no Il libro nero della magistratura. I peccati inconfessati delle toghe italiane nelle sentenze della Sezione disciplinare del CSM [1/1, 1 ed.] 9788893888042


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Italian Pages 60 Year 2020

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Table of contents :
Indice
Prefazione
Il giudice copia la sentenza
I ritardi non sono sistematici
Espressioni da bordello
Ventiduemila euro di «multa» per il ritardo
Dimentica in cella l’imputato
Rolex, vestiti e favori
Giudice picchia la moglie ma viene assolto
Prostitute & consulenze
Il giudice molestatore della collega
Il PM che fa l’avvocato
Giudice dà delle puttane ai colleghi
Giudice e vicesindaco nello stesso territorio
Il giudice trascura il profilo dell’assassino
Gli allegri maneggi del giudice che tiene famiglia
Le avances senza ritegno del giudice predatore
I regali del giudice pizzaiolo
Il giudice lo lascia libero e lui uccide la moglie
Il giudice ubriaco
Il giudice e la rissa da saloon
Il giudice sbaglia sentenza
Il giudice dimentica gli imputati ai domiciliari
La PM morbosa
Il giudice e la perizia sul proprio lavoro
Il giudice pilota il fallimento
Il giudice e le parolacce
Il giudice orco
Le foto porno della GIP
Il giudice trasloca ma si tiene la stanza e la chiave
Il giudice copia la sentenza ma viene assolto
La PM e il bellissimo attore
Il giudice e la sentenza abnorme
La cecità attentiva della PM
Il PM dimentica la relazione
La giudice corrotta
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Il libro nero della magistratura. I peccati inconfessati delle toghe italiane nelle sentenze della Sezione disciplinare del CSM [1/1, 1 ed.]
 9788893888042

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            LE BOE

       

Stefano Zurlo Il libro nero della magistratura

I peccati inconfessati delle toghe italiane

nelle sentenze della

Sezione disciplinare del CSM  

           

          © 2020 Baldini+Castoldi s.r.l.

ISBN 978-88-9388-804-2 Prima edizione Baldini&Castoldi - La nave di Teseo novembre 2020 www.baldinicastoldi.it

    BaldiniCastoldi baldinicastoldi baldinicastoldi baldinicastoldi

            Alla Giustizia,

vittima dei magistrati che hanno tradito

INDICE

              Prefazione Il giudice copia la sentenza I ritardi non sono sistematici Espressioni da bordello Ventiduemila euro di «multa» per il ritardo Dimentica in cella l’imputato Rolex, vestiti e favori Giudice picchia la moglie ma viene assolto Prostitute & consulenze Il giudice molestatore della collega Il PM che fa l’avvocato Giudice dà delle puttane ai colleghi Giudice e vicesindaco nello stesso territorio Il giudice trascura il profilo dell’assassino Gli allegri maneggi del giudice che tiene famiglia Le avances senza ritegno del giudice predatore I regali del giudice pizzaiolo Il giudice lo lascia libero e lui uccide la moglie Il giudice ubriaco Il giudice e la rissa da saloon Il giudice sbaglia sentenza Il giudice dimentica gli imputati ai domiciliari La PM morbosa Il giudice e la perizia sul proprio lavoro Il giudice pilota il fallimento Il giudice e le parolacce Il giudice orco Le foto porno della GIP Il giudice trasloca ma si tiene la stanza e la chiave Il giudice copia la sentenza ma viene assolto La PM e il bellissimo attore Il giudice e la sentenza abnorme La cecità attentiva della PM Il PM dimentica la relazione La giudice corrotta

PREFAZIONE

              Altro che Palamara. Le nomine, le spartizioni, gli accordi sottobanco fra le correnti. Tutto avvilente, per carità. Ma c’è ben altro, ben altre infezioni, nel corpo malato della corporazione togata. Comportamenti e azioni davanti a cui si resta interdetti e si fatica a trovare parole adeguate. Esagerazioni? Purtroppo no, fra sconcezze, vizietti inconfessabili e depravazioni varie. C’è il giudice lascivo che toccava le nipotine nell’intimità notturna della loro cameretta. C’è quello che ha alzato le mani sulla moglie, spedendola direttamente al pronto soccorso. C’è un magistrato che ha dimenticato in cella – ma come si fa? – un imputato per 51 giorni e l’altro che si è trasformato al volo in zerbino, buttando alle ortiche la fedele bilancia e copiando pari pari in nome del popolo italiano 55 pagine, non una di meno, scritte da una delle due parti in causa. Tutto vero, tutto documentato, tutto accaduto in Italia negli ultimi dieci anni. Me ne ero già accorto nel 2008 quando avevo deciso di passare alla lente d’ingrandimento del cronista il malessere del sistema giudiziario italiano. Come fare? Avevo bussato alle sacre porte del CSM, e avevo chiesto le carte della Sezione disciplinare, il grande specchio che mette a nudo le debolezze delle novemila toghe tricolori. È lì, alla Disciplinare, che si lavano i panni sporchi. Spesso, luridi. Ci vollero mesi e mesi, la solita giostra di pareri e contropareri all’italiana, ma alla fine, un bel giorno, mi fu recapitato a casa un pacco colossale, tipo supercesto natalizio. Solo che dentro c’erano migliaia e migliaia di pagine: i peccati inconfessati delle toghe. L’arroganza del potere. La fragilità umana di chi invece dovrebbe coniugare equilibrio e lucidità. La corruzione senza scrupoli. La sciatteria più disadorna. Storie sbalorditive. Come quella del pubblico ministero che chiedeva l’elemosina in mezzo alla strada, a pochi metri dal tribunale in cui lavorava. O quella di un altro PM, a suo modo creativo, che era ricorso all’ipnosi per far tornare la memoria al testimone di un omicidio. Peraltro con l’unico risultato di oltraggiare il codice. Una collezione di casi strabilianti e drammatici, lontani dai radar dell’opinione pubblica, anzi, per dirla tutta, sconosciuti agli italiani. Vicende che raramente emergono e, se finiscono sotto i riflettori, vengono confinate in un box o in una breve. Pubblicai tutto in due libri: La legge siamo noi, del 2009, Prepotenti e impuniti, del 2011. Ma, attenzione, fui costretto a sbianchettare tutti i nomi e a cambiarli con dati anagrafici inventati ad hoc. Non c’erano alternative, se non rischiare grappoli di cause milionarie e grane a non finire. Nove anni dopo, ci risiamo. Questa volta ci sono i dischetti e anzi il «libro nero» è atterrato direttamente sul mio iPad, con la benedizione del vicepresidente del CSM David Ermini, che ringrazio di cuore per la sua disponibilità. Nel 2008 l’accesso al «registro dei cattivi» era quasi impossibile; oggi resta quel muro invalicabile e anzi rafforzato negli ultimi tempi: il diritto alla privacy più quello all’oblio, sancito da una sentenza della Cassazione a Sezioni unite. E pazienza se le storie proposte al lettore non sono archeologia ma cronaca, dal 2010 fino ai mesi scorsi. Il velo non può cadere: quindi via i nomi, via le città e via i riferimenti che potrebbero rendere riconoscibile l’autore di turno del misfatto. Ma non c’è una virgola che sia inventata, fuori posto o esagerata. Il lettore si troverà nell’aula austera della Disciplinare, solo con quella tendina davanti all’identità dei protagonisti, schermati con generalità di fantasia. Il materiale raccolto supera ancora una volta le previsioni più cupe. Ecco il giudice che molestava, imperterrito, la collega e quello che, pizzicato al volante ubriaco, ha avuto l’ardire di gridare ai carabinieri: «Sbirri di m…, mi avete rotto i coglioni», e alla dottoressa del 118: «Ti lecco la f…» Come nemmeno in un bordello. Atteggiamenti indecorosi che dovrebbero essere puniti, nel tempio del diritto, con la massima severità. Invece, i verdetti più di una volta appaiono di manica extralarge, diluiscono le colpe, aprono le porte dell’indulgenza, anche ai recidivi. In sostanza, sono pistole a salve. Distributori di punizioni modeste, qualche volta indolori: l’ammonimento o la censura. Caramelle amare o poco più. Più di rado ecco la perdita di anzianità e, ancora meno, l’espulsione dalla categoria. Comminata col contagocce. Così il cittadino inconsapevole entra a Palazzo e si affida a soggetti che non potrebbero rimanere cinque minuti in più in un ufficio o in un’azienda. E sarebbero messi alla porta, sventolando sotto i loro occhi il cartellino rosso. Ma rossa di vergogna dovrebbe essere la giustizia. Mortificata da personaggi impresentabili e da chi cerca di attutire il rumore delle loro cadute rovinose. Stefano Zurlo

ottobre 2020

Il giudice copia la sentenza

              Era un ritardatario seriale e pazienza se i cittadini erano costretti ad aspettare. Gli avevano già aperto un primo procedimento disciplinare nel ’99, poi un altro nel 2001, ma il terzo millennio non ha portato alcun miglioramento. Anzi, fra il 2001 e il 2003 Romeo Italia ha combinato altri disastri nel tribunale dell’Italia meridionale in cui era approdato. La bellezza di 74 procedimenti civili fuori tempo massimo, con punte incommentabili di 595 e 560 giorni. Ma decine di sentenze sono state confezionate molto dopo i tempi stabiliti e la Disciplinare del CSM mette in fila impietosamente i numeri di questa débâcle: fra i 400 e i 500 giorni in sette casi; fra i 300 e i 400 in altre sei vicende; e poi 15 volte 200-300 giorni oltre il cronoprogramma stabilito dalla tabella di marcia canonica. Trecento giorni sono quasi un anno, ma purtroppo non è nemmeno questo il peggio, in un grappolo vergognoso di processi disciplinari. Fra una perdita di tempo e l’altra, il giudice Romeo Italia si è superato con il verdetto, scritto – si fa per dire – fra il 23 e il 30 aprile 2003: in quell’occasione la svogliatissima lumaca del diritto ha copiato pari pari 55 delle 71 pagine del testo da una delle due parti, tecnicamente quella attrice e, combinazione, pure quella vittoriosa. Sì, le ha prese in blocco, compresi i commenti e i giudizi ovviamente non proprio equidistanti, utilizzando la nobilissima tecnica del copia e incolla. Domanda che non andrebbe mai posta: ma come può un giudice, sia pure con la stima e l’orgoglio per la propria funzione sotto i tacchi, concepire la folle idea di saccheggiare senza ritegno il vocabolario e pure la punteggiatura di uno dei due contendenti? Lui invece l’ha fatto, eccome. Si trattava fra l’altro di una causa molto delicata e in qualche modo interna ai meccanismi già farraginosi della nostra giustizia: nel mirino infatti era finito un avvocato accusato di non aver svolto in modo corretto il proprio compito. Una vicenda difficile, da maneggiare con circospezione e tatto, ma lui non si perde in preamboli e si sdraia letteralmente, senza timore, sulla tesi del cliente danneggiato. Trascrive quel che ha teorizzato l’avvocato della parte attrice, aggiunge poco altro e stanga il condannato imponendogli un risarcimento alla controparte per danno esistenziale di 500 mila euro. C’è da stropicciarsi gli occhi. La Disciplinare, in gravissimo imbarazzo davanti a tanto arrogante menefreghismo, sviluppa una discussione surreale sui limiti del suddetto copia e incolla. Che in effetti può essere esercitato solo per le parti «meramente descrittive». Ci mancherebbe. «Secondo la giurisprudenza», ricorda il tribunale delle toghe, «configura illecito disciplinare la condotta del giudice civile che redige sentenze la cui parte motiva sia costituita essenzialmente dalla riproduzione pedissequa del contenuto della comparsa conclusionale della parte vittoriosa.» Spiegazioni che chiunque sia fornito di un minimo di buonsenso, senza bisogno di una laurea, sa già. Il giudice, insomma, dovrebbe soppesare e valutare gli elementi forniti dai duellanti sulla sua bilancia e non scopiazzare come uno studente alle prime armi i ragionamenti di uno dei due, facendo saltare ogni parvenza di terzietà, di indipendenza, di decoro. «Solo quando parti meramente descrittive di un provvedimento giudiziario», rimarca la Disciplinare, «mutuino contenuti di un atto difensivo, il fatto può non apparire lesivo della fiducia e della considerazione di cui un magistrato deve godere e del prestigio dell’Ordine giudiziario.» L’eccezione ci può stare, ma qui il mondo è capovolto: il magistrato si fa dettare le parole da chi reclama giustizia. Metà altoparlante e metà scendiletto. Vergogna. Il tutto in linea con un comportamento che si può tranquillamente definire scandaloso: i ritardi sono cronici e ripetuti fino alla noia. E nemmeno ci sono attenuanti che alleggeriscano la sua intollerabile posizione. Anzi, la Sezione presieduta da Annibale Marini completa il ritrattino dell’incolpato con annotazioni sconfortanti: «I ritardi sono qualificati da sistemicità, non giustificati da un peculiare carico di lavoro o da speciale complessità dei casi giudiziari trattati e sintomatici quindi di inadeguata capacità di organizzazione del proprio lavoro». Eppure nel 2010, a undici anni dall’apertura del primo procedimento e a sette – sette – dalla sentenza che dovrebbe far arrossire una matricola di legge, Romeo Italia è ancora in servizio. Attaccato alla scrivania che non ha nessuna intenzione di lasciare. Romeo era stato condannato, in un primo round, alla pena della perdita di un anno di anzianità. Una condanna grave, in grado di incidere sulla carriera e sul portafoglio, ma non di assestare il colpo del ko. Nemmeno a lui. Romeo era rimasto sul ring. Non l’avevano espulso dall’Ordine giudiziario. Ma c’è di peggio: in appello la condanna era stata cancellata dalle Sezioni unite civili della Cassazione per mancanza di motivazione. No comment. Gira e rigira, Romeo è sempre al suo posto, fa sempre danni, è sempre in affanno per usare un eufemismo. Non importa. La penosa vicenda ritorna alla Disciplinare e finalmente il 15 ottobre 2010, dopo anni e anni di rimbalzi, ecco la condanna. Che è esattamente uguale alla precedente. Perdita di un anno di anzianità. Nulla di più, anche se il quadro tratteggiato è drammatico. Quasi incredibile. Avvilente per chi ha un minimo di fiducia nell’apparato. Romeo Italia resta in quel tribunale. E può, sia pure ammaccato, andare avanti ad amministrare la giustizia in nome di quel popolo italiano che ha tradito così platealmente. E che fa aspettare e aspettare ancora a ogni decisione. Offrendo ingiustizia nelle aule del tribunale.

I ritardi non sono sistematici

              A leggere le polemiche furibonde nate sulla riforma Bonafede e la prescrizione, c’è da sorridere. Un conto sono le teorie e i proclami, altra cosa la realtà. E l’osservazione sul campo dice come una sentenza che di questo passo poco o nulla cambierà. Dunque, il Guardasigilli dei governi Conte 1 e Conte 2 ipotizza bacchettate sulle dita dei giudici ritardatari, azioni disciplinari a raffica, la mano dura del ministro, come contrappeso alla nuova legge che abolisce i tempi contingentati per arrivare a un verdetto definitivo. Naturalmente, l’idea di Alfonso Bonafede provoca reazioni stizzite e la corporazione si indigna, strepita e rifiuta lo scambio. Se un magistrato andrà per le lunghe, con ritmi intollerabili nell’Italia che sopporta e metabolizza tutto, allora si valuterà il singolo caso. Quella storia. Quel vulnus a un sistema così malconcio. Senza generalizzare e senza stabilire automatismi punitivi, come aveva azzardato il candido ministro. Tranquilli, non se ne farà niente. A maggior ragione perché già ora, nell’indifferenza generale, senza che nessuno se ne accorga, la Sezione disciplinare, insomma l’importantissimo tribunale delle toghe costituito all’interno del CSM, emette verdetti sbalorditivi, almeno per l’opinione pubblica che pensa: il bianco è bianco e il nero è nero. Eh no, ci sono mille sfumature, mille variabili, mille interpretazioni possibili e così anche davanti ad accuse schiaccianti, almeno a prima vista, un processo disciplinare può chiudersi con l’assoluzione. Sì, assoluzione piena per il giudice Giovanni Oleandro, stanato nel 2008 da un’ispezione al tribunale di una città dell’Italia centrale in cui lavorava. Oleandro, nel redigere cinque sentenze penali collegiali, insomma nello scrivere le motivazioni dei verdetti, aveva accumulato ritardi da maglia nera. Come un treno smarrito da qualche parte sui binari e destinato ad arrivare alla stazione successiva con tempi totalmente sballati. Più di quattro anni di ritardo in un caso, più di due e mezzo in un altro, più di due nei restanti tre. La cinquina della vergogna. Uno sfascio. E un disservizio da terzo mondo per gli utenti della giustizia, funzione sacra che tocca le nostre libertà, ma non per gli operatori di un mondo abituato a convivere con i limiti delle toghe, la scarsità dei mezzi, l’elasticità dei controlli. Dunque, la vicenda di Giovanni Oleandro è esemplare. Quel che appare a prima vista in un modo non sempre è così. Anzi, quasi mai nell’Italia che arranca, tira la coperta di qua e di là, infine copre e giustifica. Sulla carta i casi sono pesantissimi. Quattro e passa anni di attesa per il deposito di un provvedimento sono un’enormità. Che altro aggiungere prima della «fucilazione» dell’incolpato? E invece per la Disciplinare c’è molto da puntualizzare, fino a ribaltare una situazione che pareva disperata. Tanto per cominciare non basta lo sforamento dei tempi per arrivare a una condanna. Sia pure una condannina. No, ci vogliono in contemporanea tutte e tre le condizioni: i ritardi devono essere reiterati, gravi e ingiustificati. Tre parametri che devono stare insieme. Ma non c’è bisogno di tanto studio per smontare un’accusa che già vacilla e arretra. Non serve andare tanto lontano: basta soppesare in controluce uno dei tre aggettivi. Che significa reiterato? Già, che vuol dire? I giudici dei giudici ragionano da par loro: «Il riferimento alla reiterazione della condotta lascia intendere che si tratta di un illecito abituale che, secondo la giurisprudenza richiede quale elemento costitutivo, la reiterazione abituale dei fatti». In pratica? Ecco in successione uno slittamento di quarantotto mesi e oltre, un altro quasi altrettanto insostenibile, tre ulteriori molto invasivi. Dove si colloca l’asticella? Altro che automatismi e proclami alla Bonafede. La Disciplinare ha in testa un suo criterio. E l’8 ottobre 2010 lo espone con parole chiarissime: «Il grave ritardo ha riguardato cinque sentenze in un arco temporale di sette anni, nel corso del quale il giudice ha depositato ben 831 sentenze; il rapporto fra il periodo temporale, il numero di sentenze depositate e il numero di sentenze depositate in ritardo porta a escludere che vi sia stata un’abitualità nel senso sopra precisato nel deposito di sentenze fuori dai termini previsti dalla legge e che, quindi, l’illecito disciplinare contestato si sia perfezionato». Sì, non si è perfezionato, per usare il linguaggio impalpabile dei maestri del diritto. Le disfunzioni ci sono e sono paurose. Ma le griglie della colpa sono strette strette. Quegli anni di troppo resteranno impuniti. Il procuratore generale, che sostiene l’accusa, chiede l’assoluzione di Giovanni Oleandro. E puntuale l’assoluzione arriva.

Espressioni da bordello

              Par di sognare. È l’11 aprile 2009. Il giudice, in aspettativa in quel momento per un dottorato di ricerca, si aggira in stato di ebbrezza sulla pubblica via. Ha bevuto. Tanto. Troppo. Barcolla. Gesticola. Forse parla pure da solo, come un esagitato. Non sta bene e viene soccorso. Ma invece di ringraziare chi vorrebbe dargli una mano si produce in una serie rabbiosa e irrefrenabile di contumelie. Il primo a subire la sua ira è un signore che viene aggredito e si ritrova con escoriazioni ed ematomi in faccia. Potrebbe pure bastare, ma il gentiluomo in toga è pronto per un secondo round. Arrivano due poliziotti e lui li accoglie con il più classico dei benvenuti: «Sbirri di merda… brutti sbirri bastardi. Mi avete rotto i coglioni». Frasi da trivio. Subito accompagnate da ulteriori minacce quando l’uomo si ricorda di essere pur sempre un magistrato. E così compone una rapida variante sull’eterno tema del «lei non sa chi sono io». Le sue parole sono acuminate: «Ve la faccio pagare a tutti quanti perché non sapete con chi avete a che fare. Adesso chiamo il questore. Adesso», insiste davanti a un plotone di agenti corsi a calmare le acque, «lo chiamo e vi sistemo». Manca giusto per completare il repertorio un riferimento al sesso e l’occasione si presenta nel giro di qualche minuto quando arriva l’ambulanza del 118. Il giudice saluta la dottoressa con un’espressione adeguata al personaggio: «Ti lecco la figa». Il tutto fra strattoni, urla, insulti. Un episodio devastante, ma non l’unico anche se sembra impossibile. Due mesi dopo, il 9 luglio 2009, il dottorando si ripete. Con la sua BMW tampona un’altra auto, una Cinquecento serenamente parcheggiata. Dà il buon esempio tentando coraggiosamente la fuga, poi si blocca, scende e concede il peggio di sé. Questa volta ci vanno di mezzo due attoniti carabinieri. Lui li prende a pugni e calci e li apostrofa alla sua solita maniera: «Bastardi, carabinieri di merda». Danneggia come fosse un vandalo problematico di periferia l’Alfa 156 dell’Arma e si rifiuta di dare le proprie generalità. Finisce che i militari esterrefatti lo arrestano sul posto e il provvedimento viene convalidato dal GIP che poi decide di rimetterlo in libertà. Ma mentre lo portano via, Orazio Gallo scarica altre offese sui sottufficiali: «Ringraziate che sono ammanettato, ora vi ho rotto la prima macchina, poi vi rompo a tutti e tre». Forse sommando la vettura alle divise in una sconnessa allocuzione. Lo scaricatore di porto togato va avanti con la sua requisitoria ad alto tenore alcolico: «Bastardi carabinieri di merda, che fino a qualche tempo fa vi ho aiutato con gli altri magistrati e con i vostri signori ufficiali, tanto poi sistemo tutto io, ve la faccio pagare». Orazio Gallo si ritrova sotto accusa quattro volte: si sviluppano infatti due procedimenti penali e altrettanti disciplinari che poi vengono riuniti. Di solito i giudici delle toghe aspettano che i loro «colleghi» magistrati emettano i verdetti prima di andare avanti, ma qui lo scandalo è troppo grosso e al CSM capiscono di dover lanciare un segnale, luminoso come un bengala nel cielo della giustizia, per non perdere la propria credibilità. Si va avanti comunque, anche se il verdetto della Disciplinare arriverà in un secondo momento, mettendo Gallo all’angolo. Anche perché il quadro, già disastroso, si fa se possibile ancora più pesante. Si scopre che Orazio ha già avuto due procedimenti disciplinari, sempre fra alterchi, specchietti retrovisori e sgommate, sempre in strada, sempre con mitragliate lessicali inascoltabili. Ma come fa un soggetto del genere, che quando apre bocca fa a pezzi ogni galateo istituzionale, a parlare in nome del popolo italiano? Che immagine trasmette di sé e della sua funzione? E come potranno uomini e donne accettare le sue decisioni dopo averlo visto dare in escandescenze, sferrare cazzotti da rissa di osteria, sfasciare una macchina come un invasato? Domande che si perdono nei fumi dell’alcol. Attenzione: viene fuori che in un caso Orazio Gallo era stato assolto, ma nell’altro si era preso la sanzione, soft come un buffetto, dell’ammonimento. «Dai, non farlo più.» Lui, invece, l’ha fatto. E l’ha rifatto ancora. No, non va bene. Non si può tirare a campare e vedere se lo condanneranno sull’altro fronte, quello in cui è imputato come un cittadino qualunque. Oltretutto i fatti sembrano granitici nella loro desolante sequenza: «Le relazioni di servizio, provenienti dai pubblici ufficiali intervenuti, appaiono adeguatamente circostanziate e disegnano un quadro indiziario più che solido. Neanche gli atti difensivi… appaiono idonei a contraddire l’evidenza delle relazioni acquisite. In entrambi gli episodi contestati ricorrono modalità comportamentali, quali il grave stato di ebbrezza, l’aggressività nei confronti degli agenti e degli altri intervenuti sia fisica che verbale, l’alterazione psicofisica, descritti in modo coerente e difficilmente riconducibili, in ciascuno dei due episodi, a cause diverse dallo stesso comportamento dell’incolpato e, sempre allo stato, appare poco credibile che essi siano stati determinati da comportamenti arbitrari o persecutori riferibili alle persone intervenute». Nessun complotto, dunque, ma semmai una debolezza di fondo e un diavoletto pronto ad affacciarsi a intermittenza e a vomitare insolenze. E allora la Disciplinare fa le sue valutazioni: «La gravità dei fatti è radicalmente incompatibile con la prosecuzione dell’esercizio delle funzioni poiché gli stessi, per la loro intrinseca rilevanza (plurimi reati contro pubblici ufficiali), eclatanza, reiterazione e notorietà nell’ambiente sono tali da impedire, nei rapporti con le forze di polizia giudiziaria, gli utenti del servizio giustizia, i colleghi e il personale amministrativo, di svolgere l’attività giurisdizionale con il necessario prestigio. Non vi è inoltre sufficiente affidabilità sul pieno controllo delle proprie capacità da parte del dottor Gallo neanche nell’esercizio ordinario delle funzioni». Orazio Gallo non può restare al proprio posto. Ci sarebbe la scappatoia dell’aspettativa, provvidenziale in quel momento buio. Ma il CSM prende la strada dritta ed evita curve, ricami e cavilli. Il 4 giugno 2010 Orazio Gallo viene sospeso in via cautelare dalle funzioni e dallo stipendio: la sanzione finale, inevitabile, verrà erogata in seguito, dopo la chiusura delle sue pendenze con la giustizia ordinaria. Ma, intanto, per vivere deve farsi bastare il cosiddetto assegno alimentare. E, soprattutto, deve lasciare la toga in un armadio.

Ventiduemila euro di «multa» per il ritardo

              La storia di questa causa pare una solenne presa in giro di tutti i proclami e le promesse ascoltati in questi anni. Sì, perché se il giudice non dà impulso al procedimento, non lo governa, non lo spinge verso la conclusione cercando di mantenere un ritmo decente, allora tutte le riforme e gli sforzi studiati per migliorare il sistema non servono a niente. Qui la cronologia, nuda e cruda, vale più di un convegno sulla giustizia che non funziona, sulla sfiducia degli utenti, sui costi esorbitanti di un servizio scadente quando, come in questo caso, inqualificabile. Siamo in un tribunale del Nord. Il procedimento civile, una divisione ereditaria, parte il 4 ottobre 1982. Francesca Nava riceve fra la mani il fascicolo come giudice istruttore nel 1996. Quattordici anni dopo l’incipit. Cosa sia accaduto in tutto quel tempo non è chiaro, ma nel 1996 siamo ancora in alto mare. E il caso è ancora in mezzo all’oceano nel 2006, dieci anni dopo e ventisei dopo il prologo, quando Nava, presidente di sezione, molla l’eredità a un collega, in una staffetta alla moviola. Dieci anni per combinare poco o niente. Ne trascorrono altri tre per arrivare, il 16 dicembre 2009, alla condanna del ministero: via Arenula deve indennizzare, in base alla legge Pinto, la parte attrice con ventiduemila euro. Ventiduemila euro di «multa», chiamiamola così, per la durata irragionevole di una causa lunga quasi come il viaggio di Mosè verso la Terra Promessa. Ventiduemila euro che si potevano agevolmente risparmiare ma che sono il prezzo, tutto sommato modesto, di superficialità, sciatteria, menefreghismo. Del resto la legge Pinto è nata per lavare i panni sporchi in casa ed evitare all’Italia figuracce e condanne a raffica davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per l’eccessiva lunghezza dei processi, penali o civili. Meglio risolvere i guai senza tanto clamore, dentro il circuito giudiziario tricolore. Ma questo caso, come purtroppo tanti altri, grida vendetta. Ci saranno pure i tribunali intasati, i cancellieri che devono sdoppiarsi e le stampanti che non funzionano, ma ci sono anche vicende in cui letteralmente non si capisce come si sia potuta perdere anche l’ultima briciola di credibilità. Anni. Decenni. Non per una saga biblica ma per una vicenda che doveva essere fermata alla prima stazione. Lo si capisce bene proprio dall’incredibile decorso del processo disciplinare. Francesca Nava, per un certo periodo pure facente funzione come presidente di quel tribunale e dunque non proprio sprovveduta, fa notare che quella causa era pasticciata, confusa, fumosa. Al CSM controllano e restano basiti: è tutto vero. La gentile presidente ha tirato per le lunghe una storia adagiata su un binario morto sin dalla partenza. Inimmaginabile. Ma documentato dalla Disciplinare, sia pure con un linguaggio morbido e quasi asettico: «È certamente inaccettabile che si sia dovuto attendere quasi trent’anni per rilevare vizi procedurali che la stessa giudice denuncia come esistenti sin dall’inizio del giudizio, pur avendo omesso di rilevarli nel corso dei ben dieci anni in cui fu assegnataria della causa come giudice istruttore». Testuale. Come una lapide sulla tomba del diritto. E infatti, in un finale grottesco e quasi caricaturale, altre toghe decretano lo stop definitivo dopo un cincischiamento trentennale: il 27 marzo 2010 il giudizio viene dichiarato improseguibile e la causa cancellata dal ruolo. Il gioco dell’oca è solo una pallida imitazione di questo rito inconcludente. Ma che cosa ha fatto Francesca Nava nell’arco dei dieci anni in cui ha gestito, eufemismo, quei faldoni? Niente o quasi, ma quel poco che ha combinato l’ha fatto male. Nell’ordine: «Ha atteso quasi tre anni», tre anni buttati, «per la sostituzione del consulente tecnico d’ufficio inadempiente», che teneva le braccia conserte e pensava agli affari suoi; «ha poi richiesto un supplemento di perizia avendo in seguito concesso udienze di mero rinvio (dal 16 /11/2001 al 17/11/2003». Altri due anni andati in fumo. «Infine, dopo che la causa era stata rinviata avanti al collegio e assunta in decisione, l’ha rimessa sul ruolo per ulteriori chiarimenti del consulente tecnico.» Una capriola sui titoli di coda davvero temeraria, anzi da far arrossire, se si considera che Francesca Nava ha avuto il coraggio di chiedere ancora delucidazioni a quasi venticinque anni dalla partenza di questa maratona infinita, da concludere invece prima possibile. Oltretutto, fra un rinvio e l’altro, una delle parti era morta causando un ulteriore stop di qualche mese, dal 13 dicembre 1999 al 20 aprile 2000. E invece no. Solo per rimanere all’ultimo segmento, le mosse si susseguono con cadenza placida e naturalmente l’una annulla l’altra: «Il 28 aprile 2004 la causa fu rinviata per la discussione davanti al collegio, che il 20 ottobre 2004 ne riservò la decisione». Game over? Macché. La tarantella va avanti, anzi avanti e indietro, allegra: «Con ordinanza del 19 gennaio 2005 il collegio», sempre presieduto dall’imperturbabile magistrato, «dispose la convocazione a chiarimenti» del consulente tecnico, «che il 12 maggio 2006 depositò una nuova relazione scritta. La decisione fu quindi nuovamente riservata all’udienza del 5 luglio 2006». Proprio quel giorno, il 5 luglio 2006, lei fa ciao ciao all’eredità e si congeda da quella storia ormai segnata. Il procedimento, governato da altri, è una barca sugli scogli: «Successivamente, quando Francesca Nava era già stata sostituita, la causa fu rimessa dinnanzi al nuovo giudice istruttore per un’integrazione del contraddittorio e venne rinviata all’udienza del 7 dicembre 2009 per l’escussione di testi». Si prepara in realtà l’ultimo atto: il colpo di spugna che riporterà le lancette al lontano 1982. Come se trent’anni o quasi di mischia fossero stati uno scherzo o poco più. La Disciplinare deve intervenire davanti a uno scempio del genere. Anzi, si accorge di essersi già data da fare, per un singolo spezzone, aprendo un incartamento per il ritardo di 288 giorni, quasi un anno, nel deposito del provvedimento «assunto in riserva», come si dice con linguaggio tecnico – in data 5 luglio 2006. Già, come mai quella melina? Chissà. Ma quello è solo un peccato veniale, se si afferra l’insieme. Come una stanza senza pavimento in una casa senza fondamenta. Francesca Nava si difende, racconta il suo impegno, la sua dedizione, la gestione ordinata ed efficiente, anzi «strabiliante» di molti altri dossier, ma tutto questo non sposta di una virgola il macigno di quella divisione ereditaria: «Neppure la difesa deduce un qualche rapporto dimostrabile tra l’impegno di lavoro e la sua ingiustificabile gestione del controverso giudizio di divisione. Mentre la considerazione che si trattava appunto di giudizio già pendente da quattordici anni, nel momento in cui le fu assegnato, avrebbe dovuto indurre [la giudice] a una particolare solerzia, privilegiandone la trattazione rispetto ad altri più recenti». E ancora, entrando nel vivo della querelle: «Non si chiarisce peraltro quali problemi organizzativi generali», da lei evocati in relazione a un’ispezione in corso, «abbiano potuto impedire la sostituzione di un consulente, la cui inadempienza doveva essere rilevata dal giudice istruttore, prima che dalle parti, con la conseguente nomina di un nuovo consulente, certo non preclusa dall’ispezione in corso».

Tutte le spiegazioni date non colmano le buche lasciate sul percorso. Punto per punto. Compreso il supplemento di perizia, richiesto quando la causa era già tornata al collegio «e a distanza di quasi tre anni da un precedente supplemento già depositato il 25 novembre 2002». Senza contare la tirata d’orecchi, o meglio la condanna, in base alla legge Pinto: «Il giudizio fu vanamente protratto per dieci anni, con un danno indiscutibile per l’attrice e di conseguenza anche per lo Stato». Costretto a sua volta a scusarsi e a staccare un assegno da ventiduemila euro a favore della sfortunata signora che si era imbarcata, illusa, in quell’impresa titanica. Per questo, il 17 settembre 2010 la Disciplinare infligge a Francesca Nava la sanzione della censura.

