Le poesie (1913-1957)

PRIMA ED.. Milano, Garzanti, 1988. In 8°, t.t. edit. con sovrac. ill. (lievi tracce d'uso), pp. 2,556,(2); PRIMA ED

273 106 12MB

Italian Pages 568 Year 1988

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Le poesie (1913-1957)

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CLEME RA

REBO

Le poesie

GARZANTI

La critica più attenta ha visto in Clemente Rèbora (Milano 1885 - Stresa 1957), poeta e mistico, una «tra le personalità più importanti dell’espressionismo europeo», rilevandone il «vocabolario (...) pungente, il (...) registro d'immagini e metafore arditissimo» (G.F. Contini): tutta una novità stilistica, i cui risultati spesso non hanno l’eguale tra i poeti del nostro secolo. Ma nell’opera complessiva emerge anche quel singolare «colore» umano che ha tanto commosso i lettori più fraterni: Rèbora possiede infatti «quella particolare rozzezza e timidità che è propria degli spirituali; uomini dall’inconfondibile accento, dal

passo impreciso che non si dimentica» (C. Betocchi).

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CLEMENTE RÈBORA

BE poesie (1913-1957) a cura di Gianni Mussini e Vanni Scheiwiller

GARZANTI

SSA

Prima edizione: marzo 1988

Seconda edizione: gennaio 1989

Ringraziamo, per l’aiuto che variamente ci hanno prestato, i seguenti amici reboriani: Mons. Loris F. Capovilla, ArcivescovodiLoreto; Nuccia DeLuca, delle Edizioni di Storia e Letteratura; Suor Margherita Marchione; i Rosminiani del Centro

Studi di Stresa, specialmente Padre Vincenzo Sala. Preziosi consigli hanno fornitoî Professori Franco Gavazzeni e Angelo Stella, dell'Università di Pavia. Altri amici hanno generosamente messo a nostra disposizione loro particolari competenze: li citeremo di volta in volta.

ISBN 88-11-63660-4

© Vanni Scheiwiller, Milano 1988 Per la pubblicazione in raccolta:

© Garzanti Editore s.p.a., 1988 Printed in Italy

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CASIO

Nel momento in cui la poesia di Clemente Rèbora per la prima volta si apre al pubblico più vasto, ne siano consentite alcune modeste indicazioni di lettura.

Si può cominciare dai frammenti più tesi, come il VI («Sciorinati giorni dispersi») e l’XI («O carro vuoto sul binario morto»); per giungere poi al framzzento XVI («Da

tutto l’orizzonte»), dove due «giovani cercanti / dal pensiero la vita» (quasi reboriani Giulietta e Romeo) vedono bruciare la loro illusione d’amore.

Passando ai Canti anonimi, bisogna leggere senz’altro Al tempo che la vita era inesplosa, forse la più compiuta tra le liriche del nostro Poeta; e subito dopo Dall’imagine tesa, quella più (giustamente) famosa. Tra le Poesie sparse, Il ritmo della campagna in città e, soprattutto, la quarta strofa di Clemente, non fare così!, che celebra — per acuminate metafore — l’incandescente slancio armonico delle Alpi. Senza dimenticare Viazi00, la lirica terribile, dinanzi alla quale «anche il fante Ungaretti ri-

schia di apparirci un letterato compiaciuto» (Pozzi). E siamo alle poesie di ispirazione religiosa. Dal drammatico Notturno si passi alla dolcezza commovente dell’Immacolata e magari all’inno di Natale, Ges 1 Fedele. Sarà così possibile al lettore intraprendere ‘dall’interno’ il suo autonomo cammino attraverso l’opera poetica di Clemente Rèbora, e di lì allargarsi in uno scavo, per così dire, centrifugo, sino a comprenderne tutto intero il ‘curriculum’. Si accorgerà, il lettore, che questo è il ‘curriculum’ di un uomo.

Da un tale approccio potrà emergere tutta la novità stilistica dell’opera reboriana, i cui risultati spesso non hanno l’eguale tra i poeti del nostro secolo: non a caso la critica più attenta ha visto in Rèbora una «tra le personalità più importanti dell’espressionismo europeo», rilevandone il «vocabolario [...} pungente, il [...] registro d'immagini e metafore arditissimo» (Contini). Ma potrà anche emer-

gere quel singolare ‘colore’ umano che ha tanto commosso i lettori più fraterni: Rèbora possiede infatti «quella particolare rozzezza e timidità che è propria degli spirituali; uomini dall’inconfondibile accento, dal passo impreciso che non si dimentica» (Betocchi). Il resto è bibliografia. E talvolta si vorrebbe che fosse silenzio. G.M. V.S.

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L’egual vita diversa urge intorno: Cerco e non trovo e m’avvio Nell’incessante suo moto:

A secondarlo par uso o ventura, Ma dentro fa paura. Perde, chi scruta,

L’irrevocabil presente; Né i melliflui abbandoni Né l’oblioso incanto Dell’ora il ferreo bàttito concede.

E quando per cingerti io balzo - Sirena del tempo Un morso appena e una ciocca ho di te:

O non ghermita fuggi, e senza grido Nel pensiero ti uccido

E nell’atto mi annego. Se a me fusto è l’eterno, Fronda la storia e patria il fiore, Pur vorrei maturar da radice La mia linfa nel vivido tutto

E con alterno vigore felice Suggere il sole e prodigar il frutto; Vorrei palesasse il mio cuore Nel suo ritmo l’umano destino, E che voi diveniste - veggente Passione del mondo,

Bella gagliarda bontà L’aria di chi respira 15

II

Nella seral turchina oscurità,

Pace su neve vaporando il piano Sconfina melodioso;

Ruscello è il tempo eguale Che non sembra fluire, E l’universo ingenuo si rivela

Come alla mamma, quando è sola, il bimbo.

D’ogni creata cosa io son la vita, E nelle mani tremano carezze

E fiorisce negli occhi Uno sguardo che invita: Il cuor beatamente è un rapimento D'’infinita adesione, E su dalla natura l’indistinto

Mister si fa passione Dove circola il mondo. Tu fosti e sei il desiderio mio Che tramutò gli aspetti E non mai il suo dio; Tu che fosti sentor rinnovellante La realtà segreta,

E appena tocca più in là rifuggivi; Tu che fosti pensiero E prodigar volevi Le invisibili forze, Scatenate cavalle dalla pugna Fumanti ansando, senza cavalieri; Tu che musica fosti - Dea amica, non amante -— E melodiavi i bàttiti dei polsi, 17

Ma il ritmo dentro chiudevi Fuor mandando l’inerzia: Tu che fosti ben altro E più concreto quanto più divino. Slancio di creazione, Perché sì duro t’incrosti

Negli urbani viluppi, O men chiaro traluci O doloroso affondi?

Che fai, se non adopri,

Quando è la vita, l’immane tuo sogno? Eppur qui si cimenta

Il sublime destino: Qui, fremente bontà,

Tu che l’eterno insegui Nel fuggevole giorno. Mamma, zolla aria luce, Papà, tronco puro severo, Fratelli, miei rami e mio nido, Sorelle, mie foglie e mie gemme,

O nostro buon sangue soave A vedere e a libare, Mentre vorrei amare

E giovando dissolvermi in voi, Non vi conosco, non v’inghirlando Nell’ora che giunge e dilegua Rimandando i consensi più in là! Impeto strano, sii forte Nel giogo del tempo; e rivivi Nell’atto la fede, Simile a chi luce non vede Mentr'essa schiara le fatiche assorte. Obliosi sogni schivi,

Qui si combatte e muore: Nelle faccende è l’idea. 18

III

Dall’intensa nuvolaglia Giù - brunita la corazza, Con guizzi di lucido giallo,

Con suono che scoppia e si scaglia — Piomba il turbine e scorrazza Sul vento proteso a cavallo

Campi e ville, e dà battaglia; Ma quand’urta una città

Si scàrdina in ogni maglia, S'inombra come un’occhiaia,

E guizzi e suono e vento Tramuta in ansietà

D’affollate faccende in tormento: E senza combattere ammazza.

19

Glauca s'impiuma la terra al mattino Che respirando discioglie un beato Vortice fresco di gemme, e rosato

Sembra il ciel una guancia di bambino. Mirabilmente incedo negli arpeggi D’amor che mi seconda il passo lento E nei fervidi sensi ondeggiamento

Il sangue lieto suscita e gorgheggi;

Con un facile oblio oltre sospingo La vita imaginando, e luce e suono Di vaghissime forme in abbandono Per l’iridata brezza ridipingo;

E quasi sento un caldo àlito umano Sul viso e dietro il collo un far di baci E tra’ capelli morbida la mano D’amante donna in carezze fugaci, Sin che s’effonde magico riposo Dove son primavera i pensier miei In un’assorta luce: e silenzioso, Come anello ne’ l’oro, io sono in lei.

20

Cielo, per albe e meriggi e tramonti L’aerato seren tu puoi ondare O di nuvole e vento Errabonde fanfare O per gli ampliati interluni Il bruno lucente mistero O nell’aroma lunare

(Quando tutto ama e perdona) Il silenzio sospeso portare; Ma qui fra nebbie andiamo, e a chi non vede Sterile nulla è il cielo:

Ma qui, anelo, ciascun dalle piazze alle case Per l'imminente pungolo Del travaglio si sfa; Nell’ostia insapora del compito uguale, Ingoia evacua pane e verità, Rumina l’ozio, aduna i suoi cocci Nel simular delle sale,

E stanco infogna giù piaceri e sonni. Sortilegio del tempo AI nuovo altar delle genti, o città Che mescoli un mondo Fra Penelope e i Proci, Dall’irrequieta parvenza Dall’incessante partenza Chi può giungere in te?

Chi può la voce ascoltare Zi

Del prodigioso essere E propiziare le cose? Come alla notte non senti La vanità del tuo sforzo,

Se per i fiori davi pietre e fumo Per aroma, e schianto ai cuori? Umana industria sacra,

Nel vortice m’esalto della lotta Che lusinga e s'indraca

E concrea e distrugge; Ma come dal fermaglio della scotta Più veemente vela al vento fugge, Vorrei così che l’anima spaziasse

Dall’urto incatenato del cimento. Se l’uom tra bara e culla

Si perpetua, e le sue croci Son legno di un tronco immortale E le sue tende frale germoglio D’inesausto rigoglio, Questo è cieco destin che si trastulla? Se van dall’universo eterne voci

E dagli àtomi ai soli si marita Fra glorie ardenti e tenebrosi falli Una grandezza infinita Che lo spirito intende,

Questo è per nulla? O risuonar delle valli Dove lancia il torrente

A galoppo i cavalli Del suo corso irrompente, Il grido delle macchine e dei lucri Sul tuo bàttito avvia E per le anime sia La tua fresca corrente! 22

VI

Sciorinati giorni dispersi,

Cenci all’aria insaziabile: Prementi ore senza uscita,

Fanghiglia d’acqua sorgiva: Torpor d’àttimi lascivi Fra lo spirito e il senso;

Forsennato voler che a libertà Si lancia e ricade,

Inseguita locusta tra sterpi; E superbo disprezzo E fatica e rimorso e vano intendere: E rigirìo sul luogo come cane, Per invilire poi, fuggendo il lezzo, La verità lontano in pigro scorno;

E ritorno, uguale ritorno Dell’indifferente vita,

Mentr’echeggia la via Consueti fragori e nelle corti S’amplian faccende in conosciute voci, E bello intorno il mondo, par dileggio All’inarrivabile gloria Al piacer che non so,

E immemore di me epico arméggio Verso conquiste ch’io non griderò. Oh per l’umano divenir possente Certezza ineluttabile del vero,

Ordisci, ordisci de’ tuoi fili il panno 23

VII

Divina l’ora quando per le membra Lene va il sangue, e vivere è malia: Nel vero effusa la persona sembra Luce nell’aria; e ignora come sia. Da fonti aperte nasce il sentimento

Che d’ogni cosa fa ruscello, e intorno D’amorosa bontà freme anche il lento Fastidio ch’erra nell’usato giorno.

Onde sconfina l’àttimo irraggiato Nel vasto palpitar che lo feconda, E scopre il senso intenso in ciascun lato Dell’universo una vita profonda.

20

VII

Per l’acre fluir dei minuti

Che vita distrugge e ricrea, Mentre è violenza di strade E divisa vicenda di case,

Nel fiato e nel sangue un’idea Mi strozza senza grida Consuma senza fiamma S'io dorma, prepari, affatichi, Discorra, divori il mio pasto: Ma tutto la solita mano

Mi porge dov’io rimango.

Romba, splende, s’inspira il contrasto Dell’uomo, del mondo, di Dio; E gusto e mi aspergo alla varia Perenne fontana che pare Cosa ma è spirito e cielo,

Che par l’infinito ma è linfa del giorno Irrorante nei gesti e nei detti Dell’opera intensa tenace; L’idea s’annida agli svolti

E, sbottando, paura mi fa. Della mia carne si veste e si cela Palpata da un sogno d’incubi, Àgita nervi per trine e fibrille Di vene per chioma,

Sbarra nel viso pupille Rosse d’un cuore spezzato; Ma tutto la solita mano 26

Mi porge dov’io rimango. Però, se il minuto non trova

Il suo solco e s'ingorga, - Come alga dispersa in corrente,

Indugiando a una chiusa Rifiuti e bava aduna, —-

Le copie del mondo, che prima Eran letizia e dolore

Per la sequela del tempo, Nel mezzo si stipano e torna Con àlito morto il lor peso: S’ingorga il minuto e ritorna Con àlito morto l’idea, L’idea che quando ritorna

Un fatto trascina; e per sempre.

27

Dentro il meriggio stanno alberi e scogli Vividi al sol che infiamma la sua ora

Sopra le vette: e tu, aria, ne accogli Limpidamente la forma sonora. Tutta è mia casa la montagna, e sponda Al desiderio il cielo azzurro porge;

Ineffabile pàlpita gioconda L’estasi delle cose, e in me si accorge.

Quassù quassù, fra il suonar dei campani E il canto lungo di un prono bifolco, L’uman destino vincola le mani Con lacci che non han peso né solco;

Quanto misero mal vita perdoni,

Quanta bontà ci volle a crear noi, Quassù quassù non è chi non l’intoni Mentre vorrebbe far puri i dì suoi.

28

Chiedono i tempi agir forte nel mondo In un perenne tumultuar balordo Di vita senza razza;

E che, fiumana alle marcite in guazza, Scoli ognuno nei molti, E dissolva la sua intima pace Alla città vorace Che nella fogna ancor tutti affratella. Tien gl’impeti sepolti, Intensa giovinezza,

O va segreta alla tua voga bella: Esser persona la saggezza or vieta. Ben t’applaude chi compera e smercia, Venere neutra immonda: Chi, di sé ghiotto nell’anima lercia, Con vasti gesti d’unione Umanità circonda;

Chi fiuta la ragione (Cagna che ha piscio per ogni cantone!) E il meccanismo e la scaltra parola

Che il meditare aggiorna E i letarghi consola; E chi nel luminoso ingegno tende,

Dal buio delle sue voglie, l’offesa Al segno divino dell’essere, Come fiòcina a pesce in acqua accesa; E forse in quiete oppiata ti deliba, Promiscuità gaudente, 215)

Chi ferve di speranza e si corona O l’abitudin sonnolente ciba

E la fatica benigna ritrova O l’amore dimentico cova. Ma di quanti non visto s’avvelena Nell’ansietà del costume L’insoddisfatta lena; E quanti son che, stretti al suo congegno,

Sembran volere ancora e sono morti! Ohimòè, luce, ove sei?

S’avvien che forma in noi rimanga al corpo Mentre lo tesse e muta il sangue nuovo, Dove sarà nel tramutar crudele L’interno paragon della certezza? Dove la sana limpida dolcezza Che accomuni a un suo fedele Senso l’anima infranta

Degli uomini accigliati? Dove la fraterna visione

Che il pàlpito sorprende Delle fuggevoli cose, E fa divina l’ora che si vive?

30

O carro vuoto sul binario morto,

Ecco per te la merce rude d’urti E tonfi. Gravido ora pesi Sui telai tesi; Ma nei ràntoli gonfi Si crolla fumida e viene

Annusando con fàscino orribile

La macchina ad aggiogarti. Via dal tuo spazio assorto All’aspro rullare d’acciaio Al trabalzante stridere dei freni,

Incatenato nel gregge Per l’immutabile legge Del continuo aperto cammino: E trascinato tramandi E irrigidito rattieni

Le chiuse forze inespresse Su ruote vicine e rotaie Incongiungibili e oppresse,

Sotto il ciel che balzàno Nel labirinto dei giorni Nel bivio delle stagioni Contro la noia sguinzaglia l'eterno,

Verso l’amore pertugia l’esteso, E non muore e vorrebbe, e non vive e vorrebbe, Mentre la terra gli chiede il suo verbo E appassionata nel volere acerbo

Paga col sangue, sola, la sua fede. 31

XII

Sgorga lucendo un ventilato ardore Che sugli alberi fondi s’ingorga E per le case dall’occhiaia strana Giù si dipana in ombra sulle vie, Dove assopito è il vorticoso squillo Fra chi va lento a digerire il giorno. L’anima tarda, sul balcon tranquillo Alla mamma vicina io mi riposo: Spazia ella intorno tacita e divina

Accarezzando guarda. Viver la sento; e nel baleno aperto, Le prove conosciute e la natura Mi fan del sentimento un desiderio Di cambiar modo e ventura; Ma facil si palesa il buon cammino Che riman sogno E nel vorace tempo è vana attesa. E mi vergogno ripensando a lei Che nel donare il sangue fu serena; A lei che, triste d'aver troppo, volle

Alla sua gioia il sacrificio appena, Ma a noi perdona i soffici fastidi; A lei che il cuor ci veglia e la movenza In un senso di culla E, se non diciam nulla, Contro l’ignoto male Sbarra a difesa il suo amore; A lei che avviva, accomunando ai figli, 32

La silenziosa carità paterna. Quanto fu bello che nascessi nostra O mamma, così mamma Da non poterti sapere!

Ma nulla a te dico: Oh bavaglio nemico

All’ingenua effusione D’ogni pàlpito vero, Libero invan quando sarà rimorso! Ma invincibile si ostina Il tacer che mi fa nodo: Sogguardo nel barlume chi cammina Per il corso che pullula luci;

Sopra è l’oscura pàlpebra Della notte, che appena laggiù schiusa Un’ardente pupilla ha lasciato.

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O vogliosa amicizia

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Che cresce, se più dà!

Quando si nutre il cuore

Un nulla è riso pieno, sese

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Quando s’accende il cuore Un nullaè ciel sereno: Quando s’eleva il cuore All’amoroso dono,

Non più s’inventan gli uomini, ma sono.

34

XIV

O pioggia dei cieli distrutti Che per le strade e gli alberi e i cortili Livida sciacqui uguale, Tu sola intoni per tutti!

Intoni il gran funerale Dei sogni e della luce Nell’ora c'ha trattenuto il respiro: Bùssano i timpani cupi, Strìsciano i sistri lisci, Mentre occupa l’accordo tutti i suoni; Intoni il vario contrasto Della carne e del cuore

Fra passi neri che han gocciole e fango: Scivola il vortice umano, Vibra chiuso il lavoro, Mentre s’incava respinta l’ebbrezza.

Ma tu, ragione, avanzi: Onnipossente a scaltrire il destino,

Nell’inflessibil mistero

A boccheggiare ci lasci; Ma voi, rapimento e saggezza In apollinea gioia In sublime quiete, Al marcio del tempo le nari chiudete O mitigando l’asprezza Nella fiala soave dell’estro

O vagheggiando dall’alto La vita, che qui di respiro in respiro

35

È con noi belva in una gabbia chiusa! Un’eletta dottrina, Un’immortale bellezza Uscirà dalla nostra rovina.

36

Lontanissimo arpeggia il tramontare Al tocco delle nubi E il nevicato pian con tenerezza Par che non visto gli rubi

In luminosa pace ogni dolcezza. Nel silenzio, il ricordo è come gorgo Che mentre in fiume corre si ritorna; E la speranza è il suo murmure. In un senso di luce

Che il petto gonfia di fresco vigore E un vel d’argento serico gli cuce, A passi schietti io procedo sano, Tesa la mano Paonazza, quasi asta brandissi Verso un’eroica impresa; E qualcosa m’incita A pugnar nella sorte:

Le mete non raggiunte dalla vita, Tocche saranno dall’arcana morte.

If

O musica, soave conoscenza,

Tanto innaturi l’anima fin ch’ella.

Delle imagini vere la più bella In sua voce ritrova e in sua movenza;

E come a noi perman l’intelligenza Se vada in labil suono di favella, Armoniosa in te non si cancella

L’eterna verità mentre è parvenza. Virtù ti crea che non par segreta, Ma il ritmo snuda l’amor che discende Dall’universo a rivelar la meta: Amor che nel cammino nostro accende L’inconsapevol brama triste o lieta,

E in te, raggiunto il tempo, lo trascende.

38

XVII

Da tutto l’orizzonte

Il ciel fuso balenava Con slanci arcuati di luce

Verso l’alta vertigine azzurra Che al sommo traboccando più vibrava; Giacevan sui confini Grembi di nuvole bianche, Ma il sol maschio sfuriava Sulla terra supina

Nel grande amplesso caldo. E con turgidi muscoli Si sforzava ogni cosa violenta E si palpavan i sonori tonfi E s’incendiavan i colori secchi; E nel convulso spazio, Dalle coscie dei monti Al gran seno dei piani, Dalla testa dei borghi Ai nervi delle strade, Con àliti e gorghi

Con guizzi e clangori Ebbra l’ora si stordiva; Ebbra l’ora si smarriva Nel senso delle voci Di giovani a diporto, Di giovani cercanti Dal pensiero la vita.

La compagna al compagno 39

Il compagno alla compagna, Voleva ognun confidare Qualcosa ch'era tanto: E scaturiva l’invito bramoso

D’intorno, aperte le magiche porte, Ampliate le ardenti finestre, Protesi i fiorenti balconi Della natura balzata su, E al suo piede ferveale un piacere

Che voluttuoso salendo con gioia Dai fianchi al sommo iridava Di squamme e scintille

La bella e fragrante dimora. Il compagno alla compagna La compagna al compagno, Volea ciascuno gridare Ciò che non era mai detto,

E passar da ogni varco E popolare la reggia E confondersi insieme Nell’acciecante verità enorme. Ma rotolarono sillabe, Ma ragionarono il mondo: E riser tutto il dì per non sapere, Mentre ogni cuore sciupava

La sua farfalla. S’annidò il cielo corto, E si fece uno spento bracere;

Languì alla terra il piacere, E si fece la spoglia di un morto: Strisciò la notte, Scivolò la partenza, S'aprì la voragine Della città rombante. Si lasciarono,

E lasciarono la giovinezza. 40

XVIII

Respira il lago un pàlpito sopito E dàn le stelle bàttiti di ciglia Divini; appare il mito

Dei monti limpido, e origlia.

Per ogni seno l’ora intima scende Dalla campana: e silenzio indi vive;

Ogni cosa s'intende Tra foci errando e sorgive.

Sopra gli uomini, in vere leggi pure, Accomuna il mistero della sorte Allegrezze e sciagure: Del male è il bene più forte.

41

Stavo lassi divivande e vino 1

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| L'ilarità dell’àttimo dano

ì

E liscio e più vicino Il corpo mi titillain calor unto. Il supremo ideal, nascosto, î furia Palpa nei sensi; e turgido di voglia, Alla mia grassa incuria

Il mondo miserabile si spoglia. O vanità del bene contro il male, Nel mio diletto è l’unica certezza:

O vanità della gloriosa altezza, Nel mio diletto è l’anima immortale.

42

Mar che ti volgi ovunque è riva e chiami, Cuor che ti muovi ovunque è pena e l’ami:

Ritornan l’acque e i sentimenti al fondo, Ma per salire puri ancora al mondo.

43

E primavera, questo accasciamento

Nell’ebete riflesso D'un caldo umido vento Che monotono incrina La crosta cittadina

E suono fesso rende? Forse altrove sei bella, o primavera: Non qui, dove uno sdraia Passi d’argilla e per le reni vuoto Scivola il senso e gonfia la ventraia,

Mentre l’anima giace pietra al fondo D’una gora, e si contrae

L’idea nel tempo che vien già divelto Con nausea intorno alle cose. Tu, mano aperta che inseguivi il mondo,

Questo hai ghermito; e primavera in festa

Il riposo ora porge e l'omaggio. Eppur, la fede e il responso tentai; Preda tutto dei casi, nel viaggio Della turba pilotai; E con rimorso mi largivo e breve

L’ozio che addélcia

In cima al sentimento i vani sogni: Non certo i vostri, o primavera sciocca, O lasciva città senza amore! Ma che giovò se l’aria mi fu tolta,

Se ogni ora parve un ripiego di fretta, Se quasi scheggia puntuta

44

Mi scardassò la vita;

Se, primavera, il mio cuor generoso

Soffocasti di spasimi sordi In un scuoter di sonno che crolla

Qui dove tutto m’offende Con vergogna, e non trovo

Un abisso profondo per gettarmi? Tu mi gridasti all’inutile forza Dell’anima che pensa,

All’inezia noiosa di chi pena: E ridevi nei tuoi rutti sozza. Oh, se avvelenati denti Mi saettassero fuor della bocca Per morder cuore e cervello su te, Mentre la gola rugghiasse a sterminio

Il terrore del mal che m’infosca

E drizzasser le mani ogni nocca In artigli selvaggi a squarciare Dio e i scellerati buoni!

Oh, se fuggendo trovassi regioni Dov’occhio non mi veda né conosca, E lieto fosse il destin nuovo al sole! Ma primavera, tu strozzi e spunti Ruggiti e artigli con mediocre inerzia,

E gl’impeti e le luci Accasci e in ebete riflesso smungi; Ben tu al fiuto del senso conduci Nel caldo umidore del vento Con strette di mano la placida vita, Con strette di ordigni la provvida forza; E in tuo buon senno mossa, Nei plausi fraterni Dell’ilare gente codarda Sotto il ghigno del cielo, All’anima maliarda 45

i Sultan precari ar: Ma giù gli sguardi con certevi| ‘Tronfi bastardi della imagine Civil risma di eroi:

E giù il cappello!

46

XXII

Non è più su di un palmo Oggi il ciel dalla terra: Tumido, opaco, calmo, L’anima in ombra di poca aria serra.

In un volgere lieve L’infinito riposa:

La quotidiana e breve Vicenda è il suon concorde d’ogni cosa. Allor, sorto da ignote Nicchie vapora piano Un senso sopra note

Forme: e gioisce del suo ritmo umano.

47

XXIII

Col moto egual delle tue genti, o valle, Dal buio rombo profondo Alle pendici in ninnananna sale Il notturno corale,

E fuma d’ombre al nido delle stalle. Qui, nella tana è curva Fra il variar delle braci La digiuna forma rozza Del parentado accolto, Con gli occhi chiari dall’imagin bruna; E va nell’aria un dir d’avemmazrie,

Quasi di bimbi un parlottìo raccolto

Quando fra lor si vendono bugie. Poi tranquillo ognun posa,

E in un guizzo anche il fuoco si spoglia: Filtra il cielo e sorveglia da una cruna. Muto alla soglia,

Per l’umido giro dei monti Tendo lo sguardo e l’udito; E se al mio strano pensier paragono Le immote umili forme Che giaccion dentro, arcano Dalla terra esce un fantasma,

E bacia solo chi dorme.

48

XXIV

Sui fianchi 6ndano avvinti Gli amatori in bisbiglio

Nel languor sciolto dell’estiva sera; Dietro mi volgo: lento indi procedo, E voluttà m’addolora. Ma donne a veder sole più mi accora, Ché nulla ad esse, tranne amor, par vita;

Nel frantumo del giorno, Nel vuoto della sera Giuocan l’attesa a rimando:

E nel guardar chi s'accompagna, intorno Dalle occhiaie dispera Intento l’occhio che par dica — quando? — Mentre orgoglio sicure le drizza E muove a vagheggiarsi alle vetrine.

Il fato di ciascun è dentro al mio,

Come nell’occhio lo sguardo: E argomentando, tacito m’avvio Per la notte che stringe le cortine Sul lacrimar dell’ombre Per forme indefinite

AI flaccido baglior ch’estenuato Da fanale a fanale sbadiglia In una pausa senza fine. O stanchi di sognar, oggi dormite: Tutto, domani, ricomincerà.

49

"Tragica viene a contrasto l’idea Che dove spazia tutto in sé contiene,

E la natura che senza me crea. Perché il soffrire è sicuro E il comprender oscuro,

Perché la voglia palese e gioconda Miserabilmente giù sprofonda? Non così promettesti, fanciullezza!

Quand’ero appena scàlpito o riposo Nel vento del mio prato; Quando sorbivo il vivere gustoso, Inconscio e ghiotto come il mio palato;

Quando l’aroma dei sogni alitava Dall’accesa corolla dei sensi Al presagio lucente dell’ebbrezza, Oh adesion di gioia

|

Oh creazion d’un mondo

|

Ch’ora inseguo vanamente e sfuggo, Che mi fa quale non sono E più lontano dove più mi struggo!

| |

Or, come il sangue qui in me,

|

Necessario e tortuoso Son dentro nella vita;

Incertamente la memoria grava Il mucchio del passato, E preciso al suo luogo spietato Con paura e dolore il presente s’incastra.

Nel sonno odiato l’unico inganno: 50

Ma, forra a svolto improvviso di monte,

Sembra il risveglio un terribile agguato Dove l’ansia e l’avvenire Sbarrin minacce senza scampo Chiedan risposte senza tregua, Mentre è sgomento l’ascoltare intorno

Spoltrirsi alla fatica ancora il giorno. Come saetta ch’aria in luce stringe, O realtà, essere in te vorrei: Ma in un concreto e alterno

Svariar perdo il senso Del tuo vortice eterno. Da te nascendo vano sfumo via,

(Vapore sull’acqua d'inverno): E il sentirlo m’è duro, e non voglio La tua offerta tremenda; E non voglio che voi, o pochi saggi Dell’immortal vicenda, Siate più vivi della mia carne sciocca; Io credeva morir per natura Chi senza speranza dolorasse, E matura la polpa sull’anima secca Mi cresce a dispetto più bella!

Terso vigor di zampillo, Quiete di riso tranquillo, Paga blandizie del senso, Labile cosa del tempo Fra labili cose, io sia: Ma nell’urto del piccolo piede Il passo divino ascoltare,

Tacita guida a chi crede.

PXi

Giù, nella conca del lago, si fonde L’ambrata sera che intorno le vette Ancora non raggiunse, sitibonde Dell’ultimo balen che il sol perdette;

E qui le vigne foggiano ricami Sul vago ordir delle pendici perse, E i silenzi sonori come sciami Ronzano eguali con virtù diverse. Ma, quasi fiume che rigiri lento, In una blanda opacità di perla L’ombra procede con liscio fermento: E il plenilunio in luce sembra berla.

Pulsa l’eterno anelito e s'invera Il creato, protesa in su la bocca;

Per non destar chi dorme, più leggera Il vecchio campanile l’ora scocca.

Nella sommersa pace il guardar mio Sembra che in fiammei pòÒllini s’incieli, E va nel tenue senso un crepolio Daria che a galla su per l’acqua levi;

Cammino in nimbo, e rarefatto inclino Sinuoso al fosforico sentiero: Ciò che men dissi, tutto m’è vicino; E per l’amante cuor nulla è mistero. 52

XXVII

E di me parte un uomo da lavoro, Rude le membra e in giubba affumicata, Che tutto nel sonoro

Bàttito volge della sua giornata; È di me parte l’uom che pavoneggia La vanità della superbia dotta,

E coi bravi gareggia E pugna dentro alla civile lotta;

È di me parte l’uom che nell’azzardo Del presente s’incita e la gazzetta

Ha per vangel, beffardo A ciò che non appaga la sua fretta; È di me parte l’uom che s’apparecchia Il gioir dei conforti

Mondani, e non si specchia Che dove è la violenza dei più forti; E altro ancora: e intendo Il divenir tremendo che non cura L’opporsi, e si fa storia e natura;

Ma dove nel libero indugio Arcanamente s’agita il mio volo,

Odio l’usura del tempo Paurosamente solo.

53

Perle deserte strade alla campagna Il sol schioccando si spàmpana

Immane nel sovrano meriggio, E dove è fronda intorno e ai casolari S’acquietan nel torpor le creature. Oh l’inseguirti, mio pensier, natanti

In un aperto libro gli occhi, mentre | Lo spazio zonzando scintilla

Fra i circostanti aspetti Dove natura riposa tranquilla, E risentir la quotidiana sorte Come l’eterna verità che in noi Dell’universo si fa vita e morte! A me, che siete, o spregi insofferenti

Del comun senso, o dotti avvolgimenti, O smanie ben pasciute,

Se nel cuore le forme conosciute Degli uomini e del mondo Mi rivelano il prodigio? Salve, o ver di tutti i giorni! Tu, per le case le patrie la terra, Sei l’urto e l'impronta del ritmo seguito Dai passi che levae che sferra Tra mete e ritorni

Il gigante che va per l’infinito.

54

XXIX

Dai voli torvi di sogni la notte Scendendo nell’alba Rovescia la scialba Zavorra cieca: E chi si desta, n’ha torbidi gli occhi, E chi si leva, le carni n’ha rotte,

-E gesti e pensieri Nel cozzo de’ scabri doveri Si sbriciolan sciocchi. Ma sopra, Dio feroce nello spazio Guizza di luce e si sdraia Sul nostro patire, e lascivo non sazio

Fra donne d’eternità gaia Rinnova le estasi libere Del suo piacere; e inconscio ricrea Del mondo le specie e l’idea. La faccenda così prosegue a vivere; Ma nel giorno, perverso è ciascuno: Ma la sera, dal senso brutale, Dal tedio astioso di male Non scampa nessuno.

55

Leggiadro vien cela della sera| Un solitario pàlpito di stella: | A poco a poco una nube leggera Le chiude sorridendo la pupilla; E mentre passa con veli e con piume,

AZ

Nel grande azzurro tremule faville

E

Nascono a sciami, nascono a ghirlande,

:

— Son nate in cento, sono nate in mille:

Ma più io non ti vedo, stella mia.

56

|

XXXI

Lungo di donna un canto si trasfonde Come azzurro vapore Dai clivi lambiti dal sole d’autunno Che stanco dirada l’ardor delle fronde E nuvole scioglie cercanti sopore. Nel vuoto sostare dell’aria ascoltante La voce mi pàlpita in cuore; E le bellezze ripenso che sole Vaniscon senza amore:

Baleno d’oro non giunto al guizzo, Pianta nel succhio divelta, tizzo Scordato sotto la cappa

A sognare la fiamma, Alito non respirato, Baci non schiusi, Forte corpo senza amplesso. Dai clivi si versa si esala dispera

L’umido ombrare violetto: A casa, a spremer la sera!

aL

Mentre scalpello in rintronata usanza | A colpo a colpo il tràmite dei giorni, | Senza fiducia vivo di speranza Che fecondata questa età mi torni;

O se tenace mino con baldanza Per altri un varco e per me, tra gli scorni

Fallendo io piombo giù, e una distanza M'isola cieca dentro aspri contorni;

O se gioioso su dal covo afflitto La santità del mondo nel contrasto Mi sveli il maggior vero che l’avvince, Al tornar nelle genti io son sconfitto; Ripiglio i colpi, gemo sotto il basto: Cristo ha ragione e Machiavelli vince.

58

XXXIII

Come al respiro pieno del lago

L’anima è uguale! E nido si fa tutto

Nel tepor sano del placido flutto, Quasi bimbo che a mamma dorma in seno.

Con piè di nubi poggia il cielo in vetta Ai monti forti in un riposo lene,

E van per l’aria imagini di bene Con riso di speranza.

Sta la gran luce in mezzo accesa, e lieve Fra le incantate piante oscilla; l’ora

Si sgrana in perle, E l’amore nativo in esultanza La terra cullata riceve. Oh risentirci come creatura Viva nel mondo saliente in noi

E l’evangelo di tutti gli eroi Riconoscere dove fu natura! A domani l’anelito e le voci Dell’astuta avidità: A doman, chiuso il petto negli incroci, L’ironico sorriso dei saluti!

59

Scienza vince natura:

È gloria. Immane ferve E di macchine suona e di monete L’uman contrasto,

Mentre in disparte l’umiltà dei vinti Geme o s’invischia, e vana La melodia silvana

Inascoltata giace. Oh per le vie all'alba Fulmineo ridestarsi,

Quando - uccelli dei nidi cittadini Per l’aria dai camini Vélano le sirene Negl’incensi del fumo Chiamando al buon lavoro!

E via si lancia il giorno D'ora in ora al meriggio,

E giù per la sua china A foggiar cose e pensieri Con intrecciate vicende Con risonanti movenze,

Fin che la sera il gran pàlpito accoglie E ne respira le voglie Fra il rincasar tumultuoso Che ai sobborghi nereggia negli echi Dell’ultime officine,

Tra il brulicar delle forme Che s’indugian più scaltre Nel tinnir luminoso dei corsi.

60

Scienza vince natura:

Quasi in corrente acqua pura e immonda, Dei secoli l’errore E la virtù nell’atto si feconda; E mentre ognun dietro sua fame intride

Per l'ingombro cammin la schiavitù, È fior che beve l’aria e la profuma, È lente al sol che intensamente aduna: E mentre il volgo in desiderio occhiuto

Spregia rapace negando l’idea, Per infiniti sensi d’aiuto

Foggia maggior destino Che dà salvezza donde più s’uccide; E il mondo eccelso crea. Questo sai, pensier mio; e a meditarlo Eroico t’esalti;

Però (madre alla figlia perversa,

Che più si avventa se la veda bella E di ciò nel suo amor è crucciata) L’anima grida:

— Stanca si affretta l’età sverginata, E tutto sa di coito! — E soffre mentre ama il suo tempo. Poi, come tuon dai tetti si disperde

In un lungo bruito alla campagna E a poco a poco nell’ombra si bagna Tremando e rilucendo tutto il verde, Nel silenzio si placa: io respiro 61

as dì, scopro il mena nacas . Ma breve 6 gioia mi libra: Vil ricadendo nella mia fatica, | L’ottusa usanza E talor sembro Per l’urto rotto Dentro l’arsura

zotica si sfibraj un carrettier che al sole del cavallo stanco. del cammino bianco

Un sonno covi dipolvere e sete. ‘

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62

Nell’avvampato sfasciume, Tra polvere e péste, al meriggio, La fusa scintilla D’un dèmone bigio

Atterga affronta assilla L’ignava sloia dei rari passanti, La schiavitù croia dei carri pesanti;

Toòrcon gli alberi a respiro L’ombra e le foglie sui rami e sui tronchi, I muri abbassano pàlpebre

E spràngan le soglie nell’arido giro Del losco sfasciume. Erra, tra polvere e péste,

Il gonzo pecorume Dei ragazzi di scuola, E, palloncini sugli spaghi, oscilla Dai corpi smilzi il vuoto delle teste:

Dietro mi stringo con passo caduto, Vittima che s'immola Al sacrificio muto. Sbirciano i passanti,

Sbirb6nano i cavallanti, E dalla lor scontentezza Nessuno vorrebbe il mio officio. Ma chi nel borro impeciato Sorger libero e terso mi vede,

E fuggire dal fiato e dal piede L’arso demone bigio? 63

Sgorgo, inalveo, verso Fra murmuri e spruzzi al meriggio Nell’aria l’effuso tesoro Del vivido corso immortale: Risbaldiscono i passanti, Schiòccano i cavallanti Dai carri nei mozzi sonanti; Gli alberi ondeggian con verdi richiami

L’ombra e le foglie dai tronchi e dai rami,

Radiose pupille dai muri alle soglie S’aprono al fiotto vitale Del soavissimo fiume Che stilla e s’assapora Nella freschezza irrequieta

Dei ragazzi di scuola, Nell’ascesi segreta Del mio nume che s’immola Al sacrificio muto.

XXXVII

Il vedovo, rizzando il torso nero, L’ultimo fascio strinse nelle spanne; Toccò nel vespro di raso il sentiero Verso un bozzolo azzurro di capanne, E lusingando alla malcerta traccia Del bimbo, come fior nello sterpeto Lo colse lieve e per le vaste braccia Al petto lo nascose mansueto;

Ritta la gerla fragrante di fieno, Roseo e biondo lo calò baciando, E per il monte, di contro al sereno, Sotto il buon peso si mosse oscillando. Io sol rimasi nell’avido spazio,

E vaneggiò la mia pupilla ingombra; Poi, sotto il gravar morto dello strazio

A valle caddi in fuga dietro l'ombra.

65

Vedesti, fanciulla, nuotare Nell’occhio ritroso la grande | Malizia d’amore velata

Di tristi irrequiete domande? Vedesti la vaga mia bocca, Che sa giovinezza fiorire,

Nel trepido solco del labbro Dir ciò che non seppe a te dire? Un caldo barlume al tramonto Sembrava il piacer del tuo viso: Balzò tante volte al mio petto L’intenso tuo cuor, e il sorriso

Appena mi giunse e la voce Distratta. Poi lenti a deriva N’andammo; il variar delle cose Ci strinse: e ciascuno mentiva.

66

Venga chi non ha gioiaa ritrovare Questa voce che mia

Par soltanto e di sogno: Ma ciò ch’essa non dice, Ognun, s’entri a cantare,

L’intenderà secondo suo bisogno. Mentre l’ora è infelice,

Questa voce è pazzia: Ma qui c'è un cuore e vorrebbe Altri cuori trovare; Mentre l’àttimo svena,

Questa voce è ironia:

Ma qui c'è amore e vorrebbe Altro amore infiammare;

Mentre rapace artiglia Nel cervello e nel senso La fame e la sciagura La voglia e l’ansietà, Vien qua tu, poesia maledetta, A veder la bellezza A provar la bontà: Ma qui c'è aiuto e vorrebbe Altro aiuto invocare. Ciascun dica ove è perso, E nella voce unita Consensi abbia e richiami. Il dolor plachi come la stanchezza Che reca sonno a riprodur la veglia,

67

Il dolor snodi come la giornata Che rovinando crea l’indomani, Il dolor viva come buona madre Che trae dal penar la sua speranza, Il dolor fiammi come la lanterna

Che dal nostro il cammin svela degli altri. Ciascun apra suo gorgo e lo fluisca Ruscello all’acqua altrui.

Urgono anele domande

Dal libero vol delle sfingi celesti Al nostro trànsito avvinto Che sa fioche risposte: Per terre e per mari

Gli uomini inquieti si cercano avari

Purgando nel sangue amarezze riposte; Ma divino è sentir chi ci viva, Che senza lo spirito nostro Anche l'immensa natura si priva;

Ma prodigiosa è la tragica pena D’abissi e vertigini Di smarrimenti e lena: Le zucche soltanto e i cadaveri

A galla o sul fondo non mutano mai. Udite il rullo a distesa Che verso una meta risuona,

Verso una fata morgana Che bacia vicino chi l’ama? Chi la vede e l’ascolta, Più vasto ritorna Al destino e lo spinge:

È nell’offerta la messe più pingue, È dove manca la gioia del mondo. O voce eterna in movenza caduca, Che sveli il futuro calvario Dell’osteggiata bontà! 68

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Fluì soavemente una malia Nel petto e un abbandono fra i ginocchi, Mentre in cammin i popolosi imbocchi

Tentavo perso nella fantasia: E sulla faccia parve leggiadria Di sorrisa mestizia in caldi tocchi D’una voglia di pianto; ma negli occhi Fu sguardo, e nella mente poesia. D'un così intenso amor alato cinsi

Ogni persona, che per tenerezza Dagli altri vivi più non mi distinsi; Ma quando alfin discesi alla scaltrezza

Del ragionare altrui, dentro mi strinsi Un cuor che non aveva più dolcezza.

70

XLI

Quando il ciel sbiancò il mattino

Dentro un nulla illeggiadrito Che nel cuore

Mio fu sole, Ero il trillo d’una fonte

Che nel verde delle sponde È felice Di fluire, Ero il soffio d’una valle Che nell’erba fa ghirlande E richiama Voci in aria,

Ero il volo d’una nube Con le chiome ampie di luce E giù fida L’ombra schiva, Ero il senso che natura Dà per vincer la fortuna E trar cosa

Che si voglia.

