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Italian Pages 387 [397] Year 1985
Nella Storia del pianoforte, pubblicata dalla nostra casa editrice nel 1982, Piero Ratta lino aveva analizzato e spiegato i rapporti tra Fevoluzione dello strumento, il suo uso ai fini della creazione musicale e la sua presenza nella società. In questa am pia raccolta di saggi vengono trattati aspetti e problemi di storia della lettera tura pianistica che nel precedente volume erano stati toccati in modo più rapido o appena accennati. Le pagine sulle sonate di Mozart, di Beethoven e di Mendels sohn ci introducono ai temi sviluppati nei grandi saggi sulla sonata romantica e su Chopin e la scuola polacca. Dopo il 1830, spariti dalla scena del mondo Beethoven, Weber e Schubert ed entrati Chopin, Schumann e Liszt, affermatosi il pianofor te con telaio misto legno-metallo, il ro manticismo trionfò definitivamente. Con esso il pianoforte acquistò quel diritto di cittadinanza nei teatri che era stato del melodramma. Non a caso la nuova moda culturale si irradiò da Parigi, dalla città che per prima in Europa aprì la porta del potere alla borghesia. Il pianoforte diven ne così lo strumento musicale della bor ghesia. Grazie alle trascrizioni di Liszt di musica lirica e sinfonica, trascrizioni di grande importanza didascalica e promo zionale, .il pianoforte entrò trionfalmente nelle grandi sale da concerto. Sorpreso e dapprima riluttante il pubblico che nel pianoforte aveva amato la capacità di ricreare il melodramma e la sinfonia, co-
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Piero Rattalino
La sonata romantica e altri saggi sulla letteratura del pianoforte
il Saggiatore
© il Saggiatore, Milano 1985 Prima edizione: maggio 1985
Sommario
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Premessa Le sonate di Mozart Realtà, mito e immagini del Chiaro di luna Mendelssohn e il pianoforte Polonia, Polonia... Nascita, infanzia e prime gesta del pianoforte romantico La sonata romantica Le opere pianistiche di Wagner
Pianitalietta 207 230 252
Gli operisti italiani e il pianoforte La musica pianistica italiana dell’ottocento La «Generazione dell’ottanta » e il pianoforte
273
Il pianoforte di Musorgskij
Chère muse ménagère
297 308 322
Granados La cugina Tilde Hearts and Flowers Appunti
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341 345 350 353 356 361
Il Concerto per pianoforte e orchestra di Clementi è au tentico? Chopin secundum Liszt Il «caso» Roslavec Le Variazioni op. 27 di Webern L’opera pianistica di Dallapiccola e Petrassi Il pianoforte «moderno» dalla culla alla tomba Night fantasies di Elliott Carter
Sommario
Piccola storia della cadenza 3Ó7 370 375 38i
L’effimero assoluto: la cadenza in Mozart L’effimero condizionato: la cadenza in Beethoven Morte dell’effimero: la cadenza dopo Beethoven Indice dei nomi
La sonata romantica
Per Paolo Bordoni e Carlo Majer
Premessa
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Questa raccolta segue, sviluppa, e in parte completa la Storia del pianoforte che, pubblicata nel giugno del 1982 per i tipi de 17 Stfggztftoré’, ottenne un grande - e non previsto - successo, tan to da toccare in un anno la terza edizione. La raccolta compren de saggi per riviste di musicologia e di critica musicale o per «nu meri unici», relazioni in convegni di studio, note di programma per concerti: il tono del volume, che trascorre dall’indagine criti ca approfondita fino al divertissement, non è dunque uniforme, perché la diversa destinazione determinò di volta in volta un di verso taglio espositivo. Non ho tuttavia ritenuto necessario né di modificare (salvo in taluni piccoli particolari), né di eliminare al cuno degli scritti che, a parer mio, recano un contributo alla co noscenza della letteratura pianistica. Né ho ritenuto necessario di uniformare l’uso della prima persona singolare o plurale e l’elen cazione delle opere citate, che a volte si trovano in note a pie’ di pagina e a volte al termine. Alcuni, pochi periodi, che il lettore ritroverà qui, erano passati di peso nella Storia del pianoforte per un semplice motivo: non avevo saputo inventare un modo diver so e non meno chiaro di esprimere certi concetti; ma le ripetizio ni si contano in numero così limitato da non provocare, penso, il fastidio del déjà-vu. La dedica intende esprimere un piccolo ma sincerissimo tributo di riconoscenza a due amici che sollecitarono la pubblicazione del la Storia del pianoforte, rimasta per qualche tempo a dormire nel cassetto per motivi, in sé banali, che ne avrebbero però ritardato ulteriormente l’uscita senza un intervento volto a rimuovere la mia cronica propensione all’ignavia. Alcuni degli scritti qui ripro posti erano stati pubblicati da editori che ne avevano acquistato la proprietà letteraria. Ad essi, per aver cortesemente autorizzato la ripubblicazione, va il mio ringraziamento il più cordiale. Piero Rattalino
Le sonate di Mozart
Le prime sonate di Mozart per strumento a tastiera sono le quattro catalogate dal Kóchel con i numeri dal 6 al 9, composte tra il 1762 e il 1764 (cioè tra i sette e i nove anni d'età) e pub blicate a Parigi nel 1764. Il frontespizio parla di sonate «per cla vicembalo, che si possono suonare con accompagnamento di vio lino», e dunque di composizioni con accompagnamento ad libitum e in cui la parte di clavicembalo è completa ed autosufficiente, ma che prefigurano le future sonate per pianoforte e violino più che quelle per pianoforte solo. Altre quattro sonate, K 33d, e, f, g, composte probabilmente nel 1766, sembrano definitivamente per dute; ne abbiamo notizia da una lettera della sorella di Mozart, Maria Anna, che le propose ad un editore di Lipsia al quale le spedì nel 1800: del manoscritto non è però stata rinvenuta trac cia, almeno fino ad ora. Infine, due sonate, K 4ód e K 46c, com poste a Vienna nel 1768 e non pubblicate da Mozart, sono nota te su due righi ma senza indicazioni di strumenti: potrebbero es sere state pensate per clavicembalo come potrebbero — e ci sem bra l’ipotesi più probabile - essere state destinate a violino e vio loncello. Le prime sonate per strumento a tastiera solo, con le quali si inaugura il «genere» nella produzione mozartiana, sono dunque le sei catalogate dal Kóchel con i numeri dal 279 al 284, e che furono composte tra il 1774 e il 1775.1 Non si sa bene se Mozart cominciasse a comporre sonate per strumento a tastiera con il fine di proporle ad un editore o di usarle in esecuzioni private o pubbliche. Forse egli intendeva se guire l’esempio di Haydn, che appunto nel 1774 aveva pubblica 1 II Kóchel, che pubblicò il suo catalogo nel 1862, non aveva ancora potuto rico struire esattamente la cronologia di tutte le opere di Mozart; Alfred Einstein, tenendo come base la numerazione del Kóchel, propose più tardi alcune varia zioni e alcuni aggiustamenti. Noi useremo, perché la riteniamo più pratica, la
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to la sua prima raccolta di sei Sonate, Top. 13, ma le due ipotesi non sono alternative l’una all’altra. Mozart, vivendo isolato a Sa lisburgo, avrebbe potuto trattare con un editore senza doversi as sumere le spese di stampa quando fosse stato in grado di dimo strare che le sonate erano piaciute al pubblico dei dilettanti. L’oc casione per farle ascoltare ed apprezzare avrebbe potuto essere facciamo sempre supposizioni che, per quanto ragionevoli, resta no supposizioni — il viaggio a Monaco, progettato e compiuto tra la fine del 1774 e l’inizio del 1775, per la prima rappresentazio ne dell’opera La finta giardiniera, che andò in scena al Teatro di Corte il 13 gennaio. Quando partì per Monaco Mozart aveva co munque pronte le prime cinque sonate (la sesta che, come vedre mo, si diversifica notevolmente dalle altre, fu scritta a Monaco), le Variazioni K 179 e K 180 e il Concerto K 175, e poteva dun que presentare un considerevole repertorio pianistico. Pianistico, o clavicembalistico? Questo problema critico deve essere per lo meno accennato, se non discusso a fondo. Per qua le strumento a tastiera furono composte le sonate? Se le sei so nate fossero state pubblicate da Mozart il frontespizio avrebbe certamente parlato di pezzi «per clavicembalo o pianoforte»: la dizione era abituale già verso il 1770 e sarebbe rimasta abituale fino alla fine del secolo, perché nessun editore sarebbe stato così pazzo da emarginare tutti coloro che non possedevano un piano forte ma disponevano di un cembalo. La frequenza dei segni di numerazione del Kòchel; ecco comunque le corrispondenze tra le due numerazioni: Kòchel Einstein 189 d 279 189 e 280 189 f 281 282 189 g 189 h 283 205 b 284 284 b 309 300 d 310 284 c 311 300 h 330 300 i 331 300 k 332 315 c 333 457 457 475 475 545 545 570 570 576 576
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dinamica {piano e forte), facilmente realizzabili sul pianoforte e realizzabili solo su clavicembalo dotato di due tastiere e di più re gistri, ed alcuni segni di crescendo e diminuendo, specificatamen te pianistici, fanno pensare che Mozart avesse in mente il piano forte. Si può anzi dire che in Mozart il passaggio dal clavicembalo al pianoforte avvenga con le Variazioni K 180, composte a Vien na nell’estate del 1773 (le Variazioni K 179 furono composte a Sa lisburgo nel 1774), anche se il Concerto K 173, composto a Sa lisburgo nel dicembre del 1773, mostra ancora cospicue tracce di stile clavicembalistico. È vero, a voler essere molto sottili, che ne gli anni settanta certi clavicembali erano dotati del Venetian swell, cioè di una copertura della cassa suddivisa in stecche che si pote vano far ruotare su se stesse per ottenere effetti di crescendo e di diminuendo; ma questi clavicembali erano diffusi soprattutto in Inghilterra e non dovevano essere noti a Mozart. Il piano e il forte, il crescendo e il diminuendo potevano invece essere ottenu ti sul cJavicordo; non risulta tuttavia che Mozart, al contrario di Cari Philipp Emanuel Bach o di Haydn, abbia prediletto il clavicordo. Un definitivo orientamento di Mozart verso il pianoforte è tuttavia documentato solo dall’autunno del 1777. Ultimo problema a cui si deve accennare: quali sonate di com positori del tempo erano note a Mozart? Mozart conosceva cer tamente le sonate dei compositori che aveva incontrato a Parigi durante i suoi soggiorni del 1763-64 e del 1766: Eckard, Raupach, Schobert, Honauer. Conosceva molto probabilmente le so nate di Cari Philipp Emanuel Bach, e certamente quelle di Johann Christian Bach, da lui conosciuto a Londra nel 1764; egli aveva anzi trascritto per pianoforte e archi tre sonate dell’op. 5 di Johann Christian Bach. Conosceva i lavori dei sonatisti di Vienna, come Wagenseil ed altri, i lavori di sonatisti italiani, come Paradisi ed altri, che vivevano a Londra, e forse i lavori di minori composi tori inglesi come John Burton e William Lackson. Nel 1774, a diciott’anni, Mozart aveva però già superato la fase dello studio e della ricreazione di ciò che avevano fatto e facevano altri com positori di musica per tastiera; nella prima Sonata, K 279, si pos sono trovare tracce di modelli preesistenti, ma già la seconda so nata è più personale e già la quinta non ha paragoni possibili nella produzione coeva, se non nelle Sonate op. 13 di Haydn. Tra le sonate per strumento a tastiera della seconda metà del Settecento si possono distinguere due tipi prevalenti; la sonata
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in due tempi e la sonata in tre tempi, mentre rarissima è ormai la sonata in un tempo solo (al modo, tanto per intenderci, di Do menico Scarlatti) e non molto frequente, almeno fino al 1790 cir ca, è la sonata in quattro o più tempi. In Mozart, sia nelle sonate /che nei concerti, troviamo un solo tipo di schema, quello in tre tempi, in genere organizzato in: 1) primo tempo in movimento allegro e nella cosiddetta «for ma-sonata» o «allegro di sonata», con esposizione, sviluppo, rie sposizione; l’esposizione comprende un primo tema, una transi zione, un secondo tema, una conclusione; lo sviluppo elabora ele menti della esposizione; la riesposizione ripresenta la esposizione secondo un piano di tonalità diverso e semplificato;2 2) secondo tempo in movimento andante o adagio, talvolta in forma-sonata, talvolta in forma di canzone, con esposizione di un primo tema, esposizione di un secondo tema, riesposizione del pri mo tema; 3) terzo tempo in movimento allegro o allegretto o presto, tal volta in forma-sonata, talvolta in forma di rondò, con tre o cin que successive esposizioni di un tema, inframmezzate da altri due o più temi; si può indicare il più semplice schema di rondò (cin que episodi) con A-B-A-C-A; il rondò a sette episodi è schema tizzabile in A-B-A-C-A-B-A; innumerevoli sono comunque le va rianti: la più frequente, ma non nelle sonate di Mozart, è quella detta rondò-sonata, con uno sviluppo al posto del tema C. Mozart si stacca molto raramente da questo schema e cerca co munque sempre un equilibrio complessivo tra i tre tempi della sonata, adottando di preferenza lo schema della forma-sonata per tutti i tempi. Il Newman ha fatto una curiosa indagine sul tempo «più forte», cioè sul culmine emotivo e strutturale nelle sonate dei grandi maestri viennesi (Haydn, Mozart, Beethoven), conclu dendo che nell’84 per cento dei casi, in Mozart, non c’è un tempo «più forte» degli altri (le relative percentuali sono del 28 per cen to in Haydn, del 38 per cento in Beethoven). È anche da notare che Mozart include rarissimamente danze nelle sonate, e che, co me già accennavamo e come poi vedremo, mostra di preferire di gran lunga la forma-sonata, che era allora la più «moderna», quel 2 Ci scusiamo di non poter spiegare adeguatamente lo schema della forma-sonata, che è tra i più ricchi e compiessi, ma una spiegazione anche appena un poco ap profondita ci porterebbe via pagine e pagine, e richiederebbe molti esempi mu sicali.
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la che consentiva il maggior grado di originalità, di elaborazione individuale di uno schema a tutti noto. La prima Sonata, in do maggiore K 279, presenta tre tempi tut ti in forma-sonata. Il primo tempo ha un che di scenografico: il discorso è largamente basato sull’eccitazione motoria di un ritmo uniforme, ma i temi sono formati da più sezioni, ed ogni nuovo disegno viene segnalato da spostamenti in zone diverse della ta stiera o da assottigliamenti della densità: vedremo poi come que sta impostazione del concetto di sonata per pianoforte solo trovi in Mozart sorprendenti e più maturi sviluppi, fino a configurare concezioni spaziali della musica per tastiera. Il secondo tempo è, molto chiaramente, una trasposizione su tastiera di un discorso che potrebbe appartenere ad un complesso d’archi o ad un’orche stra con archi e due coppie di strumenti a fiato: terze, seste, ot tave, cioè ispessimenti che aumentano la massa della sonorità so no impiegati da Mozart in alternanza con la più semplice e li neare scrittura per tastiera del rococò. I frequenti segni di dina mica, e soprattutto i fp (forte-piano}, vale a dire forte la prima di una serie di note fanno pensare ad una precisa destinazione al pianoforte. Anche le ottave alla mano sinistra che si incontrano in alcuni punti del finale fanno pensare ad una trasposizione pia nistica di musica per orchestra, e l’uso attentissimo e sagace delle diverse zone della tastiera, o registri,3 mira a rendere la varietà timbrica dell’orchestra. Ecco come Mozart suggerisce non solo l’entrata di tutta l’orchestra dopo l’inizio affidato a pochi stru menti, ma anche un cambiamento di timbro: non solo la differen za tra piano e forte, ma uno spostamento di un’ottava sotto:
3 Abbiamo già usato il termine «registro» con un altro significato e riteniamo opportuna una precisazione. I registri del clavicembalo sono congegni meccanici che, opportunamente inseriti, modificano il timbro o la massa della sonorità. Timbro e massa che sul pianoforte possono essere modificati sia da congegni meccanici (comandati dai pedali) che dal tocco dell’esecutore. Per registri del
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La seconda Sonata, in ja maggiore K 280 è più ricca di inven zioni nella tecnica della tastiera. Particolarmente brillante è il fi nale, che sfrutta una velocità insolitamente alta in Mozart. Pur troppo non possiamo sapere se Mozart eseguisse il brano scanden do il ritmo in modo barocco-clavicembalistico, con prolungamento di alcuni suoni, o in modo pianistico, con accenti. Né possiamo sapere se nel secondo tempo usasse o no tocchi differenziati e se cercasse quell’accento parlante che la sua musica sembra suggeri re. La qualità musicale del secondo tempo è comunque molto ele vata e molto notevole ne è la struttura, una forma-sonata in mi niatura, perfettamente proporzionata. Anche il primo tempo è in movimento più mosso dell’ordinario (allegro assai invece di alle gro) e siccome il secondo tempo è un adagio invece di un andan te si può supporre che Mozart intendesse esperimentare un effet to di massimo contrasto tra il tempo intermedio ed i tempi estre mi, differenziando inoltre i caratteri espressivi fino a fare del tem po lento il centro emotivo, e fortemente emotivo della sonata. Nella Sonata in si bemolle maggiore K 281 la sonorità diventa meno brillante e più sfumata. È sempre molto difficile valutare la sonorità di una composizione del Settecento e c’è sempre il perico lo di fraintendere, col senno di poi, le intenzioni del compositore. Anche quando una sonata di Mozart viene eseguita su uno stru mento antico, e anche quando l’esecutore conosce i trattati sette centeschi di esecuzione non c’è nessuna effettiva garanzia, nessuna certezza di poter ricostruire lo stile di Mozart esecutore e il suo concetto della sonorità. È tuttavia per lo meno evidente che la sonorità della Sonata K 281, pur non esattamente ricostruibile quale fu pensata da Mozart, è diversa da quella della Sonata K 280. Il tessuto musicale, nel primo tempo della Sonata K 281, è molto leggero, le linee sono solo due, una delle quali sempre net tamente subordinata all’altra; Mozart non ha dunque problemi pianoforte si intendono invece le diverse zone di altezza (registro, grave, regi stro medio, registro acuto).
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nel rendere percepibili sulla tastiera i due eventi, e tutt’al più usa qua e là qualche ispessimento della sonorità per sottolineare alcu ni particolari. Molti studiosi ritengono che qui, come anche nella precedente Sonata in fa maggiore, si manifesti un’influenza su Mo zart delle Sonate op. 13 di Haydn; si pensa che Mozart avreb be potuto conoscere le sonate di Haydn nella pubblicazione a stampa del 1774, ma non è da escludere che le avesse lette ma noscritte, durante il suo soggiorno a Vienna del 1773. L’idea di comporre sonate per strumento a tastiera solo potrebbe del re sto essere stata suggerita a Mozart, già lo abbiamo detto, dalle sei Sonate op. 13, le prime che Haydn pubblicava, così come i Quartetti del sole di Haydn avevano suggerito a Mozart la com posizione dei quartetti K 168-173. L’andante amoroso ricorda, co me l’andante della Sonata K 279, lo stile della musica orchestrale dell’epoca: il .primo tema è distinto chiaramente in due parti, una affidata alla massa intera, l’altra a due solisti, e nel secondo tema si notano interventi alternati di soli e di tutti (la composizione è, anche in questo caso, una forma-sonata in miniatura). Il termine «amoroso», non infrequente nello stile galante, in dica un intenerimento sentimentale che noi, oggi, possiamo solo ricostruire in ipotesi, ma che testimonia senz’ombra di dubbio le intenzioni espressive del compositore. Il rondò finale è a nove epi sodi: A-B-A-C-A-D-A-B-A. La composizione è dunque molto va ria, ma breve, perché Mozart non sviluppa i temi né inserisce pas si di figurazioni virtuosistiche. La destinazione al pubblico dei di lettanti appare nella Sonata K 281 con evidenza ancor maggiore che non nelle due precedenti sonate, e non è neppur da esclude re che Mozart avesse addirittura in mente diverse figure di dilet tanti per i quali preparare di volta in volta la musica più adatta. La differenziazione dei pezzi, in una raccolta (e pare certo che le prime sei sonate siano state concepite come raccolta), era del re sto una condizione essenziale per interessare all’acquisto un pubbli co il più vasto possibile, e Mozart, nel 1774, si trovava in un mo mento della sua carriera in cui la ricerca del successo stava venen do in primo piano e significava nello stesso tempo prospettiva di lavoro in ambienti culturalmente qualificati e liberazione dalla tu tela artistico-morale del padre. La Sonata in mi bemolle maggiore K 282 è la più breve e la più atipica del ciclo: sei pagine a stampa invece delle solite otto o dieci, un primo tempo in movimento lento invece che in movi
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mento mosso, due minuetti come secondo tempo. Il minuetto, abituale nelle sinfonie e nei quartetti, frequente nelle sonate per strumento a tastiera di Haydn, appare nelle sonate per pianoforte di Mozart soltanto in due occasioni: nella Sonata K 282 e nella altrettanto atipica Sonata K 331. Altra caratteristica insolita del la Sonata K 282 è costituita dalla forma del primo tempo: formasonata, ma senza il primo tema nella riesposizione, e cioè.secon do un modulo molto raro, che sarà prediletto, sessant’anni più tardi, da Chopin. Il finale è in forma-sonata, regolarissimo. Nella quinta Sonata, in sol maggiore K 283, notiamo un salto di qualità che stacca più nettamente Mozart dai suoi contempora nei. Sia il primo che l’ultimo tempo, entrambi in forma-sonata, so no ricchi di trovate strumentali che rendono più varia la scrittu ra e che si discostano dai moduli riscontrabili in altri composito ri. La pagina decisiva, per la definizione della personalità di Mo zart, è tuttavia il tempo intermedio, andante in do maggiore. Lo schema espositivo di base è ancora quello dell’alternanza tra la massa dell’orchestra ed alcuni solisti, ma i trapassi dall’una all’al tra alternativa sono levigatissimi, tanto che non si può più parla re di trasposizione dall’orchestra sulla tastiera, ma solo di movi menti di masse e densità diverse. In precedenza, in altre parole, Mozart aveva usato la tastiera come microcosmo su cui si può ri produrre come in una stampa il macrocosmo dell’orchestra, qui usa la tastiera come laboratorio sperimentale per invenzioni che più tardi potranno essere adottate in orchestra. Da notare anche che il trapasso dal primo al secondo tema - il pezzo è in formasonata - avviene senza soluzione di continuità, e che parte del pri mo tema, nella riesposizione, è trasportato al quarto grado (solu zione strutturale che verrà prediletta da Schubert). Avevamo det to prima che Mozart adotta di preferenza la forma-sonata, il cui schema, messo a punto di recente, consente il massimo di speri mentazione individuale; e nel giro di pochi mesi Mozart riesce ad individuare, sia pure embrionalmente, due varianti che verranno esplorate a fondo da Schubert e da Chopin. Quando partì da Salisburgo per Monaco, nel dicembre 1774, Mozart aveva pronte cinque Sonate. La sesta Sonata, in re mag giore K 284, fu scritta a Monaco nel febbraio o nel marzo del 1775 Per il barone Thaddàus von Durnitz. Il titolo di uno schiz zo [Sonata VI) e la scelta della tonalità, re maggiore, dimostrano la volontà di Mozart di completare un ciclo di sei sonate: ‘
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K K K K K K
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do maggiore (nessuna alterazione) fa maggiore (un bemolle) si bemolle maggiore (due bemolli) mi bemolle maggiore (tre bemolli) sol maggiore (un diesis) re maggiore (due diesis).
La partecipazione alla intensa vita musicale di Monaco, che lo portò a scrivere in brevissimo tempo un considerevole numero di composizioni di vario genere, indusse però Mozart a rinnovare a fondo le prospettive entro le quali si era mosso nelle prime cin que sonate. Rispetto alle sei o otto o dieci pagine precedenti, la K 284 occupa diciotto pagine a stampa e la sua difficoltà tecnica è molto più elevata. Lo schizzo dianzi citato è di una scrittura tanto poco pianistica da parere - se non ci fosse il titolo Sonata VI - l’abbozzo di una sinfonia. La versione definitiva, scritta su perbamente per tastiera, con movimenti delle braccia che hanno un valore gestuale tutt’altro che secondario a fini spettacolari, conserva in parte il carattere d’una sinfonia, di grandi movimenti di masse e di timbri, perché la conoscenza dell’orchestra di Mona co, molto più evoluta di quella di Salisburgo, conduce di nuovo Mozart a cercare di riprodurre sulla tastiera immagini sinfoniche e a scoprire risorse del pianoforte non ancora note. Il secondo tempo è apparentemente meno nuovo perché per lun ghi tratti presenta la semplice scrittura dello stile galante. Le pri me quattro battute riproducono però in termini pianistici l’alter nanza rapida di archi e fiati, giocando sul contrasto di forte e pia no e su minimi spostamenti sulla tastiera; oggi il contrasto può essere accentuato dall’esecutore con l’impiego di due diverse spe cie di legato, e quindi con una lieve variazione di timbro. Non sappiamo, naturalmente, se Mozart variasse il tocco; ma la sua insistenza e la sua cura - testimoniata dalle lettere — per il «gu sto», per 1’«espressione», per il «sentimento» ci fanno supporre che già avesse scoperto il modo di sfruttare attacchi del tasto dif ferenziati. Le prime quattro battute del primo tema ritornano altre cin que volte nel corso del pezzo, ed ogni volta sono variate nel di segno e nella strumentazione senza mai perdere le loro caratteri stiche di fondo. Si dovrebbe qui aprire il discorso sulle varianti ornamentali che Mozart concedeva all’iniziativa dell’esecutore. Si
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tratta di un tema critico molto interessante, su cui però non pos siamo qui soffermarci. Facciamo solo notare come in questa occa sione - e in altre, come vedremo - Mozart preferisca scrivere la variante invece di affidarla al gusto dell’esecutore: la variante di venta, da ornamentale, strutturale, e su questa trasformazione ver/rà più tardi impostato uno dei più geniali tempi lenti mozartiani, l’adagio della Sonata in do minore. Il secondo tempo della Sonata K 284 non è un vero e proprio tempo lento, ma un rondeau en polonaise (rondò in polacca, ma il ritmo non’è quello, notissimo, della polacca ottocentesca). Il fi nale è un tema con ben dodici variazioni. Il tema - a modo di can to popolare, forse una canzone popolare parafrasata da Mozart è seguito da un primo gruppo di quattro variazioni virtuosistiche che servono a dimostrare l’agilità dell’esecutore (anche della ma no sinistra, la più impacciata per natura). Un secondo gruppo di quattro variazioni è organizzato come polittico in cui al primo pan nello (var. v) fa da corrispettivo, da pendant, l’ultimo (var. vili); le due variazioni intermedie sono invece fortemente contrastanti: una (vi) sull’incrocio delle mani, una (vii) molto espressiva, in modo minore. La variazione ix riprende timidamente e un poco ironicamente i procedimenti imitativi del barocco, accennando a due canoni, uno per moto retto ed uno per moto contrario. La va riazione x sfrutta la caratteristica sonorità delle ottave spezzate, più vaga e più «impressionistica», sui pianoforti del tempo di Mo zart, di quanto non sia oggi sui nostri pianoforti. Centro emotivo della collana di variazioni, la xi, adagio cantabile, trasporta sulla tastiera la cantabilità ornata in cui erano maestri i cantori evirati: cantabilità non patetica, ma tenera e sentimentale, fatta di ricami espressivi ed adattissima al pianoforte perché priva dei lunghi suoni sostenuti che al pianoforte sono preclusi. La variazione xn conclude il lavoro in modo deciso e brillante, e con un passo finale della mano sinistra che mette spettacolosamente in mostra la bra vura dell’esecutore. Mozart non riuscì a pubblicare nel 1775 il ciclo di sei sonate, né vi riuscì nel 1778 a Parigi, né quando si stabilì a Vienna; an che suo padre tentò invano di «piazzare» la raccolta. Nel 1784, capitatagli l’occasione di pubblicare tre sonate per l’editore vien nese Christoph Torricella, Mozart scelse la K 454 (con accompa gnamento di violino), la K 333 composta a Parigi e la K 284. Nel momento in cui faceva conoscere al pubblico di Vienna i
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concerti K 449, 450, 451, Mozart ritenne dunque ancor degna del suo nome la Sonata K 284, che si stacca effettivamente da quelle del 1774 non tanto per il valore estetico o musicale asso luto, quanto per le più ampie proporzioni e, soprattutto, per una ricerca sullo strumento che fa di Mozart il primo grande pianista. Partendo da Salisburgo, con meta Parigi, nel dicembre del 1777, Mozart portava con sé le sonate K 279-284, le variazioni K 179 e 180, i concerti K 175, 238, 242, 246, 271. Durante le tappe del viaggio - a Monaco, Augusta e Mannheim - riuscì a far ascol tare tutti i concerti ed eseguì in pubblico le sonate K 283 eK 284; in riunioni private eseguì più volte tutte le sei sonate. Nel novem bre del 1777, mentre si trovava a Mannheim, Mozart aggiunse al suo repertorio la Sonata K 309 in do maggiore che, come ap prendiamo dalle lettere al padre, fu scritta per Rose Cannabich, figlia del musicista di corte Christian con cui Mozart si era legato di viva amicizia. Se la Sonata K 309 fu calcolata sulla capacità di una ragazzina bisogna dire che la quindicenne Rose Cannabich, descritta nelle lettere di Mozart come personcina riflessiva e sensibile, doveva essere pianista dotata di una tecnica molto brillante, perché la so nata è difficile e chiede incisività di suono, indipendenza tra le mani ed una completa padronanza della scansione ritmica. La dif ficoltà non consiste però più nel movimento di masse diverse di suono della Sonata K 284, e non si può non ricordare che tra la K 284 e la K 309 si colloca il Concerto K 271, decisivo nella evo luzione stilistica di Mozart per la maturazione di una personale concezione dell’uso dello strumento. Tra le più interessanti no vità strumentali nella Sonata K 309 è l’uso in funzione melodicotematica dei registri medio e grave. Il secondo tema del primo tempo viene presentato, nella esposizione, in una posizione tradi zionale, con l’evento secondario in registro medio e l’evento prin cipale in registro acuto, ben distanziati e facilmente percepibili, come se fossero collocati in un primo e in un secondo piano:
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Nella riesposizione la collocazione è all’inverso e la posizione è più stretta: l’orecchio dell’ascoltatore, colto l’arrivo dell’evento secondario, deve poi andare alla ricerca dell’evento principale, che proviene da una posizione inattesa (il crescendo accentua l’emo zione dell’attesa):
Lo spostamento di registro non è più solo usato, come nella Sonata K 279, per avvertire l’ascoltatore del mutare degli eventi, ma per un effetto di sorpresa e quindi, in senso lato, di teatrali tà. Di forte teatralità è la conclusione della sonata: al termine di un rondò molto movimentato, con passi di agilità a due mani e continui cambiamenti di densità ritmica l’ascoltatore si aspette rebbe due accordi clamorosi e secchi che dessero il segnale del l’incontenibile applauso. Invece Mozart riprende, per le otto bat tute conclusive, il frammento iniziale del tema principale, in mo do quieto e mormorato, usando il registro medio-grave e costrin gendo anche questa volta l’ascoltatore ad andare a cercare un even to che giunge da posizione inattesa. Il senso scenografico-teatrale degli eventi sonori costituisce a parer nostro il momento più in teressante degli esordi di Mozart sonatista. Per questo aspetto Mozart è molto più l’erede dell’italo-spagnolo Domenico Scarlatti che del tedesco Johann Sebastian Bach: Bach usa la tastiera co me spazio sferico e convergente su un punto, punto che viene spo stato ma che resta sempre il centro focale dell’attenzione; Scar latti e Mozart la usano come spazio aperto, multidimensionale, in cui gli eventi sonori coesistono da protagonisti e si muovono, scompaiono, riappariscono:
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Se per Bach spazio e tempo coincidono, nel Mozart di questo periodo la tastiera mima un teatro, che a sua volta mima uno spa zio naturalistico in cui gli stimoli auditivi provengono all’ascol tatore da ogni direzione. Si potrebbe benissimo dire che il secon do tema della Sonata K 309 è come un evento sonoro che, pre sentatosi una prima volta di fronte all’ascoltatore, si presenta una seconda volta alle sue spalle, e che Mozart, dopo aver creato l’e quivalente della sala teatrale, utilizza talvolta, oltre al palcosce nico, la platea e i palchi, o si potrebbe dire che sfrutta l’esperien za delle audizioni musicali nel duomo di Salisburgo - spazio ba rocco che i musicisti locali usavano in tutte le sue potenzialità4 e delle serenate all’aperto. Il paragone non può essere spinto ol tre limiti che diventerebbero paradossali; sembra però a noi che nelle sonate del 1774-1777 si manifesti in misura lampante la vocazione teatrale di Mozart, che non è ancora vocazione alla drammaturgia ma alla utilizzazione dello spazio come luogo di dislocazione degli eventi sonori. Nel secondo tempo della Sonata K 309 Mozart si riallaccia al l’esperienza del secondo tempo della K 284, conducendola in modo più coerente perché nessun residuo vi rimane di stile ga lante. Il principio che Mozart segue è quello della ripetizione variata, ma la forma è atipica:
Tema A Prima variazione del Tema A Tema B Seconda variazione del Tema A, con condensazione dell’estensione Variazione del Tema B Terza variazione del Tema, con diversa condensazione dell’esten sione Coda.
4 Ricordiamo che il duomo di Salisburgo era stato inaugurato con una complica tissima Messa, forse di Orazio Benevoli. Leopold Mozart descrive bene la col locazione degli strumenti del duomo: «L’organo grande viene usato soltanto per preludiare quando si fa delle musica importante. La musica stessa viene però eseguita da uno dei quattro organi laterali, e precisamente da quello di destra, accanto all’altare, dove stanno anche i cantanti solisti e i bassi. Presso l’organo di fronte, a sinistra dell’altare, stanno i violinisti, ecc.; e agli altri due laterali, i due cori, le trombe e i timpani. L’organo del coro, situato di sotto, e il con trabbasso, suonano nei ripieni» (B. Paumgartner, Mozart, Berlin 1967, vi ed.).
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La Sonata K 311 in re maggiore, che fu composta a Mannheim, era molto probabilmente destinata a far valere il pianista Mozart: è difficile, molto difficile, con alcuni passi che anche oggi richie dono una tecnica da concertista. Mozart sfrutta qui le trovate della Sonata K 309 in modo più ffiarcatamente bravuristico, e soprattutto il rondò finale, molto ampio, richiede una padronanza della tastiera e una capacità di sostenere la tensione virtuosistica che rivelano chiaramente il rap porto con il pubblico eterogeneo della sala di concerto. Il concer tismo pianistico era allora agli inizi. Johann Christian Bach ave va eseguito sul pianoforte un solo (probabilmente una sonata) a Londra nel 1768, e dopo di lui altri esecutori s’erano serviti del nuovo strumento. Il concerto per pianoforte e orchestra, la so nata per pianoforte solo, l’improvvisazione erano i generi che i pianisti praticavano in pubblico. Il programma che Mozart sosten ne ad Augusta il 22 ottobre 1777 comprendeva ad esempio: 1) Sinfonia-, 2) Concerto per tre pianoforti [K 242]; 3) Sonata [K 284]; 4) Concerto [K 238]; 5) «Secondo il tempo che rimarrà, una fantasia liberamente fugata nello stile della musica chiesasti ca»; 6) Sinfonia. Pochi anni più tardi Mozart non avrebbe più eseguito sonate per pianoforte solo, evidentemente perché il ge nere non doveva aver incontrato il pieno gradimento del pubblico pagante, e per molto tempo ancora, fino a circa il 1830, nessun pianista avrebbe abitualmente eseguito in pubblico sonate (né di Mozart né di altri). Ma nel 1777, all’inizio di un processo storico che nel giro di circa cinquant’anni avrebbe portato alla afferma zione del concerto pubblico come forma istituzionale di diffusio ne della musica, Mozart cercava di portare in sala di concerto an che la sonata, legata fino a quel momento all’uso privato dei di lettanti. Il senso della sonorità orchestrale nella Sonata K 284, il senso dello spazio nella Sonata K 309, il virtuosismo di bra vura nella Sonata K 311 rivelano appunto una trasformazione nella concezione della sonata per pianoforte solo, che da compo sizione adatta alla lettura nella piccola cerchia familiare aspira a diventare spettacolo. Tra i tanti caratteri spettacolari della Sonata K 311 possiamo notare un episodio di agilità prolungata nel primo tempo, che po stula il concetto di resistenza, un episodio alla conclusione del secondo tempo in cui il tessuto, fino ad allora squisitamente pia nistico, prende d’improvviso l’andamento di un grande tutti or-
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chestrale, un passo del primo tempo in cui un breve frammento viene spostato successivamente in tutte le zone della tastiera in cui può essere collocato:
Gli spostamenti dell’elemento A e lo scorrere dell’elemento B intendono suggerire a parer nostro una molteplicità di fonti so nore in uno spazio (le quattro posizioni di A sono successive, ed intervallate da brevissimi silenzi):
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Il movimento delle braccia aggiunge un elemento gestuale, di forte suggestione, all’idea di spazializzazione del suono. Idea che, naturalmente, va vista come trasposizione delle molteplici dimen sioni dello spazio nella dimensione unidirezionale e priva di pro fondità del pianoforte. Si può parlare per analogia di quadro o di fotografia., cioè di riduzione a due dimensioni dello spazio e di ricostruzione mentale dello spazio nella visione dello spettatore. In questo momento della sua attività creativa Mozart, impegna to nella conquista di un pubblico che lo viene ad ascoltare in quanto pianista-concertista, non in quanto compositore, cerca a parere nostro il modo di riprodurre sulla tastiera l’immagine del la musica negli ambienti — il teatro, la chiesa, il plein air - tradi zionalmente riservati alle audizioni musicali di massa. E, sia det to per inciso, solo ponendo mente a questi caratteri della sua ri cerca si possono valutare ed apprezzare le prime otto sonate di Mozart. La maggior popolarità delle sonate successive non dipende in fatti soltanto dall’ovvia constatazione che l’artista diventa sempre più maturo, ma dalla non individuazione del problema che Mozart
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si poneva agli inizi della sua attività di esecutore in pubblico e nella cui soluzione gettava una capacità inventiva già in tutto de gna del suo genio. La Sonata in la minore K 310 sfrutta i risultati, ma capovolge le intenzioni della ricerca condotta con le sonate K 284, 309 e 311. Lo stile pianistico che nella Sonata K 311 era pervenuto alla maturità viene volto nella K 310 verso significati non più semplicemente teatrali ma drammatici: nello sviluppo del primo tempo, ed è questo uno dei momenti memorabili nella letteratura pianistica del Settecento, il movimento continuo e le ripercussioni di frammenti, simili a quelli della Sonata K 311, suggeriscono, invece di un’idea di spazio, una sensazione di flusso vorticoso in cui cozzano, con inaudita asprezza armonica, spezzoni di melodia. Anche nel secondo tempo, molto ampio e in forma-sonata, il pun to culminante è raggiunto nello sviluppo, in un lungo episodio in cui il ritmo viene ripetuto ossessivamente. L’impiego di tutti i registri, la scrittura ricchissima, la tensione virtuosistica a cui è sottoposto l’esecutore diventano gli elementi costitutivi di un af fresco apocalittico e la forma-sonata scopre lo sviluppo come cul mine di un dramma che si placa catarticamente nella riesposizio ne. Nel finale il ritmo ossessivo pervade tutta la composizione. La forma è tripartita: prima parte (esposizione di forma-sonata su un solo tema), seconda parte (secondo tema), riesposizione abbreviata e brevissima coda. Il culmine emotivo è raggiunto an che qui nella parte centrale (il nuovo tema che sostituisce lo svi luppo), ed è raggiunto, paradossalmente, con il massimo della dol cezza, con una mormorante ninna-nanna di angosciosa fissità. La sonata fu scritta probabilmente durante la malattia o poco dopo la scomparsa della madre, che aveva accompagnato Mozart a Parigi e che vi morì il 3 luglio. Le vicende tragiche e i sentimenti che appaiono nelle lettere al padre e ad un amico di famiglia potreb bero condurci, e potrebbero anche giustificare una spiegazione psi canalitica della sonata. Pensiamo che non sia necessario: il signi ficato emotivo appare evidente quando si consideri lo stato d’ani mo di un giovane che a ventidue anni, partito per una capitale della musica in cui aveva trionfato fanciullo, assiste all’agonia della madre e vede svanire ad una ad una tutte le speranze di successo. Questa terrificante esperienza umana porta Mozart a scoprire non solo nella musica, ma nella forma-sonata e nel pia noforte il linguaggio dei più profondi sentimenti dell’uomo. Al
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di là della personale vicenda esistenziale è però lo spirito dei tempi, è lo Sturm und Drang che scuote Mozart come Haydn, e che staccherà da questo momento la cultura tedesca dalle cul ture inglese, francese, italiana. Ad un periodo di stile internazionale, lo stile galante del roco cò, segue un periodo di differenziazione delle culture. E l’inizio di questo momento è segnato, per Mozart, dalla Sonata in la mi nore K 310, prima presa di coscienza che porterà più tardi l’arti sta alla ricerca di indipendenza dal potere economico delle clas si dominanti e ad un tentativo di liberazione che cozzerà non tanto contro i tempi quanto contro la struttura sociale dell’Au stria, e che perciò verrà duramente pagato. Le sonate K 309, 310 e 311 vennero acquistate dall’editore Heina di Parigi, ma furono da lui pubblicate solo quattro anni dopo, nel 1782? Mozart scriveva al padre il 20 luglio dicendo di non aver trovato chi gli acquistasse le sonate per il prezzo ri chiesto e di doverle cedere per quindici luigi d’oro. Abbiamo detto che Mozart sentiva lo spirito dei tempi; lo sentiva, per un altro verso, anche Muzio Clementi, che a Londra stava per pub blicare (sarebbero uscite nel 1779) le Sonate op. 2, strutturalmen te difficilissime, rivoluzionarie. Clementi avrebbe saputo sfrutta re abilmente, con il giro artistico sul continente del 1780-83, le sue scoperte, imponendole a tutta l’Europa e diventando il lea der indiscusso o, come si disse poi, il «padre del pianoforte». Usci te nel 1781 anche a Parigi le Sonate op. 2 di Clementi, Heina avrebbe fatto uscire le tre sonate di Mozart che affrontavano pro blemi analoghi in modo molto più complesso e più maturo. Ma nel 1778 Mozart non era stato capace di organizzare razional mente la sua carriera, né suo padre era più all’altezza di un si mile compito. Le sonate di Hullmandel e i concerti di Schroeter, che Mozart acquistò a Parigi, e le sonate che Johann Christian Bach stava per pubblicare erano ciò che il mercato poteva in quel momento assorbire con facilità. Sulle prospettive concrete del mer5 Heina pubblicò celermente le variazioni K 179 e 180 composte rispettivamente a Salisburgo e a Vienna e più vicine al corrente gusto del pubblico. L’editore parigino acquistò e pubblicò subito anche le Variazioni K 354 sulla romanza «Je suis Lindor», scritte a Parigi. Ma queste splendide variazioni, molto ampie e molto impegnative, non dovettero soddisfare né il pubblico né l’editore, tanto che Mozart non trovò acquirenti per le altre tre serie di variazioni (K 265, 333, 264) scritte a Parigi.
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cato, e non sulla promozione di novità, batteva Leopold Mozart nella lettera giudiziosa e vana che indirizzava al figlio il 13 agosto: Se in questo momento non hai allievi scrivi qualcosa di nuovo anche se ne ricavi meno dell’ordinario: servirà, coll’aiuto di Dio, a farti cono scere. Qualcosa, in una parola, di facile, di popolare. Informati da un edi tore per sapere ciò che vorrebbe - forse dei quartetti facili per due violini, viola e basso. Credi forse di abbassarti, scrivendo cose di tal genere? Non è assolutamente il caso! Che altro ha pubblicato Bach a Londra, se non simili bagatelle? Quel che è piccolo è grande, purché sia naturale, di scrit tura fluida e facile e ben costruito. Ciò è più difficile di tutte le progres sioni armoniche artificiali incomprensibili ai più, e più delle melodie diffi cili da eseguire. Bach s’è per ciò abbassato? Per niente! Una buona compo sizione, e dell’ordine, il filo [in italiano]: questo distingue il maestro dall’apprendista maldestro, anche nelle piccole cose.
Si potrebbe supporre che la Sonata in do maggiore K 330 ri spondesse alle esortazioni del buon Leopold. Si ignorano in realtà le circostanze di composizione della sonata, e sussiste an zi qualche incertezza sulla sua datazione: il Dennerlein suppone che si tratti della sonata che Mozart, a quanto dichiara in una lettera al padre da Augusta, improvvisò durante il concerto del 22 ottobre 1777,6 altri pensano che la sonata sia stata scritta a Mannheim, altri che sia stata scritta a Parigi. Nulla prova che Mozart abbia effettivamente scritto la sonata improvvisata il 22 ottobre, e non si può nemmeno escludere che la sonata improv visata, come ritiene il Hutchings, non sia piuttosto la K 309, mes sa poi sulla carta per compiacere Rose Cannabich. A noi non sem bra che la Sonata K 330 possa esser stata improvvisata in esecu zione pubblica in un periodo in cui, a parer nostro, Mozart af frontava il problema di quale musica per pianoforte solo potesse adattarsi ai grandi ambienti. Pensiamo piuttosto che la sonata sia stata composta a Parigi, forse su commissione di un dilettante, forse per considerazioni analoghe a quelle di Leopoldo e nella consapevolezza del fatto che per non perdere il pubblico dei dilet tanti non bisognava scostarsi troppo dalla lezione del celebre Johann Christian Bach, che nell’agosto del 1778 era a Parigi e che aveva pronte le Sonate op. 17 (le avrebbe pubblicate nel 1779). Tutti i musicologi suppongono che Bach facesse leggere a Mozart le So 6 «Poi eseguii, improvvisandola del tutto, una magnifica Sonata in do maggiore, con un rondò per finire.»
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nate op. 17 e non faticano a trovare analogie tra Pop. 17 n. 4 e la K 333 di Mozart. Mozart aveva certamente Fintenzione di pre parare una raccolta di sonate più facili e più adatte al pubblico delle tre che Heina non stava pubblicando, e la Sonata K 330 /rispondeva bene a questo scopo: se con la Sonata K 310 si affac ciavano nella musica di Mozart gli incubi che popolano certi di pinti del suo quasi coetaneo Johann Heinrich Fiissli, la Sonata K 330 avrebbe potuto scorrere sotto le dita della damina che, nella « Lezione di musica » di Fragonard, si lascia ammirare dal l’attonito paggetto voltapagine. Dal punto di vista della scrittura pianistica la Sonata K 330 rappresenta infatti un ritorno alle concezioni del 1774, cioè alla musica per dilettanti colti. L’impegno virtuosistico è limitato sia nel primo che nel terzo tempo (in forma-sonata), la mano sini stra viene lasciata in pace, non vengono scomodati i registri estre mi, ed il massimo della concentrazione musicale è riservato al tempo intermedio, in cui il movimento moderato consente all’ese cutore dilettante di dominare un tessuto più complesso. Dopo l’andante «con espressione» della Sonata K 311 e dopo il «canta bile con espressione» della K 310, Mozart riprende di nuovo il termine «cantabile». L’attenzione di Mozart è rivolta in questo caso a durate del suono pianistico in cui venga ridotta al minimo la diminuzione di intensità che è tipica del pianoforte e che im pedisce al pianoforte, in senso stretto, di «cantare». L’andante cantabile della Sonata K 330 scopre quel cantabile pianistico in timistico che verrà prediletto dai miniaturisti romantici e, come generalmente nei romantici, adotta la forma di canzone, con un primo tema, uno stupendo secondo tema di una dolcezza traso gnata, la ripresa del primo tema e una breve coda basata sul se condo tema. Insolito il piano tonale - fa maggiore-fa minore-fa maggiore - che probabilmente viene scelto da Mozart per man tenere inalterata la qualità di base della sonorità. L’autografo della Sonata K 330 porta il titolo Sonata 1, quello della Sonata K 332 porta il titolo Sonata m (dell’autografo del la Sonata K 331 ci sono rimaste solo alcune pagine del finale). Sembra dunque certo che, pur avendo intenzione di «piazzare» il gruppo delle prime sei sonate (parla di ciò in una lettera al padre, dell’11 settembre), Mozart vedesse la possibilità di trovare un acquirente per una raccolta scritta tenendo ben d’occhio il merca to. Non riuscì nel proposito, ed è probabile che non ci riuscisse
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perché, se la Sonata K 330 era ben adatta a mani graziose un po co maldestre, ci sarebbero voluti dilettanti molto pazienti e mol to testardi per uscire indenni dalle insidie della splendida Sonata in la maggiore K 331. Composizione atipica e di forma unica nella produzione di Mozart, la Sonata K 331 comincia con un tema con sei variazioni. Secondo il Rietsch il tema sarebbe deri vato da un canto popolare tedesco, Re eh te Lebensart\ esatta o no che sia questa supposizione ci sembra certo che Mozart voles se accattivarsi il pubblico con una melodia semplice e attraente, e le prime due variazioni confermano l’intenzione di adeguarsi al gusto e alla cultura dei probabili utenti. La terza variazione, in la minore, segna però un brusco trapasso verso un diverso oriz zonte stilistico. Il demone della ricerca sperimentale porta Mo zart a studiare di nuovo la trasposizione al pianoforte dei timbri orchestrali: qui è l’ottava legata, che riprende evidentemente la strumentazione flauto-oboe, e che sul pianoforte, al contrario che sul clavicembalo, può essere intonata con due timbri diversi. Nel la variazione quarta Mozart scopre una forma di raddoppio or chestrale ancora più raffinata, sfruttando l’incrocio della mano de stra sopra la mano sinistra e, probabilmente, il pedale di risonan za. Le altre due variazioni tornano verso più consueti moduli sti listici (il che non influisce sulla loro qualità estetica, e non la li mita), così che tutto il primo tempo acquista una curva psicolo gica di distensione-tensione-distensione. Il minuetto è nettamente sinfonico, con passi che potrebbero essere portati pari pari in or chestra; specialmente nel trio, sfruttando a fondo l’incrocio della mano sinistra sulla destra, Mozart trova soluzioni illusionistiche di timbrica molto variegata. Il finale, il celeberrimo alla turca, così intitolato perché suggerisce in alcuni momenti l’insieme di triangolo, piatti e grancassa che si trovava nelle musiche militari dei reggimenti ottomani, è costruito in modo singolarissimo: Tema A (la minore) Ritornello (la maggiore) Tema B (fa diesis minore) Ritornello (la maggiore) Tema A (la minore) Ritornello variato (la maggiore) Coda (la maggiore). All’origine è dunque una marcia (Tema A) con trio (Tema B),
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ma Mozart, che già aveva adottato la forma con trio nel minuet to, rende più flessibile e più ambiguo tutto il finale con la geniale inserzione del ritornello. La Sonata in fa maggiore K 332 è assai difficile, specialmente pel finale, ma di scrittura molto lineare. La serenità del primo tempo è appena turbata da un episodio con improvvisi accenti, e così il lirismo disteso del secondo tempo si increspa per le oscil lazioni di modo (maggiore-minore) che diventeranno molto più tar di un elemento costante dello stile mozartiano. La forma dell’ada gio è la forma-sonata senza sviluppo: esposizione, riesposizione. Si tratta di una forma frequente nelle ouvertures teatrali, ma che in questo caso non porta risultati espressivi parateatrali: Mozart, dopo la Sonata K 310, ci sembra ormai orientato verso la dram maticità e l’intimismo interiorizzato dell’introspezione e, forse, sta rinunciando alla sonata come veicolo di comunicazione con il pubblico delle sale da concerto. Il finale della Sonata K 332 è però ancora un finale virtuosistico in cui il Mozart pianista do veva sfoggiare la leggerezza e la brillantezza del suo tocco. Si no ti però come il virtuosismo sia qui tutto affidato a movimenti fulminei di linee, non di masse e di volumi. La Sonata in si bemolle maggiore K 333 è la più perfetta e la più varia commedia sentimentale tra le sonate per pianoforte so lo di Mozart, e ricorda a noi il teatro borghese di Lessing con la sua analisi dei sentimenti razionalistica ed affettuosa insieme. È stata più volte notata la somiglianza tra l’inizio della Sonata K 333 e dell’op. 17 n. 4 di Johann Christian Bach. Siccome non sappiamo con certezza7 quando fosse composta la Sonata K 333, e siccome non sappiamo con certezza se Bach facesse o no cono scere a Mozart le sonate dell’op. 17 possiamo fare due suppo sizioni (scartando quella, molto improbabile, di una somiglianza casuale): Mozart potrebbe aver preso la Sonata op. 17 n. 4 co me materia di analisi stilistica, scrivendo un primo tempo inteso come romanzo-saggio o commedia-saggio; oppure Bach potrebbe aver ascoltato lui la sonata di Mozart ed averne analizzato lo stile sottoponendolo ad una semplificazione e facendone una versione divulgativa. A noi sembra più probabile la prima ipotesi, ma, nel l’un caso e nell’altro, ci pare che non si possa dubitare sulla real7 II Kòchel assegnava la Sonata K 333 al periodo parigino. Secondo Alan Tyson, la composizione risalirebbe invece al novembre del 1783.
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tà di un rapporto tra un musicista nel pieno successo e un musi cista nel pieno di una crisi di identità. La crisi mozartiana affiora nello sviluppo del secondo tempo (in forma-sonata), con un uso particolare del registro basso po sto in evidenza, un uso di cui Haydn si ricorderà bene nella So nata n. 49 del 1789, e con certi rigiri di suoni strani che esem plificano ad abundantiam le «progressioni armoniche artificiali in comprensibili ai più», da Leopold tanto paventate. Il tono leg gero di commedia ritorna nel finale, che è un normale rondò a sette episodi. Prima dell’ultima riapparizione del tema principale Mozart spezza però il tranquillo scorrere della composizione con una «cadenza in tempo» che occupa ben il 15% del pezzo. Già nel finale della Sonata K 311 Mozart aveva inserito una cadenza, ma molto breve, più come raccordo a capriccio di due episodi che come cadenza. La «cadenza in tempo» della Sonata K 333 tra sporta invece nella musica da camera un elemento stilistico del concerto per pianoforte e orchestra. L’effetto è molto singolare e, bisogna dirlo, molto convincente, anche se non si capisce bene la ragione che portò Mozart a imma ginare questa soluzione formale. Anche nell’ultima serie di varia zioni composte a Parigi, K 264 sull’arietta Lison dormati, si tro va una cadenza, e si può dunque supporre che Mozart intendesse provare le reazioni, l’accoglienza che una simile innovazione stili stica avrebbe ricevuto. La contaminazione riesce a Mozart, come dicevamo, splendidamente. Ma l’inserzione di una grande cadenza nel contesto non virtuosistico della Sonata K 333, invece che del le spettacolose sonate K 3090K311, denuncia subito l’impos sibilità di un seguito ed acquista piuttosto il significato, più che di esperimento, di disincantata riflessione sulle speranze del 1777, rivelatesi nel 1778 per illusioni di un giovane provinciale trop po fiducioso delle sue forze e troppo inesperto delle cose del mondo. Mozart riuscì a pubblicare le sonate K 330, 331 e 332 quando già abitava a Vienna, nel 1784. Nello stesso 1784, anno per lui fortunato, pubblicò a Vienna le sonate K 284 e K 333 insieme con la Sonata K 454 per pianoforte e violino. Nel 1785 pubblicò la Sonata K 457, preceduta dalla Fantasia K 475. La datazione della Sonata K 457 è attestata dalla iscrizione nel catalogo mano scritto delle sue composizioni, che Mozart compilò a partire dal febbraio del 1784, e da una nota autografa su una copia: «Sona ta. Per il Pianoforte solo, composta per la Sig.ra Teresa de Tratt-
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nern dal suo umilissimo servo Wolfgango Amadeo Mozart. Vien na il 14 d’Ottobre 1784». Non dovrebbero dunque sussistere dub bi, ed effettivamente nessuno aveva dubitato della datazione fino a che il Dennerlein, con una minuziosa analisi stilistica e biografi ca, cercò di retrodatare la sonata al 1778. Le argomentazioni del Dennerlein, più ingegnose che probanti, non hanno tuttavia con vinto la maggior parte degli studiosi e la datazione al 1784 vie ne generalmente considerata incontrovertibile. La maggior preoccupazione del Dennerlein era di legare la So nata K 457 alla drammatica conclusione del viaggio a Parigi: sul la strada del ritorno Mozart era venuto a sapere che anche la spe ranza di essersi conquistato l’amore della cantante Aloysia Weber era un’illusione, ed aveva accettato di rientrare a Salisburgo per assumere l’incarico, resosi vacante, di organista di corte. Se la Sonata K 457 deve proprio essere legata ad un amore infe lice, un altro può esserne servito caldo caldo senza andare a sco modare la cronologia attestata dal catalogo manoscritto di Mozart. Nel 1784 Mozart e la moglie vivevano in casa del ricco libraio editore Johann Thomas Edler von Trattner, molto più anziano aveva sessantasette anni - della sua seconda moglie Thérèse, che di anni ne contava appena ventisei. Quando ai Mozart nacque il figlio Karl Thomas, il 21 settembre, il von Trattner accettò di far da padrino al neonato. Ma il 29 settembre, d’improvviso, i Mo zart traslocarono. Niente di più,... ma quanto basta per imbastire una trama sen timentale con i fiocchi. Certo che, se la Sonata K 457 è legata ad una tragedia amorosa, la ferita doveva sanguinare a fiotti ancora nel febbraio 1785, quando Mozart terminò il Concerto in re mi nore K 466, e il 20 maggio, quando iscrisse nel suo catalogo la Fantasia K 475. Fantasia e sonata furono pubblicate, nell’ordine, da Artaria di Vienna nel dicembre del 1785, con dedica a Thérè se von Trattner. Pare che Mozart avesse preparato per la dedica taria una lettera di spiegazioni sull’esecuzione dei due pezzi; que sta lettera, che malauguratamente è andata perduta, sarebbe sta ta per noi del più alto interesse, soprattutto in relazione con le novità stilistiche, con il carattere rivoluzionario delle sue compo sizioni. Si è molto discusso sull’accoppiamento di fantasia e sonata: se dovuto a motivi casuali o ad una meditata scelta dell’autore. Ai tempi di Mozart la pubblicazione di una sonata isolata era un fat
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to del tutto eccezionale perché le sonate venivano pubblicate per gruppi di tre o di sei. Si sa inoltre che alla fine del Settecento esisteva ancora l’uso, testimoniato anche dalla lettera in cui Mo zart descrive al padre la sua gara con Clementi, di preludiare pri ma di eseguire una sonata. Non pare quindi improbabile che Mo zart abbia inteso comporre la Fantasia K 475 come introduzione e preparazione alla Sonata K 457, certamente ben più dramma tica e meno volta all’intrattenimento di quanto non fossero a quel tempo le sonate per pianoforte solo. La pubblicazione di una so nata da sola, e preceduta da una fantasia introduttiva, sottolinea va quindi l’innovazione stilistica e la svolta ideologica, con la qua le Mozart introduceva nel campo della sonata per pianoforte con tenuti nuovi, inusitati. L’unità organica di fantasia e sonata pare quindi indubitabile, ed è perciò oggi usuale, per lo meno presso interpreti criticamente sensibili ed aggiornati, l’esecuzione con giunta dei due pezzi. Il termine «fantasia» venne impiegato da Mozart per indicare una forma libera, non sempre chiaramente rapportabile alla for ma della sonata e fu mutuato da Cari Philipp Emanuel Bach, au tore di pezzi intimistici nel cosiddetto stile empfindsam (senti mentale). La Fantasia K 394, premessa ad una fuga, è un andan te monotematico, preceduto da un breve adagio introduttivo e in frammezzato da un episodio in arpeggi. Nella incompiuta Fantasia in do minore K 396 troviamo un blocco unico, tempo lento in forma bitematica e tripartita (ma è pensabile che Mozart avrebbe forse concluso in modo diverso il pezzo). La celebre Fantasia in re minore K 397 ci presenta una progressiva organizzazione del discorso, da un vago preludio in arpeggio ad un allegretto di tipo e stampo tradizionali. La Fantasia in do minore K 475 è orga nizzata in più movimenti collegati (adagio, allegro, andantino, più allegro, tempo 1), con un evidente rapporto di simmetria tra pri mo ed ultimo tempo e tra secondo e quarto. Nessuno dei cinque movimenti acquista dimensioni considerevoli, né si struttura se condo forme affermate e riconoscibili dai contemporanei, e in tutti l’andamento tonale è quanto di più eterodosso si possa im maginare. Si può anzi notare qui una vera polverizzazione del di scorso musicale, inteso come mimesi di un discorso concettuale: l’adagio inizia in do minore, ma dal do minore si allontana im mediatamente per non più ritornarvi, volgendo verso il si minore e il sol maggiore, e stabilizzandosi poi, per così dire, in re mag
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giore, tonalità molto lontana dal do minore; l’allegro inizia in la minore, ma la tonalità prevalente è fa maggiore; l’andantino, cen tro strutturale ed emotivo della composizione, si configura come un episodio tra Parioso e il recitativo, chiaramente nella tonalità fli si bemolle maggiore, ma il suo normale decorso tonale viene infine turbato da una serie di modulazioni che conducono al mo vimento successivo; il più allegro inizia come un tumultuoso stu dio pianistico, per placarsi presto in rotti arpeggi espressivi, va riando continuamente la tonalità di base (sol minore) e prepa rando il ritorno alla tonalità principale (do minore); dalla tonali tà principale del pezzo non si discosta più il tempo i, che riprende la sola prima parte dell’adagio iniziale. Abbiamo parlato di polverizzazione, di frammentazione del di scorso, e di instabilità tonale. Questi caratteri fanno sì che la fan tasia serva perfettamente da introduzione alla sonata, nella quale il discorso è sì organizzato secondo moduli classici, ed il piano tonale è sì chiarissimo, tipico, ma in cui si notano anche fratture, contrasti, varietà ritmica non comuni a quel tempo. Di qui un carattere drammatico, teso, esasperato, a cui non furono più tardi insensibili il Beethoven della Sonata op. io n. i e lo Schubert della Sonata in do minore opera postuma. Il primo tema dell’allegro è formato da due elementi contrastan ti, drammaticissimi nella loro opposizione. Il secondo tema par rebbe più disteso e sereno, ma viene da Mozart reso inquieto e inquietante con inusitati sbalzi di registro e poi con interruzioni e passaggi subitanei dal forte al piano e viceversa. Nella Sonata K 457 è in effetti molto significativo l’impiego della possibilità di variare sullo strumento a tastiera la dinamica. Si paragoni il primo tempo della Sonata K 457 con il primo tempo della Sonata K 333: ventisette segni di dinamica (otto forte, sette piano, otto forte piano, un mezzoforte, un crescendo, un diminuendo, un crescendo-diminuendo) nella K 333, ottantasei (trentuno forte, cinquantuno piano, due pianissimo, uno sforzato, un crescendo) nella K 457. E la contrapposizione di piano e forte viene usata da Mozart non per effetti di spazializzazione della musica, ma per effetti drammatici, che insieme con le interruzioni tendono a mimare una scena di tragedia con più personaggi. Tutto il primo tempo della Sonata K 457 è tenuto su questo insolito clima espres sivo, e un ultimo, culminante momento di drammaticità è offer to dalla coda, eccezionale in Mozart (e solita invece in Beethoven),
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con la sua progressiva discesa di tutta la massa del suono verso il registro grave. Il secondo tempo, per la varietà ed il virtuosismo dell’orna mentazione e per l’insolita ampiezza fa pensare ai tempi lenti dei grandi concerti mozartiani per pianoforte e orchestra. La forma è quella tripartita, di canzone, ma il tema principale viene appun to variato molte volte, ed il secondo tema, impiantato in la be molle maggiore, viene esposto anche in sol bemolle maggiore, con una ricchezza di atteggiamenti nuova e ricca di futuri sviluppi. Il rapporto il secondo tema dell’adagio e l’adagio della Pate tica di Beethoven è tanto evidente che non occorre insistervi. Il terzo tempo è, formalmente, un rondò. Anche qui Mozart impiega con suprema genialità i contrasti di dinamica, le interru zioni, gli sbalzi di registro in funzione drammatica. L’uso del re gistro grave' estremo è molto insistente, tanto da postulare quel l’ampliamento della tastiera che sarebbe iniziato dai costruttori al l’inizio del nuovo secolo:
Abbiamo già citato il nome di Fussli a proposito della Sonata K 310 e potremmo citarlo con altrettante buone ragioni per la Pantasia e la Sonata in do minore. Ma Fussli si era stabilito in Inghilterra e nella cultura inglese aveva trovato un sicuro inseri mento. Che pensava, di quel piccolo salisburghese attratto dal demoniaco, il pubblico di Vienna che acquistava la musica stam
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pata da Artaria? Non sappiamo quante copie furono vendute del la fantasia e sonata; sappiamo solo che dopo la fantasia e sonata Mozart non riuscì più a pubblicare nessuna sonata per pianoforte solo.8 Eppure la Sonata in do maggiore K 545, composta nel 1788, rivelava uno scopo commerciale fin dal titolo con cui Mozart la Iscriveva nel suo catalogo: «Eine Kleine Klavier Sonate fiir Anfan ger» (Una piccola Sonata per principianti). L’assunto didattico è evidente, ed è puntigliosamente mantenuto fino alle ultime battute, quando Mozart si lascia scappare un passettino in terze assai dif ficile. Il primo tempo presenta una caratteristica formale insoli ta: la riesposizione inizia sul quarto grado (secondo un modulo, come già abbiamo detto, che verrà prediletto da Schubert). Il se condo tempo è uno dei più tipici esempi di musica per dilettanti, con la mano sinistra impegnata nel più semplice movimento ritmico-armonico possibile, il cosiddetto «basso albertino», e con la destra che snocciola una melodia in suoni brevi di lunghissima gittata. Il finale fu ripreso nella Sonata K 547a, che in parte è una trascrizione per pianoforte solo della Sonata K 547 per pia noforte e violino e in parte è un riadattamento del rondò della Sonata K 545. Sembra certo che fosse Mozart stesso a mettere insieme la Sonata K 547a, ma è molto curioso osservare che, sia o no la K 547a opera di Mozart, i punti difficili del rondò della Sonata K 545 vennero, nel riadattamento, semplificati. Anche la Sonata in si bemolle maggiore K 570, composta nel febbraio del 1789, è breve e facile. Facilità che non significa pe rò, in questo caso, semplicità concettuale: il primo tempo è co struito su due temi in parte identici, e quindi senza contrasti drammatici, ma con la raffinatezza e l’eleganza di dettato di un gioiel lo lavorato in ogni particolare ed il finale presenta momenti di complicata armonia e una coda popolaresca veramente incante vole. In alcuni punti del primo e dell’ultimo tempo compare una scrittura contrappuntistica a due voci che andava ben oltre il con sueto standard della musica non difficile, e che si rivolgeva al dilettante colto a cui non era estraneo l’interesse per il barocco che cominciava a ridestarsi negli ultimi due decenni del Settecen to. L’adagio centrale è una delle più pure e commoventi creazio 8 Dopo il 1784, oltre ai lavori di cui parleremo, Mozart compose due tempi di Sonata (K 533) e, come pare accertato, due sonate per pianoforte solo, di cui conosciamo solo le redazioni per pianoforte con accompagnamento di violino e violoncello (K 496 e K 502), pubblicate rispettivamente nel 1786 e nel 1788.
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ni del Mozart maturo. La forma, rondò a cinque episodi e coda, non è usuale in un tempo lento, ma Mozart la adotta per poter tornare più volte su un primo tema di una bellezza melodica as soluta, che trasporta l’ascoltatore in un clima di sospensione del la realtà e del tempo. Si possono ricordare alcune delle ultime pa gine pianistiche di Brahms o alcune delle Bagatelle op. 126 di Beethoven o gli ultimi Klavierstùcke di Schubert per l’analogia con un clima trasumanato, denso della saggezza di chi già contem pla la morte e l’accetta. Alla Sonata K 570 può corrispondere, in un altro campo, il Concerto K 595, anch’esso in si bemolle maggiore e anch’esso nel tono di un congedo. Ma non è con la K 570 che Mozart chiude la sua opera di sonatista: la chiude con un lavoro ampio e impe gnativo, legato al suo ultimo disperato tentativo di soluzione di problemi economici sempre più assillanti. Nella primavera del 1789 Mozart si era recato a Berlino, era stato ricevuto a corte, ed era tornato senza aver ottenuto nulla di veramente soddisfa cente, ma solo una piccola «ordinazione» del re di Prussia: sei quartetti per archi e sei sonate facili per pianoforte, queste ulti me ad uso della principessa Friederike. Tra il 1789 e il 1790 Mo zart scrisse tre dei sei quartetti (K 575, 589 e 590, dedicati al re di Prussia) e nel luglio del 1789 scrisse la Sonata in re maggio re, la sua ultima sonata per pianoforte. La Sonata in re maggiore K 576 dovrebbe essere la prima del ciclo di sei commissionate dal re di Prussia. Ma non si tratta di una sonata facile: anzi, si tratta forse della più difficile tra tutte le sonate di Mozart, e la destinazione alla principessa Friederike non sembra dunque affat to sicura. La discussione può sembrare oziosa, ma non lo è. Come abbia mo detto più volte, Mozart era un libero professionista della com posizione, che quando assumeva un ordine cercava di tener con to dei desideri e del gusto del cliente, e che non componeva, di solito, se non in vista di un rapporto con un committente, fosse esso un privato o un editore o un impresario o il pubblico: la sua musica, in altre parole, non era destinata ad un ascoltatore ipotetico, ma traeva occasione da un rapporto sociale diretto. La Sonata K 576 non fu scritta per un editore, tant’è vero che fu pub blicata soltanto nel 1805, e non fu consegnata ad un privato. Re sta la supposizione che fosse destinata alla principessa Friederike, nel qual caso non avrebbe però corrisposto alle attese del com-
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mittente. Si può invece supporre che Mozart progettasse di inclu dere di nuovo una sonata virtuosistica in un suo concerto pub blico, tenendo anche conto del fatto che desiderava sempre di andare in Inghilterra, dove le sonate facevano ancora parte del repertorio concertistico. Forse è così, ma non lo sappiamo. La destinazione della sonata non è un elemento secondario per la valutazione critica, anche perché Mozart - in una composizione vasta, impegnativa, difficilissima, ben diversa dalle piccole sona te K 545 e K 570 scritte dopo la K 457 - dimostra di voler fare uno sforzo per attenuare, per normalizzare il linguaggio d’avan guardia usato nella Sonata in do minore. La Sonata in re maggio re si presenta con certe caratteristiche che riprendono analoghe caratteristiche della Sonata in do minore-, ad esempio, in entram be il primo tema è formato da due nuclei, il primo semplicemen te raddoppiato in ottava, il secondo armonizzato e fiorito con trilli: entrambi i temi posseggono quella plastica, icastica eviden za, «beethoveniana» per antonomasia, che cattura subito l’atten zione dell’ascoltatore con la sua brevità ed il suo marcato carattere. Ma nella Sonata in re maggiore mancano la tensione dramma tica, le contrapposizioni, gli sbalzi di registro, la grande differen ziazione dinamica (quattordici soli segni nel primo tempo: sette piano, sei forte, un forte-piano), e si ritrova invece un tono di piana, cordiale conversione, il tono tradizionale di intrattenimen to che la Sonata in do minore aveva superato e che appariva su perato anche nella splendida Sonata incompiuta in fa maggiore K. 533, del 1788. Sotto l’aspetto compositivo è da notare soprattutto, nel primo tempo della Sonata K 576, il frequente impiego di procedimenti contrappuntistici, cioè di piccoli, brevi canoni. Abbiamo già ac cennato alla ricomparsa di un lineare contrappunto a due voci nella Sonata K 570; gli studi di Mozart sul barocco, cioè un con trappunto non legato alla erudizione storico-accademica o alla utilizzazione tradizionale e formalizzata nella musica per la chie sa, risalivano al 1782 e si erano fissati in una serie di lavori o, più numerosi, di abbozzi non condotti a termine. Nella Sonata K 570 e nella piccola Giga K 574, composta nel maggio del 1789, il contrappunto sta diventando principio di organizzazione del di scorso sganciato da suggestioni barocche e potenzialmente capace di sviluppi imprevedibili. Ora, il senso che la scrittura contrap puntistica assume nella Sonata K 576 è di spazializzazione del suo
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no: questa volta però, a parer nostro, in modo coreutico: i piccoli canoni diventano partenze sfalsate che ci ricordano i movimenti del pas des deux. Mozart aveva scritto una partitura di balletto in collaborazione con Noverre, il Petits riens, durante la sua perma nenza a Parigi nel 1778; a Parigi aveva fatto schizzi per un altro balletto e a Monaco, nel 1781, aveva composto musiche di ballet to per Vldomeneo. Non risulta che il suo interesse per il balletto andasse oltre questi isolati episodi, e può benissimo darsi il caso che la nostra impressione non abbia il minimo fondamento. Ma se l’abbiamo tuttavia esposta è perché si tratta di impressione per noi molto viva, che si inserisce bene nel carattere indubbiamente spettacolare, e non drammatico né lirico del primo tempo della sonata: carattere che sopporta il contrappunto solo come citazione ironica (al modo della variazione ix della Sonata K 284) o come elemento strutturale. E ci sembra che delle due alternative valga la seconda, con la conseguenza che a parer nostro ne deriva. L’adagio è in forma di canzone, con una seconda parte in fa diesis minore, di una bellezza straordinaria, ed una coda di sapore preromantico. Il finale, molto ampio e molto difficile, con passi virtuosistici anche alla mano sinistra, è un rondò-sonata, cioè un rondò che presenta, al posto del terzo tema, uno sviluppo del pri mo. Ma lo schema formale non dà ragione della ricchezza compo sitiva del finale, nel quale il dominio del primo tema — anzi, del primo nucleo del primo tema — è sostenuto da uno sfavillare di trovate brillantissime. Siamo ben lontani dal virtuosismo massic cio, imponente di Clementi, ma non sembra improbabile un’atten zione verso un pubblico più vasto di quello rappresentato dai di lettanti e dalle sale aristocratiche ed alto-borghesi di Vienna. Con la sua ultima sonata Mozart fa dunque l’ultimo tentativo di mettersi in rapporto con un pubblico che continua a sfuggirgli e che egli, in fondo, non capisce. Johann Christian Bach pubblica in tutto due raccolte di sei sonate ciascuna, che vengono ripubbli cate più volte e che gli danno fama europea, Haydn pubblica tutte le trentadue sonate che scrive dal 1773 in poi; Mozart scrive di ciassette sonate e riesce a pubblicarne nove, con un successo di vendita limitatissimo. La sua ricerca di rapporto con il pubblico, sostanzialmente, fallisce; ma proprio perché non riesce mai a in dividuare il gusto del suo pubblico, Mozart tocca successivamente tutte le potenzialità della sonata per pianoforte solo, aprendo un campo di ricerche che gli altri compositori potranno solo più ri
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percorrere. Le sonate di Mozart non furono popolari ai suoi tem pi, furono utilizzate nel corso dell’ottocento quasi esclusivamente a fini didattici, ed anche oggi non sono note, per lo meno al pub blico delle sale di concerto, nella loro totalità. La fase che si sta aprendo, cioè l’esplorazione della «integrale», dovrebbe portare ad una diversa considerazione critica e ad un ritorno non casuale né frammentario delle sonate nel repertorio concertistico del pia noforte. Il concertismo, che è stato in passato inteso come scelta di pagine esemplari, poi come ricognizione della storia, sta diven tando oggi analisi e giudizio sulla civiltà: le sonate di Mozart, e crediamo di averlo mostrato in queste note, sono un aspetto non secondario della civiltà europea dell’illuminismo, ed il conoscerle diventa un dovere — anche faticoso: non è facile ascoltare di se guito, in una sola serata, le sonate K 279-284 — per chi voglia ca pire la musica, non subirne il fascino, e capirla per aprire il cuore al fascino più profondo della vita che ritorna a pulsare attraver so i suoni.
Opere citate:
H. Dennerlein: Der unbekannte Mozart: die Welt seiner Klavierwerke, Lipsia 1955, il ed. L. von Kóchel: Chronologisch-tematisches Verzeichnis sdmtlicher Tonwerke Wolfgang Amade Mozarts, Lipsia 1862; ed. a cura di A. Einstein, ivi 1958. W. A. Mozart: Letters of Mozart and bis Family, a cura di E. Anderson. Londra 1966, 11 ed. W. S. Newman: The Sonata in the Classic Era, Chapel Hill 1963. A. Tyson: Mozart's Workshop, Berkeley-Los Angeles 1981. (Note di programma per un ciclo di concerti al Teatro alla Scala, 1981.)
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Essendosi accorto del fatto che la posizione del musicista nella società si stava profondamente trasformando, Haydn, pare, dis se: «Devo dunque essere originale». Si potrebbe discutere a lun go, s’intende, sul significato che il saggio Haydn intendeva dare alla frase. Ma non c’è dubbio che l’obbligo dell’originalità, sco perto da Haydn, non guidasse gli esordi del suo allievo Beetho ven, specie in quel campo, la sonata per pianoforte solo, che più si prestava alla sperimentazione. Beethoven è intrinsecamente originale fin da quando pubblica le tre Sonate op. 2 (1796), dà una patente dimostrazione di origi nalità quando fa conoscere l’op. 13, la Patetica (1799), schiva tut to ciò che non sia palesemente originale quando, dopo l’op. 22, affronta nuovamente la forma della sonata con l’op. 26. A dire il vero, se si guarda all’op. 26 il paragone con la Sonata K 331 di Mozart balza subito agli occhi: entrambe le sonate ini ziano con un tema variato invece che con l’allegro bitematico, en trambe contengono un pezzo caratteristico {Valla turca in Mozart, la Marcia Funebre sulla morte d’un Eroe in Beethoven). Mozart aveva però scritto la K 331 in tempi nei quali una sonata non era ancora l’occasione per giocare i destini del mondo, ed il suo alla turca scherzava solo un po’ sui soldati della Sublime Porta, ormai non più terrorizzanti ma pittoreschi; Beethoven, con la Patetica, aveva messo in moto forze psichiche imponenti, e con l’op. 26 ri schiava di diventarne l’apprendista stregone. Una marcia funebre, in una sonata, risulta sempre un po’ im barazzante, soprattutto perché una sonata non può finire con una marcia funebre (ci vorrà Skrjabin, per quest’innovazione). E così
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ci si chiede sempre che voglia significare, dopo la marcia funebre, il finale. In Beethoven, come nell’op. 35 di Chopin, la curiosità dell’ascoltatore ha preteso e pretende di legare una cosa così spe cifica e concreta, com’è una marcia funebre, con un altrettanto concreto e specifico finale. Da cui l’angoscia di chi fa professione di mentore e guida al pubblico. Il problema, in realtà, era stato risolto nel modo più semplice in quello speciale tipo di sonata che, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, si chiamò battaglia, e che fu allora popo larissimo. The Battle of Prague. A favourite Sonata, si trova scrit to nel frontespizio di quel celebrato pezzo che Frantisek Koczwara pubblicò poco prima del 1790, e che Mark Twain, quasi un se colo più tardi, ancora ascoltò sadicamente eseguito da una dama molto amante del buon tempo antico. Nella Battaglia di Praga, e nelle altre innumerevoli battaglie musicali di terra e di mare, i lamenti dei feriti ed i funeri degli estinti ci stanno di casa, danno varietà al panorama e non escludono finali spensierati e piacevoli che illustrano il ritorno a casa dei vincitori (i perdenti, nelle bat taglie pianistiche, non hanno diritti di espressione). Anche Rossi ni, quando fa deragliare il petit train, lascia gemere i feriti e man da un’anima in paradiso ed una all’inferno, ma conclude con uno sfrenato valzer che rappresenta il «dolore degli eredi». Chi scrive musica pura, chi scrive sonate-sonate, non sonate fa vorite, finisce invece per non saper giustificare se non musicalmen te il post-marcia-funebre. E questo, dicevo, è un guaio, una di quelle spine che angustiano l’ascoltatore perché sanno troppo di segreto di bottega e di enigma. Sia perciò lodato il buon Dio che ha creato i critici e i presentatori e gli illustratori. Nella Sonata op. 26 Beethoven, pur rifacendosi a Mozart, inau gurava dunque il suo cammino nel nuovo secolo, il secolo del ro manticismo, con un indovinello. Subito dopo, con le due Sonate op. 27, di indovinelli ne creava in misura anche maggiore, pur senza volerlo. Pubblicate separatamente, le sonate dell’op. 27 recarono cia scuna un titolo programmatico molto significativo: Sonata quasi una fantasia, per il Clavicembalo o Piano-Forte. Convivono in questo titolo, come diremmo oggi, un’anima ar dentemente progressista e un’anima biecamente reazionaria. Pro gressista Beethoven, che dichiarava l’uscita dagli schemi ordinari della sonata, reazionario l’editore, che la dava a bere ai possessori
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di clavicembali offrendo loro due pezzi che celebravano in realtà la gloria del pianoforte. Per scrupolo di verità bisogna dire che la prima delle due so nate celebrava anche, e in un modo persino bizzarro, tant’era ori ginale, le glorie del clavicembalo. La Sonata op. 27 n. 1 rappre sentava infatti uno di quei ripensamenti del passato a cui Beetho ven sarebbe rimasto sempre affezionato, e che sarebbero culminati nella Sonata op. noe nelle ultime metafisiche pagine delle Va riazioni su un valzer di Diabelli. Non eseguibile sul clavicembalo se non nella tropicale fantasia dell’editore Giovanni Cappi, la So nata op. 27 n. 1 recuperava però in una dimensione pianistica certo mondo stilistico e persino certi tratti tecnici che erano stati del clavicembalo e del clavicordo, e perciò il suo titolo aveva un barlume di giustificazione simbolica. La Sonata op. 27 n. 2 celebrava invece, inequivocabilmente, il pianoforte e soltanto il pianoforte, proprio in ciò che il piano forte aveva di più esclusivo: il pedale. «Si deve suonare tutto que sto pezzo delicatissimamente e senza sordino», scrive Beethoven all’inizio dell’adagio sostenuto con cui la sonata si apre. Questione elegante. Il «sordino» era un meccanismo, coman dato a pedale, che attutiva il suono, i sordini erano gli smorzatori che, comandati a pedale, si alzavano tutti assieme e consentivano il tipico effetto della risonanza per simpatia. Beethoven intendeva prescrivere l’uso costante del pedale di risonanza, o intendeva invece prescrivere l’uso del pedale di sordino? Voleva dire, e fu tradito dalla sua imperfetta conoscenza della lingua italiana, «de licatissimamente e senza sordini» o «delicatissimamente ma sen za sordino»? Nelle edizioni commentate delle sonate di Beethoven la dizione originale viene spesso corretta in «delicatissimamente e senza sor dini», e il commentatore spiega in nota che, equivalendo «sordi ni» a «smorzatori», l’espressione di Beethoven sta per «con pe dale di risonanza». È proprio così? Forse no. Beethoven dovette preoccuparsi di evitare che la delicatezza fosse trasferita dal tocco al pedale e che il suono fosse reso deli cato non dal modo con cui l’esecutore maneggiava il resto ma dal mezzo meccanico del sordino. Beethoven avrebbe d^l resto im piegato il sordino, di lì a poco, nel secondo tempo del Concerto op. 37. Ma nell’op. 27 n. 2 voleva un altro effetto, un effetto di
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tocco, non tuttavia disgiunto, e su ciò non sussistono dubbi, dal l’uso del pedale di risonanza. Recensendo nel 1802 la sonata, il periodico «Allgemeine Musikalische Zeitung», molto autorevole e fino ad allora piuttosto arcigno nei confronti di Beethoven, scriveva: L’autore ha indicato dappertutto, per quanto si possa esprimere tal co sa per mezzo di segni convenzionali, l’interpretazione e anche il modo di servirsi del pianoforte in ciò eh’esso ha di eccellente e di suo particolare; maniera che nessuno conosce meglio di Beethoven e ch’egli conosce in un grado supremo, a giudicare dalle indicazioni e più ancora dalla disposi zione delle idee, come Cari Philipp Emanuel Bach aveva fatto sul piano forte primitivo. Bisogna tuttavia possedere uno strumento eccellente se si vuol essere soddisfatti quando si esegue la maggior parte dei suoi pezzi, per esempio tutto il primo tempo della terza sonata [op. 27 n. 2].
