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Italian Pages 321 [298] [298] Year 2005
Indice
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Premessa, Ugo Benassi
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Il convegno, Luigi Grasselli
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La memoria, Sergio Zavoli
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INSRODUZIONE
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La tribunalizzazione della storia, Alberto Melloni
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I. LESTORIE
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La fuga dei Savoia: una scommessa obbligata, Fulvio Cammarano
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La Repubblica sociale italiana, Dianella Gagliani
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Roma, Mario Pacelli
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I l ,Franco Bojardi
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Cefalonia: la strage, il processo, l'oblio, Vito Gallotta La Chiesa cattolica: diocesi e parrocchie, Giorgio Vecchio
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Lazzati e la prigionia, Alessandro Parola L'Emilia Romagna e l'identità nazionale. Lo spartiacque deK8 settembre e la resistenza, Lorenzo Bertuccelli
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Soprauuivcw IL 1943 della Spagna fuunchzsta, Liicianu Casali
La resistenza non armata degli iniernati Militari [taliani;ktlrtimoniume dal Modenese, Giovanna Procacci Di.rsoluzione dell'cse rcit o e solida rzeta popola re a i soldati, Mimmo Franzinelli 11. LE STORIOGRAFIC
La resistenza srnza armi. Anna Bravo
Gliehwi, znvect,. . . , Anna Foa La temalica della «morte della patriu» nrlla storia politicu d d ' 8 settembre, Ernesto G d i deila Loggia 257
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Democrazia e oblio: il caso dell'ltalia rt,puhblicaiza, Paolo Pezzino 111. MEMCIRIA E POLITICA
Memoria c politica. C X setteinhre come morntmtu di nz~ovescelte, Mario Bclardinelli L'8 settembre e IC aporie della storia. Fra crisz di regime, nodi che cengono al pettznr e debolezze umane. I'aolo Pombeni Poslfazionr, Elena Aga Rossi
Premessa Ugo Benassi
Per quanti hanno scelto di promuovere i valori della nostra democrazia attraverso lo studio e la ricerca storiografica, la ricorrenza dei sessant’anni dall’8 settembre rappresenta un’opportunità da non mancare. L’Istituto Alcide Cervi, intitolato alla memoria del padre dei sette fratelli Cervi, tra i più conosciuti martiri della Resistenza, ha voluto puntare non su una commemorazione, che risolvesse in una cerimonia la rievocazione di quegli eventi cruciali, bensì sulla riflessione scientifica ad ampio spettro, che cogliesse in questa data l’occasione per una discussione nel merito e ad alto livello, sulla portata storica di quei momenti. Abbiamo accolto dunque di buon grado l’invito dell’Università di Modena e Reggio Emilia, e del professor. Alberto Melloni in particolare, a ideare insieme un importante convegno su questi temi a Reggio Emilia, il 4 e 5 settembre 2003. Grazie ai nostri sforzi congiunti, quello che per molti è stato uno dei più rilevanti appuntamenti nazionali sui sessant’anni dall’Armistizio, ha potuto essere davvero un confronto proficuo tra studiosi e ricercatori di tutta Italia. Un grande raduno di eminenti professori che da tempo si occupano dell’8 settembre come data di passaggio tra due epoche, tra due stagioni della vita civile italiana: accanto alla speranza e alla scelta di campo, la tragedia dell’esercito, la legalità che perde contorni, le vecchie istituzioni che si sfaldano in poche ore. Il convegno Ottosettembre 1943, di cui oggi presentiamo gli Atti, è scaturito proprio dall’esigenza di fare luce su tutti gli aspetti controversi e ancora dibattuti nella storiografia, nella politica e nella memoria collettiva. Le giornate di studio si sono aperte significativamente in uno dei lunghi più consacrati della memoria antifascista italiana, vale a dire Casa Cervi, oggi museo della Resistenza e dell’emancipazione contadina, teatro di una delle epopee familiari più celebri ed esemplari della lotta di
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Liberazione. Una scelta non soltanto simbolica, ma doverosa anche sul piano storico. Mentre si consumavano in pochi attimi i rivolgimenti epocali attorno all’8 settembre, la famiglia Cervi attendeva con lucidità l’evolversi delle sorti nazionali. Alla notizia dell’Armistizio, tra entusiasmo e smarrimento, i Cervi risposero con la nitida consapevolezza della battaglia per la libertà e la giustizia che attendeva tutti gli antifascisti. La lunga maturazione ideale di questi contadini tenaci e progressisti era la stessa di molti altri che, in tutta Italia, avevano forgiato le proprie convinzioni sotto le angherie fasciste e le sofferenze della guerra. Per i promotori del consesso storico, dunque, non è certo stata casuale la scelta di Reggio Emilia, città medaglia d’oro al valor militare della Resistenza, per una riflessione di questa portata; ancora di più, si è voluto portare un omaggio particolare a quanti, come i Cervi, sono stati primi attori di quel rivolgimento di fronte, di quel riscatto del popolo italiano che ha permesso, venti mesi dopo, un pieno affrancamento della nazione dalla dittatura. Accanto al dramma dei soldati, a cui sempre più, giustamente, si tributa rispetto e onore, anche il ricordo di coloro che l’8 settembre non lo subirono, ma lo attesero e lo trasformarono in rinascita della patria. L’8 settembre 2003, in occasione del sessantesimo anniversario dell’Armistizio, il nostro Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha iniziato un lungo viaggio della memoria che lo ha portato a toccare tutti i presidi della Resistenza e della rinascita della patria durante la lotta di Liberazione. Un itinerario che ha toccato anche Reggio Emilia e il Museo di Casa Cervi. Ma ha voluto pronunciare contestualmente – da massima carica dello Stato e da protagonista storico di quegli eventi – fortissime parole che racchiudono indelebilmente il senso di quella data per tutti gli italiani: di fronte all’Armistizio e allo sfascio che ne seguì, gli italiani si ritrovarono soli con la propria coscienza civile, e in quel preciso istante la scelta coraggiosa di molti cittadini riconquistò all’onore le sorti della nazione. Ogni episodio di resistenza alla sopraffazione, ogni gesto di ribellione e collaborazione con i resistenti fu parte di quel riscatto di popolo, che salvò le sorti della patria e «ne interpretò i valori profondi». «Che cosa fu l’8 settembre 1943? Fu la prova più difficile di una Nazione che, proprio in quei giorni, si riscoprì unita… L’8
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settembre non fu la morte della Patria, perché allora la Patria si rigenerò nell’animo degli italiani che seppero essere, seppero sentirsi Nazione.» Difficile trovare parole più efficaci e chiare per esprimere anche le nostre convinzioni, le stesse che animano il nostro lavoro nella ricerca, nell’approfondimento scientifico, nell’attivo presidio delle istituzioni democratiche e della sua carta fondamentale, la Costituzione repubblicana. Ancora una volta è il Capo dello Stato, nella sua altissima funzione e nella sua strenua difesa dei principi fondamentali della nostra democrazia, a elevarsi come custode della memoria e della prima legge dello Stato. In tempi in cui quotidianamente la verità storica e la memoria vengono mercanteggiate e manipolate, abbiamo voluto, con questa iniziativa storiografica, riportare la discussione in un alveo più corretto, per spazzare via qualunquismi e inaccettabili mistificazioni della storia repubblicana. Un evento scientifico non soltanto per addetti ai lavori, ma per far sì che a discutere del passato siano coloro che hanno a cuore la verità storica e la serietà di un dibattito civile che riguarda tutta la collettività. Oggi, al culmine delle celebrazioni del sessantesimo della Resistenza, pubblichiamo gli atti di quel convegno, che si sono trasformati in ben più che una mera trascrizione di una pur ampia discussione. Ottosettembre 1943 è una raccolta di saggi riveduti e ampliati, che rappresenta un punto di riferimento per il futuro dibattito storiografico sull’argomento. Siamo orgogliosi di aver contribuito ad arricchire la discussione di studiosi e ricercatori che a vario titolo continuano il racconto della storia. L’Istituto Cervi aveva iniziato, con questo grande evento culturale, il proprio lungo Sessantesimo della Resistenza, confortato dal calore di tanti cittadini e istituzioni che ancora si stringono intorno al ricordo dei sette fratelli Cervi, fucilati dai fascisti il 28 dicembre del 1943, all’alba della Resistenza, e di quanti li seguirono nella lotta e nel sacrificio. Noi, con modestia ma con tenacia, continueremo a promuovere il confronto di idee accanto alla memoria del passato, forti della memoria che difendiamo e verso la quale – sono parole del Presidente della Camera Casini, in visita a Casa Cervi il 25 aprile 2003 – «gli italiani hanno contratto debito perenne di civiltà e di valori». Ugo Benassi Presidente Istituto Alcide Cervi
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Il convegno Luigi Grasselli
Il convegno sull’8 settembre, svoltosi a Reggio Emilia il 4 e 5 settembre 2003 e promosso dall’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia in collaborazione con l’Istituto Cervi e con le molte università e istituzioni scientifiche che hanno accolto il suo invito, costituisce un momento importante per la nostra vita scientifica e accademica. È importante, prima di tutto, per la risposta che ha ottenuto e di cui colleghi, studenti e pubblico sono stati testimoni: non è frequente che il mondo della ricerca storica trovi occasioni d’incontro così corali. Posso dire che in quei giorni di lavoro si è verificata l’occasione di ascoltare nella città di Reggio Emilia, da pochi anni sede universitaria, i migliori studiosi italiani. E se è vero che c’è “università” laddove si adunano le discipline, i punti di vista, le ipotesi di lavoro, allora davvero a Reggio Emilia c’è “università”. È perciò mio gradito dovere ringraziare non solo l’Istituto Cervi, che ci ha ospitati, per la prontezza con la quale ha accolto le suggestioni avanzate dal professor Alberto Melloni, ma anche gli atenei di Bologna, Parma, Pisa, Milano, Bari, Perugia, Roma La Sapienza, Roma Tor Vergata, Roma 3, Siena, Torino, la Lumsa, la Scuola superiore della pubblica amministrazione, la Fondazione per le scienze religiose di Bologna, l’Istituto per la storia del movimento di liberazione di Milano, l’Istoreco, l’Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea di Torino, la RAI, La 7 che hanno partecipato a vario titolo alla realizzazione di quelle giornate di studio, che deve alla generosità di CCPL , dello Studio Scalabrini e Cadoppi e della SCA Servizi un sostegno in parte indirizzato all’ospitalità di cui abbiamo goduto, in parte all’erogazione di borse di studio e assegni di ricerca.
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Il convegno che si è svolto nel 2003, tuttavia, è importante non solo per le sue dimensioni di cornice, ma anche evidentemente per quelle di contenuto. L’8 settembre è infatti uno dei temi relativamente ai quali appare forte la problematicità interpretativa da parte della ricerca storica. L’estate del 1943 certo porta dentro di sé un germe del futuro democratico dell’Italia repubblicana, sul quale s’è costruita la coscienza collettiva del paese e al quale il Presidente Ciampi ha fatto sovente riferimento negli ultimi anni. Tuttavia è stata spesso messa in rilievo da parte degli studiosi la forza di “evento” dell’8 settembre: chiunque lo ha vissuto – da protagonista o da spettatore, da soldato o da civile – ne ha ricavato una serie di immagini che difficilmente risultano componibili con le immagini degli altri. Oggi, a sessant’anni da quegli eventi, una profonda riflessione storica – che è e deve essere seria, rigorosa, “tecnica”, – è quanto mai essenziale. Se la storiografia contemporanea fino a oggi “interferiva” con la memoria diretta dei fatti e degli episodi, con quella pluralità irriducibile delle visioni e delle esperienze a cui ho accennato, da oggi in poi tocca proprio a essa consegnare quel passato in cui convivono tante verità individuali a una generazione che ha bisogno di trovare le proprie ascendenze storico-politiche. Una giovane generazione assetata di storia, che chiede gli strumenti per comprendere, ma riserva a se stessa il diritto di giudicare. A questa sete devono rispondere la ricerca e l’insegnamento che l’università profonde, con la sua funzione insostituibile nel trasferimento di quel “sapere problematico” possibile solo dove didattica e ricerca interagiscono continuamente; a questa sete risponde, per parte sua e con modi suoi, la tv. Vera supplente di tutte le docenze neglette della scuola e dell’università, la tv offre immagini di questo passato storico così vitale alla formazione del sé della nuova generazione. Immagini che sono certo vere, ma che contengono un rischio profondo: esse ricatturano quelle singole verità, senza composizione e mediazioni. Le immagini propongono verità fuori contesto, e tutte terribilmente simili: le vittime, le battaglie, le catastrofi tendono inesorabilmente ad assomigliarsi. Ritengo dunque particolarmente opportuna la riflessione su
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questo nesso fra sapere storico e immagine televisiva, di cui si è occupato un maestro della storiografia televisiva come Sergio Zavoli, nella sua prolusione ai lavori. A nome di tutto l’ateneo, intendo rivolgere la più profonda riconoscenza agli intervenuti al convegno, e in particolare ai relatori, al collega Alberto Melloni che ha costruito il programma e all’Istituto Cervi che ci ha offerto una collaborazione che non avremmo potuto desiderare migliore. Luigi Grasselli Pro Rettore dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
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La memoria * Sergio Zavoli
Il motivo per il quale ho aderito con grande gioia all’invito a partecipare al convegno sull’8 settembre sta nella consapevolezza che in un paese e in un tempo in cui mi pare stia vincendo una sorta di misteriosa caducità, accompagnata da un fenomeno ancora più grave, che è quello della dimenticanza, quasi del ripudio della memoria, un incontro di questo genere è un punto di riferimento quasi obbligato. A sessant’anni dall’8 settembre 1943 si sentenzia un po’ da ogni parte che non è più tempo di memoria: essa attarda il presente e ritarda il futuro. A tale processo di rimozione ha messo mano chi, avendo dell’esistenza della storia un sentimento quotidiano e indistinto, vorrebbe liberarsi di ogni precedente responsabilità civile, morale e psicologica. Penso a un uomo privato dei ricordi che rinasce ogni giorno con la sorpresa di essere, che si inaugura a ogni levata del sole per poi inoltrarsi stupefatto in una notte che lo cancella, con un buio alle spalle che lo priva del confronto e del riesame, della conferma e del pentimento. Penso a un uomo proteso al di là di quel vuoto a sopravvivere senza orma di sé, passato come un’ombra attraverso la sua esistenza, risorto ogni giorno dal niente, inerte rispetto a ieri e avido solo di domani. Provo a immaginare la solitudine di un giorno che è sempre il primo, che non trascina nulla, non corrisponde a nulla, non verifica nulla, e perciò non aggiunge e non toglie, non premia e non punisce, e quando è l’ultimo, ci sorprende neonati, vecchi solo di un giorno. Toglierci la memoria significherebbe, in concreto, non soltanto privarci di gran parte dell’identità, ma anche offrire alla storia l’alibi che non ha mai avuto, non ha e non avrà mai. Essere nuovi tutti i giorni deve * Il presente articolo è frutto della trascrizione, non rivista dall’autore, dell’intervento di Sergio Zavoli al convegno tenutosi a Reggio Emilia il 4 settembre 2003.
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La memoria
pure costare qualcosa, compresi i ricordi, ed è inutile nascondersi dietro le immunità, e ancor meno dietro le impunità a cui oggi si aspira con un’ostinazione più che sospetta. Conosco la rete, la lusinga dolce e corruttrice, di ciò che richiamo alla mente. So che cosa fu l’infanzia nella nostra provincia, di come in quell’età un po’ stordente fossimo illanguiditi dai desideri, attratti dalle promesse, guidati dai moniti, in attesa di destini molto più grandi di noi. Quella condizione contadina apparentemente mite, ma angusta, senza futuro, spesso violenta, quel continuo dormiveglia della ragione, che tratteneva insieme slanci e paure, quel vivere col petto in fuori, con le idee già pronte. Non c’è magia del ricordo che possa trasformarlo in modo meno goffo e patetico, finché le cose non volsero in dramma e poi in tragedia. Dopo tanti anni ci siamo fatti idee diverse su molti eventi. Certo, compito del dopo è quello di spiegare il prima, e ciò implica una lettura non soltanto storica, in senso stretto, della vicenda collettiva. Non mi richiamo all’abusata declamatoria saggezza secondo la quale chi non sa giudicare la propria storia è destinato a riviverla. Dico semplicemente che un paese democratico e laico ha il dovere di giudicare se stesso con il massimo raziocinio e una disposizione alla severità. Ricordo quando sulle rovine dei nostri paesi e delle nostre città si ricominciò a vivere, tendendo l’orecchio alle parole dette dai padri della nuova civiltà. Quelle di Albert Einstein: «Tutti i pacifisti devono avere uno scopo. Convincere i popoli che la guerra è il colmo dell’immoralità». Di Nils Bohr, il premio Nobel, che confessò a Robert Oppenheimer: «Adesso, quando mi viene un’idea, mi prende anche una tentazione di suicidio». O di Gandhi: «Il mondo è stanco di odio. La non violenza è la più alta qualità del cuore. È una lotta più attiva e reale della stessa legge del taglione». O del pilota che sganciò l’atomica su Hiroshima, che rivide ogni notte, per anni e anni, donne e bambini fondere come candele, ossessionato dal ricordo di quando era un bravo ragazzo, un soldato disciplinato, secondo la definizione dei suoi superiori, in realtà un povero imbecille, secondo quello che dirà di sé più tardi. Oppure di Albert Camus: «Occorrerà presto scegliere tra il suicidio collettivo o l’utilizzazione intelligente delle conquiste scientifiche. Ci accorgiamo sempre più che la pace sia l’unica battaglia in cui valga la pena di battersi». Infine, di Bernanos: «Ho visto
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Sergio Zavoli
tanti morti nella mia vita, ma il più morto di tutti è il ragazzo che io ero». Siamo davvero ingrigiti dal troppo tempo concesso alla dimenticanza, al disinteresse, alla menzogna. Adesso, per giunta, la storia non trascina più le cose con l’antica lentezza, ma sembra farle correre insieme, con noi. Ho pensato più di una volta, quando cadde il Muro, al prezzo che gli uomini di due generazioni, di fronte a quanto era avvenuto a scadenza, hanno pagato al dover salvare, ciascuno sul proprio versante, la qualità non solo civile e morale, ma anche intellettuale, delle proprie scelte. Il loro non sottrarsi al momento dei bilanci è quasi sconosciuto alle nuove generazioni, ormai addestrate al giorno per giorno e quindi al sempre più veloce consumarsi anche degli errori e delle colpe. Ma davvero la storia sta languendo e sarebbe prossima a morire? È un’ipotesi per qualche intellettuale tardivamente in vena di provocazioni. Sarebbe però inutile negarsi che la velocizzazione degli eventi, in larga misura indotta da un sistema comunicativo che a ogni istante rivela, brucia e sorpassa ogni realtà, sta frantumando le confezioni storiche lasciate dalle ideologie. Lenin disse: «Attenzione all’ideologia, è la più vischiosa delle nostre ricchezze» (ma avrebbe potuto anche dire «conservatrice»). Si pensi alla rapidità con cui la glasnost ha scoperchiato l’immensa necropoli occultata dallo stalinismo, con il risultato di screditare la storia come sarebbe stata possibile, e come la riconquista della libertà nel 1945 ha rivelato l’orrore inarrivabile del nazismo. Si potrà dire che la storia è parsa sul punto di finire quando un grande trauma liberatorio l’aveva come svuotata di ogni significato precedente, ma poi, fissando una sorta di nuovo ciclo da cui ripartire, essa stessa ridava senso alla propria continuità. Partendo proprio da qui, e pur valutando le cose secondo il metro del semplice giornalista, posso non di meno provare a entrare nello spirito del tema con qualche argomentazione più diretta e concreta. Forse qualcuno ricorderà l’articolo comparso in «l’Unità» in cui, a proposito della caduta del Muro, Biagio De Giovanni scrisse lucidamente che, da allora in poi il futuro sarebbe stato di confine nell’attualità. Come chiedere alla cronaca di trasformarsi, in qualche modo, nella nostra storia. Un modo di contrarla,
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La memoria
non certo di cancellarla, ma di costringerla a stare sotto i nostri occhi, pronti a giudicarla finché si è in tempo, togliendole spazio ogni volta che mostri di diventarci ostile. Assistere alla storia, insomma, vivendola e criticandola dal vivo. È il caso, consentitemi la citazione sproporzionata, di Tucidide, il quale poté asserire di aver vissuto per intero la guerra del Peloponneso. O di William Shirer per il Terzo Reich. Oppure di Artur Schlesinger jr. per le illusioni di Kennedy. Uno e l’altro testimoni dei fatti narrati. Infine, dell’opera di Paul Ginsborg sull’Italia del dopoguerra, in cui la trattazione dei grandi temi politici, economici e sociali si avvale anche dei ricordi individuali di gente comune, fonte di una non meno attendibile storia orale. E qui il mio pensiero va riconoscente all’amico De Rosa, lo storico che più mi ha incoraggiato, insieme con Mario Alighiero Manacorda, quando affrontai, con Nascita di una dittatura, una storia completamente orale. Il richiamo alla vittoria dell’attualità, anche a non prenderlo alla lettera, è un’altra dimostrazione del primato, cui assistiamo ogni giorno, della cronaca. Anzi, è sospettato di poter rappresentare, come si dice apertamente, la sola storia rimastaci. Specie se fosse vero, come afferma l’apocalittico Wells, che la nostra è una continua rincorsa tra l’informazione e la catastrofe. Sarà questa la post-storia? Per uscire insieme dalla storia occorrerebbe non accontentarsi dei convegni che uniscono il vero e il falso, bensì cercarla davvero nella cronaca in cui ogni giorno ci immergiamo, ragionando sul prima per disegnare il dopo. Cominciamo a credere, per esempio, che non c’è mai tanto bisogno di politica come quando essa stessa sembra autorizzarci a voltarle le spalle. Un uomo, ma anche una società e una nazione, sono ciò che la storia ha loro aggiunto e tolto, sono l’esperienza che perdura o si sfalda nella memoria singola e collettiva. Chissà se nel togliersi la vita Primo Levi è stato assalito dal frastuono o dal silenzio lasciatogli dalla sua storia. «Un uomo che è stato torturato rimane torturato», aveva detto. Credo che Primo Levi sia morto di ricordo. Ma la memoria non è vivere di ricordi, è persino morirne. Perché ci permette di esistere, di esprimersi, di giudicare. «Essa – scrisse Borges, scrittore e poeta così lontano dalle vocazioni da Levi – è la nostra coerenza, il nostro sentimento, persino il nostro agire. Senza il ricordo non siamo nulla, non resta che aspettare l’amnesia finale, che cancella una vita intera».
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Sergio Zavoli
Il convegno sull’8 settembre ha avuto il grande merito di risvegliare una questione cruciale. Dare ai più giovani la cognizione di ciò che ha reso possibile le loro libertà, le loro scelte, il loro diritto di volere e di rifiutare. Ecco perché non riesco ad avere un’idea sfiduciata del ricordo, perché mi attengo a Tullia Zeri quando afferma che bisogna testimoniare e trasmettere la memoria senza tregua. L’8 settembre del 1943, nel suo sessantesimo, non è una data per i calendari. Fu l’inizio della resistenza, da cui uscimmo con la dignità ritrovata di essere popolo e società, nazione e stato. La realtà in cui i giovani vivono la loro stagione, seppur alle prese con altri ordini problemi, ha bisogno di essere alimentata e di ricevere autenticazione non solo dai principi e dalle speranze, ma anche dalle esperienze e dai loro lasciti, cioè insieme dall’animo e dalla storia. Un filosofo del nostro tempo, Ernst Bloch, dice che la ragione non può fiorire senza la speranza, ma la speranza non può parlare senza la ragione. Con queste sommarie premesse, come può rispondere l’informazione? L’approccio a queste problematiche dovrà vedersela con un aspetto tra i più invasivi della modernità, cioè con un mondo cambiato dall’irrompere di un sistema di reti informatiche pronte a interagire tra loro fino a essere esse stesse l’unico possibile sistema comunicativo. La grande rete digitale che consentirà a Murdoch di costruire anche in Italia la sua ragnatela televisiva, con buona pace di un servizio pubblico sempre più svuotato del suo ruolo e sempre più marginale, è l’avvisaglia di una modernità che non possiamo subire. Capisco che essa, come per le pensioni, la sanità, la scuola, la giustizia, è ciò che si vuole favorire e incardinare nel nostro paese, ma è proprio qui che l’opposizione non può essere soltanto teorica, cioè soltanto fondata su presupposti tecnici, ma politica, cioè sorretta su un disegno ben più complesso, che corrisponda a un interesse di carattere generale. Cominciò a darcene un’idea il celebrato, ormai abusato McLuhan, ma si era davvero all’abc quando il profeta della globalizzazione mediatica pretese di farci credere che grazie alla televisione, per il solo fatto di essere protagonisti e testimoni nel medesimo istante del medesimo evento, si sarebbe divenuti cittadini di un villaggio globale, che ci avrebbe tutti omologati. In realtà mai il mondo è apparso così diviso come da quando la tv ci ha messo nelle condizioni di rendercene conto.
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La memoria
Nell’epoca dai lumi oltre novecento milioni di uomini non conoscono ancora la luce elettrica. E nella civiltà della trasparenza, ogni giorno, cinquantamila bambini muoiono di fame e di malattia lungo il sud della terra, senza che il villaggio elettronico ne parli. È materia ideologica, dice il più sfrenato dei riformisti, e perciò superata da un nuova nozione della realtà. La novità annunciata da McLuhan, infatti, avrebbe il suo cardine nella sostituzione delle ideologie con una lettura del mondo, che, grazie alla sua universale contestualità, farebbe un tutt’uno, ovunque, dei problemi e delle loro soluzioni. Il teorema, a veder bene, è semplice: le separazioni, più o meno inique, si sciolgono all’interno delle continue e sempre diverse necessità che esse stesse determinano. L’ideologia, pur essendo stata per quasi due secoli la sistemazione concettuale, ideale e politica dei modi per trarre l’umanità dai suoi problemi, è fallita proprio a causa della sua staticità. Partendo da qui, il passo è breve. Caduta l’ideologia, la responsabilità delle nostre azioni, e quindi della storia, passa ai tecnocrati, cioè ai lucidi e spietati talenti, come li ha chiamati il sociologo tedesco Hermann Kahn, i quali, subentrando ai totem spodestati dalla realtà, hanno offerto al mondo, complice la scienza, la soluzione per eccellenza. Quella tecnologica. Nella sua versione più pragmatica è la grande suggestiva scorciatoia del cosiddetto funzionamento. Il nuovo, controverso scenario, a veder bene, della flessibilità politica e sociale. E poco importa che esso sia anche lo strumento della demagogia efficientistica, pronta a risolvere ogni questione sulla base di un tecnicismo astratto, privo di etica e quindi di esperienza umana, civile e morale. Il grande filosofo tedesco Martin Heidegger, spingendosi a immaginare al limite estremo della spirale tecnologica, addirittura uno stato tecnico, ha scritto: Lo stato tecnico sarebbe il servo più servile, e più cieco, di fronte alla potenza della tecnica. Dovrebbe essere risultato chiaro che il movimento planetario della tecnica moderna è una potenza che determina la storia. A mio avviso oggi è una questione decisiva lo stabilire come si possa far corrispondere, in generale, un sistema politico all’epoca tecnica, e di quale sistema potrebbe trattarsi.
Il filosofo, che in politica non fu sempre molto attendibile, nel 1965 affermava: «Tutto ormai funziona. Ma proprio questo ci
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Sergio Zavoli
allarma, che tutto quanto funziona e che il funzionare spinga sempre avanti verso un ulteriore funzionare. E che la tecnica strappi e sradichi sempre di più l’uomo dalla terra». Lo sradicamento è già in atto. Sembra un discorso fatto per i tempi che stiamo vivendo, dove tutto è fondato sul praticismo, il convenientismo e l’economicismo: un sistema che privilegia il successo e non di rado i privilegi dei pochi, a scapito della normalità e, spesso, della sicurezza del mondo. L’osservazione di Heidegger mi riporta a un’altra riflessione, sebbene scaturita da un ragionamento affatto diverso, di padre Ernesto Balducci, anch’egli acuto amaro giudice della modernità conclamata. Riferendosi a una sorta di irresistibile primato dell’intelligenza, e alla sua natura più propriamente filosofica, padre Balducci finiva per temere un pensiero che produce solo pensiero, e questo un altro ancora, al punto che in fondo alla spirale di un pensiero che pensa, diciamo, solo se stesso, non ci sono più i bisogni veri dell’uomo, nella loro reale gravità. Ne consegue che dalla prosecuzione meccanicistica di un assunto, se a mediarlo non interviene un filtro – ad esempio la politica e l’idea – tutto diventerà sempre più possibile, in ogni senso, e qualunque ne sia il prezzo. Se dunque siamo di fronte al fenomeno di una tecnica che, provocando di continuo se stessa, condiziona tanta parte dell’esistenza – e questo riguarda la scienza – e un pensiero che suscita solo pensiero – e questo riguarda la filosofia – il rischio è che a restarne fuori siano proprio i testimoni assenti della storia, cioè i distanti, gli attardati, in definitiva i deboli. Si pensi a Galbraith: i ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri. Sembrò allora un suggestivo gioco di parole, ma oggi è la storia a confermarne la razionalità. L’ipotesi insomma è che un immane paradosso, cioè proprio la fonte di una ricchezza generata e garantita dalle leggi del mercato, possa non solo non risolvere, ma persino aggravare i bisogni fondamentali di tanta parte dell’umanità. Ne è un piccolo sintomo la crisi dei prezzi di questi mesi, lasciata ai cosiddetti anticorpi del mercato e non sufficientemente governata dalla politica. Nel tempo del mercato, delle monete, della globalizzazione, figuriamoci cosa sarà di chi non ha ancora risolto il problema della sopravvivenza. Chi adempirà al dovere di guardare non solo all’omologazione, tutta da sperimentare, ma anche alla diversità, che è già invece sperimentata? Mi sembra di ascoltare l’obiezione.
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La memoria
Una domanda del genere sa di vecchio umanesimo, ci riporta a modi antichi, un po’ retorici e declamatori, di affrontare la contraddizione. Ma poi si scopre che già oggi una scelta derivante dal potere della scienza e della tecnologia è sostanzialmente umanistica. In America, non a caso, si comincia a studiare l’etica a scuola con vere e proprie lezioni teoriche. Perché questa modernità, accanto a fenomeni di straordinario sviluppo, sta producendo anche scompensi di portata universale? Presto la Cina – e l’avvisaglia l’abbiamo avuta quando si è inventata quella straordinaria demonizzazione che riguardava una malattia che aveva ucciso qualche decina di migliaia di persone, mentre l’influenza in Italia, in un solo inverno, ne uccide infinitamente di più – potrebbe constatare di essere la variabile indipendente di questo precario sistema mondiale in cui è venuta meno l’autorevolezza e l’autorità delle grandi istituzioni di garanzia, a cominciare dall’ONU, e con un’Europa che stenta ancora a trovare il suo equilibrio e il suo ruolo, all’interno delle grandi aree di influenza planetaria. Del resto, un sistema economico la cui prima logica è produrre consumi non può non riflettersi con tutto il suo potere anche sul modo di comunicare, sulle idee, persino sulle mentalità da dover promuovere. Ecco allora la premesse dell’omologazione coatta, per così dire. Il formarsi di stereotipi sociali di comportamento, l’adeguarsi al modello comune, e tutto ciò nonostante la libertà in senso lato debba tendere al contrario, cioè a stimolare la responsabilità personale, a salvaguardare i diritti di tutti, a contrastare l’invadenza dei potenti, a difendere, tutto sommato, la democrazia. Il problema si allarga, e va dunque a toccare la politica, anche se questa parola non ha più impaccio ed è stata un po’ screditata da tante altre che le somigliano ma che non sono propriamente la politica. Vorrei porre una domanda. Chiedere se le ragioni della globalizzazione economica non entrino in conflitto con la tutela, ispirata dalla solidarietà, di una parte non trascurabile della comunità nazionale. Penso allo stato sociale, grande conquista della modernità, e ai pericoli che lo minacciano. Oggi, la spinta teorica all’internazionalizzazione viene dall’economia, e non più dalla politica; ebbene, nella sinistra classica è sempre stato il contrario. Cosa è mutato nella sua evoluzione teorica e nella sua prassi? La segmentazione della realtà prodotta dal sistema comuni-
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Sergio Zavoli
cativo, specie dalla tv, ha diffuso la sensazione che quanto accade ci coinvolge, cioè la realtà è qualcosa di accessorio. Ha dunque ragione Naisby, il futurologo, quando dice che per effetto della velocità non siamo più né qui né altrove, neppure temporalmente, e il rapporto tra il prima e il dopo, tra la causa e l’effetto, sta venendo meno, proprio come se tutto vivesse all’interno di continue parentesi. Questa, afferma Naisby, è difatti la «civiltà delle parentesi». E ciò perché sarebbe morta la continuità, cioè il progredire delle idee e delle cose, insieme con la responsabilità di doverne stabilire e giudicare i nessi e soprattutto i risultati. D’altronde ha ancora un certo spaccio la sciocchezza presa per verità per cui una società informatizzata sia anche una società informata. Questo dovrebbe garantirci per il domani, sennonché il sistema comunicativo, a causa della sua velocizzazione, non fa che superare di continuo, insieme con la realtà cui si rivolge, le stesse ragioni del suo agire, il quale non può star dietro ai valori più di quanto non debba inseguire la dinamica degli scenari che trova. Tant’è che – l’ha finalmente capito anche chi milita nella sinistra – la rivoluzione non è più il cambiamento, ma la velocità del cambiamento. Se ciò è vero, come credo, questa velocità va sorvegliata. È il fenomeno entro cui si costruiscono i nuovi alfabeti, è lo spazio dei conflitti tra vecchi e nuovi linguaggi, tra modelli, stili, costumi, culture da governare privilegiando i fatti e non, come preferiva un altro filosofo tedesco, Federico Nietzsche, la loro interpretazione. Ciò significa anche parlare di democrazia, la quale implica la conservazione di valori accertati e convenuti. Hans Gadamer pensava, ad esempio, all’India e alla Cina, universi culturali tra i più entusiasti verso le conquiste tecniche occidentali, ma anche tra i meno disposti a lasciarsene sopraffare, anzi, tra i più tenaci nel respingere la risoluzione dei tessuti culturali minacciati dall’omologazione in ogni area del mondo. A partire da Galileo, diceva Gadamer, abbiamo sviluppato le scienze come strumento di potere, un progresso unilaterale senza il quale non riusciamo più a vivere, ma con il quale non riusciamo più a essere felici. In un recente rapporto del Censis sulla società italiana anche De Luca aveva parlato di un maggiore benessere, ma di una minore felicità. È il problema del consenso interiore, spesso mancante, per esempio, verso la logica del merca-
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to. Un mondo grasso, verrebbe da domandarsi, non può avere anche una mente, un’anima? È d’altronde possibile che l’uomo di oggi rinunci a quello che l’età dei lumi aveva avuto l’audacia di chiamare «il bene di vivere bene»? Fuori e dentro; traguardo forse utopico, ma diritto sacrosanto della persona. Cito anche qui un futurologo, Robert Jungk: «Finora abbiamo lottato solo per sopravvivere». Che cosa ci riservano, per esempio, le grandi migrazioni? E come fermeremo la violenza, che esplode ormai ovunque, all’interno delle società progredite come di quelle più arretrate, nelle lotte intestine, etniche, sociali? Che senso dare a quelle cinquantadue tra guerre e guerriglie che in questo momento si combattono per la conquista non dei pozzi di petrolio, ma dell’acqua? E che dire della proposta di prendere a cannonate le carrette dei mari dei derelitti? E se avesse ragione lo storico francese Fernand Braudel quando disse che il destino dell’Africa è quello di invadere l’Europa, e quello dell’Europa è di aprirle le porte? Si propone aggiornato il concetto di sicurezza e stabilità. È lecito temere infatti che un’idea di liberazione implichi nuova prigionia, a cominciare dalla scomparsa della solidarietà sociale, la più grande conquista del XX secolo. Del resto non si tratta soltanto di essere culturalmente pronti a ciò che cambia, ma anche eticamente capaci di adeguare le scelte ai principi. Disponiamo di mezzi sempre più idonei al mutamento; lo si vive con orgoglio ogni giorno, stentando però a trovare il profondo e complesso disegno che lo giustifichi. E tuttavia, continueremo a crescere in misura dei problemi che ci toccherà risolvere. Non saranno dunque le parvenze a farci diversi, ma la percezione, la coscienza di ciò che cambiando ci cambia, e sapendo che domani si potrà ancora cambiare questo mondo cambiante, guidati dallo spirito di libertà e di giustizia, ma anche dall’ammonimento di Tolstoj: «Non fate niente che sia contrario all’amore». Un linguaggio quasi religioso. Lo scienziato francese Jean Rostand, premio Nobel per la biologia, disse a sua volta che «l’amore è il forcipe di ogni speranza difficile, di ogni attesa preclusa». Rostand era ateo. Un’altra parola astratta: speranza. Come conciliarla con la storia? Penso ad Elias Canetti:
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Sergio Zavoli Certe speranze, quelle pure, quelle che nutriamo non per noi stessi, quelle il cui adempimento non deve tornare a nostro vantaggio, le speranze che teniamo pronte per tutti gli altri, quelle che procedono dalla innata bontà umana, poiché anche la bontà è innata, queste speranze di un giallo solare bisogna nutrirle, proteggerle, ammirarle, accarezzarle, cullarle, quand’anche non dovesse mai giungere l’istante in cui si compiano, perché nessun inganno è altrettanto sacro, e da nessun altro inganno dipende a tal punto la nostra possibilità di non finire completamente sconfitti.
L’11 settembre del 2001 ha risvegliato il mostro delle guerre di religione, la cui storia, per dirla molto sommariamente, va dalla crociate ai nuovi fondamentalismi. Da questo pericolo dovrebbe nascere, inglobato nella scienza, un nuovo umanesimo, quello di un’umanità finalmente in grado di interagire perché la storia la interpreti nella sua dimensione planetaria. Di fronte a questi processi, come avverrà la cosiddetta ristrutturazione della storia? Quest’uomo universale, che uso farà della politica? Si darà nuove ideologie? O tutto prenderà il volto prodotto dalle stesse azioni suggerite dal medesimo pensiero e ripetute miliardi di volte? Viene da pensare, a questo proposito, che da quando l’ideologia ha finito il suo compito è finita anche la carica utopica che per almeno due secoli aveva alimentato il fondamento stesso del nuovo e del diverso, perseguito lungo la storia di ciò che si chiamava il cambiamento. L’ideologia, l’utopia, si diceva una volta, è credere che tutto possa essere e diventare diverso. L’unico progetto possibile era quello di interrompere una continuità non più sopportabile, perché si era rotto ogni legame con quanto per millenni l’aveva giustificata. Con la società povera e timorosa – come Braudel ha chiamato il mondo contadino – è finito il concetto stesso di ciclo. Dopo ci sono state solo ere, epoche, cose del genere. Guai, del resto, a volere vivere con l’anima e la mente voltate indietro. L’uomo è un uomo per il suo avvenire, figuriamoci se ciò non vale per una civiltà. Ciò che ha prodotto il più grande cambiamento, e il più veloce, è stata la società industriale, propedeutica a quella scientifica e tecnologica. Il balzo provocato nella cosiddetta qualità della vita è stato e rimarrà grandioso. Una cosa soltanto le si può imputare: non avere salvato i valori superstiti, i loro bilanci ancora attivi. Una perdita che ha pro-
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vocato un lacerante fenomeno di spaesamento nell’identità, il più profondo e durevole tra quelli generati dalla storia dell’uomo. Freud, Marx, Nietzsche, ciascuno a suo modo, sono stati strumenti di una contemporaneità che esigeva l’annullamento di ogni cultura precedente. Al conseguente protendersi nel vuoto aperto dal cambiamento avrebbero corrisposto le deleghe a qualunque avanguardia, in nome di un futuro eletto a categoria insieme ideale ed esistenziale, ideologica e politica, estetica ed etica: fino alla comparsa del superuomo, la rivincita estrema, il vincitore assoluto e definitivo, il demiurgo che davvero non ci vogliamo augurare. Ne nasceranno molte e non dimenticabili aberrazioni. Uber aveva scritto Nietzsche, intendendo, per la verità, non «sopra», ma «aldilà». Adolf Hitler usò subito la prima interpretazione. Dalla fine del grande ciclo contadino erano germinate le nuove misure del rapporto tra libertà e giustizia. Era nata l’epoca del sociale, della massa e persino della massificazione. Presto una nuova epoca, quella presente, avrebbe fissato nuove misure del tempo e dello spazio. Da una dimensione pressoché statica, tanto da sembrare eterna, si sarebbe passati alla coscienza del cambiamento e da questo a una velocizzazione in grado di dissolvere ogni traccia del passato. Anche quello che aveva la natura per durare. Ci si è converti a scenari inediti per la mente, la psiche, l’anima. Ma giunti qui, cioè alle soglie del laboratorio più avanzato dell’esperienza umana, si è fatto vivo il problema del doversi non di rado difendere, paradossalmente, da ciò che avevamo voluto e raggiunto. Sono nati problemi di identità, non solo civile, ma anche psicologica e morale. Questo che abbiamo lasciato non è stato solo il secolo veloce ma anche il secolo doloroso, con una colpa al suo centro, l’Olocausto, che non ha uguale nella storia dell’uomo, specie se si considera la dimenticanza che sempre più lo avvolge e pretende addirittura di nasconderlo, al punto che una storiografia interessata tenta non solo di ridurne l’orrore, ma addirittura di negarlo. È la cattiva coscienza tenuta in vita dal ricordo. Lo stesso Saul Bellow, ebreo americano e premio Nobel per la letteratura, finisce con il dare un disperato contributo all’oblio proponendo lo straziante: «bisogna dimenticarsi di ricordare». Collabora persino la psicologia, forse anche la psichiatria, azzardando che l’uomo d’oggi non ha più in sé lo spazio, né
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mentale né etico, per contenere un mea culpa di queste proporzioni. Come dire che il tempo presente, per fare posto a se stesso, ha bisogno e si serve della dimenticanza. Per accogliere il suo futuro deve sbarazzarsi della memoria, con tutto l’ingombro storico da cui promana. Prendiamo ad esempio la conoscenza e la scuola, la cultura e la storia. Quale senso dare alla decisione di contrarre il Novecento e approfondire l’Ottocento, pur nobile e meritevole, nei nostri ultimi compendi scolastici? Eppure ciò si compie sotto i nostri occhi, con una presa d’atto spesso inerte e comunque inefficace. Lo storico Luciano Campagna dice che il presente patrimonio civile e morale, restituitoci a partire dall’8 settembre, è in pericolo. Come dargli torto? Se davvero il Novecento dovesse essersi chiuso con la negazione della memoria, non saranno le spigolatrici di grano, ma rimarranno le partigiane delle nostre valli a dirci a chi, attualmente, risale la nostra giovane democrazia. «L’anima è grigia», notava Corrado Alvaro nell’estate del 1943; cominciò a schiarirsi con il grande squarcio dell’8 settembre. È difficile, persino colpevole, dimenticare che in quel giorno la storia svoltò davvero. In un testo per la scuola ho letto: «Caduto il Fascio, riesplode subito la democrazia». E questo non è vero. Forse si ricorderanno le disposizioni in materia di ordine pubblico emanate da Badoglio, che costarono la vita a centinaia di cittadini italiani, che furono presi a fucilate per avere preteso di testimoniare la propria euforia per la riconquistata libertà. Il testo prosegue: «Il fascismo è finito per sempre. Adesso bisogna prepararsi a vivere altri gravi problemi». La sveltezza in ogni senso non è il lato peggiore di questo passaggio. Temo che lo sia la sua, spero involontaria, ambiguità. Il fascismo finito per sempre non potrà essere responsabile, d’ora in poi, di nulla, e da domani, alle prese con altri gravi problemi, si dovrà sapere con chi eventualmente prendersela. Come dire, all’incirca, che un problema vale l’altro. Non andrà così, come sappiamo, ma lasciarlo credere, persino in buona fede, è colpevole. La conquista e la difesa della democrazia, infatti, costeranno molto di più. Consumati i riti, affievolita la memoria, rimanga almeno la storia. Ha scritto Vittorio Foa: «Spero di non dover più lottare per la libertà. Ora riserviamo le nostre energie alla giustizia». Ma quella è una
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generazione al lumicino; presto i testimoni finiranno. C’è già chi li vede come ombre da cui non aspettarsi più niente. Ecco perché il convegno sull’8 settembre, e altri di questo rango, tengono viva la loro voce e il loro esempio. Dovrebbero farlo tutte le grandi agenzie del significato, a cominciare dalla famiglia, dalla scuola, dai partiti, dai sindacati, insomma dalla comunità. Comunità significa mettere in comune, per condividere valori inseparabili dalla nostra condizione di liberi cittadini, per non venire meno alla lezione, viva, non solo idealmente, che Alcide Cervi e i suoi figli ci hanno lasciato.
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1. Una parola per il Novecento La fine del Novecento ha acceso una vivace discussione fra gli storici, riversata in decine di titoli che, un po’ ovunque in Occidente, hanno cercato di far sintesi di un passato misurato con la spanna centenaria. L’intenzione, evidente fin dai titoli di questa ampia biblioteca, era quella di trovare le parole (in ispecie gli aggettivi) capaci di circoscrivere razionalmente un intreccio di vicende con le quale tutti coloro che ne parlavano avevano contratto vincoli necessari, indissolubili: orfani e vedove delle sue illusioni, vittime dei suoi orrori, proseliti e pentiti delle sue stagioni politico-culturali – gli studiosi del Novecento hanno dato voce con technicalities specifiche al bisogno diffuso di elaborare memorie proporzionate alle tragedie collettive che hanno segnato il secolo e che hanno insegnato a ogni scienza, inclusa quella storica, a dubitare di sé. La ricerca delle cesure e delle durate, delle brevità e delle lunghezze, delle cose nominabili e innominabili, è stato il marker di una stagione della storiografia del secolo XX – ma ha parimenti messo a nudo una grande tentazione1. Ché in quell’alzare lo sguardo dalle carte per ragionare su insiemi ben più grandi del tavolo di lavoro dello studioso, si trova qualcosa di peculiare al lavoro storico e insieme di insidioso. Non c’è, infatti, conoscenza storica che non sia studio degli eventi a partire da ciò che le fonti imprimono in chi le analizza. Dunque è ovvio che quadrare i fatti nei grandi fenomeni del secolo è essenziale per evitare di sbriciolare la storia in un’informe pluralità di schegge, senza relazioni e senza precedenze. Al tempo stesso uno dei pericoli della ricerca storica – tanto più di quella sul Novecento – è proprio quello di far «tornare i conti» in uno schema complessivo che, mentre cerca di restituire un senso e una funzione agli eventi, finisce per riprodurre quella «storia universale» che, come intuì Walter Benjamin, distrugge la spe-
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ranza che si annida proprio nelle incongruenze della causalità2. Oggi, mentre la stagione delle sintesi sul Novecento sta tramontando, la cultura, al fondo onnicomprensiva e giudicante, di quella stagione, ha lasciato in circolazione uno strascico, radice e variante di quell’atteggiamento, che ripropone la tendenza su singoli segmenti e vicende storiche, su singole tappe e vicende, com’è quella di cui si occupa questo volume. Si assiste infatti alla frequente, inavvertita trasformazione della storia da strumento di conoscenza in tribunale dei torti e delle ragioni: non si tratta del pathos civile – possibile, forse dovuto, ma sempre capace di assumersi la responsabilità di ciò che sussume e deduce – ma di un’eccitazione morale che pretende di ricevere dall’acribia storica formule definitive e pronte per l’uso, con le quali sfuggire dinnanzi al peso del conoscere e soddisfare il simmetrico bisogno di respingere la dinamica dell’oblio3. Questa tendenza alla tribunalizzazione della storia metabolizza questioni antiche del mestiere di chi studia il passato, esperienze peculiari proprie del secolo che ci lasciamo alle spalle, e istanze nuove e specifiche della congiuntura politica in cui viviamo. Infatti, come ha mostrato Odo Marquard4, la tribunalizzazione si propone in una congiuntura storico-filosofica assai precisa (la metà del secolo X VIII), ma mi pare muti di significato nel corso del Novecento quando le dimensioni banali della colpa collettiva rendono impossibili le scorciatoie che essa sa disegnare5; e si ripropone oggi, nel momento in cui quei fatti, sui quali sbiadisce la concorrenza fra le incomponibili memorie dei testimoni, chiedono alla ricerca di essere ripresi con i modesti strumenti dello scavo critico e di essere compresi nelle loro dinamiche complessive. 2. Conoscenza storica e rituale politico Non da oggi la conoscenza storica deve trovare il proprio statuto epistemologico ed etico fra i venti a volte impetuosi che vorrebbero infeudarla all’ideologia o alla dialettica politica, e senza finir raggelata da sciocchi velleitarismi di asetticità6. Di fronte a tali insidie il rigore del metodo, la forza stessa del «mestiere» hanno costruito un sistema di riferimento collettivo nel quale competere in libertà delle opinioni degli studiosi, in vista di un consenso largo che essi elaborano e ridiscutono: operazione tutt’altro che infallibile, tutt’altro che meccanica, ma
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proprio per questo feconda. Giacché, lasciando margine all’errore e all’eccezione, tiene in movimento le tematizzazioni, le periodizzazioni, l’analisi delle fonti. Chi il mestiere lo pratica dà per scontato che ogni ricostruzione storica che non sia banalmente divulgativa deve esibire il proprio ancoraggio alle fonti e i criteri ermeneutici con i quali si costruisce, ma deve professare e comprovare la sua indipendenza rispetto a ogni rituale politico, a prescindere dalla qualità democratica del celebrante. Se è infatti ovvio e inevitabile che il presente politico incida sulle ipotesi che ogni studioso elabora, la conoscenza storica nasce nel momento in cui si cerca di impedire con onestà intellettuale che questo nesso necessario diventi un rituale con il quale il sistema politico legittima la ricerca in cambio di ossequio – fosse anche l’ossequio dovuto al sistema politico democratico. Se si dà conoscenza storica (come ha mostrato Reinhart Koselleck) quando il passato sfugge alle tante cronache strette dalla cinta dell’historia salutis e si «singolarizza» in un oggetto (la storia) di conoscenza, essa oggi può continuare a esistere solo nell’autonomia rispetto alle storie della salvezza secolarizzate nella civil religion della democrazia7. Non che esse non abbiano ragion d’essere o non possano proporre la propria ricostruzione del passato: ma le loro approssimazioni possono e devono costruirsi politicamente , e non rendendo ancillæ il lavoro critico, che ha una funzione (anche in ordine alla democrazia) solo quando si esprime in piena libertà. Ai tempi suoi lo storicismo aveva elaborato una categoria – la distanza storica – che doveva servire a creare lo stacco liberante fra conoscenza e funzione del passato8. Per lo storicismo il décalage temporale, nel momento in cui garantisce lo spiazzamento degli interessi politici e le convenienze della memoria, diventava ex opere operato decantazione dei pregiudizi. Ammesso e non concesso che ciò fosse vero, che quella non fosse la porta per la storia come prova dell’ideologia, oggi non lo è più. La velocità delle società evolute ha accelerato anche lo scorrere dei tempi storici, sicché a buon diritto si vogliono studiare le carte di un passato che tendenzialmente s’accosta allo ieri, simultaneamente più distante e più vicino di quanto non potesse accadere in precedenza su spanne temporali assai più ampie. Eppoi è chiaro che la quantità di informazioni fruibili nella knowledge based society compatta e avvicina pericolosamente tutti quei passati, remoti e
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non, prima accessibili solo alle élites dei giudici e dei politici. Oggi tutti i «passati» sono democraticamente equidistanti, sollecitati mediaticamente perché chiunque possa farne metro di giudizio, sovrapporli in ogni sorta di comparatismo transculturale, in un populismo della memoria che finisce per rendere «indiscutibilmente» simili eventi che hanno in comune solo il fatto di essere terribili (la Shoa e le foibe, i lager e i gulag, le pulizie etniche e le guerre civili) – al fondo di essere passibili di un giudizio di tipo morale che è verbalmente severo fino all’assunzione della categoria di peccato9, ma ultimamente autoassolutorio. L’odierna posizione dello studioso di storia, dunque, è delicata, perché il suo lavoro si presta come tale (nonostante e grazie all’osservanza delle buone regole del rigore) a usi impropri: il che non costituisce in sé un problema nuovo, ma si colloca in uno scenario diverso perché il bisogno di memoria pretende dallo studioso qualcosa, sia egli disponibile o meno a concederla. In questa situazione lo storico migliore non è quello che ingenuamente arretra nell’afasia, nella polverizzazione microstorica, in qualche forma di par condicio della memoria, ma quello (mi pare sia questa la lezione di Claudio Pavone10) che crede alla sufficienza del proprio rigore rispetto alle possibilità di un sapere costitutivamente limitato e che, ciò nonostante, può essere comunque metabolizzato in una visione tribunalizia della storia. Anche chi ritenga che tali questioni siano antiche come il lavoro storico-critico, riconoscerà che esse diventano brucianti quando si entra nei nodi storici della seconda guerra mondiale e della sua conclusione. Tutti i contenitori politici ai quali apparteniamo (lo Stato italiano, l’Unione Europea, forse perfino quello che chiamiamo Occidente) hanno lì la loro matrice: e dunque chi li studia opera sul vivo della memoria collettiva, sente da un lato la preoccupazione «politica» che circonda il suo bisogno di conoscenza, l’ansia di una cultura della memoria non sempre vigile nel distinguere fra passione civile e retorica, nonché l’occhiuta presenza di un’opinione pubblica che l’irruzione degli archivi cinematografici in tv ha reso vigile. Sente da un lato il richiamo a salvare dall’erosione i valori fondanti della Repubblica o dell’Unione. Sente dall’altro lato, come un rumore di fondo, estraneo e insistente, provocato dal tentativo apparentemente irresistibile di dedurre dalla revisione delle ipotesi di lavoro che qualifica la ricerca scientifica, l’avallo a una bana-
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lizzazione delle questioni in mera opinio , a quel negazionismo che indossa con i lindi abitini del comparatismo e nulla ha a che spartire con il dibattito scientifico11. Oltre alle abituali difficoltà di metodo, oltre alle peculiari problematiche legate al percorso della ricerca sul e nel Novecento, c’è qualcosa di più in gioco: la storia viene oggi chiamata (dalla politica, dall’opinione pubblica) a ergersi in tribunale, perché essa distribuisca torti e ragioni con criteri che valgano, in senso giuridico e morale, e per i singoli e per le nazioni. La tribunalizzazione della storia rovescia il paradigma di Anders12: permette di abbattere la distinzione fra percorsi individuali (ai quali è sempre dovuta l’umana pietas) e vicende storiche generali, nelle quali esistono torti e ragioni che non valgono mai per ciascuno degli individui che abbracciano, ma solo come visione d’insieme. Tribunalizzando la storia – chiedendole di giudicare i processi storici con i metri degli individui – si produce una nuova ananke grazie alla quale le istituzioni dei vincitori e dei superstiti (le costituzioni, la scuola, l’arte, ecc.) vengono esonerate dal loro compito che è assegnare politicamente quel significato politico, che compete loro, a ciò che storicamente rimane solo un accadimento. 3. L’origine della tribunalizzazione Il processo di tribunalizzazione della storia (anzi la Übertribunalisierung) non nasce oggi, ma ritorna oggi: i suoi congegni intellettuali (messi in mora dalle dimensioni della colpa proprie del Novecento) nascono con la svolta della teodicea della metà del Settecento, indagata anni fa da Odo Marquard13. Da Leibniz in poi non si discute più del Si Deus, unde malum? perché la filosofia scettica non vuole entrare in questo spazio teologico e perché al fondo la controversistica cristiana non sente più la sfida del male nei termini dell’ineluttabilità, ma in quelli tutti moderni della responsabilità, della scelta, dell’adesione. In questo modo, spiega Marquard, «l’uomo» si trova a essere solo davanti alle proprie azioni e al loro peso, senza poter chiedere remissione a Dio o al tempo. Per Marquard (che volutamente non valorizza una filiera che va da Kierkegaard a Benjamin), l’uomo moderno è consapevole dei grandi abomini di cui è capace e, dato che ha rinunciato a chiedere a «Dio» prova della sua giustizia, si trova schiacciato da un peso che non conosce
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oblio: tale peso lo sospinge verso una lettura d’insieme della storia, come storia universale, nella quale poter compensare il male latente14. L’homo compensator riprende dalla teologia l’idea che il male nel mondo era riparato da Dio attraverso la somministrazione di molti singoli benefici e la trasferisce sul piano individuale: l’uomo prende il posto di Dio non solo nel creare, ma anche nel difendersi davanti all’accusa che gli porta il male che ha commesso e nel trovare una via d’uscita: d’ora in poi – scrive Marquard – l’uomo assolutamente colpevole dei mali del mondo davanti a un tribunale permanente nel quale l’umanità stessa è parimenti accusatore e giudice, cade vittima di una compulsione legittima all’autogiustificazione15.
Da qui viene la ricerca di una via che consenta sia di percepire il dramma del male nella sua forza sia di poter, al tempo stesso, fuggire nell’inaccusabilità (Unbeschuldigkeit). La tribunalizzazione, nel momento in cui apparecchia il proprio banco d’accusa, apparentemente oggettivo e incorruttibile, affina gli argumenta che devono garantire il non luogo a procedere contro l’uomo. Marquard cita i limiti dell’autocausalità umana, il bisogno di anonimità, l’esaltazione dell’individualismo, l’entusiasmo per l’assenza, l’autorappresentazione di sé come malato, l’ingiudicabilità del gusto: questi meccanismi di autoprotezione, che meriterebbero un’analisi ravvicinata, trovano applicazione irriflessa e discontinua nella storiografia. Si potrebbe a questo proposito rileggere la storiografia di fine Ottocento, nella quale la cultura coloniale della civiltà giustifica e occulta la violenza somministrata in tutto il pianeta nel nome di un’idea di progresso, che Reinhart Koselleck ha già documentato. Oppure si potrebbe ripercorrere la fiducia nel materialismo storico, che per più di una generazione permette di superare proprio quel giustificazionismo «progressista» che rende liscia la superficie del racconto storico per scoprire una dialettica tesa a comunque curvare il piano della storia verso fini superiori. 4. L’obex della colpa È un approccio che il Novecento rende meno praticabile. Già la Grande Guerra occupa la scena su scala mondiale e per la prima volta esibisce una quantità e una qualità di «male» che
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non può essere occultato inserendolo in una storia universale. E il meccanismo s’inceppa – si sarebbe potuto presumere in modo irreversibile – nella seconda guerra mondiale: di certo l’esperienza del fascismo e del nazismo, ripropone ingigantito il rifiuto di una storia universale capace di sfuggire all’interpellazione della colpa collettiva: quando è chiaro che Hier ist kein warum! , come dice il kapò di Primo Levi, la via di fuga nell’inaccusabilità si trova sbarrata. Su tale nodo – che è quello della colpa collettiva – rimane una differenza fra i totalitarismi della Shoa e quello sovietico che Ernst Nolte ha dimenticato (i lettori di Jaspers sanno perché): mi limito a evocarla rapidamente. L’Urss, al fondo, propone ancora il vecchio schema della tirannide rivoluzionaria, che elimina gli avversari e uccide i suoi figli in nome di radiosi orizzonti propinati come un’analgesica menzogna alle coscienze di coloro a cui vuole davvero imporre il socialismo. Il nazismo e il fascismo vanno al di là dell’esigenza di garantire con la forza bruta la propria sopravvivenza o espansione, giacché si propongono di costruire collettivamente sia il «male» che vogliono perseguire, sia la menzogna occultatrice che serve a far accadere davvero ciò che nell’indecifrabile coscienza collettiva potrebbe apparire credibile. È una differenza che emergerà chiara al crollo dei due sistemi: la fine del comunismo sovietico verrà metabolizzata come la naturale conclusione di una parentesi dolorosa nella millenaria parabola della Russia, che non ha potuto alterare (ma se mai custodire) i grandi valori di una civiltà-madre. La fine del nazismo, invece, consegnerà alla Germania l’esperienza della colpa, la cui elaborazione risulta difficilissima e ineludibile proprio perché, nel momento in cui la dimensione del male rende impossibile ricorrere ai meccanismi della tribunalizzazione della storia per aprire le vie di fuga alla coscienza collettiva, non c’è altro da fare che misurarsi con la colpa e un impossibile perdono16. È noto che – a differenza di ciò che accade in Italia – la cultura e la storiografia tedesca affrontano il peso incancellabile non riassorbendo il Terzo Reich in un qualche storia universale, ma affrontando, con sfumature di cui Jaspers spiegò le tinte17, il problema della colpa. Guardando oggi a quel percorso si coglie come sia Norimberga sia Francoforte abbiano rappresentato opportunità e tentativi di aggirare quel nodo, che alla fine si è
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riproposto in tutta la sua crudezza. Prima il tribunale militare che processa i capi del nazismo, poi il tribunale tedesco che giudica i criminali connazionali, mettono ben in chiaro il carattere limitato di quel rito di umana giustizia, davanti al quale, spogliati del mascheramento militare, i gerarchi del Terzo Reich vengono ridotti alla dimensione del criminale comune, soggettivamente accusabile e condannabile per i propri atti18. D’altro canto, la divisione di Berlino e della nazione viene rappresentata, oltre che vissuta, come un’umiliazione incalcolabile e dunque giusta della collettività. Né l’uno, né l’altro evento, però, riescono a elaborare la colpa, che viene riassorbita attraverso il lavoro e l’Historikerstreit dei decenni successivi, vera prigione della memoria19. 5. La storia come magistero e il ritorno della tribunalizzazione Ciò è sinergico a un trend più generale di una parte della storiografia del dopoguerra, attratta dalla ricostruzione dei diritti (implementati o vendicati) e dalle denunce (di crimini noti o occulti)20. Questa produzione, però, non ha bisogno della tribunalizzazione della storia, perché proprio le dimensioni della colpa collettiva sbarrano la via di fuga verso la non-imputabilità: la conoscenza storica si pensa come atto che smaschera gli errori, disvela le mentalità oppressive, rende giustizia alle vittime, individua le discontinuità riformatrici – e pone i propri «mai più»21. Questa storiografia – anche quando assume come oggetto la seconda guerra mondiale – non è un tribunale, ma un magistero che, mentre accumula le macerie della grandi tragedie del XX secolo ai piedi del presente, propone la conoscenza come farmaco per prevenire l’iterazione del male, che viene descritto in tante pagine di psicostoria. I punti deboli di questa storiografia (su cui non mi soffermo) emergono ora con maggior evidenza, nel momento in cui la naturale e necessaria scissione fra conoscenza e testimonianza cambia la percezione del passato e delle sue dinamiche più complesse, come quella che oggi attira la nostra attenzione. La tribunalizzazione della storia, infatti, riscopre un’allettante via di fuga verso la non-accusabilità, nel momento in cui le tragiche cesure del secolo sbiadiscono e si accavallano in un’unica grande tragedia. Con un percorso analogo a quello del negazionismo – le cui immonde teorizzazioni hanno avuto audience per lo stesso motivo – la tribunalizzazione della storia
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si propone come un modo per somministrare l’indulgenza plenaria ai grandi drammi del secolo, sulla base del fatto che nessuno dei singoli protagonisti può essere stato capace del «male», nelle dimensioni che il Novecento ha comprovato. Ciò è quanto mai utile alla società politica, perché la esonera dalla responsabilità di dialogare con la coscienza collettiva e le offre la possibilità di appaltare alla storiografia, assunta come perito di parte dei vincitori, il calcolo (assolutorio) delle colpe e degli errori, il concambio degli orrori, la mediatizzazione dell’umanità degli individui, l’attenuazione della dimensione collettiva dei drammi, il computo delle sopravvivenze ideologiche e ideali. Non c’è, insomma, tribunalizzazione laddove c’è giudizio morale o politico sul passato: la tribunalizzazione avviene quando si chiede (la politica chiede) che la ricerca storica lavori a certificare che «il passato è passato», e offre in cambio generosissime condanne, reprimende, prese di distanza, a patto che se ne esca, almeno fino al prossimo scoop. La vicenda italiana sulle leggi razziali – mi si permetta un altro inciso – da questo punto di vista è paradigmatica22: essa è ormai conosciuta a fondo (eccetto per ciò che riguarda il coté vaticano, su cui apparentemente nessuno esercita pressioni); si conoscono le illusioni dell’ebraismo e le radici sia delle attenuazioni che delle accentuazioni nella politica genocida; si assiste, non senza riserve, all’accumularsi di episodi edificanti, che non possono cancellare ciò che è accaduto, e si inizia a indagare le difficili condizioni con cui gli ebrei epurati rientrarono nella vita civile dopo la liberazione. Su queste conoscenze s’innalza una condanna corale, naturalmente: a parte imbecillità singolari, tutti condannano a voce alta le leggi del 1938, coloro che le hanno difese e applicate. Ma la riprovazione viene perché si è certissimi che da quelle parole non potrà venire nulla che impegni la politica: la denuncia si presenta come un ossequio alla storia tribunalizzata, ma dalla denuncia non discende alcuna inadempienza. Credo che questa sia la via d’uscita che mancava – mancava all’homo compensator, come mancava alla storiografia dei diritti violati del secondo Novecento, mancava alla storiografia di denuncia, per uscire da una storia che alla fine vuole rassicurare o dell’irreformabilità dei sistemi ritenuti cattivi o della bontà di ciò che è percepito come valore. La tribunalizzazione della storia «funziona» ed è applaudita perché ci si sottomette al suo
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giudizio e immediatamente si riceve da essa l’assicurazione accademicamente paludata, scientificamente solida, che de re nostra non agitur 23. 6. Una conclusione Tutto ciò premesso, resta una domanda: perché mai la tribunalizzazione delle storia dovrebbe costituire un pericolo per la qualità della conoscenza storica, oltre che per la vita civile europea? Il danno «per la storia e per la vita», secondo me, c’è su entrambi i lati. Giacché questo meccanismo funziona se la corporazione degli studiosi accetta di veder degradare la propria funzione scientifica e civile a una semplice variante del pluralismo politico. Nel momento in cui si accetta la tribunalizzazione della storia, il contrasto fra tesi storiografiche cessa di essere lo strumento che fa crescere la conoscenza e si riduce a pura pluralità di voci, scontro di opinioni, una corrida di soli matadores adunati attorno a una storia che ha un fine, più che una fine24. Nel sistema dell’informazione di una società democratica questo pluralismo è il solo bene che si possa perseguire ed è costituzionalmente tutelato. Ma la conoscenza storica ha per natura e vocazione la pretesa di essere qualcosa di più che un coro di voci grigie: vuole e può essere, nonostante i suoi tanti limiti, esperienza di ascolto e di revisione, di convinzione e di rispetto, che alla fine sa discutere in modo serio e approfondito, rimettere in discussione criteri ermeneutici, rivedere i paradigmi euristici, e talora aggiustare il tiro. Pretendere che una storia tribunalizzata consegni parametri «oggettivi» su cui ricavare qualche tema di dibattito giornalistico rappresenta però anche un motivo di inquietudine civile: come dicevo all’inizio, la passione civile è legittima o necessaria, se e in quanto costruisce responsabilmente (democraticamente, verrebbe da aggiungere) nessi e memorie, culti e culture. Sperare o pretendere che l’oggettività della scienza e la pluralità delle sue ipotesi si riversino senza mediazione (democratica) nella costruzione del consenso è un pessimo segnale: ingenera un dibattito nel quale le storiografie non offrono un’umanissima e fallibile luce sul passato, ma si sbriciolano in un polverone accecante e soffocante. Ecco allora un possibile significato di questo volume, al tempo stesso troppo pieno e lontano da ogni esaustività, fatto di
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un’attenzione alla storia e alle storiografie, alle storie e ai quadri, che però vuole proporre uno scambio fra studiosi, in una prospettiva di ricerca e di studio, che, nella varietà delle voci e degli approcci che propone, affermi con modestia e fermezza che quello che gli storici possono dare restando se stessi è un contributo significativo alla vita civile, a condizione di sapere che è nello sforzo (intuitus) di libertà e non nella pretesa di una qualche utilitas, la sua funzione più alta.
Note 1. M. Salvati, Il Novecento, interpretazioni e bilanci, Laterza, Roma-Bari 2004; A. Abruzzese et al., ‘900: un secolo innominabile. Idee e riflessioni, Venezia 1998; Un bilan du XXe siècle , in «Coflicts actuels. Revue d’etude politique» (2002), n. 9. 2. L’edizione di italiana di W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, dedica ampio spazio alla contestualizzazione del problema. 3. P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato , il Mulino, Bologna 2004. 4. O. Marquard, Abschied vom Prinzipiellen, Reclam, Stuttgart 1973 (19812), (trad. ingl.: Farewell to the Matters of Principle. Philosphical Studies, Oxford 1989). 5. Cfr. E. Donaggio, D. Scalzo, Sul male, a partire da Hannah Arendt, Meltemi, Roma 2003. 6. G. Miccoli, Delio Cantimori, Einaudi, Torino 1970. 7. R. Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Marietti, Genova 1986 e R. Bichler, Das Diktum von der historischen Singularität und der Anspruch des historischen Vergleichs. Bemerkungen zum Thema Individuelles versus Allgemeines und zur langen Geschichte deutschen Historikerstreits, in Teil und Ganzes, a cura di K. Acham e W. Schulze, Deutscher Taschenbuch, München 1990, pp. 169-192. 8. U. Muhlack, J.G. Droysen: Historik et herméneutique , in La Naissance du paradigme herméneutique. Schleiermacher, Humboldt, Boeckh, Droysen, a cura di A. Neschke e A. Laks, PUL; Lille 1990, pp. 359-380. 9. Ad esempio M. Battini, Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana, Laterza, Roma-Bari 2003. 10. C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della resistenza, Einaudi, Torino 1994. 11. P. Vidal-Naquet, Les assassins de la memoire , Paris 1987; V. Pisanty, L’irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo , Bompiani, Milano 1998; D.E. Lipstadt, Denying the Holocaust. The Growing Assault on Thruth and Memory, Penguin, New York 1993.
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La tribunalizzazione della storia 12. Cfr. G. Anders, Wir Eichmannsöhne. Offener Brief auf Klaus Eichmann, Beck, München 1964 (trad. it.: Noi figli di Eichmann, Firenze 1995). 13. O. Marquard, Abschied vom Prinzipiellen..., cit. 14. Per una posizione indulgente verso la categoria della storia universale, cfr. A. Rizzacasa, L’eclisse del tempo. Il fine e la «fine» della storia, Città Nuova, Roma 2001. 15. O. Marquard, Abschied vom Prinzipiellen..., cit. 16. R.L. Brooks, The Age of Apology, in When Sorry isn’t Enough, a cura di R.L. Brooks, New York University Press, New York 1999. 17. K. Jaspers, Die Schuldfrage , München 1965 (trad. it. La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, Raffaello Cortina, Milano 1996). 18. R.E. Conot, Justice at Nurnberg, Harper & Row, New York 1983; è attesa l’uscita dello studioso del Boston College, D.O. Pendas, The Frankfurt Auschwitz Trial 1963-1965, Cambridge University Press. 19. D’obbligo il rinvio a M. Foucault, Surveiller et punir, Gallimard, Paris 1975, pp. 13-18. Una panoramica sull’Historikerstreit in Devant l’histoire. La documentation de la controverse sur la singularité de l’extermination des Jiufs par le régime nazi, Cerf, Paris 1988. 20. D. Bensaïd, Qui est le Juge? Pour en finir avec le tribunal de l’Histoire , Fayard, Paris 1999. 21. Sull’inutilità dei «mai più» relativi alla Shoa – inutilità legata al fatto che dopo che essa si è realizzata non potrà comunque realizzarsi ancora – si vedano le pagine introduttive di S. Friedländer, Facing the Shoa: Memory and History, in Humanity at the Limit. The impact of the Holocaust Experience on Jews and Christians, a cura di M.A. Signer, Indiana University Press, Bloomington 2000, p. X. 22. E. Collotti, Osservazioni sulla storiografia sulle leggi razziali, Giunti, Firenze 1998; molti i riferimenti al dibattito politico italiano nella filigrana di M. Sarfatti, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani d’oggi, Einaudi, Torino 2002. 23. Cfr. le importanti osservazioni di G.J. Bass, Stay the Hand of Vengeance. The politics of War Crime Tribunals, Princeton University Press, Princeton 2000. 24. Cfr. A. Rizzacasa, L’eclisse del tempo…, cit.
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La fuga dei Savoia: una scommessa obbligata Fulvio Cammarano
La storiografia sul ruolo del sovrano nei convulsi giorni che vanno dal 25 luglio 1943 alla fuga da Roma del 9 settembre, è ferma da anni. Quasi tutto quello che sappiamo in proposito è dovuto al confronto tra le diverse memorialistiche e, non a caso, sul tema continuano a moltiplicarsi gli esercizi di supposizioni e congetture. La storia controfattuale è diventata parte integrante di una ricostruzione storiografica piena di «se», di «ma» e di «sembra» a cui va l’ingrato compito di fare le veci dei documenti mancanti. Nel caso specifico, infatti, non si hanno notizie della parte novecentesca dell’archivio Savoia: carte che esistevano alla morte di Umberto II, destinate dal sovrano stesso all’Archivio di Stato di Torino e che gli eredi non hanno mai consegnato, asserendo di non averle trovate1. Non si tratta di una questione secondaria e mi sembra doveroso, in occasione di riflessioni storiografiche come questa, rimarcare il fatto che l’indagine su questo tema è bloccata dall’ennesima vicenda di ambiguità e confusione che troppo spesso caratterizza la storia dei Savoia2. Per quanto riguarda le dinamiche che portarono alla fuga del re all’alba del 9 settembre 1943, storiografia e memorialistica3, pur discostandosi su questo o quell’aspetto del tema e preferendo mettere a fuoco un quadro piuttosto che un altro, sostanzialmente concordano nel ritenere se non ignobile, quanto meno inadeguato il comportamento del sovrano in quel frangente4. Ciò non per la fuga in quanto tale (giustificata e giustificabile, come è noto, alla luce dell’esigenza di non far cadere la massima autorità dello Stato nelle mani dei tedeschi) ma per il fatto che tale fuga, probabilmente in programma da fine luglio5 e preceduta nei primi giorni di agosto da più di quaranta vagoni carichi dei beni dei Savoia diretti a Ginevra6, riguardò, per espressa volontà del sovrano, la compo-
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nente più importante del governo e l’intero Stato Maggiore. Una soluzione che lasciò consapevolmente Roma e le forze armate senza ordini esecutivi, alla mercé dei tedeschi in una situazione che molte autorevoli fonti hanno definito «non compromessa» in partenza. Non è questa la sede per ricostruire il quadro di quel gigantesco e drammatico gioco degli inganni che si consuma nei quarantacinque giorni che vanno dal 25 luglio all’8 settembre. Per quanto riguarda i Savoia, comunque, in quel brevissimo lasso di tempo, per la prima volta dalla proclamazione dello Statuto Albertino, furono costretti a giocare, privi di un effettivo schermo istituzionale protettivo, un ruolo politico di primo piano. Una situazione che, in quell’oscuro contesto, ha finito per evidenziare non tanto i tratti peculiari di un sovrano, ma quelli di un’intera cultura dinastica. Se è vero che l’8 settembre fece emergere tutti i limiti di una classe dirigente improvvisamente orfana di Mussolini, è anche vero che tale data può rappresentare la simbolica sintesi della natura ultima del rapporto tra i Savoia e l’Italia. Tutte le fonti concordano sul fatto che dopo il 25 luglio il sovrano mantenne il centro della scena e inverosimili – oltre che smentiti da molte testimonianze – appaiono i successivi tentativi di alcuni protagonisti di limitarne le responsabilità7. Passando al setaccio le diverse memorialistiche, ci si accorge ben presto che l’unico a essere costantemente informato dei fatti e sempre presente laddove si prendevano (o più spesso non si prendevano) le decisioni era proprio il re8. D’altronde non poteva essere diversamente. Il governo Badoglio era di fatto una diretta emanazione regia senza alcuna possibilità di subire verifiche o censure di un qualsivoglia organo rappresentativo. Il fatto che Vittorio Emanuele si fosse talvolta mosso apparentemente defilandosi dietro il nuovo governo, non significava che non fosse in grado di pilotarlo e condizionarlo, ma semplicemente che già in quei giorni era fortemente sentita l’esigenza di ridurre quanto più possibile l’esposizione pubblica del re. Nonostante l’eccezionalità del contesto, infatti, Vittorio Emanuele, subito dopo il 25 luglio, manifestò una rinnovata sensibilità costituzionale al punto che, per la prima volta dopo l’introduzione dello Statuto, si rovesciarono i tradizionali canoni della costituzione materiale che volevano l’esecutivo sempre vigile su possibili sconfinamenti della Corona:
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il 29 luglio il re rifiutò con fermezza di assumere eccezionalmente, su invito del governo, più estesi poteri e in particolare quello legislativo9. Correttezza costituzionale o consapevole necessità di non esporsi politicamente nella convinzione di una rapida fine del conflitto? Quel che appare certo è che in quei giorni tutti gli sforzi del re, dell’influente ministro della Real Casa Pietro Acquarone e del capo di Stato Maggiore Vittorio Ambrosio – vale a dire, in quel frangente, dell’unico centro decisionale del sistema – erano concentrati non solo sul naturale obiettivo di salvare l’istituzione monarchica, ma soprattutto su quello di confermare sul trono Vittorio Emanuele10. Tale obiettivo, approfittando dell’eccezionalità del contesto, poteva essere raggiunto solo amplificando, all’ombra della tradizionale irresponsabilità politica della Corona, la capacità d’intervento discrezionale del re per pilotare le inevitabili, paventate trasformazioni politiche. Questo non significa ovviamente che il re e i suoi due principali collaboratori agissero in piena libertà. Lo stesso governo Badoglio, ad esempio, non suscitava certo gli entusiasmi del sovrano ma venne insediato come «male» minore e con l’idea di varare un esecutivo transitorio di tecnici e militari a cui demandare, essenzialmente, il mantenimento dell’ordine. Vittorio Emanuele temeva l’inizio della caccia al gerarca perché, diceva, «a furia di fare processi da una parte e dall’altra si finirà per processare anche il Re»11. Per il sovrano smantellare le parti più in vista del regime fascista non implicava la rivalutazione sic et simpliciter della democrazia politica, ma solo l’esigenza di fornire un segnale di rottura con le componenti più impresentabili del defunto regime, premessa in qualche modo necessaria per dar vita a una sorta di regime autoritario su base costituzionale, in grado di tenere a freno i pericolosi e sempre più effervescenti ambienti antifascisti, compresi quelli moderati con cui in quei giorni il re ebbe pochi e non particolarmente apprezzati contatti12. Ovviamente tale indicazione non pregiudicava affatto la possibilità di prospettare futuri scenari anche completamente diversi dal punto di vista politico, che sarebbero stati presi in considerazione solo nella misura in cui avessero avuto la Corona come punto di riferimento13. In quel difficile momento di trapasso, tuttavia, «l’obiettivo della continuità istituzionale e quello del salvataggio della dinastia si fondono e si traducono
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in volontà soggettiva di sopravvivenza» 14. In questa direzione andrebbe dunque collocato, ad esempio, il progetto del re di varare, appena rientrato a Roma da quella che si riteneva dovesse essere la breve parentesi pugliese15, un governo il più rappresentativo possibile delle forze monarchiche, a cominciare dai «venticinqueluglisti» e in particolare da Dino Grandi16, verso cui si sentiva in debito di riconoscenza per il sostegno avuto in occasione del «colpo di Stato» seguito al voto di sfiducia del Gran Consiglio17. Tale esecutivo «ideale» avrebbe dovuto, dopo aver dichiarato guerra alla Germania, eliminare ogni tentazione giustizialista e antifascista ritenuta molto insidiosa anche per la Corona. In fondo Vittorio Emanuele confermava la tradizione dinastica per cui il regime più gradito ai Savoia non era quello maggiormente rappresentativo della volontà popolare o più efficiente, ma quello che garantiva sicurezza, se non prestigio e visibilità alla Casa regnante o, in subordine, a seconda della fase storica, il minor danno possibile. Per questo, dunque, data la situazione, andrebbe attentamente valutata l’ipotesi che quel tergiversare del sovrano e del suo governo non fosse, o quanto meno non solo, l’esito dei limiti personali di Vittorio Emanuele e dell’irresoluta pavidità del suo carattere, ma , in larga parte, si trattasse di una consapevole linea politica. Prima dell’8 settembre c’era, innanzitutto, l’esigenza di prendere tempo nell’eventualità d’improvvisi capovolgimenti di fronte. Aleggiava, qua e là, persino la favola dell’arma segreta e risolutiva hitleriana. Si trattava, insomma, di guadagnare tempo con gli anglo-americani e allo stesso tempo «di comportarsi – come scrisse Puntoni – in maniera di far credere alla Germania che continueremo lealmente la guerra al suo fianco»18. L’incertezza e le manovre dilatorie e segrete che accompagnarono l’intero periodo erano improntate alla necessità di evitare quanto più possibile di schierarsi non solo tra angloamericani da una parte e nazisti dall’altra, ma anche tra fascisti e antifascisti. La pasticciata e confusa vicenda dell’annuncio dell’armistizio, mettendo fine al doppio gioco, introduceva poi un nuovo umanissimo elemento: il concreto timore del re di cadere prigioniero dei tedeschi, una sorta di vera e propria paura fisica che, sia pure in misura minore, lo accomunava al tremebondo Badoglio e ai vertici politici e militari immortalati
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nell’immagine della poco dignitosa gazzarra per accaparrarsi gli ultimi posti disponibili sulla nave in procinto di salpare per Brindisi. Al di là, tuttavia, di questo importante fattore contingente, non è comunque da sottovalutare l’ipotesi che l’apparente «inazione» istituzionale di Vittorio Emanuele e dei suoi collaboratori avesse una ben definita funzione politica. Dopo l’8 settembre, infatti, tergiversare continuò a essere ritenuta la migliore strategia per non rischiare di legittimare probabili «pretese» democratiche ed evitare di avallare, magari attraverso precise indicazioni di resistenza antifascista e antinazista, spinte potenzialmente eversive e comunque poco controllabili in un contesto in rapida evoluzione. Non bisogna dimenticare, ad esempio, che emblematicamente, proprio il 9 settembre, durante la fuga del re, si formava a Roma il Comitato di Liberazione Nazionale. Il quadro politico che Vittorio Emanuele cercava di favorire non rappresentava affatto un punto di arrivo o una personale predisposizione politica. Non era nelle corde e nell’interesse del sovrano un coinvolgimento simile. Si sarebbe dovuto trattare, invece, semplicemente di una base da cui partire per ricominciare a tessere la tela dei futuri criteri di legittimazione della casa regnante che aveva ricevuto più di uno strappo durante il ventennio. Ed è questo forse il punto dirimente. In quelle settimane, di fronte alle speranze di una rapida fuoriuscita dell’Italia dal conflitto, il re percepì chiaramente che ogni sua iniziativa avrebbe potuto favorire la legittimazione di forze politiche nuove e per nulla simpatetiche con le aspirazioni monarchiche. Era dunque preferibile da parte monarchica l’immobilità per non rischiare di mettere in moto, sia pure indirettamente, la questione della legittimazione politica limitandosi a far leva su quella esistente che, per quanto ormai precaria, poteva ancora contare su istituzioni consolidate come Chiesa ed Esercito. Le scelte di non scegliere (a cominciare dalle alleanze sino alla mancata difesa di Roma) da parte del sovrano corrispondevano a una coerente strategia tesa a procrastinare il momento delle decisioni e a ridurne l’impatto politico nella misura in cui questo avrebbe costretto la monarchia a compromessi poco graditi alla luce delle possibili conseguenze per la monarchia stessa. A ben guardare, dunque, la questione politica (a partire dal
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protagonismo politico del sovrano) si risolve completamente all’interno di quella dinastica. Era quest’ultima che rappresentava, come è evidente, il vero motore di ogni calcolo o provvedimento di Vittorio Emanuele. Alcuni indiscussi limiti del suo carattere come la scarsa fiducia in se stesso, lo scetticismo abulico e la misantropia, su cui convergono tutte le testimonianze di chi lo frequentava, hanno finito per monopolizzare e semplificare eccessivamente l’intera chiave interpretativa di quelle convulse settimane. In realtà il tradizionalmente distaccato e inerte atteggiamento del re di fronte agli affari pubblici era stato una modalità di comportamento resa possibile dal contesto costituzionale che per oltre quarant’anni lo aveva sollevato da ogni obbligo di partecipazione e persino d’interessamento al senso profondo della vita politica nazionale. Al riparo del suo tranquillizzante «bigottismo costituzionale», Vittorio Emanuele, sin dall’inizio del suo regno, si era potuto permettere, per alcuni, una sorta di camaleontismo (giolittiano con Giolitti, interventista con Salandra e fascista con Mussolini) oppure, per altri, al contrario, una vera e propria immobilità, l’essere sempre e solo se stesso. Il prodotto però non cambiava e consisteva nell’indifferenza di fronte alla contingente manifestazione del potere politico da cui pretendeva soprattutto la garanzia di un rafforzamento della legittimità dinastica. Un’indifferenza, però, che cessava quando tale legittimità veniva posta in pericolo. Vittorio Emanuele sapeva benissimo, il 25 luglio e ancora di più l’8 settembre, di essere finito in uno di quei drammatici frangenti che lo avrebbe, suo malgrado, costretto a rispolverare l’animus politico per assolvere l’unico compito storico a cui si sentiva vincolato, quello di depositario e difensore della dinastia. Di fronte all’esigenza di conservare il trono o quanto meno garantire la continuità dinastica, il riservato e, per altri versi, assente sovrano si trasformava in abile manovratore, nei limiti ovviamente di un quadro storico e politico incontrollabile. Educato in modo antiquato, il re arrivò al trono consapevole che gli eccessi di esposizione politica potevano condurre alla tragica fine del padre. Ci sono diverse testimonianze sul fatto che Vittorio Emanuele non credeva nel ruolo attivo della Corona, non capiva il protagonismo di una moderna monarchia a contatto con la società civile. Sicuramente non era un
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re in grado di fare appelli alla nazione né interessato a chiamare a raccolta il popolo nei momenti di supremo pericolo. Raramente aveva ricevuto intellettuali, leader politici, giornalisti e personaggi eminenti che avrebbero potuto fargli percepire il polso della situazione del paese. Preferiva isolarsi, rimanendo così influenzato dalla piccola e per nulla illuminata corte che gli girava attorno. Non sono pochi coloro che parlano di «bigottismo e formalismo costituzionali» riferendosi alla sua maniacale attenzione per la forma esteriore delle regole. Il problema ovviamente non è quello della correttezza costituzionale del sovrano (a cui tuttavia non aveva sempre prestato la dovuta attenzione durante il ventennio) ma del come in realtà tale legalismo venisse unicamente e ossessivamente finalizzato al tema della continuità dinastica. Se si segue con attenzione il percorso di questo sovrano si potrà scoprire che tale obiettivo, in sé del tutto legittimo e logico, venne tuttavia perseguito anche a scapito di interessi generali sempre posposti alla formalistica attenzione verso la norma a cui affidava integralmente il senso ultimo del proprio ruolo. A questa presunta correttezza era, in altri termini, demandata la sicurezza di una Corona indifferente alle sorti del paese reale19. Dunque credo che la più acuta riflessione per cercare di comprendere la logica che guidò il sovrano nella crisi dell’8 settembre e più in generale il ruolo giocato da Vittorio Emanuele nelle vicende storiche del Novecento, sia quella scritta, tra l’ottobre e il dicembre 1943, da Marcello Soleri: La nazione e il popolo costituivano nel suo [di Vittorio Emanuele] concetto quasi come l’altra parte in un compromesso politico avvenuto colla dinastia e denominato Statuto. Essi, e non lui, dovevano preoccuparsi di conservare le pubbliche libertà, che egli per conto suo non avrebbe mai menomate, perché intendeva rimanere fedele al giuramento prestato, ma che non aveva da difendere, tale non essendo il suo compito20.
