Oro, argento e porpora. Prescrizioni e procedimenti nella letteratura tecnica medievale 8864580417, 9788864580418


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Oro, argento e porpora. Prescrizioni e procedimenti nella letteratura tecnica medievale
 8864580417, 9788864580418

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ORO, ARGENTO E PORPORA Prescrizioni e procedimenti nella letteratura tecnica medievale

a cura di Sandro Baroni

Sandro Baroni (a cura di), Oro, argento e porpora Copyright © 2012 Tangram Edizioni Scientifiche Gruppo Editoriale Tangram Srl – Via Verdi, 9/A – 38122 Trento www.edizioni-tangram.it – [email protected] Prima edizione: marzo 2012, Printed in Italy ISBN 978-88-6458-041-8

Progetto grafico di copertina:

Stampa su carta ecologica proveniente da zone in silvicoltura, totalmente priva di cloro. Non contiene sbiancanti ottici, è acid free con riserva alcalina.

Sommario

Premessa Pergamene purpuree e scritture metalliche nella letteratura tecnico artistica. Un quadro introduttivo

Sandro Baroni

9 11

Dal mondo tardo antico al medioevo Conchylium

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Ut auro scribatur

69

Scribebantur autem et libri

87

Giulia Brun

Paola Travaglio

Gaia Caprotti e Paola Travaglio

Riproposizioni rinascimentali Procedimenti nell’Alphabetum Romanum di Felice Feliciano

107

A colorire una cartapecora di che colore vuoi per scrivervi su che lettere vuoi

113

Glossario

123

Bibliografia

135

Profili degli autori

151

Maria Marta Marconcini

Paola Travaglio

Luigi Brusati

ORO, ARGENTO E PORPORA Prescrizioni e procedimenti nella letteratura tecnica medievale

9

Premessa

Seppur molto sia stato scritto circa l’uso della porpora nell’antichità e sulle preziose scritture dei codici purpurei, mancano a oggi complessive ricognizioni in direzione della letteratura tecnica che, tra la fine del mondo antico e il Medioevo, trasmise il modo, o meglio i modi, di realizzazioni di questo genere. Il presente volume si propone di concorrere a integrare questa lacuna, anche cercando di contestualizzare e inquadrare questo genere di scritti nell’articolata produzione della trattatistica tecnica medievale relativa alla decorazione e ornamentazione del libro manoscritto. Nell’introduzione si prendono sinteticamente in considerazione alcuni aspetti legati a prescrizioni tecniche inerenti la scrittura su papiro o pergamena tinta di colore porpora con inchiostri metallici o surrogati di questi, per quanto riguarda l’antichità ellenistica. Purtroppo nessuno di questi testi tramanda in modo esclusivo e individuato l’associazione di queste due operatività. Le numerose ricette su scritture in oro e argento e sulla tintura purpurea del supporto scrittorio, conservate nei papiri e in alcuni manoscritti greci e siriaci, pur testimoniando l’enorme interesse dell’epoca verso queste pratiche, rappresentano estratti o frammenti erratici, decontestualizzati e frammisti ad altre prescrizioni di varia natura. Unitamente alle considerazioni su queste varie ricette, diviene quindi necessario chiarire lo stato dei testimoni che ce le trasmettono. Più solide certezze si possono avere, e il quadro diviene più chiaro, quando ci si avvicina invece alla letteratura latina medievale. Anche qui sarà necessario osservare, come sempre, le tipologie dei testi nei quali la trasmissione del sapere tecnico si inquadra e considerare su piani diversi le descrizioni dell’enciclopedismo, antico e medievale, rispetto ai testi tecnici veri e propri. Trattati di rubricatura, miniatura e altri “generi” specifici sono la cornice in cui osservare il trapasso di prescrizioni legate alla realizzazione dei codici purpurei. Una preliminare definizione delle modalità con cui, mediante il lemma, vengono trasmesse le varie sfumature e tipologie di colore purpureo attraverso i testi e il linguaggio diviene necessaria nel passaggio tra lingua greca e le forme latine antiche e medievali.

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A seguito dell’introduzione, il corpo vero e proprio di questa ricerca riguarda invece il recupero di alcuni testi latini che costituiscono le sole testimonianze scritte a oggi note riguardanti l’esecuzione di codici purpurei. A questi si aggiungono due testi quattrocenteschi, che riteniamo utile esempio della recezione e del tentativo di riproposizione rinascimentale di queste tecniche antiche. Pur nelle particolarità che connotano i singoli testi, si è comunemente cercato di procedere alla proposizione e lettura delle opere nella migliore veste filologica possibile. Una particolare attenzione si è posta alla “destinazione” d’uso del testo, cercando di indagarne le modalità, i contorni e gli indirizzi della trasmissione, al fine di meglio svolgere l’interpretazione e la valutazione storica di queste frammentarie fonti. All’apparato testuale è affiancato un sintetico commento tecnico, rimandando per un più ampio approfondimento all’apposito glossario. I tre studi che costituiscono l’ossatura del libro (“Conchylium”, “Ut auro scribatur” e “Scribebantur autem et libri”) sono stati presentati nella poster-session del Convegno “Codici miniati: incontro tra arte e scienza. Gli scriptoria altomedievali” (Vercelli, 10-11 giugno 2010). Poiché gli atti di quella giornata di studi ancora attendono pubblicazione, gli autori pensano opportuno di diffondere in questa semplice veste il proprio lavoro, seppur nella consapevolezza dei molti limiti che questo può presentare. S.B.

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Pergamene purpuree e scritture metalliche nella letteratura tecnico artistica. Un quadro introduttivo Sandro Baroni

Nell’insospettabilmente vasta letteratura tecnico artistica che il Medioevo ci ha consegnato, un posto di rilievo occupa il settore di scritti dediti alla predisposizione e decorazione del libro manoscritto. La miniatura e la decorazione del libro sono state sicuramente delle arti “guida” o di riferimento per quanto riguarda questo periodo e certo la vicinanza di queste tipologie di realizzazioni al mondo di chi scriveva e leggeva ha favorito il proliferare di una messa in pagina di esperienze e prescrizioni necessarie a tramandare certe operatività. Nella miniatura più che in altri settori delle arti la trattatistica medievale è ampia, articolata e ricca. Questi testi sul modo di “fare l’arte” peraltro ancora attendono un riordino quanto edizioni e studi, come pure, a priori, storici delle arti e delle tecniche – nel caso della miniatura – capaci di integrare gli aspetti connessi alla tecnica e alla materia ad altri elementi più squisitamente formali, stilistici e, naturalmente, culturali. Ma sarebbe riduttivo fermarsi a questo pur auspicabile aspetto. A evidenza, i cosiddetti “trattati tecnici” nel campo delle arti racchiudono ben più che elementi pratici e materiali a cui gran parte di coloro che poco o nulla ne sanno vorrebbero limitarli. Questi testi racchiudono e raccontano un mondo intero, ma certo non è facile d’un balzo raccogliere i significati e i segnali che spesso si nascondono in un’espressione, nella organizzazione della esposizione, nei nuovi materiali o nell’evolversi di una ricetta. Eppure, Julius Schlosser aveva ben definito, già nel terzo decennio del Novecento, questo genere di testi: «È sintomatico che il Medio Evo cominci anzitutto col raccogliere e ricuperare i metodi dei laboratorii, sia quelli tradizionali che quelli introdotti di nuovo. È anzi questa la sua unica letteratura artistica in senso stretto […], la parte più originale, cioè ciò che possiamo chiamare la letteratura artistica del Medio Evo»1. 1

Schlosser Magnino [1924] 1964, pp. 25-26.

