoletti, Poesia italiana contemporanea (19091959), 6* ediz., Guanda, Bologna 1964, p. 741) Quaderno di 28 ff. scritti su entrambe le facciate e numerati da 44 a 99, oltre a vari

ff. bianchi e ai 3 ff. iniziali occupati dall’Indice, relativo anche ai testi di un precedente quaderno, che non è stato trovato. Mancano elementi di datazione ma le poesie, 44 di numero, sono da assegnare al 1943, come si desume dal quaderno seguente, dove esse

per la maggior parte sono ripresentate anche se non nello stesso assetto [Q,] Quaderno di 102 ff. non numerati e scritti su entrambe le facciate, oltre a vari ff. bianchi. I componimenti, 164 di numero, sono attribuiti 138 al 1943 e 26 al 1944 (come si deduce dall’indicazione dell’anno che recano Tindari, in calce al margine destro, e Non si muove la pietra, sempre in calce ma al margine sinistro) e divisi in sezioni: Prime, 4 giochi marini, Seconde, Terze, Quarte, Quinte, Seste. Precede una Nota del-

l’autore, datata «Castroreale Bagni, 28 aprile 1944» [Q43-44] Quaderno di 78 ff. non numerati e scritti su entrambe le facciate, con 144 testi raccolti in due sezioni: la prima, indicata dall’anno «1944», ne comprende 119; la

seconda, indicata dall’anno «1945», 25 [Q44-45] Quaderno di 34 ff. non numerati e scritti su entrambe le facciate, di cui il primo, sul recto, reca la data «1945» e, sotto, l’indicazione «1° Quaderno», scritte a matita,

mentre l’ultimo è bianco. Contiene 61 testi [Q45,] Quaderno di 32 ff. non numerati e scritti su entrambe le facciate, di cui il primo, sul recto, reca la data «1945» e, sotto, l’indicazione «2° Quaderno», scritte a matita.

Contiene 55 testi [Q45,] 2.

Dattiloscritti (in fogli vergati da macchina solo sul recto)

Fasc. di 35 ff. numerati da 1 a 34; il primo funge da frontespizio e reca la data «1943-1944» e, sotto, tra parentesi, l'indicazione «I». Comprende 34 testi, di cui 24 assegnati al 1943 e 10 al 1944 [D;] Fasc. di 36 ff., di cui il primo funge da frontespizio e reca la data «1944» e, sotto, l’indicazione «2°»; l’ultimo è bianco, mentre gli altri sono numerati da 35 a 66; segue l’Indice, comprensivo anche del Fasc. I e una Nota dell’autore, datata «Castroreale

Bagni, 16 ottobre 1946». Testi: 31 [D.]

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r e

Fasc. di 33 ff. numerati da 1 a 33, oltre al frontespizio, che reca la data «1944» e, tra

parentesi, l’indicazione «3°, e all'Indice. Testi: 33 [D3]

Fasc. di 36 ff, di cui 34 numerati da 1 a 34; il primo reca la data «1945» e, tra

parentesi, l’indicazione «4°; l’ultimo con l’/ndice. Testi: 34 [DJ]

| Fasc. di 36 ff., di cui 35 numerati da 1 a 35, mentre il primo reca la data «1945» e,

tra parentesi, l’indicazione «5°». Testi: 34 [D;] Fasc. di 31 ff., di cui 30 numerati da 1 a 30, l’ultimo è occupato dall’Zndice, mentre il

primo reca la data «1945» e, tra parentesi, l’indicazione «6°». Testi: 29 [Dg] Fasc. di 23 ff. non numerati, di cui il primo funge da frontespizio e reca il titolo «Ultime» e, tra parentesi, l’anno «1945». Testi: 18, di cui 16 già in Ds [Dy] I quaderni autografi e i fascicoli dattiloscritti contengono poesie tutte inedite, almeno in volume, ad eccezione di: L’inverno si fa fumoso e I gerani assiepati, entrambe accolte nella prima sezione del volume mondadoriano Le mosche del meriggio (1958). Si esibiscono, di seguito, le Note dell’autore: la prima, ad apertura di Q43-44, datata 28 aprile 1944; la seconda, posta alla fine di D., datata 16 ottobre 1946.

