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Italian Pages 867 [1115] Year 2014
Presentazione Si può scrivere una storia universale delle atrocità? E se ne può stilare una classifica? Come confrontare misfatti avvenuti in tempi e contesti tanto diversi? Secondo Matthew White, bibliotecario statunitense, ricercatore indipendente specializzato in «atrocitologia», un criterio perfetto non c’è, dunque non rimane che il nudo numero delle vittime: come dice l’autore, «il numero di cui si ha sempre voglia di discutere». Utilizzando le migliori fonti di statistica storica, e compiendo uno studio comparativo senza precedenti, White ricostruisce così i cento avvenimenti più sanguinosi, per un totale di mezzo miliardo di morti, dalla seconda guerra persiana del V secolo avanti Cristo fino al Congo e al Sudan dei nostri anni, passando per decine di eventi meno noti: quanti di voi avrebbero immaginato al sesto posto la rivolta ottocentesca dei Taiping in Cina, con venti milioni di vittime? A ciascuna «atrocità» White dedica un capitolo, e in ogni capitolo avvolge i numeri grezzi con una cronaca militare, politica e sociale di grande utilità e ricca di aneddoti e curiosità inedite, spesso intrisa di ironia e sarcasmo verso l’umana crudeltà e stupidità. Faceto, profondo, duramente realistico, mai ideologico – sfidiamo i lettori a intuire le simpatie politiche dell’autore! – eppure sempre schierato dalla parte delle vittime, Il libro nero dell’umanità, già in corso di traduzione in una dozzina di Paesi, promette di appassionare in tutto il mondo non solo gli amanti della storia, ma chiunque nutra dubbi sulle nostre «magnifiche sorti e progressive». Matthew White vive a Richmond in Virginia e ha lavorato per vent’anni come bibliotecario. Ha iniziato a pubblicare online il suo atlante storico del XX secolo nel 1997 e con questo ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti fin dalla prima era di Internet. Il suo database di statistiche sulle atrocità dell’uomo si 2
è subito affermato come la sezione più visitata e citata dell’atlante. Negli anni, è entrato in contatto con i maggiori studiosi mondiali e le sue ricerche sono state citate in oltre cinquanta libri e ottanta articoli a carattere storico.
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www.illibraio.it Titolo originale: The Great Big Book of Horrible Things © 2011 Matthew White, c/o Brockman, Inc., 5 East 59 Street, New York Ponte alle Grazie è un marchio © 2011 di Adriano Salani Editore S.u.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol Copertina: GrafCo3 Progetto grafico: GrafCo3 Traduzione: Massimiliano Manganelli e Valentina Sichenze Redazione e impaginazione: Scribedit - Servizi per l’editoria © 2014 Adriano Salani Editore s.u.r.l. - Milano ISBN 9788862205184
Prima edizione digitale 2014 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
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A mia madre, che mi ha dato il senso dell’umorismo, e a mio padre, che mi ha dato il senso della giustizia
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Premessa La storia tradizionale parla di re e di eserciti, non di persone. Gli imperi sorsero e caddero, intere popolazioni furono ridotte in schiavitù o annientate, eppure nessuno sembra pensare che vi fosse qualcosa di sbagliato. A causa di questa mancanza di curiosità degli studiosi tradizionali circa il costo in vite umane degli spettacoli della storia, una persona curiosa non sapeva dove cercare per trovare una risposta a interrogativi fondamentali: per esempio, se il XX secolo è stato davvero il più violento della storia o se a uccidere più individui è stata la religione, il nazionalismo, l’anarchia, il comunismo o la monarchia. Tuttavia nel corso del decennio passato tanto gli storici di professione quanto i profani hanno visitato il sito Web continuamente aggiornato di un certo Matthew White, uno che si definisce atrocitologo, necrometrista e quantificatore di emoclismi. White è un rappresentante di una professione nobile ma sottovalutata, quella di bibliotecario, e ha compilato le stime più esaurienti, disinteressate e statisticamente minuziose di cui disponiamo riguardo al bilancio delle vittime della maggiori catastrofi della storia. Nel Libro nero dell’umanità, White combina ora la sua esperienza in termini di cifre con le capacità del buon narratore, per presentare una nuova storia della civiltà, una storia i cui protagonisti non sono i grandi imperatori bensì le loro vittime che nessuno ha celebrato, milioni e milioni e milioni. White scrive con un tocco lieve e un umorismo nero che celano una seria finalità morale. Oggetto del suo scherno sono la stupidità e l’insensibilità dei grandi protagonisti della storia, l’incompetenza statistica e l’ignoranza storica di ideologi e propagandisti vari, nonché l’indifferenza della storia 8
tradizionale verso l’ampiezza delle sofferenze umane che stanno dietro gli eventi di grande rilievo. STEVEN PINKER
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Introduzione Nessuno più di me ama le statistiche. Lo dico in senso letterale. Non riesco mai a trovare qualcuno che voglia ascoltarmi recitare delle statistiche. Eppure un’eccezione c’è. Per diversi anni ho gestito l’Historical Atlas of the Twentieth Century, un sito Web di storia sul quale, tra le altre cose, ho analizzato le statistiche dei mutamenti nell’alfabetizzazione, nella popolazione urbana, nelle vittime di guerra, nella manodopera industriale, nella densità di popolazione e nella mortalità infantile. Tra tutte queste, le cifre di cui vuole discutere la gente sono quelle delle vittime. Eccome se ne vuole discutere. A partire dal momento in cui pubblicai per la prima volta un elenco provvisorio delle 25 città più grandi nel 1900, delle 20 guerre più sanguinose e delle 100 più importanti opere d’arte del XX secolo, fui inondato di e-mail che mi chiedevano come, perché e dove avessi preso le mie statistiche delle vittime. E perché in lista non c’era questa o quell’altra atrocità? E quale paese aveva ucciso di più? Quale ideologia? E chi diavolo pensavo di essere, accusando i turchi di fare certe cose? Dopo tanti anni di reazioni simili, il mio sito si è trasformato in una grossa stanza di compensazione per la conta dei caduti, perciò credetemi quando dico che ho ascoltato ogni dibattito sull’argomento, e cerchiamo di uscirne subito. Tutto quello che state per leggere è controverso. Per me non ha senso infarcire la narrazione di «presumibilmente», «a quanto pare» o «secondo alcune fonti» ogni volta che sarebbe necessario, né vi farò arrancare attraverso ogni versione alternativa degli eventi che sia mai stata ipotizzata. Non c’è una sola atrocità della storia su cui tutti siano 10
concordi. Qualcuno, da qualche parte, negherà che sia accaduta e qualcun altro si ostinerà a sostenere il contrario. Per esempio, io sono convinto che l’Olocausto abbia avuto luogo, ma la strage degli innocenti di Erode no. E sarebbe facile trovare persone che non concordano con me su entrambi gli eventi. L’atrocitologia è al centro delle più importanti controversie storiche. La gente non discute della bella storia, litiga e discute riguardo a chi le ha ucciso gli antenati. Si cerca di trarre una lezione dal passato e di speculare su chi sia il politico più hitlerifico che spunta all’orizzonte. Su questioni particolarmente controverse, due storici di opposta estrazione politica possono trattare lo stesso argomento eppure dare l’idea di descrivere due pianeti totalmente diversi. Talvolta non si riesce nemmeno a trovare un punto in comune nelle narrazioni e diventa così pressoché impossibile fonderle in un terreno comune. Tutto quel che posso dire è che ho cercato di seguire l’opinione generale degli studiosi; quando sostengo invece un punto di vista minoritario lo dichiaro in tutta franchezza. Scrivendo un libro sulle peggiori atrocità della storia, la maggior parte delle persone descriverebbe «le cento cose peggiori che riesce a ricordare al momento». E così includerebbe l’Olocausto, la schiavitù, l’11 settembre, Wounded Knee, Jeffrey Dahmer, Hiroshima, Jack lo Squartatore, la guerra in Iraq, l’assassinio di Kennedy, la carica di Pickett, ecc. Purtroppo, tirar fuori una lista del genere di solito non fa che rispecchiare i pregiudizi dell’autore, invece che un equilibrato senso della storia. Nel caso particolare della lista ipotizzata, poi, sembrerebbe che quasi tutto il male nella storia sia stato compiuto agli o dagli americani in tempi piuttosto recenti, il che implica che gli americani sono intrinsecamente e cosmicamente più importanti di chiunque altro. Altre liste potrebbero portare ad associare tutto il male a una causa (per esempio le risorse, il razzismo, la religione), a una cultura (i comunisti, l’Occidente, i musulmani) o a un metodo (la guerra, lo sfruttamento, le tasse). La maggior parte degli 11
individui acquisisce le proprie conoscenze sulle atrocità in maniera casuale – da un documentario televisivo, da qualche film, da un sito web di politica, da un opuscolo per turisti o da quel tizio furioso in fondo al bar – e quindi procede alla formulazione di giudizi sul mondo basati su questi pochi esempi. Io spero di offrire ai miei lettori una gamma di esempi più ampia ed equilibrata da utilizzare quando si parla di storia. Per essere imparziale verso tutti, ho selezionato attentamente i cento eventi con il più alto numero di vittime provocate dall’uomo, indipendentemente da chi vi fu coinvolto o dal perché ha fatto ciò che ha fatto. Per accentuare il fondamento statistico di questo elenco, ho dedicato più spazio agli eventi maggiormente letali, mentre quelli minori li ho riassunti rapidamente. Parecchi milioni di vittime occupano parecchie pagine, laddove qualche centinaio di migliaia occupa solo qualche paragrafo. L’evento più sanguinoso si prende il capitolo più lungo. Una delle modalità classiche di manipolazione dei dati consiste nello stabilire con franchezza che certi tipi di uccisione sono peggiori di altri e che quindi si conteranno soltanto quelli. Gassare le minoranze etniche è peggio che bombardare le città, che, come male, equivale a uccidere i prigionieri di guerra, che è peggio di mitragliare le truppe nemiche, che invece è meglio di depredare i nativi delle colonie, perciò terremo in conto i massacri e le carestie, ma non i raid aerei e le battaglie. O magari è il contrario. In ogni caso, la mia filosofia mi dice che io non vorrei morire in nessuno di questi modi, quindi terrò in conto tutte le uccisioni, indipendentemente da come si sono verificate o dalle vittime. Ci si chiederà in che modo sia possibile conoscere il numero di morti di una atrocità. Dopo tutto, le guerre sono caotiche e ingarbugliate e le persone scompaiono facilmente senza lasciare tracce. Chi vi partecipa mente allegramente sulle cifre per apparire coraggioso, nobile o tragico, mentre cronisti e storici possono essere prevenuti o creduloni. 12
Ebbene, la risposta migliore varierebbe caso per caso, ma la risposta immediata sta nel denaro. Anche se è restio a raccontare ai giornali quanti uomini ha perso in un’offensiva mal concepita, un generale deve comunque chiedere ai contabili di depennare 4000 uomini dal libro paga. E se un dittatore cerca di occultare quanti civili sono morti in un nuovo insediamento di massa, il suo ministro delle Finanze dovrà in ogni caso annotare la scomparsa di 100.000 contribuenti. Un funzionario della dogana portuale raccoglierà i dazi per ciascun carico di nuovi schiavi, così come qualcuno deve pagare per far portare via i corpi dopo ogni massacro. La conta delle teste (e, per estensione, quella dei corpi) non è un esercizio accademico: per secoli è stata una parte importante dei finanziamenti governativi. Ovviamente questo numero di vittime presenta un notevole margine di errore, ma un elenco delle cento maggiori conte dei caduti della storia non è interamente frutto di congetture. Tanto per cominciare, i grandi eventi lasciano grandi tracce: per quanto nessuno potrà mai sapere con esattezza quanti inca o quanti romani morirono nella caduta delle loro civiltà, le storie descrivono grandi battaglie e massacri, mentre gli scavi archeologici mostrano una pesante diminuzione della popolazione. Tali eventi uccisero una grande quantità di persone, anche se questa «grande quantità» non siamo in grado di stabilirla con precisione. In cima alla classifica, un milione qua e un milione là spostano la posizione di un evento all’interno della lista di qualche gradino appena. Alcuni potrebbero non concordare con la mia stima secondo la quale Stalin uccise 20 milioni di persone, ma anche se si affermasse (come fanno alcuni) che ne uccise 50 milioni, si sposterebbe soltanto dal numero 5 al numero 2. D’altro canto, difendere Stalin affermando (come fanno altri) che uccise soltanto 3 milioni di individui avrebbe l’unico effetto di farlo scendere al numero 25, perciò per le nostre finalità non ha senso discutere sulla cifra esatta. Stalin 13
sarà nel nostro elenco a prescindere. Allo stesso tempo, per quanto se ne possano discutere le cifre esatte, altri eventi non raggiungono la soglia minima. È difficile ottenere un preciso bilancio delle vittime del regime di Castro a Cuba, ma nessuno ha mai ipotizzato che abbia ucciso quelle decine di migliaia di persone necessarie per avere un posto nel mio elenco. Molti scellerati come François «Papa Doc» Duvalier, Vlad l’Impalatore, Caligola o Augusto Pinochet vengono facilmente a mancare, e lo stesso vale per molti celebri conflitti, come le guerre arabo-israeliane e la guerra angloboera. Rispetto a me, altri metterebbero più ingegnosità in quest’impresa: farebbero risalire il peggiore massacro del mondo a una qualche lontana causa e dichiarerebbero quello come la cosa più orribile che gli uomini abbiano mai fatto. Magari cercherebbero di incolpare le persone influenti per tutto il male compiuto dai loro seguaci: incolperebbero Gesù delle crociate, Darwin dell’Olocausto, Marx dei gulag e Marco Polo della distruzione degli aztechi. Purtroppo questo modo di vedere trascura la natura della causalità storica. Certo, si può prendere un evento (diciamo gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001) e risalire lungo la catena di cause ed effetti fino a dimostrare che si tratta dell’ovvio risultato, per esempio, del golpe del 1953 contro il primo ministro iraniano, ma si può parimenti farlo risalire anche alla prima guerra mondiale, ai fratelli Wright, a D.B. Cooper, a Muhammad ibn Abd al-Wahhab, a Henry Ford, alla conquista russa del Turkestan, a Levittown, alla fondazione dell’università di Yale, a Elisha Otis, all’Olocausto e all’apertura del canale Erie. Sono così tanti i fili del caso che alimentano ogni singolo evento che in genere si può trovare il modo di legare due cose qualsiasi a proprio piacimento. Al di là della fascinazione morbosa, c’è qualche motivo per conoscere le 100 conte dei caduti più elevate della storia? Senza fatica me ne vengono in mente quattro. 14
Primo, le cose che capitano a una grande quantità di persone in genere sono più importanti di quelle che accadono soltanto a poche persone. Se io mi ammalo di influenza non importa a nessuno, ma se mezza città è colpita dall’influenza si tratta di un’emergenza sanitaria. Se io perdo il lavoro, sono sfortunato; se lo perdono migliaia di persone, l’economia tracolla. Nel dipartimento di polizia di una grande città qualche omicidio a settimana costituisce l’ordinaria amministrazione; venti omicidi al giorno fanno una guerra civile. Secondo, uccidere una persona è il massimo che le si possa fare. La colpisce molto di più che insegnarle, derubarla, curarla, assumerla, sposarla o imprigionarla, per la semplice ragione che la morte è il cambiamento più completo e permanente che le si possa infliggere. Un assassino può disfare agevolmente l’operato di un insegnante o di un medico, ma nessuno di questi può rimediare all’operato di un assassino.* Pertanto, per definizione, i miei cento massacri hanno avuto un impatto massimo su un numero enorme di individui. Senza stare troppo a discutere, possiamo facilmente classificarli tra gli eventi storici di maggiore importanza. Si potrebbe cedere alla tentazione di liquidare l’impatto di questi eventi come puramente negativo, tuttavia si tratta di una distinzione artificiosa. Distruzione e creazione sono intimamente intrecciate. La caduta dell’impero romano aprì la strada all’Europa medievale, la seconda guerra mondiale creò la guerra fredda e i regimi democratici di Germania, Italia e Giappone, le guerre napoleoniche ispirarono le opere di Tolstoj, Čajkovskij e Goya. Non sto dicendo che, in termini morali, l’Ouverture 1812 valesse il mezzo milione di vite perdute nella campagna di Russia; dico soltanto che, come semplice dato storico, senza la schiavitù non ci sarebbero il jazz, il gospel o il rock and roll, e che chiunque sia nato durante il Baby Boom postbellico del periodo 1946-1964 deve la propria esistenza alla seconda guerra mondiale. Un terzo motivo sta nel fatto che spesso dimentichiamo 15
l’impatto umano degli eventi storici. Va bene, queste cose sono successe tanto tempo fa, e tutte quelle persone ormai sarebbero morte comunque, ma bisogna anche rendersi conto che uno scontro di culture ha fatto molto di più che fondere le cucine, i vocabolari e gli stili architettonici. Ha causato grande sofferenza personale. Il quarto motivo – certamente il più pratico – per raccogliere i conteggi dei caduti è la valutazione dei rischi e la risoluzione di problemi. Se studiassimo la storia per evitare gli errori del passato, sarebbe utile sapere che quegli errori – e ripeto tutti gli errori – non furono solo quelli che sostengono certe idee predilette. Se ci si concentra esclusivamente sulle sette atrocità che convalidano il nostro punto di vista, risolvere il problema della violenza umana diventa facile, ma un elenco delle cento peggiori costituisce una vera impresa. La grande teoria unitaria della violenza umana, ad esempio, dovrebbe essere in grado di spiegare la maggior parte dei massacri di questo elenco, altrimenti chi l’ha formulata dovrebbe ripensarla. In effetti, la prossima volta che qualcuno dichiara di conoscere la causa della violenza umana o la sua soluzione, potrete aprire a caso questo libro e trovare immediatamente un evento che con quelle teorie non si spiega affatto. Tuttavia, malgrado il mio scetticismo sull’ipotesi di un filo comune che attraversa tutte queste atrocità, rintraccio comunque alcune tendenze interessanti. Condividerò con voi le tre lezioni più grandi che ho tratto lavorando a questo elenco: 1. Il caos è più letale della tirannia. Più che dall’esercizio dell’autorità, molti di questi massacri derivano dal crollo di quella stessa autorità. A fronte di un pugno di dittatori come Idi Amin e Saddam Hussein, che hanno esercitato il loro potere assoluto per uccidere centinaia di migliaia di persone, ho scoperto sconvolgimenti più letali, come il periodo dei Torbidi, la guerra civile cinese e la rivoluzione messicana, durante i quali nessuno esercitava un controllo sufficiente a impedire la morte di milioni di individui. 16
2. Il mondo è molto disorganizzato. Le strutture di potere tendono a essere informali e provvisorie, e molti dei grandi nomi di questo libro (Stalin, Cromwell, Tamerlano, Cesare) esercitarono una suprema autorità senza detenere una regolare carica di governo. La maggior parte delle guerre non si avvia in modo ordinato con una dichiarazione e una mobilitazione, né termina con una resa e un trattato. Esse tendono a svilupparsi dall’intensificarsi di singoli episodi di violenza, si concludono quando tutti sono troppo esausti per continuare, per poi essere seguite da ulteriori scossoni imprevedibili. Soldati e nazioni cambiano allegramente parte nel bel mezzo di una guerra, talvolta nel mezzo di una battaglia. La maggior parte delle nazioni non è definita con cura come ci si aspetterebbe. In effetti, alcune nazioni in guerra (io le definisco stati quantici) né esistono né sono inesistenti: sono sospese in un limbo finché qualcuno vince la guerra e ne decide il destino, che viene poi applicato retroattivamente alle versioni precedenti. 3. La guerra uccide più civili che soldati. Anzi, in tempo di guerra l’esercito è di solito il posto più sicuro: i soldati sono protetti da migliaia di uomini armati e cibo e cure mediche sono assicurati. Per contro, anche se non vengono sistematicamente massacrati, i civili sono in genere derubati, scacciati o messi alla fame; e tuttavia le loro storie restano nel silenzio. Gran parte delle storie militari fa appena un accenno all’enorme sofferenza dei normali civili disarmati coinvolti, benché la loro costituisca l’esperienza più comune della guerra.** L’incremento della carneficina Da dove cominciare? Gli individui si ammazzano l’un l’altro sin da quando sono scesi dagli alberi, e non mi sorprenderei più di tanto se ritrovassi dei corpi anche tra i rami. Alcune delle prime ossa umane mostrano fratture probabilmente derivate da armi, le prime iscrizioni si vantano del massacro di migliaia di nemici. I più antichi libri sacri ricordano battaglie nelle quali i 17
seguaci di un dio furioso sbaragliano i seguaci di un altro dio furioso; tuttavia le piccole tribù e i villaggi coinvolti in queste guerre antiche non avevano un potenziale di vittime sufficiente da uccidere su una scala comparabile all’oggi. Prima che gli individui si riunissero in popolazioni vaste abbastanza da essere ammazzate a centinaia di migliaia ci vollero molti secoli, perciò le prime cento peggiori atrocità della storia non si verificarono finché i persiani non costituirono un impero che abbracciava il mondo conosciuto.
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Seconda guerra persiana Bilancio delle vittime: 300.0001 Posizione: 96 Tipologia: scontro di culture Contrapposizione di massima: persiani contro greci Periodo: 480-479 a.C. Luogo: Grecia Principali stati partecipanti: impero persiano, Atene, Sparta A chi diamo la colpa di solito: Serse
Prequel: la prima guerra persiana Quando, dopo aver conquistato tutto ciò che poteva raggiungere via terra, dal Pakistan all’Egitto, l’impero persiano si presentò contro i greci, esperti navigatori, si assicurò parecchie delle loro colonie sulla costa ionica dell’Asia Minore (la moderna Turchia). Trascorsero molti anni di tranquilla sottomissione, finché il tiranno greco della città ionica di Mileto non si fece ambizioso: si liberò dal dominio persiano e chiese aiuto alle libere città greche d’oltremare, prima a Sparta (che rifiutò) e poi ad Atene (che invece acconsentì). Un esercito greco congiunto di ioni e ateniesi si diresse verso l’interno e attaccò la capitale della provincia persiana di Sardi, la occupò in breve tempo e poi la distrusse accidentalmente. Nel giro di due anni, però, la rivolta fu sedata e gli ateniesi se ne tornarono precipitosamente in patria per nascondersi, sperando che i persiani non li avessero notati. Tuttavia re Dario di Persia non era arrivato dov’era lasciando 19
impunite le offese, perciò incaricò un servitore di rammentargli ogni giorno gli ateniesi e decise di conquistare gli stati greci indipendenti dell’Europa continentale che suscitavano tumulti tra i suoi sudditi greci. Il primo assalto diretto al di là del mare, tuttavia, ebbe un esito fallimentare. Gli ateniesi sconfissero duramente il suo esercito e lo scacciarono nella battaglia di Maratona. Seconda guerra persiana Dieci anni dopo, il nuovo re Serse riunì con una leva i soldati contadini di tutto l’impero nel più grande esercito mai visto*, troppo vasto per essere trasportato via mare. Presa la via di terra che passando per i Balcani portava fino in Grecia, si aprì la strada forzando qualunque ostacolo, umano o naturale che fosse. Varcò lo stretto dei Dardanelli su un ponte di barche, quindi i suoi genieri scavarono un canale attraverso l’insidiosa penisola Calcidica, patria del monte Athos. Al minaccioso avvicinarsi dei persiani, un’armata improvvisata di 4900 greci, sotto la guida spartana, tentò di rallentarli al passo delle Termopili, mentre la flotta greca bloccava un tentativo di aggiramento anfibio nel vicino stretto di capo Artemisio. Contro i ripetuti assalti persiani, la falange greca, la tradizionale formazione di battaglia nella quale lancieri dotati di pesante corazza si allineavano in un muro umano di scudi e lance, tenne facilmente. Tuttavia dopo alcuni giorni di duri scontri i persiani trovarono un’altra via attorno alle Termopili, e riuscirono ad aggirare e massacrare gli ultimi difensori che bloccavano loro la strada. L’esercito persiano mosse verso il cuore della Grecia e prese Atene, i cui abitanti fuggirono sulle isole vicine. Allorché tutto sembrava perduto, la flotta ateniese si scontrò con le navi da guerra persiane nello stretto canale tra l’isola di Salamina e il continente. Nel confuso turbinio delle galee che sfrecciavano, speronavano e sfondavano, i persiani persero più 20
di 200 navi e 40.000 marinai. I greci avevano ormai il controllo del mare, così l’enorme e affamato esercito persiano fu tagliato fuori dal rifornimento di provviste. Serse tornò in patria con parte del proprio esercito, lasciandosi dietro una armata ridotta perché terminasse la conquista, vivendo di agricoltura. Per l’inverno questo esercito riparò nel nord della Grecia, quindi si spostò ancora a sud in primavera, occupando nuovamente Atene. Dopo una frenetica attività diplomatica da parte degli ateniesi sfollati, le città-stato greche alla fine accettarono di unire le loro armate. I due eserciti si scontrarono a Platea, dove la falange greca annientò i persiani. I sopravvissuti intrapresero una lunga e dolorosa ritirata verso la Persia, nel corso della quale morirono migliaia di uomini; nel frattempo la flotta ateniese sfrecciava attraverso l’Egeo e dava il colpo di grazia alle restanti navi persiane con un attacco anfibio contro la base navale di Micale, in Ionia.2 L’eredità Quasi ogni elenco di battaglie decisive o di snodi storici inizia con qualche riferimento alle guerre persiane, perciò si dovrebbe già sapere che la vittoria greca salvò la civiltà occidentale e la nozione di libertà individuale dalle anonime orde orientali, i cattivi delle storie vittoriane e dei film recenti... D’altro canto, non facciamoci trascinare. La conquista persiana non sarebbe stata la fine del mondo. Secondo criteri odierni, i persiani erano conquistatori benevoli, per esempio furono l’unico popolo della storia a comportarsi in maniera gentile con gli ebrei. Consentirono loro di tornare in Palestina e ricostruire il loro tempio, invece che massacrarli o deportarli come fecero assiri, babilonesi, romani, spagnoli, cosacchi, russi e tedeschi in altre circostanze storiche. Persino nel caso di una vittoria persiana a Salamina, sarebbero comunque rimasti dei greci liberi in Sicilia, in Italia e a Marsiglia. In seguito la civiltà greca si sarebbe rivelata vitale al punto da sopravvivere a mezzo 21
millennio di dominio romano, alla fine persino usurpandone la civiltà. Non c’è dunque alcun motivo di pensare che i greci non potessero attraversare integri qualche generazione di dominio persiano.
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Alessandro Magno Bilancio delle vittime: 500.000, tra cui 250.000 civili massacrati1 Posizione: 70 Tipologia: conquistatore del mondo Contrapposizione di massima: macedoni contro persiani Periodo: 336-325 a.C. Luogo: Medio Oriente A chi diamo la colpa di solito: Alessandro III di Macedonia Lo scontro tra Oriente e Occidente si svolse in due fasi. Le guerre persiane decretarono la sopravvivenza dell’Occidente, ma Alessandro il Grande ne assicurò il dominio. Il padre di Alessandro, Filippo II re di Macedonia (nella parte nordorientale della Grecia), ripensò la falange rafforzando il solido blocco di fanteria con lance più lunghe e coprendone i fianchi con gli arcieri e la cavalleria. Con questo nuovo esercito conquistò la Grecia, ma fu assassinato prima che potesse volgersi contro l’impero persiano. Gli subentrò il figlio ventenne, Alessandro III, che con quella spietatezza che l’avrebbe poi sempre caratterizzato sedò un paio di rivolte scoppiate immediatamente: una a nord, condotta dalle tribù della Tracia, e una a sud, da parte della più forte delle città greche, Tebe. Essendosi coperto le spalle, Alessandro passò in Asia Minore (Turchia) e quando la guarnigione provinciale persiana cercò di sbarrargli la strada la annientò presso il fiume Granico. Quindi intraprese un’epica marcia attraverso il Medio Oriente. Alessandro era sprezzantemente schietto, come mostra la 23
storia del nodo gordiano, un mistico groviglio di corda custodito in un tempio dell’Asia Minore. Una profezia pronosticava che chiunque avesse sciolto il nodo avrebbe governato l’Asia, ma Alessandro rifiutò di farsi distogliere dall’impossibilità dell’impresa: non fece altro che estrarre la spada e tagliarlo. La sua tipica strategia di battaglia era simile: mirava a quella che appariva la parte più forte della linea nemica e l’attaccava direttamente. La tattica era rischiosa, tanto che in battaglia accumulò una serie impressionante di ferite da armi varie, ma dai re macedoni ci si aspettava che comandassero con l’esempio personale.2 Dopo aver manovrato attraverso il passo tra Asia Minore e Siria, Alessandro scoprì che Dario III, imperatore di Persia, aveva fatto passare il proprio intero esercito alle sue spalle, isolando i macedoni presso Isso. Senza indugio, Alessandro individuò un punto debole tra le linee persiane e lo caricò con la cavalleria. I persiani ruppero le fila e furono massacrati durante la fuga, abbandonando così le proprie salmerie ai macedoni, che catturarono anche l’imperatrice persiana e sua figlia. Alessandro si spostò quindi a sud per impadronirsi dei porti che consentivano alla flotta persiana di minacciare le sue rotte di comunicazione. Il porto fenicio di Tiro era stato costruito al sicuro su un’isola in mare aperto, al di fuori della portata degli innumerevoli eserciti precedenti. Tuttavia i macedoni nei sette mesi successivi si diedero a costruire un terrapieno fino all’isola; una volta collegata quest’ultima alla terraferma, Tiro cadde sotto l’assedio. Alessandro massacrò gli uomini e rese schiavi donne e bambini. Allorché fece visita in Egitto, Alessandro fu salutato come un dio e come tale si comportò. Nel 331 a.C., alla foce del Nilo diede inizio ai lavori di fondazione di Alessandria, una nuova città della cultura e del sapere che ben presto sarebbe divenuta patria della più grande biblioteca del mondo antico, del faro più grande e del primo Museo (il tempio delle Muse), nonché di quasi ogni studioso per parecchi secoli a venire. 24
A Gaugamela, nel nord della Mesopotamia (Iraq), i persiani lanciarono di nuovo il loro esercito più vasto contro quello di Alessandro, più ridotto, in una piana aperta nella quale il loro numero avrebbe dovuto assicurare un netto vantaggio. I persiani avevano messo insieme elefanti, carri falcati e diverse centinaia di migliaia di reclute esotiche provenienti da tutto il Medio Oriente. Alessandro li sconfisse comunque, quindi prese la città reale di Persepoli, cui diede fuoco in stato di ebbrezza, e braccò il fuggitivo Dario finché questi non morì nel deserto.3 Alessandro scomparve poi oltre il margine della carta geografica, combattendo le tribù nelle loro roccaforti montane dell’Asia centrale. Conquistate queste, si spostò a sud verso l’India, dove sconfisse i re indigeni con i loro elefanti da guerra. Alla fine i suoi soldati esausti si resero conto che non avrebbe invertito la rotta fino a quando non avesse raggiunto i confini del mondo; così si ammutinarono e lo costrinsero a tornare in patria. Per fare ciò egli prese la via peggiore, attraverso il torrido deserto lungo la costa dell’Iran. Alcuni la considerano una mossa geniale fatta per garantirsi i rifornimenti da parte della marina mentre percorreva la via più diretta; altri dicono che intendeva punire i suoi uomini perché lo avevano fermato. In ogni caso, nel momento in cui tornavano verso la civiltà due terzi del suo esercito morirono.4
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Periodo degli Stati Combattenti Bilancio delle vittime: 1,5 milioni1 Posizione: 40 Tipologia: stato fallito Contrapposizione di massima: stato di Qin contro stato di Chu Periodo: 475-221 a.C. Luogo: Cina A chi diamo la colpa di solito: una serie di re sempre più spietati, culminata con Zheng di Qin
Prologo: periodo delle Primavere e degli Autunni (770-475 a.C. circa) Per comprendere dove è arrivata la Cina oggi bisognerebbe capire da dove è partita. Nel corso della dinastia Zhou (1050256 a.C. circa), su tutta la Cina governò un imperatore puramente nominale, che, più che altro, assomigliava a un capo ereditario, vestigia di un’epoca antica, ormai quasi dimenticata; egli rappresentava soprattutto una presenza spirituale anziché un monarca vero e proprio. Il potere effettivo era concentrato nelle mani dei singoli stati feudali che univano parti del vecchio impero. Al di sotto di quel livello si trovava la tipica struttura feudale composta da signorotti e contadini. Nel periodo delle Primavere e degli Autunni i cinesi erano persone ben educate, ma davanti a qualunque dilemma morale la loro soluzione pare fosse il suicidio rituale. Proviamo a interpretare un paio di scenari reali descritti nei libri di storia.2 Siete un nobile di rango inferiore a cui è stato commissionato 26
dal proprio signore, il principe di Jin, l’assassinio di un suo ministro di stato che ha commesso una grave infrazione. Quando scoprite che la vostra vittima è stata accusata ingiustamente, voi: a) portate a termine il vostro lavoro e lo uccidete comunque, come tutti i soldati hanno fatto per secoli; b) non lo uccidete e scegliete di nascondervi perché il vostro signore sarà certamente furioso; c) non lo uccidete e vi suicidate per aver tradito la fiducia del vostro signore. Siete un nobile dello stato di Chu e credete fermamente che il vostro principe stia intraprendendo una politica pericolosa che si rivelerà molto dannosa per lui. Voi: a) tenete la bocca chiusa per non rischiare di incorrere nelle sue ire; b) lo convincete a cambiare idea, crogiolandovi, poi, nella sua gratitudine; c) lo convincete a cambiare idea e successivamente vi mozzate i piedi di netto per esservi trovato in disaccordo con lui. Se avete risposto c a queste domande, vi sareste trovati a vostro agio nel periodo delle Primavere e degli Autunni. La c era, infatti, la soluzione scelta dai veri protagonisti nei libri di storia. Durante il periodo delle Primavere e degli Autunni, gli stati combatterono per ottenere il prestigio piuttosto che per estendere i propri confini. Solitamente, a un re cinese sconfitto veniva concesso di mantenere il proprio titolo e le proprie terre a patto che riconoscesse la grandezza dell’uomo che lo aveva battuto. C’è un episodio che, probabilmente, dice tutto: dopo una vittoria decisiva, un carro da guerra dell’esercito di Jin ne stava inseguendo uno dello sconfitto esercito di Chu, allorché il fuggitivo rimase bloccato in una fossa. Il carro di Jin che lo inseguiva gli si accostò per permettere al suo auriga di suggerire al nemico come liberare la propria biga. Non appena il carro 27
uscì fuori dalla fossa e tornò nuovamente in pista, l’inseguimento riprese. La biga in fuga conquistò facilmente la salvezza, raggiungendo l’esercito di Chu.3 Il periodo degli Stati Combattenti (475-221 a.C. circa) Le battaglie cinesi si tramutarono in una guerra spietata dopo il 473 a.C. Per anni, i due stati di Wu e Yue si erano combattuti in ogni occasione possibile. Il re di Wu aveva vinto l’ultimo scontro e aveva onorato la tradizione, dimostrandosi un vincitore indulgente che lasciò intatto lo stato di Yue finché la sua gente riconobbe la magnificenza di Wu. In seguito, nel 473 a.C., mentre l’esercito di Wu si trovava altrove impegnato in combattimento, il re di Yue si infiltrò furtivamente e prese la capitale di Wu. D’accordo: Yue vinse quella mano, Wu ammise la sua sconfitta e accettò che fosse Yue, ora, a comandare; tuttavia, invece di lasciare lo stato di Wu così com’era, il re di Yue spogliò delle sue terre il proprio nemico piegato e lo relegò in un nuovo regno umiliante, che consisteva in un’isoletta fluviale con trecento abitanti. Il re di Wu si rifiutò di accettare una tale vergogna e si suicidò. Il periodo delle Primavere e degli Autunni si era concluso con la supremazia del regno di Jin su tutti gli altri, ma ora una guerra civile lo stava riducendo in brandelli. Tre regni indipendenti (Han, Zhao e Wei) emersero dal caos nel 403 a.C. Col tempo, la guerra si trasformò in una carneficina indiscriminata, che non era placata da atti o gesti di cavalleria, ormai ritenuti dalla gente un’assurdità irrimediabilmente superata. Sul campo di battaglia veniva incoraggiato l’atto di uccidere puro e semplice. Un soldato era ricompensato in base al numero di teste o, quando queste divennero troppo ingombranti, a seconda del numero di orecchie umane che era in 28
grado di esibire dopo la battaglia. Un conto di diecimila vittime era considerato piuttosto modesto per una singola campagna; ventimila o trentamila morti erano abbastanza comuni. L’omicidio immotivato dei prigionieri di guerra, inconcepibile in epoche precedenti, diventò una pratica niente affatto insolita, reputata il modo migliore, più sicuro e più economico per indebolire uno stato rivale.4 Gli stati combattenti furono agevolati dall’invenzione delle balestre. All’incirca nello stesso periodo le tattiche di battaglia passarono dall’utilizzo delle bighe a quello della cavalleria. Ogni giorno di più, i cinesi fabbricavano armi e armature con il ferro invece che con il bronzo. Tutte queste innovazioni resero la guerra più economica, il che significava che chiunque poteva prendervi parte, non più soltanto i nobili. L’ascesa di Qin Nel 360 a.C. erano rimasti ancora in campo soltanto otto stati feudali, primo fra tutti quello di Wei, situato nei territori centrosettentrionali. Wei aveva ridotto al vassallaggio i regni di Han, Lu e Song, cosa che determinò una contro-alleanza di due altri regni, quello di Zhao e quello di Qi, istituita per tenere Wei sotto controllo. In breve tempo, ciò produsse una situazione di equilibrio e di pace in cui nessuno stato era abbastanza forte per espandersi. Al centro della Cina, lungo il Fiume Giallo, era concentrata la maggior parte degli stati, di modeste dimensioni, ma densamente popolati; tuttavia, un paio di stati più esterni controllava vasti territori di frontiera con grandi eserciti temprati dalle battaglie contro i barbari nelle regioni più inospitali. A ovest, a ridosso della steppa, si trovava lo stato di Qin (pronuncia: cin). Questa terra, adatta per l’allevamento dei cavalli, era abitata da gente dura e rude, considerata rozza dal 29
resto dei cinesi. Un antico critico descrisse la loro musica come un mero percuotere contenitori d’argilla con ossa di femore, cantando: «Wu! Wu! Wu!» Il duca Xiao governò Qin dal 361 a.C. al 338 a.C., guidato dal suo primo ministro Shang Yang. Insieme organizzarono uno stato totalitario concepito per massimizzare la produzione agricola e le doti belliche. Abolirono la nobiltà e la sostituirono con un esercito professionale in cui i soldati venivano promossi grazie al valore piuttosto che per privilegio di nascita; soffocarono il dissenso; limitarono gli spostamenti. Tali riforme regalarono al duca Xiao l’esercito più potente della Cina che, nel 351 a.C., egli utilizzò per l’attacco a sorpresa contro lo stato di Wei, sgretolandone l’egemonia. Le riforme di Shang Yang suscitarono molta rabbia all’interno dello stato di Qin, tanto che, dopo la morte del duca Xiao, i nemici di Shang Yang iniziarono a dargli la caccia. Egli tentò la fuga in incognito, ma le sue stesse leggi vietavano ogni viaggio non autorizzato. Shang Yang non arrivò molto lontano prima che un locandiere lo consegnasse alle autorità perché non aveva presentato i documenti necessari. Una volta catturato, fu trascinato e fatto a pezzi con le bighe. Le sue riforme, tuttavia, rimasero in vigore.5 Nel 316 a.C. il regno di Qin annetté le terre barbare di Shu e di Ba, che arricchirono l’esercito di migliaia di guerrieri tribali.6 Ormai la maggior parte dell’iniziativa nelle relazioni internazionali dipendeva da Qin e gli altri regni potevano solo reagire di conseguenza. L’unico altro stato abbastanza potente da avere una propria politica estera indipendente era quello di Chu, un grande regno che si stava espandendo nelle foreste della frontiera meridionale. Per bloccare l’espansione di Qin verso est, nel cuore della Cina, gli stati allineati da nord a sud lungo il suo confine orientale si aggregarono a Chu istituendo un’alleanza «verticale», hezong in cinese. Qin riuscì a superare tale barriera per avanzare lungo il corso del Fiume Giallo e unirsi agli stati 30
situati sull’altra sponda in una alleanza «orizzontale», denominata lianheng. Subito dopo si scatenò rapidamente una serie di battaglie su vari fronti che richiederebbe dozzine di pagine per una descrizione ordinata e rigorosa. Esemplificativo dell’atmosfera generale è l’incidente del 260 a.C., in cui l’astuzia vinse sull’onore. A Changping, nella Cina nordoccidentale, un esercito dello stato di Zhao, che si trovava in una buona posizione difensiva, si parò di fronte all’armata di Qin, che poté solo prepararsi e aspettare. Dato che l’attesa si protraeva senza alcuna risoluzione in vista, gli agenti di Qin cominciarono a far circolare la notizia che quei vigliacchi di Zhao stavano evitando lo scontro. Alla fine, il re di Zhao fu raggiunto dalle voci che lo dipingevano come un codardo e rimpiazzò il suo cauto generale con un altro che reputava degno di maggiore onore. Questo nuovo generale dispose le truppe per attaccare, ma, non appena si allontanò dalle fortificazioni, l’esercito di Qin avanzò e circondò l’armata avversaria senza sforzo. Il generale depose le armi e si arrese, gesto che non valse comunque a salvare i soldati, che furono sterminati. Finale Nel 256 a.C., i soldati di Qin marciarono su Luoyang e destituirono l’ultimo imperatore di Zhou.7 Non fu designato alcun sostituto e, dopo quanto era avvenuto, la Cina non finse nemmeno di essere uno stato unico. Nel 247 a.C., a tredici anni, il principe Zheng salì al trono di Qin alla morte di suo padre, il re. La maggior parte dei membri della corte si aspettava che il ragazzo si potesse manipolare facilmente e quindi cospirava alle sue spalle. Sua madre Zhaoji, la regina vedova, nota per la sua bellezza e per la sua eleganza nella danza, divenne reggente dello stato fino all’età adulta di Zheng. Ella condivise la reggenza con il primo ministro Lu Buwei, che si vociferava fosse il vero padre di Zheng. 31
Per liberarsi dalla relazione segreta con la regina vedova, il primo ministro trovò un uomo di nome Lao Ai che era dotato di un pene insolitamente grande e lo assunse come domestico. Poi, appena si presentò l’occasione propizia, dopo aver ordinato a Lao Ai di infilare il proprio pene nel centro di una ruota di legno di paulonia, con l’aiuto di una musica suggestiva, lo fece andare in giro in quello stato, accertandosi poi che il resoconto di tale avvenimento giungesse alle orecchie della regina vedova, in modo da suscitare il suo interesse.8 La regina si innamorò subito di Lao Ai, ma, consapevole dei rischi che ciò comportava, elaborò un piano per tenere la cosa nascosta. Di proposito, Lao Ai si fece accusare di un crimine punito con l’evirazione, ma lui e la regina corruppero il castratore affinché lasciasse intatti i vigorosi organi genitali di Lao Ai, strappandogli invece solo la barba. Ora che tutti pensavano che fosse un eunuco, l’uomo poté apertamente e legittimamente entrare a far parte della servitù della regina.9 Alla fine, la regina ebbe da Lao Ai due bambini, che tenne scrupolosamente nascosti al suo primo figlio, il re. Conoscendo bene il pericolo che correvano, i due amanti prepararono un colpo di stato contro Zheng, assicurandosi il diretto comando delle truppe più vicine con falsi documenti. Purtroppo Zheng li aveva anticipati. Quando le truppe di Lao raggiunsero la camera reale, il re Zheng aveva già allertato le proprie truppe pronte all’agguato. Lao Ai riuscì a malapena a liberarsi dalla trappola e si diede alla fuga. Con una taglia di un milione di monete di rame sulla sua testa, Lao Ai fu presto catturato e condannato a morte. La regina vedova venne costretta ad assistere mentre il proprio amante veniva fatto a pezzi dalle bighe. I figli segreti furono chiusi in due sacchi e percossi fino alla morte. Ma la storia non finisce qui. La maggior parte dei racconti 32
sulla gioventù del re Zheng lo descrive mentre scampa alla morte per un soffio o scopre abilmente un complotto per assassinarlo. Un assassino, il cortigiano Jing Ke, viene tradito dal suo stesso pugnale, che scivola fuori dalla mappa che sta srotolando. Un suonatore di liuto cieco, Gao Jianli, prova a colpire Zheng con un liuto appesantito da un’anima di piombo non appena egli si avvicina, ma lo manca. A questo punto, un uomo meno grande del re Zheng sarebbe già diventato un solitario e un irrequieto, e non avrebbe mai guadagnato un posto nella storia unificando gli stati combattenti. A trent’anni, Zheng era già diventato il padrone indiscusso del proprio regno. Sua madre ormai era solo un’esule impotente, il primo ministro Lu Buwei era stato costretto al suicidio e tutti gli altri ministri erano intimoriti da lui. Nei dieci anni conclusivi, densi di avvenimenti, il regno di Qin spazzò via ogni antagonista dal confine. Han cadde nel 230 a.C., Wei nel 225 a.C. Successivamente Qin conquistò Chu nel 223 a.C., Yan e Zhao entrambi nel 222 a.C. e Qi nel 221 a.C., completando l’unificazione della Cina. Zheng conquistò un nuovo titolo, quello di Primo Augusto Imperatore; la sua storia continua in un capitolo successivo (vedi Qin Shi Huangdi).
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Prima guerra punica Bilancio delle vittime: 400.0001 Posizione: 81 Tipologia: guerra per l’egemonia Contrapposizione di massima: Roma contro Cartagine Periodo: 264-241 a.C. Luogo: Mediterraneo occidentale A chi diamo la colpa di solito: Cartagine (classico esempio di storia scritta dai vincitori) Ennesimo esempio di: conquista romana Esempio più sanguinoso dello stesso genere: guerra gallica Un carico di mercenari disoccupati chiamati mamertini prese Messina, in Sicilia, ne uccise i notabili e si tenne per sé le loro donne. Come male sarebbe bastato, ma poi i mamertini si diedero a compiere razzie nelle città vicine ed estorsioni nelle altre. La Sicilia si trovava per lo più sotto il controllo delle tribù locali e delle città stato, tuttavia Cartagine e Siracusa avevano guadagnato ampie sfere di influenza, e l’Italia dominata dai romani si era molto vicina, al di là dello stretto di Messina. Tutte e tre le maggiori potenze della regione intendevano cacciare i mamertini e ristabilire lo status quo pacifico, ma la politica complicò la situazione. Allorché Siracusa si mosse per attaccare i predoni, naturalmente Cartagine le si mise contro; i mamertini temettero che il prezzo da pagare per l’aiuto cartaginese fosse troppo alto e chiesero a Roma di aiutarli a sbarazzarsi dei cartaginesi. In breve tempo ne scaturì una guerra generale per il controllo della Sicilia.2 I veterani dell’esercito romano, temprati dalla conquista 34
dell’Italia, vinsero quasi ogni battaglia campale in Sicilia, ma quanto ad abilità in mare, la marina cartaginese era di molto superiore in numero, destrezza nella navigazione e capacità costruttive. Di conseguenza riuscì a far sbarcare ovunque nell’isola truppe mercenarie fresche e a intercettare i rinforzi romani che arrivavano dal continente. Si creò dunque una situazione di stallo.* I romani si presentarono presto con una nuova tattica navale adatta alle loro forze: con l’invenzione del corvus (corvo), una passerella girevole provvista di cardini collocata sulla prua dell’imbarcazione, trasformarono le battaglie navali in battaglie di terra. Invece di contare sulla difficile tattica dello speronamento delle navi nemiche, utilizzarono dei ganci per tirare la loro nave accanto a quella da attaccare, poi calava il corvus e le punte si abbattevano conficcandosi sul ponte della nave nemica. Così i soldati romani, pesantemente armati, si precipitavano sulla passerella per massacrare l’equipaggio. Nel 255 a.C., dopo essersi assicurati la Sicilia e aver liberato il mare dai cartaginesi, i romani fecero sbarcare un esercito nel Nordafrica, che fu tuttavia fermato dalle poderose mura della città di Cartagine. Approdò quindi un esercito di mercenari greci appena reclutati e dotati di elefanti da guerra che sconfisse i romani. Questi ultimi evacuarono i sopravvissuti dall’Africa, ma arrivò una tempesta improvvisa che affondò 248 navi della flotta romana al largo di capo Pachino e mandò in fondo al mare 100.000 uomini, tra rematori, marinai e soldati.3 Fu il più grande disastro marittimo della storia dell’umanità.** La guerra si spostò poi nuovamente in Sicilia. I romani tornarono nuovamente in vantaggio sia in terra che sul mare, ma altre due tempeste inattese distrussero altrettante flotte romane in rapida successione, cosa che condusse lo scontro a una fase di stallo. Infine, nel 241 a.C., presso le isole Egadi, nella Sicilia occidentale, i romani annientarono la flotta cartaginese che portava rifornimenti all’esercito. Quando questo si ritrovò in trappola e affamato, Cartagine accettò la pace alle condizioni di 35
Roma, che prevedevano dei risarcimenti, un riscatto e la Sicilia.
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Qin Shi Huangdi Bilancio delle vittime: 1 milione1 Posizione: 46 Tipologia: despota Contrapposizione di massima: Primo Imperatore contro tradizione Periodo: 221-210 a.C. Luogo: Cina A chi diamo la colpa di solito: Qin Shi Huangdi (nato con il nome di Ying Zheng)
Il Primo Imperatore Una volta divenuto signore di tutta la Cina, Zheng coniò un titolo nuovo di zecca con cui passò alla storia: Primo (Shi) Augusto Imperatore (Huangdi) della dinastia Qin. Al suo fianco, il primo ministro Li Si diventò un nuovo punto di riferimento per tutti i consiglieri infidi e crudeli della storia. Questi aveva idee molto precise su come riplasmare la Cina, rendendola un impero pacifico e ordinato per l’eternità. Godeva dell’attenzione del Primo Augusto Imperatore ed era pronto a fornirgli una gran quantità di suggerimenti. La maggior parte di tali riforme diffuse il ben radicato sistema totalitario Qin in tutte le terre conquistate di recente. Per tenere il potere lontano dalle mani dei nobili ambiziosi, Shi Huangdi disgregò la vecchia aristocrazia e soppresse il feudalesimo. Dopo aver raccolto le armi dei nobili sconfitti, suddivise il proprio dominio in trentasei distretti governati da funzionari da lui nominati. Per ogni distretto, l’imperatore 37
disponeva di tre funzionari autonomi, ciascuno a capo di un settore di governo: un governatore per l’ambito civile, un comandante militare indipendente e un ispettore che spiava gli altri due. Per i lavori minori, creò un’amministrazione civile professionale costituita dai candidati che avevano superato prove imparziali sulla loro istruzione. Per favorire l’unità degli ex stati combattenti, il Primo Augusto Imperatore assimilò in vario modo le numerose varianti regionali. Normalizzò la scrittura cinese come è tutt’ora, emise un nuovo conio di monete e unificò il sistema di pesi e misure, uniformò la lunghezza d’asse dei carri in modo che potessero percorrere agevolmente le nuove strade che egli fece costruire in tutta la Cina, strade che permisero alle sue armate di raggiungere velocemente le zone calde del paese. Ogni volta che Shi Huangdi provava ad introdurre un cambiamento, i dotti si opponevano, insistendo sull’assenza di precedenti e sostenendo che era la legge a vietarlo. Di conseguenza, la soluzione più ovvia era quella di eliminare quei fastidiosi precedenti e ricominciare da zero. Ordinò dunque che gli fossero portati tutti i libri circolanti in Cina e li fece bruciare, a eccezione di alcuni manuali tecnici. Quando gli studiosi insorsero, ne fece seppellire vivi 460 per non dover più ascoltare simili proteste. Molti anni dopo, quando la morte di Shi Huangdi fu definitivamente certa, gli studiosi si riunirono e tentarono di annotare per iscritto tutto ciò che riuscivano a ricordare della letteratura perduta.2 Barricarsi all’interno L’imperatore doveva proteggere la frontiera settentrionale dalle incursioni dei cavalieri nomadi conosciuti come xiongnu (un tempo ritenuti predecessori degli unni, ma oggi non più). Egli collegò le diverse mura locali che bloccavano i passi strategici, costruendo una grande muraglia che separava il mondo conosciuto in «noi» e «loro». Per realizzare tale muraglia spedì 38
un suo generale alla frontiera con 300.000 soldati e un milione di lavoratori arruolati per l’occasione, la maggior parte dei quali pare sia morta durante la costruzione. Un flusso costante di operai raggiungeva il nord per sostituire i morti. La leggenda narra che ogni pietra della muraglia sia costata una vita umana. Lo scopo della grande muraglia non era quello di impedire agli xiongnu di valicare il confine; sarebbe stato piuttosto facile per loro oltrepassarla in uno dei tratti non sorvegliati da sentinelle, appoggiando una scala contro il muro stesso, però non avrebbero certamente potuto issare i cavalli sui pioli. Avrebbero dovuto dunque invadere la Cina a piedi, senza poter contare su quel vantaggio militare che li aveva resi tanto temibili. Sebbene Shi Huangdi sia stato il primo a erigere una grande muraglia in Cina, non si può dire sia stato lui a costruire la Grande Muraglia cinese in senso proprio. La parete iniziale è stata poi estesa, smantellata, abbandonata e ricostruita tante di quelle volte che l’attuale Grande Muraglia che attraversa la Cina settentrionale è molto più recente, con i suoi soli cinquecento anni, e spesso segue un percorso decisamente diverso rispetto a quello originario.3 La ricerca del segreto della vita eterna Quando Ying Zheng si attribuì il titolo di Primo Augusto Imperatore, pensava che tutti i successori al trono continuassero il suo modello di denominazione. Suo figlio sarebbe diventato Er Shi Huangdi, Secondo Augusto Imperatore, seguito dal Terzo, dal Quarto e così via. Tuttavia, nel profondo del suo animo, Shi Huangdi desiderava essere l’unico e il solo imperatore e si impegnò moltissimo nella ricerca dell’immortalità. L’alchimista di corte disse all’imperatore che la chiave per la vita eterna era il mercurio e gli fornì le pozioni che gliel’avrebbero garantita. Inoltre, Shi Huangdi inviò a est il 39
mago taoista Xu Fu per cercare il segreto dell’immortalità. Si diceva che sulla montagna di Penglai, oltre i mari orientali, vivessero i cosiddetti «otto immortali», santi taoisti che avevano imparato i segreti dell’universo. A Xu Fu fu quindi consegnata una flotta di sessanta navi, con cinquemila uomini di equipaggio, accompagnati da tremila ragazzi e ragazze vergini perché si credeva che la loro purezza potesse favorire l’impresa. Parecchi anni dopo la sua partenza, Xu Fu fece ritorno e riferì che un mostro marino gigantesco e spaventoso gli aveva bloccato la strada, così Shi Huangdi mandò un’imbarcazione di arcieri a uccidere l’orribile creatura. In seguito Xu Fu tentò una seconda volta, ma da quel momento non se ne seppe più nulla. Nel tentativo di dare un significato a tale racconto, alcuni storici moderni suppongono che Xu Fu avesse semplicemente scoperto il Giappone e che si fosse stabilito lì. L’archeologia ci indica che la cultura cinese iniziò a comparire in Giappone proprio intorno a quel periodo.4 Il fallimento della ricerca della vita eterna Quando Shi Huangdi morì nel 210 a.C., durante una visita nelle province, forse avvelenato dal mercurio dei suoi elisir magici, Li Si tenne nascosta la notizia per due mesi finché non fu rientrato nella capitale e non fu in grado di sistemare alcune faccende irrisolte. Tra queste, egli dovette occuparsi di sollevare dal comando un generale pericolosamente conservatore, oltre a costringere al suicidio il figlio maggiore di Shi Huangdi. Per impedire all’impero di dissolversi nel caos, Li Si inscenò un inganno, simulando la presenza di un sovrano vivo e vegeto: ogni giorno si accostava alla portantina dell’imperatore e si chinava scomparendo dietro la tenda, fingendo di consultarlo. Un carro di pesce si univa al seguito per camuffare l’odore del cadavere.5 Il Primo Imperatore aveva iniziato a costruire la propria tomba molti anni prima, impiegando settecentomila operai nel 40
progetto, molti dei quali trovarono la morte lavorando. Il complesso tombale misurava quasi cinque chilometri da una parte all’altra e pare fosse protetto da balestre con trappole esplosive. Per mantenerne segreta la posizione, anche gli uomini che installarono tali congegni vennero chiusi al suo interno. Nel 1974, gli scavi portarono alla luce un esercito sotterraneo di ottomila statue di soldati in terracotta che custodivano la tomba e che, probabilmente, costituivano soltanto una minima parte dei tesori lì sepolti. Si ritiene che la tomba contenesse una riproduzione del mondo che galleggiava in un mare di mercurio, inoltre nel 2006 un’analisi del suolo ha rivelato che nella sezione non ancora dissotterrata è tuttora sepolta una considerevole quantità di mercurio.6 Annullata l’influenza dei conservatori sulla successione, Li Si annunciò la morte dell’imperatore e fece in modo che il trono passasse a un principe che condivideva tutte le radicali modifiche del decennio precedente. Er Shi Huangdi (il Secondo Augusto Imperatore), tuttavia, governò solo alcuni anni prima che in Cina si scatenasse la guerra civile. Quanto fu cattivo, veramente? Come accade per la maggior parte dei protagonisti dell’Antichità, esiste solo una manciata di fonti originali, tutte filtrate attraverso secoli di copiature e riproduzioni, di censura, di versioni romanzate, di letture moralizzanti e sensazionalistiche; di conseguenza c’è una buona probabilità che tutto ciò che conosciamo di Shi Huangdi sia sbagliato o, perlomeno, più complicato di quanto siamo portati a credere. Se si va in giro a seppellire vivi gli studiosi del proprio tempo, di certo non ci si garantisce un’immagine positiva negli scritti degli studiosi successivi.7 Non possiamo dire con certezza di quante morti si sia macchiato realmente Shi Huangdi, ma, per amor di classifica, ho adottato la comune attribuzione di un milione di vittime. 41
Seconda guerra punica Bilancio delle vittime: 770.0001 Posizione: 58 Tipologia: guerra per l’egemonia Contrapposizione di massima: Roma contro Cartagine Periodo: 218-202 a.C. Luogo: Mediterraneo occidentale A chi diamo la colpa di solito: Annibale Ennesimo esempio di: conquista romana Esempio più sanguinoso dello stesso genere: guerra gallica
Ormai quasi tutte le regioni costiere del Mediterraneo occidentale erano cadute sotto il dominio di Cartagine o di Roma. I due imperi concorrenti erano divisi dal fiume spagnolo Ebro, finché la città di Sagunto, in campo cartaginese, non cambiò partito e chiese protezione a Roma. Annibale, il generale cartaginese che si trovava sul posto, non poteva consentire una cosa del genere, perciò espugnò la città e la saccheggiò. Quindi, nel tempo in cui i romani protestavano ed emanavano,una formale dichiarazione di guerra, condusse un esercito cartaginese dalla costa spagnola fino in Italia, attraverso le Alpi. Nei pochi anni che seguirono, una serie di armate romane cercò di fermare Annibale, ma ognuna di esse fu sconfitta, anzi addirittura annientata. Sul Trebbia, nell’Italia settentrionale, Annibale finse una ritirata, spingendo i romani fuori da una solida posizione difensiva in un’imboscata presso il fiume. Tre legioni romane vennero attratte lungo la strada che costeggiava 42
il lago Trasimeno e sconfitte di sorpresa nella nebbia mattutina. Ormai al corrente dei trucchi di Annibale, i romani rifiutarono di affrontarlo in battaglia per un anno.2 Alla fine schierarono il loro esercito più vasto di sempre – otto legioni romane più gli alleati e la cavalleria, 80.000 uomini in tutto – e si misurarono con Annibale in campo aperto, in piena luce del giorno, a Canne, nell’Italia meridionale. Annibale rimase ad attenderli con un esercito che era circa la metà di quello romano. Dispose due blocchi di fanteria pesante su piccole alture del luogo e le collegò con una linea flessibile di fanteria leggera al centro. Quando i romani attaccarono questa linea, i fianchi dell’esercito di Annibale tennero, mentre il centro fu spinto all’indietro: venne così a crearsi un imbuto che attrasse l’esercito romano verso il centro. La prima linea romana spingeva contro i cartaginesi, mentre le seconde linee le spingevano contro, cosicché ben presto i romani si serrarono in file troppo strette perché potessero manovrare le armi con efficacia. Frattanto la cavalleria di Annibale mise in fuga quella romana e sigillò il lato aperto dell’imbuto, intrappolando l’intero esercito romano in un affollato campo di sterminio. Per il resto della giornata i romani furono massacrati sistematicamente finché non ne rimase vivo nemmeno uno.3 In due anni, per mano di Annibale i romani avevano perduto 150.000 uomini; gli alleati di Roma cominciarono a disertare. Siracusa si consegnò a Cartagine e si dovette difendere dalla rappresaglia romana utilizzando una serie di impressionanti (e probabilmente mitici) dispositivi bellici concepiti dal matematico Archimede: catapulte perfezionate, una gru meccanica che afferrava le navi e le distruggeva contro le rocce e uno specchio che concentrava i raggi solari in un fascio letale di luce rovente. Alla fine, però, la disciplina e la perizia bellica dei romani riuscirono a sconfiggere l’ingegnosità greca: Siracusa fu presa e Archimede ucciso durante il saccheggio della città. Incapaci di sconfiggere i cartaginesi in Italia, i romani 43
inviarono un esercito, al comando di Scipione, per toglier loro la Spagna. Dopo una guerra prolungata, che sottrasse a Cartagine questa fonte vitale di ricchezza e di uomini, Asdrubale, comandante cartaginese in Spagna, ruppe i contatti e seguì il cammino di suo fratello Annibale verso l’Italia. Lungo la strada, in Italia, confluirono contro di lui due armate romane, che lo intrappolarono su un terreno roccioso e irregolare nei pressi del fiume Metauro, dov’era difficile dispiegare le forze in battaglia. Le armate romane spazzarono via Asdrubale prima che potesse unire le proprie truppe a quelle di Annibale, e un cavaliere romano ne gettò la testa tagliata nell’accampamento del fratello. I romani comandati da Scipione approdarono infine in Nordafrica, costringendo Annibale ad abbandonare l’Italia e a tornare in fretta per difendere la patria. Scipione convinse i vicini di Cartagine, i numidi – fornitori di un’ottima cavalleria – a passare dalla parte di Roma, quindi annientò l’ultimo esercito cartaginese a Zama, dove gli elefanti da guerra di Annibale furono presi dal panico e si diedero a una fuga precipitosa contro le stesse linee cartaginesi. Il trattato di pace che seguì pose l’intero Mediterraneo occidentale sotto il controllo di Roma.
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Giochi di gladiatori Bilancio delle vittime: 3,5 milioni1 Posizione: 28 Tipologia: uccisione rituale Contrapposizione di massima: rete e tridente contro spada e scudo Periodo: almeno dal 264 a.C. al 435 d.C. ca. Luogo: impero romano A chi diamo la colpa di solito: i romani
Il combattimento tra gladiatori è un’attività talmente estranea alla nostra cultura che per descriverla in genere ricorriamo allo sport; per una volta, però, cerchiamo di non farlo. È vero che alcuni gladiatori divennero famosi come gli odierni calciatori, ma la maggior parte morì in maniera infame e anonima. Lo scopo dei giochi era quello di esaltare la morte degli emarginati, quindi un combattimento tra specialisti non era altro che un interessante diversivo. Il combattimento tra gladiatori ebbe inizio nelle nebbie di un lontano passato in qualche parte d’Italia, come rito in onore dei morti. I romani asserivano di aver ripreso la pratica dai vicini etruschi, cosa di cui tuttavia non c’è prova, perciò oggi gli storici tendono ad addossare la responsabilità a un altro popolo italico estinto, i sanniti, che in effetti hanno lasciato tracce di combattimenti fra gladiatori.2 Sacrificare i prigionieri di guerra e versarne il sangue sulle tombe dei grandi guerrieri era una pratica diffusa in tutto il mondo: così la loro forza si trasferiva agli eroi e allo stesso tempo li vendicava in parte. Nondimeno di tanto in tanto i 45
prigionieri venivano fatti combattere l’uno contro l’altro: non solo era più divertente che tagliar loro la gola su una tomba, ma spostava l’onere dell’uccisione dai sacerdoti ai compagni di prigionia. Consentiva inoltre uno sfoggio di clemenza verso un unico prigioniero fortunato, scelto dagli dei perché sopravvivesse. Gli antichi murali messicani raffiguranti prigionieri che combattono mostrano che tale pratica si sviluppò in modo indipendente al di fuori del Mediterraneo; furono comunque i romani a renderla sistematica. In effetti, la generale assenza di combattimenti fra gladiatori al di fuori del mondo romano impedisce di leggerli come l’inevitabile manifestazione di una universale sete di sangue degli uomini. I romani fecero dei giochi una parte integrante della vita civile, uno spettacolo che rendeva insensibili i cittadini alla vista del sangue e del dolore e che al contempo eliminava i prigionieri di guerra e i criminali in eccesso. In quanto popolo guerriero con nemici da tutte le parti, i romani dovevano abituarsi sin da piccoli alla morte violenta. Mediante l’esempio i giochi insegnavano come affrontare la morte con coraggio e dignità, avvaloravano l’importanza di essere romano mostrando schiavi, criminali e stranieri, oggetto di odio, che venivano fatti a pezzi.3 In genere i giochi erano organizzati per onorare la memoria di un grande e nobile romano: un finanziatore di alto rango pagava i giochi e offriva l’ingresso gratuito agli spettatori. Il pubblico era ordinato per classe: il palco imperiale, i senatori in prima fila, i cittadini romani affrancati con i loro pari e infine le donne nelle file di fondo, in alto. Il primo combattimento di cui si abbia memoria mise davanti, nel 264 a.C., sei schiavi in tre incontri per onorare Bruto Pera dopo una battaglia. Con il passare del tempo le dimensioni delle sfide si ampliarono: un secolo dopo Tito Flaminino presentò 74 incontri, mentre nel 65 a.C. Giulio Cesare mise in programma 320 coppie di gladiatori. Come per tutto ciò che diventa troppo popolare, lo scopo originario andò perdendosi e con il declino 46
della repubblica i giochi diventarono più un divertimento che un rituale, con i politici ambiziosi che si facevano concorrenza nell’offerta al pubblico di spettacoli sempre più volgari. Speravano che, una volta arrivato il momento delle elezioni, gli elettori si sarebbero ricordati di uno spettacolo particolarmente grandioso. Giulio Cesare fu tanto un politico esperto quanto un maestro nel compiacere le folle: a volte armò i combattenti con armi bizzarre o armature dorate; organizzò finte battaglie con vero spargimento di sangue, compresa una messa in scena della caduta di Troia; fu uno dei primi finanziatori ad allestire battaglie navali su laghi artificiali e il primissimo a mostrare una giraffa a Roma.4 Nelle città romane di solito l’arena era l’edificio più vasto: a sottolineare l’importanza dei giochi fu, nell’80 d.C., la costruzione a Roma della più grande arena di sempre, l’Anfiteatro Flavio o Colosseo. Simbolo più visibile e caratteristico della magnificenza romana, il Colosseo poteva ospitare fino a sessantamila spettatori seduti. Una squadra di marinai innalzava un’enorme copertura per dare ombra alla folla; gallerie, camere e meccanismi sotterranei spostavano e facevano apparire animali, attrezzature e scenari. Quando i giochi erano terminati, dalle sue settantasei uscite il pubblico defluiva efficacemente. Finché i nazisti non costruirono i loro campi di sterminio, il Colosseo potrebbe essere stato nella storia il luogo più piccolo dove si verificarono assassinii di massa, con un numero di uccisioni per metri quadrati più elevato rispetto a qualunque prigione o campo di battaglia. Nel 2007 un sondaggio internazionale lo ha proclamato una delle nuove meraviglie del mondo. Un giorno nell’arena La mattina di una giornata di spettacoli in genere aveva inizio con una sfilata di animali interessanti provenienti da tutto il mondo conosciuto – coccodrilli, elefanti, leopardi, ippopotami, 47
alci, struzzi, renne o rinoceronti – che venivano condotti nell’arena per essere mostrati e massacrati a decine o centinaia. Per lo spettacolo si potevano far combattere le une contro le altre belve feroci come orsi, tori, leoni o lupi, oppure dei cacciatori potevano ucciderle per la folla con archi e lance. Alcuni specialisti, come i toreri, potevano affrontare apertamente gli animali secondo rituali tradizionali. La carneficina degli animali nell’arena aveva lo scopo supplementare di consentire al finanziatore di fornire al popolo uno splendido banchetto di toro, cervo ed elefante arrosto: la carne si consumava all’aperto dopo lo spettacolo.5 Per l’inaugurazione del Colosseo furono uccisi cinquemila animali selvatici e quattromila animali domestici; per celebrare il proprio trionfo in Dacia nel 107 d.C., Traiano fece uccidere undicimila animali.6 La richiesta per gli spettacoli portò all’estinzione le specie più notevoli dell’impero: nel 100 d.C. furono ammazzati gli ultimi leoni europei, nel II secolo d.C. scomparve l’elefante nordafricano. Tigri ircane, uri, bisonti occidentali e leoni di Barberia riuscirono a sopravvivere a stento all’epoca romana in qualche remota terra desolata, ma non riuscirono mai a riprendersi, tanto che nei secoli successivi finirono per scomparire.7 Attorno a mezzogiorno si giustiziavano in pubblico i criminali, come monito per gli altri, spesso con il fuoco o con delle belve che venivano slegate contro di loro. A volte i criminali, dotati di armi rudimentali, venivano semplicemente gettati nell’arena in grossi gruppi e sollecitati ad ammazzarsi a vicenda, altre volte l’immaginazione dei romani creava delle pene movimentate che si adattavano al crimine. Alcuni prigionieri furono giustiziati con una messa in scena dei miti più raccapriccianti: Ercole che brucia, Icaro che cade dal cielo, Ippolito trascinato dai cavalli, Atteone trasformato in cervo e straziato dai cani. Erano tutte considerate valide lezioni sui costumi misteriosi degli dei. Il vero spettacolo iniziava soltanto nel pomeriggio, quando si 48
facevano uscire i gladiatori esperti. All’inizio si trattava di criminali, schiavi e prigionieri di guerra, ma in seguito furono addestrati in scuole speciali, i ludii, in modo che potessero offrire il miglior spettacolo possibile. Qualche combattimento mise di fronte un centinaio di galli contro un centinaio di arabi in una finta battaglia, in modo che i cittadini soldati capissero cosa attendersi alla frontiera; tuttavia di solito i gladiatori combattevano in scontri singoli, così il pubblico ne poteva gustare le abilità senza distrazioni. I giochi iniziavano con l’editor (allestitore) che si assicurava che le armi fossero vere. L’armatura dei gladiatori era progettata per ridurre il rischio di ferite lievi a vantaggio di un’uccisione precisa, perciò braccia e viso erano protetti mentre restavano scoperti torace e collo. Un elmo dotato di visiera celava il volto dei gladiatori e manteneva anonime e impersonali le morti nell’arena. I combattenti erano equipaggiati come barbari o come guerrieri mitologici, secondo stili tradizionali di armi e armature e prendevano il nome dalle tribù nemiche, come il Sannita o il Trace. Il secutor (inseguitore) combatteva con una spada e un pesante scudo rettangolare e il braccio armato era ricoperto da una protezione (la manica). L’uomo con il tridente (retiarius) utilizzava una rete per lottare contro un murmillo, un gladiatore dall’armatura a scaglie e l’elmo a forma di pesce, secondo una fantasiosa ricostruzione del combattimento di Nettuno contro un mostro marino. Allorché un gladiatore neutralizzava il proprio avversario, il pubblico dalle gradinate indicava il destino del perdente facendo dei gesti con il pollice.* Se la folla era convinta che il combattente sconfitto avesse dato il meglio, spesso gli risparmiava la vita. In effetti le lapidi tombali dei gladiatori di successo elencavano spesso le statistiche dei combattimenti, che comprendevano vittorie, pareggi e sconfitte, pertanto una singola sconfitta non implicava sempre la fine della carriera. Si è calcolato che nell’epoca di Augusto soltanto il 20% dei combattimenti si concludeva con la morte, ma sotto imperatori successivi si arrivò al 50%.8 49
Un evento raro ma speciale erano i munera sine missione, «combattimenti senza tregua», che consistevano in una serie di incontri a eliminazione diretta in cui sopravviveva soltanto un gladiatore. All’inizio del I secolo d.C., Augusto bandì tale pratica, perché riteneva crudele non dare un’occasione di tregua a un combattente coraggioso, ma fu in seguito ripristinata per il suo straordinario richiamo. Finale I gladiatori erano addestrati a morire con grazia. Ci si aspettava che un combattente sconfitto offrisse il proprio collo alla stoccata finale senza pianti, fughe o imbarazzanti richieste di clemenza.9 Dopo ogni scontro mortale, arrivavano degli inservienti travestiti da dei dell’oltretomba, i quali si assicuravano che il morto non fingesse. Mercurio, munito di cappello e sandali alati, pungolava il morto con un ferro caldo per vedere se sussultava, mentre Charun, un demone etrusco con le orecchie aguzze e il naso d’avvoltoio, colpiva con un maglio la fronte del caduto.** Infine gli schiavi trascinavano via il corpo e coprivano con sabbia nuova le pozze di sangue.10 Al riparo dallo sguardo del pubblico, nell’obitorio dell’arena, gli inservienti, controllati da un soprintendente, spogliavano il cadavere della costosa armatura e gli tagliavano la gola per assicurarsi che non ci fossero inganni. Siccome i gladiatori erano schiavi e criminali, in genere i loro corpi venivano scaricati dentro fosse di rifiuti, tuttavia per un gladiatore di successo uno dei benefici era rappresentato dalla prospettiva di una sepoltura decorosa pagata dagli ammiratori riconoscenti o dai finanziatori, o ancora dagli stessi combattenti che mettevano in comune il denaro in associazioni per la sepoltura.11 Grazie alla fortuna, all’abilità o al carisma, poteva anche capitare che un gladiatore si ritirasse dalla carriera vivo e libero. Spesso i gladiatori a riposo diventavano a loro volta allenatori o 50
combattenti a contratto, molto pagati; altri si impiegavano come guardie del corpo e scagnozzi di qualcuno oppure entravano nel mondo del crimine. Poiché i romani consideravano la compassione una debolezza, raramente i loro filosofi avversarono i giochi facendovi appello. In alcuni dei suoi scritti Cicerone protesta contro i giochi pieni di trovate, che ritiene volgari e sadici, mentre approva comunque quelli ben eseguiti nei quali si illustrano i tradizionali valori romani della forza e dell’onore. 12 Naturalmente gli imperatori più sgradevoli (Caligola e Commodo, per esempio) godevano nel vedere uomini che si facevano a pezzi a vicenda e talvolta si univano al divertimento, ma anche quelli con una reputazione migliore diedero prova della particolare sete di sangue dei romani. Prima del colpo finale, l’imperatore Claudio ordinava spesso che si togliesse l’elmo allo sconfitto, in modo che egli potesse vedere lo strazio sul viso del morente. Per contro, Marco Aurelio detestava i combattimenti e cercò di organizzare giochi con armi smussate e il minor numero possibile di uccisioni. I primi cristiani avversarono i combattimenti fra gladiatori in quanto rito religioso concorrente nel quale, durante i primi tre secoli dell’era cristiana, si martirizzarono un paio di migliaia di cristiani.13 Allorché l’impero si fece cristiano e la compassione si trasformò in una virtù, i giochi persero un po’ di popolarità. Nel 325 Costantino tentò di abolire con un editto i combattimenti tra gladiatori, ma tale abolizione fu fatta rispettare di rado. Dopo che gli invasori germanici demolirono l’impero romano d’Occidente, però, i romani non ebbero più la necessità di temprarsi guardando degli uomini che morivano. Ovunque presero il potere, i nuovi re barbari in genere misero fine ai combattimenti tra gladiatori. L’ultimo scontro nel Colosseo che si ricordi ebbe luogo intorno al 435 d.C., anche se i combattimenti pubblici tra animali proseguirono all’incirca per un altro secolo.
