Nordiche superstizioni. La ballata romantica italiana
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Paolo Giovannetti

Nordiche superstizioni La ballata romantica italiana

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SAGGI MARSILIO

Leeds Metropolitan University

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https://archive.org/details/nordichesupersti0000giov

CRITICA

Paolo Giovannetti

Nordiche

superstizioni

La ballata romantica italiana

Marsilio

© 1999 BY MARSILIO EDITORI® S.P.A. IN VENEZIA

i LEEDS METREZCLITAN È

È

UNIVERSITY

ISBN 88-317-7181-7

INDICE

NORDICHE

11

1. Fffetto ballata 11 15 21 28. 35. 42

46

Ricostituire le «passioni» «Gar treu bis an das Grab»: un legame sempre precario Per la definizione d’un sottogenere: la prassi «troubadour» Qualche conclusione

4. Per una sintassi del racconto ballatistico 139 Una narrazione ben scorciata: strategie dell’ellissi e dell’anacronia 149

163

Da «ballad» a «romanzo» Sotto il segno del pathos Dopo la «pietà», la «musica» Con le strenne la maturità: verso il realismo

3. Oltre l’idillio. La mitopoiesi del conflitto 89 97 125 134

139

Da «ballad» a «ballata», dal nome alla cosa «Romanza» e «romanzo»: una duplicità sostanziale Romanticismo e risorgimento: quali rapporti? Un difetto di popolarità Quale pubblico, quale fruizione? Notaal testo

2. Le ragioni dei «pietosi racconti» 46 64 75. 81

89

SUPERSTIZIONI

Voci intermittenti, focalizzazioni incoerenti

5. Tra «armonia», «sonorità» e «canto». Le molte metamorfosi

dei metri ballatistici 163

Questioni (non solo) di metodo: sulla specificità della metrica

178.

romantica Norme pulviscolari: per una descrizione dei principali metri

INDICE

202 211 226 259)

«Smorte» tradizioni popolari: l’elusione dell’assonanza e del rispetto Il suono che narra: strategie del ritornello e della ripetizione

Tavola dei metri attestati in un solo componimento 6. Dislocare la convenzione. Dalla cornice alla mise en abyme 235 249 256

Cornici per narrare Dipinti da raccontare, ballate da dipingere Ballate al quadrato

271

Bibliografia

279

Indice dei nomi e delle opere anonime

Rinuncio a ringraziare — sono davvero troppi — tutti coloro che in vari modi hanno collaudato le molte stesure del presente studio. Mi limito a ricordare Fabio Danelon e Alberto Cadioli, che mi hanno fornito preziosi consigli; Giovanna Rosa, lettrice tanto puntuale quanto appassionata e partecipe; e soprattutto Vittorio

Spinazzola, che mi incoraggiò a questa ricerca una decina d’anni fa, e le cui pacate e fattive sollecitudini mi hanno aiutato a tradurla in libro.

EFFETTO BALLATA

I.I.

DA

«BALLAD»

A «BALLATA»,

DAL

NOME

ALLA

COSA

1.1.1. Definire in astratto, in modo cioè sostanzialmente acronico, «che cosa sia» una ballata romantica, è un’operazione in fondo

assai facile. Qualsiasi buon repertorio critico, qualsiasi manuale di metrica accuratamente compilato ci forniscono infatti resoconti in proposito per lo più soddisfacenti. Poniamo (cito da una recente opera di metrica) !: La ballata romantica non è una forma metrica specifica ma un genere letterario individuato dai suoi contenuti, per l'appunto ‘romantici’ [...]. I contenuti e i personaggi sono tratti soprattutto dal Medioevo italiano o sono inseriti entro tale sfondo, le componenti sentimentali e liriche [..]

vanno insieme a quelle civili e patriottiche. [...]. Le tecniche stilistiche sono elementari ed enfatiche, in obbedienza a una ricerca espressiva di

elementi ‘popolari’ e ‘musicali’. Le forme metriche riprendono soprattutto gli schemi dell’ode-canzonetta [...].

Certo, non è chi non veda l’inevitabile contraddittorietà di sif-

fatte descrizioni «al presente», le quali mettono sullo stesso piano l’entità — sì — in qualche modo atemporale d’un sonetto o d’una saffica (che per esser tali devono rispettare sempre e comunque vincoli formali rigidamente definiti) e un’entità generica caratterizzata soprattutto da un contenuto — e quale contenuto! — storicarzen! F. De Rosa-G. Sangirardi, Introduzione alla metrica italiana, Firenze, Sansoni, 1996, pp. 221 e 222-3.

11

NORDICHE

SUPERSTIZIONI

te sin troppo condizionato. Cionondimeno, sentiamo che quella definizione non solo ci è provvisoriamente utile, ma nella sua so-

stanza regge pure ad analisi più dettagliate e approfondite, che infatti non sono suscettibili di rivoluzionarla; semmai di precisarla

e circostanziarla. Cosa che — ne sono convinto, e me ne faccio sin

da ora garante — potrà esser verificata da chiunque legga fino alla sua conclusione il presente studio, e retrospettivamente cerchi di riscriverne la citazione liminare. Assai più complesso e utile è invece sdipanare l’aggrovigliata storicità di sensi e di pratiche che si è materializzata nel sintagma «ballata romantica» (ovvero, come vedremo: «ballata romantica ita-

liana»): che si è depositata, per meglio dire, nel corpus instabilissimo di opere che l’etichetta in oggetto designa. Né la ragione è quella, forse ovvia e tuttavia da tener sempre presente, che il nostro è uno di quei generi di cui non si dovrebbe esibire tanto una definizione quanto una descrizione, giacché appartiene alla serie «modulante» delle opere che si collegano fra loro in virtù di «convenzioni tradizionali», individuabili solo attraverso comportamenti euristici?: uno di quei generi, in altri termini, che dobbiamo seguire e collocare nel tempo, scrivendone la storia, interpretandone il divenire, in virtù di strumenti esegetici il più possibile allargati. La ragione (o la serie di ragioni) è soprattutto un’altra, connessa pro-

prio al contenuto del sostantivo implicato nel sintagma. Che cosa significa, insomma, il termine ballata? Se — come credo sia corretto fare — esaminiamo innanzi tutto il valore odierro della parola, scopriamo subito qualcosa d’assai curioso. Lascio ovviamente da parte ogni riferimento a ciò che viene di solito designato come «ballata antica», dando per scontata la distinzione tra le due realtà (distinzione che tuttavia, a ben vedere, sempre così scontata

non è)’, e bado soprattutto al valore moderno — romantico e post-

romantico — della parola. Ora, da una trentina d’anni almeno a

questa parte la lingua comune e il linguaggio tecnico della etnomusicologia usano ballata anche nell'accezione semantica che Costan-

? Utilizzo la griglia di riferimento teorico fornita da J.-M. Schaeffer, in Che cos'è un genere letterario [1989], Parma, Pratiche, 1992, in particolare nel cap. 1v, Regimi e logiche generiche, pp. 139-65. |

iS In anni recentissimi, infatti, è possibile che entro uno scritto sulla nuova canzone

italiana si definisca (nel glossario) la nozione di ‘ballata moderna’ utilizzando parole valide solo per la sua forma viceversa ‘antica’: cfr. Accademia degli scrausi, Versi rock. La lingua della canzone italiana negli anni '80 e ’90, Milano, Rizzoli, 1996, p-:37>-

12

EFFETTO

BALLATA

tino Nigra un secolo e più fa attribuiva all’espressione perifrastica canto narrativo e, eventualmente, al semplice canzone, e che poteva

anche esser realizzata come canzonetta (termine assai comune negli opuscoli popolari) ovvero cazzone epico-lirica (definizione, viceversa, più tecnica). L'italiano odierno, vale a dire, ha infine pienamente assunto — secondo una tendenza che il maestro di studi ballatistici,

Francis James Child, aveva colto quasi cent'anni or sono‘ — il valore inglese e angloamericano della parola, per lo meno nell’ambito della descrizione dei generi folklorici5 nonché (pur se in modo parziale) in quello delle forme moderne della comunicazione di massa. «Ballata» per noi è, ormai, sia un canto popolare di contenuto narrativo, diffuso soprattutto (ma non esclusivamente) nelle

regioni settentrionali della penisola, sia un tipo di composizione musicale fatta anche di parole, il cui testo racconti sinteticamente una storia. Di modo che con ballata oggi possiamo connotare per-

4 «The word ballad in English signifies a narrative song, a short tale in lyric verse, which sense it has come to have, probably through the English, in some other languages» (F.J. Child, Ballad Poetry, in Universal Cyclopaedia and Atlas, New York, D. Appleton and Company, 11, 1903, p. 464). ? Cfr. per esempio i classici interventi di R. Leydi: I canti popolari italiani, Milano, Mondadori, 1973 (in particolare p. 228 per una sintetica definizione di ballata); La canzone popolare, in R. Romano-C.

Vivanti (a cura di), Storia d’Italia, v, 2: I documenti, Torino,

Einaudi, 1973, pp. 1183-1249, dove tra l’altro si legge che «La ballata dell’Italia settentrionale si colloca nell’ambito geografico e culturale della ballata europea, ne replica i modelli, ne accoglie i motivi narrativi, ne conserva i modi esecutivi. Area periferica del territorio delle ballate, l’Italia del Nord (il Piemonte in particolare) pare mantenere più di altri paesi tracce di stadi arcaici della 24//2dry europea» (p. 1221). D'altronde, poniamo, né Nigra (che parlava di «canzone» touf-court,

e semmai si preoccupava di precisarne la specie «romanzesca»,

«storica» ecc.), né Barbi (per il quale è invece centrale il concetto di poesia «epico-lirica») usano l’etichetta di «ballata» per designare il canto popolare di area per lo più settentrionale, a fondamento narrativo, e caratterizzato da una peculiare struttura metrico-melodica. Né tale termine è mai stato presente sulla bocca del popolo che quei canti ha tramandati. Di C. Nigra cfr. ovviamente i Canti popolari del Piemonte, in particolare il vol. 1 boxv-1xvn]; e di M. Barbi, Poesia popolare italiana. Studi e proposte, Firenze, Sansoni, 1974? (1939!), in particolare, Per la storia della poesia popolare in Italia [1911], pp. 11-64. Per un recente uso del termine in ambito demologico cfr. ad esempio A. Bonamore Graves, Italo-hispanic Ballad

Relationships: the Common Poetic Heritage, London, Tamesis Books, 1986 (dove l’omologa-

zione concerne il rorzazce non solo spagnolo ma, per esempio, anche sefardita); N. Iannone, Ballate della raccolta Nigra note nella provincia di Piacenza, prefazione di M. Di Stefano, Sala Bolognese, Forni, 1989; M.E. Giusti, Ballate della raccolta Barbi, ibidem, 1990; L. Del Giudice, Cecilia. Testi e contesti di un canto narrativo tradizionale, Brescia, Grafo, 1995.

6 Insomma: il numero di accezioni segnatamente musicali che b4//24 possiede in inglese è assai superiore alle accezioni italiane di ballata: in particolare l’area di significato riconducibile al ballo vero e proprio è del tutto assente dalla nostra lingua (è infatti evocata, per esempio dalla critica jazz italiana, attraverso l’uso della parola originale). Cfr. anche, qui sotto, cap. 6, nota 41.

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NORDICHE

SUPERSTIZIONI

sino una narrazione medio-lunga e lunga, del tutto priva di accomÈ pagnamento musicale. razionaquesta compiuta volta una vedere, ben a , La situazione lizzazione terminologica e concettuale, può esser giudicata assai interessante e suggestiva, segnatamente sul piano teorico. Quando

usiamo il termine ballata, finiamo cioè per sovrapporre e infine fondere i due aspetti principali dell’oralità ‘poetica’ di ogni tempo: l’una (se accogliamo la distinzione proposta da Walter J. Ong)” è definibile come oralità «primaria» ed è caratteristica dei canti popolari strettamente intesi, l’altra è un’oralità «secondaria», «di ritor-

no», rappresentata anche e soprattutto dalle canzoni di consumo, la cui diffusione presso amplissimi pubblici avviene attraverso canali massmediatici di varia natura, per lo più sonori, tali comunque da emarginare la pagina scritta. Sarebbe dunque del massimo interesse uno studio che sapesse valorizzare siffatta fusione terminologica, sintomatica bensì della consueta ‘americanizzazione’ della lingua italiana, ma anche di uno spazio comune

infine ritrovato, della

compiuta ricostituzione d’un orizzonte «popolare» (in entrambi i sensi che normalmente vengono attribuiti all’aggettivo: se è vero che la «ballata» descritta da Nigra è prodotta dal mondo contadino nella sua autonomia, e la «ballata» incisa su disco e trasmessa dai

mass media viene consumata, per definizione, dalle folle anonime della moderna metropoli globale).

Certo, come avviene in tutte le crasi concettuali, il vero rischio

è quello della confusione. E in un sistema letterario in cui sono ballate non solo quelle scritte da Fabrizio De André e Giorgio Gaber, non solo quelle raccolte e conservate dal paziente lavoro degli etnomusicologi o ancora oggi intonate dagli anziani di qualche valle bergamasca o lucana, ma sono ballate pure le poesie di Stefano Benni e Tiziano Sclavi ovvero taluni romanzi di Hugo Pratt e Umberto Simonetta, e un critico come Angelo Maria Ripellino ha potuto pubblicare una silloge di Saggi în forma di ballate — insomma, in una tale società letteraria la specificità generica viene fortemente sacrificata a vantaggio di aloni di significato quanto mai va? W.J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola [1982], Bologna, il Mulino

1986, p. 21 e passim

i * Prova ne sia che i «testi» delle canzoni, quando vengono stampati, non presentano praticamente mai un'organizzazione grafica (e talvolta nemmeno ortografica) accettabile: privi di interpunzione, scanditi in linee che non sempre corrispondono ai versi, sono una mera traduzione tipografica del prirzum orale in cui pienamente si realizzano.

14

EFFETTO

BALLATA

ghi e sfumati. Quasi che, suppongo, con ballata oggi ormai si intenda, indifferentemente, un componimento poetico o un’opera narrativa le cui caratteristiche possano venire facilmente apprezzate soprattutto dai pubblici meno smaliziati, estranei alle convenzioni letterarie (e musicali) canoniche.

I.2.

«ROMANZA»

E «ROMANZO»:

UNA

DUPLICITÀ

SOSTANZIALE

1.2.1. Una vera e propria generalizzazione semantica, tanto indeterminata quanto (per lo meno sul piano critico) allettante, del sèma /popolarità/: tale parrebbe essere l’esito ultimo cui il significato del lessema ballata è infine pervenuto. E alle origini di siffatto uso estremo c’è, senza alcun dubbio, la pratica della ballata romantica italiana; anche se è assai difficile — per il momento direi anzi impossibile — capire come si sia passati dalla designazione d’un genere letterario tutto sommato ben circoscritto all’odierna nebulosa di connotazioni. Vero è che a partire all'incirca dal 1810 cominciano a diffondersi in Italia componimenti variamente versificati, ma talvolta anche prosastici, che cercano di contemperare un succinto contenuto nar-

rativo di vario argomento (spesso, comunque, l'ambientazione è medievale, e il tema è amoroso), e una forzza sostanzialmente lirica (oltre i versi brevi dell’ode-canzonetta e dell’aria melodrammatica, spiccano il lessico artificioso e l’ordito retorico tipico dell’oratio ligata di registro più sostenuto). E se i primi esemplari del genere consistono in traduzioni dall’inglese o dal tedesco — con la conse-

guenza di propiziare appunto l’irruzione della prosa, e pertanto la prassi d’una precoce «poesia in prosa» —, si deve attendere la metà degli anni Venti per assistere a una prima codificazione del nostro genere letterario. Il quale genere però, secondo una tendenza rimasta costante anche nei decenni successivi, può essere etichettato pure dal termine romanza (e addirittura alle origini rorzanzo): chiara traccia d’un influsso a un tempo francese e tedesco; ma probabile riflesso, pure,

di un’azione diretta del britannico rorzance, se non persino dell’omografo lessema spagnolo. Rorzanza, tuttavia, per usare le parole di Rousseau, inevitabilmente evoca un Air sur lequel on chante un petit Poéme du méme nom, divisé par 1)

NORDICHE

SUPERSTIZIONI

couplets, duquel le sujet est pour l’ordinaire quelque histoire amoureuse

et souvent tragique?.

e dunque fa riferimento a un contesto musicale, tanto più percepibile in quanto rorzanza è stato precocemente applicato anche a composizioni prive di parole!°. Inconveniente terminologico, questo, di fatto insuperabile!!:cui invece il sintagma ballata romantica è in grado di porre un soddisfacente rimedio. E il rimedio risulterà pienamente efficace allorché si avrà l’accortezza di specificare meglio la locuzione apponendovi l’attributo italiana — onde distinguere la nostra entità dalle ballate romantiche caratteristiche di altre civiltà letterarie "2. Né il problema, se esaminato in chiave storica, è solo terminologico, naturalmente. La ballata romantica italiana è stata in effetti anche una romanza; fin dalle origini, una parte della sua tradizione ? J.J. Rousseau, Dictionnaire de musique, tome second (Oeuvres complètes, xv), Genève, 1781, p. 166.

!° Come ci suggerisce il vol. xvir del Battaglia (24 vocer: specifica, terza accezione), un'attestazione del maschile rozzazzo con significato musicale risale addirittura al 1801: si veda P. Gianelli, Dizionario della musica sacra e profana, Venezia, 1801, 11, p. 83 (nell’edi-

zione da me consultata, Venezia, dalla tipografia Andrea Santini e figlio, 1820, cfr. vol. v, p. 107). E comunque Gianelli si rifà con ogni evidenza alla Rorzazce del roussoviano Dictionnaire de musique (vedi la citazione alla nota precedente): «Aria su cui si canta un picciolo poema che porta tal nome diviso in istroffe, il di cui soggetto per lo più è una storia amorosa, o tragica. Siccome poi lo stile del romanzo è semplice.e naturale, così a certe sonatine facili e naturali, principalmente da Cembalo, vien dato il nome di romanzo».

!! A meno di pensare a una distinzione, peraltro — che io sappia — mai fatta con sistematicità, tra «romanza (solo) verbale» e «romanza musicale (con o senza parole)». Di modo che quando nell’introduzione alle proprie Ba//ate del 1834 Carrer ci parla del «serventese e della romanza» che «ritraggono [...] i tempi e il costume dell’antica cavalleria» [xx], e che nella sua prospettiva costituiscono aspetti particolari della ballata, facciamo fatica a capire quale sia il genere denotato (anche se è verisimile che si tratti della canzone). Cfr. comunque, qui sotto, la nota 33. 1? Risulta pertanto incomprensibile per quale ragione (che non sia di tipo nazionalistico) studiosi come Mazzoni abbiano perentoriamente proposto di non parlare mai di ballata (ancorché romantica) ma solo e sempre di romanza: vedi soprattutto L’Ottocento, Milano, Vallardi, 1913, vol. 1, p. 656 (e nel vol. n, p. 1386, in nota, si discorre di «Romanza, malamente detta anche Ballata»). In anni meno remoti, poi, è stata suggerita una distinzione funzionale delle aree semantiche pertinenti alle due parole, e in relazione ovviamente a componimenti poetici dell'Ottocento: penso a quanto scrive G. Petronio nella silloge di Poeti minori dell'Ottocento da lui curata [403]. Qui, per descrivere uno degli aspetti della produzione ballatistica italiana, lo studioso a un certo punto parla di «ballate popolari, quasi delle

romanze, come quelle del Viggianese [a opera sia di N. Sole sia di P.P. Parzanese] e quella della filatrice [di Dall’Ongaro]»: con l’intento, certo, di metterne in rilievo i caratteri più

marcatamente lirici, in relazione almeno ai concorrenti tipi o sottogeneri ballatistici da lui illustrati (quello storico-leggendario e quello patriottico). Una distinzione questa, utilissima bensì sul piano concettuale, che però andrebbe forse fatta con parole meno ancipiti.

16

EFFETTO

BALLATA

ha palesato un’insopprimibile tensione lirica, malamente corretta dalle labilissime storie che ha raccontato. Anzi, se volessimo valo-

rizzare il fatto che Guerrazzi inserisce in una propria scelta di Ballate e canzoni di stile romantico una poesia di De Cristoforis come La canzone di Lucia [5-6], potremmo individuare proprio in essa — vale a dire in un componimento a bassissimo tasso di narratività — la prizza autentica ballata romantica originariamente italiana: essendo la sua data di pubblicazione su periodico il 1817, circa tre anni prima, vale a dire, che Davide Bertolotti e Paride Zajotti diano alla luce ovvero scrivano componimenti esplicitamente ricondotti al genere della ballata. E non v'è dubbio che tale liricizzazione abbia continuato ad agire lungo tutto il quarantennio che c’interessa, in particolare nelle sedi di più immediato consumo poetico. Nelle strenne, nei romanzi storici e nei libretti d’opera, la funzione

forse più importante dei pezzi epico-lirici variamente incastonati non è tanto mettere in scena una storia, raccontando un caso inedito, bensì esibire un nucleo di sentimenti enfatizzati al massimo,

che si connettono a situazioni narrative ampiamente prevedibili e dal lettore, anzi, in effetti prevedute (il trovatore non corrisposto, la fanciulla in attesa del fidanzato, il prigioniero che cantando si rivolge all’amata — e viceversa —, la vendetta dell’autocrate tradito negli affetti, la partenza del guerriero, e così via). Dove cioè a un minimo di cura del plot dovrebbe corrispondere un massimo di patetismo lirico: garantito dall’intima musicalità del dettato, dalla capacità di colpire il lettore (o la lettrice) mediante la rimodulazione originale di un nucleo di significati invarianti. Al limite, il componimento ballatistico segnala innanzi tutto il proprio esserci, il proprio intento di evocare una pura commozione in maniera indi-

pendente dal significato delle parole (la «romanza senza parole», nella storia della musica, non è del resto un genere d’avanguardia; e le «ballate» di Chopin si inseriscono in una tradizione condivisa dai pubblici del romanticismo). La ballata-romanza pienamente testuale, e di più stilizzato lirismo, anticipa in questo modo una serie di generi ben presenti nella modernità: fra i quali, certo, il più importante e fortunato è quello che denominiamo canzonetta ovvero canzone di consumo, in Italia tradizionalmente deputata a comu-

nicare, più che una significazione verbalmente scandita, un nucleo d’affetti, un groppo d’emozioni. Cionondimeno, molte delle ballate romantiche italiane sono sta-

te anche (e forse soprattutto) dei romanzi. Gli autori che definirei 17

NORDICHE

SUPERSTIZIONI

più impegnati hanno impresso al genere un’evoluzione narrativa di questo tipo a partire circa dalla metà degli anni Trenta, e con maggior convinzione negli anni a ridosso del Quarantotto. Carrer, Prati, Dall’Ongaro, Gazzoletti, Capparozzo, Berti (cui possiamo magari

aggiungere alcune figure minime documentate dalle strenne milanesi e triestine), cercano di trasporre il sentimentalismo fondativo della recente tradizione generica in un àmbito di grande «serietà» tematica, al limite addirittura d’una poetica realistica. Ed è forse stato il famigerato Giovanni Prati ad aver tratteggiato con maggior decisione e chiarezza programmatica un'immagine lusinghiera della ballata. Nel 1844, all’atto d’introdurre il dittico di componimenti I bagni di Comano-Riva e il Garda [Viaggio da Desenzano, 85-6]”, Prati descrive il paesaggio del suo Trentino contrapponendo da un lato le «acque deliziose», i «cedri e gli ulivi», la «luce viva e corrente per grande ampiezza», e, sul fronte opposto, le «maestose montagne», il «tufo selvatico degli abeti e dei pini», la luce «rotta dalle ombre gigantesche de’ massi acclivi alle fonde tortuosità del torrente»: allegorizzando cioè — attraverso l’uso d’un tépos del sublizze di respiro affatto europeo — il contrasto tra «l’ode libera e capricciosa tra gli aurei giardini in riva al Benàco» e «la seria ballata sotto al rezzo dei frassini presso le ghiaie del Sarca» [corsivi miei]. Antitesi chiarissima, dunque: che rivendica la sostanziale, materiale e proprio naturale, superiorità del nostro genere rispetto al genere più alto della precedente (e ancor viva, peraltro) tradizione: appunto l’ode, sentita come troppo compromessa con le convenzioni ‘facili’ della civiltà, troppo contaminata dalla retorica cittadina, dagli usi strumentali che nei moderni generi di consumo inevitabilmente allignano. E, in effetti, dopo le osservazioni di De Lollis (relative soprattutto a Carrer) e di Baldacci (riguardanti segnatamente Dall’Ongaro)

è stata ben approfondita la tensione al «romanzo» della ballata romantica italiana: il suo complicarsi, il suo arricchirsi di artifici e metrici e narrativi, per riuscire ad assecondare tematiche ‘veristiche’, connesse ad argomenti in Italia spesso inediti, e anzi in qualche caso persino scabrosi (il tradimento femminile visto in un'ottica di fatto simpatetica, la crisi della poesia e del poeta nella società

borghese, i conflitti delle giovani donne con l’autorità dei padri, le lotte di liberazione nazionale, la prostituzione). Un «romanzo» assai ” Si legga quell’introduzione anche nelle Opere edite e inedite [n, 279-80].

18

EFFETTO

BALLATA

particolare, beninteso, che anzi finisce per assomigliare più a uno scorciato libretto da melodramma che non a una specie di novella. Anche perché la prospettiva diegetica della ballata romantica è inevitabilmente connessa a quel tipo di patetismo e di sentimentalismo che in qualche modo la fonda, e inevitabilmente osta alla polifonia di voci e punti di vista, agli effetti di straniamento, ai mutamenti di registro — a tutto ciò insomma che molti reputano indispensabile alla buona riuscita d’un vero romanzo moderno. Sin troppo semplice, allora, rilevare la contraddizione: intorno alla metà degli anni Quaranta, il nostro genere ci appare spaccato in due, proteso per un verso alla incontaminata e ineffabile musica (cui corrisponde una propensione al cliché verbale, al mero dispiegamento d’una griglia di artifici retorici), e orientato per un altro verso al racconto di valori e storie contenutisticamente impegnativi,

che la ballata — a ben vedere — non è tuttavia in grado di evocare, non possiede gli strumenti per assecondare in modo adeguato. Negli anni Cinquanta siffatti nodi irrisolti emergeranno con piena evidenza. Davvero esemplare è in questo senso la testimonianza di Giovanni Visconti Venosta, e non solo ovviamente per il testo in sé della Partenza del crociato, parodia fortunatissima della ballata romantica italiana !4, ma per le modalità che ne hanno propiziato la nascita. Narra infatti l’autore che la romanza venne da lui scritta nell’estate 1856, allorché un ginnasiale gli chiese di aiutarlo a terminare un tema ‘per le vacanze’, in versi, appunto intitolato «La

partenza del crociato per la Palestina», di cui il giovane aveva composto una prima strofa tanto goffa da risultare involontariamente comica [Ricordi di gioventà, 357-60). Sin troppo chiaro: se un genere letterario regredisce a mascherina retorica su cui costruire esercitazioni scolastiche, evidentemente buona parte della sua vitalità si è esaurita, e la sua possibilità di comunicare contenuti inte-

ressanti si lega ormai alle modulazioni della parodia e dello scherzo, a una transvalutazione prospettica, che a sua volta implica il sostanziale sgretolamento del modello istituzionale di riferimento. Insomma, negli anni Cinquanta di ballate in senso alto e realistico se ne scrivono sempre meno, e i non molti esemplari superstiti 14 Mario Scaparro affermava, per esempio, che La partenza del crociato agli inizi del Novecento era uno dei tre «scritti letterari che avevano maggior diffusione nell’ambiente studentesco», in compagnia della Vispa Teresa e dei Promessi sposi. (M. S., La romanza del

prode Anselmo, in G. Visconti Venosta, La partenza del crociato per la Palestina. Scherzo poetico, Roma, Daniel, 1944, s.i.p.).

19

NORDICHE

SUPERSTIZIONI

segnalano l’irrigidirsi delle formule pratiane e dellongariane in auge nel decennio precedente. Sintomatico soprattutto Arnaldo Fusinato, vero e proprio desublimatore della morale borghese ancora così vitale ed espansiva prima del ’48: i suoi componimenti più noti, che formalmente sono peraltro perfetti esempi di polimetri ballatistici, si presentano come macchine ideologiche assai rigide, deputate a reprimere — secondo una prevedibile strategia di pensiero — ogni comportamento sessuale e civile anche solo blandamente trasgressivo. E, inoltre, quello che a me sembra costituire uno dei vertici della ballata romantica italiana, vale a dire il dittico di Maffei La

vendetta-Le veneziane, completato nel 1853, proprio nella sua perfezione (innanzi tutto narrativa) denuncia il limite estremo cui una forma letteraria può giungere attraverso la sapiente manipolazione delle convenzioni che le presiedono: dal dispiegamento di taluni ideologemi romantici (connessi al tema del tradimento femminile), alle ellissi ai mutamenti di focalizzazione. Ne deriva un’opera di alto manierismo, ai limiti tuttavia dell’incomprensibilità, tanto enigmatica da poter essere decodificata con un margine accettabile di sicurezza solo dopo averla confrontata con i due (ovvero tre) quadri di Hayez, cui si riferisce. Di modo che, a ben vedere, il vero erede della ballata romantica,

di impianto realista, negli anni Cinquanta dell’Ottocento non è un genere in versi (tanto meno, dunque, quello della novella romantica appunto versificata, il cui logoramento-»era già evidente nel decennio precedente), bensì un genere pienamente prosastico come la novella in prosa, segnatamente quella «rusticale». Essa, infatti, pare raccogliere l'eredità di due contenuti, almeno, a lungo giudicati requisiti pressoché irrinunciabili della ballata romantica italiana, per lo meno nelle sue modulazioni più elevate: il radicamento popolare del racconto, che nei casi di maggiore probità intellettuale sconfina nell’indagine di tipo folklorico; l’istanza realista, l’attenzio-

ne al vero, che deve soprattutto rivolgersi ai modi di vita e ai comportamenti delle classi inferiori. Anzi, da questo punto di vista, il filo rosso che si diparte da Carrer e Dall’Ongaro trova il suo più interessante compimento nella novellistica verghiana, che è ancora in grado di confrontarsi con tipi di intreccio e #6poi ben presenti nell’immaginario del romanticismo. ! Cfr, qui sotto, cap. 6, pp. 252-6.

20

EFFETTO

1.3.

ROMANTICISMO

BALLATA

E RISORGIMENTO:

QUALI

RAPPORTI?

1.3.1. Ora, questa che definirei la contraddizione primaria della

ballata romantica italiana si è rispecchiata fin troppo chiaramente nella fortuna (0, meglio, sfortuna) critica che l’ha accompagnata. In cima alla quale dobbiamo doverosamente porre uno staterzent carducciano, peraltro abbastanza noto: I romantici tra ’l venti e il quaranta, risuscitarono il nome di ballata e applicandolo alle loro imitazioni delle imitazioni della prima maniera di Victor Hugo, commisero uno di quei tanti anacronismi onde resteranno

famosi, essi che si vantarono di riportare il vero nell’arte e di ricongiunger questa all’istoria. E la ragione salvi i giovani dalle ballate romantiche; le quali, rappresentando un falso oriente e un falso settentrione, un falso medio evo e una falsa cavalleria, una falsa religione e vin falso popolo, e falsi sentimenti e falsissimi ghiribizzi di cervellini che si credevano e volevano apparire grandi e robusti, ad altro non riuscirono insomma che a rinnovare una arcadia tanto più nociva quanto più pretensiosa !°.

Affermazione ai nostri occhi tanto più interessante in quanto, con ogni evidenza, e in modo non poco paradossale, è proprio per l’attivo intervento di Carducci e della sua scuola che in Italia si sono sviluppati i primi, imprescindibili studi sulla ballata romantica. È sufficiente scorrere le ricerche di Laudomia

Cecchini, Alfredo

Galletti, Guido Mazzoni e Cesare De Lollis, per rendersi conto che gli interventi tra i più importanti sull'argomento sono geneticamen-

te (e anzi direi proprio ideologicamente) condizionati dall’insegnamento di Carducci, dai suoi interessi e dalle sue idiosincrasie !. AI 16 G. Carducci, Delle poesie toscane di messer Angelo Poliziano. Discorso [1863], in Id., Opere, ed. naz., vol. x11, Bologna, Zanichelli, 1936, p. 327.

7 L’unico studio complessivo sull'argomento pubblicato in volume è il libro di L. Cecchini, La ballata romantica in Italia (Torino, Paravia, 1901), che prende esplicitamente le mosse dalle parole carducciane su Prati (e si veda con che tono: «ma se il Maestro abbracciò,

come sempre, l’opera del poeta nel suo complesso, in una di quelle sintesi meravigliose che egli solo sa fare, lo studioso paziente deve ancora riempire i contorni che il Maestro tracciò»;

pp. 7-8). E anche De Lollis, cioè colui che meglio ha valorizzato il genere ballata in direzione critico-interpretativa, cerca un collegamento storico tra la poetica implicita dei ballatisti italiani e la prassi del Carducci «poeta della storia» (il volume cui mi riferisco è ovviamente Saggi sulla forma poetica italiana dell'Ottocento, a cura di B. Croce, Bari, Laterza, 1929). Analoghe potrebbero essere le osservazioni per le parti dell'Ottocento di Guido Mazzoni consacrate alla ballata (cfr., nella prima edizione cit., il vol. 1, alle pp. 6559-67), o per quel preziosissimo studio di comparatistica erudita che è il libro di Alfredo Galletti, L’opera di Vittor Hugo nella letteratura italiana (supplemento n. 7 del «Giornale storico della letteratura

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punto che, come sempre succede in questi casi, le indicazioni del

maestro agiscono anche in senso negativo; e noi oggi sappiamo parecchio circa l’influsso di Hugo sulla produzione ballatistica italiana, e viceversa quasi nulla intorno all’incidenza di quella cultura letteraria straniera che ha imposto a tutta Europa la nobilitazione letteraria di un genere viceversa popolare, e infatti spesso orale, quale la ballad. Ancora: è nell’ambito della scuola carducciana che è nata non solo la demonizzazione del Prati ballatista, cioè del più

fortunato esponente del nostro genere letterario, ma anche la valorizzazione di un maestro di Prati, tuttavia politicamente assai più ‘disimpegnato’ e anzi proprio austriacante, come il suo conterraneo

Maffei; ed è qui che si è irrigidita l'accettazione acritica dei contenuti della poesia di Berchet, in parallelo però alla stroncatura (altrettanto, mi pare, acritica, cioè per lo meno antistorica) delle forme che quella poesia caratterizzano; e così via!5. Inoltre: l’autore della condanna di cui sopra sarà coinvolto anche praticamente nelle sorti della ballata romantica, in quanto artefice, come è noto, di alcuni fra i più riusciti esemplari del genere. Ne deriva una #7passe evidentissima, che è insieme di Carducci e del modo tradizionale — in definitiva anche il nostro, quello tuttora in vigore — di percepire la ballata romantica. Quanto più quel genere ci avvicina al nostro presente, quanto più ci permette di capir-

ne le origini e le caratteristiche, tanto più viene respinto sullo sfondo di un «romanticismo sentimentale», pratiano (e per inerzia dittologica pure aleardiano), quale antonomastico rappresentante del cattivo gusto estetico.

Forse anche per tali ragioni — per questa sovrabbondanza di problemi irrisolti — da circa un quarantennio a questa parte assistiaitaliana», Torino, Loescher, 1904), il cui stesso oggetto di ricerca è individuato sulla scorta

da una trasparente suggestione di Carducci (si veda anche la citazione, qui sopra, alla nota 16). Il saggio di quest’ultimo cui mi riferisco è Giovanni Prati [1884], contenuto nel vol. x1x dell’ed. naz. cit., 1937, pp. 73-98. !8 L'attacco a Prati in questione è quello sferrato da L. Cecchini, La ballata romantica,

cit., pp. 41-59 (la studiosa, tra l’altro, curiosamente si lamenta della ‘fatica’ di aver dovuto

studiare un tale insopportabile autore: parla infatti di «un esame fatto con lungo studio, se non con grande amore»; p. 49); e nel medesimo volume, alle pp. 9-22, è viceversa contenuta un'analisi obiettiva e anzi sostanzialmente elogiativa della 4//2dry berchettiana («quando una poesia risponde interamente al suo scopo, e perdura anche dopo spenti gli entusiasmi onde si sprigionò, convien dire che la gagliardia dell’ispirazione sia tale, da rendere trascurabili le negligenze esteriori»; p. 20). Laddove è a De Lollis che vanno attribuite sia la rivalutazione di Maffei (cfr. Saggi sulla forma poetica cit., pp. 200-6), sia — come tutti sanno — il perentorio ridimensionamento di Berchet poeta (ivi, pp. 34-54)

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EFFETTO

BALLATA

mo a una netta caduta di interesse nei confronti della ballata !: che sempre meno spesso viene trattata come un genere dotato di una

sua specificità storica, suscettibile di propiziare ricerche di indole sia settoriale sia complessiva; e anzi viene per lo più affrontata in modo quasi formulaico, vale a dire ripetendo nozioni esegetiche messe a punto un’ottantina e più d’anni fa. Le eccezioni in tal senso sono pochissime?°, e non del tutto casualmente si tratta quasi sempre di interventi sollecitati da contesti latamente enciclopedici, non generati da un ‘autonomo’ interesse di ricerca. Sintomatico, a me sembra, l’ultimo importante contributo anto-

logico dedicato alla poesia cosiddetta minore dell’Ottocento, vale a dire la silloge ricciardiana in due volumi curata da Luigi Baldacci (che nella seconda parte della sua fatica si è avvalso della collaborazione di Giuliano Innamorati). É sufficiente osservare come è stata ripartita la materia: nel primo volume figura la poesia lirica, tendenzialmente lontana da interessi o intenti di tipo ‘pratico’, mentre nel secondo è inserita la produzione di genere, comprendente — nell’ordine — la poesia religioso-didascalica, la narrativa, la satirica, la politico-risorgimentale, e infine il dominio trasversale delle traduzioni in versi?!. Né si tratta solo, per quanto ci riguarda, di osservare l’assezza della ballata: bensì di rilevare la retrocessione di concetti come «poema narrativo», «poesia religiosa» ecc. a semplici etichette, contenitori adibiti a inquadrare una materia in buona parte residuale rispetto al genere vero, quello ovviamente della lirica. Baldacci è in tal senso esplicito quando dichiara che il secondo volume della sua antologia contiene !9 Lo testimonia anche, indirettamente, l’isolamento in cui sono stati relegati dall’angli-

stica italiana i notevolissimi interventi che Sergio Baldi consacrò negli anni Quaranta al nostro genere: cfr soprattutto Sull’origine del significato romantico di «ballata», «Annali della R. Scuola normale superiore di Pisa», s. 11, x, 3, 1941, pp. 221-8; poi ristampato con altri

contributi d’interesse anche comparatistico in Id., Studi sulla poesia popolare d'Inghilterra e di Scozia, Roma, Edizioni di ‘Storia e letteratura’, 1949, pp. 67-77. Sul suo impegno di

traduttore anche di ballate, cfr. il vol. postumo I piaceri della fantasia. Versioni con testi originali, con un saggio di O. Macrì, a cura di A. Celli, Firenze, Olschki, 1996. 20 Oltre al fondamentale intervento di A. Balduino, Ballate romantiche, in V. Branca (a cura di), Dizionario critico della letteratura italiana, Torino, Utet, 1986?, vol. 1, pp. 173-8 (ma

dello stesso autore va anche ricordato Romanticismo e forma poetica in Luigi Carrer, «Atti dell’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti» [Classe di scienze morali e lettere], cxx, a. a.

