Petronio e i Veteres Poetae a Reims 9788862277792, 9788862277808, 8862277792


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Table of contents :
SOMMARIO
INTRODUZIONE
PETRONII SATYRICON
TITI PETRONII ARBITRIEQUITIS ROMANI SATYRICON
Fr. 1
Fr. 2
Fr. 3
Fr. 4
Fr. 5
Fr. 6
Fr. 7
Fr. 8
Fr. 9
Fr. 10
Fr. 11
Fr. 12 = AL 700 R.
AL 701 R.
q. Ciceronis, de mulierum levitate. Epig.
Pentadii De Beata vita
VETERUM POETARUM
APPENDICE
ELOGIO DI CLAUDE BINET
QUANDO UN GRANDE FILOLOGO DORMICCHIA
APPARATO ICONOGRAFICO
INDEX NOMINUM
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Petronio e i Veteres Poetae a Reims
 9788862277792, 9788862277808, 8862277792

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N U OVI S A GGI * 117.

P ET R O N IO E I V E T E R E S PO E TAE A R E IM S MA R I A S A LA N IT R O

PISA · ROMA F A B RIZ IO SE RRA EDI TORE MMXV

A norma del codice civile italiano, è vietata la riproduzione, totale o parziale (compresi estratti, ecc.), di questa pubblicazione in qualsiasi forma e versione (comprese bozze, ecc.), originale o derivata, e con qualsiasi mezzo a stampa o internet (compresi siti web personali e istituzionali, academia.edu, ecc.), elettronico, digitale, meccanico, per mezzo di fotocopie, pdf, microfilm, film, scanner o altro, senza il permesso scritto della casa editrice. Under Italian civil law this publication cannot be reproduced, wholly or in part (included offprints, etc.), in any form (included proofs, etc.), original or derived, or by any means: print, internet (included personal and institutional web sites, academia.edu, etc.), electronic, digital, mechanical, including photocopy, pdf, microfilm, film, scanner or any other medium, without permission in writing from the publisher. * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2015 by Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma. Fabrizio Serra editore incorporates the Imprints Accademia editoriale, Edizioni dell’Ateneo, Fabrizio Serra editore, Giardini editori e stampatori in Pisa, Gruppo editoriale internazionale and Istituti editoriali e poligrafici internazionali. www.libraweb.net Uffici di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, I 56127 Pisa, tel. +39 050 542332, fax +39 050 574888, [email protected] Uffici di Roma: Via Carlo Emanuele I 48, I 00185 Roma, tel. +39 06 70493456, fax +39 06 70476605, [email protected] * Stampato in Italia · Printed in Italy issn 1722-5221 isbn 978-88-6227-779-2 isbn elettronico 978-88-6227-780-8

Dedicato a Frédéric Mongin, responsable de la bibliothèque numérique, Bibliothèque Carnegie, Reims.

Tra gente che corre distratta è ancora salvezza un granello di idea una scheggia che sfavilla ed infiamma la notte. Dai Fiori di carta di Giuseppe Iuliano

SOMMA RIO Introduzione

13

Petronii Satyricon Fr. 1. Qualis nox fuit illa, dii deaeque! Fr. 2. Nequaquam recte faciet, qui cito credit Fr. 3. Somnia quae mentes ludunt volitantibus umbris Fr. 4. Dignus Amore locus … Fr. 5. Nam quis concubitus, veneris quis gaudia nescit? Fr. 6. Quisquis habet nummos, secura naviget aura Fr. 7. Non bene olet qui bene semper olet Fr. 8. Uxor legitimus debet quasi census amari Fr. 9. Inveniat quod quisque velit. non omnibus unum est Fr. 10. Fallunt nos oculi, vagique sensus Fr. 11. Quod satiare potest dives natura ministrat Fr. 12. = AL 700 R. Foeda est in coitu et brevis voluptas AL 701 R. Accusare et amare tempore uno q. Ciceronis, de mulierum levitate. Epig. Pentadii De Beata vita

19 21 23 25 30 40 44 47 50 51 53 55 60 63 64 66

Veterum Poetarum

71

APPENDICE

Elogio di Claude Binet Quando un grande filologo dormicchia

85 87

Apparato iconografico

93

Index nominum

105

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IN TRODUZI ONE l manoscritto latino che si trova nella Bibliothèque Municipale di Reims catalogato con il numero 2560 è costituito da 8 pagine (sono pagine non folia), di cui tre (130-132) contengono frammenti tratti dal Satyricon, mentre le cinque pagine seguenti contengono undici frammenti poetici di autori latini di diverse epoche. I frammenti del Satyricon sono dodici. Il primo che corrisponde integralmente al cap. 79, 8 del Satyricon e contiene la voluttuosa descrizione di una scena d’amore, si trova anche nel manoscritto da me reperito nel 2013 a Marsiglia. Il secondo frammento (nequaquam recte facit qui cito credit 43, 6) è un proverbio tratto dall’episodio della Cena di Trimalchione secondo una prassi di estrapolazione dal Satyricon di proverbi e di frasi sentenziose che risale al Medioevo. E infatti il nostro proverbio è già presente nel Florilegium Parisinum scritto nel xiii sec. Il terzo frammento è un carme di sedici versi (AL 651 R.), accolto nelle moderne edizioni del Satyricon, ma oggetto di un intenso dibattito fra gli studiosi sull’autenticità degli ultimi due versi. Tra gli editori Buecheler ed Ernout hanno considerato spurio il v. 15, mentre Müller ha segnato una lacuna dopo il v. 14 ed espunto il v. 16. Ora l’integrità del carme così come ci è stato trasmesso dal codice Leidensis Vossianus Lat. F 111 (= E) è definitivamente confermata da due fonti indipendenti, il codice Massiliensis e il nostro. Il quarto frammento è costituito da tre parole (Dignus Amore locus) estrapolate da un carme che si trova all’interno del Satyricon (131, 8) e ha come argomento la descrizione di un locus amoenus come luogo propizio agli incontri amorosi.

I

14

introduzione

Il quinto frammento contiene un solo verso (Nam qui concubitus, veneris quis gaudia nescit?) estrapolato, per il suo tono sentenzioso, da un carme di otto versi giunto a noi per tradizione diretta (132, 15). Il sesto frammento, che corrisponde al capitolo 137, 9 ed è riportato nella sua integrità, è un epigramma famoso per la sententia del primo verso, valida per tutte le epoche: quisquis habet nummos, secura naviget aura. Il manoscritto conferma la lezione naviget nel primo verso e temperet nel secondo. La prima lezione si riscontra in tutti i codici, la seconda nella maggior parte. Müller ha scelto navigat e temperat, presenti entrambi nello Speculum historiale di Vincentius Bellovacensis, ma è evidente che si tratta di un errore meccanico, un facile scambio fra a ed e. Ogni dubbio è fugato dalla sintassi che richiede due congiuntivi concessivi. Il settimo frammento è un proverbio (Non bene olet qui bene semper olet) che, per la testimonianza di San Gerolamo, apparteneva all’opera di Petronio: illud Arbitri est. Gli editori di Petronio non hanno prestato fede alla testimonianza, ritenendo che san Gerolamo non poteva aver citato, anche per una sola volta, un autore licenzioso, e che Arbitri avesse preso il posto di trivii e così pensavo anche io come risulta da un mio articolo. Il problema era complicato dalla presenza del proverbio nell’ultimo verso dell’epigramma 2, 12 di Marziale, per cui si poteva anche ipotizzare che san Gerolamo avesse fatto uno scambio dovuto a un ricordo errato. Ora il nostro manoscritto ci toglie ogni dubbio. L’ottavo e il nono frammento confermano l’appartenenza al Satyricon di due monodistici che ci sono stati trasmessi dal codice Leidensis Vossianus Lat. Q 86 e attribuiti a Petronio da Scaligero. Il decimo frammento contiene i due versi iniziali di un componimento di sei versi (Fallunt nos oculi, vagique sensus / oppressa ratione mentiuntur) che ci è stato trasmes-

introduzione

15

so dal Leidensis Vossianus Lat. F 111 sotto il nome di Petronio. Dall’undicesimo frammento che contiene i due versi finali del carme AL 694 R. trasmessoci dal codice Bellovacensis, ricaviamo la conferma che la congettura infrenis di Binet sul tradito inferius rispecchia il testo originale. L’ultimo frammento è costituito dal carme AL 700 che appartiene a quella sezione del Bellovacensis in cui non compare il nome di Petronio. Binet lo attribuiva a Petronio assieme al seguente, Buecheler e Müller non lo hanno inserito nelle loro edizioni, mentre nell’edizione di Ernout apre una serie di dieci componimenti che l’editore scelse di includere, ma con una premessa che, in realtà, li esclude: «Haec sunt fragmenta quibus vel iure vel iniuria nomen Petronii in codicibus inscribitur. In veteribus quibusdam editionibus inserta sunt insuper huc et illuc quaedam carmina ex Anthologia deprompta, quae, quamquam ne nomen quidem Petronii retinent, inter Petroniana tamen edidit Baehrens (Poetae latini minores, vol. iv, p. 99), auctore Bineto. Quae, ne quid operi meo desse videretur, omittere nolui, etsi cum Petronio nil commune habere verisimillimum est». Un’esclusione decisa in pieno contrasto con l’opinione di Binet che, descrivendo il manoscritto di Beauvais, aveva scritto come premessa a un gruppo di epigrammi in testa ai quali non compariva il nome di Petronio: «Sequebantur ista sed sine Petronii titulo. At priores illi duo Phalecii vix alius fuerit quam Petronius». Il primo dei due faleci è proprio il nostro, il 700 R. Ed è notevole che tra i frammenti ‘condannati’ da Ernout e inclusi nella silloge di Binet ci sia un altro componimento (Te vigilans oculis, animo te nocte requiro, / victa iacent solo cum mea membra toro. / Vidi ego me tecum falsa sub imagine somni: / somnia tu vinces, si mihi vera venis) la cui appartenenza al Satyricon è confermata dal manoscritto di Marsiglia. La piccola antologia del Satyricon si intitola Titi Petronii Arbitri equitis Romani Satyricon.

16

introduzione

A differenza degli editori antichi quelli moderni hanno scelto, a torto come credo, di sopprimere il praenomen. Nella seconda metà del Novecento ci fu un dibattito tra gli studiosi per stabilire se il praenomen fosse Titus o Gaius. Il primo viene attribuito a Petronio da Plinio nella sua Historia naturalis (37, 21) e da Plutarco in uno dei suoi opuscoli morali che porta il titolo Quomodo adulator ab amico internoscatur (19, 60) e da queste testimonianze non si può prescindere, tanto più che si tratta di fonti indipendenti tra loro. Coloro che hanno difeso la possibilità del praenomen Gaius, come fece Gilbert Bagnani nel 1954, fondandosi sul fatto che la sigla C., abbreviazione di Gaius, compare accanto a Petronius nel passo in cui Tacito descrive i suoi costumi e la sua morte (Ann. 16, 19), hanno volutamente ignorato che gli editori dell’opera di Tacito, a partire da C. Nipperdey, basandosi appunto sulle testimonianze di Plinio e di Plutarco, lo espungono. Le rimanenti pagine latine (133-137) del nostro manoscritto contengono frammenti poetici di vari autori. A p. 133 leggiamo due epigrammi: il primo porta il titolo De mulierum levitate ed è attribuito a Quinto Cicerone, il secondo De Beata vita è attribuito a Pentadio. Subito dopo seguono nove frammenti introdotti dal titolo Veterum poetarum, tre, senza titolo, appartengono a Floro, due sono versus populares tratti dalla Vita di Cesare di Svetonio, anch’essi senza titolo, uno appartiene ad Alcimo e porta la sovrascritta Alcimi. Senza titolo anche un breve epigramma corrispondente ad AL 892 R. di cui non conosciamo l’autore. La lunga lirica seguente, il cui incipit è Lydia puella bella, candida è attribuita a Petronius Afranius, considerato evidentemente ben distinto da Petronius Arbiter. In realtà, come hanno dimostrato gli studiosi moderni, si tratta di un componimento di epoca medievale. In chiusura i vv. 101-3 del Cento nuptialis di Ausonio.

introduzione

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Lo studioso che copiò la nostra piccola antologia si chiamava Jacques Favart. Nei dizionari biografici francesi il suo nome non compare e la fonte moderna di tutto il sapere, il Web, ci dice soltanto che era un canonico di Reims e che morì nel 1717. Eppure Favart merita di essere ricordato per la sua raccolta di testi, copiati da manoscritti o da edizioni a stampa che portano, per lo più, l’indicazione della data di pubblicazione. Il suo lavoro di raccolta è contenuto in sei volumi che vanno dal 1656 al 1709 (otto anni prima della morte). L’estensione dei volumi è varia, si va dalle 279 pagine del primo volume alle 410 dell’ultimo. La nostra antologia, l’unico testo in latino, è contenuta nel secondo volume ed è stata copiata prima del 1657. Lo si deduce dal fatto che è incuneata fra una raccolta di estratti di autori francesi, pubblicati nel 1612, e gli estratti degli epigrammi di Gombaud, pubblicati nel 1657. Complessivamente i titoli sono 214. Favart da una parte copiava dei manoscritti, dall’altra trascriveva poesie o brani di opere a stampa che gli erano sembrati particolarmente notevoli. Cito alcuni titoli per dare al lettore un’idea della vastità dei suoi interessi: – Quelques-uns des Nouveaux contes de La Fontaine, 1674. – Extraits des Poésies de Perrin, 1661. – La Matrone d’Ephèse de La Fontaine, 1680. – Chansons. – Pièces diverses. – Enigmes. – Lettre de Sapho à Phaon, par Coustard de Massi. – Chansons de Coulange, Segrais, et anonymes. – Excuse à Ariste, par Corneille. – Epigrammes sur Colbert. – Extraits des Entretiens sur les vies et sur les ouvrages des plus excellents peintres anciens et modernes.

18

introduzione

– Les 30 commandements de Socrate, Platon, Aristote e Cicéron à leurs disciples. – Extraits de Les Lettres de Cicéron à Atticus, par SaintReal, T. 1 et 2, 1691. – Epigrammes diverses contre Boileau. Naturalmente i testi raccolti nei sei volumi rispecchiano solo una parte delle letture di Favart. La supposizione è confermata da una nota che troviamo nelle pagine latine riprodotte in questo volume. A proposito dell’aggettivo inficetos riscontrabile in una poesia di Alcimo, Favart annota: sive inquietos … oculorum quoque mobilis petulantia. L’espressione è una citazione di un passo del Satyricon (126, 2) in cui è descritto il fascino dello sguardo di Encolpio-Polieno. Questo comprova che Favart conosceva il testo del Satyricon nelle pubblicazioni del suo tempo. E da alcuni dei titoli che ho citato si deduce che nella vasta rete dei suoi interessi era incluso anche il mondo classico. A quanto mi è dato di capire gli studiosi della letteratura e del folclore francese potranno trarre materiale di studio dall’originale silloge di questo intellettuale del Seicento che merita di essere ricordato.

PE TRON I I SA T Y R I C O N

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TITI PE TRON II A RB ITRI EQUITIS ROMA N I SA TYRIC ON Fr. 1

5

qualis nox fuit illa, dii deaeque! quam mollis torus! haesimus calentes et transfudimus hinc et hinc labellis errantes animas. valete curae! mortalis ego sic perire coepi.

l testo coincide con quello che ci è stato trasmesso per tradizione diretta (Satyr. 79, 8). L’interpunzione è del tutto simile a quella che troviamo in Burman.1 Ritengo che debba essere mantenuta anche se ai tempi nostri il punto esclamativo tende a scomparire.2 Naturalmente il punto che chiude il quarto verso va spostato dopo mortalis perché curae è sintatticamente legato a questo aggettivo che apre il quinto verso: «Che notte fu quella, dei e dee! Che morbido letto! Ci tenemmo stretti con ardore e con le labbra riversammo l’uno nell’altro le nostre anime erranti.3 Addio ansie mortali! Così io mi sentii morire».

I

1

Titi Petronii Arbitri Satyricon quae supersunt. Curante Petro Burmanno, Amstelaedami 17432, p. 507. Va evidenziato che Burman, come poi Buecheler, hanno scritto mortalis, mentre Ernout e Müller hanno privilegiato mortales che si legge ai margini di t e di L. 2 Non a caso i tre punti esclamativi sono presenti nella traduzione di V. Ciaffi (Satyricon di Petronio, Torino 19672): «o dei e dee! Che morbido letto!» e nel verso finale, giustamente, «cure mortali!» mentre scompaiono nell’edizione di Konrad Müller (Petronius Satyricon reliquiae, Monachii et Lipsiae 1995) e nella traduzione di A. Aragosti (Petronio Arbitro, Satyricon, Milano 1995). 3 Ciaffi tradusse «l’anima in delirio» e non si rese conto che errantes, connesso logicamente a transfudimus, crea la bella immagine del reciproco passaggio dell’anima dall’uno all’altro attraverso i baci.