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Guerre servili Bilancio delle vittime: 1 milione1 Posizione: 46 Tipologia: rivolte di schiavi Contrapposizione di massima: schiavi contro padroni Periodo: 134-71 a.C. Luogo: Sicilia e Italia Nome tradizionale: bellum servile A chi diamo la colpa di solito: gli istigatori degli schiavi romani Ennesimo esempio di: ribellione contro Roma Fattori economici: schiavi, cereali
Prima guerra servile, 134-131 a.C. Nelle loro continue guerre di conquista, i romani catturarono centinaia di migliaia di prigionieri e confiscarono ai nemici di tutto il mondo grandi proprietà; il tutto veniva poi venduto all’asta agli speculatori romani. Questo vale soprattutto per la Sicilia, dove la guerra punica aveva dissolto la vecchia aristocrazia cartaginese e greca rimpiazzandola con i grandi proprietari romani, che possedevano enormi piantagioni lavorate dagli schiavi. Nel II secolo a.C. la Sicilia era divenuta il granaio della repubblica. Nel 134 a.C. gli schiavi di una piantagione fuori dalla città siciliana di Enna uccisero il proprio padrone, un ricco latifondista romano. L’omicidio non esponeva al rischio della crocifissione soltanto gli assassini, ma, secondo il diritto romano, anche ogni schiavo della proprietà. Di fronte alla 52
minaccia di una tale pena per il solo fatto di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato, gli schiavi si diedero alla fuga sulle montagne, ove si unirono a un altro fuggiasco, un ex schiavo siriano un tempo chiamato Euno ma poi ribattezzatosi Antioco, che si era insediato in un santuario montano dedicato alla dea della terra Demetra. Con una noce piena di zolfo e fuoco nascosta in bocca, Euno parlando espirava fiamme, cosa che sbalordì i suoi seguaci e li convinse che attraverso la sua bocca parlasse la dea. Qui si sviluppò una comunità di schiavi evasi che si sosteneva derubando i viaggiatori e razziando le piantagioni. Con l’affollarsi di altri schiavi al tempio di Demetra, il gruppo arrivò a contare 2000 persone. Il loro generale, uno schiavo greco di nome Acheo, viaggiò per l’isola reclutando soldati per la causa: a loro si unì anche un certo numero di contadini liberi, che detestavano i proprietari delle piantagioni quanto qualunque schiavo. Quindi l’esercito ribelle sconfisse il pretore (governatore) romano della Sicilia con la sua milizia messa insieme in fretta e furia, e il numero dei seguaci di Euno decuplicò. Un’altra aggregazione di evasi si formò altrove attorno a Cleone, uno schiavo nato in Cilicia (l’attuale Turchia meridionale), che ben presto riconobbe Euno re di Sicilia. Ormai gli schiavi in armi erano 70.000. Siccome erano impegnati altrove in altre guerre, i romani non poterono dedicare grande attenzione agli schiavi ribelli. Riuscirono comunque a inviare ogni anno un nuovo esercito consolare per contrastarli. Il diritto romano stabiliva che tutti gli schiavi ribelli catturati vivi dovessero essere crocifissi, ma le autorità locali consideravano la pratica uno spreco di beni preziosi. Al contrario, restituirono gli schiavi catturati ai loro rispettivi padroni per la punizione, che in genere implicava le frustate e non la morte. Alla fine fu Publio Rupilio, l’ultimo console* incaricato di soffocare la rivolta, ad assumersi il compito di crocifiggere qualunque schiavo catturato vivo: ne 53
inchiodò alla croce 20.000. Infine entrambi i consoli romani portarono i loro eserciti congiunti nel cuore del territorio ribelle e assediarono Enna per due anni. Messi alla fame e annientati i ribelli, Euno fu riportato a Roma, dove non fu strangolato in pubblico come si usava per un onorato nemico straniero, ma morì tempo dopo in prigione, dimenticato. Allo stesso modo a Publio Rupilio non furono concessi il fasto e la gloria di un pieno trionfo, perché sconfiggere dei semplici schiavi non era considerata una vera vittoria.2 Seconda guerra servile, 104-100 a.C. Con il prosperare delle grandi piantagioni, i piccoli contadini liberi furono costretti alla schiavitù dai debiti schiaccianti che dovevano ai creditori e ai grandi proprietari terrieri. Poiché molti di questi nuovi schiavi erano stati sottomessi per mezzo di contratti ambigui, il governatore romano della Sicilia, Publio Licinio Nerva, costituì un tribunale per dare ascolto ai reclami, dimostrandosi però fin troppo efficiente. Dopo che ebbe liberato circa ottomila persone ridotte ingiustamente in schiavitù, i possidenti locali lo costrinsero con le minacce ad abbandonare la questione. Il governatore fece marcia indietro e disse ai ricorrenti ancora in attesa di giudizio che dovevano restare schiavi: scoppiò la rivolta. A capo della sommossa si pose lo schiavo ribelle Salvio, il quale prese il nuovo nome di Trifone. Grazie alla pura e semplice superiorità numerica, gli schiavi occuparono rapidamente buona parte delle grandi tenute di campagna, mentre per lo più le città chiusero in tempo le porte e restarono in mano ai romani. I ribelli, però, impedirono che il cibo arrivasse nelle città, causando una carestia. A propria disposizione il governatore aveva solamente una milizia inesperta, che venne sconfitta fuori dalla città di Morgantina. La città stessa si salvò dalla conquista soltanto 54
quando i romani offrirono la libertà a tutti gli schiavi delle città che avessero contribuito alla difesa delle mura. Avendo bisogno di un numero maggiore di uomini, il governatore giunse a un accordo con una delle bande di briganti che vagavano libere per le montagne – la grazia per i banditi in cambio della repressione degli schiavi – ma anche con questo espediente non si riuscì a sedare la rivolta. Ormai in Sicilia c’erano due rivolte e i due capi, Salvio all’interno e Atenione a occidente, si decisero a governare insieme. Poco dopo dal continente giunsero 14.000 veterani romani che, malgrado l’inferiorità numerica, sconfissero le armate congiunte degli schiavi grazie alla superiore disciplina. Il generale romano tuttavia non sfruttò il vantaggio e gli schiavi fuggirono sulle montagne. Per tale insuccesso venne rimpiazzato, ma l’anno successivo il suo sostituto subì la medesima sorte perché non riuscì a fare di meglio. Alla fine un terzo generale, il console Manio Aquilio, sbaragliò le armate di schiavi in due anni di duri scontri e uccise personalmente il comandante nemico Atenione in un corpo a corpo durante la battaglia, impresa rara nella storia.3 Terza guerra servile, 73-71 a.C. Di questa avete sentito parlare. Spartaco era nato in Tracia (l’attuale Bulgaria) e aveva prestato servizio nell’esercito romano finché non aveva disertato e si era dato al brigantaggio. Dopo la cattura era stato venduto alla scuola dei gladiatori di Capua. Lì era passato attraverso il consueto addestramento brutale, ma poi insieme a un’altra settantina di gladiatori era fuggito verso le campagne. La sua banda si ingrossò rapidamente raccogliendo un migliaio di schiavi evasi e respinse la prima legione romana inviata a punirli. Quindi si accampò nella fortificazione naturale formata dal cratere del Vesuvio, inattivo. Allorché una nuova legione romana intrappolò Spartaco in questo nascondiglio, il 55
suo esercito scivolò via silenziosamente lungo un ripido pendio con l’aiuto di corde fatte con le viti. Quindi Spartaco si mosse furtivamente e attaccò gli assedianti: questi si erano incautamente accampati in una stretta gola, così senza tempo o spazio per dispiegarsi furono sconfitti pesantemente dall’esercito di Spartaco. Ormai persuaso della gravità della rivolta, il Senato romano inviò quattro legioni per annientare i ribelli. Spartaco si diresse a nord, nella speranza di fuggire dall’Italia attraverso le Alpi, dove i suoi seguaci avrebbero potuto dividersi e fare ritorno nelle rispettive terre; tuttavia il suo esercito preferiva indugiare e depredare l’Italia, perciò Spartaco si volse nuovamente verso sud saccheggiando e uccidendo lungo la penisola. Sconfisse ogni contingente romano che gli fu inviato contro e a ogni vittoria raccoglieva sempre più armi per i suoi seguaci, che ormai ammontavano a decine di migliaia. Spartaco giunse infine all’estremità dell’Italia, dove progettava di passare in Sicilia e separare l’isola dall’impero. Trattò con i pirati perché traghettassero il suo esercito in cambio della possibilità, da parte loro, di utilizzare i porti siciliani, ma all’ultimo minuto essi si tirarono indietro e lasciarono i gladiatori sul continente. Frattanto lo sforzo bellico dei romani era passato sotto il comando di Marco Licinio Crasso, l’uomo più ricco di Roma, il quale finanziò un nuovo esercito. Crasso costruì un muro enorme che chiudeva la punta estrema dell’Italia, dove schierò i suoi 32.000 uomini, allo scopo di tenere a sud i 100.000 ribelli e affamarli per l’inverno. Spartaco crocifisse un prigioniero romano scelto a caso davanti al proprio esercito per ricordare ai suoi uomini il destino orribile che li attendeva se avessero perduto. Poi tentarono di aprirsi un varco nel muro. Il primo tentativo fallì, al secondo soltanto un terzo dei ribelli riuscì a fuggire insieme a Spartaco. Il resto degli uomini fu lasciato indietro a farsi comodamente annientare dai romani ogni volta che qualcuno di loro tentava di aggirare il muro. 56
Poiché le sue truppe erano ormai gravemente indebolite e andavano riducendosi, Spartaco rimase intrappolato nell’Italia meridionale. A sottrarre la gloria al suo nemico politico Crasso giunse un secondo generale romano, Pompeo. Diretto alla sua ultima battaglia con scarse speranze di successo, Spartaco tagliò la gola al proprio cavallo, dichiarando che se avesse perso non avrebbe avuto bisogno di un cavallo e se avesse vinto avrebbe avuto il miglior cavallo di Roma. L’esercito dei gladiatori resistette per un’ultima battaglia e fu sbaragliato sul campo da Crasso, ma il merito se lo prese tutto Pompeo, che si frappose alla ritirata dei ribelli e li massacrò nel corso della fuga. Lungo la via Appia, la strada che collegava Roma con l’Italia del sud, vennero inchiodati alla croce seimila prigionieri perché morissero lentamente; come monito per gli altri schiavi scontenti, i loro corpi furono lasciati esposti fino a che si ridussero in ossa. Forse Spartaco non era tra loro: non se ne sentì più parlare, ma è probabile che il suo corpo fosse tra le altre decine di migliaia ammucchiati sul campo di battaglia.4 E poi? Dopo esserci occupati delle tre guerre servili, facciamo un piccolo salto indietro per dare un’occhiata a ciò che accadeva altrove nell’impero romano. Nei prossimi capitoli, il nostro percorso si discosterà dalla storia tradizionale. Siamo entrati in un periodo della storia romana nel quale le guerre stesse sono meno importanti di chi le combatte. Nelle ultime generazioni della repubblica romana i generali ambiziosi uccideranno centinaia di migliaia di stranieri semplicemente per accrescere il proprio profilo pubblico. La maggior parte degli storici moderni di Roma segue gli alti e bassi della politica di questi generali a Roma, anziché gli alti e bassi della loro condotta militare al confine. Noi, per contro, prenderemo in maggiore considerazione le centinaia di migliaia di stranieri uccisi per rendere grande Roma. 57
Guerra sociale Bilancio delle vittime: 300.0001 Posizione: 96 Tipologia: guerra civile di matrice etnica Contrapposizione di massima: romani contro italici Periodo: 91-88 a.C. Luogo: Italia Nome tradizionale: bellum sociale A chi diamo la colpa di solito: i romani Ennesimo esempio di: ribellione contro Roma Nelle guerre di conquista dei romani, i popoli dell’Italia centrale avevano combattuto al loro fianco come alleati, fornendo almeno la metà dei soldati, ma tutto il potere e la gloria andavano alla città di Roma. Gli ufficiali alleati che prestavano servizio nelle armate romane erano sottoposti a punizioni draconiane, senza il diritto di appello di cui godevano i cittadini romani. I magistrati romani che attraversavano le città alleate esercitavano un’autorità dittatoriale e soltanto i cittadini di Roma avevano voce in capitolo in politica oppure protezione da parte della potenza romana. Perciò gli alleati italici chiesero di essere riconosciuti come cittadini. Trovarono un sostenitore in Marco Livio Druso, un tribuno che ne difese la causa nella politica cittadina, ma ogni volta che si arrivava al voto il Senato bocciava la proposta. Allorché nel contesto della spietata politica della città Druso fu assassinato, gli alleati italici abbandonarono l’atteggiamento collaborativo e passarono al piano B. Otto tribù, in particolare sanniti e marsi, costituirono una repubblica concorrente (l’«Italia») con capitale nella città di Corfinium, a est di Roma. 58
Quest’ultima mobilitò immediatamente il proprio esercito per fermare gli italici. Davanti a nemici che provenivano da tutte le parti, nel 90 a.C. i due consoli romani divisero l’esercito di 150.000 uomini e presero due diverse direzioni: Publio Rutilio Lupo si diresse a nord, Lucio Giulio Cesare a sud. A nord Rutilio fece pasticci in diverse battaglie e alla fine restò ucciso, ma gli subentrò il suo consigliere, il generale veterano nonché romano alfa dell’epoca, Gaio Mario, che guidò l’esercito alla vittoria contro i marsi. A sud, le legioni romane subirono una batosta, riuscendo però a tenere in stallo gli italici.* Per la prima volta dai tempi di Annibale, Roma si trovava con i nemici a poca distanza dalle porte della città. Rendendosi conto che vincere la guerra sarebbe stato più difficile del previsto, Roma fece delle concessioni a quegli alleati che fossero rimasti o tornati fedeli. L’anno successivo i due consoli condussero i loro eserciti congiunti a nord, dove riportarono una notevole vittoria contro i restanti italici ribelli. Alla fine la guerra si spense quando Roma concesse agli alleati ribelli il diritto di voto per il governo della città. Il trucco stava nel fatto che il voto doveva essere espresso di persona nella stessa città di Roma. Si capisce subito che non si trattava esattamente del tanto sbandierato compromesso, dal momento che la maggior parte dei cittadini alleati non si sarebbe presa la briga di intraprendere un viaggio fino a Roma per andare a votare. Quasi subito molti di questi voti andarono dunque perduti; tuttavia in seguito i candidati compresero che valeva la pena sobbarcarsi il costo del trasporto dei loro sostenitori provenienti dalle comunità lontane per la stagione delle elezioni, fino a trasformare la cosa in una vacanza turbolenta.2
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Terza guerra mitridatica Bilancio delle vittime: almeno 400.0001 Posizione: 81 Tipologia: guerra per l’egemonia Contrapposizione di massima: Roma contro Ponto Periodo: 73-63 a.C. Luogo: Asia Minore (moderna Turchia) A chi diamo la colpa di solito: Mitridate Ennesimo esempio di: conquista romana Dopo i cartaginesi, fu il regno del Ponto, che cingeva parte del mar Nero e aveva la capitale a Sinope, sulla costa settentrionale dell’Asia Minore, a opporre la resistenza più tenace all’espansione romana. Preludio: la prima guerra mitridatica (89-85 a.C.) Mentre i romani erano occupati con la rivolta degli alleati italici, Mitridate, re del Ponto, ne approfittò per intromettersi nella sfera d’influenza romana a Oriente. Invase dunque i regni di Bitinia a ovest e della Cappadocia a sud, entrambi alleati di Roma, i cui re esuli convinsero i romani a correre in soccorso. Tuttavia, non appena i romani dichiararono guerra, l’esercito del Ponto occupò la provincia dell’Asia (il margine occidentale dell’attuale Turchia). Mitridate ordinò che tutti gli italici che vivevano in quelle terre – 80.000 tra mercanti, marinai, viaggiatori e le loro famiglie, e persino gli schiavi nati in Italia – fossero uccisi e le loro proprietà confiscate. Mitridate passò quindi in Grecia per un’altra conquista agevole, finché Roma non risolse i propri problemi con gli 60
alleati e reagì. Arrivò Lucio Cornelio Silla – divenuto console romano – che sconfisse i pontici in parecchie battaglie, uccidendone più di 150.000;2 Silla impose però a Mitridate condizioni di pace piuttosto lievi, perché voleva tornare rapidamente in patria per consolidare il proprio potere a Roma. Per pagarsi nuovi eserciti, i due contendenti depredarono i santuari più sacri della Grecia: Mitridate mise a sacco l’isola di Delo, mitico luogo di nascita di Apollo e Artemide, mentre Roma saccheggiò l’Oracolo di Delfi e Olimpia, sede dei giochi olimpici. Ciascun esercito si portò via carrettate di preziose opere d’arte da vendere all’asta per trarne denaro contante.3 Seconda guerra mitridatica (83-82 a.C.) La seconda guerra mitridatica fu soltanto una scaramuccia di frontiera e non varrebbe molto la pena di parlarne se non fosse che vi ritrovereste disorientati, qualora il racconto saltasse senza spiegazione dalla prima alla terza. Mitridate cominciò a ricostituire il proprio esercito allo scopo di domare alcune rivolte locali, ma il comandante romano della regione pensò che queste nuove truppe sarebbero state usate contro Roma. Tuttavia dopo i primi scontri la questione fu risolta sul piano diplomatico. Terza, e più sanguinosa, guerra mitridatica (73-63 a.C.) Ormai molti re del Mediterraneo avevano accettato il predominio di Roma e riferivano ogni grossa decisione politica in primo luogo agli ambasciatori romani. Talvolta i monarchi senza figli si spingevano oltre e nelle ultime volontà lasciavano addirittura il loro regno a Roma, ma quando lo fece il re di Bitinia, Mitridate dichiarò che il testamento era un falso e occupò nuovamente la Bitinia. Contava sul fatto che i romani erano troppo impegnati a dare la caccia a Spartaco perché potessero fermarlo. 61
Per risolvere il problema del Ponto il Senato romano inviò Lucio Licinio Lucullo, il quale al suo arrivo scoprì che le truppe romane erano una marmaglia indisciplinata tutt’altro che pronta a una dura campagna bellica. Gli ci volle tempo per riportarle all’ordine, e nel frattempo un altro comandante romano della regione, Marco Aurelio Cotta, venne sconfitto da Mitridate a Calcedonia e assediato a Cizico. Allora Lucullo si mise in marcia e con un esercito appena addestrato indusse i pontici ad abbandonare l’assedio. Nella campagna che ne seguì, Lucullo distrusse sistematicamente l’esercito del Ponto e invase l’Asia Minore. Mitridate scappò a est e si rifugiò presso il genero, Tigrane re d’Armenia, il quale rifiutò le richieste di estradizione avanzate dai romani. Nel 69 a.C. Lucullo entrò in Armenia attraverso l’alta Mesopotamia nel corso di una campagna in cui morirono circa 100.000 armeni. Le fortune depredate da Tigranocerta, la capitale armena, resero Lucullo l’uomo più ricco di Roma: al suo ritorno in patria, allorché si diede a spenderle, divenne leggendario per il suo stile di vita stravagante. Mitridate fuggì stavolta nelle sue terre sulla sponda settentrionale del mar Nero, governate da suo figlio Machares, il quale tuttavia non intendeva contrastare Roma e perciò rifiutò di prendere le armi. Sempre scevro da sentimentalismi, Mitridate lo uccise, prese personalmente il controllo del territorio e ricostituì l’esercito reclutando i cavalieri sciti della steppa ucraina. In Asia Minore, nel consolidare il controllo delle conquiste romane, Lucullo si fece dei nemici tra i suoi stessi concittadini. Per alleviare la schiacciante povertà di quelle terre lacerate dalla guerra, eglì cancellò in maniera unilaterale i pesanti debiti che i coloni avevano contratto con i finanziatori e gli esattori delle tasse, appaltatori indipendenti che spremevano la popolazione locale per conto del governo di Roma. La circostanza suscitò la collera di molti finanziatori potenti. Anche i soldati detestavano Lucullo perché lesinava il bottino, perciò nell’ultima campagna 62
si rifiutarono di proseguire. Si aprì così la strada per una controffensiva pontica alla riconquista di buona parte del territorio perduto. I nemici di Lucullo a Roma colsero l’occasione per richiamarlo in patria e sostituirlo con Pompeo (66 a.C.), che si prese la gloria assestando il colpo finale al regno già morente del Ponto. Mentre il mondo lo accerchiava, Mitridate avvelenò le figlie e le mogli per impedire che fossero catturate e umiliate, quindi tentò di uccidersi sempre con il veleno, ma non gli riuscì, perché aveva passato la vita a immunizzarsi contro i veleni adoperati da eventuali nemici. Alla fine, uno dei suoi generali terminò il lavoro con la spada.
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Gli elvezi Bilancio delle vittime: 700.0001 Posizione: 61 Tipologia: guerra di conquista Contrapposizione di massima: romani contro galli e germani Periodo: 58-51 a.C. Luogo: Gallia (Francia) A chi diamo la colpa di solito: Cesare Ennesimo esempio di: conquista romana Il modo più sicuro per riuscire graditi agli elettori di Roma era riportare grandi quantità di bottino dalle conquiste in terra straniera e distribuirlo generosamente a tutta la città. All’epoca della tarda repubblica, però, i territori conquistati erano troppo vasti perché i due consoli del momento potessero andarsene nell’unico anno che durava la loro carica a imperversare per il mondo raccogliendo ricchezze e gloria nelle guerre. Ne avevano però la possibilità come proconsoli, cioè ex consoli che il Senato nominava governatori di province di frontiera tanto turbolente quanto potenzialmente redditizie. Un console che godeva di popolarità veniva ricompensato con una ricca provincia da spremere, mentre uno impopolare si vedeva assegnare una vasta distesa di deserto roccioso piena di nomadi sporchi e inutili. Dopo che ebbe concluso il suo consolato estremamente popolare, Gaio Giulio Cesare si fece assegnare quattro legioni e il compito di governare diverse regioni pacifiche del nord, in particolare la Gallia meridionale (l’odierna Francia meridionale). Cesare era impaziente di trovare una scusa – una scusa 64
qualunque – per iniziare a conquistare e depredare, perciò si rallegrò quando nel 58 a.C. il popolo celtico degli elvezi chiese il permesso di migrare attraverso il protettorato romano della Gallia. Cesare si oppose, gli elvezi proseguirono comunque e lui gli si parò davanti con sei legioni.* Costruì un lungo muro attraverso il loro itinerario nei pressi del lago Lemano e si mise in attesa. Altrettanto fecero gli elvezi. Allorché essi tentarono di aggirarlo, Cesare li sorprese nel guado di un fiume e ne annientò la retroguardia; poi li incalzò più da vicino, non concedendo alcun riposo e uccidendo gli sbandati, fin quando per caso non si allontanò troppo dalla propria linea dei rifornimenti. Davanti alla sua ritirata, gli elvezi si volsero e presero a inseguirlo finché i romani presero posizione su una collina nei pressi della grande città gallica di Bibracte, nella Francia centrale. Qui respinsero gli attacchi degli elvezi, contrattaccarono e li annientarono. Secondo i documenti ritrovati da Cesare nell’accampamento elvetico abbandonato, dei 368.000 elvezi (un quarto dei quali guerrieri) ne sopravvissero soltanto 110.000. I sopravvissuti furono reinsediati nella loro vecchia patria (l’odierna Svizzera) per impedire ai germani di espandersi in un territorio vuoto.2 Ma era già troppo tardi. Ariovisto A nord erano in guerra due tribù galliche della valle del Reno, gli edui e i sequani, i quali avevano reclutato gli suebi, una tribù germanica capeggiata da Ariovisto, perché venissero in loro aiuto. Dopo la sconfitta degli edui, però, Ariovisto non volle andarsene: così si appropriò di un terzo del territorio dei sequani e vi insediò 120.000 componenti del suo popolo. Successivamente aumentò le sue pretese fino a due terzi del territorio sequano. Tuttavia Cesare non aveva intenzione di consentire ai germani di mettere insieme un nuovo potente territorio tanto 65
vicino alla frontiera romana, perciò rispondendo agli appelli degli edui chiese il ritiro degli suebi. Allorché Ariovisto rifiutò la richiesta con scherno, a settembre Cesare condusse 30.000 uomini a nord. Per un po’ le due parti parlamentarono e fecero manovre, finché l’accampamento romano presso i Vosgi si ritrovò circondato da 70.000 germani urlanti. I romani formarono le linee con calma e attaccarono: misero in rotta gli suebi e li inseguirono da vicino per venticinque chilometri. Avendo perso 25.000 uomini, gli suebi fuggirono nuovamente oltre il Reno e presto si sparsero voci sulla morte di Ariovisto, probabilmente caduto in disgrazia e ucciso dal suo stesso popolo. Esplorazioni all’esterno Durante l’anno successivo Cesare si fermò a nord per dare battaglia ai belgi, una grossa coalizione di tribù galliche che si stava armando per bloccare l’espansione romana. Nel giugno del 56 a.C., Cesare fece costruire in soli dieci giorni un ponte di legno sul Reno, il primo nella storia ad attraversare il fiume. Questa grandiosa impresa di ingegneria intimidì buona parte delle tribù locali e le indusse a fornirgli degli ostaggi in segno di resa. Cesare impiegò soltanto diciotto giorni per incendiare i villaggi dell’unica tribù che al di là del fiume gli opponeva ancora resistenza. E piuttosto che lasciarlo come una porta incustodita verso l’impero, durante la ritirata distrusse il ponte. Nel 55 a.C. Cesare passò quindi in Britannia per capire se valeva la pena conquistarla. Portò con sé solo due legioni, o perché aveva pianificato esclusivamente una ricognizione oppure perché nella sua arroganza supponeva che sarebbero state sufficienti per sottomettere l’isola. In ogni caso i britanni si mostrarono più temibili di quanto avesse previsto; egli rimase pericolosamente senza provviste, ma fece incursioni al di fuori della propria testa di ponte e distrusse alcuni villaggi per dimostrare che non si sarebbe fatto indurre a una ritirata. Quindi 66
tornò sul continente. Cesare aveva ormai messo insieme altre due legioni ed era arrivato a un totale di otto. Nell’inverno del 54-53 a.C., Ambiorige, re dei germanici eburoni, finse di concedere un passaggio sicuro attraverso il suo territorio alle truppe romane del luogo, per poi sorprenderle in un’imboscata. La legione romana fu in larga misura spazzata via e perse l’aquila, simbolo della legione stessa nonché potente talismano. Piuttosto che farsi catturare dai germani, i sopravvissuti in fuga tornarono all’accampamento e si suicidarono. Al suo arrivo Cesare per rappresaglia distrusse ogni villaggio e fattoria del territorio degli eburoni. Anche se riuscì a fuggire e si sottrasse all’immediata vendetta romana, la maggior parte della popolazione morì di fame durante l’inverno. Cesare concesse inoltre alle tribù confinanti il permesso di fare degli eburoni quello che volevano: nonostante non si sappia con esattezza cosa fecero, di certo fu atroce. Nella storia, infatti, degli eburoni non c’è più traccia. Nel 53 a.C. Cesare disponeva di dieci legioni. Da nord si volse indietro e spazzò nuovamente la Gallia, per assicurarsi che tutti sapessero chi comandava. Piegò una dopo l’altra una sfilza di tenaci tribù galliche e ne vendette donne e bambini agli schiavisti che seguivano il suo esercito ovunque andasse. Racconta Plutarco che nel corso delle campagne di Cesare furono fatti prigionieri un milione di galli. L’afflusso in Italia di schiavi a basso prezzo finì per impoverire i lavoratori romani, circostanza che minò le fondamenta democratiche della repubblica. Completata la campagna, Cesare fu in grado di dichiarare territorio romano l’intera regione. Benché fosse stato sconfitto ogni esercito gallico che si era opposto ai romani, i galli decisero comunque di compiere un ultimo tentativo per scacciare gli invasori. Così, sotto la guida di Vercingetorige, capotribù degli arverni, insorse una vasta coalizione di tribù che si erano precedentemente pacificate tra loro. Per mettere i 67
romani alla fame, i galli distrussero tutte le provviste che non potevano spostare o difendere; per questo il successivo assedio della capitale gallica Avarico fu estenuante per i romani all’esterno quasi quanto per i galli all’interno. Per ventisette giorni di pesanti piogge, mentre gli incursori gallici cercavano di impedirglielo, i romani cercarono di costruire delle torri dotate di ruote per prendere la città. Alla fine le macchine per l’assedio furono terminate, con un assalto i romani oltrepassarono le mura e uccisero chiunque si trovasse all’interno. Cesare scrisse che non ci furono sopravvissuti: «Né vecchi né donne né bambini. Dell’intera popolazione – circa quarantamila persone – appena ottocento abitanti che si precipitarono fuori al primo allarme riuscirono ad arrivare in salvo da Vercingetorige». Durante l’assedio di Avarico Vercingetorige era rimasto libero e aveva vinto diverse piccole battaglie, finché Cesare non lo intrappolò nella roccaforte di Alesia. Ancora una volta i romani si accamparono attorno alla fortezza nemica e avviarono la costruzione delle macchine per l’assedio. Quando i romani respinsero il tentativo, da parte dei galli, di rompere l’assedio, Vercingetorige si arrese e si rimise alla clemenza di Cesare. Malgrado avesse fama di uomo clemente nei confronti dei propri nemici, stavolta Cesare fu risoluto: Vercingetorige fu gettato in prigione per alcuni anni, fino al giorno lieto del trionfo di Cesare, allorché fu tirato fuori, esibito in parata per le strade di Roma e alla fine strangolato secondo il cerimoniale. Il retaggio Alla guerra di Cesare si oppose energicamente il tenace e incorruttibile Marco Porzio Catone, uno degli ultimi senatori di Roma a credere nella repubblica. Egli riteneva che Cesare avesse intrapreso quella guerra per falsi pretesti e che andasse consegnato per il castigo ai germani. Anche altri potenti di Roma avversarono Cesare, ma per lo più perché la sua 68
ambizione a divenire dittatore si scontrava con la loro. La guerra non aveva soltanto coperto Cesare di gloria e ricchezze, ma gli aveva lasciato anche un esercito di veterani di dimensioni incomparabili, totalmente asservito a lui grazie al bottino della Gallia. Sebbene a Roma nessuno potesse impedirgli di diventare dittatore della repubblica, per convincere tutti gli scettici ci vollero comunque alcuni anni di guerra civile. Ciò nonostante, non appena cominciò a godere i frutti della propria vittoria, Cesare fu assassinato. I suoi luogotenenti si combatterono l’un l’altro per anni ancora: alla fine l’ultimo rimasto, il nipote Ottaviano, ereditò il manto di Cesare con il titolo di Augustus, e Roma diventò un vero e proprio impero.
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L’incompetenza matematica degli antichi Quanto sono davvero affidabili le vecchie statistiche delle atrocità? «Non tanto» si risponde in genere. Alcuni storici moderni liquidano infatti le antiche statistiche senza pensarci due volte, semplicemente perché le prove a sostegno (se mai ve ne fossero) sono ormai perdute. Spiegano che tali statistiche provengono da società prive di competenze matematiche e in larga misura analfabete, cui mancava la moderna capacità di contare grossi numeri di persone e tenerne una documentazione accurata. Ai conquistatori piaceva vantarsi delle proprie gesta, perciò le grandi orde di nemici aumentavano a ogni nuovo racconto. Il bilancio dei morti delle singole battaglie appare squilibrato in maniera sospetta: enormi cataste di nemici morti a fronte di qualche graffio per il vincitore. Prima dell’Illuminismo la civiltà era largamente flessibile riguardo all’accuratezza storica e gli storici non consentivano che la verità rovinasse una bella storia. Come scrive la storica Catherine Rubincam: «Gli storici antichi non erano come quelli moderni, soprattutto nel maneggiare le cifre».1 Purtroppo il contrasto non è sempre così netto. Nei prossimi capitoli del libro vedremo che spesso le cifre moderne non sono poi tanto migliori. Per esempio, riguardo alla guerra del Golfo del 1991 è abbastanza consueto imbattersi nella cifra di 100.000 soldati iracheni uccisi, anche se gli americani trovarono soltanto 577 cadaveri e tra i 37.000 prigionieri che fecero soltanto 800 erano feriti.2 Per quanto riguarda la più recente guerra in Iraq, le stime del numero di persone uccise nei cinque anni successivi all’invasione del 2003 vanno da un minimo di 85.0003 a un massimo di 1.200.000.4 Di fronte a questa gamma di possibilità, la questione del numero di romani uccisi a Canne – 25.000 o 70
50.000 – non sembra poi così sostanziosa. Personalmente, ai documenti antichi tendo a dare il beneficio del dubbio. I nostri antenati sapevano come contare pecore, bovini e denaro, e allora perché avrebbero dovuto improvvisamente dimenticarsene allorché si trattava di contare le persone? I popoli antichi erano abbastanza alfabetizzati da lasciarsi alle spalle grandi graffiti, uno dei resti più comuni. In genere, quando gli storici antichi stilano una cronologia di eventi o analizzano in dettaglio il bilancio di un regno, noi li prendiamo in parola, e allora perché diventiamo più scettici se contano i morti? Poniamo la cosa su una scala da 1 a 10. Buona parte degli studiosi moderni dà per scontato che gli antichi bilanci delle vittime abbiano un’affidabilità pari a 2 (gli antichi non facevano altro che inserire qualunque vecchia cifra che apparisse d’effetto), a fronte delle stime moderne, che si presume abbiano un’affidabilità pari a 9 (perché stilate meticolosamente e incrociate con i documenti ufficiali). Questo giustificherebbe facilmente il fatto di ignorare le cifre delle storie antiche. Per contro, io ho il sospetto che l’affidabilità delle cifre antiche si avvicini a 4 (meno della metà, ma si tratta di cifre calcolate da persone che quanto meno sapevano come registrare accuratamente e contare a migliaia senza farsi uscire il fumo dalle orecchie). Tornando all’argomento, alla gran parte delle stime moderne attribuirei un’affidabilità pari a 7 (basata su documenti sparsi e sulla gran necessità di arrangiarsi per riempire i vuoti), il che rende molto più difficile tracciare una linea di accettabilità tra le une e le altre. Se crediamo al controverso bilancio delle vittime di Hiroshima, della Russia di Stalin o della guerra di Corea, allora non dovremmo mostrare scetticismo rispetto ad Alessandro Magno. A lume di naso, penso che se almeno uno storico moderno prende per buono un antico bilancio delle vittime, allora nemmeno io lo liquiderò senza pensarci. Non dobbiamo accettare qualunque cifra tramandataci dagli antichi, ma non 71
basta dubitarne soltanto perché sembra sospetta. Per un confronto, prendiamo in considerazione l’Olocausto: ormai sappiamo tutti che si è verificato. Se abbiamo dei dubbi, possiamo alzare il telefono e chiamare qualcuno che c’era. In ogni caso a un certo momento i testimoni oculari non ci saranno più e dovremo affidarci agli archivi; ma nel 2037 un taglio di bilancio porterà alla chiusura di uno dei maggiori archivi americani, che finirà in rovina in un deposito. Poi una grossa guerra in Medio Oriente distruggerà gli archivi israeliani dell’Olocausto e venti anni dopo in Russia un nuovo dittatore antisemita epurerà quelli del proprio paese. E non dimentichiamoci del grande crash informatico del 2022, che cancellerà tutti i documenti scrupolosamente digitalizzati in precedenza. Alla fine, le prove saranno talmente erose che non potremo far altro che prendere per buone le parole di qualche storico che ci dirà che sono state uccise tutte quelle persone, cioè esattamente lo stesso problema che affrontiamo rispetto alle atrocità antiche. Gli scettici del futuro metteranno apertamente in dubbio la possibilità che Hitler abbia ucciso sei milioni di persone con armi tanto primitive. Come, tutta quella gente, più di quella che all’epoca viveva in una qualunque città del pianeta, tutta ammassata in quella mezza dozzina di campi? Impossibile! Sei milioni di ebrei avrebbero potuto reagire e sconfiggere i nazisti a mani nude... C’è la tendenza a liquidare molta storia sgradevole come pura diceria, ma se si viene al sodo tutta la storia è diceria. Non facciamoci prendere dal dubbio troppo facilmente, lo dobbiamo alle vittime.
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Dinastia Xin Bilancio delle vittime: 10 milioni Posizione: 14 Tipologia: disputa dinastica Contrapposizione di massima: dinastia Han (legittima) contro Wang Mang (usurpatore) contro Sopracciglia Rosse (ribelli) Periodo: 9-24 d.C. Luogo: Cina Ennesimo esempio di: crollo di una dinastia cinese A chi diamo la colpa di solito: Wang Mang
Le famiglie felici si assomigliano tutte Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, le monarchie tradizionali tendono a essere matriarcali. Fingiamo che voi siate l’imperatore. Poiché l’eredità si trasmette per linea paterna, i parenti di sangue di vostro padre saranno tutti ordinatamente inseriti nella successione, cosa che li renderà rivali. Quindi, non avranno motivo di curarsi dei vostri interessi. Negli intrighi di palazzo, non contate sull’aiuto di vostro fratello minore, perché si troverà subito dopo di voi nella linea di successione. Il fratello di vostro padre sarà il terzo. Se vi accadesse qualcosa di brutto, tutti salirebbero di una posizione. D’altro canto, le donne che si sono imparentate con la famiglia imperiale coprono una posizione ancor più rischiosa. L’unico collegamento dell’imperatrice alla corte potrebbe essere rappresentato dalla sua relazione con voi. Se voi moriste e vostro zio ereditasse il trono, vostra madre e vostra moglie 73
verrebbero messe da parte. Il meglio in cui potrebbero sperare assieme alle proprie famiglie sarebbe l’esilio, il peggio una sanguinosa epurazione. Per tale ragione, le famiglie di vostra moglie o vostra madre costituirebbero degli ovvi alleati che vi guarderebbero le spalle. La storia degli imperi è tappezzata di potenti imperatrici vedove, mogli degli imperatori deceduti, che cercano di restare aggrappate al potere. Un modo per ridurre l’influenza dei vostri parenti acquisiti sarebbe quello di rimanere in famiglia e di sposare le vostre sorelle, all’egiziana, o le vostre cugine, all’europea, ma i cinesi avevano leggi rigorose contro l’incesto, che imponevano all’imperatore di sposare donne non appartenenti alla propria stirpe. (La prossima parte non vi piacerà. Contiene una profusione confusa di antiche date e nomi cinesi, * ma non dovrete tenerli a mente per molto. Li riporto giusto perché vi facciate un’idea della struttura generale degli eventi). Poco tempo dopo la morte del Primo Imperatore (vedi Qin Shi Huangdi), la Cina precipitò in piena guerra civile, da cui emerse una nuova dinastia, gli Han, unica detentrice del potere. La Cina così riunificata andò avanti senza difficoltà per quasi due secoli sotto la dinastia Han. Quando nel 33 a.C. morì l’imperatore Yuan (che si traduce come «primo»), salì al trono suo figlio Cheng («colui che aveva successo»), che governò pacificamente per i ventisei anni successivi. L’imperatore Cheng fece affidamento sulla famiglia di sua madre, i Wang, per costruire la propria corte. Per esempio, il comando dell’esercito andò al fratello dell’imperatrice, Wang Feng, nel 33 a.C., per passare poi nelle mani di Wang Yin (22 a.C.), di Wang Shang (15 a.C.), Wang Gen (12 a.C.) e infine in quelle del nipote dell’imperatrice, Wang Mang, nell’8 d.C. Non c’era nulla di insolito in questo, ma quando nel 7 d.C. l’imperatore Cheng morì senza un figlio vivente, l’influenza dei Wang cessò bruscamente. Successivamente, il trono passò al figlio malaticcio del fratellastro di Cheng, il nipote ventenne, nuovo imperatore Ai 74
(«lacrimevole»). Cheng era figlio dell’imperatrice Wang, moglie di Yuan, ma Ai era suo nipote nato da un’altra donna sua consorte, la principessa Fu, che portò i membri della propria famiglia a ricoprire cariche imperiali sempre più alte. L’imperatore Ai, tuttavia, era omosessuale e morì senza figli nel primo anno dell’era cristiana. Il ventiduenne comandante dell’esercito e probabile amante di Ai, Dong Xian, si rivelò troppo lento nella seguente scalata al potere, tanto da essere rimosso e condotto al suicidio dall’imperatrice vedova Wang, il cui potere era invece in ripresa. I Wang iniziarono a eliminare tutti i Dong assunti da Dong Xian, insieme ai Fu che la principessa vedova era riuscita a introdurre nel governo.1
Il trono passò quindi a un suo cugino di nove anni, l’imperatore Ping (l’«imperatore pacifico»), e l’imperatrice vedova Wang nominò reggente il figlio di suo fratello, Wang Mang. Un paio di paragrafi più su, potete trovare Wang Mang nell’elenco dei comandanti dell’esercito nell’ultimo anno del regno di Cheng. I Wang chiesero la restituzione di tutte le cariche che avevano perso sei anni prima. Il reggente Wang 75
Mang fece sposare sua figlia con l’imperatore bambino per consolidare il potere conquistato. Il figlio di Wang Mang, Wang Yu, temeva che tale conquista potesse ritorcersi contro di lui e che l’imperatore Ping eliminasse i Wang non appena fosse stato abbastanza adulto da tramare e fare progetti in completa autonomia. Per tutelarsi contro quell’eventualità, Wang Yu cospirò con il clan materno dell’imperatore, la famiglia Wei, per togliere a suo padre sia la reggenza sia la vita. Quando Wang Mang lo scoprì, ordinò a suo figlio di suicidarsi e spazzò via tutti i Wei, tranne la madre dell’imperatore. Questi, che ormai aveva tredici anni, nutriva un forte rancore nei confronti di Wang Mang per l’uccisione di tutti i suoi zii e cugini, ma morì prima di poter agire spinto dal risentimento: tutti sospettarono che Wang Mang lo avesse avvelenato. Era il 6 d.C.2 Bene. Ora potete tornare a seguire la storia. Una dinastia nuova di zecca La storia fino a questo momento: la dinastia Han aveva unificato la Cina, rendendola stabile per duecento anni. Ma poi subì un colpo nella successione imperiale. Wang Mang, ex comandante dell’esercito e nipote dell’imperatrice vedova, era il reggente della Cina, ma il giovane imperatore del quale avrebbe dovuto prendersi cura morì in circostanze misteriose. Naturalmente, questo imperatore di tredici anni non lasciò eredi. Infatti non era in vita alcun discendente maschio di nessuno dei quattro imperatori precedenti, fin dall’imperatore Yuan (con cui abbiamo iniziato la storia), cosicché Wang Mang fece un passo indietro di una generazione e andò a cercare all’interno della prole di un imperatore precedente. Scelse con cura il più giovane per farlo diventare il nuovo imperatore, un principe di un anno, Ruzi (che si traduce come «infante»). Ovviamente, Wang Mang sarebbe rimasto in carica come reggente finché il nuovo principe non avesse raggiunto l’età adulta, cosa che non sembrava affatto probabile nelle mani di quelle persone. 76
Nel 9 d.C., Wang Mang si stancò di aspettare che l’imperatore bambino diventasse abbastanza grande perché valesse la pena di ucciderlo, così costrinse Ruzi a un pensionamento anticipato, il che non è un eufemismo, poiché Ruzi visse altri sedici anni tra gli agi. Wang Mang si nominò primo imperatore di una nuova dinastia chiamata, giustamente, dinastia Xin («nuova»). Per quanto feroce possa sembrare tale storia, nel corso dei pochi anni in cui la dinastia Han fu pugnalata alle spalle, in quanti rimasero uccisi? Un centinaio di individui al massimo? Ciò, da sé, non si guadagna certo un posto nella mia classifica. Il problema è che questo distolse la famiglia imperiale dai propri affari e dal compito di dirigere l’impero, insidiando la legittimità della corte. La Cina si era consumata attraversando i regni di tre imperatori bambini in sedici anni e ora si trovava nelle mani di un usurpatore. Wang Mang era un fondamentalista confuciano rigoroso al punto da punire con la morte tre figli e due nipoti per aver infranto una serie di leggi,3 inoltre impiegò una notevole parte del proprio tempo da regnante nel tentativo di ristabilire i rituali e le procedure antichi ormai perduti. Sostenne di avere opportunamente scoperto un manoscritto di Confucio andato perso che corroborava tutte le sue riforme. Da bravo tradizionalista, tornò alle forme di contanti usate quando Confucio era ancora in vita: per la prima volta in centinaia di anni vanghe, coltelli** e conchiglie integrarono il conio. Finì col coniare talmente tante monete differenti che nessuno riusciva ad acquisire la familiarità necessaria per riconoscere i falsi, cosicché la gente non si fidava di nessun tipo di denaro in circolazione. L’economia si paralizzò. Essendo un usurpatore egli stesso, Wang Mang sapeva benissimo che gli imperatori non dovrebbero mai fidarsi dei propri ministri, quindi teneva le briglie dei suoi subalterni ben tirate. Dato che si rifiutava di delegare molte mansioni importanti, ma noiose allo stesso tempo, il lavoro non veniva 77
mai ultimato. Per esempio, Wang tentò di riorganizzare la scala dei salari dell’amministrazione civile, ma si ritrovò così invischiato nei dettagli che i funzionari rimasero senza paga ininterrottamente per anni. Naturalmente, questi optarono per altre fonti di reddito, la maggior parte delle quali illegali. Come molti idealisti della storia, Wang volle ristabilire le buone vecchie pratiche ormai dimenticate del passato, secondo cui (così immaginava) grandi famiglie di cittadini liberi in piccoli terreni agricoli avrebbero costituito la spina dorsale della società. A questo scopo, Wang provò a smembrare le grandi proprietà nobiliari: fissò un massimo nel numero di proprietà che ogni famiglia poteva possedere e poi ridistribuì la terra in eccedenza tra i vicini. Questa decisione non gli procurò molti amici. Il mandato del Cielo Tradizionalmente, la filosofia politica cinese faceva un grande affidamento sul «mandato del Cielo». Secondo tale teoria, il Cielo favorirebbe un imperatore giusto attraverso la pace e la prosperità, ma, se colui che governa non è accompagnato da pace e prosperità, significa chiaramente che il Cielo non lo tiene in buona considerazione. È perfettamente accettabile rovesciare un imperatore sfavorito, anzi è un dovere sacro. Il Cielo mostrò subito il proprio scontento nei confronti di Wang Mang. Il Fiume Giallo (o Huang He) è considerato l’elemento geografico più letale noto agli uomini. Come fulcro del commercio e dell’irrigazione, il fiume tiene viva la Cina, ma fin troppo spesso, soffocato dal limo, si ostruisce con i sedimenti e straripa, scavandosi un nuovo percorso verso il mare attraverso la pianura adiacente e qualsiasi città o villaggio sfortunati che incontra lungo il proprio cammino. Parecchie delle inondazioni del Fiume Giallo si distinguono per essere i soli disastri naturali nella storia ad aver ucciso più di un milione di persone. Includendo anche le vittime della carestia e delle malattie che 78
seguirono, nell’inondazione del 1332-1333 morirono 7 milioni di individui, da 900.000 a 2 milioni nel 1887 e da 1 a 4 milioni nel 1931.4 Con il governo cinese distratto dagli intrighi di palazzo, gli ingegneri civili rimasero indietro nella riparazione degli impianti di irrigazione vitali per la Cina, compresi gli argini che mantenevano il Fiume Giallo all’interno delle proprie sponde. Nel 4 d.C., il Fiume Giallo fuoriuscì dal proprio letto, provocando un’inondazione e una carestia; nell’11 d.C., lo fece di nuovo.5 Se non fosse stato per questi sconvolgimenti, la dinastia Xin di Wang Mang sarebbe potuta sopravvivere. Quando l’ira divina cominciò a mostrarsi, iniziò a circolare la voce di una profezia che vedeva il ritorno al potere della dinastia Han. Presto spuntarono le società segrete. La rivolta delle Sopracciglia Rosse Nel 17 d.C., un nuovo gruppo di ribelli diede inizio a una intensa attività di banditismo nelle province costiere del basso Fiume Giallo, colpite con estrema violenza dalle inondazioni. I ribelli, chiamati Sopracciglia Rosse per le strisce di pittura rossa che si tracciavano sulla fronte, sconfissero tutti gli eserciti che la dinastia Xin inviò loro contro. Alla fine, Wang Mang mandò una forza titanica per schiacciarli, che conseguì alcuni successi e inflisse molte punizioni ai simpatizzanti dei ribelli, finché le Sopracciglia Rosse non sbaragliarono l’esercito Xin a Chengchang nel 23 d.C. Le Sopracciglia Rosse scovarono Liu Penzi, un membro di quattordici anni del clan Liu, la precedente famiglia regnante della dinastia Han, e lo proclamarono imperatore.6 Nel frattempo, nella Cina centrale tra il Fiume Giallo e il Fiume Azzurro, diverse bande più piccole di ribelli subivano il fascino di un altro ramo della famiglia Liu e costituivano una minaccia ancor più grande, denominata esercito di Lulin o del 79
Bosco Verde, dall’aspra montagna di Lulin (che si traduce, appunto, come «bosco verde») che era servita loro come primo rifugio. Il capo era Liu Yan, un discendente di sesta generazione del precedente imperatore Han, che, paradossalmente, si mostrò fin troppo competente e carismatico per mantenere i propri sostenitori. Gli altri capi di Bosco Verde preferivano una debole nullità che avrebbero potuto manipolare, così cospirarono per elevare il terzo cugino di Liu Yan, Liu Xuan, al rango di imperatore al suo posto.7 Wang Mang inviò un altro imponente esercito che pare fosse costituito da quasi 500.000 soldati, ma che probabilmente non lo era davvero, per schiacciare il contingente di Bosco Verde, fatto di soli 10.000 uomini, benché presumibilmente nemmeno tale numero corrisponda a realtà. Nel giugno del 23 d.C., poiché l’esercito di Xin assediava una guarnigione di Bosco Verde nella città di Kunyang, Liu Xiu, il fratello minore del precedente capo Liu Yan, radunò nuovi ribelli nelle campagne e si mosse per portare soccorso. Il comandante di Xin sottovalutò le forze dei ribelli che si avvicinavano e, sprezzante, impiegò solo un gruppo insignificante per spazzarli via. Quando i ribelli di Bosco Verde schiacciarono questa piccola unità, i soldati di Xin si diedero alla fuga, tornando verso l’armata principale, dove diffusero panico e pessimismo. Quindi le forze di Bosco Verde all’interno di Kunyang attaccarono, riversandosi all’esterno delle porte della città, dove altre forze ribelli portarono a termine la vittoria. Un temporale e un’inondazione improvvisi crearono ulteriore confusione, l’esercito di Xin fuggì e venne poi massacrato durante la ritirata.8 Avendo perso due eserciti importanti in un solo anno, Wang Mang era ormai condannato. Nella corsa per raggiungere la capitale Chang’an (l’attuale Xian), l’esercito di Bosco Verde arrivò prima di quello delle Sopracciglia Rosse, così capo della restaurata dinastia Han divenne il suo candidato, Liu Xuan. Chang’an cadde dopo una tenace difesa quartiere per quartiere. Mentre il palazzo era in fiamme, Wang Mang fu decapitato e 80
fatto a pezzi in modo che nessuno dimenticasse mai l’accaduto.9 I nuovi Han Prima che Liu Xuan avesse la possibilità di insediarsi e godersi il ruolo di imperatore, le cospirazioni iniziarono a circondarlo. Un paio di nobili di rango secondario erano andati in cerca del precedente imperatore infante, Ruzi, costretto al pensionamento anticipato, ma il loro tentativo di impadronirsi del potere fallì e furono tutti giustiziati. Per stare tranquillo, Xuan trovò presto una scusa per uccidere anche il suo ex rivale, Liu Yan. In seguito, diversi generali complottarono per rapire Xuan. Anche loro vennero scoperti e in larga parte giustiziati, ma uno dei superstiti riuscì a inseguire Xuan fuori da Chang’an. Questi radunò i generali rimasti leali e riprese la città. Xuan era appena risalito al trono, quando le Sopracciglia Rosse arrivarono e presero Chang’an, dove insediarono il proprio imperatore, Liu Penzi. Le Sopracciglia Rosse catturarono l’imperatore Liu Xuan, limitandosi però a retrocederlo a un grado di nobiltà inferiore: infine lo spedirono ad allevare cavalli per non fomentare rancori. Ben presto, tuttavia, il popolo cominciò a ricordare con malinconia i giorni del regno di Xuan e, di conseguenza, egli fu trascinato in un torrione e strangolato.10 Il fratello di Liu Yan, Liu Xiu, era impegnato in combattimento alla frontiera. Uomo leggendariamente prudente, Liu Xiu si era tenuto in disparte fin dall’esecuzione di Liu Yan, avvenuta sulla base di accuse inventate un paio di anni prima, ma con Xuan fuori gioco, egli si proclamò imperatore (25 d.C.) e mosse il proprio esercito contro le Sopracciglia Rosse. Fu una campagna dura, ma Liu Xiu vinse e conquistò Chang’an nel 27 d.C. Inseguì le Sopracciglia Rosse che battevano in ritirata e, alla fine, le intrappolò con un contingente numericamente superiore. Stufo di tutti quei morti, Liu Xiu ritirò l’attacco e offrì condizioni di resa generose: un’amnistia generale, una condizione dignitosa 81
per l’ex imperatore Penzi e nessuna esecuzione di massa. Le Sopracciglia Rosse accettarono. La restaurata dinastia Han di Liu Xiu sarebbe sopravvissuta per altri due secoli. Egli passò alla storia come imperatore «completamente marziale», in cinese imperatore Guangwu. Il tracollo della popolazione Malgrado alcune interruzioni temporanee, la Cina sopravvisse come entità politica più a lungo di qualunque altra nazione della terra e i funzionari dell’impero cinese tennero resoconti dettagliati per secoli. Molti sono andati persi tra le fiamme, nelle inondazioni, nelle guerre e mangiati dai topi, ma se ne sono salvati frammenti, copie e riassunti. Fra questi, si trovano gli sporadici schedari censuali che ripercorrono molte dinastie passate. Sorprendentemente, le sintesi del censimento cinese del 2 d.C. sono in gran parte intatte e in grado di fornirci i più antichi dati affidabili sulla popolazione rispetto a qualsiasi altra società della storia. I documenti contengono alcune palesi discrepanze, ma la maggior parte degli studiosi accetta il dato che attesta la popolazione della Cina nel 2 d.C. intorno ai 57.671.400 individui. Da quel momento in poi, gli schedari censuali mostrano che la Cina versò in serie difficoltà. La popolazione registrata era precipitata a 21 milioni nel 57 d.C., per poi risalire a 34 milioni nel 75 d.C., fino a un picco di 43 milioni nell’88 d.C. So che il lettore non si aspetta così tanti numeri in un’unica frase, ma il risultato è che la Cina sembra aver perso qualcosa come 37 milioni di persone in mezzo secolo di guerra, di inondazioni e di carestie; per di più verso la fine del secolo nel conteggio ne mancavano ancora 13 milioni. Per quanto negativo possa sembrare, è probabile che molti individui dei 37 milioni mancanti fossero ancora vivi, ma si nascondessero agli esattori delle tasse. Piuttosto che un preciso numero di vittime, il censimento ridotto del 57 d.C. verosimilmente indica 82
l’incapacità del governo di rintracciare ogni individuo in Cina dopo un periodo di agitazione diffusa. Nondimeno, la maggior parte degli studiosi ritiene che una perdita di diversi milioni di individui si sia effettivamente verificata. A seconda della fonte che si consulta, il declino reale della popolazione cinese durante il I secolo potrebbe andare dagli 8 ai 43 milioni di persone. Setacciando il materiale, ho potuto reperire stime differenti: come compromesso ragionevole ho scelto quindi la stima medio-bassa di 10 milioni.11
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Guerre giudaiche Bilancio delle vittime: 350.000 Posizione: 94 Tipologia: insurrezione religiosa, rivolta coloniale Contrapposizione di massima: ebrei contro romani Periodo: 66-74 e 132-135 d.C. Luogo: Palestina A chi diamo la colpa di solito: i romani Ennesimo esempio di: ribellione contro Roma
Prima rivolta giudaica (66-74 d.C.) A seguito delle conquiste di Alessandro Magno, i greci si erano stabiliti in Medio Oriente, dove in genere costituivano un’aristocrazia poco amata dalla popolazione locale. A Cesarea, capitale della Palestina romana, greci ed ebrei si scambiavano continuamente offese, ma talvolta le provocazioni sfociavano in veri e propri tumulti. Dopo una serie di disordini il governatore romano chiese alla comunità ebraica il pagamento di tutti i danni; gli ebrei però rifiutarono, obiettando che la colpa andava addossata innanzitutto ai greci, perché avevano sacrificato degli uccelli sui gradini di una sinagoga. Nessun problema: il governatore non fece altro che prendere il denaro dal tesoro del Tempio di Gerusalemme. Alla notizia di questo sacrilegio gli ebrei di tutto il paese insorsero furiosi: i nazionalisti radicali – gli zeloti – cacciarono agevolmente in Siria la piccola guarnigione romana. Nell’impeto della vittoria, parve che Dio avesse riportato la nazione ebraica al suo primitivo splendore, ma poi l’imperatore 84
Nerone inviò un intero esercito al comando di Vespasiano per sedare l’insurrezione. Le legioni romane eliminarono sistematicamente i ribelli dalla Galilea mediante assedi, massacri e manovre politiche, e alla fine si avvicinarono a Gerusalemme. La guerra si interruppe nel 68, quando i generali romani, stufi delle stravaganze di Nerone, lo spodestarono e, uno dopo l’altro, fecero marciare le proprie legioni su Roma per rivendicare il trono. Dei quattro imperatori proclamati durante quell’anno e mezzo di caos, fu Vespasiano l’ultimo e il più durevole. Questi assegnò la gestione della rivolta ebraica a suo figlio Tito, il quale accerchiò Gerusalemme. In Palestina, dove gli alberi erano scarsi e irregolari, costruire le macchine d’assedio era difficile, e solo la tenacia dei romani poté riuscire a isolare Gerusalemme per due anni e a condurne i difensori sull’orlo della morte per fame. Ogni giorno i romani catturavano gruppi di zeloti alla disperata ricerca di cibo e li inchiodavano sotto gli occhi di tutti. Allorché nel 70 d.C. Gerusalemme cadde definitivamente, i romani massacrarono la popolazione e ridussero in macerie il Tempio. Il candelabro d’oro a sette braccia che ornava il Tempio, alto un metro e mezzo, fu portato a Roma e fatto sfilare trionfalmente davanti al popolo. Venne demolita buona parte delle mura della città, tuttavia Tito ordinò che fosse preservato un breve e imponente tratto del muro del complesso del Tempio, quale monito e lezione per i futuri ribelli: anche le mura più solide non potevano resistere all’esercito romano. Questo frammento di muro (oggi noto come Muro Occidentale o Muro del Pianto) rappresenta il luogo più sacro dell’ebraismo, il che dimostra che la vera lezione per le future rivolte è: a) la fede può resistere davvero all’esercito romano, oppure b) se si comincia a demolire un luogo sacro, è meglio finire il lavoro.* Gli ultimi 960 zeloti si ritirarono nella fortezza montana di Masada, dove guardarono impotenti i romani costruire metodicamente lungo la montagna un’enorme rampa per 85
mettere in azione le macchine d’assedio. Sapendo di essere condannati, gli zeloti ormai in trappola tirarono a sorte: chi vinceva uccideva chi perdeva, quindi si tirava di nuovo a sorte. E così di seguito, finché non rimase un solo difensore, che commise l’imperdonabile peccato del suicidio. Rivolta di Bar Kokhba (132-135 d.C.) La distruzione causata dalla prima rivolta riguardò soprattutto Gerusalemme e lasciò intatta buona parte della Palestina. Tornarono gradualmente la pace e la prosperità,1 poi i romani cercarono di assimilare la provincia al più vasto crogiolo culturale mediterraneo. Attorno al 132 l’imperatore Adriano proibì in tutto l’impero le mutilazioni genitali: un’ottima idea, se non fosse che l’ebraismo prevede la circoncisione. Così Adriano emendò rapidamente l’ordine per fare un’eccezione per gli ebrei; purtroppo, però, scelse quel momento anche per dare inizio alla ricostruzione di Gerusalemme come moderna città romana, con un tempio di Giove dov’era stato quello di Yahweh. Gli ebrei non potevano accettare un gesto simile, così si scatenò una rivolta alla cui guida si mise Simon ben Kosiba, che acquisì il il nome messianico di Bar Kokhba, cioè «figlio della stella».2 I ribelli erano più forti in campagna, ove costruirono roccaforti collegate tra loro da gallerie segrete. Per sedare la ribellione i romani mandarono tre legioni: fu una campagna dura, a seguito della quale una delle legioni scomparve per sempre dai libri di storia, probabilmente annientata dai ribelli. Si dice che quella guerra abbia distrutto 50 roccaforti e 985 villaggi; fu distruttiva al punto che ancora oggi non ne abbiamo ricostruito l’intera vicenda né disponiamo di resti sufficienti, tranne qualche grotta nelle scogliere nei pressi del mar Morto. Queste grotte ospitarono gli ultimi ribelli e gli archeologi le hanno denominate in base al loro peculiare contenuto: tra le altre ci sono la grotta dei Rotoli, la grotta delle Frecce, la grotta 86
delle Lettere (tra cui alcune scritte da Bar Kokhba) e quella degli Orrori (quaranta scheletri, intere famiglie morte d’inedia). Terminato il conflitto, gli ebrei della Palestina furono in larga misura uccisi, esiliati o resi schiavi, e stavolta i romani si assicurarono che non ci fosse un seguito. Così spopolarono molta parte del territorio e lo ripopolarono con etnie più collaborative, mentre per gli ebrei esiliati dalla Palestina cominciò la Diaspora, la dispersione nel mondo. Bilancio delle vittime Gli storici antichi affermano che in queste e altre rivolte restarono uccisi due milioni di ebrei. Lo storico coevo Flavio Giuseppe scrive che nel corso dell’assedio di Gerusalemme, nella prima rivolta, trovarono la morte 1.197.000 persone, ma Tacito ne calcola la metà: 600.000.3 A sua volta Cassio Dione4 riferisce che durante la seconda rivolta morirono in battaglia 580.000 ebrei. Gli storici antichi danno anche il bilancio delle vittime di altre rivolte delle minoranze ebraiche di Cirene e Cipro: 220.000 e 240.000.5 Si tratta di cifre incredibili e che di solito vengono prese ad esempio per giustificare la sfiducia nei confronti delle cifre fornite dagli storici antichi. In termini realistici, in ognuna delle rivolte morì verosimilmente da un quinto a metà degli abitanti della Palestina, tuttavia la risposta non è ancora completa, perché nessuno sa quante persone ci vivessero. Le stime della popolazione della Palestina prima della rivolta variano da 0,5 a 6 milioni: gli storici religiosi tendono a prediligere le cifre alte, basate su fonti scritte come le opere di Flavio Giuseppe, mentre gli archeologi preferiscono i numeri minori, fondati invece sullo sfruttamento della terra e sulla densità della popolazione.6 In ogni caso, un computo ragionevole dovrebbe essere 350.000 morti in totale, che sarebbe poi circa un terzo se la popolazione originaria fosse stata di un milione, metà se fosse stata di 700.000 abitanti o un quarto se fosse stata di 1.400.000. 87
Indipendentemente dalle opinioni dei singoli, è improbabile che l’antica popolazione dell’area si avvicinasse ai due milioni, cioè al numero di abitanti del 1948, all’epoca dell’indipendenza.
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Tre Regni della Cina Bilancio delle vittime: 34 milioni di scomparsi Posizione: 25 Tipologia: stato fallito Contrapposizione di massima e principali stati partecipanti: Wu contro Wei contro Shu Periodo: 189-280 d.C. Luogo: Cina Altri stati partecipanti: Han (prima), Jin (poi) A chi diamo la colpa di solito: gli eunuchi, Cao Cao Ennesimo esempio di: crollo di una dinastia cinese L’impero, dopo un lungo periodo di divisione, sarà unito; dopo un lungo periodo di unione, sarà diviso: così è sempre stato. Incipit del Romanzo dei tre regni La storia in cento parole Con la crescita della corruzione in seno alla dinastia Han, le rivolte contadine scatenarono il caos e i signori della guerra si spartirono l’impero. Da un tale tumulto emersero gradualmente tre regni: il regno di Wei, governato dall’infido Cao Cao (pronuncia Zao Zao); il regno di Wu, governato dall’ambizioso Sun Quan (pronuncia Sun Ciuan); il regno di Shu, governato dal virtuoso Liu Bei. Nel corso del secolo successivo, i tre regni si diedero battaglia mutando le reciproche alleanze a seconda delle necessità. Nacquero e caddero eroi. Alla fine, la Cina fu riunificata. 89
Il romanzo dei tre regni L’epoca dei Tre Regni occupa un posto speciale nella cultura cinese, come una sorta di guerra di Troia, di Wild West e di Camelot fusi tutti insieme. Si tratta di un’era vantaggiosamente misteriosa in cui si potrebbe ambientare ogni saga senza bisogno di grandi retroscena. Era un’epoca violenta e caotica in cui gli uomini costruivano il proprio destino, in cui la forza morale di un individuo veniva messa a durissima prova dalla guerra, in cui l’avventura era sempre lì a due passi, proprio in fondo alla strada o dietro la collina. Alla fine, nel XIV secolo, durante la dinastia Ming, Luo Guanzhong raccolse tutte le storie accumulate, riversandole nel Romanzo dei tre regni, una delle tre*narrazioni più importanti della letteratura cinese. Nella cultura cinese, nomi appartenenti all’epoca dei Tre Regni probabilmente richiameranno ricordi relativi ai personaggi del romanzo piuttosto che agli individui storici realmente vissuti. Cao Cao è un’astuta canaglia; i fratelli Zhang, che fondarono i Turbanti Gialli, sono maghi e truffatori; Sun Shangxiang, la sorella di Sun Quan, è l’archetipo della principessa-maschiaccio, sorprendentemente esperta nelle arti marziali; Guan Yu, compagno e fratello di sangue di Liu Bei, dopo la sua morte viene promosso a dio della guerra cinese, così ora sapete che nel Romanzo dà mostra di impressionanti doti marziali.1 Come nella maggior parte dei romanzi storici, i personaggi del Romanzo dei tre regni interagiscono molto più direttamente di quanto non avessero fatto, probabilmente, nella realtà, con le loro intense amicizie personali, gli amori e le vendette, tutti funzionali allo sviluppo della storia. Potrebbero essere divisi in buoni e cattivi molto più nettamente di quanto in genere si riesca a fare con le persone vere. La storia è coerentemente popolare: La battaglia dei tre regni, un film del 2007 diretto da John Woo e basato sugli eventi dei Tre Regni, è l’opera 90
cinematografica che ha realizzato i maggiori incassi nella storia cinese.2 Ora facciamo un passo indietro per capire come si aprì e si sviluppò quest’epoca di caos. Il principio: la rivolta dei Turbanti Gialli (184-188 d.C.) La dinastia degli Han Anteriori era caduta nelle mani di Wang Mang (vedi Dinastia Xin) perché i parenti imperiali acquisiti detenevano un potere eccessivo, cosicché, quando Liu Xiu (l’imperatore Guangwu) portò al trono una seconda dinastia Han, tentò di agire in maniera diversa. Questa volta l’imperatore si circondò di eunuchi, che erano tagliati fuori (letteralmente) da ogni legame familiare e che, presumibilmente, sarebbero rimasti fedeli soltanto all’imperatore stesso. Purtroppo, nella pratica, gli eunuchi si rivelarono ancor più egoisti dei parenti imperiali, poiché potevano godere del loro potere solo nell’immediato, non avendo discendenti a cui trasmetterlo. Durante il regno dell’imperatore Ling (156-189 d.C.) una cricca di eunuchi di palazzo, i Dieci Custodi Regolari, controllava il governo e depredava l’impero a proprio vantaggio. In quel periodo la Cina era alle prese con un’epidemia micidiale che perdurò finché un gruppo di guaritori taoisti erranti, Zhang Jiao e i suoi fratelli, non mise a punto una cura. Tenendo conto del livello della scienza medica dell’epoca, se il loro rimedio funzionò realmente, evidentemente si doveva trattare di un morbo immaginario o di un’infezione che si sarebbe risolta comunque da sé, in modo naturale. Forse la loro cura era un placebo o una semplice diceria. Esiste anche un’esile probabilità che fosse l’espressione di una sorta di saggezza popolare esoterica andata perduta. In ogni caso i fratelli, attraversando l’impero per occuparsi dei malati, conquistarono man mano un ampio seguito di persone riconoscenti. Ascoltavano lamenti di sofferenza e di ingiustizia, offrendo speranza. Così divennero i capi di una grande società 91
segreta che accoglieva la gente scontenta. Parole d’ordine e rituali li legavano gli uni agli altri, mentre ogni membro reclutava nuovi adepti tra amici fidati e vicini. Alla fine i fratelli di Zhang insorsero contro il potere tirannico degli eunuchi di palazzo. Come riconoscimento in battaglia, i ribelli indossavano fazzoletti gialli a mo’ di copricapo (tradizionalmente ma erroneamente tradotti con l’espressione «turbanti gialli»). Ebbero un successo straordinario nella prima fase della rivolta, sconfiggendo almeno le maggiori tra tutte le armate che vennero scagliate contro di loro. Come conseguenza di un tale trionfo, scoppiarono altre sommosse. Nel 184 d.C. la rivolta delle Cinque Staia di Riso (così chiamata a causa del tributo di iniziazione richiesto per l’ingresso nella società segreta) fondò un regno teocratico nel Sichuan. Anche se questo regno fu distrutto piuttosto rapidamente, il movimento alla fine si trasformò nella Via del Maestro Celeste, un culto taoista che, nel corso della storia cinese, non godette sempre del medesimo rispetto. Tuttavia, nell’arco di un anno, fu soffocata la principale rivolta dei Turbanti Gialli e mezzo milione di cinesi trovarono la morte, compresi i fratelli Zhang.3 Alcuni gruppi indipendenti ancora resistevano alla repressione e, ogni volta in cui pareva che l’ultimo fosse stato finalmente schiacciato, scoppiava una nuova insurrezione altrove. La lotta si concluse quando gli ultimi 300.000 ribelli armati (assieme ai civili, a quanto si dice, per un totale di un milione di persone) si arresero al generale Han Cao Cao, che li mantenne sotto le armi come unità speciale al proprio diretto comando. La fine del mondo Nel 189 d.C. l’imperatore Ling morì senza eredi diretti, ma la vedova, l’imperatrice reggente, e suo fratello He Jin, comandante dell’esercito, nominarono imperatore Shao, uno dei 92
parenti di Ling. I Dieci Custodi Regolari si opposero al nuovo imperatore, cosicché Shao radunò He Jin e l’esercito presso la capitale Luoyang, nella pianura del Fiume Giallo, per ridurli all’obbedienza con l’intimidazione. Non appena l’esercito si fu accampato alle porte di Luoyang, i Dieci Custodi Regolari inventarono una falsa disposizione imperiale che ordinava al generale He Jin di andare a incontrare sua sorella nel palazzo. Così, allontanatolo dal suo esercito, gli eunuchi gli tesero un’imboscata, lo uccisero e ne esposero la testa alle mura di cinta per terrorizzare l’esercito, gesto che però non fece altro che far infuriare i soldati. L’armata prese d’assalto la città e massacrò tutti gli eunuchi, spogliando dei pantaloni ogni uomo che implorava di essere risparmiato per verificare se possedesse ancora gli organi genitali.4 Con i soldati senza guida e i burocrati senza pantaloni che correvano freneticamente per la capitale, il tumulto si diffuse in tutta la Cina. Il generale Dong Zhuo spostò il proprio esercito dalla frontiera settentrionale e marciò su Luoyang, sconfiggendo chiunque gli sbarrasse la strada. Rimpiazzò l’imperatore Shao con il fratello minore, che governò come imperatore Xian. Molte altre armate confluirono sulla capitale per allontanare Dong Zhuo, il quale rase al suolo Luoyang e si ritirò nella capitale secondaria, Chang’an. Nel giro di un anno Dong Zhou venne assassinato da un subalterno ambizioso, che tenne l’imperatore Xian come ostaggio e pegno nella guerra civile che stava dilagando in tutta la Cina. Ormai tutti i grandi eserciti radunati per combattere i Turbanti Gialli lottavano l’uno contro l’altro. Inizialmente, per conquistare il controllo della Cina si affrontarono due tipologie di contendenti. La nobiltà terriera formò eserciti contadini per sedare le ribellioni locali e respingere altri aristocratici ambiziosi. Ben presto, tuttavia, questi eserciti di dilettanti si scontrarono con gli eserciti professionali guidati dagli ufficiali di carriera, da poco dislocati lungo la frontiera. La maggior parte di questi conflitti si concluse a favore dei professionisti e, 93
in breve, la guerra civile fu completamente nelle mani di eserciti privi di radici nel territorio anziché in quelle della nobiltà. Esistono cinque modi di agire possibili per un esercito. Se potete combattere, combattete; se non potete combattere, difendete; se non potete difendere, fuggite; se non potete fuggire, arrendetevi; se non potete arrendervi, morite. Queste sono le cinque linee di condotta a vostra disposizione, ogni ostaggio sarebbe inutile. Ora tornate indietro e andate a riferirlo al vostro padrone. Sima Yi all’emissario di Gongsun Yuan, Romanzo dei tre regni Le Scogliere Rosse Trascorsi alcuni anni, l’imperatore Xian sfuggì ai propri rapitori e trovò rifugio presso Cao Cao, circostanza che conferì legittimità alla sua banda di soldati. Nel 207 d.C. Cao Cao aveva già battuto una serie di rivali, unificando la pianura del Fiume Giallo sotto il proprio imperatore fantoccio. In passato, questa operazione avrebbe coinciso con la riunificazione di tutta la Cina, ma negli ultimi secoli il popolo cinese aveva iniziato a espandersi verso sud e questi nuovi territori di frontiera restavano al di fuori del controllo di Cao Cao. Quindi gli stati meridionali congiunsero i loro eserciti per respingere ogni eventuale espansione del generale a sud. Nel 208 d.C., quando mise in atto l’invasione, Cao Cao incappò negli eserciti alleati del sud presso le Scogliere Rosse, una gola accidentata del Fiume Azzurro. Per un paio di giorni le due forze si scrutarono da una sponda all’altra del fiume. Infine Cao Cao caricò il proprio esercito sulle navi e tentò un assalto anfibio alla riva opposta, ma a metà strada il vento cambiò e spinse le imbarcazioni nuovamente verso il suo lato del fiume. Quindi il nemico gli scagliò contro delle navi incendiate col vento in poppa, le quali andarono a urtare contro le 94
imbarcazioni di Cao Cao, spargendo fiamme e caos tra gli invasori. Con la flotta distrutta, Cao Cao abbandonò il Fiume Azzurro e si ritirò a nord. A quel punto, la spaccatura della Cina si concretizzò nella formazione dei Tre Regni: 1. Il regno di Wei, nella pianura del Fiume Giallo, governato da Cao Cao, che aveva ereditato la maggior parte dell’apparato imperiale degli Han. 2. Il regno di Wu, governato da Sun Quan, che occupava il grosso della Cina meridionale, dalla valle del Fiume Azzurro verso l’Indocina. 3. Il regno di Shu, governato da Liu Bei, inserito all’interno del vasto bacino del Sichuan, intorno all’alto corso del Fiume Azzurro. Ciascuno di questi regni si dichiarava leale all’imperatore e alla legittima discendenza della dinastia Han, a differenza degli altri due territori retti da ribelli usurpatori. Liu Bei di Shu era l’unico tra i signori della guerra ad appartenere realmente alla famiglia imperiale, sebbene fosse niente più di un lontano parente. Il rimpasto Quando morì nel 220, tecnicamente Cao Cao era ancora un suddito dell’imperatore Han; tuttavia suo figlio Cao Pi (pronuncia Zao Pi) destituì l’imperatore Xian a proprio favore. Questo atto sancì la rottura del regno di Wei rispetto al passato. Inoltre, indusse Liu Bei a dichiarare Shu uno stato sovrano. Per non rimanere tagliato fuori, Sun Quan proclamò Wu regno indipendente. A tempo debito, tali regni passarono ai loro discendenti. La personalità dominante di questa fase storica fu il generale Zhuge Liang di Shu, uno degli artefici della vittoria presso le Scogliere Rosse. La cultura popolare gli attribuisce il potere di aver evocato il vento che alimentò l’incendio che distrusse la 95
flotta di Cao Cao. I cinesi ricordano Zhuge come un maestro di tattica e come inventore leggendario di molti strumenti ingegnosi, quali la balestra a ripetizione, l’aquilone a scatola, la lanterna volante, lo gnocco cinese e un altro paio di cose denominate bue di legno e cavallo scivolante, tradizionalmente raffigurate come macchine mobili spinte dalla gravità, anche se al giorno d’oggi si suppone fossero due tipi di carriole.5 Anacronisticamente, lo si ritiene il primo generale ad aver usato la polvere da sparo, che avrebbe imparato a utilizzare da un saggio taoista errante, benché la polvere da sparo sia comparsa almeno un millennio dopo. Sostanzialmente, a Zhuge Liang si attribuì ogni novità emersa in Cina durante la Tarda Antichità. Nel corso del decennio successivo, anno dopo anno il generale Zhuge mosse nuove aggressioni verso nord contro il regno di Wei. Attaccò cinque volte e per cinque volte fu sconfitto. Perché allora ci interessa il completo fallimento di ogni sua impresa? Poiché respingere Zhuge Liang fece emergere il generale Sima Yi di Wei quale salvatore del regno. Ora che il regno di Wei doveva la propria sopravvivenza a un eroe di guerra della famiglia Sima, sorgeva la stella dei Sima, mentre tramontava quella degli Cao. Il trono passava da un discendente di Cao a un altro e intanto gli imperatori diventavano sempre meno straordinari: ricoprivano periodi di regno sempre più brevi, mentre l’impero dipendeva sempre più dal brizzolato generale Sima Yi. Alla fine, nel 251 a.C., durante il regno del quinto Cao, Sima Yi si proclamò imperatore della nuova dinastia Jin e giustiziò tutti gli Cao che riuscì a scovare accusandoli di tradimento. Sima Yi morì nel giro di un anno, ma la sua eredità sopravvisse con suo nipote. Nel corso dei quindici anni successivi, la dinastia Jin dei Sima conquistò la Cina del sud, portando a conclusione l’epoca dei Tre Regni. L’impero, dopo un lungo periodo di divisione, sarà unito; dopo un lungo periodo di unione, sarà diviso: così è sempre stato. 96
Finale del Romanzo dei tre regni Attenzione: la matematica prima di tutto Durante il secolo di pace e prosperità degli Han Posteriori, la popolazione cinese crebbe in modo magnifico, ma ebbe un tracollo quando la pace si sgretolò. Il censimento Han del 140 d.C. conta 9,7 milioni di famiglie e quasi 50 milioni di individui che vivevano nell’impero. Quando nel 280 d.C. la dinastia Jin censì gli abitanti dell’impero riunificato, dopo un secolo di guerra civile, contò soltanto 2,5 milioni di famiglie e 16 milioni di individui.6 Probabilmente i 34 milioni di persone mancanti non erano tutte morte, ma come possiamo trasformare questa singola, rigida statistica in un credibile bilancio delle vittime? Di solito, se per un numero di vittime dispongo di molte stime diverse, preferisco fare la media, ma in questo caso esiste un solo numero: prendere o lasciare. D’altra parte, ho trovato una scorciatoia approssimativa che, a volte, produce una via di mezzo ragionevole rispetto a stime enormemente differenti: la media geometrica dei limiti di plausibilità superiori e inferiori spesso si avvicina alla media di molte altre stime comuni.7 In questo caso, il numero di vittime massimo plausibile è ovvio: magari tutti quei 34 milioni di individui mancanti in realtà morirono nel crollo della civiltà Han. Ora, qual è il numero minimo assoluto di persone che sarebbero potute morire? Perché un calo di popolazione sia tanto notevole, devono essere morti almeno 0,5 milioni di individui, ossia l’1% della popolazione della Cina e soltanto 6.500 circa all’anno. La media geometrica di questi due numeri si aggira intorno ai 4,1 milioni, che corrisponde al numero di vittime che ho usato per classificare questo evento.
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Caduta dell’impero romano d’Occidente Bilancio delle vittime: 7 milioni1 Posizione: 19 Tipologia: stato fallito Contrapposizione di massima: Roma contro barbari Periodo: 395-455 d.C. Luogo: Europa occidentale Principali stati partecipanti: impero romano d’Oriente, impero romano d’Occidente Principali entità non statali partecipanti: alani, angli, burgundi, franchi, eruli, unni, ostrogoti, sassoni, vandali, visigoti A chi diamo la colpa di solito: i romani decadenti, i germani, Attila Il declino e la caduta dell’impero romano costituiscono l’archetipo di ogni rovina della storia umana, il gigantesco specchio metaforico che alziamo di fronte a ogni epoca in cui viviamo. Se riusciamo a trovare un parallelismo, sia pure superficiale, tra Roma e il mondo di oggi, allora possiamo prevedere la via pericolosa che stiamo percorrendo, e pontificarci anche sopra. Se, per esempio, rileviamo le analogie tra la guerra in Iraq e il conflitto ispano-marocchino, soltanto qualche appassionato di storia annuirà per l’allusione e volterà pagina, ma se individuiamo delle analogie tra la guerra in Iraq e la caduta di Roma, sarà facile diffondere il panico e l’allarme in tutta la popolazione, e così ci guadagneremo un bello stipendio da sapientone.