Dimentica in cella l’imputato

              Di rinvio in rinvio. Fra un accertamento, assai fumoso se non inutile, e l’altro. Così il GIP, giudice dell’udienza preliminare di un tribunale del Nordest, ha trasformato un processo sprint sin dal rito scelto, l’abbreviato, in un’interminabile e logorante successione di udienze. Con due risultati, uno peggio dell’altro: prima ha sforato i termini di custodia cautelare dell’unico imputato che doveva giudicare; poi, incredibilmente, invece di scarcerarlo come impone la legge, l’ha dimenticato in cella per 51 giorni. «Mi dispiace», si era giustificata lei con la Sezione disciplinare del CSM che l’ha messa sotto accusa, «ma in cancelleria non avevamo uno scadenzario.» Come se l’assenza di un semplice registro o quadernetto per tenere sotto controllo le posizioni degli imputati, fosse un’attenuante e non una colpa in più. Colpa ancora più grave perché in passato il GIP era già stato graziato dalla Disciplinare per un altro svarione del genere, avendo inflitto a un detenuto 34 giorni di carcere supplementare, non dovuto, senza minimamente considerare il calendario e i tempi previsti dal codice. Così un procedimento relativamente semplice, un femminicidio, seguito con attenzione dall’opinione pubblica, si è allungato come un elastico ed è deragliato due volte provocando sconcerto su sconcerto: prima si è chiusa a chiave la cella che doveva essere aperta; poi si è arrivati a dover liberare un uomo dichiaratosi colpevole di un crimine odioso: aver massacrato la propria donna. Lui, un poliziotto, fulmina la convivente con due colpi il 1° aprile 2006. Poi telefona ai colleghi del commissariato in cui lavora: gli parlano e lo riconoscono. In breve l’agente viene ammanettato e confessa. Non ha complici e la pistola è quella di ordinanza. Il caso sembra chiuso e sul punto di essere inghiottito dalla solita routine giudiziaria e invece i giornali torneranno a darne notizia. Giovanna Raina, il GIP che deve giudicare l’assassino, trasforma infatti il percorso dibattimentale in una gimcana senza fine, in più senza capo né coda. Fino a perdere il controllo dei fascicoli. Il motivo? Probabilmente, suggestioni mediatiche e teorie campate per aria. Il magistrato, invece di andare dritto verso il verdetto, si è messo in testa di chiamare in causa gli specialisti dell’Arma, le mitiche tute bianche del RIS, diventate familiari a milioni di italiani attraverso numerose fiction, che però di questa storia non ne vogliono sapere. E tutto questo nonostante il caso sia finito nell’imbuto del rito abbreviato che, già per il vocabolo usato, dovrebbe portare a un’accelerazione dei tempi. Invece, dopo la partenza del 9 febbraio 2007, si rallenta. E si rallenta ancora. «Dal 9 febbraio», ricostruisce la Disciplinare, «il processo veniva rinviato all’udienza del 13 aprile (63 giorni dopo) per il conferimento di perizia medico-legale al perito già individuato e per l’eventuale conferimento di perizia collegiale a un esperto balistico del RIS da individuarsi a cura del predetto reparto specializzato.» Ma anche l’appuntamento del 13 aprile si risolve in un nulla di fatto. L’Arma, con evidente imbarazzo, comunica di non avere tecnici a disposizione per tutto il mese di aprile. Probabilmente è vero, ma intanto i carabinieri raffreddano facili entusiasmi fuori luogo. L’udienza viene rinviata al 16 maggio, dopo altri 33 giorni. Ma ecco il colpo di scena: «Il 24 aprile il RIS declinava la richiesta di individuare un tecnico ai fini del conferimento dell’incarico rilevando come “i quesiti posti sono ritenuti, allo stato attuale, interamente di natura medico-legale. Quest’ultimo ambito è estraneo all’attività istituzionale del reparto che pertanto non può fornire alcun nominativo di personale dipendente specializzato idoneo allo svolgimento dell’incarico suddetto”». Non siamo in tv, anche se le tv devono aver influenzato il magistrato che fatica, fatica tanto, a governare il procedimento. All’udienza del 16 maggio finalmente viene nominato il perito già allertato, ma ci vuole tempo per sviluppare il suo punto di vista e di tempo se ne è perso già tanto. Il calendario si riempie di date cerchiate mentre il 9 novembre, giorno in cui scadono inesorabilmente i termini di custodia cautelare, si avvicina nell’indifferenza generale. Di rimbalzo in rimbalzo si arriva al 7 novembre e poi al 20 dicembre. C’è in ballo un supplemento di perizia perché il giudice, nella sua grandeur, ha un nuovo pallino: «L’eventuale conferimento di incarico a un perito da individuarsi per la predisposizione di simulazione grafica della ricostruzione della vicenda con l’ausilio di programma software». «L’insistenza della dottoressa nel richiedere tale ausilio tecnico», riprende il filo la Disciplinare, «che sembrerebbe suggerita più da suggestioni mediatiche (è la stessa dottoressa nella prima memoria difensiva a parlare “di esperti di particolare e reclamizzata competenza’”) che da oggettive esigenze probatorie, si scontrava ancora con la impossibilità del RIS di procedervi, come risulta dalla comunicazione inviata in data 9 dicembre 2007, con la quale si declinava la richiesta per carenza di personale e di strumentazione idonea». Il GIP, o se si preferisce la GIP, continua ad andare fuori bersaglio con richieste che, per una ragione o per l’altra, mettono in difficoltà il reparto specializzato dell’Arma. E l’imputato? Incredibile, sembra non esistere, anche se dovrebbe essere fuori da almeno un mese. E invece no, è stato letteralmente dimenticato come la legge che regola la custodia cautelare nelle diverse fasi processuali. La giudice insiste, contattando un altro reparto del RIS e, forse assalita dai dubbi, dopo quasi un anno decide di sottoporre l’imputato a una perizia psichiatrica. Poi, finalmente, si ricorda di lui e il 29 dicembre lo scarcera. Cinquantuno giorni oltre il termine. Solo il successivo 17 luglio 2008 si conclude la fase dell’integrazione probatoria. La dottoressa intuisce di aver esagerato e ingrana la retromarcia: «Avendo ritenuto convincenti ed esaustive», scriverà lei stessa nella sentenza, «le motivazioni addotte dal collegio peritale in ordine alla non decisività (e alla scarsa attendibilità scientifica, nel caso di specie) di una rappresentazione grafica tridimensionale e su supporto informatico relativo alla dinamica del fatto». Alla fine, dopo tutte quelle deviazioni senza fondamento, l’omicida viene condannato a 14 anni. E la Disciplinare si trova a dover soppesare quelle iniziative mal coordinate: «L’ostinazione con la quale la dottoressa ha cercato di ottenere dal RIS una collaborazione sulla cui inattendibilità scientifica e superfluità ai fini della prova, ha poi dovuto prendere atto in sentenza, dimostra un’immaturità nella conduzione del giudizio che può allarmare sotto il profilo della professionalità, che ha determinato l’adozione di provvedimenti del tutto opinabili, ma non qualificabili sotto il profilo della grave erroneità o abnormità». Ecco, il discorso salomonico dei giudici sulla prima contestazione: il giudice è immaturo ma non colpevole. Non c’è colpa e non ci può essere condanna, anche se qualunque lettore resterà basito leggendo quel ragionamento temerario: l’immaturità nelle sue diverse sfaccettature dev’essere accettata dal sistema e la gentile toga può serenamente rimanere al suo posto, anche se i suoi imputati saranno preoccupati per non dire disorientati davanti a tanto dilettantismo, a tante incertezze, a tante capriole fuori contesto. Insomma, una persona non proprio equilibrata può tranquillamente andare avanti ad amministrare la giustizia. Vengono i brividi, ma questo stabilisce la Disciplinare, senza nemmeno avanzare un’osservazione o una segnalazione dopo quei giudizi sorprendenti e abrasivi. Diverso l’altro capitolo: i 51 giorni non possono finire in cavalleria. Sarebbe troppo. E le giustificazioni date peggiorano il quadro: «Le annotazioni dell’agenda prodotta dalla stessa incolpata… confermano l’approssimazione e la superficialità con la quale venivano registrate scadenze procedurali

assolutamente essenziali. D’altra parte la mancanza di uno scadenzario, sia pure informale, tenuto presso la cancelleria, costituisce ulteriore fonte di responsabilità per il giudice e non trasferisce in capo ad altri la colpa per l’omissione di un provvedimento di esclusiva competenza del magistrato». Non c’è e non ci può essere indulgenza e comprensione per una forzatura così grave e irrispettosa dei valori fondamentali e della presunzione di innocenza, scolpita nella nostra Costituzione e valida fino al verdetto definitivo. «Una volta che con l’accoglimento della richiesta di rito abbreviato il giudizio era stabilmente radicato avanti al giudice, a questi soltanto spettava il compito di adottare d’ufficio i provvedimenti conseguenti alla scadenza del termine massimo di custodia.» E invece Giovanna Raina è stata colta da un’inammissibile amnesia, come se la libertà di un imputato, neppure condannato in primo grado, fosse un dettaglio di secondaria importanza e non una questione decisiva di civiltà del diritto. «L’ordinamento», insiste la Disciplinare, «prevede limiti massimi ai termini di custodia cautelare a seconda delle fasi processuali, partendo dal presupposto della natura eccezionale della custodia preventiva. Spetta al giudice celebrare il giudizio rispettando quei limiti» che Giovanna Raina ha oltrepassato con sciagurata disinvoltura nel silenzio, a quanto risulta, di tutte le parti processuali, a cominciare dal pubblico ministero. Ma le responsabilità altrui non alleggeriscono la posizione del GIP che dev’essere condannato: «La violazione di legge appare particolarmente grave, avendo inciso sulla libertà personale di un soggetto che sia pure imputato per un reato gravissimo, ne era privato da circa un anno e mezzo». Ovvero, dal 1° aprile 2006. Intollerabile. «Già in una precedente occasione», nota la Disciplinare, «alla dottoressa Giovanna Raina era stato contestato un errore nel 2005 che aveva determinato una ingiustificata protrazione dello stato di custodia cautelare dell’imputato per 34 giorni. In quell’occasione», notano quasi rammaricati i giudici delle toghe, «la Sezione disciplinare aveva considerato tutte le condizioni al contorno che avevano reso possibile un errore, certamente grave, pervenendo alla decisione di non farsi luogo al dibattimento.» Un eccesso di buonismo, a maggior ragione se si considera quel che è successo: «Neanche quella vicenda sembra però aver suggerito all’incolpata l’assunzione di cautele organizzative idonee a evitare il ripetersi di analoghi accadimenti o sembra aver permanentemente richiamato la sua attenzione su quello che è certamente uno dei profili più rilevanti e delicati della professionalità del giudice penale, a cui spetta la terribile sovranità sull’altrui libertà personale». Terribile è l’aggettivo usato dai giudici delle toghe per marcare un potere che si deve esercitare con drammatica consapevolezza. La sciatteria mortifica e degrada in modo irreparabile questa missione. Per questo, il 12 febbraio 2010 la Disciplinare condanna Giovanna Raina alla censura dopo averla assolta per l’altro capo di imputazione. Ma non finisce qui. I giudici delle toghe esaminano anche la posizione del pubblico ministero: perché davanti a un procedimento almeno all’apparenza così complesso non ha chiesto, come dice la legge, la sospensione dei termini di custodia? Se la norma indica una via d’uscita perché non percorrerla? La risposta del magistrato è disarmante: «Il procedimento si presentava tutt’altro che complesso». E nessuno, tantomeno lui, avrebbe potuto prevedere tutti quei fregi e ghirigori. In realtà quel che afferma il PM Olivio Belloro è in linea con tutto quello che è emerso davanti al CSM. Non c’era motivo di scomodare una norma pensata per architetture processuali di particolare imponenza. Dunque, si era mosso di conseguenza. Certo, avrebbe potuto alzare la mano e segnalare la grave violazione della legge, ma il PM non aveva alcun obbligo del genere, a differenza del GIP. E però ancora una volta la Disciplinare è costretta, con un po' imbarazzo, a sottolineare quel silenzio carico di insensibilità per i destini del prossimo: «Il fatto che egli abbia assistito all’udienza del 20 dicembre e preso atto dell’ordine di traduzione per il successivo 2 febbraio senza nulla osservare in ordine allo stato di detenzione dell’imputato, può ragionevolmente far ritenere che egli non abbia, su tale aspetto, appuntato la propria attenzione, ma non costituisce in ogni caso possibile oggetto di contestazione deontologica o disciplinare». Nessun rilievo e nessuna ammaccatura per il PM, ma resta quel passaggio avvilente: il PM non ha appuntato la propria attenzione sul tema della libertà dell’imputato, il suo imputato, anche se in carico al giudice. Si è distratto, forse pensava ad altro o semplicemente riteneva fosse un problema del giudice. Così non ha incrociato sul calendario la data fatidica del 9 novembre, assolutamente da non superare e invece scavalcata senza fare una piega. Chi doveva garantire la legalità non l’ha fatto e la magistratura nel suo complesso non ha fatto il suo dovere. Si trattava di un assassino, dell’autore reo confesso di un femminicidio, del colpevole della morte di una povera donna – questo il retropensiero di molti – ma la legge e la civiltà non possono viaggiare a corrente alternata o sulla base di ondate di simpatia o antipatia. L’imputato è stato trattato in modo scorretto. Allo scempio, come il lettore avrà già capito, non è estraneo nemmeno l’avvocato difensore: come mai non ha protestato, strepitato e alzato la voce? Nemmeno lui, il difensore, si è accorto di nulla e questo per certi aspetti è ancora più sconfortante. Certo, la Disciplinare non è chiamata a valutare il suo comportamento. Pare impossibile, invece è accaduto. Nessuno, nessuno dei tre, ha vigilato. Purtroppo non è la prima volta. E, pur in presenza di una sanzione, le parole della Disciplinare non rassicurano.

Rolex, vestiti e favori

              Quando è troppo è troppo. I capi d’imputazione sono gonfi di comportamenti spericolati, inqualificabili, oltre la soglia dell’indecenza. Francesco Orefice faceva il pretore in una città dell’Italia centrale, ma si dava da fare come un notabile senza scrupoli, sfruttando obliquamente rapporti e relazioni. L’elenco degli episodi avvenuti in una sorta di zona grigia, senza vergogna, è chilometrico. Francesco Orefice «acquistava dal mercato parallelo tramite il cognato un orologio Rolex modello O.P. Date risultato rubato; intratteneva con numerosi rivenditori, intermediari, concessionari intensi rapporti commerciali, facendo valere e strumentalizzando la sua qualità di pretore, accettando di fare da testimonial per l’attività di vendita, richiedendo e ottenendo sconti e facilitazioni di pagamento, cambiando in media un’auto all’anno, mantenendo un intenso giro di assegni e di rapporti di debito e credito per l’acquisto e la vendita delle varie autovetture, ottenendo anche per la moglie un’auto di cortesia e per il suocero altra auto a prezzo di favore». Potrebbe pure bastare e invece c’è dell’altro, in una vita vorticosa oltre le proprie possibilità: «Con le medesime modalità operative otteneva sconti e facilitazioni nell’acquisto di vestiti; fungeva da finanziatore e socio occulto del geometra Franco Ferri per la ristrutturazione di una casa a opera di un’impresa», la Nave3000, «e consentiva la sua fittizia intestazione, svolgendo di fatto attività incompatibile con la sua funzione di magistrato». Quando è troppo è troppo, oltre l’orizzonte senza speranza del più cupo pessimismo, ma il troppo non è ancora finito per l’assenza totale di scrupoli. E così tutto andava bene per arraffare, recuperare, contrattare, ottenere con lo sconto dovuto al suo prestigio e alla sua influenza quel che gli altri pagavano a prezzo intero. Senza vergogna. E senza fondo ai suoi voraci appetiti. Dunque, «nominava consulente tecnico di ufficio» il solito geometra Ferri per 96 volte (a detta dello stesso Ferri una volta al mese per dieci anni) e il geometra «Giorgio Mangano per 49 volte che contestualmente utilizzava per le sue attività private». Quando è troppo e troppo. Si può capire, anche se non giustificare, un’umana debolezza o leggerezza ma non due vite parallele che scorrono con sconvolgente normalità una accanto all’altra. Grossomodo fra il 1995 e il 2000: la prima con le mani impegnate sulla bilancia della giustizia, l’altra con le stesse mani immerse in affari torbidi e squallidi. Senza ritegno e senza fine. E sempre mettendo in mezzo, in modo spregiudicato, le sue mani di pretore. La Disciplinare, esausta, sintetizza in poche righe quel carosello opaco e frenetico di mediazioni senza alcun rispetto per l’alta funzione svolta nella società e macchiata indelebilmente in quel pantano di scambi, favori, ammiccamenti: al pretore «era contestato di aver intrattenuto rapporti con persone coinvolte in procedimenti penali e comunque di discutibile onorabilità, frequentato locali pubblici e di divertimento, concluso transazioni commerciali a condizioni di favore, esplicato attività incompatibili con la dignità della funzione sempre ostentando e facendo valere tale funzione per ottenere favori e considerazione». Insomma, Francesco Orefice aveva calpestato quella missione, trasformandola in un biglietto da visita prepotente, arrogante e dalle venature ricattatorie. Sì, perché in una città di piccole dimensioni è difficile sottrarsi e dire no alle richieste di una toga, per di più incarnazione della storica e popolare figura del pretore, oggi scomparso dall’ordinamento. Basta la lettura sommaria di un capo d’imputazione fra i tanti per capire il livello del degrado raggiunto: rapporti tortuosi e strumentali con diversi concessionari, auto, vestiti, bonus e benefit a cascata; infine, per non farsi mancare niente, facilitazioni anche «nell’acquisto di forniture di serramenti, porte e scale interne per la sua casa in ristrutturazione». Implacabile nelle sue smodate richieste. Da un regalo a un gadget. Quando è troppo è troppo, ma in Italia non è mai troppo. È vero che un primo procedimento disciplinare si era chiuso il 17 ottobre 2008 con la sanzione più grave, la rimozione, del magistrato anche, ma non solo, per quella vistosa scuderia di automobili, ma come spesso capita nel nostro Paese quel che sembra definitivo si rivela poi fragile e provvisorio. Così il fragoroso flop del processo penale, parallelo a quello deontologico, aveva suscitato ulteriore disorientamento nell’opinione pubblica, alimentando i venti, gemelli inarrestabili, del qualunquismo e del complottismo. Il pretore era stato infatti sommerso da un diluvio di ventidue capi d’imputazione: nove per concussione, altrettanti per abuso d’ufficio, uno per appropriazione indebita continuata e aggravata, uno per ricettazione e due per concorso in emissione di fatture per operazioni inesistenti. Un record, a suo modo, con un curriculum da delinquente di medio livello più che da magistrato al servizio della Repubblica. Ma poi, dopo la prima scrematura dell’udienza preliminare, i diciassette capi portati a dibattimento erano evaporati davanti alle abili contestazioni della difesa e Francesco Orefice era stato assolto forse con sua stessa sorpresa su tutta la linea. In seconda battuta le Sezioni unite civili della Cassazione, ovvero il grado di appello del Disciplinare, avevano sfrondato alcuni punti della condanna e rispedito altri pezzi del verdetto alla Disciplinare, per ricalibrare le pene. Così, fra un passaggio e l’altro, Francesco Orefice aveva ripreso a sperare in un miracoloso salvataggio della toga e in modo surreale, a distanza di tanti anni, restava appeso virtualmente alla professione che tanto aveva screditato. Era sì dal 2 luglio 2004 nel freezer della sospensione dalle funzioni e dallo stipendio, ma intanto l’espulsione dalla corporazione, decretata tanti anni prima, restava bloccata in attesa della conclusione dell’interminabile vicenda. Destinata a giungere finalmente al capolinea solo nel 2010 con il secondo round davanti al tribunale delle toghe. Balzo e rimbalzo da un giudice all’altro, i deprecabili episodi vengono in sostanza confermati: «Che Francesco Orefice fosse in possesso dell’orologio O.P. Date compendio di rapina in danno di un gioielliere è pacifico, essendo stato l’orologio rinvenuto fra quelli prudenzialmente occultati, mediante invio agli amici, dalla moglie dello stesso Francesco dopo una prima perquisizione domiciliare eseguita nell’ambito del procedimento penale che ha dato origine al presente giudizio». Scopriamo così un altro segmento di questa incredibile storia: dopo le auto e i vestiti, ecco l’immancabile Rolex puntualmente recapitato all’uomo di potere che aveva fatto finta di ignorare la sua «origine» maledetta, battezzata nel crimine. Il Rolex è uno status: lo esibiscono i camorristi, lo sfoggiava il magistrato. Ma quando era scoppiata la tempesta, la moglie aveva cercato di farlo sparire, conoscendone il peccato originale. «La provenienza dell’orologio dal “mercato parallelo”», per usare l’espressione contenuta nelle sentenze e nel capo d’incolpazione, «è comprovata», sottolinea la Disciplinare, «dalla mancanza di documentazione di accompagnamento (in particolare dalla garanzia) … ed è confermata dall’esiguità del prezzo corrisposto (pari al 75 per cento, o addirittura al 50 per cento, a seconda delle versioni, del valore di listino). Il carattere a dir poco sospetto di tale acquisto è in re ipsa e percepibile in modo evidente da una persona di normale diligenza. Né detto quadro muta a seconda del fatto (non chiarito in atti) che l’acquisto da parte del cognato sia intervenuto previo accordo con il giudice ovvero che il passaggio dell’orologio a quest’ultimo sia avvenuto in forza di una successiva cessione (essendo presenti in entrambi i casi gli elementi indicatori di una provenienza sospetta). Ciò è del resto avvalorato dalla avvenuta contestazione al giudice, in relazione

a tale fatto, del delitto di ricettazione pur dichiarato estinto (verosimilmente previa derubricazione in incauto acquisto) per prescrizione, come risulta dalla sentenza del 25 ottobre 2007.» L’orologio arrivava dalla rapina a una gioielleria, datata 1991. E a Francesco Orefice era stato consegnato senza garanzia, addirittura senza confezione e, quel che più conta, con un fortissimo sconto. La Disciplinare non può avere dubbi e preme per chiudere una storia indecorosa andata avanti troppo a lungo: «Un acquisto quantomeno incauto di un oggetto di valore come quello descritto rivela una disinvoltura e una imprudenza macroscopiche idonee a procurare grave discredito per un magistrato». C’è un altro episodio che grida vendetta e che, pure, a distanza di anni, scivola come una saponetta fra le mani dei giudici, in attesa di una definizione definitiva. Ma le disquisizioni giuridiche non eliminano il disappunto davanti ai comportamenti del pretore che si trasforma – ulteriore, inqualificabile vergogna – in un finanziatore e socio occulto del suo CTU di fiducia, portando a casa un bottino di cinquanta milioni circa. Certo, l’ennesimo riesame della vicenda, a distanza di tanto tempo, fa ridimensionare alcuni aspetti, ma il nocciolo resta in tutta la sua gravità. Eccome. Il rapporto con il geometra Franco Ferri è a dir poco spericolato e il pretore si rivela ancora una volta un uomo di potere pronto a sfruttare le occasioni che la sua posizione gli mette sul piatto. La storia nel suo impianto regge a tutte le verifiche: «Il giudice ebbe ad assumere il ruolo di socio occulto del geometra (che ha confermato la vicenda) finanziando nella percentuale del 50 per cento un’operazione immobiliare: l’acquisto di un rustico, il suo risanamento e la sua vendita sul mercato». Non ci sono e non ci possono essere giustificazioni che tengano. C’è un alleggerimento, se si può chiamarlo così, della posizione di Francesco rispetto a uno dei passaggi della vicenda: una prima vendita, dettata esclusivamente da ragioni fiscali, del rustico a un’impresa edile amica. Ci fu lo zampino del pretore anche in quell’azione di pressing, per convincere l’imprenditore a prestarsi a quel gioco? Sembra di no. Il magistrato non avviò alcun corteggiamento: «Si limitò a impartire un consiglio sull’opportunità dell’operazione ma non prese alcuna iniziativa». Si risparmiò quel mercanteggiamento da suq ma non il resto: magra consolazione. «Pertanto assumono rilievo in sede disciplinare», fa presente il tribunale delle toghe, «l’avere il giudice assunto il ruolo di socio occulto del geometra finanziandone l’operazione immobiliare nella misura del 50 per cento, con un guadagno finale di circa 50 milioni; l’aver intessuto rapporti commerciali del tutto vietati a un magistrato.» Ancora una volta qualcosa, e pure più di qualcosa, stride. E non c’è bisogno di un esperto per comprendere a occhio nudo che il limite della decenza è stato superato senza imbarazzo. «Intervenire in una operazione speculativa», nota la Disciplinare, «comprensiva di profili di evidente irregolarità (come l’intestazione fittizia dell’immobile ai fini di vantaggio fiscale) e svolta insieme a un proprio abituale consulente tecnico, lede infatti i più elementari doveri di correttezza incombenti sul magistrato e ne mina il prestigio e la credibilità». L’illecito disciplinare c’è. Tutto intero. E le sue mancanze, imperdonabili, non si esauriscono qui. C’è in questo round davanti alla Disciplinare un altro capo d’accusa che già solo nei nudi numeri mette il giudice spalle al muro: l’aver nominato la bellezza di 96 volte come suo consulente il geometra Franco Ferri, combinazione quello della triangolazione immobiliare. Novantasei volte, «una volta al mese per dieci anni, per ammissione dello stesso Ferri», e, come se non bastasse, «l’aver chiamato 49 volte come CTU un altro geometra, Giorgio Mangano che «utilizzava per le sue attività private». Dunque, oltre alla frequenza degli incarichi, al di fuori di ogni criterio di ragionevolezza, si deve pesare quell’intreccio vorticoso di interessi. Anche se il processo penale ha escluso che tale vicinanza sia servita per commettere reati. Siamo oltretutto in un piccolo centro e chiunque può immaginare le considerazioni e i giudizi espressi ad esempio dalla comunità forense sui due superconsulenti, premiati in modo sfacciato e plateale con incarichi a raffica. Che desolazione. Le Sezioni unite hanno annullato questo punto della condanna, rimandando le carte alla Disciplinare per un nuovo esame, ma poco cambia. Anzi, avvicinandosi a un confine assai labile se non evanescente, il tribunale delle toghe recupera le motivazioni della sentenza di assoluzione. Verdetto che finisce con il creare più problemi all’incolpato di quanti ne risolva: «Il geometra non era stato solo professionista di fiducia del giudice; ma era stato suo socio e di fatto prestanome (perché si trattava di una società occulta) in una operazione di impresa immobiliare, che l’imputato non avrebbe potuto realizzare senza la disponibilità dell’altro all’interposizione e alla prestazione fiduciaria. In questo caso non si può più parlare di rapporti di fiducia o di stima, ma di vera e propria affectio societatis, e cioè di una situazione economica di coinvolgimento nella stessa impresa, che determinava un collegamento fra i due professionisti infinitamente più coinvolgente e irriducibile di quello che finora si è preso in considerazione come normale situazione che può venire a crearsi fra giudice e professionista». Frasi abrasive che stroncano la carriera del magistrato ma che per l’uomo della strada erano evidenti sin dal primo momento anche se qui, nell’andirivieni fra penale e disciplinare, si è spaccato il capello in quattro. Guardando e riguardando i fatti e provando a sciogliere quella matassa ingarbugliata di relazioni anomale. In conclusione, il pretore «va ritenuto responsabile» dei capi d’imputazione nuovi come di quelli vecchi, «consistenti», spolvera la memoria la Disciplinare ritornando al corteo di auto e a tutto il resto, «nell’aver intrattenuto con numerosi rivenditori, intermediari e concessionari intensi rapporti commerciali, facendo valere e strumentalizzando la sua qualità di pretore e ottenendo così favoritismi e facilitazioni». Per questi ultimi è già intervenuto un verdetto definitivo che ora si integra con quello relativo ai capitoli studiati per la seconda volta dalla Disciplinare. Nel precedente giudizio, il tribunale delle toghe aveva inflitto la pena, pesantissima, della rimozione e l’aveva motivata con parole inequivocabili: «Le ripetute, gravissime condotte del dottore sono tutte improntate a una distorta concezione della funzione giurisdizionale, con una commistione stabile fra l’attività d’ufficio e i comportamenti privati, caratterizzati spesso da interessi economici incompatibili con l’indipendenza e l’imparzialità che sono precondizioni necessarie dell’esercizio dell’attività giurisdizionale e che non possono mai mancare nel magistrato». Il quadro è fin troppo chiaro: «Tutte le descritte condotte del giudice implicano un gravissimo disvalore deontologico e hanno invero determinato un irreparabile vulnus nella credibilità del magistrato e nel prestigio dell’Ordine giudiziario». Quindi rimozione era e rimozione rimane. Cartellino rosso. «Ogni altra sanzione», aggiunge la Disciplinare, «risulterebbe insufficiente alla tutela di quei valori che la legge intende perseguire e che sono costituiti dalla fiducia e dalla considerazione di cui il magistrato deve godere.» Pollice verso, dunque. E sipario su una storia andata avanti troppo a lungo. Una vicenda che va finalmente in archivio con la più dura delle pene l’8 giugno 2010.

Giudice picchia la moglie ma viene assolto

              Aveva alzato le mani almeno una volta e la moglie si era ritrovata con un ematoma al naso. Un episodio gravissimo, ancora di più perché commesso da un giudice. Un magistrato chiamato a sua volta a giudicare i comportamenti del prossimo e a punire anche la più microscopica violazione della legge. Ma non sempre le cose vanno come dovrebbero andare, almeno per il tribunale dell’opinione pubblica, e qualche volta azioni che costerebbero caro a un comune cittadino passano senza conseguenze quando il protagonista è una toga. Per lui, e solo per lui, la Disciplinare scomoda l’ineffabile categoria delle «miserie umane». Per lui, e solo per lui, la Disciplinare si inerpica sui tornanti di una «relazione tormentata e conflittuale». Per lui, e solo per lui, la Disciplinare filosofeggia sui «fallimenti esistenziali» che coprono come una coperta sporca le urla, gli eccessi e gli istinti maneschi della toga. Così i lividi al naso, segno di percosse, le minacce e le lesioni guaribili in dieci giorni – episodio sconvolgente nel curriculum di un magistrato – finiscono in cavalleria fra un ciglio corrucciato e una riflessione indulgente sui limiti della convivenza domestica. Del resto, a distanza di tempo, è quasi fatale la tendenza a ridimensionare quel che è accaduto, a rileggere i fatti con la chiave del dubbio, a mettere in discussione quel che poche righe prima era considerato sicuro. Anzi, «pacifico». E poi, fra una querela tolta e una mai presentata, c’è sempre un modo impeccabile di salvare la legge e pure il marito borderline. Molto borderline. Anche maneggiando il metro della sensibilità contemporanea che non tollera la minima mancanza di rispetto alla propria partner e ha iniziato una sacrosanta crociata per difendere i diritti delle donne. Le donne. Ma non lei, la moglie di Giovanni Domodossola. La signora subisce a lungo le violenze del marito, come tante vittime nel nostro Paese della sopraffazione maschile. Il capo d’incolpazione racconta una storia davvero cupa: «Dal 1995 al febbraio 2007 teneva fuori dall’ufficio condotte tali da renderlo immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere un magistrato». Dodici anni, un periodo lunghissimo, riempito da minacce, botte e insulti come tante storie lette sui giornali con un moto d’indignazione: «In particolare in più occasioni percuoteva la propria moglie convivente, strattonandola violentemente, producendole un ematoma al naso, e in data 11 gennaio 2006 lesioni dichiarate guaribili in giorni dieci». Un violento, il magistrato, come tanti mariti e compagni finiti nei radar della nostra giustizia e dei programmi televisivi. Non basta: «Inoltre le si rivolgeva definendola “sanguisuga” e ”prodiga nelle spese voluttuarie”». Insomma, a leggere le carte si trova tutto il mortificante campionario esibito dagli uomini che non sanno rispettare le donne. E per questo sono nel mirino dell’opinione pubblica, sempre più sensibile davanti a comportamenti così degradanti, saturi di rabbia e rancore. Oggi per tutelare l’universo femminile è stato introdotto il codice rosso, con modifiche al codice di procedura penale e inasprimento delle pene, ma questo non significa un’attenzione automatica alle esigenze della vittima. Ciascuno può fare le sue valutazioni rispetto alla trattazione di questo caso approdato alla Disciplinare, e dunque in quel sancta sanctorum della giustizia che dovrebbe essere il CSM, prima dell’avvento del codice rosso ma comunque quando la guardia era già alta. Il tribunale delle toghe, chiamato dunque a pronunciarsi sugli eccessi di una persona che avrebbe dovuto incarnare la legge e apparire lontanissimo dal più piccolo sospetto di scorrettezza, nota anzitutto che l’azione penale si è fermata a suo tempo. Il motivo? Non si procedeva per i reati di percosse, lesioni volontarie e ingiuria per due ragioni: in parte «per mancanza di querela» e per il resto «per la remissione della stessa». La donna aveva fatto marcia indietro, rimangiandosi la denuncia. Era andata così e, invece di approfondire e scavare, il tribunale delle toghe procede senza fare una piega. Con un tono minimalista, buonista, routinario nella ricostruzione dei fatti: «La convivenza si svolgeva nel quadro di gravi insofferenze reciproche e altresì di, sia pure non gravi, violenze fisiche e verbali». Le violenze, anche fisiche, non sono un teorema ma un dato di fatto. Circostanza gravissima per un magistrato che non viene giudicato per gli eventuali reati, per i quali in un modo o nell’altro è stato assolto, ma per le mancanze sul piano delicatissimo della deontologia. Chiunque si aspetterebbe il pugno di ferro, ma il metro è assai più elastico. Anzi, considerazione dopo considerazione, l’accusa viene smontata. «Tutte le violenze, a quanto consta dagli atti, furono consumate all’interno della convivenza, dunque senza effetti sul piano sociale e della credibilità del magistrato.» Le urla se c’erano, e c’erano sicuramente, anzi proseguirono per dodici anni, rimanevano fra le mura di casa. Mettendo la sordina allo scandalo. I dubbi che possono sorgere sono evidenti, ma alla Disciplinare preme la discrezione o, meglio ancora, il silenzio. Certo, il clamore avrebbe reso il tutto irreparabile. Ma non c’è solo questo. C’è anche una sottile svalutazione delle accuse. Quel che nella pagina precedente pareva dimostrato ora viene messo in dubbio. Le violenze, prima date per acquisite, ora non lo sono più: «I fatti di violenza fisica sono quelli affermati dalla moglie all’atto della sua denuncia penale di maltrattamenti, mentre in alcun modo è emersa alcuna risultanza che li accrediti come corrispondenti alla narrazione che a suo tempo ebbe a fare la signora nella sua denuncia». Non è detto che sia andata proprio in quel modo, proprio così, proprio con le modalità descritte in precedenza: comprese quelle intollerabili lesioni e quell’altrettanto intollerabile ematoma al naso. Uno sfregio che da solo dovrebbe orientare i destini del protagonista alla vocazione pugilistica. «La diffusione della denuncia stessa», insiste la Disciplinare, «fu conseguente ad attività risalente alla moglie, non certo all’oggettività dei fatti, e peraltro, e ciò è notevole, dopo undici mesi dai fatti stessi mediante un unico articolo su un giornale provinciale che non nominò i protagonisti della vicenda.» Rimasta dunque sottotraccia. E siamo alla fenomenologia dell’insulto che il tribunale delle toghe riconduce all’esistenziale categoria delle «miserie» umane. Da valutare con comprensione, in ogni caso su un altro piano rispetto alle logiche dei tribunali. Dice proprio così la Disciplinare: «Il preteso insulto che nella prospettazione dell’incolpazione il magistrato avrebbe più volte rivolto alla moglie, di essere cioè essa prodiga e dedita a spese voluttuarie, con tutta evidenza fa parte della miseria di un rapporto ormai consunto, costituisce un giudizio sicuramente legittimo, ancorché opinabile quando emesso da un coniuge nei confronti dell’altro all’interno di un contrasto sulla conduzione economica della famiglia». Tutto normale, o quasi. Anche se c’è stata la denuncia, anche se ci sono state le vessazioni, anche se c’è stato quel naso malridotto. La Disciplinare va avanti imperterrita per la sua strada: «Sembra dunque al collegio, al di là della remissione della querela sul punto, che un alterco fra coniugi, per quanto sgradevole, non possa integrare l’illecito contestato».

Tutti i salmi finiscono in gloria. Pure questo. La contestazione che all’inizio sembrava granitica e insuperabile si è sbriciolata nelle mani dei giudici che l’hanno derubricata a lite ordinaria fra coniugi. L’illecito non c’è più. C’è un alterco, un momento di tensione, qualche scintilla, come capita in tutti i rapporti. Tutto qua. «Se è certo che la deontologia del magistrato gli impone in ogni circostanza della sua vita, anche privata…, di tenere un comportamento consapevole della stessa, né essa né la legge pretendono che il magistrato si debba mettere al riparo delle comuni sofferenze e da possibili fallimenti personali, come quello di un matrimonio e dalle ricadute negative di tali accadimenti.» Certo, non si può processare un magistrato perché il legame con la moglie si era logorato, ma qui si parlava di altro: non di una separazione o di un divorzio, ma, drammaticamente, di violenze – sia pure non estreme – inflitte alla consorte per un lunghissimo arco di tempo. «Nella vicenda», è la stupefacente conclusione, «non è emerso da parte del magistrato altro che una quotidianità triste nella quale egli, oltre a non aver commesso reati, nemmeno ha compiuto atti idonei a compromettere la sua immagine di magistrato. Lo scontro con la moglie, all’interno della sua casa, non costituisce di per sé solo, escluso il delitto, illecito disciplinare.» Tutte le considerazioni sulla precarietà del suo equilibrio, sulla sua vulnerabilità e sugli scricchiolii del suo carattere restano fuori dalla porta. Almeno, da quella autorevole della Sezione disciplinare del CSM: il 14 maggio 2010 Giovanni Domodossola viene assolto.

Prostitute & consulenze

              Par di vederli tutti e tre. Le luci soffuse e le musiche languide, un andirivieni discreto di corpi pronti ad allacciarsi. Il whisky e lo sguardo perso dentro una scollatura vertiginosa. Sorrisi. Battute. L’adrenalina e le ragazze. Par di vederli i tre amiconi: il giudice, il collega, il dentista. Tutti alla caccia di emozioni e, chissà, qualcosa in più. Chissà. Il doppio procedimento disciplinare si ferma sulla serratura della privacy e non la oltrepassa, non s’infila nello spioncino e fra le lenzuola di alcove a pagamento. Non ce n’è bisogno, non interessa, forse non ci sono neppure elementi. Però il contesto, suggestivo se così si può dire, ci porta a latitudini che i magistrati non dovrebbero frequentare. Basta una frase, una sola, per mandare in pezzi lo specchio dentro cui dovrebbero riflettersi le virtù delle toghe. I tre erano «legati dalla comune frequentazione di un locale notturno ove si esercitava la prostituzione». Quel clima sacro che avvolge la giustizia svanisce in un attimo in un clima equivoco: baci schioccati, prestazioni senza amore e rossetti pesanti. Intendiamoci, il giudice non è un monaco di clausura e può capitare a tutti di fare una puntata in un luogo non proprio in linea con la professione svolta e con il compito austero, solenne e terribile come quello cui sono chiamate le toghe. Ma la cornice in cui si svolgono i fatti dà l’idea di una consuetudine con il vizio e la mercificazione della donna che svilisce i due magistrati e li fa precipitare all’ultimo gradino nella scala della considerazione sociale. Inutile girarci intorno: il loro prestigio è compromesso da quella rasoiata compressa in una riga: la «comune frequentazione» del locale battuto dalle prostitute. La stima di cui dovrebbe godere la coppia è sotto i tacchi. Senza nemmeno prendere in esame chiacchiere e spifferi velenosi sulle loro compagnie, possibili incontri hot e ricatti potenziali. Ma questo è solo l’antefatto: perché il procedimento non insegue rapporti torbidi con l’altro sesso, di cui nelle carte non c’è traccia, ma l’incredibile proliferazione di incarichi peritali ricevuti dal professionista. I numeri sembrano ubriachi tanto sono lontani da ogni logica e proporzione: «Complessivamente nel triennio 2005-2007 il predetto odontoiatra riceveva dai due magistrati 214 incarichi di consulenza su un totale di 222 ricevuti». Duecentoquattordici chiamate in altrettante cause civili, duecentoquattordici parcelle presentate per conto del popolo italiano, prima di ritrovarsi per una consumazione a notte fonda al bancone, sulla porta squallida di un paradiso a luci rosse. Ecco il motivo del procedimento disciplinare: l’abnorme concentrazione di incarichi nelle mani del dentista, disinvolto e spregiudicato come gli amici. Franco Sassi assegnava al professionista 59 cause nel 2005, 49 nel 2006, 21 nel 2007, «molte altre» nel 2008. Una grandinata senza fine, come fluviale era la lista delle commesse ordinate dall’altro giudice, Giovanni Trave: 11 nel 2005, 50 nel 2006, 24 nel 2007. Per un totale appunto di 214 lavori nel triennio d’oro, senza contare quelli del periodo successivo. «Numero», chiosa la Disciplinare, «di gran lunga superiore a quello dagli stessi magistrati affidato agli altri consulenti». Anzi, forse qualcuno aveva scambiato quel dentista gaudente per un assistente della coppia. O per un cancelliere o, magari, una figura ibrida inventata da una giustizia sempre più creativa per arrangiarsi e tamponare le continue emergenze del sistema. Al confronto sembra una scivolata da bambini l’altro episodio contestato nel secondo capo d’incolpazione: Franco Sassi e Giovanni Trave non si sono astenuti dal procedimento in cui era parte un altro amico del giro, Stefano Alzi, titolare di una srl al centro di un procedimento civile. Franco Sassi, nella cui agenda c’era il cellulare aziendale di Stefano, non avrebbe dovuto condurre la prima udienza, come se nulla fosse, e Giovanni Trave avrebbe dovuto passare la mano alla successiva tappa del dibattimento, visto che facevano tutti insieme le ore piccole: l’imprenditore, il dentista, le toghe in cerca di allegria e distrazioni. O, almeno, questo è il quadro tratteggiato dall’accusa: piacere e scambi di favori, senza andare troppo per il sottile. In realtà sul punto un minimo di istruttoria permette di mettere a fuoco una realtà assai più sfumata e meno preoccupante: il primo giudice in verità non ha tenuto l’udienza, il suo nome altisonante è rotolato in quel processo per errore; l’altro magistrato sembra non abbia mai avuto rapporti concreti con l’imprenditore, anche se i due hanno ballato e vuotato drink chissà quante volte agli stessi tavoli. Però non ci sono evidenze di quella conoscenza che avrebbe imposto cautela e prudenza nella trattazione della causa. Il capo d’incolpazione si rivela dunque evanescente e va presto in archivio. Voci e sussurri non corrispondono a quel che è successo e almeno su quel fronte si capisce che non è accaduto niente. O, comunque, mancano le evidenze. La causa di Stefano Alzi resta fuori dal procedimento che però non si arresta. Anzi. C’è quel contesto imbarazzante e poi c’è soprattutto quella vendemmia eccezionale e irripetibile di incarichi che non può in alcun modo essere liquidata con un’alzata di spalle. Certe cose non si possono fare. E chi trasgredisce deve risponderne: come Franco e Giovanni che il 9 aprile 2010 vengono spediti a processo dalla Disciplinare.