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petronii satyricon

L’immagine del viluppo dei corpi e della mescolanza delle anime attraverso i baci sarà ripresa, in un contesto in prosa, nella descrizione del secondo incontro di EncolpioPolieno con la bellissima Circe: iam alligata mutuo ambitu corpora animarum quoque mixturam fecerant (132, 1).4 Nel testo giuntoci per tradizione diretta c’è una lacuna prima dei nostri cinque versi, tuttavia è possibile inferire dai brani in prosa che precedono e che seguono che si tratta di una notte d’amore di Encolpio e Gitone. 4 Si suole tradurre animarum quoque mixtura fecerant con «si confondeva anche il respiro». Ma anche qui, come nel nostro carme, si allude alla mescolanza dei corpi e delle anime. Non è un caso che i due termini siano accostati (corpora animarum).

petronii satyricon

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Fr. 2 Nequaquam recte faciet, qui cito credit.

l proverbio è tratto dall’episodio della cena di Trimalchione. Sono parole del discorso di Filerote, uno dei liberti che intrecciano sermones in assenza di Trimalchione il quale ha lasciato il triclinio per recarsi ad lasanum. Filerote con l’acredine che impronta tutto il suo discorso censura il comportamento del defunto Crisanto che aveva commesso l’errore di affidarsi ad alcuni schiavi scelti come collaboratori: habuit autem oracularios servos, qui illum pessum dederunt. numquam autem recte faciet, qui cito credit, utique homo negotians (43, 6). Così si legge nel codice di Traù. Numquam si riscontra anche nel Florilegium Parisinum e in Iacobus Magnus.1 La lezione nequaquam del nostro manoscritto compare nell’editio Tornesiana (t), ma questo non postula alcuna parentela fra i due testi in quanto la Tornesiana presenta reddit, un’evidente corruttela di credit. Siamo di fronte ad un modo di dire a cui Petronio dà una particolare impronta sfruttando due diversi significati del verbo finale che qui può significare sia “dà fiducia” sia “dà credito”, nel senso della concessione di una somma o di un bene a titolo di prestito. Parecchi editori segnano una lacuna fra credit e utique homo negotians, ma la scelta non mi pare giustificata perché la frase utique homo negotians è logicamente legata a ciò che precede, come risulta da una traduzione aderente al testo, a partire da autem che nelle traduzioni non è reso in modo adeguato. Secondo me la traduzione più pertinente

I

1

F. Buecheler, Petronii Saturae, Berolini 1862, p. xxviii e p. xxxiv.

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petronii satyricon

è: «infatti2 non agisce mai saggiamente chi dà subito credito, in particolare un commerciante» (si sa che Crisanto vendeva vino, 43, 4). È chiaro che nel nostro contesto Petronio gioca sull’ambivalenza del verbo.3 Infine, la presenza del proverbio è un’attestazione della consuetudine di estrapolare dal Satyricon proverbi e frasi sentenziose, una consuetudine che risale al Medioevo come ci conferma la già segnalata trascrizione dello stesso proverbio nel Florilegium Parisinum composto nel xiii sec. 2 Sebbene il valore più diffuso di autem sia quello avversativo, non mancano esempi di autem = enim nel latino classico (Leuman-Hofman-Szantyr, Lat. Gramm., ii, p. 490 sg.). Questo valore si sviluppa da quello originario avversativo, attraverso varie gradazioni e sfumature [G. Puccioni, Petronio 61, 9; Frontone e la storia di autem, «Ann. Sc. Norm. di Pisa» 23 (1954)]. In Petronio autem equivale ancora a enim, in connessione con un proverbio, oltre che nell’occorrenza presa in considerazione da Puccioni (autem in angustiis amici apparent) e nella nostra, anche a 38, 13 (scito autem: sociorum olla male fervet). 3 In un contesto non ambivalente credo, nel significato di «faccio credito», si trova in Marziale (3, 15, 1: Plus credit nemo tota quam Cordus in urbe; 7, 10, 12: quadrantem nemo iam tihi credit: et hoc; 10, 18, 2: nec spondet, nec volt credere, sed nec habet). Più complesso è il titolo di una menippea di Varrone: Cras credo hodie nihil: «faccio credito domani non oggi». Si tratta di un modo di dire che ha continuato a vivere nella lingua italiana fino a tempi recenti. I commercianti erano soliti esporre nei loro negozi delle tavolette in legno o in ceramica su cui era scritto: «domani faccio credito oggi no». Una scritta che corrisponde alla lettera al modo di dire latino. Naturalmente ciò non esclude che il credo del titolo della satira di Varrone avesse un significato ambivalente.

petronii satyricon

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Fr. 3

5

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15

Somnia quae mentes ludunt volitantibus umbris, non delubra Deum, nec ab aethere numina mittunt. Sed sibi quisque facit. nam cum prostrata sopore urget membra quies, et mens sine pondere ludit: quidquid luce fuit, tenebris agit, oppida bello qui quatit et flammis miserandas saevit in urbes; Tela videt versasque acies et funera Regum, atque exundantes perfusos sanguine campos. qui causas orare solent; legesque forumque et pavido cernunt inclusum corde Tribunal. Condit avarus opes defossumque invenit aurum venator saltus canibus quatit. eripit undis aut premit eversam periturus navita puppim. scribit Amatori meretrix, dat adultera munus. et canis in somnis leporis vestigia latrat. in noctis spatio miserorum vulnera durant.

l carme (AL 651 R.) ci è stato trasmesso dal codice Leidensis Vossianus Lat. F 111 (= E) e dal codice Massiliensis da me recentemente pubblicato.1 Il testo, che Favart leggeva nel suo antigrafo, diverge da quello del codice di Marsiglia solo in due casi. Al verso 8 perfusos è una corruttela perché il participio va concordato con sanguine non con campos. Al contrario, al v. 13 il Massiliensis presenta un impossibile eversum. I due nuovi manoscritti sono molto importanti per la costituzione del testo, come emerge dal confronto con il testo che leggiamo nell’ultima edizione critica di Müller, pubblicata nel 2003:

I

somnia, quae mentes ludunt volitantibus umbris non delubra deum nec ab aethere numina mittunt, sed sibi quisque facit. nam cum prostrata sopore 1

M. Salanitro, I nuovi frammenti del Satyricon, Urbino 2013, p. 13.

26

petronii satyricon 5

10

15

urguet membra quies et mens sine pondere ludit, quidquid luce fuit, tenebris agit. oppida bello qui quatit et flammis miserandas eruit urbes, tela videt versasque acies et funera regum atque exundantes profuso sanguine campos. qui causas orare solent, legesque forumque et pavidi cernunt inclusum chorte tribunal. condit avarus opes defossumque invenit aurum. venator saltus canibus quatit, eripit undis aut premit eversam periturus navita puppem. scribit amatori meretrix, dat adultera munus … et canis in somnis leporis vestigia latrat [in noctis spatium miserorum vulnera durant].

Vediamo i punti cruciali. Nel finale del sesto verso Müller sceglie, come fece anche Ernout, eruit urbes, che è un emendamento di Buecheler sul testo di E: seruit in urbes. Il grande filologo tedesco, da una parte, trascurò il fatto che saevit in urbes compariva nell’edizione di Scaligero, pur essendone consapevole,2 dall’altra, non si rese conto che la iunctura era già configurata nel testo trasmessoci da E per la presenza sia della s iniziale sia della preposizione soprascritta. E di ciò si rese conto Riese che stampò saevit in urbes. Ora i due nuovi manoscritti francesi ci tolgono ogni dubbio. La serie di immagini con cui Petronio descrive, in tre versi, la ferocia della guerra (quatit, saevit in urbes, versas acies, funera regum), che occupa i sogni del soldato, si conclude con la scena orripilante dell’ottavo verso: atque exundantes profuso sanguine campos. Nel codice di Marsiglia e in E si legge perfuso (perfusos nel nostro manoscritto) ma Riese e gli editori del Satyricon hanno scelto, giustamente, il profuso che si trova in Scaligero.3 La lezione tràdita (evidentemente una corruttela risalente a un antico codice) non dà senso. Il verbo perfundo significa “ba2 3

Annota infatti in apparato saevit in urbes edebatur auctore Scaligero. Soltanto Ernout, almeno a quanto mi consta, ha conservato perfuso.

petronii satyricon

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gno”, “cospargo” come in alcuni luoghi del Satyricon,4 invece nel nostro contesto abbiamo bisogno di un verbo che corrisponda a “spargere”, “versare” e questo è il significato di profundo. E a Scaligero bisogna tornare anche per il testo del v. 10. Nel codice E si legge: et pavidi cernunt inclusum corde tribunal. Mommsen propose due emendamenti pavida e chorte, accolti da Riese. Buecheler si limitò a mutare corde in corte, Ernout e Müller hanno ritenuto valido il chorte di Mommsen ma hanno conservato pavidi. Ora, se noi torniamo al testo tràdito da E, et pavidi cernunt inclusum corde tribunal, ci rendiamo conto che pavidi si deve, con molta probabilità, attribuire a un amanuense ‘colto’ il quale cercava un nominativo plurale da riferire a cernunt, non avendo compreso che quel soggetto plurale era il qui iniziale del verso precedente. Va solo emendato pavidi in pavido che concorda con corde, per il resto il testo tràdito è integro. Lo confermano l’edizione di Scaligero, il manoscritto di Marsiglia e quello di Favart. Un altro lieve emendamento nella parola finale del verso 13, puppem, presente in tutti gli editori a partire da Buecheler, che in apparato segnala: «edebatur puppim». Ed era questa la lezione giusta: oltre che in questo verso la troviamo in un brano prosastico in cui Eumolpo ed Encolpio, passando in rassegna le possibilità che hanno per sfuggire all’ira di Lica, prendono in considerazione l’ipotesi della fuga dalla nave dalla parte della poppa: nunc per puppim, per ipsa gubernacula delabendum est (102, 4). I due versi finali sono stati oggetto di una singolare vicenda. K. Müller, come si può constatare, ha segnato una lacuna dopo il v. 14 e ha espunto il v. 16. Dal loro canto Buecheler e Heraeus, sorpresi dall’improvviso irrompere 4

Satyr. 120 vv. 64 e 96; 123 v. 214; 133 vv. 6-7.

28

petronii satyricon

di un esempio di un comportamento animale, proposero l’espunzione del v. 15, ma già nel 1962 Vincenzo Tandoi aveva dimostrato che i due versi sono parte integrante del componimento.5 Un’alunna di Tandoi, Grazia Sommariva, ha difeso e approfondito l’intuizione del maestro con grande competenza. Per questo le cedo la parola: «Con esemplare rigore metodico Tandoi ha dimostrato la stretta connessione logica che lega i tre versi finali del carme, ma il suo contributo è ignorato purtroppo dai più recenti esegeti, laddove più coerentemente, il Barth (Adversaria, 51, 3) considerava spurio, in blocco con il v. 15, anche il verso seguente, gli studiosi moderni propendono a espungere solo l’uno o l’altro di questi due versi. Così l’espunzione del v. 15 fu proposta da Buecheler, seguito da Ernout e da Raith (Petronius Ein Epikureer, Nürnberg 1963, 9 e 61, n. 20), mentre Müller, sulle orme di Anton, espunse il v. 16, segnando lacuna dopo il 15. L’ipotesi di Müller ha incontrato di recente il favore di Giardina-Cuccioli Melloni e di Deufert («Hermes», cxxiv 1996, pp. 76, 81 sg., 86) il quale ha cercato di dimostrare che il carme originale era più lungo, mentre il v. 16 costituirebbe il tentativo del redattore di E di dare un finale al frammento poetico. Deufert, al pari di altri commentatori recenti, tra i quali vi è Courtney, tende a sottovalutare l’importanza del modello lucreziano: questi studiosi non colgono il valore evocativo dell’etica epicurea e stoica che ha qui miser e di conseguenza non intendono la chiusa del carme».6 Adesso i due nuovi manoscritti confermano la validità dei contributi di Tandoi e di Sommariva.

5

V. Tandoi, Note esegetiche e testuali a carmi dell’Anthologia latina, «Ann. Sc. Norm. Sup. di Pisa, Cl. Lett. e Filos.», s. ii 31 (1962), pp. 124-126 = Scritti di filologia e di storia della cultura classica, ii, pp. 891-893. 6 G. Sommariva, Petronio nell’«Anthologia Latina», i, I Carmi parodici della poesia didascalica, La Spezia 2004, p. 70, n. 70.

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Si può aggiungere che il verso finale contiene la ‘morale’ del carme cui può pervenire chiunque rifletta su quanto è stato esposto nei versi precedenti: tutti i personaggi presentati sono schiavi della loro scelta di vita, fondata su passioni vane e nocive. Sono degli infelici (miseri) e il cane, anche lui un miser, è schiavo di uno schiavo, il venator. Infine, mi pare non ci siano dubbi nella scelta della lezione spatio (E presenta spatium) non solo perché compare nell’edizione di Scaligero e nei nuovi manoscritti, ma anche perché un complemento di luogo figurato qui è al suo posto. Ora possiamo tradurre: «I sogni che ingannano la mente con le ombre fluttuanti non li mandano i templi degli dei né i numi dall’etere, ma ciascuno li crea per proprio conto. Infatti quando il riposo stimola le membra prostrate dal letargo e la mente, libera da ogni peso, si trastulla, rifà nelle tenebre le singole cose che le sono accadute di giorno. Colui che in guerra abbatte le fortezze e infierisce con il fuoco contro le miserande città vede le armi e gli eserciti costretti alla fuga e le morti dei re e i campi inondati dal sangue versato. Coloro che sono soliti perorare le cause scorgono con cuore pavido le leggi, il foro e la tribuna accerchiata.7 L’avaro nasconde i suoi beni e trova l’oro sepolto sotto terra.8 Il cacciatore perlustra le zone selvose con i cani. Il navigante in pericolo di morte strappa la nave alle onde e la afferra quando si capovolge. La meretrice scrive all’innamorato. L’adultera dà un dono. Anche il cane nel sonno abbaia alle tracce della lepre. Nello spazio di tempo della notte perdurano le angosce degli infelici». 7 S’intende dalla folla. Così risulta chiaramente il senso dei due versi: gli avvocati provano nel sogno la stessa paura che li assale ogni giorno al momento di affrontare il loro compito. 8 La bellezza del verso sta nel significato contrapposto di condit (dietro c’è il protagonista dell’Aulularia di Plauto) e invenit. Nei suoi sogni l’avaro copre ciò che ha e scopre ciò che ancora non ha.

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petronii satyricon Fr. 4 Dignus Amore locus …

’ emistichio appartiene ad un carme (131, 8, v. 6) preceduto e seguito da una lacuna. Nonostante ciò è possibile rendersi conto che si tratta del secondo incontro di Encolpio (alias Polyaenus) con l’affascinante Circe dopo la defaillance del giorno precedente e dopo la ‘cura’ ritenuta a torto risolutiva, dell’anicula:

L

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Mobilis aestivas platanus diffuderat umbras et bacis redimita Daphne tremulaeque cupressus et circum tonsae trepidanti vertice pinus. Has inter ludebat aquis errantibus amnis spumeus et querulo vexabat rore lapillos. Dignus Amore locus: testis silvestris aedon atque urbana Procne, quae circum gramina fusae et molles violas cantu sua rura colebant.

È la descrizione di un locus amoenus come luogo propizio agli amplessi, un dignus Amore1 locus, com’era anche il luogo del primo incontro. Il primo verso presenta un proble1 Tutti gli editori scrivono amore, ma a me sembra opportuno che sia mantenuta la lettera maiuscola del nostro manoscritto perché qui il riferimento è all’Amore come divinità: “degno d’amore” verrebbe a significare “degno di essere amato”, non “degno del dio Amore”. Non mi pare pertinente il confronto con un verso di Marziale (6, 29, 2): sed domini sancto dignus amore puer che va tradotto, come richiede il costrutto di dignus: “fanciullo degno del puro amore del padrone”. Per quanto riguarda il verso di Petronio, la difficoltà si avverte nelle traduzioni. Ernout (Pètrone, Le Satiricon, Paris 1970, p. 158) tradusse: «Endroit bien fait pour l’amour», ma bien fait non corrisponde a dignus. Fra i traduttori italiani si è reso conto dell’ostacolo Aragosti e ha cercato di superarlo ricorrendo a una perifrasi: “il luogo è degna cornice di una storia d’amore» (Petronio Arbitro, Satyricon, introduzione, traduzione e note di Andrea Aragosti, Milano 1955, p. 495). Allo stesso modo l’espressione petroniana, ripresa, come vedremo, da Reposiano, all’interno della descrizione di un locus amoenus, è stata tradotta, con una forzatura che non rispecchia il costrutto latino: «luogo degno per l’amore» (Lucio Cristante, Reposiani concubitus Martis et Veneris, Roma 1999, p. 27).