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Breve, brevissima storia dell’impero romano prima della caduta La repubblica romana divenne impero nel 14 a.C., con l’ascesa al trono da parte di Augusto. Nei secoli che seguirono l’apparato imperiale tirò avanti alla meglio, e nonostante ciò riuscì a sopravvivere a ogni minaccia. Gli imperatori coprirono l’intera gamma che va dal pazzo criminale al monarca onesto e ragionevole, secondo uno schema quasi prevedibile. Alcuni decenni di imperatori rispettabili si interrompevano allorché la successione ricadeva su un pericoloso psicotico, il quale veniva assassinato dopo un breve regno di terrore, cui seguiva una rapida e aspra guerra civile che selezionava tutti i pretendenti. Quindi a ripristinare la tranquillità arrivava una nuova serie di imperatori ragionevolmente capaci. Certo, è più disordinato degli attacchi politici televisivi o dei pittoreschi scandali sessuali che determinano chi amministra la tipica democrazia moderna, ma funzionò abbastanza bene per intere generazioni. Dopo parecchi secoli di questo andazzo l’impero romano era molto diverso dalla Roma dell’immaginario popolare, nella quale Giulio Cesare guida una biga contro Ponzio Pilato e Caligola muore d’asfissia a Pompei, mentre Spartaco seduce Cleopatra.* Il nuovo impero era cristiano e non aveva più molto a che vedere con la città di Roma; invece che da quest’ultima, gli imperatori provenivano dalle popolazioni romanizzate delle province. In effetti la componente etnica dell’impero si stava mescolando e omogeneizzando: in molta parte dell’Europa occidentale il latino aveva soppiantato le lingue indigene e ogni uomo libero dell’impero era giuridicamente un cittadino, soggetto a un insieme uniforme di leggi. Anziché la toga questi nuovi romani indossavano persino i pantaloni; insomma, stavano diventando medievali. Per comodità amministrativa l’impero fu diviso in due metà autonome: l’impero romano d’Occidente con capitale Milano e l’impero romano d’Oriente con capitale Costantinopoli. Il 99
sistema in vigore all’epoca della caduta aveva senso sulla carta, tuttavia non funzionò mai. L’imperatore di ciascuna metà (che aveva il titolo di «cesare») si sceglieva e istruiva il proprio successore preferito (che aveva il titolo di «augusto»), così la successione sarebbe dovuta passare tranquillamente dall’uno all’altro senza interruzione. Nella pratica, però, la morte di un imperatore creava spesso un vuoto di potere, una guerra civile e un usurpatore, così che alla fine il trono finiva nelle mani del più temerario. Siccome al momento in cui si liberava il trono era lui quello che comandava gli eserciti, spesso il cesare dell’altra metà dava alla scelta un’approvazione pratica. Invece di separarle, questo teneva unite le due metà: era comune che dei parenti stretti governassero nello stesso momento, come i fratelli Valente e Valentiniano, che divennero cesari rispettivamente d’Oriente e d’Occidente nel 364. Arrivano i goti Quando alla fine del 300 all’orizzonte nordorientale del mondo civilizzato apparve una nuova stirpe di barbari, gli unni, tutte le tribù germaniche che si trovavano sul loro cammino fuggirono o si arresero. I visigoti oltrepassarono il Danubio, confine settentrionale dell’impero romano, e implorarono l’imperatore d’Oriente Valente di salvarli: questi permise loro di stabilirsi lungo la riva meridionale in qualità di federati, sorta di vassalli subordinati che vivevano all’interno di un’enclave autonoma. I visigoti posero l’accento sull’autonomia, laddove i funzionari romani del luogo preferivano sottolineare la subordinazione. Ben presto i disaccordi sfociarono in un’aperta rivolta. Nel 378 Valente mosse l’esercito romano contro i visigoti, che si stavano avvicinando alla città romana di Adrianopoli, di cui progettavano il saccheggio. Valente arrivò con 30.000 uomini, si accampò per la notte, quindi avanzò contro la fanteria gotica, che si era disposta all’interno di un cerchio di carri. L’imperatore attaccò secondo il tipico ordine delle legioni, 100
tuttavia le linee nemiche tennero duro fino all’arrivo della cavalleria gotica, che accerchiò i romani, li mise alle strette, li schiacciò e li annientò: fu la peggiore sconfitta romana della memoria recente. Non si riuscì nemmeno a ritrovare il corpo dell’imperatore, ammucchiato tra gli altri, cadavere anonimo tra altre decine di migliaia. Torna la pace a Costantinopoli Malgrado si sia soliti individuare nella battaglia di Adrianopoli l’inizio della fine di Roma, per un’altra generazione non accadde nulla. L’imperatore d’Occidente (Graziano, figlio di Valentiniano) concesse l’impero d’Oriente e la propria sorella a uno dei pochi alti generali di buona famiglia romana, Teodosio, il quale governò per vent’anni con abilità. Teodosio era un mezzo criminale: una volta arrivò a trucidare settemila abitanti di Tessalonica perché la folla aveva linciato uno dei suoi generali, colpevole di aver arrestato un popolare auriga. Vale tuttavia la pena notare che in quel momento l’impero non era irrevocabilmente diretto verso la rovina. I romani erano ancora in grado di tirar fuori un imperatore forte che sarebbe stato ricordato per ciò che fece e non per ciò che gli fu fatto. Teodosio arginò i visigoti e li rispedì all’interno della loro piccola enclave. La battaglia di Adrianopoli aveva mostrato la superiorità tattica del metodo di combattimento dei goti (una cavalleria pesante dotata di lance) rispetto alla tradizionale legione romana, perciò Teodosio cominciò a reclutare in massa i barbari all’interno dell’esercito romano. Più che per gli eventi politici, il suo regno va considerato per quelli religiosi. Risolutamente cristiano, Teodosio mise al bando il paganesimo e trasferì il titolo di sommo pontefice (alto sacerdote) dall’imperatore al vescovo di Roma. Mise fine ai riti pagani come i giochi olimpici e consentì alle folle di cristiani di distruggere i templi antichi come il Serapeo, che faceva parte 101
del complesso della biblioteca di Alessandria. Dopo mille anni di cure attente, a Roma si spense il fuoco sacro delle vestali. I pagani ammonirono che questo avrebbe suscitato la collera degli dei, portando soltanto sventura. E avevano ragione. Nonostante gli infausti presagi, sul piano intellettuale la civiltà romana era ancora fiorente. In quest’epoca venne alla ribalta sant’Agostino, il teologo secondo soltanto a san Paolo nella creazione del cristianesimo per come lo conosciamo oggi. Aveva trascorso la gioventù a godere dei piaceri della carne, poi si fece adulto, nel 386 d.C. conobbe la religione e la rovinò per tutti gli altri. Lavorò intorno al problema del libero arbitrio, sviluppò il peccato originale, condannò i bambini non battezzati, bandì il sesso e trasformò il cristianesimo da movimento popolare a corso di filosofia postlaurea. Ovunque posate gli occhi mentre studiate la religione, ogni volta che vi ritrovate a chiedervi dov’è che Gesù ha detto questo, lì c’è sant’Agostino all’opera. In questo periodo il cristianesimo si era radicato in tutto il mondo romano. Tutte le tribù germaniche schierate lungo il confine si erano convertite da tempo, ma purtroppo, per un disaccordo riguardo alla Trinità, l’impero aveva dichiarato eretico l’arianesimo, la loro versione del cristianesimo. Gli ariani credevano che il Figlio non fosse esistito finché non l’aveva creato il Padre, a differenza dei cattolici dell’impero romano, i quali credevano che Padre e Figlio coesistessero in eterno. Non fosse che la gente si combatte per qualunque cosa, non sarebbe poi così importante. La politica a Milano Frattanto l’impero romano d’Occidente era lacerato da dispute interne. Di recente per ben due volte generali ambiziosi avevano assassinato l’imperatore d’Occidente e per eliminare l’usurpatore era dovuto intervenire Teodosio. La prima volta (quando nel 383 fu ucciso Graziano) ripristinò la linea della 102
famiglia legittima (Valentiniano II), la seconda invece (nel 394) tenne per sé l’impero d’Occidente. Per un anno – e per l’ultima volta – un unico imperatore governò un impero riunificato, dalla Britannia all’Arabia. Alla morte di Teodosio, nel 395, l’impero fu diviso tra i suoi due figli. All’undicenne Onorio andò l’Occidente e ad Arcadio, di poco più grande, l’Oriente. Onorio governò per i tre decenni successivi, fino al 423, durante i quali ebbe inizio il grande tracollo, perciò diamogli tutta la colpa anche se aveva soltanto undici anni. L’uomo che in realtà gestì l’impero d’Occidente fu Stilicone, generale e reggente: di solito lo si dipinge come un generale vandalo al servizio dei romani, ma era nato e cresciuto da romano. Anche se suo padre era un capotribù vandalo che comandava degli ausiliari dell’esercito romano, sua madre era un’autentica romana. L’origine familiare di Stilicone non era insolita, giacché all’epoca gli alti comandanti militari distavano in buona parte soltanto una generazione o poco più dai loro antenati, mercenari barbari. Si scatena l’inferno In Occidente, prima ancora che si freddasse il cadavere di Teodosio, i visigoti, guidati da Alarico, decisero di muoversi. Come la maggior parte dei barbari, i goti avevano un’idea piuttosto vaga delle istituzioni, ma credevano fortemente nei legami personali. Con la morte di Teodosio, perciò, si ritenevano svincolati dall’accordo di pacificazione: fecero fagotto e cominciarono a saccheggiare su e giù per i Balcani, di fronte a una lieve e inefficace resistenza romana. Nel 402 fecero irruzione in Italia. Trovandosi per la prima volta in seicento anni con un esercito nemico dalla parte civilizzata delle Alpi, Onorio (ora diciottenne) spostò la corte da Milano, pericolosamente esposta su un’ampia pianura, a Ravenna, sulla costa alle spalle di paludi inaccessibili. Stilicone sconfisse i 103
visigoti, i quali ripiegarono e cominciarono a rivalutare le proprio scelte. Poiché molta parte dell’esercito romano in Italia dava la caccia ai visigoti, la frontiera settentrionale era poco difesa, così nel 406 una grossa orda barbarica – per lo più vandali e suebi, popolazioni germaniche, insieme agli alani, provenienti dall’Iran – attraversò il Reno gelato presso Magonza senza trovare opposizione. Imperversarono in Gallia con incendi, uccisioni e stupri, finché non passarono i Pirenei ed entrarono in Spagna. Il poeta Orienzio, vescovo di Auch, descrisse così le circostanze qualche anno dopo:
Alcuni giacquero in pasto ai cani; a molti la casa in fiamme tolse la vita e fornì il rogo. In tutti i villaggi e le ville, in campagna e al mercato, in tutte le regioni e le strade, nei luoghi più diversi, c’erano Morte, Dolore, Distruzione, Fiamme e Lutti. La Gallia intera giaceva su un unico rogo fumante.2 A corte, però, fermare l’invasione non era la principale 104
priorità: Onorio infatti era troppo preoccupato dal potere che andava accumulando Stilicone, perciò nel 408 lo fece assassinare. Di fronte al caos che avvolgeva il continente, Costantino, comandante dell’esercito romano in Britannia, si proclamò imperatore d’Occidente, passò in Gallia per far valere le proprie pretese e lasciò così i britanni a provvedere a sé stessi, in un’indipendenza che non volevano. Disponendo di poche truppe fedeli, Onorio non era nella condizione di combattere Costantino, quindi fu costretto ad accettarlo come coimperatore; tuttavia, prima ancora che Costantino III cominciasse a godere dei vantaggi del nuovo ruolo, uno dei suoi stessi generali si ribellò e proclamò un terzo imperatore. Dopodiché le cose si fanno più complicate: altre guarnigioni si schierarono e ben presto tutti i romani dell’Europa nordorientale si ritrovarono a combattersi a vicenda. Alla fine però tutti gli usurpatori e le loro famiglie erano felicemente morti e per tutto il territorio si innalzavano trionfalmente su pali delle teste mozzate, tra le quali quella di Costantino. Per il momento sano e salvo, Onorio doveva adesso promuovere al rango di imperatore Costanzio, un generale fedele che gli aveva salvato la pelle nel recente conflitto. Nel frattempo, nelle province romane incustodite alle spalle dei vandali erano spuntate altre due tribù. I franchi, che in precedenza si erano stabiliti come federati alla foce del Reno, si espandevano ormai all’interno di quella terra che avrebbe preso il nome da loro (la Francia); altrettanto fecero i burgundi, che alla fine si ritrovarono in Burgundia. I funzionari romani del luogo furono costretti a pagare dei tributi a queste tribù, per lo meno finché non fosse arrivato qualcuno a cacciarle. Ci sarebbe voluto più di quanto chiunque si aspettasse. Sebbene il continente restasse sotto il controllo (nominale) dei romani, l’imperatore Onorio inviò una lettera ai britanni dichiarandoli ufficialmente indipendenti, giacché non c’era 105
nulla che potesse fare per loro. Nei decenni successivi i barbari, tribù dopo tribù – pitti, scoti, angli, sassoni e juti –, provenienti da aree diverse – Irlanda, Scozia e Danimarca –, sfruttarono tale opportunità e sprofondarono la Britannia in un periodo violento e privo di cronache. Senza un vero difensore che potesse accorrere in loro aiuto, gli indifesi britanni furono costretti a inventarsene uno, dando così origine alla leggenda di re Artù. Il sacco di Roma Nel frattempo fece ritorno Alarico con i suoi visigoti, che nel 409 estorse alla città di Roma un enorme riscatto. Quando presentò le proprie richieste alle porte della città, i romani ne furono sconvolti: che cosa sarebbe rimasto loro? «La vita» rispose lui. Per circa un anno Alarico ebbe fondi a sufficienza, ma poi tornò, prese la città e nel 410 la saccheggiò per parecchi giorni. Anche se Roma non era più la capitale e il saccheggio fu più una rapina che una distruzione arbitraria, la caduta della città impressionò comunque il mondo civilizzato: era chiaro che quanto andava accadendo, qualunque cosa fosse, non era affatto l’ennesima disputa dinastica. L’impero romano è come i dinosauri, sono entrambi più famosi per il fatto di essere scomparsi che per la loro vita di secoli; va detto però che la città di Roma era rimasta indenne da saccheggi stranieri per ottocento anni (390 a.C.-410 d.C.). Un dato straordinario, anche secondo parametri moderni. Per avere un’idea, consideriamo altre capitali occupate in un periodo o nell’altro da truppe straniere negli ultimi quattrocento anni, soltanto metà di quelli in cui Roma restò incolume: Addis Abeba (1936), Atene (1826, 1941), Baghdad (1623, 1638, 1917, 2003), Berlino (1760, 1806, 1945), Bruxelles (1914, 1940), Buenos Aires (1806), Città del Messico (1845, 1863), Copenaghen (1807, 1940), 106
Delhi (1761, 1783, 1803, 1857), Filadelfia (1777), Il Cairo (1799, 1882), Kabul (1738, 1839, 1879, 1979, 2001), L’Avana (1762, 1898), Londra (1688), Madrid (1706, 1710, 1808), Manila (1762, 1898, 1942), Mosca (1605, 1610, 1812), Nanchino (1937), Parigi (1814, 1871, 1940), Pechino (1644, 1860, 1900, 1937, 1945), Pretoria (1900), Roma (1798, 1808, 1849, 1943, 1944), Seul (1910, 1945, 1950, 1951), Teheran (1941), Tokyo (1945), Vienna (1805, 1809, 1938, 1945), Washington (1814). Scioglimento Ormai il pasticcio era così intricato che i singoli problemi dovevano attendere l’occasione che si sarebbe abbattuta sull’impero. Rispetto alle alternative che incombevano su Roma, dopo tutto i visigoti non parevano tanto male. Certo, avevano saccheggiato la città e ucciso l’imperatore Valente, ma almeno non erano gli unni o i vandali. Da questo momento in poi, essi svolsero dunque il ruolo di barbari amici di Roma. Del bottino portato via dalla città faceva parte la sorella venticinquenne dell’imperatore, Galla Placidia, che i visigoti ottennero per consolidare la nascente alleanza tra loro e l’impero. Sposò il re Ataulfo, successore di Alarico, e la tribù si stabilì nella Gallia meridionale, dove ottenne il diritto di tassare i cittadini romani del luogo. Alla fine Ataulfo venne ucciso da un servo in un colpo di stato e la vedova Galla Placidia fu incatenata ed esibita per la città in segno di umiliazione.3 Allorché un nuovo re visigoto mise fine all’insurrezione, la donna tornò a Ravenna, dove Onorio la diede in sposa al coimperatore Costanzio, che a sua volta non ebbe vita lunga. Nel 423, alla morte di Onorio, si impadronì del trono un nuovo usurpatore, Giovanni Primicerio, fin quando nel 425 non giunse l’esercito dell’imperatore d’Oriente che vi pose invece Valentiniano, nipote di Onorio e figlio di Costanzo, di soli sei 107
anni di età. Valentiniano III sarebbe stato l’ultimo imperatore romano a trascorrere un certo periodo di tempo sul trono d’Occidente, anche se non divenne mai davvero padrone del proprio impero. Sua madre Galla Placidia governò come reggente, rivelando notevoli capacità: dopo tutto era figlia, moglie, madre, sorella, zia e nipote di imperatori, perciò era per lo meno dotata di una certa esperienza. Con il passare degli anni, però, prese a esercitare sempre più potere il generale Flavio Ezio. Ormai i barbari si erano spartiti la Spagna e avevano stroncato il locale esercito romano, così l’impero si appellò ai visigoti, i quali andarono in Spagna e spazzarono via la tribù vandala degli asdingi, mentre lasciarono ai silingi l’orgoglio di fregiarsi del nome di vandali. Frattanto Bonifacio, comandante romano in Nordafrica, stava tramando qualcosa. Galla Placidia non era certa di quel che avesse in mente, ma sembrava che egli andasse accumulando più potere di quel che era consentito a un provinciale, quindi lo richiamò in Italia per avere spiegazioni. Poiché Bonifacio non si mosse, Galla Placidia spedì un esercito per incalzarlo e fu così che Bonifacio offrì metà del Nordafrica ai vandali silingi in cambio del loro aiuto. Ancora pressati dai visigoti, i vandali abbandonarono volentieri la Spagna e attraversarono lo stretto di Gibilterra nel 429. Ritrovatasi all’improvviso con due nemici in Africa, Galla Placidia si riconciliò con Bonifacio, il quale a sua volta si mise contro i vandali. Tuttavia questi misero facilmente in rotta ogni armata romana inviata loro contro e diedero inizio a una conquista sistematica dell’Africa settentrionale, città dopo città. Un assedio dei vandali intrappolò sant’Agostino nella città di Ippona, dove morì nel 430, quando l’assedio durava ancora. Alla fine nel 439 i vandali presero la capitale della provincia, Cartagine, circostanza che offrì loro il controllo delle forniture del grano che in quel periodo storico alimentava Roma. Si costruirono anche una flotta con cui razziare su e giù per il Mediterraneo, 108
attaccando le pacifiche comunità costiere che non vedevano una flotta di pirati da cinquecento anni.4 Attila Gli unni erano ormai giunti ai confini dell’impero romano e cominciavano a colpire nei Balcani. Un cronista ecclesiastico così ne scrive: «ci sono stati così tanti omicidi e spargimenti di sangue che non si riuscivano a contare i morti; ahimè, essi occupavano chiese e monasteri assassinando moltissimi monaci e vergini».5 Teodosio II, imperatore d’Oriente, cedette il controllo della riva meridionale del Danubio agli unni e pagò loro un immenso riscatto perché non si avvicinassero ulteriormente, ma l’imperatore d’Occidente aveva troppe altre priorità e non possedeva denaro sufficiente per proteggere la propria metà. Gli unni si accamparono al di là del Danubio e per tenersi in esercizio presero a fare brevi razzie qua e là nella Pannonia romana (l’Ungheria occidentale). In Italia l’attenzione dell’impero era distolta da uno degli episodi di rivalità tra fratelli più distruttivi della storia. Onoria, la sorella di Valentiniano, aveva una romantica relazione con il custode delle sue proprietà, circostanza politicamente pericolosa, dato che i due cospirarono per rovesciare Valentiniano. Purtroppo era troppo tardi: lui già sapeva. Fece decapitare l’amante di Onoria e altrettanto avrebbe fatto con lei, se non fosse intervenuta Galla Placidia. La famiglia imperiale tentò dunque di costringere Onoria a sposare un anziano senatore fidato, ma lei fu irremovibile. Alla fine si giunse a un accordo: Onoria fu spedita in custodia a Costantinopoli. Una volta perduta la prima mano, Onoria scrisse in segreto ad Attila, re degli unni, e gli propose un’alleanza matrimoniale: affidò la consegna della lettera a un suo eunuco, insieme al suo anello, che ne garantiva l’autenticità. Quando si scoprì questo nuovo complotto, l’imperatore d’Oriente Teodosio II riversò rapidamente il problema su Ravenna, rispedendo in patria 109
Onoria insieme a un consiglio per il cugino Valentiniano, cioè acconsentire al matrimonio per convenienza politica. Galla Placidia era d’accordo, ma Valentiniano si infuriò: ci volle tutta l’influenza della madre per distoglierlo dall’idea di uccidere la sorella per tutti i guai che aveva causato. Galla Placidia e Teodosio II morirono però all’incirca in quel periodo e così la decisione finale restò a Valentiniano, che di questa unione non voleva saperne. Onoria andò in sposa a un romano di secondaria importanza e fu quindi esiliata; da questo momento in poi scompare dalla storia.6 Purtroppo non era tanto facile cancellare Attila. Gli era stata promessa una sposa imperiale e, accidenti, qualcuno doveva ripagarlo. Mosse quindi contro l’impero per rivendicare Onoria, insieme alla dote che si aspettava, ossia la metà dell’impero stesso. Con un attacco dal Reno, Attila spazzò il nord della Gallia, lasciandosi alle spalle una fama di distruttore che sarebbe durata più di mille anni. Un cronista dell’epoca descrive così la mossa iniziale: «gli Unni venendo dalla Pannonia raggiunsero la città di Metz alla vigilia di Pasqua e devastarono tutta la regione. Dettero la città alle fiamme, massacrarono la popolazione con la lama della spada e misero a morte i i sacerdoti del Signore davanti ai santi altari».7 Gli unni avanzarono fino a Orléans, che resistette all’assedio, quindi si allontanarono in cerca di un obiettivo più facile. Ben presto vennero raggiunti dagli eserciti congiunti di romani e visigoti, i quali, sotto il comando di Ezio, nel 451 li sconfissero nella battaglia dei Campi Catalaunici. Fu l’ultima vittoria dell’esercito romano d’Occidente, della quale non sappiamo quasi nulla: non solo gli archeologi non hanno mai ritrovato il sito, ma addirittura non si sa nemmeno da dove iniziare la ricerca. Nelle storie che sono giunte fino a noi, le dimensioni degli eserciti e dei cumuli di morti sono state talmente esagerate da rendere impossibile l’identificazione.8 Dopo essersi ritirato e riorganizzato, Attila valicò le Alpi ed entrò in Italia: qui distrusse la città di Aquileia, inducendo i 110
sopravvissuti a nascondersi negli acquitrini di una laguna nei pressi, dove avrebbero costruito una nuova città: Venezia. Con l’avanzata degli unni in Italia si prospettava un nuovo saccheggio di Roma, ma Attila cambiò idea dopo un incontro con i notabili del luogo, fra cui papa Leone. Nessuno sa perché Attila se ne tornò in patria, ma le ipotesi considerano di tutto, dalla miracolosa apparizione dei santi Pietro e Paolo a un’epidemia di peste, dal riconoscimento di aver messo a dura prova le proprie risorse fino a un semplice riscatto. Tornato nella terra dei barbari nel 453, Attila morì ubriaco nel proprio letto, durante la prima notte di nozze, dopo una grossa emorragia di sangue dal naso. Nel giro di un anno, tutti i vassalli germanici si erano liberati del giogo degli unni, che si ritirarono rapidamente verso la steppa ucraina.9 A questo punto il generale Ezio era diventato così potente da costituire una minaccia per Valentiniano. Un giorno del 454, mentre Ezio gli consegnava un resoconto finanziario, l’imperatore balzò dal trono con la spada in mano e lo abbatté lì per lì. Ezio fu vendicato sei mesi dopo, quando dei soldati a lui fedeli assassinarono Valentiniano. Subito dopo Genserico re dei vandali sbarcò con un esercito a Ostia e risalendo il Tevere conquistò Roma. I vandali setacciarono la città ben più a fondo di quanto avevano fatto i visigoti, tanto da legare il proprio nome alla stessa idea di distruzione gratuita. Quando salparono nuovamente per Cartagine dopo un saccheggio di quattordici giorni, si portarono via tesori vecchi di secoli, come il candelabro d’oro trafugato a Gerusalemme, e migliaia di prigionieri, tra cui la vedova e le figlie di Valentiniano. I prigionieri di minore importanza finirono direttamente al mercato degli schiavi, mentre la famiglia imperiale restò in ostaggio.10 Si chiude Quella fu a tutti gli effetti la fine dell’impero romano 111
d’Occidente. Il nome perdurò per un’altra generazione, ma la nazione cessò di essere un’entità vitale nel 455, con l’estinzione della dinastia di Teodosio e il saccheggio di Roma compiuto dai vandali. Non c’era un nucleo di territorio sicuro dal quale reclutare e finanziare un nuovo esercito. Nei decenni successivi i conquistatori germanici misero insieme dei piccoli regni a partire da pezzi dell’impero. Prima del compimento di questo processo vi furono ulteriori battaglie, assassinii, tradimenti, assedi e massacri, ma non è necessario conoscerli; quel che conta è che Roma era scomparsa e che gli eserciti andavano saccheggiando luoghi che erano rimasti intatti per centinaia di anni. Grazie alla morte di Attila un paio di tribù germaniche che erano state vassalle degli unni – ostrogoti ed eruli – avevano finalmente l’occasione di agire in maniera indipendente sulle rovine dell’impero. Essendo stati per tanto tempo subalterni, avevano quasi perso l’occasione di accaparrarsi un pezzo della carcassa, ma dato che tutte le altre tribù erano state spinte dai romani e dagli unni a ovest verso la Gallia e la Spagna, eruli e ostrogoti ebbero la libertà di avanzare e prendere l’Italia stessa. L’impero romano era stato talmente importante per così tanto tempo che nessuno riusciva a immaginare un mondo senza di esso. Nei ventuno anni successivi fu mantenuta la messinscena di un impero romano, quando in realtà a mandare avanti lo spettacolo erano i generali in conflitto che da dietro le quinte manovravano i cosiddetti imperatori fantoccio. Alla fine l’uomo forte che si andava affermando in Italia, un erulo di nome Odoacre, consolidò il proprio dominio sulla penisola. Nel 476 esiliò l’imperatore del momento, il tredicenne Romolo Augustolo,** nelle sue tenute di campagna, e così la carica di cesare rimase vacante. E questo è tutto. Perché Roma è caduta? 112
Il modo migliore per comprendere la caduta di Roma è saltare la prima metà dei libri sull’argomento. Certo, antefatti e tendenze di lunga durata sono importanti, ma nella ricerca della causa alcuni storici risalgono tanto indietro da far sembrare che Roma precipitasse sin dall’inizio verso la sua fine inevitabile. Quando ho iniziato le prime ricerche per questo capitolo, ho letto la bibliografia e ho diligentemente preso appunti su Valeriano, Marco Aurelio e Diocleziano, ma poi mi sono reso conto che gli autori di questi libri anticipano la caduta di due secoli. È come cercare la causa del crollo dell’Unione Sovietica nelle scelte di Caterina la Grande. Cominciamo a stabilire alcune regole di buonsenso. Una spiegazione adeguata dovrebbe riguardare il V secolo e non il I, perciò sono chiaramente fuori questione paganesimo, gladiatori e intrighi di Nerone. Dato che l’impero aveva smesso da molto tempo di essere gestito dalla sua città eponima, sarebbe altrettanto dubbia qualunque causa legata troppo strettamente a Roma, come l’avvelenamento da piombo delle sue acque o la malaria nelle paludi dell’Italia meridionale. Allo stesso modo, dire che l’impero era troppo grande non è per nulla convincente, giacché nel V secolo non aveva dimensioni maggiori rispetto al I. Un centinaio di anni fa erano in voga le teorie razziali sul crollo di Roma – il meticciato indebolì la razza e così via –, che però non sono nient’altro che proiezioni delle preoccupazioni di un’epoca su un’altra. Oggi magari si sentono spiegazioni fondate sui cambiamenti climatici, le malattie tropicali o gli asteroidi assassini, perché sono queste le cose che ci preoccupano. È inoltre dubbia qualsiasi ipotesi che riguardi la fertilità ridotta o il generale degrado della classe dirigente, perché l’impero romano non era una monarchia in senso stretto che si trasmetteva da padre a figlio a nipote: era più che altro una dittatura militare nella quale il potere passava dall’imperatore morto a un parente esperto o a un collega rispettato. Del resto 113
Roma non era neanche particolarmente snob: quando cominciarono a scarseggiare i patrizi italiani che gestivano la baracca, a prendere il loro posto arrivarono i comuni cittadini delle province. Esattamente come nel caso di quelli che dicono che i dinosauri sono diventati uccelli, qualcuno afferma che Roma non è mai «caduta»: si è semplicemente trasformata. La metà orientale sopravvisse per altri mille anni come impero bizantino, mentre sono esistiti governanti che si sono proclamati cesari fino al XX secolo, sia pure come Kaiser o zar. E non dimentichiamo che il più potente capo spirituale del mondo dirige ancora le centinaia di milioni di suoi seguaci da Roma. No, davvero, perché Roma è caduta? Si potrà restare delusi nell’apprendere che la maggior parte degli storici evita le grandiose spiegazioni cosmiche della caduta di Roma e offre invece delle cause meticolosamente specifiche – quasi minime – una alla volta oppure in varie combinazioni. La spiegazione più popolare dà la colpa a una mancanza di guida politica. Roma non sviluppò mai un sistema ben congegnato di passaggio del potere da un imperatore al suo successore, circostanza che suscitò una piccola guerra civile quasi ogni volta che un imperatore moriva. Gli imperatori non godevano di altra legittimità se non quella che conferiva loro il fatto di aver comandato l’esercito più numeroso, mentre a loro volta i generali ambiziosi non nutrivano una gran fedeltà personale nei confronti del loro sovrano. Perciò, quando arrivò la crisi, sul trono di Roma sedette una serie disgraziata di usurpatori, figli e personaggi insignificanti che temevano più i loro stessi eserciti che i barbari.11 Secondo, la cavalleria divenne il mezzo principale per combattere le guerre, ma Roma era stata costruita e sostenuta dalla fanteria.*** Siccome i romani risposero a questa nuova 114
tattica della cavalleria con il reclutamento di mercenari stranieri anziché con l’addestramento apposito di nativi romani, l’esercito fu sempre meno impegnato nella sopravvivenza dell’impero. L’esercito romano aveva sempre posseduto un opportunismo egoistico che condusse a innumerevoli colpi di stato e ammutinamenti, ma finché restò per lo più romano, i soldati esitarono nel lasciare aperta la porta a un’incontrastata invasione barbara. I mercenari unni e visigoti invece non avevano di questi scrupoli.12 Terzo, lo spostamento della capitale principale a Costantinopoli rafforzò il controllo romano sull’Oriente, ma emarginò l’Occidente. Gli eserciti utilmente schierati a protezione della nuova capitale non furono di grande aiuto nella difesa dell’Occidente. All’apice della potenza di Roma, le legioni poste a guardia dei lunghi confini fluviali dell’Europa centrale erano sostenute dalle tasse provenienti dalla complessa economia urbana del Mediterraneo orientale. Alla divisione dell’impero in due parti, l’Oriente ereditò la macchina da soldi e una frontiera più breve, mentre l’Occidente ebbe in eredità le spese per la protezione di un confine più esteso, a fronte dei profitti provenienti da un’economia più primitiva.13 Alla fine l’Occidente semplicemente non poté più permettersi la propria difesa. Quarto, la conversione al cristianesimo (avvenuta dopo il 313) creò divisioni interne e allontanò i tradizionalisti pagani. Allorché l’autorità di sommo sacerdote si separò da quella di imperatore, il sostegno popolare al governo si attenuò. L’imperatore perse metà della propria legittimità, in quanto il popolo era meno incline a dare a Cesare una volta che questi aveva smesso di essere un dio in terra. Ciò contribuisce a spiegare anche perché la Cina – dove l’imperatore mantenne la propria divinità – finì per ricostituirsi come nazione unitaria.14 Il grande affresco 115
Chi dovesse stabilire nella storia universale il periodo nel quale la condizione degli uomini fu più prospera e felice, dovrebbe senza esitazione indicare quello che corse dalla morte di Diocleziano all’avvento di Commodo. Il vasto impero romano era governato da un potere assoluto, sotto la guida della virtù e della sicurezza. Gli eserciti furono tenuti a freno dalla mano ferma ma moderata di quattro successivi imperatori, il carattere e l’autorità dei quali imponevano spontaneo rispetto. Le forme del governo civile furono gelosamente conservate da Nerva, Traiano, Adriano e dagli Antonini, i quali godevano dell’immagine della libertà e si compiacevano di considerarsi ministri responsabili delle leggi. Principi come questi meritavano l’onore di ristabilire la repubblica, se i romani del loro tempo fossero stati capaci di godere di una ragionevole libertà. EDWARD GIBBON, Storia della decadenza e caduta dell’impero romano Storia della decadenza e caduta dell’impero romano di Edward Gibbon è ampiamente ritenuto il maggior libro di storia mai scritto in inglese. La cosa infastidisce gli storici moderni perché a) sanno molto di più riguardo alla storia di quanto ne sapesse Gibbon e b) sono invidiosi. Alcuni lo hanno criticato per le lodi eccessive nei riguardi di Roma, dato che a Roma c’erano guerre, analfabetismo, fame, malattie, schiavitù e oppressione della donna. Be’, sono le stesse cose che caratterizzavano l’epoca in cui scrisse (1776-1788), perciò zitti: aveva ragione lui. Parecchi campi dell’agire umano non tornarono ai livelli dell’epoca romana fino al XIX secolo. L’impero realizzò una pace autentica in un’area enorme per centinaia di anni. I nostri cento eventi maggiormente sanguinosi comprendono sette conflitti combattuti nella regione del Mediterraneo nei quattro secoli prima di Augusto, ma solo uno 116
nei quattro secoli successivi. Gli storici erano abituati a considerare la caduta di Roma come una frattura netta che divideva il mondo antico da quello medievale, tuttavia dagli anni Settanta in poi il mondo accademico ha accolto un nuovo punto di vista. Oggigiorno si considera l’intero arco di tempo che va dal 200 all’800 d.C. come un unico periodo di transizione denominato Tarda Antichità. In questo quadro rientra la tendenza a minimizzare la violenza legata alle invasioni barbariche, così come si aggrottano le ciglia davanti al termine «barbari». In effetti alcuni studiosi sostengono che l’intera caduta dell’impero romano d’Occidente sia sopravvalutata come pietra miliare e che i cambiamenti che percorsero l’Europa furono per lo più l’immigrazione pacifica di tribù nomadi, le quali imposero una nuova classe dirigente, ma che nel giro di un paio di generazioni vennero assimilate culturalmente.15 Questa prospettiva prevale soprattutto tra inglesi, americani e tedeschi, giacché si tratta dei discendenti dei barbari sopracitati, che sotto questa nuova luce apparirebbero meno barbari. In senso più ampio, si tratta di uno dei tanti mutamenti nella storiografia secondo cui si riabilitano gli antichi selvaggi (vandali, mongoli, zulu, vichinghi) e si denigrano i consolidati modelli di civiltà (romani, inglesi). Ogni tanto gli studiosi si stufano delle età dell’oro sopravvalutate e trovano nuovo interesse in quelli che prima si ritenevano periodi bui. Succede sempre; non dura mai tanto, perciò non bisogna prenderlo troppo sul serio. In questo nuovo paradigma c’è anche la tendenza a non distinguere tra i vari fronti temporaleschi che colpirono la civiltà mediterranea. Che si tratti di unni, goti, avari, vichinghi, magiari o arabi, è sempre la stessa macrotendenza. Se pure contribuisce a contestualizzare l’intera questione, ciò nasconde il fatto che la caduta di Roma nel V secolo costituì la grande tempesta. La caduta di Roma è probabilmente il più importante evento 117
geopolitico della storia dell’Occidente. Senza la frammentazione dell’impero, le popolazioni romanizzate dell’Europa occidentale non avrebbero sviluppato identità separate, così al posto di francesi, spagnoli, italiani e portoghesi nelle rispettive terre ci sarebbero stati soltanto romani (che parlerebbero una lingua simile all’italiano). Questa patria neoromana avrebbe abbracciato anche la Gran Bretagna, il Nordafrica e la riva meridionale del Danubio, dove le popolazioni romanizzate in seguito furono assorbite, assimilate e sostituite dagli invasori anglosassoni, arabi e slavi. Immaginiamoci un unico gruppo etnico che popola i territori da Liverpool alla Libia con duemila anni di storia unitaria: avrebbe rivaleggiato con la Cina in quanto paese più antico e popoloso della Terra. Quante persone morirono? Le cifre rappresentano pura speculazione, tuttavia quasi ogni sito archeologico d’Europa mostra negli strati risalenti al V secolo una considerevole diminuzione del numero di manufatti. In mezzo a rovine, fondamenta, ammassi, cumuli e discariche di epoca romana, disseminati in gran numero per tutta l’Europa occidentale, si ritrovano monete di rame, piastrelle spezzate, utensili arrugginiti, chiodi, vetri rotti, ciottoli, graffiti, frammenti di mattoni, pietre tombali e cocci di ceramica. Poi, negli strati che risalgono all’epoca successiva all’arrivo di sassoni, franchi e goti, gli archeologi hanno ritrovato un numero minore di nuovi depositi. In alcuni casi i siti si sono esauriti del tutto e le regioni che in precedenza avevano ospitato un gran numero di piccole città, ville e villaggi appaiono ridotte a una manciata di fortificazioni. Quando gli archeologi trovano meno roba, in genere significa una di queste quattro cose: meno popolazione; lo stesso numero di persone ma meno roba a testa; la stessa quantità di persone e cose, ma cose meno durevoli; tutto è come prima, ma si cerca 118
nei luoghi sbagliati. Di queste quattro possibilità, la più semplice è la prima, che di solito si considera come punto di partenza, a meno che qualche prova particolare non indichi una delle altre tre possibilità. D’altro canto queste quattro spiegazioni non si escludono a vicenda. La popolazione ridotta nel numero potrebbe essersi fortemente impoverita e così ha lasciato un numero sempre minore di manufatti pro capite. Quando i resti si riducono, diventa più arduo trovare i siti per studiarli.16 La maggior parte dei demografi ritiene che la popolazione delle province romane d’Europa raggiunse un massimo di 30 o 40 milioni nel 200 d.C., per poi ridursi di un terzo, o addirittura della metà, nel corso dell’intero periodo del declino, fino a toccare il minimo di 20 milioni circa nel 600 d.C. Talvolta la perdita avvenuta nel nucleo di questo periodo, ossia il V secolo, si stima attorno a un quarto o un quinto della popolazione. Tale declino non sarebbe in massima parte conseguenza della violenza, bensì della carestia e delle malattie diffuse dalla disgregazione della società.17
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Giustiniano Bilancio delle vittime: fantastilioni Posizione: 59 Tipologia: despota Contrapposizione di massima: romani contro barbari (il ritorno) Periodo: al potere dal 527 al 565 Luogo: Mediterraneo Principali stati partecipanti: impero romano (bizantino) d’Oriente, regno dei goti, regno dei vandali A chi diamo la colpa di solito: Giustiniano e Teodora
Vita di corte Procopio, lo storico ufficiale alla corte dell’imperatore Giustiniano, a Costantinopoli, teneva due diverse serie di libri: di giorno scriveva storie pubbliche che colmavano di lodi l’imperatore, ma di notte tirava fuori la sua storia segreta e descriveva ciò che accadeva per davvero. Molto di quel che pensiamo di sapere su quell’epoca dipende da come si considera Procopio, sincero o bugiardo.1 Giustiniano era nato nel 482 da una famiglia contadina dei Balcani, perciò parlò sempre il greco dell’impero d’Oriente con un accento barbaro. Non sarebbe passato alla storia se suo zio Giustino non fosse entrato nella guardia di palazzo a Costantinopoli e non si fosse fatto strada fino a diventarne comandante. Da quella posizione, allorché nel 518 il vecchio imperatore morì senza figli, riuscì facilmente a farsi imperatore lui stesso. 120
Poiché nemmeno lui aveva figli, Giustino adottò il nipote Giustiniano e lo nominò coimperatore ed erede. Al sopraggiungere della vecchiaia di Giustino, Giustiniano divenne il vero sovrano dell’impero, molto tempo prima di ereditarne ufficialmente il trono, all’età di quarantaquattro anni. Sua moglie, l’imperatrice Teodora, è stata vituperata nel corso della storia per via della sua sessualità. Secondo Procopio fece carriera cominciando come prostituta bambina per poi rappresentare degli atti sessuali sul palcoscenico e infine divenire cortigiana d’alto rango; a questo punto catturò l’occhio e altre parti anatomiche dell’erede legittimo. Procopio non ci risparmia alcun dettaglio a proposito delle sue prodezze sessuali. Quando scrisse il capitolo in cui parla di Teodora, Edward Gibbon provò troppo imbarazzo per descrivere davvero le sue attività utilizzando l’inglese comune, perciò dissimulò a occhi innocenti i racconti che la riguardano con citazioni in greco e commenti in latino.2 Tuttavia, secondo storici meno interessanti (e probabilmente più accurati) Teodora era una normale attrice con un talento per la commedia e per i ruoli da donna disinibita. Figlia del guardiano di orsi del circo, era prossima ai trent’anni e aveva almeno un figlio illegittimo quando si legò a Giustiniano, già uomo di mezza età. E quando lui ascese al trono anche lei salì di rango. Giustiniano la considerava una compagna preziosa, al punto che tutti gli editti imperiali venivano emanati a nome di entrambi.3 La vita tra i nobili e i potenti di Costantinopoli implicava la consueta serie di congiure, macchinazioni e assassinii. Teodora liberò la sessualità della classe dirigente e fu l’unica a mostrare carattere quando nella capitale dilagò la rivolta di Nika, che fece decine di migliaia di morti. Grazie a Procopio, di tutto ciò abbiamo una vivace testimonianza, tanto che se ne potrebbe fare un’ottima serie televisiva; però i libri di storia più equilibrati e sensati si concentrano sugli aspetti meno sordidi del regno di Giustiniano: codificò completamente il diritto romano, che sin 121
da allora ha costituito le fondamenta del diritto europeo; edificò a Costantinopoli la chiesa di Hagia Sophia, una delle meraviglie architettoniche del mondo; diede gli ultimi ritocchi al cristianesimo ortodosso e cancellò le ultime tracce del paganesimo mediterraneo; per la prima volta arrivò in Europa la peste bubbonica, che nel giro di pochi anni sterminò almeno un quarto della popolazione dell’area mediterranea. Tuttavia, giacché questo libro tratta di morte e distruzione arrecate in massa dall’uomo, saltiamo tutto questo e seguiamo gli eserciti di Giustiniano in Occidente. L’imperatore mantenne una politica estera aggressiva con la quale intendeva riportare indietro l’orologio, ai tempi gloriosi dell’impero romano, ed è così che raccolse i bilanci di vittime più consistenti. Le guerre in Occidente (535-554) Tra gli storici Giustiniano ha fama di uomo capace di scegliersi collaboratori estremamente dotati su cui però nessuno prima avrebbe scommesso. All’inizio del proprio regno cominciò a promuovere un ufficiale di rango inferiore del fronte persiano, Belisario, che favorì preferendolo a ufficiali più esperti. E Belisario non lo tradì mai. Lanciò un’armata contro il regno vandalo del Nordafrica, con 15.000 truppe di terra, 32.000 marinai, la moglie Antonina come braccio destro e lo storico Procopio a capo dell’organizzazione delle spie. I romani sbarcarono sulla costa desertica, lontano dal centro del potere dei vandali, ma Belisario annientò rapidamente ogni resistenza e prese Cartagine. Depennò il primo regno nemico dal proprio elenco e tornò in patria per godersi la riconoscenza del proprio sovrano.4 Nella parata trionfale, Belisario portò la menorah d’oro massiccio che Tito aveva recato a Roma e i vandali a loro volta avevano condotto a Cartagine. Per paura della maledizione che pareva seguire il tesoro del Tempio ovunque andasse, Giustiniano la rispedì a Gerusalemme, e quella fu l’ultima volta che se ne sentì parlare. 122
La guerra gotica Nel giro di un anno Belisario era di nuovo in Occidente, stavolta per sedare l’ammutinamento delle truppe che aveva lasciato a occuparsi dell’Africa. Quindi si volse verso il regno gotico d’Italia e si aprì sistematicamente la strada verso nord. Palermo fu presa con un assalto dal mare, Napoli cadde subito dopo, quando i romani superarono le difese dei goti ed entrarono in città attraverso un acquedotto abbandonato.5 Il papa spalancò le porte di Roma a Belisario, ma a dicembre del 536 arrivarono i goti, che misero sotto assedio la città. Nessuno dei due contendenti aveva truppe sufficienti per proteggere i quasi venti chilometri di mura che circondavano Roma, perciò l’assedio fu piuttosto omerico: da una parte scaramucce e sortite in campo aperto al di fuori delle porte protette, dall’altra spie e agenti che sgattaiolavano dentro e fuori per raccogliere informazioni e organizzare tradimenti. Con la diminuzione delle provviste, le condizioni dei romani all’interno della città peggiorarono, ma altrettanto accadde ai goti assedianti. L’assedio si sarebbe concluso in un modo o nell’altro, finché Antonina e Procopio reclutarono truppe fresche a Napoli e si precipitarono a nord per rafforzare Belisario. A febbraio il re gotico Vitige chiese una tregua per negoziare un compromesso, ma Belisario prese tempo e utilizzò i tre mesi dell’armistizio per portare le truppe a due passi da Ravenna, la capitale dei goti. Giustiniano a questo punto si preoccupò del fatto che il suo generale stava diventando troppo potente, così da Costantinopoli inviò un altro esercito, sotto il comando di Narsete, affinché si coordinasse con Belisario. Benché non fosse dotato di alcuna esperienza militare, Narsete si dimostrò sorprendentemente abile. Si aprì la strada lungo la pianura lombarda e conquistò Milano, che poi lasciò nelle mani di un subalterno. Purtroppo, avere due generali caparbi al comando congiunto 123
dello stesso esercito confuse i loro subalterni. Così, quando in un contrattacco i goti assediarono Milano e la condussero sull’orlo della fame, le vicine truppe di soccorso romane non si mossero finché non furono giunti ordini sia da Belisario che da Narsete. Ma ormai era troppo tardi. Il re dei goti Vitige aveva offerto al generale romano un passaggio sicuro dentro Milano se si fosse arreso, però l’offerta non si estendeva ai civili, che Vitige intendeva punire perché lo avevano tradito. Il generale romano cercò di rifiutare l’offerta, che invece i soldati affamati lo obbligarono ad accettare. Appena la guarnigione romana abbandonò Milano, i goti entrarono e la distrussero, trucidando tutti gli uomini – 300.000, secondo gli storici contemporanei – e trascinando via le donne. Un’altra guerra gotica Ormai l’Italia era talmente devastata che avrebbe avuto bisogno di tempo per riprendersi, prima che qualcun altro prendesse in considerazione l’idea di combatterci di nuovo. Chi disponeva delle armi raggiunse un accordo sul controllo di questo o di quello e ognuno se ne tornò al proprio angolo per tirare il fiato. Nel 541 Totila, il re dei goti d’Italia, riprese la guerra e mise a segno tre anni di vittorie, perciò Giustiniano rispedì Belisario in Italia per il secondo round. Con gli eserciti che attaccavano avanti e indietro, la città di Roma passò di mano parecchie volte finché, nel 548, Belisario si ritrovò dalla parte sbagliata degli intrighi di palazzo e fu messo a riposo. A sostituirlo arrivò nel 552 l’eunuco Narsete, che uccise Totila in battaglia e riprese Roma. L’anno seguente venne sconfitto e ucciso anche il successore di Totila. Traendo vantaggio da questo caos, nell’agosto del 553 franchi e alemanni invasero l’Italia da nord. Narsete sconfisse anche loro e sistemò in Italia il resto dell’orda di invasori. Alla fine, con i romani che controllavano la situazione, la guerra ebbe termine. 124
Bilancio delle vittime Procopio afferma che, in tutto il suo regno, Giustiniano uccise una miriade di miriadi di miriadi, il che, tradotto letteralmente dal greco, significa 10.0003 ovvero mille miliardi di persone.6 Dato che una miriade al cubo equivale a cento volte la popolazione attuale del pianeta, probabilmente Procopio si sbaglia. In Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, Edward Gibbon ipotizza che una di quelle miriadi si sia intrufolata accidentalmente e quindi vada ignorata: il totale dei morti per guerra, pestilenza e carestia sotto Giustiniano si ridurrebbe così a soli 100 milioni. Generazioni di storici hanno preso per buono il compromesso di Gibbon, tanto che ho trovato autori ottocenteschi che inseriscono Giustiniano nell’elenco unificato dei mostri della storia.7 Tuttavia all’epoca la popolazione dell’impero romano d’Oriente non era tanto numerosa da poter avere 100 milioni di perdite. Gli storici moderni ritengono che inizialmente fosse attorno ai 26 milioni di persone (senza contare l’Italia e la Tunisia) e che molto del calo comprovato di popolazione sotto Giustiniano fu determinato dalla peste bubbonica.8 Procopio afferma inoltre che le incursioni di slavi e avari nei Balcani cancellarono ogni anno 200.000 abitanti dell’impero romano d’Oriente, resi schiavi o uccisi, cosa che porterebbe a un totale di 6,4 milioni di vittime per tutti i trentadue anni del regno di Giustiniano. Gibbon a sua volta mette in dubbio questa cifra, dato che probabilmente l’area minacciata non era nemmeno in grado di contenere così tante persone.9 Sempre secondo Procopio, 5 milioni morirono nella guerra in Africa e 15 in quella in Italia. Ogni storico – persino chi è cauto nel far circolare delle cifre – concorda sul fatto che l’Italia fu devastata dalla riconquista. Per la classifica, addebito alle guerre di Giustiniano in Occidente un numero di morti pari a tre quarti di milione, ossia il 15 per cento dei 5 milioni di persone che probabilmente vivevano in Italia e Tunisia.10 Ma è solo 125
un’ipotesi.
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Guerre Goguryeo-Sui Bilancio delle vittime: 600.0001 Posizione: 67 Tipologia: guerre di conquista Contrapposizione di massima: Cina Sui contro Goguryeo Periodo: 598-612 d.C. Luogo: Corea A chi diamo la colpa di solito: Cina Dopo alcuni secoli di divisione, la Cina fu riunita sotto la dinastia Sui, ma il regno coreano settentrionale di Goguryeo decise di attaccare oltre il confine un’ultima volta prima che i nuovi governanti si organizzassero. L’imperatore cinese responsabile della riunificazione, Wendi,* si infuriò e reagì nel 598 d.C. con un’invasione massiccia concepita per conquistare l’intero territorio coreano, fino all’estremità meridionale. Inviò un contingente di 300.000 unità oltre il fiume Liao, il confine mancese del Goguryeo, giù lungo la penisola coreana verso la capitale Pyongyang. L’invasione andò molto male. A quanto pare, i cinesi avevano dimenticato che in Manciuria luglio e agosto sono i mesi delle piogge. Le strade erano fangose e la flotta che accompagnava l’esercito fu abbattuta dai temporali. Ogni volta che le navi cinesi attraccavano, le truppe Goguryeo le attaccavano, finché, alla fine, la flotta Goguryeo scese in mare e schiacciò quella cinese. Nel frattempo, i guerriglieri coreani tormentavano ripetutamente e a più riprese l’esercito cinese, così i cinesi persero la maggior parte degli uomini lungo il percorso.2 Ci volle un po’ affinché la Cina si riprendesse da tale disastro, ma il figlio di Wendi, Yangdi,**suo successore e 127
probabile assassino, fece un secondo tentativo nel 612 d.C. Reclutò un milione di soldati e diversi milioni di persone a supporto dell’esercito, riparò e ampliò il grande canale che collegava il Fiume Giallo al Fiume Azzurro per portare uomini e rifornimenti da sud a nord, approntò riserve massicce e mise insieme il trasporto costiero per seguire come un’ombra l’esercito che si spostava sul territorio. Fintanto che l’armata rimaneva in prossimità della costa, la marina cinese riusciva a rifornire il contingente. I cinesi attraversarono ancora una volta il fiume Liao con 305.000 uomini, ma non appena questi rallentarono, la flotta scattò in avanti e sbarcò un gran numero di marinai per prendere il castello di Pyongyang. Dopo aver disperso la difesa, i soldati cinesi ruppero le righe per saccheggiare, cosa che li espose a un agguato dei Goguryeo in cui i marinai vennero trucidati e inseguiti. Soltanto un paio di migliaia riuscirono a tornare sani e salvi alla flotta.3 L’esercito cinese, nel frattempo, si spinse in avanti. Per un certo periodo, i comandanti Sui e Goguryeo adottarono una strategia psicologica, nel tentativo di indursi reciprocamente a negoziare allo scopo di far scattare una trappola o raccogliere informazioni. Infine, il comandante Goguryeo, Eulji, pose termine a questa fase inviando una poesia offensiva ai suoi nemici Sui, così la guerra riprese. Dopo essersi spinti verso sud, i cinesi iniziarono ad attraversare il fiume Salsu; i Goguryeo, tuttavia, avevano arginato di nascosto il fiume proprio a monte del passaggio e, quando l’esercito Sui si trovò a metà strada del guado di quelle acque ingannevolmente basse, i Goguryeo scatenarono l’inondazione. Migliaia di cinesi annegarono e il resto si diede alla fuga. Dei 305.000 soldati cinesi che avevano invaso la Corea, solo 2700 fecero ritorno.4 Le ripetute sconfitte in Corea avevano inevitabilmente indebolito la dinastia Sui, che non sarebbe durata molto a lungo: presto le succedette la dinastia Tang.
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Tratta degli schiavi in Medio Oriente Bilancio delle vittime: 18,5 milioni (18 milioni dall’Africa e 0,5 dall’Europa) Posizione: 8 Tipologia: sfruttamento commerciale Contrapposizione di massima: arabi che schiavizzano africani, per lo più Periodo: secoli VII-XIX Luogo: Medio Oriente A chi diamo la colpa di solito: mercanti arabi di schiavi, intermediari africani, pirati di Barberia Detto in poche parole: gli eunuchi... che schifo Fattori economici: schiavi, oro, sale
Premessa: la schiavitù in generale In tutta la storia documentata, quasi ogni individuo è stato giuridicamente subordinato a qualcun altro: i figli erano alla mercé dei padri, i mariti dominavano le mogli, i cittadini comuni si piegavano davanti alla nobiltà. Molte società organizzate in stati hanno conosciuto delle gerarchie formali che ne collegavano tutti gli individui: i romani mantenevano complessi rapporti patrono-cliente con obblighi reciproci tra tutte le persone libere, cittadini, stranieri e liberti; a sua volta il feudalesimo europeo presentava una lunga catena di signori e vassalli, mentre i servi della gleba erano vincolati alla terra. Gli schiavi rappresentavano la tipologia più estrema di subordinazione. Mentre in un rapporto tra padrone e contadino o tra patrono e cliente in genere i componenti avevano diritti e 129
doveri reciproci, il rapporto schiavo-padrone era più semplice e del tutto unilaterale. Il padrone poteva fare ciò che voleva del proprio schiavo, il quale a sua volta non poteva fare nulla senza il permesso del padrone. Fino al Settecento, picchiare a morte uno schiavo era del tutto legittimo, persino tra gente che normalmente consideriamo civilizzata, come gli abitanti della Virginia.1 Nella scala della condizione umana, che andava dal servo della gleba al proprietario fino al signore, lo schiavo si trovava in fondo, un gradino al di sotto del mulo.* Sul piano dei vantaggi, va detto che per lo più la schiavitù non era considerata come una condizione permanente. La maggior parte delle società non si faceva certo in quattro per ottenere degli schiavi: ci si limitava semplicemente ad acquisirli in maniera fortuita e spesso non si sapeva che farsene. In genere una persona si ritrovava schiava dopo una catena anomala di sfortune. Il prigioniero di guerra, il condannato per un crimine, il bambino abbandonato, il debitore insolvente: erano queste abitualmente le figure che finivano in schiavitù; per le prime tre, tra l’altro, l’alternativa di solito era la morte. A creare una costante domanda di schiavi erano i quotidiani lavori di casa, ma quando, grazie alle sorti di una guerra, l’offerta aumentava, se ne potevano avere in abbondanza. In questi casi, i tre luoghi ove si riversavano gli individui eliminabili in eccesso erano le miniere, la prostituzione e i sacrifici umani, a seconda della cultura. In alcune società l’economia andava avanti con un numero minimo di schiavi. Nell’Europa medievale, per esempio, non c’era carenza di manodopera, era invece la terra la risorsa insufficiente, perciò lo spostamento dei contadini schiavizzati in una determinata regione non contribuiva all’aumento della produzione. Per contro, in alcune società sature di schiavi, come il Sudan ottocentesco, ogni famiglia che stava al di sopra della soglia minima di povertà possedeva almeno una ragazza che lavava, cuciva, cucinava e faceva le pulizie. Di tanto in tanto la richiesta di schiavi si impennava e allora i 130
mercanti di schiavi si spingevano ai margini della civiltà, ovunque ci fossero grandi popolazioni prive di eserciti forti in grado di proteggerle dal rapimento. L’impennata più celebre colmò la mancanza di manodopera seguita alla scoperta dell’America, ma ne parlerò più avanti, in un altro capitolo. Per molta parte della storia, il maggiore mercato di schiavi – soprattutto ragazze per i lavori domestici – fu costituito dai ricchi regni del Medio Oriente, mentre il più capiente serbatoio di individui reperibili era l’Africa. Nel corso dei secoli, milioni di schiavi giunsero dai porti della costa orientale dell’Africa o con le carovane che attraversavano il deserto del Sahara. Africa orientale La tratta degli schiavi lungo la costa orientale dell’Africa risale alle prime testimonianze di cui disponiamo. Già ai tempi dei faraoni, i carichi di nuovi schiavi affluivano regolarmente dal mar Rosso fino in Egitto, probabilmente dall’Eritrea e dalla Somalia. Nel X secolo, i marinai arabi avevano stabilito una serie di stazioni commerciali lungo la costa africana fino a sud, a Kilwa (oggi in Tanzania), molte delle quali erano isole che mantenevano contatti minimi con il continente. Nel 1300, il raggio d’azione dei mercanti arabi verso sud si era esteso fino a Sofala (nell’attuale Mozambico). Dopo aver doppiato il capo meridionale dell’Africa nel 1493, i portoghesi utilizzarono ben presto la loro superiore potenza militare per annettere tutte queste stazioni per la tratta degli schiavi all’interno del loro impero in rapida espansione. Tuttavia nel 1653 una flotta proveniente dal sultanato arabo dell’Oman, armata come quelle europee, conquistò i porti a nord; con un piede in Arabia e l’altro in Africa, l’Oman divenne una nazione dall’aspetto duplice basata sul commercio degli schiavi, ancorato all’isola di Zanzibar, in Tanzania. Nel 1780 gli omaniti conquistarono il mercato concorrente di Kilwa, spostandone il traffico lungo le loro rotte. Nel 1834 da 131
Zanzibar venivano esportati ogni anno 6500 schiavi; quattro anni dopo il numero era raddoppiato.2 Nel 1859 si registrò che dall’interno arrivavano a Zanzibar 19.000 schiavi. Dopo il 1840 il sovrano dell’Oman trasferì la propria corte dalla penisola araba alla più ricca e cosmopolita città di Zanzibar, che divenne indipendente dal suo partner commerciale arabo nel 1845. Nel 1871 un quarto delle entrate del sultano derivava dalla tratta degli schiavi.3 Fu soltanto con lo sfruttamento dell’Africa da parte degli europei, a partire dall’Ottocento, che vennero alla luce delle descrizioni dettagliate dello schiavismo nel cuore del continente. Ogni giorno, in un luogo sperduto dell’Africa, i mercanti di schiavi sceglievano un villaggio vulnerabile e vi si avvicinavano di soppiatto, poi, con un attacco improvviso, i predoni abbattevano ogni uomo in grado di opporre resistenza e catturavano le donne e i bambini, che venivano radunati per iniziare la loro nuova vita di servitù. Nei safari esplorativi che aprirono il continente nero, in genere gli europei seguirono le piste dei mercanti di schiavi, spesso le uniche vie commerciali che collegavano le coste con l’interno. I missionari cristiani che si inoltravano nell’Africa inesplorata si imbattevano in lunghe colonne di schiavi, soprattutto donne sfregiate dalle fruste e incatenate per il collo, che venivano spinte verso la costa. Gli esploratori che ripercorrevano l’itinerario seguito in un viaggio precedente scoprivano spesso dei distretti dai quali, dal tempo della loro ultima visita, era scomparsa la metà dei villaggi per via dei mercanti di schiavi. Un sovrintendente missionario britannico stimò che «per ogni schiavo giunto sano e salvo a Zanzibar si sono perse quattro o cinque vite umane».4 Tra 1860 e 1870, il mercante di schiavi africano Tippu Tip depredava una vasta area dell’interno, al di là dei laghi del Congo orientale. Di fatto il suo raggio d’azione divenne un regno, rapace e inarrestabile, che saccheggiava su e giù per il fiume Congo, finché fu messo a tacere dai belgi che si stavano 132
ritagliando il loro impero nella zona. In Kenya, nei pressi del lago Rodolfo, i mercanti di schiavi operarono fino all’ultimo decennio dell’Ottocento, fino a quando gli inglesi stabilirono un protettorato sulla regione. Un europeo riferì che «un arabo tornato di recente dal lago Niassa mi ha informato di aver viaggiato per diciassette giorni attraverso una campagna ricoperta di cittadine e di villaggi in rovina […] ove non si vede anima viva».5 Alla fine del XIX secolo crebbe la domanda globale di avorio, e altrettanto fece il prezzo, cosa che rese momentaneamente gli schiavi più preziosi come portatori delle zanne di elefante fino alla costa che come bene distinto. I portatori venivano catturati nei villaggi dell’entroterra e, una volta terminato il loro lavoro, venduti oltremare.6 Per alimentare le carovane di schiavi che attraversavano la regione del fiume Tsavo, in Kenya, i mercanti intrapresero una caccia grossa che portò all’estinzione di varie specie a livello locale. Senza le fonti di cibo consuete e con le piste carovaniere disseminate di corpi di schiavi spossati, ben presto i leoni del luogo scoprirono che gli umani erano buoni da mangiare. Poi, quando smisero di arrivare gli schiavi, i leoni dello Tsavo appagarono il nuovo gusto per la carne umana mangiando decine di operai delle ferrovie, circostanza che interruppe momentaneamente l’espansione del controllo britannico nella colonia. Nel 1898 vennero uccisi i più temerari mangiatori di uomini, le prede selvatiche alla fine fecero ritorno e i leoni rimasti tornarono a evitare gli esseri umani.7 Giunti sulla costa, gli schiavi venivano consegnati ai mercanti per la spedizione oltremare. Un visitatore britannico descrisse così gli schiavi di un mercato dell’oceano Indiano negli anni Sessanta dell’Ottocento: «Scheletri con la pelle malata e tesa, le pupille rese orribilmente sporgenti dalla mancanza di carne attorno, il torace ristretto e piegato, le giunture gonfie in maniera innaturale e tremendamente nodose in contrasto con i miseri arti, la voce secca e dura e ‘freddamente distante’ come 133
quelle degli incubi».8 I piccoli mercantili arabi trasportavano gli schiavi dall’Africa orientale al Medio Oriente. Il capitano inglese di una pattuglia antischiavista** fermò un’imbarcazione carica di schiavi sull’oceano Indiano: i maschi erano incatenati sul ponte, all’aperto, mentre le donne stavano sottocoperta. «Sul fondo [dell’imbarcazione] c’era un mucchio di pietre, come una massicciata, e su queste pietre, senza nemmeno una stuoia, vi erano ventitré donne addossate l’una all’altra, una o due con dei neonati in braccio. Poiché non avevano spazio per stare erette, queste donne stavano letteralmente piegate in due».9 Africa settentrionale Quando nel Medio Evo gli arabi introdussero il cammello in Nordafrica, divenne molto più facile attraversare il Sahara per vedere cosa ci fosse dall’altra parte. E chi affrontava il viaggio in genere tornava con degli schiavi. In tutto quel periodo i nomadi beduini del Sahara depredarono le comunità stanziali del margine meridionale del deserto, quella striscia di savana nota con il nome di Sahel, raccogliendo schiavi da inviare ai mercati del Mediterraneo. Tuttavia nel Trecento nel Sahel si era sviluppata una serie di potenti regni, come il Ghana e il Mali, i quali potevano opporsi ai beduini. Purtroppo, anziché costituire una barriera contro le incursioni dei mercanti di schiavi all’interno dell’Africa, questi regni divennero i nuovi intermediari e organizzarono incursioni più a sud per raccogliere nuovi schiavi da inviare al nord. Se le razzie non funzionavano, i beduini scambiavano il sale che trovavano nel deserto con schiavi e oro del Sahel; dai documenti sparsi di cui disponiamo pare che si trattasse di un traffico fiorente. Nel 1353 l’esploratore musulmano Ibn Battuta tornò sulla costa mediterranea su una carovana che trasportava seicento schiave. Nel 1700 si conducevano al nord almeno 1500 schiavi l’anno 134
e nel 1800 il numero toccò il picco di 3000. Quando le navi da guerra inglesi posero fine alla tratta sull’Atlantico, gli schiavi che sarebbero dovuti finire in America andarono invece a nord, attraverso il deserto. Poiché la Libia restò estranea al controllo europeo più di qualunque altra distesa della costa nordafricana, Bengasi e Tripoli diventarono i principali sbocchi della tratta di schiavi sahariana dell’Ottocento. Alla fine degli anni Cinquanta di quel secolo, gli schiavi ammontavano a due terzi del valore di tutto ciò che trasportavano le carovane del Sahara.10 Il traffico era talmente redditizio che buona parte dei sovrani trovava una scusa qualunque per arrestare una suddita e venderla come schiava. La traversata era crudele. Un viaggiatore europeo attraversò il Sahara nei primi anni dell’Ottocento su una grossa carovana che, per ogni schiavo superstite giunto al mercato, ne perse tre o quattro per sfinimento, malattia, sete o colpo di calore. Spesso scomparivano nel deserto intere carovane con centinaia di schiavi. Anche se mettiamo da parte per un momento la morale e consideriamo tutto ciò secondo il puro movente del profitto, sembra uno spreco lasciar morire così tanti schiavi. Si potrebbe pensare che i trafficanti volevano proteggere il loro investimenti, ma, come ci ha spiegato un contemporaneo, il commercio di schiavi era come quello del ghiaccio: era comunque accettabile una certa quantità di perdite, perché il prodotto finale aveva un prezzo sufficientemente alto da coprirle. E, tanto per cominciare, non si trattava nemmeno di un investimento. All’origine gli schiavi erano a buon mercato: nel Sahel centrale un solo cavallo valeva venti schiavi.11 In Medio Oriente a imporre l’abolizione furono delle forze esterne, non il risveglio della coscienza locale. Gli europei cominciarono a provare degli scrupoli riguardo alla schiavitù alla fine del Settecento, perciò quando nel secolo successivo presero il controllo dell’Africa misero fine al traffico internazionale di schiavi. A livello locale la schiavitù è 135
perdurata comunque fino a oggi, e forse in Mauritania e in Sudan ci sono ancora un paio di centinaia di migliaia di schiavi, anche se i governi lo negano. Gli eunuchi Gli eunuchi erano particolarmente utili per fare la guardia all’harem, il consistente gruppo di mogli e concubine riunito da ogni potentato asiatico. Essi possedevano tutta la forza fisica degli uomini, ma non l’impulso sessuale, così si poteva contare sul fatto che non si servissero delle donne e non mettessero al mondo figli da collocare sul trono al posto dell’imperatore. Lo svantaggio era però che la popolazione degli eunuchi non si alimentava da sé, occorreva rifornirsene continuamente da qualche parte. L’Islam proibisce la mutilazione degli schiavi, però, invece di consentire a un dettaglio tecnico di ostacolare la richiesta di eunuchi, i musulmani assegnarono il compito agli infedeli. Gli schiavi venivano dunque evirati dai pagani dell’Africa, subito dopo la cattura, oppure da ebrei e cristiani che vivevano nel mondo islamico. Le società che ricorrevano agli eunuchi preferivano castrare i ragazzi prima della pubertà, circostanza che li lasciava infantili quanto a impulso sessuale, voce e aspetto, a differenza degli adulti castrati, i quali avevano comunque modi e aspetto più virili. I bambini schiavi venivano portati via, apparentemente per la circoncisione – consuetudine per tutti i maschi del mondo islamico – mentre in realtà si trattava di uno stratagemma per avvicinare il coltello in modo che il bambino non si divincolasse; quindi il cerusico afferrava e tagliava tutti gli organi genitali del ragazzo, anziché il solo prepuzio.12 Gli eunuchi andavano incontro a una procedura diversa a seconda della razza. Ai bianchi si tagliavano soltanto i testicoli, mentre ai neri si recideva l’intero apparato – testicoli, scroto e pene –, che veniva poi cauterizzato con olio bollente: restava 136
solo un semplice orifizio per orinare. Siccome la vendita finale degli eunuchi avveniva al termine di un lungo processo di incursioni, carovane e mercati, con il numero che decresceva per le malattie, la disciplina brutale e gli annegamenti lungo il percorso, nel XIX secolo si calcolò che per produrre i 500 eunuchi del Cairo erano morti 100.000 sudanesi, una perdita di 200 uomini per ciascun eunuco sopravvissuto.13 Come abbiamo visto nei capitoli dedicati, per esempio, alla dinastia Xin, alla caduta di Roma, ai Tre Regni e a Giustiniano, le donne della famiglia reale erano spesso al centro di una rete di intrighi familiari, e altrettanto spesso gli eunuchi ambiziosi sfruttavano a proprio vantaggio la possibilità di accedere all’harem. Essi infatti non sottostavano a tutte le restrizioni giuridiche che opprimevano le donne, perciò potevano muoversi agevolmente tra il mondo degli uomini e quello delle donne, fungendo da faccendieri e da uomini di copertura. In tutto il mondo antico, gli eunuchi hanno fatto molta storia. I corsari A causa della linea di demarcazione religiosa che divideva le sponde del Mediterraneo, cristiani a nord e musulmani a sud, la costa opposta era considerata bersaglio legittimo delle scorrerie a caccia di schiavi. Di regola tanto i cristiani quanto i musulmani non rendevano schiavi gli appartenenti alla loro stessa religione. In realtà lo facevano piuttosto spesso, ma era considerato sbagliato... non illecito in quanto tale, ma certamente scortese. Rapire i cittadini di un paese correligionario poteva causare problemi diplomatici di ogni tipo, mentre per contro rapire infedeli era quasi un dovere sacro. In genere i pirati o i corsari berberi del Nordafrica rappresentavano il danno peggiore per il commercio mediterraneo. Una flotta di pirati piombava su una nave ricca e vulnerabile di passaggio e si impadroniva di carico, equipaggio e passeggeri, per rivenderli poi in uno dei porti berberi del 137
Nordafrica, come Algeri, Tunisi o Tripoli. Buona parte delle persone catturate a bordo veniva venduta a terra, ma i prigionieri facoltosi o importanti erano messi da parte e ceduti dietro il pagamento di un riscatto da parte delle famiglie o dei loro governi. Alla fine molti dei paesi marinari d’Europa insediarono dei consolati nelle città berbere proprio per facilitare il pagamento del riscatto. I membri degli equipaggi catturati potevano essere indotti, con il denaro o le torture, a partecipare agli attacchi dei corsari contro le coste della madrepatria: li si adoperava come visi familiari per superare le difese della città. Anche senza inganni, un piccolo villaggio di pescatori non aveva scampo davanti a una flotta di pirati: i corsari piombavano dal mare, radunavano gli abitanti di interi villaggi e li trascinavano via in schiavitù. Talvolta i pirati si fermavano a terra per vedere se qualche parente ricco fosse disposto a riscattare i loro prigionieri. A causa delle comunicazioni rudimentali, essi potevano contare su parecchi giorni di saccheggio sicuro prima che le autorità locali riuscissero a mobilitare forze sufficienti per scacciarli. Il bottino di schiavi più grosso si faceva con gli attacchi contro le comunità costiere di Italia, Spagna e Grecia, benché non fossero ignote le scorrerie sull’Atlantico. Attorno al 1625 in una scorreria contro Reykjavík alcuni corsari catturarono 400 persone, tra uomini, donne e bambini; nel 1631 toccò a Baltimore, in Irlanda, dove furono schiavizzate 237 persone.14 Chi era troppo giovane, vecchio o debole poteva essere gettato in mare sulla via del ritorno in Africa, ma la maggioranza dei prigionieri arrivava al mercato, dove le donne in genere venivano vendute agli harem, mentre gli uomini diventavano spesso schiavi da galea. In quel momento della storia a creare la maggiore domanda di manodopera sacrificabile a buon mercato del Mediterraneo furono le galee a remi. Nel mondo antico ai remi delle galee c’erano uomini liberi e salariati, ma nel Medio Evo si trasformò in un lavoro da schiavi. In genere si sfruttavano i galeotti sino 138
alla morte, senza pensarci due volte. Incatenati alle loro panche, tiravano continuamente i remi, costantemente, con il sole, con la pioggia e anche di notte. Non potevano nemmeno sdraiarsi per dormire, così riuscivano solamente a farsi un sonnellino di tanto in tanto quando si accasciavano sui remi. In battaglia o durante una tempesta, i galeotti affondavano insieme alla nave. Nella battaglia di Lepanto, combattuta nel 1571 tra Spagna e impero ottomano, annegarono più di 10.000 galeotti cristiani incatenati nel ventre delle navi da guerra turche. Alla fine la tecnologia navale dell’Occidente superò quella dei corsari. All’inizio dell’Ottocento le navi da guerra europee e americane intrapresero rappresaglie sistematiche contro i porti berberi che continuavano a dare rifugio ai pirati; le città nordafricane furono costrette a un giro di vite contro i pirati e il Mediterraneo divenne un mare sicuro per i commerci. I mamelucchi Gli schiavi costituirono la spina dorsale di molti eserciti musulmani. I turchi ottomani (1450-1900 ca.) richiedevano alle comunità contadine cristiane dei Balcani di cedere una quota di ragazzi da allevare come musulmani e addestrare come soldati. Nello stesso periodo gli egiziani acquistavano in genere i ragazzi circassi dal Caucaso. Nel corso dell’infanzia, durante la quale apprendevano il mestiere delle armi e l’Islam, i ragazzi restavano isolati dal mondo esterno; erano considerati schiavi, proprietà personale del sultano. Benché una volta raggiunta l’età adulta fossero giuridicamente liberi, non potevano mai lasciare il servizio del sultano. Trascorrevano tutta la vita da soldati, in caserma, mentre i loro figli venivano allontanati e gli era vietato intraprendere lo stesso mestiere dei padri. Allorché si facevano troppo vecchi per combattere, questi soldati passavano a mansioni di supporto e infine raggiungevano una comoda pensione, con tanto di schiavi che li allietavano. Per questi soldati schiavi, denominati mamelucchi dalla 139
parola araba che significa schiavo, non c’erano famiglia, appartenenza tribale o proprietà che ostacolassero la fedeltà al sultano. D’altro canto, essi tendevano a mostrarsi più fedeli verso i propri commilitoni che verso la corona, al punto che le dinastie musulmane si trovarono sotto la costante minaccia di un colpo di stato da parte dei mamelucchi, se avessero esercitato troppe pressioni su di loro.15 Nella statistica di questa ecatombe non tengo conto dei mamelucchi, perché li considero, in termini morali, più dei soldati di leva che degli schiavi. Le restrizioni imposte al mamelucco medio avevano a che fare più con il servizio militare che non con la schiavitù. Le cifre La schiavitù nel mondo islamico non è stata studiata in maniera altrettanto approfondita di quanto è avvenuto a proposito della cristianità, per cui le cifre affidabili sono meno numerose. In Islam’s Black Slaves, Ronald Segal ha riportato una stima di 11,5 o 14 milioni di africani spediti nel mondo islamico. Altre stime variano tra 10 e 25 milioni di schiavi importati. Quanti africani morirono nella tratta degli schiavi? Sebbene molti aneddoti indichino decine di schiavi uccisi per ogni vivo arrivato a destinazione, si tratta di episodi isolati. Nel complesso non esiste alcuna prova concreta che la tratta orientale fosse più o meno mortale di quella occidentale, perciò utilizzerò la stessa proporzione del capitolo dedicato alla tratta in Occidente. Dichiaro quindi che ogni due schiavi trasportati ne morivano tre; il che vuol dire che per produrre 12 milioni di schiavi vivi ci vollero 18 milioni di morti. Robert C. Davis ha calcolato che tra il 1530 e il 1780 sulla costa berbera i musulmani resero schiavi tra 1 e 1,25 milioni di cristiani europei.16 Pochi rividero la loro patria e probabilmente almeno la metà dovremmo darli per morti. Per via delle crudeltà e del duro lavoro, il tasso di mortalità tra questi schiavi era 140
all’incirca sei volte più alto rispetto a quello della popolazione libera,17 in più il logoramento ne intaccava il numero.
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Ribellione di An Lushan Bilancio delle vittime: 36 milioni di scomparsi Posizione: 13 Tipologia: insurrezione militare Contrapposizione di massima: esercito di frontiera contro governo centrale Periodo: 755-763 Luogo: Cina A chi diamo la colpa di solito: soprattutto An Lushan, ma anche il pazzo e infatuato imperatore Xuanzong, insieme all’infida Yang Guifei Sotto la dinastia Tang, la Cina conobbe la massima espansione verso ovest mai raggiunta fino a quel momento, coincisa con la costruzione dell’impero arabo in Medio Oriente, fattore che condusse all’unica battaglia tra eserciti cinesi e arabi della storia, avvenuta nel 751 sul fiume Talas, in Asia centrale. Da qualche parte nell’aspra regione di confine tra queste due culture in espansione, probabilmente vicino a Bukhara in Turkestan, intorno al 703 nacque An Lushan. Sua madre discendeva da un importante clan turco, suo padre, probabilmente un soldato di stirpe sogdian (imparentata in epoca medievale con i pashtun che dominano oggi l’Afghanistan), morì quando Lushan era ancora giovane. Sua madre trovò un nuovo marito nella famiglia di un eminente signore della guerra nomade. Quando nel 716 membri di tribù rivali assassinarono il khan di quel particolare gruppo di turchi, il clan degli An si ritrovò dalla parte sbagliata degli intrighi tribali e si diede alla fuga verso est, nelle province periferiche dell’impero cinese, dove 142
beneficiò della protezione di un amichevole signore della guerra turco. Per un po’ il giovane Lushan visse al limite della legge, finché non fu sorpreso a rubare pecore. Condannato a morte, il ladro ventenne tentò una negoziazione con il governatore Zhang Shougui proprio mentre il boia era in procinto di sollevare la mazza per fracassargli il cranio. «Il grande signore non desidera forse distruggere i barbari?» domandò. «Perché, dunque, uccidere un guerriero coraggioso?» Il governatore capì e decise di spedire An in esplorazione. Verso la vetta Nel 733, quando l’imperatore Tang trasferì il governatore Zhang nella zona nordorientale per sostituire un comandante che era stato sconfitto e ucciso dai khitan (i barbari locali),* An Lushan partì al suo seguito. Si dimostrò esperto nelle veloci incursioni di cavalleria che caratterizzavano la guerra di frontiera. Sebbene irascibile e impulsivo quando aveva a che fare con i subalterni, si mostrò sempre di buon temperamento e piuttosto simpatico nel trattare con i superiori. Salì di grado, diventando il tenente di Zhang e, alla fine, anche suo figlio adottivo; tuttavia, da robusto qual era, dapprima si fece tracagnotto e poi patologicamente obeso, inducendo Zhang a rimproverarlo sempre più frequentemente in pubblico. In seguito, nel 736, mentre Zhang era in visita presso la capitale, An dovette occuparsi da solo di un attacco dei khitan e degli xi (altri barbari locali), dal quale uscì malamente sconfitto. Quando Zhang, schiumante di rabbia, fece ritorno dalla capitale, lo condannò a morte, ma non appena si rese conto delle possibili conseguenze del gesto, preferì semplicemente espellerlo dall’esercito. Nel giro di un anno, comunque, An Lushan fu reintegrato.1 Nel 742 l’imperatore consegnò ad An la propria provincia di frontiera per difenderla. Egli mantenne costante il flusso di tributi che partivano dal suo comando di frontiera e tornavano 143
alla capitale: cammelli, cani, falchi, cavalli e, il dono più prezioso, borse colme delle teste dei capi khitan. Alcuni lo accusarono di raccogliere queste teste mozzandole ai capi nemici che avrebbe attirato in negoziati di tregua prima di far scattare la trappola, ma, poiché contavano solo i risultati, l’imperatore gli diede da proteggere altre due province, che costituirono un solido feudo di tre territori nel nordest, vicino alla Grande Muraglia. In seguito si sarebbero aggiunti ulteriori territori.2 An Lushan divenne un ospite frequente e gradito del palazzo a Chang’an, dove vestiva i panni del buffone grasso per il divertimento dei cortigiani. Diventò il prediletto della giovane favorita dell’imperatore, Yang Guifei, la quale finse persino di adottarlo come figlio in una falsa cerimonia in cui l’enorme obeso venne presentato alla nuova mamma con indosso solo un pannolino. Si mormorava che Lushan e Guifei fossero amanti, ma mentre la donna passò alla storia come una delle quattro grandi bellezze dell’antichità cinese, lui non poteva nemmeno camminare senza lasciar penzolare le braccia sui servi che sostenevano la sua mole gigantesca: insomma... che schifo!3 Tenendo in considerazione l’amore leggendario fra l’imperatore e la sua signora e la profonda stima di cui godeva An presso l’imperatore, gli storici ritengono improbabile una tresca. Originariamente, Yang Guifei era sposata con uno dei figli dell’imperatore (ma non uno dei figli che ritroveremo più tardi in questa storia), finché egli, infatuato e settantenne, non sciolse il matrimonio e rinchiuse Yang in un monastero per un paio d’anni allo scopo di farle recuperare la verginità perduta. La storia dell’imperatore Xuanzong e di Yang Guifei si trasformò in leggenda. La situazione precipita Nel 751 An Lushan condusse il proprio esercito e gli alleati xi contro i khitan, ma dopo un viaggio lungo e polveroso il capo xi 144
si azzardò a chiedere una sosta e An lo fece uccidere. Il contingente xi disertò e, sulla via del ritorno, avvertì i khitan che stavano arrivando i cinesi. Quando questi, ormai esausti, avanzarono, caddero in un agguato dei khitan e furono tutti trucidati. An Lushan riuscì a fuggire a malapena con ciò che restava del proprio esercito. Lungo la strada del ritorno al campo giustiziò diversi ufficiali sopravvissuti, mentre altri riuscirono a scappare sulle colline in attesa che la sua rabbia scemasse.4 Quando nel 752 morì il primo ministro dell’imperatore, gli succedette un cugino di Yang Guifei, Yang Guozhong, che iniziò immediatamente a incolpare il proprio predecessore di tutti i problemi dell’impero. An Lushan, macchiato dalla sua amicizia con lui, si guadagnò presto una pessima posizione nella scala di giudizio del ministro Yang, che riferiva pettegolezzi all’orecchio dell’imperatore. L’imperatore Xuanzong mandò un eunuco di fiducia a spiarlo, ma una cospicua tangente fece in modo che l’imperatore ricevesse un appassionato rapporto sulla lealtà del suo generale. Anche così, però, l’imperatore ritenne comunque che tale lealtà andasse verificata più da vicino, perciò decise di convocarlo nuovamente a corte. An Lushan sospettava che, se avesse lasciato il proprio esercito e fosse tornato alla capitale, sarebbe stato per lo meno privato della sua autorità e presumibilmente imprigionato, esiliato o ucciso. An ringraziò l’imperatore per l’invito, ma rispose che non si sentiva bene. Così, l’imperatore donò una sposa a uno dei figli di An, ordinandogli di tornare per assistere alle nozze; An rifiutò e, rendendosi conto di aver esaurito le scuse, mise in atto una ribellione. Divulgò una notizia falsa piuttosto inconsistente, secondo cui l’imperatore lo aveva segretamente implorato di liberarsi del primo ministro e nel dicembre del 755 marciò sulla capitale con un esercito di 100.000 uomini, viaggiando di notte e mangiando all’alba.5 Afflitto da una malattia della pelle e quasi cieco, An Lushan aveva perso anche quel buonumore che lo aveva contraddistinto 145
un tempo. Era incline a collere irragionevoli, durante le quali avrebbe fatto smembrare i propri subalterni.6 Dopo aver allontanato l’esercito dal confine, i suoi vecchi territori insorsero in una controrivolta, ma a lui non importava: tutto ciò che gli interessava era raggiungere la capitale. Per mantenere leali i suoi soldati, permise loro rapide azioni di violenza, saccheggio e massacro in ogni città conquistata, pur continuando a far avanzare l’armata. A gennaio un esercito attraversò il Fiume Giallo ghiacciato e prese Luoyang, la capitale secondaria, in cui egli si proclamò imperatore.7 L’esercito imperiale principale, composto da 80.000 soldati, si stava riorganizzando presso il passaggio di Tongguan, ma l’arrivo di An gettò nuovamente scompiglio tra le prime unità. Subito dopo, l’avanzata delle forze ribelli si arrestò in prossimità del passaggio per prendere tempo. Gli eserciti restavano in attesa, ma il ritardo diede tempo a sufficienza agli eunuchi del palazzo di Chang’an per tramare contro i generali imperiali. Forse avevano un buon motivo per tramare, forse no, chissà! Voglio dire, quelli erano gli eunuchi di palazzo, tramare era la loro specialità. Indipendentemente dalla ragione, convinsero l’imperatore Xuanzong a giustiziare i suoi generali. Alla fine, a luglio, dopo un’enorme battaglia con cavalleria e arcieri, l’esercito imperiale fu sconfitto e il passaggio liberato. L’imperatore Xuanzong fuggì verso la capitale per la strada principale, intasata di soldati imperiali disperati e demoralizzati in cerca di un capro espiatorio. Il primo ministro, Yang Guozhong, fu trascinato fuori dal suo carro e picchiato a morte. In seguito, i soldati fermarono il convoglio dell’imperatore e chiesero la morte della concubina, Yang Guifei, sospettata di essere complice e amante di An Lushan. Xuanzong acconsentì riluttante, così i suoi soldati la portarono via: la strangolarono e la gettarono in un fossato, mentre l’imperatore proseguiva per la sua strada.8 La generazione successiva 146
Agli occhi del suo terzo e ambizioso figlio Suzong, la fuga dell’imperatore corrispondeva a un’abdicazione, perciò Suzong si proclamò nuovo imperatore. Xuanzong trascorse il resto della propria vita in ritiro, attentamente sorvegliato. Dopo la presa di Chang’an da parte dei ribelli, An Lushan iniziò a consolidare il proprio potere, ma si era ormai fatto troppi nemici all’interno della propria cerchia per riuscire a sopravvivere molto più a lungo. Uno dei suoi consiglieri, fustigato in seguito a qualche affronto, cospirò con il figlio di An Lushan, An Qingxu: i due si rivolsero quindi all’eunuco prediletto di An Lushan, evirato personalmente dal suo padrone molti anni prima in un accesso di collera. Fu questi a pugnalare An Lushan nel sonno con la spada, ma dovette compiere uno sforzo incredibile per tagliare da parte a parte tutti quegli strati di grasso. An Lushan gridò e lottò, ma alla fine dovette soccombere. Venne sepolto sotto la sua tenda e all’esercito si disse che era morto di malattia.9 Nell’arco di alcuni mesi, una controffensiva imperiale si impadronì nuovamente della capitale in nome del nuovo imperatore Suzong.10 Mentre i ribelli ripiegavano, An Qingxu venne destituito dal proprio luogotenente Shi Siming, quindi immediatamente incriminato per l’omicidio di suo padre e strangolato. Shi portò avanti la ribellione per diversi anni, seguito da suo figlio e così via, finché l’ultimo della loro famiglia non venne catturato e ucciso. Alla fine, la dinastia Tang sopravvisse soltanto grazie a popoli stranieri, come tibetani e uighur, fatti arrivare all’interno del territorio unicamente per combattere le battaglie al posto dei cinesi, dietro compenso. La Cina dovette cedere ai suoi nuovi alleati le proprie colonie a ovest, i territori desertici del bacino del Tarim. I tempi in cui le guarnigioni cinesi detenevano il controllo diretto della via per l’Occidente non sarebbero tornati per centinaia di anni. La guerra dei poeti 147
Nella storia culturale della Cina, la ribellione di An Lushan occupa una posizione di rilievo perché proprio in quell’epoca vissero e scrissero due dei più grandi poeti cinesi. Questo ci fornisce una visuale interessante sull’atteggiamento cinese nei confronti della guerra, molto più pacifista, per esempio, rispetto a Beowulf, scritto in Inghilterra più o meno nello stesso periodo. Li Bo era un bevitore fannullone, alchimista e mistico taoista, che visse un’esistenza fortunata, fatta di alti e bassi. Quando aveva all’incirca cinquantacinque anni e stava cominciando la guerra, era considerato il più grande poeta della sua epoca. Si legò al principe Lin, sedicesimo figlio dell’imperatore, ma nel 756 il principe fu accusato di tramare per instaurare un proprio regno indipendente e giustiziato. Li Bo fu scaraventato in prigione, ma un anziano soldato che era stato da lui trent’anni prima aveva raggiunto gli alti gradi delle forze militari lealiste. Il comandante liberò Li e lo assunse come suo segretario personale. Ben presto, tuttavia, si riformularono le accuse, perciò Li Bo finì in esilio nella provincia barbara di Yelang, a sud. Lungo la via del ritorno bighellonava e andava a trovare gli amici lungo la via, cosicché dopo tre anni non era ancora giunto a destinazione. Poi arrivò un’amnistia generale e Li poté tornare a casa, nella Cina orientale. Morì mentre era ospite di un parente. La leggenda vuole che, intento a bere vino in barca sul fiume, avesse provato ad afferrare il riflesso della luna sulla superficie dell’acqua e, così facendo, ci fosse caduto dentro, il che probabilmente per un poeta rappresentava l’equivalente di una coraggiosa morte in battaglia per un soldato.11 Sul campo di battaglia gli uomini muoiono nel corpo a corpo; i cavalli dei vinti lanciano al cielo gemiti di dolore, i corvi e i nibbi affondano il becco nelle umane viscere, con i brandelli nel rostro si alzano in volo per appenderli ai 148
rami degli alberi morti. Il sangue dei soldati macchia il terreno arido infestato di erbacce. La strategia dei generali è stata vana. Ora lo so! Chi combatte è un’arma letale che gli uomini saggi usano solo se privi di scelta alcuna. Li Bo, Combattimento a sud dei bastioni12 Più giovane di Li Bo di undici anni, Du Fu era perseguitato da una nuvola di sfortuna. Dopo il mancato superamento degli esami necessari per una carriera nell’amministrazione civile, prese a girovagare e alla fine strinse amicizia con Li, acquisendo la reputazione di promettente poeta. Tornato a corte, si sposò e tentò per cinque anni di ottenere un’occupazione nel governo. Proprio quando si era accaparrato una posizione secondaria, attaccò An Lushan e Du Fu dovette fuggire, ma venne immediatamente catturato dai banditi. Riuscì a scappare e vagò vestito di stracci e affamato, finché non riuscì ancora una volta a riunirsi alla corte in esilio. Si assicurò un lavoro minore come censore, ma le privazioni provocarono la morte di alcuni dei suoi figli per fame e malattia. Perduto anche questo lavoro, riprese a vagabondare senza meta. Si dice che anche lui trovò la morte mentre beveva a bordo di una barca, per gli eccessi dopo un digiuno ininterrotto di dieci giorni.13 Carri rimbombano! Cavalli sbuffano! Uomini in marcia, archi e frecce pendono ai fianchi. Genitori, mogli, figli e figlie li seguono per l’ultimo saluto. 149
La polvere nasconde alla vista il ponte di Hsien-yang. Si aggrappano alle vesti, si gettano ai piedi, inondano il cammino di lacrime. I gemiti salgono in alto, si innalzano alle nubi. Ai lati della strada i passanti interrogano i soldati in marcia. E i soldati in marcia rispondono «Siamo gli ultimi coscritti che partono [...]». Du Fu, Carri da guerra14 Bai Juyi appartiene alla generazione seguente di poeti, nata alcuni anni dopo la fine della guerra, ma la sua Canzone dell’eterno rimpianto si riferisce all’amore tragico fra l’imperatore Xuanzong e Yang Guifei. Si narra che, dopo la morte della donna, l’imperatore avesse rastrellato il territorio alla ricerca di una sensitiva per comunicare con il suo spirito. I due avrebbero ricordato insieme i tempi passati e Xuanzong si sarebbe mostrato davvero addolorato per averla data in pasto ai soldati infuriati. Infine, avrebbero convenuto sul loro destino: riunirsi nell’aldilà. Bai Juyi lo racconta meglio di me, comunque. Egli non riteneva che questa fosse la sua opera migliore, ma la poesia divenne molto popolare tra le giovani romantiche.15 Il Signore si copre il volto che aiuto può darle? Distoglie lo sguardo, e sangue e lacrime insieme scorrono [...].16 Bai Juyi, Canzone dell’eterno rimpianto 150
I numeri Il censimento compiuto in Cina nell’anno 754 registrò una popolazione di 52.880.488 individui. Dopo dieci anni di guerra civile, il censimento del 764 ne rintracciò soltanto 16.900.000. Cosa accadde a 36 milioni di persone? È plausibile una perdita di due terzi della popolazione in un solo decennio? Forse sì. I contadini spesso sopravvivevano sull’orlo della fame, quindi ogni minimo sconvolgimento avrebbe potuto causare un calo massiccio nel numero, specialmente se fosse dipeso dai grandi impianti di irrigazione. Come abbiamo visto con la dinastia Xin e l’epoca dei Tre Regni, questo non fu il solo tracollo della popolazione nella storia cinese e molti autori citano questi dati con un margine di dubbio veramente minimo. D’altro canto, tali cifre potrebbero anche rappresentare un peggioramento nella capacità dell’amministrazione centrale di trovare tutti i contribuenti, piuttosto che una reale diminuzione della popolazione.17 Più convincente, seppur meno preciso, è il conto delle famiglie. Nei sette conteggi precedenti alla ribellione di An Lushan, i censimenti registrarono diverse volte tra gli 8 e i 9 milioni di famiglie e, successivamente, nei sette conteggi che seguono la ribellione, coerentemente, i censimenti non ne registrarono mai più di 4 milioni. Persino un secolo dopo la rivolta, nell’845, l’amministrazione civile cinese poté rintracciare soltanto 4.955.151 famiglie contribuenti: una bella differenza dalle 9.069.154 registrate nel 755.18 Ciò indica che l’effettivo tracollo della popolazione potrebbe avvicinarsi più alla metà o a 26 milioni. Ai fini della classifica, tuttavia, voglio essere prudente e dividere questo numero a metà, contando solo 13 milioni di morti nella ribellione di An Lushan. Anche così l’evento si colloca comunque tra i venti massacri più micidiali della storia dell’umanità.