Intendo avvertire che la divisione del corpo di poesie non è artificiale: cioè i tagli non sono stati fatti a tavolino ma perfettamente naturali in quanto prescindono da qualsiasi discriminazione di modi e di classificazione: ma vari momenti fissati, per gradi, nel tempo, di un medesimo svolgersi. Tappe. Verso un’evoluzione. (Evoluzione che può andare tanto in un verso positivo quanto negativo: comunque, penso, evoluzione.) Ad ogni modo, non s’ha da intendere che queste, di per sé, assumano valore definitivo: si tratta, in maggior parte, di esperimenti e tentativi. (Tanto più quando, ancora, non si son fatte le ossa, e s’è a principio dell’esperienza.) Ricerca d’espressione d’una soggettività (: pur che vi sia). Tanto, ogni ago di bussola va al suo nord. Qui a mezzo voglio dare avviso al lettore della presenza di molte poesie che stanno in questa raccolta soltanto a segnare una cronaca della mia prima stagione e di quelle seguenti. | Devo anche avvertire che talune poesie, nate nel 1944, oggi 1946 si sono tramutate sino ad essere, talvolta, l’antica scrittura sola occasione della nuova. È per ciò agevole rinvenire tra un gruppo e l’altro un salto, una netta diversità

tonale; discordanza vivamente mostrata.

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Nuove voci nuovi colori che si distaccano da un medesimo fondo. In fatti sono partito da un medesimo nucleo innocente e però altrimenti modulato: se contano il calendario, le urgenze che si succedono, le lezioni a me oggi attuali. Non so dunque con quanta validità codeste poesie potranno stare sotto una data che solo in parte è la propria.

NOVEMBRE (p. 5) In 043-44, sezione Quinte, è uo al 1943, ma si accoglie la versione posteriore di D, (f. 20) che riunisce in uno soloi versi 4-5 «quando viene/ il pettirosso», rifacimento della stesura iniziale attestata da Q;: «quando s’invischiano/ i cardellini». LE ROTTE BIANCHE (p. 6) Testimoniata solo da D, (f. 4), che l’assegna al 1943; mancando altri testimoni, non è

possibile stabilire se si tratti di una rielaborazione posteriore, secondo l’avvertenza del poeta nella Nota sopra esibita.

INNANZI A TE (p. 7) In D, (f. 5), che l’assegna al 1943; rielaborazione di una precedente stesura, anch’essa datata 1943, inclusa in Prime di Q43-44, col titolo /nvocazione, che si trascrive: «Mio Signore/ nudo sono innanzi a te// un filo di paglia/ mi può trafiggere// il miele m’è tramutato/ in assenzio// fa che beva/ stilla a stilla/ beandomi d’amaro// sono tutto scorie// che terra mi possa// asciugare il sangue/ troppo ricco// e divenire terra// — in lei —». FESTE CALME (p. 8) In D; (f. 8), che l’assegna al 1943; rielaborazione di una redazione anteriore, anch’es-

sa datata 1943, e attestata da Q43-44, sezione Seconde, che si riporta: «Esultanze/ d’allodole/ nelle feste/ calme/ del cielo// E/ in terra/ l’oliva/ imbruna// Mentre il/ verde/

svanisce/ al ticchettio terso/ del pettirosso». EOLIE (p. 9) Già a stampa in «Pagine Nuove», a. III, fasc. V, maggio 1949. Ascritta al 1943 da Q43-44, sezione Seste, e al 1944 da D; (f. 33), che rielabora la stesura precedente testimoniata da Q, e Q43-44: «Sussurrate azzurre parole/ Eolie sorte nell’acqua/ in un mattino di gioia.// Di cristallo abbrunato/ dal fiato dei venti// ora fermi, Eolie,/ con calme vaghezze di vergini;// un faro bianco nel cuore/ e una linda nuvola sopra». L’articolo «Le» è stato soppresso nel titolo, conformemente alla redazione di10) e 0Q43-44 e alla lezione a stampa. AL TUO PASSARE (p. 10) Datata 1944 sia da Q44-45 sia da D; (f. 10), che si discostano solo per l’inserzione,

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nella stesura dattiloscritta di poco posteriore, dell’aggettivo «muto» nell’ultimo verso.