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ma testuale. L’incipit del carme è un aggettivo, ma si tratta di nobilis o di mobilis? La maggior parte dei codici presentano nobilis, mobilis è conservato solo da due codici (A e G). Contrastanti le scelte degli editori, Buecheler scelse nobilis, Ernout mobilis, Müller nobilis. La scelta di Ernout non è rimasta isolata, ma manca, almeno a quanto mi consta, un approfondimento sulla controversa questione.2 Dalle note della settecentesca edizione del Burman si ricava un’interessante notizia: «Nicolaus Heinsius me docuit, hic legendum esse, mobilis, hoc est, vento agitata». Burman non accolse il suggerimento di Heinsius e spiegò il suo rifiuto con queste parole: «Retinui nobilis. Notissima enim et celeberrima inter arbores platanus».3 Ma le scelte di Heinsius che Bentley, nella prefazione al suo Orazio definì ÎÚÈÙÈÎÒÙ·ÙÔ˜, non vanno sottovalutate. Fra i molti autori latini studiati da Heinsius con grande acume va annoverato anche Petronio. Non a caso Buecheler, severo giudice dell’opera di Burman, scrisse: «Bis publicanda Petrus Burmannus curavit ‘Titi Petronii Arbitri Satyricon quae supersunt cum integris doctorum virorum commentariis’ … magna quidem mole litterarum… sed ex qua fructum capias perquam exiguum si exceperis Nicolai Heinsii notas antea ineditas».4 Due argomenti, uno esterno e un altro interno al carme petroniano, ci portano alla conclusione che la lezione originaria è mobilis. 2 E. Courtney (The Poems of Petronius, Atlanta 1991, p. 33) ha scelto mobilis basandosi però sul confronto con silvaque mobilis di Seneca (Thy. 168) e con mobilesque silvae di Stazio (silv. 4, 3, 61) due esempi che si riscontrano nelle note di commento del Burman e dall’analisi dei testi non risultano del tutto pertinenti. Mobilis fu scelto anche da Curtius nella trascrizione del nostro carme in un suo famoso libro (Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino a cura di Roberto Antonelli, Perugia 1992). 3 P. Burman, op. cit., Amsterdam 17432, p. 807. 4 F. Buecheler, op. cit., Berolini 1862, p. xlii.

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Scriveva E. R. Curtius: «Il “luogo ameno” è un angolo di natura, bello ed ombroso; in esso si trovano almeno un albero (o parecchi alberi), un prato ed una fonte o un ruscello; vi si possono aggiungere, talvolta, anche il canto degli uccelli e i fiori; la descrizione più ricca comprende anche una tenue brezza».5 Sono gli elementi che troviamo in un componimento di Tiberiano (carm. 1), in cui è descritto, con una certa ridondanza, in venti tetrametri trocaici, un locus amoenus. Curtius lo citava perché lo riteneva «la più bella descrizione del locus amoenus nella poesia della tarda Antichità latina». Nel nostro caso basta citare alcuni versi (1-4) per l’individuazione dei nuclei tematici confrontabili con quelli contenuti nel carme petroniano: Amnis ibat inter herbas, valle fusus frigida, luce ridens calculorum, flore pictus herbido. Caerulas superne laurus et virecta myrtea leniter motabat aura blandiente sibilo.

Nel primo verso c’è, in sede iniziale, l’amnis che si riscontra, in sede finale, nel quarto verso del carme petroniano, nel secondo ci sono i sassolini (calculorum) che corrispondono ai lapillos del quinto verso di Petronio, nel terzo verso sono nominate due piante. Una delle due è un alloro che trova corrispondenza nel secondo verso petroniano dove la pianta è indicata, metonimicamente, con Dafne. Infine, nel quarto verso del brano di Tiberiano compare la brezza che muove dolcemente gli alberi (leniter motabat aura). Petronio non nomina esplicitamente il soffio del vento, ma lo fa intuire al lettore attraverso gli effetti che produce nella chioma degli alberi. I cipressi del suo boschetto sono tremuli (tremulae), i pini hanno la cima ondeggiante (trepi5 Curtius, op. cit., p. 219. Poco dopo aggiungeva: «Fra i poeti latini, questo tipo di descrizione mi risulta per la prima volta in Petronio, c. 131». Segue il nostro carme: Mobilis aestivas platanus diffuderat umbras, ecc., dove va notata la scelta di mobilis, come ho già detto nella nota 2.

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dante vertice) e il primo albero nominato, il platano, è mobilis. Lo ha compreso Maria Grazia Cavalca come risulta dall’interpretazione dei nostri tre versi: «il paesaggio, anche se un po’ di maniera, vive nelle lievi oscillazioni del platano, nel tremolio del cipresso, nell’ondeggiare dei pini».6 Il carme richiede altre cure critiche ed esegetiche ma, a questo punto, va precisato che Petronio ha diviso in due tranches la descrizione del suo locus amoenus e quindi bisogna prendere le mosse dal carme che fa da commento al primo incontro (127, 9) tra Circe e Polieno:7

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Idaeo quales fudit de vertice flores Terra parens, cum se concesso iunxit amori Iuppiter et toto concepit pectore flammas: – emicuere rosae violaeque et molle cyperon, albaque de viridi riserunt lilia prato – talis humus Venerem molles clamavit in herbas, candidiorque dies secreto favit amori.

Mentre in 131, 8 sono descritti gli alberi, il fiume, gli uccelli che cantano e i fiori sono compendiati nell’espressione molles violas, qui sono in primo piano, a ragion veduta, i flores: le rose, le viole e i gigli sbocciati in un verde prato e preannunciati dalle due frasi che precedono i versi: Dixit haec Circe, implicitumque me brachiis mollioribus pluma deduxit in terram vario gramine indutam (127, 8). 6 M. G. Cavalca, I grecismi nel Satyricon di Petronio, Bologna 2001, p. 79. Le parole da me citate sono inserite nell’analisi del grecismo Daphne e ad esse fa seguito una riflessione pienamente condivisibile: «un posto privilegiato in questa descrizione occupa Daphne, l’alloro, che evoca direttamente il ÌÜıÔ˜ apollineo in una dimensione mitica fuori dal tempo, ma al tempo stesso prefigura per Encolpio-Polieno, il fallimento della sua unione amorosa con Circe». 7 Petronio mette in opera la sua parodia della poesia epica anche attraverso il suo io narrante. Encolpio, che precedentemente si era paragonato ad Achille per la sua prestanza virile (129, 1) e ora, dopo il naufragio che può essere assimilato a quello di Ulisse (Od. 12, 399-425), ha preso il nome Polyaenus (“molto lodato”), l’appellativo che rivolgono le Sirene ad Ulisse per trattenerlo (Od. 12, 184), e quindi si identifica con l’eroe omerico, come dichiarerà esplicitamente in seguito (139, 1 vv. 6-8): … Neptuni pavit Ulixes / me quoque per terras, per cani Nereos aequor / Hellespontiaci sequitur gravis ira Priapi.

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Il nostro carme è in esametri, un metro epico, e va subito precisato che è un primo segnale rivelatore dell’intento parodico. La struttura è quella di una similitudine molto estesa e con uno schema analogo alle similitudini che troviamo in Virgilio e, prima ancora, in Omero. Nella prima parte Petronio allude ad alcuni versi dell’Iliade che descrivono il prato fiorito che fa da sfondo alla scena dell’amplesso di Giove con la sua legittima moglie (concesso amori). In Omero (xiv 347-349) si legge: ÙÔÖÛÈ ‰\ñe ¯ıgÓ ‰Ö· ʇÂÓ ÓÂÔıËϤ· Ô›ËÓ, ψÙfiÓ ı\ëÚÛ‹ÂÓÙ· å‰b ÎÚfiÎÔÓ ä‰\ñ¿ÎÈÓıÔÓ ˘ÎÓeÓ Î·d Ì·Ï·ÎfiÓ, n˜ àe ¯ıÔÓe˜ é„fiÛ\öÂÚÁÂ. («Sotto di loro la terra divina generò erba fresca e loti coperti di rugiada e crochi e giacinti folti e delicati che li sollevavano isolandoli dalla terra»).

Terra parens del secondo verso corrisponde a ¯ıgÓ ‰Ö·, fudit del primo verso a ʇÂÓ. I fiori, designati con termine generico (flores) vengono descritti nei versi 4-5. La parodia dell’epica omerica cede il posto alla parodia dell’epica virgiliana nel terzo verso: … toto percepit pectore flammam (Aen. 7, 356). La frase (imitata con due variationes: concepit al posto di percepit e flammas al posto di flammam) è piegata ad un senso diverso da quello che ha nell’Eneide. Lì il riferimento non è all’amore, ma al furore che invade la regina Amata in seguito all’intervento di Alletto. Questo particolare può indurre alla convinzione che il referente non sia il verso di Virgilio ma un verso del carme 64 di Catullo (cuncto concepit corpore flammam v. 92) per il suo inserimento in una situazione erotica.8 È un’ipotesi non condivisibile sia perché qui deve esserci un’arte allusiva mirata all’epica, sia perché la coincidenza fra il verso di Petronio e quello di Virgilio abbraccia ben tre termini. 8 Courtney, op. cit., p. 31; A. Setaioli, La poesia in Petronio Sat. 127.9, «Prometheus» 25 (1999), p. 249.

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I due versi seguenti contengono l’enumerazione dei fiori spuntati dalla terra: le rose, le viole, il cipero e i gigli. Tre di essi li ritroveremo nel paesaggio idillico dell’Amnis di Tiberiano: et lucebat liliis (v. 6), tum nemus flagrabat omne violarum spiritu (v. 7); aureo igne praeminebat, forma Diones, rosa (v. 10). Il nesso rosae violaeque, che compare per la prima volta in Petronio,9 diventerà un motivo topico soprattutto nelle descrizioni di paesaggi ameni e in contesti epitalamici.10 Le rose e le viole ornano il bosco del luogo ameno in cui Reposiano ambienta gli amori di Marte e di Venere. Hic rosas cum violis si legge al v. 42 ed è probabile che qui il verso sia stato ispirato dal nostro carme. Ci induce a crederlo il fatto che Reposiano conosceva il Satyricon, come risulta dalla citazione (nel v. 44) dell’espressione dignus Amore locus da cui abbiamo preso le mosse. Così in due versi quasi contigui del suo Concubitus Martis et Veneris Reposiano ha incluso due reminiscenze dell’opera di Petronio traendole l’una, al v. 42, dalla prima tranche della descrizione del locus amoenus (127, 9 v. 4), con una piccola variatio rispetto all’originale, l’altra, al v. 44, dalla seconda tranche (131, 8 v. 6) senza alcuna modifica. Il sesto verso (talis humus Venerem molles clamavit in  herbas) ha suscitato un dibattito fra gli studiosi. I dubbi riguardano la terza parola (Venerem): va intesa in senso proprio o è usata metaforicamente per indicare l’amplesso?

9 Non è del tutto pertinente la citazione di Ovidio (met. 12, 410) perché le viole e le rose sono presentate come alternative (violave-rosave). 10 Lucio Cristante, op. cit., p. 56. Il nesso si è propagato nel tempo fino a giungere a ‘un mazzolin di rose e di viole’ di Leopardi (Il sabato del villaggio, v. 3) che Giovanni Pascoli considerava un’anomalia perché le rose e le viole fioriscono in diversi periodi dell’anno: «Rose e viole nello stesso mazzolino campestre d’una villanella, mi pare che il Leopardi non le abbia potute vedere. A questa, viole di marzo, a quella, rose di maggio, sì, poteva» (G. Pascoli, L’era nuova. Pensieri e discorsi, Milano 1994, p. 60).

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La seconda ipotesi sostenuta da Stubbe,11 Courtney,12 Walsh,13 Connors,14 Ciaffi,15 Canali,16 Aragosti,17 non è affatto convincente. Qui il riferimento è alla dea Venere, come hanno compreso Ernout,18 Müller-Ehlers19 e Setaioli.20 Clamavit Venerem non significa «invitava all’amplesso» o «invitava alle gioie di Venere», ma «chiamò Venere».21 Tale traduzione è del tutto congruente con l’interpretazione di tutto il carme, fondato sulla parodia e sull’ironia. Nei primi tre versi Petronio, degradando il modello epico con un procedimento tipico della satira menippea, fa la parodia dell’incontro fra i due personaggi: EncolpioPolieno, l’uomo che di vicissitudine in vicissitudine è giunto al punto da guadagnarsi da vivere vendendo il suo corpo, è assimilato a Giove mentre Circe, donna particolarmente licenziosa,22 è messa sullo stesso piano della casta Era. Negli ultimi due versi subentra un’ironia beffarda: l’incontro fra Polieno e Circe, preparato con tan11 H. Stubbe, Die Verseinlagen in Petron, «Philologus» Suppl. b. 25, 2 (1933), p. 177. 12 Courtney, op. cit., 1991, p. 31. 13 Petronius the Satyricon. A new translation by P. G. Walsh, Oxford 1997, p. 128. 14 C. Connors, Petronius the poet. Verse and literary tradition in the Satyricon, Cambridge 1998, p. 41. 15 V. Ciaffi, op. cit., Torino 19672, p. 323. 16 L. Canali, Petronio, Satyricon, Milano 1990, p. 231. 17 A. Aragosti, op. cit., p. 482. 18 A. Ernout, Pétrone. Le Satiricon, texte ét. et trad., Paris 199010, p. 153. 19 W. Ehlers, Petronius Satyrica, Schelmenzenen, Lateinisch-Deutsch von K. Müller und W. Ehlers, München 19833, p. 311. 20 Setaioli, art. cit., p. 250. 21 Clamo nel significato di ‘invocare’, ripetendo il nome anche al fine di far venire, si trova spesso, generalmente in poesia (cfr. M. Valerii Martialis, Epigrammaton. Liber I , a cura di M. Citroni, Firenze 1975, p. 168), e, di frequente, in connessione con nomi di divinità. Un’occorrenza anche nel Satyricon (58, 5): licet mehercules Iovem Olympium clames. Va segnalato inoltre che spesso nei testi latini gli editori sono soliti scrivere Venerem sia che si tratti di «amplesso» sia che si tratti della dea e ciò crea difficoltà ai traduttori. 22 Dall’ancella Criside apprendiamo che Circe in extrema quaerit quod diligat (126, 7).

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ta cura dai protagonisti, un incontro per cui si muovono la terra e il cielo, rappresentato da Venere, si concluderà con un risibile fallimento. Ora è possibile proporre una traduzione: «Come la Terra madre sparse fiori dalla cima dell’Ida, quando Giove si congiunse al suo legittimo amore e arse in tutto il petto – spuntarono rose e viole e il tenero cipero, e dal verde prato sorrisero i bianchi gigli –, così la Terra chiamò Venere sulle soffici erbe23 e il giorno, divenuto più fulgente, fu propizio all’amore segreto». Ma torniamo al carme 131, 8 per qualche approfondimento. I primi tre versi ci presentano, come abbiamo visto, un bosco di platani, allori, cipressi e pini con le cime agitate da un leggero vento. È il primo tra gli elementi che caratterizzano il locus amoenus. Segue la descrizione del fiume: Has inter ludebat aquis errantibus amnis spumeus, et querulo vexabat rore lapillos.

L’immagine del fiume che gioca poiché segue un tortuoso corso è già in Ovidio,24 un poeta che è un punto di riferimento costante per la poesia di Petronio.25 Il fiume è spumeus come quello che Virgilio inserisce in una sua similitudine (Aen. 2, 496) e le sue acque sono querulae: et querulo vexabat rore lapillos.

Questa frase è particolarmente interessante perché ci permette di cogliere alcune allusioni. È stato notato che «la voce dell’acqua è generalmente un mormorio o un sussurro 23 Va precisato che mollis clamavit in herbas è una brachilogia, la frase non espressa è ut veniret. Così almeno in altri due casi: et sudore calfacti momento temporis ad frigidam eximus (28, 1); ab hoc ferculo Trimalchio ad lasanum surrexit (41, 9). Nel primo caso è taciuto ut iremus («per andare verso l’acqua fredda») nel secondo ut iret («per andare verso il vaso da notte»). 24 Ov. met., 2, 246: quique recurvatis ludit Maeandrus in undis. 25 M. Salanitro, I nuovi frammenti cit., pp. 74, 77, 83.