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Crollo dei maya Bilancio delle vittime: oltre 2 milioni di scomparsi Posizione: 46 Tipologia: stato fallito Contrapposizione di massima: terribili forze sconosciute scatenate contro i maya, come il tempo o Cthulhu Periodo: 790-909 Luogo: penisola dello Yucatán, Messico e Guatemala A chi diamo la colpa di solito: la maggior parte delle persone sospetta che in un certo senso i responsabili furono i maya stessi La domanda senza risposta che si fanno tutti: dove andarono a finire? I maya edificarono dal nulla una civiltà complessa e affascinante, prosperarono per parecchi secoli e poi l’abbandonarono, senza neanche salutare. Da costruttori e matematici di alto livello tornarono a essere tranquilli agricoltori di sussistenza, lasciandosi dietro enormi rovine ricoperte dalla giungla per confondere le idee alle generazioni successive. Da più di un secolo e mezzo stiamo cercando di capire il perché. Tra gli archeologi le tre spiegazioni più popolari sono: 1. la siccità: secondo questo scenario la scomparsa dei maya fu provocata dal clima ed essi non poterono fare molto per impedirlo; 2. un sistematico collasso ambientale: questo scenario si concentra sulle cattive scelte compiute dai maya nella gestione delle risorse. Per esempio, potrebbero aver abbattuto troppe foreste, cosa che inaridì ed erose il suolo; 152
3. la politica e la guerra: in tal caso i maya si uccisero più o meno tra loro. Di tanto in tanto si è proposta qualche altra spiegazione, subito abbandonata però. Forse a sterminare i maya fu una nuova malattia, ma, come vedremo più avanti, l’emisfero occidentale restò immune alle pandemie fino all’arrivo degli europei. O magari furono spazzati via da invasori stranieri, tuttavia nei siti non c’è prova alcuna dell’improvvisa e diffusa comparsa di manufatti stranieri. Un vulcano o un terremoto? No, il crollo non fu così rapido, gli ci volle quasi un secolo. È il classico mistero della stanza chiusa. Ma è anche un test di Rorschach. Davanti a prove tanto vaghe, è forte la tentazione di prendere per buono qualunque scenario che sostenga una implicita visione del mondo soggettiva. Si vuole dimostrare che gli esseri umani sono sempre alla mercé della natura? E allora i maya morirono per la siccità. Si vuole insegnare a gestire meglio le nostre risorse? I maya distrussero incautamente il loro ambiente. Si cerca un antefatto per un romanzo sulle spaventose potenzialità del soprannaturale? Allora i maya si immischiarono nell’occulto e scatenarono le forze demoniache del vuoto oscuro. Scommetto che riuscite a immaginare quella che mi si addice. In genere gli studiosi non scelgono una spiegazione escludendo le altre. Ovviamente furono diverse le forze distruttive che logorarono la civiltà dei maya, ma per rimanere nel tema di questo libro ci concentreremo sulla guerra. La guerra per finire tutte le guerre Chi propone la guerra come fattore del tracollo dei maya è soprattutto Arthur Demarest della Vanderbilt University: secondo la sua ricostruzione, a metà dell’VIII secolo la rivalità tra le città andò fuori controllo. Gli scavi mostrano che per stupire e mettere in soggezione i loro rivali i re maya costruivano palazzi sempre più grandi, esigevano più sfarzo e 153
cerimonie ed esibivano ornamenti più vistosi. Purtroppo questa crescente ambizione potrebbe avere superato quei limiti che in precedenza avevano impedito alle guerre di essere troppo distruttive; e così da contesa rituale per l’onore e il prestigio la guerra passò a essere rapina e carneficina indiscriminata. Distrusse le risorse e distolse i maya da attività più produttive, come il commercio e l’agricoltura. Per buona parte del Periodo Classico le comunità maya si distesero pigramente, e i contadini coltivavano la terra migliore che avevano a disposizione. Poi le città del tardo Periodo Classico mostrarono segni di inquietudine: gli insediamenti arretrarono e si concentrarono su colline facilmente difendibili circondate da palizzate. Poiché non sempre erano vicine ai terreni agricoli maggiormente produttivi, il raccolto ne soffrì. E la guerra si intensificò, come indicano le testimonianze archeologiche, segno di una società più violenta. Nella città in rovina di Cancuén, in Guatemala, Demarest ha scoperto trentuno scheletri di uomini, bambini e donne (due delle quali incinte) smembrati e gettati in una cisterna attorno all’800 d.C. Gioielli di giada, denti di giaguaro e conchiglie del Pacifico indicano che si trattava di aristocratici, uccisi per ragioni diverse dalla rapina. In una tomba poco profonda nelle vicinanze si trovavano gli scheletri dell’ultimo re e dell’ultima regina della città. Demarest ha ritrovato inoltre delle mura di difesa incompiute, punte di lancia sparse e un’altra dozzina di scheletri, con i segni di ferite di lancia e ascia. Questa fu la fine di Cancuén: tra le rovine non si è trovato nulla di successivo al massacro.1 L’aspetto interessante delle rovine di Chunchucmil è un muro di pietra che circonda il centro del sito, visibile nelle foto aeree. Risalente a un momento imprecisato del tardo Periodo Classico, il muro fu eretto su ogni strada, piazza o edificio che si trovavano sul suo perimetro, utilizzando le pietre depredate dalle strutture vicine. Sembra che sia stato costruito d’urgenza per tenere fuori qualcosa, senza alcuna cura per l’estetica o la 154
conservazione architettonica. A quanto pare questo muro, che è incompiuto e ha la forma di una C, fu l’ultima cosa costruita in quel sito, anche se chi lo eresse non chiuse mai il cerchio. Qualcosa ne interruppe la costruzione, e quella fu la fine di Chunchucmil. Anche se le prove variano da sito a sito, spesso gli archeologi si ritrovano a mani vuote, nella ricerca di una spiegazione alternativa, puramente naturale, per la fine dei maya. Nella regione di Petexbatún, nel bassopiano meridionale, Lori Wright (Texas A&M) ha esaminato delle ossa maya del Periodo Classico e ha scoperto che gli individui erano ben nutriti. Nick Dunning (University of Cincinnati) ha studiato dei campioni di suolo ma non ha rinvenuto prove di un cambiamento del clima. Queste scoperte tendono a smentire l’ipotesi della siccità e della carestia come cause primarie della scomparsa; ciò malgrado, gli scavi hanno portato alla luce prove di una crescente povertà nel territorio: meno ceramiche importate e minore qualità dei manufatti. 2 Del tracollo dei maya si possono seguire le tracce con incredibile precisione. Nelle città abbandonate di tutto il loro territorio, con il progredire del IX secolo le iscrizioni monumentali restano incompiute. Non che si interrompano a metà frase con un «arrgh» e uno schizzo di sangue, ma in ogni sito c’è un punto in cui non si aggiunge nulla di nuovo alle iscrizioni, generalmente comuni, di prima che colpisse la crisi finale. Le ultime date registrate a Pomoná e Aguateca corrispondono al nostro 790 d.C. Nel decennio seguente caddero nel silenzio Palenque, Bonampak e Yaxhá. Nel primo quarto dell’800 smisero di scrivere la loro storia altre sette città importanti, cinque nel secondo quarto e infine altre otto tacquero nell’889. L’ultima data scolpita a Chichén Itzá è l’898; Uxmal andò avanti fino al 907, ma quando nel 909 Toniná smise di registrare gli eventi, i maya del Periodo Classico non ebbero più nulla da dire.
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Bilancio delle vittime Non siamo certi che la guerra cronica sia la causa principale del tracollo, ciò nonostante siamo abbastanza certi che ne fu il risultato. Se uno scenario specifico ha inizio con un cattivo raccolto, una nube vulcanica o la mancanza di piogge, tutte le versioni sembrano comunque concludersi con i maya che si contendono le risorse in calo. In quanti morirono per effetto immediato della guerra? Perché scomparisse un’intera civiltà, il numero dei morti dev’essere stato consistente. Questo libro dimostra che le culture sono state in grado di riprendersi persino dopo avere perduto un quarto della popolazione, probabilmente la cifra più alta. Naturalmente nessuno sa a quanto ammontasse la popolazione dei maya al culmine della loro civiltà, tanto che le stime variano da 3 a 14 milioni.3 Per di più nessuno è sicuro di quanti ne restarono dopo che il peggio fu passato. B.L. Turner II ha valutato che dai 3 milioni dell’800 la popolazione calò a meno di un milione nel 1000. Richard E.W. Adams ha invece calcolato che la popolazione raggiunse un picco di 12-14 milioni per poi precipitare a 1,8 milioni.4 Ai fini della classifica, sono stato prudente e ho supposto che nei conflitti finali sia stata ucciso un terzo della popolazione minima, il che equivale a un milione netto.
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Crociate Bilancio delle vittime: 3 milioni1 Posizione: 30 Tipologia: guerra santa Contrapposizione di massima: cristiani d’Occidente («franchi») contro musulmani («saraceni») contro cristiani d’Oriente («greci») Periodo: 1095-1291 Luogo: Levante A chi diamo la colpa di solito: assolutamente non a Riccardo Cuor di Leone e a Saladino
La tregua di Dio Quando nel VII secolo invasero il Medio Oriente, i conquistatori arabi finirono per controllare la culla della fede cristiana. Questi nuovi feudatari in genere lasciavano in pace i loro sudditi cristiani e consentivano ai pellegrini un facile accesso ai luoghi sacri, anche se ogni tanto qualche re o qualche dinastia islamica con una dose eccessiva di fanatismo dava avvio a una persecuzione. In particolare le cose andarono male sotto il califfo (il termine arabo per «successore») al-Hakim d’Egitto, il quale tormentò i cristiani e distrusse chiese in tutto il suo territorio, compreso il luogo più sacro di tutta la cristianità, ossia la chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme, nel 1009. I califfi successivi ripresero una politica di tolleranza, ma ormai i semi della diffidenza erano stati gettati.2 Poi nel 1071 un nuovo gruppo di musulmani pronti a costruire un impero, i turchi selgiuchidi, sbaragliò l’esercito bizantino 157
nella battaglia di Manzicerta, che aprì alla conquista delle restanti province bizantine dell’Asia. L’imperatore bizantino chiese aiuto all’Occidente, ma solo dopo anni di indifferenza quest’ultimo si rese infine conto che sarebbe stato un errore lasciar cadere tutta l’Asia nelle mani dei turchi. Frattanto questi si spostarono a sud per sottrarre la Palestina agli egiziani. Con il volgere delle battaglie Gerusalemme passò di mano più volte e si verificò almeno un massacro della classe dirigente della città, in maggioranza musulmana. I pellegrini cristiani provenienti dall’Europa si ritrovarono intrappolati in una pericolosa zona di guerra e tornarono in patria, raccontando di violenze per mano dei musulmani. Per buona parte della sua storia precedente il cristianesimo aveva disapprovato la guerra. Sant’Agostino aveva stabilito dei criteri rigidi e pressoché impossibili per dichiarare e combattere una guerra giusta; il calendario ecclesiastico vietava la guerra in numerosi giorni santi, tanto che combattere con l’approvazione ufficiale era impossibile per almeno metà dell’anno. Nel secondo millennio la Chiesa cattolica romana aveva imposto un numero talmente alto di limitazioni a eventuali combattimenti che per l’aristocrazia dell’Occidente europeo era davvero difficile dare avvio a una guerra, per quanto giustificata. Non che non ci provasse. Alcuni degli stati più grandi, come l’impero germanico, che aveva imposto alla nobiltà regole di comportamento civile, si stavano indebolendo, cosa che portava alla risoluzione delle controversie locali per mezzo delle armi. Troppi figli disoccupati della nobiltà si aggiravano per l’Europa, in cerca di risse e di scontri, ammazzandosi a vicenda o uccidendo vittime innocenti. Papa Urbano II sperava di incanalarne le energie entro attività più accettabili, come quella di ammazzare infedeli. E così nel 1095, durante il concilio di Clermont, con un vibrante discorso incitò la classe dei guerrieri d’Europa a prendere la croce per piantarla nuovamente in Terra Santa. Sembrava un buon compito per tenere occupati tutti quei cavalieri liberi, che 158
avrebbero oltretutto garantito la sicurezza dei pellegrini. Papa Urbano assicurò che chiunque avesse intrapreso una crociata si sarebbe guadagnato preziosi punti spirituali che nel Giorno del Giudizio avrebbero aumentato il punteggio finale. I volontari s’impegnarono a portare a termine quel compito, altrimenti Dio li avrebbe fulminati.3 Prima crociata Frattanto un sant’uomo errante, Pietro l’Eremita, predicava direttamente al popolo riguardo alla necessità di liberare la Terra Santa dai saraceni. Questa cosiddetta crociata dei pezzenti accese l’immaginazione dell’Europa e attirò un enorme seguito di uomini e donne, soldati e civili, i quali fecero voto di liberare la Terra Santa. Prima di tutto, però, decisero di sbarazzarsi degli infedeli che erano tra loro, così si scagliarono contro le comunità ebraiche della Renania: a Magonza vennero uccisi o indotti al suicidio un migliaio di ebrei, a Worms i crociati irruppero nel palazzo vescovile e trucidarono ottocento ebrei che vi avevano trovato rifugio. Prima che i crociati partissero per la Terra Santa, altri ebrei furono massacrati a Spira, Colonia e Praga. Attraversando l’Europa, questa massa di pellegrini armati tendeva a impossessarsi dei viveri delle comunità che incontrava lungo il cammino, nella certezza che Dio tenesse nella massima considerazione le loro richieste. Tuttavia la popolazione locale aveva un’opinione diversa ed esplosero degli scontri. Una grossa banda di crociati, che uccideva gli ebrei e razziava viveri per la Germania, fu spazzata via dal re d’Ungheria al passaggio della frontiera. Alla fine la prima ondata di crociati arrivò davanti a Costantinopoli, dove l’imperatore bizantino la traghettò rapidamente in Asia, prima che potesse causare qualche problema. Intanto fra i turchi si erano diffuse voci allarmanti, che preannunciavano l’arrivo di una grossa orda proveniente da 159
ovest. Le voci si fecero realtà allorché i bizantini scaricarono la crociata dei pezzenti in Asia e la indirizzarono contro i saraceni. I crociati avanzavano, e ben presto circondarono Nicea, una città greca occupata da poco dai turchi. Il sultano turco raccolse le proprie forze e si accinse a rompere l’assedio: i turchi si avvicinarono con cautela e accesero qualche scaramuccia di prova. Alla fine si scontrarono i due eserciti, ma non si trattò di una vera battaglia, infatti la massa inesperta e incompetente dei franchi venne spazzata via con facilità. Sul campo restarono migliaia di morti, mentre altre decine di migliaia presero la via del mercato degli schiavi.4 All’arrivo della seconda ondata di crociati, i turchi fecero spallucce, ancora compiaciuti com’erano della facilità con cui avevano fatto fuori il primo gruppo. Ma la seconda ondata comprendeva i crociati più equilibrati e prudenti: se la prima era stata troppo impaziente e impreparata, la seconda non lo era affatto. Si trattava di coloro che erano rimasti indietro impegnandosi nella pianificazione e nella preparazione. Affilarono le spade, affidarono i propri possedimenti a custodi competenti e fecero provviste; avevano meno fede in Dio e in un cuore valoroso, e molta di più nei cavalli e nell’acciaio. Giunte in Asia, tre colonne di franchi confluirono contro i turchi, i quali commisero l’errore di impegnare tutte le proprie forze per contrastare la prima colonna a Dorileo, nel luglio del 1097. Quando all’improvviso al loro fianco sopraggiunse la seconda colonna, i turchi, colti alla sprovvista, erano ormai stanchi e a corto di frecce. Quindi comparve alle loro spalle la terza colonna, e a quel punto i turchi vennero trucidati e messi in fuga. Il sultano fuggì, abbandonando servitori, tesoro e salmerie.5 Con i turchi in rotta, i franchi avanzarono attraverso l’Asia Minore, recuperarono il territorio perduto dei bizantini e si spinsero verso la Siria. Siccome non erano in numero sufficiente per accerchiare interamente la grande città di Antiochia, i crociati si accamparono all’esterno della città per parecchi mesi 160
in attesa di una soluzione. Alla fine gli esploratori riferirono che erano in arrivo delle truppe di soccorso saracene, pronte a rompere l’assedio, ma poi funzionò la rete di spie crociate all’interno della città. Quella notte, con l’aiuto di un cristiano armeno residente ad Antiochia, una forza d’assalto scalò le mura, uccise le sentinelle e spalancò le porte all’esercito in attesa.6 Quando arrivarono e trovarono i crociati all’interno della città, le truppe di soccorso turche iniziarono a loro volta l’assedio. Ma quando avevano perso ormai ogni speranza, i crociati scoprirono, nascosta sotto il pavimento di una chiesa antica, la vera* punta della lancia che era stata conficcata nel fianco di Cristo sul Calvario; e rincuorati da questo potente talismano fecero una sortita fuori dalle porte per affrontare i turchi. La lunga marcia aveva ucciso la maggior parte dei cavalli dei franchi, i quali si ritrovavano ora a dover combattere a piedi, cosa che casualmente tornò a loro vantaggio. A differenza dei loro omologhi saraceni, i cavalieri europei erano addestrati sia al combattimento a cavallo sia a quello a piedi, mentre i turchi non si erano mai scontrati prima con una fanteria armata pesantemente. In mancanza dei grossi cavalli da guerra come bersaglio, le frecce turche avevano scarso effetto, così quando i crociati si fecero sotto la fanteria leggera saracena, i musulmani furono massacrati.7 La prima crociata non aveva mai elaborato una rigida struttura di comando. In genere operava come un insieme di eserciti alleati che collaboravano (oppure no) a seconda del consenso generale, ma in pratica fino a quel momento il comandante era stato il principe Boemondo di Taranto.8 Questi rimase ad Antiochia per governarla, mentre i conti Raimondo di Tolosa e Goffredo di Buglione guidarono l’esercito verso sud, alla volta di Gerusalemme. A dicembre del 1098, dopo un assedio durato un mese i crociati presero la cittadina di Marra e trucidarono 20.000 161
prigionieri saraceni. Con due anni di dure marce alle spalle, i crociati erano ormai sfiniti e affamati; avevano perduto buona parte dei cavalli e avevano spogliato le campagne. Dopo il massacro di Marra i crociati più affamati arrostirono i cadaveri dei musulmani morti e se ne nutrirono.**9 Gerusalemme fu infine assediata e conquistata nel luglio del 1099. I crociati saccheggiarono la città e ammazzarono 70.000 persone per le strade, per lo più musulmani, ma non solo, come gli ebrei che avevano trovato rifugio in una sinagoga e vi furono bruciati. I cronisti scrissero che i crociati camminavano nel sangue, che arrivava alle briglie dei cavalli; è ovviamente un’esagerazione, ma possiamo di certo immaginarli sguazzare nelle pozze vischiose di sangue che colava dai cadaveri lungo le strade. Lo stile di guerra In genere nei libri di storia le crociate sono annoverate come una sequenza di eventi distinti, ma così apparivano soltanto dall’Europa. Quella che di solito chiamiamo prima o settima crociata in realtà è la prima o la settima grossa ondata di reclute messe insieme e mandate fuori dall’Europa. Ciò non vuol dire che in Palestina fra una crociata e l’altra regnasse la pace: in Asia la guerra andava e veniva in base alle circostanze locali. In entrambi gli eserciti, i cavalieri costituivano una minoranza specializzata: avvolti dalla testa ai piedi da una leggera maglia metallica, combattevano con lancia, spada, scure o mazza ferrata, dietro un grosso scudo destinato a sopportare l’urto dei colpi nemici. Ogni cavaliere era alla testa di un drappello di truppe di supporto che non combattevano – scudieri, paggi e stallieri – e si integrava con la fanteria leggera e gli arcieri. Giunti di recente dalla steppa, i turchi selgiuchidi erano abituati a combattere come arcieri a cavallo, mentre le nazioni più antiche a metà tra Occidente e Oriente, come i fatimidi 162
d’Egitto, combattevano più o meno come gli europei. Nessuno dei due stili di combattimento presentava vantaggi evidenti: i cavalieri europei erano armati più pesantemente, però erano più lenti dei turchi; le balestre europee avevano gittata più lunga ma un ritmo inferiore di tiro rispetto ai piccoli archi dei turchi. In campo aperto erano in vantaggio i turchi, mentre i franchi lo erano nel corpo a corpo e negli assedi. Alcuni dei crociati più impegnati costituirono ordini di monaci combattenti destinati a scortare e proteggere i pellegrini in Terra Santa. Templari e ospitalieri, il cui quartier generale era rispettivamente presso il Monte del Tempio e l’Ospedale Amalfitano, facevano voto monastico di povertà e castità, quindi sfogavano tutta quell’energia repressa tormentando gli infedeli. Giacché controllavano il movimento in Terra Santa, i templari inventarono la lettera di credito, mediante la quale i pellegrini depositavano denaro contante presso un ufficio dell’ordine in Europa e portavano con sé una ricevuta con cui riscuotevano ovunque, in qualunque altro ufficio dell’ordine. In quanto unici europei che compresero l’oscura arte del far muovere il denaro, i templari si guadagnarono una reputazione sinistra. Le crociate in Terra Santa coincisero con altri due tentativi di espansione della cristianità: la riconquista della Spagna musulmana e la conquista teutonica del Baltico pagano. Tutte e tre le imprese si scambiarono uomini e impararono l’una dall’altra. Nella seconda crociata, sulla via della Palestina i guerrieri addirittura si fermarono in Spagna e aiutarono i cristiani del luogo a conquistare Lisbona ai mori. Seconda crociata Passato quasi mezzo secolo, i crociati si erano comodamente stabiliti in quattro stati crociati: Edessa, Tripoli, Gerusalemme e Antiochia. La Terra Santa era sotto il saldo controllo dei figli dei primi crociati, ma poi il nuovo sovrano saraceno Zangi 163
consolidò un impero in Siria e ridusse gli stati crociati a tre con la conquista di Edessa, l’avamposto più remoto della cristianità. Per riprenderla l’Europa organizzò una seconda crociata (1147), alla quale stavolta parteciparono anche i re, Filippo Augusto di Francia e Corrado III di Germania. Ma i dilettanti coronati della seconda crociata non erano pericolosi quanto gli avventurieri affamati e senza terra della prima, e non riuscirono nemmeno a scalfire i saraceni. Terza crociata Alla morte di Zangi l’impero passò per le mani di diversi giovani zengidi, finché Saladino, un generale curdo che fungeva da reggente, non decise di governare per proprio conto. All’inizio egli mantenne rapporti pacifici con i cristiani della costa levantina, ma poi un signore crociato, Rinaldo di Châtillon, tese un’imboscata a una carovana musulmana e catturò la sorella di Saladino. Questi vendicò l’offesa con una nuova jihad, che raggiunse il culmine con la schiacciante vittoria nella battaglia di Hattin, dopo la quale si aprì a Saladino la strada della conquista di Gerusalemme e della cattura di molti prigionieri templari, poi messi a morte. La perdita di Gerusalemme convinse l’Europa a riprendere sul serio le crociate. Nel 1190 Riccardo Cuor di Leone, nuovo re d’Inghilterra, partì da Marsiglia insieme a Filippo II di Francia. Il Sacro romano impero dell’Europa centrale avrebbe dovuto costituire la spina dorsale della spedizione, ma poco dopo l’arrivo di quest’ultima in Asia Minore l’imperatore Federico Barbarossa scivolò nel fiume che stava guadando e annegò per il peso dell’armatura. La storia ama la terza crociata: fu quella di classe, in cui re saggi e virtuosi si fecero vicendevolmente a pezzi con onore e stile. Dopo la conquista delle varie città non vi furono fiumi di sangue, l’unico sangue versato fu quello di chi sapeva benissimo quel che faceva. Al termine di uno scontro 164
particolarmente soddisfacente, il vincitore si limitava a rendere gli onori al proprio avversario stordito e indifeso, invece di conficcargli il pugnale nella fessura per gli occhi e finirlo. Va bene, probabilmente non fu così sportiva come immaginano i racconti posteriori, ma nella terza crociata entrambe le parti ottennero una buona stampa. Nella storia dell’Islam, Saladino è uno dei condottieri più amati, che molti storici altrimenti moderati descrivono con un linguaggio insolitamente affettuoso: «quando sorrideva, poteva illuminare una stanza», citazione vera tratta da una storia recente.10 Dante inserisce Saladino in una zona di minima sicurezza dell’Inferno, dove gli infedeli rispettabili stanno semplicemente in quarantena, invece di bollire nella lava. Per parte sua, Riccardo Cuor di Leone è uno dei re più amati della storia inglese (con uno dei soprannomi più grandiosi) per il solo fatto che partecipò alla crociata. Il suo regno lo visitò a malapena e lo impoverì per sostenere la guerra santa. Filippo II restò il tempo sufficiente per guadagnare punti con il papa, quindi se ne tornò di fretta in Francia. In realtà il senso dell’onore di Saladino era piuttosto mutevole. Dopo la battaglia di Hattin, gli furono condotti davanti in catene due crociati importanti. Al primo diede di che rifocillarsi, quindi gli spiegò che ormai le regole dell’ospitalità gli impedivano di uccidere un prigioniero al quale aveva dato da mangiare e bere. L’altro prigioniero – Rinaldo di Châtillon, che Saladino voleva uccidere perché aveva rotto la tregua – si avventò su una coppa di vino e la mandò giù prima che potessero fermarlo. Non fece in tempo a pensare: «Aha! Sono salvo!» che Saladino lo uccise comunque perché a nessuno piacciono i saccentoni.11 Neanche Riccardo fu poi così cavalleresco. Dopo aver tolto Acri ai musulmani, concesse a Saladino una settimana per scendere a patti: scaduto il termine, Riccardo trascinò i 2700 prigionieri di guerra saraceni fuori dalla città e li decapitò, insieme a 300 loro familiari. Liberatosi dell’impaccio, l’intero 165
esercito crociato poté tornare in battaglia. I due titani combatterono soltanto una battaglia pianificata. Dopo una frustrante campagna di manovre, alla fine gli eserciti si incontrarono ad Arsuf. In un primo momento Riccardo trattenne i suoi cavalieri impazienti sotto una pioggia di frecce arabe finché non si presentò il momento giusto, quindi sferrò una carica di cavalleria che spezzò le file nemiche e le trucidò. Tuttavia la vittoria non arrise a nessuno, perché Riccardo dovette precipitarsi in patria per salvare il trono vacillante dalle mire del fratello e i feudi in Francia dal suo ex compagno d’armi Filippo II. E così Gerusalemme restò in mani musulmane. Quarta crociata Ormai la cristianità si era resa conto che la Palestina non poteva stare da sola: i vicini più grossi, Egitto e Siria, l’avevano conquistata con troppa facilità. Nella storia non c’è stato un solo impero che abbia avuto come cuore la Palestina, perciò la successiva ondata di crociati (mobilitata da papa Innocenzo III) decise di prendere l’Egitto via mare per poi aggiungere la Palestina. Quando il nuovo gruppo di crociati giunse a Venezia, venne fuori che non aveva denaro sufficiente per pagarsi il viaggio in Oriente. Essendo prima di tutto degli uomini d’affari, i veneziani risposero che la soluzione era che i crociati si guadagnassero il denaro conquistando all’Ungheria il porto adriatico di Zara. La città fu quindi debitamente attaccata e ceduta ai veneziani. Per questo attacco contro altri cristiani, il papa scomunicò immediatamente tutte le truppe crociate: parecchi capi si tirarono indietro, ma il grosso proseguì. Di fronte alla loro tenacia, il papa cedette e riammise i crociati all’interno della Chiesa. A ogni incursione nell’impero bizantino i crociati, come le 166
cavallette, avevano lasciato una scia di desolazione, pertanto i bizantini erano restii a lasciarli passare di nuovo. Gli stessi crociati nei confronti dei bizantini nutrivano sentimenti confusi: certo, quei greci erano cristiani, però erano scismatici che praticavano la loro strana versione della religione, a dispetto del papa. Stavolta, invece di trattare il diritto al passaggio, i crociati trovarono un principe bizantino in esilio che rivendicava il trono, e per suo conto nel 1204 presero Costantinopoli. Quando però questi lesinò il pagamento del loro sostegno, i franchi proclamarono re uno di loro. E così fu depredata l’ultima città dell’Antichità rimasta ancora immune dai saccheggi: scomparvero in grande quantità – bruciati, calpestati, fusi, fracassati o rubati – libri preziosi, opere d’arte e archivi dell’apogeo greco-romano. Per il pagamento del trasporto dei crociati in battaglia contro Bisanzio, Venezia si prese quattro grossi cavalli di bronzo per decorare piazza San Marco, oltre a una manciata di isole facilmente difendibili per controllare il commercio del Mediterraneo orientale. Mentre gli occidentali occupavano il cuore strategico dell’impero bizantino, restavano sotto il controllo greco tre province isolate. Nei decenni successivi queste parti si integrarono a fatica all’impero bizantino, infine Costantinopoli fu tolta ai franchi nel 1261. In tutta questa attività, la questione dell’attacco contro i saraceni passò in secondo piano.12 La crociata dei bambini Nel 1212 l’Europa fu spazzata da una nuova epidemia di febbre da crociata, grazie a un paio di bambini evangelisti erranti che sobillarono la gioventù di Francia e Germania con appelli e sermoni appassionati. Folle entusiaste di giovani li seguivano con devozione di città in città. Come spesso accade per la storia medievale, quale fonte di informazione disponiamo soltanto di qualche frase dell’epoca e di tante pagine di racconti abbelliti 167
scritti una generazione dopo, ma a quanto pare migliaia di bambini – più verosimilmente adolescenti – scapparono di casa e presero la strada, decisi a liberare la Terra Santa dopo il fallimento di chi era più grande di loro. Molti non uscirono nemmeno dall’Europa, e della maggior parte non si seppe più nulla. La storia più diffusa racconta che una colonna di 20.000 impazienti fanciulli francesi calò sul porto di Marsiglia, dove credevano che li attendesse il trasporto. Si imbarcarono sulle navi e salparono agli ordini di Dio; peccato che si trattasse di un inganno: i capitani delle navi li vendettero tutti nei mercati di schiavi del Mediterraneo. Un’altra ondata di 30.000 giovani tedeschi si azzardò a valicare le Alpi: molti si persero lungo la strada, altri finirono a Genova, dove rinunciarono all’impresa e si stabilirono, altri ancora proseguirono. Allorché i sopravvissuti si riunirono a Roma per la benedizione del papa, questi li ringraziò della loro devozione, ma vedendone le condizioni pietose li rispedì a casa.13 Quinta crociata e oltre Ormai il movimento delle crociate si andava risolvendo in nulla e la presenza europea sulla sponda levantina era ridotta a tre enclave costiere: Acri, Tripoli e Antiochia. Un nuovo gruppo di crociati, guidati da re Luigi di Francia (in seguito san Luigi) cercò di conquistare l’Egitto: presero il porto di Damietta e inoltrandosi nell’entroterra egiziano vinsero qualche battaglia, ma alla fine venne meno semplicemente la forza di proseguire. Nella ritirata dal Cairo, il re e il suo esercito furono catturati e tenuti in ostaggio fino al pagamento di un riscatto. La crociata successiva, la sesta, fu una delusione per tutti i partecipanti. Davanti ai mongoli che piombavano sul mondo islamico dall’Estremo Oriente, i saraceni dovevano mobilitare i propri eserciti per affrontare l’incursione da est. Perciò era necessario tenere tranquilli gli stati crociati alle loro spalle; il 168
prezzo fu la restituzione del controllo di Gerusalemme ai franchi. Dunque i crociati tornarono a Gerusalemme, ma lo fecero tramite la diplomazia, senza uccidere nessuno. Ciò nonostante, si trattò di una misura temporanea, perché in breve tempo Gerusalemme tornò ai musulmani. Frattanto lo stato crociato di Antiochia cadeva nella mani dei mongoli. Nel 1289 toccò quindi a Tripoli, conquistata dagli egiziani, così che nelle mani dei crociati restava solamente Acri. Infine, nel 1291, una banda di pellegrini cristiani di Acri ebbe una rissa con dei mercanti siriani e il sultano d’Egitto chiese un risarcimento per i musulmani uccisi. Quando il prezzo si rivelò superiore ai mezzi della comunità cristiana, il sultano attaccò l’ultimo stato crociato e lo cancellò dalla carta geografica. Il retaggio Alcuni storici affermano che le crociate aprirono tra cristianesimo e Islam una frattura che permane ancora oggi. Cerchiamo però di essere realistici: entrambe queste religioni hanno problemi con molte altre. È difficile trovare un momento storico in cui i loro seguaci non si siano ammazzati a vicenda; e anche se ci si riesce, vuol dire che si stavano riposando in attesa dello scontro successivo. Tuttavia, mettendo un numero enorme di aristocratici europei a stretto contatto con l’Oriente sofisticato, le crociate furono in grado di dare avvio alla civiltà occidentale, in una felice pagina di storia che sarebbe stata il maggiore lascito delle crociate stesse. Ma per quanto ci riguarda il lascito principale fu l’inasprimento della religione cristiana: nei cinquecento anni seguenti – cioè fino a quando l’Illuminismo non lo ammansì – il cristianesimo occidentale ebbe un’infelice tendenza alla violenza contro i miscredenti. In questo libro vedremo altre guerre di religione, ma si tratterà di guerre riguardanti dei popoli, popoli che cercano di 169
imporre le proprie credenze, che vogliono essere lasciati soli, che vengono puniti o salvati. Le crociate riguardarono invece un luogo, la Terra Santa.14 Se combattere per la terra è abbastanza comune, di solito la terra contesa dispone di qualche risorsa concreta, minerali, colture, porti, poderi, collocazione strategica, manodopera da sfruttare o pure e semplici dimensioni. La Palestina non ha nulla di tutto ciò, l’unica risorsa della Terra Santa è il suo patrimonio culturale; non ci sono né oro, né petrolio, la terra fertile è scarsa e i nativi pochi. Non c’è niente se non luoghi sacri, perciò in sostanza le crociate uccisero 3 milioni di persone in una lotta per il controllo del traffico turistico.
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Uccidere per la religione La cosa più strana dei conflitti religiosi è che c’è sempre qualcuno che nega che si siano verificati: si dirà che le crociate avevano ragioni economiche e che l’Inquisizione non fu altro che un consolidamento di potere. Si nega che qualcuno possa combattere per la religione, anche se gli interessati ammettono spontaneamente di farlo. Ovviamente quanto a motivazioni nessuna guerra è al cento per cento religiosa (o al cento per cento qualcos’altro), tuttavia non si può ignorare il fatto che alcuni conflitti implicano più religione di altri. E allora come facciamo a stabilire quand’è che la religione costituisce la causa vera e non un comodo pretesto? Tanto per cominciare, se l’unica differenza tra le due parti sta nella religione, è assai probabile che il conflitto sia religioso. A parte la religione, serbi, croati e bosniaci sono in sostanza lo stesso popolo, e lo stesso vale per olandesi e fiamminghi. Nel caso delle guerre di religione in Francia, della partizione indopakistana, del conflitto nordirlandese e della guerra in Libano, persone che si assomigliavano, parlavano la stessa lingua e vivevano nelle stesse comunità si sono accapigliate soltanto perché praticavano religioni diverse. Ancora una considerazione: con quanta facilità si riesce a descrivere un conflitto senza chiamare in causa la religione? La guerra civile americana ebbe sicuramente degli elementi religiosi – il fanatismo di John Brown, il discorso inaugurale di Lincoln, l’Inno di battaglia della repubblica –, tuttavia se ne potrebbe agevolmente scrivere una storia dettagliata senza accennare a nulla di tutto ciò, diversamente da quanto non si possa fare con le crociate, per esempio. Se ne potrebbe scrivere un singolo paragrafo senza parlare del papa, della Terra Santa o di Gerusalemme? Si può anche sostenere che le crociate si 171
fecero per tutt’altro motivo rispetto alla religione, ma provate a buttare giù due pagine senza tirarla in ballo. Alla fine, se le parti in causa dichiarano motivi religiosi, occorre quanto meno prendere in considerazione la possibilità che dicano la verità. Nella visione del mondo di alcuni individui la religione è talmente centrale che per certi aspetti le grandi decisioni presentano in larga parte fattori religiosi. Anche laddove il guerrafondaio di turno utilizza la religione solo come scusa comoda e cinica per smuovere le masse, il motivo principale per cui lo fa è che così funziona. Non si vedrà mai un guerrafondaio che raccoglie eserciti per annientare un nemico che pronuncia le parole o si rade in maniera diversa, perché si tratta di ragioni stupide per combattere una guerra. Per contro, come ottimo motivo per ammazzare qualcuno di solito la differenza religiosa è ben accetta. Se così non fosse, perché la gente dovrebbe rispondere all’appello? Eppure non tutti i conflitti tra religioni diverse sono conflitti religiosi, soprattutto quando tra i gruppi in contrasto esistono differenze molteplici. Nel caso della conquista delle Americhe da parte degli europei, il desiderio di convertire gli indigeni venne molto dopo quello di derubarli. La guerra sul Pacifico tra giapponesi e americani si spiega facilmente come una lotta di potere di natura geopolitica. Quando i turchi si spinsero in Europa, la religione esercitò un certo ruolo nel motivare tanto chi attaccava quanto chi si difendeva, ma restò secondaria rispetto al puro e semplice imperialismo che si andava mettendo in atto lungo tutti i confini dell’impero. Nella lista seguente includo esclusivamente i conflitti e le oppressioni in cui la religione è ampiamente ritenuta la causa primaria del conflitto, dei sacrifici umani o delle uccisioni rituali. I trenta massacri religiosi più sanguinosi Rivolta dei Taiping (1850-1864). In una sollevazione 172
messianica dei cristiani cinesi morirono 20 milioni di persone. Guerra dei Trent’anni (1618-1648). Nello scontro tra cattolici e protestanti per il controllo della Germania i morti furono 7,5 milioni. Olocausto (1938-1945 circa, vedi Seconda guerra mondiale). I nazisti uccisero 5,5 milioni di ebrei in tutta Europa. Nonostante essi affermassero di uccidere gli ebrei per motivi razziali, l’unica differenza sostanziale tra le vittime dell’Olocausto e chi ne rimase indenne era la religione avita. Fu il culmine di parecchi secoli di antisemitismo europeo.* Guerra mahdista (1881-1898). Nel corso dell’insurrezione dei fondamentalisti islamici morirono 5,5 milioni di sudanesi. Gladiatori (264 a.C.-435 d.C.). Per onorare gli antenati romani morirono forse 3,5 milioni di gladiatori. Guerre di religione in Francia (1562-1598). Nelle guerre tra cattolici e protestanti francesi trovarono la morte 3 milioni di persone. Crociate (1095-1291). Per duecento anni i cristiani europei cercarono di strappare ai musulmani il controllo della Terra Santa: nelle guerre morirono forse 3 milioni di persone. Rivolta di Fang La (1120-1122). Due milioni di persone morirono in Cina durante una rivolta contadina che ebbe inizio con degli attriti tra l’imperatore taoista e la minoranza manichea. Sacrifici umani degli aztechi (1440-1524). Gli aztechi sacrificarono circa 1,2 milioni di individui. Crociata albigese (1208-1249). Nella guerra per estirpare l’eresia catara, nel sud della Francia furono uccise un milione di persone. Rivolta dei Panthay (1855-1873). Un milione di morti in una rivolta di musulmani nella Cina sudorientale. Rivolta degli Hui (1862-1878). Altra rivolta islamica nella Cina nordoccidentale: 640.000 morti. Partizione dell’India (1947). La violenza di massa uccise 500.000 indù e musulmani. 173
Invasione dell’Irlanda da parte di Cromwell (1649-1652). Nel corso dell’invasione Cromwell uccise dai 300.000 ai 500.000 cattolici irlandesi. Guerre giudaiche di Roma (66-74 e 130-136 d.C.). Una serie di rivolte messianiche contro l’autorità romana portò forse a 350.000 morti. La Bibbia. Nel dibattito sulle atrocità nella Bibbia esistono due punti di vista: a) Dio è misericordioso e tutto quel che viene descritto nella Bibbia è assolutamente e infallibilmente vero, ma si è esagerato enormemente il numero di persone trucidate dagli israeliti, anche se quelle persone in fondo se lo meritavano; b) la Bibbia fu scritta da semplici mortali che fecero una gran quantità di errori, perciò non si può credere a tutto ciò che vi si legge, l’importante è considerare tutta la gente ammazzata dai cosiddetti uomini santi nelle cosiddette guerre sante nella cosiddetta Terra Santa. Consideriamo per esempio la città di Ai: la Bibbia afferma chiaramente che su ordine di Dio Giosuè uccise 12.000 abitanti della città. Se si è un fondamentalista, c’è davvero molto da spiegare, ma se si è un miscredente ci si limita a rilevare che Ai significa «rovina» e che gli archeologi hanno stabilito che la città fu distrutta molto prima dell’arrivo degli israeliti in Palestina, quindi la Bibbia si sbaglia. Ciò significa che nessuno dei due punti di vista coinvolti nel dibattito può adoperare comodamente la Bibbia a sostegno della propria interpretazione della storia. Sia quel che sia, se si mettono insieme tutti i passi sgradevoli della Scrittura si troveranno specificamente enumerati 1.167.000 omicidi commessi da esseri umani. Forse un quarto di essi (300.000 circa) ha una plausibilità storica e motivazioni religiose.1 Giappone (1587-1660). Nel corso della rivolta di Shimabara del 1637-1638 furono sterminate le forze cristiane ribelli composte da 20.000 uomini combattenti e altri 17.000 tra donne e bambini; i sopravvissuti furono solo 105. Nel complesso, in questo periodo la Chiesa cattolica conta in Giappone 3125 martiri con un nome e 200.000 senza nome.2 174
Bosnia (1992-1995). Quando la repubblica a maggioranza musulmana della Bosnia-Erzegovina si separò dalla Jugoslavia, i serbi cristiani del luogo e il governo di Belgrado cercarono di impedirlo. Nella guerra civile che ne seguì morirono 200.000 persone.3 Sati (bandito nel 1829). Il sacrificio della vedova sulla pira funeraria del marito era una pratica comune in India, in particolare nel Bengala, dove le autorità registrarono 8000 sati tra il 1815 e il 1828. In tutta l’India nel secolo precedente vennero forse arse vive circa 60.000 vedove, a cui ne andrebbero aggiunte altre 200.000 dai tempi del Medio Evo.4 Guerra civile inglese (1642-1646). Nello scontro tra i puritani del Parlamento e i sostenitori del re, appartenenti alla Chiesa alta, morirono 190.000 inglesi, compreso il re stesso.5 Libano (1975-1990). Lo stato del Libano in origine fu ritagliato dalla Siria francese per fornire ai cristiani locali un luogo dove potessero costituire una (esile) maggioranza. Nel 1975 tale maggioranza era passata ai musulmani, perciò scoppiò una guerra civile per la divisione del potere, nella quale trovarono la morte 150.000 persone.6 Algeria (1992-2002). Nella guerra civile che ebbe inizio quando la giunta militare rifiutò di passare il potere ai partiti fondamentalisti islamici che avevano vinto le ultime elezioni morirono fino a 150.000 persone.7 Vietnam (1820-1885). Nelle persecuzioni intraprese da diverse generazioni di governanti vietnamiti morì un totale di circa 130.000 cattolici, tra missionari e convertiti.8 Russia (1919). Durante la guerra civile russa nei pogrom dei soldati antibolscevichi in Ucraina restarono uccisi 115.000 ebrei.9 Impero bizantino (845-855 circa). L’imperatrice Teodora (non la moglie di Giustiniano ma la vedova dell’imperatore Teofilo, reggente per Michele III, nonché santa) perseguitò e uccise 100.000 pauliciani, seguaci di un’eresia gnostica.10 Rivolta dei Paesi Bassi (1566-1609). I protestanti dei Paesi 175
Bassi settentrionali si ribellarono contro i governanti spagnoli. Inviato a sedare l’insurrezione, lo spagnolo duca d’Alba si vantò di aver fatto giustiziare 18.600 ribelli. Nella rivolta morirono in tutto 100.000 persone, di cui 8000 durante il sacco di Anversa. I territori protestanti divennero la repubblica indipendente d’Olanda, mentre i cattolici del sud restarono fedeli alla Spagna e alla fine formarono il Belgio.11 Ucraina (1648-1654). Durante una rivolta contro la Polonia, i cosacchi di Bogdan Chmel’nyc’kjj massacrarono 100.000 ebrei e cancellarono trecento comunità ebraiche.12 Impero romano d’Oriente (514-518). Quando l’imperatore Anastasio designò i vescovi monofisiti (i quali separavano la natura divina e quella umana di Cristo) invece dei calcedoniani (credenti nell’unità delle due nature), il generale Vitaliano gli sollevò contro una rivolta. In quella che Edward Gibbon definisce la prima guerra di religione trovarono la morte 65.000 persone.13 Caccia alle streghe (1400-1800). In tutta l’Europa furono bruciate o giustiziate in altro modo 60.000 donne accusate di stregoneria.14 Thug (fino all’Ottocento). Questa setta mistica di ladri e strangolatori potrebbe aver sacrificato circa 50.000 viaggiatori alla dea Kalì.** Noi confidiamo in Dio Se si classificano le voci di questo elenco secondo le religioni che sono entrate in conflitto, si ottiene questa lista semplificata: cristiani contro cristiani: 9 musulmani contro cristiani: 3 cristiani contro ebrei: 3 religioni orientali contro cristiani: 3 ebrei contro pagani: 2 musulmani contro cinesi: 2 176
musulmani contro musulmani: 2 sacrifici umani in India: 2 sacrifici umani in Messico: 1 assassini rituali a Roma: 1 musulmani contro indù: 1 manichei contro taoisti: 1 Probabilmente si può andare oltre e raggrupparli in quattro categorie più ampie: sacrifici umani indigeni (4), religioni monoteiste che si combattono a vicenda (17), pagani che combattono contro religioni monoteiste (8) e pagani che suscitano disordini tutti da soli (1). Nei primi secoli della storia, la maggioranza delle uccisioni per motivi religiosi implicava il sacrificio di persone per placare le forze pericolose dell’universo e ottenerne i favori. Poi l’ebraismo e i suoi germogli, il cristianesimo e l’Islam, concepirono la loro visione del mondo, nella quale un dio onnipotente esigeva una fede rigida e intransigente, invece che offerte tangibili. Da quel momento gli omicidi religiosi hanno avuto la tendenza a discendere dall’attrito tra fedi incompatibili. Si noti che i seguaci delle religioni orientali difficilmente si sono ammazzati per chi ha il dio migliore, e nemmeno i pagani, gli animisti e i seguaci dello sciamanesimo. Di solito queste religioni relativamente flessibili restano tranquille finché non vanno a sbattere contro monoteisti inflessibili. Benché la maggior parte di noi favorisca la tolleranza religiosa, in fin dei conti si tratta di una strategia perdente. L’intolleranza del monoteismo nei riguardi delle fedi concorrenti è infatti una delle ragioni principali per cui è riuscito a rimpiazzare le più pacate religioni indigene di Europa, Africa, America e Medio Oriente.
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Rivolta di Fang La Bilancio delle vittime: 2 milioni1 Posizione: 37 Tipologia: rivolta contadina Contrapposizione di massima: dinastia Song contro ribelli Periodo: 1120-1122 Luogo: Cina A chi diamo la colpa di solito: Zhu Mian Ennesimo esempio di: rivolta contadina cinese Come Nerone e Hitler, l’imperatore cinese Huizong era un artista, solo che era anche piuttosto bravo: le sue opere sono tuttora esposte in alcuni musei del mondo. Huizong, nel corso della propria vita, godette dei piaceri più raffinati: poesia, canto di uccelli, palazzi profumati arredati con mobili laccati, giardini di pietre dure, fiori rari e fontane. Allo scopo di soddisfarlo, i suoi ministri rastrellarono il paese in cerca degli oggetti più meravigliosi. Saccheggiarono tombe e si introdussero nelle ville più ricche alla ricerca di tesori nascosti. Uno dei responsabili di tale compito, l’avidissimo Zhu Mian, fu particolarmente spietato nello spremere la gente comune e i suoi agenti si impadronirono di un boschetto di alberi di lacca che apparteneva a Fang La. Fang La viveva nella città di Muzhou nella provincia costiera dello Zhejiang. Celebre per la sua generosità, Fang La era il capo locale degli «adoratori vegetariani della divinità»: così i cinesi chiamavano i seguaci del manicheismo. Fondato dal profeta Mani in Persia nel III secolo dell’era cristiana, il manicheismo è una religione ormai morta, che 178
credeva nell’eterno conflitto tra forze del bene e forze del male. Il cristianesimo probabilmente trasse i concetti di paradiso e inferno proprio dai manicheisti, dato che non si tratta di nozioni ebraiche o greco-romane, ma piuttosto manichee. Poiché i manichei credevano che il bene e il male fossero ugualmente forti e in perfetto equilibrio, i loro nemici li accusavano di tenere il piede in due staffe e di adorare il diavolo. Dopo che ebbe fondato tale religione, le autorità persiane rinchiusero Mani in prigione per il resto della sua vita. Malgrado la persecuzione, gli insegnamenti di Mani si diffusero lungo le vie carovaniere per tutta l’Asia e la Cina. Le religioni indigene della Cina tendono a seguire principalmente due tradizioni: il confucianesimo (basato sugli insegnamenti di Confucio) è un codice di comportamento sociale, mentre il taoismo (basato sugli insegnamenti di Laozi) è una cosmologia mistica che cerca di spiegare l’universo. Entrambi nascono in quel passato semimitico della Cina del V secolo a.C. Nessuna delle due religioni invita i propri seguaci ad avere un’unica fede ignorando tutte le altre e si dice che i cinesi tradizionali (cioè prima del comunismo) fossero confuciani in pubblico e taoisti in privato.2 Il buddismo, l’altra religione diffusa in Cina, proviene dall’India (sempre del V secolo a.C.), ma si è adattato facilmente, legandosi alla cultura cinese indigena senza grandi problemi. L’imperatore Huizong non era solo un patrono delle arti, ma anche un devoto taoista, nonché uno dei pochi imperatori cinesi a prendersi il disturbo di proscrivere il buddismo, che considerava un’insana influenza straniera. L’imperatore, inoltre, provò a sradicare anche il manicheismo per la stessa ragione. I funzionari cinesi scoraggiarono diverse pratiche connesse a questa religione persiana, come il vegetarianismo e l’uso di vestirsi di bianco. Quando Fang La fu vittima dell’estorsione di Zhu Mian, trovò un pozzo piuttosto profondo a cui attingere, colmo di rancore manicheo, assieme a una rete religiosa che avrebbe potuto sfruttare per organizzare e progettare una rivolta. 179
I ribelli conseguirono un certo successo iniziale con tattiche di attacco a sorpresa e allontanamento immediato contro la milizia locale, ma poi dalla frontiera arrivarono le truppe veterane comandate dal generale eunuco Tong Guan. Questi militari professionisti sconfissero facilmente l’esercito di Fang La in una serie di battaglie in campo aperto, così i ribelli si ritirarono all’interno di caverne in cui riuscirono a resistere a tutti gli assalti. Per soffocare il sostegno popolare ai ribelli, Tong Guan si sganciò dall’autorità del governo, in modo da poter compiere qualsiasi tipo di espropriazione a suo piacimento. Alla fine, nel maggio 1121 una donna del luogo condusse alle caverne le truppe imperiali, che catturarono Fang La e la sua famiglia. La ribellione proseguì ancora per un paio d’anni, ma le forze imperiali finirono per spazzare definitivamente via la resistenza. Purtroppo, allontanare le truppe dalla frontiera aveva inevitabilmente indebolito l’impero, infatti i barbari tungusi dalla Manciuria valicarono la Grande Muraglia per invadere la Cina settentrionale. Così la dinastia Song batté in ritirata, rifugiandosi a sud, praticamente dimezzata rispetto all’inizio della propria dominazione.3
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Gengis Khan Bilancio delle vittime: 40 milioni1 Posizione: 2 Tipologia: conquistatore del mondo Contrapposizione di massima: mongoli contro civiltà Periodo: visse dal 1162 al 1227, ma fino al 1206 non si scagliò contro il resto del mondo Luogo: entroterra dell’Asia (il più vasto impero di territori attigui mai creato) Ennesimo esempio di: invasione mongola A chi diamo la colpa di solito: Gengis Khan La domanda senza risposta che si fanno tutti: non può aver provocato davvero così tanti danni, no? Nascosta in una terra lontanissima, la Mongolia è una regione selvaggia, aspra e polverosa, sinonimo di terra remota. È il luogo dove potete trovare ossa di dinosauro e nomadi irsuti, ma nessuna delle maggiori catene di fast food. La Mongolia moderna è un paese poco popolato a forma di pallone da rugby, preso a calci a turno dai paesi più grandi per centinaia di anni, eppure i mongoli si confortano all’idea che diedero i natali al più cattivo tra i peggiori bastardi nella storia dell’umanità: Gengis Khan. Naturalmente, i mongoli non possono certo vantarsi dei suoi massacri all’ingrosso – anzi li negano fermamente –, perciò ne sottolineano il coraggio, l’audacia, la grandezza, l’astuzia, gli sporadici atti di carità, insieme all’impresa, evidentemente utile, di unire temporaneamente Est e Ovest in una sola entità politica. Fanno notare tutte le valide invenzioni (quali la pasta e la polvere da sparo, forse) che hanno attraversato quell’enorme 181
impero senza precedenti. Orgogliosamente, ne utilizzano l’effige per decorare banconote, bottiglie di vodka e di birra, negozi, hotel, segnali stradali e tavolette di cioccolato.2 Alcuni occidentali credono ciecamente a tutto ciò. Quando un recente studio di genetica ha annunciato che Gengis Khan potrebbe avere 16 milioni di discendenti in vita, molti articoli lo hanno descritto come un «amante prolifico» e non come uno «stupratore seriale».*3 Nel bestseller Genghis Khan and the Making of the Modern World, Jack Weatherford ripete spesso come un avvocato difensore al processo d’accusa: «Sebbene l’esercito di Gengis Khan abbia ucciso una quantità di uomini senza precedenti, [...] egli si distinse in modo notevole e sorprendente dalle normali pratiche dell’epoca. I mongoli non torturarono, non mutilarono né menomarono».4 Quando una freccia lanciata dalle mura della città assediata di Nishapur uccise suo genero, Gengis Khan permise a sua figlia, la vedova, di decidere il destino della città: «Stando a quanto si dice, ella decretò la morte di tutti [...]. Secondo racconti ampiamente diffusi ma non verificabili, fu lei a ordinare ai soldati di impilare le teste [...] in tre diverse piramidi, una per gli uomini, una per le donne e una per i bambini. Poi, si suppone che abbia ordinato l’uccisione di cani e gatti [...] in modo che nessuna creatura vivente sopravvivesse all’assassinio [sic] di suo marito» (corsivo mio).5 Personalmente, trovo sconvolgente che si minimizzino le vittime di Gengis Khan con la stessa facilità con cui chi nega l’Olocausto ignora gli ebrei, per poi rendersi conto che, tra un centinaio d’anni, alcuni storici riabiliteranno la reputazione di Hitler. In realtà, però, non si tratta di una questione di bianco o nero: nessun leader mondiale può giungere tanto lontano quanto Gengis Khan senza una certa quantità di carisma, di adattabilità e di competenza. Se passiamo diverse generazioni a offrire di un capo lo stereotipo di un selvaggio ottuso e assetato di sangue, prima o poi i ricercatori iconoclasti capiranno che nella storia 182
vera c’è molto di più dei nostri stereotipi semplicistici. Un orfano furioso Chi era quest’uomo di nome Gengis Khan? Tanto per cominciare, quello non era il suo nome; era un titolo che significava «capo universale». Quella che usiamo non è nemmeno una buona traslitterazione, perché tendiamo a pronunciare entrambe le «g» allo stesso modo. Nel corso dei secoli, la parte che significa «universale» è stata resa con Gengiz, Genghis (XX secolo) e Chinggis (XXI secolo), ed è a quest’ultima che dovremmo abituarci, anche se il mio correttore automatico preferisce Gengis. Ma iniziamo con Temujin, poiché era quello il suo vero nome. Nacque come signor nessuno, da qualche parte in Mongolia, intorno al 1162, in una delle molte tribù rivali della steppa. Quando Temujin aveva nove anni, una tribù rivale, i tartari, assassinò suo padre e la sua famiglia dovette fuggire in esilio. Temujin si trovò a combattere per la supremazia all’interno della propria famiglia; uccise il fratellastro maggiore, apparentemente perché aveva rubato il bottino di una caccia. Temujin si sposò all’età di sedici anni, ma una tribù rivale gli rapì la moglie. Anche se riuscì a riaverla presto indietro, la donna risultò incinta, cosicché la paternità di quel primo figlio fu sempre in dubbio. Alla fine, Temujin si unì a un capo tribale rinomato principalmente per la pratica occasionale di bollire i prigionieri ancora vivi in un calderone privandoli della carne. Individuo carismatico, Temujin costruì il proprio seguito con altri uomini spogliati di ogni avere, il che significava che questi seguaci dovevano tutto ciò che possedevano a lui e non al diritto di nascita.6 Temujin stimava la lealtà a tal punto che, persino quando la slealtà tra i suoi nemici finiva per avvantaggiarlo, il colpevole veniva comunque punito. In una città, i soldati della guarnigione scesero di nascosto e aprirono le porte per permettere al suo esercito di penetrare all’interno: Gengis Khan 183
li fece giustiziare per tradimento. Temujin aveva sentito parlare della bellezza leggendaria di una principessa tartara, così ordinò ai suoi seguaci di scovarla: i soldati fecero irruzione e scacciarono il fidanzato, portarono la principessa a Temujin, che la accolse come una delle proprie numerose mogli. Qualche tempo dopo, a un raduno di corte, egli vide la sua sposa impallidire per il terrore. Dandosi un’occhiata attorno, Temujin scorse un solo volto poco familiare tra la folla, così fece prendere quest’uomo con la forza per interrogarlo. Era il precedente fidanzato della moglie, che desiderava soltanto vederla ancora una volta. Temujin lo fece decapitare. Quando infine Gengis Khan sconfisse i tartari, pare che fece allineare tutti gli uomini e i ragazzi lungo un carro e che avesse ordinato ai suoi fedeli di uccidere ogni maschio tartaro più alto del perno della ruota del carro; tuttavia, questo tentativo di sterminare la tribù che aveva ucciso suo padre o è un semplice mito oppure non ebbe alcun successo. I tartari, alla fine, formavano la maggior parte delle sue armate, tanto che per gli europei i termini solo «tartari» e «mongoli» sono diventati quasi intercambiabili.7 Per la maggior parte della sua carriera, Temujin cercò di unificare le tribù dei pascoli mongoli in un’unica nazione di guerrieri. Assimilò nel proprio esercito le tribù conquistate, disseminandole per tutta la propria organizzazione. I mongoli arrivarono a essere più un esercito che un’etnia reale, una fusione di diversi clan che abbandonarono piccoli antagonismi e rancori per sottomettersi a Temujin. Dopo molti difficili anni di stermini, un’assemblea delle tribù recentemente unificate della Mongolia nel 1206 proclamò Temujin Gengis Khan, dominatore del mondo. Il titolo era soltanto un po’ prematuro. Lupi della steppa Accademie militari e polemofili** hanno una predilezione particolare per i mongoli. Questi uomini a cavallo univano la 184
libertà del cielo aperto tipica dei cowboy con la tattica del colpisci e stupisci propria della guerra lampo. Come un esercito moderno, gli arcieri mongoli a cavallo contavano sulla mobilità e sulle frecce per annientare i loro nemici, per questo ai professionisti ispirano una maggiore ammirazione e sogni a occhi aperti di quanto non facciano le schiere lente e pesanti di picchieri contadini. Fra i mandriani nomadi della steppa euroasiatica, i ragazzi abbastanza grandi per poter camminare erano anche abbastanza grandi per poter cavalcare, cosicché divenivano molto presto cavalieri esperti. Dato che gestire un gregge era un’attività molto simile alla battaglia stessa, qualsiasi uomo era già addestrato naturalmente alle arti della guerra. I mandriani circondavano i loro greggi di pecore, bovini e capre su cavalli veloci, spingendo il branco nella direzione scelta, spezzandolo in gruppi più piccoli e selezionando alcuni capi di bestiame da catturare per il pasto del giorno. Le tecniche di macellazione dei bovini e degli ovini funzionavano alla perfezione anche per macellare la gente. Gli arcieri cavalcavano avvicinandosi a sufficienza per scagliare una raffica contro la massa dei nemici, per poi cambiare direzione prima che questi potessero reagire. Erano in grado di farlo per tutto il giorno: assottigliavano le truppe nemiche e creavano dei vuoti che si potevano allargare lentamente, aprendo la massa come un cuneo, dividendola in gruppi più piccoli.8 Oltre alle abilità tattiche, i nomadi erano dotati di una stupefacente mobilità nelle lunghe distanze. Gli eserciti contadini erano legati alla terra, che dovevano difendere e coltivare allo stesso tempo, e potevano impiegare soltanto una minima parte dei loro maschi adulti per occuparli in una campagna extraterritoriale. I nomadi, al contrario, abitavano in carri e tende e vivevano dell’allevamento di bovini, capre e ovini. Potevano facilmente sradicare la loro intera nazione e portarsela dietro ovunque andassero. Nei tempi di pace tra una battaglia e l’altra potevano badare ai loro greggi e accudire le 185
loro famiglie, prosperando ovunque ci fosse abbastanza pascolo per sostentarli. Tale capacità di spostarsi velocemente da un luogo a un altro fece sembrare gli eserciti mongoli molto più estesi di quanto realmente non fossero, motivo per il quale la parola ordu, che originalmente identificava un’unità militare mongola, è entrata nella nostra lingua come «orda», una moltitudine enorme. Molti storici ammirano apertamente la maestria di Gengis Khan nella guerra psicologica. Sterminando ogni popolazione che gli si opponeva, Gengis Khan sperava di terrorizzare i futuri nemici inducendoli a una resa immediata, risparmiando, di conseguenza, innumerevoli vite, a parte, ovviamente, le migliaia che doveva trucidare prima per far passare il concetto.9 Ed escludendo anche tutte quelle città che tentarono coraggiosamente di resistergli, che naturalmente vennero massacrate. A volte, poi, capitava che una città cedesse senza lottare, ma Gengis Khan decideva che lasciare in vita una guarnigione rappresentava un rischio troppo alto e, quindi, preferiva uccidere tutti comunque. Senza contare, ovviamente, i numerosissimi profughi, terrorizzati dai racconti che circolavano, che morirono di fame, di malattia e di logoramento mentre fuggivano dalla violenza mongola. Così, se si somma tutto, questa sua propaganda probabilmente non risparmiò nemmeno lontanamente tutte quelle vite che alcuni storici sostengono sia riuscita a salvare. Le armi mongole erano le migliori del mondo nel proprio genere e l’arco composito continuò a rappresentare l’arma più micidiale mai conosciuta ancora per molti secoli. Aveva un’origine antica, tuttavia furono i mongoli a diventarne i veri maestri. Piegate un bastone sopra il ginocchio finché non si spezza: ecco il genere di pressione a cui veniva sottoposto un arco ogni volta che si lanciava una freccia. La soluzione migliore è quella di costruire l’arco con materiali che ne migliorino la prestazione, neutralizzando i tipici problemi che esso incontra 186
nei punti critici della curvatura. Quest’ultima necessita di un materiale in grado di comprimersi ed estendersi prontamente senza spezzarsi: l’ideale per questo scopo è il corno. La parte esterna della curvatura ha bisogno di un materiale elastico che si allunghi senza perdere la propria flessibilità nello scatto. Un tendine è perfetto, trattandosi del resistente tessuto connettivo che unisce i muscoli alle ossa. Infine, legate saldamente tutte le parti con una colla che si ottiene dalla bollitura degli zoccoli, la quale può sostenere uno sforzo ripetuto, e avrete un arco composito, fatto interamente con materiali che i mongoli potevano ottenere dal proprio bestiame.10 Perché tutto il resto del mondo non addestrava gli eserciti e li equipaggiava secondo il modello mongolo? Dato che il tiro con l’arco e l’equitazione richiedevano anni di addestramento per raggiungere una certa padronanza, ci volevano anni per rimpiazzare ogni soldato mongolo caduto. Peraltro ogni campagna sfiniva e uccideva cavalli molto più velocemente rispetto al tempo richiesto per sostituirli alla maggior parte delle società.*** Inoltre l’eccedenza di cibo delle società agricole aiutava la produzione di enormi reggimenti di fanteria armati con armi di semplice utilizzo, come picche, asce e balestre. A queste salde linee di fanteria, una nazione stanziale e civilizzata poteva aggiungere una forza d’urto mobile di cavalieri dotati di armatura su pesanti cavalli da battaglia, che non potevano di certo essere veloci o numerosi quanto quelli di un’orda nomade ma che, di solito, riuscivano a inseguire i mongoli spingendoli fuori dai paraggi prima che facessero troppi danni. La Cina All’epoca la Cina era spaccata a metà. La parte meridionale era ancora sotto la dinastia Song, autentica espressione cinese, rinomata per l’arte, per la poesia e per la giustizia, che non venne conquistata fino al violento assalto del nipote di Gengis Khan, Kublai Khan, cosa che al momento non ci interessa.**** 187
La Cina settentrionale era dominata da conquistatori stranieri relativamente benevoli provenienti dal nord, signori della guerra jurchi che governavano da Pechino come dinastia Jin. Nel 1211, circa 100.000 mongoli con 300.000 cavalli attraversarono il deserto del Gobi e riuscirono a sopraffare la cavalleria Jin presso il passo conosciuto come Bocca del Tasso, sul confine settentrionale del territorio cinese. Una colonna mongola penetrò con rapidità sufficiente per prendere la capitale secondaria dei Jin, Mukden (oggi Shenyang), ma la capitale principale Pechino resistette al loro primo attacco e all’assedio successivo. In attesa che la città cedesse, i mongoli devastarono le campagne. Benché non possedesse macchine d’assedio, Gengis Khan scoprì un modo alternativo per conquistare alcune delle altre città sparse per tutta la Cina del nord. Acciuffò tutti i civili che riuscì a trovare e li radunò in massa davanti ai suoi gruppi di assalto utilizzandoli come scudi umani, mentre i mongoli avanzavano protetti dietro di loro. Le possibilità erano due: o le difese sprecavano tutte le frecce per uccidere i civili che non combattevano o si rifiutavano completamente di tirare, arrendendosi; in entrambi i casi, la cosa andò a vantaggio di Gengis Khan. Un anno dopo, i Jin lo ricacciarono fuori, così egli dovette abbandonare l’assedio di Pechino. Ritenendosi pericolosamente esposto alla frontiera, l’imperatore Jin trasferì la corte a sud, da Pechino a Kaifeng, alle spalle del Fiume Giallo. Alcune unità dell’esercito cinese, tuttavia, lo presero come segno di debolezza e di tradimento, disertando e raggiungendo i mongoli, a cui insegnarono nuove e utili abilità militari, come la maestria nell’assedio delle fortificazioni. Ora che i mongoli avevano le capacità per conquistare Pechino, ripresero l’attacco. Nel maggio del 1215 la città fu presa, saccheggiata e incendiata, ma Gengis Khan era talmente indifferente al valore delle città che non assistette nemmeno alla conquista, avendola affidata a un generale cinese passato dalla parte dei mongoli. A quanto pare, 60.000 donne si gettarono dalle mura di 188
Pechino per evitare gli stupri. Il numero probabilmente è un’esagerazione, ma l’entità totale della devastazione è evidente. Un anno dopo, un esploratore proveniente dalla Corasmia, il territorio che veniva subito dopo nella lista di luoghi da sterminare di Gengis Khan, esaminò il sito per confermare l’orribile destino di questa grande città. «Riferì che le ossa dei trucidati erano accatastate e sembravano montagne, che il suolo era unto di grasso umano, che alcuni membri del suo seguito erano morti in seguito alle malattie diffuse a causa dei corpi in decomposizione».11 I tentativi dei mongoli di conquistare il resto dell’impero Jin oltre il Fiume Giallo fallirono non appena le loro risorse si assottigliarono, mentre le forze dei Jin si potevano concentrare senza sforzo, ma questo non interessava molto a Gengis Khan. Per parecchi anni considerò infatti la Cina del nord niente più che una terra di nessuno da saccheggiare senza ritegno, piuttosto che una provincia conquistata da amministrare e tassare. Non aveva imparato ad apprezzare il valore dell’economia urbana.12 La distruzione della Corasmia Molto tempo fa l’arida regione del deserto, oggi occupata dai vari -stan dell’Asia centrale, ospitava una serie di città-oasi lungo le vie carovaniere tra la Persia e la Cina. Ricca di frutteti e giardini irrigati, costituiva il prospero centro culturale dell’Islam conosciuto come Corasmia. La città di Bukhara era nota per una popolazione di 300.000 individui e una biblioteca di 45.000 volumi, tra i quali ben 200 erano stati scritti da un autoctono, Ibn Sina (Avicenna), il più grande scienziato dell’Islam medievale.13 Merv, la città natale del poeta Omar Khayyam, ospitava dieci biblioteche che contenevano complessivamente 150.000 volumi manoscritti.14 Oggi, se cercate in una carta geografica non troverete più la Corasmia. Vi spiego perché. Per alcuni anni dopo la caduta della Cina del nord, Gengis 189
Khan e il sultano Muhammad di Corasmia intrapresero la strada dei giochi diplomatici, scambiandosi regali, messi, ambasciate e gradevoli lettere, per farsi sfigurare l’un l’altro con la rispettiva insuperabile magnificenza. Doni e omaggi specifici esprimevano superiorità, il che implicava che l’altro doveva rispondere con uno sfarzo maggiore oppure ammettere la sconfitta. Alla fine, nel 1219, il sultano si stancò di questa gara al rialzo. Quando uno splendido carro di inviati e mercanti mongoli giunse alla città di Utrar, in Corasmia, il governatore locale, in combutta col sultano, li accusò di essere spie e li fece uccidere tutti. Gengis Khan spedì dunque degli ambasciatori a Bukhara, alla corte del sultano di Corasmia, con una richiesta di compensazione e punizione per l’accaduto, ma il sultano uccise un ambasciatore e strappò via la barba agli altri due, cosa che nella cultura centroasiatica era considerata un insulto persino maggiore.15 Allora Gengis Khan si diresse verso ovest con un esercito composto da un numero di soldati tra 100.000 e 150.000; le unità d’esplorazione più avanzate viaggiavano a oltre 95 chilometri al giorno. Nel primo scontro tra i due eserciti, quello di Corasmia fu sconfitto, lasciando 160.000 morti sul campo. Utrar, luogo della prima disfatta, rimase sotto assedio per cinque mesi. Alla fine, uno dei comandanti assediati tentò la fuga attraverso una porta laterale, i mongoli lo catturarono e lo giustiziarono per tradimento, ma il suo azzardo spalancò le porte all’esercito mongolo, che si precipitò dentro. Il governatore si barricò nella fortezza interna, che resistette per un altro mese. Quando fu catturato, Gengis Khan gli fece versare argento fuso negli occhi e nelle orecchie.16 La città venne saccheggiata e incendiata: la distruzione fu talmente approfondita che gli archeologi fino a pochissimo tempo fa non erano ancora riusciti a scoprirne la posizione esatta. La città di Balkh si arrese senza lottare, ma Gengis Khan ne massacrò comunque gli abitanti, così durante la marcia verso la città successiva le sue truppe non avrebbero dovuto guardarsi le spalle.17 190
Subito dopo, fu Bukhara a cadere. Lo storico musulmano Ibn al-Athir parlò di «un giorno orribile»: «Si sentivano soltanto i singhiozzi degli uomini, delle donne e dei bambini strappati gli uni agli altri, poiché i Mongoli si spartivano la popolazione. I Barbari attentavano al pudore delle donne sotto gli occhi di tutti quei disgraziati che, ormai ridotti all’impotenza, non potevano far altro che piangere».18 Gurganj, l’attuale Urgench, resistette a un assedio di cinque mesi, cominciato nel 1220. Alla fine, i prigionieri catturati nelle precedenti conquiste vennero costretti a riempire i fossati di sporcizia e di detriti e a scavare sotto le mura. Dopo che esse crollarono a terra, la città fu rasa al suolo quartiere dopo quartiere, strada dopo strada, in un combattimento lento e disperato. Gli uomini della resistenza gettavano secchi di petrolio ardente sulle costruzioni lungo il percorso degli invasori. Tremila mongoli provarono ad attraversare il fiume, ma i soldati musulmani sul ponte si opposero e i mongoli vennero ammazzati uno a uno. Quando nell’aprile del 1221 la città finalmente cadde, si ruppero gli argini per deviare il corso del fiume, in modo da cancellare ogni traccia della città.19 Le donne e i bambini furono venduti come schiavi e 100.000 prigionieri dotati di competenze che potevano risultare utili vennero spediti in Cina. Tutti gli altri furono radunati all’aperto nella pianura e uccisi. Secondo lo storico al-Ǧiuwainī, 50.000 soldati ammazzarono ventiquattro persone alla volta, per un totale di 1,2 milioni di morti. Città dopo città, piuttosto che affrontare la resistenza direttamente sulle mura, Gengis Khan radunò gli uomini, le donne e i bambini prigionieri delle campagne circostanti e della periferia, schierandoli come scudo davanti ai propri eserciti, in modo che ricevessero i colpi diretti delle frecce scagliate dalla difesa. Durante l’assalto una donna sperò di potersi salvare gridando che aveva inghiottito una perla per nasconderla ai saccheggiatori. Ma non funzionò: la sventrarono rapidamente per frugarne le viscere in cerca del gioiello. Da quel giorno in 191
poi, si aprirono e ispezionarono tutti gli altri cadaveri.20 In un’altra città, un generale mongolo venne a sapere che i vivi si nascondevano tra i morti, così per sicurezza ordinò di decapitare tutti i cadaveri dei locali e accatastarne le teste una sull’altra. Nishapur fu preda di un’altra colonna di mongoli in aprile: la popolazione fu uccisa, mentre la città fu demolita e distrutta. Secondo lo storico medievale Sayfi, a Nishapur furono trucidate 1.747.000 persone. Questa cifra probabilmente corrisponde a un numero di individui molto più alto rispetto ai reali abitanti della città, ma ci fornisce l’ordine di grandezza del massacro. Se nel Medio Evo parlare di milione voleva dire «il numero più alto che si possa concepire», allora il numero di caduti a Nishapur era chiaramente molto più alto dell’immaginabile. Quando i mongoli inviarono un messaggero per chiedere la resa di Herat, i capi della città lo fecero ammazzare, azione solitamente considerata poco saggia quando si aveva a che fare con i mongoli. Fortunatamente, il governatore della città fu presto ucciso nell’assedio successivo e i cittadini cedettero immediatamente, incolpando lui del malinteso. La popolazione venne risparmiata, ma i mongoli giustiziarono l’intera guarnigione turca di 12.000 uomini. Purtroppo, la gente di Herat si spinse troppo oltre: dopo che Gengis Khan ebbe ripreso la marcia verso i nuovi obiettivi da conquistare, i cittadini di Herat insorsero contro la guarnigione mongola, così Gengis Khan ritornò per spazzarli via. La prima pattuglia di esploratori mongoli che raggiunse Merv venne cacciata via e i prigionieri coinvolti nella schermaglia furono fatti sfilare per le strade e giustiziati pubblicamente. Successivamente, giunse sul posto l’armata mongola principale, che si accampò all’esterno delle mura di cinta. La città era soffocata dai rifugiati delle campagne e superava di molto i 70.000 individui, il suo normale numero di abitanti. Dopo sei giorni Merv si arrese e il comandante mongolo ordinò ai cittadini di radunarsi all’esterno delle mura. I più ricchi vennero torturati per rivelare la collocazione dei loro tesori nascosti, 192
quattrocento artigiani e alcuni bambini furono tenuti per un futuro utilizzo, il resto della popolazione fu eliminato. In seguito, un ecclesiastico perlustrò le rovine e contò i corpi, calcolando un numero totale di morti di 1,3 milioni. I mongoli avevano distrutto la diga che assicurava l’irrigazione a tutta l’area. In quel sito non si ricostruì mai più alcuna città.21 Ulteriori espansioni Gengis Khan fece ritorno in Cina per ripulire quelle oasi fastidiosamente sopravvissute alla sua prima conquista. Trascorse un breve periodo nel tentativo di risolvere la guerra in corso contro ciò che rimaneva dell’impero Jin, senza alcun risultato, cosicché si scagliò contro i tangut, tibetani scesi dall’Himalaya che fondarono città carovaniere nelle oasi tra Cina e Corasmia. Le città caddero una dopo l’altra per opera delle sue orde, che non riservarono nessuna pietà ai prigionieri. I tangut provarono a fuggire sulle montagne e a nascondersi nelle caverne, ma ci riuscirono solo in pochi. Distese d’ossa ricoprirono il deserto per molti anni a venire. Allorché nel 1227 il re dei tangut tentò di negoziare una resa sicura della sua capitale assediata, Ningxia, l’ormai anziano Gengis Khan sentiva avvicinarsi la propria morte. I suoi ultimi ordini stabilirono che i tangut non gli sarebbero sopravvissuti. Ningxia venne conquistata e la popolazione totalmente sterminata. Nel frattempo, due dei generali di fiducia di Gengis Khan, Subotai e Jebe, stavano inseguendo il sultano Muhammad di Corasmia in fuga, fin nell’entroterra persiano, ma egli morì prima di essere catturato. Affinché la spedizione non si rivelasse uno spreco totale, i mongoli presero la città persiana di Qazwin mentre si trovavano nelle vicinanze. «Gli abitanti si riversarono per le strade difendendosi con il coltello in mano: uccisero molti Mongoli, ma la loro resistenza disperata non riuscì a preservarli da un massacro generale in cui perirono più di quarantamila 193
persone».22 Poi i mongoli si spinsero a nord verso l’Azerbaigian e la Georgia, distruggendo innumerevoli città, e attraversarono il Caucaso verso la steppa russa e ucraina. Le avanguardie erano ormai in prossimità della Polonia quando giunse la notizia della morte di Gengis Khan, così l’attacco si arrestò e i capi fecero ritorno per decidere la successione. Gengis Khan venne sepolto in una tomba situata in un luogo segretissimo, da qualche parte nel profondo della sua patria mongola. Tutti i testimoni a cui capitò di passare accanto al suo corteo funebre vennero catturati e uccisi per impedire loro di svelarne l’ubicazione. Dopo che il corpo fu sepolto assieme alle ricchezze accumulate, agli schiavi che lo sotterrarono fu tesa un’imboscata e furono tutti trucidati per nasconderne per sempre la posizione. La sua tomba non si è mai scoperta, ma la questione del suo ritrovamento assilla gli archeologi come una delle maggiori possibilità di carriera del mondo. Fu davvero possibile? Per il momento dimentichiamo gli incredibili conteggi delle vittime riferiti alle singole atrocità e concentriamoci, invece, sulle stime generali dei moderni esperti di demografia. A detta di tutti, durante le guerre di conquista di Gengis Khan la popolazione dell’Asia crollò. La Cina aveva moltissimo da perdere, infatti perse moltissimo, dai 30 ai 60 milioni di individui. La dinastia Jin che governava la Cina del nord registrò 7,6 milioni di famiglie nei primi anni del XIII secolo; nel 1234 il primo censimento mongolo registrò 1,7 milioni di famiglie nella stessa zona. Nella sua biografia di Gengis Khan, John Man interpreta questi due dati estremi come un calo della popolazione da 40 a 10 milioni di individui. In The Atlas of World Population History, Colin McEvedy calcola che nel XIII secolo, durante la dominazione mongola, la popolazione cinese subì un tracollo di 35 milioni di individui. In Breve storia dei mongoli, lo storico David Morgan stima una popolazione cinese 194
(sia nel nord che nel sud) di 100 milioni di individui prima della conquista e 70 milioni dopo.23 Nella sua recente biografia di Gengis Khan, John Man fa una congettura approssimativa: in soli due anni in Corasmia sarebbero state uccise 1.250.000 persone, un quarto dei 5 milioni di abitanti originari. McEvedy sostiene che la popolazione dell’Iran calò di 1,5 milioni, quella dell’Afghanistan di circa 750.000 individui, mentre la Russia europea ne avrebbe persi 500.000.24 Uno dei dubbi più comuni su Gengis Khan riguarda la sua reale capacità di provocare tutti quei danni. Egli, infatti, era dotato di armi primitive e a quel tempo c’era molta meno gente da uccidere; quindi ci si chiede come possa aver ammazzato più persone di Stalin o della prima guerra mondiale. Di recente c’è la tendenza a riabilitare la sua reputazione liquidando come mera propaganda tutte le storie di orrore che lo riguardano. È interessante seguire le oscillazioni del dibattito a seconda dell’opinione dell’esperto di turno. J.D. Durand, 1960: «Una considerevole diminuzione della popolazione nel nord potrebbe essere stata causata dalla lotta tra cinesi e mongoli, durante l’invasione [...]. Ciononostante, l’entità del decremento nel settentrione, non bilanciata da un corrispondente aumento nel meridione, genera un sospetto circa la validità del censimento nel nord».25 René Grousset, 1972: «Ciò detto per amore di obiettività storica; ci sia consentito di manifestare la nostra ripugnanza per massacri tanto abominevoli».26 David Morgan, 1986: «Bernard Lewis, una sorta di rappresentante della storiografia revisionista dei Mongoli, sostiene che l’uomo del XX secolo sia in grado di giudicare il fenomeno mongolo in modo molto più equilibrato dei suoi predecessori vittoriani, per i quali le conquiste mongole erano state una catastrofe dall’aspetto quasi sovrumano. Secondo Lewis, [...] l’apparato distruttivo dei Mongoli, così primitivo rispetto alla macchina bellica di Hitler, non avrebbe mai potuto 195
devastare il mondo islamico in modo così grave».27 David Morgan, 1986 (parlando per sé stesso): «[In Persia] il danno irreparabile provocato dalle invasioni mongole non fu costituito dalle demolizioni delle città e dai massacri degli abitanti del Khorasan, come spesso ripetono gli storici, bensì dalle conseguenze catastrofiche che si sarebbero riversate sull’agricoltura. […] Durante le invasioni mongole furono distrutti proprio alcuni dei collegamenti d’irrigazione principali, provocando una improvvisa assenza d’acqua che aveva rapidamente trasformato le terre in deserto. Ma al di là di queste distruzioni, l’agricoltura avrebbe subito il colpo mortale dalla scomparsa di numerosi contadini che abbandonarono i campi per riparare nelle città o vennero massacrati; e il sistema dei qanat funzionava solo se costantemente mantenuto in efficienza dalle popolazioni agricole distribuite uniformemente sul territorio».28 Jack Weatherford, 2004: «I mongoli misero in moto una macchina di propaganda virtuale che gonfiò il numero della gente uccisa in battaglia, spargendo il terrore ovunque giungessero le notizie».29 «Sebbene si trattasse di un racconto ampiamente accettato e ripetuto di generazione in generazione, i numeri non si basano sulla realtà. Sarebbe stato fisicamente impossibile persino macellare tante mucche o maiali, che aspettano passivamente il proprio turno. In tutto, il numero di coloro che si presume siano stati massacrati supera quello dei mongoli di più di cinque a uno. La gente sarebbe potuta fuggire tranquillamente e i mongoli non avrebbero potuto fermarla».30 John Man, 2004: «Un milione e trecentomila? [...] Molti storici mettono in dubbio questa cifra, perché sembra semplicemente incredibile. Ma noi sappiamo, dagli orrori del secolo scorso, che lo sterminio di massa riesce facile a coloro che hanno la volontà, il potere e le capacità tecniche per farlo. [...]. 800.000 persone furono massacrate nel genocidio del Ruanda nel 1994 [...] in soli tre mesi [...]. Per un Mongolo, un prigioniero che non opponeva resistenza era più facile da 196
eliminare di una pecora. Viene uccisa con cura, in modo da non sciupare la carne [...]. Non c’era bisogno di prendersi tanto disturbo con gli abitanti di Merv, che valevano meno delle pecore. Occorrono pochi secondi per tagliare una gola, e passare alla successiva».31 L’aspetto importante da sottolineare è che la stessa identica testimonianza può essere facilmente interpretata in maniera opposta. Il calo della popolazione registrato tra i due censimenti può indicare o la prova precisa di un massiccio declino o l’attestazione di un censimento inesatto. O l’Olocausto prova quanto sia difficile uccidere grandi numeri di persone o prova esattamente il contrario. Una piena confessione di aver ucciso migliaia di individui è la pura verità o una mera millanteria. C’è una parola per questa interpretazione tanto variabile dei fatti: paradigma. Questa è l’ossatura teorica all’interno della quale si formulano teorie, leggi e generalizzazioni.32 Se il paradigma dominante stabilisce che le popolazioni umane non precipitano tanto repentinamente, di conseguenza l’unico modo di interpretare il censimento è quello di presupporre un errore nei dati. Se, al contrario, il paradigma stabilisce che soltanto l’efficienza industriale delle camere a gas ha potuto rendere possibile l’Olocausto, di conseguenza dei barbari armati di lancia non hanno certo potuto uccidere milioni di persone, indipendentemente da ciò che riportano le cronache. Nel 1994, quando in soli tre mesi in Ruanda si trucidarono un milione di persone, principalmente con dei machete, si modificò il paradigma per accettare l’idea che le camere a gas non sono poi così indispensabili per compiere un genocidio. Evidentemente, la storia è influenzata dalle fonti a disposizione, per di più molte delle cronache che ci sono pervenute con molta probabilità sono esagerazioni. Purtroppo, quando si diffida eccessivamente della storia considerandola pura propaganda, si rischia di trovarsi invischiati in un ciclo paranoico in cui non si crede alle parole di nessuno, ma unicamente a ciò cui si vuole credere. Forse, l’implacabile 197
cattiva fama che circonda Gengis Khan significa soltanto che la storia è stata scritta dalle sue vittime. D’altra parte, c’è da aspettarselo quando chiunque abbia avuto a che fare con lui ha finito per esserne vittima. Lo facevano tutti? Ogni volta che si comincia a denigrare una persona importante del passato, c’è qualcuno che dice che quelli erano tempi diversi. Lo facevano tutti. Non si può giudicare il passato con i parametri della modernità, diranno i suoi difensori: tutti gli altri erano cattivi quanto lui. È vero? Tutti nel Medio Evo erano barbari quanto Gengis Khan? Ebbene, purtroppo per i suoi difensori la controprova è fin troppo facile. La carriera del dominatore del mondo coprì quasi gli stessi anni di quella di un uomo che era famoso e influente quasi quanto lui, ma completamente diverso. Consideriamo la biografia di un contemporaneo che non uccise altrettanta gente rispetto a Gengis Khan. Nel 1206, lo stesso anno in cui le tribù mongole proclamarono il loro signore della guerra Temujin Gengis Khan, giunse a Roma un asceta di ventitré anni. Come Temujin, Giovanni di Bernardone è conosciuto più comunemente con un altro nome, in questo caso Francesco, cioè il francese, anche se proveniva dalla città italiana di Assisi.***** A differenza di Temujin, gli iniziali tentativi di Francesco di intraprendere la carriera militare rappresentarono semplicemente un dovere nei confronti della propria patria e si rivelarono tutt’altro che leggendari: all’età di vent’anni fu catturato dai perugini e trascorse un anno come prigioniero di guerra prima che una tregua gli assicurasse il rilascio. Fece un secondo tentativo nella battaglia seguente, ma venne rispedito a casa con una febbre altissima. Carismatico, arguto e amante dei piaceri in gioventù, Francesco si votò alla religione e alla filosofia dopo aver sperimentato la guerra e aver sfiorato la morte. 198
Dopo anni di preghiera e di studio, Francesco d’Assisi raggiunse la consapevolezza che ogni elemento della natura manifesta l’amore di Dio: egli considerava tutte le creature viventi come sorelle dell’uomo. Liberatosi di tutti i beni terreni, scelse di condurre la propria vita come Gesù, nella cura di poveri e malati. Francesco d’Assisi fondò un ordine monastico, i francescani, dediti alla povertà e alle opere pie, benché il suo contributo fosse principalmente quello di rappresentare un esempio carismatico piuttosto che un organizzatore metodico. A differenza del rigido uomo di santità, tutto flagello e staffile, usato da ogni religione per impressionare gli adepti, Francesco era sempre amabile e di buon umore. Si dice che Francesco sia stato la prima persona a ricevere spontaneamente le stimmate, le cinque ferite di Cristo. L’invenzione di questo nuovo modo di essere misticamente originale fu probabilmente un punto a suo sfavore, ma san Francesco d’Assisi esemplifica il meglio del cristianesimo. Morì nel 1226, un anno prima di Gengis Khan. Nessuno degli uomini che lo seppellirono fu trucidato per nascondere la sua tomba, che anzi oggi rappresenta un importante luogo di pellegrinaggio e una delle maggiori mete turistiche del mondo.