La correttezza formale come antidoto al pericolo della destituzione o le misure prese per garantirsi dalle inquietudini per un possibile crollo della monarchia rappresentarono aspetti non secondari, ma spesso sottovalutati, nella definizione degli scenari politici del regno di Vittorio Emanuele III. Un filo rosso che permette di orientarci meglio nel compren-
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dere la scelta, durante l’età giolittiana, di un ostentato basso profilo onde evitare la rotta di collisione con il nuovo spirito pubblico sempre più permeato dalla cultura delle cosiddette masse organizzate, così come, alla vigilia della prima guerra mondiale, l’adesione all’interventismo quando era diffusa la convinzione, nei circoli di corte, che un mancato intervento dell’Italia si sarebbe tradotto in uno sconvolgimento politico che, alla fine, avrebbe spazzato via la monarchia. Anche nell’ascesa al governo di Mussolini, il timore di perdere il trono gioca un ruolo non marginale dato che, di fronte alle pressioni delle camicie nere, gli ambienti di palazzo fanno capire a Vittorio Emanuele che il filofascista Emanuele Filiberto, duca d’Aosta, avrebbe potuto senza troppi rimpianti sostituirlo al trono. Così, tra l’altro, la necessità di accettare il fascismo si è molto spesso intrecciata con l’acrobatico tentativo di giustificare tale accettazione in termini di legalità statutaria. La stessa «legale» – e dunque inoppugnabile – destituzione di Mussolini, poco più di vent’anni dopo, rispondeva a tale logica, poiché l’opzione della prosecuzione della guerra con l’alleato nazista, a cui il Duce aveva già mostrato di non sapersi sottrarre, avrebbe condotto il paese al disastro condannando definitivamente i Savoia. L’interesse dinastico in gioco appare dunque un aspetto chiave per capire gli avvenimenti di quei giorni e sfuggire così al giudizio impressionistico su un 8 settembre prodotto essenzialmente dal fattore «confusione», mentre in realtà rappresenta il punto di approdo del crollo di un regime che il re stava cercando disperatamente di non far diventare anche crollo dell’istituzione monarchica. Dal 25 luglio le mosse a sua disposizione erano effettivamente limitate considerando anche che si muoveva, sprovvisto di un vero parafulmine governativo, in un quadro politico pericolosamente elettrico e insidioso per i destini della monarchia. La scelta della fuga fu una scommessa obbligata che puntava tutto sulla rapida fine del conflitto in Italia grazie alla quale sperare di contenere i danni alla propria immagine. Le modalità della fuga invece risentirono del calcolo di ridurre al minimo le occasioni di frizione anche a scapito dell’incolumità e degli interessi degli italiani. Quei quarantacinque giorni furono in fondo, senza inutili moralismi, l’espressione di quell’indifferenza del re verso la nazione ritenuta in
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grado di badare a se stessa. Sfortunatamente per lui le cose non andarono secondo le sue speranze e presero un’altra e ben più drammatica piega per il popolo italiano il quale, alla fine, dovette realizzare che, poiché le pubbliche libertà se le doveva difendere da solo, non sapeva che farsene dei Savoia. Note 1. Cfr. I. Massabò Ricci, L’Archivio dei re d’Italia depositato presso l’Archivio di Stato di Torino , in La Monarchia nella Storia dell’Italia unita. Problematiche ed esemplificazioni, a cura di F. Mazzonis, «Cheiron», (1996), nn. 25-26, pp. 333-344. 2. Sulle vicende della mancata consegna di una parte consistente dell’Archivio Savoia vedi S. Botta, F. Cammarano, Gli Archivi Savoia, nei dossier consultabili nel sito web della Società italiana per lo studio della storia contemporanea (www.sissco.it). 3. Le indagini più attente e documentate sulle vicende relative all’armistizio, a cui si rimanda per la ricostruzione degli avvenimenti, sono in R. Zangrandi, 1943: 25 luglio-8 settembre , Feltrinelli, Milano 1964 e E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze , il Mulino, Bologna 20032 a cui si rimanda per l’amplio riferimento alle fonti documentarie. Per la storiografia di grande utilità sono le interpretazioni contenute in D. Bartoli, L’Italia si arrende , Ed. Nuova, Milano 1983; M. Davis, Chi difende Roma, Rizzoli, Milano 1973; G. De Luna, Badoglio , Bompiani, Milano 1974; R. De Felice, Mussolini l’alleato. L’Italia in guerra, 1940-1943, Einaudi, Torino 1990; P. Pieri, G. Rochat, Badoglio, Einaudi, Torino 1974; M. Toscano, Dal 25 luglio all’8 settembre, Le Monnier, Firenze 1966; Id., L’Italia dei quarantacinque giorni, Milano 1969; R. Zangrandi, L’Italia tradita, Garzanti, Milano 1971; P. Nello, Dino Grandi, il Mulino, Bologna 2003; E. Musco, La verità sull’8 settembre, Milano 1965; 8 settembre 1943. L’armistizio italiano 40 anni dopo , Roma 1985; D. De Napoli, S. Bolognini, A. Ratti, La resistenza monarchica in Italia (1943-1945), Guida, Napoli 1985. Per quanto riguarda le fonti e la sterminata memorialistica cfr. P. Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, il Mulino, Bologna 1993; D. Grandi, 25 luglio quarant’anni dopo , il Mulino, Bologna 1983; Id., Il mio paese , il Mulino, Bologna 1985; I. Palermo, Storia di un armistizio , Milano 1967; V. Vailati, Badoglio racconta, Einaudi, Torino 1956; F. Stefani, 8 settembre 1943. Gli armistizi dell’Italia, Settimo Milanese 1993; M. Soleri, Memorie , Einaudi, Torino 1949; P. Badoglio, L’Italia nella seconda guerra mondiale , Mondadori, Milano 1946; L. Marchesi, 1939-1945. Dall’impreparazione alla resa incondizionata, Milano 1993; R. Guariglia, Ricordi 19221946, Napoli 1950; G. Carboni, L’armistizio e la difesa di Roma, Roma 1945; R. de Courten, Le memorie dell’ammiraglio de Courten 1943-1946, Roma 1993; E. Lussu, La difesa di Roma, Edes, Sassari 1987. Ringrazio il dott. Andrea Cinti per le utili indicazioni bibliografiche fornitemi.
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La fuga dei Savoia 4. Anche la storiografia più attenta alle ragioni della monarchia e dunque disposta a difendere l’operato del sovrano in quel contesto è costretta ad ammettere, come minimo, che «se giuste, in quanto adeguate alla realtà, furono le scelte di fondo, non altrettanto lo furono le modalità che avrebbero dovuto dare esecuzione all’ordine di ripiegamento», D. De Napoli, La monarchia dalla crisi del liberalismo all’8 settembre , in D. De Napoli, S. Bolognini, A. Ratti, La resistenza monarchica in Italia…, cit., p. 68. 5. Scrive Paolo Puntoni, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, nel suo diario alla data 28 luglio 1943: «Sua Maestà mi dà ordine di predisporre tutto per un’eventuale partenza da Roma», P. Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III…, cit., p. 148. 6. Su questo cfr. R. Zangrandi, L’Italia tradita…, cit. 7. Si veda a questo proposito P. Badoglio, L’Italia nella seconda guerra mondiale…, cit. La prima edizione, provvisoria, completata in fretta e furia, uscì in maniera alquanto sospetta, nel mese di maggio, mentre era in pieno svolgimento la campagna per il recupero d’immagine dei Savoia, iniziata con l’abdicazione di Vittorio Emanuele III. Dalle memorie di Badoglio emerge un sovrano che subisce costantemente le decisioni del governo. Sino alla grottesca descrizione della decisione di abbandonare Roma: «comunicai a sua maestà la decisione presa di tentare di raggiungere Pescara […]. S.M. non fece alcuna obbiezione. Ma resti ben stabilito che la responsabilità della partenza verso Pescara è esclusivamente mia, tutta mia», p. 116. 8. Cfr. E. Lussu, La difesa di Roma…, cit., p. 321. 9. Il 29 luglio 1943 il sovrano, parlando con Puntoni, a riprova della capacità del Re di prendere decisioni scomode e di imporsi sul governo, dice: «che il nuovo governo voleva fargli firmare un decreto perché assumesse in pieno il potere legislativo. “Mi sono opposto recisamente”, dice Sua Maestà. “Cominciamo bene. Per prima cosa vogliono farmi firmare un decreto anticostituzionale”», P. Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III…, cit., p. 149. 10. Nelle sue memorie Marcello Soleri (senatore giolittiano, già ministro con Facta e Bonomi, spesso ricevuto da Vittorio Emanuele con cui aveva una lunga consuetudine di rapporti) riporta la notizia che la mattina del 9 settembre, durante il viaggio verso Pescara, il tema dell’abdicazione, affrontato per accenni, incontrò «il risoluto rifiuto del re ad addivenirvi, assecondato e spalleggiato dall’Acquarone», M. Soleri, Memorie…, cit., p. 272. 11. Frase del re riportata da Acquarone, cit. in P. Nello, Dino Grandi…, cit., p. 231. 12. Subito dopo l’estromissione di Mussolini dal potere, Marcello Soleri annotava: «Vidi il re la mattina del 27 luglio, ma lo trovai, anziché risoluto e volitivo, quale lo supponevo, perplesso ed esitante e preoccupato che si volessero troppo rapidamente demolire gli istituti e allontanare gli uomini del fascismo. Rimaneva tenacemente aggrappato ad una tesi di gradualità», M. Soleri, Memorie…, cit., p. 256.
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Fulvio Cammarano 13. Si veda l’illusione, evidentemente gradita al sovrano, fattagli balenare da Filippo Naldi, il 6 agosto 1943, di «attrarre le sinistre nell’orbita costituzionale con il miraggio di avviare l’Italia verso una specie di laburismo monarchico, di tipo inglese», ibid., p. 152. 14. E. Lussu, La difesa di Roma…, cit., p. 321. 15. Badoglio, durante il viaggio verso Ortona, era sicuro che «entro una quindicina di giorni avrebbe riportato a Roma il re», M. Soleri, Memorie…, cit., p. 272. 16. Cfr. P. Nello, Dino Grandi…, cit., p. 233. 17. Ricorda Soleri di aver trovato Acquarone «sulla stessa linea del re, preoccupato del salvataggio dei fascisti apostati, forse perché avevano dato al re la occasione attesa, o provocata o concordata, per liberarsi di Mussolini, costituente ormai, con la continuazione della guerra senza speranza, un peso per la monarchia e il sicuro pericolo di rimanere travolta con lui», M. Soleri, Memorie…, cit., p. 257. 18. P. Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III…, cit., p. 151. 19. Credo che la più significativa testimonianza di tale predisposizione la si possa riscontrare dal breve dialogo del sovrano con Soleri in occasione dell’entrata in vigore, il 31 dicembre 1925, dei provvedimenti restrittivi sulla libertà di stampa: «Gli osservai che quella legge violava lo Statuto. Mi rispose di no, perché le Camere l’avevano approvata. Gli replicai che lo Statuto costituiva il limite ai poteri delle Camere e delle maggioranze. Mi obiettò che lo Statuto era sempre stato modificato. Gli contrapposi la frase banale, che lo si era sempre fatto per andare avanti, e non per andare indietro. Ma egli, con un sorriso, quasicché volesse diminuire la portata politica delle sue parole, mi rispose: “Questo dipende dal punto di vista da cui si guarda”. E cioè, la rinuncia a una delle libertà politiche, sanzionate dallo Statuto octroyé, costituiva per la monarchia un passo avanti, una riconquista dei suoi poteri», M. Soleri, Memorie…, cit., p. 209. 20. M. Soleri, Memorie…, cit., pp. 207-208.
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Le riflessioni e le discussioni intorno all’8 settembre 1943 tendono, a mio parere, a considerare degni di rilievo, al punto da farli emergere quali esclusivi soggetti in campo, gli Alleati e le forze della resistenza, da una parte, e i tedeschi occupanti, dall’altra. Lo scenario che così si configura, amputato della presenza fascista e di quella che sarebbe poi divenuta la Repubblica sociale italiana1, risulta – ancorché incompleto – soprattutto tale da ostacolare una comprensione del significato assunto dagli eventi compresi fra l’8 settembre 1943 e la fine della guerra in Italia. È vero che la Repubblica sociale poté dispiegarsi esclusivamente nei territori occupati militarmente dal Terzo Reich e che quindi la sua zona di competenza fu da subito circoscritta all’Italia centro-settentrionale con un’insignificante propaggine meridionale. Un aspetto questo che si sarebbe rivelato significativo nel dopoguerra per i differenti giudizi nei riguardi del fascismo e di Mussolini da parte della popolazione italiana delle tre aree del paese. Ma è altresì vero che, laddove si estese il nuovo governo mussoliniano, la sua presenza non fu meramente fantasmatica e incise anche profondamente nelle vite degli individui, sia di quanti vi aderirono sia di quanti la subirono o vi si ribellarono. Allora, in quei mesi, e successivamente, negli anni a venire, per il ruolo che quella esperienza ebbe nelle memorie dell’Italia repubblicana, l’esistenza della Repubblica sociale influì e ha influito non poco nella nostra storia. Ciononostante, la Repubblica sociale italiana quale presenza significativa nell’Italia del dopo 8 settembre 1943 è stata per lungo tempo sottovalutata dalla storiografia, che l’ha considerata un’esperienza irrilevante, quasi un’ombra inconsistente proiettata dal corpo ferrigno della Germania nazista. Quest’ultima e le sue politiche si dovevano studiare, non certo
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quel pugno di uomini vestiti di nero del tutto asserviti alle direttive provenienti da Berlino o impotenti a resistervi. Indubbiamente, la caduta del regime il 25 luglio 1943, l’allontanamento dal governo e la prigionia di Mussolini, la scomparsa pressoché totale dei fascisti, mentre folti gruppi di manifestanti si indirizzavano determinati contro i simboli del Littorio, hanno favorito l’interpretazione della cesura tra il Ventennio e la RSI . Alcuni cambiamenti interni (ché quelli esterni erano definiti dal predominio tedesco) senz’altro ci furono, specialmente riguardo all’immagine con cui il fascismo si ripresentò e alle tensioni di individui e gruppi attratti dai pronunciamenti dei dirigenti verso un rinnovamento del fascismo. Anche in questo caso, tuttavia, e va sottolineato, il quadro di riferimento è quello fascista ed è questo quadro che si deve analizzare se si vogliono cogliere le stesse articolazioni e complessità interne. Dunque, e per cominciare, non si può prescindere dall’indagare la proposta per l’Italia e gli italiani formulata dai fascisti e, in primis, da Mussolini. L’immagine di Mussolini «prigioniero» dei tedeschi e il termine neofascismo per qualificare la nuova esperienza hanno facilitato la sottovalutazione della RSI , che ha finito per essere espunta dalla storia d’Italia del 1943-1945. Il Mussolini del dopo 8 settembre non era più il Mussolini del pre 25 luglio 1943, così come il fascismo del dopo 8 settembre non era più il fascismo del pre 25 luglio 1943: affermazioni non interamente false per quanto non vere. Comunque, una volta sostenuta la non equazione fra il Mussolini del pre 25 luglio e il Mussolini del post 8 settembre e fra i fascismi delle due fasi, li si poteva ben trascurare nell’analisi del periodo 1943-1945, che risultava così dominato dalle potenze straniere che si fronteggiavano sul suolo nazionale e dai partiti e movimenti della resistenza. Questi giudizi, ancora largamente diffusi nell’opinione pubblica, hanno avuto e hanno tuttora delle conseguenze non marginali sotto il profilo dell’analisi storica dell’Italia e della consapevolezza del proprio passato da parte degli italiani. Se per diversi decenni, come sappiamo, il fascismo ha costituito una sorta di parentesi all’interno della storiografia sull’Italia contemporanea, il cosiddetto neofascismo ha rappresentato un’ulteriore parentesi nella parentesi. E quest’ulti-
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ma parentesi ha continuato a restare chiusa anche quando la prima si è aperta con l’inclusione del fascismo nella storia d’Italia, un fascismo, tuttavia, che si è arrestato al 25 luglio e non ne ha superato la soglia. Sicuramente non si possono sovrapporre Regime e RSI , ma, sancendo una sorta di incomunicabilità fra le due esperienze, non si sono individuati i momenti di contiguità e gli aspetti di continuità e non si sono affrontati i nodi dei passaggi di qualità all’interno della stessa esperienza fascista, nonché le conseguenze che la RSI e le sue politiche ebbero nel caratterizzare e modificare la stessa esperienza antifascista. Senza l’inserimento della RSI nel contesto di quegli anni, anche la resistenza, del resto, non è delineata nella sua complessità, dal momento che ad essa aderirono anche uomini e donne che si sarebbero certamente tenuti in disparte (andando a ingrossare la «zona grigia» anziché quella resistente)2, se non ci fosse stato alla guida del Paese quel particolare governo di alleanza con il Terzo Reich. È infatti su quel particolare governo di alleanza con il Terzo Reich che vogliamo qui ragionare, focalizzando la nostra attenzione intorno agli eventi che si svolsero nei giorni immediatamente successivi all’8 settembre 1943. Prima, tuttavia, sono necessarie ulteriori considerazioni di carattere più generale. La RSI si distingue certamente dal Regime, ma l’espressione «repubblichina», coniata e utilizzata dalla resistenza, rischia di cancellarne la peculiarità, dal momento che essa, se fu uno Stato fantasma, non fu sicuramente – come si diceva – una presenza fantasma. Pur dipendente dalla Germania nazista, la RSI conservava alcuni margini di autonomia per i suoi caratteri di «alleato-occupato» e non di semplice «occupato» nello scacchiere dei paesi occupati dalle forze armate del Terzo Reich, come ha dimostrato con chiarezza Lutz Klinkhammer3. Centrale, pertanto, diventa l’analisi di come fu gestita quella autonomia. E qui dobbiamo dire in forma concisa, e ci scusiamo per lo schematismo con cui dobbiamo procedere, che la RSI non si limitò a legittimare il Terzo Reich e la sua occupazione-spoliazione (con tutto quello che significa una tale legittimazione, se seguiamo l’analisi di Jacques Sémelin per altri Paesi europei occupati dalla Germania nazista)4. Non si arrestò alla soglia del collaborazionismo di Stato5. Andò oltre. So-
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stenne la presenza tedesca in Italia e si adoperò per affermare l’alleanza con il Terzo Reich. Per la RSI i tedeschi non erano degli occupanti, bensì degli alleati che combattevano la guerra dell’alleanza sul territorio italiano in quanto gli italiani non erano – al momento, almeno – in grado di combatterla. Siamo così abituati a ragionare in termini di «occupazione tedesca» che fatichiamo ad affacciarci su chi – italiano – giudicava i tedeschi un alleato, non diversamente da chi al Sud considerava alleati gli anglo-americani. Accanto a questa semplice e banale realtà di fatto, si deve collocare il disegno di Mussolini di riaffermazione della propria autorità personale e del proprio fascismo (probabilmente nella convinzione di essere l’unico in grado di portare l’Italia su un piano di grande potenza), ai cui fini l’alleanza con la Germania nazista e la stessa presenza delle sue truppe sul territorio nazionale costituivano in quel frangente delle inevitabili garanzie. Se la RSI non può essere esclusivamente ricondotta a un semplice fenomeno di fedeltà verso Mussolini o di ribellione contro la monarchia, poiché ad essa aderirono anche monarchici e non fascisti, la presenza al suo vertice di Mussolini fu l’aspetto che le conferì il tratto caratterizzante6. Le scelte iniziali di Mussolini, del resto, andarono nella direzione opposta a quella di allargare la base sociale del nuovo esperimento a figure «tradizionali» del regime, fra le quali chiaramente si devono collocare i monarchici e gli uomini d’ordine. 1. 8 settembre o 25 luglio? La cronologia della «morte della Patria» per la RSI e il ruolo di Mussolini Mi accosterò al tema della «morte della Patria» partendo da una domanda relativa alle date periodizzanti. Nel nostro caso: 8 settembre 1943 o 25 luglio 1943? Non si tratta di una domanda provocatoria o anacronistica, dal momento che essa serpeggiò lungo l’intera traiettoria della RSI e la si può ritrovare nelle memorie dei protagonisti e partecipi di quell’esperienza per la rilevanza che essa assunse allora – in quei mesi del 1943-1945 – e che avrebbe assunto in seguito – nel dopoguerra fino a oggi – per una caratterizzazione della stessa RSI . In breve e schematicamente: la definizione dell’8 settembre
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come data spartiacque significava (e significa) accreditare la RSI come governo dell’onore; l’accento posto sul 25 luglio significava (e significa) accreditare la RSI come governo del fascismo. Le memorie dei protagonisti hanno teso in generale a selezionare, fra le due date, l’8 settembre: il nuovo esperimento politico-militare si doveva a uno scatto dell’orgoglio nazionale dopo la rottura «vile» della precedente alleanza militare. E sicuramente nella RSI si rintracciano – all’interno delle sue diverse componenti – anche quanti giudicarono l’8 settembre come «morte della Patria». Così come si ritrovano quanti – su posizioni filonaziste più che nazionaliste – videro nell’8 settembre il venir meno di un’alleanza privilegiata con il Terzo Reich, vale a dire con il nazismo, più che con la Germania considerata come alleato militare. Le sfumature e anche alcune differenze di fondo fra un campo e l’altro possono essere varie. Ma va ricordato che, a un altro polo, incontriamo quanti considerarono il 25 luglio come la data periodizzante, senza contrapporla all’8 settembre, ma comunque più decisiva. L’origine del collasso nazionale – secondo questa interpretazione – andava ricercata nel 25 luglio, quando era avvenuta la chiusura dell’esperienza fascista e la defenestrazione del duce aveva portato con sé la fine del Regime. Cosa significa questo? Significa molto semplicemente che del binomio nazione/ fazione , patria/ fascismo – il quale attraversa tutta la storia del fascismo e del Regime e si ripresenta con tratti marcati nella RSI – quanti sostengono che la data discrimine sia il 25 luglio pongono l’accento sul secondo termine del binomio anziché sul primo o, meglio, concepiscono i due termini del binomio come inscindibili non riuscendo a concepire la patria se non in veste fascista. Ci troviamo, cioè, di fronte alla visione integralistica del fascismo, secondo la quale quanti non accettano il fascismo quale guida indiscussa e unica vanno annoverati fra i nemici assoluti7. Per questa accentuazione Mussolini è decisivo. Sono la sua stessa persona e il suo ritorno sulla scena a reclamare una sottolineatura della sua precedente estromissione. Di più. Ancora alla riunione del Gran Consiglio del 24 luglio, davanti alle critiche avanzategli di una spaccatura tra Italia e fascismo, il duce aveva sostenuto che «non esiste alcuna frattura fra fascismo
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e nazione». Aggiungendo che poteva «documentare con prove innumerevoli l’attaccamento fedele del popolo italiano» verso la sua persona. Fascismo, rivoluzione, partito, dittatura e Mussolini sono inseparabili ormai. Non si ritorna indietro. […] Chi domanda in questo momento la fine della dittatura, sa di volere la fine del fascismo e la capitolazione al nemico, nell’illusione forse che il nemico distinguerebbe tra fascismo e Italia8.
Da tempo Mussolini insisteva sui caratteri di scontro di civiltà della guerra in corso e quei caratteri esigevano soldati fascisti che combattano per il fascismo. Perché questa è una guerra di religione, di idee. […] È un’autentica guerra di religione. Ora le guerre di religione sono vinte dai soldati più fanatici, cioè che credono più intensamente dell’avversario nelle idee che essi rappresentano e difendono9.
Sull’impossibilità di scindere l’Italia dal fascismo e dalla sua persona, Mussolini fu molto esplicito nell’intervento tenuto al direttorio del PNF dell’11 marzo 1943, all’indomani degli scioperi operai: Ci sono stati dei fascisti che hanno in anticipo manifestato in scritti e discorsi quello che è accaduto nell’altra guerra e volevano in un certo senso eclissare e diminuire e attenuare quella che è stata l’opera del fascismo in questa guerra, avendo l’aria di dire: questa non è la guerra del fascismo, è un’accusa che ci fanno gli avversari; questa è la guerra dell’Italia. Bisogna reagire con la massima energia contro questo atteggiamento, per il quale io, alla fine dell’ultima guerra, ho coniato la parola dei «maddaleni pentiti». […] Quindi questa è la guerra dell’Italia perché è la guerra del fascismo, ed è la guerra del fascismo perché è la guerra dell’Italia. Respingo distinzioni di questa natura, e se anche si facessero non crediate con ciò di calmare gli avversari in malafede. Essi continueranno a dire che questa è la guerra voluta da me, Mussolini, perché amico di Hitler10.
Italia, fascismo, dittatura personale, alleanza con il Terzo Reich si presentavano come inestricabilmente intrecciati nella concezione di Mussolini per il quale non era possibile sottrarre un anello alla catena, pena il crollo dell’intera impalcatura. Sicuramente, al ritorno nel settembre, Mussolini poteva, come alcuni gerarchi si aspettavano da lui, riprendere la guida
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del governo senza fomentare i motivi di attrito fra gli italiani e, quindi, senza ricostituire il Partito fascista o senza conferire ad esso il ruolo di partito unico. Poteva chiamare a raccolta tutti gli italiani che avevano considerato negativamente l’armistizio con gli anglo-americani senza fare questioni di tessera di partito e senza incentivare la guerra civile del fascismo contro tutti gli oppositori, compresi quanti avevano partecipato al Regime ma non erano disposti a seguirlo ulteriormente nell’alleanza con la Germania hitleriana o nelle virate totalitarie sperimentate dalla seconda metà degli anni Trenta. Poteva lavorare per costituire un governo di collaborazione nazionale per far fronte al momento di emergenza. Mussolini poteva operare scelte diverse, non ultima quella di rifiutare l’incarico offertogli da Hitler, ma egli seguì la stella polare del fascismo e si ripresentò sulla scena appellandosi nell’immediato ai «fedeli camerati» anziché a tutti gli italiani e ricostituendo innanzitutto il partito. È il caso di leggere insieme i suoi primi ordini del giorno del 15 settembre 1943, con i quali riprendeva contatto con il Paese dopo l’estromissione del 25 luglio: Ordine del giorno n. 1: «Ai fedeli camerati di tutta Italia. Riprendo da oggi, 15 settembre 1943, la direzione suprema del Fascismo in Italia». Ordine del giorno n. 2: «Nomino Alessandro Pavolini alla carica provvisoria di Segretario del Partito Nazionale Fascista che, da oggi, si chiamerà Partito Fascista Repubblicano». Ordine del giorno n. 3: «Ordino che tutte le autorità militari, politiche, amministrative e scolastiche, nonché tutte quelle che vennero esonerate dalle loro funzioni da parte del governo della capitolazione, riprendano immediatamente i loro posti ed i loro uffici». Ordine del giorno n. 4: «Ordino l’immediato ripristino di tutte le istituzioni del Partito con i seguenti compiti: a) di appoggiare efficacemente e cameratescamente l’esercito germanico che si batte sul territorio italiano contro il comune nemico; b) di dare al popolo italiano immediata, effettiva assistenza morale e materiale; c) di riesaminare la posizione dei membri del partito in rapporto al loro contegno di fronte al colpo di Stato della capitolazione e del disonore, punendo esemplarmente i vili e i traditori». Ordine del giorno n. 5: «Ordino la ricostituzione di tutti i reparti e le formazioni speciali della Milizia Volontaria per la Sicurezza dello Stato»11.
Il ruolo da conferire al fascismo e al partito figurò tra gli argomenti dei due giorni di colloqui di Mussolini con Hitler,
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avvenuti in Germania, al quartier generale del Führer, il 14 e 15 settembre, due giorni dopo la liberazione del duce, al quale doveva esser fatta risalire, secondo Goebbels, la decisione di ricostituire innanzitutto il partito. Il Duce intende dapprima ricostruire il partito fascista. Poi, con l’aiuto di questo, vuole iniziare la ricostituzione dello Stato, a cominciare dal più basso gradino amministrativo. A coronare la sua opera, si propone infine di indire una Costituente. Il suo scopo sarebbe quello di deporre Casa Savoia12. Non era indifferente, in tale scelta, la questione della «legittimità» dell’esperimento cui, con Mussolini al vertice della piramide, ci si apprestava a dar vita. L’Italia era costituzionalmente una monarchia e su quale fondamento giuridico poteva reggersi un governo ad essa alternativo? Al di là della decisione di occupare e controllare militarmente il paese e di conservare sotto un’amministrazione diretta le province del Litorale Adriatico (il Küstenland) e della zona Prealpina (l’Alpenvorland), da parte tedesca non si era ancora definito compiutamente quale dovesse essere la migliore soluzione «tecnica» per l’Italia13 e, in tal caso, con Mussolini disposto a scendere in campo, era senza dubbio da preferirsi un avvio in qualche misura più fluido che facesse perno sul partito. Le stesse vicende degli ordini del giorno di Mussolini, così come ce le ha narrate Tamaro, sono indicative al proposito: essi dapprima apparvero come ordini del giorno «del Governo». Adontatisi i nazisti, perché un governo non l’avevano ancora approvato, nei giornali usciti più tardi, quegli ordini del giorno si dissero «del regime». Anche questo non garbò alle autorità tedesche e gli ordini diventarono «del partito fascista repubblicano»14. La preminenza da conferire al fascismo e al partito si espresse in forma concreta nell’affidamento a Pavolini dell’incarico di formare il nuovo governo, naturalmente sotto il costante controllo tedesco e in contatto telefonico continuo, tramite l’ambasciata del Reich, con Mussolini stesso. Significativamente, fu Pavolini il primo fra i gerarchi riparati nel Reich a trasferirsi dalla Germania a Roma e altrettanto e forse più significativamente, sotto il profilo simbolico, fu palazzo Wedekind a essere riaperto e a sventolare il primo gagliardetto fascista dopo il 25 luglio15. Mussolini, come sappiamo, si sareb-
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be trattenuto in Germania fino al 23 settembre, giorno in cui – andata in porto la formazione del governo – si sarebbe trasferito in Italia. Ma ritorniamo agli ordini del giorno del 15 settembre. Il fascismo e il partito fascista – insieme con Mussolini che firma ciascun testo e usa la prima persona singolare per dare disposizioni e ordini – figurano come i perni del nuovo esperimento. Anche la ricostituzione della Milizia (che compare nel quinto o.d.g.) rientra in questa prospettiva ed è emblematico che il 16 settembre Mussolini firmi il suo sesto o.d.g. incaricando Renato Ricci del comando generale della MVSN. Tutte le prime disposizioni del duce, con le quali si ripresentava pubblicamente agli italiani, riguardavano il fascismo e le sue istituzioni di massa. Consideriamo tuttavia con maggiore attenzione di quanto non si sia fatto finora gli o.d.g. n. 3 e n. 4. Con essi si delegittimavano tutte le autorità centrali e locali nominate dal governo Badoglio e si ripristinavano tutte le autorità in carica il 25 luglio, tutte rigorosamente fasciste o, almeno, tesserate al Partito fascista, come è opportuno qui rammentare. Con il punto a) dell’o.d.g. n. 4 si esponeva pubblicamente e si richiedeva l’adesione piena all’attività della Wehrmacht. Con il punto c) si apriva il territorio della vendetta: al partito era affidato il compito di punire «esemplarmente i vili e i traditori» di fronte al «colpo di Stato della capitolazione». Mussolini riemergeva non solo appoggiandosi sui «fedeli camerati», sul fascismo, sul partito, sulla Milizia, ma anche disconoscendo quei tecnici e quei nazionalisti che avevano aderito o appoggiato il governo Badoglio e che nella loro maggioranza erano stati tesserati al Partito fascista fino al 25 luglio. Anziché tendere loro una mano in una visione di unità nazionale – come anche alcuni gerarchi si attendevano – Mussolini li delegittimò considerandoli come degli impostori e addirittura istigò contro di loro lo spirito di vendetta. Anche numerosi fascisti, di cui alcuni già dirigenti di primo piano, si ritrovarono relegati all’opposizione in virtù delle scelte mussoliniane. Le memorie di Giovanni Giuriati possono essere assunte come indicative dello stato d’animo di quanti – ai livelli più alti delle gerarchie – non potevano concordare con la politica di Mussolini del settembre 1943. Giuriati, nazionalista, poi fa-
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scista, era stato segretario nazionale del PNF dal 24 settembre 1930 al 6 dicembre 1931 e presidente della Camera dal 1929 al 1934, anno in cui si era ritirato dalla vita politica. Ancorato ai valori nazionalistici aveva interpretato gli anni successivi del regime come un’involuzione verso il «cesarismo totalitario» capace di travolgere lo stesso fascismo16. Riguardo al settembre 1943 Giuriati rifletteva sul fatto che Mussolini avrebbe potuto sfruttare le attitudini proprie dei «veri fascisti» (fra cui il «disperato nazionalismo», il «vivi pericolosamente di Mussolini, l’odio per la viltà, per la mediocrità, per il tradimento, la decisa volontà di accorrere dovunque si manifestasse un pericolo per la patria») per chiamare intorno a sé un gruppo, forse vasto, di fedeli e di ferventi; per scegliere fra quelli i collaboratori della nuova fatica. Non mai per ricostituire un partito, cioè una suddivisione, una dualità di bandiere, una separazione tra italiani e italiani, che, in quel tremendo settembre 1943, in cui sembrava giunto all’apice lo scompiglio, non poteva se non costituire fomite di più pericoloso disordine. Ahimè! Mussolini si mostrò incurante di tali possibilità17.
Giuriati prendeva come emblematico del fallimento di Mussolini il suo o.d.g. n. 4 del 15 settembre, rilevando che i punti a) e c) «erano fatalmente destinati ad approfondire e invelenire la discordia fra gli italiani» e a fomentare la guerra civile. L’appello alle armi a fianco della Germania compreso nel punto a) doveva necessariamente essere interpretato come una sfida lanciata alla maggioranza e tale aberrazione raggiunse il suo culmine con la militarizzazione nelle Brigate nere di tutti gli iscritti al Partito fascista repubblicano. Non meno deplorevole il proposito manifestato col terzo punto di celebrare i processi a carico di coloro che nel luglio si erano schierati contro Mussolini. Se allora egli non aveva trovato un solo difensore, come si poteva pensare che il processo «al colpo di Stato» non avrebbe suscitato diffuse recriminazioni? La restaurazione del fascismo ha quindi potentemente contribuito a diffondere e inasprire i dissensi fra italiani18.
Dal 15 settembre, e ancor più da inizio ottobre, quando si scatenò la caccia ai «traditori», venivano a trovarsi inseriti «ufficialmente» nel campo dell’antifascismo quanti erano stati fascisti, taluni più che convinti e persino gerarchi di primo
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piano, come i membri del Gran Consiglio del fascismo firmatari dell’ordine del giorno Grandi. Limitandoci ad analizzare le decisioni contenute nei primi o.d.g. di Mussolini, non si può certamente sostenere che egli avesse scelto di ridiscendere in campo per fare da «scudo» alla popolazione italiana contro le ire tedesche. Mussolini, in realtà, condusse (o tentò di condurre) una sorta di guerra parallela contro vecchi e nuovi oppositori, a fianco della guerra grossa condotta dai tedeschi e grazie ad essa, perché senza la forza delle armi tedesche egli e i suoi uomini non avrebbero potuto ottenere e conservare il benché minimo potere19. All’interno di questo quadro si spiegano i telegrammi a Berlino dell’ambasciatore tedesco Rudolf Rahn sui colloqui avuti con Mussolini a fine settembre. È una tragedia per il popolo italiano che la Germania sia rimasta sola a combattere, avrebbe dichiarato Mussolini. Ma dato che le cose stanno così, la Germania sola doveva avere la completa direzione per tutto ciò che si riferisce alla condotta della guerra in Italia. Egli [Mussolini] avrebbe appoggiato questo concetto con la più rigida coerenza, e per questa ragione desidera vedere la nuova milizia riorganizzata praticamente sotto il comando tedesco… Considera compito del nuovo governo italiano il mantenimento della legalità e dell’ordine nelle retrovie delle armate tedesche, e avrebbe chiesto che appena possibile gli fossero forniti i mezzi per far ciò. Tali mezzi avrebbero dovuto comprendere il controllo unificato dell’amministrazione, dell’economia e delle finanze. Per ciò che concerne la distruzione di settori specificamente militari e di obiettivi di importanza militare [Mussolini] non solo comprende, ma approva l’azione tedesca. Ma chiede urgentemente che siano date istruzioni per risparmiare il più possibile installazioni di gas, elettricità e acqua. Altrimenti sarebbe impossibile evitare disordini interni e continuare con successo a reclutare uomini per la milizia e il servizio del lavoro20.
2. Con Mussolini e senza Mussolini Per noi oggi è del tutto naturale pensare a Mussolini quale capo della RSI . In realtà quel suo ruolo non fu per nulla scontato. Le fonti in questo caso non ci soccorrono con dovizia e dobbiamo procedere per indizi, tutti comunque convergenti nel mostrare la non linearità e, comunque, la problematicità della soluzione Mussolini per la guida del nuovo governo.
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Già Renzo De Felice aveva individuato, grazie a nuove fonti di archivio, altre soluzioni – diverse da Mussolini – tentate dai dirigenti a vari livelli della Germania nazista, non coincidenti interamente con quelle in precedenza accreditate sulla base delle ricostruzioni dei protagonisti della RSI . La memorialistica e la pubblicistica di Salò hanno infatti mostrato in prevalenza volti di fascisti radicali, à la Farinacci, per le soluzioni tentate dai dirigenti a vari livelli della Germania nazista per la guida del nuovo governo, e ciò non ha fatto che confermare la visione tradizionale (e molto confortante per la nostra identità nazionale) secondo cui la Germania nazista avrebbe teso a nazificare l’Italia ricercando i fascistissimi, i quali avrebbero assicurato un’occupazione ferrea del Paese. Grazie a Mussolini e al suo «sacrificio» si era potuta evitare questa triste fine. Ma da altre fonti cosa vediamo emergere? Fino alla liberazione di Mussolini, il 12 settembre, e anche oltre – aspetto questo quanto mai significativo – si intravvedono chiari tentativi da parte tedesca di contattare personalità più «tecniche» e, comunque, non consenzienti con il totalitarismo fascista, ad esso, anzi, avverse. Emblematico è il caso di Massimo Rocca. Con un passato di anarchico, Rocca era stato tre volte volontario in guerra (nel 1914, nel 1915, nel 1919) nonché uno dei massimi dirigenti del primo fascismo e il capofila, con Bottai, della corrente revisionista. Teorizzatore dei Gruppi di competenza e poi dei Consigli tecnici ai fini di uno sviluppo tecnocratico e modernizzatore dell’Italia, egli mirava tramite i Gruppi e i Consigli a sviluppare le competenze e le professionalità e a giungere – dopo la vittoria fascista – a una riconciliazione nazionale al di sopra di ogni tessera di partito. La sua impostazione aveva urtato contro l’opposizione dell’anima totalitaria del fascismo la quale aveva preteso la sua espulsione dal partito, che era avvenuta nel maggio 192421. Espatriato, Rocca si era poi riavvicinato al regime e come giornalista, a Bruxelles, collaborava a diverasi quotidiani e riviste. All’indomani del 25 luglio, egli aderì «pubblicamente al nuovo governo di Badoglio, augurando che la concordia degl’Italiani, cementata dalla scomparsa del partito unico, potesse dar modo di continuare virilmente la guerra fino ad una
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pace onorevole». Nello stesso tempo, egli chiese che «si conservasse quello che di migliore aveva realizzato il regime» e riaffermò «il valore di certe idee del fascismo originario, degne di sopravvivere al regime stesso». Si oppose invece all’armistizio «con una lettera pubblica del 9 settembre 1943»22. Di certo non antifascista, bensì critico verso la dittatura, Rocca si presentava come un convinto collaborazionista del Terzo Reich. «Chiamato a Berlino dal Governo tedesco a titolo di consulto», avrebbe ripetuto al principe Urah quanto aveva già esposto all’ambasciatore tedesco a Bruxelles: «cioè che sarebbe stato un errore ripristinare nell’Italia settentrionale il partito fascista, invece di rivolgersi unicamente al patriottismo ed all’onore nazionale degl’Italiani»23. Dalla lettera inviata a Mussolini il 14 settembre – lo stesso giorno dell’incontro fra il duce e Hitler – si comprende che l’offerta da parte di esponenti del governo tedesco si era preannunciata come molto più impegnativa: Chiamato a Berlino dal Governo tedesco, ero pronto ad assumere tutte le responsabilità, anche quella di formare un governo in Italia, per continuare la guerra a fianco della Germania e del Giappone. Oggi, sapendoti liberato, mi pongo a tua disposizione, per salvare l’avvenire e l’onore dell’Italia. E perché oggi non hai più bisogno di difenderti contro l’insidia della monarchia, sono certo che tu sentirai il bisogno, il dovere e l’utilità di far appello non solo ai fascisti, ma a tutti gli italiani che serbano il sentimento della patria e dell’onore24.
Per Rocca, è evidente, la soluzione si inseriva sostanzialmente nel solco di quella caldeggiata fin dopo la marcia su Roma e che ora si esprimeva nell’idea di un governo di unità nazionale. Ma Rocca non fu il solo antitotalitario chiamato a conferire con il governo tedesco. Giuseppe Tassinari – che, nel 1941, come ministro dell’Agricoltura nel governo Mussolini si era scontrato duramente con il segretario del partito, Adelchi Serena, assai probabilmente a proposito delle nuove prerogative del partito rispetto a quelle dello Stato25 – più volte sollecitato a recarsi in Germania, incontrò Hitler alla presenza di Ribbentrop e del generale delle SS Karl Wolff il pomeriggio del 14 settembre 1943. Questa la pagina del diario di Tassinari sull’incontro con Hitler:
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La Repubblica sociale italiana Abbiamo parlato del tradimento ed egli ha detto che l’errore era stato quello di aver mantenuto al potere Casa Savoia. Ha detto che bisognava ricostituire subito il Partito ed alle mie obiezioni ha risposto che anche la Chiesa ha avuto crisi profonde e che è poi risorta. Mi ha chiesto di uomini del Partito che il vaglio di questo ventennio ha selezionato, ma la risposta non poteva essere quale lui attendeva. Molti intelligenti fuorviati ormai dall’ambizione (vedi voto del Gran Consiglio) o corrotti dalla sete di arricchimenti; troppi incapaci ai posti di comando. Il Fascismo, dissi, è in profonda crisi, per colpa delle persone, non dell’idea. […] Il Füher mi ha fatto alcuni nomi e per quanto un giudizio fosse imbarazzante, dato alla presenza di sei o sette persone (erano sempre presenti Ribbentrop e Wolff, oltre l’interprete e altri) ho detto onestamente e schiettamente quello che pensavo ribadendo che con questa sincerità credo si possa contribuire all’amicizia fra i due Paesi. Sollecitato il Führer due volte per l’arrivo di Mussolini, il colloquio è stato interrotto dopo una ventina di minuti. Ho avuto la sensazione che qualche cosa non si era ingranata. […] E soprattutto la liberazione di Mussolini spostava il piano ed era bene dirlo francamente, omettendo lo stesso viaggio mio, perché la mia presenza poteva imbarazzare26.
Nonostante la liberazione di Mussolini, il colloquio di Hitler con Tassinari non fu cancellato e, anzi, per concluderlo, si fece fare a Mussolini un’anticamera di venti minuti. Non solo. Wolff gli chiese di trattenersi a Rastenburg, «perché, dice lui, avrò qualche altro colloquio col Führer», e gli raccomandò di non rifiutare un’eventuale offerta di entrare nel nuovo governo. Tassinari ebbe modo, prima di ripartire per l’Italia, di incontrare Mussolini il 15 settembre «in un’atmosfera di ghiaccio». Il duce chiaramente non aveva apprezzato la presenza dell’ex ministro dell’Agricoltura e l’anticamera cui era stato costretto, tant’è che non incluse Tassinari nel nuovo governo. Dal diario di Tassinari apprendiamo inoltre che Mussolini non aveva alcuna intenzione di modificare la rotta seguita prima del 25 luglio. L’ex dittatore apparve infatti spiritualmente e fisicamente incapace di «riprendere l’immane lavoro della ricostruzione, con la forza di correggere i difetti e superare le debolezze che avevano messo tutto in crisi». Dunque, non solo i capi militari, ma anche i dirigenti delle SS e settori del governo tedesco operavano per una soluzione collaborazionista che avrebbe messo in disparte il fascismo o, quantomeno, il partito fascista, senza fare alcuna concessione all’ideologia, bensì con un’attenzione molto pratica ai maggio-
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ri benefici da ricavarsi per la Germania. Hitler stesso, disposto a incontrare personalità antitotalitarie anche dopo la liberazione di Mussolini, sembrava propenso a non scartare una tale eventuale soluzione. Del resto, molte delle informazioni che gli erano giunte sulla situazione italiana dopo il 25 luglio non avevano nascosto la crisi totale e irreversibile del fascimo. L’ammiraglio Dönitz, senza usare mezzi termini, aveva scritto di dubitare che «il fascismo abbia più alcun significato, sia per coloro che favoriscono la continuazione della guerra al nostro fianco, sia per lo stesso popolo italiano». Per il barone von Mackensen, ambasciatore tedesco a Roma, il «Partito fascista in Italia si reggeva su Mussolini e, come gli eventi hanno dimostrato, è caduto con lui». Il vice-ammiraglio Ruge, inviato immediatamente in Italia per prendere diretta visione della situazione, nei suoi rapporti del 27 luglio e del 1° agosto, dopo aver premesso che la «destituzione del Duce è stata una misura molto infelice in questo momento», sottolineava che il suo [di Mussolini] ritorno viene tuttavia rifiutato da tutti e ciò per il modo in cui egli si è lasciato costringere alle dimissioni dai suoi stessi uomini. In ciò si vede il segno della sua malattia e della diminuzione delle sue energie e la prova della sua incapacità di guidare lo Stato in questa difficile situazione.
Mussolini non poteva neppure contare sul sostegno dei giovani dal momento che – scriveva Ruge – «gli ufficiali più giovani, come Grossi e Sestini, riconoscono pienamente i suoi meriti, ma per loro egli è un uomo malato che non può salvare l’Italia e per il quale essi non possono impegnarsi»27. Se Hitler inizialmente era determinato a liberare il duce e a ricostituire un governo da lui diretto, convinto che il fascismo fosse solo stordito e Mussolini tradito, successivamente, le relazioni dei comandanti militari e dei funzionari di governo nonché le stesse dichiarazioni di personalità politiche italiane dovettero modificare le sue opinioni e comunque farlo dubitare delle capacità di Mussolini di reggere il nuovo governo. Alla fine, sappiamo, fu scelto Mussolini, con ogni probabilità perché dava maggiori garanzie di fedeltà alla Germania hitleriana e di accettazione delle sue regole di guerra, come mostrano, del resto, i telegrammi sopra citati di Rahn a Berlino.
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La presenza di personalità quali Rocca e Tassinari – e con ogni probabilità di Rodolfo Graziani28 – disposte ad assumere la responsabilità di formare un governo collaborazionista, di cui Mussolini, si è visto, ebbe immediata conoscenza, pone in una nuova luce la scelta di Mussolini di guidare il nuovo esperimento. Dal momento che c’erano altri uomini, ben visti o comunque ritenuti idonei dai dirigenti della Germania, disposti ad assumere quell’incarico, la teoria del «sacrificio» di Mussolini è obbligata a cadere. Sicuramente egli poteva concepire se stesso come un uomo che si sacrifica, all’interno del processo di automitizzazione cui la mitizzazione progressiva lo aveva fatto pervenire, ma l’analista non può non operare distinzioni fra l’ambito dell’autopercezione del soggetto studiato e il contesto in cui quel soggetto opera. Mussolini poteva rifiutare di guidare il nuovo governo, anche in assenza di altri uomini disposti a farlo, un’ipotesi questa che non è stata sufficientemente presa in considerazione dalla storiografia. Ora, non ignaro che altri erano propensi ad assumere il compito di guidare il nuovo governo, Mussolini poteva declinare l’invito nazista. Poteva sottrarsi anche al loro diktat, consentendoci, in via ipotetica, di ammetterne l’esistenza. Ipotesi, comunque, da scartare con fermezza poiché non se ne ritrova traccia né nella documentazione italiana né in quella tedesca29. Anzi, la condizione di «alleato-occupato» della RSI la esclude del tutto. Non sappiamo se, con un altro capo del governo e un altro governo, la RSI si sarebbe chiamata RSI e se le condizioni dell’occupazione sarebbero state meno dure. Con ogni probabilità un governo collaborazionista d’emergenza non dominato dal fascismo non avrebbe fomentato la sindrome del tradimento e del complotto e scatenato la guerra ai «traditori». Sotto questo profilo, almeno, possiamo ipotizzare, molti episodi di violenza si sarebbero risparmiati così come le paure e i sentimenti di insicurezza totale con cui diverse persone dovettero convivere. Senza la guerra ai traditori la stessa resistenza, come si diceva, avrebbe assunto assai probabilmente altri caratteri. Ma qui entriamo nel regno dei possibili futuri del passato che non siamo in grado di dominare. La realtà di fatto fu caratterizzata dalla presenza di Mussolini alla guida di un gover-
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no interamente fascista, i cui esponenti, anche là dove cercarono di ridurre i tratti più marcatamente totalitari del capo, non poterono modificarne le linee di fondo. Note * Il testo, con alcune variazioni, ha trovato una prima edizione in «Storia e problemi contemporanei», (2004), n. 37. 1. Il nuovo esperimento fascista – il cui avvio può essere datato al 15 settembre 1943 – assunse il nome ufficiale di Repubblica sociale italiana a partire dal 1° dicembre 1943. 2. Sul dibattito intorno alla «zona grigia», un’espressione tratta da Primo Levi ma affermatasi nel significato di area sociale della «non scelta», cfr. C. Pavone, Caratteri ed eredità della «zona grigia», in «Passato e presente», (1998), n. 43, p. 5 ss. Per un’articolazione di questa «zona», in cui si rischia di inglobare anche gli episodi della resistenza civile, cfr. A. Bravo, La resistenza civile , in Storia e memoria di un massacro ordinario , a cura di L. Paggi, Manifestolibri, Roma 1996, p. 144 ss. 3. L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1993. 4. J. Sémelin, Senz’armi di fronte a Hitler. La resistenza Civile in Europa 1939-1943, Sonda, Milano-Torino 1993. 5. Per una tipologia dei diversi «collaborazionismi», compreso quello di Stato, in riferimento al regime di Vichy: cfr. S. Hoffmann, Collaborationism in Vichy France , in «Journal of Modern History», (1968), n. 40/3. Cfr., per una discussione, C. Pavone, Premessa a H. Rousso, Il grande fossato , in «Rivista di storia contemporanea», XIV (1985), n. 4. 6. Mi sia consentito rinviare ai miei, Brigate nere. Mussolini e la militarizzazione del Partito fascista repubblicano , Bollati Boringhieri, Torino 1999; La «repubblica» della RSI, in La fondazione della repubblica. Modelli e immaginario repubblicani in Emilia e Romagna negli anni della Costituente , a cura di M. Salvati, Angeli, Milano 1999, pp. 47-61. 7. Intorno a questi nodi relativi al fascismo, si veda E. Gentile, Storia del partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia, Laterza, Roma-Bari 1989 e Id., La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, La Nuova Italia, Firenze 1995. 8. D. Grandi, 25 luglio. Quarant’anni dopo , a cura di R. De Felice, il Mulino, Bologna 1983, pp. 262-263. 9. Discorso tenuto al Direttorio del PNF il 3 gennaio 1943, in B. Mussolini, Opera omnia, vol. X X X I: Dal discorso al Direttorio nazionale del P.N.F. del 3 gennaio 1942 alla liberazione di Mussolini (4 gennaio 194212 settembre 1943), a cura di E. e D. Susmel, La Fenice, Firenze 1960, pp. 137-138. 10. Ibid., pp. 160-161. 11. Il testo degli o.d.g. firmati Mussolini si trovano in A. Tamaro, Due anni di storia 1943-45, vol. I, Tosi, Roma 1948, pp. 584 e 586-587.
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La Repubblica sociale italiana 12. J. Goebbels, Diario intimo , Mondadori, Milano 1948, p. 606. 13. Sulla politica tedesca di occupazione, si rinvia in particolare a L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca…, cit. e a E. Collotti, L’Amministrazione tedesca dell’Italia occupata 1943-45. Studio e documenti, Lerici, Milano 1963. 14. A. Tamaro, Due anni di storia 1943-45…, cit., vol. I, p. 567. Comunque Mussolini li pubblicò in appendice al suo Il tempo del bastone e della carota. Storia di un anno (Ottobre 1942 - Settembre 1943), supplemento del «Corriere della Sera», 9 agosto 1944, come Ordini del giorno del governo . 15. F.W. Deakin, Storia della repubblica di Salò , Einaudi, Torino 19702, pp. 777-778. Sulla riapertura di palazzo Wedekind, si veda anche P. Monelli, Roma 1943, Milano, Longanesi, 1963, p. 377. 16. E. Gentile, Introduzione a G. Giuriati, La parabola di Mussolini nei ricordi di un gerarca, Laterza, Roma-Bari 1981. 17. G. Giuriati, La parabola di Mussolini…, cit., p. 254. 18. Ibid., pp. 254-255. 19. Significativa la motivazione di Francisco Franco quando rifiutò il riconoscimento ufficiale del nuovo esperimento mussoliniano: Mussolini era ormai «solo un’ombra» e non vi era nemmeno «da porre il problema se Mussolini era in grado di basarsi su qualche punto di forza». Il suo potere dipendeva esclusivamente dalla forza militare tedesca: solo dove c’erano truppe tedesche vi era un governo di Mussolini. F.W. Deakin, Storia della repubblica di Salò…, cit., p. 771. 20. Telegrammi di Rahn a Berlino sui colloqui con Mussolini, rispettivamente del 26 e del 29 settembre 1943, citati in F.W. Deakin, Storia della repubblica di Salò…, cit., pp. 763 e 772. 21. Su Massimo Rocca e il suo progetto, si veda A. Aquarone, Aspirazioni tecnocratiche del primo fascismo , in «Nord e Sud», (maggio 1964), pp. 109-128; R. Sarti, La modernizzazione fascista in Italia: conservatrice o rivoluzionaria?, in Il regime fascista, a cura di A. Aquarone, M. Vernassa, il Mulino, Bologna 1974, p. 259 ss.; R. De Felice, Mussolini il fascista, vol. I: La conquista del potere 1921-1925, Einaudi, Torino 1966, in particolare p. 449 ss., 547 ss., 594 ss. Si vedano inoltre i suoi scritti del 1923-1924, quando avvenne lo scontro con il fascismo estremista, raccolti in M. Rocca, Il primo fascismo , Giovanni Volpe Editore, Roma 1964. 22. M. Rocca (Libero Tancredi), Come il fascismo divenne una dittatura. Storia interna del fascismo dal 1914 al 1925, seguita da: La fuga e il socialismo di Mussolini, Edizioni librarie italiane, Milano 1952, p. 190. 23. Ibid., pp. 190-191. Si veda anche M. Rocca, La sconfitta dell’Europa. La politica internazionale del ventennio vista dall’estero , Milano 1960, p. 332 ss. 24. Archivio centrale dello Stato, RSI , Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato, b. 20, fasc. 112/R, Massimo Rocca. 25. Sul contrasto tra Tassinari e Serena «che quasi degenerò in rissa», cfr. R. De Felice, Mussolini l’alleato 1940-1945, vol. I: L’Italia in guerra 1940-1943, t. II: Crisi e agonia del regime , Einaudi, Torino 1990, p. 966.
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Dianella G agliani Sulla concezione del partito di Serena espressa nel suo progetto di riforma, cfr. E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, La Nuova Italia, Firenze 1995. 26. Diario di Giuseppe Tassinari, in Archivio G. Tassinari, citato in De Felice, Mussolini l’alleato: 1940-1945, vol. II: La guerra civile 1943-1945, Einaudi, Torino 1997, pp. 51-52. Ricordiamo che Ribbentrop era il ministro degli Esteri del Terzo Reich e Wolff ufficiale di collegamento di Himmler al quartier generale di Hitler, incaricato del comando delle SS nell’Italia settentrionale. 27. Si veda, per i giudizi espressi da Dönitz, von Mackensen e Ruge, F.W. Deakin, Storia della repubblica di Salò…, cit., pp. 660 ss. e R. De Felice, Mussolini l’alleato: 1940-1945, vol. II, La guerra civile…, cit., pp. 46 ss. 28. Per R. Graziani, cfr. V. Ilari, Il ruolo istituzionale delle forze armate e il problema della loro «apoliticità», in La Repubblica sociale italiana 1943-45, a cura di P.P. Poggio, «Annali della fondazione Micheletti» (1986), n. 2, pp. 295-311. 29. Chi ha cercato di sostenere questa teoria, la quale, per quanto indimostrata, ha avuto largo seguito, è stato C. Silvestri, Mussolini, Graziani e l’antifascismo (1943-45), Longanesi, Milano 1949.
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1. La consegna di Roma alle truppe tedesche È passato ormai più di mezzo secolo da quel lontano settembre 1943 quando Roma, la capitale, fu, dopo due giorni di tanto isolati quanto coraggiosi combattimenti, lasciata occupare dalle truppe tedesche: gli studi e le ricerche effettuate1 hanno consentito di ripercorrere con grande precisione lo svolgimento dei fatti, ma non di chiarire completamente le relative responsabilità. Non si è rilevata appagante, sotto questo profilo, l’individuazione di responsabilità di questo o quel generale, in quanto compì – o omise di compiere – questo o quel determinato atto, oppure impartì questa o quella disposizione. Lo svolgimento dei fatti – come è emerso chiaramente in seguito alla recente possibilità di accesso ai documenti esistenti presso gli archivi del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti (restano invece ancora per gran parte segreti i documenti inglesi) – fu tale da potere affermare che Roma fu consegnata alle truppe tedesche in attuazione di un preciso disegno, elaborato strategicamente nei giorni precedenti e teso non solo a garantire la fuga da Roma di Vittorio Emanuele di Savoia e delle altre gerarchie militari, ma anche e soprattutto a garantire la sopravvivenza della stessa classe politico-militare che aveva detenuto il potere pubblico nel periodo fascista e che era determinata a mantenerlo anche dopo la caduta del regime2. Nel 1944, quando fu istituita la commissione presieduta dal comunista Mario Palermo, sottosegretario al ministero della guerra, per «indagare e riferire sulle cause che impedirono alle Forze armate destinate a protezione della Capitale di assolvere il loro compito»3, era già chiaro che l’indagine avrebbe portato quasi inevitabilmente alla luce la trama occulta di quegli avvenimenti. Sulla relazione finale fu pertanto opposto il segreto4, anche
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se non si poté evitarne la divulgazione di ampi stralci negli anni successivi, e fu istaurato un rigido controllo sul contenuto delle testimonianze rese alla commissione in modo da informare immediatamente, oltre il re, i personaggi eventualmente chiamati in causa affinché potessero subito condizionare opportunamente le testimonianze successive5. Il re, messo al riparo da qualunque contestazione dall’irresponsabilità sancita dall’art. 4 dello Statuto del Regno che dichiarava la sua persona «sacra e inviolabile», poté così esimersi dal rispondere, sia allora che in seguito, a una domanda fondamentale: era o no al corrente delle trattative con gli alleati per l’armistizio e del contenuto di esso? Attraverso il duca d’Aquarone, fedele ministro della Real Casa, Vittorio Emanuele di Savoia lo negò – o lo fece negare – decisamente. I documenti oggi disponibili lo smentiscono: egli in realtà era ben al corrente del tentativo in corso6, preoccupato non già che l’armistizio determinasse una situazione di guerra civile nel paese tra i rimasti fedeli al fascismo, che si sarebbero schierati con le truppe tedesche largamente presenti nel territorio della penisola, e gli antifascisti, sostenuti da almeno una parte delle forze armate, ma della possibilità stessa che l’unitarietà del fine perseguito consentisse un collante fra tutte le forze dell’opposizione antimonarchiche e antifasciste. Meglio dunque fingere di ignorare quanto avveniva, con l’unica preoccupazione di salvare la corona e il mondo politico-militare che operava intorno a essa7, mettendosi sotto l’ampio mantello della protezione degli alleati, ciò che infatti puntualmente avvenne. A suo favore Vittorio Emanuele poteva giocare – e giocò – soprattutto due carte: la disorganizzazione esistente tra le forze politiche antifasciste, che subito dopo la diffusione della notizia dell’armistizio non riuscirono a organizzarsi a sostegno di quella (esigua) parte dell’esercito che prese le armi contro i tedeschi, e il sostegno del Presidente del consiglio, il generale Pietro Badoglio8, scelto non a caso, ma per le sue influenti amicizie in Italia e all’estero e le sue abilità di manovra, quando si trattasse non di operazioni militari ma del piccolo cabotaggio politico, favorito dalla sua appartenenza alla massoneria9. Badoglio, accusato negli anni successivi di aver in pratica consegnato il paese alle truppe tedesche, negherà le sue re-
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sponsabilità: anche lui affermerà, davanti alla Commissione Palermo di non essere stato a conoscenza della decisione degli alleati di rendere nota, l’8 settembre, la dichiarazione di armistizio; anche lui, come altri generali, indicherà proprio nell’anticipo della dichiarazione il motivo dell’impreparazione della lotta contro i tedeschi10. A smentirlo clamorosamente c’è la testimonianza di De Courten, ministro della marina, che in un suo memoriale relativo agli avvenimenti di quei giorni11, riporta un incontro del 3 settembre fra Badoglio, i tre ministri militari, il capo di Stato Maggiore Ambrosio e il ministro della Real Casa Aquarone, nel corso del quale lo stesso Badoglio fornì ampie notizie sui progetti delle forze armate alleate, compreso il famoso invio di una divisione paracadutisti vicino a Roma, dove nel frattempo sarebbero state concentrate le sei divisioni al comando del generale Carboni e le divisioni della 4a armata. Re e Presidente del consiglio erano compartecipi dello stesso disegno: salvare se stessi e la monarchia. La mattina del giorno 8 settembre, all’alba, presero la via Tiburtina che li avrebbe condotti a Pescara e di là al sicuro nell’Italia occupata dalle truppe alleate12. La strada era libera: truppe italiane erano state fatte convergere verso Tivoli in modo da garantire la fuga, se ce ne fosse stato bisogno. Era difficile però che i tedeschi ponessero ostacoli: il lasciapassare era stato abbondantemente pagato con la rinuncia alla difesa di Roma. 2. Il baratto Questa ricostruzione dei fatti è stata ampiamente contestata dagli storici che si sono occupati della vicenda13 in quanto non vi sarebbe alcun documento comprovante un accordo con i tedeschi in tal senso. A sostegno di essa però sta la testimonianza del colonnello Eugen Dollmann14, che rivelò anzi che della trattativa non era stato informato Hitler, notoriamente ostile al re di cui avrebbe voluto, secondo altre testimonianze, la cattura. La testimonianza diventa più credibile quando si riflette sul ruolo giocato dal colonnello delle SS in Italia dopo l’8 settembre 1943 fino al 25 aprile 1945, e sulla sua presenza diretta o indiretta in tutte le complesse trattative tra i due campi avversi di quel periodo. Tuttavia, qualunque piano non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo se non avesse potuto far conto sulla sua con-
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divisione da parte degli alleati e degli inglesi in particolare: all’accordo con i tedeschi a proposito della fuga a Pescara faceva riscontro quello con gli alleati circa la tutela dell’ordine politico-isitutuzionale esistente e, in particolare, della monarchia in cambio dell’armistizio. Quando nel 1944 si prospettò la possibilità che Badoglio fosse incriminato per la mancata difesa di Roma, l’ambasciator britannico Noel Charles lo ospitò nell’ambasciata, che godeva del privilegio della extraterritorialità, fino a quando il presidente del Consiglio Bonomi non garantì ufficialmente al governo inglese che non si sarebbe proceduto all’incriminazione15. Perché ci fu l’intervento inglese, mentre gli Stati Uniti restarono totalmente estranei alla vicenda? Ipotesi in proposito se ne possono fare molte: intese segrete precedentemente intercorse16; un rapporto privilegiato con Churchill derivante dalla comune militanza massonica17; il dichiarato favore inglese per la monarchia sabauda che si rifletteva su Badoglio, fedele servitore del re. Nessun documento a tutt’oggi noto può essere addotto a sostegno dell’una o dell’altra ricostruzione dei fatti: è tuttavia certo che il 13 maggio 1944 Churchill fece una violenta dichiarazione contro la sostituzione alla presidenza del Consiglio di Badoglio e in una lettera ad Alexander Cadogan definì il nuovo governo «un pasticcio»18. Un altro importante indizio sono gli interventi inglesi a favore di Mario Roatta, capo di Stato Maggiore dell’esercito, legato a doppio filo a Badoglio e arrestato per ordine dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo, per i crimini commessi quando, dal 1934 al 1936, aveva comandato il SIM. Secondo una testimonianza americana19, le pressioni di Churchill a favore di Roatta, forse il principale responsabile della mancata difesa di Roma20, avevano una precisa ragione nei rapporti di antica data tra il generale italiano e i servizi segreti britannici. Può trattarsi di un’affermazione priva di riscontri oggettivi: è certo però che al momento del processo all’ex capo di Stato Maggiore insieme ad altri ufficiali italiani per i crimini commessi negli anni Trenta quale capo del SIM ci furono ripetuti interventi alleati in favore di Roatta nella preoccupazione di un’inchiesta che potesse condurre alla rivelazione dei retroscena dell’armistizio21. Roatta era stato, fin dal 25 luglio, uno dei pilastri del disegno conservatore del re e dei suoi fe-
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deli, appoggiato soprattutto dagli inglesi, cosa che faceva passare in seconda linea i suoi personali sentimenti filotedeschi. La circolare da lui inviata immediatamente dopo il 25 luglio a tutti i comandi militari, con l’ordine di stroncare inesorabilmente qualunque movimento «come se si procedesse contro truppe nemiche», è da leggersi e fu letta non come una presa di posizione a tutela delle forze armate tedesche, ma quale difesa a ogni costo dell’ordine esistente, anche se il risultato furono 93 morti e 536 feriti22. L’ordine fu mantenuto ed era quello che interessava in quel momento. Nella stessa linea fu il comportamento di Roatta dopo l’8 settembre: la mattina dell’8 ordinò al generale Giacomo Carboni, comandante del corpo d’armata motorizzata per la difesa di Roma e, al tempo stesso, capo del servizio informazioni militari, di disporre quanto necessario per la difesa della capitale contro i tedeschi e, subito dopo, si unì al re e a Badoglio nella fuga verso Pescara. Il capo di Stato Maggiore aveva fatto quanto possibile fino a quel momento per assecondare il disegno conservatore che era stato alla base della trattativa segreta con gli alleati: per il futuro avrebbero provveduto altri, e gli inglesi in primo luogo, secondo le assicurazioni ricevute. Roatta tentò successivamente di scagionarsi dalle accuse che gli venivano rivolte a proposito della mancata difesa della capitale e, prima davanti alla Commissione Palermo23, poi in un libro autobiografico24, sostenne che la mattina dell’8 settembre Roma era ormai indifendibile25 e che comunque il responsabile della città era il generale Carboni al quale era stato affidato il comando26. Sul fatto che la mattina del 9 settembre la capitale non potesse più essere efficacemente difesa contro i tedeschi, Roatta aveva ragione. I combattimenti a Porta San Paolo, nella zona della Cecchignola e sulla via Cassia di alcuni reparti italiani contro le forze armate tedesche ebbero valore quasi simbolico27 in quanto l’esito della battaglia era scontato: già nella notte i tedeschi si erano impadroniti dei depositi di carburante, assurdamente collocati fuori dal perimetro difensivo. L’impossibilità di difendere Roma fu solo insipienza o meditato disegno? È verosimile l’ipotesi – autorevolmente formulata28 – che Vittorio Emanuele e Badoglio, e con essi i generali a loro strettamente legati da vincoli tra la devozione e l’interesse personale, attesero fino all’ultimo la notizia di uno sbar-
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co alleato a sud di Roma che avrebbe consentito la difesa della città, facendo attenzione a che i tedeschi restassero all’oscuro della trama per poi decidere la fuga, una volta non avvenuto lo sbarco? L’atteggiamento nei confronti dei tedeschi fu condizionato dal sottile calcolo di schierarsi dalla loro parte una volta che la situazione fosse precipitata, magari in seguito a sollevazioni popolari che avessero richiesto l’immediato intervento delle forze armate tedesche? È probabile che entrambe le ipotesi siano esatte: Badoglio e il re tacquero con i tedeschi perché erano pronti a sconfessare l’armistizio qualora le cose avessero volto per loro al peggio, ma, al tempo stesso, trattarono con gli alleati la loro fuga da Roma e il rifugio nell’Italia da loro già occupata, svendendo poi alle forze armate tedesche la città per ottenere il lasciapassare necessario per abbandonare la capitale e fuggire verso lidi più sicuri, mentre Calvi di Bergolo – che è bene non dimenticarlo, era il genero di Vittorio Emanuele di Savoia – trattava la resa con Kesserling in un testo imposto dai tedeschi che di fatto consegnava loro la città29. 3. I protagonisti È questo il punto principale della questione, l’asse sul quale ruotano tutti gli avvenimenti dall’8 all’11 settembre 1943. Accanto agli interessi comuni del gruppo dirigente civile e militare esistevano quelli particolari di ciascun appartenente al gruppo, che ognuno cercava di tutelare nel modo ritenuto più efficace Già prima del 25 luglio erano molti coloro che avevano capito che la guerra ormai era perduta e che l’unico problema era come uscirne. Ambrosio, capo di Stato Maggiore generale, consapevole della disastrosa situazione militare, aveva tentato di indurre Mussolini a essere chiaro con gli alleati tedeschi: o inviavano aiuti consistenti di uomini e di mezzi sul fronte italiano o l’Italia sarebbe stata costretta a chiedere una pace separata. Mussolini non volle – o non poté – seguire la linea di condotta suggerita da Ambrosio, che si rivolse allora al re, ma non riuscì a smuoverlo, almeno apparentemente, da una posizione di distacco dagli avvenimenti30. Ciò che Ambrosio probabilmente ignorava è che, fin dal maggio 1942, Badoglio si era messo in contatto con i servizi segreti inglesi per verificare la possibilità di un armistizio, così come avevano fatto, secondo
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documenti inglesi, Aimone d’Aosta, il generale Enrico Caviglia e la nuora del re, la principessa Maria Josè, moglie di Umberto di Savoia, che aveva scelto come possibile intermediario Salazar, il dittatore portoghese. Perfino Ciano aveva percorso la strada di una trattativa di pace con l’Inghilterra: gli inglesi però si dimostrarono decisi a richiedere, anche contro il parere di Churchill, la resa senza condizioni e i tentativi italiani non ebbero successo. Mentre l’esercito era in piena crisi, mentre le forze alleate avanzavano in Sicilia e aumentavano le defezioni nei reparti schierati in prima linea, gli esponenti del regime e gli alti gradi militari tentavano di negoziare, ciascuno all’insaputa dell’altro, la pace. Si arrivò all’armistizio per il «dinamismo» – a voler intendere la sua azione in senso positivo – del generale Castellano, che di Ambrosio era il diretto collaboratore, ma ciò avvenne tra molti equivoci e reciproci inganni: basti ricordare la firma del cosiddetto «armistizio breve», che ignorava che era stato intanto predisposto dagli alleati un altro testo, il cosiddetto «armistizio lungo», che divenne poi il testo di riferimento fino alla firma del trattato di pace31. Non ci fu la compatta volontà di chi deteneva il potere civile e quello militare di uscire dalla guerra con il minor danno possibile per il paese, riconoscendo gli errori connessi e uscendo conseguentemente di scena. Al contrario, ciascuno agì nel modo che ritenne più opportuno per salvaguardare la propria posizione personale nello scenario che si sarebbe determinato dopo la resa inevitabile, tutti uniti solo nella comune volontà di bloccare qualunque tentativo di sovvertimento politico sostanziale32. Né Vittorio Emanuele di Savoia, né gli esponenti del regime fascista a lui più legati, come Grandi, o più cinici, come Ciano, ritenevano che, dopo l’allontanamento di Mussolini, vi fossero all’interno altri prezzi politici da pagare: i superstiti della classe politica prefascista, da Orlando a Bonomi e a Croce, potevano assicurare il ponte ideale con l’Italia di Giolitti e bloccare ogni tentativo di un rinnovamento politico che non poteva non diventare presto istituzionale e coinvolgere la stessa figura del re. Può sembrare una visione riduttiva di tutto quanto accadde in quei giorni a Roma: lo è forse meno se si riflette alla testimonianza di Peter Tompkins, agente del Counter Intelligence Corps (il controspionaggio dell’esercito americano) che, dopo l’8 set-
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tembre 1943, operò clandestinamente nella capitale. A Roma, secondo Tompkins33, operavano in quel periodo decine di agenti segreti inglesi ed americani, alcuni infiltrati nel SIM che avrebbero dovuto contrastarli. Filippo Naldi34, finanziatore a suo tempo del fascismo nascente, massone come Badoglio, coinvolto a suo tempo nel delitto Matteotti, svolse, secondo l’ex agente segreto statunitense, un importante ruolo per convincere Vittorio Emanuele di Savoia e Badoglio a inviare nella Roma occupata dai tedeschi un nucleo di fedelissimi con l’incarico preciso di evitare che, al momento dell’arrivo delle truppe alleate a Roma, il CLN fosse l’unica struttura rappresentativa dell’antifascismo. Anche dopo l’abbandono della capitale, la preoccupazione principale per il monarca, per Badoglio e per coloro (industriali come Vaselli e Scalera, ex gerarchi fascisti, banchieri) che sostenevano il disegno di restaurazione era di bloccare un possibile rinnovamento della classe politica su posizioni politiche diverse da quelle del vecchio antifascismo. Il pericolo che si intravedeva all’orizzonte era il comunismo, un timore comune alla monarchia italiana, agli inglesi e agli americani, che nel 1944, per non essere da meno degli inglesi, avevano preso contatto attraverso la CIA addirittura con Juno Valerio Borghese, il comandante della X MAS, di fatto il comandante delle forze armate della RSI , per un’azione di sostegno contro i comunisti35. In questo scenario si muoveva, alla vigilia dell’8 settembre, il gruppo dirigente asserragliato intorno al monarca e a Badoglio. Il suo punto di forza fu non già il segreto mantenuto con i tedeschi sulle trattative per l’armistizio, che fu ininfluente in quanto, nella facile previsione di quanto sarebbe accaduto, Hitler aveva nei giorni precedenti l’8 settembre continuato a inviare truppe in Italia; fu importante invece l’appoggio alleato a una cinica strategia che consentisse di conservare l’assetto istituzionale esistente e di sbarrare la strada alle forze politiche appena uscite dalla clandestinità – e a quelle di sinistra in particolare – e, al tempo stesso, di bloccare una possibile controffensiva fascista con l’appoggio dei tedeschi36. Fu questa probabilmente la vera ragione del silenzio conservato nei confronti dei tedeschi a proposito delle trattative per l’armistizio, più ancora che la riserva mentale di una sua (eventuale) sconfessione: la preoccupazione era la riassunzione del potere da parte di Mussolini e dei fascisti restatigli fedeli con l’appoggio dei tedeschi, una vol-
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ta che essi fossero venuti a conoscenza dell’uscita dell’Italia dal conflitto. È quanto poi avvenne, quando però era ormai ininfluente per la riuscita del piano: la fuga a Brindisi aveva consentito di salvaguardare il principio della continuità dello Stato e della monarchia, l’obiettivo appunto che Vittorio Emanuele di Savoia e Badoglio intendevano conseguire. Un alibi fu la presenza nell’esercito di generali filotedeschi comunque favorevoli a continuare la guerra a fianco della Germania, fatto diligentemente annotato in un successivo memorandum del generale Carboni, che in quel periodo era anche comandante del SIM e quindi in possesso di informazioni privilegiate. Badoglio aveva il gioco facile quando adduceva quella presenza a sostegno del segreto da mantenere nei confronti dei tedeschi sulle trattative per l’armistizio, anche se poi quell’atteggiamento era dovuto solo a un calcolo cinico di convenienza politica e istituzionale. Di falsità è del resto costellata la storia di quei giorni: basti pensare all’alibi che l’alto comando militare tentò di costituirsi a proposito dei mancati preparativi per la difesa della capitale con l’invio, il giorno 8 settembre, del generale Rossi ad Algeri, latore di un messaggio in cui affermava che «la parte italiana aveva l’impressione che lo sbarco nella zona Salerno-Napoli avvenisse verso il 12 settembre chiaramente allo scopo di giustificare la colpevole inerzia dei militari nell’apprestamento dei mezzi necessari per la difesa di Roma». Già la notte tra il 7 e l’8 Badoglio aveva chiesto che fosse differito l’annuncio dell’armistizio. Il giorno 8 arrivò secca la risposta di Eisenhower: l’armistizio sarebbe stato annunciato alle ore 18.30 e, se il governo italiano si fosse tirato indietro, gli accordi presi sarebbero stati denunciati al mondo. Secondo il generale Puntoni, aiutante di campo del re, al consiglio della Corona, riunito subito dopo l’arrivo del telegramma di Eisenhower, il re, dopo qualche esitazione, comunicò di aver deciso di accettare l’armistizio, firmato fin dal 3 settembre37. Fu probabilmente quello il momento critico: il re abbandonò la seduta per dieci minuti e quando tornò comunicò la sua decisione. In quel brevissimo tempo cercò ed ebbe la conferma che per lui e per il suo seguito era aperta da parte tedesca la via di fuga, chiaramente già concordata? Se la risposta fosse stata negativa, era possibile denunciare l’armistizio come un’iniziativa personale di Badoglio e dei suoi generali, dichia-
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rare la volontà di proseguire la guerra a fianco della Germania e salvare il regno, questa volta con l’appoggio delle truppe germaniche. Il nodo del problema era stato e restava la garanzia dell’ordine politico e sociale esistente, la sua sopravvivenza alla sconfitta militare e alla fine del compromesso re-fascismo che avrebbe dovuto risolversi in questo modo tutto a favore della monarchia. 4. Le responsabilità Per realizzare questo obiettivo occorreva assolutamente evitare che l’armistizio fosse l’occasione per l’insorgere di un movimento popolare che, in assenza di un controllo tedesco o alleato che fosse, avrebbe potuto avere conseguenze imprevedibili. Su questo punto non vi era difformità di vedute negli alti gradi delle forze armate, tutti compatti nella difesa della monarchia e di ciò che essa rappresentava. È probabile che, in questo quadro, anche le polemiche tra generali a proposito della mancata difesa di Roma, tutte successive allo svolgimento dei fatti, fossero preordinate più a un depistaggio rispetto alle vere cause dei comportamenti tenuti da ciascuno che a una ricostruzione delle responsabilità. Che senso diverso poteva avere la polemica Roatta-Carboni a proposito del titolare dei poteri necessari per la difesa della città, quando si rifletta sul fatto che anche Carboni aveva rapporti così stretti con i servizi segreti americani che gli fu offerta, a guerra finita, addirittura la cittadinanza statunitense e un incarico di responsabilità nei «servizi» di quel paese38? Stando così le cose, non è possibile che la capitale non fosse stata difesa contro i tedeschi senza che gli alleati ne fossero al corrente e avessero dato il loro assenso, nel quadro di un preciso piano di garanzie fornite alla monarchia circa l’assenza di iniziative che potessero in qualche modo essere occasione per un movimento insurrezionale. La difesa di Roma, in questo quadro, era questione interamente secondaria: il destino della capitale faceva parte di una strategia più complessa e a essa non poteva non essere sacrificato. La logica avrebbe voluto che, anche ai fini di un chiarimento delle responsabilità individuali, tutti coloro che erano stati coinvolti nella vicenda, una volta tornata la normalità, venissero processati per alto tradimento: gli unici due a essere sotto-
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posti a giudizio furono i generali Roatta e Carboni39. Nessuno si sognò di incriminare, ad esempio, l’ex re, già all’estero, ritenendolo tutelato dall’art. 4 dello Statuto del regno. Dell’incriminazione di Badoglio, posto dal governo inglese sotto la sua protezione per i servizi resi (e forse per qualche altro legame con Churchill) nemmeno a parlarne. Tutti i generali affermarono nei loro memoriali di aver solo obbedito agli ordini e di aver fatto il possibile per evitare il peggio. Castellano continuò a operare nell’ombra a favore della monarchia, intervenne perfino nelle vicende del separatismo siciliano quando si vagheggiò di una corona del regno di Sicilia a Umberto di Savoia qualora in Italia fosse stata proclamata la Repubblica. Roatta, arrestato per i crimini del SIM40, il 4 marzo 1945, ebbe in dono una fuga, prima in un convento e poi in Spagna dall’ospedale militare dove era stato rinchiuso: la fuga fu organizzata da quel che restava del SIM con la collaborazione dei servizi segreti americani. Malgrado tutto questo, i Savoia e i loro amici persero la partita. Il 12 giugno 1944 fu formato, presieduto da Bonomi, il primo governo espressione del CLN e Badoglio uscì definitivamente dalla scena politica. Il 2 giugno 1946 venne proclamata la Repubblica e l’ultimo re abbandonò il territorio nazionale: la monarchia sabauda era finita. Il sacrificio nel 1943 della capitale, l’occupazione di Roma per nove mesi da parte delle truppe tedesche, tutti i piani elaborati nel segreto del Quirinale e degli allora palazzi del potere alla lunga fallirono miseramente. Non c’era, d’altra parte, da esserne fieri: non fu a caso che della mancata difesa di Roma e dei risultati della Commissione Palermo non si parlò per molti anni. Giocò nel senso della rimozione anche la necessità di ricostruire le forze armate al di là delle polemiche che avrebbero potuto comunque coinvolgere gli alti gradi. Solo il trascorrere degli anni e il consolidamento delle istituzioni democratiche ha reso possibile un sereno dibattito sulle responsabilità – che furono le responsabilità politiche di una intera classe dirigente – di un episodio che nemmeno una qualsiasi (e inesistente) «ragion di Stato» riuscirebbe a eliminare e sul quale restano ancora molte ombre. Negli atti istruttori relativi alla strage di piazza della Loggia, a Brescia, c’è tra l’altro un documento anonimo, sequestrato presso gli archivi della polizia di Stato e datato 4 aprile 1972, in cui si parla di un servizio informazioni
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supersegreto, creato alla fine del 1943 da Roatta, composto da militari, negli anni successivi passato in altre mani, sempre con il fine di impedire una modifica degli equilibri politici italiani, minacciati dall’avanzata delle forze politiche di sinistra. Sessanta anni fa, nel 1943, nulla avvenne a caso.
Note 1. Cfr. E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando , il Mulino, Bologna 1993, che li riassume praticamente tutti. 2. Cfr. in proposito M. Palermo, Memorie di un comunista napoletano , Napoli 1975, p. 283 ss. 3. La relazione, battuta a macchina su fogli di carta velina con caratteri di colore violetto che si sono sbiaditi col tempo, non è mai stata pubblicata ed è conservata presso l’Archivio storico della Camera dei Deputati. Ampi stralci sono pubblicati in I. Palermo, Storia di un armistizio , Mondadori, Milano 1965, in un testo non sempre coincidente con quello ufficiale, che è divenuto consultabile solo dal 1985. Le imprecisioni si spiegano se si tiene conto che l’autore poté accedere al documento (nel 1965 ancora segreto) solo profittando del suo temporaneo deposito presso il tribunale di varese, in conseguenza della querela presentata da un magistrato romano contro Ruggero Zangrandi per le affermazioni contenute nel suo volume 1943: l’8 settembre . 4. M. Palermo, Memorie di un comunista…, cit., pp. 286-287. 5. Cfr. in proposito la testimonianza di Dino Grandi, citata da E. Aga Rossi, Una nazione…, cit., p. 56. 6. Cfr. in proposito il libro, pubblicato postumo, di E. Lussu, La difesa di Roma, Editrice democartica sarda, Cagliari 1967, che pone in rilievo il fatto che la salvezza dello Stato veniva identificata dai circoli monarchici in quella del sovrano e del suo governo. Cfr. anche le acute osservazioni di C. Pinzani, L’8 settembre 1943: elementi ed ipotesi per un giudizio storico , in «Studi Storici» XIII (1972), n. 2, p. 289 ss., che parla del perseguimento dell’obiettivo di assicurare la continuità in nome della «conservazione senza il fascismo». 7. Non sembrava che esistessero limiti quanto ai mezzi per raggiungere lo scopo: fra i «fedelissimi» di Mussolini c’era chi riteneva che l’unico tentativo possibile per conservare l’assetto politico-istituzionale esistente fosse la sostituzione di Mussolini con un fascista antimussoliniano che godesse della fiducia del re: perfino Arturo Bocchini, il potente capo della polizia, operava in questo senso. Cfr. D. Carafoli, G. Padiglione, Il viceduce , Mursia, Milano 1987, p. 5. 8. Sulla figura di Badoglio cfr. G. Rochat, Pietro Badoglio , Utet, Torino 1974, e anche, con affermazioni spesso in contrasto con altri documenti, P. Badoglio, La seconda guerra mondiale , Milano 1946. 9. Solo la comune fede massonica di molti suoi membri aveva indotto
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Mario Pacelli la Commissione di inchiesta sulla disfatta di Caporetto a eliminare dalla relazione al parlamento le 13 pagine riguardanti gli errori commessi al fronte da Badoglio: v. A.A. Mola, Storia della massoneria italiana dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano 1992, p. 435. 10. M. Palermo, Memorie di un comunista…, cit., p. 296 ss. 11. E. Aga Rossi, Una nazione…, p. 89. 12. Il gen. Giacomo Zanussi, che fu diretto collaboratore di Roatta, inviato a Madrid per controllare l’operato di Castellano, legato invece ad Ambrosio nelle trattative per l’armistizio, nel suo libro che ricostruisce gli avvenimenti di quei giorni (Guerra e catastrofe d’Italia, Roma 1945) afferma tra l’altro che Roatta, nei primi giorni del settembre 1943, gli disse che era in preparazione l’evacuazione del re qualora Roma non potesse essere difesa. Dell’esistenza del piano non c’erano riscontri documentali né ulteriori testimonianze in proposito. 13. Per una rassegna delle varie tesi in proposito, cfr. E. Aga Rossi, Una nazione…, p. 16. 14. E. Aga Rossi, Una nazione…, p. 120. 15. S. Corvisieri, Il Re, Togliatti e il gobbo , Odradek, Roma 1998, p. 192, riporta anche affermazioni circa i timori inglesi a proposito di un processo a Badoglio che avrebbe messo in luce il mancato rispetto da parte degli alleati degli impegni presi a proposito dello sbarco di una divisione paracadutista nelle vicinanze di Roma. 16. Sul punto cfr. M. Toscano, Dal 25 luglio all’8 settembre , Firenze 1969, pp. 20-21. 17. Sulla fede massonica di Churchill cfr. A.A Mola, Storia della massoneria italiana…, cit., p. 764. 18. S. Corvisieri, Il Re, Togliatti…, cit., p. 135. 19. S. Corvisieri, Il Re, Togliatti…, cit., p. 192. 20. Roatta e Carboni furono assolti nel 1949 dal Tribunale militare di Roma dalle gravi accuse loro rivolte a proposito della mancata difesa di Roma: la sentenza è riportata in «Rivista penale», (1949), n. 2. Nella lettera inviata al ministro della guerra Casati il 5 marzo 1945, il Presidente della Commissione d’inchiesta Palermo aveva indicato quali responsabili Ambrosio e Badoglio (cfr. la lettera in I. Palermo, Storia di un armistizio…, cit., pp. 574-576). 21. S. Corvisieri, Il Re, Togliatti…, cit. 22. Cfr. in proposito R. Canosa, Storia dell’epurazione in Italia, Baldini e Castoldi, Milano 1999, p. 3. 23. M. Palermo, Memorie di un comunista…, cit, p. 326. 24. M. Roatta, Otto milioni di baionette , Mondadori, Milano 1946. 25. La motivazione solitamente addotta da coloro che furono chiamati a dare conto dei loro comportamenti fu il mancato sbarco della 82a «Airborne» a Roma. Lo sbarco era però subordinato a precise condizioni di collaborazione da parte dell’esercito italiano che furono respinte da Roatta in quanto, a suo avviso, si trattava di iniziative che esulavano dalla mera difesa della città. Ancora più negativo fu l’atteggiamento di Carboni, cui era attribuito il comando delle forze che avrebbero dovuto rea-
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Roma lizzare le condizioni dello sbarco e che sconsigliò agli alleati dall’effettuarlo (S. Corvisieri, Il mago dei generali, Ordadek, Roma 2001, pp. 152153). I risultati della missione clandestina del generale Tylor a Roma, dove si incontrò con Carboni e Badoglio, indussero gli alleati a rinunciare allo sbarco. Su tutta la vicenda cfr. ampiamente E. Musco, La verità sull’8 settembre 1943, Garzanti, Milano 1965, p. 53 ss. 26. L’ordine a Carboni fu dato a voce e trasformato in ordine scritto dal colonnello Francesco Salvi, capo di stato maggiore del CAM, il corpo armato motorizzato (comandato da Carboni) che avrebbe dovuto difendere Roma. Carboni diede alla Commissione Palermo una versione dell’ordine diversa da quella risultante dal testo scritto (cfr. rispettivamente il doc. 69 ed il doc. 5 degli atti della Commissione Palermo). Sulla responsabilità di Carboni insiste Musco, La verità sull’8 settembre…, cit., p. 157. 27. Sui combattimenti alla periferia di Roma tra reparti dell’esercito e le forze armate tedesche cfr. E. Musco, La verità sull’8 settembre… , cit, p. 125 ss. 28. E. Aga Rossi, Una nazione…, p. 114. 29. Sull’imposizione tedesca di aggiungere un articolo che prevedeva l’istituzione a Roma di un comando tedesco, annullando di fatto la condizione di «città aperta» della capitale, cfr. E. Musco, La verità sull’8 settembre…, cit., p. 135. 30. E. Aga Rossi, Una nazione…, cit., p. 45. 31. Entrambi i testi sono riportati in E. Musco, La verità sull’8 settembre…, cit., p. 173 ss. 32. Non a caso del Governo Badoglio facevano parte ex ministri fascisti, come Guido Jung e Carlo Favagrossa, oltre a personaggi di rilievo del regime, come Antonio Sorice e Renato Prunas: a proposito delle perplessità che ciò suscitò negli alleati cfr. R. Palmer Domenico, Processo ai fascisti, Rizzoli, Milano 1996, p. 22. 33. P. Tompkins, L’altra resistenza, il Saggiatore, Milano 1995, p. 173. 34. Sulle sue responsabilità nell’uccisione di Giacomo Matteotti cfr. M. Canali, Il delitto Matteotti, il Mulino, Bologna 1997, p. 128. 35. Sui contatti dei servizi segreti americani con Juno Valerio Borghese quali emergono dai documenti americani cfr. A. Bolzoni, T. Gullo, Decima Mas contro i Rossi. Il piano USA dopo la guerra, in «Repubblica», 9 febbraio 2003. 36. Alla fine del mese di agosto il gen. Carboni, capo del SIM informò Badoglio di un complotto fascista per riprendere il potere con l’appoggio dei tedeschi: vennero pertanto arrestati molti alti gerarchi tra cui Giuseppe Bottai e Achille Starace, oltre al capo di Stato Maggiore, generale Ugo Cavallero (R. Palmer Domenico, Processo ai fascisti…, cit., p. 21). 37. P. Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, Palazzi, Milano 1958, pp. 162-164. 38. S. Corsivieri, Il mago dei generali…, cit., p. 195. 39. Carboni, durante l’istruttoria a suo carico denunciò (24 maggio 1947) al Tribunale militare di Roma Badoglio, Ambrosio, Castellano,
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Mario Pacelli Roatta, l’ex ministro della difesa Sorice e altri ufficiali. Le accuse erano alto tradimento, abbandono del posto di comando, rifiuto di combattere, disubbidienza, viltà, resa colposa e denigrazione dello stesso Carboni. Badoglio e Sorice, in quanto ministri in carica all’epoca dei fatti, non furono nemmeno formalmente incriminati, mentre gli altri chiamati in giudizio furono assolti in sede istruttoria (19 febbraio 1949). Sulla vicenda v. I. Palermo, Storia di un armistizio…, cit., p. 536. 40. Il 12 marzo 1945 l’Alta Corte di Giustizia per la punizione dei crimini fascisti condannò per quei crimini Roatta all’ergastolo; la sentenza fu cassata dalle sezioni unite della Corte di Cassazione il 6 marzo 1948.