1961-1962, pp. 93-161, in particolare 113 ss.), segnalerei alcune osservazioni di L. Gregoris, La prima generazione romantica e il classicismo della restaurazione nella poesia del primo Ottocento, in Storia letteraria d'Italia, nuova edizione a cura di A. Balduino, x: L’Ottocento, a cura di Id., Padova-Milano, Piccin-Vallardi, t. 11, pp. 865-928, in particolare 903-8. 21 Cfr. Poeti minori dell'Ottocento [n1, 3-144, 147-587, 591-1054, 1057-1125, 1129-1306].

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la poesia dell'Ottocento nei suoi aspetti di impegno più contingente, più

intimamente legati a pronunciamenti del costume letterario romantico: si vedrà del resto che i poeti qui accolti, tranne rare eccezioni, non varcano

il primo cinquantennio del secolo; ed è già questo un rilievo istruttivo. Significa che la lirica propriamente detta prende, a un dato momento, il sopravvento sugli altri ‘generi’ minori. [Poeti wzinori dell'Ottocento, 1, x]

Ne è derivato un fenomeno ancora oggi ben attivo, che a mio avviso comporta una forma di distorsione storica: e cioè che la poesia dell'Ottocento viene affrontata mediante categorie di genere «analogiche», costruite a posteriori”, in funzione per di più d’una concezione con ogni evidenza ideologica, vale a dire ‘risorgimentale’, dell'Ottocento italiano. Penso soprattutto al saggio di Vittorio Spinazzola? consacrato alla Poesia romantico-risorgimentale. Dove il titolo rispecchia bensì un intento periodizzante, ma è anche — di fatto — una definizione di genere, cioè, meglio, dell’arcigenere in

grado di inglobare le manifestazioni particolari («l’inno patriottico, la ballata medievaleggiante, la novella patetica, la tragedia byroniana, la canzone storica»)? E dunque una comune intenzionalità a un tempo ideale e pratica, garantita dal patriottismo dei poeti attivi in questo periodo, costituisce il vero motivo unificante, il fondamento convenzionale in grado di spiegare la solidarietà dei prodotti esaminati. Tutto ciò, in sostanza, significa mettere in domi-

nante il modello della poesia berchettiana, assunta (anche per l’analisi tematica)? a paradigma dei valori romantico-risorgimentali; cui plasticamente si contrappone la successiva involuzione della lirica di Prati, un autore comunque per nulla estraneo alle problematiche del risorgimento, e però incapace di conferir loro un’im? Cfr. la definizione di Schaeffer, Che cos'è un genere letterario cit., pp. 153-4. ? V. Spinazzola, La poesia romantico-risorgimentale, in E. Cecchi-N. Sapegno (a cura di), Storia della letteratura italiana, vi: L'Ottocento, Milano, Garzanti, 1969, pp. 961-1067.

24 Ivi, p. 964.

? Notevole l'illustrazione del nesso fra vita privata e sfera pubblica, garantito dalla compagine della famiglia; il discorso di Spinazzola sembra in effetti mettere in dominante caratteristiche tematiche di «romanze» come Clarina o Il romito del Cenisio o d’un poemetto

come Le fantasie: «Da un lato vediamo l’idolizzazione dell’ardore civico, della fedeltà alla propria terra, del fiero senso di una combattiva libertà: ecco la mitologia medievalistica, assieme all’incitamento alla lotta antiaustriaca. Dall'altro lato i tormenti e le speranze d’amore, con il loro prepotente esclusivismo: ed ecco gli eroi e le eroine che incarnano le ragioni del cuore e se ne consumano sino al delirio. [...] tra i due momenti tematici interviene una mediazione nuova, offerta dal motivo della famiglia»; di modo che ne nasce «un nuovo ideale umano: il cittadino attivamente inserito nella vita del suo popolo, non a dispetto ma proprio in ragione della sua ricchezza di affetti personali» (ivi, p. 967)

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EFFETTO

BALLATA

pronta personale priva di manierismi e di appesantimenti retorici. Certo, tutti sappiamo che — per lo meno sul piano letterario — una tale visione dei fatti viene da molto lontano, dalla congiunzione Tenca-De Sanctis, responsabili, il primo, della più celebre stroncatura pratiana, e il secondo di un’esaltazione anche estetica della lirica berchettiana; e di molto altro ancora. Dalla lezione di quei due maestri, insomma, oltre che da una visione — diciamo — ‘cano-

nica’ del risorgimento, è ‘nato’ il genere poi illustrato da Spinazzola. Ode, ballata, novella romantica, inno (civile o sacro), e anche satira in versi, in tanto si manifestano, in tanto sono forme pertinen-

ti al discorso interpretativo, in quanto attualizzano i tratti comuni di romanticità e di risorgimentalità presupposti dallo studioso, e anzi posti a fondamento della sua ermeneutica. Chi è fuori da quel quadro, temo, rischia di essere escluso dal discorso critico, ovvero

vi rientra sì ma esemplificando un’anomalia, un’eccentricità individualistica (seppure efficace e risolta, come nel caso di Scalvini, e a maggior ragione in quello di Leopardi) ?°. Ed è proprio qui che sorgono i primi problemi per chi si occupa della ballata «romantica» italiana. Le virgolette sono forse necessarie, in questo frangente, se una ricerca attenta alle specificità del fenomeno è costretta a constatare (né si tratta di dati sconosciuti)

che i primi reperti testuali in grado di esemplificare le caratteristiche convenzionali del genere sono stati scritti o pubblicati, nel medesimo 1820, da Davide Bertolotti e Paride Zajotti. Cioè, rispettivamente, da uno dei letterati, fra quelli attivi a Milano nei primi anni della restaurazione, maggiormente detestati dai romantici, autore d’un volgarissimo attacco a M.me de Staél che nelle 26 Nei più recenti interventi di sintesi sull'argomento, sono stati introdotti ben pochi correttivi rispetto all'impostazione di Spinazzola. E anzi fin dal titolo del suo saggio, I poeti romantici, F. Portinari (in G. Bàrberi Squarotti (a cura di), Storia della civiltà letteraria italiana, w: M. Cerruti, F. P., Ada Novajra, I/ Settecento e il primo Ottocento, Torino, Utet,

1992, pp. 365-96) opera un'ulteriore riduzione di campo, e un’ulteriore schematizzazione, dato che si occupa anche di poeti non riconducibili al romanticismo. Più articolata la posizione di Gregoris (La prima generazione romantica cit.), che in effetti propone di mettere a partito le acquisizioni critiche di Timpanaro, e quindi di rinunciare a una descrizione compatta del fenomeno. Ma non mi sembra che, al di là delle intenzioni, la sua ricerca proponga novità di rilievo; e infatti la caratterizzazione globale del movimento romantico lombardo ricalca, esplicitamente, la descrizione fattane da Spinazzola, mentre la valorizzazione dei poeti classicisti si limita alle figure più ‘di sinistra’, legate cioè a una cultura illuministicopatriottica: figure, insomma, se non proprio «romantiche» quanto meno «risorgimentali». Impostazione, questa, che consapevolmente deve molto alla vecchia ma sempre utile antologia a cura di E. Janni, I poeti minori dell'Ottocento, di cui vedi il vol. 1: Classicisti e romantici, Milano, Rizzoli, 1955.

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sillogi sulla polemica classico-romantica lo denuncia come un campione del più gretto conservatorismo; e da un Imperial Regio magistrato, responsabile nel 1831 di molte condanne di patrioti maz-

ziniani, noto nelle storie letterarie nazionali soprattutto per l’ingegnosità polemica con cui cercò di mostrare la scarsa legittimità del romanzo storico in generale, e di quello manzoniano nella fattispecie2?. Davvero curioso, dunque, un genere per contratto «romantico» alla cui fondazione italiana hanno dato un contributo affatto decisivo due «classicisti», veri o presunti che siano. Si rischia addirittura di perdere per strada l’etichetta da tutti ritenuta pertinente. Tanto più se pensiamo che un ruolo non secondario rispetto alla fortuna della ballata hanno svolto traduzioni dal tedesco di autori austriaci oggi non molto famosi (penso a Heinrich Joseph von Collin e a Caroline Pichler), le cui «romanze» storiche di argomento filo-asburgico sono ben presenti nelle strenne più famose pubblicate a Milano a partire dagli anni Trenta. Detto questo (ma sono solo pochi e tangenziali esempi), non s'intende certo prospettare alcuna forma di revisionismo storico; si vuol solo suggerire che il genere della ballata romantica attraversa la totalità degli schieramenti politici e letterari attivi nell’età della restaurazione: dal campo liberale e romantico (che comunque è il principale artefice della sua scoperta e del suo sviluppo italiano) a quello austriacante e classicista (entro il quale la componente ‘trentina’ è ovviamente assai attiva), dai ‘patrioti’ di fede indifferentemente moderata o democratica (poniamo: Samuele Biava e Francesco Domenico Guerrazzi) ai reazionari e cattolicissimi apologeti della I. R. Maestà. Tanto meno — come detto — si vuole proporre di abolire la denominazione di genere da tutti sin qui adottata. Che,

spesso, i classicisti conoscano meglio dei loro avversari le culture letterarie germaniche (soprattutto, ma non solo, la tedesca), e che

viceversa — poniamo — il più importante romantico italiano legga

Walter Scott in francese, sono tutti dati ormai ben noti: i quali, in fondo, dimostrano solo come le lamentele dei romantici circa la

«necessità delle traduzioni» fossero ampiamente giustificate.

Quanto a Bertolotti, penso ovviamente a La gloria italiana vendicata dalle imputazioni della signora Baronessa di Staél-Holstein, originariamente apparso sullo «Spettatore», VI, 1816, parte italiana, pp. 150-8, e poi riprodotto in E. Bellorini (a cura di), Discussioni e polemiche sul Romanticismo (1816-1826), reprint a cura di A.M. Mutterle, Roma-Bari, Laterza, 1975, vol. I, pp. 75-84. Su Zajotti è sufficiente il rinvio all’antologia dei suoi scritti critici a cura di R. Turchi, Polerziche letterarie, Padova, Liviana, 1982.

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EFFETTO

BALLATA

Quella che si vorrebbe proporre è, piuttosto, una sorta di epochizzazione dell'ambito «romantico-risorgimentale»: le due realtà implicate devono poter essere (almeno provvisoriamente) separate per riuscire a comprendere, a tratteggiare criticamente, gli autori e

le opere che non si collochino nella loro intersezione. Beninteso: è con ogni evidenza da credere che la ballata romantica italiana modelli i propri contenuti in maniera vincolante e anzi tendenziosa, e quindi importi una peculiare visione del mondo, se del caso proprio ‘risorgimentale’. Un genere letterario non è mai del tutto indifferente ai significati; li mette in forma, anzi, secondo una sintassi

che modifica i contenuti di pensiero attivi in ambito extraestetico. Il fatto cionondimeno è che la ballata romantica italiana plasma i propri temi secondo una logica che è almeno in parte indipendente dalla volontà soggettiva degli autori, dalla loro cosciente appartenenza a questo o quello schieramento interno all’Italia della restaurazione; agisce cioè secondo norme che producono senso, lo generano e lo rifiniscono mitopoieticamente, e che non discendono in maniera diretta dal Kurstwollen degli autori, dalle loro scelte politiche e di pensiero. La questione, in effetti, è assai delicata. Mi limito per ora a additare quella che mi sembra la principale acquisizione tematica derivante dal presente studio ?: e cioè che la ballata romantica svolge una funzione fortemente afferzzativa all’interno del sistema ideologico pre-quarantottesco. Il genere epico-lirico è impegnato a sceneggiare, di fatto, la vittoria dei valori borghesi che l'Europa uscita dal congresso di Vienna aveva viceversa repressi. Penso in particolare alla famiglia e al matrimonio, al ruolo della donna e dei figli, 28 In una precedente versione di questo lavoro, non avevo portato sino alle estreme conseguenze il mio atteggiamento critico, e avevo scritto quanto segue (dando forse adito a equivoci, che ora spero di aver fugato): «E dunque si tratterà, semmai, di indicare un’ovvietà storico-teorica quasi disarmante, e cioè che un genere letterario, in sé, non condiziona i contenuti ideologici dei prodotti a esso afferenti; i tratti tematici e stilistici che lo contraddi-

stinguono poco hanno a che fare con una visione del mondo rigidamente modellata. Poetica e genere sono due cose ben distinte. La ‘risorgimentalità’ del romanzo storico manzoniano o guerrazziano o dazegliano, come è noto, non ha impedito l’esistenza delle opere di padre Bresciani (e, come De Sanctis e Gramsci ci hanno insegnato, non ne ha prescritto la rimo-

zione critica); lo stesso, fatte le debite proporzioni, potremo dire per le nostre ballate. Il mezzo, in altri termini, ron è il messaggio. E credo che proprio il successo di un modulo generico in grado di appassionare il pubblico, o i pubblici, d’Italia nell'età della restaurazione spieghi efficacemente la sua duttilità e polivalenza (non solo, peraltro, tematica), la sua capacità di mettersi docilmente al servizio delle più svariate ragioni ideali, delle più divaricate poetiche» (P. Giovannetti, Le ragioni dei «Pietosi racconti». Preliminari sulla ballata romantica italiana, «Il bianco e il nero», 1, 1, 1997, p. 70 [pp. 65-89])).

dI

NORDICHE

SUPERSTIZIONI

e alla funzione che svolgono (o dovrebbero svolgere) all’interno della società: ad essi si riconosce un assoluto protagonismo, o in quanto legazzi che non è in alcun modo lecito sciogliere, ovvero in quanto persone dotate di diritti pieni e indefettibili. Tanto che pure gli autori come Berchet i quali si occupano di tematiche esplicitamente politiche finiscono per osservarle attraverso la specola dell’infrazione al patto fra individui, e rinominano puntualmente l’avversario (sia esso l’austriaco ovvero Carlo Alberto) come #raditore dei diritti di un singolo più ancora che d’una comunità. La ballata romantica italiana condiziona bensì i contenuti della propria rappresentazione, ma in modo mediato, privilegiando i rapporti privati e toccando la sfera pubblica in modo solo tangenziale, ovvero desultorio. E ciò dimostra in maniera a mio avviso

chiarissima la straordinaria capacità egezzonica degli schieramenti liberal-moderato e democratico, capaci entrambi, nei fatti prima ancora che nei principi, di conquistare ai propri contenuti e ai propri obiettivi gli autori del campo avverso. Si pensi solo a un personaggio come Maffei: a un poeta, voglio dire, sostanzialmente ostile sia al risorgimento sia al romanticismo, ma anche — come s'è detto — autore di ballate romantiche tra le più suggestive della nostra tradizione.

I.4.

UN

DIFETTO

DI

POPOLARITÀ

1.4.1. La prospettiva di genere qui adottata, dunque, ci spinge a ridiscutere in modo problematico il rapporto tra le molte anime del risorgimento italiano e, in particolare, dell’età della restaurazione. I contrasti, peraltro realissimi, possono per un attimo esser tra-

scurati se percepiti attraverso il filtro della ballata; e taluni punti di contatto ideologici balzano in primo piano, assumono un valore rivelatorio di notevole spessore (pensiamo ad esempio al fatto che gli autori sia cattolico-moderati sia democratici fanno quasi sempre un uso intimidatorio dell'orrore e del macabro, così da evocare — entrambi — l’idea di un lettore, e di 47 popolo, passivi e subalterni). E però verificabile, a ben vedere, anche il fenomeno in qualche modo opposto: e cioè che il punto di vista generico ci consente di cogliere talune discontinuità, talune fratture interne al dominio cosiddetto romantico, che di solito vengono trascurate ovvero sottovalutate. 28

EFFETTO

BALLATA

Intanto, la nuovissima tradizione epico-lirica esibisce un limite storico assai evidente, che getta nuova luce sui rapporti fra il nostro romanticismo e le coeve e congeneri esperienze straniere. Punto di riferimento primario sarà, ancora una volta, il quadro inglese. Qui, almeno sul piano strettamente poetico, è indubitabile che la prassi fondativa della lirica romantica nasce da una manipolazione proprio della ballad. La lyrical ballad è conforme, già nelle intenzioni di William Wordsworth, a una poetica insieme della popolarità e dell’espressività, a una visione del mondo secondo la quale il radicamento nelle «manners of rural life» propizia lo «spontaneous overflow of powerful feelings»? (vale a dire il Kurstwollen che costituisce la vera chiave di volta della litica romantica europea tutta). Per un inglese di fine Settecento, non solo consapevole della tradizione ballatistica (ben viva nelle prassi orali delle classi inferiori), ma ormai anche istruito dai contenuti di sillogi come quella di Percy, «lyrical ballad» è un ossimoro davvero produttivo, significando qualcosa come ‘canto popolare nobilitato’, ‘canzonetta d’autore’, e simili: un ossimoro che appunto comporta la frizione d’un genere vitalissimo, ma basso, con un genere, quello della poesia

d’arte, bisognoso di rinvigorimento. Secondo Josephine Miles la ballad, proprio in virtù delle sue peculiarità (uno «stile narrativo rapido e allusivo, che privilegia i verbi sugli aggettivi, fa agire gli oggetti in luogo dei personaggi, e vede i personaggi stessi nei loro fondamentali rapporti familiari e in semplici basilari conflitti»), è la principale responsabile della rinnovata fisionomia del genere lirico inglese: il quale infatti, a partire dal romanticismo, sempre più spesso si fonda sulla prassi «della narrazione dell’anima, della storia lirica dell’individuo, solo in parte articolata e solo in parte comunicata, ma con un grande potere di coinvolgimento»? La fortuna della ballata romantica sarebbe cioè da leggersi sullo sfondo di una narrativizzazione ‘profonda’ della poesia, ormai divenuta capace di raccontare le vicende

più impalpabili del mondo intimo. Il fenomeno si inserisce in quel processo di contaminazione e di interiorizzazione (ovvero soggettivizzazione) dei generi tradizionali e popolari, che coinvolge anche 2 W. Wordsworth, Preface [1800] a Lyrical ballads, in Id., The Prose Works, ed. by W. J.B. Owen and J. Worthington Smyser, 1, Oxford, at the Clarendon Press, 1974, pp. 124 e 126.

30 J. Miles, In Terms of Ballads [1964], citato e tradotto in M. Pagnini (a cura di), I/ Romanticismo, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 161 e 169.

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e soprattuto il rozzazce (modo che nella letteratura inglese in effetti contiene la ballad come una sua particolare manifestazione). E anzi ciò che Harold Bloom ha chiamato «internalization of questromance»?! si sviluppa omologamente al compiuto recupero in chiave poetica — lirica vale a dire, e soggettiva — dei valori trion-

fanti nell’89, che la restaurazione aveva clamorosamente rimossi”.

La contaminazione lirica-rozzance, lungi dal limitarsi a indurre le astrazioni del gotico, dialettizza la poesia, la predispone al racconto ‘focalizzato’ d’una crisi che è anche — e in primo luogo — crisi politica. Insomma: nella letteratura inglese la lyrical ballad è un’occasione per popolarizzare la letteratura in modo radicale, per metterla in contatto con un’intimità che ora, dopo secoli di scissione (di separazione di generi), entra in cortocircuito con la realtà esterna, riuscendo persino, talvolta, a fondersi con essa. La poesia lirica va incontro alla propria modernizzazione, assolutizzandosi bensì e distruggendo le norme parziali dei generi tràditi: ma guadagnandone in universalità, naturalezza e in senso lato in popolarità. Si leggano The Rbyme of the Ancient Mariner e The Prelude per verificare l’assunto. Qualcosa di simile è percepibile anche nel mondo tedesco e, in parte, in quello francese. Se badiamo agli esiti massimi della lirica goethiana o, più esattamente, se teniamo presente il nesso strettis-

simo tra ballata e Lied e alla particolare fusione tra parole e musica che nel Lied si realizza, ci rendiamo in effetti conto che un aspetto peculiare, anzi decisivo, della lirica tedesca moderna

dipende

dall’abbassamento ‘strategico’ che in essa è stato introdotto dalla ballata, dal canto popolare della tradizione europea. Tanto più che nel sistema di pensiero di Friedrich Schlegel la Rozzanze, usata di frequente come sinonimo di Ba//ade, e da lui artatamente confusa con il prediletto Rozar (‘romanzo’), giocò per un certo periodo un ruolo decisivo nella definizione della teoria romantica dell’arte”. E tutto questo, in definitiva, avviene perché alle spalle tanto di ?! H. Bloom, The Internalization of Quest-Romance, in Id. (a cura di), Romzanticism and Consciousness. Essays in Criticism, New York, Norton, 1970, pp. 3-24.

2° Il tema è oggetto del volume, sempre di Bloom, The Visionary Company. A Reading diae Romantic Poetry, revised and enlarged edition, Ithaca-London, Cornell U. P., ? Vedi, per la ricostruzione di questa complessa sintesi semantica: L. Mittner, La teoria romantica di Federico Schlegel, in Id., Ambivalenze romantiche. Studi sul romanticismo tede-

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EFFETTO

BALLATA

Goethe e dei liederisti quanto di Schlegel agisce la consapevolezza dell'essenza primaria dei canti popolari quale è stata plasmata da Herder, la disponibilità spregiudicata all’ascolto ‘militante’ delle tradizioni folkloriche — tedesche e non solo. Il quadro francese, infine, per molti aspetti assomiglia al nostro (essendo pure laggiù la ballade un prodotto soprattutto d’importazione, incapace di sollecitare una viva consapevolezza delle consuetudini extracolte): ma se osserviamo quali sono gli esiti della peculiare pratica traduttoria ivi dominante, segnatamente nei confronti delle ballate anglo-scozzesi,

ci accorgiamo che essa favorisce una particolarissima tradizione prosastica. Di modo che dalla poesia in prosa di Aloysius Bertrand e magari di Maurice de Guérin, si diparte un’interessante tradizione culminante nelle Ba//ades frangaises di Paul Fort: sulla cui facilità fonico-ritmica e sulla cui cordialità elocutiva, non è forse il caso di insistere?4.

Laddove quasi nulla di tutto ciò avviene in Italia, per lo meno nel periodo di maggior fioritura della ballata romantica. Intanto, i modelli inglesi e tedeschi sono i veri (anzi, di fatto, gli unici) promotori del nuovo genere. Percy e la sua silloge, Goldsmith, Lewis, Scott, Birger, Schiller, Goethe, Uhland sono i primi grandi maestri

dei ballatisti italiani (e ad essi, come ci ha insegnato Carducci, poi subentrerà Hugo); mentre è del tutto assente, almeno sino alla metà degli anni Trenta, un contatto vivo e reale con la tradizione popolare (e orale) italiana, con le forme e i modi della sua diffusione.

Anche quando, assai lentamente, si tessono le fila di un rapporto più stretto con il folklore regionale — il riferimento è alle Ballate di Carrer, del 1834 —, ciò avviene solo sul piano quanto mai sfuggente dei contenuti, delle trame, e non su quello delle forme e dei ritmi.

La ballata romantica italiana, a dispetto dei proclami di popolarità che la fondano (penso ovviamente alla Lettera serziseria), non è popolare, almeno dal punto di vista genetico, ron nasce dalla riscoperta di consuetudini e tradizioni attive tanto nelle campagne quanto nelle città (mentre al ‘folklore’ di queste già negli anni Venti avevano rivolto la propria attenzione raccoglitori tedeschi come Wilhelm Miiller e Oskar Wolff). Così che si arriva al paradosso — sco, Messina-Firenze, D'Anna,

1954, pp. 189-225, in particolare 207-20; da cui si può tra

l’altro desumere che nella cultura letteraria tedesca del Sette/Ottocento il termine Rorzanze si applicava spesso, e assai equivocamente, alla generalità della tradizione lirica in lingue neolatine: ad esempio, alle rime di Petrarca. 34 Cfr. S. Bernard, Le poème en prose de Baudelaire jusqu'à nos jours, Paris, Nizet, 1959.

HH

NORDICHE

SUPERSTIZIONI

sintomatico, davvero, della particolare fisionomia del nostro romanticismo — che uno zelatore assiduo della nuova poetica quale Berchet finisca di fatto per negare l’esistenza d’una tradizione epicolirica italiana; e inoltre che, per esemplificare i valori della nuova letteratura, preferisca tradurre in modo stilisticamente assai infelice e davvero antiletterario un paio di leggende tedesche, il cui fascino si lega viceversa in larga parte al ritmo e allo stile che le contraddistinguono, assai meno

ai rozzissimi contenuti.

(Non a caso, mi

sembra, un insigne traduttore inglese della Lerore come Walter Scott sin dal 1796 s’era all'opposto impegnato in una popolarizzazione dei metri biirgeriani, adottando le strutture specifiche appunto della ballad)”. La storia della ballata romantica italiana è anche la storia del mancato incontro con le tradizioni italiane, con la poesia orale, con

il canto popolare — ovvero è la storia dell’esorcizzazione e normalizzazione strategica di tutte quelle forme. Esemplare, a mio avviso, è la posizione esplicita di un Antonio Berti (alla quale possono essere avvicinati sia Dall’Ongaro da un lato sia Prati dall’altro), che pubblica nel 1842 una raccolta di Canti popolari scritti su temi di musica popolare: ma dichiara senza mezzi termini che quelle intonate nelle campagne, in sé, sono «sozze e scipite canzonacce»

[11], suscetti-

bili pertanto di venire radicalmente riscritte perché possano essere restituite al popolo stesso. Una «reinvenzione», per lo meno, della tradizione è ciò cui per lo più si miraî il retaggio etnico può essere in qualche caso conosciuto, ma è immediatamente sottoposto a un

processo di sublimazione: «Dipinsi il popolo com’è — dichiara Berti —; spesso, lo confesso, dal lato migliore, ma per trarne una più alta lezione morale» [13]. Né si tratta solo del (peraltro indubitabile) ritardo negli studi demologici che caratterizza il quadro italiano. «Ballatizzare» la lirica prendendo spunto dalle conoscenze e esperienze popolari, in Germania e nella cultura inglese, significa semplificare il dettato dei componimenti, rinnovare la poesia non solo per acuirne la capacità

introspettiva, ma anche e forse soprattutto per tratteggiarne una

fisionomia più sciolta, sibile — per lo meno su tutto questo in Italia, della lirica, proprio in

più naturale, in ultima analisi più comprenun piano eminentemente stilistico. Niente di ancora una volta: per noi la ballatizzazione virtù degli equivoci che la presiedono, pro-

% Cfr., qui sotto, cap. 2, p. 62.

DR

EFFETTO

BALLATA

duce una reale complicazione dello stile, implica il maneggio di strutture sempre più articolate e lambiccate. Se è vero che il vertice del nostro genere è costituito dal polimetro di tipo o pratiano o dallongariano, è indubbio che per entrambi quel «romanzo» in cui la ballata finisce per trasformarsi assomiglia molto, troppo, a un libretto di melodramma, e nega recisamente ogni naturalezza, ogni forma di scioltezza espressiva. Né, credo, si può prendere a modello la ballata ‘di consumo’, quella più standardizzata: e non solo perché è segregata ai margini del sistema letterario, e anzi quasi sempre sconfina in quella che oggi si definirebbe paraletteratura, ma perché i suoi esiti storici sono la romanza da camera e la canzonetta, le cui parole quanto più si rivelano convenzionali tanto più hanno bisogno d’un massimo di enfasi melodica per sprigionare il proprio potenziale patetico ?°. La «dialettica» della ballata romantica italiana non genera una modernizzazione della lirica in senso europeo: ma conduce a un di più di artificiosità e/o di complicazione, sia essa in senso stretto verbale sia essa musicale.

E se cerchiamo di stabilire quali siano le cause di questo ritardo, una delle più importanti (anzi la più importante fout-court, se badiamo al piano metrico) è costituita dalla fortuna travolgente dell’opera lirica e della sua librettistica. Le istanze strutturali del melodramma primottocentesco sono ben lungi dal propiziare forme di vera ‘naturalizzazione’ dell’eloquio lirico. A farne le spese è stata la tradizione lirica romantica tutta, a ben vedere. Il cui maestro, so-

prattutto negli Inni sacri e nelle odi civili, compie una serie di esperimenti massimamente artificiosi, lavora in un laboratorio attrezzatissimo sì, ma condizionato da un'ipotesi di ricerca discutibile: dall’obiettivo, cioè, di innestare talune modulazioni ritmiche di

origine librettistica nel corpo dei generi illustri della poesia nazionale. Il melodramma, in altri termini, non solo favorisce esiti stili-

stici e linguistici di alta retoricità, ma incoraggia anche la prosecuzione di analoghi innesti, consiglia l’assidua contaminazione di forme e schemi, fino alla produzione di veri e propri mostri metrici. Si osservino alcuni dei patterns più cervellotici delibati da scrittori pur così diversi come Biava e Prati (poniamo?”: del primo, l’eptastica di settenari a”bc”’bd’e’d’, derivante dalle esastiche del Cinque 36 Laddove nel Lied tedesco le relazioni parole-musica sono assai più sfumate e complesse, e comunque non prevedono un tale, paradossale rapporto di proporzionalità inversa.

? Cfr. qui sotto cap. 5, pp. 192 ss.

39

NORDICHE

SUPERSTIZIONI

maggio e del secondo coro dell’Ade/chi, metro che è già in uso nella

Malinconia dell’Esperimento di melodie liriche [137-41]; dell’altro,

l’ottastica di dodecasillabi AABBCD’CD’, impiegata in prima e terza posizione nel Destino delle Ballate [Opere edite e inedite, 1,

257-60, 261-2], quale ennesima variazione sulla struttura fornita dal

primo coro sempre dell’Adelchi): vi è sempre reperibile un etimo manzoniano, complicato ed estenuato senza altra ragione che non sia l'adeguamento a un 4 priori stilistico reputato prestigioso, e perciò suscettibile d’imitazione, nonché di ulteriori sviluppi. Anche in questo caso, siamo di fronte a un ganglio delicatissimo della nostra storia letteraria. Ma mi pare difficile da contestare la tesi che individua nelle forme metriche del romanticismo italiano il trionfo appunto della complicazione e non della complessità, il dominio di moduli che assolvevano una funzione realmente corzunicativa nel contesto della poesia per musica, nell’ambito vale a dire d’un genere lontano da temi e da poetiche troppo impegnativi: ma che, trasposti in un dominio unicamente verbale e di grande impegno concettuale, producono effetti di senso spaesanti. Quegli stessi effetti, a ben vedere, che lo stroncatore degli Inni sacri manzoniani,

Giuseppe Salvagnoli Marchetti, aveva lucidamente individuati, allorché parlava di «Metri [...] che [...] troncano la gravità di un suono lento e maestoso, e non hanno perciò corrispondenza [...] alla dignità di un Inno sacro», e che «non tengono neppure quell’abito di dolcezza»? tipico dei generi in versi brevi settecenteschi, dal momento che Manzoni raddoppia le strofe e insieme dilata sintatticamente i periodi. E infine — ennesima conseguenza paradossale indotta dall’effetto-ballata di cui qui si tratta —, se dovessimo additare un episodio italiano conforme in qualche modo alla prassi «ballatizzante» dei grandi romantici europei, saremmo certo costretti a additare gli idilli (anche i «grandi») dell’arziromantico Leopardi: componimenti nei quali, davvero, l’io drammatizza la propria vicenda interiore, la dispone nel tempo, in definitiva la racconta; e insieme viene fatto uso di forme metriche e linguistiche che mirano a una sorta di sublime souplesse, agiscono per sottrazione d’artifici piuttosto che attraverso la loro coattiva accumulazione.

E, davvero

non per caso, anche Leopardi come molti romantici inglesi e tede38. G. Salvagnoli Marchetti, Intorno gl'Inni sacri’ di Alessandro Manzoni. Dubbi, Roma,

presso la Libreria moderna, 1829, pp. 24-5.

34

EFFETTO

BALLATA

schi prende le mosse da un genere ambiguamente, e statutaria mente, epico-lirico: solo che nel suo caso non si tratta della popolaresca ballata (o 24/24 che dir si voglia), bensì della tradizione illustrata dagli amati Teocrito e Mosco, e tuttavia oggetto di tielaborazioni e vere e proprie falsificazioni a partire per lo meno da Salomon Gessner (e da Goethe) giù giù fino agli esempi italiani di padre Soave e di Giuseppe Taverna??. Non ballatizzazione della lirica, dunque, bensì una classicistica «idillizzazione»: suscettibile

tuttavia di pervenire agli esiti di efficace ammodernamento del genere, che viceversa sono per lo più inibiti al cultore medio della ballata romantica italiana.

I.$.

QUALE

PUBBLICO,

QUALE

FRUIZIONE?

1.5.1. Un fatto mi sembra, in definitiva, indubitabile: il movi-

mento letterario che ha teorizzato con maggior forza la popolarità della poesia, rella pratica della produzione epico-lirica ha viceversa denunciato un grave difetto di popolarità, ha del tutto o quasi trascurato di ascoltare con la debita attenzione le voci di quel popolo cui intendeva rivolgersi. Né il fenomeno riguarda solo il romanticismo ‘storico’, ma si riverbera sulla cultura italiana tutta, e condi-

ziona ancora oggi in profondità la nostra percezione della poesia popolare. Innanzi tutto, è fin troppo chiaro che il crinale degli anni Cinquanta ribadisce la sua pertinenza periodizzante anche da questo punto di vista. In quel decennio gli studi di poesia popolare fanno un balzo in avanti: Costantino Nigra inizia la pubblicazione dei propri saggi sul torinese «Cimento», esce la silloge pionieristica di Oreste Marcoaldi, e anche in ambiti apparentemente di consumo come la strenna di Cesare Correnti «Il nipote del Vesta-verde» sono pubblicati i testi autentici, cioè non adattati e reinventati, di

alcuni canti tradizionali. Ciò, appunto, coincide con la crisi della ballata romantica di ispirazione più cartacea, letteraria: a confermare dunque il rapporto di esclusione reciproca che intercorre tra questa e la sua virtuale (e in qualche misura ‘naturale’) fonte d’ispirazione, a ribadire l’estraneità, la vera e propria separazione tra 3? Avrò modo di parlarne nel cap. 3, pp. 89-97.

33

NORDICHE

SUPERSTIZIONI

poesia colta ed extracolta, tra generi della scrittura e generi dell’oralità primaria. E, si badi, il fenomeno riguarda in particolar modo la produzione poetica: essendo gli anni Cinquanta — come s è detto — il periodo in cui la prosa narrativa comincia viceversa a mettere a fuoco il modo di vita dei contadini, ad approntare gli strumenti d’una lettura spregiudicata del mondo degli ultimi, suscettibile di inverarsi nell’opera di scrittori che oggi rubrichiamo come realisti. Ma quella separazione, dicevo, penetra soprattutto nell’oggi, nelle sedi impassibili e ‘scientifiche’ delle storie letterarie e della manualistica. Per esempio, se in un libro divulgativo o scolastico di lingua inglese non può mancare una dissertazione intorno alla morfologia del cormzzzon metre o del long metre ballatistici, è assolutamente impensabile che l’omologa struttura italiana trovi uno spazio, seppur residuale, nel luogo corrispettivo. Certo, quello che Barbi chiamava il metro della «canzone epico-lirica» viene usato quasi soltanto (ma anche quel «quasi» dovrebbe pur contare qualcosa) nella prassi orale, che per sua natura è dialettale. Eppure, se consultiamo l’indice delle migliori fra le opere di sintesi metrica, vi rinveniamo le forme del rispetto, dello strambotto, della villotta,

dello stornello e di altre strutture altrettanto popolari (nonché, in linea di massima, quasi altrettanto dialettali): tanto più stupisce, allora, l'assenza del genere che storicamente e geograficamente accomuna aspetti del retaggio popolate italiano a una parte cospi-

cua delle tradizioni europee (e mediterranee, se per esempio badiamo al mondo sefardita), e che per li rami dei colonialismi si è trasferito e ha rampollato un po’ ovunque. E non ci si meravigli, pertanto, se anche di recente, come a suo tempo fece il buon Berchet trasponendo le Vecchie romanze spagnuole, assistiamo a qualche cantautore che all’atto di tradurre o adattare alla lingua italiana canti epico-lirici di altre tradizioni si sente in dovere di reinventare volta per volta le forme metriche utili a riempire quegli stampi‘°. Ancora. Certi limiti di fondo si ripercuotono anche sugli studi di ‘°. Penso soprattutto alla prassi dei cantautori italiani, capaci talvolta di riproporre certi versi lunghi asimmetrici caratteristici del canto narrativo tradizionale. Notevole per esempio, in Francesco Guccini, è la congiunzione settenario-ottonario, che ha il compito di riprodurre il ritmo giambico caratteristico della b4//2d inglese; e insomma un suo verso come «a leggere i poeti che nessuno al mondo poi» non è altro che la trasposizione in prosodia italiana del

britannico corzzzon metre quale si rileva, poniamo, in «It's forty miles in Aberdeen / And

fifteen fathoms deep».

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EFFETTO

BALLATA

sociologia letteraria; e almeno in due sensi. In primo luogo, mentre negli ultimi vent'anni sulla scia delle ricerche di Marino Berengo"! abbiamo assistito a un meritorio approfondimento delle tematiche editoriali segnatamente ottocentesche, e siamo pertanto in grado di cogliere i rapporti fra mercato delle lettere e diffusione di generi come romanzo e novella, lo stesso non mi pare che si possa dire per ciò che concerne la letteratura poetica, in particolare quella di intonazione prevalentemente o in parte lirica (quanto alla novella in versi, infatti, valgono con ogni evidenza dinamiche simili a quelle del romanzo: si pensi per esempio alla querelle intorno ai Lombardi alla prima Crociata). In altri termini: come, e in che misura l’industria editoriale ottocentesca condiziona la circolazione del nostro genere? si può parlare d’un 7zercato della poesia? in quale modo ne fruiscono i lettori ottocenteschi? A queste domande non abbiamo attualmente alcuna risposta, anche perché l’argomento non viene per lo più affrontato, nemmeno da chi vi si avvicina seguendo le procedure, e consultando i documenti, in teoria più interessanti. Può ad esempio capitare (ed è l’opzione più frequente) che un certo tipo di poesia, diffusissima nelle strenne dal 1830 in poi, venga prima etichettata come «poesia languida e patetica secondo la moda di Giovanni Prati e, soprattutto, dei suoi numerosi imita-

tori»4; e quindi non sia in alcun modo trattata. Eppure, a me pare davvero palmare il nesso che lega il boom della ballata romantica italiana alla pubblicazione delle prime, più importanti e meglio strutturate strenne letterarie, agli inizi degli anni Trenta. Non v'è anzi dubbio che — sia esso denominato romanza ovvero ballata, o in qualunque altro modo — il nostro genere letterario vi svolge un ruolo pari, di fatto, a quello del racconto o dei generi in versi tradizionali (il lirico ‘puro’, l’ode, il sermone,

ecc.): che partecipi cioè a pieno titolo alla definizione di quella fricassea un po’ caotica rispondente al nome di strenna. Contenitore che si rivolge a un pubblico soprattutto femminile, e che pertanto condiziona alcuni dei temi e delle forme caratteristici della ballata romantica italiana. Ma questo, si badi, avviene non solo nel

senso a cui un inveterato istinto misogino ci indurrebbe a pensare: 41 M. Berengo, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Torino, Einaudi, 1980.