Quando il ciel folgorò il giorno Sépra l’estasi del mondo, Nel mio cuore Spense il sole. 71

XLII

Voce, il ruscello delle tue campane L’anima innondi bramosa di te: Chioma, il cespuglio delle calde trecce M’avvolga il capo solcato di te;

Ohimè che la fortuna

Non àgita sonaglio Quando ci sfiora col suo molle piè! Io mi ritrassi, allor che nell’amore Eri una cosa per me sciolta in me:

Fuggita or tu, rimbalzo con selvaggia Voglia che ha fatto un groviglio di me. Ohimè che la fortuna Non arma di consiglio

Chi per la vita foggiato non è! Ma tu, ragion maledetta, comprendi

Ogni cosa; e per te dico Quando il martirio si snerva: — Di nessuno la colpa; Non sua che prima amò, Non mia se tardi osai. La mano annaspa e raro s'accompagna,

La pupilla s'inebria e male scorge L’attesa dell’invito;

O se la vide e l’anime intendendo

Lampeggiarono, troppo È paura che amor freddo inganni A confidarlo, o sviano nemici L’uso fra mezzo e il ritegno 72

E il pensiero del poi. Così l’attimo va, Così sfiorarsi e partire, Così due cuori si lasciano:

Ma dove toglie amor forse s’invera —. Tanto, o ragion, sei saggia:

Ma sotto si ridesta e giù trabocca La forsennata amarezza; E la pupilla storco sino al bianco E morsico la bocca E un non so che nel cuor torvo accoltello

E nella gola mi gorgoglia e brucia Tutto un impeto rosso Che vien sulla parola e accieca il suono.

73

XLII

In un diffuso vespero corrusco Vien dolorando ciò che non s’esprime: Con breve moto di liscio mollusco L’anima oscilla le sue lente cime;

Par nell’oscuro fetore di un porto, Alla lanterna che snoda riflessi, Il lamentare d’un vascello morto

In cadenzati cìgoli sommessi. È l’ansietà d’una gioia smarrita Verso un acerbo dubbiar inglorioso; Ma floscio il tempo vil tutto si addita, Senza aver nulla compiuto, il riposo.

L’essere guardo come aria nell’aria Vanire, e lungi in pianto gli anni miei Pregar la giovinezza, e l’avversaria Trarli biechi in catene dietro a lei.

L’abito goffo e la stanchezza sforma Il sangue nella plastica sua danza; Attendo forse un’improvvisa norma Tenace, e insiem non credo alla speranza. Al vizzo sen della parola trema

Fra i ciondoli il pensier, triste gobbetto Contro la jettatura; e più si strema 74

Lo spirito nell’àncora costretto.

Fui certo un tempo qualche eroe degno Ch’or parletico soffre: così tanto Furore accende il vagheggiar del segno, E l'atto m’abbandona fino al pianto! A che ne serbi, o vitale malia,

Se dal tuo amore ci dilunghi e attrai In un sol punto? A che tu, poesia, Se dentro animi il mondo e fuor non sai?

Perché sta il giorno come una deserta Landa fuggita in un lontan miraggio, E se il cuore mi esulta, a me più certa

La bontà torna del docile viaggio? Perché va ciecamente il male e il bene In un’idea che scruta e tormenta, E lo stesso mister dalle serene Plaghe del cielo a una spiga di menta?

Ora tace sospeso il firmamento;

E la notte s’adagia in un languore, In un fluir di pace e sentimento Che dà non lieto non triste dolore: E par la vita quando si fan rade Le cose, mentre autunno pioggia versa In ansietà raccolte ove si è persa La rabbia; e nel silenzio nulla accade.

75

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1

O dei grilliin cadenza solitaria Ai poggi senza stelle 0° Dentro il bagnato alitare Melfecia Tenui serenatelle! Cos'è la vita con sue rabbie a voi Persi nei solchi fuori All’ombra inerte, o di silenzi a noi Dolcissimi cantori?

Anima, intona la tua voce e nulla

Non domandare più: Càntati la canzone della culla

Mentre declini giù.

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XLV

Con me in persi indicibili moti

È la pioggia che fila giù bieca, Mentre senz’eco di color ignoti

Presagi l’aria notturna distende E a la giornata cieca Immobile discende, Quasi eterno coperchio sopra un’urna. Ma l’ora ammonitrice L’ansiosa città non avverte:

Va imperlando di fari i suoi solchi Fra strida schianti boati, e bigia S’intesse in un vaporare di fiati Alle botteghe lucenti, Dove furtive negli occhi Snellezze di donne E uomini bramosi

Accendono il sangue. Altra fu la promessa,

Quando accorrenti In fremito ci strinse il desiderio E lavorammo assenti; Ma questo il premio, o guardar

Scivolato negli incontri Dell’affollata solitudine! Immane bramosia E brevità d'effetto, Amorosa bellezza E tacita partenza,

Dad

Incomprension di cose vicine, Gemito chiuso in aperti consensi, Attesa che scocca Verso un ben ch’è vicino e non tocca,

Speranza che pare saldezza E a mano a mano si sgrétola; Volere che s'amplia a misura Del mondo e ritorna ad un tratto Sfumatura del nulla; Arrisa scintilla nel moto

Dell’acqua che fugge, Pietruzze divise sul fondo Senza illusione d’uscir fuori; Ombra come di spada caduta Che sul filo ha lo sgomento E nell’elsa sfinimento: E tu, barbaglio sull’anima cieca,

E tu, pioggia che fili giù bieca! Torneran tempo e fatica, Ma la carne sfiorita E lo spirito logoro Saranno angoscia e vergogna; E invano la prodiga forza L’austera purezza radiosa Avranno portato la croce. Vita misera e grande,

Dì infine un luogo ove stare; Quand’esser nostra non puoi,

Perché costringi ad amarti? Urto nei brevi scambi, e per gl’imbocchi Esito trasognando; Alle vetrine chiedo cosa io sia, Fin che di via in via Dove è men luce svoltando 78

Tra nere forme forma nera ho spazio; E tutto è consueto

Per gli ànditi e le case, E fuori son uno che va Con l’ombrella al passante

Col piede ai guazzi attento, E me l’uso eguale modella: L’ansietà dentro aggroviglia

Ciò che più m’assomiglia, E dove bene tentai È un nulla e i cari affetti mi son vani. Rintrona in me: Come verrà domani? E intanto viene.

79

XLVI

Viene un vento di bufera Velocissimo, e scoppia In un fragore di grandine. Anche tu, immortal natura,

Perdesti oggi l’ineffabile Saggezza: lode a satana! Ma dopo? Uguale a te, Non a me, tornerà il tempo.

80

XLVII

Fra il caldo velo del sonno

Qualcosa si tramuta, e già molesto Nel pensier io mi desto

All’umido sguardo Del semiaperto mattino:

Dentro le case sul materno grido La voce dei bimbi si lagna, E il vario aspetto delle note forme

Brùlica ai monti e la riviera bagna. Come vortice enorme

S’apre il tempo futuro alla mente Che dove manca vorrebbe colmarsi

Improvvisa; ma il giorno attanaglia. Or non più la viltà del mistero

Che per la notte insena Il titubar ambiguo E placa intorno la natura e il vero In una liscia imagin di medaglia; Mentre il borgo è qui vivo

E fruga di lavori il suo declivo, Pulsa lontan la vaporiera, all'erta

Zòccola un mulo, grave Al lago veleggia una barca; Meta è ovunque, ovunque corso: A me il terror della vita e il rimorso. E forse a te, ciel che t’infoschi In un vorace stormo di nubi; Ma come t’aggrovigli 81

Nel tuo gioco stai: Io sbatto qui, e nel guardarti invano Cade l’ora perduta;

E sotto il greto invano Ho un fluir di corrente.

O palpitare umano, Oh saldo amor del presente Nella vita che importa non sei niente; Se l’invocato lavoro vien meno

E la virtù sconfitta imbava il sangue, Nella vita che importa sei veleno. Nella vita che fulmina e va Con perenne implacabil vicenda E come fiamma nell’oscurità Ognun l’attizza perché non si spenga, Mentre si crea il creatore Iddio Per la concreta verità del mondo,

E la mia gente s’incita E può morire, Cos'è il lamento mio

Che per tant’aria annaspa, ma sé stringe? O forza bella che mi lanci schietta In amoroso modo la persona

E plastica su vibri dove aspetta Nel mio guardar l’ardente anima buona, Se come foglia in turbin si mulina

Volger potessi nella mia fatica, Se come per ruscello all'acqua è moto

Fosse al mio ingegno eguale la sua china, Con qual gioia mutandoti vorrei Malanni e laidezza E dibattuta asprezza! Voce a un coro, stelo a un fiore,

Trave a un palco, ghiaia al fango: Esser qualcosa di adatto, 82

O ch’io possa schiodarmi di qui E senza rampogna sdraiato godere. Non so più recar il tuo peso, Non voglio viverti più, Nume o dèmone orrendo: Lo spirito è una frode, Sol la carne soddisfa.

Ma la vita non gode, Ma la morte non ode;

E senza scampo io non muterò. Fermo il cappuccio sul sole, Ai dossi ravvolto è un mantello Che striscia un lembo vicino

Al biancor spento del lago; La nebbia or scola e inquina, Le cose bàttono i denti Sotto un’inerzia reclina: Eco torva di genti Risponde; e lo spazio rovina.

83

XLVIII

Grillo del focolar La tua lima assopita lamenta

Grillo del focolar Che la mia cappa è spenta. Grillo del focolar Rodi in fretta il tuo grigio dolore Grillo del focolar Ch’è vicin nuovo ardore.

84

XLIX

O poesia, nel lucido verso Che l’ansietà di primavera esalta Che la vittoria dell’estate assalta Che speranze nell’occhio del cielo divampa

Che tripudi sul cuor della terra conflagra, O poesia, nel livido verso

Che sguazza fanghiglia d'autunno Che spezza ghiaccioli d'inverno Che schizza veleno nell’occhio del cielo Che strizza ferite sul cuor della terra, O poesia nel verso inviolabile

Tu stringi le forme che dentro Malvive svanivan nel labile Gesto vigliacco, nell’aria Senza respiro, nel varco Indefinito e deserto

Del sogno disperso, Nell’orgia senza piacere Dell’ebbra fantasia; E mentre ti levi a tacere

Sulla cagnara di chi legge e scrive Sulla malizia di chi lucra e svaria Sulla tristezza di chi soffre e accieca,

Tu sei cagnara e malizia e tristezza, Ma sei la fanfara Che ritma il cammino, Ma sei la letizia Che incuora il vicino, 85

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Quassù fra proni tetti Aspri cipressi nereggiano:

(Laggiù fra gli uomini Domani io tornerò). La pioggia si sparpaglia

Dove fioca si squaglia La commozion dell’aria,

E scende al lago per la valle il fumo Del grand’umido abbrunire; Intona la campana Lo smarrimento dell’ora, E vastamente tutta s’abbandona.

(Laggiù fra gli uomini Domani io tornerò). Ai vicoli clamore

Di bimbi si dilegua: Un passo, un nome, e tonfi dalle case Nel brillar dei camini; Fin che non visto il sonno Chiude finestre e cuori,

E vuoto il tempo buio lascia fuori. La solitudine vibra Magici flutti nell'ombra,

E pàlpita e figura L’ingenuità del senso. (Domani io tornerò Dove non è concesso titubare). Non basto allo sgomento: 87

E te chiamo e vorrei piegare il capo Accarezzato alla tua spalla, o mamma, Come fanciullo io invocava quando

Fra coltre e coltre con la man sugli occhi Sudavo eterne notti di paura Nell’ascoltare il passo d’un fantasma. O mamma o mamma mia, Sono un mercante senza mercanzia, Sono un pilota che ha perso la via,

La via buona Dàmmi ch’io E di ciascuna Nell’imagine

del tuo cuore, o mamma! vada lieto la mattina cosa il ben ritrovi vicina:

Dàmmi che a sera il tornar non sia spento

Se non seppi far bello Il tentato cimento.

Laggiù laggiù fra gli uomini Doman come potrò? Come la pace robusta operare E l’onestà feconda, Se tutto via scompare

Nell’implacabile fretta, Se natura si disfronda Nell’implacabile stretta? Viltà forse o presagio

Di gloriosi avventi Sei tu, fiero disagio

Che invochi gli oggetti se pensi e, raggiunti, lontano ti senti? Forse d’Italia negl’impeti immensi Il sangue prodigaste anche di noi E balenò in sacri àttimi vasti La vita di cent'anni, o padri eroi? Oh nel pensiero validi disegni Che l’atto incenerisce, 88

Oh nel cuor sentimenti

Che la tragica sorte ci stràngola! Fastidi grassi tramiamo, Ma nulla è vano

Se per qualcuno è dolore: Se la ferocia ha modo D'inferocire, L’inganno d’ingannare, Il fallir di fallire. E pietà intorno addita:

E c'è chi piange i morti E c'è chi chiede il pane. Quanto fosco imprecar, quanto tormento! Perché l’insidia

Se vivere è fiducia, Perché la colpa Se vivere è bellezza,

Perché l’angoscia Se vivere è conquista, Perché la morte

Se vivere è promessa? Oh se la sorte come schietta lama Brandir potessi nel mio pugno forte Per uccidere l’orco che ci sbrana!

Insonne cuor che fuggi dove agogni E, mentre ti sommerge,

Angusto pare al desiderio il mondo; E tu, smanioso pensiero, Ch’ove men ti ristori sei più vero E sempre in là una certezza attendi,

Quanta eroica pena Per esser buoni qualche volta appena!

(Quassù, fra proni tetti, Sal dalla pioggia l’estasi notturna Dell’intensa ampiezza quieta, 89

E folgoran gli aspetti Delle cose nel senso). Ma benedetti voi,

Meravigliosi doni: Esistere e pensare, Cinger di sé l’ignoto Universo e amare,

Per ridiscender domani Umanamente pronti

AI terribile giorno. Come frantumo sull’onda, O animazion profonda,

Vagò la fantasia; Di te creasti e non parve.

Ecco: nella grande ora sommersa La trama dell’ombra incastona Nidi e bisbiglia di lucidi fili;

Con ciglia bagnate, traspaiono Evanescenze materne e sfumano In un sentor di carezza; Fosforescenze di scie, Sussurro interior d’armonie

Sciolgon con pace e sgomento soavi Le lucciole del mistero In ala di dolcezza A me che trasfiguro Perso in divino fremito il pensiero.

Sibila scivola livido il treno

In una gora di fumo e aria Che si riversa convulsa. Fuor della bruma, per campi e fossi Corrono intrisi filari di piante, E svoltan lontano accorate:

S’orientano borghi e tuguri, E giran nel covo sommersi; Ma spia dal fondo e si trae La lontananza velata.

Erra dai vetri lo sguardo, E s'amplia nel ritmo un gran senso; Oh il variar delle cose ch'io guardo, E le vorrei! Oh il variar della vita ch’io sento, E la vorrei!

Quel che vicino mi sta, Ravvolto in sé non m’incita: Spettro è nel mezzo L’inesplicabil momento;

Quel che da lungi m’invita, Va sempre più in là: E nulla è mio al passaggio.

91

LII

Nel ciel piovuto l’aria in sé rientra In uno sguardo ritroso di luce;

Su ’1 viso giallo e il corpo di bitume Cappuccio e mantello l'autunno rinserra, Mantello e cappuccio per l’umile terra Che trema di pianto: a un altr’anno, a un altr’anno! Ma strappa e rinnova il suo panno, Ma sferza e spoltrisce l'affanno La vita che bramisce: E dal cielo che immoto Nel rimpianto finisce L'illusione del mondo,

Sugge con voglia di odio e d'amore Il fluido del moto

L’impeto del vapore Il succhio della corrente E li versa in fatiche protese Sull’àttimo dell’oro Sullo scatto del lavoro, E truce in bàttito gaio Tra baleni d’acciaio, Dall’ànsito delle officine Al precipite strappo dei treni Grida impennata o recline Le glorie e gli anatemi Verso l’autunno, che nel ciel piovuto

In un guardar perduto, Su ’1 viso giallo e il corpo di bitume 92

Cappuccio e mantello rinserra, Mantello e cappuccio per l’umile terra Che trema di pianto: a un altr’anno, a un altr’anno!

93

LITI

In un cofano azzurro Traluce la gemma dei monti Con iridi di valli E baleni di prati: Avesse la terra una mano Da inanellare e far mia!

94

LIV

E tu, notte che dai parvenza al rito Immortale, se graviti sovrana

Dove creando nostra sorte emana, Stai con chi ha luce; e il nulla all’abbrunito

Passeggier scavi d’intorno. Io non penso,

Ma il pensiero da sé batte un ricordo Assiduo con lo stesso tasto sordo.

È un inganno di voi che giù nel senso Ho confitto, o annidate trecce fonde: Di voi che, s'altro miro, vedo ancora. Come fui uomo e mi conobbe l’ora

Quando voi m’appariste, e liscie e tonde Le guance sotto arrisero, non gli occhi Che l’ombra vostra morbida avvolgea! A salutarvi, fanciulla, movea Parole il labbro tutte a scarabocchi E la persona né ritta né china Non ritrovava il consueto aspetto: Feci come chi avanzi il passo stretto Se dietro senta alcun che l’avvicina.

Perché si figurò l’anima miti Confidenze nel tempo che verrebbe,

E a mano a mano che giungendo l’ebbe 95

Quasi più in là rimandava gl’inviti? Come per vento chini fronte e ciglio Non ci guardammo; e amor era d’intorno Quanto men si scopriva. O strano giorno

Di chiuso ardore, giorno senza artiglio! Ma tu, notte, ben vivi anche se langue

Questo o quello. Con la pupilla prona, Nel camminar io reggo la persona

Che, se restasse, giù cadrebbe esangue; S'imperla ai viali intanto nei riflessi Dell’ombra il vuoto, e striscian flessuosi Gli amanti al piede dei misteriosi Alberi, stretti in brividi sommessi.

96

LV

Marzo lucendo nell’aria Con vena sottile rinnova

L’esangue terra invernale E come occhio di bimbo

Tutto s’apre a guardare, E dì i riccioli al vento. Che val, primavera, con spire Irrequiete turbare

L’inerte mia spoglia? Fra quattro mura di libri e d’ombre, Sopra pagine ingombre, L’amabil giovinezza Qui s’infosca e si spezza, L’amabil giovinezza Che tranne sé Non ha chi non conosca;

Che val, primavera, con avida Gioia invitare il mio senso All’ebbrezza del sole e del vento? Dall’incessante via Una canzone appassionata esulta, E un rider sento d’uomini e di donne

Che nel lavoro preparan le voglie: Dalle pagine ingombre, ottenebrato Il mio volto s'alza a chiedere La verità della vita Che l’àttimo contrasta

E il dolor solo accoglie. Ma il dolore non basta E l’amore non viene. 97

LVI

E qui, senza riparo né scampo,

Senza inganno né fuga, Io vivo con voglia nel tempo; E del sangue di tutti è il mio polso. Come canto in melodia, Come nota in armonia,

Nell’amor della gente mi paleso: E vil mi sembra quando con tormento

La voce si smarrisce appena mia. Come vena profonda alle radici,

Come pioggia feconda, Rinascer tento negli altri felici: E torvo asseto quando la rinuncia

Chiuso mi rende dove aperto fui. Come mamma nella fame Tutto ai bimbi dona il pane,

Così m'è grato confortare altrui Mentre rotolo dentro.

98

LVII

Stan nel folto gli stami: L’uccelletto ai richiami Svola e discende con vispezza e amore; Pàlpita nelle accorte Mani un poco, e la morte

Dal becco gli esce in un ultimo trillo. Cader così vorrei dietro il mio cuore;

Così finir, con generoso squillo.

99

LVIII

Fuor delle nubi d’ebano e amianto

Guarda il cielo in pertugio lunare: Quasi è di belva alla vista del pasto La rauca furia del mare; Scintilla il flutto ora là ora qui Per vertebre e fauci, nell’alto e agli scogli:

Sul tufo del tempo, all’aperto contrasto, S'infrange e si crea La labile storia del mondo, S’invera e trapassa così.

100

LIX

Dimmi, passante dai tristi occhi belli,

Non forse udisti in gravi ritornelli Chieder dall’urto profondo Del sogno e della vita Quello che tu non sai

E profetar dal mondo Ciò che non giunge mai? Forse a te basta l’udir turbinare In un’ansia smarrita Le volontà native

E fluttuanti oceani vibrare Dell’anima alle rive?

Dimmi, passante dai tristi occhi belli, Che i gravi ritornelli Ti van curvando il dorso In un vuoto rombar di sepoltura, E il respirar l’ignoto Ti sfolgora nell’estasi il rimorso.

101

Per l’aria sorgiva dell’alba

Che valli e tràmiti asperge E sulle cime ferve,

Dai pascoli al lago che guarda Distesamente le rive,

Nei vasti contorni volteggia Librata la nitida reggia.

Tutto par d’usignolo, Tutto sa di fragranza

Il placido risveglio: Facile agli occhi è guardare E alle nari odorare; Ai polmoni il respiro

Un balsamo sembra, E con giro piumato si muovon le membra; Divino è l’esser fra cose che sono E il pensarlo, e con pace

Accogliere ignorando La misteriosa armonia,

Mentre in un fluido eguale Spazia ineffabile il tempo. Viva tutto il sofferto Se n’è dato esser tale: S’esser tale potessi

Quando l’ora è nemica, Quando vivere è fatica E la gente si smarrisce! Per un volger saliente lungo d’onda 102

L’irraggiare del sol nascosto ancora Straripa alto, e si tramanda

Sopra l’aperta visione: Nel succhio emanata ogni forma si sporge In rilievo e colore, e n’è ghirlanda

Un senso di campana Rimasta in abbandono A far più dolce dopo tocca il suono. In queste sponde l’anima fluisce Quasi gorgo di rio che scivoli, Quando a specchio dell’acqua

Giù sprofonda il desio Dei salici, in riflessi di pendìo.

103

Giovinezza mi fa leggiadro e saldo Con bella tempra d’anima e di carni, E mi feconda sì che a prodigarmi Per luoghi e genti accomodato sono. Raggia natura intorno

Agli occhi miei bramosi E par fanciulla amante Che dell’amato si avveda;

E lo spirito fulgido balza, Né culmine è sì bello Che a ciascun passo ne vorrebbe cento.

Ma repentino, dalla spaziante Conquista in un àtomo è vinto: E torva la tregua va giù. Poi - come all’afa d’estate, Mentre più fosca discende, le nubi Mèéditano saette e luce, E riconduce il risveglio al sereno Dalla inerzia sconvolta, affiorar sento Nell’anima raccolta In avido silenzio Un prorompere pieno;

Pioggia nel sole l’affanno diviene, E libero io sorgo con roridi sguardi E porgo la mano con fede

Agli uomini senza aspettarli: E se il donar nell’atto si fa brezza Feconda d’amore, Mi levo torso di eroe In divina allegrezza. 104

LXII

Lo spazio poroso e assetato Da cieli e da terre ribeve Istantaneo e insaziato,

E dissipa come riceve Nell’eco ronzante dal basso La creatura di ventiquattr'ore;

Ma qui ognuno nel chiasso Dagli altri si leva signore, E nel fil del suo sguardo ha l’universo; Il rimanente gli è vano o perverso: Così dalla riva per l’acque in spiraglio Vibra un barbaglio di luna Al passante, che intorno vede ombra. Stella in baglior di nebulose avvinta, Notte succhiata dal cuor dei tramonti,

Goccia indistinta nel grido del mare, Rupe sommersa nel clivo dei monti, Pianta dispersa mentre inseni fonda, Forza agli ordigni nascosta e feconda, Anonima rozza che il carro trascini, Dite dite l’arcana maniera Dell’invisibile amore A noi, che meschini Coniamo dei nostri suggelli Il lavoro di Dio Gridando: Io, io, io! —

105

LXIII

Quasi luna albeggiando è il sol fra nebbie, E nel gravoso spazio

Sta la terra in vestigio Immobilmente bigio, Dove è una floscia attesa, Un’abitudine stanca, Un effluvio sepolto,

Un’ebbrezza sospesa, Un annunzio che tarda: Ma in voi alberi appena, Dall’ascension dei tronchi Al volo adorante dei rami L’indicibil fervor ha sentimento; E in voi, socchiusi gli occhi In un'intensa pace,

S'adunano le larve Dell’immortal ritorno, E la speranza guarda. In voi e in me. Dall’opera Dei mesi io mi ristoro

Per la remota quiete dei campi; E la sosta pare una grazia, Una corona votiva

Al commosso ricordo del lavoro. Il mio passo è la traccia dell’erba,

Il mio cuor è la specie del luogo, E tutto si palesa e nulla è vano Nel grande andar del mondo. 106

Vil trastullo di sé, Orrenda solitudine di sé, Sulla mia forza piena

Breve conquista vi resta: Siete un batter di ciglio

Sul perenne guardare. Tu, divin senso palpitante e intriso

Del sangue quotidiano; Tu, divin senso che irraggi La vita e più la doni e più n’accresci:

Se nelle prove oscure m’incoraggi E sull’arduo cammino che mi piacque La mia forza costrinsi all’altrui forza,

Tu nella tregua m’accalori i polsi E per te spazia il consenso che nacque Inavvertito agli uomini e alle cose, E il ritornar dove mi tolsi, quando

Ogni fede crollava la noia; Per te con fresco volo io vi rimando L’amor del nostro nido, o mamma, o babbo, E nella gioia di eleggervi, amici, La fida imagin vostra rinnovello;

Di vivere, per te non ho vergogna, E se la mente sogna

O in famelico ambir l'abbandono, Per te io mi perdono. Io non ho numi né glorie, Io non ho donne né bimbi, Io non ho lucri né mete, Ma un vasto cuore intero Che toglie dall’ora di tutti L’infinita ricchezza e la dona, E il prorompente divenir non stringe

In un’immobile idea agghindata In un’ingorda brama; 107

Ma soffre e s’avviluppa Nell’irreducibile àttimo.

O combattenti dell’usato giorno Che materiate l’arte e il pensiero Inconsapevoli e schietti Nel sangue del vostro destino: Poeti voi soli, Sapienti voi soli, L’ininterrotto multiforme è a voi: L’immensa concretezza s’innatura

Con la fatica vostra, o ignoti eroi! E inutilmente tu, gravoso spazio, Dall’infeconda nuvolaglia premi L’indicibile fervore: La bigia terra inerte Dai tronchi ai rami ascende; La bigia anima inerte Nell’amore e nell’atto più s'intende, E sugge dal tormento

Le sue gioie più certe.

108

LXIV

Nell’invernal brughiera, Linfa segreta, nei profondi pori L’albero, asciutto come spina, irrori: Ti svelerà nel fior la primavera

E l’estate nel frutto, Esausta allor la radice. Io t'assomiglio: in aridezza triste, Meno ti canto, amor, € più sei tutto; E spàmpano felice

Quando tu vai distrutto.

109

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tir et

E acquista l'inutile cer

|

Di moscherini e lisca:

Lontan morì, lontano Il ragno creator che ti tessé,

Il generoso mio cuor che ti ordiva, O nervatura c'hai parvenza viva!

©e per

110

LXVI

Dalla razzante pendice Che rarefà di zanzare, Al campestre alveare Che un vortice d’api dorate Sciama nel vasto orizzonte,

La ghiotta luce felice Sul verde fiorito possente S’eccita incandescente, E con aculei di bragia Incidendo e gonfiando risucchia

L’umore notturno e la ragia. Dal sotterraneo incubo,

— Quasi doccia ancor livida, sguscia Fulminea la vita E, misuratasi al cielo,

Spennecchia e trabocca e ricade E rinnova il suo stelo. Si nettan suonando i paesi, E schiava del tempo che giova La gente ritorna agli arnesi; Nella fatica si trova

E l’appetito prepara. Dio, per l’aria si rode

E beato non gode Del buffo suo stato: Se scende, ignoto tramonta Nell’ingannevol natura; Se monta, vuoto svapora nel nulla. 111

LXVII

Tutto in grave volume è corpulenza: La carne floscia sul cuore lordato, Lo spazio cionno nel sole velato; E sonno terribile abbioscia. Dovunque è specchio senza

Imagine, fondiglio non deposto, Un che di non nato e già vecchio, E un fortor di carname riverso,

Un guardare senz’occhi, Un traudir di respiro Che s’empie e nel fischio si allenta: E in saliva d’ebbrezza spenta, In gocce quasi di acre mosto, Rigurgitano dagli sbocchi L’aria e lo spirito. Se tra le nubi del giorno,

Quanto il virar d’una rondine Il sol non mantenga il suo lampo; Se nel varco del tempo,

Quanto un chinare di pàlpebre Il cuore non tenga su in alto, Oh, cieca sostanza, tu giaci Come non fosse stata mai luce; Come non fosse mai stata la fede,

Oh, pura baldanza eretta con forza,

Tu sgretoli giù morta: E fu l’olocausto invano.

Ma serba, selvaggio castigo, l’ambascia 112

A chi viver non può senza raggio; E in lor quiete soddisfatta lascia L’inconscia folla angusta, La vegetante natura.

113

LXVIII

Nel terso gravitar dei mondi insonni In mistico colloquio - Dove è pensiero, come 2 noi l’eloquio, La trasparenza dell’eternità — Vergine il sole, assorto

Per gl’ineffabili fulgori Della sua traccia preferita, va.

Al saettar del suo rapito sguardo, Il nostro pianeta, riverso

Fra piaghe e gonfiori Nei viperini orizzonti, Come insetto scovato si torce: Dai confini in letargo le spire Per l’aria incatenano anelli zebrati; Si svincola il mare e ricade, Freccian le vette e s’incidono,

Fuggono i piani e simpiombano,

Ma l’ombra serpeggia e s'incava Con rabbia di fischi e di bava

Per golfi abissi sterpeti; Ai seminati impazienti

Escon le aperte borgate, Ma l’inedia rimane A boccheggiare nell’umide tane; Ogni città tituba curva

Nei duri margini chiusa: Ai giardini si vela di brina, Circola bassa nei viali, 114

Dì lucciconi ai canali; Poi, annusa le case, La quiete gretta ne insidia,

E improvvisa con voci e sbadigli Scuote gli stanchi inquilini E batte a risveglio monete D'oro sui vetri e nei cuori;

La vita dà un colpo e si squaglia Nell’abitudin lanciata: E tutto, anche il sole, diventa normale,

E sciocche, le genti della gran plebaglia Superba d’errore e di male, Osannano o impiccano al cenno dell’Utile: E, mosche d’inverno, intanto cadon morte! Ma su, nel terso gravitar dei mondi, La conoscenza del popolo eterno Deliba l’Inutile, Succo infinito della sorte; E al mistico colloquio intanto il sole,

Per gl’ineffabili fulgori Della sua traccia preferita, va.

115

O pioggia feroce che lavi ai selciati Lordure e menzogne _ Nell’anime impure,

Scarnifichi ad essi le rughe E ai morti viventi, le rogne! Quando è sole, il pattume E le pietre dei corsi Gemme sembrano e piume,

E fra genti e lavoro Scintilla il similoro Di tutti, e sempiono i vuoti rimorsi;

Ma in oscura meraviglia Fra un terror di profezia Tu, per la tenebra nuda

Della cruda grondante tua striglia, Rodi chi visse di baratto e scoria: Annaspa egli nella memoria,

O si rimescola agli altri rifiuti, O va stordito ai rìvoli di spurghi Che tu gli spazzi via.

Ma per noi, fredda amazzone implacata, O pioggia di scuri e di frecce Tu sei redentrice adorata Del rinnegato bene;

Per noi, che sentiamo insolubil mistero

Quando vita si sdraia alle cose, Mentre l'eterno in martirio di prove Ci sembra spontanea purezza del vero, 116

Tu sùsciti come il silenzio

Dove natura è più forte, Operi come la morte Dove immortale è il pensiero.

Oh, lava e scarnifica e spazza Chi fra i bari del mondo non volle aver bazza:

Sgrumando la lugubre scoria Che c’inviliva alla gente, Snuderai l’oro e la gloria Che non si vendon né recan piacere,

Ma splendono d’un balenìo Che irraggia invisibile sugli altri con Dio.

117

Dal grosso e scaltro rinunciar superbo Delle schiave pianure, Ch’a suon di nerbo la vietata altezza

Sfogan nel moto isterico carponi Tra ruote polvere melma carboni, Per grumi di zolle e colture

E clamorosi grovigli di folle In frégola di piacere acerbo; Dal pigro disnodar con sforzi grulli Delle ignare colline, Ch’a suon di frulli la fiutata altezza Tentan su dal letargo come serpi Fra erte e scese vicine,

Per vigne, biade, ronchi, cinte, sterpi, E ville e masnade

In torpor d’opere e trastulli; Dal soprassalto d’aquile e farfalle Dell’avide giogaie, Ch’a suon di stalle la sperata altezza Invocan dal più fier dei loro monti Per cuori rudi e boschi e salvi pascoli Nei poggi calvi sotto le pietraie,

Fra consensi di laghi e di fonti Ansiosi a richiamar per ogni valle; Dall’assalto impennato in tormento

Delle tragiche catene Ch’a bufere di vento A gurgiti immani di vitreo silenzio, Fra trèmiti e vene Di fuggenti creature, 118

Guatano addentano Serran l’altezza veduta

Con ròse pupille d’eclissi e d’assenzio, Con dure bocche in morsi di pietra, Con braccia e torsi digiuni Per cave rovine d’abissi E spasimi eretti in atroci scompigli, Intorno schiomando con brividi fissi

Il vello di neve che scivola e piega Nei ghiacci protesi sui lividi artigli A sbarrar rupi con strazio profondo Verso gl’inviti del mondo, À vietar con angoscia suprema

L’inarrivabile preda: Da piani colline giogaie catene Si lamina enorme la vetta Su vertebre e stinchi a vedetta Con l’anima ardente nei geli costretta. Sopra, il vuoto dell’ombra e del fuoco

In infinita voragine tùrbina: Sotto, dal vano dell’aria la terra - Fra bave di nubi e tormenta -

L’ultime scaglie le avventa, E fugge ghermendo la vita Effimera d’orme e di voci In vertigine atterrita.

Fra incomprensioni immutabili

Di spregio; d’invidia, di voglia, Dal basso che ignora all’alto che spoglia, Ogni cosa intendendo oltre aspetta In fede enorme la vetta: Dal piede inestricabil di catene, Unica al cielo misura la forza; Con l’anima ardente in gelida scorza, Da sola respira il tremendo suo bene. 119

LXXI

Allegrezza, a poetare Il tuo incanto più non vola: Goda in sé del proprio canto Chi n’ascolta la parola.

Non concento è di spazi Né folgore di tempi Quanto la voce ch’io sento Quanto la luce ch’io vedo: Sono flutti di cielo E mari e fiumi e monti E piante e creature Ch’entrano e vanno ove Una dolcezza è il cuore. Bello incrociar la vita

Nella maglia del tutto

E mirarne il disegno E il guizzo d'ogni punto; Bello il consenso ampliare Dell’intimo destino, Come al sereno giorno

Fan le campane tinno E l’un con l’altro pare Suono e luce a vicenda; Bello presumer tanto, Mentre finì la speranza

E non uscì dal pertugio Il mio gigante chiuso Che nulla ancor seppe trarre 120

Verso il suo amor sì grande! Anima, hai gioia; perché?

A qual fonte bevesti,

A quale sole splendesti, Se d’intorno per noia

Ogni forma è ritrosa E sta la nebbia e appanna L’ostinata città irosa,

E tutto ha un muro livido di fronte? Come, segreta mia vena, Dall’inedia del giorno t’alimenti;

Come tramuti del dolor l’arena In un vigor d’oceano, Se fatica ti spreme e l’opaca

Natura è qui trambusto? Fra le catene libertà mi ride E vien nell’ore mediocri l’eterno: O poesia ch'io ti possedetti

Quando più duro al tuo ozio era il tempo! Quel che, fanciullo ostinato e coperto,

Sentivo a veder bimbe in leggiadria Con un amor di casta ritrosia Che dato non avrei per mille cialde, Ora da uomo mantengo e ne son certo O privilegio tremendo, O sofferenze e gioie Che non vorrei mutare in nessun’altre! Come remo allo scalmo aderisce,

Come suon nell’udito s’invera, La concretezza nel pensier mio calmo Beata e immortale si unisce;

E, sino al fondo, rivivo chi elesse La prodigiosa sorte Che dove fu severa

Aprì le sue promesse, 121

E dove parve ascetico rifiuto - Crudel tristezza nel vivere baldo — Fu bene conosciuto E natural soggiorno.

Questo universo è più saldo Del trasmutabile giorno,

Questa lusinga più vera Della tua isola, Circe; Al nostr’occhio di lince Anche la notte è vasta Per aguzzar lontano, Al nostro polmon sano Anche poc’aria basta Per respirar profondo, Se turbini con Dio La volontà nutrita Di ricrear nel mondo

Questa angoscia gioita, Quest’'impeto fecondo,

Questo veggente oblio: Questa vita che è vita.

122

LXXII

Nihil fere sui. - Son Altri Altri Altri Altri

l’aratro per solcare: cosparga i semi, èduchi gli steli, vagheggi i fiori, assapori i frutti.

Son la sponda per il mare: Altri assetti le navi, Altri spinga le prore,

Altri diriga il viaggio, Altri tocchi le mete. Il mio verso è un istrumento Che vibrò tropp’alto o basso Nel fermar la prima corda: Ed altre aspettano ancora. Il mio canto è un sentimento

Che dal giorno affaticato Le notturne ore stancò: E domandava la vita.

Tu, lettor, nel breve suono Che fa chicco dell’immenso, Odi il senso del tuo mondo: E consentire ti giovi.

123

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NOTA

Queste liriche appartengono a una condizione di spirito che imprigionava nell’individuo quella

speranza la quale sta ormai liberandosi in una certezza di bontà operosa, verso un'azione di

fede nel mondo. Esse ne sono testimonio e pegno di assoluzione.

ilPPTONA Via Mi

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È fiat bia è

NON ARDITO PERCHÉ ARDENTE

spopolato

Quanto Puna e l'altra ha perso: Poi ne sendo 2 chi ha cercato.

133

AL TEMPO CHE LA VITA ERA INESPLOSA

AI tempo che la vita era inesplosa E l’amor mi pareva umana cosa, Fanciullo a te venivo O Carlo contadino, Dove in corona dall’alba alla sera Nel vasto sole delle estati brevi Esaudendo come una preghiera La terra non tua più l’avevi.

A te correvo già felice: E tu guidavi senza farmi male L’anima persuasa,

Parlando il poco di chi intende e dice; E nell’aiuto meritavo accanto AI tuo ben la campagna La campagna che va dal piano al monte

Tessendo siepi in giro alle covate, Ma di verde inghirlanda ogni contrasto Nel fior di tutti i giorni, l'orizzonte.

Con la falce nell’erba Frusciava il mio baleno: Il papavero ardendo sullo stelo 134

E ciascun boccio sereno In abbandono ancor vivo

A tagliarlo pativo, E accanito godevo Con la falce nell’erba. Erba recisa che sempre rinasce,

Se dove ruminando è mucca e latte Per vivace concime Ritorna alla radice.

Ma la ségale ambivo, Il suo slancio levriero, L’ariosa offerta Delle piante natali;

E dovunque ero appiglio All’imminente prodigio:

Mago dell’impazienza, Brigante di bontà con gli animali, Scandalizzando fughe nel pollame Che tra zampa e cresta

In scia di pulcini Virava la sua siesta.

Ghiotto della mia fame, Stupefatto di festa, Nel caso lucente sostavo: Facevan le fusa I miei sensi, e zampilli i pensieri; L’aria dava la stura A un bronzeo inquietamente Fèrvere d’api:

135

E non sapendo ero certo Del misterioso concerto.

Infine il mezzodì spandeva Effluvi di campane:

Il gerlo sulle spalle, Andavo rincasando

Con te come uguale, Verso la fiamma che dal sasso Già inneggiava alla polenta; E tu, con lena immensa,

Sul paiolo acceso, Dicevi a me restio: Mangiamo insieme; il digiuno

Non ciba nessuno, E non ci nutre Iddio. — E in aureola splendeva L’astro della mensa, Il sol della polenta

Per chi ha in sé grande spazio, Luce che si contenta Di tramontare in noi: E quando il cuore è sazio, Se ne risparmi poca, anche meschina, Essa risorge in tuorlo di gallina. *

Risorge la tua cara vita Dove più va smarrita O Carlo, contadino Di un solco che è sentiero Per le tèrree nostre notti.

136

E ti vedo levar come il mattino

In verecondia gli occhi Consacrando il pensiero

Al semplice elemento, Mentre è bello il silenzio a te vicino.

137

Voce tua, voce mia, Voce voce che vai via E non dài malinconia. To non so che cosa sia,

Se tacendo o risonando Vien fiducia verso l’alto

Di guarir l’intimo pianto,

| Se nel pettoè melodia Che domanda e che risponde, Se in pannocchie di armonia

Risplendendo si trasfonde Cuore a cuore, voce a Voce — Voce, voce che vai via

E non dài malinconia.

138

E GIUNGE MA NON

L’ONDA,

GIUNGE

IL MARE

E giunge l'onda, ma non giunge il mare: E ciascun flutto è nostro, che s’infrange, E la distesa è sua, che permane; v;

3

*

Ritorna l’onda, ma non torna il mare; E flutto verso flutto in lui s’infrange, Mentre un richiamo a distesa permane. *

E il mare non sa delle gocce, Le gocce che ignorano il mare; *

Non gocce, ma il mare -

Lo stanco indefesso Che munge a una terra se stesso; *

Non mare, ma gocce -

Le vive dal tutto

E già perse nel flutto;

159

Non gocce, non mare: Infatuato assalto Ch’estenuatamente ricade, Ebbrezza del salto A chi più corre sul tonfo, Candori forbendo, scrosci ai ritorni; *

Goccia oltre goccia a distesa, se cerca, E un orizzonte la cerchia:

Mare, più mar se profondo, E incontra lo spettro d’un fondo; *

Innumerevoli gocce del mare Tra fissità di riviere Sorelle e straniere,

Incolmabile mar delle gocce Bevute e spremute da un cielo Ricurvo di stelle,

E mar verso spiaggia E mar contro roccia, Ancor libero mare - una goccia.

140

SACCHI A TERRA PER GLI OCCHI

Sacchi a terra per gli occhi, Trincee fonde dei cuori L’età cavernìcola è in noi.

La casa è un ritrovo In virtù della zuppa E quando manca è una zuffa. *

Ogni affetto è disagio: L’uomo un plagio,

La donna un contagio. *

Anche chi ama ti grava, Se per sentirsi in due Si fa guanciale delle ore tue.

Qualunque cosa tu dica o faccia

C'è un grido dentro: Non è per questo, non è per questo!

141

a

Quasi specchiante cristallo Sta la coscienza spietata. ita A chi bràncola opaco. *

SS ;

|

Sul viso c'è un solco Per dove scorre il pianto: Ma l’occhio inaridisce se guarda. *

C'è un cuneo nel cuore,

E non si osa levarlo Perché si teme il getto del sangue. *

Il lavoro ha manico adorno E una rapida lama Per scassinarti il giorno. *

La fame inghiotte frumento Ma poi è paglia che brucia In un mignolo d’aria. 142

Ia alia è via = Ma un nodo scorsoio

Agli altri t'impicca. *

Sì, puoi rizzare alte mura E un convento in te stesso:

Ma vive l’anima impura Del mondo che ha in disprezzo. *

Tu dici: beata l’acqua Che non teme di cadere,

E seguendo il pendìo Sfugge a suo piacere. *

Così vorresti lontanar le ore Grevi loro di te, E risolvesse il tempo Ciò che si è sciolto in te.

143

Ma son sì lievi gli uccelli Per dare peso al volo, E troppo stanchi i cervelli Per sollevarsi dal suolo.

Eppure la cosa capita Non redime la cosa sofferta; E la parola senza bacio Lascia più sole le labbra. *

Echeggia un mònito immane, Ma la voce non è presente; Si ode vagire una culla, Ma la mamma è assente.

Fuga da un vuoto vicino Verso un vuoto lontano,

Il trambusto è un inganno; Tutto è un non fare più in tempo.

Il cuor che nell’uomo Se va in basso è una bomba Esplode a un ostacolo duro E fa del presente una tomba.

144

Se tu non issi a bandiera il tuo cuore Infilzi per te stesso il tricolore,

Se non riveli umanamente il giorno Fingi una pace che fa guerra al mondo. *

La giornata d’oggi è sola, Ha la voce a metà gola; Le sue avverse mani, L’una ier l’altra domani,

Tentan sciogliere il tuo nodo O libertà, che un laccio Getti come per abbraccio. *

Ma se opponi resistenza La vita ti oltrepassa,

Se non hai le mani buche La vita non ti passa. *

Nell’imminenza di Dio La vita fa man bassa Sulle riserve caduche, Mentre ciascuno si afferra

A un suo bene che gli grida: addio!

145

Il diavolo aumenta, .

Vetta che al cielo più riesce Scavando una voragine tremenda. Ck

E merito non è, non è peccato,

Se in noi le ascese cadon paurose, Come chi sogni, agitato AI senso delle cose.