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Il «Regno del sud» Franco Bojardi
Il farsi innanzi di un «partito regio» nella situazione italiana viene messo in luce passo per passo, con crescente chiarezza, dal finire del 1942, nelle pagine di un Memoriale rimasto inedito, e che io posseggo in copia dattiloscritta, di Enzo Storoni, assistente legale del duca Pietro d’Acquarone, nel periodo del suo incarico come ministro della Real Casa. Il Memoriale di Storoni (tra i principali esponenti romani del ricostituito partito liberale proprio in quel corso di mesi: tra il 25 luglio, l’8 settembre e il sorgere del «Regno del sud», con Leone Cattani, Nicolò Carandini, Franco Libonati e altri) era stato scritto sotto l’incalzare dei fatti e senza propositi critici, forse con l’intenzione di fissare punti di riflessione o di non dimenticarsi di quanto accadeva. I conti, semmai, si sarebbero fatti in seguito, in base ai risultati cui sarebbe andato, per l’appunto, incontro il «partito regio», del quale non si era avuto in passato e, persino da ultimo, alcuna avvisaglia1. Il Memoriale passa attraverso le vicende che intercorrono tra l’8 settembre 1943 e il 4 giugno 1944, sino alla liberazione della capitale, al trasferimento del governo a Roma dietro la guida di Ivanoe Bonomi e dei più alti esponenti dell’antifascismo. Sarà la tenace resistenza di Vittorio Emanuele III alle richieste di abdicazione, il discredito della monarchia giunto sino al coinvolgimento di Benedetto Croce, a togliere i necessari spazi d’affermazione al «partito regio». Grazie alla fiducia del ministro della Real Casa, Storoni aveva potuto muoversi con disinvoltura in molti ambienti di corte, altrimenti infrequentabili e aprire qualche porta per colloqui e scambi di vedute con personaggi dell’antifascismo. Le cose stavano cambiando, con «lo scoppio del conflitto russo-tedesco e l’entrata in guerra dell’America». Storoni ricordava che «solo pochissimi italiani, animati da fede negli ideali democratici più
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Il «Regno del sud»
che da un’opinione motivata, credevano possibile la vittoria anglosassone» nel giugno del 1940. Nel dicembre del 1942, al contrario, si erano ingrossate quasi all’improvviso le file di coloro che ritenevano la vittoria, «data sempre per certa e imminente, ormai improbabile, anzi impossibile». Lo sfondamento inglese a El Alamein, lo sbarco anglo-americano nell’Africa del Nord, la distruzione della 4a armata tedesca a Stalingrado, dimostrarono anche ai ciechi che l’iniziativa ormai era passata agli alleati, i quali per l’immenso potenziale umano e tecnico di cui disponevano, difficilmente l’avrebbero perduta.
Non c’era dubbio che, in quell’infittirsi di colloqui, Storoni si facesse mallevadore delle prime proposte, proprio a procedere dai cattivi andamenti della guerra, per deporre Mussolini e salvare il salvabile: denunciare l’alleanza con la Germania e iniziare un nuovo corso politico. Questo avrebbe dovuto essere il terreno d’azione del «partito regio» a ridosso del 25 luglio e di lì in avanti. Ma, come agire? Si formulavano tre ipotesi – scriveva Storoni nel suo Memoriale – La prima, la più fatalistica: attendere le truppe anglo-americane e prepararsi nel frattempo alla costituzione immediata di un governo, formato naturalmente da uomini che non avessero mai avuto nulla in comune con il fascismo. La seconda: agire sulle masse e sull’esercito in senso nettamente antifascista, determinando così una rivoluzione di popolo che, con esclusione di tutti i poteri costituiti, ripudiando ogni compromissione con il passato, abbattendo con un solo scrollone tutte le istituzioni vigenti, si impadronisse del potere con uomini nuovi, servendosene per la stipulazione di una pace immediata. La terza: agire evolutivamente, facendo perno sulla monarchia, unico potere in grado di agire legalmente, fornito di indiscutibile ascendente sull’esercito, per ottenere l’abolizione del fascismo e la costituzione di un governo antifascista, che ripudiasse senz’altro la guerra di partito in cui l’Italia era stata trascinata.
Non sfuggivano le difficoltà e i pericoli delle due ultime ipotesi, ma la gravità della situazione era tale, la necessità di agire così impellente, che si dovevano affrontare i rischi, quali essi fossero. «La caduta della Tunisia, nel maggio 1943, rese manifesto anche agli osservatori più negligenti che la crisi italiana si avvicinava al suo acme». La monarchia si trascinava dietro, in ogni caso, responsabilità gravissime. Nessuno, senza eccezioni di sorta, poteva di-
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sconoscerlo. Anche se era stato il Parlamento italiano a concedere la fiducia a Mussolini, sul finire del 1922. «Nessuna violazione costituzionale era stata necessaria per arrivare alla formazione dello Stato totalitario». In ogni caso, l’operato del re non era stato «conforme alle tradizioni di libera democrazia che avevano reso possibile l’unità d’Italia, il suo successivo sviluppo, la sua vittoria nel 1918 – tradizioni alle quali lo stesso re aveva giurato fedeltà». Storoni riaffermava ch’era fuori delle sue intenzioni, degli «scopi del suo modesto scritto, l’assolvere o condannare, far propaganda a favore della monarchia o della repubblica». Si proponeva essenzialmente di «esporre con la massima obiettività possibile la situazione di fatto degli uomini e delle cose nell’anno cruciale 1943». Sulla persona del re che, nel pensiero di molti uomini politici, era l’unica forza capace di rovesciare la situazione, gravavano le enormi responsabilità da lui assunte negli ultimi anni, che avevano culminato nella firma della dichiarazione di guerra alla Francia e all’Inghilterra. Tra gli antifascisti che cercavano di far leva su di lui non vi era nessuno che non vedesse come tutto ciò lo rendeva inadatto a riprendere la bandiera della libertà, a trattare con gli anglo-americani ed eventualmente a far guerra ai tedeschi; ma le supreme necessità del momento, il realismo politico costringeva questi uomini (data l’inattuabilità di aspirazioni più intransigenti) a dominare le proprie ripugnanze e non solo ad accettare ma addirittura a sollecitare la sua collaborazione. […] Sin dal 1922 la monarchia aveva di fatto interrotto ogni rapporto con le vecchie classi che non avevano voluto aderire al fascismo: ultimo infelice episodio fu la visita al re del Collare dell’Annunziata Bonomi dopo il delitto Matteotti, per presentargli un memoriale sull’orrendo misfatto.
Vittorio Emanuele III, ricordava Storoni, invece di prendere in esame autonomamente quel documento di aperta condanna del governo, si era riservato di «trasmetterlo» al capo del governo: un modo per lavarsene le mani, per lasciar intendere, fors’anche, che non intendeva in alcun modo prestarsi a manovre dell’opposizione. Dopo di allora, salvo qualche visita protocollare, si era troncato ogni contatto.
Era arduo ritenere che si spalancassero, sia pure in una situazione molto diversa, altre opportunità. Larghi strati delle correnti politiche antifasciste non avevano esitato frattanto a pronunciarsi in favore di una svolta repubblicana.
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Il «Regno del sud» Altre correnti, invece – secondo Storoni – pur dichiarando apertamente che non intendevano con ciò sanare il passato, ma riservavano al popolo italiano ogni diritto di scelta costituzionale in tempi più sereni, comprendevano che in un regime totalitario, perfettamente organizzato, sostenuto da innumerevoli interessi, con un popolo impreparato e incerto, privato degli elementi più giovani inquadrati nell’esercito, una rivoluzione di massa sarebbe stata non solo inattuabile ma nemmeno ipotizzabile; e ritenevano che la Casa Savoia, con i suoi poteri costituzionali, con il suo indiscusso ascendente sulle forze armate, avrebbe potuto eliminare, con un solo atto, l’oligarchia dominante. [...] Questa opinione, se per molti peccava di compromesso con le istituzioni intrise di fascismo, le quali avrebbero cercato, in un intrigo politico, di ricrearsi la perduta verginità morale, offriva però vantaggi vistosi: un ipotetico spontaneo movimento popolare avrebbe scatenato, in un paese nelle nostre condizioni, un frazionarsi infinito di lotte politiche, di vendette e di rappresaglie, sarebbe degenerato in una vera e propria guerra civile più provinciale che nazionale, funesta per la nazione in tempo di pace, mortale in tempo di guerra. […] L’assenza di partiti efficacemente organizzati, la mancanza di una classe politica riconosciuta e seguita dalle masse, avrebbe determinato certamente il pullulare di nuovi demagoghi senza scrupoli, bramosi soltanto di prolungare negli anni quel disordine politico che consentiva loro di emergere. [...] La soluzione monarchica offriva la possibilità di cancellare il fascismo dalla vita nazionale nel giro di poche ore e senza che l’ordine, elemento essenziale nella vita di una nazione, specie in tempo di guerra, fosse sostanzialmente turbato. […] Il paese aveva ormai compreso che la guerra era perduta e che il regime, ogni giorno più farneticando in una pietosa e inconcludente verbosità, assolutamente incapace di dominare gli eventi che aveva provocato, messo al bando dall’opinione pubblica mondiale, era una sovrastruttura staccata dal resto dell’edificio. [...] Che l’opinione pubblica ormai fosse contraria al fascismo e alla guerra era cosa che nessuno poteva ignorare. Il re, che, con il precedente del 1922, aveva stabilito il principio di autonominarsi unico interprete della volontà popolare, anche questa volta, e con ben maggiore fondamento, avrebbe potuto venire incontro al sentimento del popolo con un cambiamento di governo.
In apparenza, tuttavia, non c’erano cambiamenti alle viste: nulla che lasciasse trapelare «il minimo indizio d’un cambiamento imminente dell’indirizzo politico impresso dal governo fascista», per quanto Storoni (a stretto contatto col duca d’Acquarone) potesse osservare.
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Franco Bojardi Unica eccezione la principessa Maria José, la quale, su uno sfondo più culturale che politico, si interessava alle varie correnti di pensiero, ricevendo in grande segretezza antifascisti che potevano esprimerle con franchezza il loro pensiero sulla situazione politica, le consequenze possibili, gli eventuali rimedi.
Ma era ben chiaro a tutte le persone dell’ambiente che non esistevano strade per arrivare al re, ancor più chiuso che in passato a rapporti confidenziali, all’ascolto di informazioni, a suggerimenti che non gli provenissero dal ministro della Real Casa, spesso a disagio nel dover perforare, in qualche modo, la sua avversione a indispensabili prese di contatto. Il «partito regio» costituiva, fuori d’ogni riconoscimento formale, una realtà consistente, una garanzia riconosciuta, ma aveva tardato, per forza di cose, a prendere coscienza di un proprio ruolo e a rinserrare le file. Per Vittorio Emanuele III non era neppure mai esistito, sino all’incirca al 10 luglio 1943, allo sbarco anglo-americano in Sicilia, alla presa d’atto del precipitare irrefrenabile della guerra verso la sconfitta. Occorreva guardarsi finalmente d’attorno, correre ai ripari, ricercare persino interlocutori sgraditi e prestare ascolto, tramite il duca d’Acquarone, a uomini d’esperienza, tra i meno implicati nell’esperienza del fascismo. Il primo a recarsi dal ministro della Real Casa era stato Alessandro Casati, per chiedere, d’intesa con Bonomi, il 12 luglio, la deposizione di Mussolini dalla guida del governo con tutta la necessaria gradualità, per evitare uno scontro frontale col fascismo. I conti con la guerra si sarebbero strinti più avanti, ma di poco: il tempo per mettere a punto un negoziato onorevole. Due giorni dopo, il 14 luglio, il capo di Stato Maggiore, generale Ambrosio, ordinava al generale Castellano di predisporre un piano per arrestare Mussolini. Casati e Bonomi si recarono da Badoglio per indurlo all’accettazione, ormai senza esitazioni, della presidenza del consiglio dei ministri. Non c’era più tempo d’aspettare. Nessun gradualismo, dunque, dinanzi al precipitare della situazione. Bonomi si proponeva per la vicepresidenza e per l’indicazione dei ministri militari. Il 15 luglio, Badoglio si era quindi incontrato col re, il quale si era subito opposto a imbarcare uomini politici nel governo2. Il re, tolto di mezzo Mussolini, voleva un governo nel quale non figurassero né fascisti, né antifascisti, ma pubblici
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funzionari, magistrati e militari. Nel frattempo, esigeva che fosse il Gran Consiglio del fascismo (che non si riuniva dal dicembre 1939) a votare la destituzione di Mussolini3. Che si dovesse dar luogo per qualche tempo a un governo anche solamente composto di militari si era detto d’accordo lo stesso Vittorio Emanuele Orlando. Non era il caso di creare ostacoli, in una situazione anelastica, alla vigilia, in modo inevitabile, di una sorta di colpo di stato. Il «partito regio», impersonato in quei giorni dagli sforzi di mediazione del duca d’Acquarone, si era prontamente allineato, tentando di scendere in campo al Senato, alla volontà del re. Il 22 luglio 1943, un gruppo di 63 senatori aveva scritto una lettera al presidente del Senato, Giacomo Suardo, per chiedere la convocazione urgente dell’assemblea per discutere della «gravità della situazione». Erano ormai più di tre anni che il Senato non si riuniva in seduta plenaria (dal 17 marzo 1940) e occorreva offrire al re l’appoggio politico necessario all’assunzione di decisioni risolutive. La situazione volgeva al peggio: il Gran Consiglio del fascismo non era stato ancora riconvocato e al re occorrevano gli «strumenti costituzionali» necessari per instaurare nuovamente la pienezza della propria sovranità. «Governo e popolo» dovevano stringersi «unanimi intorno alla sacra maestà del re imperatore nel proposito incrollabile di resistere ad ogni costo». La lettera dei 63 senatori al presidente Suardo anticipava, rispetto all’ordine del giorno Grandi del 24 luglio, la richiesta che il re riassumesse «l’effettivo comando» delle forze armate e tutte le «iniziative di decisione» che le istituzioni e le stesse tradizioni storiche nazionali gli attribuivano. Era, dunque, nel senso della destituzione di Mussolini che intendeva muoversi un’ala importante del Senato: la più espressiva del «partito regio». Solo che Suardo (l’unico astenuto nella riunione del Gran Consiglio del fascismo) non ne farà nulla, non rilasciando neppure ricevuta. I 63 senatori appartenevano, con ogni evidenza, al «partito regio» e non avevano timore di farsi riconoscere come tali, chiedendo in modo scoperto la restituzione di tutti i poteri al re, nello spirito dello Statuto albertino. Naturalmente, a firmare erano stati in grande prevalenza senatori residenti a Roma. Se ci fosse stato il tempo le firme sarebbero state molto più numerose. Figuravano alla base del documento i nomi di esponenti di rilievo dell’esercito: i
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generali Gaetano Zoppi, Ettore Mambretti, Ambrogio Bollati, Francesco Grazioli, Ottorino Mezzetti, Riccardo Calcagno, Giorgio Nobili, Emilio Sailer, Giuseppe Boriani, Umberto Somma, Ottavio Zoppi, Giacomo Appiotti, Mario Nomis Cossilla, Nicola Gualtieri, Ruggero Santini e gli ammiragli Romeo Bernotti, Antonio Foschini, Umberto Bucci, Giulio Valli e Ambrogio Clerici. Altri nomi di rilievo, quelli del conte Guido Pasolini dell’Onda, del principe Francesco Dentice d’Accadia, del conte Giuseppe della Gerardesca, del conte Francesco Giusti del Giardino, del conte Vittorio Cini, del principe Ludovico Spada Potenziani, dell’ingegner Aurelio Drago, dell’ingegner Leopoldo Parodi Delfino, del prof. Carlo Costamagna. Il «partito regio» poteva dirsi, in pratica, costituito nei suoi quadri principali, a tener conto di numerosi assenti del livello di Luigi Burgo (tra i principali animatori dell’iniziativa), di Alessandro Chigi, di Luigi Capri Cruciani, di Giacinto Matta, di Emilio Arlotto (assassinato dai fascisti di Salò a Ferrara il 15 novembre 1943). Nell’«infornata» del 6 febbraio 1943, il braccio di ferro tra il partito fascista e il «partito regio» era balzato in evidenza. Il re voleva imporre un riequilibrio delle rappresentanze e l’immissione nel Senato di personaggi poco graditi a Mussolini, come aveva fatto sin dal 1939 con le nomine di Luigi Barzini, Mario Crespi, Luigi Devoto, Giorgio Enrico Falck, Gian Giacomo Gallarati Scotti, Riccardo Gigante, Rinaldo Piaggio e altri. Si raccoglievano visibilmente i frutti del lavoro attento del duca d’Acquarone, il quale, da ultimo, aveva cercato vanamente, nel corso della notte del 25-26 luglio, di accreditare presso il re la proposta scritta da Storoni: un secondo promemoria elaborato insieme ad Alessandro Casati contro la prospettiva di un «governo d’affari», o di un «governo tecnico», preferito da Vittorio Emanuele III per quanto traspariva dai colloqui a raggio sempre più ampio del duca d’Acquarone. Storoni gli aveva consegnato il 20 luglio la sua «memoria» in quattro punti, osservando che 1) i tedeschi procederebbero ad una rapida occupazione dell’Italia se si pensasse di sostituire Mussolini con un gabinetto d’affari; 2) un siffatto governo non esprimerebbe alcuna opinione e sarebbe visto dalle forze fasciste come un intruso e un nemico, e non troverebbe nelle forze dell’opposizione alcun aiuto; 3) sarebbe incomprensibile un governo d’affari che cercasse di presentarsi come interlocutore politico
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Il «Regno del sud» e democratico degli anglo-americani; 4) il re vedrebbe ricadere su di sé, anzi sulla dinastia, tutte le responsabilità, mentre il governo d’affari sarebbe librato nell’aria.
Bisognava cambiare, agire in fretta: anche i ministri Acerbo e De Marsico si erano appena espressi in quella direzione. E si conoscevano, negli ambienti romani, le posizioni critiche e le idee di Dino Grandi. Si trattava, a suo giudizio, di prendere contatto con le rappresentanze dell’antifascismo e coinvolgere in un corso politico nuovo quelle del fascismo moderato. Ma il duca d’Acquarone, che si era visto con Grandi non appena messo Mussolini in minoranza, gli aveva fatto sapere che il re non gli avrebbe assolutamente trasferito la guida del governo (e neppure a Federzoni o a Ciano). Il re voleva chiudere i conti col fascismo e non far leva sui revenants dell’antifascismo, ma sugli uomini ancor privi di coordinamento politico, ma insediati nei più diversi organismi dello Stato, del «partito regio». Grandi era stato amichevolmente avvertito che gli conveniva prendere il largo al più presto e tenere sull’avviso gli altri «congiurati» (non creare problemi e sfuggire alle possibili vendette). La responsabilità del governo era subito passata a Pietro Badoglio e, il 27 luglio, il «governo tecnico» era cosa fatta, con Raffaele Guariglia agli Esteri, il solo che potesse vantare qualche referenza: l’amicizia di Dino Grandi e del maresciallo Enrico Caviglia, e che non fosse neppure presente: si trovava in Turchia come ambasciatore e non sapeva neppure che ormai gli pendesse un richiamo. Riuscirà ad essere a Roma soltanto il 30 luglio. Si erano persi giorni decisivi (dopo il radio messaggio di felicitazioni a Badoglio del generale Eisenhower, comandante supremo delle forze alleate nel Mediterraneo) per avviarsi verso il riposizionamento nell’ambito delle relazioni internazionali. Poi si capirà che le ragioni espresse da Storoni non erano affatto peregrine, che il re aveva fretta di chiudere, che il suo era un vero e proprio colpo di Stato e che, fin dall’inizio, non aveva avuto alcuna intenzione di trattare con qualcuno, sia pure tra i suoi più stretti collaboratori, facendo carta straccia dei memoriali che gli venivano offerti e dei consigli persino del suo ministro della Real Casa, sempre pronto ad adeguarsi alle opinioni del re, mettendo la sua intelligenza al servizio di una subalternità sin troppo rimarcata. A maggior ragione, non si erano neppure attivati ca-
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nali di comunicazione con gli esponenti, disseminati nei più diversi gangli della vita del paese, del «partito regio». Non c’era stato neppure il tempo (o la volontà?) di avvertire tutti i ministri del «governo tecnico» della fuga a Pescara del 9 settembre e dell’insediamento a Brindisi del governo, mentre ali alleati sbarcavano a Taranto e a Salerno4. L’11 settembre si riuniva a Brindisi, al Castello Svevo, il governo presenti Badoglio, i due ministri De Courten (alla marina) e Sandalll (all’aeronautica), il duca d’Acquarone e, senza farne parte, i generali Ambrosio, Puntoni e Roatta. Affluivano via via verso la Puglia gli uomini del «partito regio»; 15 ministri si erano perduti lungo la strada: una strada resa sempre più impraticabile dal disseminarsi dovunque di presidi tedeschi. Il governo erano andato in pezzi. Verrà rimpolpato soltanto l’11 febbraio 1944, col trasferimento a Salerno. Occorreva, tuttavia, che il re e il capo del governo dessero al paese almeno una spiegazione del proprio operato, dettando, senza perdere altro tempo, un proclama. Poi, si trattava di decidere l’immediata ripresa dei contatti con le forze alleate. Eisenhower aveva tempestivamente avvertito dell’invio di una commissione guidata dal generale britannico Mason Mac Farlane per offrire tutti gli aiuti necessari in una situazione straordinariamente difficile. La monarchia era sembrata capitolare. L’abbandono di Roma l’aveva subissata di critiche. Il re, sempre più schivo, quasi rassegnato all’attesa di cambiamenti significativi del corso della guerra, custode severo di una sovranità messa troppo sovente in discussione (persino ai bordi delle quattro province pugliesi del suo piccolo regno) dalle misure operative dell’Allied Military Government (AMG ), si rinchiudeva nel cerchio di austere consuetudini quotidiane. I rapporti con l’AMG non risulteranno mai intonati a comuni sensibilità e, da parte alleata, al necessario rispetto. Saranno frequenti e resteranno quasi sempre inascoltate le lettere di protesta del re al generale Mac Farlane, soprattutto per requisizione di automobili, autocarri, alloggi, impianti industriali, armi o per occupazione di scali ferroviari, stazioni, uffici postali, ecc. Non esistevano linee precise di demarcazione delle funzioni amministrative e degli stessi ambiti di autonomia e decisione, degli stessi sistemi di controllo della gestione finanziaria, in regime di crescente circolazione di una moneta d’occupazione
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(le am-lire) e di dualismo politico. Il re avvertiva di non essere gradito alle forze alleate. Re d’Italia e d’Albania e imperatore d’Etiopia, Vittorio Emanuele III regnava, adesso, negli esigui territori delle province di Bari, Brindisi, Lecce e Taranto, e sulla Sardegna, lontana e irraggiungibile, abbandonata a se stessa persino dai tedeschi. Del resto, lo stesso generale Mac Farlane, sin dal suo primo incontro del 13 settembre si era convinto ch’era meglio che il re abdicasse. Inoltre, Badoglio non aveva certo il carisma per aiutarlo a trarsi di impaccio: era un uomo fedele e mediocre, incapace di destreggiarsi tra i marosi, più adatto semmai a impersonare una fase di riflessione e di azzeramento dello scontro in attesa di passare ad altri la leva del comando. Ciò che, con ogni probabilità, il re si aspettava da lui, sperando che, in tempi ravvicinati, egli riuscisse a riportare la situazione a dominio, anche se era proprio il re a porsi di traverso ad ogni allargamento del quadro politico. Il 21 ottobre era giunto a Brindisi il conte Sforza. Gli erano stati offerti gli Esteri, dopo l’uscita di scena di Guariglia, ma aveva opposto un netto rifiuto. Non sarebbe entrato in nessun governo che non prendesse inizio dall’abdicazione del re, responsabile dell’avvento al potere del fascismo per non aver decretato lo stato d’assedio nell’ottobre del 1922, prendendo spunto dalle proposte degli aventiniani. E, con Sforza, anche De Nicola, Porzio e Rodinò non avevano accettato proposte di coinvolgimento. Benedetto Croce, giunto a sua volta a Brindisi, riteneva che il re dovesse far posto al figlio Umberto senza perdere alcun tempo, al fine stesso di salvare la monarchia. E dello stesso avviso si erano detti Adolfo Omodeo e Vincenzo Arangio Ruiz. Dopo aver messo all’opera il suo ministro della Real Casa, il 3 novembre, il re, di malanimo ma per non lasciare nulla d’intentato, si era risolto a prendere la strada per Napoli, per incontrare a Rosebery, De Nicola, Porzio e Rodinò. Non gli era riuscito di convincerli. Occorreva a tutti i costi un governo, e il governo continuava a non esserci. Via il re, Sforza avrebbe accettato di succedere a Badoglio e molti l’avrebbero assecondato. Ma il re non aveva alcuna intenzione di andarsene. Del resto, non c’erano incontri politici cui il principe ereditario venisse invitato a partecipare. Gli aveva persino impedito di farsi paracadutare nelle Langhe e di mettersi alla testa della resistenza:
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un modo per meritarsi la riconoscenza delle forze dell’antifascismo, sempre più schierato nel combattere l’esperienza fascista di Salò. Si trattava di una situazione senza vie d’uscita. Abdicare in favore del figlio significava, agli occhi del re, farsi da parte nel momento in cui più gravi e irrinunciabili erano le sue responsabilità, più impervi i percorsi per riconquistare la pace e dar corso alla ricostruzione. Era stato lui, tra errori del passato, drammatici ritardi, sofferenze inaudite, pagate soprattutto dalla gente più umile, a trovare una via d’uscita, tagliare le gambe al fascismo e riaprire la strada verso una chiusura il più possibilmente onorevole dei conti, transitando dalla parte delle forze alleate. Gli sembrava, probabilmente, di poter fungere da garante, anche in sede internazionale, di questo riscatto italiano e non accettava richiami a togliersi di mezzo. Il 9 gennaio 1944, il re aveva riferito a Badoglio di non aver alcuna intenzione di abdicare. Il 23 gennaio, all’indomani dello sbarco alleato ad Anzio, faceva consegnare al generale Mac Farlane un promemoria nel quale fissava la durata del governo Badoglio fino alla liberazione di Roma, impegnandosi, a quattro mesi da quella data, a convocare i comizi per l’elezione di una nuova Camera, predisponendo le necessarie misure istituzionali. Si sarebbe quindi adeguato, relativamente al proprio destino, alle decisioni di un Parlamento finalmente sovrano. Era quanto egli si proponeva di fare. Fino ad allora, egli confidava in quella tregua istituzionale che rappresentava ormai per tutti lo sbocco politico vero di quel congresso dei Comitati di liberazione nazionale delle province meridionali, previsto a Bari per il 28 gennaio. In effetti, la tregua istituzionale ci sarebbe stata; non era in ballo ancora l’alternativa monarchico-repubblicana. Restava tuttavia ferma la richiesta dell’abdicazione. Nel governo erano entrate nuove figure sin dal 16 novembre 1943: Guido Jung alle Finanze, Raffaele De Caro ai Lavori pubblici, Epicarmo Corbino all’Industria, commercio e lavoro, Tommaso Siciliani all’Agricoltura e foreste, Taddeo Orlando alla Guerra, Pietro Barone alla Marina, anche se si dovrà attendere il rimpasto, dell’11 febbraio. Erano i sottosegretari del primo governo Badoglio a diventare ministri, dopo ch’erano riusciti ad accorrere a Brindisi. La «normalizzazione» si era risolta in un appiattimento. Il governo non presentava
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più né vuoti né carenze (si dotava persino di qualche esponente politico del «partito regio» e, con Jung, di un fascista dell’ala moderata, ministro già tra il 1932 e il 1935, che se n’era dovuto andare per le sue origini ebraiche), ma rimaneva anacronistico, frutto di una soluzione di ripiego. La sua prima riunione si era svolta il 24 novembre 1943. Nessuno dei suoi membri vecchi e nuovi contava qualche referenza presso gli alleati. Il solo Vito Reale era un uomo legato a Nitti. Il «governo dei sottosegretari» avrebbe consentito quella decantazione politica necessaria per giungere, nell’aprile del 1944, al secondo governo Badoglio e, finalmente, alla partecipazione del partitismo democratico. Ma, in parallelo, il governo aveva potuto traslocare a Salerno: un osservatorio sicuramente meno periferico rispetto ai luoghi in cui realmente si giocavano le partite politiche più risolutive. Anche se Bari era riuscita in poco tempo, in modo quasi sorprendente, a diventare, senza troppe pretese, una capitale. Il primo ad arrivare nei territori del «Regno del sud» era stato Benedetto Croce, legato all’editrice Laterza sin dagli inizi del secolo. Nel frattempo, le migliori garanzie di buon governo erano state offerte dal prefetto di Taranto, Silvio Innocenti, chiamato, con indubbia lungimiranza, alla direzione generale degli affari di governo, in una situazione di grande delicatezza, in cui era facile sbagliare. Lo stesso impianto delle spese dipendeva, in buona misura, dai prestiti della Banca d’Italia, concessi in conto dotazioni della corona. Mancavano i consueti riferimenti, occorrevano coperture che altrimenti non c’erano. Del resto, la Banca d’Italia resterà, in quei mesi, l’unico organismo nazionale unitario a doversi caricare degli impegni finanziari sia del Regno del sud che della Repubblica di Salò (impegnata alla copertura dei costi delle truppe germaniche d’invasione). Sono tanti, ancora, i capitoli da studiare negli anni della spaccatura in due dell’Italia. Frattanto, nelle quattro città del Regno del sud si era riaccesa una vita culturale altrove quasi totalmente assopita. Avevano preso a uscire riviste. del livello di «La Rassegna», fondata giugno nel 1943 da Antonio Amendola, Pasquale del Prete, Aldo Moro e Armando Regina, e altre, minori, come «L’Ordine» (a Lecce) di Antonio Fiocca e «Il Risveglio» di Natale Lojacono. Comparivano sulla scena nuovi esponenti della politica e della cultura,
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come Egidio e Oronzo Reale, come Aldo Moro e Giulio Sansonetti, come Vincenzo Calace e Tommaso Fiore, come Giuseppe Perrone Capano e Ruggero Grieco, come Vito Stampacchia e Michele Cifarelli. Tracce importanti le aveva lasciate anche Falcone Lucifero, prefetto di Bari nella primavera del 1944. La città era diventata un centro di confronto delle idee, di discussione sulle scelte istituzionali, di proposte sulla costruzione di un nuovo ordine democratico. Nel Regno del sud, il re, cui molti guardavano con fiducia, si era chiuso nel silenzio mentre si moltiplicavano le voci, fervevano le ricerche e la politica riprendeva una necessaria centralità. Singolarmente, in tutta la fascia meridionale italiana, a cominciare dalla Sicilia, si era determinata, dopo l’8 settembre, contro molte attese, una notevole fioritura di raggruppamenti monarchici, quali il Partito d’unione nazionale, il Movimento per l’unità d’Italia, il Movimento democratico monarchico, il Partito di collaborazione siciliana, il Movimento monarchico italiano. A Napoli, il crescere delle associazioni e dei circoli sarebbe stata più spiccata che altrove: l’Associazione monarchica centro-meridionale, il Movimento monarchico del Mezzogiorno, il gruppo «Savoia», il Blocco monarchico italiano, la Concentrazione autonoma meridionale, alcune delle quali dotate di organi di stampa e, in ogni caso, presenti sulla scena cittadina. La democrazia aveva preso via via slancio nei territori liberati, mentre nel centro-nord si sarebbe fatta largo col crescere della resistenza: con la guerra partigiana contro i fascisti di Salò e le truppe d’invasione germaniche, lungo un processo diseguale, altri radicamenti e altri obiettivi, segnati dal ritrovarsi, quasi dall’inizio, al di qua o al di là del linea del fronte. Il «partito regio» avrebbe potuto consolidarsi e candidarsi a nuovi avanzamenti, se la sua ala antifascista non fosse stata sterminata alle Fosse Ardeatine. Note 1. E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze , il Mulino; Bologna 20032 2. P. Pieri, G. Rochat, Badoglio , Einaudi, Torino 1974. 3. D. De Napoli, S. Bolognini, A. Ratti, La resistenza monarchica in Italia (1943-1945), Guida, Napoli 1985. 4. R. Zangrandi, 1943: 25 luglio-8 settembre , Feltrinelli, Milano 1964.
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1. La questione e le fonti La tragedia di Cefalonia non è riassumibile nell’ignobile massacro, in spregio ad ogni regola morale e convenzione internazionale, di ufficiali e soldati che avevano lealmente combattuto e si erano alla fine arresi. È una vicenda molto complessa per i significati emblematici che essa racchiude e che riguardano i limiti e le ambiguità dei vertici politici e militari nella fuoriuscita dal fascismo, il vuoto di ordini e comunicazioni fra Comando Supremo e comandi delle forze armate, la mancanza di coordinamento fra comandi dei corpi di armata e comandi delle unità operative, l’interpretazione del proclama di Badoglio e delle immediate intimazioni di resa da parte dei tedeschi che ogni comandante dovette dare in completa solitudine, le opinioni e le idee diffuse fra soldati ufficiali di complemento ufficiali in SPE e generali, le ambiguità delle classi dirigenti dell’Italia repubblicana e il mancato riconoscimento dei valori espressi dal sacrificio della Divisione Acqui come valori fondanti della Repubblica, il processo ai sopravvissuti e il successivo oblio fino alle recenti iniziative del Presidente Ciampi. La complessità della vicenda di Cefalonia rende perciò molto delicato ogni approfondimento su di essa e richiede una grande cautela nella ricerca e nell’approccio alle fonti, per evitare che l’enfatizzazione di singoli aspetti dia adito a interpretazioni parziali o pregiudiziali. Sede privilegiata di questa ricerca è stato l’Archivio storico presso l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Qui ho trovato le relazioni dei sopravvissuti, altra documentazione successiva, relazioni e studi di ufficiali superiori dell’Ufficio Storico: nel loro insieme esse costituiscono una base preziosa e indispensabile e un primo passo obbligato. Il passo successivo è stato quello di verificare se coloro che apparivano come i
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maggiori protagonisti delle vicende di Cefalonia, gli allora capitani Renzo Apollonio e Amos Pampaloni, fossero ancora raggiungibili. La famiglia Apollonio ha messo generosamente a mia disposizione la documentazione e le carte che il defunto generale Apollonio aveva raccolto. Con il dottor Amos Pampaloni ho avuto alcuni colloqui telefonici e ho intrattenuto corrispondenza per approfondire direttamente quegli aspetti che mi sembravano più interessanti o che rimanevano vaghi. La quantità di materiale raccolto è stata notevole. Metodologicamente si poneva la questione di trattare in modo omogeneo fonti diverse tra di loro e, a questo fine, ho scelto un approccio di storia sociale più che di storia politica o militare, perché mi è sembrato il più adeguato. Infatti, risalire dai comportamenti ai valori socialmente diffusi consente, nel caso di Cefalonia, di affrontare il nodo centrale di quelle vicende e cioè il significato dell’agire d’iniziativa ed il suo nesso con la difesa della patria, della bandiera, dell’onore e della dignità, dichiarata in tutte le testimonianze come obiettivo dell’agire d’iniziativa. Una valutazione del genere è difficile rimanendo all’interno della logica dell’istituzione militare che tende a restringere al massimo l’agire d’iniziativa, mentre è realizzabile andando al di là di essa e guardando proprio ai valori espressi nei comportamenti che ufficiali e soldati scelsero e non subirono come ordine imposto. Solo così si può cogliere il significato profondo di quanto accaduto a Cefalonia. In questa prospettiva la vicenda di Cefalonia non è solo una vicenda militare, è un de nobis fabula narratur, perché, tenendo questo comportamento, la Divisione Acqui scrisse una pagina fondamentale in un momento cruciale della storia italiana, mostrando che espressioni come «patria, bandiera, onore, dignità» costituivano solidi valori, e non mere esercitazioni retoriche, proprio perché vissute nei fatti e fino al sacrificio della propria vita. Perciò il comportamento della Acqui riguarda anche noi: perché non era in gioco solo l’onore della Divisione e la dignità dei suoi uomini in quel momento; in quel momento erano in gioco l’onore e la dignità dell’Italia, e cioè la sua credibilità nel riaccostarsi agli stati democratici e la sua lealtà come avversario, non come traditore , verso la Germania hitleriana. Il criterio della storia sociale, proprio perché consente di an-
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dare al di là della logica dell’istituzione militare, permette di cogliere nei comportamenti dei soldati di leva, dei richiamati, degli ufficiali di complemento quei fermenti, impulsi e stimoli che circolavano nella società civile. Ove in momenti cruciali essi si fossero saldati con comportamenti e valori degli ufficiali in SPE e dei generali, ne sarebbe derivato un cambiamento interno all’istituzione militare che avrebbe così conseguito saldezza e compattezza particolari nell’affrontare situazioni difficili. Nella vicenda della Acqui a Cefalonia si può leggere questa saldatura e si può coglierne il significato storico ed etico, che diventò il valore sociale diffuso fra tutti i suoi uomini nel voler dare nuovo nerbo alla patria e alla bandiera accogliendo nell’onore e nella dignità militare l’esecuzione delle pur scarne e carenti indicazioni dei vertici politici e militari: ciò significò la difesa del cambiamento politico che si era avuto tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943. Ecco perché la vicenda della Acqui ci riguarda ancora oggi ed è perciò un de nobis fabula narratur. 2. Dopo l’8 settembre: l’attesa, la battaglia, la strage Il radiomessaggio con cui Badoglio informava dell’avvenuto armistizio con gli anglo-americani fu una sorpresa per tutti. Le trattative erano state condotte con il massimo di segretezza per evitare reazioni tedesche. Ma intanto, dopo il 25 luglio, i tedeschi, ipotizzando il passo successivo dell’armistizio, avevano provveduto a rafforzare il loro dispositivo militare in Italia. Il Comando Supremo italiano non prese invece alcuna iniziativa e nemmeno inviò alcun preavviso ai comandi delle forze armate italiane sui diversi fronti di guerra. La sorpresa quindi fu totale e alla sorpresa si unì il problema di come comportarsi verso i tedeschi. La direttiva che i comandi tedeschi avevano già ricevuto era invece molto chiara; se ci fosse stato un armistizio, dovevano invitare i reparti italiani a schierarsi con loro e in caso di risposta negativa dovevano disarmarli anche con la forza1. Questo scenario si ripeté a Cefalonia, ma qui vi erano significative differenze tra truppe italiane e truppe tedesche. A Cefalonia era stanziata la Divisione Acqui con circa 11.000 uomini e vi era anche un distaccamento tedesco di circa 2000 uomini. Il rapporto di forza era dunque a netto favore delle truppe italiane.
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La sera dell’8 settembre, appresa la notizia, il clima fra le truppe era di euforia; l’armistizio significava per tutti la fine della guerra ed il prossimo ritorno a casa. In serata giunse al comando di Divisione un radiogramma dal comando della 11a armata in Atene con il quale si precisavano operativamente i termini del comunicato di Badoglio sull’armistizio. Se tedeschi non faranno atti di violenza truppe italiane non rivolgeranno armi contro di loro. Truppe italiane non faranno causa comune con ribelli né con truppe anglo-americane che sbarcassero. Reagiranno con la forza ad ogni violenza armata. Ognuno rimanga al suo posto con compiti attuali. Sia mantenuta con ogni mezzo disciplina esemplare. Comando tedesco informato quanto precede. Siano immediatamente impartiti ordini cui sopra a reparti dipendenti2.
Il mattino del 9 settembre, il generale Gandin, comandante della Divisione Acqui, incontrò il comandante delle truppe tedesche di stanza a Cefalonia, tenente colonnello Barge. L’incontro fu tranquillo e il colonnello Barge si disse d’accordo sull’esigenza di evitare dissidi tra militari italiani e tedeschi. La sera del 9 giunse un secondo radiogramma dal comando 11a armata in Atene con il quale si informava di un accordo con il comando tedesco per cedere a quest’ultimo le artiglierie e le armi pesanti della fanteria; dopo di che i tedeschi avrebbero provveduto a rimpatriare le truppe italiane3. «Il messaggio destò nel comando di divisione un doloroso stupore»4, scrisse nella sua relazione il capitano Bronzini, addetto al comando della Divisione e quindi fonte preziosa per conoscere le opinioni e lo stato d’animo del generale comandante5. Il generale Gandin era uscito nel 1910 dall’Accademia di Modena come sottotenente di fanteria, aveva partecipato alla prima guerra mondiale guadagnandosi una medaglia d’argento «per le capacità direttive ed il coraggio dimostrati fra le truppe»6 e aveva poi proseguito la sua carriera come ufficiale di Stato Maggiore fino ad essere nominato capo del Reparto Operazioni presso il Comando Supremo e all’assunzione del comando della Acqui dal giugno 1943. Si trattava dunque di un ufficiale di provata esperienza sul campo di battaglia e nelle incombenze di Stato Maggiore, fedele al giuramento al re ed alla bandiera e coerente difensore del principio dell’onore e della dignità militare.
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Proprio il vivo senso dell’onore e della dignità militare lo lasciavano perplesso sui contenuti del radiogramma giunto dal comando della 11a armata in Atene. Se l’Italia era uscita dal conflitto, perché cedere le armi? Per un soldato cedere le armi equivale alla resa, a dichiararsi prigioniero, ma non essendo più l’Italia in guerra non si poteva chiedere ai suoi soldati di lasciarsi disarmare. Ciò era contrario all’onore e alla dignità militare. Incominciava a manifestarsi la prospettiva che, se i tedeschi avessero insistito per la consegna delle armi e l’avessero pretesa con la forza, si sarebbero realizzate le condizioni di quell’inciso finale del comunicato di Badoglio, e cioè che le forze armate italiane avrebbero però reagito contro attacchi di qualunque provenienza. Ciò avrebbe significato uno scontro con i reparti tedeschi presenti a Cefalonia. Il generale Gandin si rendeva conto che la situazione della Acqui a Cefalonia era più complessa di quel che il rapporto di forze fra italiani e tedeschi sull’isola lasciasse supporre. Infatti, era senz’altro possibile aver ragione del presidio tedesco di Cefalonia, ma sul continente c’era un’armata tedesca e una consistente forza aerea imperniata sui temibili caccia Stukas. La Acqui, priva di copertura aerea, non avrebbe potuto resistere ad un contrattacco combinato aereo e terrestre. Non restava altro da fare che cercare di stabilire un collegamento con il Comando Supremo italiano per avere ordini precisi e intanto, di fronte ad inevitabili richieste tedesche di attuare l’accordo intercorso ad Atene fra comando dell’11a armata e comando tedesco, cercare di prendere tempo con trattative minuziose e particolareggiate. Lo sfavorevole rapporto di forze non avrebbe certo indotto i tedeschi ad imporre ritmi serrati alle trattative. E quanto poi all’accordo di Atene, faceva bene Gandin a essere sorpreso perché a esso i tedeschi non dettero alcun seguito e internarono nei campi di concentramento fra Germania e Polonia coloro che cedettero le armi. E infatti la mattina del 10 settembre il tenente colonnello Barge si presentò al generale Gandin per trattare l’attuazione dell’accordo di Atene. Iniziò così, e si protrasse per cinque giorni, un delicato esercizio di abilità diplomatica da parte del generale Gandin per dilazionare l’attuazione dell’accordo di Atene e cercare di ristabilire i contatti con il Comando Supremo in Italia.
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Il comandante della Acqui convocò subito dopo i comandanti dei reparti della Divisione, fanteria, artiglieria, genio ed il comandante della marina a Cefalonia. La discussione si concluse con opinioni discordi: a favore della cessione delle armi i comandanti della fanteria e del genio, contrari i comandanti dell’artiglieria e della marina. Prima che la riunione terminasse, il generale Gandin autorizzò i comandanti di reparto a comunicare ciascuno ai propri reparti il contenuto del secondo radiogramma del comando dell’11a armata7. Fu dunque lo stesso generale comandante a volere che le informazioni giunte al comando fossero diffuse fra i reparti. Se a uno scontro finale bisognava giungere, era bene che tutti gli uomini della Divisione fossero informati delle alternative possibili e interrogassero la propria coscienza, la propria dignità, il proprio senso dell’onore sulle scelte da compiere. Lo scorrere dei giorni fra l’8 e il 10 settembre non era stato però senza conseguenze per i soldati. L’euforia per lo sperato ritorno a casa aveva cominciato a lasciare il passo ad altri sentimenti. «Le radio tedesche continuavano a riversare insulti contro gli italiani», scrive il capitano Bronzini nella sua relazione e ciò era il segno più preciso della rottura che con l’armistizio si era creata fra Italia e Germania8. La Germania, cioè, non riconosceva la legittimità della scelta autonoma di uscire da una guerra non più sostenibile e vedeva nell’armistizio la conseguenza politica e logica della destituzione di Mussolini. L’ostilità tedesca verso gli italiani lasciava intendere che ben difficilmente i tedeschi avrebbero pacificamente acconsentito alla loro uscita dalla guerra. In questo contesto, la comunicazione ai reparti del secondo radiogramma dal comando dell’11a armata in Atene confermava che la situazione diventava più delicata e difficile di quel che potesse apparire la sera dell’8 settembre. Cedere le armi ai tedeschi parve inconcepibile ad alcuni giovani ufficiali che incominciarono a parlare fra di loro dei nuovi termini della situazione. Essi erano prevalentemente veneti, trentini, giuliani e lombardi; erano persone di alto livello culturale con studi universitari già compiuti; erano al comando di reparti operativi e quindi a diretto contatto con i soldati. In loro era dominante un sentimento antitedesco che aveva precise radici storiche nei veneti, nei trentini e nei giuliani e anche nei
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lombardi (si veda, ad esempio la relazione del sergente universitario milanese Zanoncelli)9, che si esprimeva con semplicità di linguaggio e sincerità di convinzioni recuperando i toni propri dell’invettiva risorgimentale, infine che aveva agli occhi dei soldati il pregio fondamentale della coerenza di comportamenti nel condividere i disagi e le difficoltà della guerra. Coloro che assunsero un ruolo di punta fra questi giovani ufficiali furono il capitano Renzo Apollonio e il capitano Amos Pampaloni. Triestino, proveniente da una famiglia che dalle due generazioni a lui precedenti affrontava impavidamente il carcere austriaco per propagandare e difendere l’italianità della Venezia Giulia e dell’Istria, il capitano Apollonio, prima della guerra, aveva compiuto brillanti studi di lettere classiche all’Università di Padova10. La sua tesi di laurea in archeologia sulla villa rustica nell’Istria romana aveva ottenuto l’onore della pubblicazione. Aveva quindi frequentato la scuola di specializzazione in archeologia a Berlino e nell’aprile 1939, quando doveva rientrare a Berlino per il secondo semestre di specializzazione, e avendo in animo di proseguire successivamente i suoi studi di perfezionamento post-laurea a Oxford, fu fermato dal divieto di espatrio per ufficiali in congedo. Un giovane studioso dal solido spessore scientifico, quindi, che dai suoi studi classici ricavava motivi culturali importanti per sostenere che non si dovessero cedere le armi. Nell’anno di permanenza a Berlino, il giovane dottor Renzo Apollonio aveva conosciuto di prima mano il Terzo Reich e questo contatto diretto aveva certamente lasciato il segno. Altrettanto indicativo è il suo desiderio di recarsi l’anno dopo in Inghilterra. Chi ha compiuto studi all’estero sa benissimo che non è solo l’esperienza scientifica che si compie in un altro paese ad essere importante; importante è anche il frequentare una società, una cultura, una civiltà; fondamentale è il vedere come tutto ciò si intreccia nel vissuto quotidiano, nelle relazioni sociali, nelle istituzioni. Continuare il suo percorso di studio in Inghilterra, dopo la laurea in Italia e il primo anno di specializzazione in Germania, era indubbiamente indicativo della volontà dell’Apollonio di conoscere dall’interno la civiltà e la cultura inglese dopo quella tedesca e di verificare dal vivo la consistenza degli epiteti che la propaganda fascista e nazista quotidianamente riversavano su quel paese.
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Italianità non retorica e non nazionalisticamente intesa e amore per la cultura e la civiltà classica erano i due grandi punti di riferimento del giovane dottor Apollonio quando, invece di partire per il secondo semestre di specializzazione, si presentò alla Divisione Acqui. E questi punti di riferimento emergono in continuazione dalla sua relazione sui fatti di Cefalonia11. Già a pagina 3 egli scriveva: L’indistruttibile odio contro i tedeschi stava già divampando tra la truppa. Nel più profondo del semplice Io di ogni soldato si risvegliava decisamente lo spirito antitedesco represso dall’infausta politica del fascismo; era nuovamente la Latinità che secondo le inflessibili leggi della Storia si ribellava ancora al germanesimo.
E il contatto continuo dell’artigliere con il suo pezzo, espressione dell’evoluzione tecnologica dell’armamento militare e perciò trattato con cura e vissuto con l’orgoglio delle conoscenze tecniche più sofisticate che richiedeva rispetto a quelle del fante, era espresso con un’enfatizzazione del motto «con i pezzi o sui pezzi» che non può non ricordare il saluto che nell’antica Grecia dava la madre al figlio consegnandogli lo scudo prima della battaglia, «con questo o su questo». Si trattava del fondamentale principio dell’onore militare e civile del cittadino-soldato della polis greca. A questo insegnamento classico si ispirò indubbiamente l’Apollonio nel decidere il suo orientamento dopo l’8 settembre. Nella sua relazione, preparata in terza persona secondo l’esempio classico degli scritti di Giulio Cesare, egli afferma: Nell’armistizio il capitano Apollonio, dopo un primo momento d’incertezza, rifacendosi alle sorgenti più intime e profonde della sua italianità, intuì e volle non una tregua d’armi bensì l’inizio della lotta contro l’ibrido alleato. Solo in tal modo si poteva riportare la Patria a quelle naturali aspirazioni di libertà che un’assurda alleanza aveva fin’allora represse.
Ma ancor più che per le sue idee politiche il capitano Apollonio era fermamente, decisamente pronto a combattere per l’onore delle armi. Nei suoi colloqui con ufficiali, nei suoi brevissimi discorsi alla truppa ribadiva ripetutamente il principio dell’onor militare. Ad alcuni fanti che si erano rivolti a lui disse: «Ritornate alle vostre compagnie dopo aver fatto vostro il
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motto dei miei artiglieri “con i pezzi o sui pezzi”». E questo concetto ribadì qualche giorno dopo in un colloquio con il generale Gandin quando affermò: «Alla fine, signor generale, tutto quello che vi chiediamo è di poter morire sui nostri pezzi»12. Quindi italianità e cultura classica erano le premesse attraverso cui si dipanava un filo di continuità che collegava latinità, patria, libertà e onore militare. Tutto ciò dà la cifra del personaggio Apollonio: fine classicista e letterato, ufficiale con una profonda comprensione del significato non solo militare ma anche civile dell’onore militare, in quanto sulla capacità di vivere con coerenza il principio dell’onore militare si basava il principio civile e militare della libertà della patria. Il capitano Amos Pampaloni aveva conseguito una laurea in economia e commercio all’Università di Firenze. In quell’ateneo aveva ogni tanto ascoltato qualche lezione del grande giurista Piero Calamandrei che, attraverso le sue lezioni di diritto processuale civile, illustrava le fondamenta etiche del diritto. Subito dopo la guerra, Piero Calamandrei sarebbe stato uno degli esponenti di maggior spicco del Partito d’Azione e uno dei protagonisti più illustri dei dibattiti all’Assemblea Costituente sulla redazione della Costituzione della Repubblica Italiana. Il padre di Pampaloni era stato un ispettore delle Ferrovie dello Stato, licenziato in periodo fascista perché socialista. E quindi, tra famiglia e università, il giovane Pampaloni aveva recepito una serie di indicazioni culturali e di tradizione politica che erano del tutto estranee al fascismo e alla sua retorica nazionalista e bellicista. Pure, non era mai arrivato al punto di aderire a un’organizzazione antifascista. E quindi estraneo al fascismo, ma non antifascista. Essendo uno dei pochi sopravvissuti di Cefalonia ancora in vita, ho voluto chiarire con lui, in un paio di colloqui telefonici, un punto che mi pare molto importante per capire se i contatti fra gli ufficiali dopo l’8 settembre avessero già avuto una qualche premessa dopo il 25 luglio. E cioè, dopo quella data, in conversazioni anche casuali ed episodiche fra di loro, qualcuno formulò l’ipotesi che dopo il 25 luglio era da attendersi a scadenza più o meno breve un armistizio, un cambio di alleanza, e quindi che a questa prospettiva bisognava in qualche modo prepararsi? Pampaloni mi ha risposto che fra di loro nessuno prima dell’8 settembre pensò a qualcosa del genere e che quindi tutto ciò che accad-
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de a Cefalonia dopo l’8 settembre non fu il frutto di alcuna premeditazione, ma della risposta che tutti dovettero dare, e molto di fretta, alla domanda: «Cosa fare se i tedeschi avessero attaccato» e poi alla notizia ricevuta dal comando della Divisione sul secondo radiogramma arrivato dal comando dell’11a armata in Atene. In quei frangenti tutti dovettero interrogare la propria coscienza e trovare nei valori che esperienze e formazione culturale avevano fatto germogliare in essa le fonti e i criteri per elaborare una risposta. Fu quindi in questo contesto e in virtù di questi punti di riferimento etici e culturali che alcuni ufficiali cominciarono a prendere contatto fra di loro e a parlare con la truppa. Ora dopo ora, questa rete di contatti si estese ed emerse progressivamente un divario di orientamenti fra ufficiali di artiglieria, orientati a non cedere le armi e a combattere, e ufficiali di fanteria, più incerti sul da farsi. Intanto il generale Gandin proseguiva nel suo cauto lavoro diplomatico, tendente a guadagnare tempo e riuscire ad avere così la possibilità di ristabilire i collegamenti con il Comando Supremo e verificare se poteva maturare con i tedeschi una soluzione onorevole per la Divisione. Del resto – scrive il capitano Bronzini nella sua relazione – questa sua linea di condotta era semplicemente doverosa. Egli capiva cosa significasse cedere le armi. Era il nostro onore di soldati che se ne andava; era il nostro giuramento al Re ed alla Patria che veniva calpestato. E questo dalla parte morale: dal lato pratico, poi, il cedere le armi, comunque si svolgano le cose, non può mai avere effetti buoni13.
La giornata dell’11 settembre fu molto importante. In serata giunsero dall’isola di Santa Maura alcuni soldati portando la triste notizia che il presidio di quell’isola aveva ceduto le armi ai tedeschi ed era stato avviato verso i campi di concentramento nelle zone malariche di Missolungi. Ciò significava che dei tedeschi non c’era da fidarsi e che era preferibile combattere piuttosto che cedere le armi14. In mattinata il colonnello Barge aveva comunicato al generale Gandin che il comando tedesco era disponibile ad accogliere in via di principio le sue richieste sulle garanzie per l’attuazione dell’accordo di Atene. Postillava però che il comando tedesco chiedeva al generale una pronuncia esplicita su
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una di queste tre opzioni: a favore dei tedeschi, contro i tedeschi, cessione delle armi. Entro la sera doveva essere data una risposta. Il generale chiamò a rapporto tutti i comandanti di corpo e di servizi della Divisione ed espose loro l’ultimatum ricevuto. Questa volta il suo commento fu preciso. «…Il primo punto è in contrasto con il giuramento al Re e costituisce una violazione dell’armistizio. Il terzo è disonorevole. Del secondo, volendolo adottare, quali saranno le conseguenze?»15. Le opinioni espresse seguirono la linea della riunione del giorno prima; solo il comandante di marina e il comandante dell’artiglieria si espressero contro la cessione delle armi, considerata disonorevole dal generale Gandin, mentre gli altri si espressero per questa opzione. Subito dopo il generale ascoltò anche i cappellani della Divisione e tutti, eccetto uno, si pronunciarono per la cessione delle armi. In serata il generale continuò i suoi colloqui con il colonnello Barge, ottenendo di dilazionare al giorno dopo la risposta all’ultimatum. Il generale stabilì anche col colonnello Barge che i tedeschi non avrebbero più inviato rinforzi a Cefalonia. Infine, diffusasi la voce che Governo e Comando Supremo Italiano fossero a Bari o a Brindisi, il generale fece spedire un radiogramma col quale informava della situazione a Cefalonia nonché del radiogramma ricevuto dal comando dell’11a armata in Atene e chiedeva se esso dovesse considerarsi in contrasto con le direttive del Governo o se dovesse essere eseguito16. Intanto l’infelice sorte toccata ai soldati del presidio dell’isola di Santa Maura dopo aver ceduto le armi faceva crescere il fermento fra i soldati. Un giovane sottotenente, anche egli, dallo stile secco ed efficace della sua relazione, definibile come un uomo di penna, il bolognese Arnaldo Breveglieri, così lo ricordava: Tale fermento divenne un movimento plebiscitario quando alcuni brillanti ufficiali inferiori di artiglieria (di cui cito i nomi: cap. Pampaloni, cap. Longoni, ten. Apollonio, ten. Ambrosini, s.ten. Di Carlo, s.ten. Cei, quest’ultimo comandante di una sezione di mortai di fanteria) divennero interpreti della volontà di combattere il tedesco. La vergogna della cessione delle armi doveva essere evitata a tutti i costi. Io stesso, che ero sottocomandante di una batteria da 155/36, aderii immediatamente al movimento antitedesco; mi si lasci aggiungere che chi ha vissuto quei giorni meravigliosi di Patria passione non facil-
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La ricostruzione del sottotenente Breveglieri chiarisce molto bene due punti importanti: la natura di processo sociale che ebbe il maturare della volontà di non cedere le armi e il fondamento non-politico del patriottismo di ufficiali e soldati. Ciò vuol dire che non si trattò di un'iniziativa mirante a conseguire, nello scenario apertosi tra 25 luglio e 8 settembre, obiettivi politici, ma di un’iniziativa che dall’entusiasmo iniziale per il prossimo rientro a casa al timore per l’atteggiamento dei tedeschi non diventò delusione e frustrazione e quindi disgregazione proprio perché si aggregò intorno al sentimento di italianità come identità comune. In questo senso onore e dignità personale e della bandiera venivano a coincidere e quindi difendersi dall’accusa di essere «italiani vigliacchi e traditori» significava recuperare onore e dignità personale intorno alla bandiera e difenderne l’onore dava un senso forte di identità comune. Tutto ciò denotava il carattere di processo sociale e psicologico che il maturare di questo sentimento di italianità aveva e come in ogni processo di questo tipo dovevano esserci degli attori sociali che fungevano da elemento di stimolo nel processo di maturazione di una identità-volontà nuova e di coagulo delle persone che vi venivano coinvolte. Questo ruolo di attore sociale fu svolto da quegli ufficiali inferiori di cui parla il sottotenente Breveglieri nella sua relazione. E quindi, in un’ottica socio-psicologica, il loro ruolo fu molto importante perché evitò la disgregazione degli uomini e individuò e fece circolare quelle motivazioni e quei valori intorno ai quali i soldati recuperarono una forte identità comune e si ricompattarono. Come insegna Kurt Lewin, uno dei maestri della psicologia sociale, il morale di un gruppo di qualsiasi dimensione è più alto se la sua azione è basata sulla sua decisione e sull’accettazione della propria situazione. Questo principio, trasferito nell’esercito, porta alla conclusione che il morale dei soldati è migliore quando la loro azione si fonda su una decisione in cui sono stati coinvolti e sul rendersi pienamente conto, accettandone tutte le implicazioni, della situazione in cui si trovano. Ecco perché un buon morale dei soldati parte
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da un’identità condivisa a livello di piccolo gruppo, di plotone, e si allarga alla compagnia, al reggimento, alla divisione18. E quindi aggregare per piccoli gruppi intorno a motivazioni e valori che ridavano onore e dignità ad uomini incerti sul futuro che li attendeva, significò aggregarli intorno al principio dell’onore militare e della bandiera ed al nuovo significato di patria e libertà che era implicato nella difesa della bandiera e dell’onore militare. Se questo fu il significato più profondo delle iniziative antitedesche di alcuni ufficiali e soldati, si può anche comprendere perché il generale comandante della Divisione Acqui non prese misure disciplinari nei loro confronti19. Non le prese perché non ritenne che vi fosse indisciplina o disobbedienza agli ordini. Il generale Gandin aveva chiaramente espresso le sue perplessità verso l’ordine di cedere le armi giunto dal comando dell’11a armata in Atene, perplessità che divennero obiezioni precise contro i termini dell’ultimatum tedesco. Tutto ciò che era contrario al giuramento di fedeltà e all’onore militare non fu preso in considerazione da Gandin e quanto al battersi contro i tedeschi, il problema era quello del riuscire a sostenere l’urto dei rinforzi terrestri e aerei che sarebbero giunti dalla Grecia. Salvare la Divisione con onore, sì; salvare la Divisione al prezzo di calpestare il giuramento e l’onore militare, mai. Queste furono le linee di comportamento del generale Gandin, quali si evincono dal complesso della documentazione esistente presso l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore. E da comandante, Gandin sapeva bene che uomini demoralizzati e frustrati non davano poi il meglio sul campo di battaglia. Se allo scontro con i tedeschi bisognava giungere, avere un corpo compatto e convinto delle motivazioni per cui combattere era fondamentale. E quindi ufficiali che promuovevano spirito di corpo in nome di un principio di italianità e non di un principio politico non gli erano certo sgraditi. Non si spiegherebbe altrimenti perché il 14 mattina il generale Gandin nel consueto giro di ispezione fra le postazioni si fermò a parlare proprio con il capitano Pampaloni. «Con mio stupore, il generale G andin era sorridente e mi disse: “Domani si combatterà”»20. Non era certo l’atteggiamento di un comandante verso un ufficiale che avesse compiuto atti di insubordinazione.
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A partire dal 12 settembre, quello stretto e disagevole sentiero su cui il generale Gandin sperava di poter salvare la Divisione e insieme il giuramento e l’onore militare divenne sempre più difficile da percorrere. E ciò a causa di due iniziative dei tedeschi, che cominciavano a mostrare il vero volto delle loro proposte. Nel settore di Lixuri i tedeschi avevano sopraffatto le stazioni di carabinieri e guardia di finanza e due batterie di artiglieria. «Il generale Gandin era indignato […] e chiese duramente spiegazioni dei fatti di Lixuri» al colonnello Barge, scrisse il capitano Bronzini nella sua relazione. Ma non era finita. Infatti il colonnello Barge comunicò al generale Gandin che il comando tedesco non intendeva più discutere, voleva soltanto sapere se la Divisione si schierava contro i tedeschi o si decideva a cedere le armi. «Fu un colpo di scena che rovesciò interamente la situazione», ricordò poi il capitano Bronzini21. La mancata reazione italiana contro il colpo di mano tedesco a Lixuri alimentò la convinzione che stesse per arrivare l’ordine di cedere le armi ai tedeschi. Il capitano Apollonio chiese di essere messo a rapporto col generale Gandin e, insieme con il colonnello Romagnoli e il capitano Pampaloni, incontrò il generale. I due giovani ufficiali ribadirono le loro obiezioni alla cessione delle armi. Il generale Gandin fece presente che, esclusi il primo e il terzo punto dell’ultimatum tedesco, l’adozione del secondo avrebbe comportato il sostenere l’attacco aereo e terrestre di forze tedesche di stanza in Grecia e ciò era problematico. Una soluzione onorevole per la Divisione e i suoi uomini era il suo solo obiettivo, nel frattempo chiedeva a tutti di non prendere alcuna iniziativa22. Nella notte fra il 12 e 13 settembre giunse da Corfù la notizia che il 18° reggimento di fanteria aveva reagito alle richieste tedesche di cedere le armi combattendo e facendo prigionieri gli uomini del battaglione tedesco. La notizia è accolta con una esplosione di giubilo al comando della Divisione – scrisse nella sua relazione il capitano Bronzini – il generale, però, dato il forte stato di eccitazione delle truppe, ordina di procrastinare la comunicazione delle gesta di Corfù ai reparti di Cefalonia23.
Il 13 mattina all’alba si verificò il primo drammatico scontro. Contrariamente a tutti gli impegni presi col generale Gan-
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din, i tedeschi cercarono di far attraccare nel porto di Argostoli alcuni pontoni con uomini e cannoni per rinforzare il presidio tedesco in città. «… Se i pontoni toccheranno terra, sarà finita per noi italiani», scrive nella sua relazione il sottotenente Arnaldo Breveglieri. «Gli artiglieri, caricati i pezzi d’iniziativa, implorano l’ordine di far fuoco. Ad un tratto una voce rompe il silenzio carico di disperazione e di ardore: “1a, 3a, 5a Batteria, Fuoco! ”. È il tenente Apollonio: e il fuoco ha inizio violentissimo»24. I pontoni vengono colpiti e costretti alla resa. Dopo un po’ di tempo arrivò un ordine scritto del generale Gandin «di cessare il fuoco perché i tedeschi avevano chiesto di riprendere le trattative su altre basi», ricordò nella sua relazione il capitano Apollonio, che non aveva ordinato il fuoco alle altre batterie ma coordinato le comunicazioni fra di esse25. Le nuove proposte prevedevano che la Divisione potesse mantenere tutte le armi e portarsele in Italia se ci fosse stato naviglio adeguato al trasporto. Ma in nottata si venne a sapere che le armi pesanti avrebbero dovuto essere lasciate perché vi era scarsezza di mezzi navali per il loro trasporto. Da parte di tutti si vide in questo contrattempo soltanto un pretesto che nascondeva un tranello o un inganno. E in nottata giunsero anche gli artiglieri delle batterie di Lixuri, fatti prigionieri dai tedeschi il 12 mattina. Essi raccontarono ai loro compagni d’arme che, sebbene si fossero arresi senza combattere, una volta disarmati, erano stati tenuti con le mitragliatrici puntate contro, svillaneggiati e maltrattati in tutti i modi. Il fermento e l’ardore diventarono in quel momento odio contro i tedeschi e in molti reparti si cominciò a rifiutare la proposta della mattina di rientrare in Italia con le armi26. Inaspettatamente giunse in piena notte dal comando di Divisione «l’ordine di invitare i soldati a esprimere il proprio parere sui tre punti: contro i tedeschi, con i tedeschi, cessione delle armi», ricordò il capitano Apollonio nella sua relazione27. Era successo che il generale Gandin non si fidava più delle garanzie tedesche che puntualmente non venivano mantenute e si era ormai orientato per un’azione decisiva contro i tedeschi. A questo si aggiunga che finalmente il 14 settembre giungeva da Brindisi, dove Governo e Comando Supremo si erano rifugiati, la risposta al radiogramma del generale Gandin dell’11 settembre; in esso si ordinava di resistere alle ri-
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chieste tedesche. E quindi niente cessione delle armi e invece risposta armata ad attacchi tedeschi. Era, sia pure a posteriori, la legittimazione del cannoneggiamento del 13 mattina. «La posizione della Acqui è ormai chiara: l’ordine del Comando Supremo elimina ogni dubbio. La situazione generale è evidente: nel continente l’11a armata si è lasciata ingannare dai tedeschi ed ha ceduto alle loro richieste», scrisse il capitano Bronzini nella sua relazione, ben sintetizzando l’atteggiamento del comando della Divisione28. Il 14 mattina fu noto l’esito del plebiscito ordinato la sera prima: contro i tedeschi si schierarono tutti i reparti e gli uomini. Iniziò la preparazione della battaglia. E alle ore 12 fu data la risposta del generale Gandin all’ultimatum tedesco. Essa era imperniata sull’orgogliosa enunciazione della piena coincidenza fra gli ordini del Comando Supremo e la volontà degli ufficiali e dei soldati. Per ordine del Comando Supremo italiano e per volontà degli ufficiali e dei soldati, la Divisione «Acqui» non cede le armi. Il comando superiore tedesco, sulla base di questa decisione, è pregato di presentare una risposta definitiva entro le ore 9 di domani 15 settembre29.
Questa formulazione che è riportata nella pubblicazione del col. Moscardelli su Cefalonia, non coincide però con il testo conservato fra le carte del comando tedesco in cui il gen. Gandin usa un’espressione diversa, e cioè che «la Divisione preferirà combattere piuttosto di subire l’onta della cessione delle armi»30. La battaglia vide all’inizio una vittoria ad Argostoli dei soldati italiani con 500 prigionieri, ma i raid degli Stukas fecero immediatamente sentire il loro effetto. La capacità di manovra della Divisione fu di molto limitata e lo sbarco su Cefalonia di truppe alpine del Tirolo fu l’inizio della fine. Tutti gli uomini, ufficiali e soldati, si batterono allo spasimo, contendendo palmo a palmo il terreno al nemico e compiendo autentici prodigi di valore. L’elenco e le motivazioni delle decorazioni stanno lì a testimoniarlo. Il generale Gandin continuò a inviare messaggi a Brindisi, chiedendo copertura aerea e almeno un reggimento di fanteria. Il Comando Supremo trasmise queste richieste al Comando Alleato perorando un’iniziativa in direzione di Cefalonia31. Ma questa non ci fu.
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Man mano che la battaglia volgeva a loro favore, i tedeschi misero in atto la più spietata vendetta trucidando immediatamente tutti coloro che si arrendevano, e ciò in spregio a ogni convenzione e regola sul trattamento dei prigionieri. Il 22 il generale Gandin chiese la resa. Furono rastrellati tutti gli ufficiali e, a partire dal comandante, che morì gridando «Viva il Re, viva la Patria», furono poi tutti fucilati. Di circa 500 ufficiali, solo gli ultimi 35 si salvarono per intercessione del cappellano militare, padre Romualdo Formato. Fra i soldati, i morti furono a migliaia. I sopravvissuti furono rinchiusi nei campi di concentramento tedeschi fra Germania e Polonia. Un gruppo di un migliaio di soldati fu tenuto nell’isola come lavoratori addetti ai servizi e alla manutenzione delle installazioni militari. 3. La resistenza antitedesca a Cefalonia Renzo Apollonio e Amos Pampaloni si salvarono in modo rocambolesco. Messo in fila per essere fucilato, Apollonio fu travolto dal soldato che lo precedeva. Creduto morto, rimase immobile per qualche tempo prima di rialzarsi e rientrare tra le fila degli italiani. Pampaloni fu colpito da una pallottola che gli attraversò la gola senza ledere alcun organo vitale e fu tratto in salvo da civili greci che lo misero poi in contatto con i partigiani dell’ELAS. Grazie a costoro, lasciò Cefalonia, fece la resistenza sul continente e rientrò a Cefalonia un anno dopo, nel settembre 194432. Apollonio, ricercato dai tedeschi per l’attacco del 13 settembre alle motozattere, fece perdere le sue tracce mescolandosi fra i soldati prigionieri e cercando la fuga. Per evitare altre fucilazioni di prigionieri italiani, abbandonò l’ipotesi della fuga e dichiarò allora la sua identità. Fu condannato a morte, ma la fucilazione fu sospesa dopo che i militari tedeschi, che aveva fatto prigionieri ad Argostoli il 13 settembre in un’altra azione, dichiararono spontaneamente che aveva impedito ai civili greci di ucciderli. In virtù della sua conoscenza della lingua tedesca, e pur rimanendo prigioniero di guerra, fu poi incaricato dal comando tedesco di fare l’interprete. Cosa che fece dopo essersi consultato con esponenti dell’ELAS a Cefalonia. Gli spostamenti all’interno dell’isola per questa attività gli consentirono di avere contatti con i prigionieri italiani. Li organizzò in cellule clandestine con compiti di informazione
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e sabotaggio. Queste attività furono molto apprezzate dall’ELAS e dalla Missione Militare Alleata che riconobbero Apollonio come comandante del Raggruppamento Banditi della Acqui, dove il termine, usato spregiativamente dai tedeschi contro i resistenti, veniva invece rivendicato con orgoglio come segno e simbolo della loro identità. Insieme con la Missione Militare Alleata, Apollonio organizzò nel settembre 1944 l’insurrezione di Cefalonia che evitò la distruzione del porto e della città di Argostoli33. Anche Pampaloni rientrò a Cefalonia nel settembre 1944 come dirigente politico e militare dell’ELAS e, d’intesa con il Comando dell’ELAS delle Isole Ionie, propose ad Apollonio di costituire un’unità di italiani che proseguisse la lotta in Grecia nelle file dell’ELAS34. Di questa unità Apollonio sarebbe stato il comandante militare e Pampaloni il commissario politico. Apollonio rifiutò perché l’ELAS inclinava sempre di più verso una politica filocomunista che la poneva in contrasto con i gruppi monarchici della resistenza greca e con la Missione Militare Alleata. Da questo rifiuto nacquero alcuni contrasti fra l’Apollonio e l’ELAS fin quando nel novembre 1944 il Raggruppamento Banditi della Acqui non fu rimpatriato a Taranto dagli inglesi. Questo rientro fu molto particolare perché il Quartier Generale Alleato del Medio Oriente, di stanza al Cairo, inviò una comunicazione a Cefalonia con cui autorizzava il Raggruppamento, per il decisivo contributo dato alla liberazione di Cefalonia, a rimanere inquadrato e in armi35. Era come riconoscere la qualifica di cobelligeranti. Quando il Raggruppamento sbarcò a Taranto, il Ministro della Guerra, Casati, inviò al capitano Apollonio e ai suoi soldati il «plauso riconoscente per eroiche gesta compiute […] (e per) azione svolta a fianco alleati»36. Qualche mese dopo, il capo di Stato Maggiore dell’Esercito, gen. Ercole Ronco, propose a favore di Apollonio una promozione per merito di guerra, da capitano a maggiore, per l’attività clandestina svolta fra fine settembre 1943 e settembre 1944. Nel 1947, il gen. Gustavo Adolfo Infante, comandante della Pinerolo, una delle pochissime unità che non si arresero, propose, nella sua qualità, all’epoca dei fatti, di comandante delle truppe italiane in Grecia dopo la resa del gen. Vecchia-
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relli ad Atene, di concedere la medaglia d’oro al valor militare all’Apollonio per il suo comportamento a Cefalonia fra l’8 ed il 24 settembre 1943. Ma le cose andarono ben diversamente37. 4. Dopo la guerra: le inchieste e il processo Per capire la dinamica degli avvenimenti di Cefalonia, lo Stato Maggiore affidò al SIM l’incarico di interrogare i superstiti rientrati in Italia e di vagliarne le relazioni scritte. Il ten. col. De Luca del SIM di Bari, mescolatosi fra i componenti del Raggruppamento come giornalista, riferì che raramente gli era capitato di vedere un tale spirito di corpo e che l’Apollonio, con il suo «coraggio non comune» era un «vero trascinatore» di uomini38. L’Apollonio, ormai in SPE e lontano da ogni prospettiva di ritorno agli studi, come invece non mancava di sollecitarlo il suo vecchio amico del periodo berlinese, Massimo Pallottino39, preparò una relazione molto meticolosa sullo svolgimento delle vicende di Cefalonia, da cui però risultavano esplicite critiche sugli spostamenti di truppe ordinati dal gen. Gandin, con l’abbandono della posizione strategica di Kardakata che controllava lo snodo fra area settentrionale e meridionale di Cefalonia, e sui suoi tentennamenti nel prendere una chiara iniziativa anti-tedesca40. Si badi che questi due punti formarono oggetto di osservazioni critiche in termini molto più blandi anche nello studio del col. Armani, La tragedia di Cefalonia, depositato presso lo Stato Maggiore il 7 marzo 1945, che mette a confronto le relazioni Apollonio e Bronzini, esprimendo il dubbio che la prima, avvincente «per i suoi drammatici accenti, non sia stata del tutto improntata a serena obiettività», ma senza rivolgere alcuna accusa all’Apollonio41. Il che vuol dire che l’analisi di strategia militare dell’Apollonio era corretta e solo i toni erano un po’ sopra le righe. Il dott. Pietro Boni, tenente medico di complemento, più incisivamente scrisse che se ogni Capitano rientrato dai Balcani fosse rientrato in Patria guidando un migliaio di uomini (e gli Ufficiali di grado superiore guidandone naturalmente un numero proporzionalmente maggiore) con armi e bagagli e con la volontà di combattere ancora per la Patria, allora… allora l’Italia stessa non sarebbe quella che è adesso42.
In un successivo articolo su «Il Momento», lo stesso Boni
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esaltò Apollonio ed espresse critiche severe verso il gen. Gandin. Altri militari nelle loro relazioni criticarono il comandante della Acqui, accusandolo di essere stato filotedesco. Ad alcuni generali sembrò che si stesse creando un clima troppo negativo nell’opinione pubblica, alimentato dall’eroe di Cefalonia, così era chiamato Apollonio dopo il rientro in Italia, e dai suoi amici del Raggruppamento Banditi della Acqui. E quindi cercarono fra i superstiti della Acqui chi potesse accusare Apollonio di essersi accordato con i tedeschi, il che avrebbe significato che aveva mentito affermando di essere stato l’organizzatore della resistenza a Cefalonia, di insubordinazione verso il gen. Gandin e di desiderio di evitare la battaglia. Questa manovra riuscì. Nel settembre del 1945 un ufficiale della Acqui in una lettera al Ministro della Guerra, accusò Apollonio di aspirare «a un cumulo di ricompense e riconoscimenti» e di accanirsi contro la figura del gen. Gandin per poter «costruire propri inesistenti meriti». Uno dei cappellani della Acqui relazionò sulla ricerca di carte geografiche da parte di Apollonio per poter lasciare Cefalonia. E chi aveva fatto la resistenza in Grecia con l’ELAS dichiarò di non poter confermare le attività di Apollonio a Cefalonia43. Le testimonianze dei sopravvissuti della Acqui, da lui riportati in Italia non come prigionieri di guerra ma come cobelligeranti, furono considerate non veritiere, nonostante le osservazioni del ten. col. del SIM, De Luca. E così Apollonio si trovò ad avere inflitta una punizione dalla 3a sottocommissione accertamenti per aver collaborato con i tedeschi, poi tramutata in rimprovero da non iscriversi. Per salvaguardare la sua dignità chiese di essere sottoposto a inchiesta formale, e il generale inquirente, Paolo Supino, nel 1949 annullò il rimprovero, il che consentì che la proposta di promozione per merito di guerra riprendesse il suo corso fino a positiva conclusione nel 195144. In questa difficile situazione, solidarietà gli venne dai suoi uomini del Raggruppamento Banditi della Acqui. In questo senso fu particolarmente attivo Luciano Casimiri, redattore dell’«Osservatore Romano», che inviò promemoria su Apollonio a De Gasperi e ad altre personalità politiche45. Vicini gli furono anche quei generali che lo avevano avuto alle loro dipendenze. Fino al marzo 1971, poco prima di mo-
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rire, il gen. Gustavo Adolfo Infante scrisse al Ministro della Difesa perché fosse ripreso l’iter della proposta di medaglia d’oro al valor militare. Molto incisive furono le osservazioni del gen. Pastori al gen. Saporetti, in una lettera datata 11 febbraio 1947, la cui copia è fra le carte Apollonio, quando scriveva che «lo SM si è irritato e con la scusa di un rimprovero ha messo agli atti ogni proposta a suo favore»46. Ma il peggio doveva ancora venire. Perché i superstiti di Cefalonia si trovarono accomunati agli ufficiali tedeschi che avevano ordinato ed eseguito il massacro di Cefalonia in un procedimento presso il Tribunale Militare Territoriale di Roma, nato dalla denuncia del padre di un defunto che accusò i superstiti di rivolta, cospirazione e insubordinazione. Il processo si concluse l’8 luglio 1957 con una sentenza ampiamente assolutoria del Giudice Istruttore Militare Designato. Accuse e difese ruotarono intorno all’interpretazione da dare ai comportamenti degli ufficiali subalterni nelle varie fasi della battaglia. Particolarmente rilevante mi sembra il verbale dell’interrogatorio del capitano di complemento di artiglieria, Angelo Longoni, poi avvocato a Milano. La professione forense gli consentì infatti di esprimere immediatamente in linguaggio giuridico l’andamento degli avvenimenti di Cefalonia, evitando così quella sorta di «traduzione» dei fatti nel linguaggio giuridico, che si avverte nelle memorie degli altri imputati. Per questa ragione la sua deposizione ha un’incisività e una cogenza argomentativa che altre non hanno. E dunque l’avvocato Longoni con logica ineccepibile affermò che ordine di consegnare le armi da parte del gen. Gandin non vi fu mai e quindi nessuno poteva disobbedire a un ordine mai dato; che dalla dichiarazione di armistizio si ricavava la legittimità di una risposta armata a un attacco tedesco; che le trattative con i tedeschi erano state avviate dal gen. Gandin sulla base del presupposto che nessuna delle due parti effettuasse movimenti di truppe; che i tedeschi fecero invece affluire delle truppe; che le motozattere tedesche contro le quali fu aperto d’iniziativa il fuoco il 13 settembre portavano armi ad Argostoli e perciò costituivano un palese atto di ostilità contro il quale fu legittimo intervenire; che gli ufficiali non incitarono le truppe alla rivolta, ma fecero atto di persuasione verso i soldati e informarono il comando della Divisione che all’internamento in campo di
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prigionia e al disonore della cessione delle armi essi preferivano il combattimento; che il generale fu sempre lasciato libero nelle sue determinazioni. Il significato di queste precisazioni è nell’orgogliosa dichiarazione spontanea finale: Tengo a far presente che se l’ordine di consegnare le armi ai tedeschi fosse stato dato dal gen. Gandin, avremmo avuto l’obbligo di non obbedire perché sarebbe stato un ordine manifestamente illegittimo: 1) perché contrario al proclama Badoglio […]; 2) perché contrario all’onore militare; 3) perché contrario alla nostra sicurezza. […] Aggiungo che considero titolo d’onore e di merito essere chiamato a rispondere di fatti che hanno costituito motivo per il conferimento delle medaglie d’oro al valore alla bandiera del 33° Reggimento Artiglieria, al suo Comandante colonnello Romagnoli, fucilato dai tedeschi, al ten. Ambrosini caduto in combattimento e a molti altri47.
Dopo l’assoluzione con formula ampia da parte del Tribunale Militare Territoriale di Roma, le iniziative esplicite contro Apollonio cessarono, ma non venne meno un clima di ostilità preconcetta, per cui di medaglia d’oro al valore militare non si parlò più. Eppure in anni successivi due fatti nuovi concorsero a dimostrare in via definitiva la sincerità di Apollonio. Nel 1960 a Verona, dove era al comando FTASE , Apollonio, allora colonnello, incontrò il suo vecchio amico John Lazaris, ten. colonnello dell’esercito greco, che a Cefalonia, col nome di battaglia di Kostas Moth, era il giovane tenente della Missione Militare Alleata a Cefalonia, che operava in clandestinità. John Lazaris rese una amplissima e dettagliata testimonianza scritta sulle attività di Apollonio a Cefalonia fra il 1943 e il 1944 che Apollonio presentò al suo comandante, gen. Bernabò, e questi trasmise al capo di Stato Maggiore, gen. Aloja, con la richiesta di aprire a questo punto la pratica per la concessione della medaglia d’oro al valor militare perché tutti i precedenti ostacoli erano ormai caduti. Il gen. Aloja si limitò alla burocratica annotazione che i termini erano da tempo scaduti48. Infine nel 1977 colui che aveva accusato Apollonio di inesistenti meriti, scrisse al Ministro della Difesa affermando che quelle dichiarazione erano state il frutto di una forte pressione esercitata su di lui da alcuni generali. Pertanto egli ritrattava le accuse e chiedeva che tali sue precedenti dichiarazioni fossero distrutte «col fuoco»49.