Il meccanismo che comanda il sollevamento simultaneo degli smorzatori era già stato messo a punto nel decennio 1770-1780, ed era stato usato da Mozart. Tuttavia, solo verso la fine del se colo il pedale di risonanza viene anche indicato da Haydn, da Cle menti e da altri, e viene quindi calcolato per effetti non accessori ma strutturali. Il grande momento del pedale comincia nel 1799, con il Concerto n. 3 di Daniel Steibelt, che comprende un finale pastorale destinato a durare in repertorio per vari decenni. Pasto rale con orage, con tempesta. Ed è neU’orage che, combinando il pedale e il «tremolo», Steibelt fa sensazione. Steibelt è a Vienna nel 1800 e vi conosce Beethoven. Nel 1801 Beethoven pubblica il Concerto op. 15, nel cui secondo tempo indica per la prima volta il pedale di risonanza, nel 1802 pub blica le sonate op. 26 e op. 27, iniziate nel 1800, nelle quali vie ne indicato il pedale. Nel primo tempo dell’op. 27 n. 2 il pedale viene però combi nato con una scrittura che provoca un sensibile rafforzamento di certe risonanze. Non è qui il luogo adatto per analizzare l’effetto: basti dire che la strumentazione, la «dislocazione» sulla tastiera degli eventi sonori è tale da causare una reciproca interferenza, e che la strumentazione, combinata con il pedale di risonanza, ren de la composizione «intraducibile» su qualsiasi strumento o com plesso di strumenti che non sia il pianoforte. C’è poi da considerare il «delicatissimamente» della didascalia. Che non è semplicemente un consiglio o una prescrizione, ma an-
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che la spiegazione di una posizione manuale eterodossa. Tutti san no che i trattatisti ed i didatti dell’inizio dell’Ottocento sconsi gliavano vivamente di toccare con il pollice e con il mignolo i tasti neri. Orbene, l’attacco della melodia, alla quarta battuta del primo tempo, non può avvenire se non con i pollici e i mignoli di entrambe le mani sui tasti neri, e questa posizione, che favo risce la delicatezza del tocco proprio in ragione della sua scomo dità, è frequente in tutto il primo tempo. Non solo nel primo. Anche il tenerissimo secondo tempo, che Liszt denominò «un fiore tra due abissi». Anche nel tempestoso terzo tempo, in cui il più comune degli arpeggi composti assume un significato drammatico. La sonorità del terzo tempo può diven tare molto incisiva se la tecnica virtuosistica dell’esecutore viene spinta verso limiti di vero e proprio atletismo. Se si parte invece dalla considerazione che pollice e mignolo sui tasti neri sono stati calcolati in rapporto con un risultato sonoro, o se si suona la com posizione su strumenti del tempo di Beethoven, che non consen tono atletismi, anche la sonorità del finale diventa delicata, e tutta la sonata ha, per così dire, un colore timbrico che ricorda Kaspar Friedrich assai più che Jacques-Louis David. Il recensore dell’«Allgemeine Musikalische Zeitung», che rile vava le novità di scrittura strumentale, aveva prima rilevato con parche parole l’esito estetico: «Questa fantasia, perfettamente omogenea, è uscita d’un colpo solo, ispirata da un sentimento nu do, profondo ed intimo, e per così dire tagliato in un sol blocco di marmo. È impossibile che colui, a cui natura non ha negato la musica interiore, non sia tocco dall’iniziale adagio [...], poi gra dualmente condotto verso l’alto fino a che, nel presto agitato, sen te tanta emozione e tanta elevazione quant’è possibile provarne con una fantasia al pianoforte». Non mi risulta che, vivente Beethoven, qualcuno andasse oltre queste esemplari posizioni critiche. Ancora nel 1835 il periodico «Le Pianiste», pubblicando il primo commento a tutte le opere pianistiche di Beethoven, dell’op. 27 n. 2 succintamente scriveva: «... comincia con un bell’adagio che sembra fatto esclusivamente per il pianoforte a coda; il canto è continuamente sostenuto dal mignolo della destra, e costringe a far sentire contemporaneamen te più qualità di suono. Il finale è un esercizio di dita, di rimar chevole energia». Verso il 1830 cominciavano però le esecuzioni pubbliche delle
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sonate di Beethoven, e in particolare dell’op. 27 n. 2, le cui ca ratteristiche e di forma, e di espressione, e di sonorità colpivano profondamente i romantici. Berlioz, in uno scritto del 1837, ci ha lasciato la descrizione di due esecuzioni di Liszt. La prima lo lasciò esterrefatto: Un giorno, sette o otto anni or sono, Liszt, che eseguì Vadagio in un piccolo circolo di amici del quale facevo parte, pensò di snaturarlo, secon do Fuso di allora, per farsi applaudire dal pubblico elegante; invece delle lunghe note tenute al basso, invece della severa uniformità di ritmo e di movimento di cui parlavo, inserì trilli e tremoli, accelerò e rallentò la bat tuta, turbando così, con accordi appassionati, la calma di quella tristezza e fece rombare il tuono in quel cielo senza nubi che s’oscura soltanto al calare del sole.
Possiamo immaginare - Oh!, solo immaginare, con tutti i ri schi dell’errore - come Liszt modificava il primo tempo. L’inizio era forse simile a questo:
Il concetto a cui Liszt si uniformava era quello che Carl Czerny avrebbe teorizzato dopo pochi anni parlando del modo di esegui re un concerto «di mezzana difficoltà». Czerny consigliava di adot tare la «brillante maniera» per ottenere un effetto «più accessi
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bile all’uditorio», concludendo candidamente col dire: «E qui si osservi non trattarsi già qual maniera di esecuzione sia più con facente ad ogni concerto, ma solo qual effetto, giusta le esperien ze, attendersi debba presso un pubblico misto di tanti svariati umori». Con un pubblico di umori meno svariati, Liszt sapeva fare al trimenti. Prosegue Berlioz: «... la nobile elegia, la stessa ch’egli aveva altre volte tanto stranamente sfigurato, si elevò nella sua sublime semplicità; né una nota né un accento furono aggiunti alle note e agli accenti dell’autore. Era l’ombra di Beethoven, evo cata dal virtuoso, di cui intendevamo la grande voce. Ognuno di noi fremeva in silenzio, compreso di rispetto, di religioso terrore, di ammirazione, di dolore poetico, e senza le lacrime ristoratrici che vennero in nostro aiuto saremmo stati, credo, soffocati». Un altro ascoltatore parla di Liszt interprete dell’op. 27 n. 2, Carl Reinecke, che pubblicò il suo volumetto sulle sonate di Bee thoven nel 1896 e che, come il contesto chiarisce, si riferiva agli stessi anni ricordati da Berlioz: L esecuzione di Liszt di questo movimento [l’adagio] e dell’allegretto che segue non è stata mai dimenticata da me, sebbene siano passati quasi sessantanni. Potete capire da ciò quanto grande fu l’impressione, anche se (o forse esattamente perché) la resa era così perfettamente semplice e genuina. Precisamente come Beethoven aveva evitato di scrivere - tra l’ada gio con la sua profondità di sentimento e il presto che raggiunge sempre una passione tempestosa - uno scherzo, ma aveva scritto piuttosto un sem plice movimento armonioso che forma un ponte d’oro tra il primo e l’ul timo movimento, così pure Liszt evitava, nell’esecuzione, tutto ciò che po teva somigliare a uno scherzo. Egli eseguiva il movimento come un dialogo che comincia con una domanda, evitando ogni accento brusco. Un’esecu zione di molto pregio non permette certo di esser spiegata e descritta in modo soddisfacente, ma voi mi capirete.
Non abbiamo ricordi sul Liszt interprete dell’ultimo tempo, e non sappiamo che cosa combinasse quando aveva di fronte un pubblico da scuotere con rudi mezzi. Sappiamo però, com’è evi dente, che Liszt sapeva scuotere il pubblico rude con mezzi rudi, e che sapeva lasciare incancellabili ricordi nell’ascoltatore esperto. Gli anni trenta dell’Ottocento erano quelli in cui il tradizionale pubblico della musica da camera veniva rinnovato, erano quelli in cui Liszt inventava il recital in teatro. Ed anche i critici si ade guavano ai tempi. Così, verso il 1832, il berlinese Ludwig Rellstab
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scrisse che l'adagio dell’op. 27 n. 2 gli ricordava «una barca che passa nel selvaggio paesaggio del Lago dei Quattro Cantoni in un chiaro di luna». La Svizzera era allora il luogo per eccellenza romantico (come mai, oggi, non lo è più?), e il Lago dei Quattro Cantoni era quel lo di Guglielmo Teli. Non fu però la romantica collocazione geo grafica a colpire l’immaginazione del pubblico, ma il chiaro di luna. E poco più tardi — non sappiamo in che anno esattamente — l’op. 27 n. 2 cominciò ad essere denominata NLondscheinsonate, Sonata al chiaro di luna. Non si parlò più di barca né di lago, sebbene un chiaro di luna sia più suggestivo su uno specchio d’acqua che su un viottolo. Chiaro di luna, e basta. Oppure, titolo esoterico e che fu adot tato da una minoranza bastiancontraria, Padiglione nel giardino. Sempre di notte però, s’intende. Persino Czerny, che era stato al lievo di Beethoven e che aveva attraversato il periodo in cui una sonata era ancora una sonata, quando commentò le sonate del suo maestro, nel 1842, scrisse dell’adagio dell’op. 27 n. 2: «Questo tempo è molto poetico e di facile comprensione. È una scena not turna, ove da una grande lontananza risona una flebile voce di spiriti». Una sonata che inizia con un adagio sostenuto e che termina con un presto agitato non può essere impunemente ambientata di notte in un chiaro di luna, o in un padiglione in giardino (con o senza chiaro di luna, a scelta), senz’essere collocata anche, alla fi ne, dentro una storia. Giù, in fossa, si dipana la sonata; su, in pal coscenico, le pallide luci della casta Diana bagnano il padiglione, nel fondo luccicano acque. Ma che avviene in scena? Avviene che il trentenne Beethoven se la vede con una ragaz zina di sedici anni, Giulietta Guicciardi, la contessina Giulietta Guicciardi nata a Trieste nel 1784, trasferita a Vienna nel 1800, allieva per un poco di Beethoven, da Beethoven amatissima, e che nel 1803 sposa il conte Wenzel Robert von Gallenberg. Perché proprio Giulietta e non un’altra? Perché Beethoven co nosce la fedifraga nel 1800, perché la sonata viene scritta nel 1801, perché Giulietta nata Guicciardi diventa coniugata von Gallenberg nel 1803 e perché il Chiaro di luna, pubblicato nel 1802, è dedicato «alla Damigella contessa Giulietta Guicciardi». Questo per chi stava ai fatti. Non tutti cintavano, ai fatti. An zi, le interpretazioni letterarie nelle quali il realismo si mischia
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con il simbolismo sono più numerose di quelle in cui ci si limita alle private tenzoni di Ludwig e di Giulietta. Alexander Ulibic’ev, nel suo studio biografico-critico pubblica to nel 1857, parla del primo tempo come del commovente lamen to dell’amore senza speranza, aggiuntavi la luna che scopre lenta mente il «pallido, cadaverico viso»; al centro della scena un’im mensa tomba in un’arida e deserta pianura, mentre «soffi di me lodia si sprigionano da questa tomba come le risposte di un’om bra dolente che piange sul proprio nulla»; nel finale l’Ulibic’ev vede Beethoven quasi come una torva Medea imprecante al destino. Un altro studioso, Adolph Bernhard Marx, nel 1863, parla di «addio ad ogni speranza» senza che il destino possa piegare il «nobile capo» dell’eroe; Ludwig Kóhler vede nel primo tempo urne funerarie in una chiesa (illuminate, manco a dirlo, dalla lu na), nel secondo un «sorriso fra le lacrime», e nel terzo un alter narsi di disperazione e rassegnazione, una mortale stanchezza e un ultimo violento sforzo. Ernst von Elterlein, che parla persino di enormi demoni che, come da un vulcano, si levano dai crateri del cuore con convulse contorsioni, condanna il secondo tempo per ché «non si accorda con lo stato d’animo fondamentale degli altri»; F. F. Weber pensa a un sogno, alla notte, a una vegeta zione lussureggiante, a una specie di delirio panteistico; il com positore Peter Cornelius, che è il più vario, vede nel primo tem po una maestosa cattedrale gotica, nel secondo l’amore terreno che domina il cuore, e nel terzo un’oscura selva, perché «spiriti diabolici hanno serrato le porte» della cattedrale. Il primo critico che citò esplicitamente la storia di Giulietta, nel 1867, fu una donna, una Madame Audley: per la Audley, Beethoven è un Dante che celebra Beatrice, un Lamartine che ce lebra Elvira. Poco più tardi, nel 1870, Pietro Cossa rappresentò in un drammone in cinque atti l’amore funesto di Beethoven per Giulietta (ribattezzata Lucia), ma, o che fosse non bene informa to o che giudicasse poco virile l’op. 27 n. 2, affidò all’op. 13, alla Patetica, il compito di sublimazione musicale della vicenda. Nel 1884 Carl Zastrow legava invece il personaggio storico di Giu lietta e il personaggio fantastico di Leonore (la protagonista del Fidelio), cioè l’amata infedele e l’amata fedele, nella novella Giu lietta und Leonore, e nell’inizio del secondo tempo dell’op. 27 n. 2 vedeva la domanda Liebst du mich? (mi ami tu?). Potrei continuare a pescare commenti ed immagini in una pub
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blicistica che non sarebbe difficile saccheggiare ulteriormente, ma che non ci interessa più molto. E che non ci interessa perché non può più esser messa in relazione con le esecuzioni degli interpreti: altrimenti ci interesserebbe. ; Finché leggiamo gli autori che ho citato, o Wilhelm de Lenz e qualche altro critico, magari di non piccola importanza storica, possiamo anche non soffermarci sulle storie che si inventano per illustrare Pop. 27 n. 2. Quando un competente come Reinecke pa ragona l’esecuzione di Liszt, nel secondo tempo, a un «dialogo che comincia con una domanda», possiamo supporre che fosse un’esecuzione, non solo l’immaginazione, a far inventare allo Za strow il suo Liebst du mich?, e vorremmo conoscere quell’esecu zione. Quando una pianista molto nota, Wilhelmine Clauss Szarvardy, confessa nel 1852, ad un critico della «Gazette musicale de Paris» di vedere nell’op. 27 n. 2 la storia cruenta del sire di Fayel e di Gabrielle de Vergy, noi possiamo anche rabbrividire dal disgusto, ma desidereremmo conoscere l’esecuzione. Quando leggiamo Anton Rubinstein, che fu fra i massimi interpreti beethoveniani dell’Ottocento, abbiamo ragione di ritenere che le sue immagini fossero concretamente legate ad una sonorità, ad un fra seggio, a stacchi di tempo che si opponevano alla tradizione.. Scrive Rubinstein: Le sonate Quasi una fantasia in do diesis minore e mi bemolle maggio re op. 27 hanno da gran tempo conquistato l’interesse del pubblico musicale. Mi meraviglio però che quella in do diesis minore sia detta «Sonata al chiaro di luna». Propriamente parlando, dovrebbe essere l’opposto. Chia ro di luna lascia supporre una fantasticheria lirica, non drammatica. La luce lunare si accorda abitualmente con il modo maggiore e nella sonata è predo minante il modo minore. Se pure il primo tempo sia stato pensato in que sta Stimmung, questo non è però sufficiente per denominare in conformità con ciò l’intera sonata. Ma per fortuna non Beethoven, ma altri l’hanno denominata così. La sonata ha dal principio alla fine un carattere tenebroso.
Di Rubinstein pianista non abbiamo però nulla, e nulla abbia mo di Hans von Biilow e di Clara Schumann (e di Liszt, s’inten de). Il primo grande pianista che ci abbia lasciato la sua esecu zione del Chiaro di luna è Paderewski, nato nel i860. Possiamo notare che la velocità adottata da Paderewski nel primo tempo — 54 di metronomo - è la stessa che Czerny, allievo di Beethoven, aveva indicato nel 1842. Senza entrare nel merito della continuità
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della tradizione, che è argomento da prendere con le molle, si può pensare che la concezione interpretativa della sonata non fos se radicalmente cambiata nella seconda metà dell’ottocento, seb bene Paderewski adottasse poi tempi sensibilmente più lenti di quelli di Czerny nel secondo e nel terzo tempo. Le cose cambiano invece, e come!, con Josef Hofmann, che era di sedici anni più giovane di Paderewski. I tempi metronomici di Hofmann sono molto mossi, addirittura provocatoriamente mossi rispetto a quelli di Paderewski: Paderewski Hofmann
i tempo 54 69
li tempo 69 92
ni tempo 72 96
La questione non è però soltanto di tempi metronomici, di stac chi di velocità, perché il metronomo di Backhaus e di Gieseking è, nel primo tempo, identico a quello di Paderewski, e due pia nisti notoriamente non inclini ai piagnistei, come Arrau e Serkin, staccano un 42 di metronomo che è di un buon 20% più lento del 54 di Paderewski. Non è nemmeno questione di strumenti, perché Badura Skoda, che ha inciso la sonata sul Broadwood ap partenuto a Beethoven, stacca a 48 il primo tempo, a 63 il se condo e a 92 il terzo; Malcolm Binns, che ha impiegato un Matt haus Andreas Stein del 1802 circa, stacca rispettivamente 48, 63 e 88. La questione vera risiede nel rapporto tra velocità, tipo di suo no, oscillazioni del tempo, accentuazione, dinamica, e il crinale è segnato dal senso della narrazione che si riscontra ancora, in modi diversi, in Paderewski o in Frédéric Lamond (nato nel 1868) o in Joseph Lhevinne (nato nel 1874) o nello stesso Hofmann (nato nel 1876), e che sparisce con Schnabel (nato nel 1882). Si potrebbe forse dire che Paderewski, ultimo vate della gene razione romantica, pensi la musica di Beethoven secondo la poe tica del «caratteristico», e che Schnabel, primo rappresentante del la generazione moderna, la pensi secondo la poetica del «subli me». Si potrebbe anche dire che in Liszt esiste la compresenza delle due poetiche, una delle quali, la poetica del sublime, riser vata al pubblico «alto» degli intellettuali e degli intenditori, l’altra, la poetica del caratteristico, riservata al pubblico «basso» dei nuovi ricchi. Coll’affermazione definitiva del recital, dopo il 1850, prevalse probabilmente la poetica del caratteristico, depurata da
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quegli elementi di rozzezza e di insistita spettacolarità che si ri trovano nella descrizione di Berlioz, ma non privata della teatra lizzazione, del supporto di idee programmatiche, di quel senso del racconto che è molto difficile da definire concettualmente ma che si coglie quando si ascoltano Paderewski, Lamond, Lhevinne, Hof'mann o, in altre musiche, Rosenthal o Stavenhagen o Rachma ninov. In Hofmann sembra di scoprire la preoccupazione di non far leva sulle abitudini del pubblico; ma la poetica del caratteristico è da Hofmann, più che superata, stilizzata. Con Schnabel, con la rivoluzione di cui Schnabel è protagonista in Beethoven e non so lo in Beethoven, viene riconquistata la poetica del sublime, tra sferita a livello di sala di concerto e di rappresentazione pubbli ca. E con ciò Schnabel riconquista certamente una dimensione del l’opera quale appariva nella prima recensione deH’«Allgemeine Musikalische Zeitung». Non però sotto l’aspetto storicistico, sebbene si valga di strumenti filologici e storiografici messi a punto dagli studiosi suoi contemporanei, ma sotto l’aspetto mitico: non il su blime, ma il mito del sublime del tardo illuminismo. La lezione di Schnabel, che storicamente si affermò negli anni venti del nostro secolo, non fu più superata né fu messa veramen te in discussione nell’op. 27 n. 2 (mentre fu messa in discussione in altre sonate). È curioso che Svjatoslav Richter, al quale si deve una lettura rivoluzionaria dell’Appassionata, non abbia toccato l’op. 27 n. 2. È curioso ma si spiega: è difficile, in realtà, tornare con intendimenti nuovi su una sonata che la tradizione dell’Ottocento romantico aveva così completamente fatta propria fino ad usurarne ed involgarirne l’immagine, e che era stata la chiave di volta di una rivoluzione estetica. Ma il problema dovrà essere affrontato. La poetica cui si ispi rava la recensione dell’«Allgemeine Musikalische Zeitung» era la poetica di Beethoven? o fino a che punto lo era? Lo stravolgi mento di significato dei romantici era uno stravolgimento o uno sviluppo di potenzialità nascoste? Insomma, l’op. 27 n. 2 è o non è, anche, la Sonata al chiaro di luna^ Il problema riguarda, in definitiva, l’evoluzione artistica di Bee thoven all’inizio dell’ottocento. Se si pensa che proprio nel 1800, mentre lavora alle sonate op. 26 e op. 27, Beethoven scrive il bal letto Le creature di Prometeo, non si può tassativamente esclu dere un suo accostamento alla poetica del caratteristico, accosta
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mento che trova del resto un seguito, di lì a qualche anno, nel l’opera Fidelio, nella Sinfonia Pastorale e nella Sonata «L’addio, l’assenza, il ritorno», che si prolunga fino alla Battaglia di Well ington (1813). In questa prospettiva, l’interpretazione dell’op. 27 n. 2 potreb be ancora subire un profondo cambiamento. Finora, per quanto mi è noto, solo Glenn Gould ha compiuto sull’interpretazione neo classica dell’op. 27 n. 2 un’operazione analoga, e più radicale di quella che Hofmann aveva compiuto sulla tradizione romantica, e solo Samson Francois e Radu Lupu hanno lasciato trapelare la tentazione di un ritorno critico alla poetica del caratteristico. Il chiaro di luna, non come immagine, ma come mito storico, po trebbe riaffiorare, e la sonata potrebbe ridiventare, se non proprio racconto, idea di racconto. Non sarebbe una rivoluzione, forse, ma sarebbe la dimostrazione del fatto che anche gli interpreti, quando tutto sembra esser stato detto e definito, devono piegarsi a quella legge dell’originalità scoperta dal saggio Haydn.
Opere citate:
Berlioz, A. B. Marx, Ulibic’ev ed altri, citati in: J.-G. Prod’homme: Les Senates de Piano de Beethoven, Parigi 1937. P. Cossa: Beethoven, Milano 1872. C. Czerny: Vollstandigen theoretisch-pratctischen Pianoforte-Schule op. 500» Vienna s. a. (1835 circa). C. Reinecke: Die Beethoven'scher Clavier-Sonaten, Lipsia 1896. A. Rubinstein: Istorila literaturi fortepianno j tnuziki, S. Pietroburgo 1899.
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Si discute talvolta, e più si discuteva in passato, sul classicismo o sul romanticismo di Mendelssohn, sul suo essere un po’ di qua e un po’ di là, classico romanticheggiarne o romantico classicheg giante che dir si voglia. L’esser classici o classicheggianti non do vrebbe suonare a disonore; ma per Mendelssohn sì, perché per lui esser tale vuol dire esser uomo in arretrato sul suo tempo, al con trario di Chopin, di Schumann, di Liszt, o persino di minori che però nella storia del pianoforte contano qualcosa come Alkan o Henselt. Vedremo poi se Mendelssohn musicista sia a parer no stro da considerare o no, e in che termini, uomo di tempi nuovi. Per lo meno nella scelta della professione che fu la sua egli ci appare indubbiamente homo novus\ non rampollo di una famiglia di musicisti (come Bach, Mozart, Beethoven, Weber), non ragaz zo di umilissime origini messo a dimora in un pubblico collegio (come Haydn e Schubert), ma figlio di un ricco banchiere e ni pote di un celebre filosofo. Una simile discendenza familiare non s’era più vista, per un musicista, dai tempi di Benedetto Marcel lo, che del resto non era musicista di professione. E infatti la musica rappresentò, nell’adolescenza di Mendelssohn, non il ti rocinio per procacciarsi un pane ma un elemento di un’educazio ne armonica che mirava a sviluppare tutte le facoltà intellettuali del ragazzo e a formarne il carattere nella tradizione della borghe sia imprenditoriale tedesca. Accuratissima l’educazione musicale. A scoprire e a saggiare il talento del fanciullo fu delegata, a Parigi, Marie Bigot, prima interprete ùeM' Appassionata di Beethoven. Poi, a Berlino, Mendelssohn fu affidato a Cari Wilhelm Henning per il violino, a Cari Zelter per la composizione, a Ludwig Berger per
* xxxvii Settimana Musicale Senese, Siena 1980.
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il pianoforte. Quest’ultimo, che apparteneva alla generazione di Beethoven e di Hummel (era nato a Berlino nel 1777), aveva stu diato con Clementi e, come dimostrano i suoi studi, era rimasto fedele all’insegnamento dementino, guardando con prudenza al la radicalizzazione del virtuosismo brillante che verso il 1815 ve niva perseguita da Kalkbrenner, da Moscheles, e in parte anche da Hummel. Guidato da Berger, nel 1818 Mendelssohn era già in grado di comparire in pubblico in un trio di Woelfl, e negli an ni successivi teneva alcune esecuzioni pubbliche o più spesso pri vate (in casa di suo padre, in casa di amici e, com’è ben noto, a Weimar in casa di Goethe nel 1821): sempre però come educato gentiluomo che educatamente e modestamente dispensa i talenti di cui l’Onnipotente gli ha fatto largo e generoso dono. Nel 1824, pur contando già al suo attivo una ricca produzione, Mendelssohn non aveva ancora affatto scelto la professione di mu sicista, ... o meglio, i suoi genitori non erano ancora per nulla si curi che la eventuale scelta sarebbe stata ragionevole. Nell’autun no del 1824 capitava a Berlino il più grande pianista dell’epoca 1815-1830, il boemo Ignaz Moscheles, e la riflessiva famiglia Men delssohn non si lasciava scappar l’occasione di consultare la cele brità di passaggio. Val la pena di leggere la pagina del diario di Moscheles, non molto nota, che descrive l’incontro: Questa è una famiglia come non ne ho mai vista compagna. Felix, ra gazzo di quindici anni, è un fenomeno. Che sono tutti i ragazzi-prodigio, paragonati a lui? Fanciulli dotati, ma niente più. Felix Mendelssohn è quasi un maturo artista, e pure la sua età è di quindici anni! Ci siamo subito intrattenuti insieme per alcune ore, perché fui costretto a suonare molto, mentre in realtà volevo ascoltar lui e vedere le sue composizioni perché Felix mi aveva mostrato un Concerto in la minore, un doppio Con certo e alcuni mottetti; e tutto così pieno di genio, e allo stesso tempo così corretto e compiuto! La sorella maggiore Fanny, essa pure straordi nariamente dotata, suonò a memoria, e con ammirevole precisione, Fughe e Passacaglie di Bach. Penso che si possa ben definirla un perfetto musi cista. I genitori mi fecero l’impressione di gente della più elevata raffina tezza. Sono ben lungi dal sovrestimare i talenti dei loro ragazzi: in effetti, sono ansiosi sul futuro di Felix, e di sapere se i suoi doni si riveleranno sufficienti a garantirgli una nobile e veramente grande carriera. Non cederà d’improvviso, come tanti altri brillanti ragazzi? Ho esternato la mia coscien ziosa convinzione che Felix diventerà alla fine un grande maestro, che non ho il più piccolo dubbio sul suo genio; ma più volte ho dovuto insistere sulla
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mia opinione prima che mi credessero. Questi non sono esempi di geni tori di fanciulli-prodigio, come di frequente devo tollerarne.1
Il Concerto in la minore per pianoforte e archi, citato da Moscheles, era stato composto tra il 1823 e il 1824; il Concerto dopipio potrebbe essere il Concerto in re minore per pianoforte, vio lino e archi (1823), ma è più probabilmente il Concerto in mi mag giore per due pianoforti e orchestra (settembre-ottobre 1823). Queste composizioni, insieme con la Sonata op. 103 del 1821, dimostrano l’orientamento nettamente classicistico degli studi di Mendelssohn. Strumentalmente, mentre la sonata aderisce ancora ai modelli classici di Clementi, evidentemente ereditati attraverso la mediazione di Ludwig Berger, il Concerto per due pianoforti e soprattutto il Concerto in la minore dimostrano un vivo inte resse per quella interpretazione della tecnica e del suono mozar tiani che storicamente sono impersonati da Hummel (allievo sia di Mozart che di Clementi). Tecnica che fu più tardi codificata da Czerny e che trova nella czerniana Kunst der Fingerfertigkeit op. 740 il suo monumento didattico, e che permetteva effetti di sonorità brillantissima, con percussione rapida e slanciata del ta sto, perché prediligeva i velocissimi spostamenti sulla tastiera e la subitanea apertura e chiusura della mano. Più tardi i disegni tematici e le figurazioni diverranno in Mendelssohn più persona li, ma questa concezione della sonorità non verrà in lui mai meno. Moscheles possedeva sicuramente una tecnica del tocco più svi luppata12 e, sebbene attribuisse importanza preponderante alle di ta, praticava e consigliava, ad esempio, l’esecuzione delle seste e delle ottave di braccio. Il suo stile di esecutore dovette quindi impressionare Mendelsshon ed aprirgli un nuovo campo di espe rienza. Non sappiamo se Mendelssohn stesso o i suoi genitori pro gettassero quello che oggi si chiamerebbe un breve corso di perfe zionamento. Moscheles, dice, alla prima richiesta di lezioni rispose: «Felix non ha bisogno di lezioni; se vuole avere suggerimenti su qualcosa che è per lui nuovo, può farlo facilmente ascoltandomi 1 Recent Music and Musicians As Described in the Diaries and Correspondence of Ignaz Moscheles. Edited by his wife and adapted from the original german by A. D. Coleridge, New York, Henry Holt and Company, 1873. Da Capo Press, New York, 1970, pagg. 65-66. 2 Francois Fétis, nella Methode des Méthodes che fu pubblicata a Parigi nel 1837 sotto il nome di Fétis e Moscheles, dice: «Moscheles ha molte maniere diverse di attaccare la nota, in ragione dell’effetto che vuole produrre».
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suonare»? Dopo rinnovate e insistenti richieste Moscheles decise di accontentare i Mendelssohn. Nel suo diario troviamo, al 22 no vembre: Questo pomeriggio, dalle due alle tre, ho dato la prima lezione a Felix Mendelssohn, senza perder di vista per un solo momento il fatto che se devo accanto ad un maestro, non ad un allievo. Mi sento fiero perché dopo una così breve conoscenza i suoi distinti parenti mi affidano il loro figlio, e mi congratulo con me stesso perché mi è permesso di dargli qualche sug gerimento, che lui afferra a volo e su cui lavora con il genio che gli è proprio.4
E il 28: «Le lezioni di Felix Mendelssohn hanno luogo ogni due giorni, e sono per me oggetto di crescente interesse; ha giu sto suonato con me i miei Allegri di Bravura,5 i miei Concerti6 e altre cose, e come suonava! Il più leggero suggerimento, e indo vina subito la mia concezione»? Moscheles ripartì da Berlino il 15 dicembre. Diciamo per in ciso che i due artisti restarono legati per tutta la vita da affettuo sa e saldissima amicizia: composero insieme, nel 1833, il Duo concertante sulla marcia della Preciosa di Weber, suonarono tal volta insieme a due pianoforti, e a tre pianoforti (una volta con Thalberg e una volta con Dóhler) il Concerto in re minore di Bach; nel 1846, quando fondò il Conservatorio di Lipsia, Men delssohn convinse Moscheles ad assumere nel nuovo istituto una cattedra di pianoforte lasciando Londra, dove risiedeva da più di ventanni. Non è facile distinguere nello stile pianistico di Mendelssohn ciò che fu dovuto all’insegnamento di Moscheles. Il Rondò ca priccioso op. 14, che fu scritto nel 1824, molto probabilmente dopo le lezioni di Moscheles, presenta alcune novità e alcuni ele menti stilistici che resteranno poi sempre tipicamente mendelssohniani. Notiamo innanzitutto le ottave, alternate tra le due ma ni in martellato, che in verità comparivano già nel Concerto in la minore. Le ottave alternate rappresentano un punto intermedio a Op. cit., pag. 66. 4 Ibidem. 5 Allegri di Bravura (La Forza, La Leggerezza, Il Capriccio) op. 51. 6 Moscheles aveva fino ad allora composto tre concerti: il Concert de Socie té op. 45 con piccola orchestra, il Concerto in mi bemolle maggiore op. 56, il Con certo in sol minore op. 60. 7 Op. cit., pagg. 66-67.
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tra le classiche ottave spezzate e le romantiche ottave doppie: più brillanti e più incisive delle prime, meno sonore e massicce delle seconde. Non è neppure da trascurare - in tempi in cui si stava affermando definitivamente {'accademia, manifestazione pubblica a pagamento in grandi ambienti - il valore, il significato gestuale del le ottave alternate, che è forse meno maestoso di quello delle ot tave doppie, ma che con il vorticare degli avambracci risulta as sai eccitante per il pubblico. E Mendelssohn, da buon showman, colloca il più lungo passo in ottave alternate alla fine del pezzo... L’inizio dei Rondò capriccioso è un esempio tipico di presen tazione mendelssohniana di una melodia: tre battute e mezza di introduzione, in cui «parte» il primo evento sonoro (basso e ac compagnamento in accordi ribattuti), poi l’entrata del tema. Mo dello di quest’inizio è probabilmente il primo tempo della Scwtfta op 27 n. 2 di Beethoven, che tanta influenza ebbe sui roman tici. Mendelssohn lo adotta e lo adotterà di preferenza rispetto ad un’altra alternativa (inizio con temporaneo di tutti gli eventi), che ha come modello {'Improvviso in sol bemolle maggiore op. 90 n. 3 di Schubert e che verrà sfruttata soprattutto da Schumann, e all ultima possibile alternativa (inizio della melodia prima del basso e dell’accompagnamento), che troviamo in Per Elisa di Bee thoven e che verrà preferita da Chopin. La melodia accompagnata, diffusissima durante il romanticismo, è per definizione «sentimentale» non solo in quanto espressione di sentimento, ma in quanto identificazione emotiva dell’ascolta tore nell’oggetto sonoro. Ora, l’identificazione psicologica dell’a scoltatore nella musica presuppone la convergenza degli eventi so nori concomitanti verso un punto centrale primario, come la col locazione pittorica di una figura umana in un paesaggio che la circonda senza contrastarla. E tanto più, a parer nostro, si ha convergenza verso un evento centrale in cui l’ascoltatore si iden tifica quanto più gli altri eventi sono nettamente subordinati a quello, quanto più sono «rassicuranti» perché non assumono aspet ti indipendenti ed antagonistici. La presentazione separata di bas so-accompagnamento e melodia accentua al massimo il carattere non ostile e non antagonistico del basso-accompagnamento, e l’e spressione del sentimento — del sentimento il più vario, dal do lore alla gioia - viene goduta dall’ascoltatore come intima e sere na esperienza di reminiscenza, non turbata da eventi drammatici. Mendelssohn è un maestro, anzi, è a parer nostro il maestro
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incontrastato di questo tipo di rapporto con la psicologia dell’ascol tatore. E va da sé che una simile concezione della musica lo col loca immediatamente fuori del classicismo, facendo di lui, gran de estimatore dei classici, un musicista che della lezione classica assume, come vedremo, certi aspetti stilistici, ma non l’ideologia. Con Mendelssohn si afferma insomma fin dall’adolescenza, e re sterà fino nella maturità la dissociazione tra razionale ed affettivo ereditata dai musicisti del Biedermeier, e la sua arte non verrà toccata dall’irrazionale e dal demoniaco dei grandi romantici. All’inizio del Rondò capriccioso l’ascoltatore viene dunque pro gressivamente portato verso l’apparizione del tema su cui si «adagerà» con un sospiro. Mendelssohn crea persino una leggerissima tensione e un piacevole senso di attesa dando all’accompagna mento, durante le battute introduttive, una significazione melo dica che fa- pregustare l’arrivo della melodia vera e propria. La identificazione, stimolata nell’introduzione, diventa completa nel la prima frase della melodia, che si sviluppa nell’ambito di una decima minore e che sembra vocalistica, sopranile. La diteggiatura possibile - trascurando le innumerevoli varianti — è sostanzial mente una sola, e favorisce l’abbandono del peso del braccio, pas sivo, appoggiato sul fondo del tasto e trasferito dalle dita da un tasto all’altro:
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È oggi difficile, molto difficile ricostruire la tecnica usata dai pianisti del passato; sembra tuttavia probabile che Moscheles usas se il legato con trasferimento di peso, oltre al «legato» di dita con braccio non appoggiato, e l’inizio del Rondò capriccioso po trebbe - potrebbe, diciamo - dipendere dall’insegnamento di Moscheles. L’identificazione dell’ascoltatore nella melodia è certamente fa vorita sia dalla qualità dolce e intensa del suono cantabile otte nuto con trasferimento del peso, sia dalla natura vocalistica del tratto, che viene inconsciamente cantato. La melodia di Mendels sohn non è però, in questo caso, interamente vocalistica. Già il raddoppio in terza degli ultimi tre suoni ci dice che il rafforza mento espressivo della conclusione della prima frase non è otte nuto con mezzi paravocalistici. E il seguito ce lo conferma: la melodia dell’andante copre una estensione di due ottave e una terza minore (da fa 3 a sol diesis 3, ma con un ulteriore slitta mento alla fine al do 2, che le fa superare le tre ottave e mezza), ed è più mossa e capricciosa di quanto non sarebbe una melodia vocale. La cantabilità di questo inizio, come l’inizio del Concerto in la minore, è in realtà modellata sullo stile violinistico Biedermeier, e tutto il Rondò capriccioso potrebbe essere un pezzo per violino e orchestra. Si veda la conclusione dell’introduzione, con quel do 2 che richiama subito il suono della quarta corda a vuo to delle viole:
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Si vedano le quattro entrate canoniche dell’inizio del Rondò (violino, clarinetto, oboe, fagotto):
Si veda il secondo tema: dopo la prima esposizione in registro medio-acuto il tema è ripreso in registro medio-grave, con sovrap poste rapide ornamentazioni in arpeggi:
Il modello di questo passo potrebbe essere l’episodio che va dalla battuta 126 alla battuta 143 del rondò del Concerto per violino di Beethoven.8 Indipendentemente dall’origine dell’episo dio è però da notare che la riesposizione variata del secondo te ma porta Mendelssohn a sfruttare la mano sinistra in due funzio ni: tema al pollice, indice e medio, accompagnamento ad anulare e mignolo. La mano viene divisa, e Mendelssohn scopre probabil mente le possibilità coloristiche delle tre dita forti, e in partico lare del pollice, quando il palmo è atteggiato «a cupola». A confronto con il Rondò capriccioso sembrano, e sono meno 8 In Beethoven il tema esposto dal violino viene ripreso dal fagotto due ottave sotto; in Mendelssohn il tema è ripreso un’ottava sotto: ciò non toglie che la struttura del passo mendelssohniano non ricordi nettamente la struttura del pas so beetho vernano.
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nuovi strumentalmente il Capriccio op. 5 (1825), il Capriccio bril lante op. 22 per pianoforte e orchestra (1825-1826), i Sette Pez zi caratteristici op. 7 (1827) e le Trois fantaisies ou caprices op. 16 (1829). Non facciamo qui, s’intende, questione di valore este tico: il Capriccio op. 5, ad esempio, è un modello perfetto di scherzo mendelssohniano, e la seconda delle Pantaisies ou capri ces , intitolata Scherzo, è una specie di trasposizione pianistica del la ouverture del Sogno di una notte di mezza estate} nello stesso Scherzo op. 16 n. 2 si trova un breve, ma ardito passo in doppie ottave, che suona nuovo nello stile pianistico di Mendelssohn. Non è improbabile che Mendelssohn ampliasse le sue concezioni del suono pianistico attraverso lo studio delle composizioni di Weber.9 Nulla però di paragonabile alle esplorazioni sul suono e sulla tecnica che Chopin conduceva negli stessi anni, e che por tavano dal Rondò op. 1 ai primi Studi dell’op. io: Mendelssohn lavorava invece con passione su due soli tipi di tocco, lo «stac cato» e lo «staccatissimo», e lavorava con fantasia ma senza an dare tecnicamente oltre i risultati già raggiunti da Weber o addi rittura da Beethoven nel finale della Sonata op. io n. 2. Più che di sviluppo della tecnica si può piuttosto parlare già in questo periodo di ritorno neoclassico, cioè di superamento all’indietro del Biedermeier di Hummel e di Moscheles, e di riutilizzazione di una tecnica barocca della tastiera (si vedano soprattutto il n. 3 e il n. 5 dei Pezzi caratteristici). Dal 1829 il contributo mendelssohniano alla storia del piano forte si fa più rilevante, sia sotto l’aspetto della composizione che dell’esecuzione. Mendelssohn partiva nel 1829 per una serie di viaggi che sarebbero durati fino al 1832, e che avrebbero toccato l’Inghilterra e la Scozia, Weimar, Monaco, Vienna, l’Italia, la Svizzera, Parigi, di nuovo l’Inghilterra. Il giovane tedesco non si presentava però ai pubblici europei come musicista professio nista, ma piuttosto come gentiluomo che completava una sua va sta e profonda educazione, e sotto questa maschera, la maschera del viaggiatore intellettuale che non si pone in concorrenza con gli arrabbiati aspiranti alla gloria, ma che con aristocratico disin-
9 II Perpetuum mobile op. 119, che fu pubblicato nel 1873 e la cui data di com posizione non è nota, dimostra che Mendelssohn aveva certamente studiato il finale della Sonata op. 24 di Weber. Di Weber, come diremo poi, Mendelssohn eseguì verso il 1830 il Concertstuck.
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teresse acconsente a farsi conoscere, egli fece ascoltare musiche sue, diresse, suonò da gran signore il pianoforte. Il concertismo pianistico attraversava in realtà, verso il 1830, una grave crisi, ed i giovani pianisti non potevano semplicemente subentrare, con lo stesso tipo di repertorio, ai pianisti affermati. Lo verificò a sue spese Chopin, che vivendo in provincia e non potendo quindi fiutare per tempo le mode si era coscienziosamen te costruito il tipico repertorio del concertista Biedermeier: due concerti e tre pezzi brillanti per pianoforte e orchestra (le Varia zioni op. 2, la Fantasia op. 13, il Krakoviak op. 14), con un pia noforte tuttofare ed un orchestra pochissimo impegnata. Quando pieno di entusiasmo uscì dalla Polonia Chopin dovette presto ac corgersi che il corredo preparato con tanta cura non era smercia bile, e che il pubblico correva semmai dietro a Thalberg e alle sue fantasie drammatiche. Liszt, che scrutava il mondo da un os servatorio privilegiato come Parigi, aveva invece sospeso una car riera concertistica trionfalmente iniziata, e l’avrebbe ripresa solo dopo aver trovato nuove motivazioni culturali all’esecuzione pub blica. Mendelssohn, educato nella civilissima Berlino che stava riscoprendo Bach, non partì di casa con il repertorio del pianistacompositore alla Hummel, ma del pianista-interprete, proponen do quindi precocemente quella svolta nella storia dell’esecuzione che sarebbe stata attuata verso il 1835, prima, sperimentalmente, da Moscheles, e poi, definitivamente, da Liszt. Mendelssohn, pur eseguendo il suo Capriccio brillante op. 22 e poi il Concerto op. 25, presentò infatti in pubblico il Concerto in re minore e, con Moscheles, il Concerto per due pianoforti di Mozart, i concerti n. 4 e n. 5 di Beethoven, il Concertstiick di Weber, e in concerti privati eseguì altri concerti di Mozart, il Concerto in re minore di Bach, composizioni di Bach, tra cui la Fantasia cromatica e fu ga, le sonate op. 27 n. 2, op. 53, op. 57 e op. ni di Beethoven. La carriera concertistica del pianista Mendelssohn non ebbe tutta via lo sviluppo che si poteva prevedere, perché dopo il 1833, an no in cui fu nominato direttore dei concerti a Dusseldorf, scelse come principale attività professionale la direzione d’orchestra, tor nando al pianoforte raramente e casualmente, soprattutto per ese guire i suoi lavori per pianoforte e orchestra o per partecipare con amici ad esecuzioni del Concerto per due pianoforti di Mozart10 10 Ferdinand Hiller racconta un interessante particolare sull’esecuzione che ebbe luogo a Lipsia nel 1840: «Felix ed io dovevamo suonare il Concerto di Mozart
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e del Concerto per tre pianoforti di Bach (con Liszt e Hiller, e con Clara Schumann e Hiller a Lipsia, con Moscheles e Thalberg, e con Moscheles e Dòhler a Londra); soltanto il Concerto n. 4 di Beethoven fu da lui eseguito ancora di frequente, fino all’aprile del 1847, sette mesi prima della morte. Così come precocemente intuì la trasformazione dell’esecuzio ne pubblica in pubblica lettura dei classici, Mendelssohn precoce mente superò la crisi, il punto morto a cui era giunto verso il 1830 il concerto per pianoforte e orchestra. Il concerto Biedermeier di Ries, di Hummel, di Kalkbrenner, di Moscheles aveva enorme mente sviluppato il virtuosismo del solista, ri ducendo progressiva mente il ruolo dell’orchestra, sia per ragioni strutturali che prati che, fino al limite paradossale dell’orchestra ad libitum. Tra i mu sicisti della nuova generazione Mendelssohn aveva fatto il suo ap prendistato con il Concerto in la minore e Liszt aveva scritto ver so il 1826 tre concerti, che sono andati perduti e sui quali resta solo una testimonianza di Moscheles.11 Chopin aveva seguito l’este tica del concerto Biedermeier nei due concerti, composti tra il 1829 e il 1830; ma quando, uscito da Varsavia, si era reso conto del mutato clima culturale europeo, aveva lasciato incompiuto il suo terzo Concerto in la maggiore. Schumann schizzava tra il 1829 e il 1833 ben tre concerti per pianoforte e orchestra, senza riu scire a terminarli.12 Liszt, nel 1830, gettava sulla carta i primi schiz zi di quello che venticinque anni più tardi sarebbe diventato il Concerto in mi bemolle maggiore, individuando confusamente le idee tematiche ma senza saper creare una scrittura pianistica con seguente. In realtà, il concerto Biedermeier aveva toccato un cul mine invalicabile con il Concerto op. 5 di Thalberg, composto nel in mi bemolle maggiore per due pianoforti; ed ecco come avevamo preparato la Cadenza del primo tempo. Io dovevo cominciare l’improvvisazione e fermar mi su un qualsiasi accordo di settima, Mendelssohn doveva continuare e fermarsi su un accordo anch’esso concordato prima, e come conclusione della Cadenza egli aveva scritto alcune pagine per i due strumenti, sia insieme che separatamente, fino all’entrata del tutti. Tutto riuscì a meraviglia; solo pochi ascoltatori indovinarono il nostro modo di procedere, e fummo così coperti di applausi entusiasti» (F. Hiller, F. Mendelssohn-Bartholdy, Brief e und Erinnerungen, Co lonia 1874; citiamo dalla traduzione francese, J. Baur, Parigi 1867, pag. 289). 11 Dai diari del 1827: «Il Concerto in la minore contiene caotiche bellezze; quanto al suo modo di suonare, esso supera in potenza e padroneggiamento delle difficoltà qualsiasi cosa io abbia mai udito» {op. cit., pag. 94). 12 Gli schizzi, di proprietà privata, non sono pubblicati, e quindi non si può valutare l’impostazione stilistica che Schumann dava allora alla forma del con certo.
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1829 ed eseguito a Vienna il 20 marzo 1831, e Chopin, Schumann e Liszt, tentando di tenerlo in vita, si erano scontrati con proble mi praticamente insolubili. Le soluzioni alternative erano molteplici. Si poteva eliminare l’orchestra, riportando sul solo pianoforte il peso di un discorso complesso e sul solo pianista - non si ritenga ciò secondario l’impatto visivo con il pubblico. Questa soluzione, tentata da Schu mann confusamente nella Sonata op. 11 (1833-1835), cosciente mente nel Concert sans orchestre (1835-1836), in modo sublima to negli Studi sinfonici (1834-1837), fu ripresa più tardi da Cho pin, che utilizzò gli schizzi del Concerto n. 3 per l’Allegro da con certo op. 46 (1842), e trovò il suo compimento manieristico nel Concerto per pianoforte solo {Studi n. 8, 9, io dell’op. 39, 1857) di Charles Valentin Alkan. L’altra possibile soluzione consisteva nello sviluppo di una concezione sinfonica del rapporto solista-or chestra, che partisse dall’esperienza del Concertstuck di Weber: fu questa la strada tentata da Liszt nel Psaume instrumental (18341835), incompiuto, e nella composizione di cui fu scritta soltanto la parte nota come Malediction per pianoforte e archi (1830 cir ca). La soluzione violentemente restauratrice e reazionaria fu ten tata da Alkan nei due Concerti da camera per pianoforte e archi, composti intorno al 1830 (il secondo fu pubblicato a Londra nel 1834). Ma solo Mendelssohn, con il Concerto in sol minore op. 25 composto nel 1831 ed eseguito a Monaco il 18 ottobre, riuscì allora a risolvere in modo positivo il problema di perpetuare, di mantenere in uso il concerto per pianoforte e orchestra. II concerto di Mendelssohn non è assimilabile ad una ben defi nita tipologia (e perciò, a parer nostro, è praticamente uscito dal repertorio): non è né classico né Biedermeier né romantico, e pre senta invece caratteri sia classici, sia Biedermeier, sia romantici. La concezione classica del rapporto solista-orchestra viene ripresa da Mendelssohn che, conoscendo a fondo l’orchestra (al contrario di Schumann, di Chopin, di Liszt, di Alkan), può reinventare una scrittura integrata affidando al pianoforte passi di ornamentazione che si inseriscono su un tessuto orchestrale di base. Le tracce di stile Biedermeier sono vistose: ad esempio, il secondo tema del fi nale è un moto perpetuo del pianoforte di scrittura completa ed autonoma, su cui l’orchestra si inserisce con semplici funzioni di sostegno. Non mancano però neppure, ed è questo il carattere ro mantico, i segni premonitori di un nuovo predominio del solista
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in una struttura integrata: ad esempio, l’entrata del pianoforte, con le doppie ottave e con tutta l’imponenza del primo solo, prean nuncia nettamente il Concerto n. 1 di Liszt. A questa singolarità di scrittura fa riscontro la singolarità della struttura formale. Mendelssohn mantiene i tre tempi tradizionali é le forme tradizionali, ma lega il primo al secondo e il secondo al terzo tempo con due brevi intermezzi, ottenendo la continuità della forma pur senza inventare alternative radicali alla tradizione; la doppia esposizione viene eliminata (una breve introduzione por ta all’entrata del solista), le nette partizioni classiche e Biedermeier, con i ritornelli orchestrali che scandiscono le suddivisioni struttu rali, sono rese molto fluide, ed anche la cadenza del primo tempo, che arriva sul sacramentale accordo di quarta e sesta, non spezza il discorso ma è intesa come «cadenza in tempo» (come, nel con certo classico, avviene talvolta nel secondo tempo). Altro singolare carattere del Concerto in sol minore è costituito dall’impianto tonale (sol minore nel primo tempo, mi maggiore nel secondo, sol maggiore nel terzo), che modifica la progressione tradizionale (sol minore-mi bemolle maggiore-sol maggiore). È pro babile che il mi maggiore del secondo tempo venisse scelto per ra gioni timbriche, e cioè perché sul pianoforte la tonalità di mi maggiore suona più morbidamente della tonalità di mi bemolle maggiore. Mendelssohn riesce però a mediare i rapporti tonali tra primo e secondo tempo usando nel primo tempo, oltre al tradi zionale si bemolle maggiore, il re bemolle maggiore. La struttura tonale complessiva, veramente geniale, vede dunque oscillazioni di tonalità attraverso il modulo ricorrente della terza minore (sol mi nore-si bemolle maggiore-re bemolle maggiore-mi maggiore-sol mag giore). Se il Concerto in sol minore fa dunque di Mendelssohn, nel 1831, un compositore di avanguardia, composizioni di avanguar dia, malgrado la loro modesta apparenza, sono anche le sei Itomanze senza parole op. 19, composte tra il 1829 e il 1830. La scelta della piccola forma è tipica del romanticismo, ma i motivi di interesse sono, a parer nostro, soprattutto altri. Nella prima ro manza troviamo una disposizione pianistica che cava dallo stru mento due qualità di suono ben distinte e che, coprendo una di stanza di poco più di due ottave, con una fitta ragnatela di suoni intermedi, consente il massimo di vibrazioni per simpatia e quindi di eufonia. Mendelssohn amplia e sviluppa la scoperta fatta col
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secondo tema del Rondò capriccioso, dividendo la mano in due settori e sfruttando le qualità anatomiche delle dita: l’anulare e il mignolo, dotati di minore articolazione e di limitate capacità percussive, ma adattissimi alla presa, abbassano il tasto e vi ri mangono afferrati, permettendo al peso del braccio di rimanere appoggiato sul tasto abbassato e di essere trasferito passivamente da un tasto all’altro; pollice ed indice, dotati di ampia articola zione e di grandi possibilità percussive, restano alla superficie del tasto, seguendolo leggermente, ma senza afferrarlo, durante la di scesa; il medio, che in certi limiti può svolgere altrettanto bene e l’una e l’altra funzione, si aggrega all’una o all’altra parte della mano. Il risultato è una melodia alla mano destra, un basso o contromelodia alla mano sinistra, un accompagnamento ritmicoarmonico frazionato tra le due mani (si noti anche la quieta intro duzione di-due battute senza melodia):
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La novità rivoluzionaria è rappresentata dal sistematico frazio namento di una parte, l’accompagnamento, tra le due mani: frazio namento che permette un movimento melodico del basso, e un equilibrio, un’eufonia, un controllo del tocco non raggiungibili con la strumentazione Biedermeier di Field, che Mendelssohn aveva in sostanza adottato nell’andante introduttivo del Rondò capriccioso. Rispetto al Rondò capriccioso la Romanza op. 19 n. 1 segna quin di un progresso decisivo. E un progresso decisivo per il coinvolgi mento emotivo dell’ascoltatore è rappresentato dalla più limitata estensione della melodia: eccettuate le battute 19 e 20, dovè la li nea melodica prende un carattere strumentale, la melodia è vocalistica, con cauti spostamenti di registro e con uno spettro totale (da si 2 a la 4) che non copre due ottave. Una melodia che un mezzosoprano potrebbe sostenere senza sforzo, e che qualunque ascoltatore può cantare silenziosamente: da cui, come già abbia mo detto, l’identificazione dell’ascoltatore nell’oggetto sonoro. La cantabilità, la qualità del suono cantabile della Romanza op. 19 n. 1 potrebbe - potrebbe, perché stiamo facendo una supposizio ne non suffragata da documenti - essere dovuta alla rivelazione dell’arte di Maria Malibran. Il pezzo fu scritto nel 1829, e nel 1829 Mendelssohn ascoltò a Londra la Malibran, che cantava il repertorio del soprano protoromantico con una voce ricca di ar monici, «scura» e sensuale, di timbro più contraltile che sopranile. I pianoforti del 1830, già sensibilmente diversi dai pianoforti del 1824, consentivano una maggiore varietà timbrica e un suono di più lunga risonanza, che forse Mendelssohn trovò tentando di mimare la vocalità della Malibran. O, forse, la Malibran e Men delssohn sono soltanto esempi emergenti di una mutata estetica del suono. Tuttavia, poiché l’estetica del suono strumentale ha se guito sempre l’estetica della vocalità, non ci sembra illogico che fosse la «novità» del suono della Malibran a stimolare Mendelssohn nelle sue ricerche sul suono pianistico. Il tipo di composizione, di cui la Romanza senza parole op. 19 n. 1 è il primo esemplare, ritorna in tutte le raccolte di Men delssohn con una strumentazione sempre simile e tuttavia variata in modi molteplici, che non staremo ad elencare. Un altro modello di strumentazione, che ritornerà spesso in Mendelsshon, è quel lo della Romanza senza parole op. 19 n. 5: basso alla sinistra, accompagnamento e melodia alla destra. La disposizione è quella finale della Sonata op. 90 di Beethoven, che Mendelssohn aveva
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ricalcato nella Fantasia op. 16 n. 3; ma per ottenere un maggior rilievo della melodia e una maggiore velocità di scansione (cioè una maggiore densità ritmica), Mendelssohn fa qui coincidere tal volta la nota della melodia e la nota dell’accompagnamento:
Il capolavoro di Mendelssohn in questo campo - tecnicamente almeno - è la Romanza senza parole op. 38 n. 6, intitolata Duetto. La melodia, alla destra, è strumentata come nella Romanza op. 19 n. 5; ma alla quinta battuta subentra una nuova melodia, nel re gistro centrale ed eseguita da pollice e indice della mano destra. È ovvio - il pezzo s’intitola Duetto - che Mendelssohn sta espo nendo una proposta-risposta tra mezzosoprano e baritono, e già il semplice spostamento di registro - un’ottava sotto - modifica il timbro. Ma il timbro è anche modificato dal fatto che le due parti della mano si scambiano le funzioni: quarto e quinto dito «cantano» come nella Romanza op. 19 n. 1, pollice e indice come nel secondo tema del Rondò capriccioso-, la sonorità di quarto e quinto è più ricca di armonici consonanti, la sonorità di pollice e indice è più metallica (possiamo dire più «virile»?), e a queste due diverse qualità di suono cantabile s’aggiungono la chiara so norità del basso e il mormorio dell’accompagnamento in terzine: la musica pianistica non virtuosistica, destinata ai dilettanti colti
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più che ai professionisti, non potrà mai superare i risultati a cui Mendelssohn perviene nel Duetto, Il Duetto merita però di essere analizzato anche per altri mo tivi. Alla prima proposta-risposta seguono una seconda propostarisposta ed uno sviluppo in cui ciascuna delle due voci elabora, alternandosi con l’altra, parti della «propria» melodia. Sull’ultima proposta del mezzosoprano il baritono entra a canone: la dina mica aumenta (molto crescendo), le due voci si bloccano sull’in tervallo di sesta, e in ottava, fortissimo, intonano la melodia ini ziale del baritono, sviluppandola e chiudendola sul piano. Dopo due battute e mezza di solo accompagnamento, in cui le terzine ascendono gonfiandosi fino al cielo, il baritono... riprende le for ze e mormora - con due singhiozzi - la sua melodia, il mezzoso prano entra con un contrappunto; poi il barìtono riprende come un soffio l’inizio della sua melodia, il mezzosoprano risponde con gli stessi suoni, un’ottava sopra. E il pezzo finisce. Abbiamo descritto con insistenza e in modo certamente tenden zioso una forma che in fondo è molto semplice: esposizione, svi luppo, riesposizione, coda, codetta. Ma la forma tradizionale as sume qui un risvolto psicologico perché la melodia del mezzoso prano non ritorna nella riesposizione. E il significato è a parer no stro erotico, chiaramente erotico: seduzione che vuol dir cattura e riduzione del due all’uno: il mezzosoprano, nella riesposizione, non ha altra melodia che quella del baritono, e la sua melodia le regole della forma tradizionale vanno a farsi benedire13 - non viene più sentita dall’ascoltatore. È difficile parlare di erotismo in un uomo come Mendelssohn, buon borghese tedesco, buon ma rito, idolatrato dalla società vittoriana, mentre sarebbe molto fa cile parlarne in Wagner, che è tutto l’opposto. A noi sembra però che l’erotismo, e non un patetico sentimentalismo, sia il tono di fondo delle Romanze senza parole, di questo cantare malinconico, di questo cantare agitato, di questo cantare gioioso, di questo can tare felice. E perciò abbiamo analizzato in modo inusuale il Duet to, che però non rappresenta a parer nostro l’eccezione ma solo il culmine del Mendelssohn intimistico e il momento in cui la dissociazione mendelssohniana tra razionale e affettivo sfiora l’ir razionale romantico. Nelle Romanze senza parole si trovano sicuramente anche altri 13 Per mantenere le proporzioni tra l’esposizione e la riesposizione Mendelssohn amplia la melodia nella riesposizione.
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temi poetici: la Romanza senza parole op. 19 n. 3, spesso intito lata La caccia, apre quel filone di stampa d’ambiente di cui l’op. 67 n. 4, nota come La fileuse, è il più eminente esempio. La Roman za senza parole op. 19 n. 4 è un esempio, che ritornerà nelle al tre raccolte, di Lied corale trasportato sulla tastiera, e la Romanza senza parole op. 19 n. 6, espressamente intitolata Venetianisches Gondellied (Barcarola veneziana) fa sognare al filisteo tedesco la laguna... Non solo la laguna, per la verità. La melodia dell’op. 19 n. 6 è preceduta dalla solita introduzione, che è cantata, secondo l’uso delle barcarole, da due voci che si muovono parallelamente. Nel l’introduzione emerge però un frammento tematico di quattro suo ni, molto in rilievo, che non assume il significato rassicurante che aveva l’animazione melodica dell’accompagnamento nel Rondò ca priccioso: qui un vero e proprio «motto» si stacca dall’accompa gnamento come un’epigrafe che precede il breve racconto e che ritorna alla fine, chiudendolo con un senso di fatalità e di trage dia: barcarola sì, ma anche ballata popolare tedesca. Ritroviamo la stessa struttura psicologica nella Barcarola vene ziana op. 30 n. 6 e soprattutto nella Barcarola veneziana op. 62 n. 5, dove il motto «fatale» non compare solo all’inizio e alla fi ne, ma nel corso del pezzo, e in fortissimo e con accenti marcati, anche in contesto pianissimo. Nell’interpretazione di Walter Gieseking, la Barcarola veneziana op. 62 n. 5 diventava il lontano antecedente delle due La lugubre gondola di Liszt: Gieseking, in altre parole, riusciva a scorgere in Mendelssohn le premonizioni del cammino che il solo Liszt, tra tutti i pianisti della generazione 1810, avrebbe potuto percorrere fino alla fine, fino alla consu mazione delle idealità rivoluzionarie da cui erano partiti verso il 1830 i giovani romantici. In Mendelssohn, diventato nella secon da metà del secolo scorso il degno musicista che si poteva suonare nei salotti e il caposcuola della musica per famiglie, Gieseking ve deva il primo barlume della disperazione, della disillusione, della coscienza tragica della storia a cui Liszt sarebbe pervenuto a pas so a passo. Posizione che può essere confermata quando si consi deri il riemergere delle Romanze senza parole nelle ultime raccol te di pezzi pianistici di Brahms, posizione che può essere confer mata da sottili ma evidenti rapporti tra Mendelssohn e il primo Satie: si legga la Romanza senza parole op. 67 n. 6 secondo l’ot tica di Satie e si ritroveranno subito le Gymnopédies.
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Questa modernità di Mendelssohn, questo suo andare al di là del proprio tempo per profetizzare la corruzione e la fine della civiltà che si contribuisce ad edificare può essere ritrovato a parer nostro solo nel complesso delle Romanze senza parole, e solo con un sottile lavoro di analisi per il quale è necessaria l’acutezza di un lettore come Gieseking, Le Romanze senza parole restano per noi come un diario segreto dei dubbi inconsci di Mendelssohn, mentre le altre sue musiche, ivi comprese le Variations serieuses del 1842, rispecchiano piuttosto l’aspetto pubblico dell’uomo di successo e, sebbene denuncino qualche crisi, non partecipano nel complesso al dibattito dei problemi che la generazione 1810 af frontò tra il 1831 e la metà del secolo. Già le Romanze senza pa role op. 19 non sono organizzate ciclicamente, e Mendelssohn non si preoccupa di organizzare in ciclo nessuna delle sue raccolte di pezzi brevi (l’ultima è del 1845): ciò dopo che Beethoven aveva inteso come ciclo le Bagatelle op. 126 e Schubert alcune raccolte di danze, e mentre Schumann creava il polittico. Su questo pro blema essenziale per i romantici — servirsi delle piccole forme sen za rinunciare alla complessità del discorso e dell’architettura Mendelssohn non ha nulla da dire. E dopo il Concerto op. 25 non ha nulla da dire sull’altro problema essenziale per i roman tici: far evolvere le grandi forme della tradizione. I tre Capricci op. 33, scritti tra il 1833 e il 1835, sono in forma di «allegro di sonata», allegro di sonata tradizionale quale avrebbe potuto es sere immaginato da un buon artigiano della musica: negli stessi anni Chopin arrivava con enorme fatica a trasformare lo schema dell’«allegro di sonata» nella forma della Ballata op. 23. E Chopin aveva già ripreso e trasformato radicalmente, con lo Scherzo op. 20, la forma tradizionale dello scherzo con trio. Dopo il 1831 il più significativo sforzo di rinnovamento di Men delssohn è rappresentato dalla Fantasia op. 28, intitolata in ori gine Sonata scozzese. Dopo la Sonata op. 105, che abbiamo già citato, Mendelssohn aveva scritto altri due lavori di scuola, la Sonata op. 6 (1826), che risentiva di Mozart e di Cari Philipp Emanuel Bach, e la Sonata op. 106 (1827), in cui si rifletteva un interesse per Beethoven, e in particolare per il Beethoven della Hammerklavier. Il ritorno del musicista maturo sulla forma-sonata avviene con la Fantasia op. 28, che è certamente un bel lavoro, degno di stare nel repertorio concertistico del pianoforte, ma in cui gioca la tentazione della semplificazione invece che della sin
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tesi della storia, la tentazione del ritorno a un tempo sentito ideal mente come luogo della felicità e della bellezza. Partito, come ab biamo detto, da quell’interpretazione dell’arte di Mozart che era la musica di Hummel, Mendelssohn tende a ritornare verso Hum mel e verso Mozart, affiancandosi quindi, da musicista, alla visio ne dell’arte mozartiana come serena e apollinea contemplazione che in sede critica sarebbe stata proposta verso la metà del secolo da Otto Jahn. Anche Bach, a cui Mendelssohn guarda quando com pone i sei Preludi e fughe op. 35,14 è un compositore classico e austero, ben diverso dal fosco «gotico tedesco» che in lui vede vano Liszt e Wagner. Non c’è in Mendelssohn né l’aspirazione, che è nelle ambizioni di Liszt, ad un’arte nata da una poetica rivoluzionaria, né la sintesi appropriatrice e totalizzante dell’ul timo Beethoven, né, come in Chopin e in Schumann, lo sviluppo dei germi che la tradizione ha lasciato intatti. Neppure l’evolu zione della tecnica pianistica interessa a Mendelssohn veramente: il primo Studio in si bemolle minore, dell’op. 104, composto nel 1836, dimostra la curiosità per una felice trovata di Thalberg, che modificava e ampliava una felice trovata di Mendelssohn: la me lodia, anziché l’accompagnamento, al centro, e divisa tra le due mani :
N I Preludi e fughe op. 35 furono scritti tra il 1834 c il 1837, tranne la Puga in mi minore n. 1, composta nel 1827.
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Ma sebbene Mendelssohn sfrutti questa scoperta con gusto nel Concerto in re minore, op. 40 (1837), oltre che nello Stu dio op. 104 n. 1 - il suo atteggiamento rimane distaccato, un po’ salottiero, un po’ da uomo di mondo che può capire tutto ma che non si fa più coinvolgere da nulla. E questo suo distacco dal presente è tale che Mendelssohn può vedere se stesso attraverso gli altri: l’Albumblatt op. 117 (1837) è come una Romanza senza parole scritta da Schumann nello stile di Mendelssohn! Lo Studio op. 104 n. 1 e l’Albumblatt op. 117, nei quali Men delssohn si rispecchia in altri creatori, sono a parer nostro indice di un disinteresse che si è già consumato, e che non coinvolge ne cessariamente Mendelssohn in quanto artista, ma in quanto com positore di musica per pianoforte. Se tra il 1829 e il 1831 Men delssohn era stato pianista di avanguardia, e se tra il 1837 e il 1842 egli ripropone senza svilupparle le sue conquiste giovanili, tra il 1833 e il 1836 si collocano i suoi tentativi di ritorno a Mo zart e a Bach e la sua crisi di rigetto verso ciò che Schumann, Chopin e Liszt stavano facendo. Lavoro emblematico, in questo senso, è il Rondò brillante per pianoforte e orchestra op. 29, com posto nel 1834 e dedicato a Moscheles. Tre anni dopo aver scrit to il Concerto op. 25, cioè una partitura sinfonica, Mendelssohn riprende il più tipico stile Biedermeier, con un virtuosismo datato al 1815 e con un’orchestra di contorno che potrebbe facilmente essere eliminata. Non c’è neppure, o almeno a noi non pare sia riscontrabile un minimo di formalizzazione e quindi di distacco critico; c’è invece un ritorno regressivo verso un mondo, e verso un rapporto tra il musicista e la società, che il Mendelssohn del 1829-1831 aveva nettamente superato. Tra il 1833 e il 1847 Mendelssohn, favorito forse dalla scelta della direzione d’orchestra come occupazione predominante, spo sta in realtà verso altri campi di attività musicale i suoi interessi, e in altri campi ripropone in modo storicamente significante ciò che in campo pianistico aveva creato nella prima maturità. Il Con certo per violino (1838-1844), che è più maturo ma struttural mente non diverso dal Concerto per pianoforte op. 25, inaugura un tipo di composizione alternativa al concerto dei virtuosi paganiniani e diventa un modello che verrà fedelmente seguito e ri calcato per almeno un quarto di secolo. Le due Sonate per vio loncello e pianoforte (1838 e 1843), * tre Quartetti op. 44 (18371838), il Trio op. 49 (1839) toccano generi che dopo Beethoven
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e Schubert non avevano avuto un seguito. I Preludi e fughe op. 37 (1837) e le Sei Sonate op. 65 (1839-1845) riprendono in con siderazione Porgano con una serietà di intenti quale non si era più vista dopo il tramonto del barocco, e gli oratori Paulus (18321836) ed Elijah (1837-1846) ridanno vita dopo trent’anni ad un genere che pareva essersi concluso con il Cristo al monte Oliveto di Beethoven. Mendelssohn, al contrario di Moscheles, non si chiude quindi in se stesso e continua una sua azione culturale che incide nella storia dell’arte e del costume, e che fa di lui, nella società della seconda metà del secolo, l’incontestato maestro del gusto. Si può anche vedere in Mendelssohn la figura del musicista che, non con dividendo le tensioni rivoluzionarie del cosiddetto VormarZy pre para quella che per almeno un quarto di secolo sarà in tutta Euro pa la cultura dominante dopo il fallimento della rivoluzione demo cratica del 1848-1849. Ma pur non volendo in questa sede appro fondire il problema possiamo ben dire che per il pianoforte Men delssohn resta il musicista della rivoluzione borghese. Educato du rante il Biedermeier e in un ambito di cultura Biedermeier, egli sviluppa la sua azione di artista d’avanguardia durante la rivolu zione borghese del 1830-1831 e non diventa poi, al contrario di Chopin, di Schumann, di Liszt, il musicista del Vormàrz> del pe riodo che prepara la mancata rivoluzione democratica. Proprio per questo motivo egli fu tanto stimato nella seconda metà del secolo dai circoli conservatori, e proprio per questo motivo le esecuzioni delle sue composizioni pianistiche diradarono sempre più nel no stro secolo. La ricognizione che venticinque anni or sono Walter Gieseking conduceva su diciassette Romanze senza parole scopri va però l’inquietudine segreta e angosciosa che percorreva quei placidi quadretti di salotto borghese. Ed oggi, mentre si comin cia a prendere in considerazione il Biedermeier e mentre Hummel non è più un cameade, la riscoperta del Mendelssohn pianistico significa riscoperta di un protagonista, per il quale le etichette di classico romanticheggiante o di romantico classicheggiante valgono solo a nascondere una posizione ideologica non riducibile in realtà a schematismi e tanto meno a giudizi moralistici, ma che è invece da analizzare per la sua importantissima funzione nella storia del la civiltà.
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Il primo compositore polacco che veramente emerge in campo europeo con musiche per pianoforte è un dilettante, il conte Mi chal Kleofa Oginski. Nipote di un gran signore che aveva scritto opere e balletti, che aveva stipendiato un intero teatro musicale per far spettacoli nella sua residenza di Slonim in Lituania, che aveva studiato a fondo l’arpa e che aveva scritto la voce «arpa» per VEncyclopédie di Diderot, il conte Michal Kleofa Oginski, nato nel 1765, studiò tra l’altro pianoforte e violino, ebbe inca richi diplomatici, fu a Varsavia come «Gran Tesoriere del Regno di Lituania», dovette fuggire perché compromesso con la rivolta guidata da Kosciuszko, viaggiò in Europa e fu a Costantinopoli; graziato, soggiornò dal 1802 al 1815 in una tenuta vicino a Vil nius, ma quando il Congresso di Vienna confermò la spartizione della Polonia si stabilì in Italia, morendo a Firenze nel 1833. Scorrendo la biografia dell’Oginski il pensiero corre subito al più celebre Jan Potocki, anch’egli appartenente a famiglia magna tizia, che dell’Oginski era coetaneo. L’Oginski, si sa, non scrisse nulla di paragonabile al Nianuscrit trouvé à Saragosse del Potocki, né fu pioniere, come il Potocki, degli studi di archeologia slava, non fece neppure una morte-capolavoro come quella del Potocki, che finì suicida dopo aver limato meticolosamente per più di die ci anni la grossa palla d’argento che ornava la sua teiera predi letta: ridotta lentamente la palla alla misura voluta, il Potocki la staccò gentilmente dalla teiera, l’introdusse nella canna di una pistola e si fece saltare le cervella. A dire il vero, quel grosso furbacchione che rispondeva al no me di Maurice Schlesinger, editore parigino che diede del filo da torcere a Chopin, a Liszt, a Wagner, tentò di fare dell’Oginski * xx Festival Pianistico Internazionale, Brescia 1983.
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un più modesto e più viscerale imitatore del Potocki. Chi scorre il monumentale catalogo che Stefan Burhardt ha dedicato alla po lacca nota su un’edizione Schlesinger delle Polacche di Oginski una vignetta: si scorge, da una finestra illuminata, una coppia che balla spensieratamente, mentre un nero giovanotto, nel buio del giardino, impugna con forza una pistola. Su chi tirerà il colpo, il giovinotto? Il frontespizio non lo dice e al Burhardt non inte ressa farcelo sapere. Ma nel vecchio dizionario di Adalbert Sowinski troviamo citata la didascalia che spiega la vignetta: «Ogin ski, disperato di vedere ricompensato il suo amore con l’ingrati tudine, si toglie la vita mentre viene eseguita una Polacca com posta per l’ingrata amata, che la balla con il suo amante». Ottimamente inventato. Ma inventato. Michal Kleofa Oginski s’accontentò di morire nel suo letto dopo essersi goduta la vita e lasciando un’opera in un atto, alcune romanze per canto e piano forte, valzer e mazurche per pianoforte, nonché una ventina di polacche a due, tre e quattro mani che l’avevano reso celebre, o per lo meno notissimo in Europa a tutti i dilettanti di pianoforte. Di cinque anni più anziano di Beethoven, l’Oginski non era un beethoveniano e non era neppure un mozartiano. Le sue po lacche si collocano piuttosto in quel passaggio che dallo stile empfindsam, lo stile sensitivo settecentesco della Germania del Nord, porta al Biedermeier internazionale del primo Ottocento. Se si leggono le polacche dell’Oginski senza sapere chi ne sia l’autore si pensa alle pagine scritte per i dilettanti da Daniel Steibelt: la stessa misura di eleganza, di malinconia (slava o slaveggiante per antonomasia), e di scrittura strumentale che, pur essendo in real tà semplicissima, non manca di quei tratti che possono far fare bella figura, in società, all’esecutore. La differenza è che l’Oginski è o sembra genuino, mentre lo Steibelt, grande affarista, fa quel che serve per formare e poi soddisfare il gusto del consuma tore. Ma l’orientamento, oggettivamente, è lo stesso, e le compo sizioni dell’Oginski, come quelle dello Steibelt e di altri, sono lo specchio di quel mondo in cui il pianoforte rappresentava il quo tidiano della musica, la frequentazione musicale che s’affiancava alla frequentazione della poesia e della pittura, della filosofia, del l’astronomia, della chimica, e magari del ricamo e dell’allevamen to dei canarini. La Polacca in si bemolle maggiore n. 9 riassume bene la varie tà di atteggiamenti che s’incontra nelle composizioni di Michal
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Kleofa Oginski. Una piccola fanfara introduttiva ci ricorda che la polacca è danza della buona società:
Il tema principale riflette ancora la grazia cerimoniosa e un po’ leziosa del tardo rococò: d/jlee.
Il tema del trio è invece lirico, introspettivo:
In altre polacche di Oginski la Sensucht è più nettamente pre romantica, fieldiana o prechopiniana che dir si voglia. Ecco l’ini zio della Polacca in re minore n. io:
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Ancor più prossime alla sensiblerie romantica sono altre polac che, come quella in do minore intitolata Les Adieux à la Patrie, alla quale manca solo una ricca ornamentazione per diventare un pezzo alla Chopin 1825-1827. Si tratta dunque di un composi tore che ha una sua, sia pur piccola collocazione nella storia del l’arte e della cultura, anche se non si può non sottoscrivere l’opi nione di Stefania Lobaczewska: [Oginski] ha spinto la stilizzazione di questa danza molto lontano, nel la direzione sentimentale del nascente romanticismo. Ma non ha realizzato in tutta la sua estensione il programma di stilizzazione presentato nelle sue Memorie e consistente nello «sviluppare nella polacca gli elementi me lodici espressivi, quelli del buon gusto e del sentimento». Oginski non ha avuto la forza creativa necessaria per scoprire nella polacca anche molti altri elementi suscettibili di sviluppo e che vi si trovavano allo stato la tente. Oginski è stato tuttavia il primo compositore che, prima di Chopin, abbia scorto nella polacca le ulteriori possibilità di sviluppo artistico del genere.
Con questi limiti, che esprimono, più che i limiti, le funzioni di un’autentica attività creativa nel contesto del sorgere di una cultura nazionale, le polacche di Oginski diventarono celebri. L’Eu ropa, insomma, premiò l’originalità intuitiva dell’Ogihski, chiu dendo gli occhi sulla evidente sommarietà della sua preparazione di musicista. Le polacche di Oginski ottengono dunque una risonanza inter nazionale che non arride alle polacche del suo maestro Józef Koz lowski ed a quelle di Joachim Kaczkowski, di Józef Deszcynski, di Alojzy Stolpe, di Karol Kazimierz Kurpihski e di tutti gli al tri numerosi autori che si trovano elencati nel catalogo del Burhardt. Più noto, anzi noto in vari paesi d’Europa come autore di musica strumentale, se non come operista (scriveva opere su
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testo polacco, che non ebbero diffusione internazionale), fu Józef Elsner. Uomo di vastissimi interessi culturali, Elsner compose pe rò pochissimo per pianoforte: le sue ventuno polacche, la Sonata in re maggiore in cui viene introdotta una polacca, i due Rondò à la mazurek e il Rondò à la krakowiak, pubblicati all’inizio del secolo, sono però da ricordare perché testimoniano il suo interes se per la musica nazionale e perché aiutano a definire l’ambiente culturale in cui si sarebbe formato il suo futuro allievo Chopin. Franciszek Lessel, nato a Varsavia verso il 1780, fu musicista as sai meno poliedrico di Elsner ma più interessante per noi perché pianista concertista, oltre che compositore. Lessel studiò anche con Haydn a Vienna, dal 1799, e non rientrò in Polonia fino al 1809. Le sue Sonate op. 2 vennero pubblicate a Vienna, il Con certo op. 14 e il Potpourri op. 12 per pianoforte e orchestra a Lipsia. Le musiche di Lessel testimoniano il suo sicuro mestiere e il suo «aggiornamento» in fatto di tecnica pianistica: le Varia zioni in la minore, ad esempio, sembrano dimostrare che egli co noscesse l’Ar/ de varier di Reicha, pubblicata nel 1804 a Lipsia. Tuttavia non sappiamo quasi nulla dei suoi concerti pubblici, e nulla dell’azione culturale da lui svolta nel mondo dell’aristocra zia e specialmente presso una potentissima famiglia, i Czartoryski, alla quale sarebbe poi stato legato Chopin. Il Lessel è compositore professionista, legato alla cultura vien nese e perciò, in fondo, meno originale di quanto non fosse un di lettante come l’Oginski. Con Maria Aghata Szymanowska, concer tista di pianoforte, ritroviamo un tipo di compositore non profes sionista e quindi non condizionato da timor reverenziale verso la più alta civilità musicale che l’Europa avesse prodotto alla fine del Settecento. La Szymanowska, nata a Varsavia nel 1789, esordì nella capitale polacca nel 1810. Suonò poi a Parigi (Cherubini le dedicò la Fantasia in do maggiore), ma non potè proseguire la carriera in un’Europa dedita più alle belliche opre che alle arti; ritornata la pace con la sconfitta di Napoleone, dal 1815 la Szy manowska suonò in Austria, Francia, Inghilterra, Belgio, Olanda, Italia, Russia, diventando nel 1822 «pianista di corte» a San Pie troburgo. Ammirata ed amata da Goethe, ammirata da Beethoven (che le dedicò un Klavierstuck), ammiratissima da John Field (che cadeva in estasi anche di fronte alle sue statuarie spalle), ap plaudita alle corti di Londra e di Berlino, la Szymanowska con cluse la sua carriera nel 1828, si stabilì a S. Pietroburgo e vi aprì
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un salotto frequentato da Mickiewicz (che più tardi ne sposò la figlia, Celine), Puskin e Glinka. Morì nel 1831. Basta scorrere il catalogo delle musiche della Szymanowska per capire dove andasse a parare la sua attività creativa: venti Exer cises et preludes, diciotto danses, fantasia, Danse polonaise, Noc turne «Le murmurc», ventiquattro mazurche, sei valzer per pia noforte a tre mani, una Grande valse per pianoforte a quattro mani, variazioni su temi d'opera. Sebbene la Szymanowska fosse concertista, le sue musiche non sembrano precisamente quelle di una virtuosa dell’epoca di Hum mel e di Moscheles. Ad esempio, le note doppie e le terze e le ot tave della sua Polacca in do maggiore sono in realtà versioni sem plificate di ciò che troviamo verso il 1815 in Hummel e in Mo scheles: citazioni, trasposizioni in ambito dilettantistico dello stile brillante Biedermeier, virtuosismo messo alla portata di tout le monde. E le monde era quello in cui veniva venerato l’Oginski. Ciò non significa, naturalmente, che la Szymanowska non fosse una vera concertista ma piuttosto una specie di fascinosa dilettan te che girellava per l’Europa contando sull’indubbia seduzione che due femminili marmoree spalle esercitano quando si muovono da vanti a una tastiera sotto lo sfolgorio delle candele. Non è infat ti escluso che, come faceva Field, la Szymanowska non improvvi sasse fioriture o non eseguisse versioni più fittamente ornamenta te delle sue musiche. Come testimonia Liszt, le versioni dei not turni che Field eseguiva in pubblico non corrispondevano alle versioni stampate; ed era del resto costume antico che il con certista aggiungesse difficoltà a musiche pensate per i dilettanti (si leggano da un lato le Sonate con riprese variate di Cari Philipp Emanuel Bach, e dall’altro le lisztiane versioni «concertistiche» degli improvvisi di Schubert, per capire da quanto lontano e quan to a lungo si protraesse quest’uso). Noi non siamo più in grado di valutare la Szymanowska con certistica e di discernere in lei la venustà dell’arte e il fascino del la venustà. Nelle sue musiche a stampa la Szymanowska ci appare come un’artista di fresche capacità ricettive, stilisticamente collo cabile al primo, più che al secondo decennio dell’ottocento. I suoi valzer, molto graziosi, non vanno oltre i valzer di Clementi, di Boieldieu e di Steibelt, i suoi esercizi non vanno molto oltre gli studi di Cramer, il suo notturno Le murmurc, anch’esso graziosis simo, è come un goccio di delicato profumo che aleggia su un son-
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no non turbato né da fantasmi né da inquietudini. Come ben di ce la Lobaczewska, «la premonizione del romanticismo musicale non vi si trova se non nella tendenza a creare un'atmosfera in rapporto con un titolo, realizzandola con i mezzi della pittura mu sicale (movimento uniforme di sedicesimi, che si prolunga per tut ta la composizione con un accompagnamento armonico accentuato con discrezione)». Ed a ragione conclude la Lobaczewska dicendo: «I legami che uniscono questo lavoro ai notturni di Chopin sono, per parlare propriamente, impercettibili, anche se lo mettiamo a confronto con i primi notturni del grande compositore. Questi ul timi hanno maggiori affinità con quelli di Field».