Il giudice molestatore della collega

              Un corteggiamento sfrontato e invasivo. Con irruzioni continue nell’ufficio e nella vita della collega, come lui pubblico ministero in una Procura del Nordovest. Per descrivere una situazione intollerabile, la Disciplinare ricorre a una coppia di verbi che si sposano perfettamente: assillare e molestare. «Il sostituto procuratore», si legge nel capo d’incolpazione, «molestava la dottoressa, in servizio presso il medesimo ufficio in qualità di sostituto procuratore, assillandola con continue telefonate anche sui numeri personali (sollecitando, dopo che questa era stata costretta a cambiare numero, a comunicargli il nuovo numero), messaggi telefonici, richieste di incontri e ciò nonostante il netto rifiuto opposto dalla dottoressa alla trasformazione del rapporto professionale in rapporto sentimentale, tanto che la dottoressa era costretta a ricordare al collega di essere già impegnata e di avere due figli». È fin troppo facile immaginare prima l’imbarazzo e poi lo sgomento e la rabbia di Francesca Rallo davanti alle avances irrefrenabili di Giulio Aureli. Al principio lui bussa alla porta con un pretesto qualunque e attacca bottone, intrattenendo la PM di qualche anno più giovane. Ma basta poco a lei per capire che quell’interesse va oltre i codici, le requisitorie e le manette; Giulio si è innamorato perdutamente di Francesca e vorrebbe avviare una relazione. Francesca, come tutte le donne, se n’è accorta subito e ha preso immediatamente le distanze. Non solo non ne vuol sapere in alcun modo, ma c’è qualcosa in lui che non le piace, mettendola anzi in allarme. Un conto è provarci, altra cosa è trasformare i propri desideri in ossessione, fra prepotenze e blitz a raffica nell’esistenza di lei. Un atteggiamento inaccettabile, ancora di più perché il soffocante corteggiamento si svolge nel perimetro ristretto di un ufficio come la Procura, chiamato a svolgere una funzione delicatissima, sotto i riflettori implacabili dell’opinione pubblica. È evidente che un pressing del genere, sordo alle lamentele di lei, finisca con il travolgere gli equilibri dell’intera Procura, mettendo a repentaglio i rapporti personali e l’armonia dentro il gruppo. Un team che dovrebbe marciare compatto come una falange contro il crimine, condividendo spunti, intuizioni, carte e ragionamenti. E invece in quella città con vista sul mare, la classica cartolina formato località della villeggiatura viene strappata da chi dovrebbe custodirla. Le attenzioni morbose superano presto i labili confini della dimensione privata: prima arrivano all’orecchio dei colleghi, poi dell’intera cittadinanza. «Le attenzioni rivolte dal dottore alla collega», nota la Disciplinare, «divenivano nel tempo note negli ambienti giudiziari e infine di pubblico dominio, determinando anche la pubblicazione di articoli sulla stampa locale.» E dunque ulteriori contraccolpi sugli stili di vita e sulla serenità di Francesca per un lungo periodo, compreso fra il marzo 2008 e l’ottobre 2009. Non basta, perché a un certo punto si transita come nelle peggiori storie di cronaca, alla fase numero due: esaurite le moine preliminari, i sorrisi carezzevoli e i complimenti sperticati, Giulio si fa ancora più invadente, anzi aggressivo, e passa alle ritorsioni e a forme sottili di vendetta. È il secondo capo d’incolpazione che parte proprio dall’assedio: «Creava pregiudizio allo svolgimento del lavoro della collega, entrando continuamente nel suo ufficio per sollecitare incontri, trattenendosi ogni volta a lungo, nonostante la chiara manifestazione di insofferenza da parte di detto magistrato. Alla fine, dopo che Francesca aveva manifestato il suo netto rifiuto per la prosecuzione dei contatti e delle richieste di incontri, inviava alla stessa una lettera, datata 6 luglio 2009». Giulio cambia registro e si fa minaccioso: con quella missiva «segnalava alla collega la situazione di incompatibilità in cui la stessa si sarebbe trovata a causa dell’esercizio della professione forense da parte di un suo familiare, e cioè la sorella, avvocato Angela». Il corteggiatore respinto decide di punire la collega che l’ha messo alla porta e mette in mezzo la sorella, creando ulteriore turbamento in quel piccolo tribunale, già scosso dalle precedenti puntate della saga. Ecco così quella lettera che indugia sul presunto tallone d’Achille della PM, appunto la sorella. Giulio Aureli cerca le parole più acuminate per destabilizzare e fare male, spargendo ansia in quell’ambiente così sensibile a ogni sollecitazione: «È un problema attuale che coinvolge l’intero ufficio, sia pure con connotazione ed effetti diversi». Questa la premessa, sufficientemente sibillina, che prepara una conclusione formulata come una dichiarazione di guerra: «Reputo necessaria e auspico una tempestiva, serena e approfondita discussione, al fine di individuare, tutti insieme, la soluzione migliore, che tenga conto di tutte le esigenze». Giulio pontifica come fosse un’autorità chiamata a dirimere le problematiche del tribunale e a disinnescare i conflitti, ma in realtà è solo un magistrato privo di misura e senza rispetto per le sofferenze altrui, un giudice che approfitta della situazione da lui stesso creata infrangendo tutti i codici etici e comportamentali per tenere agganciata la vittima. E umiliarla con quelle espressioni all’apparenza di buonsenso ma in realtà cariche di odio e del tutto improprie, perché non è certo lui a dover intervenire per bacchettare, risolvere o comunque affrontare eventuali anomalie legate alla professione della collega. E invece, Giulio colpisce Francesca e le scaglia addosso quei vocaboli velenosi: quel «tutti insieme», quella «tempestiva, serena e approfondita discussione», quell’odioso «tenga conto di tutte le esigenze». L’untuoso buonismo di facciata ha in realtà i tratti di una lapidazione. No, non si può andare avanti in questo modo; e il procuratore della Repubblica e il procuratore generale finalmente intervengono a tenaglia, chiedendo spiegazioni al magistrato che non sa stare al suo posto. Lui, per nulla intimorito da quel primo intervento dell’autorità, replica a muso duro sfidando i vertici della magistratura di quella regione: il 29 luglio fa partire una nota a sua firma, recapitandola a numerosi indirizzi pesanti. Il documento è l’ennesima segnalazione della presunta incompatibilità nel ruolo di Francesca e il giustiziere della porta accanto esige l’attenzione pedante alle forme: pretende che l’incartamento sia protocollato dal CSM, cui pure è inviato, in busta chiusa. Insomma, il magistrato cerca il modo per punire la donna che non ha ceduto alle sue voglie. Le possibilità di ricomporre il quadro con il ragionamento e il dialogo s’interrompono a questo punto, davanti all’ostinazione dell’uomo nel perseguire la collega, mettendo in difficoltà tutto il sistema giudiziario. Il procuratore generale passa all’attacco proponendo alla Disciplinare il trasferimento provvisorio del magistrato ad altra sede e il tribunale delle toghe accoglie la domanda. Ma Giulio non si dà per vinto e contesta la decisione: è la scintilla che mette in moto il nuovo round del procedimento. Giulio vorrebbe rientrare nella sua città, ma la Disciplinare non ha alcuna intenzione di tornare sui suoi passi. Anzi, ci sarebbe la possibilità di sospendere il magistrato dal lavoro, ma il caso non sembra ai giudici delle toghe tanto grave da far scattare uno stop così invasivo. Il 26 aprile 2010 arriva le decisione: la situazione viene congelata in attesa del processo. Lui rimane con la toga sulle spalle, anche se l’ha disonorata con quei comportamenti vessatori. E nell’opinione pubblica, che ha seguito la storia sulla stampa, serpeggiano sentimenti di inquietudine e disagio e non ci si capacita di come un personaggio del genere possa ancora parlare a nome dello Stato in aula. Il finale, naturalmente, è ancora tutto da scrivere.

Il PM che fa l’avvocato

              Una cosa mai vista. Francamente, oltre l’immaginazione più fantasiosa e il pessimismo più cupo. Siamo in un tribunale come tanti della Repubblica, ma c’è un pubblico ministero che evidentemente si reputa più furbo degli altri. E continua di fatto a svolgere la professione di avvocato, esercitata in precedenza, prima di fare il grande salto e di entrare nei ranghi della magistratura. Oreste Bava più che una toga sembra un mediatore di affari, al crocevia di mille interessi: si fa regalare un fax, riceve in comodato un’auto e una moto che, già che c’è, presta ad altri; triangola, si fa raccomandare e raccomanda, millanta conoscenze e rapporti di cui non dispone presso il ministero della Sanità se non con il ministro stesso, scrocca cene sontuose cui invita, da vero signore, anche i suoi amici, ma in mezzo a tutte quelle attività spumeggianti, dà il meglio di sé su un altro versante: continua a dare una mano, e più di una mano, all’ex collega con cui condivideva lo studio prima di passare dall’altra parte della barricata. Non è un’esagerazione, perché basta leggere il capo d’incolpazione per scoprire che la narrativa non ha nulla da insegnare alla realtà che è sempre avanti, con trame strepitose. La Disciplinare scrive infatti che Oreste Bava «aveva arrecato un ingiusto vantaggio patrimoniale all’avvocato Francesco Astori indicandolo per le difese di fiducia». Ma questo è niente, un granello di polvere nella sabbia del deserto. Se Oreste si faceva gli affari degli altri ed entrava a piedi uniti nelle dinamiche dell’avvocatura, c’era un motivo. Una ragione forte: mandare avanti il vecchio studio che gestiva o cogestiva tranquillamente dalla nuova poltrona di sostituto procuratore. Non è un’esagerazione, perché la vita anfibia, metà di qua e metà di là, viene descritta con sbalordita precisione nell’atto d’accusa: «Continuava, anche successivamente, a esercitare di fatto la libera professione di avvocato, fornendo consulenze e collaborazione, trattando poi insieme a Francesco Astori le pratiche, suggerendo strategie difensive, dettando istanze». Insomma, indirizzava i potenziali clienti presso la targhetta del suo vecchio, ma in verità ancora attuale, ufficio di penalista e con il partner, che poi nei fatti ex non era, organizzava insieme a lui tutte le complesse strategie difensive. Poi, si può presumere, passava all’incasso e intascava gli onorari. Dunque, si può ricostruire la doppia carriera parallela di Oreste Bava, come in un romanzo immaginato dalla penna di uno scrittore abile nello svelare i paradossi delle vicende umane: Bava va in udienza facendo la faccia feroce, chiede arresti al GIP e condanne al tribunale, istruisce indagini, apre fascicoli con grappoli di notizie di reato e mette sotto inchiesta i malfattori; poi, senza avere nemmeno il tempo di togliersi la toga, l’ubiquo Bava passa idealmente nei banchi della difesa e come Penelope smonta o prova a smontare la tela appena tessuta: dunque si dà da fare per i suoi stessi inquisiti, per farli liberare, scarcerare e assolvere, per far cadere quelle accuse che lui stesso aveva elaborato. Il tutto, evidentemente, attraversando mille incroci vietati e sfidando conflitti di interesse così clamorosi da apparire quasi surreali. Manca solo, per completare il quadro, uno sdoppiamento in tempo reale fino a chiedere, con un colpo di teatro e una capriola mortale, prima la condanna e poi l’assoluzione dello stesso imputato nello stesso processo. Ma sarebbe troppo. Di fatto però, dietro le quinte ma non troppo, il giudice, attore strepitoso, ha riempito tutte le parti in commedia, ridicolizzando la legge e piegandola ai suoi interessi venali. Il tutto senza negarsi altre schiumose interpretazioni: così ad esempio faceva elegantemente pressioni, eufemismo, su un altro avvocato, controparte del suo ennesimo amico in una causa di lavoro. E lo ammoniva con una frase che sarebbe un epitaffio perfetto sulla tomba della giustizia: «Faccia conto che dall’altra parte ci sia io». Frenetico e insaziabile, Oreste Bava ha scientificamente fatto a pezzi la credibilità della giustizia: ci sono illeciti, anche gravi, che però vengono quantomeno mimetizzati nella sabbia soffice dell’ipocrisia. Qui ci sono solo un interesse morboso per il potere e un’attenzione spasmodica al portafoglio che travolgono ogni minima forma di prudenza. Così il procedimento si gonfia come un soufflé tanto appaiono sguaiate ed esagerate le accuse che si vanno affastellando in un crescendo rossiniano. Contestazioni che scomodano il codice penale: la «gomitata» assestata all’avvocato nella vertenza di lavoro con quella generosa presentazione – «faccia conto che dall’altra parte ci sia io» – vale un’accusa di concussione; l’altro edificante episodio, con promesse a raffica e a vanvera di interventi ad altissimo livello, porta in dote l’iscrizione nel registro degli indagati per millantato credito. E poi, ecco, il capitolo inedito e sorprendente del cortocircuito fra magistratura e avvocatura viene letto come possibile abuso d’ufficio. Oreste si ritrova a dibattimento e il 19 maggio 2008 viene condannato per millantato credito a 2 anni e mille euro di multa. La farsa non può andare avanti, la toga azzoppata non può rimanere nella corporazione. L’epilogo è sempre più vicino e inevitabile. Il 4 marzo 2010 il ministero dichiara Oreste Bava «decaduto dall’ufficio per essere rimasto assente ingiustificatamente dall’ufficio per un periodo superiore ai quindici giorni». È la resa, o se si preferisce, la fuga di chi si era spinto troppo in là, si sentiva franare il terreno sotto i piedi e ha anticipato l’espulsione. Dunque, deve aver calcolato l’uscita di scena più indolore. Senza ulteriori clamori. Il 26 maggio 2010 il procuratore generale manda in archivio il dossier disciplinare che non ha più ragione di essere, perché Oreste Bava non è più magistrato. Lo scempio è stato circoscritto, ma quasi dispiace che il dibattimento non sia entrato nel vivo per esaminare più da vicino comportamenti, situazioni e paradossi inqualificabili. Il processo al giudice-avvocato che mischiava ruoli e funzioni finisce qui. E anche i riflettori si spengono.

Giudice dà delle puttane ai colleghi

              Un frasario da scaricatore di porto. E un bell’ambientino, set perfetto per il duello fra il presidente del tribunale e il procuratore della Repubblica. Acerrimi nemici sotto lo stesso tetto. Che spifferi avvelenati arrivano dai Palazzi di giustizia del Paese. Altro che armonia. No, i rancori personali, il carrierismo, le divisioni ideologiche e tutto il resto ammorbano ambienti che dovrebbero essere puri come l’aria di montagna, per poter dedicare tutte le energie alla lotta contro il crimine. Ma non è così, non sempre è così, qualche volta le miserie e i temperamenti individuali annebbiano la necessaria lucidità, fra alterchi grotteschi e insulti da bar. Anche se poi la Disciplinare se la cava, come in questo caso, con una solenne alzata di spalle. Giudicando «irrilevanti» i coloriti epiteti usati dal procuratore della Repubblica. È lui, Domenico Ghelfi, uno dei protagonisti della storia. L’altro, il presidente del tribunale che con il capo dei PM ha rapporti gelidi, resta sullo sfondo, in un intreccio di ruggini e maleducazione. È proprio il procuratore a esplodere con una carica di contumelie in un incontro ad alta tensione con una pattuglia di tre viceprocuratori onorari, espressione dunque di quel pezzo dell’apparato giudiziario che è utilizzato e considerato un po’ come una ruota di scorta. I VPO, come si dice in gergo, vanno in udienza e sostengono l’accusa in migliaia di procedimenti, ma non appartengono alla corporazione, non hanno status, prestigio e stipendio paragonabili ai colleghi in toga. Sono in qualche modo ausiliari, una stampella preziosa e anzi necessaria che però in certe occasioni si può buttare in un angolo. Proprio quel che succede nel tempestoso incontro arrivato fino alle sensibilissime orecchie della Disciplinare. È il 29 gennaio 2009 e il procuratore ha convocato il terzetto per una riunione «in merito», nota il tribunale delle toghe – alla (ritardata) definizione di procedimenti loro assegnati e al problema della determinazione degli emolumenti per l’attività dagli stessi svolta extraudienza». Insomma, i tre sono o sarebbero in ritardo con i fascicoli loro assegnati, ma sono anche scontenti: la giustizia a cottimo li paga una miseria. E il meeting ci mette poco a deragliare dai binari della correttezza. Anche perché il procuratore esordisce a freddo con un saluto che non arriva proprio dal Galateo di monsignor Della Casa: «Voi non avete mai fatto un cazzo, come tutti qui prima che arrivassi io, e tutti vi eravate bene ambientati». I tre, basiti, protestano. D’accordo essere trattati come la serie B del mondo giudiziario, una serie B che peraltro permette alla serie A di sopravvivere fra mille problemi, difficoltà e ritardi, ma non è possibile essere maltrattati come sguatteri della giustizia. «Alle pacate rimostranze di uno dei tre», ricostruisce la Disciplinare – ovvero l’avvocato Gianni Udine, «circa la non veridicità e offensività di tali affermazioni, il procuratore, alterandosi ulteriormente, disse al suddetto viceprocuratore onorario di “smetterla di fare la parte dell’offeso”». Poi il capo dell’ufficio rincara la dose, sparandola davvero grossa: «Se vi interessano solo i soldi, allora andate a fare le puttane. E lei domani, dottor Udine, si presenti in calze a rete. Voi», è l’elegante seguito, «non sapete con chi avete a che fare, sono un magistrato che ha dedicato la vita a questo lavoro anche correndo rischi personali e non sopporto di avere a che fare con persone come voi che tengono solo al denaro e non hanno nessun attaccamento per le istituzioni». Siamo, dunque, davanti a un crescendo scomposto e sguaiato. Ma non è ancora finita e la Disciplinare racconta gli ulteriori numeri del procuratore fino al brusco congedo: «Poi, “con atteggiamento irato” il procuratore “diede una manata” su una stampante del suo ufficio, prese da essa un foglio di carta, lo posò sul tavolo e invitò i tre viceprocuratori onorari a scrivere su quel foglio le proprie “dimissioni”, aggiungendo che avrebbe loro “reso la vita impossibile”». Per la Disciplinare ce n’è a sufficienza per contestare al magistrato «un comportamento gravemente scorretto nei confronti dei magistrati onorari dell’ufficio, suoi collaboratori»; per la Disciplinare «ne ha leso l’onore e il decoro e ha minacciato loro un danno ingiusto». Questo il casus belli. Il seguito però è ancora più preoccupante. L’episodio rimbomba infatti a scoppio ritardato, mesi dopo, seguendo le logiche tortuose del Palazzo di giustizia. Nelle settimane successive il procuratore viene ascoltato dal Consiglio giudiziario, in pratica l’organismo periferico, sul territorio, del CSM e approfitta dell’audizione per togliersi più di un sassolino: punta il dito contro l’illustre collega e la sua gestione del tribunale; lui replica presentando l’esposto in cui è narrato l’exploit del procuratore che il presidente evidentemente conosceva ma si era ben guardato fino a quel momento di rivelare. Il timing della denuncia è quantomeno suggestivo e illumina retrospettivamente quel che è accaduto. «Non sfugge», afferma carica di dubbi la Disciplinare, «la singolarità della vicenda nella quale si ha che la segnalazione ai titolari dell’azione disciplinare da parte del presidente del tribunale avviene non già a ridosso dell’episodio contestato bensì due mesi dopo circa la riunione del Consiglio giudiziario (31 marzo 2009) nella quale il presidente venne a conoscenza delle critiche del procuratore e della loro possibile incidenza nella conferma nelle funzioni direttive che esercitava.» E infatti la notizia della mezza piazzata del procuratore arriva in alto, alla Procura generale, solo il 21 maggio 2009, a quattro mesi dai fatti. Insomma, la vicenda, peraltro penosa, dei VPO, finisce dentro una trama più grande e viene usata come un ariete per screditare l’avversario, in un gioco di strumentalizzazioni e delegittimazioni reciproche. «Dunque», ribadisce la Disciplinare, «il presidente ricevette una lamentela, o comunque una notizia, giacché la circostanza non è ben precisata, e nulla disse fino a quando non apprese delle critiche del procuratore nei confronti del suo operato. Solo dopo di tale emersione, dunque egli formulò, in un lungo e sicuramente polemico esposto, anche una serie di fatti e di relazioni professionali interne al tribunale, segnalando anche l’intemperanza del procuratore.» È tutto singolare in questa vicenda. Il comportamento a dir poco sopra le righe del procuratore e i suoi toni da osteria, ma anche l’atteggiamento del presidente che attraverso l’esposto consuma una sottile vendetta, getta un’ombra pesante sull’iter della segnalazione disciplinare, sembra ritenere necessario quel grido di allarme che prima non lo era, dentro un palazzo in cui la giustizia deve vedersela con gli equilibri di potere. Ma la Disciplinare fa le sue scelte e decide di schierarsi dalla parte del procuratore. Comincia così a smontare le accuse e per farlo punta sugli altri due magistrati onorari che avevano affiancato il collega Udine nel colloquio con il dottor Domenico Ghelfi I due chiariscono, smussano, ridimensionano, proprio ciò che serve al tribunale delle toghe per abbassare i toni della vicenda: «I due magistrati onorari con dovizia di particolari e grande serenità hanno chiarito che il dottor Ghelfi chiese conto essenzialmente al dottor Udine dei ritardi nelle attività cosiddette fuori udienza. Ritardi notevoli e non negati. Hanno chiarito che il collega esplicitamente disse che non intendeva compiere attività non retribuite e che addirittura lamentava che il procuratore volesse indagare la ragione e le causali dei compensi corrisposti per il passato, per reprimerne la ritenuta eccessività». Insomma, se il testo è indifendibile, si privilegia il contesto esplorandone tutte le implicazioni. E le obiezioni del viceprocuratore onorario, peraltro non del tutto peregrine visti i mortificanti compensi della magistratura non togata, vengono lette quasi come provocazioni, sortite inconcepibili che hanno fatto saltare i nervi al procuratore.

Non solo. Si scindono anche le responsabilità: i due «hanno spiegato che il collega pretendeva di parlare a nome di tutti e tre ma in realtà portava avanti una posizione del tutto personale e comunque da essi stessi non condivisa. Hanno precisato che la discussione fu inizialmente vivace e che il procuratore della Repubblica ebbe a dolersi del fatto che un magistrato sia pure onorario si rifiutasse di compiere attività non convenienti economicamente». Messa così, la questione pare quella di una giustizia a tassametro ma in questo modo si sposta il problema altrove e si va comunque a toccare il nervo scoperto di retribuzioni non all’altezza del compito svolto e del trattamento che lo Stato riserva ai suoi servitori più umili ma non per questo più modesti. E poi il tema si presta a mille considerazioni e suggestioni. Una fra tutte: la Consulta ha più volte difeso gli stipendi della corporazione, spiegando che i soldi sono un pilastro dell’autonomia e indipendenza. Ma quel che vale per le toghe sembra improponibile per i magistrati di complemento. Alle prese con i problemi spicci della quotidianità. Gira e rigira, si arriva al punto dolente e si scopre che la versione giunta alle orecchie del presidente non era stata colorata, esagerata, ingigantita. No: «Uno dei due VPO, il dottor Stefano Passo, ha confermato che la discussione fra i due fu vivace e che la frase contestata, relativa al paragone fra un’attività mercantile come quella delle prostitute e quella pretesa dal dottor Udine, fu effettivamente pronunciata, sia pure in relazione alla pretesa del predetto di non fare attività che al momento non avevano una convenienza retributiva». Insomma, l’illustre toga diede in escandescenze, ma, par di capire, aveva i suoi buoni motivi e lo scatto, con annessa progressione scurrile, può essere archiviato. Fra distinguo e precisazioni: «Entrambi i testi hanno affermato che da parte del procuratore non vi fu alcuna minaccia nei confronti del VPO ma solo la precisazione esplicita che un magistrato onorario può rinunciare al proprio incarico ma non può rifiutarsi di adempiere ai doveri imposti dalla legge». Passo dopo passo, il caso viene ricondotto sui binari di un’ordinaria discussione, esattamente il contrario di quel che è avvenuto. Il tribunale delle toghe assesta invece un paio di stilettate all’ineffabile presidente e al solito viceprocuratore che finisce con l’essere il responsabile «morale» dell’incidente: «Fa riflettere la posizione del presidente del tribunale, collocatosi in pensione a seguito della mancata conferma nel suo incarico, e altresì quella del dottor Udine al quale il Consiglio giudiziario, successivamente ai fatti, e per ragioni diverse, ha presentato al Consiglio superiore della magistratura una proposta di delibera di decadenza dall’incarico di magistrato onorario. Proposta che il Consiglio superiore, nella competente articolazione amministrativa, ha accolto». La querelle si chiude quindi con un rovesciamento delle parti e con un peana per il procuratore: «Sono indubbie la passione e la dedizione al lavoro del magistrato e la sua attenzione a che tutti i suoi collaboratori fossero sensibili alle esigenze dell’ufficio e alla comune deontologia». Certo, resta quello scatto imperdonabile che però può essere perdonato: «È pure evidente la oggettiva inopportunità della pronuncia di frasi che, sia pure in un contesto polemico, possono quantomeno apparire quali insulti alla persona che interloquisce. Rileva tuttavia il collegio la assoluta irrilevanza della vicenda, nata e conclusa all’interno di un colloquio che mai sarebbe venuto a conoscenza dell’ambiente senza la particolare denuncia da parte del presidente del tribunale, comunque originata da un comportamento del VPO oggettivamente discutibile e sostenuto da giustificazioni che un capo di ufficio deve respingere con fermezza». Il caso è chiuso: «In tale contesto, la sicura mancanza di ogni intento ingiurioso e di ogni minaccia, escludono la fattispecie di illecito che è stata contestata». Il 9 aprile 2010 Domenico Ghelfi viene assolto.

Giudice e vicesindaco nello stesso territorio

              Il cortocircuito è fin troppo evidente. Anche nell’Italia approssimativa e confusa in cui i confini fra politica e giustizia non sono mai stati fissati in modo netto. E il Parlamento è zeppo di magistrati che facevano i giudici e torneranno presto a vestire la toga. Ci sono le porte girevoli. Però qualche paletto nel tempo è stato piazzato. Ad esempio, non è possibile svolgere due parti in commedia nello stesso territorio: giudice e primo cittadino. O l’uno o l’altro. La legge impone un aut aut che invece Andrea Amato ha tranquillamente ignorato, dando comunicazione al CSM a cose fatte. Quando lui, presidente di Sezione civile del tribunale di una città del Sud, si era insediato come vicesindaco e assessore esterno in un comune della stessa zona, tecnicamente appartenente allo stesso circondario. Ci si chiede come possa accadere una cosa del genere, che non sta né in cielo né in terra, però in un modo o nell’altro situazioni del genere si ripetono in un Paese che fatica a tenere distinti i poteri. E qualcosa del genere capita in quella regione nel giugno 2008. Il magistrato ha una posizione molto importante, perché amministra un segmento della giustizia civile in quella città, ma a quanto pare il lavoro non gli basta. E poi, si sa, le ambizioni umane sono infinite come le opportunità che possono capitare nel corso degli anni. Per Andrea Amato l’occasione arriva nel giugno 2008 quando il neosindaco appena eletto gli propone quella sfida stimolante in un territorio densamente popolato e carico di difficili problematiche. Andrea Amato accetta e non s’interroga sul problema che chiunque al suo posto, un incarico delicato e sotto gli occhi di tutti, dovrebbe porsi: come risolvere quell’incompatibilità che sta tutta nel buonsenso prima che nelle norme. Forse, Amato pensa di cavarsela all’italiana: lui non ha partecipato alla competizione elettorale, non è stato eletto e non viene pescato fra i consiglieri comunali ma è stato chiamato da fuori. Da quella che, un po’ pomposamente, si chiama la società civile. Dunque, la sua immagine non è classificata come quella degli altri assessori che hanno fatto campagna elettorale e rappresentano quel partito o quella lista civica. Andrea Amato no, ha un’altra storia e un altro percorso. Ma quella chiamata dall’alto non risolve il problema e non scioglie i nodi. Non c’è più quel peccato originale, il battesimo nell’aspra bagarre dei seggi, ma l’anomalia resta. Visibile a occhio nudo: è come se un giocatore fosse contemporaneamente arbitro: due casacche nello stesso campo e nella stessa partita. Appunto, due parti in commedia, con il rischio, surreale, di dover fischiare un fallo allo specchio. E dover segnare sul taccuino delle ammonizioni ed espulsioni il proprio nome. Troppo ingombrante. Andrea Amato avrebbe dovuto muoversi per tempo. Dare notizia al CSM prima di dire sì e preparare le valigie: andare in aspettativa, congelando sentenze e dossier, oppure trasferirsi in un altro tribunale e in un altro circondario. Così da non incrociare le due funzioni. Ma non l’ha fatto. L’ha ritenuto superfluo o se n’è dimenticato. Correndo ai ripari a cose fatte. Inevitabile, scatta l’azione disciplinare. Il tribunale delle toghe si muove fra leggi e delibere, discettando di incompatibilità e ineleggibilità, ma la sostanza non è poi così complicata: quella doppia esposizione non va per niente bene. Certo, Amato non fa parte del Consiglio comunale, ma questo non significa che ci sia una scappatoia fra le maglie della legislazione: «Pure la nomina alla carica di assessore esterno», scrive il tribunale delle toghe, «è dalla legge subordinata al possesso dei requisiti di compatibilità ed eleggibilità previsti per l’elezione a consigliere comunale. Il richiamo a tali requisiti fa sì che anche nel caso di nomina diretta debbano trovare applicazione le stesse disposizioni dettate in tema di elezioni, essendo del tutto evidente che in entrambe le fattispecie (partecipazione a competizione elettorale e nomina diretta alla carica di assessore esterno) si riscontra la medesima ratio che sovrintende alla disciplina sulle cause di ineleggibilità e che… è costituita dalla necessità di evitare ogni possibile pericolo di contiguità nello stesso territorio fra giurisdizione e funzione politica. Ne consegue che», prosegue la Disciplinare, «anche in caso di nomina diretta ad assessore esterno, il magistrato può accettare l’ufficio in questione a condizione però che quella carica sia conferita in un comune posto al di fuori della circoscrizione giudiziaria nella quale egli esercita le funzioni giurisdizionali, ovvero, nel caso di coincidenza fra i due ambiti territoriali, sempre che il magistrato provveda tempestivamente a collocarsi in aspettativa». Il predicozzo è un po’ lungo ma ineccepibile: va bene passare da una parte all’altra, ma almeno si aspetti il semaforo verde. Invece Andrea Amato ha attraversato col rosso. Il timing della nomina non ha rispettato il metronomo posto da legislatore. L’incompatibilità, precisa la Disciplinare, scatta «nel momento antecedente la nomina ad assessore esterno e la relativa comunicazione al Consiglio comunale». «In altri termini», aggiunge la Disciplinare affrontando un ventaglio di situazioni diverse, «ove il comune, nel quale si intende assumere la carica, appartenga alla circoscrizione giudiziaria nella quale il magistrato svolge le funzioni, è necessario rimuovere preventivamente l’incompatibilità stabilita dalla legge in modo che, con la richiesta d’ aspettativa, il magistrato cessi effettivamente dalle funzioni prima della presentazione della candidatura, nel caso di sua partecipazione alla competizione elettorale, o prima di accettare la carica di assessore esterno, nell’ipotesi, qui ricorrente, di nomina diretta del sindaco.» Andrea Amato però non ha seguito il cronoprogramma teorizzato dalla norma: si è mosso dopo, non prima. Il 17 giugno 2008 Amato ha comunicato alla segreteria della presidenza del tribunale di aver accettato il giorno prima il doppio incarico di assessore e vicesindaco. Di conseguenza è partito l’iter dell’azione disciplinare. Ma solo seguendo scrupolosamente le indicazioni normative si resta fuori dalle ambiguità della zona grigia, da concentrazioni anomale di potere e si raggiunge lo scopo fissato dalla legge: «Non consentire che il magistrato contemporaneamente duplichi nello stesso territorio una doppia funzione pubblica (politica e giudiziaria) perché siffatta duplicazione rappresenta un pericolo per la credibilità dell’attività giurisdizionale e pregiudica la stessa immagine di terzietà e imparzialità che deve assistere ciascun magistrato nell’esercizio concreto delle sue funzioni». Il magistrato deve essere, anzi deve apparire, mettiamola così, equidistante dalle passioni, impermeabile alle divisioni che la politica fatalmente porta con sé, non compromesso con le mode e le ideologie del momento e invece Amato ha perso quella sorta di verginità, indossando i colori della maggioranza e provocando inevitabili scossoni e contraccolpi, compreso quel retropensiero perfido che sempre accompagna a ritroso una scelta del genere: non è che Amato ha utilizzato il suo ruolo di giudice come trampolino per entrare nell’agone politico? E non è che ha sottilmente manipolato il suo lavoro di magistrato per preparare la discesa in campo? Quesiti, anche solo teorici, che instillano il dubbio su tutta l’attività svolta in precedenza nelle aule del tribunale. E spingono a rileggerla in chiave critica. Come un tarlo che mangia l’autorevolezza dell’istituzione. Il resto è solo una discussione sul filo del cavillo che non aggiunge nulla di significativo. Per questo il 17 settembre 2010 arriva la condanna: la pena è quella dell’ammonimento.