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Anche questa volta nessuna iniziativa riparatoria fu presa verso Renzo Apollonio. Essere «amato dai coraggiosi e temuto dai pavidi», come scrisse il capo di Stato Maggiore, gen. Ercole Ronco, avviando nel 1945 l’iter per la promozione di Apollonio per merito di guerra, gli costò pesantemente sul piano personale50. 5. Conclusioni Si comprendono a questo punto le ragioni del lungo oblio sul massacro della Divisione Acqui a Cefalonia. Ogni sua commemorazione o rievocazione storica, infatti, pone la questione del comportamento dei generali dopo il proclama Badoglio e della mancanza di collegamenti e di iniziative per dare attuazione a esso. Cioè, pone la questione dei vertici politici e militari dell’epoca e degli stretti limiti che essi posero alla fine del fascismo e all’armistizio. Un rinnovamento nella prospettiva di uno Stato democratico non era voluto né da Badoglio né dai generali che cedettero le armi, mentre esso era invece voluto dagli ufficiali e dai soldati che combatterono contro i tedeschi. E rinnovamento democratico non secondo un particolare progetto politico, ma secondo un criterio di dignità e di italianità, comune, condiviso e proprio per questo difeso da tutti con le armi. Fu intuizione del giovane capitano Apollonio il trasfondere il principio del cittadinosoldato della polis greca nel valore fondante di una moderna democrazia, ma questo significato e questo valore furono lasciati cadere. Rimangono da spiegare ancora le ragioni del silenzio dei politici. Perché, prima delle iniziative del Presidente Ciampi, bisogna risalire al comunicato del 14 settembre 1945 del Presidente del Consiglio dei Ministri, Ferruccio Parri, per trovare una forte sottolineatura del significato del sacrificio della Acqui nella prospettiva dell’Italia libera. Il fatto è che nessuna area di opinione politica poteva appropriarsi delle vicende di Cefalonia. Come osservò circa quindici anni fa lo stesso Apollonio, che dopo il pensionamento si dedicò agli studi storici sulla resistenza dei militari italiani all’estero, riversando in essi la sapienza del metodo di ricerca appreso prima della guerra fra Padova e Berlino, l’evento della Divisione Acqui a Cefalonia era estraneo a «incidenze politiche», non
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rispondeva ai canoni militari per l’agire d’iniziativa degli ufficiali, non era «politicamente pagante»51. Perciò il velo dell’oblio cadde su quelle vicende. Esso va rimosso, evitando ogni lettura politica che snaturerebbe il sacrificio della Divisione Acqui a Cefalonia, e va collocato invece nella prospettiva storicamente documentata della scelta a difesa dell’onore militare, della bandiera, della dignità personale. Dopo l’8 settembre 1943 questa scelta significò difesa del nuovo governo, della sua legittimità e quindi dei primi passi verso la democrazia. Note 1. E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando , il Mulino, Bologna 2003. 2. G. Moscardelli, Cefalonia, Tip. Regionale, Roma 1945, p. 8. 3. Ibid., p. 17. 4. Ivi. 5. La relazione del capitano Bronzini, insieme con quella dei capitani Apollonio e Pampaloni e del cappellano militare, padre Romualdo Formato, fu largamente utilizzata dal colonnello Moscardelli per la preparazione del suo libro, prima citato, che costituì una prima, ufficiosa, messa a punto dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito sul dramma di Cefalonia. 6. Ibid., p. 13 7. Ibid., pp. 22-23. 8. Ibid., p. 23. 9. Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (d’ora in poi AUSSME ), Faldone 2128/D, Cefalonia, Relazioni dei militari che riferiscono su avvenimenti di Cefalonia e Corfù trasmesse da comandi ed enti territoriali, Relazione del sergente universitario Renato Zanoncelli, nella quale ci si riferisce ai tedeschi con espressioni quali «l’odiato tedesco» o «i crucchi». 10. Le informazioni biografiche sul capitano Apollonio sono tratte dal ricchissimo archivio personale, che presenterò nel volume Lavori in corso , di prossima pubblicazione. All’epoca dei fatti di Cefalonia, Apollonio aveva già ottenuto la promozione a capitano di Artiglieria in SPE, ma il «Bollettino Ufficiale» del 14 agosto 1943 con il relativo decreto non era pervenuto al comando della Divisione. 11. R. Apollonio, Relazione sugli avvenimenti riguardanti le truppe italiane in Cefalonia dall’8 settembre 1943 al 12 novembre 1944, Archivio Apollonio. 12. Ibid., p. 7. Il resoconto del drammatico colloquio con il gen. Gandin è alle pp. 18-21. Esso è sostanzialmente ripreso da G. Moscardelli, Cefalonia…, cit, pp. 43-45. 13. G. Moscardelli, Cefalonia…, cit., p. 27.
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Vito G allotta 14. Ibid., p. 28. 15. Ibid., p. 30. 16. Ibid., p. 36. 17. AUSSME , Faldone 2128/D, Cefalonia, Relazioni…, cit., Relazione del S. Tenente d’artiglieria Arnaldo Breveglieri del 94° Gruppo Artiglieria. 18. K. Lewin, Problemi di ricerca in psicologia sociale , in Id., Teoria e sperimentazione in psicologia sociale , il Mulino, Bologna 1972, pp. 209226, in particolare pp. 217, 219, 220. 19. Anche G. Moscardelli, Cefalonia…, cit., pp. 41-42, sulla base della documentazione acquisita dall’AUSSME , afferma «l’assoluta assenza di segnalazioni a tal riguardo». 20. Ibid., p. 57. 21. Ibid., pp. 42-43. 22. Ibid., pp. 43-45; R. Apollonio, Relazione sugli avvenimenti…, cit., pp. 18-21. 23. G. Moscardelli, Cefalonia…, cit., p. 47. 24. AUSSME , Faldone 2128/D, Cefalonia, Relazioni…, cit., Relazione del S. Tenente d’artiglieria Arnaldo Breveglieri…, cit. 25. R. Apollonio, Relazione sugli avvenimenti…, cit., pp. 24-25. G. Moscardelli, Cefalonia…, cit., pp. 49-51, segue sostanzialmente la relazione Apollonio. Amos Pampaloni, invece, ha sostenuto, in Cefalonia, «Il Ponte» (1954), pp. 1480-1490 e in una lettera a me spedita in data 2 aprile 2002, che l’ordine fu dato da lui dopo concertazione al telefono con Apollonio. 26. G. Moscardelli, Cefalonia…, cit., p. 55. 27. R. Apollonio, Relazione sugli avvenimenti… , cit., pp. 12, 33; G. Moscardelli, Cefalonia…, cit., pp. 55-56. 28. G. Moscardelli, Cefalonia…, cit., pp. 56-57. 29. Ibid., p. 58. 30. Archivio Apollonio, R. Apollonio, Storiografia relativa alla Divisione Fanteria da Montagna Acqui, dattiloscritto di pagine 28, p. 21. 31. AUSSME , Faldone 2128, Cefalonia, cartella «Cefalonia 4B» con i fonogrammi inviati durante la battaglia dal gen. Gandin. 32. R. Apollonio, Relazione sugli avvenimenti…, cit., p. 67; A. Pampaloni, Relazione sull’attività del Capitano Pampaloni dall’8 settembre 1943 al 12/ 11/ 1944, p. 6-7. 33. R. Apollonio, Relazione sugli avvenimenti… , cit., pp. 78-118; R. Apollonio, Storiografia…, cit., p. 24. 34. Archivio Apollonio, Bozza di accordo proposto dall’ELAS. 35. R. Apollonio, Storiografia…, cit., pp. 25-26. 36. Ibid., p. 27. 37. Le ragioni dell’insabbiamento furono ricostruite dallo stesso gen. Infante nel suo Ricorso all’Onorevole Ministro della Difesa , Roma 15 maggio 1971. Il dattiloscritto è conservato in Archivio Apollonio. 38. Archivio Apollonio, Relazioni del ten. col. Gino De Luca, Bari, 18 novembre 1944, p. 2; 8 gennaio 1945, pp. 10-11. 39. Ancora il 1° marzo 1977, dopo il pensionamento del gen. Apollo-
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Cefalonia: la strage, il processo, l’oblio nio. L’amicizia fra Pallottino ed Apollonio risale al 1939, durante il periodo berlinese. Pallottino fu anche uno dei primi e più intelligenti estimatori dell’Apollonio ufficiale dell’Esercito, collegando in termini penetranti il giovane e promettente classicista alla sua opera di «accorto e ardimentoso organizzatore della rivolta antigermanica sopra un lembo di quella terra greca che egli amava nel canto degli antichi poeti e nel marmo degli antichi scultori». Grazie «a lui e ai suoi “banditi” […] la patria non era morta». M. Pallottino, Storia e leggenda a Cefalonia, in «L’Indice», 20 ottobre 1945. 40. Le critiche di Apollonio al gen. Gandin in R. Apollonio, Relazione sugli avvenimenti…, cit., pp. 4-5. 41. AUSSME , Faldone H5, Cefalonia; vedi anche ten. col. Picozzi, Relazione «riservata» circa i fatti di Cefalonia, pp. 8-10. 42. Archivio Apollonio, P. Boni, Idee sul capitano Renzo Apollonio , p. 6. 43. Le accuse contro Apollonio sono riportate in Archivio Apollonio insieme con le sue repliche. È un capitolo molto delicato del dramma di Cefalonia. Il rispetto per le persone e le loro famiglie e la mia concezione non tribunalizia della storia mi inducono per il momento a non esplicitare i nomi. 44. Archivio Apollonio, Comando Militare Territoriale di Roma, Comando Fanteria, gen. Paolo Supino, Inchiesta formale a carico del Cap. Art. SPE Apollonio Renzo , Roma 1949. 45. Archivio Apollonio, Luciano Casimiri, Lettera al Ministro della Guerra, Conte Stefano Jacini; Lettera all’on. Alcide De Gasperi, novembre 1948; Lettera all’on. Martino , 25 luglio 1949. 46. Vedi il già citato Ricorso del gen. Infante; Lettera del gen. Pastori al gen. Saporetti, 11 febbraio 1947, in Archivio Apollonio. 47. Archivio Apollonio, Processo verbale di interrogatorio del cap. Angelo Longoni, 14 dicembre 1956, p. 4. 48. AUSSME , Faldone H 5, Cefalonia, L.T. Colonel J.H. Lazaris, Underground activities of Captain Renzo Apollonio, I.A., and his subordinates in Cefalonia Island (Greece) against the German occupation forces during the years 1943 and 1944, Verona 29 June 1960, ricevuta e autenticata dal col. Angelo Cabigiosu, capo segreteria amministrativa, Forze Terrestri Alleate Sud Europa. 49. Archivio Apollonio, Lettera del 22 ottobre 1977. 50. Archivio Apollonio, Al Signor Giudice Istruttore Militare Designato, Generale Del Prato avv. Carlo, presso il Tribunale Supremo Militare, Oggetto: Istruttoria sul fatto d’arme di Cefalonia, dattiloscritto di 21 pagine. Si tratta di una memoria in cui Apollonio presentò ed illustrò testimonianze sul suo comportamento a Cefalonia per controbattere alle accuse che gli erano state rivolte. Il giudizio del capo di Stato Maggiore dell’Esercito, gen. Ercole Ronco, sull’attività svolta da Apollonio come prigioniero durante l’occupazione tedesca di Cefalonia è alle pp. 17-18. 51. Archivio Apollonio, R. Apollonio, Storiografia…, cit., p. 1.
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La Chiesa cattolica: diocesi e parrocchie * Giorgio Vecchio
1. L’8 settembre: festa della Madonna e della pace? Come reagì la Chiesa italiana alla notizia della firma dell’armistizio, la sera dell’8 settembre 1943? Quali reazioni «a caldo» manifestarono l’episcopato e il clero? Quali istruzioni vennero date ai vescovi e ai parroci, ai dirigenti e ai militanti dell’Azione Cattolica, ai semplici fedeli? La risposta a queste domande sembra – a prima vista – agevole. In linea di massima si potrebbe infatti dire che la gamma delle reazioni cattoliche non si differenziò di molto rispetto a quella dell’intera popolazione italiana, così ben descritta da innumerevoli testimonianze coeve e da altrettante ricostruzioni storiche1. In realtà, invece, un panorama completo e chiaro è ancora da tracciare, malgrado l’esistenza di tanti studi di carattere locale su singole aree geografiche, diocesi o parrocchie. L’attenzione degli storici, infatti, sembra essersi concentrata piuttosto sull’atteggiamento dei vertici ecclesiastici e del clero di fronte al mutamento di regime del 25 luglio e ai «quarantacinque giorni» di Badoglio, oppure sulle delicate scelte imposte dall’occupazione tedesca e dalla rinascita del fascismo. Così è stato esaminato, per esempio, il comportamento della diplomazia vaticana in favore dell’Italia prima e dopo l’armistizio2. In genere però la data dell’8 settembre non viene presa in considerazione in quanto tale, ma solo come l’ovvia conseguenza del 25 luglio oppure come l’altrettanto ovvia premessa della tragedia del 1943-1945. Anche in studi dettagliatissimi – come per esempio quello di Mario Casella o i tanti contributi pubblicati in seguito alle ricerche promosse dall’Istituto Sturzo in occasione del cinquantenario della Liberazione3 – i cenni sull’8 settembre sono molti scarni. Esistono naturalmente delle ottime ragioni che possono spiegare questa trascuratezza: soprattutto i vescovi vollero essere in quei giorni pubblica-
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mente prudentissimi, anche perché la situazione appariva ancora piuttosto fluida, così che eventuali giudizi e sentimenti furono espressi solo oralmente o in carte private che rimangono ancor oggi sepolte negli archivi. I pronunciamenti pubblici vennero dopo, quando ormai i caratteri dell’occupazione tedesca, del rinato fascismo e dei primi fenomeni resistenziali erano chiari e ponevano problemi nuovi. Di conseguenza, anche l’attenzione degli storici è stata attratta da interventi e gesti che portano la data di settimane successive, di ottobre e oltre; oppure ci si è soffermati sulle riunioni svoltesi in ambienti cattolici per favorire la nascita dei CLN in sede locale o ancora sull’opera di salvataggio dei fuggiaschi e degli sbandati. In tutto ciò l’interesse per i giudizi specifici sull’armistizio è finito in secondo piano. Si può tentare, invece, di cogliere altre prospettive, per così dire «dal basso» e verificare meglio il grado di comprensione degli avvenimenti che ebbero i parroci (e sopra di loro appunto gli stessi vescovi), ovvero coloro che più direttamente erano a contatto con la popolazione e potevano orientarne il comportamento, soprattutto nelle campagne e in montagna. Il catalogo delle fonti è relativamente ampio e comprende le cronache parrocchiali ( Liber Chronicon o Chronicus), memorie coeve o successive, testimonianze orali, carteggi, informative delle forze dell’ordine, e così via. Probabilmente i libri cronachistici costituiscono la fonte più ricca al riguardo e, se lo si può dire, anche la più divertente, a causa dello stile originale di narrazione adottato da parecchi parroci estensori. Si tratta di fonti ormai ampiamente utilizzate, da sole o integrate con altre4, anche se la loro conoscenza risulta ancora piuttosto parziale e localistica, priva di caratteri di organicità, e quindi di serie possibilità di confronto su scala nazionale. Per di più, i Chronica conosciuti risultano molto eterogenei tra loro e ciò per svariati motivi: anzitutto per la data di stesura, che può variare dal giorno stesso degli avvenimenti narrati al periodo successivo alla Liberazione (e si intuiscono le conseguenze immediate sulla diversa libertà di scrivere, in caso il diario fosse caduto in mano altrui); poi per la completezza delle informazioni, la sinteticità o meno delle notizie, l’attenzione alle vicende politiche e sociali o viceversa il privilegio accordato ai soli aspetti religiosi e pastorali, la presenza di sfoghi e rifles-
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sioni autobiografiche oppure la ricerca di notazioni fredde e asettiche e così via. È fin troppo ovvio ricordare che, in ogni caso, queste cronache non possono essere assunte come rappresentazione necessariamente «vera» o «veridica» dei fatti: questo carattere va vagliato caso per caso. Ma, al tempo stesso, esse forniscono quantomeno l’immagine della realtà filtrata dall’occhio di un «intellettuale organico» quale il parroco risultava essere e, ancor più, offrono l’autorappresentazione del parroco stesso e della sua mentalità. Quanto alla diffusione di queste cronache, essa risulta piuttosto ampia, anche se non esiste alcuna forma di censimento al riguardo. Non esisteva, a carico dei parroci, uno stringente obbligo canonico di stesura, ma in molte diocesi i vescovi insistevano da tempo nel considerare fondamentale anche questo impegno. Così avveniva in diocesi come quella ligure-toscana di Pontremoli, o in sedi più grandi come a Bologna e Padova, dove i sinodi locali avevano appunto introdotto l’obbligo di tenere e aggiornare i Libri Chronicon 5. A Milano il card. Schuster, nel corso delle sue visite pastorali, leggeva e controfirmava le pagine cronachistiche, come ho potuto direttamente constatare in numerosi casi. A Firenze il card. Dalla Costa subito dopo la liberazione della città nel 1944, impose a tutti i parroci di stendere un’ampia relazione sul periodo bellico da inserirsi nel Libro Cronico parrocchiale6. Ora, proprio sulla fatidica data dell’8 settembre, tutte le cronache (e le altre fonti) consultate mostrano in partenza una difformità notevole, al punto che in vari casi sotto questa data non si riporta alcun cenno specifico, quasi si trattasse di un giorno qualsiasi7. Oppure ci si limita asetticamente a ricordare che in quel giorno fu annunciato l’armistizio, provocando l’occupazione tedesca, cui seguirono la ricostituzione del regime fascista e la formazione delle bande partigiane: poche righe, dunque, del tutto generiche8. È singolare, invece, notare che in alcune situazioni la denuncia della «vergogna» dell’8 settembre da parte del parroco non riguardò in alcun modo gli avvenimenti nazionali, bensì quelli meramente locali e paesani, come a Rubbio nel Padovano, in occasione della festa patronale della Madonna, a causa dell’afflusso di gente tutt’altro che interessata alla processione religiosa e attenta invece ai balli e ai divertimenti9.
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Non deve stupire questo riferimento alla Madonna, essendo appunto l’8 settembre la festa della Natività di Maria. Di conseguenza l’annuncio dell’armistizio e dell’auspicata pace fu subito interpretato da qualcuno secondo canoni miracolistici. Don Enrico Bigatti – uomo di grande devozione mariana, che era allora coadiutore a Crescenzago (periferia di Milano) e che in seguito sarà protagonista della rete di salvataggio OSCAR, fino a conoscere personalmente il carcere – la sera dell’8 settembre annotò sul suo diario un commento di questo genere: «La Madonna di Fatima disse che per la “Madonna di settembre tutto sarà finito”. E proprio stasera il grande annuncio: armistizio. Grazie, o Vergine di Dio», anche se già due giorni dopo fu costretto a correggersi: «Giornate di confusione, tristezza, cordoglio. Notizie contraddittorie, cozzo di opinioni contrarie. Solo Dio!»10. A San Martino di Traversetolo, nel Parmense, mons. Riccardo Varesi annotò analogamente che «la notizia venne accolta con entusiasmo, e la si ritiene una grazia della Madonna nel giorno della di Lei Natività» 11. Più cauto fu invece don Carlo Villa, parroco a Osteno nella comasca Valle Intelvi. Egli, infatti, notando appunto la coincidenza tra annuncio dell’armistizio e festa della Natività di Maria, si chiese dubbioso, senza riuscire a darsi risposta: «Fu o non fu questo un regalo della Madonna? Ai posteri…»12. Alla Madonna ci si rivolse spontaneamente anche altrove, sommando le abitudini della tradizione alla suggestione della festa di quel giorno: in provincia di Piacenza il parroco di Selva, appena saputa la notizia e informata la popolazione, accolse tutti coloro che giungevano spontaneamente ad affollare la chiesa e fece recitare il Rosario e – pur con «il cuore [che] non mi lasciava tranquillo sull’avvenire» – esortò a ringraziare il Signore «che forse tutto era finito»13. Si ebbero anche casi nei quali le donne accorsero alla loro chiesa per offrire qualcosa alla Madonna, come a Santa Maria a Greve a Scandicci (Firenze): qui esse portarono una «mura [ricambio] di candelieri in ottone» come ringraziamento per la fine della guerra14. 2. Le reazioni «a caldo»: gioire o piangere? Liturgia e devozioni a parte, la prima domanda che sorge spontanea oggi è tuttavia la seguente: per l’episcopato e il clero italiano, fu l’8 settembre – almeno sotto l’impatto dell’im-
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mediato – una data da festeggiare o no? Se si deve giudicare sulla base dei Te Deum cantati nelle parrocchie, sembrerebbe di sì: è vero che un riferimento esplicito a questo tradizionalissimo e ufficialissimo canto di ringraziamento è rintracciabile in un numero limitato di cronache e diari, ma è pur vero che altre volte la citazione sembra essere implicita e ricompresa in più generici rinvii a manifestazioni di grazie e di lode a Dio. Il desiderio generalizzato dei fedeli di ricorrere al vecchio Te Deum è poi testimoniato anche dai dinieghi di taluni vescovi: così a Genova il card. Boetto resistette a chi suggeriva di celebrare con manifestazioni religiose la data dell’armistizio e si mantenne sulle sue15. Analogamente si comportò l’arcivescovo di Salerno, mons. Monterisi, che non accolse la richiesta dei pochi salernitani rimasti in città, di cantare in duomo un Te Deum di ringraziamento, anche perché questo presule non giudicava certo esaltante l’annuncio di Badoglio alla radio16. Nelle parrocchie il ricorso al Te Deum fu attuato qua e là: nel Mantovano, per esempio, don Amerigo Guerreschi a Piubega lo fece cantare solennemente e invitò i fedeli a ringraziare Dio «perché l’Italia aveva ceduto le armi»17. Un episodio simile avvenne nella parrocchia di S. Pietro a Pontremoli18. A Nove (Vicenza) padre Giovanni Battista Pigato, cappellano militare reduce dalla Russia, fu issato sulle spalle della gente e portato in trionfo per le strade del paese e infine in chiesa per cantare solennemente il Te Deum insieme al parroco locale19. Particolare è quanto accadde all’Istituto «Gonzaga» di Milano, un ben noto centro educativo e scolastico gestito dai Fratelli delle Scuole Cristiane. Qui fratel Beniamino Bonetto ascoltò l’annuncio dell’armistizio direttamente da Radio Londra e si premurò di correre per la casa a gridare la notizia a tutti, trascinando poi subito nella cappella i lavoranti ancora presenti per cantare in coro il Te Deum. Ma, secondo la sua stessa testimonianza, questo giubilo dovette fare subito i conti con le reazioni tedesche, visto che al «Gonzaga» era ospite un ex-religioso germanico, tale Abelien, al momento in servizio volontario paramilitare: questi tuonò immediatamente contro i «traditori» («Vedrete come la Germania tratterà i traditori») e, sdegnato, lasciò l’indomani stesso l’istituto per cercarsi una sistemazione diversa20. È davvero singolare, comunque si giudichino le cose, che
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per la disastrosa resa dell’Italia si utilizzasse il più importante inno di ringraziamento della tradizione cristiana, solitamente riservato, anche su pressione del potere politico, alle vittorie in guerra o al riconoscimento di nuovi regimi: era questo un ulteriore segno di quanto disperata fosse ormai la condizione di tanti italiani e di tante italiane e quanto radicato il rifiuto del conflitto, rifiuto che coinvolgeva lo stato e la patria. Ancora più diffuso fu il ricorso al suono festoso delle campane, che in molti paesi proseguì per tutta la notte. In linea generale si può dire che i parroci condivisero questa forma per manifestare il proprio giubilo (e per comunicarlo a chi, in campagna o in montagna, abitava fuori dal centro del paese), talora contribuendo a creare situazioni non prive di risvolti comici, come leggiamo nel racconto diretto di don Ferdinando Gandolfi, parroco a Retorto in diocesi di Piacenza, che aveva promesso alla mamma di fare una grande festa all’annuncio dell’armistizio, come lei in precedenza aveva fatto nel 1918. Ascoltato dunque il messaggio di Badoglio la sera dell’8 settembre: Corsi subito al campanile a suonar le campane a più non posso. Corsero i parrocchiani. Dissi loro di suonare per tutta la notte. E fu così. Dissi loro: «Andate in cantina, prendete su tutte le bottiglie, portatele nel centro del paese. Facciamo gran festa. La guerra è finita» […] Per tutta la notte baldoria con tutti i parrocchiani che scaldati dal buon vino del prete, ci davano degli arioni spettacolari. Dopo neanche un’ora ecco arrivare tanti da Rompeggio, Pertuso, Colla, Gambaro con delle forche in mano, sudati, ansanti. Credevano che bruciasse il paese (Continuavano a suonare le campane). Quando sentirono che nel centro del paese si cantava a più non posso e ne seppero il motivo, si unirono a noi e giù baldoria. Qualche mese dopo la gente commentava: «quelle bottiglie le abbiamo riempite di lacrime»: era un falso armistizio21.
La consonanza tra parroci e fedeli nella decisione di suonare a più non posso le campane (o quelle che erano rimaste dopo la requisizione a fini di guerra attuata proprio tra 1942 e 1943)22, risulta piuttosto diffusa, anche se talora con qualche dubbio da parte del parroco. A Suzzara, nel Mantovano, mons. Settimo Mondini descrive la «ondata indescrivibile di gioia» che prese la popolazione, aggiungendo che «la folla si riversa in chiesa e vuole il suono delle campane, che non sarebbe stato possibile impedire»23, quasi a sottolineare una forzatura nei propri confronti. Don Domenico Conti, a Bassone
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(in Lunigiana) cercò di opporsi a far suonare le campane, ma «alcuni troppo creduloni salgono sul campanile e via alla lunga», «ma il sottoscritto rimase molto dubbioso, anche alle notizie più incalzanti»24. Nella stessa zona, qualcun altro consentì al suono delle campane, di fronte a persone che lo chiedevano «con insistenza, quasi tumultuando»25. Una conferma delle incertezze e delle diverse valutazioni «a caldo», ci viene anche dalle ancor più rare citazioni riferite all’impiego della bandiera nazionale in quei drammatici giorni. Per esempio nel Bergamasco, a Palazzago, fu il parroco don Benigni a fare esporre il Tricolore26 («anch’io partecipo alla gioia, sebbene non m’illuda della realtà immediata che ci attende, cioè della certa invasione dei tedeschi»), mentre a Castana, nell’Oltrepò pavese, don Angelini consigliò i suoi giovani di rimuovere la bandiera già issata sulla torre dell’acquedotto, «in attesa che si chiarissero gli eventi»27. Non mancarono comunque vivaci scontri, perché taluni parroci – non saprei dire se per senso di opportunità e di prudenza o per un più forte sentimento patriottico – si trovarono in rotta di collisione con quella parte di popolazione che intendeva dare libero sfogo ai suoi sentimenti di festa e magari approfittare della situazione di momentanea anarchia creatasi nel paese. A Quinzano (presso Langhirano, in provincia e diocesi di Parma) don Giorgio Battilocchi sentì con sorpresa in serata il suono delle campane della sua chiesa e scrisse nel Liber Chronicon: 8 settembre. In quel momento sento un suono di campane. Corro al campanile con mio fratello e mia madre: sono due farabutti, * * * e suo nipote * * * , che suonano le campane gridando che le campane sono del «popolo» e quindi possono suonarle. Li prendo per i pantaloni e li trascino giù dalle scale. Mi giurano che mi faranno la pelle28.
Severo fu pure il giudizio di don Teseo Tettamanzi (a Villarotta, presso Luzzara, in diocesi di Guastalla), secondo il quale Badoglio aveva annunciato «la capitolazione alla mercè del nemico», ma la popolazione non comprendendo il lutto della patria si diede, la parte insana, ad un falso giubilo e ad inconsueti schiamazzi […] andando a finire nella cooperativa ad ubbriacarsi. Le donne senza fede furono quelle che più si fecero compatire29.
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Concordava don Angelo Livi, priore di S. Giusto a Montalbino, nel comune di Montespertoli (Firenze): La sera dell’8 settembre 1943 si vedono in lontananza tanti fuochi come per la vigilia di S. Giovanni. E poi comincia da tutte le chiese uno scampanio a festa che riempie l’aria di un’insolita allegria. […] Io non suono le campane. Sulle sciagure della patria non si gioisce, ma si piane. Io non suono le campane30.
Le reazioni agli atteggiamenti di giubilo eccessivo non mancarono anche da parte di qualche fedele e coinvolsero i diretti superiori dei parroci. A Brescia un parrocchiano, che firmò regolarmente la sua lettera di protesta al vescovo, già il 9 settembre attaccò il vescovo mons. Tredici e il clero diocesano, anticipando giudizi tipici della futura repubblica di Salò: per tale Carlo Berardi, infatti, era «il colmo della vergogna» che si fosse salutato con gioia l’armistizio e l’asservimento allo straniero e che si fossero suonate le campane a festa: una conferma, questa, della diffusione di tali reazioni anche in mezzo al clero. Per quest’uomo, mons. Tredici non era dunque altro che «il degno pastore di un popolo, zotico pecorone caduto fino in fondo!». Da notare che nella lettera erano già presenti esplicite minaccie («Badate a voi, preti, che insegnate la carità!»)31. Anche a Perugia qualcuno – che, mantenendo l’anonimato, si definiva però appartenente all’Azione Cattolica – denunciò nelle settimane seguenti come antifascisti i preti della città che la sera dell’8 settembre hanno suonato le campane, prendendo poi parte alle manifestazioni di gioia […] per il lutto della Patria. Al loro fianco si sono visti i massoni, gli ebrei, gli atei di ogni risma, i bolscevizzanti più velenosi32.
Più vicine alla sensibilità di questi laici risultano le voci di altri preti, i quali – contrariamente ai loro confratelli fin qui citati – interpretarono subito in modo negativo l’annuncio dell’armistizio. Era forte in loro il senso patriottico e, con ogni probabilità, rimaneva intaccata nel loro animo l’impronta di una formazione cattolico-nazionalista. Vari esempi sono rintracciabili in Emilia33: L’8 settembre – scriveva don Augusto Banorri, parroco di Montese (Modena) – resterà per l’Italia un giorno di lutto nazionale. Altro che
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G iorgio Vecchio campane a festa! [...] è opinione di tutte le persone assennate che, senza il tradimento dei nostri generali e il disfattismo di molti italiani, i nemici mai e poi mai avrebbero messo piede, o meglio calpestato il sacro suolo italiano.
Di «suono dell’agonia» delle campane del Comune e della Collegiata, suonate proprio dai giovani della GIL, scrisse anche mons. Anselmo Mori a Gualtieri (Reggio Emilia)34, mentre l’altro reggiano don Guglielmo Cuoghi di Poviglio giudicò un «arbitrio» le manifestazioni di gioia dell’8 settembre, culminate nel suono dell’unica campana superstite della chiesa parrocchiale, già colpita dalle requisizioni di guerra35. Con maggior senso della misura, alcuni estensori delle cronache di istituti religiosi manifestarono un doppio sentimento – di sollievo e di pena – che meglio poteva rappresentare l’ambiguità di quei giorni. Naturalmente, mancando ogni studio sistematico in materia, è impossibile trarre da queste citazioni delle conclusioni significative sul comportamento dei religiosi italiani. Comunque a Prato suor Martinez, cronista del monastero di S. Nicolò, scrisse che tutte le suore avevano «sentito profondamente il dolore dell’armistizio incondizionato»36, mentre il direttore della scuola salesiana di Valdocco a Torino fu efficace appunto nel sintetizzare i due opposti sentimenti che tanto agitavano la gente in quei giorni: «La gioia dell’armistizio è accompagnata da una pena indicibile per la sconfitta della patria nostra»37. Dal canto loro i padri barnabiti di Voghera commentavano così: Siamo vinti, siamo servi. Dobbiamo ritornare il popolo – giullare come quella feccia che giù nelle strade canta e schiamazza, contenta… – della propria schiavitù. O Signore, tante lagrime, tante preghiere non sono bastate a cancellare la nostra viltà contro i francesi, le nostre crudeltà contro i greci. […] Cancella presto questo giorno che è il più nero della nostra storia38.
Come si vede con quest’ultima citazione, faceva talora capolino nelle valutazioni anche un tono autocritico, che rimetteva in discussione le scelte degli anni precedenti. Ma, in altri preti, questo stesso senso autocritico si indirizzava in direzioni opposte. Don Arnaldo Giambiasi a Moncigoli (diocesi di Pontremoli) lo scrisse in quei giorni di settembre, riferendosi ai
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tedeschi che già avevano fatto la comparsa in paese: «chissà che non ci facciano prima pagare caro il nostro tradimento»39. Era più o meno quello che pensava a Vernasca (Piacenza) don Alessio Scotti, per il quale l’armistizio era «cosa ottima», ma essendo avvenuto senza l’accordo tedesco, avrebbe arrecato all’Italia una «sorte peggiore»40. Sconsolati furono pure i commenti di qualche giornale cattolico, come «L’Eco di Bergamo» che si chiese amaramente: «Quale destino, quale sventura, chi mai ha potuto tramutare così le tue sorti, Patria adorata? […] Pianto su pianto»41. Anche don Girolamo Giacomini, direttore del giornale diocesano novarese «L’Azione» scrisse all’indomani che ci siamo guardati negli occhi e abbiamo trovato in tutti la stessa espressione di amarezza, non solo per un’inutile strage terminata, ma per una guerra perduta per la nostra madre Italia. Eravamo sconfitti e il perdurare della lotta non era altro che un aggiungere ferite a un corpo già straziato ed ormai incapace di qualsiasi reazione42.
3. Chi ha tradito? Dunque, il clero italiano sembrava dividersi già nell’individuazione delle responsabilità politiche e militari di quanto era avvenuto. Non era del resto una novità. Molte delle valutazioni sull’8 settembre svelano infatti un precedente e radicato giudizio sul regime fascista e sulla sua caduta. Chi addossava le responsabilità dell’armistizio a Badoglio, molto probabilmente era stato critico verso il Maresciallo anche il 25 luglio o prima ancora. In Venezia Giulia, a Gradisca d’Isonzo, il parroco scriveva nel suo Chronicon: «[Badoglio] segretamente, invece, prese contatto con le Potenze nemiche e, da massone qual’era ed è, tradendo l’Italia e gli Italiani, nonché i Tedeschi, addì 8 settembre 1943 pubblicò, per radio, l’armistizio». Anche don Giovanni Cossio a Coseano, sempre in Friuli, contestava Badoglio: «L’Esercito italiano, rimasto senza armi, non era in caso di resistere a nessuno. Inoltre l’ordine di Badoglio era di rimanere passivo e questa è una situazione votata alla sconfitta. Dio salvi l’Italia»43. Don Tito Pioli di San Pancrazio (Parma) non dimenticava l’«uomo di Caporetto» e annotava ironicamente:
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G iorgio Vecchio Il re è a Bari, l’ha annunciato lui stesso alla radio. È salvo lui, suo figlio, sua moglie, i principi del sangue. Anche Badoglio è salvo con lui. Il popolo italiano è nelle mani di Dio. [...] Oh, gli otto milioni di baionette! Oh, la strategia di Badoglio! Oh, il cuore magnanimo dei Savoia44.
La maggioranza dei commenti reperiti, tuttavia, rovesciava il giudizio, attaccando i generali «fascisti» e difendendo Badoglio, memore forse dell’appoggio che la gerarchia aveva fornito al Maresciallo dopo il 25 luglio. A Orzale (Neviano degli Arduini, Parma), don Ferdinando Rodolfi commentava: Lo sforzo di Badoglio per salvare il salvabile viene silurato dalla inobbedienza di comandanti militari fascisti che preferiscono cedere le armi al nemico fascista. […] È una cosa dolorosa ed umiliante vedere in quali condizioni sia ridotto il nostro esercito che tante pagine di eroismo ha scritto anche durante questa guerra. […] Se fosse stato guidato da comandanti fedeli al proprio giuramento la guerra sarebbe finita in breve con la cacciata del secolare nemico. Invece…45.
Sulla stessa linea era don Emilio Bazzani, a Trignano (S. Martino in Rio, Reggio Emilia): l’esercito italiano aveva deposto le armi «per tradimento dei generali fascisti»46. Era convinto di questa tesi pure don Pietro Crespolani, di Cittanova di Modena, che raccontava: «vane le difese che purtroppo in tante città non ci sono per la viltà di generali e ufficiali che hanno tradito il gen. Badoglio e la Patria tanto amata»47. Analogamente don Villa a Osteno (Valle Intelvi, Como) che riteneva che «per i numerosi tradimenti intentati a Badoglio» quella che avrebbe dovuto essere una «onesta resa a discrezione» si trasformò nel sopravvento dei tedeschi e nel giudizio che traditori fossero tutti gli italiani48. Più genericamente, altri parroci – come don Pietro Bonardi a Montemartino (Piacenza) – indicavano nei «tradimenti» la causa del fatto che l’armistizio fosse stato annunciato il giorno 8, invece che il 15 [ sic! ] 49. Aggiungeva don Aldo Mussini, parroco di S. Giuseppe a Parma: Quando si fece giorno abbiamo assistito umiliati e impotenti al crollo del nostro esercito e alla deportazione dei nostri soldati con armi e bagagli in Germania. Perché tanta umiliazione? Discordie, ambizione, corruzione dei capi e i poveri soldati pagarono! 50
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Una consistente unanimità di vedute tra i parroci si registra invece nei giudizi e nelle testimonianze critiche verso il comportamento civile e morale della popolazione. Molti preti annotarono criticamente e amaramente che la gente si era lasciata trasportare dagli istinti immediati e si era data a saccheggi e ruberie. È noto a tutti che soprattutto tra il 9 e il 10 settembre, in un clima di diffusa illegalità e assenza di ogni autorità, moltissimi furono gli episodi di saccheggio. Le narrazioni al riguardo sono moltissime e travalicano i confini del mondo cattolico. Magazzini militari, caserme abbandonate, treni in sosta sui binari, ma anche depositi e magazzini alimentari civili – come è documentato tra l’altro per Parma51 – furono ovunque presi d’assalto, in una sorta di gara a chi arrivava prima tra popolazione e esercito germanico. Con la sua riconosciuta maestria Nuto Revelli ha già descritto le scene verificatesi a Cuneo all’indomani dell’8 settembre, con la liquidazione dei beni del Regio Esercito: «Le forme di formaggio rotolano verso la città come pneumatici. Fusti di olio, sacchi di farina, ogni bendidio. Gente ricca, gente povera. Corso Monviso sembra un formicaio, si trascinano carretti e biciclette cariche fino all’inverosimile»52. I discorsi preferiti dei soldati – ha invece raccontato in seguito Italo Calvino – erano quelli sulla roba che avevano portato via «l’8 settembre», e su come avevano fatto a trafugarla, a salvarla dai soldati e dai tedeschi, e sui soldi che si erano fatti vendendola. Il mulattiere dalla faccia gialla, che all’8 settembre non aveva portato via neanche una coperta, stava zitto, con vergogna, mentre un ex cameriere sanremese raccontava di come era scappato con dieci sterline d’oro nel sospensorio. Ma l’invidia si tramutava in odio verso gli ufficiali, che avevano potuto fare sparire la cassa dei reggimenti senza darla a dividere coi soldati. Quando verrà il prossimo «otto settembre» – diceva ognuno – staremo più all’occhio. E facevano progetti e castelli in aria sulla roba che avrebbero potuto portare via il secondo «otto settembre», sui milioni che avrebbero potuto fare53.
Non stupisce pertanto che anche parecchi parroci descrivano scene simili e si lascino andare a formulare giudizi severi sulla moralità e onestà delle rispettive popolazioni. Il già citato don Villa, di Osteno in Valle Intelvi, mise in rilievo il saccheggio compiuto ai danni dei camion militari scesi dalla montagna e lasciati dai soldati in fuga in paese:
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G iorgio Vecchio I camion militari non poterono scappare in Svizzera. Si fermarono ad Osteno e la popolazione ne fece man bassa; comperò dai soldati gavette e gallette per mangiare; molto vestiario e biancheria per cifre irrisorie. I camion vennero rovinati e resi inservibili per la maggior parte; alcuni vennero buttati giù dai burroni. I documenti militari vennero bruciati; le armi nascoste entro cascine di montagna o portate via dai privati54.
Ma pure in provincia di Varese, a Olgiate Olona, don Zappa scriveva con durezza e ironia che «dopo il glorioso (?! ) armistizio» gli avieri presenti nel deposito in valle Olona se la erano squagliata, saccheggiando e lasciando tutto incustodito. Dai paesi confinanti e non, era subito arrivata una folla, così che «dalle 14 alle 20 furono asportati viveri, tessuti, stoffe, liquori, cuoio, sandali ecc. ecc. per circa 600.000 lire. Anche i nostri Olgiatesi si fecero onore e divennero improvvisamente agiati, se non ricchi»55. È comprensibile che la condanna dei saccheggi e il dolore per la dissoluzione delle forze armate fossero espressi con maggior vigore dai cappellani militari. Don Rino Cristiani, tenente cappellano del 2° sottosettore delle Guardie a Frontiera, di stanza a Valdieri di Cuneo e poi eroico cappellano partigiano delle brigate Garibaldi nell’Oltrepò pavese, scrisse di aver assistito «con le lacrime agli occhi al disgregarsi del mio bel reparto, al vandalico saccheggio dei magazzini, allo smarrimento degli ufficiali e dei soldati»56. Oltre che osservatori disincantati delle miserie umane (ma quanto queste miserie erano indotte dalla disperazione e dalla fame e quanto dall’egoismo e dalla voglia di speculazione?), i parroci si sforzarono di dare qualche lezione di realismo ai propri fedeli. Passato il primo momento di euforia, furono infatti tanti i preti che si resero conto – prima di altri – dei rischi terribili che si andavano prospettando per tutti. E così, più che il canto dei Te Deum o il suono delle campane (o, meglio, insieme a essi), fu diffuso un atteggiamento di prudenza e perplessità, che indusse a mettere in guardia la popolazione. Così avvenne a Bellano, sul lago di Como, dove don Rovelli, alla soddisfazione fece seguire il senso di realtà e della «tragicità dell’ora»; così a Buscate, nell’Alto Milanese dove don Mariani convocò in chiesa il popolo indicendo una funzione speciale sia per frenarne l’entusiasmo sia per ammonirlo che ci
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sarebbe stata «la reazione selvaggia dei Teutoni»57. In alcune realtà locali – come quelle del Friuli – non ci fu particolare bisogno di mettere in guardia la gente. In quelle zone, infatti, era ancora vivissima la memoria del comportamento degli occupanti tedeschi nei giorni e nei mesi seguiti alla ritirata di Caporetto. Così, «la popolazione, conscia per le esperienze del 1918 della crudeltà del nemico, pensava a provvedersi di nascondigli onde sottrarre alla azione depredativa quanto vi poteva soggiacere ed era possibile nascondere»58. Altrove la percezione della realtà impiegò qualche tempo prima di farsi strada. Esemplare il ricordo lasciato da don Nicola Bianchi, parroco a Bugiallo, un paesino presso Colico, nell’Alto Lario: 8 Settembre. Quando la Radio trasmise laconicamente (non erano ancora le 20) il proclama di Badoglio, confesso di non aver avuto il minimo dubbio su quanto avrebbe potuto succedere. Corsi a darne la «lieta» notizia. E subito si incominciò a sentire dovunque un lieto scampanio; feci suonare anch’io e di più: una benedizione di ringraziamento. Avremmo dovuto cantare il miserere . L’avvenimento era troppo grave di incognite; qualcuno si affrettò a farmi osservare il pericolo tedesco. Lo prevedevo, ma non così presto e non sospettavo che il governo di allora, tradito o traditore, abbandonasse o dovesse abbandonare Roma. Vivemmo giorni di attesa, senza giornali e con la Radio che non trasmetteva che il proclama Badoglio che ormai ci pesava come un niente. Cominciavano ad arrivare soldati fuggiti per non essere catturati dai tedeschi, portavano così la nuova che uno era l’ordine: non lasciarsi prendere. Capimmo la disfatta e come i tedeschi la facessero da padroni, ci sentimmo «occupati». Trepidammo per quelli che non arrivavano; e che casi pietosi di arrivi! In tutte le fogge; ridicole anche, e in mezzo a tutte le peripezie. Nella impressione generale del disastro, trepidando per gli assenti ancora, dal 12 al 15 un triduo di propiziazione alla Madonna e una promessa59.
In questi frangenti, finì per prevalere lo smarrimento di fronte a quello che stava accadendo. In certi casi la confessione era esplicita: nel Parmense, in val Taro, a Gaiano con Oppiano don Pietro Melegari annotava: «10 settembre. Continua la baraonda dello scompiglio e del disordine. Dove si andrà a finire di questo passo se Dio non ci aiuta?». E il suo collega don Umberto Gambara, a Sala Baganza: «Siamo in preda allo spavento. Che succederà?». Incerto sul da farsi, questo parroco il giorno dopo non trovò di meglio che sa-
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lutare «romanamente» i soldati germanici giunti in paese60. Un tale smarrimento poteva poi essere accresciuto dalla persistenza dei sentimenti antinglesi, veicolati da tanti anni di propaganda fascista. Così a Gaiano, l’appena citato don Pietro Melegari si sfogava: 8 settembre. Fra l’Italia e l’Inghilterra è stato firmato un armistizio col patto che se l’Italia è attaccata dai tedeschi deve reagire: l’Inghilterra ha promesso il suo aiuto; ma si tratta della perfida Albione, la quale per salvare se stessa sacrifica sempre gli altri. Povera Italia! 61
Insomma, e per concludere, incertezze e paure prevalsero dopo i primi momenti di gioia irrefrenabile e contagiarono tutti. Così a Rocca Sigillina in Lunigiana: Alcuni corsero al campanile, altri si dettero alla pazza gioia, altri pellegrinarono, anche scalzi, in preghiera all’Oratorio della Villa. Per lo più però si udivano ansiose le domande. Che sarà ora? Se n’andranno i tedeschi? Ritorneranno i soldati? E non c’era nessuno che potesse dare una risposta sicura
scriveva il giovane parroco don Giuseppe Betta62. 4. Le prime raccomandazioni dei vescovi Ho già accennato al fatto che – anche a causa della persistente chiusura della gran parte degli archivi ecclesiastici – è piuttosto difficile capire le reazioni immediate dei vescovi all’annuncio della firma dell’armistizio. Quel poco di documentazione che è nota sembra confermare una linea di tradizionale prudenza, con singoli presuli impegnati a limitare le eccessive manifestazioni di giubilo: si sono già citati al riguardo il card. Boetto e mons. Monterisi. Tra i primi a intervenire pubblicamente vi fu mons. Marcello Mimmi, arcivescovo di Bari, che già il 9 settembre diramò un comunicato mediante il quale invitava all’unione, alla calma, alla fiducia e all’ordine: «Non si facciano inconsulte dimostrazioni, si mantenga la disciplina sotto il governo delle autorità costituite. Sia il contegno di tutti e di ciascuno serio e dignitoso»63. Una settimana dopo anche il vescovo di Parma, mons. Evasio Colli, ribadì concetti analoghi, invitando i suoi fedeli a restare tranquilli anche per evitare di rendere ancora «più difficili le condizioni»64. Ma alla metà del mese, quando
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appunto Colli scriveva, si era ormai pienamente consapevoli della realtà dell’occupazione tedesca e le illusioni della sera dell’8 settembre erano ormai svanite da giorni. Più che un commento diretto all’annuncio dell’armistizio, dunque, il vescovo di Parma contribuiva a dare il via all’interminabile serie di raccomandazioni e di inviti alla prudenza, all’obbedienza e alla «pacificazione» che praticamente tutti i vescovi d’Italia avrebbero reiterato a partire dalla fine di settembre e i primi di ottobre 1943. Nell’immediatezza dei fatti, in ogni caso, qualcuno mostrò una grande risolutezza nell’azione: una risolutezza mancante invece – come ben si sa – in tantissimi altri protagonisti di quelle giornate. È quel che avvenne a Padova. Qui il vescovo mons. Agostini, nei giorni precedenti all’8 settembre aveva avuto la notizia che il governo Badoglio aveva dato disposizione di rallentare le requisizioni delle campane e interpretò correttamente questo segnale. Così la stessa sera dell’8 settembre egli fu prontissimo e ottenne dai comandi militari locali la promessa della riconsegna delle campane già requisite ma non ancora distrutte; il giorno dopo, il 9, ordinò a tutti i parroci di recarsi immediatamente e con ogni mezzo alle fonderie per riprendersi le campane e precedere quindi il presumibile arrivo dei tedeschi. L’operazione riuscì perfettamente e il 10 settembre i parroci fortunati poterono fare ritorno ai loro paesi con le campane salvate, proprio mentre i germanici compivano il percorso inverso, entrando nel capoluogo65. Ma vediamo più da vicino come si comportarono i vescovi lombardi, per i quali ho svolto specifiche indagini. A Cremona mons. Cazzani descrisse schiettamente ai suoi fedeli le responsabilità che sentiva su se stesso e il senso della propria personale impotenza, quasi a marcare il senso di compartecipazione con le loro tragedie quotidiane. Ma altro non poteva fare che invitare una volta di più a evitare rancori e vendette, a vivere con sobrietà e disciplina e a usare verso le truppe d’occupazione «tutta la prudenza, il rispetto e l’umanità, evitando tutto quello che può rendere più difficile la nostra situazione. La cristiana dignità, la pazienza, la carità vincono ogni forza umana»66. A Bergamo mons. Bernareggi sintetizzò in tre parole («preghiera, serenità d’animo e dignità») quello che avrebbe dovuto essere il comportamento dei cristiani, richia-
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mando alla forza della fede e invitando anche lui a evitare «tutto ciò che potrebbe rendere la nostra situazione più difficile»67. A Como mons. Macchi insistette sulla necessità di stare disciplinati per evitare guai maggiori e disordini sociali che «non avrebbero altro risultato che quello di rendere più gravi i danni della guerra e più difficili le condizioni della popolazione»68. Tutto religioso e fondato sul binomio preghiera-carità fu il messaggio di mons. Tredici ai bresciani69. Non molto dissimili suonarono infine i richiami che a Pavia mons. Allorio e a Crema mons. Franco rivolsero ai rispettivi fedeli70. Basti per tutti il ricorso diretto al testo del mantovano mons. Menna, un vescovo notoriamente sbilanciato in senso favorevole al fascismo: E per l’amore di questa divina Patrona fate, o miei cari, tesoro delle raccomandazioni con cui terminiamo questa nostra esortazione. Praticate la carità verso chi soffre ed è in bisogno. Bandite ogni egoismo che dovesse tentarvi di trar profitto dalle sventure o dalle necessità del prossimo. Osservate le disposizioni che vengono emanate dalle autorità. Trattate con rispetto le truppe germaniche. Guardatevi dal fare sabotaggi o violenze, che oltre essere atti inconsulti ed inutili, non fanno che peggiorare la situazione e sono causa di severe contromisure che potrebbero essere scontate da povere vittime innocenti. I sacerdoti persuadano alle loro popolazioni che queste norme si ispirano a un vero amore verso questa Patria tanto sfortunata e tanto degna che almeno i suoi cittadini non aumentino le sue sventure71.
Di lì a poco i vescovi avrebbero dovuto confrontarsi con ulteriori problemi, quelli cioè causati dagli esordi della resistenza e dalla nascita della RSI . Costretti a muoversi da soli nell’immediato, essi si sollecitarono tuttavia a vicenda per avere consiglio e assumere posizioni comuni. Verso la fine del mese Cazzani scrisse a Schuster manifestando tutto il suo scoramento. Intanto – informava – io ho riletto e raccomando a tutti i sacerdoti di rileggere il Capo V della III Dissertazione del Saggio teoretico di diritto naturale del Taparelli, la dottrina del quale ebbe l’augusta sanzione di Leone XIII nella sua Enciclica Au Milieu diretta ai francesi Cattolici il 16 febbraio 1892.
Il vescovo di Cremona poneva sul tappeto anzitutto «il caso angustioso dei fuggitivi», per i quali egli non voleva assumere responsabilità dirette: «Per conto mio non assumo la responsabilità di consigliare una linea decisa di condotta. Dico solo
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che si prospettino chiaramente i pericoli dell’una e dell’altra via e facciano quel che vogliono» e per i quali anzi non vedeva ben chiaro il futuro: «Che faranno tanti che si danno alla macchia, nella stagione che si avanza? Si faranno bande di ladri e di briganti?»72. Tenendo conto dei criteri sopra indicati non stupisce dunque che diversi vescovi lombardi invitassero i propri preti alla massima prudenza nella nuova situazione politico-militare. Al riguardo merita di essere riportato per intero il limpido testo del cardinale Schuster, del 9 ottobre: Ai RR. Sacerdoti che Ci domandano direttive, rispondiamo «in Domino»: Soprattutto nelle attuali distrette, è opportuno che la Chiesa si mantenga fuori e al di sopra di tutte le diverse competizioni d’indole politica. «Veritatem facientes in charitate», come ci ricorda l’Apostolo, mentre ubbidiamo secondo le leggi alle legittime Autorità stabilite e cooperiamo alla tutela dell’ordine pubblico, evitiamo di piegare la Religione ed il Divin Culto all’alea delle contingenze umane. Quando a San Paolo si riferiva che a Corinto c’erano fra i Cristiani vari partiti e glie se ne facevano i nomi, egli prendeva la penna e scriveva fieramente: Ego autem Christi. Così dobbiamo fare ancor noi. Noi facciamo del bene a tutti, per tutti condurre e ricondurre a Cristo. Fuori di Chiesa disputino pure fra di loro i vari partiti, in Chiesa non si raccoglie che un’unica società soprannaturale: la Chiesa, una, santa, Cattolica ed Apostolica73.
Anche mons. Tredici a Brescia era costantemente preoccupato di evitare colpi di testa e quindi conseguenze irreparabili. Il 30 settembre 1943, ad esempio, il vescovo convocò una quarantina di sacerdoti, invitandoli poi a riferire a tutto il clero le sue direttive: «il sacerdote deve starsene al di sopra degli spiriti di parte; deve essere coraggioso, prudente, conciliativo, caritatevole; amare la patria e il popolo nostro»74. Pochi giorni dopo mise per iscritto in modo ufficiale tali norme e invitò in particolare a seguire la «prudenza»: Nulla quindi che possa compromettere inutilmente il nostro ministero, che possa essere interpretato come un eccitamento a contravvenire alle disposizioni emanate per l’ordine pubblico. Soprattutto, la nostra predicazione deve essere la predicazione della parola di Dio, sempre dignitosa e serena, mai scendere ad occuparsi di quello che non le appartiene75.
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Il tempo iniziò a chiarire un po’ le cose, ma solo con il successivo mese di ottobre i vescovi di tutta l’Italia occupata dai tedeschi e in mano alla RSI poterono iniziare a dare direttive un po’ più concrete, il cui esame tuttavia esula dallo scopo di questo studio. Ci si deve limitare pertanto a ricordare che a Bergamo mons. Bernareggi annotò nel suo diario, sotto il titolo La linea che seguo , a proposito di coloro che intendevano far parte delle formazioni partigiane, queste frasi 1. Faccio sapere che, per la paternità spirituale che posseggo, i miei giovani li porto tutti nel cuore e per tutti prego; 2. Comunico che i sacerdoti non lasceranno mancare a nessuno l’assistenza spirituale perché i rifugiati in montagna sono anch’essi anime a noi carissime […]; 3. Tuttavia, ritengo opportuno che né io né i miei sacerdoti prendano una responsabilità diretta nell’azione (io, designando cappellani per gli evasi e consigliando direttamente l’evasione; i sacerdoti, tenendo presso di sé in casa gli evasi, facendo per essi servizio di cassa, custodendo e procurando il vettovagliamento, ecc.) per restare più liberi nella nostra funzione spirituale. Ho detto a qualcuno che a me sembra sia nell’interesse loro non coinvolgere il clero nelle loro attività, perché il clero ha una missione importantissima da compiere proprio in questo momento, quella di confortare e di sostenere il morale delle famiglie del popolo76.
Questa linea fu estesa dal vescovo anche all’AC, visto che alla Consulta diocesana dell’associazione dell’11 ottobre 1943 egli ribadì che bisognava attendere a potenziare le forze dello spirito, ma non lasciarsi coinvolgere dalle attività che si svolgono attorno a noi. I sentimenti dei cattolici sono chiari, tuttavia non va dimenticato che l’A.C. non è una associazione di azione politica. Prudenza e saggezza77.
5. Solidarietà e paternage di massa Come per tanti altri italiani, l’8 settembre (e dintorni) giocò una parte fondamentale e decisiva sul futuro orientamento del clero: era quello il momento della scelta di campo, se non per tutti, almeno per tanti. Così come i laici si trovarono nella condizione di dover scegliere tra l’andare a casa, l’andare in montagna o il collaborare con i tedeschi, analogamente i preti furono costretti a prendere rapide decisioni sul da farsi, sia nel senso di consigliare i propri fedeli e soprattutto i propri
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giovani, sia in quello di assumere decisioni operative. Molti agirono istintivamente (ed evangelicamente) davanti alla scelta di aiutare i soldati (italiani e alleati) fuggitivi. Parecchi non avevano maturato affatto una coscienza politica: avevano anzi plaudito ai favori del regime, avevano esaltato la guerra d’Etiopia e il franchismo spagnolo, accettato persino le leggi razziali. Erano stati insomma pienamente inseriti nella logica propagandistica e nazionalistica del regime. Ma si erano spesso scontrati con il fascismo sul tema della morale, dei balli pubblici, della promiscuità nel tempo libero, dando vita a contese che potevano assumere anche risvolti di autentica comicità popolare. Inoltre, e specialmente nelle campagne, diversi di loro avevano assunto posizioni in favore della Polonia e della pace tra 1939 e 1940, incappando talora nei fulmini del regime a causa delle loro preghiere, delle omelie e degli articoli pubblicati sui bollettini parrocchiali, ritenuti «disfattisti» e «pacifisti». Ma con l’8 settembre tutti si ritrovarono a scegliere, nei fatti. E tutti scelsero di aiutare i fuggitivi, prima ancora di «pensare politicamente» e quindi di assumere una coscienza critica nei confronti di quanto stava accadendo. Questo atteggiamento permarrà in molti fino al 25 aprile 1945 e oltre. Sull’impegno caritativo in favore della massa di fuggiaschi, non vi possono essere dubbi. Ogni fonte che ho potuto consultare, a qualsiasi parte d’Italia si riferisca, concorda sulla descrizione anche fisica dei giovani e degli uomini militari in fuga e sullo spontaneo moto di solidarietà diffusosi nei loro confronti. Valgano per tutti le parole scritte nella sua cronaca da don Nello Magri, parroco a Carrobbio (Parma): Il paese, in questo frangente, come sempre, non è venuto meno alla sua tradizione di generosità col portare soccorso ad ognuno senza guardare se fosse italiano o tedesco, o inglese: la carità non guarda in faccia a nessuno78.
Tante furono del resto le fiumane di fuggitivi sull’Appennino e le cronache dei parroci di quell’area sono ricche di dettagli: così, per esempio, è il racconto fatto da don Betta a Rocca Sigillina, in Lunigiana, con un lungo elenco di nazionalità di persone passate per il paese e assistite, oltre agli italiani79. Il fatto è che questa attività solidaristica se – almeno nei primi giorni successivi alla notizia dell’armistizio – poteva tro-
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vare una qualche comprensione dalla parte avversa nel caso di soldati italiani, appariva subito rischiosissima trattandosi di inglesi o americani evasi dai campi di prigionia. A ridosso dell’8 settembre il primo impegno di molti fu comunque quello di soccorrere i nostri soldati sulla strada della deportazione, intervendo in modo particolare nelle stazioni di passaggio e di sosta. Per rimanere al caso della Lombardia, va precisato che il sostegno offerto alle centinaia di migliaia di uomini in procinto di essere deportati si effettuò soprattutto in città come Cremona e Mantova, che per posizione geografica ben si prestavano come luoghi di raccolta prossimi alla linea ferroviaria Bologna-Verona-Brennero. Nella città del Torrazzo fu il padre cappuccino Isidoro da Milano a organizzare l’assistenza. I frati erano stati coinvolti nelle vicende fin dalla mattina del 9 settembre, quando in città si erano verificati scontri a fuoco tra italiani e tedeschi proprio nei pressi del loro convento, così che era stato immediatamente spontaneo il gesto di aiutare i moribondi e i feriti, alquanto numerosi. La cronaca stesa dallo stesso p. Isidoro è preziosa nella descrizione del successivo impegno dei frati: Frattanto – scrisse il frate cappuccino – i soldati disarmati venivano concentrati in numero di alcune migliaia nel campo erboso e recintato dell’ex Zuccherificio, a pochi passi dal Convento. Quella sera di giovedì e specialmente nella giornata di venerdì, i Padri fecero opera di soccorso verso i detti prigionieri concentrati, portando uva dal convento, e pane, e acqua, essendo privi quei poveri figlioli di ogni alimento e bevanda per un giorno e mezzo, non interessandosi di loro l’autorità tedesca occupante. […] Il mattino del sabato 11 tutti i prigionieri alle ore 7 incolonnati tra guardie armate, vengono condotti alla stazione ferroviaria. La popolazione si riversa sulla via al loro passaggio: offre loro cibarie e indumenti, contrastati in generale dalle guardie. All’entrata della stazione tutti i civili vengono trattenuti fuori colla forza e a colpi di fuoco. P. Isidoro riesce ad entrare e con lui un rev. Prete e un gruppo di signorine fintesi della Croce rossa e si inizia un servizio che è stato provvidenziale: ricevere ai cancelli della stazione ogni genere di alimenti che la popolazione portava per i prigionieri partenti e distribuirli loro.
Nei giorni seguenti delle vere crocerossine poterono dare una mano, mentre anche altri preti affluirono per offrire assistenza spirituale, così che i frati scelsero per la loro presenza soprattutto le ore notturne e si diedero da fare per prendere i
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nominativi e gli indirizzi dei partenti, tanto da poter scrivere centinaia e centinaia di lettere o cartoline alle famiglie, alcune delle quali poterono recarsi a salutare i partenti o vederli nelle successive stazioni di viaggio, almeno quando si riusciva a sapere in tempo gli orari dei convogli verso la Germania80. Va peraltro detto che molti altri preti si impegnarono nel soccorso ai soldati in fuga e, di conseguenza, si trovarono poi portati alla resistenza. Così per esempio accadde a don Guido Bocchi, presso la parrocchia di S. Imerio: dapprima accolse in casa soldati sbandati, li nascose, li rifocillò; poi mise al sicuro le armi che questi avevano con sé; infine passò alla stesura e alla diffusione di volantini antitedeschi81. A Mantova, punto nevralgico nella nascente organizzazione tedesca, venne creato un campo di raccolta per ufficiali italiani nella caserma «Montanara» di Dosso del Corso, mentre la truppa venne concentrata in località San Giorgio presso il Nuovo Arsenale e in città vicino alla Chiesa del Gradaro, nei capannoni del deposito San Nicolò del 4° reggimento artiglieria contraerea («campo del Gradaro»). Dal 10 settembre e per tutto ottobre la stazione di Mantova vide un’alta frequenza di treni di deportati, che da sud (Modena) o da ovest (Cremona) puntavano a nord. Questi convogli, dove erano rinchiusi italiani ma anche alleati, stavano fermi a lungo sui binari, in condizioni disastrose per i prigionieri, dato l’affollamento dei carri bestiame a loro destinati. Non per questo la sorveglianza tedesca risultava meno rigida, così che bisognava operare con cautela per poter avere informazioni e portare aiuto, contenendo nel frattempo la folla costantemente raccolta al di fuori della stazione. Colonne di militari andavano intanto affollando la città e fu proprio in questo contesto che si consumò il sacrificio di Giuseppina Rippa, una giovane donna di 29 anni uccisa dai tedeschi l’11 settembre per aver tentato di portare pane ai prigionieri in transito per piazza Garibaldi. Nei citati campi di raccolta, con l’autorizzazione germanica, un nutrito gruppo di preti poteva intanto darsi al servizio pastorale dei prigionieri i passaggio, potendo anche celebrare la messa domenicale82. Casi analoghi sono stati documentati da Gios per l’area del Padovano83. A Padova le giovani della parrocchia del Torresino, con il parroco don Girolamo Tessarolo, si recarono in quei frangenti all’ingresso della caserma di S. Giustina e si fin-
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sero sorelle o fidanzate dei militari, riuscendo a farne uscire parecchi. Li ospitarono poi in casa, fornendo i vestiti dei fratelli o del padre e in cambio ricevettero le armi che provvidero a nascondere. A Chiesanuova il parroco don Silvestri andò più volte al Campo di Marte dove passavano e sostavano molti convogli di deportati, indossando una fascia della Croce Rossa. Per sua fortuna non venne fermato dai tedeschi e riuscì a far scappare molti militari, conducendoli a un viadotto per l’acqua che sbucava in aperta campagna. Alla fine dovette però fuggire alla svelta, essendo minacciato armi alla mano. Analoghe scene sono state descritte per il Friuli, a Udine84. In queste e in altre città, dunque, si poté lavorare però solo per le imponenti masse di prigionieri, pur senza escludere aiuti a eventuali fuggiaschi. A Brescia, per esempio, don Nomolli, parroco di S. Eufemia, la cui chiesa era fisicamente addossata all’edificio del distretto militare, fece fuggire molti militari e con l’aiuto della gente distribuì abiti civili; analogamente si comportò il parroco di S. Faustino85. Nelle località di campagna e di montagna dell’intera regione, invece, i parroci si trovarono di fronte a piccoli gruppetti di uomini in fuga, ai quali era più facile offrire solidarietà. Ma, a differenza delle città dove l’aiuto andava pur sempre almeno tacitamente concordato con i tedeschi, qui la situazione era già potenzialmente di resistenza all’occupante. I giorni successivi all’8 settembre, perciò, significarono per molti preti un passaggio implicito all’opposizione, molto spesso senza aver neppure maturato una pur minima coscienza politica e senza magari rendersi del tutto conto delle conseguenze cui si andava incontro. Per così dire, e parafrasando il concetto di maternage di massa, intelligentemente adottato per spiegare il comportamento delle donne italiane in quei tragici giorni, i preti compirono una funzione di paternage di massa verso i soldati. Non tutti, ovviamente, erano tanto disponibili, magari solo per umanissima paura delle conseguenze. Così, nell’Oltrepò, il parroco di S. Eusebio annoterà qualche tempo dopo: «Passo un pessimo Natale, perché mi viene mandato in casa un tenente siciliano sbandato, certo Gemma, e devo nasconderlo e mantenerlo con rischio della vita, perché è ricercato»86. Anche se calibrate su episodi delle settimane successive, le parole di un celebre prete della Valle Camonica, don Carlo
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Comensoli (poi decisamente impegnato nella resistenza) ci ridanno bene l’immediatezza dei fatti: Tutti quelli che scappavano dai campi di concentramento, ebrei e altri, discendevano dai monti e, volere o no, passavano di lì. Passavano di lì, e dove dovevano andare? La persona più umana, pensavano, sarà il parroco. Quindi venivano da me a chiedere qualche cosa: l’alloggio, un pane, una guida che potesse loro insegnare la strada che portava alla Svizzera. [...] Erano buoni i miei parrocchiani. E quando vedevano degli «sbandati» venire alla casa del parroco attraversando tutto il paese, capivano: «I va dall’arsipret! » «vanno dal parroco! »; e nel loro buon senso pensavano: avrà certo bisogno di qualcosa perché a soldi sappiamo come sta e roba da mangiare ce n’è poca87.
Episodi del genere avvennero ovunque. Citando i fatti, alla rinfusa e in modo rapsodico, si può ricordare ancora che sempre nel Bresciano, a Cortine di Nave, il parroco don Filippo Bassi fece dormire nel solaio della sua casa diversi soldati in fuga e coinvolse la gente nell’opera di dono di vestiti o alimenti, in una scena di impressionante mobilitazione collettiva88. In varie cascine di Gambara, nella bassa bresciana, invece, vennero ospitati circa 150 prigionieri angloamericani e anche in tal caso furono il parroco don Giovanni Barchi (che poi nascose pure don Primo Mazzolari) e il clero della zona a organizzare la raccolta di indumenti e alimenti89. Il fenomeno più macroscopico fu tuttavia connesso alla presenza nei pressi di Bergamo del cosiddetto campo della Grumellina, a Grumello, in una vecchia fornace di mattoni. Per avere una pur parziale idea delle dimensioni del fenomeno, basti pensare che solo in questo campo si trovavano all’8 settembre circa 4000 prigionieri delle più varie nazionalità e che di questi ben 2500 riuscirono a fuggire90. In realtà le scarse notizie, confuse e generiche concordano sulla cifra complessiva di 7000 reclusi, di cui però 3000 erano stati smistati in vari sottocampi di lavoro. Si trattava di serbi, croati, cechi, albanesi, greci, francesi, inglesi, congolesi, algerini e altri soldati delle truppe coloniali. L’esodo fu massiccio e inevitabile e i preti della zona si trovarono immediatamente coinvolti in prima persona. Don Agostino Azzolari, vice cappellano al campo della Grumellina, raccontò poi che già prima dell’8 settembre la gente aveva aiutato qualche prigioniero a scappare: dopo quella data, lui stesso alloggiò i fuggitivi ammalati e
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li curò, invitando tutti i confratelli alla prudenza e decidendo di non legarsi ad alcun gruppo. Arrestato per questa sua attività, dopo l’uscita dalla prigione cercò furbescamente di farsi amico dei militari tedeschi mandati alla Grumellina91. Don Teodoro Dolci, parroco di S. Tomaso alla periferia di Bergamo, si trovò la parrocchia letteralmente invasa dagli evasi e dovette per forza di cose mobilitare i propri parrocchiani per rifocillarli: da quel momento tutti, prete e laici, si trovarono coinvolti nella repressione tedesca (don Dolci venne in seguito più volte arrestato e seviziato)92. Don Dolci ricordò che – abitando a pochi passi dalla ferrovia Milano-Bergamo – poteva vedere i treni che, transitando su un tratto in salita, rallentavano prima di arrivare in stazione a Bergamo, consentendo a molti fuggitivi di saltar e giù e cercare poi aiuto da lui: «Il parroco poteva disinteressarsi? I tedeschi, del resto, li conoscevo bene, per averli avuti per circa tre anni davanti alle nostre trincee ed esserne stato ferito bene…» [al tempo della prima guerra mondiale] 93. In una situazione simile venne a trovarsi un altro prete – anche lui poi finito in carcere e anzi processato e deportato – don Mario Benigni a Palazzago, il quale creò un apposito comitato di assistenza, coinvolgendo le donne e i giovani del paese. Da notare che nei suoi successivi ricordi don Benigni non trascurerà di sottolineare il ruolo rivestito proprio dalle donne: «sono le nostre donne, le più umili e sconosciute che il mondo ha sempre chiamato “bigotte” che giorno e notte lavorano, cucinando o rattoppando o assistendo malati»94. Nella città di Bergamo fu soprattutto don Bepo Vavassori, presidente del Comitato della Croce Rossa, a cui collaborava anche Betty Ambiveri, a mobilitarsi, fornendo abiti e viveri ai fuggiaschi e ospitandone molti nelle case del Patronato S. Vincenzo, a S. Paolo d’Argon, Endine e soprattutto a S. Brigida. Anche per questo sacerdote arriveranno presto tanti guai95. Lo stesso dicasi per don Agostino Vismara e per don Antonio Seghezzi, tanto importanti nella diocesi bergamasca e entrambi deportati (Seghezzi morì poi a Dachau). Va ancora citato almeno don Fiorenzo Berzi, coadiutore nella parrocchia cittadina di S. Alessandro della Croce in Pignolo e direttore dell’Istituto Sordomuti, perché la casa e la sacrestia di questo prete divennero luoghi di raccolta e di smistamento dei fuggitivi
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proprio verso il Patronato S. Vincenzo e la Croce Rossa e quindi da don Vavassori, oppure verso l’Istituto Palazzolo da don Tranquillo Dalla Vecchia. Don Berzi dovrà presto eclissarsi alla notizia di un ordine di arresto imminente96. L’intera bassa lombarda fu pure interessata in quelle settimane dall’intenso movimento dei fuggitivi. Si trattava anche in questo caso non solo di italiani, ma di prigionieri alleati che in precedenza le autorità fasciste avevano sparpagliato in cascine e frazioni, per essere adibiti ai lavori nei campi. Non mancavano poi gli equipaggi di aerei anglo-americani abbattuti nei cieli italiani e che, salvatisi, si trovavano a vagare per le campagne. In certe zone, come nell’area estesa tra Milano e il Ticino, fuggiaschi di ogni genere si trovavano costretti a fermarsi nella loro fuga di fronte agli ostacoli naturali, essendo ovviamente i ponti ben sorvegliati. Anche i preti della zona – come don Palestra e don Gaetano Seveso ad Abbiategrasso, don Roberto Verzini a Ozzero e don Luigi Zoja a Gaggiano – si dedicarono alla loro assistenza97. Nel Lodigiano, dove invece esistevano «centri di raccolta» locali – come a Motta Vigana e a Villanova Sillaro – fu tra gli altri il parroco di Retegno (presso Codogno) ad aiutare chi passava da quelle parti in cerca della salvezza: La mia casa fu meta di fuggiaschi militari di ogni regione d’Italia. Venivano da Padova, da Mantova, da Cremona a piedi. Li rifocillavo, li nascondevo e poi al mattino prestissimo se ne andavano attraverso i campi verso i loro paesi98.
Impressionante risulta la vastità delle reti di aiuto e solidarietà che si formarono nelle campagne pavesi, come ha documentato nei dettagli Giulio Guderzo, al quale opportunamente rinvio99. Significativo, anche per la personalità del principale protagonista, fu quanto avvenuto nel Mantovano, a Bozzolo, il paese di don Primo Mazzolari. Qui la popolazione si mobilitò per raccogliere pane, carne, formaggio e frutta da distribuire ai soldati fuggiaschi o di passaggio come prigionieri. Alcuni operarono pure per nascondere i fuggiaschi nelle campagne, sbrigare la corrispondenza con le famiglie e nascondere le armi100. Ma ciò che conta qui sottolineare è che in casi del genere – dove cioè era presente un parroco già sensibile ai problemi po-
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litici e comunque già solidamente antifascista – il paternage di massa si trasformò immediatamente in movimento resistenziale. Infatti la stessa sera dell’8 settembre don Primo in chiesa esortò alla resistenza contro i tedeschi e il giorno dopo radunò in canonica gli esponenti dell’antifascismo per costituire un primo comitato di difesa pubblica. Qui, ovvero nella fascia di pianura prossima al Po, la tipologia degli aiuti cambiava ulteriormente: anzitutto bisognava aiutare i fuggitivi a passare da una parte o dall’altra del fiume, evitando i sorvegliatissimi ponti. Sempre nel Mantovano, a Sacchetta, don Alceste Rossetti mobilitò dunque i paesani e fornì persino cartine per orientarsi, convocando barcaioli che potessero trasbordare verso sud sia gli italiani, sia gli inglesi101. Tutti questi uomini andavano pertanto in direzione contraria rispetto ai loro compagni di sventura della Grumellina o di situazioni analoghe, che invece erano mandati a nord, in montagna o verso la Svizzera. Con ogni probabilità, non tutti i preti si comportarono come questi loro confratelli, preferendo trarsi in disparte o facendosi condizionare da umanissime paure. Il loro comportamento rimane peraltro ancor più difficile da documentare e valutare su un piano quantitativo, specie a causa del tipo di fonti disponibili e delle caratteristiche di tanti studi storici. Quel che si può invece sostenere, in via di conclusione, è invece il fatto che, per quanti diedero una risposta positiva alle invocazioni di aiuto dei fuggiaschi, questo significò nei fatti il superamento pratico di quelle differenze di valutazione politica sul fascismo e sull’8 settembre che ho ricordato. Il prete «buon samaritano», infatti, pur mantenendo magari profonde riserve sulla resistenza e sull’apporto comunista, finì volente o nolente per trovarsi schierato e considerato quantomeno non affidabile, se non ostile, al rinato fascismo e alla RSI . Ed è significativo ricordare anche il giudizio formulato – a proposito del rapporto tra 8 settembre, solidarietà spontanea della gente e sviluppi successivi – da un autorevole gruppo di laici e di religiosi a un anno di distanza dall’annuncio dell’armistizio. Dell’8 settembre il foglio clandestino «L’Uomo» diede infatti un’interpretazione particolare, perché lungi dall’insistere sui significati politici di quella data e sui molteplici significati attribuibili al «tradimento» allora compiuto, nel dicembre 1944 pose in rilievo la «grandezza» del popolo italiano
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che – «mediocre» al tempo della guerra d’Etiopia, «assente» durante la guerra civile di Spagna, «incerto, turbato, smarrito» nei primi tre anni di guerra – aveva saputo proprio l’8 settembre ritrovare se stesso: Gli italiani non si erano sentiti mai uniti, per il passato, come lo furono in quei giorni tremendi: da cuore a cuore, da volto a volto, da anima ad anima. Si riconoscevano. Si aiutavano. Si amavano. Milioni di soldati in fuga per le strade e i viottoli. Milioni di esuli. Non uno si vide rifiutato un pane o una benda. [...] Traditi da tutti, dai nemici e dagli amici, restavamo noi, noi soli con noi102.
Una visione troppo ingenua e ottimistica? La discussione su questo punto rimane doverosamente aperta. Note * Anticipo in questi atti alcuni risultati della mia ricerca su Lombardia 1940-1945. Vescovi, preti e società alla prova della guerra , ora in stampa presso la Morcelliana di Brescia (a questo libro rinvio una volta per tutte per quanto riguarda i riferimenti alle diocesi e alle parrocchie lombarde). Nel testo qui presentato ho cercato di aggiungere informazioni e documentazione anche su altre regioni italiane, in particolare del centro-nord. 1. Nella gran messe di testimonianze e studi, mi limito a rinviare alla sintesi offerta da C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 13-23. 2. Cito, a puro titolo di esempio, i lavori di I. Garzia, Pio XII e l’Italia nella seconda guerra mondiale , Morcelliana, Brescia 1988, pp. 269 ss.; C.F. Casula, Domenico Tardini (1888-1961). L’azione della Santa Sede nella crisi fra le due guerre , Studium, Roma 1988, pp. 212-220. 3. M. Casella, Clero e politica in Italia (1942-1948), Congedo Editore, Lecce 1999; inoltre la serie di volumi pubblicati per iniziativa dell’Istituto Luigi Sturzo e tutti editi da il Mulino, Bologna 1997: Cattolici e resistenza nell'Italia settentrionale , a cura di B. Gariglio; I cattolici e la resistenza nelle Venezie , a cura di G. De Rosa; Cattolici, Chiesa, resistenza nell'Italia centrale , a cura di B. Bocchini Camaiani; Cattolici, Chiesa e resistenza in Abruzzo , a cura di F. Mazzonis; La Chiesa nel Sud tra guerra e rinascita democratica, a cura di R.P. Violi; Cattolici, Chiesa, resistenza, a cura di G. De Rosa. 4. D. Morsia, Memorie di parroci e civili sulle vicende della montagna piacentina, in Guerra, guerriglia e comunità contadine in Emilia Romagna 1943-1945, a cura dell’Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Reggio Emilia, Reggio Emilia 1999, pp. 95-109; M. Fincardi, Pastori di profughi. La dispersione bellica e la ri-
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G iorgio Vecchio composizione delle comunità locali nella memorialistica dei parroci, in Cattolici, ebrei ed evangelici nella guerra. Vita religiosa e società 1939-1945, a cura di B. Gariglio e R. Marchis, Franco Angeli, Milano 1999, pp. 240268. Sull’importanza di questa documentazione cfr. G. De Rosa, Introduzione a Cattolici, Chiesa, resistenza…, cit., pp. 23-25. 5. M. Diaferia, 1943-1945: Pontremoli, una diocesi italiana tra Toscana, Liguria ed Emilia attraverso i libri cronistorici parrocchiali, Istituto Storico della resistenza Apuana, Pontremoli 1995, pp. 11-22 e 402-403; P. Gios, Clero, guerra e resistenza. Le relazioni dei parroci delle parrocchie della diocesi di Padova in provincia di Vicenza, Tipografia Moderna, Asiago 2000, pp. XIII-XIV. 6. Cit. in Conferenza Episcopale Toscana, Chiese toscane. Cronache di guerra 1940-1945, a cura di G. Villani e F. Poli, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1995, p. 104. 7. Cfr. per esempio i testi delle cronache di alcune parrocchie bolognesi, in M. Andreucci, I sacerdoti della montagna bolognese tra fascismo, resistenza e dopoguerra, in La montagna e la guerra. L’Appennino bolognese fra Savena e Reno 1940-1945, Aspasia, S. Giovanni in Persiceto 1999, pp. 389-438; o anche, in altre regioni, la gran parte delle cronache riassunte o integralmente pubblicate in M. Diaferia, 1943-1945: Pontremoli…, cit. Sempre in Toscana, nella diocesi di Firenze, i preti si preoccupano di informare il card. Dalla Costa soprattutto sulle vicende successive all’8 settembre, anche se non mancano qua e là riferimenti a quella fatidica data (Preti fiorentini, Giorni di guerra 1943-1945. Lettere al Vescovo , a cura di G. Villani, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1992). Aggiungo che non si cita neppure l’armistizio in Dalla cronaca del Convento di S. Francesco di Palestrina dei Frati Minori, Quaderno n. 3, a cura di Comune di Palestrina – Assessorato alla Cultura, Biblioteca Comunale «Fantoniana», Fondazione «Cesira Fiori», Palestrina 1994. 8. È il caso, per esempio, del pur ricco diario del parroco di Avasinis (Udine): F. Zossi, Avasinis 1940-1945. Il diario del Parroco di Avasinis e altre testimonianze sulla seconda guerra mondiale nel territorio di Trasaghis, a cura di P. Stefanutti, Comune di Trasaghis 1995 (il diario di don Zossi è sia riprodotto integralmente, sia trascritto). 9. P. Gios, Cura d’anime, pietà popolare e antifascismo a Rubbio (1930-1951), in La parrocchia in Italia nell’età contemporanea, Dehoniane, Napoli 1982, pp. 374-378. L’argomento è ripreso da M. Guasco, Studi sulla parrocchia in Italia: annuncio religioso e scelte politiche , in Cattolici, ebrei ed evangelici…, cit., p. 42. 10. E. Bigatti, …che il sale non diventi zucchero. Dal diario di don Enrico Bigatti, vol. I, s.e., Milano 1971, p. 169. 11. Liber Chronicon della parrocchia (di seguito: LC, senza ulteriori indicazioni; si intende che ogni LC è custodito nell’archivio parrocchiale di competenza). Per questo e per ulteriori segnalazioni di LC emiliani ringrazio Paolo Trionfini, che mi ha cortesemente fornito copia dei testi. 12. LC (in copia anche in Archivio storico diocesano di Milano [ASDiocMi], Fondo Documentazione Varia [DV], fasc. Villa don Carlo ).
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La Chiesa cattolica: diocesi e parrocchie 13. LC (in copia anche presso l’Istituto Pavese per la Storia della resistenza e dell’età contemporanea, Pavia [ISRPv], b. 1, fasc. 12). 14. Relazione al vescovo di don Ottorino Agresti, gennaio 1945, in Preti fiorentini, Giorni di guerra.., cit., p. 336. 15. G.B. Varnier, Un vescovo per la guerra: l’azione pastorale del cardinale Boetto, arcivescovo di Genova (1936-1946), in Cattolici e resistenza nell’Italia settentrionale…, cit., p. 45. 16. N. Oddati, La Chiesa di Salerno dalla guerra alla pace , in La Chiesa nel Sud…, cit., p. 308. 17. Appunto dattiloscritto s.d. (ma del 1944) sul comportamento politico di don Guerreschi (in Archivio di Stato di Mantova, Gabinetto di Prefettura, b. 15, fasc. 15, Ministri di culto ). Cfr. anche L. Cavazzoli, Guerra e resistenza. Mantova 1940-1945, Editrice Postumia, Gazoldo degli Ippoliti 1995, p. 147. 18. M. Diaferia, 1943-1945: Pontremoli…, cit., p. 36. 19. G.B. Pigato, Pax in bello. Diario di un cappellano militare (Fronte russo: 1942-1943), Edizioni Grafica Comense, Como s.d., p. 71. 20. ASDiocMi, DV, fasc. Bonetto fratel Beniamino (test. scritta dello stesso). 21. Testimonianza di don Gandolfi, in Nella bufera della resistenza: testimonianze del clero piacentino durante la guerra partigiana, a cura di Angelo Porro, memorie raccolte da Domenico Ponzini, s.e., Piacenza 1985, pp. 217-218. Una situazione analoga di festa è descritta, con meno dettagli, anche da don Mario Terzoni, parroco a Mariano di Valmozzola, ibid., p. 591. Lo stesso dicasi per la parrocchia di Lungagnana (Montespertoli, Firenze) dove il parroco fece suonare le campane a festa e registrò il delirio della popolazione con «fuochi, fucilate, canti» (Preti fiorentini, Giorni di guerra 1943-1945…, cit., p. 314). 22. Rinvio a G. Vecchio, Mazzolari e la requisizione delle campane (1943): la reazione del clero lombardo e il caso di Bozzolo , in «Impegno. Rivista della Fondazione don Primo Mazzolari», 15 (2004), n. 2. 23. In L. Boselli, Bicicletta da donna col passo da uomo , Bottazzi, Suzzara 1990, p. 132 (si tratta di un’antologia dei LC dell’Oltrepò mantovano). 24. M. Diaferia, 1943-1945: Pontremoli.., cit., p. 61. 25. Così don Giovanni Colombo a Gassano, ibid., p. 322. 26. Dal Diario di don Mario Benigni, trascritto in G. Borlini, P. Brignoli e G. Zambelli, Preti bergamaschi nella resistenza, Lavoro di tesi, Seminario Vescovile «Giovanni XXIII», Bergamo 1976, p. 130. 27. Per don Benigni: ibid.; per don Angelini: LC, 8 settembre 1943 (in copia in ISRPv, b. 1, fasc. 11). 28. LC (in copia anche presso l’Istituto storico della resistenza e dell’età contemporanea di Parma [IsrPr]). 29. LC. 30. Relazione al vescovo, 30 novembre 1944, in Preti fiorentini, Giorni di guerra 1943-1945…, cit., p. 300. 31. Archivio Vescovile di Brescia, Fondo Mons. Tredici, b. 109, fasc. 1, lettera di Carlo Berardi, 9 settembre 1943.