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Crociata albigese Bilancio delle vittime: 1 milione1 Posizione: 46 Tipologia: guerra di religione Contrapposizione di massima: cattolici contro catari Periodo: 1208-1229 Luogo: Francia meridionale A chi diamo la colpa di solito: papa Innocenzo III, Simone di Montfort
La tempesta perfetta Il catarismo fu un’eresia persistente che sopravvisse parecchi secoli ai ripetuti tentativi di eliminazione in tutta la cristianità. I catari credevano che Gesù non appartenesse a questo mondo corrotto, ma fosse un’entità puramente divina, un fantasma venuto a sostituire il Dio feroce e vendicativo dell’Antico Testamento che aveva creato il nostro universo imperfetto. La parola cataro deriva dal termine greco che sta per purezza, i catari infatti ritenevano che tutti dovessero sforzarsi di separarsi dalla corruzione del mondo materiale per raggiungere la condizione di perfetti. Credevano inoltre che per ottenere la salvezza di Gesù gli esseri umani non avessero bisogno di intermediari, cosa che ovviamente non andava bene alla Chiesa cattolica romana. Dopo numerosi secoli di persecuzioni, nel XIII secolo i catari furono infine sterminati nella loro ultima roccaforte, nel sud della Francia. La crociata 200
Nella regione della Linguadoca, nella Francia meridionale, la sovranità era complicata: nonostante a detenerne essenzialmente il dominio fosse il re francese, disponevano di alcuni preziosi feudi sparsi nell’area anche stranieri come i sovrani di Inghilterra e Spagna. Rispetto a molti dei loro pari di altre terre, qui i signori feudali godevano di un’autonomia ancora maggiore. La mancanza di un’autorità centrale forte attrasse gli eretici. In Linguadoca i catari – lì denominati albigesi – non costituivano la maggioranza, bensì una minoranza tollerata. Un certo numero di signori del luogo, come il potente conte Raimondo VI di Tolosa, li consideravano cittadini utili e pacifici e offrivano loro protezione, circostanza che infastidiva la Chiesa cattolica, la quale accusava i catari delle solite atrocità: sodomia, culto del demonio, rapimento di bambini e profanazione degli oggetti sacri. Nel maggio del 1207 la Chiesa scomunicò Raimondo perché non collaborava ai tentativi di sradicamento dei catari. A gennaio del 1208 Roma inviò nella regione un delegato, che aveva il compito di convincere Raimondo a soffocare gli eretici. Dopo trattative infruttuose e burrascose, degli ignoti uccisero il rappresentante papale sulla via del ritorno in patria; dell’omicidio la Chiesa incolpò Raimondo. Papa Innocenzo III si diede dunque a predicare una vera e propria crociata contro gli eretici, che riscosse popolarità soprattutto nella Francia settentrionale, perché chiunque avesse innalzato la croce contro i catari si sarebbe guadagnato con Dio gli stessi punti spirituali extra di chi combatteva in Terra Santa, senza però dover intraprendere un lungo viaggio nauseante o mangiare schifosi cibi stranieri. A Lione si raccolsero così diecimila persone. Béziers Per prima cosa i crociati attaccarono la città di Béziers: era ben 201
fortificata e fornita di provviste, perciò tutti si aspettavano che resistesse all’assedio, ma il primo giorno, mentre i crociati allestivano l’accampamento, parecchi servitori inetti – cuochi, cocchieri, ecc. – scesero presso un torrente ombroso alle spalle della città per riposare e prendere il fresco. Dalle mura i difensori presero a scambiarsi insulti con quella marmaglia del nord e gli animi si accesero; così quelli della città decisero di uscire per dare una lezione a quei settentrionali randagi. Purtroppo nel corso della sortita lasciarono aperta la porta della città, affollata di civili acclamanti. Altre persone dell’accampamento crociato si accorsero dello scontro, afferrarono le mazze e si precipitarono nella mischia, riuscendo alla fine a ricacciare i cittadini verso l’interno e mettendosi alle loro calcagna. Allorché quelli del nord oltrepassarono la porta, i soldati scesero di corsa dalle mura per spingerli via. Distratto dalla rissa, nessuno si accorse che qualche crociato di pronto ingegno si era introdotto di soppiatto e aveva appoggiato le scale alle mura improvvisamente incustodite. Quella fu la fine di Béziers. Mentre i crociati cancellavano questa culla dell’eresia, fu chiesto al capo delle forze cattoliche, Simone di Montfort, come si distinguessero gli eretici dagli ortodossi. La soluzione era semplice, per lui: «Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi».* Migliaia di civili trovarono asilo nella chiesa della città, ma i crociati li seguirono all’interno e li trucidarono comunque. Malgrado la maggioranza della popolazione fosse cattolica, furono massacrati tutti gli abitanti di Béziers – 20.000 persone – indipendentemente dalla religione.2 Radice e ramo Le città caddero l’una dopo l’altra in mano ai crociati. A Carcassonne furono tagliate le condotte dell’acqua, così gli abitanti si arresero e furono mandati in esilio soltanto con gli abiti che avevano addosso. La fortezza montana di Minerve, nei 202
pressi di Béziers, perse l’approvvigionamento dell’acqua quando le catapulte dei crociati distrussero la galleria fortificata che conduceva al pozzo della città. Dopo la resa di Minerve, i catari furono convertiti a forza al cattolicesimo, tranne 140 che rifiutarono e finirono sul rogo. Dopo la presa di Bram, ai membri della guarnigione catara si cavarono gli occhi e si recisero naso e labbro superiore. Soltanto a un soldato si lasciò un occhio, affinché riconducesse nel territorio dei catari quegli uomini senza volto, in modo da seminare il terrore.3 Raimondo di Tolosa era rimasto in ombra, a sostegno della crociata, ma dopo aver visto saccheggiare per un anno i suoi domini cambiò partito. Quando Tolosa resistette all’assedio di Simone di Montfort, Raimondo contrattaccò, si riprese molto del territorio perduto e mise a sua volta sotto assedio Montfort. L’anno seguente ebbero la meglio i cattolici, che tornarono di nuovo sotto le mura di Tolosa. Poiché Raimondo di Tolosa era vassallo e cognato di Pietro II d’Aragona, nel nord della Spagna, anche questi si unì alla lotta contro i crociati. La Linguadoca si trasformò così in un vortice di battaglie, tanto che prima della conclusione della crociata Tolosa passò di mano svariate volte, ma la guerra si trascinò avanti anno dopo anno, senza un colpo definitivo. Siccome il papa esigeva soltanto quaranta giorni di crociata per guadagnarsi il favore di Dio, le folle sante che ogni estate si spostavano a sud per la stagione della campagna facevano fagotto e se ne tornavano a casa sei settimane dopo, lasciando solo Simone di Montfort davanti al contrattacco dei catari.4 La guerra durò più a lungo dei suoi principali partecipanti. Pietro II di Spagna trovò la morte in battaglia nel 1213, a Muret; nel 1218 toccò a Simone di Montfort, ucciso dalla pietra di un catapulta manovrata dalle donne di Tolosa; Raimondo fuggì in Inghilterra per un po’, quindi si recò a Roma per perorare la propria causa, infine tornò a combattere e morì nel 1222. Negli anni successivi la guerra proseguì con una nuova 203
generazione di capi, figli di Simone e Raimondo, ma le ultime roccaforti catare caddero una dopo l’altra senza più risollevarsi. Nel 1226 si impegnò nella crociata re Luigi VIII di Francia, così l’intero esercito francese riuscì a sopraffare gli eretici dopo un duro anno di guerra. Il re negoziò quindi la pace a condizioni accettabili per i nobili del sud e il trattato di Parigi pose fine alle ostilità nel 1229.5 Nello stesso anno la curia romana insediò l’Inquisizione a Tolosa, per accertarsi che nessuno dei presunti convertiti continuasse le proprie pratiche eretiche in segreto. Per decenni nell’entroterra perdurarono rivolte e sommosse sporadiche; si diede la caccia agli apostati, mentre i catari recidivi o inflessibili furono arsi sul rogo, l’ultimo nel 1321.6
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Invasione di Hulagu Khan Bilancio delle vittime: 800.0001 Posizione: 55 Tipologia: conquista Contrapposizione di massima: mongoli contro arabi Periodo: 1255-1260 Luogo: Medio Oriente A chi diamo la colpa di solito: Hulagu Khan Ennesimo esempio di: invasione mongola Il Gran Khan Mongke, nipote di Gengis Khan, era infastidito dal fatto che la minoranza musulmana sparsa per il suo impero considerasse il califfo di Baghdad, governatore secolare dell’Iraq e capo spirituale di tutti i musulmani sunniti, più importante del Gran Khan stesso. Non si poteva tollerare, il califfo se ne doveva andare. Le voci sulla preparazione di un’invasione raggiunsero presto le orecchie della setta degli Assassini, un misterioso culto musulmano della fortezza montana di Alamut in Persia, che addestrava assassini specializzati per abbattere nemici in tutto il mondo. Sebbene non fossero amici del califfo, quando divenne chiaro che i mongoli stavano organizzando un’invasione verso ovest gli Assassini spedirono 400 dei loro migliori elementi per sgominare Mongke. Il piano fallì e nel 1253 Mongke ordinò a suo fratello Hulagu di ripagarli con la stessa moneta. Nel 1256, dopo alcuni anni di preparazione e di dura marcia, i mongoli arrivarono a destinazione, ma c’era un nuovo gran maestro a capo degli Assassini, il quale cedette rapidamente per evitare il peggio. Accompagnò i mongoli su un circuito di fortezze appartenenti agli Assassini e ordinò loro di arrendersi, 205
decretando la fine della setta. Il gran maestro, inizialmente, fu trattato bene per la sua collaborazione, ma, alla fine, le guardie mongole trovarono una scusa per picchiarlo a morte. L’anno successivo, Hulagu Khan inviò dei messaggeri a Baghdad affinché intimassero al califfo di demolire le mura di cinta, colmare il fossato e presentarsi strisciando da Hulagu a offrire la propria sottomissione. Il califfo si trovava nel bel mezzo di una lotta di potere fra alcuni dei propri funzionari e non riuscì a trovare un momento per rispondere, così Hulagu Khan avanzò. I mongoli giunsero a Baghdad nel gennaio 1258 e in una settimana di tempo divenne chiaro che qualsiasi ulteriore resistenza sarebbe stata superflua. Il califfo e i suoi generali si arresero, Hulagu ordinò la distruzione della città. Malgrado Hulagu stesso seguisse il tradizionale sciamanesimo tribale dei mongoli, sua madre, la moglie prediletta e il primo generale erano tutti cristiani nestoriani dell’Asia centrale, così alla popolazione cristiana della città fu risparmiato il peggio. Fu invitata a trovare rifugio nella propria chiesa, il cui accesso fu poi vietato durante il saccheggiò che seguì. Il resto della popolazione della città venne ucciso. Si gettarono i libri della grande biblioteca nel fiume Tigri, che si colorò di nero per l’inchiostro e di rosso per il sangue. Poiché i mongoli credevano portasse sfortuna versare sangue reale sulla terra, avvolsero il califfo in un tappeto e lo calpestarono a morte con i propri cavalli. Questo sancì l’estinzione della dinastia di califfi che partiva da Maometto. In seguito, gli storici persiani sostennero che nel saccheggio di Baghdad avevano trovato la morte 800.000 persone, ma nella corrispondenza diplomatica con re Luigi IX di Francia lo stesso Hulagu Khan riferì di averne uccise 200.000. Successivamente, i mongoli razziarono la Siria, accettando la resa delle città arabe di Damasco, di Aleppo e dello stato crociato di Antiochia. L’ondata mongola stava per sommergere l’Egitto quando giunse la notizia della morte del Gran Khan Mongke. Hulagu fece 206
allora ritorno in Mongolia per organizzare la successione, lasciando un subalterno a proseguire la conquista. I mamelucchi egiziani sconfissero sonoramente i mongoli rimasti e ne uccisero il generale nella battaglia della fonte di Golia (Ayn Jalut) in Palestina, il luogo più lontano mai raggiunto dai mongoli in questa parte del mondo.2
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Guerra dei Cent’anni Bilancio delle vittime: 3,5 milioni Posizione: 28 Tipologia: disputa dinastica Contrapposizione di massima: Francia contro Inghilterra Periodo: 1337-1453 Luogo: Francia A chi diamo la colpa di solito: oggi si tende a trattare la guerra dei Cent’anni come un fatto naturale (cioè, una cosa del genere), inevitabile e senza colpe reali di qualcuno Domanda trabocchetto: quanto è durata? Ma se la causa non fosse giusta, il re sarebbe chiamato a una grave resa dei conti, quando tutte le braccia, le gambe, le teste staccate in battaglia si ricomporranno il giorno del Giudizio e grideranno: «Morimmo nel tal luogo!», chi imprecando, chi invocando il chirurgo, chi piangendo per la moglie rimasta in miseria, chi per i debiti non pagati, chi per i figli rimasti orfani. Penso che siano pochi a morire sereni, in battaglia. Poiché come possono disporsi con spirito di carità, quando pensano solo ad ammazzare? Ora, se questi uomini fanno una brutta morte, sarà una gran brutta faccenda per il re che li ha portati a morire, il re cui non possiamo disobbedire se non violando ogni nostro dovere di sudditanza. William Shakespeare, Enrico V La guerra edoardiana (1337-1360) 208
Diciamo le cose come stanno: sin dalla conquista normanna, avvenuta nel 1066, l’Inghilterra era stata governata da francesi. Gli storici li chiamano inglesi, ma la maggior parte della nobiltà inglese parlava il francese come prima lingua e le leggi erano scritte in francese. Per di più quella stessa nobiltà aveva grossi feudi e residenze estive in Francia e il re d’Inghilterra possedeva spesso tanta Francia quanta il re francese. Insomma erano francesi in tutto, tranne che nella geografia. Quando nel 1328 il re di Francia morì senza lasciare eredi, il cugino di primo grado Edoardo III d’Inghilterra ne rivendicò la successione; al contrario la nobiltà francese scelse uno smidollato che potesse manovrare, invece di un re potente come sarebbe stato Edoardo, il quale naturalmente si infuriò. Siccome era occupato in guerre e intrighi locali, per dieci anni Edoardo non intraprese alcunché per far valere le proprie istanze; in quel periodo aggiunse però al suo arsenale una nuova arma esaltante, l’arco lungo, in cui si era imbattuto per la prima volta combattendo i contadini nelle selvagge terre di confine del Galles. Realizzato in legno di tasso e alto quanto un uomo, l’arco lungo richiedeva una forza enorme per il tiro, ma con esso un arciere allenato poteva conficcare una freccia in un paio di centimetri di quercia compatta da quasi duecento metri e da novanta in un’armatura metallica. Edoardo fu impressionato dalla facilità con cui l’arco lungo uccideva i cavalieri migliori e spezzava gli assalti, così rese quegli arcieri parte integrante del suo esercito. Dato che la guerra nel Medio Evo costituiva raramente un segreto, i francesi, consapevoli del conflitto incombente, avevano messo insieme una flotta e si preparavano ad attaccare per primi, ma nel 1340 la flotta inglese intrappolò quella francese a Sluis, il porto di Bruges. Gli arcieri stipati sulle navi inglesi spazzarono via gli equipaggi francesi e diedero agli inglesi il controllo del canale. «In seguito si disse che i pesci avevano bevuto tanto sangue nemico che, se Dio avesse dato loro la parola, avrebbero parlato in francese».1 209
Dopo lo sbarco inglese in Francia del 1346, per parecchi mesi i due eserciti fecero varie manovre nel nord della Francia, nel tentativo di intrappolare il nemico sul campo di battaglia maggiormente vantaggioso. Re Edoardo si rese conto che il miglior uso tattico delle sue forze stava nel disporre i cavalieri appiedati, la fanteria e gli arcieri in uno schieramento a riccio irto di lance, spade e scuri da battaglia, e lasciare l’offensiva ai francesi. Alla fine a Crécy gli inglesi guadagnarono una posizione strategica in cima a una collina e aspettarono l’arrivo dei nemici. Allo scoppio della battaglia i cavalieri francesi erano talmente impazienti di dare addosso agli inglesi che, per raggiungere le prime linee, calpestarono con i cavalli i loro stessi balestrieri in ritirata. In un primo momento i loro grossi e pesanti cavalli da guerra furono un bersaglio ideale per le frecce inglesi, poi i cavalieri francesi, appiedati e dall’armatura pesante, arrancarono, scivolarono e procedettero a stento lungo i pendii fangosi, e nel frattempo venivano abbattuti dagli arcieri. Le perdite francesi alla fine furono sconcertanti, al punto che la nobiltà si vide enormemente ridotta. Per consolidare il controllo sulla Francia settentrionale, gli inglesi sottoposero il porto di Calais, sulla Manica, a un lungo e frustrante assedio. Alla fine i governanti della città, ormai alla fame, concessero la resa. Gli inglesi progettavano il consueto massacro degli assediati come punizione per aver causato loro tanti problemi, ma i governanti si offrirono spontaneamente in sacrificio purché fosse risparmiata la popolazione. Il loro coraggio commosse il cuore della regina d’Inghilterra, la quale naturalmente non aveva idea di come si facesse la guerra. Assillò il marito affinché mostrasse pietà, Edoardo cedette – probabilmente con un sospiro annoiato – e così i governanti e la popolazione della città furono espulsi invece di essere ammazzati. Quindi la città fu completamente anglicizzata. Messo al sicuro il nord, la guerra si spostò a sud. Nel 1356 il figlio di Edoardo, Edoardo il Principe Nero, puntò verso l’interno dall’Aquitania, la regione controllata dagli inglesi sulla 210
costa occidentale della Francia, e condusse il suo esercito per più di quattrocento chilometri per il centro della Francia, bruciando città e castelli con lo scopo di spingere il re francese a muoversi per fermarlo. Quando però arrivarono alla Loira, gli inglesi scoprirono che i francesi avevano distrutto i ponti, isolando in tal modo gli inglesi a duecentocinquanta chilometri dalla sicurezza del canale della Manica. Si volsero dunque per tornare in patria, ma a settembre l’esercito francese li raggiunse a Poitiers, dove i 7000 inglesi si trovarono davanti un numero cinque volte superiore di nemici. Poiché i cavalli rappresentavano dei grossi bersagli vulnerabili per gli arcieri inglesi, i francesi scelsero di avanzare a piedi. La prima ondata giunse esausta e venne fatta a pezzi; nel tentativo di ritirarsi andò a sbattere contro la seconda ondata, che fu a sua volta gettata nel caos. Alla fine re Giovanni I di Francia raggruppò i suoi e si mise alla testa della terza ondata, la più numerosa, contro lo schieramento inglese, proprio mentre gli inglesi partivano alla carica per imporre il proprio vantaggio. Questi travolsero la nobiltà francese e la spinsero a cercare precipitosamente rifugio nella città di Poitiers, dove però i francesi in fuga trovarono le porte chiuse. La cavalleria inglese li raggiunse e massacrò con facilità i sopravvissuti ormai provati dalla battaglia. La Francia si ritrovò così a corto di cavalieri e di alternative.2 Tra i prigionieri della battaglia di Poitiers c’erano anche re Giovanni di Francia e suo figlio, i quali furono condotti in Inghilterra, dove il Principe Nero offrì loro un viaggio regale durante il quale la popolazione li acclamò (per quanto si fosse in guerra, non c’era motivo di essere scortesi con un ospite). Le trattative per il rilascio non giunsero mai a nulla, tanto che il re francese morì ancora prigioniero a Londra nel 1364. A seguito di una tregua stipulata nel 1360, l’esercito inglese era tenuto a fare fagotto e tornarsene in patria, tuttavia un numero enorme di mercenari, improvvisamente disoccupati, non aveva una bella casa in cui fare ritorno. Gli piaceva vivere a 211
spese della Francia conquistata e dunque si rifiutarono di abbandonarla: restarono e presero a girovagare per le campagne in bande di predoni, commettendo saccheggi, stupri ed estorsioni. La guerra carolina (1369-1389) Facendosi vecchio e debole, re Edoardo cominciò a trascurare la posizione inglese sul continente. Dopo una tregua di nove anni, il nuovo re francese, Carlo V, decise di riprendere la guerra e vedere se le sorti della storia potevano mutare in favore della Francia. Il pendolo della fortuna oscillava decisamente verso i francesi: il Principe Nero contrasse una malattia debilitante e morì nel 1376, il padre lo seguì l’anno successivo. Il trono d’Inghilterra andò dunque a Riccardo, figlio appena decenne del Principe Nero, invece che a un guerriero collaudato. I francesi sfruttarono dunque il vantaggio crescente e fecero sloggiare gli inglesi dal continente, a eccezione di qualche enclave costiera. All’altezza degli anni Ottanta del secolo, il problema inglese era risolto e i francesi razziavano tranquillamente i porti della costa inglese. Interludio di follia e pace (1389-1415) Dopo la morte di Carlo V, avvenuta nel 1380, il trono di Francia passò al figlio dodicenne, Carlo il Pazzo, il quale non partì con questo soprannome, ma nel 1392 una malattia misteriosa gli fece cadere capelli e unghie. Ancora febbricitante e un po’ in delirio, Carlo VI uscì per cavalcare con il suo seguito: un rumore improvviso lo fece trasalire, così sguainò la spada e menò fendenti contro chiunque. Prima che lo fermassero riuscì a uccidere quattro persone del seguito. Gli accessi andavano e venivano, ma con l’età si allungarono e peggiorarono progressivamente: oscillava tra un torpore 212
apatico e una vivacità convulsa. Una volta, a un ballo mascherato dove era abbigliato come un selvaggio, diede fuoco a sé e ad altre persone e a salvarlo fu la prontezza di riflessi di una duchessa, che spense le fiamme con il proprio abito. Nei giorni peggiori si urinava addosso, sfasciava il mobilio e consentiva con noncuranza ai figli che andassero in giro laceri. Per un po’ credette di essere fatto di vetro e che si sarebbe rotto se l’avessero urtato.3 Carlo era troppo pazzo per guidare la Francia in guerra, dunque scoppiò la pace. Per contro, la famiglia reale francese trascorse i decenni successivi ad ammazzarsi in intrighi di corte, nei quali si combatterono per il potere effettivo svariati parenti del re. Sebbene Isabella, la regina di origine tedesca, all’inizio fosse stata appassionatamente innamorata di Carlo, e continuasse a cercare un erede nonostante il pericoloso comportamento del marito, alla fine avviò una relazione con il fratello del re, il duca di Orléans. La relazione andò avanti fin quando degli agenti dello zio del re, Filippo l’Ardito, duca di Borgogna, non uccisero il fratello per le strade di Parigi. Hank Cinq Dopo quasi un’intera generazione di pace, il nuovo re d’Inghilterra, Enrico V, decise di imporre nuovamente la questione e, nella speranza di sfruttare il disordine in cui versava la corte francese, nel 1415 invase la Francia. Conquistato il porto di Barfleur con un assalto sanguinoso (Shakespeare: «Ancora una volta alla breccia...»), diede la caccia all’esercito francese in una lunga marcia nel fango, con la pioggia e l’umidità dell’autunno. Le malattie e la denutrizione rallentarono e indebolirono il suo esercito e infine quello francese gli si parò davanti ad Azincourt, pronto a combattere. Per quanto fossero al massimo la metà rispetto ai nemici, gli inglesi assunsero una solida posizione difensiva su un campo ristretto, con entrambi i fianchi coperti dai boschi. Lì si misero 213
in attesa, tormentando i francesi con nuvole di frecce scagliate dagli archi lunghi. Infuriata oltremisura, la linea principale dei cavalieri francesi appiedati attaccò mentre ancora cadeva una gragnola di frecce e quando infine le due opposte linee di fanteria pesante entrarono in contatto, i francesi erano già stanchi, frustrati e in numero minore. E così vennero trucidati. Frattanto, alle spalle della linea inglese, una folla di contadini francesi assalì l’accampamento di Enrico per fare bottino. Con il disordine alle spalle, Enrico temette che i prigionieri di guerra francesi, tenuti sotto scarsa sorveglianza nel suo accampamento, potessero riarmarsi e attaccare la sua retroguardia, perciò ordinò di ucciderli. La nobiltà inglese rifiutò di commettere un atto tanto spregevole, allora Enrico girò l’ordine agli arcieri, che erano contadini e quindi meno schizzinosi nel violare le regole della cavalleria. Più o meno nello stesso tempo l’esercito francese abbandonò il campo davanti a Enrico, concedendo la vittoria agli inglesi.4 Di fronte all’ennesima carneficina completa della nobiltà francese, Enrico poté dettare le condizioni della pace: Carlo VI (il Pazzo) accettò Enrico come proprio successore sul trono francese e, per suggellare l’accordo, Enrico ne sposò la figlia, Caterina. Qui, con accento trionfale, termina il dramma patriottico di Shakespeare dedicato alla gloriosa crociata di Enrico V. Purtroppo questi morì prima di Carlo e sul trono d’Inghilterra salì il figlioletto Enrico VI. Lo stato giuridico del trattato restava quindi dubbio. La Borgogna rompe con la Francia Giovanni Senza Paura, duca di Borgogna, non aveva partecipato alla battaglia di Azincourt perché il suo casato era ancora in lotta con il resto della famiglia reale francese a proposito della successione di Carlo il Pazzo. Nel 1418 le truppe di Borgogna strapparono Parigi alla guarnigione di re Carlo per mostrare 214
quanto Giovanni facesse sul serio. L’anno seguente, il figlio adolescente del re, il delfino, si incontrò con Giovanni Senza Paura sul ponte di Montereau, con lo scopo di negoziare un accordo, ma il principe fece scattare un tranello e uccise Giovanni. Irritato per il tradimento, il successivo duca di Borgogna passò dalla parte degli inglesi, recando Parigi con sé. Il delfino fuggì in campagna e così, alla morte di Carlo il Pazzo, nel 1422, non poté diventare re, mentre gli inglesi si tennero Parigi per il loro avente diritto al trono, il piccolo re Enrico. Giovanna d’Arco Attorno a questo periodo (nel 1429), una giovane contadina udì le voci incorporee di santi che le ordinavano di armarsi, sellare il cavallo e salvare la Francia. Dato che si era nel Medio Evo, invece di essere sedata e spedita in ospedale dai parenti allarmati, Giovanna d’Arco obbedì alle voci e scovò la corte francese in fuga. Dopo aver convinto il delfino che c’erano davvero dei santi che le sussurravano all’orecchio, Giovanna guidò un esercito contro le truppe inglesi che assediavano Orléans, un passaggio vitale della Loira che (si ricorderà) aveva fermato la furia di Attila un migliaio di anni prima (vedi Caduta dell’impero romano d’Occidente). In effetti, a Orléans la situazione dei francesi non era poi tanto male, né gli inglesi disponevano di una superiorità schiacciante. Probabilmente l’assedio si sarebbe rotto comunque, se solo qualcuno si fosse preso la briga di farlo, eppure i francesi avevano rinunciato. Il morale era basso, quindi avevano accettato passivamente l’idea che la città potesse cadere. L’arrivo di Giovanna riaccese l’animo dei francesi, che attaccarono e cacciarono gli inglesi. Quando la guerra si spostò in aperta campagna, Giovanna braccò l’esercito inglese in attesa di trovare qualche punto debole e alla fine lo colse a Patay, prima che consolidasse del 215
tutto la sua linea difensiva. L’assalto francese fece una carneficina degli inglesi e catturò buona parte dei comandanti, il che aprì la strada verso la città di Reims, dove per tradizione si incoronavano i nuovi re, e così il delfino divenne re Carlo VII di Francia.* Nel 1430 i borgognoni catturarono Giovanna e la vendettero agli inglesi, i quali chiamarono da Parigi degli ecclesiastici compiacenti per sottoporla a processo. Fu ritenuta colpevole di aver indossato abiti maschili e bruciata viva come strega. Il principale contributo di Giovanna d’Arco alla guerra era consistito nell’aver compreso che, se solo smettevano di comportarsi da idioti, i cavalieri francesi potevano sconfiggere la formazione a istrice degli inglesi. Il codice cavalleresco francese esigeva di non retrocedere davanti a uno scontro, anche in una situazione sfavorevole. Il motivo comune che legava le sconfitte francesi di Crécy, Poitiers e Azincourt era una carica contro il forte piazzamento difensivo degli inglesi; non era mai capitato che i francesi aspettassero di cogliere i nemici in una posizione di svantaggio. Giovanna aveva l’autorità morale per convincere i cavalieri a modificare le loro regole rigide e a ponderare di più gli attacchi. Con un incoraggiamento d’ispirazione divina, i francesi cominciarono ad applicare una tattica vera e propria al loro modo di fare la guerra.5 Finale Nel 1435 la Borgogna abbandonò l’alleanza con l’Inghilterra. La guerra proseguì per quasi vent’anni, ma il campo di battaglia si restringeva di pari passo con il territorio inglese sul continente. I possedimenti più piccoli ebbero come conseguenza il versamento di minori tasse a sostegno di eserciti più ridotti, i quali evitavano di correre rischi. Se in Inghilterra si alzavano le tasse, insorgevano i contadini; se si abbassavano, i mercenari stranieri dell’esercito inglese se ne tornavano a casa. Le battaglie diminuirono: l’ultima si combatté nel 1451 a 216
Castillon, che peraltro fece storia perché fu la prima in Europa occidentale nella quale le armi da fuoco fecero la differenza. I cannoni e i moschetti francesi sopraffecero gli archi lunghi degli inglesi, per la guerra si apriva così una nuova epoca. Nel frattempo l’Inghilterra fu distratta dalla propria controversia dinastica (la guerra delle Due Rose, 1455-1485; bilancio delle vittime: 100.000), che la tenne troppo occupata per invadere di nuovo la Francia. L’eredità La guerra dei Cent’anni separò Francia e Inghilterra in due paesi distinti, circostanza non sempre chiara in precedenza. Sulla carta il cambiamento maggiore fu il fatto che in Francia non esistevano più enormi pezzi d’Inghilterra. Il principale lascito culturale fu l’abbandono, da parte del popolo inglese, di quella francesità che aveva coltivato dai tempi della conquista normanna. Con il trascinarsi delle guerre, i re inglesi impararono a fomentare la sete di sangue dei propri sudditi facendo appello al patriottismo ed esaltando la cultura inglese rispetto a quella francese. Nel 1362 il Parlamento si inaugurò per la prima volta in inglese, in seguito furono condotti in inglese anche i procedimenti legali. Nel 1404, per il nazionalismo crescente, l’Inghilterra decretò che le trattative con i francesi si portassero avanti in latino, neutrale rispetto alla lingua del nemico. Da parte francese, l’esito maggiore fu di ordine politico. La guerra aveva dissanguato gli aristocratici francesi, rimasti in pochi a contendere il potere del re. Così la fase finale della guerra aveva concentrato il potere nelle mani della corona e aveva reso la Francia una monarchia centralizzata come non se ne trovavano in Europa, all’epoca. Essa divenne pertanto la nazione europea più potente e lo sarebbe rimasta per i successivi quattrocento anni.
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Bilancio delle vittime Nel 1937, il sociologo Pitrìm Sorokin aggiunse e moltiplicò parecchie variabili per valutare che gli eserciti inglese e francese persero sui campi di battaglia della guerra dei Cent’anni un totale di 185.250 uomini.6 Altri hanno calcolato che nelle battaglie di Azincourt e di Crécy trovò la morte ogni volta il 40% dell’aristocrazia francese.7 Ma è solo una piccola parte delle sofferenze. In quell’epoca le guerre non erano tutte cavalleria e giostre. Invece di impegnarsi nell’assedio di castelli inespugnabili, spesso gli eserciti medievali lanciavano una chevauchée, un’incursione implacabile e devastante attraverso il territorio nemico che lasciava una scia di cadaveri e desolazione. Un certo numero di incursioni del genere spezzava il morale, seminava il caos e privava il nemico delle risorse. Una chevauchée efficace poteva persino spingere i difensori di un castello a uscire allo scoperto e combattere da uomini. All’inizio della guerra la Francia aveva una popolazione di circa 20 milioni di abitanti, cento anni dopo erano la metà.8 Questo fu anche il periodo della peste nera, perciò non è facile stabilire quanta parte dei 10 milioni di scomparsi sia da addebitare alla guerra e non all’epidemia; gli autori che accennano a questo crollo della popolazione riconoscono anche in larga misura che la guerra cronica costituì un fattore concomitante. Come scrive Edward Miller nella Cambridge Economic History of Europe from the Decline of the Roman Empire, «in Francia la guerra fu probabilmente una calamità persino peggiore della peste nera».9 Tradotto in termini matematici, ciò implica che la guerra potrebbe essere stata responsabile di più della metà del calo di popolazione: perdite di guerra > ½ (perdite minime della popolazione: 7 milioni) = almeno 3,5 milioni.
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Caduta della dinastia Yuan Bilancio delle vittime: 30 milioni di scomparsi Posizione: 17 Tipologia: insurrezione autoctona Contrapposizione di massima: cinesi contro mongoli Periodo: 1340-1370 circa Luogo: Cina A chi diamo la colpa di solito: i mongoli Ennesimo esempio di: crollo di una dinastia cinese Col passare delle generazioni, i mongoli migliorarono nelle capacità di governo della Cina, ma, ammettiamolo, non avrebbero potuto peggiorare ulteriormente. Finalmente erano tornate pace e prosperità e, un secolo dopo la conquista iniziale di Gengis Khan, la popolazione cinese si era alquanto ripresa. I khan conquistarono la Cina del sud, insediandosi a Pechino come dinastia Yuan e iniziarono a comportarsi come veri imperatori piuttosto che come rozzi barbari. Ben presto impararono ad apprezzare i lussi del mondo civilizzato e le tasse che li rendevano possibili. Anche così, però, rimasero stranieri in Cina e trattavano i cinesi come razza di servi sottomessi. Tutti i lavori di livello superiore erano riservati ai mongoli, che, però, avevano una minore dimestichezza con le esigenze di governo di una civiltà. I mongoli erano poi particolarmente carenti nel seguire il mantenimento degli impianti di irrigazione lungo il Fiume Giallo. Il fiume straripò nel 1288 e poi nel 1332-1333, uccidendo 7 milioni di persone. Nel 1344 un’altra inondazione distrusse il Gran Canale, che attraversava la Cina per oltre mille e seicento chilometri da nord a sud e collegava i nodi 219
commerciali attraverso la rete fluviale del territorio, che si estendeva da est a ovest. Ciò significava che non si potevano più spedire in totale sicurezza sulle chiatte i cereali dalle risaie del sud fino alla capitale. Al contrario, le spedizioni dovevano attraversare il mare aperto, in cui divenivano vulnerabili agli attacchi dei pirati. Quando la provincia costiera dello Zhejiang si ribellò sotto Feng Guozhang nel 1348, la sua flotta pirata iniziò a interrompere queste spedizioni nelle acque del proprio territorio.1 La rivolta dei Turbanti Rossi Nel 1351, per rimediare a questi problemi, l’imperatore mongolo Toghon Temur arruolò 150.000 contadini e li mise a lavorare per domare il Fiume Giallo, inoltre dispose 20.000 soldati di stanza per mantenere in riga i contadini. Forzati a sfacchinare come schiavi, questi operai scontenti caddero sotto l’influenza della setta buddista militante del Loto Bianco e del suo braccio militare, i Turbanti Rossi.2 Il Loto Bianco sviluppava il proprio culto attorno alla figura di Maitreya, il Buddha futuro, che sarebbe disceso dal cielo e avrebbe creato il paradiso dopo che il Re della luce avesse preparato il cammino. Subito dopo, il capo dei Turbanti Rossi, Han Shantong, provocò una ribellione contro i mongoli; le autorità lo catturarono e lo uccisero, ma non prima che avesse convinto i propri seguaci che suo figlio, Han Liner, sarebbe stato un ottimo Re della luce.3 Tuttavia, l’uomo destinato a essere il successivo governatore della Cina si nascondeva altrove. Fra gli innumerevoli orfani lasciati dall’inondazione del 1344, c’era un contadino di sedici anni, Zhu Yuanzhang. Figlio di un evasore fiscale e nipote di un mago, Zhu andò a rifugiarsi in un monastero buddista dopo che inondazione, carestia, povertà e peste gli avevano portato via, uno dopo l’altro, tutti i membri della famiglia. I comandanti mongoli che cercavano di sedare la rivolta dei Turbanti Rossi avevano l’infelice tendenza di bruciare templi buddisti a 220
casaccio, riferendo poi a Pechino di aver distrutto un’altra roccaforte ribelle. Dopo che fu raso al suolo il tempio di Zhu, il ventitreenne rimase senza un tetto, cosicché si unì a una vicina unità dei Turbanti Rossi, capitanata da Guo Zixing. Nel giro di un anno, a Zhu Yuanzhang fu affidato un comando indipendente. Quando nel 1354 morì Guo Zixing, i suoi successori lanciarono un paio di attacchi estremamente infruttuosi contro la città centro-orientale di Nanchino, durante i quali rimasero uccisi i restanti capi dei Turbanti Rossi in quella parte del paese. Zhu era l’ultimo comandante sopravvissuto, perciò divenne il nuovo capo della banda.4 Quando Nanchino infine cadde, nell’aprile del 1356, Zhu la occupò come propria capitale e si proclamò imperatore della nuova dinastia Ming («luminosa»), che dominava la Cina centrale. Zhu, però, non era l’unico aspirante al trono cinese. Nel 1355, Han Liner, Re della luce dei Turbanti Rossi del nord, era abbastanza forte per dichiararsi successore legittimo della dinastia Song, da tempo decaduta. Nel frattempo, i capi dei Turbanti Rossi andarono incontro a una serie di assassinii che eliminò parecchi aspiranti e lasciò in vita Chen Youliang, che andò a ricoprire quella carica. Egli si proclamò imperatore della restaurata dinastia Han e raggiunse un accordo con Zhu Yuanzhang per dividere la Cina in modo che ognuno di loro si potesse concentrare sul consolidamento dei rispettivi territori. Man mano che i comandanti dei Turbanti Rossi assumevano il dominio di una parte sempre maggiore della Cina, il controllo mongolo si riduceva a Pechino e a poco altro. I mongoli, tuttavia, non erano ancora completamente esclusi dal gioco. Nel 1359 attaccarono il sud e spaccarono la zona di influenza di Han Liner. In conclusione, nel 1368, Zhu Yuanzhang inseguì gli ultimi mongoli fino a spingerli fuori da Pechino, ricacciandoli oltre la Grande Muraglia, cosa che permise ai cinesi di dedicarsi a una questione fondamentale: decidere chi sarebbe diventato il nuovo imperatore della Cina unificata. Ci volle un’altra guerra civile. 221
La guerra tra Ming e Han A causa dell’ultimo attacco mongolo, Han Liner della pseudodinastia Song non era più un candidato presentabile, ma per risolvere definitivamente questa situazione nel 1367 Zhu organizzò un incidente di barca mortale in cui coinvolgerlo. Ciò ricondusse il destino della Cina a due opzioni: Zhu Yuanzhang (dinastia Ming) o Chen Youliang (dinastia Han), e il fronte si spostò sul Fiume Azzurro, lungo il cui corso venivano effettuati gli assalti anfibi. Per un po’ Chen ebbe la meglio usando gli alti e fortificati castelli di poppa delle sue massicce navi da guerra a tre piani per attaccare al di là delle mura delle città lungo la riva del fiume. Poi, nel 1363, Zhu Yuanzhang arrivò con 200.000 uomini a bordo di un numero imprecisato di piccole navi per rompere l’assedio di Chen a Nanchang. Chen ritirò la sua flotta di 300.000 uomini a bordo di 150 gigantesche navi a torretta nelle acque più profonde e più ampie del lago Poyang, dove un affluente importante sfociava nel Fiume Azzurro e dove egli sperava di avere un maggiore spazio di manovra (all’epoca, intorno ai 3200 chilometri quadrati, l’attuale dimensione del Delaware).5 La seguente battaglia sul lago, che si protrasse dall’agosto all’inizio dell’ottobre 1363, solitamente viene considerata la più grande battaglia navale della storia (in termini di persone coinvolte). A settembre le navi pesanti di Han si ammassarono al centro del lago, legandosi assieme per avere ulteriore solidità, minacciate da tutti i lati dalle più piccole e numerose imbarcazioni Ming, in attesa dell’occasione per abbordare o appiccare il fuoco al nemico. Inizialmente, le navi di Han inflissero più danni dei loro antagonisti, ma sotto il sole di fine estate il livello dell’acqua si abbassò e le secche si trasformarono in paludi, spostando il vantaggio dalle enormi navi di Chen alle imbarcazioni più leggere di Zhu. Alla fine, la flotta di quest’ultimo si mosse risalendo il fiume e trovò vento e corrente favorevoli. Spinsero sottovento lungo il fiume delle 222
navi incendiate cariche di polvere da sparo contro la flotta di Chen, facendo esplodere dozzine di navi e uccidendo 60.000 uomini. Le flotte continuarono lo scontro finché, un mese dopo, Chen Youliang tentò di nuovo di uscire dal lago. Questa volta, però, durante la battaglia fu trafitto al cranio da una freccia. Zhu Yuanzhang fece subito piazza pulita di tutti i rivali rimanenti e stabilì il proprio indiscusso controllo sulla Cina come imperatore Hongwu («immensamente marziale»).6 Necrometria Secondo la Cambridge History of China l’incremento della popolazione cinese successivo all’epoca mongola toccò i 19,9 milioni di famiglie e i 90 milioni di persone nel 1340, ma entro il 1368, data della fine della dinastia Yuan, si ridusse per via del periodo di conflitto a 13 milioni di famiglie e 60 milioni di persone.7 In altre parole, in quel caos scomparvero 30 milioni di persone. Anche se quella fonte attribuisce alla guerra, in modo specifico, la responsabilità del tracollo della popolazione, mi sento ancora in dovere di ripartire il bilancio delle vittime tra le inondazioni, la carestia, la peste bubbonica e la guerra: a ciascuna di queste cause si può addebitare un quarto del totale (7,5 milioni di individui).
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Guerra Bahmani-Vijayanagara Bilancio delle vittime: 500.000 Posizione: 70 Tipologia: scontro di culture Contrapposizione di massima: musulmani contro induisti Periodo: 1366 Luogo: India meridionale Principali stati partecipanti: sultanato di Bahmani, impero Vijayanagara A chi diamo la colpa di solito: gli altri La domanda senza risposta che si fanno tutti: eh? I musulmani dall’Asia centrale intrapresero seriamente la conquista dell’India solo intorno al 1000. I secoli successivi fecero da scenario alla diffusione di un’enorme sofferenza da parte delle armate che avanzavano: 50.000 massacrati qui, 100.000 là, ma mai abbastanza nello stesso posto contemporaneamente per rientrare nella mia classifica dei primi cento. Nel XIV secolo i musulmani erano ormai arrivati a controllare la maggior parte del subcontinente. Il punto più avanzato dell’espansione musulmana era rappresentato dal sultanato di Bahmani, nell’India centro-occidentale. A contrastarlo era rimasto l’ultimo baluardo della sovranità indù: un impero facente capo alla città di Vijayanagar, nel sud. Il principale terreno di scontro dei due antagonisti fu il Raichur Doab, uno spicchio di terra fra la confluenza dei fiumi Krishna e Tungabhadra nell’India centrale. Mentre respingeva i musulmani, Bukka Raya I di Vijayanagar prese la città fortificata di Mudgal nel Raichur Doab e ne 224
ammazzò l’intera guarnigione. Riuscì a sfuggire soltanto un uomo, che andò a riferire della strage al proprio sovrano, Muhammad Shah, il sultano di Bahmani che si trovava nella città di Gulbarga: questi fu talmente afflitto dalla notizia che ordinò di uccidere l’unico superstite come punizione per aver abbandonato i propri commilitoni. Muhammad Shah marciò verso sud oltre il fiume Krishna, giurando che non si sarebbe riposato finché non avesse sterminato 100.000 indù per vendetta. Al primo scontro, le truppe indù furono messe in rotta e si diedero a una fuga precipitosa dettata dal panico, verso la sicura e vicina fortezza di Adoni, abbandonando l’accampamento e i civili al seguito dell’esercito, che furono massacrati dai soldati del Bahmani.1 Senza preoccuparsi di prendere Adoni, Muhammad Shah attraversò il fiume Tungabhadra nella parte centrale del territorio nemico, mai invasa dai musulmani fino ad allora, e introdusse i cannoni, un’altra novità per l’India meridionale. La battaglia che seguì fu un combattimento estenuante che durò tutto il giorno, fino alle quattro in punto, quando l’esercito Vijayanagara si arrese e batté in ritirata. I soldati indiani solitamente erano accompagnati e assistiti negli accampamenti dalle proprie famiglie che, però, in quella circostanza, furono completamente abbandonate nella confusione generale. Ancora una volta, per ordine di Muhammad Shah si attuò un massacro indiscriminato di tutti i civili indù al seguito, nel quale non furono risparmiati nemmeno le donne incinte e i neonati. Per i tre mesi successivi, Muhammad Shah inseguì Bukka Raya in ogni parte dei suoi domini, sgominando ogni tentativo di opposizione dei Vijayanagara e uccidendo ogni locale che ebbe la sfortuna di cadere nelle sue mani, indipendentemente dall’età o dal sesso. Quindi mise sotto assedio la città di Vijayanagar. Dopo un mese frustrante, divenne evidente che Vijayanagar avrebbe potuto resistere tutto il tempo necessario, così Muhammad Shah si ritirò, inseguito dall’esercito indù che gli 225
stava alle calcagna. I due eserciti attraversarono a nord il fiume Tungabadhra, rientrando nel Raichur Doab. Alla fine, lo scià Muhammad Shah si fermò per una notte in attesa che le truppe indù arrivassero sul posto e si accampassero nelle vicinanze, come avevano già fatto i due eserciti da quando era iniziata la ritirata. Intorno alla mezzanotte, tuttavia, le forze del Bahmani tornarono indietro furtivamente e fecero scattare una trappola, uccidendo 10.000 dei loro inseguitori col favore delle tenebre e disperdendo gli altri. Muhammad Shah procedette alla devastazione del territorio circostante con furia genocida, ammazzando ogni abitante che riuscì a scovare. Stanchi di una tale rovina, i capi religiosi induisti e gli ufficiali dell’esercito di Vijayanagar implorarono Bukka Raya di negoziare la fine della guerra. Egli inviò dunque degli ambasciatori per spiegare a Muhammad Shah che fino a quel momento nell’India meridionale era invalso l’uso di risparmiare i prigionieri e i civili. Gli ufficiali di Muhammad Shah, inoltre, gli fecero notare che egli aveva giurato di sterminare centomila indù, non tutti gli indù. Quando Bukka Raya porse le proprie scuse e si offrì di pagare un risarcimento di guerra, Muhammad Shah fece ritorno in patria oltre il fiume Krishna.2 Bilancio delle vittime Lo storico musulmano Firišta stima che il numero delle vittime indù superi i 500.000 individui.3 Probabilmente non si dovrebbe prendere questo dato alla lettera, ma si tratta comunque di un ordine di grandezza plausibile. Di tutte le singole guerre della conquista musulmana dell’India, questo è uno dei due eventi il cui numero di vittime supera la soglia di accesso alla mia lista (vedi Aurangzeb per l’altro evento).
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Tamerlano Bilancio delle vittime: 17 milioni1 Posizione: 9 Tipologia: conquistatore del mondo Contrapposizione di massima: Tamerlano contro chiunque potesse avvicinare Periodo: al potere dal 1370 al 1405 Luogo: Asia centrale, con Samarcanda nell’occhio del ciclone A chi diamo la colpa di solito: Timur, detto Tamerlano dal suo soprannome offensivo Temur i-lang (Timur lo Zoppo) Ennesimo esempio di: invasione mongola
L’uomo che si ama odiare In tutta l’Europa medievale gli attori erranti vivevano ai margini della società. Dovevano conformarsi a precise regole di comportamento e compiacere i loro potenti protettori dell’aristocrazia, perciò non osavano mai sfidare le autorità. Secondo le rigide prescrizioni del dramma medievale, alla fine il cattivo moriva sempre, spesso orribilmente e di solito pentito; il teatro doveva avvalorare le norme della società. Poi arrivò il Rinascimento e nel cuore commerciale di Londra i drammaturghi di successo impararono che potevano permettersi di mettere in discussione le regole. Christopher Marlowe scrisse un’opera, dal titolo Tamerlano il Grande, dedicata a un imperatore d’Oriente, un illustre mostro, distruttore di città e ladro di donne. Tamerlano si pavoneggiava 227
sulla scena e si crogiolava nelle ricchezze, nei progetti e nel suo sfarzoso potere. Alla fine del dramma, il cattivo non si pente e trionfa su tutti i nemici, circondato da seguaci devoti. Nessuno aveva mai visto niente del genere: al pubblico piacque molto, al punto che divenne il primo vero successo teatrale da quando la storia ha iniziato a tenerne registrazione. Confuso tra il pubblico, un giovane attore, drammaturgo principiante e amico di Marlowe di nome William Shakespeare si rese conto di poter vivere scrivendo grossi drammi sanguinosi. Ma quella è un’altra storia.2 La domanda che ci riguarda è: chi era questo splendido cattivo noto a Marlowe come Tamerlano? Era in primo luogo il classico condottiero barbaro su cui si raccontano aneddoti. Per i suoi ammiratori era un guerriero capace di molti stratagemmi: da giovane brigante delle distese desolate dell’Asia centrale, fece accendere ai suoi soldati degli inutili fuochi di bivacco in un cerchio attorno al nemico solo per convincere quest’ultimo di essere in svantaggio numerico; inoltre i suoi cavalieri trascinavano dietro di sé dei rami per sollevare nuvole di polvere più grosse. Quando invase l’India, legò dei fasci di sterpi ai cammelli: alla carica degli elefanti nemici, i suoi uomini lanciarono i cammelli fiammeggianti contro il muso degli elefanti, che andarono nel panico e si diedero a una fuga precipitosa addosso all’esercito indiano sconvolto. Lo avvolse anche una leggendaria malvagità. Allorché la guarnigione cristiana di Sivas, in Armenia, chiese quali fossero le condizioni della resa, Tamerlano giurò che non avrebbe versato sangue: dopo la resa, tenne fede alla propria parola e li arse tutti vivi. A un contemporaneo arabo i seguaci di Tamerlano ricordavano per lo più gli animali predatori: «leopardi del Turkestan, tigri del Balkhshahn, falchi del Dasht e Khata, avvoltoi mongoli, aquile di Jata, vipere di Khajend» e individui di altre nazioni pericolose etichettati come cani, leoni, iene e 228
coccodrilli. Era un esercito cosmopolita che a ogni conquista si faceva più temibile.3 La biografia di Tamerlano abbonda di aneddoti pittoreschi come questi, che insinuano dubbi su quello che sappiamo di lui, tuttavia molti dei suoi cronisti lo conobbero di persona, in quanto diplomatici, alleati o studiosi prediletti. La maggior parte delle storie ci è arrivata di prima mano o quasi, per quel che consentiva il sapere dell’epoca del manoscritto. Per esempio, se è rimasta la curiosità di sapere come facciamo a conoscere cose come le statistiche delle vittime nel Medio Evo, ecco un aneddoto: una volta, prima di inseguire un nemico in fuga, ogni soldato dell’esercito di Tamerlano pose una pietra in un mucchio. Al ritorno dalla battaglia, ogni uomo tolse una pietra dal cumulo e, contando le pietre che restavano, Tamerlano venne a sapere con esattezza e immediatamente quanti uomini aveva perso.4 Il tratto più sconcertante della biografia di Tamerlano sta nel fatto che egli attaccava sempre, senza un progetto a lungo termine se non quello della pura e semplice conquista. La motivazione era in parte economica: all’epoca il bottino dava sostento agli eserciti, perciò ovviamente egli doveva trovare una provvista costante di nemici ricchi da derubare. In parte era geografica: vivere nell’Asia centrale significava avere nemici da tutte le parti e non avere confini delimitati con sicurezza da una costa. La terra della confusione Alla morte di Gengis Khan, nel 1227, il suo impero unitario gli sopravvisse per poco, prima che figli, nipoti e generali lo frammentassero in quarti più gestibili: la dinastia Yuan, l’Ilkhanato, il Khanato Chagatai e l’Orda d’Oro. Per una paio di generazioni questi quattro khanati collaborarono tra loro come una specie di libera associazione malavitosa: ogni quarto dell’impero aveva una frontiera che lo separava da stranieri 229
ricchi che si potevano invadere e saccheggiare, perciò in teoria non avevano motivo di litigare tra loro. Nel giro di qualche decennio si infranse però anche questa intesa amichevole e gli eredi di Gengis Khan presero ad accapigliarsi. Tamerlano era nato in questo caos attorno al 1336; ritroveremo questi khanati uno dopo l’altro, seguendo Tamerlano che si accinge a conquistarli e a ricreare l’impero di Gengis Khan. Il clan dei mongoli di Tamerlano aveva fatto proprio lo stile di vita turki e ne aveva adottato la lingua, oltre che la religione musulmana, nel corso della generazione precedente. Vivevano in quella che un tempo era stata parte dell’infelice terra della Corasmia, totalmente devastata dai mongoli, ma in seguito divenuta patrimonio di Chagatai, il secondo figlio di Gengis Khan. All’epoca di Tamerlano, i khan rivali se ne contendevano il controllo. Tamerlano iniziò la propria carriera come brigante di second’ordine. Da giovane fu ferito da alcune frecce alla mano sinistra e al ginocchio (pure sinistro) mentre combatteva gloriose battaglie (secondo la sua versione) o rubava pecore (secondo la versione dei suoi nemici), circostanza che lo rese zoppo e gli paralizzò un braccio per il resto della vita.5 Nonostante tali infermità, mise insieme un numero di seguaci sufficiente per formare una banda di predoni. Alla fine la sua reputazione di intraprendente signore della guerra suscitò l’attenzione del khan alfa, Tughlak, il quale lo nominò governatore della Transoxia. Negli anni successivi alla morte di Tughlak, nel 1366, Tamerlano sbaragliò i propri avversari e occupò il trono di Samarcanda. La cosa è assai complicata, ma vi furono assassinii, battaglie e matrimoni. Per esagerare il proprio lignaggio egli dichiarò di essere discendente di Gengis Khan e del genero di Maometto, Alì, ma oggi non ci crede nessuno, a meno che non si trattasse di una straordinaria coincidenza (sia Gengis Khan che Alì misero al mondo parecchi figli di cui non si conosce il nome; uno potresti essere tu). Tamerlano scovò un parente sicuro di Gengis Khan e lo pose 230
sul trono di Samarcanda, mentre tenne per sé il più modesto titolo di emiro (comandante) con il quale manovrò le leve del potere nell’ombra. Il piano non ingannò nessuno, tanto che la maggior parte degli storici dimentica di dire che, tecnicamente, Tamerlano non era il sovrano del proprio impero. Talvolta può risultare difficile distinguere Gengis Khan e Tamerlano: i due sembrano fondersi nello stesso profilo generico del condottiero mongolo, ma esistono sostanziali differenze. Tamerlano era un musulmano devoto e penetrò maggiormente in Medio Oriente, in luoghi di cui è più probabile aver sentito parlare: Delhi e Damasco, per dire, invece di Nishapur e Bukhara. Inoltre, a differenza di Gengis Khan, a Tamerlano piacevano le città, certo, per lo meno le sue. Trasformò infatti la sua capitale Samarcanda in una delle più belle città del mondo. Impressionato da una cupola a cipolla che aveva visto conquistando Damasco, ne volle la replica a Samarcanda: da lì quello stile si diffuse in Russia (il Cremlino) e in India (il Taj Mahal).6 Per altre città, invece, come forma architettonica preferì la torre di teschi, con cui iniziò infatti a decorare il mondo dopo aver consolidato il potere su Samarcanda. Le campagne: a sudovest (1381-1384) Dalla distruzione nel 1221 per mano di Gengis Khan, la città di Herat era rinata ed era divenuta una ricca e raffinata tappa della Via della seta. Al tempo in cui era un mercenario errante, Tamerlano lavorava per la dinastia regnante di Herat, con cui trattò un’alleanza matrimoniale. Il sovrano acconsentì in linea di principio, ma prese tempo per i dettagli. Poi però le spie di Tamerlano scoprirono che Herat stava rafforzando le proprie difese, un atto chiaramente provocatorio. Tamerlano si lanciò dunque per quasi cinquecento chilometri di deserto aspro e di montagne e giunse ad accerchiare la città, la quale, conoscendo 231
la sorte che attendeva una difesa senza successo, si arrese senza combattere e ottenne clemenza.7 Essendosi spinto tanto a ovest e con l’esercito già mobilitato, Tamerlano proseguì l’offensiva. Il quarto persiano dell’impero di Gengis Khan era diventato regno degli Ilkhan, i quali stavano tuttavia svanendo quasi contemporaneamente alla dinastia Chagatai: sfruttando il vuoto di potere, Tamerlano invase la Persia con quella che sarebbe divenuta la sua caratteristica crudeltà. Nella città di Isfizar serrò 2000 prigionieri dentro una torre e li lasciò morire di fame. La vicina città di Zaranj era invece legata a un cattivo ricordo di Tamerlano, perché era proprio lì che egli aveva subito le ferite invalidanti, perciò, malgrado gli abitanti si fossero arresi senza combattere, fu messa a ferro e fuoco.8 A sudovest (1366-1388) Prima di invadere di nuovo la Persia, Tamerlano se ne tornò in patria per riposare un po’. Dopo la conquista di Esfahan, nell’Iran centrale, vi insediò una guarnigione ed era pronto a concedere clemenza quando la popolazione insorse e uccise la guarnigione. Tamerlano espugnò nuovamente la città e spazzò via gli abitanti, poi ne ammassò le teste mozzate a monito verso chiunque intendesse resistergli. La vicina città di Shiraz capì l’antifona e si arrese immediatamente. Uno storico musulmano che esplorò Esfahan poco dopo contò ventotto torri di 1500 teste ciascuna prima di concludere il proprio giro delle rovine: il totale probabile era prossimo a 70.000.9 Anche se pensiamo al passato come a un’epoca più feroce della nostra, vale la pena notare che molti dei soldati di Tamerlano inorridivano davanti all’ordine di massacrare i civili e i correligionari musulmani; tuttavia Tamerlano esigeva un certo numero di teste da ciascuna unità, altrimenti erano guai. Il compito di contare spettava agli ufficiali e i soldati più 232
schizzinosi compravano la loro parte ai commilitoni con meno scrupoli. Inizialmente il prezzo di una testa era di venti dinari, ma con il progredire del massacro e l’incontro tra offerta e domanda il prezzo precipitò a mezzo dinaro.10 A nordovest (1390-1391) Una dinastia mongola denominata Orda d’Oro aveva ereditato il quarto europeo dell’impero di Gengis Khan, a ovest dei monti Urali, che abbracciava le steppe della Russia e dell’Ucraina. Attorno al 1370 c’era stata una disputa dinastica e per un po’ Tamerlano aveva lasciato che Toktamish, il candidato al comando, se ne stesse comodamente a poltrire sul divano (metaforicamente parlando). Tamerlano lo aiutò a riconquistare il trono dell’Orda d’Oro, ma poi i due gengiskhanidi ebbero un dissidio. Poco dopo il ritiro di Tamerlano dalla prima incursione in Persia, Toktamish si introdusse di soppiatto alle sue spalle e conquistò Tabriz, una città che Tamerlano aveva risparmiato per il futuro. L’Eurasia chiaramente non era grande abbastanza per i due. Tamerlano puntò a nord, nelle distese selvagge e ignote della Siberia, quindi svoltò a sinistra e calò a sorpresa sul suo nemico attraverso le grandi foreste della Russia. A giugno del 1391 l’esercito di Tamerlano – 100.000 uomini e donne* – si abbatté sull’Orda d’Oro nella battaglia di Kundizcha. Toktamish fuggì dopo uno scontro furibondo, con le orde di Tamerlano che lo inseguivano da presso. Secondo lo storico persiano Sharaf adDin Ali Yazdi, «per lo spazio delle quaranta leghe in cui furono inseguiti, non si poteva vedere altro che fiumi di sangue e la pianura ricoperta di cadaveri».11 Anche se Toktamish riuscì a sfuggire, vennero conquistate e saccheggiate le sue maggiori città, Saraj e Astrakhan. A sudovest (1393) 233
Di nuovo la Persia. A nordovest (1395) Di nuovo Toktamish. A sudest (1398-1399) Nell’estate del 1398 Tamerlano si accinse a punire il sultano di Delhi, suo confratello musulmano, a causa della sua estrema tolleranza nei confronti di tutte le culture e in particolare verso gli indù, cui permetteva di andarsene liberamente in giro, cosa che Tamerlano considerava un affronto per l’Islam. A dicembre aveva già attraversato tutte le montagne, i deserti e i fiumi che separavano l’India dal resto del mondo e aveva guidato il suo esercito nella pianura del Punjab. Inoltrandosi in India, catturò migliaia di prigionieri indù da riportare in patria come schiavi. L’esercito di Tamerlano sbaragliò le truppe del sultano sotto le mura di Delhi, sconfiggendone gli elefanti da guerra con la tattica dei cammelli fiammeggianti descritta in precedenza. Nel corso della battaglia, Tamerlano udì i prigionieri che incitavano gli attacchi indiani, così li fece uccidere (100.000, secondo le cronache). Inizialmente intendeva risparmiare Delhi, ma quando i suoi soldati andarono in giro per la città ormai caduta a saccheggiare e stuprare, scoppiarono scontri e tafferugli con gli abitanti. Tutto ciò si fuse in una vera e propria rivolta contro gli invasori, che Tamerlano soffocò con la sua tipica spietatezza: furono massacrati circa 50.000 civili, le cui teste furono ammucchiate ai quattro angoli della città. Quindi Tamerlano si portò via tutti i tesori accumulati negli anni in quella grande capitale, insieme a decine di migliaia di nuovi schiavi. A ovest (1400-1404) Nell’ottobre del 1400 Tamerlano puntò a ovest. Avendo ridotto 234
la Persia a semplice terra di passaggio, da quel grande impero che era, la attraversò e attaccò oltre i suoi confini. Conquistò tutte le maggiori città sulla sua strada e bruciò viva la guarnigione di Sivas, distrusse Aleppo e ammucchiò 20.000 teste. Infine, nel marzo del 1401, mise a sacco Damasco, la diede alle fiamme e la spopolò. Con insolita clemenza, insediò in Siria alcuni soldati turkmeni sconfitti, ma questi, per nostalgia, tentarono di tornarsene alla loro terra d’origine, guadagnandosi da vivere con i furti. Tamerlano li raggiunse nei pressi della città di Damqan e ne accatastò le teste insanguinate in campagna. Un diplomatico spagnolo presso la corte di Tamerlano li descrisse così: «Fuori di questa città, alla distanza di un tiro di balestra, ci sono due torri alte quanto può essere alto il lancio di una pietra da parte di un uomo; queste torri sono fatte di argilla e di crani umani e sono vicine ad altre due torri crollate». Per anni si disse che di notte queste torri emettevano fiamme sovrannaturali.12 Una forza ridotta inviata ad assicurarsi Baghdad non aveva fatto alcun progresso, così Tamerlano tornò indietro con il suo intero esercito e assediò la città per sei settimane. In una giornata di caldo insopportabile, quando i difensori si ritirarono all’ombra, Tamerlano attaccò e, conquistata la città, ordinò a ciascuno dei suoi guerrieri di portargli una testa mozzata, due secondo alcune fonti. Al massacro scamparono solo il clero e i dotti. Quando saltò fuori che gli abitanti di Baghdad erano meno della quota richiesta da Tamerlano, siccome nessuno osava disobbedire a un suo comando si decise di ottenere le teste dallo stesso accampamento mongolo: servitori, prostitute e schiavi personali. I mongoli rasero al suolo ogni edificio laico e attorno alle rovine alzarono centoventi torri, fatte di 90.000 teste messe insieme, mentre Tamerlano si recava in pellegrinaggio presso un vicino santuario.13 L’invasione verso ovest portò Tamerlano a scontrarsi con i turchi ottomani, impegnati a cancellare le ultime vestigia dell’impero bizantino. Il sultano turco, Bayezid la Folgore, 235
aveva già schiacciato una serie di nemici sia in Europa sia in Asia e l’unica cosa che gli mancava per coronare la propria carriera e proclamarsi il più grande guerriero della storia dell’Islam era la conquista di Costantinopoli, sede dell’impero, valvola del mar Nero e porta dell’Europa, la quale aveva resistito per secoli contro gli invasori musulmani. Tuttavia nel 1402 piombarono da est le orde di Tamerlano e per fermarle Bayezid fu costretto ad abbandonare l’assedio di Costantinopoli. Il sultano avanzò con un enorme esercito temprato dalle battaglie e si scontrò con Tamerlano ad Ancyra. Fu una dura battaglia, nella quale parecchie unità di soldati scontenti di Bayezid passarono dalla parte del nemico, gettando nel caos lo schieramento ottomano. Bayezid venne sconfitto e fatto prigioniero insieme al suo seguito; senza volerlo, Tamerlano aveva salvato l’Europa dai turchi ancora per mezzo secolo. Si raccontano molte storie sull’umiliazione subita dall’ex sultano per mano di Tamerlano. Si dice che fu esibito in pubblico dentro una gabbia, che sua moglie fu costretta a servire nuda a corte, che Tamerlano lo adoperava come poggiapiedi.** Probabilmente non si tratta di storie vere, perché la loro comparsa è piuttosto tarda; gli storici precedenti affermano che Bayezid fu trattato bene. Raggiunta l’estrema costa dell’Anatolia (la penisola della Turchia), Tamerlano mise sotto assedio la città cristiana di Smirne, difesa dai Cavalieri di Rodi; l’assedio durò qualche settimana e si concluse come di consueto, con un massacro e un saccheggio. Quando in soccorso dei Cavalieri giunse in seguito una flotta cristiana, Tamerlano per deriderla e dimostrare che era troppo tardi catapultò verso le navi le teste mozzate degli ex difensori. L’emiro Tamerlano Tamerlano aveva molto rispetto per i dotti, che chiamò in gran 236
numero alla propria corte. Commissionò splendide copie del Corano ai calligrafi più raffinati e fu persino maestro di scacchi, tanto che la versione più complicata del gioco prende il nome proprio da lui. La scacchiera di Tamerlano ha quasi il doppio delle caselle rispetto a quella comune e un numero maggiore di pezzi, come l’elefante, che può saltare due caselle in diagonale, e la giraffa, che muove di una casella in diagonale e tre di fila. Come buona parte dei tiranni, nei suoi territori Tamerlano impose una giustizia severa e immediata, poco incline com’era ad andare per il sottile. Quando tornò dalla guerra e venne a sapere che in sua assenza il governatore di Samarcanda era stato oppressivo e avido, Tamerlano lo fece impiccare e ne fece sequestrare tutte le ricchezze. In tutto questo non c’è nulla di sorprendente, ma poi Tamerlano fece impiccare un influente amico del governatore che aveva cercato di comprarne la libertà, poi ancora un altro funzionario che aveva interceduto in favore dello stesso governatore. A quel punto tutti compresero il messaggio.14 Nei documenti emerge spesso il suo modo semplicistico di risolvere i problemi: Tamerlano «ordinò che fosse costruita una strada che traversasse la città da una estremità all’altra, fornita di botteghe su entrambi i lati, nella quale fosse possibile montare anche le tende per questi commerci. […] I funzionari cominciarono col far demolire tutte le case che sorgevano là dove doveva passare quella strada, senza riguardo per nessuno e senza sapere chi fossero i proprietari, se non quando questi uscivano fuggendo con tutti i loro averi dalle loro case in via di demolizione, man mano che gli operai avanzavano col loro lavoro».15 Finale Ormai settantunenne, Tamerlano aveva sgominato i due imperi più potenti di tutta l’Asia, quello di Delhi e quello ottomano; aveva conquiste dappertutto, tranne che a est, in Cina. Di 237
recente, per di più, la locale dinastia Ming guidata da Zhu Yuanzhang aveva scacciato i mongoli dalla Cina, cosa che Tamerlano non poteva tollerare. Con un nuovo esercito si accingeva dunque a ripristinare l’impero di Gengis Khan, ma la vecchiaia ebbe la meglio: morì nel 1405, prima di aver guidato l’esercito oltre i confini. Il rilievo delle conquiste di Tamerlano – per quanto enormi, sanguinose e pittoresche – è secondario e colmo di paradossi. Egli fu un devoto musulmano che annientò quasi esclusivamente nemici musulmani e si rivelò un perdente nelle guerre che lasciarono grosse eredità, mentre Samarcanda si trasformò in una sperduta provincia del deserto governata da khan dimenticati.16 Gli ottomani si riorganizzarono e dominarono il Medio Oriente per mezzo millennio; l’Orda d’Oro e i suoi successori tartari bloccarono per parecchi secoli l’espansione russa nella steppa. L’incidenza più duratura di Tamerlano sta nel fatto che un ramo dei suoi discendenti si costruì il proprio destino in India, come dinastia Moghul (per i dettagli vedi Aurangzeb). C’è un’ultima storia su Tamerlano, che riguarda la sua stessa testa mozzata. Nel 1940, nella speranza di realizzare il ritratto definitivo di Tamerlano, lo scienziato sovietico Michail Gerasimov ne aprì la tomba e portò via il teschio per la ricostruzione del viso. La popolazione locale lo avvertì che una maledizione attendeva chiunque disturbasse la tomba del signore Tamerlano, ma Gerasimov ci rise sopra e procedette al trafugamento. Nel giro di un paio di giorni la maledizione si avverò: la Germania invase l’Unione Sovietica. La nuova nazione centroasiatica dell’Uzbekistan sta riabilitando Tamerlano come eroe nazionale. Una sua splendida statua equestre domina oggi la piazza principale della capitale Tashkent; ha sostituito il busto di Karl Marx che stava lì negli ultimi anni dell’era sovietica, il quale a sua volta aveva preso il posto di una precedente statua di Stalin, che aveva rimpiazzato la statua di Konstantin Kaufman, conquistatore russo dell’Asia 238
centrale in epoca zarista. A quanto pare, la piazza non ha mai onorato una persona gradevole.17
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Conquista cinese del Vietnam Bilancio delle vittime: probabilmente non 7 milioni1 Posizione: 61 Tipologia: guerra di conquista Contrapposizione di massima: Cina contro Vietnam Periodo: 1406-1423 Luogo: Vietnam (a quel tempo chiamato anche Dai Viet o Annam) A chi diamo la colpa di solito: Cina Quando nel 1400 Ho Quy Ly, il primo ministro del Dai Viet (il Vietnam nel Medio Evo), usurpò il trono, minimizzò diplomaticamente la cosa con i suoi vicini, in particolare con la Cina, giurando che non era rimasto in vita nessun erede della precedente dinastia Tran. Poi, un principe Tran emarginato rovinò tutto presentandosi in Cina a chiedere aiuto ai Ming per riportare la propria famiglia sul trono. Durante l’estate del 1406 i cinesi mobilitarono 800.000 soldati delle loro province meridionali e invasero il Vietnam. Nelle precedenti invasioni verso sud, le truppe cinesi avevano incontrato qualche difficoltà a sconfiggere gli elefanti da guerra degli eserciti asiatici sudorientali, ma ora per cacciarli indietro disponevano di cavalli camuffati da leoni e cannoni primitivi che sparavano frecce infuocate. Gli invasori cinesi infestarono la maggior parte del paese e, verso la metà del 1407, catturarono e giustiziarono il re del Vietnam dell’epoca, il figlio di Ho Quy Ly. Misero sul trono il proprio uomo e restaurarono la dinastia Tran.2 I cinesi, però, non se ne andarono. Cominciarono a istituire nuovi distretti amministrativi con uffici per le tasse, uffici per il 240
sale per imporne il monopolio, scuole confuciane e archivi buddisti. Quando il re del Vietnam fece notare che era davvero arrivato il momento che i cinesi lasciassero il paese, scoppiò la guerra. Si trattò di una rivolta confusionaria, con un nuovo capo della dinastia Tran che saltava fuori ogni volta che i cinesi ammazzavano quello precedente. Nel 1413 l’ultimo tra questi, Tran De Qui Khoang, venne sconfitto in battaglia e catturato, cosa che poi lo spinse al suicidio. I cinesi assunsero il controllo diretto del Vietnam, con l’intenzione di estirparne la cultura indigena. «Al popolo si imposero abiti e costumi cinesi; le donne furono costrette a indossare pantaloni corti e maglie; si dovevano portare i capelli lunghi; l’istruzione pubblica era impartita in cinese, mentre furono eliminati i libri vietnamiti».3 La popolazione veniva brutalmente sovraccaricata di lavoro per estrarre le risorse del paese. Insorse un proprietario terriero aristocratico di nome Le Loi: nel 1418 i Ming ne dispersero rapidamente le forze, ma egli ricostituì il proprio esercito sulle montagne più remote e inaccessibili. I suoi uomini si nascondevano nelle regioni isolate del paese, spostandosi solo occasionalmente per tendere un’imboscata alle truppe cinesi e guadagnarsi qualche provvista. Quando quella tattica non funzionava, si nutrivano dei propri cavalli o si accontentavano di riso selvatico ed erba. Nel corso dei dieci anni successivi, Le Loi logorò i cinesi attaccando guarnigioni e convogli di rifornimenti isolati, per poi ritirarsi sulle montagne quando giungevano forze più ingenti. Pagando i funzionari corruttibili, Le Loi otteneva rifornimenti supplementari e un po’ di tregua. Alla fine, i cinesi desistettero e abbandonarono il paese, lasciandolo nelle mani di Le Loi, che nel 1428 instaurò la dinastia Le.