Inoltre in D3, nel titolo, un tratto obliquo di matita sembra indicare la volontà dell’au-

tore (o di un suo lettore) di escludere «tuo», che però nell’Indice è conservato. COL SOLE DISCESO (p. 11) Attestata solo da D; (f. 13), che l’attribuisce al 1944.

STRAVOLTO UCCELLO (p. 12) Assegnata al 1945 sia da Q44-45 sia da D, (f. 6), che riproducono il testo invariato.

S'INALBA (p. 13) Assegnata al 1945 sia da Q44-45 sia da D; (f. 11); senza titolo il testo autografo e con diversa scansione dei versi 4-5 «della mosca,/ un suono», riuniti in uno solo.

IN UN GIORNO DI LUCE SOSPESA (p. 14) Attribuita al 1945 sia da Q4S, sia da D; (f. 18); rispetto alla redazione dattiloscritta, che si accoglie a testo, la stesura autografa, evidentemente anteriore, è priva di titolo

e presenta varianti al v. 3 «m’affaccio con intimo cuore», ai vv. 4-5 «alla casa discreta che chiuse/ un ricordo...» e ai vv. 8-9 «... di mele marce e di/ ragnatele».

1945-55 Nel 1958, nella collana «Lo Specchio» di Mondadori, C. raccoglie, rigorosamente selezionandola, la produzione degli anni 1945-55 (e non 1946-55, come scritto nel risvolto di copertina, perché risalgono al 1945 almeno due testi: L’inverno si fa fumoso e I gerani assiepati, presenti l’uno in Q45,, l’altro in Q44-45), sotto la comune

denominazione di Le mosche del meriggio, eponima della sezione conclusiva, che raggruppa i componimenti più recenti. Vi confluiscono i due volumetti stampati a Milano per le Edizioni della Meridiana: Nel centro della mano e Partenza da Greenwich, editi rispettivamente nel 1951 e nel 1955. Ma mentre il secondo è riprodotto, senza variazioni nel numero e nell’assetto dei testi, le trenta poesie di Ne/ centro della

mano sono drasticamente ridotte a undici e figurano nella prima sezione sotto il nuovo titolo // nome sopra i muri (omesse e mai più ripresentate: Se vuoi ascoltare, Preghiera per il Signore, Fame, Natale nei bordelli, Ragazza dei marinai, Festa, Una sola bandiera per l'Europa, Hilde, Nord, Sud, Scirocco in Sicilia, Alto nome, Sopra i nomi degli uomini, Un vascello dorato, Fuoco e gloria, Vecchi e azzurri vascelli, Brindisi, Col corvo, Nei secoli, Albergo Siviglia). I pochi interventi correttori riguardano quasi esclusivamente la sfera grafico-formale e sono operati al momento della revisione delle bozze di stampa. Nel passaggio da Nel centro della mano a Le mosche del meriggio, subiscono ritocchi: Astro (al v. 16,

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«nelle gole» + «nella gola»; al v. 18, «e ne uccidi i pensieri» + «e ci uccidi i pensieri»); Muro del Sud (spaziatura tra i vv. 6 e 7 della IV strofe); Brughiera (al v. 2, «Vai» > «Va’»); L’agave (al v. 1, «ed il miele» > «e il miele»); Dal cuore della nave (al v. 1, «Così» > «Cosî»). Quanto a Partenza da Greenwich, è sostituito l’accento acuto a quello grave in «lì», «più», «Tribù», «perù», «così» (Lussemburgo..., Lettera dal nord, Zona araba, Plaza de toros);? espunta «d» eufonica in «ad», «od», «ed» (Lettera dal nord, Plaza de toros, Richmond); corretto, al v. 11 di Liffey River, «le anime coi loro» in «le anime e i loro». Il volume mondadoriano, inoltre, abolisce l’epigrafe iniziale di Nel centro della mano («We can wait with our stools and our sausages, T. S. Eliot, Triumphal March»), ma non di Partenza da Greenwich («... the ear-drop I gave to Bristol Molly, Herman Melville»); elimina la ripartizione in sezioni di Ne/ centro della mano con i dati cronologici e le relative dediche Nino Pino»; Nord, Sud, 1947-49, «a Bianca Fuoco e gloria, 1950, «a Vittorio Sereni»; Solmi»), mentre conserva, in calce, data e