4 P. Landi, I/ mercato degli almanacchi e delle strenne a Milano nel ‘decennio di prepa-

razione’ (1850-1859), «Acme», 1, xLvI, gennaio-aprile 1993, p. 142.

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NORDICHE

SUPERSTIZIONI

vale a dire nella direzione della ballata commerciale e ‘di consumo”,

musicale e svenevole; ma spesso proprio nella direzione opposta — se per esempio è vero che a firma di Gottardo Calvi compare sul milanese Presagio del 1838 [169-76] una lunga ballata intorno alle crociate che sull’argomento fornisce uno dei contributi più coraggiosi usciti in questo periodo; e se nelle strenne triestine sono pubblicati racconti in versi i quali mettono a partito alcune delle più avanzate posizioni ‘sociali’ e ‘femministe’ praticate dallo spregiudicato Dall’Ongaro nella sua produzione di tono ergagé*. L'esistenza d’un pubblico, e in senso lato d’un punto di vista,

femminili quali riferimenti primari delle strenne garantisce anzi proprio della varietà di orizzonti ideali e di poetica che attraversano la ballata romantica italiana. E credo che la tesi esposta in questo volume argomenti a sufficienza siffatta affermazione: la duplicità implicita al nostro genere è in qualche modo legittimata da un tipo di destinatario che nel testo ricerca un sistema di valori per un verso massimamente stilizzato, e per un altro verso suscettibile di assidue ridiscussioni. L'ennesimo, prevedibile trovatore che piange l’indifferenza della donna amata non esclude il racconto di allegorici conflitti fra il poeta e l’autorità; il crociato che dice addio alla

fidanzata con parole logoratissime non contraddice in alcun modo l’interesse per storie di follia (o addirittura di vendetta) femminile. Se è vero che entrambe le forme sceneggiano un tipo di conflitto capace di mettere in dominante un nucleo preziosissimo di valori pubblici, sociali, allora le opposte tensioni della ballata vengono omologate dalla fruizione cui il pubblico (prevalentemente) femminile le sottopone, e perciò smettono di sembrarci foriere di irrisolte contraddizioni. Ad ogni modo — ripeto — su tutto ciò sappiamo davvero troppo poco, e in futuro sono auspicabili ricerche intese a verificare la validità della presente ipotesi, ricerche che analizzino le strenne per studiare la funzione in esse svolta non solo dal genere epico-lirico ma più in generale dalla parola in versi. Ancor più auspicabile, poi (secondo dei temi sociologici che qui affronto), è un tipo di indagine la quale miri a comprendere la funzione dell’oralità, di una sorta di oralità residuale, nella fruizione della ballata romantica.

Non sono infatti pochi gli indizi che segnalano un utilizzo «rituaCfr., su questi argomenti, i capp. 2, pp. 87-8, e 3, pp. 115-6.

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EFFETTO

BALLATA

le»* della poesia ottocentesca, vale a dire la sua dipendenza non già dalla stampa e dall’editoria, bensì da canali informali, non tipografici. Quando De Sanctis rivolgendosi ai propri studenti dichiara di Berchet che, delle sue opere in versi, «Non ce n’è una che non

sappiate a memoria»; e quando De Amicis con la sua inconfondibile retorica, a proposito sempre delle poesie berchettiane, ci fornisce la seguente narrazione: Anche noi, giunti appena in tempo ad assistere al trionfo della nostra rivoluzione, quando quelle poesie sonavano già liberamente per quasi tutta l’Italia, quanto le abbiamo sentite ed amate! Bambini le abbiamo udite recitare da nostro padre, con gli occhi pieni di pianto; e non le capivamo ancora, che già ci rimescolavano il sangue [...] Ognuno di quei versi era un grido uscito dalle viscere della patria; in ogni strofa si sentiva l'eco lontana d’una battaglia; era una poesia sacra, che sollevava il nostro pensiero e il nostro cuore al di sopra di tutte le volgarità della vita [...] #,

il riferimento alla performance orale appare in tutta la sua evidenza‘. E anzi ci viene perfino suggerito che il momento dell’esecuzione è più importante di quello della lettura silenziosa, e che tali poesie sono riusate entro uno spazio idealmente teatralizzato, sullo sfondo dello scenario w7é/0 rappresentato dagli ideali combattivi del risorgimento.

Certo, la posteriorità di siffatte testimonianze, in particolare quella deamicisiana, deve renderci assai cauti, deve indurci ad alleg-

gerirle della tara dell’agiografia; e tuttavia, se nell’ambito del rito # Assumo qui l'opposizione tra generi di «consumo» e generi «rituali» che è stata illustrata da G. Ragone, a partire da una suggestione lotmaniana: La letteratura e il consumo:

un profilo dei generi e dei modelli nell'editoria italiana (1845-1925), in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana, n: Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 1983, pp. 687-772, in

particolare 696-7. % F. De Sanctis, Mazzini e la scuola democratica, a cura di C. Muscetta e G. Candeloro, Torino, Einaudi, 1951, p. 156. * E. De Amicis, cit. in Berchet, Ballate e romanze [5].

Ancor più sintomatica è la prefazione alle Romzanze scottiane [(3)], scritta nel 1824 con ogni evidenza da Francesco Cusani; vi viene rappresentata la capacità improvvisativa di Samuele Biava: «Un tale a cui, villeggiando, io leggeva alcuno de’ romanzi di Walter Scott con estemporanea imitazione compiacquesi di rendere volgari alcuni de’ lirici argomenti in quelli trattati, ne” metri che gli parvero far concorde il soggetto alla melodìa. Ed io, quali da lui subitanei li raccolsi, a voi li presento, perché ne giudichiate o bene o male, secondo il

grado in cui vi trovate nella scala di quel senso comune, che è la naturale rettorica d’ogni pubblico della terra. E perché vi debbono essere noti e la Metilde di Rekeby [sic], e il Pirata, e l’Aroldo l'intrepido, e il Lamento dell'ultimo Bardo, ecc., così pensai che fosse inutile

l’ampliare questo opuscolo, che non è classico, con illustrazioni e commenti».

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NORDICHE

SUPERSTIZIONI

comprendiamo la prassi tipicamente salottiera della recitazione

poetica, anche all'improvviso, e, eventualmente, la trascrizione di

tali prodotti negli album delle padrone di casa, allora il concetto che c’interessa si delinea con maggior precisione. L’immagine, per esempio, del Prati attivo entro il «salotto della contessa Maffei» che Raffaello Barbiera ci restituisce corrisponde in tutto a quella d’un

vero e proprio pubblico improvvisatore, esecutore segnatamente di

ballate: se è vero che proprio dall’album della contessa lo stesso Barbiera trascrive appunto una ballata (O/ga) che non è altrimenti attestata. Anche in questo caso, curiosamente, chi — come per esempio Maria Iolanda Palazzolo‘? — si è occupato con attenzione del fenomeno specifico ha dedicato pochissimo spazio alla modalità esecutiva in oggetto, che viceversa sembrerebbe aver costituito un momento non del tutto secondario della pratica salottiera. Tanto più che la forma-tipo della ballata romantica più matura e più, diciamo, d’avanguardia interiorizza un momento affatto decisivo dell’oralità primaria caratteristica della ballata popolare. Mi riferisco alla pratica della presentazione, dell’introduzione al canto,

in cui l’esecutore riassume sinteticamente alcuni dei contenuti del pezzo, e insieme li commenta. Questo tipo di comportamento, ri-

scontrabile ancora oggi nell’ambito delle esecuzioni ballatistiche (sia nell’oralità primaria, sia in quella secondaria)?°, è spiegabile almeno in astratto con l’estrema sinteticità del testo ballatistico, la cui fabula è realizzata da una facies discorsiva talmente ellittica e

scorciata che all'ascolto può risultare impercettibile, può sfuggire all’attenzione del destinatario. E comunque, come vedremo nel cap. 6, un tale relitto di oralità prospera nell’ambito della poesia epicolirica di Carrer, Dall’Ongaro e Prati, svolgendovi una funzione di vera e propria r4z0 programmatica, interpretando cioè gli umori

storicistici, romantici e addirittura polemici che animano i ballatisti più impegnati, più sensibili al ruolo sociale della propria opera. 4 R. Barbiera, I/ salotto della contessa Maffei e la società milanese (1834-1886), Milano,

Treves, 1896: cfr. pp. 100-1, dove è trascritto il testo della ballata in questione. Sulla decla-

mazione a opera di Prati in ambito appunto salottiero, cfr. anche R. Ricci, Merzorie della baronessa Olimpia Savio, Milano, Treves, 1911, 1, pp. 147-71. 4 Cfr. M.I. Palazzolo, I salotti di cultura nell'Italia dell'Ottocento, Milano, Angeli, 1985.

°° La prima ballata ascoltata dallo scrivente nella propria vita è forse stata la Ballata del Cerutti (di Simonetta-Gaber): l'esecuzione incisa da Giorgio Gaber è inopinatamente introdotta da una presentazione ‘recitata’ che — forte di una tradizione antichissima — è in grado di far breccia nelle rigide convenzioni esecutive della canzone italiana anni Sessanta. Cfr. comunque, qui sotto, il cap. 6, pp. 235-49.

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EFFETTO

BALLATA

In definitiva: la ballata romantica italiana è, insieme e forse inscindibilmente, un genere «di consumo» e un genere «rituale», ed è addirittura in grado di introiettare (di tradurre in forma tipografica) aspetti del rito, secolarizzandoli, adibendoli a una poetica

modernissima. Su tutto questo avremmo bisogno di sapere molto di più, ripeto; e i contributi che il presente volume può fornire sono di necessità assai parziali e insoddisfacenti — anche se, me lo auguro, potranno motivare l’avvio di qualche nuovo studio. D'altronde a me sembra che proprio in questa difficoltà a cogliere e a descrivere la funzionalità pubblica della ballata romantica italiana, risieda la radice prima della nostra estraneità nei suoi riguardi. Siamo di fronte, in altri termini, a una tradizione che per

esser compresa appieno ci costringe al confronto con pratiche socialmente codificate, con consuetudini orientate in senso extralette-

rario, con norme che rinviano quasi senza mediazione alla sfera pubblica: con realtà, cioè, che un lettore (e anche un critico) d’oggi ritiene estranee alle forme della poesia moderna, addirittura incompatibili con la sua stessa esistenza. La ballata (ma al suo fianco dovremmo allineare altre forme in versi di larga diffusione primottocentesca, come l’inno, laico o religioso, l’idillio, la librettistica, la satira ecc.) trova il proprio senso forse più stabile, cioè la propria fondazione assiologica, all’interno d’un sistema di convenzioni, latamente ideologiche, condivise da un’intera comunità di lettori (0, come s’è visto, eventualmente da

una comunità di esecutori). Nella ballata agisce il desiderio, connaturato al mondo che definiamo romantico, di mettere in scena il

proprio nucleo di valori, addirittura di farne l’apologia mediante il melodramma della sua crisi?!. Siano essi i contenuti della rilanciata

51 Penso al libro di P. Brooks, L'imzaginazione melodrammatica [1976], Parma, Prati-

che, 1985; verso il quale sono per lo meno debitore dei concetti che si compendiano nel seguente passo: «Per il melodramma, i segni delle forze morali possono venir codificati e resi leggibili; di qui l'ottimismo che lo fa divergere dal gotico, nella certezza che prima o poi l'immaginazione morale possa spalancare le volte celesti e le segrete infernali, sconfiggendo le minacce del caos. Non si tratta dunque di un teatro moralistico, quanto di un teatro della moralità, che cerca di localizzare, articolare e dimostrare al di là di ogni dubbio possibile l’esistenza di un universo etico che, pur essendo messo in dubbio e offuscato dalla malvagità e dalla perversione, non potrà non riaffermare la sua presenza e la sua forza categorica nella società» (p. 38). E tuttavia, a parte ovvie divergenze narrative e formali tra i due generi, su cui non è il caso di insistere, la differenza tra la semantica della ballata romantica italiana e

quella del mélodrame risiede soprattutto nel minore ‘semplicismo’ etico della prima: che infatti può permettersi di rappresentare anche il trionfo del male, dell’ingiustizia, del tradi-

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NORDICHE

SUPERSTIZIONI

famiglia borghese, ovvero quelli d’una femminilità che rivendica la libertà del cuore, siano anche gli obiettivi dei nazionalismi ottocenteschi: la ballata romantica rappresenta le proprie tematiche ‘mettendole alla prova’, collaudandole, facendole scontrare con la realtà circostante, e addirittura narrandone la patetica sconfitta. Ma le lacrime piante dal pubblico ottocentesco (realmente o metaforicamente, poco importa) sono il miglior strumento per permettergli di comprendere che certi princìpi, certi valori sono irrinunciabili. L’amore trionfa in maniera molto più convincente quanto più appare minacciato; i rapporti sociali hanno una maggiore cogenza

quando vengono clamorosamente sciolti; e la nazione (italiana, greca 0 slava indifferentemente) trionferà per lo meno allegoricamente nel momento in cui l’oppressore ne conculcherà i diritti. Sostenitore d’una visione del mondo positiva, borghesemente

ottimistica e costruttiva, interprete d’una società ove anche le peggiori ingiustizie saranno (per lo meno moralmente) riscattate, il nostro genere ci mette in contatto con un mondo davvero alieno rispetto a quello, di fine millennio, in cui siamo tenuti a vivere. Eppure, è da credere che entro quel campo di tensioni ai nostri occhi spesso così r4ives sia inscritta una promessa di pacificazione e di conciliazione, operino utopie sociali che la nostra realtà non ha saputo (o voluto) realizzare; e la loro sconfitta,

a ben vedere, lungi

dall’ingenerare mera repulsione estetica, dovrebbe viceversa reclamare lettori storici attenti e solleciti, tazionalmente partecipi d’un tempo che, oggi, non s’è affatto esaurito.

NOTA AL TESTO a. Criteri di definizione del corpus

Le precedenti considerazioni dovrebbero giustificare l’eterogeneità dei criteri con cui è stato definito il corpus testuale della ballata romantica italiana. Del resto, come c’insegna Jameson (e dietro lui Wittgenstein), è inevitabile, anzi auspicabile, che le «categorie di genere» siano «costrutti sperimentali», necessari bensì ma euristicamente provvisori: «ideati in occasione di una specifica mento, e pubblico e privato. Laddove, ci dice Brooks, nel melodramma canonico il bene ha il preciso dovere di trionfare, sempre e comunque.

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EFFETTO

BALLATA

occasione testuale e abbandonati come altrettante impalcature quando l’analisi ha completato il suo lavoro»??, Mi limito qui a un’elencazione dei princìpi operativi, appunto delle impalcature, che hanno informato il mio lavoro, la cui discussione puntuale è di fatto disciolta nella trattazione tutta (e i cui risvolti teorici richiederebbero, ne sono convinto, un discorso a

parte). Sono stati dunque :rseriti nel corpus delle ballate romantiche: — testi considerati ballate dalla critica odierna (anche quando, geneticamente, non lo erano: vedi ad es. la Rondinella pellegrina, nata e fruita, nell'Ottocento, come canzone);

— testi che gli autori (e i lettori) coevi hanno giudicato ballate, ovvero romanze (ma in senso epico-lirico), anche quando la critica novecentesca non li ha recepiti come tali (cfr., poniamo, i poemetti di Tedaldi-Fores antologizzati da Guerrazzi nella sua cruciale silloge); — testi che, apparentemente estranei a una genesi ‘ballatistica’ e oggi per lo più fruiti entro la cornice di altri generi, presentano inequivocabili caratteristiche di ballate romantiche (è per esempio il caso di alcuni poemetti ‘innodici’ di Cesare Arici); — testi che, pur denominati romanze o ballate, e recepiti come

tali nell'Ottocento e oggi, non ne condividono viceversa — almeno all'apparenza — i principali tratti distintivi (vedi La sorella di Carrer, del tutto priva di ogni ‘epicità’; e vedi anche, su un altro piano, le berchettiane Fantasie, che contengono una narrazione assai statica); — testi di frontiera — non presentati come ballate, privi delle caratteristiche oggettive del genere, e mai recepiti come tali —, che tuttavia sono contigui alle pratiche della ballata romantica italiana sul piano d’una analoga propensione narrativa (tipicamente, le co/lane di odi liriche: cfr. la serie Alla amica ideale di Dall’Ongaro); — testi privi di tutte le caratteristiche appena elencate, che svol-

gono funzioni simili a quelle assolte dalle ballate, ovvero ne presentano alcune strutture caratteristiche (penso alle poesie ‘citate’ nei romanzi o nei libretti d’opera; penso alla forma del polimetro non drammatico);

— nel caso di taluni autori (Biava e Dall’Ongaro, soprattutto), 5 F. Jameson, L’inconscio politico. Il testo narrativo come atto socialmente simbolico [1981], Milano, Garzanti, 1990, p. 175.

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NORDICHE

SUPERSTIZIONI

testi evidentemente non ballatistici e non definibili in alcun modo come tali, che tuttavia i poeti hanno affiancato alle loro ballate nell’ambito di raccolte particolarmente significative (vedi, del primo, l’Esperimento di melodie liriche, dell'altro le Fantasie drammatiche e liriche). Sono stati esclusi, viceversa, i componimenti ascritti (da coevi e moderni) alla cosiddetta novella romantica in versi, che infatti —

per lo meno in linea di principio — è un genere del tutto estraneo alla lirica.

b. Convenzioni bibliografiche e grafiche

Quanto testé affermato condiziona almeno in parte le scelte bibliografiche. La bibliografia posta in coda al volume comprende infatti, in primo luogo, le opere individuate secondo i criteri di cui al punto a. Ad esse sono state comunque aggiunte: — Le antologie, moderne, via via utilizzate. — Le opere ballatistiche di autori stranieri tradotti nel periodo qui preso in considerazione, o di poco successive; si prescinde del tutto dalla forma metrica adottata, e quindi si comprendono anche le traduzioni 17 prosa. ‘ — Le opere ron ballatistiche di autori canonici, non necessariamente coevi, qualora siano documentate da edizioni a vario titolo particolari. Ad esempio: è questo il caso, da un lato, di Vincenzo Monti, della cui produzione in versi non esiste un’edizione critica;

ed è il caso, sul versante opposto, di alcune recenti edizioni critiche (si pensi alle novelle in versi tommaseane o al Don Giovanni di Da Ponte). Non sono dunque mai esplicitate le edizioni dei testi in versi di Manzoni e Leopardi, dei libretti operistici più noti, così come le raccolte di quei minori ottocenteschi (ovviamente non ballatisti) i quali siano presenti nelle antologie moderne più diffuse. Si è cercato, nei limiti del possibile, di risalire alle editiorzes

principes, per lo meno delle opere degli autori più importanti; di qui la presenza in bibliografia di riferimenti anche a periodici o a volumi d’occasione. Le citazioni si intendono tratte dall'edizione via via indicata esplicitamente, secondo l’opportunità del contesto.

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EFFETTO

BALLATA

Per non appesantire gli apparati, i numeri di pagina indicati fra parentesi quadre si riferiscono per lo più alla collocazione del singolo componimento poetico all’interno della raccolta di riferimento, e solo in casi particolari restituiscono il luogo puntuale della citazione.

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Z.

LE RAGIONI

2.I.

DA

DEI «PIETOSI RACCONTI

«BALLAD»

A «ROMANZO»

2.1.1. La prima occorrenza italiana da noi conosciuta dell’etichetta «ballata» applicata a un componimento epico-lirico' (non quindi lirico ‘puro’, e dotato d’una vincolante fisionomia metrica, come succede appunto per la ballata detta «antica») è fornita dalla traduzione berchettiana del Vicar of Wakefield di Oliver Goldsmith, nel cui ottavo capitolo compare una lunga poesia definita ! Credo che la nozione di «poesia epico-lirica» sia di origine tedesca, segnatamente biirgeriana, e che come tale — lo vedremo tra poco — venga recepita sia da Berchet sia, in seguito, da Carrer. Fin dal 1789 nel volume delle sue Gedichte Biirger aveva creato una

sezione di «Episch-lirische Gedichte», fra cui ovviamente figurano sia la Lerore sia Der wilde Jager (cfr. G.A. Biirger, Gedichte, herausgegeben von A. Sauer, Berlin und Stuttgart, Verlag von W. Spemann, [1883], pp. 159-267: edizione conforme alla stampa di Gòttingen appunto del 1789). Ricordo poi che viene denominato «epico-lirico» anche un poema come I/ Bardo della Selva Nera di Vincenzo Monti: dove però il termine caratterizza un componimento a tutti gli effetti epico (anche e soprattutto nel senso della lunghezza e della complessità delle vicende narrate) che va incontro a una serie di correzioni o aperture liriche in luoghi nodali della narrazione — alla maniera cioè di Ossia. Tanto più che Monti, come è noto, giustificava tale scelta con il proprio disagio ad affrontare una materia epica strettamente intesa: «In tanta luce di opprimente istorica verità [si parla naturalmente delle imprese di Napoleone, cui peraltro tutto il discorso è rivolto] disperato il caso dell’Epopea, né potendo questa giovarsi molto della pagana mitologia, a cui è mancato presso noi il fondamento della religione che la santificava, ed essendo cessata quella delle Fate e degl’incantesimi, che pure per qualche tempo poté supplire alla prima, era forza ricorrere ad un genere di poesìa, la quale ponesse in salvo i diritti della favola, senza nuocere alla dignità della storia. La poesìa Bardita, riunendo e temperando l’uno coll’altro il doppio carattere dell’Epica e della Lirica, mi è sembrata, o sire, se non la sola, almeno la più acconcia ad ordire una qualche tela

poetica dei portenti per Voi operati» [I/ Bardo della Selva Nera, vi-vin]. A una suggestione montiana di questo tipo credo possa venir ricondotto il lungo componimento di Bernardo Bellini, Il Triete Anglico, sottotitolato appunto «poema epico-lirico».

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LE

RAGIONI

DEI

«PIETOSI

RACCONTI»

«Ballata» (e letta da uno dei personaggi del romanzo, per l’esattezza il signor Burchell). Ora, tale traduzione è al centro di un piccolo giallo — solo in parte di recente risolto da Morace? -, dal momento che risulta a tutt'oggi introvabile la prima edizione della versione (Milano, Destefanis, 1809), intitolata I/ curato di Wakefield, e con-

sultata a suo tempo da Guido Mazzoni?. Il componimento in oggetto, poi ristampato con il titolo apocrifo di Edevino*, traduce nella forma di un polimetro trasparentemente melodrammatico (a veri e propri ‘recitativi’ in endecasillabi e settenari inselvati si alternano infatti, per lo più, ‘arie’ in versi brevi) una testura inglese viceversa scritta con il metro tipico della poesia popolare anglo-scozzese (il cosiddetto corzzzon metre composto di tetrametri e trimetri trocaici alternati, inserito in strofe tetrastiche a rime alterne). E la transva-

lutazione aulicizzante che ne deriva è tanto visibile quanto, in fondo, fastidiosa. Ad esempio: Quel sorgente dolor vide il romito;

E d’angoscia simìle His rising cares the hermit spied,

Sentissi il cor ferito;

With answering care oppressed;

Poi rotti dal sospiro

? Cfr. A.M. Morace, I/ primo Berchet e la traduzione del ‘Curato di Wakefield”, in Id., Il raggio rifranto. Percorsi della letteratura romantica, Messina, Sicania, 1990, pp. 17-153: lo studioso ha consultato una ristampa del Curato (non Vicario, come in successive edizioni), edita a Livorno, senza data, con i tipi di Pietro Meucci, che conserva il preziosissimo Corz-

miato del traduttore, noto bensì, a suo tempo, appunto a G. Mazzoni ma poi non più letto da nessun altro studioso (Morace lo riproduce in coda al suo saggio, alle pp. 1559-61). Resta a tutt'oggi introvabile la prima edizione, di cui comunque sappiamo che, pur recando la data del 1809, dovette circolare solo a partire dall’inizio dell’anno successivo (cfr. Morace, I/ primo Berchet cit., p. 22). 3 Il mistero, a mio avviso, riguarda anche l’assenza di tale versione dalle biblioteche di tutt'Italia, e in particolare dalla Braidense di Milano, che sin dal 1788 ha goduto del «diritto

di Stampa» sulla produzione libraria del Milanese. Ora, il fatto curioso — almeno nella prospettiva del presente studio — è che tale assenza concomita con l’introvabilità nella medesima biblioteca di altri due volumi britannici quali il Novelliere britannico e il Romanziere inglese. Ogni mia ricerca volta a stabilire se la direzione della Braidense attuasse qualche direttiva censoria anti-britannica non ha peraltro dato alcun esito: fatto salvo quanto qui sotto illustrato alla nota 72, e tenuto conto che nel 1815 esisteva un «Catalogo dei libri Inglesi compilato per biglietti» — separato dal resto del catalogo — di cui però oggi non si trova né traccia né memoria presso la biblioteca (cfr. Archivio di Stato di Milano, Studi-Parte Moderna, Cartella 65/b: relazione, datata 14 giugno 1815, inviata dalla direzione della Braidense «Al sig. conte Direttore Generale della Pubblica Istruzione»). 4 Lo si può leggere, in edizioni moderne, sia nelle Opere di Berchet [1, 339-45], sia in Poeti minori dell'Ottocento [1, 1142-50]. Utilizzerò tuttavia il testo contenuto nell’ed. 1829 del Curato [54-61]. 3 Cfr. ad esempio J.W. Hendren, A Study of Ballad Rhythm, with Special Reference to

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NORDICHE

SUPERSTIZIONI

Codesti accenti dal suo labbro

‘And whence, unhappy youth,’ he

[usciro.

[cried,

‘The sorrows of thy breast?

Oh! che mai, che mai t’affanna, Giovinetto sconsolato? D’auree soglie or ti condanna Forse in bando avverso fato?

‘From better habitations spurned, Reluctant dost thou rove;

Or grieve for friendship [unreturned,

O ti duol di fè tradita D’empj amici ed infedeli; O di fiamma non gradita Ardi in petto e ti quereli?

Or unregarded love?

‘Alas! the joys that fortune brings Are trifling, and decay; And those who prize the paltry [things, More trifling still than they£.

Ahi! che sol labili

Vane allegrezze Dalle ricchezze Hanno i mortali.

Stolti! se pregiano Beni sì frali! [I/ curato, 56].

A me sembra dunque evidente che un Berchet ancora ‘neoclassico’, posto di fronte alla per lui quasi incomprensibile dicitura di ballad contenuta nel testo originale, e imbarazzato dall’invadente presenza di parti dialogate, abbia avuto l’idea di impiegare una forma in senso lato melodrammatica: e, per la precisione, abbia attinto al pattern della cantata (la cui sémiglianza fonica e semantica con ballata è quasi superfluo enfatizzare). Genere che, ad esempio, nella versione montiana si presentava caratterizzato dalla presenza di non più di tre attori (eventualmente anche del coro), da una notevole ampiezza dei recitativi (in [Edevino] le parti propriamente liriche sono poco più d’un terzo del totale) e da una lunghezza mediamente compresa tra i 200 e i 300 versi (la nostra ballata ne annovera 255)”. Ballad Music, Princeton, Princeton University Press, 1936; da cui si desume che l’unica

infrazione alla forma canonica del cormzzzon metre attuata nella ballad di Goldsmith è la presenza della rima nei versi dispari. $ Traggo il testo di Goldsmith dal volume: The Poems of Thomas Gray, William Collins, Oliver Goldsmith, ed. by R. Lonsdale, London-New York, Longman, 1969 (ristampa in paperback del 1989), pp. 599-606 (il passo cit. alla p. 601). ? I riferimenti montiani pertinenti si riducono, se non sbaglio, a Giurone placata, a Per

la nascita del Reale Delfino, figlio di Luigi XVI, e al Componimento drammatico da cantarsi [...] per festeggiare la nascita del Reale Delfino (rispettivamente del 1779, 1782 e sempre 1782:

che tuttavia nel paratesto non sono mai definite «cantate»), cui va aggiunta La supplica di

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RAGIONI

DEI

«PIETOSI

RACCONTI»

Non solo. A guardar le cose più nei dettagli, ci accorgiamo che l’elazione stilistica di Berchet, in modo certo involontario ma con effetti per noi quasi ironici, contrasta anche con la cornice ideologica in cui la ballad era stata inserita da Goldsmith. L'esecuzione di [Edevino] ha la funzione, nel romanzo, di esemplificare un’evidente

polemica anti-ovidiana, anzi proprio anticlassicistica, poiché il signor Burchell che la recita la contrappone alla Acî e Galatea appunto di Ovidio e a un componimento pastorale di John Gay (forse proprio l’Acis and Galatea messa in musica nel 1718 da Handel). Infatti, dopo che Sofia, figlia del Vicario, ha elogiato «la storia dei due amanti i quali in braccio l’un dell’altro furono colti da morte improvvisa sotto di una bica d’orzo. La descrizione che ne fa Gay è tanto patetica che ben cento volte io la lessi e ben cento ne fui commossa», e dopo che il di lei fratello «la interruppe dicendo che i passi più belli di quella descrizione erano, a parer suo, molto inferiori a quelli della avventura di Aci e Galatea in Ovidio», ecco la replica di Burchell: Ell’è maraviglia il vedere come entrambi que’ poeti che voi nominaste abbiano contribuito del pari ad introdurre, ciascuno tra’ suoi, un pessimo gusto, caricando ogni verso d’epiteti a josa. Que’ loro difetti facilmente furono imitati da gente di scarso ingegno; e all’età nostra la poesia inglese, come quella dell’ultimo impero di Roma, altro non è che una combinazione d’immagini lussureggianti, accavallate le une sopra le altre senza ordine alcuno; una infilzatura d’epiteti che ti intronano gli orecchi senza destarti un’idea. Ma intanto ch’io sto tagliando altrui le gambe voi forse vorreste ch’io non risparmiassi le mie; or bene sappiate che non per altra ragione io mi sono indotto a simili ciarle, se non per aver campo di far nota a questa adunanza una Ballata che, per quanti abbia difetti, è sicuramente netta degli accennati. [I/ curato, 53-4]*.

Melpomene e di Talia. Cantata (1805: lunga 191 versi, tre quarti circa dei quali sono di recitativo) [Opere, n, 305-21, 325-32, 335-42, 387-93]. Sull’argomento, in attesa di ulteriori approfondimenti metrici (per ii quali, vedi qui sotto il cap. 5, pp. 175-8), sono d’obbligoi rinvii a G. Folena, Cesarotti, Monti e il melodramma fra Sette e Ottocento, in Id., L'italiano

in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Torino, Einaudi, 1983, pp. 325- 55; ea G. Gronda, Tra lirica e melodramma: la cantata dal Lemene al Metastasio, in Ead., Le passioni della ragione. Studi sul Settecento, Pisa, Pacini, 1984, pp. 121-54. 8 Da notare, innanzi tutto, che il testo originale inglese, là dove parla dell’opera di Gay, suona così: «the two lovers so ‘sweetly described by Mr. Gay, who were struck dead in each other's arms», e dunque non nomina alcuna «bica d’orzo», come succede in Berchet; e

inoltre che la descrizione di questo caso «patetico» si attaglia solo in parte all’Acis and Galatea di Gay, dove in effetti è unicamente Aci a venire ucciso (il passo del Vicar è tratto

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NORDICHE

SUPERSTIZIONI

Tali dichiarazioni non solo potrebbero essere rivolte proprio contro il buon Berchet, il quale inzeppa la sua traduzione di epiteti utili quasi soltanto a regolarizzare la metrica prescelta, ma ricordano davvero parecchio quelle con cui Gianvincenzo Gravina aveva stigmatizzato la Metamorfosi ovidiana in oggetto, paragonandola all’idillio teocriteo cui questa s’ispira?. E se poi pensiamo che Gravina sarà un autore spesso invocato da Di Breme nella sua battaglia anticlassicistica, allora cogliamo meglio l’infelicità della prassi traduttoria messa in opera da Berchet. Il futuro teorico della popolarità romantica della letteratura, in definitiva, non riconosce la po-

polarità del testo che ha di fronte: e, nel momento in cui decide di trasformarlo in una sorta di melodramma, ne oscura quasi irrimediabilmente le caratteristiche narrative, i tratti originarii, distintivi

della sua genericità — quelli d’un breve racconto in versi retto da una semplice e uniforme intelaiatura metrica, cui di solito corrisponde una struttura melodica altrettanto essenziale. Il fatto è che a Berchet sfugge proprio l'intento — diciamo — strategico implicito da O. G., The Plays, together with The Vicar of Wakefield, London-New

York-Toronto,

Oxford University Press, 19504, p. 226). ? «Teocrito — afferma Gravina a proposito del Ciclope —, che i costumi pastorali imitò, nell’opera riuscì molto felice, poiché non offese la semplicità con la sua cultura, né con rappresentare i punti più fini delle passioni perdé il carattere della rustichezza, e tutti i suoi pensieri e maniere paiono appunto nate nelle menti grossolane di quei pastori. [...] Che più soave cosa di quelle parole che ei pone in bocca al Ciclope innamorato, e qual maggior naturalezza che questi versi? [...] Il qual luogo ha inàitato Ovidio, ma sarebbe a lui meglio riuscito se avesse saputo contenere il suo ingegno ed astenersi dal troppo, imitando di Teocrito anche la moderazione: ma egli con accrescer più, distrugge il meglio, che è l’esser vago con giusta misura. [...] Dal che si conosce che quella di Teocrito è scelta del migliore e del più confacente, questa d’Ovidio è raccolta di tutte le cose a bello studio ricercate: onde ognun s’avvede quegli esser detti del poeta non del Ciclope, il quale avrebbe sentito molto poco il travaglio amoroso, se avesse potuto così agiatamente divertirsi in sì belle e varie similitudini» (G. Gravina, Della ragion poetica libri due, in Id., Scritti critici e teorici, a cura di A. Quondam, Roma-Bari, Laterza, 1973, pp. 248-9).

!° La cosa non era del resto sfuggita a Giuseppe Prezzolini (Giovanni Berchet, «La Voce», 1, 46, 16 novembre 1911, pp. 690-1), che nell’ambito d’una stroncatura globale della

produzione berchettiana, sentita come estranea alle poetiche d’inizio secolo («Per noi, non esisté. Esaurito, con la realizzazione, il motivo pratico della sua popolarità — l'indipendenza della patria dallo straniero — la forma artistica che quel motivo aveva preso in lui, perse ogni fascino per noi, smorì come una cattiva stoffa sotto il sole, non attirò più che sorriso di

compassione e di noia»; p. 690), ne riconosce anche l’origine in senso lato melodrammatica, particolarmente evidente sin da {Edevino]. «Ballata d’amore, con lieto fine — la definisce dunque Prezzolini — , dopo sventure e travestimenti: il colmo del genere. La tecnica del Berchet, impiantata tutta sulla popolarità del ‘canticchiare’, vi si manifesta per la prima volta. Leggete, e vedrete che può essere bellissimo in un libretto per opera; Rossini e Donizetti che ricami e gorgheggi ci avrebbero fatto sopra!» (ivi). Segue poi la riscrittura parodica, con accompagnamento di didascalie tipicamente da libretto, di due passi della ballata (i vv. 20819 e 227-55) che ben esemplificano tale «tecnica».

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RAGIONI

DEI

«PIETOSI

RACCONTI»

nella ballad di Goldsmith, così come Burchell ce la presenta: vale a dire innestare un genere in origine basso nell’ambito di una convenzionalità alta, quella dell’idillio (bucolico e non solo), per ridare

insomma fiato a un’antica tradizione tuttavia sentita come vitale. Da Goethe a Gessner, da Rousseau a Fauriel fino ovviamente al giovane Manzoni e a Leopardi, la questione dell’idillio come genere ibrido e di confine, fondato sulla mescolanza di mediocre e di su-

blime (cioè dove un’«action [...], n’ayant rien de rien d’héroîque [...], est néanmoins narrée du ton grave de la haute épopée»)!!, rivela una potenzialità auerbachianamente ‘realistica’ e ben europea che Berchet — per il momento almeno — non sa assecondare. Ma è una sorta di colpa originaria scontata forse dalla ballata italiana tutta, che pertanto dovremo denunciare sin troppo di frequente. Remore dello stesso tipo, per esempio, condizioneranno l’apprendistato ballatistico del maestro italiano del genere, cioè Prati: il quale infatti, incongruamente, ma in modo ora forse meno misterioso di quanto non apparisse nel passato, ancora nel 1836

battezzerà come Carate le ballate con cui esordirà autore di componimenti epico-lirici, di tradizione oramai non solo italiana ma proprio internazionale (una Cantata, tra l’altro, sarà dedicata a Robin Hood)”. D'altronde, che [Edevino] si collochi in un crocevia decisivo della letterarietà sette-ottocentesca, lo confermano almeno un altro

paio di traduzioni. La prima è praticamente coeva a quella di Berchet, dal momento che viene pubblicata, a Roma e nello stesso 1810

in cui è comparso il Curato di Wakefield, entro un volume intitolato Antologia britannica. La dicitura Ballata dell'originale inglese è significativamente mantenuta, anche se la scelta appare conforme !! [C. Fauriel], Ré/lexsons préliminatres sur le poéme suivant et sur la poésie idyllique, en général, premesse a M.J. Baggesen, La Parthénéide. Poéme, traduit de l’Allemand [da C. F.], Paris, Treuttel et Wiirtz, 1810, p. v. Sul genere dell’idillio in Italia, cfr., qui sotto, il cap. 3, . 89-97.

Si

12 Cfr. Prati, Cartate, in Poesie [49-75]: l’ultima delle quali [72-5] è Robin-Hood. Su

questi componimenti e sulla loro ascrizione di genere, cfr. L. Cecchini, La ballata romantica cit.,

p . 42-3.