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Nonostante questo singolare e incoraggiante giudizio da parte di uno dei padri della Quellenforschung, veramente assai poco negli studi di settore è stato integrato durante gli ultimi ottant’anni alle pur limitate segnalazioni di pubblicazione di trattati che ci ha lasciato la Kunstliteratur di Schlosser. Bisogna dire – e non è certo per scusare disattenzioni storiografiche – che questo genere di testi versa nella tradizione manoscritta, per varie problematiche, che qui non è il caso di rammentare, in un pessimo stato di disordine. Le attenzioni del filologo devono unirsi a quelle dello storico per ottenere buoni risultati, e certo in entrambi i casi bisogna conoscere ciò di cui si parla, cioè di come un’opera si fa: con che materiali, come questi vengano trattati e in che modi e maniere. Quanto procede dall’antichità classica, o meglio quanto da quel mondo si è versato nel Medioevo latino, ancora attende euristica, studi e valorizzazione; inoltre ciò che è noto il più delle volte trasmette saperi antichi, in modo frammentario, decontestualizzato, spesso fuorviante. Diviene necessaria una particolare attenzione alla differente e varia tipologia di testi e ai loro generi per una migliore interpretazione di queste fonti, provenienti da un passato così remoto. Riguardo poi ai testi più schiettamente medievali, questi non mancano e si presentano con fisionomie spesso più definite e caratterizzate, anche se ancora la prima e immediata difficoltà appare quella euristica.

Tipologie medievali di testi relativi alla decorazione del libro Talvolta privati di prologhi e incipit, interpolati, smembrati o ridotti, i testi veri e propri (o trattati), originali elaborazioni di un autore e composti da ricette, possono facilmente mimetizzarsi all’interno del marasma di materiali letterari erratici che li accompagnano. In un’analisi dei ricettari, o comunque di testimoni manoscritti della tradizione tecnica, è importante per lo studioso poterli identificare2. Questo può anche avvenire grazie alle complessive unità che a volte i blocchi di ricette presentano dal punto di vista contenutistico, oppure, da un punto di vista strettamente formale e linguistico. L’identificazione può essere facilitata 2 La conduzione di questo capitolo e la riflessione sui “generi” degli scritti di testi relativi alla decorazione del libro, oltre ad alcune riflessioni su Isidoro di Siviglia, fanno parte di una elaborazione condotta dallo scrivente e da Paola Travaglio, che di questo argomento e delle problematiche di identificazione dei testi ha discusso e trattato nella propria tesi di laurea (P. Travaglio, Trattati e ricettari di miniatura: modalità di formazione e trasmissione. Proposte di analisi e interpretazione, tesi di laurea in Storia e critica dell’arte, relatore S.B. Tosatti, correlatore P. Chiesa, Università degli Studi di Milano, a.a. 2009-2010). In pieno accordo con quest’ultima, si riprendono e sintetizzano qui, relativamente a questo tema, alcune argomentazioni lì già più compiutamente esposte.

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qualora la ricerca tenga presente che sono esistiti precisi modelli letterari (o “generi”) e tipologie di testi, riassumibili in forme e strutture spesso notevolmente simili, in parte originate dalla stessa descrizione del contenuto tecnico, in parte frutto di tradizioni imitative di modelli letterari precedenti. Questi due aspetti, naturalmente, si possono tra loro fondere ed è difficile allo stato attuale capire se l’elemento preponderante di tali modelli sia ascrivibile alle peculiarità della narrazione oppure a una azione dovuta a consuetudini letterarie. Per esemplificare meglio quanto detto, circoscriveremo l’analisi esclusivamente all’ambito della scrittura, della miniatura e della decorazione del libro, così da rendere evidente la diversità di forme e strutture di tipi di opere che coincidono anche con i diversi ruoli operativi della decorazione libraria medievale; ciò servirà pure a meglio contestualizzare i testi di cui tratteremo. A questa indagine classificatoria sono riconducibili alcune tipologie di testi che possono essere così definite e raggruppate: 1) Trattati di rubricatura 2) Trattati di miniatura 3) Trattati compositi di miniatura e rubricatura 4) Trattazioni relative a un singolo colore 5) Tabulae e tavole di mescolanza 6) Trattazioni di crisografia, argirografia e codici purpurei Trattati di rubricatura I trattati di rubricatura, solitamente brevi o di media lunghezza, sono destinati alla realizzazione di lettere iniziali e titoli di un codice o di una scrittura e sono in genere costituiti da ricette sulla preparazione di due (rosso e azzurro) o al massimo quattro colori (rosso, azzurro, verde e giallo). Questi testi inoltre contemplano pochi pigmenti atti a realizzare i colori (solitamente cinabro e/o minio per il rosso, azzurrite e/o lapislazzuli per l’azzurro, verdi di rame e/o succhi vegetali per il verde, zafferano e/o arzica per il giallo). La scala cromatica mette sempre a capo i rossi, talvolta giustificando il fatto che questi siano, appunto, i colori più usati. Le forme più antiche non sembrano contemplare l’uso della doratura o crisografia, mentre le composizioni più tarde riportano anche ricette sulla porporina o oro musivo e su varie scritture dorate. Dei pigmenti si parla sempre con uno schema logico comune: come questi si facciano o siano, come si macinino (macinare), come si rafforzino tonalmente (per addizione di coloranti: temperare; per lavaggio o raffinazione: lavare), come si stemperino (distemperare).

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In questi testi non compare mai l’uso del pennello, ma appaiono ripetute note caratteristiche che chiaramente rimandano all’uso della penna, alla scrittura, alle lettere (scrivere, fiorire, fare i corpi). Si pone costante attenzione alla conservazione del legante o del colore temperato nell’alternanza di stagioni (invernoestate), per necessità legate all’occorrente fluidità delle stesure a penna. Talvolta appaiono in coda al testo prescrizioni per realizzare sigilli e relative cere colorate. La rubricatura è una mansione e tecnica di decorazione libraria e deve appunto il proprio nome all’uso tardoantico di utilizzare il colore rosso per evidenziare capilettera e titoli. Il procedimento prevede l’utilizzo, quindi, di colori molto fluidi o inchiostri colorati, ben distinti da quelli destinati alla scrittura. La rubricatura era realizzata dallo stesso copista o da una figura specializzata (rubricatore o calligrafo), che interveniva su tutto il codice o su singoli fascicoli terminati nella scrittura, provvedendo all’inserimento di titoli e lettere iniziali. Nel corso del Medioevo, soprattutto all’interno degli scriptoria monastici, la figura del rubricatore raggiunse anche livelli di grande autonomia e specializzazione, realizzando lettere iniziali anche di notevole elaborazione, talvolta estranee alle competenze di un semplice copista. In genere la rubricatura era eseguita utilizzando esclusivamente la penna e le lettere potevano essere, anche a seconda di tempi e aree geografiche, fiorite o filigranate e rilevate (ossia incluse in un campo colorato ed eventualmente ulteriormente ornato), realizzate, a seconda dei casi, in uno o più colori. Di altra competenza erano invece le lettere figurate e istoriate, che di fatto sono vere e proprie pitture in miniatura realizzate, oltre che con la penna, con il pennello. Queste, come vedremo, erano di pertinenza di altra figura specializzata, quella del miniatore, e utilizzavano, potendo, una gamma di colori decisamente più ampia e articolata. A partire dal XII secolo, alla tradizione che prevede il rosso, il verde, il giallo e il nero quali toni della rubricatura, corrispondenti di fatto a una delle versioni dei quattro colori dell’antico (con riferimento ai quattro elementi), si imporrà progressivamente l’utilizzo di rosso e azzurro, con una recessione di giallo e verde. Saranno in particolare i codici di ambito universitario, libri di studio, con la loro caratteristica impaginazione e scrittura su due colonne, a sancire e diffondere l’uso alternato di questi due colori. Mentre la produzione di codici di lusso utilizzerà, nel corso del Medioevo, sempre più rubriche miniate e quindi appannaggio di altri esecutori, cioè i miniatori, sarà nelle crescenti categorie e attività professionali che utilizzano correntemente la scrittura che la rubricatura, come esecuzione di penna e con pochi colori, troverà larghissima accoglienza e diffusione. Trattati di rubricatura, o ampie porzioni di questi, si possono trovare infatti in testimoni e ricettari opera