Ma chi si sveglia nel gran giorno ha fede: Scorge cader la luce al nostro fondo Per rivelarci il sol che attende Sul culmine del mondo.

146

"cera aa edere Un fiumei immenso. *

La terra gli fa largo, E si pulisce;

La tenebra in letargo Si spoltrisce.

Nel profondo trae umore Da chi vive e da chi muore: Comunica col mare E vien dalle montagne:

Aiuta le compagne Che sono in mostra al sole, Acque cupe e acque chiare; E circola, e varia

Con le nuvole dell’aria.

Ogni goccia in sé raccoglie Che filtrava esaurita,

#2

#

E l’abbevera di vita, Non più sola con la morte. *

Ma di fuori sta il deserto

Senza avere giovamento: Moltiplica la sabbia, Ammucchia pietre e rabbia; Ignora il fiume immenso,

Che se sporge in refrigerio Dentro l’oasi feconda Una cinta lo circonda, E fa suo il desiderio.

Così il fiume torna ancora Nel mister del proprio corso — E per sé nemmeno un sorso.

148

GIRA LA TRÒOTTOLA VIVA

Gira la tròttola viva Sotto la sferza, mercé la sferza; Lasciata a sé giace priva, Stretta alla terra, odiando la terra; *

Fin che giace guarda il suolo; Ogni cosa è ferma, E invidia il moto, insidia l'ignoto; Ma se poggia a un punto solo Mentre va s'impernia,

E scorge intorno, vede d’intorno; *

Il cerchio massimo Se erige il capo, se Nell’aria tersa è in Se leva il corpo, se

è in alto regge il corpo; risalto eleva il capo;

Gira, - e il mondo variopinto Fonde in sua bianchezza Tutti i contorni, tutti i colori; Gira, - e il mondo disunito Fascia in sua purezza 149

150

DALL’IMAGINE

TESA

Dall’imagine tesa Vigilo l'istante Con imminenza di attesa E non aspetto nessuno:

Nell’ombra accesa

Spio il campanello Che impercettibile spande

Un polline di suono E non aspetto nessuno: Fra quattro mura

Stupefatte di spazio Più che un deserto Non aspetto nessuno: Ma deve venire,

Verrà, se resisto A sbocciare non visto, Verrà d'improvviso,

Quando meno l’avverto: Verrà quasi perdono Di quanto fa morire, Verrà a farmi certo Del suo e mio tesoro, Verrà come ristoro Delle mie e sue pene,

Verrà, forse già viene Il suo bisbiglio. 1920

151

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Il POESIE SPARSE E PROSE LIRICHE [1913-1927]

IL RITMO DELLA CAMPAGNA IN CITTÀ

— Pere e mele, e la bell’uva

Moscadella e grignolò: Tutta la mangia chi n’assaggia un po”! — — Ehi! — Ohi! — L’ultime, l’ultime! — — Tripoli, bel suol d’amore... —

— La pesca spaccuore! — — Che rosolio, che sapore! —

— Che colore le angurie di gelo! — Sul carnoso discinto clamore Del popolo vivo In lievito festivo, Tra corbe e spacci Zampillanti di rosso sui banchi In scìvoli di bucce e mosto Per l’imbrattate predelle, I fruttivendoli bèrciano Matricolati mondando cestelle Dai cavalletti impalcati, Rigovernando carretti

Che dagli scaltri riquadri Ambigui di prezzo e di vista Invitano al ristoro chi respira

Nel lezzo gli asfalti Di quest’agosto senz’alberi Per la città che smaggrita, in corsetto, Spiccia ritrova il suo dialetto. — L’uva dolce, chi la schizza? — Un uomo da vino e da cicca 155

Con mano cisposa mi froda La scelta sulla stadera:

Nel grembo riscuote, m’insudicia Il resto di un franco; e in marea

Rigiro, proteggo, Garbeggio di fianco, col labbro,

Dal cappuccio di carta Gli àcini penduli. Due occhi neri s'alzano forti A succhiarmi la compera, A sbirciar sul tavolato Un grappolo sodo, un pomo rosato...

Ma a una voce sbrigativa (— Olé, ragazzo, un soldo e fila! —) N’ha un piattino di fiòcini In palmo di mano Ch’egli lecca nel vano Attento se cada qualcosa. E io mi schìccolo i raspi

Serbandomi all’ultimo i sani

E la gola beata riceve Il frutto che spàppola e cola... — Pere spadone! Mele della rosa! —

A guardare m’inganno la gioia, Il sapore non trova più il gusto... — Chi ne mangia tre ne mangia trenta! — — Tre per saccoccia! — (e trenta nella voglia), E pregusto la polpa, palpando la giacca Che sforza gonfia sui bottoni storti Fra chi s’impasta e s’imbotta, E chi borbotta agli scrolli Salvando a sghembo gl’involti, E chi nell’impiccio del calcolo

Stringe canestri sul grembo, E chi torna e riparte in bisticcio 156

SOS CRT

1904

FRAMMENTO [CLEMENTE, NON FARE COSÌ'}

«Clemente, non fare così! Sereno e spietato Vietar con tristezza

La bella natura che dato Ho al mio caro, al mio santo,

Perché? Mite agli scaltri, Fronteggi il tuo bene; Circonfusa di nubi e di lampi Tu scopri all’opaca bassura Un’alta fedele virtù,

Che neghi a te stesso

Se più in su non la cerchi indefesso; Perché? Tu pure sei qui: Aiùtati; e sanamente godere.

Non tutta o non quella, ma giusto riprendi La vita che agli uomini tendi: Almeno per noi, Per me che ti volli e somiglio, E più non ti capisco».

«O mamma, non fare? Obbedisco Al Dio che cresce, e il diavolo aumenta: Al creante dissidio in ogni punto Làbile eterno, con tìpica presenza.

Fugge la realtà, paura immensa, E il mondo producendo è verità: Disperata difesa il nostro mondo, 158

Che per essere certo torna in fondo A dissolversi in quella Tramutazion perpetua,

Perpetuo suicidio Senza prima né poi, unitamente. E merito non è, non è peccato,

Se in questo fluir materiato Volge le spire ansiose Ciascuno, ragazzo dormiente agitato Al senso delle cose. Ecco, nei giorni dall’alba alla sera Fra pàlpebre orlate di bianco e di nero, Senza rancore ho gli occhi, Senza bontà il pensiero; Col sonno trasmigro

E risorgo nel tempo Condanna e trionfo di tutti i destini: Del mio, che strazia e s'entusiasma

O giovinezza ai tuoi doni. Voli d’artiglio, Avido fantasma, In guardia forse delle nostre vette! Ma risèntimi ancora tuo figlio, Amato lasciato dall’anime schiette, Dai rapidi amici infantili, Se infuoco gl’impulsi nativi

O i pretesti del gioco scompiglio. Ma làsciami spazio a soffrire: Ci sono tant’anni Nel tempo a venire!

E forse, domani, sui trenta (Urge la scelta tremenda, Dire sì, dire no A qualcosa ch'io so), 159

E forse, domani... No, mamma: nel rotto lamento, Solido è il mio tormento; E tu sai, tu l’hai detto:

Ma gemi vicina la morte Nel preveggente sospetto. Se quale nel ventre immediato

Ti fui, m’accogliesse il tuo affetto! Accettazion contemplante, Come sull’Alpi più nostre Le forme e le voci che ami: Risparmiati pianti Delle pecore in branchi, Amorfo terror delle vacche

Indietro sguardanti, Allarme delle marmotte Che nel vento a cucchiai Su laghi e nevai

In un colpo di fischio s'imbùcano

Per le morèniche grotte; Profili di cime Al rasoio dell’aria, Imbizzarrite zebre di versanti,

Spàsimo degli ultimi pini Vivi sull’unghie agli abissi; Lento travaso di denso vapore Per l’aereo stupor delle bocchette, Luce stregata sui prati snevati,

Liquefatti rivèrberi alla sera (O conca di Fraele, Gràcile fièvole nome Di forte sostanza!), Terso brulichìo di rododendri,

In onda di conchiglia acque correnti, 160

Inseguimenti di gioia per valli, Sete baciata alle fonti, tremori Nei tùrbini cupi, Indimostrabile vita Di rupi e di fiori! Vita che in me sorprendo Magnanimo e secco Senza volere, volendo. Un non bastarmi convulso e beato Infèrvora l’atto che squassa Gl’inerti; e dove

Ogni cosa protesa In se stessa ricrea

La schiava unità, Velocissimo trapasso Liberamente esausto. Però, se nel rischio, fra strazi Di zanne alle carni, Minacciando ai già sazi

Cacciatori sgomenti, Abbaio a fermo, abbaio: È qui, è qui, è qui!

In fine la preda non godo, Né giovo per cura di bene; E duro alle gioie alle pene Del mondo io scavo crudele Con fede, àrido di fede. Popolata solitudine! Ma vieni tu con l’offerta, Insidiosa abitudine; Un’offella a Natale Per l’annata di pane, E prezzemolo in dono

Sugli acquisti del giorno: 161

Omaggi al cliente balzano Perché torni al mercato nostrano, Clemenze di chi sa ben vivere A un cervello molesto, Lusinghe che celano onesto Livore, stricnina e cicuta,

Trappole e fermagli: Ai sorci e ai pappagalli! Ma ciò non m’offende; Vivere è giustificarsi. Soltanto io so Che nel corpo e nell’anima Inconfondibile aspetto Son oggi così; e per quanto sarò Non ipoteco il futuro. Oggi devo sferzare la pace:

Sull’altra riva balzando, guardare, E dar lo sgambetto all’inconscia

Certezza procace; Nutrire una cosmica voglia d'amore, Frescor di rugiada e aurora, Sapore di sangue e di sesso,

E dir faticando a me stesso:

Qui, se hai fegato ancora! Ricordi, ricordi? Anche allora,

Quando presi adolescente A star solo con la gente,

Ritornellavano i dì: Clemente, non fare così! Ero un èrpice d’offese Sopra un rigoglioso grano;

Sempre fèrvido, in tenzone, 162

Senza nulla al mondo:

E tu mamma, alle persone Mi scusavi buono, in fondo

(Occhi, neh? da siciliano...) Tutto salti e badalucchi Per le stanze, o al tavolino Sbatacchiato stralunando - Moscerino? àtomo del caso?

Iridata pelurie del naso? Trillo o un grillo? — e via in cucina,

E giù acqua, nerofumo alle credenze, Torri ardite di bicchieri, Chiasso, pugni alla servente, E in compenso nei servigi

Fresco e d’ìîmpeto a giovare. Ma, un passetto... “Zitta; viene Marcellina!”

Con le dita in bocca e agli occhi, Tenebrosa bestia, stretto Scivolando sui ginocchi, Su di botto a denti e rugghi: Poi, rapidamente a un cappio Impiccàtale la bàmbola, Atterrivo la piccina Che in passion senza respiro Di pianto scoppiava convulsa Un lucidissimo riso Al mio balzante baciare. E a serenarla, razzi di pensate: Ella, sennuccio, in sussiego, E io bambino, suo cruccio In un pranzo d’affare; D’improvviso, hoplà, in burrasca

Sul mar d’una scranna si viaggia! 163

Vuoi Moretto, il cane morto

Che leccava e vezzeggiavi? Ecco: tu schiava e io re,

A un cenno règgimi il mìgnolo Senza un perché; Sarò strano, terribile in trono.

Qui! sfiancate di Gioppino, Gozzo, e pota pota pota... No, cavallo che galoppa,

Sopra tu, picchia nerbate! E così l’innamoravo L’ammaliavo

Con ritorni di spavento, E tra mezzo canti e fole

Smozzicate di parole, Ma nei gesti maraviglie In volar lustro d’occhiate Con silenzi e fantasie.

Poi, la pappa; e col cucchiaio Mugolando alla sua bocca, Dentro e fuor treno diretto, Dentro e fuor la galleria: Presto, ch’apro anche la mia, Presto il piatto a chi ne tocca; Presto il piatto si puliva.

Ma parecchi erano i dì Che la somma dava male: S'era pianto ancora; e il babbo,

Giunto a cena, me guatava E sprimacciava

Equo tanto e conturbato

Quant’io térbido e corroso, Che in vergogna ai miei fratelli 164

Rifuggendo spesso a letto Digiunavo il mio dispetto. E tu, mamma, un po’ più tardi,

Rincalzando le coperte, Curva, a sguardi, Con un bacio sussurravi:

— Clemente, non fare così! —».

165

MOVIMENTI

DI POESIA

Saltan le stelle nel vìvido vento:

Siete a digiuno? Piaceva anche a me; Ma ora ci siamo,

Grassore spettrale, Imbambolato rancor, dopopranzo!

Eppur, bisognava mangiare... «Lassù, cosa guardi lassù?» «Vedevo un grembiul di formica

Con sopra certi occhi, certi occhi, E intorno quattr’anni danzare, Due braccia e due sàndali, Enrica...) «Oh va’, non fare, non fare!» «Vien qua, sui ginocchi: Ascolta, blonblòn, l’organetto.» «Ho freddo, zio Checche;

Zio Checche, perché Vanno in giro così?» «Per émpier la notte, La vuota botte dell’aria...» «Non farmi arrabbiare; ma no!» «Per sgranchire le membra, E nutrirsi coi bimbi un po’ ancora. Là in fondo...» «Là in fondo?» «Che c'è?» «Ho freddo, zio Checche; Zio Checche, la mano: Facciamo qualcosa...

Scappiamo? Scappiamo?» 166

II

Mogio balogio, Cappello di moccio, Pastrano di stanchezza,

Dalla cravatta alle stringhe strozzato Cado il mio passo. Agri volumi, Trànsito sordo Per l’abbrivo dell’ora,

Fòsforo nero al sobborgo; Malizie di plebe In raggere e barlumi

Dalle porte discinte: Frullini di donne, Aste di buli alle gonne,

Scoppi inciampanti di birichini. Bevo il mio peso Distratto, sorpreso

Che la vita sembri certa Senza udire all’erta all’erta...

E viaggio alla deriva Spinto fermo, in baraonda Verso clamori incendiati, Sotto cieli amalgamati Di sguardi senza perdono, Fra salamandre di case Sfacciate a uno spiazzo Che divìncola immane: Opachi nitriti, Squarciar di trombe,

Colpi e rintocchi a sbaraglio; Allucinate tende Su svoli d’altalene, Palchi rintronanti 167

In arcobaleni agitanti: Zaffate di nausea dolce, Fiato strinato d’arroste:

Tutto lìvido alle giostre Esaltate mulinanti Razzi rappe stucchi sbuffi, Abbacinata danza

Nell’organo che schiaccia L’atterrita esultanza.

Svio dai foschi isolati, A un vial di férfora e saliva Con vortici di silenzio. Perdo i muri,

Sogno gli alberi, Fiuto il vento: Ai ciòttoli duri Sul fango d’anguilla mi disoriento. Ma dentro, esalando, scintilla, E sprizza negli urti avvampando Un nitor contemplante Senza pietà di me, Com’io non fossi a chiedere torvo Un voluttuoso sollievo,

L’umor che negli altri spremevo A spruzzi di méstolo, L’ardor che una testa permise Al mondo per baciarlo! Stelle recise,

Bruciate a guardare, Raggiando roteare: Errare, alitare, Terra su ’n fil di rasoio, Nel nodo scorsoio Dell’àvido universo: 168

Ripetèntisi flutti Nel mare sommerso Del cuore, indomabili fiamme

Da ognuno velate E balenanti in tutti! Ritorno; chiuso in me, proprio un altro:

Nella nuca sepolto il passato In gramaglia di chiome, Dal viso per l’aria

L’avvenir disperato, Con pace violenta Nel mezzo il cervello:

Mhnico per un giovine colpo, Per la ruga degli anni coltello. In adesione di moto

Ritorno, senza perdono. Correre, correre, Con giubilante strazio. Gioia e dolore: chi siete,

Se già io sono E le cose hanno spazio? Corolle senza pètali, forse, Case senza parete? Correre, correre

Nel libero intoppo, Così! Chiazze del cielo a ritroso, Città in freccia di sbieco, Scivolati passanti, No no! la causa è innocente, Il tuttoniente che sprona. E nessuno (nessuna) mi aspetta: Corro, perché non ho fretta.

169

PRIMA DEL SONNO

— Mamma, giochiamo contenti: Perché tanto seria ci ascolti? —

— No, non schianti convulsi... Ma strèpiti vostri, birbanti! — — Che ridere, mamma, non vedi? Un capogiro di bambole in piedi Che batton gli evviva ai soldati... E ora, lontana, tu guardi? — — No, non donne impietrate

Su nodi d’uomini in sangue... Ma schiere di miti fantocci

Già chini al tepor della nanna: Su, che vi cadono gli occhi. — — Ecco, giocar per dormire, Come da piccoli, sempre...

Non farci paura:

Qualcuno che afferra La spinta dell’uscio? Non c’è! non è vero... — — Ma sì, c'è la gonna, e in un guscio

Di membra abbracciate Cullandovi, fate Nel sonno la cara Ai tanti domani 170

Che tengan più chiara La notte ai trastulli;

E via, stregone dell’ombre, Grand’orco del mondo Che azzanni quest'anno più in fondo!

Non cerchi di voi troppo presto, O nati anche voi nell’estranea Passione battuta,

Sorgente bevuta Da tutti e nessuno, Per tutti e nessuno

Strappata aderenza di vita Che fino le donne

Non sperano più Non intendono più...

E io non voglio, non voglio che langua La vostra: e voi non volete

Che pianga la mamma. —

171

NOTTE A BANDOLIERA

Alghe di tènebra Sull’umida terra In romba di piena;

Scaglie di vetro Dal ràpido cielo Che stelle nel vento Librato riassorbe; Gesto falcato di forme Uscite a capirsi nell’ombre; Fissa follia dell’aria Su nero abbaglio di lampo; Sordo scavare tenace In eco di màdida pace: — Balzerà, chi ci spia, A schiacciar la lumaca Che invischia molliccia la via? — Per la nerezza sinuosa Prèmono tìnnuli urti, S’incàrnano stocchi di gelo, Scuri di brìvidi rìgano: — Scatterà, l’insidia feroce, A scovarci nel sangue la vita Che doviziosa s’incrosta E imbarbarita zampilla? —

Voci osannanti in soffio di sibilla, E frenesia di muscoli ondanti T#2

Per la cupezza emanata; Ossessione d’attesa,

Truce allegria sospesa, Fischi strisciati in domanda,

Drappello che annusa Frusciando carponi In una raffica chiusa, Chiostra di denti a lame di luce, Intenti occhi a dorso di coltello...

— È giunta la razza assassina! Son giunti i violenti e gli eroi Che svelan momenti Dell’impossibile eterno: I buoni di prima, E i buoni di poi. —

Marzo, 1914

173

FANTASIA DI CARNEVALE (VARIAZIONI ITALIANE)

Noi siam della regola buona Che il ribaldo Cavallo sbalzò.

In groppa, alla carlona, Longanimi e contenti,

Caracollando i tempi Ci s'avvezzava a vivere;

Quando improvviso sanguigno schiumando Springa scrolla quel pazzo... E noi sforna in un mazzo!

Ora ci prude senz’unghia La scabbia notturna, e l’inverno:

Esangui, sbattezzati, AI caldo, per coscienza, Salviamo la virtù: Ma tutto come prima

Scegliendo con pazienza Ritroverà la cima, E qualcosa di più.

Se no, gufati vivremo A scanso di cadute, Curandoci la fame: Evviva la salute!

II Tanto ubertosa la civile gloria, 174

Tanto ignorato il sottostante danno!

Ma giovinetto è l’anno: Sarà vecchia la baldoria?

III

Noi serbiamo la pace Candida e intatta Contro la ruggine In còfani d’ovatta: Ancora brillerà la sua speranza Al diméntico amor di chi verrà.

IV

La sciagura ritmava in lontananza; Or s’avvicina. Il patrio terreno

In bilico, già crolla: È un invito di danza...

Signori, alla coda!

V

Or La Ha Da

sù, giovanotti, morte è in amore: baci d’un vigore incidervi l’ossa.

Chi ne voglia un’Idea, Si raccomandi a Dio Che la rivela.

175

pe Ce questombre di noi

E doman forse nùgolo seni VII

Poesia, arpeggiante Zanzara che succhi dal sangue, Ora ciascuno t’intende E si difende.

VII

Èra avventizia Che strozzi il costume

Vendendolo implume Al ghiotto destin Senza principio né fin!

Èra propizia.

IX Oltre la patria e la terra C'è da salvare qualcosa,

Anche solo una rosa Da tanta guerra sbocciata.

176

x

Morir vendicati D’esser nati così!

XI

Noi siam dell’inquieta brigata E scontentezza ci guida: Spietata alla gente è la sfida, Ma dentro si accascia gemente. Ci spàsima intorno il vestito Dell’universo stordito:

Annaspa e non trova gli occhielli Da chiudere i mondi, Per sempre, Sull’eterna minaccia

Che la ràffica a tutti Svela ora più aperta più diaccia.

Squassa e non fugge, Il dolor ce l’inchioda: Rugge se l’oda il pensiero Che balùgina nero, Ma divìncola muto In lancinanti vipere!

Cieco prodigio, Grandezza tradita, Asfissia del certo alveare Fra miele e vischio mordace; Perché si redima nel rischio Il tètano dell’uomo La nausea del mondo, In sprazzi di respiro Lea

s Scaglieremo lebombe, Colmeremo le tombe

Che lacarie dell’oreciaprì. — Del resto, il destino

Ha stomaco sano, Per smaltire anche noi... A cena, intanto. Olà,

Del festinoicatnessi sangue, ‘Rosso vino forte,

Evviva l’appetito della morte!

178

|

PRIMA

aL.

Era un cespuglio di siepe, Avido slancio fedele Al vento, che l’ingannava; Perché in sollazzo promette Il vento, e sete infine A inerti spine lascia. Ma dove è speranza di fiore S’accora la terra, Donando alla luce il tormento Di chi amore accettò; La terra in un bulbo Palese al cespuglio Vitamorte stillò. Si riconobbe ogni fibra;

E seduceva nel grembo Un ricciolo dal musco: «Amarti, non oltre, così!» E levava la spira un capino Di rondine, beccuccio porporino: «Cantarti, non oltre, così!» Ma guizzò dallo stelo saliente Su quattr’ali il ciclamino: «Ecco i punti cardinali Del mondo... non oltre, così!»

Il bulbo segreto fluiva Le più divine gécciole al fiore,

Sin che dal getto compiuto - Le alucce recline 199

Fu concavo sguardo smarrito

In purpurea effusione. Ma un’ansia d’intorno all’ebbrezza

Implorava nel vento, implorava: «Perché l’altezza, Se da te m’allontana?

Tanto spazio non sana, Non il bulbo del sole

Dove tu non sei più!» -

II

«Guardi: ha veduto?» «Ecco, il lago.» «Più lontan...) «Verso i colli?» «Oltre oltre!» «Sì, il tardo Fumar dei supini orizzonti.) «Ancora no; sotto Venere, a piombo: Proprio là, proprio altrove...» «Forse, dove Termina il mondo?» «Dove l’ansia di tutti Comincia e finisce, Dove saettano fra cùmuli cupi Richiami di guerra, E una lucciola apre serra Due umidi occhi, due occhi asciutti». —

III In estasi alla neve Ninfee dei monti Da foglie di rive brunite

Sul lago nitor di betulla! 180

Vhs o

È ’irradiil miogna

—_—Respìrane ogni baleno,

«_°—’ Fin chela sorte mi voglia

Non temer della bruna che annulla, E sorridimi ancora. In estasi alla neve Ninfee dei monti

Sul lago di betulla! principio 1915

-

181

DIO CI LASCIÒ VEDERE L’ITALIA RACCONTO ‘SFUGGITO

SOLDATO

DI UN

ALLA

PRIGIONIA

RUSSO

AUSTRIACA

Si ha notizia di continue evasioni dall’orrenda cattività austriaca da parte di prigionieri russi, i quali, fra tutti i

popoli in guerra, son forse i più audaci e instancabili a tentarne la fuga. Il signor Vassili Sukhomlin ha avuto occasione di cogliere dalla calda umana voce di un musik soldato il racconto che segue, qui in Milano, all'Ospedale Militare dove il fuggitivo ha avuto cure amorose, dopo aver combattuto da bravo nella prima campagna di Gali-

zia, esser stato travolto di poi nell’agonica prigionia austriaca e aver affrontato infine pericoli mortali per l’ap-

passionata nostalgia della libertà, venendo a noi con alcuni compagni. Ritento qui il racconto, potente nella semplicità creatrice dell'anima popolare russa. *

Mi fecero prigioniero di novembre, sotto Ivangoròd. M°hanno sbattuto in vari campi di concentrazione. Male

mi fu. Fame. Ma assegnavano lavoro leggero. Costruivamo baracche; riattavamo. All’improvviso, il 26 maggio, sentiamo: l’Italia ha di-

chiarato guerra. Eravamo a Salsburg. Ci ficcarono in un treno, ci mandarono nella città di Brennerbach, 500 di noi e 500 da un altro campo. Dicono che ci butteranno a lavorare. C'erano fra noi studenti, e alcuni ebrei che possono capire il tedesco. Dicono: Ohi, ragazzi, qui vicino fiutiamo la frontiera italiana. Nelle montagne va la guerra. 182

Ragazzi, militari Adagio, portano

c'è nell’aria qualcosa che non va bene. A lavori ci voglion costringere. Fortificazioni. Pensiamo: a questo non si giungerà. Confabuliamo. Toh! ci sullo spiazzo, davanti alla caserma. In riga. Un

loro ufficiale - di Leopoli: sa il russo, non proprio come noi, ma si può capire — si fa avanti; parla: «Vi condurran-

no al lavoro della terra; voi dunque (dice) obbedite; vi sa-

rà bene. E nutrimento, e tutto». E noi: «Andremo, se per un lavoro privato; ma se per scavar trincee, per giuramen-

to non possiamo. Di questo ne dobbiamo rispondere».

Spieghiamo. E l’ufficiale mezzo russo, di rimando: «Non sarete responsabili, perché ora le leggi vecchie sono abrogate; in tutti gl’imperi, tutto è nuovo costume; e anche i nostri son costretti dai vostri». Noi stiamo sulla nostra.

«Io (dice) vi rilascerò una ricevuta che non è per volontà vostra». E che ne facciamo della tua ricevuta? Tanto e tanto, da noi non la terran buona. Mandarono per il colonnello, a Héssensats. Il mezzorusso a noi: «Oilà, figlioli, attenzione. Severo è il colonnello; tempo minaccia. C'è poco da discutere: falcerà qualcuno con la sciabola». Guardiamo — arriva il colon-

nello in vettura. Senza sciabola. Ciao (pensiamo), pazienza — non ci falcerà. Gridò, si sfogò su di noi. Noi sempre

duri. Sbuca allora contro di noi una compagnia di cadetti l’eseper pronti tenersi di Ordine e). ufficial da ano (studi Chi destra. a vada e, lavorar a ntirà acconse «Chi . cuzione

, ucraini degli metà la Qui, ». Puntate emo. fuciler lo no, s'intimorì:

in 500 circa passarono 2 destra. Furono

im-

a lì staran non : ghiamo strolo così; mo Restia via. brancati fucilarci!

. mi uo 10 ri fuo iò gl pi a; fil la o ng lu lo el Passò il colonn la r pe e ss fo se me Co . te ar sp di in , dò on rc ci li ni: la scorta o ltr l’a nel on ar rt po Li ti. ila fuc n ha li fucilazione. Però non . ni or gi o tr at qu r pe ore e du si pe ap no cortile. Colà essi furo 183

o tr at qu o, pal sul o ran sti ti e i fun con ni ma le no Ti storco ti i po o, pal al e mb ga le o on nc vi av ti o; ren ter dal braccia

mo uo l’ o, on lg to ti do an Qu . ore e du e ar ol nz pe no cia las non può più star in piedi. E noi altri, in un cortile, cinto di filo di ferro spinoso,

spesso come rete. Chiusi, rimessi in rango. Ci costrinsero

a star così fino a sera. Il solleone brucia. La gola vuol bere. Debolezza. I croati della scorta sono occhiuti, che non

si possa sedere. Il più feroce popolo per noi, questi croati. Guarda mò che roba strana! simili ai russi, parlano che ti

somiglia; eppure è il popolo più perfido, questi croati. Tre giorni così ci tormentarono; sempre ubbidire a star

in piedi. Niente pane. Solo di mattina, ti portano una brocca d’acqua calda, con dentro una pastocca di farina di granturco: una miseria. La sera del quarto giorno, viene da noi quell’ufficiale mezzorusso, con l’ordine (dice) di fucilarci. «Domani (dice) fucileranno, proprio sul serio.

Piegatevi, figlioli; è meglio». Ed egli stesso piange. Giovane, giovane. E noi avevamo già osservato; rasente alla

palizzata, ci costrinsero a scavare una fossa, lunga. Proprio per noi, dunque (capimmo) - la tomba. All’indomani, fuori, sullo stradone, vicino al cortile. Ci

mettono in rango. Qui, presenti cadetti e colonnello: «Dunque (dice) come va? Passata la testardaggine?». E noi, la solita risposta. Allora, ti pigliano uno. Lo conducono all’albero, gli bendano gli occhi... C'era fra noi uno studente - questi sapeva tutte le lingue. Pretende che sia preso primo per essere fucilato. Ma nossignore, non l’hanno preso; pigliarono invece uno della territoriale. Chiamaron fuori quattro cadetti: Due sparino nella testa, due nel petto. «Non vuoi saperne di lavoro?» «Non posso, per

onestà». L'ufficiale abbassò la sciabola, e fu come non fosse vissuto l’uomo. Sta sotto l’albero. Così. Ecco, la strada va. Ecco qui il ponticello. Eccoti l’acqua che fluisce, e di là c'è quell’albero... Ancora, di nuovo, si volgono a noi. 184

Tiran fuori un altro. «Andrai a lavorare?» «In coscienza

no». Anche lui lo finirono. Quattro, a questo modo.

Tirano fuori il quinto. Siamo tutti contadini, lavoratori

della terra nostra, semplici. Ecco, gli hanno bendati gli occhi. A veder ciò, i nostri cominciarono a turbarsi: Come, dunque, fratelli, che fare? Così ci stroncheranno tutti,

uno per uno. Bisogna fare di necessità virtù. Parlavamo fra noi. Non cera che fare - acconsentimmo.

Levarono,

dunque, all’ultimo la benda. Non ha più faccia sul viso. Non sa più di essere vivo. Appena si è riavuto, cadde come morto. Imbucarono i quattro nella fossa. Ci cacciarono al lavoro. Due mesi, vicino a Brenner-

bach: segar assi, scavar cammini, tagliar boschi. Per il primo mese, niente pane. Quella broda calda di granturco. Come ubriachi, camminavamo.

Lo studente, di cui parlai, non acconsentiva a nessunissimo lavoro. Cercavano di accattivarselo in tutti i modi.

Gli offrivano il lavoro più leggero. Non vuole. Tanto per far mostra (dicono), fate qualcosa: per i superiori, cioè. Non vuole. Gli proponevano di tirar i conti nella ammi-

nistrazione. Egli no, assolutamente. Cammina su e giù, mani dietro schiena; e tace. Dopo una settimana, lo trascinarono via. Due mesi in là, ci portarono in una città di nome Bolzano; indi, nella valle di Ciampe, proprio proprio nelle

montagne: sulle posizioni. Di là fuggimmo. *

Ci fecero andar per ferrovia; poi, pedibus, nelle monta-

, ani ali (it o: ian tal d'i tir sen a ia inc com ne zio ola pop gne. La cioè, che stanno sotto l’Austria). Per colpa loro è la guer-

ne; zio ola pop a poc gi: lag vil per o am di An o). ra (dicon cre rin no, rda gua Ci si. cio moc e ine tad con nient'altro che nem ta bas non e? Pan e. ieg cil o ron off ci noi sce loro per 185

meno 2 loro. Vivono per non morir di fame. Anche a spendere, là non ne compri. Le ciliege, invece, quelle sì te

le buttano. Già, certamente pensano: Anche i nostri (di loro, cioè) mariti e figli, nel paese straniero si martoriano.

Certune piangono, guardandoci. Tre giorni e tre notti, in su, sempre in su. Enormi

montagne. Viaggiano nelle nuvole. Come arrivammo in aria, cominciò il freddo. Baracche, per il fieno. Proprio là, c’'intrupparono ai lavori: far trincee, tagliar boschi, portar

legna, mentre intorno sfrìggolano gli spari, crèpitano le mitragliatrici; e dopo, anche l’artiglieria. La nostra baracca è su piccolo pascolo, vicino al bo-

schetto. Non era possibile veder subito donde gli italiani sparassero. I proiettili non giungevano fino a noi. Venne

però la volta che ci misero in rango per portarci (sembrava) al lavoro, di prim’alba. Hai visto? Hanno aperto il fuoco su di noi. Come per incanto, han fatto bersaglio. Scartammo

alla meglio, qua là. Gli austriaci, altro che

pensare a noi! Questi sì, se la danno a gambe: buttano i fucili, e addio chi t'ha visto, dentro nel bosco. Noi - gente un tantino abituata al fuoco - sbirciamo da che parte sparano. Un’altra granata cade più vicino; la terza il diavolo te la fa piombare a misura sulle coperte da noi distese a prender aria. E avanti, campane a festa! Ci aquattammo più in basso, nel boschetto; quattro giorni e

quattro notti, all’aperto. Più tardi, cadde la neve. Ma in su, dov’erano le posizioni austriache, ce n’era anche pri-

ma. Portavamo lassù legna per riscaldare i loro baraccamenti. Noi, intanto, coviamo un pensiero... Furono distribuite clamidi bianche, perché gl’italiani ci

scorgevano sulla neve. E sempre più, sempre più c'imbrancarono nei lavori notturni. Ci esaurivamo.

Il primo

mese, soltanto quella tal broda. Finalmente ci fecero vedere il loro pane: duro, argilloso, più amaro dell’assen-

zio. 186

Ci sono colà due monti, sui quali portavamo legna. Chiamavamo l’uno, il Monte delle 80 svolte; vi serpeggia a zigzag un senticrino. Lassù, artiglieria e fanteria, nei ripari, dietro la cresta. Neve profonda, non c’è bosco - roccia, sasso più neve. Per 4 o 5 ore salivamo. Ecco: in tre, di notte, allo svolto, invece di andar innanzi, ci butteremo da parte. Fissammo il luogo. Camminavamo,

85 uomini, in fila come le oche, con

un fastello di legna ciascuno. Scorta, ogni 10 uomini... Detto fatto, in tre spicchiamo un salto, scaraventandoci

da banda. D’un colpo ci annegammo nella neve. Giaciamo. Notte buia. Non fiatavamo. Non ci han scorti. Oh,

passarono! Levati appena, ci guardammo negli occhi, intorno: via. Verso le posizioni italiane; avevamo bastoni da

montagna, mezzelune dentate sugli scarponi, funi. Prima, teniamo in giù: strapiombante che lo sa Dio. Non capisco come non precipitassimo. Discendevamo; e guarda mò, ti tocca arrampicare di nuovo: scimmie, per aria —-

due buone ore. Finalmente la cresta: gli austriaci t'han ficcato reticolati. Cerchiamo un’uscita: ecco, alle trincee. Visto? vuote. Sedemmo, fumammo un tantino. Dove anda-

re? Spari, dalla destra. Bisogna prender a sinistra; e giù ancora da capo. In queste posizioni, l’Austria è più in basso, l’Italia più in alto. A noi avrebbe fatto comodo sempre

in su, sempre in su. E nossignore: benedetta montagna questa, traditora. Ti appare non troppo alta; ma arrampi-

giù. nuo vo Di fine ! c'è non anch ’io, ca tu che arrampico ce non Dio che tor men tos a; Mon tag su. na nuo vo Poi, di

e bia nch egg neve ia, la anco ra: ring E razi are più. la mandi l’alVer so reti cola i ti. Gir amm o vede re. qualcosa tu puoi dea Dav ant i, scog lier di a. spec ie una per ba, scendemmo Cogl’' ital iani . lass ù, pio mbo a ; rocc e stra, montagna alta: risp ose. uma na voce Nes sun a rich iami . far a minciammo

gl’i taVer so ripo sare a . rupe , la Sediamo sulla neve, sotto

me500 Un Pen sia mo. aggr appa rci. liani non c'è verso di 187

tri a sinistra, scorgiamo una fenditura, una specie di canalone; sembra che là non sia così tremendo: si potrà sgusciare. Cenniamo agl’italiani. Essi pure fanno cenni. Gli austriaci, per ora, non s'avvedono. Ci avviamo, io avanti,

Archipenko dietro me; terzo, Darienko. Luogo scoperto — neve, sassi, scaturiti sotto la neve. Fatti dieci passi, ci scor-

gono quei diavoli d’austriaci. Aprono il fuoco. Netto è il bersaglio: fischiò la prima palla all’orecchio. Vedo un ma-

cigno; grido: Non scoraggiatevi, fratelli, correte — e via per primo, Archipenko dietro. Darienko corse un po’; poi rimase; si sdraiò fra i sassi. Piovon come la grandine. Sbalzammo; ci corichiamo dietro una pietra. Le mitragliatrici austriache cominciano a farci caldo. C'imbucammo.

Volan schegge di roccia. Ti mandano per buonamano anche sbrapnels. A giacere. Si fa tra noi: Spara, spara, se non sei sull'economia!

Per fortuna, gl’italiani si danno a rispondere. Ecco: Anche per te è venuto il biscottino, Franzo Giusgoff (ma loro lo chiamano Ceca Bepa, cioè lo zar austriaco). - Freddo da cani. Bruciamo brandelli; tagliamo un pezzo del bastone per scaldar il nostro buco. Ci stringiamo a farci caldo.

Ci facciam spirito vicendevolmente, perché (Dio ci salvi) non ci pigli sonno. Darienko da principio dava voce. Poi,

gli faccio chiasso: Darienko, Darienko! - Nulla da lui. Quell’uomo è assiderato. Avevo sì volontà di strisciare a lui; era 50 passi da noi. Neanche da pensarci! Ti tempestano addirittura. Attendere fino a sera. Come imbrunì, levati, guardiamo: viene verso noi. Patì assai freddo; la sua copertura era scarsa. Gli gelò via il piede. Prendemmo per l’orrido; anche qui il costone è alto, ripido che è una malora. Neve dura come ghiaccio. Intacchiamo scalini coi bastoni. Cominciamo a issarci; dalla sera alle 6 fino alle 3 di notte. Doleva il piede a Darienko, e noi pure soffrim-

mo. La montagna, dalla quale gl’italiani facevan cenno, ri188

mase a destra; ma per il costone a un’altra vetta' giungiamo loro vicini. Vociamo che siam russi. Come parlare

nella loro lingua - chi la può sapere? Intanto, a buon conto, gridiamo: Rzssland, drei! (così imparammo in Austria). - Nessuna risposta. Ci lasciarono avvicinare: rintronaron due colpi... Notte buia. Non possono veder nulla. Credono l’Au-

stria intera su di loro. Pensano: Si piega a malizie; tu la lasci avvicinare, ed essa ti frega con bombe. - Proprio il

primo colpo mi ferisce Archipenko alla gamba. Lo raccolsi; gli attorciglio la fune, lo serro. Gl’italiani, zitti. E noi,

di nuovo col nostro ritornello: Russland/ Darienko si spin-

ge striscioni. Io rimango con Archipenko. Si sporsero gl’italiani dalle trincee - vedono camminare un uomo, zoppicante, in uniforme russa, disarmato. Allora, ci buttaron la corda: ci arrampicammo. La trincea loro era proprio sulla cresta. Immediatamente, l’altro versante; e una baracca. Arde la stufa. Baracca piena di alpini. Intorno tutti; parlano alla loro maniera, che tu non puoi capir sillaba. — Russo! Russo! — Ridono. Offrono vino; ti dànno perfino il sala-

me. Viene un ufficiale; ti dà sigarette, cioccolata. Uomini buoni.

Li scalzarono subito. Il piede era nero, gonfio. Loro o, alg ris le, cia ffi l’u con Io, . giù e ; ito sub e, ell bar due, sulle

le bi mo to au In . giù , Poi e. ach tri aus oni izi pos le re ega spi a — e avanti in Italia. ! na ia al it a rr te la i rc ra st mo di ia Ecco, Dio ci fece graz Dal russo

1 Il Col di Lana {N.d.A.].

189

IL TERRITORIALE CONSIGLIATO

Terza ondoleggiante di teste a sventagliarsi. Rimescolìo scamiciato, vocìo sui colpi delle ruote in corsa: gaiezza discreta di scampagnate ritorno, accomunamento loquace,

debite riserve, tenersi sul suo di gente vestita bene; prudente saggezza d’economia per l’ora grave. Anche giovanotti, decenti, con fascia d’esonero al braccio. Guerra lontana: può continuare; non c’è fretta. Marionette fuggenti

ai vetri d’alberi e case, appese ai fili del gran raggiare occiduo. Bimba bendata gli occhi: “Ferita di bomba buttata

da quegli animali”. Insignificante; la guerra può continuare. La Sigaretta, la Domenica: guardano ridono i giovanotti decenti. Computi, affari. Ragazza belloccia si ravvia, slanciata nel mezzo del carrozzone in piedi, ciocche di capelli alle buffate del vento con rosse mani grassucce, o al-

ternativamente sulle spalliere regge gli sgarbi del treno. Lattante laggiù frigna: scena coniugale, biscotti - grande grembo di mamma. Civettuolo soldatino lindo di sanità: “Ma se le dico, signorina, che l’altra sera è stato uno scherzo!” - “Povera vita di noi! fidarsi...” Importanza mi-

litare, ma sguardi. Tra il senso e forse il fascino. Qualcosa vorrebbe godere, e dimenticare. Ma l’ombra serotina scende: per questo non ci si vede a vivere. Agitìo, turbamento

vago, ondoleggiamento di teste più gravi. Qualcosa non

va, rimane fra tanto fragore d’andare. Controllore. Rivolgersi; frugano tasche: incomodo malumore. «Signori, biglietti!».

Controllore, fascia d’esonero: olivigna paffuta faccia 190

e tria

sorridente offensiva: bel maschio; le popolane lo odierebbero, tipo di ciò che nella società E RAGRE e farà male ai loro uomini. «Militare, biglietti».

Chi l'aveva visto? Rincantucciato dietro un’anguria d’esercente, prosciutto e il petto: “Se molleggiassero così le vetture si viaggerebbe bene”; ma gli anelli incastonati nella ciccia — rincantucciato ienigalo berretto cencio ‘ sugli occhi: verdelimone, pelorossigno spinoso; di sotto occhietti avvelenati in sospetto. «Militare, biglietto!» «Ma me lo dìà indietro.»

«Da dove viene? Questo vale per Belluno-Torino e viceversa.) «E ben?»

«Qui non può, non deve viaggiare. Glielo ritiro.» «Oé, non facciamo scherzi; gli ritiro io qualcosa!». Si fanno intorno. Signore per bene interviene: «Calma, calma! è un pubblico ufficiale. Vuole un con-

siglio? stia quatto. Paghi la sua brava differenza...» «Ma che differenza! la differenza me la fa il governo sulla pelle!» «Bene: o lei paga la differenza, o io le ritiro il biglietto. Dove è salito?» «Salito? In una stazione.» .» le ma ir fin a va o , ito sal è ve Do o. os it ir sp lo ia cc «Non fa «Io che lo so!». sadi o in at ld so Il . li ig ns co e — li ig ns co o, ti es am Voci, tr nità gli dà il tu di colleganza sdegnata:

zit e , za en er ff di la r ga pa o ca an fr a ll «Furbo che sei: fa

ti. Va, paga!».

Il signore: «Chiariamo:

a Un a? su sa ca a o at st È e? en vi da dove

a ss me è sa co la e za en er ff di a su la scappata, ch? Be’: paghi in tacere.). 191

llo tro con il a ass rip sa Pas li. sig con e li sig con e Intorno, iatt nac buo la fra i ars ggi tre des a a ng di ar gu ìa der re, spaval

va impressione che farà, e il suo contegno-interesse dello Stato. «Ma che pagare! Sono un contadino; 10 mesi al fronte,

senza vedere la famiglia... (“Non può essere; le licenze...) E sette figli... (“Macaco, sette figli alla sua età!...”)