Il giudice trascura il profilo dell’assassino

              Una notizia sconvolgente. E un’assenza altrettanto sconcertante. Un uomo, con più di una rotella fuori posto, anzi un pericolo pubblico vagante accoltella alla gola la figlia di due anni. Si resta pietrificati, ma purtroppo questo è solo l’antefatto di una storia terribile che invecchia di colpo chi la ascolta, perché troppi sono i lati oscuri. Tenebrosi come la psiche umana. Una bambina rischia di morire per mano dello sventurato papà nell’agosto 2011. Si salva, per fortuna. Ma c’è poco da consolarsi: sarà la madre a morire, poco più di un anno dopo, la mamma della piccola, che aveva assistito impotente al primo agguato, vittima finale dell’ex compagno. In mezzo, in tutto quel periodo lungo 13 mesi, c’è l’inerzia colpevole e agghiacciante del PM che non ha fatto niente, è rimasto con le mani in mano, ha contestato al futuro killer le lesioni colpose. Come se Giovanna fosse stata trafitta per un incidente. Si resta sgomenti davanti a questa storia che supera la più feroce immaginazione. E si finisce con il piangere troppe volte: all’inizio per la piccola Giovanna, in balìa della furia folle del papa; poi per la mamma che viene uccisa nel più annunciato degli omicidi. E infine per la giustizia che non funziona come dovrebbe e ci consegna trame funeste, oltre la nostra sopportazione. Già l’incipit è quasi insostenibile. Il 9 agosto 2011 al PM Franco Rossi viene assegnato un caso spaventoso: una bambina di due anni accoltellata alla gola alla presenza della madre e di altri familiari. A colpire è stato il padre: un mostro, comunque si voglia giudicare la sua mente debole. Chiunque al posto di Rossi si sarebbe dato da fare per arginare quella furia incontenibile e per arrivare il più in fretta possibile alla definizione di un caso così raccapricciante, descritto minuziosamente dai molti presenti alla scena. Il padre sventurato di Giovanna, l’uomo che le ha immerso il coltello nella gola, è fuori controllo ma Rossi resta immobile. In catalessi. Non fa niente e quel poco che fa lo sbaglia, ma in un modo così imperdonabile da suscitare la nostra rabbia. Il capo d’incolpazione è una successione di scosse devastanti: «Essendogli stato assegnato in data 9 agosto 2011 il procedimento penale a carico di Tullio Micheli per lesioni personali dolose nei confronti della figlia di due anni, accoltellata alla gola alla presenza della convivente e di altri familiari, ha omesso di compiere ogni atto urgente, di svolgere qualsiasi indagine e di assumere alcuna iniziativa processuale, nonostante dalla comunicazione della notizia di reato della Stazione dei carabinieri emergessero sia la gravità del fatto delittuoso, sia la pericolosità del Micheli, in quanto portatore di gravi problemi psichici, con sindrome depressiva, circostanze ancor più rilevanti alla luce dell’omicidio, commesso successivamente dallo stesso soggetto in danno dell’ex compagna e appreso dal procuratore della Repubblica dalle notizie di stampa in data 9 ottobre 2012». Un quadro da incubo che la Disciplinare chiude murando una lapide sulla tomba della giustizia: «In tal modo il Rossi non impediva che il Micheli provocasse alla donna il danno irreparabile della perdita della vita». Che altro aggiungere? Possibile che la giustizia debba ridursi a una larva? Il disastro viene dettagliato e sezionato impietosamente: «Si asteneva da ogni atto concreto di indagine, sebbene sollecitato più volte, dapprima col provvedimento di assegnazione del procuratore facente funzione, del 9 agosto 2011 – “anche per gli adempimenti urgenti ritenuti del caso, poi con apposita missiva in pari data dello stesso procuratore facente funzione che rappresentava l’urgenza di valutare una perizia psichiatrica nei confronti dell’indagato. La descrizione delle condizioni del Micheli al momento del fatto e dopo il fatto (sguardo fisso e perso nel vuoto, incapacità di fornire giustificazione alle condotte) nonché i disturbi dai quali è affetto e il suo stato di depressione potrebbero scatenare altre azioni ancora più gravi” – infine con un colloquio con il procuratore della Repubblica in data 22 agosto 2011». Succede tutto in pochissimi giorni, nel cuore dell’estate 2011: il capo dell’ufficio gli assegna il caso, delicatissimo, poi gli scrive suggerendogli la pista, scontatissima, della perizia psichiatrica, poi lo convoca e gli parla a quattr’occhi. Micheli è fuori di testa e la descrizione che ne fa il magistrato è indicativa: un uomo perso in chissà quali contorsioni, un soggetto che balbetta monconi di spiegazioni davanti all’orrore di quel che ha fatto, una mina vagante che può esplodere di nuovo. L’allarme viene lanciato ripetutamente, ma Rossi non lo raccoglie. Non si scompone. Non si lascia strattonare dai richiami del collega più autorevole. Non si emoziona per una storia che segnerebbe la carriera di qualunque giudice, pronto a fare gli straordinari pur di girare una pagina così dolorosa; l’innocenza violata tocca tutti i cuori, non il suo: lui sprofonda in una sorta di enigmatico letargo. E nessuno a questo punto può o vuole intervenire per scuoterlo da quel vergognoso e inspiegabile torpore, o almeno per togliergli il fascicolo e spedirlo a casa per un periodo di riposo e riflessione. La giustizia si ritira in un angolo con provvedimenti grotteschi e quasi offensivi. Rossi non afferra la drammaticità dei fatti e sembra sminuire in tutti i modi quel che appare incontestabile: «Erroneamente iscriveva il fascicolo a modello 21 bis per lesioni colpose. E prospettava una ipotesi di reato diversa da quella che incontestabilmente emergeva dagli atti del fascicolo processuale», in particolare dalla preoccupatissima relazione dei carabinieri e dalle testimonianze di chi aveva visto quel padre rivolgere il coltello contro la figlioletta. Tutti sottolineano la «pericolosità» di Micheli, ma ancora una volta non accade nulla. Che cosa passa per la testa di Rossi? Forse, con tutto il rispetto, l’eclissi non è solo nella mente squilibrata di un padre snaturato, ma anche nella testa del PM che non fa il PM. E non adempie neppure ai doveri più elementari. La correzione del capo d’imputazione, e l’iscrizione di Micheli nel registro degli indagati per il ben più grave reato di lesioni dolose, arriva solo il 27 settembre 2011 per opera ancora di un disperato procuratore della Repubblica. La corsa contro il tempo per bloccare il potenziale assassino non c’è. C’è solo quell’epilogo spaventoso, l’uccisione della mamma, che riempie i giornali il 9 ottobre 2012. Più di un anno dopo. Dopo tutti quei segnali di allerta rossa, lasciati cadere dal magistrato. La giustizia è stata sconfitta, anzi di più: calpestata da un magistrato senza nerbo. Il seguito sta tutto nelle poche righe del procedimento disciplinare che si celebra solo nel 2016. E che finisce ancora prima di cominciare: Rossi ha finalmente abbandonato l’Ordine giudiziario. Non si sa per quale ragione: malattia, stanchezza, vergogna. E non c’è più niente da contestargli, almeno in questa sede. Ormai, è troppo tardi per tutto. Il disastro è compiuto. E nessuna risposta arriva alla domanda più angosciosa e ineludibile: perché un dossier così urgente, quasi con un timer incorporato, non è stato assegnato a un magistrato più lucido? Perché la donna non è stata salvata? Eppure era evidente che si preparava un massacro. E che la sfortunata signora era una vittima predestinata. Il 15 dicembre 2016 il caso va in archivio e il silenzio inghiotte tutto: le omissioni, le scelte sbagliate e interlocutorie, gli errori di gestione. Non si farà il processo al sistema che non ha funzionato. E ha lasciato indifese le persone più deboli.

Gli allegri maneggi del giudice

che tiene famiglia

            Tutto in famiglia. Muovendosi tra le fronde delle proprie parentele come un giocoliere sul trapezio. Il giudice Massimo De Capitani era il campione di una certa Italia arraffona e di una giustizia domestica nel senso letterale della parola: i provvedimenti non erano in nome del popolo ma del proprio clan che De Capitani trasforma in una fabbrica di consulenze da lui ben retribuite. Il meccanismo escogitato, si fa per dire, non era particolarmente sofisticato, ma di una banalità disarmante. Che faceva dunque il giudice? De Capitani è un GIP, insomma è uno che può mandate in galera la gente, e in effetti il 21 novembre 2012 decapita i vertici di una società nell’ambito di un procedimento in cui si ipotizzano reati gravissimi, dalla tentata concussione alla corruzione e alla turbativa d’asta: in totale il magistrato dispone 15 misure cautelari e, soprattutto, altrettante misure interdittive. Al volante non c’è più nessuno e va nominato al volo un commissario per impedire che la società vada a sbattere contro un muro. Siamo all’abc della procedura, in una storia come tante altre. Ma De Capitani la personalizza, polverizzando le regole più elementari e trasformando il gruppo in una dépendance di casa propria. La prima mossa è quella di nominare un vecchio amico commissario giudiziale. Ma questo è solo il primo passaggio di una strategia più articolata. I patti con il neocommissario Stefano Cecchi sono infatti chiarissimi: Cecchi nomina a sua volta suoi consulenti il suocero e la moglie di De Capitani. Altro che conflitto di interesse; con tutto il rispetto comportamenti del genere si addicono di più ai maneggi di certi dittatori africani che alle regole della nostra democrazia. Il piano non è ancora finito, perché nella sua megalomania il giudice ha stabilito un’ulteriore incredibile tappa: conclusa l’emergenza, l’amico commissario revocherà le misure interdittive e a quel punto piazzerà con sfrontatezza inaudita il suocero come amministratore unico, consegnando quindi alla famiglia De Capitani le chiavi dell’impresa. Uno schema da Terzo Mondo nel suo rudimentale disprezzo per ogni regola eppure portato avanti per mesi, dal novembre 2012 all’inizio di giugno del 2013, e arrivato a un passo dalla realizzazione complessiva. L’amico farà in tempo a revocare le interdizioni, poi finalmente lo scempio verrà fermato. De Capitani finisce sotto inchiesta e contemporaneamente la Disciplinare mette una pezza a quella vergogna: in attesa del verdetto penale, il 24 marzo 2015 il giudice viene messo in freezer: è sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e collocato fuori ruolo. Ma il 3 febbraio 2016 gli avvocati scatenano la controffensiva: l’ammuffimento in naftalina è durato pure troppo, è ora di tornare fra le scartoffie in ufficio. Sì, il GIP dalla faccia di bronzo invece di scappare a nascondersi in qualche buio anfratto scalpita per rientrare in pista. E il tribunale delle toghe è costretto ad apparecchiare di nuovo la tavola con le accuse. La trama, riassunta in poche righe, è davvero mortificante: «Con abuso … e in violazione dei doveri di correttezza e imparzialià nominava indebitamente quale commissario giudiziale il dottor Stefano Cecchi al solo scopo corruttivo di ottenere, prima, la nomina, quale collaboratore, del suocero ingegner Gianni Filati, e della moglie, avvocatessa Franca Mari – eventi questi effettivamente realizzatisi – e poi l’eventuale, successiva nomina del suocero quale amministratore unico». Il leggendario Bokassa, con tutto il rispetto, non avrebbe saputo fare di meglio. Dettaglio non proprio secondario tutta l’operazione veniva profumatamente retribuita. Il commissario incassava la bellezza di 249.240,31 euro, il suocero ben 157.916,73 nelle vesti di ingegnere accorso al capezzale del malato; per la moglie, invece, non si faceva in tempo a quantificare e a liquidare la parcella di avvocato perché i piani venivano scombinati dall’irruzione dell’autorità giudiziaria. L’ingordigia è senza fondo e gli appetiti insaziabili, ma il giudice prova a infilarsi negli interstizi del sistema per recuperare la posizione. L’hanno condannato, è vero, per corruzione ma la pena è piccola piccola, 8 mesi soltanto, e pure sospesa. Inoltre non prevede l’interdizione dai pubblici uffici. Si può perfino osare quel che non sta né in cielo né in terra: indossare ancora la toga. Fra un cavillo, un’obiezione e la benevolenza del tempo trascorso, un varco può anche aprirsi come il Mar Rosso nel celebre episodio biblico. Gli avvocati danno battaglia: sostengono che in attesa del verdetto penale definitivo, e in Italia si è sempre in attesa di una qualche sentenza, la penalità è stata scontata. Come nella pallanuoto o nell’hockey su ghiaccio. Ma la Disciplinare fa muro: lo scandalo sarebbe troppo grande. Un colpo di spugna in famiglia, a tarallucci e vino. Il tonfo, per l’immagine della magistratura, sarebbe troppo grande. Devastante. Il verdetto del 20 maggio 2016 conferma la sentenza precedente: Di Capitani resta in panchina. In attesa, si spera, dell’espulsione finale.

Le avances senza ritegno

del giudice predatore

            A un’avvocatessa inviava mail infuocate in cui lasciava poco spazio all’immaginazione. Il 4 febbraio 2010 scriveva: «Mi sembra che tu sia poco attenta ai pericoli che può comportare il via libera al lupo che c’è dentro di me, non vorrei che la prossima volta ti ritrovi davvero a sperimentare la propensione al possesso totale e indiscriminato che ne connota l’indole!!!» Con tre punti esclamativi e nessun imbarazzo a corredo. Qualche ora dopo replicava, facendosi ancora più aggressivo e smanioso: «Perché lunedì mattina non passi, se non ce la fai, dopo le 12? Portati una maglietta di ricambio, però… hai visto mai che ti si dovesse impigliare fra le mie mani e strapparsi irrimediabilmente». Poi, l’8 febbraio smarriva ogni minima forma di autocontrollo e immaginava rapporti orali con parole esplicite che più esplicite non si può: «Attenta lupetta, oltre alle mani mi piace mettere altre cose al posto giusto al momento giusto, quindi preparati anche a questo perché non credo che la prossima volta riuscirò a resistere alla tentazione di infilartelo in bocca fino in gola tenendoti ferma quella dolce testolina… e ricordati che… le porte si chiudono a chiave». Come si vede, il sostituto procuratore della Repubblica non perdeva tempo e puntava dritto le donne con cui era venuto a contatto per via del suo lavoro. Una-due-quattro-sei-otto, giocando come un maestro di scacchi più partite in contemporanea, oltre la linea della sfrontatezza e dell’indecenza. Un predatore insaziabile Domenico Malinverno, instancabile nell’intrecciare col gentil sesso rapporti ravvicinati e ambigui. Contatti torbidi e sconvenienti, nel linguaggio da caserma e non certo da tribunale. In un continuo giro di valzer con una sfilza di donne corteggiate, ma il verbo è poco adatto ai toni grevi e caserecci, esibendo una libidine incontenibile. Il tutto fra il 2009, forse pure prima, e il 2011. Spesso, anche in simultanea, sfruttando tutti gli appigli offerti dalla sua nobile, si fa per dire, professione. L’elenco delle «avvicinate» è impressionante e fa pensare a un comportamento seriale, senza neppure il tentativo di frenare i propri appetiti sessuali: quattro avvocatesse, fra cui Nadia Franchini, vittima delle allusioni, e che allusioni, pornografiche citate in precedenza, e poi una stagista, una giudice in tirocinio, dunque agli esordi si presuppone con tutto il candore e l’entusiasmo degli inizi, una psicologa consulente dell’ufficio, addirittura una donna che voleva denunciare le molestie subìte molti anni prima dal fratello. Otto donne entrate nel vortice disgustoso delle mezze frasi, delle perversioni, e poi, in un crescendo frenetico e irrefrenabile, delle espressioni triviali, delle richieste via mail di prestazioni sessuali, delle immagini piccanti ed eccitanti. Una vergogna. Ancora di più, perché il dottor Domenico Malinverno si occupava – non è uno scherzo – di reati sessuali e abusi su minori. Dunque, sfruttava biecamente l’equivoco per lanciare battute che nessuno, ma non lui, mai si sarebbe sognato di pronunciare. E invece quando la tirocinante si presenta, il suo ardore si accende e lui accoglie la giovane con una serie di battute una più infelice e fuori posto dell’altra: «Faremo sesso insieme per tre mesi», afferma giocando su un ipotetico e patetico doppio senso. E ancora: «Che rapporto hai con Freud?» E subito dopo: «Si vede che hai un pessimo rapporto con la tua femminilità». Il capo d’incolpazione è un susseguirsi di episodi sconcertanti, situazioni umilianti, colloqui imbarazzanti. E mail su mail con cui l’infaticabile magistrato torna alla carica, a volte con toni soffusi, in altre circostanze senza tanti preamboli e premesse. Ecco, per esempio, il passaggio incandescente della mail inviata alla psicologa il 7 ottobre 2009: «Non ha pietà per un discreto corteggiatore? Io faccio di tutto per non cadere in tentazione e lei si approfitta di un poveraccio come me… sono mesi che pur allungandole qualche frecciatina corteggiatrice cerco disperatamente di rimanere in un ambito soft e lei continua a stuzzicare la mia mente e soprattutto il mio istinto di predatore con lunghe disquisizioni che farebbero impazzire il più paziente degli esseri umani». Poveretto. Che fatica. Ma la toga non ha tempo per piangere sui suoi fantomatici insuccessi e per immalinconirsi, anzi corre di qua e di là tendendo la sua rete, come un pescatore sempre al lavoro. Il 23 giugno 2011 si rivolge così all’avvocatessa Giovanna Parmigiani, conosciuta al solito a Palazzo di giustizia e poi abbordata sempre via mail: «Bello il vestito, mentre parlava stavo studiando il modo di togliertelo di dosso… quanto al vestito… mai dire mai e comunque… anche senza toglierlo… potrei fare in modo di conoscere meglio una parte di lei». Pochi minuti dopo, l’abbordaggio telematico diventa un assalto all’arma bianca: «Se avessi avuto un paio di forbici avrei dolcemente divelto il vestito da dietro… per poi farglielo cadere fino ai piedi». E ancora: «La prossima volta l’apro io quella meravigliosa mantellina». Malinverno sforna a gettone immagini da poetastro a luci rosse e cerca di ammaliare le signore, tutte in grande difficoltà per i ruoli ricoperti; poi ogni tanto si ricorda del proprio compito e allora frena, apre con le sventurate lunghe dissertazioni in cui cerca di conciliare l’inconciliabile, il rigore del magistrato sulla prima linea del crimine e la voglia pazza di stringere quei corpi. «Lei», pontifica con la psicologa il 29 settembre 2009, «dovrebbe aver capito che la giudico indipendentemente dall’impulso sessuale che può spingere gli uomini a compiere determinate azioni nella speranza di ottenere un beneficio in termini naturali, ossia se me la dai lavori altrimenti fottiti… se mantengo una distanza da lei è un’autodifesa, mai utilizzerei o comunque mischierei l’ambito professionale con quello personale: a parte che non me la darebbe, ma siamo sicuri che non me la darebbe? Ah ah ah, l’ho messa in crisi, ma lei è davvero sicura che io con lei mantenga la distanza e con altre persone no? A me sembra che con lei ci siamo detti cose che vanno ben oltre un grado ordinario di confidenza…» Malinverno fa e disfa, accelera e frena, alterna il tu e il lei, mescola e poi prova a dividere, cianciando sulla sua correttezza di fondo. Il 13 ottobre 2009 cavilla sullo scivolosissimo tema in una mail spedita alla solita psicologa: «Vorrei ribadire ancora una volta che a me non me ne frega niente se lei ci sta o no… se io ritengo che lei professionalmente sia una persona valida la chiamerò sempre anche se non me la dà e se mi manda al diavolo pur di non darmela; se viceversa ritenessi che lei non fosse una persona professionalmente valida e me la desse quando e come voglio e facesse ciò per amore o per mero interesse professionale per avere consulenze, non sposterebbe nulla, perché magari con lei una scopata ce la farei anche volentieri, ma non le darei mai e poi mai consulenze solo perché me l’ha data. Su questo», è la conclusione della toga, «non torniamoci più per favore, né ora né mai… voglio sapere se e senza tanti discorsi… se non ci fossero problemi, controindicazioni, situazioni di opportunità e cavoli vari, lei ci verrebbe a letto con me?» Questo il grande quesito che Malinverno pone, manco fosse un filosofo. Dove i «cavoli vari», sono, quisquilia, il fatto di essere un magistrato, addirittura un prestigioso sostituto procuratore, e di spendere il proprio potere per ottenere piacere dalle donne, tutte legate per una ragione o per l’altra al suo delicatissimo ufficio. Ancora di più perché Malinverno segue i reati a sfondo sessuale e non ci sono parole per descrivere un cortocircuito così desolante e offensivo per l’onore della magistratura. Più si va in profondità, più si resta sbalorditi per l’ampiezza e la durata di questa rete di relazioni, malate e viziate dal peccato originale e dal conflitto di interessi che Malinverno, con i suoi discorsi ipocriti, cerca di circoscrivere e tenere al guinzaglio come un domatore.

In realtà il contesto squallido emerge ugualmente dai racconti delle otto signore che descrivono il loro personale #MeToo, il più delle volte non sempre virtuale. Agli atti ci sono anche i palpeggiamenti, al seno e al sedere, subìti un giorno nello studio del magistrato dall’avvocatessa Franchini. Un fatto inqualificabile, anche se la relativa indagine penale, nata fra l’altro da un esposto della moglie separata di Malinverno, un’avvocatessa che aveva trovato tutte quelle mail licenziose nel computer di casa, non porterà a nulla e finirà con un’archiviazione. Va così sul piano penale, ma quel che emerge sul versante deontologico basta e avanza: si resta basiti; sgomenti nel seguire la trama dell’ultima inconcepibile liaison, una relazione vera e propria anche se di breve durata. Il 4 luglio 2011 la donna arriva in Procura attraverso l’intermediazione di un legale e va da Malinverno che è, non dimentichiamolo, il PM anti abusi sessuali sui minori. La signora racconta dunque che il fratello allungò pesantemente le mani su di lei in anni lontani, fra l’83 e l’87. Non c’è bisogno di essere esperti per capire che i reati sono prescritti, anzi straprescritti. Ma Malinverno prospetta comunque l’ipotesi dell’esposto per dare il via a un’indagine. Certo, aggiunge anche di fare attenzione per il dolore che si darebbe fatalmente ai genitori anziani, però non chiude e anzi lascia alla donna un biglietto con il proprio indirizzo di posta elettronica. Un dettaglio che viene considerato una gentilezza, il frutto di una sensibilità particolare, il segno dell’attenzione alle vicende di chi gli sta di fronte ed è invece solo l’indice di una strategia collaudata: quel foglietto di carta è l’amo che fa leva sulla fragilità e sulla vulnerabilità della poveretta che infatti il giorno dopo si fa viva e cade nelle spire del magistrato. L’11 luglio, una settimana dopo, siamo già molto in là, come si ricava dall’ennesima mail in cui c’è un cenno a un incontro amoroso avvenuto e non solo immaginato: «Diciamo che anche le mie sensazioni sono dannatamente ambigue… Faccio fatica a controllarmi perché quegli occhi sono entrati dentro i miei… Speravo che mi scrivesse anche se ero sicuro che lo avrebbe fatto… È stato meraviglioso quando la sciarpa è volata via… è stato come l’aprirsi del suo cuore, della sua mente a me… ho avuto la sensazione che in quel momento si sarebbe spogliata per me, come se questo fosse un segno di completo avvicinamento a me». In effetti la donna si è innamorata di lui, gli scrive e lui le risponde così: «Primo, il seno non glielo ho guardato, non direttamente almeno e… nonostante lei avesse desiderio che io lo facessi… Secondo non è stato l’ambiente a condizionarla ma l’atmosfera… una sensazione dolce di essere ascoltata, cresciuta, compresa». Ormai, gli abusi commessi dal fratello di lei sono tornati nella preistoria. Quel che conta è il presente e il solito cinico gioco del gatto col topo. Malinverno accelera e propone alla signora un salto a casa sua per una serata a tu per tu, approfittando del fatto che lui sarà solo. Lei rifiuta, anche per via dell’orario. Il magistrato replica alla sua maniera: «Non trovo nulla di anormale nel fatto che due persone che si attraggono si cerchino. Non vedo proprio cosa di insano ci sia in questo». La sventurata, come Gertrude nei Promessi sposi, ci casca di nuovo e gli suggerisce un meeting. Ma a questo punto è lui, forse in un rigurgito di coscienza, a frenare. Malinverno rifiuta, poi smette saggiamente di rispondere alle mail anche se il danno ormai è fatto. Però lo sfarfallio del magistrato continua fra proposte audaci, complimenti da cartiglio dei Baci Perugina, tirate moralistiche sulla sua purezza e capacità di distinguere il letto dalla scrivania di giudice. In realtà è proprio questo aspetto, quando finalmente si metterà in moto l’azione disciplinare, che metteranno in evidenza molte delle vittime: visto chi avevano davanti, non hanno troncato, ma hanno cercato di assecondare il suo gioco con un «ni», tirando a campare per averne un vantaggio o, quantomeno, per non compromettere il proprio lavoro di avvocato, psicologo e via elencando. Che bassezza. E che perversione. Ancora di più se si pensa – tocca ripeterlo ancora una volta – che l’uomo si occupava proprio di proteggere i più deboli dalle insidie e dalla voracità degli adulti. La vicenda della psicologa è eloquente: «La professionista», ricostruisce la Disciplinare, «ha escluso di aver avuto rapporti fisici con l’incolpato, e ha ammesso di aver “assecondato il gioco” in qualche modo “barcamenandosi”, pur escludendo di essere stata coartata dalle predette avances. Emerge da tale piattaforma probatoria», prosegue il tribunale delle toghe, «una condotta scorretta dell’incolpato nei confronti di una persona con la quale egli aveva rapporti professionali in corso». Rapporti sbilanciati, va da sé, che avevano spinto la consulente appunto a «barcamenarsi», tenendo una posizione ambigua in una penosa e avvilente cornice di inferiorità. «La dottoressa», va avanti la ricostruzione, «è stata nominata consulente tecnico dal dottor Malinverno in dieci procedimenti penali tra la fine del 2008 e l’inizio del 2011, arco temporale nel quale si inscrivono le comunicazioni sopra riferite, con liquidazioni ammontanti a oltre 130 mila euro». Soldi (veri) e sesso (virtuale). In ogni caso, non proprio uno scherzo per lei, come si capisce dai redditi percepiti, oltretutto in una fase di crescita professionale. «Ebbene», nota la Disciplinare, «per quanto il magistrato si sforzasse di chiarire per via telematica il suo intento di tenere separati i rapporti professionali e quelli privati fra lui e la sua consulente, è evidente dalle sue stesse parole l’interferenza continua fra le due sfere, così come il tentativo della giovane professionista, ai suoi primi passi da consulente presso la Procura della Repubblica, di gestire il rapporto con il magistrato in modo accorto, sì da evitare di comprometterlo.» Ma la Disciplinare va ancora più in profondità, smascherando l’asimmetricità, dunque la violenza del rapporto: «La condotta del dottor Malinverno non costituisce legittima esplicazione di rapporto interpersonale, in quanto per le sue modalità, per il contenuto delle espressioni usate (si vedano in particolare le mail), risulta offensiva dell’altrui dignità, con ricaduta sul prestigio dell’ufficio giudiziario: la professionista in questione, pur non coartata, come dalla stessa riferito, si è trovata nella situazione di dover operare una scelta fra una reazione decisamente risentita, che, a suo avviso, avrebbe potuto esporla a una compromissione del suo ancora iniziale e incerto percorso professionale, e un “barcamenarsi”, come da lei definito, in una situazione ambigua, snodantesi tra il compiacimento per il corteggiamento e il sostanziale rifiuto delle avances: e questo, di per sé, costituisce già uno svilimento della dignità della persona». La fotografia è nitida e non lascia spazio a interpretazioni indulgenti: non possono esserci attenuanti o giustificazioni per atteggiamenti del genere. Questa e solo questa è la chiave di lettura corretta dei carteggi, delle conquiste, delle sviolinate, tutte stonate e fuori luogo nella più benevola delle ipotesi. Il canovaccio peraltro si ripete monotono: un incontro occasionale, professioniste alle prime armi, gentilezze viscide e vischiose. «Dopo aver precisato», è il racconto di un’avvocatessa alla Procura generale della Cassazione, «che i suoi contatti con Malinverno erano cominciati dopo la richiesta di archiviazione da parte dello stesso del procedimento che aveva dato occasione alla loro conoscenza, ha dichiarato di “essere stata al gioco”, dirottando le avances del magistrato su argomenti quali la famiglia e il lavoro.» Dunque, anche la penalista si trova in una situazione di grande imbarazzo e cerca come può di non inimicarsi un personaggio così potente e ingombrante. Mediando e scansando i meeting troppo ravvicinati. Il tutto fra continue scintille: «Ha anche fatto presente di essersi rivolta al magistrato nel luglio 2010 per avere un consiglio professionale sul caso di una sua cliente poliziotta. Ciò aveva costituito il pretesto per il dottor Malinverno per ulteriori contatti con lei». Siamo alle solite e pure il quadro generale è in linea: «Anche in questo caso il magistrato si trova di fronte a una professionista all’inizio della propria carriera, da lui conosciuta nell’ambito giudiziario». Dunque, non ancora strutturata per fronteggiare un’aggressione così sottile. Le storie si ripetono in fotocopia. Il profilo è sempre il medesimo. La terza avvocatessa, quella che si era ritrovata le mani voraci di lui sul proprio corpo, la stessa che si era vista proporre brutalmente un rapporto orale, insomma Nadia Franchini aggiunge altre pennellate, ma sempre sulle stesse tonalità: «Ha fatto presente di aver conosciuto il dottor Malinverno durante un interrogatorio nel quale la stessa difendeva un soggetto indagato per tentato omicidio, e di averne approfondito la conoscenza negli anni 2009-2010… quando, avendo deciso di preparare il concorso in magistratura, anziché iscriversi a un corso, aveva chiesto al dottor Malinverno di correggerle gli elaborati». E così ogni episodio ne prepara un altro, in una successione di incroci pericolosi. A ogni angolo infatti c’è sempre lui, con il suo chiodo fisso: sesso e ancora sesso. E, naturalmente, c’è lei: la partner di turno, che non può cedere alle voglie della toga ma nemmeno vuole troncare quella che sembra una frequentazione privilegiata. «La dottoressa, nel riconoscere di aver “dato un po’ di corda” al magistrato in considerazione del vantaggio che le derivava dalla correzione dei temi, ha riferito una circostanza di particolare significatività ai fini che rilevano nella presente sede, e cioè che nell’ambiente era diffusa la voce che Malinverno aveva l’abitudine di fare avances verbali anche pesanti.»

Uno sconcio andato avanti, in quel contesto, per almeno due anni, fino all’uscita del PM dal Pool dei reati sessuali. La tirocinante, appartenente alla Scuola di specializzazione per le professioni legali, racconta il suo stage nello studio del magistrato, la tana del lupo, poi arriva alle mail: «Prosecuzione del gioco degli equivoci che era cominciato nel corso dello stage con tutte le ragazze che vi partecipavano». E che mail. Più che di equivoci, si dovrebbe parlare di proposte oscene alla luce del sole: «Stellina, è inutile che io parli perché tanto sai già tutto… quindi non rompere… quando passi… primo perché dobbiamo seriamente parlare dello studio… secondo perché devo seriamente verificare la maniera in cui spogliarti strappandoti i vestiti e nello stesso tempo permetterti di uscire vestita di tutto punto (forse sarebbe risolvibile con un cambio di abbigliamento).» Malinverno regala pure i consigli pratici per dissimulare le riunioni clandestine. Seguono, da una mail all’altra, i soliti dubbi amletici del PM, che così sembra quasi voler confessare alle ragazze un fantomatico rovello interiore, un supplemento di coscienza nell’affrontare queste situazioni scabrose: «Qui in genere subentra l’autocontrollo, ma non sempre vince sul mio istinto; ad esempio quella sera improvvisamente ti dissi “ vai via” e sai perché?» Ecco l’eterna battaglia fra ragione e passione, con il trionfo della prima: «Ci sono riuscito anche se, tutte le volte che ci ho ripensato, non ero convinto di aver preso la decisione giusta. In quel momento davvero le mie mani stavano per forzarti». Siamo all’autocommiserazione: poveretto. Malinverno si accredita come una sorta di santo esposto a fortissime tentazioni ma capace di mantenere il necessario sangue freddo. Una farsa senza dignità. Che la Disciplinare stigmatizza prima dell’ultimo sconcertante colpo di scena: «Da tutti gli episodi sopra richiamati che, anche se non in tutti i casi riconducibili direttamente all’esercizio delle funzioni giurisdizionali, trovano sempre origine e occasione in esse, emerge un irrimediabile appannamento dell’immagine di magistrato del dottor Malinverno e dell’intero Ordine giudiziario, di fronte a consulenti, avvocati, persone offese e infine a un magistrato al quale egli avrebbe dovuto insegnare il rispetto dei doveri di correttezza, riserbo, equilibrio, rispetto della dignità della persona nell’esercizio delle funzioni». E ancora, in una sorta di requisitoria scritta tambureggiante: «I riferiti comportamenti scorretti di cui si tratta sono stati posti in essere in modo quasi seriale, come osservato dal procuratore generale di udienza, e nei confronti di interlocutrici che si trovavano rispetto a lui in una posizione di oggettiva inferiorità: consulenti tecnici nella fase iniziale della carriera, avvocate all’esordio, Mot (Magistrato ordinario in tirocinio, n.d.r.) sulla cui professionalità e capacità avrebbe dovuto esprimere un parere, stagiste neolaureate in tirocinio presso di lui, vittime di reati sessuali che si rivolgevano per un consiglio, ricevendone avances sessuali». Un mondo al contrario. Che non può trovare alcuna comprensione, fra le pieghe del diritto e dei sentimenti umani: «Né rileva in alcun modo la percezione che della condotta del magistrato abbiano avuto le destinatarie dei suoi messaggi, e nemmeno la eventuale mancanza, in alcune delle vicende in contestazione, di violenza o coartazione psicologica, posto che la fattispecie in esame può essere integrata, alternativamente, attraverso un comportamento oggettivamente scorretto, grave o abituale». Siamo, almeno sulla carta, alla tolleranza zero. L’approccio, in quelle situazioni, è già di per sé una violazione del codice deontologico, anzi si resta stupiti che sul piano penale non si sia approdati a nulla. La colpevolezza è oggettiva e non ha bisogno di dimostrazioni ulteriori o di viaggi nella psiche e nei turbamenti di ogni singola donna. La condanna è inevitabile. Ma in dirittura d’arrivo, ormai ai titoli di coda, ecco l’ultima capriola del collegio giudicante, almeno per la sensibilità comune. Che sanzione dare al magistrato che ha infangato in modo così turpe l’altissimo compito cui era chiamato? La Disciplinare decide di lanciare un salvagente a Malinverno: «Solo in considerazione del positivo percorso professionale del magistrato, si ritiene di contenere la sanzione nella misura della censura». Ma come, viene spontaneo interrogarsi, tutto qua? Non ci possono essere dubbi sulla gravità di quel che è accaduto: il PM trasformatosi in predatore a oltranza ha mortificato la dignità di molte giovani donne, mischiando emozioni e codici e utilizzando come un trampolino il proprio potere. I racconti sono purtroppo concordi e svelano dettagli, nel linguaggio e nel modo di porsi, quasi inimmaginabili. Certo, un passato immacolato può venire in soccorso per limitare i danni, ma il danno compiuto non sembra circoscrivibile. Fra l’altro, la violazione di ogni minima regola di decoro è andata avanti per almeno due anni, un tempo non breve, e la pessima fama del soggetto, come abbiamo ricavato da una delle deposizioni, si era sparsa nell’ambiente. Malinverno era diventato un marchio negativo, probabilmente noto nel passaparola fra avvocati, consulenti, i suoi stessi colleghi. Tutto qua? In realtà no. La Disciplinare è in grande difficoltà. E la censura è obiettivamente poca cosa, comunque meno di quanto proposto dall’accusa: la Procura generale aveva chiesto una misura più severa, la perdita di anzianità di un anno. Quel carosello a luci rosse di mail grida davvero vendetta. A ogni rilettura saltano fuori passaggi e considerazioni da postribolo, lontanissimi dall’idea che, per fortuna, abbiamo della giustizia. Della sua compostezza, sobrietà, misura. E ancora della sua sensibilità, dell’empatia con chi ha subìto torti e prepotenze. Della sua capacità di tenere la rotta fra le tempeste e di non fare naufragio, sprofondando negli abissi delle miserie umane. Qui, invece, la navicella ha imbarcato acqua, fino a sfasciarsi irrimediabilmente. E le voci che si alzano denunciano tutte questa aggressività smodata: la tirocinante della Scuola di specializzazione spiega di «aver vissuto le avances contenute nelle mail come una forma di invasione della sua vita privata e di aver sempre evitato una reazione decisa per non “scontrarsi” con un magistrato che, fra l’altro, la stava aiutando con i suoi consigli nel percorso di studi». La Disciplinate è dunque chiamata a uno sforzo supplementare. «Peraltro», aggiunge il tribunale delle toghe, «tenuto conto delle funzioni di sostituto procuratore della Repubblica svolte dal dottor Malinverno, particolarmente grave risulta la violazione dei suoi doveri, trattandosi di funzioni collegate a una interrelazione diretta con gli altri soggetti processuali: sicché essa comporta, se possibile, un ancor più rigoroso livello di correttezza. Deve aggiungersi che la particolare ripetitività, con modalità costanti, della condotta del dottor Malinverno, riprovevole con riferimento alla oscenità del linguaggio utilizzato e alla morbosità delle attenzioni, induce a un giudizio di peculiare inclinazione del magistrato alla reiterazione ulteriore di tale condotta con altri soggetti con i quali abbia eventualmente contatti per ragioni del suo ufficio, e comunque di particolare compromissione dell’immagine del magistrato nell’ambiente in cui svolge la sua professione.» La prognosi è negativa. Infausta. «Ciò particolarmente», e qui il tribunale delle toghe sottolinea il punto dolente appena accennato, «ove si tenga conto di quanto riferito da una delle destinatarie delle attenzioni del magistrato, in ordine alla ormai diffusa opinione, nell’ambiente, della tendenza dello stesso alle avances, anche pesanti.» Appunto. Come si fa a lasciare la toga sulle spalle di chi l’ha sporcata in questo modo? Senza contare quell’altro dettaglio quasi raccapricciante da meditare ancora una volta: il PM che andava all’assalto di donne giovani e inesperte era il paladino dei più piccoli e deboli, quello che li tutelava dagli abusi degli orchi. Niente da fare. La Disciplinare, con un’altra giravolta, decide sì una sanzione bis, ma una punizione che non convince per niente. E anzi suscita critiche affilate: «Ne consegue», ecco la coda del verdetto, «la necessità del trasferimento dell’incolpato ad altra sede». Chi ha molestato, con tanto di strascico penale, sarà libero di farlo ancora. Certo, la sentenza mette qualche paletto per carità di patria: «Per quanto esposto, ritiene la Disciplinare di dover disporre altresì il trasferimento del dottor Malinverno ad altre funzioni, quali quelle di giudice civile, in relazione alle quali minore risulta il rischio di reiterazione di comportamenti analoghi a quelli già contestati, anche in considerazione della materia trattata, e di conseguente compromissione del prestigio della magistratura». Insomma, la corporazione mette in conto la possibilità che l’ossessione si manifesti di nuovo, che altre donne abbiano a soffrire e che la giustizia finisca ancora nella melma. Solo, si alza un argine per limitare i probabili guasti in arrivo. Non c’è altro da aggiungere. Anzi no: c’è un ultimo dettaglio spigoloso. La sentenza, censura più trasferimento al civile, arriva con grandissimo ritardo, addirittura il 13 maggio 2016. In prima battuta infatti, in una storia dai mille risvolti inquietanti, la Procura generale della Cassazione aveva spedito in archivio lo scandalo, fermando così l’urgentissima azione disciplinare per anni. In udienza, il PG si è giustificato spiegando che lui non aveva nella sua faretra le famigerate mail, recuperate invece dall’altro titolare dell’azione disciplinare: il ministro della Giustizia. Che in conclusione ha acceso i riflettori su Malinverno. L’ennesimo pasticcio in un pastrocchio senza fine.