(Festa, 1946-48, «a Corrado Govoni e a Garufi, a Luciano Foà e a Erich Linder»; Dal cuore della nave, 1950-51, «a Sergio località dei componimenti di Partenza da

Greenwich. I testi della III sezione, in una redazione dattiloscritta, figurano compresi sotto il titolo Un nuovo mondo, desunto dall’ultima poesia omonima, con una citazione, in

epigrafe, tratta da W.H. Auden: «A mountain people dwelling among mountains». L’inverno si fa fumoso, assegnata al 1945 da Q45,, senza titolo, e da Dx, con titolo 7/ nostro inverno, che al v. 2 recano «resine friggenti» e al v. 6 «rame brucenti alla veglia», mentre l’ultima strofe si compone di quattro versi: «Crolla un tizzone./ Una mano al sonno,/ dormo a bocca aperta/ il nostro inverno». Domani, in Fasc. dattiloscritto datato «autunno 1946-autunno 1947», con varianti, in una antecedente reda-

zione autografa [1946], al v. 1 «spaccheremo» in luogo di «apriremo» e ai vv. 4-6, cassati in seguito, «non avrà le zampe dei colombi,/ sopra l’orto scempiato dalle capre/ sopra il fetido cuore degli uomini». Mio amore, non credere: probabilmente errata la datazione in calce che l’assegna al 1952; la stesura manoscritta, la prima ma pressoché definitiva, reca invece «giovedì, 4 febbraio 1954». Nel cerchio, con varianti, in una redazione dattiloscritta non datata, ai vv. 9-12 «calandoti a poco a poco dalla/ logora nave consueta,/ transfuga che il nuovo/ rombo frastorna, in corsa/ nella mente». In mancanza di testimonianze dirette, per la datazione dei componimenti Nell’atrio,

in attesa, Brughiera, L’agave, Dal cuore della nave, non si può che accogliere la cronologia del poeta, che li attribuisce al biennio 1950-51, includendoli nella sezione Dal cuore della nave di Nel centro della mano, così datata, mentre Antracite, Il giorno 2 A partire da L’aria secca del fuoco, sulle parole tronche terminanti in -i e in -u, figura costantemente segnato l’accento grave; per uniformità con le altre opere, si è preferito estendere questa accentazione anche ai testi delle Mosche e dell’Osso.

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dopo, Libero e triste, Storia (Libero e triste e Storia già editi su «Il Verri», inv. 1957), Nel cerchio, inseriti nella terza sezione di Le mosche del meriggio, si può presumere che siano stati scritti negli anni 1954-55, poiché il volume appare strutturato secondo un ordine cronologico crescente.

I testi delle pp. 17-22 e 23-30 appartengono, rispettivamente, a Nel centro della mano e a Partenza da Greenwich e sono tutti accolti, insieme con quelli delle pp. 3135, ne Le mosche del meriggio.

1957-62 Nel 1964 esce, ancora presso Mondadori, L’osso, l’anima, diviso in due parti diacronicamente distinte: la prima, col titolo Qualcosa di preciso, riproduce, invariate nel

numero e nell’assetto, le diciannove poesie composte tra l’aprile 1957 e il febbraio 1961 e consegnate con lo stesso titolo, ma senza l’indicazione dei mesi nella datazione, al volumetto edito nel 1961 da V. Scheiwiller, nella collezione «Lunario» a cura di M. Costanzo e V. Scheiwiller; la seconda contiene testi datati nel loro insieme «nov. 19€1-dic.

1962».