Non ho un baiocco! Sì, pagare. Ma se avessi le 3,50 me le mangerei. Maledetto il governo, e queste stellette, sacramondo!» «Là là, non si comprometta!» «Stia attento come parla...» Vocìo ramificato sul nido privato in disagio d’ognuno; incomodo, biasimo. “Contadino, è detto tutto: cosa vuol farci...” - “Ma neanche in questo momento, cristo, capi-

scono!”. Una donna: «Ma sì, poverino, ha ragione; ma prudenza!» «Farla da furbo; mica così. Il controllore non c'entra:

esegue un ordine. Semmai, ve la prenderete a suo tempo col governo... sebbene, intendiamoci... Paghi, via!». Trepellîo su sbatter di treno: sente odore di stalla e galoppa. E consigli e consigli. Il territoriale bestemmia, pe-

lorossigno spinoso negli occhi, verdelimone espanso veleno giù per la ruga alla bocca: scova un guardare se c'è chi gli dia ragione sul serio; e consigli e consigli. S’inietta e schizza: società vede, branco di lupi a sbranargli e campo e famiglia e la sua ragione. Stazione: semisalgono, confabulano, lo portano via.

“Povero vecchio!” - “Povero idiota; che bisogno c'era di andare in bocca ai carabinieri?” - “No, ma senta: le pare

che...” E commenti, e consigli a sfarsi all’uscita ognuno per sé. Desinare.

192

VOCE DI VEDETTA MORTA

C'è un corpo in poltiglia Con crespe di faccia, affiorante Sul lezzo dell’aria sbranata. Frode la terra. Forsennato non piango:

Affar di chi può, e del fango. Però se ritorni

Tu uomo, di guerra A chi ignora non dire; Non dire la cosa, ove l’uomo E la vita s'intendono ancora. Ma afferra la donna

Una notte, dopo un gorgo di baci, Se tornare potrai;

Sbffiale che nulla del mondo Redimerà ciò ch’è perso Di noi, i putrefatti di qui; Stringile il cuore a strozzarla: E se t’ama, lo capirai nella vita Più tardi, o giammai.

193

PENSATECI ANCORA

C'è una bimba lontano - ardor biondo di sole consuma il fulgore dei neri suoi occhi; ma è così brava e lavora, disegna, si trastulla, canta. A chi la domanda, Enrica è il suo nome: così l’uso vuole e per garbo risponde; però, se tu il cuore le chiami, s'effonde allora levità di stelo, spiga di

grano in chicchi di luce irradiando confida essere bimba vicino, ma il suo nome lontano.

Vive di affetto là fra la gente, ove orco non strozza il respiro baciato sul getto e non inquina strega la stilla sorbita. Non sa del molino che intride - non sa dell’acqua che batte - non sa che le pale si cercano ansiose, ma un

intervallo distanti in ruota le rode. Eppur qualche affanno di croscio caduto ella ode, qualche spruzzo d’immota linfa

la spiga rigela: vorrebbe salvare, accarezzare vorrebbe: le manca qualcosa, le manca. Tacita crolla spiga di grano, sfavillano chicchi di luce da un cuore, bimba che ha nome lontano. Allora drizzando lo stelo, puntando un gesto severo, allora - «Pensate ai soldati — ella dice — pensate ai

nostri laggiù. Perché siamo qui, in tepore mangiamo, tra casa e domani si parla di loro, talvolta, ma facile cuore che poco ne ascolta! Aspettiamo, intanto mangiamo: turbati, come sempre viviamo» - Crolla stelo il suo grano,

consumano chicchi la luce: bimba che ha nome lontano.

Lei pure mangia, e infine sorride: lustrezza di viso chiomato dall’aria, grazia del giorno in baleno notturno. E disegna, lavora, si trastulla, canta: perché brava bambina a chi la domanda Enrica è il suo nome.

Ma qualche sera, reclina in sonno al vortice lontano, il 194

c

Rei

"=

BIZZARRIA E CORALE DI RETROVIA

Siam d’Italia, ragazzi, come a dire di mamma se ci crea: non più bega sui paesi vostri! Ma che terra da pipe, terra matta, terra gobba, terra ballerina... è tutt'una, è tutt'una

fin che l’uomo cammina. Cercar l’ora di notte pretendete ancora? Se non nascemmo abbastanza e morirem per le rotte, che c'entra la terra? la terra ci avanza, e prima e dopo ci accoglie, fasci di voglie o briciole di spoglie: la terra che a sua volta ha l’uguale dal sole e il sol dalle stelle e le stelle dal tutto e il tutto da tutti. Quindi, almen fra di noi, non siamo cattivi: prendiamo il bruno e il biondo come viene ai Vivi.

Perché il mondo dei mondi (dovete sapere) era una palla di fuoco nel vuoto; e per un po’ l’andò bene: gioca-

va a rotare e raggiare e scaldare. Per tedio lo faceva o paura: e perchì e perché e percome? Si scaldò la questione: e sapete come lega e poi slega ogni bega. E be’: prese una parte la porzione, e via in anello a sposarsi nel cielo, e poi un’altra e altre ancora, fin che lo spazio (così chiamato

perché mai non è sazio) se le accolse nel ventre tutte quante, e l'universo cominciò per diritto e traverso a dige-

rirle, e non ha ancora finito, e ogni mondo gira per scan-

sarlo; e poi ritorna, e si perpetua il fallo. Così, come vedete il fiume che non fugge se rimane: per quel che va qualcosa giunge ancora, e cade il tramonto, rispunta l’aurora. Dunque, han pensato di vivere dell’ora. E si coprirono

i mondi di fauna e flora; mentre sviando e rivenendo, almeno ammazzano il tempo (che infine ammazza loro), si 196

distruggono un poco, e questo fa piacere e dà pazienza al giuoco. Alla lor volta, molte creature si fecero un modo

alla cosa: e se prima dicevano: èvi#4 - convennero poi di battezzarla vit4, e la e adoprarono come spediente d’unione. Guardate, esempio saggio, i buoi? Eran di casa col cielo, nel tempo là quando i secoli trasecolavano meno; ma ne conobber l’insidia, e preferirono il ventre dell’uomo che si sa cosa sia, che almeno si sbriga a digerire o appena

può espelle; lo preferirono dunque all’ambiguo in velenoso olezzo etereo fiore dell’universo - e sì e no, che è? via dalle trincee della rosa mistica giù nelle nostre calarono, convertirono l’ale in fior di corna e i quattro punti del volo in fior di zampe, e ruminanti si fecero su su fino all’og-

gi in progresso, quando per scienza scoprirono ch’era meglio servire al macello e mantener la gente che poi sgretola in niente, e così finalmente si ha pace.

Questo è un modo sagace di vedere la cosa; e voialtri che siete tanto arguti, umanamente lesti a trar partito -

sebben con colpa di bellezza invisa e nostalgia d’un cuor che il mondo osteggia - ecco voialtri, pigliate il bàndolo di questa filastrocca dove capire è non capir vivendo, e la-

sciate la bega e la terra; ma stretti accosto vogliatevi bene, stame traendo in armonia di seta da questo bozzolo assurdo, e in compagnia cantate, cantate il segreto accorato che più non soffre quando vien sbocciato dal torace aperto, e va come l’infanzia che impaurendo ride a una carezza

grande, e se consola chi piange o s’infosca a una sciagura, arcom’occhio guardare a s'incanta e dell’atto si compiace rossi nel pianto e il fazzoletto dalla tasca esca. ve ro l ne : Ina da a ter let to un pp ta us gi ho Guardate qui! i nt de ca zi uz st o un a pr so zi an , nti tte l’a sul o scio, un disegn in na lia ita a mb bi a un ce ve in re se es b’ eb rr vo alla prussiana;

ile fac ù pi (è ti tan ti tan ha ne i ll pe ca Di pompa magna. a, ur nt ci e to la al pi o st bu i, po € ), so vi il a mi farli e si rispar

a e mb ga ti an ol nz pe n co lo el br om a a at id am corta gonna in 197

ta tut e pe, pol le nel tro die n be a hi cc no gi e lo tel col costa di

i. acc leg di o gi og sf bel con e ati cur , lli que sì ah stivaletti,

Infine, dallo sbruffo della pancia, rastrella l’aria una scaturita mano, minaccioso tridente di nettuno - ma ecco il su-

un a, dit le dal so ros re fio un tta sae : qui e o gn se di del go fior di vita che non chiede nulla; ma è rosso, è un fiore, e

frulla nell'aria e profuma e si consuma, e comunque sarà, profuma e frulla e non domanda nulla. È questa Ina autrice, minor sorella di Enrica: ma questa patisce il fior della vita, perché le va il cuor tutto in

grano e a chiedere lontano si smarrisce e il molin glielo intride; mentre Ina il suo grano lo mangia, e se lo dona, lo spande lo lancia e si perdona, a lei che tutto risponde perché fa poche domande. Perché quest'Ina è una forte

bambina: gambone che se ti corre ti ruzzola, braccione che se t’abbraccia ti soffoca, faccione che se ti bacia fa ad-

dirittura merenda, ma dove tu scopri negli occhi un languore di perla in mar glaucobruno profondo che ti rivela il fiore, e dove però tu campi nel suo riso centanni. Questa Ina, se dorme, è una morbida agnella tosata alitata di

lana contenta; e se sveglia ti lamenta: «Sognevo brutte cose!» — macché, giù risate chiassose, diavola che spaventa. E se per te e i tuoi soldati scrive: «Vorevo essere fata per risanare i feriti e non far morire i morti») — cosa credi? scrivendo le gambe sue non morivan sicuro, e forse ammalava, non risanava certo la sedia e il tavolo. Così, quest’Ina c'insegna la via - fin che si campa e c'è retrovia: quando avrem la trincea si cambierà l’idea; fin che l’onda non va alla scogliera, il suo moto più in là, sempre in là si tramanda e rispera. Così, quest'Ina c'insegna una canzone. Ma separarla da Enrica non puoi, e palpitante Enrica da

Ina esuberante tratta viene: canzone dunque. di sorelle buone, due stelle diverse, congiunte di luce, che è luce dei nostri, di noi, della vita mortal come sia - con pena d’a198

‘aria profuma e si‘consuma, ecomu e nonnanna nulla, i i

CALENDARIO

La più lunga notte dell’anno è l'angoscia; il più lungo giorno, il dolore. Solstizio è supplizio. Quando il giorno bilancia la notte è sgomento, o il tedio. Equinozio è singhiozzo. Tra l’uno e l’altro, declinare è l’amore, aumentare è

l'orrore.

C'è un giorno di gioia a toccare: ma febbraio incespica prima e in primavera marzo lo illude o rimpiange. Ci sono appena rapide giunture di giorni, ove scocca la luce, baci di vita: ma fra due bocche sono i baci, della sorte e della morte; e è suono d’aria, la solitudine.

Ma l’anno è il nano che fa ridere o stridere con gli altri il suo secolo —- mentre liba il bianco e il rosso del pianto e del sangue. E così via. Ma se ognuno fosse per nessuno, uno e la vita, dono e donna: comunque, frutto nostro; buono buono, non sfug-

gire. Terrore, dopo, del nòcciolo solo.

200

SCAMPANÌO CON GLI ANGIOLI

Commilitoni dell’èra a distesa - oltre la cella dei cuori, sul campanile dell’essere solo, dàtevi funi e battagli alla

gioia che squilla di luna ineffabile ancora la sera! Friscolerà primigenia scintilla rintoccandoci in lei, percossa la sìlice nostra di questa minuscola terra che non

riempie la mano del bimbo, ma un grànulo appena chiude il mondo dell’uomo, il cuor che nel sangue s’ingorga perché fluire non può il trapassante minuto: e macabri lupi

rende i cani aizzanti, e imbestia il gregge che crucia sue piaghe ove bontà non protegge — se pure in tutti non è forse diverso patire di luna, quando suoni a martello il

perché della terra, fuggendo il sole che lascia a calore un incendio ignorato e per luce dal cielo nel buio uno spettro svelato.

Ma nell’èra campale (che campi per noi), dàtevi gioia verso la gloria; perché, venerabile agli echi futuri, ora è

vènere là ove andremo giovani impuri a un cupìdo che scocca strali d’ogni càlibro e timbro, non più finzione alla gente pitocca, ma concreto d’amore che favorisce la storia — mezzana a noi vivi carnali, e intera se moriremo ideali.

Ci sarà amplesso per tutti: e già tanti, caduti sul bacio insaziato, non voglion levarsi dal letto d’ebbrezza; ma sorgerà dal peccato l’animale armonioso, senza pene virtuoso, via dall’urlo del male e oltre il belato del bene. L’ani-

mal che si cova al beato avvenire, se ogni tomba è un’alcova, ogni scempio una chiesa. E noi espulsi dal mondo in favore di Dio, chiomando di gamme il culmine sacro, radiando di squille l'emblema 201

cbo r pe a, un rt fo di e ot ru da te, sor di i ich al creato, in bìl

è a at gn pa am sc se ta na pa am sc la am ri ti re go an che di cl a. oi gi di e nt da on nd di a ser le bi fa ef in ta es qu in ra co an *

Così stordiva la sera fra ozi di strade con gente ai soldati in concerti e osterie ria che sa d’ogni cosa Ma sorgeva da un la luna, e freschissimi

— e tutto buia romba finiva per l’ail rifugio e la tomba. pozzo di lume bucando nell’ombra corpi iridava leggiadre parabole agli

arcobaleni di un colle. Era degli angioli il colle, perché dal capo scuoteva in raggera di nitide case profuse cannel-

| lotti di vigne e frutteti: e colme le ali al volo dell’Alpi, sguardi sui piani librava, rutilava in bagliori correnti fra pàlpebre d’acque sotto ciglia di pioppi, mentre flessibili trilli pagliettavano brezze e silenzi. Ci levammo canori, gestendo ghirlande alla raggera profusa; e dove la luce beveva; sostammo. Porticava una

gaia cantina, a respiro di botti, sul ghiribizzo dei ronchi. Strizzarono pronti i compagni la spugna di un gioco; tàci-

ti sazi boccali venivano, e ritornavano in bocche di avido chiasso. Ma io attendevo. Lì presso, ancora nell’arnia era uno sciame infantile: e sospettoso affumicava un prete. Sbirciando, tossendo traudivo: «Chi vuol andare in paradiso?» - «Io, io, 10!» — «Ma sapete, eh? quant’anime ci trovere-

te?» — «Tutto un paese.» - «Vedete dunque, vedete, miei cari, parlare alla leggera? Le beate saranno certo più d’un paese! un cielo, sì un cielo... ma potrebbero star tutte qui, in questa tabacchiera...» — «Oh! ih! tciùh!» — E s'aperse la cella. A rifarsi del miele perduto, sciamaron ronzando bambine e bambini su di me: c'era nell’aria così rorido olezzo dal mosto dei fiori, traboccava nèttare a secchie dalla sor202

giva del pozzo celeste - per eludere al gusto la sete della morte e delle sue bieche vespe, e rinnovar la rugiada del tempo che maledetto crescendo inaridisce. Perché nel buio ora rossa colava la luna da un livido alone...

Ma no, purpurea vita, aureola d’angioli, indiavolati a baloccarmi intorno, e le spalle e le braccia e le gambe mentre tu qui, Maria, fiducia di cinquanni, pàvida grazia

sui miei ginocchi siedi a bermi estatica guardando! Pandemonio di strana allegria! e conterie e trine di movenze trapuntate su me, e sassolini di risa, e nàcchere di risate a contagio senza fine salienti e sospese al mio repentino scherzare: e a rapido scatto domande risposte di malizie scomposte, e premi d’anicini e caramelle, ai più brutti e alle più belle - sì, tutto un cielo qui, tuttequante beate anime senza tabacchiera, mentre le botti ai boccali e i boc-

cali alle bocche fanno da pozzo e da secchie a un generoso nèttare vivo: e intanto i vecchi e le vecchie ridon più dietro tra forti campani scordando i lontani, e scuote il colle

per buca che sorgiva luna la dentro canore infiorescenze l’ombra a raggiungere il sole.

203

CAMMINAMENTI

Piccone sordo

Morder gravame, Fin che la notte resista: Galeotta pista Maciullar pietrame, Fin che nel mondo s'insista: Incomber teso Che nessuno torni

Di chi fu preso, Frana di morti Su noi vivi ancora Insostituibilmente nativi. Lasciateci andare Che il pretesto irretito D'orrore è finito, Lasciateci andare Che raso d’agonia Non c'è più tempo, O morderemo Maciullerem come sia Chiunque in agio sua persona acquista,

E ci tien sofferenza capace, Anonima svista.

Ma questo andar non torna: Sfasciando al cuore Ch’era per dimore Tornano colpi mordenti, E in galeotta pista A morte van camminamenti.

204

Ascia del mondo Sui tronchi e nei rami, E impassibili alari, Trincee di focolari:

Legnaioli, e legna Per chi inconscio si scalda, E senza fine turno Che si sfalda, essendo. Nulla, più nulla,

Ceppo reciso: Svèntoli fiamma convulsa Contro la cappa Glaciale a succhiarti, Raàntoli che sola bandiera È la tua ambascia, E se per te fiorivi Eri a chi ami, ardendo. Nulla, e nessuno Al ceppo consunto: Solo te fiducia, Bragia accesa Che dalla cappa al seno M'isoli assopendo.

205

SENZA FANFARA

n io us nf Co . ta ia go in , ta ta as sp da on Si va per la strada prof i, rv cu ri ti sa os sp mi lu vo di i li ol rc ba e: ut d'ordine; file perd è n no e ch i rt mo i de to ut fl l da io bu l ne ti ia cc spossati e ca sa n no , sa n no ma i, ma ro be li rà sa n no e , ch ra co an ro be li

e ol vu sì co hé rc a, pe st po ap s' e sa po si e ia rc ma e , va pe qualcuno o qualcosa, perché si deve, si fa, non si sa — per contro un nemico, il nemico ch’è fuori, il nemico che è noi.

Si va per la strada profonda. Come grassa terra bagnata si leva ferita e si volge rovescia, perché c'è un aràtro che vuole, perché c'è qualcun che lo guida e i bovi li assilla:

perché c'è infin dietro qualcosa che spinge chi spinge, i bovi, l’aràtro - qualcosa che insiem si ritrova non essere altro che i bovi e chi guida e l’aràtro.

Si va per la strada profonda. Bréntola bréntola, ma pazienza, cannone: il rancio per noi, noialtri per te. Tu bracca, veniamo: non si bréntola più. Noialtri veniamo.

Zòccola, springa, ristride una sopravveniente ferraglia. Fàtti in là, Fanteria - passa l'artiglieria! Passa, e schizza

introna spurga su te. E si ride dall’alto. Non bréntola ancor come quella, ma già in qualcosa ti allena. Fanteria smarrita, smagrita: ricopri la strada; è passata.

Ancor si ragiona nel mondo che vive? Noialtri si va.

206

STRALCIO

Semicalmo imbrunire - caligine opalina in faville d’azzurro, sgocciata da un cielo a colpi di spillo: pioggerellina. Sulla terra è già mota, e si spettra. Frigge in sordina l’enorme fatica che lavora la rovina. Attender l’attesa. Le batterie sono a desinare: qualche strillo per cambia-

re i piatti. Azienda avviata, la guerra scientifica, coi suoi orari beneducati. Salvo nelle grandi occasioni: allora si fa un po’ i mattacchioni. Ragionato, bollato, controfirmato, tutto per il meglio, vicino e lontano procede, senza fretta procede, per il noto

proverbio. Né i morti hanno urgenza, né i semivivi han guadagnato ad affrettare la morte - e perfino la gente, se

digerisce, distratta ha pazienza. Così, sui giornali, c'è molta forza d’animo e calma virile.

Così, verso l’avvento. E salvo le isteriche voglie, e gli aborti, la gravidanza del tempo è garantita civile. Una nascita, dopo tanto morire, gloriosa - un feto di pace da tanto amplesso uscirà. Poi se colpa è di uno e senza colpa nessuno, maschio e femmina, gli avversari, non saran sempre sterili; la neonata verrà. Per questo, chi scri-

ve e chi sa, singegna al nome e al corredo secondo il credo e l'umore, verso il rischio del parto. Ma bombe e granate, son tutte a scavare la culla, se venga mai un bel maschiotto invece, capace alla razza; ’oro dell età rea l’au a nasc che fin are, asci tral non are, scav

che s'è tanto perduto. 207

à i g e o t i g a v l i e v e c i r o t n e m a l o r t s o n l a d e — La culla l'ossatura dai morti. n e v i v i h c E . o t i l u p e o r b m o g s rà fa si i o p e h c e r i d Vuol

do n’avrà più sentore?

o, nd fo ù pi e i sc ve ro i ne o, ng fa di e hi cc A ridosso, in ni o ld ca l de a nz le la al mo ia st i tr al i no e, sotto rughe merdos i de a ll co la o tt so , re st no ci mi ci le ma a cc che non abbo a. cc bo la e nt se ne e ch o, rp co l de ca es l’ al no so i nc ce

Balbettìi tremitìi; a un guardar di spurgo è la voce, e la

si n no e ch an Se e. cer gia un tua abi ina vic ti mor dei ta pas spera, la cosa tuttavia si avvera; non ci si può lagnare; se anche ci affonda, procede. Non manca nulla, non manca.

La fronte è una gronda per l’acqua, e il copricapo n'è il tettowe'ércasa: Soltanto la vita ci manca - ma l’amarezza supina, l’ebe-

tudine persa; la morte ci manca - ma l’agonia che nell’assurdo mistero cinico ci avviluppa e costringe e restringe; e se speranza ci manca, fame consola, e un orror bruto, che disarmato tante armi ha in consegna, non per noi, per

chi c'impegna; e se la coscienza è tranquilla in chi ci fa morire, possiamo cader per procura, in onore di ciò ch'è nessuno di noi.

Eppure, ve’. Pensando alla gente, là dove ancora si gira, come vuole ciascuno, magari slanciato sul busto, se vuole

- adesso che vengono le feste, una strana visione a qualcosa di terso lucente infiorato c'incuora. Chi sa mai se in ricordo dei buoi, che sparati al natale preparan tra fiori e

tersezza di sfolgoranti locali: la gente a vederli si esalta. Similmente ci esalta, e guarda questa gran festa di guerra - forse un Natale che spacca la Madre

per nascere, sì

grande tremendo supremo è il suo fine pei secoli.

208

PERDONO?

Stralunò il giorno. Allora, scrollandomi in piedi, mi volsi al giacile, ov’ero ammainato a dormire. Fungaia d’un morto saponava la terra, a divano. Forse tre settimane. Schizzava il corpo, in soffietto, dai brandelli vestiti; ma ingrommata la testa, dal riccio dei peli spaccava alla bocca, donde lustravano denti

scalfiti in castagna rigonfia di lingua. E palude d’occhi verminava bianchiccia, per ghirigori lunari. Feci come per tergerlo al cuore - ma viscido anche il mio cuore. Perdono?

Diedi come a fasciarlo di sguardi - ma senza benda i miei sguardi. Perdono? Mamma - era un cosino che faceva pipì, una stella, da bimbo. Perdono? Era per sé irreproducibilmente creato; viveva: e forse gliela volevi tu, sorte, una donna. Perdono?

Indicibile uno, strappato al segreto suo vivo, per sempre finito; se per la gente a venire, in grandezza caduto l’immemore tempo è nessuno, e non cade. Perdono?

«Staccatelo, e seppellitelo qui. Via svelti!».

209

IN ORARIO PERFETTO

» ! a i r a m m u s e G o! mi io gl fi , «Gesummaria e qu ac . .. li na or gi , ri ga si io ra ga si . .. ia «... La grande vittor all’arancio, al limone...)».

e ch o en tr al i ill str la go té et sp e a, ls pu La stazione densa

e al ns Se . do an nf ro to iu sc pa re nt ve il a og sf a ld ca ua in treg rfe te ui tt pa , ie ta ro i nt ra ga , no or gi l de o tt ra nt co il tempo, mate, rimessa a scadenza. — Simile intorno gente diversa si riméscola: epidermide attiva, ustoria lusinga. Paraocchi a ciascuno, il proprio

fatto: se dà paura, l’orizzonte è eluso.

«Gesummazria, figlio mio! Gesummaria!» «... grazie a Dio, si campa e si mangia...» «... così; per quell’affare poi...»

«... sigari... vittoria... al limone... bollettino...» «Qui! bolletta, altro che bollettino... Dolce quella porcheria?»

«Venti marenghi allora, salvo...» «Gesummaria, figlio mio! Gesummaria!» «Vuol dire che se non saranno venti saranno piogge!»

«Bei ladri! quaranta centesimi per quest’acqua...» «Facchino! raccomando dritto, la gabbia...) «Gesummazria, figlio mio! Gesummaria!» «Salutatemi tanto la Cristina, e che si abbia riguardo: Oi, ottantanni per gamba non...)

«Riguardo? ma se ci fa diventar matti tutti quanti, attaccata alla vita com'è!» «Gesummaria, figlio mio!...) 210

«... il caldo sarebbe niente; è l’afa... un po’ di campagna ci vuole.» «... una scappatina. Se venite per la Madonna, di frutta

e verdura...) «... figlio mio! figlio mio!...» «Ben gentile, grazie. Per la stoffa poi, non dubiti; ci penso io.» «... sì, viaggio lungo come la fame...» «... COi prezzi che ci sono in giro. Quanto a me, sai, me

ne frego. Senti, suppergiù...») «Gesù Gesù!» - Donna, capelli di gemiti e pianti, faccia annaspata da mani: scoppiato le è il cuore negli occhi; sulla carne convulsa le vesti tentano il vuoto del corpo. (Squillo ferito sui freni). Arrochito tremore nel buio del sole. Disotterra dai morti, seppellisce nei vivi la scorta di chi nascerà. - «In vettura signori!». Brutalità decisiva. - «Miracolo!... viaggiare da cristiani...» - Il fatto a ciascuno - «... ho capito... benone... arrivederci!». A spaccaminuto.

Non c’è più mano. Tac taratatàc. Per la trincea ripartito è qualcuno.

211

CORO A BOCCA CHIUSA

La i. ss pa e du a a nt pu e ch co mi ne io ch oc d' sa fu in Afonia ra pa se in Ma . de ca ac o tt tu sì co o: mp cosa cade recisa dal te a. is ec pr za en er ff so la o rp co l de o hi sc vi l bile male è da e all la co ma e nd fo n no e: mb ga le a in lc ca Non arde, e neio ch oc d’ sa fu in —ne ma ri ia cc fa a all a nz me de e a ci ac br

mico che punta a due passi.

In ogni varco di tenebra inganna la notte dentro un arco di spanna. Se fosser quattr’assi di bara!

Stramaglia è di cuori, per la vita distruttori. Mùtila fossa - che se comunichi ai morti, senti in un

glùtine scivolarti: aspetta; e se nei becchini risperi, pòsano i bicchieri e dìnno mano al badile. L’occhio non scorge la nuca - ma il becchino sì, la sua buca.

E sulla gran fòssa squarciata, tumefatto rotolamento colmato. Con normale altalena, barelle per chi fortuna

trasporta. Ma verdelìvido cerchio alle dita degli occhi - svelle chi pena, e non sa dove tocchi. Né in giro lo sa, comfunque la} malia dei colpi conosca gli sbocchi e li fa.

Dall’urlo al silenzio. Nonsenso metodico. Vagliata follia, schedata di ràntoli — in solitudine sola gemitabonda

agonia. Tragedia lontana, da lungi: vicenda. Giornata. Nulla di nuovo: situazione invariata. 212

Eppure due labbra una bocca baciata lasciava; e il fiore cÒlto era un fiore. i Assenti figlioli di giorni presenti a divorare il padre;

tempo di nozze a sposare se stessi; oh giovinezza a ritornare vecchi! Colpevoli fummo per non sapere. Così scontiamo perché il mondo esiste: ma non era preteso nascendo - picco-

li giri di una sola volta, e qui immane su noi ruota del sempre. Amor che dà una pàlpebra al sole - e c’era un frutto per la nostra gola; e lusinga di mare c’era a salire una sponda... Croce di terre su acque sfatte c’è: e cieca sprofonda se tu la vuoi salire. Se fosse un crocicchio, la croce - e un uomo desse la

strada! Verso una casa la strada. Una soglia di casa... Busserai? Così pronta accorre la morte! Ma sono docili i morti: sanno la cosa. Non correranno più. Busserai? Torva la vita cacciò. Sono implacabili i vivi: non sanno la cosa. Cacceranno ancora, scacceranno sempre. Ma busseremo noi se avanzerà anche sola una mano busseremo: atroci bussare, accorati bussare. E forse qualcuno aprirà: chi aveva schiusa l'attesa.

Forse una donna, se spalancato avesse il suo cuore.

ela

ARCHE DI NOÈ SUL SANGUE

l ne to na so er sp e ch o un da la ro pa Accogli, Brigata, una e , mo uo te en lm bi na sa in ia av tt tu ne ma ri o mp male del te

ogi ra di tà ci pa ca né e ar ic ud gi di o tt ri non si riconosce di ci ta a un a a lg va ui eq e ch a, mi n no me co la ro nare. Una pa o, nt me mo co po o di er vv da sa co r pe e a; us ff a di nz ie ta cosc co vo ui eq do mo in ta it of pr e ch là in ù pi un di ce ma indi

de an gr ta vi a un re la mu si r pe ra ’o ll de ne ma za im en rg ’u ll de e veloce.

Pullulano in Italia rivistine di giovanotti, che vogliosi possono scrivere ancora; e poco male: si pubblica tuttiquanti, appena si può, e per tante ragioni; non sempre è dato di fare e star zitti - eppoi è cosa tanto innocua e civile, mentre scoppiano cuori e granate, che riconforta. C'è

chi lucra vanità, come chi ideali e denari. E l’epoca moltiplica il gusto delle guerriglie e invoglia gli aspiranti alle milizie della reciproca vanità, senza stellette né stelle, fino all’epidermide senza intacco di pelle, ma con ostentazione di riesumati galloni per lo sfoggio dei corsi e nei caffè,

tanto per sentirsi € risentirsi. Va bene. E va anche bene che a chi piange e muore faccia da correttivo chi ride e vive; e l’arze (non so che sia) balla per conto suo, senza guardare da che parte ven-

ga la musica. Per il “mondo intellettuale” poi, la guerra è oramai affare liquidato, salvo le pendenze morali, ed estetiche; la sua capacità emotiva è esaurita, o attende semmai

qualcosa di nuovo e di più forte. Del resto è fenomeno comune a tanta parte di umanità che sta ancora in terraferma - vuoto incosciente “di ciò che sta succedendo”, e 214

che fu scambiato per forza d’animo e baldezza vitale. Fossero appena stati tutti a rancio fin dal principio!

E forse è caduto il vento di guerra, e l’urto si è ringoiato come agitazione — la quale formerà le ondate più vaste

e terribili, che sogliono crescere e rovinare quando la tempesta ha persa in rabbia la sua voglia. E capisco come in tale mare saliente, chi possa bràncoli a modo suo verso una tavola di salvezza — e si moltiplichino così le arche di noè, e tentino parecchi di farsene patriarchi: e famelici a qualcosa, si insidino vicendevolmente, vincendo la nausea

e il pericolo di questo mare - che è saliente di sangue davvero; e non per imagine di predicatore. Ora, Brigata, vuoi accogliere questa parola da un Lazzaro, che chiamato venne a te senza intenzione né parte? vuoi generosamente prendere l’iniziativa di un esempio o, non potendo, morire? tagliar netto alla “boria” e offrire anche solo un pane, nutrimento a qualcosa di più che è in noi e dappertutto? Cosa significa la persona, quando non

è pretesto di una nobiltà? a che giova metter sul trono o soffiar giù latte natural poppante qualche frìscola d'uomo,

che creatura la altrimenti ben succhia abbassa alza quando è in noi e dappertutto? Aver la forza della propria miseria o umiliazione - la lealtà di affrontare il proprio vuoto: ma rispete superbo troppo di qualcosa dire vuol forse questo toso insieme. Non finisco.

213

RINTOCCO

La casetta s’inspelonca. Sinistro rumor di silenzio. Qualcosa accadrà: terrore se avvenga, terror se non venga. Chi aspetta? Cosa aspetti? Alone di notte schiaccia i tetti. Demente barlume — e perline e perline che zampillano ferme: lampada accesa di nero sugli occhi.

Non c'è la falda di grazia, di là, sul divano; non muove dormendo la mano a quetarmi d’un gesto impaziente di sogno. Insonnia di cose recise. La campana è caduta sul técco.

1916

216

VIATICO

O ferito laggiù nel valloncello, Tanto invocasti

Se tre compagni interi Cadder per te che quasi più non eri,

Tra melma e sangue Tronco senza gambe E il tuo lamento ancora,

Pietà di noi rimasti A rantolarci e non ha fine l’ora,

Affretta l’agonia, Tu puoi finire, E conforto ti sia Nella demenza che non sa impazzire, Mentre sosta il momento, Il sonno sul cervello, Lasciaci in silenzio — Grazie, fratello.

1916

217

Apro finestre e porte — Ma nulla non esce, Non entra nessuno: Inerte dentro, —

i

Fuori l’aria è la pioggia. Gécciole da un filo teso Cadono tutte, a una scossa.

Apro l’anima e gli occhi Ma sguardo non esce, Non entra pensiero: Inerte dentro, Fuori la vita è la morte. Làcrime da un nervo teso Cadono tutte, a una scossa.

Quello che fu non è più, Ciò che verrà se n’andrà, Ma non esce non entra

‘Sempre teso il presente G6cciole làcrime a una scossa del tempo.

1917

218

dc

È Bipeich:non mibaitade) Se tu mi baci E perché non ne Così, se sono mesto, Così, se sono lieto,

Se oggi è troppo presto E dopo sarà tardi. Ma pròvati a chiamarmi -

Da te io fuggirò: Ma proòvati a lasciarmi Con te io resterò. Così, se sono mesto, Così, se sono lieto,

Se oggi è troppo presto Domani sarà tardi. Doman che con la morte

A far l’amore è tempo Soltanto che mi lasci

Da lei io fuggirò: Soltanto se mi chiami Oimè ci resterò.

1947 219

VANNO

Cade il tempo d’ogni stagione, E autunno è un nome.

Salma di pioggia, Terra, e una gora In cateratta al fosso Il cielo addosso. Sotto torbido pelo

La gora impigra Dove non trascina: Tra vermi e pesci

Alghe patètiche, Sputi di rane Per sinuose tane, Tenaci ristagni E a ritroso sgomitanti ragni Sìmulano la corrente, Ma non si dànno.

Minuzie e foglie Alla rovina intanto Perché non vuole in sé ciascuna Vanno:

Movendosi ancora Non sembran perdute; Riviere e piante Non sanno fermare; Salma di un nome,

Stagioni cadute, 220

i

BUT,

RIA

È

221

FONTE NELLA MACERIE

re rga sgo a a cqu l’a , c'è re mp se e ta, vol a un a cer Gluglù, e la fontana più. Dicitura dell’èmen sul paese che fu.

Finestre e soglie, al fossile ritrovo delle strade — ma insegne a dettar legge son rimaste; e a dritta, a mancina,

scritte di botteghe spàcciano la rovina. AI cielo spalancata ora la chiesa - breve inferno di santi; giù dalla croce, crocefisso Gesù. Obelisco del caos, il campanile muto: rincorse il suo

clangor nell’aria la campana, e l’ha perduto. Risorto il cimitero - incombe - in libertà di scheletri le tombe. Gluglù, c’era una volta, e sempre c'è, nel forato silenzio l’acqua che va giù: cammino ancora a chi non sa il destino — dal curvo spillo, spruzzi dàn spruzzi, cerchietti ric-

ciuti, gcciole in gingillo, sorsate d’eco, perché? - e viene e va — perché? — e sì e no - per dove è spreco non s’attinge più.

1916

222

SERENATA

DEL ROSPO

Arsa bufera a mezzodì Dal ramo estremo

Usignolo in barbaglio Nella fratta è sceso: L'utile rospo, lì,

Spalanca la sacca. Con singhiozzo canoro Tra salto e volo

Per fuggirlo avanza -

Gli si caccia in gola: Il rospo, inghiotte; Poi, quando pace Nostalgica accorda Notte e aurora, Dalla sacca compiace

Un tono di mandola.

1917

223

CA’ DELLE SORGENTI

Tutto ascendeva, Congiunto, discosto, I monti e la sera, Presenza del cuore nascosto, Lontananza del fior sullo stelo. Al varco dell’ombra e del cielo Scoprivo lo spazio alle cime,

Che hanno confine Ov'è l’inizio più vero.

Ma fiducioso abbandono, L’amico posàndomi

Il braccio alla spalla Dava curva dolcezza Al cammino, Lo slancio e il ritegno:

Ebbrezza a galla Di passi lenti

Verso il tuo segno Che invita e sfuma, Ca’ delle Sorgenti. Dentro, era perla di buio Sulla dormiente beata: Piuma di coltri alle trecce, Respiro a livello dei sogni. Per dirci il silenzio, 224

Sorgiva e mirtilli Io offersi all'amico E stringemmo l’addio Per un tràmite infinito.

Allora la perla del buio

M’avvolse in bagliore di sguardo: Per tutti era là, Impennamento costrutto

Di sonno distrutto,

L’Aguglia Nera Dell’eternità; Ma una nuvoletta svelava

La grazia leggera Dell’àttimo, che svaria A lei trine nell’aria.

Spogliarmi fu quasi preghiera: E bisbigliava la Dora, Che sa di notte svestirsi Fino alla vena sua pura. Scivolai nel tepore Di coltri e di sogni E già dal guanciale passava Sull’òmero mio da sola La testolina dormente; Ampliandosi il petto, Io giacqui alitato così, Custode del mondo

Lo sguardo fluì La perla notturna Tornava all’anello

Che cinge il creato, 225

L’anello di spazio, perenne,

Sgorgante la veglia nel sonno Ch'effuso mi tenne.

In riva al fiume Dora di Val Ferret

226

ITALIA

{traduzione da Gògol’}

Italia - magnificente paese! Per te l’anima geme, e si strugge: Tu sei paradiso, tu piena letizia, E in te smagliante amor ha primavera.

Fantasticando l’onda fugge, fiotta E prodigiose rive bacia; Rilucon bellissimi i cieli, Avvampa il limone, e spira l’aroma. *

Da ogni parte ti avvolge l’afflato, Dovunque l’impronta dei tempi riposa. E il viaggiatore si affretta Da plaghe nevose, già ardendo,

E il grande creato contempla: L’anima ferve; intenerir si sente, Trema negli occhi una lagrima inconscia:

Assorto nel cuor sognatore Attinge l’eco di remote cose.

Del mondo qui la fredda vanità inabissa, Non si snatura l’orgoglioso ingegno; In iridato nimbo di bellezza Più terso e acceso il sol va per lo spazio. Mirabili visioni, mirabili clangori

Qui il mare in pace all’improvviso effonde: 227

Trànsito vivo di nubi lo svaria, Il verde bosco, e la celeste volta. *

Ma notte, notte, in estasi respiri:

Come dorme la terra, inebriata e adorna! Appassionato il mirto la sfiora; E tu, alta sul mondo, luna

Fùlgida guardi, e meditando ascolti Come gorgogli l’acqua sotto il remo, Come su dalle aiole si espanda un concento, Che incantevole lungi risuona e fluisce. *

Terra d'amore e mare di magie!

Nel mondial deserto giardino di luce! Giardino dove tra il vapor dei sogni Vivon Torquato e Raffaello ancora! Ti vedrò io, trèpido d’attesa?

Radioso il cuore, sgorganti i pensieri, Mi brucia e seduce il tuo soffio: Io nel ciel tutto pàlpito e suono!...

228

CENNO

ILLUSTRATIVO

La lirica “Italia”, che Nicolài Vassìlievic Gògol (1809-1852) scrisse giovanissimo, apparve nel marzo 1829 sulla rivista “Il figlio della patria”; e con un lungo idillio d’imitazione, più qualche altro verso insignificante, costituisce tutta l’opera in rima' di questo poeta, che incanalò ben presto la sua sorgente nel corso torrentizio della novella e del romanzo, fornendo così

la prima grande massa d’acqua al fiume centrale della letteratura russa.

Era il tempo nel quale (per impedire la rivoluzione spirituale moderna, politicamente fiutata dagli uomini di governo eu-

ropei, oltre le ribellioni locali già pullulanti) si andava costruendo in Russia un gigantesco sistema di sbarramenti e osta-

coli contro il crescente flusso sociale, ancora quieto ma inquie-

tante. Nicola I, e il suo ministro Uvàrof, ne divennero gli accaniti e maldestri idraulici, pur riuscendo a trasformare la corren-

te in una dilagante palude; ma i getti che sfuggivano dagli interstizi, e dalle falle, si fecero, per l'aumento di pressione, an-

che più potenti e terribili, tanto da sgretolare e scardinare non solo l’armatura della costrizione, ma le basi stesse della convi-

venza; fin che, aggiungendosi forze a circostanze, si giungerà all’odierno sfasciamento e straripamento. Questa lirica ci rivela appunto un Gògol, ancor candido e

fresco, che soffoca nella immobilità cupa e afosa di questo periodo iniziale. E si protende verso una libertà di creazione, che

egli deve esaltando cercare lontano, quasi nel mare di un'esistenza già redenta e più gioiosa, fuori dell’angustia dei mali aggiunti dagli uomini, dopo però che questi saranno stati sofferti sino all’ultima goccia. Non

conosceva

ancora l’Italia, che in

Roma gli feconderà poi, ben altrimenti, le Anzmze morte, il suo capolavoro; ma gli arrideva come pegno e fiducia di risurrezione, mentre sognava per sé la gloria in una smisurata virtù di bene alla sua patria, dentro la Patria dello spirito. Il suo temperamento,

avvampante

€ vertiginoso da giovane, si foggiava

che generosa sensualità una di simbolo lema, un’Italia-emb poteva purificarsi nella bellezza, rivelatrice di una religione nati. fossimo questo a che pareva gli E attuata. poeticamente 1 Questi componimenti furono inseriti, come Saggi giovanili, nella raccolta

1x, . vol 0: 190 go, bur tro Pie di ne zio edi r. (cf l go Gò di re ope le del completa pagg. 49-50) [N.d.A.].

229

Ma, sotto l’incubo della vita, l'entusiasmo gli finirà invece in un senso incomposto di flagellazione ascetica, retriva per difesa, consumando, fino a impazzirne, il suo grande cuore inappagato. Per quel che ci riguarda, noi italiani dovremmo accogliere questa poesia con intendimento commosso e ammonitore, anche se oggi possa apparire una vana esercitazione, per altro canzonatoria, nel genere del pittoresco, o muovere a un risolino agrodolce. Del resto, sotto la romanticheria ingenua, Gògol sfiora quel segreto carattere che, in un’età meno belluina o mercantile, potrebbe in un modo nuovo contraddistinguerla, quando ciò fosse sentito nella sua portata interiore; allora, mondata dalle sostanze impure e venefiche, la parola Italia sa-

prebbe ricreare un significato semplice ed essenziale di patria, quel senso umano da cui nasce il divino. Aggiungerò che ho interpretato roskosorz7 (propriamente lussuoso, fastoso, sontuoso) coi due aggettivi magrificenze e smagliante, per rendere l'intenzione, e anche il suono, che sono riposti nel testo russo. E vi accenno per notare come Gògol fosse predisposto a quel gusto per il fantasmagorico, che lo distrarrà sulle prime in Roma, deviando la sua angoscia religiosa

più tardi; egli fu infatti, come artista, principalmente colpito dalla grandiosità sfarzosa delle manifestazioni rituali, dalla

pompa prodiga dei signori, dall’entusiasmo colorito del popolino di Roma papale. CLEMENTE RÈBORA

230

[VERSI]

Quel che ammonirono i libri santi,

i nostri profeti traditi, ecco che viene avanti l’antiCristo, con falsi riti.

Quel che pensammo: — non può accadere, terribile se avvenga — ecco che avviene, senza sapere

fin dove la viltà si arrenda. Si lasciò dire: — Tutto è permesso, si vive una volta sola — ed ecco, l’inaudito è commesso, il fatto annulla la parola.

Ma chi si eleva sarà salvato, chi serba fede all’umano, chi nel diluvio tenderà la mano al mondo naufragato.

Solo l’arca del cuore salverà dal diluvio morale chi non teme se muore

l’egoismo fatale. Il cuore dell’arca è la donna: se afferma la legge materna

dei popoli sarà madonna, 231

atiranino levie; Il vecchio mondo disfatto materia al nuovo darà — verso il divino patto, che è Via di Bontà. C'è tanta bontà nascosta

| che non osa uscir fuori: attende s’apranoi cuori a un’umana risposta.

1926

292

FSE

NINNA

NANNA

DELLE RISAIUOLE

LOMBARDE

Ninna qua, ninna là, Ninna nanna ninna nà, va nel sonno, anima mia, c'è la Mamma cè il Papà, c'è una Mamma sulla tua via,

che nel buio ti veglierà, avanzando in armonia, la tua notte si schiarirà, e il tuo bel cuor sarà svegliato in verità;

C'è un gran giuoco in mezzo ai guai, che fidando scoprirai, c'è una luce laggiù, in fondo, che fa cenno a questo mondo, meritando 2 poco, a poco la tua vita giocherà, e sfavillerà. Non temer, se l’ombra spia, ché il tuo sole spunterà, segui ben la voce mia, l’ansia tua si snebbierà, e il tuo cuor andrà, dove il mio pure va.