DL, ballata di Goldsmith si legge nell’Antologia britannica [10-6], con il titolo Edwino,

ed Angelina, che in effetti corrisponde meglio a uno dei due titoli — Edwin and Angelina — con cui la ballata è conosciuta nel mondo di lingua inglese (l’altro è The Herrzt, a cui si rifarà Bertolotti). Non è menzionato, come si vede, il traduttore. Vi figura una breve presentazione («L’Editore») che così suona: «Giovevol cosa far sembrami agli studiosi, e non inutile

ai conoscitori della Inglese lingua, e poesia colla presente del tutto nuova pubblicazione. I discepoli vi rinverranno forse una guida alla intelligenza dei poeti Britannici, ed i maestri un

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NORDICHE

SUPERSTIZIONI

all’intento di fornire una mera traduzione letterale, anzi di servizio,

il più possibile neutrale rispetto al dettato originario; obiettivo che ci appare sostanzialmente conseguito, almeno se confrontiamo il seguente brano con il passo berchettiano, e con i relativi versi inglesi, sopra indicati: De’ crescenti suoi affanni si accorse l’Eremita, oppresso da uguale affanno. E donde mai, esclamò egli, o infelice giovine, le afflizioni del tuo

petto? Da migliori abitazioni cacciato vai tu forse vagando contro tua

voglia? O ti addolori per amicizia non corrisposta, o per disprezzato amore? Oimè! Le gioje, che arreca fortuna, sono frivole, e vanno a man-

care, e coloro, che apprezzano le cose abbiette, sono ancora di esse più frivoli. [12-3]

Entrambe le acquisizioni qui capitalizzate (mantenuto il riferimento al genere autentico, versione letterale in prosa) saranno 0ggetto di esplicite o (più spesso) implicite discussioni negli anni subito successivi: a testimoniare, mi sembra, un disagio nei confronti tanto del genere nel suo complesso, quanto delle forme metricostilistiche da esso implicate. Non riesco altrimenti a spiegarmi per quale ragione la dicitura ballata relativa a componimenti epico-lirici diventi per molto tempo pressoché introvabile. L’unica menzione a mia conoscenza pubblicata prima del 1817 !4 è quella fatta nel 1813 da colui che per un pezzo sarà il nostro traduttore-mediatore privilegiato, cioè Davide Bertolotti; il quale infatti nella silloge Poerzi inglesi di Thomas Gray dà notizia — sulla scorta con ogni probabilità di Johnson — di un episodio della vita del poeta, usando queste parole: «La narrazione di quest’avvenimento seminata di alcune curiose e singolari particolarità fu dall’A. inserita in una Ballata che ha per titolo, Una lunga istoria»!. E inoltre pubblica nello stesso incitamento, onde accordarli alla Italica lira. Se questo saggio è riputato degno di accoglienza gentile, io prenderò coraggio ad intraprendere in siffatto genere cose di maggior utilità, e diletto» [(3)]. Dove insomma sono ribaditi gli intenti ‘servili’ dell’intera operazione traduttoria, peraltro enunciati fin dal sottotitolo. 14 Cfr., qui sotto, cap. 5, nota 85; dove è commentato l’uso di ballata nell'accezione che c'interessa, a opera di Giovanni Gherardini: il quale infatti impiega quel lessema, nella versione dello schlegeliano Corso di letteratura drammatica, per trasporre il francese rorzance. Cfr. T. Gray, Poemi inglesi [17] (entro il saggetto Vita di T. Gray). La dedica [5-9], firmata «Davide Bertolotti», rivela il curatore del lavoro. Quanto a Una lunga Istoria, cioè

A Long Story, si tratta d’una ballata in /org rzetre (strofe di quattro tetrametri a rime alterne), che Bertolotti difficilmente poteva aver letto, dal momento che (come risulta anche dalle sue

stesse parole) Gray la aveva rifiutata, dopo la prima stampa avvenuta nel 1753. Cfr. per

by.

LE

RAGIONI

DEI

«PIETOSI

RACCONTI»

anno, sul montiano «Poligrafo», un’ulteriore traduzione della ballata di Goldsmith, in endecasillabi sciolti, accompagnata da indica-

zioni paratestuali (L’Ererzita, Romanzo inglese di Goldsmith, recato in verso italiano) che escludono ogni riferimento alla ballata, e in modo anzi un po’ misterioso ci introducono al ‘genere’ del rozzanzo. Così che, una volta verificata l’intenzionalità in senso lato neo-

classica della strategia traduttoria di Bertolotti (oltre il tipo di metro, balza all’occhio, nel consueto passo-campione prescelto, una «fortuna» arbitrarimente resa «Dea», e con maiuscola): Lo vede il buon romito, e al pianger suo Piange pietoso anch'egli, e donde? (esclama) Donde, infelice giovinetto, han fonte

Gli affanni tuoi? — forse tu in bando errante Vai da tetti migliori? oppur te preme Memoria infausta di tradito amore, O d’amicizia ‘mal serbata fede? O figlio, quanto povero è il sorriso Della fortuna, e i suoi piacer mendaci! Folle colui, che qual sua Dea l’incensa. — [178-9]!£.

è proprio il caso di chiedersi come sia nata in Bertolotti l’idea di operare una sostituzione così poco perspicua, almeno alle nostre

orecchie. Anche e soprattutto perché, seguendo una tale strada, potremo giungere al cuore stesso del nostro tema, a una delle questioni più curiose che gli studiosi della ballata italiana devono affrontare: e cioè per quale ragione Berchet nella Lettera sezziseria proponga all'attenzione dei lettori italiani due componimenti epico-lirici, due Balladen germaniche, chiamandole appunto romzanzi. Ora, il dato generale secondo me più sintomatico e utile per orientarsi in mezzo a questo autentico pasticcio terminologico è fornito dal fatto che nel 1814, nella traduzione italiana della staéliana Allemagne — a opera sempre di Bertolotti —, il termine francese romzance sia stato reso con l’italiano rorzazzo. E anzi addirittura succede che il nodale cap. x1 della parte seconda, intitolato De la poésie classique et de la queste informazioni l’edizione: T. Gray, The Complete Poems. English, Latin and Greek, ed. by H.W. Starr and J.R. Hendrickson, Oxford, at the Clarendon Press, 1966 (A Long Story alle pp. 43-8). !6 Il componimento reca in calce l’indicazione «Di D. B.». Verrà ristampato l’anno successivo nel Novelliere britannico [74-80].

DI

NORDICHE

SUPERSTIZIONI

poésie romantique, venga trasposto in italiano con la dicitura Poesza classica e poesia romanzesca (e che l’avvio suoni quindi, incongrua-

mente, così: «Il nome di romanzesco venne di recente introdotto in

Alemagna per designar con esso la poesia che ricavò la sua origine dai canti de’ trovatori») !”. Il che insomma ci mostra come l’equivalente tedesco di Ba/lade, cioè Romanze abbia prima indotto la Staél a cancellare del tutto il lessema tedesco (o anglo-tedesco) forse più pertinente, e a parlare esclusivamente di rorzance; e in seguito abbia convinto Bertolotti a usare il termine rorzarzo, in quanto perfetto sinonimo della parola francese. Ma perché un maschile, dato che la Staél impiegava rigorosamente il femminile? La spiegazione grammaticalmente forse più ovvia parrebbe quella che individua un decisivo influsso del rorzance ispanico, un genere esemplarmente epico-lirico, appunto maschile, e oltre tutto legato a un lessema che nella storia della lingua francese avrebbe in effetti generato il femminile ivi in uso (e quindi si potrebbe trattare quasi d’un ritorno alle origini etimologiche della parola) !8. Né l’ipo!? Cfr. L’Alemagna, opera della Signora Baronessa di Staél Holstein, traduzione italiana fatta sulla seconda edizione francese, vol. 1, Milano, per Giovanni Silvestri, 1814, p. 218; il

passo traduce un originale francese che suona così: «Le nom de rorzantigue a été introduit nouvellement en Allemagne, pour désigner la poésie dont les chants des troubadours ont été l'origine» (Ead., De l’Allemagne, Paris, Firmin Didot, 1878, p. 144). Quanto all’uso di ro-

manzo, vedi inoltre, per esempio, le pp. 255 (sulla Bajadera di Goethe) e 261 (sulla Lerore) della traduzione di Bertolotti: dove l'originale francese aveva sempre il femminile rorzance (cfr. rispettivamente pp. 167 e 171 dell’ed. cit.). D'altronde, sul bertolottiano «Spettatore» del 1814 (1, 3, p. 139), per trasporre un passo dell’originale francese in cui era stata utilizzato il lessema romantique, il traduttore impiega bensì la parola «romantico», ma in nota si sente anche in dovere di spiegare che il termine significa «Un po’ più stravagante e capriccioso, che romzanzesco». E pertanto, lasciate da parte le antipatie private, e i contrasti in senso lato politici — che certo ebbero un ruolo determinante —, risulta più facile comprendere per quale ragione gli intellettuali del «Conciliatore» abbiano tanto detestato Bertolotti (Di Breme, ad esempio, lo definì «il più tristo e il più mariuolo fra tutti gli imbrattacarta»): i fondatori del nostro romanticismo dovevano sentirsi non poco a disagio con chi aveva avuto la sfrontatezza

(o l’ingenua dabbenaggine) di cancellare la parola rorzantico dalla traduzione italiana dell’opera storico-teorica cui tutti loro si rifacevano. Per le vicende personali non sempre chiarissime che opponevano Bertolotti ai romantici milanesi, cfr. almeno: L. Di Breme, Lettere,

a cura di P. Camporesi, Torino, Einaudi, 1966, pp. 82 e 507 (e dalla p. 568 è tratta la citazione qui sopra, contenuta in una lettera a Diodata Saluzzo del 3 dicembre 1818). Ancora utile, su queste alternanze terminologiche, C. Apollonio, ‘Romantico’: storia e fortuna di una

parola, Firenze, Sansoni, 1958, in particolare pp. 78 e 133 ss. 18 Sulla questione cfr.: G.M. Bertini-C. Acutis, con la collaborazione di P.L. Avila, La

romanza spagnola (pp. 5-17), dove femminile la voce in Italia quando

in Italia, Torino, Giappichelli, 1970; in particolare la Premzessa di Bertini per esempio si afferma: «In quanto poi all’uso italiano di tradurre con il maschile ‘romance’ (che prevalse sulla forma maschile ‘romanzi’, adoperata questo componimento fu conosciuto da noi), dobbiamo spiegarlo, come

afferma Pio Rajna, con la domestichezza

coll’uso francese rivelatoci, per esempio, nella

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tesi va del tutto esclusa, vista la penetrazione del rorzance spagnolo in Italia proprio tramite i nostri intellettuali romantici, e quelli del «Conciliatore» in primo luogo!?. Ma sono prospettive destinate a risultare residuali e marginali, dal momento che in una delle più antiche raccolte di ballads e novelle inglesi tradotte nella nostra lingua (a opera d’un Bartolomeo Benincasa che in questo periodo collaborava strettamente con Bertolotti) ?° figura una definizione generica del seguente tenore, adibita a render conto del termine rorzanziere presente nel frontespizio del volume: Romance presso gl'Inglesi è un componimento in versi, breve o non molto lungo, di cui il suggetto è una novella per lo più tragica, talora con apparizioni di trapassati, tal altra con altre soprannaturali avventure, e qualche volta un semplice tristo lamento, o una descrizione di tristo 0ggetto. Presso i Francesi ha incirca lo stesso significato, ma non esclude l’amor tenero e felice, la lieta catastrofe, o il lamento semplicemente amo-

roso. [I{ romanziere inglese, x].

E, dopo aver dichiarato che non molto diverso era il senso della parola nell’italiano antico («ma egli è già gran pezza che questo significato ha sofferto grave alterazione, venendo adesso ordinariamente adoperato ed inteso per significare una lunga e talor lunghissima storia di favolose avventure» [x]), il traduttore aggiunge: prefazione che il Corneille prepose al suo ‘Cid’ (1637), in cui leggiamo: ‘Les deux romances que je vous ai promises’ e ‘Deux romances espagnoles’» (p. 6). Il saggio di Rajna cui si fa riferimento è Osservazioni e dubbi concernenti la storia delle romanze spagnuole, «The Romanic Review», vi, 1, January-March 1915, pp. 1-41. !9 Cfr. P.L. Avila, E/ romancero espariol en Italia durante el siglo XIX, in Id. et al., La

romanza spagnola in Italia cit., pp. 431-59; saggio che in effetti mostra come in Italia la conoscenza del rozance fosse in quegli anni assai superficiale. D'altronde, anche sulla scorta di una osservazione di N. Caccia (nel suo commento alla Lettera serziseria [29]), è lecito credere che Berchet avesse presente almeno l’articolo dello «Spettatore» (Il Cid. Canzonette [romanze] spagnuole imitate da canzonette francesi, del signor Creuzé de Lesser, 11, 15, 1814, pp. 218-25) in cui si dava notizia della traduzione francese di alcuni rorzances castigliani. Tuttavia, come è evidente sin dal titolo, il termine rorzance vi è tradotto al femminile, ed è affiancato dall’appellativo di genere «canzonetta», come quello che viene ritenuto più per-

tinente alla caratterizzazione del fenomeno: «E verisimile che la canzonetta storica e popolare (questa è la più adattata e vera definizione della romanza) sia stata la prima poesia in uso presso tutte le antiche e moderne nazioni» (p. 219). Comunque, è pur vero che nel 1819, sulle pagine del «Conciliatore», Berchet apparirà pienamente in grado di illustrare le principali distinzioni del caso (anche in relazione alla ballata). Cfr., qui sotto, la nota 36. 20 Su Benincasa, che nel 1815 aveva già ben 69 anni, e che morirà l’anno dopo, cfr. la

ricca voce di G.F. Torcellan contenuta nel vol. vm del Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1966, pp. 518-22.

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Ora la parola Rorzanzo al senso di Romance, com'era un tempo, inten-

diamo noi qui di ricondurre, trasportando in volgar nostra prosa una scelta di componimenti inglesi di questa sorte, la quale fiorisce per singolar modo nella inglese poesia. Il favor, di cui gode, è analogo all’umore della nazione, la quale si sa quanto inclini alla malinconia, e ami particolarmente le fantastiche tragiche stravaganze, dalle quali non mai però va disgiunto il sentimento della compassione. [x1].

Dichiarazioni che — dunque — fondano una perfetta sinonimia tra il termine assente ballata e il contestuale rorzanzo. Che di un’assenza vera e propria, d’una rimozione per lo meno stupefacente, si debba parlare, lo dimostra il contenuto della raccolta: nella quale infatti tra le altre cose?! figurano sia alcune ba/lads antologizzate nelle Religues di Percy”, sia un paio di Tales of Wonder di Matthew Gregory Lewis”, sia addirittura una Lyrical Ballad di Wordsworth, la patetica We are seven (in futuro tradotta anche da Pascoli), che qui compare adespota ?4. Ma forse è possibile trovare una spiegazione puntuale, almeno parzialmente valida, anche a quest’ultima anomalia terminologica: almeno se pensiamo che nella sua raccolta Percy aveva proposto un’esaustiva definizione di territorio, quanto ai generi, solo nel trattare del rorzazce (manca cioè un’illustrazione teorica della b4//2d); e nella dissertazione Or the Ancient 21 Alcune informazioni intorno a questa interessantissima raccolta si leggono nella tesi di laurea di S. Scotti, Il Romanziere inglese’ di Bartolomeo Benincasa. Un aspetto della diffusione della ballata inglese in Italia, Istituto Universitario di Lingue Moderne di Milano, anno accademico 1994-1995, relatore Bruno Cartosio. 2 Cfr. Il re Lear e le tre sue figlie [Romanziere, 1-7), L'ombra di Margherita [ivi, 10-2],

Il paladino d’Ulla [38-45], Le nozze del Sir di Gaveno [49-60]. Cfr. rispettivamente, in Percy's Reliques of Ancient English Poetry, nach der ersten Ausgabe von 1765 [...], herausgegeben [...] von M.M.A. Schréer, Heilbronn, Verlag von Gebr. Henninger, 1889 e 1893: King Leîr

and his three Daughters (1, pp. 165-70); Margaret's Ghost (1, pp. 781-3); The Child of Elle (1, pp. 83-8); The Marriage of Sir Gawaine (11, pp. 563-72).

2 Cfr. Le streghe di Rosmanta [Romanziere, 88-90] e Anca di Botvello [121-8]. Entrambe le ballate sono contenute in Tales of Wonder, written and collected by M.G. Lewis, London, Bulner, 1801, con i titoli rispettivamente di E/ver's Hob e Bothwell's Bonny Jane. 2 Cfr. Siamo sette [Romanziere, 70-2]. Colpisce intanto il fatto che non venga indicato l’autore (ma Wordsworth era pressoché sconosciuto in Italia, e anche la sua fama inglese era assai limitata). E insieme colpisce il sottotitolo ivi utilizzato, «Da lirica canzonetta inglese», dietro il quale è lecito intravedere la dicitura «lyrical ballad»: dove ballad sia stato reso, giust'appunto, con canzonetta. Né il fatto è del tutto nuovo, se è vero che sullo «Spettatore» del 1814 lo spagnolo rorzance era stato presentato anche col nome di canzonetta (cfr., qui sopra, la nota 19). Del resto, secondo Torcellan (voce cit. del Dizionario biografico degli Italiani), era lo stesso Benincasa a tradurre in italiano «Lo Spettatore». La poesia in oggetto, composta nel marzo-maggio 1798, e presente nell’editio princeps delle Lyrical Ballads (1798), si può leggere, per esempio, in W. Wordsworth, The Poerzs, ed. by J.O. Hayden, New Haven and London, Yale University Press, 1981, vol. 1, pp. 298-300.

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Metrical Romances aveva per esempio descritto i componimenti così denominati «stories of adventures with giants and dragons, and witches and enchanters, and all the monstrous extravagances of wild imagination, unguided by judgement, and uncorrected by

ar>”. Non è perciò da escludere che, a dispetto dei moltissimi romances lunghi pubblicati in Gran Bretagna tra Sette e Ottocento (a opera per esempio di quello stesso Lewis presente nel Rozzanziere inglese; ma anche Ivanhoe — poniamo — sarà un rorzance), Benin-

casa abbia valorizzato soprattutto le parole di Percy che riconducevano a una qualche unità le marche generiche presenti nel sottotitolo delle Re/igues [«Old Heroic Ballads, and other Pieces of our earlier Poets (Chiefly of the Lyric Kind)»]. Insomma, se tutto ciò non spiega ancora completamente la censura del termine ballata, che negli originali dei testi tradotti è quasi sempre presente, il dato per noi fondamentale è che il genere appena trasposto. nella nostra lingua viene fruito secondo modalità narrative. E, a questo punto, in ben tre sensi contemporaneamente: per l'etichetta che lo designa, per il fatto di essere trasferito per lo più in prosa, e per la sua esplicita assimilazione — tutta appunto ‘italiana’ — al tipo della novella. Importa sottolineare, per il momento, soprattutto quest’ultimo punto, rilevante anche sul piano teorico. Agli occhi del lettore italiano, a un tempo attirato e respinto dai miraggi delle misteriose letterature nordiche, risulta molto più agevole accettare i contenuti fantastici e macabri della ballata una volta che siano inseriti entro la cornice tranquillizzante della narrazione breve a lui più familiare. Questo, almeno, è il ragionamento

fatto da Benincasa quando afferma che l’italiano «ama non poco anch'esso il patetico ed il mirabile: e di fatto in materia di Novelle, in cui l’italiana letteratura a gran pezza supera quelle dell’altre nazioni tutte, tra le novelle facete, o lubriche, spesso ne hanno di

serie, drammatiche e tragiche i nostri classici novellieri» [Rorzanziere, x11}. Ancor più acutamente, un anno prima, in una silloge paral-

lela a quella del Rorzanziere, vale a dire nel Novelliere britannico curato da Davide Bertolotti, la prefazione aveva giocato con decisione proprio la carta boccacciana, adducendo la novella di Nasta% Percy’s Reliques of Ancient English Poetry cit., 1, p. 536. 2 Quanto ad ambiguità e ambivalenza, davvero esemplare è lo sconcertante paragrafo 77 del leopardiano Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica: vi si indugia davvero troppo — almeno a me sembra — sui contenuti più raccapriccianti dell’imz4gerie romantica, finendo addirittura per incrementarne la violenza orrorifica.

DI

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gio degli Onesti a riprova del fatto che «i nostri classici, in cui ogni bello si rinviene, non hanno disdegnato di attingere alcune volte a tale sorgente» (cioè a quella del «lugubre» e dei «magici terrori da’ quali — aveva appena detto Bertolotti — i poeti settentrionali hanno desunto una nuova miniera di poetici effetti» [Novelliere, 7 e 8]). Addirittura, pensando alla polemica che di lì a un paio d’anni turberà il nostro sistema letterario, è lecito forse affermare che l’assimilazione della ballata al consolidato orizzonte della novella serve (o può servire) a neutralizzare l'opposizione culturale in gioco, quella classico-romantica. Nella rassicurante, implicita lettura fattane da Bertolotti, la querelle si riduce infatti a una sorta di confronto ‘quantitativo’ fra un maggiore o minore uso di elementi «romanzeschi», bizzarri cioè e fantastici. La valorizzazione di novità solo

tematiche — peraltro non estranee alla tradizione italiana — comporta la radicale svalutazione di ogni risvolto ideologico, la sostanziale rimozione dei contenuti teorici sottesi alla nuova proposta letteraria. Vengono così ridimensionati i discorsi staéliani circa l’esistenza, nelle letterature europee, di opposte intenzionalità artistiche che motivano lo scontro fra una letteratura del passato e una letteratura della modernità. Un contenuto o un valore romanzeschi, insomma,

possono essere affrontati in modo classico (e l'esempio di Boccaccio è lì a dimostrarlo); molto più difficile fare lo stesso per una poetica come quella romantica che comporta una filosofia della storia, un paradigma assiologico radicalmente nuovi. 2.1.2. Un tale discorso risulterà, credo, sensibilmente più chiaro

se finalmente prendiamo in considerazione la vera e propria wrballata ‘culta’ europea, tradotta per la prima volta in Italia appunto da Davide Bertolotti nel Novelliere, cioè la Lenore di Gottfried

August Biirger. Il componimento, va subito precisato, nell’edizione 1789 delle Gedichte non veniva definita esplicitamente Ba/lade, anche se con tale denominazione ha circolato in tutta Europa, in particolare nel mondo inglese (basti pensare che uno dei primi scritti letterari di Walter Scott è proprio la versione della Lenore, da lui intitolata William and Hellen). E alla più famosa traduzione britannica, quella di William Robert Spencer (che nella sua Preface definisce il componimento «Poerz of the ballad kind»)? si rifarà ” G.A. Biirgher, Leonora, translated from the German by W.R. Spencer, London, printed by T. Bensley, 1809, p. [1]; la citazione successiva alla p. 4.

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Bertolotti nel suo Novelliere, dove appunto figura una Leonora («novella di Birgher tradotta dalla celebre imitazione inglese di Spenser» [sic], recita il resto del titolo). Si confronti dunque l’originale’ con la versione bertolottiana: Tormentata da tristi sogni, frutto From visions of disastrous love Leonora starts at dawn of day; ‘How long, my Wilhelm, wilt thou [rove?

del suo amore infelice, Leonora prima dell’alba abbandonava le piume: ‘Oh! per quanto tempo,

Does death or falsehood cause thy [stay?” Since he with godlike Frederick’s [pow'rs At Prague had foremost dar’d the [foe, No tidings cheer'd her lonely

me lunge, o mio caro Alfredo?... È dessa forse la morte quella che di rieder ti vieta, o saresti tu ingiusto a segno per reputare disleale la tua amante?’. Dal dì che Alfredo, seguendo del gran Federico le insegne, ebbe gloriosamente combat-

[hours, No rumour told his weal or woe.

tuto sotto le mura di Praga, Leonora, indarno sospirando, attese novelle di lui. Nulla addolciva delle solitarie sue ore il fastidio; fra le lagrime ella i giorni passava, e il grido della fama così rapido, ma così spesso infedele, nulla imparato le avea intorno alle felici od infelici venture dell’adorato suo

ella sclamava, starai tu ancora da

Alfredo. [16-7]?8.

Non è quasi il caso di aggiungere alcunché all'evidenza testuale, se non per additare la coerenza dilatatoria con cui il traduttore persegue il suo obiettivo trasvalutante, adattando l’asciutto dettato inglese al placido ritmo della prosa novellistica italiana. E dunque a Bertolotti va almeno riconosciuto il coraggio di aver conferito al testo l’impronta d’uno stile, a sua volta portatore di una scelta in senso lato critica, di una presa di posizione di gusto e di genere, ancorché discutibilissima e di marca conservatrice. Acquisizione

che, come

è noto,

quasi nessuno

si è viceversa

sentito di riconoscere a Berchet, il quale due anni dopo si preoccuperà di rendere il Burger tedesco nel seguente modo: 2 Il componimento fu ristampato nel 1817 sullo «Spettatore» [505-12].

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Sul far del mattino Eleonora sbalzò su agitata da sogni affannosi: ‘Sei

Lenore fuhr ums Morgenrot Empor aus schweren Tràumen:

tu infedele,

‘Bist untreu, Wilhelm, oder tot?

o Guglielmo, o sei tu

Wie lange willst du sàumen?” Er war mit K6nig Friedrichs Macht Gezogen in die Prager Schlacht, Und hatte nicht geschrieben: Ob er gesund geblieben.

morto? E fino a quando indugerai?” — Egli era uscito coll’esercito del Re Federigo alla battaglia di Praga; e non aveva scritto mai se ne fosse scampato.

adi

A Quand’ecco trap trap trap, un calpestìo al di fuori come di zampa di

Und aufen, horch! ging's trap trap [trap,

destriero; e strepitante nell’armatu-

Als wie von Rosseshufen;

ra smontare agli scalini del verone

Und klirrend stieg ein Reiter ab,

un cavaliere. E tin tin tin, ecco sfre-

An des Gelanders Stufen;

narsi pian piano la campanella del-

Und horch! und horch! den [Pfortenring Ganz lose, leise, klinglinling!

l’uscio; e da traverso l’uscio venire

queste distinte parole.

[...] [Su/

‘Cacciatore feroce’..., T7, 82].

Dann kamen durch die Pforte Vernehmlich diese Worte: [...]??.

La proposta berchettiana, voglio dire, resta a metà strada tra la narrazione istituzionale e la poesia ‘in prosa’; e, anzi, forse proprio

in questa irresolutezza trova — almeno ai nostri occhi — la propria efficacia esemplare. I suoi difetti sono cioè storicamente recessari, denunciano una contraddizione immanente al genere. Il traduttore da un lato esalta, non molto diversamente da quanto aveva fatto due anni prima Bertolotti, la tenuta narrativa del ‘romanzo’ (per esempio, non se la sente di tradurre l’allocutivo «Horch!», ‘Ascoltal’, che in Biirger è un’evidente clausola ri#7ic4, anche se di sapore popolareggiante)?°, ma dall’altro non rinuncia a figure retoriche caratteristiche della nuovissima forma di ‘lirica’ (penso ovviamente alle famigerate onomatopee, che non per caso erano state bandite 2? Biirger, Gedichte cit., pp. 170 e 173. ?° L’uso berchettiano di ecco, per rendere l’esclamazione tedesca «Horch!»,

non mi

sembra del resto svolgere la medesima funzione strutturante. Bertolotti [Novelliere, 22] aveva in realtà tradotto l’inglese «Hark!» con «Silenzio! s’ascolti...»: formula che nel contesto specifico non solo non ha vero valore ritmico, ma sembra evocare un effetto di parlato caratteristico delle narrazioni orali, siano esse autentiche ovvero imitino l’oralità (si pensi per un verso agli incipit dei cantari e per l’altro al proemio dell’Orlando innamorato)

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da Bertolotti). Tanto più che Berchet stesso, all’atto di presentare la Lenore e Der wilde Jiger, aveva enfatizzato al massimo la natura poetica della sua mediazione interculturale, pur aderendo alla prassi dell’oratio soluta. E ognuno sa che soprattutto da qui, dai giudizi polemici della Lettera serziseria e dai testi che essa introduce, muove la parte forse più corposa e spettacolare della polemica italiana «intorno alla poesia romantica»: dove la parola «poesia» vuol dire produzione lirica (comunque in verso, almeno in questi anni)?!, e non narrativa (cioè per lo più, ma non necessariamente,

prosastica). Insomma: come si può chiedere il riuso lirico di un testo che — almeno per il lettore italiano — risulta accettabile solo se fruito in chiave di prosa narrativa? L’equivoco è sin troppo evidente, ed è l’intero genere, nelle sue prime manifestazioni, a subirne il contraccolpo. Certo, a ben vedere, tale ambiguità non riguarda soltanto la situazione italiaria, con la viscosità della sua tradizione novellistica,

e con gli effetti assimilanti e insieme paralizzanti che essa inevitabilmente porta con sé. Anche nella patria della ballata poteva succedere che la produzione epico-lirica per esempio di uno Scott venisse inserita in raccolte di tales’, e inoltre che la traduzione della

Lenore fatta dallo stesso Scott nel 1796 (ecco come viene resa la 3! Nel primo ventennio dell'Ottocento, infatti, la dipendenza della lirica italiana dal

verso mi sembra ancora molto forte, pure nel dominio della traduzione ‘d’autore’: penso alla fortuna dell’Ossizz di Cesarotti, che da una «prosa ritmica» aveva tratto una dicitura in versi;

ma penso soprattutto a quanto farà di lì a poco Maffei, volgarizzatore in terzine dantesche degli idilli gessneriani, viceversa prosastici. Le trasposizioni in italiano che aboliscono la versificazione degli originali figurano per lo più in contesti dove è sottolineata la funzione meramente informativa, di servizio se non proprio di consumo, della traduzione; esemplare è il caso d’un autore assai amato come Schiller, le cui poesie vanno incontro a interpretazioni prosastiche e anonime sul milanese «Spettatore», tra il 1815 e il 1816, e la cui Dignità delle donne viene viceversa accuratamente metrificata nel secondo numero del «Conciliatore», dove si mira a una fruizione engagée del testo. (Per qualche informazione sull’argomento, cfr. R. Battaglia Boniello, Le versioni italiane di poesia epica e di lirica tedesche in Lombardia [1815-1848], «Otto/Novecento», xv, 2, marzo-aprile 1991, pp. 41-88). Come vedremo tra

poco, tuttavia, negli anni successivi le cose cambieranno parecchio, e l’idea che si possa scrivere «poesia in prosa», soprattutto in sede di traduzione, avrà illustri sostenitori — certo anche per merito dell'esperimento berchettiano. 3 È il caso, fra l’altro, d’una delle più note ballate di tutta la tradizione romantica

europea, cioè quella che Scott liberamente tradusse dal goethiano Claudine von Villa Bella battezzandola Fredrick and Alice, e che è oggi conosciuta con il titolo Der untrue Knabe, ‘L’amante [o: ‘Il ragazzo] infedele’. Come ci dice lo stesso Scott, dunque, tale ballata, alla cui elaborazione contribuì anche M.G. Lewis, venne da questi inserita nella sua antologia di Tales of Wonder cit. Cfr. W. Scott, Poetical Works. With the Author's Introduction and Notes,

ed. by J. Logie Robertson, London, Oxford University Press, 1904 (cito dalla ristampa del 1971), p. 653; il testo della poesia alle pp. 640-1.

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prima strofa tedesca: «From heavy dreams fair Helen rose, / And eyed the dawning red: / ‘Alas, my love, thou tarriest long! / Or art thou false or dead?’ // With gallant Fred’rick’s princely power / He sought the bold Crusade; / But not a word from Judah's wars / Told Helen how he sped»)? evocasse un incremento di diegesi, sebbene spesso mediata da epiteti esornativi usati alla stregua di zeppe. Così come è indubbio che la baronessa de Staél avesse eccitato l’interesse verso le storie sottese ai romanzi o romanze tedeschi, richiamandone i contenuti anche in modo assai esteso (si pensi, oltre Biirger, al riassunto della Sposa di Corinto di Goethe), e insieme però affermando la tendenziale impossibilità di una traduzione che volesse restituire la totalità dei sensi depositati nei componimenti originali? (e ciò almeno in parte spiegherebbe le incertezze traduttorie di Berchet, a priori consapevole del fatto che, comunque, una buona versione è un risultato chimerico). Tuttavia, le conseguenze non sono per ciò meno pesanti e vin-

colanti, almeno in Italia. Paradossi come quelli appena visti rallentano la diffusione della ballata (o del «romanzo» bertolottiano). Le stesse etichette di genere appariranno per parecchi anni assai confuse. A mia conoscenza, ben poche sono le opere pubblicate dopo il 1816 che abbiano fatto uso della dicitura «romanzo» in un senso vicino a quello che ci interessa: la più nota è forse la famigerata Narcisa (1818) di Carlo Tedaldi-Fores, un componimento peraltro assai lungo (scritto in terzine dantesche e diviso in quattro canti, per un totale di un migliaio di versi circa) che Berchet finisce per considerare una mezza provocazione perché volge in caricatura la sua idea di poesia popolare e narrativa; anche se appare indubitabile che l’autore della Narcisa, tanto volenteroso quanto poeticamente incapace, in qualche modo si sia rifatto alle teorie estetiche dei romantici milanesi”. D'altronde, negli anni subito successivi 3 Cfr. W. Scott, Poetical Works cit., p. 630. % «Biirger est de tous les Allemands celui qui a le mieux saisi cette veine de superstition qui conduit si loin dans le fond du coeur. Aussi ses romances sont-elles connues de tout le monde en Allemagne. La plus fameuse de toutes, Lezore, n'est pas, je crois, traduite en

francais, ou du moins il serait bien difficile qu’on pùt en exprimer tous le détails, ni par notre prose, ni par nos vers» (De l’A/lemagne cit. [cfr., qui sopra, nota 17], p. 171). ” La recensione di Berchet a Narcisa di Tedaldi-Fores si può ora leggere in Berchet, Lettera semiseria... [169-73]. Di Tedaldi-Fores va inoltre ricordata, per l'etichetta di genere che qui c’interessa, la raccolta di Romanzi poetici, in versi sciolti, del 1820 (per un paio di testi ivi contenuti cfr., qui sotto, la nota 53). Con la definizione paratestuale di «Romanzo» tout-court Angelo Brofferio nel 1826 intitolerà il poemetto Le /agrimze dell'amore, lungo solo

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Berchet non userà più il termine rozzarzo, sostituito dal femminile in relazione alla propria produzione iin versi; e già sul «Conciliatore» ci proporrà uno dei primi e più efficaci inquadramenti sistematici della materia — quasi a riparazione, a me sembra, dei disagi definitorii da lui stesso e da altri inflitti a lettori e studiosi con la sovrapposizione romzanzo/romanza*‘.

Resta infine da spiegare, al di là di tante anomalie storiche e terminologiche, perché il lessema ballata continui per molti anni ancora a essere adottato con fatica e con parecchie incertezze da autori e critici legati alle pratiche del genere; e per quali ragioni sia quasi sempre sostituito appunto dalla parola romanza inevitabilmente foriera di fraintendimenti anche e soprattutto in direzione musicale?. La risposta più immediata e ovvia, quella che quasi nessuno propone perché praticamente tutti la sottintendono almeno nella prima metà del secolo scorso, e che peraltro troveremo adombrata persino nella definizione vocabolaristica del TommaseoBellini?8, ci viene esposta a chiare lettere da una solerte traduttrice veronese di ballate tedesche (di contenuto soprattutto religiosoencomiastico). E l'argomento è, come si vede, la nuovissima tra-

duzione d’un componimento biirgeriano, finalmente (ma siamo ormai arrivati al 1832) definito ballata: Era il Burger il poeta popolare della Germania, e chiamò Ballata il suo componimento, perché taleè il nome appunto con cui sogliono distinguersi fra iTedeschi quei carmi in forma lirica coi quali vengono celebrate tradizioni popolari, o fatti storici anche maravigliosi con più rapidi e vivaci concetti che non suole l’epopea, a diversità degli Italiani che intendono 384 versi, e per di più ‘lirici’ (quartine di settenari conformi allo schema a”’bc”b, compaginate in capitoletti di lunghezza variabile): vi si narra la storia d’amore dei contadini Lesbino e Giulietta, conclusasi con la di lui morte e con il dolore immedicabile della promessa sposa.

36 Sul numero del 12 agosto 1819 del «Conciliatore», Berchet infatti scrive: «Il poema del Cid non va confuso coi rorzanzi del Cid posteriori di un secolo, e pieni di ben altra poesia; somigliano questi in certo modo per le loro forme esteriori alle antiche Ba//ate inglesi, molte delle quali sono sì giustamente apprezzate anche oggidì» (Grisostomo, Poessas selectas Castellanas [...], «Il Conciliatore», 99; cfr. led. a cura di V. Branca, Firenze, Le Monnier, vol. ni, 1954, p. 178, nota).

” Cfr., qui sopra, cap. 1, pp. 15-20. 3 Dove Tommaseo, in sostanza, si rifiuta di prendere in considerazione genere designati con la parola ballata — in accezione letteraria moderna —, dal li reputa incongrui rispetto al significato primario del termine (che secondo lui e Modo e Tempo del ballo»): «Più per imitazione, de’ Ted. e de’ Fr., che dell’antica poesia it., i nostri moderni fanno ballate lunghissine, che né si cantano».

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e concetto e momento che infatti è«Atto per memoria ballano né si

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nelsecolo deciper Ballata un altro genere E: ng di poesia lirica molto comune mo-terzo, e destinato principalmente ad argomenti d'amore”.

Non solo. È possibile che pure in campo romantico (analogamente a quanto abbiamo appena visto per il Berchet del «Conciliatore») intorno al 1833 si preferisca fare un uso obliquo del termine, impiegandolo nella sua forma inglese originaria; a testimoniare appunto che l’italiano ballata continua a essere percepito come un barbarismo, come tale da evitarsi ‘9.

2.2.

SOTTO

IL SEGNO

DEL

PATHOS

2.2.1. Come s'è già detto, è nel 1820 che vengono pubblicati (ovvero scritti) per la prima volta componimenti italiani originali denominati «ballate». Una primazia per lo meno di principio deve essere riconosciuta a La dama del castello ed il trovatore. Ballata,

poesia di Davide Bertolotti (uscita sul milanese «Raccoglitore»), dal momento che la data del Ritorzo del Crociato di Zajotti riguarda la redazione di un testo in effetti dato alle stampe, adespoto, solo nel

18294! E comunque sintomatico è che entrambe le poesie siano # E. De Battisti di S. Giorgio De Scolari, Avvertimzento premesso a: G.A. Biirger, La canzone del brav'uormo [111-2]. Va notato che la îraduttrice espone per l’ennesima volta i dubbi, già berchettiani, circa la possibilità di aderire all’immaginario tipico delle leggende tedesche («Dubito che queste Ballate od Inni popolari, che sono in più luoghi della Germania cantati dal volgo, com'era un tempo della Gerusalemme del Tasso in Venezia, della Divina Commedia in Firenze, e più anticamente dei canti d'Omero dai rapsodi, non siano

per intieramente accomodarsi al gusto degli Italiani, perocché rinunciano a quegli ornamenti onde sogliono essere vestite le Muse presso altre colte nazioni» [112]). ‘4° Vedi quanto afferma Ermes Visconti, in uno scritto del 1833, Pier Luigi. Tentativo idillico [131, nota], a illustrazione del genere dell’idillio ascetico, passando in rassegna una serie di forme tipicamente ‘miste’: «Si potranno inventare delle novelle in prosa, o pure in ottava o terza rima; o novellucce scritte in istrofette cantabili, simili a quelle che gl’inglesi chiamano ballads, e gli spagnuoli rorzanzas [sic]». Il passo è stato segnalato e valorizzato da F. Tancini, Novellieri settentrionali tra sensismo e romanticismo. Soave, Carrer, Carcano, Modena, Mucchi, 1993, p. 115.