I regali del giudice pizzaiolo

              La lista dei regali ricevuti è lunga e creativa come le sua multiforme attività di giudice pizzaiolo. O meglio, socio tuttofare e anima di una società che aveva infine aperto una pizzeria in una nota località di un’isola. Per far decollare l’amato locale si era speso in tutti i modi recuperando quello che gli serviva, più altri benefit da due suoi imputati. Sì, proprio così. In un gioco spericolato al di là della legge, aveva ricevuto le stoviglie necessarie per far funzionare il ristorante, il furgone per trasportarle, una macchina per il ghiaccio, un computer Apple e, già che c’era, una Smart a prezzo stracciato e un appartamento messogli a disposizione gratuitamente; infine uno dei due, evidentemente del ramo, l’aveva prodigiosamente aiutato a ritrovare i beni rubatigli in casa. Un signore, il giudice Andrea Piccoli, circondato da gentiluomini. Un magistrato al centro di una trama vorticosa di operazioni illecite e di una rete di rapporti degna di un pregiudicato, una toga che non si curava né della forma né della sostanza, ma pensava solo ai suoi affari, dispensava consigli agli imprenditori nei guai con la legge, aveva piazzato un bel soggetto, Alex Desantis, coinvolto in un traffico di cocaina, come socio nella sua oxfordiana società. Si potrebbe continuare a lungo descrivendo la voracità di Piccoli, gli intrecci con ambienti criminali, gli incroci attraversati infischiandosene del rosso lampeggiante sul semaforo del codice penale, della deontologia, del buonsenso. Basti dire che quando Desantis, il suo socio, era stato accusato di spaccio, non si era perso d’ animo, non era corso a nascondersi in qualche eremo, ma aveva chiamato il fratello Giorgio, avvocato, a difenderlo. Un personaggio pirotecnico, Piccoli: uno che parlando con un’impiegata del tribunale il 17 giugno 2016, in una conversazione intercettata, liquidava con toni sprezzanti e minacciosi un collega, PM come lui, che faceva solo il proprio dovere: «La lottizzazione ce la facciamo con calma e lui adesso se la piglia in culo». British fino alla virgola, il giudice alla pommarola. Un’esistenza movimentata, quella di Piccoli. Il suo errore? Esagerare. Quando i carabinieri il 29 aprile 2015 vanno a controllare i locali dove sta per aprire Pizzabella, la sua creatura, lui perde la bussola. Il giorno dopo va direttamente in caserma e cerca un maresciallo dell’Arma che conosce, poi, non avendolo trovato, affronta il comandante della Tenenza. Il colloquio è un balletto sul precipizio dell’illegalità: «Qualificatosi quale GIP/GUP del tribunale», ricostruirà la Disciplinare, gli «riferiva del suindicato controllo», gli «lasciava il proprio numero di cellulare», e gli «chiedeva di poter essere avvisato personalmente nel caso vi fossero dei problemi relativi a quel controllo e a controlli futuri, sottolineando che in quel locale sarebbe stata aperta una pizzeria gestita da una nuova società dove avrebbe lavorato la sua fidanzata, e altre tre persone fra cui la persona che in quel momento era in sua compagnia». Non una ma dunque ben quattro pedine del sistema Piccoli: un poker di intoccabili. Un avviso mafioso quello del magistrato, garbato nei modi ma ultimativo nella sostanza. Un tentativo classico nell’Italia delle consorterie di mettere a posto i problemi con un’esibizione di potere, un’alzata di sopracciglio, un ammiccamento fra toga e divisa. A volte funziona, a volte no. Il sottufficiale non si lascia condizionare e fa una segnalazione: parte la ruota dell’indagine. Lui non lo sa, ma continua comunque a fare rumore, a muoversi con la leggerezza di un elefante in cristalleria, a cercare sponde conniventi se non complici a Palazzo di giustizia. Invece di appiattirsi, di mimetizzarsi, di tenere un profilo basso, si fa notare e vedere con comportamenti che offrono nuovo carburante al lavoro di scavo dei PM. Nei mesi successivi, sempre nel 2015, bussa ripetutamente alla porta della collega Cinzia Valdago, titolare del procedimento in cui è coinvolto Desantis, cercando di carpire informazioni per lui vitali. Un pressing che provoca alla Valdago «un forte stato di ansia»; poi nella mente della magistrata si accende una spia e la PM finalmente ricollega tutta quella imbarazzante curiosità alla situazione di Desantis: «Sapevo che aveva un ristorante insieme al collega». A questo punto lei gli urla: «Non permetterti mai più di parlarmi di cose mie di lavoro». Piccoli è fuori controllo e a giugno azzarda un’altra mossa incauta che desta ulteriori sospetti: si toglie dall’organigramma della società, la Fiore, e si fa sostituire in corsa, in modo fittizio, dal solito fratello avvocato. Insomma, violazioni del codice e furbate dal respiro corto, una dietro l’altra. Il 12 maggio 2015, assolve dall’accusa di stalking Andrea Stanca, uno dei due imprenditori cui è legato a filo doppio, quello che gli ha fatto arrivare sul suo tappeto volante un bel pacco dono: il computer, il furgone e pure un’investigazione risolutiva per riavere quel che gli era stato rubato. Avrebbe dovuto astenersi, lasciare il caso a qualcun altro, invece lo spinge come un carrello della spesa nella direzione voluta e passa all’incasso. Attenzione: non ci sono tracce di assegni, di tangenti, di bustarelle, ma gli omaggi – le utilità come le chiama il codice – sono cosa gradita e una delle cause principali dell’esplosione dell’indagine: il 28 novembre 2016 il disinvolto magistrato finisce agli arresti domiciliari per corruzione in atti giudiziari. Insieme a Stanca e Alberto Brambilla, l’altro imprenditore «mecenate». Subito dopo, si mette in moto anche l’indagine disciplinare: i capi d’accusa si accatastano uno sull’altro come legna sul fuoco. Plateali e avvilenti. L’uomo della legge ha fatto a pezzi la legge, in un traffico inaccettabile di favori e illeciti. Le giravolte, le spiate e le soffiate di Piccoli sono innumerevoli e sempre dettate dal tornaconto, mai dall’interesse della giustizia. Alzato il sipario, emerge di tutto. Ad esempio, il 16 gennaio 2016 passava a Brambilla, uno degli amici con tante disavventure giudiziarie sulle spalle, una notizia per lui fondamentale: il GIP di quel procedimento non avrebbe fatto in tempo a concluderlo e se ne sarebbe dovuto andare da un momento all’altro per essere rimasto in quell’ufficio dieci anni. Piccoli studia a tavolino le strategie di questo o quell’indagato: in un caso mette a fuoco la posizione del fratello di un conoscente, in un altro discute l’arresto del figlio col padre corso da lui. Sempre a brigare. Il giudice della legge lavora contro la legge. Per eluderla, aggirarla, mandarla al tappeto. Finché la legge non interviene, sferrando il colpo del ko. E portando a galla il marcio, scoperchiando le miserie che spesso avvelenano e soffocano, da Nord a Sud, la provincia italiana. Decantata talvolta come un paradiso lontano dalla convulsione delle metropoli, ma nella realtà non sempre all’altezza di quest’immagine da cartolina. Anzi, governata da ristrette oligarchie che piegano alla loro volontà i meccanismi istituzionali. E popolata da figure squallide, come Piccoli, preoccupato solo della gestione del forno. E della cricca dei suoi sodali. Le sue liaison con personaggi marchiati dalla giustizia sono non solo deplorevoli ma anche velenose e iniettano tossine nel circuito giudiziario. E infatti sono numerosi i magistrati vittime delle sue allusioni, menzogne, insinuazioni. Dal PM bollato col vaffa registrato dalle cimici alla PM assediata per capire a che punto fosse il fascicolo aperto su Desantis. E ancora, il presidente del tribunale cui aveva spacciato una solenne bugia. Nel formulare istanza di astensione da un procedimento, Piccoli aveva scritto infatti di aver incontrato persone che gli avevano parlato dell’indagato fornendogli alcune informazioni. Non era così. Nella realtà aveva visto proprio lui, l’uomo al centro dell’inchiesta, il 13 aprile 2016. E pure il figlio, seguendo sempre il proprio istinto: sporcarsi bene le mani. Il 7 dicembre 2016, pochi giorni dopo l’arresto, il procuratore generale della Cassazione e il ministro della Giustizia chiedono in simultanea la stessa misura: sospensione della toga dalle funzioni e dallo stipendio. Bisogna attendere, come da rituale, che la giustizia penale faccia il suo corso e mai come in

questa occasione il rispetto della procedura non può essere formale e astratto. Davvero una situazione così grave dev’essere risolta in fretta. Il più rapidamente possibile. Senza lasciare nell’ambiente retropensieri maligni su omissioni o, peggio, coperture. Senza perdere tempo, dunque, la Disciplinare fa la sua parte e il 16 dicembre 2016 dispone l’inevitabile: Piccoli viene sospeso dalle funzioni e dallo stipendio come proposto dai due titolari dell’azione disciplinare e parcheggiato, per il momento, in panchina «fuori dal ruolo organico della magistratura». Giustizia – prima parte – è fatta.

Il giudice lo lascia libero

e lui uccide la moglie

            Lei ha, anzi aveva 41 anni. Lui 52. Giovanna e Mohamed. Lei veniva da un paesino del Sud, lui dal Marocco. Marito e moglie in un lembo di terra affacciato sul mare. Lui ha un lavoro, fa il giardiniere, ma litiga furiosamente con Giovanna. Si separano, perché la convivenza è diventata impossibile. Peggio, lui la perseguita e finisce pure in cella per due mesi. Infine, il giardiniere compare davanti al giudice che deve stabilire la pena per i maltrattamenti. Pochi giorni, come in un film dell’orrore, verso il finale spaventoso. Il 15 aprile 2015 i carabinieri lanciano un primo avviso. Il marito separato ha violato gli obblighi: il divieto di contatto e avvicinamento alla moglie. Qualcosa stride: inizia la stagione, si aprono gli ombrelloni, nella Riviera che va in vacanza si prepara l’ennesimo femminicidio. L’allarme non viene raccolto dal giudice, ma nelle ore successive al magistrato arrivano almeno altre tre segnalazioni. Attenzione: l’uomo continua a violare le prescrizioni del giudice, bisogna intervenire, occorre fermarlo prima che sia troppo tardi. Il 27 aprile 2015, il giorno precedente il verdetto, la Procura interviene chiedendo un aggravamento delle disposizioni, in pratica per il PM l’uomo deve tornare in carcere. La misura cautelare è necessaria, mentre il procedimento è ancora in corso. Il magistrato, inspiegabilmente, non consulta il PM e neppure l’Arma. Non valuta, non si fa cogliere dal dubbio e neppure si scomoda un quarto d’ora per sentire le ragioni di chi gli sta tratteggiando una situazione cupa. E sempre più angosciosa. Il 28 aprile arriva la sentenza. L’irreparabile non è ancora avvenuto e il giudice Demetrio Orlando potrebbe scongiurare un finale violento. Ma ancora una volta chiude gli occhi: c’è un accordo di massima fra accusa e difesa per concordare la pena, ma Orlando fa di testa sua e lo modifica al ribasso con una scelta sciagurata. Presa oltretutto in perfetta solitudine, senza alzare il telefono e ascoltare almeno il pubblico ministero. Mohamed viene condannato a due anni di carcere: scatta quindi, dettaglio decisivo, la sospensione condizionale della pena. L’uomo è libero, libero di uccidere l’ex moglie. Si va verso l’epilogo che arriva puntuale un mese dopo, il 2 giugno. Lui va a casa di lei, prende un coltello da cucina e le spacca il cuore. Poi vibra altri nove colpi, davanti alla figlia quattordicenne della donna. Non è finita: Mohamed punta il coltello contro se stesso e colpisce finché ha forza. Uno scempio. Quando arrivano i soccorsi lei è già morta, lui agonizza, la ragazzina urla. Il funerale della poveretta si svolge tra polemiche furibonde. Una fiaccolata in memoria della vittima non placa gli animi. Perché lo Stato ha consegnato Giovanna al suo carnefice? Una domanda che abbiamo sentito risuonare troppe volte in questi anni. Il procedimento disciplinare dovrebbe chiarire le ragioni di questa drammatica eclissi. Ma non c’è tempo: Orlando lascia a precipizio l’Ordine giudiziario. Game over. Il capo d’incolpazione riassume solo la mortificante e terribile vicenda: «Con grave violazione di legge» concedeva a Mohamed «sentenza di patteggiamento con il beneficio della sospensione condizionale della pena sebbene questo non fosse previsto nell’accordo raggiunto fra le parti e senza adeguatamente valutare la richiesta di aggravamento della misura a lui trasmessa dal pubblico ministero o, quantomeno, la segnalazione dei carabinieri pervenuta in data 15 aprile dalla quale risultava l’avvenuta violazione degli obblighi…» C’è aria di tempesta e la tragedia si scatena: «La violazione di legge e la scarsa diligenza contribuivano in modo determinante alla mancata adozione di ogni utile iniziativa processuale, sia da parte sua che della Procura, nei confronti del signor Mohamed che il 2 giugno successivo raggiungeva la moglie nel suo domicilio e la uccideva per poi togliersi la vita». Ma non c’è spazio per approfondire: per confermare o smentire. Orlando se ne va, addio alla toga. E al processo.

Il giudice ubriaco

              Il ritratto schizzato in piena notte dagli agenti della polizia giudiziaria è impietoso: «L’alito fortemente vinoso, l’equilibrio evidentemente precario, il tono di voce immotivatamente alto, gli occhi lucidi e il linguaggio sconnesso». Così si presentava, fra i vetri e i rottami sparsi in strada, Aurelio Sacco, giovane e brillante magistrato con nemmeno un anno di toga sulle spalle ma troppo alcol nel sangue. Ubriaco fradicio, come si dice in questi casi. Le tre del mattino del 6 aprile 2013. Si può rovinare una carriera in pochi minuti, certo in quei frangenti Sacco dà il peggio di sé: prima provoca un incidente andando con la sua Smart ad accartocciarsi contro la vettura di un altro incolpevole automobilista, poi esce barcollante dalla vettura sfasciata e balbetta parole in libertà. Definirlo alticcio è fargli un complimento, l’adrenalina è a mille, la vista annebbiata e la lingua legata, ma Sacco non è così svanito come può sembrare. Anzi, gioca la carta del «lei deve sapere chi sono io». Si qualifica: «Sono un magistrato» ed estrae il tesserino di riconoscimento. Poi implora: «Non fatemi l’etilometro». Gli agenti procedono. Inflessibili. I risultati sono in linea: 2,9 g per litro. I valori sono sballati, l’onore della magistratura sotto i sedili spaccati. La notte brava del bravo giudice si chiude qua. La sbornia evapora nel giro di qualche ora, gli strascichi della vicenda si fanno sentire nelle settimane successive. Prima arriva la condanna penale, mitigata dalla scelta del rito abbreviato che garantisce lo sconto di un terzo: 4 mesi più un’ammenda di 2000 euro. Non proprio una sciocchezza nel curriculum di chi è chiamato ad amministrare la giustizia. E invece Sacco ha commesso un reato e ha messo a repentaglio la vita altrui. Siamo al secondo round: il procedimento disciplinare deve pesare il comportamento scorretto, l’appannamento dell’immagine pubblica, quello stomachevole e inutile sfoggio di potere, secondo la peggior tradizione patria; insomma, la caduta di stile e il tentativo di aggrapparsi alla toga per uscire da quella situazione penosa e imbarazzante. Una successione di scivolate che la Disciplinare registra mettendole in fila: «L’autorità giudiziaria ha proceduto nei suoi confronti per l’ipotesi più grave di guida in stato di ebbrezza, cioè quella che si verifica quando il livello di alcol nel sangue è superiore a 1,50 g/l». Ancora: «La sussistenza di due aggravanti, dal momento che venne cagionato un incidente e il fatto si verificò in orario notturno». E poi, a seguire, il penoso show davanti alle divise: «Il dottor Sacco tenne nell’immediatezza una condotta idonea a pregiudicare la sua immagine di magistrato posto che non solo dimostrò tutti i sintomi del grave stato di alterazione psicofisica nel quale si trovava, ma cercò anche di convincere gli operanti a non procedere con la prova dell’etilometro». Un disastro. «Nel complesso», proseguono i giudici delle toghe, «si tratta di un fatto di particolare gravità, dal che discende l’affermazione di responsabilità disciplinare a carico dell’incolpato.» La colpa c’è e per l’opinione pubblica non sarebbe facilmente superabile. Difficile accettare una condanna letta da un giudice protagonista di un rodeo del genere e di una reazione scomposta, persino peggiore del danno commesso. Ma la Disciplinare usa altri parametri e un metro più elastico, se non altro per riguardo alle aspettative di un uomo di legge alle prime esperienze. Meglio dosare con il contagocce la pena per non affondare Sacco nell’errore compiuto. «Le successive positive valutazioni ottenute nel percorso professionale confortano in ordine al profilo complessivo del giovane magistrato ed è, allo stato, ipotizzabile che l’esperienza del procedimento disciplinare possa restare isolata nel prosieguo della carriera.» Il trattamento è morbido, anche se la Disciplinare sentenzia in nome del popolo italiano. E certi verdetti possono sembrare indulgenti. Fin troppo. Alla fine, l’11 novembre 2016, tre anni e mezzo dopo quel crash, Sacco se la cava con la sanzione più lieve: l’ammonimento. E di fatto nemmeno una cicatrice sul futuro della sua professione.

Il giudice e la rissa da saloon

              Una rissa da saloon del West in piena regola. Urla. Graffi. Oggetti scagliati nel ristorante, fra il terrore dei presenti che chiamano la polizia. Scene da film alla John Wayne, mancano gli stivaloni, i cavalli e la polvere ma c’è pure la stella della legge che però sta dalla parte sbagliata. E non siamo in una pellicola; no, è tutto vero, tutto documentato, tutto confermato dai testimoni. C’è persino un filmato di 35 secondi che immortala le imprese dei fratelli Venditti: Angelo e Marco, venuti alle mani con la banconista e il proprietario del ristorante al termine della festa allestita all’interno del locale, in una città dell’Italia centrale. Angelo Venditti non è uno sconosciuto che possa passare inosservato; no è un pubblico ministero in servizio alla Procura della Repubblica ed è titolare di inchieste delicatissime. Ma il 22 gennaio 2016 sfoggia altre doti da urlatore e boxeur con il fumo dell’ira che gli esce letteralmente dagli occhi e quasi lo acceca, come in un affresco medioevale. Il banchetto è appena finito, gli ospiti se ne stanno andando, qualcuno – in particolare i due fratelli – deve aver bevuto molto. Angelo e Marco vanno al bar, dove c’è la cassa, per pagare, la sorella Francesca resta nelle retrovie. È un attimo e la miccia si accende. Angelo vorrebbe utilizzare la carta di credito ma il POS non funziona. Il PM allora comunica che verserà il dovuto successivamente, ma la banconista – questo il termine ricorrente nelle carte – lo invita a saldare subito il conto. E questo è sufficiente per far esplodere il magistrato. Angelo insieme al fratello dà fondo al suo repertorio di alta scuola: «Stai zitta cretina, non capisci un cazzo, sei una deficiente, torna a lavare bicchieri mongoloide e non rompere i coglioni, ho deciso di pagare domani». Una requisitoria da applauso. Accorre il padrone del locale e qui lo «sceriffo» si supera: gli salta al collo graffiandolo come una scimmia impazzita, mentre c’è chi tira fuori un telefonino o una telecamera e comincia a filmare la scena. Angelo, sempre spalleggiato dall’inseparabile fratello, torna dalla ragazza e aggiorna la litania: «Tu non sai chi sono io? Io sono un sostituto procuratore della Repubblica e ora ti rovino indagandoti per estorsione e sequestro di persona». C’è da rimanere allibiti. Intanto arriva la polizia, sollecitata addirittura da alcuni abitanti della zona, preoccupati dal degenerare della situazione. Il PM ha appena lanciato qualcosa contro il personale del locale. Ma che cosa? Il filmato nelle mani della Mobile aiuta a capire: «La persona, poi identificata in Angelo Venditti», è la ricostruzione della Disciplinare, «si era avvicinata con fare aggressivo al bancone e aveva inveito nei confronti dei presenti lanciando sul bancone qualcosa che sembrava essere la targhetta originariamente apposta sulla vetrata del locale che indicava la possibilità di pagare con moneta elettronica.» Il PM non spacca i piatti, ma poco ci manca come da copione. Altre testimonianze completano il quadro sconfortante: «I due uomini erano palesemente ubriachi». Rivelazione che non si fa fatica a credere. E poi: «Hanno anche riferito che uno dei due protagonisti si era vantato di essere un procuratore o un uomo di legge». E l’ha rivendicato senza arrossire, ma forse era già rubizzo. La sguaiata piazzata è avvenuta alla luce del sole, come certe spedizioni punitive organizzate dai malavitosi. Solo che Venditti non appartiene alla criminalità, anzi rappresenta lo Stato. E però, a ben vedere, nel suo curriculum si scorgono altre crepe. Un episodio desta particolare preoccupazione, anche se per motivi non chiari è sfuggito alle griglie del giudizio disciplinare; il 3 maggio 2014 i carabinieri avevano sorpreso Venditti dove non doveva essere: «All’interno di un locale notturno, in compagnia di tre pregiudicati segnalati per vari reati, anche gravi». Un’eccezione? Un caso o altro? Chissà. Di sicuro un altro passo falso che la Disciplinare cita en passant. Il tribunale delle toghe, già mortificato per la bassezza della vicenda trattata, non sa più da che parte voltarsi ma non ha la possibilità di approfondire quella frequentazione poco raccomandabile nelle ore piccole che misteriosamente non è stata sviluppata e contestata a Venditti. Restano però quegli scatti incontrollati, quelle sfuriate rabbiose, quei diverbi da osteria ambientati un po’ ovunque: fra piatti e bicchieri ma anche nei corridoi dell’austero Palazzo di giustizia. Il 13 ottobre 2015 si trova faccia a faccia con un collega nel suo ufficio. Venditti parte in quinta come un toro contro il drappo rosso. Gli contesta l’assegnazione di un procedimento d’ufficio. Un fatto tecnico interpretato come uno sgarbo, anzi un affronto. Il PM si infiamma, urla, dà in escandescenze. Due marescialli, presenti, provano a calmarlo. Intervengono altri magistrati, pure nella stanza. Risultato: Venditti si avvicina come un invasato al suo bersaglio, in un crescendo di minacce. Ma ci sono troppe persone e alla fine qualcuno riesce a spegnere quell’incendio spropositato e sproporzionato, incomprensibile rispetto al modesto innesco. E comunque inaccettabile. Però quella vicenda e altre ancora finiscono nelle carte della Disciplinare: non è possibile avere in prima linea un PM che prende fuoco come paglia. La Disciplinare deve intervenire, anche perché in Procura si rischia l’ammutinamento generale. L’8 luglio 2016 il capo dell’ufficio ha denunciato in una drammatica nota «il progressivo peggioramento dei rapporti fra Venditti, i colleghi e il personale». In pratica, il magistrato ha scelto di isolarsi rispetto a tutti gli altri, «in un clima di complessiva conflittualità incompatibile con le condizioni di serenità e fiducia necessarie per l’esercizio delle delicate funzioni» di PM. D’altra parte, il procuratore è stato spinto a esporsi da due note dei sostituti procuratori che hanno squarciato il velo su quei comportamenti caratteriali e hanno descritto una situazione insostenibile: «I ripetuti, aggressivi e irriguardosi atteggiamenti subìti a opera del dottor Venditti hanno inciso sulla serenità dei rapporti tanto da rendere progressivamente impraticabile la necessaria interlocuzione con il collega». Nessun contatto diretto, «solo note e comunicazioni scritte». In anticipo sui tempi cupi del coronavirus. Ma un carattere irascibile può guastare da solo una comunità. Venditti è una mina vagante e diventa quasi comico ricordare che un magistrato deve mostrare equilibrio e non nervi fragili, deve mantenere sempre la necessaria lucidità e non scagliarsi come un lottatore contro chi l’abbia contraddetto, deve essere paziente nell’ascolto e nel dialogo, non impulsivo fino all’isteria. L’incolpato – è l’amara conclusione del tribunale delle toghe – non può «continuare a svolgere le sue attuali funzioni, avendo il dottor Venditti dimostrato di non saper esercitare con la dovuta ponderazione e riservatezza la funzione di pubblico ministero a cui deve anche chiedersi estrema prudenza e discrezione, doti di cui l’incolpato appare essere carente, anche in considerazione della sua condotta tenuta fuori dall’ufficio». Con la clamorosa e fragorosa esibizione muscolare al ristorante. Altro che prudenza e discrezione: i tratti alterati di Venditti e i suoi modi da gangster hanno fatto il giro del Palazzo e hanno provocato mormorii, sghignazzi e invettive in un’opinione pubblica sempre più frastornata.

«Gli episodi contestati», è la constatazione della Disciplinare, «sono diventati di comune dominio e hanno pertanto determinato l’oggettivo appannamento della credibilità professionale non solo del magistrato ma anche dell’immagine dell’ufficio dinanzi all’opinione pubblica, alle forze di polizia e agli ambienti forensi.» Appannamento è un vocabolo diplomatico per descrivere un quadro dai colori scuri. Quelle espressioni truculente, da fumetto alla Tex, hanno provocato un crollo di autorevolezza e prestigio che non ha bisogno di alcuna spiegazione. E poi, come se non bastasse, sulla testa di Venditti è caduta un’altra tegola: la condanna, inevitabile dopo il raid con il fratello, per violenza privata e minaccia. Le conclusioni della Disciplinare sono in linea con le richieste della Procura generale: L’11 novembre 2016 Venditti viene trasferito in un’altra città e destinato a fare il giudice con cambio in corsa delle funzioni. Tutto questo «al fine di limitare gli effetti delle gravi condotte dell’incolpato, ripristinare il corretto assetto dei rapporti istituzionali, tutelare l’immagine della magistratura e infine impedire che analoghi comportamenti siano ulteriormente perpetrati». Il tentativo è quello di bonificare un Palazzo in cui Venditti è prigioniero della propria incomunicabilità e ha alzato un muro. Per abbatterlo, occorre spostarlo in una città diversa e collocarlo in un ruolo meno esposto, lontano dalla trincea logorante della Procura. Un’operazione che, pur con tutte le buone intenzioni, suscita stupore: maleducazione, volgarità, un carattere squilibrato e l’incapacità nel gestire sentimenti ed emozioni non sono vestiti che si indossano e si sfilano spostandosi di 100 o 200 chilometri. Anzi, il giudice dovrebbe essere in grado di assorbire i colpi della realtà e di trasmettere agli altri rigore e misura anche più di un pubblico ministero che rappresenta l’accusa ed è pur sempre una parte. Un PM incapace di controllare i venti delle passioni difficilmente si trasformerà in un magistrato asettico e distaccato solo per essere stato chiamato a pronunciare sentenze. Dopo un trasloco, come un mobile. Ma questa è la scelta della Disciplinare: fermare quell’insostenibile cortocircuito, raffreddare gli umori, immaginare un nuovo incipit. Senza il peso di ruggini e incrostazioni, senza animosità. Sperando infine che l’albero storto si raddrizzi sotto un altro cielo.

Il giudice sbaglia sentenza

              C’è il medico che opera la gamba sbagliata e c’è il giudice che confonde il caso. Come Arlecchino cuce insieme due vicende diverse. E appiccica alla storia trattata nel processo, una banalissima causa per lavori svolti e pagati a metà, una sofisticata disquisizione sull’opera intellettuale che non c’entra niente. Come pure l’udienza richiamata, mischiando mele e pere, e il teste evocato a rinforzo della propria tesi. Teste che, dettaglio non proprio trascurabile, aveva parlato in un altro procedimento. La nostra giustizia sgarrupata non si fa mancare davvero niente, neppure la beffa di una motivazione sbagliata, piovuta nel testo del verdetto per un errore di copia e incolla. Eppure succede. È successo in un processo che, a leggere le date riassuntive, si era già abbondantemente trascinato per cinque anni, dal 2008 al 2013. Una storia come tante, senza particolari impennate: una società reclamava un certo importo, il presunto debitore sosteneva di aver già saldato il tutto. Tutto qua. Eppure il giudice, Amedeo Filippi, scivola su questa buccia di banana e scrive alcune dotte pagine dissertando di tutt’altro. Per fortuna quando si tratta di decidere vira di nuovo misteriosamente verso il caso di partenza e compone un dispositivo adeguato alla contesa: dà torto alla parte attrice, insomma a chi aveva iniziato la causa, e ne rigetta la domanda. Ma per il resto è lontano dal campo della contesa e si inerpica su altre complesse tematiche: «Oltre a qualificare l’azione proposta dalla parte attrice», scrive sbalordita la Disciplinare, «come azione di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale (e non quindi come azione diretta a conseguire il residuo corrispettivo contrattuale) attribuisce al contratto intercorso fra le parti una natura mista di mandato e di opera intellettuale, concernente non solo la progettazione e la direzione dei lavori di ristrutturazione ma anche il compimento dell’attività amministrativa per conto dei committenti, incarichi questi che non trovano alcun riscontro nell’esposizione in fatto». Incredibile ma vero, come lo strano ma vero di certi stridenti paradossi della gloriosissima Settimana Enigmistica. Ma qui siamo in tribunale e si può comprendere l’esasperazione della parte attrice nel leggere dopo cinque anni di attesa tutti quei concetti campati per aria. Così la società, delusa per come è andata a finire ma soprattutto decisa a dare battaglia per quella sorprendente motivazione, propone a razzo appello, «sopportandone», nota la Disciplinare, «i relativi oneri». Se uno deve perdere, che almeno sia sconfitto rispettando le regole. Qui invece è come se in un campo da tennis l’arbitro avesse esibito una mazza da golf e sostituito nella valutazione i set con le buche. Una confusione vertiginosa. Ubriaca. E lo stesso tribunale delle toghe deve fare uno sforzo per trovare le parole adatte: ecco così che la famigerata motivazione viene definita «affatto eccentrica». Insomma, ha a che fare con la questione posta come i cavoli a merenda. Sconcerto e ironia non sciolgono il nodo. È andata proprio così, il verdetto 426 del 2013 stabilisce un nuovo primato nell’Italia che non funziona. E il suo autore costernato prova a spiegare: «La bozza della sentenza era stata salvata in due file con denominazioni simili: mentre il primo conteneva la bozza definitiva il secondo file conteneva invece una prima stesura della sentenza che era stata elaborata partendo da un precedente relativo a una fattispecie analoga». Si comincia a intuire la genesi del pasticcio. «In questo secondo file», prosegue il magistrato, «la parte in fatto nonché il dispositivo riguardavano proprio il giudizio 1523/2008.» Entriamo in una commedia degli equivoci, alla Plauto. Il fatto e la conclusione, per fortuna, sono corretti, la motivazione si riferiva invece a un altro caso: «La parte motiva non era stata ancora redatta ed era pertanto rimasta quella relativa al modello utilizzato concernente la fattispecie analoga». Un ibrido da correggere ma diventato, per una svista, la versione ufficiale e definitiva. Anche perché i ritmi, si difende Filippi, erano e sono indiavolati: in un’unica udienza era stata fissata la trattazione di 10 cause più la discussione di altri 10 processi, con annessi provvedimenti da depositare nella stessa giornata. Una corsa contro il tempo, obiettivamente, che aveva contribuito a provocare lo sgradevole incidente. Filippi aveva aperto il file sbagliato e aveva messo in circolo la bozza errata, senza «avvedersi delle incongruenze della motivazione stante la similarità delle questioni trattate nonché la correttezza dell’esposizione in fatto nonché delle statuizioni formalizzate in dispositivo». Dunque, l’inizio e la fine, almeno quelli, erano giusti. E in qualche modo avevano tratto in inganno il giudice che andava di fretta. E che poi sarebbe stato tradito anche da una certa somiglianza fra le due storie. In realtà l’assonanza è piuttosto vaga: basti dire che si fa riferimento a un teste, peraltro mai ascoltato, chiamato nell’udienza del 14 maggio 2013, mai celebrata nel procedimento giusto. E pure il passaggio sulla domanda riconvenzionale, insomma sul contrattacco del convenuto, galleggia nel vuoto. Le due trame vanno in direzioni diverse e non si incontrano. «Emergono per tabulas», fa notare la Disciplinare, «una serie di incongruenze talmente evidenti da rendere la motivazione in nessun modo riferibile alla controversia tenuta in decisione.» L’errore c’è tutto: «La motivazione riportata nel provvedimento è del tutto mancante, dovendo al riguardo essere considerato che l’atto censurato era privo di una sua struttura argomentativa in qualche modo riferibile a quella controversia». Insomma, la spiegazione chiarisce ma non giustifica. Ma la Disciplinare non se la sente di condannare Filippi per quello svarione, clamoroso, quasi comico, ma isolato e nella cornice di una giornata difficile: rifatti i conti, emerge che in quell’udienza con ritmi da catena di montaggio il giudice aveva affrontato ben 29 procedimenti, fornendo anche a pacchetto entro la sera un corredo di dieci sentenze. «Il notevole sforzo profuso», è il ragionamento del tribunale delle toghe, «in quel giorno di udienza aveva determinato l’unico errore in cui era incorso il magistrato il quale – intento a definire nella stessa giornata un numero di sentenze sostanzialmente corrispondente a quasi due terzi della statistica media mensile di un giudice addetto al settore civile – non si era accorto di non aver “rimodellato”, sulla base di un precedente caso analogo, la motivazione di una delle dieci sentenze che aveva dovuto scrivere e depositare nelle poche ore successive alla impegnativa giornata di udienza in cui aveva dovuto trattare numero 29 procedimenti civili.» L’adattamento era rimasto nella penna, anzi nella pennetta. Se il testo affonda il giudice con quell’errore da dilettante allo sbaraglio, il contesto lo riabilita con quell’impegno quasi sovrumano e numeri da stakanovista: una valanga di provvedimenti e sentenze fino a sfornare in ventiquattr’ore quel che un giudice civile produce in venti giorni. Non solo: quell’exploit non era stato il frutto di una giornata particolare. Anzi. Il giudice da poco arrivato in quell’ufficio sommerso da pile e pile di fascicoli arretrati, si era impegnato allo spasimo per smaltire quel carico: «Un tale modus operandi – finalizzato a una celere definizione dell’ingente ruolo del magistrato che aveva da poco preso possesso presso il tribunale dell’ufficio – era stato più volte oggetto di apprezzamento da parte dello stesso presidente del

tribunale il quale, nel relazionare sui fatti oggetto di valutazione in questa sede, aveva evidenziato che l’incolpato era stato ai vertici della produttività sia nell’anno 2013 che nell’anno 2014 avendo depositato, nel solo secondo semestre del 2013 (epoca in cui era stata depositata la sentenza oggetto di censura) ben 196 sentenze, provvedendo poi a depositare 204 sentenze nel successivo primo semestre del 2014.» Insomma, Filippi aveva dato l’anima, salvo perdere l’equilibrio come un bambino. Impossibile per la Disciplinare non provare simpatia per quel campione del lavoro inciampato nella propria dedizione. E allora la morale è semplicissima: anche ai migliori capita di sbagliare. E pazienza per chi si trova in quello sfortunato frangente dall’altra parte della scrivania. Scrive proprio questo il tribunale delle toghe ritornando ancora sullo sforzo profuso: «In definitiva l’omissione motivazionale non può ritenersi essere determinata da scarso impegno o limitata diligenza potendo invece l’errore essere scusato in ragione dell’evidente notevole sforzo profuso dal magistrato nell’espletamento dell’attività giurisdizionale». Il 24 novembre 2016 Filippi viene assolto. E la capriola della giustizia va in archivio con buona pace di chi era stato tradito e aveva perso la causa con le parole usate in un’altra sentenza.