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G iorgio Vecchio 32. Lettera apparsa su «La Riscossa», 30 ottobre 1943, citata da L. Proietti Pedetta, Chiesa e resistenza a Perugia attraverso le relazioni dei parroci, in Cattolici, Chiesa, resistenza nell’Italia centrale…, cit., p. 312. 33. Cfr. P. Trionfini, Esperienze e aspettative dei cattolici emiliani tra guerra e resistenza (1940-1945), in Cattolici e resistenza nell’Italia settentrionale…, cit., p. 260. 34. LC. 35. LC. 36. In Conferenza Episcopale Toscana, Chiese toscane…, cit., p. 543. 37. Dal Chronicon della scuola, citato da A. Giraudo, Salesiani in Piemonte nel periodo bellico: percezione degli eventi e scelte operative , in Cattolici, ebrei ed evangelici…, cit., p. 171. 38. LC citato da G. Guderzo, Neofascisti, tedeschi, partigiani, popolo in diari di preti dell’Oltrepò pavese , in Mondo popolare in Lombardia. Pavia e il suo territorio , Silvana Editoriale, Milano 1990, p. 190. 39. M. Diaferia, 1943-1945: Pontremoli…, cit., pp. 332 e 335. 40. A. Scotti, Dalla guerra alla pace. Diario di Vernasca, diocesi e provincia di Piacenza, 1943-1946, Libreria Bricca, Piacenza 1946, p. 2. 41. P.v., [Corsivo senza titolo], in «L’Eco di Bergamo», 9 settembre 1943. L’articolo invitava comunque alla fiducia nella Provvidenza, nelle istituzioni e in «noi stessi». 42. G.g., Ora di dolore e di lutto , in «L’Azione», 10 settembre 1943, ora anche in Dieci anni della nostra storia. 1942-1952: «L’Azione» di don Giacomini, a cura di G. Bobbio, Interlinea, Novara 2002, p. 41. 43. In G. Viola, I diari dei parroci friulani nelle guerre mondiali. «Dio salvi l'Italia», Gaspari editore, Udine 2001, p. 65. 44. T. Pioli, Pagine di storia della Parrocchia di S. Pancrazio. Diario di un prete di campagna, Battei, Parma 1990, pp. 31-34 (citato da P. Trionfini, Esperienze e aspettative dei cattolici emiliani…, cit., p. 262). 45. LC (in copia anche presso IsrPr). 46. LC. 47. LC. 48. LC (in copia presso ASDiocMi, DV, fasc. Villa don Carlo ). 49. LC (in copia in IsrPv, b. 1, fasc. 6). 50. LC. 51. M. Zannoni, Parma 1943. 8 settembre , PPS editrice, Parma 1997, pp. 173-177. 52. N. Revelli, La guerra dei poveri, Einaudi, Torino 19932, p. 120. 53. I. Calvino, Angoscia in caserma, in Ultimo viene il corvo , Mondadori, Milano 1988, pp. 106-107. 54. LC (in copia presso ASDiocMi, DV, fasc. Villa don Carlo ). 55. LC, settembre 1943. Punto interrogativo ed esclamativo nella citazione sono nel testo originale. 56. P. Cristiani (Don Rino), Ricordi di un cappellano della resistenza nell’Oltrepò pavese , Tip. S. Lorenzo, Tortona 1975, p. 11. 57. Entrambi i LC in copia presso ASDiocMi, DV, nei fasc. Rovelli don Francesco e Mariani don Giuseppe .
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La Chiesa cattolica: diocesi e parrocchie 58. Memorie del vicario don Giuseppe Savoia, LC Barazzetto, in G. Viola, I diari dei parroci friulani…, cit., p. 19. Ci si riferisce a parrocchie site nel comune di Coseano, presso Spilimbergo e S. Daniele del Friuli. Cfr. ibid., p. 35, anche quanto scritto da don Pietro Della Stua, parroco di Cisterna del Friuli. I testi riportati sono un documento impressionante soprattutto sull’anno di occupazione 1917-1918. 59. Don Nicola Bianchi (Parroco di Bugiallo, Comune e Pieve di Sorico, Provincia e Diocesi di Como), 20 Mesi ai piedi della Berlinghera. Memorie di un curato di montagna. Settembre 1943 - Aprile 1945, manoscritto, in archivio parrocchiale di Canonica di Cuvio, prov. di Varese, e in copia presso l’autore. 60. LC. 61. LC. 62. M. Diaferia, 1943-1945: Pontremoli…, cit., pp. 181-182 63. Citato anche da M. Casella, Clero e politica in Italia… , cit., p. 138. 64. Cit. da P. Trionfini, Esperienze e aspettative dei cattolici emiliani…, cit., p. 224. 65. P. Gios, Un vescovo tra nazifascisti e partigiani: Mons.Carlo Agostini, vescovo di Padova (25 luglio 1943-2 maggio 1945), in «Fonti e ricerche di storia ecclesiastica padovana», XIX (1986), pp. 16-17. 66. G. Cazzani, Notificazioni vescovili, in «Bollettino ufficiale della diocesi di Cremona», (ottobre 1943), pp. 153-154. 67. A. Bernareggi, Ai fedeli della diocesi, 12 settembre 1943, in «La vita diocesana», settembre 1943, p. 153 e in «L’Eco di Bergamo», 12 settembre 1943. 68. A. Macchi, L’ora della calma, 14 settembre 1943, in «Bollettino ecclesiastico ufficiale della diocesi di Como» (settembre-ottobre 1943), p. 147; Id., Concessioni ai Vicari Foranei, 17 settembre 1943, ibid. spiega: «Sarà poi atto di carità fiorita che il Clero avverta le popolazioni di star bene attente a quanto stabiliscono i recenti proclami per evitare le pene severissime. Di qui la necessità di star sempre in grazia di Dio». 69. G. Tredici, La parola del Pastore , 25 settembre 1943, in «Bollettino ufficiale della diocesi di Brescia» (settembre-ottobre 1943), pp. 262263 (e in «L’Italia», 25 settembre 1943). 70. C. Allorio, I doveri dell’ora presente , in «La vita diocesana di Pavia» (settembre-ottobre 1943), pp. 152-154; F.M. Franco, Ai Fedeli Dilettissimi della Città e Diocesi, 4 ottobre 1943, in «Bollettino diocesano cremasco» (ottobre-novembre 1943), pp. 23-31. 71. D. Menna, Al Clero e al popolo , in «Giornale ufficiale della diocesi di Mantova» (settembre 1943), pp. 203-206 (il documento è datato 25 settembre 1943). 72. Lettera del 25 settembre 1943, in ASDiocMi, Carteggio Schuster, n. 74384. 73. I. Schuster, Ai nostri RR. Sacerdoti, 9 ottobre 1943, in «Rivista diocesana milanese» (ottobre-novembre 1943), p. 205. 74. L. Fossati, Il vescovo di Brescia durante l’agonia del popolo , in I
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G iorgio Vecchio cinquant’anni di sacerdozio di mons. Giacinto Tredici, vescovo di Brescia, La Scuola, Brescia 1952, pp. 96-97. 75. G. Tredici, Comunicazioni vescovili. Ai sacerdoti, 9 ottobre 1943, in «Bollettino ufficiale della diocesi di Brescia» (settembre-ottobre 1943), pp. 264-266. 76. Cit. da G. Longo, «Io sono tutto un dono». Don Antonio Seghezzi Assistente Diocesano dei Giovani di Azione Cattolica. Premolo, 1906-Dachau, 1945, Ave, Roma 19912, pp. 212-213. 77. Ibid., p. 213. 78. LC (in copia anche presso IsrPr). 79. M. Diaferia, 1943-1945: Pontremoli…, cit., p. 182. 80. LC del Convento dei Frati Minori Cappuccini di Cremona. Esso è riprodotto integralmente in appendice a A. Melodi, Osservazioni e azioni di padre Isidoro cappuccino a Cremona tra il 1943-1945, tesi di laurea, rel. G. Papagno, Università degli Studi di Parma, a.a. 1993-1994 (l’originale risulta presso l’archivio provinciale dell’ordine). 81. M. Allegri, Le Fiamme Verdi e la resistenza dei cattolici cremonesi. Cronache, testimonianze, memorie, ispirazioni ideali di un contributo alla lotta di liberazione, FIVL-APC, Cremona 1985, p. 88. 82. Per tutti questi avvenimenti, si rinvia a L. Lonardi, Mantova 1943. Una stagione di guerra, Franco Angeli, Milano 1995, pp. 107-120, 145, 155-156. 83. P. Gios, Il clero padovano durante la guerra e la lotta di liberazione , in I cattolici e la resistenza nelle Venezie…, cit., p. 39 ss. 84. In particolare da Don Pietro della Stua, a Cisterna del Friuli, cit. da G. Viola, I diari dei parroci friulani…, cit., pp. 35-37 85. A. Fappani, La resistenza bresciana, vol. II: Settembre 1943-Estate 1944, Squassina, Brescia 1965, pp. 10-11. 86. LC (in copia anche in ISRPv, b. 5, fasc. 32). 87. Testimonianza di don Carlo Comensoli, in Antifascismo, resistenza e clero bresciano , Ce.Doc., Brescia 1985, pp. 107-108. 88. Dal LC parrocchiale, cit. da E. Abeni, Il frammento e l’insieme. La storia bresciana. 6. La guerra, la lotta partigiana e la Liberazione , Edizioni del Moretto, Brescia 1990, pp. 123-124. 89. Cfr. D. Morelli, Appunti sulla resistenza nella Bassa pianura bresciana, in «La resistenza Bresciana», (1984) n. 15, pp. 13-15; per la simile situazione in territorio di Collebeato, ai Campiani, cfr. E. Abeni, Il frammento…, cit., p. 166. 90. A. Bendotti e G. Bertacchi, La base sociale della lotta partigiana nel Bergamasco , in «Annali dell’Istituto Alcide Cervi», (1982) n. 11, p. 263. 91. G. Borlini, P. Brignoli e G. Zambelli, Preti bergamaschi nella resistenza…, cit., pp. 167-168. 92. G. Belotti, I cattolici di Bergamo nella resistenza, vol. I, Minerva Italica, Bergamo 1989, p. 114. 93. In G. Borlini, P. Brignoli e G. Zambelli, Preti bergamaschi nella resistenza…, cit., p. 187.
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La Chiesa cattolica: diocesi e parrocchie 94. Ibid., p. 131. 95. Ibid., p. 176 (test. di don Giuseppe Capelli). 96. G. Belotti, I cattolici di Bergamo…, cit., vol. I, p. 163. 97. A. Magnani, Partigiani tra le cascine. La divisione Garibaldi «Magenta» e la resistenza nel Sud-Ovest milanese , in «Storia in Lombardia», (2003) n. 2, p. 145; Id., Cattolici tra antifascismo e resistenza. La brigata «Carroccio» di Abbiategrasso , ibid., (1999) n. 1, p. 124. 98. LC cit. da E. Ongaro, Campagna e resistenza nel Lodigiano , in «Annali dell’Istituto Alcide Cervi», (1982) n. 47, p. 225; sui campi in zona cfr. Id., Dal carcere chiamando primavera. Lodi dalla resistenza alla Liberazione , Tipografia Lodigraf, Lodi 1980, p. 47. 99. G. Guderzo, L’altra guerra. Neofascisti, tedeschi, partigiani, popolo in una provincia padana. Pavia 1943-1945, il Mulino, Bologna 2002, pp. 8-28. 100. Relazione di Amedeo Rossi, comandante delegato della Brigata Pompeo Accorsi, cit. da L. Cavazzoli, Guerra e resistenza…, cit., p. 779. 101. B. Lombardi, Il clero mantovano nella resistenza al fascismo (1922-1945), tesi di laurea, rel. P. Conte, Università Cattolica (Sede di Brescia), a.a. 1978-1979, p. 365. 102. Grandezza di un popolo e miseria di un regime , in «L’Uomo», 10 dicembre 1944. Sul contesto de «L’Uomo» e in particolare sulla presenza di padre David M. Turoldo rinvio a G. Vecchio, Padre David Maria Turoldo e la memoria della guerra e della resistenza, in Laicità e profezia. La vicenda di David Maria Turoldo. Saggi storici, a cura delle ACLI di Milano e del Priorato di S. Egidio, Servitium, Palazzago (Bg) 2003, pp. 11-71.
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Lazzati e la prigionia Alessandro Parola
Il mattino del 9 settembre 1943, agli ufficiali radunati in Merano nella caserma del 5° Alpini, un ufficiale chiedeva, ad uno ad uno, se sceglievano di essere fedeli al giuramento di fedeltà fatto nel momento in cui erano entrati a far parte dell’esercito o di aderire alle formazioni fasciste. La seconda scelta li avrebbe fatti rientrare nelle loro case, la prima significava la deportazione. Il «sì» alla prima scelta suonò come grido di libertà e caricati sui camion – i soldati e sottufficiali già marciavano inquadrati dai tedeschi verso Innsbruck – cominciò quella deportazione che di Lager in Lager si sarebbe conclusa con il rientro a Milano il 31 agosto 19451.
È questa una delle rare testimonianze autobiografiche con cui G iuseppe Lazzati ha rievocato il proprio 8 settembre 1943. Con uno stretto riserbo, il professore milanese ha infatti sempre lambito l’esperienza dell’esilio e dell’internamento militare, fino agli anni della malattia e dell’appassionato tentativo di rilancio di un’azione culturale tra i cattolici. Il suo impegno quarantennale per la formazione dei cattolici in quanto premessa irrinunciabile a una corretta partecipazione alla vita politica si può dire abbia origine proprio dal biennio di prigionia. Nel periodo badogliano Lazzati aveva partecipato alle riunioni organizzate tra coloro che erano stati chiamati a confrontarsi sulle Idee ricostruttive della Democrazia cristiana , messe in circolazione dopo la caduta del fascismo; a Roma aveva incontrato De Gasperi, in rappresentanza del gruppo milanese che, in Università Cattolica per iniziativa del rettore padre Agostino Gemelli e in casa del professore Umberto Padovani, insieme a Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani, Giorgio La Pira, Antonio Amorth, Gustavo Bontadini e Sofia Vanni Rovighi, si erano incontrati per discutere sull’applicabilità e sulla validità della forma democratica dello Stato.
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Lazzati e la prigionia
Nell’agosto 1943 Lazzati viene richiamato alle armi come tenente di complemento di stanza a Merano. Ha 34 anni ed è docente incaricato di letteratura cristiana antica nell’Università Cattolica; dal 1934 è presidente della gioventù cattolica maschile ambrosiana, impegnato soprattutto a diffondere un forte senso di appartenenza associativa ed ecclesiale e a far maturare la dimensione spirituale della vocazione laicale. È un giovane cattolico, insomma, formatosi in contesti standard e consolidati, che a Milano rappresentano un sicuro punto di riferimento: l’associazione studentesca Santo Stanislao (dal 1920 al 1931), l’Università Cattolica (a cui si iscrive nel 1927), l’Azione Cattolica2. L’iter, improntato a rigore e dedizione incondizionata per l’apostolato laicale, ha portato Lazzati ad aderire al sodalizio dei Missionari della Regalità, un’associazione di laici consacrati fondata da Gemelli, da cui si sarebbe poi separato nel 1938 per dar vita, con l’appoggio del card. Schuster, arcivescovo di Milano, a un nuovo istituto secolare, denominato Milites Christi. Questa spiccata sensibilità di educatore di coscienze emergerà specialmente nel periodo di prigionia, dove la particolare condizione di inerzia forzata gli permetterà di mettere a frutto questa naturale predisposizione. La condivisione della sorte degli internati militari da parte di Lazzati non è stata oggetto di retorica reducistica. La piccola agenda ritrovata casualmente durante il riordinamento delle sue carte, dopo la morte avvenuta nel 1986, ha portato alla luce, pur nella frammentarietà del documento, un universo interiore altrimenti sconosciuto. Essa registra annotazioni sulla vita da prigioniero, dal momento della cattura fino al settembre 1944, e la preziosa contabilità della corrispondenza3. L’itinerario con i trasferimenti in diversi campi porta Lazzati a costruirsi un piano quotidiano ideale, scandito da una serie di impegni: pratiche di pietà individuale e di studio, conferenze su temi religiosi, sostegno dei compagni nella resistenza e nel rifiuto dell’adesione alla Repubblica Sociale in cambio del rimpatrio. A prodigarsi per il suo rientro sono da Milano i famigliari con padre Gemelli e il card. Schuster, ma Lazzati è categorico nella volontà di restare4. Anni dopo definirà da un’angolatura personale la resistenza come «un no definitivo, inequivocabile al fascismo» e come «affermazione della libertà nel suo vero signifi-
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cato, […] come valore personale che esige di essere di tutti»5. In effetti il lager fu anche occasione di riflessione profonda sugli ideali civili e di confronto sulla ricostruzione post-fascista. Di seminari e conferenze culturali hanno parlato i compagni di prigionia, primo fra tutti Alessandro Natta. Già allora io apprezzai molto la laicità del suo comportamento, pari alla sicurezza e al rigore delle sue convinzioni, in quel tempo che fuori e dentro i reticolati davvero non lasciava molto spazio alla tolleranza. Nel ricordo il momento più significativo resta quello di una sorta di seminario ideologico-politico che si tenne a Sandbostel per un confronto tra le grandi correnti di pensiero e le diverse tendenze politiche, poiché anche nei campi degli ufficiali vi era stato un qualche progresso di aggregazione di forze, dalla sinistra comunista e socialista agli azionisti, ai liberali e al gruppo dei cattolici, forse il più consistente ma di varia ispirazione. Il tema, ben significativo, era la «questione sociale», ma al di là del confronto specifico quell’incontro mirava alla ricerca di una convergenza (come accadeva del resto in Italia) per l’opera comune di liberazione e di rinascita del nostro Paese. Di Lazzati mi colpì allora la netta affermazione della necessità che la rifondazione della nazione e dello Stato, per realizzarsi veramente, coinvolgesse prima di tutto le masse, le forze sociali e culturali che la vecchia Italia aveva tenuto ai margini, fuori del potere. E l’altro punto sul quale era del tutto esplicito: che non si poteva tornare all’Italia prefascista6.
Nelle parole del segretario comunista vi è una conferma a quanto le tracce documentarie testimoniano: in quel periodo Lazzati è stato stimolato a riflettere sulla corretta presenza dei cattolici nella vita politica, una presenza capace di fondere l’ispirazione cristiana con una nuova concezione dello Stato e di conservare vivo il senso delle distinzioni. In una lettera del 6 agosto 1943 ad Angelo Testori, presidente dell’Unione Uomini milanese, aveva teorizzato la sua idea fondamentale della necessità di non confondere l’Azione Cattolica con l’azione politica, sposando la distinzione cara a J. Maritain e Ch. Journet per cui i laici sono chiamati ad agire ovunque da cristiani, ma nell’Azione Cattolica in quanto tali e nell’azione politica da tali. Dopo il trasferimento nel campo di Deblin-Irena, ai primi di ottobre del 1943, Lazzati scrive un opuscolo e tiene conferenze proprio su questi temi, per precisare che «fare politica […] esce dalla sfera di competenza della Chiesa società soprannaturale», anche se non implica che
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Lazzati e la prigionia l’Azione Cattolica non debba inculcare ai suoi ascritti e per mezzo loro diffondere quei principi generali, direttivi della stessa azione politica, che sono nell’insegnamento della Chiesa soprattutto in questi ultimi tempi (encicliche e messaggi pontifici)7.
L’amico e compagno Carlo Magni registra sul suo diario di prigionia, alla data del 9 novembre 1943, una lunga e articolata riflessione di Lazzati, che ha delineato «i compiti e le varie attività dell’Azione Cattolica» e ne ha illustrato i momenti: preparare i giovani a divenire veri apostoli, veri collaboratori della gerarchia ecclesiastica educandoli e formandoli sia nel loro carattere sia nella loro vita di fede. […] Questi cittadini e dirigenti una volta in condizione di poter entrare nel campo politico a guidare le sorti della nazione in qualsiasi attività, lasceranno l’Azione Cattolica e diverranno persone politiche di grande valore perché come cristiani e cattolici preparati, saranno all’altezza di alti compiti e forgeranno le nuove generazioni a sempre migliori traguardi spirituali e sociali8.
Occorre dire che la prigionia di Lazzati, almeno nei primi tempi, non fu paragonabile a quella dei campi di lavoro forzato. La sua esperienza di schiavo, obbligato al lavoro coatto presso un contadino delle campagne della zona di Brema, non verrà che nel marzo 1945. In precedenza viene ripreso o trasferito di blocco in quanto giudicato «sobillatore», per via del suo ruolo di guida dei gruppi di cultura religiosa. Ma non subisce umiliazioni o violenze, salvo quelle della solitudine, della fame e della tortura psicologica della possibilità di liberarsi collaborando con il regime. Il lager diventa per Lazzati momento di dura prova che egli trasforma in occasione di fecondità spirituale, a livello individuale e per quei laici consacrati – appena una trentina tra professi e aspiranti – di cui è responsabile da alcuni anni. Per loro scrive una cospicua serie di lettere, che non può spedire ma che nelle sue intenzioni costituiscono un vero e proprio corso di formazione sul progetto di vita spirituale che caratterizza la loro peculiare vocazione. Sono meditazioni che si pongono in continuità con le riflessioni che hanno portato Lazzati a sperimentare questa esperienza di comunità spirituale, i cui membri devono osservare integralmente i consigli evangelici e devono soprattutto intendere che la loro è una «vocazione di nascondimento in mezzo alla massa» e che la capacità apostolica è in rapporto alla vita interiore9.
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Lazzati riempiva il tempo immobile e vuoto anche con lo studio e la lettura di opere meno legate all’ambito della letteratura cristiana antica. Sull’agenda sono riportati infatti i nomi di autori come J.W. Goethe e W. Jaeger, che gli accesero un particolare interesse per le matrici dell’umanesimo filosofico10. Ma in quella situazione eremitica Lazzati poté anche compiere letture – non propriamente caldeggiate in Italia – di A. Rosmini e di E. Buonaiuti. Nei tre volumi della Storia del cristianesimo del sacerdote modernista Lazzati rilevò «errori sottilissimi», a dimostrazione di una lontananza non abissale dalla sua metodologia critica. Tra maggio e giugno del 1944 Lazzati tradusse un’opera apologetica, pubblicata poi con il titolo Come presentare Cristo ai nostri tempi, del gesuita R. Plus. Questo era invece un autore più che noto e apprezzato nel mondo cattolico, vivamente consigliato per la meditazione in Università Cattolica e utilizzato nelle attività dell’Azione Cattolica. La presentazione scritta da Lazzati per questo piccolo volume restituisce il clima e il significato di quell’impegno, in quel determinato frangente. La traduzione del presente lavoro è frutto del mio tempo di prigionia, tempo di dura prova e, proprio per questo, tempo benedetto. Esso mi ha donato, tra gli altri benefici, quello di potere con calma pensare e riflettere come raramente potevo nella mia vita vertiginosa del tempo passato. Tali pause di meditazione erano nell’esame del passato caratteristicamente tese all’avvenire nel desiderio di una ricostruzione spirituale, il cui bisogno di giorno in giorno si rivelava urgente se si voglia dare alla Patria nostra il volto splendente della vera civiltà per cui già fu gloriosa e solo lo potrà essere nei secoli. La conclusione era sempre la stessa: se non si costruisce su Cristo, si distrugge, non si edifica; rifarci cristiani, nel senso profondo della parola, è la prima necessità della desiderata ricostruzione perché solo in Cristo si realizza quell’umanesimo integrale che è condizione di vero progresso civile nelle sue attuazioni individuali, famigliari, sociali. Come compiere questa cristianizzazione o ricristianizzazione? Ad Oberlangen la gentilezza di un compagno mi offrì in lettura il volumetto di P. Plus S.J. Fu come l’incontro con un’anima in cui sentivo la mia stessa passione: la realtà e necessità, che spesso ero venuto considerando e rilevando, erano in esso espresse con la competenza e l’autorità che ciascuno riconosce all’illustre Padre, benemerito, con le sue ben note opere, di una più profonda conoscenza di Cristo e del cristianesimo. Leggere e concepire il desiderio di tradurre fu la stessa cosa: mi pareva, così facendo, di potere, pur nella mia segregazione, tornare utile a quell’Italia che viveva le sue giornate di passione, di
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Lazzati e la prigionia sentirmi più unito ai fratelli che in Patria lavoravano e soffrivano per Cristo, soprattutto di cooperare a portare anime a Lui e a donare ad esse quella gioia che da lui avevo ricevuto e non diminuita, ma accresciuta dalla durezza della prova, in essa era stata saggiata come l’oro nel fuoco e s’era definitivamente confermata come quella cui l’uomo soprattutto aspira11.
Lazzati ebbe poi tra le mani il manuale di teologia di A. Tanquerey, su cui si formavano abitualmente i candidati al sacerdozio, dominato da un atteggiamento di sospettoso risentimento e di pregiudiziale chiusura nei confronti della cultura moderna. Le sue riflessioni risentirono non poco della particolare impostazione apologetica e controversistica della teologia cattolica del tempo, nella quale imperava l’autorità suprema del magistero ecclesiastico. Fortemente polemica con il laicismo moderno che ha esautorato il ruolo direttivo della religione è la lettera scritta ai suoi sodali nel marzo 1944 e ispirata proprio dalla lettura del Tanquerey12. La visione dottrinalistica del cristianesimo è predominante anche in altre opere di divulgazione catechetica e nel manoscritto Idee di ricostruzione , che Lazzati legge dopo la liberazione ai compagni raccolti a Haldern e in attesa del rimpatrio, all’inizio di giugno del 1945. Il placarsi della tempesta bellica era il segnale d’avvio della necessaria riconquista cattolica della società; quel corso tenuto al campo di Haldern – un bilancio della tragedia della guerra e una riaffermazione della centralità della religione per il corretto consorzio civile – sarebbe stato rielaborato e pubblicato due anni dopo dall’editrice Vita e Pensiero dell’Università Cattolica con il titolo Il fondamento di ogni ricostruzione . Ad esso Lazzati invitava a guardare come a testimonianza che conteneva in nuce le ragioni profonde dei cambiamenti esistenziali compiuti dopo il rientro in Italia. Ma vi sono altri fronti culturali a cui Lazzati si dedica durante i mesi di internamento. Il suo impegno è sempre costantemente sostenuto e alimentato dal primato della preghiera e della meditazione interiore, su cui scrive pagine esemplari di spiritualità13; ma la riflessione si apre poi a tematiche che si confrontano con l’obiettivo di tradurre in azione i principi teorici. La problematica pedagogica in funzione civile e religiosa è al centro di due scritti inediti che si ricollegano direttamente al coinvolgimento di Lazzati nelle attività di studio
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promosse dalla Cattolica nel periodo immediatamente precedente la deportazione e alla sua collaborazione con il Paedagogium, l’istituto per gli studi sull’educazione cristiana fondato da Gemelli nel 1942. Il primo testo, intitolato Stato ed educazione e suddiviso in dieci brevi capitoli, esamina i fondamenti e i limiti del diritto dello Stato nel campo dell’educazione, soprattutto in relazione al diritto della famiglia e della chiesa; l’analisi è condotta assumendo in modo esplicito ed evidente i principi politici dell’umanesimo integrale maritainiano, che portano Lazzati ad affermare che «lo Stato è per noi la società necessaria allo sviluppo integrale della persona umana»14. A questo testo incentrato sulla riorganizzazione del sistema scolastico – e in particolare alla funzione culturale ed educativa della religione, che Lazzati già aveva strenuamente difeso elogiando la Carta della scuola del ministro Bottai15 – segue un altro dedicato a I collegi arcivescovili della Diocesi ambrosiana. Per questo scritto è probabile una sollecitazione da parte di don Pozzoni, che rimane in contatto con lui durante i mesi di lontananza e svolge tra gli altri incarichi quello di rettore del collegio di Gorla Minore, ponendosi insieme a Lazzati la questione di come utilizzare più proficuamente questo particolare strumento dell’azione pastorale della chiesa ambrosiana. L’impegno principale, come detto in precedenza, è per rendere il tempo del lager un’occasione di espiazione e di piena disponibilità alla parola di Dio. A Sandbostel, dove Lazzati viene trasferito alla fine di settembre del 1944, il salesiano don Pasa, che aveva scelto volontariamente di condividere la sorte degli avieri di Aviano, celebrava la messa all’aperto. Nessuno dei cappellani aveva una bibbia, ma solo il breviario e il vangelo. Don Marco Melzi ha ricordato che Lazzati aveva invece portato con sé la bibbia e che la prestava a turno per le meditazioni quotidiane dei sacerdoti. Qualcuno di loro aveva l’Imitazione di Cristo , che anche Lazzati utilizzò per preparare le sue riflessioni. Tra le tante testimonianze sul clima del campo, quella di V.E. Giuntella è la più lucida ed efficace: Trovai Giuseppe Lazzati nel quarto Lager, Sandbostel, quando avevamo perduto la speranza di una imminente fine della guerra. Egli vivificò l’ambiente. Vi era a Sandbostel un notevole gruppo di Fucini, romani e no. [...] Lazzati fu il nostro punto di riferimento. Lo incontravo quasi ogni giorno, dopo l’appello, che a volte durava molto a lun-
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Lazzati e la prigionia go, se la «conta», come la chiamavamo, non tornava. Aveva il cappello alpino e un liso cappotto militare, che sventolava, quando camminava nel campo, perché molto dimagrito. A volte era tanto assorto che non osavo disturbarlo. Solo qualche anno fa seppi che portava con sé le Particole consacrate, per sottrarle alla fame di qualche povero, che non ce la faceva più. Lazzati organizzò degli incontri nel locale della «Cappella» (uno spazio molto ridotto, ricavato in una baracca). Non ci parlava del passato, ma dell’avvenire. Avevo salvato dalle tante inquisizioni una edizione delle Encicliche sociali della Chiesa e gliela prestai per queste riunioni clandestine, perché secondo il regolamento dei Lager avrebbero dovuto essere approvate ogni volta dal Comandante del campo e con la presenza di un militare della Wehrmacht, che presumeva di conoscere l’italiano. Gli «intellettuali» del campo (vi erano anche alcuni che avevano militato in «Giustizia e Libertà») erano, come allora era invalso (anche per la loro reazione alla cultura gentiliana) idealisti crociani. Lazzati rialzò l’animo dei «non crociani», ed era il nostro punto di riferimento religioso e culturale. Nella breve estate del ’44 (a metà agosto ritornò il freddo) si osò anche istituire l’«Università», come fu chiamata, e Lazzati ne fece parte16.
Sarà poi alla luce dell’esperienza maturata dopo l’8 settembre 1943 che Lazzati maturerà la scelta dell’impegno politico attivo. Sullo sfondo della conoscenza della prigionia si collocherà infatti la decisione di dedicarsi all’animazione spirituale del temporale. All’origine vi fu la telefonata dell’amico Dossetti, che chiamò Lazzati pochi giorni dopo il rientro in Italia per convincerlo a entrare nella Democrazia Cristiana, dalla quale Dossetti era stato cooptato in rappresentanza del movimento giovanile e, dopo l’assemblea nazionale svoltasi a Roma dal 31 luglio al 3 agosto 1945, era eletto vicesegretario di direzione. L’atteggiamento ripugnante di Lazzati, in virtù della diversa linea prospettata negli incontri di casa Padovani, ha rappresentato l’immagine icastica con cui egli ha voluto descrivere la propria esperienza politica; la conseguente rinuncia alla presidenza della federazione milanese della Gioventù Cattolica sembrava fosse avvenuta quasi su sollecitazione del card. Schuster, consapevole del seguito che Lazzati godeva tra i giovani e della spendibilità politica. Un ruolo defilato, dietro le quinte, e costantemente improntato al carisma spirituale e religioso con cui è stata descritta la sua appartenenza al gruppo dossettiano: su tali elementi è stata costruita la tesi di un Lazzati politico suo malgrado 17. Giudizio confortato da numerosi
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indizi personali – aforismi affidati agli appunti degli esercizi spirituali, pensieri tralucenti dalla corrispondenza con i suoi Milites, dubbi esternati all’autorità ecclesiastica – e che tuttavia appare più complesso e meno scontato se soltanto si guarda con maggiore attenzione al progressivo svolgersi di quell’esperienza politica che la storiografia ha per lo più indagato con la lente (sfocante?) dell’eponimia. L’attività politica di Lazzati, sia nel partito che in parlamento, fu sostanzialmente ridotta, e forse indotta dal leader del gruppo, è vero, ma non per questo egli ebbe un atteggiamento remissivo o semplicemente ripiegato su indirizzi precostituiti. La sua presenza come quella di altri homines novi nel panorama politico postfascista era conseguenza di «quella preoccupazione culturale che ci aveva mossi negli anni precedenti, e che ci aveva fatto individuare alcuni precisi punti programmatici»18, spiegherà in un’intervista rilasciata nel 1984 in risposta ad alcune manipolazioni ideologiche sul dossettismo che intaccavano anche il neonato progetto dell’associazione Città dell’uomo. La quale peraltro nasceva sull’esigenza di un sentiero interrotto, quello che aveva individuato il problema di fondo dell’incapacità dei cattolici di pensare politicamente. Con questo lucido giudizio Lazzati lesse senza soluzione di continuità il suo impegno politico, la cui genesi egli poneva nella decisione sua e di Dossetti di «mettere in piedi un servizio culturale destinato a preparare i cattolici a pensare politicamente»19. Una particolare concezione della politica come servizio più che come occupazione del potere, sostenuta dal costante riferimento a luoghi formativi – da Civitas humana a «Cronache sociali» – e dalla scelta di restare un movimento d’opinione all’interno del partito cattolico, a costo di risultare invisi a De Gasperi e sospettabili alla chiesa per eccesso di laicità. Così i dossettiani si proposero in alternativa agli ex popolari e al progetto di restaurazione, con qualche correzione, dello stato liberale prefascista. Ma sarebbe errato affastellare le singole personalità in un giudizio monocorde e coestensivo: la «comunità del porcellino»20 non era una conventicola appiattita sull’unanimità incondizionata, prima ancora dello strappo di Fanfani. Né rinuncia alla dialettica, né attività circoscrivibile alla sola sfera politica: con questi principi si presenta l’utopica meteora dossettiana. E Lazzati – per quel che riguarda la sua personale
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interpretazione della stagione politica – docet: lo sconforto per la promozione/affermazione del geddismo all’interno dell’Azione Cattolica, la volontà di occuparsi del proprio sodalizio in primis et ante omnia, l’inizio della tormentata conquista della cattedra universitaria, l’intimo travaglio per la fedeltà al primato della vita spirituale, sono spie indicatrici della complessità polifonica – composta precisamente di armonia e contrappunto – con cui va indagato questo periodo della sua vita. L’eredità dell’esperienza del lager metteva Lazzati in condizione di individuare chiaramente le priorità del suo impegno in un nuovo campo d’azione: la necessità del «compito immane della ricostruzione [...] cui costringeva l’urgenza e la durezza dell’ora»21, l’approdo alla politica con il fermento della ricerca culturale e metafisica aliena da ogni prassismo, la fedeltà creativa alle indicazioni della gerarchia ecclesiastica. Tali principi, maturati durante la resistenza, rappresenteranno per Lazzati il sottofondo carsico del suo pensiero e della sua azione. Note 1. Cfr. Cristiani per la libertà, a cura di G. Bianchi, Milano 1987, pp. 68-69. In merito alla conoscenza della realtà dei campi d’internamento, Lazzati ha aggiunto: «Il Lager era per tutti una realtà di cui non si aveva esperienza, forse solamente qualche conoscenza indiretta o informazione giornalistica; ma si presentò subito nella sua tragica veste che veniva a dare un singolare peso al “sì” pronunciato nella caserma di Merano. E non è da meravigliarsi troppo se, dopo le prime settimane di un’esperienza subumana, ricca solamente di pesanti privazioni – da quella della libertà a quella di sufficienti mezzi di sussistenza, di assistenza, di qualche mezzo di informazione e cultura – i meno saldi psicologicamente tendessero a perdere adeguate misure di controllo della propria dignità, coerente volontà, chiarezza di coscienza», ibid. 2. Cfr. P. Marangon, La figura del cristiano laico nel giovane Lazzati, in Giuseppe Lazzati 1909-1986. Contributi per una biografia, a cura di G. Alberigo, Bologna 2001, pp. 27-39. 3. L’agenda da taschino per l’anno 1943 aveva per ogni pagina due date, ognuna con nove righe disponibili. Lazzati ha utilizzato l’agenda in modo del tutto ordinario con brevissimi appunti fino al 9 settembre 1943, poi con scrittura minutissima ha cominciato ad annotare gli accadimenti del suo internamento giorno per giorno; dal 1° gennaio 1944 ha corretto data e giorni della settimana e cancellato i precedenti appunti (relativi generalmente a impegni universitari e associativi), per utilizzare lo spazio rimanente per proseguire il suo «diario», ovviamente solo fino all’8 settem-
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Alessandro Parola bre 1944. Il contenuto corredato da ampio apparato critico è stato pubblicato in Dossier Lazzati 4. Lazzati, il Lager, il Regno , Roma 1993. 4. Scrive infatti il 24 dicembre 1943: «Ricevo da p. Gemelli certificato per rimpatrio: bisogna che si usi prudenza: per me resto» (cfr. Dossier Lazzati 4…, cit., pp. 113-114). Una lettera del fratello Giovanni a Gemelli, in data 6 febbraio 1944, conferma la ferma risolutezza di Lazzati: «ho ricevuto la richiesta che io Le avevo domandato per Giuseppe e La ringrazio di cuore. Però Giuseppe, in una sua lettera che ci è pervenuta in questi giorni dice: “Ho avuto da p. Gemelli: mi dice del certificato da voi sollecitato: ma servirebbe solo a condizione che io rinunciassi ai miei ideali principi: facciamo insieme il sacrificio a meno che mutino condizioni. Comunicate voi a p. Gemelli il mio grazie e il mio pensiero”. Così stando le cose, mi sembra che da parte nostra non ci sia più nulla da fare e solo pregare Iddio che abbrevi la sua prova e gli dia la salute e la forza di superarla» (cit. in A. Oberti, Lazzati. Tappe e tracce di una vita, Roma 2000, pp. 71-72). Il ricordo di una grande premura da parte di Gemelli per il rimpatrio di Lazzati è vivo in una lettera dell’ex cappellano militare don Luigi Pasa, scritta a Lazzati il 3 marzo 1969 e custodita nell’archivio dell’Università Cattolica, fondo Rettorato Lazzati, 7.1.2. 5. Da un discorso pronunciato da Lazzati il 25 aprile 1955 a Milano e pubblicato sul periodico «La voce della resistenza», p. 3, col titolo Il contributo dei cattolici alla lotta della resistenza. 6. Cfr. intervista di A. Santini, I tre tempi di Natta, in «Famiglia Cristiana», (1989), n. 10, pp. 57-59. Alla scomparsa di Lazzati l’ex segretario del PCI dichiarò: «In questo momento il mio pensiero torna ai giorni duri in cui lo conobbi, lui come me giovane ufficiale deportato in un campo di concentramento in Germania. Subito trovammo, pur partendo da culture diverse, il terreno e lo scopo di un’opera comune e solidale: quella dell’incoraggiamento morale e della maturazione politica dei tanti prigionieri che, travolti dalla sconfitta e dall’umiliazione nazionale, penavano a darsi ragione degli avvenimenti e a recuperare un ideale e una speranza. Cercammo di diffondere tra di loro un concetto nuovo – antifascista e democratico – di patria e di impegno civile, una fiducia nella rinascita nazionale e nel riscatto sociale degli italiani. Poi il dialogo tra di noi si fece più stringente attorno al tema grande e inedito di quale Italia costruire sulle ceneri della disfatta. Lui cattolico, io laico e già comunista e altri compagni di differenti convinzioni filosofiche e politiche, ci confrontammo, con entusiasmo di costruttori, sui caratteri, i fondamenti, i fini di una nuova comunità nazionale. Punto di partenza fu il convincimento che nulla più di esemplare poteva venirci dal passato e che il profilo dell’Italia libera dovesse essere ridisegnato totalmente a partire dal protagonismo di quelle masse popolari che erano state sempre escluse dalla guida del paese. Doveva trattarsi di una democrazia sostanziale, di una democrazia del dialogo e della solidarietà tra i protagonisti della rinascita, di un libero pluralismo connesso però da valori di trasformazione, progresso, giustizia», A. Natta, Ricordo di Giuseppe Lazzati, in «L’Unità», 19 maggio 1986.
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Lazzati e la prigionia 7. Archivio Giuseppe Lazzati, Fscire-Bologna, 1A0037/01. 8. Cit. in M. Dorini, Giuseppe Lazzati: gli anni del Lager (1943-1945), Roma 1989, p. 66. 9. Svolge l’argomento della coltivazione della vita interiore la lettera scritta da Lazzati a Deblin-Irena il 31 ottobre 1943, festa di Cristo Re (cfr. Dossier Lazzati 4…, cit., pp. 69-76). Espressioni indicative si trovano a partire dagli appunti degli esercizi spirituali del 1937, nei quali Lazzati aveva annotato: «Vita interiore è già apostolato - non si concepisce invece apostolato senza vita interiore. Troppo ci basiamo sulla parte esterna e invece non si deve basare il nostro apostolato sui mezzi esterni. Il Regno di Dio è tutto interiore. Gesù - gli Apostoli - I santi ci insegnano a porre nella vita interiore il fondamento dell’Apostolato. Il seme va gettato col sacrificio e la preghiera», Archivio Giuseppe Lazzati, 1A0004/03. Sulla nascita dell’istituto secolare vi è una ricostruzione fatta da Lazzati nel febbraio 1955 per mons. G.B. Montini, dopo la nomina ad arcivescovo di Milano; la ragione fondamentale della separazione dal sodalizio dei Missionari della Regalità di Gemelli è indicata nella subordinazione della vocazione personale all’unico fine apostolico dell’Università Cattolica: «si mirava ad avere uomini che servissero per l’Università più che anime impegnate a seguire con generosa fedeltà una vocazione sostanzialmente religiosa», in A. Parola, Panorama delle fonti, in Giuseppe Lazzati 1909-1986…, cit., pp. 181-182. 10. Dagli appunti dell’agenda si apprende della lettura delle opere di J.W. Goethe, Dichtung und Wahrheit e di W. Jaeger, Paideia: cfr. Dossier Lazzati 4…, cit. 11. Archivio Giuseppe Lazzati, Fscire-Bologna, Addenda 27. Su R. Plus si veda la scheda di J.M. Mayeur e Y.-M. Hilaire, Dictionnaire du monde religieux dans la France contemporaine , vol. I: Les jésuites, a cura di P. Duclos, Paris 1985, pp. 214-215, e le voci di H. Beylard sul Dictionnaire de Spiritualité , t. 12* * (1986), coll. 1825-1826 e Catholicisme , t. 11 (1988), coll. 529-530. 12. Questa è l’analisi che Lazzati premette all’esortazione perché ogni cristiano si impegni a contribuire alla ricostruzione della società su valori soprannaturali: «L’età moderna si presenta caratteristicamente come quella in cui il distacco da Cristo progressivamente realizzatosi si è verificato sotto l’influsso della cultura. Docile ai suggerimenti dell’orgoglio, il pensiero moderno si è tutto esercitato nel tentativo, vano quanto folle, ma purtroppo da molti seguito proprio per l’efficacia universale della passione ispiratrice, di porre l’uomo contro Dio, vantando, di contro al senso di dipendenza dell’uomo da Dio, senso cui il cristianesimo aveva educato l’umanità attraverso secoli gloriosi, una pretesa indipendenza da Dio, un senso di autosufficienza dell’uomo, di autonomia per cui l’uomo è diventato fondamento del vero, del giusto, del bene», cfr. Dossier Lazzati 4…, cit., p. 156. 13. Per un’analisi sintetica ed efficace di questi aspetti si veda P. Zerbi, La dimensione della vita interiore , in Giuseppe Lazzati 1909-1986…, cit., pp. 13-25.
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Alessandro Parola 14. Nel definire lo Stato anche come «totalità delle integrazioni», Lazzati individuava la sua funzione precipua in quella del superamento delle società intermedie, condizione obbligata per lo sviluppo dell’uomo e per la sua realizzazione integrale: A. Bianchi, Sulla riorganizzazione del sistema scolastico. Due scritti inediti di Giuseppe Lazzati durante i mesi del suo internamento , in «Annali di storia dell’educazione» (2001), n. 8, pp. 363-382. Sulla partecipazione di Lazzati a conferenze e convegni promossi dal Paedagogium nella primavera del 1943, cfr. L. Caimi, Il «Paedagogium»: l’Istituto per gli studi della educazione cristiana costituito presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore (1942-1955), in «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche» (1995), n. 2, pp. 231-271. 15. Cfr. G. Lazzati, Dalla riforma Gentile alla Carta della scuola, in «Vita e Pensiero» XXII (1941), n. 12, pp. 539-542. L’articolo era dedicato alla recensione del volume che con lo stesso titolo era stato pubblicato a cura di E. Scaccia Scarafoni, direttore generale dell’istruzione classica del Ministero dell’educazione nazionale. 16. Cfr. V.E. Giuntella, La deportazione come esperienza religiosa, in Cattolici, Chiesa, resistenza, a cura di G. De Rosa, Bologna 1997, pp. 302-303. 17. Così Lazzati ha voluto definire la propria esperienza politica, in uno dei rari cenni autobiografici. Si tratta dell’intervento predisposto in occasione del conferimento della laurea honoris causa all’Università Cattolica di Louvain-la-Neuve il 2 febbraio 1981, dal titolo Ricordi di un universitario, politico suo malgrado , pubblicato in «Vita e Pensiero» (1981), n. 3, pp. 20-26. In una replica a Fanfani, che al Meeting ciellino di Rimini del 1984 aveva parlato di affinità tra «Movimento popolare» e gruppo dossettiano, Lazzati usò l’espressione «fummo, in certo modo, “trascinati” in politica», cfr. Dossetti, MP e la lealtà, «Corriere della sera», 8 settembre 1984. 18. Cfr. l’intervista Noi, comunistelli di sacrestia, a cura di E. Magrì, comparsa su «Europeo», (3 novembre 1984), n. 44, pp. 140-148. Essa nacque ancora sulla scia delle polemiche seguite agli interventi di Fanfani prima e del leader del «Movimento popolare» Formigoni dopo sulla eredità del dossettismo. 19. La volontà di specificare una paternità condivisa è chiara nell’intervista televisiva con L. Valente del 10 marzo 1986, pochi mesi prima della scomparsa (cfr. Beatificationis et canonizationis servi Dei Josephi Lazzati viri laici (1909-1986) Positio super vita, virtutibus et fama sanctitatis, vol. IV, Fscire-Bologna, pp. 1841-1847. 20. L’ospitalità trovata in via della Chiesa Nuova 14 a Roma, a casa delle sorelle Portoghesi, si rivelò un fattore importante per il gruppo inizialmente composto da Dossetti, Lazzati, Fanfani, Glisenti e Criconia, cfr. Beatificationis et canonizationis servi Dei Josephi Lazzati viri laici…, cit., vol. I/B, p. 722. Sotto la denominazione che denotava lo spirito giovanile dei membri, nata in circostanze goliardiche ma significative («la Bianchini nel rivolgersi agli avversari era solita con bonaria ironia dare
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Lazzati e la prigionia del porco: “Quel porco di...”, “quel porco del...”. Un bel giorno, per ischerzo, arrivò Vittorino Veronese con un porcellino farcito e davanti a una tavola imbandita fondammo l’ordine del porcellino», ha raccontato Lazzati nella citata intervista Noi, comunistelli di sacrestia), si cela una realtà che ha costituito per molte persone un riferimento per così dire obbligato delle trasferte romane e nella quale non è fuori luogo immaginare una profonda familiarità di rapporti che solo la coabitazione poté dare. Significativa a questo riguardo è la deposizione di Dossetti per la causa di canonizzazione, nella quale ha voluto ricordare come Lazzati per tutto il periodo di convivenza romana «anche nelle giornate più affannose si riservava sempre un intermezzo di preghiera, con la regolarità, la fondatezza e la sistematicità della sua vita spirituale, non con un ritmo esteriore ma come una cosa intensa ed intima» (ibidem, p. 1124). Note sulla «comunità del porcellino» e sui rapporti con padre Paolo Caresana della comunità filippina di Chiesa Nuova in T. Tuzi, Storia della comunità del porcellino di via della Chiesa Nuova 14, in Dossier Lazzati 22. Lazzati per la città dell’uomo , Roma 2002, pp. 149-158. 21. Cfr. Ricordi di un universitario…, cit., p. 21.
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L’Emilia Romagna e l’identità nazionale. Lo spartiacque dell’8 settembre e la resistenza Lorenzo Bertuccelli
Affrontare il nesso tra la lotta di liberazione e l’affermazione della lunga egemonia politica delle sinistre in Emilia ci costringe a confrontarci con un oggetto molto difficile da maneggiare con gli strumenti dello storico: il tema delle identità collettive. Tuttavia si tratta di un terreno di indagine ineludibile laddove non si voglia rinchiudere angustamente la resistenza nel biennio 1943-1945 e non la si voglia ridurre alla sola dimensione militare: operazioni queste difficilmente sostenibili su scala nazionale, addirittura impossibili su scala regionale. Proprio a partire da questi presupposti, da un decina d’anni molti studi – molti dei quali promossi dalla rete degli istituti storici della resistenza emiliani – si sono mossi in questa direzione, approfondendo in particolare quanto la memoria della resistenza e la costruzione del suo «mito» nel dopoguerra abbiano inciso nel determinare l’egemonia delle sinistre, in particolare del partito comunista, e in definitiva l’identità regionale. Già in un convegno del 1997, promosso dagli istituti emiliani sulla cultura della resistenza, questo problema veniva posto al centro. Scriveva Alberto Preti: Ci siamo chiesti se e quanto i cittadini della Regione che ha il primato per il numero dei partigiani riconosciuti abbiano tratto da quell’esperienza [la resistenza] connotati distinguibili, attitudini e capacità all’operare collettivo, alla sociabilità politica, all’organizzazione di forme di lotta e di rivendicazione dotate di una loro peculiarità1.
Ovviamente un’analisi sull’identità regionale e la sua relazione con la resistenza non poteva non tenere in considerazione la dimensione nazionale e di conseguenza la discussione sul trauma dell’8 settembre. Sfuggendo alle contrapposizioni improntate prevalentemente a ragioni estranee alla ricerca e legate a
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doppio filo a quell’uso pubblico della storia che ancora oggi caratterizza la discussione su quel passaggio della storia d’Italia, il ragionamento di Preti era: l’8 settembre vede un paese sconfitto che lo status di cobelligerante non alleggerisce, un paese privo di una propria sovranità politica e largamente dipendente sul piano delle risorse materiali. Un paese sconfitto nel quale esce battuto anche il tentativo di nazionalizzazione autoritaria tentata dal regime, come soluzione allo storico problema della mancata inclusione delle masse popolari nello Stato. È proprio la scelta autoritaria, il tentativo di scindere nazionalizzazione e libertà che porta al crollo della nazione. La resistenza antifascista intesa come movimento politico e militare porta alla rinascita del paese, una rinascita che troverà nei partiti lo strumento di mediazione tra Stato e masse popolari, nei partiti di massa quello strumento inclusivo delle classi subalterne fino a quel momento mai realizzato. È un obiettivo straordinario che permette la rinascita democratica e la scrittura della Costituzione, tuttavia resta un’identità nazionale debole. È su quest’ultima affermazione che in conseguenza di un lungo dibattito, spesso condotto con un’elevata quota di strumentalità e con categorie incerte e sdrucciolevoli, che il disagio si fa tanto pungente da sfociare in vera e propria insofferenza. Quali sono gli strumenti che lo storico ha a disposizione per misurare la forza o la debolezza di una grande identità collettiva quale è un’identità nazionale? E ancor più, con quali metodi può riuscire addirittura a operare una comparazione tra periodi della storia d’Italia così diversi come l’età liberale, il regime fascista e gli anni della repubblica? L’intera discussione sull’8 settembre 1943 ruota intorno a questo problema, ma è come se fosse stato dato per scontato che prima esistesse un intenso sentimento di appartenenza alla patria che includeva tutti i settori sociali del paese e che dopo, al contrario, nulla si è potuto rinsaldare a causa di quel «sogno» andato in pezzi. È la scissione tra nazione e libertà a indebolire qualsiasi idea o progetto di patria, se non quella fondata sulla coercizione e l’integrazione coatta delle masse popolari nello Stato, così si può concordare con Ferdinando Cordova quando ricorda che lo stesso concetto di patria, inteso come terra natale in cui riconoscersi come comunità, era stato associato, fin dalle batta-
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glie risorgimentali, all’idea di libertà2: unità, indipendenza e libertà – ricordava anche Federico Chabod – erano indissolubilmente connesse3. L’8 settembre, cioè, rappresenta il fallimento di quel tentativo di nazionalizzazione degli italiani, di quella patria che il fascismo ha cercato di imporre al paese forzando i limiti di quel poco raggiunto durante l’età liberare. Certo, è una conclusione desolante, ma insita nelle sue premesse: se per i ceti dirigenti del nostro paese l’unica via d’uscita alla crisi italiana del primo dopoguerra è il nazionalismo fascista, è chiaro che con l’8 settembre muore un progetto di patria sul cui cadavere tuttavia non sembra necessario spendere tante lacrime. Cade un’idea di nazione in cui a priori e programmaticamente si prevedeva che non tutti si potessero riconoscere. Dalla nazione fascista sono sempre e comunque esclusi gli oppositori polititi e, dal 1938, gli italiani di religione ebraica. È vero, come notava già Roberto Battaglia, che dopo l’armistizio ogni cosa «sembra frantumarsi e sbriciolarsi in una serie d’iniziative o di decisioni individuali, senza contatto l’una con l’altra. Distrutti tutti gli alvei entro cui scorre la società, ogni uomo ritorna individuo, cerca per suo conto una soluzione ai problemi più elementari dell’esistenza»4, ma si tratta di un passaggio inevitabile per potere avviare una qualsiasi nuova nascita dell’idea di patria, di un’identità collettiva, verrebbe da dire di una nascita tout-court. È quanto afferma Paolo Pezzino quando sostiene che la «patria» era stata sottoposta nei decenni precedenti a tensioni che ne avevano progressivamente disgregato le capacità attrattive […]. La patria che muore l’8settembre, inoltre, non può non portare indelebilmente i segni della nazionalizzazione fascista, basata sulla distruzione dello Stato di diritto, sulla coniugazione della patria e della nazione non solo nell’aggressiva concezione che era già propria del nazionalismo di inizio secolo, ma anche nell’aberrante lettura razziale dell’ultimo fascismo, sulla sostituzione delle burocrazie tradizionali con burocrazie parallele molto meno sensibili a quell’etica statuale che da sempre ha rappresentato uno degli strumenti di aggregazione del consenso nazionale5.
L’idea di nazione e di patria italiana attraversa una fase di faticosa ridefinizione. Occorre soprattutto scegliere, come nota bene ancora Pezzino, tra la propria patria e i propri principi superiori. Logorata dal fascismo e dal disastro stesso dell’8
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settembre essa sembra riemergere – e qui è il punto importante – solo attraverso i drammatici o esaltanti percorsi dei protagonisti delle «resistenze» durante il biennio 1943-1945. Così, per esemplificare, Pezzino cita Dietrich Bonhoeffer6 e Preti cita un ufficiale catturato dai tedeschi nel 1946. Il senso della patria era per lui rinato da una presa di coscienza del valore collettivo dell’esperienza di prigionia e del rifiuto opposto alle più facili vie d’uscita (adesione alla RSI , accettazione del lavoro coatto). Di qui l’ufficiale giunge a riconoscere in coloro che avevano condiviso le sue sofferenze «la più grande collettività che [poteva] allora concepire come Patria»; e ancora un’ex partigiano che dice: «La Patria era perduta: in noi non era patria, forse non era mai stata», solo con il riscatto della propria individuale dignità, solo essendo «ribelli» si avverte «il primo seme della genesi della patria in noi». «Se non un nuovo senso dello stato, – nota Santo Peli – crescono comunque un protagonismo popolare, un desiderio di partecipare alla vita collettiva, mai sperimentati nei decenni precedenti»7. Identità individuali forti, forgiate dalla diretta partecipazione agli eventi che producono anche forti idee nuove di patria e di identità collettive, ma che risultano difficili da trasferire e far condividere a chi non è stato direttamente protagonista di quegli eventi: anche quando le valutazioni sul passato trovano accenti comuni, è lo sguardo sul futuro e sulla capacità degli italiani di (ri)trovare un senso dell’azione e dell’appartenenza collettiva che è radicalmente diverso. Scrive Corrado Alvaro nel 1944 per descrivere il dramma di un paese solcato dalla tragedia: Gli italiani cedettero a radio Londra, sperarono sempre più ardentemente nella sconfitta, l’aiutarono, la predicarono: eppure avevano i figli in Africa, nei Balcani, in Russia. Se v’è una condizione morale tragica per il cittadino, questa lo fu. Guardare il proprio figlio come un arruolato a una banda straniera; accogliere il combattente in licenza aprendo il tasto di radio Londra per sentirsi incitare alla diserzione e alla rivolta e preconizzare la sconfitta; guardare i propri soldati passare con le bandiere e le fanfare, vedendoli già disfatti; assistere ai bombardamenti delle città e dei quartieri abitati dando ragione al nemico; scusare gli errori di tiro che distruggevano case e beni e vite di cittadini; vedere le vedove e le madri dei caduti in guerra come dolori e sacrifici vani: ce n’è abbastanza per comporre uno dei più tragici quadri della pazzia morale che un popolo può prendere dalle dittature8.
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Quale patria è possibile in queste condizioni? Solo quella che deve necessariamente passare attraverso la sconfitta. Scrive, infatti, Benedetto Croce: Pur guardandoci attentamente dal dir parola che potesse scoraggiare i nostri soldati, […] noi ricercammo ansiosi la formazione dell’avvenire migliore dell’Italia, non già nei successi militari del cosiddetto «asse» (che del resto cominciarono a scemare al secondo anno di guerra e per l’Italia a mancare affatto); ma nei progressi lenti e faticosi dell’Inghilterra e poi della Russia e dell’America9.
Ciò che accade l’8 settembre rappresenta, per Corrado Alvaro, un atto di accusa durissimo nei confronti della monarchia e della classi dirigenti italiane: la corruzione di ogni senso umano della vita e della morte era arrivata ben in alto. Difatti quando il Re e il suo primo ministro disertarono, corsero anch’essi ad abbracciare le ginocchia del vincitore, convinti che esso li avrebbe salvati contro la stessa Italia. Un esempio che fosse venuto dall’alto, dai poteri supremi, avrebbe stampato, forse, la sua legge nell’animo del popolo. […] Avessero data una vittima. Nessuna. Le signore della borghesia ne decantano ancora le privazioni sofferte durante il viaggio, un pasto consumato con una scatoletta di carne da truppa, vestiti prestati dalle dame dell’Italia meridionale, dimenticando che nella stessa Inghilterra una borghesia era insorta contro un re le cui colpe erano, al paragone, un’avventura da romanzo per signorine. Ma vittime ne diede e ne dà l’Italia: centinaia di migliaia di prigionieri che hanno affrontato l’umiliazione del disarmo, l’internamento in Germania, senza che nessun governo provvedesse a tutelarli almeno del diritto dei prigionieri di guerra; centinaia e migliaia di morti nei paesi invasi; una classe dirigente che si era manifestata nei quarantacinque giorni, abbandonata alla vendetta del regime che tornava sulla sua preda; e l’intero paese esposto alla rovina da ogni parte e sotto chiunque. Se tutto questo fosse stato fatto per esporre il meglio d’Italia alla rovina e il paese alla strage che avrebbe dovuto umiliarlo e stroncarlo in ogni velleità di riscossa, non avrebbe potuto essere effettuato con maggiore risultato e con più perfetto cinismo10.
D’accordo con Giorgio Rochat e Marcello Venturi si può affermare che la disordinata fuga del 9 settembre verso Pescara e poi i porti pugliesi delle più alte autorità e di un centinaio di cortigiani e generali, tutti dimentichi delle loro responsabilità verso il paese e i soldati, costi-
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L’Emilia Romagna e l’identità nazionale tuisce la pagina più brutta della guerra italiana e la dimostrazione del degrado morale delle alte gerarchie in vent’anni di dittatura11.
Il crollo dell’8 settembre è il collasso «di un’intera politica di formazione e strutturazione delle classi dirigenti», di conseguenza è «inevitabile ripartire da un vuoto»12: l’impresa appare disperata, è un vuoto che faticosamente e certamente con molti limiti e contraddizioni i piccoli partiti antifascisti e la resistenza armata cercano di colmare. Resta difficile comprendere perché tanta storiografia abbia fatto da megafono all’idea che il vero problema della storia d’Italia sia stato l’insufficiente forza coesiva e identitaria del movimento resistenziale e dei partiti che si affermano poi nella repubblica, piuttosto che la terra bruciata e lo sfascio provocati dal regime fascista. Intanto il paese è abbandonato da una classe dirigente delegittimata, una classe «semidirigente e parastatale», come la definisce sprezzantemente Franco Venturi13; è l’ultima drammatica conferma che il patriottismo è una menzogna dalla quale stare alla larga, è la tragedia che sospinge di nuovo il popolo italiano a cercare di salvarsi come può. Forza civile, solidarietà, patriottismo, furono inutilmente messi in atto dal popolo. La sua classe dirigente era lontana e assente, badava ancora a salvarsi e a trescare con questo o con quello. Il sacrificio di un popolo non ha nome se qualcuno che lo rappresenta non lo rivendica e non lo presenta ai popoli e alla storia. E i dirigenti si guardarono bene di appellarsi ad esso […]. Dall’alto della piramide, il «si salvi chi può» gettato alla nazione naufraga e abbandonata, era la manifestazione più significativa di questo rinnegamento del patriottismo e del senso civile. Ancora una volta il cittadino italiano imparava a sue spese che disinteresse e patriottismo sono in Italia vane sciocchezze, e che se non si salva da sé nessuno lo salva14.
Insomma, l’armistizio separa drasticamente il marcio dal sano e dal 9 settembre, prosegue Alvaro, libero ormai dei suoi capi carrieristi, l’esercito si ricostituiva popolarmente, era l’esercito di domani, poiché in esso si riconosceva il popolo, quello soccorreva, là era l’ultimo brandello della bandiera e del suo onore. Chi ebbe la sorte di non poter passare dall’altra parte, e visse in mezzo al popolo abbandonato, può ascrivere a sua fortuna di avere potuto vedere, finalmente, la faccia materna dell’Italia15.
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Tutto ciò però appare allo scrittore calabrese insufficiente, di fronte al ritorno delle vecchie classi dirigenti, «in questa decrepita Roma abituata a tutto», si prepara ancora il vecchio gioco di mettere insieme «il diavolo e l’acqua santa, rivoluzione e conservatorismo». La conclusione è sconsolata: Una manifestazione di potere creativo e di volontà unanime potrebbe salvare questo nostro paese circondato di diffidenze, di vecchi odii non sopiti, di appetiti non saziati, oggi che la fortuna ci abbandona e il carattere non soccorre. Il cittadino risparmiato dalla guerra, volta le spalle dicendo che la politica è pure una cosa immonda: chi soffre non sa più neppure perché soffre e per quale domani; chi è al fronte domanda ansioso se una nuova vita sorge fra le rovine; chi è di là spera che domani, di là nella nazione… Di qua, alla retorica della grandezza della coscienza nazionale, succede la retorica dell’impotenza. Ancora una volta, come nei tediosi ventidue anni, aspetteremo che la salvezza ci venga da fuori? L’Italia rinunzia? 16
Dunque una nazione incapace di trovare in se stessa la forza di reagire – in realtà, una nazione debole perché frammentata e divisa – perché la guerra stessa e la resistenza spappolano la nazione fascista, ma producono drammi, esperienze e aspettative molto diverse tra gli italiani: come riuscire a trovare un filo conduttore tra la lettura irata e impotente fatta da Corrado Alvaro a Roma e quella dei partigiani del nord nei quali la fiducia e la convinzione di potere davvero trasformare il paese, e persino gli italiani, è sostenuta da una forza etica (ancor prima che politica) straordinaria? Vorrei che con me conveniste – scrive Giacomo Ulivi prima di essere fucilato in Piazza Grande a Modena nello stesso periodo in cui scrive Alvaro, il 1944 – quanto ci sentiamo impreparati e gravati di recenti errori, e pensassimo al fatto che tutto noi dobbiamo rifare. Tutto, dalle case alle ferrovie, dai porti alle centrali elettriche, dall’industria ai campi di grano. Soprattutto, vedete, dobbiamo rifare noi stessi: è la premessa per tutto il resto. Mi chiederete: perché rifare noi stessi, in che senso? Ecco, per esempio, quanti di noi sperano nella fine di questi casi tremendi, per iniziare una laboriosa e quieta vita, dedicata alla famiglia e al lavoro? Benissimo; è un sentimento generale, diffuso e soddisfacente. Ma, credo, lavorare non basterà; e nel desiderio invincibile di «quiete», anche se laboriosa, è il segno dell’errore. Perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica, […] e se ragioniamo, il nostro interesse e quello della «cosa pubblica», insomma, finiscono per coinci-
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O, ancora, si rintracciano i segni di un’esperienza capace di suscitare appartenenze e identità indelebili e valide per il futuro in ciò che scrive Ubaldo Bertoli nel 1945 in ricordo dell’amico e compagno Giuseppe Barbieri, fucilato a Parma in Piazza Garibaldi l’anno prima. Pochi amici lo hanno conosciuto ed erano gli amici della semplicità. Andavamo nei pomeriggi estivi e polverosi lungo gli argini ed i torrenti per essere più nella sincerità e nella sicurezza. […] In quei giorni io intuivo la sua vita cospirativa. Già da tempo scompariva silenzioso nella sera tarda ed andava al suo lavoro di patriota e di combattente. Ho saputo poi che lavorava moltissimo ed accettava qualsiasi missione, la più umile, la più nascosta. Qualche volta mi diceva delle sue speranze, della sua fiducia ed incitava la mia svogliatezza contemplativa castigandomi con parole acute. Poi la caccia e la rappresaglia dell’oppressore ci divise, ognuno per compiti eguali e diversi verso la stessa meta dove ci si doveva trovare. Io non l’ho ritrovato. Egli è caduto nella vita segnata dal dovere, afferrato dalla ferocia del nemico. Dalla sofferenza lenta angosciosa del carcere passò alla tortura bestiale nelle mani di adolescenti pervertiti. Fra le pareti bianche di calce e di luce elettrica egli rinunciò alla sua vita umana e si vestì di sacrificio. Trascinato nelle strade che un giorno percorreva con l’amicizia e la fede spinto da un branco di sciacalli egli rivide i suoi ricordi, la sua via semplice, i suoi umili desideri. E cadde all’orizzonte del suo prossimo pensiero e sono certo, con coraggio, con disciplina, come sempre aveva portato nell’adempiere le sue missioni di compagno e di credente. Io avevo promesso al mio entusiasmo di vendicarlo e dalla montagna trascinavo il proposito con il dolore della sua perdita, ma nella città risorta e liberata, fra lo strano e nuovo colore delle strade, nel risveglio inusitato, mi sono sperso nella sua ricerca. Lo vedo sempre, ogni momento, agli angoli delle vie, davanti ad un manifesto, dietro la sua figura ossuta e nervosa. Raccolto nel suo grande sacrificio e devo solamente cercare di rassomigliargli18.
Quanta distanza! È questa la differenza tra il vento del nord e il «clima» del sud provocato dalla «guerra in casa»? È una divisione che certo ritroviamo anche territorialmente, a cui la politica si incarica di dare rappresentanza, ma che è soprattutto frutto di esperienze forti che durante la guerra hanno stagliato identità marcate.
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Ecco allora che raccontare l’identità dell’Emilia dopo la guerra non significa parlare di un caso locale, ma raccontare un pezzo d’Italia, vuol dire anche raccontare un’identità – pur con i limiti di cui abbiamo parlato – in cui la politica (segnatamente il PCI ) contribuisce in modo determinante a disegnarne i tratti, in una regione in cui, a differenza del contesto nazionale, il passaggio dall’antifascismo all’anticomunismo è patrimonio di una minoranza. Allora per restituire concretezza e possibilità di ricostruzione storiografica a un oggetto tanto sfuggente occorre vedere come il PCI elabora il mito dell’Emilia rossa e ne fa oggetto di costruzione identitaria a partire dall’epopea della resistenza. C’è una letteratura, anche storiografica, ma che si innesta su una robusta base di studi sociologici ed economici sulla terza Italia e sul modello emiliano, che sostiene una lineare consequenzialità tra una prima fase in cui il PCI emiliano fa della resistenza l’elemento centrale di un grande racconto collettivo, di una comunità politica che si identifica in una memoria comune che è quella di un’epopea resistenziale che è storia di riscatto sociale e di protagonismi inediti (primi tra tutti il mondo contadino e le donne)19 e che si contrappone a Roma, uscendo dall’ambito locale per farsi «avanguardia di una nazione futura»20; e una seconda fase in cui l’egemonia del PCI diventa sistema di governo e di potere capace di produrre quel riformismo modernizzante alla base del modello emiliano, nel quale il racconto della resistenza si salda alle culture e all’etica del lavoro vissute come valore di progresso individuale e collettivo. Passaggio esemplificato in un articolo di Gigi Ghirotti apparso su «La Stampa» nel 1963 che riproduce un dialogo con l’assessore alla ragioneria del comune di Bologna il quale spiega: «Acquisteremo delle aree per le scuole, per i giardini pubblici, per le case popolari, per i mercati rionali, infine per metterle a disposizione delle piccole e medie imprese». Domanda il giornalista: «Ma come: e la terra ai contadini?». Risposta: «La terra, caro signore, bisogna farla fruttare». Domanda: «E così la lotta di classe finisce con la terra agli industriali?». Risposta: «Non è la lotta di classe che finisce, è la lotta alla speculazione sulla aree che comincia». È un piccolo esempio di come questa «narrazione» e «invenzione della tradizione» ha stabilito un legame forte e linea-
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re tra il dopoguerra, lo sviluppo economico, il buon governo, al centro del quale si colloca un partito «inclusivo» e «comunitario» – il PCI – capace di trasferire all’esterno della comunità locale le tensioni conflittuali e di proteggere i suoi membri dai traumi della modernizzazione, quasi che alla fine si possa leggere un nesso diretto tra partecipazione popolare alla lotta di liberazione, lotte per il lavoro nel dopoguerra e le peculiari forme socio-economiche tipiche dei distretti e del modello emiliano. In realtà, come sempre, la ricerca storica si incarica di complicare le suggestioni della modellistica e di spezzare una linearità di questo tipo. La storia del partito comunista emiliano ci rivela, infatti, passaggi tormentati e fratture profonde: è solo nella seconda metà degli anni Cinquanta che prende forma quel partito pragmatico e riformista, celebrato dalla modellistica, nel quale avviene anche un profondo mutamento di personale, si allontana dalle eredità «militar-rivoluzionarie» e ancor più da quel modello di partito basato su una sorta di «autosufficienza proletaria»21. Gioca in questo la forza della resistenza emiliana (il mito del mitra) 22, ma anche e forse di più la stessa composizione sociale dei gruppi dirigenti (maggioranza operai e contadini). Non è il «Messico d’Italia», ma certo il mito dell’azione di forza e dello sfondamento rivoluzionario permane a lungo, anche se, con poche eccezioni, i gruppi dirigenti riescono, come nota Luciano Casali, a rifiutare qualsiasi coinvolgimento o contatto con livelli e forme illegali o genericamente sovversive di lotta23. Non così la percezione degli avversari del tempo: è pur vero che il PCI emiliano non prende posizioni ufficiali contro gli episodi violenti attribuendone sempre la matrice a provocazioni fasciste e a invenzioni per screditare la resistenza. L’obiettivo era favorire il riassorbimento delle spinte estremistiche e violente, ma allo stesso tempo tradurre in vantaggio politico il capitale di lotta e prestigio accumulato negli anni più duri24. È solo dopo il 1956 che i nuovi gruppi dirigenti comunisti prendono le distanze da «modelli autoritari di direzioni e concezioni militaresche di organizzazione»25. È solo con l’emarginazione delle tendenza radicali e staliniste, legate a un modello di partito più di avanguardia che inclusivo e di massa, che il PCI emiliano si avvia a diventare il partito egemone di una
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comunità territoriale, capace di allargare il suo consenso – finalmente – anche ai ceti medi urbani e di fungere da soggetto di mediazione tra interessi diversi. Perché questa costruzione identitaria di successo in Emilia non acquista un peso più determinante nel definire anche i tratti dell’identità nazionale? Sappiamo del condizionamento decisivo esercitato dal contesto internazionale guerra, ma è anche il ritardo con cui il PCI emiliano, come detto, esce dal guscio proletario che indebolisce la sua capacità di proporsi come modello alternativo, forse ha un’incidenza anche la presenza di poche personalità di grande rilievo politico, come suggerisce Pombeni, e, inoltre, la chiusura degli spazi per le altre culture politiche che abitano la regione in quegli anni e che sono profondamente legate all’esperienza resistenziale: basti pensare alla parabola di Dossetti o ancor più al gruppo dei giovani di Gorrieri nel modenese, costretti a cedere il passo ai gruppi moderati del vecchio popolarismo e a costruire «un’altra comunità» in ambito sindacale e minoritaria, contrapposta a quella egemone comunista. Discutere dei limiti della forza degli emiliani nell’esportare al resto del paese il loro modello identitario antifascista significa addentrarsi nella discussione sulla capacità della resistenza di creare consenso intorno a sé e di proporsi efficacemente o meno come «mito» fondativo e coesivo per la nuova Italia repubblicana. È necessaria, a questo proposito, una considerazione preliminare: occorre ripartire dai fatti e non dagli usi pubblici della resistenza così come li abbiamo conosciuti nel dopoguerra. Ciò significa, in primo luogo, comprendere i contorni politici e militari, i rapporti con la popolazione pensando a una società che vent’anni di fascismo hanno in gran parte spoliticizzato e appiattito, occupando tutti i gangli vitali della vita collettiva: «la piazza», la cattedra, l’informazione. È indispensabile, insomma, tener conto della materia prima che la resistenza ebbe a disposizione26.
Inoltre occorre riproporre la centralità della resistenza armata e il suo nesso con l’antifascismo politico. Se è vero che nel quadro della lotta di liberazione vi furono diverse forme di «resistenze» – civile, senz’armi, degli internati militari – è
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pur vero che il movimento antifascista trova la sua legittimazione politica di nuova classe dirigente per il dopoguerra nella sua capacità di gestire e organizzare una forza combattete, un esercito partigiano che, per quanto organizzato per bande e con spiccate caratteristiche di spontaneità, risponde nel complesso ad una leadership politico-militare guidata dalla coalizione dei partiti antifascisti. È qui il centro del dibattito. La resistenza come fondamento nazionale non riesce a divenire patrimonio collettivo perché non è sostenuta da forze politicamente omogenee, perché intrinsecamente solcata da divisioni ricondotte a unità solo a posteriori attraverso un’operazione politica legittima, ma debole perché fondata su basi troppo fragili. La presenza del partito comunista all’interno dell’alleanza antifascista, poi, non permette una sua trasmissione all’intera comunità nazionale o, come scrive Pietro Scoppola, l’acquisizione della resistenza come patrimonio di militanza da parte della sinistra, ha impedito alla lotta di liberazione di trasformarsi «in un più alto senso di cittadinanza democratica»27. Così, la resistenza e l’antifascismo riescono in qualche misura a rappresentare un terreno di incontro fra i vari partiti che parteciparono alla lotta di liberazione, ma non riescono a supplire alla disgregazione dello Stato nazionale che si attua nel periodo 1943-194528.
La resistenza non diviene il nuovo ethos repubblicano perché patrimonio di una minoranza, perché non riesce a compensare le perdite di identità collettiva provocate dall’8 settembre e dalla guerra civile; fin dalla sua fase costitutiva questo esito era iscritto nel DNA dell’esperienza resistenziale: una guerra per bande e non un esercito di liberazione nazionale, partiti con progetti politici egemonici e in conflitto – anche armato – tra loro, un difficile rapporto con la maggioranza degli italiani che avevano preferito attendere – la «zona grigia» – o peggio ancora con quelle popolazioni colpite dalle rappresaglie dei nazisti in seguito alle azioni partigiane. Insomma, conclude ad esempio Paolo Pezzino, la resistenza antifascista è stata un fattore portante della costruzione repubblicana perché ha costituito il terreno d’incontro e di legittimazione della nuova classe politica, ha definito in qualche modo il perimetro della competizione e dello scontro tra i partiti, ma non si è
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imposta «come mito fondativo nella memoria degli italiani» perché vissuta direttamente da una minoranza «marginale» e perché intesa in modo profondamente diverso dai suoi stessi protagonisti. Ora, mentre molte di queste considerazioni sono fondate su ricerche approfondite e quindi verificate sul campo – ad esempio tutto il capitolo delle stragi e delle memorie divise – l’argomento conclusivo evocato da Pezzino e ripreso più recentemente e più radicalmente da Alberto De Bernardi29, imperniato sulla debolezza – se non persino su una costruzione «mitica» – dell’unitarietà della resistenza e dell’antifascismo sembra più debole. È debole perché, in particolare nel ragionamento di De Bernardi, finisce ad assumere i toni di una spiegazione monocausale: è la mancata risoluzione della «questione comunista» a impedire alla resistenza italiana di divenire coscienza e valore nazionale. La forte presenza politica di un partito che si attarda su posizioni filosovietiche fin dentro la notte del tardo stalinismo brezneviano, invece di adottare come propria stella polare il piano Beveridge e la costruzione del welfare state , che non risolve la contraddizione del rapporto tra democrazia e totalitarismo, che delegittima ogni anticomunismo equiparandolo invariabilmente ad atteggiamenti antidemocratici, perciò fascistoidi, e che, per tutte queste ragioni, persevera nel coltivare il passato resistenziale come mito antagonistico e anticapitalistico, finisce per relegare la resistenza e l’antifascismo nell’ambito ristretto della memoria della sinistra. Solo restituendo all’antifascismo il suo carattere internazionale «non classista», sostiene De Bernardi, la sua vocazione alla coniugazione di stato sociale e ordinamento democratico, può tornare a essere utile come valore collettivamente condiviso e non solo, come è stato nella seconda metà del Novecento, un accordo sulle regole del gioco scaturito dal «miracolo costituzionale»30. Sono considerazioni che hanno una loro valenza e che colgono certo uno dei fattori che ha limitato la capacità espansiva e di radicamento della cultura antifascista nel nostro paese, tuttavia non possono tramutarsi in considerazioni «esclusive» intorno a quello che in fondo si può definire come il problema della forma della democrazia nell’Italia repubblicana. Ma come non assegnare il giusto peso e la valenza forte alle cultu-
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re politiche e sociali espresse da una parte consistente dei ceti economici e delle élite sociali italiane dopo la caduta del fascismo? Davvero la persistenza di comportamenti, scelte, ideologie e mentalità – ciò che abbiamo sempre definito le continuità – espresse dalle classi dirigenti e dalle istituzioni italiane, largamente imbevuti di culture conservatrici e autoritarie liberamente e favorevolmente dispiegatesi durante gli anni del regime e riproposte nel dopoguerra, sono un fattore residuale? Erano questi soggetti collettivi così pronti ad abbracciare una vivace e promettente cultura antifascista rivolta alla creazione di un moderno stato sociale nel quale la dimensione del conflitto fosse considerata fisiologica e produttiva per lo sviluppo del sistema, se non ci fossero stata la presenza ingombrante del partito comunista? Mi pare che la storiografia sull’Italia repubblicana permetta di avanzare più di qualche ipotesi sull’«autonoma» ristrettezza delle concezioni democratiche espresse dalle leadership del dopoguerra e di quanto abbia pesato la presenza di forze che solo formalmente hanno accettato la cornice costituzionale, continuando a esercitare un potere di condizionamento importante, appunto, sulle forme della democrazia italiana31. È da evitare cioè che il riconoscimento delle debolezze e dei contrasti interni al movimento resistenziale, dei limiti e delle contraddizioni dell’antifascismo storico e del paradigma antifascista nel dopoguerra sbilanci le nostre indagini portandoci a espungere o a relativizzare come elementi residuali dello scenario i diversi attori che si muovono in quel complesso quadro che è l’Italia della seconda guerra mondiale e poi della repubblica. Ciò impedirebbe di vedere come pure in un paese diviso, con interi e consistenti ambienti sociali e territoriali neanche sfiorati dalla lotta di liberazione e dalle sue tensioni positive – come seppure solo emblematicamente abbiamo descritto – l’antifascismo rappresenta l’unica cultura di massa, l’unica ideologia collettiva con aspirazioni nazionali nata in Italia nel Novecento. […] L’enorme funzione storica dell’antifascismo fu di risolvere il problema dell’assetto delle masse popolari nello Stato, un nodo che non era stato sciolto in epoca liberale e la cui mancata soluzione aveva causato, con l’ascesa del fascismo, la più distruttiva e drammatica delle crisi politiche del secolo32.
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È proprio quell’antifascismo, forse minoritario quantitativamente nel paese, a costituire l’orizzonte politico-ideologico entro cui si collocano i grandi partiti del dopoguerra, unici strumenti disponibili in quei decenni – e per la verità oggi affondati, ma non ancora sostituiti – per collegare i cittadini allo Stato, per risolvere – se si vuole in modo parziale o, piuttosto, in una forma del tutto peculiare – il problema storico dell’inclusione dei ceti subalterni nel sistema democratico. È chiaro come, anche in questo passaggio, i tratti di continuità siano marcati, in particolare per quando riguarda la concezione dello Stato, delle politiche economiche e della relazione tra grandi interessi organizzati (dal corporativismo autoritario al corporatismo pluralista), tuttavia quel «miracolo costituzionale» del 1948 che comunque lo si valuti è il frutto maturo delle culture politiche antifasciste segna una rottura storica proprio sul terreno dell’inclusione e dei diritti all’interno della quale e difficile emarginare eccessivamente la funzione svolta dai partiti di massa della sinistra. Occorre, infine, ribadire che lo scontro della guerra fredda è certo il fattore decisivo che toglie gran parte delle possibilità di un esito che non fosse di contrapposizione; ora è lecito però chiedersi – guardando alle vicende italiane dell’ultimo decennio – se dietro la guerra fredda ci fosse dell’altro, se quella contrapposizione declinata sul piano delle appartenenze internazionali e ideologiche non traducesse – anche strumentalmente – spaccature profonde della società italiana e riserve in diversi settori sociali tradizionali rispetto ai nuovi equilibri disegnati dalla repubblica. È la sopravvivenza dell’anticomunismo dopo la morte del comunismo e la ricongiunzione di culture un tempo avversarie nello stesso campo politico-culturale a suscitare questi interrogativi. È la persistenza di forze da sempre estranee al patto costituzionale, ma da sempre dentro gli equilibri del potere fin dalla mediazione degasperiana del 1948, un sommerso della repubblica, come le definisce Francesco Biscione33, che riemerge dopo la fine dei grandi contenitori politici del dopoguerra e utilizza la storia come una delle armi per costruire un nuovo discorso pubblico a stimolare nuove domande. È forse tempo di mettere al centro una nuova stagione di studi che tengano insieme la parabola dell’antifascismo nella
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L’Emilia Romagna e l’identità nazionale
storia della repubblica, dell’anticomunismo e, per usare la definizione di Salvatore Lupo, dell’anti-antifascismo durante e dopo la guerra fredda, a partire dall’intreccio tra storia, costruzioni identitarie e della memoria, e invenzioni delle tradizioni per andare alla ricerca di basi più solide di quelle di cui disponiamo oggi e per interpretare con strumenti migliori le profonde trasformazioni che investono il nostro paese a partire dagli anni Novanta. Note 1. Introduzione di A. Preti a La cultura della resistenza: storiografia e identità civile in Emilia Romagna, a cura di B. Dalla Casa, A. Preti, Il Nove, Bologna 2001, p. VII ss. 2. F. Cordova, « 8 settembre»: la patria è morta?, in F. Cordova, C. Gavagna, M. Themelly, Le scelte di allora. I militari italiani in Montenegro dopo l’8 settembre , Angeli, Milano 2001, p. 8. 3. F. Chabod, L’idea di nazione , Laterza, Roma-Bari 2000, p. 77-78. 4. R. Battaglia, Storia della resistenza italiana, Einaudi, Torino 19532, p. 138. 5. P. Pezzino, Senza Stato. Le radici storiche della crisi italiana, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 89-90. 6. «I cristiani in Germania dovranno affrontare una terribile alternativa: o augurare la sconfitta del loro paese, perché la civiltà cristiana possa sopravvivere, o augurare la vittoria del loro paese che distruggerà la nostra civiltà», ibid., p. 90. 7. S. Peli, La resistenza in Italia. Storia e critica, Einaudi, Torino 2004, p. 8. Analogamente sottolinea Pezzino come «le parole “patria” e “Italia” solo nella lotta ai tedeschi e ai fascisti riuscivano a inverarsi nuovamente». P. Pezzino, Senza Stato…, cit., p. 93. 8. C. Alvaro, L’Italia rinunzia?, Sellerio, Palermo 1986, p. 35. 9. B. Croce, Scritti e discorsi politici (1943-1947), vol. I, Bibliopolis, Napoli 1993, p. 56. 10. C. Alvaro, L’Italia rinunzia?…, cit., p. 39. 11. La Divisione Acqui a Cefalonia. Settembre 1943, a cura di G. Rochat e M. Venturi, Mursia, Milano 1993, p. 11. 12. P. Pezzino, Senza Stato…, cit., p. 93. 13. F. Venturi, La lotta per la libertà. Scritti politici, Einaudi, Torino 1996, p. 166, citato da S. Peli, La resistenza in Italia…, cit., p. 20. 14. C. Alvaro, L’Italia rinunzia?…, cit., p. 41. 15. Ibid., p. 64. 16. Ibid, pp. 92-93. 17. G. Ulivi, Lettere , Cop. Tip., Modena 1974, p. 83-85. 18. In M. Minardi, L’ultima notte d’agosto. Il martirio di Giuseppe Barbieri, Clueb, Bologna 2003, pp. 130-131.
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Lorenzo Bertuccelli 19. Vedi L. Casali, Emilia Romagna, in Dizionario della resistenza, vol. I: Storia e geografia della Liberazione , Einaudi, Torino, pp. 470-486. 20. A. Canovi, La fucina di «Emilia». Vita breve di una rivista che ha immaginato una grande regione , in «Rassegna di storia contemporanea», (1998), n. 1, pp. 13-39. 21. Vedi L. Bertucelli, Culture sociali e politiche in una provincia rossa. Modena (1945-1956), in Id., Sindacato società e istituzioni nel Novecento , Il Fiorino, Modena 2002. 22. P. Pombeni, La ricostruzione politica in Emilia Romagna nel quadro del contesto nazionale. Una rilettura, in La ricostruzione di una cultura politica: i gruppi dirigenti dell’Emilia Romagna di fronte alle scelte del dopoguerra (1945-1956), a cura di A. Varni, Il Nove, Bologna 1997, p. XVII. 23. L. Casali, Sovversivi e costruttori. Sul movimento operaio in Emilia Romagna, in L’Emilia Romagna. Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi, a cura di R. Finzi, Einaudi, Torino. 24. Vedi su questo N. Sigman, Rappresentanza e autorappresentazione a Modena nel secondo dopoguerra (1945-1956), in La ricostruzione di una cultura politica: i gruppi dirigenti …, cit. 25. Sono parole di Silvio Miana, segretario della Federazione di Modena dal 1955. 26. S. Peli, La resistenza in Italia…, cit., p. 6. 27. P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione , Einaudi, Torino 1995. 28. P. Pezzino, Senza Stato …, cit., p. 101. 29. A. De Bernardi, L’antifascismo: una questione storica aperta, introduzione a Antifascismo e identità europea, a cura di A. De Bernardi, P. Ferrari, Carocci, Roma 2004. 30. Ibid., pp. XXVI-XXX. 31. S. Lupo, Antifascismo, anticomunismo e anti-antifascimo nell’Italia repubblicana, in Antifascismo e identità europea…, cit., pp. 365-377. 32. F. Biscione, Il sommerso della Repubblica. La democrazia italiana e la crisi dell’antifascismo , Bollati e Boringhieri, Torino 2003, p. 53. 33. F. Biscione, Il sommerso della Repubblica…, cit.