:

Riproponendo la plaquette Qualcosa di preciso, C. sopprime l’epigrafe («Laissemoi t’en parler, camarade chérie, Jules Romains»); ristabilisce l’esatta scansione in Metri, vv. 10-11 «... a metà/ strada», e in Apertura d’ali, vv. 5-6 «... la quota/ da raggiungere», adesso riuniti in un unico verso (è stata da noi corretta l’insolita scan-

sione dei vv. 14-15 di In altomare «Prima d’estate — sirene percorrevano i/ quartieri —», probabilmente dovuta a un difetto di impaginazione); inoltre, al momento della revisione delle bozze, trasforma in minuscola l’iniziale di «l’Impero» e «Novembre», rispettivamente in Muovere un dito e in Sottozero. La raccolta, all’origine, era costituita da duecento testi, distribuiti in sei fascico-

li sotto il titolo comune di Eredi della Grecia e altri versi (è conservata traccia, in redazione dattiloscritta, di due di essi denominati Senza potere alcuno e Eredi della

Grecia). I testimoni manoscritti e dattiloscritti, che pure sono numerosi, quasi mai consento-

no di datare i singoli componimenti, al di là della cronologia complessiva fornita dal poeta, della cui attendibilità peraltro non vi è ragione di dubitare.

Un 30 agosto, [Di primo mattino], in una stesura dattiloscritta che reca la dedica «A mia madre, in memoria» e, sotto, la data «30 agosto 1960-30 agosto 1962» (il primo

termine si riferisce alla morte della madre, il secondo alla composizione della poesia). Oggi: nelle bozze di stampa non impaginate è corretta l’iniziale maiuscola di «Tua casa» (v. 5), «Tua offesa» (v. 7), «Tua conca» (v. 17), «Tua navata» (v. 21). L'osso: in una redazione autografa in fase compositiva, varianti al v. 7 «l’incalcolabile, il can-

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giante, l’astratto» e, al margine sinistro, in successione verticale, «l’enigma l’assurdo l’infinito il molteplice l’eterno l’occulto». Metereologia: in f. ds., dopo il titolo, figura la dedica «A una dagli occhi neri». Tabula rasa: in f. ds., dopo iltitolo, la dedica «A una dal cuore vuoto», a matita di mano dell’autore, corretta in seguito in «Alla stessa donna». Quinta colonna: il v. 1 della lezione a stampa condensa i vv. 1-5 della stesura autografa dal titolo iniziale Interpretazione di messaggi: «Una ridda d’ipotesi s’accese/ sul tenore malcerto dei messaggi,/ caratteri confusi e scoloriti,/ pause, spazi bianchi, silenzi/ sospesi, brulicanti, inquieti». Dietro, dentro: in f. ds. col titolo scritto a penna e con varianti ai vv. 2-3 «dietro un velo/ di gomma, la coscienza», sostituiti successiva-

mente, sempre a penna, dalla lezione a testo, al margine destro. A Vittorio, [Testamento], nella prima stesura autografa molto tormentata e nella trascrizione dattiloscritta con correzioni autografe. Timoniere: in f. ms. al v. 1 «Lui» e «Gli», con l’iniziale in seguito mutata in minuscola a penna di mano dell’autore. Su/ finir dell’estate, 29 agosto [1962]: dopo il v. 6, espunti, nella stesura autografa, i vv. «Non andammo nel Sud a prolungare/ la siesta sull'’amaca». La scatola cinese, in Fasc. Lame datata Milano 1962; rielaborazione di una stesura autografa, probabilmente la prima, senza titolo e priva degli ultimi sei versi, che si trascrive: «Mi venite [in alternativa, sovrapposto, “correte”] addosso/ dai quattro angoli/ urlando/ e disputate a morsi/ entro di me/ banchettate nemici e compagni/ come se fossi un cibo PISO nella redazione dattiloscritta figura il titolo /n pasto. Le poesie delle pp. 39-48 sono tratte da Qualcosa di preciso; quelle delle pp. 49-88 dalla seconda parte di L’osso, l’anima, articolata in sei sezioni, di cui si riportano i titoli con l’indicazione, tra parentesi, dei testi scelti da ciascuna di esse: // come il

quando il dove (pp. 49-62), Sagoma I (pp. 63-67), Avviso (pp. 68-75), Sagoma 2 (pp. 76-79), Moto a luogo (pp. 80-84), La campagna d’autunno (pp. 85-88); l’ultima (p. 89) fa parte di Lame.