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di cancellieri, medici, notai, mercanti, oppure in ambiti di raccolte miscellanee di testi di religiosi, in cui regole volte a valorizzare la povertà o sobrietà prescrivono codici non particolarmente ricchi, o ancora in tutte quelle scritture private e professionali prive di caratteristiche di lusso3.

Trattati di miniatura Mentre i trattati di rubricatura sviluppano tavolozze di pochi colori, destinati all’esecuzione di capilettera e titoli, i trattati di miniatura veri e propri comprendono, in primo luogo, una gamma cromatica decisamente più estesa e varia rispetto ai primi, descrivendo in genere un numero di colori che può variare da sette a quindici. Si tratta di opere di discreta estensione (tra le venti e le quaranta ricette), dotate nella maggior parte dei casi di prologo esplicativo e di formule di chiusura o explicit, contenenti ricette destinate a colmare l’intera gamma cromatica per la riproduzione del reale e anche prescrizioni per dorature e argentature, solitamente a foglia, articolate nelle varianti brunita o velata, oppure con tipologie di finitura legate a particolari tradizioni tecniche. La gerarchia cromatica, e quindi la sequenza con cui vengono raggruppati i procedimenti relativi ai colori, varia a seconda del periodo storico e del luogo di origine del trattato, corrispondendo in sostanza ai progressivi giudizi di valore caratteristici di ogni epoca. A differenza dei testi di rubricatura, che quasi obbligatoriamente devono utilizzare la chiara d’uovo, più fluida e quindi adatta a rendere i colori scorrevoli alla penna, nei trattati di miniatura, dopo il XII secolo, si trova l’utilizzo sia della chiara, sia di gomme o altri leganti adatti alla realizzazione delle stesure 3 Segnalo qui in nota alcuni esempi di testi, seguendo il criterio di utilizzare quando possibile materiali editi, e quindi più facilmente accessibili e riscontrabili, rispetto ad altri, rintracciabili solo in forma manoscritta. Le esemplificazioni appartengono a un lavoro comune che sto conducendo con gli autori dei contributi di questo libro e altri studiosi, che approfondisce queste tematiche. Per i trattati di rubricatura segnalo quali esempi di testo: a) Tractatus aliquorum colorum conservato nel Taccuino Antonelli (Ferrara, Biblioteca Ariostea, ms. Antonelli 861), in mezzo ad altri materiali miscellanei. Il testo è contenuto, interpolato, ai ff. 85v89r ed è stato individuato anche in altri testimoni. Purtroppo l’edizione che lo presenta è gravemente manchevole sotto vari punti di vista (Torresi 1993). In ogni modo incapace di segnalare almeno in nota, all’incipit di un nuovo testo, la corretta lettura congetturale: Incipit tractatus aliquorum colorum invece che Incipit maeratus aliquorum celorum. Gli errori di trascrizione, più volte reiterati, sono innumerevoli e gustosi, anch’essi classificabili: dai “neologismi latini” tam din per tamdiu, quen per quando, yerne per yeme, codea per coclea, ugliu a l’aperte per ughuale parte, ai fraintendimenti brina per urina, a ocio per acciò, ciram per terram, grane per grave, sine per sive. L’opera ha l’unico pregio di rendere palese quanto sia necessario ricondurre la pubblicazione e lo studio di questi testi all’interno di una migliore metodologia e di più salde basi filologiche. b) Liber de coloribus illuminatorum sive pictorum (Londra, British Library, ms. Sloane 1754; Thompson 1926). Anche questo manoscritto contiene un testo di rubricatura, che si ritrova utilizzato anche nella compilazione di Pietro di Saint-Omer Liber de coloribus faciendis (Merrifield 1849, pp. 112-165; Van Acker 1972; per altre informazioni sul testo cfr. Bordini 1991, p. 29).

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cromatiche. Spesso le esposizioni possono includere rapide descrizioni delle modalità di esecuzione di incarnati, visi o vesti, e a volte associare anche regole di mescolanza dei pigmenti. All’interno di questo genere si possono cogliere diverse varietà e un’evoluzione del tema di fondo, che quasi sempre possono ricondurci ad approssimative datazioni. Infatti, alcuni testi descrivono sempre e minuziosamente le modalità di preparazione dei colori, mentre altri le danno per scontate, concentrando l’attenzione esclusivamente sugli aspetti esecutivi e quindi sulla mescolanza dei pigmenti tra loro e in rapporto ai leganti. Anche i pigmenti e i materiali nominati nel testo, e l’eventuale introduzione di particolari procedimenti di purificazione o di valorizzazione dei colori, sono fondamentali per stabilire epoca e aree di elaborazione dell’opera. Ciò naturalmente in associazione a tutti quegli elementi linguistici e di lessico e a eventuali altri elementi che concorrono a una complessiva valutazione del testo. Ad esempio, tutti i casi in cui tonalità azzurre non sono menzionate, o lo sono in maniera laconica e defilata rispetto alla gerarchia cromatica adottata, appartengono, con grande probabilità, all’Alto Medioevo, in cui il colore azzurro non è al centro degli interessi e della disponibilità merceologica atta all’ottenimento di composti stabili. Nell’uso, il lapislazzuli è praticamente sconosciuto prima delle Crociate e della formazione dei regni cristiani d’Oriente. Il materiale è noto letterariamente, ma rarissimo. In modo analogo, anteriormente al 1240 circa, momento della scoperta delle giaciture di minerali di rame in Sassonia, che diede origine al nome “azzurro della Magna”4, le rare menzioni dell’azzurrite la vedono come “azzurro nostrano” (Liber colorum secundum magistrum Bernardum), “azzurro toscano” (Scripta colorum) o “azzurro italico”. Solo a partire dalla metà del XIII secolo il nome “azzurro della Magna” ebbe un reale significato e diventò consistente, dopo le Crociate e la formazione dei Regno d’Oriente, anche l’importazione di lapislazzuli. A dimostrazione di questo stanno le prime nomenclature date al lapislazzuli, giunto attraverso le nuove vie commerciali: questo, infatti, viene denominato, proprio in un testo duecentesco come quello del Livro de como se fazen as cores (Parma, Biblioteca Palatina, ms. De Rossi 945), “azzurro di Acri”. Il lapislazzuli era naturalmente conosciuto fin dall’antichità, ma durante il Medioevo si verificarono consistenti difficoltà di importazione della pietra estratta in Afghanistan e nel Caucaso. Noto attraverso lapidari e altre fonti letterarie, il lapislazzuli è con rarità utilizzato nell’Alto Medioevo, prevalentemente di reimpiego, di importazione diretta attraverso la rete com4

Hoefer 1869.