Il giudice dimentica gli imputati

ai domiciliari

            Quattrocentoventotto giorni. Più di un anno agli arresti domiciliari per un erroraccio del GIP. Il giudice Simone Pacconi avrebbe dovuto rimettere in libertà i due imputati il 20 maggio del 2013, quando il procedimento per reati di criminalità organizzata era arrivato all’altezza dell’udienza preliminare e il tempo della custodia cautelare era scaduto. Invece, il magistrato li scarcerò solo l’agosto dell’anno successivo, il 2014. Uno slittamemto lunghissimo, imperdonabile per chi custodisce la legalità. Pacconi sbaglia e lo fa in modo clamoroso, oltretutto con due persone che erano detenute solo per quella vicenda. Dunque immediatamente libere se la legge fosse stata rispettata. E invece no. Una ferita grave nel sistema giudiziario. Provocata dalla superficialità del magistrato: Pacconi interpreta in modo creativo, ovvero fantasioso, l’articolo 304 del codice di procedura penale e dispone la sospensione dei termini di custodia applicando uno stop che in quella situazione non può essere imposto. È il 18 maggio 2013 e nella testa di Pacconi il conto alla rovescia si interrompe, ma in realtà va avanti e due giorni dopo, il 20 maggio, giunge al termine: i due devono essere liberati, in realtà escono solo l’8 agosto del 2014. Con un «bonus cella» di 428 giorni. Una zavorra pesantissima. E una vergogna. Che però diventa scandalo se si legge l’intera storia: l’errore nasce infatti da un altro errore del PM che chiede l’applicazione di quella norma pensata per altre situazioni; non solo, la difesa non si accorge di nulla. Non protesta. Non strepita. Non sale sulle barricate, in aula o sui giornali. Se la cava con un’opposizione di circostanza, senza denunciare il GIP che ha violato la legge. L’errore di uno diventa errore di tutti, collettivo, e tutti ne portano il peso, anche se con responsabilità diverse. Insomma, siamo davanti a una vicenda avvilente, anche se all’apparenza tutta tecnica, giocata sulla norma che regola la sospensione dei termini di custodia cautelare. Dunque, i meccanismi di funzionamento e la durata della privazione della libertà prima che la sentenza diventi definitiva. E però l’errore non può essere derubricato a spiacevole incidente in punta di diritto, come può capitare in un’aula di tribunale, ma colpisce per diverse ragioni, in particolare per la durata inammissibile e per il silenzio che lo accompagna nella connivente ignoranza delle altre parti: il pubblico ministero e gli avvocati non di una ma di due persone. «In conseguenza dell’adozione», riassume la Disciplinare», «in data 18 maggio 2013, nel corso dell’udienza preliminare, di un provvedimento di sospensione dei termini custodiali, utilizzando un istituto previsto e riferibile solo alla fase dibattimentale e al giudizio abbreviato, e non alla fase dell’udienza preliminare… determinava l’indebito protrarsi della carcerazione per gli imputati; in particolare, avendo quale GUP, la piena disponibilità degli atti del procedimento numero 13900/2008, non rilevava, alla data del 20 maggio 2013, l’intervenuta scadenza dei termini di durata della misura coercitiva degli arresti domiciliari imposta ai predetti imputati, non intraprendeva in proposito alcuna iniziativa, ritenendo sospesi i termini custodiali per effetto del provvedimento illegittimo sopra citato.» Non solo. L’errore si dilata al quadrato o al cubo per le modalità con cui è maturato. «Il giudice», spiega la Disciplinare, «non si è neppure posto un problema di interpretazione», insomma non ha pattinato sull’articolo 304 del codice di procedura penale, cercando di tirarlo da una parte o dall’altra in relazione al caso specifico: la mancata traduzione in udienza dei detenuti. Non ha tentato una lettura estensiva di quell’articolo del codice. No, ha sbagliato e basta: «E tale omissione, concretizzatasi nell’adozione di un provvedimento non previsto dalla norma, rappresenta grave negligenza». Ma lo sbaglio diventa ancora più preoccupante perché favorito e quasi ispirato da distrazioni di gruppo: «Non può però non riconoscersi il ruolo avuto dal PM e dalla difesa, così come rilevato dal giudice incolpato in sede di interrogatorio e nella memoria difensiva. Il PM infatti è autore di una richiesta illegittima»: era stata infatti l’accusa a formulare la sciagurata domanda di sospensione dei termini; «la difesa, d’altra parte, al di là di un’opposizione di rito all’udienza del 6 maggio 2013, non ha provveduto a impugnare l’ordinanza illegittima, né ha avanzato successivamente istanza di revoca della stessa». Insomma, nessuno è stato all’altezza del proprio compito, ma questo non può giustificare il magistrato: «Non può non rilevare come, indipendentemente dall’attività delle parti, rientri sempre e comunque fra i doveri del giudice quello del doveroso controllo sulla richiesta delle stesse parti e sulle condizioni che impongono il mantenimento di un determinato provvedimento». Come se non bastasse, salta fuori che Pacconi è uscito di strada un’altra volta: ha dimenticato in cella un terzo imputato, in tutt’altro procedimento, per 48 ore, disponendone la scarcerazione solo il 17 ottobre 2013 e non il 15 come avrebbe dovuto. Il giudice ci è ricascato. È recidivo. E questo per il solito problema del mancato rispetto dei termini di custodia cautelare. Inutile girarci intorno: non ha fatto i conti «in conseguenza della omessa previsione e adozione di un efficace sistema di controllo». Due giorni, sia pure di prigione, possono sembrare poca cosa rispetto ai 428 del caso precedente, ma la libertà non ha prezzo e l’anomalia non può essere giustificata e tollerata. Il 28 ottobre 2016 la Disciplinare – fra i cui componenti spiccano i nomi di Maria Elisabetta Alberti Casellati, futuro presidente del Senato, e di Luca Palamara, in seguito protagonista di uno scandalo che terrà banco per settimane, quello delle nomine negli uffici giudiziari – emette la sentenza: Pacconi viene condannato e la pena è quella della censura.

La PM morbosa

            Domande insistenti. Morbose. Imbarazzanti. Pagine e pagine di insinuazioni senza fine. La PM e la ragazzina: un procedimento delicato in cui un giovane è indagato per rapporti sessuali con una minorenne. La sua fidanzatina. Ma più che un interrogatorio l’esame della fanciulla sembra un trattato sulle ossessioni di chi dovrebbe capire come è andata. E invece si va avanti a oltranza con dissertazioni, tirate moralistiche, frasi semipornografiche, allusioni ironiche in una sorta di interminabile masturbazione mentale dell’accusa. «Eh», comincia la PM prendendola alla larga, «l’Aids, lo sai che si trasmette con l’atto sessuale? Lo sai questo o no? … Si vede dalla analisi del sangue… Il tuo fidanzato, per esempio? … Tu gli hai fatto fare il test dell’Aids? Sai se è malato o no? Per carità, speriamo di no, ma non è una cosa che uno c’ha scritto “Sono malato di Aids” oppure “Sono sieropositivo”.» Conclusa la viscida premessa, la PM piomba sul tema che la sconvolge come un treno ad alta velocità: «Eh, come si fa questo rapporto sessuale completo? Sei sicura che non lo sai o non lo vuoi dire? E come si fa? Cioè qual è l’atto? Si danno i baci? No, possono anche darsi i baci, mentre fanno l’amore, ma qual è l’atto sessuale completo? Che cosa significa? Che l’uomo cosa fa? Dai, ti aiuto un po’ io. Dai. L’uomo deve fare una cosa, giusto? Che cosa? … Non ti ha mai detto “Voglio fare l’amore con te?” oppure “Ho fatto l’amore con altre ragazze” e ti ha spiegato che cosa era? … E di che parli con questo fidanzato, scusa?» Martella senza pietà e misura, la PM Francesca Adami. Aggressiva. Invasiva. Toglie il fiato e non dà respiro. I monosillabi della giovanissima, peraltro non riportati dalla Disciplinare, annegano fra le lenzuolate dell’incontenibile magistrato. Che riparte con raffiche di questioni, sviscerando dettagli sempre più capziosi, piccanti, minuziosi come un inutile supplizio. «Senti e con lui dove vi appartate?» Eccola di nuovo all’opera come un bulldozer. «Di’ la verità, eh, perché ho già fatto le mie indagini … vabbè tu puoi negare quanto ti pare ma mamma l’ha visto, e poi coincide con la logica quello che mamma ha visto perché o è malato, Giovanni, non è normale, o se è un ragazzo normale di 18 anni non è possibile che ti baci … Ma è normale che il fidanzato tocchi un pochino, no? Dove ti tocca… il collo e il petto… il sedere… dove ti tocca di tutti questi posti? Soltanto la schiena? Un po’ sul sedere no? Sul sederino. Sul seno? No. È un po’ strano ’sto fidanzato, eh, che a 18-19 anni abbraccia la fidanzata, le dà un bacetto e non la tocca un pochino… dai, su. Eh, dai dicci la verità, siamo stati giovani pure noi…» Un carosello di domande, mezze confidenze, ammiccamenti grossolani: «E nemmeno tu tocchi lui? Guarda che le puoi dire queste cose e devi dire la verità, è peggio se non dici la verità. E be’, ma pure sul sederino, sul seno…» «Tu a Giovanni», va avanti a rullo, «non l’hai mai visto il preservativo? Ma tu non pensi che lui possa, visto che ha 18 anni, se tu dici che con te non fa niente, che un uomo a 18 anni certi stimoli li ha, è normale averli, che lui faccia qualcosa con qualcun’altra? Non ti è mai venuta in mente questa cosa? Perché un ragazzo di 18 anni che non faccia un’attività sessuale è difficile… E non ti è venuto in mente che è normale… che abbia degli istinti, degli stimoli e che vada poi con un’altra a farle queste cose?» La Adami non molla la presa. Fa terrorismo, poi riprende a sfruculiare la povera ragazza che fino a prova contraria è o sarebbe vittima, e non complice del reato, turbandola con un mulinello di immagini audaci, a luci rosse: «E tu non hai mai notato che lui voglia toccarti, andare oltre piuttosto che dare i bacetti e fermarsi? Cioè è normale che nell’uomo scattino delle cose quando dà i bacetti e gli piace… che voglia toccare la compagna, che voglia farsi toccare. Sono cose naturali…» E la litania riprende come un racconto spinto, sempre in attesa della rivelazione che non arriva. La fanciulla non racconta, forse ha paura o copre il ragazzo, sfugge e forse ha poco o nulla da confessare, ma il magistrato non si scompone e si abbatte su di lei come un diluvio: «Ma lui la sera quando ti lascia a casa, tu che ne sai dopo le nove e mezzo lui dove va? Ma per andare con la prostituta ci vuole mezz’ora, tre quarti d’ora, poi lui ti chiama dopo». Siamo al sesso a pagamento, ma la prestazione remunerata è solo una variante. Un’ipotesi. Ce n’è un’altra che la PM mette in conto con una punta di insano compiacimento: «Ci stanno un sacco di persone che hanno storie omosessuali e hanno una famiglia e una casa, con moglie e figli, che prima hanno fatto… forse tu hai le idee un po’ confuse ma non è detto che se uno sta con una donna non possa andare anche con l’uomo». Tutto questo dopo una digressione personale che non aiuta la psicologia della ragazzina: «Nemmeno io con mio marito posso essere sicura perché in certe ore che lo perdo di vista è una questione di fiducia». E così la toga proietta ansie ulteriori sulla poveretta, costretta ad ascoltare tutta quella tiritera. L’inesauribile PM è pronta a virare e ad andare sull’anatomico, l’ultima frontiera: «Allora, guarda, l’atto sessuale completo è quando il pene, sai cosa è il pene?, l’organo sessuale maschile si infila in vagina, l’organo sessuale femminile, quindi, c’è una congiunzione completa fra uomo e donna, giusto? Lo sapevi questo?» No, non è un’audizione l’ascolto della parte offesa, è un incubo: «Adami», sintetizza la Disciplinare, «assumeva più volte, nel corso dell’assunzione delle sommarie prove testimoniali della persona offesa, comportamenti gravemente scorretti nei suoi confronti, sottoponendola a un pressante interrogatorio sul tipo di relazione fisica intrattenuta con l’indagato, ricorrendo a modalità pesantemente insinuanti e capziose». Un cannoneggiamento devastante per un’adolescente di nemmeno quattordici anni. Una bambina o poco più. La lezione hard non è finita e anzi raddoppia: «È mai successo che, appunto, senza fare la penetrazione, senza fare l’atto completo, vi foste sfiorati nei corpi? No, ti sto chiedendo perché non necessariamente ci deve essere la congiunzione, ma se tu tocchi ripetutamente l’uomo in quelle zone, il seme esce, può anche uscire senza toccare la vagina della donna. Per questo ti dico, ti è mai successo che accarezzando lui in quelle parti fosse uscito il seme? È mai successo che hai fatto carezze particolari e lui poi ti abbia detto “Mi devo andare a pulire?” Neanche da sopra ai pantaloni? Lui non ti ha mai preso la mano e te l’ha appoggiata lì?» Basta, pietà. La Disciplinare rilegge impietrita le tappe del faccia a faccia che assomiglia a una tortura: «Attraverso tali domande, caratterizzate da livelli di insistenza e suggestività gravemente inopportuni ed esorbitanti, anche in rapporto all’entità della vicenda, la dottoressa «Adami adottava modalità comunicative tali da poter non solo compromettere la spontaneità, la sincerità e la genuinità delle risposte, ma altresì turbare l’integrità psicologica della minore, in dispregio alle raccomandazioni» elaborate dalla magistratura, ma anche nel patrimonio di qualunque insegnante, qualunque educatore, qualunque genitore dotato di un minimo di equilibrio e di empatia con i figli. E invece questo è accaduto nell’ufficio della PM il 4 giugno 2012. Sappiamo anche che era presente una psicologa forense che avrebbe dovuto attutire i colpi, come uno scudo a protezione di una persona così fragile. Di sicuro, la specialista è stata paracadutata in un contesto molto difficile. Davanti a un pubblico ministero, l’autorità, irrefrenabile. E, se dobbiamo stare a quel che emerge dai documenti, non ha interrotto o non è riuscita a bloccare quel monologo frenetico e quella sventagliata di punti di domanda. Forse ci ha provato, forse no, ma non sembra che abbia ottenuto un qualche risultato. Forse col suo sguardo ha rassicurato la piccola e questo ci basterebbe. La Disciplinare non ci dà informazioni sul punto: la voce della psicologa per noi è muta. Chissà.

A distanza di qualche anno, si è anche capito meglio che la vicenda, come accennato dallo stesso tribunale delle toghe, non era di particolare gravità. Anzi. In primo grado il ragazzo era stato condannato, ma in appello i giudici hanno capovolto il verdetto, assolvendo il giovane e puntando il dito contro quell’accanimento ingiustificato: «Le limitatissime ammissioni rilevanti in chiave accusatoria»», si legge nel verdetto di secondo grado, «rese dalla ragazzina sono state sostanzialmente estorte attraverso un esame condotto secondo metodologie assolutamente inaccettabili». È la PM con la bava alla bocca a finire nel mirino e infatti la corte d’appello trasmette il drammatico verbale di quella deposizione inquietante e la sentenza che riabilita il fidanzato al procuratore generale della Cassazione per avviare l’azione disciplinare. Ma, a sorpresa, al termine dell’inchiesta, il PG chiede alla Disciplinare di mandare in archivio il fascicolo: per lui è tutto ok e non ci sono elementi per sostenere il processo. Una scelta davvero singolare: non è possibile immergersi nella trascrizione di quell’interrogatorio furibondo senza provare un moto di disgusto, di indignazione, di angoscia per la violenza delle parole e delle immagini scaraventate sulla ragazzina. Un trauma quella deposizione, ben più grave degli abusi che poi non erano tali, attribuiti al fidanzato. E però l’accusa vorrebbe fermarsi, senza procedere oltre. Un vulnus che non può passare. Il 7 ottobre 2016 la Disciplinare si riunisce e boccia la proposta: il caso non è chiuso. «I fatti non appaiono di evidente irrilevanza», scrive il tribunale delle toghe, «e per il loro compiuto accertamento si rende necessario il vaglio dibattimentale.» Le carte tornano al PG, non per salire in soffitta, ma per preparare il dibattito in aula. Si va spediti verso il processo.

Il giudice e la perizia sul proprio lavoro

              Una perizia che di fatto è una delega. Di più: una clamorosa rinuncia. Qualcosa che non si era mai visto nella pur infinita costellazione degli illeciti disciplinari: un incarico per sbrogliare uno, anzi due quesiti giuridici, insomma proprio quello che avrebbe dovuto fare il pubblico ministero. Il PM, attanagliato dalla paura di sbagliare, ha chiamato in corsa un avvocato per risolvergli il problema, anzi i problemi. Il tutto, naturalmente, con una consulenza a spese dello Stato e quindi del contribuente. Capita anche questo nello sgangherato circuito giudiziario tricolore, questa volta in una città del Sud, dove la toga si fa sostituire per timore di combinare qualche corbelleria e così mortifica il prestigio della propria funzione. La storia, semplice nella trama e ingarbugliata nello svolgimento, è quella di un concorso che finisce, come capita troppo spesso nel nostro Paese, davanti ai giudici amministrativi: in palio c’è un posto da primario nel Policlinico e la scelta dell’amministrazione viene confermata dal TAR che legittima il vincitore. Ma è una vittoria di Pirro: in seconda battuta il Consiglio di Stato boccia con la matita blu i criteri con cui si è svolto il concorso, capovolge il risultato e assegna il posto a un altro professore. Questioni ordinarie, purtroppo, in un’Italia litigiosissima e cavillosissima. A questo punto il Policlinico dovrebbe eseguire la sentenza e invece decide di infischiarsene, temporeggiare come se nulla fosse, continuare come se il TAR e non il Consiglio di Stato avesse detto l’ultima parola. Il vincitore virtuale, stufo di attendere in panchina quando dovrebbe già essere in campo da un pezzo, denuncia con un esposto i vertici dell’ospedale. L’accusa è quella prevista dall’articolo 328 del codice penale: rifiuto di atti d’ufficio. È a questo punto che entra in azione il PM Andrea Longarone, chiamato a mettere ordine in quel vespaio e a placare, con un qualche provvedimento, le polemiche esplose sui giornali. Ma proprio la risonanza del caso, tracimato sulla stampa, manda in cortocircuito la lucidità e la professionalità di Longarone. Il magistrato non se la sente di tagliare quel nodo, viene evidentemente assalito da dubbi e retropensieri ed escogita una comoda ma indecorosa e inelegante soluzione: chiama in soccorso un avvocato e gli affida una consulenza. Due i quesiti: accertare «quali siano i soggetti giuridici competenti a dare esecuzione alla sentenza del Consiglio di Stato»; ancora, «nell’ipotesi di mancata ottemperanza» al verdetto «se vi siano soggetti che abbiano subìto un pregiudizio o altri che abbiano conseguito vantaggi dal contegno complessivo assunto dai soggetti o organi deputati a eseguire tale giudicato». Due domande chiare ma incomprensibili. Perché dovrebbe essere proprio il PM a rispondere e non il suo consulente. Il tecnico in sostanza deve sviluppare l’indagine che il PM incerto e titubante non sa come condurre. Ma non può essere quello il compito del tecnico: l’esperto può accertare, per esempio, il tipo di esplosivo utilizzato per confezionare una bomba, o magari può leggere il bilancio di un Comune smascherando eventuali falsi, o dirci con precisione, nel quadro di un omicidio, l’ora della morte della vittima. Il pubblico ministero non può improvvisarsi a seconda delle circostanze medico legale, ingegnere o commercialista. Così utilizza la rete dei suoi consulenti. Ma c’è un limite: il PM, come avrebbe suggerito La Palice, deve continuare a fare il PM. Dovrebbe essere inutile e quasi offensivo anche solo il ricordarlo, ma Longarone non vede l’ora di scaricare ad altri il cerino incandescente e alla fine trova la persona adatta: l’avvocato Massimo De Nicola. Qualcosa non quadra e infatti nella primavera del 2014 la Procura generale della Cassazione accende i riflettori e contesta a Longarone la sua fuga dalla scena. «L’individuazione», scrive la Disciplinare, «dei soggetti “che abbiano subìto un pregiudizio” costituisce tipicamente un’attività di competenza del magistrato che procede, trattandosi di un’operazione in relazione alla quale questi possiede tutti gli strumenti tecnici necessari». Longarone ha sbagliato: «Non avrebbe dovuto rimettere a un consulente la soluzione di un quesito che spettava esclusivamente a lui risolvere». Tutte le spiegazioni portate dal magistrato e dalla sua difesa non reggono: «Né può costituire causa di giustificazione», aggiunge la Disciplinare, «il grande rilievo mediatico che il concorso di cui si tratta aveva avuto in città e la conseguente esigenza di approfondire la questione». L’importanza della questione non autorizzava una mossa alla Ponzio Pilato, il lavarsi le mani affidando la pratica a un collaboratore: «Il bagaglio giuridico di cui è portatore il magistrato doveva ritenersi sufficiente alla soluzione» dei quesiti: quello sulla «legittimazione a dare esecuzione alla sentenza del Consiglio di Stato», l’altro «relativo sostanzialmente alla individuazione dei soggetti interessati e controinteressati nella vicenda processuale di cui si tratta». Sì, non c’erano scorciatoie, c’è stato invece un comportamento non all’altezza della situazione. Da codardo. Se è lecito azzardare un vertiginoso paragone poetico, chissà, forse Dante avrebbe collocato Longarone alle porte dell’Inferno, fra gli ignavi che per paura di sbagliare sono rimasti fermi. Nelle retrovie. Senza prendersi le proprie responsabilità. Proprio come Pilato che secondo alcuni commentatori della Commedia coincide con il misterioso personaggio incontrato da Dante proprio fra gli ignavi e condannato con una celebre definizione: colui che fece per viltade il gran rifiuto (altri invece propendono per papa Celestino V). Ma lasciamo perdere la poesia visionaria e torniamo alla prosa disadorna della cronaca. «I dubbi che l’incolpato si prospettò», insiste la Disciplinare, «avrebbero dovuto essere risolti da lui stesso alla stregua di un attento esame degli atti e dell’applicazione delle nozioni giuridiche in suo possesso.» Il PM può ordinare consulenze in tutte le direzioni, ma non può rinunciare a fare il PM. Non può cedere, sia pure virtualmente, la toga a qualcun altro e abdicare al proprio ruolo. Longarone, nel tentativo di limitare i danni, si aggrappa ai conti di quella sventata operazione e mostra come alla fine l’importo fu relativamente modesto, ma anche questo ragionamento viene spazzato via dall’inflessibile tribunale delle toghe: «La circostanza che la liquidazione del compenso al consulente sia stata del tutto congrua e comunque pari a meno della metà della richiesta del professionista, può valere solo a dimostrare la buona fede dell’incolpato – ciò di cui peraltro non si dubita – ma non è idonea a fondare una pronuncia assolutoria». Non conosciamo la cifra della fattura emessa dal professionista, possiamo anche supporre che sia stata contenuta rispetto alle attese, ma il macigno resta e l’assenza di doppi fini, di scaltrezza a fini speculativi, non può redimere da sola Longarore-Pilato dalla sua scelta al ribasso, fino a umiliare la toga: ecco dunque «l’evidente compromissione dell’immagine del magistrato di cui si tratta, dovuta all’abdicazione da parte dello stesso alle sue competenze e ai suoi specifici compiti, tanto più grave perché si trattava di una vicenda che aveva destato localmente notevole clamore mediatico, e in relazione alla quale, pertanto, particolare era l’attenzione intorno alla conduzione delle indagini da parte del PM». La decisione di non metterci la faccia è ancora più grave perché alta era l’aspettativa di giustizia. Semmai è da valutare in modo positivo la scelta di pescare il consulente fuori dal perimetro del circuito cittadino: «La decisione di affidare l’incarico a un professionista esterno all’ambiente proprio per

garantirne al massimo grado l’estraneità e la non permeabilità alle pressioni locali». Almeno quel passo è stato meditato e ha salvaguardato la consulenza dal tarlo di un ulteriore chiacchiericcio, da ulteriori voci incontrollate, da allusioni maliziose e tossiche. Il veleno non è stato iniettato nel sistema, ma la giustizia ha pagato a caro prezzo la sua incertezza, i suoi balbettii, le sue inammissibili paure. Per tutte queste ragioni la Disciplinare opta infine per la sanzione più lieve: il 21 aprile 2016 per Longarone arriva l’ammonimento. Il vulnus però c’è tutto e brucia ancora.

Il giudice pilota il fallimento

              Un’importante società di calcio è sull’orlo del fallimento. La Procura della città, una delle tante del Meridione, spinge per andare fino in fondo. Ma lui, Saverio Angeletti, il giudice che ha in mano la pratica, ha ben altre mire. Vuole sfruttare l’occasione per favorire in tutti i modi la donna, una giovane avvocatessa, per cui ha perso la testa, e poi è uomo di mondo: il presidente della società sul bordo del baratro è suo amico da tanto tempo e non ha alcuna intenzione di spingerlo giù nel precipizio; no, studia come salvarlo, pilotando avvocati e periti con l’abilità di un consumato direttore d’orchestra. Angeletti contratta per sé qualche apprezzabile benefit, come un pass per il parcheggio dell’auto nelle aree attorno allo stadio, costosi biglietti omaggio per assistere alle partite della squadra, e di raccomandazione in raccomandazione arriva perfino a imbucare il figlio e la sua classe nell’aula bunker di Palermo in occasione delle celebrazioni per la morte di Giovanni Falcone. Infilando anche il simbolo della lotta a Cosa Nostra nella fitta ragnatela delle sue trame oblique. C’è una frase rivelatrice, captata dagli investigatori il 24 aprile 2018, che potrebbe essere un po’ la chiave di tutta la vicenda. Il giudice e la giovane amante sono in vena di confidenze e lui a un certo punto si confessa: «Quando uno è innamorato… non me ne fotte niente… per te amore mio che sei una brava che ha un futuro… che si può e deve consolidare come merita…» Per questo Angeletti si dà da fare in tutti i modi. La ragazza è diventata la sua bussola, il suo faro, in qualche modo il suo rovello e lui non ha alcun imbarazzo a bussare alle altre porte del tribunale per perorare incarichi sempre più importanti. «Emergeva», nota la Disciplinare, «che per assicurare» alla giovane «opportunità professionali, tentava di farle assegnare qualche incarico anche presso altre sezioni del tribunale, senza curarsi del fatto che quest’ultima avesse o meno le competenze per attendervi, preoccupandosi solo di “spianarle” la carriera professionale, in particolare proponendole incarichi nell’ambito delle procedure esecutive.» E infatti in un altro dialogo, il 19 aprile 2018, lui le butta lì: «Ma tu, ad esempio, procedure esecutive non ne vuoi fare?» Insomma, Angeletti è tutto teso ad aiutare la sua pupilla e il pensiero, un chiodo fisso, ritorna subito quando si trova fra le mani il fascicolo incriminato. Dunque, negozia con i vertici della società cui potrebbe dare il colpo del ko, un incarico per la sua fiamma. E alla fine si accorda con il presidente Remo Lulli per farle avere, a causa conclusa, un posto nel comitato etico, creato apposta per lei, con tanto di rimborso mensile pari a mille euro. E ancora, si fa garantire dal solito Lulli l’ingresso del fratello di lei, pure avvocato, nel collegio difensivo di un importante procedimento penale: ulteriore extension delle sue premure sentimentali e specchio delle sue relazioni sociali. D’altra parte, una settimana dopo, il 27 aprile 2018, Angeletti svela proprio alla fidanzata Sara Barattieri la sua stridente vicinanza al presidente Lulli, al centro del suo delicatissimo e almeno in teoria riservatissimo scavo di giudice: «Noi non è che ci vediamo, siamo, abitiamo uno di fronte all’altro… eee… perché lui abita nel palazzo qui di fronte al mio, che abita pure sua suocera, ci conosciamo da tanto tempo, ma non è che abbiamo rapporti di frequentazione, però diciamo quando ci vediamo… il babbio, insomma», annota la Disciplinare, «la confidenza, lo scherzo è abbastanza all’ordine del giorno, ma in quel periodo», nei mesi precedenti in cui pendeva l’istanza di fallimento, fra novembre 2017 e marzo 2018, «ovviamente mi incontrava, tipo all’uscita del tribunale, si avvicinava, con quella faccia non sapeva se ridere, se fare il serio… io facevo il serissimo». Dunque, fra i due era tutta una manfrina: dissimulavano in pubblico un rapporto di amicizia e di simpatia che andava indietro nel tempo: Angeletti, va da sé, avrebbe dovuto astenersi dalla trattazione del caso e passare il fascicolo a un altro collega. Ma naturalmente aveva deciso di saltare sulle spalle dell’occasione capitatagli per trarne vantaggi e benefici. In un altro dialogo, proprio con Lulli, Angeletti è ancora più esplicito: «Noi siamo», afferma il 23 maggio 2018, «diciamo, già viziati all’origine, perché comunque ci conosciamo, ci rispettiamo… ci volevamo bene prima e a volerci bene dopo, tranne un periodo di interregno in cui eravamo assolutamente indifferenti uno all’altro, per ragioni di ufficio». Parole che suonano come un’ammissione di colpa, il riconoscimento del peccato originale che macchia indelebilmente la carriera del magistrato. Angeletti-Lulli-Barattieri: ecco il triangolo d’amore e d’interesse. Proprio su quel legame sotterraneo, nascosto in pubblico e ostentato in privato, e sulla passione per la sua Sara, il magistrato costruisce come su due pilastri le sue manovre, i maneggi, gli intrighi. Fino a creare una rete di relazioni malate così estesa che gli sfuggirà di mano portandolo al disastro. Infatti, il 13 dicembre 2017, in tutt’altro procedimento, gli inquirenti afferrano un paio di frasi molto allarmanti. A parlare a ruota libera con un altro interlocutore è l’avvocato di Lulli, Simone Brocchi. Brocchi, senza sapere di essere ascoltato, apre una finestra su quel che sta avvenendo dietro le quinte del procedimento sull’istanza di fallimento della società di calcio. Il legale confessa candidamente di aver parlato mezz’ora con Angeletti, di averlo trovato ben disposto e di aver registrato un approccio «moolto favorevole, moolto sereno… un messaggio estremamente favorevole». E ancora: Brocchi precisa che l’unica preghiera fattagli dal giudice è quella di tenere «di qui all’udienza», prevista per il 7 dicembre e poi rinviata al 16 dicembre 2017, «assolutamente, profilo basso, dichiarazioni meno possibile». Gli investigatori fanno un salto sulla sedia: siamo, come sarebbe evidente anche a un bambino, in un gravissimo contesto di corruzione e di violazione delle leggi. Parte l’indagine penale – la Disciplinare arriverà come sempre in seconda battuta – che fotografa in diretta i passaggi della cospirazione giudiziaria e quasi un anno dopo, il 26 novembre 2018, porterà a un provvedimento molto pesante per il magistrato: non l’arresto, ma comunque l’interdizione dalla professione per 12 mesi. Ma che cosa viene fuori dall’inchiesta? Si scopre che il giudice ha studiato a tavolino tutte le mosse di una complessa strategia: ha nominato un perito, Simone Polidori, che è in ottimi rapporti con il presidente Lulli, e dunque sarebbe incompatibile, e lui stesso suggerisce la miglior tattica difensiva all’avvocato Brocchi per evitare in un modo o nell’altro il naufragio auspicato dalla Procura. Il 9 gennaio 2018, in piena bagarre, telefona al legale e indica la strada: «Lei sa benissimo, meglio di me, che il discrimine si gioca fra stato di crisi e insolvenza». Ci sono 11 milioni di debiti scaduti e non rinegoziati. Bisogna intervenire su quel lato e contemporaneamente ci vuole una fideiussione. Il 12 gennaio il solerte Brocchi torna nell’ufficio di Angeletti, brevemente gli illustra cosa si sta facendo per mettere in pratica i suoi preziosi consigli: «Io oggi ho un dialogo con il patron, Valerio Farneti, e spingerò per la questione fideiussione, cioè della serie usciamo fuori da questo meccanismo di difesa». Con garanzie sul credito. Le indicazioni vengono puntualmente eseguite: la società sul punto di crollare riceve un’iniezione di 4 milioni di euro da un’altra sigla del gruppo e il patron rilascia la sospirata fideiussione personale. Contemporaneamente, sguinzaglia nella stessa direzione il perito: al tecnico, che gli dipinge un quadro molto critico, lui replica di concentrarsi sugli aspetti positivi, su quegli interventi arrivati su suo suggerimento: i soldi, la fideiussione.

In sostanza, le direttive date al consulente sono tutte a senso unico: trascurare, dimenticare, ignorare gli scricchiolii, le crepe, i buchi nel sistema delle società che fanno capo al patron della squadra. In particolare, «non svolgere accertamenti», come nota la Disciplinare – sulla solvibilità della società numero due del gruppo, «debitore di quella della squadra per 40 milioni»; e della società numero tre (fideiussore del credito sopra indicato), sebbene all’inizio Polidoro segnalasse la necessità di effettuare una visura alla centrale rischi in riferimento a tutte le società del cosiddetto Gruppo Farneti. E poi, ancora, Angeletti invita Polidoro «a non inserire considerazioni in merito alla fittizietà dell’operazione di cessione alla società numero due delle quote della società numero quattro, sebbene tutti e due ne fossero consapevoli». Forse uno dei passaggi più gravi perché il giudice fa nascondere al tecnico le criticità, le anomalie e le carte false del sistema Farneti sotto il tappeto della sua consulenza. Può anche essere che alcune mosse dettate per puntellare i bilanci siano corrette, ma il punto, come rileva la Disciplinare, è un altro: «Emerge chiaramente come Angeletti abbia orientato nel senso da lui voluto la procedura e la stessa consulenza tecnica degli esperti nominati, giungendo a suggerire a una parte la strategia difensiva cui attenersi». E del resto, in un contesto del tutto sconveniente, anche Polidori e Lulli, per toccare un altro aspetto sconcertante, hanno rapporti consolidati e si sentono dieci volte nel periodo in questione, fra l’8 gennaio e il 4 aprile 2018. Davvero le forme sono solo una finzione, in un una grande recita che non ammette dissonanze: la baracca, che pure fa acqua da tutte le parti, deve rimanere in piedi contro il parere della Procura, come poi puntualmente accade con il rigetto dell’istanza di fallimento. Angeletti soddisfa gli interessi dei suoi amici, non certo le esigenze della giustizia, e si preoccupa soprattutto della carriera della sua fidanzata, in ascesa grazie al suo intervento. Tutto gira per il verso giusto; poi, il 5 luglio 2018 esce un articolo di stampa che avanza dubbi sulla gestione della procedura fallimentare e Angeletti, in preda al panico, angosciato, compie un altro passo falso: chiama proprio Lulli per commentare i possibili, clamorosi sviluppi della storia. Quasi una confessione involontaria che indirizza i suoi giudici. La sua sospensione, sancita dal GIP a novembre, diventa inevitabile. Così come il successivo intervento della Disciplinare che eredita dal versante penale una situazione pesantissima. Certo, il processo è ancora in corso e in Italia c’è fino al verdetto definitivo la presunzione di innocenza, ma il tribunale delle toghe che si muove su un binario parallelo non può non prendere provvedimenti estremi, accompagnandoli con il corredo di parole durissime: «Sussistono molteplici, gravi e inammissibili violazioni dei doveri deontologici da parte del dottor Angeletti, la cui immagine e credibilità appare irreparabilmente compromessa nell’esercizio di qualsiasi funzione giudiziaria, ciò anche in una sede diversa da quella in cui si sono verificati gli episodi oggetto della presente disamina». Troppo gravi sono le prove, le intercettazioni, le incompatibilità emerse in una vicenda piena di doppifondi e allarmante per l’opinione pubblica, perché mostra il drammatico inquinamento del tessuto giudiziario. Il tradimento di una funzione così alta. Asservita al denaro, alle relazioni con i potenti e gli amici, alle tempeste emotive e sentimentali. Per questo l’unica misura che la Disciplinare può prendere in questa fase interlocutoria è la sospensione di Angeletti dalle funzioni e dallo stipendio e il suo collocamento fuori dal ruolo organico della magistratura. In pratica, la toga che ha addomesticato e piegato ai propri interessi la spada della giustizia viene accompagnata alla porta. E con un piede è già fuori. L’ipotesi del trasferimento, vista fra riserve e dubbi in altre circostanze, qui appare semplicemente lunare. Improponibile. La carriera del magistrato si chiude virtualmente il 10 gennaio 2019. Ma i colpi di scena non sono finiti: a sorpresa, la Cassazione annulla la sospensione di un anno disposta dalla magistratura, e soprattutto afferma: non ci fu corruzione. Tutti gli episodi incriminati vengono riletti in un altro modo, molto meno penalizzante per Angeletti. Il caso, apparentemente blindato, si riapre. E diventa double face: le due versioni, quella colpevolista e l’altra innocentista, si sovrappongono perfettamente come facce della stessa medaglia.

Il giudice e le parolacce

              Chissà, forse è stata colpa del caldo. È il 5 agosto 2014: mezza estate, l’umidità è una nuvola che ti acchiappa e ti infradicia tutto, l’aria condizionata combatte contro quegli ambienti troppo grandi e fa quello che può per raffreddare i corpi e spegnere gli ardori. Chissà se il clima torrido c’entra davvero. All’improvviso il giudice si alza e pronuncia una serie impressionante di insulti, ricopre i presenti di contumelie, sommerge le parti di parole offensive: «Non mi rompete il cazzo, mi avete rotto i coglioni, fatevi i cazzi vostri, vaffanculo». Un poker di espressioni non proprio eleganti che lascia storditi i presenti. Perché quella fulminea requisitoria? Non è dato sapere, ma i toni sono aggressivi e francamente fuori dal pentagramma della grammatica giudiziaria. Il procuratore generale, basito, mette sotto accusa il magistrato ma al termine del procedimento, il 16 dicembre 2016, la Disciplinare assolve la toga e la prima motivazione è, nientemeno, la «scarsa rilevanza» del fatto. Possibile? L’utilizzo sguaiato dell’alfabeto in un’aula di giustizia, nel corso di quella messa laica che è o dovrebbe essere l’udienza, assomiglia a una profanazione del tempio. Non conosciamo purtroppo i dettagli della penosa vicenda e a volte anche solo un accento frainteso può modificare il senso o la forza di un’esternazione, ma qui siamo davanti a un grappolo di riferimenti triviali, bestemmie per chi sta cercando la propria parte di giustizia. E infatti l’assoluzione non regge: le Sezioni unite civili della Cassazione annullano quel provvedimento di marca buonista e restituiscono la palla alla Disciplinare. È a questo punto che arriva il più imprevedibile e spiazzante dei colpi di scena, per certi versi ancora più doloroso in un processo in cui è in gioco l’onore di una toga: il 13 gennaio 2018 il giudice muore e il tribunale delle toghe ne prende atto il 18 gennaio 2019. Il sipario scende con i colori del lutto.