Chopin a Varsavia Le polacche di Oginski cominciano ad essere pubblicate all’inizio dell’Ottocento, nel primo e nel secondo decennio del secolo compaiono le musiche di Elsner e di Lessel, nel 1820 vengono pubblicate a Lipsia gran parte delle opere della Szymanowska, molti lavori pianistici di compositori locali sono pubblicati a Var savia. In questo mondo solitario e chiuso, in cui gli echi delle capita li della musica strumentale arrivano in ritardo ed attenuati e in cui non ha ancora operato alcun artista di statura storica, nasce nel 1810 Fryderyk Chopin. Chopin scrive la sua prima composizione, la Polacca in sol mi nore , nel 1817. Val la pena di soffermarvisi per un momento. La struttura è tradizionalissima: polacca in due parti, di dodici e dieci battute, trio in due parti, di otto e otto battute, polacca da capo. Qualche minimo segno di individualità, tuttavia, lo si trova. Ad esempio, la prima parte della polacca è in sol minore, la seconda in si bemolle maggiore: nella ripresa da capo non vie ne ripetuta tutta la polacca, ma solo la prima parte, così che l’ar chitettura complessiva risulta asimmetrica.1 La seconda parte della polacca, di dieci battute, risulta lievemente asimmetrica rispetto alla prima e lievemente irregolare al suo interno per il prolunga
1 La mancanza dei segni di «da capo» e di «fine» nella prima edizione rende incerta la struttura della polacca. Tra le varie soluzioni teoricamente possibili abbiamo scelto quella generalmente adottata e che ci sembra di gran lunga la più probabile.
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mento della struttura di base, che è di otto battute. Lo Jachimeki ritiene che il modello formale, comprese le irregolarità di costru zione, vada ricercato nelle polacche dell’Ogihski, ed ha probabil mente ragione. L’assimilazione del modello è tuttavia sorprenden te, l’equilibrio e la logica discorsiva sono perfette. Non abbiamo il manoscritto di questa polacca, ed è presumibile che non il set tenne Chopin, ma un suo familiare o il suo maestro Zywny si in caricassero di mettere sulla carta ciò che il bambino aveva inven tato al pianoforte. Non sembra però probabile - anche se non si può escluderlo del tutto - che l’adulto «correggesse» Chopin: come nelle composizioni infantili di Mozart - manoscritte, que ste - si comincia dunque a intravvedere, già nel bimbo di sette anni, l’originalità somma del futuro artista. Si intravvedono anche le scoperte tecniche, il gusto della ricer ca sulla tastiera. Poco per ora, si capisce. Ma ecco come il bimbet te usa l’incrocio rapidissimo delle mani:
Ed ecco come fa passare la destra sulla sinistra per pescare un profondo basso cantante:
Nulla di inedito, per esser precisi: il modello è anche in que sto caso l’Oginski, che per l’incrocio delle mani doveva nutrire una vera passione e che lo introduceva un po’ dappertutto. Leg gendo la polacca di Chopin settenne bisogna però pensare all’ese cuzione di un bambino, non di un adulto: nel bambino l’incrocio
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delle mani, con lo spostamento della destra nel registro grave, provoca un atteggiamento del corpo sbilanciato e perciò musco larmente in forte tensione. Se pensiamo — sperando di non cor rere troppo con la fantasia - che probabilmente i piedi del pic colo Chopin non stavano ben poggiati a terra ma volavano a qual che centimetro dal pavimento, abbiamo un’idea dell’effetto che il pianista-compositore in erba doveva produrre sui suoi ascolta tori. Pianista-compositore, abbiamo detto. Mentre papà Mozart, mu sicista, avvia presto il suo bambino allo studio generale della com posizione, papà Chopin, istitutore e insegnante di francese, lascia che Venfant si impratichisca insieme e del pianoforte e della com posizione, e solo nel 1826 gli fa iniziare regolari studi di compo sizione con Józef Elsner. Nel periodo che va dal 1817 al 1825, cessando nel 1822 le lezioni di pianoforte con Zywny, prendendo qualche lezione di teoria da Elsner e studiando da solo sulla Breve guida alle regole dell"armonia in una maniera facile da apprendere di Karol Anton Simon, Chopin compone poco. Se il bimbo di sette anni inizia in un modo che ricorda Mozart, il ragazzo di quattordici-quindici anni non tocca gli exploits, nonché di Mozart, neppure di Beethoven o di Mendelssohn. Fino al maggio del 1825, cioè fino a quindici anni, Chopin scrive dodici pezzi: quattro polacche, tre mazurche, una marcia (perduta), due danze polacche (perdute), una serie di variazioni (perdute), le Variazioni su un tema della «Cenerento la» per flauto e pianoforte (di autenticità contestata). Quando si sia notato lo sviluppo del virtuosismo brillante nella Polacca in sol diesis minore e certe eterodosse armonizzazioni della Mazurca op. 7 n. 4 (prima versione) si è detto tutto. Molto importanti sono invece i lavori del 1825-1830. Prima di tutti il Rondò op. 1, pubblicato senza numero d’opera nel 1825 e ripubblicato come opera 1 nel 1835. Siccome l'opera 2 venne pubblicata nel 1830 sembra evidente che Chopin avesse deciso di iniziare il suo catalogo con il Rondò in do minore e che con sentisse a farlo riapparire come opera 1 nel 1835, quando aveva già pubblicato, tra l’altro, gli Studi op. io e il Concerto n. 1. La stima che Chopin testimoniava per il suo primo rondò era a parere nostro ben giustificata. Il pezzo è poco conosciuto o, per meglio dire, è sconosciuto affatto; e certamente non si colloca nel panorama di ciò che andavano creando verso il 1825 i due mas
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simi compositori dell’epoca, Beethoven e Schubert. Merita invece di essere conosciuto e studiato se lo si colloca entro quella civil tà che è rappresentata dal Biedermeier internazionale di Hummel, Field, Kalkbrenner, Moscheles. Pianista-compositore, Chopin co mincia guardando ai pianisti-compositori di successo, e ad essi continuerà a guardare fino al momento della definitiva partenza da Varsavia. Di Moscheles Chopin esegue nel 1825 il primo tem po del Concerto in sol minor e ; ascolta Hummel a Varsavia nel 1828, di Kalkbrenner può sicuramente parlare con il suo amico Alexander Rembielinski, allievo di Kalkbrenner a Parigi e di ri torno a Varsavia nel 1825, dopo sei anni di permanenza nella ca pitale francese; di Field può conoscere molto dal «Field femmi na» Maria Szymanowska, venuta a Varsavia nel 1827; da un al tro amico, Maurycy Ernemann, allievo a Berlino del maestro di Mendelssohn Ludwig Berger, può avere notizie dei pianisti-com positori tedeschi; conosce Joseph Kessler, originale ricercatore, che vive per qualche anno a Varsavia, organizzandovi dei «Ve nerdì musicali» frequentati anche da Chopin; ascolta a Varsavia, nel 1829, il violinista-compositore Niccolò Paganini e il rivale polacco di Paganini Karol Lipinski. Se a ciò aggiungiamo gli stu di con Elsner, la frequentazione di musicisti localmente impor tanti come Kurpiiiski e Carlo Soliva, il breve soggiorno a Ber lino del 1828, le occasioni di ascolto offerte dal teatro di Varsa via dominato dal gusto italiano, l’altro brevissimo soggiorno a Vienna nell’estate del 1829, l’assimilazione, fondamentale, del canto popolare sia contadino che urbano, abbiamo il panorama completo dell’ambiente culturale in cui Chopin non solo si for ma ma si afferma. La conoscenza di ciò che avviene nel mondo è o indiretta o parziale e frammentaria, la conoscenza dei fermenti di rinnova mento radicale che si stanno destando a Parigi e a Berlino è qua si nulla, e nulla o forse limitatissima è la conoscenza delle ultime opere di Beethoven. Questo Chopin che vive ed opera a Varsavia non sa che il Biedermeier, espressione di una cultura borghese anacronisticamente dominata da timor reverenziale verso la cul tura aristocratica «illuminata», verrà messo in crisi dai moti rivo luzionari del 1830 che investiranno anche la Polonia: messo in crisi da un punto tale da non interessare più neppure in sede sto rica, come un momento reazionario e vergognoso che la vittorio sa società borghese della seconda metà dell’ottocento e oltre ri-
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muoverà dalla sua coscienza. E anche le composizioni che Chopin scrive fino al 1830 verranno guardate con distacco, malgrado il rispetto che sarà dovuto ad un autore popolarissimo. Dei concerti si dirà, e si dice, che non sono veri concerti ma soliloqui! e che sono strumentati maldestramente, la Sonata op. 4 e il Trio op. 8 'verranno visti come lavori scolasticamente impacciati, i rondò op. 1 e op. 5 lasceranno indifferenti pubblico e critica, le Variazioni op. 2, che suscitano l’entusiasmo di Schumann, non entreranno mai in repertorio, e nello Chopin varsaviano si cercheranno con cura solo le premonizioni del futuro e ben più grande Chopin. Ora, che il futuro Chopin si scorga anche nelle opere varsavia ne è fuor di dubbio. Ma tra lo Chopin di Varsavia e lo Chopin del dopo-Varsavia c’è uno iato, uno stacco nettissimo, oseremmo dire incolmabile. Lo Chopin di Varvasia è un adolescente che aspira alla carriera di pianista-compositore e che si rivolge al pubblico dei teatri e delle grandi sale di concerto. Lo Chopin del dopoVarsavia è un artista che rifiuta l’evoluzione moderna del virtuo sismo di bravura e che si rivolge ad un pubblico di intellettuali. «Per la classe borghese inglese ci vuole qualcosa di straordinario e di meccanico, che io non posseggo», scriverà Chopin ad Albert Grzymala, il 2 giugno 1848. E questa constatazione, questa con fessione fatta ad un intimo amico diciassette mesi prima della morte, risale in realtà al momento in cui, nel 1831, a Vienna, Chopin si trova di fronte un coetaneo che gattopardescamente trasforma il virtuosismo Biedermeier nel virtuosismo di bravura e che dominerà la scena europea per circa dieci anni: Sigismondo Thalberg. La frattura tra lo Chopin di Varsavia e lo Chopin del dopo-Var savia può essere colta ed apprezzata soltanto se si studiano a fon do il Biedermeier e il «caso Thalberg». Ma può essere intuita se si leggono con attenzione frammenti di critiche apparse nel «Mu sical World» di Londra quando l’opera di Chopin comincia appe na a diffondersi presso un pubblico più vasto, minacciando interessi di mercato: «La più grande qualità artistica, nella composizione musicale, è quella volta a prolungare e sviluppare una qualunque idea che possa venire; [...] ed è chiaro che di questa facoltà Cho pin è privo: le sue opere ci danno infatti invariabilmente l’im pressione di uno scolaro entusiasta, le cui capacità non sono in alcun modo all’altezza dell’entusiasmo e che vuol essere originale a tutti i costi, lo possa o no» (28 ottobre 1841). E più avanti,
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in un modo certo assai poco in linea con il tradizionale fair play inglese: Vi è oggi un’attenuante ai misfatti di Chopin; egli è irretito nei lacci di quella maga che è George Sand, altrettanto celebrata per il numero e l’eccellenza dei suoi romanzi che dei suoi amanti; e ci sembra strano come essa, che un tempo dominò il cuore del sublime e terribile religioso demo cratico Lamennais, possa ora adattarsi ad avvilire la sua eccezionale esi stenza accanto ad una nullità artistica come Chopin.
E dopo due anni: Qualunque sia l’opinione che noi possiamo avere dell’orientamento in genere della musica di Chopin, è impossibile negare ch’egli occupa una posizione di primo piano tra i compositori per pianoforte dei nostri giorni. A Parigi, questa culla dell’iperbole e delle barbe lunghe, i suoi ammira tori lo considerano una specie di Wordsworth musicale, in quanto egli tiene in dispregio la popolarità e scrive solo secondo i suoi canoni estetici, considerando l’opinione della moltitudine come affatto fallace. In questo, Chopin rassomiglia al grande poeta inglese; ma sotto qualunque altro aspetto, due esseri non possono differire maggiormente fra di loro, né due caratteri essere più divergenti. Chopin è capriccioso, irritabile, irrazionale, con un grande talento naturale per la musica, ma con una formazione di fettosa della quale egli è conscio e di cui si indispettisce. Ma se egli avesse dato alle sue capacità possibilità adeguate, sarebbe diventato un grande oltre che originale compositore; avrebbe potuto muovere i cuori degli uo mini oltre che le loro dita. Egli è stato fin dal principio della sua carriera un enfant gate. I parigini, che si intendono di musica quanto il signor Coronor Wakeley della poesia di Wordsworth, lo salutarono immediata mente, per la sola ragione che era misterioso ed incomprensibile, come un semidio. Fu adulato da critici superficiali, con Liszt alla testa, poiché essi non riuscivano a capire se egli stava sulla terra o nella luna. Rimanga chia rito che noi muoviamo obiezione solo all’errato apprezzamento di Chopin, all’ostinata deviazione che lo trae dal suo legittimo trono e lo pone sopra un altro per il quale egli è completamente inadatto. Come pianista ed au tore di utili, variati ed originali studi per pianoforte, Chopin ha pochi rivali, se pure ne ha; come musicista di sentimento egli è poco diverso da un mistificatore.
Se superiamo il fastidio per il pettegolo linguaggio giornalistico e per il gusto scandalistico possiamo renderci conto della col locazione di élite dell’arte di Chopin tra il 1830 e il 1840: nelle composizioni scritte a Vienna nel ’30 e nel ’31, delle quali par leremo fra breve, troviamo una svolta che possiamo paragonare
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al passaggio di Picasso dal «periodo rosa» al cubismo. Tra il 1906 e il 1908 Picasso attua una svolta che condizionerà tutto lo sviluppo della pittura nel nostro secolo, e tra il 1830 e il 1831 Chopin attua una svolta che avrà ripercussioni nello sviluppo del linguaggio musicale per quasi un secolo. E tanto è netta, tanto è 'radicale la frattura che bisogna a parer nostro considerare lo Cho pin di Varsavia non come un ragazzo di ingegno, ancora alla ri cerca della sua strada, ma come l’ultimo, quasi postumo compo sitore di un’epoca che si sta spegnendo. Il fascino, l’incanto sotti lissimo e divino che si sprigiona da pagine come i due concerti, le Variazioni op. 2, la Fantasia op. 13, il Krakowiak op. 14, quan do vengano lette ed ascoltate in rapporto con ciò che le prece de — non intendiamo dire Beethoven, ma la sepolta civiltà del Biedermeier — piuttosto che con ciò che le seguirà, è il fascino di un tardo autunno dai colori luminosi ma tenui, è il fascino della luce e della dolcezza di un tramonto. Cogliendo con ritardo l’evoluzione ideologica del Biedermeier, vivendo a contatto con l’aristocrazia polacca, partecipando ai sogni di una intellighentsjia varsaviana che all’aristocrazia si rapporta, Chopin crea, tra il 1825 e il 1830, un miracolo, un’arte nazionale entro un quadro stili stico prossimo ad una crisi irreversibile. I due concerti, i cui le gami con i concerti di Hummel e di Kalkbrenner sono eviden tissimi, hanno dalla loro parte l’originalità di un melos che non è citazione del canto popolare ma creazione nel canto popolare. Creazione senza futuro, perché dipendente da una ideologia uto pistica che svanirà al contatto con una ben diversa realtà politica. Ma la malinconia di una prossima fine, l’estenuata, non giovanile dolcezza delle cose godute per l’ultima volta, una sorta di deca dentismo avanti lettera è ciò che di assoluto si coglie nelle fan tasie di questo provinciale non ancora inserito nelle correnti vitali della storia. In questo senso, a parer nostro, va letta tutta l’opera varsaviana di Chopin, di cui la posterità ha veramente amato, e inteso in quello che a noi sembra il suo vero significato, solo la Mazurca op. 68 n. 2 del 1827 e il Notturno op. 72 n. 1. La Mazurca in la minore, che nel Catalogo Brown occupa il nu mero 18, e il Notturno in mi minore op. 72 n. 1, che occupa il numero 19. C’è in queste due pagine, c’è nella Stimmung di que ste due pagine una forza, una pienezza di poesia che ne fa espres sioni esemplari di una condizione umana e specchi tersissimi di una civiltà: da cui il successo, che le stacca dal contesto in cui
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nascono. Ricostituito il contesto non viene però meno l’eccellen za poetica, la perfezione lirica delle due piccole composizioni, né la loro funzione nella formazione stilistica di Chopin. Nel Not turno si scorgono infatti i primi segni di una ricerca che esplode rà a Vienna. Per ora si tratta di una ricerca sullo strumento. Accostandosi al notturno, Chopin si accostava ad un genere che era stato inaugurato tredici anni prima da John Field e che già aveva conquistato l’Europa. La strumentazione pianistica che Cho pin crea nel Notturno op. 72 n. 1 supera quella di Field e stabi lisce di per sé, e cioè indipendentemente da scelte dell’interprete, una compresenza di piani sonori complementari ma nettamente di stinti. Non si può oggi analizzare veramente la tecnica di Chopin nei suoi aspetti fisici e fisiologici (posizione della mano, dell’avam braccio e del braccio, movimenti e coordinamenti muscolari, gioco delle forze). L’inizio del notturno lascia tuttavia scorgere una im postazione tecnica rivoluzionaria: 1) braccio destro appoggiato sul tasto abbassato, con muscoli rilassati e con polso bassissimo, e trasferimento del peso del braccio da un tasto all’altro con ampio movimento del dito; 2) braccio sinistro sospeso sopra i tasti con polso alto, e percussione leggera delle dita, preparata da oscilla zioni laterali del polso:
L’analisi tecnica, ripetiamo, è induttiva; e tuttavia sembra del tutto probabile, vista la fondamentale importanza che questo tipo di scrittura avrà in Chopin, che la netta definizione di due specie di timbro pianistico - i teorici, all’inizio del nostro secolo, parle ranno di tocco con trasferimento di peso e di tocco con eserzione muscolare — sia la conseguenza di una scoperta, a cui Chopin, auto didatta dal 1822, arriva quand’è sui diciassette anni.2 2 «Chopin manteneva i gomiti vicino al corpo e suonava con le dita senza far ricorso al peso del braccio», scrive Alfred James Hipkins. Lo Hipkins, che aveva
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Questa scoperta viene pienamente intesa nelle sue conseguenze poco prima che Chopin abbandoni Varsavia, nello Studio op. io n. 1. Si può probabilmente cogliere un riflesso del virtuosismo violinistico contemporaneo, di Paganini e di Lipinski, in molti passi delle opere di Chopin per pianoforte e orchestra. Nello Stu dio op. io n. 1 si coglie, se non ci inganniamo, la ricreazione in termini squisitamente pianistici di un effetto tipico del violino, il balzato sulle quattro corde. Anche questa è un’ipotesi puramen te induttiva, ma che ci sembra di valutare con attenzione. Conside riamo il disegno dello Studio n. 1:
Questo disegno potrebbe esser stato suggerito da un passo vio linistico di questo tipo, riscontrabile nel Caprìccio n. 1 di Paganini:
La velocità estrema dello Studio op. io n. 1 non permette le oscillazioni laterali del polso prima della percussione delle dita, i tasti vengono attaccati trasversalmente invece che perpendicolar mente, il timbro risulta più penetrante e la dinamica meno ampia di quella ottenibile con la tecnica classica, ma l’uso sistematico del pedale di risonanza toglie a questa sonorità la «secchezza» che al trimenti avrebbe. Il riferimento all’origine violinistica, alla leggeascoltato Chopin nel 1848 a Londra, citava in particolare l’esecuzione dell’/l»dante spianato-, scrivendo verso la fine del secolo, quando fervevano le discus sioni sulla tecnica del tocco, egli escludeva quindi che Chopin usasse la cosid detta «caduta libera», per lo meno nell’esecuzione di una melodia con accom pagnamento in arpeggi figurati.
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rezza crepitante del «balzato» spiegherebbe a parer nostro la limi tata dinamica che Chopin pianista ricavava dallo strumento e che venne notata già a Vienna nel 1829. Su queste caratteristiche timbrico-dinamiche (e sull’uso sistematico del pedale di risonanza) nasce la sonorità peculiare delle figurazioni virtuosistiche nel pia noforte di Chopin: sonorità che escludeva automaticamente Cho pin dallo sviluppo del concertismo pubblico dopo il 1830, un con certismo in cui, com’è testimoniato ad abunàantiam da osserva zioni e da lamentele di critici, si tendeva a raggiungere il massi mo del volume.3
Chopin a Vienna
Chiuso dunque negli orizzonti di un’estetica Biedermeier stori camente già al tramonto, chiuso negli orizzonti di una nuova arte della sonorità contraria allo spirito dei tempi nuovi, Chopin muo ve nel novembre del 1830 alla conquista di Vienna. Vienna, re spingendo l’assalto, lo porta a rinnegare il suo passato Biedermeier e a non accettare Thalberg e il thalberghismo: «Sebbene Thalberg suoni splendidamente, non è il mio uomo. È più giovane di me, piace molto alle donne e fa dei pot-pourris sulla Huta \di Portici di Auber]. Suona piano con il pedale, non con la mano; prende le decime come io prendo le ottave e porta bottoni da camicia in brillanti. Moscheles non lo stupisce e va da sé che solo i tutti del mio concerto gli piacciono. Anche lui scrive concerti» (25 dicem bre 1831). Il rifugio, per questo Chopin che nella vita musicale interna zionale non trova una collocazione, è la patria polacca, luogo non più reale ma mitico. Malgrado tutte le sue simpatie per l’ideolo gia patriottica, nel momento in cui scoppia il tentativo insurre zionale o in cui lo zar fa capire che non intende cancellare dalla carta d’Europa la spartizione della Polonia, Chopin non rientra 3 II 5 marzo 1835 un anonimo recensore del periodico «Le Pianiste», sempre favorevole a Chopin, come diremo più avanti, scrive a proposito di un’esecu zione del Duo di Ferdinand Hiller, suonato da Chopin e dall’autore «[...] ag giungiamo tuttavia che si sentiva troppo debolmente Chopin e che molti parti colari della sua parte sono andati perduti per gli ascoltatori. Il talento, peraltro perfetto di Chopin, è così delicato, così pieno di sfumature impercettibili e che solo un orecchio sensibile ed esercitato può cogliere, che a nostro avviso diventa per lui uno svantaggio essere ascoltato con un altro. Chopin ha bisogno di suo nare da solo per essere apprezzato per quel che vale».
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in patria. Le lettere che il padre gli scrive esprimono timori che Chopin sembra condividere: i timori di chi, essendosi posto il problema della nazione come problema di patria, non se lo è po sto come problema sociale, e che perciò, richiamato alla realtà dal la brutalità dell’occupazione militare, si rifugia nell’utopia. Scrive Chopin a Jan Matuszyiiski, il 25. dicembrei83i: «Se potessi, fa rei sorgere tutti i suoni che solo un sentimento cieco, violento e furioso potrebbe far nascere, per indovinare, anche solo in parte, quei canti che l’esercito di Jan [Sobieski] cantò ed i cui echi spez zati errano ancora in qualche luogo sulle rive del Danubio». Non vorremmo che il lettore sospettasse un nostro debole per concezioni arcaiche della patria e del patriottismo di Chopin. Non possiamo tuttavia non far notare come il «sentimento cieco, vio lento e furioso» sia il miglior commento che si possa trovare per lo Scherzo op. 20, scritto da Chopin a Vienna nel 1831. E non possiamo non far notare come il richiamo a Jan Sobieski, il re po lacco che nel 1683 aveva salvato Vienna assediata dai turchi, non possa che essere inteso come esaltazione di un momento glorioso ma antico e inattuale. L’ideologia patriottica coltivata dagli intel lettuali polacchi tra il 1820 e il 1830 si scioglie nel contatto con la realtà politica della Santa Alleanza, e le condizioni di arretra tezza sociale della Polonia non configurano le premesse pèrché si attui in Polonia la rivoluzione borghese e l’accesso al potere della borghesia. La Polonia resta tagliata fuori dalla rivoluzione di lu glio in Francia nel 1831 e resterà tagliata fuori dalla rivoluzione del 1848-1849, e Chopin non verrà coinvolto né nelle aspirazioni rivoluzionarie francesi di Berlioz e di Liszt né in quelle tedesche di Schumann, ma approfondirà, attraverso la sua analisi del lin guaggio, i temi di un totale superamento delle condizioni storiche esistenti nel suo tempo. Le mazurche op. 6 e op. 7, scritte a Vienna, costituiscono il momento aurorale di questo lungo processo. Fin dalla prima delle Mazurche op. 6, dopo quattro battute assai tradizionali troviamo per altre quattro battute il movimento cromatico del basso che dà origine alla famosa catena di accordi di settima non risolti e, dopo la ripetizione delle prime quattro battute, troviamo altre due battute in cui il «logico» procedere dell’armonia è turbato da un fa naturale che non si decide a diventare fa diesis. Nella parte centrale della stessa mazurca l’imitazione di un complesso di stru menti popolari può ancora essere considerata una piccante citazio
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ne folcloristica, ma nella parte centrale della Mazurca op. 7 n. i un procedimento analogo crea una sovrapposizione politonale bell’è buona, appena temperata dal sotto voce.4. Nella parte centrale della Mazurca op. 6 n. 2 lo slittamento dal la maggiore ad un do diesis minore con il quarto grado alterato lascia di stucco l’ascol tatore anche oggi. E altre sorprese armoniche e melodiche si tro vano un po’ dappertutto, fino a quello slittamento da re bemolle maggiore a la maggiore dell’op. 7 n. 4 che sarebbe in verità beethoveniano, ma che Chopin riesce a far sembrare nuovo di zecca, inserito com’è in un contesto insolito. Partendo da piccole composizioni di tipo folcloristico, Chopin amplia il campo di indagine in direzioni più ambiziose. Con lo Scherzo op. 20 ha infatti inizio la ricerca sulle grandi forme che sfugge ai ricalchi della forma-sonata e del rondò. Lo scherzo, struttura formale di dimensioni limitate durante la classicità, tipi ca «piccola forma» tripartita che Chopin aveva adottato nelle ma zurche e che impiegherà ancora, nell’op. 20 viene portato a di mensioni monumentali con un’operazione che è di dilatazione e di forzatura, più che di ampliamento, e che colpisce per la sua bar barica violenza. Come nel Picasso cubista, la forma tradizionale, pur riconosci bilissima, viene spezzata e restituita in proporzioni e in tagli pro spettici che non sono più i suoi. Nello stesso tempo le tensioni dell’armonia vengono esasperate in limiti parossistici, dai primi due stridenti accordi al famoso accordo, pressoché inclassificabile secondo la teoria dell’armonia, che viene ripercosso violentemente poco prima della fine; negli stessi tratti di virtuosismo le appog giature cromatiche, impiegate a velocità altissima e non usate in senso ornamentale, drammatizzano le più normali figurazioni in arpeggi. A questa violenza estremistica si contrappone poi la dol cezza dolorosa della parte centrale, in cui viene citato un canto natalizio polacco. E i caratteri lessicali del folclore polacco rinno vano persino la più ovvia scala cromatica (verso la fine), con l’ac4 II passo va pensato con il pedale di risonanza indicato da Chopin e non ri spettato da tutti gli interpreti. Accade del resto spesso che le arditezze e le «cacofonie» di Chopin vengano temperate da un uso del pedale che non corri sponde a quello indicato dall’autore, mentre rarissimi sono i casi in contrario: ad esempio, impiegando ininterrottamente il pedale dalla battuta 202 alla bat tuta 210 della Ballata op. 52, Milosz Magin getta un raggio di «musica dell’av venire» su un passo che Chopin aveva pensato in modo più tradizionale.
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centuazione alternata della tonica e, invece della dominante o del la sottodominante, della sottodominante aumentata, con evidente riferimento alla scala modale ipolidia in uso nella musica popola re polacca. Con la Ballata op. 23 la forma non è più riferibile ad alcuna tradizione: caratteri formali dell’«allegro di sonata» e del rondò si ritrovano, all’analisi, in uno schema del tutto nuovo, che Cho pin riesce a creare in quattro anni di lavoro (1831-1835). Novità di forma, di armonia, di disegni melodici, di scrittura pianistica si fondono in un’opera che per il titolo e per il carattere espressivo si richiama ad una Polonia celebrata in un tono epico-popolare che corrisponde ideologicamente ai contenuti delle Ballate e Romanze di Mickiewicz, pubblicate nel 1822. Se è sempre stato notato il carattere di violenta novità delle ma zurche op. 6 e 7, dello scherzo e della ballata, e se è sempre stata notata l’ipocondria del Valzer op. 34 n. 2, scritto anch’esso a Vien na, non si è notato che nello stesso quadro poetico di ribellione e di protesta può essere iscritto il Valzer brillante op. 18. La strut tura è senza dubbio quella del valzer «viennese» di Lanner e di Johann Strauss senior, con più temi in successione e coda ricapi tola ti va. E la gradévolezza, la grazia, la piccanteria sono senza dubbio caratteri «viennesi»; che però vengono ripresi, a parer no stro, in modo non diretto ma traslato, applicandoli ad una diversa realtà sociale. Se si realizzano con precisione puntigliosa tutte le indicazioni esecutive di Chopin, soprattutto quelle per il pedale di risonanza, la sonorità acquista in taluni momenti aspetti da pic cola orchestra paesana e da complesso a plettro (balalaike), e se si fraseggia l’episodio in sol bemolle maggiore secondo Chopin la me lodia acquista inflessioni accentuatamente sospirose che rendono indiretta e rappresentata l’espressività sentimentale del momento. Si può supporre, senza forzare il testo al di là della sua apparenza, che anche nel Valzer op. 18 ritornino il ricordo e il mito della Po lonia: intesa, in questo caso, come la Polonia rococò delle feste all’aperto nei parchi delle nobili famiglie - dagli Skarbek ai Sowinsky ai Czartoryski ai Radziwill — che Chopin aveva frequen tato fin da ragazzo. E la grazia del valzer sembra a noi falsamente, e cioè provincialescamente snob, a cominciare da quel volgare squillo di cornetta che annuncia l’aprirsi delle danze fino allo scam panio del mi bemolle che dà il segnale della fine.
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Chopin a Parigi
Deluso dalla fredda accoglienza di Vienna, Chopin si dirige ver so Tlnghilterra «via Parigi», come dice il suo passaporto: Parigi diventerà la sua seconda terra. Quando giunge a Parigi, nel settembre del 1831, Chopin è già ideologicamente al di là della carriera per la quale si era preparato a Varsavia ed è già poeticamente su posizioni di estrema avanguar dia. Tenta tuttavia di farsi valere come pianista-compositore, pre sentandosi il 26 febbraio 1832 alla Salle Pleyel in una serata in cui Friedrich Kalkbrenner gli fa da padrino, ed assecondando il gusto corrente con alcune composizioni {Variazioni op. 12, Rondò op. 16, Bolero op. 19, Duo su temi del «Roberto il Diavolo») che gli vengono richieste da editori o da personaggi del milieu pari gino. Tra il 1832 e il 1833 Chopin compie un ultimo tentativo di inserimento nella vita concertistica, un tentativo chiaramente in arretrato sui tempi. Le iniziative di avanguardia sono in quegli anni quelle dei concerti del Conservatorio, in cui Francois Habeneck fa conoscere le Sinfonie di Beethoven, e dei concerti orga nizzati da Berlioz, ai quali collabora spesso Liszt. I primi hanno successo, i secondi no. Ma neppure Chopin, con le sue più tradi zionali apparizioni in sala di concerto, ottiene un successo che fac cia di lui un pianista alla moda. Chopin diventa invece un inse gnante alla moda e un pianista-compositore molto apprezzato nei salotti e nelle sale dell’aristocrazia del blasone e della finanza. Do po aver pubblicato gli Studi op. io, nel giugno del 1833, Chopin diventa l’equivalente di un poeta, non di un commediografo o di un romanziere, e trova il suo pubblico nello stesso ambiente intel lettuale che sostiene i poeti. Il suo connazionale Adalbert Sowinski, come lui trapiantato a Parigi, scriverà, quasi un quarto di se colo dopo: «La sua musica non agiva sulla moltitudine, ma era adorata nelle piccole riunioni nelle quali Chopin regnava da mae stro e lasciava tutti rapiti». I contemporanei subito s’accorsero delle intrinseche difficoltà di un’arte che nei salotti parigini veniva esposta dall’autore con una grazia che la rendeva affascinante ed ambigua. È interessante pren dere in considerazione una recensione degli Studi op. io pubbli cata nel periodico specializzato «Le Pianiste» del novembre 1833, in forma di spiegazione ad una signora del bel mondo: [...] Non l’adulo affatto dicendoLe, signora, che Lei suona benissimo
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il pianoforte e che legge correntemente la musica difficile: è la pura verità. Così, Le parlo d’un opera degna di Lei. [...] quando avrà letto questi Studi, quando li avrà lavorati, commentati, se avrà la fortuna di ascoltarli eseguiti dall’autore potrà capitare che appena li riconoscerà. E stia in guar dia! non li giudichi alla prima, né alla seconda lettura; faccia come con le Odi di Lamartine che tanto Le piacciono, cerchi il senso vero, scopra il canto, sempre grazioso, ma di sovente avvolto in un modo da esser trovato con difficoltà. Questo giovane autore si colloca, al suo esordio, al livello dei grandi maestri - e Lei sa che ce ne sono pochi. Qualcuno pretende che meriti la nomea di enigmatico-, non sono di quest’opinione. Lasciamo questa nomea all’autore delle Variazioni della rosa e diciamo, per esser giusti, che le composizioni di Chopin sono di un tipo a parte, ma sempre degne della pena che ci si darà per renderle bene. Quelli che tacciavano un tempo Beethoven di bizzarria non lo capivano più di quanto non capi scano oggi Chopin quelli che lo trattano da enigmatico.
Riconoscimenti di questo tipo, in una capitale del gusto e della moda come Parigi, dovettero essere rivelatori per Chopin e, in un certo senso, dovettero condizionarlo. Notiamo comunque che do po la pubblicazione dell’op. io, come dicevamo, Chopin non con cede più nulla al mercato corrente e diventa l’equivalente di un maìtre-à-penser. un maestro del gusto per una élite intellettuale. Dall’autunno del 1833 al 1837 Chopin intensifica le sue lezioni e lavora alla composizione con calma (Chopin non è un compositore prolifico: basta paragonare il suo catalogo con quello di Mozart o di Schubert, per accorgersene). Lavora al completamento degli Studi op. 25, inizia il ciclo dei Preludi op. 28, scrive gioielli for nitissimi come i notturni op. 27 e op. 32, V Improvviso op. 29, le mazurche op. 24 e op. 30, lo Scherzo op. 31. Basandosi sulle scoperte del 1830-1831 bada ad affinare il suo stile, a smussarne le punte più rivoluzionarie e più urtanti, a ren dere più flessibili le forme: diventa, se l’espressione anacronistica non offende il lettore, un parnassiano. E pensa anche a sistemarsi con una ragazza della nobiltà polacca, Maria Wodzinska. L’argo mento «Chopin e le donne» o «gli amori di Chopin» è stato mol to trattato, ma la materia disponibile è in verità assai poca. Una volta scartati lo spunto scandalistico di una folle passione per Del phine Potocka, basato su lettere false, e l’altrettanto scandalistica supposizione di una repressa o inconscia omosessualità, basata su illazioni tirate per i capelli, non restano che la passione giovanile e da collegiale per Konstancja Gladkowska, un misterioso accenno
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ad una Thérèse, un esplicito accenno alle filles de vie parigine e alle cantanti dagli occhi invitanti,5 il fidanzamento con Maria Wodziiiska e la convivenza con George Sand. Ai ciò possiamo aggiungere due casi in cui Chopin fu ingiustamente sospettato di mire da se duttore: a Sanniki quando aveva diciotto anni,6 e a Parigi, quan do il pianista-compositore Johann Peter Pixis si ingelosì per una visita di Chopin alla figlia adottiva del Pixis, la quindicenne Fran chia Góhringer.7 In tutto questo scarso materiale gli unici episodi veramente importanti, e antitetici, riguardano la Wodzinska e la Sand. Nel primo caso è evidente che Chopin cerca un matrimonio tranquillo, una vita da intellettuale ben inserito nella società. E questo suo progetto prende forma proprio nel momento in cui il suo amico Liszt scappa a Ginevra con la contessa d’Agoult, in cui il suo ammiratore Schumann lascia Ernestine von Fricken per Cla ra Wieck, e un cui l’uomo dai bottoni da camicia in brillanti, Si gismondo Thalberg, ottiene a Parigi un successo delirante. Thalberg si impone con le sue fantasie pluritematiche su temi di melodrammi, specie con quelle sulla Norma, sugli Ugonotti, sul Mosè, sulla Donna del lago, creando in pratica un nuovo genere di successo in cui si lancia a capofitto anche Liszt, tra il 1835 e il 1836, con le fantasie sxjXLEbrea, sulla Lucia di Lammermoor, sulla Niobe, sui Puritani, sugli Ugonotti. Nel 1837, come tutti 5 «Quante misericordiose ragazze! Danno la caccia ai passanti. Ciononostante non mancano dei solidi asdrubali. Mi spiace che il ricordo di Thérèse - nonostante gli sforzi di Benedict, che giudica insignificante il mio dolore - mi impedisca di gustare il frutto proibito. Conosco già alcune cantanti che, ancor più di quelle tirolesi, desiderano far duetti» (Lettera a Norbert-Alphonse Kumelski, 18 novem bre 1831). I biografi sono inclini a credere che Thérèse fosse una ragazza di Mo naco, dalla quale Chopin avrebbe contratto un’infezione venerea. 0 Chopin racconta la spiacevole avventura in una lettera a Titus Woychiekowski, in un bislacco italiano: «N. ha fatto infelice la signorina governante della casa, nella strada Marszalkowska. La signorina governante a un bambino nell’ventre, e la Contessa sive la padrona non vuole vedere di più il seduttore. Il migliore evento è che credevano avanti, che tutto è apparito, ch’il seducente son io, perché io ch’era più d’un messo a Sanniki, e sempre andava colla governante camminar nell’giardino. Ma andare camminar e niente di più. Ella non è incan tante Imbecille io non ho avuto abcuno apetito» (27 dicembre 1828). Il vero col pevole era il pianista Józef Nowakowski, che riconobbe il bambino (Chopin fe ce da padrino al fonte battesimale). Nella lettera del 27 dicembre 1828 Chopin usò l’italiano, probabilmente, perché l’argomento era delicato; ricordiamo che Beethoven, una volta che parlò - il colloquio è conservato nei Quaderni di con versazione - dei suoi infelici amori con Giulietta Guicciardi, usò una lingua stra niera, il francese. 7 Lettera a Titus Woychiekowski, 12 dicembre 1831.
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sanno, la principessa Cristina di Belgiojoso mette a confronto Liszt e Thalberg, contornandoli con Herz, Czerny, Pixis... e Cho pin. È VHexaméron, Morceau de Concert. Grandes Variations de Bravoure pour Piano sur la Marche des Puritains de Bellini, a cui ciascuno dei campioni contribuisce con un pezzo. Ora, basta esa minare la variazione di Chopin, anche senza vedere quelle degli altri, per capire quanto Chopin fosse lontano da ciò che attirava un pubblico grosso quantitativamente ed estraneo spiritualmente alla tradizione della musica strumentale. La variazione di Chopin è infatti una specie di piccolo notturno che porta a perfezione su prema la scrittura scoperta con il Notturno op. 72 n. 1:
La stessa sublimazione di una scrittura armoniosissima, ricca di risonanza di suoni armonici vibranti per simpatia, la troviamo in molte altre pagine di questo periodo felice, come 1’Andante spia nato in sol maggiore, i due Notturni op. 27 e i due Notturni op. 32, lo Scherzo op. 31. Opera capitale di questi anni, naturalmente, è il completamen to degli Studi op. 25, iniziati nel 1832, ultimati nel corso del 1836 e pubblicati nell’ottobre del 1837. La raccolta si apre con uno studio per il quale, se non temessimo di indisporre il lettore, fa remmo appello alla celeberrima recensione di Schumann, quella che dice «s’immagini un’arpa eolia che abbia tutte le gamme so nore...». Invitando chi per caso non la conoscesse ad andarsi a leggere la poeticissima prosa schumanniana faremo notare come Chopin riesca a colmare la distanza tra una voce di soprano cantante ed un basso di sostegno con un fittissimo brulichio di impalpabili suoni. Può esserci stato un modello, per Chopin: lo Studio op. 20 n. 9 della sua vecchia conoscenza Joseph Kessler. Ma in Chopin
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non sono solo i valori poetici a superare i valori kessleriani, è an che la strumentazione pianistica, più spaziata di quella di Kessler (Kessler inizia con uno spettro sonoro di due ottave, Chopin di due ottave e una quinta giusta), a creare un’impressione auditiva che fa subito venire in mente l’uso del colore e della luce in Clau de Monet o, se vogliamo proporre un paragone meno anacroni stico, certo Turner. Tecnicamente, lo Studio op. 25 n. 1 sem bra postulare un rinnovato uso della tecnica classica delle dita, senza appoggio di peso.8 La tecnica delle dita viene impiegata in unione con il pedale di risonanza, rivelando così tutte le poten zialità, sul nuovo pianoforte romantico con barre di tensione nel telaio e martelletti ricoperti di feltro, di sottilissime, impalpabili gradazioni di colore. Questo fenomeno, che potrebbe essere para gonato alla riscoperta dell’orchestra d’archi negli ultimi romantici (in Cajkovskij e in Dvorak, ad esempio), segna a parer nostro l’inizio di un originalissimo filone neoclassico nell’opera di Chopin, filone di cui seguiremo poi la traccia. Lo Studio op. 25 n. 2 è altrettanto neoclassico nella sua strut tura a due voci, con una figurazione quasi-melodia o melodia in suoni rapidi ed un accompagnamento quasi-£^mo albertino. Il n. 3 riprende, impegnandola contemporaneamente in entrambe le mani, la tecnica dello Studio op. io n. 1: attraverso i rapidissimi scatti delle dita e dell’avambraccio compaiono tuttavia esigenze rudimentali di polifonia, pressoché irrealizzabili. Non ci è mai ac caduto di ascoltare un’esecuzione che rendesse auditivamente la grafia di Chopin; ma Chopin scrive il pezzo a quattro parti, come una fuga di Bach:
8 Lo Studio può anche essere eseguito con appoggio momentaneo del peso del braccio sui tasti corrispondenti ai suoni della melodia. Quest’impiego della tec nica provoca però un’accresciuta difficoltà ed il risultato divarica i piani di sono rità in un modo che non sembra più corrispondere alla descrizione di Schumann. Ci pare quindi legittimo supporre che lo studio venisse eseguito da Chopin con tecnica di dita.
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Lo Studio n. 4 riunisce la tecnica classica di percussione degli accordi mediante l’articolazione della mano e la tecnica romantica del suono iperespressivo con appoggio del peso del braccio: per proseguire il paragone fatto poc’anzi diremo che si tratta di un qualcosa di simile ad un oboe accompagnato da archi in pizzicato. Lo Studio n. 5 riprende in modo ingentilito ed indiretto l’uso del le appoggiature cromatiche dello Scherzo op. 20 ed acquisisce, nella parte centrale, una scoperta tecnica di Mendelssohn perfezio nata da Thalberg (melodia al centro, affidata al pollice della sini stra o, alternativamente, ai pollici delle due mani, complessa figu razione virtuosistica alla destra). Nello Studio n. 6 il gioco delle dita è portato al massimo grado di perfezione con un’infernale infernale tecnicamente - galoppata di terze. Lo Studio n. 7 è importante sia tecnicamente che formalmente. Chopin aveva scoperto giovanissimo come si potessero differen ziare timbricamente una melodia ed un accompagnamento; qui sco pre come si possano rendere perfettamente percepibili due melo die ed un accompagnamento. Non è senza significato notare come il problema venga affrontato contemporaneamente da Chopin (pri mi mesi del 1836), da Schumann (secondo degli Studi sinfonici, 1835) e da Mendelssohn {Duetto op. 38 n. 6, 1836). Le soluzioni sono tutte e tre geniali; quella di Chopin è indubbiamente la più avanzata perché consente la compresenza di due melodie entram be molto articolate, molto fitte di suoni, e molto diverse tra di loro. Formalmente, lo studio si sviluppa sull’accumulo progressi vo di tensione emotiva, che raggiunge il culmine dinamico in una tonalità - mi bemolle maggiore - inattesa e lontana dalla tonalità principale di do diesis minore. Il subitaneo passaggio ad un’altra tonalità, ingegnosissimo, coincide con la improvvisa caduta della tensione dal fortissimo al pianissimo', la dinamica diventa dunque un elemento di costruzione formale. Nello Studio op. 25 n. 8 abbiamo una ripresa della struttura dello Studio op. 25 n. 2, ma in note doppie, e cioè in un grado di complicazione tecnica sconosciuto nell’epoca classica. Lo Studio n. 9 è basato sull’articolazione del polso. «Non bisogna voler suo nare tutto di polso, come esige Kalkbrenner», scrisse Chopin negli appunti di un Metodo, che lasciò incompiuto. Lo Studio op. 25 n. io dimostra che Chopin non era del tutto insensibile alla tecni ca delle ottave di Liszt, anche se le sue non sono ottave da attac care con la caduta, ma con la vibrazione dell’avambraccio. Gli ul
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timi tre Studi dell’op. 25 sono in realtà tre studi «moderni» nei quali la ricerca è indirizzata verso il massimo volume di suono possibile: sebbene non nutra più ambizioni di concertista, Chopin riflette su Thalberg e su Liszt, ripensando però (n. io) in modo personale la tecnica delle doppie ottave, lanciando verso traguardi insperati (n. 11) la tecnica mendelssohniana già impiegata nel n. 5, riprendendo in una dimensione titanica (n. 12) il se stesso dello Studio op. io n. 1.
Chopin nell’infinito
Questo momento della vita e dell’arte di Chopin si chiude nel 1837 con la rottura del fidanzamento, ed un periodo nuovo si apre con il rapporto more uxorio con George Sand, che pone a Chopin problemi molto gravi, ivi compresi, a detta della Sand, scrupoli di natura religiosa (lettera della Sand ad Albert Grzymala, giugno 1838). «Il passato è cosa apprezzabile e limitata; l’av venire è l’infinito, perché è l’incognito», scrive la Sand ad Albert Grzymala nel giugno del 1838, in quella lettera di sedici pagine a stampa nella quale analizza con tecnica da romanziere Chopin e se stessa, senza dimenticare Maria Wodzifiska e il... predecessore di Chopin, Felicien Mallefille. Sarà un caso, ma proprio nel 1837 Chopin scrive quella Marcia funebre intorno alla quale verrà edi ficata due anni dopo la Sonata op. 35. E il celebre Moja bieda (la mia disgrazia) che suggella le lettere della Wodzinska ci dice che il mancato matrimonio non fu un episodio transitorio nella vita di Chopin. Non si può non osservare che, di fronte alla opposizione del conte Wodzirìski, Chopin non lotta, contrariamente a Schu mann che, per conquistare Clara, trascina persino in tribunale pa pà Wieck. La differenza tra i due musicisti riflette forse la diffe renza che corre tra Yintellighentsja tedesca, legata ad una borghe sia in ascesa, e Vintellighentsja polacca, legata all’aristocrazia. Nel 1831 Chopin arriva a Parigi, deluso e da Vienna e dall’esito cata strofico dell’insurrezione polacca, e nei primi mesi della sua per manenza nella capitale francese frequenta anche Joachim Lelewel e Maurycy Mochnacki (lettera del 12 dicembre 1831), e forse, an zi, probabilmente simpatizza con il Comitato Nazionale Polacco guidato dal Lelewel. Non risulta invece quale parte prendesse Cho pin al dibattito politico che si sviluppò violentemente tra gli emi grati polacchi e che vide nel marzo del 1832 l’uscita dal Comitato
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della sinistra radicale guidata da Tadeusz Krepowiecki e la fonda zione della Società Democratica Polacca.9 Espulso dalla Francia il «moderato» Lelewel alla fine del 1832, morto Mochnacki nel 1834, la lotta ideologica fece emergere i due poli contrapposti del la sinistra di Krepowiecki e della destra del principe Adam Czartóryski. E Chopin era frequentemente ospite del principe Czartoryski e della nuora di questi Marcelline, sua allieva prediletta. Chopin non potè dunque non risentire la «sua dipendenza ma teriale e i legami affettivi che Puniscono all’ala destra dell’emigra zione polacca (Delphina Potocka, Maria Wodzinska)», come dice Zofia Lissa. Il quadro dell’ambiente in cui Chopin era venerato è sufficientemente preciso. E sembra evidente che di quell’ambiente Chopin accettasse le regole, anche quando, come nel caso del man cato matrimonio, si rivolgevano a suo danno. La Lissa, affrontan do per prima l’argomento nel suo acutissimo saggio del 1955, si sentiva in dovere di concludere che «lo spostamento della corren te d’avanguardia del romanticismo polacco su una via retrograda, che s’era frattanto prodotto, non esercita più alcuna influenza su di lui». Conclusione che oggi ci pare da mettere in discussione o per lo meno da rivedere analiticamente, considerando il fidanza mento con la Wodzinska e la convivenza con la Sand come mo menti diversi e, come dicevamo prima, antitetici anche per l’in flusso ideologico che esercitano direttamente sul pensiero ed indi rettamente sull’arte di Chopin. Vivendo con la Sand, frequentando gli ambienti artistici che intorno alla Sand gravitavano, allentando i contatti con un mon do che non poteva ricevere un pubblico concubino, Chopin... riac quistò lo slancio rivoluzionario che in lui s’era attenuato dopo il 1831.10 Non c’è in verità un netto stacco nell’opera di Chopin, 9 Nell’epistolario di Chopin si trova un unico accenno alla Società Democratica Polacca. Il 3 agosto 1849, scrivendo ad Albert Grzymala, Chopin diceva: «[...] non oso chiederti di uscire dal tuo rifugio. Sebbene siano stati espulsi non due cento, ma solo alcuni membri - tra i quali nemmeno uno di mia conoscenza della Società democratica, tuttavia la cosa è delicata, se hai motivi di non es sere tranquillo». 10 I critici politicamente orientati a destra furono feroci con la Sand, feroci in limiti di involontaria comicità. Ci sia consentito di citare una divertente tirata di Ippolito Vailetta: «Certo le riunioni di George Sand potevano perfettamente apprezzare il genio dell’artista, dell’esecutore, deU’improvvisatore, la sua origi nalità elevata, l’impeto dell’ispirazione, la maestria assoluta di dominatore dello strumento. Però forse il mondo della Sand, almeno in buona parte, rimaneva ancora più impressionato dalle imitazioni che, con un dono di imitazione straor-
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dopo la sua partenza da Varsavia, e non vorremmo qui prospet tare una divisione in periodi, che sarebbe solo ipotizzabile per co modità espositiva e didascalica. Non c’è però dubbio sul fatto che Vienna rappresenta un momento di rottura e di scoperta, e che la scoperta si sedimenta, attraverso la riflessione, fino al 1837. Dal 1837 inizia un momento di nuove scoperte. La prima nuova scoperta riguarda le possibilità formali del ci clo di piccoli pezzi, possibilità già esplorate da Beethoven, da Schu bert e da Schumann. Tracce di organizzazione ciclica si trovano negli Studi op. io (rapporti tonali maggiore-minore nei nn. 1-2, 3-4, 10-9, 11-12) e, in misura molto più ridotta, nell’op. 25. Nel 1836 Chopin inizia a comporre dei preludi in tutte le tonalità, as segnando alla raccolta il numero d’opera 28. L’op. 27, composta nel 1835, viene pubblicata nel 1836. L’op. 28, iniziata nel 1836, viene completata nel 1839 e pubblicata nello stesso anno, dopo che era già stata pubblicata l’op. 34.11 Mentre andava componendo i preludi, Chopin dovette accorgersi di quali inedite prospettive formali si aprissero in una raccolta di pezzi brevi scandita dal ri gido, astratto alternarsi di modo maggiore e minore e dalla suc cessione tonale per quinte ascendenti (do, sol, re, la, ecc.). Pas sare dalla raccolta al ciclo divenne per lui un difficile problema, e il risultato dei lunghi tentativi fu un complicato intarsio di movi menti lenti e di movimenti rapidi, di caratteri espressivi contra stanti e di dimensioni che iniziano con forme aforistiche, si am pliano verso il centro e si riducono di nuovo verso la fine. È, nello stesso tempo, il culmine del parnassianesimo di Chopin ed un com pendio della sua evoluzione stilistica, dalla quasi-citazione dell’ado lescenza (n. 7) alla più avveniristica delle ipotesi radicali (n. 2). Gli altri grandi traguardi formali sono rappresentati dalla So nata op. 35, dalla Ballata op. 38, dallo Scherzo op. 39, dalla Podinaria, Chopin faceva di Liszt o di Thalberg, o dalla parodia dell’imperatore d’Austria o dalla caricatura dell’inglese musicomane. Ad ogni modo Chopin sen tiva che egli agiva ipnoticamente ben altrimenti nelle ristrette riunioni alle quali presiedeva quell’alta ed effettiva signorilità alla quale il salone di George Sand protendeva senza averne gli elementi». 11 Chopin assegnava i numeri d’opera non a mano a mano che iniziava a com porre i suoi lavori, ma a mano a mano che li consegnava all'editore', per questa ragione il Concerto in mi minore, composto nel 1830, ebbe il numero d’opera11, mentre il Concerto in fa minore, composto nel 1829-1830, ebbe il numero 21, posteriore anche al numero di classificazione dello Scherzo op. 20, terminato nel 1831. Chopin doveva dunque aver previsto nel 1837 l’imminente invio all’edi tore dei preludi.
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lacca op. 44 e dalla Fantasia op. 49. Qui il problema non è più di dare un significato complessivo ad un certo numero di piccoli pezzi, legati da un disegno astratto e che possono anche esistere indipendentemente l’uno dall’altro; il problema è invece di arti colare una grande forma pluritematica senza ripetere gli schemi della tradizione: ripensare il pluritematismo classico inventando forme inedite. Anche nella sonata. Lo schema tradizionale di primo tempo di sonata o «allegro di sonata» viene modificato da Chopin in modo sostanziale, e cioè eliminando il primo tema nella riesposizione; e nulla è più lontano da un tradizionale finale del finale dell’op. 35, il presto brevissimo in cui, come dice seccamente Chopin, «la ma no sinistra suona all’unisono con la destra» (lettera a Julian Fon tana, io agosto 1839). Nella ballata Chopin riunisce non solo due temi contrastanti, ma due tempi diversi (andantino e presto con fuoco), portando la soluzione del problema strutturale fino al pun to di rompere un principio sacro di organizzazione formale, quel lo dell’unità tonale: la ballata inizia in fa maggiore e termina in la minore. Nello Scherzo op. 39 due temi contrastanti, e in movi mento diverso, vengono invece «conciliati» in una forma di flui dità e di flessibilità straordinarie, nella Polacca op. 44 vengono riunite le due danze nazionali (la parte centrale del pezzo non è una polacca ma una mazurca), dilatando la forma tradizionale del la polacca con l’inserimento di un lungo episodio non tematico e di valore puramente dinamico. La Fantasia op. 49, infine, rappre senta il culmine delle ricerche formali di Chopin: elementi strut turali dell’«allegro di sonata» con introduzione in movimento len to e delle forme con trio vengono fusi in un organismo che pre senta la varietà tumultuosa di un quadro di Brueghel e che apre la strada verso la sintesi della sonata di Liszt. La fantasia si iscrive in un processo che non investe solo Cho pin ma che tocca tutta la cultura parigina e, in modo meno di retto, la cultura tedesca. La fantasia pluritematica su temi di me lodramma, che succede storicamente alla variazione su tema di melodramma e alla fantasia monotematica, inizia il suo cammino come forma libera, improvvisatoria, che cerca il consenso del pub blico con la varietà e la piacevolezza dei temi e degli effetti pia nistici inventati dall’autore-esecutore. Poco più di un centone o di un pot-pourri, dunque. Negli anni trenta, specie con Liszt, ma anche con Thalberg e con minori compositori parigini come Pru-
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dent e Goria, la fantasia pluritematica tende però a diventare e gran de forma unitaria e sintesi del melodramma da cui prende ori gine. In questo senso le due fantasie di Liszt sulla Norma e sul Don Giovanni, entrambe del 1841, come la fantasia op. 49 di Chopin, rappresentano un culmine di ricerca storica che dimostra la possibilità di articolare una grande forma fuori degli schemi tradizionali. Chopin contribuisce a questo momento di ricerca, dapprima, solo con il Duo per violoncello e pianoforte su temi del Roberto il Diavolo di Meyerbeer, delineando qui più il raffinatissimo potpourri che la fantasia drammatica. Con la Ballata op. 38, con lo Scherzo op. 39 e con la Fantasia op. 49 egli sfrutta invece non solo il rapporto tra grandi forme tradizionali e forma libera della fan tasia drammatica pluritematica, ma tiene anche conto del caratte re fortemente rappresentativo della fantasia drammatica. Il suo amo re per il teatro, e in particolare per il teatro di Bellini e di Meyer beer, non si esplica in fantasie sui Puritani o sugli Ugonotti per ché Chopin, come abbiamo visto, è estraneo al rapporto con il pubblico del teatro, ma nel 1838-1841 si riflette in una sorta di rappresentazione fantastica, di teatro sublimato e simbolico. Si trovano così in Chopin, in questo periodo, impieghi di generi tipicamente teatrali come il recitativo, la marcia e il corale (an che il corale in lontananza, «dietro le quinte», come nel Nottur no op. 37 n. 1), si trovano colate di suono di carattere puramente materico (come l’attacco del «presto con fuoco» e il finale della Ballata n. 2 o come il finale della Sonata op. 35), si trova una scrittura pianistica di tipo accentuatamente virtuosistico, compren dente anche - scherzo della Sonata op. 35, Scherzo op. 39 - le doppie ottave staccate, tipiche di Liszt e della musica pensata per grandi ambienti. L’eufonia di scrittura del periodo 1832-1837 viene dunque re spinta, e anche l’armonia riacquista tensioni e durezze che erano state attenuate e levigate. Nel finale della Ballata op. 38, nel fi nale della Sonata op. 35, nell’inizio dello Scherzo op. 39 e in vari altri luoghi l’urto delle appoggiature cromatiche, a velocità altissima, crea campi di instabilità armonica che nel caso dello Scherzo op. 39 possono giungere fino al mascheramento della to nalità di base, che viene affermata solo dopo ventiquattro battute. Il caso estremo di tensione armonica, com’è ben noto, lo tro viamo nel secondo Preludio dell’op. 28: tanto eterodosso è qui
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il procedere dell’armonia che Jan Kleczirisky, nel 1898, in un vo lume intitolato Le più grandi opere di Chopin. Come devono es sere capite, veniva addirittura meno al suo assunto, ritenendo che «il preludio n. 2 non dev’essere eseguito perché è bizzarro»; tan to è eterodossa l’armonia, dicevamo, che nel 1921 un altro im pegnato esegeta chopiniano, Edouard Ganche, volendo superare il veto del Klecziriski scoprì una giustificazione naturalistica «suoni di campane a morto nella campagna gelata» — che assol veva il famigerato Preludio in la minore)1 Oggi si tende invece a considerare il Preludio in la minore nel la prospettiva di una riscoperta del contrappunto: le tensioni del l’armonia non nascono, primariamente, dai concatenamenti ac cordali e dalle appoggiature cromatiche, bensì dai movimenti di parti, mosse contrappuntisticamente. Chopin riprendeva verso il 1838 lo studio del Clavicembalo ben temperato di Bach, che gli era familiare fin da ragazzo, e studiava a fondo il Trattato di con trappunto di Cherubini, aprendosi così la strada verso una conce zione integrata di armonia e contrappunto e sviluppando quella scrittura contrappuntistica che abbiamo trovato, embrionalmente costituita, nello Studio op. 25 n. 3. La scoperta del contrappunto, che è scoperta in senso lato neo classica, porta ad una rivalutazione e ad un affinamento della tec nica e della sonorità neoclassiche. Si potrebbe dire che mentre nelle grandi forme si sviluppano le premesse degli Studi op. 25 n. io, 11 e 12, nelle piccole forme si sviluppano le premesse de gli Studi op. 25 n. 1, 2 e 3. I Tre Studi per il Metodo dei Metodi, del 1838, possono addirittura essere visti come commenti ai pri mi tre Studi dell’op. 25: nel primo dei tre ritorna, radicalizzata ed affinata mediante la poliritmia, la scrittura a due parti dello Studio op. 25 n. 2, nel secondo ritorna, resa più esplicita, la scrit12 André Gide scriveva nelle Notes sur Chopin: «Devo confessare che io stesso, malgrado tutta la mia ammirazione per Chopin, ho impiegato molto tempo per apprezzare questo pezzo. Mi sembrava soprattutto bizzarro e non vedevo pro prio il partito che ne poteva ricavare l’esecutore». Il Ganche, lette le Notes, mandò a Gide una lettera, che questi inserì nella seconda edizione del suo libri cino: «Nel secondo Preludio, niente di bizzarro. È la notazione esatta di un rin tocco a morto suonato dalle campane di una chiesa di borgata. Sia per la stona tura delle campane, sia a seguito di modificazioni del suono per l’azione del vento, o per questi due motivi insieme, ho sempre sentito nella mia infanzia questo rintocco funebre, altrettanto dissonante, annunciente una morte e una prossima sepoltura, tal quale lo riproduce Chopin con le stesse dissonanze fune bri, e tal quale egli l’intese certamente nella solitudine delle borgate polacche».
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tura polifonica dello Studio op. 23 n. 3, nel terzo la vaporosità, la vaghezza dello Studio op. 25 n. 1 è come rappresa in grumi, solidificata in tenui, piatte superfici. Da un lato, dunque, l’estre mismo delle tensioni armoniche che sconfinano in campo mate rico e la scrittura virtuosistica e polidimensionale, dall’altro l’an nullamento delle tensioni armoniche attraverso il contrappunto e la scrittura monodimensionale. Nell’ultima fase della sua attività creativa Chopin si vale di tutti i mezzi stilistici conquistati, ma sviluppa soprattutto questa ultima alternativa. Opera che si iscrive nel filone che chiamere mo «teatrale» è ad esempio la celeberrima Polacca op. 33, ope ra di sintesi stilistica, vero campionario del più maturo stile chopiniano è la non meno celebre Ballata op. 32, opera che radicalizza all’estremo l’indipendenza delle parti, al punto di sostituire al movimento delle linee il movimento delle macchie sonore, è la Berceuse op. 37, opera che supera la concezione di grande for ma simmetrica e chiusa, aprendo la via alla forma aperta e non simmetrica è la Polacca-Fantasia op. 61. Acquisizione nuova del l’ultimo periodo è il ripensamento delle proprie origini. Si può considerare, come inizio di questo filone della poetica di Chopin, F Allegro da concerto op. 46. Si trattava in effetti di un abbozzo per un primo tempo di concerto in la maggiore, risalente al 1832, che Chopin aveva abbandonato perché ormai stilisticamente in compatibile con le composizioni del 1831. Nel 1841 Chopin uti lizza gli abbozzi del concerto per pianoforte e orchestra per un pezzo per pianoforte solo, senza eliminare la parte orchestrale e senza mascherare la struttura originaria. Come già aveva fatto Schumann nel Concerto senza orchestra op. 14 del 1833-1836, Chopin si accorge che la logica conclusione del concerto Bieder meier è il «concerto per pianoforte solo». Tipica operazione ma nieristica, questa, che dà inizio ad un più sottile ripensamento del Biedermeier, ripensamento in cui le motivazioni stilistiche si uniscono alle motivazioni affettive della nostalgia per la patria e per l’infanzia. Nella parte centrale dello Scherzo op. 54 e dell’I/Tzprovviso op. 31, nella parte finale del Notturno op. 33 n. 1, in tutto il Notturno op. 33 n. 2, nel primo tempo della Sonata op. 63, in molte delle tarde mazurche si avverte nettamente il recu pero di stilemi che, se l’espressione non pare bizzarra, potremmo definire «preistorici», mitici, anteriori alla presa di coscienza, alla crisi avvenuta a Vienna nei primi sei mesi del 1831. Tanto che,
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come altra volta ci è avvenuto di dire, Chopin, scomparendo a trentanove anni, non muore «giovane» ma «vecchio», nel senso che supera la maturità e conquista la saggezza. Scomparendo a trentanove anni, Chopin lascia un’eredità immensa, che sconcer ta anche i più acuti intelletti suoi contemporanei, come Schumann e Liszt, e che, come abbiamo già detto, condizionerà il cammino della storia per più di mezzo secolo. Grandi dilettanti e grandi professionisti
Che Chopin sia un musicista nazionale è più che evidente: seb bene, come abbiamo visto, egli sia partecipe di una cultura co smopolita, come il Biedermeier e i movimenti dell’avanguar dia parigina, i caratteri nazionali sono prevalenti nel suo linguag gio e le stesse punte estreme delle sue indagini dipendono dal suo essere polacco. Liszt si ferma di fronte ad un’opera come la Polacca-Fantasia, che superava le concezioni formali non solo del la classicità, ma di quella sintesi di classicità e di romanticismo che è la sua sonata. E se Liszt non riusciva a giustificare una delle opere conclusive di Chopin, essendo vissuto vicino a Chopin ed avendo conosciuto tutti i fermenti rivoluzionari della cultura cen troeuropea, come avrebbero potuto capire il messaggio di Chopin i compositori suoi connazionali, rimasti immersi in una cultura dalla quale Chopin era uscito a vent’anni? Nella seconda metà dell’Ottocento Chopin è per la Polonia una gloria nazionale, ma la sua arte non diventa, per i musicisti polacchi, una base per sviluppare una nuova cultura. Nessuno dei musicisti appartenenti alla generazione di Chopin è in grado nep pure di imitarlo esteriormente: né quelli rimasti in patria come Feliks Dobrzynski,13 come Feliks Ostrowski, come il seduttore della governante di Sanniki Józef Nowakowski, come l’etnologo Oskar Kolberg,14 come Józef Krogulski (che morì nel 1842, a ven13 Di Dobrzynski si ricorda spesso che con la Sinfonia caratteristica nello spirito della musica polacca vinse nel 1834 un premio in un concorso, a Vienna, in cui la Sinfonia fantastica di Berlioz non fu neppur classificata. 14 Di Nowakowski scriveva Chopin alla famiglia, il 19 aprile 1847: «A causa del mio interessamento si stampano per ora a Parigi gli Studi che mi ha dedi cato. Questa pubblicazione è per lui tutto il mondo. È contento d’essere pub blicato. È troppo vecchio per imparare del nuovo e per mettere ordine nel suo cervello, ma è buono. Quello che gli si mette in bocca lo mangia. Lo amo così come. È una vecchia conoscenza». E più avanti: «Mi ha consegnato le canzoni
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tisette anni), né quelli stabilitisi anch’essi a Parigi, come Julian Fontana, Adalbert Sowinski, Édouard Wolff. E la Polonia con tinua ad essere culturalmente una provincia, mentre è invece la Russia che, dapprima con Anton Rubinstein e poi con i cinque e con Cajkowskij, crea una cultura capace di porsi in alternativa con le culture dominanti. Chopin suscita sì fermenti nella na scente cultura russa, così come li suscitano Mendelssohn, Schu mann, Liszt, Berlioz, ma non viene visto dai russi come musicista nazionale e la sua influenza si esercita in Russia nei modi in cui si esercita in tutti i paesi d’Europa. Chopin, insomma, non su scita alcun movimento nazionale di cultura e diventa invece su bito una specie di «classico» da cui tutti prendono qualcosa e che nessuno è in grado di seguire fino in fondo. Il maggior compositore polacco della seconda metà del secolo, Stanislaw Moniuszko, nato nel 1819, non è pianista e compone per pianoforte poche pagine. Nelle sue opere per pianoforte, pur marginali nella sua produzione, si coglie tuttavia il rapporto della cultura polacca con la musica di Chopin: Moniuszko riprende il discorso, stilisticamente, là dove Chopin lo aveva bruscamente fat to sterzare; lo riprende dallo Chopin dei valzer e delle mazurche giovanili, scritte prima del 1830, e lo prosegue con le sue polac che, scritte a partire dal 1843, e con i suoi valzer. Amore per il canto popolare, polacco e anche ceco (le polche), ma impossibi lità di cogliere la vertiginosa elaborazione linguistica e formale che Chopin aveva compiuto e quindi, in pratica, rifiuto delle po sizioni di utopia mistica di Chopin e ripresa di quella concezione della patria che i moti del 1830 avevano già dimostrato di im possibile attuazione e che le rivolte del 1861 e del 1863, repres se con violenza dai russi, avrebbero nuovamente condotto alla sconfitta. L’assenza di una cultura polacca nel contesto europeo non signi fica assenza di musicisti polacchi, soprattutto di pianisti-compo sitori, sulle scene internazionali. Chopin è appena scomparso quan do una giovane compositrice polacca, Tekla Badarzewska-Baranowska, diventa celeberrima in tutto il mondo. Nata a Varsavia nel 1834, la Badarzewska era una dilettante, una delle innumerevoli popolari di Kolberg: buone intenzioni ma spalle troppo gracili. Realizzazioni co me queste mi portano a pensare che sarebbe meglio il niente, perché un lavoro così imperfetto non può che disorientare le ricerche del genio che un giorno arriverà alla verità e ridarà tutto il loro valore a queste bellezze».
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pianiste e pianistine che scrivevano pezzi sentimentali e li esegui vano in quelle riunioni familiari tanto spesso descritteci dalla letleratura romanzesca dell’epoca borghese. A questo piccolo mon do antico apparteneva anche la segreta fidanzata di Chopin, Ma ria Wodzinska. E Chopin stesso l’aveva per un attimo guardata con occhio benevolo: «Mi prendo la libertà» scriveva il 18 luglio 1834 a Feliks Wodzinski «di mandare alla mia stimata collega, signorina Maria, un piccolo valzer che ho appena pubblicato [op. 18]. Possa esso procurarle anche solo la centesima parte del pia cere che ho provato nel ricevere le sue variazioni». La Wodzinska non è sopravvissuta in virtù delle sue variazio ni, tanto apprezzate da Chopin, ma per ben altri motivi. Non è sopravvissuta per niente Wiktoria Kowalewska, che nel 1837 ot tenne il suo quarto d’ora di celebrità con il valzer Bei giorni di maggio, né è sopravvissuta la più audace Julie Niewiarowska, che nel 1848 stupì Varsavia con la fantasia Diablerie. Non è del resto neppure sopravvissuto un degno esponente del dilettantismo virile, il colonnello André Litowski, al quale si deve la non im mortale Prière d’une jeune fille. Ma con l’immortale Prière d’une vierge la Badarzewska dura nei secoli. Queste ragazze, queste fanciulle, questi colonnelli non colti vano la poesia esoterica e sottile di Chopin o di Schumann, ma proiettavano i loro sogni nelle eroine del melodramma romantico e consumavano a quintali le riduzioni, le trascrizioni, le parafrasi, le fantasie su opere liriche. La Prière d’une vierge, che diede al la Badarzewska la celebrità e che ha fatto risplendere il suo no me, come un emblema, nella posterità, è un tema con variazioni, piccola introduzione e breve finale. ]e Pai ecouté, altro pezzo mol to noto della Badarzewska, è una vera e propria scena lirica, con tanto di imitazione di un intervento del coro, e di derivazione stilistica dal melodramma e dalle forme pianistiche originate dal melodramma sono altre composizioni come La prière exaucée, La prière d’une mère, Magdalena. È un po’, ci sembra, quello che già era capitato, in una certa misura, con la Szymanowska: la Badarzewska, alla metà del se colo, ci offre versioni semplificate e casalinghe di ciò che i mag giori virtuosi romantici - da Thalberg a Dòhler a Willmers a Dreyschock — avevano elaborato e portato al successo tra il 1830 e il 1840 circa: nel momento stesso in cui la musica pianistica ba sata sul melodramma perde la sua ragione di esistere in sala di
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concerto e viene gradualmente soppiantata dalle musiche di Bee thoven, di Weber, di Schumann, di Chopin, nel momento stesso in cui virtuosi come Thalberg e compagni cedono il passo agli interpreti come Hans von Bùlow e compagni, la piccola borghe sia fa suo e conserva il melodramma rivisitato al pianoforte. Il merito e la funzione della Badarzewska, sulla quale non abbiamo affatto il diritto di sorridere con sufficienza, è di dare inizio ad una letteratura ndive. che certamente non tocca valori poetici va lutabili in termini storici, ma che raggiunge una diffusione sociale enorme e che impronta di sé la cultura musicale delle classi me die fino alla Grande Guerra. La Badarzewska, che muore nel 1861, è una meteora, la cui so lidissima fama resta legata a poche composizioni e che non fa in tempo a diventare un personaggio del mondo musicale. I profes sionisti polacchi del pianoforte, che non solo diventano noti in tutto il mondo, ma che il mondo lo girano in lungo e in largo, sono invece parecchi: moltissimi, in realtà, per un paese che dal 1831 al 1861, chiuso il conservatorio di Varsavia in cui aveva studiato Chopin, non aveva posseduto neppure una scuola di mu sica di importanza nazionale. Il primo di questi professionisti polacchi è Antoine de Kontski, nato nel 1817 a Cracovia, autore di circa quattrocento composi zioni pianistiche tra cui un classico del Kitsch internazionale: Le réveil du lion op. 115. Caprice hérdique è Le réveil du lion: in verità, un frutto fuori stagione del thalberghismo anni trenta. Antoine de Kontski - An toni K^tski, in realtà b - scrive in modo supervirtuosistico, impie ga abilmente la tecnica dell’ornamentazione di Thalberg, oltrepas sa Thalberg perché non teme una sorta di bruitisme, di rumore onomatopeico, e arriva a prescrivere alla fine un fortissimo con «tutta la forza imaginevole». Bisognerebbe vederlo, de Kontski, come bisognava vedere Artur Rubinstein nella Danza del fuoco
15 K^tski francesizzò il suo nome per ragioni, probabilmente, pubblicitarie. Forse per questo, in una lettera a Franchomme dell’n agosto 1848, Chopin lo definì «frangais du Nord, animai du Midi». Chopin aveva conosciuto de Kontski nel 1845 a Parigi, ed aveva cercato di aiutarlo nell’organizzazione di un concerto: «Antonio mio, molti di coloro a cui ho offerto i tuoi biglietti e sui quali pen savo di poter contare non li hanno accettati. Ci sono le corse a Chantilly. Non stupirti dunque se non ho venduto altro che un biglietto e se ti rimando, tutto confuso, gli altri nove» (lettera senza data).
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di Falla! Se il suo gesto corrispondeva alla musica doveva essere proprio entusiasmante, sebbene la musica non fosse precisamente di prima scelta. Ma è di prima scelta la musica deWExcelsior? È di prima scelta la Marcia dei gladiatori? Eppure... Il Réveil du lion, come la Valse infernale op. 36, come il val zer Le Vesuve op. 248, come il notturno Ismdilia op. 249, come il Souvenir de Gèneve op. 276, potrebbe stare tranquillamente in un balletto di Romualdo Marenco, e potrebbe ritrovare i suoi am miratori, così come li ha ritrovati LExcelsior. De Kontski, non c’è dubbio, è divertente: divertente quando fa il truce nella Valse infernale (con tanto di vignetta in copertina: un diavolo cornuto balla in un circolo di monaci pietrificati dall’orrore), divertente quando cita, in Ismdilia, il languido Chant d’une jeune fille arabe, divertente quando inventa, dopo la Romanza senza parole di Men delssohn, il Duetto senza parole. Certo, con tutta la simpatia che desta il personaggio, con tutte le schiette e non ironiche risate che suscitano le sue musiche, la verità che s’impone è una sola: Antoine de Kontski è un thalberghiano attardatissimo, che prospera nella storia dello spettacolo e non conta nulla nella storia della cultura. Più giovane di lui, e scomparso molto prima, Cari Tausig (1841-1871), si affaccia an che lui nella storia dello spettacolo ma conta invece moltissimo nella storia della cultura. Tausig è soprattutto un interprete, e dei maggiori che la storia dell’interpretazione abbia visto. Le sue composizioni, per quanto limitate di numero, sono però assai si gnificative. Il primo dei due Studi da concerto op. 1, composto verso il i860, mostra in modo assai sorprendente - sorprendente per un compatriota di Chopin, allievo di Liszt - un fondo schumanniano. Si può supporre che nella formazione del ragazzo avesse avuto molta importanza l’insegnamento del padre e suo primo maestro, residente a Varsavia e sposato con una polacca, ma tedesco di na scita e di studi. L’influenza schumanniana è comunque appena av vertibile, ed in proporzione non prevalente rispetto alle influenze di Chopin e di Liszt. Se un nome torna alla mente subito, ascol tando lo Studio op. 1 n. 1, è quello del primo Skrjabin, e Tausig, per questo aspetto, pare inserito nella cultura russa, quasi come un... precursore. Anche lo Studio op. 1 n. 2 fa venire alla mente un altro russo di fine Ottocento, Rachmaninov. Ma l’orientamento nettamente lisztiano non tarda a prevalere in Tausig, con la bai
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lata, trascritta dall’orchestra, Das Geisterschiff, e con il Nocturne varie «L’espérance» op. 3. Sebbene diversissimo da de Kontski, Tausig si muove dunque, culturalmente, secondo una traiettoria parallela: l’origine polacca è un dato biografico, non culturale, ed il fine è di diventare un concertista di successo in tutto il mondo. Il suo tributo alla pa tria polacca Tausig lo diede con la Fantasia su temi della «Halka» di Moniuszko, pezzo che rimase in repertorio per una trentina d’anni; e il suo tributo ai mani del suo maestro Liszt lo diede con la Arie zingaresche ungheresi, pezzo, un tempo, famosissimo. Sia nella Fantasia che nelle Arie l’influenza di Liszt, e sia pure del Liszt illustratore e ricreatore, più che del Liszt creatore, è prepon derante, assoluta. Nel piccolo catalogo di Tausig compositore tro viamo del resto più parafrasi e trascrizioni che non opere origi nali: Tausig segue Liszt soprattutto in quel settore della sua atti vità che sta al confine tra il lavoro del compositore e il lavoro del l’interprete, ed ottiene una grande fama anche come trascrittore di Bach (Toccata in re minore) e di Scarlatti (cinque sonate, tra cui la celebre coppia Pastorale e Capriccio). Tra le idee lisztiane che Tausig riprende e rimedita v’è anche quella delle Soirees de Vienne, Valses-Caprices d’après Schubert, che Liszt aveva pubblicato nel 1853. Liszt aveva ridotto a forma concertistica, scegliendo pochi temi e ornamentando la scrittura strumentale, le collane di valzer di Schubert, «impresentabili» in sala di concerto, nella veste originale, perché troppo semplici per certi aspetti e troppo raffinate per certi altri. Tausig sceglie valzer di Johann Strauss junior per le sue Nouvelles Soirées de Vienne. I valzer di Strauss avevano già una struttura «pubblica» e Tausig, per questo aspetto, non doveva preoccuparsi troppo a tagliare, ri cucire e ornare. La fantasia virtuosistico-timbrica di Tausig trova invece, nei valzer di Strauss, materia adattissima per muoversi in modo originale. Si potrebbe dire, in un certo senso, che Tausig perpetua il virtuosismo romantico come la Badarzewska aveva perpetuato la musica per pianoforte ricalcata negli stampi del me lodramma; e ciò, fatta salva la rispettiva statura storica dei due personaggi, non ci sembra paradossale. Le invenzioni virtuosisti che di Tausig non sono in verità molte; ma egli sa partire dai tra guardi lisztiani degli anni sessanta - soprattutto dal Valzer del «Faust» di Gounod - per inventare una scrittura libera da ridon danze ornamentali e secca come un’incisione, che precorre Pro-
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kofiev e che può dare dignità di grande pezzo da concerto alle me lodie di Strauss, di per sé eseguibili al pianoforte, in quanto pia cevoli melodie, da qualunque nipotino della Badarzewska. Tausig, insomma, crea un vero e proprio genere, in cui riesce a far rivi vere, dopo che è stata storicamente superata e condannata, l’idea del virtuosismo trascendentale, e in cui i valzer di Strauss, nel mo mento in cui nasce la separazione di «serio» e «leggero», restano agganciati al «serio» e compariranno fino alla Grande Guerra in programmi di concerto, accanto ai Beethoven e ai Brahms. I superuomi™ Il genere «valzer di Strauss parafrasato» non è appannaggio dei soli polacchi (vi sacrifica persino un dottrinario come Max Reger), ma riceve dai polacchi il suo massimo impulso di conservazione. Oltre a Tausig parafrasano infatti valzer di Strauss Adolf Schulz Evler, Moriz Rosenthal, Leopold Godowsky ed infine Ignacy Friedman, tutti nati in Polonia. Abbiamo citato anche Schulz Evler, molto meno noto degli altri, perché a lui si deve una parafrasi del Bel Danubio blu che talvolta viene ripresa ancor oggi. Non era un gran compositore, Schulz Evler, e non era neppure un grande concertista: girò molto in provincia, soprattutto in Polonia e in Ucraina, e morì a Varsavia nel 1905, a cinquantatré anni. Con il Bel Danubio blu egli azzeccò però una parafrasi così attraente e così provocante da far uscire dai gangheri certi critici inglesi, ere di naturali del vittorianesimo, che la definirono meretricious. Me retricious perché soltanto bellona, soltanto procace, soltanto capa ce di far perdere completamente la testa al pubblico. Il Carnevale di Vienna di Rosenthal non è invece meretricious perché combina insieme temi diversi, perché inventa invece di imbellettare, perché crea qualcosa sul valzer di Strauss. E in questo creare qualcosa su è maestro incontestato Leopold Godowsky, che non solo rielabora i valzer di Strauss nati per l’orchestra, chiamando «metamorfosi sinfoniche» le sue rielaborazioni, ma che ha il coraggio o l’impu denza di rielaborare pezzi di Chopin nati per il pianoforte. C’è qualcosa di più difficile degli Studi op. io n. 1 e n. 2 di Chopin? Ci sono gli Studi sopra gli Studi di Chopin di Godowsky. Un primo esempio di riscrittura in un pezzo di Chopin lo aveva già offerto, nel 1852, Brahms, che aveva trascritto in seste lo Stu dio op. 25 n. 2. Dreyschock, a quanto disse William Mason, ese-
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guiva lo Studio op. io n. 12 con la parte della mano sinistra in ottave, Rosenthal aveva trascritto in doppie note il Valzer op. 64 n. 2 ed un altro polacco, Alexander Michalowski, aveva parafra sato concertisticamente lo stesso valzer. C’è però una profonda differenza tra la casualità di tentativi che si collocano sul piano dell’esperimento tecnico o del divertimento e la sistematicità di Godowsky. Godowsky scopre certe possibilità di sovrapposizioni tematiche (ad esempio, egli sovrappone gli studi op. io n. 5 e op. 25 n. 9, e gli studi op. io n. n e op. 25 n. 3); ma questo non è l’aspetto fondamentale della sua ricerca, che si indirizza in vece sulla trasformazione della sonorità e del fraseggio. I numerosi studi di Godowsky nei quali il materiale fornito da gli studi di Chopin viene affidato alla sola mano sinistra svolgono coerentemente un’idea di Skrjabin, quella del Preludio e Notturno op. 9. Eseguiti a due mani, i pezzi di Skrjabin sembrano pezzi tra dizionali espressi in modo contenuto e molto intimistico: eseguiti con la sola mano sinistra sembrano pezzi tradizionali resi secondo la esasperata espressività, il fraseggio delirante, la burrascosa scan sione del tempo con cui venivano risolti alla fine dell’Ottocento, com’è dimostrato dai primi rulli di pianoforte meccanico, certi pezzi intimistici di Chopin o di Schumann. Il passaggio del roman ticismo intimistico dalle mani del dilettante alle mani del virtuo so di professione, e dal salotto alla sala di concerto, aveva causato la sovrapposizione di uno stile di esecuzione «alto» o «aulico» a musiche non concepite per il recital. Ponendo all’esecutore i pro blemi tecnici derivanti dall’uso di una sola mano Skrjabin era riu scito ad introdurre nella scrittura uno stile di esecuzione, secondo una concezione che verrà rovesciata in senso ironico dallo Stra vinsky delle due raccolte di pezzi a quattro mani. Godowsky, negli Studi per la mano sinistra sola, estende le coordinate stilistico-ideologiche scriabiniane a musiche che, non essendo nate né per i dilettanti né per il recital ma per l’educa zione del pianista di professione, erano poi state trasferite anch’esse in sala di concerto. Il largo arpeggiamento con cui non può non iniziare lo Studio op. io n. 3 nella versione di Godowsky per la mano sinistra sola, la dizione rotta, l’espressione convulsa e da cinema muto che la melodia acquista portano all’estremo, all’as surdo lo stile di esecuzione chopiniana di un Paderewski. Uno stile di esecuzione, che Godowsky sente come deformante, viene fotografato senz’astio né ironia, e proprio perciò liquidato storica
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mente: Godowsky esecutore sarà infatti tra i primi interpreti che cominceranno a ricercare l’esecuzione storico-filologica delle ope re di Chopin. In altri casi Godowsky capovolge invece i piani prospettici di Chopin o crea nuovi piani. Per esempio, in una sua versione del lo Studio op. io n. 5 la parte della mano destra, considerata pri maria dagli esecutori e messa nella massima evidenza sia prospet tica che timbrica (il più squisito e goduto dei jeux perlés}, viene trasferita da Godowsky alla mano sinistra e resa timbricamente neutra. Trasferendo per conseguenza alla mano destra la parte che Chopin aveva affidato alla sinistra, e mettendola in rilievo, Go dowsky dimostra quanto sia in realtà interessante ciò che gli altri, vanitosamente tesi a dar prova di agilità, avevano trascurato. In una versione godowskiana dello Studio op. io n. 2 la parte della destra viene trasferita alla sinistra come mormorio indistinto, «tap peto» neutro su cui viene edificato un gioco in doppie note della destra; e in una versione dello Studio op. 25 n. 1 la melodia di venta cantus firmus al basso, quasi sommerso, ma non del tutto, da cascate di suoni che piovono da ogni parte. In genere però, complicando ulteriormente le parti più com plicate degli studi di Chopin, Godowsky mira a riportare alla lu ce le parti semplici, perché la complicazione annega se stessa e la semplicità emerge. Un’operazione da superuomo dannunziano, co me si vede, e non priva di snobismo. Ma anche un’operazione in cui l’intelligenza gioca una partita sopraffina, degna di un Borges. E Godowsky merita di essere studiato con attenzione, non citato come paranoico o come facitore di mostri,... sebbene, un po’, lo sia. Se Godowsky deve essere ricordato in una qualsiasi storia della letteratura pianistica, egli non deve però esservi ricordato come polacco. E come lui gli altri pianisti-compositori prima citati o al tri ancora, ben noti ai loro tempi e non del tutto trascurabili nem meno oggi: ad esempio, Theodor Leschetitzki, Józef Wieniawski, Franz Xaver Scharwenka, Moritz Moszkowsky. Leschetitzki, gran de maestro di pianisti, Scharwenka, autore di quattro concerti ed uno tra i più indaffarati concertisti negli spostamenti in transa tlantico tra Europa e America, e Moszkowsky, autore di pezzi fa voriti da concertisti e dilettanti e di una Scuola delle doppie note che fa testo anche oggi, nacquero in Polonia ma in Polonia non studiarono e non vissero mai. Il problema di una cultura polacca non li sfiorava neppure, tutti immersi com’erano nel liberty inter-
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nazionale della belle epoque. E se anche Scharwenka raggiungeva un successo duraturo con le Danze nazionali polacche op. 3, il suo «polonismo» era quello del viaggiatore cosmopolita che raccoglie visioni pittoresche di paesi esotici. Grande viaggiatore, grande cosmopolita con qualcosa del dandy decadente fu il conte Wladislaw Tarnowski, poeta, pianista e com positore, che suonò in Europa e negli Stati Uniti, visse in India, Cina e Giappone, e morì in mare - in transatlantico, non su una zattera - al largo della California, mentre tornava da un giro di concerti. Autore di un’opera intitolata Ahmed o II Pellegrino del l'amore , il conte Tarnowski fu noto per alcuni pezzi per piano forte tra cui Extases au Bosphor op. io, fantasia su melodie orien tali, che è tutto un programma. Sebbene vivesse e operasse all’estero, Juliusz Zar^bski, allievo fra gli altri di Liszt, si preoccupò invece di farsi sempre ricono scere come musicista nazionale, sia pur secondo le coordinate di una contaminazione tra canto popolare e forme della tradizione occidentale che fa anche di lui, in fondo, un brillantissimo vir tuoso cosmopolita. Allo Zar^bski non mancava forse l’ingegno per una evoluzione in senso più moderno, vista anche la sua familia rità con il vecchio Liszt; ma egli scomparve molto giovane, a tren tun anni, nel 1885. E giovanissimo, a ventun anni, era morto nel 1872 un altro promettentissimo compositore, Antoni Stolpe. Al cuni compositori operarono, come Moniuszko, in patria e furono esponenti di quella cultura nazionale - locale, per meglio dire che continuava a tener conto dello Chopin ante 1830: Alexander Zarzycki, celebre per alcuni pezzi per violino, ma pianista ed autore di molte pagine pianistiche, Roman Statkowski, Eugeniusz Pankiewicz. Malgrado una fioritura di ingegni, pianisti e pianisti-composi tori, che lascia veramente stupefatti, non si nota in Polonia o tra i polacchi, negli ultimi decenni dell’Ottocento, nulla di paragona bile al rapporto che si instaura tra il tardo Liszt e la musica un gherese o tra il giovane Janàcek e la musica morava; e non c’è in Polonia neppure un qualcosa di paragonabile a Grieg. Anche Igna cy Paderewski, che pure si pose il problema dell’indipendenza na zionale del suo paese e quindi, implicitamente, di una cultura po lacca, non seppe operare in termini simili a quelli di Liszt o di Janàcek, ma ripetè piuttosto il cammino che, trent’anni prima, era stato percorso da Anton Rubinstein in Russia.