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nel locus amoenus».26 Domina il mormorio come risulta da descrizioni analoghe: quam quae [scil. aqua] per pronum trepidat cum murmure rivum? (Hor. epist. 1, 10, 21); adspice labentes iucundo murmure rivos (Ov. rem. 177); hic tibi lene fluens fons murmurat (Nemes. ecl. 4, 47); fonte crebro murmurabant hinc et inde rivuli (Tiber. carm. 1, 12). In Petronio la voce dell’acqua è, con una nota originale, un brontolio che somiglia ad un lamento. A me sembra che querulo rore sia un’allusione, per ribaltamento, a iucundo murmure di Ovidio (rem. 177). Nell’espressione vexabat lapillos il verbo visualizza, personificando il fiume, il forte impatto delle aquae errantes sui ciottoli del fondo. Di questa immagine si ricordò probabilmente Marziale27 quando in soli tre versi dell’incipit del novantesimo epigramma del nono libro descrisse sinteticamente un locus amoenus in cui sperava riposasse il suo amico Flacco che soggiornava a Cipro: Sic in gramine florido reclinis, qua gemmantibus hinc et inde rivis curva calculus excitatur unda

Più precisamente va detto che Marziale nel terzo verso fonde un’allusione a Petronio con un’allusione a Ovidio: quique recurvatis ludit Maeandrus in undis (met. 2, 246). A sua volta il secondo verso di Marziale sarà imitato da Tiberiano: fonte crebro murmurabant hinc et inde rivuli (carm. 1, 12). Negli ultimi tre versi è contenuto il motivo del canto degli uccelli qui rappresentati dall’usignolo e dalla rondine. L’ultimo verso (et molles violas cantu sua rura colebant) non presenta problemi esegetici e perciò desta meraviglia il 26

S. Mattiacci, I carmi e i frammenti di Tiberiano, Introduzione, edizione critica, traduzione e commento, Firenze 1990, p. 103. 27 Sappiamo che Marziale imitò Petronio in vari epigrammi [M. Salanitro, Marziale e Petronio, «Maia» 59 (2007), ora in L’arguzia di Marziale, Urbino 2011, pp. 238-245, cfr. I nuovi frammenti cit., p. 69 e p. 81].

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comportamento di Müller che, unico fra gli editori, almeno a quanto mi consta, ha chiuso tra due cruces le tre parole finali. L’immagine creata da Petronio è perspicua: gli uccelli «volando attorno all’erba e alle delicate viole celebrano con il canto i campi che appartengono a loro».28 28

I campi all’epoca di Petronio erano intensamente popolati di uccelli e lo sono stati per molti secoli. Ormai, per l’azione congiunta dei numerosi cacciatori e dei pesticidi, non si può più dire che i campi appartengono agli uccelli.

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petronii satyricon Fr. 5 Nam quis concubitus, veneris quis gaudia nescit?

è il quinto verso di un carme di otto versi (132, Q uesto 15) ed è stato evidentemente estrapolato dal contesto per il tono sentenzioso. Il testo coincide con quello che ci è giunto per tradizione diretta anche per quanto riguarda l’interpunzione, ma va precisato che il termine veneris che Favart trovava in minuscola nel suo antigrafo va scritto con l’iniziale maiuscola: qui l’uso metonimico è escluso anche perché l’immagine dell’amplesso è contenuta nel precedente concubitus.

5

Quid me constricta spectatis fronte, Catones, damnatisque novae simplicitatis opus? Sermonis puri non tristis gratia ridet, quodque facit populus, candida lingua refert. Nam quis concubitus, Veneris quis gaudia nescit? Quis vetat in tepido membra calere toro? Ipse pater veri doctus Epicurus in arte iussit, et hoc vitam dixit habere Ù¤ÏÔ˜.

Alcuni studiosi hanno messo in discussione la validità del testo tràdito nel penultimo verso. Già Buecheler segnala in apparato: «doctos Epicurus amare Canterus, Lambinus, Douza». Tale lontano emendamento è stato accolto, ai tempi nostri, da Courtney1 e da Müller. Doctus e in arte sono attestati da tutti i manoscritti2 e questo è un argomento di peso anche se non del tutto cogente, perché ci sono casi in cui è necessario intervenire

1

Courtney, op. cit., p. 34. F presenta marte, una chiara fusione di due termini dovuta al fatto che in era stato letto m. 2

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nonostante il consensus codicum.3 Ma qui l’emendamento non è accettabile in quanto si interviene su tre termini tràditi (doctus, in, arte) e la trasformazione di in arte in amare è un’operazione troppo ardita. Inoltre un testo così strutturato viene a significare che Epicuro impose ai dotti di amare. C’è da chiedersi perché Petronio avrebbe scelto di presentare Epicuro come qualcuno che concedeva la conoscenza delle gioie d’amore solo ai sapienti, disprezzando gli altri esseri umani. Ma che cosa ha indotto autorevoli studiosi alla modifica del testo tràdito? Potremo capirlo passando in rassegna alcune traduzioni: «Anche il padre del vero, il saggio Epicuro, lo ingiunse» (Ciaffi); «Persino Epicuro, padre del vero, ce l’ha insegnato nella sua filosofia» (Gagliardi);4 «Lo stesso padre della verità, il dotto Epicuro, lo ha raccomandato all’interno della sua dottrina» (Aragosti). Nella traduzione di Ciaffi spicca la mancanza di un corrispettivo italiano di in arte, in quella di Gagliardi c’è la soppressione di doctus, mentre nella traduzione di Aragosti, che non ha lacune, si nota una ridondanza: ‘dotto’ appare superfluo in presenza della qualifica di ‘padre della verità’. Ma dal testo latino così com’è emerge un’altra possibile interpretazione: in arte è sintatticamente connesso con doctus. Petronio ha separato il nesso per inserire, con una soluzione elegante ed efficace, il nome del filosofo: «Lo prescrisse lo stesso Epicuro, padre del vero, esperto in quell’arte». Il termine ars non può alludere alla raffinatezza dello stile poiché sappiamo che Epicuro nell’esposizione 3 Si sa che, quando il testo tràdito non dà senso deve necessariamente essere emendato. Io ho proposto di leggere regum anziché rerum, attestato da tutti i codici, in un famoso verso di Virgilio, perché lacrimae rerum non dà senso [M. Salanitro, Gli uomini non sono cose (Verg. Aen. I 462), «Maia» lxvi, 2014, pp. 76-83]. 4 D. Gagliardi, Petronio e il romanzo moderno. La fortuna del Satyricon attraverso i secoli, Firenze 1993, p. 18.

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del suo pensiero «rinunciava all’elaborazione artistica fino ad esprimersi in uno stile informe».5 L’ars cui allude Petronio è l’arte del godimento in amore e questa interpretazione è confermata dal verso che precede e da quello che segue. Non solo. Con questo termine Petronio rinvia all’Ars amandi di Ovidio, l’autore che è un punto di riferimento costante per la sua poesia: «Perché mi osservate con la fronte aggrottata, Catoni e condannate un’opera di insolita semplicità? La grazia serena di uno stile spontaneo sorride e una lingua schietta dice ciò che fa la gente. Infatti chi non conosce gli amplessi, chi non conosce le gioie di Venere? Chi vieta l’ardore delle membra in un tiepido letto? Lo prescrisse lo stesso Epicuro, padre del vero, esperto in quell’arte e disse che la vita ha questo fine». Il carme è un’apologia (simile a quella che troviamo in vari epigrammi di Marziale)6 della sua pagina lasciva ispirata a uno schietto realismo (quodque facit populus, candida lingua refert). Il senso degli ultimi due versi è stato, a mio parere, travisato dagli interpreti. Courtney, dopo aver citato il fr. 67 Usener (Ôé ÁaÚ öÁˆÁ ö¯ˆ Ù› ÓÔ‹Ûˆ ÙàÁ·ıfiÓ, àÊ·ÈÚáÓ ÌbÓ Ùa˜ ‰Èa ¯˘ÏáÓ ì‰ÔÓ¿˜, àÊ·ÈÚáÓ ‰¤ Ùa˜ ‰È\àÊÚÔ‰ÈÛ›ˆÓ) aggiunge: «This could easily be distorted into Encolpius’ statement».7 Walsh annota: «The final line describes the debased interpretation of Epicureanism as pilloried by Cicero and others rather than the actual teaching of the founder».8 Aragosti pensa che la conclusione sia «lo stereotipato appello, che ritorna ad essere tutto di paternità encolpiana, 5

A. Lesky, Storia della letteratura greca, iii, trad. it., Milano 1962, p. 852. In uno di essi (11, 2) che ha come scopo la difesa dai suoi critici tetrici Marziale allude, nella movenza iniziale (Triste supercilium durique severa Catonis / frons), all’epigramma petroniano. 7 Courtney, op. cit., p. 35. 8 P. G. Walsh, op. cit., p. 198. 6

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ad un epicureismo vulgato e dogmaticamente stravolto, per il comune fraintendimento del concetto di ì‰ÔÓ‹».9 Ma qui siamo di fronte a un importante epigramma programmatico e non può esserci scissione tra Petronio e Encolpio: chi parla, per bocca di Encolpio, è, nell’intero carme, Petronio. In realtà i due versi sono un’arguta pointe con cui Petronio difende la sua scelta di descrivere schiettamente tutti gli aspetti dell’amore fingendo che questo suo comportamento abbia il crisma della dottrina di un grande filosofo e, nello stesso tempo, si prende gioco di coloro che erano soliti distorcere il pensiero di Epicuro, per denigrarlo. Va notata un’ulteriore finezza: il clou della pointe è costituito dalla parola finale, rigorosamente greca, a conferma di una scherzosa autenticità. Un finale che ricorda la chiusa di un’epistola di Orazio (1, 4, 16) in cui il poeta si definisce con molta verve, Epicuri de grege porcum in polemica con gli stoici che definivano ‘porci’ i seguaci di Epicuro. Infine va evidenziato che questo epigramma è particolarmente notevole non solo per l’ottima fattura, ma anche perché ci rivela che Petronio, come Marziale, dovette subire gli attacchi di critici malevoli per avere osato descrivere nella sua opera i comportamenti dei suoi contemporanei con rigoroso realismo. 9 Aragosti, op. cit., p. 501. Per altre analoghe interpretazioni si veda G. Schmeling, A commentary on the Satyrica of Petronius, Oxford 2011, p. 514.

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Quisquis habet nummos, secura naviget aura, fortunamque suo temperet arbitrio. uxorem ducat Danaen ipsumque licebit Acrisium iubeat credere quod Danaen. carmina componat, declamet, concrepet omnes, et peragat causas sitque Catone prior. iuriconsultus paret, non paret habeto, atque esto quicquid Servius, et Labeo. multa loquor: quidvis nummis praesentibus opta, et veniet. clausum possidet arca Iovem.

avart aggiunge, in margine al settimo verso, una nota esplicativa: sive apparet. L’epigramma è un commento ad un comportamento di Encolpio per risolvere una difficile situazione. Questi i precedenti: Encolpio è nel tempio di Priapo a Crotone dove due vecchine, Enotea e Proseleno, si sono assunte il compito di restituirgli la virilità. Durante una momentanea assenza delle donne Encolpio viene ferocemente assalito da tre oche sacre a Priapo, carissime alle matrone della città e, per difendersi, ne uccide una. Enotea, trovando al suo ritorno l’oca uccisa, si dispera con pianti e urla e lo stesso fa Proseleno quando rientra. A questo punto Encolpio cerca di venire a patti: itaque taedio fatigatus ‘rogo’ inquam ‘expiare manus pretio liceat … si vos provocassem, etiam si homicidium fecissem. ecce duos aureos pono …’. Alla vista delle monete d’oro le due donne si placano e dicono che faranno in modo che nessuno sappia ciò che è accaduto (137, 8). Il nostro epigramma (137, 9) è il divertito commento di Petronio al comportamento delle due vecchine. Per quanto riguarda il testo troviamo solo due varianti rispetto a quello adottato da quasi tutti gli editori moderni:1

F

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Sorprende la scelta di Müller che stampa navigat presente solo nello Speculum historiale di Vincentius Bellovacensis e temperat di B, mentre qui siamo di fronte a due congiuntivi concessivi.

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quidvis (nel nono verso) si trova in L, gli altri codici presentano quod vis ed è questa la lezione scelta, giustamente, dagli editori. Nel settimo verso soltanto B ha parret, non parret, in tutti gli altri codici si legge paret, non paret come nel nostro manoscritto e in quello di Marsiglia.2 E questa è la variante grafica accolta da Buecheler, in contrasto con gli altri editori. L’incertezza nasce dal fatto che la geminazione di r è rara in quanto limitata alle formule giuridiche quae ad actionem vel iudicium spectant3 e, anche in questo caso, non è generalizzata.4 Il florilegium Parisinum riporta il nostro epigramma sotto il titolo: Quantum pecunia regnet inter homines. Noi potremmo intitolarlo: «Il denaro può tutto». Si tratta di un epigramma di buona fattura. La narratio è contenuta nei primi due versi: «chi ha soldi navighi con vento sicuro e regoli la fortuna a suo arbitrio». I versi che seguono (3-8) avvalorano l’assunto presentato nella narratio mediante un susseguirsi di esempi, secondo il procedimento dell’accumulo cui ricorre Marziale in vari epigrammi. Il primo esempio del potere del denaro è tratto dal mito della seduzione di Danae da parte di Giove con una variante particolare in quanto la trasformazione di Giove in pioggia d’oro viene intesa come un donativo per piegare la resistenza della vergine e del padre. Questa interpretazione realistica è presente in un’ode di Orazio e in un’elegia di Ovidio. In Orazio la vicenda apre l’ode sedicesima del terzo libro, è il primo esempio atto a dimostrare che l’oro è più forte di un colpo di fulmine (potentius ictu fulmineo vv. 10-11): si non Acrisium, virginis abditae / custodem pavidum, Iuppiter et Venus / risissent: fore enim tutum iter et patens / converso in pretium deo vv. 5-8). 2

M. Salanitro, I nuovi frammenti, cit., p. 22. Cfr. ThlL s.v. pareo, xi 373. 4 Festo (262 L.) ammoniva: Parret, quod est in formulis, debuit et producta priore syllaba pronuntiari, et non gemino r scribi. 3

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Il concetto enunciato nell’ultimo verso della lirica di Orazio viene ampiamente sviluppato da Ovidio nel terzo libro degli Amores (8, 29-34). Questo circostanziato sviluppo ci permette di capire i due versi troppo concisi dell’epigramma di Petronio. Dice Ovidio: “Giove, sapendo che nulla è più potente dell’oro, divenne lui stesso il prezzo per la seduzione della vergine. Finché mancava la ricompensa, il padre era inflessibile, la fanciulla austera, la porta era di bronzo, la torre di ferro; ma, quando l’amante accorto si trasformò in un dono, lei offerse il grembo e, invitata a concedersi, si concesse”.5 Tutto questo è concentrato nei versi 3-4 del nostro epigramma: «prenda in moglie Danae e gli sarà permesso di costringere lo stesso Acrisio a pensare ciò che pensava Danae». Nei versi seguenti si continua ad avvalorare l’assunto presentato nella narratio con un susseguirsi di esempi, secondo il procedimento dell’accumulo cui ricorre Marziale in vari epigrammi. Chi ha denaro può intraprendere con successo qualsiasi professione e Petronio presenta, in quattro versi, le facili carriere, in diversi campi, di personaggi qui habent nummos. L’elenco è interrotto dall’espressione multa loquor che apre il penultimo verso e può essere resa nella nostra lingua con “mi sto dilungando troppo”. Non c’è corrispondenza di termini, ma il senso è del tutto coincidente. Le due frasi che seguono: quod vis, nummis praesentibus opta et veniet («quando disponi di denaro chiedi ciò che desideri e verrà») preparano la pointe che si esplicita nell’ultima parola dell’epigramma: quel Giove che Petronio non ha nominato quando ha accennato alla vicenda di Danae sigilla, con una soluzione brillante, l’intero carme: clausum possidet arca Iovem («Il forziere racchiude Giove»). 5 Ov. Am. 3, 8, 23 sgg. admonitus nihil esse potentius auro, / corruptae pretium virginis ipse fuit. / Dum merces aberat, durus pater, ipsa severa, / aerati postes, ferrea turris erat; / sed postquam sapiens in munere venit adulter, / praebuit ipsa sinus et dare iussa dedit.

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Fr. 7 Non bene olet qui bene semper olet.

frammento è particolarmente importante Q uesto perché risolve una difficoltà incontrata dagli studiosi del Satyricon. Equivale al fr. xxiiii B. e l’asterisco che lo accompagna esprime subito i dubbi sull’autenticità. Buecheler, dopo aver citato il contesto in cui sono inserite le sette parole: Hieronymus in epistula ad Demetriadem CXXX 19 […]: cincinnatulos pueros et calamistratos et peregrini muris olentes pelliculas, de quibus illud Arbitri est ‘non bene olet qui bene semper olet’ quasi quasdam pestes et venena pudicitiae virgo devitet»,

scrive una lunga nota che merita di essere riportata per intero: Martialis epigr. II 12: hoc mihi suspectum est quod oles bene, Postume, semper; / Postume, non bene olet qui bene semper olet. ita adhibuit hanc sententiam ut in ore vulgi videatur versata esse, et similia dicta Wouwerius Goldastusque congessere. ad illa autem Hieronymi haec editor adnotavit ‘potius Cisterciensis ms. lectionem expendi velim, ubi pro Arbitri nomine est trivi: proprie enim illud trivii dicitur pro vulgata populi sermone sententia cuiusmodi haec videtur fuisse’: itaque nunc optio est de tribus eligendi unum: aut trivii scripsit Hieronymus quid ad Petronium alias nusquam respexit, aut falsus est memoria Arbitrum appellans pro Martiale, aut horum uterque tritum sermone communi proverbium usurpavit, nam Martialem mutuatum illud esse a Petronio minime probabile duco.