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merciale di Bisanzio o raccolto in piccole quantità dalle bombe laviche vesuviane. Le Crociate e il seguente stabilizzarsi della rete di importazione veneziana fecero sì che la pietra da cui si estraeva la lazulite divenisse comune solo a partire dal XIII secolo con la denominazione di “azzurro oltremarino”, dove Outremer sono, come si sa, i regni cristiani di Oriente5. Altro azzurro utile alla datazione dei testi è il cosiddetto “azzurro d’argento” o “azzurro di Alberto Magno”, perché attribuito alla sua tradizione. Questo compare frequentemente in trattati duecenteschi, come il Liber colorum secundum magistrum Bernardum e lo Scripta colorum, per poi scomparire (è, ad esempio, appena menzionato nel De Arte Illuminandi, di poco successivo). Analogamente alla vicenda dell’oltremare, altri materiali, seppure noti fin dall’antichità, trovarono ampia diffusione solo a partire dal XIII secolo. Tra questi il verzino, che in qualche trattato giunge addirittura al vertice della gerarchia dei colori, la porporina e la curcuma. Anche i procedimenti descritti possono aiutare l’identificazione dell’epoca di stesura delle ricette. Ad esempio, la prima diffusione del lapislazzuli non conosceva e prevedeva la raffinazione mediante pastello della preziosa polvere, ma soltanto lavaggi reiterati con lisciva (capitellum). Fu soltanto a partire dal Duecento che comparve l’uso di impasti di cere, resine e oli (pastillum) utili alla separazione della lazulite dal lapislazzuli6. Al contrario dei trattati di rubricatura, quelli di miniatura danno ampio spazio al pennello e a termini, sia latini che in volgare, come dipingere, campire, implare, nonché a estese applicazioni di oro in lamine o a foglia, poste sopra complesse preparazioni dette asisum (sixa). Alcuni testi descrivono anche la costruzione di brunitoi per la lucidatura di queste applicazioni7.

Circa questi dati da porsi in relazione alla fortuna occidentale del colore azzurro cfr. Baroni 1999; Pastoureau 2000. Paolo da Taranto, allo stato attuale delle nostre conoscenze, sembra l’autore che ha avuto un ruolo determinante nel diffondere questi procedimenti di raffinazione, già in uso nel Medio Oriente. Questo francescano fu uno dei principali esponenti dell’alchimia latina nel XIII secolo e autore, oltre che degli opuscoli De casu et causis e Quinque difficilium quaestionum, della Summa perfectionis magisterii e della Theoria et pratica. Entrambe le opere sono state a lungo ascritte al noto alchimista arabo Geber (Giabir ibn Hayyan, IX sec.), sotto il cui nome Paolo si è firmato (si parla infatti di pseudo-Geber). Non conosciamo molto di questo frate francescano, che fu lettore dei frati Minori ad Assisi (Newman 1991; Crisciani-Paravicini Bagliani 2003; MuscoMusotto-Parisoli 2007). 7 Esempi di trattati di miniatura sono: a) Liber colorum secundum magistrum Bernardum quomodo debent distemperari et temperari et confici: trattato latino, databile alla metà del XIII secolo, contenente ricette per lo stemperamento e la preparazione di pigmenti e materiali ausiliari destinati alla tecnica della miniatura. Il testo è ad oggi deducibile dal confronto di tre testimoni nei quali è interamente o parzialmente conservato: il ms. D. 437 inf. della Biblioteca Ambrosiana di Milano, il ms. Canonici 128 Misc. della Bodleian Library di Oxford e il ms. α T.7.3 della Biblioteca Estense di Modena (Travaglio 2008). b) Liber de coloribus qui ponuntur in carta: trattato latino, anch’esso databile al XIII secolo, dedicato alla miniatura e conservato nel ms. 1195 della Biblioteca Nazionale di Torino (Caprotti 2008). c) Scripta Colorum: trattato latino riguardante la produzione di colori destinati alla miniatura, contenuto nel ms. 1075 della Biblioteca Statale di Lucca e databile al XIII secolo (Tolaini 1995 e 1996). 5 6

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Trattati compositi di rubricatura e miniatura Esistono naturalmente anche trattazioni complesse, dove rubricatura e miniatura costituiscono la prima e la seconda parte di un’unica opera, così da sviluppare nell’esposizione entrambe le pratiche. Nel caso le prescrizioni di rubricatura sono generalmente sempre le prime e i procedimenti di miniatura seguono questa parte espositiva più breve, senza con ciò costituire una ripetizione e, anzi, introducendo variazioni, solitamente relative al legante e quindi di fluidità e brillantezza delle tinte precedentemente contemplate sull’uso della penna. Le due parti del testo rispondono ciascuna ai caratteri relativi al proprio genere, mentre una frase o una nota specifiche segnalano solitamente il nuovo indirizzo e oggetto dell’esposizione8.

Trattazioni relative a un singolo colore Sono questi testi, solitamente di breve o media estensione, contenenti procedimenti che descrivono la preparazione di un singolo pigmento, raro o prezioso, generalmente di colore azzurro. Anche l’ampia e rapida diffusione di procedimenti relativi all’approntamento della porporina appartiene allo stesso genere, forse come originale estratto da qualche traduzione di testi dell’alchimia araba. Resta tutta da indagare la vicenda etimologica del nome di questo solfuro di stagno artificiale, che appare nei primi testi come aurum musicum, aurum musivum, purpurina, così come l’improvvisa comparsa e diffusione del procedimento atto a prepararla. Solitamente questi testi non sono scanditi in ricette, ma al massimo contemplano, nelle forme più tarde ed elaborate, una suddivisione in brevi capitoli, destinati a seguire e a costituire il complesso del procedimento. Sembrano mutuare, perlomeno per quanto riguarda gli azzurri, forme anche letterarie tratte dai libri di mercatura e destinate a riconoscere la qualità della pietra, a evitare

8 Benché mutilo, il più antico esempio di questa tipologia di testi è costituito dal cosiddetto De Clarea (Berna, Biblioteca Municipale, ms. A91,17), che costituisce un frammento di una più ampia composizione in cui, a seguito della descrizione della chiara d’uovo e dei colori con questa utilizzabili (rubricatura), si sviluppava in modo ben più ampio l’argomento della miniatura. A questo proposito è sufficiente leggere la fine della sopravvivente esposizione per rendersi conto di cosa seguisse in origine alla prima parte. Di miglior conservazione è invece lo stato del testo del De Arte Illuminandi (Napoli, Biblioteca Nazionale, ms. Lat. XII.E.27). Il ritrovamento di un tardo, e da un punto di vista linguistico, corrotto testimone (Archivio di Stato dell’Aquila, ms. S.57) ha dato adito a numerose reiterate segnalazioni e ad una nuova “edizione critica”, che ci vede in disaccordo nelle osservazioni filologiche e nelle conclusioni (Pasqualetti 2009). In ogni modo, l’autrice rileva una cesura importante nel testo e la segnala ma senza rendersi conto che si tratta esattamente della separazione tra la prima parte dell’opera, che tratta della rubricatura, rispetto alla seconda, riguardante la miniatura. Per un inquadramento di entrambi i testi, cfr. Bordini 1991, pp. 27 e 30; sul De Arte Illuminandi cfr. soprattutto le acute osservazioni di Rossi 2005-2006 e 2008, confermate poi anche da Tosatti 2007.