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Paderewski è prima di tutto un pianista e, per meriti intrinseci e per suggestioni nazionalistiche, prima di tutto un interprete di Chopin. Come interprete di Chopin, Paderewski presenta tratti fortemente originali e tratti che derivano probabilmente dal mae stro con cui aveva studiato a Vienna, Theodor Leschetitzki. Lo Chopin prediletto da Paderewski non fu quello varsaviano a cui si era fermato Moniuszko, ma non fu neppure l’ultimo Chopin dello Scherzo n. 4, della barcarola, della polacca-fantasia, delle tar de mazurche. Paderewski predilesse Io Chopin «centrale» e, come compositore, non si orientò verso quei caratteri chopiniani forma li, lessicali e timbrici che avrebbero potuto costituire un’eredità da sviluppare in quanto si staccavano dalla tradizione culturale dell’Europa centrale. Gli inizi di compositore di Paderewski si collocano invece entro il liberty internazionale, e il successo che arrise al Minuetto op. 14 n. 1, al Capriccio alla Scarlatti op. 14 n. 3, alla Melodia op. 18 n. 3, alla Leggenda op. 16, n. 1, al Notturno op. 16 n. 4 fu quel lo che, in misura minore o maggiore, era arriso a Leschetitzki, a Scharwenka, a Moszkowsky. Anche le Danses polonaises op. 5 e op. 9 e la Cracovienne fantastique op. 14 n. 6 sono fortemente tributarie di un polonismo di maniera. Qualche accenno ad un modo meno anacronistico di considerare il folclore lo troviamo nel Tatra Album op. 12, ma il Concerto op. 17, scritto cinque anni dopo (1888), e la Fantasia polacca su temi originali per pia noforte e orchestra, scritta dieci anni più tardi (1893), ci ripor tano a quegli schemi collaudati che potevano essere ricondotti ai concerti dei mendelssohniani di Lipsia e alla Fantasia su temi un gheresi di Liszt. Le Variazioni con fuga op. ir si iscrivono invece in un filone fiorentissimo tra i pianisti-compositori di fine secolo, e cioè in quel filone che prendeva a modello le Variazioni su un tema di Handel di Brahms per condensare in tanti pannelli la concezione virtuosistico-coloristica che del pianoforte aveva l’autore, nonché la sua sapienza contrappuntistica. Mentre in Brahms la variazione su un tema di compositore barocco assume le dimensioni di una sin tesi storica, in Paderewski, come negli altri pianisti-compositori del suo tempo, si attua piuttosto la sublimazione di ciò che era stata tra il 1820 e il 1830, agli albori del concertismo internazio nale, l’improvvisazione in pubblico: Johann Nepomuk Hummel, gran maestro dell’improvvisazione negli anni venti, non aveva fat
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to mai mancare, a dar dimostrazione della sua valentia contrap puntistica, un fugato, e almeno il fugato, se non la fuga, dovevano saperlo fare tutti coloro che pretendevano di improvvisare in pub blico. Verso la fine del secolo non s’usava più l’improvvisazione, ma il pianista-compositore doveva avere in catalogo le variazioni con fuga. In quelle di Paderewski, op. n, è soprattutto interes sante, come esempio di invenzione virtuosistica, una variazione in glissando. Nel gruppo di composizioni pianistiche che Paderewski scrive tra il 1881 e il 1894 non scopriamo dunque nessuna intenzione che non sia quella solita di allineamento con la musica di suc cesso delle sale di concerto. Dopo il 1894, divenuto celebre con certista e impegnato in faticose tournees, Paderewski abbandonò in pratica la composizione. Riprese a comporre, e questa volta con grandi ambizioni, alla fine del secolo. Un’opera {Manru, finita nel 1901), una Sinfonia (op. 24, 1903-1911), due imponenti lavori pianistici {Sonata op. 21, 1903, Variazioni con fuga op. 23, 1903) segnano la ripresa in grande dell’attività creativa. Anche se ci limitiamo a considerare i due lavori pianistici è su bito evidente che Paderewski intende collocarsi nel circolo della cultura tedesca postbrahmsiana. E che vi si colloca da epigono, non da protagonista. Come abbiamo detto poc’anzi, le variazioni potevano diventare - lo erano diventate già con Beethoven, e poi con Brahms - un manifesto di neoclassicismo e di meditazione sul la storia; all’inizio del Novecento, ad esempio, Paul Dukas firma va un manifesto neoclassico francese con le Variazioni su un tema di Rameau, in cui il ripensamento della classicità francese si col locava in una dimensione formale imponente, degna della tradi zione tedesca. Posizione timorosa, se vogliamo, e tanto meno au dace di quella di Debussy, che con la più dimessa Suite bergamasque trovava nel 1905 più convincenti motivazioni al rilancio di una cultura francese del Novecento. L’ottica di Paderewski è quel la di Dukas; ma, a dire il vero, non si capisce perché egli non componesse allora delle variazioni con fuga su un tema di Chopin o su un canto popolare polacco. Vero è che di variazioni su un tema di Chopin - il Preludio n. 20 - ne aveva già composte Bu soni (1884) e ne stava componendo Rachmaninov, e che Godowsky già stava usando Chopin per le sue strane elucubrazioni. Pade rewski non sceglie dunque l’amatissimo Chopin, ma crea un tema molto elementare, che ricalca un po’ la semplicità di un corale
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popolare, su cui può costruire variazioni alternativamente «espres sive» e «pianistiche». Il lavoro, malgrado i ventisette minuti di durata, è scorrevole e vario: non la composizione di un accade mico che lavora nel chiuso del suo studiolo, ma di un concertista che sa fiutare le reazioni e le attese del pubblico. Il contenuto è tuttavia accademico. Non a Reger, massimo esponente delle varia zioni con fuga all’inizio del Novecento, guarda Paderewski, ma a Brahms; anzi, a Brahms guarda nella fuga, mentre nelle variazioni guarda ancora con fede a Mendelssohn. Le Variazioni su un tema di Rameau di Dukas sono del 1903, le Variazioni op. 23 di Paderewski sono del 1903; del 1903 è la Sonata op. 21 di Paderewski, del 1901 è la Sonata di Dukas. Il parallelismo, dato che Paderewski suonava spessissimo a Parigi, non può essere casuale. Paderewski doveva essersi convinto che Dukas avesse scoperta la via di una riscossa culturale nazionale; ma così com’era stato lontano da Dukas nelle variazioni, Pade rewski restò lontano da Dukas nella sonata: stilisticamente, la sua sonata avrebbe potuto esser stata scritta trenta o quarant’anni pri ma da un giovane diplomato del conservatorio di Lipsia, ammi ratore del Brahms delle sonate e non dimentico di aver ricevuto una formazione mendelssohniana. Dopo la sinfonia, Paderewski abbozzò sei studi per pianoforte, che non finì mai. «Incompiuti, ahimè», commenta il suo biografo Henryk Opienski. Forse Pade rewski lo aveva capito, perché era meglio non finirli. Coll’avvicinarsi della Grande Guerra Paderewski si dedicò so prattutto all’attività politica, rallentando anche i suoi impegni di concertista. Nel dopoguerra, dopo aver partecipato alla Conferen za di Versailles firmando il Trattato il 28 giugno 1919, dopo es ser stato presidente del consiglio e ministro degli esteri nel primo governo della Polonia indipendente e dopo aver rappresentato la Polonia presso la Società delle Nazioni, Paderewski tornò all’atti vità concertistica, monumento vivente di un passato tramontato. Allungò a dismisura la lista delle decorazioni e delle lauree hono ris causa\ era stato nominato dottore nell’università di Lwow nel 1912 e in quella di Yale nel 1917, divenne dottore a Cracovia nel 1919, a Oxford nel 1920, nell’università di Columbia nel 1922, della California del Sud nel 1923, a Posen nel 1924, a Glasgow nel 1925, a Cambridge nel 1926, chiudendo il medaglie re nel 1933 con la New York University. Non compose più nulla e partecipò alla vita culturale del suo paese solo assumendo la
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presidenza del comitato incaricato di preparare l’edizione nazio nale delle opere di Chopin. Il lettore avrà avuto l’impressione che noi proviamo per Pa derewski una fiera antipatia. L’impressione non è affatto sbaglia ta e la confessiamo senza infingimenti, ben sapendo che l’antipa tia mal si concilia con valutazioni storiche serene. L’antipatia per Paderewski, confrontata con la simpatia che desta in noi un per sonaggio persino clownesco come de Kontski, può parere immo tivata e capricciosa. Ma non riusciamo a sottrarci a questo senti mento, e preferiamo non mascherarlo, perché di Paderewski ci spiace soprattutto il contrasto tra l’ideologia nazionalistica e la poetica cosmopolita. Non ci sembra che ci sia nulla da rimprove rare a Scharwenka o a Moszkowsky, che dall’esser nati polacchi traevano solo un motivo in più di attrattiva per il loro pubblico e che non sfidavano alcun pensiero dell’indipendenza politica e culturale polacca, mentre ci sembra che l’epigonismo culturale sto ni vistosamente con l’impegno politico di Paderewski, con i suoi discorsi patriottici, con la sua preoccupazione, per dirla tutta, di bloccare in tempo il tentativo di creare una repubblica socialista a Lublino nel 1918. E non ci sembra che la sua azione, prima cul turale e poi politica, fosse lungimirante. Il che non rappresenta colpa: colpa è, se il lettore consente l’espressione, diventare un simbolo della nazione senza aver la forza di far evolvere il pro prio pensiero nel contatto con la realtà.
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L’unico compositore polacco posteriore a Chopin che Paderewski dimostrasse di apprezzare, eseguendone alcune composizioni, fu Zygmunt Stojowski. Stojowski, nato nel 1870, ebbe una forma zione internazionale e visse soprattutto all’estero, diventando cit tadino americano. Nel 1898 vinse, con la Sinfonia in re minore, un concorso di composizione bandito e finanziato da Paderewski, che Paderewski aveva riservato a giovani artisti polacchi e che fece decidere da una giuria riunita... a Lipsia. Stojowski fu però un pianista-compositore, non un sinfonista, la cui fama fu molto favorita dalla sua amicizia con Paderewski. Paderewski gli eseguì anche il Concerto n. 2 op. 32 per pianoforte e orchestra, compo sto nel 1910, ma fece soprattutto diventare popolari, includendoli nel suo repertorio, due pezzi brevi, il Chant d’amour op. 26 n. 3
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e By the brookside : due omaggi al più vieto bozzettismo ottocen tesco, di una media difficoltà molto redditizia che ricorda l’antico «brillante ma non difficile». Nel concorso in cui Stojowski vinse il primo premio, il secondo premio fu assegnato al Concerto in do minore per pianoforte e orchestra di Henrik Melcer-Szczawinski e il terzo ad un trio di Grzegorz Fitelberg. Melcer, nato nel 1869, era pianista dal va stissimo repertorio (eseguiva tra l’altro le trentadue sonate di Beethoven); si era segnalato al Concorso Rubinstein del 1895 con il suo primo Concerto, in mi minore, ed ebbe una carriera inten sissima di compositore, esecutore ed educatore. Ma anche lui, seb bene molto più ferrato e impegnato di Stojowski, era un epigono della cultura mitteleuropea. Il problema di creare una cultura po lacca non isolata dall’Europa e non succube di altre culture era del resto disperante, in un paese economicamente non sviluppato e privo di indipendenza politica. La vicenda creativa di Karol Szy manowski lo dimostra in un modo evidentissimo. Nato il 6 ottobre 1882 a Tymoszówska in Ucraina, da genitori polacchi benestanti, Karol Szymanowski non poteva che iniziare la sua attività creativa sotto il segno della cultura russa, di quella cultura che nell’ultimo decennio dell’Ottocento aveva espresso un artista come Alexander Skrjabin, definito da Ferruccio Busoni «un’indigestione di Chopin». Se per un toscano lucido come Bu soni, che già aveva Chopin in qualche sospetto, Skrjabin era tipo da cui tenersi accuratamente alla larga, per un giovanissimo piani sta-compositore polacco una «indigestione di Chopin» diventava quanto di più seducente potesse esistere in un mondo da cui era appena scomparso Brahms e in cui era appena apparso Debussy. I Preludi op. 1 di Szymanowski, composti nel 1900, prendono dunque le mosse da Skrjabin, ma non dallo Skrjabin che già aveva composto le Mazurche op. 25. Attraverso Skrjabin, Szymanowski risale al vate Chopin e a quella sua fondamentale innovazione tec nica che, adottando una posizione raccolta e appoggiata della ma no destra e una posizione aperta e distesa e ondeggiante della si nistra, aveva strutturalmente collocato su due distinti piani di pro spettiva la melodia e il suo accompagnamento. Ancoratosi tecnicamente ad una gloriosa scoperta del suo antenato polacco e armo nicamente alle morbose maniere di Skrjabin, Szymanowski sparge poi il testo di quelle didascalie che convenivano alla disperazione di fine secolo: «dolce», «dolcissimo», «affettuoso», «sospirando»,
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«mesto», «afflitto», «dolente», «disperato». Ed ha cura di sugge rire il fluttuare della reverie mediante un profluvio di segni di di namica e di indicazioni di movimento, non arretrando neppur di fronte a quel rubato che Chopin aveva adottato solo in gioventù e che pochissimi, dopo Chopin, avevano ancora avuto il coraggio di riprendere. Come se non bastasse, il vibratile Szymanowski si preoccupa di lanciare avvertimenti agli interpreti craponi: «ben marcato la melodia» (dove ci vorrebbe una sensibilità da rinoce ronte, per non capire che lì la melodia è la melodia), «ben mar cato le voci» (dove il passo è talmente pianistico che solo il più inetto dei dilettanti potrebbe fare il pastone), «ben marcato il bas so» (dove il basso ha già di per sé l’energia di una cannonata). La basse liée, n’est-ce-pas?, scriveva negli stessi anni Satie «in un caso dove neppure la più sregolata fantasia potrebbe immagi nare un’esecuzione diversa» (Mila). Satie, con i suoi «consigli» al l’esecutore, di cui La basse liée, n’est-ce-pas è di gran lunga il meno cruento, rovesciava in parodia grottesca la realtà del suo tempo, la realtà a cui il diciottenne Szymanowski si uniformava ingenuamente. Che non era però soltanto il sentimentalismo pic colo-borghese, pur evidentissimo, quanto il lavoro del compositore su parametri del suono non tradizionalmente soggetti a misura precisa - come l’intensità, il timbro, le variazioni della scansione ritmica - che venivano sottratti all’iniziativa dell’interprete. Le fu ture polemiche di Stravinskij contro le licenze degli interpreti non si collocano in realtà entro l’estetica neoclassica, ma nascono dal liberty di fine Ottocento, in cui anche un diciottenne come Szyma nowski fiuta l’esigenza di fissare attraverso la scrittura non un pensiero polivalente destinato ad entrare in un rapporto dialettico con il lettore-esecutore (e quindi con l’ascoltatore), ma la mappa di un oggetto sonoro che toccherà al lettore-esecutore di ricostrui re e di porgere all’ascoltatore. In questo senso, l’atto di nascita di Szymanowski, la sua opera i, colloca subito l’autore tra coloro che svilupperanno la poetica del Novecento, anche se la sua mu sica nasce con tutte le connotazioni dello psicologismo, del salot to, del sentimentalismo piccolo-borghese del tardo Ottocento. L’appartenenza dei Preludi op. i a questo filone della letteratura appare anche evidente dalla loro non elevata difficoltà tecnica. Mentre nel primo Skrjabin la limitatissima difficoltà non è indice di adesione al medium piccolo-borghese, perché Skrjabin è «fred do» e sensuale, non sentimentale, l’intenerimento e la commo-
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zione fanno capolino nello Szymanowski dell’op. 1 e non scompa riranno mai del tutto nella sua produzione pianistica, costantemente segnata non solo dal sentimento ma dalla retorica del sen timento. Nelle Variazioni op. 3 del 1903, nei Quattro Studi op. 4 del 1902 e nelle Variazioni su un canto popolare polacco op. io del 1904 Szymanowski assimila pienamente lo stile del primo Skrja bin e mostra di accorgersi anche di un altro russo, ideologicamen te opposto a Skrjabin, cioè Sergej Rachmaninov. Da Skrjabin, e soprattutto da Rachmaninov, Szymanowski trae l’esempio e lo sti molo per una scrittura pianistica molto complessa, «da concerto», degna di chi intenda porsi, all’inizio del Novecento, come conti nuatore delle tradizioni di Chopin e di Liszt e come «fornitore» dei grandi virtuosi del momento. La Sonata op. 8 (1904) e soprattutto la Fantasia op. 14 (1905) sono composizioni, al confronto con la facilità discorsiva delle op. 1, 3, 4 e io, molto tormentate e faticate. Insieme alla persistente influenza Skrjabin e ad una più profonda conoscenza di Liszt co minciano a farsi sentire gravi preoccupazioni formali: sonata e fan tasia sono indici di una fase di ampliamento degli orizzonti del compositore ventitreenne, ma le nuove acquisizioni non appaiono assimilate e i nuovi problemi non appaiono risolti. Al contrario di quanto era avvenuto con la contemporanea cultura russa, fatta propria con sicurezza ed immediatezza di risultati, Szymanowski procede ora a tentoni, senza punti di riferimento precisi. Il 1905 è l’anno in cui Bartók volge le spalle alla tradizione cul turale nella quale era stato educato, in cui Debussy compone la pri ma serie delle Images e Ravel i Miroirs. Ignaro di ciò che accade a Parigi, Szymanowski potrebbe scegliere tra Skrjabin e Rachma ninov, tra la nuova interpretazione che il primo, con la Sonata n. 5 del 1907, dà dei principi formali della classicità e l’omaggio del secondo, con la Sonata n. 1 del 1907, al costruttivismo tede sco. Szymanowski, diremmo, inclinerebbe verso Rachmaninov, ma... preferisce risalire alla fonte, tanto che si stabilisce a Berlino dove fonda, con Fitelberg, Rózycki e Szeluto, la casa editrice Giovani Compositori Polacchi. L’ideologia nazionalistica porta insomma Szymanowski a spostare i suoi interessi verso la cultura tedesca, cercando al di là delle frontiere dell’impero Russo, in cui la Po lonia è compresa, l’occasione di una alternativa culturale che fian cheggi l’opposizione politica. Questo tipo di scelta segue in realtà
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da vicino quella di Paderewski, con la differenza che Szymanowski, di ventidue anni più giovane di Paderewski, si accosta ad un crea tore tedesco di quarantanni più giovane di Brahms: la Sonata n. 2 (1910-1911) dimostra che sull’orizzonte di Szymanowski è comparso l’astro di Max Reger. Una sonata in due tempi, il primo in forma classica, il secondo in forma di tema con variazioni e fuga. Se si pensa che nel 1908 Bartók aveva terminato le Bagatelle op. 6 e che nel 1911 Schon berg componeva i Seeks Kleine Klavierstucke op. 19 si capisce quanto antistorico fosse il tentativo di Szymanowski di impadro nirsi e di riprodurre le due massime forme della cultura tedesca: il beethoveniano «allegro di sonata» e le brahmsiane «variazioni con fuga». E Szymanowski non tardò, dopo aver studiato la cul tura tedesca, a rivolgersi ad un’altra cultura, quella francese. Le Metopes op. 29 (1915), come i Masques op. 34 di poco posterio ri (1916), dimostrano che sull’orizzonte di Szymanowski sono ap parsi questa volta Debussy e Ravel, e un pochino anche Stravinskij. La prima rivelazione che la cultura francese offre a Szymanowski è che la fonte di una civiltà nuova non può essere rintracciata in una cultura ancora vivente, ma bensì in un mondo mitico, lontano e immaginario come l’Allemonde del Pelléas et Melisande o come la Russia pagana del Sacre: la Grecia omerica, l’Oriente, la Spa gna sono i prodromi della Sicilia a cui Szymanowski approderà con l’opera Re Ruggiero, una Sicilia metastorica in cui si troveranno contrapposti il re normanno e il dio greco Dioniso. Seconda rivelazione, la costruzione a trittico, forma francese e moderna dell’idea antica di sonata: i due trittici di Szymanowski, Metopes e Masques, seguono da vicino i tre grandi trittici di De bussy (Estampes, Images I, Images II) e il trittico di Ravel (Ga spard de la nuit). Da Debussy e da Ravel Szymanowski impara inol tre ad usare la sonorità pianistica in modo più raffinato o, potrem mo dire, più scaltrito (si vedano, come esempi lampanti di tra sposizione di stilemi impressionistici, l’inizio dell’IZc des Sirènes di Metopes e l’inizio di Shéhérazade di Masques'), e dallo Stra vinskij AeU'Oiseau de feu e di Petruska impara ad usare una politonalità che sfrutta la disposizione stessa dei tasti del pianoforte (si veda specialmente l’ultima parte di Nausicaa e l’introduzione della Serenade de Don Juan). Ma le influenze raveliane e stravinskiane diventano fastidiose là dove si fanno sentire più sensi bili (e ciò specialmente in Rantris der Narr e in Shéhérazade): in
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realtà, quando si lascia incantare da Ravel, e non si limita a car pirgli qualche invenzione tecnica, Szymanowski prende per vero ciò che in Ravel è finzione manieristica, ed è allora la retorica dei grandi gesti sonori, che si insinua in tutti i tre pezzi di Masques e, in misura minore, in Nausicaa. Ben diverso il caso delle prime due Metopes, costruite secondo la tecnica romantica del progres sivo aumento di tensione fino al punto culminante seguito da una immediata, improvvisa distensione: anche il pensiero dello Szy manowski maturo riesce ad organizzarsi perfettamente nella for ma già impiegata negli Studi op. 4 (diretta filiazione della forma degli Studi di Chopin, e in particolare dell’op. 25 n. 7, vera ma trice formale di tanta letteratura pianistica di tutto l’Ottocento e oltre), mentre le irrisolte preoccupazioni formali della Fantasia op. 14 ritornano negli altri casi. Gli Studi op. 33 (1916) rappresentano un deciso superamento della fase che si era aperta con il soggiorno a Berlino e che aveva portato, oltre che alla Sonata n. 2, anche alla Sinfonia n. 2 del 1909-1910. I dodici pezzi dell’op. 33 sono denominati «studi» e sono infatti basati in genere sull’esplorazione di formule tecni che tipiche: le quinte sciolte (n. 1), le seconde e le settime (n. 2), le mani alternate (n, 3), le ottave e gli accordi (n. 6), ecc. L’ar monia, politonale come nelle opere 29 e 34, tende alla chiarifi cazione, tanto che alcuni pezzi terminano con l’affermazione di una precisa tonalità. Ma è soprattutto interessante l’organizzazio ne in ciclo dei dodici pezzi, al modo di un polittico di Schumann; organizzazione che non nasce solo dall’obbligo, imposto dall’au tore all’interprete, di eseguire tutti gli studi, ma dal ritorno finale della tonalità dell’inizio e dal gioco di successioni di velocità, den sità e caratteri espressivi diversi. Basta del resto gettare uno sguar do sulle didascalie per accorgersi che il seguito dei pezzi è orga nizzato in ciclo: «presto» (n. 1), «andantino soave» (n. 2), «vi vace assai» (n. 3), «presto» (n. 4), «andante espressivo» (n. 5), «vivace» (n. 6), «allegro molto» (n. 7), «lento assai mesto» (n. 8), «animato» (n. 9), «presto tempestoso» (n. io), «andante soave» (n. 11), «presto» (n. 12). Il concetto di «studio» era già stato ampliato da Chopin a si gnificati molto diversi da quelli dell’«esercizio», e nello studio rien trava non solo l’allenamento tecnico ma anche la ricerca del tim bro. Tuttavia, per quanto ampio sia il concetto di «studio», sareb be difficile dare tale denominazione, se fossero staccati dal conte-
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sto, a pezzi come il n. 5 e il n. 11, che sono funzionali nell’op. 33 per motivi di equilibrio architettonico complessivo del ciclo, non per la loro natura. L’op. 33, che non riprende in realtà le conce zioni sperimentali di Chopin o di Liszt o di Debussy, trova la sua collocazione poetica tra le Métopes e i Masques, e trova la sua collocazione formale nella tradizione schubertiano-schumanniana del ciclo di pezzi brevi. Si nota anzi una certa schematicità nel susseguirsi di quattro piccoli trittici di tipo-sonata (presto-andantino-vivace, presto-andante-vivace, allegro-lento-animato, presto-an dante-presto) e si può supporre — solo supporre, mancando un catalogo ragionato delle opere di Szymanowski - che gli studi ve nissero iniziati prima delle Metopes, che portano un numero d’o pera anteriore. Studi per Metopes e Masques, nel senso di carto ni preparatori per..., e quindi lavori che a parere nostro si iscri vono nell’evoluzione di un creatore, non nell’evoluzione di un’e poca: da cui, riteniamo, la rilevanza storica non assoluta dell’ope ra 33 di Szymanowski di fronte agli Studi di Debussy (1915) e agli Studi op. 18 di Bartók (1918). Dopo i Masques, Szymanowski scrisse la Sonata n. 3 (1917), con la quale applica ad una forma classica la tecnica pianistica e il linguaggio a cui, trentacinquenne, è pervenuto. Non è ancora il tempo del neoclassicismo, sia del neoclassicismo prebeethoveniano della Sonata di Stravinskij (1924), sia del neoclassicismo beethoveniano della Sonata di Bartók (1926). L’inizio della So nata n. 3 di Szymanowski, scritto in un modo che farebbe sup porre un pezzo alla Tombeau de Couperin di Ravel, fa soltanto da elegante lever de rideau ad un tema che ricorda Feuilles mortes di Debussy e che sarà seguito da episodi di scrittura virtuosi stica ottocentesca. Forte di una raggiunta maturità nell’impiego di un linguaggio armonico personale, Szymanowski intende riper correre la storia del suo strumento e, più in generale, intende ri prendere l’idea ultima di Beethoven, la sonata come sintesi storica che unisce i principi del bitematismo classico e della fuga baroc ca, aggiungendovi l’idea lisztiana della fusione in un continuum dei quattro tempi tradizionali per scrivere una sonata di taglio formale lisztiano che si conclude con una fuga monumentale. Opera di smisurata ambizione, a cui manca la forza della crea zione poetica assoluta ma non la lucidità e la coerenza dei propo siti, la Sonata n. 3 chiude il lungo e tormentato cammino di Szy manowski fra le tre culture, la russa, la tedesca e la francese. Sette
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anni dopo, nel 1924, Szymanowski inizia a comporre le ventidue Mazurche op. 50, che terminerà nel 1925 ed alle quali farà solo più seguire una Valse romantique (1925), quattro Danze polac che (1926) e due Mazurche (1933-1934). Nelle mazurche, in mo do del tutto logico, troviamo quella scelta ideologico-stilistica che Szymanowski non aveva saputo o voluto compiere nel 1905: la scelta di Bartók, il canto nazionale analizzato in sé e non più in rapporto con la tradizione colta. Szymanowski aveva guardato a Bartók, di sfuggita, solo nel terzo e nel sesto studio dell’op. 33. Nelle Mazurche op. 50 egli accetta di compiere ponderatamente quel passo che Bartók aveva compiuto con audacia infinita e che lo aveva fatto passare dalla Rapsodia op. 1 alle Bagatelle op. 6. Meglio tardi che mai, si dovrebbe dire. Ma sarebbe sciocco dirlo. E sarebbe superfluo dire che Szymanowski non era Bartók: ci fu disparità di ingegno, forse, ma ci fu anche disparità di condizioni, perché l’Ungheria aveva avuto il vecchio Liszt, prima di Bartók, mentre la Polonia non aveva mai sviluppato la lezione di Chopin, scomparso prima della metà dell’Ottocento. Polacco nato in Rus sia e suddito dello zar, Szymanowski non è il fondatore di un nuovo regno ma il profeta che intravvede una Terra Promessa prima di morire. Olandese volante, giunge a conoscere l’amore che lo redime. E contribuisce, per primo, a far uscire la cultura polacca dalle posizioni cosmopolitiche, e soggette all’egemonia di altre culture, di Paderewski. Non abbiamo finora parlato dell’ultimo ambizioso lavoro in cui Szymanowski impiega il pianoforte, la Sinfonia n. 4 o Sinfonia concertante op. 60 (1932), perché non si tratta in realtà del tra guardo conclusivo di una ricerca ma di un’opera dettata almeno in parte da preoccupazioni di carriera. Szymanowski scrisse la Sinfonia concertante per eseguirla egli stesso (aveva scoperto, co me Stravinskij, che i compensi di un concertista sono assai più elevati di quelli di un compositore) ed era evidentemente preoc cupato di costruire un pezzo di livello virtuosistico adeguato agli scopi. Negli stessi anni Bartók componeva il difficilissimo Con certo n. 2 senza rinunciare a nulla di ciò che aveva stilisticamen te e poeticamente conquistato negli anni venti; ma Szymanowski non era altrettanto geniale e maturo e non era altrettanto padrone della tradizione virtuosistica, cosicché compose un lavoro abilmen te congegnato ma in cui la contaminazione tra il canto popolare e gli stilemi concertistici tradizionali resta a parere nostro tale.
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Qualche chiaro riferimento al Concerto n. 3 di Prokofiev emerge inoltre in più momenti, e la Sinfonia concertante, in conclusione, si colloca su un piano ideologicamente e stilisticamente meno avanzato di quello che era stato raggiunto con le Mazurche op. 50. Nessun altro compositore polacco della prima metà del secolo è comunque, quanto Szymanowski, interessante per la cultura eu ropea. Tra i suoi compagni della prima ora, tra i soci fondatori della sua casa editrice, Fitelberg si dedicò soprattutto alla dire zione d’orchestra, Szeluto non emerse mai dall’anonimato, e Ludomir Rózycki, fecondissimo autore di musiche pianistiche all’ini zio del secolo e che più tardi scrisse due concerti, compì un cam mino inverso a quello di Szymanowski, rifluendo da posizioni di relativa avanguardia verso le posizioni di Paderewski. Più gio vani del Szymanowski e dei suoi amici, altri compositori si segna larono invece nel decennio che precedette la Seconda Guerra mon diale. Nel 1932, al festival di musica polacca che si tenne a Parigi, Pavel Kochanski eseguì il Concerto n. 2 per violino di Szyma nowski e Alfred Rubinstein eseguì quattro mazurche di Alfred Gradstein. «Sebbene moderne, le mazurche conservavano il ca rattere polacco più autentico», scrive Rubinstein nell’autobiogra fia, e aggiunge che «Paderewski e Cortot assistevano al concerto in un palco e furono molto impressionati dal talento di Gradstein». Si può capire perché Gradstein piacesse a Paderewski: aveva stu diato a Varsavia con Statkowski e Melcer, e a Vienna con l’auto re del Concerto romantico, Joseph Marx. Malgrado l’interesse di così illustri pianisti, Gradstein non ottenne però il successo mon dano a cui aspirava. L’ottenne invece Alexander Tansman, pariginizzato al punto da assumere la cittadinanza francese. Tansman, pianista-compositore di grande successo, scrisse anche musiche al la polacca, tra cui due raccolte di mazurche; fu però più noto per i suoi flirts con il jazz (Trois Preludes en forme de Blues, e soprat tutto Sonatine Transatlantique, un tempo molto diffusa) e per il Concertino, che contiene un Intermezzo Chopiniano. Gradstein e Tansman vivevano a Parigi, che tra le due guerre, e specialmente tra il 1930 e il 1939 fu una specie di succursale di Varsavia o di capitale di rappresentanza della musica polacca. Oltre a Rubinstein e alla Landowska, che vi risiedevano, capita vano spesso a Parigi Paderewski e Szymanowski, vi abitarono e vi studiarono molti giovani compositori. Avevamo citato il sog
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giorno a Berlino di Szymanowski, ma avremmo potuto ricordare molti altri musicisti polacchi che agli inizi del secolo avevano studiato nella capitale prussiana. Nel dopoguerra i polacchi si orientarono preferibilmente, per gli studi all’estero, su Parigi e sull’Ecole Normale de Musique in cui insegnavano la Boulanger e Dukas, ed a Parigi venne fondata la Società dei Giovani Musi cisti Polacchi di cui fu segretario Michal Kondracki, allievo di Szymanowski in patria e della Boulanger all’Ecole; presidente della Società fu un altro allievo della Boulanger, Antoni Szalowski, vicepresidente fu Michal Spisak. Tutti questi giovani artisti scris sero musiche per pianoforte che risentivano e della loro origine etnica e dell’estetica del neoclassicismo. Il Kondracki, in parti colare, si segnalò nel 1935 con un Concerto per pianoforte e or chestra che, sposando il folclore polacco e lo stile pianistico percussivo che andava di moda a quel tempo fece un po’ sensazione; ma del concerto di Kondracki, la cui partitura andò perduta du rante la guerra, ci si può fare un’idea solo dalle recensioni. Vicini alla lezione di Szymanowski e residenti a Parigi furono Piotr Perkowski, Tadeusz Zygfryd Kassern, autore di due sonate con titoli programmatici, Orawska e Kol^dawa, e Karol Rathaus, che aveva studiato a Vienna e a Berlino: Rathaus, con le Mazur che op. 24, del 1929, mostrava di essere tra i primi a capire l’im portanza delle mazurche di Szymanowski. Con la Boulanger stu diarono Tadeusz Szeligowski, Boleslaw Woytowicz e Grazyna Bacewicz, che tra le due guerre scrisse vari lavori per pianoforte, ma che fu soprattutto violinista concertista. E a Parigi furono Jerzy Fitelberg, che aveva studiato a Berlino, e Roman Palester. L’unico musicista di rilievo che non si recasse per motivi di studio a Parigi fu Józef Koffler, che era stato allievo a Vienna di Schonberg e che era il solo, tra i giovani polacchi, ad essere orien tato verso Bartók e verso Schonberg. Nei 40 Canti popolari po lacchi del 1926 Koffler teneva conto del modo in cui Bartók e Kodàly avevano considerato anni prima i canti romeni, transil vani, ungheresi, nella Sonatina del 1931 impiegava il metodo do decafonico. Ma i risultati più personali Koffler li otteneva con la Musique quasi una sonata e con le spiritose e un po’ malvage Variations sur une Valse de Johann Strauss op. 23, del 1936. Koffler morì durante la guerra, Spisak, Szalowski e Fitelberg non rientrarono in patria. Sebbene la Società dei Giovani Musici sti Polacchi non chiudesse i battenti, i legami della Polonia con
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la cultura parigina si allentarono, sia a causa della guerra che, nel dopoguerra, della situazione politica. Durante la guerra si rivelò il talento di Witold Lutoslawski, che culturalmente si era forma to in patria. Di Lutoslawski, in questa sede, possiamo però ricor dare soltanto le Variazioni su un tema di Paganini per due piano forti, composte nel 1941 e trascritte per pianoforte e orchestra nel 1978. Un altro compositore formatosi in Polonia, Artur Malawski, compose nei primi anni del dopoguerra due ambiziosi la vori: gli Studi sinfonici per pianoforte e orchestra (1947) e la Toccata e fuga in forma di variazione per pianoforte e orchestra (1949). Boleslaw Szabelski, un allievo di Szymanowski che non aveva studiato all’estero, compose nel 1946 un Concertino per pianoforte e orchestra, e Tadeusz Szeligowski ottenne un premio, con una sonata per pianoforte, nel concorso di composizione che nel 1949 venne affiancato alla ripresa del Concorso Chopin di esecuzione. Per alcuni anni il problema dello stile nazionale e del canto popolare venne sentito dai compositori polacchi in un mo do che risentiva delle teorie sovietiche sul realismo socialista, ma dopo il 1950 i contatti con l’Occidente ripresero intensamente e, com’è ben noto, i polacchi acquistarono la posizione di punta avan zata della musica con temporanea tra i paesi socialisti. I composi tori che si dedicarono al pianoforte non furono però molti, e al cuni, dopo aver iniziato come pianisti e autori di musica piani stica, dimostrarono poco o nessun interesse per lo strumento. Pianisti erano Kazimierz Serocki e Henryk Górecki, che si oc cuparono del pianoforte agli inizi della carriera e che vi ritorna rono solo assai più tardi e di rado: di Serocki sono notevoli Forte e Piano per due pianoforti e orchestra (1967), pagina che ripren de la lezione di Bartók sul rapporto tra il suono del pianoforte e le percussioni e che prelude a Fantasmagoria per pianoforte e percussioni. Pochissimi lavori pianistici scrissero Tadeusz Baird, Krzysztof Penderecki, e due compositori polacchi assai noti, re sidenti all’estero: Roman Palester e Andrzey Panufnik. Una pro duzione pianistica complessivamente ricca è quella di Grazyna Bacewicz, della quale acquistò una certa notorietà internazionale la Sonata n. 2 del 1953, opera in sostanza eclettica ma scritta in modo efficace per la sala di concerto. L’abitudine ad affrontare di rettamente il pubblico è per la Grazyna una guida sicura, come lo era stata per Paderewski, sia nella Sonata n. 2, che risente di Bartók e soprattutto di Prokofiev, sia nei io Studi da concerto
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del 1956. L’ultimo lavoro pianistico della Bacewicz, il Piccolo trittico del 1963, dimostra un interesse, che a parer nostro resta del tutto in superficie, per i Klavierstucke di Stockhausen. Due pianisti, Woicjech Kilar e Boleslaw Woytowicz, ottengo no notorietà in patria, il primo con la Sinfonia concertante del 1956, il secondo con la Sinfonia n. 3 del 1963, scritta dopo un lungo silenzio e che dimostra un tardivo «aggiornamento» di un musicista giunto ormai a sessantaquattro anni di età. Per comple tare il quadro citeremo ancora alcuni più giovani compositori, le gati alle avanguardie internazionali: Witold Szalonek, Andreej Dobrowolski, che scrive nel 1972 la Ntusik per nastro registrato e pianoforte, Zygmunt Krauzes e Tomasz Sikorski. La Polonia ha oggi alcuni compositori regolarmente e frequen temente eseguiti in tutto il mondo: basti pensare a Lutoslawski, a Penderecki, a Górecki. Non si può tuttavia parlare di evoluzio ne della cultura polacca, all’incirca negli ultimi trent’anni, attra verso il pianoforte, perché in Polonia, come del resto in molti paesi, il pianoforte ha cessato di essere una sorta di microcosmo, di laboratorio sperimentale del linguaggio. Noi non possiamo dun que tentare un bilancio, non possiamo cercar di capire come si sia sviluppata di recente quella vicenda che abbiamo invece potuto seguire, sia pure in modo settoriale, fino alla seconda guerra mon diale. Fino a quel momento, come abbiamo visto, la musica po lacca è dominata da una figura che, nel suo contesto, risulta tanto grande quanto... ingombrante: Chopin. Nel 1830, quando Cho pin esce dalla Polonia, la società polacca, ancor priva di istitu zioni sinfoniche pubbliche o private, era tutta orientata verso il pianoforte come strumento per far musica in casa e verso il tea tro come tribuna di diffusione delle idee. Si è spesso scherzato sulle esortazioni di Elsner a Chopin. Ci sembra che siano invece da leggere molto seriamente: Vorrei proprio restare in hac lacrymarum valle quanto basta per ascol tare un’opera da te composta, un’opera di cui non si gioverebbe soltanto la tua gloria ma anche il patrimonio dell’arte musicale, soprattutto se il soggetto di quest’opera fosse tratto dalla storia nazionale polacca. Non esa gero affatto; primo-, tu sai che non so adulare; secando-. conosco (oltre al tuo genio) le tue capacità, e come critico delle tue Mazurche ritengo che queste capacità non potranno dare la loro piena misura che nell’opera ed ottenere così una gloria eterna. Un lavoro per tastiera (ha detto Urban) sta a un lavoro per canto o per altro strumento come la stampa sta a
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un quadro. È la verità, sebbene certe composizioni per pianoforte e soprat tutto le tue, quando le esegui tu stesso, ben valgano certe luminose stampe in rame (lettera del 14 settembre 1834).
Elsner non s’accorgeva di un fenomeno che si stava del resto appena delineando: accanto al pianista-compositore stava sorgen do negli anni trenta il pianista-interprete, che avrebbe garantito la sopravvivenza delle opere del pianista-compositore. Tre anni pri ma, il 27 novembre 1831, Elsner aveva espresso posizioni criti che ancor più antiquate: «La gloria di cui Mozart e Beethoven godettero un tempo come pianisti è tramontata da un pezzo, e le loro composizioni per pianoforte, malgrado la permanenza dei valori classici che posseggono, sono state abbandonate in favore di opere di una nuova concezione. Ma quelli dei loro lavori com posti non punto per un solo strumento, le loro opere, le loro me lodie, le loro sinfonie sono vive tra noi e sussistono a lato delle produzioni dell’arte le più moderne d’oggi». Anche queste posi zioni critiche sarebbero crollate con l’affermarsi del pianista-inter prete e dello storicismo. Elsner aveva quindi il torto di presen tare a Chopin dei sillogismi basati su premesse non più reali. Ma non si può non osservare che, come appartenente ad una cultura nazionale in via di formazione, egli aveva ragione; e non si può non notare che Glinka, dopo aver aderito al Biedermeier piani stico, nel 1834 cominciava a comporre La vita per lo zar.16 Come già abbiamo detto, la Polonia trovò in Chopin una gloria nazio nale, non il fondatore di una cultura. E lo sviluppo della cul tura polacca fu molto limitato e lento, sebbene altri musicisti dopo Chopin, seppur ad un livello minore, ottenessero fama e riconoscimenti internazionali. Il problema di una cultura polac ca si pone veramente quando viene raggiunta l’indipendenza po litica, con Szymanowski e con i compositori di lui più giovani che operano a Parigi. Si pone con più forza nel secondo dopoguerra. 16 Si può anche citare una lettera a Chopin del poeta Witwicki, nella quale il messaggio è indirizzato al personaggio sbagliato, ma che non è per ciò meno giu sto: «Sono persuaso che l’opera slava chiamata alla vita da un vero talento, da un compositore pieno di sentimenti e di idee brillerà un giorno nel mondo mu sicale come un nuovo sole, e forse si innalzerà persino al di sopra di tutte le altre e avrà tanta melodia come l’opera italiana, ancor più sentimento e incom parabilmente più pensiero. Ogni volta che ci penso, caro signor Fryderyk, mi cullo nella dolce speranza che Lei sarà il primo che saprà scavare nei vasti te sori della melodia slava. [...] Cerchi le melodie popolari slave come il minera logista cerca le pietre e i metalli nelle montagne e nelle valli» (6 luglio 1831).
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Ma a quel punto si possono solo più citare alcuni o più lavori per pianoforte, non un indirizzo di cultura che si delinei in cam po pianistico con un minimo di compiutezza. Il discorso, per noi, è dunque tronco: nella Terra Promessa intravista da Szymanowski, il pianoforte polacco non ci arriva mai.
Opere citate:
S. Burhardt: Polonaise thematic cataloghe, voi. n, Cracovia 1976. F. Chopin: Correspondence, Parigi 1953-1960, ed. definitiva, ivi 1982. A. Gide: Notes sur Chopin, Parigi 1949, 11 ed. E. J. Hipkins: How Chopin played. From Contemporary Impressions Col lected from the Diaries and Note-books of the late A. J. Hipkins, Lon dra 1937. J. Klecziriski: Chopins Greater Works. How they should be understood, Londra 1898. Le Pianiste, ristampa anastatica, Ginevra 1972. Z. Lissa: Le style national des oeuvres de Chopin, in Annales Chopin 2, Varsavia 1958. S. Lobaczewska: L’apport de Chopin au romantisme européen, in Annales Chopin 2, Varsavia 1958. H. Opieriski: L J. Paderewski. Esquisse de sa vie et de son oeuvre, Lo sanna i948A. Rubinstein: My many years, New York 1980. R. Schumann: La musica romantica, Torino 1950. I. Valletta: Chopin. La vita. Le opere, Torino 1923, 11 ed.
Nascita, infanzia e prime gesta del pianoforte romantico *
Volendo parlare del pianoforte romantico bisogna innanzitutto conoscere, o cercar di definire i termini cronologici che possono ragionevolmente delimitare l’età romantica. Anche senza resusci tare la vetusta e vuota domanda, se Beethoven sia da considerare classico o romantico, non è facile dire se l’età romantica inizi in un certo anno o non piuttosto in un certo altro, quando tacita mente si supponga che classicismo e romanticismo si susseguono così come l’Ottocento segue il Settecento o come la lama segue l’impugnatura. È più facile distinguere classicismo e romantici smo se ad essi si pensa come a fatti non consequenziali ma com plementari: non lama e impugnatura, ma lancia e scudo. Si può allora dire che il romanticismo comincia quando la classicità non è ancora finita, e si può dir romantico Weber e classici Beethoven e Schubert senza spaventarsi per il fatto che Weber muore prima e di Schubert e di Beethoven. Rebus sic stantibus - ma il lettore può benissimo pensarla altri menti - faremo cominciare la letteratura romantica del pianoforte dal 1821, anno in cui Weber mette al mondo un Concertstùck che non sfigura nel paragone con l’ultimo concerto classico, {'Impera tore di Beethoven. E tanto più fisseremo la data di nascita del romanticismo pianistico al 1821 in quanto proprio in quell’anno il costruttore Sebastien Érard inventa un congegno, detto «doppio scappamento», che modifica in modo non marginale la meccanica del pianoforte classico. Nel decennio 1821-1830 cadono altri acca dimenti ancora, che creano un nuovo panorama e per lo strumen to e per la sua letteratura: ad esempio, Chopin comincia a com porre gli Studi op. io e Mendelssohn le Romanze senza parole op. 19, Henry Pape brevetta la copertura del martelletto con fel* Maggio Musicale Fiorentino, Firenze 1983.
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tro invece che con pelle ed Alpheus Babcock brevetta un telaio metallico. Se si risale più indietro si possono trovare episodi... preistorici di formazione della letteratura e del pianoforte roman tici: già la Sonata op. 39 di Weber, nel 1816, si apre con un tre molo di la bemolle al basso che basta da solo a segnalarci un’auro ra, e già verso il 1813 il costruttore James Broadwood comincia ad inserire nel telaio di legno delle barre metalliche di tensione, varcando le colonne d’Èrcole di una mesalliance tra la nobiltà del legno e la viltà del metallo che aveva sempre ferito gli spiriti bel li, molto sensibili agli incanti dell’antica liuteria. Dopo il 1830, spariti dalla scena del mondo Beethoven e Schu bert ed entrativi Chopin e Schumann, affermatosi il pianoforte con telaio misto legno-metallo, con martelletto ricoperto di feltro e con «doppio scappamento», non si parla più di classicità e di romanticismo ma solo di romanticismo: lo scudo è ormai tutto istoriato e della lancia è già stata forgiata la punta. La punta della lancia, una punta che ferisce e guarisce come quella di Parsifal, ha un nome: pedale di risonanza. Non sarà inopportuna una piccola digressione. Il romanticismo pianistico, per essere coerente fino in fondo con se stesso, avrebbe dovuto operare una riforma che invece non operò: avrebbe do vuto chiedere ai costruttori di rovesciare il funzionamento del mec canismo che comanda il sollevamento simultaneo di tutti gli smor zatori, il pedale di risonanza. Quando il pianista preme il pedale di destra tutti gli smorzatori si sollevano e - tra l’altro - i suoni si arricchiscono delle vibrazioni di «risonanza per simpatia» e la loro durata non viene più comandata dalle dita ma dal piede. Nella musica romantica la percentuale di momenti nei quali il pe dale viene premuto è elevatissima, sicuramente superiore al 90%; e allora, secondo una logica utilitaristica, sarebbe stato più ragio nevole lasciare sempre sollevati gli smorzatori e far pigiare il pe dale al povero pianista quando gli smorzatori devono cadere. Trop po semplice, troppo utilitaristico, troppo rivoluzionario. E i ro mantici, che pure rivoluzionari erano, una rivoluzione così non riuscirono ad immaginarla, cosicché e loro agitarono e noi agitia mo il piede destro in un modo convulso che, a guardar la gestua lità pianistica con distaccata freddezza, sembra quanto mai disdi cevole. In realtà, noi non sappiamo bene come venisse usato il pedale di risonanza ai tempi di Mozart e ai tempi di Beethoven, ma non
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troviamo comunque alcuna indicazione per il pedale in tutta l’ope ra pianistica di Mozart e troviamo non più di duecentonovantotto segni per il pedale di risonanza nelle trentadue sonate di Beetho ven: ne troviamo trecentosei nei due Notturni op. 32 di Chopin. Nel Supplemento al suo grande Metodo op. 500, che intende essere il completamento storico-stilistico del trattato di manuali stica, Carl Czerny, allievo di Beethoven e maestro di Liszt, ci di ce che dopo il 1830 «mentre i toni di una melodia semplice ven gono nelle corde di mezzo fortemente percossi, e tenuti nel loro suono mediante il convenevole uso del pedale, i diti possono ese guire piano delle figure brillanti col tocco dolce in tutte le ottave, e ne risulta lo stupendo effetto come se la melodia fosse eseguita da qualche altro sonatore o su di un altro strumento» (trad, del 1850 circa). In un articoletto pubblicato dal periodico «Le Pianiste» nel 1834 troviamo i fantasmi di Clementi e di Weber, ri tornati dall’aldilà dopo aver pagato il pedaggio a Caronte, che ascoltano il concorso annuale di pianoforte del conservatorio di Parigi e trovano a ridire su tutto e specialmente su una cosa che li indigna: «Weber: “Ma si direbbe che il pianoforte non abbia smorzatori”; Clementi: “Lo credo bene: non molla mai il peda le; che baccano! ai miei tempi...”». L’uso del pedale di risonanza quale fu inventato dai romantici rappresenta dunque un’autentica rivoluzione non solo nel gusto ma nella percezione, una rivoluzione che, cum grano salts, possia mo forse paragonare all’invenzione del cinematografo. Così come la macchina da presa offre la possibilità di percezione visiva con quei mutamenti di angolatura e di distanza che il teatro non con sente, il pedale di risonanza aumenta la possibilità di compresenze di eventi sonori diversi, percepiti con minore nitidezza e in modo anche discontinuo, ma superiori di numero e di qualità timbrica a quelli che la classicità sapeva far intendere. La copertura in feltro del martelletto, essendo il feltro più spesso e più elastico della pelle, dà modo di diversificare di più i modi di eccitazione della corda (che è anche più grossa perché, con il telaio rinforzato, è più tesa). Un altro attento teorico e storico, Francois Fétis, si accorge subito di ciò quando parla, nel 1837, della «formazione del suono», riscontrabile già in Hummel e specialmente in Moscheles, che «ha molte maniere diverse di attaccare la nota, in ragione dell’effetto che vuole produrre». Giusta l’osservazione. Ma Moscheles non era precisamente un
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romantico dei ruggenti anni trenta: anzi, negli anni trenta la sua stella di pianista-compositore, che aveva brillato di vivissima luce tra il 1815 e il 1825, stava sempre più impallidendo, mentre sta vano sfolgorando le stelle di Liszt e di Thalberg, che non solo conoscevano gli attacchi differenziati del tasto alla Moscheles. ma the pigiavano come dannati il pedale di risonanza, mentre Mo scheles, esecutore educato classicamente, il pedale lo usava poco e in modo non strutturale ma ornamentale. Il romanticismo pianistico è rappresentato per noi, oggi, da Chopin e da Schumann, con raggiunta di due più piccole figure, Weber e Mendelssohn, e con Paggiunta sì di Liszt, ma di un Liszt di Weimar che in realtà nasce dopo la morte di Chopin. Sappia mo anche che Schumann e Chopin erano poeti, ed amiamo anzi vedere in Chopin il «poeta del pianoforte». Ora, negli anni trenta e quaranta dello splendido - pianisticamente - secolo xix, Chopin e Schumann non furono solo poeti nelPequazione poesia-arte pura, ma anche nello status sociale del poeta, vate che parla alPumanità, non alle folle. I teatranti, gli uomini di spettacolo, gli attori e gli scenografi e i luminotecnici del pianoforte furono verso il 18301840 i Liszt e i Thalberg e gli Henselt e i Taubert e i Dreyschock e i Willmers e i Dohler. Gli odierni adoratori del pianoforte, che son legioni, non si preoccupano certamente di celebrare i centenari e i centocinquan tenari della nascita o della morte o della prima comunione di Dohler, ed è già tanto se qualche spirito bizzarro tratta con un certo rispetto Thalberg. Gli odierni adoratori della danza, legioni anch’essi, si prostrano per converso nel ricordo di Maria Taglioni e di Fanny Elssler e son persino disposti a rivendicare i meriti singolari di Amalia Brugnoli e di Pauline Duvernay. Perché? Per ché Maria Taglioni vive nella prosa delirata dei contemporanei e in qualche stampa che arresta l’attimo fuggente, mentre Thalberg e Dohler sono soggetti alla verifica delle musiche che, i malcauti!, diedero alle stampe. Eppure quelle musiche, lette in chiave non solo estetica ma anche sociologica, considerate come specchio del tempo invece che come scheggia di eternità, ci dicono che furono Thalberg e soci a generare noi quale classe di ascoltatori votata al culto di Chopin e di Schumann. Beethoven non s’azzardò in tutta la vita ad eseguire una sua sonata per spettatori che avessero pagato un biglietto d’ingresso
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in una pubblica sala, Mozart vi si azzardò pochissime volte. Le duemila persone circa che entravano a pagamento in un teatro, e che si comportavano assai più come ragazzini alla gita campestre che come pellegrini in visita ad un santuario, erano nel 1830 di sposti ad emozionarsi con la Malibran e con Rubini, non con un uomo in nero seduto di fronte ad un nero cassone. Si ricredettero quando, dal nero cassone, Tuomo in nero fece uscire le voci della Malibran e di Rubini e il coro e l’orchestra e le scene e i costu mi: «Thalberg (fuori evento sinistro) suonerà senza dubbio il 7 corrente; adunque sentirete come un piano può far l’effetto d’una Orchestra. Si darà in teatro il concerto e si paga un fiorino. Eh! Perbacco, se non venite per questo, non so per chi vi moverete», scriveva Donizetti all’amico Antonio Dolci, il 4 dicembre 1841. Il pianoforte diventava macchina da presa anche per questo: con Chopin e con Schumann creava un’arte nuova, con Liszt e con Thalberg catturava una realtà. Il pianoforte era sempre servito per l’esecuzione casalinga delle opere, ma in una dimensione utilitari stica, non spettacolare. Quando invece il pubblico ascoltava «Dal tuo stellato soglio», nella Fantasia sul «M.osè» di Thalberg, con «la bella e larga melodia, che a ogni strofa s’accresceva di forza, emergeva sotto il torrente degli arpeggi» (Marmontel), o quando ascoltava il Sestetto della Lucia di Lammermoor nella parafrasi di Liszt, ritrovava nel pianoforte i colori bronzei, smaltati, vellutati delle voci, e i mormorii e le ventate dell’orchestra, l’incanto di una rappresentazione coinvolgente, di un magico teatro che si era rin novato nell’estetica e che aveva persino adottato l’illuminazione a gas. Nella variazione su temi d’opera, precedente al 1830, la melo dia, espressiva, e la sua trasformazione, virtuosistica, restavano se parate: dopo il 1830 espressione e variante virtuosistica vengono riunite e sovrapposte. L’evoluzione del pianoforte è dunque pa rallela all’evoluzione della danza, che verso il 1830 fonde il mo mento mimico-espressivo e il momento ginnico-atletico, prima se parati, facendo del movimento corporeo l’espressione simbolica di una grazia in cui si manifesta una irreale dimensione della vita. E se il pianoforte intimo di Mendelssohn inventa la romanza senza parole, il pianoforte spettacolare di Liszt inventa una specie di opera senza parole, creando una dimensione della musica strumen tale che non è quella della «musica pura» dei classici. Musica per pianoforte solo è una sonata di Beethoven, musica
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per pianoforte solo è una fantasia drammatica di Thalberg: che differenza c’è (a parte il valore estetico-musicale)? C’è una diffe renza enorme, che, ahinoi!, stentiamo a cogliere. La sonata non fa riferimento che a se stessa, la fantasia drammatica fa riferimento ad altro; la prima è musica strumentale in sé, come un albero è un albero, la seconda è un cavaliere tramutato in albero da un in cantatore. Con la fantasia drammatica la musica strumentale acqui sta per un momento, e non perderà mai più, una dimensione ma gica, e in quanto tale entra nella coscienza di un pubblico non cul turalmente preparato ad accogliere non solo Beethoven e Schubert, ma neppure Chopin e Schumann. Il pianoforte - il pianoforte da solo, senza l’orchestra - acqui sta così quel diritto di cittadinanza nei teatri che era stato, prima, del solo melodramma. E questa sua stagione, appoggiata alle fan tasie su temi di opere teatrali, dura vertiginosa da circa il 1835 a circa il 1850, avendo come massimo centro propulsore la città di Parigi. Il fenomeno ha diffusione internazionale, ma non a ca so s’irradia da Parigi, dal centro che per primo, nel continente, impone la monarchia costituzionale ed apre le porte del potere alla borghesia. L’identificazione del pianoforte come strumento della borghesia è antica e sostanzialmente esatta. Ma si può anche fare una distinzione e dire che per la classicità viennese il pianoforte è lo strumento Aufklàrung, mentre solo con il romanticismo diventa lo strumento della borghesia, così come quel particolare tipo di concerto pubblico che si chiama recital, di cui il pianofor te è protagonista massimo, è l’istituzione partecipativa che la bor ghesia si crea per godere la musica strumentale. Il recital, che nasce nei teatri ma che si trasferisce presto anche in grandi sale, crea dapprima e poi muta i suoi contenuti. E qui il merito maggiore va attribuito a Liszt, che non è il solo a gene rare una nuova classe di ascoltatori, ma che è quasi il solo a por re le basi di un repertorio. Il primo scopo di Liszt - la sua trascrizione della Sinfonia fan tastica di Berlioz è del 1833 - è di usare del pianoforte, e di quel grande contenitore di pubblico che è il teatro, per far conoscere le opere sinfoniche: Berlioz, alcune sinfonie di Beethoven, alcune ouvertures di Weber vengono da Liszt fatte ascoltare in centri non dotati di orchestre sinfoniche ed a pubblici che non ne so spettano neppure l’esistenza. La trascrizione, che Liszt chiama partition de piano, partitura per pianoforte, procede su binari af
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fatto diversi da quelli della fantasia su temi d’opera. Là lo scopo era spettacolare, qui è didascalico, là alcuni momenti salienti veni vano collegati in una forma creata ex-novo, qui la forma originale viene fedelmente riprodotta, là il trasferimento dalla voce allo strumento recuperava per suggestione l’incanto della parola e del la vocale, qui il trasferimento da strumento a strumento non ne cessita d’altro che di pochi adattamenti tecnici, là l’ornamenta zione avvolgeva voluttuosamente la melodia, qui nulla viene aggiun to, là il suono del pianoforte plasmava barocche volute, qui mette a nudo la struttura profonda delle linee. In una melodia vocale affi data al pianoforte la mancanza di «tenuta» del suono pianistico, il suo diminuire dopo l’attacco finiscono per caricare di significato e di forza espressiva ogni suono: la frase acquista una tensione in consueta, procedendo come per sussulti invece che per espansione. In un tema sinfonico di Beethoven o di Weber affidato al piano forte vengono invece messi in evidenza, come in una radiografia, i rapporti strutturali tra i suoni successivi. La trascrizione di Liszt non è quindi, soltanto, mezzo di propagazione della musica sinfo nica, ma è mezzo di analisi, che non è sostitutivo della versione originale ma che non è neppure, rispetto a quella, parassitario. E si capisce perciò come oggi, nel momento in cui le versioni ori ginali delle opere sinfoniche sono disponibilissime in disco, vada no lentamente riprendendo quota le trascrizioni per pianoforte di Liszt (e non solo di Liszt): perché la percezione che esse permet tono rivela dimensioni che sfuggono all’audizione sinfonica, e che semmai possono esser colte alla lettura. Nel suo rapporto con il pubblico Liszt trova dunque modo di ricreare il teatro e il concerto sinfonico. E trova modo di ricreare il salotto intellettuale in cui era nata e stava continuando a cre scere la musica pianistica dei grandi spiriti. Può sembrar parados sale, ma un lavoro oggi popolarissimo come gli Studi sinfonici non era ritenuto da Schumann adatto all’esecuzione in pubblico,... non senza una celata speranza che i tempi potessero cambiare: «... non li ho scritti per il pubblico e sarebbe assurdo pretendere che il pubblico li capisca. Eppure confesso che se un giorno il pubblico dovesse sbattere la testa contro il muro, in un delirio di ammira zione, sarebbe per me una grande gioia» (lettera a Clara Wieck, 1838). Del Carnaval, oggi più popolare ancora degli Studi sinfo nici, Schumann scrisse, quando lo udì eseguire a Lipsia da Liszt, in pubblico, nel 1840: «Se parecchie cose possono eccitare questo
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o quell’uditore, le sensazioni musicali mutano però troppo rapida mente perché un intero pubblico, che non vuol essere disturbato ad ogni minuto, possa seguirle. Il mio amabile amico non aveva preso in considerazione tutto questo e per quanto suonasse con grande partecipazione e genialità, non potè sollevare Finterò pub blico, ma forse colpire qualcuno in particolare». Sorpreso dapprima, e dapprima riluttante, il pubblico, che nel pianoforte aveva amato la capacità di ricreare e il melodramma e la sinfonia, cominciò poi ad amare nel pianoforte la letteratura propria del pianoforte: Beethoven, Weber, Mendelssohn, Chopin, Schumann. Quando Liszt, poco prima della metà del secolo, ab bandonò il concertismo, la fantasia e la trascrizione avevano già ceduto il passo alla poesia. Se lo spazio ce lo consentisse, a dire il vero, ci sarebbe da di scutere a lungo: nel passaggio dal salotto alla sala di concerto si verificò una sorta di transfert e la poesia, che subentrava alla fan tasia su temi d’opera, venne molto probabilmente drammatizzata e «teatralizzata». Ma questo è un tema difficilissimo da trattare e che, in fondo, non modifica il giudizio. La fantasia drammatica, creando una classe di ascoltatori, pone le basi del recital, del con certo sostenuto da un pianista. La ricerca di valori, che si sviluppa nell’attività di critico di Schumann e nell’attività di concertista di Liszt, determina la configurazione che il recital ha mantenuto fino ad oggi. Ben pochi compositori - forse il solo Satie - non hanno visto nel pubblico del recital il destinatario del loro lavoro. Ben pochi interpreti - forse il solo Glenn Gould - hanno negato la funzione primaria del recital. Non possiamo perciò non dirci ro mantici, per parafrasare Benedetto Croce, e non possiamo negare alla letteratura romantica il suo buon diritto ad occupare i più ampi spazi nel repertorio concertistico, nel recital. Ma è giunto il momento di stenderci sul lettino di Freud per capire che non solo Chopin e Schumann e il Liszt di Weimar sono parte della nostra infanzia: nell’inconscio della collettività, nell’inconscio cibernetico che ci fa quelli che siamo, ci sono le fantasie drammatiche, ivi com prese quelle del napoletano Teodoro Dòhler, pianista di corte a Lucca e morto a Firenze nel 1856, che a detta di Czerny «si di stinguono per una esecuzione assai brillante, chiaro-piccante eppu re molto espressiva, grande scioltezza e bravura, e specialmente per un bel trillo, e vogliono essere eseguite con fuoco e vivacità, e talvolta con facezia e grazia astuta».
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In fondo, Czerny non era una frivola cocotte del pianoforte, ma il discepolo devotissimo di Beethoven, il severo maestro di Liszt, lo scopritore di Domenico Scarlatti, l’editore delle opere per ta stiera di Bach. Un saggio, dunque, la cui parola ha un peso per ogni persona dabbene. Forse abbiamo bisogno, guidati da Czerny, di riscoprire le prime gesta del nostro amatissimo pianoforte ro mantico e di ritrovarvi la sua «grazia astuta» di gigante bambino. O forse siamo diventati irrimediabilmente adepti di un ordine pe nitenziale, ed il recital dev’essere soltanto una cerimonia austera, devota, bellissima, nella quale spunta un filo di noia che non osia mo confessare a noi stessi?
Opere citate:-
C. Czerny: Vollstandige teoretisch-praktische Pianoforte-Schule, Vienna 1835 ca. F. Fétis e J. Moscheles: Methode des Méthodes, Parigi 1837. Le Pianiste, ristampa anastatica, Ginevra 1972. Robert Schumanns Brief e: Neue Folge, Lipsia 1886. G. Zavadini: Donizetti: Vita, Musiche, Epistolario, Bergamo 1948.
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Tra il 1826 e il 1828, siccome la storia è spesso più gialla di un romanzo giallo, scompaiono uno dopo l’altro i tre maggiori compositori di musica pianistica del primo trentennio del secolo: Weber, Beethoven, Schubert. È già abbastanza singolare che tre grandissimi artisti scompaia no nel giro di tre anni. Ma ancor più singolare è che scompaiano in età non avanzata: Weber muore nel 1826 a meno di quaran tanni, Beethoven nel 1827 a meno di cinquantasette, Schubert nel 1828 a trentuno. Nel secolo precedente il ricambio delle genera zioni era avvenuto in modo più «naturale»: morto Bach nel 1750 a sessantacinque anni, Domenico Scarlatti nel 1757 a settantadue, Hàndel nel 1759 a settantaquattro, Rameau nel 1764 a ottantuno. Prima che nuovi grandi artisti della tastiera fossero maturati era no trascorsi alcuni decenni e il passaggio dal barocco alla classici tà era stato mediato da una serie di figure minori, di personaggicuscinetto. Brusco è invece il passaggio dei classici ai romantici: la scomparsa «innaturale» di Beethoven, di Weber e di Schubert, che avrebbero potuto dominare la scena per un altro quarto di se colo, lancia alla ribalta della storia la generazione dei ventenni, che trova a sua disposizione uno strumento, il pianoforte romantico, ricco di potenzialità inesplorate. Mendelssohn, Schumann, Chopin, Liszt rappresentano i due vol ti, tedesco e francese, del romanticismo, e sono già a vent’anni protagonisti della storia. Non è tuttavia possibile, malgrado tutte le eccezionali circostanze della successione di generazioni, separa re i nuovi venuti dai predecessori. Così come si trovano esperi menti di costruzione, nel pianoforte classico, che anticipano il pia noforte romantico, si trovano tratti romantici nei compositori dei primi trent’anni del secolo, e in particolare in Weber. Perciò pre* Festival Intemazionale Pianistico di Brescia e Bergamo, 1984.
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ferisco parlare di classicità, di Biedermeier e di romanticismo co me di fenomeni storici in parte contemporanei tra di loro.
Le sonate di Weber Nell’opera per pianoforte di Weber troviamo composizioni, co me i due concerti e le variazioni, che si inseriscono ideologicamen te e stilisticamente nel Biedermeier, e troviamo composizioni, co me V Invito alla danza e il Concertstuck, cui il Biedermeier sta stretto. Delle quattro sonate, che qui, dato il tema della ricerca, sono le cose weberiane da studiare, è forse Biedermeier la prima, non lo sono le altre tre. Biedermeier, no; classiche, neppure. Ma neppure romantiche, per lo meno in quanto sonate. Il blocco delle quattro sonate di Weber non si collega affatto con ciò che la sonata sarà durante il romanticismo, così come il Concertstuck non si lega al concerto romantico: sonate e Concertstuck preannunciano piuttosto la fan tasia pluritematica del romanticismo, basata su melodie di melo drammi. Questo carattere, teatrale più che drammatico, delle maggiori opere pianistiche di Weber compare fin dalla Sonata in do mag giore op. 24, composta nel 1812 (Beethoven aveva terminato nel 1810 la Sonata op. 81). La Sonata op. 24 inizia con un accordo, fortissimo, ed un arpeggio, risoluto, di settima diminuita. Un ac cordo che potrebbe risolvere, normalmente, in otto diverse tona lità e, eccezionalmente, in altre otto. Un campo aperto, dunque, su sedici delle ventiquattro tonalità in uso all’inizio dell’Ottocento. Sedici su ventiquattro; ma tra le sedici non c’è il do maggiore, to nalità della sonata. Oggi un inizio del genere non provoca più il senso di sorpresa che provocava nell’ascoltatore del 1812. Ma non è difficile invece immaginare — se si hanno il senso e il gusto della storia - quan to dovesse sentirsi disorientato, da un simile inizio, chi era abitua to a distinguere auditivamente le tonalità e a riconoscere nella re te delle strutture tonali il valore formante dello schema della so nata. Per trovare un qualcosa d’analogo, nella classicità viennese, bisognerà aspettare l’ultima sonata di Beethoven, Pop. in. Cer tamente, la tensione creata dal maestoso dell’op. ni sarà di mol to maggior peso e di altra natura, cioè cosmica. Il ventiseienne We ber non nutre ambizioni altrettanto grandi. E tuttavia, con Pini-
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zio della sua prima sonata, si pone al di fuori della cultura do minante, la cultura viennese, e crea un colpo di scena, eccitante e inquietante, di carattere nettamente teatrale. L’adagio e il trio del Minuetto precisano questo carattere gene ricamente teatrale in carattere nettamente melodrammatico, per ché gli stilemi impiegati e il tipo di strumentazione fanno pensa re a scene d’opera. Anche in Beethoven, si sa, si incontrano con tinuamente riferimenti, suggestioni di timbro, giochi di volumi e di masse mutuati dall’orchestra. In Beethoven il riferimento è pe rò sempre sinfonico, mentre in Weber è l’opera lirica che si de linea nello sfondo e non soltanto nello sfondo. Attraverso le quat tro sonate, anche attraverso le quattro sonate nasce l’operista del Franco cacciatore, àeXVOberon, AAVEuryanthe, che lascia alle sue spalle le prove giovanili di Silvana e di Abu-Hassan. Accanto al melodramma è il virtuosismo strumentale, specie vio linistico, che desta l’attenzione di Weber: l’attacco del Minuetto, ad esempio, mima chiaramente un’entrata misteriosa dell’orche stra accompagnante seguita dall’imperiosa apparizione del violino solista:
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Ed il finale, che non per nulla sarà ribattezzato perpetuum mo bile da Alkan, scopre il senso ipnotico che il movimento incessan te crea in un pubblico di massa: il Moto perpetuo op. 11 di Pa ganini, scritto dopo il 1830, riprenderà semplicemente, in un’epo ca diversa, questa scoperta weberiana. Si può osservare che una tendenza alla teatralizzazione del di scorso strumentale si affaccia anche in Beethoven e, ad un livello di minore capacità creativa, in Hummel e in Dussek. La Sonata op. 13 di Hummel (1803) e la sonata Le retour à Paris di Dussek (1807) appartengono alla stessa temperie ideologica in cui nasce la Sonata op. 24 di Weber, e la stessa temperie ideologica muove l’attenzione del Beethoven delle sonate op. 26 (1800), op. 27 n. 2 (1801), op. 31 n. 2 (1802), op. 53 (1803), op. 57 (1804). Tutte queste sonate di Beethoven, e non senza una profonda ragione, saranno predilette dai romantici, verranno inglobate nella cultura romantica e diventeranno esempi probanti del «romanticismo» spirituale di Beethoven. Ma la teatralizzazione del discorso stru mentale, che significa tendenza a volgersi verso il pubblico di massa invece che verso il pubblico del salotto intellettuale, inve ste Beethoven solo marginalmente, ed appare già superata nella Sonata caratteristica «L'addio, l'assenza, il ritorno» (1809-1810), assai più ascrivibile, in senso lato, all’estetica simbolista piuttosto che all’estetica del caratteristico. Weber, al contrario di Beethoven, approfondirà il discorso ini ziato con la Sonata op. 24, e tutte le sue sonate troveranno orec chie aperte, per così dire, nel periodo romantico. Persino la Pri ma, stilisticamente non matura e in parte, dicevo, Biedermeier, re sta in repertorio fino alla grande guerra. Resta in repertorio il fi nale, ribattezzato, come già detto, perpetuum mobile, ed eseguito come pezzo staccato. Ma resta in repertorio l’intera sonata, sia nel la versione originale sia in una versione di Adolph Henselt che la rende virtuoslsticamente più complessa e più adatta a dar modo di brillare ai pianisti che eseguono le spettacolose parafrasi melo drammatiche degli anni trenta.1 Prediletta fra tutte le sonate di Weber fu però dai romantici la Seconda, op. 39, scritta nel 1816. La Sonata op. 39 è contem1 Henselt pubblicò versioni «difficoltate» delle quattro sonate, Brahms e Cajkovskij trascrissero per la mano sinistra il Perpetuum mobile. La versione henseltiana della Sonata op. 24 fu ancora eseguita, all’inizio del Novecento, da Joseph Lhevinne, e fu ripresa nel 1971 da Ivan Davis. La versione brahmsiana del Perpetuum mobile venne ancora eseguita, in giovinezza, da Backhaus.
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poranea dell’op. 101 di Beethoven. Ma non ha in sé niente di beethovernano, ed è anche difficile da analizzare secondo gli schemi della sonata classica. Nel primo tempo colpisce prima di tutto la abbondanza di didascalie: «con anima», «morendo», «passionato», «con passione», «espressivo», «dolce», «leggieramente», «con molt’affetto», «con dolore», «agitato» (Liszt, che pubblicò una revi sione della sonata, vi aggiunse, di suo, «con grazia»; Chopin, dan do lezione all’allievo Georges Mathias, cercò una volta di sugge stionarlo, nell’episodio indicato da Weber «con dolore», dicendo gli che «un angelo passa in cielo»). L’abbondanza di didascalie che si rivolgono al sentimento dell’esecutore fa pensare ad un so strato programmatico, o per lo meno ad una concezione teatrale. L’uso del tremolo (all’inizio, poi al termine dello sviluppo e al l’inizio della riesposizione) fa pensare a suggestioni orchestrali, perché il tremolo non si incontra nella musica pianistica di Mozart e di Beethoven, è raro in Schubert e in Chopin, ed è frequente solo in Liszt. Se si volta pagina e si legge l’andante in do minore, secondo tempo della sonata, l’impressione di una scrittura orchestrale vie ne riconfermata: tema di suono tenuto e cantabile, quasi clari netto, su accordi staccatissimi, quasi pizzicati degli archi; poi la melodia passa al registro medio-grave, con sonorità che richiama no l’unisono di violoncelli e fagotti, e più avanti si individuano facilmente altri timbri strumentali (viole, corni, ecc.). L’attacco del Minuetto capriccioso mostra l’alternarsi di archi e strumentini, e l’attacco del rondò metamorfosa la sonorità di flauto, clarinetto e fagotto. Sta nascendo, nel pianoforte, la sonorità dell’orchestra di We ber. Nel 1816 l’orchestra di Weber non era ancora quello che noi oggi abbiamo in mente per «orchestra di Weber»: né la sonorità delle due sinfonie (1807), né la sonorità dei due concerti per pia noforte (1810 e 1812) era la sonorità del Weber maturo, che si cominciava a intravvedere soltanto nei due concerti per clarinetto (1811). La Sonata op. 39 rappresenta dunque anche uno studio dei colori timbrici e dei loro impasti, studio da cui deriverà - e non viceversa - il particolare colore dell’orchestra di Weber: al tro motivo per considerare la sonata con attenzione. C’è infine il problema delle didascalie, da cui siamo partiti. L’idea di un sostrato programmatico s’affaccia irresistibilmente alla mente. Sappiamo, da documenti sicuri, che Weber aveva im
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maginato una traccia programmatica per V Invito alla danza e per il Concertstùck, e constatiamo anche che queste tracce program matiche non vennero pubblicate. Weber temeva forse di cadere nella grossolana estetica descrittivistica della battaglia, assai dif fusa nel primo decennio dell’Ottocento e, nel caso della Sonata op. 39, non voleva accomunare la sua opera alle «sonate caratte ristiche» (che pure potevano vantare il blasone della Sonata op. 81 di Beethoven)? La supposizione nasce dall’ipotesi di un con tenuto programmatico, suggerita, come dicevo, dalle didascalie e dallo stile. Ma potrebbe invece darsi benissimo il caso che nessun contenuto programmatico sia stato immaginato da Weber, e che la sonata vada invece collocata nell’estetica della musica come espressione di stati d’animo legati alla fantasticheria e al sogno, da accostamenti non dialettici che non danno origine a contrasti drammatici e a catarsi risolutone. Un simile indirizzo avrebbe portato Schumann ad organizzare le grandi forme secondo schemi nuovi, che solo molto indirettamente risentono della classica tra dizione della «forma-sonata». In Weber la sonata in quattro tem pi viene conservata, e viene mantenuto lo schema più tipico del primo tempo (allegro bitematico e tripartito, detto appunto «for ma-sonata»); ma la forma reale modifica lo schema in termini tali da denunciare la crisi storica della sonata. Mentre la sonata, radi catasi nella cultura viennese (e nello spirito dell’illuminismo), si sviluppa con Beethoven per giungere con Schubert alla morte, in Germania sorge l’alternativa capace di diventare a sua volta cul tura dominante: con Weber, con Schumann e, in un campo diver so da quello della musica strumentale, con Wagner. Tipica sonata-alternativa, dunque, l’op. 39, e perciò amatissi ma dal romanticismo, programmaticamente anticlassicistico. C’era però chi preferiva la terza Sonata di Weber, l’op. 49 scritta anch’essa nel 1816, che inizia con un allegro feroce e termina con un ampio rondò che sembra preso di peso da un’opera. La prefe renza per la terza, che fu dell’eccentrico Hans von Bùlow, fu pri ma di Blandine, figlia di Liszt e della contessa d’Agoult. Scriveva la quindicenne Blandine al suo grande padre, il 15 ottobre 1850: «Studio molto il pianoforte, suono la Sonata in re minore di We ber. Questa sonata è magnifica e mi interessa molto; è una delle più belle cose che abbia suonato». Rispondeva Liszt - padre, educatore, mentore, Virgilio che soc corre l’errante - il 5 novembre:
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Mi dite d’aver suonato la Sonata in re minore di Weber, che ritenete essere uno dei più bei pezzi che conosciate. Non sapendo quali lavori dello stesso genere abbiate fin qui studiato, non mi rendo ben conto dei para goni che stabilite, e per che cosa in particolare questa sonata sia per voi la più simpatica e vi colpisca di più. Mi farete un favore entrando in qual che particolare, a questo come ad altro proposito, nelle vostre prossime lettere, perché il dir delle cose in generale è press’a poco come non dir niente; e siccome ci tengo che il vostro gusto s’affini e che il vostro giu dizio si impregni sempre più di un significato vero, mi farà piacere discu tere con voi i motivi e le ragioni che devono necessariamente avervi parte. Per quanto mi riguarda, anch’io ho una grande predilezione per questa sonata, nonostante alcuni difetti assai rilevanti che vi si trovano, come ad esempio la fine brusca e scorciata della prima e della seconda parte del primo tempo, una certa mancanza di proporzione tra l’allegro, l’andante e il finale, proporzione che mi sembra ben più felicemente riuscita nella Sonata in la bemolle maggiore dello stesso autore, e persino in quella in do maggiore (dedicata alla granduchessa di Weimar), che formano, e l’una e l’altra, un insieme più armonico, più completo.