4! Molto interessante la genesi di questo componimento, come è stata ricostruita da R.

Turchi, in Paride Zajotti e la ‘Biblioteca italiana’, Padova, Liviana, 1974, pp. 1-2 (dove sono utilizzati documenti inediti, tra cui il Diario dello scrittore, in data 20 febbraio 1829): si

tratterebbe di un’opera scritta sostanzialmente «per ischerzo» alla stregua di un esercizio privato, poi dato alle stampe in forma anonima e accolto con notevole interesse da parte dei lettori milanesi dell’epoca. L’editio princeps del componimento è preceduta da una presentazione assai illuminante quanto al nostro argomento (Ancora una parola ai Classicisti e ai Romantici [85-6]). Zajotti, che si presenta come protagonista d’una narrazione eterodiegetica, vi afferma di aver composto I/ ritorno del Crociato nel pieno delle discussioni intorno al

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caratterizzate da un tono in ultima analisi parodistico, intenzionale o preterintenzionale che sia. I 96 versi della Dara del castello (suddivisi in 24 tetrastiche di ottonari a rime alterne compaginati secondo lo schema ab’ab’) ci presentano il dialogo appunto d’una signora feudale e di un trovatore: il secondo dichiara di essere alla ricerca di «un cor che onesto / Per amor mi renda amor», ma confessa anche la propria malinconica disillusione («Solo indarno cerca amore / L’infelice Trovator»); mentre la dama lo rassicura dicendo-

gli che, a ben vedere, «[..] l'amor non si nutrica / Sol di speme e di timor», e all’uopo lo invita a passeggiare nel giardino del castello («Vien colà; dolce è il diporto /Della luna al bel chiaror, / Porgerà forse conforto / Quella calma al tuo dolor»). Infatti, la mattina

dopo — ci comunica «il poeta» (presentato come tale dalle didascalie, alla stregua d’un personaggio) — il Trovatore è «Lieto [...] di sua mercede», e il suo canto, ora, coincide con quello della Dama;

anche lui può ormai affermare che «l’amor non si nutrica / Sol di speme e di timo». Difficile dire quanto sia volontaria la comicità d’un testo così costruito, il quale con tono convenzionalissimo racconta una storia affatto maliziosa, almeno rispetto alla nostra sensibilità di moderni (che la vedremmo perfettamente inserita nel repertorio di Paolo Poli): quanto più il trovatore lamenta le proprie disgrazie, tanto più la dama ribadisce un’idea aproblematica dell'amore, e tutta la poesia mira ad argomentare praticamente la bontà delle di lei ragioni. Ma va anche detto che Francesco Domenico Guerrazzi, nove

anni dopo, recepirà il componimento in modo viceversa serissimo, se è vero che lo inserirà, in seconda posizione assoluta ma appunto primo tra le ballate vere e proprie, entro la propria antologia Ba/romanticismo, con il preciso obiettivo di dimostrare sia agli ultraromantici sia ai più rigidi fra i classicisti che in italiano è possibile scrivere «poesia popolare»: «Io non sono poeta [...], ma colla lingua italiana si può far poesia per le reggie, e per le taverne, pei monarchi, e pei ciabattini: e poiché voi altri [...] siete d'accordo, che le nostre Muse non possono camminare che sopra i trampoli, le farò andar io colle loro gambe, come andiamo noi poveri diavoli: sì, signori, la poesia pei ciabattini la farò io: e voglio metterci di tutto, voglio essere romantico dalle calcagna fino alla punta de’ capelli, se dovessi andarla a studiare in un cimitero, e i miei versi saranno versi come Dio vuole, ma gli intenderanno tutti, e saranno italiani, italiani più

di voi, che non meritate d’aver questa patria. — [...] Erano per lui i primi versi, se pur erano versi, e vi fu qualche rima che non gli costò meno d’un’unghia, ma alla fin fine gli venne fatto un seguito di strofe, che ei volle intitolare ballata, e quelle strofe furono da lui recitate alla fantesca, al barbiere, ed al calzolajo, che le trovarono assai belle, e d’ottimo stile». Per i

rapporti fra Zajotti e padre Bresciani, che citerà in un proprio scritto parti della medesima poesia, cfr. (oltre Turchi, Paride Zajotti cit., p. 2, nota 3), qui sotto, cap. 4, pp. 139-41.

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late e canzoni di stile romantico (con il titolo I/ trovatore e la dama [7-12]). Nessun dubbio o esitazione, viceversa, quanto alle reazioni di una parte del pubblico di fronte alla ballata di Zajotti; cui anzi va riconosciuta una certa dose di autoironia per aver voluto rappresentare l'atteggiamento eccezionalmente concorde dei suoi due opposti interlocutori (l’ultraromantico e l’ultraclassicista): Misericordia! gridarono entrambi i suoi amici turandosi colle dita gli orecchi, misericordia! e tutti due scoppiarono in un riso inestinguibile, che avrebbe fatto onore all’Olimpo del classicista, e alla Senavra del suo compagno. — E quando vennero a parlare sul serio, furono nuovamente d’accordo a mettere per terra i versi del galantuomo ch'era stato ancor egli alla sua volta confinato nel cantone della stanza a doverne sentire d’ogni sorte: il classicista gli diceva, che quella era una brutta profanazione dell’arte, il romantico, ch'era una parodia delle nuove luminose

dottrine.

[Ancora una parola ai Classicisti e ai Romantici, 85].

Scritta in 14 esastiche di ottonari (ababcc), per un totale di 84 versi, la storia del Ritorno del crociato [ivi, 86], è davvero lievemen-

te comica (molto meno comunque, a me sembra, dell’opera di Bertolotti), se pensiamo che ci racconta d’un Ridolfo, reduce dalla

Palestina «di sua madre / A raccor l’estremo fiato», il quale si sente guidare da una voce sino al sepolcro della stessa, e che, in seguito a un evento miracoloso, è costretto a ‘restare a lei unito («Ove son?

Che braccio è quello, / Che mi stringe al freddo petto? — / Travagliato bambinello, / Son cinqu'anni, che t'aspetto. / Chiamin pure duci, e squadre; / Più non parti da tua madre»). Un’iperbolica e incongrua esaltazione dell’amor materno e filiale, dunque, conclusa

con una punizione di fatto incomprensibile (non è chiaro di quale ‘colpa’ si sia macchiato Ridolfo; e anzi forse quella rappresentata non è la solita condanna ‘biirgeriana’). Ma non ci sono dubbi circa la ricezione di un tale testo anche in un altro senso (ben contraddittorio rispetto al primo): infatti, secondo una testimonianza di Zajotti, Il ritorno del Crociato nel 1829 viene letto con autentica passione dai milanesi acquirenti

dell’«Eco»“, i quali anzi si recano numerosi alla redazione del giornale per conoscere l’identità dell’autore (giungendo addirit4° Cfr. Turchi, Paride Zajotti cit., pp. 1-2.

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tura a sospettare di Manzoni!). Dalla risata omerica si sarebbe dunque passati, nel giro di meno di due lustri, a un’adesione entusiastica: difficilissimo conciliare tali opposti, senza dubbio; ma è altresì improbabile che Zajotti abbia mentito, anche perché la ballata — caso piuttosto raro per i componimenti italiani del nostro genere — è stata tradotta in tedesco, e quindi è risultata accettabile alle orecchie di chi aveva maggior familiarità con il tipo di poesia in questione“. Quale che sia la spiegazione puntuale di tali anomalie, un dato critico pare essere ad ogni modo acquisito: fin dalle sue origini, la ballata romantica italiana è attraversata dalla contraddizione, forse insanabile, tra una vocazione stilizzante, decorativa e manieristica

(prossima alle strategie tipiche della parodia), e una propensione per il racconto di ‘casi’ patetici dotati di una forte esemplarità drammatica, di una scorciata plasticità, tanto più brevemente suggerita quanto più efficace nell’impatto sul destinatario (cioè suscettibile di eccitarne gli affetti). Il medesimo tipo di artificio compositivo, il medesimo tipo di intreccio, in altri termini, intesi a concen-

trare in pochi versi una storia dai contenuti tanto terribili quanto convenzionali, possono produrre nel lettore ora un’impressione di banalità e di serialità lievemente comiche, ora un turbamento grave e commosso, un’immedesimazione simpatetica prossima al sublime. Come è peraltro ovvio, è questo secondo aspetto del nostro genere a essere stato accolto più favorevolmente nel quindicennio successivo alla diffusione delle prime ballate; e tuttavia — per le ragioni che sono già state esposte — ciò è avvenuto secondo modalità non lineari, che fino agli inizi degli anni Trenta hanno anzi impedito una vera affermazione della ballata. Intanto, va ribadita la tendenza a un’esecuzione eminentemente prosastica, che anzi induce un autore e critico per noi importantissimo come Francesco

Domenico Guerrazzi a presentare nel seguente modo una traduzione appunto in prosa della ballata goethiana Mignon («Kennst du das Land, wo die Zitronen bliùhn?»): «Felice la poesia che priva del belletto della rima, e tolta dal primitivo linguaggio in cui fu originalmente dettata serba larghezza da lusingare cuore, ed orecchio 4 La notizia della traduzione è data da Antonio Gazzoletti, in Merzorie della vita e degli studi di Paride Zajotti [saggio in realtà adespoto], premesse a: P. Z., Della letteratura giovanile [xwmu-x]: «Questa Ballata, primo modello in Italia d’un gusto che non era quello del Zajotti, fu voltata in tedesco, poco felicemente, dalla celebre Carolina Pichler» (la ristampa del Ritorno, ivi [Lxx1v-vI]).

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italiani!» palesando, dunque, un’idea di poeticità che può tranquillamente prescindere dalla versificazione poiché giudica intimamente lirica l’orazio soluta capace di appassionare l’animo del lettore. La cosa avrebbe un rilievo marginale se non rispecchiasse un atteggiamento di indifferenza alla forma che in questo periodo, e per esempio sempre sulle pagine dell’«Indicatore livornese», induce un lettore militante acutissimo come Giuseppe Mazzini a dichiarare la propria sostanziale noncuranza nei confronti della facies stilistica, non solo di un’opera quasi régligéable come L’esule di Pietro Giannone («alle intenzioni del’Indicatore rivolte specialmente alla sostanza, ripugna l’erigere tribunale di critica per ciò che concerne la forma»), ma anche e soprattutto nei riguardi della «romanza» berchettiana forse più impegnativa, cioè Le Fantasie («non esito ad affermare, ch'egli ha fatta ad un colpo una buona Romanza, e un’ottima azione: rinunzio a’ predatori di sillabe l’alto incarico di spiluccare alcune locuzioni meno poetiche, poche costruzioni intralciate [...]»)®. Indifferenza alla forma vuole anche dire indifferenza al genere, naturalmente. E pertanto non ci stupiremo di scoprire che una nota ballata di Schiller (Der Kampf mit dem Drachen) compare nel 1832 tradotta sulla rivista ‘femminile’ «La Moda» (da cui peraltro nascerà il carreriano «Gondoliere») con il titolo completo La pugna col dragone. (Novella dei tempi della cavalleria). Versione libera dal tedesco, in forma prosastica, pienamente narrativizzata, e senza

alcuna indicazione d’autore‘. Ma c’è persino di peggio (benché in fondo si tratti di un ‘normale’ plagio), se è vero che su una strenna 4 Cfr. Ballata sopra l’Italia ([1v]). Si tratta d’una traduzione anonima: la sua attribuzione non è dunque scontata, anche perché il testo non figura né nella bibliografia degli scritti di Guerrazzi approntata da P. Miniati (F.D. Guerrazzi, Roma, Fondazione Leonardo, 1927), né nella puntuale ricognizione intorno alla sua attività editoriale e giornalistica effettuata da M. Strazzuso (Francesco Domenico Guerrazzi e la ‘professione intellettuale’: realtà editoriali ed organizzazione della cultura nella Toscana del primo Ottocento, «Siculorum Gymnasium», n. s., xLuHI, 1-2, gennaio-dicembre 1990, pp. 185-238, in particolare 234). Ma vedi anche S. Timpanaro, Alcuni chiarimenti su Carlo Bini, in Id., Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, Pisa, Es, 1982, pp. 199-285 (in particolare, 202-12). % Cfr. M., L’esule. Poema di Pietro Giannone [...], «L'Indicatore livornese», 46, 25 gennaio 1830, p. [11]; Id., Le fantasie. Romanza di G. B. [...], ivi, 18, 29 giugno 1829, p. [1];

Da daSS

Scritti editi ed inediti (Scritti letterari), 1, Imola, Galeati, 1906, pp. 245-

4 Il testo tedesco si legge per esempio in F. S., Werke, 1: Gedichte, herausgegeben von R. Boxberger, Berlin und Stuttgart, Verlag von W. Spemann, s.d, pp. 60-70 (con il sottotitolo, peraltro, di Romanze). Per una traduzione in versi italiana, vedi La lotta col dragone, in Biirger, Goethe et alii, Ballate [141-57].

i

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milanese del 1835 Michele Sartorio finge d’avere udito in prima persona («Era un bel mattino d’autunno, io dopo essermi aggirato qua e là per gli ameni dintorni di Besana [...], mi vidi correre incontro una fanciulletta fra i nove e i dieci anni» [Pitture domestiche, in Strenna italiana per l’anno 1836, 230]) i piangevoli casi della bimba protagonista di We are seven, la ballata di Wordsworth che abbiamo già visto tradotta per la prima volta nel 1815. E anzi verrebbe quasi voglia di parlare d’una sorta di ‘patetizzazione’ del sistema letterario, a opera appunto del nostro genere, di per sé non ancora ben sviluppato, ma capace di contaminare i sistemi formali a lui prossimi accrescendone la già notevole mescolanza confusiva “8. 2.2.2. Ipotesi, quest’ultima, almeno in parte confermata dalle due opere che nel 1829 ci consegnano le prime sintesi teoriche e pratico-teoriche'in merito all’esistenza in Italia d’un tipo di poesia epico-lirica denominata ballata, ovvero romanza. Mi riferisco da un lato alla prefazione di Berchet alle Farztasie e dall’altro alle già ricordate Ballate e canzoni di stile romantico, tomo settimo di un’Axtologia romantica e classica di cui è curatore Guerrazzi.

Avremo più volte modo‘ di confrontarci con le controverse riflessioni berchettiane edite quell’anno (e ben presto sottoposte a una sorta di censura editoriale dai contorni non ancora ben chiari). Per il momento è sufficiente rilevare il coraggio con cui l’autore delle Fantasie rivendica il necessario impatto erzotivo, latamente # Su questo breve racconto, intitolato Sta7z0 in cinque, mi permetto di rinviare a P. Giovannetti, Da «ballad» a «romanzo». Deformazioni italiane del romanticismo inglese (18091839), in corso di pubblicazione entro gli atti del xvi congresso dell’A.I.A. (Genova, 30 settembre-2 ottobre 1996). 4 Fra i diversi esempi pertinenti che si potrebbero proporre, è il caso di ricordare il suggestivo Cola da Rienzo di Silvio Pellico (abbozzato tra il 1819 e il 1820, e rimasto in buona parte inedito fino al 1963 [cfr. Lettere milanesi, 439-90]): cioè un’opera in cui un’intenzionalità poematica chiaramente byroniana viene presentata al lettore come traduzione «in prosa» di una «Cantica storica scritta in rozzi esametri latini da un poeta anonimo del secolo decimoquinto». Una narrazione storica, dunque, capace di neutralizzare l'opposizione versi/ prosa, e di tema politico, che si immagina cantata da un «trobadore» a mo’ di componimento epico-lirico (in senso, però soprattutto montiano: cfr., qui sopra, la nota 1). E chi legga i testi epistolari e autoriali del periodo 1816-20 si accorge che Pellico sovrapponeva suggestioni provenienti tanto dalle «antiche Rorzances provenzali» (scritte, egli crede, in un idioma

«ancora informe, senza leggi grammaticali» [ivi, 55 e 389]), quanto dalla moderna poetica del romanzo storico («Chi non lo [= il Cola] gradirà come poema, gli dia pure il titolo di romanzo» [181]). 4 Cfr., qui sotto, per lo meno il cap. 3, pp. 116-20, e il cap. 6, pp. 2423.

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patetico, che il nuovo genere deve realizzare nel lettore, in modo di fatto indipendente dal contenuto storico reale della rappresentazio-

ne. Esiste un «vero» di natura non fattuale, non positiva, estraneo

ai canoni del realismo narrativo: un «vero» cioè innanzi tutto 770rale, che è l'oggetto primario della «romanza» («Che sarebbe questa potenza che la mente umana ha d’immaginare, se per rinvenire il verisimile avessimo d’uopo di misurare sempre il vero con la spanna o col compasso?»

[Le fantasie, 27]), e che richiede una

rappresentazione di tipo, diremmo noi, allegorico, basata sull’associazione arbitraria di un’idea etica con un «oggetto», reale o fittizio che sia («immaginando un’azione [l’uomo comune], altro non avrà fatto che quello che facciamo d’ordinario noi turba grossolana, [...] sarà ridisceso a cercar negli oggetti un simbolo figurato dell’astrazione; ed in mancanza d’oggetti reali, gli sarà bastata la rappresentazione di essi nel suo pensiero» [ivi, 27-8]). Di qui, allora, la definizione della «romanza» come «poesia ‘epico-lirico-lirica’» [ivi, 18], genere letterario il cui ufficio è (non già perseguire la scottiana e manzoniana verosimiglianza, bensì) emozionare correttamente il lettore, suscitare in lui le sensazioni che

avrebbe provate se fosse stato presente agli eventi rappresentati: Gli accidenti ch’io narro tocca al lettore di pigliarseli o come veramente somministrati dalla storia,

o come consentanei ad essa,

e bene o male

inventati. A me nella qualità di poeta [:..] non importa [...] che ad un modo piuttosto che all’altro il lettore si attenga. L’incumbenza mia [...] non è di rappresentare un fatto storico, quale precisamente fu, ma solo di suscitare in lui qualche cosa di simile all’impressione, al sentimento, all’af-

fetto che susciterebbe in lui la presenza reale di quel fatto. [Ibidem].

Su un piano quasi solo operativo, non molto diverse sono le conclusioni cui giunge Guerrazzi con la silloge da lui curata in quel medesimo 1829. E infatti il primo componimento ivi inserito [5-6], La storia di Sofia di Giovan Battista De Cristoforis, afferente al polo generico della cazzone (tale è il sottotitolo), bene esemplifica il profilo sentimentale che fonda il nostro genere. L’asciuttissima vi-

cenda cantata nei 30 versi che compongono il testo (Sofia, abbandonata da Carlo, muore di dolore) ci conduce direttamente al com-

ponimento, o meglio episodio, patbetic forse più famoso nella letteratura europea fra Sette e Ottocento: cioè quello di Maria, la «poor Mary», contenuto nel Tristram Shandy sterniano (1x, 24), che Foscolo amava a tal punto da decidere di inserirlo entro il Viaggio 70

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sentimentale, nel cap. iam, là dove Yorick si ricollega appunto al racconto ormai divenuto celebre del suo amico Shandy?®. Ecco come suonano le ultime due strofe della poesia italiana: Nel cuor di Carlo, ahi perfido! Arse fiamma lasciva;

Del primo affetto immemore Il suo Carlo fuggiva... Chi, chi del crudo inganno Alleggerir potea l'immenso affanno?...

Or là sulla collina Ove quel mesto salice I lenti rami inchina,

Della tradita Vergine La muta spoglia giace... Oh povera Sofia, riposa in pace!

La storia commovente della giovane campagnola abbandonata alla vigilia delle nozze, e — proprio in virtù del suo dolore — resa capace di effondere melodie tanto più ispirate (in Sterne la musica è solo il suono di un flauto), potrebbe anzi esser considerato il ‘contenuto’ della più antica ballata italiana, se teniamo presente che l’ordine seguito da Guerrazzi è rigorosamente cronologico, e il nostro componimento è pubblicato per la prima volta nel 1817. Certo, il sottotitolo lo denuncia come «canzone», e la testura me-

trica ne rinforza la fisionomia classicheggiante (settenari e endeca5° Oltre la ricezione foscoliana, è il caso di ricordare che il racconto del commovente

caso di Maria è presenteanche nel Rorzanziere di Benincasa, insieme a due altri episodi del Tristram Shandy: cioè La morte di Jorich (sic) e La storia di Le Fever (Romanziere, 91-4, 958 e 99-120). E, a proposito di queste tre storie, una quindicina d’anni dopo Carlo Bini potrà ancora scrivere: «se tu hai viscere d'uomo, e leggi la storia di Le Fever, o di Maria, o la morte di Yorick senza lasciarti andare al sospiro d’una mestissima voluttà, che giace misteriosa negli umani precordi, — ma a pochi sommi è dato di suscitare, allora piangi della anima tua» (C. B., Lorenzo Sterne, [art. 1], «L’Indicatore livornese», 11, 11 maggio 1829, p. [11]). 31 Per l’esattezza sullo «Spettatore». La poesia viene poi ristampata come parte integrante d’un racconto di De Cristoforis, L’orfana di Pusiano [25-6]. La novella, prevedibilmente, arricchisce il plot: Sofia era figlia di un ufficiale francese, che l’aveva affidata a una donna di Pusiano; qui, divenuta una bellissima fanciulla, innamora di sé un giovane nobile in villeggiatura, che la vuol sposare ma poi — convinto dalla madre — la abbandona; con quel che ne segue. La prima strofa della canzone, presentata appunto tra virgolette («Madre del sommo Amore, / Stella del mar serena, / Mistico intatto fiore, /D’eterne grazie piena, / Volgi all’afflitta il ciglio, / Prega, o Madre, per me, prega il tuo Figlio!’»), registra le estreme parole pronunciate, o meglio intonate, dalla giovane prima di morire.

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sillabi ababcC, dove b è sdrucciolo in sedi strofiche pari); ma è altresì probabile che De Cristoforis usando quella denominazione faccia riferimento a un’accezione popolare della parola, vicina appunto a quella odierna di ballata. Anche perché indubitabili sono i contenuti ‘epici’ del componimento, e sono addirittura doublés dalla strategia della wise er abyme (la Storia di Sofia è infatti una canzone in cui si canta una canzone).

Una certa approssimazione concettuale, ad ogni modo, contraddistingue la scelta guerrazziana, che definisce «ballate e canzoni» (ancorché «di stile romantico», e quindi statutariamente irregolari) testi molto eterogenei: si va da un’amplissima scelta delle cattoliche «Melodie liriche» di Samuele Biava”, centrali per la circoscrizione del nostro genere, a due lunghi poemetti di Carlo Tedaldi-Fores?, che più plausibilmente dovremmo forse rubricare tra le novelle in versi, dalla scontata attestazione del patriottico Berchet (ma presente anche con un prodotto lungo come I profughi di Parga)?* al già visto componimento di Bertolotti, fino a tre testi del curatore me-

desimo, tolti dalla Battaglia di Benevento e dalla tragedia I Bianchi e i Neri”. Dove, insomma, per rapporto a poesie cosiffatte ‘patetico’ va inteso come vox zedia, in conformità peraltro, se non mi

sbaglio, a quanto con pathetic si intende anche nella lingua inglese: e dunque come una categoria o un modo espressivo in grado di dare largo spazio — insieme ai temi del sentimento e dell’entusiasmo politico — pure al macabro e al fantastico. Particolarmente percepi9° Poesie che Guerrazzi raggruppa sotto il titolo Melodie Liriche di anonimo, dal momento che vengono tratte dall’adespoto Esperimzento di melodie liriche [Ballate e canzoni, 51129]. I testi sono i seguenti: La patria [ivi, 53-66], La fidanzata del coscritto [67-75], La

gelosia [76-9], Guidobaldo il cacciatore [80-9], Il contrabbandiere [90-100], L'abbandono [101-6], Lucia de’ castellani di Pizzino [107-9], La promessa nuziale [110-3], La voluttà [1147], L’arpa di Tebaldo [118-20], L'ospitalità [121-5], La fedeltà [126-7], Il trovatore [128-9].

Cioè ben tredici componimenti: più della metà di quelli contenuti nella raccolta di Biava (dove le poesie sono in totale ventidue). Ma vedi, qui sotto, la nota 57. % Cfr. Iacopo Foscari e Lucia. Leggenda [Ballate e canzoni, 25-37 e 39-50]. Il secondo componimento è tratto da C. Tedaldi-Fores, Romanzi poetici [79-87]; del primo non sono

stato in grado di reperire la fonte. Va inoltre detto che il metro di Iacopo Foscari è in effetti lirico, trattandosi di quartine di settenari a”bc”b; ma la lunghezza è di ben 322 versi. Laddove Lucia si compone di 290 versi, 281 dei quali sono endecasillabi sciolti (c’è infatti un'inserzione lirica conforme allo schema aya,b”, ecc.). 7 Ctr., sotto il titolo complessivo Poesre di Giovanni Berchet: I profughi di Parga e Il Trovatore. Romanza [Ballate e canzoni, 133-58 e 159-611. % Cfr. La canzone di Lucia, Il succubo, Li due sventurati. Lamento [Ballate e canzoni, 13-

7, 18-20, 21-4]. Su questi componimenti (i primi due tratti, con qualche variante, dalla

Battaglia di Benevento [11, 160-2, 163-4], il terzo dai Bianchi e i Neri [Opere, 420-1]) vedi P. Miniati, F.D. Guerrazzi cit., p. 15.

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bili, questi ultimi, nei componimenti di Tedaldi-Fores, soprattutto

nella «leggenda» medievale Lucia (ripresa anche da Guerrazzi nella sua Canzone di Lucia, presente nella silloge del 1829), in cui un mancato stupro nei confronti d’una suora viene risolto con l’orripi-

lante supplizio del peccatore, fattosi nel frattempo crociato, e con la finale apoteosi dei due amanti soddisfatti nei loro affetti solo post mortem. Tutto ciò significa dire che per Guerrazzi la ballata romantica rappresenta un componimento epico-lirico in versi dove la parte narrativa può anche dilatarsi fino alle dimensioni d’una novella vera e propria, e per di più in sciolti (come nel caso della Lucia), purché venga rispettato il carattere in senso lato patetico che permea di sé la totalità del testo. Di qui, forse, la differenza fra narrazioni in versi del nostro genere e quelle, ugualmente metrificate e di lunghezza analoga (se non inferiore), ma per Guerrazzi istituzionalmente differenti: come — poniamo — La fuggitiva di Grossi (488 versi, da confrontarsi con i 322 di Iacopo Foscari e addirittura i 554 dei Profughi berchettiani), oppure come La fidanzata di Modena di un Felice Vicino (265 versi) o il Nastagio degli Onesti di Dionigio Strocchi (solo 127 unità); tutti componimenti inseriti come le ballate nell’Antologia romantica, ma in posizioni tali da ascriverli al genere della rovella in versi, in compagnia appunto della Pia, dei Lombardi alla prima crociata e dell’Ildegonda?. Né è il caso di insistere sulla labilità di tali distinzioni, dipendenti non dalla conformazione oggettiva del testo, ma dalla sua capacità di suscitare nel lettore un’appassionata risposta sentimentale; anche se va osservato che Guerrazzi, in questo modo, svaluta proprio la componente in 5% La struttura interna dell’Antologia romantica (che riunisce in un solo tomo dieci volumetti usciti tra 28 e ’30) non lascia spazio a dubbi sostanziali circa le partizioni di genere previste dal curatore. A mo’ di proemio programmatico, la silloge è introdotta dal poemetto Sulla mitologia difesa da Vincenzo Monti di Tedaldi-Fores, cui segue una lunga serie di novelle in versi, a partire dalle maggiori quanto a prestigio, cioè I Lombardi alla prima Crociata, Ildegonda, La fuggitiva e La Pia. La ‘sezione’ (corrispondente ai primi sei volumi parziali dell’opera) si conclude poi con La fidanzata di Modena, Nastagio degli Onesti, Ugo Re e Maltraversi e Scacchesi (queste ultime due sono opere di Tedaldi-Fores, ma qui presentate adespote). Seguono le Ballate e canzoni, cui tengono dietro tre tragedie (di De Cristoforis, di Carlo Marenco da Ceba e del solito Tedaldi-Fores). C'è poi una coda costituita da un gruppo di opere eterogenee: tre novelle in versi e un'ulteriore serie di Melodie liriche (citate nella nota successiva). La scansione coinvolge dunque i generi epico, lirico e drammatico, disposti in ordine canonico, ma realizzati secondo modalità «stilistiche» affatto nuo-

ve: quelle appunto della novelia in versi (sia lunga sia breve), della ballata romantica (con una timida apertura alla popolaresca «canzone») e del dramma storico.

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senso lato lirica del nostro genere, o comunque ne dilata a dismisura i confini, fin quasi a comprendervi ogni sorta di storia raccontabile in verso. Fondamentale per Guerrazzi (come per Berchet), dunque, è che i contenuti agiscaro sul lettore, lo coinvolgano affettivamente, ne sollecitino i sentimenti fino alle soglie di una risposta pratica nell’ambito della vita reale. Tali idee mi sembra che spieghino almeno in parte la ricca attestazione, fra le Ballate e canzoni di stile romantico, di poesie scritte dal cattolico moderato Samuele Biava. A pri-

ma vista, si tratta di un’attestazione sconcertante (oltre tutto riba-

dita di lì a poco, giacché in coda alla propria Antologia romantica [661-72], Guerrazzi provvederà a inserire le Melodie non comprese nella raccolta del 1829)”, data la religiosità invadente e spesso oppressiva che caratterizza la produzione di Biava. Né meraviglia solo la disponibilità politica a valorizzare con generosità un autore ideologicamente tanto lontano dall’antologista (non è da escludere che questa simpatia sia stata causata dalla notizia delle vere e proprie persecuzioni censorie e professionali cui Biava era stato sotto-

posto da autorevoli esponenti dell’intellighenzia lombardo-veneta)58; ma ci colpisce proprio il fatto che nello stilare un bilancio del nuovissimo genere sia Biava, e non il laico Berchet, a ricevere i maggiori riconoscimenti, se è vero che a quest’ultimo sono riserva-

te una trentina di pagine dell’antologia e al primo quasi ottanta. Così che è forse lecito credere, anche solo osservando le parolechiave presenti nei titoli inizialmente prescelti (patria, gelosia, abbandono, ospitalità, fedeltà; insieme all’immancabile trovatore con

relativa arpa), che agli occhi di Guerrazzi tali poesie esemplifichino, oltre un gusto e appunto uno «stile» affatto nuovi, dominati dalla ricerca del terribile e del sublime, soprattutto un sisterza di ?” Le poesie sono: La serenata [661], Caterina Cornaro sposa di Giacomo re di Cipro [662-4], La caccia feudale [665], L’aria degli alpigiani Svizzeri intitolata Kubreigen o Ranz-desvaches [666-7], L'ultimo canto d’Ulrico bardo della regina Teodolinda [668], Il monte degli

Stampi in Tramezzina [670], Il voto del crociato [671], La malinconia [672].

°5 Dalle pagine della «Biblioteca italiana», contro Biava si erano violentemente scagliati prima Fracesco Ambrosoli e poi Paride Zajotti, stroncatori l’uno dell’Esperimzento, l’altro delle Melodie lombarde (cfr. rispettivamente xLm, luglio 1826, pp. 120-2; e LI, settembre 1828, pp. 379-84); e tali prese di posizione, soprattutto la seconda, erano state interpretate come vere e proprie denunce dell’indegnità di Biava a svolgere la professione di insegnante

presso il milanese civico ginnasio di S. Marta. Sull'argomento, cfr. il profilo biografico di Biava, scritto da I. Angerosa per il Dizionario biografico degli italiani cit., vol. x, 1968, pp. 298-300. Mi riprometto di argomentare in altra sede l’attribuzione dei due articoli testé menzionati, usciti infatti anonimi.

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valori in senso lato borghesi, percepiti come ideologicamente primari e irrinunciabili, perché capaci di costituire una sostanziale alternativa, anche pedagogica, alle frivolezze e alle superficialità della tradizione «parigina». 2.3. DOPO LA «PIETÀ», LA «MUSICA»

2.3.1. Vero è che, comunque, la fatica guerrazziana, oltre a cen-

sire in modo piuttosto fedele molti fra i testi più antichi appartenenti al genere della ballata romantica, prospetta con forza il problema principale connesso a ogni forma mista: dove si situa il confine tra la narrazione in versi ‘pura’ e la narrazione bensì in versi ma anche ‘lirica’? Domanda tanto più lecita soprattutto in prospettiva europea, in quanto si ha l’impressione che la cultura poetica italiana agli inizi degli anni Trenta preveda, a fianco degli ormai consueti racconti lirici, anche liriche — cioè testi che formalmente appartengono al genere dell’ode o della canzone — manipolate per svolgere una funzione narrativa. L'esempio forse più notevole di questo tipo di esperienza (una mescolanza lievemente paradossale, che potremmo chiamare lirico-epica, appunto rovesciando le priorità dei termini in gioco)”? è fornito dalle Odi quattro alla amica ideale di Francesco Dall’Ongaro, un libro dalla storia e dai contenuti per lo meno curiosi. Basti pensare che si ha notizia di una circolazione semiclandestina di tali componimenti, sottoposti al probabile plagio di Cesare Betteloni®, e per di più pubblicati — almeno in un primo 5? Sono riconducibili a un’intenzionalità analoga anche testi peraltro ben più noti come, per esempio, le berchettiane Fantasie (uscite nel 1829), o come il «poema polimetro» I/ veggente in solitudine (1846) di Gabriele Rossetti: opere dove materiali poetici eterogenei (nel caso di Rossetti, poi, scritti in periodi assai distanziati) sono indotti a comporre una sorta di macrotesto narrativo idealmente unitario. Cfr., qui sotto, il cap. 3, pp. 116-7. 6 Cfr. alcuni riflessi di tale polemica nell’articolo di L. Carrer, All’arnzica ideale. Odi due,

«Il gondoliere», 11, 38, 10 maggio 1834, pp. 149-51 (scritto adespoto); vi si afferma tra l’altro che «l’ode dell’Anonimo girava manoscritta egli è molti anni» (p. 150). I componimenti di Cesare Betteloni cui Carrer fa riferimento sono quelli che verranno in seguito stampati in Poesie varie: vale a dire le tre odi intitolate A te [3-8, 9-13, 14-7],

e numerate in modo

progressivo. Molto più platonico, e lirico ‘puro’ (il suo breve ciclo non disegna infatti un vero sviluppo narrativo), Betteloni sembra in effetti dovere qualcosa al dettato di Dall’Ongaro, se per esempio comincerà la seconda sua ode dichiarando: «Dove ti cerco, o splendida / Figlia del mio pensiero? / Dimmi, sei tu fra gli Angioli? / Concetta invan ti spero / D’alvo mortal, ché simile / Non è la polve a te. // Deh allor che amante pendere / Sul mio guancial ti piace / Te pur cogliesse immemore / Dolce un sopor fallace, / Ed io sorgessi a coglierti / In braccio al sonno e a me!» [9]; laddove Dall’Ongaro scrive nell’Ode prizza [Odi quattro, vJ: «Bella

O.

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tempo — contro la volontà dell’autore. In effetti, la «storia» che tali odi raccontano ‘! è assai interessante e scabrosa, se pensiamo che ci

presenta prima il vagheggiamento ideale dell’amore, poi il suo in-

veramento con una fanciulla reale, Maria, e infine la forzata rinuncia ad esso, con conseguente morte della giovane — il tutto presentato come l’enunciazione d’un narratore (ovviamente omodiegetico)

che nella realtà è un sacerdote, e tale anzi si mostra proprio nel momento culminante della storia. Attraverso la successione di quattro fasi diacronicamente correlate (I/ presentimento, L’apparizione, L’addio, La morte), calate in luoghi e tempi reali (ogni poesia è datata in relazione a una precisa località — siamo tra Padova e Parenzo, negli anni 1829-34), viene sceneggiata la commovente storia

d’un affetto in fondo realissimo, se è possibile che le parole della donna, davanti alla forzata rinuncia di lui, evochino addirittura lo spettro della bestemmia, o comunque un’idea naturalistica della sessualità: Un Dio, che amor si nomina,

All’uom che lo somiglia Vietare amor poté?

No: questa voce improvvida Che dall’amar sconsiglia Voce di Dio non è.

[9] Il rio che scorre e mormora, Il sol che il mondo indora

Non servono al Signor? amica del vago pensiero, / De’ miei vergini affetti reina, / Non mai vista ne’ campi del vero/ E presente pur sempre al mio cor; / Salve, o silfide eterea, divina, / Forma ignuda, che l’anima adora / Benché incerta e fantastica ancora / Come un sogno fugace d’amor!». D’altronde, come aveva osservato lo stesso Carrer facendo riferimento alla leopardiana A//a sua donna, più che una questione di plagio si tratta forse d’un problema di ‘genere’: vale a dire una comune predilezione per immagini di donna intensamente idealizzate, e liricamente evocate mediante lo strumento dell’allocuzione. 9! Nella prefazione alle Odi quattro Dall’Ongaro tra l’altro dichiara: «Questi componimenti, usciti in gran parte dal mio cuore in più giovane età, divulgati senza ch’io lo sapessi, usurpati più volte in varia maniera, pubblicati contro il mio volere, io ve gli offro al presente sotto il mio nome, se non fosse altro, per naturale amore della proprietà» [m]. Le quattro liriche saranno poi ristampate nel 1840 in Id., Poesie [1, 7-10, 11-14, 23-30, 31-8]; vi figurano

in compagnia di altri cinque componimenti, entro la sezione giust’appunto intitolata All’anzica ideale. Sintomaticamente, infine, nelle Fantasie drammatiche e liriche non è traccia di tali poesie.

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E l’uomo ancor col vivere E coll’amar l’adora, Poi che la vita è amor. [Ode terza, in Odi quattro, x1x e xx].

Eppure, come si è detto, ogni testo mantiene un’autonoma fisio-

nomia di «ode»; e solo la disposizione in corona dei componimenti conferisce loro la compattezza di un breve (circa 500 versi in totale) romanzo lirico. Analogamente, anche se in relazione a valori più consueti, l’anno dopo Dall’Ongaro dedicherà all'amico Alessandro Mauroner i versi «per nozze» della Luna del miele (romanzescamente sottotitolati Scene della vita conjugale), un libriccino composto di sette liriche che seguono le stazioni del legame uomo/donna — dall’innamoramento fino all'annuncio della gravidanza, passando ovviamente attraverso le nozze —, in conformità a una poetica, tanto realistica

quanto sentimentale, attenta all’utile sociale ma consapevole pure di doversi confrontare con le verità del cuore. E nello stesso 1837 dell’Arzica ideale Jacopo Cabianca pubblica le sue Ore di vita, divise in Ore liete e Ore tristi, a scandire una progressione narrativa

esemplarmente tragica, che tuttavia anche in questo caso si realizza attraverso la giustapposizione di quattro componimenti lirici leggibili pure in maniera autonoma.