Il giudice orco

            Un capo d’accusa rivoltante. Forse il più spaventoso nella galleria di ladri, furbastri, corrotti e squilibrati presentati sin qui. Gennaro Lucidi, giudice di corte d’appello, sembra uscito dal pozzo oscuro di una di quelle favole che popolano gli incubi notturni dei bambini. Con l’aggravante che lui era magistrato, indossava la toga e dunque rassicurava, faceva cadere le barriere protettive, era considerato una persona al disopra di ogni sospetto. E invece Lucidi si è macchiato di abusi orrendi, ancora di più, in una scala senza fine del degrado, perché le vittime delle sue pulsioni sfrenate erano le sue nipotine. Due ragazzine di nemmeno sedici anni, una addirittura tredicenne. Lui avrebbe dovuto tutelare la loro innocenza e il loro cammino appena iniziato verso l’età adulta, invece il racconto stringato della Disciplinare rovescia le nostre certezze e ci porta nella cameretta delle due fanciulle, dove uno zio o un nonno come lui, lui che per di più era un magistrato, avrebbe dovuto entrare come in un sacrario solo per augurare la buonanotte. Lucidi no, si intrufolava al buio, indugiava vicino a quei letti, alzava le coperte e spostava gli indumenti. Poi scattava le foto. Un attimo. Cerchiamo di non rendere ancora più cupa questa vicenda di ossessioni sessuali. È provato che abbia ripreso nel sonno solo una delle due nipotine, ma è altrettanto documentato che sia stato lui, utilizzando quelle e altre istantanee, a diffondere in rete gli scatti pedo-pornografici delle nipotine. Esibite come prede di voglie erotiche, probabilmente lavorando e ritoccando quei «ritratti». Non basta? In uno di questi inqualificabili raid, aveva toccato il corpo della più piccola, tastandole il seno e in pratica spogliandola. Perversioni & umiliazioni. Ci vorrebbe un grande scrittore per raccontare l’eclissi della ragione e del cuore di un personaggio che dovrebbe rappresentare l’equilibrio, la misura, il diritto. E invece ci tocca seguire la Disciplinare lungo un sentiero stretto, scivoloso, nel buio del nostro sgomento: «Produceva e realizzava materiale pedopornografico utilizzando le immagini fotografiche delle proprie nipoti, minori di età, che successivamente diffondeva in rete». Frasi essenziali però colme di incredulità che ci arrivano addosso peggio di una fucilata. «Con l’aggravante», prosegue l’agghiacciante capo d’incolpazione, «di aver agito in danno di minori di anni sedici e in rapporto di parentela con le stesse. Con l’aggravante», va avanti ancora il testo quasi insostenibile, «di aver agito approfittando di circostanze tali da ostacolare la privata difesa, in particolare scattando le fotografie di almeno una delle nipoti mentre dormiva.» Come da copione canonico, la libidine andava a braccetto con la vigliaccheria. Il vizio è come un verme che scava gallerie nell’ombra. E può spingersi ancora più in là, fino a violare il corpo dopo averne offeso la dignità. Ecco così un altro capo d’accusa, ancora più infamante: «Per avere, mediante violenza consistita nel compimento insidiosamente rapido dell’azione criminosa, costretto la minore di anni 13 a subire atti sessuali, segnatamente toccandole il seno mentre dormiva e scoprendola al fine di scattare le immagini pedopornografiche poi diffuse in rete. Con l’aggravante», è la sconvolgente conclusione, «di aver agito approfittando di circostanze tali da ostacolare la privata difesa, in particolare scattando le fotografie di almeno una delle nipoti mentre dormiva». I vocaboli del secondo capo d’incolpazione ripetono in fotocopia quelli del primo, alzando una barriera insormontabile. Davvero è troppo. E ci si chiede a ritroso, mentre scorrono queste righe, come una personalità del genere sia arrivata a fare il magistrato, si sia mimetizzata nell’ambiente, fra codici e requisitorie, abbia coltivato i desideri più bassi e quasi indicibili, li abbia trasformati, chissà, in azioni viscide e devastanti contro altre bambine o adolescenti. Non lo sappiamo, ma sappiamo che tutto questo ci ripugna e ci atterrisce: le ferite più grandi sono state inferte da un uomo di cui la comunità si fidava, che semmai quegli orrori avrebbe dovuto punire. Il resto è il resoconto inevitabile di quel che è accaduto e accadrà: Lucidi è stato arrestato e spedito in carcere, poi il procuratore generale della Cassazione e il Guardasigilli per una volta in coppia hanno chiesto alla Disciplinare una prima sospensione del giudice, già messo fuori gioco dalle manette. La Disciplinare l’ha accordata, ora la rafforza, consolidando gli elementi raccolti: «La sospensione non poggia sulla validità ed efficacia del titolo detentivo, ma su una valutazione autonoma della gravità dei fatti e del pregiudizio che ne discende per il prestigio dell’Ordine giudiziario». La Disciplinare si smarca, per quanto possibile, dall’indagine penale e corre anche più in fretta. Con una situazione del genere non ci possono essere vie di mezzo o tentennamenti, ma solo rigore e, nei limiti della legge, velocità. Il quadro, anche dopo i necessari approfondimenti, resta rovinoso e non si è accesa alcuna luce: «Non è stata acquisita in questo procedimento alcuna chiave di lettura alternativa, favorevole all’indagato». Niente di niente. La conclusione, almeno in questa fase, è scontata: «Appare evidente l’esigenza di evitare che il responsabile di un fatto di tale gravità possa esercitare le funzioni giudiziarie, posto che il pubblico vulnus alla sua credibilità, reso noto anche dai mezzi di comunicazione, certamente pregiudica la necessaria fiducia che i cittadini devono riporre nel magistrato». Ma quel sentimento profondo è stato calpestato e tradito. E allora il tribunale delle toghe interviene con straordinaria velocità, come si ricava dai successivi passaggi sul calendario: i fatti sarebbero avvenuti in data imprecisata ma prima del 20 settembre 2017 e sono stati scoperti quasi subito, già il 26 settembre. Il 10 ottobre la Disciplinare emette il verdetto: Lucidi viene sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e collocato fuori dal ruolo organico della magistratura, «con corresponsione in suo favore di un assegno alimentare». È la prima conclusione, anche se non ancora definitiva, di una vicenda terribile che ha scosso l’opinione pubblica, ma turba anche la corporazione in toga. Il suo orgoglio. E pone domande inquietanti sui criteri di accesso a una professione così difficile. E sui successivi step di valutazione: qualcosa non ha funzionato e il mostro è rimasto acquattato nelle aule di giustizia.

Le foto porno della GIP

              La trama, irresistibile, pare quella di una classica commedia piccante, anzi bollente. Lui, lei, le foto hard della signora. Solo che lei non è una cubista, ma un GIP, un giudice di cui si possono ammirare integralmente le forme in due siti pornografici. E lui è il presidente del tribunale in cui lavora il GIP che ha avuto col collega un’appassionata relazione. Imbarazzi, silenzi ed equivoci: c’è un po’ di tutto nell’intricata storia che la Disciplinare maneggia con grande disagio, come una saponetta scivolosissima, e di cui alla fine riesce in qualche modo a liberarsi. Tutto ruota intorno alle foto senza veli dell’avvenente magistrato. E agli incroci della vita. Dunque, il presidente della corte d’appello chiede al presidente Remo Testoni una relazione sulla vicenda della sequenza mozzafiato di scatti osé del GIP. Il capo della corte d’appello non agisce da solo, ma su mandato di un preoccupatissimo procuratore generale della Cassazione: la notizia sconcertante dei nudi è arrivata fino a Roma e ha messo in moto il titolare dell’azione disciplinare. Testoni risponde che Isabella Bartolini, questo il nome del giudice, gode ancora di grande prestigio e autorevolezza a Palazzo di giustizia. Insomma, ne parla in termini elogiativi. Ma fra un complimento e l’altro, dimentica un paio di dettagli non proprio secondari: la relazione intrattenuta proprio con la splendida Isabella e, peggio, «il fatto», sottolinea la Disciplinare, «che è stato lui a scattare alcune di quelle foto». Sepolte sotto una coltre di amnesia. Il 4 aprile 2016 viene ascoltata proprio Bartolini che fornisce i dettagli mancanti e mette nei guai lo smemorato Testoni: precisa anzitutto che la sua foto di nudo ambientata in un contesto marino era opera proprio di Testoni. Strano, non capita tutti i giorni che un presidente di tribunale punti la macchina fotografica sulle bellezze al naturale di una giudice. L’atto, per nulla imbarazzato, dimostra, come dire, una certa consuetudine fra i due. Bartolini, con la sincerità che anima le donne, particolarmente quelle ferite nei loro sentimenti più profondi, offre un quadro completo: sì è vero, con Testoni ci fu una relazione: cominciò nel 2011, è andata avanti fino al 2013, non più di un paio d’anni, ma dev’essere stato un rapporto semiclandestino, o qualcosa del genere, perché lui aveva moglie e figli e non se l’è mai sentita di tagliare il cordone ombelicale. Si trattava, sottolinea la Disciplinare, «di una relazione senza possibili sbocchi dal momento che il dottor Testoni era legato alla moglie e ai figli ed era intenzionato a non lasciarli». La foto galeotta acquista un senso: arriva da una spiaggia per nudisti, meta di quella coppia in una delle sue fughe romantiche. Ma gli altri scatti? Qui Bartolini spiega, ma la sua versione è più complessa e un tantino attorcigliata. «Quanto ai restanti scatti», è la faticosa sintesi della deposizione, «non poteva escludere di aver fatto foto dello stesso tipo, frutto di autoscatti risalenti all’età giovanile.» E la comparsa a scoppio ritardato di quelle immagini, più o meno una decina, sul web? Bartolini «aveva inoltre ricondotto la pubblicazione e diffusione delle foto a un collegamento Internet, di cui non era stata mimimamente consapevole, del proprio cellulare con il proprio profilo Facebook. Poteva pertanto essere capitato che dal cellulare le foto fossero passate al profilo Facebook, divenendo fruibili anche da terzi i quali avevano poi provveduto a pubblicarle sui siti pornografici». Dunque, la tecnologia le ha giocato davvero un brutto scherzo combinandosi e miscelandosi con le vanità e gli eccessi della gioventù, fino a trasformarla in una piccola star dei siti per uomini arrapati, in cerca di sensazioni forti. Per la Disciplinare, quella confessione viene letta e interpretata come un atto coraggioso ma anche come un assist provvidenziale per sbrogliare una matassa più adatta alla penna irriverente di un romanziere che alle cadenze paludate del tribunale delle toghe. Così, i tasselli vanno al loro posto, pure per il presidente che si era dimenticato di fare due più due. Per la Disciplinare tutto quello che prima era nebuloso ora è chiaro. Di più: rientra nei limiti e può essere archiviato senza rossori. L’album è il catalogo malizioso di una stagione della vita senza responsabilità, certo all’epoca Bartolini non spediva ancora in galera il prossimo e dunque poteva anche cinguettare con il proprio corpo esibito. In ogni caso, non è lei il problema, ma lui. E anche per Testoni il cielo si rasserena: cosa sarà mai uno scatto, uno solo e non una sequenza, frutto della libera scelta di una coppia in vacanza. Quella foto non è oggettivamente, come sembrava in un primo momento, la spia di passioni torbide e morbose, la prova della ricerca ossessiva del piacere proibito. No, è tutto più semplice, anche se non proprio edificante. E pure la relazione più o meno sotterranea sembra meno ingombrante, più laterale, qualcosa che si poteva pure tralasciare senza che l’omissione, nel colloquio istituzionale con gli alti pennacchi della magistratura, assumesse il carattere di uno strappo irrecuperabile. Tutto può essere ricomposto. «Risulta confermato», tira un sospiro di sollievo la Disciplinare, «che il legame fra i due magistrati non aveva mai assunto caratteri di stabilità né si era sostanziato in una convivenza, tantomeno all’epoca della redazione della relazione da parte dell’incolpato.» Il caso, visto da Roma, si ridimensiona, anzi si sgonfia, insieme, si spera, alle chiacchiere e ai pettegolezzi golosi. «Risulta del resto», prosegue l’analisi, «che i due magistrati risiedevano, sia anagraficamente che di fatto, in città diverse, convivendo con i rispettivi familiari (la dottoressa Bartolini con la figlia e il dottor Testoni con la moglie e i figli). Può pertanto ritenersi di molto attenuata sotto il profilo della offensività la mancata menzione da parte dell’incolpato della pregressa relazione sentimentale occasionale.» Ecco, la liaison scivola e viene derubricata a occasionale. Forse, Bartolini non condividerebbe l’idea di essere considerata la partner di una scappatella o poco più, ma non importa. L’importante è aver scavalcato quella dimenticanza che poteva costare cara e aver chiuso nell’armadio del tempo quelle immagini prorompenti. «Con riguardo al mancato accenno alla foto scattata dallo stesso incolpato, che ritraeva la dottoressa al mare in una spiaggia di naturisti, è in primo luogo da rilevare che le foto diffuse sul web erano diverse dalla foto in questione.» Quella, e solo quella, per nulla compromettente. «Lo stesso dottor Testoni, inoltre, alla data in cui aveva redatto la relazione (21 dicembre 2015) non aveva avuto alcuna indicazione in ordine alle foto oggetto di diffusione, non avendo peraltro la stessa dottoressa Bartolini dato precise notizie al riguardo.» I due si erano lasciati da un pezzo, ciascuno era andato per la sua strada, lui poteva sapere e non sapere. Anche se, gira e rigira, erano sempre dentro lo stesso ambiente e lo stesso Palazzo di giustizia. Per la Disciplinare è addirittura «plausibile che Testoni si fosse dimenticato», un vuoto di memoria dopo l’altro, «dello scatto effettuato molti anni addietro, considerando altresì che la foto era rimasta nella disponibilità della dottoressa Bartolini» e lui non era certo corso a reclamarla né aveva pensato di esporla sul comodino del letto coniugale. Il 21 settembre 2017 la Disciplinare può finalmente mandare in archivio gli ardori della coppia e la prevedibile curiosità di avvocati e toghe per le prodezze amatorie della coppia più inattesa ed esplosiva del Palazzo.

Il giudice trasloca

ma si tiene la stanza e la chiave

            Un trasloco. O meglio, il passaggio dal tribunale alla corte d’appello. Il giudice Gualtiero Albergato si sposta ma mantiene il vecchio ufficio con relativa chiave. Non fa pulizia, non controlla le carte ammonticchiate qua e là, non fa un check dei faldoni abbandonati alla polvere e al loro destino. In un angolo, dimenticati ma ancora vivi, ci sono ben dieci fascicoli: si tratta di appelli contro altrettante sentenze del giudice di pace. No, Albergato fa le valigie, chiude la porta e molla gli incartamenti alle ragnatele. Come se quei fogli non fossero mai esistiti. E invece quelle pagine raccontano dieci storie di piccole grandi battaglie giudiziarie, come ne capitano a milioni nel nostro Paese. Il giudice di pace ha moltissime competenze nel penale e nel civile: numerose tipologie di liti e beghe, risarcimenti di importo non elevato, alcuni reati legati alla microcriminalità. Inutile aggiungere che c’è tutta una retorica, comprensibile ma alla fine stucchevole, su questa figura che dovrebbe dare risposte rapide e articolate al cittadino e rappresenta quindi la giustizia di prossimità, quella meno paludata e più smart, con le antenne sensibili alle domande e alle inquietudini del territorio. Discorsi suggestivi, spesso smentiti dalla penuria di mezzi e risorse: un conto sono le teorie, altra cosa è, come sempre in Italia, la loro applicazione concreta. In ogni caso, quel che viene stabilito al primo gradino, chiamiamolo così, può essere ridiscusso e magari capovolto in tribunale, in seconda battuta. Ma se il fascicolo resta sotto chiave, come una reliquia, altro che prossimità. Al massimo c’è spazio per la muffa e la rabbia di chi attende una risposta da anni. Sarà una controversia fra vicini, sarà una querelle da qualche migliaio di euro, sarà il ristoro di un incidente stradale, sarà quel che sarà, ma se il magistrato parcheggia i fascicoli e toglie il disturbo, ogni sforzo per asciugare gli astronomici ritardi e i disservizi, altrettanto cronici, del nostro sistema giudiziario diventa inutile. Anzi, una presa in giro, una beffa per i cittadini esasperati che non hanno saputo più nulla delle loro sacrosante domande. Sembra una fake new, è la verità. Sciatta e banale: si è andati avanti così, nell’indifferenza, per anni. Gli appelli scritti fra il 2009 e il 2012 si sono sommari gli uni agli altri: in un desolante letargo. A riposo. Così fino al luglio 2014 quando l’intervento energico di un altro collega ha sortito il risultato: Albergato è stato costretto a tornare in quell’ufficio, ridotto a un relitto ricoperto dalla ruggine. Salta fuori finalmente la chiave, la porta si apre, ecco i fascicoli. Sembra una filastrocca amara, per come la rivela il capo d’imputazione, è la foto di un pezzettino dello sfascio nazionale, documentato in diretta senza filtri né giustificazioni: «Il dottor Albergato si era completamente disinteressato dei fascicoli, lasciandoli chiusi e giacenti all’interno della stanza da lui già occupata come presidente di sezione del tribunale e di cui aveva mantenuto l’esclusivo possesso tenendo con sé la relativa chiave anche dopo la nomina a consigliere della corte d’appello, e cioè fino al 14 luglio 2014, allorché dietro espressa sollecitazione del presidente delegato per il settore penale, il dottor Albergato aveva provveduto ad aprire la stanza, rendendo così possibile il rinvenimento dei fascicoli lasciati nella stanza stessa e la conseguente assegnazione dei medesimi». Come si può leggere, non ci sarebbe nulla da aggiungere. Chissà quanto sarebbe andato avanti infischiandosene di tutto e di tutti Albergato, se non fosse intervenuto il collega che doveva aver ricevuto sollecitazioni, richieste, istanze furenti e non più rinviabili. Si potrebbe ironizzare che il 14 luglio a Parigi avevano preso la Bastiglia, qui molto meno: la stanza del magistrato in cui erano relegate le speranze e le ansie di dieci italiani. In particolare i fascicoli 56/2009, 79/2009… 86/2012. Cifre e numeri di una vergognosa latitanza, peggio dell’arroganza di chi in tanti anni non si è mai posto dall’altra parte, non si è immedesimato, neppure per cinque minuti, nei ragionamenti e nei pensieri delle parti, degli avvocati, della comunità. Albergato non ha mai trovato il tempo per frugare in tasca, recuperare la chiave, restituire alla propria funzione la dignità inghiottita con quei fogli. Il giudice si difende, tenendo una linea che ritroviamo in molti procedimenti disciplinari: lui era presidente di sezione e in più coordinatore delle altre attività, compresa l’innovazione tecnologica. Doveva dunque fronteggiare mille problemi e aveva la testa piena di infinite preoccupazioni. Tutto vero, come la stima dei colleghi e il riconoscimento delle sue capacità e della sua laboriosità, ma il problema non viene scalfito. Resta intatto. «La sua negligenza», nota la Disciplinare, «certamente non può essere giustificata dalla sola rilevanza e complessità dell’attività svolta dal dottor Albergato. Il quale ha manifestato una totale mancanza di attenzione alle esigenze dei cittadini in attesa di una decisione sulle proprie impugnazioni.» Torna quel capo d’incolpazione così essenziale, nudo, diretto. Il tribunale delle toghe smonta dunque l’obiezione avanzata: il superimpegno che aveva travolto Albergato. «Correttamente», si legge nella sentenza, «il procuratore generale della Cassazione ha rilevato che l’assunzione di numerosi incarichi da parte dell’incolpato, apprezzata con connotazione positiva in sede di valutazione di professionalità, incide, invece, negativamente sul giudizio in sede disciplinare, in quanto sarebbe stato dovere del magistrato segnalare al capo dell’ufficio l’insostenibilità di quegli ulteriori incarichi che avevano dato luogo ai gravi ritardi in cui egli era incorso anche in epoca precedente a quella cui si riferiscono le attuali contestazioni.» Gratta gratta, si scopre che il bravissimo Albergato si era già preso una condanna, sempre per la stessa ragione: nel 2013 gli era stata inflitta, sanzione pesante, la perdita di anzianità di due mesi. Albergato non avrebbe dovuto fare da calamita per qualunque incombenza, ma avrebbe dovuto far presente la propria situazione, i propri carichi di lavoro, al limite i propri ritardi. Dire sempre sì può servire a lucidare il curriculum ma diventa talvolta una pessima risposta ai ritmi generali. Scava scava, emerge che anche la vicenda dei dieci fascicoli non è proprio isolata. Il blackout riguarda anche un altro procedimento penale in cui un provvedimento, annunciato, è arrivato solo dopo cinque anni. Per essere precisi, il 14 luglio 2014 il magistrato deposita la decisione su cui si era riservato all’udienza del 12 novembre 2009. Un ritardo inimmaginabile che si somma alla deriva dei dieci fascicoli naufragati nell’incuria. Albergato merita la condanna. Sarebbe stato sufficiente consegnare quella chiave a tempo debito, con due righe di scuse per il disagio arrecato. Sarebbe finita lì, magari con le rimostranze di qualche altro giudice, costretto a ereditare i fascicoli. Ma il silenzio è scandaloso e l’unico dubbio è relativo all’entità della punizione. La Disciplinare mette tutto insieme e decide di non calcare la mano: «Avuto riguardo alle valutazioni positive espresse, da ultimo, dal presidente del tribunale in ordine alla notevole laboriosità e produttività del dottor Albergato, alla riduzione del carico di lavoro dell’ufficio da lui conseguito, si ritiene di poter contenere la sanzione nella misura minima della censura, pur in presenza della già citata pregressa condanna alla più grave sanzione della perdita di anzianità». Il 5 giugno 2017, in un difficile bilanciamento delle lodi e delle note dolenti, arriva per Albergato la censura.

Il giudice copia la sentenza ma viene assolto

              Millecentoottantacinque pagine assemblate con la non nobilissima tecnica del «copia e incolla». Millecentoottantacinque su 1193. Tutto uguale, come in un grande specchio, fino alle virgole e ai puntini di sospensione: l’ordinanza di custodia del GIP è una goccia d’acqua, il clone della richiesta del pubblico ministero. Tutto perfettamente sovrapponibile, come un’unica interminabile citazione. Tutto, a parte 8 pagine miserelle, farina del magistrato. A scuola un tema così sarebbe stato affondato con biasimo dai professori: non si «ruba» il lavoro degli altri, ma qui, se si può tentare un parallelo, è pure peggio: come se il giudice Demetrio Disdoro avesse saccheggiato non una ma dieci o cento composizioni, affondando la penna nel calamaio di chi l’aveva preceduto. Per di più dopo aver studiato la pratica per un anno intero: dal settembre 2014 al settembre 2015. Un giro intero di calendario: Natale, Pasqua, l’estate del 2015. Per carità, quando si ha a che fare con la criminalità organizzata bisogna approfondire, capire e collegare. Altrimenti gli arresti cammineranno su piedi d’argilla e gambe esili, ma Disdoro dopo tutto quel lungo periodo di preparazione si è visto comunque poco. Ha sferrato sì l’attacco a un clan della camorra che spacciava in alcuni quartieri di una metropoli difficile del Sud, ma si è appiattito, anzi si è nascosto dietro la mano dei PM che avevano condotto l’inchiesta e proposto un carico di manette. Non è un’esagerazione, ma la cruda realtà. «Al magistrato», spiega la Disciplinare, «si contesta di aver formato un’ordinanza con la trasposizione in essa di ampie porzioni della richiesta di misura cautelare.» Ma forse così non è ancora chiaro e allora il tribunale delle toghe circoscrive in modo impietoso l’incredibile plagio: «Disdoro, in particolare, chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di custodia cautelare formulata… nei confronti di soggetti indagati per gravi reati, avrebbe riprodotto nell’ordinanza di 1193 pagine, testualmente e senza alcuna virgolettatura, 1185 pagine della richiesta di misura cautelare, formulando pertanto valutazioni proprie e originali solo in 8 pagine in cui avrebbe elaborato considerazioni di carattere giuridico». Dove il condizionale è solo un alleggerimento stilistico, una formula educata per attutire, come un cuscinetto, l’ovvio imbarazzo. Ce n’è a sufficienza per sollevare quello che nel mondo dell’università o della politica sarebbe uno scandalo. Quante volte abbiamo appreso delle dimissioni di un ministro che era stato pizzicato sul fatto: dopo aver fatto copia e incolla per decine o, peggio, centinaia di pagine. Qua siamo a più di mille pagine, in pratica quasi il cento per cento del lavoro. I tempi? Come si accennava, i PM avevano consegnato il loro «affresco» del clan il 24 settembre 2014, lui ha depositato l’ordinanza il 28 settembre 2015. Un anno secco. Un anno di lettura delle carte, nessuno lo mette in discussione, ma anche di copia e incolla selvaggio. Disdoro finisce nel mirino della Procura generale della Cassazione, ma è anche vero che la magistratura ha sensibilità, parametri e criteri specifici. Quel che vale per gli altri, per tutti gli altri, a queste latitudini non convince e non si applica. Può sembrare impossibile, un privilegio vergognoso, ma il procedimento non corre come ci aspetteremmo verso l’inesorabile sentenza e la condanna più scontata. Anzi. Si apre uno spazio imprevisto di discussione sul copia e incolla creativo. Un paradosso. Un ossimoro. Un azzardo più traballante di un ponte tibetano sospeso sull’abisso, ma la Disciplinare va in questa direzione, ci crede, non si arrende davanti a quei numeri così plateali e sfacciati. In quel mare piatto l’accusa va a cercare le increspature che dimostrano l’originalità, sia pure in dosi omeopatiche, di Disdoro. E le sfumature del Disdoro pensiero ci sono, sono rintracciabili se si fa attenzione, se si valorizza con la lente d’ingrandimento la sua fatica – eufemismo – se si guarda con occhio comprensivo il suo sforzo – altro eufemismo – se si sotterra per un istante l’indignazione che pure si manifesta spontanea e sacrosanta scorrendo quel tomo, frutto di una semplice duplicazione che ci pare un affronto alla dignità del giudice, un insulto anche formale alla sua terzietà e indipendenza. Così il GIP, oltre a rimediare un’inelegante figura, ci pare svilito ad appendice del PM, sua modesta proiezione senza personalità. Ma ai piani alti della giustizia la pensano diversamente. Non tutti, in verità. Per la cronaca, dopo quel provvedimento zoppo – altro eufemismo – gli avvocati dei presunti camorristi avevano avuto gioco facile e il Tribunale del riesame aveva fatto a pezzi quel lungo scritto così debole e anemico. Ma anche questo mezzo disastro, questo flop più che prevedibile sul campo di battaglia della guerra al regno di Gomorra, non è sufficiente per chi deve stabilire se dare un futuro a Disdoro oppure no. Il punto cui aggrapparsi è ben visibile in quella infinita sequenza di frasi e concetti senza personalità: non sono le 8 paginette originali, poca cosa rispetto alle 1185 mandate giù come Vangelo, senza modificare una sola consonante. No, è un altro il sentiero su cui incamminarsi. Disdoro ha detto no ad alcune richieste di manette avanzate dalla Procura. C’era nel provvedimento dei PM la proposta di spedire di corsa ai domiciliari quattro dei venti indagati, ma lui l’ha respinta, giudicando gli indizi troppo vaghi e il legame del quartetto con l’organizzazione non provato. Disdoro, in sintesi, è rimasto folgorato dai ragionamenti, tutti i ragionamenti, dell’accusa, meno dalle conclusioni dei PM. Qui ha deciso con la propria testa. Ha firmato molti ordini di custodia, ha mandato 16 persone in carcere, ma non ha condiviso tutti i provvedimenti suggeriti. Qualcosa ha cassato e respinto: una mossa fondamentale dopo quel lungo percorso nella scia dei pubblici ministeri. Il Tribunale del riesame l’aveva bacchettato mettendo in evidenza una contraddizione insuperabile: l’autonoma valutazione dei fatti non può andare a braccetto con il copia e incolla. E aveva sottolineato le clausole di stile utilizzate come cuciture fra un brano e l’altro: «Gli elementi sin qui delineati consentono, dunque, di ritenere integrato il grave quadro indiziario». Frasi standard buttate qua e là come salsa per rendere presentabili i piatti preparati da altri. Formule che rimbombano nel vuoto di una «motivazione apparente». Ma la Cassazione, prima ancora della Disciplinare, aveva già capovolto quel punto di vista: «Il rigetto da parte del giudice dell’istanza del pubblico ministero solo per alcune imputazioni cautelari o solo per alcuni indagati segnalava già di per sé l’avvenuto esame in termini di autonoma valutazione dell’intera richiesta cautelare, anche se per altri indagati e per altre imputazioni preliminari la richiesta era stata accolta negli stessi, identici termini, sia meramente grafico-testuali che argomentativi, di quelli enunciati dal PM». Capito? L’importante è far sentire la voce del giudice nel momento supremo della scelta, quando si tratta di pesare le misure cautelari e di mettere le manette al polso dei delinquenti. Parole coraggiose, quelle della Suprema corte, che non cancellano l’impressione negativa: possibile che su mille e passa pagine la forza originale del giudice si debba ridurre a qualche paginetta di dissertazioni giuridiche generali, una sventagliata di clausole di stile e poco altro? E però questo è il dato: per la Cassazione non c’è il cortocircuito che il Tribunale del riesame aveva denunciato senza mezzi termini.

«La necessità di un’autonoma valutazione da parte del giudice delle esigenze cautelari», insistono gli ermellini, «…deve ritenersi assolta quando l’ordinanza – benché redatta con la tecnica del copia e incolla – accolga la richiesta del PM solo per alcune imputazioni cautelari ovvero solo per alcuni indagati, in quanto il parziale diniego costituisce di per sé indice di una valutazione critica e non meramente adesiva della richiesta cautelare.» Chiaro? Il copia e incolla originale non è una chimera, per la Cassazione esiste e la Cassazione l’aveva già sdoganato criticando il Tribunale del riesame e riabilitando il GIP. Sarà. Qualcosa continua a stridere. Inutile far finta di niente: istintivamente, e non solo, noi ci schieriamo con il Riesame: mille pagine di valutazioni, riflessioni, considerazioni bevute senza fiatare sono, nella migliore delle ipotesi, la spia di una scarsa applicazione o di poca cura della professione, e infatti il Riesame aveva scarcerato tutti e 16 i camorristi, facendo strike dell’ordinanza. Ma la Cassazione ha un altro metro: si può essere autonomi anche copiando. Copiando e ricopiando senza freni. La Disciplinare non ha esitazioni, segue la Suprema corte graziando Disdoro: «L’incolpato aveva rigettato la richiesta di applicazione degli arresti domiciliari», proposta per un quartetto di indagati, «ritenendo che il coinvolgimento dei 4 nelle vicende esaminate fosse limitato». Basta questo: il GIP ha dimostrato di non essere succube dei PM, schiacciato sulle loro posizioni, sbilanciato senza un minimo di filtro. Ci sono altre sfumature che aiutano, dettagli tecnici come il capitolo dei sequestri preventivi: Disdoro l’ha risolto ancora una volta con una decisione non in linea con le pressanti richieste dei PM. Sconfessandoli ancora una volta con un sonoro no. Conclusione: il GIP svogliato se la cava pur non avendo cambiato nemmeno una virgola sulla distanza delle 1185 pagine, una misura fluviale degna di un grande romanzo russo dell’Ottocento. Il 4 settembre 2017 Disdoro viene assolto.

La PM e il bellissimo attore

            Una cittadina del Nord. L’alba o poco dopo. Un boato terribile, dilatato dal silenzio generale, scuote le strade e le case ancora addormentate: la palazzina viene giù uccidendo la proprietaria. Un famosissimo attore protagonista di molte fiction a tinte forti, era all’interno dell’edificio: resta ferito ma si salva. Vaga fra le rovine in pigiama, scosso e tremante. Sul posto, intanto, accorre il pubblico ministero di turno, Rosella Landi, che ispeziona le rovine e interroga rapidamente il bellissimo attore. Sangue e macerie segnano quel giorno di febbraio del 2016. L’attore viene accompagnato in ambulanza in ospedale. Una tragedia, forse dovuta a una fuga di gas, come tante purtroppo nel nostro Paese. Ma Landi è rimasta colpita soprattutto dalla bellezza del personaggio e qualche ora dopo i suoi commenti entusiastici e insieme polemici tracimano su Facebook. «Perché gli uomini», è l’alta riflessione postata dal magistrato nel suo inconfondibile stile: ma come cavolo scrive Landi?, «davanti all’avvenenza di un altro esemplare appartenente al loro stesso genere, devono usare sempre il trito e ritrito argomento “Tanto lo sanno tutti che è gay?”» Questione filosofica, come si può comprendere, che sarebbe stata più consona sotto il casco di un parrucchiere o al tavolo di un bar, ma non in linea con il lutto e la morte di una persona. Di più, non proprio pertinente al ruolo delicatissimo del PM, chiamato a indagare sul terribile evento in cui, fra l’altro, l'attore era parte lesa. Tutte queste elementari valutazioni vengono superate a briglia sciolta dall’incontenibile Landi. Scatenata come una fan. E furiosa con gli uomini come un’adolescente per le basse insinuazioni sulla sessualità del suo beniamino: «Lo hanno capito che l’assolutamente ipotetica omosessualità di quello che percepiscono subito come un attentato alla loro maschia primazia non li rende più avvenenti agli occhi delle attonite ammiratrici delle “altrui grazie?”» Siamo sul profilo Facebook della Landi, ma potremmo pure essere in tribunale tanto è appassionata la requisitoria. E non è finita. Dopo aver condiviso una foto dell’icona così sexy e conturbante, Landi partecipa a una tambureggiante chat sull’importantissimo tema. E nel rispondere a una stuzzicante domanda spiega che sì l’ha guardato e ammirato: «Direi proprio di sìììì», con la i ripetuta non si sa bene quante volte e quattro emoticon sorridenti di rinforzo. Landi utilizza a cascata lettere e simboli, come una quindicenne senza filtri nel comunicare le emozioni che la scuotono. Ma la magistrata non si sottrae al dovere delle parole e cerca di condensare in una frase la tempesta interiore: «È tanta roba, pure acciaccato e in pigiama… tantissima roba… da non sapere dove guardà». Elegante e distaccata, insomma, come si addice a un PM che è appena stato sul luogo di un disastro. Qualche ora e quei commenti escono dalla bacheca dei social e arrivano alle antenne sempre vigili dei carabinieri. Il procuratore, irritato, toglie alla PM l’inchiesta, la Procura generale fa il suo lavoro. Non può essere che una sciagura si trasformi, per la casuale presenza del bellone di turno, in un’occasione di gossip ed eccitazione femminile. I giornali locali, naturalmente, ricamano senza tregua sull’infatuazione della signora in toga. Lei si difende. Minimizza. Chiama in causa la cerchia degli amici che hanno acceso il fiammifero della discussione: «Era stato un suo amico a postare una foto, tratta dal sito Internet di un quotidiano, che ritraeva l’attore mentre veniva condotto a bordo di un’autoambulanza subito dopo il sinistro corredandola del commento a lei rivolto “se avessi fatto l’infermiera lo avresti conosciuto”». Rimbalzando su tutti i possibili luoghi comuni. Le chat, si sa, sono fatte così e sono un po’ come le ciliegie: un intervento ne calamita un altro. «Avendo un’altra amica riferito, nel corso della stessa discussione sul web», prosegue Landi, «la propria opinione sull’aspetto fisico dell’attore, lei era intervenuta sottolineando l’indubbia avvenenza dell’attore.» Vuoi mettere: un’occasione così non si presenta tutti i giorni e lei aveva sconfinato senza riflettere sul fatto che quei fuochi d’artificio erano appropriati come una risata scomposta durante un corteo funebre. Ma non si era lasciata sfuggire alcun riferimento alla persona dell’uomo di spettacolo e non aveva spifferato notizie sugli atti investigativi in corso. Il PM si discolpa come può: anche il panegirico sull’omosessualità, quasi una calunnia da parte dei maschi invidiosi per come lei l’aveva intesa, non conteneva alcun riferimento concreto alla vita dell’attore ed era rimasto sulle generali. La Disciplinare ascolta accigliata le giustificazioni, poi esprime ad alta voce le sue perplessità per quell’uscita così stonata e infelice: «L’incolpata era l’assegnataria del procedimento relativo al crollo della palazzina che aveva provocato, oltre alle lesioni all’attore, un evento ben più tragico, qual era stato – è bene ricordarlo – il decesso di una delle occupanti della palazzina». La premessa inchioda la PM alle sue esclamazioni sopra le righe: «Una tale situazione era pertanto di per sé idonea a imporre alla dottoressa Landi il divieto di esternare impressioni o commenti sulle parti coinvolte». No, non va bene e neppure può essere tollerato che un PM si esponga con parolone altisonanti e mielose nei confronti di uno dei protagonisti del procedimento: «Un apprezzamento, pur favorevole a una delle parti, è di per sé idoneo a ledere l’immagine di imparzialità del magistrato, sicuramente agli occhi di altri soggetti coinvolti a vario e diverso titolo nello stesso procedimento (quali,… tra gli altri, i proprietari o eredi della palazzina crollata)». Le altre parti davanti a una «serenata» del genere potrebbero sentirsi in qualche modo discriminate. Non solo: «È poi da ritenere che gli apprezzamenti postati dall’incolpata – oltre a riguardare eventi che, in ragione della loro drammaticità, non si prestavano a commenti goliardici – sono stati espressi in una forma che non si addice a un magistrato, dovendosi esigere da un rappresentante dell’Ordine giudiziario un approccio più elevato rispetto al comune cittadino ai temi affrontati in sede di una discussione che ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone.» Il giudice dovrebbe pensarci due volte prima di abbandonarsi a espressioni un tanto al chilo, come quelle che si sentono al mercato del pesce, al bar o nel mitico scompartimento del treno. «Non è in particolare consono», va avanti la Disciplinare, «il linguaggio utilizzato in sede di apprezzamento pubblico manifestato nei confronti dell’attore ritenuto essere “tanta roba… tantissima roba pur acciaccato e in pigiama… da non sapere dove guardà.”» Questa proprio Landi se la poteva risparmiare. «Nella stessa ottica e in quel contesto appare parimenti censurabile la disquisizione pubblica, fine a se stessa, sul tema dell’omosessualità, ciò anche quando, come nel caso in esame, era finalizzata a esaltare la figura dell’attore agli occhi delle ammiratrici.» Insomma, Landi ha sbagliato tutto: non doveva aprire bocca e ha forzato i toni, senza tener conto del contesto di morte in cui si era trovata: «Il comportamento è pertanto valutabile in termini di grave scorrettezza posta in essere anche con la violazione del dovere di riserbo inteso quale atteggiamento richiesto al magistrato all’evidente fine di evitare che, facendo percepire i propri sentimenti e le proprie opinioni, possa suscitare dubbi sulla sua indipendenza e imparzialità, danneggiando la considerazione di cui il magistrato deve godere presso la pubblica opinione». Un giudizio severo, almeno in prima battuta, quello della Disciplinare. Di più, il tribunale delle toghe blinda il proprio ragionamento ancorandolo alla sentenza della Consulta numero 100 dell’8 giugno 1981. Per la Corte costituzionale «la libertà di manifestazione del pensiero, pur rientrando tra quelle fondamentali protette dalla nostra Costituzione, non è senza limiti».