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Il 25 luglio 1943, quando arrivarono a Madrid le notizie del voto del Gran Consiglio e dell’arresto di Benito Mussolini, Francisco Franco convocò con tutta urgenza il Consiglio dei ministri. Raccontò quello che stava accadendo in Italia e, facendolo, pianse disperatamente e a lungo1. Il crollo del regime italiano – che veniva giudicato quasi come un modello di riferimento nonostante le rivalità in politica estera sul problema del controllo del Mediterraneo, che era stato tanto determinante per la vittoria nella guerra civile, e nei confronti del cui capo tanto numerosi erano stati gli attestati di amicizia e fraternità di intenti2 – sembrava mettere in discussione la stessa sopravvivenza dell’omologo regime spagnolo, in quanto pareva presumere una futura sconfitta militare (e quindi politica) dell’Asse3 che, del resto, gli sbarchi alleati in Africa e in Sicilia sembravano rendere sempre più vicina4. Quali erano le notizie provenienti dall’Italia, al di là della (di per sé) già drammatica informazione che il Duce era stato deposto e che Vittorio Emanuele lo aveva fatto arrestare? Le notizie che arrivavano attraverso il segretario personale dell’ambasciatore spagnolo a Roma, José Arduro, erano indubbiamente le più preoccupanti in quanto richiamavano alla memoria di Franco e dei suoi ministri la situazione spagnola contro la quale avevano dato vita al golpe nel luglio del 1936. Riportiamo le parti essenziali del documento (datato 28 luglio), di cui furono fatte copie e che circolò abbondantemente fra i falangisti: Abbiamo vissuto una notte piena di orrore e di spavento. Roma bruciava ai quattro punti cardinali: giornali, centri, negozi, case: uno spavento […]. I fascisti, inseguiti come selvaggina, sono fuggiti in campagna e continuano a fuggire, travestiti per salvare la vita; alcuni si sono suicidati, ma la maggior parte se ne sta nascosta.
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Sopravvivere. Il 1943 della Spagna franchista A Milano sono state occupate le fabbriche. Il nostro Consolato è stato assalito e sono stati buttati per strada simboli e alcuni mobili. Sono nati Comitati di fabbrica e le camicie rosse sono quelle che prevalgono, indossate da uomini e donne. Saluto a pugno chiuso e il canto dell’Internazionale riempiono le strade che sono piene zeppe di malfattori sovversivi. Lo Stato di guerra che si è dichiarato ha fatto rientrare nelle proprie tane la belva che si sta preparando per l’assalto finale […]. Non so se questa notte riusciranno a rifugiarsi a casa nostra due importanti gerarchi che stanno cercando per uccidere […]. Avvertite gli amici e i camerati cui ritenete prudente dire tutto ciò; avvertite i vecchi squadristi5 di Madrid. Non posso per la fretta informare tutti, però voglio che siano messi in guardia e si riuniscano nel maggior numero possibile per far fronte a qualsiasi eventualità. Lo si faccia sapere e si prendano i provvedimenti del caso6.
Va da subito ricordato che le notizie e i consigli provenienti da Roma ebbero una conseguenza diretta e immediata che fu consentita, se non addirittura suggerita, dalle autorità politiche e militari: in quei giorni i falangisti ripresero le armi. Ci furono decine (e forse centinaia) di morti per le strade, si fece irruzione nelle carceri dove vennero ammazzati quantità imprecisate di detenuti politici. Il nervosismo venne diffondendosi in maniera incontrollata e si interveniva in modo drastico «per evitare vendette se ci fosse stato un cambiamento di regime»7. Furono anche lanciate pietre contro l’ambasciata italiana in Madrid8. D’altra parte, alla notizia della caduta del fascismo italiano, in tutta la Spagna erano sorte manifestazioni spontanee di entusiasmo e di allegria che si erano riversate in strade e piazze e anche nelle prigioni fra i detenuti politici si diffuse un senso di soddisfazione e di speranza9. Non erano sufficienti le assicurazioni che già il 26 luglio l’ambasciatore italiano a Madrid – ricevuto immediatamente dal ministro degli Esteri Jordana – forniva: nulla era mutato nelle linee generali della politica italiana e i rapporti con la Spagna sarebbero rimasti inalterati10; non erano rassicuranti le informazioni che quotidianamente giungevano da Roma. Ventimila fascisti erano stati arrestati ed erano finiti in prigione; nelle tre città di Torino, Genova e Milano almeno 250 fascisti erano stati assassinati; addirittura si era ammazzato Ettore Muti, che così eroicamente aveva combattuto nella guerra civile spagnola; una «infame e vergognosa campagna di calunnie e accuse contro la persona del Duce ed i gerarchi» riempi-
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va le pagine dei giornali con toni di una «vigliaccheria e una sfacciata immoralità che non avevano precedenti nella stampa di tutto il mondo»11. Nella visione di Franco e dei falangisti era un mondo nel quale avevano creduto e che in certo modo avevano fatto loro, traendone formule sociali nuove, che parlavano di vigore, di sentimenti grandiosi, di Impero, che stava affondando; sopra le sue rovine tornava la vecchia democrazia liberale
contro la quale avevano combattuto12. La grande congiura internazionale massonico-giudaica stava riprendendo forza. Francisco Franco e Carrero Blanco ne erano assolutamente certi. Come giustificare altrimenti non solo gli avvenimenti di luglio, ma anche il fatto che due mesi prima, il 21 giugno13, 27 procuradores di quelle Cortes che, completamente designate da Franco, erano state inaugurate appena il 17 marzo, avevano fatto pervenire al Caudillo un documento nel quale sostenevano la necessità di un ripristino in Spagna della «Monarchia Cattolica Tradizionale»? Erano stati, naturalmente, eliminati da tutti gli incarichi che ricoprivano, ma non era sufficiente. Alla vigilia della celebrazione del settimo anniversario del 18 luglio, Luis Carrero Blanco (sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri) inviò agli alti comandi militari14 un’istruzione personale e riservata, cui Franco aggiunse un paragrafo finale di propria mano: Ripetute informazioni, che per la loro origine meritano credito assoluto, permettono di essere a conoscenza di tutti gli aspetti generali di un vasto piano di azione, ordito dalla Massoneria Internazionale, per provocare in Spagna, approfittando delle dolorose circostanze della guerra, momenti di crisi che la pongano, in un primo momento, al servizio di interessi stranieri e, in seguito, nel medesimo stato di annichilamento in cui si trovava nel luglio 1936. Il piano in questione intende semplicemente annullare i frutti della nostra guerra di Liberazione e con ciò la totale distruzione della nostra Patria. La Massoneria Internazionale, arma poderosa al servizio del potere giudaico, odia la Spagna in quanto potenza cattolica e desidera ardentemente la sua rovina morale e materiale.
Franco aggiungeva che la Massoneria intendeva «attaccare e distruggere tutta la Crociata e, nella impossibilità di conseguire immediatamente la repubblica massonica desiderata,
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[…] instaurare la monarchia»15. Carrero Blanco, in particolare, nella sua fobia antimassonica, era probabilmente convinto fino in fondo dell’esistenza di una tale congiura, tanto è vero che ancora nel 1950 avrebbe scritto che essa «aveva giocato un importante ruolo negli ultimi momenti dell’Italia fascista che culminarono con la caduta di Mussolini»16. Se accettassimo l’immaginifica tesi di Franco e Carrero Blanco, dovremmo ammettere che l’offensiva massonica era in pieno svolgimento dal momento che in quel 1943 le richieste di riportare l’istituzione monarchica alla testa della Spagna furono numerose (almeno quattro) e qualificate17. L’appello dei 27 procuradores18 era stato preceduto da una lettera che l’8 marzo Juan de Borbón (successore designato del re Alfonso X III) aveva inviato a Franco. In essa il Conte di Barcellona affermava seccamente che era necessario «accelerare il più possibile la data della restaurazione monarchica» in considerazione dell’andamento della guerra e dello schieramento internazionale in cui era con tutta evidenza collocato l’attuale regime spagnolo19. Il 2 agosto il «pretendente» tornava alla carica con un lungo telegramma: Gli ultimi avvenimenti della guerra stanno precipitando l’esito dei destini dell’Europa. [….] Non c’è tempo da perdere se V. E. […] vuole contribuire a evitare gravissimi mali per la nostra cara Patria determinando la restaurazione senza condizioni della Monarchia. […] Gli avvenimenti dell’Italia ci possono servire da avvertimento20.
Franco rispondeva nel giro di una settimana, l’8 agosto, anch’egli per mezzo di un telegramma: Distruzione regime Italia, tanto esaltata dai suoi nemici, può avere conseguenze catastrofiche come ogni distruzione della politica di una nazione. Regime nazionale spagnolo, per sue caratteristiche spirituali e sociali proprie, è l’unico che assicura alla Spagna attualmente la pace interna, giustizia fra gli spagnoli e il rispetto internazionale. Sotto esso non hanno possibilità nessun genere di movimenti sovversivi. Il comunismo, vero pericolo d’Europa, non lo si disarma con concessioni; sbagliano quanti assicurano altra cosa21.
L’«offensiva» monarchica non si sarebbe conclusa qui (a parte quanto accadde in settembre di cui parleremo più avan-
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ti): negli anni successivi i contraddittori rapporti con Franco continuarono – prima per via epistolare, poi con alcuni incontri – mutando il tono di entrambi in relazione ai cambiamenti dello scenario internazionale. Tuttavia, come è noto, «don Juan» non riuscì a spuntarla e non salì sul trono di Spagna22. In questa complessa situazione, come era sua abitudine, Franco fu lento nell’organizzare una «risposta» agli avvenimenti23, d’altra parte egli era profondamente convinto che l’attesa spesso rendeva meno complicati quei problemi che a tutta prima parevano insolubili e la sua fu una risposta su più piani. Innanzi tutto era da contrastare l’idea che in Spagna ci fosse un regime di tipo fascista: le idee politiche di base che avevano accompagnato la Cruzada e che formavano l’ossatura della Falange non erano fasciste, ma traevano le proprie radici dalla storia e dalle tradizioni spagnole24. Il secondo punto consisteva nel rafforzare lo stretto legame delle varie componenti politiche del regime (le famiglie ) con la sua persona, identificando nel Caudillo il solo possibile capo dello Stato, continuando lungo le linee che avevano portato alla crisi ministeriale-politica del 1942 e si erano concluse con l’«eliminazione» di Ramón Serrano Suñer. Infine, andava giocata con molta attenzione e abilità la partita internazionale, continuando a destreggiarsi fra Alleati e Asse: non bisognava dimenticare, come aveva sempre sostenuto Franco, che erano in corso ben due guerre, non solo una. C’era sì la guerra che vedeva, in un’incomprensibile e assurda alleanza, Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica combattere contro la Germania, l’Italia e il Giappone. Ma esisteva anche un’altra guerra molto più importante e che sarebbe continuata qualunque fosse stato l’esito della seconda guerra mondiale: la guerra della civiltà cattolica e occidentale contro il comunismo sovietico, e in questa guerra la Spagna di Franco era decisamente schierata e vi partecipava con quella División Azul che da subito si era posta al fianco della Germania sul fronte che intendeva abbattere il pericolo comunista25. Se già il Consiglio dei ministri del 29 luglio aveva deciso la ritirata della División Azul dal fronte orientale26 – ma la smobilitazione sarebbe cominciata solo a partire dal 12 ottobre27 – Franco ben si guardò dal comunicarlo all’ambasciatore britannico Samuel Hoare che chiese esplicitamente, il 20 agosto, che la Spagna cessasse di combattere contro l’URSS che era alleata con il Regno Unito. E
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lo stesso comportamento era stato tenuto nei giorni precedenti con l’ambasciatore degli Stati Uniti, Carlton Hayes28. Come in altre occasioni venne precisato solo che «la guerra è un fatto transitorio, mentre il problema comunista è permanente»29. D’altra parte, andava evitato uno schieramento eccessivamente favorevole agli Alleati: poteva sempre accadere che Hitler vincesse la guerra30. Stesso ambiguo atteggiamento venne mantenuto con l’Italia. Il richiamo a Madrid dell’ambasciatore Fernández Cuesta permise, in settembre, di non dovere scegliere se mantenere la delegazione diplomatica con il Regno del sud o trasferirla alla Repubblica sociale italiana31. Per quanto concerne il nazionalismo non fascista che avrebbe caratterizzato la dittatura di Franco, fu lo stesso Winston Churchill che sembrò suggerire al Caudillo la percorribilità di tale sentiero su cui fare viaggiare l’immaginifico interno e internazionale. Ricevendo l’ambasciatore spagnolo a Londra il 27 luglio, il primo ministro riconobbe che il nostro regime non è politicamente definito dall’Asse, né lo sarà mai e che la Falange non è una degenerazione del nazionalsocialismo né del fascismo, anche se, aggiunse, a suo modo di vedere non era neppure legata alle tradizioni spagnole32.
Il 1° agosto 1943 il segretario generale della Falange, José Luis de Arrese, inviò a tutti i segretari provinciali una circolare riservata che aveva indubbiamente lo scopo di tranquillizzare tutta l’organizzazione in merito agli avvenimenti italiani, ma che nello stesso tempo insisteva «pedagogicamente sul carattere non totalitario della Falange»33: Non si è ancora capito, nonostante lo si sia detto tante volte, che FetJons non ha niente a che vedere con i totalitarismi politici. Totalitario è il comunismo che è, senza alcun dubbio, il nostro unico nemico fino in fondo. La Spagna ha una forma politica basata decisamente sulla più intransigente delle proprie peculiarità, la norma politica impetuosa e missionaria che diede grandezza e splendore ai nostri tempi migliori34.
Toccava ancora ad Arrese, proprio alla sera dell’8 settembre, quando ormai era noto che l’Italia era uscita dalla guerra arrendendosi agli Alleati, celebrare il millenario della Castiglia a Burgos: una grande occasione pubblica per ribadire ancora una volta le differenze fra Spagna e fascismi: «Si conosce poco
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la Falange quando si dice che è una specie di succursale di regimi stranieri e sbagliano coloro che, a forza di negare la nostra originalità, chiamano totalitario il nostro stato»35. Non era sufficiente. Il 12 dicembre venne tenuto il primo (e unico in tutta la storia della Falange) Consiglio nazionale di tutti i segretari provinciali: il tema centrale su cui si «discusse» era a proposito dello «smarcamento» del regime spagnolo da quelli di tipo fascista e si insistette sulla necessità di un ritorno «alle origini», a quello che aveva voluto e per cui aveva lottato ed era morto José Antonio Primo de Rivera36. Infine, il 27 dicembre la Delegazione nazionale della propaganda inviò istruzioni precise e categoriche alla stampa: Come norma generale, dovrà tenersi conto di ciò che segue: in nessun caso e sotto nessun pretesto, tanto negli articoli che negli editoriali o nei commenti […] si dovrà fare allusione a testi, idee politiche o esempi stranieri quando ci si riferisce alle caratteristiche e alle basi politiche del nostro Movimento. Lo Stato spagnolo si fonda esclusivamente su principi, norme politiche e basi filosofiche strettamente nazionali. Non si tollererà in nessun caso il confronto del nostro Stato con altri che potrebbero sembrare simili, né tanto meno si potranno trarre conseguenze da pretesi adattamenti ideologici stranieri nei confronti della nostra Patria. I fondamenti del nostro Stato vanno sempre trovati nei testi originali dei fondatori e nella dottrina stabilita dal Caudillo 37.
Agli uomini della Falange appariva ben chiaro che la loro sopravvivenza (e le fortune anche economiche che molti avevano accumulato vincendo la guerra civile) era strettamente legata alla sopravvivenza di Franco e del regime; qualsiasi mutamento non poteva trarre, come conseguenza immediata, che l’eliminazione del partito e la esclusione dal potere di quanti a esso facevano riferimento. Non è un caso che furono lasciate circolare notizie da inferno dantesco sulla situazione che si era venuta a creare in Italia con la caduta di Mussolini: era un evidente avvertimento su quanto sarebbe potuto accadere anche in Spagna se si fossero messi in discussione il regime e il suo capo. Gli avvenimenti italiani giunsero in qualche modo al momento opportuno. Nel 1942 Franco, come abbiamo ricordato, aveva eliminato dalla compagine governativa (e praticamente da tutti gli incarichi politici) Ramón Serrano Suñer, colui che si era trasformato progressivamente da primo consigliere di Franco, nel 1937, in
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chi in qualche modo si preparava, se non a sostituirlo, ad affiancarlo, facendo premio sulla gestione della Falange, di cui presiedeva la Giunta politica e puntando su una soluzione esplicitamente fascista della politica spagnola. La gestione che Arrese fece della Falange (a partire dal 1941, ma soprattutto con la fine politica di Serrano Suñer) dava maggiore evidenza al carattere «spagnolo» del pensiero falangista, ne esagerava i contenuti di cattolicità (restituendo alla Chiesa uno spazio che le era stato in parte sottratto) e rifuggiva da ogni radicalismo: la «rivoluzione sociale» era un tema sbandierato sempre più solo demagogicamente38. In sostanza Franco voleva mettere in secondo piano il ruolo della Falange nel regime, ovviamente senza perderne l’appoggio, e la sostituzione di un uomo della taglia di Serrano Suñer con Arrese39, che si era mostrato molto facile da convincere e manovrare, eliminava qualsiasi possibilità di creare ombre alla sua leadership. Contemporaneamente Franco poteva rafforzare il ruolo delle forze armate in quanto era convinto che i militari fossero disposti ad accettare il suo comando senza imporgli particolari condizioni. Maggiore spazio restava così anche per la terza famiglia, la Chiesa cattolica40, creando un nuovo equilibrio di potere che il Caudillo era in grado di gestire più tranquillamente. Il luglio e il settembre italiani potevano essere interpretati in più modi e fra l’altro mostravano che il fascismo e le sue milizie erano scomparsi come neve al sole e non avevano neppure tentato di difendere Mussolini. Ciò sarebbe potuto accadere pure in Spagna, anche se la sanguinosa violenza con cui erano state condotte la guerra e il dopoguerra e che aveva portato a un vero e proprio genocidio degli avversari, rendeva necessariamente concorde e solidale il nucleo falangista. Però gli equilibri appena stabiliti dovevano mutare a favore della Falange e Franco aveva la necessità di ricompattare regime e Falange, di darle un nuovo spazio rendendola una tessera essenziale al suo mosaico, condizionata però da una dipendenza dal Caudillo , dipendenza che in qualche modo diveniva mutua41. E questo apparve drammaticamente non rinviabile l’8 settembre 194342, quando otto generali43 chiesero praticamente le sue dimissioni. Era la quarta «offensiva» monarchica dall’inizio dell’anno ed era particolarmente preoccupante per Franco: la «certezza assoluta» sull’appoggio dei militari lasciava
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spazio alla incertezza e alla necessità quindi del pieno sostegno della Falange, che Arrese sembrava comunque garantire. A nessuno dei due pareva interessare che la perdita di autonomia del Movimento e la sua dipendenza sempre più stretta dal Governo ne avrebbero provocato la rapida decadenza44. Che cosa scrivevano i generali? Innanzi tutto, va sottolineato che non si trattava di generali qualunque, ma proprio di quelli che il 1° ottobre 1936 lo avevano nominato «Capo del Governo dello Stato» e «Generalissimo di tutti gli eserciti», che gli avevano cioè consegnato le basi del potere che ora gestiva. Essi gli ricordavano che gli avevano affidato un incarico «a tempo» che avrebbe dovuto concludersi con la fine della guerra. Ora Franco doveva tornare a essere un semplice generale, più o meno come gli altri: Sono alcuni compagni d’arma quelli che vengono ad esporre la loro inquietudine e preoccupazione […]; gli stessi – con quei cambiamenti imposti dalla morte di alcune persone – che circa sette anni fa in un aerodromo di Salamanca vi investirono dei massimi poteri, nella direzione militare e in quella dello Stato. In quella occasione la vittoria completa e magnifica coronò con gli allori della gloria la nostra decisione e l’atto di volontà di alcuni Generali si trasformò in accordo nazionale per il consenso unanime, tacito o acclamato, del popolo, fino al punto che fu lecita una proroga del mandato oltre i tempi che per esso erano previsti. Vorremmo che il successo che allora ci accompagnò non ci abbandonasse oggi chiedendo al nostro Generalissimo con lealtà, rispetto e affetto se, come noi, non ritiene giunto il momento di dotare la Spagna di una direzione […] che rinforzi lo Stato con apporti unitari, tradizionali e prestigiosi come sono quelli che fanno riferimento alla forma monarchica. Riteniamo sia giunto il momento di non esitare oltre per tornare a quei modi di governo genuinamente spagnoli che fecero la grandezza della nostra Patria, dai quali ci si allontanò per imitare mode straniere45.
Ciò che soprattutto Franco non poteva tollerare era l’essere trattato «alla pari», il fatto che gli altri generali non gli riconoscevano una supremazia, che lo trattavano tutto sommato come un primus inter pares. Ma non poteva certo rispondere ai generali arrestandoli tutti. Meglio aspettare e, a cominciare dai primi di ottobre, riceverli uno alla volta, sottolineare la necessità di non rompere l’alleanza stretta nel 1936, non fare un salto nel buio rimettendo il potere in mano a un monarca sco-
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nosciuto, continuare a dividere il potere fra quanti potevano fidarsi uno dell’altro46. D’altra parte le forze armate non potevano che legittimare uno Stato che era nato proprio a seguito della loro ribellione armata47. Alla fine del 1943 Franco sembrava aver superato la crisi e avere collocato solidi piloni di sopravvivenza, stabilendo un equilibrio fra le tre famiglie che, con poche varianti e qualche piccola crisi, avrebbe retto fino al 1975. Il 3 ottobre (ed era un evidente avvicinamento agli Alleati) dichiarava la neutralità della Spagna (uscendo dall’ormai scomoda posizione della non-belligeranza); Arrese sottolineava la necessità della «rivoluzione sociale» per evitare il pericolo del comunismo48. Probabilmente Gabrielle Asford esagera un poco nella sua analisi, ma tutto sommato Franco nel suo intimo, dovette proprio sentirsi profondamente soddisfatto per la caduta del Duce che una volta il Führer […] gli aveva descritto con parole emozionate come eguale a lui e probabilmente per alcuni aspetti anche superiore a lui. Forse ora Franco poteva diventare il favorito di Hitler49.
A un anno di distanza dalla caduta di Mussolini uno fra i più noti giornalisti spagnoli, già corrispondente di «Arriba» da Roma e Berlino e, dal 1948, direttore dello stesso quotidiano, Ismael Herráiz pubblicava un libro – che ebbe un enorme successo di vendite50 – che sembrava trarre le conclusioni di quanto era accaduto: «La dolorosa lezione che ci offre la tragedia dell’Italia [può] indurre a severe riflessioni l’uomo spagnolo». Dopo avere affermato la sua «personale ammirazione per la persona di Mussolini» e avere espresso la convinzione che «la Storia lo riscatterà chiaramente, perché nel suo bilancio gli errori sono inferiori ai successi e perciò otterrà il perdono che è concesso a coloro che hanno amato molto» (?); Herráiz ricordava che il Duce era stato circondato da traditori, che Giuseppe Bottai, Dino Grandi, Vittorio Emanuele avevano approfittato di lui, che troppi si erano arricchiti alle sue spalle dando vita a una «oligarchia di parvenus»51. Era un evidente avvertimento sulla necessità di mantenere unite le forze che avevano condotto la «rivoluzione» in Spagna e di non commettere gli errori che avevano determinato la fine del fascismo in Italia.
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Note 1. P. Preston, Francisco Franco. La lunga vita del Caudillo , Mondadori, Milano 1997, p. 494. Molto probabilmente la discussione sugli avvenimenti italiani si tenne nel corso del Consiglio già previsto per il 29 luglio. 2. Cfr. L. Casali, L’engany. El 1939 dels italians tot esperant la guerra, in Les roptures de l’any 1939, a cura di M. Risques, F. Vilanova, Ricard Vinyes, Publicacions de l’Abadia de Montserrat, Barcelona 2000, pp. 107-128. 3. J.M. Thomàs, La Falange de Franco. Fascismo y fascistización en el régimen franquista (1937-1945), Plaza & Janés, Barcelona 2001, p. 322. 4. Sulle considerazioni a proposito delle scelte politiche spagnole in rapporto alla guerra nel Mediterraneo cfr. soprattutto J. Tusell, Franco, España y la II guerra mundial. Entre el Eje y la neutralidad, Temas de Hoy, Madrid 1995, pp. 331-434. 5. Il testo parla di «camisas viejas», espressione con la quale si indicavano coloro che erano iscritti alla Falange fin da prima del golpe del luglio 1936, normalmente ritenuti i più estremisti e violenti. 6. R. Fernández Cuesta, Testimonio, recuerdos y reflexiones, Dyrsa, Madrid 1985, pp. 221-222; Fernández Cuesta, già segretario della Falange al momento della fondazione, poi più volte ministro con Franco, era nel 1943 ambasciatore della Spagna a Roma. Va ricordato che non ci fu nessun assalto al Consolato di Milano e, d’altra parte, è evidente l’assoluta esagerazione dei termini con cui veniva descritta la situazione, cfr. comunque J. Tusell, Franco…, cit., p. 422. 7. J. Gracia García, M.Á. Ruiz Carnicer, La España de Franco (19391975). Cultura y vida cotidiana, Editorial Síntesis, Madrid 2001, p. 48. 8. J. M. Thomás, La Falange de Franco…, cit., p. 339. 9. J. Gracia García, M.Á. Ruiz Carnicer, La España de Franco…, cit., p. 61. 10. Nota de Jordana sobre visita del Embajador de Italia, 26 de julio de 1943 (Documentos inéditos para la Historia del Generalísimo Franco , t. IV, Azor, Madrid 1994, p. 353). Era ambasciatore, appena dall’aprile 1943, Paulucci da Calboli. 11. Informe policial desde Roma, 21 de septiembre de 1943 (ibid., pp. 433-434). 12. L. Suárez Fernández, Crónica de la Sección Femenina y su tiempo , Asociación Nueva Andadura, Madrid 1992, p. 161. 13. Fra i vari studiosi e testimoni ci sono molte incertezze ed imprecisioni sia in rapporto alla data (che varia fra il 15 e il 21) sia per i nomi dei 27 firmatari, sia sul testo del documento; noi abbiamo fatto riferimento a G. Redondo, Política, cultura y sociedad en la España de Franco (1939-1975), vol. I: La configuración del Estado español, nacional y católico (1939-1947), Ediciones Universitarias de Navarra, Pamplona 1999, pp. 578-579. 14. Ai tre ministri militari secondo Gonzalo Redondo (ibid., p. 581), ai comandanti delle otto Regioni militari secondo Preston. Per Ricardo
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Sopravvivere. Il 1943 della Spagna franchista de la Cierva, spesso approssimativo ed inaffidabile nelle sue affermazioni, la comunicazione fu inviata a tutti i Gobernadores civiles (Franco. La Historia, [Madridejos], Editorial Fénix, 2000, p. 628). 15. G. Redondo, Política, cultura…, cit., p. 582. 16. Juan de la Cosa [Luis Carrero Blanco], España ante el mundo . Proceso de un aislamento , Publicaciones Españolas, Madrid 1950 (citiamo dalla 2a ed. del 1955, p. 154). 17. Va ricordato che il 15 novembre 1943 veniva pubblicata una biografia di Franco ferocemente antiebraica che si concludeva con le parole: «Ora che abbiamo assistito al tradimento orribile di Vittorio Emanuele, sottolineamo due volte questa avvertenza: se non vince la Germania, trionfa il Comunismo. Il Signore ci illumini! », Carmen Velacoracho, Un Caudillo , Imprenta Europa, Madrid 1943, p. 136. 18. Fra i firmatari figuravano nomi prestigiosi, come il duca di Alba (dal 1937 «ambasciatore» di Franco a Londra), José de Yanguas (già ambasciatore in Vaticano), Alfonso García Valdecasas (uno dei tre oratori alla fondazione della Falange il 29 ottobre 1933), Gamero del Castillo (ministro fino al 1941), Antonio Goicoechea (già Governatore del Banco de España), Rafael Lataillade (sindaco di San Sebastián). 19. Il testo completo in L. Suárez Fernández, Francisco Franco y su tiempo , vol. III, Fundación nacional Francisco Franco, Madrid 1984, pp. 389-390. 20. Ibid., p. 425. 21. Ibid., pp. 426-427. È difficile rendere in una traduzione il linguaggio telegrafico usato da Franco, pieno di espressioni sincopate, come se dovesse risparmiare sul costo del telegramma. 22. Amplissima (come è ovvio) la bibliografia sul mancato re e sulla questione istituzionale in Spagna. Per una rapida informazione può essere utile J.M. Zavala, Don Juan de Borbón el triunfo de un perdedor, in J.M. Zavala, Aquilino Duque, Don Juan de Borbón, Ediciones B, Barcelona 2003, pp. 31-153. 23. S.G. Payne, Franco y José Antonio. El extraño caso del fascismo español. Historia de la Falange y del Movimiento Nacional (1923-1977), Planeta, Barcelona 1997, p. 583. 24. Su queste affermazioni (evidentemente non vere) avevano d’altra parte insistito da sempre i fondatori della Falange, da Ramiro Ledesma Ramos a José Antonio Primo de Rivera. Cfr. L. Casali, Società di massa, giovani, rivoluzione. Il fascismo di Ramiro Ledesma Ramos, Clueb, Bologna 2002 e soprattutto, dello stesso, Fascismo e dittatura franchista, in «Italia contemporanea», (dicembre 2001) [ma gennaio 2002], n. 225, pp. 615-626. 25. Sulla teoria delle due guerre di Franco insiste particolarmente e a più riprese P. Preston, Francisco Franco…, cit., pp. 401 ss. 26. G. Redondo, Política, cultura…, cit., p. 583. 27. D. Jato, La rebelión de los estudiantes. Apuntes para una historia del alegre SEU, Cies, Madrid 1953, p. 331. 28. X . Tusell, G. García Queipo de Llano, Franco y Mussolini. La
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Luciano Casali política española durante la segunda guerra mundial, Planeta, Barcelona 1985, pp. 213-214. 29. La frase è attribuita da De la Cierva (X. Tusell, G. García Queipo de Llano, Franco…, cit., p. 643) al ministro degli Esteri spagnolo Jordana. 30. Ancora nell’aprile 1945 Franco «continuava a sperare che la sconfitta di Hitler non fosse inevitabile», P. Preston, Francisco Franco…, cit., p. 530. 31. X. Tusell, G. García Queipo de Llano, Franco y Mussolini…, cit., pp. 218, 231. Il ministro degli Esteri spagnolo aveva chiesto un parere giuridico che ci pare interessante riportare: «La posizione della Spagna nel momento attuale di fronte agli avvenimenti italiani non offre nessun dubbio. La rappresentanza internazionale dello Stato italiano la incarna il monarca che […] ha nominato il Governo Badoglio, il quale riveste carattere di legittimità, dato che la sua formazione ha avuto luogo nel rispetto delle norme costituzionali [… ]. Conseguentemente nell’ordine internazionale solo gli organi e gli agenti dipendenti da tale Governo rappresentano la personalità dello Stato italiano», ibid., p. 230. Sull’abilità di Franco a «non perdere, come al solito, i vantaggi dell’ambiguità» anche in questa occasione, cfr. M. Guderzo, Madrid e l’arte della diplomazia. L’incognita spagnola nella seconda guerra mondiale , Manent, Firenze 1995, pp. 324-325. 32. Telegrama del duque de Alba, 27 de julio de 1943, in Documentos inéditos…, cit., p. 355. La posizione inglese nel 1943 mostrava sempre più chiaramente che Londra non era del tutto contraria al mantenimento di Franco al potere e non era particolarmente preoccupata dalla gestione dittatoriale in quel paese, A. Ferrary, El franquismo: minorías políticas y conflictos ideológicos 1936-1956, Ediciones Universidad de Navarra, Pamplona 1993, pp. 209-210. 33. J.M. Thomás, La Falange de Franco…, cit., p. 329. 34. Ibid., pp. 329-330. Il testo completo in J.L. de Arrese, Obras seleccionadas, vol. I: Treinta años de política, Editora Nacional, Madrid 1966, pp. 269-272. 35. Discurso pronunciado en Burgos con motivo del milenario de Castilla, in J.L. de Arrese, Escritos y discursos, Ediciones de la Vicesecretaría de Educación Popular, Madrid 1943, p. 218. 36. Le linee principali del Consiglio nazionale e delle relazioni in J.M. Thomás, La Falange de Franco…, cit., pp. 330-333; gli atti completi in Primer Consejo Nacional de Jefes Provinciales, Ediciones de la Delegación Nacional de Provincias, Madrid 1944. 37. F. Díaz-Plaja, La España franquista en sus documentos (La posgerra española en sus documentos), Plaza & Janés, Barcelona 1976, pp. 139-140. 38. J.M. Thomás, La Falange de Franco…, cit., p. 281. 39. Non si trattava di una vera e propria sostituzione, in quanto Arrese non prese il posto di Serrano Suñer nei suoi molteplici incarichi; resta il fatto però che il punto di riferimento politico della Falange mutò completamente e il centro di direzione passò dalla presidenza della Giunta politica (gestita da Serrano Suñer) alla segreteria generale, gestita da Arrese.
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Sopravvivere. Il 1943 della Spagna franchista 40. J.L. Rodríguez Jiménez, Historia de Falange española de las Jons, Lianza Editorial, Madrid 2000, p. 427. 41. Cfr. C. Molinero, P. Ysàs, El règim franquista. Feixisme, modernització i consens, Eumo Editorial, Vic 2003 2, p. 22. L’osservazione non compariva nella edizione del 1992. 42. Anche in questo caso non si conosce con esattezza la data in cui fu redatto il documento e quella in cui venne consegnato a Franco. In genere si ritiene che le firme furono raccolte l’8 settembre e che Franco lo ricevette il 13 o il 15; tutte le varie ipotesi sono prese in esame nella nota 70 (pp. 595-596) del citato studio di Gonzalo Redondo. 43. Firmarono Luis Orgaz, Fidel Dávila, José Enrique Varela, José Solchaga, Alfredo Kindelán, Andrés Saliquet, José Monasterio, Miguel Ponte; non firmarono Francisco Gómez-Jordana, Juan Vigón, Agustín Muñoz Grandes, José Moscardó, Ricardo Serrador, Carlos Asensio Cabanillas, Rafael García Valiño, Juan Yagüe Blanco. 44. «La perdita progressiva di iniziativa, la sua subordinazione e dipendenza dal governo, fecero convertire il Movimento in una istanza burocratica che serviva soltanto per la promozione politica personale», Borja de Riquer, Joan B. Culla, El franquisme i la transició democràtica (1939-1988), Edicions 62, Barcelona 2000, p. 70. 45. Il testo è stato riprodotto più volte; noi ci siamo rifatti a J.M. Marín, C. Molinero, P. Ysàs, Historia política de España 1939-2000, Tres Cantos-Istmo, Madrid 2001, pp. 52-53. 46. G. Redondo, Política, cultura…, cit., pp. 599-600; L. López Rodó, La larga marcha hacia la Monarquía, Noguer, Barcelona 1977, p. 44. 47. «La mancanza di violenza politica da parte dell’Esercito sotto la dittatura di Franco deve attribuirsi alla assoluta legittimità che questa possedeva agli occhi dell’immensa maggioranza degli ufficiali spagnoli. A parte la scontentezza di alcuni generali negli anni Quaranta, a causa del rifiuto di Franco di restaurare la Monarchia, gli ufficiali non misero in discussione mai seriamente il suo governo», C.P. Boyd, Violencia pretoriana: del Cu-Cut! al 23F, Violencia política en la España del siglo XX, Taurus, Madrid 2000, p. 322. Della stessa cfr. Historia Patria. Política, historia e identidad nacional en España: 1875-1975, Ediciones PomaresCorredor, Barcelona 2000, pp. 206-260. 48. Á. de Diego, José Luis Arrese o la Falange de Franco , Actas Editorial, Madrid 2001, pp. 206-207. 49. G. Asford Hodges, Franco. Retrato psicológico de un dictador, Taurus, Madrid 2001, p. 262. 50. J.L. Rodríguez Jiménez, Historia de Falange…, cit., p. 438 ricorda che, fra luglio e novembre, ne furono tirate ben 18 edizioni. Come è noto, «Arriba» era il quotidiano di Madrid di proprietà della Falange. 51. I. Herráiz, Italia fuera de combate , Ediciones Atlas, Madrid 1944, pp. 9-11, 38, 104, 109, 137-139. L’anno successivo (ma non conosciamo il mese) lo stesso pubblicò un secondo volume, questa volta sulla Germania, esaltando gli aspetti «positivi» del nazionalsocialismo, Europa a oscuras, Ediciones Atlas, Madrid 1945.
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La resistenza non armata degli Internati Militari Italiani: testimonianze dal Modenese Giovanna Procacci
Per decenni esclusi dalla memoria pubblica – e sovente addirittura da quella privata – i militari italiani internati nei campi di concentramento tedeschi hanno visto le loro vicende sottratte al generale disinteresse a partire da metà degli anni Ottanta, grazie al meritorio lavoro di ricostruzione di alcuni storici, che hanno valorizzato i diari e le testimonianze che i protagonisti avevano iniziato a pubblicare dopo il loro rientro in patria. Negli ultimi anni finalmente la resistenza non armata degli internati militari ha ricevuto i doverosi riconoscimenti, purtroppo non immuni, nei tempi più recenti, da un uso «pubblico», tendente a contrapporre le loro vicende, e quelle dei settori dell’esercito che avevano valorosamente combattuto i nazisti, alle azioni svolte all’interno del paese dai partigiani, drasticamente ridimensionate o addirittura volte al discredito. Nel rifiuto di ogni strumentalizzazione e riconoscendo in tutte le resistenze realizzate in quei drammatici momenti un atto di rivolta – in primo luogo ideale – alla violenza nazifascista, questo mio saggio intende approfondire i motivi, di indole morale appunto, che condussero tra i 600.000 e i 650.000 giovani militari, catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre, a negare la propria adesione al regime di Mussolini e a respingere le pressanti richieste delle autorità naziste prima, e di quelle della RSI dopo, di aderire alla guerra nazifascista, venendo di conseguenza destinati a una possibile morte per fame, per rappresaglia o per lavoro coatto. Le riflessioni che seguono si basano su interviste e diari raccolti nel Modenese1. Il tema è noto; ma è forse di un certo interesse ripercorrere alcune esperienze individuali, analizzando i diversi spaccati e le singole memorie2. Ricordiamo brevemente gli eventi. I militari fatti prigionieri dai nazisti dopo l’8 settembre erano di stanza, oltre che in
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La resistenza non armata degli Internati Militari Italiani
Italia, nei Balcani, in Grecia e nelle isole dell’Egeo, in Francia3. Nell’assoluta mancanza di informazioni e di direttive da Roma, il grosso delle truppe, sia per inferiorità di armamento sia per assenza di indicazioni o latitanza degli stessi comandi di zona, fu costretto a consegnarsi all’antico alleato. Una volta disarmati, ai militari italiani fu fatto credere dai tedeschi che sarebbero stati rimpatriati in Italia; ma, giunti alla frontiera, furono inviati nei campi di smistamento in Germania, e poi nei campi di detenzione o di lavoro. Sia in Italia che, poi, nei campi fu loro proposto di passare a combattere nella Wehrmacht o in speciali corpi di SS; in seguito, di optare per la Repubblica di Salò, per essere inquadrati nelle SS italiane o nelle divisioni in via di formazione. Caso unico nella storia della prigionia, gli italiani rifiutarono in maggioranza di esservi sottratti. Il rifiuto di aderire riguardò il 90% circa dei soldati e dei sottufficiali, e circa il 70% dei 30.000 ufficiali: quello degli internati fu dunque uno dei primi episodi di opposizione di massa al nazifascismo. Si trattava di militari appartenenti quasi tutti a una generazione nata, cresciuta ed educata sotto il regime, ai quali l’adesione al nazifascismo avrebbe permesso di sfuggire alla prigionia. Se si considera che il rifiuto di aderire condusse molti alla morte (circa 45.000)4, e che, almeno per gli ufficiali, la possibilità di sfuggire alla condizione in cui si trovavano poteva avvenire in qualsiasi momento rivolgendosi ai guardiani del campo, questo fenomeno riveste un interesse e un’importanza enormi, sia sotto l’aspetto del consenso/dissenso nei confronti del fascismo e della guerra, sia come atto di resistenza morale e di passione civile, di non minor valore della resistenza armata dei militari a Cefalonia e nelle altre località della Grecia, e della resistenza attiva dei partigiani all’interno del paese. Per quanti avevano rifiutato l’adesione, già il 20 settembre fu coniato il titolo di IMI (Internati Militari Italiani), dal momento che, creata la RSI , e riconosciuta dai tedeschi come unico stato legittimo, gli italiani non potevano più comparire come prigionieri. E poiché per Mussolini la mancata adesione di un così alto numero di militari rappresentava un’evidente perdita d’immagine di fronte all’opinione pubblica, il regime fascista di Salò accondiscese volentieri alla disposizione di Hitler del 20 settembre 1943 di privare i militari del loro ti-
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G iovanna Procacci
tolo di prigionieri. Decisione gravida di conseguenze, poiché in tale veste gli italiani non erano tutelati dagli accordi internazionali; potevano pertanto essere impiegati nelle industrie di guerra, senza alcun controllo sulle condizioni di lavoro o sulle punizioni inflitte, e non potevano ricevere gli aiuti alimentari della Croce Rossa internazionale. Gli IMI erano esposti all’arbitrio tedesco: la loro sopravvivenza dipendeva dalle razioni distribuite nel campo o nelle fabbriche alle quali erano stati ceduti5. La fame divenne il principale strumento attraverso cui i nazisti effettuarono la loro vendetta nei confronti dei non aderenti e la pressione per costringerli ad aderire. Le razioni dei prigionieri furono ridotte a poche centinaia di calorie, e non per mancanza di mezzi di sussistenza – come era avvenuto nella prima guerra mondiale6 – ma per la precisa volontà di punire gli italiani, da sempre considerati con disprezzo, ed incolpati ora di aver tradito l’alleato. I militari italiani furono rinchiusi nei campi peggiori – circa 280 – dislocati in Germania e nei paesi occupati (Polonia, Bielorussia, Ucraina, Grecia, Bulgaria, Romania, Olanda ecc.), spesso in quelli già occupati dai Russi e dichiarati inabitabili dalla Croce Rossa internazionale: baracche senza riscaldamento, nutrimento assolutamente insufficiente e una rigida e talora spietata disciplina. A differenza degli ufficiali, i quali, secondo le convenzioni internazionali, non potevano essere obbligati al lavoro, i soldati, i sottoufficiali e i graduati vi furono subito costretti; la presenza dei militari italiani si dimostrò quindi un’occasione preziosa per la macchina bellica del regime nazista, che poté sfruttare, a costo zero, questo lavoro schiavistico; pertanto ai soldati, dopo la richiesta iniziale, non fu di norma riproposta la possibilità di aderire a Salò e di passare nelle fila dell’esercito fascista7. Al contrario, poiché il rifiuto degli ufficiali seguitava a costituire un’evidente perdita di prestigio per Mussolini, la proposta di aderire fu loro incessantemente ripetuta. Le adesioni da parte dei soldati furono proporzionalmente inferiori a quelle degli ufficiali, soprattutto a causa delle limitate possibilità di scelta, ma in parte anche per un più spiccato assenso ideologico alla guerra nazifascista da parte degli ufficiali che, tra l’altro, aderendo, potevano ottenere rapidi avanzamenti di carriera.
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A fianco alle proposte di optare per Salò, vennero continuamente fatte pressioni sugli ufficiali affinché accettassero di andare a lavorare: un ufficiale, autore di importanti memorie, Sommaruga, ha contato, oltre a sette richieste di adesione a Hitler e cinque a Mussolini, ben sessanta offerte di lavoro in Germania e una di lavoro in Italia8. Sebbene rimanesse comunque un gruppo di «irriducibili», il numero degli ufficiali che, costretti dalla fame, pur non aderendo al nazifascismo accettarono di andare a lavorare, fu abbastanza numeroso. Tutti gli intervistati modenesi erano al momento della cattura molto giovani, il più vecchio era nato nel 1912, e i più giovani – la maggioranza – nel 1922-1924. Tutti si soffermano sullo choc subito l’8 settembre per la mancanza di ordini, e alcuni accennano alla latitanza dei propri ufficiali superiori: Dopo la lettura del proclama di Badoglio noi ci rendiamo in pratica conto che è un proclama veramente sibillino e restiamo perplessi – spiega un ufficiale, in servizio effettivo – […] si ha l’ordine di resistere alle provocazioni. In pratica di sparare solo se provocati... si dice di non cedere le armi, però non difendetevi neanche se le vengono a prendere; questa è la sostanza del programma di Badoglio. Venimmo a sapere nel tardo pomeriggio del comunicato e del proclama di Badoglio [...] perché lo comunicava la radio ogni quarto d’ora, non fu una comunicazione via ufficio – riferisce un altro ufficiale. Alle Bocche di Cattaro gli italiani non avevano comandi esatti, qualche ufficiale si vendeva, era tutto un guazzabuglio che non si capiva niente… il mio capitano è morto a sette metri da me – ricorda un soldato. A Tirana i nostri ufficiali più grossi sono scappati in aereo di notte [...] ci sono rimasti solo i piccoli gradi. Ci hanno fatto depositare le armi e poi la Milizia e i Carabinieri hanno collaborato subito con i tedeschi. Nessuna resistenza, anche perché il generale comandante non c’era.
La resa viene giudicata inevitabile, a causa dell’inferiorità militare: dieci formazioni cui appartenevano i modenesi intervistati fecero resistenza, le altre furono costrette a cedere subito le armi. [Nel Kosovo] ci hanno catturato senza sparare un colpo, perché se avessimo sparato ci avrebbero massacrati. Poco glorioso, ma è così.
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G iovanna Procacci [A Navarino] fu presa la decisione di non combattere perché col modello 91 non si combatte. [A Cefalonia] ho visto cadere falciato il mio comandante di compagnia che ci incitava ad andare avanti, i miei portamunizioni e gli altri miei compagni tutti intorno. [A Nauplia] facemmo prigionieri tutti i tedeschi […] che erano quasi tutti al cinema e così alle dieci erano tutti disarmati […] ma a mezzanotte eravamo prigionieri noi. Sono arrivati dei rinforzi tedeschi da fuori e ci hanno fatto prigionieri.
Tra gli intervistati pochi tentarono la fuga e si unirono – quelli in Jugoslavia – con i partigiani: si temeva di finire peggio, anche perché si credeva alla promessa dei tedeschi di essere rimpatriati. E talora chi si unisce ai partigiani poi ci ripensa: Sul Monte Nevoso, ai partigiani che propongono ai militari di aggregarsi il 99% disse «No, no». Speravamo tutti di andare a casa. E qualcuno, invece, optò per loro; ma pochissimi perché tutti speravano di andare a casa. I Serbi ci invitavano ad andare con loro probabilmente per andare a fare i partigiani. C’era solo una guardia tedesca per vagone e stava sopra il tetto. Nessuno di noi cercò di scappare anche perché credevamo di essere diretti in Italia. Sono andato dai partigiani, sono stato una decina di giorni e poi sono dovuto rientrare perché il mio corpo non resisteva a fare la vita coi partigiani, i ribelli. Dormire sopra le piante, dormire sopra delle frasche, bere l’acqua che si trovava in campagna... c’erano rospi, lucertole...
Nei campi di fortuna presso la frontiera, dove i militari catturati vennero raccolti, gli ufficiali tedeschi, cercando di far leva sul preesistente patto di alleanza e sul presunto cameratismo esistente fra soldati italiani e tedeschi, proposero subito agli italiani di entrare a far parte della Wehrmacht. Talora gli ufficiali superiori spiegarono la situazione, mentre in altri casi non intervennero sulle decisioni degli ufficiali: Noi eravamo incoscienti. Il colonnello ci presentò le due condizioni. Però ci disse che andare coi tedeschi voleva dire essere considerati dei traditori una volta tornati in patria. Però andando in campo di concentramento significava duecento volte perdere la vita...
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La resistenza non armata degli Internati Militari Italiani Il comandante disse «Io non vi posso dire niente. Da questo momento il non sono più il vostro comandante».
Questo reclutamento iniziale ebbe successo soprattutto fra coloro che già facevano parte della milizia volontaria fascista, fra chi condivideva l’ideologia nazifascista, e in gran parte degli altoatesini (anche se non mancarono le adesioni legate alla speranza di poter fuggire una volta in Italia): Ce n’era uno della Milizia che era venuto da me: «Sa dottò, io ho dovuto aderire perché c’erano delle minacce sulla mia famiglia, su casa mia». Ce n’erano degli altri che erano andati a casa che erano tenenti colonnelli, e stando a casa erano diventati generali. Eravamo in novantamila, sono andati fuori in sedici... fra questi c’era un mio amico... Io non l’ho mai più salutato. Lui ha aderito alla Repubblica sociale perché suo fratello era uno squadrista, aveva fatto la marcia su Roma. Accettarono più che altro degli altoatesini che erano militari con noi. Diversamente nessuno voleva vederli i tedeschi.
Degli intervistati modenesi solo uno – un ufficiale – optò per Salò, ma per motivi specifici e con il consenso dei compagni: era ebreo, e sperava di poter fuggire una volta in Italia, cosa che fortunatamente riuscì a fare (ma il senso di colpa per aver aderito era tale che nemmeno i figli sapevano dell’accaduto, non descritto in una memoria e solo confessato all’intervistatore). Nelle testimonianze il rifiuto di aderire viene raramente motivato ideologicamente. Il crollo militare e delle istituzioni, il contrasto tra le espressioni enfatiche («cento milioni di baionette») e la drammatica realtà hanno fatto sorgere dei dubbi nei confronti del regime, ma non delle certezze antifasciste. La decisione di non aderire non viene presa dalla maggioranza dei modenesi per motivi politici: No, no la politica non entrava mai perché eravamo all’oscuro. Noi siamo cresciuti, almeno noi giovani, nel ventennio, nel fascismo, perciò non è che sapevamo – chiarisce un intervistato.
Tuttavia, rispetto a quanto registrato a livello nazionale, tra i modenesi, in virtù della tradizione antifascista, vi è forse una maggiore politicizzazione:
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G iovanna Procacci Non accettiamo primo di tutto per motivo ideale – ricorda un ufficiale – perché non ho mai condiviso quell’impostazione della guerra e soprattutto l’impostazione fascista; e poi anche proprio per convenienza. Noi della guerra eravamo stanchi, poi nell’andare con i fascisti ci si aggregava con una setta che nel nostro corpo [gli Alpini] non aveva preso molto piede. La gente della nostra zona non vedeva bene il rapporto né con le camicie nere né con i tedeschi. Non ci credevo; quando sono andato a militare, se avessi potuto sarei scappato via. Non volevo fare neanche il militare. E allora perché dovevo combattere con i tedeschi? Perché dovevo andare anche se dicevano che mi mandavano in Italia, contro chi dovevo combattere, contro i miei, allora? Noi eravamo là per colpa del regime fascista, non si scappa.
Tutti gli intervistati ricordano il disorientamento al momento di decidere sulla propria sorte. Alcuni preferiscono rimettersi al destino: Io ho detto: «Andrò dove mi conduce il destino, capita quello che capita! ». Non ho mai alzato la mano perché io ho detto: mi hanno fatto prigioniero, resto prigioniero. Io non voglio andare volontario. Anche andare contro la morte ma io... ho deciso così. I più giovani ricercano il consiglio degli anziani, o si allineano sulla decisione presa dalla maggioranza: Erano gli anziani che non volevano mica. A vent’anni cosa vuoi che se ne intende… «Non firmiamo, non firmiamo, non firmiamo», e quindi la voce si è sparpagliata in modo tale, anch’io aderito a questa cosa di non firmare.
Anche per gli ufficiali il dilemma è angoscioso: Io ero un ragazzo leale, non fascista ma idealista e intriso di italianità, io venivo dalle colonie dove c’era vero patriottismo... Poi ero stato educato e formato per ubbidire e eseguire gli ordini ed ora quali erano gli ordini? Dovevo decidere da solo – ricorda un effettivo. […] In un primo momento ero titubante... In un secondo tempo mi sono deciso per la prigionia. Questa per me è stata una scelta salomonica che non urtava né una parte né l’altra. Non andavo contro quelli che era-
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La resistenza non armata degli Internati Militari Italiani no stati il nostro alleato e non andavo contro il mio giuramento. Poi pian piano durante la prigionia il senso di rivalsa contro i tedeschi e le loro angherie mi ha determinato maggiormente nella mia scelta. Io non ho rifiutato per coraggio, ma perché ero incerto. Ho pensato che non sapevo dove mi avrebbero mandato, per cui era meglio rimanere lì. Io ero insieme agli ufficiali più anziani, Guareschi e gli altri, e loro hanno deciso di non andare, quindi anche noi non abbiamo aderito – ammette un ufficiale di complemento. La parte degli ufficiali superiori frenava, aveva detto: «No, no noi restiamo fedeli alla nostra idea, voi giovani state attenti a non farvi abbagliare».
Agisce comunque in tutti il rifiuto della guerra, una guerra mal condotta, e di cui soprattutto non si capisce più il senso (combattere con chi? Per chi?). Spesso la guerra è collegata con il regime: il rifiuto dell’una porta al rifiuto dell’altro: Eravamo stanchi della guerra fascista, era stata condotta in modo orribile – ricorda un altro ufficiale di complemento – non avevamo niente, usavamo ancora dei cannoni della prima guerra mondiale . La notizia [del 25 luglio] – riferisce un altro ufficiale di complemento – arriva naturalmente con plauso direi generale. La caduta del fascismo viene soprattutto interpretata come fine della guerra: questo è lo spirito: caduto il fascismo… tutti contenti, felici e beati… l’8 settembre, quando arriva l’annuncio dell’armistizio, scoppia addirittura il plauso generale. I soldati soprattutto si lasciano prendere dall’entusiasmo, colpi di fucile sparati in aria, addirittura. Non si può chiamare sotto le armi dei ragazzi di 19 anni... non sapevo nemmeno andare a Bologna, non sono mai stato a Mirandola, sono nato a Modena. Dopo, armato, addestrato, mandato incontro al nemico. Là mi hanno abbandonato, il re è scappato... abbiamo dovuto cedere le armi, perché mancavano degli ordini dall’alto. Per servire il re ci han chiamato, ci siamo andati, l’abbiamo servito, e per compenso è scappato. Si vergogni casa Savoia!
L’iniziale speranza è che la guerra sia alla fine e, prima di essere trasportati in Germania, si crede alle promesse naziste di essere presto rimpatriati; poi, anche quando si prospetta la prigionia, in attesa del presunto rapido concludersi del conflitto, questa appare una condizione certamente migliore della battaglia.
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G iovanna Procacci In principio qualcuno pensava che la guerra fosse finita e che prima o poi ci avrebbero fatto tornare in Italia. Eravamo poi tutti convinti che la guerra finisse prima, non si pensava mica di restare due anni là. Ero stanco della guerra e poi veramente credevo che ormai stesse per finire.
Si teme inoltre che un’adesione di massa possa portare alla formazione di una divisione e che, nonostante le assicurazioni tedesche e poi fasciste di essere inviati in Italia, si possa invece essere spediti in Russia. È questo un motivo comune a quasi tutte le interviste, e che appare essere forse il più determinante all’inizio, indice di una prima elementare, per lo più inconsapevole scelta politica: dei tedeschi e dei fascisti non ci si fida più. La nostra paura era di andare contro i Russi. Se fossi stato sicuro di andare in Italia saremmo andati, avremmo tentato di scappare. La mia paura era che mi mandassero in Russia, allora era cattiva. E noi non ci fidavamo più. Sono stati pochi ad aderire. Gente magari non tanto debole di carattere, ma debole per la fame. Ma sono stati pochi anche perché chi lo sapeva che non ti avrebbero mandato a combattere di nuovo magari contro i russi. Noi non abbiamo firmato perché si diceva che ci mandassero in Russia. Perché noi pensavamo sempre al doppio gioco – ricorda anche un ufficiale di complemento – E che non fossero vero quello che dicevano e che ci mandassero.
I primi motivi del rifiuto sono quindi in maggioranza a carattere per così dire conservativo – «l’avevamo scampata e ora dovevamo offrirci per tornare in guerra per una cosa che non esisteva più?» – : rifiuto di quanto avvenuto fino ad allora, condanna della conduzione della guerra e del comportamento degli ufficiali superiori l’8 settembre, diffidenza verso le promesse nazifasciste. All’arrivo nei campi di smistamento venne avanzata una nuova richiesta di adesione alle formazioni volontarie delle SS.
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Mentre i tedeschi erano riusciti a ottenere adesioni da parte di fiamminghi, valloni, francesi, sovietici-mongoli, ucraini e russi bianchi, le adesioni degli italiani seguitarono a essere esigue. Allo stupore dei nazisti fecero seguito le minacce: Ci fecero un discorso, ed una frase io non me la dimenticherò mai: «Noi sapremo spegnervi il sorriso sulle labbra». Chi aderiva, andava a collaborare con loro, bene, ti davano da mangiare, ti davano tutto, promettevano... nel nostro reggimento ce n’è andato uno solo, il trombettiere... Sapremo spegnervi il sorriso sulle labbra. Ed è stato vero. Noi di 3.000 siamo entrati in Italia in 600, i granatieri... gli altri sono morti.
Nuovi motivi che spingevano al rifiuto si erano aggiunti ai precedenti. Gli italiani avevano sperimentato la volontà punitiva dei tedeschi, l’ostilità, il loro desiderio di umiliare gli antichi alleati; tenuti come bestie dentro reticolati in Italia, trasferiti in Germania o in Polonia in carri bestiame, senza cibo né acqua: «per cinque giorni e cinque notti ci hanno dato una volta soltanto un po’ di brodaglia ma mai acqua», «in una stazione si era fermata la locomotiva, urlavamo acqua, ci han dato un getto dentro con... ci han bagnati tutti»; quando giunsero nei paesi vennero insultati dalle popolazioni: «sheisse, verraeter, badoghlio, merde, traditori, maccaroni, vermi», parole alcune volte dette in italiano, sembra anche su ordine delle autorità tedesche. Il principale elemento che dunque spinge ora al rifiuto è la reazione all’umiliazione subita, la rabbia per essere trattati con disprezzo, la ribellione nei confronti di un’adesione strappata con la coartazione e il ricatto. Si rinnova e si accresce il rancore contro i tedeschi, già nutrito per le esperienze passate nei Balcani e soprattutto in Russia: non è un rifiuto apertamente politico, ma una rivolta morale, legata ad orgoglio e alla difesa della propria dignità, che accomuna ufficiali e soldati: In primo luogo il fatto di non voler collaborare con i tedeschi, il fatto numero uno era questo, la situazione numero due poi variava. Dei tedeschi noi eravamo stanchi. Eravamo stanchi della loro disciplina. Era subentrato un odio tremendo contro i tedeschi. L’odio l’avevamo già prima dell’8 settembre, anche. Perché in Jugoslavia arrivavamo
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G iovanna Procacci nei paesini che avevamo conquistato noi, arrivavano loro... eran loro che avevano conquistato. Noi eravamo pezze da piedi, ci mettevano da parte. Io ero degli alpini, che avevano come particolare avversione al tedesco, perché si ricordavano quello che era successo in Russia. Quando arrivammo in linea sul Don avevamo vergogna di essere alleati dei tedeschi.
L’offesa alla propria di dignità fu un elemento di forte determinazione tra gli ufficiali, che consideravano immeritata l’umiliazione cui venivano sottoposti (tolta la pistola, viaggio spesso anche per loro in carri bestiame, lunghe marce a piedi, cessione di oggetti personali per procurarsi del cibo, costrizione a svolgere necessità corporali dentro i vagoni o a cospetto dei curiosi nelle stazioni, alloggi malsani, vitto assolutamente insufficiente, mancanza di igiene ecc.): Il viaggio è stato... ci hanno messo in vagoni non passeggeri, in 50 per vagone, vagoni bestiame, buttati là dentro in modo orrendo, orrendo... dentro, sempre dentro, quello che era di più lo buttavi fuori dal finestrino.
Nelle memorie degli ufficiali protagonisti (e anche di alcuni sottufficiali, e di un minor numero di soldati) si sostiene che il rifiuto di aderire trovava il suo fondamento anche nel giuramento di fedeltà al re: Si doveva rispettare il giuramento che avevamo fatto – ricorda un effettivo – quello almeno per la parte ufficiali era la base di tutto, ma per noi che venivamo dal fronte russo, la Tridentina, c’erano i precedenti di quel fronte, quello che avevamo passato con i tedeschi, le azioni di prepotenza durante il ripiegamento… soprattutto il loro tentativo, già manifesto, di dare la colpa di tutto lo sfascio del fronte russo a noi. Prima di tutto io ero ufficiale del re – risponde un ufficiale di complemento alla domanda del perché abbia rifiutato di andare a lavorare – […]. Ero profondamente fedele al giuramento fatto al re… poi perché secondo la Convenzione di Ginevra noi ufficiali non dovevamo lavorare.È stato sostanzialmente per queste due cose, non per eroismo o per voler stare con gli altri, che non ho accettato il lavoro. Alla fedeltà al re forse si aggiungeva anche il sentimento di repulsione per tedeschi e fascisti.
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Anche un soldato richiama il giuramento tra le cause del rifiuto: Noi avevamo fatto un giuramento, noi avevamo giurato alla monarchia... Io mi sentivo legato ad un giuramento, io ed anche altri, gli ufficiali più di noi erano... ma non tutti.
Tuttavia si ha l’impressione che il giuramento, seppur sovente richiamato, non fosse il fattore determinante della non adesione – se non forse per gli ufficiali effettivi di grado superiore e per alcuni corpi, come i Carabinieri – anche se, a distanza di anni, lo si ricorda come la causa principale; ma che i motivi del reiterato rifiuto fossero più profondi, sia da parte degli ufficiali come dei soldati. Di questi motivi – la ferma volontà di non cedere all’umiliante ricatto della fame, la conservazione della propria dignità e identità – il giuramento costituiva il simbolo; esso inoltre, insieme all’atto di obbedienza dovuta dai militari ai comandi superiori (che avevano ordinato la cessazione dello stato di guerra), erano gli unici principi formali che i tedeschi, pur avversandoli, rispettavano, in quanto speculari ai loro. Come affermano due ufficiali di complemento: A me del giuramento fatto al Re non m’interessava niente, era soltanto per dignità. Direi che quello lì [giuramento] non c’entrava. Era entrato uno stato d’animo, posso dire. Il giuramento, vista la figura che han fatto i nostri governanti…
Del resto i più tenaci nel perseverare nel rifiuto non erano sempre gli effettivi. Come ricorderanno vari ufficiali (tra cui anche un effettivo), era il gruppo di intellettuali che faceva capo a Guareschi, Novello, Rebora che costituirono il primo gruppo del «no» assoluto: Fu un gruppo veramente di intellettuali che prese un pochettino il comando morale dell’azione. Non eravamo noi il vero nocciolo duro, la resistenza più solida era invece data da altra gente, soprattutto da intellettuali e non sempre da militari di carriera.
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Ma tra i militari di carriera i più decisi a non collaborare furono, secondo le testimonianze, quelli superiori: Un bel giorno vollero attuare proprio la separazione completa tra ufficiali superiori e inferiori – ricorda un effettivo – perché videro o intuirono che noi giovani non avremmo mai aderito se in contatto con gli ufficiali superiori, che ci tenevano ancora in pugno. Ad un certo momento, i tedeschi hanno preso in base all’interrogatorio 45 persone sulle 450 che eravamo e le hanno caricate su un camion. Erano tutti i comandanti di compagnia, maggiori colonnelli.
La seconda fase, dopo le richieste di entrare a far parte delle formazione tedesche, fu costituita dall’invito, avanzato in ottobre-novembre da militari e civili della Repubblica sociale, di tornare in Italia per combattere al servizio della RSI , arruolandosi nelle divisioni di Graziani, o entrando a far parte della Guardia nazionale repubblicana. L’invito non produsse maggiore effetto dei precedenti: le adesioni restarono molto limitate, e non furono quasi mai collettive9. La richiesta di adesione, come già abbiamo detto, fu ripetuta agli ufficiali molte altre volte, fino alla primavera del 1944. Unica eccezione fu quella riguardante i militari catturati dopo che avevano partecipato a formazioni partigiane in Jugoslavia, cui non fu mai avanzata la proposta perché considerati inaffidabili10. Gli esponenti fascisti, talora anche cappellani o ex-commilitoni che avevano aderito, oltre a rivolgere appelli generali, cercavano i contatti e i colloqui singoli. Questi ultimi ebbero probabilmente maggiore successo, mentre i discorsi pubblici, e soprattutto l’invito di ex compagni – che descrivevano ed esibivano i vantaggi materiali provenienti dall’adesione – produssero una reazione opposta. Tra optanti e resistenti si era creato infatti un solco, tale da resistere anche nel dopoguerra fino ad oggi. Questo signore [in divisa fascista] ci ha fatto un discorsetto per convincerci a tornare in Italia dicendoci che sarebbe stato ricostituito l’esercito italiano – ricorda un ufficiale – I tedeschi che erano con lui non dissero niente. Chi era d’accordo con lui doveva saltare un fosso. Per quello che ho visto io, soltanto un capitano saltò il fosso e si avvicinò a questo signore. Il fascista gli allungò la mano forse per complimentarsi con lui, ma il capitano gli ha sputato in faccia. L’hanno preso e l’hanno portato via.
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La resistenza non armata degli Internati Militari Italiani I fascisti arrivavano con una divisa tutta pulita… già prima della guerra li pagano un poco più che noi, facevano i gradassi, allora molte volte facevamo a botte. Il peso della guerra lo abbiamo portato noi [alpini]… arruolarsi con quella gente lì bisognava far delle robe che non eravamo disposti a sopportare. Chi aderiva era sempre messo nel disprezzo. Dopo un mese circa è arrivato un giornalino dall’Italia; si chiamava «Patria», e quello che scriveva era Giorgio Almirante... Dopo questo giornale, dopo quindici giorni, nella fabbrica ci hanno riuniti tutti. Eravamo in 80, lì. Uno ha fatto il passo avanti.
Non ebbe risultati positivi nemmeno l’appello a favore di Salò del colonnello Carloni, medaglia d’oro italiana e croce di ferro tedesca, inizialmente punto di riferimento per tutti gli ufficiali decisi a resistere alla propaganda: La prima volta, quando i tedeschi ci invitarono ad aderire alla Repubblica, si tolse la decorazione tedesca e la sbatté per terra. Quindici giorni dopo, o venti dopo, tornò per fare propaganda di adesione alla Repubblica… M’han detto che lo avevano promosso generale e poi, addirittura mi pare che diventasse ministro della Repubblica sociale…
Il motivo del rifiuto è sempre di ordine morale, ma se la prigionia determinò una presa di coscienza antifascista, questa nacque proprio in queste circostanze, in rapporto al ruolo giocato dai rappresentanti di Salò e dagli optanti, in quanto alleati degli aguzzini nazisti. La condanna del regime, più che nascere da istanze di tipo ideologico, matura – come all’interno del paese – in rapporto alle azioni compiute dai fascisti: C’erano là seduti tutti i fascisti con le gavette piene di pastasciutta, dicevano: «Venite con noi, se volete mangiare». Loro ci hanno sfilato davanti a noi con una bella pagnotta da un chilo sotto il braccio… e noi li abbiamo fischiati, li abbiamo detto traditori.
Contemporaneamente iniziò un processo di acquisizione, quasi inconsapevole, di una coscienza e dell’uso dei metodi democratici. Per la prima volta giovani educati sotto la dittatura discussero e decisero collettivamente sul da farsi: Si discusse molto fra noi nel campo, fra chi era deciso a un no assoluto e chi invece diceva: «Una volta che sei andato là, insomma io
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G iovanna Procacci scappo e non mi faccio prendere»… ormai si erano formati diversi gruppetti.
I soldati che non optarono per la Germania o per Salò furono subito inviati al lavoro coatto, con diverse situazioni lavorative a seconda della sorte – le condizioni di vita di coloro che furono mandati a lavorare in campagna furono infatti nettamente migliori – ma con generale soggezione a un regime di sfruttamento schiavistico e alla violenza fisica. Alloggiati nei campi, all’alba venivano condotti a lavorare nelle miniere, nelle cave, a costruire gallerie, o ceduti ad aziende industriali, con razioni che, a dispetto delle norme internazionali, corrispondevano al 50% di quelle dei lavoratori tedeschi; spesso le calorie disponibili non superavano le 700-900 quotidiane, con un lavoro che raggiungeva le 12 ore e più11. Abbiamo resistito alla miniera, alla fame, perché la fame era tremenda... quando pensi che una fettina di pane... poteva essere 100-120 grammi te la davano alle 11, la mangiavi subito e poi dovevi andare al giorno dopo lavorando tutta la notte... alla sera ti davano un’altra tazza di verdura cotta, e mangiavi quella lì e basta, perché il pane lo avevi già mangiato a mezzogiorno. Mettevamo sulle stufe a cuocere le bucce che di nascosto riuscivamo a raccogliere dalla spazzatura della cucina... Sapevo che potevo prendere una fucilata ad andare a rubare le bucce delle patate, ma era meglio morire d’un colpo solo che morire di stenti... Non mi reggevo più in piedi. Andavamo a raccogliere le bucce di patate che i tedeschi ne mangiavano tante nei bidoni del pattume. C’era chi piangeva perché non restava più in piedi, perché sapeva che quando lo venivano a prendere che non lavorava più, dove lo portavano ci restava.
A loro – lavoratori coatti, indicati dai tedeschi come stueck (pezzo), era riservato un trattamento peggiore di quello riservato agli altri prigionieri, a esclusione dei russi: in un rapporto segreto delle SS – citato dallo Schreiber – gli italiani venivano definiti «feccia dell’umanità», come gli ebrei12. Il lavoro massacrante, il freddo, la fame disperata, l’inflessibile disciplina, l’invasione dei pidocchi costrinsero gli italiani
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a vivere in una condizione di asservimento schiavistico e di abiezione spesso al di sotto dei limiti di sopravvivenza. «Era difficile vedere come esseri umani gli internati», affermeranno i capi nazisti13: Noi non eravamo più degli uomini... non eravamo nemmeno degli animali. Eravamo degli schiavi. Eravamo trattati un po’ meno peggio degli ebrei e dei russi; perché subito dopo eravamo noi, come traditori.
Le punizioni inferte ai soldati erano assai più crudeli di quelle riservate agli ufficiali. Nei confronti degli ufficiali si mirava essenzialmente all’umiliazione – che poteva comunque comportare disagi materiali gravissimi: restare in riga per l’appello sulla neve per ore, perquisizioni fisiche, scudisciate e minacce di aizzare contro i cani, detenzione in celle interrate ecc. [A Benjaminowo] tedeschi si divertivano a farci star male dal freddo, chiamavano la piazza dell’appello la «piazza polmonite». D’inverno stavamo in piedi in piedi in mezzo alla neve... anche due ore. Con dei ragazzi che mi sono caduti di fianco perché erano denutriti e avevano il fisico indebolito. E questo era il loro divertimento. Quando siamo arrivati a Wietzendorf ci hanno messo in baracche molto fredde... C’erano i ghiaccioli che pendevano dentro.
Ma nei confronti dei soldati la violenza esercitata poteva significare l’uccisione in caso di «resistenza passiva» – ad esempio rifiutarsi di camminare mentre si veniva condotti al lavoro – o raggiungere livelli di sadismo tali da produrre la morte, come costringere gli ammalati a seguitare a spalare fino allo sfinimento, o a camminare per chilometri sulle ginocchia, o più sbrigativamente a colpirli con la baionetta o con un colpo d’arma da fuoco14. Quelli che facevano delle mancanze erano puniti in modo molto rigido. Li spogliavano, li facevano stare appena coperti che con quel freddo gelavano, degli scheletri, poi li facevano l’appello lo stesso di notte, a tutte le ore per non farli dormire e poi li portavano a lavorare. Morivano dallo stento, dalla fame, poco dormire, poco riposo. Per ordine del sergente maggiore ci facevano venire fuori tutti dalla baracca, tutti nel corridoio e poi gli [ai puniti] faceva rivoltare i ma-
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G iovanna Procacci terassi e poi buttarci sopra dell’acqua... e poi dovevano dormire lì, si gonfiavano poverini.
Il viaggio verso la degradazione e la morte spesso per i soldati fu molto rapido: Siamo arrivati in 120; per Natale eravamo in 80, tutti morti. Al mattino eravamo magari in un gruppetto di 20 e ci alzavamo anche in 19 o 18. Nel sonno qualcuno rimaneva lì. Quello che cadeva in terra, era finito. Mi ricordo che ce n’era uno che era stremato, è caduto e gli hanno dato tante e tante vergate che non è riuscito più ad alzarsi.
I più morivano per fame. I primi a cedere erano quelli che provenivano dalla città (studenti, impiegati, ecc.), poi quelli inizialmente più robusti, che non resistevano con le ridotte razioni di cibo previste: Ne son morti tanti – ricorda un soldato – ci gonfiava le palpebre sopra e sotto… poi incominciavano a gonfiare le gambe e poi la faccia e poi sparivano. Si son visti dei suicidi, della gente che si è lanciata contro i reticolati, mica fra noi, fra dei soldati…
Altri morivano per incidenti: «I più sono morti in miniera», dove gli italiani lavoravano spesso senza che fosse loro fornito il casco, o, nell’ultimo periodo, sotto i bombardamenti. La Ruhr intera era bombardata e mitragliata in continuazione, pensate essere dentro una baracca di legno o in fabbrica: era un inferno. 10-12 bombardamenti per notte.
Alle condizioni disumane contribuì anche la durezza (spesso la crudeltà) dei capi campo, scelti talora tra gli stessi volontari italiani, cui spettò una sorte terribile al momento della liberazione: Le nostre guardie nel campo erano anche italiani, tutti delinquenti, tutti fascisti. I capi campo li hanno ammazzati tutti... Il capo campo nostro è andato via... lo trovano... lo fanno fuori, sbranato, sbranato. Una gamba
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La condizione materiale degli ufficiali fu migliore di quella dei soldati, dal momento che fino all’estate del 1944 non furono costretti a lavorare. Essa fu comunque drammatica: le testimonianze dicono unanimemente che la fame era terribile. A dividere i viveri c’era l’addetto… Tagliava la pagnotta, la tagliava in fette sottili… quando aveva diviso la pagnotta in tante fette, le si pesavano, le fette; quella che era leggermente scarsa, con le briciole che si erano fatte nel tagliare, si mettevano le briciole per compensarle… Oltre al pane, poi davano una cosa di rape, che non davano neanche ai maiali… poi c’era una fetta di margarina, piccola, piccola, infinitesimale… A Sandbostel, non so chi di Modena catturò un topo, lo scuoiarono, lo misero nella gavetta a bollire e poi lo spartirono tra di noi modenesi. [A Przemysl] si vedevano questi ufficiali che si abbassavano... un generale che vada per esempio a prendere una buccia.
La degradazione provocata dalla fame faceva parte del piano di annichilimento delle difese psicologiche degli ufficiali, per distruggere la loro capacità di iniziativa e di resistenza e per ottenere l’adesione. I tedeschi sfruttavano anche il senso di solitudine dei giovani internati, usando la tattica dei colloqui individuali e promettendo di far tornare a casa come convalescenti coloro che aderivano: Quando andiamo a casa? Questo pensiero era forte soprattutto quando ti arrivava della posta da casa. Venivano i tedeschi, a chiedere di aderire a Salò quando arrivava la posta, aspettavano quel momento lì. «Vi mandiamo a casa, nella repubblica», dicevano.
Al loro arrivo nei campi, gli ufficiali italiani venivano accolti da gesti di inimicizia da parte dei prigionieri delle altre nazionalità, che non perdonavano loro il passato fascista – ad esempio, una volta i francesi, che avevano viveri in abbondanza, buttarono nel fosso il rancio del campo, davanti agli occhi degli italiani, che trovarono solidarietà solo tra i russi e i polacchi. Il loro isolamento era totale; vivevano chiusi nei campi, privi di qualsiasi notizia dall’esterno – solo in un campo si riuscì a mantenere una radio clandestina, la famosa Caterina, che
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alimentava le attese e le speranze; in tali condizioni, resistere alle lusinghe nazifasciste dipendeva dall’esclusiva forza interiore, sostenuta da alcune strategie culturali di sussistenza – letture, conferenze – che permettevano di sfuggire all’ozio e alla conseguente spersonalizzazione, condizione che rendeva i giovani più esposti ai cedimenti. Quando uno stava per rinunciare, si creava una forte solidarietà tra quanti vivevano nella baracca: i più anziani esortavano a resistere, tutti si adoperavano a fornire aiuto materiale a chi era al limite delle proprie forze (parte delle pur minime razioni, medicine, coperte). Noi più anziani cercavamo di fare un po’ di propaganda per i giovani perché i giovani cedevano soprattutto per la fame.
Si formavano piccoli gruppi solidali, di norma tra due o tre amici, che si aiutavano moralmente e materialmente, dividendo il cibo quando qualcuno riceveva un pacco. Molte delle stesse decisioni di aderire o di resistere dipesero dalla solitudine morale e dalla disperata volontà di non separarsi dagli amici. L’amicizia di prigionia sicuramente è stata una leva potente. Il raggrupparsi in gruppi ad esempio è quello che ci ha sostenuto: il fatto di avere insieme della gente con cui si poteva essere sicuri nel parlare e con cui ci si sostentava vicendevolmente. Le crisi personali arrivavano, ovviamente, ed allora era importante avere qualcuno vicino, come anche in guerra, in combattimento... non si può parlare di un’amicizia, una solidarietà estesa alla massa di tutto il campo... Però nel piccolo gruppo che si creava con gli amici lì la solidarietà era forte... Quando qualcuno si ammalava o si vedeva che non ce la faceva, allora lo si adottava in qualche maniera15. C’era uno stato di miseria anche morale. Ad un certo punto si perdeva anche la dignità. Ci si lasciava un po’ andare perché non ce la facevi più... Però nonostante tutto c’era sempre quella speranza che veniva da quelle persone che sapevano superare anche quelle difficoltà e ti davano la forza di poter agire e sperare anche tu.
Il grosso delle adesioni si verificò a partire dall’inverno 19431944 (novembre-gennaio), quando la fame spinse molti ad accettare le offerte16. Ma, nonostante la condizione degradata, la maggioranza degli ufficiali proseguì nel suo rifiuto, anche se, dopo ogni tentativo riuscito vano, veniva ridotta la razione di cibo ed erano negate le medicine. Cedere avrebbe infatti signifi-
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cato annullare la precedente resistenza e vanificare i sacrifici sofferti. Non si trattava però solo di orgoglio: ripetere «no» alle richieste di adesione costituiva l’unico mezzo non solo per istaurare un rapporto paritario, ma anche per disconoscere l’autorità nazista e fascista. Inevitabilmente la non adesione diveniva una scelta – più o meno consapevole – per una delle due Italie. Era la guerra civile che si trasferiva nei campi di prigionia. A fianco agli inviti ad aderire alla RSI , a partire dalla fine di novembre 1943 fino all’estate del 1944 si fecero numerose e continue le richieste tedesche di partecipazione degli ufficiali al lavoro volontario (previa una firma di adesione al nazifascismo nel caso che il lavoro fosse stato in Italia). La promessa era quella di un lavoro secondo le proprie competenze e titoli, e di una condizione di vita completamente diversa. La promessa non fu sempre mantenuta, ma vi fu anche chi – come risulta da una testimonianza modenese17 – fu inviato in una scuola di specializzazione e venne trattato con un certo riguardo. Il prezzo che si doveva pagare era però una firma (che però non tutti ricordano di aver dovuto mettere): Se lei era ingegnere e diceva: «Io collaboro come ingegnere», allora sì [si teneva conto della qualifica]. Però doveva firmare. Invece, così, andava a fare quello che... [gli ordinavano i tedeschi]. Coloro che accettavano furono rari... venivano tolti da noi, andavano in altre baracche... oppure lasciavano il campo per andare a lavorare altrove... Ad ogni nostro rifiuto, seguiva sempre un trattamento peggiore da parte dei tedeschi.
A differenza dei precedenti tentativi di ottenere collaborazione, questa nuova tattica riscosse un qualche successo. La fame spinse infatti molti a superare le resistenze morali – il lavoro per i nazisti è collaborazione? Lascia libero un tedesco da mandare al fronte? – e ad accettare la proposta (e talora furono gli stessi superiori a spingere i più giovani ad accettare). Per molti il lavoro – oltre a permettere la sopravvivenza – rappresentava anche la possibilità di ritrovare un contatto con la realtà. L’adesione non sempre era ben vista dai compagni: Ah beh noi non li vedevamo mica ben volentieri. Per l’amor del cielo. Perché faceva comodo a tutti dire: «Ma lì si mangia, lì la pelle». La pelle l’avevamo tutti da salvare.
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Infine, nell’agosto del 1944, avendo le autorità tedesche dichiarato alla fine di febbraio ormai concluso il reclutamento di militari internati e la relativa propaganda, Mussolini, preoccupato dell’immagine negativa prodotta dal perdurante diniego di adesione alla RSI di centinaia di migliaia di militari, e incapace di fornire a Hitler il quantitativo di lavoratori che questi pretendeva dall’Italia, propose e ottenne da Hitler che tutti gli IMI – soldati ed ufficiali – venissero smilitarizzati e resi civili18. Inizialmente fu chiesta l’adesione volontaria al passaggio allo status di civili, e i disposti a cambiare furono circa il 30% . Coloro che seguitarono a rifiutare furono soggetti a minacce e intimidazioni, finché, nel gennaio 1945, il passaggio allo status di lavoratori civili divenne obbligatorio. Se uno minaccia di spararti, allora vai a lavorare. Loro ci hanno tenuti chiusi per due giorni in attesa di andare a firmare, ma la maggioranza non ha firmato – ricorda un soldato – avrà firmato, non so, una terza parte. E allora visto così dopo hanno aperto le baracche e hanno detto: «Siete tutti civili e buonasera! ».
In seguito alla smilitarizzazione, gli ufficiali, salvo quelli superiori («ai generali non venne nemmeno chiesto, insomma loro erano dei generali... E poi sarebbero anche stati dei lavoratori da tre soldi. Avevano tutti poi una certa età»), furono soggetti al lavoro coatto, senza che vi fosse la necessità di apporre una firma di adesione; un lavoro di tipo manuale, certamente più duro di quello che era stato riservato ai volontari, ma che qualcuno considerò comunque come una liberazione: Almeno mangiamo qualcosa. Ci davano una sbobba a mezzogiorno abbastanza buona.
Riguardo ai soldati, la smilitarizzazione, pur non portando vantaggi rispetto alle condizioni di lavoro (migliorò il vitto, che di nuovo peggiorò però dal 1945), permise comunque di muoversi dal campo e di svolgere anche dei lavori supplementari la domenica: Ci sono stati cambiamenti significativi essenziali. Andavamo a lavorare da soli e alla sera quando eri stanco ti mettevi a dormire, prima dovevi aspettare l’appello... è stata una liberazione! ... andavamo al ci-
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La resistenza non armata degli Internati Militari Italiani nema, e poi c’erano i rapporti con i civili... ci davano dei marchi, la fabbrica ci pagava uno stipendio. Dopo è migliorato tutto e poi ci pagavano anche, perché prima nel campo c’erano i marchi che circolavano, ma erano quelli del campo che sembravano dei biglietti del tram che li potevamo spendere in una specie di spaccio dove però non c’era quasi mai niente, e invece dopo ci hanno pagato con i marchi veri e così ci siamo arrangiati anche fuori.
Al contrario, per altri la situazione non si modificò: Per noi non è poi che sia cambiato niente, abbiamo seguitato a lavorare in fabbrica, e non è poi che fossimo tanto liberi! Nel campo c’erano le sentinelle come prima... hanno continuato a darci da mangiare quel niente di prima.
Non tutti gli IMI accettarono la smilitarizzazione. Vi furono alcune migliaia di «irriducibili» che seguitarono a rifiutare di lavorare, giudicando che questo fosse l’unico modo per disconoscere la legittimità del comportamento nazifascista. Per costoro la smilitarizzazione produsse pesanti effetti negativi: effetti morali – la perdita del grado e dell’identità militare – e drammatici effetti materiali: separati dai compagni, furono inviati in campi di punizione, retti dalle SS, come lo Straflager di Colonia e quello di Wietzendorf, dove la disciplina era più dura, il cibo ancor più ridotto, il lavoro obbligatorio; spostati di fabbrica in fabbrica, subirono la fame, maltrattamenti fisici e morali e il pericolo dei bombardamenti. Alcuni di essi furono fucilati (tra cui il tenente Russo, modenese). Altri, se sospettati di aver svolto propaganda contro l’adesione, furono internati nei KZ, i campi di sterminio, dove circa 3.00019 trovarono la morte. Io sono uno di quelli, quei sottotenenti che la stampa li ha classificati i «sottotenenti del no», abbiamo sempre detto di no a tutte le proposte che ci facevano i tedeschi... Un giorno sono venuti e ci hanno detto qui volenti o nolenti... baionette alla schiena e ci hanno spinto fuori dal campo e ci hanno portato a Colonia, allo straflager di Colonia che era un campo di punizione. Nei tre mesi che passiamo a Wietzendorf non è che ci chiedono di lavorare ma ce lo impongono... Il mio amico ed io fummo avviati ad una piccola fabbrica situata a Lerhte, circa 15 km a nord di Hannover.
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G iovanna Procacci Mi ricordo che c’era un ufficiale che era stato messo a lavorare, a spalare il carbone con noi. Non era capace e gli davano calci in continuazione, punendolo davanti ai soldati semplici. Era umiliante per lui, non era certo il trattamento che gli spettava. Si vedevano colonnelli che grattavano la marmitta della minestra, oppure presi a calci da un tedesco durante un trasferimento. Ci vedevamo tutti luridi nelle nostre divise da straccioni.
Ancora una volta, ciò che spinse a resistere, a evidente rischio della vita, non fu una scelta ideologica, anche se alcuni, per contatti avuti con prigionieri francesi e russi, avevano iniziato a uscire dalla cappa di ignoranza nella quale erano vissuti sotto il fascismo. Fu sempre una scelta morale e ideale, frutto di un «antifascismo esistenziale»20, prodotta dalla difesa ad oltranza della propria dignità, cui si unì talora – forse più che nel passato – la fierezza del grado militare: un ufficiale non può essere costretto a svolgere un lavoro umiliante. Ad un certo punto uno non aveva aderito alla Repubblica, noi, la maggioranza di noi non ne voleva sapere, e non abbiamo aderito neanche al lavoro, insomma siamo rimasti lì… Perché andare a lavorare con loro significava dare anche un piccolo aiuto. Ho detto no, basta! Ho detto di «no» sino alla fine. Sono uno dei pochi... L’adesione al lavoro non avvenne tutta in un colpo, avvenne gradualmente… A dire di no alla fine a dire veramente «no», siamo stati in 3-4-5.000 e non di più... Debbo dire che non ci hanno messo mai le mani addosso, ma hanno usato la fame. Non ci davano da mangiare e tanti sono morti di fame... Tra coloro che dicevano di no ve ne erano di due tipi. Gli ufficiali dei carabinieri e alcuni ufficiali effettivi dicevano di no perché dicevano «Io ho giurato fedeltà al re». Poi c’erano quelli come Guareschi, «i figli di Don Chisciotte»… Io sono nato così o ero diventato così, come Guareschi e Novello, il «no» era il «no» della dignità umana, fate quel cavolo che volete, ma io dico «no».