2.3.2. Temi e intenzionalità narrative, questi, poi lucidamente interpretati da Dall’Ongaro nella sua opera poetica soprattutto degli anni Quaranta, e nel settore specifico che più ci interessa (vi dovremo pertanto tornare); ma molte di tali consapevolezze agiscono già nello scritto che, in qualche modo, ‘fonda’ — delimita cioè e

insieme progetta — il genere della ballata in Italia: vale a dire la prefazione Ai lettori contenuta nelle Ba/late di Luigi Carrer [vnxx11]. E un testo che davvero colpisce per la lucidità e l’abilità con cui enumera le diverse questioni in gioco (per esempio, sa prevenire

le obiezioni dei lettori in senso lato ‘classicisti’ prendendo subito le distanze dalle «danze macabre» di birgeriana memoria...). E in fondo sarebbe sufficiente dire che per Carrer le «ballate» sono definibili come «pietosi racconti» [vm], per capire, rispetto alla circoscrizione del genere, quale ruolo vi svolga l’affettività del lettore. Si tratta, dunque, di una specie di poesia popolare, che racconta un’avventura, accenna a una costumanza, ritrae una fantasia, per modo che l'immaginazione o il cuore, 71

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-

o ambidue, ne rimangano scossi, e allettato l'udito per mezzo dell’armonia che ha in se la canzone, o che le viene dalla musica cui si accompa.

.

>

gna. [vm]

Tali parole, comunque, rappresentano un sensibile progresso rispetto al ‘contenutismo’ di Berchet e Guerrazzi (e anche di Mazzini), che individuavano la specificità della ballata nella gestione d’un sentimentalismo tematico quasi del tutto indifferente alla ‘for-

ma’: mentre qui, e in modo piuttosto chiaro, si fa riferimento alla

necessità di armonizzare il dettato poetico, o attraverso artifici interni (di indole quindi metrica) o attraverso un arricchimento esterno (cioè mediante l’accompagnamento musicale). E, anzi, altrove sembra che Carrer colga un legame reciproco e necessario tra narrazione e sonorità, cioè tra storia e stile del discorso, se potrà anche

affermare, all’atto di districare quello che egli stesso chiama un «miscuglio di generi» [xv]: La narrazione è sempre il fondamento di tali poesie, sia che si appoggi sulle antiche tradizioni, sia che derivi dalla fantasia. Ma la forma è più di sovente lirica, come più atta a far presa subitamente nell’intelletto, e a porre in movimento gli affetti dell'animo. Potrebbe anche dirsi non esser estranea a questo genere eziandio la drammatica, chi nella drammatica si contentasse di considerare il concorso di alcuni accidenti atti a risvegliare la curiosità e resi manifesti col mezzo del dialogo. [...] Quantunque in queste [= nelle ballate] il poeta sempre racconti, vestendo il personaggio del trovatore o del menestrello e in generale d'uomo destinato ad abbellire coll’arte propria le antiche memorie per renderle facilmente durevoli nella posterità, può giovarsi d'immagini pellegrine, e dare al suo racconto quella piega che crede tornar più efficace; e per egual maniera il suo stile, mentre deve mostrarsi appropriato all’intelligenza della moltitudine, può a quando a quando abbellirsi d’ornamenti che lo manifestino opera di chi non è moltitudine. Egli è per tal modo che il cuore e l’ingegno rimangono presi, e messi vengono in movimento la curiosità e il sentimento. [x1v-v].

Tanto più che, poco oltre, l’autore indicherà nel dettaglio quali sono gli artifici metrici atti a produrre certi effetti e affetti (tra di essi — ma sono spunti che dovremo approfondire — spiccano «i ritornelli e le ripetizioni» [xv], che per esempio escludono l’uso dello sciolto); e addirittura auspicherà che le ballate vengano cantate su arie popolari già esistenti. «Il popolo — pensa infatti Carrer

— non ha mai recitato, né mai reciterà i versi; per aver ad essi ricorso

ha bisogno di uscire della sua vita abituale, e per conseguenza di 78

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dar uno sfogo alla propria immaginazione e ai propri affetti. A questa condizione degli animi è bisognevole il canto» [xv]. E proprio questo il secondo grande elemento di novità presente nella teorizzazione di Carrer (anche se è insieme, come vedremo, un

luogo di contraddizioni e di ambiguità affatto insanabili)®: non solo esiste — come pensava del resto Guerrazzi — una stretta parentela fra il genere della ballata e quello della canzone, ma la seconda ha di fatto una priorità sulla prima, ne rappresenta il presupposto storico e antropologico, in quanto componimento popolare che — per definizione — è da sempre sulla bocca della gente, e di cui oggi uno scrittore ‘colto’ può e deve farsi continuatore elevandone e tono e contenuti. Si tratta di un’intuizione corretta anche su un piano, diciamo, ‘scientifico’, che Carrer nel 1834 può solo sfiora-

re®. Tale consapevolezza ‘folklorica’ permette nondimeno al poeta di operare su fondamenti teorici piuttosto saldi; e soprattutto gli garantisce un sostrato popolare autentico, percepito come qualcosa di vivo e di attuale, concretamente attivo nella cultura dello scriven-

te. Una tradizione in senso forte, dunque, e non più (penso alle scelte fatte da Berchet nella Lettera serziseria) un miraggio filosofico che aveva bisogno di legittimazioni letterarie culturalmente assai remote (Burger, soprattutto, e Goethe) per riuscire a manifestarsi in forma di programma. E davvero poco importa, in questo senso, che Carrer si smarrisca in una definizione di popolo e di popolarità

€ ® $ l’unico

Cfr. (oltre a quanto scritto nel presente paragrafo), qui sotto, il cap. 5, pp. 202-12. Cfr., qui sopra, cap. 1, pp. 12-4. Curiosamente, infatti, nel testo in cui Berchet teorizza la popolarità della letteratura, esempio di lirica italiana autenticamente popolare messo a confronto con le due ballate germaniche è l’«istoria» o «canzonetta» drammatica della Samaritana, di cui però lo studioso era venuto a conoscenza attraverso gli scritti di Goethe (cfr. Uber Italien. Fragmente eines Reisejournals [1788], in Id., Werke, herausgegeben von H. Diinker, xx, 2, Berlin und Stuttgart, Verlag von W. Spemann, s. d., pp. 308-16). Eppure si tratta d’un canto diffuso sulle piazze di tutt'Italia, tanto che la sua fortuna si è propagginata sin dentro al Novecento (cfr. per esempio il commento di N. Caccia alla Lettera serziseria [30]; e insieme L. Cellesi, La Samaritana. Plebis ars, «Bullettino senese di storia patria», n. s., 1, 1, 1930, pp. 117-47). Né il quadro cambia di molto se prendiamo in esame il lavoro fatto da Berchet sulle romanze spagnole: il suo rapporto con la letteratura popolare ci appare sempre troppo cartaceo, troppo proteso alla ricerca di legittimazioni colte. Non è forse inutile precisare che la Samaritana è un componimento modalmente drammatico (cioè fondato unicamente sul dialogo; «dialogisiertes Lied» lo definì Goethe), diffuso anche attraverso opuscoli popolari, e composto di una quarantina di tetrastiche di ottonari rimanti ab’ab’. La stampa veneziana da me consultata (Istoria bellissima della Samaritana) presenta un dettato popolareggiante (anche per la presenza di ipermetrie, peraltro non frequenti), ma è solo blandamente segnata da influssi dialettali.

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piuttosto approssimativa: quel che conta è la coscienza d’un problema, e proprio — direi — d’un medesimo orizzonte d’attesa che accomuna destinatore e destinatari”. Tali notevoli intuizioni non devono però farci dimenticare alcuni evidenti limiti della poetica di Carrer. In primo luogo, come s'è accennato, l’autore non chiarisce in modo soddisfacente il rapporto fra tradizione e reinvenzione, fra retaggio folklorico e suo rifacimento: vi è bensì un’apertura di credito verso il canto popolare, ma non per questo il poeta moderno rinuncia alla propria sapienza compositiva, e anzi sembra definire una formazione poetica di compromesso, un ibrido suscettibile dei più incontrollati arbitrii. In secondo luogo, la prefazione 1834 circoscrive in modo piuttosto deciso l’area tematica pertinente alla ballata. Sono tre i grandi riferimenti di significato presi in considerazione da Carrer: le invenzioni di tono avventuroso (con qualche concessione pure all’esotico), le leggende e le tradizioni popolari (se del caso agganciabili alla realtà storica, soprattutto medievale), le fantasie sentimentali e

amorose di specie più chiaramente lirica. Viene cioè escluso, in linea di principio e di fatto, quanto poi costituirà l'oggetto della ballata italiana più ‘matura’ (o che tale è apparsa agli occhi dei critici sensibili al problema del realismo): cioè le scene di vita contemporanea, gli avvenimenti della cronaca recentissima, dotati d’un forte valore larmzoyant e perciò appetiti dalla sapienza armonica di -

© Che Carrer, evocando la questione della letteratura popolare, compia un’operazione originale e tuttavia scabrosa, non priva di ambiguità, è cosa di cui si rende subito conto il recensore della «Biblioweca italiana», Francesco Ambrosoli: il quale rimprovera al teorico delle Ballate la confusione di «nazionale» e di «popolare» (e cioè l’aver proposto come popolari componimenti viceversa ‘d’autore’), e insieme l’insufficiente definizione di quest’ultimo tipo di produzione. Vero è che la ballata romantica italiana giunge con Carrer a un bivio: o seguire in modo sempre più rigoroso (come di lì a poco comincerà a fare Tommaseo) le tradizioni popolari vere, positivamente documentabili, attenendosi alle loro caratteristiche effettuali; oppure percorrere la strada dell’invenzione letteraria autonoma, nazionale bensì

quanto a lingua, ma libera da ogni altro vincolo che non sia quello fornito dalle norme del recente genere ballatistico, ormai giunte anche in Italia a una discreta maturazione. Di A.Imbrosoli] cfr. Ballate di Luigi Carrer [...], «Biblioteca italiana», Lxxvm, maggio 1835, pp. 169-78. Una reazione perplessa dell’autore di fronte a tale scritto («Hai letto un articolo della Biblioteca ove si dice, in proposito della mia prefazione alle Ballate, che non ho definita con sufficiente precisione la poesia popolare, ciò che mi par vero, e che ho confuso questa colla poesia nazionale, ciò che mi par falso») si legge nella monografia di L. Lattes, Luigi Carrer.

La sua vita, la sua opera, «Miscellanea di storia veneta», serie terza, x, 1916, p. 46 (lettera a

B. Montanari del 1° agosto 1835). 4 Abbiamo del resto già visto che pet Carrer la ballata «racconta un’avventura, accenna a una costumanza, ritrae una fantasia».

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autori (Dall’Ongaro e Prati sono solo i più noti) ormai divenuti sensibili alle esperienze e alle voci del popolo”.

2.4.

CON

LE

STRENNE

LA MATURITÀ:

VERSO

IL REALISMO

2.4.1. D'altronde, a chi volesse cercare di coglierne il reale funzionamento, anche sociale, la ballata italiana dei primi anni Trenta mostra una fisionomia ricca e sfuggente, sfaccettata (assai più di quanto Carrer non credesse) e perciò irriducibile a un’unità soddisfacente. Notevole è il banco di prova fornito dalle strenne milanesi, che a partire dal 1831 diffondono con grande successo una letteratura per definizione ‘di consumo’. Ora, se a uno sguardo d’assieme solo in parte colpisce l’uso assai raro del temine «ballata», per lo più sostituito da «romanza», un’osservazione dei fatti più ravvicinata permette di cogliere il ruolo centrale del nostro genere nell’ambito delle strenne, insieme all’ampia varietà di tipologie da esso delibate. Nel primo lustro circa di pubblicazioni, ha notevole spicco la ballata medievaleggiante, capace di coniugare storia e affetti intorno alla figura canonica del trovatore (i modelli prossimi sono evidentemente quelli di Berchet, privato però dei contenuti politici, e delle Melodie liriche di Biava)®. E appare egualmente ben documentata la presenza di poesie in cui l'etichetta «romanza» corrobora effettivamente la componente lirica, sentimentale e inti£ Lo stesso Carrer, del resto, in seguito sembrerà in parte aderire a tale imperativo tematico: si pensi soprattutto al Desiderio Userta [Poesie edite ed inedite, 68-73], uscito sul «Gondoliere» nell’aprile 1837, oppure anche alla Suora [ivi, 78-80], comparsa per la prima volta nel 1838. Cfr. L. Lattes, Luigi Carrer cit., p. 49. # Come si può evincere dalla consultazione dell’utilissimo volume di G. Baretta-G.M. Griffini, Strenne dell'800 a Milano, prefazione di D. Isella, Milano, Libri Scheiwiller, 1986.

Se non ho visto male, nei primi cinque anni della loro diffusione, sulle strenne milanesi il termine «ballata» non compare mai a designare il tipo ‘romantico’ che c’interessa. 6 Vedi per esempio, all’inizio del primo Nor ti scordar di me, del 1832, e proprio con l’intento di assecondare l’argomento ‘floreale’ della strenna: La viola del pensiero. Serenata, poesia di Cesare Cantù [4-8], la cui storia è in qualche modo paradigmatica ai fini del nostro discorso, anche per l’effetto di yzise ex abyme su cui si fonda. Un «trovadore» parte, e canta all’amata Rina la leggenda della viola del pensiero: vale a dire la storia di Uggero crociato, il quale congedandosi da Lisa aveva portato con sé uno di quei fiorellini, il cui «cespo» la donna continuerà a coltivare — anche dopo aver saputo che Uggero è morto. Il componimento si legge in Poesie [195-9]. E un paio d’anni dopo, nel n. 3 del Nor ti scordar di me [212-3] rinveniamo I/ trovatore di Giuseppe Grassi, poesia ai nostri occhi convenziona-

lissima, anche solo a leggerne le prime due strofette: «Pietoso alzò un lamento / L’afflitto trovator, / Che gli rodeva il cor / D’amor tormento; // E a lei, cui l’alma pia / Traspar, per gli occhi fuor, / Del suo cocente amor / L’affanno aprìa».

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ma, del dettato poetico, in conformità a un gusto che negli anni tra il 1831 e il 1837 è ben esemplificato dalla produzione di Cesare Betteloni?°. Così come non è infrequente la ballata di specie fantastico-avventurosa, priva per lo più di ogni ‘impegno’ storico sostane ziale, e comunque quasi sempre ambientata nel mondo medieval”!. Il tipo di poesia epico-lirica che forse meglio caratterizza le strenne (almeno a Milano, e negli anni 1831-1838) è però un altro ancora, e la sua presenza non deve stupirci, se per un attimo pensiamo che tali annuari, costosi anche per l'editore, non devono

correre alcun rischio nel passare attraverso i controlli della censura imperial-regia (che infatti è severa non solo con testi di indole ‘irredentista’, ma anche con le pubblicazioni caratterizzate da troppo palese vacuità)”: penso cioè alle ballate di tipo religioso-edificante, 7° Notevole, anche per l'anomalia paratestuale, la seconda delle Odi di Betteloni presenti nel Now ti scordar di me, 1833 [166-7], recante il titolo Rorzanza, e costruita intorno al

dialogo galante fra una dama e un paggio. Ma di Betteloni sarà da ricordare soprattutto La fata. Ballata [Strenna italiana per l’anno 1836, 54-71], dove la figura della fata sembra quasi sostituire quella canonica del trovatore — in quanto voce malinconica che intona componi-

menti appassionati —, anche se ormai l’intera narrazione si situa nell’ambito d’una irrealistica réverie: «Sovresso il mio caro Benaco con lento / Remeggio talora solchiamo l'argento / Che spande sui flutti la falce lunar: / Ed Ella mi narra venture d’amanze, / O dolci mi canta pietose romanze, / Che fanno ad udirle la Luna fermar. // Prestante talora fatato guerriero,

/ In groppa di bruno focoso destriero, / Vo solo all’assalto di antico castel; / Là dove la donna dell’anima mia / Aita mi chiede, d’un Mago in balìa, / Che in fondo la serra di carcer

crudel.» Entrambi i componimenti si leggono in Poesie varie [115-6, 102-5]: il primo con il titolo La memoria dell'amore, il secondo senza il sottotitolo «ballata».

"! Cfr. per esempio, entro la Strenna italiana per l’anno 1834 [132-4], una Romanza di M. C. E., che coniuga il motivo amoroso con quello della crociata, al di fuori però d’un vero discorso religioso; oppure, di Pietro Rotondi, I due dragoni. Ballata popolare [Il Presagio, 1837, 244-6], dove la popolarità suggerita dal sottotitolo deve forse essere connessa al motivo

‘biirgeriano’ della vendetta divina, che infatti colpisce un malvagio cavaliere, reo di aver ucciso a tradimento il proprio compagno di milizia. 7? Ad esempio, il Piano per la censura dei libri del 1814 («Parte prima: Censura delle stampe in Paese») recita testualmente: «Generalmente sui libri, che sebben per altro degni di censura, contengono però cose anche utili, o d’altronde sono di maggior volume, od opere

periodiche, sarà esercito meno rigore che sui libriciuoli, ed altri scritti di argomento frivolo o di nessuna utilità» (cfr. Archivio di Stato di Milano, Studi-Parte moderna, cartella 74; e vedi

anche F. Bertoliatti, La censura nel Lombardo-Veneto [1814-1848], «Archivio storico per la Svizzera italiana», xIv e xv, 1-4 e 1-2, 1939 e 1940, pp. 23-119 e 45-67; in particolare le pp.

37-41 della prima parte). D'altronde, tali disposizioni comportano provvedimenti nella realtà piuttosto severi, e sostanzialmente per noi incomprensibili, dal momento che colpiscono

anche opere onerose per l'editore e letterariamente non prive di ambizioni e di valore. Interessante ad esempio una delibera dell’I. R. Censura a firma del primo Censore [Bartolomeo] Zanatta, in cui in data 18 gennaio 1825 si respinge «l’Istanza del Negoziante Librajo Giuseppe Vallardi [...] colla quale chiede di poter accingersi alla ristampa di n. 6 volumi di novelle estratte dallo Spettatore, e dal Raccoglitore», novelle a opera di Davide Bertolotti:

e il «rapporto» «subordinato» a tale documento, a firma [Gaetano] Giudici (in data 21 gennaio 1825), dichiara che il Censore Nardini aveva «giustificato il suo voto per la esclusione

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che possono alternativamente assumere viraggi politici (di impianto legittimista, come è naturale)? ovvero, per l'ennesima volta, patetico-sentimentali ‘#. E se non è forse il caso di dilungarsi in analisi che ci porterebbero a sconfinare nella sfera della tematica vera e propria (mentre qui i contenuti ci interessano in quanto capaci di

costituire un tratto distintivo di genere), è nondimeno utile osservare che, su questa strada, la ballata finisce addirittura per mescolarsi - ennesimo imparentamento di cui dobbiamo prendere atto — con il genere dell’izz0 sacro, di tradizione inevitabilmente ‘manzoniana’. L'esempio più clamoroso, anche perché legato a un autore emessa», in conformità alla «dichiaraz. gov. di non permettere la stampa non solo de’ libri dannosi, ma ben anco degl’inutili e privi d'un merito intrinseco, nella quale categoria crede doversi inchiudere le novelle in disposto» (Archivio di Stato di Milano, Studi-Parte moderna,

cartella 226, n. 53, cc. 30, 31 e 32; sottolineatura nel testo). Ora, il dato forse per noi più interessante è che fra le novelle di Bertolotti dovevano probabilmente esserci alcune traduzioni di ballate britanniche entrate a far parte anche del Nove/liere e uscite appunto sullo «Spettatore». Questo confermerebbe il sospetto d’un atteggiamento censorio nei confronti della produzione ballatistica straniera maggiormente vicina a temi e modi del gotico e del romance. Cfr., qui sopra, la nota 3.

#3 Importanti le ballate tradotte dal tedesco, a partire non a caso dal primo Now ti scordar di me, 1832. Vi si veda [28-44] L'imperatore Massimiliano I sulla Martinswand o sia monte di S. Martino l’anno 1493, romanza di Heinrich Joseph von Collin (poeta viennese, nato nel 1772 e morto nel 1811), tradotta da Eduige de Scolari: è l’edificante racconto di una disavventura ‘escursionistica’ occorsa all’imperatore, infine posto in salvo da un angelo il quale ha assunto le sembianze d’un giovane valligiano. Cfr. inoltre, di Caroline Pichler (anche lei viennese: 1769-1844): La vendetta del Duca Alberto. Romanza, tradotta sempre da Scolari [Nor ti scordar di me, 1834, 91-7], che elogia la magnanimità dell’Asburgo di turno, Alberto II, il quale, pur avendo posto Basilea sotto assedio, decide tuttavia di graziarla e anzi di aiutarne la ricostruzione, quando vede la città distrutta dalla furia d’un terremoto. Notevole anche una poesia, ora italiana, sulla morte di Carlo 1 Stuart, cioè Carlo primo. Ballata

storica, di Pietro Molinelli [I/ Presagio, 1838, 153-60], dove il re poi decapitato ci viene mostrato nelle vesti d’un martire, perorante durante il processo la causa della pace e della concordia. E tuttavia la conclusione brilla per una morale affatto qualunquistica, intesa a difendere quieto vivere e oblio: «In memoria del giorno funesto [sce quello del supplizio] / Sacro rito ad ogni anno fu indetto, / Sacro rito, che tosto negletto / Disparia dall’immemore suol. // Perché un secolo spento consegna / A’ venturi il suo funebre ammanto? / Ad ognuno è già dato il suo pianto, / La sua messe ha già ognuno di duol.» 7 Vedi per esempio, nel Nor ti scordar di me, 1832, un testo assai curioso come La

fidanzata del navigante, di Achille Mauri [115-20]: dove ben 15 delle 24 strofe sono occupate dalla preghiera alla Vergine con cui una fidanzata afflitta per la lontananza dell’amato, imbarcatosi ormai da tempo, chiede intercessione presso Dio; e il raccontino si conclude con l'improvvisa comparsa in cielo della stella che propiziò l’amore dei due, a testimonianza della di lui fedeltà. Religione e amore (con una buona dose di orrore gotico) trionfano anche nel remake d’una storia ballatistica già narrata da Guerrazzi e Tedaldi-Fores (cfr., qui sopra, pp. 72-3), cioè Luca da Bologna. Leggenda, di A. C.[orbellini] [Nor ti scordar di me, 1835, 14551]; mentre nella «romanza» I/ campo santo, di Alessandro Venanzio [I/ presagio, 1838, 181],

una fanciulla muore di notte sulla tomba del giovane che tanto la aveva amata («E al ciel vélto lo sguardo pietoso / Pregar parve l’eterno riposo / A colui che la terra lasciò. — / In quell’atto soave, dolente / Fu trovata siccome dormente; — / Ned il sole mai più la destò»).

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istituzionalissimo e in odore di classicismo, è fornito da un paio di testi di Cesare Arici. Il quale infatti nel 1834 offre al riuso, borghese e popolareggiante insieme, di una strenna milanese una poesia «sacra» intitolata I/ rosario (e in quanto tale inserita entro una silloge appunto di Versi sacri)”: dove però anche il lettore più distratto riconosce agevolmente la filigrana del genere epico-lirico, qui evocato da una ricca peripezia leggendaria (ai tempi della guerra con-

tro i Turchi, la Madonna compare in sogno a una giovine cristiana

loro schiava, annunciandole una tempesta miracolosa che propizierà la sconfitta degli infedeli, poi puntualmente avvenuta). E l’imparentamento in oggetto può svilupparsi, sempre in Arici, in modi

decisamente imprevedibili e curiosi anche in una lirica come I Parganiotti, dove l’illustrazione in versi d’un quadro di Hayez espone l’autore all’inevitabile confronto con Berchet, con conseguente

omaggio alla «romanza» politica ”°. 2.4.2. Le strenne anni Trenta configurano dunque un orizzonte d’attesa molto ricco e variegato: un orizzonte talvolta bensì conservatore, quanto ai meri contenuti, ma nondimeno in grado di de-

clinare la ballata (ovvero la romanza) in un ampio numero di filiazioni secondarie, cioè, a ben vedere, di sottogereri. Questo quadro

è comunque destinato a esser messo in crisi a partire dall’inizio N

? La poesia compare nella strenna Mremète per l’anno 1834 [269-73]; ma in quello stesso anno era già stata inserita nei Versi sacri [47-9]. Fra le poesie di questa raccolta, vedi

almeno La conversione di San Paolo [68-72], il cui avvio propone un artificio — che definirei ‘focalizzazione esterna con interrogazione’ — ben caratteristico degli incipit del poema epicolirico italiano, il cui archetipo va certo individuato nell’avvio dei berchettiani Profughi di Parga («Chi è quel Greco che guarda e sospira, / La seduto nel basso del lido?» [2]): «Dove corre furiando / Di superbe ire briaco? / Arde l’elmo, stride il giaco, / Scosso ai fianchi esulta il brando; / E in balìa d’agil corsiero, / Venta all’aure ampio cimiero. // Come serpe, esterrefatto / Dall’arsura, erge le squame; / Come lupo a cui la fame / Persuade ogni misfatto; / Reca il ferro quel crudele / Sui redenti d'Israele». Sulla tecnica in questione, cfr. qui sotto, il cap. 4, pp. 159-62. 7 Il componimento, presente nel Now ti scordar di me, 1834 [181-4], mette appunto in luce soprattutto il lutto e le speranze di vendetta che turbano l’animo dei profughi di Parga: «Si pianga piuttosto, si noti l’addio / L'esilio de’ profughi dal suolo natio. / Composte sotterra le immagini sante, / Disfatto l’altare, scorato il sembiante: / Esempio del forte che

soffre, che tace, /Che d’alti giudizj sa farsi sua pace: / Dell’are l’afflitto ministro precede / La turba, che al noto suo cenno si crede; / Non ode più il veglio gli spasmi, le grida, / E al passo dell’onde tacendo le fida». Ristampato (con l'aggiunta del sottotitolo Quadro di Giuseppe [sic] Hayez. Ode) in C. A., Opere [11, 362-6]. Sul tema di questa poesia, cfr. A. Di Benedetto, Mozivi filellenici nella letteratura italiana del sec. XIX, in Id., Tra Sette e Ottocendi di letteratura e politica, Alessandria, Edizioni dell’orso, 1991, pp. 165-81, in partico176. are

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degli anni Quaranta. La ricchezza tematica della ballata, la sua capacità di contaminare altri generi, appaiono sempre più, agli occhi di molti autori e critici, viziati da eccessi di convenzionalità e di serialità; soprattutto il medievalismo dilagante, ridottosi con il tempo alla snocciolatura cerimoniale di pochissime invarianti topiche, suscita un numero sempre maggiore di risentimenti. Nel presentare la sua Luna del miele (1838), Dall’Ongaro era del resto stato esplicito, nel momento in cui aveva cercato di rivendicare alla lirica unutilità’ sociale tutta particolare; e non solo aveva ripetuto gli attacchi — ormai anch'essi di genere — contro pedanti e classicisti antiquari, ma aveva accomunato i loro gusti a quelli dei moderni, e altrettanto falsi, trovatori e menestrelli: Una troppo religiosa venerazione pei precedenti, l’imitare che fu e sarà sempre più facile che il creare, le grida dei pedanti e la falsa educazione che ci regalano, tutto ciò c’incatena per ordinario sulle orme degli altri per modo, che incapaci a sentire, o lenti a discernere la poesia della vita attuale, andiamo sovente a cercarla nelle cronache antiche e negli antichi

costumi. Così nacquero gli arcadi che per un secolo e più non sapevano celebrare che la vita pastorale e l'età dell’oro; così ne’ tempi nostri uno sciame di ministrelli e di trovatori trapiantarono e trapiantano il medio evo in mezzo al pacifico e poco cavalleresco ottocento. [La luna del miele

(1v)-(v)]. Nella pubblicistica di Dall’Ongaro simili affermazioni, intese a colpire l’«oggimai stucchevole medio evo»” di tanta produzione in versi contemporanea, corrono in parallelo da un lato alla rivalutazione dei canti popolari (in perfetta solidarietà con le scelte di Tommaseo, la pubblicazione dei cui Canti popolari ecc. è seguita con costante attenzione dalla triestina «Favilla»)?, e dall’altra —

come si è accennato — alla rivendicazione di un’intrinseca utilità della letteratura, anche di quella ‘leggera’ (noi diremmo di consumo)”?, in quanto rispondente a profonde esigenze sentimentali del pubblico soprattutto femminile 8°. Ma non sono posizioni condivise 7 F. Dall’Ongaro, Sulla poesia popolare dei popoli slavi, «La Favilla», v, 15, 12 aprile

1840, p. 115.

78 Nel corso del 1841, per esempio, sono infatti segnalati tutti i fascicoli che compongono l’opera di Tommaseo, a mano a mano che vedono la luce. 2 Cfr. l’articolo di Dall’Ongaro, Letteratura leggera, «La Favilla», vi, 13, 15 luglio 1842, pp. 209-14; ora ristampato in «La Favilla» (1836-1846), pagine scelte della rivista, a cura di G. Negrelli, Udine, Del Bianco, 1985, pp. 35-9. 80 Significativo, in particolare, il proemio Agli associati della Favilla, premesso all’ottava

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dal solo Dall’Ongaro*!. L’enfasi antimedievale conduce per esempio Antonio Berti, all'atto di presentare la sua raccolta di Canz: popolari, a tratteggiare la seguente immagine polemica del genere ballatistico, o comunque dei suoi temi più diffusi (con parole a tal punto sottoscritte da Dall’Ongaro, che potranno essere testualmente riprese sulla «Favilla»): Io stesso negli anni andati con altri molti levai la voce per predicare la necessità d’una poesia, che bandito l’oscuro pensiero salutato per sublime e la vana forma rettorica battezzata per ricca, assumesse più semplice

aspetto e diventasse retaggio di tutti, perfino della vulgare feminetta, cui se Iddio negava la spaziosa fronte e l’alto intelletto dei dotti concedeva cuore certo non meno suscettibile di affetti profondi. I ritorni del Crociato, i sottili amori della Dama e del Menestrello, le vendette del feroce

Barone, i rapimenti a piedi e a cavallo, gli scontri in campo chiuso ed aperto, a primo transito e a tutta oltranza erano fino d’allora propriamente esauriti; il medio evo intisichiva di giorno in giorno. [9-10]®?.

Ma c’è di più, a ben vedere. Poiché, lette dalla specola di queste annata della rivista (1, 15 gennaio 1843, pp. 1-4); vi si esprime, con ogni evidenza, non solo una precisa delimitazione di pubblico (borghesi indaffarati e donne appassionate, in sostanza), ma soprattutto la coscienza di fornire con la poesia uno strumento capace di rivelare contenuti di realtà scabrosi, pulsioni affettive normalmente censurate, tanto dall’ideologia quanto dalla prosa utilitaria e narrativa. «Pensiamo che una gran parte de’ nostri lettori sono gente data agli affari, sono gente che legge, più che ‘per altro, per cercare un leggero e facile alimento in qualche ora rubata ad occupazioni più serie, sono (se pure non siamo troppo arroganti nelle nostre supposizioni) sono le donne, che non domandano certo da noi né bullettini scientifici né studii sulla pubblica economia, ma qualche cosa che s’accordi colle loro amabili simpatie, che commuova soavemente i loro nobili affetti. Soddisfare a quest’uopo, non è la cosa più facile, né ci lusinghiamo d’esservi giunti, ma teneteci conto almeno della buona intenzione. Alle donne specialmente dedicammo la parte poetica del nostro giornale: le donne intendono la poesia più degli uomini, e mentre molti gravissimi personaggi pretendono di cantarne l’esequie, esse continuano ad apprezzarla e trovano in essa l’espressione dei loro affetti. D'altronde vi sono alcune dure verità che la prosa positiva non ardisce affrontare, e l’ispirato linguaggio poetico afferra di lancio e presenta all’intelletto obliquamente prendendo per interprete il cuore».

8! Tommaseo, per esempio, fin dal 1826 aveva espresso alcune perplessità circa il dilagare nelle ballate (ma non solo in quelle) della moda medievaleggiante, e in tal senso aveva mosso alcune esplicite obiezioni al sodale Biava, recensendone le prime Melodie: «La seconda ode, La Gelosia, è la descrizione d’un fatto vivissima sì; ma ci porta in un tempo che più non è, in un mondo che noi non veggiamo. E questo è il difetto di quasi tutte le Melodie dell’Anonimo nostro. Coloro che posero parte del romanticismo nella sposizione di pregiudicii dell’età più barbariche dopo Cristo, fecero alla causa loro gravissimo torto» (K. X. Y., Esperimento di Melodie liriche, «Antologia», xx1v, 71-72, novembre-dicembre 1826, p. 226 [e si noti l’incongruo ma sintomatico riferimento al genere dell’«ode»]). #2 La recensione di Dall’Ongaro, che appunto cita il passo in questione, uscì sulla «Favilla», vi, 3, 15 febbraio 1843, pp. 41-7.

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posizioni, le dichiarazioni fatte da Giovanni Prati nella poesia-manifesto Le due scuole assumono un significato e un valore tutt'altro che spregevoli. Un componimento come questo, tanto spesso accusato di genericità sulla base di un invito («Dal cor si favelli!») in effetti banale se isolato dal contesto delle antitesi che lo motivano, contiene un lucido catalogo dei temi che hanno contraddistinto la passata letteratura, e che l’arte del futuro deve rimettere in discussione. Non più, quindi, «i giullari dall’arpe festose / Che suonan le guerre, le corti amorose, / Le ardite gualdane, la dama fedel»; non più il berchettiano «figlio di Parga che, volta la fronte, /

Con lunga mestizia riguarda dal monte / Dei persi terreni l’estremo confin»; e nemmeno l’ossianica e montiana «Malvina pietosa che medita e piange / De’ celti fratelli la spenta falange, / E canta sull’urne la bella canzon»: ma una poesia più realistica in cui il poeta «Negli occhi alla donna tremando s’affisa / E vinta la febbre dei compri sorrisi, / Circonda la lira di nuova virtù», cioè — se non mi sbaglio — è capace di confrontarsi anche con temi bassi (come

quello della prostituzione) per riuscire però a sublimarli nell’ambito di più forti valori (e l’obiettivo è «del vero la eterna città» — affer-

merà l’autore pochi versi dopo). Un nuovo sistema di intenzioni poetiche sconvolge insomma il panorama della produzione ballatistica, tra la fine degli anni Trenta

e l’inizio dei Quaranta. E davvero poco importa se proprio Prati, e proprio nel settore della ballata (del tutto diverso, come è noto, è il discorso relativo a quel piccolo capolavoro del realismo in versi fornito dall’Edmenegarda), in parte tradirà tali programmi fornendo non pochi testi in cui la ‘fantasia’ di genere fa aggio sulla probità del cuore, e le risorse sapienti dello stile continuano a mettere in scena le vecchie trame del racconto gotico. La tensione che agisce all’interno del sistema letterario spinge verso un’altra direzione, propizia una rappresentazione realistica in cui la verosimiglianza tragga forza dalla riconoscibilità empatica dei desideri e degli affetti. E se Tommaseo preferisce attingere al pattern lungo (o mediolungo) del poemetto narrativo in ottave, Dall’Ongaro, confidando 8 Comparso nel 1839 in Per nozze Cittadella-Papafava [7-12], viene in seguito raccolto a mo’ di prefazione nel volume dei Canti lirici... [1, 3-10] (donde traggo le citazioni); cfr. poi Opere edite e inedite [1, 81-5]. # Il saggio introduttivo di A. Balduino all’edizione 1990 della Contessa Matilde... [13-4]

sottolinea la capacità tommaseana di «rinnovare o addirittura scardinare il genere dall'interno. [...] Dallo stesso Medioevo, nel quale pure si aggira con La contessa Matilde e Una serva, falso

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che il dominio della «ballata» («nome assai largo e indeterminato», come egli stesso dichiara) gli consenta un ampio margine di libertà creativa, si rivolge a temi scabrosi come quello della prostituzione, alle tradizioni popolari di risonanza più attuale, e anche agli avvenimenti della cronaca, ai fasts divers dei giornali*. E su questa strada sarà seguito da altri poeti attivi in area triestina, che infatti dalle pagine della Strenza edita in quella città propongono ballate intorno a casi lacrimosissimi, e tuttavia autentici. Le ragioni prosa-

stiche che accompagnano tali componimenti si preoccupano di sottolineare costantemente proprio la verità dei referti, appoggiandosi, se del caso, pure alla testimonianza viva dell’autore («Non ha molto che alcuni giornali narrarono [...]», «Del pietoso avvenimen-

to narrato in questi versi avrò detto tutto, quando avrò detto, che

è vero fin quasi nelle più minute circostanze. Io stesso ne conobbi

in Trieste il protagonista [...]»)®.

L’aspirazione realistica si è dunque pienamente dispiegata, almeno nei programmi. Alla vigilia del 1848 il nostro genere assume una fisionomia radicalmente diversa rispetto al paradigma biirgeriano e goticheggiante da cui aveva preso le mosse. Dal fantastico degli esordi alla nuda e lacrimosa realtà degli estremi approdi, il passo è stato in effetti lungo. La ballata romantica, ora, si propone come forma ‘leggera’ ma contemporaneamente ‘utile’, parte integrante d’un sistema di produzioni rivolte al popolo. gotico e altri orpelli di consunta oleografia scottiana appaiono felicemente emarginati». 5 Cfr. la recensione di Dall’Ongaro al volume Merzorie e Fantasie di Gazzoletti, uscita sulla «Favilla», vit, 4, 28 febbraio 1842, pp. 56-8; la citazione alla p. 57. Il contesto è il seguente: «Poniamo fra le Ballate, nome assai largo e indeterminato, la Visione del Poeta,

ultimo componimento del volumetto, e per mia opinione, il più originale e il più bello». Val forse la pena notare che questa poesia in effetti curiosa (una prosopopea fantastica, dove tra l’altro succede che la biblioteca del poeta si trasformi in un organo e gli rimproveri ironicamente l’inutilità della sua ‘missione’) verrà ristampato con il titolo Visione d’Alberto nell’edizione lemonnieriana delle Poesie [121-7], entro una sezione di Racconti in cui figurano anche alcune delle più note ballate di Gazzoletti, come per esempio Paolo dal liuto [59-65]. # Di Dall’Ongaro è sufficiente ricordare due «grandi ballate», giustamente valorizzate da Baldacci, come Poveri fiori, poveri cuori (1841) [Fantasie drammatiche e liriche, 149-595] e La perla nelle macerie (1843) [ivi, 173-82]; in esse, secondo il critico, Dall’Ongaro «ha una maniera tutta sua di essere poeta popolare: quella cioè di commuoversi per primo a una

materia che era restata fino ad allora oltre i limiti della retorica ufficiale, ivi compresa quella

romantica, perché prima di tutto oltre i limiti consentiti dalla società borghese; e tutto ciò

con unanaturalistica (20412 lettre) assenza di veli e una crudezza di denuncia che ci sembrano quasi inconcepibili a quel tempo» [Poeti mzinori dell'Ottocento, 1, x1x].

# La prima citazione è tratta da una nota a Ada. Ballata, di A. Somma [Strenna triestina,

1841, 127, nota (127-38)]; la seconda da A. Gazzoletti, Adele. Ballata [Strenna triestina per

l’anno 1842, 63, nota (57-63)], componimento poi non inserito nel volume delle Poesie.

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3.

OLTRE TIDILLIO, LA MITOPOIESI DEL CONFLITTO

3.I.