233

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ì d e r g o r p e r o m a ’ l l e n u f o t i n u e h c e u Q

[Perla tomba di un soldato mortoinguerra nel 1916}: Non disse alla morte: «Tuo sono». Disse alla morte: «Mia sei!».

;

>

[Traduzione di due versi scritti divettamente în russo): «Non piangere, non piangere, vicinissima al mio cuore,

l’amore è speranza di Paradiso». 1923

234

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:

E Serafina nido per giornate, Balaustra di verde alla pianura In lene abbraccio d’orizzonte ai colli; Ma fra viottoli e stalla anca un cortile:

Con poca cosa, rustico giardino, E vasto intorno vasto brusio

Di quanto sotto il cielo è creatura. Terra che rude lo spazio respira,

Dai campi ai cuori semina e raccoglie A vicenda una vita fluendo

Sulla guida del tempo anche è lavoro, Fior di quiete, libertà con frutto, È Serafina un umile ristoro.

Clemente alla fraterna cugina Maria

Giugno 1917

[Scritto alla Villa Serafina}

235

Quando fluisce il fiume da sorgente

L’argine è guida, è fratellanza il ponte: Ogni goccia si fa nella corrente Verso la foce, e libera si fonde.

Quando imperversa la fiumana in pena Ai piloni del ponte più si stipa: Par ch’essi vadan contro la gran piena, E l’argin neghi l’ora ch'è suprema. Ma se tra fonte e foce han dalla vita

L’argine e il ponte base buona e salda, L’un nel passaggio il bene in alto addita, Materno l’altro salvando si salva.

236

Mentre lavoro nei miei giorni scarsi,

Mi pare deva echeggiar imminente

Una gran voce chiamando: Clemente! Per un’umana impresa ch'è da farsi... | E perché temo che risuoni quella Quando dai miei fratelli io fossi assente, Monto, senza sostar, di sentinella

Nel cuor disposto a servire la gente. 1926

257

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“la vita a un bendi sorelle e fratelli. nell’opera materna del presente; | *

una tal pena un tal cruccio accorato

di urtare prima dove si separa la divina unità che solo è cara,

e far quanto inimica, non pensato;

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RA

|

:

una voglia di correre a cercare chi offesi, i nostri, tutti i vivi e i morti, e chiedere perdono dei mici torti,

e la bontà, che è dentro, palesare.

238

Da un pezzo dico: — far da concime — Ma poi, confesso, presumo le cime; E in Dio allora affondo cuore e ingegno Per morir come re nascendo al Regno.

Ottobre 1927

239

Scritta dietro invito della bimba Oreide Presenzini che la recitò per le nozze di un cieco di guerra in Merate.

Sono appena una bambina, Ma il mio cuore vi vuol bene: Sono un’anima vicina

Per dar gioia nelle pene. *

Tu non guardi più dagli occhi, Ma ben vedi in sentimento; Star dobbiamo ai tuoi ginocchi Perché soffri e sei contento.

Per la patria tu lasciasti Della vita ombre e splendori: Ma la luce che donasti Farà gli uomini migliori. *

E tu, buona e dolce donna, L’accompagni intenerita: Sacra come la Madonna Benedici in lui la vita.

Mentre andate cuore a cuore

240

Dio vi salva dalla sorte:

Quel che unito è nell’amore Progredisce oltre la morte. *

Sono appena una bambina,

Ma in me parla una gran cosa: Parla l’anima divina Che fraterna oggi vi sposa.

1923

241

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Nella nebbia il mio tripode lùccica, In volo s’estinguon faville — Nessun c’incontrerà di notte;

Sul ponte ci diremo addio. *

Diletto falco, per congedo Regàlami un anello, E nel viaggio lontan mi butterò Con l’anellino sul seno. *

Chi sa doman chi mostrerà la via, Chi donerà l'anello, Chi d’un bacio premierà

Le dolci gote.

Chi sa doman chi mostrerà la via, Chi, tesoruccio, domani

Sul mio seno scioglierà Il nodo stretto da te.

dal russo: veste poetica di Clem. - marzo 1916 242

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IL SACERDOTE

Il sacerdote è come una campana Che vien dal Santo Spirito percossa

Perché chiami a Gesù la gente umana. Il sacerdote è come il buon lumino:

Quando l’altare è solo, e i ceri spenti, Sempre, per tutti, a Lui arde vicino. Il sacerdote è come vetta pura Che dà l’altezza al monte dei Cristiani:

Più presso è al ciel, ma in solitudin dura. Il sacerdote è come una radice Che stilla e spreme la linfa nascosta Perché dia frutto la pianta felice.

Il sacerdote è come ombra al sole Che segna e segue il moto della luce, Luce che è Cristo in opere e parole. Il sacerdote è come un usignolo Che la terra risorta in primavera Lodando invita a sollevarsi a volo.

Il sacerdote come fiume muove

A quella foce, o morte, ove è l’eterno. Poi che la terra è sol passaggio e prove.

245

Il sacerdote è come una cascata:

Avviva l’acqua, mentre s’inabissa Confuso in umiltà per tal chiamata.

Il sacerdote è come vela al vento Che sostenuta all’albero è potente; A sé, è un cencio: con Gesù, portento.

Il sacerdote è qual porto e difesa Nel mareggiar del mondo contro Cristo: Stende le braccia della Madre Chiesa.

Il sacerdote insegna vera storia Al mondo illuso che corre alla fine: La volontà di Dio e la sua gloria. Il sacerdote è il Cristo necessario Che per la Croce salva l’uom perduto Con l’ineffabil grazia e il suo Vicario.

Il sacerdote ha quel saper che è lume Di santità: saper che acquista Cristo Nel prezioso tempo, e non presume.

Il sacerdote sta come diviso Fra Cielo e terra: e mentre cura il mondo, Invoca i Santi in slanci al Paradiso.

Il sacerdote eleva l'innocenza Del Battesimo ed è in custodia ai puri; Ma dove è macchia, geme, in penitenza. Il sacerdote è tutto una preghiera Che sal non vista in sacrificio a Dio: Così snerva il demonio, e la sua schiera.

246

Il sacerdote senza tregua chiede Perdono e rende grazie al suo Signore: Da Lui riceve quanto egli ama e crede. Il sacerdote è l’amico fedele

Di Gesù Cristo in chi patisce o langue; E dove trova fiele, egli dà miele. Il sacerdote è carità che nella Guerra al peccato a ciascuno dà pace: E tutti in Cristo i popoli affratella. Il sacerdote è il primo caro acquisto

Del Divin Sangue; e avvera il regale Sacerdozio che il popolo ha da Cristo. Il sacerdote è il Sacro Cuor che beve Il nostro sangue infetto dalle vene E del Suo intatto le arterie ci imbeve.

Il sacerdote è come Cristo a Cena: Ringrazia Iddio, benedice e porge La vita eterna; e si addossa ogni pena. Il sacerdote cosa possa o sia, Non sa; come ardirebbe far di Dio Cibo alle anime? Oh Santa Eucaristia!

Il sacerdote è tal che va distrutto

Dio adorando; e sé piangendo dice: «Io non merito nulla, Gesù tutto». Il sacerdote splende nella Messa: Offrendo al Padre il Figlio del perdono Con Lui s'immola, e in Lui, dono e promessa. 247

248

LA CHIESUOLA

DELLO SPIELBERG

(Riduzione da Silvio Pellico

“Le Chiese”)

Grazie, o chiesuola ai prigionieri amica, Dove in preghiera fra catene e pianto

Risuscitasti la mia fede antica Nell’assistenza del tre volte Santo! Un giorno venne - fortunato giorno In cui, tratto per poco, dal mio chiuso,

Rividi il Tabernacolo, soggiorno Di Chi nel Ciel di gloria è circonfuso. Dolce, Gesù, con amor inesausto Da quell’altare mi parlò nel cuore; Per me si offerse al Padre in olocausto; Poi, nel mio sen discese il Salvatore.

E tale in quei momenti era il baleno Della divina luce in me raggiante,

Che il patir mi sembrava gaudio pieno E lieve il ferro al piede sanguinante. Ah troppo presto si compì quel rito!

Strascinando tornai alla mia cella.

Però quel giorno, tutto amor rapito In Dio, non bramai sorte più bella.

249

MATER CLEMENTISSIMA

(Riduzione da Silvio Pellico

“La madre degli afflitti”)

Tu, così pura, non respingi i cuori Che a Te sorgon macchiati: ma col Figlio Salvarli vuoi dal mondo dei dolori.

Oh, volgi anche su me quel divin ciglio Che sempre da clemenza è intenerito Verso chi prega dal suo triste esiglio!

Io t'amai da fanciullo; indi partito Da Te sembrai: ma spesso a Te pensando, Dei lunghi errori miei gemea pentito;

E in quei giorni di dubbiezza, quando

Torbido e perso nell’orgoglio mio Segretamente m’andavo crucciando, Un bisogno invincibile di Dio

Talvolta m’assaliva; e già credevo Che sol da Te mosso a sperar foss'io. Dentro una chiesa allor mi ritraevo

Cercando la tua immagine; e in quel viso Soave e celestial io tutto ardevo

Di farmi santo sino al Paradiso.

250

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LA CHIOCCIA

Ergo dum tempus habemus, operemur bonum. S. PAOLO

Veglia sovrana la chioccia: richiama I pigolanti batuffoli in lotta Dei suoi pulcini: li raccoglie, li ama Dilatata su tutti: or son contenti In un tepor di vita. Fuori annotta; Paura è intorno con stridor di denti. Dal ciel proteso sulla terra avvolta

S’ode un divino gemito d'Amore: «Oh quante volte - ed anche questa volta -

V’ho chiamati, fratelli, sotto l’ali, Figli di Dio, con vittoria contro Il serpe antico, concordi e immortali.» La fine delle cose si avvicina... Lo Sposo, ecco, è alla Reggia: «Anime, incontro!» Con Lui le vive van; fuori è rovina. Chiuse le porte. Accorrono le escluse: «Signore! apri! apri!». ode dall’eterno: «Il Sangue mio invan per voi si effuse!»)

Oh Son Oh Nel

senza Te, Gesù, le nostre pene già principio in terra dell’inferno! Padre nostro, scenda il Tuo perdono fraterno soccorso! Oh facci buono 251

Rod

ANNUNCIAZIONE

Eternità vivente in sé sta Dio: Amor di Padre Amante e Figlio Amato: Si bea. Invita a nozze

L’umanità. «No!» Sozze Lusinghe; e muor, si perde. Urge al creato

Cristo, mistero di bontà: noi Dio.

II

Verginalmente a sé prega Maria; Silenzio è intorno nella notte immensa. Si immola, avvampa in cuore:

«Conoscan Te, Signore, I miei fratelli!» S'inabissa, pensa L’Agnel divino: «Oh, vieni! Così sia».

III «Ave...» L'Angelo è lì. Forse l’atroce

Che sedusse Eva? «Non temer, darai Alla luce Gesù». «Come? Non so quaggiù». «Tutto può Dio: di Spirito avrai Il Suo figlio». «Ecco. Sì». Fulge la Croce.

253

LA SPERANZA

Speravo in me stesso: ma il nulla mi afferra.

Speravo nel tempo: ma passa, trapassa; In cosa creata: non basta, e ci lascia. Speravo nel ben che verrà, sulla terra: Ma tutto finisce, travolto, in ambascia. Ho peccato, ho sofferto, cercato, ascoltato La Voce d'Amore che chiama e non langue: Ed ecco la certa speranza: La Croce. Ho trovato Chi prima mi ha amato

E mi ama e mi lava, nel Sangue che è fuoco, Gesù, l’Ognibene, l’Amore infinito, L'Amore che dona l’Amore, L'Amore che vive ben dentro nel cuore.

Amore di Cristo che già qui nel mondo Comincia ed insegna il viver più buono: Felice amore di Spirito Santo Che trasfigura in grazia e morte e pianto,

D’anima e corpo la miseria buia: Eterna Trinità, dove alfin belli - Finendo il mondo - saran corpi e cuori In seno al Padre con la dolce Madre Per sempre in Cristo amandosi fratelli, Alleluia.

254

Così aria speranza po a Ea Silusioni giunge in fine crude. | la

Il monte spera mentre ascende alÈ E primo è al sole, nel:vento e nel gelo.

Tal lasperanza in Cristo fa sicuri Per la croce alla gloria i cuori puri.

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AMOR DAMMI

L’AMORE

Nel Sangue Tuo, o Signore, ci hai redenti da ogni tribù e lingua e popolo e nazione: e ci hai fatto Regno a Dio nostro. Apoc., V

«Amor dammi l’Amore!»: un mormorio

Di gente in pena. L’Ostia, in alto, casta Attrae i cuori: «Sì, vivere è Cristo». Mentre rovina il mondo all’antiCristo, Per noi la donna è la Madonna, e basta

A noi Gesù, fratello, e tuo e mio. Crocifisso, al trionfo, corre il Regno

Dei Cieli. Amarci in Te, soave pegno Del tutto in tutti, Trinità di Dio!

256

V CANTI DELL’INFERMITÀ (ottobre 1955 - dicembre 1956)

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PENSIERI

La misericordiosa bontà di Gesù Crocifisso mi tiene ancor sempre sacerdote attivo: non potendo più celebrare il

Sacrificio dell’ Altare, mi fa celebrare il Sacrificio della Croce. *

Far poesia è diventato per me, più che mai, modo concreto di amar Dio e i fratelli. Charitas /ucss, refrigerium crucis. Novembre 1955

Il mio pregare è divenuto una invocazione muta, inter-

na, di ogni momento.

Ogni vero poeta (e pochissimi sono) - e a lui si aggiunga ogni artista, o semplicemente artefice, ché veramente al Divino Creatore dovremmo riservare la qualifica di Artista — è unitotale, sia pur ristretta di numero l’opera sua; egli ha in proprio il suo non comunicabile genio personale innestato nell’elemento unanime e perenne della cultura e della civiltà del suo tempo; per cui, questo elemento universale - e quanto più è purificato d'ogni ingombro

contingente - lo fa diventare un classico. 13 ottobre 1956

239

Da una lettera al fratello Piero, che lo sollecitava a tornare a comporre poesia (12 nov. 1950) ... a Me è parso avvertire questa mattina, mentre ero nel

ringraziamento dopo la S. Messa... che la poesia... è uno scoprire e stabilire convenienze e richiami e concordanze tra il Cielo e la terra e in noi e tra di noi... La poesia... intesa in modo totale, ossia cattolico, è la bellezza che rende palese, come arcano riverbero, la Bontà infinita che ha sì gran braccia...

. uscendo da una lettura di poesia (e qui bisognerebbe dire delle altre arti, ciascuna col suo dono sublime, e della

musica che nei grandi è quasi donazione di carità) ci si potrebbe sentire incoraggiati al bene e all’eterno...

260

tati DE

Retna [Riano TeA dentro, | tutto finiscein cupa nebbia spento. | Orrore disperato, Gesù mio, trovarsi in fin d'aver cantato l'io!

Se poeta salir, ma non qual santo,

-

perder di Tuo amore anche un sol punto, | oh da me togli ogni vena di canto, | senza più dir, nella Tua voce assunto!

- 30 dicembre 1955

261

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ELEVAZIONE

SPIRITUALE

Come bello, Signor, nel tuo creato! Ma sol nel cuore sei bellezza amante! E doni amor onde chi ama è nato a quella vita che in morir s’espande.

8 ottobre 1955

262

San:

*

frassino— fi

| approva, disapprova, > con lenta riprova —

tei

eh

dia

| la vicenda del vento;

e in fine sempre afferma il tendere massimo al cielo: richiama così la vetta dell’anima,

che alla Divina Persona si accosta O si scosta

nel transito del tempo verso un vertice eterno;

e misericordiosamente, ogni volta, si conferma l’unione diamore

per l’unanime gloria. Maternità di Maria {9 ottobre], 1955

263

Perché il creato ascenda in Cristo al Padre | nostro che sta nei Cieli e va chiamando, tutto quaggiù converge al Padre Santo che sta nell’Orbe mentre a Cristo chiama.

dall’Urbe, imagin del Pastore eterno. 0

S. COMUNIONE

Viene per me Gesù, ma tra fratelli: nel mezzo della Chiesa a me si dona

anche se solitaria è mia persona: vita nel Cristo, unanime con quelli.

264

La poesia è un miele che il poeta, in casta cera e cella di rinuncia, per sé si fa e pei fratelli in via;

e senza tregua l'armonia annuncia

mentre discorde sputa amaro il mondo. Da quanto andar in cerca d’ogni parte, in quanti fiori sosta, e va profondo come l’ape il poeta!

L’ultime cose accoglie perché sian prime; nèttare, dolorando, dolce esprime,

che al ciel sia vita mentre è quaggiù sol arte. Così porta bontà verso le cime,

onde in bellezza ognun scorga la mèta che il Signor serba a chi fallendo asseta.

15 ottobre 1955

265

| La Croce irraggia luce dal Calvario, — di nuovo posta da Rosmini al sommo:

dice in salvezza del mondo precario

che un solo Amore è vero e necessario.

Croce irradiante quella luce vera che sarà in cielo allor che ritornando Cristo rivelerà, così com'era

| in suo segreto, ogni anima sincera. Ora e presto, fratelli, sin che è dato

il tempo, onde tal grazia ci sia gloria: terror, Gesù, se adesso rifiutato, eternamente invan solo invocato.

Festa di Cristo Re [30 ottobre], 1955

Nell'occasione dell'accensione di un'alta croce issata sul Sacro Monte Calvario di

Domodossola, a testimonianza ossolana, în onore del primo Centenario della morte

di Antonio Rosmini.

266

Fatalità tremenda del mangiare

che grava addosso all’anima che vola! Tu sol, Gesù, sei Cibo ch’è parola di vita ov’è, in perpetua ascesa, amare.

31 ottobre 1955

267

Rintocca mesta la campana ai morti nel ciel brumoso tutto prono a terra; la nostra morte muore, e si disserra al Ciel la vita in Cristo pei risorti.

2 novembre 1955

268

SAN CLEMENTE

A te apparve, San Clemente mio, posto a morir coi martiri in esilio,

vita in prodigio, l’Agnello di Dio. Non m’avviene così; a morte anch'io, null’altro appare a me, mentre m’umilio,

che il corpo mio che si disfa vivo. T'avvii tu al mare che t'ammanta mentre invocano tutti il Ciel ti salvi: e, suo Vicario, dolce lagrimando, l’invocazion di Cristo tu ripeti: — Accogli, Padre, lo spirito mio — e l’ansito del mar fa coro immenso. Non m'’avviene così, che pur m’avvio, senza far pianto né sentir consenso,

in un mar di miseria a sprofondare.

23 novembre 1955

269

S. COMUNIONE

Inerte e informe giaccio con me stesso. Mentre Gesù all’universo intende,

pensier ha pur di me confitto in letto; e muove e tempo e gente, onde fedele con l’Ostia amante giunge nel mio petto: — Ricordi me! — esclamo con Daniele

allor che nella fossa vide cena.

Quasi a risveglio qualcosa in me vuole: Mamma di Paradiso mi raccoglie, mi eleva al Cuor del Figlio che m’incendia e al Trinitario Focolar rapisce in seno all’infinito amor del Padre. Poi, rimango io, con la salma in terra: afferrato da Lui, non l’afferro.

28 novembre 1955

270

... et de stercore erigens pauperem...

L’umiliante decompormi vivo sia l’indizio del Tuo vitale arrivo: pro tua pietate, Jesu, et misericordia Matris,

ad gloriam Patris.

Novembre 1955

271

AVVICINANDOSI

IL NATALE

Oh Comunion vera e sol beata, se con te, Cristo, sono crocifisso quando nell’Ostia Santa m’inabisso! Intollerabil vivere del mondo a bene stare senza l’Ognibene! Penitenza scansar, che penitenza! Se ancor quaggiù mi vuoi, un giorno e un giorno, con la tua Passion che vince il male,

Gesù Signore, dìmmi il tuo Natale di fuoco interno nell’umano gelo, tutta una pena in celestiale pace che fa salva la gente e innamorata del Cielo se nel cuore pur le parla. O Croce o Croce o Croce tutta intera,

nel tuo abbraccio a trionfar di Circe, sola sei buona e bella, e come vera!

Abbraccio della Madre, ove già vince nel suo Figlio lo strazio che l’avvince.

1 dicembre 1955

272

NOTTURNO

Il sangue ferve per Gesù che affuoca. Bruciami! dico: e la parola è vuota. Salvami tutto crocifisso (grido) insanguinato di Te! Ma chiodo al muro, in fisiche miserie io son confitto.

La grazia di patir, morire oscuro, polverizzato nell’amor di Cristo: far da concime sotto la sua Vigna, pavimento sul qual si passa, e scorda, pedaliera premuta onde profonda

sal la voce dell’organo nel tempio e risultare infine inutil servo:

questo, Gesù, da me volesti; e vano promisi, se poi le anime allontano.

Bello è l’offrir, quale il fiorire al fiore; ma dal sognato vien diverso il fatto. Padre, Padre che ancor quaggiù mi tieni, fa’ che in me l’Ece non si perda o scemi! A non poter morire intanto muoio.

Il sangue brucia: Gesù mette fuoco; se non giunge all’ardor, solo è bruciore. Maria invoco, che del Fuoco è Fiamma; pietosa in volto, sembra dica ferma: — Penitenza, figliolo, penitenza: prega in preghiera che non veda effetto:

offriti sempre, anche se invan l’offerta; e mentre stai senza sorte certa, 273

umiliato, e come maledetto, Dio in misericordia ti conferma.

24 dicembre 1955

274

Tutto è al limite, imminente: per lo schianto, basta un niente;

da un gran vuoto tutto esorbita nel moto, anime, famiglie, consorzi; tutto è un farsi avanti

a spinte e a sforzi: IV

son contati gli istanti; - fuori la cosa cresce, e riesce;

dentro qualcosa s’infrange, e si ride e si piange. Un che sa, ed è dei capi (Nicodemo forse?) scorta luce ove è Gesù, all’oscuro s’inoltra, e in segreto, a tu per tu,

chiede qualcosa di sicuro. Tutto è all’orlo,

basta una goccia: e se trabocca... Oh, sia la goccia del Tuo Sangue! 13 gennato 1956

275

Lamento sommesso, reiterato lamento desolato lamento

di tortora in gabbia: miglio, acqua, sabbia, giravolte, sempre quelle, breve universo:

paradisino afflitto, mansuete tortorelle. Grazie, Signore, che solo basti al nostro volo.

Gennaio 1956

276

Terribile ritornare a questo mondo

quando già tutte le fibre erano tese a transitare!

E il corpo mi rifiuta ogni servizio, e l’anima non trova più suo inizio.

Ogni voler divino è sforzo nero. Tutto va senza pensiero: l’abisso invoca l’abisso.'

19 aprile 1956

1 L’abisso di miseria invoca l’abisso di misericordia {N.d.A.].

2077

VENTESIMO DI PRIMA MESSA

Quello che m’era emblema al sacerdozio - torchiato, e in agonia più pregava! —

or si palesa in atto senza scampo qui nel martirio atrocemente opaco: enorme spazio nero al mio vedere, come sospeso son tra lampo e lampo, tutto ozio di tempo, orribil peso. Stremato, dico a me, a farmi salvo:

Misericordias Domini cantabo.

Dal letto della mia infermità per il 20 settembre 1956 18 maggio 1956

278

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dara nel campo la falce (pieeti dogla sul fil di rasoio, e l’estate dilata il suo giorno: a t r o p | i az sp di he ng lu e es st di

; o n r o t n i i n g o ’ d i l e i c i d e

era

susurro di uccelli in profondo. II

La mia lunga giornata

da un meno e da un più è segnata: un giorno di meno che da Gesù mi divide:

un giorno di più che mi avvicina,

crescendomi anziano, lo spero, per il Cielo.

5 agosto 1956

279

«... e Sopra questa Pietra...»

— Baciargli i piedi! — mi dissi dentro, andando all’Anno Santo.

E fu in San Pietro, al seguito d’un caro in carrozzella, monco: in ginocchio, nascosto dietro il tronco dell’infermo, tutto aperto all’incontro,

vidi il Papa sostare a lui paterno, benedicendo: e io a contemplarlo! Così con altri; e già si allontanava... — Presto se vuol baciar la mano al Papa! — accanto mi si disse: e mi lanciavo...

Ma fiera guardia, ritta l’alabarda, con una gomitata spinse indietro:

negò l’accesso, in pieno petto, a Pietro. In me fu schianto e l’animo si perse: mi parve essere da Dio ricacciato,

le porte dell’inferno su me chiuse. Ma, pensando, il vero chiaro emerse: riparavo, con me, l’ambiente mio!

E gioia, e pace grande, in me si effuse. L’ Addolorata {15 settembre], 1956

280

RR

bra nel vento con tuttee leSe

ilpioppo severo:

e sue doglie i tuttca Btunimadin

LE, nell’ansia del pensiero: dal tronco in rami per fronde si esprime tutte al ciel tese con raccolte cime: fermo rimane il tronco del mistero,

e il tronco s’inabissa ov’è più vero.

7 ottobre 1956

nn n

281

«E DALLO STERCO ERIGENDO IL POVERO!»

Come è infinita d’umiltà la via, la via che qui comincia per un sentiero di rinuncia, e non giunge mai al vero, non concedendo l’io il non-più-i0 perso, divinamente, nel suo Dio!

10 ottobre 1956

282

IL MIO SGOMENTO

Ogni momento

del semplice vegetale fa dir di sì il vento, fa dir di no il vento: cessato il suo tormento, tutto ritorna senza sentimento. Ogni momento

si apre e chiude uguale e disuguale, sempre s’illude,

rimane il tempo: non cessa il suo tormento, rimane il mio sgomento, in ogni tempo.

5 novembre 1956

283

MADONNINA

Il portentoso Duomo di Milano non svetta verso il cielo, ma ferma questo in terra in armonia

nel gotico bel di Lombardia: mistico afflato va per le navate la Presenza del Verbo: e in tripudio di luce all’esterno nuova umanità saliente sboccia, e dall’Unica Persona in vertici di santi rifiorisce dietro il materno invito di Maria

che da Nascente si fa via via Assunta; e il popol definisce, e accosta a sé a farla più vicina, dice MADONNINA.

6 novembre 1956

284

Sono qui infermo; per finestra vedo

volar gli uccelli rapidi sul cielo netti di spazio libero, deciso, ove il moto conduce, agile e preciso: sono qui infermo; e nel frecciar di loro l'inerzia mai in libertà assaporo.

9 novembre 1956

285

Solo calcai il torchio: con me non era nessuno: calcarono su me tutti:

i

inebriato quasi spreco di sangue in una rossa follia: solo il torchio calcai:

liquido amore profuso in estremo furore, calcai il torchio, solo: solo a torchiare,

solo a spremere il Sangue mio: tutto il mio Sangue sparso, tutto in me già arso dall’immacolato Cuore di Maria:

invisibile ardore, quaggiù: l’incomprensibile amore del Padre. Gesù Gesù Gesù!

San Clemente [23 novembre], 1956

286

Sciamano le api: ingrossano spesse a un ramo di fico: così con Te, Maria: dove Tu sei, si aduna — la compagine dei figli di Dio, a Cristo fedele rimane la sposa. Poi se avvien che manchi

il motivo di vita

— l’ape regina ognuna è in sussulto, a cercare è in tumulto

il glutine della carità scomparsa, Colei che cuore a cuore avvicina,

Maria, l’Ape Regina: l’armonia è rotta tutto si rilascia,

tutto si scioglie, tutto in caos si risolve:

così con Te, così senza Te, Maria.

27 dicembre 1956

287

CURRICULUM

VITAE

Per Te, con Te, in Te, Gesù, ch'io veda

il Padre: e coi fratelli: un'cuore solo;

sti Tu, Spirito, l'ultimo respiro.

291

Lo Sposo ancor non viene; e il viver mio scende infermando, ma il Calvario ascende

se grazia aiuta e la preghiera assiste. Mentre lo Sposo indugia, il corso mio torna al ricordo (invece il resto è oblio) là dove più mi s'annunziava Dio,

che dà perdono per dar Se stesso in dono. Ecco alcun cenno ch’entro me persiste: Stavo solo a pensar da piccolino:

immensità si apriva al guardo mio; soffrivo esser vestito in gonnellino. *

Ero a ott'anni una bruna susina intatta ancora nella sua pruina,

l’ignorato Battesimo operando. Poi, venne il tristo momento: uno, a scuola, con turpe parola

mi scivolò in disparte un’imagine oscena: all'anima fu una rasoiata orrenda!

anche oggi, se ripenso, e n’ho settanta. *

Crescevo forte, tutto urti e frastuono: 292

{mamma scusava: 77 fondo, in fondo è buono. Ma bisognava pur esserlo in cima. *

Dal virtuoso familiar recinto, adolescente fuor tutto invitava: l’uman freddo dovere cenere era sul mio bracere; ammiccando l’enigma del finito

sgranavo gli occhi a ogni guizzo; fuor scapigliato come uno scugnizzo, dentro gemevo, senza Cristo:

Sola, raminga e povera un'anima vagava.

Parlando adulti, un disonesto detto

a profanar valse me giovinetto. *

Un dì, al ginnasio, della Fede ignaro, l’insaziata fantasia

dall’aggettivo clemens fu colpita gioendo dell’arcan del nome mio: Ens Mens Clemens, mistero di Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, eterna vita: e sol bontà è vita.

Murai, fanciullo, a forma di villaggio, con mota € pietre, e cinta e chiesa e case

293

a un fiume, e a un monte un luogo forte d’armi; s’abbatté la bufera, e non rimase

che tra sassi fanghiglia da imbrattarmi. *

Innamorando vagheggiai lontano un viso amato: e misi in salvo il sogno quasi fuggendo dal trattar profano. *

Imaginando m’esaltavo in fama di musico e poeta e grande saggio: e quale scoramento seguitava! *

Un guasto occulto mi minava in basso,

un lutto orlava ogni mio gioire: l’infinito anelando, udivo intorno nel traffico o nel chiasso, un dire furbo:

Quando c'è la salute, c'è tutto; e intendevan le guance paffute, nel girotondo di questo mondo. Ribellante gridava la mia pena: ho sbagliato pianeta!

Per ogni strada una fallace mèta, posticcio ogni traguardo; tutto era buono e tutto era cattivo,

errore e verità stavano al gioco; mille facce occhieggiavan senza sguardo; 294

le braccia tese a una fraterna intesa recise cadevano a terra.

O allodola, a un tenue filo avvinta, schiavo richiamo delle libere in volo, come in un trillo fai per incielarti

strappata al suolo agiti invano l’ali! *

Di superbia ubbriaca si avanzava

la guerra, come suol, femmineggiando; d’ogni parte, a ghermirmi, la lusinga: Perso nell’ideal, strada non fai... Cogli di gioventù l'ora propizia...

Afferra per il ciuffo la fortuna che ha la nuca calva... Come Adamo, sedotto, a farla mia precipitando a morte, proclamai: Scelgo la buona sorte... e nella frode del piacer caduto, sussurrava la gente scaltrita: Adesso conosci la vita.

Ed ecco il fischio dell’andata al fronte: Sibilla profetava: Giovani, avanti al rischio benedetto! Però, in trincea, chiuso l'orizzonte,

Moloch faceva pasto grasso.

Perso nel gorgo, vile fra gli eroi, spatriato quaggiù, Lassù escluso, 295

ruotando giacqui, mentr’era pugna atroce.

Isolamento è il mal che ne costringe come laccio alla gola, e più nessuno. Ma ov'era in covo il serpe del peccato,

appesa stava un’icona materna. E d’un mi accorsi: c'era Uno in Croce:

si struggeva a guardarmi in un'offerta soave: solo mi voleva bene;

più tardi intesi la Sua parola interna: tu m'aprirai la porta del tuo cuore ea tu per tu noi ceneremo insieme. *

Nella civil asfissìa,

architettando il diavol suo scompiglio, preso all’artiglio dell’io saggezza da ogni stirpe affastellavo, a eluder la Sapienza:

e quale sgretolio intanto! Non come fibre fuse in un sol tronco i miei pensieri, ma fascio di rami cui rotto il laccio ognuno a sé ritorna. Quando morir mi parve unico scampo, varco d’aria al respiro a me fu il canto: a verità condusse poesia. Però non ogni canto è buon respiro, né tutti i versi fanno poesia. *

Al sommo stetti d’una gran scogliera

per ore di secondi fuor del tempo proteso al mar convulso sotto il vento: montagne d’acqua in rombo fragoroso 296

l’una incalzata dopo l’altra urgeva in una gloria di creste e di spuma, e là nell’atto di toccar la sponda cozzando forte ciascuna con l’onda avanti già nel ricadere infranta,

con supremo assalto di vittoria avida saliente alla rupe immota, in un precipite schianto inabissava nel risucchio della nuova ondata balda al suo turno.

Quando fu tregua - poiché l’uom si spossa, ma ancor versava ira di parte il sangue fuggendo la città sorda al suo Duomo, sol me n’andavo dove a sentinella sta la Prealpe e al piano s’inanella;

ed ecco un vecchio, in dignità modesta - folte basette, béccole alle orecchie s'accompagnava all’andar stanco mio:

e al disperar delle parole amare, sapiente analfabeta, con un pio piglio mi offese la certezza: Dz0 lascia sì fare, ma non già strafare. Disse: sparve. Suonava una campana: emerse in quiete chiara la pianura; di nuovo m’inurbai, senza paura. *

Sgomento, un giorno, fra le nevi, a un passo, tra cupe vette sotto un cielo basso,

scorsi Cristo in imagine di rupe.

297

Berretto in capo, curvo sotto il sacco,

ansioso andando a contemplar ghiacciai, in un mattino alpino io sfiorai senza far cenno un alto Crocifisso.

Più oltre, avverto la testa scoperta: ritorno, alla ricerca:

stava il berretto al piede della Croce. *

Unanimi cori di rane lontane, insonni cantini di grilli vicini, in soffuso chiarore lunare

estroso erravo lungo una collina espansa quasi a chioccia sopra il piano... Rivolto a un tratto, come se chiamato,

sentii su me lo sguardo di Maria orante figurata in una nicchia: un intrico di rami mi costrinse a farmi piccolino, per vederla:

ogni cosa si tacque, e fu preghiera; mi ritrovai inginocchiato in pace. *

Tutto era irraggiamento al solleone:

cullato in barca stavo in mezzo al lago: svanì il creato e apparve il Creatore.

Quasi maestro agli altri mi porgevo; ma qualcosa era dentro me severo: 298

Ferma il mio dire, se non dico il vero. E un giorno - nel salon pieno quant’occhi! il discorso iniziato venne meno in una turbazion vicina al pianto: la Parola zittì chiacchiere mie.

La Provvidenza sue vie dispose: mi fece attento a Pietro e alla sua Chiesa;

dei martiri la Fede venne accesa.

Il Signore prepara, e poi dà il via. Nell’ora che la notte figlia il giorno, furtivo, accoccolato al terrazzino, in un pensoso incanto, a mirar stetti

te, sfavillante stella del mattino: brillavi, lì vicino, sopra i tetti:

la non appresa preghiera in me pregando io ti chiamavo già come Maria. *

Sotto gran peso, a notte, solitario

salivo per la valle a valicare. Vasto stormire al soffio dei versanti il mister preludiò del nuovo giorno; e dalle cime e d’ogni intorno il sole tra campanacci e pascoli per boschi scese al torrente in un luciore intero.

Andare e andare; sin che fu meriggio nell’alta chiostra d’un monte severo: e al mio sbucar sovra un pianoro a specchio d’acque raccolte tralucenti al fondo, irruppero su me montoni in cozzo leccando il sale nel sudor del volto; 299

una pecora stava, e un agnellino - stretto al turgor del latte —- la poppava. Restìo riprendo, dopo il cibo, l’erta:

erta nevata alla suprema altura: e su e su per la montana asprezza. Or è spettrale transito di nebbie: il valico, lassù: se ascendo, ascende. Sopor mi prende, già scorato e affranto.

Un brivido mi sveglia alla foschia. (Addio mèta... né forse sei lontana!) Sull’ipnotica neve quasi annotta;

nel fluttuar sinistro inquieto torno; ricalco in ansia l’orma dei miei passi; evanescente il suolo, perdo traccia. La caligine cupa ormai mi schiaccia:

sfuggo qua, là: par d’ogni parte abisso... Quando in terror moriva la speranza,

fievole giunse l’eco d’un belare: l’agnellino! al richiamo balzo in cuore teso l’orecchio dietro quell’indizio. Ma l’insidia mi spia; corto il fiato, quasi riprende angoscia fino al pianto. Mentre ritento, smarrito, ogni varco,

dolce il belato prossimo mi trema: si dirada il velario, filtra luce: dentro vapori si profila il branco, e sulla riva al vaneggiar dell’acqua in un tremore di lane bagnate

scorgo il belante alla pecora accosto: d’una carezza sfioro il roseo vello con l’anima in un bacio. Ora c'è via; e divallando per la sera chiara, sosta fec'io a una dimora buona: madre con bimbo su una soglia stava. Nel proseguir poi lieto del cammino ’ 300

la pecora pensando e l’agnellino presagio sorse nella fantasia: Ecce Agnus Dei (mi dissi?) e per Maria. *

Intanto c’era chi per me invocava; c’era l’offerta d’una generosa;

salvato a pezzettini di preghiera. Fu la Madonna a prendermi per mano, al Figlio ardente mi portò pietosa, al felice patire di Cristo

che trasfigura il viver di quaggiù in un principio dell’eterno amore, libero dono, pieno: ora, o mai più. Basta ancor meno d’una goccia,

a me bisogna

tutto il Sangue di GESÙ. *

Riamato l’Amor, l’Amor vuol tutto.

E venne il giorno, che in divin furore la verità di Cristo mi costrinse a giustiziar e libri e scritti e carte: oh sì che quello fu un gran bel stracciare!

Allor che quanto m’era il più del male ridotto fu a un lacerato ammasso, mi sentii lieve in libertà felice. Ed ecco repentino a me salire dal fondo del fracasso della strada un patetico annuncio a me ben noto: Strascéee... — Ebi, straccivendolo! — Egli pesta passo per passo all’ultimo scalino,

ingombra il sacco sopra la stadera: 301

per poco prezzo quella roba tolse. Il cittadino accender della sera mi trovò solo a ripensare il tempo: l’anima mia, posta nell’eterno, mestizia forse, non tristezza colse. *

Quando, preso da Te, Signor, già pago d’amarti tutto, pur se ancor non chiaro, ciascun giorno salivo al tuo bel nido, Madonna di Passèra, ove è sul lago

un poggio aperto a ogni vista amena, tu, Renatina, di tre anni appena, giocando al suolo scarmigliata e intrisa, spiavi lì, sulla strada, alla svolta,

l’apparir mio atteso: e ogni volta, vivida nel visino pien di terra con grazia ti tendevi tutta in festa;

ripreso io il cammin, guardando indietro, con le manucce mi facevi ciao: e quel saluto insoaviva il cuore,

quasi a me segno del divin favore. *

La tenerezza del divino Cuore, che dal mistero Trinitario scende, me, che da nove lustri già campavo ma vita avevo da due anni appena, rifece infante a scuola del Vivente. E fui dal Ciel fidato a quel sapiente che sommo genio s’annientò nel Cristo onde sol Sua Virtù tutto innovasse. Dalla perfetta Regola ordinato, 302

l’ossa slogate trovaron lor posto: scoprì l’intelligenza il primo dono:

come luce per l’occhio operò il Verbo,

quasi aria al respiro il Suo perdono: Gesù Amore in me fu gravidanza. Gioco giulivo in forme severe, ogni dì più novizio al Paradiso, s'alza il dolore e tenerezza scende: senza Confiteor non si sale altare, Magnificat conclude il Miserere e il De profundis nel Te Deum ascende.

303



Mori il creato mina: in persi, al Pa, n med SOB

x “i

nell’arcana sorte

tutto è doglia del parto: quanto morir perché la vita nasca! pur da una Madre sola, che è divina, alla luce si vien felicemente: vita che l’amor produce in pianto,

e, se anela, quaggiù è poesia; | ma santità soltanto compie il canto.

1

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304

RENDIMENTO

DI GRAZIE

Io benedico il giorno che fui nato; io benedico il prete e il sacro Fonte, il giorno e l’ora che fui battezzato. Io benedico quel casto mattino

quando, gravato già di nove lustri, mi cibai di Gesù come bambino.

Io benedico il dì che nel mio Duomo

lo Spirito discese a fare tempio della Sua gloria anche me, pover’uomo.

Benedico quell’invito giocondo a lasciar tutto per amor di Cristo, scegliendo l’Ognibene sopra il mondo. Benedico l’Amore Crocifisso quando mi elesse a ministrare il Sangue

che al Ciel ci salva dal mortale abisso.

Bene sia sempre a chi quaggiù la voce del Signor a seguir mi fu d’aiuto,

l’universal carità della Croce. Per tante grazie e patimenti tanti

l’Amante Trinità sia benedetta: con Maria, e Giuseppe, e tutti i Santi.

305

ASPIRAZIONI

Ogni atomo di me stesso, ogni attimo che mi è concesso, sia amore del tuo Cuore, riconoscenza e lode del tuo Nome, tua vittoria e tua gloria, o mio Dio, mio Signore,

Gesù nell’effusione del tuo Sangue. O Vergine Maria, Mamma mia,

io pongo in tua custodia e in tua virtà il sacerdozio che mi dà Gesù. O Immacolato Cuore di Maria,

tutto me stesso in tua signoria: o Immacolato anime e cuori o Immacolato nel Sangue di

Cuore di Maria, con l’anima mia: Cuore di Maria, Gesù con te io sia.

306

EPIGRAFI

Dopo aver tanto agognato alle cime, e perso vita per viver sublime, grazia m’è data di far da concime.

II

Chiedeva in cuore ai fratelli perdono d'esser egli pure al mondo: lo raccolse, sfinito, Maria perché Gesù lo vivesse:

in rendimento di grazia perenne, sopraffatto di misericordia, si diede in croce al Padre.

III

Sempre ho sbagliato strada, sull’Alpi, avventurandomi da solo; e una mano infine m’avviava.

Nel minister della parola, a ricercare il ver degli argomenti, cetonia capovolta brancolavo; fin che Alcun mi drizzava: ero, in cammino. 307

Con ali di farfalla, anima, tenti levarti in rapimento; indi dai sensi

plumbei o ambigui oppressa, vai col corpo che in mortale uggia è stanco, stanco, stanco. (Ma s’anche spazia il corpo s'imprigiona.) *

Vede il Padre e provvede: ancor più dona se non condona. E per virtù divina, nell’insuccesso la mia vita sale là dove sta la riuscita eterna. Giovinezza, ora sol scopro il tuo slancio!

Vien un cantar di supplica fidente, signoreggiando dal profondo viene: Santo, Santo, Santo,

nell’unico momento io non ti perda! bruciami ch’io arda, Innamorante Fuoco!

non il mio male faccia,

ma il bene tuo, Ognibene!

308

NOTE

Pag. [293]. Sola, raminga e povera un’anima vagava, ritornello di una elegia da me composta nella prima adolescenza. Pag. [302]. Il «sapiente» è Antonio Rosmini. Pag. [302]. La «perfetta Regola» è quella dell’Istituto della Carità. Pag. [305]. I primi tre versi sono ricavati da un’antica poesia popolare toscana. Pag. [306]. «Aspirazioni»: S. Monte Calvario di Domodossola, 1936. Pag. [307]. «Epigrafi»: Stresa, 1 giugno 1955. Raccolta iniziata nel Mese del S. Cuore {giugno} e terminata nel Mese del Preziosissimo Sangue {luglio}, 1955. Questo «Curriculum vitae» non risponde a completezza biografica, ma solo a

una esigenza poetica. La sigla a pag. [303] è stata disegnata dal pittore Roberto Aloi su indicazione dell’ Autore. } CLEMENTE MARIA RÈBORA

309

IL GRAN GRIDO (nelcentenario del transito di Antonio Rosmini)

Gesù manda il gran grido. Rende lo spirito al Padre. Immenso silenzio improvviso:

via fugge, snidata, la morte:

addensate sul giorno le tenebre, il sole le squarcia:

si squarcia il velo del tempio. Immobile è tutto, un istante che è eterno: il Sangue, solo, si muove,

l’inesausto amor del Signore che pende regale

aperte le braccia ai fratelli verso la Madre nel parto. Ora ascende, ascende il Calvario,

paradiso pieno di dolore: in un gemer di tutto il creato, la terra sussulta, si spezzan le pietre, nelle tombe esultano i santi;

rincasa la gente, battendosi il petto: poca rimane, rapita nel pianto: i crocifissi languenti stan come assorti; e nell’immane momento,

il centurione, di fronte alla Croce, sgomento, dice, gloriando, coi suoi:

— Veramente era il Figlio di Dio. — 313

II

Echeggia nel tempo il gran grido del Crocifisso Amatore: uno, primizia, risponde e lapidato amando lo effonde. Risuona più vasto il gran grido

del sanguinante Cuore: ed è martirio, e letizia a chi l’intona, e l’umil nel Suo palpito riposa.