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Sacrifici umani degli aztechi Bilancio delle vittime: 1,2 milioni Posizione: 45 Tipologia: sacrifici umani Contrapposizione di massima: sacerdoti contro prigionieri Periodo: 1440-1521 circa Luogo: Messico A chi diamo la colpa di solito: gli aztechi La domanda senza risposta che si fanno tutti: non notarono che il sole sorgeva lo stesso ogni mattina anche se non gli offrivano alcun sacrificio? Nel 1521, piegati da una rivolta azteca, mentre si ritiravano nel panico da Tenochtitlán (l’odierna Città del Messico), gli spagnoli di Cortés osservarono a distanza, impotenti, i nativi che uccidevano i loro compagni catturati: Vennero suonati il cupo tamburo [di Huitzilopochtli] e molte altre buccine e corni e strumenti come trombe, e il frastuono era terrificante. Tutti noi guardammo in direzione della grande piramide, [...] vedemmo che i nostri compagni catturati [...] venivano portati a forza su per i gradini [...]. Ci accorgemmo che essi sistemavano delle piume sulle teste di molti di loro e, con oggetti simili a ventagli in mano, li costringevano a danzare davanti a Huitzilopochtli e, non appena finivano di danzare, li distendevano supini su pietre piuttosto strette [...] e con coltelli di pietra squarciavano loro il petto e ne 242
estraevano i cuori palpitanti per offrirli ai loro idoli. Quindi, gettarono a calci i corpi giù per la gradinata e i macellai indios che li attendevano là sotto tagliarono le braccia e i piedi e scuoiarono la pelle dei volti, per poi prepararla a mo’ di pelle da guanti, con tutte le barbe [...] e ne mangiarono la carne nei 1 Il sacrificio umano è un fenomeno diffuso in tutto il mondo, ma da nessuna altra parte, se non tra gli aztechi del Messico centrale, fu mai praticato su vasta scala. Nel mito azteco, il sole, Huitzilopochtli, nacque quando uno degli dei saltò nel fuoco; in seguito, gli altri offrirono il proprio sangue per guarire e nutrire questo dio ardente. Il sacrificio azteco riproduceva il sacrificio originario degli dei, perché senza sangue fresco il sole sarebbe morto. Infatti, la maggior parte degli dei del panteon azteco viveva di sangue umano. Soltanto Quetzalcoatl, il serpente piumato, rifiutò il sacrificio umano, ma gli altri dei lo obbligarono all’esilio. Gli aztechi erano prima di tutto un popolo guerriero. Nati come piccola tribù circondata da vicini ostili, lottarono per aprirsi la strada verso l’esterno e costruirono un impero che si estendeva da un mare all’altro nel Messico centrale. Per ringraziare gli dei per la fortuna loro concessa e indurli a continuare a elargire favori, gli aztechi offrivano loro il sangue dei prigionieri catturati in battaglia. Anzi, la cattura delle vittime sacrificali era così importante che ben presto la battaglia si orientò completamente a quello scopo. Nelle cosiddette «guerre fiorite» gli aztechi seguivano regole rigorose nell’attaccare i loro vicini, cominciando da una garbata negoziazione con i nemici per fissare data e luogo di battaglia. Il combattimento rispettava antichi rituali, come falò, musica, danza e, solo al culmine, una carica di massa. Il conflitto aveva luogo faccia a faccia, corpo a corpo, con armi principalmente non letali perché gli aztechi preferivano non danneggiare la mercanzia. I nemici venivano prelevati dalle fila, legati e trascinati a Tenochtitlán. I guerrieri aztechi facevano 243
carriera catturando prigionieri vivi che si potessero sacrificare.2 La maggior quantità di sacrifici si tenne a Tenochtitlán, una città sul lago, nel Grande Tempio dedicato a Huitzilopochtli, dio del sole e della guerra. Si facevano salire fino in cima alla piramide decine o centinaia di prigionieri intontiti dalle droghe: sulla vetta, ben visibile agli occhi degli dei e della città, un gruppo di sacerdoti afferrava un arto ciascuno o la testa, quindi teneva la vittima a terra. Il sacerdote sacrificale estraeva il cuore dal petto del prigioniero con un coltello di ossidiana e poi lo bruciava sull’altare.3 Il sacerdote quindi spingeva il corpo giù per le scale. Una volta rotolato in fondo, il corpo veniva smembrato, fatto a pezzi, cucinato e tagliato. Il proprietario del prigioniero sacrificato riceveva pezzi di carne scelta da servire al banchetto di famiglia, mentre uno stufato cucinato con i pezzi rimasti serviva come cibo per le masse. Puma, lupi e giaguari dello zoo ne spolpavano le ossa. In onore del dio Xipe Totec si teneva un altro rituale, noto come scotennamento di uomini. Si cominciava con la regolare estrazione di cuori in cima a una piramide, dopodiché i corpi venivano macellati per il rinfresco familiare. Il giorno successivo, si incatenava a una pietra un prigioniero stimato, al quale si consegnavano delle armi smussate con cui combattere contro quattro guerrieri giaguaro e aquila, che erano muniti di armi taglienti, perciò l’esito dello scontro non era mai in dubbio. Dopo l’uccisione del prigioniero, i sacerdoti lo aprivano in due e i celebranti lo mangiavano. Il padrino del prigioniero portava una ciotola di sangue in tutti i templi per dipingere le bocche degli idoli, quindi, per i venti giorni successivi, indossava la pelle dell’uomo morto fino alla decomposizione. Alla fine, si collocava ritualmente la pelle in una grotta del tempio e si ripuliva il celebrante. I bambini erano sacrificati a Tlaloc, il dio della pioggia. Erano particolarmente apprezzati gli infanti nati con determinate caratteristiche fisiche, in giorni astrologici 244
significativi, ma qualunque bambino andava bene per il sacrificio. Gli si tagliava di netto la gola, dopo che il sacerdote li aveva fatti piangere per raccoglierne le lacrime. A differenza di quanto accadeva durante gli altri sacrifici, considerati occasioni di festa, gli aztechi accompagnavano l’uccisione dei bambini con forti lamenti e i sacerdoti lo consideravano un lavoro bieco e sporco. Quando potevano, gli aztechi evitavano i luoghi in cui si erano tenuti i sacrifici infantili.4 Alla dea madre Xilonen si sacrificavano le donne. La donna al centro del rituale rappresentava la dea e veniva decapitata mentre ballava; poi la si scuoiava e le si estraeva il cuore, che veniva bruciato. Un guerriero prescelto ne indossava la pelle per tutto l’anno successivo e diveniva dea egli stesso.5 Le vittime dedicate al dio fuoco, Xuihtecuhutli, venivano sedate e gettate nel fuoco. I sacerdoti poi le uncinavano, bruciacchiate ma ancora vive, e le tiravano fuori dalle fiamme, in modo da asportarne i cuori ancora pulsanti. Se cercassimo di individuare una singola persona da incolpare della enorme quantità dei sacrifici aztechi, un buon candidato sarebbe Tlacaelel, primo consigliere di tre sovrani consecutivi. Un cronista spagnolo riferì che «fu lui a inventare sacrifici diabolici, crudeli e spaventosi».6 Nel 1487 Tlacaelel sovraintese alla nuova consacrazione del Grande Tempio per il re Ahuitzotl, durante la quale le vittime sacrificali vennero allineate in quattro file che si estendevano lungo tutte le strade rialzate che collegavano le isole della città di Tenochtitlán. Ci vollero quattro squadre e quattro giorni per ammazzare tutti i prigionieri, mentre alla base della piramide il sangue formava delle pozzanghere e si coagulava. Gli storici nel tempo hanno provato a trasformare questi indizi approssimativi in una cifra precisa, inizialmente calcolando un numero di circa 80.000 vittime, che però, al giorno d’oggi, oscilla tra 14.000 e 20.000.7 Perché così tanti? 245
Il sacrificio umano degli aztechi è talmente insondabile che la maggior parte degli studiosi non prova nemmeno a spiegarlo; gli aztechi sacrificavano la gente per motivi religiosi e questo è quanto. Tra i pochi che provano a individuare delle ragioni laiche, per lo più si preferisce indicare qualcosa di analogo alle motivazioni dei giochi dei gladiatori romani: un popolo guerriero che si tempra disumanizzando e svilendo i propri nemici. Di tanto in tanto, qualcuno prova a giustificare i sacrifici aztechi con l’assenza, nell’America precolombiana, di animali d’allevamento da mangiare,* cosa che avrebbe indotto i nativi a cercare una fonte alternativa di proteine. Le piccole popolazioni avrebbero potuto cacciare gli animali selvatici e pescare, ma, in una regione così densamente popolata come il Messico centrale, i soli grandi animali presenti in abbondanza erano gli esseri umani. Per procurarsi l’apporto proteico, i messicani ebbero bisogno del permesso da parte delle loro divinità di uccidere e mangiare i vicini, perciò gli aztechi offrivano il cuore e il sangue agli dei e, in cambio, potevano tenere la carne per sé stessi.8 È la spiegazione dei sacrifici aztechi più sensata, anche se la meno popolare. In effetti, sarebbe difficile trovare uno storico veramente convinto di tale teoria.9 Ma la cosiddetta ipotesi del regno dei cannibali ha molti argomenti a proprio favore. Per cominciare, perché l’unica cultura urbana della storia senza grandi animali per l’alimentazione fu anche la sola cultura urbana a nutrirsi regolarmente di carne umana? Perché la storia non ha mai prodotto un cannibalismo sfrenato in culture urbane che allevavano capre, ovini, bovini o maiali? Si tratta solo di una mera coincidenza? La maggior parte degli studiosi sostiene di sì e fornisce numerose controargomentazioni, accusando gli spagnoli di aver mentito per giustificare la sopraffazione di quei selvaggi pagani. Accusano inoltre gli occidentali di non poter capire i misteriosi usi e costumi indigeni e spiegano che essere sacrificati agli dei 246
era ritenuto un onore. Inoltre considerano la teoria della mancanza di animali d’allevamento con cui cibarsi come un insulto a una dieta perfettamente nutriente che includeva insetti, lucertole e lumache. Tanto gli antropologi quanto i vegetariani precisano che la carne non è indispensabile per una vita sana. Poi, tutti ci ricordano che l’Inquisizione spagnola uccise anch’essa molta gente, quindi chi siamo noi per condannare gli aztechi?10 Perché così pochi autori vanno oltre le «motivazioni religiose» in cerca di una determinata causa? Ho il sospetto che tentare di spiegare i sacrifici aztechi significhi aver bisogno di farlo, ovvero considerarli anormali, cosa che cambierebbe completamente la nostra prospettiva sulle culture indigene. Potremmo quindi trovarci a condividere tutte quelle antiquate nozioni eurocentriche sui selvaggi pagani e sulla superiorità del cristianesimo occidentale. In ogni caso, le proporzioni del sacrificio umano azteco superavano talmente tanto la maggior parte delle uccisioni religiose che, probabilmente, la questione ha bisogno di una particolare spiegazione. L’Inquisizione spagnola (32.000 morti)11 e la caccia alle streghe (60.000 morti)12 non sono nemmeno paragonabili ai sacrifici aztechi: quelle atrocità europee uccisero un numero di persone appena sufficiente per affermare la propria visione, mentre quella degli aztechi era un’attività frenetica. Persino i combattimenti tra gladiatori romani uccisero circa la metà della quantità annua di vittime sacrificali azteche ed ebbero luogo in un’area molto più vasta, in seno a una popolazione almeno quattro volte più numerosa. Sebbene il sacrificio umano fosse comune nelle tribù e nei villaggi di ogni parte del globo, la maggioranza delle società si limitò a piccoli numeri, superati soltanto quando furono costrette a vivere all’interno delle città, con una maggiore densità di individui. I cinesi della dinastia Shang, per esempio, sacrificarono solo 13.000 esseri umani in 250 anni (1300-1050 a.C).13 247
L’omicidio tende a stravolgere quel comportamento cooperativo e ordinato di cui ogni società ha bisogno per funzionare. Sebbene non ami generalizzare sulle atrocità contenute in questo libro, ho notato che la maggior parte delle stragi avviene dopo che una società aggredisce o si scaglia contro nemici specifici nel nome di qualcuno al potere. Uccidere centinaia di migliaia di vicini, a caso, senza una vera necessità se non il volere di entità invisibili, lacererebbe qualunque società a meno che non ci sia qualcosa di molto concreto da guadagnare. Io credo che fosse la carme. Bilancio delle vittime L’entità del sacrificio umano degli aztechi costituisce l’argomento di un rancoroso dibattito, nel quale molti studiosi sostengono con fermezza che l’intera questione è stata oggetto di esagerazione: niente più di una manciata di sacrifici, dicono, e soltanto in occasione delle maggiori feste.14 Tuttavia restano le prove: gli aztechi disponevano orgogliosamente le teste delle loro vittime su pubblici espositori in file ordinate e facili da contare. Secondo il testimone oculare spagnolo Andrés de Tapia l’espositore dei teschi di Tenochtitlán conteneva 136.000 crani; secondo un altro spagnolo, Bernal Díaz, quello di Xocotlan ne conteneva 100.000. Quasi un quarto di milione, in tutto.15 Il bilancio delle vittime si aggira intorno a un numero compreso tra 15.000 (Sherburne Cook) e 250.000 (Woodrow Borah) all’anno.16 Lo storico ottocentesco William Prescott afferma con insistenza che per due secoli gli aztechi sacrificarono almeno 20.000 individui all’anno, forse addirittura 50.000.17 Dalla parte opposta troviamo i revisionisti, che negano qualunque sacrificio da parte degli aztechi, indipendentemente da ciò che sostenevano quei bugiardi degli spagnoli. Bartolomé de las Casas e Voltaire affermavano che ogni anno furono sacrificati soltanto 150 messicani, numero esagerato dagli spagnoli per giustificare la loro conquista.18 In ogni caso, quella 248
che si incontra più spesso è una stima compresa tra le 15.000 e 20.000 vittime all’anno (per un totale di circa 1,2-1,6 milioni).19
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Tratta degli schiavi sull’Atlantico Bilancio delle vittime: 16 milioni1 Posizione:10 Tipologia: sfruttamento commerciale, razzismo Contrapposizione di massima: europei che schiavizzano africani Periodo: 1452-1807 Luogo: dall’Africa alle Americhe Principali nazioni fornitrici: Ashanti, Benin, Dahomey, Congo, Lunda, Oyo Principali nazioni marinare: Francia, Gran Bretagna, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Stati Uniti Principali colonie di destinazione: Brasile, Carolina, Cuba, Georgia, Giamaica, Maryland, Saint-Domingue, Virginia A chi diamo la colpa di solito: i mercanti europei di schiavi, gli intermediari africani e i coltivatori americani Fattori economici: schiavi, zucchero, oro All’inizio del Quattrocento gli europei avevano sviluppato delle nuove e rivoluzionarie navi oceaniche che potevano andare dovunque, indipendentemente dal vento, le correnti, la distanza o la direzione. I navigatori cominciarono a guardarsi intorno per vedere che cosa si poteva scoprire; spagnoli e portoghesi si imbatterono in svariati arcipelaghi dell’Atlantico orientale: Azzorre, Canarie e Madeira. Inoltre i portoghesi cominciarono a spingersi a sud, lungo le coste dell’Africa, alla ricerca della fonte di quell’oro che, sin dagli inizi della storia documentata, era arrivato proprio da quella terra. Alla fine entrarono in contatto con i regni dell’Africa occidentale, sul golfo di Guinea, 250
e presero un po’ di oro dai mercanti indigeni. Quasi per un ripensamento, si portarono dietro anche un po’ di schiavi. Per quanto gli schiavi avessero sempre costituito per l’Africa un importante prodotto d’esportazione (vedi Tratta degli schiavi in Medio Oriente), in Europa per loro non c’era un vero mercato. La terra aveva già servi della gleba a sufficienza ed era molto più facile assumere servitù indigena tra i contadini piuttosto che importarla da un altro continente. Alla fine i portoghesi scoprirono che si potevano fare soldi mettendo masse di schiavi a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero delle isole tropicali dell’Atlantico scoperte da poco, come Madeira e Capo Verde. Si stabilì così il modello della futura espansione.2 Fu la scoperta dell’America a porre la schiavitù al centro dell’economia europea. Davanti ai nativi americani che morivano a causa delle nuove devastanti malattie per le quali non disponevano di un’immunità congenita (vedi Conquista delle Americhe), il Nuovo Mondo affrontò una grave carenza di manodopera; un intero emisfero non aveva alcun valore perché non c’era nessuno che vi potesse lavorare. Quando nei Caraibi qualche piantagione sperimentale dimostrò che coltivare la canna da zucchero con gli schiavi africani dava profitto, nel 1513 la corona spagnola aprì il Nuovo Mondo ai mercanti di schiavi portoghesi. La raccolta Gli europei non catturavano gli schiavi da sé. Le mortali malattie tropicali e gli scontrosi re locali li dissuadevano dall’inoltrarsi troppo in profondità nel continente africano. Per gran parte dell’epoca della schiavitù, l’unica presenza europea permanente nell’Africa occidentale fu costituita da una dozzina di forti costieri o poco più, fondati per impedire ad eventuali concorrenti sempre europei di intromettersi nella tratta, e non per conquistare gli indigeni. Il primo fu il forte portoghese di 251
Elmina (oggi in Ghana), impiantato nel 1482, il quale prendeva il nome dalle miniera da cui si pensava arrivasse l’oro.* Per più di un secolo, la tratta degli schiavi restò un’attività esclusivamente portoghese, ma attorno al 1630 le navi da guerra olandesi sfidarono e sconfissero i portoghesi su tutto il pianeta. Si infranse così il monopolio portoghese e il resto dell’Europa si affrettò a mettere in piedi scali per la tratta degli schiavi su e giù per la costa africana. I regni indigeni come Ashanti, Oyo e Congo si fecero utili intermediari della tratta, così i re si arricchirono grazie ai tributi, alle tasse e alle tangenti che facevano girare il commercio. In cambio di schiavi, l’Africa otteneva i consueti beni di scambio (gingilli di rame e ottone, tessuti, vasellame, pentole, coltelli e conchiglie di ciprea),** oltre a qualcosa di più interessante (armi da fuoco, rum). Cosa a lungo andare ancor più importante, l’Africa ottenne il mais, che divenne l’alimento principale di tutto il continente, persino nell’entroterra più remoto. All’inizio gli africani scambiavano qualunque schiavo avessero per le mani. Si trattava per lo più di criminali, adultere o debitori, ma con l’aumento della domanda i regni costieri avviarono delle guerre con lo scopo preciso di fare prigionieri da vendere poi come schiavi. Alla fine i mercanti indigeni presero a fare scorrerie nell’entroterra per rapire nuovi schiavi. Dopo aver conquistato un villaggio, in genere si uccidevano gli anziani e i neonati, perché non avevano mercato; il resto degli abitanti veniva trascinato via per la vendita.3 Gli schiavi appena raccolti erano quindi radunati e incatenati in carovane lungo piste di centinaia di chilometri, per viaggi che spesso duravano mesi. Erano incatenati per il collo, i polsi o le caviglie, magari attaccati all’uomo davanti con un giogo sul collo oppure a quello accanto con le catene ai polsi. Per farli muovere li si pungolava, li si picchiava e li si prendeva a calci, si uccidevano i deboli che cadevano perché poi non potessero riprendersi e fuggire. Le principali piste di questo traffico erano disseminate di ossa.4 252
Siccome in America gli schiavi venivano solitamente mandati al lavoro nei campi, i più apprezzati erano gli uomini grandi e robusti. Circa il 90% degli schiavi spediti in America era costituito da adulti o adolescenti, e gli uomini erano il doppio delle donne. Spesso per le donne si spuntava un prezzo piuttosto alto in Africa, per impedire che fossero vendute oltremare.5 All’incirca la metà degli schiavi moriva durante le marce verso la costa o nell’attesa di un acquirente,6 mentre prima dell’arrivo di una nave i sopravvissuti erano raccolti nelle prigioni della costa, o dentro recinti appositi. Alcuni di questi luoghi erano massicce fortezze con celle sotterranee nelle quali li si ammassava, altri erano recinti all’aperto per il bestiame, dove gli schiavi stavano ammanettati al sole. In ogni caso erano tutti sovraffollati, sporchi e ronzanti di mosche. Le navi da trasporto europee vagavano per la costa alla ricerca degli affari migliori. Compravano qualche schiavo qua e là, perciò spesso ci volevano mesi prima che una nave mettesse insieme un intero carico di schiavi stipati sottocoperta. In molti luoghi le navi gettavano l’ancora al largo e i mercanti indigeni portavano gli schiavi in canoa; in altri gli acquirenti europei scendevano a terra per verificare e mercanteggiare. Pungolavano gli schiavi come avrebbero fatto con altri animali: poiché la fertilità dimostrabile le rendeva più preziose, le donne venivano esaminate alla ricerca di smagliature o altri segni della maternità. L’età si calcolava in base alla qualità dei denti, ma talvolta i venditori rasavano le teste per nascondere i capelli grigi. Conclusa la vendita, si marchiavano gli schiavi con ferri roventi per indicarne la proprietà, poi li si spingeva a bordo nudi, perché gli indumenti non avrebbero fatto altro che aggiungere sporcizia alla nave in rotta per il Nuovo Mondo. Spesso gli schiavi che nessuno voleva venivano uccisi sul luogo: mantenerli in vita significava sobbarcarsi i costi di mantenimento, mentre lasciarli andare avrebbe potuto indurre i futuri schiavi a rendersi palesemente invendibili. Ecco come descrive la cosa un resoconto dell’epoca: 253
I mercanti picchiano di frequente i negri rifiutati dai capitani e li trattano con grande severità. Non importa se siano stati respinti per l’età, l’infermità, la deformità o qualunque altra ragione. A Nuova Calabar, in particolare, si sa che spesso i mercanti li hanno messi a morte. In quel luogo vi sono stati casi in cui i mercanti, quando i negri sono stati rifiutati, hanno spinto le canoe sotto la poppa del vascello e li hanno immediatamente decapitati, sotto gli occhi del capitano.7 La traversata Olaudah Equiano, «uno schiavo vissuto per raccontare la propria versione»,8 descrisse nel tardo Settecento la prima impressione che ebbe di una nave europea destinata alla tratta: Quando sulla nave mi guardai attorno e vidi una grande fornace o un calderone in ebollizione, una moltitudine di negri di ogni sorta incatenati assieme e sul viso di ognuno un’espressione di scoramento e dolore, non ebbi più alcun dubbio circa la mia sorte e, del tutto sopraffatto dalla paura e dall’angoscia mi accasciai sul ponte e svenni. [...] Chiesi loro se non saremmo stati mangiati da quegli uomini bianchi dall’aspetto terrificante, con la faccia rossa e i capelli sciolti.9 Di solito ciascuna nave trasportava da duecento a quattrocento schiavi, incatenati sottocoperta a coppie, caviglia per caviglia, polso per polso, sdraiati uno accanto all’altro con circa metà dello spazio che si concedeva nello stesso periodo ai condannati o ai soldati.10 Agli angoli c’erano dei secchi che facevano da gabinetto, ma ci si doveva andare incatenati al proprio vicino, così molti non arrivavano in tempo e le navi negriere puzzavano sempre di escrementi. 254
Uomini e donne stavano incatenati in parti distinte della nave, per motivi di disciplina e di morale. Secondo un classico esempio di discrepanza di valori, ai capitani delle navi andava benissimo la schiavitù, ma inorridivano davanti alla possibilità di attività sessuale a bordo. Inoltre sospettavano che gli schiavi maschi si facessero meno docili e più protettivi se tra loro c’erano delle donne.11 Il viaggio durava solitamente due o tre mesi. Sulle navi gli schiavi non subivano particolari maltrattamenti, anzi ragionevolmente li si manteneva sani con abbondanza di acqua e cibi ricchi di amido: fagioli, biscotti, banane di platano, riso e patate dolci. Se uno schiavo tentava uno sciopero della fame, gli si teneva la bocca aperta e lo si alimentava a forza. Quando la terra era ormai invisibile e non costituiva più una tentazione, gli schiavi potevano essere condotti sul ponte di coperta a piccoli gruppi gestibili, per farli stiracchiare e danzare. Con il progredire del viaggio di solito li si liberava dalle catene.12 Nel complesso, il 40% di tutti gli schiavi (4,65 milioni) fu trasportato dai portoghesi e il 35% fu spedito nella colonia portoghese del Brasile. La tratta raggiunse il culmine nel Settecento, allorché tutte le nazioni coinvolte trasportarono quasi 6 milioni di schiavi. Nel corso degli anni Ottanta di quel secolo arrivava in America una media di 80.000 nuovi schiavi l’anno. In quel periodo a dominare il traffico erano ormai gli inglesi, che trasportarono in tutto il secolo all’incirca 2,5 milioni di schiavi.13 L’economia degli schiavi e dello zucchero era talmente redditizia che ogni paese europeo impegnato sul mare cercava di assicurarsene una parte, persino quelli a cui in genere non pensiamo quali spietati negrieri, come i danesi. La Compagnia danese delle Indie Occidentali e della Guinea possedeva scali in Africa, dove raccoglieva lavoratori per la colonia danese delle isole Vergini. In tutto sulle navi danesi si trasportarono 28.000 schiavi. In totale, sull’Atlantico furono trasferiti dai 10 ai 12 milioni 255
di schiavi.14 Probabilmente il 10-15% morì nel tragitto, spesso di dissenteria, scorbuto e vaiolo.15 I morti venivano gettati in mare senza cerimonie, perciò le navi erano seguite dagli squali nella speranza di un pasto facile.16 Si è notato che spesso il tasso di mortalità degli uomini degli equipaggi era lo stesso degli schiavi, circostanza che talvolta qualcuno utilizza come prova che gli schiavi non erano poi trattati tanto male. Purtroppo, si tratta più che altro del segno di quanto fossero trattati male gli equipaggi. La tratta degli schiavi assuefaceva gli uomini alla brutalità, tanto che i marinai delle navi negriere erano ampiamente considerati la peggior feccia del porto; erano pagati il minimo ed era assai probabile che finissero a dirimere una lite con il coltello o fossero impiccati dal capitano.17 Poiché gli europei erano particolarmente soggetti alle febbri epidemiche africane, le navi negriere erano ritenute la destinazione peggiore per un marinaio. C’era perfino una canzone: «Beware and take care of the Bight of Benin / Few come out, though many go in».18 L’erogazione I testimoni dicevano che un nave negriera che entrava in un porto si poteva sentire dall’odore. Dopo settimane di oceano, puzzava dell’urina, il sudore, il vomito e le feci stantie di trecento uomini rinchiusi, per di più le brezze calde dei Caraibi diffondevano il tanfo per tutta la città. Di solito gli schiavisti arrivavano in gran pompa – salve di cannone e speciali scampanate – per chiamare a raccolta gli acquirenti e avvertire le autorità. Speravano di scaricare ed erogare il loro carico prima che i nuovi schiavi si orientassero. Per prima cosa un medico visitava gli schiavi per individuare eventuali malattie contagiose, quindi venivano fatti sbarcare dentro magazzini o apposite prigioni per prepararli alla vendita. Li si ingrassava, lavava e oliava per renderli più attraenti 256
rispetto ai miseri scheletri che erano scesi vacillando dalla nave. Quindi li si esponeva, li si esaminava e li si metteva all’asta; conclusa la vendita, spesso i nuovi proprietari li marchiavano con ferri roventi. Durante il primo anno di ambientamento nella piantagione gli africani venivano fiaccati e addestrati: di solito ai nuovi schiavi si assegnavano mansioni relativamente semplici, finché non si erano irrobustiti («stagionati»), quindi li si spediva ai campi di canna da zucchero per il lavoro veramente duro. In ogni caso probabilmente un terzo di tutti questi nuovi schiavi moriva nel corso dell’ambientamento.19 Benché in quanto razza gli africani fossero stati già esposti in precedenza a tutte le malattie del Vecchio Mondo, sviluppando una certa immunità genetica, in quanto individui erano spesso vulnerabili. Mescolare centinaia di persone provenienti da tutta l’Africa in una piantagione affollata esponeva per la prima volta molti di questi nuovi schiavi al vaiolo, al morbillo, alla malaria e alla febbre gialla. Ad aumentare il tasso di mortalità non era soltanto la biologia: la coltivazione della canna da zucchero era particolarmente dura per il corpo, a cominciare dal fatto che nei campi occorreva maneggiare le foglie della canna, affilate come coltelli, per finire ai calderoni per la bollitura nella raffineria. Gli schiavi lavoravano troppo, erano sottoalimentati ed erano in sovrannumero. Se cercavano di fuggire venivano messi in ceppi, a ogni infrazione venivano picchiati, perciò la maggior parte di essi si ritrovava ben presto pesanti cicatrici alle caviglie e un reticolo di segni sulla schiena. Parecchie delle abitudini che in patria avevano consentito agli africani di evitare le malattie – cure adatte o isolamento dei malati, sistemazione adeguata dei morti, preparazione del cibo, eliminazione dei rifiuti, abitazioni pulite, ombra, riposo – nelle piantagioni americane rappresentavano un lusso. E così al trauma dei primi anni sopravvivevano soltanto gli africani più robusti.20 Nelle isole fatali dei Caraibi gli schiavi morivano più velocemente di quanto non riuscissero a riprodursi, il che vuol 257
dire che la popolazione non si sostentava da sé; ecco perché occorreva alimentare di continuo la forza lavoro con nuove importazioni. Benché tra il 1680 e il 1791 nella colonia francese di Saint-Domingue (Haiti) fossero arrivati ben 864.000 schiavi, nel 1789 la popolazione nera ammontava soltanto a 435.000 unità. Lo stesso vale per la Giamaica, dove tra il 1655 e il 1807 giunsero 750.000 schiavi, dei quali solo 310.000 erano vivi per essere liberati allorché nel 1834 gli inglesi vi abolirono la schiavitù. Tutto questo a fronte delle terre anglofone del continente nordamericano, dove i 427.500 schiavi importati dall’Africa erano in larga misura sopravvissuti e nel 1810 erano arrivati a 1,4 milioni.21 In virtù di questo rifornimento costante dall’Africa, le isole assorbirono più cultura africana di quel che fece il continente. Nelle forme del creolo e del vudù, lingua e religione dei Caraibi tendono a essere una sintesi degli elementi europei e africani, mentre i neri nordamericani parlano con un accento lieve e sono per lo più protestanti. Il maggiore utente di manodopera fornita dagli schiavi era la produzione di zucchero, che occupava il 55% dei nuovi schiavi provenienti dall’Africa, ma si poteva fare fortuna anche con altri prodotti tropicali come il caffè (che si prendeva il 18% dei nuovi schiavi), il cotone (5%) e il cocco (3%). Naturalmente i nuovi schiavi erano assegnati a ogni settore economico, dal lavoro nelle miniere (9%) alla servitù domestica (9%).22 In seguito, le generazioni di schiavi nate in America vennero avviate ai mestieri urbani come il falegname, il muratore o il fabbro ferraio. Una volta che si ambientavano in America, la mortalità si riduceva, ma gli schiavi avevano comunque un’aspettativa di vita inferiore a quella della persone libere della stessa comunità. Il giudizio Nei primi tempi della tratta, sia in Africa che in America la 258
schiavitù non era necessariamente ritenuta una condizione permanente. Gli schiavi importati in Virginia, per esempio, erano per lo più servitori con un contratto che riacquistavano la libertà alla scadenza dei termini della servitù (in genere dieci anni). Tuttavia le cose cambiarono ben presto. A far spiccare per la sua crudeltà la tratta degli schiavi in Occidente furono tre mutamenti del vento della storia. Il primo fu la nascita, nel XV secolo, del capitalismo globale, circostanza che spezzò i legami culturali ed emotivi tra padroni e schiavi, che per generazioni erano vissuti gli uni accanto agli altri nelle stesse comunità. Gli schiavi si trasformarono così in semplici merci da comprare e vendere in masse anonime e a grandi distanze. Il secondo fu il razzismo. «Noi» siamo sempre stati migliori di «loro», ma per buona parte della storia dell’umanità il «noi» rappresentava una tribù ristretta – i sassoni, gli ateniesi, i veneziani, i giudei e quant’altro – in un grande mare di «loro». I greci, per esempio, raggruppavano nella categoria onnicomprensiva dei barbaroi tutti i non greci, bianchi e neri, alfabetizzati e analfabeti, vestiti o nudi. Di fronte alla vastità dei «loro», c’era un limite alla quantità dei danni che potevamo fare «noi»; soltanto in seguito questa categoria si ampliò fino a comprendere chiunque ci assomigli, raggruppato in contrasto con chi non ha il nostro stesso aspetto. La tratta degli schiavi inventò in larga misura il razzismo, una divisione dell’umanità in gruppi organizzati basata esclusivamente sull’aspetto fisico. Così nel Nuovo Mondo, dove tanti africani vivevano come schiavi, si sviluppò un circolo vizioso per cui la schiavitù apparve come la condizione ovvia e naturale degli stessi africani. Allorché gli europei cominciarono ad associare la pelle scura alla schiavitù, si diede per scontato che qualunque persona dalla pelle scura fosse uno schiavo, e se non lo era poteva comunque diventarlo.23 Se i proprietari avessero liberato troppi schiavi africani dopo un periodo di servitù, si sarebbe creata una classe di neri liberi nella quale 259
avrebbe potuto nascondersi chi fuggiva. Pertanto i padroni dovevano opporsi con forza alla crescita di una libera comunità nera indipendente e sregolata, quindi dovettero giustificare tali azioni facendo appello all’ideologia razzista.24 Terzo, la diffusione delle idee liberali riguardanti l’innata dignità della persona cancellarono tante forme intermedie di disuguaglianza, come la servitù della gleba, il concubinato, l’apprendistato e l’aristocrazia. In precedenza, invece di lasciare un baratro invalicabile, queste diverse classi e caste avevano colmato per piccoli gradi il divario tra gli schiavi e chi nasceva libero. La schiavitù nell’America ottocentesca non era peggiore di quella di due secoli prima, ma con l’ampliarsi dei diritti dei cittadini comuni il contrasto con gli schiavi si fece più vistoso. L’abolizione Nel 1781 la nave negriera inglese Zong si perse al largo della Giamaica, si arrestò in una calma di vento e cominciò a perdere schiavi per le febbri e la scarsa pianificazione del viaggio. L’investimento del capitano si prosciugava. Purtroppo l’assicurazione non risarciva per gli schiavi che morivano a bordo per cause naturali, ma avrebbe ripagato il carico perso o gettato in mare per alleggerire la nave o preservare le risorse in calo, cosa che gli spedizionieri facevano normalmente con il bestiame. Il capitano cominciò dunque a gettare fuori bordo decine di schiavi ammalati e nel giro di alcuni giorni ne affogarono in tal modo 132. Tornato a terra, il capitano compilò la richiesta di rimborso per gli schiavi persi, ma quando si vide negare il pagamento dalla compagnia assicurativa ricorse in giudizio.25 Com’era accaduto in tanti casi precedenti, il processo sarebbe passato quasi sotto silenzio se una piccola nota legale sul giornale non lo avesse portato all’attenzione degli abolizionisti, i quali sollevarono un polverone, che non ebbe effetti sul caso ma contribuì a mobilitare le forze favorevoli all’abolizione. 260
Il fatto stesso che esistessero gli abolizionisti costituiva una vittoria tanto per l’Illuminismo quanto per la Riforma protestante. Nei millenni precedenti, le critiche più aspre rivolte dalle principali religioni contro la schiavitù non erano mai andate oltre la sporadica proposta di trattare meglio gli schiavi. A parte questo, era più probabile che le Sacre Scritture si riferissero alla schiavitù con approvazione, quale modello del rapporto tra uomo e Dio: l’Antico Testamento condanna alla schiavitù i discendenti di Canaan, i santi Pietro e Paolo ordinano agli schiavi di obbedire ai padroni. Nel 1452 papa Niccolò V emanò la bolla Dum Diversas, nella quale si concedeva ai paesi cattolici «la piena e libera facoltà di catturare e soggiogare saraceni e pagani, come pure altri non credenti e nemici di Cristo, ovunque essi siano […] e di ridurre in schiavitù i loro abitanti». In effetti fino all’Ottocento buona parte delle società missionarie considerava la schiavitù un beneficio, in quanto conduceva i pagani africani nel caldo seno della cristianità.26 Tuttavia la frammentazione del cristianesimo aveva creato aree di estrema sinistra votate all’eguaglianza di tutti i popoli. Svariati di questi gruppi, prima i mennoniti (1688), poi i quaccheri (1696) e infine i più numerosi metodisti (1774) cominciarono a schierarsi contro l’esistenza stessa della schiavitù. Nel 1775 i quaccheri di Filadelfia organizzarono la prima società abolizionista d’America, quelli inglesi fondarono la loro nel 1783. Se non fosse stato per l’ampia accoglienza ottenuta dalle idee liberali dell’Illuminismo settecentesco, quest’ala radicale sarebbe stata facilmente ignorata. Benché di solito liquidassero il cristianesimo quale pura superstizione, i filosofi illuministi concordavano con i quaccheri che tutti gli uomini nascono liberi e uguali. E così, allorché il liberalismo permeò la società, divenne più arduo tacere davanti alla schiavitù. Alla fine del XVIII secolo, le maggiori menti della civiltà occidentale (per esempio Bentham, Hume, Locke, Montesquieu, Rousseau, Voltaire) avevano ormai riconosciuto l’ingiustizia della 261
schiavitù. Tra tutti gli aspetti della schiavitù, era più facile smuovere la sensibilità dell’opinione pubblica contro la tratta degli schiavi che distruggeva vite, separava le famiglie ed esponeva vittime innocenti a sofferenze e umiliazioni tanto evidenti. E fu questo il primo elemento della schiavitù occidentale a sgretolarsi sotto l’assalto morale. Dopo anni di dibattito parlamentare, gli inglesi bandirono infine il traffico internazionale di schiavi nel 1807, seguiti nel decennio successivo dalla maggior parte dei paesi civilizzati. Alcuni, come Spagna e Portogallo, vi furono costretti da altri paesi e approvarono leggi inefficaci che non applicarono; nondimeno, cosa ancor più importante che scrivere nuove leggi nei libri, la Gran Bretagna impegnò la propria flotta nel pattugliamento delle coste dell’Africa per arrestare come pirati tutti i mercanti di schiavi, indipendentemente dalla loro bandiera. Per parecchi decenni l’oceano Atlantico vide sulle proprie acque un costante gioco di guardie e ladri; come molte attività illegali, la tratta degli schiavi si fece persino più brutale. Per evitare di essere catturate con gli schiavi a bordo, alcune navi negriere attaccavano il loro carico a un’unica lunga catena: se compariva all’orizzonte un’imbarcazione di pattuglia, veniva spinto fuori bordo il primo schiavo e la catena si portava tutti gli altri nell’oceano, uno dopo l’altro. Così, al momento dell’abbordaggio da parte della Royal Navy, la prova d’accusa sarebbe stata in fondo al mare.27 Tra il 1820 e il 1870 la marina britannica catturò quasi 1600 navi e liberò 150.000 schiavi,28 molti dei quali furono sbarcati a Freetown, in Sierra Leone, poiché sarebbe stato impossibile restituirli alle loro terre lontane sparse per il continente. Ben presto al pattugliamento si unì anche la meno consistente marina americana, che nel corso del tempo sbarcò 6000 schiavi liberati a Monrovia, in Liberia.29
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L’abolizione, seconda fase Tecnicamente, questo capitolo finisce qui. Nel mio elenco dei cento massacri io annovero soltanto i morti causati dalla tratta degli schiavi durante la cattura, il trasporto e l’ambientamento, e non gli schiavi morti dopo l’insediamento, perciò questa ecatombe termina con l’abolizione del traffico transoceanico; tuttavia, portiamo la storia alla sua piena conclusione. Rispetto alla tratta internazionale, fu più difficile eliminare la pratica quotidiana della schiavitù, che teneva i lavoratori vincolati a un singolo proprietario. Ricordiamolo, questa era l’epoca della servitù della gleba, delle case di lavoro per minori e delle fabbriche che sfruttavano la manodopera, perciò all’uomo di potere medio importava poco del comune lavoratore, indipendentemente dalla razza o dalla condizione di servitù. Finché la schiavitù si manteneva a livelli minimi di decenza, e soprattutto restava tranquilla e invisibile, la popolazione era in larga misura disposta ad accettarla. Malgrado l’impulso che guidava l’abolizionismo fosse di natura morale, senza i mutamenti economici sarebbe andato poco lontano. All’inizio dell’era moderna tante iniziative imprenditoriali contavano sugli schiavi a tal punto che nessuno poteva abolire la schiavitù senza perdere grandi quantità di denaro. Un investitore moralmente contrario a trarre profitto dalla schiavitù sarebbe stato tagliato fuori dai guadagni provenienti dal traffico marittimo, dai tessuti, dal tabacco, dallo zucchero, dalle attività bancarie, assicurative e minerarie. Poi a metà del XVIII secolo le nascenti economie industriali cominciarono a produrre denaro in abbondanza senza utilizzare gli schiavi: di colpo l’abolizione della schiavitù non avrebbe più rovinato tante persone di potere, perciò assumere una posizione morale divenne molto più semplice. Perché la rivoluzione industriale eliminò la schiavitù? Non è che gli schiavi non potessero fare il lavoro, anzi, se ne potevano trovare nelle fabbriche, nelle miniere, nelle botteghe delle città e 263
dei villaggi di tutto l’emisfero occidentale; e lavoravano benissimo. Spesso le fabbriche trattavano comunque gli operai come schiavi, perciò ricorrere agli schiavi veri non rappresentava un problema. Il vero problema stava nel fatto che gli schiavi erano un investimento a lungo termine che vincolava il capitale, un investimento che si fece più rischioso quando l’economia assunse una maggiore dinamicità. Con i mercati che fluttuavano di continuo, era più facile limitarsi ad assumere e licenziare la manodopera libera secondo necessità, invece di allevare schiavi da piccoli per mansioni che magari non sarebbero più esistite una volta che essi fossero cresciuti abbastanza per lavorare. Soltanto il mercato agricolo era sufficientemente stabile, anno dopo anno, da rendere praticabile l’acquisto di forza lavoro anni prima di farne uso.30 Inoltre le piantagioni erano più autosufficienti delle città, cosa che rendeva più economico il mantenimento degli schiavi. Nelle fattorie cibo, acqua, alloggi e legna si trovavano facilmente, così nei periodi peggiori ci si poteva fermare in attesa della ripresa dell’economia. Mantenere degli schiavi in un’economia urbana implicava invece l’affitto di un riparo, l’importazione di generi alimentari e l’acquisto di combustibile, cioè denaro in uscita anche quando non ce n’è in entrata. Era più semplice pagare un salario ai lavoratori e lasciare a loro la preoccupazione del mantenimento.*** Nel 1800 sulla questione schiavitù la civiltà occidentale si divise a livello regionale, senza vie di mezzo. A meno che un’area non dipendesse del tutto dagli schiavi per mandare avanti la propria economia, incalzati, i governanti locali in genere cedettero all’assillo morale degli abolizionisti e liberarono quei maledetti schiavi, tutto pur di scrollarsi di dosso i quaccheri. Nel giro della prima generazione del movimento abolizionista la schiavitù scomparve dalle economie più urbanizzate del pianeta. In Gran Bretagna, nel 1772 un caso epocale riguardante 264
lo schiavo James Somersett stabilì che il diritto inglese non ammetteva la schiavitù. Gli stati e i territori del Nordamerica abolirono la schiavitù tra il 1777 (Vermont) e il 1804 (New Jersey); a sua volta il governo rivoluzionario francese la abolì in patria quasi appena prese il potere (nel 1791) e nelle colonie dopo un ampio dibattito (nel 1794). Nelle regioni più calde, dove i prodotti agricoli coltivati dagli schiavi costituivano il pilastro dell’economia, la schiavitù sopravvisse a queste battaglie iniziali. Nel timore sia della bancarotta sia dello scatenarsi di migliaia di selvaggi incontrollati nelle loro comunità indifese, i proprietari di schiavi si opposero tenacemente a qualunque riforma. La politica si spaccò e gli animi si accesero, pertanto un’emancipazione negoziata divenne pressoché impossibile nelle regioni in cui la schiavitù era più radicata; così alla fine si giunse alla liberazione solo con le insurrezioni violente. Nel 1791 gli schiavi della colonia francese di SaintDomingue si ribellarono mentre la madrepatria era distratta dalla rivoluzione francese. Ci vollero centinaia di migliaia di morti e molti anni, ma alla fine fondarono ad Haiti il secondo stato indipendente dell’emisfero occidentale (vedi Rivolta degli schiavi di Haiti). Nel 1802 Napoleone ripristinò la schiavitù nelle restanti colonie francesi. Soltanto nel 1848, ossia dopo il violento rovesciamento della restaurata monarchia e la fondazione della ii Repubblica, la Francia abolì stabilmente la schiavitù in tutte le proprie colonie. Il Parlamento inglese abolì la schiavitù in tutte le colonie britanniche nel 1833: si trattò forse dell’unica grossa emancipazione acquisita senza lotta. Negli Stati Uniti, la divisione tra Nord e Sud a proposito della schiavitù si intensificò fino a toccare ogni aspetto della vita pubblica. Nel 1845, per esempio, le fazioni dei battisti favorevoli alla schiavitù si staccarono e diedero vita alla Southern Baptist Convention, attualmente il secondo ente 265
religioso degli Stati Uniti.**** Ogni nuova acquisizione territoriale degli Stati Uniti doveva essere assegnata al settore libero o a quello schiavistico del paese; il futuro equilibrio di potere dipendeva dal Nord o dal Sud, che gremivano i potenziali nuovi stati di coloni con la rispettiva mentalità. Alla fine la controversia produsse un partito politico, quello dei repubblicani, il cui principio unificante era l’opposizione all’espansione della schiavitù. Quando nel 1860 questo partito vinse le elezioni, i proprietari di schiavi si ribellarono e nella guerra civile che ne seguì trovò la morte mezzo milione di persone. A Cuba la schiavitù si abolì soltanto con la prima fallimentare guerra di indipendenza, la guerra dei Dieci anni. Quando nel 1878 fu sedata l’insurrezione, ormai erano scappati troppi schiavi perché si potesse dare loro la caccia, perciò il governo spagnolo decise di non discutere con gli schiavi che possedevano armi da fuoco. (In termini tecnici, il trattato di pace concesse la libertà a tutti gli schiavi che avevano combattuto da una parte o dall’altra nella guerra; in altre parole, a quelli che avevano le armi). Gli altri furono liberati otto anni dopo. Nel 1888, a più di un secolo dall’avvio del movimento abolizionista, fu il Brasile l’ultima nazione occidentale ad abolire la schiavitù, in un sovvertimento politico che comportò il rovesciamento della monarchia, anche se lo schieramento fu probabilmente diverso da quel che ci si aspetterebbe. Invece che elitari (monarchici e proprietari di schiavi) contro liberali (repubblicani e abolizionisti), l’insurrezione vide i nazionalisti da una parte (repubblicani e schiavisti che preferivano il controllo locale) e gli internazionalisti dall’altra (monarchici e abolizionisti che cercavano di inserirsi nella civiltà occidentale). In questo libro, la schiavitù detiene una sua unicità: è una delle poche atrocità che sono state del tutto e completamente... be’, «cancellate» è una parola troppo ottimistica... diciamo «emarginate». Sebbene la schiavitù esista ancora qua e là, in 266
alcune sacche oscure, le nazioni in quanto tali non la praticano più. Un paese può apertamente torturare i prigionieri, fucilare i dissidenti, invadere i vicini, picchiare a morte le donne o sfruttare il lavoro minorile, e avere comunque il proprio seggio all’ONU senza che nessuno faccia domande; tuttavia nessuno oserebbe legalizzare la schiavitù. Nel diritto internazionale la schiavitù pura e semplice costituisce il più saldo dei tabù. È per lo meno un inizio.
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Conquista delle Americhe Bilancio delle vittime: 15 milioni Posizione: 11 Tipologia: conquista coloniale Contrapposizione di massima: europei contro nativi americani Periodo: dal 1492 Luogo: emisfero occidentale Principali partecipanti: aztechi, caraibici, inca, spagnoli, taino Partecipanti secondari: americani, chrerokee, cheyenne, creek, inglesi, irochesi, pequot, piedi neri, powhatan, shoshoni, sioux A chi diamo la colpa di solito: Colombo, i conquistadores, Custer* Fattori economici: oro, argento
Nessuno si aspetta l’Inquisizione spagnola Sarebbe difficile trovare una nazione meno adatta della Spagna rinascimentale a un primo contatto pacifico con una cultura estranea. Per più di settecento anni la penisola era stata divisa tra cultura cristiana e cultura islamica, tra eserciti europei e africani, in un furibondo caleidoscopio di regni, ducati ed emirati. La Spagna non esisteva nemmeno in quanto nazione, fin quando due regni minori si fusero grazie al matrimonio dei loro monarchi, nel 1469. In Spagna la mentalità dei crociati era ancora viva e poco incline a fare prigionieri. Granada, l’ultima roccaforte 268
musulmana della penisola, cadde nelle mani dei conquistatori cristiani soltanto nel 1492, lo stesso anno in cui la Spagna espulse gli ebrei. All’epoca l’Inquisizione spagnola si era insediata per assicurarsi che dietro la maschera della devozione non si nascondessero infedeli pronti a scimmiottare le persone rispettabili. Gli eretici venivano fatti a pezzi e bruciati a migliaia. Il mar Mediterraneo rappresentava il campo di battaglia su cui si scontravano le flotte cristiane e musulmane, perciò i navigatori europei iniziarono a esplorare l’Atlantico, nella speranza di aggirare gli odiati saraceni e stabilire un ponte verso le ricchezze dell’Oriente. I portoghesi seguirono la rotta più ovvia, lungo la costa dell’Africa, mentre gli spagnoli puntarono sulla via diretta, al di là dell’oceano, dall’altra parte del globo. Cristoforo Colombo concepì, programmò e guidò la spedizione del 1492, che probabilmente sarebbe scomparsa nel vasto oceano se fosse stata davvero diretta, come lui credeva, verso l’Asia. La sorte volle che le isole al largo della costa di un paio di continenti del tutto imprevisti gli fornissero un approdo sicuro prima che le provviste venissero a mancare. Lui pensò che si trattasse effettivamente dell’Asia, ma nel giro di un decennio o poco più gli esploratori successivi dimostrarono che era invece un mondo completamente nuovo. Aspettando Colombo Per uno dei grandi contrasti della storia, il popolo che accolse Colombo, i taino (o arawak) delle Bahamas, erano tra i più miti mai conosciuti. Colombo li descrisse così: «Essi non portano armi né le conoscono, perché mostrai loro delle spade ed essi le prendevano per il filo e per ignoranza si tagliavano»;1 «sono gente tanto affettuosa […] e senza avidità e docili a qualsiasi cosa […] credo non ci sia miglior gente né miglior terra al mondo. Essi amano il loro prossimo come se stessi, e hanno il modo di parlare più dolce del mondo, e mite e sempre 269
sorridente».2 Naturalmente la prima cosa che fece Colombo fu valutarne la resa in termini di bottino: «Devono essere buoni e ingegnosi servitori»3 osservò, «con cinquanta uomini li terranno tutti sottomessi e faranno far loro tutto ciò che vorranno».4 Puntò quindi più a sud, verso le Indie Occidentali, alla ricerca di eventuali riserve d’oro nei paraggi. Esplorò le isole più vaste – Cuba e Hispaniola – e scoprì ben poco da portarsi via, se non altri indigeni. Sempre in cerca di occasioni, annotò: «Da qui, nel nome della Santa Trinità, possiamo mandare tutti gli schiavi che si possono vendere».5 A riprova della propria opinione, Colombo rapì alcuni nativi per portarli in Spagna come campioni, poi lasciò un piccolo insediamento a Hispaniola e salpò di nuovo verso la Spagna con la splendida notizia. Il serpente in Paradiso Fermiamoci un attimo per renderci conto del dono meraviglioso che si offriva agli occhi degli spagnoli, da prendere liberamente, a cominciare dall’articolo più interessante per un marinaio al termine di due mesi di mare aperto. Le donne, scrisse Colombo, erano «nude come il giorno in cui erano nate» ed erano prive di vergogna «come animali».6 Ecco, ora che l’abbiamo contemplato, osserviamo che gli indigeni quasi non possedevano affatto metalli – tanto meno ottone, stagno, acciaio, ferro o bronzo – tranne oro e argento, che erano morbidi, brillanti e facili da lavorare. Ciò significa che i nativi americani avevano passato parecchi secoli a dissotterrare e setacciare tutti i metalli preziosi che potevano trovare, accumulando comodamente tesori a portata di mano, ma non avevano inventato il modo di difenderli. Sarebbe fuorviante dipingere gli spagnoli come leoni tra le pecore, sarebbe meglio dire che erano leoni tra coyote, poiché erano entrambi predatori, ancorché di livello molto diverso. I nativi americani potevano essere crudeli e malvagi esattamente 270
come qualunque altro popolo del mondo: gli aztechi ogni anno sacrificavano in cima alle loro piramidi 15.000 esseri umani (vedi Sacrifici umani degli aztechi). Ben prima dell’arrivo di Colombo, i pacifici taino furono progressivamente ma inesorabilmente cacciati dalle loro isole dai caraibici, i quali diedero il proprio nome non solo al mare, ma anche alla loro dieta tipica, il cannibalismo. Gli inca sacrificavano bambini sulle montagne e gli irochesi si dilettavano a fare a pezzi e bruciare i prigionieri. Sia come sia, gli indigeni comunque non possedevano quel che ci voleva per essere delle inarrestabili macchine assassine. La guerra per gli aztechi aveva un carattere rituale, con lo scopo di raccogliere prigionieri vivi da sacrificare; gli indiani delle pianure nordamericane sono diventati celebri per il conto dei colpi, un rituale di coraggio in cui attaccavano il nemico solo per colpirlo, senza ucciderlo. Gli spagnoli invece prendevano la guerra molto più seriamente. I conquistadores spagnoli andavano in battaglia armati di spade d’acciaio, che potevano uccidere facilmente mozzando un braccio o una testa, a differenza delle mazze e delle asce in pietra degli indigeni, che richiedevano colpi ripetuti solo per rendere inabile il nemico. L’armatura degli spagnoli, in particolare l’elmo, rendeva ancor più difficile per gli indios mettere a segno un colpo; per di più gli spagnoli utilizzavano cavalli e cani da guerra, mostri terrificanti che potevano agevolmente scovare, calpestare e fare a pezzi i guerrieri in fuga. Le balestre europee miravano e tiravano con maggiore facilità rispetto agli archi e alle frecce dei nativi; i cannoni scuotevano la terra e facevano a pezzi le masse nemiche; l’archibugio, il primitivo moschetto dei conquistadores era troppo lento e impreciso perché avesse un’efficacia militare, a meno che non ce ne fossero tanti, ma non bisogna sottovalutare l’effetto psicologico del rombo di un tuono, seguito da un uomo che misteriosamente ti cade morto accanto.7
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Le Indie Occidentali Di Cristoforo Colombo sappiamo davvero poco; non sappiamo quando o dove era nato, dove approdò per la prima volta in America, che aspetto aveva o dove è sepolto. Naturalmente questo non ci ha impedito di colmare le lacune con le ipotesi, l’immaginazione e le congetture, anche se contraddicono il poco che sappiamo. Non importa quel che ci raccontano gli storici, noi continuiamo a credere nel Cristoforo Colombo che vogliamo, non in quello realmente esistito, il che vale sia se lo vediamo come un eroe sia se lo consideriamo un malvagio. Ogni tanto compare un libro che promette di demistificare Colombo e denunciarlo per quel figlio di puttana che era, e la cosa più curiosa è che ciò accade da centinaia di anni, già dall’inizio. La più importante fonte primaria del poco che sappiamo della vita di Colombo sono gli scritti di Bartolomé de Las Casas, frate domenicano e zelante difensore degli indios. Per esempio, l’unico motivo per il quale disponiamo del giornale di bordo del primo viaggio di Colombo è che Las Casas ne aveva una copia tra le sue carte. In origine il frate ammirava il navigatore, tanto che si mescolò alle folle scatenate che lo acclamarono al ritorno in Spagna, ma quando si trasferì in America Las Casas fece della denuncia delle crudeltà che i suoi concittadini infliggevano agli indios lo scopo principale della sua vita. Spesso si difendono Colombo e i suoi pari con la tesi che non si può giudicare il passato secondo criteri moderni, tuttavia è importante ricordare che i «criteri moderni» esistevano già all’epoca di Colombo, incarnati da Las Casas e da altri come lui. Colombo fece ritorno a Hispaniola all’inizio del 1494, dotato dalla corona spagnola di una flotta di diciassette navi, con lo scopo di impiantare un impero. Scoprì che il piccolo insediamento fondato durante il primo viaggio era stato spazzato via dopo uno scontro con gli indigeni, ma non importava: in questa nuova spedizione c’erano 1500 nuovi 272
europei, muniti di utensili, sementi e bestiame, pronti a soggiogare il Nuovo Mondo. Con Colombo arrivarono anche i suoi due fratelli, per condividere la buona sorte. Colombo impose agli indigeni di portargli delle rigide quote di oro, e per parecchi mesi indusse i taino ad abbandonare i campi per cercare l’oro sulle colline, circostanza che provocò una carestia che ne uccise 50.000. Inoltre raccolse 1500 indigeni e li chiuse in un recinto per venderli come schiavi: dopo averne stipato le navi che tornavano in Spagna, utilizzò i restanti sul luogo.8 Colombo aveva trascorso molta della sua vita come capitano, perciò preferiva governare mediante editti e punizioni immediate. Alla fine l’esecuzione sommaria di qualche spagnolo infastidì i coloni, ma a dividere la colonia contribuirono anche i dissapori sul trattamento degli indigeni come schiavi (secondo l’opinione di Colombo) o quali sudditi fedeli (il punto di vista della corona). Quando dalla Spagna arrivò un ispettore, tra le prime cose che trovò ad accoglierlo c’erano dei cadaveri appesi a una corda, così i fratelli Colombo vennero messi in catene e rispediti in patria perché rispondessero alle accuse. La corona nutriva ancora fiducia in Colombo, tanto che lo perdonò e continuò a servirsene come esploratore, ma non gli assegnò mai più il comando a terra. I Caraibi Ben presto gli spagnoli cominciarono a spartirsi il Nuovo Mondo secondo un sistema denominato encomienda (commenda). In teoria gli indios restavano in possesso della terra sotto la supervisione di un benevolo amministratore fiduciario europeo; si può immaginare come andassero le cose in pratica.9 Nel 1502 fra’ Nicolás de Ovando, appartenente a un ordine militare spagnolo, giunse a Hispaniola con 2500 coloni. Invitò tutti i capi indigeni a un sontuoso banchetto in loro onore, 273
quindi li fece uccidere; i restanti, privi di un capo, li rese facilmente schiavi. L’anno seguente Ponce de León soffocò una rivolta all’estremità di Hispaniola con il massacro di 7000 taino.10 Man mano che gli spagnoli prendevano possesso dell’isola, la popolazione registrata precipitava rapidamente dai 60.000 abitanti del 1509 agli 11.000 del 1518. Dato che gli indigeni morivano per il superlavoro, le malattie sconosciute e la rigida disciplina, gli spagnoli cominciarono a fare scorrerie nelle isole vicine alla ricerca di nuova manodopera. E quando le isole cominciarono a scarseggiare di popolazione gli spagnoli si spostarono più in là, sempre più in là, finché tutti gli indios delle Indie Occidentali non furono schiavi o, in numero sempre crescente, morti. La brutalità non passò né inosservata né indiscussa. Già nel 1511 un frate domenicano delle colonie spagnole, Antonio de Montesinos, sosteneva disperatamente che occorreva trattare gli indios secondo le regole della decenza civile.11 L’America Centrale Per svariati anni i navigatori si erano imbattuti in una vasta terra emersa a sudovest delle Indie, percorsa da fiumi così ampi che non potevano non defluire da un vero e proprio continente. Un primo tentativo di colonizzare questa regione fu abbandonato non appena gli spagnoli videro la giungla e gli indigeni minacciosi che la abitavano. A bordo c’era Vasco de Balboa, il quale decise di stabilirsi così a Hispaniola, dove come proprietario di una piantagione non fece grande fortuna. Nel 1508, allorché un’altra forza spagnola, stavolta più numerosa, si accingeva a conquistare il continente occidentale, Balboa si imbarcò clandestinamente con la spedizione per sfuggire ai creditori; malgrado il primo istinto del comandante della spedizione fosse quello di scaricare l’intruso alla prima isola, Balboa lo convinse che la sua precedente esperienza sul continente gli sarebbe stata utile. 274
La spedizione approdò a Panama, fondò una città, ammazzò qualche nativo e cominciò ad aggirarsi per i dintorni, agguantando l’oro ovunque se ne trovasse. Quando il capo della spedizione cominciò a tassare l’oro dei coloni, Balboa guidò un ammutinamento che lo condusse al potere. Ben presto da Hispaniola giunse un governatore per prendere il controllo della colonia, ma Balboa lo catturò e lo spinse in mare su una barca piena di falle, che sparì nel nulla. Mentre esplorava a fondo l’entroterra, barattava con gli indigeni gingilli e gioielli d’oro, oppure glieli rubava, Balboa sentì parlare di un altro oceano, al di là del continente, così si preparò a vedere se potesse trattarsi di un nuovo passaggio verso l’Asia. Si aprì la strada a colpi di battaglie contro le tribù, una dopo l’altra, strappando loro perle e oro. Quando scoprì che gli uomini di una tribù vestivano come donne, li fece fare a pezzi dai cani. Alla fine, nel 1513, giunse all’oceano Pacifico, primo europeo a vederlo da quella sponda. Quello fu il culmine della sua carriera: presto fu rimpiazzato e decapitato da un nuovo governatore reale, Pedrarias, il quale si dimostrò persino più spietato di Balboa, perché nella ricerca dell’oro sterminò quasi tutti gli indigeni.12 Il Messico Varie spedizioni in Messico, frutto di un progetto o del caso, erano fallite di fronte all’ostilità degli indigeni, ma il governatore di Cuba, Velázquez, era intenzionato a riprovarci. Così nel 1519 chiese a Hernán Cortés, uno dei coloni più ricchi di Cuba, di indagare sulle storie che si raccontavano su quella misteriosa terra a ovest. Cortés avrebbe dovuto prendere contatti, organizzare il commercio e stendere un resoconto, ma con il procedere dei preparativi Velázquez si accorse che Cortés era un po’ troppo entusiasta dell’incarico e allestiva una spedizione più ampia e armata più pesantemente di quanto avesse in mente lui. 275
Alla fine il governatore comprese che il primo uomo a raggiungere il Messico si sarebbe ritrovato davanti a terra vergine da saccheggiare, e lui aveva passato quell’opportunità a un concorrente sleale. Cercò dunque di ritirare il permesso della spedizione all’ultimo minuto, tuttavia il cognato di Cortés prese il messaggero di Velázquez in un’imboscata e lo fece uccidere, cosa che offrì a Cortés l’occasione di fuggire. E così, ormai tecnicamente ribellatosi all’autorità legittima, Cortés non ebbe altra scelta se non quella di proseguire. Poco dopo il primo approdo in Messico, nello Yucatán, gli spagnoli trovarono un compatriota naufragato in una precedente spedizione fallimentare, il quale conosceva il territorio e la lingua locale dei maya. Fu lui a condurre Cortés a nord, verso l’impero azteco. Nel viaggio per nave lungo la costa, un villaggio indigeno accolse Cortés e gli donò svariate donne perché ne facesse ciò che voleva; una di esse, Malinche, si rivelò particolarmente utile. Parlava sia il maya che il nahuati, la lingua degli aztechi, e alla fine imparò anche lo spagnolo. Cosa ancor più importante, era stata venduta come schiava dal patrigno ed era passata di mano più volte, perciò non nutriva particolare fedeltà verso la propria gente. Tutti i racconti la descrivono bella e intelligente, in piedi accanto a Cortés in tutti i conciliaboli, intenta a sussurrargli consigli all’orecchio. Alla fine diede un figlio a Cortés, quindi scomparve dalla storia. Sbarcati infine a Veracruz, gli spagnoli proseguirono a piedi. Durante la marcia nell’entroterra, Cortés e i suoi cinquecento soldati sconfissero gli eserciti riuniti dei tlaxcala, nemici mortali degli aztechi. Impressionati dalla forza degli spagnoli, i tlaxcala passarono immediatamente dalla parte del vincitore e accolsero Cortés come alleato. Nell’ottobre del 1519 Cortés si spinse di nuovo avanti, ormai rafforzato da 3000 tlaxcala, e attaccò la città santa azteca di Cholula, che diede alle fiamme dopo avere ucciso 3000 cittadini. La marcia di Cortés lungo un’ampia strada rialzata si concluse infine nella capitale azteca di Tenochtitlán, una 276
magnifica città di piramidi, peschiere e giardini disposti lungo un intreccio di canali, edificata su isole al centro di un lago. Ovunque si potevano vedere ciondoli, braccialetti e ornamenti d’oro. Malgrado nessuno sappia davvero quante persone ci vivessero, tutti gli storici concordano nel dire che Tenochtitlán era più grande di qualunque città europea dell’epoca, fatta eccezione per Costantinopoli.� Al primo incontro l’imperatore Montezuma invitò Cortés a soggiornare con tutti gli onori nel suo palazzo, ma nelle settimane seguenti Cortés cominciò a limitare e a controllare l’imperatore, facendone un fantoccio relegato. Poi giunse la notizia che sulla costa era approdata un’altra forza spagnola che su ordine di Velázquez doveva riportare all’ordine Cortés. Questi tornò rapidamente indietro e sconfisse in battaglia i nuovi arrivati, ma il racconto della grande città d’oro convinse i sopravvissuti a unirsi a lui. 13 Frattanto la guarnigione spagnola lasciata da Cortés a Tenochtitlán aveva interrotto una cerimonia religiosa, per uccidere e derubare gli aztechi ricchi (secondo la versione degli indigeni) o per impedire un sacrificio umano (secondo la versione spagnola). Al suo ritorno Cortés ritrovò gli aztechi in rivolta e i suoi compatrioti assediati nel palazzo, ormai alla fame; così trascinò fuori Montezuma, su una loggia, perché facesse appello alla calma, ma l’imperatore fu lapidato e ucciso. Allora Cortés fu cacciato dalla città in una battaglia incessante e nella ritirata buona parte degli spagnoli fu catturata e sacrificata. I loro commilitoni in fuga poterono sentirne le urla mentre i sacerdoti squarciavano loro il petto.14 Mentre gli spagnoli restanti si riprendevano presso i tlaxcala, un alleato invisibile sterminava gli aztechi per conto loro. Il vaiolo è una malattia del Vecchio Mondo che lascia ai sopravvissuti profonde cicatrici, ma li immunizza da ulteriori infezioni; nel corso delle generazioni, gli europei ereditarono da questi sopravvissuti le difese conto la malattia, tanto che nel XVI secolo il vaiolo in Europa era solo una malattia infantile. Gli 277
adulti ne morivano raramente, a meno che non appartenessero a una popolazione mai entrata prima in contatto con la malattia. Furono questa e altre malattie analoghe – per esempio il morbillo, l’influenza e la tubercolosi – a sterminare le vulnerabili popolazioni dell’emisfero occidentale: l’epidemia che colpì gli aztechi uccise il nuovo re e innumerevoli migliaia di altri individui. Gli spagnoli costruirono una flotta di imbarcazioni portatili e tornarono a Tenochtitlán con 80.000 alleati tlaxcala. Le truppe d’invasione di Cortés attaccarono quindi oltre i laghi e i canali della città, contro una disperata difesa casa per casa. Cortés si aprì la strada, estirpò ogni resistenza e andandosene demolì la città; nella battaglia per salvare la propria città morirono circa 200.000 aztechi. Quando tutto finì, i canali erano intasati di cadaveri e Cortés aveva estinto una delle grandi civiltà del mondo, ma era ricco più di quanto si possa immaginare. Il Perù L’impero inca, che si estendeva lungo la dorsale montuosa del Sudamerica, era l’entità politica indigena più progredita delle Americhe. Con una lunghezza in chilometri pari all’ampiezza degli Stati Uniti, il Perù degli inca era una terra di lama e alpaca, fortezze di pietra e campi terrazzati disposti dolcemente lungo i versanti delle montagne. Nei primi decenni di presenza nel Nuovo Mondo, gli spagnoli non sapevano nemmeno che esistesse, finché Francisco Pizarro, un ex compagno analfabeta di Balboa, salpò a sud da Panama per esplorare la costa pacifica del Sudamerica. Quando incontrò un mercantile indigeno, ne rapì alcuni indios affinché gli facessero da guide e da traduttori. Presto entrò nel porto indigeno di Tumbes, dove fu accolto in maniera ospitale e apprese del vasto impero inca che si estendeva lungo la costa, ma, cosa ancor più importante, notò quanto fossero ricchi e vulnerabili quei popoli. Dopo una visita piacevole, gli europei si congedarono dai 278
loro ospiti indigeni e incominciò la corsa. Il governatore della città inviò un messo al re inca per dargli notizia dell’arrivo degli stranieri, mentre Pizarro se ne tornò in Spagna con il suo resoconto. Il re di Spagna gli diede il permesso di conquistare gli inca, così nel 1531 Pizarro rifece il tragitto del suo primo viaggio. Stavolta però scoprì che Tumbes era stata saccheggiata e devastata. Marciando verso l’entroterra senza incontrare opposizione, gli spagnoli osservarono che dai villaggi lungo il cammino erano scomparsi gli uomini. A precedere gli spagnoli era stato il vaiolo. Intorno all’epoca della prima visita di Pizarro, la malattia si stava diffondendo in tutto l’interno, e aveva ucciso il re inca e il suo erede legittimo. I due figli restanti avevano passato molti degli anni successivi a combattersi per il controllo dell’impero, perciò avevano arruolato ogni uomo abile su cui riuscivano a mettere le mani. Il vincitore, Atahualpa, si aspettava il ritorno degli spagnoli, ma li riteneva comunque meno pericolosi dei suoi stessi familiari. Francisco Pizarro prese con duecento spagnoli la città abbandonata di Cajamarca, poi organizzarono un incontro con Atahualpa, che arrivò nella piazza principale con 80.000 uomini in parata, con tanto di tamburi, piume, lance e asce di pietra. Tuttavia gli inca trovarono la piazza misteriosamente vuota. Si avvicinò un frate domenicano, il quale propose ad Atahualpa di convertirsi al cristianesimo, in caso contrario sarebbe stato attaccato. Era la tipica offerta giuridica che precedeva tutte le guerre contro gli infedeli, ai cristiani era infatti vietato combattere dei correligionari senza un buon motivo, o per lo meno senza una scusa plausibile, ma gli infedeli furono in ogni epoca un bersaglio facile, perciò la regola era semplice: confermarne il paganesimo e quindi attaccarli. Atahualpa rifiutò di prendere sul serio una minaccia del genere, avanzata da duecento stranieri sporchi e laceri, ma gruppi di spagnoli nascosti sventagliarono la piazza di colpi d’arma da fuoco e attaccarono la folla di inca con i cavalli e le 279
sciabole, uccidendone 8000 e procurandosi appena qualche graffio. Pizarro afferrò personalmente Atahualpa e lo trascinò via dalla sua portantina; costretto a riconquistarsi la libertà con un riscatto, questi acconsentì a riempire una stanza di oro e argento. Furono così consegnate preziose opere d’arte raccolte per secoli dall’impero, che gli spagnoli provvidero a fondere e fracassare per facilitarne la spedizione. Gli spagnoli tennero prigioniero Atahualpa anche dopo il pagamento del riscatto. L’imperatore si rese allora conto che, fin quando fossero stati vivi e liberi altri potenziali sovrani, lui sarebbe stato sacrificabile. Diede quindi ordine di sterminare la famiglia imperiale, tra cui il fratello e rivale Huascar. Non solo la cosa non fu di alcun aiuto, ma diede a Pizarro un pretesto per sbarazzarsi definitivamente di Atahualpa. Il sovrano inca venne condannato al rogo, ma gli fu detto che, in caso di conversione al cristianesimo, avrebbe avuto una sentenza più lieve. Atahualpa accettò, gli spagnoli lo impiccarono.15 Città d’oro e montagne d’argento Prima che gli spagnoli potessero assicurarsi il controllo di tutto il Perù, ci vollero anni e anni di duri combattimenti. Un principe inca ribelle trovò rifugio nella roccaforte montana di Machu Picchu e gli spagnoli furono costretti a guadagnarne passo dopo passo il territorio. Frattanto per prendere parte all’azione arrivava un flusso costante di nuovi conquistadores che presero a combattersi tra loro ancor prima della pacificazione del Perù, ma col tempo si garantì il controllo spagnolo sulla regione. Poi, nel 1549, gli spagnoli scoprirono una montagna di argento grezzo a Potosí (oggi nella Bolivia meridionale). Nel corso delle generazioni successive, si arruolarono sistematicamente i lavoratori indigeni dei distretti confinanti per mandarli a scavare dentro la montagna finché non stramazzavano. Gli incidenti in miniera ne uccidevano ogni volta a decine, mentre i vapori di mercurio intaccavano il 280
sistema nervoso degli altri. Gli operai morirono a decine di migliaia, però nel secolo seguente l’argento di Potosí finanziò le ambizioni della Spagna.16 Nel 1551 venne arrestato e accusato di maltrattamenti nei confronti degli indios uno dei tanti avventurieri spagnoli che si erano ammassati a Potosí, un certo Lope de Aguirre, appartenente alla nobiltà minore e soldato di ventura. Se si considera che a Potosí era consuetudine brutale ammazzare gli operai a carrettate, è facile immaginare quanto doveva essere malvagia una persona perché le fosse intentata una causa. Quando il giudice Francisco de Esquivel lo condannò alla fustigazione nonostante il suo rango, Aguirre giurò vendetta. Per tre anni diede la caccia a Esquivel inseguendolo fino a Lima, a Quito e infine a Cuzco. Esquivel era addirittura arrivato a indossare continuamente una giubba di maglia metallica, nel caso in cui Aguirre l’avesse scovato, ma non servì. Lo raggiunse a Cuzco, si introdusse nella residenza del viceré del Perù, fortemente sorvegliata, e uccise il giudice ferendolo alla testa. Ben presto l’abilità militare di Aguirre fu utile per sedare una rivolta di spagnoli, perciò la corona gli perdonò l’omicidio del governatore. Nel 1559 egli si unì a una spedizione militare spagnola che dalle Ande peruviane si inoltrava nell’inaccessibile e fatale giungla amazzonica; portò con sé anche la figlia adolescente Elvira. Circolavano allora voci sull’El Dorado, un regno dorato sperduto nelle regioni selvagge inesplorate. Benché fosse partito rivestendo un ruolo inferiore nella catena di comando, in seguito a una serie di dispute interne, accoltellamenti, esecuzioni e incidenti misteriosi si ritrovò a capo della spedizione. Per migliaia di chilometri, gli spagnoli che restavano si aprirono la strada con le armi attraverso le tribù amazzoniche lungo il fiume, senza però trovare la terra dorata che era stata promessa. Dopo aver tagliato attraverso l’ultima boscaglia e gli ultimi indios, Aguirre ricomparve nel territorio spagnolo all’estremità opposta del Sudamerica, dove quasi immediatamente sottrasse 281
l’isola Margarita, sulla costa caraibica, alla guarnigione già presente. Nel tentativo di fondare un impero indipendente sull’isola, vide dappertutto complotti e congiure e finì per uccidere quasi tutti gli appartenenti al suo seguito; ma quando cercò l’espansione verso Panama le autorità spagnole si mossero per fermarlo. All’avvicinarsi delle truppe spagnole, l’ultimo atto di Aguirre fu l’uccisione della figlia, per far sì che non cadesse nelle mani di nessuno. Le autorità tagliarono il suo corpo in quattro parti e le misero in mostra in tutta l’America spagnola. Il Nordamerica Nel periodo in cui inglesi, francesi e olandesi cominciarono a impiantare le proprie colonie nell’America del Nord, per i più importanti centri della civiltà indigena il peggio era passato. Nel grandioso ordine delle cose, i secoli di guerre continue tra gli indiani nordamericani e gli angloamericani rappresentano soltanto una nota a piè pagina rispetto a ciò che colpì il cuore densamente popolato della Mesoamerica, delle Ande e dei Caraibi. Sia quel che sia, oggi gli Stati Uniti sono il paese egemone nel mondo e lo sterminio dei nativi americani è generalmente considerato il peggiore peccato nazionale dell’America, per questo si discute più di Wounded Knee che di Atahualpa. Per dare un’idea di chi ha fatto cosa a chi, ecco una breve sintesi dei sedici eventi più sanguinosi della frontiera angloamericana: 22 marzo 1622: con attacchi coordinati lungo il fiume James i powhatan uccisero 347 coloni inglesi (uomini, donne e bambini), un terzo degli abitanti della colonia della Virginia. 1623: dopo aver negoziato un trattato di pace con la tribù ribelle dei kiskiack del fiume Potomac, gli inglesi tirarono fuori il vino per brindare alla fine delle ostilità. Era avvelenato: duecento capi kiskiack crollarono a terra morti, gli inglesi trucidarono i sopravvissuti.17 282
26 maggio 1637: la milizia del Connecticut circondò un villaggio pequot sul fiume Mystic, diede fuoco alle abitazioni e agli abitanti intrappolati al loro interno. Circa seicento pequot, per lo più donne e bambini, morirono tra le fiamme o furono colpiti nel tentativo di fuggire.18 1675-1676, guerra di Re Filippo: secondo la consuetudine della guerra della frontiera, una uccisione ne causava altre tre, che poi causavano una vera e propria incursione, finché tutti non avevano ucciso qualcuno. Da entrambe le parti furono spazzati via interi villaggi, i prigionieri scuoiati, scotennati, bruciati e fatti a pezzi. Restarono uccisi tremila indiani e seicento coloni, mentre Metacom, capo dei wampanoag noto agli inglesi come Re Filippo, fu esposto per molti anni in cima a un palo a Plymouth.19 8 agosto 1757: dopo essere stata circondata da forze schiaccianti, la guarnigione britannica di Fort William Henry, nello stato di New York, accettò la resa e la consegna delle armi ai francesi in cambio di un salvacondotto. Gli indigeni abenaki, alleati dei francesi, non gradirono tali condizioni, quindi attaccarono in campo aperto la colonna britannica disarmata e trucidarono un paio di centinaia dei bersagli più facili: donne, bambini, malati, feriti, ecc. Luglio 1778: in un’incursione di lealisti e di irochesi nella Wyoming Valley in Pennsylvania restarono uccisi circa 360 coloni.20 4 novembre 1791: gli indiani miami e wabash di Piccola Tartaruga attaccarono una colonna guidata da Arthur St. Clair nel Northwest Territory; trovarono la morte 623 soldati statunitensi e due dozzine di civili al seguito.21 30 agosto 1813: gli indiani creek della fazione del Bastone Rosso conquistarono Fort Mims in Alabama e massacrarono circa 500 persone terrorizzate, tra coloni bianchi e civili creek della fazione rivale del Bastone Bianco, che avevano trovato rifugio lì.22 27 marzo 1814: nella battaglia di Horseshoe Bend, in 283
Alabama, i soldati del generale Andrew Jackson uccisero più di cinquecento guerrieri creek.23 1837-1838, Sentiero delle Lacrime: il presidente Andrew Jackson espulse tutti gli indiani che vivevano ancora a est del fiume Mississippi e li spinse in massa verso nuove terre a ovest. Chi aveva più da perdere in questa pulizia etnica e fu dunque colpito con particolare durezza furono i cherokee, che di recente avevano convissuto pacificamente con gli americani ed erano ancora numerosi e prosperi. Circa 18.000 cherokee vennero cacciati dalla loro terra in Georgia e nelle aree limitrofe, dei quali almeno 4000, e forse addirittura 8000, morirono di freddo, fame, fatica o malattia prima di giungere in Oklahoma.24 18 agosto 1862: i sioux santee attaccarono delle piccole fattorie a conduzione familiare lungo la frontiera del Minnesota, uccidendo e mutilando 400 coloni nelle prime scorrerie. In totale, negli scontri che si protrassero per il mese successivo morirono circa 800 coloni. Per punizione furono impiccati trentotto indiani, in quella che fu la più grande esecuzione di massa della storia americana.25 29 gennaio 1863: la milizia della California uccise circa 250 abitanti di un villaggio di shoshoni, tra cui novanta donne e bambini, a Bear River, in Idaho. 29 novembre 1864: la milizia del Colorado attaccò improvvisamente all’alba un pacifico villaggio sul Sand Creek e massacrò 163 cheyenne.26 23 gennaio 1870: l’esercito degli Stati Uniti attaccò un villaggio di piedi neri piegan nel Montana e uccise 173 persone, tra cui novanta donne e cinquanta bambini.27 25 giugno 1876, battaglia del Little Bighorn: nel corso dell’attacco contro un grosso accampamento indiano, il 7o Reggimento di Cavalleria di Custer fu respinto, intrappolato e sterminato dai sioux e dai cheyenne. Il bilancio fu di 267 soldati statunitensi uccisi. 29 dicembre 1890, Wounded Knee: un gruppo di profughi sioux miniconjou, per lo più donne e bambini, si era arreso 284
all’esercito degli Stati Uniti. Mentre venivano disarmati i prigionieri, partirono dei colpi: scoppiò il caos e chiunque avesse un’arma da fuoco cominciò a usarla, anche le mitragliatrici dell’esercito che dominavano i profughi. Quando il fumo si diradò, erano morti 128 (versione ufficiale) o 300 sioux (versione ufficiosa) e venticinque soldati statunitensi. Fu l’ultimo grosso evento delle guerre indiane.28 Per chi di voi tiene il conto a casa, tutto questo fa: massacro o pulizia etnica da parte dei bianchi contro gli indiani: 7 massacro o pulizia etnica da parte degli indiani contro i bianchi: 4 guerra o battaglia in cui gli indiani sconfissero pesantemente i bianchi: 3 guerra o battaglia in cui i bianchi sconfissero pesantemente gli indiani: 2 Come si vede, le atrocità evidenti furono quasi il doppio delle guerre leali; e io utilizzo una definizione molto approssimativa di guerra leale, che arriva a comprendere il fatto di non fare prigionieri. Nonostante le guerre indiane del Nordamerica siano troppo complicate da spiegare in un breve riassunto, la svolta decisiva si ebbe nel 1815. Prima di allora gli indiani furono attori all’interno di conflitti geopolitici più ampi tra francesi, inglesi, spagnoli e americani, circostanza che forniva alle singole tribù potenti alleati, protettori e finanziatori. Tuttavia dopo il 1815 tutte le nazioni bianche risolsero le loro divergenze e gli indiani si ritrovarono soli contro l’avanzata degli americani. L’Amazzonia La foresta pluviale dell’Amazzonia divenne il più grande rifugio del mondo per gli indios non assimilati, anche se queste tribù sono state poi in larga misura sterminate nel corso del XX secolo. 285
Delle duecentotrenta tribù originarie di indios che abitavano in Brasile nel 1900, nel 1957 se ne erano estinte ottantasette. Nello stesso periodo la popolazione di indios brasiliani precipitò da un milione a 200.000 unità.29 Per ogni tribù la storia è sempre la stessa: nel cuore della giungla si scoprivano delle risorse vitali – oro, petrolio, caucciù, potenziale idroelettrico – e, per sfruttarle, sugli abitanti del luogo si abbatteva la civiltà. La giungla veniva sottomessa e sgombrata di ogni forma di vita che si trovava sulla strada, animale o indio che fosse. Molti indios scomparvero senza lasciare traccia, ma alcuni genocidi si sono verificati abbastanza di recente, così ne è rimasta un’ampia documentazione. Quando nel 1968 si realizzò una nuova strada nel loro territorio, gli indios ache del Paraguay subirono massacri, stupri e ruberie. Negli anni Ottanta gli yanomami, che vivevano al confine tra Brasile e Venezuela, furono inondati dai cercatori d’oro e devastati da nuove malattie, stupri e scontri a fuoco, oltre che dagli scarichi chimici delle miniere, che avvelenarono i corsi d’acqua. La tirannia stemperata Alle crudeltà degli europei si può addebitare solo una parte degli indios morti durante la conquista delle Americhe; le malattie fecero il resto. Per secoli le vaste popolazioni intrecciate di Eurasia e Africa si erano scambiate le malattie lungo le rotte commerciali, cosa che fornì alle razze del Vecchio Mondo migliori livelli di resistenza alle malattie e la selezione naturale di generazioni che riuscivano sempre meglio a sopravvivere al vaiolo, al morbillo e all’influenza. Invece i nativi americani erano biologicamente innocenti e del tutto vulnerabili, perciò, poco dopo il primo contatto, a causa di tali malattie morirono interi villaggi. Dovremmo condannare gli europei per questo? Si tratta di un ragionamento morale piuttosto complesso, per cui è facile trovare partigiani di tutti gli estremi. 286
Da una parte c’è l’idea che la maggior parte degli indios morì di malattia, e la malattia non è genocidio. Punto. La difesa tace. Stephen Katz: «Quando tra gli indios d’America si verificò la morte di massa [...] quasi senza eccezione fu causata dai microbi, non dalle milizie [...] ossia, questo spopolamento ebbe luogo involontariamente e non in base a un progetto deliberato, come trapela in diretta opposizione alla volontà espressa ed egoista degli imperialisti e dei coloni bianchi».30 In effetti, le prime generazioni videro la terra sgomberata dalla mano di Dio per fare strada ai nuovi arrivati. Tragico, certo, ma a uccidere gli indios erano i microbi, non gli uomini. Secondo questo punto di vista, la resistenza degli europei alle malattie era il segno di una superiorità innata. Winthrop, governatore della colonia del Massachusetts: «Dunque Dio ci ha dato diritto a questo luogo».31 Per contro, alcuni autori tendono ad addossare interamente agli europei la colpa delle malattie che si portarono dietro. Li accusano di essere sporchi – dal punto di vista fisico, spirituale e morale –, perciò le malattie sarebbero quasi il sintomo di una cultura completamente malata. Scrive David Stannard: Nelle città [spagnole] del XV secolo i canali di scolo sui bordi delle strade, pieni di acqua stagnante, erano usati come latrine pubbliche [...]. Oltre al terribile fetore e alla vista ripugnante di morti, cadaveri umani e carcasse d’animali, lasciati in bella vista nelle strade, un moderno visitatore di una città europea di quest’epoca troverebbe repellente anche l’aspetto e l’orribile odore dei vivi. La gente non si lavava mai, nemmeno una volta in tutta la vita. Quasi tutti mostravano le conseguenze del vaiolo e di altre malattie deformanti che lasciavano i sopravvissuti parzialmente ciechi, butterati o menomati.32 Buona parte degli autori riconosce a denti stretti che non si possono davvero incolpare gli europei perché erano immuni 287
dalle malattie che uccisero gli indigeni, ma è difficile trovare una posizione equilibrata, no? Ecco James Loewen: Si possono fare soltanto ipotesi su quale sarebbe potuto essere l’esito della rivalità, se l’impatto delle malattie europee non fosse stato tanto devastante sulla popolazione americana. [...] Dopo tutto i nativi americani avevano respinto Samuel de Champlain, quando nel 1606 aveva cercato di insediarsi nel Massachusetts. L’anno seguente gli abenaki avevano contribuito a espellere la prima colonia della Plymouth Company dal Maine.33 E ancora, Jared Diamond: Morbillo, vaiolo, influenza, tifo, peste e altre malattie decimarono i popoli di interi continenti e furono potenti alleati degli europei. Ad esempio, dopo il fallimento del primo attacco spagnolo del 1520, un’epidemia di vaiolo colpì gli aztechi, uccidendo anche l’imperatore Cuitláhuac, successore di Montezuma. […] La prospera e numerosa società stanziata sulle rive del Mississippi, la più avanzata del Nordamerica di allora, fu spazzata via in questo modo tra il 1492 e la fine del XVII secolo, prima ancora dell’arrivo degli europei.34 Per molti aspetti non importa cosa fu a uccidere gli indios, perché in genere al costo complessivo delle guerre e delle repressioni si aggiungono comunque malattie e carestie. Anne Frank morì di tifo, e non per il gas velenoso, eppure la annoveriamo tra le vittime dell’Olocausto. Lo stesso criterio si dovrebbe applicare al tracollo della popolazione amerindia, per quel che riguarda le morti verificatesi dopo che la loro società era già stata disgregata dall’aperta ostilità degli europei. Se una tribù veniva schiavizzata o cacciata dalle proprie terre, l’incremento del numero di morti che accompagna l’evento sicuramente andrebbe messo nel conto delle atrocità; tuttavia 288
non entra nel conto se qualcuno non faceva altro che starnutire davanti a una tribù al primo contatto. Prendiamo in considerazione i powhatan della Virginia. Nel suo libro Olocausto americano, David Stannard sostiene che prima del contatto la loro popolazione arrivava a 100.000 unità, ma le «malattie e le devastazioni» portate dagli europei la ridussero a soli 14.000 nel 1607, cioè quando gli inglesi fondarono Jamestown.35 Ora, cerchiamo di essere giusti: dovremmo addossare agli inglesi le 86.000 morti che si verificarono prima ancora del loro arrivo? Stannard accenna alle devastazioni che precedettero Jamestown, ma per quel che ne so, le poche iniziative europee all’interno della regione della Virginia prima del 1607 furono troppo ridotte per poter depredare tanto. Fino a Jamestown furono gli europei, di solito, ad avere la peggio, per esempio una piccola missione spagnola venne spazzata via dagli indigeni nel 1571, mentre la colonia inglese di Roanoke scomparve misteriosamente nel 1589. Se gli europei fossero arrivati con le intenzioni più benevole e si fossero comportati da ospiti perfetti, oppure se fossero stati i navigatori dei Caraibi a scoprire l’Europa e non il contrario, gli indios sarebbe stati comunque esposti a malattie ignote e la popolazione sarebbe stata falciata comunque dalle epidemie di massa. In quel caso la società l’avrebbe considerata nella stessa categoria della peste nera, quella della sfortuna.** Detto ciò, il semplice fatto che la malattia fu il fattore primario di morte non assolve affatto gli europei. Qualunque cosa abbia ridotto i powhatan dai 14.000 del 1607 a quasi zero, è in ogni caso importante, perché all’epoca l’ostilità e la sottrazione delle terre da parte degli inglesi mietevano vittime. Nella maggior parte delle atrocità elencate in questo libro, il lavoro sporco lo fecero per lo più la fame e le malattie, che io però annovero comunque tra le atrocità. Se dovessi limitare il computo al numero dei morti causati dalla violenza diretta, allora l’Olocausto uccise meno di tre milioni di ebrei, mentre il bilancio della guerra civile americana non sarebbe abbastanza 289
elevato da poter entrare nella mia lista.36 Quanti furono i morti? Nel 1542 Las Casas calcolò che nei primi cinquant’anni di contatto gli spagnoli avevano ucciso più di 12 milioni di indigeni americani, forse addirittura 15. Nonostante cinquecento anni di ricerche ulteriori, rimane ancora un calcolo valido quanto quelli che sono seguiti. Altri ricercatori hanno tentato di fornire cifre migliori. In Olocausto americano, Stannard calcola in 100 milioni di morti il bilancio complessivo dello sterminio pressoché totale dei nativi americani. A sua volta Rudolph J. Rummel, in Statistics of Democide, ipotizza una gamma di democidi inflitti ai nativi americani prima del 1900 compresa tra 9.723.000 e 24.838.000, di cui da 2 a 15 milioni in epoca coloniale.37 Di solito, come mio bilancio delle vittime preferisco la media di tutte le stime di cui dispongo. Immagino che se allineassi le cifre di tutti gli esperti e cominciassi a cancellare gli estremi – la più alta e la più bassa, la seconda più alta e la seconda più bassa, avvicinandomi così al centro – otterrei un numero più difendibile di uno isolato in cima o in fondo. Il problema è che le stime ragionevolmente autorevoli in questo caso sono soltanto tre, del tutto diverse l’una dall’altra. Facendo ricorso allo stesso stratagemma utilizzato per ciò che riguarda la Cina medievale, potrei decidere di scegliere la media geometrica (14 milioni) tra il minimo assoluto di Rummel (2 milioni) e il massimo assoluto di Stannard (100 milioni). Non si può fare di meglio? Il nodo cruciale del problema sta nel fatto che nessuno ha la minima idea di quanti fossero i nativi americani prima che arrivassero gli europei sia a contarli che ad ammazzarli. Come è scritto in The New York Public Library American History Desk Reference, «le stime della popolazione di nativi americani delle Americhe, tutte assolutamente prive di scientificità, oscillano 290
dai 15 ai 60 milioni».38 Ma è errato persino questo giudizio cinico, dato che le stime vanno da 8 a 145 milioni.39 Gli autori scelgono per lo più le cifre che meglio sostengono le loro tesi, perciò il numero di amerindi è direttamente proporzionale alla distruttività che intendono addebitare agli europei. Per quel che vale, tra gli autori che non si mettono a predicare da un pulpito è diffusa una stima di circa 40 milioni di abitanti originari.40 Allora come si arriva ai 15 milioni che stanno all’inizio di questo capitolo? Ho ipotizzato che il Nuovo Mondo avesse in origine 40 milioni di abitanti, ma con l’arrivo degli europei la popolazione amerindia precipitò fino a toccare il fondo di 5 milioni circa. Il passo successivo consiste nel determinare quanti di questi 35 milioni di morti siano imputabili alla violenza e all’oppressione, sia diretta (guerra, assassinio, esecuzione) sia indiretta (carestia, malattia grave). Ovviamente alcuni lo sono, altri no. Non possiamo ripartire il bilancio delle vittime con alcuna certezza, ma per quanto io possa gingillarmi con le cifre, non posso imputare ai genocidi un numero inferiore a 10 milioni o superiore a 20. E così ho diviso la differenza.41
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Genocidio La distruzione degli amerindi fu un genocidio? Si trovavano tra i piedi e gli europei se ne sbarazzarono: se non nelle intenzioni, fu un genocidio nei fatti. Quasi in ogni fase della conquista potenti gruppi uccisero gli indios non assimilati, cosa che turbò le coscienze non più dell’abbattimento delle foreste o la caccia ai predatori pericolosi. Europei e africani rimpiazzarono gli amerindi nella gran parte dell’emisfero, e persino dove il ceppo genetico degli indigeni è sopravvissuto i loro discendenti hanno adottato lingue e religioni occidentali. La parola G Dato che quella di genocidio è la peggiore accusa che si possa rivolgere a una nazione, a un certo momento ogni oppressione viene denominata genocidio: non sembra sufficiente chiamarla semplicemente purga o massacro. E quindi, siccome il genocidio è un insulto, si nega ogni accusa con vigore, in genere insistendo sul fatto che uccidere è stato un legittimo atto di guerra, che il bilancio delle vittime è stato più basso, che il nemico se lo meritava o che le morti non erano premeditate. Il diritto internazionale, che da parecchio tempo vieta l’assassinio di civili, in effetti non lo ha impedito, anzi ci ha quasi aiutato a trovare delle scuse. Dopo mezzo secolo di dibattito sul significato di genocidio, il termine ha perso di incisività; qui io lo utilizzerò in senso stretto, per definire la tentata cancellazione di un gruppo etnico mediante la violenza. E un’etnia è un’identità di gruppo sulla quale non si ha il controllo: ci si nasce, la si condivide con la propria famiglia e non cambia, indipendentemente da quel che 292
accade in seguito nella vita. Poiché genocidio deriva dalla stessa radice di genetica, il senso comune starebbe a indicare che il genocidio è l’uccisione di un popolo basata sulla sua ascendenza, non sulla religione, la ricchezza, l’istruzione o le convinzioni politiche. In virtù di tale definizione il bombardamento di Nagasaki, i massacri del regime dei Khmer Rossi e l’eccidio di Katyn non furono genocidi: il bombardamento di Nagasaki perché in alternativa c’era la resa, lo sterminio in Cambogia perché aveva un carattere politico ed ebbe luogo all’interno dello stesso gruppo etnico e l’eccidio di Katyn (vedi Iosif Stalin) perché le dimensioni non furono tali da annoverarlo come «tentata cancellazione». Una caratteristica determinante del genocidio è la risoluta dedizione con la quale gli oppressori annientano il gruppo oggetto del genocidio stesso. Non si accontentano di uccidere solo chiunque insorga e opponga resistenza, ma per loro è essenziale dare la caccia e sterminare tutti, uomini, donne, bambini, neonati e cani. Se si appartiene all’elemento demografico scelto come bersaglio, si verrà uccisi indipendentemente da quanto si riesca a implorare pietà: tuttavia spesso le ragazze vengono risparmiate, stuprate e rese schiave perché non sono abbastanza importanti da essere ammazzate. Non è nemmeno genocidio vendicarsi contro un’intera famiglia per i crimini di uno dei suoi membri, anche se spesso sembra così. Si noti che circa la metà dei genocidi sottoelencati ha avuto successo: il gruppo preso di mira è stato completamente eliminato e rimpiazzato da chi ha perpetrato il genocidio, per lo meno nelle regioni sotto attacco. Molte delle etnie di oggi sono arrivate dove sono spazzando via i concorrenti. Altri genocidi invece non sono riusciti, le vittime si sono riprese e l’unico esito durevole è l’amaro ricordo di decine di migliaia di morti insensate.