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frodi e adulterazioni nell’acquisto, comprendendo anche saggi di varia natura funzionali alla verifica qualitativa del prodotto. Queste trattazioni trovarono ampia diffusione in ambienti mercantili e commerciali, presso gli speziali e presso quegli ordini religiosi che della lavorazione della lazulite fecero grande fonte di reddito, quale ad esempio quello dei Gesuati9. Al di là della fortuna storica di laboratori di raffinazione del prezioso minerale, come quello di San Giusto Fuori le Mura a Firenze, ancora imposto da Michelangelo come obbligatorio fornitore per la decorazione della Cappella Sistina10, procedimenti relativi alla preparazione dell’azzurro sono visibili in manoscritti che testimoniano l’opera di un padre Gesuato, opera che troverà riscontro, con modeste revisioni, anche nell’edizione a stampa dovuta a padre Alessio Piemontese11. Assimilabili ai trattati per un solo colore sembrano essere le prescrizioni destinate alla produzione di inchiostri, anch’esse composte in genere da un unico procedimento, nelle forme più antiche relativamente breve. Questi testi, spesso suscettibili di aggregazione tematica tra loro (come avviene per gli azzurri), porteranno anche a cospicue raccolte, quale quella quattrocentesca di Thesaurus pauperum (Oxford, Bodleian Library, ms. Canonici 128 Misc.)12.

Tabulae e tavole di mescolanza Le Tabulae sono liste di pigmenti o di lemmi, destinati a individuarli, che affondano la propria tradizione nell’enciclopedismo di marca ellenistica. Modelli di riferimento non mancano a partire dallo pseudo-galenico Liber Pigmentorum, dove già, alla denominazione del materiale, si accoda una succinta descrizione merceologica. In alcuni periodi le Tabulae, che spesso assumono caratteristiche adatte alla mnemotecnica, serviranno o vorranno cercare di garantire la sopravvivenza del lessico tecnico tradizionale, ad esempio in contesti di degenerazione del latino in direzione della formazione di lingue romanze; in altri a raccogliere, come in A questo proposito si potrebbero però citare anche i Serviti, gli Umiliati e gli Antoniti. Una lettera del 13 maggio 1508, indirizzata da Michelangelo a frate Jacopo di Francesco, Gesuato di Firenze, testimonia la volontà dell’artista di servirsi dell’oltremare prodotto dai Gesuati fiorentini: «Michelangelo in Roma a frate Iacopo di Francesco in Firenze: Frate Iachopo, avendo io a fare dipingniere qua certe cose, overo dipingniere, m’achade farvene avisato, perché m’è di bisognio di cierta quantità d’azzurri begli; e quando voi abbiate da servirmene al presente, mi tornerebe comodità assai. Però vedete di mandare qua a’ vostri frati quella quantità che voi avete, che sieno begli, e io vi promecto per giusto prezo di torgli. E inanzi che io levi gli azzurri, vi farò pagare io’ vostri danari qua o costà, dove vorrete». (Poggi 1965, pp. 66-67). 11 Eamon 1994. Per ulteriori informazioni sull’opera cfr. Bordini 1991, p. 57. 12 Esempio di trattazione relativa a un singolo colore è Del modo di comporre l’azzurro oltramarino di frate Domenico Baffo (Mazzi 1906). 9

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lemmari o dizionari tecnici, vocaboli non più in uso ma rinvenibili in fonti di provenienza antica e non più comprensibili al lettore contemporaneo, e quindi da decodificarsi. Ancora, potranno essere veri e propri vocabolari specifici, specializzati o di settore tra due o più lingue, oppure raccolte di raggruppamenti, classi o categorie specifiche di prodotti e materiali, in altre parole inventari tematici. La denominazione “tavola di mescolanza” deriva dal De coloribus et mixtionibus (DCM), un trattato così chiamato da D.V. Thompson13, che per primo ne ha teorizzato l’esistenza autonoma rispetto a Mappae Clavicula. La sua versione più nota è infatti anteposta a questo noto testo in uno dei suoi più importanti testimoni, il ms. 1 Phillipps-Corning. Qui, dopo quelli che sembrano altri materiali erratici, troviamo un elenco dei colori utilizzati per miniare sulla pergamena (f. 2v: De diversis coloribus. Colores in pargameno spissi et clari hii sunt: azorium, vermiculum, sanguis draconis, carum minium, folium, auripigmentum, viride grecum, indicum, brunum, crocum, minium rubeum vel album, nigrum optimum et carbone vitis) e un testo che spiega come ogni colore debba essere ombreggiato e lumeggiato e nel quale compaiono i termini “incide” e “matiza” (rispettivamente nel significato di “fare un segno scuro su” e “fare un segno chiaro su”)14. Il DCM, o parti di esso, con varianti più o meno estese, è rintracciabile anche in molti altri codici e trattati15. In realtà, la problematica del DCM è aperta e meriterebbe studi approfonditi che ne chiarissero i contorni. Certamente la parte di testo che ebbe maggior diffusione è quella relativa alle mescolanze di colore, caratterizzata dalla “forma mescolanza”16, destinata probabilmente a un uso mnemotecnico17: colore “purum incide de” colore “maptizza/maptetizza de” colore oppure colore “misce cum” colore “incide de” colore “maptizza/maptetizza de” colore Thompson 1933. Tolaini 1995, 3, p. 62. In proposito cfr. anche Webster Bulatkin 1954. 15 Secondo Tolaini ne sono un esempio il cosiddetto “Terzo Libro” di Eraclio, la Schedula diversarium artium di Teofilo, il Manoscritto Bolognese (Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. 2861), il Liber de coloribus illuminatorum sive pictorum (Londra, British Museum, ms. Sloane 1754), il Tractatus qualiter quilibet artificialis color fieri possit (Parigi, Biblioteca Nazionale, ms. Lat. 6749b), il Tractatus de coloribus (Monaco, Staatsbibliothek, ms. Lat. 444), il ms. Bruxelles Lat. 10147-58, il ms. De Rossi 945 (Parma, Biblioteca Capitolina). In realtà esistono oltre una sessantina di testimoni manoscritti di questo importante testo, raccolti e analizzati in un lavoro di prossima pubblicazione da Paola Borea D’Olmo. 16 Baroni 1996, p. 128. 17 «La loro rapida e continua flessibilità e la loro adattabilità, priva di cristallizzazioni o inerzie testuali, corrobora il pensiero che, come per i canti popolari, le fiabe, i proverbi e altro materiale tradizionalmente orale, si tratti di ritenzioni e trasmissioni più mnemotecniche che scritte. Una ritenzione, come per le litanie, cadenzata dalla sonorità di quei maptiza-incide, profila-aombra, che le connotano e le rendono immediatamente riconoscibili», Baroni, Memore pictor, c.d.s. 13 14

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Prescrizioni di questo tipo nascono «dall’esigenza di evitare mescolanze di pigmenti destinate a produrre tinte alterabili» e probabilmente «trovano una forma originaria (o prototipo) nel mondo tardoantico di lingua greca, come il termine maptiza sembrerebbe dimostrare»18. Pur essendo spesso associate ad altro materiale, queste “tavole di mescolanza” possono essere considerate un genere letterario a sé stante, poiché compaiono frequentemente in forma autonoma, accorpate ad altre opere, a testimonianza quindi dell’importanza e autorevolezza che veniva loro attribuita. È anche ipotizzabile che queste tavole abbiano avuto anche la funzione di normare le esecuzioni all’interno di un laboratorio, di uno stesso scriptorium o ambito di copia, dove alla decorazione di un codice potevano alternarsi operatori diversi e dove quindi poteva essere avvertita l’esigenza di uniformare le differenti esecuzioni, anche da un punto di vista cromatico19.