Tre ipotesi e un punto fermo: non c’è dipendenza di Marziale da Petronio. Ernout (fr. xxiv) afferma in modo lapidario: non … olet Martialis versus est II 12,4, non Petronii. trivii pro Arbitri ms. Cisterciense.

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Müller (fr. xxiiii) annota: aut Hieronymus per errorem lapsus Martialis versum (2, 12, 4) tamquam Petronianum attulit aut Martialis hunc versum a Petronio mutuatus est ut illud ingeniosa gula est (c. 119, 33). Della questione mi sono occupata anch’io in un articolo scritto nel 1997.1 Ho dimostrato che non bene olet qui bene semper olet è un proverbio con questi argomenti: «Il verso racchiude, come ipotizzò Buecheler, un proverbio conservatosi nel tempo attraverso la trasmissione orale. Documentato infatti nel Medioevo2 si è perpetuato fino all’epoca moderna, poiché alla fine del secolo scorso correva in ore vulgi in Sicilia, in una fedele trasposizione sia pur con l’inversione delle frasi: “Cui sempre ciàura, non ciàura bonu” dove cui è l’esatto corrispettivo di qui e ciàura di olet. Possiamo riscontrarlo nella raccolta dei proverbi fatta dal Pitrè,3 dove si trova anche un altro proverbio particolarmente interessante ai nostri fini. Si tratta di una raccomandazione, rivolta in forma imperativa, ad una donna indicata con tia (te), che rappresenta ovviamente tutte le donne: «Pigghia l’omu quannu feti, chi quannu ciàura nun voli a tia»4 (“Sposa l’uomo quando puzza, perché quando profuma non vuole te”). Le donne debbono guardarsi dagli uomini che si profumano perché sono degli effeminati. È la stessa raccomandazione fatta da Gerolamo alla virgo nel frammento in cui è contenuta la citazione del proverbio. Proseguendo ho sostenuto che S. Ambrogio non poteva aver citato un autore non certo castigato come Petronio5 e 1

M. Salanitro, Non bene olet qui bene semper olet: Marziale (2, 12, 4) ma non Petronio (fr. xxiiii), «Orpheus» 1998-1999, ora in L’arguzia di Marziale, Urbino 2011, pp. 166-172. 2 H. Walter, Proverbia sententiaeque latinitatis medii aevi, ii/3, Göttingen 1965, p. 220. 3 G. Pitrè, Proverbi siciliani, i, Palermo 1880, p. 15. 4 G. Pitrè, Proverbi siciliani, iv, Palermo 1913, p. 232. 5 È questa l’unica citazione di Petronio nelle opere di Gerolamo. Essa nasce, con tutta evidenza, dalla consonanza di atteggiamento nei confronti dei giovani effeminati. La citazione del proverbio ha unito, per una volta, nello stesso disprezzo due autori molto distanti.

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che quindi nell’epistola a Demetriade andava scelta la lezione trivii di B con cui si alludeva al popolo, non la lezione Arbitri di A e D. Avrei dovuto capire che un proverbio può essere utilizzato, in modo del tutto indipendente, da vari autori confermando così una delle opzioni di Buecheler: «aut horum uterque tritum sermone communi proverbium usurpavit». Ora, con l’aiuto della piccola antologia del Satyricon, copiata nel Seicento da Jaques Favart, scompare ogni dubbio.

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petronii satyricon Fr. 8 Uxor legitimus debet quasi census amari: nec censum vellem semper amare meum. AL 468 R. = xxx Müller Uxor legitimus debet quasi census amari, nec censum vellem semper amare meum.

l monodistico si legge nel codice Leidensis Vossianus lat. Q 86. Scaligero nei suoi Catalecta veterum poetarum lo attribuì a Petronio. Buecheler, estremamente cauto nell’attribuzione dei frammenti a Petronio, lo indicò come spurio segnando un asterisco. Ernout pose un punto a chiusura del primo verso, Müller una virgola. L’interpunzione che troviamo nel nostro manoscritto coincide con quella segnata da Buecheler ed è certamente la più congruente alla struttura dell’epigramma che è di buona fattura. Il primo verso contiene la narratio che ha il tono solenne di una prescrizione di legge1 per la presenza di debet e dell’aggettivo legitimus, un termine-chiave perché, pur essendo sintatticamente legato a census, allude anche al fatto che con uxor si designa la donna legata all’uomo mediante un matrimonio legittimo (non a caso l’aggettivo è posto accanto a uxor). La pointe, che si estende per tutto il secondo verso, è un àÚÔÛ‰fiÎÂÙÔÓ. Il debet del primo verso si trasforma in vellem e con questo verbo si esprime la decisa volontà di prendere le distanze dal proprio censo e, quindi, dalla moglie a cui il censo è stato equiparato nel primo verso: «La moglie deve essere amata come il censo fissato dalla legge: e non vorrei amare sempre il mio censo».

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1

Per questo, verosimilmente, Ernout ha chiuso il verso tra virgolette.

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Fr. 9 Inveniat quod quisque velit. non omnibus unum est quod placet: hic spinas colligit, ille rosas, AL 464 R. = xxvi Müller Inveniat quod quisque velit. non omnibus unum est quod placet. hic spinas colligit, ille rosas.

nche questo monodistico ci è stato trasmesso dal codice Leidensis Vossianus Lat. Q.86 (= V). Scaligero lo incluse nei suoi Catalecta veterum poetarum come petroniano, Buecheler lo considerò spurio. Per quanto riguarda la parola iniziale ci sono state incertezze da parte di studiosi del Novecento perché in V si legge inveniet. Buecheler scrisse inveniat fondandosi su una nota di Burman iunior che precisa: «Inveniet in schedis mss. Scaligeri, sed inveniat in marg.».1 Buecheler prestò fede alla nota in margine di Scaligero e così hanno fatto i successivi editori del Satyricon. Per contro Shackleton Bailey ha scelto nella sua edizione dell’Anthologia,2 la lezione di V ed è stato seguito da Courtney.3 Questi stessi studiosi, avendo scelto inveniet, sono stati costretti a mutare in futuro (volet) il tràdito velit. Ma inveniat è l’unica lezione possibile perché siamo di fronte a un congiuntivo concessivo. L’interpunzione scelta da Müller, un punto dopo placet, coincide con quella di Buecheler e di Ernout, ma a me sembra che i due punti del nostro manoscritto siano più adatti alla struttura dell’epigramma in quanto placet segna la fine della narratio. La frase seguente contiene la pointe che consiste in una riflessione sul diverso comporta-

A

1 Anthologia veterum latinorum epigrammatum et poëmatum, cura Petri Burmanni Secundi, Amstelaedami 1759, vol. iii, p. 577. 2 D. R. Shackleton Bailey, Anthologia Latina i, 1982. 3 E. Courtney, The Poems of Petronius, cit., p. 48.

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mento degli esseri umani: «ognuno trovi ciò che vuole. Ciò che piace non è lo stesso per tutti: questo raccoglie le spine, quello le rose».4 4 Ciaffi tradusse: «questo raccoglie pruni, quello raccoglie le rose», ma spinas va tradotto “spine” perché la pointe è giocata sulla contrapposizione fra le spine e le rose che, oltre tutto, hanno nel loro gambo le spine.

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Fr. 10 Fallunt nos oculi, vagique sensus oppressa ratione mentiuntur.

i ingannano gli occhi e i sensi instabili, quando la ragione viene repressa, mentono». Sono i due versi iniziali di un carme che ci è stato trasmesso dal codice Leidensis Vossianus Lat. F.111 (AL 650 R. = xxxxii Müller):

«

C

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Fallunt nos oculi, vagique sensus oppressa ratione mentiuntur. Nam turris, prope quae quadrata surgit, detritis procul angulis rotatur. Hyblaeum refugit satur liquorem, et naris casiam frequenter odit. Hoc illo magis aut minus placere non posset, nisi lite destinata pugnarent dubio tenore sensus.

Il carme tratta un problema molto dibattuto nella filosofia antica, quello dell’attendibilità delle percezioni sensoriali. Per Epicuro prima fonte di ogni nostra conoscenza sono i sensi e la sensazione è il primo fondamento di ogni scienza. Questo cardine della dottrina di Epicuro è stato interamente recepito da Lucrezio che nel quarto libro del de rerum natura difende con decisione il valore delle percezioni sensoriali: non modo enim ratio ruat omnis, vita quoque ipsa / concidat extemplo, nisi credere sensibus ausis (vv. 507-508) e chiude categoricamente l’argomento: illa tibi est igitur verborum copia cassa / omnis quae contra sensus instructa paratast (vv. 511-512). Nel carme di Petronio si esprime una concezione opposta a quella di Epicuro. E ciò sia nell’incipit che ribalta, ricorrendo a una evidente allusione, il verso 379 del quarto libro di Lucrezio (nec tamen hic oculos falli concedimus hi-

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lum) sia nei due versi che chiudono il componimento in cui si afferma che i sensi sono inaffidabili per il contrasto obbligato (lite destinata) fra di loro. Stando così le cose, dobbiamo chiederci come mai un intellettuale epicureo qual era Petronio ripudiasse un aspetto fondamentale della dottrina epicurea. Ciaffi evidenzia che l’esempio della torre, contenuto nei versi 3-4, è suggerito da Lucrezio (4, 353-355) e aggiunge: «Petronio nonostante l’impostazione epicurea del discorso, non sfugge nei confronti dei sensi a un più elementare scetticismo».1 L’apparente contraddizione può essere sanata con la facile supposizione che Petronio abbia messo i nostri versi sulla bocca di un personaggio (a noi ignoto) che sosteneva idee opposte a quelle di Epicuro. Non solo. Nel carme c’è un elemento di originalità tutta petroniana perché il contestatore ricorre nella ‘programmatica’ allusione iniziale, come anche negli esempi e nello stile, alla trattazione dell’argomento come la leggiamo nel quarto libro di Lucrezio.2 Infine, va rilevato che l’estrapolazione dall’intero carme dei primi due versi è un’ulteriore testimonianza della ‘tecnica’ di riduzione in frammenti di brani poetici e prosastici del Satyricon che si prestavano a un tale trattamento per il loro tono sentenzioso o perché contenevano qualche ammaestramento. Esempi evidenti di questo procedimento sono i titoli degli excerpta nei florilegi medievali.3 Qui può bastare la citazione di alcuni: «Similitudo de piscatore et doctore», «quod iusticia destruatur per avariciam», «de probitate antiquorum et ignavia modernorum», «quantum pecunia regnet inter homines».

1

V. Ciaffi, op. cit., p. 385. G. Sommariva, che ha analizzato gli esempi e le formulazioni verbali più specifiche, parla di «saccheggio del poeta filosofo» (op. cit., p. 115). 3 J. Hamacher, Florilegium Gallicum, Prolegomena und Edition der Exzerpte von Petron bis Cicero, De oratore, Bern 1975. 2

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Fr. 11 Quod satiare potest dives natura ministrat quod docet infrenis, gloria fine caret.

avart nel margine destro corregge e di infrenis in ae e questo ci dice che nel suo antigrafo il termine presentava un dittongo. Poi scrive nello stesso margine la sua esegesi del termine: non fraenata. I due versi costituiscono il finale del carme AL 694 R. = 45 Buecheler che ci è stato trasmesso dal codice Bellovacensis. Lo trascrivo così come si legge nell’edizione del 2003 di Müller (fr. xxxxviii):

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Omnia quae miseras possunt finire querelas in promptu voluit candidus esse deus. vile olus et duris haerentia mora rubetis pungentis stomachi composuere famem. flumine vicino stultus sitit, et riget Euro, cum calidus tepido consonat igne rogus. lex armata sedet circum fera limina nuptae: nil metuit licito fusa puella toro. quod satiare potest, dives natura ministrat: quod docet infrenis gloria, fine caret.

L’intento di questo epigramma è la dimostrazione che la natura, per il provvido intervento di un dio, fornisce agli uomini tutto ciò che satiare potest (v. 9). La prima prova della veridicità dell’assunto, derivato, come vedremo dalla dottrina epicurea, è contenuta nel secondo emistichio in cui si indica il sistema più semplice per placare la fame: nutrirsi di ciò che la terra offre spontaneamente. Petronio sceglie soltanto due prodotti della terra: la verdura e le more e, per presentare questi frutti spontanei, traspone nel suo carme l’immagine che trova in Ovidio, il suo poeta preferito: cornaque et in duris haerentia mora rubetis (met. 1,105), un verso che è inserito nell’estesa descrizione (vv. 89-112) dell’aurea

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aetas, l’età dell’assoluta felicità del genere umano.1 L’allusione equipara gli uomini che seguono i dettami della dottrina epicurea agli uomini felici dell’età dell’oro. Un verbo del quinto verso, effugit, ha suscitato un dibattito fra gli studiosi. Claude Binet pose una crux accento a effugit e in margine scrisse forte riget. Buecheler scelse la lezione tràdita e in apparato segnalò la congettura di Binet. Anche Riese scelse effugit aggiungendo curiosamente in apparato: «effugis puto». Molto variegato il comportamento dei filologi del secolo scorso. Tandoi difese il testo tràdito, intendendo: «scappa via a causa del vento freddo».2 Shackleton Bailey, intervenendo su due parole, propose effugis Eurum e Courtney ha posto effugit Euro fra due cruces. L’ultimo editore K. Müller, ha ripreso la congettura del primo editore, cioè di Claude Binet, e ha fatto bene.3 Vediamo perché. Anzitutto noi sappiamo che le necessità primarie per la dottrina epicurea sono: mangiare, bere e difendersi dal freddo, come attesta una famosa massima: «Grida la carne: non aver fame, non aver sete, non aver freddo; chi abbia queste cose e speri di averle anche con Zeus può gareggiare in felicità».4 Il nostro carme rispecchia, rispettando l’ordine, il soddisfacimento della fame (composuere famem v. 4) e quello della sete, esplicitato con sitit (v. 4), ma manca un verbo che sia il corrispettivo di «non aver freddo». Solo se emendiamo effugit in et riget cogliamo la consonanza con i tre dettami della dottrina epicurea. 1 L’esaltazione dell’antico passato in cui i boni mores rendevano superflue le leggi era in consonanza con il programma di restaurazione morale voluta da Augusto. Non a caso il tema compare in Virgilio (Georg. 1, 125-28), in Tibullo (1, 3, vv. 35-48) e in un’altra opera ovidiana (Am. 3, 8, vv. 35-44). 2 V. Tandoi, Scritti di filologia, cit. i, p. 650. L’opinione di Tandoi è condivisa da G. Sommariva (op. cit., p. 102). 3 D. R. Shackleton Bailey, Notes on Riese’s Anthologia Latina, «Class. Philol.» 77 (1982), p. 123. 4 La massima è contenuta nel Gnomologium Vaticanum 31. La traduzione è di Arrighetti (Epicuro, Opere a cura di G. Arrighetti, Torino 1973, p. 146).

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Inoltre il testo tràdito crea una difficoltà a livello sintattico. Dopo sitit è necessaria una congiunzione coordinante, a garanzia del legame con il soggetto che è stultus per entrambi i verbi. Al momento della traduzione Ciaffi si accorse della difficoltà e tentò di risolverla collegando i due verbi con una congiunzione che non compare nel testo latino: «Con un fiume vicino, è sciocco chi ha sete, o all’aperto chi fugge l’Euro».5 Infine, se scegliamo et riget, emerge una delle figure di collocazione, care, come ormai sappiamo, al nostro autore: il chiasmo. Suscita in me qualche perplessità, che non riscontro in nessuno di coloro che hanno studiato questo carme, l’irrompere improvviso, al v. 7, di una lex armata a difesa delle donne sposate. Si intuisce un riferimento a un altro bisogno naturale: l’istinto al piacere derivante dai rapporti sessuali. Ma qui manca ogni riferimento a questo istinto. Ciò mi induce a ritenere che dopo il v. 6 si sia determinata la caduta di un distico. Trovo una conferma nella struttura dell’epigramma. Dopo la narratio contenuta nel primo distico, seguono gli esempi che comprovano quanto sia facile, per il provvido intervento di un dio fulgente, procurarsi l’appagamento dei bisogni primari. Nel secondo distico (vv. 3-4) è data la priorità al mezzo con cui soddisfare il bisogno, mentre la rivelazione del bisogno è affidata all’ultima parola del distico (famem). Nel distico seguente il primo verso contiene l’esposizione di due bisogni, la sete e la difesa del freddo, e i mezzi a cui ricorrere, per soddisfarli, sono collocati, l’uno, all’inizio del primo verso (flumine vicino), l’altro alla fine del secondo verso (rogus). Nel quarto distico, quello che ci interessa, manca l’indicazione del bisogno e del mezzo con cui soddisfarlo. È lecito sostenere che quell’indicazione fosse contenuta in due versi perduti. 5

V. Ciaffi, op. cit., p. 389.

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Per quanto riguarda il tema il punto di riferimento è la satira ii del i libro di Orazio (vv. 37-46):

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Audire est operae pretium, procedere recte qui moechis non vultis, ut omni parte laborent, utque illis multo corrupta dolore voluptas atque haec rara cadat dura inter saepe pericla. hic se praecepitem tecto dedit; ille flagellis ad mortem caesus; fugiens hic decidit acrem praedonum in turba; dedit hic pro corpore nummos; hunc perminxerunt calones; quin etiam illud accidit, ut quidam testis caudamque salacem demeteret ferro …

A queste dolorose conseguenze vanno incontro tutti coloro che insidiano le donne sposate e Orazio ordina (vv. 78-79): desine matronas sectarier, unde laboris plus haurire mali est quam ex re decerpere fructus.