RICOSTITUIRE

LE «PASSIONI»

3.1.1. La ‘prima’ ballata inglese tradotta in lingua italiana, l[Edevino] di Goldsmith, esce negli stessi mesi — siamo tra la fine del 1809 e il marzo 1810! — in cui Claude Fauriel rende note le proprie idee in merito alla letteratura idillica. La polemica anticlassicistica impostata dal signor Burchell del Vicario di Wakefield si affianca dunque alla più importante sintesi teorica sui generi letterari pubblicata in àmbito non tedesco nel primo ventennio dell’Ottocento. Forse non è unicamente un caso. Come è stato efficace-

mente argomentato”, Fauriel si ricollega, nelle proprie Réflexions, alla teoresi schilleriana di Uber naive und sentimentalische Dichtung, ove l’idillio è trattato non solo come un modo artistico di rappresentare la realtà (alla stregua cioè di qualsiasi altro genere letterario), ma come condizione o stato di vita ideali «cui la cultura

mira, quando abbia una determinata tendenza come suo fine ulti-

! Per quanto riguarda la data d’uscita del Curato di Wakefield (fine 1809-inizi 1810), cfr. qui sopra il cap. 2, p. 47, nota 2; per la Parthénéide (stampata non oltre l’aprile 1810), cfr. quanto scrive C. Arieti nelle note a A. Manzoni, Lettere (Tutte le opere, vi), Milano, A. Mondadori, 1970, vol. 1, p. 762. 2 Cfr. soprattutto: C. Varese, La situazione politico-sociale dell’idillio europeo e il Manzoniî, «La rassegna della letteratura italiana», LxxvI, 1, gennaio-aprile 1972, pp. 3-16; F. Forti, Manzoni e il rifiuto dell’idillio, in Id., Lo stile della meditazione. Dante, Muratori, Manzoni, Bologna, Zanichelli, 1981, pp. 160-88, in particolare 160-2; D. Isella, L’idi/lio di Meulan, in Id., L'idillio di Meulan. Da Manzoni a Sereni, Torino, Einaudi, 1994, pp. 5-34; e vedi qui sotto le note 6 e 10.

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NORDICHE

SUPERSTIZIONI

mo»?. La fortuna primottocentesca dell’idillio (fortuna per molti aspetti discutibile, giacché instaura un rapporto ambiguo, arbitrario e in definitiva anticlassico, con i propri modelli antichi)‘, dipende certamente dalla capacità, propria di quel genere, di spalancare scenari affatto utopici, in senso innanzi tutto sociale: e quindi di mostrare — nella prospettiva di Schiller e di Fauriel — la realizzabilità pratica, in singoli e riconoscibili casi, delle nostre speranze in un mondo pacificato, in una fuoruscita dai conflitti con cui siamo condannati tuttodì a confrontarci’. Nessuno, o quasi, di questi concetti penetra nella cultura letteraria italiana coeva, per lo meno in quella di maggior spessore artistico. Esperienza «insipide sans variété, sans intérèt, sans vraisem-

blance»: il genere dell’idillio suscita in Manzoni (siamo nel febbraio 1811)% una reazione insolitamente vivace, quasi scomposta, tanto

più rimarchevole — mi sembra — in quanto per molti anni l’allievo di Fauriel ha cercato (e cercherà) di adeguarsi alle indicazioni del maestro, di condividerne in particolare la predilezione per l'estrema metamorfosi di quella tradizione, costituita dalla Parthendis del danese Jens Baggesen. Non è del resto in gioco una mera questione estetica, ci insegna Manzoni (siamo nel frattempo giunti al 181617), poiché chi rappresenta l’umanità in una condizione di «quiete morale» di fatto mente, compie un’infrazione al principio della ‘verosimiglianza’: :

? Cito dalla traduzione di C. Baseggio del 1951, ripresa in: F. Schiller, Sulla poesia ingenua e sentimentale, introduzione di L. Mancinelli, Milano, EA, 1993, p. 93.

4 Nell’idillio infatti, non diversamente da quanto avviene nella poesia ossianica, convivono la nostalgia per l’antichità (teocritea da un lato, omerica dall’altro), nonché il bisogno di reinventare quelle stesse tradizioni, e quindi — in senso lato — di falsificarle. Non per caso, i testi paradigmatici delle voghe ossianica e idillica (gli Ossian poerzs e i gessneriani Idyllen) hanno come propri modelli primari opere in cui si fa uso d’una forma programmaticamente ancipite, anticlassica quasi per definizione e anzi ‘sperimentale’: penso ovviamente alla prosa «poetica», al verso meramente alluso, vero e proprio incunabolo della moderna poesia în prosa. ? «All’uomo, dunque, che vive nella cultura, importa infinitamente di ottenere una conferma sensibile dell’attuabilità di quella [id est l’idillica] idea nel mondo, della possibile realtà di quello stato; e poiché l’esperienza reale, ben lontana dal nutrire questa fede, vi si oppone piuttosto costantemente, anche qui, come in tanti altri casi, la facoltà poetica viene in aiuto della ragione, per rendere evidente quella idea e realizzarla in un caso singolo» (F. Schiller, Su//a poesia ingenua e sentimentale cit., p. 93). * Della lettera a Fauriel appunto del febbraio 1811 cfr. ora l'edizione critica curata da I. Botta (Note preliminari all'edizione e al commento del carteggio Manzoni-Fauriel, «Rivista di letteratura italiana», x11, 1, 1994 [ma ottobre 1995], pp. 129-55; la citazione a p. 152), che ricostruisce anche la complessa trafila delle idee manzoniane intorno all’idillio.

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OLTRE

L’IDILLIO.

LA MITOPOIESI

DEL

CONFLITTO

Ogni finzione che mostri l’uomo in riposo morale, è dissimile dal vero. Essa tende a confermarci nel costume che abbiamo pur troppo di dedurre una falsa conseguenza da un fatto pur troppo reale; cioè dal non esser noi ir [dedurre] che altri in circostanze diverse dalle nostre, possano esserlo

Né a pensarla così è il solo Manzoni insieme peraltro ai sodali (in primzis Ermes Visconti)* del gruppo romantico milanese; se in effetti è vero che, una decina abbondante d’anni dopo quell'esplicita presa di distanza, lo stesso appassionato traduttore degli idilli di Mosco, nonché autore — e soprattutto— degli idilli forse più importanti di tutta la letteratura europea, esprimerà una serie di riserve piuttosto gravi sulla medesima materia. La pagina leopardiana, coeva alle prese di posizione diVisconti, merita di esser citata per esteso: Che vuol dire che l’uomo ama tanto l’imitazione e l’espressione ec. delle passioni? e più delle più vive? e più l'imitazione la più viva ed efficace? Laonde o pittura, o scultura, o poesia, ec. per bella, efficace, elegante, e pienissimamente imitativa ch’ella sia, se non esprime passione, se non ha per soggetto veruna passione, (o solamente qualcuna troppo poco viva) è sempre posposta a quelle che l’esprimono, ancorché con minor perfezione nel loro soggetto. E le arti che non possono esprimere passione, come l’architettura, sono tenute le infime fra le belle, e le meno

dilettevoli. E la drammatica e la lirica son tenute tra le prime per la ragione contraria. Che vuol dir ciò? non è dunque la sola verità dell’imitazione, né la sola bellezza e dei soggetti, e di essa, che l’uomo desidera, ma la

? A. Manzoni, Materiali estetici, in Id., Scritti letterari (Tutte le opere, vm), a cura di C. Riccardi e B. Travi, Milano, A. Mondadori, 1991, pp. 48-9. Cfr. F. Forti, Manzoni e il rifiuto

dell’idillio cit., p. 164; I. Botta, Note preliminari cit., pp. 141-2. 8 Il quale Visconti intorno al 1821 bandirà l’idillio dal sistema dei generi letterari tratteggiato nelle Ri/lessioni sul bello e su alcuni rapporti di esso colla ragionevolezza, colla morale e colla presente civilizzazione europea. Qui, discutendo «Di alcune forme di poesia meno

acconce alla presente civilizzazione» (Parte v, cap. quarto), dichiarerà: «Un altro ideale ancora

più monotono si è quello che serve di base alla poesia pastorale. Però gli artisti ora viventi non sono gran fatto vogliosi di verseggiare egloghe ed idillî. Fra le molte altre ragioni cospiranti a distoglierli ne accenneremo una sola, meno avvertita. Nell’era intellettuale adesso corrente, predomina il desiderio di propagare la civilizzazione, di educare ipopoli; sperandosi da noi la felicità umana dal concorso, quanto più si possa generale, di cognizioni e di volontà governate dalla conoscenza del meglio. Popolo idiota, suona ai nostri orecchi popolo infelice, e cagione soventi volte d’infelicità a’ suoi vicini. Tanto siamo lontani dal vagheggiare l'ipotesi d’un possibile Secol d’Oro d’ignoranza campestre» (cito dall'edizione critica a cura di A.M. Mutterle, Saggi sul bello, sulla poesia e sullo stile. Redazioni inedite 1819-1822. Edizioni a stampa 1833-1838, Roma-Bari, Laterza, 1979, pp. 209-10).

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forza, l'energia, che lo metta in attività, e lo faccia sentire gagliardamente. L’uomo odia l’inattività, e di questa vuol esser liberato dalle arti belle. Però le pitture di paesi, gl’idilli ec. ec. saranno sempre d’assai poco effetto; e così anche le pitture di pastorelle, di scherzi ec. di esseri insomma senza passione: e lo stesso dico della scrittura, della scultura, e proporzionatamente della musica?.

La «passione», dunque, non può venir bandita impunemente dalla rappresentazione artistica, pena una caduta d’interesse presso il pubblico: il quale infatti, sensisticamente, ha bisogno del sublime per riuscire a distaccarsi dalla propria «inattività» (sia pratica sia morale). Di qui, come è noto, la necessità per Leopardi di innovare radicalmente l’idillio, trasformandolo in un genere lirico ‘puro’ del tutto separato dai recenti usi «narrativi» (0, meglio, epico-lirici) che avevano incontrato tanta fortuna nella tradizione, non solo italiana,

sette-ottocentesca. 3.1.2. Tanto, per il momento, può forse bastare. Sia Manzoni sia

Leopardi — per ragioni almeno in parte coincidenti — liquidano un’esperienza di grande fortuna europea, di cui faticano a condividere appieno i contenuti in senso lato utopici, la capacità di sublimare le tensioni della società contemporanea, di prospettare una dimensione esistenziale avvenire differente da quella odierna. Per entrambi l’idillio è da respingersi pèrché prospetta una falsa (cioè ideologica) condizione di quiete, un equilibrio esistenziale moralmente o esteticamente inaccettabile. E tuttavia vero che, sullo sfondo della «sostanziale sfortuna»

dell’idillio «nella cultura italiana di primo Ottocento»'°, non solo agiscono momenti di intenso dibattito teorico, ma una produzione — di tono minore, quando non minimo — ha continuato per un certo tempo a circolare, indipendentemente da traduzioni e adattamenti dagli autori, classici e moderni, di maggior valore (da Teocrito a Gessner a Goethe, voglio dire), e indipendentemente dal magistero

altissimo e però tanto più inascoltato di Leopardi. Anche dopo quel cruciale 1809-1810 cui sopra si accennava, ? G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, 2361-2, edizione critica annotata a cura di G.

Pacella, Milano, Garzanti, 1991, vol. 11, p. 1283.

10 W. Spaggiari, Giuseppe Taverna e la tradizione dell’idillio, in Id., La favolosa età dei

patriarchi. Percorsi del classicismo da Metastasio a Carducci, Roma, Archivio Guido Izzi, 1996,

p. 132 (pp. 103-67).

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idillio e ballata hanno a lungo perseguito logiche a un tempo simili e opposte. Intanto, abbiamo già osservato che il Visconti più maturo, con l’obiettivo di fondare una specie moderna di idillio — quello che egli chiama idillio ascetico —, fa esplicitamente riferimento sia alla britannica ballad sia allo spagnolo rorzance, in quanto forme capaci di propiziare «narrazioni senza intreccio, e quasi senza avvenimenti», cui «serviranno la prosa e il verso: uno stile pianissimo, come d’egloga [...]; altre volte, una dicitura vibrata, quasi

da ode» !!: capaci di preludere, insomma, a un genere caratterizzato da una pronuncia né troppo tesa né rilevata drammaticamente, in perfetta omologia a una tematica priva di conflitti, di peripezie davvero rilevanti. Ancor più sintomatica, nella nostra prospettiva, è la consapevolezza operativa esibita da un autore di ballate per noi centralissimo come Carrer, e proprio nel periodo — la prima metà degli anni Trenta — ‘in cui Visconti mette a punto la sua teoria. Nel «Gondoliere» del 30 luglio 1834, Carrer presenta ai suoi lettori un racconto in prosa, La sconosciuta, sottotitolato esplicitamente Idilio,

accompagnandolo con alcune brevi note. E la storia di una purissima giovane ventenne la cui «vita fu senza avventure» [242], e che però, rimasta orfana della madre, va incontro a un malinconico

destino di morte. Lo stesso Carrer, inoltre, ospita nell’àmbito della sua opera in versi una sezione di Idillii distinta da quella delle Ballate [Poesie edite ed inedite, 299-356]: in questo contesto, appunto acquisita la forma del verso (vale a dire la forma dell’endecasillabo sciolto), rinveniamo trame affatto statiche, piatte, prive di

colpi di scena, in cui anzi si mira a riassorbire, a far rientrare nella quiete d’una stasi gli eventi che avrebbero potuto turbare l’assetto di valori inizialmente prospettato. E così, per esempio (lasciando da parte i più scontati idilli biblici)!, un componimento come Voti e consigli [ivi, 335-42] mette in scena la rinuncia di un giovane a entrare nel mondo, a ricercare l’avventura, e quindi la sua confermata disponibilità a vivere con il padre vedovo un'esistenza appartata e spoglia di accadimenti drammatici; oppure Due primavere [ivi, 343-51] ci racconta come Luigia, anch’essa legata a un padre lt E. Visconti, Pier Luigi [130-1]. 12 Vale a dire: I primi esuli, L'arcobaleno, Agar, Abigaille [ivi, 301-7, 308-13, 314-21,

322-9]; cui si può aggiungere quella sorta di epistola morale appunto in versi che è Le stagioni cristiane Livi, 330-4]).

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vedovo che ha scelto la vita dei campi, riesce infine a sposare il giovane di cui s'è innamorata, e il cui affetto viceversa credeva d’aver perduto. "0 Trasparente allegoria della società nata con il congresso di Vienna, o, meglio, allegoria dell’incapacità di operare una compiuta «sconsacrazione del mondo dei padri», di vivere cioè fino in fondo il trauma della restaurazione, la forma dell’idillio privilegiata dagli autori del romanticismo italiano permette al letterato una rielaborazione del lutto ben ideologica, tramata di mitologie compensatorie. L’utopismo schilleriano e faurieliano viene in sostanza rifiutato; il conflitto è accuratamente rimosso, respinto in un passato

ormai superato. E le nuove generazioni possono apprendere dalle precedenti solo una morale quietistica, paga delle loro rinunce e delle /oro certezze, in quanto spossessata della propria capacità di scelta. L’omologazione è dunque pressoché totale. Ogni spessore storico viene abolito, o rappresenta un mero sfondo, uno scenario convenzionale da cui ci si è per sempre separati, dal momento che a dominare, ormai, è una sorta di eterno presente, la pace d’un

cronotopo ciclico, in sé compiuto, dimentico di ogni rapporto con le origini. 3.1.3. In termini molto generali ma contenutisticamente a mio avviso decisivi, la ballata romantica italiana comincia proprio con (più esattamente: in parallelo a) la crisi del modello idillico, di cui erode le presupposizioni ideali e ideologiche: tanto quelle utopiche di origine franco-tedesca, quanto quelle mistificatorie connesse all’esperienza italiana della restaurazione; ma di cui tiene in vita la tensione contenutistica ai valori primari della società — l’amore di coppia, la famiglia, il dovere, il potere pubblico ecc. Una convinzione di questo genere, peraltro esposta in maniera dialettica e sofferta, tale certo da non facilitarne la comprensione‘, L. Derla, Introduzione. Dialettica della Restaurazione, in Id., Letteratura e politica tra la Restaurazione e l'Unità, Milano, Vita e Pensiero, 1977, p. 20.

! Colpisce per esempio che un attento recensore della Giornata di studi su Giuseppe Taverna dichiari che questi sia stato «messo all'indice dal Rosmini» nel suo lavoro sull’idillio (cfr. lo scritto di D. Tongiorgi, «Giornale storico della letteratura italiana», 558, CLXXII, 1995,

p. 305 [300-5]); e che lo stesso intervento di Spaggiari, Giuseppe Taverna cit. (cfr. pp. 1413) giunga di fatto alle medesime conclusioni. È vero bensì che Rosmini obietta a Taverna una scarsa attenzione alle verità rivelate: ma non si tratta d’un atteggiamento unicamente censo-

rio, bensì — a ben vedere — del tentativo di spostare il genere dell’idillio, insieme a tutta la produzione letteraria coeva, in una direzione che senza esitazioni oggi possiamo definire

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viene elaborata intorno al 1825 da Antonio Rosmini. Nel suo Su l’idillio e sulla nuova letteratura italiana, utilizzando argomentazioni che non sono prive di tangenze manzoniane, egli si impegna a propiziare quasi un terza via all’idillio: né utopistica né regressiva, ma fondata sul vero e sul verisimile, capace di mediare tra l’idealismo dei classicisti e il realismo dei romantici, e comunque attenta a sottolineare la superiorità della civiltà contemporanea, in cui la parola di Cristo s'è pienamente manifestata e ha dato un nuovo senso alla prassi letteraria tutta. Dichiara infatti Rosmini: [...] parmi [...] che quella poesia [scz/ l’idillica] la quale cantando l’umana felicità, non obliasse né la natura dell’uomo, né la condizione della felicità perfetta a cui aspira tale natura, né il mezzo onde l’uomo può ottenerla,

sarebbe la sola poesia degna de’ nostri tempi!°.

E anche, e forse soprattutto, intorno a questi temi peculiari che si esercita la spaccatura decisiva tra i due generi. Taluni contenuti narrativi della ballata ne sono le spie più evidenti e probanti, nella misura in cui ogni visione attuale e positiva della felicità e dell'equilibrio è da essi bandita. Non diversamente da quanto avviene per i romanzieri della restaurazione, anche per gli autori del genere epico-lirico l’opera letteraria dovrà «rispecchiare la discontinuità della contingenza e l’assenza di armonia fra la ‘cattiva infinità’ dell’io e il suo ‘esteriorizzarsi’ nell’azione»!”; dovrà render conto della

scissione soggetto-oggetto che inevitabilmente trionfa entro un mondo desublimato, e motore d’ogni borghese desublimazione. Prendiamo a esempio, intanto, il nodale [Edevino]. La sua trama

evoca il tema tipicamente ancipite dell’ererzita (peraltro diffuso nella letteratura romantica italiana, soprattutto — credo — per influsso di Rousseau e Chateaubriand e per il noto episodio di Ivanhoe)!8. L’eremita, in questo caso, è allegoria dell’uomo civilizzato «manzoniana». Non dimentichiamo che, per esempio, il ‘realista’ Rosmini rivendica la possibilità di individuare attraverso l’uso della «morale» «de’ beni ne’ mali, della bellezza nella deformità, e del sublime nelle privazioni». Cfr. A. Rosmini, Sull’idillio e sulla nuova letteratura italiana, a cura di P.P. Ottonello, Milano, Guerini e associati, 1994 (riproduce le pp. 301-406 di A. R., Opuscoli filosofici. Milano, Pogliani, 1827, vol. n), p. 117. 5 Per la cronologia di Sull’idillio, cfr. l’Introduzione di Ottonello all’ed. cit., p. 14. 16 A. Rosmini, Sull’idillio, ed. 1994 cit., p. 60. 17 S. Calabrese, Intrecci italiani. Una teoria e una storia del romanzo (1750-1900), Bolo-

gna, il Mulino, 1995, p. 111. 18 La figura dell’eremita è caratteristica soprattutto della novella in versi italiana: si pensi al ruolo, positivo, svolto da un anziano frate solitario nel secondo canto della Pia di Sestini;

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che sceglie l'isolamento in seguito a una delusione amorosa, ma

concepisce il proprio esilio in modo nient’affatto definitivo, rendendosi anzi disponibile a un pronto smascheramento dei propri più autentici legami; e dunque sfrutta ai propri fini, e addirittura in qualche modo contarzina, la separatezza della campagna, cioè della realtà primaria che materialisticamente presiede ai precari equilibri del décor idillico. Assai sintomatico è, inoltre, il contesto in cui ricorre uno dei più

antichi documenti italiani del nostro genere, cioè la più volte ricordata «canzone» di Sofia, esemplata sull’episodio della Maria sterniano-foscoliana. De Cristoforis, nel racconto che nel 1821 appunto contorna il testo [L'orfana di Pusiano], dichiara che la protagonista è figlia d’un ufficiale napoleonico, il quale aveva affidato la bambina a una donna di Pusiano e poi era scomparso. Tutti i requisiti, dunque, d’una rezraîte idillica: che comunque viene puntualmente messa in crisi e infine distrutta dall'amore fedifrago d’un Alessandro G..., conte, e per di più cittadino milanese. Il legame dei cuori, la fede che unisce l’uomo alla donna, è al centro della trama; la sua

rottura propizia l’esistenza del novissimo genere, ne fonda il contenuto arti-idillico. Nessun rifugio edenico è possibile, nessun definitivo superamento ovvero cancellazione del passato; il contrasto è ancora qui, e anzi più esattamente riforza dal mondo cittadino. Le trame ballatistiche, insomma, sono contraddistinte dalla te-

matizzazione d’un conflitto, dalla rottura d’un legame convenzionale fra soggetti (individuali o storici, poco importa), e dalla conseguente possibilità di reagire alle forme di ingiustizia così instaurate. Dico «possibilità», eventualità, perché mi pare fondamentale, ai fini

delle motivazioni ballatistiche, che questa seconda soluzione — rappresentata, come vedremo, soprattutto dalla vendetta — possa anche non verificarsi, ovvero si realizzi in modo affatto discontinuo. La ballata mostra cioè spesso un sensibile distacco dal tema della giustizia e della provvidenza — in quanto valori positivamente realizzati —, poiché vuole enfatizzare al massimo le contraddizioni d’un mondo attraversato da un disordine all’apparenza insuperabile. Una soluzione equilibratrice è sempre prospettata, ma non riesce quasi mai a risolvere le perturbazioni introdotte nella realtà dagli e, viceversa, alla funzione negativa e tuttavia narrativamente nodale assolta sempre da un vecchio eremita (che poi si rivela essere un capo-brigante, padre del protagonista) nel Valentino di Vincenzo Padula. Ma vedi anche, qui sotto, all'altezza della nota 59.

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agenti che hanno rotto il patto, la fides fondanti, i presupposti stessi di ogni accordo privato e sociale. Assai sintomatico, in questo senso, è che siano del tutto assenti

dalla tradizione ballatistica italiana trame edificanti (secondo un’accezione, per intenderci, deamicisiana) connesse a sacrifici lacrimosi

di giovani, a salvataggi di persone in pericolo, e simili, che peraltro non mancavano né nelle ballate germaniche di impostazione più moderata!, né — quanto alla tradizione novellistica italiana — nelle opere morali di padre Soave?°. La produzione epico-lirica nostrana ha meno a che fare con la giustizia premiata che non con l’ingiustizia punita, e, pur perseguendo finalità esemplarmente morali, mette innanzi tutto a fuoco la rottura patetica d’uno stato.

3.2.

«GAR

TREU

BIS AN

DAS

GRAB»:

UN

LEGAME

SEMPRE

PRECARIO

3.2.1. Il tema più spesso trattato dai ballatisti italiani è sicuramente quello dell’azzore uomo-donna, del quale sono rappresentate soprattutto le insidie, i contrasti che possono danneggiarlo, minandone la possibile realizzazione positiva — siano essi contrasti interni alla coppia (vedi i paragrafi dal 3.2.1.1 al 3.2.1.5) siano essi contrasti esterni alla coppia stessa (cfr. 3.2.1.6 e 3.2.1.7). Nel primo caso abbiamo dunque il tema del tradimento, che per lo più va incontro a due diversi e anzi opposti trattamenti, secondo che a subire il danno sia una donna, la quale di solito non si vendica (3.2.1.1),

oppure sia un uomo, il quale invece di solito si vendica (3.2.1.2); e a sostenere la vendetta appunto maschile può anche contribuire (3.2.1.3) la giustizia divina. Più marginali sono due altri temi, comunque ben significativi: quello (3.2.1.4) della vendetta femminile, e quello (3.2.1.5) della donna colpevole punita dal mero destino, e perciò alonata di un’aura patetica. Quanto agli eventi esterni che distruggono l’amore, domina il motivo dell’amore-destino, il trionfo

cioè d’un fato inesplicabile e tanto più crudele (3.2.1.6), anche perché (3.2.1.7) sono talvolta gli stessi emblemi dello sfondo idillico a entrare in gioco quali agenti distruttivi. !9 Ho presenti, ad esempio, un componimento di Birger come La canzone del brav'uomo, che racconta dell’eroico (e reale) salvataggio del custode di un ponte sull’Adige; oppure le ballate di contenuto encomiastico, filo-asburgico, a opera di Collin e Pichler, pubblicate

sulle strenne milanesi dopo il 1831 (su cui cfr., qui sopra, cap. 2, nota 73). 20 Cfr. F. Tancini, Novellieri settentrionali cit. (qui sopra, cap. 2, nota 40), pp. 68-117.

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3.2.1.1. Piuttosto frequente, specie negli esemplari meno re-

centi, è soprattutto il caso della giovane, anche nobile, abbandona-

ta senza altra ragione nota che non sia il capriccio degli istinti: una situazione ben presente nelle Melodie liriche di Biava, sia nell’Ab-

bandono (dove Giustina ode l’amato, un marinaio, intonare un «sacrilego» canto di volubilità [Esperizzento, 86-92]), sia in Lucia

de’ castellani di Pizzino (la protagonista, appunto nobile, si vede salutare con freddezza dal fidanzato che parte, e ne trae il certo auspicio d’un futuro abbandono [ivi, 99-102]). Analogamente, anche se con sfumature più ambigue connesse però soltanto al nome della protagonista?!, nella carreriana Glicera [Ballate, 59-62] la protagonista lamenta in prima persona l’infedeltà di lui, e anticipa la propria morte quale ineluttabile conseguenza dell’avvenuto tradimento. Significativamente, gli intrecci più elementari di quest’ultimo tipo si vanno facendo con gli anni assai rari: e non solo perché la loro esilità li pone ai limiti del genere epico-lirico, in virtù appunto del ridottissimo tasso di narratività da essi documentato; ma so-

prattutto perché alcuni autori approfondiscono il tema polemico antinobiliare già evidente nella prosa (non però, si badi, nei versi) di De Cristoforis. Importante è il tipo di soluzione messo in opera da Antonio Berti in Lodovica [Canti popolari, 47-52], di cui è protagonista una popolana, sedotta da un nobile, abbandonata con un figlio e infine destinata a morte prematura, che viene commiserata e giustificata da un narratore in grado di cogliere le cause del suo errato agire (ad esempio il suo essere orfana in una società ostile: «Orfanella tra una gente / Al ben far sempre nemica / V’avea speme che innocente / Si serbasse Lodovica? / Del bel fiore impura voglia / D’un barone il cor pungea. / Poveretta! ora pro ea»). Attenuanti, queste, che viceversa Fusinato non sembra disposto a concedere alla «povera» Lena protagonista di Un fallo [Poesie, n, 33-

9], poesia strettamente connessa alla precedente per trama e scelte elocutive (basti pensare all’uso ritornellante, in un paio di strofe, dell’antifona «Ora pro ea»), ma appunto assai più risoluta nello stigmatizzare il peccato della giovane, che solo la conclusiva morte 2! Afferma infatti Baldacci [Poeti minori dell'Ottocento, 1, 197, nota] che la protagonista, «dal nome classico di etèra, incarna il tipo della cortigiana redenta e redentrice»: ma nulla

all’interno del testo ribadisce tale connotazione, ché anzi la figura di Glicera appare affatto pura, emblema della fedeltà incrollabile.

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— e poco importa se, di fatto, trattasi d’un suicidio — potrà compiutamente riscattare. Un’interessante e inquietante? variazione intorno al tema della donna languente in seguito a tradimento ci viene infine offerto da Maffei, che nell’Incubo [Versi editi ed inediti, 1, 278-9] presenta

«Livia tradita dal franco Roberto», inferma a letto, ma poi posseduta quasi fisicamente dal fantasma dell’amato che la notte la viene a trovare («Dal rosso mantello quel fiero si svolge: / La misera abbranca, la preme l’avvolge / Qual serpe che torca la coda spiral. // Un senso improvviso d’acuto diletto / L’orribile amplesso le desta nel petto, / Le irrita le fibre di gioia infernal»), lasciandola quindi, seppur viva, ormai definitivamente scissa da se stessa («Direi che lo spirto per sempre è diviso; / Ma viva la mostra quel grave anelar»). 3.2.1.2. Finora abbiamo osservato esempi di tradimento solo maschile; ed è in effetti assai arduo additare casi d’un’infedeltà

femminile che l’uomo abbia rinunciato a vendicare? (ivi comprese le situazioni — che tra poco esamineremo — in cui l’intervento divino abbia garantito un valido soccorso in tal senso). Gli esempi più importanti di dolore maschile immedicabile, infatti, o si legano a contesti più strettamente lirici (sintomatiche le Ore di vita di Cabianca, o una poesia come I/ lamento di Carrer [Ballate, 121-3]),

oppure — e anche su questo ritorneremo — trovano una traduzione ben sintomatica nella ‘maschera’ drammatica del trovatore o del menestrello, deputata a oggettivare, rafforzandola, l'identità poetica e affettiva del poeta romantico italiano. Gli uomini, in definitiva,

devono vendicarsi, almeno nella maggioranza delle ballate di tradimento; alle donne è bensì concessa la medesima possibilità, ma in

modo assai meno vincolante, e non da parte di tutti gli autori. 2 Tanto interessante e inquietante, anzi, da apparire scandalosa agli occhi del suo stesso autore: verrà infatti esclusa dall’edizione definitiva lemonnieriana (1871) delle opere poetiche di Maffei, Poesie scelte edite ed inedite, la cui sezione di Rorzanze [348-62] non contiene né

L'incubo né La madre e il fanciullo.

2 Un sicuro caso di protagonista maschile che si limiti a subire i crudeli comportamenti d’una amata, è fornito dal Cavallo di Lara di Prati [Opere edite e inedite, 11, 98-103], dove

comunque assistiamo a un rituale riparatorio affatto singolare: e cioè alla sanguinosa uccisione del cavallo che era stato testimone della vicenda, e al suicidio finale del protagonista. D'altronde, la ballata non si perita nemmeno di dire quale esattamente fosse la colpa della donna — dandola, certo, per scontata, ma lasciandoci nondimeno perplessi di fronte a una tale radicalizzazione e quasi somatizzazione del dolore amoroso.

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Non deve però sfuggire un ulteriore dato, che un po’ complica la situazione: parecchie delle vendette maschili si configurano come vere e proprie violenze cieche e non del tutto giustificate, prepotenze nei confronti di donne che nell'amore per un altro uomo avevano trovato la soddisfazione dei propri più profondi bisogni. Basti ricordare i noti esempi dei sultani e pascià di Carrer e Prati”, nonché dei signori feudali o rinascimentali che per esempio in Biava, nello stesso Carrer e in Maffei”, imprigionano e/o giustiziano

le amate (tutte storie sullo sfondo delle quali premono, da un lato, il ‘mito’ di Otello, e dall’altro la leggenda della Pia, nella versione ovviamente di Sestini; e su cui avremo spesso modo di tornare). Cui si può aggiungere una ballata massimamente canonica come la betteloniana Leggenda di Romilda [Poesie varie, 117-22], che ci racconta l’amore dell’eroina eponima, signora feudale, per un bel «garzone», amore di cui il marito Ulrico si vendica prontamente uccidendo entrambi i traditori. Mentre appare contraddistinta da una ricca peripezia e da curiose innovazioni tematiche la complessa storia di Fo/chetto di Marsiglia inserita nel Marco Visconti [u, 21123]: e, infatti, la vendetta del paggio divenuto cavaliere, tradito da una moglie nobile che poi addirittura si suiciderà per esser stata abbandonata dall’amante, si appunta su chi gli aveva tolto la sposa, e terrenamente si conclude con un’espiazione religiosa del giustiziere, fattosi nel frattempo frate; scioglimento cui corrisponde, 46 aeterno, l’entrata di Folchetto in paradiso, nonché la dannazione della donna. 3.2.1.3. L’autore di ballate controlla infatti assai spesso le dinamiche della giustizia (e vendetta) divina, i misteri del sacro, ed è in

grado di ergersi a fedele interprete degli interventi provvidenziali più rigorosi e spietati. Il p/ot forse maggiormente sintomatico e diffuso (anche in aree insospettabili) è quello che trova un’esemplificazione memorabile nella Prorzessa nuziale di Biava [Esperimento, 117-22]: Alfredo, partendo per le crociate, chiede all’amante Pierina di restargli comunque fedele, minacciando di intervenire al di lei banchetto nuziale in caso appunto di tradimento; e, infatti, Pierina 24 DICarrer vedi I/ sultano [Ballate, 41-56]; di Prati Gelosia orientale [Canti lirici..., 1 ’

137-45].

? Di Biava cfr. lo scottiano La gelosia [Esperimento, 25-9), di Carrer almeno La vendetta

e

2, 283-5].

1-5], e di Maffei il dittico La vendetta e Le Veneziane [Versi editi ed inediti, 1, 281-

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decide di sposare un altro (anche perché l’antico fidanzato è nel frattempo morto), di modo che lo spettro di Alfredo interrompe il matrimonio e rapisce la donna sprofondando con lei (nell’inferno?). Il punto è che, con la sola eccezione della morale conclusiva, la quale tuttavia (visto il contenuto della storia) ci appare lievemente superflua6, il racconto di Biava altro non è se non l'adattamento, la libera traduzione, d’una ballata di Matthew Gregory Lewis, tratta proprio dal Monk e nota con il titolo di A/orzo the Brave, and Fair

Imogine, con cui è stata anche ristampata in modo autonomo”. Né è da credere che il componimento fosse del tutto sconosciuto ai lettori italiani, dal momento

che sin dal 1814 Bertolotti ne aveva

fornito, nel Novelliere britannico, una traduzione in prosa’. Un vero e proprio caposaldo, insomma, dell’ imagerie gotica europea, un episodio di quella che apparve come un’opera massimamente scandalosa, sospetta di scetticismo e senza dubbio percorsa da una violenta polemica anticattolica; un episodio, per di più, che nel contesto del romanzo compare, in quanto «Spanish Ballad», ovvero dunque ispanico «romance», proprio a esemplificare una religiosità tutta meridionale. (E vedi l’ironia geo-ideologica: il campione di quelle che per i classicisti italiani erano «nordiche superstizioni» faceva viceversa riferimento alle supposte credenze del Sud d’Europa). Ebbene, proprio un testo con queste caratteristiche viene adibito da Biava — che forse era consapevole delle connotazioni di quanto stava utilizzando?’ — a un’apologetica difesa di contenuti e valori viceversa cattolicissimi. 26 Giudizio, questo, che forse è in buona parte antistorico, se è vero che un lettore

solidale con l’opera di Biava quale Mazzini intorno al 1839 ebbe modo di appuntarsi quanto segue: «Accusato [Biava] d’essersi cacciato in leggende di morti e spettri etc.: quest’accusa per altro è un po’ esagerata come fu in generale per tutti i romantici italiani, i quali tradussero a dir vero parecchie composizioni di quel genere, ma ne composero poche. Quand’ei tratti siffatti argomenti p. e. nella — Promessa Nuziale — [...] e’ cercò porvi un correttivo» (Scritti varij di G. Mazzini, in C. Cagnacci, Giuseppe Mazzini e i fratelli Ruffini. Lettere raccolte e annotate, Porto Maurizio, tipografia Berio, 1893, pp. 511-2).

Cfr. M.G. Lewis, Alonzo the Brave, and Fair Imogine. A Ballad [...], Glasgow, Brash & Reid, [18002]; ma vedi appunto l’edizione critica dell’intero romanzo, The Monk. A Romance, ed. by H. Anderson, London, Oxford U. P., 1973, dove il testo che c’interessa figura alle pp. 313-6. 28 Cfr. Alonzo il prode ed Imogine la bella. Novella di Lewis, in Il Novelliere [40-5]: ovviamente, si tratta d’una versione prosastica. 2 Un riferimento peraltro sintetico a Lewis («quello stesso Lewis autore del tanto spaventevole Frate») poteva infatti esser letto sullo «Spettatore» del 1814 cui collaborava un ‘maestro’ di Biava quale Bartolomeo Benincasa: cfr. C. M., Il Novelliere britannico [...], «Lo spettatore», 11, 1814, appendice italiana n. Iv, pp. 54-9 (57). L’autore della recensione può

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Prima però di attribuire a Biava un eccessivo carico d’ingenuità, è forse il caso di ricordare che è stata attribuita a Mazzini (ma l’autore è comunque il sodale Agostino Ruffini) una ballata dram-

matica, La sera delle nozze», che in effetti si limita a introdurre una

leggera variazione (consistente poi — a ben vedere — in un ulteriore elemento di rigidezza moralistica) nella ballata di Alonzo e Imogine. Alfredo, in questo caso, aveva chiesto a Ulrica di restargli fedele un anno e un giorno, laddove la fanciulla si appresta a sposare un altro uomo ‘solo’ un anno dopo; e la rappresentazione drammatica si limita al ritorno vendicatore di Alfredo, essendo l’antefatto rac-

contato da una prosa prefatoria. Né si può affermare che la ballata di Ruffini-Mazzini (scritta nel 1839) sia isolata nel campo democratico: basti indicare, una decina d’anni prima, lo strettissimo nesso tradimento-vendetta caratterizzante I/ succubo guerrazziano [La battaglia di Benevento, nm, 163-4), il cui protagonista (tuttavia maschile) è colpevole di avere accondisceso alle avances della cognata e di essersi macchiato di un parricidio e un fratricidio insieme. 3.2.1.4. A partire circa dalla metà degli anni Trenta, comunque, si vanno sempre più diffondendo (anche in questo caso senza, mi sembra, profonde differenze di schieramenti politici) tipi di trame in cui se da un lato la vendetta maschile nei confronti della donna traditrice è presentata in una luce particolarmente odiosa’!, dall’altro lato è alonata di simpatia la giustizia violenta e sanatrice 4 opera d'una donna. Come dire: prepotenti gli uomini se reagiscono con violenza a un tradimento, e invece degne di commiserazione le donne che agiscono nello stesso modo. Affatto sintomatica la trama forse essere identificato in Carlo Mazzoleni, bergamasco, con ogni probabilità parente dei

Mazzoleni editori appunto in Bergamo, corrispondente di Foscolo e Manzoni, poi divenuto Regio vice-delegato a Sondrio, che nell’autunno del 1814 è in contatto epistolare con Anton Fortunato Stella, e — interessato a intervenire sull’A//erzagne di Staél — gli si propone quale collaboratore dello «Spettatore» (vedi le lettere a Stella del 3 settembre, 14 e 26 ottobre 1814, presenti nel Fondo Stella della Biblioteca comunale di Treviso). 3° Cfr. Mazzini [Poesie giovanili, 63-9 e 77-84]: del componimento, apparentemente ascritto a Mazzini — di cui però si esibiscono tutte le prove funzionali a una più corretta attribuzione — vengono riprodotte due distinte versioni. 7! Merita inoltre d’esser menzionata la curiosa Meina di Betteloni [Poesie varie, 112-4]:

storia in cui un «moro» non solo sfida a duello l’amante della protagonista, ma ‘si vendica’

della fanciulla stessa, accoltellandola a morte nel momento stesso in cui è da lei soccorso. Tale è la brusca conclusione della ballata: «Mercé, mercé!’ con fievole / Grido il ferito

esclama: / Stringe un pugnal: qual folgore / Pianta l’orribil lama / Negli occhi a lei, dicendo: / ‘Tal io mercé ti rendo!’».