Generi, modelli letterari e divisione del lavoro Ciascuno dei modelli appena presentati mostra caratteristiche che possono debolmente mutare nel tempo, ma che in genere sono in grado di protrarsi per secoli, oltre che finalità completamente diverse. È importante riflettere sul fatto che queste finalità determinarono certamente la differente fortuna e diffusione di alcune tra queste categorie. Così, ad esempio, i trattati di crisografia ebbero una limitata diffusione, prevalentemente di ambito tardoantico o altomedievale, mentre, al contrario, quelli di rubricatura mostrano un’ampia proliferazione all’interno di un mondo che non è semplicemente quello degli “addetti ai lavori” della decorazione libraria, ma può trovare copia e ricezione anche presso medici, notai, cancellieri, chierici, studenti universitari e chiunque nel mondo tardo medievale avesse a che fare, anche solo occasionalmente, con la scrittura e con fenomeni di copia privata. È evidente che la quantità di questi trattatelli e le copie ad essi relative segnalano una produzione e una diffusione maggiori rispetto alle rara e sporadica presenza degli altri. Allo stesso modo, i testi riguardanti ricette di inchiostri conobbero, forse anche a causa della loro assoluta brevità, grandissima fortuna, con un numero di testimoni e produzioni letterarie vastissimo e certamente superiore a quanto i trattati di miniatura vera e propria possano mostrare. Baroni, Memore pictor. Uno dei più importanti episodi del DCM è contenuto nel cosiddetto “Terzo Libro” di Eraclio, che però altro non è che una aggregazione di testi antichi, tra i quali un estratto di Faventino interpolato (Baroni 2008). 19 La più nota tra le tabulae è la Tabula de vocabulis sinonimis et equivocis colorum del ms. Lat. 6741 della Biblioteca Nazionale di Parigi (Merrifield 1849, pp. 18-38; Tosatti Soldano 1983). 18

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A ben guardare però questi “generi” o tipi dell’esposizione ricalcano in modo assai preciso le divisioni del lavoro nella esecuzione o decorazione del libro manoscritto. Ecco che, per quelli che scrivono, esistono varie e differenti formule o brevi testi destinati alla preparazione dell’inchiostro o anche della penna e del suo taglio; per chi rubrica, cioè esegue, in una fase che sappiamo solitamente successiva alla scrittura, le iniziali colorate, ecco i trattati di rubricatura, che spesso si associano anche alle piccole riparazioni di danni accidentali che potevano occorrere nell’approntamento del codice. Al pictor o illuminator, capace di realizzare complesse decorazioni o illustrazioni mediante l’uso del disegno, della penna ma soprattutto del pennello, competono i trattati di miniatura veri e propri, che possono prevedere stesura di campi dorati a foglia, eventualmente bruniti, filigranati o variamente rifiniti. Attorno a queste tre figure specializzate, chine sulla pagina del libro, che costituiscono per necessità di esecuzione anche tre tempi distinti del lavoro di approntamento del codice, ossia tre diverse competenze che possono rimanere separate, oppure, anche in tutto o in parte assommarsi in un unico operatore, altre ruotano a predisporre quanto serve alla realizzazione del volume. Ecco a proposito i trattati di un solo colore, che abbiamo già visto utilizzati per gli inchiostri dallo scrittore, ma che possono anche essere destinati specificamente a quelle figure di trasformatori che predispongono in generale l’approntamento dei materiali, i procuratores di alcuni ordini monastici e i loro collaboratori, o anche solo di un nuovo materiale prezioso, di volta in volta diverso secondo luoghi e tempi: l’azzurro oltremare, l’oro musivo, il verzino. Prodotti che possono essere impiegati nel ristretto ambito di chi li raffina e lavora, ma che possono essere anche commercializzati e scambiati altrove.

Trattazioni di crisografia, argirografia e codici purpurei Speriamo di tornare presto e più dettagliatamente su questi argomenti generali. Ora però, dopo questa sintetica – ma crediamo non inutile – contestualizzazione, vogliamo occuparci di quei trattati o specifiche opere dedite alla tecnica di realizzazione dei codici purpurei. Si tratta infatti di esposizioni relative a scritture metalliche su codici tinti o dipinti in colore rosso violaceo, in genere piuttosto brevi e composte solitamente da un unico procedimento sulla tintura della pergamena con porpora o suoi succedanei, effettuata per immersione o per bagno sul cantiro, e da almeno due ricette di inchiostri metallici per la scrittura in oro e/o in argento. Talvolta si