1971-72 Dal gennaio 1963 al febbraio 1971, la poesia di C. tace. Non un verso, non una parola sono attestati dai manoscritti. La fine del silenzio coincide con la revisione dei tredici componimenti datati «Milano 1962», che formano la prima parte di Lame, cui adesso si aggiunge l’ultimo, Fecondità (indicato in Q71, con i titoli alternativi Fertilità e Cerere), scritto a Terme Vigliatore il 22 marzo 1971: il libro, corredato da un’acquaforte del poeta e due acqueforti dello scultore Carmelo Cappello, uscirà dai torchi a mano di Renzo Sommaruga, a Verona, nell’estate del 1973. Da quel giorno, e sino alla

morte, se si eccettua l’interruzione degli anni 1974-75, durante i quali egli non produce nuove poesie ma rielabora e organizza in volume quelle concepite nel biennio precedente, l’energia creativa di C. non conoscerà pause o cadute.

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Qualche dato desunto dai Diari può fornire un’idea della rapidità di realizzazione di L’aria secca del fuoco, edito da Mondadori nel marzo del 1972. Il 21 maggio 1971, C.

invia a Vittorio Sereni, al quale, dietro sua sollecitazione, aveva già spedito il testo completo di Lame perché lo trasmettesse a Sommaruga, centosessantuno componimenti con la prima sezione, Lo Stretto, pressoché definita, di cui un saggio è intanto anticipato sull’«Almanacco dello Specchio», n. 1, 1972, a cura di M. Forti (le sedici

poesie scelte sono licenziate per la stampa il 3 luglio 1971). Il 31 dicembre dello stesso anno, la raccolta sembra strutturata in tutte le sue parti, ma sarà ulteriormente accre-

sciuta nel gennaio 1972, sicché alla fine essa conterà trecentosessantadue poesie. Il libro è dedicato «alla memoria di Nino Casdia». L00608.

Caput viarum, 29-30 aprile (l’anno è il 1971, a meno che non sia specificato), in Q71;. Messina, 14 aprile, in Q71,. Buddàci, 15 aprile, in Q71,. Ganzirri, 19 aprile, in Q71,. Tirreno e Jonio, 21 aprile, in Q71). Mosaico di villa romana a S. Biagio, 30 aprile, in Q71,, con varianti ai vv. 9-10 «ora davvero fiocinato grumo/ di tenebra colpito dalla luce», poi corretti in «ora davvero fiocinato, bastoncino/ di tenebra nella

cruda luce» e, infine, nella lezione a testo. Sotto le rocce di Tindari, [21 settembre], in 0Q71.. A fanfara perduta, [Patriottismo], in f. ms. non datato ma contrassegnato dal n. 62. Voi Siciliani e noi Italiani, 24 marzo, in Q71,, con l’inserzione, nella trascrizione

autografa in pulito in f. numerato 12, tra il v. 5 e il 6, dei due versi «eccetera eccetera eccetera/ blablà blablà e blablà», il secondo cancellato successivamente. La Little Italy, [24 marzo], in Q71,. Venere segreta, 28 aprile, in Q71,. Polpette, 3 dicembre, in

Q71:. Nella festa della santa patronale, 13-15 settembre, [Per la santa patronale aspirazione], sostituito, in interlinea, con Nella festa della santa patrona, in Q71;, con

varianti ai vv. 6-7 «se fossi forte/ non berrei vino/ non mangerei maiale». Le alici, 26

giugno. Salvia ginepro rosmarino, [Bastimento carico di...), in f. ds. fotocopiato; al v. 1 «La mia isola...», corretto a penna in «L’isola...». A/ nome di Lourdes, 3 giugno (si riferisce, insieme con Nel cantiere e Come se ilfiume Gave, e con Generali di Brancar-