Se dovessi oggi esprimere una preferenza mi orienterei piutto sto sulla Sonata n. 4, Pop. 70 in mi minore, composta tra il 1819 e il 1822. La quarta è così intrisa di spiriti drammatici e, forse, programmatici, che in una certa occasione la definii come una spe cie di Aroldo in Italia pianistico. Meditativo e agitato il primo tempo, che inizia «con duolo» e finisce «murmurando con duo lo»; scattante e danzante il ÌJIenuetto con il suo fantomatico trio, un secondo tempo che preannuncia e Mendelssohn e il giovane Brahms; idilliaco il terzo tempo, che non per nulla è indicato nella didascalia generale come «consolente»; autentica tarantella è il finale, travolgente anche sul piano puramente virtuosistico. Non c'è neppur bisogno di richiamare il programma a cui s’ispi ra il contemporaneo Concertstiick op. 79 (1821) per immaginare che una qualche romantica storia di viaggio in Italia stia all’ori gine di questa sonata in quattro quadri caratteristici. Ma il pun to che storicamente pare oggi il più significativo consiste nel su peramento della concezione dualistica del primo tempo di sonata. Nel primo tempo della Sonata op. 70 Weber sembra voler espor re un secondo tema contrastante, che si rivela però subito come episodico: il vero secondo tema non è altro che il primo, in mo do maggiore e presentato in una elementare struttura a quattro parti invece che come recitativo accompagnato:
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Al posto del tradizionale primo tempo di sonata abbiamo così un pezzo di struttura definibile come o molto arcaica, premozar tiana, o futuristica. Futuristica, a parer mio: lo schema tradizio nale della «forma-sonata», che era ancora restato come intelaiatu ra nelle opere 39 e 49, viene superato, e Weber crea una fanta sia monotematica preannunciante la svolta che nella letteratura pianistica avrà luogo all’inizio degli anni trenta, quando la fanta sia su uno, e poi su più temi d’opera, affiancherà e infine sosti tuirà la forma Biedermeier delle variazioni su temi popolarissimi. La sonata per pianoforte di Weber, presa nel suo insieme, apre dunque un capitolo che non sarà quello della sonata romantica, problematica e preoccupata del rapporto con il passato, ma della fantasia drammatica, autentica invenzione romantica, anche se pra ticata da uno solo dei maggiori artisti dell’epoca, Liszt. Nella sua scelta, Weber trova qualche compagno. Ho nominato Hummel e Dussek; nominerò ancora un compositore assai più in genuo, e non noto neppure agli specialisti, nel quale le motiva zioni che muovevano Weber, motivazioni di conquista di un nuo vo pubblico, compaiono nel modo più elementare e più scoperto. Questo modestissimo, pittoresco artista si chiamava Anthony Phi lipp Heinrich ed era un boemo trasferitosi negli Stati Uniti verso il 1817. Nel 1820 l’Heinrich pubblicò una sonata intitolata La Buona Mattina, facendola precedere da un brano per canto e pia noforte sulle parole (in italiano): «Accettate gli Ossequi d’un po vero Figlio d’Orfeo esiliato nelle Selve ed Antri oscuri e sola mente ispirato dai Concerti della Natura». La sonata, a detta del l’autore, era «una “primizia” nel suo genere delle foreste e un pic colo intrattenimento mattutino o “Buona Mattina”, in aggiunta alla Serenata o “Buona Notte”». Questo «genere delle foreste» non è poi così bislacco come sem bra: le Scene della foresta di Schumann sono lì a dimostrarlo. Però, nel 1820, nessuno in Europa ci aveva ancora pensato. Heinrich, in senso lato, intendeva ingenuamente legare la musica ad immagini, alle immagini più familiari agli abitanti del Kentucky in cui viveva, ricercando, se l’espressione è lecita, una musica per analfabeti che si rivolgeva alla sensibilità: vedremo come questo problema percorra, a diversi livelli, tutto il romanticismo.
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I giovani leoni a scuola Quando i compositori nati intorno al 1810 iniziano la loro atti vità creativa, né Beethoven né Weber, che terminano la loro ul tima sonata nello stesso anno, 1822, mostrano di avere ancora interessi centrati sulla sonata per pianoforte solo. Opera però, tuttavia, un sonatista per eccellenza come Schubert, che compo ne le tre ultime sue sonate pochi mesi prima della morte, nel 1828. Nessuno dei giovani compositori si lascia veramente condizionare dalle novità ideologiche delle sonate di Weber: per loro la sonata è prima di tutto la forma più alta della tradizione classica e Bie dermeier, e in quanto tale dev’essere posseduta come arnese del mestiere. A dire il vero, Liszt compone nel 1825 tre sonate per pianoforte solo ed una a quattro mani che non ci sono pervenute e delle quali non sappiamo quasi nulla. Potrebbe anche darsi, con siderando quale sarebbe stata la sua evoluzione dopo il 1830, che Liszt non fosse allora lontano dalle concezioni weberiane, ma così non sembrerebbe daW Allegro di bravura op. 4 n. 1 (1824) che, essendo in forma di primo tempo di sonata, riprende i moduli cor renti del Biedermeier. Classicheggianti nella concezione, se non negli esiti concreti, sono le tre sonate che Mendelssohn compose da ragazzo, la prima, op. 105, nel 1821, la seconda, op. 6, nel 1826, la terza, op. 106, nel 1827. Julius Rietz, che assegnò i numeri d’opera alle due sonate pubblicate postume, non scelse certamente a caso il fatidico 106: Mendelssohn aveva evidentemente letto e meditato la sonata di Beethoven, la Hammerklavier, che porta quel numero. L’aveva letta e meditata ricavandone due idee: la struttura di tutti i temi basata sull’intervallo di terza, la struttura tonale del primo tempo basata sul rapporto tonica-sopradominante invece che tonica-do minante. Mendelssohniane, non certo beethoveniane, sono invece le dimensioni, perché la 106 di Mendelssohn si adagia comoda mente in diciotto pagine a stampa, mentre la 106 di Beethoven ne esige almeno quarantacinque. Né Mendelssohn conclude la so nata con una fuga ciclopica, ma accenna appena ad un fugato al l’acqua di rose nello sviluppo del primo tempo. Mendelssohn ha in realtà qualcosa di suo da dire: il primo tempo si collega piani sticamente con uno scherzo che è già una delle sue danze di sil fidi, il terzo tempo potrebbe entrare in un quaderno delle Roman ze senza parole ed è collegato con l’ultimo tempo attraverso un episodio intermedio che cita il primo tempo, a metà del finale
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viene riproposto in parte lo scherzo, e la conclusione svanisce nel nulla, lasciando una scia di accordo di si bemolle maggiore «spor cato» da vaghissime appoggiature cromatiche. Non musica di me lodramma, perché Mendelssohn non sarà mai melodrammaturgo. Ma musica da teatrante, sì: l’ouverture per il Sogno d’una notte di mezza estate è già stata scritta, e si sente. Di fronte a questa entusiasmante freschezza di immaginazione impallidisce la consorella, l’op. 105 scritta sei anni prima e da Mendelssohn fatta ascoltare a Goethe. Esile e ingenua, l’op. 105. Ma questo dodicenne, che dal suo maestro Ludwig Berger ha as sorbito lo stile di Muzio Clementi, è già un musicista che non fal lisce le proporzioni, e a cui basterà ben poca sapienza in più per trasformare in una frase di grande empito melodico uno spunto
La Sonata op. 6, che Mendelssohn pubblicò nel 1826, nasce dallo studio della Sonata op. 101 di Beethoven: quel che affasci
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na Mendelssohn è l’idea beethoveniana del tempo lento collegato con il finale attraverso la citazione del primo tempo, idea che Men delssohn sviluppa avventurandosi in un recitativo da cui traspare chiaramente anche il suo interesse per le toccate di Bach, così co me traspaiono il suo interesse per Schubert nel primo tempo, e nel finale, in modo assai meno felice, per Hummel. Non c’è in vece un termine di riferimento per il secondo tempo, lo stupefa cente tempo di minuetto, un nocciolo su cui si fonderà il neoclas sicismo nostalgico della seconda metà del secolo. Saint-Saèns o Reinecke, ma persino Brahms avrebbero potuto essere gli autori di una composizione che appartiene al genio creativo di un ragazzo di diciassette anni:
Chopin, a cui la classicità viennese perviene nella natia Varsa via come il riflesso di un mondo di favola, e che cresce invece in un ambiente impregnato, provincialisticamente, di cultura Bieder meier, nella Sonata op. 4 che compone tra il 1827 e il 1828 sot to la guida del suo maestro Józef Elsner segue i modelli dei pia nisti-compositori come Czerny o come Kalkbrenner piuttosto che i modelli classici. In modo più parziale, ma molto interessante, si manifesta inoltre nella sonata lo studio di Bach. Come ha fatto rilevare il Bronarski, il primo tema della sona ta è tratto di peso dalla Invenzione in do minore a due voci di Bach, e l’inizio del primo tempo è un canone, e sia pure un ca none così poco corretto scolasticamente che, se venisse continua-
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to, causerebbe già alla fine della seconda battuta un errore mador nale (ottave parallele). Proprio questo gusto per il procedimento contrappuntistico, unito al rifiuto del modello scolastico, mi sem bra però interessante perché è un tratto stilistico che ricomparirà insistentemente nelle ultime composizioni di Chopin. Anche il mi nuetto inizia a canone; ancor più interessanti sono però la secon da parte del minuetto e il trio, a canone pur essi, ma con imita zioni estese a gruppi di suoni anziché alle sole linee: contrappun to strumentale, timbrico, in cui è annullata ogni reminiscenza di vocalità. La Sonata op. 4 è assai acerba, certo. Ma non sembra giustifica bile la liquidazione che se ne fa spesso, definendola come mero esercizio scolastico. Attraverso l’adesione alle ardue formule tec niche del Biedermeier si delinea in alcuni episodi la scrittura poli melodica tipica di Chopin. E il Kroó, studiando le caratteristiche formali dello stile di Chopin, cita più volte la Sonata op. 4 per la libertà con cui la forma classica viene trattata. Se a ciò si ag giunge ciò che prima dicevo sull’uso del contrappunto si capisce perché la Sonata op. 4 stia in questi anni rivendicando il suo di ritto ad entrare nel repertorio concertistico. Repertorio nel quale non sembra invece possano entrar mai le due sonate dell’altro giovanotto che cercava di farsi largo e nel l’attualità e nella storia, e che ci sarebbe riuscito solo molto più tardi: Richard Wagner. La Sonata in si bemolle maggiore del 1831 è, essa sì, un mero esercizio scolastico. Ben altrimenti ricca di in venzione è invece la Sonata in la maggiore op. 4, di un anno po steriore. Partendo da un’idea del duetto Pizzarro-Rocco del Fide lio, Wagner costruisce un primo tempo tagliato nel sasso, con una eccellente sorpresina nella conclusione. Un secondo tempo basato sull’tfrzoso dolente della Sonata op. no di Beethoven, ma di am biziose proporzioni (96 battute in 12/8), getta già piloni degni degli archi monumentali che si ritroveranno nelle future costru zioni drammatiche di Wagner, e altrettanto maestoso è il finale: un recitativo, un fugato, e un allegro di sonata in cui il nume tu telare è, inaspettatamente, Schubert. Solo che la «divina lunghez za» di Schubert non è nel diciannovenne Wagner ancora divina. E siccome Wagner non è pianista e scrive tozzo, la sua Sonata op. 4, pur di grande interesse alla lettura, non avrà a parer mio modo di infilare la strada della notorietà che Pop. 4 di Chopin sta in vece lentamente percorrendo.
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Le sonate di Schumann Anni trenta. La classicità è finita con Schubert, il Biedermeier è avviato verso la fine, è nato il romanticismo, e la sonata comin cia ad essere sentita come forma appartenente ad una civiltà non più attuale. Nasce nel 1826, con Antonin Reicha, la prima analisi teorica della forma-sonata, e nasce il problema della sonata, in una civiltà che sta fortemente sviluppando il senso della storia, come problema del rapporto con il passato. Scrive Schumann nel 1839, recensendo la Sonata op. 43 per violoncello e pianoforte di Mendelssohn: È da un bel po’ di tempo che siamo costretti a tacere a proposito di que sto genere di composizione, la sonata... Nel disordine variegato delle mode e delle caricature, che oggi attraversiamo, fa veramente piacere incontrare ancora qualcuno di questi molto onorevoli personaggi che, un tempo al l’ordine del giorno, non appartengono più, oggi, che all’eccezione. Ma è strano, ad esempio, che a scrivere delle sonate siano soprattutto degli sco nosciuti, mentre gli anziani compositori che ancor vivono tra noi, che fu rono educati durante il periodo della fioritura delle sonate e tra i quali si potevano senza dubbio notare, come più importanti, prima Cramer, poi Moscheles, siano precisamente quelli che si sono di meno consacrati a que sto genere. Ciò che porta gli sconosciuti, specie i giovani artisti, a scrivere sonate, è cosa facile da indovinare: non c’è forma di composizione più dignitosa, per introdurli presso l’alta critica e per mezzo della quale pos sano piacerle. Così, la più parte delle sonate di questo genere non sono da considerare se non come una specie di saggi, come studi di forma; è difficile che siano frutto di vivo impulso interiore. I vecchi compositori non scrivono invece più sonate, e devono averci le loro ragioni; ma non cerchiamo di indovinarle. Nella via aperta da Mozart è specialmente a Hummel che si deve la prosecuzione dell’edificio, e la sua Sonata in fa diesis minore [op. 81] ba sterebbe a far vivere il suo nome; quanto alla via di Beethoven, è prima di tutti Schubert che ha cercato e conquistato un terreno nuovo. Ries lavo rava troppo alla svelta, Berger ci ha dato qualche pezzo eccellente, ma senza andare a fondo, e così Onslow. L’effetto più bruciante e più rapido fu prodotto da Weber, che si creò uno stile personale: specialmente su di lui si basò la più parte dei giovani artisti che seguirono. Tale era, dieci anni or sono, la situazione della sonata, e tale è ancor oggi. Qualche bella apparizione isolata in questo genere di composizione verrà sicuramente, ed è già venuta in luce qua e là; ma per il resto, il genere sembra aver già percorso tutta la sua carriera, e ciò è nell’ordine delle cose, perché non dobbiamo riprendere per secoli interi le stesse for-
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me, pensando nuove idee. Che si scrivano pure delle sonate o delle fanta sie: che importa il nome! Ma che non si dimentichi perciò la musica: e il resto, ciascuno cerchi di ottenerlo con il proprio genio.
Se Schumann avesse voluto citare esplicitamente una qualche «bella apparizione isolata», già venuta in luce, avrebbe legittimamente potuto ricordare le sue tre sonate: in fa diesis minore op. ii, in fa minore op. 14, che nella prima redazione venne intito lata Concerto senza orchestra, in sol minore op. 22. Con la Gran de Sonata in fa diesis minore op. 11, composta tra il 1833 e il 1835 e dedicata alla fidanzata Clara Wieck, Schumann affrontava per la prima volta la forma-sonata del periodo classico, dando vita alla prima importante sonata del periodo romantico. All’origine della Sonata op. 11 sta un fandango, scritto nel 1832, che diven ta il materiale di una parte del primo tempo (si riconosce facilmen te all’inizio dell’allegro vivace). Ma il carattere della danza spa gnola viene modificato e neutralizzato da un contesto in cui è il problema della forma quello che domina. Schumann sceglie il ti po di primo tempo di sonata con introduzione in movimento len to: tipo usato da Clementi, e soprattutto da Beethoven (basta ri cordare le Sonate op. 13, Patetica op. 81, Gli addii op. in), ma mai usato in sonate in quattro tempi. L’op. 11 di Schumann, sot to questo aspetto, rappresenta quindi una novità storica. Altra novità è rappresentata dal fatto che il tema dell’introduzione vie ne citato nello sviluppo, senza cambiamento di tempo. Ultima im portante novità formale: il secondo tema, contrastante con il pri mo, viene collocato alla fine, anziché a tre quarti circa dell’espo sizione, acquistando in tal modo il significato di conclusione, di pacificazione, anziché di contrasto drammatico. Brevissimo, ma di mirabile compattezza e densità lirica è il se condo tempo, un’aria tripartita, trascrizione per pianoforte solo di un Lied per canto e pianoforte, An Anna, composto nel 1828. Formalmente più nuovo e più complesso è il terzo tempo, scherzo e intermezzo, nel quale la forma tradizionale dello scherzo con trio viene rinnovata in modo impensabile mediante l’inserzione dell’intermezzo. Lo scherzo, cioè, è di normali proporzioni, con prima parte, trio in movimento più mosso e alla tonalità maggiore, ripresa della prima parte. Ma quando mancano quattro battute alla fine irrompe l’intermezzo, in movimento molto più lento e di ca rattere ironico («alla burla, ma pomposo», dice la didascalia). L’in-
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termezzo è di forma elementare (due parti con ritornello, di otto e di dodici battute) ed è seguito da una cadenza-recitativo, sul tema dell’intermezzo, che pare una parodia del recitativo dei vio loncelli nel finale della Nona Sinfonia di Beethoven. Il terzo tem po si conclude con la ripresa dello scherzo (senza trio). È anche da notare la scrittura sinfonica del terzo tempo: nella cadenza del l’intermezzo una scaletta è indicata come «quasi oboe», il recita tivo, come già detto, richiama un caratteristico uso dei violoncelli (poi di violoncelli e contrabbassi in ottava), il tema dell’intermez zo potrebbe essere affidato alla grassa sonorità di sedici violini primi, ed il trio riproduce una tipica disposizione orchestrale (due oboi, fagotto, pizzicati di violoncelli e contrabbassi). La scrittura sinfonica si presenta anche in vari tratti del finale: un passo indicato «quasi pizzicato», richiami al rullo di timpani e grancassa, passi violoncellistici, melodie oboistiche. Siamo già nel campo delle ricerche che culmineranno negli Studi sinfonici, e cioè nel campo della differenziazione timbrica del suono del pia noforte, resa possibile dall’adozione di modi diversificati di attac co del tasto. Dalla imitazione dell’orchestra, o dall’adozione di suggestioni orchestrali nasce in realtà una ricerca specificatamente pianistica, che porta il compositore a disporre di una tavolozza timbrica del pianoforte: superata l’imitazione dell’orchestra, che è ancora presente nella Sonata op. n, avremo la timbrica varie gata e policroma degli Studi sinfonici, iniziati nel 1834, terminati nel 1837. Nella Sonata in fa minore, concerto senza orchestra, come ne gli Studi sinfonici, il riferimento all’orchestra è programmatico. Non si tratta però di una versione per pianoforte solo da un im maginario concerto in cui si ritrovino le caratteristiche strutture di contrapposizione tra il solista e l’orchestra, il solo e il tutti'. nulla di simile, tanto per intenderci, AV Allegro di concerto op. 46 di Chopin o al Concerto di Alkan o, in un altro contesto storico, alla Sonata op. 33 n. 3 di Clementi o al Concerto italiano di Bach. Schumann pensa, probabilmente, alla fantasia Biedermeier in cui l’orchestra rappresentava non l’alternativa, l’altro polo del discor so, ma solo l’amplificazione del pianoforte, una sua riverberazio ne con colori timbrici più densi e ricchi. Se Schumann non avesse scelto il titolo Concerto senza orchestra a nessuno verrebbe oggi in mente una struttura di concerto: tutt’al più si noterebbe il ca rattere orchestrale di certi episodi (ad esempio, le battute 38-46 del
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primo tempo). E non c’è neppure nulla di così complesso, quanto a costruzione dell’edificio sonoro, come le variazioni n. 2 e n degli Studi sinfonici. Ciò che colpisce, nell’op. 14, è invece la pie nezza, la massa di suono, in lui insolita, che Schumann cava dal pianoforte fin dalle prime battute e che tocca il culmine nello Scherzo, scritto secondo una tecnica dei raddoppi sistematici che ricorda il giovane Brahms. Il titolo, Concerto senza orchestra, si richiama a parer mio ad un pubblico piuttosto che a una forma; ed è un pubblico ignoto, quello che Liszt e Thalberg stavano risvegliando alla passione per la musica strumentale, il destinatario dell’op. 14 di Schumann. Più che di concerto si tratta, quanto a struttura sonora, di sinfonia: come ho già detto a proposito di Weber, in questa sonata sta na scendo l’orchestra di Schumann con la sua problematica strumen tazione. E sta nascendo, sia nel Quasi variazioni su un tema di Clara Wieck, sia nel vastissimo, tragico finale, lo Schumann visio nario e demoniaco dei Kreisleriana. Schumann aveva cominciato a scrivere una sonata in fa minore nel 1833, anno in cui aveva iniziato anche le sonate in fa diesis minore e in sol minore. Non abbiamo notizie sufficienti di questo progetto di sonata e non sappiamo se e quale parte di essa venisse eventualmente utilizzata nell’op. 14 che fu scritta nel 1833 e com pletata nel 1836. Questa prima versione era intitolata Concert e conteneva due scherzi. Venne offerta all’editore Haslinger di Vien na, che l’accettò ma che propose a Schumann di eliminare gli scherzi. La composizione venne quindi pubblicata in tre tempi e con il titolo, più facilmente comprensibile per il pubblico, di «Con cert sans orchestre», e con dedica al grande pianista Ignaz Mo scheles. Sia Moscheles in una lettera all’autore, sia Liszt in una recensione pubblicata a Parigi, notarono subito che la composi zione mancava della brillantezza di scrittura a cui il titolo faceva pensare; e molti anni più tardi Schumann diede loro ragione, rein serendo uno degli scherzi e ripubblicando l’op. 14 come Sonata in quattro tempi. Né Moscheles né Liszt eseguirono mai in pubblico l’op. 14, e neppure Clara. La Sonata in fa minore piacque a Brahms, che ne diede la prima esecuzione assoluta a Vienna, nel 1862. Bùlow la ripropose dieci anni più tardi, ma né Brahms né Bùlow riuscirono a far notare favorevolmente questo singolare lavoro schumanniano. Solo molti anni più tardi, nel 1915, la Sonata op. 14 venne
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ripresa da Adriano Ariani, quindi, nel 1923, da Joseph Hofmann; più di recente furono Serkin, Horowitz, Jorge Bolet, Aldo Ciccolini ed infine Maurizio Pollini i paladini accaniti della Sonata op. 14, che per ora continua ad esser poco nota e poco apprezzata. Pos so dire che approvo toto corde quanto dichiarò Horowitz: «La So nata è ricca di idee ardite e temerarie ed è permeata da una sor prendente unitarietà sinfonica: è una delle più grandiose pagine della musica romantica. Sono letteralmente stupefatto per quan to tale composizione sia stata finora negletta» (trad, di L. Bellingardi). La gestazione della Sonata in sol minore fu eccezionalmente lunga e tormentata. Nel 1828 Schumann aveva scritto un Lied per canto e pianoforte, Herbste, e nel 1830 lo aveva trascrit to per pianoforte solo, probabilmente per includerlo in una rac colta di pezzi. Nel 1833 vennero composti il primo e il terzo tempo della sonata, a cui venne poi aggiunto, come secondo tem po, il Lied del 1828 trascritto per pianoforte. Il finale fu scritto nel 1835; ma Clara Wieck lo giudicò troppo difficile, e così Schu mann, nel 1838, compose un altro finale. La sonata, in questa forma definitiva, venne pubblicata nel 1839 con dedica all’amica Henriette Voigt e nel 1840 fu presentata da Clara a Berlino. Il primo finale venne pubblicato postumo con il titolo «Presto pas sionato» e godette di una certa notorietà solo verso il 1930, quan do fu spesso eseguito da Vladimir Horowitz come pezzo a sé stan te; qualche pianista - ad esempio, Carlo Vidusso - riprese tal volta la sonata con il primo finale, qualche altro - ad esempio, Paul Baumgartner - eseguì la sonata con il finale del 1838 se guito dal finale del 1835. I due finali rappresentano indubbiamente un piccolo rebus musicologico-critico, simile, fatte le debite proporzioni, a quello dei due finali del Quartetto op. 130 di Beethoven; mi sembra di po ter ragionevolmente dire che, come nel caso di Beethoven, esisto no in realtà due diverse versioni della stessa composizione, e che l’interprete può legittimamente scegliere tra le due, anche se la seconda versione è quella più frequentemente eseguita, più nota e, a parer mio, più interessante. L’op. 22 fu pubblicata come Seconda grande Sonata. Ma nel 1853 Schumann ripubblicò l’op. 14 con un nuovo titolo: Terza grande Sonata. Così abbiamo oggi, fatto curioso, una Prima Sonata op. 11, una Terza Sonata op. 14, una Seconda Sonata op. 22.
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La forma del primo tempo della Sonata op. 22 è molto elemen tare, «classica» nel senso un po’ accademico del termine, concisa come quella delle prime sonate di Beethoven. Ma l’adesione ad un modello tradizionale non significa adesione al concetto classico del tempo musicale e alla dialettica della forma-sonata classica: la sonata inizia infatti con un vero colpo di scena, e cioè con un accordo di sol minore, sforzato e lungamente tenuto, che ha tutti i caratteri della conclusione, dell’accordo finale, e che condiziona psicologicamente l’ascoltatore. Dall’accordo si sviluppano un mo vimento di moto perpetuo, che durerà per quasi tutto il primo tempo, e un incisivo tema di quattro suoni, anch’esso dominante nell’equilibrio strutturale del primo tempo. La forma è geome trica e riconoscibilissima, ma viene percepita come immaginaria: quel colpo di scena iniziale capovolge tutti i significati tradizionali e crea una dimensione temporale onirica, irreale, che precipita pro gressivamente verso una conclusione sempre più concitata. È sta to più volte notato, e non senza un po’ di ironia, come Schumann, dopo aver indicato all’inizio so rasch wie moglich (più presto pos sibile), indichi verso la fine schneller (più mosso) e noch schneller (ancora più mosso); ma, al di là della contraddizione verbale, è proprio tutto il primo movimento che rende l’idea della perdita di controllo sul tempo reale, dello stravolgimento delle facoltà, della vertigine e del delirio. Il secondo tempo - che in origine, come abbiamo visto, era un Lied - è breve e di forma molto semplice: tema, variazione, svi luppo, ripresa del tema, coda. Anche il terzo tempo è breve, ec cezionalmente breve per uno scherzo, e di forma schematica, tanto che secondo e terzo tempo si pongono come blocco centrale arti colato in due parti contrastanti. Il rondò finale riprende i caratteri del primo tempo: moto per petuo, inframmezzato da due apparizioni di un secondo tema can tabile in stile di corale figurato, e con una chiusa precipitata dim mer schneller und schneller, sempre più presto e più presto). Non mi sembra improbabile che Schumann abbia risentito, nella con cezione generale della sonata, dell’esempio della Sonata a Kreutzer di Beethoven, anch’essa basata sul movimento perpetuo. Ma, men tre in Beethoven il senso motorio porta ad una immensa accu mulazione di energia, in Schumann porta, come dicevo, allo smar rimento della ragione. E in questo senso si può addirittura dire che la Sonata op. 22 di Schumann, più che la Sonata op. 47 di
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Beethoven, dovrebbe essere la musica adatta alla Sonata a Kreutzer di Tolstoj...
Le sonate di Chopin Schumann è il primo, tra i giovani leoni della generazione ro mantica, che affronta e risolve in modo maturo il nodo storico rap presentato dalla sonata. Si potrebbe, è vero, citare anche Men delssohn, la cui Fantasia in ja diesis minore op. 28 era intitolata, nelPautografo, Sonata scozzese. Ma la rinuncia stessa alla titola zione originale ci dice che la composizione, quale che sia - ed è grande - la sua riuscita estetica, non intende porsi a confronto con la tradizione classica. Il compositore romantico, dopo il mo mento acritico del tirocinio scolastico, si accosta alla sonata quan do sa di poter sostenere confronti schiaccianti, così come Beetho ven si era accostato alla sinfonia a ventinove anni, componendo poi nove sole sinfonie in venticinque anni di contro alle quaran tene composte da Mozart in ventiquattr’anni e alle centootto com poste in trentasei anni da Haydn. Tanto più ammirevole è lo sforzo creativo dello Schumann ven titreenne, che inizia insieme tre sonate, quando lo si paragona alla prudenza del ventiquattrenne Mendelssohn, che rinuncia ad inti tolare «sonata» la sua op. 28. Wagner, fattasi la mano con il pia noforte, passa a cose a lui più congeniali, Liszt inizia verso il 1835 una Sonata in do minore, ma non va oltre pochi schizzi (un im portante, ma indiretto contributo alla storia della sonata per pia noforte solo, Liszt lo offre invece con la trascrizione della Sinfo nia fantastica di Berlioz, pubblicata nel 1834; trascrizione che dimostra quali siano le possibilità dello strumento nella «sonoriz zazione» di una monumentale architettura). Tra gli altri giovani compositori, non ignoti alla storia, il dedi catario degli Studi sinfonici di Schumann, William Sterndal Ben nett, esordisce con una Sonata in fa minore op. 13 composta tra il 1836 e il 1837 ed offerta a Mendelssohn come dono di nozze, e Stephen Heller scrive verso il 1835 una Sonata in re minore, op. 9 molto lodata da Schumann; altrettanto lodate da Schumann sono le sonate di due artisti promettentissimi, scomparsi in giova nissima età: la Sonata in fa minore op. 8 di Norbert Burgmuller, morto nel 1836 a ventisei anni, e la Sonata in sol minore op. 3 del dedicatario della Toccata op. 7 di Schumann, Ludwig Schunke,
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scomparso a ventiquattr’anni nel 1834. Il secondo artista che fa entrare in scena uno di quegli «onorevoli personaggi», diceva Schumann, appartenenti ormai «all’eccezione», è Chopin, con la Sonata op. 35, tanto individualistica da lasciar dubbioso proprio quello stesso Schumann che con un così potente cannocchiale guar dava passare la storia dal suo osservatorio di Lipsia. La musicologia grande e la musicologia spicciola, che hanno ro vistato tutti i rovistabili angoli della vita di Chopin, non sono riuscite a spiegare perché, nel 1837, il ventisettenne artista scri vesse una Marcia funebre di tragica desolazione: per quale ragio ne, per quale circostanza, per qual diavolo d’avvenimento. Si sa soltanto che nell’inverno del 1837 la salute di Chopin attraversò un periodo molto cattivo e che avvenne allora la rottura del fidan zamento segreto con Maria Wodzinska. Per uno che mise le let tere della famiglia Wodzinski in un pacchetto con su scritto Moja bieda (la mia disgrazia) non sarebbe stato inconcepibile comporre una Marcia funebre legata ad un particolare momento esistenzia le. Quale che sia stata però l’origine della marcia resta il fatto che due anni più tardi, nell’estate del 1839, dalla marcia nacque la Sonata op. 35. Si badi: non è che la marcia venisse inserita in una sonata, secondo l’esempio illustre dell’op. 26 di Beethoven (la Sonata con la «Marcia funebre sulla morte d’un Eroe»). No: la marcia divenne parte di una sonata tutta basata su alcune cel lule tematiche fondamentali, che le puntigliose analisi di pazienti studiosi hanno messo in luce. Questa è la prima, e più importan te caratteristica strutturale della Sonata op. 35: la tendenza alla unificazione tematica. Altra importante caratteristica: nel primo tempo la brevissima introduzione diventa elemento basilare dello sviluppo, e nella riesposizione manca il primo tema. Terza caratte ristica fondamentale: il finale è una specie di moto perpetuo a due mani in ottava, sempre, tranne che nell’ultima battuta, sot tovoce. Quando la sonata fu pubblicata, nel 1840, nessuno colse la profonda unità tematica della composizione. Tutti notarono la cu pa tinta generale, e la notarono con stupore e con imbarazzo. Pare che Mendelssohn dichiarasse «brevemente e amaramente» al critico Davison, a proposito del finale: «Oh! Io lo aborro». Schu mann scrisse che la Marcia funebre «ha persino qualcosa di repul sivo» e che il finale «è simile ad un’ironia piuttosto che a una mu sica qualsiasi». E concludeva: «Eppure, bisogna confessarlo, an-
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che da questa parte senza melodia e senza gioia soffia uno strano, orribile spirito che annienterebbe con un pesantissimo pugno qua lunque cosa volesse ribellarsi a lui, cosicché ascoltiamo come affa scinati e senza protestare fino alla fine — ma anche però senza lo dare: poiché questa non è musica». I concetti schumanniani divennero il nocciolo del rapporto che nella seconda metà del secolo si instaurò tra la sonata e il pubblico (ivi compresi i critici). Schumann metteva subito in evidenza il fascino inquietante della sonata; e infatti la composizione, ese guita da Anton Rubinstein, da Bùlow, da Tausig e da tutti i mag giori pianisti del tempo, fu presto prediletta dal pubblico. Nello stesso tempo, la riserva schumanniana sul carattere non-musicale del finale mise in moto la ricerca di una giustificazione, di una spie gazione in termini narrativi, favorita dalla attualità della cosid detta «musica a programma» e facilitata, in questo caso, dalla presenza della tremenda Marcia funebre. Non starò a riferire le varie «spiegazioni» - talune puerili, talune macabre, talune non prive di suggestione - che vennero escogitate in più di mezzo se colo. L’esito delle ricerche o delle fantasticherie fu senza esito, e l’unico risultato positivo fu ricavato, come già ho detto, dall’ana lisi musicale, che dimostrò l’unità strutturale profonda della so nata. Storicamente, dunque, la Sonata op. 35 si lega alle più avanzate ricerche compositive di Beethoven, che nelle ultime composizioni, e specialmente negli ultimi quartetti, aveva sviluppato la tecnica della costruzione pluritematica basata su nuclei elementari. E nel lo stesso tempo, con la sua singolarità e con gli interrogativi che suscita senza lasciar trovare risposta, la sonata giustifica la sua stessa esistenza, il suo comparire in un’epoca nella quale la sonata non è più una forma «naturale» ma può solo essere «eccezionale» sotto tutti gli aspetti, per inserirsi in una letteratura alla quale ap partengono già l’op. in di Beethoven e la D 960 di Schubert. La Sonata in si minore op. 58, terza ed ultima delle sonate per pianoforte solo di Chopin, è dell’estate 1844: Chopin aveva trentaquattro anni. Tanto «eccezionale» era l’op. 35, tanto «normale» è, apparentemente, l’op. 58. Due i tratti singolari: nella riespo sizione del primo tempo manca il primo tema, e la tonalità del se condo tempo sta in un rapporto insolito con la tonalità generale. Ma nella sostanza la Sonata op. 58 è pienamente riconducibile al la tradizione classica, e in quanto tale sembra a tutta prima an-
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deipare il neoclassicismo delle tre sonate di Brahms più che con tinuare la linea romantica, che culminerà nella sintesi storica su prema della sonata di Liszt. Vedremo invece fra poco come la Sonata op. 58 apra in realtà un capitolo particolare della sonata romantica, un capitolo che non avrà seguito. Nell’ultima fase creativa di Chopin si fa strada prima di tutto una ricerca su un timbro pianistico di limitato volume e di sottili variazioni cromatiche, che si può definire «iridescente» o «preim pressionistico» in quanto tendente ad eliminare la distinzione tra timbro, o colore, e linea, o disegno. Questa ricerca, iniziata nel l’estate del 1841 con il singolarissimo Preludio op. 45, prosegui ta con le Mazurche op. 50, con l’Improvviso op. 51 e, in parte, con la Ballata op. 52, tocca il culmine con lo Scherzo op. 54, le Mazurche op. 56 e la Berceuse op. 57. In queste composizioni si attua anche un progressivo, seppur limitato recupero di stilemi del passato. La Sonata op. 58, in questo senso, può esser vista come il momento della massima riflessione storica. Tuttavia, il ritorno sulla forma classica della sonata non appare veramente preparato dalle opere che precedono, e la Sonata op. 58 è quindi tanto più sorprendente quanto più è «normale» la sua struttura. Forse la riflessione fu originata dall’interesse critico che si stava allora muovendo sulla forma della sonata classica: lo studio di Carl Czerny sulla sonata classica è del 1840 circa, lo studio di Immanuel Faisst sulle origini della sonata per tastiera è del 1845, e dello stesso anno è lo studio di Adolph Bernhard Marx sulla for ma della sonata. Questi studi rispondevano ad un’esigenza di chia rificazione critica che la cultura del tempo sentiva impellente, ed anche i compositori mostravano un crescente interesse per la so nata, tanto che vennero pubblicate la Sonata di Thalberg nel 1844, la Sonata op. 58 di Chopin nel 1845, la Sonata op. 65 di Heller nel 1846, la Sonata op. 33 di Alkan nel 1847. La Sonata op. 58 può essere considerata allora come la risposta di un compositore ad un problema critico, e quindi - non sembri quest’affermazione paradossale - come un saggio sulla sonata. Il primo tempo è in forma-sonata classica: esposizione con pri mo gruppo tematico in si minore, episodio di collegamento, se condo gruppo tematico in re maggiore, coda; sviluppo molto am pio; riesposizione senza il primo gruppo tematico e con una pero razione finale in si maggiore. I due gruppi tematici sono di carat tere espressivo contrastante, lo sviluppo è un vero sviluppo (non,
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come nella Sonata op. 35, una specie di improvvisazione sul pri mo tema), la conclusione è trionfale. Tutto come si conviene ad un primo tempo di sonata: e proprio questa adesione all’idea ar chetipica della sonata è indice, a parer mio, di una fase di rifles sione, di meditazione sulla storia. Ad indicare però che la rifles sione non è rifacimento sta la sonorità: una sonorità che manca di peso, di incisività, che non persegue il fasto, la spettacolarità, la diretta pressione psicologica sull’ascoltatore, e che ha invece quei caratteri di distaccata luminosità che definiscono il manieri smo decadentistico. La magia del suono è il carattere specifico dello scherzo, bre vissimo, con una parte centrale in guisa di corale. Sono da notare, come già s’è accennato, i rapporti di tonalità tra il primo e il se condo tempo. Il primo tempo è in si minore con conclusione in si maggiore;- lo scherzo è in mi bemolle maggiore (tonalità della terza maggiore superiore), e con la parte centrale in si maggiore. Il rapporto di terza maggiore superiore, tipicamente schubertiano, lega i due tempi, mentre all’interno del primo tempo i rapporti di tonalità sono classici, mozartiano-beethoveniani. In si maggiore è il largo in forma di grande canzone, con una prima parte a modo di aria vocale su un accompagnamento da me lodramma, e con una parte centrale in mi maggiore, di tipo improvvisatorio, preludiante. Le tonalità di si maggiore (cinque ta sti neri) e di mi maggiore (quattro tasti neri) comportano una po sizione della mano con indice, medio e anulare distesi, e questa posizione si presta particolarmente per ottenere la qualità di suo no che annulla, ad esempio, la pregnanza emotiva della melodia vocalistica del largo. Il finale è in una forma mista, intermedia tra quella della canzone e quella del rondò: primo tema in si mi nore, secondo gruppo modulante su varie tonalità, primo tema in mi minore, secondo gruppo tematico, primo tema in si minore, coda in si maggiore. La concitazione del finale è perseguita attra verso una pulsazione ritmica costante, implacabile, e attraverso l’aumento della densità ritmica dell’accompagnamento ad ogni ri torno del primo tema. A questo proposito è da notare che Liszt scrisse una variante per l’ultima apparizione del primo tema, va riante che «corregge» la sonorità di Chopin rendendola molto più intensa. Liszt non aveva colto la dimensione manieristica di tutta la sonata, e trovava una sproporzione tra l’idea, tra il gesto so noro e l’effettiva sonorità. La sua correzione riconduceva ad un
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rapporto diretto, tradizionale, la progressione del finale fino al cul mine di sonorità della coda, ma faceva perdere il distacco deca dentistico che Chopin aveva posto tra la materia musicale e la partecipazione emotiva del compositore. Questo è invece, a parer mio, il significato vero della sonata, il ’significato storico che definisce la sua eccezionalità nell’ambito della letteratura pianistica del romanticismo: carattere che fa, del la «normale» Sonata in si minore, un unicum pari alla «mostruo sa» Sonata in si bemolle minore.
La Sonata di Alkan Ho poc’anzi citato le sonate di Thalberg e di Alkan, e la se conda Sonata, op. 65, di Heller, come esempi di un risveglio di interesse per la forma della sonata che si avverte verso la metà degli anni quaranta. Potrei aggiungere la Sonata op. 14 di Joa chim Raff, composta verso il 1845, la Sonata op. 17 del futuro curatore della edizione delle opere di Mendelssohn, Julius Rietz, che venne pubblicata verso il 1848, e le due sonate, op. 1 e op. 5, di Louis Ehlert, all’incirca dello stesso periodo: l’op. 5 si segnala anche per il titolo, Sonate romantique, che lascia intravvedere una qualche storicizzazione di un’esperienza creativa ancora in essere. Potrei aggiungere all’elenco un anziano musicista, l’ultimo dei Biedermeieristi, cioè Ludwig Spohr, che pubblica la sua prima ed unica Sonata per pianoforte, op. 125, nel 1843, nonché Friedrich Kalkbrenner, che... esce dal letargo nel 1845, dopo che da quasi vent’anni aveva abbandonato le forme classiche, pubblicando la Sonata op. 177. Potrei aggiungere l’ultima e più caratteristica sonata di Cari Loewe, la Tdgeuner-Sonate (Sonata zingaresca) op. 107 pubblicata nel 1847, che è in cinque tempi e che, grazie ai vagabondaggi di cui gli zingari son maestri, può permettersi di contenere e una Marcia indiana e una tarantella. O potrei citare l’invenzione di Gustav Krug, che scopre la trisonata prima che Wagner abbia scoperto la trilogia: tre'sonate da lui pubblicate tutte assieme nel 1845, al modo antico di Beethoven, sono riunite sotto il titolo generale Quadri sonori caratteristici e raccontano la storia di una coppia, con tanto di corteggiamento, fidanzamento, nozze, bufera familiare e gran finale. Tra tutte queste sonate, l’unica che meriti
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veramente oggi una riflessione critica è quella di Charles Valen tin Alkan. Alkan condensa in quattro tempi, neppur lunghissimi, quel che il Krug aveva sparso in tre sonate e in sedici tempi: il primo tem po della sua Sonata op. 33 è intitolato «20 anni», il secondo «30 anni. Quasi-Faust», il terzo «40 anni. Una felice vita fami liare», il quarto «50 anni. Prometeo incatenato». Non meno ec centriche certe didascalie: «ridendo», «palpitante», «timidamen te», «amorosamente», «con felicità», «bravamente», «vittoriosa mente» nel primo tempo, «satanicamente», «il diavolo», «con candore», «passionatamente», «senza pietà», «supplicante», «con disperazione», «lacerante», «con felicità», «con delizie», «con con fidenza» nel secondo tempo, «con tenerezza e quietudine», «i bam bini», «amorosamente», «la preghiera», «gentilmente» nel terzo tempo; nel quarto tempo non ci sono particolari didascalie, ma una citazione, all’inizio, del Prometeo di Eschilo. Conviene a questo punto leggere la prefazione di Alkan, assai poco nota e, se non erro, mai tradotta in italiano: Si son dette e scritte molte cose sui limiti dell’espressione musicale. Senza adottare tale o talaltra regola, senza cercar di risolvere alcuna delle vaste questioni sollevate da tale o talaltro sistema di dottrina, dirò semplicemente perché ho dato certi titoli a questi quattro pezzi ed usato talvolta termini del tutto inusitati. Non si tratta affatto, qui, di musica imitativa; ancor meno di musica che cerchi la sua giustificazione, la ragione del suo effetto e del suo valore, in un contesto extra-musicale. Il primo pezzo è uno Scherzo, il secondo un Allegro, il terzo e il quarto un Andante e un Largo; ma ciascuno d’essi corrisponde, nelle mie intenzioni, a un momento dato dell’esistenza, dell’immaginazione. Perché non dovrei indicarlo? L’e lemento musicale sussisterà sempre, e l’espressione non potrà che giovar sene; l’esecutore, senza abdicare in nulla al suo sentimento musicale, si ispirerà alla stessa idea del compositore. Nomi e cose di questo genere sembrano scontrarsi, presi in un’accezione materiale, mentre si combinano perfettamente nel campo intellettuale. Ritengo dunque d’esser meglio com preso e meglio interpretato con queste indicazioni, per quanto ambiziose possano apparire a tutta prima, che senza di esse. Mi sia del resto concesso d’invocare l’autorità di Beethoven. Si sa che, verso la fine della carriera, il grand’uomo lavorava a un catalogo ragionato delle sue principali opere, nel quale avrebbe dovuto indicare secondo quale piano, quale ricordo, quale genere d’ispirazione le aveva concepite.
Le ultime affermazioni sono del tutto fantastiche, beninteso. Le
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altre rappresentano una testimonianza, preziosa, di un indirizzo di gusto che nasce nella temperie culturale del romanticismo fran cese dominato da Berlioz e dal giovane Liszt. Indirizzo di gusto che porta Alkan ad agire con estrema libertà sulle strutture conso lidate della tradizione, in un modo anche più disinvolto ed audace di quello di Chopin. Il primo tempo, scherzo, è in re maggiore con trio in si maggiore, ripresa in re maggiore e conclusione in si mag giore; il secondo tempo è in fa diesis maggiore, il terzo in sol maggiore, il quarto in sol diesis minore. Il piano tonale non è né classico né basato, schubertianamente, su rapporti alternativi ma simmetrici. Ciò che muove la fantasia di Alkan è il colore tim brico che la tonalità acquista sul pianoforte, e così egli può in frangere tranquillamente la regola che impone inizio e fine di una sonata nella stessa tonalità o nella tonalità corrispondente dello stesso nome (ad esempio, do minore-do maggiore). Se per i ven tanni dell’eroe alkaniano vanno bene il re maggiore e il si mag giore, per i cinquanta ci vuole il sol diesis minore, perché non so no solo i temi ad esprimere l’intenzione, ma anche i colori. Si pensa subito, naturalmente, a Mahler, e si pensa inoltre a Mahler per le caratteristiche di una strumentazione che gioca sui contrasti tra gli accumuli massimi di volumi e la massima traspa renza. Si incontrano nella sonata passi di questo genere (e si os servi il pedale tenuto):
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Ma si incontrano anche passi come questo: limidemf’nt
E questo passo viene ripreso in una variante in cui la sempli cità si sposa con una perfetta sapienza dell’effetto pianistico:
La sonata di Alkan è di diffìcilissima esecuzione, specie nel se condo tempo, che presenta passi di accordi e un fugato al limite della non-realizzabilità. Non si tratta però di un virtuosismo spet tacolare e che, per così dire, «paghi» in termini di redditività di immagine; né l’invenzione musicale, pur ricca, è di tale portata da stimolare gli esecutori a risolvere i trabocchetti tecnici, né il progressivo spegnersi della composizione, dopo il culmine di esal tazione del secondo tempo, è fatto per scuotere il pubblico, che s’aspetta un finale di tutt’altro tipo. Ed infine, in una cultura nel la quale si pensa e si ascolta la musica senza legarla ad immagini, l’audizione di un’opera come la Sonata op. 33 è ardua e poco soddisfacente, perché le immagini - e lo abbiamo visto - sono invece parte costitutiva della poetica di Alkan. Il recupero della sonata, che a parer mio costituirebbe un’acquisizione indubbia mente positiva, sembra dunque esser legato ad una evoluzione del gusto di oggi, che potrebbe verificarsi, e ad un risveglio di in teresse per il virtuosismo in sé, che già si sta verificando. Per ora, il numero delle esecuzioni pubbliche è limitatissimo, ma il futuro dovrebbe forse diventare per Alkan più benigno di quanto non sia stato il passato.
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Le sonate di Liszt e di Brahms La sonata di Liszt, scritta poco più tardi di quella di Alkan, impiegò una trentina d’anni per entrare in repertorio e fu gene ralmente vituperata dalla critica con temporanea. Ma la sonata di Liszt vinse la sua battaglia nell’arco di una sola generazione per ché rappresentava e un traguardo storico e la conclusione di un’epoca, e perché superava persino, sublimandola, l’estetica del caratteristico e della musica a programma che aveva guidato la creatività lisztiana a partire dAV Album d’un voyageur (183>-36). Tutti i problemi che erano stati affrontati dal 1830 circa arri vano infatti a maturazione tra il 1852 e il 1853, con Liszt e con Brahms. Le tre sonate di Brahms (op. 1, op. 2, op. 5) ripren dono il problema della sonata in termini neoclassici. Il riferimen to al Beethoven dell’op. 106, nell’op. 1 di Brahms, è evidente e fu subito messo in luce:
Brahms non riconsidera tuttavia il problema della sonata nei termini in cui lo aveva posto e risolto l’ultimo Beethoven, e cioè di conciliazione di principi barocchi e di principi classici del com porre, di fuga e di tematismo. La riassunzione dei principi baroc
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chi, la presa di coscienza del passato remoto avverrà in Brahms dopo l’esperienza delle sonate: inizierà con le due Sarabande e le due Gighe, si svilupperà nelle Variazioni op. 21 n. 1 e culminerà nelle Variazioni e fuga su un tema di Handel. Il passato prossi mo, la classicità è invece il momento della storia della civiltà che Brahms, scavalcando il romanticismo, intende far rivivere nelle sonate, e che ricompare, simbolicamente citato all’inizio dell’op. 1, con l’ombra della Sonata op. 106 dalle ciclopiche dimensioni. Non sappiamo se fosse questa la ragione - o se la ragione fos se, più banalmente, di opportunità editoriale — che indusse Brahms a pubblicare come opera 1 la Sonata in do maggiore, scritta in realtà dopo la Sonata in fa diesis minore op. 2. La Sonata op. 2, che è un po’ più breve dell’op. 1, è anche, per certi versi, più schumanniana e sembra non ignorare Chopin, per lo meno nel l’ultima pagina, che richiama la conclusione della Barcarola op. 60; il Beethoven che guida i passi del diciannovenne Brahms è quello del periodo di mezzo, quello della Sonata op. 69 per pianoforte e violoncello e quello delle geometriche strutture della Sonata op. 81 per pianoforte. Ma non è il caso di andar troppo a ricercare le fonti ispirative di Brahms e nemmeno di discutere se egli conoscesse o no - a di re il vero, sembrerebbe che non la conoscesse ancora - l’opera di Chopin. È importante invece segnalare l’apparire della personali tà di Brahms, inconfondibile già qui nella individuazione di una scrittura pianistica molto piena ma di sonorità non squillante e non priva di certe «scomodità» manuali che hanno un senso so lo se finalizzate a un suono. Ne ho parlato a proposito della Sonata op. 58 di Chopin e del la versione alternativa di Liszt per un passo del finale. In Brahms, fin dalla Sonata op. 2 e fino alla Rapsodia op. 119 n. 4 che con clude il suo catalogo pianistico, si trovano passi che fanno pensa re ad una strana incapacità di trovare le soluzioni strumentali più logiche. Ma la scrittura brahmsiana è da mettere in relazione con l’appartenenza dell’autore ad una generazione diversa da quella dei primi romantici, e quindi con una continuità dalla quale non è esclusa la visione critica del più vicino passato e la volontà di differenziazione; da ciò una disposizione degli eventi sonori che, non essendo eufonica, si pone come alternativa rispetto alle ri cerche di eufonia che erano state sviluppate da certo Chopin, da Liszt, da Thalberg, da Henselt, e che riprende certa scrittura schu-
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manniana in una dimensione concertistica da Schumann appena in travista. Strutturalmente, nella Sonata op. 2 si nota, oltre alla logica delle proporzioni del primo e specialmente dell’ultimo tempo, il collegamento dei due tempi intermedi, basati sullo stesso tema. Il secondo tempo è un tema con tre variazioni; lo scherzo, in for ma tradizionale, riprende il tema del secondo tempo in un modo riconoscibilissimo anche alla semplice audizione. Tutta la sonata è formalmente compattissima, e rappresenta un esordio non inde gno — anzi, persino migliore - di ciò che alla stessa età di Brahms avevano fatto Mendelssohn, Chopin e Schumann, per non parla re di Beethoven, che in fatto di precocità non può competere con nessuno dei romantici. L’idea di legare insieme i due tempi intermedi viene mante nuta nella Sonata op. 1, sia pure ad un grado di minore integra zione perché l’andante e lo scherzo sono basati su temi diversi. L’andante è un tema con tre variazioni molto libere, quasi varia zioni-improvvisazioni, e il tema, dichiara Brahms, è tratto «da un’antica canzone d’amore tedesca», che viene citata con le pa role e, nella prima metà, con l’alternarsi di solista e coro che è propria del canto popolare. Il canto popolare si inserisce benissi mo nel tessuto musicale della sonata: forse, perché non era pro prio un canto popolare, come Brahms credeva, ma un’imitazione di Anton Wilhelm Florentin von Zuccalmaglio, composta verso il 1840... Il ricorso al canto popolare, pur presunto, è comunque un tratto di novità in una composizione che di novità è ricca. Ad esempio, lo schema tonale del primo tempo non tiene conto del la tradizione, ma la rinnova inventando relazioni inedite: primo tema in do maggiore e secondo in la minore (invece che in sol maggiore) nell’esposizione, primo tema in do maggiore e secondo tema in do minore (invece che in do maggiore) nella riesposizio ne. Il secondo tempo è in do minore, tonalità non del tutto or dinaria rispetto al do maggiore del primo tempo, ma lo scherzo è in mi minore, tonalità completamente inattesa. Ed inattesa è la tonalità del trio dello scherzo: do maggiore invece che sol mag giore. Brahms, insomma, lavora su relazioni tonali per niente affatto tradizionali, come lo Chopin della Sonata op. 58, trattando lo sche ma con quello spirito di sperimentazione e di ricerca che era sta to di Beethoven e soprattutto di Schubert, e che gli studi teorici
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degli anni quaranta tendevano invece ad irrigidire in strutture esemplari e privilegiate. Ed è la stessa idea della Sonata in do maggiore, che esce rinnovata dall’op. 1 di Brahms. Rispetto all’op. 2, Pop. 1 dimostra una maggiore attenzione al Beethoven «terzo stile». Non sono soltanto la citazione simbolica della Sonata op. 106 o gli sviluppi fugati del primo tema, a ri cordarci l’ultimo Beethoven; è, soprattutto, la derivazione di tut ti i temi da un’unica cellula: Brahms dimostra di aver acquisito un procedimento di segreta unificazione delle strutture a cui Bee thoven era pervenuto negli ultimi anni, specie con i tardi quar tetti per archi. E questa tecnica compositiva, più sottile e più ap profondita di quella, analoga, sperimentata da Chopin nella Sona ta op. 35, non abbandonerà più Brahms. Anche la Sonata op. 5 è tutta basata su una sola cellula tema tica, di tre -suoni. Nella Sonata in fa minore la tecnica della co struzione viene però assai meglio trascesa da significati poetici di valore assoluto: il che spiega la grande popolarità di questa com posizione, popolarità che data dagli ultimi due decenni circa dell’Ottocento. Brahms - un po’ come lo Chopin dell’op. 35 - costruì la so nata intorno al secondo tempo, che venne composto per primo e che fu dapprima seguito dal quarto, poi dagli altri tre. Il secon do tempo, andante espressivo, reca come epigrafe tre versi di C.O. Sternau: Viene la sera, brilla la luce lunare, Due cuori fusi in amore S’uniscono nell’estasi.
Questo brano brahmsiano, assai più che la Sonata op. 27 n. 2 di Beethoven, avrebbe dunque potuto ambire al titolo apocrifo Chiaro di luna\ Perché è proprio la costruzione del pezzo che ri specchia i versi citati da Brahms. La prima parte è costruita co me una canzone (A - B - A'), con un quieto svolgersi di una li nea melodica (la sera illuminata dalla luna), un duettino accom pagnato da accordi ribattuti, la riesposizione variata, con una più morbida, estatica sonorità, della melodia iniziale. Anche la secon da parte è in forma di canzone, con due varianti contrastanti di uno stesso tema, la prima «estremamente leggera e dolce», la seconda «con passione e molto espressivo». Brahms ripete quindi, varian dola, la prima parte. Ma la grande sorpresa arriva quando il pezzo,
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apparentemente, si sta spegnendo, come svanendo nel nulla. Un’ul tima grande sezione inizia allora su un la bemolle ribattuto al bas so, ed è il più bel tema di un duetto d’amore, ciò che l’ascolta tore incantato sente sorgere dalla tastiera e crescere fino ad un cul mine degno, che so?, del second’atto del Tristano. Poi tutto si placa, mentre la notte lunare avvolge gli amanti. Degno del Tristano, che era già stato composto quando Wag ner ascoltò a Vienna, nel 1863, la prima esecuzione pubblica del la sonata, presentata dallo stesso Brahms. Degno comunque del l’attenzione di Wagner che, come Max Kalbeck fece notare, se ne ricordò in un episodio di Hans Sachs, nei Maestri cantori che stava allora componendo. Dopo il secondo tempo Brahms, come dicevo, scrisse il quar to, l’intermezzo con il sottotitolo Rimembranze e basato sul pri mo tema del secondo tempo, ripreso in un clima espressivo cupo, persino funereo. Se una parte del secondo tempo ricorda Wagner, il quarto tempo ricorda Liszt, e in particolare (batt. 19-22) un momento della Ballata in si minore che Liszt aveva composto tra il 1852 e il 1853. È impossibile sapere se Brahms avesse ascol tato da Liszt la ballata, durante la sua visita a Weimar del 1853, o se avesse fatto ascoltare a Liszt l’intermezzo. Ma questo punto di contatto tra i due musicisti che nella seconda metà del secolo sarebbero stati visti come esponenti di due indirizzi opposti e in conciliabili della creazione musicale è emblematico e pone il Brahms dell’op. 5, a parer mio, al di qua di quel traguardo ultimo che è rappresentato dalla sonata di Liszt, culmine assoluto della sonata romantica. E perciò parlo di Brahms prima di parlare di Liszt, sebbene il primo sia di ventidue anni più giovane del secondo. Intorno ai due tempi, il cui contenuto emotivo è evidente e fortissimo, Brahms crea la sonata. Un primo tempo sorprenden temente conciso e basato su due soli tempi principali (senza tema di collegamento e senza tema di conclusione), uno scherzo che, se il lettore accetta l’espressione, direi ebbro di vita panica, con al centro un corale grave e strumentato in modo da suggerire la sono rità dell’organo. Nel corale ricompare però un cupo rintocco di quattro suoni, che già si trovava nel primo tempo e che diven terà rullo funereo nell’intermezzo. E si pensa anche qui - come in Weber e in Chopin - a un sottofondo programmatico inespres so ma ben presente. Il finale non conferma in verità un ipotetico programma, co-
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m’era del resto da aspettarsi dopo una pagina di desolazione qual è l’intermezzo. La sonata di Alkan, con la sua coerente progres sione, drammatica, non è spettacolarmente efficace; la Sonata op. 26 di Beethoven è concertisticamente eccellente ma mette in im barazzo i commentatori che vogliono trovare un rapporto tra la Marcia funebre (terzo tempo) e un finale che sembra uno studio di agilità. Il finale della Sonata op. 5 comincia in modo improvvisatorio e progredisce fino ad una entusiasmante perorazione; ed è, perciò, di sicura resa concertistica. Non c’è dubbio, però, che il finale non appaia un po’ convenzionale, dopo l’intermezzo che amplia lo schema della sonata (cinque tempi invece di quattro) e che viene costruito con una Stimmung opposta, su un tema già noto all’ascoltatore. Ma anche il finale, pur non legando program maticamente con l’intermezzo, è ricco di episodi che rispondono alla poetica del caratteristico: per esempio, l’episodio in sol be molle maggiore (dalla batt. 78) è una specie di serenatala. Viene allorii in mente la... trisonata del Krug, in cui non man cava, nella fase del corteggiamento amoroso, la serenata. C’è, si capisce, una distanza siderale tra Brahms e il Krug, come c’era tra Weber e l’Henrich. C’è però un terreno di comune cultura, ed è quello su cui possono fiorire le rozze iniziative del Krug co me le ricerche sui motivi ispiratori delle sonate di Beethoven e in particolare dell’op. 27 n. 2, che colpisce la fantasia dei roman tici e scatena l’immaginazione dei commentatori. Malgrado il suo culto per Beethoven, Brahms non può veramente riallacciarsi al la Sonata op. 106 e non riaffronta il problema di inserire nello schema della sonata la fuga. Malgrado il contrasto che si va già delineando con Liszt, nel 1853 egli si muove ancora in una dimen sione culturale in cui il rivoluzionario sommo era stato, con Ber lioz, Liszt. Ed è il sommo rivoluzionario quello che chiude la parabola della sonata nella cultura romantica tedesca e francese. Liszt affronta infatti il problema in termini, nella radice, au tenticamente beethoveniani: la sonata come sintesi suprema di tut to il passato. Il tematismo classico viene inteso nel senso radi cale non solo dello sviluppo, ma della trasformazione tematica e dell’unità tematica quale garante della struttura, secondo la posi zione già adombrata nelle sonate e soprattutto nei concerti di Mendelssohn, e che Liszt porta a compimento. Come Mendels sohn, e in modo molto più radicale, Liszt elimina poi la divisione in più tempi, unificando la composizione: la Sonata in si minore
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è in realtà un enorme allegro bitematico classico, in cui, tra l’espo sizione e lo sviluppo, viene inserito un adagio, citato ancora ver so la fine. Il beethovenismo di Brahms, potremmo dire, è tecnico: Brahms riprende da Beethoven il principio della costruzione di più temi originati da una sola cellula. Il beethovenismo di Liszt è cultu rale: così come Beethoven aveva cercato di pervenire alla sintesi di ciò che la composizione per strumento a tastiera era stata prima di lui e con lui, Liszt intende portare a compimento ciò che la storia aveva prodotto dopo Beethoven. In questo senso è soprat tutto interessante il lavoro di trasformazione dei temi. La cita zione in Mendelssohn — l’abbiamo notata nella sua Sonata op. 106 - aveva ancora l’aspetto e la funzione della reminiscenza nel la musica teatrale, mentre la trasformazione tematica di Liszt si accomuna al leitmotiv wagneriano. C’era il precedente di Schu bert: Schubert, nell’op. 15, che era però una fantasia monotema tica, non una sonata, aveva costruito un ampio brano in quattro tempi con temi tutti derivati dalla melodia di un suo Lied, Der Wanderer. Liszt, pur seguendo l’esempio di Schubert, mantiene tuttavia il pluritematismo della sonata classica: un tema, molto breve, di introduzione; un primo gruppo tematico con due nu clei; un secondo tema contrastante con il primo: gli elementi clas sici della forma-sonata. Con questo materiale viene costruito un monumentale, stermi nato «allegro di sonata», con i temi che si trasformano rimanen do però sempre riconoscibili dall’ascoltatore. In questo senso la concezione lisztiana è molto diversa da quella di Brahms e di Chopin, perché l’unità di costruzione della composizione non è sottesa, segreta, ma palese, dimostrativa. Un quarto tema com pare solo nella parte centrale, non viene mai modificato, ed è appena citato poco prima della fine. Questa singolarità ha mosso la curiosità dei commentatori, che si sono chiesti se la sonata dell’inventore della «musica a pro gramma» sia o no, essa pure, musica a programma. La musica di Liszt è ricca di titoli programmatici e, talvolta, di epigrafi espli cative. E proprio per ciò non dovrebbero esser programmatiche le composizioni - ballata, sonata - che non hanno titoli specifici. Ciò non toglie che un interprete non sospetto di sentimentalismo, come Claudio Arrau, non abbia visto nella Ballata n. 2, basan dosi sul simbolismo musicale di Liszt, una specie di poema sin
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fonico sul mito di Ero e Leandro. Il fatto che il tema della parte centrale della sonata non venga mai trasformato ha suggerito un paragone con la Sinfonia Faust, scritta quasi contemporaneamen te alla sonata (1853-1854), nella quale non viene trasformato il tema di Margherita. Nel Faust, che è in tre «ritratti», il ritratto di Mefistofele è tutto basato su trasformazioni dei temi di Faust, perché - la spiegazione può sembrare intellettualistica, ma Liszt la risolve perfettamente sul piano creativo - Mefistofele è lo spi rito della negazione. Mefistofele non ha tuttavia nessun potere su Margherita, i cui temi restano perciò sempre intatti. Per analo gia si è pensato che già la sonata rappresentasse una visione del mito faustiano nella particolare accezione, non esclusa l’identifi cazione autobiografica, ch’esso assume in Liszt. E la supposizione, sebbene non certa, non pare comunque da scartare. Con la sonata, Liszt creava una forma che non aveva prece denti e che non avrebbe avuto un seguito storicamente rilevante. Già lo Shedlock, nella sua storia della sonata pubblicata nel 1895, si chiedeva pittorescamente se la sonata di Liszt fosse il rogo da cui la forma classica, Araba Fenice, sarebbe risorta. Molti anni più tardi, William S. Newman constatò come l’esempio di Liszt avesse avuto un seguito minimo nel campo della sonata per pia noforte solo, e come fosse stato piuttosto seguito in opere sinfo niche di Strauss, di Sibelius, di Schoenberg. La Sonata in si mi nore visse solitaria, a parer mio, a causa dell’ineguagliata sapien za di strumentatore al pianoforte, che Liszt possedeva. Le inven zioni dell’armonia e della trasformazione dei temi non bastereb bero a rendere discorsivamente compatta una forma continua di una durata enorme (circa mezzora), se la materia musicale non fosse perennemente riplasmata nel timbro. Nella sonata di Liszt confluiscono, insieme con le scoperte di Schubert e di Mendels sohn, anche gli ideali degli Studi sinfonici di Schumann (la gran de forma è basata sulla trasformazione e del tema e della sonorità, e la sua strumentazione sfrutta fino in fondo l’esperienza di cir ca vent’anni di intense ricerche sul pianoforte romantico dal te laio misto e dai martelletti ricoperti di feltro). L’Araba Fenice brucia veramente nel rogo della Sonata in si minore. E risorge dalle ceneri; ma, come vedremo, per vivere dentro un’altra civiltà.
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La sonata nella seconda metà delUOttocento La soluzione di Brahms e la soluzione di Liszt danno origine, potremmo dire, a due correnti di pensiero della cultura tedesca nella seconda metà dell’ottocento. Ma né Liszt né Brahms, che pure ritorna sulla forma della sonata con ben sette composizioni (le tre sonate per violino, le due per violoncello, le due per cla rinetto), riprendono più in considerazione la sonata per pianofor te solo. Il genere è quindi appannaggio dei loro epigoni e degli epigoni di Mendelssohn e di Schumann, nessuno dei quali ha una statura storica tale da offrire soluzioni nuove; né Reger, al termi ne dell’epoca romantica, andrà oltre la sonatina (quattro Sonati ne op. 89). Tra i compositori sensibilmente influenzati da Mendelssohn ri corderò August Gottfried Ritter, Ferdinand Hiller e, più interes santi, Robert Volkmann (la sua Sonata op. 12 è del 1855 circa) e Hermann Goetz, la cui Sonata op. 17 a quattro mani viene tal volta eseguita ancor oggi; mendelssohniana è la Sonata op. 5 del sedicenne Richard Strauss (1880-1881), di una freschezza e di una spontaneità inventiva e di una maturità nel dominio della forma che può essere paragonata solo a quella del Mendelssohn adolescente. Tra i compositori che seguono la lezione brahmsiana (e schumanniana) si distinguono soprattutto Adolf Jensen, autore di una Sonata in fa diesis minore op. 25 dedicata a Brahms, Karl Gràdener, Ignaz Bruii, Robert Fuchs, Joseph Rheinberger, autore di quattro sonate, tra le quali è specialmente notevole la Romantica op. 184, ed infine il grande pianista Eugène d’Albert, allievo di Liszt e sommo interprete brahmsiano, la cui Sonata op. io, pub blicata nel 1893, prende come scoperto punto di riferimento il giovane Brahms e si conclude con una fuga. Tutti i grandi pia nisti, che erano in genere compositori, scrissero sonate di estre mo impegno virtuosistico e di monumentali proporzioni: Conrad Ansorge, Emil von Sauer, Leopold Godowsky, e il Giove dei con certisti, Ignaz Paderewski, ci hanno lasciato sonate, qual più qual meno, terrificanti alla vista ma non del tutto indegne di atten zione. Tra i pochi seguaci di Liszt si distingue sopra tutti Julius Reubke, morto a ventiquattr’anni nel 1858. La sua Sonata in si bemol le minore, composta circa un anno prima della morte, dimostra uno studio approfondito e una imperiosa «appropriazione» dei
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principi lisztiani, anche sotto l’aspetto della scrittura pianistica. Felix Draeseke compose negli anni sessanta la Sonata quasi fan tasia op. 6 in tre tempi, influenzata soprattutto dalla scrittura pianistica di Liszt, che rimase in repertorio per una quarantina d’anni (fu ancora eseguita da Edwin Fischer); Rudolf Viole, al lievo di Liszt, compose ben undici sonate, la prima, op. i, pub blicata nel 1855, l’ultima pubblicata postuma nel 1871 (il Viole era morto nel ’67). Molto più tardi, addirittura dopo la grande guerra, scrisse una sonata di stampo lisztiano l’organista Sigfrid Karg-Elert. Come si vede, nella cultura tedesca la sonata per pianoforte solo non si sviluppa in una vita artistica rigogliosa durante il tar do romanticismo. Né il panorama cambia se dalla Mitteleuropa ci spostiamo in Francia. Anche in Francia si verifica infatti lo strano fenomeno che la forma della sonata è adottata dai maggio ri compositori nella musica da camera, ma non nel campo del pia noforte solo: né Saint-Saèns, né Franck, né Fauré si azzardano a scendere su un terreno che sembra... pericoloso e in cui, del re sto, i concertisti hanno da far conoscere un repertorio talmente vasto - da Beethoven a Brahms - da non richiedere ulteriori ag giunte. Vi si azzarda la compositrice-pianista Cécile Chaminade con una Sonata in do minore op. 21, pubblicata nel 1895, che si fa no tare solo per un curioso motivo: dopo una specie di breve im provvisazione mendelssohniano-schumanniana, il primo tempo pro segue con una fuga, che si trova quindi collocata in una posizione molto eccentrica. Ma non è che un tocco di femminile civetteria, perché il resto della sonata non fa ombra a nessuno. Per tutto il corso del secolo, dopo la sonata di Alkan, la cultura francese non presenta che altre due sonate di Heller (op. 88, molto nota, e op. 143), la Sonatina dello stesso Alkan (1861) e la sonata di Guillaume Lekeu, il compositore belga morto giovanissimo, che intende il termine «sonata» in un senso arcaico: la sua sonata (1891) è infatti in cinque tempi, con due fughe e senza neppur l’ombra di un allegro in forma-sonata. Bisogna arrivare alla so nata di Dukas (1899-1900) e soprattutto alla Sonatina di Ravel (1905) per ritrovare composizioni di rilevanza storica; ma, a quel punto, la cultura francese non sarà più romantica. È difficile valutare, oggi, le correnti sotterranee che influenza rono le scelte dei compositori. Ma è evidente che un artista come
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Saint-Saèns, pianista concertista e compositore che sapeva tratta re con disinvoltura tutte le forme classiche, non avrebbe incon trato difficoltà a. scrivere sonate per pianoforte se avesse avuto probabilità di vedersele frequentemente eseguite. Ai tempi di Mo zart e ai tempi di Beethoven la sonata per pianoforte solo era sta ta destinata all’uso, alla lettura dei dilettanti colti. Nella seconda metà del secolo xix il consumo privato stava invece scomparendo a vantaggio del consumo pubblico, e nel repertorio che si stava formando il posto, lo spazio riservato alle sonate, veniva occu pato in primo luogo da Beethoven, e poi da Weber, Chopin, Schu mann, e infine da Liszt e da Brahms (Mozart e Schubert, in quan to sonatisti, sono praticamente assenti nel repertorio concertistico dell’Ottocento). In questa situazione di mercato, o di assenza di mercato che dir si voglia, i maggiori compositori non affron tano la sonata, o tutt’al più la riprendono nei termini essenziali ed astratti del grande trittico, coma fa Franck nel Preludio, co rale e fuga e nel Preludio, aria e finale, che possono essere ideal mente collegati alla sonata di Liszt, ma che sonate non sono. Nella cultura italiana, verso la metà del secolo, si trova un ri flesso delle culture francese e tedesca con Stefano Golinelli, le cui cinque sonate per pianoforte solo (op. 30, 53, 34, 70, 140) vengono pubblicate tra il 1844 e il 1859. Golinelli è stilisticamente vicino soprattutto a Mendelssohn, e quindi finisce per tro varsi su posizioni attardate rispetto a Liszt e a Brahms; può es sere accostato a un mendelssohniano come Ferdinand Hiller, di cui era del resto amico personale, e, come Hiller, è compositore che sa rendere con tenue eleganza le complesse strutture sonatistiche. Le sue sonate sono dunque discorsivamente attraenti, ma nell’in sieme il suo lavoro non supera i limiti della testimonianza di una sensibilità a problemi storici che un Brahms e un Liszt e, come vedremo, anche un Anton Rubinstein affrontavano con una ben maggiore capacità di incidere nella storia. Non si tratta tanto di virtù creative: non per nulla ho citato, accanto a Liszt e a Brahms, Anton Rubinstein, che non è certo fi gura di creatore tra le maggiori del suo tempo. Ma Rubinstein, che parte da posizioni non molto dissimili da quelle di Golinelli, diventa l’iniziatore di una cultura nazionale, mentre l’iniziativa di Golinelli non ha, praticamente, un seguito. L’unica sonata, op. 34, di Giuseppe Martucci è tra le sue composizioni meno note, la Gran Suonata Sinfonica a quattro mani di Franco Faccio è una
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specie di trascrizione da una sinfonia o di cartone per una sin fonia, e la Sonata di Edgardo del Valle de Paz, che vinse nel 1892 un concorso nazionale, non esce dal campo del volonteroso acca demismo epigonico; né mi sembra destinata ad attirare l’atten zione degli studiosi, sebbene incomparabilmente più originale, la Sonata che Carlo Rossaro dedicò a Wagner. All’inizio del nuovo secolo, quando la Russia avrà Skrjabin, Alessandro Longo com porrà fra di noi le sue sette sonate che, dice il Newman, «non vanno mai fuori dall’orbita descritta da Mendelssohn e Brahms», e Amilcare Zanella comporrà la Sonata in mi bemolle minore op. 70, di scrittura agilissima, che non è però stilisticamente più evo luta di quanto siano le opere dei minori compositori salottieri te deschi come Franz Xaver Scharwenka o Moriz Moszkowsky. Non si può del resto dire che si trovino in generale esempi in teressanti di... acclimatazione della sonata nelle culture che, come la cultura strumentale italiana, nella seconda metà del secolo era no in via di formazione. È sopravvissuta al suo tempo la Sonata op. 7 di Grieg, composta nel 1865, dedicata a Niels Gade e mo dellata sulla Sonata op. 28 di Gade, vecchia di ben venticinque anni. Ma è sopravvissuta per la freschezza e la grazia delle sue melodie e, paradossalmente, perché le sue strutture, del tutto schematiche, non ne turbano la spontaneità melodica. Nella sto ria della sonata per pianoforte solo l’op. 7 di Grieg non rappre senta però più di un gradevole episodio. Un tentativo per la creazione di una cultura nazionale attraver so la sonata romantica viene compiuto negli Stati Uniti da un ami co e ammiratore di Grieg, Edward MacDowell. MacDowell scrive le sue quattro sonate - n. 1 op. 45, n. 2 op. 50, n. 3 op. 57, n. 4 op. >9 - tra il 1892 e il 1900. Come si vede, si tratta di un ten tativo cospicuo, che si sviluppa nel periodo di maggior creatività del MacDowell, scomparso quarantasettenne nel 1908 ma che, preda di una malattia mentale, cessa di comporre nel 1903. Autore fortunato di pagine bozzettistiche come i Forest Idyls e i Wooland Sketches (ah!, il «genere delle foreste» del buon Heinrich), che si ispirano a temi «americani» di vita quotidiana, Edward MacDowell si indirizza verso tutt’altri lidi quando affron ta la sonata: il contesto ideologico in cui egli vuol far prosperare la grande forma è la saga, il mito nordico, e così la Sonata n. 2, Eroica, ha il sottotitolo Flos regum Arthurus, la n. 3, Norse, è ispirata a saghe raccontate dallo scaldo di re Harald, la n. 4, Kel-
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tic, è dedicata a Grieg, «che si occupa ora di racconti celtici del tempo antico, tenebrosi versi druidici che domina, canto di Deir dre e magico sapere della caduta del grande Cuchullin». Come si vede, tra il re Artù, il re Aroldo dai denti azzurri e il grande Cuchullin siamo in pieno wagnerismo: il che rappresenta una scel ta ideologica molto precisa, per quanto sorprendente in un ame ricano. Purtroppo, però, alla scelta ideologica s’accompagna un’al trettanto precisa scelta stilistica, e il MacDowell diventa così in teramente tributario della cultura europea. Per di più, la scrittu ra pianistica delle sue sonate è non di rado molto pedestre e sug gerisce una trascrizione dall’orchestra, ma una trascrizione utilita ristica, non ricreativa (al modo di Liszt, tanto per intenderci). E ciò è sorprendente, in un compositore che era un abile pianista e che in altri lavori dimostra di possedere la tecnica di strumenta zione pianistica dei lisztiani. Mi sembra probabile che l’assunto ambiziosissimo finisse per intimidire Edward MacDowell; sicché non a lui, professore alla Columbia University, e alle sue quattro sonate va il merito di aver fondato una cultura nazionale, ma a un mezzo dilettante come Charles Ives e alla sua Sonata n. 1, scrit ta tra il 1902 e il 1909 ed ispirata, vedi caso, «alla vita di cam pagna in alcuni villaggi del Connecticut negli anni ottanta e no vanta». La sonata in Russia Nell’Ottocento solo la cultura russa sviluppa coerentemente, e si potrebbe dire ostinatamente, un rapporto con la forma della so nata, e solo la cultura russa arriva del resto a legare insieme, nella sonata per pianoforte solo, Ottocento e Novecento. Il primo sonatista russo che si fa notare fuori del suo paese è Josif Josifovic Genishta, la cui Sonata op. 9 viene nel 1841 re censita e lodata da Schumann. Ma il fondatore della cultura russa è Anton Rubinstein, che nel 1855 pubblica le sue prime due so nate per pianoforte solo, op. 12 e op. 20, e nel 1857 la terza, °P- 41Con Rubinstein, nato nel 1829, la cultura russa inizia un’assi milazione della cultura tedesca da cui deriveranno le due sonate di Cajkovskij, la sonata di Balakirev e, in tempi più maturi, quel la fioritura portentosa che comprende sonatisti come Glazunov, Rachmaninov, Skrjabin, Medtner, Miaskovskj, Prokofiev, Sosta-
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kovic. Rubinstein fu considerato dai cinque, con Musorgskij in te sta, come epigono esecrabile della cultura straniera, e in un pri mo momento venne in ciò affiancato a Cajkovskij. Sono però no ti a tutti gli sforzi di Stravinskij per affermare il «russismo» di Cajkovskij, ed oggi nessuno più si sognerebbe di vedere in Caj kovskij un epigono, uno straniero in patria. Ntutatis mutandis, bisogna, ritengo, ripensare criticamente la collocazione storica di Rubinstein. Oggi Rubinstein comincia ad apparirci come l’iniziatore di una cultura nazionale che intende sfuggire al dilettantismo, al provin cialismo, al folclorismo. Nell’azione culturale di Rubinstein si può infatti scorgere un lucido disegno, che colloca Chopin al punto di partenza di una cultura slava o addirittura di uno spostamento a est della leadership, e che, proprio perché vuole conquistare la supremazia, sente l’esigenza di fare innanzitutto sua la cultura rap presentata dalla linea Beethoven-Schubert-Mendelssohn-Schumann. Rubinstein, dunque, non come un barbaro che soccombe alla ro manità, ma come fondatore di un regno romano-barbarico: non come uno Stilicone, ma come un Teodorico. Nelle prime tre so nate, dove è facilissimo scorgere - tanto più facile perché l’autore era sui venticinque anni, quando le scrisse — le ombre dense dei grandi tedesco-viennesi, è anche facile scorgere lo sforzo di assi milazione, la ricerca dei meccanismi profondi che reggono una for ma complessa. È un momento necessario per la fondazione di una cultura che, nella Sonata n. 3, già comincia a delinearsi in modo autonomo: si veda come il secondo tempo anticipi, sia pure in una lontana prospettiva, certi tempi intermedi delle sonate di Prokofiev. Certo, le tre sonate non sono musiche che interessino veramen te di per sé, e qualcuno potrebbe osservare, come dicevo prima, che uno sforzo di assimilazione analogo a quello di Rubinstein lo compiva in Italia, negli stessi anni, Stefano Golinelli. Ma il fatto è che la Russia ebbe poi Cajkovskij e Skrjabin; e se non è colpa di Golinelli che l’Italia non nutrisse i suoi Cajkovskij e Skrjabin, è merito di Rubinstein se la Russia se li trovò in dono. La sonata rappresenta per tutti i russi, anche per i cinque, l’es senza della grande cultura tedesca. Ci si prova Musorgskij, almeno quattro volte tra il 1858 e il 1862, e non riesce a condurre in porto nemmeno una sonata. Ci si prova Balakirev nel 1855, e ci riuscirà, come diremo, solo molto più tardi. Ci si prova, e ci rie-
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see Cajkovskij nel 1865. La sua Sonata in do diesis minore è un lavoro di scuola, uno di quei lavori (fughe, quartetti, cantate, stru mentazioni) che l’insegnamento accademico alla tedesca, adottato nel conservatorio di S. Pietroburgo diretto da Rubinstein, reputa va indispensabili. L’atteggiamento di Cajkovskij è quello del buon allievo, al quale viene spiegato con dovizia di esempi illustri la storia della «forma-sonata» da Mozart a Schumann, e che viene invitato a provarcisi anche lui. Da Mozart a Schumann,... con l’ap pendice, si capisce, di Anton Rubinstein. Il titanico neoclassici smo di Brahms era fuori degli interessi di Rubinstein, e quindi di Cajkovskij. E la sonata di Liszt, che Rubinstein non eseguì mai, doveva a S. Pietroburgo essere considerata stravagante, se non diabolica. Cajkovskij si mette dunque a lavorare coscienziosamente, un po’ come stava facendo in quello stesso anno Grieg, sul modello di Gade. Come la sonata di Grieg, anche quella di Cajkovskij è piacevole, malgrado la sua evidente scolasticità e gli altrettanto evidenti imprevisti schumanniani, che non starò qui ad enume rare. Faccio notare invece che accanto a Schumann, in modo meno scoperto ma visibilissimo, compare lo Schubert sonatista (parec chi tratti del primo tempo, finale del secondo tempo, qualche mo mento del terzo): Schubert non era certamente un sonatista in odore di santità presso i professori di composizione, e l’attenzione che il Cajkovskij venticinquenne gli dedica è già, di per sé, segno di originalità. Originalità che non è di Cajkovskij, ma già di Ru binstein, e che rappresenterà una costante della cultura russa fino a certo «schubertismo» delle Sonate di Prokofiev. Un altro segno di originalità lo troviamo alla fine del primo tempo, quando tutto il discorso sembrerebbe tendere alla risolu zione consolatoria in do diesis maggiore, mentre invece, inaspetta tamente, si finisce in do diesis minore. Originale è lo scherzo, che Cajkovskij avrebbe trasferito l’anno dopo, con un nuovo trio, nella Prima Sinfonia. La sonata, in complesso, non merita a parer mio gli entusiasmi che taluni critici le hanno riservato, scorgen dovi premonizioni delle ultime tre sinfonie; ma è indubbiamente un lavoro che, insieme con la Prima Sinfonia, definisce stilisticamente gli esordi creativi di Cajkovskij. Peccato che il composito re, al contrario di quanto fece con la Prima Sinfonia, non abbia ripreso più tardi in mano la sonata per rivederne certi particolari alla luce di una più matura esperienza. La sonata rimase infatti
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tra le carte inedite e dimenticate fino al 1901, quando fu pubbli cata con il numero d’opera 80. Tredici anni dopo aver composto questo brillante saggio sco lastico, Cajkovskij scrive una più vasta e ambiziosa Sonata in sol maggiore per pianoforte solo, op. 37. Nello stesso anno Rubinstein celebra il traguardo Adopera 100 pubblicando la sua quarta So nata in la minore. Né questa, né la Sonata op. 89 a quattro mani del 1871 si fanno più notare se non per la loro ripetitività. La sonata di Cajkovskij, dopo un lungo periodo di eclisse, è tornata invece all’onore degli studi critici e delle cronache concertistiche. Nel 1878 Cajkovskij è artista ormai affermato, autore di quat tro opere, quattro sinfonie, un concerto per pianoforte. Sinfonie e concerti sono tipi di composizioni che vanno come il pane in tutto il mondo; altrettanto dicasi delle sonate per violino e pia noforte o per violoncello e pianoforte. La sonata per pianoforte solo - l’ho già detto parlando dei francesi - è invece quanto mai fuori moda, ma Cajkovskij la sceglie e compone un lavoro in quat tro tempi, monumentale, a cui non nuoce affatto di essere toccato dall’ombra di una grande sonata romantica, l’op. 11 di Schumann, e che presenta tratti di estrema originalità, come l’inizio, che in troduce un inatteso contrasto drammatico nel corpo stesso del pri mo gruppo tematico, o come l’architettura tonale insolita del pri mo tempo. Persino la scrittura pianistica, che in Cajkovskij non fa mai gridare al miracolo, qui è varia ed efficacissima. Cajkovskij vince indubbiamente, con la sonata, la scommessa con se stesso. Non la vince con il mondo, che di nuove sonate per pianoforte proprio non vuole saperne, tutto teso com’è a divorare le appassionate e le chiaro di luna e ad assaggiare le no eie iti. La sonata di Cajkovskij vive una vita stentatissima: la esegue Nikolaj Rubinstein nel 1879, la riprendono dopo più di vent’anni Joseph Slivinsky ed Eugène d’Albert, poi Konstantin Igumnov, quindi, nel 1910, Ignacy Friedmann; nel periodo fra le due guerre la sonata trova fieri difensori nella tedesca e specialista beethoveniana Elly Ney e, nientemeno, in Sergej Prokofiev. Un po’ come la Sonata op. 14 di Schumann: pochi interpreti scelgono la So nata op. 37 di Cajkovskij, certo, ma quali interpreti! E nell’ul timo dopoguerra arriva il trionfatore, Svjatoslav Richter. Nella visione che Richter ha della storia è rimasta la tesi originaria di Anton Rubinstein: la civiltà emigra dalla Germania in Russia e vi trova una nuova età dell’oro con Prokofiev. Al principio di
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questo cammino che culmina in Prokofiev, Richter non colloca la Sonata op. 41 di Anton Rubinstein, come forse sarebbe giusto, ma l’op. 37 di Cajkovskij. E la suona con una fierezza che vorrei definire nazionalistica: ecco, sembra dirci, quel che un russo sa peva fare con un vecchio stampo, quando tutti gli altri lo giudi cavano inutilizzabile. Ci fa un po’ rabbia, ma ha ragione. Poco dopo che Cajkovskij ha scritto la Sonata in sol maggiore comincia a lavorare Skrjabin, che già nel 1886, a quattordici an ni, compone due sonate, la seconda delle quali, in mi bemolle mi nore, verrà poi accolta nel catalogo skrjabiniano diventando VAl legrò appassionato op. 4. Sebbene le sue radici siano ben piantate nel romanticismo, Skrjabin non rientra però, stilisticamente, nei limiti della nostra ricerca e perciò non ci soffermeremo su di lui, come non ci soffermeremo sul giovane Stravinskij della Sonata in fa diesis minore (1903-1904), assai più attenta alla lezione di Skrjabin e di Glazunov che non a quella, dichiarata dall’autore, del tardo Beethoven; né ci soffermeremo su Nikolaj Medtner, il cui sonatismo, dai caratteri programmaticamente romantici, rag giunge la massima originalità nel dopoguerra e in aspra opposi zione polemica con la storia. Appartengono invece alla fine del romanticismo, sebbene so pravvivano magari a Skrjabin, altri sonatisti russi, che quindi ci terò. Non sarebbe neppure il caso di ricordare Sergej Bortkievic, che scrisse una Sonata op. 9, se non per la sua fama di composi tore-pianista, che ai suoi tempi fu grande. Merita di esser citata la Sonata op. 1 (1886) di Joseph Vitols, e meritano attenzione le due sonate di Glazunov, op. 74 e op. 75, composte nel 1901. Glazunov non vede la sonata come forma poematica che impegna il compositore ad esporre la sua visione del mondo. Le sue sonate, che poesia sono, son poesia da boudoir, di un’eleganza, di una fi nezza di scrittura, di un profumato erotismo che ricorda assai più Massenet che non Brahms, sebbene Glazunov, per la sua sapienza musicale, venisse detto «il Brahms russo», e sebbene la Sonata op. 75 inizi come un’improvvisazione sulla Quarta Sinfonia del maestro di Amburgo. Le due sonate di Rachmaninov, op. 28 (1907) e op. 36 (1913) rispondono invece esattamente al concetto di grande forma come contenitore di grande contenuto. Nella prima sonata Rachmani nov si ispira addirittura al mito faustiano, nel senso della Sinfo nia Faust di Liszt: ognuno dei tre tempi è un ritratto: di Faust,
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di Margherita, di Mefistofele. Altrettanto vasta e impegnata la Sonata n. 2. Ma, nell’un caso e nell’altro, Rachmaninov lavorò con fatica e non fu mai interamente convinto dei risultati formali ottenuti; e a me non pare che le sue sonate contino, nella storia della letteratura pianistica, quanto i Momenti musicali o i preludi o le Études-Tableaux. In fondo, è strano che Rachmaninov, grande interprete lisztiano e grande strumentatore, non fosse tentato dallo schema della so nata di Liszt, e tanto più nel momento in cui intendeva ripensare il mito di Faust. Tra i russi, fece riferimento a Liszt solo Sergej Ljapunov, nella Sonata op. 27 del 1908, senza successo maggiore di quello conseguito dai «lisztiani» tedeschi. La cultura romantica russa non era però ancora esaurita. E lo dimostrò Milij Balakirev, che nel 1905 terminò la Sonata in si bemolle minore iniziata nel La sonata di Balakirev non ha età, in un certo senso: viene li cenziata nel 1905, ma il secondo, il terzo e il quarto tempo avreb bero potuto apparire dieci o venti o quarantanni prima. Il primo tempo avrebbe anche potuto nascere più tardi, nel clima del neo classicismo o neoprimitivismo del dopoguerra. Una malinconica canzone viene esposta omofonicamente; ma quando tutti si aspet tano la ripetizione armonizzata entrano una Seconda voce, ad imi tazione, e poi una terza. Balakirev sta tranquillamente scrivendo una bachiana invenzio ne a tre voci (si notino gli abbellimenti, con i mordenti in battere):
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Un Bach, se vogliamo, non proprio Bach, ma squisitamente fil trato attraverso Chopin, e in particolare attraverso lo Chopin del le ultime mazurche. Però, come inizio di un primo tempo di so nata, un che di assolutamente inatteso. Poco dopo, si capisce, l’in venzione a tre voci si ritira, e la melodia, preparata da un temino episodico, riappare nelle sue vesti più proprie, bagnata da nuvole di arpeggi:
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Non c’è un secondo tema; ci saranno due riesposizioni variate dell’invenzione a tre voci, e sviluppi, e una ricamatissima cadenza. C’è, insomma, una fantasia monotematica nella quale Bach viene rivisitato attraverso Chopin e Mendelssohn, come in un neoba rocco sul neobarocco romantico: una suprema operazione cultu rale in cui il vecchio Balakirev ci appare come la cajkovskijana contessa della Donna di picche, che prima di morire canta un’an tica aria di Grétry. Ed in questo sottile dolce rimpianto, più che nella tormentata nevrosi di Rachmaninov, muore luminosamente la sonata romantica, cent’anni dopo esser stata chiamata alla vita da Weber, cinquant’anni dopo esser rinata in Russia con Rubin stein. E pronta a rinascere, o già rinata, ma non più quella, con la fata margana chiamata Skrjabin.