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possono riscontrare anche ricette che descrivono la produzione di inchiostri destinati a imitare solamente lo splendore dei metalli preziosi. Come è evidente, l’utilizzo, sin dall’epoca ellenistica, di pergamene tinte in porpora20 quali supporto alla scrittura, eseguita con polveri e amalgama metallica in oro o argento (crisografia e argirografia) o loro succedanei, richiederebbe un’indagine e approfondimenti che esulano da questa trattazione. Da un punto di vista letterario, in modo indiretto abbiamo notizia di opere realizzate in questo modo a partire da Giuseppe Flavio che nelle Antichità giudaiche (libro XII), citando la Lettera di Aristea a Filocrate21, racconta del Gran Sacerdote Eleazero che inviò a Tolomeo II Filadelfo la copia dei Libri Santi, fatti Come si sa, la porpora fu utilizzata come colorante a scopo tintorio sin da tempi antichissimi. La sua scoperta è generalmente attribuita ai Fenici (1400 a.C. ca.), anche se alcuni studiosi ne anticipano l’uso al 1600 a.C. presso i cretesi. Certamente, però, i Fenici furono, se non gli scopritori, quantomeno i maggiori produttori di questo materiale, che trovava nelle città di Tiro e Sidone (quest’ultima cantata anche da Omero) i centri principali di produzione, anche se industrie per la lavorazione della porpora, destinate a grande fioritura fino alla caduta dell’Impero Romano, furono impiantate dai Fenici in tutta la fascia mediterranea. Anche in Asia Minore sorsero importanti centri, come Mileto, Focea, Jerapoli, la Lidia e la Frigia, così in Grecia nel golfo di Corinto, a Citera, sulla costa della Laconia, in Beozia e a Eubea. I Romani, presso i quali l’uso della porpora fu probabilmente introdotto dagli Etruschi, importarono largamente tessuti provenienti dall’Oriente, in particolare dalle città di Tiro e Sidone, ma il loro costo elevato costrinse alcuni regnanti, come Cesare (che sancì il divieto di indossare vesti tinte in porpora a coloro che non fossero espressamente designati per status sociale ed età, Svetonio, De vita Caesarum, libro I, Divus Iulius, cap. 43: «Lecticarum usum, item conchyliatae vestis et margaritarum nisi certis personis et aetatibus perque certos dies ademit»), Augusto (che vietò l’uso di vesti purpuree ai cittadini, con eccezione dei senatori, Dione Cassio, Historiarum romanarum quae supersunt, cap. XLIX, 16, 1) e Nerone (che proibì l’uso delle tinture in porpora di Tiro, Svetonio, libro VI, Nero, cap. 32: «Et cum interdixisset usum amethystini ac Tyrii coloris summisissetque qui nundinarum die pauculas unicas venderet, praeclusit cunctos negotiatores»), a prendere provvedimenti per limitarne l’uso, nonché a fondare centri di produzione della porpora nei loro territori (ad esempio, Taranto, Otranto, Ancona, Pozzuoli, Aquino). La porpora di Taranto era molto nota in età romana, come ci testimoniano numerosi autori: Orazio, Epistolae, II, 1, 207: «Lana Tarentino violas imitata veneno»; Floro, Epitome, I, 13, 27: «si pompam, aurum, purpura, signa tabulae Tarentinaeque deliciae»; Plinio, Naturalis Historia, IX, 63, 137: «Me, inquit, iuvene violacea purpura vigebat, cuius libra denariis centum venibat, nec multo post rubra Tarentina». Sarà poi con Alessandro Severo che la porpora diverrà monopolio di Stato. Sulla storia della porpora cfr. Fales 1998; Acquaro 1998; Bessone 1998; Salvadori 1998; Carile 1998; Furlan 1998. Innanzitutto occorre precisare che il termine “porpora” non identifica un colore unico, ma diverse tonalità di colore (dal rosa al viola al bluastro). Già gli antichi intendevano per porpora non propriamente un colore ma la sostanza estratta da alcuni molluschi del genere Murex, i quali, a seconda della specie, potevano appunto generare diverse sfumature di colore. Il termine purpura, derivato dal greco porphyra, era utilizzato per indicare il colorante lavorato e pronto per la tintura o applicazione, mentre il liquido estratto dai molluschi, ancora grezzo, era definito ostrum, “conchiglia marina”. Le specie di Murex più utilizzate erano il Murex Brandaris, il Murex Trunculus e la Purpura Haemastoma, largamente diffuse nel Mediterraneo, nell’Oceano Atlantico e sulle coste dell’Asia Minore. Il liquido vischioso prodotto da una particolare ghiandola di questi molluschi è detto purpurina e, posto all’aria, «subisce un processo di ossidazione (purpurasi) divenendo prima di colore verde, ed assumendo, solo in un secondo momento, il caratteristico colore purpureo» (La fabbrica dei colori, pp. 385-427, in specie p. 389.). In età tardo antica e nell’Alto Medioevo la porpora, divenuta un materiale ancora più raro e prezioso che in età classica, a causa della sua difficile lavorazione e, di conseguenza, del suo alto costo, venne utilizzata non tanto per la tintura dei tessuti quanto soprattutto per decorare i codici di maggior pregio e importanza, conferendo loro grande splendore. Le pergamene non erano dipinte, ma completamente tinte mediante bagni, mentre i testi erano poi vergati in oro e argento. È nota al riguardo la polemica di S. Girolamo, che nella Lettera a Eustochio, De virginitate servanda, scrive: «Le pergamene sono tinte in porpora, nelle lettere viene colato oro, i manoscritti sono rivestiti di gemme, mentre Cristo sta alla porta nudo e morente». In generale, cfr. Rosa 1786; Peignot 1812; Bizio 1832; Id. 1833; Id. 1835a-b; Id. 1841; Id. 1843; Id. 1859; Lacaze Duthiers 1859; Friedländer 1909; Born 1946; Angst 1947; Blanc 1958; Brunello 1968; Nencky 1981; La fabbrica dei colori 1986, pp. 385-427; Cardon 1990, p. 391; Ballio 1998. 21 Si tratta di una lettera scritta in greco ad Alessandria da Aristea, funzionario di re Tolomeo II Filadelfo, e indirizzata al fratello Filocrate. L’autore racconta di un viaggio a Gerusalemme compiuto da lui e da altri inviati del Re allo scopo di recuperare il testo della Bibbia ebraica (Torah o Pentateuco) da tradurre in greco. Re Tolomeo affrancò circa 100.000 ebrei che vivevano in schiavitù in Egitto e fece redigere una lettera per il Sommo Sacerdote Eleazero, per informarlo della sua decisione di far tradurre la Bibbia dall’ebraico al greco. Quest’ultimo scelse settantadue anziani, sei per ogni tribù, incaricandoli di portare i testi sacri in Egitto e di tradurli. I lavori di traduzione, condotti sull’isola di Faro, vennero terminati in settantadue giorni (Laras 2006, pp. 65-71. 20

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tradurre in greco e scritti in oro su pergamena tinta di rosso. Nel mondo romano le citazioni relative a codici purpurei di fattura o imitazione dalla tipologia ellenistica sono numerose, così pure come quelle relative alla porpora22. Dal punto di vista della letteratura descrittiva, in questo ambito i testi più antichi che menzionano in vario modo l’uso della porpora sono il De architectura di Vitruvio e la Naturalis Historia di Plinio. In particolare a quest’ultima opera gli studiosi ritengono di dovere le migliori o più importanti informazioni sull’uso e preparazione della porpora in epoca classica. «Bien qu’ils n’aient pas été teinturiers, c’est grâce à ces deux auteurs latins que sont connues les seules indications pratiques sur la méthode de teinture en pourpre utilisée dans l’Antiquité autour du bassin méditerranéen»23.

Siamo sostanzialmente d’accordo circa questo riconoscimento di valore, tuttavia la straordinaria testimonianza di questi autori va letta nel quadro dell’opera di carattere enciclopedico che la trasmette. Il valore “pratico” delle descrizioni deve essere valutato con molta attenzione riguardo al contesto e perlomeno integrato dalla lettura di fonti più vicine alle consuetudini procedurali di quanto lo siano questi scritti di natura enciclopedica.

Ricette di tintura della pelle con porpora, crisografia e argirografia nel mondo ellenistico Alla fine del III – principio del IV secolo d.C. può essere attribuita la scrittura dei Papiri di Leida e di Stoccolma. Questi testi raccolgono, in vario modo estrapolate, prescrizioni eterogenee, dove però procedimenti per la realizzazione di 22 Ovidio, nell’opera poetica Tristia, parla di un libro rivestito di color porpora (liber 1, carmen 1, 1-8): «Parve - nec invideo - sine me, liber, ibis in Urbem, ei mihi, quo domino non licet ire tuo! vade, sed incultus, qualem decet exulis esse; infelix habitum temporis huius habe. nec te purpureo velent vaccinia fuco non est conveniens luctibus ille color nec titulus minio, nec cedro charta notetur, candida nec nigra cornua fronte geras». Nella biografia di Caio Giulio Vero Massimino (imperatore dal 235 al 238 d.C.) riportata dalla Historia Augusta si dice che questi possedesse l’opera di Omero scritta su pergamena purpurea in lettere d’oro (cap. IV): «Filio autem haec fuerunt: cum grammatico daretur, quaedam parens sua libros Homericos omnes purpureos dedit aureis litteris scriptos». Il poeta e senatore romano Publilio Optaziano Porfirio dedicò all’imperatore Costantino, attorno al 325, una serie di carmina raccolti in un volume di pergamena purpurea e vergati in lettere d’oro e d’argento. In proposito cfr. Kessler 1994. 23 Cardon 1990, p. 340.