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Trentuno genocidi degni di nota Indigeni amerindi: per mano dei conquistatori europei potrebbero esserne morti 15 milioni. Insieme al tracollo della popolazione indigena in tutto l’emisfero occidentale, sono semplicemente scomparse nel nulla centinaia di singole tribù: gli arroattoc della Virginia nel 1669; gli apalachee della Florida nel 1700; gli yazoo del Mississippi nel 1729; la lingua dei powhatan della Virginia nel 1790; i timucua della Florida poco dopo il 1821; Sahawdithit, ultimo beothuk conosciuto di Terranova, morì nel 1829; intorno al 1870 gli argentini spazzarono via gli indios araucani per aprire la pampa all’insediamento dei bianchi;1 Ishi, ultimo yahi della California, morì nel 1916;2 i clackamas dell’Oregon si estinsero intorno al 1920; la lingua natchez della Louisiana nel decennio successivo; la famiglia delle lingue catawban si estinse negli anni Quaranta. Il metodo di sterminio di ciascuna tribù fu più o meno lo stesso. I primi visitatori bianchi venivano accolti con prudente ospitalità, poi il contatto con gli europei infettava i nativi con malattie catastrofiche, infine balenieri, soldati, coloni o minatori depredavano la tribù in cerca di schiavi o di provviste. A loro volta gli indiani rubavano cavalli, bestiame o attrezzi, si uccidevano ladri e intrusi, la parte colpita faceva una rappresaglia, per un po’ tornava la pace, poi c’era la guerra. Alla fine i bianchi del luogo decidevano che l’unica soluzione era cancellare del tutto gli indigeni. Si radunavano e allontanavano gli indiani collaborativi, mentre a quelli non collaborativi si dava la caccia per ucciderli. I pochi miseri sopravvissuti venivano presi sotto la protezione di un ente di beneficenza, che li alloggiava in una capanna e insegnava loro a cantare inni. Gli ultimi membri della tribù erano considerati una triste curiosità dedita al bere e che moriva senza perpetuare la propria cultura e la propria stirpe. Olocausto: 5.500.000 di ebrei morti3 (per i dettagli vedi Seconda guerra mondiale). Poiché la parola Olocausto venne 294
coniata nel 1944 proprio per descrivere quel che stava facendo Hitler all’interno dell’Europa conquistata, questo è l’unico evento che si considera genocidio, comunque si definisca il termine. In effetti tantissima gente usa questa parola per intendere qualunque attività che ricordi l’Olocausto, al di là della rigida definizione giuridica di genocidio fornita dall’ONU.* Ucraini: nel 1932-1933 ne furono fatti morire di fame 4.500.0004 (per i dettagli vedi Iosif Stalin). La «terribile carestia» provocata da Stalin nel corso della riorganizzazione dell’agricoltura sovietica ricadde in maniera più pesante sugli ucraini, i quali si ostinano a dire che l’Holodomor fu un vero e proprio genocidio rivolto in particolare contro di loro. Tuttavia potrebbe trattarsi di un buon esempio di una brutale atrocità dannosa quanto un genocidio senza esserlo davvero. Bengalesi: 1.500.000 uccisi dai pakistani nel 1971. Per quanto chiunque al di fuori del Bangladesh se ne dimentichi, si tratta forse del genocidio con più morti dai tempi dell’Olocausto. Armeni: 972.000 uccisi nel 1915 (per i dettagli vedi Prima guerra mondiale). I turchi non ammettono di averlo fatto e nessuno li sprona a farlo perché la Turchia è un crocevia strategico e culturale tra Oriente e Occidente troppo importante. Secondo la versione turca degli eventi, gli armeni si ribellarono, intrapresero un conflitto etnico con i curdi e prima che fosse sedata la rivolta trucidarono decine di migliaia di musulmani. I turchi spiegano inoltre il milione di armeni scomparsi asserendo che fuggirono oltremare dopo la sconfitta. Tutsi: 937.000 uccisi dagli hutu nel 1994 (vedi Genocidio del Ruanda per i dettagli). Zingari: 500.000 morti tra il 1940 e il 1945 (per il contesto vedi Seconda guerra mondiale). Dato che gli zingari avevano fama di criminali congeniti, i nazisti li classificarono come subumani e li sterminarono in maniera sistematica.5 Tibetani: ne sono stati uccisi forse 350.000.6 Dal 1950, anno della riconquista cinese del Tibet, la Repubblica Popolare ha 295
cercato sistematicamente di estirpare il popolo tibetano, demolirne il paesaggio e cancellarne la cultura. In larga parte delle città del Tibet gli immigrati cinesi sono ormai in maggioranza rispetto ai tibetani. Serbi: 300.000 uccisi7 tra il 1940 e il 1945 (vedi Seconda guerra mondiale per il contesto). Dopo la conquista della Jugoslavia, i tedeschi instaurarono uno stato fantoccio croato, controllato dall’organizzazione fascista locale, gli ustascia. Questo governo fantoccio non si limitò a collaborare allegramente ai programmi di sterminio contro ebrei e zingari, ma fece uno sforzo particolare per cancellare anche i serbi.8 Egiziani: a partire dal 1915 i turchi ne uccisero forse 275.0009 (per i dettagli vedi Prima guerra mondiale). Aborigeni australiani: 240.000 scomparsi tra il 1788 e il 1920. In una fase storica che presenta analogie con la conquista delle Americhe, gli aborigeni (popolazione originaria tra i 300.00010 e i 750.000) 11 finirono nell’occhio della colonizzazione bianca e furono sterminati dalla violenza, dalle malattie e dalla fame. Nel 1920 ne restavano solamente 60.000. Negli scontri restarono direttamente uccisi forse 20.000 aborigeni e 2500 bianchi. 12 Ceceni, ingusci, carachi, balcari, calmucchi: 230.000 morirono in esilio tra il 1943 e il 1957 (per il contesto vedi Iosif Stalin). Nel corso della seconda guerra mondiale, Stalin sradicò intere nazionalità raggiunte dall’avanzata tedesca perché non si fidava della loro fedeltà. Furono dunque spedite a est, dove morirono centinaia di migliaia di persone. Greci d’Asia: tra il 1919 e il 1923 morirono tra 100.000 e 150.000 persone per mano dei turchi (per i dettagli vedi Guerra greco-turca). Curdi: più di 200.000 uccisi in vari paesi tra gli anni Settanta, Ottanta e Novanta. Per buona parte del XX secolo i curdi sono stati una minoranza oppressa in tre paesi: Iran, Iraq e Turchia. Il peggiore genocidio cui sono andati incontro si ebbe nel 1987-1988, quando Saddam Hussein ne fece trucidare 296
180.000 in Iraq. Darfur: 200.000 morti dal 2003 (per i dettagli vedi Guerra del Sudan). Cartaginesi: 150.000 morti nella caduta di Cartagine, nel 146 a.C.13 Durante la terza e ultima guerra tra Roma e Cartagine, i romani conquistarono la città madre e la rasero al suolo, massacrarono gli uomini e vendettero le donne come schiave. Dato che uccidere e schiavizzare l’intera popolazione è una cosa troppo banale, una leggenda successiva ha aggiunto che i romani seminarono di sale la terra in modo che non vi crescesse mai più niente. Hutu: 125.000 uccisi in Burundi nel biennio 1972-197314 (per il contesto vedi Genocidio del Ruanda). Timor Est: 102.800 morti15 tra il 1975 e il 1999. Nell’invasione dell’ex colonia portoghese da parte dell’Indonesia restò ucciso un terzo della popolazione. Cananei: forse 100.000 morti attorno al 1200 a.C. Secondo la Bibbia, al comando di Giosuè gli israeliti sciamarono nella terra di Canaan superando il fiume Giordano e su ordine diretto di Yahweh trucidarono sistematicamente gli abitanti di ogni città che conquistarono, a cominciare da Gerico. La Bibbia dichiara esplicitamente che furono uccisi tutti i 12.000 residenti di una città e prosegue elencando altre otto città completamente distrutte nel corso della stessa guerra.16 Daci: secondo un’ipotesi approssimativa, tra il 101 e il 106 d.C. potrebbero esserne stati uccisi 100.000. Dopo aver conquistato la terra di questo popolo (800.000 abitanti), i romani la svuotarono, trascinarono via mezzo milione di prigionieri e li rimpiazzarono con i coloni romani. La Dacia cessò dunque di esistere e prese il nome di Romania, cioè terra dei romani, i cui abitanti parlano oggi una lingua che deriva dal latino. Nella Colonna Traiana di Roma si illustra orgogliosamente la conquista nei suoi dettagli più cruenti. Guanci: spazzati via tutti e 80.000 tra il 1402 e il 1520 circa. Gli abitanti indigeni delle isole Canarie sono stati «il primo 297
popolo ad essere stato portato all’estinzione dall’imperialismo moderno».17 Herero e nama: 75.000 uccisi tra il 1904 e il 1907. Per reprimere una rivolta nella colonia dell’Africa sudoccidentale (l’attuale Namibia) i tedeschi spinsero queste tribù verso il deserto, oltre che verso la pressoché totale estinzione.18 Madianiti: più di 60.000 donne e ragazzi uccisi attorno al 1250 a.C. Su ordine di Mosè, gli israeliti uccisero tutti gli uomini, i ragazzi e le donne sposate dei madianiti, lasciando solo 32.000 ragazze non sposate da distribuire come bottino di guerra.19 Troiani: 10.000? Accadde davvero? Le leggende raccontano che, quando la città cadde in mano ai greci, furono trucidati vecchi (Priamo) e bambini (Astianatte), mentre le donne diventarono schiave (Cassandra) o morirono nel saccheggio (Creusa). Erie: forse 5000 uccisi tra il 1654 e il 1656. La tribù indiana della valle dell’Ohio fu spazzata via dai vicini irochesi. Tasmaniani: 5000 uccisi dopo il 1803. In uno dei genocidi più accurati della storia i coloni bianchi diedero la caccia a ogni nativo purosangue dell’isola della Tasmania per sterminarlo. Ne sopravvisse una manciata sotto la protezione delle opere pie, ma l’ultimo morì nel 1877.20 Norreni della Groenlandia: 3000 morti (?) all’inizio del Trecento. Per svariati secoli sulle coste della Groenlandia vissero 3000-5000 coloni norreni, che poi scomparvero senza spiegazione: dimenticati, prosciugati e assorbiti dalla natura crudele di quelle latitudini. Benché molti studiosi moderni tendano ad addebitare l’evento a un gesto divino (un’epidemia o una nuova era glaciale) o alle vittime stesse (un tenace rifiuto ad adattarsi all’ambiente aspro), le poche testimonianze che restano descrivono chiaramente degli scontri con gli indigeni ostili, gli skraeling. Nel XIV secolo un visitatore norreno, Ivar Bardarson, riferì al vescovo di Bergen che «ormai gli skraeling hanno [distrutto] l’intero Insediamento Occidentale. Restano solo 298
cavalli, capre, bovini e pecore allo stato brado, ma non ci sono più abitanti, né cristiani né pagani». Poco dopo fu attaccato anche l’Insediamento Orientale e alla fine i visitatori che giungevano dall’Europa non trovarono alcun sopravvissuto.21 Isole Chatham: 2000 morti. I maori provenienti dalla Nuova Zelanda invasero quest’arcipelago del Pacifico meridionale nel 1835 e uccisero, mangiarono o fecero schiavi gli indigeni moriori. Nel 1862 ne restavano soltanto centouno, l’ultimo moriori di sangue puro morì nel 1933.22 Isola di Pasqua: 2000 morti. Nel 1862 i mercanti cileni di schiavi rapirono mille indigeni rapanui, ossia metà della popolazione, molti dei quali morirono presto. Le malattie, la violenza omicida e il superlavoro ridussero ulteriormente il numero degli indigeni restanti a soli 110, nel 1877.23 Banu Qarayza: 600 uccisi nel 624 d.C. circa. Maometto accusò di tradimento questa tribù di ebrei arabi: furono così uccisi tutti gli uomini, mentre donne e bambini furono ridotti in schiavitù.24 Melo: circa 500 uccisi o resi schiavi nel 478 a.C. Durante la guerra del Peloponneso gli ateniesi cancellarono completamente questa colonia di Sparta. Non si tratta del primo genocidio documentato della storia, ma potrebbe essere il primo ricordato con rammarico e vergogna da chi lo perpetrò.25 Lo storico antico Senofonte racconta che, quando gli ateniesi persero infine la guerra con Sparta, «piangevano non solo quanti erano periti, ma anche, molto di più, se stessi, pensando che avrebbero subito quanto essi avevano fatto agli abitanti di Melo».26
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Guerre tra Birmania e Siam Bilancio delle vittime: «tanti milioni»1 Posizione: 54 Tipologia: guerre per l’egemonia Contrapposizione di massima: Birmania (Myanmar) contro Siam (Thailandia) Periodo: 1550-1605 Luogo: Sudest asiatico A chi diamo la colpa gloria di solito: Bayinnaung, Naresuan Una rete di grandi fiumi si irradia verso sud per le giungle del continente asiatico sudorientale; per tradizione, ogni valle fluviale era il centro di un regno etnicamente e culturalmente distinto, fatto di risaie e templi buddisti dai tetti a punta. Queste erano terre in cui le donne vestivano sarong variopinti e i re cavalcavano gli elefanti. In ordine da ovest a est (da sinistra a destra su una cartina geografica), i birmani vivono lungo il fiume Irrawaddy; i karen e gli shan lungo il basso e l’alto corso del fiume Saluen; i thailandesi lungo il fiume Menam; i khmer lungo il Mekong. Oltre quest’ultimo si trova la costa del Pacifico, patria dei vietnamiti. Verso l’alto corso dei fiumi, montagne e zone selvagge abitate dai barbari. La geografia non finisce qui, se includiamo anche vari nomi alternativi per tutto, ma mi pare abbastanza per comprendere questo capitolo e buona parte di quelli ambientati nel Sudest asiatico. Il predominio della Birmania 300
Per molte generazioni la Birmania fu governata da una dinastia straniera degli shan (popolazione di montagna, proveniente dalla frontiera tra il Siam e la Birmania), finché la dinastia Toungoo autoctona non riuscì a scacciarla. I primi due re Toungoo consolidarono il controllo sulla Birmania e stabilirono una nuova capitale a Pegu; il terzo sovrano Toungoo, Bayinnaung, impiegò il suo primo anno di regno a sopprimere le ribellioni nell’impero che aveva ereditato. Una volta sistemata la questione, attaccò il nord e dal cuore della Birmania conquistò tutti gli stati shan dell’entroterra. Prese ad attaccare sistematicamente in ogni direzione, costituendo infine un impero che si estendeva per l’entroterra del Sudest asiatico, dal Manipur a ovest al Laos a est. Nel 1567 Bayinnaung mandò il proprio esercito (che si dice annoverasse un milione e mezzo di soldati) a prendere Ayutthaya, la capitale del Siam. L’assedio richiese due anni e gli costò un terzo delle sue forze.2 Alla fine, egli ridusse il Siam al vassallaggio e pose sul trono di Ayutthaya un re thailandese alleato, Phra Maha Thammaraja, proveniente dalla città indipendente di Phitsanulok, a monte del fiume; tuttavia al ritorno a Pegu, nel 1569, si portò via i figli del re come ostaggi. Bayinnaung rinforzò il proprio esercito con dei mercenari portoghesi, che avevano difficoltà a pronunciare il suo nome e lo chiamavano «Braginoco». Egli è rinomato per essere stato il più glorioso fondatore di un impero della storia birmana, ma i birmani non godettero a lungo dell’opportunità di essere i padroni del Sudest asiatico perché, alla morte di Bayinnaung, nel 1581, il Siam aveva già pronto, proprio dietro l’angolo, il suo più glorioso fondatore di un impero. Il predominio del Siam Il Principe Nero, Naresuan, figlio del re del Siam, trascorse la gioventù a Pegu come ostaggio da giustiziare nel caso in cui suo padre fosse uscito dal seminato. Secondo la leggenda, egli 301
divenne il migliore amico del primo nipote di Bayinnaung, un ragazzo suo coetaneo di nome Min Chit Swa; tuttavia, dopo molti anni di competizione in varie gare di forza, abilità e resistenza, i due finirono per litigare quando il gallo da combattimento di Naresuan batté quello di Min Chit Swa in una sfida prestigiosa. All’età di sedici anni, Naresuan tornò ad Ayutthaya per governare come vassallo di Bayinnaung. Poi, nel 1583, due anni dopo la morte di quest’ultimo, si proclamò sovrano e cacciò via la guarnigione birmana. L’esercito birmano ritornò in piene forze, comandato dal principe ereditario, il suo amico d’infanzia Min Chit Swa. La leggenda racconta che il culmine della guerra fu il duello che i due combatterono sugli elefanti: dapprima le grandi bestie si urtarono violentemente capovolgendosi a vicenda, poi i due principi si ritrovarono faccia a faccia con le spade in pugno. La lotta proseguì finché Naresuan non trapassò Min Chit Swa da parte a parte, tagliandolo a metà dalle spalle alla vita. Alla morte del suo principe, l’esercito birmano si disperse e fuggì, lasciando sul campo 200.000 morti.3 La sorella maggiore di Naresuan, la principessa Suphankalaya, era rimasta a Pegu come ostaggio e membro dell’harem reale.4 Quando giunse la notizia della morte del principe Min Chit Swa, suo padre, il re Nanda Bayin di Birmania, distrutto dal dolore e furibondo la fece portare al proprio cospetto e la fece uccidere, anche se portava in grembo il suo stesso figlio.* Naresuan invase la Birmania diverse volte durante il proprio regno, devastandone le campagne e portando la carestia. Nel corso del suo assedio di Pegu, nel 1596, la fame condusse i cittadini al cannibalismo, tanto che il re Nanda Bayin ordinò di macellare tutti i residenti siamesi della città per nutrire i birmani. Persino mentre la popolazione di Pegu precipitava da 150.000 individui a 30.000, Naresuan si accampò all’esterno con i rifornimenti che diminuivano e perse 100.000 dei suoi soldati per l’inedia. Alla fine, dovette ritirarsi prima della 302
capitolazione della città. Nel 1600, un gesuita che visitava la Birmania riferì di aver visto «le rovine dei templi dorati e degli edifici signorili sparse lungo le rive dei fiumi; le strade e i campi disseminati dei crani e delle ossa degli sventurati abitanti di Pegu, uccisi o morti di fame; i loro corpi furono gettati nella corrente in tal numero da ostacolare il passaggio delle imbarcazioni».5 Mentre la Birmania si degradava e precipitava nella guerra civile, Pegu fu abbandonata come capitale. Nel frattempo, Naresuan assicurò l’indipendenza allo Shan come stato cuscinetto contro potenziali aggressioni birmane. Lui e suo fratello avevano aiutato il principe Hsenwi dello Shan quando tutti e tre erano ostaggi della corte birmana. I fratelli siamesi erano al comando di due colonne di 200.000 soldati in totale contro i birmani nel territorio dello Shan, quando Naresuan trovò la morte, coperto di pustole per una malattia della pelle (versione thailandese) o nella corsa per salvare la vita del principe di Hsenwi in battaglia (versione shan).6
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Guerre di religione francesi Bilancio delle vittime: 3 milioni1 Posizione: 30 Tipologia: conflitto religioso Contrapposizione di massima: cattolici contro protestanti Periodo: 1562-1598 Luogo e principale stato partecipante: Francia Principali entità non statali partecipanti: ugonotti, Lega cattolica Numero degli Enrichi: 4 A chi diamo la colpa di solito: cattolici, ugonotti, Caterina de’ Medici
La Riforma Il tardo Medio Evo era stato un periodo favorevole per la Chiesa cattolica di Roma, che si era trasformata in un’organizzazione internazionale in grado di guardare i monarchi laici dall’alto in basso e di far abbassare loro lo sguardo. Oltre a fomentare crociate, Roma poteva eludere le tasse, obbligare gli imperatori arroganti a inginocchiarsi nella neve e inviare inquisitori a terrorizzare la popolazione. Disponeva di eserciti di monaci guerrieri come i templari, gli ospitalieri e i Cavalieri teutonici; nobili pieni di rimorsi si erano ingraziati Dio con donazioni esentasse di terra, denaro, opere d’arte e fondi per la costruzione di edifici. Qui i dettagli non contano; quel che serve sapere è che nel 1500 il papato era in cima al mondo. Con questo profluvio di ricchezze e di potere, la Chiesa cattolica si era fatta enormemente corrotta, ma riusciva sempre a 304
soffocare i movimenti di riforma prima che le sfuggissero di mano. Il riformatore ceco Jan Hus fu arrestato e arso sul rogo nel 1415; benché il riformatore inglese John Wyclife fosse morto per cause naturali nel 1394, prima che potesse finire nelle grinfie della Chiesa, questa qualche anno dopo ne fece esumare il cadavere e lo bruciò per mostrare la propria condanna. Alla fine però un riformatore, Martin Lutero, riuscì a sopravvivere alla sua ira e nel 1520 ebbe inizio la Riforma. Spalancata la porta, i popoli di tutta l’Europa nordoccidentale disertarono dalla Chiesa cattolica, molti monarchi portarono i loro paesi al di fuori della sfera del cattolicesimo e fondarono nuove chiese nazionali a misura delle esigenze locali; tuttavia le nazioni più antiche e potenti – soprattutto Francia e Spagna – già da parecchio avevano obbligato la Chiesa cattolica a condividere le proprie ricchezze e il proprio potere con lo stato. Ormai, in qualità di soci con un qualche interesse nel benessere della Chiesa, quei monarchi non avevano alcun motivo di consentire alla Riforma di minarne il potere. In quei paesi i dissidenti erano costretti a incontrarsi in segreto, se volevano praticare le nuove varietà del cristianesimo. Tra i nuovi riformatori che predicavano su e giù per l’Europa c’era Giovanni Calvino, un francese che fu presto cacciato dal proprio paese e trovò un rifugio sicuro a Ginevra. Laddove il luteranesimo era il cattolicesimo passato al vaglio dei revisori – ripulito, semplificato e adattato alle esigenze locali –, il calvinismo era un luteranesimo squadrato, austero, populista e decentrato. Denominati ugonotti in Francia e puritani in Inghilterra, i calvinisti credevano nell’assoluta peccaminosità dell’essere umano, che si poteva redimere soltanto per mezzo della grazia di Dio. Denunciavano la frivolezza e la corruzione del mondo umano e incitavano i devoti a vivere in una rigorosa e compita santità, senza compromessi. Ovunque attecchì il calvinismo, si scatenò la guerra civile. La Francia sull’orlo del precipizio 305
In quest’epoca nell’Europa occidentale le relazioni internazionali erano piuttosto semplici: ognuno odiava il proprio vicino. La Spagna contrastava la Francia, che a sua volta contrastava l’Inghilterra, che si opponeva alla Scozia. Questo faceva sì che si avvicendassero le alleanze, basate sui matrimoni: re Filippo II di Spagna era sposato con Maria Tudor, regina d’Inghilterra, mentre il principe Francesco (ben presto re) di Francia era sposato con Maria, regina di Scozia. Tutti questi monarchi erano cattolici, anche se la popolazione della Gran Bretagna era in maggioranza protestante. Questa insolita coincidenza di regine sul trono – soprattutto cattoliche in paesi che Dio voleva protestanti – incollerì a tal punto l’evangelista scozzese John Knox da fargli suonare, nel 1558, Il primo squillo di tromba contro il mostruoso governo delle donne, governo al quale stava per unirsi la Francia. Enrico II, il monarca francese in carica, odiava la «feccia luterana». Incoronato re all’età di ventotto anni, ebbe la forza e la volontà politica di tenere a freno la minoranza protestante. Con un re giovane e in salute, che aveva quattro figli e tre figlie, il futuro della dinastia di Valois appariva certo; ma poi, nel 1559, Enrico si fece trapassare l’occhio durante una giostra cavalleresca. Dopo un’agonia di svariati giorni, il re morì e lasciò la Francia al figlio quindicenne, Francesco.* La prima guerra Come tanti altri monarchi, per mantenere il potere Francesco II dipendeva dalla famiglia di sua moglie, la regina Maria Stuart di Scozia, legata per parte di madre ai Guisa, potente famiglia cattolica francese. Nel 1560 i protestanti francesi ordirono un piano per uccidere quanti più Guisa potessero e rapire il re, allo scopo di obbligarlo a liberarsi dei Guisa rimanenti. Gli ugonotti erano talmente orgogliosi del progetto che lo raccontarono a chiunque e così, quando si diede avvio al colpo di mano, i Guisa erano preparati. 306
I cospiratori furono respinti, quindi si diede loro la caccia, li si impiccò e li si fece a pezzi, solo in qualche caso dopo un processo. Nel cortile del castello il re e la corte assistettero alla caduta di cinquantadue teste ribelli.2 Di salute malferma, Francesco morì nel dicembre 1560, dopo soltanto un anno sul trono. Gli succedette il fratello di dieci anni, il mite e melanconico Carlo IX, ma il potere reale era in mano, in qualità di reggente, a sua madre Caterina de’ Medici, moglie in precedenza subalterna di Enrico II. Caterina era figlia di Lorenzo de’ Medici, il freddo e scaltro signore della Firenze rinascimentale al quale Machiavelli aveva dedicato Il Principe; tuttavia non aveva imparato dal maestro. Nei decenni del suo predominio, Caterina concepì una serie di piani maldestri e di deboli compromessi che peggiorarono costantemente la situazione. A suo vantaggio va detto che era una donna alla moda: in quel paese relativamente sciatto che era la Francia introdusse novità italiane come la forchetta, il tabacco da fiuto, il broccolo, la sella da donna, i fazzoletti e i mutandoni. Per coltivarsi l’appoggio delle eminenti famiglie protestanti – in particolare i Borbone – e neutralizzare il potere crescente dei Guisa, Caterina legalizzò il culto protestante, circostanza che infastidì la maggioranza cattolica della Francia, ma allo stesso tempo lo tenne a freno, cosa che a sua volta infastidì la minoranza protestante. Le guerre ebbero inizio quando un altro Francesco, il duca di Guisa, passando per la città di Wassy si fermò per udire la messa. I protestanti pregavano e cantavano in un vicino fienile che fungeva da chiesa perché la corona proibiva loro di edificare chiese vere e proprie. Tra parrocchiani di opposto credo scoppiò una rissa che attirò il seguito del duca, lo scontro assunse proporzioni maggiori e alla fine i cattolici incendiarono il fienile dei protestanti e ne ammazzarono il più possibile. Ben presto i francesi di entrambe le religioni presero a fortificare le città e a inviare milizie nella regione. Gli eserciti combatterono diverse battaglie, ma alla fine il duca di Guisa 307
venne assassinato, mentre il capo degli ugonotti (Luigi di Borbone, principe di Condé) trovò a sua volta la morte in battaglia, così le due parti restarono esitanti e furono pronte a trattare. Come nuovo capo dei protestanti si fece largo Gaspard de Coligny, un ammiraglio che era stato al fianco del principe di Condé. La seconda guerra (1567-1568) La rivalità tra Francia e Spagna si era intensificata nel 1494, allorché l’erede al trono spagnolo aveva sposato l’erede al trono di Borgogna, unendo così la Spagna a tutti quei territori che avevano causato tanti problemi ai re francesi ai tempi della guerra dei Cent’anni (Borgogna, Fiandre, Paesi Bassi). La Francia si ritrovava così circondata da eserciti spagnoli. Poi nel 1567 i calvinisti dei Paesi Bassi si ribellarono contro il dominio spagnolo, spingendo Francia e Spagna verso un fronte comune contro il protestantesimo. Di fronte al nervosismo degli ugonotti, Caterina de’ Medici scelse il momento sbagliato per andare a Bayonne a trovare sua figlia Elisabetta, che da poco si era sposata con re Filippo II di Spagna, vedovo. Agli ugonotti parve che questo raduno di famiglia fosse fatto apposta per tessere qualche trama; tra loro si diffuse quindi la voce che il grosso esercito spagnolo che si stava muovendo per reprimere la rivolta dei Paesi Bassi in realtà veniva in aiuto dei cattolici francesi per annientare gli ugonotti. Questi lanciarono un attacco preventivo, nel tentativo di sottrarre il re ai Guisa e tenerlo tra i protestanti, ma la notizia trapelò e la corte si mise in salvo. Seimila soldati ugonotti si accamparono fuori Parigi: troppo pochi per metterla sotto assedio, tuttavia a Saint-Denis sconfissero 18.000 uomini dell’esercito reale giunti per scacciarli. Ciò nonostante, quando le truppe reali salirono a 60.000, gli ugonotti si ritirarono e negoziarono un cessate il fuoco.3
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La terza guerra (1568-1570) Nel giro di alcuni mesi le truppe reali tentarono di prendere di sorpresa i capi protestanti nel loro territorio, ma gli ugonotti fuggirono a nord, dove potevano mettersi in collegamento con i loro sostenitori olandesi e inglesi. I Guisa presero contatto con la Spagna e si accinsero a sgominare le roccaforti protestanti in tutta la Francia meridionale. Nonostante la sconfitta subita dai protestanti nella guerra che seguì, la corona non poté permettersi di perseverare. Così nel 1570 fu stipulata la pace, che consentì agli ugonotti di fortificare e munire di una guarnigione quattro città, quali rifugi sicuri in caso di una rinnovata aggressione da parte dei cattolici.4 La strage di San Bartolomeo Nel tentativo di aggiustare le cose, Caterina de’ Medici mandò la figlia Margherita in sposa al nobile di rango più elevato degli ugonotti, Enrico, capo della casata dei Borbone e re del piccolo regno di Navarra, tra i Pirenei. Inoltre Caterina cercò di portare gli ugonotti al governo, circostanza che ovviamente fece infuriare i cattolici. Quando tutti si radunarono a Parigi per le nozze di Margherita, qualcuno cercò di assassinare il comandante militare degli ugonotti, Gaspard de Coligny: gli spararono da una finestra mentre passava per la strada. Nessuno sa davvero chi avesse progettato l’assassinio, ma tradizionalmente la storia ne addossa la colpa alla stessa Caterina. La ferita non era grave e non fece altro che suscitare la rabbia degli ugonotti. Malgrado il re Carlo e il suo consiglio non avessero nulla a che fare con il tentato omicidio, Caterina spiegò loro che gli ugonotti sarebbero presto passati a una rappresaglia, perciò l’unica strategia possibile di sopravvivenza era un colpo preventivo. Alla vigilia del giorno di San Bartolomeo, il 24 agosto 1572, il duca di Guisa e i suoi uomini irruppero in casa 309
di Coligny e lo uccisero nel letto, mentre altri squadroni della morte andavano a caccia di ugonotti. Con ogni probabilità Caterina intendeva soltanto decapitare la causa ugonotta facendone uccidere i vertici, ma Parigi esplose di odio verso i protestanti; per tutta la città la folla diede la caccia a ogni ugonotto che riusciva a scovare. Ne furono uccisi tra 2000 e 10.000, con qualunque mezzo a portata di mano: gli adulti furono impiccati, picchiati a morte, fatti a pezzi e pugnalati; i bambini gettati dalle finestre o nel fiume. Nelle settimane seguenti i protestanti furono massacrati in altre città della Francia, decuplicando il numero delle vittime, che arrivò intorno a 50.000. L’unico a sopravvivere fu il capo dei Borbone, il novello sposo Enrico di Navarra, che si convertì su due piedi al cattolicesimo. Fu poi spostato a palazzo perché lo si potesse controllare meglio e gli furono limitati i movimenti. La strage di San Bartolomeo fece inorridire l’Europa; la condannò persino Ivan il Terribile, in Russia. Essa trasformò le guerre di religione francesi da uno scontro tra fazioni in una guerra di sterminio. La quarta guerra Alla ripresa della guerra, Enrico, fratello minore del re, guidò un esercito cattolico per piegare la roccaforte protestante di La Rochelle. Dal 1572 al 1573 per mesi si protrasse un furibondo assedio: i genieri tentarono di minare le fortificazioni e far esplodere dei barili di polvere da sparo, mentre l’artiglieria bombardava invano le mura. A un certo punto si cominciò a pensare che l’esercito schierato fuori dalle mura si sarebbe ritrovato a corto di cibo e munizioni prima di quelli che si trovavano all’interno; poi il principe Enrico fu eletto re di Polonia,** il che gli diede l’opportunità di revocare l’assedio senza perdere la faccia.
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La quinta, la sesta e la settima guerra Da quando aveva autorizzato la strage di San Bartolomeo, re Carlo era stato tormentato dai sensi di colpa e la sua salute si era rovinata. Quando morì nel 1574, all’età di ventitré anni, il trono passò al fratello ventiduenne, Enrico di Polonia, il quale uscì di soppiatto dal paese con il tesoro nazionale nascosto tra le salmerie e fuggì a Parigi per accogliere la promozione. Il nuovo re Enrico III era il figlio prediletto di Caterina de’ Medici, oltre che il più intelligente. Era un cattolico devoto che si travestiva da donna e qualche volta si presentava en travesti alle funzioni ufficiali, disponeva inoltre di un seguito di giovani di bell’aspetto chiamati mignons, cioè favoriti; collezionava cagnolini e durante i temporali si nascondeva nei sotterranei.5 Caterina tentò invano di indurlo all’eterosessualità offrendogli ragazze che servivano nude alle feste speciali che organizzava per il suo svago, ma la cosa non funzionò. Ben più pericolosa era, però, la tendenza altalenante di Enrico al fanatismo cattolico, che aumentava quando cercava di riparare alle sue eccentricità in ambito sessuale: in quei momenti il re metteva a repentaglio la propria salute con digiuni e mortificazioni esagerati. Alla fine Caterina fece assassinare in un vicolo l’amico del figlio (nonché sospetto agente spagnolo) che spingeva Carlo a questi rituali.6 Analogamente a tanti altri governanti che nel corso della storia si sono trovati ad affrontare delle guerre civili, tutto quel che faceva re Enrico sembrava ritorcerglisi contro. Quando il re ripristinò la libertà di culto per gli ugonotti, Enrico di Navarra approfittò di questo nuovo clima di tolleranza giuridica per fuggire dalla corte e riconvertirsi al protestantesimo una volta al sicuro. Frattanto Enrico di Guisa, incollerito dalla debolezza del sovrano, con l’appoggio della Spagna formò una Lega cattolica indipendente. A corto di denaro, Enrico III convocò il Parlamento nella speranza di un aumento delle tasse; il Parlamento rifiutò, ma il 311
re riuscì a racimolare un numero sufficiente di soldati per qualche piccola campagna attorno alla Loira.7 Troppi Enrichi Dato che il re attuale era omosessuale, probabilmente quello successivo non sarebbe disceso dai suoi lombi. La successione portava al più giovane dei Valois, Francesco, che tuttavia nel 1584 morì di febbri mentre complottava contro i protestanti dei Paesi Bassi. Senza altri maschi discendenti da Enrico II, la legge imponeva di risalire all’indietro alla ricerca di un’altra linea maschile diretta che si diramasse da un re precedente. E quando i genealogisti reali seguirono il nuovo ramo per individuarne il discendente più anziano, si scoprì che il candidato alla successione del trono di Francia era il cognato del re, Enrico di Navarra, a capo della famiglia ugonotta dei Borbone. Ebbe così inizio la guerra dei tre Enrichi, nella quale re Enrico III ed Enrico di Guisa cercarono di costringere Enrico di Navarra a rinunciare al diritto alla successione. Visto che in palio c’era il trono, le battaglie furono particolarmente sanguinose: a Coutras furono uccisi 2000 cattolici e altri 6000 nella battaglia di Ivry. Le perdite degli ugonotti furono altrettante e nessuna delle due parti ne ricavò alcun vantaggio. Ormai le guerre incessanti avevano ridotto del 20% la popolazione francese.8 In un rapporto in patria, l’ambasciatore veneziano descrisse così le condizioni della Francia dopo una generazione di lotte: «Si vedono rovine ovunque, il bestiame è quasi tutto distrutto […] distese di buona terra incolta e molti contadini obbligati a lasciare la propria casa e darsi al vagabondaggio. Ogni cosa ha raggiunto prezzi esorbitanti […] le persone non sono più leali e cortesi, o perché la povertà ne ha piegato lo spirito e le ha abbrutite, o perché le fazioni e lo spargimento di sangue le hanno rese malvagie e crudeli».9 La Lega cattolica odiava re Enrico perché non aveva schiacciato gli ugonotti; per quel che riguardava la Lega, un 312
cattolico moderato non era meglio di un protestante. Così mobilitò la popolazione di Parigi, che alzò le barricate e cacciò dalla città Enrico III. In esilio in campagna, il re si vide costretto a convocare il Parlamento per un consiglio sulla successione, ma quando venne fuori il nome di un erede che era palesemente un fantoccio dei Guisa, re Enrico decise di risolvere una volta per tutte i problemi con i Guisa. La vigilia di Natale, Enrico III invitò il duca di Guisa a fargli visita per una chiacchierata, ma non appena questi fece il suo ingresso nella stanza, le porte alle sue spalle furono chiuse e sprangate. Irruppero dei soldati, il Guisa sguainò la spada e si batté con coraggio, però i soldati del re riuscirono ad abbatterlo comunque. La mattina successiva fu assassinato anche il fratello, un arcivescovo cattolico anch’egli in visita presso il re. Vennero entrambi fatti a pezzi e gettati tra le fiamme crepitanti di un camino, quindi il re si alleò con i Borbone contro la Lega cattolica. Ancora guerra Caterina de’ Medici morì nel 1589, seguita di lì a poco dall’ultimo figlio maschio. A luglio dello stesso anno, un frate domenicano infuriato per il tradimento del cattolicesimo perpetrato da re Enrico, lo pugnalò allo stomaco. Dopo la lenta agonia e la morte di Enrico per l’emorragia interna e l’infezione, re di Francia divenne il protestante Enrico di Navarra. «Governo col sedere sulla sella e la pistola in pugno» dichiarò prima di partire per riprendersi la propria capitale dalle mani della Lega cattolica.10 L’assedio di Parigi che ebbe inizio nel maggio del 1590 fu terribile. Per mesi e mesi i 220.000 abitanti della più grande città d’Europa restarono serrati all’interno con le provviste in costante calo; col passare del tempo dalle strade scomparvero cani, gatti e topi. «Bambini contraffatti come carne»11 stava scritto nei mercati. Prima della fine dell’assedio morirono di 313
fame dai 40.000 ai 50.000 parigini. Il Navarra bombardò la città con i cannoni dalle alture,12 tuttavia la città resse e l’assedio fu revocato ai primi di settembre. Allora la Lega cattolica convocò un parlamento per scegliere un re cattolico da schierare contro Enrico di Navarra, ma quando gli spagnoli proposero la loro principessa, figlia di una delle sorelle Valois, molti francesi furono sgomenti. Cominciavano a capire che essere francesi era forse più importante che essere cattolici; e forse era meglio avere un re dei Borbone che trasformare la Francia in un satellite della Spagna. Di colpo, nel 1593, Enrico di Navarra, che aveva guidato gli eserciti protestanti in tante dure battaglie, annunciò che in fondo, se per loro contava così tanto, li avrebbe accontentati e si sarebbe convertito al cattolicesimo. Non voleva suscitare disordine. «Parigi val bene una messa» si dice sia stata la sua spiegazione. Questo gli aprì la strada a essere un re adeguatamente accettato e consacrato, e la pace spuntò prima ancora che qualcuno sollevasse delle obiezioni. Nel 1598 re Enrico IV emanò l’editto di Nantes, con il quale si proclamava la tolleranza per tutte le confessioni cristiane. La nuova dinastia dei Borbone intendeva cominciare con un colpo di spugna sul passato: «il ricordo di tutte le cose che sono accadute da una parte e dall’altra [...] durante gli altri precedenti disordini, dovrà essere spento ed estinto, come di cose mai avvenute». O secondo le parole del re del Castello Palude dei Monty Python: «Non bisticciamo e non discutiamo su chi ha ammazzato chi».13
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Guerra russo-tatara Bilancio delle vittime: 500.0001 Posizione: 70 Tipologia: scontro di culture Contrapposizione di massima: russi contro tatari Periodo: 1570-1572 Luogo: Russia Principali stati partecipanti: Khanato di Crimea, Moscovia A chi diamo la colpa di solito: i tatari Ennesimo esempio di: invasione mongola Nel 1570, mentre lo zar Ivan il Terribile era impegnato in una guerra nei pressi del Baltico, i tatari del Khanato di Crimea attaccarono le regioni di frontiera della Russia meridionale, difese in maniera piuttosto blanda. Nel maggio seguente misero quindi in atto un’invasione completa per saccheggiare la Russia di tutto ciò che sarebbero riusciti a razziare. Saccheggiarono e bruciarono le città e spedirono a sud 150.000 abitanti in schiavitù.2 Inoltre spazzarono via tutte le piccole guarnigioni sparse che Ivan aveva messo di stanza nella zona. Giunti nei dintorni di Mosca, i tatari diedero fuoco ai sobborghi e i singoli incendi si fusero, dilagando nella città. Gli abitanti fuggirono in preda al panico e si accalcarono contro la porta più lontana delle mura, premendo e calpestandosi l’un l’altro, e finendo per comprimersi in una massa di tre strati di cadaveri. Altri per sfuggire al fuoco si tuffarono nel fiume, dove invece annegarono. Esplose inoltre il deposito di polvere da sparo del Cremlino. Nella città in rovina trovarono la morte decine di migliaia di 315
persone: la Moscova fu intasata da un numero di corpi maggiore di quello che avrebbe potuto sopportare e ci volle più di un anno per rimuovere tutti i cadaveri dalla città. Per dieci giorni, i nobili russi ebbero paura di raccontare a Ivan del disastro.3 Alla fine, nel mese di luglio, l’esercito di Ivan si scontrò con i tatari a Molodi, a sud di Mosca: 60.000 russi sconfissero completamente 120.000 tatari e li scoraggiarono dall’invadere il loro paese ancora per molto tempo in futuro.