Opere citate:
C. Arrau: Dichiarazioni rilasciate a J. Horowitz, in Conversations with Arrau, Londra 1982. L. Bronarski: Chopin, Cherubini et le Contrepoint, in Annales Chopin n. 2, Varsavia 1958. W. Horowitz: Dichiarazioni rilasciate a A. Goldberg, nella copertina del disco RCA RL 11766. M. Kalbeck: Johannes Brahms, Berlino 1904-1914. G. Kroó: Einige Problema des Romantischen bei Chopin und Liszt, in The Book of the first musicological congress devoted to the works of Frede rick Chopin. Warszawa, i6th-22th February i960, Varsavia 1963* F. Liszt: Correspondance de Liszt et de sa fille Madame Émile Ollivier 1842-1862, public par Daniel Ollivier, Parigi 1936. W. S. Newman: The Sonata in the Classic Era, Chapel Hill 1963. The Sonata since Beethoven, Chapel Hill 1969. J. S. Shedlock: The Pianoforte Sonata, its origin and development, Londra
1895. R. Schumann: Gesammelte Schriften uber Musik und Musiker von Robert Schumann, Lipsia 1854, v ed. a cura di M. Kreisig, ivi 1914.
Le opere pianistiche di Wagner *
Il pianoforte fu per Wagner, come per molti altri compositori, soltanto lo strumento utile per saggiare nella sua concretezza fi sica la materia presentatasi alla fantasia. In Wagner non si nota mai l’inclinazione a fissare nel timbro pianistico l’ispirazione mu sicale, ma sempre e solo l’aspirazione a far musica per mezzo del pianoforte, e ciò fin dai primi anni, fin da quell’età nella quale ra ramente il fanciullo musicalmente dotato sfugge al fascino del vir tuosismo strumentale, e in particolare del virtuosismo pianistico. Nell’Autobiografia Wagner ci narra come, dopo i primi tentativi effettuati da solo sulla tastiera, iniziasse i suoi studi pianistici con un certo Humann, e come li concludesse non appena arrivato a «non dover più dipendere, per la musica, dall’esecuzione altrui» (trad, di Massimo Mila, Torino 1953). Le più importanti musiche che Wagner realizzò sul pianoforte con le sue inesperte giovani dita furono il Don Giovanni e il Re quiem di Mozart, le opere di Weber, le Sonate e la Musica di sce na per VEgmont di Beethoven. La vocazione di Wagner, allora, non si era ancora precisata, e la scelta di una carriera di musicista non appariva affatto probabile; se invece la famiglia Wagner aves se pensato già fin da allora di avviare il fanciullo sulla strada della musica, forse lo avrebbe affidato a Friederich Wieck, che in quel tempo cominciava a godere a Lipsia di indiscussa fama come auto revole maestro di pianoforte, e che era in effetti un didatta di grande valore. Wagner ebbe invece rapporti con il Wieck solo qualche anno dopo, nel 1829, e solo, tanto per cominciar bene, in qualità di debitore. Il fatterello ci viene narrato con divertita arguzia dal protagonista stesso, che commenta: «Mi ricordo che di qui ebbero inizio gli imbarazzi finanziari che tanto mi molesta* Terzo Programma 1963, n. 4.
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cono poi in ogni periodo della mia vita...». Sempre nel 1829, il sedicenne Wagner scrisse parecchie composizioni, tra le quali una Sonata in re minore per pianoforte, il cui manoscritto è andato perduto. L’anno dopo, quando cominciò a venire in chiaro che il giova netto avrebbe forse finito per diventare un musicista, i familiari discussero seriamente sul da farsi: il cognato, Brockhaus, «pro pose di mandarmi a Weimar da Hummel, perché da lui imparassi come si deve suonare il pianoforte»; ma poiché Wagner voleva comporre, non imparare a suonare il pianoforte, il consiglio di fa miglia decise di affidarlo a un certo Mùller, maestro di armonia. Forse, un periodo di studi con Hummel non sarebbe stato af fatto privo di efficacia perché Hummel, unico tra i pianisti del suo tempo, si preoccupava molto di più di insegnare la musica che di impartire lezioni di meccanica dello strumento. Gli studi musicali intrapresi con Mùller, com’è noto, non furono invece affatto seri, e Wagner continuò a buttar giù alla meglio un mucchio di com posizioni, compresa una Sonata in si maggiore per pianoforte a 4 mani, da suonare con la sorella Ottilia. Finalmente, nel 1831, a diciott’anni, Wagner trovò il maestro adatto in Theodor Weinlig, che in sei mesi gli fece percorrere brillantemente tutto il corso accademico di contrappunto. Sotto la guida di Weinlig, Wagner scrisse anche la sua prima composizione pervenuta fino a noi, la Sonata in si bemolle maggiore per pianoforte, catalogata come op. i. Citiamo ancora AAV Autobiografia'. «Weinlig aveva voluto in quel tempo che gli preparassi una sonata, da costruire, per amor suo, con la massima semplicità di relazioni armoniche e te matiche: e m’aveva raccomandato a modello una delle più facili sonate di Pleyel. Chi conosceva la mia recente ouverture doveva certamente sbalordire, che fossi riuscito a farmi forza talmente da scrivere questa sonata su misura, quale anche ora è visibile in nuo va edizione per un’indiscrezione della casa Breitkopf e Hàrtel: per rimeritarmi del mio sforzo di sobrietà, Weinlig s’era dato da fare per procurare la pubblicazione del mio semplice lavoro presso quel la casa». La Sonata in si bemolle è in quattro tempi: allegro con brio, larghetto, minuetto, finale. Si tratta, come Wagner dichiara, di un’opera di imitazione, o meglio, di un esercizio di stile. E sotto questo aspetto la sonata è interessante, perché qui lo stile imitato viene seguito con sorprendente coerenza, mentre di solito, anche
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nelle prime opere drammatiche, Wagner è piuttosto goffo quando si vale di stilemi tradizionali. Lo stile della Sonata in si bemolle è lo stile pianistico del 1790-1800, che si può riferire, oltre che a Pleyel, anche a Dussek, Steibelt, Kozeluch, Hullmandel, al pri mo Hummel, e nel quale confluiscono e si mischiano derivazioni sia mozartiane che haydniane; nel finale della sonata traspare an che qualche procedimento tipico di Clementi, ma è probabile che lo stile dementino giungesse a Wagner di seconda mano. La co struzione architettonica è asciutta, essenziale, eccettuate alcune par ti del larghetto, che appariscono pleonastiche; assai piacevoli e ben caratterizzati sono in genere i temi; piuttosto sommaria e di sadorna è invece la scrittura strumentale, che solo nel finale acqui sta una certa individuazione pianistica. Parlando della Sonata in si bemolle abbiamo citato anche que sta frase di Wagner: «Chi conosceva la mia recente ouverture do veva certamente sbalordire, che fossi riuscito a farmi forza tal mente, da scrivere questa sonata su misura...». L’ouverture alla quale Wagner alludeva era quella eseguita nel Teatro di Lipsia, diretta da Heinrich Dorn, la sera di Natale del 1830, e cioè l’ou verture che è quasi passata in proverbio, nella quale le falangi or chestrali erano schierate come combattenti sul campo di battaglia, e nella quale i timpani intervenivano ogni cinque battute con una terrificante botta in contrattempo. L’insegnamento severo di Weinlig ebbe innanzitutto l’effetto di guarire per sempre Wagner dalle bizzarrie ingenue ed inutili di cui aveva dato prova con l’ouver ture. Theodor Weinlig aveva studiato, oltre che con il padre Mar tini, con suo zio Christian Ehregott, il quale era stato allievo a sua volta di un discepolo di Bach, Gottfried August Homilius. E poiché con Homilius aveva studiato anche Christian Gottlob Neefe, maestro di Beethoven, Beethoven e Wagner finiscono per ri sultare... cugini di scuola di secondo grado, e pronipoti entrambi del grande Bach. Noi, s’intende, ci siamo messi a fare esercitazioni di araldica musicale soprattutto a titolo di curiosità; ma anche per far notare che Johann Sebastian Bach, sebbene dimenticato come composi tore nella seconda metà del Settecento, rappresentava come mae stro una specie di filone sotterraneo al quale finiscono per attin gere anche musicisti come Beethoven e Wagner: ritroveremo fra poco in Wagner qualche traccia di stile bachiano. Wagner applicò ancora coscienziosamente gli insegnamenti con
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trappuntistici di Weinlig in una Ouverture in do maggiore, scrit ta nel 1831, e nel finale della Sinfonia in do, scritta l’anno dopo. Prima dell’ouverture, però, il giovane compositore aveva ritentato la creazione in stile libero con la Fantasia in fa diesis minore per pianoforte. Infatti, una volta ultimata la sonata, scrive Wagner, «Weinlig mi permise ogni cosa. Come prima ricompensa, potei ap plicarmi a tutto mio piacimento a una Fantasia per pianoforte in fa diesis minore, nella quale mi mossi in piena libertà, secondo uno stile melodico quasi recitativo: ne trassi per mio conto una be nefica soddisfazione, ed insieme mi guadagnai l’elogio di Weinlig». La fantasia non è più un esercizio di stile, e quindi la creazione qui non viene più intesa come consapevole gioco; il rifacimento stilistico attuato da Wagner con la sonata era riuscito assai feli cemente sul piano formale, ma non aveva potuto impegnare la fan tasia del compositore perché quello stile pianistico di fine Sette cento era pur sempre l’oggettivazione di una forma di spiritualità alla quale Wagner si sentiva profondamente estraneo. Con la fan tasia, Wagner riesce invece già ad esprimere in bozzo se stesso, e da musicista che ha acquistato coscienza di sé, non più da dilet tante con la testa piena di fantasticherie velleitarie (come nel l’ouverture). La Fantasia in fa diesis minore ha il carattere di un’improvvi sazione. Ma non perché sia formalmente dispersiva, incoerente: anzi! Tutta quanta la composizione, che dura circa diciotto minu ti, è strettamente basata su due soli spunti tematici, e anche piut tosto brevi. Il carattere di improvvisazione proviene invece dal fatto che gli spunti tematici acquistano precisa fisionomia un poco alla volta, e si organizzano in movimento continuo dopo essere stati tentati, saggiati quasi in una serie di recitativi. La costru zione formale si compone di quattro grandi episodi: recitativo e andante («un poco lento», secondo la didascalia wagneriana), re citativo e allegro agitato, recitativo e adagio, conclusione, che è come una summa nella quale i precedenti episodi con i relativi recitativi ritornano, come reminiscenze, molto abbreviati (il rife rimento formale alla Nona Sinfonia non ha però nulla dell’imita zione pedissequa). Come si vede, quindi, si tratta di una forma organica e abbastanza complessa, che il diciottenne Wagner riesce a fissare in modo unitario e con esatta proporzione tra le parti. I primi due episodi sono costruiti con lo spunto tematico iniziale, il terzo con il secondo spunto tematico, il quarto, ovviamente, con
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entrambi. Il secondo spunto tematico presenta un modo di melodizzare destinato a diventare caratteristico in Wagner; e cogliamo questa occasione per dire che non tenteremo di indicare nelle ope re giovanili le apparenti o reali anticipazioni del futuro linguag gio wagneriano (chi avesse interesse a una indagine di questo ge nere potrà trovarne una molto industriosa in un saggio di Rudolph Maria Breithaupt, pubblicato nel numero di luglio del 1904 dalla rivista berlinese «Die Musik»). Il nume tutelare della composizione è quasi ovunque l’adorato Beethoven; ma il fatto che Weinlig allentasse le briglie non signi fica che il suo insegnamento, e che la tradizione bachiana di cui egli era portatore, non si avvertano nella fantasia: il recitativo del terzo episodio è di provenienza nettamente bachiana, sia per l’an damento generale, sia per lo stile arcaico della conclusione, e pare anzi richiamare più d’una volta in modo esplicito il recitativo del la Fantasia Cromatica. In un certo senso, anzi, si sarebbe persino tentati di dire che il decorso formale della fantasia avrebbe potuto sboccare, a quel punto, anche in una fuga, anziché in un tempo lento. Ciò sia detto come ipotesi, non per avanzare riserve sul bel lissimo adagio cantabile, nella cui calma rasserenata si placa invece perfettamente la continua, angosciata inquietudine dei due primi episodi. Ciò che guasta in parte la riuscita complessiva del pezzo è una certa qual trascuratezza della scrittura strumentale nel secondo epi sodio e, più ancora, nel primo: la scrittura qui è piatta e mono tona, con quella melodia in ottave e l’accompagnamento in accor di arpeggiati, e abbiamo detto che è trascurata, ma dovremmo dir, meglio, che manca di invenzione, che è impersonale. In questo caso si fa molto sentire la mancanza di interesse per Io strumento, la mancanza di intuizioni timbriche. Però, ripetiamo, mentre la Sonata in si bemolle non presenta che alcuni motivi marginali di interesse, la fantasia è composizione da ascoltare e da studiare con molta attenzione. Riteniamo anzi che il progresso registrato in questi ultimi anni dalla cultura musicale potrebbe consigliare di tentare la fantasia anche in sede concertistica, sebbene l’esito del l’esperimento debba ancora apparire, in questo momento, piut tosto dubbio.1 1 Dopo la pubblicazione di questo saggio, uscito nel 1963, la Fantasia ha avuto alcune esecuzioni pubbliche, senza per ora entrare a far parte del repertorio concertistico.
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Come abbiamo visto, Theodor Weinlig si era preoccupato di procurare a Wagner la pubblicazione della Sonata in si bemolle, ed era riuscito a farla accettare dalla Casa lipsiense Breitkopf & Hàrtel; il manoscritto è andato smarrito, e probabilmente venne distrutto dagli stessi editori dopo la pubblicazione della sonata, avvenuta nel 1832. La fantasia rimase invece inedita, ed il manoscritto, forse smar rito o venduto da Wagner durante il suo primo soggiorno in Fran cia, venne ritrovato ed acquistato al mercato dei manoscritti di Pa rigi dal wagneriano francese Alfred Bovet, che lo donò a Cosima Wagner nel 1876, durante il primo festival di Bayreuth (questa, ed altre notizie, ci sono fornite dal fascicolo, curato da Friedelind Wagner, che accompagna i due dischi contenenti Finterà opera pianistica di Wagner, pubblicati a Bayreuth in edizione privata nel 1961). „ Cosima era già da alcuni anni impegnata nell’impresa che le. avrebbe procurato poi da più parti l’accusa di aver voluto occul tare o falsare la verità storica: la raccolta di tutti i manoscritti di Wagner. Il dono del manoscritto della fantasia non poteva quindi non riuscirle graditissimo, anche perché Wagner ricordava bene la composizione del pezzo e le circostanze nelle quali era nato. Ma Wagner si era completamente dimenticato di aver scritto in gio ventù una terza vasta composizione pianistica; e quale non do vette essere la sua sorpresa nel sapere che la Casa Editrice Hug di Zurigo possedeva l’autografo di una Sonata in la maggiore, ca talogata come opera 4. Da Bayreuth partì immediatamente per Zu rigo una richiesta, che la Casa Editrice svizzera si affrettò ad esau dire: il manoscritto della Sonata in la tornò in possesso del com positore nell’autunno del 1877. Wagner, ringraziando del dono, scrisse tra l’altro ai fratelli Hug: «...dopo averci pensato due vol te sono ancora in dubbio se pubblicare o no questo pezzo di mu sica...». Non lo pubblicò perché, a quanto scrive il Glasenapp, gli pareva opera di un qualunque allievo di Spohr. La fantasia lo ave va invece colpito per la sua «ideale semplicità», ed in essa aveva riconosciuto se stesso; ma a conti fatti decise di non pubblicare nessuna delle opere giovanili, perché, come scrisse Cosima alla Casa Editrice Schott, siccome «i suoi amici e ammiratori le avreb bero acquistate per venerazione verso di lui malgrado la secon daria importanza che egli attribuiva ad esse, Wagner era riluttan te - per così dire — a trarre vantaggio dalla loro lealtà». Non vor
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remmo malignare, ma ci pare non ingeneroso l’insinuare che la spiegazione offerta sia un piccolo monumento di ipocrisia diplo matica; probabilmente, Wagner temeva - e il timore non sarebbe affatto ingiustificato né meschino — che non gli ammiratori, ma gli avversari si sarebbero gettati sulle composizioni giovanili per rile varne a scopo polemico le ovvie manchevolezze (la fantasia fu poi pubblicata nel 1905, la Sonata in la nel i960). Non conosciamo lo stile di Spohr tanto da poter dire se Wagner avesse proprio ragione di giudicare la sonata come opera di un qualunque allievo dell’autore di Jessonda. Nella storia della lette ratura pianistica la Sonata in la maggiore è abbastanza vicina allo stile di alcuni pianisti-compositori in voga nel decennio 1815-1825, e cioè dello Hummel maturo, di Cramer, di Moscheles, di Kessler. Una quindicina d’anni prima anche il giovane Schubert aveva guar dato con simpatia all’indirizzo della letteratura pianistica da noi riassunto in alcuni nomi più noti; ma nel 1831 quello stile era già storicizzato, non più attuale e quindi non più tale da offrire im pulsi creativi nell’animo di un giovane d’ingegno: nel 1831 c’era già Chopin che batteva alle porte! La Sonata in la, in fondo, è quindi anch’essa un esercizio di stile, sebbene lo sia in modo mol to meno scoperto della Sonata in si bemolle. Non si sa se la So nata in la sia anche di poco anteriore o posteriore alla fantasia; certamente, però la fantasia procede molto più avanti della sonata sulla via della conquista d’uno stile personale. La parte più debole della Sonata in la, che è in tre tempi, è l’adagio centrale: smisuratamente lungo, rispetto ai tempi estre mi, e non ben caratterizzato tematicamente, malgrado il bellissi mo, commovente spunto melodico iniziale, al quale non nuoce affatto l’imitazione beethoveniana. Pianisticamente, per di più, l’adagio è basato su quei procedimenti triti che avevamo già in contrato nel primo episodio della fantasia. Il primo tempo, poco allegro con moto, è invece assai ben riuscito dal punto di vista della perfezione e si presenta giovanilmente sano e franco, seb bene musicalmente vago, e con una chiusa assai efficace. Meno bello è nel complesso il terzo tempo, un allegro molto preceduto da un’introduzione; l’introduzione è però molto interessante, sia perché di sostanza musicale superiore a gran parte della sonata, sia perché, cosa curiosa, è molto simile all’introduzione dell’ultimo tem po della Sonata in fa diesis minore, che Brahms avrebbe scritto una ventina d’anni più tardi.
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Insieme con le tre composizioni già viste, Wagner scrisse an cora nel 1831 una Polonese per pianoforte a 4 mani, frutto del suo entusiasmo per la rivoluzione polacca e della sua ammirazione per Weber. Poi abbandonò lo strumento, al quale tornò occasio nalmente solo molti anni più tardi, tranne che, si capisce, duran te la parentesi parigina, quando per campare fu costretto a ridur re per pianoforte alcune opere di Donizetti e di Halévy. Al perio do parigino dovrebbe anche appartenere una Romanza senza pa role citata da alcuni cataloghi, della quale non abbiamo però al cuna notizia diretta. La prima occasione per scrivere una composizione pianistica ven ne nel 1853. Wagner, per il suo quarantesimo compleanno, aveva organizzato a Zurigo, dove viveva da tempo, tre concerti di mu siche sue. Tra gli ascoltatori c’era stata, con il marito, Mathilde Wesendonck, che Wagner aveva conosciuto Panno avanti, e della quale era già infiammato. Dopo i concerti wagneriani i coniugi Wesendonck si erano recati in villeggiatura a Bad Ems: Wagner scrisse allora la Sonata d’Album per Mathilde Wesendonck, che spedì il 20 giugno 1853. Sul frontespizio della composizione Wa gner aveva vergato la domanda delle Nome: Wisst ihr, wie das wird? (sapete che cosa succederà?); e noi ci limitiamo qui a rife rire la notizia a titolo di informazione, senza fare supposizioni, che inevitabilmente saprebbero di pettegolezzo. Wagner non attribuiva molta importanza al pezzo; quando fu pubblicato, nel 1878, scrisse a Giuditta Gauthier: «Non cercate troppe cose indicibili nella Sonata d’Album. L’avevo promessa a una giovane donna, che era stata gentile con me, in cambio d’un cuscino di canapé ch’ella mi aveva donato...». Ma Wagner era troppo severo con la sua composizione che, sebbene non sia di certo paragonabile ai Wesendonck Lieder, è però un lavoro pia cevole, quasi un piccolo saggio della sapienza dell’autore nel le gare unitariamente una fitta rete di cellule tematiche apparente mente eterogenee. La Sonata d*Album rappresenta inoltre qual cosa di biograficamente notevole, oltre che per la vita sentimen tale, anche per l’attività di compositore di Wagner, il quale con questo pezzo per pianoforte ricominciava a comporre, dopo un’in terruzione durata ben sei anni, e provava così le sue forze crea tive prima di iniziare, nell’autunno di quello stesso 1853, la ste sura dell’Oro del Reno. Sempre nel 1853 Wagner scrisse un Valzer brevissimo (32 bat
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tute) per la sorella di Mathilde Wesendonck; ma questa pagina, non sappiamo perché, non figura nell’edizione discografica delle opere complete, che pure è stata pubblicata a Bayreuth. La seconda occasione per scrivere una composizione pianistica capitò a Wagner nel 1861, al tempo dello scandalo parigino del Tannhauser. Dopo che la tempesta fu passata Wagner trascorse alcune settimane nella sede dell’ambasciata di Prussia: «...lavora vo ogni mattina» egli scrive «alla traduzione dAVOlandese Volan te, e composi due fogli d’album. Uno ne dedicai alla principessa Metternich, e fu più tardi pubblicato: era fondato su un bel mo tivo che da tempo assillava la mia fantasia; dell’altro, dedicato al la signora di Pourtalés, ho perduto ogni traccia». Il secondo Foglio d*Album, dedicato alla contessa Anna Pour talés, reca il titolo «Arrivo ai cigni neri». Wagner vuole ricordare con il titolo il palazzo dell’ambasciata di Prussia, nel cui giardino nuotavano due bellissimi cigni neri; e la contessa di Pourtalés era figlia dell’ambasciatore Bethmann-Hollweg. Il Foglio d’Album, di cui Wagner diceva d’aver perduto ogni traccia, venne poi pub blicato nel 1897. A noi il primo Foglio d* Album pare preferibile al secondo; ma la nostra non è che un’opinione. Stilisticamente, entrambi i pezzi sono inconfondibilmente wagneriani, il primo un po’ più sotto il segno dei Maestri Cantori, il secondo un po’ più sotto il segno de gli Dei del Walhalla. Piuttosto, è da notare anche nelle pagine brevi un certo imbarazzo di Wagner a valersi del pianoforte. Il modo di trattare il pianoforte, nei Fogli d’Album, è ispirato allo stile pianistico di alcune pagine di Liszt; ma la scrittura pianistica wagneriana è sempre più o meno - se possiamo permetterci l’ere sia - quella di un geniale dilettante. A questo punto dobbiamo parlare brevemente d’un fatto che, sebbene non abbia nulla a che vedere con le composizioni, non è senza importanza per quanto riguarda i rapporti di Wagner con il pianoforte: l’influenza esercitata da Wagner sull’interpretazione pianistica. Influenza diretta, innanzitutto, come sa ognuno. Wagner con tribuì in modo determinante, con la sua opera di direttore d’or chestra e con gli scritti, ad elevare il problema dell’interpretazio ne dal campo della pratica al campo dell’indagine teoretica. E per ciò, com’è naturale, influì sia sulla storia della direzione d’orche
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stra, come dell’interpretazione pianistica o violinistica o violoncellistica. Ma l’influenza esercitata da Wagner sull’evoluzione dell’inter pretazione pianistica è, in parte, anche diretta. Non c’è bisogno di insistere sull’importanza fondamentale delle tesi wagneriane nella formazione spirituale di Hans von Bùlow, che nella seconda metà del secolo fu uno degli interpreti e dei maestri più seguiti dai giovani. Wagner ebbe però modo di influenzare - e non ci pare che ciò sia stato notato — anche Tausig, Klindworth e, in minor misura, i coniugi Bronsart (si vedano V Autobiografia e VEpistolario Liszt-Wagner). Tutti i pianisti nominati erano stati allievi di Liszt a Weimar, ed avevano ricevuto da Liszt un’educazione pia nistica virtuosisticamente completa ed un indirizzo estetico in ma teria di interpretazione sostanzialmente positivo. Ma Liszt non di menticò mai del tutto di essere stato un virtuoso romantico, e non possedeva una visione della funzione dell’interpretazione così chia ra, così — vorremmo dire - sacrale, come la possedeva Wagner. Wagner esigeva invece sì dallo strumentista la perfetta padronan za dello strumento, ma nutriva anche il più profondo disprezzo per la virtuosità fine a se stessa. Il progressivo abbandono del vec chio virtuosismo pianistico potrebbe dunque aver ricevuto da Wa gner, più che da Liszt, la spinta decisiva. Val la pena di notare che i segni di una forte crisi di matura zione furono avvertiti dai critici in Tausig, che fino ad allora era stato soprattutto un grande virtuoso, tra il 1864 e il ’65: pro prio alla fine del ’63 Tausig aveva aiutato Wagner nella prepara zione dei concerti diretti dal Maestro a Vienna. E le prove di quei concerti erano state delle vere lezioni di interpretazione moderna mente intesa. La diretta influenza di Wagner su Bùlow, Tausig e Klindworth trasparisce d’altronde anche da un fatto negativo. Le revisioni di Liszt e della maggior parte dei suoi allievi — tra i quali Franz Kroll, William Mason, D’Albert, Sauer sono i mag giori - mostrano un rispetto del testo ed una circospezione nel proporre modifiche che non si scorgono certo nelle revisioni di Bùlow, Tausig e Klindworth: questi ex allievi di Liszt, ciascuno a suo modo, intervengono invece volentieri a modificare il testo in modo per lo meno molto discutibile. Ed è ben noto che in Wa gner la profonda genialità dei concetti sull’interpretazione non s’accompagnava con lo scrupoloso rispetto dei testi. L’influenza di Wagner sulla storia dell’interpretazione pianistica è dunque da
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una parte positiva, dall'altra negativa; ma costituisce indubbiamen te un fatto da non dimenticare. L’ultima occasione per scrivere un pezzo pianistico capitò a Wagner nel 1875. ’ Dobbiamo ritornare per un momento a quanto dicemmo aH’inizio. Prima ancora di iniziare gli studi regolari di composizione Wagner era stato preso da un incontenibile entusiasmo per la No na Sinfonia di Beethoven. Poiché non esisteva ancora una ridu zione per pianoforte della sinfonia, Wagner, pur essendo un pia nista inespertissimo, pensò di provvedere lui a colmare la lacuna. E una volta ultimata la riduzione, nel 1829, la inviò all’editore Schott. L’editore rispose che per il momento non intendeva pub blicare una riduzione della Nona Sinfonia, ma ringraziava dell’in vio e mandava in omaggio al giovane musicista la partitura della Messa Solenne (la riduzione della Nona Sinfonia, non priva di in teresse, viene esaminata dal Breithaupt, art. cit.). La riduzione wagneriana della sinfonia dormì il sonno del giu sto negli archivi della Casa Schott per più di quarant’anni. Nel 1872 l’editore fece dono del manoscritto a Cosima Wagner che, come abbiamo già detto, cominciava allora a raccogliere tutti gli autografi del marito. Cosima, ringraziando, scrisse a Betty Schott, moglie dell’editore, e le annunciò che Wagner avrebbe composto per lei un Foglio d’Album. La lettera di Cosima è del 16 gennaio 1872; il Foglio d’Album venne spedito più di tre anni dopo, il 2 febbraio 1875. Tre anni sono forse un po’ troppi, per mandare un regalo di ringraziamento? Sono troppi sì. Ma Wagner in quei tre anni aveva lavorato senza sosta per finire, nientemeno, l’intero ciclo dei Nibelungi. Il Foglio d* Album, scrive Wagner, «contiene i primi impulsi musicali ch’io abbia sentito dopo aver terminato, esausto, il Crepuscolo degli Dei»: si può ben perdonare all’artista la sua apparente scortesia! In un certo senso, dunque, le compo sizioni pianistiche per Mathilde Wesendonck e per Betty Schott stanno un po’ come i cartelli di entrata e di uscita dell’immenso edificio nibelungico. Tra i quattro Fogli d’Album, quello per Betty Schott ci sembra il più perfetto, il più coerente nella continuità dello stato d’animo che lo ispira. Ed è quindi con una pagina, seppur brevissima, de gna del suo creatore, che si conclude l’opera pianistica di Wagner.
204 Opere citate:
F. Liszt-R. Wagner: Epistolario, Torino 1896. R. Wagner: La mia vita, Torino 1953.
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Pianitalietta
Gli operisti italiani e il pianoforte
La definizione stessa di «operista», invece che di «musicista» tout court, dovrebbe stupire chiunque si occupi della musica che si suol definire «seria». Chiunque, del resto, si stupisce quando sente fare distinzione tra «cantante» e «vocalista». Si può canta re con qualcosa che non sia la voce? Si può vocalizzare senza can tare? La distinzione, beninteso, è molto meno rozza di questa, e chi la sa può disquisirci sopra per ore: in sostanza, «cantante» è colui che, impiegando la voce per far musica, sa leggere la musica e canta tutta la musica scritta per la sua «corda», mentre «voca lista» è colui che, impiegando la voce per far l’opera, la musica sa leggerla poco o niente. Impeccabile, eppure, se fossimo nel pae se di Candido, stupefacente. Come stupefacente, nel paese di Candido, ed impeccabile, nel nostro bel paese di Virgilio e di Dante, è la distinzione di operista e musicista. Sta però di fatto che certi nostri musicisti dell’Otto cento — e anche del Settecento — scrivevano solo opere, così co me certi musicisti spagnoli scrivevano solo zarzuelas ; e perciò i nostri sono «operisti» e gli spagnoli saranno, immagino, «zarzueleros». Lo so, lo so! E Donizetti, e Rossini? Non scrissero essi musica strumentale, oltre che opere? Tutti lo sappiamo, e vedre mo fra breve in qual modo alcuni «operisti» italiani dell’Ottocen to considerassero il pianoforte. Ma mi sia consentita una contro domanda: avendo noi degli operisti che entrano a pienissimo di ritto in tutte le storie della «musica», abbiamo anche un Mozart, un Weber, un Saint-Saèns, un Bizet, un Musorgskij, autori, ol tre che di opere, di qualcosa che conta nella storia del pianofor te? Abbiamo un Richard Strauss, che pur senz’essere precisamen* Relazione al Convegno sulla musica strumentale nell’ottocento italiano, Roma, settembre 1982.
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te un pianista eseguì in pubblico il Concerto in do minore di Mo zart e scrisse la Burlesca, il Parergon zur Symphonia Domestica, il Panathenàenzug? Li abbiamo? A me non pare. Le ragioni che portavano i compositori italiani a diventare «ope risti» e a non curarsi della musica strumentale in genere - e nem meno del pianoforte, che pure era il loro strumento di lavoro e per comporre e per concertare le compagnie di canto - sono a pa rer mio squisitamente economiche. Si potrebbe anche supporre che il ritardato sviluppo delle scuole pianistiche italiane, ritarda to rispetto alla Francia o alla Germania o all’Inghilterra, non sti molasse i giovani talenti nello studio di uno strumento nuovo e ricchissimo di possibilità inesplorate. Ma si può però osservare con altrettanta pertinenza che neppure nella seconda metà del secolo, quando nel conservatorio di Milano insegnava Antonio Angeleri e in quello di Napoli Beniamino Cesi, gli «operisti» italiani diven nero pianisti e compositori di musica pianistica più interessanti di quanto non fossero stati i loro predecessori. Sarà un caso, ma tra le circa venti composizioni per pianoforte di Alfredo Catalani non troviamo nulla di neppur lontanamente paragonabile non dico ai Quadri di una esposizione, ma ^Intermezzo in modo classico o a Sulle rive meridionali di Crimea di Musorgskij, nulla di para gonabile alle Variations chromatiques de concert o al Notturno in re maggiore o a Jeux d’enfants di Bizet. Eppure nessuno potrebbe negare la vocazione di operisti di Musorgskij e di Bizet! Eppure Catalani aveva studiato pianoforte persino con Marmontel, nel conservatorio di Parigi! Ma a poco più di vent’anni Catalani era già «stipendiato» da Giovannina Lucca per comporre un’opera, e quando aveva ventidue anni la Lucca gli pubblicava lo spartito della Elda. A ventidue anni, pur avendo alle spalle una serie di allori scolastici e un Prix de Rome, nonché una non disprezzabile produzione, Bizet era ancora alla ricerca di una carriera e non scartava del tutto nep pure l’idea di prendersi un incarico di insegnamento nel conservatorio. Insomma, un giovane musicista italiano che si distingueva trovava subito un editore che gli metteva gli occhi addosso e che lo aiutava finanziariamente, mentre un giovane musicista francese doveva aiutarsi da solo. E se questo avveniva con gli editori-in dustriali della seconda metà del secolo, le cose non era andate di versamente con gli impresari della prima metà del secolo. Ferdi nand Hérold, di un anno più anziano di Rossini, compositore la
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cui vocazione di operista è fuor di dubbio, esordì a ventun anni eseguendo il suo primo concerto per pianoforte, dopo aver già al suo attivo dieci sonate, quattro capricci, tre serie di variazioni, cinque rondò, un divertimento, una polacca, tre fantasie; tra i ventuno e i ventidue anni scrisse altri tre concerti per pianoforte, e a ventiquattr’anni esordì come operista... a Napoli, al Teatro del Fondo, con un’opera italiana. In Francia esordì come operista a venticinque anni. A venticinque anni Rossini stava componendo la sua ventunesima opera, e di pezzi per pianoforte non ne aveva sfornato nemmeno uno. E se si dovesse fare un paragone tra la rispettiva statura artistica di Rossini e di Hérold basterebbe an dare ad esaminare la biografia di Weber per scoprire che, indi pendentemente dal valore, il professionista italiano trovava subi to spazio in teatro mentre il professionista tedesco lo trovava con difficoltà e lottando ed avendo la necessità di imporsi, prima, co me strumentista. Ha dunque senso che io vada ora a ricercare industriosamente le isolette di produzione pianistica nell’oceano del melodramma italiano dell’Ottocento? Ha senso che cominci citando le due se rie di sei valzer ciascuno scritti da Ferdinando Paèr, e dicendo che, sì, i pezzetti sono graziosi e potrebbero anche essere ripubblicati e magari eseguiti qualche volta come bis? È tutto vero, si capi sce, ma proprio non me la sento di fare il piccolo catalogo delle composizioni per pianoforte scritte dagli operisti, anche perché ci ha già pensato Sergio Martinotti. Ha forse senso in un caso sol tanto, e proprio perché solo pochissimi cataloghi citano l’unica composizione pianistica pubblicata da Giuseppe Verdi. Si citano pagine per pianoforte che Verdi scrisse in giovinezza, ma che nes suno ha mai visto; e si può supporre che Verdi, candidatosi al l’esame di ammissione al conservatorio di Milano con un capric cio di Henry Herz, e per quella sua esecuzione bocciato, conosces se più o meno lo stile brillante di Herz, autore di moda in Italia - e pure a Parigi, per la verità - negli anni trenta dello scorso secolo. L’unica pagina pianistica che Verdi decise, o permise di pubblicare è una Romanza senza parole del 1865, uscita presso Canti di Milano in un album del giornale «Il Trovatore» intitolato Gioje e Dolori. Un pezzetto delizioso, in cui non solo mancano le parole, ma manca anche la romanza: la trasposizione pianistica di un’introduzione strumentale ad una romanza o a un duetto, con esposizione sintetica della melodia, accenno di secondo tema con
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trastante e coda (senza riesposizione). Il riferimento a forme me lodrammatiche è scopertissimo, ed altrettanto scoperte sono le al lusioni a strumenti dell "orchestra (clarinetto al primo tema, violi ni al tema contrastante, flauti e violini alla coda); e tuttavia il pezzo non solo suona bene sul pianoforte, ma è per pianoforte, individua una sonorità inconfondibilmente pianistica, che soltanto il pedale di risonanza può dare. Una curiosa dimostrazione di sa per pensare il suono pianistico in un compositore che non scrive va per pianoforte; una dimostrazione alla quale, se non temessi di andar fuori tema, dovrei aggiungere quella della lirica per canto e pianoforte Pietà Signor, pubblicata nel 1894. Chiusa la digressione, non cercherò altre chicche e non farò elen chi, ma vedrò di capire quale tipo e quale grado di cultura pia nistica si possa riscontrare nei lavori pianistici degli operisti. Bellini non ci offre alcuna materia per ciò, e neppure Mercadante e neppure Pacini. Donizetti ci dice qualcosa. Le sinfonie per pianoforte solo di Donizetti, scritte tra il 1813 e il 1819, attesta no che il bergamasco conosceva quello stile di scrittura che si può definire genericamente «classico», e che a Donizetti dovette per venire assai più attraverso Mayr e i kleine Meister viennesi - gli Stadler, i Freystàdler, i Gelinek, i Vanhal, i Kozeluch - che at traverso Mozart o Beethoven. Forse Donizetti conosceva anche le musiche di Clementi, ma certamente del Clementi maestro di scrit tura elegante e leggera, non del ricercatore di complesse combina zioni virtuosistiche. Direi che non conoscesse né Dussek, né Hum mel, né i virtuosi che si andavano affermando in Europa tra il 1815 e il 1820 (Ries, Moscheles, Kalkbrenner). Le sinfonie pia nistiche di Donizetti sono insomma un po’ come i suoi quartetti per archi: musica spigliata e scorrevole, discorsiva in un modo che vorrei definire piacevolmente loquace, ricca di invenzioni te matiche piccanti e antiquata di scrittura. Non si tratta di una àiminutio, assolutamente. Donizetti non poteva che riflettere Vhumus culturale in cui si stava formando, e se gli andava a puntino uno stile strumentale tanto diffuso in Ita lia quanto stereotipo non era per colpa sua. Quel che invece ci si aspetterebbe, e che in lui non si nota, è l’utilizzazione del piano forte per altri fini che non fossero di pratica comodità. Donizetti, in altre parole, si allenava a scrivere più o meno delle sinfonie d’opera disponendole sulla tastiera, ma non si serviva della tastiera per sperimentare rapporti di altezze, di registri, di raddoppi che
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potessero poi essere usati in orchestra. Al contrario di quanto era avvenuto con certo Mozart, con certo Beethoven, con certo We ber, il pianoforte non è per Donizetti il banco di ricerca, il la boratorio in cui viene simulata un’orchestra nuova. Possiamo an che considerare il pianoforte donizettiano come «riduzione» dal l’orchestra, ma non come studio di strumentazioni orchestrali di verse da quelle usuali. Il suo colore orchestrale, personalissimo, Donizetti se lo troverà a poco a poco in orchestra, quando avrà molteplici occasioni di scrivere opere e di sentire subito come suo na la sua orchestrazione. Si pensi, al contrario, a quale sforzo di immaginazione dovesse sottostare Beethoven: componeva una sin fonia rivoluzionaria come YEroica, la ascoltava quasi due anni più tardi, e dopo la prima esecuzione non aveva le altre venti o trenta repliche che qualsiasi opera appena appena discreta raggiungeva e che permettevano al compositore di ritoccare, di correre ai ripari, di fare tesoro delle esperienze pratiche. Beethoven, inventando an che un nuovo stile di strumentazione, terminava VEroica nel 1803, la ascoltava nel 1803, la pubblicava a stampa nel 1806: ci sareb bero volute intere generazioni prima che i praticoni la smettesse ro di sentenziare che Beethoven non sapeva scrivere per orche stra, che certe cose sue suonavano male e costavano inutile fatica, ecc. ecc. Se prendiamo altre pagine pianistiche di Donizetti, posteriori alle sinfonie e formalmente meno impegnative, come i valzer, il discorso non cambia di molto: l’impressione è sempre quella di uno stile strumentale non idiomatico o che non si evolve con i tempi, di una riduzione dall’orchestra, di una stesura per mani e tastiera invece che per una cordiera messa in movimento da ta stiera e mani. Anche quando la musica è assolutamente divina. C’è qualcosa di più divinamente, di più aristocraticamente ero tico e malizioso del coro di servitori nel Don Pasquale, «Quel ni potino»? Ora, come tutti sanno, il coro del Don Pasquale è la trasposizione della prima parte di un valzerino per pianoforte, te maticamente, armonicamente e formalmente quasi identico a se stesso e nella versione pianistica e nella versione melodrammatica. Ma per ritrovare quel mondo, quel clima, quella classe sociale, quella filosofia della vita che il coro «Quel nipotino» evoca con una forza magnetica non bisogna rivolgersi al Valzer in la maggio re di Donizetti: bisogna ascoltare, putacaso, l’Arabesque vaisante di Mischa Levitzki, che era compositore stratosfericamente lonta
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no dalla genialità di Donizetti, ma che conosceva le possibilità co loristiche del pianoforte in un modo a Donizetti ignoto. Non è neppure questione di conoscenza del virtuosismo. In al tre parole, per Donizetti non è questione di non essere Liszt o un post-lisztiano. È questione di saper inventare strumentazioni piani stiche. Schubert, pianista a cui erano preclusi il virtuosismo bril lante e il virtuosismo di bravura, strumentava i suoi valzer per pianoforte in un modo entusiasmante, con scelte di registri e di raddoppi che creavano uno stile. In rapporto ad un ambiente, il salotto, mentre Liszt strumentava per la sala di concerto, e quin di giocandosi per secoli, Schubert, la possibilità di far arrivare in sala di concerto i suoi valzer. Ma dando la dimostrazione di sa per pensare il pianoforte con una fantasia che non si trova, o che io, per lo meno, non trovo in Donizetti. Si capisce che quando la musica è così bella come il Valzer in la maggiore, anche la som maria scrittura donizettiana può essere rimessa a nuova vita se un grande virtuoso del tocco ci si mette di impegno nel condurre su di essa operazioni alchemiche che, senza cambiare una nota, ne mutano l’aspetto sonoro. Ma la musica senza pretese concertistiche e destinata evidentemente ai dilettanti dev’essere bella di scrittura, deve suonar bella senza sforzo sotto le dita del non esper to di alchimie del tocco. Si pensi a come suona una cosetta così elementare, dal punto di vista della composizione, come Per Elisa di Beethoven, e si avrà un’idea di ciò che la musica pianistica da salotto di Donizetti non è. Tanto che i virtuosi ritengono inutile applicarsi da certosini ad una pagina come il Valzer in la maggio re, divenuta perfetta scena di melodramma, e non si provano nep pure a toccare una pagina strutturalmente molto più complessa, come il Gran Valzer su motivi del «Don Pasquale», che dal pun to di vista della bellezza melodica sarebbe una meraviglia e che presenta una successione di temi calcolata molto accortamente.
Il secondo compositore con il quale ho la possibilità di fare un discorso non di semplice compilazione è Gioacchino Rossini che, sebbene più anziano di Donizetti, cominciò a scrivere intensamen te per pianoforte quando il bergamasco era già scomparso da tem po. Se si eccettuano pochissime pagine di circostanza, la gran massa, che è considerevole, delle composizioni pianistiche di Ros sini si colloca tra il 1857 e il 1868. Rossini, come tutti sanno, vi veva a Parigi, teneva salotto aperto, riceveva le celebrità di pas
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saggio ed era in rapporti d’amicizia con quasi tutti i maggiori pia nisti francesi del momento: Saint-Saèns, Piante, Mathias, Diémer, Louise e Aristide Farrenc, Amédée de Méreaux. In uno scritto pubblicato postumo, nel 1920, Diémer avrebbe rievocato il Ros sini pianista, dicendo tra l’altro: «... anche lo stesso Rossini suo nava il pianoforte in modo delizioso, senza usare il pedale e con un tocco argentino». Pianoforte clavicembalistico? Parrebbe. E del resto la Petite Messe solennelle, capolavoro assoluto di quegli anni, con il suo strumentale limitato a due pianoforti ed harmonium mostra chia ramente la trasposizione «moderna» della formazione settecente sca con cembalo principale, cembalo di ripieno, violoncello e con trabbasso per il continuo. In questo suo orientamento arcaicizzan te Rossini, a Parigi, si trovava in ottima compagnia. Un acceso ro mantico come Charles Valentin Alkan aveva manifestato interessi classicistici fin dagli anni quaranta, e Alexander-Pierre-Frangois Boèly, che con i Capricci op. 2 del 1816 si era messo in luce qua le compositore d’avanguardia, preromantico, aveva concluso tra il 1835 e il 1855 la sua carriera con le otto Suites nello stile degli antichi maestri-, suites barocco-tedesche con tanto di allemande, correnti, sarabande e gighe. Louise ed Aristide Farrenc, amici di Rossini, erano i curatori di un’amplissima antologia, Le Trésor du Pianiste, che per molti anni avrebbe rappresentato la più comple ta raccolta, storicamente ordinata, della musica cembalistica e cembalo-pianistica,1 Amédée de Méreaux, che aveva avuto qualche lezione da Clementi, stava preparando i tre volumi de Les clavicenistes de 1637 à 1790, Saint-Saèns era interessatissimo alla musica pianistica di Mozart, Diémer si era scritto verso il i860 una versione pianistica dell’ Arte della fuga di Bach. Si stava quin di muovendo verso il i860 quell’interesse antiquario che si sareb be sviluppato più ampiamente nella cultura francese dopo la guer ra del 1870 e che avrebbe portato Diémer a riproporre i claviccm balisti francesi sul clavicembalo invece che sul pianoforte, Saint1 II titolo della raccolta, che uscì in venti volumi dal 1861 al 1872, è indicativo delle intenzioni dei curatori: «Il tesoro del pianista, collezione di opere scelte di maestri di tutti i paesi e di tutte le epoche, dal see. xvi alla metà del xix, accompagnate da notizie biografiche, informazioni bibliografiche e storiche, osser vazioni sul carattere di esecuzione che conviene a ciascun autore, regole dell’ap poggiatura, spiegazioni ed esempi atti a facilitare la comprensione dei diversi se gni di abbellimenti».
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Saèns ad occuparsi della pubblicazione delle opere complete di Ra meau, Debussy a sognare la classicità francese nella Suite bergamasque e Ravel a comporre, durante un’altra guerra con la Ger mania, Le tombeau de Couperin. Rossini si trovò dunque nel bel mezzo di un incipiente movi mento culturale dentro il quale, contrario com’era a tutto quel che era successo dopo la rivoluzione di luglio, non poteva che nuo tare come un pesce. Una certa conoscenza della musica clavicem balistica del periodo aureo, e non solo del clavicembalo come stru mento, doveva già averla avuta anche quando lavorava in Italia. C’è una lettera ben nota di Mendelssohn, del 1836, che dice: «Se Rossini continua a mormorare delle critiche come quelle di ieri, non gli suonerò più nulla. L’ho sentito, mentre gli suonavo il mio Capriccio, che bisbigliava tra i denti: “Sembra una sonata di Scarlatti”». 'C’è da chiedersi come facesse Rossini a conoscere Scarlatti. I due volumi di musiche scarlattiane curati da Cari Czerny non erano ancora stati pubblicati (sarebbero usciti nel 1839) ed il vecchio volume delle sonate di Scarlatti curato da Cle menti non era diffuso in Italia; forse, come lo stesso Mendelssohn, Rossini aveva letto a Roma la raccolta manoscritta dell’abate San tini. Certo è, visto quel che scrive Mendelssohn, che Scarlatti lo conosceva. E forse conosceva anche altri claviccmbalisti italiani, come diremo. Le conoscenze acquisite in Italia e ciò che conobbe a Parigi favorirono il ripensamento dello stile strumentale dei cla viccmbalisti. Questa componente arcaistica è la prima, seppur non principale caratteristica dello stile pianistico di Rossini. Le tracce del clavi cembalo francese sono pochissime: ad esempio, il primo tema del Prelude baroque richiama la grazia malinconica di Couperin. Ma non si nota in Rossini, se non eccezionalmente (ad esempio, come ha osservato il Lanza Tomasi, in La candeur franqaise), quel gu sto per l’ornamentazione che è caratteristico dei claviccmbalisti francesi. Le tracce di stile clavicembalistico italiano sono più evi denti. Non considerando il piacere di armonizzare in tutti i modi possibili un suono, piacere che richiama Domenico Scarlatti, il più bell’esempio di scrittura neoclavicembalistica lo troviamo, penso, nel Prelude Petulant Rococò. Molto più sviluppato di quanto il titolo non farebbe supporre (sedici pagine a stampa), il Prelude è condotto nello stile delle toccate a moto perpetuo, con lunghissi mi tratti di scrittura a due parti, articolazione del suono prevalen
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temente staccata, legature limitate a gruppi di due o di pochi suo ni e, segno di arcaismo assai frequente in Rossini, con trilli che iniziano dalla nota superiore. L’arcaismo di scrittura non signifi ca però arcaismo di stile. Ad esempio, la scrittura strumentale del secondo tema appare, alla lettura, evidentemente clavicembalisti ca, ma la musica che ne risulta è tale che non ci stupiremmo af fatto di trovarla in una sinfonia del Rossini diciottenne, con oboe c viole:
Non so però se il Rossini diciottenne avrebbe avuto l’ardire di proseguire così come prosegue il Rossini sessantenne. L’esempio ora citato non va a cadere sulla dominante, con un bel re naturale che ritarda sul do diesis al soprano e con un la al basso. Ecco il seguito di Rossini, imprevedibile per chiunque e stupendamente ardito anche per le orecchie di oggi:
[ Allegretto vivace]
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Più avanti, al terzo tema (il pezzo è in forma di rondò), Rossi ni inizia con un nucleo pastoraleggiante, che potremmo trovare magari in Paradisi o in Mattia Vento, e che suggerisce un gioco su due manuali:
Il seguilo dei tema, dodici battute più avanti, non ha però nul la di settecentesco, con quel basso da polchetta e le terzine spa gnolesche:
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La riesposizione del terzo tema inizia in do maggiore e termina in do maggiore un’ottava sopra, appoggiando la campata di ot tava su questi assai poco arcaici piloni tonali, toccati uno dopo l’altro senza transizioni: do maggiore, mi bemolle maggiore, sol bemolle maggiore, la maggiore, do maggiore. È più che chiaro come e qualmente una progressione per terze minori ascendenti, che in troduce la divisione dell’ottava in parti uguali, sia cosa che ha molto a che vedere con l’accordo di settima diminuita, del cui abu so Verdi accusava i compositori moderni, comprendendo nel nu mero anche se stesso... Ma la forma stessa del pezzo non è arcaicizzante. Si tratta di un rondò a tre temi, in sei episodi (la terza riesposizione del pri mo tema viene sottintesa), e con un’ampia coda. Coda che inizia con una tipica figurazione pianistica, di fine Settecento o inizio Ot tocento. Un altro passo della coda può far pensare a Scarlatti, per i salti arditi della destra; ma scarlattiano, in realtà, non è: [Allegretto vivace]
Se si osserva bene l’esempio ora citato, leggendo magari soltan to la parte della mano destra, ci si accorge facilmente che l’origi ne del passo è violinistica, paganiniana. Il rococò di Rossini, la sua arcadia, il suo arcaismo vanno in realtà a collocarsi sempre, a parer mio, nel Biedermeier internazionale degli anni dieci, che già estraeva da Mozart i termini di un linguaggio astorico, che già aveva il gusto della sperimentazione armonica, che già aveva ini ziato la rivisitazione degli antichi. La componente arcaica, in Ros sini, non distingue Scarlatti da Cimarosa o Bach da Mozart, e rappresenta più il ricordo di una stagione personale che di una cul tura da far rivivere: il ricordo, se non mi inganno di grosso, del la giovinezza bolognese e del dotto padre Mattei che dagli antichi traeva ciò che poteva servire ai moderni. E da moderno Rossini si comporta, mischiando tratti arcaicizzanti e tratti «futuribili», e
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concludendo il Prelude Petulant Rococò con un intarsio che anche nel 1815 sarebbe stato giudicato cacofonia bell’e buona. Mi sia permesso di immaginare la versione che dopo le prime due bat tute tutti, anche oggi, più o meno si aspettano: [Allegretto vivace}
Rossini scrive:
E ancora se il trillo fosse fa diesis-sol-, ma quel la bemolle} E quella riaffermazione della tonica ottenuta con la settima dimi nuita! Un altro esempio di arcaismo programmatico lo troviamo nel Prélude prétentieux. Dopo un’introduzione che potrebbe benissi mo preparare un’aria di melodramma, Rossini scrive un lungo fu
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gato (nove pagine a stampa), che da qualcuno è stato giudicato co me infelice rifacimento dello stile bachiano. Ritengo che Bach non c’entri proprio per niente. La rigida quadratura del soggetto, le rigide progressioni, i rigidi parallelismi nei movimenti delle parti non si trovano in Bach, ma si trovano nelle fughe di Domenico Scarlatti, di altri claviccmbalisti italiani (ad esempio Azzolino Del la Ciaja), di Muzio Clementi. Bach, che a parer mio non c’entra con il Prelude prétentieux, c’entra forse invece con il Preludio religioso durante l’Offertorio che Rossini incluse nella Petite Messe solennelle. Il lungo fugato del Preludio religioso è dichiaratamente «espressivo» e può perciò ricordare le letture classico-romantiche di Bach, il significato che già da Beethoven veniva a Bach assegnato. La scrittura espressi va del Preludio religioso, sia considerata a sé, sia vista nel conte sto in cui si colloca (dopo il Credo e prima del Sanctus}, fa sup porre che anche la sonorità dovesse essere diversa da quella pre ferita da Rossini. Il problema di una sonorità pianistica adatta al l’esecuzione delle fughe del Clavicembalo ben temperato era stato affrontato da Chopin verso il 1839, ed era stato risolto in un mo do che appare indirettamente nel piccolo canone a tre voci della Ballata n. 4, poco prima della riesposizione. Siccome il primo ese cutore del Preludio religioso fu Georges Mathias, allievo di Cho pin, non è improbabile che proprio la timbrica scoperta da Cho pin venisse impiegata in questo brano di Rossini. Ma non voglio moltiplicare troppo le supposizioni e, comunque, la scrittura po lifonica parabachiana del Preludio religioso rappresenta un’ecce zione nella produzione rossiniana. Lo stile arcaico si accompagna piuttosto, in lui, con una scrittura a due voci per la quale casca a pennello il «tocco argentino» di cui diceva Diémer. E magari l’ar caismo di scrittura e di stile musicale può persino capitare, per motivi di contrasto, in pezzi dichiaratamente «divertenti» o «di evasione». Un ultimo tipo di scrittura polifonica per tastiera, assai raro, è quello che viene mutuato dallo stile sinfonico-corale. Il Prelude fugasse è un esempio di trasferimento alla tastiera di un brano pensato per coro e orchestra, uno di quei brani in cui, a detta dell’interessato, compariva il «Rossini savant». Credo di aver fatto capire a sufficienza quale sia la libertà che Rossini si assicura, anche quando fa dichiaratamente l’antico. E su ciò non insisterò oltre, perché non è questo il luogo per analiz
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zare tutta l’opera pianistica di Rossini e tutte le cose ghiotte e straordinarie che vi sono contenute. Devo soltanto notare un pun to importantissimo per il mio tema. Quale che sia la modernità dei risultati, lo stile pianistico di Rossini rimane, nella sua radice, classico. Per un motivo fondamentale, e cioè che Rossini non tiene conto del pedale di risonanza. La testimonianza di Diémer può anche non esser presa in senso letterale, e certamente il pianista che esegue Rossini, pur se su pianoforti del i860, usa il pedale di risonanza. Ma il pedale, che può influire sul timbro, non entra nella concezione dei rapporti di altezze, nella architettura astratta delPoggetto sonoro. Un esempio tra i più semplici e indicativi possiamo trovarlo nella Barcarole. L’esposizione del tema principale avviene su un movimento del basso che si incontra in centinaia di pezzi consimili; ma l’artico lazione delle note, staccato-legato, è del tutto atipica: [ Allegretto mosso]
I problemi stilistici dell’esecuzione rossiniana al pianoforte so no ben lungi dall’esser stati, nonché risolti, neppur semplicemente affrontati. Tuttavia mi sembra di poter dire che una scrittura co me quella dell’esempio sopra citato esclude la pedalizzazione tra dizionale. Chi pensa il passo con il pedale di risonanza preferisce separare graficamente la prima croma dalle altre, e o indica il le gato o non mette nessun segno. Lo staccato-legato di Rossini por ta necessariamente al cambio di pedale ad ogni croma, e quindi senza il prolungamento del fondamentale dell’armonia. Alla de stra, in conseguenza di ciò, può essere usato un legato di tipo vo-
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calistico, con ciascun suono che trapassa nel successivo. Insomma, la concezione del cantabile è paravocalistica, non pianistica: il salto di qualità di Mendelssohn e di Chopin, che verso il 1830 passano ad un cantabile in cui i suoni possono anche risuonare l’uno sull’altro, e che creano in tal modo il cantabile più propria mente, più inconfondibilmente pianistico, non viene compiuto da Rossini. E assai poco interessano a Rossini persino gli effetti di pedale, tipo carillon, che già venivano prediletti da Cramer o da Kalkbrenner: gli unici momenti in cui il pedale modifica veramen te la grafia delle durate, in Rossini, li troviamo nella Pesarese (ed è un momento brevissimo) e nel secondo tema di Une Pensée à Florence. Rossini esclude il pedale persino quando dovrebbe esserci per forza. Uno dei suoi pezzi più belli, con un titolo programmatico molto significativo, è lo Spécimen de l’avenir. Sei battute di scale cromatiche e otto battute diatoniche, nelle quali non si riesce a capire se la dominante di mi bemolle maggiore sia il si bemolle o il si naturale, ci dicono a sufficienza quel che Rossini pensava delVavenir. Un tema marziale, dopo congrua preparazione, viene quin di esposto in doppie ottave, alla Liszt o, se non mi inganno sull’«avvenirista» che Rossini tiene nel mirino, alla Berlioz-Liszt. Do po varie peripezie e accadimenti questo tema marziale ritorna trionfalmente e, proprio come in un Berlioz-Liszt, con inframmez zati dei rimbombanti accordi ribattuti: [ Allegro]
La citazione stilistica è perfetta. Solo che Rossini, il quale non pensa mai il pianoforte in funzione del pedale di risonanza, scri ve il passo in un modo che non sarebbe assolutamente stato preso in considerazione da Liszt. Liszt avrebbe scritto all’incirca:
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Insomma, anche quando scrive passi che richiedono agilità e potenza nelle braccia, non solo nelle dita, Rossini usa una tecnica alla Clementi-Moscheles, non alla Thalberg-Liszt.2 E, al contrario di Thalberg e di Liszt, non sovrappone mai una melodia e una ornamentazione, un tratto espressivo e un tratto di bravura: espres sione e bravura stanno in banchi separati, secondo il più puro stile Biedermeier. Sarebbe opportuno a questo punto leggere il racconto di una visita a Rossini fatto da Moscheles, che era stato uno dei capostipiti del Biedermeier. Il brano è noto ed è stato in parte ripub blicato dal Weinstock nel suo Rossini; siccome è molto lungo mi limiterò a riportare un’annotazione che mi interessa particolarmen te. Moscheles racconta: «Rossini, acconsentendo ad una mia ri chiesta, ma non senza esprimere modestamente la sua diffidenza nelle sue capacità, suonò un andante in si bemolle» (di cui Mo scheles cita, con un esempio musicale, l’inizio; la citazione, fatta a memoria, non è precisa, ma il pezzo è senza dubbio La Pesarese, uno dei più belli di Rossini). Moscheles cita inoltre una «interes sante modulazione», e cioè il passaggio da si bemolle maggiore a si bemolle minore, con il re bemolle valutato enarmonicamente come do diesis e la conseguente modulazione a re maggiore. Rossini aveva scelto per Moscheles pezzi adattissimi alla for mazione culturale del suo ospite, perché dopo La Pesarese gli fece leggere il Prelude prétentieux, di cui abbiamo già detto, e il ma gnifico Prelude Semi-Pastorale in forma di introduzione e rondò, con un inizio alla Field, un primo tema del rondò che avrebbe 2 Si potrebbero esaminare altri tipi di tecnica, in cui Rossini resta fedele alla tradizione preromantica: nella Gymnastique d*écartement, ad esempio, Rossini tiene conto della tecnica di estensione di Cramer, non di Chopin, e tanto meno di Liszt o di Henselt; le terze rapide «cieche» riprendono una tecnica cara a Field, superata già da Hummel e poi da Chopin e Liszt.
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potuto appartenere a Moscheles e un secondo tema che non avreb be sfigurato in un finale di sonata di Hummel. Ma quella modu lazione della Pesarese, che colpì subito Moscheles, verso il 1820 non l’avrebbero scritta né Field, né Moscheles, né Hummel: tutt’al più l’avrebbe scritta Schubert. E la stessa impressione Moscheles l’avrebbe provata se Rossini gli avesse mostrato i Quatre Hors-d'Oeuvre (ma li aveva già scrit ti? la cronologia dei lavori pianistici rossiniani è incertissima): nei Quatre Hors-d’Oeuvre Moscheles avrebbe visto il se stesso che nella Vienna del 1815 inventava la variazione brillante Bieder meier. Il n. 1, Radis, avrebbe potuto ricordare a Moscheles l’ar rivo a Vienna, con il Congresso, dell’esotismo: lo spagnolismo del primo tema, la lagna del secondo tema (che Rossini definisce, in un francese tutto suo, Mdantement O riantal \ forse miaulement orientai, miagolio orientale?); ed inoltre c’era in Radis uno di quegli allegro vivace staccatissimi in sei ottavi, di quelli che già erano piaciuti a Beethoven, che piacevano a Moscheles e che sa rebbero piaciuti alla follia a Mendelssohn. Un. 2, Anchois, è un Thème et Variations purissimamente Biedermeier, con tanto di ri tornello orchestrale - Tutti, scrive Rossini - prima del tema e pri ma di ciascuna delle tre variazioni, e con tipi di tecnica ancor più violinistici che pianistici. Qualche tratto dell’armonia basta però a denunciare la distanza storica dal Biedermeier: ad esempio, il ritornello di otto battute, in re maggiore, procede per tonica, do minante, tonica, dominante, tonica, sopratonica, settima di prima specie sulla sopratonica, settima sulla dominante, tonica, domi nante, tonica.... Ma a questo punto arrivano un accordo di settima diminuita, poi una scivolata cromatica che fa diventare dominan te di fa maggiore la settima diminuita, poi una progressione cro matica che riporta alla settima diminuita e che sembra puntare verso il fa diesis minore; ma Rossini risolve con una stupefacente cadenza ad inganno che ci porta sulla quarta e sesta di re maggio re, e conclude tranquillamente con dominante e tonica: Allegretto moderato molto
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Le variazioni sono una riduzione cameristica dello schema da concerto del Biedermeier: svolazzi elegantissimi nella prima, dop pie note con sbalzi di registro nella seconda (Paganini sta dietro l’angolo), arpeggi a mani alternate nella terza, che si lega direttamente al finale, in cui compare un tipo di tecnica di agilità molto caro a Clementi. Il n. 3, Cornichons, è un pezzo che dal non uso del pedale di risonanza trae motivo di invenzione stilistica. Sei pagine di ritmo sempre uguale in cui Rossini non fa altro che ri petere il contrasto tra suono sforzato e suono piano, tra suono tenuto e suono staccato, tra quattro zone del pianoforte. Questa non è una composizione Biedermeier: è lo straniamente, la neu tralizzazione delle tensioni dell’armonia in favore dell accordo e dell’accostamento degli accordi considerati a sé, come fonema ri petuto, con piccole variazioni di timbro, da una folla dispersa. Il contrasto stilistico è stupefacente, sia perché i Qua tre Horsd’Oeuvre sembrerebbero pensati per essere eseguiti consecutivamente, sia e soprattutto perché Cornichons è {’Introduction al n. 4, Beurre, che è un Thème et Variations Biedermeier. A parte il fatto abbastanza sorprendente che {’Introduction è in mi mag giore e il Thème et Variations in si bemolle maggiore, la struttura delle variazioni riprende quella del n. 2, un po piu elaborata e di scrittura più specificatamente pianistica, pianistica al modo Bie dermeier di Moscheles. Ritornello orchestrale di otto battute, sche matico e — con le eccezioni che vedremo poi - prevedibile; tema di sedici battute suddivise in otto e otto con andamento tonica
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dominante e viceversa. La prima variazione, con le clamorose sca lette in decima, è un esempio tipico di stile brillante, la seconda scaraventa in avanti le bordate delle ottave alla mano sinistra. In vece di riprendere il ritornello Rossini inserisce, dopo la seconda variazione, una fantasia sul ritornello orchestrale, in uno stile alla Field che non è frequente in lui. La terza variazione è un brano alla polacca da cui si sviluppa il finale. Il pezzo, nel complesso, non è molto difficile, certo non difficile quanto le variazioni di Moscheles. E non difficili quanto le composizioni brillanti di Mo scheles o di Kalkbrenner sono altri pezzi di Rossini in stile piani stico Biedermeier, come il Bolero tartare o il Saltarello à l’italienne. L’originalità di Rossini consiste però in questo suo citare l’es senziale dello stile Biedermeier riducendolo a stile da camera, è in questo suo ripensare il mondo di ieri rimanendone staccato, senza identificarvisi nostalgicamente ma riproducendolo come mi to straniato. I continui sbalzi di livello che si trovano nel proce dere dell’armonia danno sempre l’idea del distacco, che non è ironia ma intervento su potenzialità sintattiche non individuate dai compositori Biedermeier. Si osservi il ritornello orchestrale:
Il fa diesis al tenore nel primo accordo, il sol bemolle al basso nella seconda battuta, i fa diesis al soprano della seconda e della terza battuta, sottolineati dal forte, stravolgono la citazione Bie dermeier. Il compositore del 1815 avrebbe condotto il soprano press’a poco in questo modo, armonizzando in conseguenza: Allegretto moderato
E di questi particolari potremmo trovarne a bizzeffe qui, come potremmo trovarne in molti altri pezzi di Rossini. Pur restando fedele stilisticamente al passato, Rossini introduce nella poetica
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antica un concetto rivoluzionario, e cioè l’intenzionalità della sin tassi, il gesto individualistico — crudele, direbbe Alfred Einstein che sfregia il patrimonio culturale di una tradizione ormai stori cizzata. Non è più l’arcaismo, non è più il manierismo verso cui si avviava la cultura degli amici parigini del Cigno di Pesaro: com pare il surrealismo che la storia della musica troverà alla fine del l’epoca, nel Novecento neoclassico di Stravinskij. Dunque ce l’abbiamo anche noi, alla fine, il nostro Musorgskij? Dunque, la domanda retorica che ponevo all’inizio era soltanto retorica? Ce l’abbiamo, il nostro Musorgskij, anagraficamente. Non ce l’abbiamo culturalmente. Il nome che mi è già scappato e che più d’un critico ha fatto, parlando del vecchio Rossini, è Stravinskij, lo Stravinskij neoclassico e parigino. Il nome che spesso è stato fatto a proposito di altri aspetti del pianoforte rossiniano è Satie. Potrei aggiungere Fauré e Chabrier. Rossini parte da posizioni che fermentano nella cultura francese e ne percorre fulmineamente le conseguenze, collocandosi dentro un solco che conduce a Stra vinskij. Non ho parlato delle sue didascalie, delle divertenti dida scalie che tutti conoscono. Non ho parlato dei pezzi pianistici più noti, il Petit Caprice Style Offenbach, il Petit train de plaisir, la Marche et Reminiscences pour mon dernière voyage, Une caresse à ma ffmme, che sono stati assai commentati. Non ho parlato dei Riens, anch’essi noti, studiati e lodatissimi. Ho parlato di com posizioni assai poco note o che, come i Quatre Hors-d’Oeuvre, vengono talvolta ricordate per quegli strani titoli, insieme con i Quatre Mediants, e cioè Les figues sèches, Les amandes, Les rai sins, Les noisettes. Posso dire ora che le due raccolte mangerecce sono tra le cose più sbalorditive che la letteratura pianistica dell’Ottocento ci abbia lasciato? E che ci vorrà molto tempo prima che venga messa a punto una chiave di interpretazione capace di fissarne tutte le molteplici implicazioni storiche? Che bisognerà colmare la «soluzione di continuità della prassi interpretativa», che a detta di Gioachino Lanza Tomasi «pesa sul silenzio rossi niano»? Che sarà prima necessario recuperare alla vita concerti stica il Biedermeier, di cui il pubblico ha una conoscenza limita tissima? Insomma, che ci vorrà un fior di lavoro di scavo in quel la storia dell’Ottocento che sembra, e non è, essere stata rivoltata da tutte le parti? Non molti, forse, sono disposti a credermi. Io
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aspetto che qualche grande pianista, ma proprio grande grande, cominci a pensarci.... Rossini mitizzava verso il i860, come età dell’oro, un’epoca che non possedeva più alcuna forza di attualità. Moscheles, uno dei massimi protagonisti del Biedermeier pianistico e, come abbiamo visto poc’anzi, ammiratore di Rossini e da questi ammirato, pro prio dopo aver fatto visita a Rossini scrisse in una pagina di dia rio: «Scriverei musica di ampie proporzioni per il mio strumento se non fossi convinto che attualmente nessuno si prenderebbe cu ra di tali composizioni. Solo i concerti di Beethoven, Mendelssohn, Schumann e Chopin sono di moda, Mozart e Hummel sono com pletamente ignorati. Dei miei otto concerti, quello in sol minore sta diventando di giorno in giorno una sempre maggior rarità nei programmi. Mi lusingai che i miei Studi caratteristici, il mìo Gran Valzer e qualcuna delle mie altre composizioni avrebbero potuto mantenere il loro posto come pezzi di bravura, che la mia Ninna nanna e il mio Studio in la bemolle avrebbero potuto cantare a gara con i moderni notturni; ma nessuno dei miei colleghi li suo na in pubblico. [...] Perciò compongo di tanto in tanto un pezzo per un concerto di beneficenza, o scrivo Lieder e piccoli pezzi per uso casalingo dei miei nipotini. Mi do a questo tipo di lavoro sal tuario non per mancanza di potere creativo, ma per un sentimen to d’orgoglio». Se Rossini non pubblicasse ciò che scriveva per motivi che po trebbero essere assimilati al «sentimento d’orgoglio» di Moscheles è cosa su cui ci sarebbe da discutere, ma che a me non sembra improbabile. Certo è che, al di là degli inchini e dei salamelecchi alla divinità di Rossini, la cultura italiana, che negli anni sessanta pur cercava orizzonti nuovi, se ne andava per strade non rossinia ne e sentiva, assai più della cultura francese, il complesso di in feriorità che i tedeschi avevano instillato un po’ in tutti. La Suo nata Sinfonica di Franco Faccio, datata «maggio 1861», è con tut ta evidenza uno studio per le sinfonie, di condotta sinfonica molto ingenua e modellata su esempi tedeschi. Un lavoro anche piace vole e talmente indifeso, in quel suo richiamo ad un fiero gestire byroniano, da risultare simpatico. Ma Rossini, con il suo 1815 concepito come perno della storia, non aveva per Faccio alcun si gnificato. I due notturni di Ponchielli non rinnegano l’enfasi sen timentale e la scrittura virtuosistica di Dohler, popolarissimo in Italia verso la metà del secolo. E neppure con Catalani, all’inizio
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degli anni settanta, troviamo qualcosa di veramente interessante: anzi, ci accorgiamo che Catalani non sa scrivere un valzer diverten te («Un organetto suona per la via...»), né un pezzo sentimentale che muova gli affetti (Reverie), né una serenata con un minimo di grazia erotica («Sotto le tue finestre»). Un po’ meglio vanno le cose con il pezzo caratteristico, Le Rouet, che, come ricorda Sergio Martinotti, diventerà il coro delle filatrici nelVEdmea. Se un pezzo strumentale va, Catalani lo usa dunque, come faranno poi Puccini, Mascagni e Giordano, in un’opera. Ma per pianofor te, per il pianoforte da salotto che impazza in Italia, scrive molto meglio e in modo molto più piccante l’editore Giulio Ricordi, che firma J. Burgmein. Prima di valutare i contributi degli operisti alla storia del pianoforte dovremmo insomma rivalutare il galop Tramway di Burgmein, Un coeur brisé di Bodojra, magari Tere sita, il fiondi Caprera di Formichi. L’unico «operista» della gene razione di Catalani e Puccini - operista di insuccesso, non di suc cesso - che scriva per pianoforte in modo da farsi notare più dei pianisti-compositori è Antonio Scontrino. Basta leggere l’inizio del primo dei 12 Bozzetti, Ansia. per accorgersi che stiamo en trando in un’altra dimensione:
Il pezzo è del 1895. Il suo evidente wagnerismo non è, in fon do, tanto diverso da ciò che ci capita di vedere alla stessa epoca in Reger. Ed è ben vero che Reger è sui ventidue anni, Scontrino sui quarantacinque, ma è anche vero che un «operista» italiano, uscito sconfitto in teatro, inizia verso la fine del secolo a scrivere musica strumentale senza rispecchiare il mondo operistico italia no. Scontrino è il primo di quel gruppo di operisti - gli altri sono Franchetti, Wolf Ferrari ed Alfano - che vanno a studiare anche in Germania e la cui formazione di musicisti è diversa da quella tradizionale dell’«operista». Del resto, è lo stesso «operista» che sparisce come italica specie, anche quando il teatro, si vedano i
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casi di Pizzetti e di Malipiero, continua ad essere un centro di preminenti interessi culturali. Una piccola aggiunta al fin troppo lungo discorso, una nota di curiosità. Uno dei nostri operisti, Ruggero Leoncavallo, registrò alcuni pezzi per il pianoforte automatico Welte Mignon; la Telefunken ha ripubblicato in microsolco l’intermezzo dei Pagliacci e una romanza in la minore. Leoncavallo, che era stato allievo di Beniamino Cesi, il pianoforte non lo suonava male. Nella romanza sfoggia un trillo tra sol diesis e la, dunque in posizione non age vole, che dimostra come la tecnica articolatoria di Cesi gli fosse rimasta nelle dita, nell’intermezzo la sinistra gli funziona discre tamente, anche se la preoccupazione di non pasticciare con la si nistra gli pregiudica l’espressione passionale della destra, e la sua arte del tocco è sufficiente a permettergli una chiara resa sonora delle parti. Insomma, nelle dita di Leoncavallo si sente la scuola di Cesi, per il quale la mano è tutto, «brandisce le armi e custo disce la bandiera dell’eroe», ed «è il veicolo conduttore delle no stre passioni» che «fa fremere e palpitare, carezza e percuote». Ma Cesi, che segnava l’impiego del pedale di risonanza con valori ritmici molto precisi, «per evitare la confusione dei suoni», non doveva aver fatto in tempo a disciplinare le estremità inferiori del suo vulcanico discepolo: che sciagurata tecnica del pedale è mai quella di Leoncavallo! Anche in questo piccolissimo campo il Ci gno di Pesaro contò in Italia, nell’ottocento, meno del due di coppe.