Il pensiero di Orazio è perfettamente in linea con un dettame della dottrina epicurea: bisogna rinunciare a un piacere, quando da esso può derivare un dolore maggiore. Orazio propone un rimedio: scegliere le liberte (vv. 47-48): Tutior at quanto merx est in classe secunda, libertinarum dico …

Non sappiamo come Petronio esprimesse l’impellenza del desiderio (Orazio usa l’espressione tument tibi cum inguina) né quale rimedio proponesse. Certamente dal settimo verso si evince che le nuptae non possono essere oggetto di desiderio perché sono protette dalle leggi, proibizione ribadita dal verso seguente attraverso l’immagine della serenità della puella (una variatio di nupta) distesa sul letto coniugale. Siamo in linea con la dottrina epicurea: bisogna rinunciare a un piacere quando da esso può derivare un dolore maggiore del piacere; nel nostro caso il dolore è rappresentato dalle punizioni inflitte dalle leggi. Il penultimo verso del carme ripete il concetto espresso nel secondo verso: il candidus deus è sostituito da dives na-

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tura: tutto ciò di cui gli uomini hanno realmente bisogno viene fornito, come la dottrina epicurea insegna, dalla natura che possiede tanti beni. Da questa affermazione scaturisce la pointe che è una sconsolata riflessione sul comportamento degli uomini che, lasciandosi guidare dalla loro vanagloria, non pongono alcun limite6 ai loro desideri. L’aggettivo infrenis è un emendamento di Binet sul tràdito inferius ed è stato accolto da tutti gli editori del Satyricon.7 Il nostro manoscritto conferma la perizia filologica di Binet. Con infrenis, un aggettivo raro riferito per lo più ai cavalli,8 Petronio equipara gli uomini ai cavalli privi di briglia: «ciò che insegna la sfrenata vanagloria non ha un limite». 6 Così va tradotta la parola finale dell’epigramma. Questa accezione di finis è bene attestata. 7 Riese lo accoglie nel testo, ma in apparato propone, sia pure con un dubbio espresso mediante un punto interrogativo, ulterius. 8 Così in Virgilio (Aen. 10, 750) e in Nemesiano (cyneg. 264).

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petronii satyricon Fr. 12 = AL 700 R.

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Foeda est in coitu et brevis voluptas, et taedet veneris statim peractae. non ergo ut pecudes libidinosae, caeci protinus irruamus illuc: nam languescit Amor, peritque flamma. sed sic, sic sine fine feriati, et tecum iaceamus osculantes. hic nullus labor est, ruborque nullus; hoc iuvit, iuvat et diu iuvabit hoc non deficit, incipitque semper.

nche questo carme ci è stato trasmesso dal codice Bellovacensis (S) trovato da Claude Binet a Beauvais. Dieci carmi (AL 690-699) erano preceduti dal nome dell’autore (Petronii), seguivano AL 700-705 in cui la soprascritta era Item. Questa circostanza rese molto cauto Binet nell’attribuzione della seconda tranche dei componimenti poetici. Tuttavia egli era propenso a credere che almeno due (il 700 e il 701) appartenessero a Petronio.1 Ora sappiamo dal codice di Marsiglia che AL 702 faceva parte del Satyricon. Ciò mi ha indotto a scrivere: «oso avanzare l’ipotesi che siano attribuibili a Petronio proprio quei carmi segnalati da Binetus (700-701), sia perché sono incuneati fra due componimenti sicuramente petroniani, sia perché il 700 ha caratteristiche tipiche dello stile di Petronio quali il chiasmo, le anafore e le ripetizioni di varie parole».2 Il componimento fu inserito da Burman ed Ernout fra i suspecta, Buecheler e Müller non lo hanno preso in considerazione.

A

1

«Sequebantur ista, sed sine Petronii titulo. At priores illi duo phalaecii vix alius fuerint quam Petronii» (C. Petronii Arbitri itemque aliorum quorumdarum veterum Epigrammata hactenus non edita Cl. Binetus conquisivit, et nunc primum pubblicavit, Pictavii, 1579). 2 M. Salanitro, I nuovi frammenti, cit., p. 83.

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Non ci sono nel nostro manoscritto lezioni differenti rispetto al testo di AL, poiché Riese ha accolto l’emendamento iuvat di Binet sul tràdito iuvit che è un errore psicologico. Va però puntualizzato che nel secondo verso si deve usare la minuscola per veneris, come in Favart, dal momento che siamo di fronte ad una metonimia per indicare il piacere sessuale, al contrario al v. 5 non si deve usare la maiuscola per amor in quanto manca ogni riferimento al dio. Per quanto riguarda l’interpunzione mi sembra opportuno scrivere: sed sic sic, sine fine feriati, diversamente da Favart e da Burman che segnano una virgola dopo il primo sic e dopo feriati e da Riese che non segna alcuna interpunzione. Comune ad entrambi i testi è la corruttela, all’inizio del settimo verso, et tecum, a cui gli editori appongono una crux. Buecheler aveva congetturato et statim,3 ma la struttura sintattica delle frasi non ammette una congiunzione coordinante. Pare probabile che il distacco di un paio di lettere iniziali dalla parola originaria abbia determinato la trasformazione nella congiunzione e, quindi, la “normalizzazione” delle lettere restanti in tecum. Considerando il contesto, si potrebbe pensare a certatim. L’ebbrezza della reciprocità dei baci che diventa commistione delle anime è espressa nel carme iniziale del nostro manoscritto, un brano interno al Satyricon: et transfundimus hinc et hinc labellis / errantes animas (Satyr. 79, 8). Colpisce nel primo verso del nostro carme la svalutazione della voluptas. Nel De senectute Cicerone, per bocca di Catone, sostiene che la voluptas corporis è il maggior male della giovinezza in quanto nemica della virtus e della mens per cui si può dire che nihil esse tam detestabile tamque pestiferum quam voluptatem (12, 41). L’aggettivo collocato da Petronio all’inizio del verso (foeda) non è meno dirompente dei due agget3

Traggo l’informazione da Riese.

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petronii satyricon

tivi usati da Cicerone, ma il contesto e, quindi, il fine del poeta è molto diverso. Petronio dedica tre versi alla svalutazione della voluptas in coitu per creare una contrapposizione con il resto del carme che contiene ammaestramenti per una voluptas che non ha aspetti negativi ed è di lunga durata. Notevole la presenza di figure retoriche, una caratteristica che si riscontra in parecchi carmi di Petronio.4 Nel sesto verso abbiamo un’allitterazione trimembre (sic sic sine) e una bimembre (fine feriati) cui si aggiunge un’anafora (sic sic). Nell’ottavo verso un chiasmo (nullus labor… ruborque nullus). Nel nono la paronomasia (iuvit iuvat). Non ci sono problemi di interpretazione se si prescinde dalla parola iniziale del settimo verso che io, ipotizzando certatim, tradurrò con “a gara”. «Turpe e breve è la voluttà nel coito e dà fastidio un piacere condotto subito a termine. Perciò non precipitiamoci subito ciecamente a quell’atto come bestie libidinose, poiché l’amore languisce e la fiamma si spegne. Ma così così senza fine, liberi da ogni occupazione, stiamo sdraiati baciandoci a gara. In questo modo non c’è nessun disagio e nessun rossore: questo è piaciuto, piace e piacerà a lungo. Questo non viene meno e ricomincia sempre». 4

M. Salanitro, I nuovi frammenti, cit., pp. 60, 71, 76, 84.

petronii satyricon

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AL 701 R. l carme AL 700 chiude la piccola antologia petroniana di Favart. Poiché sappiamo dal codice di Marsiglia che AL 702 faceva parte del Satyricon, possiamo attribuire a Petronio anche l’epigramma 701 come Binet aveva intuito:

I

Accusare et amare tempore uno Ipsi vix fuit Herculi ferendum.

«Accusare e amare contemporaneamente sarebbe stato sopportato a stento persino da Ercole». Alla narratio contenuta nel primo verso, segue una pointe che non spicca per originalità o arguzia. Non conoscendo il contesto in cui i due faleci erano inseriti, non possiamo comprendere di quale specifica accusa si tratta. Quello che è evidente è che Petronio trasforma il suo commento ad una situazione contingente, che riguarda le vicende di un personaggio a noi ignoto, in una massima valida per tutti gli uomini: chi ama non può accusare la persona amata.

a pagina 133 contiene due epigrammi attribuiti rispettivamente a Quinto Cicerone e a Pentadio e queste attribuzioni sono condivise anche da alcuni studiosi moderni.

L

q. Ciceronis, de mulierum levitate. Epig. crede ratem ventis, animum ne crede puellis, namque est feminea tutior unda fide. femina nulla bona est;1 et2 si bona contigit ulla,3 nescio quo fato res mala facta bona est.

Per questo epigramma abbiamo un problema di attribuzione. Dall’Anthologia di Burman si ricava che il tetrastico era attribuito ad Ausonio in antiquo Simeonis Bosii libro o anche a Cicerone, però senza che fosse indicato il praenomen, mentre nelle schede di Salmasius e nel codice di Vossius era attribuito a Pentadio. Nel Seicento Mamert Patisson incluse l’epigramma nella sua edizione del Satyricon e lo commentò con queste parole: «videatur illud fortasse Eumolpi de muliebri levitate, nisi sit potius Porphyrii poetae sub Constantino in exilium missi, cuius pleraque video Petronio nostro vel a criticis tribui. at Ciceroni tribuitur in veteri Defloratorum exemplari». Nel 1932 Jas. Stinchcomb, esaminando la corrispondenza di Marco Tullio Cicerone, era giunto alla conclusione che i versi rispecchiassero l’animo esacerbato di Quinto per le vicende del suo divorzio.4 E a Quinto veniva attri1

Nei codici si riscontra una lacuna, che Scaligero colmò con est. Vel nei codici, aut in Francius, et in Scaligero. 3 Nei codici ulla alterna con una. 4 Jas. Stinchcomb, The Literary Interests of a Roman Magnate, «Classical Weekly» 3 (1932), p. 5. L’ostilità verso le donne e il rifiuto di nuove nozze risulta chiaramente da una divertente comunicazione di Marco Tullio all’amico Attico: a ducenda autem uxore sic abhorret ut libero lectulo neget esse quidquam iucundius (Att. 14, 17, 3). 2

q. ciceronis, de mulierum levitate. epig. 65 buito il carme nel manoscritto, di epoca per noi ignota, a disposizione di Favart. Nella nostra epoca è prevalsa l’attribuzione a Pentadio.5 5

A. Guaglianone, Pentadio. Le sue elegie e i suoi epigrammi, Padova 1984, p. 63.

Pentadii De Beata vita

5

10

Non est (falleris) haec beata, non est, quod vos creditis esse, vita, non est, fulgentes manibus videre gemmas, aut testudineo iacere lecto, aut pluma latus abdidisse molli, aut auro bibere, et cubare cocco: regales dapibus gravare mensas, et quidquid Libyco secatur arvo, non una positum tenere cella: sed nullos trepidum timere casus nec vano populi favore tangi, et stricto nihil aestuare ferro: hoc quisquis poterit, licebit illi Fortunam moveat loco superbus.

È

un componimento molto controverso per la costituzione del testo che ci è stato trasmesso dal codice Vossianus Lat. Q 86 (= V). Va detto subito che il testo che Favart trovava nel suo antigrafo coincide con quello che Scaligero stampò nei suoi Catalecta,1 ma non possiamo ipotizzare una dipendenza per alcuni particolari: nel primo verso Scaligero chiude falleris, che è un inciso, fra due virgole non in una parentesi. Nel secondo verso Scaligero segna una sola virgola posta fra esse e vita. Inoltre in Scaligero manca il titolo e ogni riferimento all’autore. Si potrebbe pensare a una dipendenza dal testo di Pithou2 che lo attribuisce a Pentadio, ma anche per l’edizio-

1 G. G. Scaligero, Publii Virgilii Maronis Appendix; Veterum poetarum catalectorum libri duo, Lugduni 1572 (rist. 1595), p. 191. 2 P. Pithou, Epigrammata et poematia vetera, Parisiis 1590 (rist. Lugduni 1596, Genevae 1619), i, p. 34.

pentadii de beata vita

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ne di Pithou valgono le osservazioni precedenti compresa la mancanza di un titolo.3 Il testo di Scaligero, di Pithou e del nostro manoscritto viene mantenuto anche dagli editori dell’Ottocento. Nel secolo successivo si determina una virata. Parecchi studiosi abbandonano il testo scelto dai loro predecessori per puntare l’attenzione sulle lezioni del codice (V) che presenta quos all’inizio del secondo verso, lecto toro alla fine del quarto, un’inversione dei vv. 10-11, vanos al posto di vano, e magni al posto di tangi. Le scelte variano da studioso a studioso. Nel 1964 Prato stampa quam (che è una congettura di Heinsius) all’inizio del secondo verso, mentre, nel finale del quarto, trascrive lecto toro di V espungendo lecto.4 Ma lecto è la lezione giusta come prova il confronto con parecchi passi di autori latini opportunamente citati da A. Breitenbach5 che testimoniano l’uso, presso i ricchi romani, di letti in cui erano incastonati gli scudi ossei delle tartarughe. Non va neppure accolta la congettura di Heinsius (quam), non solo perché quod è adombrato nel quos di V, ma anche perché, come vedremo, qui è necessario un relativo neutro. Nel 1982 Shackleton Bailey6 per l’ordine dei vv. 9-12 si discosta dal testo di V: 10

Non una positum tenere cella, nec vanos populi favore magni: sed nullos trepidum timere casus et stricto nihil aestuare ferro.

e da quello di Scaligero: 3 Nell’Anthologia di Burman troviamo: Pentadii. De vita beata. Il titolo trascritto da Favart, con la posposizione di vita, resta un unicum. 4 C. Prato, Gli epigrammi attribuiti a Seneca, Roma 1964, p. 86. 5 A. Breitenbach, Kommentar zu den Pseudo-Seneca-Epigrammen der Anthologia Vossiana, Hildesheim 2009, p. 457 sg. 6 Shackleton Bailey, op. cit., p. 334.

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10

non una positum tenere cella, sed nullos trepidum timere casus: nec vano populi favore tangi, et stricto nihil aestuare ferro.

e stampa: 10

non una positum tenere cella, sed nullos trepidum timere casus: et stricto nihil aestuare ferro nec vano populi favore tangi.

Ma un’analisi del carme dimostra che l’unico ordine possibile è quello che troviamo in Scaligero e nel nostro manoscritto. L’assunto iniziale, contenuto nei primi due versi, si può compendiare in: «questa non è una vita felice» dove haec ha funzione prolettica. Nei sette versi seguenti (vv. 3-9) il poeta spiega che non è vita felice quella di chi, disponendo di grandi ricchezze, conduce una vita immersa negli agi di ogni genere. I tre versi seguenti (vv. 10-12), contrapposti ai precedenti mediante l’avversativa sed, contengono il messaggio del poeta: l’uomo può essere felice se affronta senza timore tutto ciò che può accadere nel bene e nel male. La generica impassibilità di fronte agli eventi della vita, espressa nel decimo verso, diventa nei due versi seguenti impassibilità specifica. Nel primo caso (v. 11) l’uomo deve sapere gestire un evento favorevole, quindi un accadimento nel bene quale il successo nella carriera politica senza insuperbirsi, nel secondo caso (v. 12) deve restare impassibile nel male, in questo caso di fronte a un assalto a mano armata. Tali osservazioni fugano i dubbi sulla sistemazione dei versi ancora persistenti nel nostro secolo, come emerge dall’edizione di Zurli:7 7 Anthologia Vossiana, recognovit L. Zurli. Traduzione di N. Scivoletto, Roma 2001, p. 36 sg.

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non una positum tenere cella nec vano populi favore † magni sed nullos trepidum timere casus et stricto nihil aestuare ferro.