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della Darae di Dall’Ongaro [La memoria, 39-57]?, ma anche e soprattutto, del medesimo autore, la vicenda di Usca [Poesie, 1, 12134], cioè d’una giovane abbandonata che si vendica crudelmente

dell’antico amante dando fuoco alla di lui casa; giovane con la quale, tuttavia, finiamo per simpatizzare, non solo perché ha tentato di perire nel rogo stesso in cui l’uomo è morto, ma anche perché tutta la storia è condotta privilegiando il punto di vista di lei (a segno che l’ultimo quadro è un monologo lirico-narrativo di Usca). Sul versante politico opposto, nella già ricordata Gelosia orientale del moderato Prati [Cart lirici..., 1, 137-45], la prospettiva egemone è quella della donna, cioè Zorama, che compie la propria vendetta prima sulla rivale, e poi viene a una resa dei conti, tuttavia

non descritta, con Braimo Pascià, il cui esito — vista l’energia distruttrice di Zorama — non è per nulla scontato. Mentre un’interessante problematicità è a mio avviso testimoniata da I beati Paoli di Bisazza [Leggende e ispirazioni, 3-7], dove la vendetta nei confronti del marito adultero operata dagli emissari della setta in oggetto si ritorce contro chi l’ha commissionata, e la moglie tradita si vede addirittura, inspiegabilmente, privata dell’innocente figlioletto: quasi un 77emento, se non erro, contro ogni forma di giustizia pri-

vata, ma anche il modo per mettere a fuoco l’onnipervasività della colpa, il fatalistico trionfo del peccato”. 3.2.1.5. Ancora più sintomatica, perché attestata in campo mo-

derato e cattolico, è la rappresentazione epico-lirica di tradimzenti femminili non puniti dal marito, non vendicati da interventi ripara-

tori per iniziativa umana, anche se comunque destinati a condurre la donna alla morte. E la prospettiva patetica con cui è focalizzata l’agonia della traditrice finisce anche in questo caso per riscattarla in extrerzis, almeno sul piano sentimentale. Basti pensare che i lettori della notissima strenna milanese Nor ti scordar di me [1841, 536] avevano avuto modo, all’inizio del 1841, di assaporare una vicen-

da la cui trama Prati replicherà quel medesimo anno (e sempre a 3 Su cui vedi, qui sotto, l’inizio del cap. 6. 3 Esplicitamente opposto alla vendetta è inoltre Capparozzo, nel suo La donna corsa [Poesie, 174-84], la cui protagonista — ingentilita dalla passione amorosa, e anche grazie all’intervento d’un religioso — rinuncia a perseguire chi le ha ucciso il fratello sacerdote: «Oh mio fido!... allor riprese / La fanciulla moribonda, / E nel volto si raccese / D’una fiamma vereconda; / Deh! ch’io’l vegga e l’oda ancora / Quel pietoso, e poi ch'io mora; / Deh! ch’io l’oda e gli favelli: / Io perdono a’ miei fratelli. — [182].

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Milano), invero assai fortunatamente, con la moderna storia di

Edmenegarda (ma alle spalle, presumo di entrambe le narrazioni, c'era un fatto di cronaca riguardante una sorella di Daniele Manin).

Si tratta della Tecla di Cesare Cantù [cfr. anche Poesze, 113-6], la

cui protagonista abbandona marito e figli per fuggire con un cavaliere, che poi la ripudia; di modo che la donna finisce i propri giorni in totale solitudine, esclusa anche dal nucleo familiare d’origine, e muore di fronte alla soglia della propria casa, mentre la voce d’una figlia la chiama”.

3.2.1.6. Più elementare e lineare è invece il patetismo che contraddistingue le ballate in cui l’azzore fra due persone è distrutto da un evento esterno casuale. La prossimità tematica all’idillio è difatti visibilissima, e anzi proprio fondante, giacché la struttura dell’intreccio non fa che mostrare quale grande e intenso e compiuto rapporto d’amore sia stato crudelmente interrotto dal fato; e poi, e soprattutto, il décor campagnolo e/o floreale vi svolge un ruolo spesso decisivo, escludendo infatti un'ambientazione della storia esplicitamente cittadina. Idealmente (e nient’affatto per caso), alle origini del motivo” troviamo un autore politicamente più che sospetto come Davide Bertolotti in compagnia del democratico Guerrazzi: il primo nella Calata degli Ungheri in Italia [209-10], del 1823, narra la storia di Caba, «ilSarmata guerrier», che torna

34 Una posizione affatto isolata all’interno del panorama ballatistico, mi sembra, occupa un componimento ai limiti dell’idillio (o che comunque assorbe in un precario idillio una peripezia di per sé ben accidentata) come La Torre della Madonna del Mare di Dall’Ongaro [La memoria, 89-115]. La storia di Lisandro, marinaio triestino, e della fidanzata Annina, che

a casa lo aspetta, vede il protagonista sul punto di tradirla, a Venezia, con una bella «Sirena» tentatrice; ma — evocata in questo modo la possibilità materiale dell’infrazione — tutto poi si risolve come vuole il paradigma morale consueto, non senza però che Annina sogni fino all’ultimo una forza esterna minacciosa, e non senza che la Torre della Madonna, la quale avrebbe dovuto essere la tangibile mallevadrice del loro amore, finisca inopinatamente per crollare proprio in conclusione di ballata. © Si tenga comunque presente il pateticissimo I due amanti ciechi di V.J.E. Jony, tradotto sul «Conciliatore», 58, 21 marzo 1819 (cfr. l’ed. a cura di V. Branca cit., vol. 11, pp. 3438): racconto in prosa nel quale è addirittura la facoltà di vedere un luogo naturale — facoltà riacquistata dal protagonista maschile e non da quello femminile — ciò che mette in crisi il rapporto degli innamorati. ? Tre anni più tardi, nel 1826, vedi anche il «romanzo» in versi lirici di Angelo Brofferio, Le lagrime dell'amore, il cui intreccio è conforme al tema che si sta qui studiando (cfr., sopra, cap. 2, nota 35). Sia la ballata di Bertolotti sia quest’ultimo poema sono trascritti da Mazzini, prima del 1831, in uno dei suoi quaderni (cfr. Zibaldone giovanile, in Id., Scritti editi e inediti. Nuova serie, 11, a cura di A. Codignola, Imola, Galeati, 1967, pp. 91-2 e 126-38).

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dalla guerra presso «La bellissima Stemane», ma ferito a morte, giusto in tempo per spirare ai piedi della bella?”; mentre il secondo, quattro anni dopo, all’interno della tragedia I Bianchi e i Neri, inserisce un componimento come Li due sventurati [Scritti, 420-1],

dove viceversa Gino rientra illeso dalle crociate, ma nel frattempo la fidanzata Oretta, avendolo creduto morto, è morta; e un fondale non estraneo a memorie pastorali fa letteralmente eco al dolore dell’uomo («Oretta, — Oretta non ti vedrò più! / L’eco dei monti gli risponde — più»). D'altronde, quello del ritorno tragico (nei suoi due versanti: lui non ritorna o ritorna morto, ovvero è lei che è

morta quando lui ritorna) è un tema che per evidenti ragioni non è destinato ad andare incontro a variazioni troppo sensibili; e semmai si presta a superficiali ammodernamenti dei contenuti, allorché il motivo del distacco è rappresentato da una guerra meno remota nel tempo, oppure da una professione particolarmente pericolosa. Ancora intorno al 1837, per esempio, troviamo il milanese Cantù

che ambienta sul lago di Como la storia dei Morti di Torno [Poeste, 107-12], motivando la separazione tra Linda e Fernando con l’arruolamento di questi nell’esercito francese; e l’inopinata e lacrimevolissima conclusione è fornita dalla morte di entrambi per affogamento,

quando il giovane stava finalmente rientrando, e Linda,

sporgendosi per vederlo, era caduta e Fernando s’era tuffato per soccorrerla. Curiosamente, il messinese Bisazza (di cui è da ricordarsi, su tema analogo, anche La Scillese [Leggende e ispirazioni, 1621]) ci presenta poco tempo dopo una storia assai simile, con la sua «leggenda» Marietta [ivi, 118-23], dove attraverso il filtro d’un narratore-testimone omodiegetico è raccontato l’amore ricambiato della protagonista eponima per un giovane pescatore: questi fa naufragio in prossimità del porto, e la fidanzata per salvarlo si getta in mare, perendo poi con lui tra i flutti. E, comunque, nel suo Galoppo notturno pure Prati [Lettere a Maria, 70-5] riesce a ottenere la morte di entramzbi i protagonisti, ma in questo caso l’uno indipendentemente dall’altro: lei che aspetta lui è infatti già in punto di morte, laddove lui misteriosamente muore mentre sprona Ruello al ritorno. 3 Veroè che, in questo componimento, agente del distacco dovrebbe esser considerata la guerra, cioè una forza esterna reale, e non il mero fato; ma la totale inverosimiglianza del racconto (Caba che giunge dall’amata con la freccia ancora nel petto!) e soprattutto la contestualizzazione naturalistica e idillica, mettono in primo piano il motivo del destino.

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3.2.1.7. In ognuna di queste ballate, ad ogni modo, il caso che interrompe l’idillio ha alle spalle qualche motivazione? politicosociale riconoscibile, ancorché vaghissima e convenzionale, in gra-

do di additare cause del dramma meno fatalistiche (conflitti come le guerre napoleoniche o le crociate, la rischiosa condizione del navigatore...): gli autori hanno assottigliato al massimo l’occasione ‘reale’, l’hanno subordinata a una percezione pateticamente catastrofistica della vita, ma essa resta nondimeno percepibile, continua

ad agire sullo sfondo come fattore tematico accessorio. Diverso è invece il discorso relativo a poesie — meno

numerose,

ma forse

decisive nel rispetto tematico — in cui è dall'interno dello stesso décor pacificato che nasce la crisi dell’idillio; e gli attanti primari d’uno scenario naturalistico (fiori e piante, soprattutto, ma anche fenomeni fisici come i venti) sono in qualche modo resi responsabili delle ‘disgrazie’ che distruggono coppie altrimenti felici. Centralissima, ovviamente, è la leggenda del nontiscordardimé, del fiore cioè

che di fatto causa la morte dell’innamorato proteso alla sua raccolta: la storia viene per esempio raccontata da Prati in Fior della memoria [Canti lirici..., 1, 149-54], che la ricollega alle sue origini tedesche, e quindi narra dell’amore di Armina e Ildovardo i quali sulle rive del Reno vanno incontro alla ben nota sciagura, tanto drammatica da non permettere la sopravvivenza neppure della ragazza. A questo tema, diffuso nelle varianti floreali più disparate (ma quasi mai presentato in maniera puramente fatalistica)??, si può avvicinare anche quella curiosissima ballata di Carrer che è L’impossibile [Ballate, 127-30]: la storia cioè (forse allegorica?) di due venti, l’uno occidentale l’altro orientale, che inutilmente cercano di ribellarsi al

destino, alla forza esterna destinata comunque a tenerli separati. E, ben più borghesemente, Tra veglia e sonno di Prati [Poesie edite e °8 Merita d’esser ricordata anche la variazione ‘realistica’ costituita dal Colera mzorbus di Gazzoletti [Poesie, 7-9]: il fidanzato della protagonista, recatosi presso la madre, muore appunto di colera, e perciò 707 torna. Per esempio, nella Viola del pensiero di C. Cantù [Poesie, 195-9], il fiore rappresenta l'emblema quasi feticistico del fidanzato morto in guerra; mentre nel Vaso dî rose di Zajotti [Della letteratura giovanile, rxxvi-vm] la pianta è il pegno dell’amato, e il suo illanguidirsi ne rispecchia la condizione di pericolo, che tuttavia l’intercessione în extrerzis della Madonna provvederà a scongiurare. Esemplare per la sua convenzionalità e per la ridondanza ‘botanica” è Gli amanti siciliani, ovvero

Gino il crociato e Clea di Giovanni Colleoni

[Opere

poetiche, 120-4], dove comunque le piante propiziano una lieta fine: l'amata «Mille fiori porse in voto / Alla Vergine del ciel»; l'amato «al fin di lauri adorno / Co’ fortissimi guerrier / Alla patria fe’ ritorno»; e dunque «Una palma d’Idumèa / Ch'ei sull’ara collocò, / Tra” que’ fior diletti a Clea / Più superba verdeggiò».

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inedite, 1, 230-2] mette in scena una sorta di dramma degli equivoci, allorché il dolore immedicabile di Gildore, il quale, «partendo», non si sente corrisposto da Usca, viene attribuito al semplice fatto che la ragazza, mentre lui intonava sotto le sue finestre un mesto canto d’addio, non s’era risvegliata! Ma davvero inspiegabile — su un piano immediatamente razionale — è quella sorta di ‘maledizione idillica” che mette fine all’esistenza dei due giovani protagonisti della carreriana Fuga [Ballate, 33-7]: basti pensare che secondo il narratore «la bella» protagonista «tramort컑° sotto il salce all’ombra del quale s’era riparata insieme a Carlo, e al suo risveglio non trovò più l’amato, andando anzi incontro a una morte poi replicata da quella della pianta («Quivi pianse il caro sposo / Sette giorni, e poi morì; / E quel salice pietoso / Curvò i rami, ed appassì»). 3.2.2. Ovviamente, tutti i lettori della Fuga hanno percepito che, ne sia difetto responsabile il salice, il fulmine o qualsivoglia altro agente esterno, il mandante profondo dell’orzicidio cui abbiamo assistito è il padre della ragazza, contro la cui volontà lei e il fidanzato s'erano ribellati. Il fato, in questi casi, non agisce mai in modo del tutto fatale, ma si fa braccio armato d’una maledizione

molto immanente e materiale, nata dal conflitto primario sotteso alla ballata. Solo che, diversamente da una mera questione privata,

diversamente da una vicenda di tradimenti fra amanti fedifraghi, o da una vicenda che oppone i fidanzati al rio destino, in componimenti così caratterizzati il lettore vede sceneggiato il contrasto fra differenti sistemi di valori, fra i temi primari che gli autori di ballate (e, dietro di loro, un’intera società in trasformazione) desiderano in primo luogo tutelare, cioè a dire rilanciare e, insieme, ridefinire. Famiglia contro libertà del cuore, dunque (vedi qui sotto il paragrafo 3.2.2.1); così come in altri casi a esser minacciata dall’esterno, persino a opera della famiglia, è la verginità (cfr. 3.2.2.2). Quest’ultima, poi, si allea spesso con la religione per resistere alla pressione

delle molte ingiustizie sociali analizzate in particolare dai ballatisti 4° Il contesto per l'esattezza è il seguente: «Nella palma chino il viso, / È la bella in gran dolor; / E il garzon da canto assiso: / Or che pensi, fido amor? // Rispondea la giovinetta / Con accento di pietà: / Penso al padre che m’aspetta, / Né mai più mi rivedrà. // Ah che il fulmine non chiami / Sull’ingrata che fuggì! / Qui la pianta scosse i rami, / E la bella tramortì». Dove mi sembra da escludere un uso transitivo del verbo trarzortire, anche se —

senza alcun dubbio — qualsiasi lettore percepisce la presenza del salice come elemento non estraneo alla sventura che colpisce gli amanti.

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‘di sinistra’, democratici (3.2.2.3); mentre la religione, da sola, può

costituire un punto di riferimento ideologico capace di svolgere una funzione latamente politica (3.2.2.4). Ultimo valore pubblico in gioco è dunque l’amor di patria: espressione da intendersi però in accezione allargata, giacché si riferisce pure ai vincoli della con-

vivenza civile (l'argomento, massimamente articolato, verrà svolto

in 3.2.3). Anzi, non è chi non veda come il fascino delle ballate europee più note sia spesso legato non tanto alla protervia d’un protagonista uti solus insorgente contro istituzioni collettive consolidate, ma proprio dal fatto che anche alle spalle delle opzioni individuali il lettore percepisce una risonanza corale, il radicamento interpersonale dell'infrazione. Il byronismo, in questo senso almeno, osta a una com-

piuta elaborazione ballatistica. Non per caso, la poesia epico-lirica maggiormente discussa dell'Ottocento europeo nasce dal cozzo tra religione e diritti del cuore (e non senza risvolti politici 4 posteriori evidentissimi: Lenore, in attesa del fidanzato militare, dà in qualche modo voce, lukacsianamente, a quella percezione della storia nata

con le guerre napoleoniche che in Italia trova un primo importantissimo riscontro nella Fuggitiva grossiana) !. E ancora: lo schilleria-

no Palombaro permette di recepire la contraddizione talvolta insanabile che oppone la fedeltà, la buona fede del suddito all’arbitrio dello Stato (rappresentato da un Federico II davvero molto simile a Napoleone); mentre le tante poesie britanniche, dalla produzione di Scott a quella di Thomas Moore, che esaltano ruolo e funzione dello strumento — l’arpa — simboleggiante la poesia, sono certo il riflesso d’una condizione esistenziale ambigua, rispecchiano la coscienza irrequieta d’una ricerca lirica desiderosa del cambiamento

ma anche impaurita dal divenire sociale; e le figure femminili di prostitute moralmente purificate, che soprattutto da Hugo passano in Italia a Gazzoletti‘ e Dall’Ongaro, non fanno che incarnare la frizione molteplice tra amore, famiglia e società, e perciò sono tanto 4! Mi riferisco naturalmente alla ricezione dalla ballata, e non alla sua genesi: Lerrore era infatti stata composta e pubblicata nel 1773. © Di Gazzoletti cfr. il sonetto (non quindi una ballata) Riscatto. Imeitazione da Vittore Hugo [Poesie, 16], che adatta all’italiano Les chants du crépuscule, xv: «Oh! n’insultez jamais une femme qui tombe!» (V. H., Oewvres poétiques. 1: Avant l’exil, préface par G. Picon, édition établie et annotée par P. Albouy, Paris, Gallimard (Bibliothèque de la Pléiade), pp. 858-9), e il cui attacco suona: «Non far, non fare a debil donna offesa / Per ch'ella cadde.

E chi può dirti quanto, / Pria all’esca fatal corresse presa, / Ha quell’alma sofferto e amato

e pianto?»

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più suscettibili di propiziare storie di notevole ricchezza ideologica e narrativa.

3.2.2.1. A proposito di quest’ultima osservazione, succede spesso che là dove i valori in gioco provochino opposizioni di notevole asprezza, nascano

trame difficili da contenere nell’ambito breve

della ballata, peripezie piuttosto lontane dal lirismo che si conviene al nostro genere. Tipicamente, il contrasto tra autodeterminazione affettiva e farziglia, tra legge del cuore e legge del padre, proprio negli anni del primo romanticismo è il tema certo principale della cosiddetta novella romantica in versi*, e ne definisce la trama ‘in-

variante’ nella forma d’una giovane che cerca in tutti i modi d’evadere dal nucleo d’origine per potersi unire a un fidanzato osteggiato dalla famiglia. Non che siffatta storia sia estranea alla ballata, anzi: ma viene talvolta sottoposta a un trattamento ellittico e scorciato #, come peraltro abbiamo in parte visto nel caso della Fuga di Carrer, e comunque gode di una fortuna relativamente limitata rispetto ad altre forme di plotting: in particolare, quelle connesse allo scontro tra amore da un lato, e valori religiosi ovvero sociali dall’altro. Inoltre, a partire proprio dal carreriano Stradella cantore [Ballate, 103-18], una vicenda di questa sorta produce anche ballate che rischiano di forzare i limiti, per così dire istituzionali, del

nostro genere: come per esempio avviene anche in quella specie di novella liricamente corretta che è La torre dell’ebreo di Bisazza [Leggende e ispirazioni, 124-36] (la cui lunghezza sfiora i 300 versi, 4 «I protagonisti [della novella romantica in versi] sono due giovani, innamorati alla

follia, ma contrastati nel loro amore da innumerevoli ostacoli. La loro è quindi una passione ‘assoluta’ e ‘impossibile’ allo stesso tempo, passione che spesso si conclude in modo tragico». Fra gl’impedimenti, poi, quello di gran lunga più ricorrente è proprio l’autorità famigliare. Cfr. P.G. Pozzobon, Letteratura e società nei personaggi della novella romantica in versi, «Otto/Novecento», vi, 5-6, settembre-dicembre 1984, pp. 19-52 (a p. 20 la citazione; a p. 21 la tabella da cui desumo l’‘invariante’ morfologica). 4 Del resto, questo tipo di intreccio può anche andare incontro a forme d’elusione e di rimozione. Interessante è per esempio che Dall’Ongaro, riprendendo in Rosettina [Fantasie drammatiche e liriche, 35-7] il canto popolare da Nigra definito Fior di tomba [Canti popolari del Piemonte (19), 147-58], lo trasformi — da storia d’un amore contrastato, sia dalla famiglia sia dalla società — in una fatalistica vicenda in cui il fidanzato della protagonista è tragicamente morto: e a lei, dunque, resta solo la prospettiva della sepoltura. 4 Davvero raro, e forse non per caso, un intreccio in cui sia l’amore a costituire il polo negativo di valori, e la famiglia il polo positivo: sintomatico lo svolgimento di Giaello l'omicida di Fusinato [Poesie, 11, 24-32], il cui protagonista pensa di salvare la sorella denunciando un proprio complice di cui la ragazza s'è invaghita; e penso — più ancora — alla Fidanzata di Berti [Canti popolari, 9-7], storia d’un amore osteggiato dalla famiglia che conduce a una morte fatale la protagonista, morsa da un serpente proprio il giorno delle nozze.

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ed è scritta in sestine narrative); oppure come succede nella pratia-

na Fuga (ben 334 versi), dove la tensione con la famiglia costituisce un mero antefatto su cui si innestano peripezie avventurose di altra natura [Opere edite e inedite, 1, 59-69].

3.2.2.2. Il punto è che in alcune ballate la famiglia è meno un fatto privato che non l’emblema di qualcosa di opprimente e vincolante, e cioè proprio la società, le leggi convenzionali d’una 70rale pubblicamente prescritta. Il fatto è ben percepibile se per esempio seguiamo brevemente l’itinerario d’un altro valore sottoposto a minaccia, e piuttosto presente negli intrecci ballatistici ‘maturi’, quello della verginità. Allegorizzata secondo un canone peraltro antichissimo nello Heidenròslein di Goethe, in Italia l’illibatezza

della giovane donna dapprima non è messa al centro di molte narrazioni ballatistiche strettamente intese, ma è soprattutto 272posta da componimenti morali, come per esempio quelli di Biava, di tono oppressivo e minaccioso (penso alla pseudo-leggenda terrorizzante Il monte degli Stampi in Tremezzina [Esperimento, 116], oppure al predicatorio La voluttà [ivi, 128-32]). Una prudenza forse eccessiva, che tra l’altro contrasta, e in modo quasi inspiegabile, con il forte rilievo narrativo e figurativo che in questi anni hanno fatti di cronaca nera ruotanti appunto intorno alla verginità della vittima‘. Quando invece, successivamente, vale a dire dopo il 1830, si

accetta la tematizzazione epico-lirica della materia, da un lato ne nascono testi come La zingarella [Poeste, 61-4] o Sara [Canti lirici...,

11, 211-23] di Prati, che alludono solo metaforicamente o comunque in modo molto obliquo allo stupro, e dall’altro lato si affaccia addirittura una radicale ricodificazione del problema. Mi riferisco all’invero curiosa Alda di Dall’Ongaro [Fantasie drammatiche e liriche, 45-52], in cui la violenza sessuale è di fatto omologata al matrimonio con un uomo vecchio e ricco, in quanto legame impo4° Notissimo appunto prima del ’30 il caso d’una giovane modenese, Maria Pédena, uccisa l’1 luglio 1827 dal vicino di casa Eleuterio Malagoli che aveva tentato di farle violenza: la verginità strenuamente difesa dalla sventurata, a sacrificio della vita stessa, diventa oggetto sia d’un ciclo di stampe sia di pubblicazioni, in prosa e in versi. Per le stampe dell’episodio, cfr. «Lettor mio, hai tu spasimato? No. Questo libro non è per te.» Stampe romantiche a Brera, catalogo della mostra presso la Biblioteca naz. Braidense (19 aprile-19 maggio 1979), a cura di M.C. Gozzoli e F. Mazzocca, con la collaborazione di D. Falchetti, Firenze, Centro Di, 1979, pp. 55-6, 70-1. La narrazione dell’evento si legge in Cenni storici sulla vita di Maria Pédena modenese, Venezia, presso il libraio al ponte di san Moisè, coi torchi di Giuseppe Molinari, 1827, mentre i versi sono raccolti nei Poetici componimenti in lode di Maria Pédena.

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sto dalla famiglia alla giovane protagonista: la quale però ha la ‘fortuna’ di esser creduta morta, di andare quindi incontro a un seppellimento prematuro, e infine di vivere una vera e propria rnascita, che moralmente la libera da ogni vincolo precedentemente contratto (il marito, a ogni buon conto, provvederà a morire subito dopo la di lei emancipazione). E la protesta di Alda contro il suo despota — a conclusione d’una trama che ben illustra quanto Peter Brooks chiamerebbe «sillogismo cronologico» — allude al matrimonio utilizzando la metafora del vampiro, che a sua volta è un evidentissimo riferimento alla violenza subita dalla protagonista: Fra noi sorga e ne sèpara L’avel che mi schiudesti.

Vampiro insaziabile Che il sangue mio suggesti, Vuoi tu cercar se mai Entro le vene esauste Un resto io ne serbai?

Sì! nelle vene un’ultima Scintilla ho ancor di vita,

Non per languir a un gelido D’uom simulacro unita,

Ma per amare anch'io, E un caldo petto stringere Senza ribrezzo al mio!

La famiglia, dunque, personificata da un padre compiacente che ha accondisceso a sacrificare la figlia, in tale contesto è solo il riflesso passivo di consuetudini sociali (legate al potere opprimente del denaro) che l’alienano, così come alienano l’identità affettiva

della donna.

3.2.2.3. Non è pertanto casuale che autori in odore di populismo come Dall’Ongaro e Gazzoletti abbiano escogitato una sorta di solidarietà verginità-religione per condannare la prepotenza sessuale del signore feudale: penso soprattutto al Falco Lovaria del secondo [Poesie, 83-93], il cui protagonista è sul punto di macchiarsi sia 4 P. Brooks, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo [1984], Torino, Einaudi, 1995, p. 23.

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d’un sacrilegio sia d’uno stupro quando finalmente interviene la vendetta divina a punirlo (mentre Dall’Ongaro nella Maschera di ferro in effetti attenua sensibilmente il motivo proprio della verginità, accentuando invece il legame della donna con l'amato)#. Ma la tensione in oggetto aveva una ricca tradizione alle spalle, a testimonianza anzi d’un dibattito ideale abbastanza intenso: si pensi solo alla leggenda Lucia, affrontata prima da Tedaldi-Fores [Romanzi poetici, 79-87] e poi da Guerrazzi nella Battaglia di Benevento [n1, 160-2]*, elogio d’una religiosa capace di restare pura a dispetto d’un affetto amoroso reale che la lega a un giovane cavaliere; ma elogio anche di quest’ultimo, in grado i extrezzis di vincere la tentazione e anzi destinato a espiarla in modo davvero orribile. Analogamente, anche se in un contesto narrativo quanto mai esile (una poesia cioè di soli 14 versi), la protagonista della Suora?° di Maffei confessa a se stessa il proprio amore per un uomo ormai morto, e perciò divenuto degno di tale affetto; ma l’intima professione della religiosa (persino le sue lacrime sono dette «segrete») coincide con la sua morte, pietosamente scesa a interromperne il dolore per intercessione della Madonna [Versi editi ed inediti, 1, 275). E dire che, proprio in questo settore, le occasioni trasgressive,

le tentazioni non mancavano, e in parecchi sensi assieme. Ad esempio, se è vero che Hugo ha influito moltissimo sui ballatisti italiani, risulta allora tanto più sintomatico ehe da noi — se non mi sono sbagliato — manchi del tutto traccia della trama svolta nella ballade La légende de la nonne, dove la storia di Lucia è sostanzialmente

rovesciata: e Padilla, dapprima ostile al sesso maschile, si concede poi a un brigante, e infine viene punita dalla giustizia divina che la fulmina?!. 4 Cfr., qui sotto, cap. 6, pp. 245-7. 4° Vedi, qui sopra, cap. 2, pp. 72-3. °° Il componimento, già presente nella raccolta delle Poesie varie del 1839 [135-6], è una

traduzione (dichiarata come tale) da F. Uhland, Die Nonne, in Id., Gedichte, vollstàndige

kritische Ausgabe [...], beforgt von E. Schmidt und J. Hartmann, Stuttgart, Verlag der LG. Cotta’schen Buchhandlung Nachfolger, 1898, 1, pp. 140-1. 7 Cfr. V. Hugo, Oeuvres poétiques cit., pp. 535-40. Si tratta dell’ennesima manifestazione del topos della «monaca insanguinata». Sull'argomento è d’obbligo il rinvio a M. Praz, La carne, la morte, il diavolo nella letteratura romantica, Firenze, Sansoni, 1976, pp. 86-7, nota 58. A dire il vero, una ricorrenza di tale leggenda in ambito ballatistico italiano in effetti esiste, ma è abilmente mascherata e normalizzata: penso al Prati di Marinella [Opere edite e inedite, 11, 131-42], che racconta una storia assai simile a quella presentata, ad esempio, da Charles Nodier nel suo Infermaliana (Paris, Sanson, 1822: vedi la traduzione italiana, Roma, Napoli, Theoria, 1985, pp. 21-4 - La monaca insanguinata). Un giovane, invece di rapire la

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Insomma, la maggior ‘serietà’ morale della ballata romantica italiana (almeno in rapporto alla Francia)? rende più probabile una trama come quella della Suora carreriana [Poesie edite ed inedite, 78-80], dove il dialogo tra religiose consente di mettere a fuoco il contrasto davvero ormai canonico (siamo intorno al 1840) tra amo-

re e monacazione forzata; oppure giustifica L’ererzita di Bisazza [Leggende e ispirazioni, 72-4], che ha il coraggio di raccontare una peripezia analoga anche dal punto di vista d’un maschio, vale a dire d’un monaco — già prode guerriero — il quale di fronte al cadavere della donna un tempo amata non resiste all’emozione, e muore. Ma pure la differenza fra le due ultime storie è in qualche modo istruttiva, dal momento che la protagonista della ballata di Carrer muore suicida perché la religione, o meglio le errate convenzioni della società e della famiglia, l’hanno allontanata dall’amato, mentre

l’eremita soccombe per non esser riuscito a separarsi del tutto dal mondo, per non aver realizzato quella condizione di isolamento che viceversa uccide la monaca appassionata. Si tratta d’una disponibilità ai diritti — per così dire — della donna, che comunque non durerà ancora a lungo nella tradizione della ballata romantica italiana; e infatti il punto d’arrivo??, ma in negativo, del tema è fornito

dalla violenta criminalizzazione dell'amore perpetrata da Fusinato in Suor Estella [Poesie, 1, 58-69], opera in cui la passione distrugge la religiosa, la abbrutisce fino a renderla irriconoscibile persino agli

fanciulla amata, accoglie sul proprio cavallo un fantasma che infine l’uccide. Solo che Prati trasforma la monaca morta in un generico «Spettro di vaga giovinetta ancisa / Da un infelice amore» [135]: e insomma fa del tutto scomparire il tema religioso. 52 Interessante sarebbe anche indagare per quale ragione in Italia, a differenza che in Francia e in Germania, la ballata romantica fatichi molto a interpretare motivi di tipo novellistico (in senso proprio boccacciano), connessi a vicende paradossali, a storie bizzarre, che suscitino curiosità e/o mero spasso nel lettore. Quanto al tema religioso, è assai isolata per esempio una ballata come Conte Nello di Gazzoletti [Poesze, 71-7], nella quale è sinteticamente raccontata una sadica e blasfema prepotenza perpetrata dal protagonista eponimo — non a caso amico di Ezzelino da Romano — nei confronti di due malcapitati viandanti, che vengono da lui ‘costretti’ a rinnegare Dio. Nel campo dell’amore, inoltre, mancano pressoché del tutto storie a sorpresa come quella che Giuseppe Capparozzo traduce da Uhland nel testo della Figlia dell’orefice [Poesie, 169-71]: un cavaliere si fa mostrare appunto dalla figlia d’un orefice una serie di monili da regalare — dice — alla sua amata; compiuta la scelta, rivela alla ragazza che è lei la donna per la quale aveva scelto i preziosi (cfr. F. Uhland, Des Goldschmiedes Tochterlein, in Id., Gedichte cit., pp. 174-6). % Sulla cronologia delle poesie di Fusinato scritte e/o pubblicate fra anni Quaranta e Cinquanta, offre utili indicazioni C. Chiodo, Le polerziche satiriche di un diavolo ‘ficcanaso’, in Id., Ottocento minore. Pananti - Borsini - Fusinato - Baravalle, Roma, Bulzoni, 1995,

pp. 169-242.

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occhi del narratore che ne riferisce il destino”. Quanto poi al còté maschile della questione, è da chiedersi per quale ragione Dall’Ongaro non abbia più pubblicato dopo il 1841 il ciclo delle odi Alla amica ideale, dove l’implicita rivendicazione del diritto all'amore fisico anche per i sacerdoti era di fatto il vero tema della storia; e

insomma l’incrementato anticlericalismo dell’autore, allontanatosi

nel frattempo dal sacerdozio, parrebbe avere ostacolato la riproposizione d’un argomento tanto trasgressivo ma forse anche troppo legato a una polemica tutta interna al mondo cattolico. 3.2.2.4. Seppur con sintomatiche varianti”, Dall’Ongaro continuerà invece a ristampare una ballata di grande impegno religioso, e quasi priva di elementi narrativi stricto sensu intesi, come I/ solitario di Grignano [La memoria, 119-30]; cioè un componimento in

cui è tematizzato il contrasto Stato-Chiesa, attraverso la rappresentazione dell’ultimo monaco superstite rimasto a vivere in un’abbazia abolita nel Settecento dalla politica di Giuseppe n. La voce lirico-narrativa che parla nella seconda parte, la voce in sostanza

dell’autore, profetizza un futuro inveramento storico della parola sacra, capace di riscattare sia il sacrificio dei religiosi oppressi dal laicismo, sia i tanti cittadini gravati da leggi economiche inique: Puoi tu, fratello, sorgere

De’ padri tuoi sull’orme?

Dal suo letargo scuotere L’umanità che dorme? Gridar che il sangue libero Che Cristo ha sparso un dì Sgorgò per tutti gli uomini, A tutti il cielo aprì? Grave sul capo ai poveri E ancor la soma antica, 24 Cfr., qui sotto, cap. 4, p. 161.

._ ® L'ultima strofa della versione documentata nelle Fantasie drammatiche e liriche [148], infatti, fa scomparire il coraggioso profetismo messianico attestato nella Merzoria del 1844 [130], per sostituirvi quasi l’apologia d'un presente ormai pacificato. E dunque la dicitura originaria «Così del Verbo ingenito / L’alto voler fia pieno, / E ’l suo potente spirito, / Fuso di seno in seno, / Scorge al proposto termine / La pigra umanità: / Ultimo fior terrigeno / che in Ciel maturerà» si trasforma in «Sul tuo guancial di polvere / Dormi, e col labbro insano / Non maledir le libere / Orme del genio umano. / Breve è il confin dell’eremo / AI volo del pensier: / Or son fratelli i popoli, / Ora è vangelo il ver».

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Lance non equa il premio Dispensa e la fatica, Fuso di padre in figlio Trapassa un rio poter, Ch’altri condanna a piangere, Altri quel pianto a ber.

Tempo è che l’uom [...].

Dove, certo, il ‘genere’ è solo molto vagamente quello della ballata, e anzi inno sacro e ode civile trovano qui una perfetta fusione, tuttavia propiziata dalla motivazione latamente narrativa (la fine appunto d’un monastero e perciò d’una tradizione) e dalla realizzazione dialogica che Dall’Ongaro ne ha fornito, attraverso il botta e risposta del frate e del poeta. E tuttavia, a ben vedere, tale esito ‘politico’ installato all’interno del tema religioso non è isolato, se ad esempio prendiamo in considerazione un componimento dall’apparenza ballatistica pubblicato circa sette anni prima sulla strenna milanese I/ presagio [1838, 169-76]), cioè per definizione in una sede ‘di consumo’ soprattutto femminile. Penso a I crociati. Frammenti di carme storico di Gottardo Calvi, dove attraverso quattro quadri di notevole sinteticità icastica (Partenza, Torpore, Assalto, Dio lo vuole!, ognuno dei quali

non supera mai la cinquantina di versi) è violentemente stigmatizzata l’inutile strage della prima crociata, l’assurda violenza dei combattenti cristiani, le abiette motivazioni che li muovono (fra queste, non a caso, figura addirittura il desiderio di altre donne, la pulsione al tradimento), e viene criticamente discussa la giustificazione teo-

logica che presiede a ogni impresa di tale natura’. Secondo dunque una comune linea storico-interpretativa che dalle pagine del «Conciliatore» si era diffusa ai Lombardi alla prima crociata di Grossi (con i notevoli strascichi polemici che l’opera portò con sé), Calvi contrappone al concetto di guerra santa le parole del 5% Calvi distingue infatti nelle note al testo «l’antica dalla nuova Legge: nella prima Iddio era il capo politico e religioso del popolo ebreo soggetto a un dominio teocratico; nella seconda, di cui qui intendesi parlare, Cristo-Dio è solo il capo invisibile della sua Chiesa, ed Egli ha proclamato che il suo è un Regno non di questo mondo, che la sua è una legge di amore, e che Egli si offeriva ostia di pace per gli uomini all’Eterno suo padre». 3 Cfr. su tutta la vicenda G. Bezzola, Aspetti della polemica sui ‘Lombardi alla prima crociata’, in Manzoni/Grossi, atti del xrv congresso nazionale di studi manzoniani (Lecco, 1014 ottobre 1990), Milano, Casa del Manzoni-Centro nazionale di studi manzoniani, 1991,

vol. 1, pp. 7-22.

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