Opere citate:
B. Cesi: Prefazione al Metodo per lo studio del pianoforte, Milano s.a. L. Diémer: Ricordi rossiniani, in «Le Menestrel», 30 luglio 1920. G. Lanza Tomasi: Gusto del silenzio rossiniano in «Bollettino del Centro Rossiniano di Studi», Pesaro 1971. S. Martinotti: La musica strumentale dell'ottocento italiano, Bologna 1970. F. Mendelssohn Bartholdy: Briefe, voi. n, Lipsia 1863. I. Moscheles: Recent Music and Musicians As Described in the Diaries and Correspondence of Ignaz Moscheles. Edited by his wife and adap ted from the original german by A. D. Coleridge, New York 1873, ri
stampa, ivi 1970.
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Il panorama dell’Ottocento italiano non sembra allettante per chi studia la letteratura pianistica, ed io non ho timore di dire che senza un espresso invito, senza la «provocazione» di un convegno non mi sarei messo a rileggere le musiche che avevo in passato esaminato senza cavarne un gran costrutto. L’anno scorso mi de dicai con molta passione ad una riflessione sulla musica pianisti ca degli operisti italiani dell’Ottocento, perché l’invito occasiona le mi offriva lo spunto per riflettere su Rossini; e sebbene, in con clusione, io non pensassi di poter collocare il Rossini pianistico nel contesto della vita musicale italiana, mi entusiasmava l’idea di parlare di un grande creatore e di tentare di ritrovarne le motiva zioni culturali. Se dovessi oggi cercare un analogo motivo di inte resse nei non-operisti italiani dovrei incentrare il discorso su Bu soni, e non sul Busoni «italiano» ma su quello del Concerto op. 39 e delle Elegie. Che forse non appartiene neppur lui alla cultura ita liana (se ne potrebbe discutere), ma che certamente non appartie ne all’Ottocento, e che quindi mi porterebbe «fuori tema». Dichia rare forfait, allora? Ci avevo pensato, ed avevo concluso che non era il caso: non si trattava di rivendicare ad una cultura una po sizione internazionale di cui non godette mai, e non si trattava di giudicarla con spirito moralistico o con condiscendenza. Si trat tava invece di ripercorrere la storia culturale dell’Italia per capir la, accettandone i limiti senza accusarla per la sua pochezza e sen za colpevolizzarla. Alla fine, devo dire, una nuova scorribanda nel l’Ottocento pianistico italiano risultò per me più interessante di quanto non avessi dapprima immaginato: e tale, mi permetto di sperarlo, sarà forse per il mio ascoltatore. Nell’Italia pianistica dell’Ottocento non troviamo né un creaRelazione a un Convegno sulla musica italiana dell’Ottocento, Roma 1983.
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tore, né un interprete, né un costruttore, né un organizzatore di concerti, né un critico, né uno storico pari ai maggiori di altre na zioni. E non li incontriamo non per «colpa» dell’Ottocento, ma del Settecento. Io non so esattamente per quali ragioni il pianoforte, inventato in Italia, fosse poi costruito ed utilizzato all’estero; con stato però che la mancanza di un cosmo o microcosmo pianistico è databile in Italia ab ovo, cioè dall’ultimo quarantennio del Set tecento. Ci fu Clementi, certo. Ma Clementi rappresentò un feno meno che direi tipico dell’Italia: noi vinciamo la medaglia d’oro alle Olimpiadi in specialità che fra di noi non vantano schiere di praticanti, noi contribuiamo alle più grandi scoperte scientifiche con cervelli che abbiamo esportato in paesi o più ricchi o meno pigri. Clementi, che non per nulla fu definito «padre del piano forte» sulla sua pietra tombale, appartiene alla cultura inglese, ar riva fra di noi come fenomeno di ritorno, di importazione, sbarca a Milano come sbarca a Vienna, a Berlino, a Lione, a Strasburgo, in Sassonia: è un italiano, non un esponente della cultura illumi nistica italiana. E sia pure. Ma perché la Russia, visitata da Clementi per dif fondervi i pianoforti inglesi ed il gusto della civiltà inglese, im parò così bene la lezione da trovarsi nella seconda metà del seco lo con una scuola pianistica tra le maggiori al mondo e con un’in dustria nazionale non disprezzabile? Perché la Russia sì e l’Italia no? Non so dare una risposta, se non tautologica. Ma l’ascoltato re avrà capito quanto mi disturbi quest’ottocento pianistico ita liano in cui non si vince nemmeno più la medaglia d’oro alle Olimpiadi. Il primo lavoro italiano, alle soglie dell’Ottocento, che non sia di interesse esclusivamente locale, è un’opera didattica: il Metodo di Francesco Pollini, approvato dall’«Assemblea generale de’ Pro fessori addetti al Regio Conservatorio di musica» di Milano il 16 novembre 1811 e pubblicato poco dopo con dedica al «Principe Eugenio Napoleone di Francia, Vice Re d’Italia». Nella lettera de dicatoria il Pollini dichiara di aver scritto il Metodo «per eccita mento della Direzione Generale di Pubblica Istruzione». Ed ag giunge: Questo tenue frutto delle mie pratiche osservazioni riconosce ogni suo merito dall’AUGUSTO nome di cui va’ esso fregiato. Avranno in ciò i gio vani Allievi un forte impulso a trarre profitto dall’Opera, gli amatori delle Arti belle un nuovo motivo di ammirare in quanti modi I’altezza vostra
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imperiale le protegge ed incoraggisce, ed io una ragione sempre maggiore di ripetere eternamente i sentimenti di quella doverosa riconoscenza, e profondo rispetto con cui ho l’onore di essere, Dell’Altezza Vostra Impe riale, Umilissimo, Ossequiosissimo e Fedelissimo servitore.
Il viceré Eugenio Beauharnais importava in Italia le direttive che s’erano imposte in Francia dopo la rivoluzione: scuola musi cale pubblica, metodi di studio ufficiali. È segno di sensibilità di governante, nel Beauharnais, di non aver fatto adottare i metodi del conservatorio di Parigi, ma d’aver promosso la nascita di nuo vi trattati; e la scelta, cadendo su Francesco Pollini, trovò un fer tile terreno. Francesco Pollini tenne gran conto del Metodo di Louis Adam, adottato nel conservatorio di Parigi, ma si mosse anche secondo convinzioni personali. Nato a Lubiana nel 1762, egli aveva studia to a Vienna, pare, con Mozart. In varie città d’Italia si era fatto apprezzare come pianista, come violinista e come cantante, poi ave va studiato a Milano composizione con Nicola Zingarelli. Nelle so nate per pianoforte o per due pianoforti aveva dimostrato di ri sentire soprattutto dell’esempio di Clementi; nel Metodo andava un poco oltre, accostandosi alla temperie preromantica che aveva in Field il suo maggior esponente. Pur basando l’insegnamento sul tocco di dito a mano immobi le, il Pollini parla, e vi si infervora, di un tipo di tocco da lui scovato, che consiste nello sfiorare il tasto prima di abbassarlo. Il carezzando, la valutazione preliminare del peso e della resistenza del tasto, la ricerca di gradazioni sottili dell’intensità e di attacchi molto morbidi sono caratteristici di un’evoluzione della tecnica della sonorità che si attua nel primo trentennio dell’Ottocento. E tanto più moderne sono in questo caso le concezioni di Pollini in quanto egli lega questo tipo di tocco, di cui va fiero, con l’uso del pedale di risonanza. Il traguardo supremo, si capisce, è l’arte della cantabilità, ed i precetti riassuntivi con i quali Pollini chiude il Metodo riguardano: 1) il rispetto dell’esatto valore delle note; 2) il rispetto della sincronia nelle sovrapposizioni; 3) il rilievo al la «Cantilena, ossia Canto» in ogni circostanza, «sia che dessa trovisi sopra gli Acuti, in Mezzo, o al Grave». Compositore di tradizione e poco originale fino a che fa il so natista, Pollini diventa un uomo all’altezza dei tempi quando si fa propagatore del Biedermeier internazionale, e nei 32 Esercizi in forma di toccata, del 1820, egli inventa o reinventa (l’aveva già
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adottata l’abate Vogler) la scrittura su tre righi per la quale andrà poi famoso. Nella lettera dedicatoria a Meyerbeer, Pollini dice: «Io mi proposi di offrire un canto semplice, più o meno spianato o di differente carattere, combinato con accompagnamenti di ritmi variati, e di condurre a distinguere con una particolare espressio ne e tocco la parte del canto da quelle che l’accompagnano». È facile capire come, di qui, resti aperta la strada verso la va riazione e la fantasia Biedermeier-romantica su temi di melodram mi, marmorei temi che emergeranno sempre tra la folleggiarne spuma delle figurazioni ornamentali. Pollini introdusse in Italia questi generi di musica pianistica, e ne seguì tutta l’evoluzione: variazioni, introduzione e variazioni, fantasia. Così, la sua op. 54 tratta un «periodo» del duetto della Straniera, «variato con pre cedente capriccio», l’op. 55 tratta un altro tema della Straniera come «fantasia con cinque variazioni e finale», e l’op. 57, che è una fantasia pluritematica, è intitolata «Estro armonico per clavi cembalo sopra alcuni brani di canto ricavati dalla Norma» (non mi risulta che Francesco Pollini scrivesse variazioni sulla Sonnam bula. a lui dedicata da Bellini). Agli anni trenta risale uno «Scherzo, Variazioni e Fantasia so pra un tema originale», con cui Pollini riprende a scrivere in mo do ambizioso, usando le forme elaborate nella ricerca sulle fanta sie melodrammatiche. Non sembra tuttavia che le ambizioni du rassero a lungo e che Pollini varcasse le colonne d’Èrcole del ro manticismo ruggente. Del resto, quando arrivarono Thalberg e Liszt lui era sulla settantina, ed oltre a curare gli interessi del pia noforte curava anche, insieme con la moglie Marianna, la diffu sione delle «acque del Pollini» con cui irrorò il sofferente Paganini e che da Pietro Berri, storico e di Paganini e della medicina, apprendiamo essere una «decozione antiluetica a base di salsapa riglia e guaiaco». Con gli anni venti il Biedermeier di Pollini metteva a tacere i classicisti come il «censore» del conservatorio di Milano Bonifazio Asioli (quello a cui, secondo Carlo Botta, Paisiello avrebbe detto: «Bonifazio lascia stare la musica Tedesca»), il canonico Marco San tucci citato dal Newman per le «Dodici Sonate in stile fugato», Francesco Basily, che scrisse non solo sonate ma Quattro Fughe a quattro mani tutt’altro che accademiche, il napoletano Francesco Lanza, autore pur esso di fughe. Il primo seguace dei tempi nuo vi è il veneziano Antonio Fanna, nato nel 1792, che scolpì anche
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una «Gran Sonata come una sinfonia Concertane» a quattro mani e con accompagnamento ad libitum di violoncello, ma che scaricò sul pubblico una gran messe di variazioni e fantasie drammatiche e che fu lodatissimo dal Villanis per i tre pezzi caratteristici op. 42, Il desiderio, La speranza, La malinconia. Amico di Rossini, di Meyerbeer, di Thalberg, di Liszt, il Fanna è senza dubbio un com positore aggiornato, ma non è artista di rilievo internazionale. Lo è invece Theodor von Dohler, tedesco d’origine e italiano d’ado zione, nato a Napoli nel 1814, che studiò nella città natale con Julius Benedict, a Vienna con Czerny dal 1829, e che negli anni trenta fu un virtuoso sulla cresta dell’onda. Due circostanze bastano a proclamare la fama e la stima di cui Dohler godette: due suoi studi sono inclusi nel supplemento alla Méthode des Méthodes di Moscheles e Fétis (che contiene brani scritti espressamente da Moscheles, Chopin, Mendelssohn, Liszt, Thalberg, Henselt, Heller, ecc.), ed il suo nome è compreso tra i sette che Czerny, nel supplemento del Metodo op. 500, indica quali massimi esponenti del pianismo romantico (Thalberg, Doh ler, Henselt, Chopin, Taubert, Willmers, Liszt). Fétis e Czerny non erano critici di poco peso e faciloni: si tratta di vedere se avessero proprio ragione nel cavare Dohler dal gran mazzo dei pia nisti-compositori europei. Dohler esordì a Vienna, tornò a Napoli nel 1831 per suonare a corte, divenne «virtuoso di camera» del duca di Lucca, fu a Ber lino e a Dresda ed ancora a Vienna, ma ottenne la consacrazione a Parigi, dove entrò in dimestichezza con Vélite intellettuale: con Berlioz, dedicatario degli Studi op. 30, con la grande pianista Ma rie Pleyel, moglie dell’editore e fabbricante di pianoforti Camille nonché amante di Berlioz e di Liszt, alla quale sono dedicati gli Studi op. 50, con la fulgida principessa Cristina di Belgiojoso, alla quale è dedicato il Notturno op. 24, celeberrimo, con la principes sa Marcelline Czartoriska, grande amica di Chopin, alla quale è dedicata la Ballata op. 41. Dohler fu così bene accolto tra i lions parigini che per lungo tempo, tra i beninformati, fu detto padre della figlia naturale di Cristina di Belgiojoso, Maria. E sebbene questo onore gli sia oggi contestato dai paladini di un più titolato altro candidato, Francois Mignet, non c’è dubbio che Dohler fos se di casa e si trovasse a suo agio nella colta e ricca società di Pa rigi e poi di ogni capitale d’Europa. Trionfò anche in Russia, dove si innamorò perdutamente di una
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contessa Cermecev. Essendo lo zar restio a concedergli in moglie una nobildonna, Dohler se ne tornò disperato in Italia, a Bologna, dove studiò strumentazione con Rossini (e fu allora, nel 1845, che tenne la prima esecuzione italiana del Concerto n. 5 di Beethoven); a Lucca, poco dopo, narrò delle sue pene amorose al duca, che sull’unghia lo creò barone: tornato a S. Pietroburgo con in tasca la corona baronale che tappava la bocca allo zar, Dohler sposò la sua contessa, la portò a Parigi e poi a Firenze, si ritirò a vita pri vata e morì, per una terribile malattia al midollo spinale, nel 1856. Dohler meriterebbe una ricerca monografica. Le due raccolte di studi dimostrano ch’egli era un pianista à la page in tempi in cui non mancavano i concorrenti, e a detta di Czerny fu lui il primo ad usare «grandi temi per la sola mano sinistra»') le sue fantasie andrebbero prese in considerazione in uno studio che analizzasse le ricerche formali, anticlassiciste, degli anni trenta, e certe sue composizioni originali godettero di una tale popolarità da render le eminentemente rappresentative del gusto della sua epoca. Il Notturno op. 24, pubblicato in decine di edizioni, ci dice be ne che cosa gradisse veramente la «società elegante» (espressione del Villanis) che onorava Chopin senza metterlo ancora sull’alta re, e ci dice altrettanto bene da che cosa nascesse la stroncatura di Heine: «Ma quale è poi il reale valore del celebre Dohler? Gli uni dicono che egli sia l’ultimo dei pianisti di seconda qualità, al tri che sia il primo fra quelli di terza qualità! Infatti egli suona amabile, netto e leggiadro; il suo stile è vezzosissimo e dimostra una sorprendente destrezza di dita, ma non ha né forza né spi rito. Ornata debolezza, elegante impotenza, interessante pallore». Nel Notturno op. 24, su un tronco nettamente fieldiano, di ar monie semplicissime e di scheletrico movimento ritmico, Dohler posa la più banale delle melodie, ma la strumenta in modo da toccare due registri, medio-acuto e acuto, e con un rinforzo d’ot tava:
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Di norma, una melodia di questo tipo sarebbe stata esposta, nelle prime quattro battute, in questo modo:
La trovata di Dòhler introduce invece un elemento di novità, accentuato dal fatto che l’esecutore, tenendo inconsciamente a man tenere la stessa intensità espressiva per tutta la melodia, rinforza la parte collocata in registro acuto, di per sé meno sonoro. La melodia viene così, praticamente, spezzata, e non è più un «a so lo» ma un «a due», come un inizio di duetto. Il «genere nottur no», derivato storicamente dalla lirica vocale da camera, dalla ro manza, acquista una connotazione melodrammatica che risponde al gusto per il teatro romantico, esploso a Parigi ed ovunque do po il 1830. Nella costruzione del pezzo, Dóhler è poi coerente con la scel ta iniziale e non rinnega mai i moduli stilistici della fantasia su temi d’opera. Si veda la riesposizione, che è il punto culminante, il cuore di un vero e proprio giardino di delizie:
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Quelle scalette vaporosissime ci fanno subito venire in mente l’ultima parte del «largo con gran espressione» in do diesis mi nore di Chopin, quella parte che anche oggi, e non a torto, manda in sollucchero il pubblico quand’è eseguita da un maestro del «velluto» come Magaloff. E tutto il Notturno di Dòhler può ricor darci la Lerceuse di Chopin, che essendo del 1843-1844 è press’a poco con temporanea. C’è in Chopin, nello Chopin della Lerceuse, un processo di estraniazione e di straniamento rispetto alla mu sica alla moda del suo tempo; c’è in Chopin, nello Chopin del Largo, un punto di contatto con la stessa musica d’uso: e potreb be essere questa, sia detto per inciso, la ragione per cui Chopin lasciò copiare il pezzo a diverse persone, tra cui la fidanzata Ma ria Wodzinska, e non lo pubblicò. Per capire Dòhler e, in fondo, anche per capire Chopin, si de ve far ricorso ad un concetto che a me, ammiratore come sono di Ferruccio Busoni, piace poco, ma che mi sembra qui indispen sabile: la non unità della musica, la teoria degli stili. Messo nella categoria degli Schumann e degli Chopin, testimoni del loro tem po e profeti, Dòhler casca nel limbo; messo nella categoria degli Johann Strauss e degli Adam, specchi del loro tempo, Dòhler tor na all’onor del mondo o almeno della critica. Per ciò, dicevo, egli meriterebbe una monografia. E perciò ha meritato ch’io mi sof fermassi su di lui più a lungo di quanto una considerazione pura mente gerarchica dei valori avrebbe consigliato. Lasciamo così Dòhler a chi vorrà studiarlo più a fondo, ma non senza aver let to un frammento del suo Valzer brillante op. 58 n. 2, in cui, con trent’anni d’anticipo, fa la sua comparsa il mondo del Cajkovskij ballettistico:
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Questo mondo dei «pianisti da melodramma», se l’espressione vi piace, ha altri esponenti dopo Dohler, esponenti che erano an che improvvisatori oltre che compositori: Carlo Andrea Gambini, di cui Bruno Mezzena ha di recente riesumato la Rimembranze di Paganini op. 50, Giuseppe Unia, che fu «pianista del re d’Italia» e quindi personaggio ufficiale a cui competeva di preparare i me nu musicali di Vittorio Emanuele II, Adolfo Fumagalli, il solo do po Dohler ad ottenere fama internazionale e che morì a ventotto anni nel 1856. Adolfo Fumagalli, si potrebbe dire, sta a Dohler come Dreyschock sta a Thalberg: Fumagalli, come Dreyschock, porta all’estremo e alla pazzia quello che era stato il gioco di Doh ler, e basta vedere le sue fantasie per la mano sinistra sola, ad esempio quella su «Dal tuo stellato soglio», per capire come al gu sto del riconoscere la melodia familiare sotto la spuma della or
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namentazione si stesse sostituendo il gusto della sfida all’impos sibile. I classicisti, possiamo dire, facevano monumenti statuari, Pol lini e Dohler immergevano le statue nelle fontane, e Fumagalli le immerge nel fuoco. È il termine estremo del romanticismo, e ne decreta la fine. Tuttavia, verso il 1850 la fantasia melodrammati ca non era spenta del tutto, tanto che, in un altro contesto di in dagine, io non potrei tacere di ciò che in questo genere scriveva allora Stefano Golinelli, di cui parlerò subito, e non potrei non dire che il Primo Concerto op. 8 di Carlo Rossaro, sulla traviata, non mi sembra meno notevole delle ultime cose di questo arti sta, quelle che seguono il suo pellegrinaggio a Bayreuth. Nato a Bologna nel 1811 e allievo di musicisti locali, Stefano Golinelli dovette essere appoggiato agli inizi dagli ambienti di corte del ducato di Parma. La duchessa Maria Luigia acquistava molta musica (il fondo intitolato al suo nome, nella Biblioteca Pa latina, è di enorme valore storico) e suonava molto a quattro ma ni, anche in concerti di corte, con il marito morganatico, il con te Adalberto Neipperg. Al conte Gustavo Neipperg è dedicato il Capriccio op. 4 di Golinelli, e ciò mi fa supporre che il giovane pianista bolognese avesse trovato o cercasse protezione a Parma. Ma non so altro: e, lo dico per inciso, anche Golinelli meriterebbe una monografia. Nel 1840 Rossini nomina Golinelli professore di pianoforte nel liceo musicale di Bologna, nel 1842 Golinelli conosce Ferdinand Hiller, allora in procinto di diventare direttore del Gewandhaus di Lipsia in sostituzione di Mendelssohn, nel 1844 si vede recen sire in modo entusiastico, dalla «Zeitschrift fiir Musik» di Lipsia fondata da Schumann, gli Studi op. 15 dedicati a Hiller. L’ascoltatore mi perdoni la ingarbugliata complessità del perio do. Ci sarebbe voluto Cicerone: non essendo Cicerone, ho intrec ciato le subordinate alla carlona. Ma volevo far capire come po tesse accadere che un giovanotto bolognese venisse segnalato su una importantissima rivista tedesca d’avanguardia: attraverso la casuale conoscenza di un musicista emergente nella cultura euro pea. Emergente era Hiller, che avrebbe assunto una posizione di pre stigio nelle istituzioni musicali internazionali; emergente avrebbe potuto diventare Golinelli, se avesse fissato la sua base in una grande capitale della musica. Invece, dopo un giro di concerti in
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Italia, dopo aver suonato in Francia, Germania e Inghilterra, dopo aver incontrato nel 1845, a Londra, Camillo Sivori e Alfredo Piatti, Golinelli si rintanò nella grassa Bologna, si ritirò in cam pagna nel 1870, morì nel 1891 come un sopravvissuto. Camillo Sivori, nato nel 1815, che era un «paganiniano» e che in Italia suonò nella seconda metà del secolo un repertorio mol to datato, a Londra partecipò alle prime esecuzioni complete del ciclo dei quartetti di Beethoven. Alfredo Piatti, nato nel 1822, divenne violoncellista di importanza storica risiedendo stabilmen te a Londra. Golinelli, che di Sivori e di Piatti era coetaneo, avreb be potuto conquistare un’analoga posizione di prestigio in Euro pa. Come pianista, parrebbe, era eccellente. Come compositore, e qui siamo in grado di fare la verifica, meritava senza dubbio la recensione che la rivista di Schumann gli dedicò. Gli Studi op. 15 vennero pubblicati quando già erano usciti gli studi di Chopin, di Henselt, di Thalberg e la prima versione de gli Studi trascendentali di Liszt. Golinelli mostra di non essere interessato a Liszt e di essere solo marginalmente interessato a Henselt; la tecnica che egli ha acquisito è quella di Thalberg, e anche le ricerche di Chopin lo stimolano. Ma il suo, diciamo, pie no consenso va piuttosto a Moscheles, la cui tecnica appare da lui pienamente dominata. Si capisce facilmente come a Schumann, o al redattore che stese la recensione anonimamente apparsa nella «Zeitschrift fur Musik», piacesse uno Studio come il n. 3:
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Ancor di più dovette piacere a Schumann lo Studio n. 6:
Il gioco poliritmico e l’asciuttezza delle linee corrispondono be ne a quella che era l’evoluzione dell’estetica di Schumann dopo il 1840; ma è altrettanto vero che Golinelli, rispetto a ciò che era stato lo sviluppo delirante del pianoforte tra il 1830 e il 1840, camminava verso una posizione restaurativa, neoclassica. I più bel li degli Studi op. si fanno oggi notare, più che per la ricerca sullo strumento, per la costruzione delle melodie: la melodia è la risultante del movimento armonico, è la linea che risulta dalla
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logica delle concatenazioni accordali, e non è costruita in modo convenzionale. Si osservi la melodia dello Studio n. 6: la costru zione è originale o per lo meno non ordinaria, perché il primo pe riodo conclude sulla tonica invece che sulla dominante, ed il se condo non ripropone l’inizio del primo; l’inizio del primo perio do viene riproposto solo alla trentasettesima battuta, e l’arco for male lunghissimo crea una tensione tutt’altro che comune, in una melodia ritmicamente uniforme. Io non posso qui esaminare ed analizzare la costruzione dello studio, si capisce; ma il letto re avrà capito da questo accenno che Golinelli, a ventisei an ni, si presenta al pubblico con la forza di una effettiva originalità di creatore, e sia pure ben diversa e ben più modesta di quelle di uno Schumann o di uno Chopin o di un Mendelssohn. Tra il 1844 e il 1859 Golinelli è comunque un compositore che capta e ri flette i problemi, lo spirito del tempo: oltre agli Studi op. 15 pub blica cinque sonate (op. 30, 33, 54, 70, 140), testimoni della sua preoccupazione, che è la preoccupazione di Schumann come di Liszt come di Brahms, di riconquistare la grande forma classica, e due raccolte di preludi (op. 23, op. 69), a dimostrazione del suo interesse per la grande forma a pannelli, che era stata la maggior conquista del romanticismo intimistico. I Preludi op. 69 merite rebbero una riproposta completa, perché il calcolo nell’articolare ventiquattro brevi pannelli in una forma unitaria è perseguito con una sagacia e con un impegno che denotano la consapevolezza cul turale di Golinelli. Qui mi limiterò a riportare il Preludio n. 1; si sente subito che non solo il mondo stilistico, ma la concezione stessa del fatto musicale è diversa da quella di Dohler:
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Si può dire, credo, che anche il più grande dei compositori per pianoforte non può passare tutta la vita a comporre solo per pia noforte, o che, per lo meno, non può durare come tale oltre i quarant’anni. Golinelli non andò oltre il pianoforte se non con poche liriche e con tre quartetti. Ho citato la sua «opera 69» co me lavoro che denota una maturità di creatore, ed ho ancora ri cordato l’op. 140, pubblicata nel 1859. Ma Golinelli arriva, se ho fatto bene il calcolo, fino all’op. 252, e ci arriva sempre più stancamente e scontatamente. Si nota semmai qualche titolo spi ritoso — La danza dei Papagoni op. 91, Senza titolo op. 183 -, senza che la musica inchini, neppur involontariamente, verso l’iro nia di Rossini o di Satie. Golinelli abbandona le aspirazioni, le ambizioni di cui aveva dato prova fino ai quarant’anni, non abbandona le fantasie su te mi d’opera, artisticamente morte ma editorialmente redditizie, e mantiene, se così posso dire, una posizione ideologica arcaica, an teriore alla divisione, che si attua veramente nella seconda metà del secolo, tra i compositori che cercano il successo e quelli che non se ne curano, tra la musica leggera e la musica seria. La distinzione esplode invero in Italia verso la metà del secolo, ed esplode con «Giulio Ricordi, Luogotenente di Stato Maggiore», che fa gemere a getto continuo, tra le fatiche delle guerre di in dipendenza, i torchi del padre Tito. Anche Giulio Ricordi si fa notare per qualche titolo: ad esempio, la sua opera 14 è «Senza pretesa. Studio melodico». Ma nel catalogo di Giulio Ricordi non
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mancano pezzi apparentemente molto impegnativi. Apparentemen te: l’op. 65 è La battaglia di S. Martino, ma si tratta di un Gran Galop, e Top. 85, L'assedio di Gaeta, è un Gran Valzer brillante. Le battaglie del risorgimento, insomma, sono raccontate ai damazz dall’ufficialetto di Stato Maggiore, che aiuta Cialdini e Garibaldi a fare l’Italia. E le dame lombarde lo adorano. Fatta l’Italia, Giulio Ricordi entra nella ditta del papà, diventa un grande industriale, si nasconde sotto il nome ostrogoto di Julius Burgmein — lui, odiatore di Wagner - e continua a com porre, con inesausta vena, valzer, galop, serenate, ecc. Musiche che convengono all’editore Ricordi, specie il galop II tramway, a quattro mani, da suonarsi con sonagliere ai polsi (vendute con la musica), specie con il Roman de Pierrot et de Pierrette, sempre a quattro mani, di cui esiste persino una registrazione di un duo di classicissimi pianisti come Harold Bauer e Myra Hess. La regi strazione risale al primo decennio del nostro secolo, quando Ha rold Bauer, tanto per dirne una, era un pianista così di avanguar dia da meritarsi la dedica di Ondine di Ravel. E il fatto che Bauer e la Hess registrassero il Roman de Pierrot et de Pierrette la dice lunga sulla popolarità di un lavoro e di un autore oggi scomparso dai repertori e che solo in qualche circolo di avanguardia — cu rioso! - è stato di recente riproposto. Luigi Alberto Villanis, che scriveva all’inizio del secolo, tratta molto seriamente di Giulio Ricordi, analizzando i pregi delle sue composizioni. Uno dei pregi trovati dal Villanis ci sembra da no tare: «Questa stessa spigliata e facile eleganza, non disgiunta da una leggera sensualità che sembra accarezzarne quasi il contenuto psichico, tende ad esprimere nell’insieme della sua produzione quella particolare fisionomia che, senza raggiungere le altezze del lo stile, ha già il merito di una speciale maniera: onde una pagina di Burgmein tra altre si riconosce, e nelle manifestazioni proteifor mi dell’ingegno suo, quali scaturiscono dai piccoli quadri, egli sve la un proprio sentire». La prosa del Villanis è impagabile, nel suo intreccio aulico del paludamento retorico unito all’intento positivistico dell’analisi. Mi sembra sia da rilevare, al di là dei modi, che non sfuggono ad un sospetto di adulazione, quella «leggera sensualità» che il contem poraneo di Ricordi trova nella sua musica. E che è il tono di fon do di molta, di moltissima musica pianistica leggera italiana che andò a ruba nella seconda metà dell’ottocento.
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L’amore e la contesa amorosa sono oggetto di estrema atten zione nei compositori italiani — e non solo italiani, s’intende — che oliavano il gusto della piccola borghesia. Non partirò dalla gemma internazionale, la Prière d'une vierge della Badarzewska, né dalla sua imitazione, o plagio italiano: la Preghiera d'una ver gine di Lucio Campiani. Non mi interessa il Campiani che, al con trario della Badarzewska, sterilizza il titolo con un sottotitolo: Pensiero religioso. La piccola borghesia sarà magari anche religio sa, ma è soprattutto sentimentale ed anela all’erotismo. Persino Golinelli ha un notturno, op. 51, intitolato Amore e mestizia, ed una coppia di pezzi, op. 73 e op. 74, intitolati rispettivamente Non m'ami più! e La Riconciliazione. Il dittico, o la storia per quadretti, sono molto comuni. Tra i più notevoli potrei citare i due divertimenti eleganti di un certo Geraci, Dimmi che m'ami e L'amo sì!, e i mazzetti di Cesare Sanfiorenzo: La fiammella mo rente, Eterno pianto, La tentazione-, o l’altro: Non fidarti, Non è più lei, Fede, Follia, Affranto, e in conclusione, tanto perché non sussistano dubbi: Amor funesto. Del resto il Sanfiorenzo, autore delle Illusioni caratteristiche e delle Illustrazioni drammatico-musicali alla Divina Commedia, in fatto di titoli non scher zava mai. Né scherzavano gli altri. E le didascalie, poi! In Un sogno, quarantunesimo dei quarantatré studi intitolati Harmonies Poétiques di Francesco Ferraris troviamo «con estasi», «piangendo passionatamente», «visioni», «ideale», «errando», «fa scino», e nel quarantaduesimo, L'ultima preghiera, troviamo «lan guido», «languente», «lagrimando». Direi proprio che non c’è bi sogno di aspettare Skrjabin, per le didascalie stracciate, e che le controdidascalie grottesche di Satie arrivano persino troppo tardi. Non solo le didascalie sentimentali sono eccitate. Il massimo della stravaganza, credo, l’ho trovato in un Gran Quartetto Ro mantico op. 16 per due pianoforti, clarinetto e violoncello di un Gaetano Magazzari: «cadenza con intelligenza», «trillo continuo con intelligenza», «sollecitando», «manierato», «armonico», «ar monico come cariglione». La musica a cui queste didascalie si ri feriscono è talmente naive, talmente scoperta nel tentativo di rifare con gli strumenti un quartetto melodrammatico pieno di cadenze e di effetti bravuristici e lacrimosi delle voci, da diventare diver tentissimo, esilarante. E siccome è dedicato a Maria Cristina di Borbone, Regina Vedova di Sardegna, si può ragionevolmente sup porre che venisse eseguito a corte: ambientato a corte, e reso con
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onesta accuratezza e con filologica proprietà, dovrebbe essere irre sistibile come una scena di Labiche. L’amore, dicevo, imperversa in Italia. Molto, molto meno im perversa, al contrario che in Francia, l’esotismo: quando si sia citata una miserevole Danza orientale di Emanuele Gianturco, com positore dilettante che fu ministro della pubblica istruzione, e, più tardi, i Due pezzi in stile arabo di Leoncavallo, si è detto già tutto. Poco praticato è anche il canto popolare italiano: cito le Chansons populaires italiennes op. 27, a quattro mani, di Eugenio Pirani, in cui si trovano La bela Gigugin, La biondina in gondo le tay Ti voglio bene assai, Santa Lucia e altre. Poca parte ha nella produzione più diffusa quella speciale forma di esotismo che è l’arcaismo. A parte gli innumerevoli minuetti potrei citare solo i Cinque Bozzetti a quattro mani di Angelo Tessarin: cinque pezzi in stili diversi, e cioè Seicento, prima metà del Settecento, seconda metà del Settecento, prima metà dell’Ottocento, seconda metà del l’Ottocento. Come un diluvio arrivano invece sul mercato le pagi ne ispirate all’infanzia e le raccolte di pezzi facilissimi, talora con titoli molto curiosi, come Melodia e Semplicità di Antonio Fanna e Utilità e Diletto di Golinelli. Separazione, dicevo, tra musica seria e musica leggera. I dot tori in utroque jure sono pochi, ed io credo di poterne citare uno solo, il pugliese-napoletano, malgrado il cognome olandese, Nicco lò van Westerhout, che scrive un Ma belle qui danse conosciuto anche dai sassi e, all’opposto, una poderosa Sonata in fa minore dedicata, nientemeno, a Brahms. Il van Westerhout, aggiungo, avrebbe pure diritto a un posto tra i «titolisti» per una raccolta di pezzi, Insonnii, e per il ?... con cui si apre l’Album en Minia ture. Sull’altro versante, sul versante serio, si colloca innanzitutto Carlo Rossaro, nato nel 1827 e che comincia con fantasie e va riazioni su temi d’opera, ma che alla fine della vita - muore nel 1878 — si cimenta in una sonata fantasia intitolata Arte e libertà e dedicata a Liszt e in una sonata dedicata a Wagner. Rossaro è quel wagneriano tutto d’un pezzo, come racconta il Depanis, che scrisse un bigliettino di ringraziamento al sommo Richard comin ciandolo con «divino creatore d’un arte più che divina». Al che, avendogli il Depanis fatto osservare come due divini così vicini non fossero di buon stile, rispose che non si curava di sofismi da avvocato e che se avesse potuto mettere mille volte «divino», in
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un’epistola a Wagner, lo avrebbe fatto, e non sarebbe stato di troppo. La «conversione» del Rossaro musicista, a detta del Villanis, daterebbe dalla sua opera 90, la Prima Mazurca, e si compirebbe nell’opera 93, Addio, pezzo che «con la squisitezza di alcune frasi episodiche, con l’insistenza schumanniana della chiusa spezza per sempre la falsa tradizione prima seguita, riafferma l’intimità del sentire, eleva l’artista a nobili altezze, che sempre più perspicue appariranno nelle opere postume, degna corona ad una nobile vita». L’ascoltatore avrà già capito che io non condivido questo giu dizio, su cui è basata quel tanto di postuma fama che ha accom pagnato il nome del Rossaro, e che alle tarde sonate preferisco il Concerto op. 8 sulla Traviata o magari l’op. 14, L’Extase. Si trat terebbe - e posso dire che anche il Rossaro meriterebbe una ri cerca monografica? - di vedere come si arrivi dal primo all’ultimo Rossaro, e quanto di non sedimentato e di non maturato si trovi in questo artista che nel 1876 prende la definitiva ubriacatura per Wagner, ma che muore nel 1878. E senza negare che la Terza Mazurca, dal sottotitolo Meditazione wagneriana, possa essere vi sta persino in una prospettiva che porta al primo Skrjabin, pre ferirei verificare come sia veramente avvenuta, in senso stilistico, la caduta sulla strada di Damasco di cui dice il Villanis. Ma sic come non è qui il luogo per un ampio discorso lascerò senza rispo sta la domanda che mi pongo, limitandomi a segnalare questo pas saggio del Rossaro, indubitabile, da una concezione tutta italiana del rapporto tra il musicista e la società ad una concezione in cui viene scoperta, e idolatrata, una volontà forgiatrice del mondo. Tra i campioni assoluti della musica seria, e che lo sono, al con trario del Rossaro, fin dal principio, citerò Giovanni Sgambati, Giuseppe Martucci, Carlo Andreoli, Costantino Palumbo, Alfonso Rendano. Ad essi aggiungerei, come didatta «serio», Beniamino Cesi; e faccio notare che esiste anche una didattica «leggera», co me quella di Ferdinando Buonamici, che pubblicò quella specie di metodo enciclopedico, La giornata del pianista, tutto basato sul melodramma. Allievo dapprima di Luigi Albanesi, Beniamino Cesi intratten ne amichevoli relazioni con Thalberg, che, ritiratosi dalla carriera concertistica, si era stabilito a Posillipo. Cesi assimilò pienamente lo stile di Thalberg, ma lo piegò alle nuove esigenze che il progre
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dire della cultura europea rendeva impellenti. Ed è questo un gran merito del Cesi, il quale avrebbe potuto ottenere a Napoli tutto il successo mondano e finanziario desiderabile continuando con il repertorio di Thalberg, e che divenne invece interprete di Bach, di Schumann, di Chopin, e specialmente di Beethoven (fu il pri mo, com’è ben noto, che eseguisse in Italia la Sonata op. 106), Dopo aver accumulato una larghissima esperienza come didatta e come concertista, nel 1885, quarantenne, Cesi venne chiamato da Anton Rubinstein ad occupare una cattedra di pianoforte nel conservatorio di S. Pietroburgo. Purtroppo, colpito nel 1891 da apoplessia, dovette tornare a Napoli, semiparalizzato, prima che il suo insegnamento in Russia gli avesse procurato la fama cui po teva aspirare. Insegnò ancora a Palermo e a Napoli, e stese il suo notissimo Metodo ; ma la carriera di concertista era stata brusca mente interrotta, ed anche come insegnante non ebbe più il suc cesso ottenuto in precedenza. Cesi diceva che «la base ben ferma» del pianoforte sono Bach, Clementi, Beethoven, ed elencava tra i classici, che senza fallo erano da studiare, Frescobaldi, Couperin, Rameau, Scarlatti, Haydn, Mozart. Fu lui ad esprimere un’opinione che fu poi spes so ripetuta: «Ricordiamo rinomati artisti eseguire inappuntabil mente difficili pezzi del Liszt, e molto male un semplice Andante di Mozart». Ed ancora: «Il Professore deve valersi della sua auto rità, di tutti i suoi diritti e di tutte le forze per propagare la buo na musica e per mettere in discredito, senza riguardi, la cattiva». Intento che Cesi perseguì in un’Italia non certo portata di na tura a seguirlo con osanna. Il succo dell’insegnamento di Cesi è il Metodo, un lavoro mastodontico, che comprende dodici fasci coli di esercizi e circa centotrenta fascicoli di composizioni di vari autori, scelte, ordinate, diteggiate e «pedalizzate»: un arsenale di formule tecniche ed una vastissima antologia della letteratura, una scuola di tecnica e di stilistica. Il Metodo, che ebbe una vastis sima diffusione, ottenne in un primo momento consensi unanimi; più tardi venne molto discusso, e ancor oggi i pareri sono molto discordi. Quel che ha fatto decisamente il suo tempo è tutta la parte antologica, strettamente legata ad un gusto interpretativo da tato, e filologicamente difettosa perché basata su edizioni correnti nell’Ottocento, in gran parte scorrette. Gli esercizi possono inve ce essere ancor utili, a patto di saperli adoperare e di non eseguirli come Cesi consigliava, e cioè solo con articolazione molto pronun
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ciata delle dita. Sotto questo aspetto, il Metodo di Cesi rappre senta una delle prove più crude della frattura esistente nelle ulti me scuole ottocentesche fra la tecnica scolastica e la tecnica con certistica. Bisogna però ricordare che il Cesi, uomo di intuito fi nissimo e didatta nato, come risulta incantevolmente dalla Prefa zione del Metodo, sapeva evidentemente adattare l’insegnamento all’allievo e si sottraeva così ai pericoli di una applicazione rigo rosa e indifferenziata del suo sistema didattico. Nel sistema rimasero invischiati, sembrerebbe, alcuni allievi di Cesi, mentre altri si resero invece conto del fatto che il Metodo non risolveva, perché lo dava per scontato, il problema della for mazione del suono. E così, nell’ambito stesso della scuola di Cesi si formarono tre diverse tendenze che, con terminologia presa in prestito dalla vita politica, potremmo chiamare di destra, di sini stra e di centro. A destra restò Alessandro Longo, uomo di ingegno ed abile di datta, ma anche carattere bizzoso, facile ai risentimenti personali, impulsivo. Il Longo, che insegnando praticava parte di quanto si andava predicando sull’altra sponda, per spirito polemico si diceva contrario ad ogni innovazione, riguardando come futili ed inutili cose le ricerche spregiudicate sulla natura della tecnica. A sinistra andò Florestano Rossomandi, che non era tempra di indagatore, di ricercatore sistematico, ma che era uomo pratico, sa gace, prontissimo nel capire e far sue le conclusioni delle nuove teorie e nello sfruttarle senza uscire del tutto dalla tradizione della scuola di Cesi. Al centro si potrebbe collocare Giuseppe Martucci, che non si imbarazzò non molto di questioni tecniche, ma che fu invece, soprat tutto, un maestro di stile. Dalla sua scuola venne però fuori il più colto dei didatti italiani del tempo, Bruno Mugellini, che sollevò in Italia la questione dell’insegnamento razionale della tecnica. Ma con Mugellini varchiamo la soglia del Novecento, e quindi ci fermiamo. Di Carlo Andreoli, di Costantino Palumbo e di Alfonso Ren dano posso qui parlare, a pena di abusare eccessivamente della pazienza dell’ascoltatore. E di Sgambati e Martucci mi sbrigherò rapidamente, visto che i nomi di entrambi non sono ignoti e che alcuni dei loro lavori sono per lo meno conosciuti in ambito sco lastico. Sgambati non è, come si sarebbe detto un tempo, un com positore spontaneo. La sua musica è costruita con fatica e riesce
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più interessante proprio dove è più costruita: nel Preludio e fuga op. 6, nei Due Studi da concerto op. io, nel Concerto op. 15. Nei pezzi brevi e disimpegnati la mancanza di invenzione non com pensa l’abilità di strumentatore, che è invece sempre altissima. Sgambati, che aveva studiato anche con Liszt, conosceva la stru mentazione pianistica in modo sorprendente e non falliva mai nel la individuazione della sonorità: basta vedere come siano strumen tati due pezzi brevi che godettero di molta fama, Campane a fe sta op. 12 n. 8 e Vecchio Minuetto op. 18 n. 2. E del resto l’uni co pezzo di Sgambati che entrò nel repertorio di tutti i pianisti del tempo è la sua trascrizione della Danza degli spiriti beati dalVOrfeo di Gluck, pubblicata sotto il titolo Melodia, di cui esi stono straordinarie incisioni di Rachmaninov e di Mischa Levitzky. È probabile che Sgambati fosse pianista più che compositore di musica pianistica e che avesse più frecce al suo arco come concer tista. Ma le sue apparizioni concertistiche in importanti centri in ternazionali furono molto rare e la sua attività di uomo di cultura si esplicò soprattutto a Roma, nei concerti di corte ch’egli tenne per moltissimi anni come pianista e direttore del «Quintetto Ro mano di S.M. la Regina Margherita». A quasi analoghe conclusioni mi sembra di dover giungere leg gendo le opere pianistiche di Martucci. Tanto scorrevole di mano - le sue opere per pianoforte solo occupano sei grossi volumi quanto stentato era Sgambati, Martucci mi pare assai più interes sante per i lavori maggiormente costruiti (la Sonata op. 34, la Pantasia op. 51, il Tema con variazioni op. 58, il Concerto op. 66) che non per la Tarantella op. 44 n. 6 o anche per il Notturno op. 70 n. 1 o per tutti quegli scherzi che cadono del resto splen didamente sotto le dita e spiegano il successo salottiero del loro autore. La Pantasia op. 51, che a parer mio meriterebbe di essere ricol locata nel repertorio concertistico comune, è un allegro bitematico e tripartito con ampia introduzione e coda, di perfetta tenuta for male e di carattere molto personale. Il problema della creazione di una cultura pianistica era già stato messo a fuoco da Golinelli con le sue cinque sonate e con le due serie di ventiquattro preludi: era, al termine della grande fiammata romantica, il problema del superamento del bozzettismo e del pezzo di genere. Ed è il pro blema che, abbandonato da Golinelli, passa a Rossaro, a Sgam bati, a Martucci. Un problema analogo lo incontra la cultura rus
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sa, che lo risolve con l’opera di Anton Rubinstein e che con i com positori nati intorno al 1840 comincia a collocarsi su un piano di indipendenza e di autonoma affermazione internazionale. In Italia avremo la soluzione superbamente solitaria di Busoni e poi la consapevolezza culturale della «generazione dell’ottanta». Mentre in Russia, o in Boemia, si crea una cultura nazionale che si stacca dal ceppo delle culture dominanti straniere, in Italia dovrebbe crearsi una cultura alternativa a quella nazionale dominante. E ciò non avviene fino a che la cultura dominante non entra in crisi per conto suo. Martucci, nato nel 1856, è di due anni soli più anziano di Puccini, ed è evidente che la cultura italiana del tardo Otto cento, che esprime Puccini, non ha spazio per consentire uno svi luppo al creatore Martucci, mentre consente al Martucci direttore d’orchestra di farsi interprete di Wagner e di Brahms. Ma qui non posso e non voglio andare oltre, né potrei del resto ampliare questo discorso rimanendo entro il campo del pianoforte e non prendendo in considerazione l’opera da camera e sinfonica di Sgambati e di Martucci. Ritorno a quanto dissi all’inizio: Busoni rappresenterebbe la liberazione. Ma dopo che li ho riletti, questi compositori italiani dell’ottocento pianistico, che prima si fecero felicemente cauda tari del melodramma e che poi tentarono velleitariamente di affrancarglisi, mi sono diventati più simpatici.
La «Generazione dell'ottanta» e il pianoforte *
L’argomento che tratterò non ruberà moltissimo tempo e per ciò mi ritengo scusato se spenderò qualche parola per cercare di de lineare brevemente la situazione culturale che la cosiddetta «ge nerazione dell’ottanta» ereditava in Italia nel campo del piano forte. Dopo gli episodi... paleolitici dell’invenzione dello strumen to ad opera di Bartolomeo Cristofori e della sua prima utilizza zione ad opera di Lodovico Giustini, l’Italia sparisce per tutto il Settecento dalla storia sia della letteratura che della costruzione del pianoforte. Il primo quarantennio dell’Ottocento trova in Cle menti il leader indiscusso: posizione favorita sia dalla fama euro pea di Clementi, italiano di origine, sia dai due viaggi di Cle menti in Italia nel 1807-1808 e nel 1827. Dopo Clementi è Thal berg il pianista e il compositore che per circa un trentennio più influenza gli italiani, sia per la sua concezione dell’Arte del canto applicata al pianoforte, che pare il toccasana in un paese tutto de dito al melodramma, sia attraverso l’insegnamento impartito ad alcuni giovani durante gli anni del suo soggiorno a Posillipo. Nel l’ultimo trentennio circa del secolo l’Italia soggiace un poco alla volta a quel medio postromanticismo che prende da Chopin, da Mendelssohn e da Schumann ciò che, dei bollori rivoluzionari ante 1848, può essere conservato nella società filisteo-borghese. Le per sonalità che veramente si distinguono e che, pur nella sostanziale dipendenza dalla cultura centroeuropea e francese, sfuggono al pro vincialismo, sono ben poche, e tra di esse solo quella di Giuseppe Martucci si segnala per un costante sviluppo, per un costante ac crescimento culturale che, iniziato da Mendelssohn e da Thalberg, arriva alla fine sino a Brahms. * Relazione pubblicata nel volume Musica italiana del primo Novecento «La ge nerazione dell1 80», Atti del Convegno, Firenze 9-10 maggio 1980, Firenze 1981.
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Tutta la seconda metà dell’Ottocento, che culmina in Martucci, è tributaria di una cultura straniera alla quale si accosta per imi tarla o, nel caso migliore, per studiarla in contrapposizione con la cultura dominante in Italia. Manca il superamento della fase di conquista culturale, e manca proprio perché in Italia, al contrario che in Russia o in Boemia, esiste una cultura dominante italiana, quella melodrammatica. I compositori italiani non creano dunque neppure il terreno su cui possa svilupparsi alla fine del secolo una cultura alternativa. L’unico compositore di musica pianistica che eviti tutti i condizionamenti, che riesca a sfuggire a tutti i miti (anche a se stesso), è Rossini; ma le musiche di Rossini non esco no dal suo salotto, i ventiquattro Riens pubblicati a Parigi tra il 1880 e il 1885 non suscitano in Italia alcun interesse e non pro vocano una possibilità di saldatura con un ipotetico Satie italiano. Né la presenza in Italia di Liszt, per un quarto di secolo, provoca la possibilità di una saldatura con un ipotetico Bartók italiano. Così, in questo vicolo senza uscita che è il mondo musicale ita liano di fine secolo resta invischiato persino Ferruccio Busoni, che fin verso i trent’anni oscilla tra l’accademismo alla tedesca e le tentazioni del melodramma. Quali erano le tentazioni del melodramma? Non solo quelle di una cultura dominante, ma anche quelle di una fiorente industria. Una lettera di Antonio Bazzini, dell’u marzo 1872, ci dice a que sto proposito quanto un piccolo trattato di sociologia: «Per quan to io sia alieno (e me ne trovo bene) da basse invidie e da sterili recriminazioni, qualche volta è pur difficile non fare confronti sul le differenze delle umane condizioni! Ho sentito VAida 3 volte a Milano; vi ho trovato anche delle cose belle e interessanti, mas sime nei dettagli, ma vale 230 mila lire?!! eppure così va il mon do».1 Il rammarico del Bazzini si spiega meglio se si considera che il 30 marzo successivo egli avrebbe inviato allo stesso interlo cutore la ricevuta del compenso per la sua Sinfonia-cantata', sei cento lire.12 Dieci anni più tardi, passando da professore di com posizione a direttore del Conservatorio di Milano, Bazzini avreb be raggiunto «l’annuo stipendio di L. 4.800 con alloggio e com-
1 Lettera al duca Simone Vincenzo di S. Clemente, in C. Sartori, L’avventura del violino. L’Italia musicale dell’Ottocento nella biografia e nei carteggi di An tonio Bazzini, Torino, ERI 1978, p. 351. 2 C. Sartori, L’avventura... cit., p. 352.
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bustibile».3 Lo stesso Bazzini è ricordato da Alfredo Casella per un consiglio che ribadiva un altro consiglio, datogli in precedenza da Martucci: «[...] il vecchio Bazzini (del quale ricordo benissi mo la barba bianca e il colorito giallo-limone) consigliò lui pure a mia madre di farmi terminare gli studi all’estero. È davvero im pressionante che due direttori di Conservatorio come lui e Mar tucci abbiano dato questo medesimo consiglio a mia madre, e val ga questo ai nostri giovani d’oggi - a quelli soprattutto che ele vano lamentele e vorrebbero far credere che non si faccia abba stanza per loro — valga questo tipico esempio a rappresentare che cosa fosse l’Italia alla fine dello scorso secolo e quanto cammino le abbiano fatto percorrere la generazione dei Martucci dapprima e la nostra più tardi».4 Il melodramma, assorbendo la percentuale di gran lunga mag giore di quanto si spendeva in Italia per la musica, non lasciava né spazi culturali né effettive occasioni di lavoro per i concertisti italiani che avessero voluto aspirare alle cinquecento lire a sera che i maggiori divi dello strumento riuscivano ad ottenere. Se prendiamo come esempio la fine del secolo, cioè il momento in cui la «generazione dell’ottanta» si affaccia alla professione, tro viamo che la Scala, massimo teatro italiano, mette in scena dal di cembre 1899 all’aprile 1900 sei opere per un totale di cinquantanove recite e due balletti per un totale di cinquantasei recite; terminata la stagione lirica alla Scala si tengono tra aprile e mag gio quattro concerti con ventisette pezzi, di cui cinque di autori italiani: tre (di Cimarosa, Ponchielìi, Catalani) tratti da opere, due (di Mancinelli e Franchetti) appartenenti al repertorio sin fonico.5 Nel corso del 1900 la maggior società italiana di musica da camera, la Società del Quartetto di Milano, programma nove concerti, in cui Toscanini dirige una volta, Luigi Mapelli accom pagna alcuni solisti ed Ernesto Consolo esegue quattro pezzi in un concerto sostenuto da Joachim.6 Sempre nel 1900 l’unica isti tuzione sinfonica italiana, l’Accademia di S. Cecilia di Roma, pro gramma cinque concerti sinfonici e sette concerti da camera: dei 3 Ivi, p. 428. 4 A. Casella, 1 segreti della Giara, Firenze, Sansoni 1942, p. 37. 5 Dati desunti da C. Gatti, Il teatro alla Scala. Cronologia dalle origini al 1963, Milano, Ricordi 1964. 6 Dati desunti da Cento anni di concerti della Società del Quartetto di Milano, Milano, Società del Quartetto 1964.
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concerti da camera, uno è dedicato a musiche di Alessandro Bu stini, uno a musiche di Francesco Bajardi, uno a musiche di Ales sandro Longo: non quindi una presenza di autori italiani nel re pertorio dei concerti, ma tributi di omaggio agli accademici. In questa situazione di mercato, con queste prospettive di la voro e di guadagno, un solo settore della vita musicale garantiva al pianista una effettiva possibilità di carriera: l’insegnamento pri vato, meglio se appoggiato ad una cattedra in conservatorio o in un istituto pubblico che rilasciasse titoli di studio. E questa fu la strada scelta da Bruno Mugellini (nato nel 1871), Amilcare Za nella (1872), Guido Alberto Fano (1875), Attilio Brugnoli (1880), Gino Tagliapietra (1887), che furono tutti compositori ed esecu tori, ma che si impegnarono soprattutto come didatti. La scelta dell’insegnamento come mezzo di sussistenza non significa di per sé, necessariamente, rinuncia ad essere protagonisti della storia: ad esempio, Bartók fu dal 1907 professore di pianoforte nell’Accademia di Budapest. Ma in concreto constatiamo che solo Casella potè assai più tardi dedicarsi alla didattica senza perdere il passo con lo sviluppo della vita musicale internazionale. Alcuni altri gio vani musicisti, pur avendo iniziato come compositori, furono poi soprattutto musicologi e critici. Tra i pochi che scelsero di essere prima di tutto compositori senza tentare di inserirsi nell’industria del teatro musicale (o meglio, tentando, ma senza accettare i con dizionamenti ideologici che la situazione imponeva), e tra i pochis simi che in questa prospettiva si segnalarono in campo interna zionale, due, Respighi e Pizzetti, si occuparono marginalmente dal pianoforte, due, Casella e Malipiero, se ne occuparono molto. Gli esordi di Ottorino Respighi (nato nel 1879) sono quelli di un compositore che meno di tutti gli altri respinge la tradizione dell’Ottocento italiano: il Concerto in la minore del 1903, che di mostra una capacità discorsiva già scaltrita, si richiama ai modelli lisztiani o più probabilmente al lisztismo di compositori di fine se colo come Moszkowski o d’Albert; anche i Pezzi per pianoforte solo, del 1904, sono stilisticamente incerti o più spesso neutri. Respighi non era del resto pianista e non era neppure stimolato, al contrario del non-pianista Gian Francesco Malipiero, dalle pos sibilità timbriche del pianoforte. Lo stesso discorso si può fare per Ildebrando Pizzetti (1880), che nel 1911 scrive il poemetto Da un autunno già lontano-, tre pezzi di scarso interesse nella let teratura del pianoforte, ma nei quali già si scorge chiaramente lo
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stile del compositore che si sarebbe rivelato poco più tardi nella Fedra. Nell’opera pianistica giovanile di Gian Francesco Malipiero si nota una rapida evoluzione. I Sei Pezzi del 1905 sono a parer mio curiose mescolanze di scolastica schiavitù nel movimento del le parti e di sgraziati tentativi di eleganza salottiera: il modello potrebbe esser stato Marco Enrico Bossi, ma in verità poco im porta di analizzare le origini culturali quando il risultato è così poco significativo. Neppure le Bizzarrie luminose dell'alba, del me riggio, della notte ci dicono molto di più, anche se certo modalismo e certo arcaismo di scrittura strumentale - un momento de 1 Fantasmi che pare un’antica canzone accompagnata sul liuto ci fanno intravvedere il futuro stile di Malipiero. Faticosamente costruiti, ma originali negli spunti tematici e, soprattutto, nella individuazione di particolari atmosfere sonore sono i sette Poe metti lunari del 1909-1910. Sembra evidente che lo stile pianisti co dei Poemetti lunari derivi dalla scoperta e dalla personale me ditazione del fenomeno Debussy, ridotto però quasi al solo aspet to della creazione di timbri mediante accordi e raddoppi che non vengono percepiti come accordi e raddoppi ma come registri di mutazione. Sebbene questa tesi sia la più semplice e diretta, e forse la più probabile, non escluderei un’altra tesi che viene ap pena sfiorata da Vladimir Jankélévitch quando dice: «Il demone della bizzarria che detterà a Malipiero i Poemetti lunari ispira a Satie l’immobilità enigmatica, la stranezza delle sue prime opere».7 Non conosco documenti che attestino una conoscenza di Malipiero delle opere di Satie, conoscenza non sicuramente agevole, visto che Malipiero andò a Parigi solo più tardi. Certamente, in ogni caso, la derivazione dello stile pianistico di Malipiero dal primo Satie piuttosto che dal Debussy maturo mi sembra non del tutto improbabile, perché la derivazione da Debussy presuppone una semplificazione e un impoverimento, mentre la derivazione da Sa tie significherebbe acquisizione per un futuro sviluppo. Negli anni che precedono la guerra si va formando a Parigi Al fredo Casella. Le sue pagine pianistiche di questo periodo non fanno certo gridare al miracolo, ed io credo che basti soffermarsi un attimo sulla Toccata del 1904 e sulla Barcarola del 1910. La 7 V. Jankélévitch, Le Nocturne - Fauré, Chopin et la nuit, Satie et le matin, Parigi, A. Michel 1957, p. 129.
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Toccata è basata su uno spunto orientaleggiante, una specie di modo giavanese ottenuto con Tomissione del terzo e sesto grado della scala minore naturale, che pianisticamente rende molto be ne perché (in do diesis minore) permette di usare con forza il pollice sui tasti neri. La costruzione del pezzo è abile, l’effetto è sicuro: il Casella della Toccata appartiene alla generazione dei di scendenti di Liszt, dei pianisti che mettono a frutto le esperienze di Balakirev, Ljapunov e simili, e sa sfruttare da pianista una tra dizione che padroneggia con disinvoltura: questo aspetto non ver rà mai meno, in Casella. Nella Barcarola, come nella Berceuse tri ste dell’anno prima, appare l’«altra faccia» del Casella composi tore, il Casella intimo che predilige le melodie cullanti in ritmo di sei e di dodici ottavi. La Berceuse triste è sicuramente più riu scita della Barcarola', mi interessa in questo momento la Barcarola perché qui un tema che potrebbe essere di Grieg o anche di Men delssohn viene torturato con qualche ricercatezza armonica di ca rattere del tutto sperimentale: si delinea la crisi dell’armonia, che sarà per Casella l’esperienza cruciale. Un particolare dello stile del Casella musicista (musicista, dico, perché appartiene anche al Casella revisore) compare fin dalla gio vinezza: terminare senza rallentare. A dire il vero io non capisco bene se i «senza rallentare» di Casella vadano intesi come reazio ne agli enormi rallentamenti in fine di pezzo e in fine di frase dei pianisti liberty, e quindi se si tratti di una riduzione di ciò che Casella considera un’esagerazione, o se si tratti di una concezione dell’esecuzione radicalmente opposta alla tradizione. Intendo dire questo: il rallentamento è un segnale per l’ascoltatore, un segnale che gli facilita la comprensione dell’organizzazione fraseologica e che tende a coinvolgerlo emotivamente, esponendogli la musica in modo drammatico; il non-rallentamento potrebbe significare l’e sposizione di un oggetto sonoro, sottratto alla partecipazione emo tiva. Mi sembra probabile che Casella intendesse il non-rallentando come reazione a un troppo-rallentando, ma almeno in via di ipotesi non escluderei l’altra alternativa, che metterei in rapporto con il Prelude, valse et ragtime del 1918 per pianoforte automa tico. Scrivere per pianoforte automatico può essere una dimostra zione di interesse per la possibilità di riprodurre la musica senza l’intervento dell’interprete: idea antica, che trova un riscontro sto rico concreto, e che è indubbiamente espressa simbolicamente an che dalla prescrizione di non rallentare.
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Come tutti sappiamo la guerra significa la riduzione e poi l’esclu sione dai programmi della musica tedesca; questo fatto, e la dif ficoltà di circolazione internazionale dei concertisti, provocano una richiesta di musiche e di esecutori italiani. Permettetemi di ritor nare per un attimo alle mie piccole statistiche: nella stagione 1915-1916 la Scala mantiene il centinaio di recite complessive con undici opere (settantaquattro recite) e due balletti (una tren tina di recite) e da quattro passa a cinque concerti; la Società del Quartetto di Milano programma quindici concerti con cinque soli esecutori stranieri su ventiquattro, e FAccademia di S. Cecilia di Roma programma ventotto concerti sinfonici e dieci concerti da camera, con larghissima partecipazione di esecutori italiani.8 Si crea quindi, negli anni di guerra, uno spazio sia culturale che econo mico per i musicisti italiani non legati alla tradizione teatrale. In questo periodo — e, credo, indipendentemente dalle conseguenze politiche della guerra - la cultura pianistica italiana appare già orientata verso la cultura francese e in particolare verso Debussy. Riccardo Pick-Mangiagalli (nato nel 1882), molto vicino al vir tuosismo salottiero di compositori mitteleuropei come Walter Niemann o Serge Bortkievic, acquista lo spolvero impressionisti co: ad esempio, nei Deux «Lunaires» (1916) che fanno epoca. Nei cinque pezzi La città fiorita (1918) di Domenico Alaleona, nei Tre Pezzi (1918) di Victor de Sabata, nei Nove Poemetti (19171920) di Luigi Perrachio, in alcune cose di Luigi Ferrari Trecate e di Vincenzo Davico la meditazione di Debussy è impegnata, an che se il Debussy guardato con ammirazione estrema è quello del 1903-1910 più che quello del 1910-1915. Persino i didatti, con quistati da Debussy, si fanno avanti: Giuseppe Frugatta scrive II pianista moderno (io esercizi giornalieri del pianista moderno sul la scala adottata nel nuovo sistema armonico), Le scale del piani sta moderno (3 tipi di scala sui 12 suoni: A. Scala eolia, B. Scala orientale, C. Scala enigmatica) e Le cinque note del pianista mo derno, che esce nel 1915 con una curiosa prefazione di Giovanni Anfossi. Anfossi e Frugatta, che appartenevano alla «generazione del sessanta», danno per scontato che la scala esatonale sia il ver bo nuovo e millenario: il che vuol dire che tutta una cultura e una sottocultura hanno rinnegato la Primavera di Grieg e si sono votate alla Cathédrale engloutie. 8 Dati desunti dalle pubblicazioni già citate.
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Questa conversione a Debussy non è opera della «generazione dell’ottanta», cioè la generazione dell’ottanta non succede diret tamente alla «generazione del quaranta», tutta volta verso la cul tura tedesca, perché in mezzo alle due c’è una generazione che — eccettuato Busoni - non ha una incidenza culturale vera, ma che ha invece una incidenza nel costume dei salotti e dei dilettan ti di pianoforte. Le venature francesizzanti che si trovano in Ca talani e in Cilea (nei loro pezzi per pianoforte, intendo) si trovano in Pietro Fioridia (nato nel i860), in Marco Enrico Bossi (1861), in Mario Tarenghi (1870), e insieme con l’acquisizione del mo derno repertorio melodrammatico francese, che occupa all’incirca l’ultimo ventennio dell’Ottocento, si sviluppano sia una musica pianistica linguisticamente influenzata dai francesi, sia una diffu sione della musica francese da salotto. Sull’onda di questa tradi zione Debussy arriva quindi anche nel salotto, la sua musica fa parte non solo della cultura, ma del costume, e intorno a lui si focalizza l’unità cultura-costume che non si era verificata nell’Ottocento: Giuseppe Frugatta, che familiarizza il pianista «moder no» con la «scala adottata nel nuovo sistema armonico», mette in realtà Debussy sul piedistallo di un neo Guido d’Arezzo. Debussy for ever e, come dirò fra breve, anche nei compositori più originali e personali. Non mi sembra che nell’Italia di quel tempo venisse compresa la lezione di Busoni, imitato soltanto da Gino Tagliapietra. Un interesse per Reger lo noto appena in Et tore Desderi e un grande interesse per Skrjabin appena in Gian notto Bastianelli, ma anche Ravel non ha seguaci, tanto che potrei citare un solo pezzo di imitazione raveliana, Le danzatrici di Jodh pur (1918) di Alberto Gasco, e potrei citare qualche secondario tratto stilistico raveliano solo in Mario Castelnuovo Tedesco, che è invece assai influenzato da Albéniz. Quindi, una volta consta tato che l’egemonia culturale tedesca viene sostituita dall’egemo nia di un grande creatore francese, resta da vedere che cosa fa cessero i due compositori di musica pianistica che in quegli anni sono da ritenersi di levatura europea: Casella e Malipiero. Dal 1914, anno dei Preludi autunnali, Malipiero dà inizio ad una ricca e matura produzione pianistica, che durerà per una de cina d’anni: si tratta di molte composizioni, scritte da un musi cista che si è formato un suo linguaggio e procede senza impacci, anche se non sempre con lo stesso impegno. Come esempi dello stile pianistico (e del linguaggio) di Malipiero si possono citare
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il n. 2 e il n. 3 dei Preludi autunnali. L’inizio del Preludio n. 3 presenta una melodia in registro centrale su blocchi di accordi, con gli accordi divisi tra le due mani e la melodia affidata a me dio, anulare e mignolo della destra. La costruzione è tradizionalis sima: due battute introduttive per far partire il primo evento (accompagnamento ritmico-timbrico), e poi esposizione del secon do evento (melodia di otto battute):
Lento, triste
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Sia la costruzione che la strumentazione sono quelle delle Ro manze senza parole di Mendelssohn, riprese in migliaia di pezzi pia nistici; e secondo la stessa tradizione, dopo le 2 + 8 battute la melodia viene ripresa e sviluppata un’ottava sopra. Il procedimen to pianistico (lasciamo stare il procedimento compositivo) è qui molto schematico, cioè quello di un non-pianista: raddoppio al l’ottava della melodia (per non perdere di intensità espressiva, cambiando registro) e semplificazione dell’accompagnamento (per ché l’accompagnamento non può più essere diviso tra le due mani):
Nel Preludio n. 2 si può trovare una tematica forse ispirata, come nelle Impressioni dal vero, al canto degli uccelli, con una perfetta individuazione di registri e di rapporti di altezze:
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sia, tradizionalmente, in senso armonico (cadenza ad inganno, quin to-sesto grado, tra la fine della terza e l’inizio della quarta bat tuta), sia, alla Debussy, in senso timbrico (movimenti accordali paralleli nella seconda e nella terza battuta). Notate anche come Farmonizzazione del re diesis della prima battuta sia dovuta a sensibilità acustica, non a rapporti armonici tradizionali, tanto è
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vero che quando la nota-melodia si sposta al basso (terza battuta della terza riga), al do viene sovrapposto non un accordo di re bemolle ma di re. Dopo VA arriva puntualmente il B; e qui fa la comparsa non più un principio di strumentazione pianistica di Debussy, ma un modello stilistico debussiano:
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Mi pongo però una domanda, anche se, senza documenti, non posso dare una precisa risposta: si tratta di modello stilistico pre so da Debussy, o di un mendelssohnismo filtrato attraverso Sa tie? Non-pianista Malipiero, non-pianista Satie: in entrambi opera una vivacissima fantasia timbrica, ma entrambi, a parer mio, pensano manualmente la tastiera al modo dei dilettanti che hanno suonato con gusto, tutt’al più, le Romanze senza parole e i loro innumerevoli derivati. Spesso, in Malipiero, lo stile di Debussy arriva in modo così scoperto da sembrare persino citazione; ve diamo l’inizio di Risonanze, del 1918: Calmo
Questi momenti si incontrano continuamente in Malipiero, ma, tranne che in alcuni casi (come l’inizio di Risonanze, che ho se gnalato proprio per questo motivo), non mi sembra si possa ve ramente parlare di imitazione, di ricalco, perché gli atteggiamenti derivati da Debussy rientrano nell’equilibrio strutturale delle com posizioni, tanto che, come dicevo, non mi spiace la tesi di uno
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sviluppo di Malipiero da Satie, in parallelo con Debussy. C’è poi un fatto, che a me sembra indubitabile: il pianoforte di Malipie ro, malgrado la sommarietà e la genericità di certa sua scrittura, si riconosce sempre, come si riconosce sempre il pianoforte di Satie, di Debussy, di Ravel, di Skrjabin, anche se non saprei ci tare invenzioni propriamente strumentali di Malipiero. Non mi sembra invece di poter dire che si riconosca sempre il pianoforte di Casella, mentre di Casella si riconoscono sempre le durate temporali, per quanto generico possa essere il suo linguag gio. S’intende che Casella, come Malipiero, si riconosce anche per altri segni. Ma in senso strettamente musicale, della musica co me fatto in sé, direi che per Casella la musica è prima di tutto durata, per Malipiero suono. Non vorrei fare contrapposizioni o distinzioni troppo nette e troppo schematiche, e spero che il mio discorso non sia inteso in questo senso: vorrei invece indicare un che di elementare, di elementarmente diverso che a me pare di scorgere nei due artisti: in Casella la musica come durata che viene anche riempita di suoni, in Malipiero la musica come suono che viene anche inserito in schemi ritmici. Se nel 1914 Malipiero, nei Preludi autunnali, prende a prestito schemi ritmici stereotipi perché ha da riempirli di suono suo, nel 1914 Casella, nei Nove Pezzi, prende a prestito idee sonore da Debussy, da Ravel, da Schonberg, da Bartók, perché ha da disporle in successioni ritmi che sue. I Nove Pezzi segnano nella musica per pianoforte il momento che Casella chiamava del suo «secondo stile», del «dubbio to nale». A me pare che si tratti di un qualcosa di più del «dubbio tonale». Prima di tutto, una svolta ideologica. Casella aveva stu diato composizione con Fauré, e nella sua attività creativa fino al 1914 mi pare di vedere un modo faureiano di concepire l’arte, cioè l’arte come sviluppo rigorosamente individuale della perso nalità, quello che Charles Koechlin chiama, parlando di Fauré, «presa di possesso di se stesso».9 Nei Nove Pezzi Casella s’accor ge invece della moda o delle mode, cioè del fatto che la storia cammina indipendentemente dai problemi che l’individuo, l’ar tista nella torre d’avorio, pone a se stesso; e il rispecchiamento in Casella dei maggiori creatori del momento - Busoni escluso mi pare acquisti il significato simbolico di una presa di coscienza 9 C. Koechlin, Gabriel Fauré, Parigi, Editions le Bon Plaisir 1949, p. 122.
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della musica in quanto espressione di problemi del mondo. Il «dubbio tonale» è il dubbio di poter ancora organizzare la musi ca in quanto spazio sonoro, attraverso l’armonia. Nelle composi zioni per pianoforte scritte tra il 1914 e il 1915 - Nove Pezzi, Sonatina, A notte alta, Pagine di guerra, Pupazzetti -^l’armonia tocca momenti di estrema complicazione, ma, sembra a me, si consuma attraverso la scoperta dell’accordo come timbro artifi ciale. La possibilità di costruire sul pianoforte registri di mutazione - o di fingerli, come nel pianoforte si finge la cantabilità - viene sfruttata da Malipiero in limiti ristretti, come alternativa non radicale all’armonia; in Casella la possibilità di alternativa radi cale viene vista, anche se non viene spinta a estreme conseguen ze ma serve a recuperare la tradizione classica. La costruzione di timbri è spesso evidente, ed è per questa ragione, a mio parere, che Casella è tanto ossessionato dalla paura che l’esecutore gli arpeggi l’accordo. Arpeggiare l’accordo non è un vezzo, così, sem plicemente (come l’intendeva Casella): è un modo per intonare con diversa intensità, in funzione di tensioni armoniche, i singoli suoni dell’accordo; intonazione dinamica diversificata che può aver luogo, che ha luogo anche con l’accordo non arpeggiato, ma che è più facile con l’accordo arpeggiato. Ora, pure in questo ca so, come nella prescrizione del senza-rallentare, sono però incerto sul significato reale del non-arpeggiare in Casella. In genere direi che egli voglia abolire le tensioni armoniche, e che quindi inten da l’accordo come registro di mutazione. Ad esempio, in questo tratto di In modo esotico (dei Nove Pezzi) è evidente che Casella costruisce un timbro di gamelan-.
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e sempre senza arpeggiare*
Così in moltissimi altri casi, e in una composizione intera: il primo, In modo funebre, dei Nove Pezzi. In quest’altro passo di In modo esotico, l’accordo, sia arpeggiato che non arpeggiato, è timbro; la tensione armonica nasce, come fatto secondario, tra la melodia e un pedale (sol diesis-do diesis nel basso), cioè nasce dal contrappunto:
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In questo passo della Sonatina', invece (e così altre volte), non capisco bene se dopo l’accordo, che mi sembra avere valore ar monico, la mancanza di perfetto parallelismo sia da intendere come variazione timbrica o come movimento contrappuntistico di parti o come armonizzazione di un tetracordo cromatico: Ad libitum. Appassìo nato e rubato assai, con molta fantasia.
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Escluderei che si tratti di movimento di parti, ma solo un’ese cuzione dell’autore, e solo un’esecuzione risalente al tempo della composizione potrebbe indicar con assoluta certezza quale fosse effettivamente l’intenzione di Casella. Voglio dire, lasciando an che da parte il passo in questione, ma parlando in generale: fi no a che punto Casella, partendo da studi sulle funzioni dell’ar monia e raggiungendo lo stadio dell’accordo inteso come timbro, arrivò vicino alle soluzioni toccate verso il 1916 da Charles Ives, cioè vicino al cluster? Il trattatalo U evoluzione della musica a traverso la storia della cadenza perfetta, pubblicato a Londra nel 1923, dimostra che Casella pur riconoscendo l’importanza assun ta dal timbro nella più recente musica, tenne concettualmente separati timbro e armonia. E a me pare che Casella arrivasse in tuitivamente a intravedere il concetto di cluster, che non lo ap profondisse, e che attraverso la liquidazione dell’armonia postro mantica ritrovasse e la melodia e il contrappunto e, in campo pia nistico, una timbrica ottenuta con il solo tocco o con le tradizio nali strumentazioni del periodo classico. La soluzione del problema si delinea chiaramente per Casella fin dal 1918, con Inezie e Contrasti. Come momento liberatorio prenderei però la Cocktail-dance, anch’essa del 1918: il rifaci mento, serioso, della musica di consumo, porta alla ripresa di possesso di un suono pianistico senza ombreggiature. Se a Ca sella fossero capitati in mano i Bags di Joplin direi che Casel la sarebbe stato colpito dallo stile pianistico jopliniano. Suppo sizione certamente fantascientifica; tuttavia mi sembra che si deb ba tener presente la Cocktail-dance come dimostrazione dell’ori gine non stravinskijana del neoclassicismo di Casella. Con gli 11 Pezzi infantili, e soprattutto con la Partita per pianoforte e or chestra, il neoclassicismo di Casella si afferma in ogni senso e rag giunge il suo momento più felice nella Scarlattiana, del 1926. Con Casella, diventano neoclassici tutti, eccettuato Malipiero, che a suo modo neoclassico era da un pezzo e il cui stile piani stico non attraversa crisi, ma che nel 1926, con i Pre Preludi a una fuga, compie tuttavia un marginale excursus neoclassico, scri vendo una fuga in cui la polifonia è concepita, pianisticamente, in senso beethoveniano. Non c’è bisogno di far notare che il neo classicismo italiano sta in rapporto con un’esperienza neoclassica che in senso lato è sentita da tutta la musica europea. I composi
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tori italiani della «generazione dell’ottanta», Casella e Malipiero eccettuati, vedono però il neoclassicismo come recupero di un’an tica tradizione italiana riportata in vita in stilemi strumentali del la tradizione dell’Ottocento: lo stile pianistico di Ottorino Respi ghi, nel Tre Preludi sopra melodie gregoriane e nel Concerto in modo misolidio, è sempre quello di un artista che pensa il piano forte nei termini della tradizione virtuosistica; la Toccata per pia noforte e orchestra, del 1928, che vuole uscire, e che esce dagli schemi compositivi dell’Ottocento, pianisticamente potrebbe es sere stata scritta da Saint-Saèns o da Scharwenka o da d’Albert; anche nei Tre Pezzi in nomine Hyeronimi di Luigi Perrachio, del 1923, la strada che porta a Frescobaldi passa attraverso VHommage à Rameau di Debussy, e le trascrizioni dello stesso Perra chio, di Respighi, di Pick-Mangiagalli, di Brugnoli, di Tagliapietra sono sempre prevalentemente orientate su Tausig, su d’Al bert, su Busoni, su Rachmaninov. Per la «generazione dell’ottanta», mi sembra, il neoclassicismo è questione di contenuti, non di pensiero strumentale: lo stacco tra le musiche ora citate e la Toccata di Petrassi, del 1933, ci dà la misura di un trapasso di generazioni e della conquista di un neoclassicismo non restaurativo. Non ho inteso fare un catalogo, né ragionato né sommario, delle musiche pianistiche italiane del la «generazione dell’ottanta», e quindi mi fermo qui, perché ciò che Casella o Malipiero o Pizzetti scrivono dopo il 1930 non rap presenta novità, in senso stilistico, così come mi pare superfluo segnalare le poche pagine pianistiche scritte verso il 1940 da Giorgio Federico Ghedini. Non ne parlo perché Ghedini, pur essendo nato nel 1892, appartiene storicamente, se non anagraficamente ad un’altra generazione, in quanto si muove secondo linee culturali già tracciate da Casella. Sarà bene, per valutare l’apporto al pianoforte della «genera zione dell’ottanta», considerare per un attimo anche gli interpre ti e i didatti. Noterò per inciso che questa generazione non ha un grande concertista di fama internazionale (la generazione pre cedente aveva avuto Busoni, la successiva avrebbe avuto Carlo Zecchi); ha invece alcuni didatti: in particolare Casella, Mugel lini, Brugnoli, Tagliapietra. Mugellini e Brugnoli sono anche teo rici della tecnica pianistica, tutti sono revisori di testi classici. Mu gellini, con i suoi lavori teorici, diede uno scossone alla didattica
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italiana: le sue ricerche non erano originali, perché partiva dai teorici tedeschi (soprattutto Breithaupt), ma il suo vigore pole mico e la sua mentalità nello stesso tempo razionale e pratica segnarono il momento del rinnovamento. Attilio Brugnoli non era invece né razionale né pratico: era un mistico della tecnica, che accumulava montagne di materiali non criticamente selezio nati ed analizzati, e che pure era geniale, tanto che arrivò a sco vare la gemma, la qualità di suono che sognava. Mugellini, Ca sella, Brugnoli .e Tagliapie tra lavorarono come revisori per la maggior casa editrice italiana, la Ricordi, e le loro revisioni so stituirono sia le più vecchie revisioni italiane, sia revisioni molto diffuse un tempo in Italia come quelle di Czerny, di Bùlow, di Scholz. Nei loro lavori, che sono fatti sempre con molto impegno e con dovizia di interventi, non si verifica il passaggio dalla edi zione commentata alla edizione critica: il loro testo è in genere filologicamente più corretto del testo di revisioni precedenti, ma manca completamente in essi lo studio storico dell’esecuzione, ed il loro fraseggio dipende dal loro gusto di esecutori. Ci sono dif ferenze individuali, s’intende, e c’è anche una evoluzione: il Ca sella degli anni quaranta è diverso dal Casella del 1918, il gusto di Tagliapietra è più moderno del gusto di Brugnoli. Ma non si può dire che in Italia maturasse, nella «generazione dell’ottanta», una coscienza dell’interpretazione pari a quella della generazione dell’ottanta tedesca (Schnabel, Fischer, Martienssen, Hoehn, Landshoff, ecc.). Da quanto ho detto emerge con chiarezza che la «generazione dell’ottanta» ha un leader in Alfredo Casella: creatore che affron ta problemi essenziali del pianoforte, pianista, didatta, revisore di testi classici, Casella è persino una figura anacronistica, in un momento di specialisti. Ciò che manca, a rendere del tutto ana cronistica la figura di Casella, è l’interesse per la costruzione del lo strumento. Se Casella avesse abitato a Torino, città nella quale era nato, probabilmente avrebbe ... colmato la lacuna occupan dosi della F.I.P., la Fabbrica Italiana Pianoforti, che nel dopo guerra rappresentò l’unico serio tentativo di creare un’industria italiana competitiva con le grandi industrie dei paesi stranieri. Anche questo tentativo, in fondo, è merito della «generazione dell’ottanta». E andò a vuoto, come vanno a vuoto in Italia mol ti tentativi, come andò a vuoto, o quasi, il tentativo della «gene
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razione dell’ottanta» di risolvere un problema storico. Il melo dramma dominava l’Italia, all’alba del secolo: mutatis mutandis, se mi concedete la battuta idiota, possiamo dire che invece, og gi, pure.