Questa sistemazione rende incomprensibile il pensiero dell’autore e introduce un ulteriore motivo di disorientamento con la proposta, in apparato, di sostituire magni con duci. Ma tangi va mantenuto: è un verbo icastico, con cui si esprime il distacco dell’uomo forte (e quindi felice) dall’ebbrezza del successo.8 Resta da aggiungere qualcosa sull’interpunzione e quindi sull’interpretazione del secondo verso. Bisogna segnare una virgola fra esse e vita, come fa Prato, o soltanto un punto e virgola dopo vita, come fa Zurli? L’interpunzione di Prato lo costringe a una traduzione («non è questa, che si crede, la felicità della vita») che non rispecchia il testo latino e il faticoso nesso “questa che si crede” fa emergere la difficoltà creata dall’accettazione dell’emendamento quam di Heinsius. E questo è valido anche per la traduzione di Scivoletto, condotta sul testo di Zurli, che pure ha un’interpunzione più adeguata: «non è, non è questa la vita felice che voi credete essere (t’inganni); non è». Un’interpunzione non pertinente oscura l’impegno stilistico con cui l’autore ha voluto evidenziare la veridicità dei due versi introduttivi che hanno valore prolettico per il contenuto dell’intero carme. La figura dominante è l’anafora di non est di cui il poeta si serve per creare altre figure retoriche. La stessa anafora ricorre nella pointe di un epigramma di Marziale (10, 31, 56): Exclamare libet: “Non est hic, improbe, non est / piscis: homo est, hominem, Calliodore, comes. Ma nel nostro autore c’è 8 Che tangi sia il verbo adeguato al testo ha compreso A. Breitenbach, op. cit., p. 454.

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di più: non solo non est, aprendo e chiudendo il primo verso, crea un nesso polare, ma anche, essendo ripetuto nel finale del secondo verso, approda a due risultati: i due versi che introducono il componimento acquistano una struttura echoica che mira a ribadire la validità dell’asserzione e, nello stesso tempo, la ripetizione del segmento non est nel finale di entrambi i versi crea un gioco di collocazione trasversale e questo ci avverte che, per parallelismo, non est deve essere isolato con una virgola anche nel secondo verso: Non est (falleris) haec beata, non est, quod vos creditis esse vita, non est:9

Infine, un’altra raffinatezza: nel primo verso accanto a beata è sottintesa vita, mentre nel secondo accanto a vita è sottinteso beata: «t’inganni, questa non è una vita felice, non lo è, ciò che voi pensate sia una vita felice, non lo è». Per quanto riguarda l’attribuzione del carme va precisato che lo attribuiscono a Pentadio P. Pithou (op. cit., p. 34); P. Burman (op. cit., iii, p. 548); I. C. Wernsdorf (Poetae Latini Minores, ii, Parisiis 1824, p. 460); E. Meyer (Anthologia veterum latinorum epigrammatum et poematum, Lipsiae 1835, i, p. 98). Gli studiosi moderni divergono (cfr. A. Guaglianone, op. cit., p. 103). 9 Qui vanno segnati due punti perché i versi che seguono (fino al verso 9) contengono un elenco di situazioni di vita che erroneamente si crede assicurino la felicità.

V E TE RUM P OE T A R U M

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e pagine 132-137 sono inglobate sotto il titolo Veterum poetarum. Il genitivo induce a ritenere che nell’antigrafo di Favart sia caduto qualche termine che potrebbe essere Anthologia. L’aggettivo potrebbe far pensare a poeti latini arcaici, ma non è così. I componimenti compresi in questa sezione appartengono, per lo più, al tardo antico e, in un caso, al medioevo.

L

Fr. 1 Cras amet qui numquam amavit quique amavit cras amet!.

È l’incipit e nello stesso tempo il refrain del Pervigilium Veneris. Fr. 2 Omnis mulier intra pectus celat virus pestilens. dulce de labris locuntur, corde vivunt noxio.

Questi versi di Floro (AL 246) sono una delle numerose testimonianze del misoginismo diffuso nel mondo antico. Una consonanza di ‘pensiero’ in un verso di un’elegia di Ovidio: impia sub dulci melle venena latet (Am. 1, 8, 104). Fr. 3 Sperne mores transmarinos, mille habent offucias. cive Romano per orbem nemo vivit rectius. quippe malim unum Catonem, quam trecentos Socratas.

L’epigramma (AL 250) è mutilo poiché manca della pointe (nemo non haec vera dicit, nemo non contra facit). La mancanza dell’ultimo verso impedisce di cogliere il messaggio contenuto nei tre versi precedenti e nello stesso tempo rende impossibile segnare l’esatta interpunzione. È evidente che i primi tre versi vanno chiusi tra virgolette perché rappresentano le parole che dovrebbe pronunciare chi è

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veterum poetarum

convinto che bisogna respingere l’introduzione di comportamenti stranieri nella società romana che è la più irreprensibile tra quelle che esistono nel mondo. Ma, ed è questa l’amara conclusione dell’epigramma, nessuno dice la verità e nessuno si oppone. Siamo di fronte a «un interessante testimonianza dell’opposizione al prevalente filellenismo dell’età adrianea e di Adriano in particolare».1 Il primo verso dell’epigramma trasmesso da Favart ci è utile per dirimere una questione controversa. L’ultima parola del primo verso è offucias. I codici presentano lezioni diverse. Il Parisinus Lat. 10318 (sigla A) ha officia, il Parisinus Lat. 8071 (sigla B) offugia. Molto interessante ai nostri fini un codice di Vienna (Vindobonensis Pal. 9401, indicato con la sigla W). Nei ff. 28a-43a si leggono componimenti dell’Anthologia Latina autografi di Iacopo Sannazaro che li copiò in Francia fra il 1501 e il 1504. Le poesie di Floro sono comprese nei ff. 40b-42a. Tra le rare aggiunte marginali di mano di Sannazaro una riguarda il nostro componimento: in 8, 1 si legge nel testo mille habent offugii e, al margine destro, offucias.2 Ora il nostro manoscritto conferma la validità della congettura di Sannazaro. Si discute sul significato da dare al nostro termine che Plauto usa sia in senso proprio “belletto” (most. 264), sia in senso figurato “inganno” (capt. 656), ma è quest’ultimo il senso che ha nel nostro verso. Giustamente Di Giovine chiosa: «Floro intende dire che le apparenze attraenti dei mores transmarini sono un trucco che inganna sulla loro effettiva natura».3 La sua interpretazione coincide con quella di Favart che a piè dell’epigramma annota: offucias sive fallacias. 1 Flori carmina. Introduzione, testo critico e commento, a cura di C. Di Giovine, Bologna 1988, p. 112. 2 Traggo questa informazione dal citato libro di Di Giovine, p. 68 sg. 3 Di Giovine, op. cit., p. 114.

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Fr. 4 In Caesarem Urbani, servate uxores: moechum calvum adducimus. Aurum in Gallia effutuisti, hinc sumpsisti mutuum.

Sono due dei versus populares cantati dai soldati in occasione del trionfo gallico di Cesare: li troviamo in Svetonio (Iul. 51). Il testo giuntoci per tradizione diretta presenta calvon4 in tre codici (M G V) mentre i rimanenti hanno calvum come in Favart, ma va privilegiata la lezione calvom, una forma arcaica più consona a questo tipo di carme. Lo stesso va detto per l’ultima parola del distico: mutuum è una correzione di Baehrens sul tradito mutuom che è stato giustamente mantenuto da Buechner5 e da Blänsdorf.6 Infine nei codici si legge hic non hinc, come in Favart. Fr. 5 In eundem Gallias Caesar subegit, Nicomedes Caesarem: ecce Caesar nunc triumphat, qui subegit Gallias, Nicomedes non triumphat, qui subegit Caesarem.

Anche questi versi sono in Svetonio (Iul. 49). Il testo di Favart coincide con quello che ci è giunto per tradizione diretta.

4

Scontata la correzione calvom di Roth. Fragmenta poetarum latinorum edidit C. Buechner, Leipzig 1982, p. 119. 6 Fragmenta poetarum latinorum post W. Morel et K. Büchner edidit J. Blänsdorf, Stutgardiae et Lipsiae 1995, p. 192. 5

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veterum poetarum Fr. 6 Alcimi O blandos oculos et inficetos et quadam propria nota loquaces: Illic et venus et leves Amores atque ipsa in medio sedet voluptas.

Il componimento è incluso nel codice Bellovacensis e corrisponde ad AL 714 R.: O blandos oculos et inquietos et quadam propria nota loquaces! Illic et Venus et leves Amores atque ipsa in medio sedet Voluptas.

Nel testo di Riese troviamo l’interpunzione corretta, poiché dopo l’aggettivo che chiude il secondo verso va segnato un punto esclamativo. Inoltre, la parola Venus va scritta, come in Riese, con l’iniziale maiuscola, trattandosi non di una metonimia ma della dea in persona e anche Voluptas deve essere scritta come in Riese perché si tratta di una personificazione. L’autore, Latinus Alcimus Alethius, è un panegirista di Giuliano e di Sallustio (console nel 363) del quale parla Ausonio (Prof. Burg. ii 35 Prete). L’ultima parola del primo verso non dà senso e perciò è stata oggetto di varie congetture. Binet propose et inquietos, Buecheler nec inquietos, accettando la congettura di Binet, ma emendando et in nec, cosa che lo costrinse ad emendare et del secondo verso in set, Shackleton Bailey item facetos7 e Zurli nec infacetos.8 7 D. R. Shackleton Bailey, Towards a text of “Anthologia Latina”, Cambridge 1979, p. 69. 8 L. Zurli, Alcimiana (714 e 715 R.), «Giornale Italiano di Filologia» 44 (1992), p. 282.

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La prima osservazione da fare è che l’aggettivo infacetus (o la sua variante grafica inficetos) non è ritenuto accettabile perché introduce una nota negativa e questa riflessione ha ispirato gli emendamenti che ho segnalato. Particolarmente significativo è il comportamento di Buecheler che ammise la possibilità che inficetos fosse una deformazione di inquietos, ma ne capovolse il significato proponendo nec inquietos. Ma et va mantenuto anche perché l’anafora di et è una costante dello stile di Alcimo in questo epigramma. Verosimilmente la congettura di Binet non è stata accolta perché si è pensato che contenesse anch’essa una nota negativa inaccettabile in un contesto di alto elogio della bellezza di uno sguardo. Ma non è così. Lo capì Favart che chiosò il nostro termine sive inquietos. La mobilità degli occhi della donna aggiunge attrattiva alla loro dolcezza e si collega all’immagine del verso seguente: gli occhi vivaci sono occhi parlanti (loquaces) e lo sono con un’inflessione tutta propria (quadam propria nota). La descrizione della bellezza degli occhi della donna, contenuta nei due versi iniziali, giustifica l’enfasi della descrizione, nel resto dell’epigramma, del fascino che da essi promana. Fr. 7 Formosissima Laï feminarum dum noctis pretium tuae requiro, magnum continuo petis talentum. Tanti non emo, Laï, poenitere.

Questo epigramma, che corrisponde a AL 892 R., appartiene alla raccolta degli epigrammi pubblicati da Binet. Nella sua edizione al secondo verso si legge tibi, mentre tuae del nostro manoscritto coincide con una congettura di Patisson. Nell’apparato di Riese si legge: «‘In Polianthaeae libro ad vocem Talentum referuntur hi versus ut M. Val. Martialis’», ma l’unica cosa che questo scialbo componimento (il cui

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veterum poetarum

autore ha cercato di imitare Marziale) ha in comune con l’opera del grande epigrammista è la presenza del nome della famosa cortigiana di Corinto, Laide, che si riscontra in tre epigrammi (3, 11, 3; 10, 68, 12; 11, 104, 22). Fr. 8 L’ottavo fra i componimenti inclusi sotto il titolo Veterum Poetarum è una lirica sopra la quale (in alto a destra) si legge Petronii Afranii:

5

10

15

20

25

Lydia, bella puella, candida, quae bene superas lac et lilium, albamque simul rosam rubidam, aut expolitum ebur Indicum, pande, puella, pande capillulos flavos, lucentes ut aurum nitidum, pande puella collum candidum, productum bene candidis humeris. pande puella stellatos oculos, flexaque super nigra cilia. pande puella genas roseas, perfusas rubro purpurae Tyriae. porrige labra, labra corallina, da columbatim mitia basia: sugis Amentis partem Animi: cor mihi penetrant haec tua basia. quid mihi sugis vivum sanguinem? Conde papillas, conde gemipomas, Compresso lacte quae modo pullulant. Sinus expansa profert cinnama: undique surgunt ex te deliciae Conde papillas, quae me sauciant Candore et luxu nivei pectoris. Saeva non cernis quod ego langueo? Sic me destituis iam semimortuum?

Nell’antigrafo di Favart Petronius Afranius era considerato, chiaramente, un autore diverso da Petronio Arbitro, perché era incluso fra i carmi dei veterum poetarum.

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La questione è complessa. Effettivamente il soprannome appare accanto al nome del nostro Petronio fin dal dodicesimo secolo. Lo si trova nel titolo dei frammenti del Satyricon contenuti nel codex Parisinus Lat. 8049 che risale appunto al sec. xii. Nella seconda metà del quattordicesimo secolo Jean de Montreuil (1354-1418) attribuiva ad Aufranius (sic) alcuni versi del Satyricon appartenenti al capitolo 119. Il cardinale Barthélemy Visconti (Bartholomeus Vicecomes), morto nel 1457, citava nel suo Liber Defloratorum frammenti di Petronio sotto il titolo: Petronii Arbitri Afranii Satyrici. E il manoscritto copiato da Giuseppe Giusto Scaligero, il Leidensis Scaligeranus 61 (anno 1571), porta il titolo C. Petronii Arbitri Afranii Satyrici liber. Ma perché Afranius? Collignon avanza l’ipotesi che il nome di questo autore di togatae sia stato aggiunto al nome di Petronio Arbitro perché anche lui aveva inserito nelle sue opere descrizioni di amori omosessuali.9 Che la lirica non poteva essere attribuita al nostro Petronio sapeva già Burman iunior. Da una sua nota si ricava che il carme non compariva nell’edizione di Scaligero né in quella di Pierre Pithou,10 ma la si poteva trovare nelle antiche edizioni delle elegie di Massimiano, falsamente attribuite a Cornelio Gallo.11 L’attribuzione della lirica a Cornelio Gallo si riscontra anche nell’opuscolo Cornelii Galli Fragmenta, pubblicato da Bernardino Vitali a Venezia nel 1501,12 e nel volgariz-

9

A. Collignon, Pétrone en France, Paris 1905, p. 16, n. 2. P. Burman, Anthologia Veterum Latinorum Epigrammatum et Poematum, iii, Amstelaedami 1759, p. 651. 11 Si trova anche in Petronii Arbitri Satyricon, Lutetiae, apud Mamertum Patissonium 1587, p. 169 sg. 12 I 25 versi medievali, in maggioranza di undici sillabe, pubblicati da Vitali erano stati scoperti nel 1372 dal poeta Giacomo Allegretti da Forlì (L. Bertalot, Studien zum italienischen und deutschen Humanismus, Roma 1975, ii, p. 338). 10

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zamento castigliano di un anonimo del Cinquecento introdotto dalla rubrica «Lirios de Cornelio Galo traduçidos».13 Ma già nel xv sec. il carme era conosciuto negli ambienti culturali italiani più esclusivi. Enea Silvio Piccolomini nell’epistola a Sigismondo, duca d’Austria, premessa alla Historia de duobus amantibus, inserisce nella descrizione della bellezza di Lucrezia l’espressione labia corallina che è una trasparente allusione a labra corallina del v. 13. Allo stesso modo, in riferimento al seno, usa la metafora illorum pomorum che richiama il termine gemipomas del v. 18 della nostra lirica. Dal canto suo Poliziano inserisce nell’ode In puellam suam alcune elaborate allusioni. Francesco Arnaldi evidenziava che l’ode, «per quel che riguarda immagini e atteggiamenti stilistici ha echi svariatissimi, plautini, catulliani, persino apuleiani».14 Noi possiamo aggiungere anche echi del nostro anonimo carme. Le allusioni di Poliziano sono molto raffinate. I due versi iniziali del modello (Lydia, bella puella, candida, / quae bene superas lac et lilium) sono ripresi nei vv. 11-12: ceu lac coactum candida / vel lilium vel prima nix. Come si può constatare, nel v. 11 candida è posto in sede finale come nel modello e lac del secondo verso del modello viene inglobato anch’esso nel v. 11, inserito in una comparazione (ceu lac), mentre lilium, staccato da lac, viene ripreso all’inizio del verso successivo. Ancora un’allusione. I vv. 43-44: labella quid coraliis / rubore praenitentia, sono una perifrasi di labra corallina del v. 13 del modello mirata a un’accentuazione coloristica perché le labbra della donna non sono “color del corallo”, ma “di un rosso più intenso del corallo”. La tra13 P. Pintacuda, Una versione castigliana cinquecentesca del carme Ad Lydiam, in Tradurre. Riflessioni e rifrazioni, Bari 2008, pp. 199-212. 14 Poeti latini del Quattrocento, a cura di F. Arnaldi, L. Gualdo Rosa e L. Monti Sabia, Milano-Napoli 1964, p. xxxv.