diers e La Valle qui non accolte, al viaggio di C. a Lourdes, dal 24 al 28 maggio 1971); in f. ms. numerato 164 è attestata la prima stesura che si trascrive: «Certi atei/ con laiche ali di cartapesta/ aureola stagnola/ i segni del potere/ scettro o trono corona/ di pasta frolla ripiena di termiti/ il cancro banchettante nel cervello/ perché s’infuriano di fronte/ al nome di Lourdes?...». Nel cantiere, in Q71, (è la prima del quaderno datato a partire dalla terza, Sull’anima, scritta il 12 luglio); rielaborazione di Ave Maria,

composta il 30 maggio e attestata da f. ms. numerato 166, di cui si riportano i versi conclusivi: «Oggi sono di turno/ quelli d’ogni parte e di sempre./ Immerso fino alla gola/ in quest’acqua pirenaico-universale/ nel pietoso diluvio e in questa Arca/ con loro canto Ave/ Ave Ave Maria». Come se il fiume Gave, S giugno. Nelle Shetland, [tra il 15 luglio e il 26 agosto], in Q71,. / fichi dell’inverno, 24 novembre, in Q71:.

Lumache, 3 settembre. Olive, [8-10 novembre], [Esempio], in Q71s. Api,.14 ottobre, in Q71s. Brame, 27 novembre, [Coprofilia] e [Coprofagia], in Q71s. Te la piangi:

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esistono due stesure autografe in ff. non numerati e non datati, la prima con titolo Sulle spine, la seconda Tra le spine, poi corretto nella lezione a testo. Cancro, [21 aprile], in Q71,. Porta, 26 novembre, in Q71s. Preghiera, 25 dicembre. Araldica, 2 ottobre, in Q71s. Le murene, [22-25 settembre], in Q71,. Al di là degli ulivi, [22-25 settembre: segue a Le murene], in Q71,. Freddo, paura, 30 ottobre, in Q71;. Riconoscimento, [25-27 settembre], in Q71,. Maturazione, 25 settembre, in Q71, ma senza.

titolo; in alto, sul margine sinistro, figura scritto: «Molti i chiamati/ pochi gli eletti». Gesto, 12 dicembre, in Q71;. Apparizioni; [9-14 ottobre], in Q71s. L’ultimo velo, 9 ottobre, in Q71;. Pioggia, 16settembre, in Q71,. La tua mensa, 21 dicembre. Tenebra e azzurro, 21 ottobre, in Q71

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Introduzione di Giovanni Raboni

POESIE 1943-1979 1943-45 Novembre Le rotte bianche Innanzi a Te Feste calme Eolie

Al tuo passare Col sole disceso Stravolto uccello S’inalba

In un giorno di luce sospesa 1945-55 L’inverno si fa fumoso Domani Nell’atrio, in attesa

Brughiera L’agave Dal cuore della nave Il treno per Parigi Tiro a segno Mio amore non credere

Liffey River

Prince’s Street Da Nyhavn Plaza de toros Partenza da Greenwich Antracite Il giorno dopo Libero e triste Storia Nel cerchio

1957-62 Arcipelaghi Sottozero In altomare

Qualcosa di preciso Apertura d’ali Metri Muovere un dito Autocondanna

Soprattutto Pistolet automatigue Da qui non puoi Preistoria La pazienza Giustizia Baedeker Inizio

Un 30 agosto A noi due

Oggi Nomi, memorie Come vanno le cose La bestia Inquilini L’osso

Metodologia Aquile, mosche, lepidotteri

Sagoma Di ritorno Meteorologia Tabula rasa

Avviso Quinta colonna La tua farina Dietro, dentro Fretta

Per congedo Cablo A Vittorio Anabasi Confine La notizia Mare Timoniere

La palma africana Lettera dall’entroterra Sul finir dell’estate

La campagna d’autunno La scatola cinese 1971-72

Caput viarum Messina

Tirreno e Jonio Mosaico di villa romana a S. Biagio Sotto le rocce di Tindari A fanfara perduta Il colonnello Sabbatini Voi Siciliani e noi Italiani A dicembre Badoglio La Little Italy Venere segreta Polpette Nella festa della santa patronale Le alici Salvia ginepro rosmarino Al nome di Lourdes Nel cantiere Come se il fiume Gave Nelle Shetland