Pur tribolando dalla luce sorge la nuova schiera dei fratelli in pace che nel Fratello dicon Padre nostro:

la Madre prega, e vien misericordia. Invano, nell’ora illusoria,

perché non si ascolti il gran grido, fa ressa il maligno aizzando il superbo frastuono del mondo che contro Cristo sfrutta il ben di Cristo:

e par trionfo della carne allegra, mentre un cancro d’angoscia rode dentro e poi esplode in gorghi di morte; paura è intorno, e molti fan lamento. Ma erompe più forte il gran grido da quanti son nel parto verso il cielo: urge quel grido e si fa vera storia:

vince quel grido e i secoli sospinge con impeti e gemiti e fremiti nuovi verso l'avvento di Lui nella gloria: — Siam fatti per Te, o Signore, e inquieto è il cuor nostro fin che in Te non riposi — — Pregare e lavorar, Signore —

— Pace e bene, Signore — — Non altro compenso che Te, o Signore —

314

— Ha da ardere il fuoco, Signore — — Esser per Te disprezzato, o Signore — — O patire o morire, Signore — — Patir, Signore, e non morire — — Tutto a maggior Tua gloria, Signore — — Né chieder, né rifiutar, Signore —

— Anime dammi, Signor, e togli il resto. —

III

Così crescendo il grande grido avvampa in un magnanimo coro di santi:

il grido di Gesù che sulla Croce (e arde dall’ Altare a innamorare) amor spremendo senza fine chiama

la gente tutta ove più va smarrita. Oh la cosa, la cosa necessaria,

mentre si avanza il giorno che non tarda, quando quel grido solo sarà vita! Ed ecco un’intima voce si aggiunge:

par solitaria nel suo grave tono, quasi in pace sapiente senza pena,

ma dentro è piena dell’ansia di tutti:

voce di un genio sovrano splendente d’umano e divino sapere, d’uno che, fisso al Volto di Dio, al Crocifisso Amore infinito,

legge - adorando, tacendo, godendo nel Trinitario circolar mistero la verità delle infuocate nozze; poi, nel sofferto pensiero profondo, la carità di quel gran grido assomma, di quell’unico grido si colma, e inebriato del Sangue del perdono, 315

maternamente mosso da Maria,

in una sola ingenua richiesta

e, dr Pa — : pe om or pr io gl fi di o ci an con sl vedi il fondo dell’anima mia, fammi buono! —

Settembre 1953

NOTA. Le aspirazioni contenute in questa poesia sono di $. Agostino, S. Benedetto, S. Francesco d'Assisi, S. Tommaso d'Aquino, S. Caterina da Siena,

S. Giovanni della Croce, S. Teresa d'Avila, S. Maria Maddalena de’ Pazzi, Sant'Ignazio di Loyola, S. Francesco di Sales, S. Giovanni Bosco. L'ultima

(— Padre, vedi il fondo dell’anima mia, fammi buono! —) è di Antonio Rosmini {N.d.A.}.

316

TRITTICO Tobia * Il lebbroso © La Maddalena Diceva Sant'Ambrogio: Nulla è più urgente che il ringraziare. Misericordias Domini în aeternum cantabo.

AI padre cieco e alla ansiosa madre scodinzolando il cane annuncia il figlio. Ignoto Raffael svela l'arcano, ché, Provvidenza, apre nelle pene il bene: Dio benedite, davanti a quanto esiste, che s'è mostrato a voi misericordia.

Narrate le meraviglie sue. Sempre con voi sua pace sta. Un rifluire di celeste scia: l’Angel s’invola al loro sguardo intento; in un giubilo immenso, adorando si prostra Tobia, il figlio amato lo ìmita con slancio; pure la moglie, allor, al suol procombe. Sta nel silenzio la Maestà di Dio. Un'ora passa: solleva, la donna, verso il marito il capo; ma conquiso lo scorge; e giù ripiomba a testa bassa.

Due ore: e sotto, appena, spinge l’occhio il figlio al padre che travede immoto: e immoto si rimette come morto.

Fermi adoraron la Bontà di Dio: tre ore piene: quante son le pene che nell’Orto Gesù e in Croce sostiene.

517

II

Brutti come il peccato, al bando del mondo spietato, noi tutti lebbrosi nasciamo, e triste sorte corriamo.

Se col Sangue Gesù non ci lavasse! Andavan penanti, disfatti, fuggiti

dieci lebbrosi, in puzza disperante; neppur un occhio valido, per piangere. Tu solo, Tu solo, Tu solo, Maestro! Gesù prende lor morte, dà Sua Vita. Ora, fatti da Cristo uomini, interi,

di valor e speranza forti e belli, trottavan lesti per le cose loro, tutti occupati in cosine e cachine,

dandosi gloria con chiacchiere loro; incontro a Gesù per esser mondati, ma non più per riceverlo Sposo. Sol chi, sprezzato, intese Chi lo amava,

sol chi pareva il meno graziato, di dieci un sol fu con Lui sincero: il bene conosciuto riconobbe:

vedendosi guarito, tornò indietro tutto osannando a grande voce Dio: baciò, baciò, baciò, la faccia a terra,

i piedi di Gesù, più ringraziando. Così si offrì al Donatore in dono. Oh correte, correte, scade il tempo:

correte! E gli altri nove dove sono?

318

III

Per la gente era sol la peccatrice. Gesù vedeva l’anima pentita che il Suo amor avvamperebbe grande se fosse chiesta per donarsi a vita. Corre Maria all’interiore invito: non vede che Gesù a quel convito; ardente in ogni fibra a Chi la chiama, intenta a dir di sì a Chi sol l’ama con quel perdono che è tale stima onde nell’umiliarsi si sublima.

Davanti a tutti sta qual peccatrice. Al Cristo malignando, il Fariseo

- e sa che anch'egli di lei fece abuso il Fariseo intanto in cuor si dice:

— io sono una bravissima persona che di perdono alcuno non bisogna. — Oh dolce far testimonianza piena proni a Gesù in un con Maddalena a Lui che ad ogni istante ci deterge! Gesù servir, baciargli i piedi in pianto, lagrime di letizia senza fine, come capelli aneliti e sospiri; e profumando di virtù i fratelli unger così nell’opera il Signore col diventar santi come a Lui piace: e nel Suo amor creduto andare in pace.

15 ottobre 1955

319

L’IMMACOLATA

L’Amante Padre aveva in suo consiglio la Tuttabella a modellar le cose

secondo l’Esemplare di suo Figlio: del gioire di lei Egli gioiva mentre ponendo i cardini del mondo il ciel voltava sull’informe abisso.

Così il creato, ov'è più meraviglia, sorse per lei, e stelle e rose, e i cuori presero in lei a palpitar di Dio quando da lei il Sol che tutto avviva

sorse in luce d’amor per ogni nato, onde con lei nei secoli i portenti

di carità degli infuocati eroi fan lieto il Regno, e sorgono i viventi,

per ben risorger dopo la vigilia dei tempi a quella festa che già piglia sembianza dall’ Assunta tuttasanta. E tu, la Pura, il Creatore esprimi

ond’ogni creatura a Lui somigli; sul tenebroso mal, risorto Cristo, a nuova terra, e a nuovo cielo, eterni, che qui prepara ognun se ha buona fede,

la creazion geme tutta intera, e geme in chi nel parto della Madre

da quel Sangue è figliato che a Lui diede. O creazion, che ansiosa aneli, non più al peccato ma servir d’ascesa

marianamente per Gesù al Padre: 320

perché, finito il tempo, giunga l’ora

— assorbita in vittoria e guerra e morte allor che il Padre ogni lagrima asciughi: e sia, ecco, tutto in tutti il nostro Dio.

II

Ignare a quella sete che per noi patì là in Croce Cristo benedetto

onde sgorga la Fonte da Maria che quanti appaga infin li imparadisa, urlan le genti, dopo aver mangiato terra per cibo: — bruciamo di sete! — e come pazze si scontran cercando

sorsi a ristoro, e le sorgive tutte di loro stragi sfociano inquinate. Tu unica sorgente, o Immacolata, donde fluisce acqua di vita al Cielo che per l’amore in vino e vino in Sangue

a Cana è pregustata e sul Calvario versata al mondo dal Cuore Divino!

III

Beati son gli immacolati in via, in tua custodia docili, Maria!

Nel labirinto dei giorni tu sei certezza di speranza in ogni inciampo,

filo d’Arianna a quanti van sperduti: e il mostro è vinto, il Tesoro è trovato; tesoro ai cuori, nascosto nel campo.

Dal mareggiar del mondo più diviso vedo le folle accorrere alla Grotta 321

tua, Vergin Regina della Storia, dove è fiumana il flusso della grazia a quanti il mal in mente o in corpo strazia,

per raddrizzar la rotta al Paradiso. Per te, com’Eva si risolve in Ave, in Àmor Roma suo mister rivela, dov’è materna Chiesa che dà pace. Rigenerati, a noi per te vien detto: Prendi questo vestito di candore,

immacolato portalo al Signore, onde avere con Lui eterna vita. O vita di Gesù, e vera e nuova, canto di chi la serba, schianto di chi la perda,

gaudio se si ritrova! A noi chiamati in te promesso è il giorno: Prendi l’amor, questa lampada accesa;

splenda il tuo segno, che avvenga il suo Regno: onde, giungendo lo Sposo alle Nozze, tutto palese senza nascondiglio incontro possa corrergli con luce che Sua bellezza svelata riveli, e insieme ai santi fratelli felici

dentro la sala regale dei cieli vivere amante senza fine in festa

gloriando al Padre per la Madre il Figlio.

12 novembre 1955

322

GESÙ IL FEDELE

(Il Natale)

Gesù il Fedele, Maestro di Fede:

verso il Padre, è fedele, a morire: verso i Fratelli, è fedele, a vivere: verso Se stesso, è fedele, a essere il Risorto.

Gesù il Fedele, in gracili forme con grazia e con pace

dal Padre l’Erede mandato ad assumere il peso dell’universo che grava, fino al sangue, per ogni verso, di Colui che è, che era, e che è per venire; Gesù il Testimonio fedele, che ci ha amati e lavati dei nostri peccati

e ci ha col Sangue rifatti Regno e Sacerdoti a Dio, Padre Suo:

Alfa e Omega, Principio e Fine, Colui che è, che era, e che è per venire, l’Onnipotente l’Erede di tutto, Egli che sulle nubi verrà - il tempo è vicino ogni occhio Lo vedrà, anche coloro che Lo hanno trafitto: Egli, il Bimbo diritto, venuto a rapire

quel che c'è di materno nel cuore di pietra dell’uomo, a farlo di plebeo superno, se avvenga che irrompa

323

e prorompa dal segreto dello Spirito Santo, come Figlio, unicamente amato,

il conoscimento del Padre.

II

Gesù il Fedele, e il Verace,

che giudica e combatte, giusto: Re dei re e Signore dei dominanti; Gesù il Fedele, il Verace che monta, su tutti, un candido cavallo,

bianco cavallo ove son fuse in pace la Tuttasanta Madre degli Amanti,

il Santo Padre guida degli erranti, l'Eucaristia che chiama al Cielo i Santi: troneggia il cavallo che in candido velo

è redimito di Sangue, e il suo nome si chiama il Verbo di Dio: formidabilmente vittorioso contro il male che tenta e ritenta d’ogni parte, e si riversa esangue;

Gesù il Fedele, che entra con giusto dolore nel Regno dell'Amore, trionfalmente entra nel Cielo in tripudio acclamante: Alleluja! È entrato nel Regno

il Signore Dio nostro Onnipotente! Festanti esultiamo, alleluja! A Lui dando ogni gloria,

perché ha meritato le Nozze, son venute le Nozze,

le Nozze dell’Agnello: Alleluja! 324

E piange su Lui

ogni tribù della terra: piange su Lui con gioia contrita: finito ogni lutto,

finita ogni guerra, la morte assorbita in vittoria! Nel bello radiante splendore ogni uomo è fratello, ogni cuore è ruscello del bell’Amore Regale: Beati coloro che sono i segnati,

alla Cena Nuziale dell’ Agnello!

III

Gesù, il Fedele, il Verace, è il Giudice

che prese a esprimere visibile nel giorno del Santo Natale l’inesprimibile misericordia del Padre: prese a raggiar malvisto nel volto sublime la bellezza divina e materna compiendo: e nuovo incanto di beltà pervase con intimo fremito l’universo fra linee terrene presagio di Cielo per educarci lassù, al Paradiso; ma prima ancora la Bontà rifulse,

accese d’esser buono il gran tormento, accese d’esser buono un vasto incendio che a somiglianza divina cresce e arde per ogni cuore

in carità di Dio trasfigurato: cura d’una vita monda, sete d’innocenza, anelito di vergine scienza, 325

e devota attenzione presso il Bimbo, attenzione devota al Fanciullo

fatto emblema d’ogni cosa pura, sciolto problema d’ogni vita piena; e infine salvifico effetto sopra l’intero creato

a salvare già qui tutto l’uomo, ciò che è nato nel mondo perituro

e portarlo sicuro al giudizio; Gesù il Fedele, il solo punto fermo nel moto dei tempi, in sterminata serie di eventi: il solo Santo che non manca mai, che trascende dove ci comprende

e si fa dono in cima ai nostri guai e pareggia la grazia col perdono: vero Dio trasumanante

e a Deità aperto vero Uomo:

Egli, il Fedele per sempre, Maestro vivente di Fede,

Egli che viene a Natale in peccato per meritarci in maestà di gloria, continuo avvento al termine segnato:

se non invano passiamo il breve tempo

come luce del Figlio Incarnato, come frutti di dolce consiglio, impegno amoroso di vita, di vita del singolo unanime nel segno, vita raggiunta infinita, in beata circolazione dove l’impeto la porta

che ineffabilmente ovunque va non ritorna, ma in desio del Padre universalmente procede, nel fulgore del fuoco tutti insieme gloriando 326

quali figli di Dio, alleluiando al Padre,

al Figlio e allo Spirito Santo che universalmente procede, tutti insieme in gioco giocondo festando quali in gaudio rapiti figli di Dio nell’impeto che procede su per la multanime fiamma di fratelli nella Mamma Celeste, i Fratelli di Gesù il Fedele.

Stresa, il S.S. Nome di Maria {12 settembre], 1956. Per il S. Natale del 1956. Dal letto della sua infermità.

I27

ei des tonni ga

Da Gregorio a Gregorio l'Inghilterra Con Benedetto ascende e con Rosmini: Tornando un’Anglia d’angeli, la terra Troverà Cristo in tutti i suoi confini. «Huius (Benedicti) alumnorum numero glomeramus ovantes Quos gerit in gremia foecunda Brittania cives;

A quo iam iam nobis baptismi gratia fluxit Atque Magistrorum (Agostino e i 40 monaci) veneranda caterva cucurtit.) (Sant’Adelmo, sec. VII) «I Cattolici d’Inghilterra mi stanno tanto a

cuore, che non so che cosa farei se fossi capace di giovar loro in qualche minima cosa, e penso da parte mia di non trascurare minimamente tutto ciò che la Divina Provvidenza mi presentasse da fare in loro vantaggio, e vorrei dar loro anche il mio

sangue per la gloria di nostro Signore, sebbene il mio sangue non valga nulla.»

(Antonio Rosmini - Calvario di Domo. 1831)

331

LA CASA RELIGIOSA AI nostro padre Rettore, davvero Padre e sempre Maestro.*

La nostra Casa è come un alveare Che miel distilla e cera pel Signore: Geme il miel dal patire e dal pregare, Arde la cera al fuoco dell’amore. Ritornello

Pensa a sé ciascun’ape e alla sua vita; Pur ce n’è una che tutte avvicina:

C'è, ma nascosta, c'è un’ape regina. Oh come è dolce il vivere fraterno, Con Maria e Gesù, fissi alla cima! Oh come infiamma il tendere all’eterno Tutti concordi con chi ci sublima!

Festa di S. Ugo [1° aprile], 1935

* Musica di Don Reginaldo Palmer.

Cantori: i Novizi {N.d.A.]}.

332

Versi per la prima Santa Comunione d'un fanciullo, nella Festa dell’Immaculata, al Collegio Rosmini, Domodossola, 1938

I

E tanto che Ti chiamo,

Amore mio, Gesù! Ora ecco vieni. Ti amo, Dolcissimo Gesù.

II

In me, santa difesa,

Ti porterò ogni dì; Dirò (quando il cuor pesa) «Gesù - dirò - son qui».

III

Forte di Te, lottando Ogni mal vincerò: Beneficando e amando

In Ciel, Gesù, Ti avrò.

333

NOTA. Questa poesia furimusicata dal don Giuseppe Pedrazzo, Padre Censore al Colleg ed io; eseguita dura la Messa Solenn nt e e. Nella Cerimonia di |_—‘’

|

questa prima Santa Comunione n’è seguito il rito usato dal Padre

— quando era Archiprete a Rovereto: rito tanto significativo! {N.d.A.].

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334

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* DOMODOSSOLA

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22 Dicembre Si va a casa

Dio sia con me in questo caro e familiare periodo di sollievo; Egli mi sia presente, ché tutto il resto è niente.

Come il Signore agisce per carità verso di me, così io cercherò di far tutto in spirito di carità, con cuore purificato e riconoscente: anzitutto in Famiglia; indi con parenti, amici e conoscenti; e non dimenticando coloro che hanno bisogno di aiuto. I miei divertimenti non siano mai un divertere a Deo. E ricorderò anche, a suo tempo, gli studi, con gli altri miei

doveri.

Gesù vuole che io sia tra quelli che sentiranno il Ver: te, o benedetti dal Padre mio: possedete il Regno che vi è stato

preparato sin dalla fondazione del mondo. Per ottener questo, procurerò di cominciare e finire bene ogni giornata, con la preghiera, seguendo il suggerimento di Gesù: fu pensa a Me, e lo penserò a te. «Il mondo va male, perché molti non pregano, e molti

altri pregano male». «Chi non prega, non può reggersi né

stare con Dio; chi prega poco, fa poco bene, chi prega molto, ne fa assai».

(A. Rosmini)

337

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L’astenersi dalle carni in obbedienza alla S.Chiesa serve

i

| purea renderci consapevoli che il Salvatoreci hameritato i

| di vivere, non secondo la carne, che dì morte e corruzio-

| _°‘’ ne, ma secondo lo Spirito suo che dà vita e pace, onde far| ci conformi a Lui anche, nella resurrezione, col corpo glorioso.

338

di TO

24 Dicembre

Vigilia del S. Natale

(Giorno di magro; e di digiuno per chi è tenuto: tutti però sono tenuti a digiunare più che mai dal peccato, e a dila-

tare con gioiosa speranza il cuore verso il Salvatore). *

Il Signore verrà, andategli incontro, dicendo: — Grande è la sua origine, e il suo Regno non avrà fine: Egli è Dio, il Forte, il Dominatore, Principe della Pace, 4//eluja. Purificatevi, o figli, e state preparati: siate costanti, ve-

drete l’aiuto del Signore sopra di voi. Sarà cancellata l’ingiustizia della terra, e regnerà su di noi il Salvatore del mondo. Sorgerà come il sole. O Dio, che ci allieti ogni anno nell’attesa della nostra

redenzione, fa che il tuo Unigenito, cui lieti riceviamo ora come

Redentore, sicuri lo vediamo ancora venire come

Giudice, nostro Signore Gesù Cristo Figlio tuo. Il quale con te... — (Liturgia)

939

) a d a ’ e, en vi sù Ge a, at ol ‘Ecco, dall’Immac i c r a l l e t a r f f a r e p e r i t Bambino festante a pa enei Cieli. eè chr nel Pad ME

MESTO

i,

Chi si farà bambino con Lui,

entrerà in quel Regno «che solo Amore e Luce ha per confine».

(Dante) Voluntas Dei, sanctificatio vestra.

340

25 Dicembre

Il Santo Natale

(per osservare il precetto, vale pure la S. Messa ascoltata nella notte tra il 24 e il 25).

Gloria a Dio, e quindi Pace a coloro che si amano in Lui.

Davanti al Presepio: «O nostra umanità come sei ingrandita! con la Divinità tu ti sei pur unita.

La Vergine Maria ne resta sbigottita, e a noi peccatori

par che obbligata sia». (Da Jacopone da Todi)

Oggi è nato un bel Bambino, Dolce come un agnellino. *

Nato è in terra il Re del Cielo, Sol per nostro amore e zelo:

Fame e sete, caldo e gelo Già patisce il piccolino. Oggi è nato un bel Bambino.

341

Notte santa e luminosa,

Non più triste e tenebrosa, Ma beata e graziosa, Poi che sorto è il Sol divino. Oggi è nato un bel Bambino. *

Escon già dal gregge fuori Certi semplici pastori: Portan cacio e frutti e fiori Con un bianco pecorino.

Oggi è nato un bel Bambino. *

Entran dentro ginocchione: Con la Madre e il buon Custode Fanno insieme adorazione;

Poi gli baciano il piedino. Bello è stare a Lui vicino.

Dato è a noi, Gesù Bambino: Quanta pace! che sorriso! Paradiso! Paradiso! (d'ispirazione popolare)

342

26 Dicembre

S. Stefano Primo Martire

Amare i propri nemici: Stefano, mentre veniva lapidato, pregando per i suoi persecutori, ottenne la conversione del giovane Saulo che li dirigeva; e Saulo divenne S. Paolo.

343

31 Dicembre

Ultimo giorno dell’anno

«La fine delle cose si avvicina maggiormente». (S. Pietro)

«L’uomo mieterà quello che avrà seminato: ... chi semina nello Spirito, dallo Spirito mieterà la vita eterna. Non

stanchiamoci mai di far il bene, perché raccoglieremo a suo tempo la messe, se non ci stanchiamo. Perciò, fin che

abbiamo tempo, facciamo del bene a tutti, e specialmente ai fratelli di fede». (S. Paolo)

Nelle chiese si canta il Te Dex in ringraziamento per i benefici da Dio ricevuti mediante Gesù - e per disporci insieme a riceverne anche di più copiosi e preziosi, volen-

do farne miglior uso.

Nessun dovere è più urgente che il ringraziare, diceva S. Ambrogio.

344

1 Gennaio

Festa della Circoncisione (di precetto) primo giorno dell’anno e rinnovazione dei voti battesimali

Preghiamo, uniti e fiduciosi, perché generosamente si rinnovelli e cresca - col nuovo tempo donato da Dio - la vi-

ta di Gesù in noi, ricevuta nel santo Battesimoper , poter ogni giorno ringraziare con opere buone, nella carità, Dio

che è Carità: per singulos dies benedicimus Te. *

Per questo si invoca in questo giorno nelle chiese lo Spirito Santo col Veni Creator, e si rinnovano le promesse battesimali: prenderle sul serio è salvarsi e santificarsi: 4 di-

gni efficiamur promissionibus Christi.

345

2 Gennaio

Il Santissimo Nome di Gesù

«Chiunque invocherà il Nome del Signore, sarà salvo». «Signore, essi cammineranno alla luce del tuo volto, e nel tuo Nome esulteranno tutto il giorno». (Liturgia)

«Oh quanto vero e a ragione diceva S. Bernardo, che nessun libro gli pareva aver sapore, dove non incontrasse il nome più amabile di tutti i nomi, il Nome di Gesù! Così

almeno dovrebbe essere: ogni cosa dovrebbe essere sciocca agli uomini redenti, se non fosse condita e segnata con questo Nome». «Ges! Marta! questi sono pure i due Nomi potenti che

germinano una speranza inesauribile e che - anche quando mi trovo agitato per il mio nessun profitto nella via della virtù e per l'incertezza di ciò che sta nel fondo del mio cuore dove Iddio solo vede - mi apportano la calma profonda, e la consolazione, che spunta e mi sorride di mezzo alla tremante tristezza». (A. Rosmini)

346

di Lui tura taontutteca cose: een di "E

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(Da S. Giovanni: ultimo Vangelo della S. Messa)

8 gennaio Domenica

(precetto).

Si ritorna convittori: ma sentirsi

convivo, Vixi, victum, ere: vivere insieme convictores! convinco, Vici, victum, ere: vincere insieme Vivere insieme la Vita di Colui che ha detto: Io sono la Vita. Vincere insieme con Chi ha detto: Io 50 vinto il mondo.

«Studiate per conoscere Iddio e poterlo meglio amare, e per conoscere i bisogni del prossimo e poterlo meglio assistere. Oh quanto diventa bello e profittevole lo studio per chi ama la virtù e la giustizia, e pratica la carità!». (A. Rosmini)

Jesus cum Maria Sit nobis in via.

Amen (Cristoforo Colombo)

348

AGENDA PER LE VACANZE ESTIVE 1903

Beati immaculati in via,

qui ambulant in lege Domini

COLLEGIO ROSMINI DOMODOSSOLA

Miei cari e buoni figlioli e fratelli in

Gesù e Maria,

È venuto il tempo di lasciarci, per il sollievo estivo; ma

io vi tengo in cuore e nel pensiero davanti al Signore, pregando perché possiate camminare come figli della luce e abbiate bene. Dio mi ha dato la grazia di amarvi e apprezzarvi; e, avendomi messo a servizio delle anime vostre, può usare di me poveretto a vantaggio vostro anche da lontano: come vi sarò grato se, bisognando, vorrete ricorrere a me, scrivendomi, o altrimenti! E intanto per continuarvi un poco l’assistenza svolta

nella domestica comunità del Collegio, la Direzione offre con me questa Agenda per le vacanze: è solo un abbozzo

per ora, ma son certo che saprete trarne qualche vantaggio per frlios Dei fieri anche nel periodo degli svaghi, ove Dio li conceda. Vi porgo, a guisa di gioco di parole (ho anch'io i miei divertimenti) questo proposito che ciascuno di voi indovinerà facilmente:

Vaco, non vacuus, non vacua gratia Do-

mini in me Sit. Mando dal Cuore di Gesù e Maria pace e benedizione a

voi e alle vostre amate famiglie. IL PADRE SPIRITUALE. Domodossola, Mese del Sacro Cuore {giugno}, 1939.

351

SUGGERIMENTI

DI BUONE OPERE:

Dunque, fin che abbiamo tempo, facciamo del bene a tutti. (S. PAOLO)

A

1)

Serbarsi anzitutto buoni e bravi in casa. L’obbediente canterà vittoria.

2) 3)

Rendersi utili, essere servizievoli, in ogni occorrenza. All’occasione, aiutare i bisognosi, far elemosina in spirito di carità, assistere qualche ammalato. B Così splenda la vostra luce davanti agli

uomini, affinché vedano le vastre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è

nei Cieli.

(S. MATTEO)

L’apostolato del buon esempio. 1)

2)

Giovare con la preghiera, qualche sacrificio o rinun-

cia; novene di Messe o di Comunioni, per attirare grazie, ottenere guarigioni, conversioni, Vocazioni.

3)

Offrirsi ai parroci, per qualsiasi buona iniziativa; co-

4)

me catechisti. Cercar di avvicinare a Gesù chi ne è lontano, o di far praticare la Fede a chi la trascura.

Benedetto e benefico è quello studente che mette a disposizione del suo prossimo la propria capacità o cultura, so-

pratutto quella religiosa e derivante dalla virtù.

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«Beati voi giovani che avete tempo di far bene».

SCHEMA

GIORNALIERO

t i volonterosi che cercassero di vivere, anche in vacanza, co-

me figli di Dio. Quante cose veramente buone e generose farebbero i giovani se avessero meno paura di apparirlo!

LEVATA: 1) Gesù è mattiniero, come il sole: Ado/escens, dico tibi SUTGE. 2) Il segno di Croce esprime e consacra tale risveglio. Dignare, Domine, die isto sine peccato nos custodire. PREGHIERA: 3) «Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola ché procede dalla bocca di Dio». Qualche minuto di Meditazione sul S. Vangelo, o sul testo della Messa, sul pensiero recato in questa Agenda.

4) Beato chi può ascoltare la S. Messa; felice chi si accosta alla S. Comunione. OCCUPAZIONI: 5) Quando qualcosa 0 qualche occupazione vi riesce pe-

sante, fatene offerta al Signore. SVAGHI: 6) Nelle conversazioni e relazioni, ricordare che siamo tesori in vasi di creta. vedo ti ». Dio imm ens o giro , io gua rdo il «Ov unq 7) ue RISTORO: 8) Trovar modo di visitare il Santissimo, fosse anche per un momento; un saluto a Gesù cuore a cuore. 353

pros ciando dai più prossimi. — 10). Con le ani della.sera si chiudeladr —_—

do fuori le tenebre.”

Dignare, Domine, nocte ista sine peccato nos PAR

|. Privilegiati coloro che possono ricevere una benedizione prima di coricarsi: c, seinfamiglia, dal padre odalla madre.

354

i

Esaminate tutto, e tenete ciò che è buono (S. PAOLO)

CONCORSI A PREMIO, con esposizione in Collegio per l'apertura del nuovo anno scolastico: 1) Fotografie. 2) Raccolte riguardanti la mineralogia, la botanica, la zoologia. (E collezioni particolari, di conchiglie, ecc.). 3) Disegni, dipinti, oggetti lavorati, costruzioni, cose da utilizzare in Collegio.

4) Diari descrittivi delle vacanze (e viaggi, pellegrinaggi, visite, itinerari, escursioni, ascensioni, gare, Ecc.).

5) Iniziative missionarie (francobolli, stagnole, ecc.).

N.B. - Ciascuno è libero di produrre altri frutti della propria operosità e industria, degni di essere presentati.

355

GIUGNO, MESE DEL SACRO CUORE DI GESÙ

15, cioveDì: Ottava del Corpus Domini Mettete tutte le opere del mondo in paragone a una Comunione ben fatta: sarà come un atomo di polvere in confronto di una montagna; perché con quella noi diventia-

mo Cristiferi, cioè portatori di Cristo nelle nostre persone. IIIITITIIIIZITII TITTI CTTET TT TTT L01100 20 rr esa d 0 FALDA

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16, VENERDÌ: Festa del Sacratissimo Cuore di Gesù O Cuor di clemenza, O Cuor di dolcezza, O Cuor di salvezza, O Cuor di Gesù: Chi vuole far puro Il proprio suo cuore, Lo mondi al calore Del Cuore di Gesù. UILILALIABI AIA NIN PLAN AAA LA Ae

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356

»K 18, DOMENICA III dopo Pentecoste Cerca forse il pesce la terra? No, esso si slancia nelle acque. Si ferma forse la rondine sulla terra? No, se ne va vo-

lando per l’aria. E l’uomo, creato per amar Dio e possederlo, che farà di tutte le forze che a tal fine gli sono date? Resisterà allo slancio e al volo dello Spirito Santo? NB. La crocettina indica festa di precetto. PITTTZIAZTZZINAZZ ZI ZIA ZI ZZZ AAA AIA I ZZZ ALI AZZ IGT

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21, MERCOLEDÌ: S. Lusgi Gonzaga Piuttosto morire che macchiare la lucente e ardente vita battesimale. Beato e invidiabile chi comincia subito e da

giovane a gustare la vzt4/ UPTTATIZIAZAZ ZA ZA LINZ ZZZ TAZZINA ZIA II LI ATI GI AZIZ TAZZA IATA TIZI TIZI PECFETETTECT

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vK 25, DOMENICA IV dopo Pentecoste

Che vuoi, Signore, ch’io faccia? *

o nd ia nc mi co , ora r pe ora , gi og e, or gn Si o Fammi buono, con i miei cari.

vK 29, cIoveEDÌ: SS. Pietro e Paolo Apostoli «Sono essi gli eroi, o Roma, che fecero risplendere ai tuoi

occhi il Vangelo di Cristo: e tu che fosti un tempo maestra dell’errore, sei divenuta oggi discepola della verità. Sono essi i tuoi veri padri, i tuoi veri pastori, che per in-

trodurti nel regno celeste, han saputo fondarti molto me-

glio di coloro che ebbero cura di mettere le prime fondamenta

delle tue mura.

L'uomo

che ti diede il nome

(Romolo) ti ha macchiata di un fratricidio; mentre costoro ti hanno elevata a tanta gloria che sei divenuta il popolo santo, la nazione eletta, la città sacerdotale e regale e,

per la sede augusta di S. Pietro, la capitale del mondo intero. La tua supremazia, grazie alla religione divina, si esten-

de oggi ben più lontano che non lo fosse un giorno la tua potenza terrena. Perché, sebbene molte vittorie ti avessero dato il dominio sulla terra e sul mare, tuttavia è da meno

ciò che ti fu assoggettato dalle fatiche della guerra, di quanto ti sottomise la pace cristiana». (S. LEONE MAGNO)

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LUGLIO, MESE DEL PREZIOSISSIMO SANGUE

1, sABATO: I/ Preziosissimo Sangue di Gesù Cristo. «Che il Signor Nostro Gesù Cristo crocifisso sparga nel vostro cuore una gocciola del Preziosissimo suo Sangue! Non c’è balsamo più salutare» (A. ROSMINI, che spirò in questo giorno)

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vK 2, DOMENICA V dopo Pentecoste Visitazione della Beata Vergine Maria a S. Elisabetta.

Magnificare il Signore che riempie di ogni bene chi ha fame di bontà, carità, santità. Ed è Maria che accorre a farcene parte. arsreresecezesececic:e0s

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7,1 VENERDÌ del mese: Devozione del S. Cuore chi co: ifi pac o sol il o, ill nqu tra o sol il è sù Ge di Il Cuore abita in quel Cuore, partecipa di quella pace.

359

*

rigli e ; sù Ge e dic — nte nie far ete pot n no Me — Senza — ti. for con mi che Te in o ss po o tt Tu — lo: Pao sponde 00000000000 0000s00e0ere0esere0cecccscc0‘00 000000 00

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‘010}.{]‘1‘6@9@_m6@@@m@qqssuicuGiieieioe‘€@€ i giovanotti}; 14 {[grassocce > grassucce}; 16 [biscotto > biscotti}; 23 {grave > gravi}; 57 [degnata > sdegnata}; 72 {sacromondo > sacramondo (alla lombarda!)}; 80 {falla >

farla); 87 {consigli e consigli > e consigli e consigli]. Alla riga 3 l’autografo attesta la lezione scampagnate che Sch,, considerandola errata, correggeva nel participio

presente parasintetico scampagnante; si tratta invece, evi-

dentemente, di un legame analogico (di impronta futurista) tra i due sostantivi: «scampagnate ritorno». Interessante nel manoscritto l’uso della punteggiatura: 1) dopo il punto interrogativo vi è alternanza di iniziali maiuscole e minuscole, secondo il senso del discorso; 2) le virgolette basse (« ») segnalano il normale discorso diretto; quelle alte (‘ ”) o un discorso diretto all’interno di un altro, oppure un discorso diretto che non coinvolge il protagonista del racconto lirico. In entrambi i casi viene qui ripristinata la lezione del manoscritto. Normalizzata invece, perché priva di sistematicità, la punteggiatura in chiusura di discorso diretto. — Pensateci ancora: alla riga 30 il ripristino del trattino di separazione (= princeps) chiarisce la bipartizione del discorso («Ma qualche sera... e al mattino...»). Un uso simile del trattino si ha in molti altri luoghi reboriani (vedi in particolare la successiva prosa Bizzarrza...).

— Bizzarria e corale di retrovia: per analogia con l’usus testimoniato dall’autografo del Territoriale consigliato, vie-

inialle nto qua hs ncg pri la del e ion uaz sit la ata tin ris rip ne erint to pun il o uon seg che , ole usc min o ole usc mai i, zial

rogativo o esclamativo. acn co o nî pa am Sc olo tit l ne i: ol gi an i gl con — Scampanîo cento (= princeps). Riga 30: Sch, corregge razionalmente scampanata per 503

scampagnata. Viene invece in questa sede ripristinata la lezione della princeps (e dei successivi editori), nonostante l'apparente non-senso così conferito al testo: ma l’intero componimento (come anche altre delle prose liriche) è ricco di associazioni onomastiche puramente foniche (e — si

noti — mai ripetitive), al limite del calenzbour [vedi: «èra campale (che campi per noi)»; «venerabile... vènere»; «la storia - mezzana a noi vivi carnali, e intera se moriremo ideali»; «belato del bene... beato avvenire», ecc.}, tanto da

giustificare la reintegrazione operata. — Perdino: nel titolo ripristinato l’accento sulla tonica;

tra le ultime due righe inserita spaziatura (entrambe le correzioni come da princeps). — In orario perfetto: normalizzata (più efficacemente ri-

spetto a Sch,) la punteggiatura in chiusura di discorso diretto. — Arche di noè sul sangue: testo come da ms. autogr. in Archivio Meriano, contrassegnato dal n. 20 (articolo su 4 facc., s.l., s.d., allegato a lettera a F.M., su 2 facc., con busta, Milano, 14 aprile 1917). L’autografo, reintegrato per analogia con quello del Terrztorzale consigliato, rivela — tra

le pochissime grafiche o interpuntive — le seguenti varianti rispetto alla princeps (= Br): r. 31 da principio > dal principio; r. 48 e che > a che.

— R:ntocco: all'ultima riga capanna > campana (= princeps). — Vanno: tra i vv. 6 e 7 nella princeps si ha cambio di

pagina; difficile quindi stabilire l'opportunità della spaziatura introdotta dai successivi editori: eliminandola — come nella presente edizione — si ottengono due strofe dallo stesso numero (17) di versi. — Ca' delle Sorgenti: testo come da princeps recentemente rinvenuta (vedi qui la nota 5). Introdotta la didascalia finale e operate le seguenti correzioni: 16 ebrezza > ebbrezza; 27 amico, >

amico — ; 29 per tràmite > per un 504

tràmite; 39 attimo —> àttimo; 50 petto > petto,; 53-54 intro-

dotta spaziatura; 57 spazio,/perenne, > spazio, perenne, . — {Versi}: nella princeps non compare titolo (quello vulgato — qui mantenuto fra parentesi quadre — risulta solo nel sommario, con presumibile riferimento al genere

del componimento). v. 4: antiCristo > antiCristo, (= princeps). — Sono appena una bambina: 15 madonna > Madonna (come in altri casi analoghi). Poesie religiose — Annunciazione: ripristinata punteggiatura di princeps e Sch, (non necessaria la normalizzazione di Sch,).

Canti dell’infermità

— Frammenti {S. Comunione): 1 Fratelli > fratelli (usus dell’ultimo Rèbora, vedi Sch, pp. 407-408).

Poesie sparse {1930-1957] —

Da Gregorio a Gregorio l'Inghilterra: inserite, come

nell’originale poligrafato (= princeps), le due citazioni da Sant'Adelmo e Antonio Rosmini che rendono comprensibile il testo. Sulla copia conservata presso il Centro Studi Rosminiani di Stresa compare una postilla a penna, pro-

babilmente di mano dell’Autore: «marzo, maggio 1934». —

La Casa religiosa: inserita nota d'Autore come da

originale poligrafato (= princeps). coo: ll iu nc fa un d' e on ni mu Co a nt Sa a im pr la r pe i — Vers ta no ta eri ins , s) ep nc fr (= o at af gr li po e al in ig or me da 505

d’Autore firmata a penna: «DON. CLEMENTE»; nella dida-

scalia: Immacolata > Immaculata. (Contrariamente al criterio generale, in questi tre casi è

reintegrata la princeps, pur trattandosi di testi religiosi: la loro ristampa in Sch,, postuma e ben lontana nel tempo

dagli originali poligrafati, spiega in parte i tagli operati dall’Editore. Viene comunque conservata in questa sede la opportuna correzione di Sch, nella terza delle liriche di cui sopra {Ritornello: 2 e 4 Te>

Te,}).

— La preghiera-novena a S. Giovanni Vincenzo: il titolo precede la lettera introduttiva e non direttamente le preghiere. — Don Clemente Rebora a Don Carlo Pagani: il titolo complessivo riprende quello presente in Ecg (di cui vedi l’indice), esemplato sulla prznceps.

Voto emesso, sub gravi — Operate le seguenti correzioni, come da autografo consultato in fotoriproduzione presso Archivio Scheiwiller: 2 1936) >

1936):; 6 oscuramente >

oscuramente,; 13 e

tua > e în tua {ma la lezione e tua si ritrova nella prima delle due Aspzrazioni del Curriculum vitae, testo che riproduce con poche varianti la seconda parte del Voto emesso,

sub gravi].

Appendice — Anima errante: inserita dedica (ardua da decifrare nel passo «resta ma ingenua») a Paolo Santarone, amico del

Poeta, come da autografo consultato in fotoriproduzione presso Archivio Scheiwiller.

506

Aggiunte di nuovi testi Di notevole importanza, nella presente edizione, sono quei componimenti che, testimoniati da fonti eterogenee, vengono per la prima volta raccolti in una silloge di scritti reboriani. Eccone l’elenco. Poesie sparse e prose liriche [1913-1927] — Dio ci lasciò vedere l’Italia (racconto di un soldato russo sfuggito alla prigionia austriaca). Princeps = “La Lettura”, Rivista mensile del “Corriere della sera”, XVI, 12, 1° di-

cembre 1916, pp. 1114-1116. Il racconto è accompagnato da tre immagini fotografiche: nella prima pagina, un ‘ovale’ a tema bellico-alpino e il ritratto di «Darienko, in divisa di alpino»; nella seconda pagina, il ritratto di «Archipenko e Voiko». Il testo è fedelmente trascritto, salvo

qualche lievissima normalizzazione nel discorso diretto. Così Lidia Natus in appunto autografo a Vanni Scheiwiller: «raccontato da lui {il soldato} — in Russo — a me — e da me a Clemens in Italiano!». Non si tratterebbe dunque della traduzione di uno scritto, ma di un testo ampiamente ‘creativo’, infatti piuttosto vicino a certe prose liriche (vedi al riguardo A. Dei, Rèbora 1914-1917, “Studi e problemi di critica testuale”, 25, ottobre 1982, pp. 151-

192). Non improbabile dovesse far parte di quel «volume di poesie-prosa» sulla guerra di cui alla lettera 27 ottobre 1916 a Mario Novaro (ma già preannunciato nella precedente, 26 settembre 1916, ad Angelo Monteverdi).

— Italia {traduzione da Gògol’}, con Cenno illustrativo del traduttore. Princegs =

“Russia”, I, vol. I, fasc. III,

gi’ori dell ione criz tras le fede o: Test 212. 209pp. -21, 1920 LETin one chi Mar a dall o ost rop rip e ent tem cen nale (re TERE II, pp. 191-194). 507

il sso pre uti ven rin i dit ine gli a Tr a. esc gar zin e — Canzon Fondo Aleramo dell'Istituto Gramsci di Roma (vedi FOLLI, p. 84), inclusa in lettera a Sibilla del 10/10/1917 (incipit: «Sibilla cara — Vi avevo trascritto la Canz. Zing. e stavo per venire da voi...»). Testo: conforme all’originale, gentilmente comunicatomi dalla stessa Anna Folli. Rispetto alla stampa, risulta la presenza dell’asterisco tra una strofa e l’altra, mentre il v. 13 legge vz4, per vra..

Poesie sparse {1930-1957}

— S. Natale 1938 [agenda per le vacanze natalizie dei convittori], Collegio Rosmini, Domodossola (pr7mcps).

— Agenda per le vacanze estive {dei convittori]} 1939, Collegio Rosmini, Domodossola (princeps). — S. Natale 1939 [agenda per le vacanze natalizie dei convittori], Collegio Rosmini, Domodossola (p777069s). — La Regalità di nostro Signor Gesù Cristo, “Bollettino Parrocchiale San Marco”, Rovereto, ottobre 1946, p. 77

(princeps); poi in ROV, pp. 43-45. — Sia per Dio benedetto. Testo estratto da Note secondo il Regno dei Cieli, Ch, XXX, 3, marzo 1956, p. 104.

— Via Crucis, sottotitolo nella princeps: (Pensieri di Don Clemente Rebora), Ch, XXXI, 4, aprile 1957, pp. 145-147. —

Tre invocazioni, Ch, XXXII, 1, gennaio 1958, p. 10

(princeps). — Disposizioni per la bara, “Drammaturgia”, IV, 9, primavera 1958.