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sformazione di labra in labella, un termine che si riscontra in Catullo e in Petronio, è uno dei tanti indizi dell’approfondita conoscenza della letteratura latina da parte del poeta-filologo. Il testo trasmessoci da Favart coincide con quello dell’Anthologia del Burman. Tra le edizioni più accreditate viene presa in particolare considerazione quella di Nisard15 che diverge solo nel penultimo verso (Saeva non cernis quantum ego langueo?). Quantum è verosimilmente correzione di un amanuense che vedeva in quod un errore di sintassi, ma quod va mantenuto perché siamo di fronte a una proposizione completiva. Si sa che nello sviluppo della lingua latina la completiva si è estesa ai danni della proposizione infinitiva. Nella lingua quotidiana il processo è già in atto nel i sec., come prova l’esempio che troviamo nel Satyricon (71, 9): scis quod epulum dedi («Sai che ho dato un banchetto»). Una conferma della presenza di quod nel penultimo verso del nostro carme ci viene dalla traduzione dell’anonimo castigliano: «Niña crüel, ¿no ves que me desmayo?». Se torniamo all’attribuzione della lirica a Petronius Afranius nell’antigrafo di Favart dobbiamo concludere che in epoca anteriore al xvii sec. circolavano delle piccole antologie di vari poeti contenenti anche carmi attribuiti a Petronius Afranius. L’originaria dicitura Petronius Arbiter Afranius che, come abbiamo visto, compare in alcuni codici del xii sec., era stata decurtata. Nasceva così un nuovo autore, Petronius Afranius, e sotto il suo nome venivano diffusi componimenti di cui non si conosceva la paternità.

15 Oeuvres complètes d’Horace, de Juvénal, de Perse, de Sulpicia, de Turnus, de Catulle, de Properce, de Gallus et Maximien, de Tibulle, de Phèdre, de Syrus, avec la traduction en français publiées sous la direction de M. Nisard, Paris 1903, p. 585 sg.

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veterum poetarum Fr. 9

La sezione dei Veterum Poetarum si conclude con i vv. 101131 del Cento nuptialis di Ausonio che porta il titolo Ausonii viri consularis Cento nuptialis, Virgilianus.

A P P E N D IC E

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ELOGIO DI CLAUDE BINET

N

el 1579 il filologo umanista Claude Binet pubblicò una silloge di carmi di Petronio Arbitro e di altri autori. Nella prefazione informava che: «bonam partem ex biblioteca Ecclesiae Bellovacensis habui: quae cum veteri Isidori Ethimologico connexa erant». I primi dieci componimenti portavano la soprascritta Petronii, gli altri sette semplicemente Item. E Binet aveva scrupolosamente avvertito: «sequebantur ista sed sine Petronii titulo». Nel 1862 Buecheler ne inserì nove nella sua edizione, ma avanzò molti dubbi sulla loro autenticità. Nel 1903 Albert Collignon, dopo aver precisato che Binet aveva trovato le pièces in un manoscritto della biblioteca della chiesa di Beauvais, aggiungeva: «mais, pour la plupart, l’attribution à Petrone est des plus douteuses. Petréquin pense même que ces epigrammes sont de la composition de Claude Binet».1 Siamo alle accuse infamanti. Nel nostro secolo Konrad Müller ha premesso alla sua scelta di sette tra i carmi che Binet aveva trovato nel codice di Beauvais queste parole: Binetus utrum codicis auctoritatem secutus an sua usus coniectura Petronio tribuerit haec carmina non constat. Quindi i dubbi sul comportamento di Binet persistevano. Ora, finalmente, abbiamo la conferma che alcuni dei componimenti che nel codice di Binet non erano attribuiti esplicitamente a Petronio appartenengono realmente al Satyricon: AL 702 R. (Te vigilans oculis, animo te nocte requiro) fa parte dei frammenti vecchi e nuovi del Satyricon contenuti nel manoscritto di Marsiglia, mentre AL 700 (Foeda est in coitu voluptas) è incluso nel manoscritto di 1

A. Collignon, op. cit., p. 27, n. 2.

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Reims. Va aggiunto anche AL 701 (Accusare et amare tempore uno) perché incuneato fra due carmi sicuramente petroniani. Claude Binet non era soltanto un intellettuale onesto, era anche un filologo degno di questo nome. Per limitarmi alle congetture segnate in margine ai carmi sopra menzionati segnalo che al v. 3 di AL 699 R., trovando nel suo manoscritto Sit torus et lecti genius, secretaque longa, ha proposto in margine lingua ed è questa la lezione giusta perché nel codice di Marsiglia leggiamo linga che è un evidente lapsus calami per lingua. E se l’emendamento di iuvit in iuvat al v. 9 di AL 700 (hoc iuvit, iuvat et diu iuvabit) appare scontato, il riget proposto, sia pure con qualche esitazione (forte), in sostituzione di effugit nel quinto verso di AL 694 Riese, si può definire geniale. In conclusione, mi pare che le nuove acquisizioni ci autorizzano a sostenere che i carmi del manoscritto di Beauvais sia quelli sotto la dicitura Petronii, sia quelli sotto la dicitura Item, erano effettivamente inseriti nel Satyricon.

QUANDO UN GRANDE FILOLOGO DORMICCHIA ra gli epigrammi trovati da Binet nel codice Bellovacensis uno tratta il tema della circoncisione praticata da tutti i seguaci dell’ebraismo. Si tratta dell’epigramma 696 R. = xxxxvii Buecheler = l e li Müller.

F

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Iudaeus licet et porcinum numen adoret et coeli summas advocet auriculas, ni tamen et ferro succiderit inguinis oram et nisi nodatum solverit arte caput, exemptus populo Graia migrabit ab urbe et non ieiuna sabbata lege premet una est nobilitas argumentumque coloris ingenui, timidas non habuisse manus.

Così lo pubblicò Buecheler ma, in nota, aggiunse: 7 et 8 separandi videntur. Questa nota ha determinato il destino del carme poiché la scissione ebbe il consenso di Ernout1 e poi di Müller, come si ricava dalla numerazione da me segnalata che trasforma l’epigramma L in due epigrammi, per cui, oltre tutto, il distico staccato risulta incomprensibile.2 Nella seconda metà del Novecento ci sono stati tentativi, inascoltati, di dissenso. Nel 1967 un serio studioso di Petronio, Vincenzo Ciaffi, adottò, per la sua traduzione del Satyricon, il testo critico fissato da Ernout, introducendo però alcune varianti segnalate nell’Appendice critica e tra queste varianti c’è la restituzione dell’integrità del nostro epigramma.3 1

In nota si legge: «versus 7 et 8 a ceteris disiungendos esse recte perspexit Büch.». Anche Courtney (The Poems, cit., p. 70) ha seguito le orme degli editori del Satyricon. 3 Ciaffi, p. 21, nota 2, p. 65. 2

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La scelta non sfuggì a Vincenzo Tandoi che nella recensione al libro di Ciaffi scrisse: «Nel fr. 37 sono convinto anch’io che aveva torto il Bücheler di staccare gli ultimi due versi, comprendendosi bene timidas … manus in rapporto col taglio rituale presso i Giudei (per l’espressione cfr. Satyr. 49, 9)».4 Il riferimento è al passo in cui il cuoco di Trimalchione procede allo sventramento del maiale: porcique ventrem hinc atque illinc timida manu secuit.5 Nel 1984 Grazia Sommariva difese l’integrità del carme sostenendo che gli ultimi due versi sono una ‘pointe’ antigiudaica e giungendo alla conclusione che: «il senso dell’epigramma si esplicita insomma con evidenza soltanto nel distico finale, che risolve l’ambiguità dei sei versi precedenti, oscillanti tra satira antigiudaica e scanzonato, ozioso divertissement, rivelandone il carattere di exemplum moraleggiante, dal quale vengono ora tratte conseguenze d’ordine più generale».6 L’intuizione è giusta, l’interpretazione dei due versi finali non mi pare pertinente. Per capire dobbiamo analizzare la struttura dell’epigramma: Iudaeus licet et porcinum numen7 adoret et coeli summas advocet auriculas8

La parola iniziale ci dice che il protagonista del carme è un seguace dell’ebraismo e lo è dal primo all’ultimo verso. Il distico ci presenta due pratiche rituali degli ebrei: l’astinenza dalle carni suine e le preghiere rivolte al cielo. Qui va segnalato un particolare finora sfuggito agli studiosi, almeno a quanto mi consta. 4

Tandoi «Atene e Roma» n. s. xiii, 1968, p. 81. Ciaffi tradusse opportunamente “con mano guardinga”. 6 G. Sommariva, Petronio, Satyr. Frr. 37 e 47 Ernout, in Disiecti membra poetae I a cura di Vincenzo Tandoi, Foggia 1984, p. 124. 7 Numen è un emendamento proposto in margine da Binet sul tràdito nomen. 8 Anche auriculas è un emendamento di Binet sul tràdito agricolas. 5

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Giovenale, elencando, nella sua quattordicesima satira (vv. 97-98), i riti della religione ebraica, allude, con una tecnica raffinata, ai versi incipitari dell’epigramma di Petronio: nil praeter nubes et caeli numen adorant, nec distare putant humana carne suillam

Giovenale ha invertito l’ordine dei due temi introdotti da Petronio anteponendo il culto del cielo9 e ha utilizzato tre termini contigui del nostro epigramma fondendo numen adoret (con la piccola variatio adorant al posto di adoret del primo verso ma nella stessa posizione metrica) con caeli del verso successivo. Tornando al nostro epigramma osserviamo che nel distico seguente Petronio introduce il tema della circoncisione che è il requisito prioritario per coloro che aderiscono alla religione ebraica:10 ni tamen et ferro succiderit inguinis11 oram12 et nisi nodatum solverit arte caput13

Ecco, il tema della circoncisione si configura come centrale nella struttura dell’epigramma perché ad esso Petronio 9 I Romani, vedendo che gli Ebrei levavano gli occhi al cielo per pregare, in un tempio senza immagini o a cielo aperto, si immaginarono che adorassero il cielo [Iuv. 6, 545; Tertulliano, Apolog. 24, 5: alius (si hoc putatis) nubes numeret orans, cfr. Juvénal, Satires, texte établi et traduis par P. De Labriolle e F. Villeneuve, Paris 1971, p. 176]. 10 Quando, sulla nave di Lica, Encolpio propone vari travestimenti per non essere riconosciuti, Gitone lo provoca dicendo: etiam circumcide nos, ut Iudaei videamur (Sat. 102, 14). 11 Inguen è un sinonimo, per contiguità, di mentula. Marziale lo adopera spesso e, in un caso, proprio in riferimento alla circoncisione: nec recutitorum fugis inguina Iudaeorum (7, 30, 5). 12 È un emendamento di Binet nel tràdito aram. 13 Caput è un sinonimo, per sineddoche, di mentula. Lo troviamo in Petronio (132, 8 v. 7), in Marziale (11, 46, 4) e in Ausonio (Cento nupt. 107). L’uso si è protratto nel tempo. In Sicilia, quando si voleva esprimere disprezzo nei confronti di un uomo di diceva: «ha la testa di sopra come quella di sotto».

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dedica due versi (il terzo e il quarto) dove indugia in una descrizione particolareggiata dell’operazione. Non solo. In uno dei versi è contenuta, come vedremo in seguito, un’espressione che prefigura la pointe. I due versi seguenti, cui è assegnato il compito di informare il lettore delle pesanti conseguenze di una mancata osservanza della prescrizione rituale della circoncisione, fanno da ponte verso la conclusione. Si sa che la pointe di un epigramma può essere realizzata mediante una sententia o un proverbio o una più o meno sconsolata riflessione sul comportamento degli esseri umani o, come accade più spesso, con un’arguta battuta. Ed è questo il caso del nostro epigramma: una est nobilitas argumentumque coloris ingenui: timidas non habuisse manus.

La pointe si concentra nelle quattro parole finali e perciò dopo ingenui vanno segnati due punti. Il penultimo verso prepara, come accade spesso, la pointe. Ma perché Petronio parla di nobiltà (nobilitas) e di temperamento da uomo libero (coloris ingenui)? Il senso lo ricaviamo da timidas non habuisse manus: al momento della rescissione bisogna avere le mani ferme perché altrimenti si corre il rischio di produrre danni irreparabili, cioè, per dirla con un hapax varroniano, di se eunuchare (235 B. = 236 Cèbe). Le mani tremolanti per la concitazione possono trasformare un uomo in un eunuco, uno schiavo castrato, un individuo che non può essere né nobilis né ingenuus. Settimo e ottavo verso si illuminano a vicenda. Del resto il significato della pointe era già prefigurato nell’espressione solverit arte del quarto verso: l’operazione va eseguita con abilità. Ora possiamo tradurre: «Il Giudeo, pur adorando il nume porcino e pur invocando le somme orecchie del cielo, se non recide con uno strumento di ferro il lembo del pene e se non libera a regola

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d’arte il prepuzio annodato, espulso dal popolo emigrerà dalla città greca e non imporrà al sabato la legge del digiuno. Una sola è la nobiltà e una sola è la prova di un temperamento da uomo libero: non aver avuto14 le mani esitanti».15

14 L’infinito perfetto, lungi dall’essere un espediente metrico, evidenzia l’anteriorità, cioè la prevenzione prima del gesto decisivo. 15 Gli incidenti durante l’operazione della circoncisione sono un particolare realistico e, come tale, riscontrabile anche ai tempi nostri. Gli studiosi contemporanei dell’orietamento sessuale ritengono che esso è regolato dal cervello. Larry Cahill, uno scienziato che lavora nel Department of Neurobiology and Behaviour dell’Università della California, trova una conferma a questa tesi nell’analisi dei casi di incidenti durante le circoncisioni: i bambini che hanno perduto l’uso del pene e sono stati allevati come femmine, nonostante un forte incitamento sociale a comportarsi come tali, da adulti mostrano un desiderio sessuale diretto alle donne.

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AP P A RA TO I C ON O G R A F I C O

Le immagini riproducono le pagine 130-137 del manoscritto che si trova nella Bibliothèque Municipale di Reims catalogato con il numero 2560.

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IN DE X N OMINUM

Allegretti, G., 79

Ehlers, W., 36

Anton, K.G., 28 Antonelli, R., 31 Aragosti, A., 21, 30, 36, 41, 43 Arnaldi, F., 80 Arrighetti, G., 56

Ernout, A., 21, 25, 26, 27, 30, 31, 36, 47, 50, 51, 73, 74, 87

Baehrens, E., 75 Bentley, R., 31 Bertalot, L., 79 Binet, C., 56, 59, 60, 76, 77, 85, 86 Blänsdorf, J., 75 Breitenbach, A., 67 Buecheler, F., 21, 23, 26, 27, 31, 40, 45, 47, 50, 51, 55, 56, 60, 76, 77, 85, 87 Büchner, K., 75 Burman, P., 21, 31, 60, 61 Burman, P. secundus, 51, 64, 70, 79, 81

Canali, L., 36 Cavalca, M.G., 33 Ciaffi, V., 21, 36, 41, 54, 57, 87 Citroni, M., 36 Collignon, A., 79, 85 Connors, C., 36 Cristante, L., 30, 35 Courtney, E., 31, 36, 40, 42, 51, 56 Curtius, E.R., 31, 32

De Labriolle, P., 89 Deufert, M., 28 Di Giovine, C., 74

Favart, J., 25, 27, 40, 44, 49, 55, 63, 66, 67, 78, 81

Gagliardi, D., 41 Guaglianone, A., 65, 70 Gualdo Rosa, L., 80

Hamacher, J., 54 Heinsius, N., 31, 67 Heraeus, W., 27, 31 Leopardi, G., 35 Lesky, A., 42 Magnus, I., 23 Mattiacci, S., 38 Meyer, E., 70 Mommsen, Th., 27 Monti Sabia, L., 80 Morel, W., 75 Müller, K., 21, 25, 26, 27, 28, 31, 38, 40, 44, 50, 51, 55, 56, 60, 85, 87 Nisard, M., 81 Pascoli, G., 35 Patisson, M., 64, 77 Piccolomini, E.S., 80 Pintacuda, P., 80 Pithou, P., 66, 67, 70, 79

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index nominum

Pitrè, G., 48 Prato, C., 67, 69 Puccioni, G., 24

Raith, O., 28 Riese, A., 26, 27, 56, 59, 61, 64, 76, 77

Shackleton Bailey, D.R., 51, 56, 67, 76 Sommariva, G., 28, 54, 88 Stinchcomb, J., 64 Stubbe, H., 11, 36

Tandoi, V., 28, 56, 88

Salanitro, M., 25, 37, 38, 41, 45, Villeneuve, F., 89 48 Sannazaro, I., 74 Scaligero, G.G., 26, 27, 29, 50, 51, 66, 67, 68, 79 Schmeling, A., 43 Scivoletto, N., 49 Setaioli, A., 34, 36

Vitali, B., 79

Walsh, P.G., 36, 42 Walter, H., 48 Wernsdorf, I.C., 70 Zurli, L., 68, 69, 76

com p o s to i n caratte re o ld st y l e ser r a d a l l a f ab ri z i o s e rra e d i to re, pisa · r o m a . imp re s s o e ri le g ato i n it a l ia n el l a tip ograf i a d i ag n an o , ag n a n o pisa n o ( pisa ) .

* Giugno 2015 (cz2/fg21)

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