Il gruppo degli «irriducibili» era assai compatto (e lo sarà anche nel dopoguerra, quando i «360» di Colonia si cercheranno e si ritroveranno), e funse da cintura di salvataggio per coloro che per fame o malattia stavano per cedere. Quanti che erano sopravvissuti al dramma della fame e del lavoro forzato, ai bombardamenti e alle ultime rappresaglie naziste furono infine liberati dagli inglesi, dagli americani o
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dai russi, e dopo varie peripezie, riuscirono a fare ritorno a casa, in un paese segnato dalla guerra, dalla povertà, dalla complessa situazione politica. L’accoglienza sarà molto diversa da come si era immaginata e sospirata. Al rimpatrio i distretti indagheranno solo sulle circostanze della cattura, dimostrando un totale disinteresse per i due anni successivi21. Troppo «militari» per essere presi in considerazione dai politici e troppo «politici» per piacere ai militari – come ha scritto Giorgio Rochat22 – , spesso confusi con i collaborazionisti e con gli optanti, mancò agli IMI quel riconoscimento che fu invece ampiamente accordato ai resistenti armati, mentre gran parte di quanti avevano collaborato non subivano nessuna conseguenza dei loro atti. Come scrive Giuntella, la «pacificazione degli animi» fu intesa a senso unico: mentre i reduci dai lager non trovarono ascolto, «tutte le porte restarono aperte agli aderenti alla RSI»23. Del tutto inadeguata fu l’assistenza loro prestata al ritorno, del tutto insufficiente l’aiuto a reinserirsi nella vita quotidiana24, e molti dovettero spesso affrontare numerosi intralci burocratici per ottenere il riconoscimento dei loro diritti riguardo al periodo passato in prigionia25. C’era un ufficiale che era un po’ schizzinoso, diceva: «Ma siete stati lavoratori civili?», e io «Sì!», sembrava che fossimo dei traditori della patria. Erano increduli; se non avessi presentato le cartoline prestampate tedesche che distribuivano ai prigionieri nei lager, non mi credevano... forse temevano che fossi stato con la Repubblica sociale, che avessi aderito al fascismo. No, nessun riconoscimento... Ci han dato un po’ di soldi lì al distretto, perché eran soldi che in quei due anni di prigionia non avevamo mai preso la decade. E se ho voluto lavorare sono andato a finire in Belgio in miniera, a 1.200 metri sotto terra. Siamo rimpatriati e ci hanno accolto freddamente, nessuno ci ha allungato un piatto di minestra quando siamo rientrati, c’era già un clima per noi che non ce lo aspettavamo… In tanti anni, tu che hai fatto le sofferenze del purgatorio, perché lì era il purgatorio, non una ricompensa, ma nemmeno una riconoscenza, niente. Non mi aspettavo un riconoscimento esagerato ma almeno un po’ di riconoscenza sì. Invece anche dopo quando ci portarono a Modena per degli interrogatori, non avemmo niente di niente; gli altri erano gli eroi, noi no. Nessuno si è preso carico di noi. E questo mi ha molto deluso.
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Tutti gli intervistati modenesi – ma il fenomeno è nazionale – hanno espresso la loro amarezza per il disinteresse, l’incredulità o addirittura lo scherno con il quale veniva accolto il racconto della loro resistenza. Spesso l’esperienza passata e l’impossibilità di comunicarla al mondo esterno hanno prodotto traumi che non si sono mai più risolti. Loro non credevano neanche. Poi i giovani dicono perché non facevate questo e quello. Non ne ho parlato con mio figlio. Io ne parlerei volentieri più che altro con altri che hanno subito la stessa sorte, ma oggi non interessa a nessuno, nemmeno ai figli interessano queste cose, quello che abbiamo passato noi nei campi. Quando io racconto queste cose qua, poi mi agito in una maniera tremenda e quando parlo con degli altri, ho sempre paura che… Ti credono esagerato. Perché quello che abbiamo visto noi in Germania è una cosa talmente grossa che non possono credere. C’è stato un periodo in cui la mia memoria era non dico zero ma quasi. Avevo una memoria visiva ma non il ricordo dei fatti. Vedevo delle cose e basta. Ho sempre pensato che avrei preferito rifare un’altra campagna di Russia con relativa ritirata piuttosto che essere prigioniero – commenta un ufficiale di carriera modenese26 – Questo dal punto di vista morale, può già dare l’idea di quale stato di abbrutimento desse il fatto di sentirsi impotente a fare qualsiasi cosa, ognuno diventava un oggetto. Una cicatrice rimane indubbiamente. Nel complesso io e quelli della mia generazione che come me sono passati attraverso una campagna di guerra e poi attraverso la prigionia in mano russa, tedesca o alleata, oltre alle ferite morali della prigionia, noi non siano stati mai giovani. […] Sì avevamo 25 anni ma potevamo essere come oggi uno di 40 anni… siamo un po’ come le pere maturate con il bastone.
Frustrazione, amarezza, senso di aver perduto inutilmente degli anni della propria giovinezza, e di portare un fardello di impressioni e di ricordi incompresi da chi non ha condiviso l’esperienza: sono sentimenti comuni a soldati e a ufficiali, di cui queste pagine hanno voluto dare testimonianza, come contributo, sia pur limitato, a tenere viva la memoria di quegli eventi e del coraggio civile di migliaia di giovani.
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Note 1. Si tratta di 15 ufficiali (di cui 13 di complemento) e di 43 soldati e sottufficiali, in buona parte provenienti dai Balcani. Le testimonianze orali degli internati – cui sono da aggiungere tredici memorie scritte, inedite, corredate da vari documenti (fogli matricolari, cartoline ecc.) e quindici testimonianze di deportati (politici e ebrei) e di rastrellati, sono conservate presso la Facoltà di Lettere di Modena e presso l’Istituto della Resistenza di Modena. Le interviste degli internati, dei deportati e dei rastrellati sono state parzialmente pubblicate in Deportazione e internamento militare in Germania. La provincia di Modena, a cura di G. Procacci e L. Bertuccelli, Milano 2001. Gli internati militari provenienti dalla provincia di Modena furono circa 17.000, ma mancano le cifre ufficiali (cfr. G. Procacci, Gli internati militari italiani. Le testimonianze degli IMI della provincia di Modena, ibid.., p. 16). I brani citati nelle prossime pagine appartengono nella maggior parte alle interviste riprodotte nel volume, e in particolare alle testimonianze di G. Amici, O. Ascari, G. Ballocchi, I. Balugani, E. Bartolai, C. Bertini, N. Biagini, G.G. Capitani, E. Cavicchioli, B. Cecchelli, P. Costi, L. Cottafavi, G. Dallari, I. Ferrari, M. Fognani, P. Fregni, U. Galli, M. Gariboldi, B. Generali, A. Ghirardelli, O. Giovenzana, E. Giuliani, E. Gozzi, G. Gozzi, U. Gualdi, G. Lucchi, A. Mazzoni, G. Meschiari, G. Montanari, T. Montanini, F. Morsiani, E. Pradella, C. Roseo, E. Rossi, W. Rossi, E. Tassi, A. Vaccari, T. Venturelli, O. Veronesi, L. Zeni. 2. Sui motivi del «no», sulla base di circa 400 interviste, sono state elaborate alcune statistiche (di significato puramente indicativo, sia perché il numero di alcune delle categorie militari è troppo esiguo per permettere una valutazione, sia perché molte delle motivazioni addotte per giustificare il rifiuto non sono disaggregabili). Secondo gli autori, il motivo prevalente è costituito dal desiderio di non combattere più (34% ); seguono i motivi ideologici (30% ), predominanti nel secondo periodo della guerra; l’ostilità nei confronti dei tedeschi (prepotenza, angherie) risulta presente in tutti i gradi; il rifiuto motivato con il non voler combattere altri italiani appare invece preminente fra i soldati: G. Caforio, M. Nuciari, No! I soldati italiani internati in Germania. Analisi di un rifiuto, Milano 1994, pp. 31, 36, 44, 47. Una successiva elaborazione delle motivazioni del rifiuto è stata compiuta da Claudio Sommaruga, secondo il quale le ragioni militari (tra cui quella di non combattere contro italiani) sarebbero state del 30% , quelle etiche del 26% , quelle più propriamente ideologiche del 24% , e altre (fatalismo, diffidenza ecc.) del 20% : C. Sommaruga, Tempi e ragioni del no , in «Rassegna A.N.R.P.» (luglio 1998), n. 67, e Id., No! Anatomia di una Resistenza, Roma 2001, p. 237; Anche Rochat ha analizzato le varie motivazioni del rifiuto, distinguendo quelle predominanti tra i soldati (rifiuto della guerra, incapacità di scelta individuale e volontaria, difesa della propria dignità), da quelle prevalenti tra gli ufficiali (fedeltà alle istituzioni, rifiuto della guerra, dignità): G. Rochat, La società dei lager. Elementi generali della pri-
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G iovanna Procacci gionia di guerra e peculiarità delle vicende italiane nella seconda guerra mondiale, in Fra sterminio e sfruttamento. Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (1939-1945), a cura di N. Labanca, Firenze 1992, pp. 142 ss. 3. Al momento dell’armistizio ben 35 divisioni italiane si trovavano fuori d’Italia, nei Balcani o nelle isole dell’Egeo (24 erano in Italia). In Italia settentrionale e centrale consegnarono le armi 416.000 militari, a Roma e nel sud 102.000, nella Francia meridionale circa 59.000, nei Balcani e nelle isole del Mediterraneo 430.000: complessivamente quindi furono disarmati 1.007.000 italiani. Di costoro, 196.000 (o 197.000) riuscirono a fuggire; dei restanti 810.000, 186.000 aderirono (dal momento della cattura alla primavera del 1944): G. Schreiber, Gli Internati militari italiani ed i tedeschi, in Fra sterminio e sfruttamento…, cit., pp. 41 ss. Ma le cifre, comprese quelle dei morti, sono approssimative, poiché non furono effettuate nel dopoguerra ricerche da parte delle autorità politiche e militari. Il volume più completo sull’argomento è quello di G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943-1945. Traditi disprezzati dimenticati, Roma 1992, cui si affianca la monografia di G. Hammermann, Die Arbeits- und Lebensbedingungen der italienischen Militaerinternierten in Deutschland 1943-1945, Tubingen 2002 (trad. it. Gli internati militari italiani in Germania, 1943-1945, il Mulino, Bologna 2004), di cui una breve sintesi Condizioni di vita e condizioni di lavoro degli Internati militari italiani nell’area di potere tedesca fra il 1943 e il 1945 è stata pubblicata in Deportazione e internamento militare in Germania…, cit., pp. 400-413. Vasta la diaristica (per una rassegna della quale vedi C. Sommaruga, Bibliografia ragionata dell’internamento e deportazione dei militari italiani nel Terzo Reich (194345), vol. I: Memorialistica e saggistica, s.l. 1997), e gli ormai numerosi volumi che raccolgono saggi. Si deve a Giorgio Rochat la prima ricostruzione storiografica (cfr. G. Rochat, Memorialistica e storiografia sull'internamento , in I militari italiani internati dai tedeschi dopo l’8 settembre, a cura di N. Della Santa, Firenze 1986), cui l’autore ha fatto seguire altri numerosi interventi. Sulla reazione dei nazisti ai tentativi di resistenza e di lotta armata, cfr. G. Schreiber, Gli internati militari italiani ed i tedeschi… , cit., pp. 38 s., secondo il quale le direttive tedesche contro gli Italiani che si opponevano alla Wehrmacht, e i conseguenti provvedimenti, non trovarono riscontro in nessun teatro di guerra, nemmeno nella guerra di sterminio in URSS. Sulla sorte dei militari che non si arresero e sulla strage dei deportati nei naufragi, vedi anche G. Mayda, Storia della deportazione dall’Italia 1943-1945. Militari, ebrei e politici nei lager del Terzo Reich, Torino 2002, pp. 301-15. 4. Secondo alcuni recenti calcoli, i morti furono 50.000 circa: cfr. C. Sommaruga, No! Anatomia di una Resistenza… , cit., p. 251. Le principali cause di morte furono la fame e la conseguente debilitazione fisica che faceva contrarre malattie, la fatica e i continui incidenti sul lavoro, i bombardamenti – da cui era difficile difendersi, anche perché spesso agli italiani era impedito l’ingresso nei rifugi – le rappresaglie.
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La resistenza non armata degli Internati Militari Italiani 5. La Repubblica sociale, cui spettava il compito ufficiale di inviare i soccorsi, si limitò a far pervenire solo a partire dal giugno del 1944 alcuni vagoni di viveri, che furono in parte bloccati durante il viaggio. L’unica risorsa perciò consistette nei pacchi inviati dalle famiglie, che però spesso venivano persi o saccheggiati, e che non potevano provenire dalle zone a sud della Linea gotica. 6. Anche durante la prima guerra mondiale almeno 100.000 militari, quasi tutti soldati, morirono nei campi tedeschi e austriaci per fame e malattie: in quel caso la responsabilità non fu dei nemici che, attanagliati dal blocco dell’Intesa, non aveva modo di alimentare le centinaia di migliaia di prigionieri, ma dell’Italia, avendo il Comando supremo impedito che venissero inviati aiuti statali, nel timore che ciò facilitasse la diserzione e la resa dei soldati al fronte. Cfr. G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra. Con una raccolta di lettere inedite , Torino 20002. 7. Tuttavia in alcune memorie si parla di soldati che avrebbero rifiutato fino alla fine il lavoro, ovvero di più richieste di adesione rivolte anche ai soldati: è questo un punto su cui la storiografia non ha fino ad oggi offerto sufficienti chiarimenti. 8. C. Sommaruga, No! Anatomia di una Resistenza…, cit., p. 7. Secondo Sommaruga, gli ufficiali che accettarono di andare a lavorare prima del 20 agosto 1944 – data della smilitarizzazione – furono 2300, e 463 quelli obbligati a lavorare; dopo il 20 agosto accettarono «volontariamente» 5400 (compresi i precedenti 2300), furono precettati (con o senza firma) 2300 e furono 358 quelli furono costretti al lavoro: il totale – dopo il 20 agosto – fu dunque di 8058 su circa 30.000 ufficiali internati; gli ufficiali che non lavorarono (compresi i generali, gli inabili, i sanitari, i cappellani) furono circa 10.000: C. Sommaruga, Tempi e ragioni del no…, cit., p. 18 (Cifre dell’internamento ). 9. La formula di adesione alla Repubblica sociale così suonava: «Aderisco all’idea repubblicana dell’Italia repubblicana fascista e mi dichiaro volontariamente pronto a combattere con le armi nel costituendo nuovo esercito italiano del Duce, senza riserva, anche sotto il comando supremo tedesco, contro il comune nemico dell’Italia repubblicana fascista del Duce e del grande Reich germanico». 10. Così avvenne a coloro che provenivano alla Divisione italiana partigiana Garibaldi, costituitasi in Montengro dopo l’8 settembre, i cui esponenti vennero denominati dai nazisti Kommunist-Badoglio Kampf : G. Bonfanti, Se si sciolgono i gridi. Diario di guerra e di prigionia, Pasian di Prato 2002, p. 23. 11. Nel febbraio 1944 fu applicata anche la regola del nutrimento collegato al rendimento, con l’obiettivo di rendere al massimo al minor costo. La regola fu poi modificata per permettere un aumento del livello di produttività, quando, nell’agosto del 1944, gli IMI furono smilitarizzati. G. Hammermann: Condizioni di vita e condizioni di lavoro degli Internati militari…, cit., pp. 403 ss. 12. G. Scheriber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943-1945…, cit., pp. 458 ss.
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G iovanna Procacci 13. Cfr. V.E. Giuntella, Il nazismo e i lager, Roma 1976, p. 18. 14. Così la relazione del diplomatico di Salò Bolla, citata in U. Dragoni, Il «No» plebiscitario dei militari internati, in Fra sterminio…, cit., p. 325. Per casi di uccisioni cfr.: G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich…, cit., pp. 652, 743-85. 15. Testimonianza inedita di M. G. 16. La morte di alcuni dei reclusi faceva decidere massicciamente per l’adesione: così fu ad esempio a Biala Podlaska, dove, in seguito al decesso di un carabiniere, la maggioranza di quel corpo aderì. Vi era anche il timore di finire, come gli ebrei – di cui gran parte dei reclusi conoscevano la condizione – nelle camere a gas: P. Ruffo, La tradotta dei senza patria dalla Grecia ai lager nazisti, Verona 1987, pp. 104-105. La dimostrazione che era la fame a determinare l’adesione viene confermata dal numero degli aderenti, assai limitato fino a quel momento, massiccio in seguito. Ad esempio a Benjaminovo, su 2837 ufficiali, a novembre si ebbero solo 40 adesioni, ma 1200 a gennaio: G. Rochat, Prigionia di guerra e internamento nell’esperienza dei soldati italiani, in Spostamenti di popolazione e deportazioni in Europa. 1939-1945, Bologna 1987, p. 322. 17. Deportazione e internamento militare in Germania…, cit., pp. 142 ss. 18. Incisero sulla richiesta di Mussolini anche le notizie sulle condizioni di vita degli IMI , mentre sull’accettazione da parte di Hitler fece giuoco la necessità di reclutare per il fronte anche il personale di sorveglianza dei lager. La «civilizzazione» fu tentata anche con gli ufficiali polacchi e francesi, per i quali l’adesione era però facoltativa. 19. C. Sommaruga, Tempi e ragioni del no…, cit., p. 18 (anche in Id., No! Anatomia di una Resistenza…, cit., p. 251). Numerosi furono poi gli IMI assassinati dai tedeschi prima di arrendersi: cfr. G. Schreiber, I militari internati nei campi di concentramento del Terzo Reich…, cit., pp. 743-85. 20. G . Rochat, La prigionia di guerra, in I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita , a cura di M. Isnenghi, Roma-Bari 1997, p. 402. 21. C. Sommaruga, «Meglio morti che schiavi». Anatomia di una resistenza nei lager nazisti, in «Quaderni piacentini» (1988), n. 3, p. 222. 22. G. Rochat, Prigionia di guerra e internamento nell’esperienza dei soldati italiani, in Spostamenti di popolazione e deportazioni in Europa…, cit., p. 314. 23. V.E. Giuntella, L’associazione nazionale ex internati e la memoria storica dell’internamento , in I militari italiani internati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, a cura di N. Della Santa, Firenze 1986, p. 71. 24. Cfr. N. Labanca, Catabasi. Il ritorno degli Internati militari italiani, fra storia e memoria, in La memoria del ritorno. Il rimpatrio (19451946), Firenze 2000, pp. XX-XLI. 25. In quanto figura ibrida – né prigionieri né civili – recentemente sono stati esclusi dalla possibilità di un indennizzo da parte delle autorità tedesche. 26. Testimonianza inedita di M. G.
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Dissoluzione dell’esercito e solidarietà popolare ai soldati Mimmo Franzinelli
Per cogliere l’eccezionalità dell’8 settembre 1943 bisognerebbe immaginare di vedere scorrere contemporaneamente su più schermi situazioni relative a scenari differenti ma alla fine concomitanti: la fuga dei sovrani e dei ministri militari, il disorientamento e lo sbandamento dei soldati, l’incredulità della cittadinanza trasformatasi nel furore dell’assalto di massa a caserme e a magazzini abbandonati, la solidarietà popolare con i fuggiaschi, l’offensiva tedesca con la trasformazione di forze armate alleate in esercito d’occupazione... La visione sincronica di queste vicende fornirebbe la percezione del caos in cui precipitò l’Italia, immersa in una guerra sbagliata e destinata alla sconfitta, un mese e mezzo dopo l’uscita di scena di Mussolini e l’insediamento di un governo militare tentennante e temporeggiatore. In una visione prospettica l’8 settembre si è rivelato una catastrofe senza precedenti nella storia contemporanea italiana, con un concentrato straordinario di mutamenti epocali. Il paese è precipitato nella tragedia, le cui tappe successive saranno l’occupazione tedesca e la guerra civile. Il re, la regina e il principe ereditario abbandonano la capitale insieme al capo del governo e a tutti i ministri militari. Fuga ignominiosa o provvedimento lungimirante diretto ad assicurare continuità di direzione politico-istituzionale al paese? Ci sono dei punti, apparentemente di dettaglio, che vale la pena di considerare. Umberto di Savoia è comandante del Gruppo Armate Sud, cioè delle forze impegnate nell’Italia meridionale, sennonché, proprio la mattina dell’8 settembre, egli viene esonerato dall’incarico e può così unirsi all’inglorioso esodo senza passare per disertore. Una fonte di prima mano per la conoscenza degli eventi è il diario del pilota Publio Magini, inserito da Badoglio nel suo
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Dissoluzione dell’esercito e solidarietà popolare ai soldati
Stato Maggiore e mobilitato già il 6 settembre all’aeroporto di Centocelle col collega Giovanbattista Vassallo, a disposizione del capo del governo, per una missione importante e imprecisata1. Nel cuore della notte tra l’8 e il 9 settembre i due piloti sono svegliati da una telefonata, con l’ordine di provvedere all’immediato trasferimento della flotta aerea a Pescara. Mentre Magini e Vassallo attuano le direttive ricevute, un cronometro scandisce le tappe dell’esodo da Roma di reali e generali. Ore 4 del mattino: escono dalla città sette vetture con ventidue persone a bordo, tra cui il re e la regina, il generale Pontoni e il principe Umberto, il generale Badoglio e il duca Acquarone. Ore 6: partenza del capo del comando supremo Ambrosio, del capo di stato maggiore dell’esercito Roatta e del generale Zanussi. Ore 7: è il turno del capo di stato maggiore dell’aeronautica Sandalli e dei sottocapi di stato maggiore dell’esercito De Stefani e Mariotti. Ore 8.15: se ne va il generale Utili, capo del reparto operazioni dello stato maggiore dell’esercito. Ore 9.30: si allontanano dalla capitale il generale Aliberti e venticinque ufficiali dello stato maggiore dell’esercito. La giornata del 9 settembre, entrata nella storia come la più confusa e convulsa del Novecento italiano, ha avuto anche una dimensione di puntuale programmazione. All’abbandono dell’esercito dinanzi all’offensiva tedesca, al «si salvi chi può», hanno corrisposto da parte della monarchia e dei settori militari governativi comportamenti che, dal punto di vista morale, appaiono terribili, stanti le loro conseguenze: internamento di circa seicentomila militari e agevolazione dei piani d’occupazione nazisti. Le automobili partite da Roma giungono senza ostacoli a Pescara, tappa intermedia. Qui torniamo al diario del pilota Magini, con la descrizione di momenti critici, con la sensazione di essere presi in trappola. In un clima concitato si effettua una ricognizione sulla Puglia, con esiti confortanti: gli aereoporti di Brindisi e di Lecce sono liberi; una colonna tedesca è in marcia da Grottaglie verso nord, dunque si sta allontanando dalle due città. In attesa di ordini ci si guarda attorno e non mancano le sorprese: La famiglia reale e un certo numero di ministri arrivano poco dopo e si fermano nella palazzina degli ufficiali. A un certo momento il re si affaccia alla porta e sosta sul piazzaletto; suda per il caldo, si passa un fazzoletto sulla fronte e rivolge uno stentato sorriso al nostro grup-
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Mimmo Franzinelli petto di ufficiali. Sembra più piccolo del solito. Un capitano della caccia, l’aretino Monti, che mi sta accanto, chiede a mezza voce: «Ma è tutto lì, il re imperatore?». Passano ore d’attesa. Tento di telefonare un paio di volte a casa, ma le linee sono interrotte. Nella palazzina è riunito una specie di consiglio della corona: oltre al re e a Badoglio vi partecipano il principe Umberto, il ministro della real casa Acquarone, il generale Ambrosio, alcuni ministri e i tre capi delle forze armate (Roatta dell’Esercito, de Courten della Marina e Sandalli dell’Aeronautica). Mi riferiscono che Roatta tiene una dotta disquisizione storico-giuridica sulla liceità per i monarchi e i governi di abbandonare le capitali nei casi di grave e imminente rischio di occupazione da parte di stranieri ostili2.
Si respira un clima di disfacimento, nell’ossessione della fuga. Intuita la delicatezza del momento e le ripercussioni dell’una o dell’altra scelta, nel pomeriggio tre ufficiali dell’aeronautica provano a inserirsi negli eventi, con una forzatura motivata da senso patriottico: Discuto con Vassallo e ci troviamo in totale accordo: se il principe Umberto non torna subito a Roma, la dinastia dei Savoia è finita. Ne parliamo con Carlo Ruspoli, della caccia, che conosce bene il principe, e troviamo in lui un alleato. Disponiamo di numerosi piccoli aerei-scuola: nulla di più facile che tornare a Roma atterrando ovunque, anche fuori campo. Ci avviciniamo tutti e tre al principe, uscito dalla palazzina. Ruspoli ed io parliamo brevemente, ma egli ci oppone un cortese diniego: questa eventualità è già stata discussa e definitivamente respinta dal re.
Nel corso della giornata da diverse parti si invita il principe a tornare nella capitale per mettersi a capo della resistenza dell’esercito; anche l’ufficiale d’ordinanza di Umberto, il maggiore Francesco Campello, tenta con le lacrime agli occhi di richiamare l’erede al trono a un superiore senso del dovere. Simili pressioni scuotono il primogenito dei Savoia e a sera lo inducono a ripensare alle sue mosse. Vorrebbe rientrare nella capitale e per questo chiama a consulto il generale Paolo Puntoni, genero del re, che ha così descritto l’episodio: Dopo pranzo, verso le ore 21, il Principe di Piemonte mi chiama nella sua stanza. Lo trovo in piedi, al centro della camera, a braccia conserte. «La mia partenza da Roma – mi dice subito – è senza dubbio
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Dissoluzione dell’esercito e solidarietà popolare ai soldati uno sbaglio: penso che sarebbe opportuno ch’io tornassi indietro; la presenza nella capitale di un membro della mia Casa, in momenti così gravi, la reputo indispensabile...». Cerco di dissuaderlo, anche perché il Sovrano ha espresso il desiderio di avere con sé il Principe ereditario, che rappresenta la continuità della Dinastia3.
Se il ritorno a Roma è escluso, onde evitare a un Savoia il rischio della cattura, resta da stabilire cosa sia preferibile, per la prosecuzione della fuga dei reali e dei ministri militari (i ministri civili sono rimasti nella capitale, esclusi dalla carovana dei partenti). La soluzione dell’enigma ha nel maggiore Magini un buon testimone: Qualche ora più tardi mi trovo in auto con Valenza, il duca Acquarone, l’ammiraglio de Courten e il suo aiutante di bandiera, diretti a Ortona a Mare, per decidere se andare al Sud in aereo o per mare. Bisogna comunque decidere alla svelta perché la permanenza a Pescara diviene più pericolosa d’ora in ora. Torniamo all’aeroporto. È stato deciso per mare. In un lampo i grandi capi sono scomparsi. È sparito anche il mio passeggero, maresciallo Badoglio.
A questo punto, deciso l’esodo via mare del sovrano e del capo del governo, Magini e alcuni suoi colleghi caldeggiano l’immediata partenza per la Puglia, poiché la concentrazione di circa 120 apparecchi in un solo aeroporto non può sfuggire ai tedeschi e una sola bomba distruggerebbe buona parte della flottiglia aerea italiana; d’altronde la notte è chiara e l’atterraggio su aeroporti oscurati non rappresenta un problema. A simili rilievi si risponde con un fermo diniego. La consegna è di attendere sino all’indomani, per la ragione inconfessata di rendere più sicura la fuga del re e del capo del governo con seguito di generali, che hanno programmato l’imbarco notturno a Ortona sulla corvetta Baionetta. Finalmente, all’alba del 10 settembre, avuta l’assicurazione che la nave dei fuggiaschi è giunta in porto, i piloti ottengono il disco verde. Magini decolla verso Brindisi con a bordo alcuni dirigenti del servizio segreto militare e la radio utilizzata per tenersi in contatto con gli anglo-americani. In campo storiografico il primo contributo significativo sul comportamento dei vertici istituzionali è venuto da un personaggio oggi ingiustamente dimenticato: Ruggero Zangrandi, intellettuale irrequieto transitato dal fascismo al frondismo, dal-
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l’antifascismo al comunismo, arrestato nel 1942 per spionaggio, tenuto in carcere durante il periodo badogliano e poi deportato dai tedeschi. All’inizio degli anni Sessanta Zangrandi ha studiato le dinamiche dell’armistizio e ipotizzato l’esistenza di un tacito accordo tra monarchia, vertici dell’esercito e tedeschi, col baratto tra la salvezza della classe dirigente e il sacrificio della nazione, ovvero l’assenza di misure militari contro le forze armate germaniche. Il caos dell’8 settembre sarebbe stato, in un certo senso, programmato e funzionale a progetti sotterranei. Una partita a scacchi in cui il sacrificio dei pedoni, degli alfieri e dei cavalli assicura la salvezza al re, alla regina e alle torri. Il comportamento dei vertici politico-militari è straordinariamente affine all’abbandono del posto di combattimento di fronte al nemico, reato che era costato un numero notevole di fucilazioni nelle guerre guidate da Badoglio: se a fuggire erano i subalterni, interveniva la corte marziale... La RSI prima e i nostalgici del regime poi hanno rigettato in toto la responsabilità dello sfacelo nazionale sul re, su Badoglio e sugli antifascisti, con un’operazione disinvolta e mistificante, nell’intento di nascondere la questione di fondo: la paternità mussoliniana del disastro militare, sottolineata in un saggio del 1947 da Gaetano Salvemini con lo stile brillante che gli era proprio: Alla caduta del regime fascista succedettero mesi di sfacelo. Di questo sfacelo furono responsabili quel re, quel Badoglio, quei generali che di Mussolini erano stati per ventun anni i complici necessari, e quasi tutti erano stati prescelti da Mussolini stesso come suoi collaboratori. Per attribuire agli antifascisti la responsabilità di quello sfacelo, bisogna essere assolutamente ostili alle posizioni intellettualistiche e al moralismo politico. [...] Quei disgraziati ereditarono una situazione resa disperata dalla disfatta militare, di cui il regime fascista fu il solo responsabile; neanche il Padreterno avrebbe potuto rimediare alle rovine lasciate in eredità dall’ostetrico4.
A complemento del giudizio salveminiano vi è una considerazione di Ferruccio Parri, del Parri ex-ufficiale dell’esercito nella Grande Guerra, che riconduce il collasso dell’8 settembre al deterioramento, all’involuzione psicologica e all’annullamento del senso di responsabilità determinati dal fascismo, con l’annullamento della coscienza critica di una nazione e dei suoi cittadini. Le considerazioni di Parri erano originate dal
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crollo della 4a armata, stanziata tra la Francia meridionale e il Piemonte, «poderosa armata composta da sei divisioni piuttosto bene equipaggiate», scioltasi come neve al sole dopo l’abbandono da parte dei suoi comandanti5. Sullo schermo immaginiamo di vedere proiettati gli atteggiamenti della popolazione. Ci attenderemmo di notare comportamenti solidaristici nei confronti dei soldati auto-smobilitatisi, ma la prima scena mostra ben altro. La notizia dell’armistizio è coincisa con una constatazione incredibile: l’improvvisa scomparsa di qualsiasi autorità. In un frangente così atipico la reazione istintiva è di incredulità, di entusiasmo, di festa. In un numero straordinario di località la popolazione scende per strada e, come guidata da un impulso irrefrenabile, si dirige verso caserme e magazzini militari, per accingersi a un saccheggio metodico e meticoloso. Tutto ciò che è trasportabile, a prescindere dalla sua effettiva utilità per i civili, è prelevato, tesaurizzato e nascosto accuratamente. La documentazione disseminata negli archivi comunali dimostra la diffusione di un simile comportamento. Quando poi i tedeschi, tra il 10 e l’11 novembre, prendono il controllo della situazione, intimano alle popolazioni di riportare gli oggetti nei municipi. In alcuni archivi di comuni montani della Lombardia ho rinvenuto elenchi chilometrici di beni restituiti: dai materassi alle pentole sino all’ultimo spillo, a riprova dell’arrendevolezza e del timore provati dinanzi all’occupante. Al crollo dell’apparato statale fanno da contrappeso due istituzioni: la famiglia, società naturale preesistente alle istituzioni politico-amministrative, e la parrocchia, terminale periferico della Chiesa. La famiglia è al tempo stesso la meta agognata dei soldati fuggiaschi e l’organismo che, particolarmente nelle vallate montane, consente ai militari di indossare abiti borghesi, di rifocillarsi e di proseguire l’odissea verso la famiglia d’origine. Di fatto questa solidarietà è di segno prettamente femminile: sono soprattutto le madri a fornire aiuto; madri che, nel soccorrere i giovani militari allo sbando, hanno davanti agli occhi i loro figli arruolati nelle forze armate e auspicano che essi siano soccorsi in modo egualmente caritatevole. La generosità nei confronti degli sconosciuti bisognosi di assistenza è un dato generale, con isolate eccezioni, la maggiore delle quali è
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rappresentata dall’Alto Adige, dove – a dimostrazione che l’8 settembre è una cartina al tornasole di vizi italici e di difetti del processo di unità nazionale travagliato, cui il fascismo aveva impresso un’accelerazione liberticida e faziosa – questi soldati, impegnati disperatamente nel ritorno a casa, divengono oggetto di una vera e propria caccia da parte dei civili. Tra le testimonianze più toccanti vi è quella di Mario Rigoni Stern, all’epoca dislocato in Albania, indeciso tra comportamenti contrapposti: da una parte egli, in quanto sottufficiale, si sente responsabile verso i ragazzi militarmente da lui dipendenti, dall’altra non osa portarli con sé, perché ha scelto di tornarsene a casa armato di fucile, il che significa esporsi a rischi gravi in caso di cattura da parte tedesca; dopo molte esitazioni, Rigoni Stern, una volta ricondotti i suoi ragazzi dentro i confini italiani, se ne va per suo conto, sennonché nel transitare attraverso le vallate di Bolzano, è individuato da contadini locali armati di fucili e cannocchiali: I contadini del Sud Tirolo non furono con noi come i contadini ucraini. Mentre scendevo in Val di Vizze, che per forza di cose ero costretto a valicare e che sarebbe stata la prima di altre cinque, mi sentii sparare sopra la testa e poi intimare l’alt. Uscirono dei civili armati di fucili da caccia a cannocchiale: mi aspettavano come un capriolo al pascolo6.
Il prigioniero viene consegnato ai tedeschi e si ritrova rinchiuso nel campo da tennis di Colle Isarco, adibito ai campo d’internamento: ha la sorpresa di ritrovarsi insieme ai suoi soldati, essi pure passati attraverso analoga esperienza. L’episodio è la spia di una situazione generale, indizio rivelatore degli sbocchi di un processo di unificazione nazionale condotto nel modo che sappiamo. Per quanto concerne il ruolo solidaristico adempiuto dalle parrocchie, l’atteggiamento solidaristico esplicato da una parte significativa del clero è esemplificato da don Carlo Comensoli, arciprete di Cividate Camuno e figura chiave della resistenza bresciana. Arciprete di Cividate Camuno, località della media Valcamonica, passaggio obbligato di militari anglo-americani e di ebrei verso il confine svizzero, si prodiga, di concerto con diversi concittadini, a favore dei bisognosi. Il suo diario è una fonte preziosa di informazioni sugli eventi giornalieri; egli lo
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compilava quotidianamente e, per sottrarlo a occhi indiscreti, lo riponeva nella «tomba dei preti», la cripta con le salme dei suoi predecessori. Questa l’annotazione del 10 settembre: Incomincia il triste passaggio dei soldati italiani che hanno abbandonato bandiera, caserma, accampamento. Sono i miseri resti del glorioso esercito italiano. Passano vestiti in tutte le foggie, persino da donne, preti, frati! Molti mostrano i segni d’un lunghissimo viaggio. I miei parrocchiani si tolgono il pane di bocca per venire loro in aiuto. Sono numerosi i fuggiaschi che battono alla porta dell’arciprete. Anche molti Cividatesi arrivano a casa attraverso le più strane ed alle volte drammatiche peripezie. Precisamente ne arrivano 53, ma ben 61 restano in mano ai tedeschi. Oltre ai soldati italiani sbandati e fuggiaschi, sono torme di prigionieri alleati che dai monti e dal treno cominciano ad affluire. Fuggivano dai campi di concentramento e cercavano la via della Svizzera. Sono di ogni razza, di ogni grado e di ogni lingua. Tutti hanno lo stesso trattamento, quello dell’amore che diventa misericordia a contatto col bisogno7.
Le annotazioni dei giorni successivi testimoniano la solerzia con cui il reverendo soccorre militari alleati fuggiaschi; per tre giorni ospita «tre maggiori dell’esercito serbo, ortodossi, internati, distinti», da lui diretti verso Edolo con esiti positivi: «Vengo a sapere che i miei prigionieri sono arrivati in Svizzera. Deo Gratias! » (23 settembre). A fine mese don Comensoli coglie un mutamento di segno nel flusso degli ex militari: «Si sente di sbandati, fuggiaschi, volontari che si riuniscono sui monti - cercano pane e armi. Sono forse inizi d’un futuro esercito di liberazione? Il popolo li fa salvare a centinaia...» (30 settembre). L’arciprete, divenuto il punto di riferimento delle Fiamme Verdi, riuscirà a costruire una catena solidaristica che, dipartitasi da Brescia, attraversa le vallate bresciane, valica il Passo dell’Aprica, scende in Valtellina e oltrepassa il confine italo-elvetico. Alle cronache quotidiane di don Comensoli si affiancano una quantità di scritti diaristici di suoi confratelli: tra i più interessanti segnalo il diario del padovano don Luigi Rondin8: le cronache del settembre 1943 restituiscono con immediatezza il rimescolamento di sentimenti e di situazioni nella città veneta. Altra fonte ecclesiastica di prim’ordine sull’8 settembre è costituita dalle relazioni dei cappellani militari, oggi conserva-
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te presso l’archivio dell’Ordinariato Militare d’Italia. Ognuna di esse spiega le modalità dello sbandamento del reparto cui il religioso era preposto per l’assistenza spirituale. Queste relazioni sono state poco utilizzate, a dispetto della loro estrema importanza9. Vi sono infine, sempre sul versante delle fonti ecclesiastiche, i libri cronistorici parrocchiali e gli epistolari dei parroci coi loro superiori diocesani: realtà indagate, nello scorso decennio, soprattutto in ambito toscano, con pubblicazioni di estremo rilievo che tuttavia sono state praticamente ignorate dalla storiografia, relegate nel limbo della storia locale o nel ghetto della storia ecclesiastica10. Il giovane che voglia oggi studiare in un’ottica nuova le dinamiche dell’8 settembre 1943 potrà dunque avvalersi di documentazioni di prim’ordine, ma dovrà, per comprenderne le implicazioni soggettive, ascoltare e raccogliere le vicende di vita dei soldati passati per quella sconvolgente esperienza. Storie spesso avvincenti, particolarmente nel racconto delle peripezie di quanti erano dislocati in territori d’occupazione e s’ingegnarono nei modi più impensati per tornare in patria, sfiduciati verso ogni altra entità che non fosse la propria famiglia. Note 1. Sul diario inedito di Publio Magini cfr. M. Franzinelli, Guerra di spie. I servizi segreti fascisti, nazisti e alleati 1939-1945, Mondadori, Milano 2004, p. 161-172. 2. P. Magini, Testimonianze del mio tempo , diario inedito, conservato presso l’archivio familiare Magini, Roma. 3. Lo stralcio diaristico del generale Puntoni figura in Zangrandi, 1943: 25 luglio-8 settembre , Feltrinelli, Milano 1964, p. 422. 4. G. Salvemini, L’Ostetrico e la Partoriente , in «Controcorrente» (luglio 1947), poi rifuso nel volume VIII delle Opere di Salvemini: Scritti vari 1900-1957, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 741-747. 5. F. Parri, Scritti 1915-1975, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 538-539. 6. Dal ricordo di Mario Rigoni Stern sull’8 settembre, in «La Stampa», 11 settembre 1983. 7. C. Comensoli, Diario 8 settembre 1943-30 aprile 1944, a cura di M. Franzinelli, Circolo Culturale Ghislandi, Breno 2000, p. 19. 8. L. Rondin, Diario 1921-1948, a cura di P. Gios, Neri Pozza, Vicenza 1994, pp. 309-318.
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Dissoluzione dell’esercito e solidarietà popolare ai soldati 9. M. Franzinelli, Il riarmo dello spirito. I cappellani militari nella seconda guerra mondiale , Pagus, Treviso 2001. 10. Segnalo, a titolo esemplificativo, per la valorizzazione del Liber Chronicus il lavoro curato da M. Diaferia 1943-1945: Pontremoli, una diocesi italiana tra Toscana, Liguria ed Emilia attraverso i libri cronistorici parrocchiali, Istituto storico della resistenza Apuana, Pontremoli 1995; per gli epistolari in ambito diocesano l’antologia a cura di G. Villani Giorni di guerra 1945-1945. Lettere al Vescovo , Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1992.
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1. I salvataggi dell’8 settembre C’è una perfetta coincidenza fra il titolo di questo saggio e il debutto della resistenza civile in Italia. Mi riferisco ai giorni successivi all’8 settembre, quando centinaia di migliaia di soldati si sbandano sul territorio nazionale cercando di sfuggire a fascisti e tedeschi, e prende forma una mobilitazione di base per accoglierli, nasconderli e rivestirli in borghese, una mobilitazione così vasta che il paesaggio ne porta il segno: Luigi Meneghello ricorda che si vedevano file praticamente continue di gente [...] tutti abbastanza giovani, dai venti ai trentacinque, molti in divisa fuori ordinanza, molti in borghese, con capi spaiati, bluse da donna, sandali, scarpe da calcio. Abbondavano i vestiti da prete [...]. Pareva che tutta la gioventù italiana di sesso maschile si fosse messa in strada, una specie di grande pellegrinaggio di giovanotti, quasi in maschera, come quelli che vanno alla visita di leva1.
Fino agli anni Novanta, di quell’evento si trovavano tracce, esili, solo nella memorialistica. Eppure si tratta della più grande azione di salvataggio della nostra storia2, condotta quasi interamente al di fuori di indicazioni e circuiti politici, grazie a reticoli parentali, di quartiere, di comunità, di colleganza, e con rischi altissimi; se si veniva scoperti ad aiutare un militare o un prigioniero alleato evaso da un campo di concentramento italiano, la pena prevista era quella di morte – anche per questo, ad agire era una minoranza, che non può essere usata per accreditare la tesi di un popolo unanimemente schierato contro fascisti e tedeschi. Le motivazioni all’aiuto possono essere le più diverse, dalla consapevolezza politica all’odio contro gli occupanti, dalla pietas cattolica e laica all’orgoglio nazionale. Molto diversi anche gli attori individuali e collettivi: famiglie, clero locale, mag-
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giorenti di paesi e di piccole città, impiegati pubblici, che in Trentino riempiono centinaia di fogli di via con i nomi degli sbandati, per farli viaggiare verso casa come se fossero in regolare licenza3. In primo piano, un numero imprecisato ma vasto di donne cosiddette «comuni», un termine che nell’Italia dei primi anni Quaranta significa donne che ancora mantengono attivi i rapporti diretti, faccia a faccia, ma che ormai vivono in un mondo percorso dai messaggi e dalle relazioni a distanza tipici della società di massa, e in quel frangente si trovavano immerse nella dicotomia fascismo/antifascismo. Mentre i salvataggi dell’8 settembre sono un fenomeno esclusivamente italiano, riguardano tutta Europa altre forme di lotta non armata, o resistenza civile, secondo la concettualizzazione di Jacques Sémelin – manifestazioni contro il carovita, assalti a treni carichi di viveri, rifiuto da parte di insegnanti, medici e sportivi, di iscriversi ad associazioni professionali nazificate, aiuti alla resistenza armata, organizzazione di scuole clandestine in Polonia contro il disegno nazista di ridurre quel popolo alla condizione servile. Riguarda tutta Europa anche il ritardo con cui queste forme di lotta arrivano all’attenzione della storiografia legata alle università e alle istituzioni culturali come i centri e gli istituti per lo studio della resistenza. Ma non si tratta di una congiura del silenzio, di una volontà perversa di esclusione. È cecità. Gli elementi della mobilitazione dell’8 settembre che oggi ci colpiscono – assenza delle armi, eterogeneità dei protagonisti, marginalità dei circuiti politici, importanza dell’iniziativa personale – la rendono invisibile prima ai resistenti, poi alle categorie della storia politica. Per decenni, gran parte degli studiosi aderisce infatti alle idee base della resistenza, presentandola come un evento quasi esclusivamente armato, quasi interamente maschile: fisionomia che più si addice alla tesi della violenza rifondatrice, secondo cui lo strumento decisivo per la rigenerazione collettiva è lo spargimento di sangue, il proprio e quello del nemico4; mentre il primato conferito al legame politico in senso classico – di partito, di gruppo, di organizzazione di massa – offusca ogni altra forma di concertazione, in particolare i reticoli informali, nervature tenaci e complesse della coesione sociale e luoghi elettivi della presenza e dell’autorevolezza delle donne.
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A questo proposito, tengo a ricordare la storia di Rosa S., un’anziana torinese di classe operaia, che non esita ad aiutare i primi militari che bussano alla sua porta, e subito si rende conto del carattere di massa dell’emergenza. Fa allora incetta di indumenti borghesi in tutto il quartiere, da conoscenti e vicini fino alle suore di un istituto di carità, e trasforma la propria casa in un efficientissimo centro di raccolta, dove sull’onda del passaparola, gli sbandati si presentano sempre più numerosi. Rosa S. li sfama, li fa riposare in un dormitorio improvvisato nelle cantine dell’edificio, li riveste da capo a piedi, preoccupandosi persino di tingere in nero le scarpe militari, punto debole di ogni travestimento (quanto alle armi, le butta nei tombini). Poi li accompagna uno per uno alla stazione, dove cerca di eludere i controlli polizieschi baciandoli e abbracciandoli come fossero parenti in visita5. È un exploit organizzativo di rara efficacia; ed è un atto di rilievo politico. Ma nell’Italia del 1943-1945, dove preme la necessità di riscattarsi dalla primogenitura del fascismo esaltando quella che veniva ritenuta la forma più alta di antifascismo, la lotta armata, l’idea che la guerra non si combatta solo con le armi e che la politica non sia solo quella organizzata, è lontana, e la cosa non può stupire. Il punto è però che quell’idea resterà a lungo estranea anche alla storiografia dell’antifascismo e della resistenza e all’opinione comune. 2. Una storiografia distratta Questo quadro resta pressoché immutato per decenni, dagli anni Cinquanta, quando il clima di processo alla resistenza mantiene in primissimo piano la lotta armata e i suoi valori, agli anni Sessanta e Settanta, che vedono la concentrazione sul tema della resistenza tradita e sulla radicalità di classe. Più degli orientamenti politici e culturali di ciascuna fase, pesa una forma mentale che neppure concepisce di poter estendere il titolo di resistente a chi non abbia portato le armi. Per i 700.000 militari internati in Germania dopo l’8 settembre, la cui stragrande maggioranza rifiuta di arruolarsi nell’esercito di Salò, si usa al più l’espressione «resistenza passiva», che per la cultura occidentale ha un segno negativo e che risulta davvero stonata. Come si fa a definire «passivo» un no opposto ai nazisti dall’interno di un campo di prigionia? Neppure l’uscita de La ba-
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nalità del male 6 di Hannah Arendt, in cui si racconta di come in Danimarca migliaia di persone, per lo più senza alcuna esperienza di clandestinità, si siano mobilitate per traghettare in Svezia i loro concittadini ebrei, incrina queste posizioni. Credo sia inutile dilungarsi ancora su questa fase, se non per richiamare due aspetti. Il primo è la separatezza praticamente totale fra la storia accademica e il lavoro di ricerca sulle lotte non armate che viene svolto fuori delle università, in area non violenta e cattolica, e che merita il titolo disusato di «storia militante» – lo stesso Sémelin ha una formazione e una provenienza simili. A giudicare dalle bibliografie e dai programmi di seminari e convegni, i due filoni sono separati anche sul piano editoriale. Mentre molte opere del primo sono pubblicate da Einaudi, Laterza, Feltrinelli, quelle del secondo trovano sbocco presso piccole e piccolissime case editrici, per lo più cattoliche, con le ovvie conseguenze sulla diffusione. Il secondo aspetto riguarda la storia delle donne. Anche al suo interno, gli studi sulle lotte non armate e addirittura quelli sulla guerra sono rimasti a lungo isolati. E sì che fin dagli anni Settanta alcune studiose avevano denunciato il silenzio sulla resistenza femminile7. Ma nella nostra comunità dominava la diffidenza verso i binomi che accostano le donne agli eventi della cosiddetta grande storia – gli intrecci donne-guerra, donne-resistenza e così via – quasi fossero un cedimento alle gerarchie di rilevanze. Anche per questo la storiografia reistenziale, che vive gli stereotipi sulla femminilità in modo meno conflittuale e vitale dei resistenti, ha potuto continuare tranquillamente sulla sua strada: ignorando o quasi le partigiane, e ancor più i gruppi di difesa della donna e le donne dette «comuni», spiegando l’opera femminile in termini di rapida politicizzazione (senza però verificarla), oppure di naturale oblatività femminile e di umanitarismo (seducenti parole tuttofare che andrebbero a loro volta spiegate, perché quei sentimenti non scattano sempre né per chiunque), e rimuovendo il corpo femminile. La partigiana ideale è la protagonista dell’Agnese va a morire 8, il romanzo modello sulla resistenza delle donne: informe, materna, in età non sospetta. Le altre, come è risaputo, inquietano. Giovani, uscite non episodicamente dal privato e mischiate ai maschi nelle formazioni, sfidano troppe costruzioni ideologiche, a partire da quella per cui donne e
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uomini devono avere spazi separati, e fanno a tal punto da catalizzatore del biasimo antipartigiano che, in ossequio alla mentalità diffusa, vengono a volte messe ai margini a emergenza finita. Che il racconto della resistenza come nuova epopea nazionale nasca su questa rimozione del femminile non ha mai occupato i pensieri degli storici. 3. Il disgelo È lungo la seconda metà degli anni Ottanta che inizia un graduale cambiamento, sull’onda della crisi della storia politica, di un nuovo interesse per la storia sociale e per un’antropologia del resistente più complessa – sono gli anni in cui Claudio Pavone anticipa in alcune sedi le tesi che svilupperà in Una guerra civile 9. Si gettano così le basi di una svolta che matura nella seconda metà degli anni Novanta, grazie a una pluralità di fattori di diversa natura e peso, dallo sgretolamento di alcuni tabù storiografici innescato dalla fine della guerra fredda10, alla crescita degli studi dell’area non violenta e delle ricerche delle donne, e non ultimo alla messa a fuoco del concetto di resistenza civile, che riunisce sotto un titolo forte iniziative senza nome, azioni ritenute sussidiarie e grandi lotte. Inizialmente accolto con diffidenza, quel concetto comincia a essere guardato con più equilibrio e con un’attenzione nuova, sia pure guardinga. Contribuiscono potentemente al disgelo, anche se non nominano la categoria di resistenza civile, due opere di Tzvetan Todorov: Di fronte all’estremo , in cui è messa a tema la distinzione fra la «virtù eroica» del combattimento e la «virtù quotidiana» della cura11, e Une tragedie française 12, in cui l’autore ricostruisce una storia di rappresaglie, controrappresaglie e delle faticose mediazioni per sventarle in una piccola città della Francia occupata. Partendo dalla distinzione classica fra atti improntati all’etica della convinzione e atti mossi dall’etica della responsabilità, Todorov indica due tipi di condotta morale: una morale del sacrificio, in cui è più o meno inconsapevolmente sottinteso che la morte dell’individuo è indispensabile alla sopravvivenza della comunità, e una morale del rischio, senza sacralità né violenza, in cui si affrontano pericoli calcolati per prendersi cura della vita e della dignità di altri esseri umani. L’aspetto più interessante è che la separatezza si incrina. Ricordo sparsamente un convegno organizzato a Roma nel 1995
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dall’Istituto Gramsci, a cui partecipò Jacques Sémelin; il seminario internazionale Résistance, Widerstand, resistenza, del Goethe Institut di Torino nell’aprile 1995; un corso di aggiornamento per insegnanti organizzato, sempre a Torino, dall’Istituto della resistenza piemontese e dal Centro studi per la pace «Domenico Sereno Regis» nei mesi a cavallo tra 1996 e 199713. Non sono certo i soli casi. Scorrendo le bibliografie, si notano rimandi che testimoniano un certo interscambio, mentre singole opere mostrano una compresenza inedita di nomi e di temi. Sono comunque così poche che posso permettermi di indugiare su quello che mi pare un testo simbolo, La resistenza non armata, che raccoglie gli atti del convegno omonimo tenuto a Roma nell’ottobre 1994, e che esemplifica difficoltà e potenzialità del momento14. Un libro smilzo, stampato in economia, evidentemente senza il sostegno istituzionale di solito concesso agli studi sulla resistenza; ma fitto di spunti nuovi. Gli autori sono sia studiosi sia protagonisti, da Lidia Menapace15 a Carla Capponi, da Sémelin a Vittorio Emanuele Giuntella, a Antonio Parisella, Enrico Peyretti, Antonino Drago e molti altri. Grazie a La lotta non armata si incontrano o si rincontrano fenomeni e eventi. Per esempio, quando in Olanda, nel 1941 il commissario del Reich volle imporre ai medici di aderire a un organismo professionale nazificato, questi risposero con un durissimo braccio di ferro, che portò ad arresti e deportazioni, ma si concluse con lo svuotamento totale del progetto collaborazionista. Oppure quando anche in Italia la pretesa nazista di dominio e sfruttamento sulla società incontrò un antagonismo non tutto ricomprensibile e rappresentabile dalla lotta armata. Fu così per gli insegnanti dei licei romani, che crearono nel gennaio 1944 un’associazione e un giornale clandestino in cui si parlava, oltre che di obiettivi generali, dell’organizzazione democratica della scuola. Fu così per i cittadini che, sempre a Roma, trasformano la soffitta della chiesa di san Gioachino in un rifugio capace di ospitare decine di ricercati o per i valligiani del Trentino-Alto Adige, che nonostante la fragilità delle formazioni locali, realizzano varie forme di resistenza senza armi. Queste e altre storie sono narrate da un concerto di voci: gappiste e comandanti partigiani parlano di lotte di donne e di studenti non come del solito contributo accessorio, ma co-
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me di una componente autonoma e a pieno titolo della resistenza; studiosi di diverso orientamento presentano ricerche e discutono sui diversi termini – resistenza disarmata, resistenza civile, lotta non armata – in uso per indicare l’area dei comportamenti conflittuali inermi; una partigiana e un esponente della non violenza riflettono sulla distinzione fra la guerra, in cui l’uso delle armi è costitutivo, e la resistenza, dove è puramente strumentale, e sul diritto a ribellarsi in qualsiasi contesto, sia non democratico sia democratico. Il rischio è però che libri come questo abbiano vita breve e una circolazione ristretta, esito tanto più irritante se si pensa al denaro investito da varie amministrazioni locali per pubblicare e promuovere centoni formato gigante, patinati, zeppi di fotografie (e di svarioni), tipici prodotti residuali dell’istituzionalizzazione della resistenza. Nella produzione del cinquantennale più visibile e più diffusa, il tema della resistenza civile compare ancora così poco che una ricognizione è presto fatta. Mi limito a citare alcuni testi, Alle origini della repubblica di Claudio Pavone, resistenza e postfascismo , di Gian Enrico Rusconi, 25 aprile. Liberazione , di Pietro Scoppola16, diversi fra loro, ma accomunati dall’attenzione al nesso identità nazionale-resistenza, e alle ragioni del suo indebolimento agli occhi di tanti italiani. Ciascuno attraverso la propria strada, gli autori arrivano al nodo dell’attendismo, visto come un terreno vasto e mutevole, in cui molti vivono la guerra e la resistenza come un flagello da cui ripararsi restando il più possibile estranei; altri mostrano un orientamento alla «resistenza passiva» propizio alla lotta armata, o condividono momenti di solidarietà e di protesta – magari loro malgrado, perché nella guerra civile difficilmente è possibile chiamarsi del tutto fuori. E neppure la concentrazione esclusiva sulla sopravvivenza va giudicata in modo moralistico. Dieci anni fa, queste aperture non erano affatto scontate. Il tema della resistenza disarmata filtra attraverso questo approccio, e non per caso, visto che il fenomeno nasce spesso nello stesso bacino sociale dell’attendismo e ne è stato considerato a torto parente. Si chiede perciò una riflessione sui comportamenti delle popolazioni molto più ampia di quanto era avvenuto fino allora – il che equivarrebbe ad affrontare senza remore il tema del consenso alla resistenza, senza dare
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per scontato che la scelta armata si legittimasse automaticamente, senza cedere a generalizzazioni sul carattere nazionale italiano e sulle sue tare o pregi d’origine. Riflettono questo clima più libero, e lo stimolano, alcune ricerche sulla memoria antipartigiana diffusa in comunità vittime di stragi naziste, tema delicatissimo affrontato con uno sguardo solidale ma critico fino a pochi anni prima impensabile17. Nell’insieme, si può dire che fra il concetto di resistenza civile e quello di resistenza tout court, fra i criteri e i referenti sociali che sono alla base dell’uno e dell’altro, iniziano in quegli anni prove di dialogo importanti per tutti e due i filoni, e che lavori come quelli che ho citato, e altri, offrono una robusta barriera contro l’impoverimento della storiografia resistenziale, e un contributo al superamento di categorie politiche ancora influenti. Che senso ha, per esempio, scontrarsi sulla consistenza numerica della resistenza, quando tutti sanno che i criteri usati per assegnare le qualifiche partigiane riconoscevano quasi unicamente l’azione in armi e legittimata dal legame politico? Cosa sappiamo dei tanti per i quali l’antifascismo esistenziale non è stato una tappa verso la politica in senso classico, ma un orientamento costante che non sbocca in altre forme di impegno? 4. La storia delle donne Mi fa piacere sottolineare il ruolo delle storiche in questo processo. Sono state alcune di noi a introdurre in Italia il concetto di resistenza civile, ad averlo ampiamente «reclamizzato», e soprattutto ad averlo usato nella ricerca, proiettandolo sulle forme di lotta e sui soggetti (donne, cattolici, dipendenti pubblici, cittadini comuni) meno riconosciuti dalla storiografia. Penso a quegli impiegati e impiegate comunali romani che, ancora prima di essere coordinati dal Comitato di liberazione, organizzarono un ingegnoso sistema per procurare ai ricercati una «regolare» falsa identità, scegliendo come domicilio edifici bombardati e come luogo di provenienza irraggiungibili comuni a sud del fronte; penso agli sterratori del Verano, che disseppellirono le bare dei fucilati cui i nazisti vietarono di apporre segni di riconoscimento, le aprirono, prendendo nota delle ferite, dei tratti fisici, dei vestiti, per consentirne l’identificazione in futuro18. E penso alle tantissime donne co-
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me Rosa S., le cui vicende si sono tramandate esclusivamente grazie alla memoria familiare. Si devono ancora alla storia delle donne i primi tentativi di comparazione sullo statuto del corpo nella resistenza armata e non armata. Nella prima, come in ogni guerriglia, la norma è l’occultamento, punteggiato da apparizioni repentine dei combattenti che altrettanto rapidamente cercano di dileguarsi. La norma è anche un corpo giovane, sano, resistente, preferibilmente maschile: non tutti possono sparare, lasciare la famiglia e la casa, vivere in clandestinità, reggere grandi fatiche, e molti hanno infatti perso la vita per non aver potuto portare a termine una traversata in alta montagna. Proprio su questo dato innegabile si fondano le argomentazioni dei molti che hanno scelto di non schierarsi. Nella resistenza civile, invece, il corpo è molto meno imperativamente connotato: si può essere anziani, deboli, fisicamente inetti, ammalati, e tuttavia non inutili, non esclusi. Ricordo il bellissimo racconto di una resistente romana incaricata della diffusione di stampa clandestina: era così miope che una volta arrivò a scambiare il luccichio metallico di un ascensore per i galloni di un portinaio; ma sia pure tra infinite ansie riuscì a portare a termine il suo compito19. Sembra un episodio di dettaglio, eppure basta a minare i discorsi autogiustificativi, a complicare in positivo e in negativo il tema del radicamento sociale di fascismo e antifascismo. Certo non siamo state né esitanti né avare nel mettere in valore il concetto di resistenza civile. A sua volta, quel concetto si è aperto al confronto con gli studi delle donne. Inizialmente, Sémelin lo applicava soltanto alle mobilitazioni istituzionali e alle iniziative tendenzialmente di massa e politicamente organizzate, riservando a quelle individuali e di piccoli gruppi lo statuto più debole di disubbidienza o dissenso; oggi ammette volentieri che quell’accezione lasciava in ombra molti soggetti a pieno titolo attivi, e che è necessario ricomprendere anche le azioni solitarie o di microgruppi, l’area a maggiore presenza femminile. 5. Un momento di impasse? Dove siamo ancora molto indietro è nella ricerca su quella forma alta di resistenza che è il salvataggio degli ebrei, arrivata al pubblico attraverso i film su Perlasca, Palatucci, Nonan-
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tola, e in genere conosciuta in modo approssimativo. In Francia, nell’allestimento di uno dei principali musei della resistenza si è dato grande spazio alla storia di un paese, Le Chambon, che sotto la guida del pastore protestante André Trocmé nascose e protesse molte famiglie ebree per tutta la durata della guerra. In Italia, nell’approssimarsi del sessantesimo anniversario della liberazione, non ho ancora sentito di iniziative di questo rilievo. Nelle manifestazione del Giorno della Memoria, sui media e nei discorsi celebrativi si è ovviamente parlato dei salvatori, ma per lo più in termini davvero insoddisfacenti. L’aspetto più falsante è la pretesa di «spiegare» il vuoto di conoscenze con il naturale riserbo dei protagonisti. Argomentazione inverificabile, che si arroga il diritto di decidere quali siano state le motivazioni altrui; aleatoria – persone che non si assomigliavano affatto fra loro, che non erano in alcun modo riconducibili a un determinato «tipo» sociale e umano20, avrebbero però avuto in comune la discrezione; strumentale – se dei salvatori non si è mai parlato sarebbe responsabilità loro, non degli storici. La verità, ovvia ma non sempre riconosciuta, è che solo in rarissimi casi si è chiesto ai salvatori di raccontare; nel dopoguerra non si coglieva l’importanza della loro opera e, quando si è arrivati a capirla, ci si è resi conto che avrebbe messo in discussione il quieto vivere storiografico, e prima ancora il quieto vivere morale. Sono troppi quelli che alla domanda implicita dei salvatori: «lei cosa avrebbe fatto al mio posto?», dovrebbero rispondere che al loro posto si sono trovati e non hanno avuto in mente di poter fare qualcosa. Quella dei salvatori non è una memoria indolore, e non si può banalizzarla o psicologizzarla. Sarebbe ora di rimediare al rimediabile con una ricerca di respiro, e spero che gli istituti per lo studio della resistenza e dell’antifascismo se ne facciano promotori o collaboratori. Se c’è una vicenda capace di costringerci all’autocoscienza al di là delle interpretazioni indulgenti o avvilenti dell’identità italiana, è quella dei salvatori. A parte questo punto niente affatto secondario, mi sembra che la situazione degli ultimissimi anni sia di stallo e che la separatezza fra studi di area non violenta e di area «accademica» stia riaffacciandosi. In molti convegni universitari e di isti-
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tuti della resistenza dimentichiamo (tutti e tutte) di invitare studiosi di area non violenta, mentre nella bella rivista on-line La non violenza è in cammino si propongono periodicamente bibliografie della resistenza, in cui non compaiono molti testi aggiudicabili al secondo filone e il fatto che altri esponenti della non violenza intervengano per sollecitare a inserirli mostra che esiste comunque una volontà di scambio e riconoscimento. Ma la mia impressione è che ci siamo immobilizzati sulle acquisizioni degli anni Novanta. È vero che il termine «resistenza passiva» ha perso credito, la gerarchia armati-inermi non è più intoccabile, mentre si ammette che bisogna ridefinire le caratteristiche e i confini della minoranza attiva tenendo conto delle lotte non armate; è vero che si sono affermati un concetto di resistenza plurale, una nuova antropologia del resistente, maggiore attenzione alla storia delle donne. Ma la polarità armati-inermi risulta davvero incrinata soltanto quando l’inerme coincide con le donne; se si tratta di comparare uomini a uomini, quella gerarchia regge, almeno a giudicare dallo stato delle conoscenze. Nel frattempo si va facendo strada fra gli storici italiani la tendenza a ritenere la resistenza civile un comportamento e un oggetto storico quasi esclusivo delle donne. Noi stesse corriamo il rischio di creare una nuova enclave e di incidere troppo poco nella discussione in atto. Degli attori della resistenza civile ci si occupa di rado e si sa poco, e quel poco a volte emerge per caso, come avvenne nel 1998 con la storia dell’agente di custodia del carcere milanese di san Vittore, Andrea Schivo, deportato e ucciso a Flossenburg per aver «agevolato i detenuti politici ebrei coi loro bambini [...] soccorrendoli con delle uova, marmellata, frutta, di tutto quanto poteva essere possibile e utile»21. Forse è ora di chiedere le «pari opportunità» per gli uomini. Certo è il momento di riattraversare ancora una volta guerra e resistenza, misurando la seconda in modo diverso sia sul piano della partecipazione numerica sia su quello dei significati. Perché sono molti, all’interno della lotta armata stessa, i comportamenti che sfuggono alla contrapposizione fra chi prende e chi rifiuta le armi. Pensiamo al tema poco studiato delle tregue stipulate fra resistenti e nazisti o fascisti: sotto il termine tregua convivono situazioni di crisi militare e manovre contro formazioni partigiane concorrenti, ma anche il pro-
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posito di contenere la distruttività, di dare un po’ di respiro alla popolazione e all’economia locale. Un discorso simile può valere per l’elasticità dell’esercito partigiano: se la resistenza civile è per eccellenza una realtà a confini mobili, anche dalla resistenza armata si entra e si esce. Dove le formazioni sono stanziali, ci sono partigiani che al momento della vendemmia e della mietitura tornano a casa, per poi rientrare in banda a lavoro finito: rispetto agli eserciti regolari è un modello opposto, ed è proprio quello che contribuisce ad assimilare il partigiano al combattente popolare. Sono argomenti non nuovi, ma da mettere oggi in primo piano. Non so se questo sia un momento favorevole. Sentendosi sotto attacco, l’opinione antifascista vive una fase che mi sembra pericolosamente difensiva, e in alcune sue componenti tende a irrigidirsi, rivendicando un’ortodossia che sembrava problema di altri tempi; in qualche occasione si torna, per esempio, a polemizzare sul tema della guerra civile, e non è sempre facile esprimere un dissenso. La tesi secondo cui la ricerca sarebbe altra cosa, protetta dalle rigidezze e dalle pressioni, non mi convince del tutto. Ho partecipato a più di un convegno, incontro pubblico, lezione, in cui chiunque si rendeva subito conto di quel che si doveva dire o non dire per ottenere consensi, o per evitare disapprovazioni – che per di più possono venire da amici, da persone cui teniamo, cui siamo vicini e grati. Impossibile non provare ansia, e l’ansia è nemica di quel libero fluire di connessioni impreviste e magari azzardate in cui consiste il cuore della ricerca. C’è un ultimo aspetto su cui mi preme intervenire, le visioni della violenza e della non violenza oggi prevalenti. Da un lato, la tesi secondo cui non c’è progetto o ideale collettivo che giustifichi lo spargimento di sangue, è diventata negli ultimi anni un luogo comune cui rendere ritualmente omaggio (salvo rinnegarlo nei fatti), con il risultato di svilire la tragicità delle scelte22. D’altro lato, si sono diffuse interpretazioni povere e distorte della non violenza, che la spogliano della sua portata «rivoluzionaria». Penso alle componenti mediaticamente più visibili del movimento no global, che tendono a presentare la non violenza come una pura tecnica di lotta, quasi si trattasse di abbandonare in una certa occasione determinati strumenti e comportamenti, salvo riassumerli in altre, quando lo scontro
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promette di farsi duro. Il che rischia di far passare un’immagine della non violenza come passività davanti alla repressione, come assenza di conflitto, quando ne è invece una forma, praticata attraverso complessi procedimenti mentali e materiali, e a volte più fruttuosa di altre modalità di lotta. A patto che venga capita. La guerra del Kosovo ha avuto le sue radice principale nella politica serba, ma si lega anche alla sconfitta della resistenza civile kosovara, cui non è stata estranea l’indifferenza della comunità internazionale di fronte a anni di pratiche non violente e poi di fronte alla loro crisi. Sono tra quanti diffidano delle attualizzazioni a tutti i costi. Ma credo che oggi sia importante insistere sulla carica di antagonismo delle lotte non armate, e nello stesso tempo ricordare fermamente che la critica alla bellicosità come valore era già patrimonio di alcuni partigiani e soprattutto partigiane, in particolare nei giorni della liberazione. A Torino una militante di Giustizia e Libertà responsabile di una postazione di pronto soccorso, arrivò a farsi mettere al muro dai compagni per impedire la fucilazione di alcuni fascisti nel suo ambulatorio: «Qui è dove si cura, non dove si ammazza», e riuscì a imporre l’ammonimento a «non ridursi come loro»23. Sempre a Torino, una giovanissima partigiana vide fuggire un fascista e scelse di non sparargli: «lascio perdere! tanto abbiamo vinto»24. Il che non vuol dire affatto che le donne in quanto tali siano estranee alla violenza, ma che sembrano più capaci di pesare il rapporto costi/benefici e di abbandonare lo spirito della guerra civile, più esperte degli uomini nella scienza del «caso per caso», del «se» e del «ma», del «dipende» – la massima espressione di apertura mentale e culturale, e la faccia più bella della politica. Note 1. L. Meneghello, I piccoli maestri, Mondadori, Milano 1986, p. 27. 2. E. Galli della Loggia, Una guerra «femminile»?, in A. Bravo, Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991. 3. G. Ferrandi, Una ricerca sulla «resistenza civile» in Trentino , in La lotta non armata nella resistenza, a cura di G. Giannini, Centro studi difesa civile, Quaderno n. 1, Roma 1994 (in realtà 1995). 4. Fra le incarnazioni di questa ideologia, ricordo un intarsio di modelli, dal cittadino in armi della rivoluzione francese alla tradizione
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La resistenza senza armi marxista di appoggio alle guerre di liberazione, dalla figura del ribelle risorgimentale a quella del proletario armato come avanguardia del movimento patriottico. Della riflessione femminile sul rapporto fra cittadinanza e diritto/dovere di portare le armi, un esempio importante è J.B. Elshtain, Donne e guerra, il Mulino, Bologna 1991, soprattutto la parte II, La virtù civica armata; cfr. anche Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne , a cura di G. Bonacchi e A. Groppi, Laterza, RomaBari 1993, in particolare il saggio di V. Fiorino, Essere cittadine francesi: una riflessione sui principi dell’89. 5. A. Bravo, A.M. Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 67-68. 6. H. Arendt, La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme , Feltrinelli, Milano 1964. 7. A.M. Bruzzone, R. Farina, La resistenza taciuta, La Pietra, Milano 1976; B. Guidetti Serra, Compagne , Einaudi, Torino 1977; M. Alloisio, G. Beltrami, Volontarie della libertà, Mazzotta, Milano 1981. 8. R. Viganò, L’Agnese va a morire , Einaudi, Torino 1949, moltissime volte ristampato. 9. C. Pavone, Una guerra civile: saggio storico sulla moralità nella resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991. 10. Fra le espressioni più precoci della nuova fase, vedi G. Crainz, Il conflitto e la memoria, e Id., Il dolore e la collera: quella lontana Italia del 1945, ambedue sulle uccisioni di fascisti nell’immediato dopoguerra, in «Meridiana» (1992), n. 13 e (1995), nn. 22-23. 11. T. Todorov, Di fronte all’estremo , Garzanti, Milano 1992. 12. T. Todorov, Une tragedie française , Seuil, Parigi 1994. 13. Sono 15 lezioni distribuite nelle seguenti sezioni del corso: 1) La resistenza civile in Europa durante la seconda guerra mondiale – J. Semelin, A. Bravo, A.M. Bruzzone, E. Peyretti, A. Dogliotti Marasso, F. Levi; 2) Lotte di liberazione dai sistemi coloniali – G. Sofri; 3) Lotte politiche e civili nei paesi occidentali – G. Bouchard, E. Donini; 4) Lotte nei paesi dell’Est e forme di resistenza civile nell’ex-Jugoslavia – G. Salio, A. Zangheri, A. L’Abate, M. Granero; 5) I movimenti per la pace – S. Albesano, G. Salio. Il materiale è purtroppo rimasto inedito. 14. La lotta non armata nella resistenza…, cit. 15. Di Lidia Menapace ricordo, oltre alla militanza nei movimenti per la pace, l’opera di memoria, Resisté. Il dito e la luna, Milano 2001, dove racconta, basandosi sulla propria esperienza partigiana, che nella resistenza si poteva fare obiezione di coscienza all’uso delle armi. 16. C. Pavone, Alle origini della repubblica, Bollati Borighieri, Torino 1995; G.E. Rusconi, resistenza e postfascismo , il Mulino, Bologna 1995; P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione , Einaudi, Torino 1995. 17. G. Contini, La memoria divisa, Rizzoli, Milano 1997; P. Pezzino, Anatomia di un massacro. Controversia sopra una strage tedesca, il Mulino, Bologna 1997; M. Battini, P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Marsilio, Venezia 1997. Già nel 1994 al convegno In Memory: Revisiting Nazi Atrocities in Post-Cold
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Anna Bravo War Europe , Leonardo Paggi aveva sottolineato la difficoltà «della narrativa fondata sui valori dell’antifascismo e della resistenza a ricomprendere la memoria delle popolazioni coinvolte». 18. Donne a Roma 1943-1944, a cura di S. Lunadei, Cooperativa Libera Stampa, Roma 1996. 19. Senza pretese di completezza, degli studi delle donne ricordo (oltre a Lunadei e Bravo - Bruzzone), Archivio centrale Udi, I Gruppi di difesa della donna. 1943-1945 , Ed. Archivio centrale Udi, Roma 1995; Commissione Provinciale Pari opportunità di Massa Carrara, A Piazza delle Erbe! , Prov. Di Massa-Carrara 1994, in particolare G. Bonansea, Immagini e simboli nei racconti di partigiane carraresi. Le voci, il racconto ; R. Rossanda, Le altre , Bompiani, Milano 1979; A. Rossi Doria, Le donne sulla scena politica , in Storia dell’Italia repubblicana, Einaudi, Torino 1994. 20. Proprio per la diversità dei soggetti, sono apparsi poco convincenti i tentativi di individuare la «personalità autoritaria», di cui è capostipite T. Adorno (cfr. T. Adorno et al., La personalità autoritaria, Ed. di Comunità, Roma 1973) o la «personalità altruista», vedi A. Zamperini, Psicologia dell’inerzia e della solidarietà. Lo spettatore di fronte alle atrocità collettive , Einaudi, Torino 2001. 21. S. Laudi, Un giusto , in «Ha Keillah», (1998), n. 3. 22. S. Luzzatto, La crisi dell’antifascismo , Einaudi, Torino 2004, p. 26-27. 23. Intervista di Margherita Charbonnier, in A. Bravo, Simboli del materno , in Donne e uomini nelle guerre mondiai…, cit., pp. 114-115. 24. La protagonista è Marisa Sacco, che racconta l’episodio in Guerra alla guerra, video di Anna Gasco.
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È solo molti anni dopo la fine della guerra che la storiografia italiana arriva ad occuparsi di quello che succede agli ebrei italiani dopo l’8 settembre e l’occupazione nazista dell’Italia del centro-nord. Anche in Italia, come nel resto d’Europa e come nello stesso stato d’Israele, i primi quindici anni del dopoguerra sono infatti segnati dalla volontà di mettere tra parentesi queste vicende, quando non da una vera e propria rimozione. E anche in Italia, la nascita di una storiografia della Shoah è preceduta da un processo di costruzione della memoria fortemente condizionato dalle vicende storiche e politiche. Fare la storia di questo processo vorrebbe dire in un certo senso ripercorrere globalmente le vicende della seconda metà del secolo, i problemi sollevati dalla nascita dello stato d’Israele, l’uso politico fatto in questi decenni del passato e della memoria. Vorrei sollevare solo alcuni punti particolarmente significativi Partiamo subito da una constatazione di fatto. Anna Bravo sostiene nella sua relazione che l’8 settembre è stato una gigantesca operazione di salvataggio dei soldati italiani. Lo stesso non si può dire, purtroppo, degli ebrei. Certo, nel momento della pubblicazione dell’armistizio e dell’occupazione nazista, la priorità immediata fu quella di salvare i soldati, aiutarli a tornare a casa, nasconderli, sostituire con abiti civili le loro divise. Ma nessuno pensò che gli ebrei fossero un’altra categoria ad alto rischio, anche se avrebbe dovuto essere evidente che l’occupazione nazista esponeva gli ebrei italiani alla stessa sorte che gli ebrei stavano subendo nell’Europa occupata. Eppure, tranne poche eccezioni, questo non fu evidente né per gli ebrei né per i non ebrei. «Sino a quando non ebbero la dolorosa prova di ciò che i tedeschi intendevano fare, centinaia e centinaia di ebrei rimasero fiduciosi nelle loro case, sordi anche ai primi segni premonitori della tragedia», scriveva nel
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1961 Renzo De Felice1. Solo un esempio, anche se molto significativo: all’alba del 16 ottobre 1943, nella loro grande razzia degli ebrei romani, i nazisti trovarono nelle case più donne, vecchi e bambini che uomini. Cioè, anche dopo l’episodio dell’oro e il sequestro dei documenti della Comunità, le strategie di sopravvivenza degli ebrei romani erano identiche a quelle dei non ebrei, che consideravano a rischio soprattutto gli uomini e i giovani in età di leva. L’incomprensione del pericolo fu quindi molto forte, e il ritardo con cui gli ebrei presero coscienza della nuova situazione determinante. Un analogo ritardo sembra però caratterizzare la storiografia. Gli storici, attenti alla frattura che l’8 settembre rappresentò nella storia della guerra, tardano a prendere coscienza di quello che questa data rappresentò nella storia degli ebrei italiani: l’inizio della messa in atto dello sterminio. È vero che De Felice scrive nella sua Storia, che è del 1961, che con l’8 settembre ebbe inizio l’ultimo atto della tragedia degli ebrei italiani. Ma è solo in anni recenti, a partire dalla distinzione introdotta da Michele Sarfatti tra persecuzione dei diritti e persecuzione delle vite degli ebrei2, che il valore di rottura che l’8 settembre ha rappresentato per gli ebrei italiani è divenuto un’acquisizione definitiva della storiografia. Tuttavia, il ritardo con cui questa acquisizione si è realizzata è a sua volta motivo di riflessione per chi si interroga sulla costruzione tanto della memoria che della storia della Shoah in Italia. Esso è infatti strettamente connesso a due orientamenti tipici della storiografia italiana: da una parte la difficoltà a individuare una specificità dello sterminio degli ebrei entro le vicende complessive della guerra, della deportazione di civili e militari, della fame, dei bombardamenti; dall’altra, la riluttanza a porre al centro della sua attenzione le leggi razziste del 1938, inizio della persecuzione dei diritti degli ebrei e preludio alla persecuzione delle vite, iniziata appunto l’8 settembre 1943. Non vorrei però fare un processo a questi ritardi. Non credo infatti che ci sia stata una congiura del silenzio sulla Shoah. Prima ancora della storiografia, è la memoria collettiva del dopoguerra, ebraica come non ebraica, a rifiutare alla Shoah una sua specificità. In quegli anni, lo sterminio degli ebrei è interpretato come uno dei tanti terribili aspetti della guerra. Una rimozione che consentiva la ripresa della vita e
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che aveva anche il vantaggio, almeno in una fase iniziale, di reintegrare gli ebrei nella storia collettiva, di non isolarli nuovamente dai non ebrei3. La stessa rimozione ha operato nel resto d’Europa, nei paesi che hanno conosciuto la Shoah. Più inquietante è la cancellazione dalla memoria e dalla storia delle leggi del 1938, durata molto più a lungo della prima, a cui pure era intimamente connessa. Bisogna arrivare al quarantesimo anniversario delle leggi razziste perché questo tema assurga a dignità storiografica, mentre esso resta ancora più a lungo assente nella vulgata storiografica. Può sembrare paradossale che i manuali di storia per le scuole superiori, anche i migliori, non riportassero, ancora intorno al 1990, neppure la menzione delle leggi del 1938. È pur vero che bisognava arrivare al 2000 perché un manuale di storia dedicasse due capitoli separati e distinti alla seconda guerra mondiale e alla Shoah4. Ma la cancellazione delle leggi del 1938, il ritardo del loro recupero storiografico, pesa come un peccato originale della nostra storiografia e forse, tout court, della nostra storia, in cui il 1938, a differenza del 1943, rappresentò il momento dell’acquiescenza e della viltà. Anna Bravo menziona i ritardi e le resistenze con cui la storiografia italiana ha acquisito la nozione di resistenza senza armi. Nell’appendice da lui apposta nel 1976 all’edizione scolastica di Se questo è un uomo , Primo Levi ricordava la questione della mancata resistenza ebraica ai nazisti come una di quelle domande che gli venivano continuamente poste dalle scolaresche (e sovente anche dagli adulti) 5. Perché gli ebrei non si ribellarono, perché si lasciarono trascinare senza reagire alle camere a gas? È il problema a cui anche il titolo dato dagli organizzatori di questo convegno alla mia relazione sembra alludere. Non vorrei affrontare il problema della realtà di fatto di questa mancata resistenza, anche perché non potremmo non prendere in considerazione tutte le resistenze possibili, quella morale, quella culturale, le strategie di sopravvivenza, Anna Frank che studia la mitologia nel suo nascondiglio, Primo Levi che recita a memoria il Canto di Ulisse , e via di questo passo. Quel che mi interessa in questo contesto è il modo con cui questo tema è emerso – se lo ha fatto – nella memoria e nella storiografia italiana. Questo della resistenza – o mancata resistenza – ai nazisti è
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infatti un tema fondante della memoria della Shoah in Israele, fin dai primi anni della fondazione dello stato, quando Israele è un paese popolato di sopravvissuti ai campi di sterminio, che deve saldare quella loro storia personale con le necessità della costruzione di uno stato del tutto nuovo, in cui gli ebrei si pongano come attori e lascino lontana dietro di sé l’esperienza umiliante della diaspora e delle sue tante persecuzioni. Così l’ideologia sionista, almeno, vede la storia del passato ebraico in Europa, questo è lo stacco che pone rispetto al passato degli ebrei, per costruire un mondo che si immagina nuovo. Un approccio, anche, bisogna aggiungere, che sacrifica l’elaborazione del lutto alle necessità della sopravvivenza collettiva e che ha dei costi enormi nella memoria e nell’identità collettiva. Tom Segev ci racconta, nel suo Il settimo milione 6, la storia di come la memoria della Shoah, trasformata e orientata, sia divenuta, dopo il processo Eichmann, fondamentale nella costruzione dell’identità israeliana, e quale dibattito abbia accompagnato la nascita del memoriale alla Shoah, lo Yad Vashem di Gerusalemme, fondato programmaticamente sulla corrispondenza tra olocausto ed eroismo. La rivolta del ghetto di Varsavia, le insurrezioni nei campi della morte, la partecipazione degli ebrei alla lotta contro il nazismo furono così privilegiate rispetto allo sterminio e interpretate come i precedenti della guerra di indipendenza del 1948 (così viene chiamata in Israele la prima guerra contro i paesi arabi, che lo attaccarono subito dopo la proclamazione di indipendenza). Annette Wieviorka ricostruisce invece, nel suo recente e stimolante L’era del testimone 7, la storia della costruzione a Parigi della tomba al martire ebreo ignoto, nel 1956. E, ancor prima, di quell’abbozzo di monumento, mai costruito, a Riverside Drive, a New York, con l’iscrizione che accomuna i sei milioni di ebrei morti ai martiri per la libertà del ghetto di Varsavia. Di nuovo, genocidio ed eroismo, un eroismo che copre del suo ombrello i morti del genocidio, assassinati senza colpa e quindi senza ragioni. Un tema, questo dell’eroismo, che non a caso, date le diverse esigenze politiche dei due paesi, non ha trovato grande eco nella storiografia italiana, ma che è comunque filtrato come risposta a quell’altra formulazione di «senso comune storiografico» che ci raffigura gli ebrei condotti al macello come agnelli. Con il merito, forse, di contribuire anche in Italia a dare una valenza
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più ampia all’idea di resistenza, ad abituare il senso comune all’idea che esistono molti modi di resistere, molti modi di combattere, e che i bambini che suonavano il violino nel ghetto di Varsavia erano dei combattenti come i giovani che impugnavano le armi nello stesso ghetto. Nel caso della Shoah, la storiografia ha avuto così dei difficili inizi, come possiamo vedere da questi brevi accenni, che non esauriscono certo l’intera problematica. Basti pensare al dibattito sul «mito del buon italiano», aperto in Italia dal libro di Nicola Caracciolo del 19868, con tesi, quelle sul sostanziale supporto dato dagli italiani agli ebrei perseguitati, che erano già state espresse da Hannah Arendt9 e sostenute da autorevoli storici israeliani10. Una delle caratteristiche fondamentali di questa storiografia è la connessione strettissima con la memoria, una connessione che è molto stretta anche nel discorso più generale sulla guerra, ma che assume, nel caso della Shoah, una valenza particolare. Le ragioni sono evidenti e non starò a ripeterle: il valore di evento limite che ha la Shoah, la sua dicibilità (o indicibilità) su cui letterati e filosofi continuano a discutere, il suo valore etico, di monito. Vorrei solo riflettere sul fenomeno dei testimoni, su cui oggi molto si parla. Un fenomeno iniziato nel 1961 con il processo Eichmann, e la sfilata di testimoni che portavano la memoria sul palco della storia, in questo caso un palco giudiziario. Mai come in questo caso quella «tribunalizzazione della storia» di cui parla nel suo saggio Alberto Melloni si è materializzata nel suo senso più letterale. Dal processo Eichmann, lo sappiamo, è cominciata la pratica della testimonianza, il compito terribile che una generazione di sopravvissuti si è caricato sulle spalle, insegnare, ricordare, tener viva la memoria. Una pratica, questa della testimonianza, che non ha precedenti nella storia, e che fonda un nuovo tipo di rapporto tra memoria e interpretazione storiografica. La testimonianza, portatrice di memoria, ha fatto irruzione nella storia. Questo nesso della storia con la memoria ha certo avuto un ruolo molto importante, sgombrando il campo da esitazioni, ambiguità, rimozioni. Oggi, esso sembra però aver esaurito il suo compito, lasciando spazio solo alla celebrazione, con le sue retoriche, le sue fossilizzazioni, i suoi muri difensivi. Gli storici analizzano i problemi e le contraddizioni suscitate da
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questa vicinanza troppo stretta con la memoria e sembrano voler scindere questi legami tanto problematici, per fare storia e non soltanto celebrare il ricordo. Una sorta di ripiegamento della storiografia verso l’oggettività, l’imparzialità, il rifiuto delle emozioni? Certo, ma non soltanto. C’è, in questo passaggio, il senso di uno stacco generazionale. Per quanto tempo si può tramandare la memoria? Quante generazioni possono succedersi in questo compito? C’è anche, credo, la necessità di riconsiderare il rapporto con gli altri genocidi di questo secolo, compresi quelli più recenti, lo sterminio dei tutsi in Ruanda, la «pulizia etnica» in Bosnia, non per appiattire la Shoah sugli altri orrori, ma per fare risaltare gli altri orrori al filtro dell’esperienza limite della Shoah11. Dopo tanta enfasi sull’«unicità» della Shoah, è ora divenuto possibile parlare di «genocidi». Anche in Israele si moltiplicano nelle università i corsi che affrontano il tema della Shoah nel rapport con gli altri genocidi, in particolare con quello armeno del 1915. Si sta nuovamente rompendo un tabù, come in passato si è rotto un tabù portando la Shoah sulla scena della storia? Quel che è certo, è che noi storici ci sentiamo, pur in mezzo a tanti dubbi e difficoltà, di fronte a un’occasione preziosa, quella di porre alla storia nuove domande, di trovare nuovi modi di raccontare e spiegare. Un compito, nel mestiere dello storico, che non è sempre possibile. Note 1. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo , Einaudi, Torino 1961, p. 464 (si cita dall’edizione del 1993). 2. M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione , Einaudi, Torino 2000. 3. Sulla memoria ebraica della Shoah in Italia si veda ora G. Schwartz, Ritrovare se stessi. Gli ebrei nell’Italia postfascista , Laterza , Roma-Bari 2004. 4. A. Bravo, A. Foa, L. Scaraffia, I fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, Roma-Bari 2000. 5. P. Levi, Opere , vol. I, Einaudi, Torino 1987, p. 192 ss. 6. T. Segev, Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia d’Israele , Mondadori, Milano 1991. 7. A. Wieviorka, L’era del testimone , Raffaello Cortina, Milano 1999. 8. N. Caracciolo, Gli ebrei e l’Italia durante la guerra 1940-45, Bonacci, Roma 1986.