— Aspirazioni mariane - 11 febbraio {Madonna di Lourdes}, Ch, xxx, 2, febbraio 1959, pp. 65-66 (princeps). (In tutti i casi citati, il testo è conforme agli originali, salvo alcune minime normalizzazioni grafiche e interpuntive). — Lungi da me la scappatota dell’arte. Corrisponde a un 508

autografo (ne ho visionata una copia fotostatica) conser-

vato nell’Archivio Rosminiano. Il testo è già apparso in LOLLO, p. 179 (dove è approssimativamente datato al 1954). (Non pochi sono i perszeri di Clemente Rèbora che è possibile rinvenire sfogliando le annate di “Charitas”: è auspicabile una loro edizione completa, che anche si giovi del materiale custodito nell'Archivio Rosminiano).

Appendice —

Tregua. Lirica inedita, conforme a un autografo la

cui copia fotostatica è stata gentilmente concessa per la stampa dalla Signora Maria Grazia Santarone Bottoni, nipote del Paolo Santarone amico del Poeta. Due i (necessari) interventi sul testo: in chiusura dei versi 6 e 12, dove ho rispettivamente introdotto un punzo e virgola e un punto fermo.

Versi e frammenti poetici desunti dall’epistolario e mai comparsi in precedenti raccolte reboriane

Eccone l’elenco, frutto dello spoglio sistematico dei due volumi delle LETTERE. Per comodità del lettore riportiamo anche parte dei brani epistolari che incorniciano quelli lirici. 1) LETTERE I, n. 719 (pp. 434-435), datata /Mzlano, set-

tembre 1922}, destinataria Adelaide Coari {non rintracciato ma ta, crit ilos datt one uzi rod rip una te esis ne l’autografo:

incerta e scorretta, presso l'Archivio Rosminiano]: te en am ri sa es ec (n i nn ce ti es qu da e /s «Cara Coari, r pe e on zi sa er nv co di ma te un .}] {.. re va ca e ss te po ti) rat ast hé rc pe i itt scr ho li io do mo ni og In a. oi gi i domani, n’avre

». ra bo Rè e nt me le /C i. on rd pe ne cme i; st ie ch a Ella meli avev 509

Seguono tre foglietti sul tema mazziniano dell’ E4ucazione; nell’ultimo si legge: «Oh come infida l’anima ci mostra,

Che non può nel presente l’Ideale, E disperata ripiegando l’ale Affida ad altri l’impresa ch’è nostra!

L’Educazione invece si fonda sulla fiducia nella trasformazione del mondo secondo il disegno divino m24 meritato da noi, per opera nostra» (corsivi dell’ Autore). 2) LETTERE

I, n. 810 (pp. 497-500), datata Mz/aro, 8

febbraio 1926, destinatario Piero Rèbora {non rintracciato l’autografo]: «[...} e come una mamma

si astiene da certi atti per

amor del suo bambino, così una generazione se ne astiene per amor della nascitura generazione — sapendo che nulla del bene così avviato andrà perduto, e ci si ritroverà, ora e

sempre, in forme superiori e gioiose e imparagonabilmen-

te belle di vivente creazione. Il generare, magari una o poche volte solo in una vita, diverrà una testimonianza vera-

ce di amare quanto diciamo di amare sotto il cielo. Di qui il significato: O castità, fiore che ti sostiene amore.

Ma finisco questo bislacco mio dire [...}». 3) LETTERE II, n. 176 (pp. 165-166), datata Stresa, San Francesco d' Assisi {4 ottobre} 1954 A.M. [Anno Mariano], destinatario Piero Rèbora {autografo in Archivio Rosminiano, consultata una

copia fotostatica che permette di

correggere al v. 2 femmi per fammi, come erroneamente

nella stampa]: «[...} In questo ritorno poetico mi è venuto in mente il 510

principio di un poema cavalleresco che io abbozzai in ginnasio (sotto la suggestione sopratutto del Tasso, mi pare), e suonava così: {nel testo tutto di seguito, con barra di divisione tra un verso e l’altro] “Forse pazzia che mi passò pel capo che di subito femmi chiar poeta...”;

ma poi la difficoltà fu il trovare altre due rime in 4po per la ottava... Oh fosse stato il primo sintomo della “pazzia

della Croce”! [...}». (Più che del Tasso, si tratta in realtà del Tassoni, vedi La secchia rapita 3, 54, 7-8: «... pretendea gran vena in poesia,/Né il meschin s’accorgea ch’era pazzia»).

Se gli ultimi versi riportati sono sicuramente di Rèbo-

ra, e se i primi (oltre a tutto affini all'atmosfera disadorna e filosoficamente netta dei Canti anonimi) lo sono molto probabilmente, qualche dubbio sorge per quello di cui al n. 2. È vero che il Poeta nelle sue lettere era solito indica-

re gli autori di testi eventualmente citati; ma è anche vero che,

per

esempio,

la strofetta

anonima

riportata

in

LETTERE I, n. 904 (unitamente a una strofa dei reboriani [Versi}) risale nientemeno che all’Inno di Mameli, mentre in LETTERE I, n. 828 è anonimamente citato un passo del Purgatorio dantesco.

ORDINAMENTO DELLA PRESENTE EDIZIONE QUADRO RIASSUNTIVO

Ecco un riepilogo generale delle parti e sezioni che compongono la presente edizione. Ricordo che per Frammenti lirici, Canti anonimi, Poesie sparse e prose liriche il testo è normalmente esemplato sulle prizepes; per le altre sezioni su Sch,. Rinvio co-

sindei isi anal ata agli dett una per Sch, di rato appa all' munque

inli nzia esse ne alcu ce inve isco forn sede ta ques In hi. luog goli

(non uale test e ico olog cron e tter cara di più lo per dicazioni, 511

poche quelle di prima mano). Confronta però tali dati con la bibliografia conclusiva. PARTE I FRAMMENTI LIRICI 1913. La prima raccolta reboriana uscita a stampa. Per altro l’edizione vociana non dovette essere irreprensibile: «era forse necessaria ancor una prova di stampa» (a Giuseppe Prezzolini 1’1/7/1913, in LETTERE I, n. 246). Cronologia: «i più {dei frammenti} son del decennio passato» (ad Antonio Banfi il 12/2/1912, in LETTERE I, n. 155); ma vedi anche i citati frammenti inviati a Monteverdi (LETTERE I, nn. 209,

218, 220, 222), i cui autografi attestano tra l’altro l’zszs del primo Rèbora di iniziare i versi con la maiuscola.

PARTE II CANTI ANONIMI 1922. I Canti anonimi raccolti da Clemente Rèbora sono la seconda e ultima silloge del nostro Poeta prima della conversione. Cronologia: il Macrì (cit., p. 280) suggerisce di tenere come termine ante quem la data 1920 che compare in

calce a Dall'imagine tesa, ultima lirica della raccolta (ma forse la posizione di questa poesia ha valore ideale, non cronologico). E giunge l'onda, ma non giunge il mare. Nell’Archivio Schei-

willer è custodito un dattiloscritto su carta velina (provenienza: Daria Banfi Malaguzzi), ove mancano i primi sei versi della lirica e, rispetto alla prrnceps, risultano le seguenti varianti: 7 E omissis 8 mare. 9 mare, 11 stesso, 12 gocce, 14 flutto, 19

tonfo 21 distesa 22 cerchia, 23 Mare profondo fondo, 25 Innùmeri 26 In tra 26 e 27 i due vv. col fiore | Una man che lo svelle, {segue spaziatura} 28 Incolmabile 29 bevute spremute 31-32 sono un 31 spraggia,. Nel dattiloscritto i versi iniziano con e non compaiono asterischi o simili tra le strofe.

24 E omissis Dove creata è 27 omissis unico verso la maiuscola

Se Dio cresce. FOLLI (n. 44, cit.) trascrive un autografo delle prime due quartine, che riporta la data Milano 1920; oltre a ciò, al v. 1 Dy0 è maiuscolo (diversamente dalla princeps ma come poi Sch, e Sch,) e i versi iniziano pure con la maiuscola; l'originale manoscritto, a differenza di quanto risulta nella

stampa, attesta l’uso dell’asterisco tra strofa e strofa (devo l’in-

formazione alla brillante curatrice delle lettere di Rèbora a Sibilla Aleramo).

PAR

”. PARTE III

POESIE SPARSE E PROSE LIRICHE [1913-1927]. Vi sono compresi tutti i testi estravaganti composti dal Poeta prima della

conversione. Per la cronologia vedi quanto già detto, oltre alle indicazioni qui di seguito fornite in dettaglio. Movimenti di poesia. Le parti IM e IV di questa lirica sono state rifiutate dall’Autore (vedi LETTERE II, n. 114). Vengono qui

pubblicate in Appendice come semplice documento. [Un'impor-

tante variante autografa (proprietà di Enrica Bonfanti Valli, nipote del Poeta) sarà pubblicata sul n. 2 (febbraio 1988) della rivista “Poesia” diretta da Patrizia Valduga]. Prima del sonno. In CI, e Sch, è datata 1914. Vedi infatti LETTERE I, n. 334, a Sibilla Aleramo il 10/1/1915: «Io ero venuto, sopratutto, per ritirare le bozze di quella mia poesiina; non sono ancor pronte? {un verso deve esser mutato; invece di

“Aderenza strappata / Oh vita ecc.” — Strappata aderenza di vita / Che fino ecc.}». Le quadre sono nel testo. Notte a bandoliera. Vedine la citata stesura con varianti in-

viata a Monteverdi il 15/9/1914 (LETTERE I, n. 315). Prima. Vedi qui la nota 12.

Voce di vedetta morta; Pensateci ancora; Bizzarria e corale di re-

trovia. Così Rèbora a Mario Novaro il 5/11/1916: «la parte veramente rz0v4 {...} del mio libro abbozzato {quello, citato, sulla Guerra], non è pubblicabile ora e nemmeno per stralci. Le invio, invece, tre elementi autonomi, un po’ di polline disperso dal resto» (corsivo dell’Autore). Ma Pensate ancora e Bizzarria... sono già indicati (almeno come «abbozzo») nella lettera alla madre del 6/9/1916 (n. 442); Voce di vedetta morta risulterà invece come «ritoccata» in lettera a Meriano del 24/11/1917 (n. 531); dunque ben oltre la comparsa della princeps. Alla riga 47 di Bizzarria... la princeps legge fellezza per bellezza (come invece i successivi editori): suggestiva l'ipotesi di un papax reboriano da fello (= malvagio, ecc.), sembra però più probabile l’errore di stampa. [Una variante di Pensateci ancora (proprietà di 2 n. citato sul ata pubblic sarà Valli) i Bonfant Enrica di “Poesia”].

DIO

Pa

-

Lei

=

e us, Dai

Camminamenti. In ci, e Sch, è datata 1915, probabilmente

per l’indicazione di Alessandro Parronchi (Le poesie varie di C.R., “La Chimera”, I, 3, giugno 1954, p. 2): «questa poesia

| {...] il poeta ricorda scritta nel ’15 sul Podgora». Così Rèbora a Meriano il 3/2/1917 (vedi LETTERE I, n. 464): «Sai che sia avvenuto della rivista La Tempra? [...} Mi si aveva — 3 o 4 mesi fa — sollecitato più volte a collaborare; ani una poesia, € poi non ne ho saputo più nulla».

Senza fanfara. Così a Meriano il giorno 1/3/1917 (vedi LETTERE I, n. 470): «Non maravigliarti se vedrai qualcosa di mio sulla Diaza». In orario perfetto; Coro a bocca chiusa. Così a Mario Novaro il giorno 1/1/1917 (vedi LETTERE I, n. 455): «Le mando ora per la Riviera questi due scritti». E poi 1°8/1/1917 (n. 457): «La ringrazio del gentile accoglimento». In Coro a bocca chiusa, righe 19-20, comunque la è congettura (= Sch.) su parte in bianco della princeps: il numero delle lettere integrate corrisponde per altro perfettamente allo spazio libero. Arche di noè sul sangue. Probabilmente coincide con quel «Permissionario (una parlata con qualche trapunto lirico)» di cui Rèbora a Meriano l’8/3/1917 (LETTERE I, n. 473), e poi il + 14 successivo (n. 481): «Ti mando questo scritto come ti avevo promesso [...} ho voluto bene a te e alla Brigata vergandolo». Rintocco, Viatico, Tempo. Così a Meriano il 15/4/1918: «Rai-

mondi [...} m’invitò ripetutamente [...} a collaborare alla “Raccolta” — ho mandato qualcosa, come Lazzaro» (corsivo dell’Au-

tore). Forse il riferimento vale anche per i quattro testi in un secondo tempo pubblicati sulla rivista del Raimondi: Canzorana, Vanno, Fonte nella macerie, Serenata del rospo.

Canzoncina.

Il testo inviato a Meriano il 23/4/1918

(vedi

LETTERE I, n. 532) non presenta nessuna variante rispetto alla princeps, se non l’uso dell’asterisco tra strofa e strofa.

Vanno. Nella princeps tra i vv. 6 e 7 si ha cambio di pagina: difficile stabilire l'opportunità della spaziatura introdotta dai successivi editori (e qui mantenuta).

514

Fonte nella macerie. In calce la data della princeps. In CI, e Sch,

(poi in Sch.) si legge invece: «[S. Pietro di Val d'Astico, 19157»,

secondo una tarda (e probabilmente approssimativa) indicazio-

ne dell’Autore (vedi Sch,, p. 365).

Ca' delle Sorgenti. Così al fratello Edgardo il 24/9/1917 (LETTERE II, Appendice, n. 1): «la testa grama abdica al cuore che fluisce ancora da Ca’ delle Sorgenti, e si riposa nelle tregue con te, quando si mangiava anche il pane della nostra amicizia. Ho come un canto che ora non può uscire», ecc. Ma già il 24/

8/1917 ad Angelo Monteverdi (LETTERE I, n. 505): «io sono da quasi due mesi quassù dove il M. Bianco non comprende perché ascende la “nostra” tragedia» (corsivo mio). {Versi}. Vedi le citate lettere 837, 861 e 904 dell’epistolario (vol. 1). Ma un primo accenno in quella a Bice Jahn Rusconi del 23/12/1926 (LETTERE I, n. 835): «Mi permetto [...} acclu-

derle due strofe da aggiungersi a quella poesia che le mandai l’ultima volta: la prima strofa va posta dopo “l'egoismo fatale” — la seconda, in fine del componimento» (corsivo dell’Autore). La lirica era certo stata acclusa alla precedente lettera del 14/11, che risulta mutila significativamente dopo un analogo «Mi permetto». L’autografo della lettera n. 837, nonché la riproduzione dattiloscritta della n. 861 (ambedue nell'Archivio Rosminiano, da me consultate in copia fotostatica), conferma-

no l’uso della minuscola in inizio di verso (= princeps) e segnalano invece quello dell’asterisco tra strofa e strofa. Una più tarda testimonianza si serba nell’Archivio Scheiwiller: si tratta di una velina dattiloscritta, proveniente da Bice Jahn Rusconi,

con la sigla in calce «C.R. (1928)» e la firma autografa «Clemente Rèbora 1928». Nel dattiloscritto (ove i versi iniziano con la minuscola e non risultano asterischi o simili tra le strofe) manca l’ultima quartina della lirica e si leggono, rispetto alla princeps, alcune minime varianti (4 anzicristo [senza virgola] 8 s'arrenda 9 tutto {con la minuscola} 24 zomo); interessa però soprattutto la lezione del v. 21: L'arca del cuore (confronta con apparato di Sch,, p. 404). in so ar mp co to tes il È de. bar lom ole aiu ris le del a nn na Ninna

— ? 23 292 «1 s: tu Na ia Lid di e on zi ta no an te en gu se la n co Ic,

a Vi 2 in ra bo Rè te en em Cl di a ur at tt de to sot a Milano — Scritt 0 r27 no ag mp co o ic am ro st no le bi ca ti en im nd Fontana, Casa dell’i

515

d’arte, il Prof. Avv. Cav. Maro Rolla». In appendice vengono riprodotte due varianti (una è trascritta su spartito musicale) di questa lirica (= Sch,, di cui vedi la nota a p. 412. {Sulla seconda delle varianti è probabilmente esemplato il sottotitolo Poessa e musica di Clemente Rèbora presente in Ic ma poi eliminato a partire da Sch,}). Una parziale riproduzione del testo anche nella citata n. 787 di LETTERE I (all’Aleramo, Pasqua 1925). La

data che compare nella stesura di CI, (Settembre 1924) vale quel-

la in calce allo spartito qui stampato in appendice. Così il Poeta a Bice Jahn Rusconi il 24/11/1927 (in LETTERE I, n. 868): «ora io vorrei stampare una mia m/nnananna (parole e melo-

dia)» (corsivo di Rèbora). Aforismi. Princeps = Ic. Ma vedi il primo (con variante Ciò per Quel) nelle citate lettere n. 869 (alla Coari il 25/11/1927) e n. 892 (alla Rusconi il 12/3/1928). I due versi sono anche inseriti nella lirica Sono appena una bambina, 19-20. L'originale rus-

so del terzo degli aforismi, fornito dalla Natus a Vanni Scheiwiller (ne ho consultata una copia fotostatica), è il seguente: Ne plaè, ne pla, rodnaja,

Ljubov'-nadezda raja.

È Serafina nido per giornate. Princeps = Ic. Vedi le lettere dal 30 aprile al 6 giugno 1917 nel vol. I dell’epistolario.

Quando fluisce il fiume da sorgente. Princeps = Ic (dove risulta da un «autografo in possesso della Signora Daria Banfi Malaguzzi Valeri, Milano», e dove in nota è indicata la data 1922).

Si accetta però la razionale divisione in quartine di Sch, (vedi apparato di Sch,, pp. 403-404). La data 1922, riportata dallo

stesso Sch,, è conforme alle ampie citazioni dell’epistolario (vedi nel vol. I la n. 719 e la n. 722).

Mentre lavoro nei miei giorni scarsi. Princeps = Ic.

Così un bisogno, un bisogno cocente. Compare nella citata lettera alla Coari del 25/11/1927 (su cui sostanzialmente è basato

Sch, e, quindi, Sch,, di cui vedi l’apparato a p. 404). La data in calce a Sch, (Milano, ottobre 1927) è impropriamente desunta

da quella del testo (ma con varianti) pubblicato dalla Marchione sulla “Fiera Letteraria” (xIV, 39, 27 settembre 1959, p.l)e

516

poi riprodotto fotograficamente in IT, Tav. 14. Nel testo invia-

to alla Coari si segnala l’uso della minuscola in inizio di verso e anche dell’asterisco tra strofa e strofa (così almeno nella riproduzione dattiloscritta conservata nell'Archivio Rosminiano

di Stresa, della quale ho visto una copia fotostatica).

Da un pezzo dico: — far da concime. Compare nella stessa lettera alla Coari del 25/11/1927, sopra indicata, dove si segnala

l’uso della maiuscola in inizio di verso. La data di Sch, (e Sch,) è correttamente desunta dal testo della lettera: «Un mese fa m’uscirono questi versi».

Sono appena una bambina. Princeps = Ecg, dove risulta da un manoscritto «in possesso della Signora Daria Banfi Malaguzzi, Milano». PARTE

POESIE omonima

IV

RELIGIOSE

(1936-1947).

Corrisponde alla sezione

di Va, poi confluita, con le pochissime correzioni

grafiche e interpuntive che compaiono nel Postillato Vallecchi, in Sch, e Sch,. In queste ultime due edizioni era compresa nelle Poesie religiose — per scelta soggettiva del curatore — anche Ave

Maria, pur estranea all’originario gruppo Va. Secondo la logica che ispira la presente edizione, detta lirica è invece inclusa tra

le Poesze sparse {1930-1957}. Quanto agli estremi cronologici dichiarati in Va sotto il titolo di sezione, il primo (1936) andrà mentalmente arretrato secondo le indicazioni qui di seguito fornite.

Il Sacerdote. Nota autografa sul Postillato: «1934? scritta prima ch'io fossi ordinato sacerdote». Poi anche in LETTERE II, n. 58, al fratello Piero il 21/12/1937: «L’ho scritta che non ero nemmeno in Sacris, e quando il sacerdozio mi pareva ‘mpossibi-

le» (corsivo dell’ Autore). La chiesuola dello Spielbere, Mater clementissima. «... sono ri-

pieghi scolastici di quattro anni fa, quando ero insegnante di seconda ginnasio nel nostro collegio di Domo»: così al fratello , lla que he anc i ved (ma ta cita ra sop era lett sa stes la Piero nel ). 114 n. II, E TER LET in 46, /19 6/6 del ro, Pie a pre sem

r«te o: tt ri sc no ma sul e gg le e on hi rc Ma La L’ Annunciazione. DAT

i za dell’ottava di Pentecoste 1946» (IT, p. 255); vedi però anche

la lettera a Piero del 17/6/1946 in LOLLO, p. 135: «Ti accludo il a onat issi comm l’ha me e azion nunci (L’An e poesi ancora due

Padre Provinciale [...}); l’altra che comincia “Amor...”; dovrebbe chiudere il libro».

La speranza; Speranza. Se è vero (IT, p. 255) che La chioccia fu composta a Rovereto per l'onomastico di Don Carlo Pagani (dunque intorno al 4 novembre), una di queste due liriche sarà forse il «momento poetico» di cui nella citata lettera del 6/6/ 1946; l’altra sarà inevitabilmente quella dei «versi sulla Speranza» acclusi alla lettera, sempre a Piero, del 2/5/1947 (vol ul,

n. 119).

Amor dammi l'Amore. Vedi la citata lettera del 17/6/1946 in

LOLLO, p. 135. PARTE V

Sono qui comprese le prime tre sezioni di CI,, un’edizione curata da V. Scheiwiller con l'approvazione dell'Autore (vedi la nota nella stessa CI, a p. 135). Le rimanenti due sezioni, Poesie varie e Poesie ritrovate, avevano invece un carattere dichiarata-

mente provvisorio (il curatore stesso si augurava «una edizione migliore, e aumentata», essendo «sulla traccia di altre vecchie

poesie». Le date che seguono i titoli delle sezioni riproducono quelle di cI, e non sempre corrispondono agli esatti termini

cronologici dei testi. Alludono evidentemente non solo al periodo di composizione ma anche a quello in cui il vario materiale è stato raccolto.

CANTI DELL’INFERMITÀ (ottobre 1955 - dicembre 1956) Riproduce la sezione omonima di CI,, accresciuta rispetto ai

primi Cant dell'infermità del 1956 (apparsi in tiratura limitata

per il ventesimo di prima messa del Poeta: il 20 settembre). In Sch, (e poi Sch,) vi fu aggiunta una «prima stesura» di So/o calcai il torchio che, invece, nel presente volume è trasferita in ap-

pendice. L'ordinamento cronologico dei vari testi è stato risistemato secondo la corretta corrispondenza tra le date liturgiche (vecchio calendario!) e quelle civili (fornite queste ultime tra parentesi quadre). Ricevuto l’opuscolo dei primi Canti del-

l’infermità, Rèbora rispose all’Editore il 20/9/1956 (firma auto-

grafa, testo di altra mano, lettera serbata — come le altre che

518

citeremo — in Archivio Scheiwiller): «Grazie, dolce mio Van-

ni, per avermi dato modo di celebrare, con poesia, una data a me — dolorosamente — cara. Confido vivamente a voce, presto, di poterti rinnovare questo mio profondo ringraziamento. Con ogni benedizione ti abbraccio. / Don Clemente Maria». Così invece l’Editore al Poeta il 4/10 successivo (copia — come l’altra che citeremo — pure in Archivio Scheiwiller): «pen-

serò alla ristampa del Curriculum, dei Canti dell'infermità e di

tutte le altre poesie sparse. Che ne dice? Come titolo generale, . forse è meglio Canti dell’infermità, conoscendo la sua giusta obiezione a quella di Poesia religiosa».

La cima del frassino; Il pioppo. Così in VIOLA, p. 23 (data 6 ottobre {1956}): «Possibile, Padre, che quel pioppo che ha sempre dinanzi non le ispiri qualche bella poesia?”. “Già, caro, e

pensare che io l’ho sempre creduto un frassino!”». Il giorno successivo a quello indicato la lirica era già pronta (vedine la trascrizione in VIOLA, p. 24). Madonnina. Vedine l'esposizione tematica resa dall’Autore nella prosa Maria Nascente, Ch, dicembre 1956, p. 449 (che ri-

porta in calce la data Stresa, 8 settembre 1956). CURRICULUM VITAE (estate 1955) «È l’unica parte della raccolta ordinata dal poeta» (V. Scheiwiller in CI,, p. 135). In Sch, e Sch, il curatore vi aggiunse però un Frammento del Curriculum e Altre epigrafi, che nella presente edizione risultano invece rispettivamente in appendice e nella

sezione Poesie sparse {1930-1957}. Quanto al testo, in Sch, e Sch, sono state operate alcune minime correzioni (quasi solo grafiche) sulla scorta di materiale pervenuto a V. Scheiwiller dall’Archivio

Rosminiano,

per il tramite di Enzo Gritti. La

pubblicazione del Curriczlum venne annunciata da Eugenio Montale sul “Corriere della sera” il 23 luglio 1955 (nell’articolo L'aria mondana di Stresa non turba i trecento filosoft). Curriculum vitae. Così il Poeta al fratello Piero il 28/8/1955

(LETTERE HI, n. 182): «il qui accluso foglietto [...} contiene il due più in con to, met poe al co ogi col psi e o tic poe “preavviso” a re Olt o». azz rag e bo, bim ero nd’ qua di te iun agg brevissime

ò per Già o. test al e rat ope i ion rez cor une alc ciò, Rèbora segnala enacc un e fors c'è 8 15/ del ro) Pie a nella precedente (sempre #54)

no alla composizione del Curriclum: «Se mi sarà dato, vedrò del ofa str ma lti L'u ». sie poe mie e dell le ica mus a dur lin la a circ

poemetto era per altro apparsa a stampa in Ch sin dal maggio

il er ill eiw Sch a ive scr ora Rèb nto qua nte ssa ere Int e. ent ced pre 12/9: «avrò possibilità di fare una revisione del testo sulle bozze, nevvero? La strofa di chiusa ha avuto qualche ritocco, e non

ricordo se sia già segnato nel dattiloscritto consegnato a te: / v. 1 La tenerezza del divino Cuore / v. 10: l’ossa slogate trovaron lor posto / v. 17 s'alza / v. 18 (verso nuovo): senza Confiteor non si sale Altare» (corsivi dell'Autore). Alla lettera è anche accluso un dattiloscritto con i vv. 1-23 del poemetto (forse il «“preavviso” poetico e psicologico» di cui sopra?); unica variante rispetto al testo qui fornito: v. 1 e omissis.

Poesia e santità. Inviata dall’Autore a V. Scheiwiller (per l’0maggio a Rimbaud), acclusa a una lettera del 29/9/1954; anche vedine la trascrizione, con due varianti, inviata al fratello Piero

il 4/10/1954 (ma la lirica è datata Settembre 1954) in LETTERE TnSsl763

Rendimento di grazie. Può essere che corrisponda a quella «variaz. poesia popol.» inviata al fratello Piero il 21/12/1937 (LETTERE II, n. 58). Ma testi di ispirazione popolare si trovano

pure nelle due agende S. Nazale 1938 e S. Natale 1939.

Aspirazioni. Compaiono anche in Ch (febbraio 1958) con l’erronea data, in calce: 11 febbraio 1953 [Madonna di Lourdes}; € poi in AP, con la corretta indicazione cronologica qui offerta dal Poeta nelle Noze conclusive della sezione (fra l’altro, la pri-

ma delle due aspirazioni riprende parte del Voto emesso, sub gravi

appunto al Monte Calvario di Domodossola nel giugno 1936).

Epigrafi. Con ogni probabilità sono dei frammenti non inclusi nel poemetto che dà nome alla sezione. La prima viene riprodotta in VIOLA, p. 25.

INNI (1953-1956) Viene riprodotta l'omonima sezione di CI, (quindi in Sch, e Sch,).

Il Gran Grido. «Ti unisco la poesia ritoccata [...} Se la Fiera Letteraria consente a pubblicarla, sarebbe conveniente lo faces-

520

se entro il luglio, mese d’inizio del Centenario {della morte di Rosmini}»; così il Poeta al fratello Piero il 13 (ma LOLLO, p. 172, legge 1) giugno 1954 (LETTERE II, n. 172). Il testo comparve infatti sulla rivista romana 111 luglio successivo. Fu poi

ripreso, tra l’altro, anche nella Via Cruos illustrata da France-

sco Messina, che Scheiwiller pubblicò nel 1955: ricevutane la prima copia, Rèbora ringraziò l’Editore per il «sacro gioiellino» (su cartolina con t.p. 30/3/1955). Trittico. Nella princeps in Ch la data è Stresa, 30 ottobre 1955.

Gesì il Fedele. Così Enzo Gritti all’Editore il 3/10/1956 (autografo in Archivio Scheiwiller): «Don Clemente m’incarica d’inviarle il novissimo INNO per il S. Natale: GESÙ IL FEDELE: lo trovi {sc} qui compiegato. Lo affida a Lei, perché, tenendolo per ora riservato, pensi al dove-come pubblicarlo a tempo opportuno, quale dono natalizio, da diffondere-effondere il più

possibile, a gloria di Dio e a bene delle anime». POESIE SPARSE {1930-1957}

Comprende l’originale nucleo di Poesie varie di CI, poi confluito in Sch, e in Sch, (parte nella sezione omonima, parte in

appendice). A queste si aggiungono qui tutti gli altri testi religiosi estravaganti, per lo più usciti autonomamente in rivista e, comunque, poi accolti nell’appendice di Sch, (= appendice I di

Sch,), nonché in AP ed Ecg (i quali poi nell’appendice Il di Sch,). In questa sezione compaiono molte delle Aggiunte citate in precedenza. Le poesie sono ordinate cronologicamente secondo la loro comparsa a stampa. Il Voto emesso, sub gravi chiude comunque l’intera raccolta, come in Sch, e Sch,.

La casa religiosa. «... in occasione dell’onomastico del mio Padre Rettore, anni fa: fu musicata»; così al fratello Piero nella

citata lettera del 21/12/1937, dove la lirica è inclusa fra quelle «di nessun conto» (vedi LETTERE II, n. 58). S. Natale 1938. Comprende fra l’altro una strofa di Davanti

al Presepio (poi in Ecg). a at ar ep pr zia ali nat a nn re st a un o ud cl ac .ti «.. S. Natale 1939. 77, n. II, RE TE ET (L a ri Ma a ell sor a all ì cos ; i» zz ga ra tri nos i r pe

521

di

be

datata Novena del Santo Natale, 1939; ma vedi pure la n.78ela i ved 8, 193 del zia ali nat da gen l’a per he anc e , sta que Per . 88) n. la precedente nota a Rendimento di grazie (sezione Curriculum vitae).

La regalità di nostro Signor Gesù Cristo. «Altre poesie? ce ne sarebbe una lunga a Cristo re (l’Arciprete di qui {Rovereto} me l’aveva commessa per un'occasione celebrativa)»; così al fratello Piero il 22/3/1949 (LETTERE Il, n. 126). Aspirazione; Inno per il popolo; Bocciòlo di rosa reciso. «Bocciolo di rosa reciso è inedito e Passa la Mamma come inedito perché rifatto da un primo abbozzo pubblicato nello sconosciuto Bollettino Parrocchiale di Rovereto. L’ Aspirazione mi era venuta al nostro Calvario, sacerdote novello»; così Rèbora nella lettera al

confratello Don Giuseppe Airaudi pubblicata abusivamente (vedi infatti LETTERE II, n. 126) con le tre liriche nella “Fiera Letteraria” del 20/2/1949. In AP compare invece, in calce all’ A-

spirazione, la data erronea 1948. Per il «primo abbozzo» di 10 per il popolo, vedi la bibliografia. In ROV, p. 39, si legge: «In quell’anno {1948} il Vescovo di Trento aveva annunciata l’apertura dell’anno mariano [...} Tra le varie manifestazioni {...]} principale la Peregrinatio Mariae. La statua della Madonna, proveniente da Volano e S. Ilario giunse processionalmente in San Marco {Rovereto} il 30 Ottobre».

Cinquantesimo di vita religiosa di P. Giuseppe Bozzetti. In CI, (e poi Sch,) compare in calce la data 15 dicembre 1952, che per altro non allude né all’anniversario celebrato (doveva cadere il 12 gennaio successivo) né alla composizione della lirica (la cui princeps era apparsa nel gennaio dello stesso 1952). Così il Poeta al fratello Piero il 3/3/1951 (LETTERE II, n. 139): «Avevi ricevuto, a suo tempo, quei versi che cominciano: Si avanza il Signore...?» (nota la variante nell’incipzt). Ma forse un’allusione alla stessa poesia compare nella precedente, sempre a Piero, del 12/11/1950 (n. 137; vedine la citazione paolina). Pesce, come fuor d'acqua boccheggi. Così al fratello Piero il 13/

3/1953 (LETTERE II, n. 159): «... poesie che — se crederai, po-

trai inviare (quella più lunga forse meglio) a Don Giovanni Rossi {fondatore della Pro Civitate Christiana di Assisi, editrice della rivista “La Rocca”], come da sua richiesta». La data in

522



calce (così a partire da cI,) deriva probabilmente da quella di pubblicazione della prices. Inaridita la terra. È senz'altro, con Ramoscello primaverile, una delle «due poesie che hanno riferimenti alla natura» di cui

alla lettera a Piero del 21/4/1953 (LOLLO, p. 172). Vedine però la sicura fonte nella precedente alla sorella Marcella del

25/4/1949 (LETTERE II, n. 128).

Erra una mosca, si arresta. Così al fratello Piero il 13/1/1955

(LOLLO, p. 256): «ho mandato

a Don

Giovanni

Rossi la

“Mosca”, se sarà adatta allo scopo».

Per Ezra Pound. Così V. Scheiwiller al Poeta (e a E. Gritti) il 15/8/1955: «cerco di fare quel che posso in favore dell’amico Pound [...] perché [...] non sia dato in pasto ai fascisti vecchi e nuovi né ai fascisti 4//4 rovescia [...} Per questo spero di essergli utile {...} in occasione dei suoi 70 anni. Gli pubblico per quella data il suo ultimo libro di poesie e una piccola iconografia italiana di E.P. [...} Io ci terrei moltissimo al nome di Don Clemente se giudica cosa buona. Se non volesse scrivere qualche riga d’altro potrei pubblicare una sua poesia inedita (una del CURRICULUM

VITAE) {...} In questo numero ci saranno i mi-

gliori poeti e scrittori italiani — di ogni colore politico —» (corsivo di Scheiwiller). Rèbora rispondeva il 19/8: «Quanto a Pound, penso venuto il tempo per un’azione decisiva in suo fa-

vore: cogliendo forse l'occasione dal libretto a lui dedicato (eventualmente ho qualche verso opportuno)»; faceva poi avere all’Editore un primo testo della lirica su Pound e, quindi, il

12/9/1955 scriveva ancora a Scheiwiller: «Sono lieto che ti venga bene l'omaggio a E. Pound, e ti accludo la poesia a lui dedicata scritta di mio pugno, ma che è anche il nuovo testo per stamparla: come vedrai dall’unito datt., dove sottolineo in ma-

tita quanto ho mutato». Il dattiloscritto allegato non presenta sottolineature a matita (sarà stato ricopiato) e mostra le sela {con paradis 6 o fornito: qui testo al rispetto varianti guenti e 14 a manda > ad destina 13 mondo, il sfugge 7 minuscola} anche (Vedi prepara. > appresta 16 consola ndo > cuori e menti LETTERE II, nn. 182 e 183).

p. O, LL LO in a ter let ata cit la di Ve le. eri Ramoscello primav in ano ult ris pa am st a o rs pa ap to tes al to 172. Varianti rispet

523

IT, p. 154. (Princeps = “Stagione”, Iv, 13, primavera 1957). A S. Anna. Così a Piero il 28/7/1949 (LETTERE n, n. 129): «Ti accludo [...] una canzoncina popolare che mi chiesero anni fa, e si canta nella novena [...] che si tiene nella nostra Chiesa di Loreto; me ne sono fatto trascrivere, gg ho perso l’originale, ma forse vi corrisponde». Ave Maria. «Trasmessaci (1958) dal Sac. Luigi Arioli, che l’ebbe parecchi anni fa. Inedita» (V. Scheiwiller in nota a Ic, p. 32). Ho già osservato che in Sch, e Sch, era stata inserita dal-

l’Editore nella sezione Poesse religiose. Nello Spirito andiam del Precursore; {....} Preghiera alla SS. Trinità. 1 testi compresi tra i due indicati sono quelli apparsi inediti in AP (anche se, notava l’Editore a p. 39, alcune risultavano

«già divulgate su immaginette») e poi confluiti nell’appendice II di Sch,

La preghiera-novena a S. Giovanni Vincenzo. Fatta pervenire da Don Andrea Alotto, Rettore della Sacra di S. Michele (S. Ambrogio Torinese), a Enzo Gritti e da questi a V. Scheiwiller, compiegata a lettera dattiloscritta, il 20/2/1963 (serbata in Archivio Scheiwiller). Insieme alla preghiera-novena («L’originale lo possiede il Prevosto di S. Ambrogio», annota E. Gritti), risulta allegato tra il resto «l’autografo della lettera di Don Clemente a Don Alotto, accompagnatoria di detta Novena». Il materiale fu poi restituito dall’Editore a E. Gritti. {Tre preghiere}. Il titolo complessivo è stato inserito in Sch,. Pensieri.

1 primi tre riprendono quelli d’apertura dei Canti

dell’infermità; il quarto i vv. 1-4 (emistichio) di Notturno.

Don Clemente Rèbora a Don Carlo Pagani. Sono le quattro liriche confluite dalla Rivista Calvariana “Nuvole” (tx, 1, fasc. 27, 1964-1965) in Ecg.

Davanti al Presepio; Ecco del ciel più grande. Con Sono appena una bambina (qui nelle Poesie sparse e Prose liriche {1913-1927}) e le quattro a Don Carlo Pagani, costituivano il volumetto Ecg (poi in appendice Il di Sch,). In Davanti al Presepio la data in 524

calce è quella di Ecg; ma vedi nella lettera al fratello Piero del 25/5/1928: «Ti accludo [...} alcune strofe di Jacopone che tu conosci, riunite da me in scorcio; contengono una sana e affet-

tuosa e fiduciosa diagnosi del nostro male» (LETTERE 1, n.

903). Ho poi già notato che i vv. 45-52, sempre di Davanti al Presepio risultano nell’opuscolo Natale 1938. APPENDICE Comprende: 1) versi giovanili comparsi per la prima volta a stampa dopo la morte del Poeta; 2) il m e il rv dei Movimenti di poesia, che il Poeta ha rifiutato (vedi per esempio LETTERE II, n. 114): sono qui riprodotti a puro titolo di documentazione;

3) le {Dyeci poesie per una lucciola} (per cui vedi apparato di

Sch,, pp. 411-412); 4) due varianti della Ninza nanna compresa

nelle Poesse sparse e Prose liriche {1913-1927}: la prima è trascritta su spartito musicale, della seconda solo il testo (vedi comun-

que apparato di Sch,, p. 412); 5) Divagazioni [musicali]; 6) Frammento del Curriculum; 7) «prima stesura» di Solo calcai il

torchio. Anima errante, 1905 (Voî ventte...). Princeps = Ic. Il ritornello della prima lirica, con una variante, sarà poi nel Curriculum, vv. 32-33.

{Dieci poesie per una lucciola}. Nell’autografo riprodotto dalla Marchione (IT, Tav. 15) compare nel margine destro la nota: «10 liriche di / Clemens Rèbora / per Lidia / Grazie», e sul margine opposto: «Milano, Via Tadino - 3 c, 1925?». L’anno è

quello in cui il Poeta consegnò le liriche alla Natus «trascrivendole interamente di suo pugno sopra un album della stessa Lydia» (così la Marchione in IT, p. 245); ma «i versi risalgono

indubbiamente ad anni precedenti», osserva ancora la Marchione, stavolta però sulla “Fiera Letteraria” del 27/9/1959, dove

pubblicò le pricipes delle poesie I, II, III, IV, VI, VII, IX. Annota infatti la Natus nella princeps (Ic) del componimento Vv: «Constato non senza un po’ di sorpresa che nei “Canti anoni-

mi” manca questa [...} che pur fu scritta all’epoca medesima. Questa lirica fu letta dall’indimenticabile Sig. Romano Guarnieri in 3 Via Tadino in mia presenza». La poesia VII (la cui princeps è nel libretto 1889, Antologia di poeti per i settanta and’OPesce del All’Insegna Milano, Scheiwiller, ni di Giovanni

Nastessa della manoscritto un in 1920 datata ro, 1959) è poi DRD

tus (Archivio Scheiwiller). La x riprende infine quasi integralmente i vv. 44-47 di Sacchi a terra per gli occhi (Canti anonimi). Tutti i componimenti, prima che in Sch,, apparvero in IT, pp.

245-248. Nel citato autografo riprodotto dalla Marchione i versi iniziano con la maiuscola. Ninna nanna (due versioni). Princeps = Sch,. In un dattiloscritto (serbato in Archivio Scheiwiller) conforme al testo qui riprodotto, sotto la dicitura «Scritto, a memoria, in casa Banfi»,

compare l'annotazione a mano di E. Gritti: «(dichiarazione verbale della Signora Daria {Banfi} a me Fratello Enzo, 1958)». Nel dattiloscritto i versi iniziano con la maiuscola e tra le strofe non vi sono asterischi o altri segni di separazione. Solo calcai il torchio («prima stesura»). Princeps = Ic, dove compare in calce la data 16 novembre 1956, diversa da quella del testo definitivo. Frammento del Curriculum. Princeps = IT, p. 156; ma con varianti rispetto al testo di Sch, qui riprodotto. GIANNI

526

MUSSINI

- BIBLIOGRAFIA

Una ricca bibliografia dell’opera e sull'opera reboriana è fornita da M. Marchione in IT, pp. 263-280 e 359-387, le cui schede vanno aggiornate soprattutto con quelle del bollettino rosminiano “Charitas”. Vedi anche V. Sala, Ixdicazioni bibliografiche su R., “Rivista Rosminiana”, IV, ottobre-dicembre 1982, pp. 447-453; R. Frattarolo, Ancora su C.R., “Accademie e Biblioteche d’Italia”, 4-5, luglio-ottobre 1985, pp. 252-256; e le integrazioni (in parte a cura

di F. Secchieri) indicate in FOLLI, pp. 87-89. Un ordinato resoconto degli ormai numerosi contributi critici su C.R. resta però ancora da scrivere. Sono sempre utili strumenti

bio-bibliografici i quattro Quaderni reboriani (=Q.r.) pubblicati All’Insegna del Pesce d'Oro: 1) C.R. {con scritti di AA.VV.]}, 1960 =Q.r. 1960; 2) Lettere familiari, Contributo ad un epistolario reboriano, 1962 =Q.r. 19611962; 3) D. Banfi Malaguzzi, Il primo R., 22 lettere te (1905-1913) con un commento dei Frammenti pref. di L. Anceschi, 1964 =Q.r. 1962-1964; 4) “Mania dell'eterno”, Lettere e documenti inediti

inedilirici, C.R., 1914-

1925, intr. di D. Banfi Malaguzzi, 1968 =Q.r. 1965-19661967. Vedi pure il catalogo della Mostra bio-bibliografica su C.R. (Milano, Biblioteca Comunale, 2-14 febbraio 1968) pubblicato dall’associazione «Gli amici di Don C.R.», a cura di R. Rèbora e V. Scheiwiller, Milano, 1968. Interessante il resoconto degli ultimi quattordici mesi di vita del Poeta in VIOLA e davvero prezioso il Ricordo di che temp o A/ in Rèb ora Rob ert o nip ote dal C.R. fornitoci Util i 1986 . Sche iwil ler, Libr i Mil ano , ines plos era a, vita la 527

sussidî, soprattutto biografici, i numeri 45 e 46 del bollet-

tino vocazionale rosminiano “Speranze” (settembre e dicembre 1977), oltre ai numerosi di “Charitas”: vedi in particolare quelli del dicembre 1957 e del novembre 1964, 1967, 1985. A questi occorre aggiungere il citato ROV e, infine, il numero monografico di “Persona”, XII, 1-2, gen-

naio-febbraio 1971. [Da ultimo, vedi il numero monografico C.R., a cura di A. Ermentini e G. Oldani, pubblicazione della rivista “Psychopatologia”, Brescia, Edizioni del Moretto, dicembre 1985; il volume, oltre a testimonianze critiche, riproduce testi reboriani rari e documenti

biografici]. Qui di seguito viene fornito in ordine cronologico l’elenco degli scritti di C. Rèbora. Per le sigle usate, confronta l’apposita Tavola a p. 479. La freccia (+) segnala l’edizione in cui il testo (o gruppo di testi) indicato confluisce successivamente. Sono prese in considerazione le edizioni che abbiano avuto incidenza nella ‘storia’ degli scritti reboriani. L’asterisco indica i testi che, nella presente edizione, sono

stati inseriti ex m0vo rispetto a Sch..