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crisografie e argirografie e di succedanei della porpora sono ampiamente descritti24. Certo non vi è alcuna prova sicura che i papiri greci di Leida e Stoccolma provengano da una sepoltura, ma neppure esiste prova del ben più improbabile contrario. Quasi certamente questi reperti furono rinvenuti nella zona di Tebe, assieme ad altri due testi di contenuto magico, e, con grande probabilità, entrambi trovarono origine nello stesso luogo per mano del medesimo scriba, forse anche costituendo insieme un unico manufatto, poi smembrato25. In entrambi, sebbene ai nostri occhi si possa scorgere una qualche unitarietà di contenuti generali, si susseguono ricette o prescrizioni in realtà tra loro raggruppabili in piccole sequenze o gruppetti, così che può sembrare che frammenti o porzioni di testo di varie opere vi siano state accostate consequenzialmente senza costituire con ciò un’opera organizzata, ma piuttosto un “collage” di più o meno ampie citazioni o estratti da varie opere. Un centone, in altre parole, un testo dove l’organizzazione non è importante ma la presenza complessiva delle singole unità che lo compongono sì. Neppure a chi scrive il papiro, e di conseguenza al lettore, risulta utile il rimando alle singole fonti, così come non serve una cornice letteraria necessaria a contenere, per qualunque motivazione, i singoli prelievi che anzi vi appaiono accostati tra loro senza soluzione di continuità. Tipologie di testo di questo genere ci sono note in Egitto in lingue e scritture diverse, che vanno dalla scrittura ieratica al demotico, dal copto al greco. In queste, la modalità in cui la raccolta si manifesta ci può dire molto sulla recezione e sull’utilizzo dei testi che vi sono inseriti, per quanto concerne il papiro e la sua destinazione d’uso, ma ciò non significa che i pezzi di opere che vi si trovano raccolti avessero in origine medesima funzione di quella a cui sembra destinarsi una così particolare collettanea. Per spiegare queste raccolte dobbiamo considerare l’estremo estendersi delle concezioni magiche egizie e il loro permeare aspetti della vita quotidiana e, soprattutto, della quotidiana concezione della morte, di questa cultura dalle tradizioni millenarie. La spiegazione di manufatti di questo genere è molto semplice: «Accanto alla mummia veniva posto un papiro con il compito di respingere le forze ostili e permettere al morto di penetrare in tutta sicurezza le regioni incognite dell’aldilà. Questi scritti magici venivano posti accanto alla testa, fra le 24 Per l’esattezza, nel Papiro di Leida diciassette ricette si occupano di crisografia, argirografia o imitazioni di simili scritture (nn. 33, 34, 38, 44, 49, 51, 52, 56, 60, 61, 68, 69-72, 76, 77). Nel Papiro di Stoccolma una settantina di ricette si occupano della tintura in porpora, prevalentemente con sostanze succedanee. In questo caso, però, il bagno di tintura appare quasi esclusivamente dedicato esplicitamente alla tintura della lana. Per il testo dei papiri e il riferimento numerico alle ricette cfr. Halleux 1981. 25 Ibidem.

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mani e in mezzo alle gambe dell’essere mummificato. Il morto disponeva quindi di formule efficaci, di itinerari e di indicazioni per seguire e portare a buon fine il viaggio postumo»26. In una fase più tarda ed estenuata di queste pratiche altri testi assolvono a questa funzione. Non sono più solamente le formule magiche rivolte alle antiche divinità, quanto prescrizioni e ricette, anche provenienti dal mondo enciclopedico ellenistico o dalla tradizione alchemica, a costituire il corredo per il viaggio nell’Aldilà. In epoca tarda possiamo credere che, a formule più propriamente appartenenti alla magia e a testi esoterici egizi di origine antica, venissero associate anche prescrizioni di natura “scientifica”, come estratti di opere della prima alchimia storica, cioè dell’ambiente di Zosimo di Panopoli, frammenti di Dioscoride e dei Késtoi27 di Giulio Africano e di altri testi di carattere tecnico o scientifico di chiara derivazione ellenistica. Un altro testo, coevo e anzi di vicenda intrecciata ai papiri in questione, che comparativamente possiamo accostare – ma molti ve ne sarebbero d’altri28 – è il Papiro Magico in scrittura demotica di Londra e di Leida29. Qui il contenuto delle formule è in gran parte magico o divinatorio, ma differenti sono i testi e gli argomenti accostati nella trascrizione, che, sulla base degli indici dei contenuti forniti da Griffith e Thompson30, appaiono classificabili nelle seguenti categorie: 1. Divinazione

6. Eroticon

2. Processo impiegato da Imuthes 7. Invocazioni 3. Oroscopo

8. Nomi di piante

4. Pittura degli occhi

9. Nomi di minerali

5. Formule magiche

10. Prescrizioni mediche

Jacq 1986, p. 32. È proprio il caso dei nostri papiri, che infatti contengono frammenti diversi che si ritrovano nelle opere alfabetiche di Zosimo di Panopoli, quindici prescrizioni di Dioscoride e due ricette di tintura identificate da Vieillefond 1932, pp. XXII-XXIII come provenienti dall’opera di Giulio Africano. Gran parte del terzo libro di quest’opera, come il Papiro di Stoccolma ancora conferma alla ricetta 141, doveva essere dedicato alla tintura color porpora, con molluschi e succedanei. 28 Sulla dispersione e diffusione di ricette e procedimenti della prima alchimia storica sarebbe il caso di indagare con una ricerca che prenda in considerazione i vari autori non dal punto di vista in cui le testimonianze dei loro scritti ci sono pervenute, ma osservandone produzione che ci è giunta in differenti lingue o traduzioni. Ad esempio, di Zosimo di Panopoli esistono cospicue testimonianze, che non vi è motivo di non ritenere sostanzialmente autentiche, benché in antico tradotte. Queste si presentano in quattro lingue diverse (greco, siriaco, arabo e latino). Nonostante l’importanza di questo autore, di cui nei Papiri di Leida e Stoccolma sopravvivono più di una decina di frammenti, a tutt’oggi manca uno studio complessivo. Da testi attribuiti a Zosimo nella tradizione siriaca si ricava una ricetta (Cambridge, Biblioteca Universitaria, ms. Mm.6.29, f. 8v, ric. 39) per scrivere e decorare in oro una pelle purpurea. Il testo, nell’edizione di Berthelot-Ruelle 1888, vol. II, p. 208, viene tradotto nella seguente forma: «Figures d’or sur une peau de pourpre. èlydrion et or broyés en semble; addition de colle, ou de gomme arabique». 29 Londra, British Museum, Pap. 10070; Leida, Rijksmuseum, I.383. 30 Griffith-Thompson 1904. 26 27

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Vediamo che, accanto alle varie formule e ricette a carattere magico, all’inizio del verso del papiro (in particolare nella prima e nella seconda colonna e, in modo frammentario, anche più oltre) appaiono alcune liste, parzialmente scritte in greco, destinate a spiegare la natura e l’utilizzo di vegetali e minerali, così quanto la diversa nomenclatura tra greco e denominazione egiziana. Papiro demotico di Londra e Leida (verso, col. 1)31 1. ’nh n r‹ 2. ’nh n ‹h 3. hyn