Il pianoforte di Musorgskij *
Nella storia del concertismo pianistico si trovano alcuni punti di riferimento che segnano momenti della cultura in cui viene fis sata in sintesi tutta un’epoca. Il primo di questi momenti-chiave è indubbiamente rappresentato dai dieci concerti che Liszt tenne a Vienna nel marzo 1846, concerti attraverso i quali veniva espo sta una prima concezione critica della storia della letteratura pia nistica. Il secondo è rappresentato dai sette concerti «storici» che Anton Rubinstein tenne in varie capitali d’Europa a partire dal l’autunno del 1885. I tre compositori che, occupando ciascuno un programma, uscivano dominatori dalla visione della storia che Rubinstein proponeva erano Beethoven, Chopin e Schumann. Cho pin e Schumann più ancora di Beethoven, perché la scelta delle sonate di Beethoven partiva dall’op. 27 n. 2 — considerata allora romanticismo della più bell’acqua - e proseguiva con i lavori che più si prestavano a legare Beethoven al romanticismo. Composi tori preromantici, prima del grande precursore Beethoven, erano, se condo la concezione di Rubinstein, Johann Sebastian Bach, Haydn, Mozart, e tutta la storia dello strumento, che per Rubinstein co minciava con By rd, veniva vista insomma come la lenta uscita dal bozzolo di due farfalle splendenti, il tedesco Schumann e lo slavo Chopin, l’Occidente e l’Oriente. Più sorprendente di tutti gli altri era però l’ultimo programma, che copriva gli ultimi trent’anni della letteratura. Chopin, dopo es sersi già accaparrato tutto un programma, apriva anche il settimo, con undici studi, ed era seguito da sette compositori russi: Glinka, Balakirev, Cui, Rimskij-Korsakov, Ljadov, Cajkovskij, Anton Ru binstein, Nikolaj Rubinstein. Il lettore esterrefatto si chiede dove siano andati a finire il Brahms delle tre sonate, delle variazioni su Relazione al Convegno di studi su Musorgskij, Piccola Scala, 1981.
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tema di Hàndel e su tema di Paganini, magari dei valzer e delle danze ungheresi, e dove sia andato a finire il Liszt della sonata, delle Variazioni su un tema di Bach, del Mephisto Walzer e del Preludio e fuga sul nome Bach, per non parlare del Liszt di Jeux d’eau a la villa d'Este o delle Valses oubliées. La tesi di Rubin stein era chiara e lampante: dopo il momento supremo del roman ticismo lo spirito dei tempi era emigrato nei paesi slavi, l’Oriente aveva battuto l’Occidente e conquistato la supremazia. Era fondata una tesi del genere? No, evidentemente. Soprat tutto perché Rubinstein mancava clamorosamente il colpo quando non teneva conto dell’opera che avrebbe per certi versi giustifi cato il suo assunto: i Quadri di una esposizione di Musorgskij. E tuttavia l’orgoglio di sentirsi protagonisti della storia, ad essi, ai giovani barbari usciti dalla provinciale Russia, non si poteva ne garlo. Che cos’era stata la letteratura pianistica russa nel momen to in cui Vienna aveva allineato Haydn, Mozart, Beethoven, Schu bert, che cos’era stata nel momento in cui la Germania aveva vi sto fiorire Weber, Mendelssohn, Schumann? Il più importante compositore dell’epoca classica, Bortnjanskij, aveva scritto tra l’al tro un concerto, il violinista Lev Stapanovic Guril’ev varie mu siche, tra cui i curiosi Vingtquatre preludes et une jugue\ più tar di si erano segnalati A. Villoing, A.A. Aljab’ev, I.F. Laskovski, J. J. Genishta, la cui Sonata op. 9 aveva meritato le lodi di Schu mann. Ma fino ad Anton Rubinstein cioè fino ad oltre la metà del secolo, nessun compositore russo aveva raggiunto fama europea. I dominatori del gusto, in Russia, erano stati gli stranieri. Johann Wilhelm Hassler, nipote e allievo di un allievo di Bach e competitore di Mozart in una famosa gara organistica e pianistica a Dresda, aveva vissuto a S. Pietroburgo dal 1792 e a Mosca dal 1794 alla morte (1822). John Field, arrivato in Russia con Cle menti nel 1802, per più di trent’anni aveva operato tra S. Pietro burgo e Mosca. Ernst Haberbier, norvegese, aveva conquistato i dilettanti russi negli anni trenta. E, finalmente, il grande Adolph Henselt, allievo di Hummel, nel 1838 era stato nominato maestro di musica dei principi e pianista di camera dell’imperatrice. La car riera burocratico-didattica di Henselt sarebbe stata gloriosa: or dine di S. Vladimiro, ispettore musicale degli istituti femminili di Stato, consigliere di Stato, nobile. La sua carriera artistica si sa rebbe inceppata fra tanti onori, perché nella seconda metà del se colo (morì nel 1889) egli sarebbe apparso in pubblico come con-
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certista non più di tre volte ed avrebbe scritto pochissimo. La posizione da lui occupata gli avrebbe tuttavia garantito un pre stigio immenso e la sua influenza si sarebbe prolungata fino a Rachmaninov e soprattutto a Skrjabin. Nella splendente costellazione di Henselt nasce, verso la metà del secolo, il pianista Musorgskij. Quando il padre lo portò a S. Pietroburgo (1849) Musorgskij aveva già cominciato a studiare il pianoforte in famiglia ed aveva già eseguito, accompagnato dalla madre al secondo pianoforte, un concerto di Field (probabilmente il secondo, con cui esordirono alcuni fanciulli-prodigio russi). Piotr Alexeievic Musorgskij affidò il figlioletto ad Anton Herke, che aveva girato il mondo per mettere insieme un tris di insegnanti celebri (Kalkbrenner a Parigi, Moscheles a Londra, Ferdinand Ries ad Amburgo) e che aveva poi completato il full con John Field a Mosca e Adolph Henselt a S. Pietroburgo. I biografi di Musorgskij lodano Herke perché sapeva insegnare benissimo la tecnica di agilità e destare l’interesse degli allievi per la grande letteratura pianistica e lo rimproverano perché non cu rava l’insegnamento della teoria e dei rudimenti dell’armonia. L’uni ca testimonianza concreta che ci resti, dell’insegnamento di Herke, è per noi la Porte-enseigne polka del 1852, scritta per i compagni della Scuola dei Cadetti della Guardia, e pubblicata nello stesso anno a spese del padre. Il pezzo, che è del resto piacevole, ci dice che Herke doveva avere indirizzato l’allievo verso la letteratura di intrattenimento, più che verso la «grande» letteratura. Nello stes so anno Balakirev, di due anni maggiore di Musorgskij, affron tava un’impresa non indifferente nella Grande fantasia su temi russi per pianoforte e orchestra. Il modello stilistico di Balakirev era ancora lo Chopin Biedermeier della Pantasia op. 13 e dei con certi, e quindi si può dire che Balakirev non era aggiornato ma guardava alla grande musica pianistica. Musorgskij era invece ag giornato, ma guardava alla musica piccola: la Porte-enseigne polka potremmo benissimo attribuirla a Theodor Dòlher, che alla metà del secolo lanciava due esemplari del più puro Kitsch con la Polka brillante op. 50 n. 1 e con Cascina-Marcia op. 68 n. 2. Vari biografi suppongono che dopo questo brillante saggio di stile alla moda Musorgskij scrivesse altri pezzi dello stesso tipo. Non abbiamo però null’altro fino al Souvenir d’enfance compo sto nel 1857 e detto più tardi Souvenir d’enfance n. 3. Qui il pa norama è molto diverso perché il pezzo, pur ispirato a un folklo-
La sonala romantica
rismo di maniera, è strutturalmente abbastanza complesso: quan to basta per meritare, essendo opera di un diciottenne, una breve analisi. Lo schema formale a cui Musorgskij fa riferimento è la canzone tripartita con introduzione in tempo più lento e coda, ma la griglia tonale non è consueta:
Introduzione Primo tema Secondo tema Riesposizione abbreviata del primo tema Coda
-
si minore si minore
-
mi minore mi minore-siminore-si maggiore.
solmaggiore
La inconsueta, schubertiana riesposizione al quarto grado rap presenta per Musorgskij quasi una scelta obbligata, perché sicco me il primo tema viene esposto e sviluppato per 44 battute, su un pedale di tonica, una riesposizione alla tonica sarebbe risultata terribilmente monotona. Ma la riesposizione alla sottodominante risolve bene il problema e il passaggio attraverso la tonalità di sol maggiore (sopradominante di si minore) aggancia perfettamente esposizione e riesposizione. Nella coda Musorgskij gioca benissi mo sull’equivoco con l’accordo si-re diesis-fa diesis impiegato co me dominante di mi minore e falsa tonica di si maggiore. Né la tonica di si minore né la dominante di si minore e di si maggiore vengono più toccate nella coda, e al si maggiore finale si arriva cadenzando su una settima sul secondo grado di si minore:
Il tremolo della quartultima e della terzultima misura ci danno una prima idea delle perplessità che la scrittura pianistica musorgskiana solleverà nei Quadri. Com’è da eseguire, questo tre molo che, così come è scritto, è ineseguibile? Probabilmente così:
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Per quanto probabile sia questa soluzione, ed appoggiata ad esempi autorevoli di scrittura abbreviata elencati nei metodi del l’inizio del secolo, resta il dubbio che Musorgskij volesse magari qualcos’altro. Che so? Una ribattitura in cui non avesse impor tanza il numero dei suoni ma il gesto, la vibrazione, il sussultare di tutta la persona dell’esecutore... Meno problematici e meno interessanti sono i due Scherzi, in si bemolle maggiore e in do diesis minore, del 1858. Del tradi zionalissimo Scherzo in si bemolle, che fu trascritto da Musorgskij per orchestra, non abbiamo più la versione originale ma la ver sione a 4 mani ed una «ritrascrizione» per pianoforte di Ljapunov. Lo Scherzo in do diesis minore è di ridotte proporzioni e di scrit tura strumentale molto schematica. Il fatto compositivo più no tevole consiste nella derivazione del tema del trio dal tema della prima parte (per rendere più evidente la derivazione trasporto in do diesis maggiore il tema del trio, che in Musorgskij è in la maggiore) :.
I due scherzi aprono un momento neoclassico dell’attività crea tiva di Musorgskij, perché nello stesso 1858 in cui componeva gli scherzi egli scrisse due sonate in mi bemolle maggiore e in fa diesis minore. Dopo il 18^0 il recupero critico della «forma-sona ta» e più in generale il recupero di procedimenti formali classici
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era un problema generalizzato, sentito dall’ultimo Schumann co me da Liszt e da Brahms. Per i compositori russi il problema era ancora scolastico ed accademico; sarebbe diventato manieristico nel momento della maturità, ed allora la musica pianistica russa avrebbe ripercorso con Skrjabin la sintesi storica di Liszt e con Prokofiev la volontà di restaurazione di Brahms. Tra il 1850 e il i860 i russi non erano in grado di andare oltre il neoclassicismo accademico dei mendelssohniani tedeschi ed anglosassoni, ma ciò non toglie che si applicassero al problema con impegno e con la convinzione di operare nella storia. Non per nulla, nei programmi «storici» di Anton Rubinstein, in cui erano assenti le sonate di Liszt e di Brahms, veniva inclusa la Sonata n. 3 op. 41 di Anton Rubinstein. E la Sonata n. 3 op. 41 era stata scritta nel 1855 ed era salutata come capolavoro di levatura beethoveniana persino da una certa critica tedesca. Anche Balakirev aveva scritto nel 1855 la sua prima Sonata, op. 5, e alcune sonate scriveva negli anni cinquanta Nicolai Jakovlevic Afanas’ev. Di come Musorgskij affrontasse la «forma-sonata» possiamo avere un’idea non dalle due sonate del 1858, che sono andate per dute, ma dall’allegro di una Sonata per pianoforte a 4 mani ini ziata nel i860 e lasciata incompiuta,1 in cui si nota soprattutto il disegno di costruire su un solo tema una forma così articolata, puntando sulla dialettica dei rapporti tonali invece che sui con trasti tematici. A completare il gruppo dei lavori neoclassici stanno un Prelu dio in modo classico del i860, perduto, ^Intermezzo in modo classico del 1860-1861 e un Minuetto del 1861, perduto, che forse faceva parte di una terza Sonata, perduta, in re maggiore. Intermezzo fu trascritto per orchestra nel 1867, con l’inseri mento di un episodio centrale, e ritrascritto per pianoforte nello stesso anno; qui prenderemo in esame solo la prima versione, es sendo l’altra, a parer mio, di minore interesse come lavoro piani stico.12 1 Oltre all’allegro, Musorgskij scrisse lo scherzo, versione trascritta a quattro mani ed amplificata dello Scherzo in do diesis minore. 2 Non prenderemo neppure in considerazione, perché i temi critici che essa su scita verranno esaminati quando parleremo dei Quadri, una dichiarazione di Mu sorgskij riferita dallo Stasov: «Durante l’inverno del 1861, in campagna, una frotta di contadini, in un giorno di festa, attraverso i campi, calpestando con fatica la neve ancor molle, sotto un gaio sole invernale. Era bello e pittoresco, era insieme grave e gaio. D’improvviso, da lontano, apparve un gruppo di gio-
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Il «classico» di Musorgskij era ciò che oggi chiameremmo «barocco»: il tema principale de\Y Intermezzo imita infatti un tema di Concerto grosso per archi. Ma la vera e propria imitazione ba rocca, la «sceneggiatura barocca» del tema avviene alla seconda, non alla prima esposizione:
Nella prima esposizione il legato, il fraseggio che tende a spo stare gli accenti in contrattempo, Tembrionale contrappunto ar monico portano il significato del tema verso un romanticismo neo classico brahmsiano (ed è facile vedere il rapporto di scrittura strumentale con V Intermezzo op. 117 n. 3, che sarebbe stato scrit to 30 anni più tardi): (>rave pesante
vani donne che venivano avanti nella strada cantando e ridendo giocondamente, sopra un solido sentiero di neve battuta. Nella mia testa questo quadro prese immediatamente una forma musicale, e subitamente nacque il primo motivo con il suo saliscendi alla maniera di Bach, mentre le gioconde comari m’ispirarono il tema cantabile del trio».
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Nello sviluppo, che segue senza soluzione di continuità la prima esposizione, la strumentazione con le doppie ottave e il contrap punto armonico interno messa in evidenza dallo sforzato fanno diventare «russo» il tema «classico»:
Una successiva esposizione del tema viene strumentata in modo che, sfruttando suoni martellati, non è neppure più «russa», ma «musorgskiana»:
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Id Intermezzo in modo classico, che a parer mio è un piccolo capolavoro, è in realtà un serbatoio di stilemi pianistici che si ri troveranno nei Quadri. Così, ad esempio, dai legato ancora espres sivi e dalle appoggiature sospirate del secondo tema si sta già stac cando la liscia superficie di linee che si ritroverà in certe trasfor mazioni della Promenade: cantabile
Una tipica costruzione melodica musorgskiana, in cui il con sueto do diesis slitta dapprima al do bequadro, e poi il do diesis-si diventa un do bequadro che aumenta a dismisura la tensione de gli intervalli, è messa in evidenza dagli sbalzi di registro:
L’analisi della fase neoclassica della produzione pianistica di. Musorgskij ci ha portati a superare due pagine nettamente roman-
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tiche - schumanniana la prima, mendelssohniana la seconda - del 1859: {.'Impromptu passione e Une Plaisanterie. In entrambe la «trovata» che rivela il distacco dal modello studiosamente e ri flessivamente imitato arriva alla fine. Lo «schumannismo» delle ultime battute àeXV Impromptu è ancora evidente, ma è anche evidente che Schumann non avrebbe concluso il brano in modo così spoglio:
In Une plaisanterie il finale mendelssohniano termina con il curioso sberleffo dei balzi della sinistra:
Del 1865 sono 4 pezzi per pianoforte solo: la Capricieuse, su un tema del conte di Heyden, Dumaì su un tema di V. A. Logi nov, e i Deux souvenirs d’enfance (Niania et moi, Première pu nìtion}. Non sono composizioni che ci dicano molto sull’evoluzio ne artistica di Musorgskij negli anni in cui lavorava a Salammbó. Il pezzo che mi sembra più interessante è Niania et moi, la cui scrittura - legato a mignolo e anulare, staccato alle altre tre dita della mano destra - ricorda la scrittura, non consueta, dello Stu dio in re bemolle maggiore di Chopin per la Méthode des Metho des. La costruzione della melodia presenta un tratto singolare quan do alla quarta battuta, invece di ripetere la prima parte della se conda, Musorgskij ripete la prima parte della terza. Paragoniamo la versione di Musorgskij con la versione che sarebbe stata quella più comune e scolastica:
II pianoforte di Mnsorgskij
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Moderalo
Curiosa è anche la conclusione: dopo la cadenza in sol maggiore una piccola chiosa finale porta il pezzo, con una cadenza piagale, a chiudere in un interrogativo mi minore:
Première punition, che ha carattere di studio pianistico, è da notare per la scoperta di una tecnica — la caduta alternata delle mani - che verrà impiegata splendidamente alla fine della Capan na su zampe di gallina. Non ci sono altre composizioni per pianoforte fino ai Quadri, composti tra maggio e giugno del 1874: tra i Deux souvenirs d’enfance e i Quadri si collocano le due versioni del Boris e Tinizio della composizione di Kovancina, mentre nel 1874 Musorgskij iniziava anche la Fiera di Sorocincy. Le circostanze della compo sizione sono così note e Toriginalità di linguaggio dei Quadri è stata tanto spesso conclamata da permetterci di non parlarne qui per soffermarci invece su tre aspetti essenziali e non spesso com mentati delTopera: la struttura formale, la scrittura pianistica, il significato poetico. I Quadri portano ad una prima maturazione il problema che non solo Musorgskij, ma la cultura russa aveva affrontato negli anni cinquanta, quando, accademicamente, diversi compositori ave vano ripreso la classica «forma-sonata»: il problema di uscire dal bozzettismo e dal frammentismo per organizzare in modo com plesso e dialettico il discorso musicale. Non il solo Musorgskij ri
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tornava negli anni settanta su questo problema, ma anche RimskijKorsakov, con i Sei pezzi sul nome Bach op. io (1878) e Cajkov skij con la Sonata op. 37 (1878), nonché Anton Rubinstein, che nel 1877, 22 anni dopo la terza, componeva la sua quarta Sonata, op. 100, per pianoforte solo. Musorgskij trovò un modello a cui guardare nei grandi polittici di Schumann, aggiungendovi, come elemento estrinseco di coesione formale, la Promenade', la Pro menade, strumentata in modo diverso, compare nei Quadri due volte, varianti della Promenade compaiono alla fine dei pezzi n. 1, 2. e 4, sul tema della Promenade è costruito Con mortuis in lin gua mortua* e il tema della Promenade viene citato nella Porta dei Bohatyr. Dicevamo, un po’ astrattamente, che la Promenade è un ele mento «estrinseco» di coesione formale, e lo dicevamo nel senso che i Kreisleriana di Schumann, ad esempio, non hanno bisogno di ritorni tematici per essere un’opera unitaria. Nei Quadri l’unita rietà, programmaticamente, è data dal riferimento al mondo poe tico di Hartmann, come in Schumann di Hoffmann, ma Musorgskij sente la necessità di aggiungere un particolare di per sé aneddo tico - la Passeggiata da una sala all’altra dell’esposizione - facen dolo diventare tema musicale che periodicamente ritorna. Ci pa re che questo particolare della struttura vada visto in relazione con l’intenzione, come abbiamo visto prima, di costruire un pri mo tempo di sonata su un tema solo e di spostare la dialettica del discorso sulla struttura tonale: struttura tonale che anche nei Quadri è la base della singolarissima forma. L’opera inizia in si bemolle maggiore e termina in mi bemolle maggiore; rapporto tra tonalità del primo grado e tonalità del quarto grado (lo stesso dei Davidsbundertànze e dei Kreisleriana di Schumann), che porta a considerare la tonalità iniziale come dominante della tonalità finale, integrando il ciclo nell’arco di una grande cadenza elementare. All’interno di quest’arco si colloca una netta bipartizione, segnata in modo inequivocabile dal ritorno, do po il n. 6, dell’intera Promenade in una nuova strumentazione.34 3 «Cum mortuis», s’intende. L’italiano ed il latino di Musorgskij sono spesso di fantasia: «nel modo russico», «commodo», «pesamente», «il Scherzino», «catacombae», «sepulcrum». 4 Ricordiamo che Ravel, nella sua strumentazione per orchestra, soppresse la Promenade dopo il n. 6, intendendo forse conferire maggiore unità all’opera, ma alterandone in realtà la struttura bipartita.
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La prima parte inizia dunque in si bemolle maggiore [Promenade) e termina in si bemolle minore [Due ebrei) ; la seconda inizia in si bemolle maggiore [Promenade) e termina in mi bemolle mag giore [La porta dei Bohatyr). Il rapporto si bemolle-mi bemolle acquista così un grado maggiore di complessità articolandosi an che attraverso il modo, e siccome la Promenade ha carattere in troduttivo lo schema generale diventa: si mi si si mi mi
bemolle bemolle bemolle bemolle bemolle bemolle
maggiore [Promenade) minore [Gnomus) minore [Due ebrei) maggiore [Promenade) maggiore [Limoges) maggiore [La porta dei Bohatyr)
Nella prima parte la ragnatela delle tonalità è assai fitta:
si mi la sol si si sol re fa si
bemolle maggiore [Promenade) bemolle minore [Gnomus) bemolle maggiore (prima variante della Promenade) diesis minore [Il vecchio castello) maggiore (seconda variante della Promenade) maggiore [Tuilleries) diesis minore [Bydio) minore (terza variante della Promenade) maggiore [Balletto dei pulcini nel loro guscio) bemolle minore [Due ebrei)
L’aggancio delle tonalità è fluido fino a Bydlo (anche nel pas saggio da la bemolle maggiore a sol diesis minore, che è l’omologo di la bemolle minore). La tensione tonale è invece altissima al passaggio da sol diesis minore a re minore: Musorgskij lo segnala con una corona alla fine di Bydlo e sopprimendo i primi due suoni del successivo tema della Promenade, in modo da fare iniziare la variante, che precede il Balletto, con l’accordo di re minore, se guito per di più dall’armonia di dominante sulla scala naturale:
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La sonata romantica
invece di
Lo iato della forma corrisponde qui ad un delicato equilibrio strutturale: la grande divisione in due parti, leggermente asimme trica, viene riequilibrata da un’altra divisione: sei pezzi contiene la prima parte, quattro la seconda; quattro pezzi vengono prima, sei dopo il brusco passaggio da sol diesis minore a re minore. Nella seconda parte i rapporti tonali sono meno tradizionali ed accentuano il senso di non ritorno alla fine della tonalità dell’ini zio, del circolo che si trasforma in spirale:
si mi si do mi
bemolle maggiore (Promenade) bemolle maggiore (Limoges) minore-si maggiore (Catacombae-Con mortuis) maggiore (La capanna su zampe di gallina) bemolle maggiore (La porta dei Bohatyr).
Il passaggio dal mi bemolle maggiore al si minore, tonalità molto lontana, non è immediato, ma viene mediato, in Catacombae, attraverso blocchi accordali che solo a tratti assumono un chiaro orientamento tonale e che, sia per la posizione del registro medio-grave della tastiera, sia per i bruschi contrasti di dinamica, prendono piuttosto l’aspetto di variazioni di timbri intorno a due suoni: fa diesis e sol. La tonalità fondamentale viene continuamente turbata in Con mortuis, e in La capanna è addirittura dif ficile la percezione della tonalità di base. Nella seconda parte Mu sorgskij crea quindi un’ampia zona di tonalità intorbidita tra i due piloni in mi bemolle maggiore, differenziando in tal modo non solo l’assetto tonale, ma il colore della prima e della seconda parte. Posto che le due parti sono indubbiamente integrate e che l’opera consegue una unità formale complessiva saldissima, direm mo che si può parlare di una struttura teatrale, con primo e se condo atto che potrebbero anche essere separati da una lunga pausa (e dall’applauso del pubblico). Se l’aspetto strutturale appare chiaramente legato alla lezione di Schumann e, forse, alla vocazione teatrale di Musorgskij, la
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scrittura pianistica dei Quadri è abnorme nel panorama della let teratura dell’Ottocento. Qualche evidente riferimento al Liszt di Weimar (Con mortuis, La capanna} e qualche esempio di stru mentazione romantica (Il vecchio castello} non incidono in modo rilevante sull’aspetto strumentale dei Quadri, aspetto che contrad diceva la concezione tardottocentesca del suono pianistico a tal punto da provocare forti perplessità e vari tentativi di riaggiusta mento. La prima edizione, curata da Rimskij-Korsakov, ritoccava qua e là il testo, ma lasciava quasi intatta la struttura. Si è tanto spes so vituperato Rimskij per aver «corretto» il Boris e la Kovancina, e si è meno spesso riconosciuto che Rimskij aveva per lo me no eliminato certi problemi di esecuzione che Boris e Kovancina, capolavori di un genio «dilettante», ponevano ai professionisti. L’edizione rimskiana dei Quadri, paradossalmente, può solo es sere vituperata perché, non toccando la scrittura pianistica, non eliminava alcun problema di esecuzione. Fatto è che Rimskij-Kor sakov, grande strumentatore ma non concertista di pianoforte, non sapeva spostare i Quadri nel... campo gravitazionale del concerti smo professionistico. E così, mentre il Boris, seppure nella ver sione Rimskij-Korsakov, veniva eseguito e suscitava ammirazio ne, i Quadri restarono a dormire. Passarono più di trent’anni prima che un grande pianista in glese, Harold Bauer, provasse a fare con i Quadri quel che RimskijKorsakov aveva fatto con il Boris e la Kovancina. Con qualche taglio e con una revisione talvolta radicale della scrittura i Quadri vennero messi all’onor del mondo e comparvero sempre più’di fre quente nelle sale di concerto, con tutto il fascino e l’originalità del loro discorso, e sia pure vestendo abiti di società che non era no di loro spettanza. I Quadri peccavano contro la scrittura pianistica considerata esemplare nella seconda metà dell’Ottocento per due motivi so prattutto: Musorgskij impiegava poco la coloratura e non preve deva la possibilità di sfruttare il fondo del tasto come punto d’ap poggio. La coloratura, intesa non tanto come ornamentazione, ma come elemento strutturale della sonorità, permette di far vibrare uno spettro sonoro pari a quello dell’orchestra: mediante il pe dale di risonanza ed i rapidi spostamenti delle mani su più registri si può mettere e tenere in vibrazione una massa di suono compat ta, completa, dall’estremità grave all’estremità acuta. La scrittura
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di Musorgskij è invece «magra», secca, priva delle ripercussioni, delle scie, del tessuto connettivo che serve ad amalgamare insie me i punti acusticamente salienti. Tanto più «magra» risulta la scrittura in quanto Musorgskij non usa il fondo del tasto come punto d’appoggio per sollevare age volmente le grandi masse muscolari del braccio e della spalla e per sfruttarne elasticamente la caduta.5 Tutta la tecnica pianistica di fine Ottocento tende alla conquista del peso come fonte di sono rità: recensendo il fondamentale Dze naturliche Klaviertechnik del Breithaupt, nel 1905, Ferruccio Busoni elencherà, tra le «ve rità che coincidono perfettamente con le mie esperienze e delle quali mi faccio garante», il fatto che «suonare il pianoforte è com plessivamente caduta e non sollevamento di pesi». Musorgskij ri chiedeva invece il maggior sforzo per sollevare i pesi e, in pratica, la tecnica postulata dalla sua scrittura non permetteva di ottenere il massimo volume di suono che il pianoforte poteva dare. La scrittura di Musorgskij, in questo frammento della Porta, appare paradossale anche oggi al pianista professionista: Meno mosso, sempre maestoso
5 Tra i vari usi della coloratura nei Quadri, l’episodio che inizia dalla bate. 89 della Porta dei Bohatyr ottiene in concreto un effetto diverso da quello tradi zionale. Per otto battute la coloratura è di comoda esecuzione; poi (dalla bat-
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Harold Bauer modificava il passo in questo modo, riscrivendo in altra maniera i valori ma, soprattutto, cambiando radicalmente l’effetto sonoro:
Alfredo Casella, la cui revisione era molto cauta e sinceramente tesa alla riconquista della scrittura originale, proponeva qui il te sto di Musorgskij, ma suggeriva una variante, dicendo: «La di sposizione pianistica originale di Musorgskij, in questo punto, è assai ingenua ed anche — diciamolo senza irriverenza — brutta. La presente versione è certo molto più consona alla grandiosità e alla nobiltà di questa musica, ed anche piti sonora»:
tuta 97), quando alla parte superiore viene citato il tema della Promenade, che dovrebbe essere più marcato, la disposizione pianistica diventa difficilissima. Un qualsiasi compositore di tradizione avrebbe scritto:
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Nelle versioni di Bauer e di Casella il tema all’estremo acuto resta isolato e in evidenza, tutte le corde corrispondenti all’accor do (tra la nota più acuta e la più grave) vengono messe in vibra zione, e l’uso delle mani alternate permette di sfruttare agevolmen te la caduta elastica e controllata delle braccia; nella penultima battuta i due suoni della melodia, evitato il doppio spostamento, possono essere emessi con il massimo della forza. Nella versione di Musorgskij l’esecutore deve mantenere fermo il busto e, a par te il maggior rischio di sporcare l’accordo con suoni presi male, non può sempre lasciare cadere il peso fino al fondo del tasto. La timbrica è sensibilmente diversa. Ma anche l’effetto ritmico è sensibilmente diverso. Bauer e Casella mirano ad un effetto or chestrale di questo tipo, con suono sostenuto:
Musorgskij mira all’effetto pianistico di far vivere ritmicamen te il tema:
La strumentazione di Musorgskij, in realtà, è molto più raffi nata e molto più sottilmente pianistica di quanto non sia una ver sione di tipo più tradizionale. E così si deve concludere ogni qual volta si analizzano le modificazioni della scrittura, da Bauer a Ho rowitz: per quanto più sicura sia la versione di Bauer, per quan to più spettacolosa sia la versione di Horowitz, la versione più «pianistica» è quella di Musorgskij, sia pure di un pianismo che potremmo definire non da altorilievo ma da graffito. La scrittura pianistica di Musorgskij apparve sconcertante ai suoi tempi e per molti decenni ancora, ma in verità non rappre
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sento affatto un capitolo chiuso e isolato dell’Ottocento. Altrettan to abnorme, altrettanto contraria allo sviluppo della tecnica po stromantica era la scrittura pianistica che, tra il 1870 e il 1886, veniva inventata e impiegata da Liszt, il quale non seguiva le vie aperte dal suo allievo Tausig ma recuperava invece, paradossal mente, principi di tecnica clementina, pre-lisztiana (immobilità del busto, percussione delle dita, polso). La scrittura dei Quadri non va a parer nostro vista in rapporto con l’evoluzione della tradi zione romantica (destinata a concludersi con Ravel), ma va inse rita in quella svolta rivoluzionaria che dal Liszt delle due Leg gende porta al Liszt dei Ritratti storici ungheresi, ancora oggi pro blematici e ancora oggi non inseriti nel repertorio pianistico,6 e che nel nuovo secolo diventerà, in una sintesi nuova, la tecnica moderna «percussiva» degli «orientali» (Bartók, Stravinskij, Pro kofiev, Sostakovic). Il rapporto con Liszt vale anche per un altro motivo. Oggi i Quadri vengono per la verità eseguiti quasi sempre nella versione originale, perché la versione Bauer è caduta in disuso e solo Ho rowitz ha continuato a proporre una sua versione, che è una vera e propria trascrizione. Non si dovrebbe dunque insistere troppo su un problema che di fatto è superato. Ma bisogna osservare che, se si giudicano per anacronistiche le motivazioni critiche della ver sione Bauer, è giocoforza respingere anche certe didascalie esplica tive della prima edizione. Le didascalie di Musorgskij si limita vano ai titoli e ad un breve commento a piè di pagina in Con mortuis. Le altre didascalie che vengono in genere riportate sono del critico Vladimir Vasil’evic Stasov, al quale i Quadri furono dedicati. Stasov aggiunse le didascalie, in parte avvalendosi di ac cenni contenuti in lettere che Musorgskij gli aveva indirizzato du rante la composizione dei Quadri, probabilmente per aiutare il lettore e per meglio spiegare un titolo che poteva apparire enigma 6 Rammentiamo che i Ritratti storici ungheresi, pubblicati per la prima volta in «Uj Zenei Szemle» nel 1956, furono immediatamente ripubblicati dalla Suvini Zerboni in una versione curata da Sàndor Verress, il quale dichiarava: «La nostra edizione non ha avuto per scopo quello di pubblicare la stesura originale e pia nisticamente spesso schematica di Liszt, bensì quello di offrire dei Ritratti storici ungheresi una versione adatta per l’esecuzione concertistica; per questo si è resa necessaria l’elaborazione più o meno rilevante dei singoli pezzi, per meglio ade guarli alla tecnica dello strumento». Si può anche vedere come Gyòrgy Cziffra rielabori le ultime Rapsodie ungheresi per riportarle stilisticamente al Liszt del 1850. Le perplessità che il tardo Liszt suscitava ancora di recente sono le stesse che i Quadri suscitavano più di mezzo secolo prima.
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tico. Ma, ad esempio, la didascalia di Gnomus - «disegno rappre sentante un piccolo gnomo che cammina goffamente» - si addice proprio ad un pezzo cupo, violento, beffardo, disperato e quant’altro voglia aggiungere chiunque lo abbia ascoltato? Non ci sem bra, e non ci sembra che nessuna delle didascalie dello Stasov spieghi la musica, come non ci sembra che la spieghino neppure le opere grafiche di Hartmann. Le didascalie di Stasov indulgono al descrittivismo e al bozzettismo che tanto piacevano ai dilettanti di fine Ottocento, mentre i Quadri sono invece da considerare, ci sembra, opera simbolista come gli ultimi grandi lavori di Liszt. Già Alfredo Casella, parlando di Bydio, così commentava: «L’im magine cupa che ci presenta qui Musorgskij, di quel carro e dei due buoi che lo inoltrano è veramente singolare. Forse egli ha ve duto - in questo quadro - un simbolo della dura vita dei conta dini slavi, costretti come animali a portare il giogo della prepo tenza altrui». E una lettura simbolista dei Quadri ci sembra non solo possibile ma del tutto in linea con la ricerca ideologica di Musorgskij tra Boris e Kovancina. I Quadri, potremmo dire, rea lizzano il passaggio che nella contemporanea Fiera di Sorocincy resta sospeso e incompiuto: il passaggio dal bozzetto popolaresco al grande ciclo dei miti e dell’anima russa. Gli ultimi lavori per pianoforte solo di Musorgskij sono alcune piccole composizioni scritte tra il 1879 e il 1880, al tempo e poco dopo il breve giro di concerti con la cantante Daria Leonova. Il pezzo che, dal titolo, sembrerebbe il più impegnativo, Tempesta sul Mar Nero, è andato perduto.7 Abbiamo invece i due pezzi riu niti sotto il titolo En Crimée: Hoursouff. Notes de voyage e Ca priccio. Due danze orientaleggianti quali avremmo potuto tran quillamente trovarne in Rimskij-Korsakov: nessuno, pensiamo, at tribuirebbe a Musorgskij questo tema del Capriccio’.
1 lem pesta sul Mar Nero è citata da Stasov e da Rimskij-Korsakov, che l’ascol
tarono eseguita da Musorgskij, ma potrebbe darsi che Musorgskij non avesse mai messo sulla carta la composizione.
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Le danze sono però la parte centrale di due forme ternarie ele mentari; la «cornice» è, in entrambi i casi, sorprendentemente dura, meccanica, tale da cambiare il significato della parte cen trale e da farla apparire come citazione. Le due danze diventano così momento non pittoresco ma surreale. Il montaggio surrealistico dell’oggetto banale fa pensare a cer te pagine pianistiche di Rossini. E del più puro Rossini péchés de vieillesse sono Meditation e Vine tarme. Meditation comprende una prima e una terza parte, identiche, in stile pseudo-religioso: uno spoglio contrappunto a due voci che sembrerebbero richie dere un harmonium. La parte centrale è sentimentale e sentimentaleggiante come la musica da salotto piccolo-borghese russo, e ancor più sentimentale è la coda, che si conclude con una scoper ta citazione dello stile armonico di Cajkovskij.
Nettamente cajkovskijana è Une larme, ma forse, più che di riferimento a Cajkovskij, si deve parlare di rifacimento di tutta quella musica per dilettanti che pullulava in Russia ad opera di compositori come N.V. Scerbacev, Antipov, Karganov, Alfaraki elencati da competenti classificatori come il Prosniz (Handbuch der Klavierliteratur, 1907) nella sezione della Modeliteratur. Il rifacimento di Musorgskij è serio, non ironico: il suo distacco, la sua desolazione si avvertono solo nella costruzione irregolare del periodo, di nove battute invece che di otto (di undici invece che di dodici nella parte centrale), e non si può neppure escludere che il compositore non desiderasse veramente arrivare sul leggìo di
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quei dilettanti che aveva conosciuto durante il suo viaggio nel Sud. Anche La Couturière, Scherzino è un pezzo di genere in cui lo stile della musica d’uso viene rifatto con lievi accentuazioni che lo portano verso l’assurdo. Non siamo a Stravinskij: siamo a Rossini, ma la strada verso Stravinskij è già spalancata. L’ultimo pezzo, Au village, piccola scena popolare, sta tra il Liszt delle Cinque canzoni popolari ungheresi e il Bartók di Sera dai Szekely. L’inizio è uno splendido esempio di creazione di atmo sfera contadina ottenuta con i mezzi più semplici: canto popolare armonizzato e strumentazione che si allarga progressivamente ver so il registro basso. Un modo moderno di guardare il folklore, ma che riprende uno stile più antico, rimasto sommerso nella vita musicale dell’Ottocento: lo stile di Glinka nella Canzone popolare finlandese. Cinque anni più tardi, nel 1885, Liszt sarebbe perve nuto, in Abschied, alla estrema rarefazione nella armonizzazione del canto popolare. Se Anton Rubinstein nel 1885, avesse lasciato in disparte e Anton e Nikolaj Rubinstein per puntare su Mu sorgskij e sul tardo Liszt, la sua tesi, la vittoria dell’Oriente Sul l’Occidente, non ci apparirebbe poi così megalomane....
Opere citate:
F. Busoni: Lo sguardo lieto, Milano 1977. M. Musorgskij: Quadri di una esposizione-, trascrizione di H. Bauer, New York 1922; revisione di A. Casella, Milano 1949.
Chère muse ménagère
Granados *
Non è facile pensare a Enrique Granados y Campina come a un contemporaneo di Debussy e di Mahler, di Satie e di Busoni. Eppure Granados, nato nel 1867, era più giovane di tutti questi artisti, ed era appena un poco più anziano di Ravel, di Skrjabin, di Schonberg. Ma la Spagna in cui viveva Granados non era cul turalmente simile alla Francia o all’Austria o alla Russia di fine secolo. Non che la Spagna stesse su un altro pianeta: nell’autunno del 1893, a Barcellona, l’anarchico Paulino Pallàs lanciava una bomba contro il generale Martinez Campos, era preso e giustizia to, e nel novembre Santiago Salvador, per vendicare il Pallàs, com piva un attentato nel Teatro Liceo durante una rappresentazione del Guglielmo Teli, causando la morte di venti persone. «Però Granados» scrive il Tarazona «rimase fuori da ogni implicazione negli avvenimenti». Mentre la situazione politico-sociale dei rispet tivi paesi si rifletteva sulla musica francese, austriaca e russa come crisi di identità del musicista e come crisi della tradizione e del linguaggio, in Spagna si ripeteva con quarantanni di ritardo il rapporto musicista-società del periodo immediatamente posteriore al 1848, a tal punto che Granados poteva sentirsi successore di Mendelssohn e di Schumann assai più che contemporaneo di De bussy e di Ravel. Le aspirazioni che, poco più che trentenne, Gra nados confessava in una lettera alla moglie, sono a parer nostro curiosamente anacronistiche e rivelatrici: «Ho l’ambizione di esse re nel mio paese quel che Saint-Saèns e Brahms sono nel loro». Se si pensa che Brahms era nato nel 1833 e Saint-Saèns nel 1835 si può capire fino a che punto Granados si identificasse con la ge nerazione precedente alla sua. Avrebbe mai potuto lasciarsi im * Pubblicato in I Grandi Musicisti, Milano 1980; per gentile concessione della Fabbri Editori.
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plicare negli avvenimenti della Spagna del suo tempo? La rispo sta è obbligata: no. Mentre gli anarchici Pallas e Salvador stavano a tirar bombe, Granados si era da poco accasato con Amparo Gal (detta Titin) dopo un corteggiamento iniziato musicalmente nel 1887 con le Cartas de amor e con i Valse s de amor, e stava aspettando il re golare arrivo di un primogenito. Badava quindi a mettere insieme tante lezioni private di pianoforte quante ne servivano per tirare avanti confortevolmente la famiglia e componeva lentamente le dodici Danze spagnole iniziate nel 1890. Era un po’ il suo cliché, il cliché che aveva scelto contro le abitudini dei suoi coetanei spa gnoli - Albéniz, Arbós, Malats e Casals giramondo, Ricardo Vines stabilito a Parigi a far da spalla a Debussy - e che impersonava con fermezza da alcuni anni: il cliché del modesto insegnante pri vato di pianoforte che, vivendo e lavorando sodo in una città cul turalmente provinciale, aspira con le sue composizioni a rendersi noto presso il pubblico internazionale dei dilettanti di pianoforte, pubblico amante del frutto esotico ma tradizionalista e conser vatore. Granados, operando con coerenza in questo mondo di gente non implicata negli avvenimenti, riuscì a sfondare. Se verso la me tà del secolo Tekla Badarzewska aveva dato inizio ai messaggi amo rosi con l’immortale Preghiera d'una vergine seguita poco dalla Preghiera esaudita, Granados cominciò nel 1884, a diciassette an ni, con due mazurche intitolate rispettivamente Clotilde ed Elvi ra; tre anni dopo aveva trovato la sua stella in Titin, per la quale aveva composto le Cartas e i Valses già menzionati, nonché un val zer più audace intitolato Carezza e un Minuetto de la felicidad. Da quel buon ragazzo che era non aveva mancato di metterci un contrappeso con la Moresca (dedicada a su madre); la qual su madre così presentava il figliolo alla futura consuocera: «Come madre debbo dire tutta la verità ad un’altra madre. Mio figlio è povero, molto povero. Per ora non ha altro che un buon nome. Non dubito che col tempo potrà crearsi una posizione, ma questa non si improvvisa e la lotta sarà dura. Per il resto, Loro lo cono scono. Se tale com’è lo accettano, così lo prendano». Lo avevano preso, ed Enrique badava onestamente a crearsi una posizione. Lezioni di pianoforte, composizioni che potessero sod disfare i dilettanti. Questo benedetto pubblico internazionale di dilettanti, come dicevamo, amava l’esotico, e dopo aver adottato
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successivamente il polacco Chopin, l’ungherese Liszt, il creolo Gottschalk, lo scandinavo Grieg e il russo Cajkovskij, stava adot tando lo spagnolo Albéniz. Granados avanzò prudentemente e me todicamente nella breccia aperta da Albéniz: attaccò nel 1890 con i Sei pezzi sopra canti popolari spagnoli (conquistando favori so prattutto con l’ultimo, Zapateado}, e proseguì con le Dodici dan ze spagnole. La prima, Galante, doverosamente dedicata ad Am paro Gal, non andò male, e così la seconda, Orientai, la terza, Fandango, la quarta Villanesca. La quinta, Andaluza, uscita nel 1893, fu una bomba. Chi non ha sentito mai le chitarre crepi tanti e la malinconica melodia di Andaluza, chi non ha goduto mai «l’atmosfera voluttuosa e tragica dei patios di Granata ai tempi dei mori» (H. Collet) può tranquillamente concorrere per un premio di sordità... Eseguita dai dilettanti, trattata con tutti i riguardi da con certisti come Joseh Hofmann e Arturo Benedetti Michelangeli, Andaluza si è conquistato un seggio inattaccabile nel regno della piccola musica da salotto che è buona cosa senz’essere di pessimo gusto, e basta da sola a tenere in vita il nome di Granados, così come bastò da sola ad incrementare le finanze affidate alla Titin. Non abbiamo i libri della contabilità familiare che - ne siamo sicuri - la Titin teneva scrupolosamente, ma possiamo ragionevol mente supporre che il costo orario di chi aveva composto Anda luza facesse un bel salto in alto. Per evitare che il suddetto costo venisse riafferrato dalla legge di gravitazione universale Granados continuò metodicamente a comporre le Danze spagnole, cominciò a scrivere opere teatrali, riprese a tener concerti. Del pianista Granados abbiamo persino qualche testimonianza diretta in rulli di pianola e in dischi, da cui risalta la figura di uno strumentista affascinante. Essendo nato in una cittadina di pro vincia come Lérida, ed essendo figlio di militare, aveva cominciato a studiare il pianoforte con un musico militare, il capitano José Junquera. Trasferita la famiglia a Barcellona aveva continuato gli studi alla Escolania de la Mercé con Francisco Javier Jurnet. Jun quera e Jurnet: nomi che la storia non registra. Siamo ben lon tani dai maestri che un giovane di talento poteva avere a Parigi o a Lipsia o a Vienna o a S. Pietroburgo, ed è probabile che que sti inizi condizionassero non solo la carriera, ma anche la men talità riservata e schiva di Granados. Finalmente Granados passò sotto le ali di un maestro di ottima reputazione locale, Juan Bau tista Pujol, che aveva impiantato una scuola modellata sul siste
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ma francese di insegnamento. Nel 1883 si licenziò dal corso del Pujol vincendo il Primo Premio con un’esecuzione della Sonata in sol minore di Schumann, ed iniziò gli studi di composizione con Felipe Pedrell, che tutte le storie definiscono «padre» della moder na musica spagnola. I primi, ed unici contatti con un ambiente musicalmente molto evoluto ebbero luogo tra il 1887 e il 1889, quando Granados, aiutato finanziariamente dal commerciante Eduardo Conde, visse a Parigi. La capitale francese era il centro in cui tutti i giovani musicisti spagnoli completavano la loro educazione: c’erano an dati Albéniz e Malats, vi sarebbero andati Vines, Casals, Falla, Turina, Nin. Ci andò anche Granados,... senza far faville, in ve rità. Avrebbe dovuto sostenere il concorso per entrare in conser vatorio, ma si ammalò di febbre tifoide e saltò l’esame; frequentò invece saltuariamente il conservatorio come uditore, prese lezioni private da Charles de Bériot junior (figlio del grande violinista e maestro di Vines e di Ravel), conobbe alcuni musicisti, soprat tutto quelli che gravitavano sulla Schola cantorum fondata da Vin cent d’Indy. Nell’estate del 1889 era di ritorno a Barcellona, tra l’inverno e la primavera del 1890 si presentava due volte al pub blico del Teatro Liceo: un recital e una serata con orchestra, in cui eseguiva il Concerto di Grieg, lo inserivano nel giro delle le zioni private. Nessun concerto tra il 1890 e il 1895, ma un duro lavoro nel quadro di modeste e realistiche ambizioni. Nel 1895 Granados cercava di fare un passo avanti presentandosi come solista nella Sinfonia sopra un canto montanaro francese di d’Indy (in otto bre), e nella Rapsodia spagnola di Albéniz (in novembre) sotto la direzione dell’autore; nel 1896 tenne concerti con il violinista Mathieu Crickboom, nel 1897 collaborò con il Quartetto Crickboom per concerti di musica da camera, e continuò a presentarsi ogni anno a Barcellona, sia da solo sia come collaboratore di stru mentisti, e talvolta a due pianoforti con Malats, con Saint-Saèns, con Risler. Nel 1900 fondava la Società dei Concerti Classici, nel 1901 rilevava dal Crickboom la Academia de Musica e diven tava il più autorevole ed affermato insegnante di Barcellona. Co me compositore aveva messo al suo attivo alcune opere teatrali, tra cui Maria del Carmen (libretto di Feliu y Codina), rappresen tata a Madrid il 12 novembre 1898, poi a Barcellona e a Valen-
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eia. A suggellare la sua fama era arrivata la croce di Carlo ni, con cui la regina Cristina lo aveva decorato. Siamo ancor sempre alla gloria locale. Nessun viaggio all’este ro, pochi in patria, una timidezza ed una riservatezza tali da bloc care anche il semplice tentativo di affermarsi nella capitale spa gnola: «Titin del alma» scrive alla moglie, da Madrid, «come mai non ho avuto oggi una tua lettera? Non hai avuto né un momento né cinque minuti per dirmi (magari a matita) che mi vuoi bene? Titin, spesso ho meno tempo di te per scrivere, però un pezzo qua e uno là lo trovo. Sto così bene quando ti scrivo! Sono i soli momenti buoni che passo». Una posizione sicura, una moglie adorata, figli a giusti inter valli (alla fine sarebbero stati sei, quattro maschi e due femmine). Perché mai un essere così deliziosamente prosaico viene tanto spes so paragonato a Chopin ed è definito dal Ruiz Tarazona «el ulti mo romantico»? Forse perché nel 1901 scrive le Escenas romanticas? Le Scene romantiche non sono dedicate a Titin, ma a una Maria Oliveró, «un enamoramiento pasajero», un innamoramento pas seggero, come certifica il solito Tarazona. Ci spiace per Titin, ma con le Scene romantiche Granados evade per la prima volta dalle convenzioni, dal cliché che si era imposto. Niente di paragonabile a un lavoro rivoluzionario come Jeux d’eau di Ravel, scritto ap punto nel 1901, e tuttavia il Granados delle Scene romantiche è diverso da quello che conoscevamo. La struttura è tale da far pensare a un programma segreto e inespresso, ma che viene la sciato supporre o intravvedere. Il primo pezzo è una Mazurca', un incontro a un ballo, secondo la tradizione romantica di Weber e Berlioz? Dopo la Mazurca viene un tormentato Recitativo che la conclude, con reminiscenze di danza e un ricorrente frammento interrogativo. Il secondo pezzo è una Berceuse, una dolcissima incantata Berceuse tutta in pianissimo-, un sogno d’amore? Il terzo è un Lento con extasis, con una parte centrale appassionata mente. Un brevissimo Allegretto, n. 4, è in realtà una mazurca, o un sogno di mazurca. Poi c’è un altro pezzo forte, un ansiosis simo Allegro appassionato, ed infine VEpilogo, Andantino spiana to con exaltacion poetica, magnifica conclusione che risuona come un canto dal profondo dell’essere: un brano che, e non compren diamo per quale ragione, non divenne celebre, ma che riesce ve ramente a far rivivere le esaltazioni amorose di Schumann e che
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conclude come un estatico inno a Venere il poema di una passio ne impossibile. Impossibile - pasajera, direbbe il Tarazona - perché, anche se divenuto romantico, Granados apparteneva non alla razza dei Liszt e dei Wagner, ma a quella, fondamentalmente monogamica, dei Mendelssohn e degli Schumann. Con le Scene romantiche Granados, già fratello spirituale della generazione 1830, aveva però compiuto un passo, il suo primo passo alla ricerca del tempo perduto. Con il 1901 il Granados saggio amministratore di se stesso si scinde dal Granados poeta. Il primo fa prosperare l’Accademia che intitola al suo nome, vince nel 1904 il concorso per un Alle gro da concerto bandito dal Conservatorio di Madrid (dietro a Granados si piazza Manuel de Falla), scrive pezzettini per l’infan zia, organizza concerti a Barcellona entrando in rapporto con i più noti concertisti internazionali, e nel 1905 si presenta come piani sta alla Salle Pleyel di Parigi, ottenendo uno schietto successo con musiche sue, con musiche di Chopin e con sette sonate di Do menico Scarlatti. Accanto al Granados professionista — abile professionista che aveva ottenuto quel che sua madre aveva tracciato per lui - vi veva il Granados poeta, quello che si era scoperto postumo citta dino del romanticismo. A questo Granados appartengono tre ope re su libretto di Apeles Mestres: Picarol, in un atto, storia del l’amore di un buffone per la figlia del conte suo padrone, rappre sentato al Teatro Lirico di Barcellona il 23 febbraio 1901; Follet, in tre atti, storia di un bardo errante innamorato di una nobile dama, eseguito al Teatro Liceo di Barcellona il 4 aprile 1903 in forma di concerto; Gaziel, in un atto, storia bizzarra di un Faust a cui il diavolo rifiuta alla fine di prender l’anima, rappresentato al Teatro Principale di Barcellona il 27 ottobre 1906. Queste tre opere su libretti del Mestres - e la quarta, Liliana, del 19 n non ottennero successo e non furono più rappresentate dopo la morte dell’autore. A noi interessa però far qui notare come Gra nados non partecipasse in quel momento alla battaglia per la crea zione dell’opera nazionale spagnola e, a Barcellona, per l’opera catalana. Il programma lanciato da Felipe Pedrell nel 1891 con il manifesto Por nuestra musica, che era stato seguito da Bréton, Morera, Chapi, Serrano, dagli stessi Albéniz e Granados, raggiun geva nel 1905, con la Vida breve di Falla, un’affermazione di in
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dubbio rilievo storico. Granados, dopo Maria del Carmen del 1898 e dopo la catalana Blancaflor del 1899, sceglie invece sog getti romantici non nazionali, e si allontana quindi da una batta glia culturale che, seppur iniziata con più di trentanni di ritardo rispetto ad altri paesi europei, impegna ancora, in quel momento, la cultura spagnola. Il poeta romantico Granados ci dà, oltre alle opere, due rac colte di pezzi per pianoforte, la prima scritta tra il 1904 e il 1907, la seconda di incerta datazione. La prima raccolta comprende due parti: tre pezzi sotto il titolo Escenas Poéticas (Scene poetiche), tre pezzi sotto il titolo Libro de Horas (Libro delle ore); la se conda raccolta riunisce quattro pezzi sotto il titolo complessivo Escenas Poéticas. Libro de Horas. Segunda Serie. Si tratta di bre vi pezzi, di difficoltà tecnica limitata e di stile pianistico tradizio nale (solo in Al supplizio Granados dimostra di aver notato la scrittura di Debussy, ma la usa in modo molto semplificato, quasi didattico). La destinazione ai dilettanti sembra indubitabile, ma l’impegno concettuale non manca, e i dieci quadretti sono anzi densi di contenuti e, spesso, di ispirazione tragica. L’ultimo, Suenos del poeta (Sogni del poeta), porta un’epigrafe che dice: «Nel giardino dei cipressi e delle rose, seduto sul piedistallo di marmo bianco, sperando nella sua ora s’addormentò il poeta... accanto a lui, corrugando la fronte, veglia la sua musa». E il tema princi pale, quasi corale armonizzato, molto schumanniano, viene at traversato e interrotto da due cupi episodi minacciosi. La Cam zone di Margherita condensa in due paginette un perfetto ritratto psicologico della Margherita del Eaust, Ricordo di paesi lontani è un momento di nostalgia ansiosa, che finisce non sull’accordo fondamentale ma sulla dominante, Eva e Walter, evidentemente ispirato ai Maestri cantori di Norimberga di Wagner, è un tenero «ricordo di teatro», anch’esso molto schumanniano, L'inverno (La morte dell'usignolo), e Al supplizio sono, come Sogni del poeta, momenti di un tetro umor nero, di un tedium vitae che non può non stupire se non viene messo in rapporto con il con trasto tra il raggiunto ma limitato successo e le ambizioni non confessate. L’incontro con il mondo goyesco permette a Granados di sin tetizzare le due fasi precedenti della sua creatività. La scoperta della pittura di Goya risaliva al 1897, quando in Spagna si era celebrato con grande rilievo il centocinquantenario della nascita
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del pittore. Granados si era entusiasmato per la vena visionaria e popolaresca del Goya (non per il Goya ritrattista di corte), e negli anni successivi aveva anche fatto schizzi — era naturalmente dotato per il disegno - alla maniera del Goya. Solo nel 1908 Granados cominciò però a pensare di scriver musica ispirata a Goya e alla Spagna dei tempi di Carlo III e di Carlo IV. Iniziò nel 1909 a comporre Goyescas, terminò il lavoro nel 1911, ed eseguì i sei pezzi il 9 marzo 1911 a Barcellona. Tra il 1912 e il 1913 compose dieci brani per canto e pianoforte su testi di Fer nando Periquet, intitolati Tonadillas en estilo antiguo (Tonadillas in stile antico), e quindi la Collection de Canciones amatorias (Collezione di Canzoni d’amore) su testi di Lope de Vega, Gon gora e anonimi castigliani. Nel 1914 componeva per pianoforte El Pelele. Escena goyesca (Il Pelele. Scena goyesca) e schizzava un’altra scena goyesca, intitolata A la Pradera. Le Goyescas e le Tonadillas, eseguite alla Società Musicale Indipendente di Parigi il 4 aprile 1914, valsero a Granados la legion d’onore e, il 15 giu gno, una commissione dell’Opéra per un’opera intitolata Goyescas. I sei pezzi di Goyescas, a cui s’aggiunge come settimo (ma in realtà con carattere di prefazione), El Pelele, sono di gran lunga il capolavoro pianistico di Granados. La scoperta di Goya non si gnifica scoperta di un mondo musicale goyesco o dell’epoca goye sca, ma di una realtà storica che è stata oggetto di un’arte supre ma. La musica colta spagnola del tempo di Goya era infatti rap presentata dagli ultimi claviccmbalisti della tradizione scarlattiana e da compositori italiani come Boccherini. In Granados gioca sen za dubbio l’ammirazione per Domenico Scarlatti, compositore ba rocco, ammirazione che non porta però alla riscoperta di Soler (scoperto più tardi da un seguace di Granados, Joaquin Nin) né di Boccherini. Granados non si trova quindi nella posizione dei compositori italiani della «generazione dell’ottanta», che scaval cando all’indietro l’Ottocento ritrovano una cultura musicale scom parsa, e neppure nella posizione di Janàcek, che studia a fondo il canto popolare moravo, perché Granados, che usa stilemi popo lareschi e popolareggianti fin dagli inizi della sua attività di crea tore, non decide mai di analizzare le radici del canto popolare spa gnolo. Il mondo di Goya gli offre invece una cornice poetico-storica in cui confluiscono il suo vecchio folclorismo, non più con venzionale, e il suo pessimismo tragico. Il sottotitolo di Goyescas, Los Majos enamorados (I Majos in-
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namorati - il Majo e la Maja sono gli alteri giovani madrileni tan te volte dipinti da Goya), esprime una volontà di unificare i sei pezzi in una specie di poema sinfonico in più parti, e in questo senso si capisce facilmente come Granados potesse trarre rapida mente un’opera teatrale dai pezzi pianistici. I titoli bastano infat ti da soli a delineare il dramma: Los requiebros (Complimenti ga lanti), Coloquio en la reja (Colloquio alla finestra grigliata), El Fandango de Candii (Il fandango alla luce della lampada), Quejas ó la Maja y el Ruisenor (Lamenti o la Maja e l’usignolo), El Amor y la Muerte (L’amore e la morte), Serenata del espectro (Serenata dello spettro). Il primo incontro, il colloquio degli innamorati, il ballo in cui compare il rivale, l’angoscia della fanciulla contesa tra due amori, il duello, lo spettro dell’innamorato che torna a far la serenata alla fidanzata. El Pelele, il gioco del burattino gettato in aria, diventerà musica per la prima scena dell’opera; gli altri pezzi racconteranno la storia di Rosario (amata dal capitano Fer nando, desiderata dal torero Paquiro), del duello e della morte di Fernando. La volontà di unificare il lavoro è resa evidente anche dal ri torno di alcuni temi in più pezzi, e la capacità di costruire forme che mantengano un carattere di improvvisazione dimostra la ma turità dell’autore. La composizione non si distingue però né per novità di linguaggio, né per novità di scrittura strumentale. L’ar monia, che in Coloquio en la reja e nella Serenata del espectro è più evoluta di quanto non sia solitamente in Granados, resta lon tanissima non solo dal radicalismo di Schonberg (che nel 1909 scriveva i Klavierstiicke op. 11 e nel 1911 i Klavierstiicke op. 19), ma anche dagli impressionisti francesi da Skrjabin. Lo stile stru mentale è nettamente derivato da Liszt, senza raggiungere l’ori ginalità di rilettura lisztiana di Ravel o di Szimanowski, e neppu re di Albéniz; anzi, Los requiebros, sebbene basato su temi di tonadilla, stilisticamente è addirittura un grande valzer da con certo scritto secondo i moduli di Tausig, di Godowsky, di Fried man. La novità e l’originalità di Goyescas risiedono a parer no stro nel tono ossessivo che pervade tutta la serie dei pezzi e che si accentua progressivamente fino alla Serenata del espectro. Per sino in un brano come il Fandango de Candii, in cui ricompaiono temi e ritmi spagnoli simili a quelli della prima maniera di Albé niz e una scrittura che ricorda sia Albéniz che LAllegro da con certo, il tono non è di festa popolare, di festa galante, di pittore-
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sea cartolina illustrata, ma di incombente tragedia. Granados scris se che la sua intenzione era di rendere «il ritmo, il colore e la vita nettamente spagnoli, la nota del sentimento tanto improvvisamen te amorosa e appassionata che drammatica e tragica, così come si mostra in tutta l’opera di Goya»: bisogna riconoscere che riuscì a realizzare le sue intenzioni. Le Tonadillas — la tonadilla era nel Settecento una canzone o un intermezzo teatrale - mostrano il tentativo di approfondire la visione del mondo goyesco cercando anche un linguaggio più evo luto: le Tonadillas sono armonicamente più scabre e pensate per una sonorità pianistica parasettecentesca. Questi caratteri stilistici non vengono però mantenuti nelle Canciones amatorias che, mal grado siano basate su testi classici spagnoli, ritornano verso il mondo di Schumann e sono costruiti come i grandi cicli liederistici romantici. Granados si trovava sul lago di Ginevra, ospite del pianista americano Ernest Schelling, amico e allievo di quel Paderewski che a Morges aveva una villa principesca e che amava radunare intorno a sé, durante la vacanza, una piccola corte, e stava lavo rando all’opera Goyescas, basata sulla musica della suite per pia noforte e su un testo preparatogli da Fernando Periquet, quando scoppiò la guerra. L’anno dopo, con Parigi minacciata di invasio ne e senza prospettive di rappresentare la sua opera nella capitale francese, Granados accettò la proposta di Giulio Gatti Casazza, sollecitata dallo Schelling, di presentare Goyescas a New York. Imbarcatosi colla moglie sul Montevideo, arrivò il 15 novembre a New York, dove fu ospite degli Schelling. Lo stesso Schelling, Kreisler e Casals fecero conoscere negli Stati alcune composizio ni di Granados, e la Sinfonica di Chicago eseguì il suo poema sin fonico Dante-, tutto in preparazione per la «prima» di Goyescas, che ebbe luogo al Metropolitan il 28 gennaio 1916, protagonista Anna Fitziu. Grande successo. Granados così scrisse all’amico Vives: «Sono pieno di fiducia e di entusiasmo per lavorare sem pre più. Sto cominciando». L’invito per un concerto alla Casa Bianca ritardò la partenza da New York, cosicché Granados e la moglie sbarcarono a Londra, dopo il viaggio sul Rotterdam, solo il 19 marzo. Il 24 marzo si imbarcavano a Folkestone sul Sussex, con un tempo splendido: durante la traversata il piroscafo veniva silurato senza preavviso da un sottomarino tedesco. Un passeg gero disse che Granados, già in salvo su una scialuppa, aveva vi
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sto la moglie tra le onde e si era lanciato in acqua per soccorrerla, scomparendo insieme con lei. I corpi non furono ritrovati. L’opera Goyescas non è restata in repertorio, e probabilmente Granados non sarebbe mai diventato un drammaturgo, ma con la suite pianistica e con i pezzi per canto e pianoforte aveva trovato un suo mondo da esplorare, ed aveva riunito insieme la ricerca poetica con il successo di pubblico. In quel momento il saggio pro fessor Granados, proprietario di una Accademia, avrebbe potuto tranquillamente cedere il passo ad un artista non ancora cinquan tenne che, come abbiamo letto nelle sue parole, stava comincian do. La guerra si portò invece via il giovane creatore, in un mo do orrendo che ancora offende l’umanità.
Opere citate'.
H. Collet: Albéniz et Granados, Parigi 1926. A. R. Tarazona: Enrique Granados. El ultimo romantico, Madrid 1975.
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La moda e l’arredamento hanno da tempo riscoperto il Kitsch di fine Ottocento, poi hanno recuperato gli anni venti ed oggi stanno scandagliando con entusiasmo gli anni trenta. Non solo il Kitsch, si capisce. O, per dir meglio, è il concetto stesso di Kitsch che si è andato modificando: ciò che era ritenuto di pessimo gu sto, ciò che veniva considerato e giudicato negativamente, ciò che muoveva l’ironia dei nostri padri viene guardato oggi non più per quel che artisticamente rappresenta ma come segno impre gnato di memorie, come oggetto storico-sociologico invece che co me oggetto estetico. In musica siamo più indietro, ma ci stiamo muovendo e il pianoforte, mi sembra, è all’avanguardia di un processo che dovrebbe poi investire presumibilmente la musica vocale da camera. Louis Moreau Gottschalk, che sessant’anni or sono era franato insieme con tutti i minori della sua epoca, è oggi protagonista di ripubblicazioni di musiche, di saggi e di dischi, un’autrice come Cécile Chaminade, simbolo stesso della musica all’acqua di rose ad uso delle signorine, ha un disco tutto suo (EMI, pianista Danielle Lavai) ed un’antologia in due volumi dei suoi pezzi più noti {Selected Compositions, Belwin Mills Publi shing Corp.), Goetz e Kirchner hanno avuto l’onore del disco, le ripubblicazioni di vecchi dischi e vecchi rulli di pianola hanno ri portato in vita autori scomparsi nel nulla, John Gillespie ha pub blicato una grossa antologia di musiche di compositori minori del l’Ottocento yankee. Ora, questo continente perduto, questo microcosmo del piano forte piccolo borghese che va lentamente riaffiorando, io l’ho co nosciuto. Non che abbia fatto in tempo a vederlo fiorire (sono nato nel 1931); ne ho però conosciuto un’impronta perfettamen«Musica», marzo 1983.
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te conservata, una piccola sacca di resistenza rimasta isolata dal resto del pianeta e non intaccata dal Novecento e dai suoi acidi corrosivi. Devo parlarne? Credo di sì, e lo faccio. Non posso tut tavia separare l’abito critico e l’abito affettivo, e perciò non saprò rinunciare ad ampi squarci autobiografici. Me ne scuso con il let tore il quale, spero, comprenderà però come io sia mosso da un genuino interesse per quella produzione che i tedeschi chiamano Trivialmusik: passi l’aggettivo, che può parere offensivo, e resti il concetto ad indicare una categoria della musica che non possia mo e non dobbiamo ignorare. Come almeno due terzi degli italiani della mia generazione che suonano il pianoforte ho cominciato a studiare dalle monache. Mi misero al pianoforte che facevo l’asilo, e la maestra, Donna Giu liana, mi insegnò alcune suonatine che non erano sonatine ma pezzetti come II ritorno, l’unico che ricordi bene, ultimo di una serie di sei che illustravano una villeggiatura al mare. Acton, Wolfhart, Leybach, De Meglio, Perny, Chiesa, Voss erano gli au tori che Donna Giuliana dispensava a tutti. Per me aggiunse la Scuola preparatoria della velocità di Duvernoy, dicendo che di lì, per chi aveva dei numeri, partiva la strada per imparare vera mente a suonare il pianoforte. Feci tutto il Duvernoy. Allora or dinò a mia madre la Piccola velocità di Czerny. Era l’op. 299, ter mine che non mi diceva niente. Piccola velocità mi colpì invece profondamente, tanto che chiesi cosa ci fosse dopo la Piccola velocità. «C’è la Grande velocità», disse Donna Giuliana. «E dopo?» «Ci sono due grossi libri.» Avrei voluto sapere di quali libri si trattasse, ma Donna Giu liana non se lo ricordava: «Ce li aveva il mio maestro, però il titolo non lo so più». «E che c’è dopo i due libri?» «Basta: non c’è altro.» Con un orizzonte così tolemaicamente preciso feci dei calcoli e scoprii che, una volta esauriti la Piccola e la Grande velocità ed i due libri ignoti, avrei concluso i miei studi pianistici verso i no ve anni d’età. Una sera in cui mio padre mi chiese se mi piaces sero sempre le lezioni di pianoforte risposi che contavo appunto di terminarle a nove anni e spiegai anche il perché. Dopo qual che settimana mio padre mi disse che ci aveva pensato su e che
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mi avrebbe mandato a studiare un po' con il Canonico ***. Era l’organista della cattedrale, la più alta autorità musicale della cittadina in cui vivevo. Il Canonico *** era una vecchia quer cia nodosa e altera, con modi e un naso che, si diceva, denuncia vano una supposta origine - illegittima - dentro Casa Savoja. Era stato parroco in una delle ricche «parrocchie reali» le cui nomine passavano attraverso il gabinetto di Sua Maestà e come parroco aveva menato vita splendida: carrozza alla porta e ricevimenti agli amici, specie cantanti e musicisti che venivano da Torino. Una volta aveva organizzato in parrocchia con i suoi ospiti una recita di Bohème, sostenendo il ruolo di Colline, e per questo o per altri motivi era stato invitato a lasciare la cura d’anime per diventare canonico e organista titolare in cattedrale. Il Canonico *** non amava tanto la musica quanto piuttosto l’opera e soprattutto la Bohème. Aveva un vecchio, immenso pia noforte verticale francese dai tasti giallissimi e bruciacchiati dal sigaro, un’immensa poltrona dalle molle rotte, una veste da ca mera color bordò con sgargianti alamari gialli. Più che farmi le zione di pianoforte mi spiegò e mi suonò la Bohème sofferman dosi molto a lungo sul terzo atto, che lo entusiasmava. Sebbene avesse voce di basso con smalto da nicotina gli piaceva suonare e cantare insieme «Mimi è una civetta» con il massimo di espres sione, sottolineando ogni parola ed ogni intenzione. Mi insegnò a dargli la replica, «Lo devo dir, non mi sembri sincer». Il che comportò delle trattative delicate, perché pensavo che, se pro prio dovevo dargli dell’insincero, avevo anche il diritto di sapere che significasse «Ella sgonnella e scopre la caviglia con un far promettente e lusinghici'». Il Canonico *** se la cavò con una spie gazione imperniata sulle lunghe sottane delle zingare, ed io accet tai il ruolo di Marcello. La sua risposta - «Ebbene no, non lo son» - mi dava i brividoni. Poi, quando attaccava «Amo Mimi» berciando come un ossesso e proseguiva centellinando i trapassi per arrivare con un profondo singhiozzo al «fatale mal che l’ucci de», mi immedesimavo nella scena al punto che mormoravo «Oh, mia vita» come se mi spettasse anche la parte di Mimi. Il Cano nico *** era proprio nato per fare il teatro: peccato che fosse canonico. Bohème a parte, il Canonico *** coltivava altri due pallini mu sicali, che mi insegnò: il Largo di Hàndel e la prima delle Stimmungen op. 73 di Grieg, Bassegnaulone o, come lisztianamente
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diceva lui, Resignazione. Il Largo mi tornava comodo, Resigna zione no perché faticavo ad arrivare al pedale, a fare l’accordo ar peggiato sulla decima e la duina contro la terzina. Ma mi arran giai pure con Resignazione. Oltre a ciò il Canonico *** , che anche per la poesia aveva furiose passioni, mi fece imparare a memoria, e declamare, «Qual masso che dal vertice» e «Odio l’allor», so stenendo che musica e poesia sono sorelle e che l’espressione è una sola. A quel punto mio padre, visti i progressi, decise di farmi ascol tare dalla cugina Tilde, che abitava in un’altra cittadina ed inse gnava il pianoforte. L’educazione della signorina Clotilde, figlia di un ricchissimo droghiere, era stata diretta da una parente di nobile famiglia finita in rovina, Carolina, ed aveva incluso piano forte, francese, disegno, dizione, danza, cucito, tutte le altre ma terie che costituivano gli ornamenti sociali di una fanciulla, ed inoltre villeggiature al mare e ai monti, sci e ascensioni in collina, sviluppo delle fotografie e accomodamento delle zampine rotte de gli uccelli. Tutto a pennello fino a che il padre di Tilde, ancor giovane, s’era ammalato gravemente. Dopo la sua morte la vedova aveva assunto la direzione della «Drogheria e Coloniali», riuscen do subito a mandarla in dissesto. Liquidata alla svelta l’impresa, la cugina Tilde (cugina di mio padre, mia cugina in secondo gra do), la mia prozia Adelaide e Carolina avevano ripreso la loro solita vita, vendendo un pezzo di terra qua ed uno là quando fa ceva bisogno. Dopo qualche anno erano cessate le gite e le villeg giature, era stata licenziata la domestica, e la cugina Tilde, che aveva rinunciato ad alcuni buoni «partiti» per non lasciar sole maman e Carolina, s’era messa a dare lezioni di pianoforte. Non si poteva dire che le tre donne vivessero in ristrettezze, ma le lezioni facevano comodo e la cugina Tilde, donna volitiva e che non si risparmiava, si era fatta una sua fama ed una bella clientela. Era in giro tutto il giorno - la maestra di pianoforte si recava a casa dell’allieva, non viceversa — e non c’era domenica o festa comandata in cui non fosse invitata da una famiglia su per far musica dopo un’adeguata imbandigione. Una potenza, insom ma. Mia madre, che non era intima di Tilde e un po’ la temeva, chiese l’assistenza di una mia zia, che con Tilde era cresciuta: mi vestirono da marinaretto, mangiammo alle undici e mezza e par timmo col treno di mezzogiorno e quaranta. La casa della prozia Adelaide era arredata in stile floreale, con
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grandi tappeti, grandi tende e poltrone di vimini. Il pianoforte, vantato dalla cugina Tilde come una meraviglia, era uno Schiedmayer verticale. Suonai timorosamente i miei numeri migliori della Piccola velocità, poi il Largo e Resignazione, la cugina disse che andava bene e che mi avrebbe dato qualche lezione. Quindi il gruppo delle cinque donne si ritirò in un’altra stanza per il caffè e per parlare, suppongo, di matrimoni, nascite e tradimenti, lasciandomi solo a mangiar biscotti e bere una spremuta d’aran cia: «Stai buono e guarda un po’ la musica», fu la conclusione. La musica erano due pile di fascicoli, di mezzo metro ciascuna. Ci trovai il bazar che oggi mi interessa di nuovo: V opera omnia di Tekla Badarzewska, la Serenata, la Lisonjera e altro della Cha minade, Ma belle qui danse di van Westerhout, Narcissus di Ethel bert Nevine, La Divina Commedia (Illustrazioni Drammatico-Mu sicali} di Cesare Sanfiorenzo, la Serenata spagnola di Ketten, un po’ di Albéniz, di Granados e di Grieg, qualche valzer e qualche notturno di Chopin, l’adagio della Patetica e l’adagio del Chiaro di luna di Beethoven, la Ninna nanna e il Valzer in la bemolle di Brahms, Traumerei di Schumann, tutte le Romanze senza parole di Mendelssohn (con titoli), VAve Maria di Gounod e l’Ave Ma ria di Arcadelt, Pietà Signor, Tre giorni son che Nina, Plaisirs d'amour, la Melodia originale di Maria Stuarda, il Madrigale di Simonetti, la Reverie di Rosellen, Le lac de Cóme di Galos, la Barcarola di Offenbach, il Minuetto di Paderewski, la Reverie e Clair de lune di Debussy, Dimmi se m'ami e T'amo sì! di Geraci, la Danse des sylphes di Godefroid, una «edition simplifiée» del Réveil du Lion ed una del Sogno d'amore di Liszt (che, imparai poi, si pronuncia Lizz), le Cloches du Monastère di LefébureWély, e Fioridia, Ravina, Schulhoff, Becucci, Ascher, Ketterer. Go dard, Burgmein.... In quelle copertine ornate, con lettere alfabetiche che si slan ciavano in alto, ricadevano, si intrecciavano come liane facevo fa tica a leggere i titoli e i nomi degli autori, che confondevo spesso con i nomi dei dedicatari. Ma guardai tutto, sorbendo come in sogno l’aranciata e succhiando il biscotto mentre nel profondo del le viscere mi calava la convinzione che il pianoforte non finiva nei due libri di Donna Giuliana e che avevo sottomano un tesoro i cui confini mi stavano sfuggendo. Dopo qualche ora, credo, le donne rientrarono e mi chiesero se avessi guardato la musica e se mi fosse piaciuta. Sono sempre stato di poche parole e perciò
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risposi solo «sì»; ma il monosillabo doveva essere espressivo, tan to da far capire alla cugina Tilde che avevo subito la mia rivolu zione copernicana. «Ti farò sentire qualcosa», mi disse; e a Caro lina: «Carolina, chérie, mi volti le pagine?». Da sopra il pianoforte, da una piletta che mi era sfuggita tras se un fascicolo e lo aprì sul leggio. Era il Poeta morente di Gottschalk, il suo brano preferito. Lo suonò con impegno, ser rando un po’ le labbra nelle ultime tre pagine, e lo suonò in modo tutt’altro che sdolcinato e fiacco. Pur essendo «morente» il suo poeta non vaneggiava, ma dettava i suoi ultimi memorabilia con la calma dei forti, quasi un Socrate che conversa con Critone e gli altri amici, ripetendo fino all’ultimo il suo sol-si-mi-re-do-do-si come un monito solenne, pur se la voce sempre più languiva e s’incielava. Dopo l’esecuzione la cugina Tilde spiegò il pezzo tecnicamente. «Nell’introduzione è difficilissimo il grande arpeggio» notava Til de, che con la tecnica brillante se la diceva poco «perché rapidis simo e di posizione scomoda. Ma il mio maestro, don Lovazzano, mi ha insegnato che tenendo bene il pedale si possono prendere quattro note con la sinistra, ottenendo un effetto come una ca scata di perle. Così». E lo eseguì due o tre volte. Pensai che il fu don Lovazzano, inventore, come seppi poi, del Lovazzanofolo, doveva esser stato un dio a inventarne una così grossa, e raddop piai di attenzione. «Bisogna stare all’erta qui» proseguiva Tilde alla prima esposizione del tema «perché è facile imbrogliarsi: leg gere la musica, incrociare le mani, cambiare il pedale.... Ci si con fonde, se non si è attentissimi». Sebbene suonasse il pezzo da tempo immemorabile non lo suonava a memoria, ma lo leggeva nota per nota mentre l’occhio le correva dalla pagina alla mano sinistra che saltava a beccare il basso e poi ad incrociare la de stra. Non suonava a memoria, capii più tardi, perché per il suo pubblico suonare «a memoria» non era diverso da suonare «a orecchio»: e lei non era una dilettante e non suonava ad orecchio. Spiegò quindi come fosse difficile far cantare dal mignolo della destra la melodia, negli accordi arpeggiati, e quanto fosse impegnativo andare avanti per tre pagine di bicordi ribattuti. Commentò le di dascalie, attirò l’attenzione sul «morendo» finale che voleva gran dissima leggerezza di tocco. Infine ci risuonò una seconda volta il pezzo. Io ero più muto del solito, maman e Carolina sorride vano con orgoglio, mia madre protestava che di musica non s’in
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tendeva e che ciò malgrado... «La seconda volta si gusta molto di più», chiosò mia zia, che aveva la battuta facile. E ce ne andam mo ringraziando. Nei pochi mesi che mi separarono ancora dall’inizio degli studi con un professionista non cercai la musica di The dying poet di Gottschalk, né chiesi alla cugina Tilde di insegnarmelo o di suo narmelo ancora. Il pezzo mi aveva colpito in un modo che andava molto oltre il pezzo stesso: dopo la placidità sbrigativa di Donna Giuliana e dopo gli entusiasmi monomaniaci del Canonico *** ave vo scoperto una cultura. Scoperto una cultura è frase troppo gros sa, per un bambino di otto anni: avevo intuito qualcosa che mi incantava e mi atterriva. E il Poeta morente era diventato per me un simbolo intoccabile. Quella cultura la vidi e non l’appresi. La cugina Tilde mi inse gnò forse una dozzina dei suoi pezzi, ma poi mio padre scoprì un militare in servizio nella nostra cittadina, un militare che non era propriamente pianista ma aveva fatto studi di composizione nel Conservatorio di Milano. E siccome la cugina Tilde abitava a ven ticinque chilometri e mia madre era di nuovo incinta, passai col militare, il quale mi comunicò senza pietà che il mio repertorio era quasi tutto una schifezza, mi scaraventò addosso i 23 Pezzi facili di Bach e gli Studi di Cramer, mi fece scoprire i Preludi di Chopin e la Patetica tutta intera, e per concludere mi parlò di Aldo Giuntini e del futurismo (doveva essere l’ultimo dei futu risti). Così, grazie a Mussolini che aveva guarnito il Cuneese per pre parare la guerra con la Francia, imparai a disprezzare come si con veniva il Lac de Còme et similia, ma il ricordo del Poeta morente non mi abbandonò e non mi ha abbandonato. E quando l’ho letto nella antologia delle musiche di Gottschalk curata da Richard Jackson e pubblicata dalla Dover ho dovuto convenire che, e di ciamo pure nel suo genere, è proprio un capolavoro. Introduzione: quattro battute che si spostano sempre più in alto, dando la chiave di lettura del pezzo, battuta culminante con l’arpeggione che mi impressionava tanto, battuta con l’accordo di quarta e sesta che tiene tutto in sospeso, battuta con un bel rigiro sulla settima di dominante. Fine dell’introduzione e partenza. Si parte su un ritmo di valzer lento che non è un valzer lento ma un qual cosa come una ballata, un racconto; che so: il concertone nel se condo atto del Macbeth, «Stride la vampa» o alcunché di simile.
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La melodia esce nel registro centrale, affidata alla destra, con la sinistra che l’incrocia di sopra: è una melodia di costruzione sim metrica, tipica, ma con un inatteso sbalzo di registro che la porta a coprire un’estensione complessiva di due ottave:
Non è, esattamente, una melodia vocale. Certo, un mezzoso prano o un contralto potrebbero cantarla, ma lo sviluppo del l’estensione sarebbe troppo rapido e l’effetto apparirebbe forzato. Potrebbe essere piuttosto un inizio di duetto tra tenore e mezzo soprano o un inizio di concertato: l’interesse del pezzo, a parer mio, nasce prima di tutto proprio da questa melodia che non è di romanza da camera ma di grande brano d’opera e che colloca
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il Poeta morente in un ambiente, come in un finale d’atto. La me lodia viene ripetuta un’ottava sopra, poi giunge il secondo ele mento melodico, lievemente contrastante con il primo; quindi, nuova esposizione della melodia, e nuova esposizione dell’elemen to contrastante (questa volta in registro medio). Quella che sem brerebbe la definitiva, conclusiva esposizione della melodia inizia un’ottava sopra, in registro acuto e sopracuto, con dolcissimi ac cordi arpeggiati, i due pedali e la didascalia «celeste». Sviluppo dinamico fino al punto culminante e caduta in verticale della ten sione emotiva. Il piccolo temine che sbuca poi, «dolce», sembrerebbe dire che il poeta è ormai passato a miglior vita, e tutti gli ascoltatori, vi ste le proporzioni formali fin qui conservate, si aspettano una tran quilla e rapida chiusa. Arriva invece un episodio nuovo, dramma tico, con un nuovo tema in modo minore martellato in ottava, co me se nella pancia del pianoforte ci fossero due tromboni e un intero coro e con affannosi bicordi ribattuti alla mano destra. I bicordi sono la chiave di volta per un’ultima, lunghissima riespo sizione di melodia ed elemento contrastante, in registro sopracuto e con una disposizione pianistica di massima eufonia:
«Very even» (molto tranquillo) dice Gottschalk, che per quasi tre pagine riesce a reggere il tintinnio dei sopracuti in cui vagola, come un’anima tra le nuvole, la parola del Poeta morente. Chiusa, manco a dirlo, estatica, «svanendo», anzi, «dying away», con tut-
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