Per le numerosissime citazioni da ‘“Charitas” (= Ch) è omesso l’ordinale romano relativo all'anno (1951 = a. xxv) e il cardinale relativo al mese (gennaio = n. 1, cei Per un Leopardi mal noto, “Rivista d’Italia”, xIM, set-

tembre 1910, pp. 373-449. > BONI. G.D. Romagnosi nel pensiero del Risorgimento, “Rivista d’Italia”, xv, 15 novembre 1911, pp. 808-840.

La vettorica di un umorista {su A. Panzini}, Vo, V, 9, 27 febbraio 1913, pp. 1025-1026. Bontà, ragazzi e Voce (Risposta a nessuna domanda), Vo,

V, 19, 8 maggio 1913, pp. 1073-1074. Frammenti XLXVILXXI-XXIV, Vo, v, 24, 12 giugno

1913, p. 1096. > V,.

528

Frammenti lirici, Firenze, Libreria della Voce, 15 giugno 1913.> Va.

La vita che va a scuola e viceversa, Vo, V, 31, 31 luglio

1913, p. 1127.

Il ritmo della campagna in città, Vo, v, 45, 6 novembre 1913, p. 1192.—> FALQUI.

A. Panzini, Semplici nozioni di grammatica italiana {Milano, Trevisini, 1914: recensione], Vo, VI, 6, 28 marzo

1914, pp. 26-31. Frammento {Clemente, non fare così), “La Grande Illustrazione”, I, 7, luglio 1914, pp. 170-172. Va. Movimenti di poesia, RL, XX, 34, ottobre 1914, pp. 335336. > FALQUI.

Prima del sonno, “La Grande Illustrazione”,II,13, genna10 1915, p. 16.

“Stagione”, I, 2, estate 1954, p.1.> CI,

Notte a bandoliera, “Almanacco della Voce”, Firenze, 1915, pp. 155-156 {copia anastatica: Firenze, Vallecchi,

1967]. > FALQUI. Fantasia di carnevale (Variazioni italiane), Vo, VII, 6, 28

febbraio 1915, pp. 367-371. > FALQUI. Prima, RL, XXI, 55, 1° luglio 1916, p. 541. >

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lano, Imagommage, 1984 {con fotografie di V. Sedf e una Nota di P. Giovannetti, ma senza le Annotazioni del tra-

duttore]. Canti anonimi raccolti da C. Rèbora, Milano, Il Conve-

gno Editoriale, 1922. > Va. Libretti di Vita {collana diretta da C.R. con sua premessa a ciascuna delle opere], Torino, Paravia, 1924-1926

(sedici volumi). Ammaestramenti morali di Fra Jacopone, a cura di Piero Rèbora, pref. di C.R., coll. “Libretti di Vita”, Torino, Paravia, 1925. {Vers}. “Il Convegno”, VIII, 3, 15 marzo 1927, pp.

102-103. > FALQUI. La letteratura italiana alla luce della Fede, “Bollettino

del Gruppo d'Azione”, Milano, 1930. Da Gregorio a Gregorio l'Inghilterra, “The Calvarian”, vol. II, 7, marzo 1935. > Sch,. La Casa Religiosa, ivi, 9, dicembre 1935. + Sch,. Versi per la prima Santa Comunione d'un fanciullo, ivi, vol. v, 17, dicembre 1938. > Sch,.

*S. Natale 1938 [agenda per le vacanze natalizie dei convittori], Domodossola, Collegio Rosmini, 1938.

Direttorio dei Novizi dell'Istituto della Carità {rifacimento di un antico “Direttorio” manoscritto a uso dei Novizi}, S.M. Calvario, Domodossola, 1939. * Agenda per le vacanze estive 1939, Domodossola, Collegio Rosmini, 1939 {i versi ivi contenuti > “Speranze”,

45, settembre 1977, ultima di copertina]. *S. Natale 1939 [agenda per le vacanze natalizie dei convittori}, Domodossola, Collegio Rosmini, 1939.

} ) ni io az al gn se ti en ed ec pr le i ed (v se ar sp ie es po [Dodici 531

in Poesia III-IV, a cura di E. Falqui, Milano, Mondadori,

1946, pp. 80-90. > Va.

*La regalità di nostro Signor Gesù Cristo, “Bollettino Parrocchiale San Marco”, Rovereto, ottobre 1946, p. 77. -> ROV.

Le poesie (1913-1947), a cura di P. Rèbora, Firenze, Vallecchi, 1947. > Sch.

Inno per il popolo, “Bollettino Parrocchiale San Marco”, Rovereto, novembre-dicembre 1948 {ma con il titolo Alla Mamma! e altre varianti; vedine la riproduzione in ROV}. + FL, 20 febbraio 1949.

Aspirazione — Inno per il popolo — Bocciòlo di rosa reciso, FL, IV, 8, 20 febbraio 1949, p. 1.

CI.

Sguardo alla vita interiore di A. Rosmini, Ch 1951: marzo, pp. 71-74; aprile, pp. 105-107; maggio, pp. 137-139;

giugno, pp. 169-172; luglio, pp. 202-204; ottobre, pp. 297-299; novembre, pp. 330-332; dicembre, pp. 363-366. Ch 1952: gennaio, pp. 13-17; febbraio, pp. 60-64; mar-

zo, pp. 90-92; aprile, pp. 137-140; maggio, pp. 171-175; giugno, pp. 217-219; 298-301.

luglio, pp. 250-254;

agosto,

pp.

Un ascritto rosminiano eroico: S. Bruno, Ch, ottobre 1951,

pp. 301-303 e 311.

Cinquantesimo di vita religiosa di P. Giuseppe Bozzetti, “Ricerca”, VIII, 1-2, 15 gennaio 1952, p. 3 {ma con il tito-

lo Avanza il Signore}. > Ricordo di P.G. Bozzetti, Domodossola, Sodalitas, 1957, p. 33. > CI,

Manzoni elogiato pubblicamente da A. Rosmini, Ch 1952: settembre, pp. 329-332; ottobre, pp. 361-364. Poesia su l'incendio del 17 gennaio 1953, Ch, marzo 1953,

p. 104 {ma con il titolo Sola la carità ormai divampi}. > Chi Pensieri sut Vangeli, Ch 1953: marzo, pp. 87-90; aprile,

pp. 119-122; maggio, pp. 166-171; giugno, pp. 200-203;

luglio, pp. 233-235; agosto, pp. 279-282; settembre, pp. Doe

312-314; ottobre, pp. 344-346; novembre, pp. 377-380; di-

cembre, pp. 407-411. Ch 1954: febbraio, pp. 55-57 (quello

di gennaio, pp. 7-11, attribuito a Rèbora, non ne riporta

però la sigla, a differenza degli altri). Impegno particolare dei figli di A. Rosmini, Ch 1953: luglio, pp. 256-258; ottobre, pp. 352 e 359-360; dicembre,

pp. 417-419. Ch 1954: febbraio, pp. 65-69.

Pesce, come fuor d'acqua boccheggi!, “La Rocca”, XII, 16, 15 agosto 1953, p. 5. > Ch, marzo 1954, p. 104.

> CI,

In un libro di elevata poesia, Ch, maggio 1954, p. 200 {sette righe non siglate che presentano una poesia di Don A. Cervia sul Rosmini]. Il gran grido, FL, IX, 28, 11 luglio 1954, p. 1. >

Ch,

gennaio 1955, pp. 25-27. > Via Crucis {le quattordici stazioni modellate da Francesco Messina], Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 8 aprile 1955. > “Ecclesia”, xv, 11,

novembre 1956, pp. 546-547. > CI. Appunti sulla vita interiore di A. Rosmini, Ch 1954: settembre, pp. 337-340; ottobre, pp. 377-380; novembre, pp.

417-419. Ch 1955: febbraio, pp. 81-91 {sottotitolo: (/A/ Calvario)}; aprile, pp. 169-182 {sottotitolo: (La sua chiamata sacerdotale)]. La tenerezza di Dio e Rosmini affettuoso, Ch, dicembre

1954, pp. 457-464. Poesia e santità, in Omaggio a Rimbaud, Milano, All’In-

segna del Pesce d'Oro, 1954, p. 29. > Cur. Rosmini, il tempo e l'eternità, Ch, gennaio 1955, pp. 33-43. Rosmini e il Battesimo, Ch, marzo 1955, pp. 121-134.

p. , 55 19 a er av im pr 5, II, , e” on gi ta “S ra, Inaridita la ter 1. —

Ch, agosto 1955, p. 400. > CI.

La Mamma nostra Maria e Rosmini, Ch, maggio 1955, o ott err int o ast rim gio sag un di te par pp. 217-228. Prima tiini def non e sur ste e i unt app re; uto l’A del tà rmi per l’infe e a nn do Ma La olo tit il con tem mor t pos ò per ero ve apparv

: olo tit tto {so 4 -18 181 pp. , gio mag 8: 195 Ch in A. Rosmini 533

Appunti}; giugno, pp. 220-224 {sottotitolo: Appunti — Citazioni — Annotazioni}; luglio, pp. 257-260 {come sopra];

371 369pp. bre, otto a}; sopr me {co 301 297pp. to, agos [come sopra}; dicembre, pp. 452-454 {come sopra}.

Erra una mosca, si arresta, “La Rocca”, XIV, 13, 1° lu-

glio 1955, p. 13 {con il titolo Poi non sarà più tempo}. >> Cig 4 Il Cuore e il Sangue di Gesù e A. Rosmini, Ch, luglio 1955, pp. 329-343. Rendimento di grazie, Ch, settembre 1955, p. 440. Cur. Per Ezra Pound, in Iconografia di Ezra Pound, Milano,

All’Insegna del Pesce d'Oro, 1955, p. 22. + “Stagione”, II, 7, autunno 1955. >> CI..

Chiamata all'Istituto della Carità {vv. 288-307 del Curriculum vitae. >

Cur} — Presagi rosminiani, Ch, ottobre

1955, pp. 496 e 505-518. Elevazione spirituale {> CI,} - A. Rosmini l’asceta e il mistico, Ch, novembre La Croce irraggia p.633)-=@€h. Curriculum vitae, 8 dicembre 1955. >

1955, pp. 552 e 557-570. luce dal Calvario, Ch, dicembre 1955,

Milano, All’Insegna del Pesce d'Oro, CI. Trittico, Ch, gennaio 1956, pp. 33-35. > CI.

L’Immacolata, Ch, febbraio 1956, pp. 68-70. > CI, Note secondo il Regno dei Cieli, Ch 1956: marzo, pp. 101107; aprile, pp. 137-141; maggio, pp. 173-179; giugno, pp. 212-231. Ch 1957: gennaio, p. 29. *Sta per Dio benedetto, ivi, marzo 1956, p. 104. L'intimità di Dio (In occasione della morte del R.mo P. Bozzetti) [con due pensieri: 1) «La liturgia dei defunti...»; 2) «Oppresso dal fastidio...»}, Ch, luglio 1956, pp. 265266.

Senza la grazia - La Santa indifferenza — La volontà di Dro, Ch, agosto 1956, pp. 321-322. Il Sangue del S. Cuore — Dio ci vuol santi — Pensieri {1) 534

«La mia stanchezza...»; 2) «Chiunque vuol seguire...)]}Misericordia di Dio e sforna - Il sangue di Gesù, Ch, settembre 1956, pp. 334 e 345-348. Dio da adorare— Pensieri {1) «Cuore Immacolato di Maria...); 2) «È soltanto la Passione di Gesù...»; 3) «Per ottenere — volendolo Dio — un miracolo...»}, Ch, otto-

bre 1956, pp. 369-371. Dio solo giudicatore, Ch, novembre 1956, pp. 421-424. Canti dell'infermità, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 20 settembre 1956. > “Officina”, 7, novembre 1956,

pp. 264-267. —> CI, Per il Santo Natale — Maria nascente, Ch, dicembre 1956,

pp. 445-449.

i

Gesù il Fedele (Il Natale), Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1956. + FL, XI, 52, 30 dicembre 1956, p. 1. > CI, La chiamata ordinaria di A. Rosmini, Ch, febbraio 1957,

pp. 61-66.

Ramoscello primaverile - Lamento sommesso - Pensiero {«Ogni vero poeta...»] - Il mio sgomento, “Stagione”, IV, 13, primavera 1957, p. 3. >

CI.

*Via Crucis (Pensieri di Don C.R.) - Tu non uccidere {stralci di lettera riguardo l'omonimo volumetto pubblicato dalla Locusta], Ch, aprile 1957, pp. 145-147 e 147-148.

Preghiere durante la S. Messa {trad. dal francese], Pinerolo, Tip. Alzani, 17 luglio 1957. >

“Persona”, xII, 1-2,

gennaio-febbraio 1971, pp. 25-27. [Ma in copia della prnceps inviata a V. Scheiwiller, Enzo Gritti annotava che la preghiera a San Michele Arcangelo «non è di Don Clemen-

tev]. n

dell’infermità, raccolti da V. Scheiwiller, Milano,

All’Insegna del Pesce d’Oro, 20 settembre 1957 [ed. accresciuta}.

—> Sch,

> 3. 43 p. , 57 19 re mb ce di , Ch }, ca fi ra {Nota autobiog re mb ce di 5 , a” rm Pa di ta et zz Ga a “L , R. di i dit Due ine 1957. >

BONI.

535

Pensieri di Don C.M.R. [1) Due alberi potati; 2) Duplice vertice sublime d'unica fiamma; 3) S. Clemente: 23 nov. 1930} — *Tre invocazioni, Ch, gennaio 1958, pp. 9-11. Amori et dolori, Ch, 1958: febbraio, pp. 65-69; marzo,

pp. 96-101. S. Giuseppe, Ch, marzo 1958, p. 86; 1959 [{sottotitolo:

(Patrono della Chiesa, della Famiglia, del Lavoro)}: marzo, pp. 109-112; aprile, pp. 137-139; maggio, pp. 173-177.

*Disposizioni per la bara, “Drammaturgia”, IV, 9, primavera 1958.

Gesù Maria Giuseppe {Pensiero: «Lasciare che il nostro cuore si calamiti a Gesù...»}, Ch, aprile 1958, p. 153.

Epifania di nostro Signore (Da note autografe di Don C.M.R.), Ch, gennaio 1959, pp. 17-20. * Aspirazioni mariane (11 febbraio), Ch, febbraio 1959,

pp. 65-66. L’“ansia amorosa” di A. Rosmini, Ch, giugno 1959, pp. 209-213.

Iconografia {con poesie e prose in parte inedite], a cura di V. Scheiwiller con una Nota di E. Montale, Milano, All’Insegna del Pesce d'Oro, 9 aprile 1959. > Sch,.

{Dieci poesie per una lucciola}: la V in Ic, p. 30; la vII in 1889 (antologia di poeti per i settanta anni di Giovanni Scheiwiller), Milano, All’Insegna del Pesce d'Oro, 8 novembre 1959; le altre in M. Marchione, La storia d'amore di C.R., FL, XIV, 39, 27 settembre 1959, p. 1 {b> IT, pp.

245-248]. Tutte + Sch, {ma il loro autografo è riprodotto in IT tra pp. 224-225 e tra pp. 240-241]. Così un bisogno, un bisogno cocente, in M. Marchione, La

storia d’amore..., cit. + Sch, {autografo riprodotto in IT tra pp. 152-153]. Not e il tempo (Note e appunti per una meditazione), Ch,

dicembre 1959, pp. 393-396; gennaio 1960, pp. 33-36. Pensieri [«È il patire con e per e in Cristo (...) perfette vittime di carità»}, Ch, novembre 1960, p. 398. 536

Le poeste (1913-1957), a cura di V. Scheiwiller, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 8 dicembre 1961. > Sch,.

Aspirazioni e preghiere (raccolte da V. Scheiwiller), Milano, All’Insegna del Pesce d'Oro, 12 settembre 1963. > Sch,.

Don C.R. a Don Carlo Pagani [quattro poesie], “Nuvole”, Rivista Calvariana, S.M. Calvario di Domodossola, IX, 1, fasc. 27, 1964-1965. > Ecg.

Ecco del ciel più grande {solo la lirica omonima + Ecg], Ch, novembre 1965, p. 377.

Testo stenografico del corso di Esercizi spirituali {tenuto a Lentate dal 22 al 26 settembre 1952]: meditazione introduttiva, Ch, novembre 1965, pp. 378-380; poi con il titolo La

parola di Don C.R. — Esercizi spirituali a Lentate: dicembre

1965, pp. 419-421; 1966: gennaio, pp. 24-26; febbraio, pp. 57-59; marzo, pp. 89-92; aprile, pp. 122-125; luglio-agosto,

pp. 217-219; ottobre, pp. 284-286. Ecco del ciel più grande, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 8 dicembre 1965. > Sch,.

Schema di meditazione tenuta da Don C.R. al “Cenacolo” di Milano, 1946, Ch, febbraio 1967, pp. 63-64.

La parola di Don C.R.: Conversazioni al gruppo bresciano di amici dell'Istituto della Carità (1950-1951) {appunti}, Ch 1967: marzo, pp. 87-90; aprile, pp. 120-123.

La parola di Don C.R. (appunti di conferenze tenute negli anni 1950-1951), Ch 1967: maggio, pp. 156-159 [I I disegno di Dio}; giugno, pp. 188-191 [Il La cooperazione al disegno di Dio}; luglio-agosto, pp. 217-220 {Im Che cos'è il “Mondo nuovo”). La prima predica di R. sacerdote, Ch, novembre 1967, pp. 339-342.

riil er {p le ta Na al ne io az ar ep Pr : R. C. n La parola di Do o” ol ac en “C l de e or su le so es pr 48 19 re mb ve no 18 tiro del di Milano], Ch, dicembre 1967, pp. 372-374 e 376.

rà ri pa ap ci e ch o nt me mo el «N ) {1 R. C. Pensieri di Don 537

la fulgente Verità...»; 2) «Più si è patito cristianamente...»}, Ch, giugno 1968, p. 187.

Messaggio ai M. RR. Padri Presbiteri dell'Istituto della Carità radunati in Roma per la elezione del nuovo Rev.mo Preposito Generale, Ch, novembre 1979, p. 306.

Le poesie (1913-1957), a cura di V. Scheiwiller, con una nota di G. Mussini, Milano, All’Insegna del Pesce d'Oro,

1° novembre 1982 [ed. accresciuta].

Gli spettatori dell'ultimo piano (articolo anonimo con illustrazioni di Paolo Santarone, amico di R. Lidia Natus ne fece avere a V. Scheiwiller una copia — mutila di una

pagina — con la seguente annotazione di suo pugno, in calce al titolo: «Articolo di C. Rèbora — che non è firmato per ragioni di modestia»), comparirà in AA.VV., CR, a cura di A. Ermentini e G. Oldani, pubblicazione della rivista “Psychopathologia”, Brescia, Edizioni del Moretto,

1985. [Quando il presente volume era alle ultime bozze, è stato possibile rintracciare la princeps dello scritto: AA.VV., La Scala —- Stagione 1910-1911, Milano, Società Editrice La Grande Attualità, 1910, pp. 38-42. La scoperta si deve alla cortese iniziativa del Maestro Giampiero Tintori, Direttore del Museo Teatrale alla Scala, e alla preziosa collaborazione della Dottoressa Fiorella Pomponi e del Dottor Gilberto Cellini, della Biblioteca Comunale di Milano].

Gli scritti rosminiani del nostro Autore apparsi su Ch

sono stati raccolti, ma non in modo organico, in C.R., A. Rosmini asceta e mistico, pref. di Mons. C. Riva, Vicenza, La Locusta, 1980; quindi (con altri di carattere spirituale)

nella più ampia antologia C.R., I/ segreto dî A. Rosmini, a cura di C. Giovannini, presentazione di S. Jacomuzzi, Torino, SEI, 1986. Vedi anche il volumetto C.R., Dammi il tuo Natale, Vicenza, La Locusta, 1986: riporta, con testi 538

già editi (tranne quattro lettere di cui diremo più innanzi), anche degli appunti di Preparazione al Natale, già in Ch del dicembre 1967, e Per :/ Santo Natale, variante dello

scritto apparso in Ch nel dicembre 1956. {Alle ultime bozze il presente volume, sono esciti i due seguenti contributi: 1) C.R., Rosmini, a cura di Padre A. Valle, pref. di

M. Guglielminetti (raccoglie tutti gli scritti rosminiani apparsi su “Charitas”); 2) F. Centofanti, I/ segreto del poeta (C.R.: la santità che compie il canto - L'immagine interiore dagli Appunti sul messale), Milano, I.P.L., 1987 (riproduce

tra il resto pagine del messale di Rèbora)].

Epistolario

I due volumi dell’epistolario reboriano sono stati pubblicati, come detto, dalle Edizioni di Storia e Letteratura

(Roma), a cura di M. Marchione {1) C.R., Lettere I (1893-1930), pref. di C. Bo; 2) C.R., Lettere II (19311957), pref. di Mons. C. Riva}. Il primo volume, oltre a molto d’inedito, raccoglie del materiale già pubblicato in IT (sia nell’ed. del 1960, sia nelle Aggiunte del 1974) e nei seguenti altri contributi: 1) L. Lagorio, R. e Borne, FL, XIII, 9, 2 marzo 1958, p. 1

{> Ic con correzioni}; 2) M. Marchione, La storia d'amore di C.R., FL, XIV, 39,

27 settembre 1959, p. 3 {brani di lettere alla Natus]; , e” on zi Na a “L , R. C. di e dit ine e ter Let , ni li zo ez Pr 3) G.

13 luglio 1960 {quella del 31/1/1913]; 4) M. Marchione (a cura di), Carteggio di C.R. e G. Prezzolini (1909-1923), “Stagione”, VII, 21, ottobre 1961, pp: 3-20;

re to va er ss 'O “L , R. C. di ile fic dif a vi La , ni zi az Gr 5) G. Politico Letterario”, VII, 11, novembre

[lettere alla Rusconi]; 539

1961, pp. 47-68

6) Lettere familiari..., Quad. reboriano 1961-1962, cit.;

7) D. Banfi Malaguzzi, I/ primo Rèbora, Quad. reboriano 1963-1964, cit. [lettere all’ Autrice]; 8) P. Nardi, Un capitolo della biografia di Sibilla, Venezia, Neri Pozza, 1965 {lettere all’Aleramo — A. Folli,

Contributo ad un epistolario di C.R., presentazione di L. Anceschi, in Atti dell’Accademia delle Scienze di Bologna, 1973-1974;

> FOLLI};

9) LOLLO {soprattutto lettere al fratello Piero, quindi alla Coari e anche ad altri destinatari]; 10) C.R., Mania dell’eterno..., Quad. reboriano 19651966-1967, cit. {lettere ai Banfi, a Martorano, a Capristo,

ai familiari]; 11) M. Marchione, C.R. nel panorama letterario, “Rassegna di politica e di storia”, xv, 174, aprile 1969, pp. 106116 [lettere alla Mazzucchetti]}; 12) Ead., L'altro amore di C.R., “La Nuova Antologia”, cv, vol. 509, fasc. 2034, giugno 1970, pp. 219-235 {lettere all’Aleramo] > A. Folli, Contributo..., cit.;

13) C. Martini, Undici lettere inedite di C.R. [a Prezzolini; alcune però non inedite}, “Persona”, xII,.1-2, gennaio-

febbraio 1971, pp. 28-32. 14) AA.VV., Omaggio a C.R., Bologna, Boni, 1971 {lettere a Prezzolini,

Papini, Monteverdi,

Coari, Piero R.,

Don Salzotti]; 15) M. Marchione, C.R., Centro d’arte e di cultura “L’Airone”, Capua, 1972 {lettere a Meriano]; 16) Ead., C.R., “L’Osservatore Politico Letterario”, xx,

4, aprile 1974, pp. 55-71 {lettere a Furlotti]. Integrano idealmente il primo volume dell’epistolario le lettere in seguito pubblicate ancora dalla Marchione in appendice a LETTERE II (pp. 179-187: ai fratelli Edgardoe Piero, a Olga Resnevic Signorelli e al Card. Schuster [questa dapprima in Ch, novembre 1977, p. 331]}); quelle (ad A. Casati e T. Gallarati Scotti) comparse a cura di R. 540

Lollo

in “oTTO/Novecento”,

II, 1, gennaio-febbraio

1979, pp. 259-271; infine, le inedite a S. Aleramo in FOLLI. A differenza del primo, il secondo volume dell’epistolario è frutto di una scelta operata dalla curatrice («tra più di 2500 lettere»). Con diversi pezzi inediti, comprende materiale già apparso in: IT; LOLLO; G. Grazzini, La via difficile..., cit.; Lettere familiari, cit.; C.R. e il Cardinal Schuster — Contributo a un epistolario reboriano, Ch, novembre 1977, pp. 330-335; Lettera a Piero, FL, VII, 20, 18 maggio

1952, p. 4; lettera allo stesso in Due inediti di R., “La Gazzetta di Parma”, 5 dicembre 1957. Anche in questo caso è possibile un’ideale integrazione del volume con materiale altrimenti apparso a stampa: vedi la lettera a un confratello in FL, IV, 8, 20 febbraio 1949,

p. 1; quelle alla Natus (una del 30 maggio 1931 è riprodotta dalla Marchione in La storia d’amore..., cit.) e alla Rusconi (vedi quella del 14 marzo 1931 parzialmente riportata dal Grazzini nell’art. cit.); inoltre quelle a M. Costanzo, da quest'ultimo pubblicate in FL, XII, 46, 17 no-

vembre 1957, p. 3 (ma quella in data Santissimo Cuore di Gesù, 1955 già nel “Bollettino dell’Associazione A. Rosmsni e dei collegi rosminiani”, 134, ottobre-dicembre 1957, p. 26); le quattro a Rienzo Colla in C.R., Dammi il tuo Natale, Vicenza, La Locusta, 1986, pp. 45-50; quelle comprese in LOLLO (a Piero, pp. 135-136; 139-140; 143; 146147; 171; 172 nota; 181-182; 255; 256 [a Piero e consorte}; alla Coari, p. 245; alla sorella Maria, p. 254). Vedi poi

le lettere inedite pubblicate (anche parzialmente) nei seguenti numeri di Ch (spoglio aggiornato al luglio 1987): p. novemb re, 1979: anno 147-148 ; pp. aprile, anno 1957,

306; 1981, novembre, pp. 310-312; dicembre, pp. 338-339; 1982, gennaio, pp.19-21; marzo, pp. 89-92; aprile, pp. lu189-190 ; pp. giugno , 159-161 ; pp. maggio , 117-119;

glio, pp. 214-216; agosto-settembre, pp. 248-251; ottobre, agostosettem1983, 314-316 ; pp. novemb re, pp. 286-288; 541

bre, pp. 245-246; novembre, pp. 307-309; dicembre, pp. 343-345; 1984, gennaio, pp. 18-21; aprile, pp. 122-124;

giugno, pp. 184-186; dicembre, pp. 336-338; 1985, gennaio, pp. 22-23; agosto-settembre, pp. 244-247; ottobre, pp. 272-273; novembre, pp. 303-305; 1986, gennaio, pp. 19-21. Due lettere inedite sono pure in ROV.

Non improbabile che riproduzioni, anche parziali, di lettere dell’ultimo Rèbora siano apparse su pubblicazioni di difficile reperibilità, come bollettini parrocchiali, ecc.

{A questo riguardo, materiale reboriano (con lettere inedite) è ora periodicamente pubblicato da C. Giovannini in “Speranze”]. G.M.

542

NOTIZIA BIOGRAFICA

Clemente Rèbora nasce a Milano il 6 gennaio 1885, quinto di sette figli, da Enrico (oriundo ligure) e Teresa Rinaldi (codognese). Il padre, direttore dell’azienda di trasporti Gondrand, è un libero pensatore fedele agli ideali mazziniani e risorgimentali (era stato garibaldino a Mentana nel 1867). La madre, in origine cattolica, segue però le idee del marito; di lei si conosce, oltre alla piena dedizione ai doveri familiari, anche una spontanea vena

poetica (compose infatti versi d’occasione). Clemente viene battezzato solo per l’insistenza di parenti cattolici; non

riceverà però alcuna educazione propriamente religiosa. Compie gli studi inferiori a Milano; dopo aver frequentato il liceo Parini, si iscrive alla Facoltà di Medicina dell’Università di Pavia. Passa però ben presto all’Accademia Scientifico-Letteraria della città natale. È in questo periodo che conosce e frequenta intensamente, tra gli altri, Antonio Banfi, Angelo Monteverdi, Daria Malaguzzi

e poi Lavinia Mazzucchetti. Compiuto anche il servizio militare, Rèbora si laurea nel 1910 con una tesi su G.D.

Romagnosi nel pensiero del Risorgimento. Ma intanto viene a incrinarsi in lui la fiducia nell’ottimismo ‘illuministico’ del suo ambiente (ne è fondamentale documento la lettera al padre del 22 ottobre 1909). Sente di vivere «fuori concorso» (sono parole sue) e non sa adattarsi alle esigenze della vita pratica. Lo attrae il sacrificio anonimo, l’im-

pulso a «giovare scomparendo». Estraneo al mondo accademico, stenta anche a trovare una cattedra nelle scuole inferiori; finisce con l’insegnare nelle tecniche e, talora 543

contemporaneamente, nelle serali popolari: tra il 1910 e il

1915 è destinato a Treviglio, Milano e Novara. Inizia in-

nel e al qu il i, lin zzo Pre di e” oc “V a all re ora lab col tanto a

giugno del 1913 gli pubblica i Frammenti lirici. L’anno successivo comincia la sua relazione con la pianista russa

Lidia Natus (durerà sino al 1919). Collabora a diverse riviste letterarie. Prima ancora dello scoppio della Grande Guerra è ri-

chiamato alle armi (fanteria). Nel luglio del 1915 è in zona di guerra, ma ancora lontano dai combattimenti (settore Arsiero-Asiago), quindi — ormai sottotenente — in prima linea sul fronte goriziano (Monte Calvario, Podgo-

ra, Grafenberg). Verso il Natale l'esplosione ravvicinata di un “305” gli provoca un grave trauma nervoso. E dap-

prima in un ospedaletto da campo, poi a Milano: seguono visite mediche e degenze (nel nosocomio di Reggio Emilia un medico psichiatra gli diagnostica una manza dell'e terno). Alla fine è riformato. Continua la collaborazione a riviste letterarie. Progetta anche un volume di poesie-prosa sulla guerra. Nell’autunno del 1918 riprende, per la-

sciarlo ben presto, l’insegnamento nelle scuole governative: è alle tecniche di Como. Si dedicherà poi a lezioni private, conferenze e a un’attività in senso lato educativa. Intanto impara il russo e si produce in esemplari traduzioni,

come quella del Cappotto di Gògol. Nel 1922 stampa quindi la sua seconda raccolta poetica, i Canti anonimi.

Crescono i suoi interessi religiosi: traduce dall’inglese una novella di ambiente yoga (Gianardana), è attratto dal buddismo e, in genere, dalle diverse forme di misticismo, che si innestano nella sua profonda fede mazziniana. Si avvicina al “Gruppo d'Azione per le Scuole del Popolo”,

promosso dalla pedagogista cattolica Adelaide Coari. Accetta, prima per l’editore Aroldi poi per la Paravia, di diri-

gere una collana di “Libretti di vita” (con opere di eterogenea spiritualità in funzione di un «affratellamento futu544

ro»). Tiene corsi, lezioni e conferenze soprattutto in am-

bienti femminili (inizia nel 1926 un ciclo di incontri sul tema La donna e la vita). Nel 1928 al Lyceum di Milano tiene un corso di storia delle religioni. Giunge a trattare del cattolicesimo: inizia a parlare degli Atti dei Martiri Scillitani, ma s'interrompe, non può proseguire. La conversione è matura. Il 24 novembre 1929 Rèbora riceve la prima Comunione dalle mani del Cardinal Schuster, che più tardi gli amministrerà anche la Cresima. Nel novembre dell’anno successivo è a Stresa, al Collegio Rosmini, sotto la guida spirituale di Padre Giuseppe Bozzetti. Il 23 maggio 1931 è novizio al

Monte Calvario di Domodossola. Qui viene ordinato sacerdote il 19 settembre 1936. Assolve con grande zelo, che se non sempre con spirito pratico, gli incarichi che vengono assegnati. Sempre straordinario, però, il suo dore di carità. Sino al 1938 rimane al Monte Calvario

angli arco-

me prefetto degli scolastici dell’Istituto. Poi per cinque anni è al Collegio Mellerio-Rosmini (ancora a Domodossola), assistente ai convittori. Quindi, dopo una breve parentesi a Stresa e di nuovo a Domodossola, dal 1945 al ’52

è a Rovereto. Sono però numerosi gli spostamenti dovuti al suo ministero (predicazione, esercizi spirituali). Intanto nel 1947, per le cure del fratello Piero, esce un’edizione delle Poesie che, con gli antichi testi, raccoglie anche le prime liriche religiose. Nel 1952 Rèbora torna a Stresa,

dove il 16 dicembre è colpito da un primo malore cerebrale. Si riprende. Può continuare la sua attività (tra l’altro

dal ’51 suoi scritti compaiono in “Charitas”). Poco per volta riaffluisce in lui una schietta vena poetica, che sinil che do po pr op alt ri i o pi ù esi ti agl i att ing e golarmente male, nel 1955, di nuovo lo colpisce: nel marzo dapprima, cos tringerda gr av em tan en te to ora e ott 2 obr il e; quindi Cu rriculum il cos ì Na sc on let o a to. tot ale , all ’infermità lo

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fermità, frutti estremi della poesia reboriana. Il 1° novembre 1957, Festa di Tutti i Santi, Clemente Rèbora muore a Stresa. Scrive lo stesso giorno Eugenio Montale: «è un conforto pensare che il calvario dei suoi ultimi anni — la sua distruzione fisica — sia stato per lui, probabilmente,

la parte più inebriante del suo curriculum vitae».

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I FRAMMENTI LIRICI 1913

L’egual vita diversa urge intorno Nella seral turchina oscurità Dall'intensa nuvolaglia Glauca s'impiuma la terra al mattino Cielo, per albe e meriggi e tramonti Sciorinati giorni dispersi Divina l'ora quando per le membra Per l’acre fluir dei minuti Dentro il meriggio stanno alberi e scogli Chiedono i tempi agir forte nel mondo O carro vuoto sul binario morto,

Sgorga lucendo un ventilato ardore O sciolta alla montagna O pioggia dei cieli distrutti Lontanissimo arpeggia il tramontare O musica, soave conoscenza,

Da tutto l'orizzonte Respira il lago un pàlpito sopito Sta fra lascivie di vivande e vino Mar che ti volgi ovunque è riva e chiami E primavera, questo accasciamento Non èpiù su di un palmo Col moto egual delle tue genti, 0 valle Sui fianchi indano avvinti Tragica viene a contrasto l’idea Giù, nella conca del lago, si fonde

È di me parte un uomo da lavoro Per le deserte strade alla campagna Dai voli torvi di sogni la notte

549

Leggiadro vien nell’onda della sera Lungo di donna un canto si trasfonde Mentre scalpello in rintronata usanza Come al respiro pieno del lago Scienza vince natura Scienza vince natura

Nell’avvampato sfasciume, Il vedovo, rizzando il torso nero, Vedesti, fanciulla, nuotare

XLI XLII XLIII XLIV XLV XLVI XLVII XLVIII XLIX

Venga chi non ha giota a ritrovare Fluì soavemente una malia Quando il ciel sbiancò il mattino Voce, il ruscello delle tue campane In un diffuso vespero corrusco O dei grilli in cadenza solitaria Con me in persi indicibili moti Viene un vento di bufera Fra il caldo velo del sonno Grillo del focolar O poesia, nel lucido verso Quassù fra proni tetti Sibila scivola livido il treno Nel ciel piovuto l’aria în sé rientra In un cofano azzurro E tu, notte che dai parvenza al rito Marzo lucendo nell'aria E qui, senza riparo, né scampo

Stan nel folto gli stami Fuor delle nubi d'ebano e amianto Dimmi, passante dai tristi occhi belli

Per l’aria sorgiva dell'alba Giovinezza mi fa leggiadro e saldo Lo spazio poroso e assetato

Quasi luna albeggiando è il sol fra nebbie Nell’invernal brughiera Dalla tua nicchia, alla mercé Dalla razzante pendice Tutto in grave volume è corpulenza Nel terso gravitar dei mondi insonni

O pioggia feroce che lavi ai selciati

Dal grosso e scaltro rinunciar superbo

550

IxxI1 xx

Allegrezza, a poetare Sor l’aratro per solcare

120 123

II CANTI ANONIMI

1922

Non ardito perché ardente Al tempo che la vita era inesplosa

133

Campana di Lombardia

138 139 141 146

E giunge l’onda, ma non giunge il mare. Sacchi a terra per gli occhi Se Dio cresce Sotto il deserto Gira la trottola viva Dall’imagine tesa

III

POESIE SPARSE E PROSE LIRICHE

[1913-1927]

Il ritmo della campagna in città

Frammento {Clemente, non fare così!) Movimenti di poesia Prima del sonno Notte a bandoliera

Fantasia di carnevale (Varzazioni italiane) Prima

Dio ci lasciò vedere l’Italia (Racconto di un soldato

russo sfuggito alla prigionia austriaca)

Il territoriale consigliato Voce di vedetta morta Pensateci ancora Bizzarria e corale di retrovia Calendario

Scampanìo con gli angioli

Camminamenti

AL Senza fanfara

551

134

147 149 i

207

Stralcio Perd6no? In orario perfetto Coro a bocca chiusa Arche di noè sul sangue

209

Rintocco Viatico Tempo Canzoncina Vanno Fonte nella macerie Serenata del rospo Ca’ delle sorgenti Italia {traduzione da Gògol’] {Versi} Ninna nanna delle risaiuole lombarde Aforismi

È Serafina nido per giornate Quando fluisce 11 fiume da sorgente

Mentre lavoro nei miei giorni scarsi Così un bisogno, un bisogno cocente

210 212 214 216 217 218 219 220 222 223 224 227 231 233 234 235 236

237 238

Da un pezzo dico: - far da concime — Sono appena una bambina

239 240

Canzone zingaresca

242

IV

POESIE RELIGIOSE

(1936-1947)

245 249 250 251 253 254 255 256

Il sacerdote La chiesuola dello Spielberg Mater clementissima La chioccia Annunciazione

La speranza Speranza

Amor dammi l’amore

IIR

Vv CANTI DELL’INFERMITÀ

(ottobre 1955 - dicembre 1956) Pensieri

259

Preludio ai “Canti dell’infermità” Elevazione spirituale La cima del frassino

261 262 263

Frammenti

264

La poesia è un miele che il poeta La Croce irraggia luce dal Calvario Fatalità tremenda del mangiare

265 266 267

Rintocca mesta la campana ai morti San Clemente S. Comunione L'umiliante decompormi vivo Avvicinandosi il Natale

268 269 270 271 272

Notturno

273

Tutto è al limite, imminente

275

Lamento sommesso

276

Terribile ritornare a questo mondo

277

Ventesimo di prima messa

278

Batte nel campo la falce picchiando

279

- Baciargli i piedi! —

280

Il pioppo «E dallo sterco erigendo il povero!»

281 282

Il mio sgomento Madonnina Sono qui infermo; per finestra vedo Solo calcai il torchio

283 284 285 286

Sciamano le api CURRICULUM

287

VITAE

(estate 1955) 291 304

Curriculum vitae Poesia e santità

Rendimento di grazie

305

Aspirazioni

306

Epigrafi

307

Note

309

599

INNI (1953-1956)

Il gran grido 317 320

Trittico L’Immacolata Gesù il Fedele

POESIE SPARSE

[1930-1957]

Da Gregorio a Gregorio l'Inghilterra La Casa religiosa Versi per la prima Santa Comunione d’un fanciullo... S. Natale 1938 22 Dicembre. Si va a casa

23 Dicembre. Venerdì, giorno di magro 24 Dicembre. Vigilia del S. Natale Notte tra il 24 e il 25 Dicembre 25 Dicembre. Il Santo Natale 26 Dicembre. S. Stefano Primo Martire

31 Dicembre. Ultimo giorno dell’anno 1 Gennaio. Festa della Circoncisione 2 Gennaio. Il Santissimo Nome di Gesù

6 Gennaio. L’Epifania del Signore 8 Gennaio. Domenica

Agenda per le vacanze estive 1939

Miei cari e buoni figlioli e fratelli in Gesù e Maria Suggerimenti di buone opere Schema giornaliero Concorsi a premio Giugno, mese del Sacro Cuore di Gesù Luglio, mese del Preziosissimo Sangue Agosto Settembre Ottobre, mese del SS. Rosario e SS. Angeli custodi S. Natale 1939

22 Dicembre. Venerdì delle Quattro Tempora d’Avvento 554

DIS

23 Dicembre. Sabato delle Quattro Tempora d’Avvento 24 Dicembre. Domenica IV d’Avvento e

Vigilia del Natale del Signore

+ Notte tra il 24 e il 25 Dicembre. Non c’è posto

per Gesù

25 Dicembre. Il Santo Natale 26 Dicembre. S. Stefano Primo Martire 31 Dicembre. Domenica fra l’ottava di Natale 1 Gennaio 1940. Festa della Circoncisione 2 Gennaio. Il Santissimo Nome di Gesù 5 Gennaio. 1° Venerdì del mese

6 Gennaio. L’Epifania del Signore 7 Gennaio. Domenica tra l’Ottava dell'Epifania

8 Gennaio. Ritorno in collegio

La regalità di nostro Signor Gesù Cristo Aspirazione

Inno per il popolo Bocciòlo di rosa reciso

Cinquantesimo di vita religiosa di P. Giuseppe Bozzetti Poesia su l'incendio del 17 gennaio 1953

Pesce, come fuor d’acqua boccheggi! Inaridita la terra Erra una mosca, si arresta Per Ezra Pound Incapace di scienza... Ramoscello primaverile Via Crucis A S. Anna Per l'onomastico di P. Giovanni Gaddo Ritrattino in versi

Madonna di Re

Altre epigrafi Tre invocazioni Disposizioni per la bara Aspirazioni mariane Ave Maria San Stanislao ai suoi protetti porta Nello Spirito andiam del Precursore

O mio Signore 555

O Gesù Giuseppe e Maria

423

Oh di Gesù Mamma mia Torcular calcavi solus

423 424

Preghiera

425

La preghiera - novena a S. Giovanni Vincenzo

426

[Tre preghiere] Preghiera a S. Giovanni

429 430

Pensieri

431

Preghiera alla SS. Trinità Don Clemente Rèbora a Don Carlo Pagani

434

Torna San Carlo e ricomincia l’anno Ecco San Carlo, Padre, anche quest'anno

435 436

Don Carlo parte e resta Don Giovanni — Ft iterum venturus est cum gloria Davanti al Presepio

437 438 439

Ecco del ciel più grande

442

Lungi da me la scappatoia dell’arte

443

J. M. J. VOTO EMESSO, SUB GRAVI (1936)

HH

APPENDICE Anima errante 1905 (Vos venite, gentili, ad annunziarmi)

447 450

Tregua

451

[Movimenti di poesia IM e IV}

452

Dieci poesie per una lucciola:

I

Quandoal mattino

457

I III IV

Verrà l'aurora Salgo col sole Dimmi che esisti — non chiedo altro

v.

Ilpozzoe

457 458 459

la lucciola

460

vi Vala fiammae si allontana vir Lucciola, io ti chiudevo vii Tu risali e ritorni ix Amela gioia che crede X Beata l'acqua Ninna-nanna (Musica e parole di Clemente Rèbora) Ninna-nanna (Parole per cantare la musica

della mia ninnananna)

460 461 462 462 463 465

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Ogni esemplare di quest'opera che non rechi il contrassegno

della Società Italiana degli Autori ed Editori deve ritenersi contraffatto

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Le poesie (1913-1957) del più grande poeta cattolico del 900, Clemente Rèbora, considerato

finalmente uno dei vertici della poesia del nostro secolo, è un avvenimento editoriale lungamente atteso per la difficoltà di reperire le due edizioni del ’61 e dell’’82 subito esaurite. Questa terza edizione, totalmente rifatta e accresciuta, con note e bibliografia, è il primo contributo dato a una edizione critica, nono-

stante le difficoltà incontrate soprattutto dalla totale distruzione dell’archivio personale del primo Rèbora. Hanno curato il volume Gianni Mussini, appassionato studioso reboriano e Vanni Scheiwiller, che del poeta è l’editore da oltre trentanni.

L. 60.000 (IVA inclusa)