I fichi dell’inverno Lumache Olive Api Brame Cautela

Te la piangi Cancro Porta

Preghiera Araldica Le murene AI di là degli ulivi

Freddo, paura Riconoscimento Vie d’eaux Maturazione Gesto

Apparizioni L’ultimo velo

Pioggia La tua mensa Tenebra e azzurro Le linee della mano Fantasima Visita

Sfingi Il resto manca

1972-73 Me ne vado Questi miti A Nino Cricetide AI davanzale Ferro E dovunque Spaccio Bormann Un tempo Questi piccoli uccelli

La provvidenza Come una lastra Il buio In agosto l’oliva Nuda e tremenda un dolce commercio Il decimo Il posto La discesa al trono Testimone Un bene indiviso È questo In quella chiara Un prato Un bel tempo L’ulivo Ripudio Un senso giusto Strelitzia Luce Dall’altra parte Rombi Oggetti di natura Le nuove cose Kaaba Con un solo gesto I mostri Arabesco Ipotenusa Troppo chiari Là in mezzo Nel pieno dell’estate L’odore dell’ozono Capanno All’oscuro di tutto Marzo e le sue idi Più potere All’alba Brivido In tane profonde Di colpo

Distanza Braccia

Legati Se non si sperde Ombre statue presenze Fantasia

Viaggio Un levriero Araba fenice

L’intrigo False acacie

S’uniscono i pezzi

Egli Pianura

1972-79

Segni Creazione Al vivo Mai

Il problema Disagio Grafite

Regioni La retta Un albero

Nel rettangolo Lettere Ossi

L’albero può tornare Il Verbo

È lei

L’acqua Scrittura

Pittura rupestre

È mattino Chiocciola Nero su bianco Ovale Nidiata Mosca

Un nastro Pagina bianca Come spora Nell’abbraccio I segni e il senso Relitto 1976-79 Cammino Forze Nidi d’ombra La linea il filo Scena Costrizione Fratelli Atomi La vista Filtro

Rifugio Non si evade Scorie In tema L’allodola ottobrina

Le pergole Ponti d’oro Sole di tardo autunno Dodici dicembre 1976

Gli anni passati Crescita Fuori di lei

Queste cose terrestri Simmenthal

Una foglia Metamorfosi Coda

È qui che Dio Il bullone

Il vaglio Punti di vista

Per sopravvivere Paguro

La mano dell’informe Alla mia ombra

A mio padre Da vivo e da morto A Mollerino

A mia figlia in partenza Dopo i due anni Pyracantha «Puzzle»

L’estinzione

Di qua, di là Prima di morte Occhiali Nebbia a Cimbro In cammino Frangois

La battaglia Chiromanzia d’inverno Mevatron 6 Libertà Durata Passero

La grazia Nel grigio Pennacchio Pronto

Geografo I mandarini di Pompei Al momento giusto Promessa

Codadigallo Fuga dall’angelo In te

Stato puro Nota ai testi a cura di Vincenzo Leotta

Bibliografia a cura di Vincenzo Leotta e Giovanni Raboni

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«Poesie 1943-1979» di Bartolo Cattafi Collezione Lo Specchio Arnoldo Mondadori Editore

Questo volume è stato impresso nel mese di marzo dell’anno 1990 presso lo Stabilimento Nuova Stampa di Mondadori - Cles (TN) Stampato in Italia — Printed in Italy

(tale da far escludere, nel suo caso, l’idea

sempre un po’ forzata di una possibile crescita per fasi, di un progressivo cammino verso l'acquisizione di risorse, ben possedute fino dai suoi mirabili inizi) risalta la coesistenza di una tensione vitale — di un vitalismo anche avventuroso — con la cupa ombra o coscienza della morte. La consapevolezza della sua minacciosa vicinanza, si drammatizza nel suo manifestarsi più diretto e impietoso negli ultimi anni, dopo i febbrili eppure lucidi presagi di molti versi dell’A//lodola ottobrina, il libro uscito poco prima che il poeta scomparisse. Si rafforza così, e prende corpo fino a divenire prevalente, il tema religioso, che nell’ultimissimo Cattafi riduce, essenzializza, di fronte

alla ineluttabile «letteralità» della morte, il pur prodigioso gettito metaforico della sua intera poesia.

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