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Anna Foa 9. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme , Feltrinelli, Milano 1992, p. 182 ss. 10. Si confrontino gli studi di Daniel Carpi sul comportamento verso gli ebrei delle autorità italiane nelle zone di occupazione italiana, in particolare Betweeen Mussolini and Hitler. The Jews and the Italian Authorities in France and Tunisia , Brandeis University Press, HanoverLondon 1994. 11. J-M. Chaumont, «Auschwitz oblige?». Cronologie, periodizzazioni, inintelleggibilità storiche , in Insegnare Auschwitz. Questioni etiche, storiografiche, educative della deportazione e dello sterminio , a cura di E. Traverso, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 40-65.
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La tematica della «morte della patria» nella storia politica dell’8 settembre Ernesto Galli della Loggia
La tematica della «morte della patria» 1 è tutta quanta da comprendere, come si capisce immediatamente, dentro la storia politica dell’8 settembre, dunque all’interno di una prospettiva abbastanza differente da quella assunta nei saggi compresi in questo volume. Storia politica che è stata naturalmente la prima storia che si è fatta dell’8 settembre e che per molti versi si continua a fare. Da questo punto di vista la tematica della «morte della patria», anche per chi non la condivide né nelle premesse né nelle conclusioni, è servita a introdurre un momento di riflessione generale. La storia politica dell’8 settembre condotta sino all’inizio degli anni Novanta leggeva infatti in questa data il punto di arrivo terminale della crisi dello Stato monarchico-fascista: la tappa conclusiva di un percorso iniziato il 25 luglio e precipitato nella catastrofe poche settimane più tardi. Ma oltre a essere questo il punto ad quem, l’8 settembre era naturalmente il termine ad quo della resistenza: data emblematica dell’inizio del riscatto rappresentato appunto dalla lotta partigiana e, per questa via, dell’Italia «dell’arco costituzionale». Quindi il significato e lo spessore storico dell’8 settembre si «esauriva» – anche se non era poco – all’interno di questa prospettiva. L’idea della «morte della patria» ha introdotto invece un’ampia riproblematizzazione di questo momento della storia italiana, ridefinendo la prospettiva entro cui va compresa la vicenda dell’8 settembre e includendo in essa tutta la vicenda dell’Italia repubblicana. In ciò che accadde l’8 settembre si è così individuato una sorta di DNA di tanti aspetti e situazioni non necessariamente positivi: una prospettiva certamente differente da quella poc’anzi richiamata, tutta incentrata sull’idea di riscossa resistenziale e di fondazione costituzionale della Repubblica. Assumendo l’idea di «morte della pa-
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La tematica della «morte della patria»
tria» si sono cominciati così a considerare due aspetti dell’8 settembre sino a questo momento abbastanza trascurati. In primo luogo la crisi della dimensione nazionale , a prescindere dalla forma monarchica e dalle premesse fasciste. L’8 settembre 1943 giungono infatti al pettine nodi connessi ad aspetti dello Stato nazionale e della sua ideologia che vanno al di là della forma monarchica. Emerge così il carattere fortemente divisivo e non riassorbito che l’esperienza bellica ha determinato nella società e nell’opinione pubblica italiana2; una spaccatura che la resistenza non solo non ha colmato, ma che anzi avrebbe in qualche modo accentuato. In secondo luogo la sovranità nazionale come questione legata allo Stato nazionale e non soltanto alla sua manifestazione fascista. Per molto tempo, infatti, ci si è contenuti nell’indicare che la resistenza aveva contribuito a riscattare la sovranità nazionale: la sconfitta militare dell’Italia nella seconda guerra mondiale era privata delle sue implicazioni di lungo periodo sugli assetti della sovranità nazionale ed era concepita tout court come la sconfitta del regime fascista. Naturalmente questa interpretazione dell’8 settembre come evento prodromico del cinquantennio repubblicano successivo ha determinato una forte politicizzazione e ideologizzazione del dibattito storiografico. L’idea dell’8 settembre come «morte della patria» ha scatenato immediatamente un fortissimo interesse e ha provocato un ingresso massiccio della politica nel campo dell’interpretazione storiografica. Con Carlo Azeglio Ciampi si è vista addirittura la massima carica politica del paese intervenire ripetutamente e in maniera antagonistica in questo dibattito, abbracciando interpretazioni storiografiche a scapito di altre: le celebrazioni di prammatica delle date resistenziali o dell’8 settembre sono diventate così l’occasione per intimare l’altolà alle interpretazioni storiografiche giudicate dissonanti rispetto al sentire delle autorità politiche. Forse non c’è stata da parte della corporazione degli storici di professione una reazione adeguata a questa così forte invasione di campo da parte del potere politico: certamente nulla di raffrontabile a quanto era accaduto all’indomani di alcuni interventi dell’allora presidente della Camera Violante, quando un gruppo di colleghi lo esortò a non suggerire interpretazioni storiografiche di tipo conciliatorista.
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Tutto questo induce, io credo, una forte difficoltà nella storiografia politica italiana dell’età contemporanea: la difficoltà di prescindere dall’immediatezza della vicenda politica. Non dalla discussione ideologica: tutti quanti siamo consapevoli che ciò è impossibile e, soprattutto, ingiusto. Sarebbe sciocco pensare che la storia dell’antichità classica così come del Medioevo o dell’età contemporanea possa prescindere dal dibattito ideologico: esse si nutrono e vivono del dibattito ideologico. Altra cosa è, viceversa, il riscontro nell’immediatezza della vicenda politica. Ma c’è un elemento che credo occorra sottolineare di fronte agli storici dell’età contemporanea: e cioè che in Italia questa applicazione degli eventi del 1943-1945 alle contingenze politiche immediate copre un lunghissimo arco di tempo. Questo perché permangono nella nostra realtà politica l’utilizzo e il confronto del binomio fascismo-antifascismo, che naturalmente hanno avuto un momento decisivo di formazione, manifestazione e rappresentazione. Perciò questa presenza fortissima e continua nel discorso pubblico quotidiano del binomio fascismo-antifascismo rende davvero difficile occuparsi di vicende storiche riferite a esso svincolandosi dall’immediatezza della lotta politica, senza cadere insomma in una delle tante trappole che il confronto politico e le strumentalizzazioni implicite in tale confronto tendono. La perdurante centralità politica del periodo 1943-1945 rende allora molto difficile un discorso storiografico libero da preoccupazioni ideologicopolitiche: queste pesano, si fanno sentire, orientando diversamente la storiografia a seconda delle differenti stagioni politiche del paese. Mi ha colpito, ad esempio, il differente approccio alla questione della resistenza in due lavori di Pietro Scoppola. In La proposta politica di De Gasperi, del 19773, con grande acribia e massa documentaria Scoppola, da storico di vaglia, illustra le fortissime divisioni politiche della resistenza, il rapporto praticamente semi-balistico tra democristiani e comunisti; la fortissima diffidenza di De Gasperi verso le sinistre e la preoccupazione, espressa a Sturzo come a Scelba, che l’antifascismo di queste forze politiche costituisse in realtà il paravento per celare progetti rivoluzionari. In questo lavoro viene quindi ricostruito in modo, mi sembra, assolutamente realistico e verosi-
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mile quello che fu il clima, spesso al calor bianco, di questi anni: viene ricordato come, in occasione della prima manifestazione celebrativa del 25 aprile, nel 1946, a Milano, in piazza del Duomo e dintorni, ci furono scontri tra le formazioni partigiane monarchiche, comuniste, e quelle democristiane: a riprova appunto del carattere niente affatto unitario della resistenza. Se però leggiamo l’ultima cosa scritta in merito a tali questioni da Scoppola, e cioè 25 aprile. Liberazione 4, di tutto questo non v’è traccia e l’immagine della resistenza è completamente diversa: essa gode di una rappresentazione unitaria, che ha dato origine a una k oiné civile – poi effettivamente fondata. Certo, in Italia non si è avuta una guerra civile, ma questi due lavori di Scoppola mostrano un’evidente cambiamento di prospettiva. Credo dunque che quella della «morte della patria» sia una categoria utile, euristicamente feconda, che però deve sapersi estendere oltre i confini nazionali. Se ho fatto bene i conti, tra il 1939 e il 1945 furono sedici i paesi dell’Europa occidentale – con l’esclusione della Spagna, del Portogallo e della Svizzera, fuori dalla guerra – a conoscere una sconfitta militare, a essere sottoposti a lunghe occupazioni da parte di altri paesi, spesso attraverso governi collaborazionisti: a conoscere in definitiva una scomparsa del governo legittimo. Ritengo dunque che si debba tematizzare adeguatamente il fatto che la seconda guerra mondiale ha significato una vera e propria catastrofe dello stato-nazione e delle sovranità europee. E tra l’altro i vincitori erano proprio nazioni – Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Sovietica – che più che tali erano tre entità di tipo imperiale, che presentavano, per così dire, contenuti fortemente universalistici. Non sto qui a richiamare la questione della catastrofe della nazione e della sovranità determinata dalla seconda guerra mondiale, anche perché, in paesi come l’Italia e la Germania, presentano aspetti troppo specifici. Ma in complesso dobbiamo osservare che lo stabilimento nell’Europa occidentale della democrazia di massa, che è stata sicuramente la più importante esperienza democratica che le nostre società hanno attraversato, non solo ha dovuto fare a meno della dimensione nazionale e delle sue risorse pratico-simboliche, ma ha dovuto anche privarsi di due dimensione tipiche dello stato-nazione e della sovranità, che sono la dimensione della po-
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litica estera e della politica militare. Due dimensioni da cui l’Europa è stata violentemente separata in conseguenza della seconda guerra mondiale, in conseguenza appunto del venir meno di quelle realtà delle culture politiche e dei gruppi dirigenti. Al posto della cultura dello stato-nazione e della sovranità nazionale, è venuta una cultura democratica. Riallacciandomi al saggio introduttivo di Melloni credo di dover osservare che la democrazia di massa europea si è costruita su una forte eticizzazione politica, che del resto è la stessa con cui era stata condotta la guerra dagli Alleati. La «tribunalizzazione della storia» è allora, io credo, il prodotto di questa accentuazione di tipo eticistico e non politico, tendenzialmente antipolitico, della vita pubblica, che finisce per avere nel giudice e nel tribunale il termine ovvio di riferimento, essendo venuti meno altri riferimenti più strettamente politici. Ritengo che questo discorso storiografico, con i dovuti aggiustamenti, si attagli all’Italia: un discorso che possiamo definire della «morte della patria»; ovvero della «morte delle patrie»: e chissà che con questo allargamento esso non possa trovare un’accoglienza meno burrascosa e più tollerante di quanto finora abbia avuto. Note 1. Sulla questione rinvio al mio La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione tra resistenza, antifascismo e Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1996. 2. Penso qui al volume curato da N. Gallerano, Roma e il Sud, 19431945, Franco Angeli, Milano 1985, dove sono messe in luce le forti differenze dell’esperienza dell’8 settembre tra l’Italia meridionale e quella settentrionale. 3. P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, il Mulino, Bologna 19771 (19782). 4. P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione , Einaudi, Torino 1995.
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Democrazia e oblio: il caso dell’Italia repubblicana Paolo Pezzino
L’oblio, e dirò persino l’errore storico, costituiscono un fattore essenziale nella creazione di una nazione, ed è per questo motivo che il progresso degli studi storici rappresenta un pericolo per le nazionalità. Ernest Renan, Che cos’è una nazione? 1
1. Le politiche dell’oblio È comune ritenere che una società non possa esistere senza una memoria di quanto è avvenuto nel passato: la selezione degli elementi da conservare serve a trasmettere da una generazione all’altra un passato «dotato di senso», e in quanto tale sostiene quel complesso di riti e di valori che costituisce per un popolo il senso della propria identità e del proprio destino. Diventeranno oggetto di trasmissione solo quei momenti tratti dal passato che vengano sentiti come educativi ed esemplari per la hallakhah di un popolo, così come è vissuta in quel momento; il resto della «storia» cade, si può dire quasi letteralmente, fuori dal sentiero2
(hallakhah è parola ebraica che indica il sentiero su cui si cammina, la strada). In realtà l’esercizio della memoria (come e cosa ricordare) è strettamente connesso a quello dell’oblio, come sottolineava Nietzsche in un brano sul quale oggi si torna a riflettere: è del tutto impossibile vivere in generale senza dimenticare. [...] La serenità, la buona coscienza, l’allegra attività, la fiducia nell’avvenire, – tutto ciò dipende, nell’individuo come nel popolo [...] dal fatto di sapere tanto bene dimenticare al momento giusto, quanto bene ricordare al momento giusto; dipende dal sapere sentire con istinto potente quando sia necessario sentire storicamente e quando non storicamente. [...] L’antistorico e lo storico sono ugualmente necessari per la sanità di un individuo, di un popolo o di una civiltà3.
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In altre parole, vi è una memoria che serve a fondare una comunità civile dotandola di unità di passato e di comunità di intenti, e una memoria che invece si oppone alla stessa operazione, come ossessiva ripetizione di fratture e torti che spesso affondano le radici in un tempo remoto, una memoria come «rimedio contro l’odio» e una usata «per spargere odio»4. E tuttavia non è, naturalmente, un’operazione indolore: La memoria e l’oblio – ha scritto recentemente Remo Bodei – non rappresentano [...] terreni neutrali, ma veri e propri campi di battaglia, in cui si decide, si sagoma e si legittima l’identità, specie quella collettiva. Attraverso una serie ininterrotta di lotte, i contendenti si appropriano della loro quota d’eredità simbolica del passato, ne ostracizzano o ne sottolineano alcuni tratti a spese di altri, componendo un chiaroscuro relativamente adeguato alle più sentite esigenze del momento5.
In questo processo vengono di solito utilizzate rimozioni, invenzioni, falsificazioni, cancellazioni della memoria, più o meno istituzionalizzate: riflettendo sulla concatenazione amnistiaamnesia, il grecista Nicole Loraux ha sottolineato come la prima sia «l’ombra riflessa del politico sulla memoria […] l’obliterazione istituzionale di quei lembi della storia civica che la città teme perché di ostacolo alla costruzione del proprio passato», chiedendosi se si potesse parlare per essa di una «sorta di strategia dell’oblio», finalizzata alla «creazione di un tempo per il lutto e [ al]la (ri)costruzione della storia». Analizzando due casi di «memoria proibita» ad Atene, ha evidenziato come in essa «l’istanza politica può affermarsi come censore della memoria, sola realtà abilitata a decidere quello che deve o non deve essere l’uso che se ne fa». Il ricordo che qui viene cancellato è quello di un «passato litigioso, inopportuno perché conflittuale»6. Il passato litigioso e conflittuale necessita perciò di strategie dell’oblio: soprattutto all’uscita di una guerra civile, nella quale all’avversario non viene riconosciuto lo status di nemico, ed esso viene degradato a traditore, servo dello straniero, pur di non ammettere che il conflitto coinvolge membri di una stessa comunità. La guerra civile libera il potenziale di violenza latente nella società: il concetto di violenza «legittima», già messo a dura prova nelle guerre convenzionali, tende a essere del tutto cancellato, e viene ammessa e tollerata qualsiasi forma di violenza (criminalità, banditismo, vendette private) purché diretta verso appartenenti alla parte avversa. Lo stesso termine
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di guerra «civile» o «fratricida» rimanda alla rottura di rapporti e relazioni sociali nell’ambito delle strutture primarie della società (famiglia, parentela, comunità): si libera in tal modo una violenza latente nella società, che assume spesso forme sacrali e rituali. È una violenza che mette in discussione l’intero ordine sociale7. Difficilmente uno Stato uscito da una sanguinosa lacerazione di una precedente comunità politica potrà ammettere che si sia combattuta una guerra civile: spesso agli sconfitti in una guerra civile viene negato anche il diritto alla memoria, con la loro esclusione dalla memoria «pubblica» che sostiene i riti della convivenza civile. Ne risulta che davanti a crisi di identità, come ad esempio quella che ha vissuto dall’8 settembre 1943 al 2 giugno 1946 la nostra compagine nazionale, la tentazione ricorrente è quella di nascondere le fratture della storia appena conclusasi: come nell’Atene studiata da Nicole Loraux, anche nell’Italia del secondo dopoguerra è inevitabile che memorie «molteplici e non comunicanti, potenzialmente conflittuali» vengano fatte confluire in una «memoria pubblica», capace di costituire il fondamento di un’identità collettiva, dall’autorità politica, e che «la memoria pubblica [ sia] sempre una memoria dominante, una memoria dei vincitori»8. In questa costruzione della memoria l’oblio assume perciò una funzione altrettanto essenziale della trasmissione degli eventi. 2. L’Italia del dopoguerra Oggi, dopo il lavoro di Claudio Pavone9, che rappresenta il punto di approdo di una revisione storiografica già da tempo operante, è pacifico ammettere che la resistenza abbia manifestato anche i caratteri di una guerra civile. Ciò ha come liberato la memoria di quegli anni, ha riconosciuto, «da sinistra», la necessità di dare spazio alle storie e motivazioni dei perdenti, di coloro che scelsero cioè di combattere dalla parte dei fascisti e dei tedeschi, e, soprattutto, ha consentito di indagare sulle molteplici, e a volte divergenti, memorie di quel periodo, con il riconoscimento che non tutte le storie e memorie sono convergenti e trovano spazio in quella narrazione storiografica egemonica che della resistenza ha sottolineato esclusivamente il carattere di epopea popolare e di momento fondativo della «nuova» identità nazionale.
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È a partire dagli anni Sessanta, infatti, che della resistenza si è privilegiato il carattere nazionale e popolare, raffigurandola come l’insurrezione di un intero popolo per liberare il paese dall’invasore tedesco e dai suoi pochi alleati fascisti, e lasciando in ombra la complessità dei comportamenti e delle dinamiche che hanno caratterizzato il vissuto degli italiani in quegli anni. Sulla memoria della resistenza, del resto, si sono sempre combattute battaglie che hanno riguardato la comunità nazionale nel suo complesso10, e credo si possa affermare che l’interpretazione storica sia stata spesso, se non completamente subalterna, almeno consapevolmente funzionale alla lotta politica. La resistenza rappresenta, così, un classico esempio di «uso pubblico della storia», nel quale il discorso storiografico è finalizzato ad altri ordini di discorso (quello politico-istituzionale, o ideologico-partitico). Il tema dell’unità resistenziale, impostosi come raffigurazione dominante a partire dal disgelo costituzionale, ha positivamente sostenuto quel paradigma antifascista che «ha rappresentato la forma storica assunta dal problema nazionale dopo il crollo dello Stato liberale e monarchico e la fine dell’ “occupazione” dello Stato da parte dei fascisti»11: ha costituito, in altre parole, in Italia come altrove, uno strumento del discorso politico al quale va riconosciuto una funzione positiva, quella di costituire un punto di incontro e di aggregazione soprattutto per la classe politica (meno, va riconosciuto, per la società civile). Del resto anche in Francia è successo qualcosa di simile: Henry Rousso ha sostenuto che la Francia, grazie a de Gaulle, ha «miracolosamente salvato l’onore», sedendosi al tavolo dei vincitori. In ciò ha avuto una funzione il «mito resistenziale – costruzione insieme immaginaria e fondata su degli elementi reali», che ha impedito di assumere coscienza sulla questione della persecuzione ebraica (almeno fino al 19711972, quando esplode «l’affaire Touvier»)12. In Italia la tradizione retorica che della resistenza ha sottolineato i caratteri esclusivamente patriottici, fino a definirla l’ultima guerra del Risorgimento italiano, ha avuto una funzione certo positiva: Rosario Romeo la giudicava «preziosa nella ricostruzione morale del dopoguerra», perché in grado in certa misura «di saldare anche quella vicenda [il movimento di resistenza] al passato risorgimentale del paese, e di salvaguardare
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in tal modo la coscienza di una ininterrotta continuità fra l’Italia antifascista e la tradizione nazionale»13. È certo che motivazioni patriottiche operassero nella resistenza: ma si trattava comunque di un patriottismo che, nella maggior parte delle sue componenti, nella storia passata non riusciva a individuare un corpo di valori e di radici condivise al quale ancorarsi: non vi era un’identità storica che soccorresse nella fondazione della nuova nazione, anzi le parole «patria» e «Italia» solo nella lotta ai tedeschi e ai fascisti riuscivano a inverarsi nuovamente: «ci sembrò di averle udite per la prima volta», avrebbe scritto in seguito Natalia Ginzburg14. Più che la cosiddetta «morte della patria»15, si verificò una sostituzione di tante, e spesso non comunicanti, idee di patria, a un comune sentire nazionale, inevitabilmente destinato a essere letto secondo la specifica declinazione fascista, e quindi a essere accantonato. Possiamo, inoltre, rilevare come la trasformazione della resistenza in mito fondante della «nuova» Italia repubblicana abbia impedito di fare i conti col fascismo: la resistenza elevata a epopea di un popolo intero e la costituzione repubblicana antifascista approvata a grande maggioranza dall’assemblea costituente hanno consentito agli italiani di sperimentare per la prima volta un regime di piena democrazia parlamentare senza una seria riflessione sulle responsabilità di chi aveva al fascismo assicurato, fino a qualche anno prima, un consenso plebiscitario. Sempre Rosario Romeo aveva sottolineato come la tesi della resistenza come «secondo Risorgimento» (alla quale, abbiamo visto, attribuiva comunque un positivo valore di salvaguardia delle radici storiche della nazione italiana) avesse consentito di fare «assai rapidamente» i conti col passato regime, con il generale oblio di tutte le responsabilità e di tutte le colpe, «presto e reciprocamente assolte come veniali»16. Luisa Mangoni ha collocato intorno al 1947-1948 il momento in cui ad una cultura della crisi, che sembrava preludere a uno stimolante ripensamento della storia italiana degli ultimi decenni, subentrarono nuovi steccati che spinsero gli opposti schieramenti a compattarsi su poche e nuove sicurezze, fra le quali l’antifascismo degli italiani: Riflettere sul fascismo e le sue componenti non era questione alla quale dare ancora rilievo. Le scelte erano state compiute, gli schiera-
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Democrazia e oblio: il caso dell’Italia repubblicana menti consolidati. Il fascismo, le ragioni e i modi dell’adesione ad esso, rimanevano, in alcuni almeno, solo come turbamento personale, come amarezza da scontare individualmente e nel silenzio17.
Analizzando le prime celebrazioni del 25 aprile – nel 1946 – Cristina Cenci ha rilevato come prima ancora che conflittuali, le memorie nell’Italia del ’45 sono anomiche, cioè giustapposte e irrelate. Fanno riferimento a universi diversi e non comunicanti. […] La locuzione «secondo Risorgimento» […] consente di superare la crisi anomica attraverso il riferimento a una continuità destorificata. […] Interpretata come riattualizzazione del mito risorgimentale, la resistenza è contemporaneamente origine della nuova Italia e inveramento di un’essenza nazionale immutata e immutabile. Come tale, essa costituisce uno degli strumenti principali di rimozione del fascismo e di rafforzamento della memoria immemore di larghi strati della popolazione18.
Insomma, una generale autoassoluzione dalle responsabilità per il passato regime rappresentava il clima ideale nel quale si consumava il miserando fallimento dell’epurazione degli alti vertici dell’amministrazione dello Stato19, proprio nello stesso periodo nel quale la cesura del 25 aprile veniva comunemente accettata come dato di partenza della nuova Italia. Fino a quando lo storico Renzo De Felice ha posto all’attenzione generale il tema del consenso al fascismo, con la pubblicazione nel 1974 del volume della biografia mussoliniana dedicato agli anni 1929-1936, l’esperienza storica del regime era rimasta relegata in un angolo della coscienza nazionale, salvo poi ricollocarsi al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica, ma come elemento modernizzatore deprivato di quegli elementi autoritari che erano intrinseci all’ideologia e alla pratica del regime: non solo la soppressione delle libertà individuali, politiche, sindacali, ma anche il nazionalismo accesso, l’esaltazione della guerra, il colonialismo20, l’antisemitismo. Il mito degli italiani brava gente21 ha potuto così nutrirsi di oblii e cancellazioni interessate, e prima di tutto di quella «grande rimozione» rappresentata dalla persecuzione degli ebrei da parte dei fascisti nazionali22. Analogamente l’ambigua posizione dell’Italia, paese ad un tempo sconfitto e cobelligerante, con un governo, istituzionalmente chiamato a rispondere delle colpe del fascismo, che si presentava tuttavia caratte-
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rizzato dall’opzione antifascista, ha potuto essere utilizzata per una generale rimozione dei crimini commessi dagli Italiani nella loro condotta di guerra e di paese occupante23. 3. Le memorie divise Solo una minoranza di italiani, animata da una forte tensione etica, aveva combattuto in nome di principi che furono poi solennemente proclamati fondanti il nuovo Stato: e la celebrazione della guerra di liberazione vittoriosa nascondeva non solo la guerra civile contro i fascisti, ma anche la «grande frattura» che, come ha scritto De Luna, «segmentava l’identità collettiva degli italiani usciti dalla guerra», la frattura «tra chi “aveva scelto” e chi – la maggior parte – aveva rinunciato a “scegliere”»24, attendendo che gli eventi passassero. La vittoria della minoranza di chi aveva scelto nascondeva così una realtà frammentata, e il velo d’oblio calato su di essa ha reso difficile una reale ricomposizione unitaria delle esperienze e delle memorie degli italiani: senza un profondo processo di ripensamento del passato recente, non può essere elaborata una qualche efficace strategia di riconciliazione nazionale. I limiti delle politiche dell’oblio sono apparsi evidenti a partire dall’esaurimento della funzione storica di quel paradigma (anni Settanta): la celebrazione di una resistenza «imbalsamata»25 (padre Balducci definiva le commemorazioni del 25 aprile «l’industria pubblica dell’eroismo»26) in una dimensione ufficiale di grande movimento nazionale, ha imposto un’interpretazione unilaterale della resistenza e delle sue finalità, sottacendo oltretutto le notevoli differenziazioni interne al campo antifascista. Questa esaltazione dell’unità e del patriottismo della resistenza non è riuscita a forgiare memorie eccessivamente discordanti: pensiamo, così, ai tanti che composero l’area dell’attendismo, dell’opportunismo, del familismo, dell’egoismo (individuale, di gruppo o di classe che fosse), insomma quella che oggi, riprendendo, con una forzatura del suo significato originario, un’espressione di Primo Levi, viene definita la «zona grigia»27. Proprio la resistenza è stata costantemente più un elemento di divisione che di unificazione nella storia pubblica italiana, con una sfasatura fra «uso istituzionale della memoria e la memoria stessa sedimentata [...] nella mentalità collettiva o meglio tra gli usi storicamente e politica-
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mente differenziati e le molte memorie della resistenza presenti nella società italiana», mentre il mito fondatore di un’identità collettiva ha bisogno di essere «identificabile senza controversie»28, e perciò continuamente rinnovabile. Vorrei chiarire che il punto in discussione qui non è l’utilità sul piano politico-militare della resistenza: sia pure nei limiti ristretti imposti dagli alleati – e soprattutto dagli inglesi, che intendevano limitare la funzione della resistenza a compiti di sabotaggio e di sostegno della loro avanzata, non certo privi di importanza, ma insufficienti a prefigurare la costituzione di un vero e proprio esercito di liberazione nazionale, evitando sul piano politico condizionamenti sulle future sorti dell’Italia – lo spazio che la resistenza poté (e seppe) occupare fu notevole. Se gli alleati, con tutte le loro diffidenze e preoccupazioni per la presenza comunista, continuarono a rifornire i partigiani, ciò significa che erano ben consapevoli dell’apporto di questi alla guerra in corso; così come, sull’altro versante, analoga considerazione mostravano i tedeschi, con i loro draconiani ordini contro i partigiani e le grandi operazioni di rastrellamento29. Rispetto alla complessità e potenza delle forze in gioco è certamente antistorico e ingeneroso addebitare alla resistenza di non aver liberato l’Italia da sola (eguale addebito, a ben vedere, si potrebbe fare ai francesi, o a ciascuna delle potenze che si videro obbligate, per contrastare la potenza nazista, a un’alleanza mondiale). Merito della resistenza fu comunque eludere i limiti stessi dati dagli alleati alla sua azione: e se, molta memorialistica e storiografia, soprattutto di sinistra, ha scambiato le radicali speranze di rinnovamento sociopolitico di una parte del fronte resistenziale (ma non di tutto, e anche questo si tende spesso a dimenticare) con le reali possibilità che offriva la situazione, alimentando il mito di una resistenza «tradita» che, in tale accezione, è indubbiamente antistorico, bisogna piuttosto sottolineare come, in complesso, la realistica considerazione dei rapporti di forza fece da efficace contrappunto alle tendenze rivoluzionarie presenti in importanti componenti del fronte resistenziale, e non impedì il raggiungimento di obiettivi più propriamente politici nella lotta al fascismo, favorendo la legittimazione di una classe dirigente che si fece trovare, alla fine della guerra, pronta a prendere in mano le redini della nazione.
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Diverso il giudizio da dare sul versante della memoria collettiva: in un paese storicamente caratterizzato da una «pluralità di storie e di memorie in un processo di unificazione segnato dal permanere delle differenze», proprio la resistenza ha rappresentato costantemente nella memoria più un elemento di divisione che di unificazione: per essa «l’analisi di questo mezzo secolo ci restituisce intimamente irriconciliabile le rappresentazioni di eventi e personaggi decisivi»30. Manca così in Italia un museo nazionale della resistenza31, ed è evidente una sfasatura fra «uso istituzionale della memoria e la memoria stessa sedimentata [...] nella mentalità collettiva o meglio tra gli usi storicamente e politicamente differenziati e le molte memorie della resistenza presenti nella società italiana». Se il 25 aprile ricorda gli Italiani che hanno combattuto, questo purtuttavia non annulla le «altre» memorie: di chi ricorda di aver combattuto contro la resistenza e il movimento partigiano [...]; di chi, proclamandosi e sentendosi «apolitico», ha tentato di «sopravvivere» barcamenandosi tra partigiani e fascisti; di chi ricorda non «la» resistenza ma la «sua», a volte parzialissima, resistenza e di chi, infine, non vuole ricordare e non vuole che si ricordi. Dunque, memorie diverse che tendono a solidificarsi e ad autoavvalorarsi32.
Il tema di cui si tratta, perciò, è se sia possibile individuare una dimensione unificante dell’esperienza degli italiani in quei mesi di guerra, guerra di liberazione, guerra civile, e ha una particolare importanza nella valutazione, in sede storiografica, del significato nazionale della resistenza, della sua capacità, cioè, di rappresentare negli anni successivi un elemento apprezzato dalla maggior parte degli italiani, in grado di sostenere un ethos collettivo, una religione civica. La risposta appare negativa: l’identità degli italiani si presenta caratterizzata da quello che Bodei ha recentemente definito un «noi diviso»: è un’identità cioè frammentata e segmentata, che trova difficoltà nell’orientarsi secondo valori universalmente accettati, e non si riconosce in una memoria condivisa del passato33. È in questa chiave che trovano significato le memorie divise che oggi riemergono, e alle quali corrisponde un vissuto degli italiani, negli anni cruciali della guerra e dell’occupazione del suolo nazionale da parte degli eserciti stranieri, che non ha trovato una significativa aggregazione in esperienze e comportamenti
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comuni, e comunemente rielaborati: proprio la gamma estremamente divaricata dei «vissuti» (a livello sia geografico che sociale) li rendono, a mio avviso, difficilmente riconducibili a un comune ethos, il solo in grado di trasformarli in fondamento di una nuova identità nazionale. La ricostruzione storica di un conflitto di memorie ha a che vedere con un’operazione prettamente storiografica, anche se certo la natura dell’oggetto da analizzare si rispecchia, più che per altri casi, in un potenziale alto grado di coinvolgimento dello storico in processi di costruzione identitaria: la memoria si plasma in continuazione come prodotto di un processo negoziale fra gruppi ed entità diverse, nel quale lo storico è continuamente invitato, e tentato, a entrare come soggetto attivo. Così, quando lo storico usa l’espressione «memorie divise» non deve vagheggiare, magari implicitamente, un unanimismo delle memorie: le memorie sono sempre conflittuali in una società aperta, ed è un bene che sia così. Parlando di memorie divise per l’Italia, si segnala tuttavia un problema di interpretazione storiografica: quanto cioè queste fratture, che si percepiscono nell’elaborazione comune del passato, siano una componente attiva in merito ai processi di ideazione, costruzione e modellamento della democrazia italiana negli ultimi cinquant’anni. Insomma un elemento storico, da ricostruire e interpretare al pari di altri, che ha caratterizzato (insieme ad altri fattori, ben inteso) la vita dell’ultimo cinquantennio. Non solo in Italia: in ogni paese d’Europa, alla fine della guerra, ci si è trovati d’avanti a memorie divise, come lo stesso Bodei aveva già rilevato qualche anno fa. La memoria europea è «da un lato intrecciata con varie forme di rimozione e di oblio, dall’altro divisa e conflittuale»34. La seconda guerra mondiale può essere considerata per l’Europa una guerra civile che ha attraversato tutto il continente per l’intreccio fra conflitti geopolitici tradizionali e lo scontro fra ideologie, modelli politici e di civiltà alternativi, che rendeva conflittuali appartenenze nazionali e ideologiche. Nello stesso tempo la guerra civile europea rinviava alla lotta fra collaborazionisti e resistenti nella seconda guerra mondiale, cioè a tante guerre civili interne ai singoli paesi coinvolti nel conflitto. L’adesione al fascismo e al nazismo ha attraversato, in misura più o meno ampia, tutti gli Stati europei, contribuendo a segmentare le
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memorie nazionali dopo la fine delle ostilità. Ciò ha portato, nel secondo dopoguerra, all’elaborazione di politiche della memoria da parte degli Stati, ognuna nutrita di rimozioni, oblii, parzialità35. E infatti tutti i paesi europei, dopo la fine del conflitto, si sono trovati davanti al problema di affrontare la punizione, o il perdono, da concedere ai numerosi collaborazionisti, problema tanto più serio là dove il collaborazionismo, come in Francia, era stato una sorta di «collaborazione di Stato, con una pesante partecipazione di notabili che appartenevano al nucleo centrale dell’élite francese». Le vicende di guerra, e l’adesione al fascismo e al nazismo di molti cittadini dei paesi occupati dalle potenze fasciste, ha attraversato, in misura più o meno ampia, tutti gli Stati europei, contribuendo a segmentare la memoria nazionale dopo la fine delle ostilità. Da questo punto di vista si può considerare l’amnistia, cioè una misura di natura collettiva che annulla la punibilità degli atti di collaborazione, e cancella così il crimine e la pena, una sorta di «amnesia indotta per legge»36. E non è il caso che anche oggi, là dove precedenti entità statali si sono rotte, come nella ex Jugoslavia, la riscrittura del passato recente, e in particolare degli eventi della seconda guerra mondiale, sia stata immediata, finalizzata anche alla pubblicazione di nuovi libri di testo per le scuole: alla grande narrazione ufficiale della resistenza antinazista come fonte di legittimazione a un tempo del partito comunista e della «identità jugoslava», sono subentrate, dopo la dissoluzione di quel paese, ricostruzioni diverse e contrastanti, volte a potenziare le memorie divise sulle quali legittimare la fondazione di nuove entità nazionali. In tal senso, nella ex Jugoslavia, il racconto storico ha contribuito non a riconciliare, ma a separare cittadini per oltre un quarantennio connazionali. Ma è indubbio che a ciò ha contribuito il fatto che la grande narrazione ufficiale dell’epoca socialista aveva nascosto che «la seconda guerra mondiale era stata non solo una lotta contro un aggressore straniero, ma anche una guerra civile», che dava luogo a un conflitto di memorie, rimasto latente fino alla dissoluzione della Federazione Jugoslava, ma pronto a esplodere all’indomani della sua crisi37. In Italia il tema della segmentazione delle memorie ha accompagnato e condizionato la costruzione della democrazia, perché da noi l’esperienza del fascismo è stata, più che altrove,
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devastante, coinvolgendo nella crisi del regime l’intera società. Conta così non tanto la constatazione della presenza di memorie conflittuali, quanto l’intensità del conflitto e la riuscita o meno delle strategie di ricomposizione. La stessa vittoriosa guerra civile è stata in qualche misura coperta da strategie dell’oblio: se infatti era chiaro chi avesse perso (anche se il clima postbellico di generale autoassoluzione, del quale ho già parlato, contribuì a diluire le responsabilità fino a renderle inconsistenti e non più individuabili), i vincitori mostravano riluttanza a rivendicare con forza, e con orgoglio, la battaglia combattuta e vinta. Rusconi ha attribuito la causa di ciò sia alla dispersione degli azionisti, i più decisi nel rivendicare il carattere di guerra civile rispetto a una maggiore propensione dei comunisti a sottolineare quello di guerra di liberazione nazionale, sia al sopravvenire di quella che definisce una guerra civile virtuale, che inibì ai partiti l’uso del termine anche nei confronti del passato, per paura di esporsi all’accusa di essere fomentatori di odio e di discordie38. Il fatto è che non esisteva un vincitore di quella guerra, ma molti che si consideravano tali. In Italia così si rinunciò a una legislazione di emergenza, che approfittando della straordinarietà del momento, delineasse fin da subito i contorni della nuova organizzazione del potere: la lotta sui poteri della Costituente, che si concluse, come è noto, con l’esclusione della potestà legislativa ordinaria, lasciata a governi di coalizione che, su quel terreno, fecero ben poco, dimostrò l’impraticabilità di una tale via. Sarebbe stato impossibile perciò fondare sui valori resistenziali un progetto complessivo di riforma dello Stato e di programma politico, proprio perché quei valori erano declinati in forma diversa, e subito dopo la guerra addirittura opposta, fra le varie forze politiche, e non era possibile per nessun partito politico richiamarsi a essi senza la remora di doverli condividere con altri soggetti opposti ideologicamente. In realtà non esisteva un’etica della resistenza, ma diverse etiche, spesso non comunicanti o decisamente opposte, come le ricorrenti tensioni fra formazioni armate di diversa appartenenza politico-ideologica avevano lasciato intravedere nel corso stesso della lotta armata. L’unità antifascista rappresentò così più un accordo sui limiti invalicabili dello scontro politico che un elemento in grado di orientare la ricostruzione della vita politica e le scelte di
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riforma istituzionale; il vero e proprio processo alla resistenza che si aprì sfruttando anche la legge di amnistia voluta da Togliatti, la denigrazione sistematica della resistenza che continuò, se non altro al livello di un’opinione pubblica moderata e di dichiarazioni di uomini politici governativi, fino alla metà degli anni Cinquanta39, la discriminazione contro i comunisti (cioè contro cittadini italiani a tutti gli effetti che professavano una fede politica, restando, sia pure con non banali riserve mentali, nei limiti segnati dalla Costituzione) segnalano fratture profonde non solo fra le forze politiche, ma nel corpo stesso della società. Su questo terreno, che potremmo definire minimo, l’unità antifascista raggiunse le più brucianti sconfitte rispetto alle ragionevoli attese di rinnovamento (una «rivoluzione» antifascista avrebbe dovuto imporre la sostituzione dell’intera struttura dirigente dell’amministrazione dello Stato, mentre solo l’apparato politico del regime fascista fu effettivamente colpito dall’epurazione). La resistenza e l’antifascismo riescono in qualche misura a rappresentare un terreno di incontro fra i vari partiti che parteciparono alla lotta di liberazione, ma non riescono a supplire alla disgregazione dello stato nazionale che si era attuata nel periodo 1943-1945. Del resto la questione nazionale, intesa come integrità della nazione, è al centro della lotta politica in quegli anni cruciali: in due regioni ai capi estremi dell’Italia, la Venezia Giulia e la Sicilia, e da schieramenti opposti e diversi (i comunisti per la questione di Trieste e gli agrari per il movimento indipendentista in Sicilia), proprio l’unità territoriale italiana viene rimessa in discussione. Questa situazione rimanda direttamente al tema della difficile costruzione di un’identità e di una classe dirigente nazionali, ed evidenzia così «il problema della leadership come problema di coesione nazionale», spostando dall’ambito della governabilità a quello della cittadinanza le cause di un deficit di leadership, e «intendendo per cittadinanza la piena accettazione di una cultura politica comune, del linguaggio e delle regole che consentono di risolvere dentro il sistema politico le tensioni della società civile»40. Come ha sottolineato Scoppola, le identità collettive nel nostro paese si riformano [...] negli anni della ricostruzione su circuiti distinti [...]: gli italiani sono tornati alla de-
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Democrazia e oblio: il caso dell’Italia repubblicana mocrazia sul binario di «appartenenze separate» piuttosto che su quello di una comune appartenenza nazionale e democratica41.
Peraltro i partiti politici hanno giocato un ruolo fondamentale di integrazione delle masse popolari, assicurandone la fedeltà di fondo al sistema anche in presenza di vecchie e nuove fratture operanti a livello di società civile e di fortissime tensioni di classe, politiche, geografiche; e tuttavia l’identità politico-ideologica che i due grandi partiti di massa, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, hanno fornito ai propri sostenitori, da un lato si fondava su riferimenti extranazionali (la Chiesa cattolica e il mito del socialismo incarnato dall’Unione Sovietica), contribuendo in ciò a indebolire ulteriormente il sentimento di identificazione nazionale degli italiani; dall’altro entrambi i partiti hanno condotto un’opera di attento adattamento alle pieghe della società, riproducendo al loro interno fratture, particolarità e localismi. E gli italiani si mostrarono più propensi a una dipendenza culturale dall’esterno (l’America, l’Unione Sovietica), o comunque extranazionale (la Chiesa militante di Pio XII), che a credere a una qualunque mistica repubblicana […] fascismo e antifascismo, comunismo e anticomunismo, i simboli del «rosso» e del «bianco», l’americanismo e l’antiamericanismo, appaiono nel dopoguerra ben più capaci di concettualizzare gli schieramenti e di orientare le passioni collettive42.
I partiti politici hanno inoltre indotto «la confusione dei loro compiti con le prerogative dello stato», finendo per «indebolire l’immagine di un potere super partes, garante neutrale di tutti i cittadini». E quindi «l’identificazione dei cittadini con lo stato rimane carente», e viene sostituita piuttosto da una «percezione di “disidentità nazionale”»43. Partiti forti e identità deboli hanno rappresentato il dato di fondo della nascita della nostra repubblica: potremmo aggiungere, partiti forti proprio in quanto hanno privilegiato, a livello della retorica politica, dell’elaborazione di simboli e miti capaci di unificare le loro basi e di proporsi come immediatamente percepibili anche all’esterno, non tanto i fattori di concordia civile, quanto quelli di divisione manichea, specchio della divisione del mondo: l’antifascismo, l’anti-capi-
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Paolo Pezzino talismo, l’anti-comunismo. Riescono così a costituirsi in «potenze etiche», in istituzioni in cui si ripone quella parte di fiducia e quello spirito civico che sono sottratti a uno stato che, peraltro, non ha sempre dato buona prova di sé44.
All’unità fra Stato e nazione, perseguita tenacemente dalle élite liberali, e alla sua curvatura in chiave aggressiva e nazionalista voluta dal fascismo, è subentrata una Repubblica dei partiti che ha accettato come dato di fondo, e per ciò stesso consolidato, un «noi diviso» degli italiani, cementato dall’oblio: del fascismo, della guerra, della guerra civile. Ma quando la crisi fiscale non ha più consentito di scaricare sul deficit pubblico il costo delle politiche sociali e assistenziali, e le lealtà partitiche tradizionali hanno lasciato il posto a una richiesta di «pulizia morale» che veicolava sia la reazione di chi veniva infine chiamato a pagare per il sistema di sicurezza sociale, sia le chiassose rivendicazioni di chi, dietro il rifiuto della dimensione nazionale, cela soltanto l’utopia di un libero mercato senza (o con poco) Stato (e relative imposte), la rinuncia a una memoria critica del fascismo ha evidenziato tutte le sue nefande conseguenze. Da identità deboli e partiti forti siamo così passati a identità e partiti deboli, in una crisi generale del sistema della rappresentanza45. Per dirla ancora con Nicole Loraux, la politica assume l’aspetto di «versione civica e rassicurante dell’oblio dei mali. Scompare l’oblio […] restano i mali»46. 4. Il mestiere di storico e l’Italia, oggi Lo storico studioso della memoria collettiva ha oggi il dovere di portare alla luce non tanto la memoria egemonica (quella che sostiene la versione comunemente accettata dei fatti, ovvero la narrazione storiografica prevalente), quanto quella vera e propria battaglia per la memoria che è sempre in atto nei processi di definizione di identità collettive. Si tratta di ripartire dal carattere intrinsecamente conflittuale delle costruzioni sociali e dalla consapevolezza della pluralità delle identità, senza sentirsi obbligati a privilegiarne alcuna a scapito di altre. La questione è di grande attualità oggi in Italia, paese nel quale è all’ordine del giorno la questione dell’identità nazionale, apertamente messa in discussione da non marginali movimenti politici e forze sociali, e richiamata quotidianamente dal nostro Presidente della Repubblica in una peda-
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gogia nazionale che si nutre, come è ovvio, di costanti riferimenti a un passato non più recente, ma continuamente riproposto come fondamento di identità, in contrapposizione anche a interpretazioni storiografiche. In tale situazione, si sostiene, non senza fondamento, da parte di alcuni studiosi che «una democrazia per funzionare ha bisogno di lealismo e solidarismo civico», che è necessario saldare le memorie divise in un senso di appartenenza ad un unico destino, quello della Repubblica, promuovendo una sorta di patriottismo costituzionale47. Molti sono così i richiami allo storico perché si assuma le proprie responsabilità: da parte di chi teme «la virtuale dissoluzione di ogni paradigma unitario del passato storico dell’Italia e della civiltà cui l’Italia appartiene»48; di chi tenta di rivitalizzare l’antifascismo come fondamento di una nuova identità nazionale, proponendo una politica della memoria aperta ai valori di solidarietà e giustizia sociale affermatisi nell’Europa uscita dalla sconfitta del nazismo49; di chi, davanti alla «negazione di senso che la dittatura del presente infligge al passato», alla asserita crisi dello Stato nazionale, «alla rimessa in questione dei fondamenti dell’identità nazionale e dei suoi punti di snodo costitutivi», reagisce proponendo, quasi a salvataggio in extremis da un rogo iconoclasta, il «patrimonio di memorie del popolo italiano», sia pure in una consapevole accettazione di «una pluralità di storie e memorie in un processo di unificazione segnato dal permanere delle differenze»50. In tutti questi casi, allo storico si richiede di contribuire a riconciliare una comunità (locale o nazionale che sia) divisa, rifondando una comune appartenenza nei valori civici di democrazia e solidarietà. È come se solo ora, dopo cinquant’anni, saltato il tappo del paradigma antifascista ed entrato in crisi il sistema politico che l’aveva espresso, le memorie divise, le fratture profonde della guerra civile del 1943-1945 e le debolezze dell’identità nazionale italiana, rimosse negli anni d’oro della «repubblica dei partiti», siano emerse alla luce, e allo storico si chiede di elaborare una nuova narrazione in grado di sorreggere quello che viene considerato dai più un valore assoluto, l’unità nazionale. Un gruppo di storici italiani così, chiamati a raccolta da Leonardo Paggi, riflettendo sulla necessità di elaborare una «politica della memoria» in grado di da-
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re spazio a tutte le memorie, divise, sommerse, non assimilabili, che hanno caratterizzato la storia della Repubblica, ha creato un’«Associazione per la storia e le memorie della Repubblica», diretta dallo stesso Paggi, presieduta dal senatore Salvatore Senese, e con la presidenza onoraria del senatore a vita Oscar Luigi Scalfaro. L’associazione riunisce singoli studiosi, comuni, province e regioni, istituzioni come alcune fondazioni private, e sorregge un progetto di elaborazione di valori identitari fondati sulla democrazia, tolleranza, giustizia sociale, che proprio nella vittoriosa guerra civile europea fra antifascismo e fascismo si sono affermati. La convinzione che sorregge il progetto è che memorie divise possano convivere se sorrette da una comune volontà di dialogo e di appartenenza democratica, ma che oggi non basti l’appartenenza nazionale a sorreggere efficaci e durature strategie di solidarietà nazionale. Da qui il riferimento a un’esperienza, che è stata soprattutto europea (quella dell’opposizione al fascismo e al nazismo e della lotta contro il loro progettato nuovo ordine internazionale) e alle modificazioni durature che questa ha prodotto nei rapporti fra Stato e cittadini, con la diffusione in tutta Europa dei meccanismi del Welfare State . Certamente quello che si propongono i membri dell’«Associazione per la storia e le memorie della Repubblica» è un uso pubblico della storia «democratico», e dobbiamo forse ritenere che sia ineliminabile dall’esercizio del mestiere di storico, soprattutto per chi si occupa di storia contemporanea, una ricaduta in termini civici delle proprie ricerche: ma in questo caso gli storici scendono direttamente e apertamente in campo, rivendicando a sé un ruolo essenziale nella mediazione politica e nella costruzione di una nuova identità adatta ai tempi della cosiddetta «seconda repubblica». C’è da chiedersi tuttavia come in questo «uso» ai fini di un discorso pubblico gli storici possano operare in direzione di una comprensione della pluralità delle identità, senza sentirsi obbligati a privilegiarne alcuna in particolare, e senza abdicare al loro ruolo principale, che è quello di essere «esperti di verità», intesa certo non in senso assoluto e positivista, ma solo come ricostruzione e affermazione di un ordine di concatenazione degli eventi plausibile, o meglio, più plausibile di altri ordini, come «esigenza di verità» che sta alla base della deon-
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tologia dello storico51. Sempre più spesso è dato leggere, nelle pagine di chi, da storico, si occupi di tali temi un richiamo alla «verità», nella ricerca di nuovi e indispensabili punti di equilibrio fra la memoria, la storia e la coscienza civile. [...] La distinzione tra il giudice e lo storico, che non va mai dimenticata, non deve peraltro trasformarsi in un alibi né per l’uno né per l’altro: per entrambi vige infatti l’imperativo etico della ricerca della verità, ciascuno con i mezzi e con gli obiettivi che gli sono propri52.
Da questo punto di vista, tornano attualissime le riflessioni esposte qualche anno fa da Arnaldo Momigliano. Egli ha mostrato come per secoli l’operazione storica fosse impresa individuale e libera, alla ricerca di un frammento di verità, e ha definito due scuole, chiaramente percettibili nel Settecento: da un lato quella tradizionale degli storici eruditi o antiquari, e dall’altro la nuova scuola di storia filosofica. Gli antiquari, che avevano prevalso fino alla metà del secolo, «avevano dato molte prove di pazienza, di penetrazione critica e di onestà [...] inducendo a riflettere sulla differenza tra la raccolta dei fatti e la loro interpretazione» (è significativo che viceversa Nietzsche ci vedesse soltanto «il ripugnante spettacolo di una cieca furia collezionistica, di una raccolta incessante di tutto ciò che una volta è esistito» 53). Gli storici filosofici, invece, erano interessati soprattutto a quella che in seguito fu chiamata civiltà. Gli storici di questa scuola studiavano il progresso dell’umanità quale si rifletteva nelle istituzioni politiche, nella religione, nel commercio, nei costumi [...] essi non miravano a stabilire l’autenticità dei fatti individuali, ma piuttosto a tracciare lo sviluppo dell’umanità54.
Solo a partire dal diciannovesimo secolo la storia ha preteso «di rispondere a domande circa lo scopo dell’esistenza o la qualità del futuro», denotando un cambiamento di prospettiva radicale: ciò ha spesso incoraggiato la tentazione di offrire delle conclusioni senza il dovuto supporto dei dati. Ha pure creato quello che a me sembra uno squilibrio tra l’interpretazione dei fatti e la loro scoperta. [...] Dobbiamo domandarci se la storia non abbia sopravvalutato la sua propria forza55.
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Lo storico non si limitava più a raccogliere indizi di un passato sconosciuto e lontano, magari connettendoli secondo un faticoso procedimento indiziario che consentisse di leggerli in un contesto non più che plausibile, nella consapevolezza che «il caso fa sì che possiamo sapere certe cose del passato e non altre, perché il caso fa sì che certe cose si siano conservate ed altre no» 56: si lasciava andare a ricostruzioni che tendevano immediatamente a individuare il «senso» della storia, e in quanto tali a creare identità. Invece che dedicarsi a raccogliere e classificare «frammenti del passato», si è trasformato in un creatore del passato stesso, un inventore di tradizioni, selezionando gli elementi più opportuni e idonei alla creazione di un’identità condivisa. Ritorniamo all’oggi: pur essendo personalmente sensibile al richiamo a un comune sentire, a un patrimonio di valori condivisi che nutra e sostenga la comunità nazionale, a una cittadinanza criticamente fondata su solidarietà, democrazia, giustizia, tolleranza; pur vedendo con preoccupazione e orrore l’invenzione di identità locali, regionali, pseudo-nazionali, o la riproposta dell’etnia come criterio di regolamentazione dei conflitti; pur riconoscendo infine che lo storico non può fare astrazione completa dalle proprie passioni politiche e civili, credo che il problema di creare identità non possa essere suo compito primario. Certo, con la sua competenza egli può smascherare etnie e nazionalità fittizie inventate da politici le cui incursioni nel passato somigliano a quelle dei pirati saraceni (rapide e volte a depredare tutto ciò che può tornare utile): e quando lo fa con onestà, viene per ciò stesso avvertito, giustamente, come un pericoloso nemico (l’incredibile vicenda di qualche anno fa delle minacce di morte a due storici veneti, rei solo di fare il proprio lavoro con onestà, dimostra quanto questo fronte possa essere importante). Ma la pratica del «mestiere di storico» non deve sposare alcuna identità: deve mirare piuttosto a evidenziare la pluralità degli intrecci e delle dimensioni, a complicare ciò che si vorrebbe presentare (e si pretende sia) come semplice, a smascherare le «invenzioni delle tradizioni», a smontare le costruzioni collettive di memorie, ad allargare e non a semplificare i contesti: le politiche dell’identità necessitano invece proprio semplificazioni e generalizzazioni, mentre lo storico distingue,
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disseziona, analizza, instilla dubbi. Yerushalmi evidenziava che se nel XX secolo lo storico era un forgiatore, raffinatore e restauratore di memoria (del suo popolo, del suo gruppo), [...] lungo la strada arriva a scoprire che i suoi metodi gli consentono una capacità di anamnesis molto superiore a quella che la collettività può anche solo concepire.
Lo storico, insomma, considera la memoria un oggetto come gli altri, da analizzare e scomporre, ma non può avere come fine la creazione di una memoria condivisa degli avvenimenti: «per lo storico, Dio dimora certamente nei dettagli; mentre la memoria, da parte sua, insorge contro il fatto che i dettagli tendono a diventare dei»57. Richiamarsi alla lezione degli antiquari può essere un utile insegnamento: la storia come «scienza del diverso»58, nel tempo, ma anche nello spazio, può essere una risposta al tema delle identità. Marc Bloch, poco prima di morire fucilato per il suo impegno nella resistenza a Lione, trovava la forza di scrivere, quasi a conclusione del saggio dedicato a Lucien Febvre, e scritto «come semplice antidoto» ai «peggiori dolori e le peggiori ansietà, personali e collettive»: Una parola domina e illumina i nostri studi: «comprendere». Non diciamo che il buon storico è senza passioni; ha per lo meno quella di comprendere. Parola, non nascondiamocelo, gravida di difficoltà, ma anche di speranze. Soprattutto, carica di amicizia. Persino nell’azione, noi giudichiamo troppo. È così comodo gridare: «Alla forca! ». Non comprendiamo mai abbastanza. Colui che differisce da noi – straniero, avversario politico – passa, quasi necessariamente, per un malvagio. Anche per condurre le lotte che si presentano come inevitabili, occorrerebbe un po’ più di intelligenza delle anime; e tanto più per evitarle, quando si è ancora in tempo. La storia, pur che rinunci alle sue false arie di arcangelo, deve aiutarci a guarire da questo difetto. È una vasta esperienza delle varietà umane, un luogo di incontro degli uomini. La vita, al pari della scienza, ha tutto da guadagnare da che questo incontro sia fraterno59.
E la ricerca filologica, la grande attenzione alle fonti e al loro uso, la storia come metodo, o insieme di metodi, di analisi può servire a porre domande, nella consapevolezza che le risposte sono condizionate dallo stato delle fonti, che bisogna attenersi strettamente ad esse, esercitandovi capacità critica:
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un grande esercizio di umiltà, modestia, tolleranza (interpretazioni diverse sono sempre possibili, sia pure in un ambito di plausibilità). È un richiamo che ha un grande valore civile, contro le evidenti falsificazioni, le false revisioni (mentre vi è un revisionismo che è critica di stereotipi e luoghi comuni, il quale è intrinseco alla ricerca storiografica), gli oblii, l’omologazione o l’appiattimento sulla esclusiva dimensione politicoideologica della ricostruzione storica. Senza voler mortificare la creatività interpretativa, lo storico deve continuamente stare ai «fatti», cioè allo studio delle fonti, alla ricerca degli indizi, a sceverare quanto gli è consentito di affermare e quanto risulta invece «invenzione»: questa fondamentale lezione mi sembra particolarmente importante oggi, alla fine di un secolo che ha visto prevalere ideologie totalitarie fondate anche su una continua manipolazione della storia. Note 1. Conferenza tenuta alla Sorbona l’11 marzo 1882, in E. Renan, Che cos’è una nazione?, Donzelli, Roma 19982, p. 6. 2. Y.H. Yerushalmi, Riflessioni sull’oblio , in Aa.Vv., Usi dell’oblio , Pratiche editrici, Parma 1990, p. 19. Secondo Yerushalmi, lo storico, come figura professionale, nasce strettamente collegato «al proprio gruppo e alla sua memoria», p. 20. 3. Sull’utilità e il danno della storia per la vita, 1873-1874, in Considerazioni inattuali II, introduzione di E. Foerster-Nietzsche, Monanni, Milano 1926, pp. 121-122. Per un inquadramento della posizione di Nietzsche su questo tema si veda H. Weinrich, Lete. Arte e critica dell’oblio , il Mulino, Bologna 1999, pp. 173-180. Nietzsche contrappone il sapere storico all’«intuizione immediata della vita», e sostiene che «per ogni agire ci vuole oblio», ibid., p. 176. 4. Wiesel. Io ricordo ma non per odiare , intervista di M. Fleishhacker e G. Guidotti, «Corriere della sera», 17 gennaio 2002. 5. R. Bodei, Addio del passato: memoria storica, oblio e identità collettiva, in «il Mulino», (1992), n. 340, ora in Libro della memoria e della speranza, il Mulino, Bologna 1995, p. 38. 6. N. Loraux, Sull’amnistia e il suo contrario , ibid., pp. 27-29, 52-53. 7. Su questi temi si veda Guerre Fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, a cura di G. Ranzato, Bollati Boringhieri, Torino 1994. 8. C. Cenci, Rituale e memoria: le celebrazioni del 25 aprile , in Le memorie della repubblica, a cura di L. Paggi, la Nuova Italia, Scandicci (FI) 1999, p. 337. 9. C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991.
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Democrazia e oblio: il caso dell’Italia repubblicana 10. C. Pavone, La resistenza oggi: problema storiografico e problema civile , in «Rivista di storia contemporanea», XXI (aprile-luglio 1992), nn. 2-3. 11. A. Baldassarre, La costruzione del paradigma antifascista e la Costituzione repubblicana, in «Problemi del Socialismo», n.s. (gennaio-aprile 1986), n. 7: Fascismo e antifascismo negli anni della Repubblica, p. 11. 12. Histoire et justice. Débat entre Serge Klarsfeld et Henry Rousso , in «Esprit», (mai 1992), n. 181: Que faire de Vichy? 13. R. Romeo, Italia mille anni, Le Monnier, Firenze 1981, p. 175. Vedi anche C. Pavone, Le idee della resistenza. Antifascisti e fascisti di fronte alla tradizione del Risorgimento , in «Passato e Presente», (gennaio-febbraio 1959), n. 7, ristampato in Id., Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato , Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 3-69. 14. Citato in C. Pavone, Una guerra civile…, cit., p. 172. 15. E. Galli della Loggia, La morte della patria, Laterza, Roma-Bari 1996. 16. R. Romeo, Italia… cit., pp. 197-198. 17. L. Mangoni, Civiltà della crisi. Gli intellettuali tra fascismo e antifascismo , in Aa. Vv., Storia dell’Italia repubblicana, vol. I, Einaudi, Torino 1994, pp. 646-647. 18. C. Cenci, Rituale e memoria…, cit., pp. 326 e 347. 19. Sull’epurazione si vedano C. Pavone, La continuità dello stato. Istituzioni e uomini, in Aa. Vv., Italia 1945-1948. Le origini della Repubblica, Giappichelli, Torino 1974, ristampato in C. Pavone, Alle origini…, cit., pp. 70-159; Id., Ancora sulla «continuità dello Stato», in Scritti storici in memoria di Enzo Piscitelli, a cura di R. Paci, Padova 1982, ora in C. Pavone, Alle origini…, cit., pp. 160-184; M. Flores, L’epurazione in Aa. Vv., L’Italia dalla liberazione alla repubblica, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 413-467; e i più recenti R. Palmer Domenico, Processo ai fascisti, Rizzoli, Milano 1996 e H. Woller, I conti col fascismo. L’epurazione in Italia 1943-1948, il Mulino, Bologna 1997. 20. A. Del Boca, Il colonialismo italiano tra miti, rimozioni, negazioni e inadempienze , in Fascismo e antifascismo. Rimozioni, revisioni, negazioni, a cura di E. Collotti, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 325-353. Nello stesso volume si veda la valutazione critica dell’opera di Renzo De Felice di G. Santomassimo, Il ruolo di Renzo De Felice , pp. 415-429. 21. Sul quale rimando a D. Bidussa, Il mito del bravo italiano , Il Saggiatore, Milano 1994. 22. Vedi a tal proposito F. Focardi, Alle origini di una grande rimozione. La questione dell’antisemitismo fascista nell’Italia dell’immediato dopoguerra, in «Horizonte. Italianistische Zeitschrift fur Kulturwissenschaft und Gegenwartsliteratur», (1999), n. 4, pp. 135-170; E. Collotti, Il razzismo negato , in Fascismo e antifascismo…, cit., pp. 355-375. 23. Si pensi alle ripetute negazioni, da parte di un giornalista illustre come Indro Montanelli, dell’utilizzazione di gas letali nella campagna di Etiopia, ormai provata con sicurezza dagli storici, con la motivazione che lui «c’era» e non aveva visto niente. Sui crimini commessi dall’Italia
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Paolo Pezzino in Grecia si veda L. Santarelli, La Grecia occupata, 1940-1943, relazione presentata a «Cantieri di Storia. Primo incontro Sissco sulla storiografia contemporaneistica in Italia», Urbino, 20-22 settembre 2001. Sulla mancata punizione nel dopoguerra dei criminali di guerra italiani F. Focardi, La questione della punizione dei criminali di guerra in Italia dopo la fine del secondo conflitto mondiale , in «Quellen und forschungen aus italianischen archiven und bibliotheken», (2000), n. 80, pp. 543-624; La questione dei «criminali di guerra» italiani e una Commissione di inchiesta dimenticata, a cura di F. Focardi e L. Klinkhammer, in «Contemporanea», IV (luglio 2001), n. 3, pp. 497-528. 24. G. De Luna, Partiti e società negli anni della ricostruzione , in Aa. Vv., Storia dell’Italia repubblicana…, cit., p. 749. 25. Il termine è di C. Pavone, La resistenza oggi: problema storiografico e problema civile , in «Rivista di storia contemporanea», X X I (aprileluglio 1992), nn. 2-3, p. 459. 26. E. Balducci, Quei miei compagni di scuola diventati minatori e fucilati, in Comune di Volterra, 1944-1984, 40° della Liberazione , s.t., p. 4. 27. P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1994. Levi faceva riferimento a una zona «dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi» (p. 29), a un’area di mediazione cioè fra potere e soggetti al potere alla quale anche le vittime potevano avere accesso. Nell’uso corrente, il termine viene usato invece per indicare una zona amorfa e indistinta, che nega il proprio riconoscimento di legittimità a qualsiasi potere costituito. Sulla zona grigia vedi C. Pavone, Caratteri ed eredità della «zona grigia», in «Passato e Presente», (gennaio-aprile 1998), n. 43, pp. 5-12. 28. A. Ballone, La resistenza, in I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 408. 29. Su questo tema si veda M. Battini e P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Marsilio, Venezia 1997. 30. M. Isnenghi, Conclusione , in I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 567 e 597. 31. Si vedano le considerazioni in proposito di E. Alessandrone Perona, La resistenza nei musei, in «Passato e Presente», (settembre-dicembre 1998), n. 45, pp. 135-148. 32. A. Ballone, La resistenza…, cit., pp. 408 e 422. 33. R. Bodei, Il noi diviso. Ethos e idee dell’Italia repubblicana, Einaudi, Torino 1998. 34. L’altro sangue d’Europa, «il Mulino», (1993), n. 345/1, ora in Libro della memoria…, cit., p. 49. 35. Si veda il libro curato da L. Paggi su La memoria del nazismo nell’Europa di oggi, La Nuova Italia, Scandicci (FI) 1997. 36. L. Huyse, La reintegrazione dei collaborazionisti in Belgio, in Francia e nei Paesi Bassi, in «Passato e Presente», (maggio-agosto 1998), n. 44. L’autore sostiene che «in questi paesi, il collaborazionismo e la successiva
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Democrazia e oblio: il caso dell’Italia repubblicana epurazione continuano a turbare la “memoria collettiva”» (p. 125). 37. W. Höpken, Guerra, memoria ed educazione in una società «divisa»: il caso della Jugoslavia, in «Passato e Presente», (gennaio-aprile 1998), n. 43, p. 66. 38. G.E. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione , il Mulino, Bologna 1993, pp. 52-53 e 73. 39. Si veda su questo aspetto G. De Luna, M. Revelli, Fascismo Antifascismo. Le idee, le identità, La Nuova Italia, Scandicci (FI) 1995. 40. M. Salvati, Cittadini e governanti, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 24. 41. 25 aprile. Liberazione , il Mulino, Bologna 1995, pp. 40-41. 42. M. Isnenghi, Conclusione…, cit., p. 601. 43. R. Bodei, Il noi diviso…, cit., pp. 21-24 e 48. 44. Ibid., p. 24. 45. Ho sviluppato queste argomentazioni in Identità deboli e partiti forti. Le radici storiche della crisi italiana, in «Storica», II (1996), n. 6, pp. 55-95. 46. Sull’amnistia…, cit., p. 53. 47. Si veda soprattutto G.E. Rusconi Se cessiamo…, cit. 48. E. Galli della Loggia, E la Storia diventa self-service , in «Corriere della Sera», 12 febbraio 1997. 49. Si veda il convegno Identità e storia della Repubblica. Per una politica della memoria nell’Italia d’oggi, Roma, 26-27 giugno 1997 (gli atti sono stati pubblicati a cura di L. Paggi, Le memorie della Repubblica…, cit.). 50. M. Isnenghi, Presentazione e Conclusione ai tre volumi da lui curati de I luoghi della memoria, editi da Laterza. Le citazioni dalle pp. VII, 564 e 567-568 del volume uscito per primo, Simboli e miti dell’Italia unita, 1996. 51. M. Moretti, La discussione sulla «responsabilità» dello storico. Alcuni appunti storiografici, in «Passato e Presente», (1998), n. 44, p. 101. L’espressione è di F. Bédarida. 52. C. Pavone, Note sulla resistenza armata, le rappresaglie naziste e alcune attuali confusioni, in Aa. Vv., Priebke e il massacro delle Ardeatine , l’Unità/IRSIFAR, Roma 1996, pp. 39-40. 53. Cit. in H.Weinrich, Lete…., cit., p. 176. 54. Sui fondamenti della storia antica, Einaudi, Torino 1984, pp. 5 (1950) e 297 (1954). 55. A. Momigliano, La storia in una età di ideologie [ed. or. 1982], in Tra storia e storicismo , Nistri-Lischi, Pisa 1985, pp. 59 e 72. 56. La letteratura e le cose , conversazione tra Francesco Orlando e Claudio Pavone, in «Parolechiave», (dicembre 1995), n. 9, p. 49. 57. Y.H. Yerushalmi, Riflessioni…, cit., pp. 20-21. 58. M. Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico , Einaudi, Torino 19692 [1949], p. 41. 59. Ibid.,, pp. 21 e 127.
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Memoria e politica. L’8 settembre come momento di nuove scelte Mario Belardinelli
Come ricorda Arnold Esch «grandi eventi storici […] mutano, retroattivamente, il senso di eventi a prima vista conchiusi, facendoli apparire in una nuova luce»1. Cerchiamo di capire il senso di questa mutazione in relazione all’8 settembre. L’immagine che emerge da antichi e recenti lavori storici sull’armistizio è quella di un evento profondamente traumatico nel suo significato e nelle sue conseguenze (vicine e lontane), del tutto rovinose e in un certo senso definitive: espressioni come «morte della patria» e «nazione allo sbando» configurano il crollo di qualcosa di altamente positivo che prima c’era e dopo è stato travolto (o stravolto). Concordano in varia misura Romeo e De Felice, Spadolini e Cantimori, Di Nolfo, Galli della Loggia e Aga Rossi: in questo senso l’8 settembre – e non il 25-27 luglio o il sorgere della resistenza – viene presentato, con l’utilizzazione di testimonianze prevalentemente postume e «intellettuali», come l’avvenimento che segna la fine di un mondo e che, con il collasso di tutti i poteri dello Stato e l’avvento di nuovi protagonisti sconvolge profondamente i valori e i vincoli collettivi del popolo italiano. Galli della Loggia in particolare sostiene che scompare l’idea di nazione «quale l’avevano definita le vicende storico-politiche fino alla seconda guerra mondiale»2. A me sembra che, al di là delle tragedie individuali e collettive, istituzionali ed esistenziali provocate dall’armistizio, sia importante vedere in esso il momento cruciale in cui si impone alla coscienza pubblica lo stato delle cose, si pongono inesorabili domande sugli assetti politici e sulle concezioni (ideologiche o mitiche) precedenti, si riassume la facoltà primordiale di decidere sul proprio destino. L’8 settembre sarà pure una fine, ma come epitome di tanti errori e illusioni precedenti: se per i vecchi antifascisti si tratta della dimostrazione finale della natura nefasta del regi-
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me, per i moltissimi, che avevano visto nel fascismo la via italiana alla modernità e all’integrazione nazionale delle masse, il superamento delle modeste aspirazioni dell’«Italietta» liberale e l’affermazione di un sogno collettivo di grandezza, la catastrofe costringe a riflettere sul significato di questo esito e a passare dallo sconforto e dall’indignazione alla scelta di un «nuovo corso». La ripulsa investe chi ha provocato «rovina e disonore», ossia il governo del recente passato, ma anche posizioni politiche più lontane: per alcuni viene coinvolto tutto un mondo di idee e di valori, per altri prevale l’esecrazione nei confronti di vecchie istituzioni che sono apparse incapaci di reggere la prova bellica. L’identificazione dei responsabili non è univoca. Da una parte c’è la memoria di un progresso, di una gloria, di un protagonismo (conseguiti, o idealizzati, nei decenni precedenti), dall’altra la coscienza di una realtà effettuale avvilente con cui bisogna fare i conti e da cui è necessario trarre conseguenze politiche. Si tratta di un conflitto nelle coscienze individuali e all’interno di organismi collettivi i cui esiti sono complessi, e, come ha ricordato Pavone, meno lineari di quanto sia spesso apparso. Questa crisi, come enuncia la teoria delle catastrofi, comporta comunque una sua soluzione e nuovi equilibri: a chi guarda da una sessantennale distanza appare chiaro come la rottura dell’assetto precedente sfoci – per successivi aggiustamenti – nell’affermazione di un assetto politico e istituzionale profondamente mutato: le continuità giocheranno un ruolo, ma tutto sommato, dal punto di vista politico e della mentalità, prevarrà il cambiamento. Naturalmente le soluzioni delle crisi nella storia non avvengono in modo predeterminato, come negli eventi fisici naturali, ma ad opera degli uomini che, di fronte al crollo di equilibri e punti di riferimento precedenti, lottano per radicali trasformazioni o per «combinazioni compromissorie»: ritengo che dall’8 settembre del 1943 il realismo popolare abbia colto la logica delle forze in gioco (al di là di minoritarie tendenze di ritorno al passato) e abbia assecondato «il cambiamento possibile». Avanzo alcune linee di interpretazione. Ho detto che di questo processo di revisione «il principio fu la guerra». Ho avuto occasione recentemente di occuparmi di opinione pubblica italiana nel 1939-1940, registrando come
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emerga (in particolare negli ambienti cattolici, ma anche nella corte e fra laici, fascisti e non, e fra gli stessi militari) una forte resistenza ad una guerra di aggressione a fianco della Germania. Poi sembra imporsi la volontà di Mussolini: approfittare di una vittoria già ipotecata dal «potente alleato tedesco» per ottenere con una breve «guerra parallela» vantaggi a spese delle «plutocrazie democratiche», bilanciare la potenza germanica e confermare all’Italia il ruolo di primaria potenza conquistato nella Grande Guerra. Ma è riduttivo attribuire tutta la responsabilità a «un uomo solo» (come proclamò anche Churchill per ragioni propagandistiche, e come accreditarono poi molti da parte italiana). Seppur rimasto in ombra, non è possibile ignorare il ruolo partecipativo di quanti (di antitedeschi come il re, e Ciano e Grandi, di buona parte dei settori diplomatici e militari – in genere considerati afascisti – del mondo economico e di tanti intellettuali) assentono a un’impresa che si configura come «inevitabile conseguenza» della vocazione alla grandezza nazionale e che, senza consistenti rischi, può portare all’ampliamento di confini, al rafforzamento delle posizioni politiche ed economiche nei Balcani, al controllo del Mediterraneo. Sono poi convinto che, al di là dell’appoggio fornito all’intervento dai poteri forti della società, in vista dei benefici prospettati, il fascismo e il carisma personale del suo Duce ottengono sulla guerra, se non un appoggio entusiasta, adesione popolare vasta (più forte nelle città, più passiva nelle campagne) per la scelta di dare ancora una volta all’interno e all’estero, quell’immagine di forza e decisione che si era tradotta nel recente passato in prestigio internazionale e autonomia politica, in definitiva nel superamento di quel complesso di inferiorità che affliggeva gli italiani fin dal Risorgimento. Come tutti sanno, non solo la «facile guerra» si rivela un impegno sempre più duro, e si prolunga per lunghi anni su vari fronti con centinaia di migliaia di vittime, mettendo in evidenza inadeguatezza di risorse e di preparazione militare; ma all’interno del paese provoca la rovina dei piccoli risparmiatori e un carovita insostenibile; manifesta l’impotenza a opporsi all’offesa aerea sulle popolazioni civili e all’invasione del territorio nazionale; e soprattutto, da «nazional-fascista», come era stata presentata, si rivela «nazifascista»: totale, inesorabile e spietata nei suoi modi e nei suoi obiettivi di «nuovo ordine».
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Evidenzia inoltre, a seguito degli insuccessi italiani, la progressiva subordinazione politica e militare alla Germania: un fatto che configura per l’Italia, fin dal 1941, un destino di satellite. Sull’onda della delusione, l’ampio consenso popolare di cui il fascismo godeva all’inizio della guerra si indebolisce progressivamente; per i vertici istituzionali proprio il fallimento previsionale di Mussolini e la sua incapacità di sottrarsi all’abbraccio mortale di Hitler finiscono per denunciare i segni della perdita di realismo e di spregiudicatezza che gli avevano assicurato il successo, e costituiscono la premessa del 25 luglio. Sappiamo che la crisi non precipita immediatamente, per il tentativo del governo regio di mantenere l’iniziativa politica in senso conservatore: «sfascistizzare» il paese per decreto e «salvare il salvabile», accordandosi con gli Alleati. Questo avviene fingendo di voler continuare la guerra con i tedeschi e contemporaneamente proponendo agli anglo-americani un «cambiamento di fronte»: è anche questa, come già l’intervento, una soluzione «furba», sulla linea dell’ottimismo velleitario instaurato nel ventennio, ma con radici nella secolare politica sabauda. Tale linea si scontra non solo con la durezza e sfiducia alleata, ma anche con l’impossibilità di controllare appieno un apparato politico e militare penetrato profondamente da mentalità fascista. Questa manovra, slegata e ambigua, sfocia nella resa incondizionata, accentua la risposta aggressiva dei tedeschi al «tradimento» italiano, provoca lo choc dei poteri (che avevano sperato in una evacuazione della Wehrmacht verso Nord) e il deragliamento dello Stato. Ma l’impatto di questi fatti sulla gente non è solo avvilimento e sfacelo: certamente l’esito immediato, di fronte a un’autorità statale latitante, è la passività (nella maggioranza dei militari, ottusa resa ai tedeschi; nei civili, attendismo fatalista), o, per i più reattivi, la fuga liberatoria (sui monti oppure verso le realtà elementari dell’esistenza: la famiglia, la comunità locale, la religione avita, tutto ciò che si può identificare con la casa). Tuttavia con il venir meno della cogenza disciplinare e dell’incertezza degli ultimi mesi si aprono, dopo l’8 settembre, possibilità di azione legate al giudizio sui fatti recenti e sulle conseguenze. Oltre all’evidente fallimento del programma di potenza si percepiscono in modo sempre più chiaro certe tendenze in atto. La reazione militare tedesca all’ar-
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mistizio manifesta fino alle estreme conseguenze la volontà di rendere l’Italia soggetta agli interessi bellici e politici della Germania. Anche gli Alleati, che pure appaiono a molti «liberatori» da un potere oppressivo che ha portato guerra, fame e rovine, utilizzano la penisola come «piccolo secondo fronte», ne sfruttano le risorse e, soprattutto gli inglesi (che progettano di acquisirla nella loro futura sfera d’influenza politica) sono sentiti come futuri dominatori. Per gli italiani, di fronte a un potere statale regio, tradizionale simbolo d’unità e autorità, ora screditato, lontano e senza capacità di governo effettivo, diventano punti di riferimento forze interne autonome rispetto al vecchio Stato. La Santa Sede e la Chiesa, innanzitutto. Si tratta di due soggetti ovviamente connessi, ma non coincidenti (l’uno esprime l’organo centrale di governo del cattolicesimo, l’altro la comunità religiosa di clero e fedeli organizzata sul territorio): il primo, già interlocutore del regime, che gli ha riconosciuto statualità autonoma, il secondo promotore di consenso al fascismo per la prospettiva di un’Italia «Stato cattolico». Santa Sede e Chiesa, dopo aver subito dal fascismo nella primavera del 1940, e ancora negli anni successivi, isolamento e ostilità per le loro iniziative a favore della pace, ora fruiscono di un ritorno di simpatia popolare. Mentre la Santa Sede si pone formalmente in posizione neutrale fra i contendenti (e, in tale veste, cerca di svolgere una funzione mediatrice a favore delle popolazioni civili), emerge in modo sempre più chiaro la sua condanna dello statalismo totalitario, e il suo accostamento agli Stati Uniti (iniziato fin dal 1939, nell’ostilità comune alla guerra hitleriana), che può costituire una futura garanzia. La Chiesa italiana a sua volta si impegna fin dall’8 settembre in un’opera di accoglienza e assistenza (mobilitando a questo fine istituti religiosi e associazioni): papa e Chiesa rinnovano – come avrebbe ricordato il laico Chabod – la funzione di protezione dai barbari di antica memoria. Altro punto di riferimento sono i partiti antifascisti: la storiografia ha ampiamente sottolineato il ruolo di queste forze politiche, che occupano ora, grazie all’azione di minoranze coraggiose, lo spazio lasciato dal fallimento dei poteri precedenti, si proclamano rappresentanza autentica del paese, e propongono nuovi (o antichi) modelli di convivenza politica. Nel-
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la costituzione di un organismo solidale all’indomani dell’8 settembre, che configuri un futuro «governo del cambiamento democratico», i cattolici della Democrazia Cristiana giocano un ruolo importante, superando antichi steccati ideologici e timori clericali di connivenza con i comunisti. Ma tra i punti di riferimento costituisce un polo d’attrazione anche il risorto «fascismo delle origini», che denuncia il re e la componente monarchico-nazionalista come responsabile del «tradimento» e dà vita a quel regime senza compromessi da tempo auspicato: repubblicano, social-nazionale, anticapitalista, totalitario a tutti gli effetti, intenzionato a essere, a suo modo, una rottura con il passato. Se i fondatori della Repubblica sociale vengono incontro ad attese di rinnovamento, secondo un itinerario coerente con certe attese «rivoluzionarie», essi, schierandosi con i tedeschi, gettano l’Italia nella guerra civile, e con i loro programmi e la loro furia fanatica allontanano l’opinione pubblica da un’opzione politica che vent’anni prima era apparsa (anche a molti cattolici) originale e vantaggiosa: far «marciare insieme» anime culturali, istituzioni, interessi diversi. Mentre la Chiesa, pur rispettando un potere di fatto, non ne riconosce la legittimità e ne rigetta sia il «giacobinismo ideologico» sia la pretesa totalitaria, il gruppo dirigente democratico cristiano offre una «sponda alternativa» a quel blocco di «diversi interessi e diversi ceti sociali», che aveva dato consenso al fascismo e che si ritrova senza referente politico. Per costoro dagli esiti della guerra civile e dagli eccessi dello scontro ideologico emerge l’esigenza di favorire nel paese una soluzione politica, capace di superare il clima di contrapposizione, odi, efferatezze, che divide la nazione come mai era avvenuto prima. Se fra i vecchi ceti dirigenti si nutre la speranza di un ritorno al prefascismo, nell’opinione pubblica popolare prevale la coscienza dell’impossibilità di tornare ad antichi modelli politici. Anche nella Chiesa è diffuso il timore che la sconfitta e il vuoto di potere portino a un violento cambiamento rivoluzionario, analogo a quello della Russia nel 1917; ma si accetta che i cattolici partecipino a una coalizione di cui fanno parte forze marxiste, perché è il modo di far uscire l’Italia dalla condizione di sconfitta, di smorzare i conati rivoluzionari ed evitare le convulsioni civili del primo dopoguerra. In questo
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quadro la Chiesa cattolica, che nella presenza in mezzo alla gente e nelle prese di posizione di Pio XII su guerra e diritti umani ha rinnovato la sua immagine, appare a molti garante del ritorno all’ordine e alla riconciliazione. Da quest’ultimo punto di vista la vicenda del passaggio della Chiesa dall’appoggio al regime fascista all’accettazione del sistema democratico costituisce non solo una rassicurante premessa per un «partito cristiano», che intende favorire la coesistenza politica «in una società ormai laicizzata, pluralista e di massa», ma anche un modello analogico di «ricomposizione esistenziale» per un vasto settore moderato. La Chiesa italiana, che resta fedele ai termini concordatari e all’identificazione nazionale, appare in sintonia con l’evoluzione politica prevalente: se per i cattolici democratici prevale la scelta repubblicana, anche per quanti di essi ritengono ancora la monarchia elemento essenziale di unità e stabilità l’8 settembre ha chiuso una fase nella vita del paese. Non si mette in discussione il vincolo unitario né la coscienza nazionale (del resto il sentimento di «sopravvivenza della patria nazionale» è diffuso sia nell’attivismo resistenziale sia nell’attendismo), ma certo si perviene a una sua diversa concezione. In polemica con un certo «canone risorgimentale», si sentirà ormai stonata la retorica patriottarda e militaresca, e l’avversione alla guerra diverrà un nuovo elemento unificante. Per tanti è la fine di una religione della patria, che prevedeva non solo la doverosa rinuncia agli interessi individuali a vantaggio della comunità nazionale, ma anche il sacrificio delle ragioni della coscienza e dei diritti altrui a vantaggio della «dea nazione»: un culto la cui origine risale a prima del fascismo, ma di cui il fascismo e il suo capo si sono eretti a sacerdoti. Appare anche ovvio il ridimensionamento del ruolo dello Stato: è la fine dello «Stato etico» gentiliano, l’ente da cui emana ogni ragione di diritto e moralità, la cui sovranità non riconosce limiti. Muta anche il rapporto fra Stato e nazione: l’idea di questa diviene meno simbolica e artificiale, più comprensiva di quelle realtà intermedie, cui ci si è ancorati nel momento della crisi. Le famiglie, poi le comunità locali e infine la comunità nazionale, sentita (a parte alcuni fenomeni separatisti, che si possono considerare tutto sommato circoscritti) come realtà indiscussa: una realtà però più comprensiva, in cui anche le donne e gli allogeni debbono avere diritti paritari e rappre-
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sentanza, e che nello Stato deve potersi riconoscere. Il cambiamento che parte dall’8 settembre si esprime infatti anche nella volontà della gente di fare scelte politiche, di decidere tutti, senza distinzioni di sesso, lingua, appartenenza culturale, e impedire che deleghe a capi carismatici o atti di forza in nome di un presunto «bene generale» trascinino ad altri disastri. Da questo punto di vista mi sembra sia da meditare la formidabile partecipazione al voto che contrassegna le elezioni del dopoguerra, a paragone di quelle precedenti di età liberale (e di quelle degli ultimi decenni). La nazione non si baserà d’ora in poi su elementi «oggettivi» come l’identità etnica, la lingua, i confini geografici, una «storia millenaria» (o bimillenaria), ma piuttosto sulla coscienza di una comune cultura e di un’identità conquistata nel faticoso cammino compiuto da tutti gli italiani nello sviluppo civile e sociale di quasi un secolo di storia unitaria. Va in crisi infine il mito della «grande nazione civilizzatrice», che aveva alimentato pretese espansioniste, egemoniche, colonialiste, espresse nelle imprese africane, nel Patto di Londra, nel programma del Mare nostrum , nell’occupazione dell’Albania e nell’annessione della Slovenia, e che aveva avuto nella forza militare un suo attributo fondamentale. Ma questo non significa mortificazione o fine della coscienza nazionale, piuttosto passaggio – graduale in certi ambienti, rapido in altri – a una «nuova coscienza nazionale» che rifiuta miti e simboli retorici, valorizza i legami civili, riconosce la pari dignità delle altre nazioni. Per i più pensosi, quelli che sono abituati agli esami di coscienza, il cambiamento si verifica non per imitazione di modelli esterni o adattamento alle circostanze, ma attraverso una conversione indotta dalla tragedia vissuta collettivamente, e genera adesione a quei principi di convivenza pacifica, interna e internazionale, che avrebbero trovato espressione nella nostra Costituzione. Si tratta per la maggioranza di un cambiamento che non trova spesso esplicitazione pubblica (anzi, come succede spesso negli individui e nelle collettività, la vecchia mentalità nazionalista in certi momenti tende a riemergere), ma che induce a una visione più realistica delle potenzialità del paese, impedisce l’affermazione di un’opinione «revanchista», fa prevalere la volontà di concentrarsi sui problemi della ricostruzione e della convivenza civile.
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Certo la conseguenza politica più pesante dell’8 settembre è il senso della sconfitta e del fallimento: una condizione umiliante che sembra mettere un’Italia priva di forza militare e di autonomia sulla scena internazionale alla mercé dei potenti. Ma questa deprecabile situazione (come ha recentemente ricordato Tommaso Padoa Schioppa a proposito del «paradosso della debolezza» dell’Italia del dopoguerra) avrebbe spinto De Gasperi, a promuovere, d’accordo con altri governanti cattolici come Schuman e Adenauer, e a laici non nazionalisti, una collaborazione politica ed economica fra paesi europei: un’iniziativa capace di dare un nuovo rilievo – nella riconciliazione reciproca e nella rinuncia a parte della propria sovranità – a entità nazionali che si ritrovavano tutte, in un modo o nell’altro, impoverite e umiliate dal devastante conflitto.
Note 1. Storia in fieri: lo storico e l’esperienza del presente , in Società istituzioni, spiritualità. Studi in onore di Cinzio Violante, Spoleto 1994, p. 313. 2. La morte della Patria. La crisi dell’idea di nazione tra resistenza, antifascismo e Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1999: opera che può considerarsi essa stessa manifestazione della modifica della memoria nella crisi del sistema politico italiano all’inizio degli anni Novanta.
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