E quei limiti sono ancora più marcati per un giudice che dev’essere indipendente e imparziale non solo a Palazzo di giustizia, ma nella deontologia della vita quotidiana. Non solo, la Disciplinare toglie a Landi anche l’alibi dell’ingenuità, perché in fondo lei aveva fatto girare quella ghirlanda di parole in libertà solo sui social, in una cerchia ristretta, e non pensava certo di dare in pasto i suoi gusti estetici e le sue valutazioni sul genere maschile a un’opinione pubblica affamata di pettegolezzo. «È da considerare», si legge nel verdetto, «che chi scrive su una mailing list o su diverse piattaforme destinate alla socializzazione debba considerare come conseguenza altamente probabile che il suo messaggio possa avere una diffusione ulteriore e non possa essere considerato alla stregua di corrispondenza privata.» La bolla dell’innocenza non può esistere. E non ci possono essere scappatoie né nel merito né nel metodo. Il fatto è grave e Landi è spalle al muro. Ma la Disciplinare a volte, sia detto con il dovuto rispetto, è più stupefacente della Pattuglia acrobatica e con una giravolta spettacolare vira in picchiata verso l’assoluzione. La formula magica è la «scarsa rilevanza» dell’illecito. La «scarsa rilevanza» è il corridoio in cui la Disciplinare si infila a velocità supersonica. Certo, è un po’ difficile capire come la «gravità» possa andare a braccetto, come fosse una sorella, con la «scarsa gravità», ma la sentenza ci illumina: «In effetti, nonostante la apparente contraddizione» fra due concetti che sembrano fare a pugni, «la gravità, quale profilo oggettivo del fatto, non è in contraddizione con una scarsa rilevanza di questo». Sembra un gioco di parole, ma la Disciplinare in qualche modo lo motiva: la scivolata c’è stata, eccome, ma in concreto non è successo niente. Solo un po’ di strepito, sorrisetti taglienti nel chiacchiericcio, qualche battutaccia maligna e maliziosa. Tutto qua. Certo, la giustizia è precipitata fragorosamente dal suo piedistallo, ma nessuno si è lamentato: il divo non ha fiatato e il temporale iniziale è rientrato. Anche per Landi le cose si sono aggiustate. Qualche mese dopo il dramma, il CSM ha sconfessato il procuratore che le aveva portato via il fascicolo e l’ha riabilitata: «Il CSM, con delibera del 15 luglio 2016, ha ritenuto che la condotta del magistrato non aveva in alcun modo inciso sul concreto andamento dell’attività procedimentale». La PM si è lasciata sedurre sulla bacheca di Facebook ma poi ha fatto tutto giusto, ha pilotato in modo corretto l’indagine, finché è rimasta nelle sue mani, non ha sbandato. E ancora: «Dal tenore della discussione non emerge in nessun passaggio che l’incolpata abbia rivelato oppure trattato temi e aspetti rilevanti ai fini delle indagini». Sì, quel che è accaduto era solo un alleggerimento completamente fuori contesto. Il caso può finire in nulla, anche se, oltre a una donna, è morta la serietà dello Stato. Nell'estate 2017 Rosella Landi viene assolta.

Il giudice e la sentenza abnorme

              Una sentenza che mette a dura prova la credibilità della magistratura. Come un crash test dagli effetti disastrosi: il giudice Nicola Belletti si è spinto troppo in là e l’ha sparata davvero grossa. Un verdetto abnorme, come lo chiamano gli esperti, utilizzando un vocabolo che ha un significato preciso fra gli addetti ai lavori ma comprensibile a tutti. Eh sì, perché la clamorosa pronuncia di Belletti è di quelle che provocano anche fra i profani a digiuno di diritto una risata sonora e potente, tanto è evidente il divorzio fra il buonsenso e il provvedimento partorito dal giudice. Dunque, il magistrato, per la precisione GIP, si trova a dover giudicare un caso semplice semplice: un sorvegliato speciale, quindi si immagina non uno stinco di santo, ha tagliato la corda e si è allontanato dal domicilio impostogli con una motivazione non proprio impeccabile: doveva accudire il suo cane. E per questo ha violato gli obblighi. Ora, va bene tutto, i tempi sono quelli che sono, la confusione regna sovrana a tutte le latitudini della società, ma è evidente anche a un bambino che una giustificazione del genere non può stare in piedi. Ha le gambe corte. Non può essere un alibi o un lasciapassare. Orazio Gelmini dovrebbe essere condannato, perché spostandosi ha commesso un reato. E pazienza per il suo amico a quattro zampe: avrebbe dovuto organizzarsi per tutelarlo all’inizio quando lui era finito in un paese e il suo compagno scodinzolante era rimasto da un’altra parte. Tocca a Belletti sanzionarlo. Routine. Ordinaria amministrazione che non dovrebbe meritare nemmeno due righe in cronaca. E invece il GIP si inventa una sentenza rivoluzionaria e assolve il fortunato imputato che, è facile immaginare la scena, quasi non crede ai suoi occhi. L’avvocato di Gelmini aveva infatti scelto il rito abbreviato per limitare i danni e ottenere, come prevede la legge, lo sconto di un terzo su una pena praticamente certa. Ma Belletti deraglia e nobilita quel gesto furbastro e irrispettoso fino all’illegalità, trasforma quella vicenda in una pagina strappalacrime da libro Cuore: Gelmini ha agito in stato di necessità, insomma, a spanne, come capita quando un senzatetto affamato va al supermercato, allunga la mano e porta via dallo scaffale un pezzo di formaggio o una scatola di biscotti per sfamarsi. Sì, per il glorioso quadrupede Belletti chiama in causa, nientemeno, l’articolo 54 del codice penale, quello che appunto regola una materia così drammatica, e il 30 aprile 2015 giustifica l’azione di Gelmini con la formula «perché il fatto non costituisce reato»: «Gelmini», scrive il GIP, «doveva accudire il proprio cane che non riuscì tempestivamente ad affidare a nessun altro». Poveretto, verrebbe da dire, e quasi quasi scende sul viso di chi legge una lacrimuccia empatica per i croccantini del quadrupede di cui non conosciamo il nome e che chiameremo con modesto sforzo di fantasia Free. Free viene rifocillato ma il diritto fa naufragio. La sentenza grida vendetta: cosa sarà saltato in testa all’eccentrica toga? Per prima interviene la Cassazione che rade al suolo il verdetto annullandolo senza rinvio e rimette a posto le cose sul piano penale. Poi tocca al tribunale delle toghe, sul versante disciplinare: la corbelleria è troppo grande per non intervenire. Tutti possono sbagliare, ci mancherebbe, ma certi errori non possono essere ammessi, altrimenti a franare sarà tutto il sistema. Belletti e la sua sentenza abnorme salgono sul banco degli incolpati: l’articolo 54, riassume la Disciplinare, «non riguarda l’esigenza di accudimento di un animale», ma «il pericolo attuale», quindi concreto, «di un danno grave alla persona». Se stai per morire di fame, tu e non il tuo cane, si capisce che tenterai di tutto per non soccombere. E invocherai come uno scudo l’articolo 54. Belletti si difende insistendo temerariamente sul punto: Gelmini, secondo lui, «aveva un preciso dovere morale e giuridico» nei confronti di Free. Tesi ardita, anzi strampalata, per di più sostenuta e puntellata, nota perfida la Disciplinare, mischiando e confondendo più di un articolo del codice con un ragionamento sballato che risparmiamo al lettore. Del resto, la sentenza incriminata non è solo un obbrobrio ma pure uno schifo e la Disciplinare bacchetta l’autore: «Anche dal punto di vista grafico è stata redatta con modalità del tutto approssimative e totalmente prive di quei requisiti minimi ed essenziali che devono avere le sentenze nel nostro ordinamento». Qui non c’è niente che giri per il verso giusto: né la forma e neppure il contenuto. La condanna è inevitabile, anche se si decide di punire la toga con la sanzione più soft, se non altro perché l’episodio è un unicum nella carriera del magistrato. Il 19 giugno 2017 Belletti viene condannato all’ammonimento. La legge è una cosa seria, non un tappetino che si possa calpestare due volte: scrivendo il verdetto con i piedi per mandarlo sotto le zampe di Free.

La cecità attentiva della PM

              Guardare ma non vedere. Non accorgersi di qualcosa di completamente diverso e inatteso che entra nel nostro campo visivo. Come il gorilla di un famoso esperimento: due squadre improvvisano una partita di basket e a un ipotetico spettatore viene chiesto di contare i passaggi fra i giocatori che indossano magliette di diversi colori. A un certo punto dietro i ragazzi compare un gorilla che si batte il petto, ma il 50 per cento degli osservatori non lo nota. Può capitare. Capita. Solo che il giudice di sorveglianza Isabella Polidori non aveva letto: sul permesso che stava firmando c’era scritto «libero» e così quando era arrivato in aeroporto, solo soletto, l’ergastolano era scappato. Evaso. Ingiustificabile. E lei allora aveva provato a metterci una pezza, assai sofisticata: «È successo quello che le neuroscienze chiamano cecità attentiva». La cecità attentiva del giudice Isabella Polidori. Ma la Disciplinare non può aprire la porta a una sorta di perdonismo o buonismo di natura psicologica. È giusto entrare con i moderni strumenti di analisi nel labirinto della mente ed esplorarlo, ma l’errore resta errore. Sbaglio grave e non scusabile, anche se le circostanze hanno giocato a sfavore del giudice di sorveglianza. Tutto comincia a marzo 2016 quando Polidori riceve la richiesta: un ergastolano vorrebbe andare a trovare la sorella disabile che risiede a centinaia di chilometri di distanza e che probabilmente non vede da molto tempo. Un viaggio impegnativo però comprensibile: l’importante è che tutto si svolga in condizioni di sicurezza. Il 16 marzo 2016 il magistrato firma il «permesso di necessità», così si chiama, della «durata di giorni uno oltre il tempo per il viaggio» per raggiungere «con adeguate cautele e in particolare scorta all’andata e al ritorno» il luogo dell’appuntamento che non è dove abita la sorella, ma in un’altra località. Tutto secondo prassi. Ma il meccanismo s’inceppa. La disabile non può affrontare quella trasferta, non può lasciare l’isola in cui vive. La cancelleria modifica il provvedimento, ma va in tilt: viene cambiata la destinazione, ma nella disattenzione generale il nuovo modulo è quello relativo ai permessi premio e non è per nulla pertinente al motivo del viaggio. Peggio, una mano sventurata rivoluziona le condizioni della trasferta e incredibilmente toglie la scorta e le cautele, come fosse in discussione una scampagnata fra educande: il detenuto viaggerà «libero». Il 5 maggio 2016 l’incartamento torna nelle mani di Polidori che si concentra su un dettaglio tutto sommato marginale, l’indirizzo errato, e chiede ai suoi collaboratori di correggerlo. Solo che il giudice non nota tutto il resto: scorge l’evangelica pagliuzza, ma non la trave. È il disastro che si prepara. Mani e occhi toccano e leggono per l’ennesima volta il provvedimento, nulla viene eccepito. Non certo per dolo o malafede, ma più prosaicamente per disattenzione, abitudine, forse poco allenamento alla responsabilità. Toccherebbe a lei, al magistrato, che però da l’ok. L’ergastolano è libero di tagliare la corda. L’11 maggio finalmente il detenuto prende l’aereo. Come un normalissimo passeggero. Per i fatti suoi. Come un businessman, in un’incomprensibile catena di sviste e amnesie. Alle due del pomeriggio arriva in aeroporto e sfrutta l’occasione irripetibile. Fugge e sparisce dalla circolazione. Lo riprenderanno, per fortuna, dopo sei mesi di inammissibile latitanza. Pericolosa perché si tratta di una persona che si è macchiata di gravissimi reati. La Disciplinare vuole capire cosa sia passato nella testa imballata del magistrato di sorveglianza e ricostruisce con il suo aiuto i passaggi di quella clamorosa débâcle. In particolare, si sofferma sul secondo round dell’operazione, quello decisivo dove tutti hanno perso la testa: «In data 5 maggio 2016 sottoscriveva, senza controllarlo, un provvedimento di modifica che, redatto dalla cancelleria in modo difforme dalle indicazioni fornitele, disponeva la fruizione dello stesso permesso libero nella persona». Sì, «libero nella persona». Questo ha stabilito Polidori. Ma come è stata possibile una sbalorditiva svista del genere? Il permesso è stato modificato sulla base «di un’istanza presentata dall’interessato e fondata sulle certificate condizioni di salute della sorella disabile che non avrebbe potuto affrontare il viaggio», inizialmente previsto. Un dettaglio che spiega la dinamica, ma non chiarisce certo l’errore. Lei aveva chiesto alla cancelleria di modificare l’indirizzo, lasciando «invariato il resto». E invece, ecco il pasticcio. Polidori aveva ricevuto la nuova versione e aveva mentalmente zoomato su quel particolare della via inesatto, chiedendo un’ulteriore rettifica. Ma le era sfuggito il quadro d’insieme. E non aveva segnalato la gravissima anomalia, ignorata alla grande, in una sorta di dormita collettiva, pure dal PM cui il testo era stato dato in lettura. E che aveva serenamente dato il suo parere di rito, senza rilevare niente di niente. Davvero imbarazzante. E drammatico per la tenuta dello Stato. Si riaffaccia la domanda delle domande: come è potuto accadere? Sarebbe stato sufficiente, pur in quella sfortunata successione di equivoci, che qualcuno avesse letto quel che sciaguratamente era prescritto nell’infelice provvedimento. Polidori allarga le braccia, riconosce l’errore e si rifugia nelle neuroscienze: «La mia mente non ha visto quel che i miei occhi stavano guardando. Questo presumibilmente proprio perché quelle parole erano totalmente incongrue ed eccentriche nel contesto. Si trattava di una modifica molto parziale di un permesso di necessità ai sensi dell’articolo 30 secondo comma dell’ordinamento penitenziario e la mia mente non è riuscita a vedere che invece c’era scritto “permesso premio” e “libero nella persona”. Non l’ho visto perché una modifica così parziale di un permesso di necessità è difetto forse di fantasia, non di attenzione. Non ho pensato che potesse trasformarsi in permesso premio». Sconsolata, quasi incredula, Polidori ripete la frase una seconda volta: «Non ho pensato che potesse trasformarsi in permesso premio». Poi conclude la sua sofferta ricostruzione: «Non parliamo neanche di un pensiero in realtà. È successo quello che la scienza chiama cecità attentiva». Polidori non si nasconde dietro concetti fumosi, anche perché sarebbe difficile negare quel che è sotto gli occhi di tutti, semmai prova a spiegare anzitutto a se stessa come sia stato possibile un passo falso così grossolano, così clamoroso, così disarmante nel suo banalissimo svolgimento. E l’unica risposta plausibile che riesce a darsi è legata all’esplorazione dei meccanismi non sempre rassicuranti, ma talvolta sdrucciolevoli e traditori, della mente umana. La mente a volte si confonde, prende un abbaglio, non vede le evidenze. Lei, imbarazzata e costernata, non sa andare oltre. Ma la Disciplinare non può certo arenarsi nei misteri della psiche. Se passasse un principio del genere, saremmo alla catastrofe. E qualunque comportamento potrebbe avere una giustificazione da rintracciare nei doppifondi della nostra interiorità. Invece, la storia in questione è quella di una distrazione dalle gravi conseguenze. «È indubbio», è la ricostruzione del tribunale delle toghe, «che la disposizione data dalla dottoressa Polidori alla cancelleria di procedere “alla modifica del provvedimento esclusivamente con riferimento al luogo, invariato il resto”, sia una disposizione corretta come risulta dalla lettura del brogliaccio dal quale si evince che la disposizione impartita era effettivamente quella.» Ma questo non può bastare: «Tuttavia non può essere messo in discussione che nel momento in cui la redazione del provvedimento viene demandata alla cancelleria, è altrettanto doveroso che il magistrato controlli in maniera capillare tutto quanto viene scritto.» Non se ne esce. Eclissi e incantamenti non possono fare da scudo. «La materiale redazione del provvedimento da parte della cancelleria che peraltro aveva utilizzato un modello per un permesso premio anziché un modello per permesso di necessità», va avanti il verdetto, «non può esonerare il magistrato da

una responsabilità diretta ma anzi impone al magistrato un surplus di diligenza.» Il dossier riguardava gli spostamenti di un ergastolano, dunque Polidori avrebbe dovuto guardare la pratica non con due ma con quattro occhi: «Doveva controllare capillarmente, soprattutto quelle parti che sono relative alle modalità con cui si consentiva al detenuto di muoversi.» Inutile evocare le sabbie mobili della cecità attentiva che hanno inghiottito la lucidità del magistrato. «Non può essere invocata», va avanti la Disciplinare, «nemmeno la cecità attentiva posto che il fatto di aver proceduto alla correzione materiale del luogo nel quale doveva recarsi il detenuto ergastolano a maggior ragione doveva portare a dare priorità alle modalità con le quali lo stesso doveva muoversi.» La condanna è inevitabile, ma la sanzione può essere attenuata dal concorso di «circostanze altamente sfavorevoli». Polidori si è incamminata sul solito sentiero, ma si è trovata in fondo al dirupo. Il 19 giugno 2017 la Disciplinare, che ha come relatore Luca Palamara, poi travolto dallo scandalo delle nomine, infligge a Isabella Polidori la pena della censura.

Il PM dimentica la relazione

              Un’autopsia in un procedimento per omicidio. Non proprio uno scherzo. La consulente però si dimentica del morto e trascura la sua relazione alla Procura. Passano i mesi e non succede niente. Calma piatta. La PM, titolare di quel fascicolo così delicato, si scorda pure lei del medico legale che si era perso il defunto. Pare di stare in un racconto di Čechov, siamo purtroppo nei gironi più avvilenti della giustizia italiana all’alba del 2015. La relazione arriva sul tavolo del magistrato solo il 14 gennaio 2015, a oltre tredici mesi dal conferimento dell’incarico. Uno scandalo perché i tempi previsti, ragionevolmente, erano di 90 giorni. Tre mesi. Dieci in meno di quelli spesi per chiudere la pratica con passo da lumaca. Ma questo è solo l’antipasto, lo scandalo vero è un altro. La PM non ha tirato le orecchie al medico inadempiente, in grave ritardo sulla tabella di marcia. Invece di costringerla ad accelerare e a consegnare le sue conclusioni, ha fatto ricadere le conseguenze di quella smemoratezza senza alibi sull’anello debole della catena: l’uomo sotto accusa per l’omicidio. Naturalmente, detenuto in cella. Dunque, Nadia Fusini ha chiesto al GIP la proroga della custodia cautelare: come dire, gli esami scientifici sono ancora in corso e allora non c’è altro da fare che tenere il tizio dietro le sbarre. Qualche altro mese, in attesa dei risultati. Illogico e pure per niente rispettoso dei diritti fondamentali, perché, è bene ricordarlo sempre, non è che il carcere sia un parcheggio e dovrebbe essere interesse dello Stato definire le posizioni al più presto. Invece Fusini ha presentato la domanda di proroga al GIP e il GIP l’ha accolta il 22 novembre 2014, evidentemente senza porsi troppe domande scomode. Il giudice non ha preteso di sapere i motivi di quel clamoroso ritardo, li ha dati per scontati accontentandosi della versione del PM. L’indagato è rimasto in galera, il 14 gennaio 2015 finalmente è arrivata la perizia, il 28 gennaio 2015 il Tribunale del riesame, su input degli avvocati, ha stabilito che quello scempio poteva bastare e ha disposto la scarcerazione dell’uomo, ostaggio dei riti e dei tempi della giustizia, e, dettaglio non proprio secondario, protetto dallo scudo della presunzione di innocenza fino a un’eventuale condanna definitiva. Il carcere preventivo è una piaga tutta tricolore e fa impressione il menefreghismo del PM che dovrebbe affannarsi per circoscrivere gli abusi di questo strumento, necessario ma devastante. Tocca alla Disciplinare chiedere le spiegazioni di quel comportamento inammissibile. Fusini risponde con un bla bla retorico e generico. Sottolinea «le criticità lavorative esistenti presso la Procura, la carenza delle possibilità di scelta del consulente medico legale, nonché l’adozione di tutti gli accorgimenti necessari a evitare che si protraesse il ritardo». Fumo, fumo e poco o niente arrosto. Quali sarebbero gli accorgimenti studiati per velocizzare i tempi? Non si capisce, ma la Disciplinare ha nelle sue mani un asso: la Procura generale ha interrogato la dottoressa e il medico legale è stato onesto e sincero: «Ha dichiarato di essersi dimenticata del caso e del relativo termine di 90 giorni indicato espressamente come sufficiente per lo svolgimento dell’incarico». Una confessione candida e senza giri di parole. La strada della PM si fa tutta in salita. Tutte le sue dotte disquisizioni fanno a pugni con il verbale, terra terra, della dottoressa abituata a sezionare i corpi sul tavolo dell’obitorio: «Mi era uscito dalla testa». La verità, a volte, è banale come la caduta sulla classica buccia di banana. «Le dichiarazioni rese dal medico legale», stringe la Disciplinare, «(la quale, come detto, ha dichiarato di essersi dimenticata del caso e del relativo termine di 90 giorni) nonché la mancanza agli atti di qualsiasi sollecito rivolto da parte dell’incolpata alla dottoressa, sono circostanze dalle quali ricavare che anche la dottoressa Fusini si sia completamente dimenticata dell’incarico.» Altro che accorgimenti e criticità. Piuttosto, una catena di amnesie. La consulente non ha fatto i compiti e la PM non gliel’ha ricordato. Tutto qua. «Infatti», riprende il tribunale delle toghe, «di fronte a un’inerzia protrattasi fino al 14 gennaio del 2015, oltre tredici mesi dal conferimento dell’incarico, era compito della dottoressa Fusini, in presenza di un grave reato (omicidio) per cui si procedeva, quello di mettere in mora la consulente per la consegna dell’elaborato e in caso di risposta negativa, attivare i meccanismi di cui all’articolo 231 del codice di procedura penale per procedere alla sostituzione del consulente.» Fusini avrebbe dovuto andare in pressing sulla sua collaboratrice, strigliarla, spingerla a finire quel che non aveva nemmeno iniziato; poi, se la latitanza fosse andata avanti, avrebbe dovuto trovarsi un altro medico legale. Perché la giustizia non è un gioco o un passatempo, ma attesa e sofferenza. Dunque, non può aspettare. Non è avvenuto nulla e la Disciplinare, in cui spicca il nome del futuro presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, corre verso la condanna. Sarebbe in verità da pesare anche «l’ingiusto vantaggio arrecato all’imputato» con la sua scarcerazione, ma qui la vicenda si fa più ingarbugliata, in un susseguirsi, come accennato, di colpi di scena: l’istanza di proroga della detenzione era stata accolta, in prima battuta, dal GIP, che aveva tranquillamente lasciato l’uomo in prigione, senza sollevare alcun problema, poi il Tribunale del riesame aveva annullato l’atto che scricchiolava capovolgendone la lettura e aveva rimesso in libertà il protagonista della storia. «L’esistenza di due provvedimenti giurisdizionali di segno opposto», nota la Disciplinare, «porterebbe, peraltro, questa sezione a dover sindacare il merito dell’attività giurisdizionale, che viceversa in questa sede deve ritenersi precluso.» Un conto è bacchettare, altra cosa prendere posizione su due pronunce dei giudici, per quanto una di essi possa apparire discutibile. Dunque, il tribunale delle toghe si ferma sulla soglia di questo verdetto. Resta da stabilire l’entità della condanna per la clamorosa amnesia e il trascinamento dell’autopsia per più di un anno. E qui la Disciplinare dà un’occhiata benevola al curriculum di Fusini «il cui percorso professionale è stato caratterizzato da un’ottima professionalità». Proprio l’impeccabile pagella salva la PM da una punizione ancora più pesante: il 16 maggio 2017 la Disciplinare le infligge la pena della censura. Esattamente quel che aveva chiesto il procuratore generale nella sua requisitoria.

La giudice corrotta

              Non è un procedimento disciplinare. È un’alluvione, una grandinata senza fine. È, sia detto senza retorica, la notte buia della giustizia. I capi d’incolpazione formano un grappolo così rigoglioso che sfugge dalle mani in tutte le direzioni. La giudice Paola Amaldi, non l’ultima arrivata ma presidente di sezione di un tribunale, si è venduta per anni e per anni ha trasformato il suo ufficio in un suq. Le sentenze venivano pilotate e aggiustate e la giustizia, come nel West, era a disposizione degli amici fra scambi di favori, cointeressi economici, episodi grotteschi da repubblica delle banane. Amaldi si circonda di una corte dei miracoli. L’avvocato senza peli sullo stomaco. L’imprenditore invischiato con la criminalità. L’industriale a corto di liquidità. Altre facce dall’album di un’Italia trafficona e furbastra. Amaldi affida tranquillamente al legale fidato, Alfio Celesti, uno del suo network di relazioni oblique, la stesura delle minute di pacchetti di sentenze da lei poi ricopiate e firmate. Però Amaldi non ha paura di niente: non solo scrive verdetti scandalosi, ma almeno un paio di volte supera i confini della creatività più diabolica, attribuendo il suo opaco verdetto a un’inesistente camera di consiglio a tre, provocando così la protesta dei presunti colleghi a latere, vittime della discussione fantasma. Un magistrato capace di tutto. Raccontare tutte le sue sfacciate trame corruttive richiederebbe pagine e pagine. Quasi un libro nel libro. Dunque, si può solo riassumere, tratteggiare, accennare pescando qua e là nel suo sistema viziato. La Disciplinare ci apre un primo squarcio sui rapporti oltre ogni decenza e contro la legge con l’imprenditore Delfo Torti. Torti con l’avvocato Celesti e il prototipo dei ceffi del cerchio magico di Amaldi. L’imprenditore è alle prese con una difficile procedura fallimentare e ha nelle retrovie un rapporto inquietante con la grande criminalità. Un personaggio supernavigato, non proprio la miglior frequentazione per un giudice. Lei dovrebbe tenersi alla larga dal procedimento riguardante l’amico «con cui intratteneva strettissimi rapporti personali»; invece, non solo il vocabolo astensione è sconosciuto al suo vocabolario, ma cerca di proteggere gli affari del sodale sul punto di crollare. Per questo, come presidente di sezione, sforna a raffica provvedimenti favorevoli a Torti. Scrive quindi la sentenza di omologa del concordato fallimentare; poi partorisce due ordinanze «che modificavano i termini per l’esecuzione del concordato»; ancora, produce un’altra ordinanza «di autorizzazione alla diminuzione dell’importo della fideiussione»; infine, con un altro provvedimento temerario «riduce l’ammontare del passivo». Insomma, fa e disfa. Puntella in tutti i modi gli interessi del partner che contraccambia inaugurando un regolare servizio di delivery: consegna di «derrate alimentari» a casa del magistrato, «come comprovato», spiega la Disciplinare, «dalle conversazioni intercettate e dalle deposizioni dei corrieri che materialmente avevano effettuato i trasporti delle numerose forniture alimentari». Sembra di stare in qualche sgangherata e polverosa location del Centro America o alla corte di un capriccioso despota dell’Africa più profonda, ma questa è solo una goccia in una devastazione senza fine. In un’altra vicenda, un tale aveva avanzato reclamo contro la società gestita dall’ennesimo amico di lei. E dunque si è messo contro il collaudato sistema Amaldi e l’amministratore di una società «con il quale esistevano rapporti di amicizia»: lei risponde con un provvedimento che blocca almeno in parte il precetto del «nemico», ma soprattutto scarica su un fantomatico collegio quel che aveva composto in solitudine. Un affronto impensabile, tanto da provocare l’inevitabile reazione stizzita dei due magistrati citati nell’intestazione dell’atto che redigono due note, inviate al presidente del tribunale, in cui affermano di non sapere nulla di quella camera di consiglio immaginaria. Come si vede, anche solo da questi episodi, la giustizia sartoriale di Amaldi dribbla ogni ostacolo in un mondo parallelo destinato, prima o poi, a cadere sotto il peso di tanta ingordigia e disprezzo per le regole più elementari. «Dagli atti», annota sbalordita la Disciplinare, «non erano risultati né la fissazione né il verbale dell’udienza relativa alla predetta decisione, udienza che non risultava annotata sul ruolo.» Sì, è tutto finto o truccato, nel sistema Amaldi, come quinte di cartone o pareti realizzate attraverso un’incredibile successione di effetti ottici. Fino a far saltare «norme regolamentari e disposizioni sul servizio giudiziario». E in conclusione, «falsamente attestando che il provvedimento in questione fosse stato assunto in sede collegiale». È la giustizia trompe-l’œil. Come se non bastasse, il presidente non solo intesta ai colleghi sentenze che non hanno mai studiato, ma fa preparare i verdetti agli amici, ad esempio all’avvocato Alfio Celesti. Naturalmente, nell’interesse suo, di Celesti e dei suoi clienti. Così in una causa civile dove Celesti ufficialmente nemmeno compare ma tutela senza apparire la posizione del signor Iginio Branchetti, Amaldi «riceveva da Celesti non costituito in atti ma di fatto consigliere giuridico una bozza con la motivazione di una possibile decisione della controversia, bozza redatta dal medesimo avvocato Celesti, come emerge dalle conversazioni telefoniche del 28 e del 30 agosto 2004 fra l’avvocato e il signor Branchetti – tramite il cellulare del figlio di costui – peraltro in conformità a una prassi corrente fra Amaldi e l’avvocato Celesti, di trasmissione di bozze di provvedimenti». Un traffico continuo. Dopo lunghi anni in cui ha fatto tutto quello che voleva, i sospetti si addensano sul magistrato: in gran segreto parte un’inchiesta e le cimici della Procura svelano il mercimonio delle sue funzioni. Risultato: la Disciplinare si trova a dover analizzare un numero spropositato di procedimenti condotti con modalità sconcertanti e vergognose, solo per tirare fuori dai guai gli amici e gli amici degli amici, senza rispettare le procedure e le regole deontologiche. Dalla galleria di tipi improponibili, spunta un altro imprenditore dal passo corto, Giovanni Bellini, che ha un bisogno disperato di contanti. Ancora la Disciplinare: nell’ennesima causa civile, «la dottoressa Amaldi, magistrato assegnatario, non si asteneva, pur ricorrendone i presupposti e, come comprovato da numerose intercettazioni, assicurava una decisione di favore della causa per Bellini, concordando con l’avvocato Celesti, non costituito in atti ma di fatto consigliere giuridico dello stesso Bellini, strategie processuali puntualmente seguite dall’interessato per il tramite del difensore costituito, e adottando, in specie, numerosi provvedimenti di rinvio, alcuni dei quali basati su ragioni pretestuose». Insomma, i processi vengono decisi al telefono, in una fitta ragnatela di relazioni oblique. E qualunque pretesto va bene, in aula, per convogliare il procedimento nella direzione desiderata. Amaldi utilizza dunque il calendario come una proprietà personale: «All’udienza di precisazione delle conclusioni del 28 novembre 2003 rinviava all’udienza del 16 aprile 2004, così motivando: “considerato l’elevato numero di cause già trattenute in decisione all’udienza odierna”». Siamo, come è evidente, all’arbitrio più assoluto, appena mascherato da vaghissime ragioni legate ai carichi lavorativi degli uffici. All’udienza del 16 aprile rinvia al 7 giugno e il 7 giugno 2004 rimanda al 25 ottobre del 2004 con una motivazione stupefacente: «Atteso l’eccessivo carico di lavoro». Così la coppia Celesti-Bellini guadagna tempo in uno snervante rimpallo e Amaldi studia, fra un magheggio e l’altro, il colpo di mano finale, addomesticando il verdetto e calpestando la dignità della giustizia sotto i piedi.

In conclusione, accoglie sia pure in parte, le istanze di Bellini e riduce il debito complessivo della sua società nei confronti di una banca, tagliandolo di un terzo circa, dagli oltre 650 milioni di lire iniziali a 423.646.942 lire della sentenza. Salvando così l’imprenditore a un passo dal tracollo. Tutta questa sconfortante organizzazione aiuta, fino al suo smantellamento, anche elementi legati alla criminalità organizzata, producendo disastri pure sul versante delicatissimo del contrasto alle mafie. Amaldi si offre ai desiderata di un sorvegliato speciale affiliato a un clan e in contatto con il solito Torti. Quello che la rifornisce gratuitamente di cibi e piatti ricercati. Anzi, Torti è una pedina nelle mani di quei soggetti che gli avevano prestato a suo tempo soldi. Fatto sta che Sigaretta, questo il nome d’arte del delinquente, vuole lasciare il comune in cui ha l’obbligo di risiedere per accompagnare il figlio a un’importante visita medica. Il PM, sulle spine per lo spessore criminale del soggetto, spinge per concedere a Sigaretta solo 24 ore di permesso. Ma le cimici della Procura, che ormai sta silenziosamente esaminando il fenomeno Amaldi, captano la capitolazione totale dello Stato. Sigaretta è libero di fare quello che gli pare per un tempo lunghissimo, dal 21 luglio al 5 agosto, come si ricava dalle conversazioni intercettate sul telefonino e sull’auto di Torti. Non solo: Amaldi, per coprirsi le spalle, fa figurare il solito provvedimento collegiale che non c’è. E provoca l’ira di almeno uno dei due giudici coinvolti a loro insaputa in quel misero traffico. «La giudice», osserva la Disciplinare, «con nota indirizzata al presidente del tribunale in data 19 febbraio 2007, rappresentava di non aver mai partecipato a tale camera di consiglio e di non essere mai stata informata dei fatti oggetto della relativa decisione. Così gravemente violandosi, da parte della dottoressa Amaldi, le disposizioni sul servizio giudiziario e falsamente ella attestando che il provvedimento in esame fosse stato assunto in sede collegiale.» Ma non c’è niente da fare: Amaldi è schiava del proprio demone e non si ferma davanti a niente in una girandola di sentenze e verdetti degni di un sistema feudale descritto con costernazione e sbigottimento dalla Disciplinare. Lo schema si ripete fino allo sfinimento. Ecco, altro round, gli intrecci perversi con l’avvocato Martino Libero, interlocutore di corposi business. Attenzione: il legale, che è pure giudice onorario, è socio di una società, in cui figurano pure sua sorella e il figlio di Amaldi, creata solo per succhiare soldi pubblici con cui finanziare l’acquisto di un appartamento che piace molto al terzetto. Se questo è lo sfondo, è facile capire il seguito: Martino Libero viene tutelato e sponsorizzato smaccatamente in tutti i procedimenti. Amaldi non solo non si astiene e parteggia per lui con interventi mirati, ma va oltre: «Affidava al predetto avvocato la redazione di minute di provvedimenti da adottare nel contesto dei procedimenti suddetti». Siamo alle solite, con la giustizia subappaltata al socio del figlio. Amaldi spadroneggia per troppo tempo. Poi il processo rade al suolo il suo regno: la sentenza la condanna a 14 anni e 6 mesi per corruzione in atti giudiziari e molti altri reati. Ma non è finita: in appello molti illeciti evaporano o cadono in prescrizione. La pena si ridimensiona e assottiglia a 2 anni e 8 mesi. Finalmente, la Cassazione conferma, con qualche ulteriore limatura, quel moncone di condanna. Riprende così il procedimento disciplinare, bloccato dall’ormai lontano 13 giugno 2007. Per tutto quel tempo Amaldi è rimasta attaccata, sia pure virtualmente, alla corporazione che tradiva ogni giorno. L’hanno sospesa, ma non è ancora fuori. È pur sempre un magistrato. E può fregiarsi di quel titolo che ha reso irriconoscibile nel fango delle sue azioni. Il 17 febbraio 2017, dopo quasi dieci anni, ecco finalmente l’epilogo: Paola Amaldi viene condannata alla pena più grave, la rimozione. Il presidente corrotto non può più indossare la toga.