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Periodo dei Torbidi Bilancio delle vittime: 5 milioni1 Posizione: 22 Tipologia: stato fallito, disputa dinastica Contrapposizione di massima: contadini contro nobiltà Periodo: 1598-1613 Luogo: Russia Principali stati partecipanti: Moscovia (Russia), Confederazione Polacco-Lituana, Regno di Svezia Numero dei Dmitrij: 4 A chi diamo la colpa di solito: la spietata nobiltà russa, la Polonia-Lituania, la Svezia e i cosacchi Lezione impartita: insistere sempre per vedere una foto identificativa prima di proclamare imperatore qualcuno
Ivan il Terribile Quando si parla di tiranni folli, il modello di riferimento è Ivan il Terribile. Aveva un carattere rude, superstizioso e imprevedibile, tanto che pochi degli appartenenti alla sua cerchia gli sopravvissero. Alla morte del padre, nel 1553, Ivan aveva tre anni e divenne zar di Russia trascorrendo i dieci anni successivi come pedina nelle mani dei boiardi (i nobili). Nel corso dell’infanzia di Ivan svariati suoi confidenti intimi furono picchiati a morte, scuoiati vivi, imprigionati e fatti morire di fame dalle fazioni avverse della nobiltà. Sua madre fu avvelenata, e Ivan diventò chiuso e inerme, e si divertiva a torturare cani e gatti. Alla fine il tredicenne Ivan fece valere la propria autorità e diede il capo dei boiardi, il principe Andreij 317
Šujskij, in pasto a una muta di cani da caccia. Per un po’ il matrimonio con Anastasija Romanovna calmò il comportamento imprevedibile di Ivan, il cui governo illuminato portò per la prima volta dopo tanti anni pace e prosperità in Russia. Ma poi, alla morte di Anastasija, Ivan impazzì del tutto: accusò i boiardi di avere avvelenato la sua amata consorte e per vendetta ne fece uccidere molti, con torture lente e ingegnose. Tra le sue mostruosità più considerevoli, vanno annoverati l’assassinio di una delle sue mogli alla scoperta che la donna gli aveva mentito riguardo alla propria verginità, e l’uccisione del figlio maggiore, nonché erede, in un accesso d’ira. Una volta Ivan accusò di tradimento la città di Novgorod e si diede quindi a trucidarne sistematicamente gli abitanti, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, poi all’improvviso cambiò idea e se ne andò. A un certo punto si stancò del potere e progettò di ritirarsi in un monastero, ma nessuno gli credette, e infatti cambiò presto idea. Concesse a un gruppo speciale di criminali, denominati opričniki, la facoltà di uccidere, stuprare e derubare in piena impunità. Ivan morì all’improvviso nel 1584: un’autopsia di epoca sovietica ha rivelato la presenza di troppo mercurio nel suo organismo e ha ipotizzato un avvelenamento da parte di qualche nemico o dal mercurio contenuto nei medicinali solitamente adoperati all’epoca per il trattamento della sifilide in fase avanzata.2 Non si conosce il bilancio delle vittime del regno di Ivan – di certo decine, forse addirittura centinaia di migliaia –, che comunque non arriva a qualificarsi nella mia lista dei primi cento. Ivan ci interessa soltanto perché alla fine del suo regno le grandi famiglie russe erano sconvolte e gli unici figli che gli sopravvissero erano quelli troppo piccoli o stupidi per attirare la sua ira. L’ultimo vero Dmitrij Alla morte di Ivan il trono passò al figlio Fëdor, uno 318
sprovveduto sempre amato dal popolo che regnò per sedici felici anni di pace e tranquillità. Tuttavia il vero potere era nelle mani di Boris Godunov, fratello della moglie dello zar, Irina. Un potenziale problema nella successione imperiale era costituito dall’esistenza del fratellastro minore di Fëdor, Dmitrij. Questi era figlio della quinta o forse della settima moglie di Ivan (chiunque ne aveva perso le tracce), anche se la Chiesa ortodossa orientale aveva riconosciuto solamente tre mogli prima di decidere che poteva bastare, perciò la legittimità di Dmitrij era dubbia. Non avrebbe avuto alcuna importanza, se Fëdor e Irina avessero messo al mondo dei figli in grado di sopravvivere. Malgrado Fëdor fosse piuttosto affezionato a Dmitrij, Godunov trovò un pretesto per confinare quest’ultimo nella città di Uglič, a circa centocinquanta chilometri a nord di Mosca, sulle sponde del Volga. Dmitrij infatti cominciava a somigliare a suo padre e a torturare piccoli animali. Dopo qualche anno, nel 1591, giunse voce a Mosca che il piccolo Dmitrij, di nove anni, era morto in circostanze misteriose per un taglio alla gola. Le voci e la madre di Dmitrij puntarono il dito contro Godunov e a Uglič una folla furibonda linciò il custode di Dmitrij, nominato sempre da Godunov.3 Lo stesso Godunov, del resto, parve sinceramente sconcertato dalla morte di Dmitrij e inviò quindi in segreto Vasilij Šujskij, un giovane nobiluomo compagno d’infanzia di Dmitrij, affinché conducesse un’indagine. Questi non era un tirapiedi della corte e solo di recente era uscito dalla prigione dov’era finito per avere complottato contro Godunov. Riferì che Dmitrij si era tagliato accidentalmente la gola durante un attacco epilettico che lo aveva colpito mentre giocava con un coltello, racconto a cui nessuno credette. La madre di Dmitrij fu sbattuta in convento prima ancora che potesse protestare.4 Si rimase senza eredi evidenti, perciò quando Fëdor morì, nel gennaio del 1598, si estinse la dinastia dei Rurik, che aveva governato la Russia sin dall’alba dei tempi. Nello scompiglio 319
che accompagnò questa terribile notizia, si fece avanti Boris Godunov, il quale si offrì spontaneamente come nuovo zar, quindi radunò un’assemblea di nobili compiacenti che votarono in suo favore. Inizialmente il popolo lo odiava perché sospettava che si fosse sbarazzato dell’amato Dmitrij, ma poi ci fu un’invasione di mongoli, che Godunov contro ogni pronostico respinse alle porte di Mosca; e così si trasformò in un eroe. Temporaneamente. Il primo falso Dmitrij Attorno al 1600 ricomparve il defunto principe Dmitrij, in buona salute e pronto a riprendersi il trono che gli spettava di diritto. Nessuno sa chi fosse quest’uomo, ma in fondo non conta: è passato alla storia come Dmitrij, e per il momento può bastare. Dopo che ebbe radunato un ampio numero di seguaci, la vicina Polonia lo prese sotto la propria ala protettiva e invase la Russia a suo nome. Ormai il popolo russo aveva dimenticato nei dettagli perché Ivan il Terribile si fosse guadagnato quel soprannome. Tutto ciò che si ricordava era che Ivan aveva sgominato senza pietà i boiardi, e in media i russi odiavano vivere alla mercé degli oppressivi boiardi. Ricordavano inoltre che Ivan aveva gloriosamente attaccato tutti i nemici della Russia, ma sembravano dimenticare che le sue guerre erano state dispendiose e non sempre vittoriose. Malgrado tutto, insomma, i russi fremevano e si rianimavano all’idea di un autentico figlio di Ivan che giungesse in soccorso della Russia. Dal 1601 al 1604, con il susseguirsi dei cattivi raccolti, il paese dovette confrontarsi con una tremenda carestia. «Si ritrovavano cadaveri con il fieno in bocca e la carne umana veniva venduta sotto forma di pasticcio nei mercati».5 Boris avviò dei programmi di aiuti per la fame a Mosca, mentre le città erano inondate dai profughi; inoltre, quando il cibo veniva a mancare, era lui che pagava per la sepoltura. Nella sola Mosca 320
morirono d’inedia 100.000 persone. Molti consideravano la carestia come la punizione divina contro Boris l’usurpatore.6 L’esercito di Dmitrij combatté un’aspra e sanguinosa campagna verso Mosca, ma egli mostrava clemenza nei confronti dei nemici sconfitti, mentre le truppe di Boris erano inclini a infliggere crudeli rappresaglie alle comunità che accoglievano il pretendente al trono. Poi, nell’aprile del 1605, Boris si ammalò e morì, qualcuno dice avvelenato, ma si sa che è una voce che si diffonde sempre facilmente. A ereditare il trono maledetto di Moscovia fu quindi il figlio dodicenne Fëdor. Quasi tutto il sostegno di cui godevano i Godunov svanì con la morte di Boris, perciò una sollevazione popolare di moscoviti prese il Cremlino e imprigionò la famiglia reale. Mentre Dmitrij assumeva il controllo della città, lo zar Fëdor II e sua madre furono strangolati nelle loro celle. Lo zar Dmitrij ascese al trono nel 1605. Vasilij Šujskij sconfessò la propria indagine precedente sulla morte di Dmitrij e appose la propria firma sulla nuova versione ufficiale, secondo cui Dmitrij era sfuggito agli assassini inviati da Godunov, i quali avevano ucciso un altro bambino al suo posto. Quando nel maggio 1606 Dmitrij sposò la principessa polacca Marina Mniszech, per i gusti dei russi ad assistere alle nozze c’erano fin troppi cattolici polacchi; i moscoviti ortodossi si inasprirono subito contro la coppia imperiale e il suo odioso seguito di stranieri. Nella capitale tra stranieri e popolazione locale si intensificarono le liti, le scazzottate e i tumulti e infine, il 17 maggio, una torma di gente prese d’assalto il palazzo e irruppe nella camera da letto dello zar. Dmitrij si fratturò una gamba saltando dalla finestra e fu ucciso mentre cercava di scappare zoppicando; il cadavere venne trascinato via con una corda legata attorno alle gambe e ai genitali, quindi esposto alle bastonate della folla. Poi venne seppellito, riesumato una settimana dopo e bruciato, le ceneri disperse con un cannone verso la Polonia, alla quale di fatto apparteneva. Durante l’epurazione generale dei polacchi, nella città ne furono uccisi 321
circa 420, gli altri furono cacciati.7 Il secondo falso Dmitrij A capo della congiura per l’assassinio c’era Vasilij Šujskij, l’amico d’infanzia del Dmitrij originario che aveva condotto l’indagine sulla prima morte di Dmitrij stesso. Divenne lui il nuovo zar. Per provare che il suo predecessore era un impostore, lo zar Vasilij si procurò il corpo di un giovane e dichiarò che era il vero Dmitrij, esumato dalla tomba di Uglič. Lo portò nella capitale e, dopo che si attribuì ai resti il numero richiesto di guarigioni miracolose di lebbrosi e storpi, Vasilij costrinse la Chiesa a dichiarare con certezza che il ragazzo era Dmitrij, morto nonché santo.8 Nel 1607 fu arrestato un raffinato vagabondo che si spacciava per nobile: tuttavia sotto tortura l’uomo ritrattò di essere quel particolare nobiluomo e affermò invece di essere lo scomparso Dmitrij. Gli furono quindi tolte catene e ceppi e lo si proclamò zar. I polacchi misero insieme un esercito mercenario per condurlo a Mosca e quando quest’esercito cominciò a vincere battaglia dopo battaglia, i russi salutarono il ritorno di Dmitrij. L’aristocrazia russa abbandonò Vasilij e si unì a Dmitrij, che però fu fermato a poca distanza dalla meta dalla resistenza moscovita. Dmitrij insediò una corte provvisoria nella città di Tušino, a pochi chilometri dalla capitale. Con lo spostamento da Mosca a Tušino di un numero sempre maggiore di boiardi, la corte dello zar Vasilij si ritrovò a far fronte a un’emorragia di sostenitori, perciò, nel tentativo di indebolire l’appoggio al pretendente, Vasilij fece rilasciare dalla prigione Marina Mniszech, vedova del primo falso Dmitrij, a condizione che non fornisse alcun appoggio al nuovo Dmitrij. All’inizio la donna accondiscese, ma quando il vento prese a soffiare in una direzione contraria a Vasilij, fuggì presso l’accampamento di Dmitrij, dove lo riconobbe come il proprio marito morto, ormai ripresosi dalle 322
ferite precedenti. A questo punto, per salvare il suo debole trono, Šujskij organizzò un’alleanza con gli svedesi. So quel che state pensando: gli svedesi? Quei socialisti biondi e candidi che guidano la Volvo, consegnano i premi Nobel e hanno evitato la seconda guerra mondiale? Quegli svedesi? Questo ci dà l’idea di quanto sia cambiata l’Europa dal XVII secolo, quando la Russia veniva comandata a bacchetta dalla Polonia e dalla Svezia, anziché il contrario, ma entrambi i paesi erano molto più grandi di oggi. La Svezia controllava buona parte della regione baltica, Finlandia, Lettonia ed Estonia comprese, la Polonia era unita alla Lituania e si estendeva in metà della Bielorussia e dell’Ucraina. In ogni caso la Polonia prese come un affronto questo aperto intervento da parte di uno stato straniero. Per gli svedesi complottare dietro le quinte era una pratica diplomatica perfettamente accettabile, ma in effetti inviare un esercito in battaglia significava andare ben oltre. Invece di nascondersi dietro Dmitrij, i polacchi si gettarono ufficialmente e direttamente nella mischia: il loro esercito entrò in Russia nel settembre 1609 per sgominare l’alleanza con gli svedesi e promuovere al trono di Moscovia un nuovo candidato polacco. A sua volta tale circostanza indebolì il sostegno di cui godeva Dmitrij, sia tra i russi (che lo accusavano dell’invasione polacca) sia tra il suo seguito polacco (che lo abbandonò e si riunì al vero esercito polacco). Dmitrij sciolse l’accampamento di Tušino e si ritirò. Mentre Mosca era distratta da Dmitrij, a sud i cosacchi saccheggiavano indisturbati. I cosacchi discendevano da un miscuglio di contadini slavi in fuga e di disertori tatari che avevano formato delle bande di briganti lungo la frontiera tra gli insediamenti europei e i mandriani nomadi della steppa. Con il progredire del periodo dei Torbidi, si erano continuamente accresciuti di servi della gleba russi che fuggivano per unirsi ai cosacchi, con il loro stile di vita libero e semplice. Nella 323
migliore delle ipotesi i cosacchi erano difficili da controllare, però costituivano anche un utile cuscinetto militare tra gli imperi cristiani (polacco, russo) e quelli musulmani (turco, tataro), perciò i sovrani europei concedevano loro un’autonomia privilegiata. Purtroppo nei periodi di caos veniva fuori la loro natura criminale; li incontreremo parecchie volte in questo libro. Nel 1607 facevano scorrerie lungo il basso corso del Volga. Uno dei cosacchi più giovani un tempo era stato a Mosca, cosa che agli altri sembrò sufficiente per qualificarlo come zar. E proclamarono che si trattava di Pëtr, il figlio perduto dello zar Fëdor. Il semplice dettaglio tecnico che Fëdor non avesse alcun figlio, né Pëtr né nessun altro, non aveva alcuna importanza; i dettagli li colmarono le dicerie. Attorno a lui si formò un esercito e molti seguaci di Dmitrij si unirono a sostegno di «Pëtr», tuttavia la crudeltà dei suoi cosacchi deluse molti sostenitori. Lo zar Vasilij Šujskij fu rovesciato nel 1610 da una congiura di nobili russi, che consegnarono Mosca ai polacchi. Vasilij fu tonsurato a forza e cacciato in un monastero, il che lo escludeva dalla possibilità di tornare a governare in futuro. Poco dopo venne trascinato in Polonia, dove restò in carcere per il resto della vita. Frattanto, nel suo nuovo quartier generale, Dmitrij veniva assassinato mentre beveva idromele a una corsa di slitte. Era diventato sempre più irascibile e paranoico, rimproverava, picchiava e uccideva i propri seguaci con imprevedibile frequenza. Alla fine uno del suo seguito, un principe tataro che una volta aveva fatto fustigare, lo uccise e si prese la testa come souvenir.9 E così il trono russo restò vacante. Il terzo falso Dmitrij Nel 1611 apparve un nuovo Dmitrij, che rifiutò un’offerta di appoggio da parte degli svedesi e si legò invece ai cosacchi. Nel maggio del 1612 lo catturarono, lo misero in catene e lo trascinarono a Mosca per l’impiccagione. 324
Torniamo un attimo indietro per seguire la carriera di un nobile di second’ordine che era entrato in svariati intrighi di corte. Fëdor Romanov era nipote di Anastasija, l’amata moglie dello zar Ivan il Terribile, nonché cugino di primo grado dell’ingenuo zar Fëdor. Generale vittorioso che aveva combattuto gli svedesi in nome del cugino zar, quando Boris Godunov aveva assunto il trono Fëdor Romanov era stato epurato e relegato in un monastero con il nome religioso di Filarete. Allorché il primo falso Dmitrij era stato trascinato al potere dalla rivolta popolare, Filarete era stato riammesso nel secolo, ma, bloccato dai voti monastici, poteva reinserirsi nella politica russa soltanto in qualità di ecclesiastico. A ogni passaggio di uno pseudo-Dmitrij salì di rango, ma quando nel 1610 cadde il numero due il patriarca Filarete fu trascinato via e imprigionato in Polonia. Il motivo principale per cui ci interessa tutto questo sta nel fatto che a capo del clan dei Romanov egli lasciò il figlio adolescente Michail. In quest’epoca la Russia era divisa in tre: Mosca e le terre a ovest erano nelle mani dei polacchi, Novgorod e il nord erano occupati dagli svedesi protestanti e il resto apparteneva a chiunque a livello locale avesse la forza sufficiente per resistere contro chi lo sfidava. Le due famiglie reali di Svezia e di Polonia speravano entrambe di porre sul trono di Russia i loro principi disoccupati, cosa a che a sua volta minacciava di trascinare la Russia nelle guerre di religione d’Europa. Tuttavia nel 1612 presso la città di Nižnij Novgorod una milizia russa allontanò i polacchi e diede al popolo russo una breve occasione per prendere in mano il proprio destino. Nel 1613 i boiardi di tutta la Russia si radunarono rapidamente a Mosca per un conclave. Le ambizioni di svedesi e polacchi si annullavano a vicenda e nella conferenza i russi riuscirono a stabilire una regola essenziale: chiunque fosse, il nuovo zar doveva essere un vero russo. Scelsero Michail Romanov, figlio sedicenne del patriarca Filarete, dando così inizio a una dinastia che sarebbe durata fino alla rivoluzione 325
russa. Mosca era talmente devastata dal succedersi delle conquiste e delle rivolte che lo zar Michail dovette governare da lontano, dal monastero più sacro del cristianesimo ortodosso, quello della Trinità di San Sergio, finché Mosca non fu restaurata. Marina Mniszech, vedova di due falsi Dmitrij, aveva cercato di porre sul trono il figlioletto Ivan* quale vero erede dello zar Dmitrij, ma quando Michail Romanov iniziò a consolidare il proprio potere sulla Russia, i locali impauriti la espulsero dal suo rifugio di Astrakhan prima dell’arrivo delle armate dello zar. Fuggì verso terre desolate e verso la protezione di qualche cosacco comprensivo; fu però intercettata da cosacchi non comprensivi, i quali la vendettero a Mosca. Il giovane Ivan fu giustiziato, mentre Marina morì in prigione nel giro di un anno. Allora, che diavolo è successo? Il periodo dei Torbidi è fatto di un mistero dopo l’altro. Tanto per cominciare, come morì Ivan il Terribile? Si dice che cadde morto durante una partita a scacchi, ma il mercurio rinvenuto nel suo organismo è stato interpretato come l’esito di un assassinio o di un avvelenamento accidentale. È anche possibile che il livello di mercurio, per quanto elevato, non bastasse per ucciderlo, e che morì per cause completamente diverse. Se si trattò di un omicidio, il principale sospettato è Godunov: talvolta si dice che il suo movente fosse un colpo preventivo contro il padrone paranoico, anche se la storia più pittoresca racconta che Godunov irruppe e fermò Ivan mentre stuprava Irina, figlia dello stesso Godunov e moglie di Fëdor. Come morì lo zarevič Dmitrij? Disponiamo della storia ufficiale (correva con le forbici o con qualcos’altro), della diceria più diffusa (ucciso da Boris Godunov) e della storia ufficiale più tarda (sfuggì agli assassini di Godunov per diventare lo zar Dmitrij). Talvolta emergono altre due spiegazioni: il suicidio (in origine la Chiesa lo seppellì come 326
suicida, appunto) e l’omicidio da parte di nemici di Godunov, allo scopo di incastrarlo e screditarlo (lo ipotizza lo storico Chester Dunning).10 Consideriamo anche la possibilità che fu ucciso per motivi del tutto estranei alla politica, perché si stava trasformando in un «piccolo mostro» (parole di Dunning) estremamente sgradevole. Chi era il primo falso Dmitrij? Molte storie del periodo dei Torbidi rispondono a questa domanda con più certezze di quelle che consentono le prove. In genere lo si identifica con Grigorij Otrepev, un monaco spretato e corrotto. A diffondere per primo quest’idea fu lo zar Boris, messo alle strette, più per necessità politica che in base a prove concrete. A renderla popolare ha provveduto Boris Godunov, sia il dramma di Puškin sia l’opera di Mussorgskij, in cui Otrepev è uno dei personaggi principali. Altre ipotesi contemplano il figlio illegittimo di un ex re polacco o un bambino cresciuto da un clan di boiardi ambiziosi nella convinzione di essere davvero Dmitrij, un cospiratore all’interno di un complotto polacco o gesuitico, o infine il vero zarevič Dmitrij, come propagandato allora.11 Nel tentare di identificare il secondo falso Dmitrij, si possono eliminare almeno un paio di candidati. Tutti ormai concordano sul fatto che non assomigliava al primo falso Dmitrij, del resto nessuno storico moderno ha mai ipotizzato seriamente che lo zarevič Dmitrij fosse ancora vivo in quel periodo. Dunque si trattava del figlio di un prete, di un ebreo convertito oppure di chissà chi altro. Noi dimentichiamo le certezze che il mondo moderno ha apportato alla nostra vita. Prima dello sviluppo di una biometria affidabile, in particolare delle impronte digitali, alla fine del XIX secolo, non c’era modo di identificare con sicurezza una persona. Senza la fotografia, a ricordarci l’aspetto di qualcuno c’erano soltanto i ricordi sbiaditi e qualche disegno impreciso. Una persona poteva scomparire da una comunità e diventare facilmente una persona nuova altrove; spesso si sfregiavano, marchiavano o mutilavano schiavi e criminali proprio perché 327
non potessero fingersi qualcun altro, ma con un po’ di fortuna e l’atteggiamento giusto un uomo libero poteva reinventarsi senza tutte quelle scartoffie burocratiche che ci seguono oggi. Anche identificare adeguatamente una causa di morte è un fenomeno moderno. Vita e morte sono sempre state grandi misteri, soprattutto il modo in cui si passa dall’una all’altra. Per gran parte della storia, la scienza medica era talmente primitiva che per indicare le cause di morte c’era probabilmente soltanto qualche vago sintomo – febbre, nausea, delirio –, a meno che uno non fosse morto nel pieno di una battaglia o con la testa sul ceppo del boia. Quando una persona semplicemente si ammalava e moriva, non c’era modo di valutare che cosa l’avesse uccisa: miasmi dannosi, influsso dei pianeti, ingestione di troppe ciliegie con il latte freddo o stare senza cappello sotto la pioggia. Poiché ogni individuo degno di essere menzionato nei libri di storia aveva dei nemici che ne volevano la morte, in occasione di quasi tutte le morti non violente della storia si è sospettato del veleno. Anziché impantanarsi nei dettagli disordinati di chi ha ammazzato chi, sarebbe più utile fare un passo indietro e considerare il periodo dei Torbidi come un’enorme rivolta contadina. Uno zar potente era l’unico contrappeso in grado di sollevare il pugno oppressivo dei boiardi dal popolo russo. Con tutti i suoi difetti, la dinastia Rurik era stata predestinata da Dio a proteggere la Russia dai suoi nemici, esterni e interni. Quando i Rurik si estinsero, i boiardi non videro altro che l’occasione per elevare al trono i propri candidati (Godunov, Šujskij), mentre i comuni sudditi non potevano accettare che Dio lasciasse morire i suoi prescelti. Alla fine, non fecero altro che rifiutare di crederci, e così inventarono l’erede di cui avevano bisogno.12
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Guerra dei Trent’anni Bilancio delle vittime: 7,5 milioni Posizione: 17 Tipologia: conflitto religioso Contrapposizione di massima: protestanti contro cattolici Periodo: 1618-1648 Luogo: Germania Principali stati partecipanti: Boemia, Brandeburgo, Danimarca, Francia, Palatinato, Svezia e Sassonia contro Austria, Baviera, Spagna e Sassonia, che cambiò schieramento Stato quantico partecipante: Sacro romano impero A chi diamo la colpa di solito: Asburgo, cattolici, calvinisti, Francia, mercenari
Né sacro né romano né tanto meno impero Il Sacro romano impero era nato nel Medio Evo quale tentativo di riunificare tutta la cristianità e all’inizio dell’epoca moderna si era trasformato in un mosaico di piccoli stati legati insieme all’interno di un’unità nominale. All’inizio aveva abbracciato diverse terre dell’Europa centrale in cui si parlavano il ceco, l’olandese, il francese, il tedesco e l’italiano, ma nel XVII secolo i margini si erano erosi ed era ormai ridotto per lo più alla Germania. In teoria, tutti i piccoli re, duchi, vescovi e conti della Germania dovevano fedeltà all’imperatore, ma nella pratica le cose non stavano esattamente così. La guerra dei Trent’anni non fu la prima guerra santa a lacerare la Germania dopo la Riforma. Nella prima ondata del 329
luteranesimo, molti principi tedeschi si erano impadroniti delle proprietà esenti da imposte che la Chiesa aveva accumulato in secoli di privilegi. La regione era stata inoltre sconvolta dalle frequenti rivolte contadine degli anabattisti, brutalmente soffocate dalle autorità di entrambe le religioni.* Alla fine una grossa guerra di religione si concluse nel 1555 con la pace di Augusta, che stabilì un nuovo equilibrio consentendo ai principi tedeschi di scegliersi il credo che volevano, purché fosse cattolico o luterano. Per tradizione il Sacro romano impero era governato dagli Asburgo, una famiglia con sede in Austria che, grazie ad alcuni matrimoni, aveva messo insieme vaste proprietà sparse in tutta l’Europa. Mentre il vecchio imperatore si avviava al crepuscolo senza un figlio, la famiglia Asburgo cominciava a preparare la successione. Alla fine gli intrighi di palazzo si accordarono su un erede, l’arciduca Ferdinando di Stiria e, pezzo dopo pezzo, le terre degli Asburgo passarono sotto il suo controllo. Se il vecchio imperatore era stato costretto a compromessi con i protestanti posti sotto la sua autorità, Ferdinando era stato cresciuto dai gesuiti ed era favorevole alla linea dura a sostegno del cattolicesimo. In Stiria, il suo feudo natale, offrì agli abitanti una semplice alternativa: essere cattolici o andarsene. Un terzo di essi fuggì. Man mano che aumentava il numero di possedimenti degli Asburgo in suo controllo, impose il conformismo religioso in territori sempre più vasti.1 La defenestrazione di Praga Nonostante la tradizione attribuisse l’impero agli Asburgo, la legge rimetteva la scelta dell’imperatore nelle mani di sette elettori. Tre di essi erano arcivescovi che naturalmente appoggiavano i cattolici Asburgo, gli altri quattro voti appartenevano a sovrani laici di piccoli paesi all’interno dell’impero: il Brandeburgo, la Sassonia, il Palatinato e la Boemia. I primi tre si erano convertiti al protestantesimo e 330
avrebbero preferito un imperatore che tutelasse i loro interessi; il voto restante lo esercitava il re di Boemia, tradizionalmente cattolico, ruolo che era divenuto spettante all’erede legittimo del casato degli Asburgo. Come si può vedere, con quattro voti a tre i cattolici avevano l’elezione in tasca. Benché gli Asburgo fossero cattolici, la popolazione della Boemia era divenuta calvinista. Come l’impero stesso, la Boemia era una monarchia elettiva, ma quando si radunò a Praga per sancire il nuovo Asburgo quale proprio re la nobiltà boema cominciò a chiedersi se magari non fosse meglio scegliere un protestante. Gli aristocratici cercarono pertanto di ottenere nuove garanzie di libertà religiosa da Ferdinando, ma il 23 maggio del 1618 le trattative si interruppero malamente: i boemi gettarono i funzionari degli Asburgo fuori dalla finestra, sopra un cumulo di letame, e scelsero come re Federico, elettore calvinista del Palatinato. In un colpo solo il casato degli Asburgo aveva perso così il proprio unico voto, mentre il conte Federico si ritrovava adesso con due voti a disposizione, oltre al probabile appoggio degli altri due elettori protestanti; c’era in teoria una nuova maggioranza. La fase boema e la fase danese Nella pratica, però, gli altri principi protestanti non erano disposti a rischiare tutto a sostegno del conte del Palatinato, perciò votarono in favore di Ferdinando d’Asburgo e lasciarono la Boemia al suo destino. A rivendicare la Boemia e a punire i protestanti ribelli fu inviato un esercito cattolico comandato dal generale Johannes Tilly. La strategia della terra bruciata per vendetta ridusse la Boemia a un deserto fumante: dei 35.000 villaggi presenti prima della guerra dopo la distruzione ne restarono soltanto 6000. Con i contadini che morivano di fame o fuggivano all’assalto degli eserciti, la popolazione piombò da 2 milioni a 700.000 abitanti.2 Infine, nel novembre del 1620 la battaglia della Montagna Bianca inflisse alle truppe del 331
Palatinato una sconfitta rovinosa; re Federico fu cacciato e gli Asburgo nominarono governatore militare della Boemia Albrecht von Wallenstein. I capi della ribellione furono giustiziati sulla piazza della città di Praga, le proprietà devastate dei nobili ribelli vennero confiscate e assegnate ai lealisti degli Asburgo. Poi le armate cattoliche si volsero contro il Palatinato per punire Federico per il suo tentativo di portare via la Boemia. Fu conquistata e saccheggiata Heidelberg, la città principale, mentre Federico fuggiva in esilio in Olanda. Quando gli Asburgo consegnarono il Palatinato al loro alleato, il cattolico duca di Baviera, per la paura gli altri stati protestanti furono indotti all’azione. Se erano stati disposti a restare a guardare mentre i cattolici ripristinavano lo status quo in Boemia, la cancellazione del Palatinato non rientrava nell’intesa. Davanti al peggioramento delle sorti dei protestanti, si chiese l’aiuto dei regni esterni a sostegno della fazione luterana. Nel 1625 re Cristiano di Danimarca guidò il proprio esercito in Germania, ma venne sconfitto pesantemente dall’armata cattolica di Wallenstein, mentre Tilly a sua volta sgominava un esercito messo insieme dai principi protestanti tedeschi. I cattolici puntarono quindi verso la Germania settentrionale e la penisola danese: i danesi fuggirono sulle isole e si salvarono soltanto per la mancanza di una flotta imperiale sul Baltico. Sull’onda della vittoria, l’Austria si preparò ad annullare la Riforma. L’editto di Restituzione del 1629 ordinò la restituzione alla Chiesa cattolica delle proprietà che erano state secolarizzate dai principi protestanti nei settant’anni precedenti. Inoltre in tutto l’impero si bandì il calvinismo. La fase svedese Con le armate imperiali che marciavano e si accampavano lungo il mar Baltico, gli Asburgo stavano ormai per mettere piede in territorio svedese. Per prima cosa la Svezia triplicò le 332
forze del proprio esercito con l’aiuto di sussidi dei francesi, i quali non volevano un Sacro romano impero che funzionasse davvero come un impero, poi gli svedesi attraversarono il Baltico ed entrarono in campo nel luglio del 1630. Gli studiosi di storia militare conoscono questa fase della guerra come l’epoca di Gustavo Adolfo, energico re di Svezia e leggendario genio militare. Avendo già mostrato il proprio valore in una serie di guerre contro Danimarca, Russia e Polonia, il re svedese stava per trasformarsi in uno di quei leggendari condottieri (Federico il Grande, Napoleone) che combattevano le battaglie come maestri di scacchi. Nella primavera del 1631 un’armata cattolica comandata da Tilly cercò di piegare la fortezza protestante di Magdeburgo, che controllava il passaggio sul fiume Elba. La città fu presa e completamente distrutta dopo un lungo assedio: dei 30.000 abitanti, al saccheggio non ne sopravvissero più di 5000, per lo più donne, che furono trascinate via dai soldati per servirsene in seguito. La città bruciò per tre giorni, lasciando uno scenario da incubo: «Vivi che si strisciavano fuori da sotto i cadaveri: fanciulli che erravano chiamando i genitori con dolorose strida: pargoletti che delle madri estinte le mammelle succiavano!»3 Nella pulizia per l’ingresso trionfale di Tilly si gettarono nel fiume seimila cadaveri.4 Nel settembre 1631 Gustavo Adolfo inflisse a Breitenfeld una pesante sconfitta ai cattolici, allontanando così la guerra dal nord protestante verso il sud cattolico. La vittoria svedese rimise in gioco i protestanti e impedì che la pace sopravvenisse troppo presto, cioè in anticipo di diciotto anni. In primavera gli svedesi sconfissero di nuovo l’esercito imperiale, uccidendo tra l’altro Tilly. Alla fine, a novembre del 1632, nella battaglia di Lützen Gustavo Adolfo mise a segno il suo maggiore trionfo contro Wallenstein, ma restò ucciso in una ricognizione troppo lontana dalle sue linee. E così i cattolici ebbero l’opportunità di tirare il fiato. La morte di Gustavo Adolfo arrestò il nuovo slancio dei 333
protestanti, tuttavia Wallenstein non sfruttò tale cambiamento delle sorti. Anzi, cominciò a fare il proprio gioco, aprì delle trattative provvisorie con il nemico e lo combatté soltanto quando si mostrava restio a prendere sul serio le sue proposte. Era chiaro che stava cercando di aggirare gli Asburgo con lo scopo di porsi a capo della Germania. L’imperatore ne ebbe qualche sentore e incaricò un paio di alti ufficiali di Wallenstein di assassinarlo. Lo stile di guerra Durante la guerra dei Trent’anni la spina dorsale di un esercito era costituita da un blocco integrato di moschettieri e picchieri. Questi manovravano una lunga lancia per tenere a distanza di sicurezza i nemici, mentre i moschettieri li uccidevano. Per spezzare un blocco di fanteria, arrivavano squadroni di cavalieri con l’armatura d’acciaio, sparavano nel mucchio con la pistola, quindi facevano una giravolta e si allontanavano fuori tiro per ricaricare. Questi assalti tediosi si ripetevano all’infinito, in genere senza grossi effetti. All’epoca l’artiglieria era grossa e ingombrante, tanto che i cannonieri potevano addirittura arrivare e disporsi nel momento in cui si concludeva la battaglia.5 Gustavo Adolfo cambiò tutto questo. Ridusse le dimensioni dei cannoni da campo e li rese abbastanza leggeri da poterli dispiegare con maggiore rapidità in battaglia e spezzare i grossi blocchi di fanteria. Inoltre addestrò la cavalleria all’attacco al galoppo con lance e sciabole, dispose la fanteria in linea invece che in blocchi per renderla meno vulnerabile alle cannonate e utilizzò i picchieri in chiave offensiva. La battaglia di Breitenfeld vide la prima vittoria di queste nuove formazioni, che avrebbero dominato il campo nei due secoli seguenti.6 Negli eserciti dell’inizio dell’era moderna le uniformi non erano la norma: la maggior parte dei soldati vestivano come comuni artigiani, in comodi e robusti abiti da lavoro, integrati 334
da qualunque corazza, equipaggiamento o decorazione che si riuscisse a rimediare. L’unico sistema per distinguere i nemici dai commilitoni erano le gigantesche bandiere da battaglia che ciascun reparto recava. Ogni esercito si trascinava dietro una folla di donne che cucinavano, lavavano e facevano da infermiere; Gustavo Adolfo e altri generali calvinisti insistettero perché quelle donne fossero esclusivamente le mogli dei soldati. Da allora chi seguiva un accampamento si è guadagnata semplicemente la fama di prostituta, invece quelle donne erano molto di più, tanto che nessun esercito poteva farne a meno. Nelle singole operazioni le armate oscillavano forse tra i 10.000 e i 20.000 uomini, anche se talvolta per le grandi battaglie si univano per raddoppiare o triplicare le forze. Di solito erano formate da unità mercenarie che si arruolavano e si congedavano in gruppo. E i singoli soldati dovevano fedeltà in primo luogo al proprio capitano, non al principe che li aveva assunti, perciò potevano liberamente cambiare partito se la paga era migliore o venivano fatti prigionieri. Gli unici militari che la maggior parte degli stati manteneva come salariati a tempo pieno erano le guardie di palazzo e qualche ufficiale di stato maggiore che sapeva dove reclutare mercenari in fretta e furia, di solito in Scozia, Italia e Svizzera. In attesa che un altro governo li reclutasse, i reparti di mercenari disoccupati stavano nei paraggi e tendevano a vivere a spese dell’agricoltura. Nella guerra dei Trent’anni trovarono la morte circa 350.000 soldati,7 ma i civili morti furono venti volte di più. Si raffronti questo dato con quello della seconda guerra mondiale, nella quale i civili morti furono soltanto il doppio rispetto ai militari, nonostante lo sterminio di popoli e la distruzione delle città costituissero una strategia dichiarata. Com’è possibile che morissero così tanti civili nella guerra dei Trent’anni, quando il numero di morti nel saccheggio di Magdeburgo, 25.000, spicca per la sua orribile eccezionalità? Semplice: gli eserciti vivevano alle spalle dell’agricoltura. L’Europa del XVII secolo era estremamente rurale e la gente 335
viveva per lo più di quel che si coltivava. Gli agricoltori producevano poche eccedenze da vendere nei mercati delle città, perciò nelle comunità solo qualche artigiano riusciva a sopravvivere senza coltivare da sé quel che mangiava. L’ingresso di un esercito in un’area determinata spezzava questo delicato equilibrio tra produttori e consumatori: era come se spuntasse una nuova città abitata interamente da 15.000 malviventi affamati ma disoccupati. Requisivano il cibo, trucidavano il bestiame, abusavano delle donne e facevano a pezzi gli edifici per farne legna da ardere. Infine distruggevano tutti i residui e gli avanzi perché non finissero nelle mani del nemico. Amico o nemico che fosse, ogni esercito si lasciava alle spalle una scia di contadini alla fame. Ovunque c’era desolazione. I gesuiti che esploravano le rovine fumanti di Eichstätt trovarono nei sotterranei dei bambini abbandonati che mangiavano topi, li radunarono e li portarono via per offrir loro cibo, alloggio e istruzione. Un ambasciatore inglese giunto nella città abbandonata di Neunkirchen raccontò di avere trovato soltanto una casa in fiamme e due cadaveri sulla strada, ma nient’altro. Proseguendo il viaggio incontrò altre città fantasma: Neustadt era stata «saccheggiata e incendiata miseramente», a Bacharach la gente era morta di fame con l’erba in bocca.8 L’inedia e la peste assottigliavano le colonne di profughi, che città dopo città si vedevano rifiutare l’ingresso. Dove invece venivano accolti, i cittadini ogni mattina dovevano passare su nuovi cadaveri. Alla fine i profughi dovevano essere espulsi – 7000 da Zurigo, per esempio – perché per loro non c’era più cibo né spazio. E spesso l’unico cibo a disposizione era tabù: in un accampamento di zingari dentro un calderone furono ritrovati mani e piedi; presso un’altra città si ritrovarono ossa umane scarnificate e spezzate in cerca di midollo. Dai cimiteri sparivano i cadaveri ancora freschi.9 Come se non bastassero la carestia e la guerra, nel periodo della guerra dei Trent’anni i roghi delle streghe raggiunsero 336
l’apice. Si dice che tra il 1625 e il 1628 il vescovo di Würzburg arse 9000 streghe; nel biennio 1640-1641 nel principato slesiano di Neisse ne furono bruciate un migliaio.10 Contrariamente all’opinione comune, la grande caccia alle streghe non fu un residuo della superstizione e dell’ignoranza medievali, anzi le passioni infiammate dal conflitto religioso dell’inizio dell’era moderna la intensificarono. In secoli di guerre sante, le comunità di tutta Europa estirparono e sterminarono tutti coloro che potevano essere pericolosi infedeli, sia veri (protestanti, cattolici) sia immaginari (streghe, demoni). La fase francese Come buona parte delle grosse guerre civili della storia, quella della Germania risucchiò al suo interno tutti gli stati confinanti e finì per rientrare nella più ampia contesa tra le due nazioni dominanti dell’Europa dell’epoca, Francia e Spagna. Quest’ultima era governata da un ramo collaterale degli Asburgo e tra i suoi possedimenti c’erano il Belgio, la Borgogna e circa metà dell’Italia. Era disposta ad aiutare i cugini austriaci a piegare i nemici protestanti in Germania, ma in cambio voleva l’aiuto austriaco per schiacciare i propri nemici protestanti nei Paesi Bassi. A loro volta i francesi, in quanto nemici naturali della Spagna, sovvenzionavano tutti i nemici degli Asburgo, indipendentemente da razza, religione oppure origine nazionale. L’esercito svedese progettato da Gustavo Adolfo continuò a mietere vittorie negli anni successivi, come se avesse il pilota automatico, finché nel 1634 l’impero non lo annientò a Nördlingen. Siccome gli scandinavi non erano riusciti a vincere la guerra in Germania, i francesi intervennero direttamente. Per quanto cattolici, i francesi temevano la nascita di una forte Germania unita (al confine orientale) legata per via dinastica alla Spagna (al confine meridionale), che a sua volta aveva eserciti nei Paesi Bassi (al confine settentrionale). In effetti, l’intervento francese nella guerra dei Trent’anni rappresenta 337
probabilmente il momento esatto in cui si concluse l’epoca delle guerre di religione e l’Europa tornò a combattere le guerre per puro gusto. Nonostante gli svedesi continuassero a combattere nel cuore dell’impero, il centro della guerra si spostò verso la «strada spagnola», il percorso fatto di possedimenti e alleanze che la Spagna adoperava per spostare le truppe dal Mediterraneo e dai luoghi di reclutamento dei mercenari cattolici in Italia, attraverso le Alpi e lungo il Reno fino ai campi di battaglia dei Paesi Bassi spagnoli (l’attuale Belgio). Il cardinale Richelieu, primo ministro francese, intendeva spezzare una volta per tutte questa linea di comunicazione, ma la guerra fu dura. Con le provviste di argento che giungevano costantemente ogni anno dalle miniere del Nuovo Mondo, la Spagna era l’unico paese europeo in grado di mantenere un esercito nazionale con gli effettivi al completo e a tempo pieno. Quando le armate tedesche e olandesi, finanziate dalla Francia, impegnarono gli spagnoli, per qualche anno la guerra fece il suo ingresso in Renania, mentre le truppe ridotte dei francesi rosicchiavano i confini meridionali dei Paesi Bassi spagnoli. Infine, nel 1643, un esercito francese che era arrivato al livello di grandezza di quello spagnolo intrappolò e annientò il grosso delle armate spagnole nella battaglia di Rocroi. Ci volle un’intera giornata di uccisioni macabre e sistematiche, ma alla fine l’esercito spagnolo non era più nelle condizioni di prestare soldati ai cugini austriaci. Per tenere a bada l’avanzata dei francesi, la Spagna doveva tenere il resto delle truppe nei pressi del proprio territorio. Gli esiti Nel corso del tempo, le stime del numero di vittime della guerra dei Trent’anni sono progressivamente calate. Poco dopo la guerra si disse che la Germania si era quasi spopolata e che erano scomparsi più di 12 milioni di abitanti, ossia tre quarti 338
della popolazione. Poi, con lo studio dei documenti ecclesiastici, fiscali e giuridici, gli storici scoprirono che spesso la gente che scompariva da una certa area della Germania ricompariva da un’altra parte, viva e in buona salute, o per lo meno viva. Negli anni Trenta del secolo scorso la stima più accreditata indicava la morte di un terzo della popolazione, cioè 7-8 milioni di persone.11 Un calcolo divenuto popolare nei decenni passati fornisce un bilancio delle vittime corrispondente a metà di quest’ultima stima, ossia 3-4 milioni.12 Ciò nonostante, quella più comune è ancora la stima intermedia, il che farebbe della guerra dei Trent’anni l’evento più mortale che abbia mai colpito la Germania, e che ha ucciso più tedeschi delle due guerre mondiali messe assieme.13 Nel 1648 la conclusiva pace di Westfalia operò molti aggiustamenti ai confini e ai rapporti tra i principi tedeschi, che per lo più oggi non hanno grande importanza. Era tanto tempo fa e non vale la pena di preoccuparsi. L’esito più durevole della guerra dei Trent’anni è che alla fine l’Europa si rese conto di quanto fosse stupido combattere per la religione. In meno di un secolo i conflitti religiosi avevano devastato Francia, Germania, Inghilterra e Olanda. Molte nazioni ormai sfinite decisero quindi di lasciare al privato la scelta della fede, cosa che è poi divenuta uno dei fondamenti della civiltà occidentale. Oggi combattere per la religione appare talmente ridicolo che molti storici occidentali sono imbarazzati ad ammettere che sia mai accaduto; è come avere un bisnonno proprietario di schiavi. Probabilmente metà degli storici delle ultime generazioni ha preferito dipingere le guerre di religione come una lotta per il potere secolare nascosta dietro il pretesto della religione, con un chiaro esempio di proiezione della sensibilità odierna sul passato. Buona parte delle società umane non separa la religione dalla vita pubblica, la fede governa l’agire e la religione struttura le società e ne guida le decisioni. Mettere in discussione la religione nazionale è un’offesa contro i valori essenziali della nazione e l’empietà rischia di infastidire il dio, 339
qualunque esso sia, che custodisce il popolo. Nel fare della religione una questione privata la società occidentale è unica, dimostrando di aver appreso la dura lezione dell’epoca delle guerre di religione.14
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Crollo della dinastia Ming Bilancio delle vittime: 25 milioni Posizione: 5 Tipologia: stato fallito Contrapposizione di massima: ognuno per sé Periodo: 1635-1662 Luogo: Cina A chi diamo la colpa di solito: due ribelli (Li Zicheng e Zhang Xianzhong), una canaglia di generale (Wu Sangui) e Dorgon il Barbaro Ennesimo esempio di: crollo di una dinastia cinese Molti occidentali conoscono la dinastia Ming soprattutto grazie alle comiche, come produttori di vasi costosi e fragili, ma, storicamente, essi produssero tutto con estrema raffinatezza: porcellane, seta, opere d’arte, poesia. Sebbene al giorno d’oggi esprimere un giudizio sul passato sia ritenuto di cattivo gusto tra gli storici, la dinastia Ming («luminosa») è ampiamente considerata l’apice della civilizzazione cinese. Fu l’era culturalmente e tecnologicamente più avanzata prima delle ingerenze da parte degli europei, nonché l’ultima volta in cui la Cina fu governata da un imperatore di etnia cinese. La tana dei ladri Li Zicheng ebbe qualche tentennamento nella scelta della carriera giusta prima di optare per quella di signore della guerra. Dopo un’infanzia da mandriano, lavorò per un po’ in una taverna, poi come apprendista presso un fabbro; successivamente perse un impiego come addetto alla stazione di 341
posta. Infine, nel 1630, si arruolò nell’esercito cinese. A quel tempo, la Cina del nord era attanagliata da una carestia micidiale. Anche l’esercito sopravviveva sull’orlo della fame, così un giorno, quando i rifornimenti non riuscirono ad arrivare come previsto, l’unità di Li Zicheng si ammutinò e disertò per darsi al banditismo. Alla fine, nel 1634, il governo riuscì a catturare molti dei disertori, tra cui lo stesso Li, i quali grazie a un accordo rientrarono nell’esercito di frontiera, ma poi il magistrato locale si spinse oltre e ne giustiziò trentasei. Li e i suoi uomini contrattaccarono e si rintanarono tra le colline. A quel tempo, molti gruppi di banditi infestavano le colline cinesi ai piedi delle montagne, quelli più numerosi erano dei sovrani di fatto. Li Zicheng divenne dunque il capo del crimine organizzato di tre province a ridosso del confine settentrionale dell’altopiano del Tibet, dal Fiume Azzurro alla Grande Muraglia. Era soprannominato Chuang Wang («re travolgente») non perché fosse particolarmente affascinante, ma per la velocità e l’irruenza dei suoi attacchi. Li si scontrò sia con gli altri banditi che con le autorità. Diverse bande ribelli saccheggiarono le tombe della dinastia Ming e imprigionarono i guardiani: al momento di spartire il bottino, Li chiese per sé i musicisti eunuchi; il rivale Zhang Xianzhong, pur avendo acconsentito, fracassò tutti gli strumenti per puro dispetto. Per tutta risposta, Li gliene fece una più grande, uccidendo tutti i musicisti.1 Anche Zhang Xianzhong si era dato al banditismo durante la carestia del 1628. Dopo aver compiuto un po’ di razzie, penetrò nell’ampia valle interna del Sichuan, dove prese Chengdu, la capitale di provincia, facendo strage della popolazione. Era conosciuto col soprannome di «Tigre Gialla». Alla fine strinse con Li un accordo che prevedeva la spartizione tra loro della Cina. Li Zicheng si organizzò per ampliare i propri possedimenti a oriente nello Hunan, mettendo insieme un esercito che annoverava tra i 60.000 e i 100.000 soldati. Nell’aprile del 1642 342
mise sotto assedio per parecchi mesi la città di Kaifeng: chi resisteva all’interno fu indotto alla disperazione e al cannibalismo. Al termine, a settembre sopraggiunse un’armata imperiale, che, nel timore di dover affrontare frontalmente Li in battaglia, tentò di spingerlo via rompendo le dighe che controllavano il Fiume Giallo. Il piano funzionò, bene o male; Li abbandonò l’assedio, ma l’inondazione devastò la città. Dei 370.000 abitanti di Kaifeng, ne sopravvissero soltanto 30.000.2 In ogni caso, la battuta d’arresto a Kaifeng non cancellò l’ambizione di Li. Il primo dell’anno, l’8 febbraio 1644, egli si proclamò signore della dinastia Shun, cosa che ovviamente non venne accolta bene da colui che governava la Cina all’epoca, l’imperatore Chongzhen della dinastia Ming. L’ultimo imperatore Il 22 aprile 1644 dei cortigiani frenetici trovarono la porta d’accesso alle stanze dell’imperatore misteriosamente inceppata: una volta riusciti a entrare, scoprirono l’imperatore Chongzhen in lacrime. Non solo l’esercito di Li stava avanzando da ogni parte contro la capitale Pechino, ma il governo era anche in completo fallimento e non era in grado di pagare le armate imperiali. Una combinazione di carestie, epidemie, banditi, pirati e guerre di frontiera aveva svuotato le casse dell’impero, mentre una guerra navale tra cattolici portoghesi (maggiori partner commerciali della Cina) e protestanti olandesi e inglesi aveva interrotto l’afflusso d’argento, privando di liquidità le finanze imperiali.3 L’imperatore Chongzhen non riusciva a decidere se restare a Pechino o fuggire verso la città di Nanchino, certamente più sicura. Se fosse scappato, avrebbe perso la legittimità e il principe ereditario avrebbe considerato questo atto come un’abdicazione, ma se fosse rimasto, invece, uno dei suoi parenti opportunisti avrebbe potuto riunire le terre del sud e dichiararsi imperatore. Due giorni dopo, l’esercito ribelle di Li 343
entrò nella periferia di Pechino. Il panico dell’imperatore fu forse del tutto inutile: a quanto pare Li era disposto ad accettare il vassallaggio piuttosto che il trono vero e proprio. Li inviò inoltre un messaggio con l’offerta di aggirare la capitale e lanciare l’esercito direttamente contro i manciù a nord della Grande Muraglia, se solo l’imperatore avesse riconosciuto e legittimato l’autorità di Li sulle province del sud. Sembra che il messaggio non raggiunse l’imperatore, il quale non rispose mai. Li riprese l’avanzata. Alla fine, l’imperatore Chongzhen decise di rimanere in attesa del proprio destino. Si ubriacò e vagò barcollante per il palazzo, brandendo una spada con cui uccise la sua concubina prediletta e le sue giovani figlie per impedire loro di cadere nella mani dei ribelli. Poi tentò di decapitare anche la figlia maggiore, ma avendo lei provato a parare il colpo riuscì solo a mozzarle il braccio di netto. La ragazza corse via sanguinando. Camuffato da eunuco, l’imperatore cercò di sgattaiolare fuori dalla capitale, ma alcune delle sue guardie gli spararono mentre si avvicinava ai cancelli. Si ritirò dunque nelle sue stanze e suonò la campana per convocare i suoi ministri a consiglio. Poiché nessuno lo raggiunse, uscì con calma in giardino e si impiccò a un albero sotto una collina.4 I barbari alla porta Introduciamo un altro gruppo di personaggi. I manciù erano una popolazione jurchen, strettamente legata a molte altre genti barbare che si aggiravano per le terre a nord della Cina; di tanto in tanto calavano avventandosi contro la Grande Muraglia. Non si trattava però dello stesso ramo degli jurchen che aveva fondato la dinastia Jin («dorata») nella Cina del nord nel XII secolo, successivamente caduta per opera dei mongoli (vedi Gengis Khan). Se la questione risulta confusa, si pensi agli jurchen come ad australiani, neozelandesi, inglesi e scozzesi. Per noi è ovvio che 344
queste genti bianche, anglofone, non siano tutte uguali, ma tra quattrocento anni pochi si ricorderanno o si preoccuperanno delle differenze fra gli americani e i canadesi. Nelle loro terre natie, i manciù vivevano come mandriani nomadi e combattevano come arcieri a cavallo, come i mongoli prima di loro. Alla fine, però, il contatto con i cinesi li cambiò, tanto che imbottirono le loro armate di battaglioni sullo stile cinese, composti da picchieri ammassati e moschettieri. Poiché queste forze richiedevano meno addestramento e si potevano reclutare a seconda delle necessità, erano più adatte alle società contadine. Nel 1584, un barbaro di venticinque anni di nome Nurhachi ereditò il comando di una delle quattro tribù secondarie dei manciù. Con la solita combinazione di carisma, astuzia e spietatezza, egli riunì le quattro tribù in una potente federazione, quindi intraprese una vita di battaglie contro qualunque vicino gli capitasse a portata di mano. Alla fine, la sua invasione della limitrofa tribù di Yehe lo mise in diretto conflitto contro i Ming. Divenuto ormai un veterano brizzolato di cinquantanove anni, Nurhachi sconfisse i cinesi nel primo scontro a Sahu, nel 1619. Poi si precipitò subito verso la capitale Pechino, lanciandosi contro una guarnigione trincerata dotata di artiglieria. Nurhachi morì poco dopo a causa dell’infezione dovuta a una ferita. Le armi da fuoco Yuan Chonghuan, il generale cinese che sconfisse Nurhachi, aveva appreso la conoscenza delle armi da fuoco occidentali dal suo cuoco, che frequentava degli europei.5 Malgrado i cinesi conoscessero già da secoli i principi della polvere da sparo, una nuova invenzione occidentale, il moschetto con otturatore a miccia, stava intensificando il ritorno della fanteria sul campo di battaglia. Benché inferiori agli archi e alle frecce sotto molti aspetti – nel peso, nella precisione, nella gittata e nella velocità di 345
ricarica – questi moschetti primitivi presentavano un vantaggio essenziale: in pratica non richiedevano alcuna competenza per farli funzionare, bastava solo caricare, mirare e sparare. Il combattimento con gli archi, seppur vincente, riduceva il numero di arcieri esperti e ci volevano anni per rimpiazzare ogni morto. Al contrario, dopo aver vinto una battaglia con i moschetti, un esercito poteva tranquillamente recuperare tutti i fucili sparsi per terra tra i soldati caduti e poi, in pochi giorni, insegnare a un nuovo gruppo di contadini a caricare, mirare e sparare. Il generale Yuan Chonghuan aveva concesso ai manciù una temporanea battuta d’arresto, ma non sarebbe durata a lungo. Di recente, in un attacco di gelosia, aveva giustiziato un subalterno di talento, così gli amici di quest’ultimo cospirarono con gli eunuchi di palazzo per vendicarsi. Yuan fu accusato di tradimento, trascinato via e giustiziato alla maniera tradizionale cinese: fu tagliato ordinatamente a pezzi nel mercato centrale di Pechino. I nuovi sovrani stranieri Molte delle province cinesi oltre la Grande Muraglia, in Manciuria, venivano tradizionalmente delimitate dai barbari con la Palizzata dei Salici, che, come forse si può intuire dal nome, come barriera non era esattamente robusta quanto la Grande Muraglia. Quindi, dopo che Nurhachi ebbe conquistato queste terre senza grandi ostacoli, i manciù poterono acquisire alcuni decenni di esperienza governando i cinesi.* Fra le poche regole che sarebbero poi diventate importanti, Nurhachi obbligò i propri sudditi cinesi di sesso maschile a radersi il capo, mantenendo, però, un lungo codino intrecciato, tradizionale simbolo manciù di sottomissione. Di utilità più immediata, i manciù appresero la sacra importanza dell’imperatore per i cinesi, così il figlio di Nurhachi, suo successore, Hong Taiji, proclamò una nuova dinastia vera a 346
propria, i Qing (pronuncia: cing; significato: «puro»). Hong Taiji, inoltre, acquisì nuovi territori come la Mongolia interna nel 1632 e la Corea nel 1638. Furono indubbiamente conquiste impressionanti, ma incrementarono solo il numero di barbari. Invece, per guadagnarsi un nome nei libri di storia, un conquistatore deve invadere il centro del mondo civilizzato. Sebbene fossero stati costantemente in guerra con la Cina per parecchi decenni, i manciù non erano mai riusciti a squarciare in maniera definitiva le difese di frontiera. Nel 1643, Hong Taiji morì e i membri ancora in vita della sua famiglia iniziarono a contendersene il posto. Un intricato compromesso tra le fazioni produsse un khan bambino e due coreggenti rivali, uno dei quali, il sedicesimo figlio di Nurhachi, Dorgon, deteneva di fatto il potere.** Le rivolte dei banditi Li e Zhang nella Cina dei Ming offrirono un’ottima possibilità di invasione ai manciù, che però non erano sicuri se saccheggiare e tornarsene a casa con le bisacce ricolme di bottino oppure stabilirsi lì per una lunga e proficua permanenza. Pare che Dorgon avesse proposto a Li Zicheng di spartirsi la Cina tra loro, ma non ne risultò alcunché; forse anche questo messaggero si perse per strada. L’esercito del ribelle Li Zicheng si era accampato nel palazzo, godeva dell’harem dell’imperatore e saccheggiava Pechino, mentre a più di trecento chilometri di distanza, lungo la Grande Muraglia, l’ultimo esercito Ming nel nord era in preda all’esitazione. Il generale Wu Sangui dei Ming non sapeva se vendicare il suo imperatore morto o favorire la propria carriera riconoscendo Li quale nuovo imperatore della Cina; ma in ultima analisi il suo dovere era quello di proteggere la frontiera settentrionale. Quindi rimase al suo posto. Tuttavia, quando Li scoprì il padre del generale Wu, un anziano cortigiano, tra i suoi prigionieri dalla corte Ming, tentò la via della trattativa. Wu il Giovane acconsentì alla resa in cambio del rilascio del padre e imboccò la strada per Pechino. Però Li si stancò dell’attesa: giustiziò la famiglia di Wu, violentò la sua 347
concubina prediletta e marciò a nord con il proprio esercito. Quando Wu ricevette le terribili notizie, tornò alla Grande Muraglia e spalancò le porte in modo che i manciù potessero varcarle.6 Li intercettò le forze di Wu a Shanhaiguan, dove la Grande Muraglia incontra il mare. Il generale schierò le sue forze e per lunghe ore snervanti scambiò infruttuosi assalti frontali con i ribelli di Li, poi da una tempesta di sabbia spuntò all’improvviso la cavalleria manciù di Dorgon, che attaccò Li sul fianco sinistro. La sorpresa e la sconfitta furono totali. Li si ritirò in buon ordine per alcune centinaia di chilometri, verso la propria originaria base operativa, combattendo parecchie grandi battaglie difensive contro i suoi inseguitori. Alla fine però lo sforzo risultò insostenibile per i ribelli, al punto che l’esercito di Li si disintegrò. Secondo le fonti Li morì alla fine dell’estate del 1645, o suicida o picchiato a morte da alcuni contadini che stava cercando di derubare, malgrado altri racconti lo descrivano in fuga per proseguire la sua vita nell’anonimato, come monaco.7 Nel dicembre del 1644 l’altro principale ribelle, Zhang Xianzhong, la Tigre Gialla, rientrò nel Sichuan e fondò il Grande Regno Occidentale, con capitale a Chengdu.8 Lasciato solo, Zhang si fece sempre più crudele e capriccioso: mutilò e decapitò migliaia di dotti e le loro famiglie, decimò alcuni reggimenti del suo stesso esercito come punizione per insulti solo immaginati. La sua crudeltà era talmente nota che, nel 2002, quando degli operai che scavavano a Chengdu per gettare le fondamenta di un nuovo edificio scoprirono un centinaio di scheletri molto antichi mescolati insieme alla terra, l’archeologo che conduceva gli studi sul sito sospettò immediatamente che fosse stato Zhang a metterli lì.9 Zhang abbandonò Chengdu alla fine del 1646, dopo aver raso al suolo buona parte della città. Batté in ritirata in cima alle montagne, devastando le campagne alle sue spalle, finché nel gennaio del 1647 i manciù non lo catturarono e lo uccisero. 348
Un po’ di pulizia I Ming sopravvissuti si riunirono a sud, presso Nanchino, capitale secondaria della Cina centrale. Inizialmente Dorgon propose loro di spartirsi la Cina, a patto che i Ming rinunciassero alle pretese sul nord. Non si arrivò a nessun accordo. Gli eserciti manciù se ne andarono. Al loro arrivo all’estremità meridionale del Grande Canale, la ricchissima città di Yangzhou oppose una strenua resistenza, così, dopo la resa, per dieci giorni subì un pesante e doloroso saccheggio. Avendo imparato la lezione dall’accaduto, Nanchino si arrese a giugno senza lottare e, una volta tanto, la città cambiò padrone senza massacri, cosa che, come vedremo, rimane piuttosto insolita nella lunga e infelice storia di Nanchino. I Qing gettarono nel dimenticatoio l’imperatore Ming. La casa reale Ming, tuttavia, era prolifica come i conigli, così i Qing furono costretti a scovare e giustiziare una lunga serie di principi che provarono a fondare regni rivali nel sud. L’ultimo dei Ming era il più giovane nipote di un precedente imperatore, una specie di figlio di papà viziato e coccolato per tutta l’infanzia, per cui si può già immaginare il brutto finale della sua storia. Conosciuto come principe di Gui, egli impiantò una corte rivale nel profondo sud, piena di «masticatori di betel, lavoratori dei pozzi di salamoia e proprietari di bordelli».10 Finalmente, a cominciare dal dicembre 1650, gli eserciti Qing lo inseguirono ovunque nelle regioni di frontiera meridionali, fino in Birmania. Inizialmente i birmani gli promisero asilo, ma poi cambiarono idea e massacrarono quasi tutta la corte ribelle. Il principe rimase imprigionato in una piccola proprietà per alcuni anni, fino all’invasione del generale Wu Sangui, un autentico voltagabbana. I birmani comprarono il generale Wu consegnandogli l’ultimo dei Ming: il principe di Gui e il suo unico figlio vennero riportati in Cina e strangolati di nascosto nel 1662.11 349
Con la rovina finale dei suoi sovrani, l’ultimo ammiraglio Ming, Zheng Chenggong,***riunì la sua flotta e si imbarcò per intraprendere una vita di pirateria. Nel 1661 sottrasse Taiwan agli olandesi e probabilmente, se non fosse morto poco dopo, si sarebbe scagliato contro la Spagna nelle Filippine. Quello fu l’ultimo spasimo delle gloriose tradizioni marittime della dinastia Ming, le cui flotte imponenti, un tempo, avevano solcato le acque di tutto il mondo, fino all’Africa orientale. Dopo la dipartita di Zheng Chenggong, gli oceani divennero di esclusivo dominio degli europei. Piaghe e pestilenze Quanta gente trovò la morte in quest’epoca di caos? Un’idea sull’entità della devastazione si può avere leggendo il Ming Shi, la storia ufficiale dell’era Ming scritta un secolo dopo, che accusa Zhang, la Tigre Gialla, dell’uccisione di 600 milioni di uomini durante la sua folle dominazione. Poiché la cifra rappresenta più del totale dell’intera popolazione mondiale dell’epoca, probabilmente equivale al loro concetto di «molti».12 La stima più diffusa tra i demografi moderni, basata su registri fiscali e reperti archeologici, sostiene che a metà del XVII secolo la popolazione originaria di 150 milioni di cinesi calò di un sesto (ossia 25 milioni).13 Come sempre, carestie e malattie decimarono la popolazione saccheggiata e fiaccata, uccidendo un’enorme quantità di civili anonimi. Si sarà notato che un numero sproporzionato dei miei cento eventi ebbe luogo verso la fine del Cinquecento e il Seicento. In Europa, la guerra dei Trent’anni fu il conflitto più micidiale fino alla prima guerra mondiale (vedi Guerra dei Trent’anni), la Russia precipitò nel caotico periodo dei Torbidi, la conquista manciù della Cina si rese responsabile di uno dei maggiori crolli demografici della storia dell’Asia orientale, mentre l’invasione dell’India meridionale da parte di Aurangzeb (vedi Aurangzeb) produsse il più alto numero di vittime in una singola guerra 350
della storia dell’Asia meridionale. Anche nelle più piccole isole periferiche al largo delle coste continentali, i mastini della guerra abbaiavano come non mai. L’Inghilterra era lacerata dalla guerra civile, mentre gli shogun giapponesi rivaleggiavano per il potere in quella che poi sarebbe diventata l’ambientazione di quasi tutti i film di Akira Kurosawa.14 Tutto questo stava devastando un mondo con una popolazione di 500 milioni di persone, che equivale a solo un quinto del numero di individui presenti sul pianeta a metà del XX secolo. In effetti, il XVII secolo è un degno concorrente nella gara per il secolo peggiore nella storia dell’umanità. La causa principale fu un prodigioso balzo in avanti della tecnologia militare. Lo sviluppo di moschetti e artiglieria efficienti sottomise civiltà intere al controllo di singole dinastie, dando origine ai cosiddetti imperi della polvere da sparo. Anche se nei secoli successivi questi nuovi imperi costituiranno un fattore di stabilità, ai loro esordi distrussero gli antichi equilibri di potere e scatenarono il caos. Naturalmente, i quattro cavalieri dell’apocalisse danno il meglio quando collaborano tra loro: il conto delle vittime del XVII secolo fu incrementato in maniera esponenziale dal ritorno della peste bubbonica. La più celebre esplosione di questa piaga fu l’epidemia di Londra del 1665, ma la peste imperversò anche per tutti gli itinerari commerciali dell’Eurasia, ovunque le popolazioni di ratti fossero abbastanza numerose da diffondere il contagio. Essa non fu violenta quanto la peste nera di trecento anni prima, ma la Cina ne fu colpita in modo particolare: «All’inizio i corpi venivano sepolti nelle bare, poi nei prati e infine vennero lasciati nei letti». Un testimone oculare descrisse una città devastata dalla peste: «C’erano pochi segni di vita umana nelle vie, tutto ciò che si poteva udire era il ronzio delle mosche».15 Quest’epoca, inoltre, fu il picco di una piccola era glaciale. Le temperature del mondo erano in calo già da alcuni secoli e non avrebbero cominciato a risalire ancora per molti decenni. 351
L’agricoltura era dunque costretta in stagioni più brevi e più asciutte, da cui scaturivano le carestie. D’altra parte, indipendentemente da quanto sia affascinante studiare l’impatto delle malattie e del tempo sulla storia, potremmo facilmente lasciarci trasportare dal tentativo di associare ogni sconvolgimento storico a un evento naturale concomitante. Nella lunga durata, le società si sono adattate ai nuovi sistemi climatici, mentre a breve termine il mutamento del clima era sporadico. Il tempo è sempre irregolare; così, per esempio, quando parliamo di estati più secche, non intendiamo dire che non cadde pioggia per anni, ininterrottamente; intendiamo, invece, meno pioggia rispetto alla media nella maggior parte degli anni, ma precipitazioni perfettamente normali per il resto del tempo. Siccità e carestie sono state tanto comuni nella storia dell’umanità che la maggior parte delle società dispongono di piani d’emergenza e di anziani in abbondanza che si ricordano come le hanno superate l’ultima volta. Il maltempo è in grado di distruggere il tessuto della società soltanto se accompagnato da una dose supplementare di sfortuna o di stupidità umana.
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Invasione dell’Irlanda da parte di Cromwell Bilancio delle vittime: 400.0001 Posizione: 81 Tipologia: pulizia etnica Contrapposizione di massima: inglesi contro irlandesi Periodo: 1649-1652 Luogo: Irlanda Principali stati partecipanti: Commonwealth d’Inghilterra A chi diamo la colpa di solito: Cromwell Nella disputa sempre più aspra tra re Carlo d’Inghilterra e i puritani del Parlamento, i cattolici d’Irlanda si schierarono dalla parte del re. Nel 1641, poco prima dello scoppio delle ostilità in Inghilterra, tra i cattolici irlandesi si diffuse la voce che il Parlamento progettava da un momento all’altro un giro di vite contro di loro. Decisero così di colpire per primi e annientare i protestanti dell’Ulster, che nel caso si fosse formato un eventuale esercito oppressore avrebbero costituito la fanteria: in un’improvvisa insurrezione furono massacrati 3000 protestanti e altri 8000 morirono di stenti dopo essere rimasti senza un tetto. Prima che potesse aver luogo una rappresaglia, in Inghilterra scoppiò la guerra civile. Purtroppo per gli irlandesi essa si concluse con la morte del re e la dittatura del comandante dell’esercito del Parlamento, Oliver Cromwell. Nell’agosto del 1649 questi passò in Irlanda per regolare i conti «Miseria e desolazione, sangue e rovina […] ricadranno su di essi» proclamò Cromwell «e [io] sarò lieto di esercitare la massima 353
severità contro di loro».2 Mise dunque sotto assedio la città di Drogheda, sulla costa orientale dell’Irlanda, e quando gli inglesi aprirono una breccia nelle mura dopo parecchi assalti violenti, le Teste Rotonde di Cromwell non usarono misericordia. Gli inglesi massacrarono 3500 persone, tra cui tutti i soldati della guarnigione e mille tra funzionari governativi, sacerdoti e altri civili pericolosi. Il governatore realista della città fu picchiato a morte con la sua gamba di legno da alcuni soldati che avevano sentito dire che dentro la gamba stessa c’erano delle monete d’oro. I sopravvissuti al massacro furono caricati sulle navi e venduti alle piantagioni delle Barbados. «Questo è il giusto castigo di Dio contro quei vili barbari che si sono macchiati le mani del sangue di tanti innocenti» dichiarò Cromwell. «E ciò impedirà altro spargimento di sangue in futuro».3 Cromwell si spostò poi a sud, dove la resistenza della città portuale di Wexford condusse alla strage di un’altra guarnigione e al saccheggio di un’altra città. Con le città che cadevano una dopo l’altra davanti agli assedi inglesi, il popolo irlandese si diede alla guerriglia. Chiamati «tories», dal gaelico tóraidhe, che significa «uomo maledetto» (termine applicato in seguito come insulto contro tutti gli oppositori del progresso, dai lealisti americani al partito politico inglese più conservatore),4 questi insorti prolungarono la guerra fino al 1652. Cromwell lasciò il proprio esercito a fare pulizia e se ne tornò a Londra. Il Parlamento decise poi di spezzare una volta per tutte l’influsso cattolico sull’Irlanda. Dall’Inghilterra arrivarono dei commissari che arrestarono o giustiziarono ribelli e sacerdoti e ne confiscarono le terre; fu proibito il culto pubblico del cattolicesimo. Gli inglesi cacciarono gli irlandesi dalle terre fertili, a ovest, verso la parte rocciosa dell’isola, e ridistribuirono la terra migliore ai possidenti protestanti e ai veterani inglesi in pensione. Passò di mano quasi il 40% del terreno agricolo.5 Durante l’insurrezione morirono di fame e di 354
malattie centinaia di migliaia di irlandesi, e la popolazione dell’isola calò drasticamente del 20%. Nei trecento anni successivi, l’Irlanda rimase una società di contadini indigeni senza terra sotto il dominio di una proprietà straniera.
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Aurangzeb Bilancio delle vittime: forse 4,6 milioni nella guerra del Deccan1 Posizione: 23 Tipologia: despota Contrapposizione di massima: musulmani contro indù Periodo: al potere dal 1658 al 1707 Luogo: India Principale stato partecipante: impero Moghul A chi diamo la colpa di solito: Aurangzeb
L’erede presunto Quando Shah Jahan, imperatore dell’India ed edificatore del Taj Mahal, non riuscì a urinare per tre giorni, la ritenzione lo fece ammalare seriamente. Dara, il figlio maggiore nonché prediletto, mantenne il segreto e nascose suo padre per evitare che l’impero precipitasse nel panico. Le voci di palazzo presto giunsero alle orecchie degli altri figli del sovrano, i quali sospettavano che Dara stesse tramando qualcosa. Era palese che dietro la misteriosa scomparsa del padre ci fosse lui, perciò, temendo di essere i prossimi, fuggirono e iniziarono a costituire armate nelle province. Shah Jahan si riprese dalla malattia piuttosto presto, ma i figli erano ormai in aperta guerra civile. Dara riuscì facilmente a sconfiggere in battaglia e spingere in esilio il più giovane, che lasciò Aurangzeb (il terzo) a sostenere Murad (il secondo) nell’ascesa al trono. Non appena questi due presero gradualmente il sopravvento, Aurangzeb invitò Murad nella sua 356
tenda per definire i dettagli della loro alleanza. Murad cenò e bevve vini raffinati mentre suo fratello, da rigoroso musulmano, rimase sobrio. Inoltre Murad schiacciò un piacevole pisolino mentre una giovane schiava gli faceva un massaggio. Al suo risveglio, si ritrovò imprigionato. Aurangzeb alla fine conquistò la capitale e rinchiuse il padre nelle sue stanze del palazzo. Dopo una dura campagna, Aurangzeb catturò anche suo fratello Dara e lo mise sotto processo. Secondo Aurangzeb, Dara era sempre stato troppo tollerante nei confronti degli indù, quindi fu accusato di apostasia e decapitato. La testa fu portata al padre per provare l’ormai totale supremazia di Aurangzeb. Aurangzeb ricordò sempre di aver ottenuto il potere rovesciando suo padre, quindi teneva i propri figli ben stretti al guinzaglio. Ciascuno di loro, nel corso del suo lungo regno, trascorse dei periodi di prigionia. Iniziative a sfondo religioso La dinastia Moghul era nata in Afghanistan da un ramo di quella di Tamerlano e aveva valicato le montagne penetrando in India. In linea diretta di padre in figlio per cinque generazioni, un conquistatore glorioso dopo l’altro espanse e consolidò l’impero; tuttavia i Moghul preferirono ostentare la propria magnificenza attraverso arte e architettura straordinarie, anziché con il valore militare. Investirono molto in opere pubbliche quali strade, trasporti postali e granai come prevenzione di una eventuale carestia. Anche se furono generosi e devoti sostenitori dell’Islam, i Moghul erano tradizionalmente tolleranti nei confronti dell’induismo. Nel corso di tutta la loro dominazione, agli indù fu permesso di praticare liberamente tutti i propri riti e seguire i propri costumi. In precedenza era persino stato affidato loro il comando di alcune armate, oltre ad alte cariche di palazzo. Aurangzeb, tuttavia, era un musulmano ascetico che proibì 357
ogni vizio ed evitò personalmente quasi tutto il resto. Non indossava seta, vietò la musica ovunque fosse possibile. A differenza dei Moghul precedenti, aderì al bando musulmano delle immagini, di conseguenza, senza il mecenatismo della corte, i pittori dovettero lasciare il paese per trovare lavoro. Non essendo interessato ad altre opere letterarie all’infuori delle sacre scritture, Aurangzeb revocò anche la protezione imperiale nei confronti di poeti e studiosi.2 Vietò agli indù di cavalcare cavalli e di allevarli per la riproduzione, reintrodusse la tassazione pro capite per i non musulmani. Aurangzeb distrusse inesorabilmente templi indù per tutta l’India. Nel 1661 demolì il tempio di Kesava Deo a Mathura, luogo di nascita di Krishna. Il tempio di Kashi Vishwanath nella città santa di Varanasi, uno dei più famosi dedicati a Shiva, venne abbattuto nel 1669. Poi, nel 1706, fu la volta del tempio di Somnath a Saurashtra.3 Questo elenco probabilmente non significa nulla per voi, ma fa sobbalzare gli storici indù esattamente come fanno gli occidentali ogni volta che leggono della distruzione di un monumento della civiltà greco-romana. Tutto ciò che occorre ricordare è che in tutta l’India si rasero al suolo migliaia di luoghi sacri dell’induismo, rimpiazzati da moschee. Oggi i nazionalisti indù fremono in cerca dell’occasione per incendiare quelle moschee e ricostruire i templi perduti. Quando nel XVI secolo aveva fondato la religione sikh, Guru Nanak Dev aveva sperato di portare la pace in India e di riconciliare Islam e induismo riducendo le due fedi rivali ai loro elementi morali comuni, per fonderle in un’unica religione pacifista. Sfortunatamente invece si finì per creare tra le religioni un terzo incomodo contro cui combattere. I sikh facevano infuriare Aurangzeb perché convertivano i musulmani, perciò egli giurò di interrompere questa invasione di campo. Nel 1675 gettò in prigione Guru Tegh Bahadur, capo dei sikh, e lo torturò un po’ per vedere se avrebbe cambiato idea sulla tolleranza religiosa. Siccome il guru restava ostinatamente del 358
suo parere, Aurangzeb lo decapitò. Dopodiché i sikh abbandonarono il pacifismo originario e si ritirarono nelle roccaforti montane, trasformandosi in gente guerriera, che portava sempre con sé spade e pugnali rituali.4 I maratti Durante il XVII secolo, un gruppo eterogeneo di clan indù degli altipiani denominati maratti divenne una nazione guerriera pronta a opporsi all’invasione musulmana. A capo della resistenza si pose il leggendario capo dei maratti Shivaji, un eroe per molte generazioni di indù, famoso per le sue audaci bravate. Durante il colloquio con un generale musulmano, egli all’improvviso lo sventrò con degli artigli di tigre d’acciaio che teneva nascosti; poi le sue truppe uscirono allo scoperto, precipitandosi fuori per massacrare il nemico rimasto senza guida. Successivamente, si infiltrò in una fortezza mescolandosi ai partecipanti alla processione di un matrimonio reale, e ne uccise gli ospiti nel sonno. Nel 1663 completò l’opera irrompendo nell’harem di Aurangzeb e seminando il panico. Aurangzeb licenziò il generale incaricato di cercare Shivaji e spedì suo figlio a sud. Invano: Shivaji era sempre un passo avanti rispetto ai Moghul, tanto che nel 1664 riuscì a prendere e saccheggiare la città di Surat. Alla fine, un nuovo generale Moghul, Jai Singh, in soli tre mesi catturò e sottomise Shivaji, il quale acconsentì a tornare alla capitale Agra e a offrire la propria obbedienza personale all’imperatore. Nel 1666 per condurlo in città Aurangzeb mandò una magnifica carovana con tanto di elefanti, portantine e servi a spese dei Moghul. Una volta arrivato, tuttavia, Shivaji si sentì snobbato dall’imperatore e fuggì per riprendere la guerra: si proclamò re e ampliò la portata delle sue incursioni.5 Nel 1680 morì di dissenteria e il comando dei maratti passò a suo figlio Sambhaji. Nello stesso anno Aurangzeb spedì a sud uno dei suoi figli, Akbar, per soffocare una rivolta del Rajput (clan aristocratici 359
indù), invece Akbar si unì alla sommossa, si proclamò imperatore e attaccò senza successo verso nord. Akbar disponeva di un esercito abbastanza grande per vincere almeno alcuni degli scontri preliminari, ma sbagliò la prima battaglia e dovette fuggire all’estremo sud, fuori dalla portata di suo padre. Alla fine s’imbarcò su una nave diretta in Persia. La guerra del Deccan Deciso a conquistarlo di persona, Aurangzeb partì alla volta del sud con un esercito che si ritiene annoverasse mezzo milione di soldati. Oltre all’esercito, il seguito della spedizione includeva l’intera corte e una tendopoli di padiglioni variopinti, greggi di animali, carri, recinti per il bestiame e bazar. Per i ventisei anni successivi della sua vita egli non avrebbe mai più fatto ritorno a nord. Nel 1686-1687 schiacciò i regni musulmani indipendenti di Bijapur e di Golconda, che considerava decadenti ed edonistici, poi rivolse tutta la propria attenzione contro i maratti sul margine montuoso dell’altopiano del Deccan, nell’India centrooccidentale. Quando nel 1689 i Moghul catturarono infine il re maratto Sambhaji, nelle tre settimane successive Aurangzeb lo disintegrò pezzo per pezzo: la lingua il primo giorno, gli occhi il secondo, poi gli arti uno per uno. Alla fine Sambhaji era ridotto a una porzione irriconoscibile di sé stesso e venne decapitato. Sebbene Aurangzeb s’impadronisse sistematicamente delle roccaforti collinari dei maratti, continuavano a spuntavare da tutte le parti. Le fortificazioni dei maratti di solito si arrendevano non appena giungeva Aurangzeb, ma riprendevano la rivolta non appena si allontanava.6 I maratti divennero esperti nella guerriglia, così Aurangzeb provò a sradicarli distruggendo i villaggi e i raccolti che li sostentavano. Man mano che la guerra si trascinava nel tempo, l’India meridionale era sempre più devastata. Secondo fonti coeve, nel quarto di secolo occupato dalla guerra del Deccan morirono 360
ogni anno 100.000 uomini di Aurangzeb e 300.000 animali da soma (cavalli, cammelli, asini, buoi ed elefanti). Quando tra il 1702 e il 1704 siccità, peste e carestia colpirono le terre dilaniate dalla guerra, in pochi anni trovarono la morte due milioni di civili.7 La lunga guerra non raggiunse mai il proprio scopo. Alla morte di Aurangzeb i Moghul erano ormai prossimi alla conquista dell’intero subcontinente indiano, ma restava ancora al di fuori della loro portata l’estremità più lontana della penisola. La potenza dei Moghul raggiunse l’apice sotto Aurangzeb, ma il problema di ogni apice è che dopo c’è soltanto la discesa. Anni di guerra avevano logorato l’impero, le casse si erano svuotate: dopo la morte di Aurangzeb l’impero Moghul si sgretolò rapidamente.
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Guerra austro-turca Bilancio delle vittime: 384.0001 Posizione: 89 Tipologia: scontro di culture Contrapposizione di massima: turchi contro Santa Alleanza Periodo: 1682-1699 Luogo: Europa sudorientale Principali stati partecipanti: Austria, Turchia ottomana Stati secondari partecipanti: Venezia, Polonia, papato, Russia Stato quantico partecipante: Ungheria A chi diamo la colpa di solito: Kara Mustafa
L’assedio di Vienna Quando nel 1526 il re e la nobiltà furono spazzati via dai turchi nella battaglia di Mohács, l’Ungheria cessò di essere una nazione vera e propria. Privo di un governo, il paese fu diviso tra gli austriaci a nordovest e i turchi ottomani a sudest, ma un secolo dopo gli ungheresi di Imre Thököly tentarono di scacciare gli austriaci dalla loro metà dell’Ungheria. Dopo aver subito una serie di sconfitte, Thököly si rese conto che non poteva farlo da solo, così, nella speranza di mettere una grande potenza contro l’altra, si rivolse ai turchi per chiedere aiuto. La sua richiesta arrivò al momento giusto. Il fior fiore della fanteria turca, i giannizzeri, era in cerca di una guerra per agguantare qualche facile bottino e la tregua ventennale tra la Turchia e l’Austria stava per scadere. Kara Mustafa, l’ultimo 362
visir partorito dalla famiglia Köprülü e dal potere alle spalle del trono della Turchia ottomana, colse l’occasione: organizzò un reparto d’assalto da lanciare contro Vienna. Benché i turchi avessero effettuato la dichiarazione di guerra nell’agosto del 1682, la preparazione di un contingente d’invasione di oltre 140.000 uomini e 400 pezzi d’artiglieria pesante ritardò l’offensiva fino alla primavera seguente. Pur sapendo che i turchi stavano per arrivare, gli austriaci esitavano a preparare Vienna per l’assedio. Cent’anni di pace li avevano portati a trascurare le loro fortificazioni: i bastioni mostravano segni di erosione, le abitazioni e gli alberi erano spuntati in quello che sarebbe dovuto essere un aperto campo di tiro. Inizialmente l’imperatore Leopoldo I non riusciva a decidere se il suo posto fosse insieme alle truppe o al sicuro dal pericolo, alla fine sgattaiolò fuori dalla città appena prima dell’arrivo dell’avanguardia turca, lasciando solo 12.000 uomini delle truppe regolari a coordinare la difesa della milizia. Fortunatamente per la cristianità, anche i turchi esitavano. Quando circondarono Vienna, nel luglio del 1683, scavarono le trincee e si misero in attesa, attaccando di tanto in tanto senza tuttavia caricare mai con tutte le forze, nemmeno in un paio di occasioni in cui si aprì un utile varco nelle difese nemiche. Secondo le leggi belliche di allora i soldati semplici potevano legittimamente saccheggiare una città sotto assedio per tre giorni senza limiti, ma una città che si arrendeva pacificamente apparteneva al sultano. A quanto pare Kara preferì aspettare per impadronirsi di Vienna ancora integra, anziché prenderla rapidamente, assistendo alla sua distruzione da parte dei soldati. Per contro i turchi si misero a terrorizzare la campagna circostante, per esempio massacrando 4000 abitanti dei villaggi nei dintorni di Perchtoldsdorf. L’assedio si protrasse abbastanza a lungo da costringere l’imperatore a impiegare 81.000 mercenari dell’Europa orientale per preservare Vienna intatta. La spina dorsale di questo esercito era costituita dai 25.000 uomini del re Giovanni 363
Sobieski, l’ultimo grande re della Polonia. Sobieski e i suoi ussari alati polacchi* si abbatterono come furie sulle retrovie del campo turco. Troppo sicuri della loro superiorità, i turchi non avevano fortificato la loro retroguardia per proteggerla da un tale attacco, così l’accampamento fu sopraffatto. L’intero contingente si diede alla fuga, abbandonando enormi scorte di rifornimenti, provviste e ricchezze.2 III
Limitare i danni In cerca di qualcuno da incolpare della sua sconfitta, Kara Mustafa arrestò Imre Thököly, il ribelle ungherese che lo aveva convinto a prendere parte a quel pasticcio. L’arresto del loro capo offese le truppe ungheresi, che passarono dalla parte degli austriaci, portandosi dietro tutte le roccaforti dell’Ungheria turca. Soltanto la moglie di Imre restò dalla parte dei turchi per provare la lealtà di suo marito: per tre anni tenne duro contro l’assedio degli austriaci alla sua fortezza finché, alla fine, non dovette arrendersi e fu condotta in prigionia.3 Il sultano ottomano Mehmet IV, tuttavia, aveva in mente un altro capro espiatorio: ordinò di far strangolare Kara Mustafa per il suo fallimento e la testa imbalsamata del visir gli fu rispedita in un sacco di velluto quale prova dell’esecuzione dell’ordine. La testa girò il mondo per parecchi secoli e andò a finire in una teca per trofei nel museo della città di Vienna, ma nel 1970 i notabili della città divennero più sensibili e la spostarono nel seminterrato, dove i turisti non avrebbero più potuto fissarla come degli allocchi. Il sultano sopravvisse di poco al suo visir. Il fallimento di Vienna determinò un colpo di stato a Costantinopoli: Mehmet fu imprigionato mentre suo fratello saliva al trono. Tuttavia il nuovo sultano morì presto (per cause naturali), così come il suo successore. Alla fine l’impero sfornò un sultano che visse abbastanza a lungo per negoziare la pace. Con il nemico turco nel caos, gli austriaci avanzarono nella 364
pianura ungherese. Nel 1686 conquistarono Budapest e l’anno successivo a Mohács misero a segno una vittoria importante, che cancellò la macchia della sconfitta cristiana avvenuta nello stesso luogo molte generazioni prima. I serbi e gli altri cristiani dei Balcani accolsero favorevolmente la liberazione dai turchi; tuttavia, prima che gli austriaci potessero consolidare pienamente il loro nuovo territorio, le truppe vennero richiamate e inviate a ovest a combattere la Francia in una guerra indipendente. Privo di difese, il Kosovo cadde nuovamente in mano ai turchi e i serbi del luogo si diedero alla fuga per scampare alla rappresaglia. Successivamente, in quella terra abbandonata i turchi spinsero gli albanesi musulmani, cosa che, trecento anni più tardi, nel 1999, avrebbe causato un’altra guerra.4 Mentre gli austriaci avanzavano via terra contro i turchi, una flotta veneziana conquistò la Grecia meridionale strappandola agli ottomani. Allorché i veneziani misero sotto assedio Atene, la guarnigione turca stipò la polvere da sparo nell’edificio più grande, asciutto e robusto della città, il Partenone. Armonioso, perfettamente proporzionato e decorato con superbe sculture, il tempio era sopravvissuto quasi intatto ai due millenni precedenti, ma stavolta un mortaio veneziano colpì il deposito di polvere turco, innescando un’enorme esplosione che distrusse la maggior parte della costruzione, lasciando in piedi soltanto il colonnato esterno.
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Pietro il Grande Bilancio delle vittime: 3 milioni1 Posizione: 30 Tipologia: despota Contrapposizione di massima: Pietro contro il passato Periodo: al potere dal 1682 al 1725 Luogo: Russia A chi diamo la colpa di solito: Pietro I
Pietro il Grande fu un gigante per molti aspetti. Con i suoi due metri di altezza, è il personaggio più alto di questo libro e spicca dalle pagine della storia come un uomo che non accettava limiti e plasmò il mondo per adattarlo al suo modo di vedere. Pietro trascinò bruscamente la Russia nel mondo moderno, senza badare a chi si opponeva o al dolore che causava; spostò le popolazioni dal luogo in cui si trovavano a dove le voleva lui, creò una nuova capitale a San Pietroburgo e ampliò l’esercito fino a livelli mai visti in precedenza. Infine combatté guerre pressoché continue con i suoi vicini. La modernizzazione Quando alla morte del padre, nel 1682, Pietro giunse al trono all’età di dieci anni, dovette spartirlo con il fratello maggiore Ivan, un mezzo idiota, mentre la madre faceva da reggente. Fu soltanto dopo la morte dei due (il fratello nel 1696 e la madre nel 1694, entrambi per cause naturali, cosa sorprendente per la corte russa) che Pietro fu libero di fare quel che voleva. Più di ogni altra cosa, Pietro voleva fare della Russia una 366
potenza mondiale; non gli sembrava giusto che paesi minuscoli come l’Olanda e la Danimarca avessero più peso della gigantesca Russia. Iniziò quindi un grand tour per l’Occidente, esplorandone e assaporandone la cultura in ogni aspetto, lavorò sotto falso nome in un cantiere navale olandese e in Inghilterra pranzò con gli uomini di cultura. Pietro avviò la modernizzazione inizialmente a livello superficiale, immaginando che se i russi avessero avuto un aspetto civile magari si sarebbero comportati di conseguenza. Per tradizione i russi ortodossi portavano una lunga barba con orgoglio religioso: Dio l’aveva messa sul viso degli uomini ed era empio e vano tagliarla. Al suo ritorno dall’Occidente, lo zar Pietro ordinò immediatamente a tutti i russi di radersi per apparire dunque più occidentali. Lui stesso tirava spesso fuori un rasoio e tagliava a forza la barba a qualcuno per la strada. Alla fine cedette e consentì a chi era più tenacemente religioso di pagare una tassa sulla barba, ma anche in tal caso doveva mostrare in bella vista un permesso sotto forma di medaglione, altrimenti si rischiava la rasatura.* Pietro studiò ogni disciplina sulla quale poté mettere le mani. Gli piaceva in particolare l’odontoiatria e se qualcuno in sua presenza accennava appena a un mal di denti, il poveretto veniva tenuto fermo, mentre Pietro tirava fuori le pinze ed estraeva il dente dolorante. Il potere Mentre Pietro era in Occidente ad affinare le sue abilità, la sorellastra Sof’ja sollevò una rivolta tra gli strl’cy (le guardie di palazzo); Pietro tornò in fretta in patria e riprese il controllo in maniera sanguinosa. Più di un migliaio di capi della ribellione furono giustiziati in pubblico, con torture umilianti e atroci; Sof’ja invece fu sbattuta in convento. Per concentrare tutto il potere nelle proprie mani, Pietro cercò di spezzare quello della Chiesa russa, confiscandone le 367
ricchezze in favore dello stato. Quando nel 1700 morì il patriarca (il capo della Chiesa), lo zar impedì alla Chiesa stessa di eleggerne uno nuovo, dedicò parecchio tempo ad abituare la gerarchia ecclesiastica a non avere un patriarca e infine, nel 1721, trasformò la Chiesa in un ramo della pubblica amministrazione sotto l’autorità dello zar. Cambiò inoltre il calendario russo per allinearlo con quello occidentale: si passò così dal 7208 (dalla creazione) al 1699 (dopo Cristo) e l’inizio dell’anno venne spostato dal primo settembre al primo gennaio. In origine i boiardi russi assumevano importanza in base al prestigio dei loro antenati, ma Pietro importò il feudalesimo all’occidentale, nel quale alla nobiltà si attribuivano uguali obblighi e uguali privilegi all’interno della stessa classe. I boiardi furono dunque aboliti in quanto classe nel 1721 e riordinati utilizzando i titoli occidentali. All’incirca nello stesso periodo Pietro riorganizzò il sistema russo dei contadini liberi e degli schiavi di famiglia sul modello della servitù della gleba occidentale, cosa che elevò gli schiavi ma degradò i contadini. Gli ex schiavi non erano soggetti alle tasse, mentre una nuova serie di leggi vietò ai contadini russi di viaggiare senza passaporto o firmare contratti senza l’approvazione governativa. Ogni anno una nuova leva reintegrava i ranghi del suo esercito, e ogni nuovo censimento aiutava Pietro a utilizzare anche l’ultimo dei cittadini su cui riusciva a mettere le mani. Dai nobili si esigeva che fornissero un soldato ogni cento abitanti delle loro terre e un cavaliere ogni centocinquanta. Prima di Pietro il governo russo aveva contato solamente le famiglie, mentre con i nuovi censimenti si cercava di contare i singoli contribuenti, una categoria che si ampliò con l’inclusione di classi in precedenza esenti. Guerra All’inizio del regno di Pietro, l’unico porto marittimo della 368
Russia era Arcangelo, sul mar Bianco, poco sotto il Circolo polare artico, che per metà dell’anno era gelato. Così Pietro cominciò a cercare un porto dotato di acque calde. Tentò costantemente l’espansione a nord contro gli svedesi, che controllavano il Baltico, e a sud contro i turchi, che disponevano della costa del mar Nero. Ogni anno da qualche parte scoppiava una guerra (che di solito era un pasticcio). Nel 1695 e nel 1696 Pietro si scontrò con i turchi per il possesso di Azov, sul mar Nero; poi li affrontò di nuovo nel 1711-1712 sul fiume Prut, ma come al solito l’offensiva andò male. Nel 1722-1723 si scontrò a sud del Caspio con i persiani. Frattanto occorreva sedare le rivolte e riportare la Siberia sotto controllo. In ciascuna di queste guerre Pietro si affidò a quella che sarebbe diventata la forza peculiare dell’esercito russo, ossia l’ostinata capacità di assorbire punizioni incredibili e perdite sconcertanti solo per sopravvivere agli avversari. Anche in tempo di pace ai soldati non era permesso di starsene a oziare in distaccamenti dimenticati: la manodopera precettata, composta sia da soldati che da civili, dragava fiumi, costruiva strade, fabbriche e canali in tutta la Russia. Fu probabilmente così che Pietro mieté il numero più alto di vittime; lo stesso implacabile mantenimento di un esercito enorme fu letale quanto le guerre. Le malattie, la malnutrizione, la negligenza e la feroce disciplina ridussero le truppe, e altrettanto fece il freddo rigido di un impero che si estendeva in tutto il nord dell’Asia. Si temeva talmente tanto la leva che per rendersi inabili i contadini si mutilavano, si spaccavano i denti per non dover aprire a morsi le cartucce dei moschetti, si tagliavano le dita dei piedi per non marciare e quelle delle mani per non sparare. Il tentativo di Pietro di aprirsi uno sbocco sul Baltico fu a tal punto sanguinoso da meritarsi un capitolo a sé (vedi Grande guerra del Nord), ma per edificare una nuova capitale costiera che fungesse da porta verso l’Occidente lo zar non attese che la 369
guerra prendesse una piega favorevole. Radunò criminali, prigionieri e contadini precettati e li inviò sulla costa per intraprendere la costruzione di San Pietroburgo, su un territorio che tecnicamente apparteneva ancora alla Svezia. Vietò la costruzione di edifici in pietra in tutta la Russia, in modo che ogni muratore del paese fosse libero di lavorare alla sua nuova città. Quando i primi 40.000 operai morirono di febbri nelle paludi, ne raccolse altri 40.000 per sostituirli; morirono anch’essi, e lui ne trovò altri. A conti fatti, nella costruzione di San Pietroburgo furono sacrificati 100.000 operai. E pace Per mantenere il suo immenso esercito in tempo di pace, Pietro disseminò i soldati per tutta la Russia e scaricò il costo delle spese di manutenzione sui contribuenti locali. Nel 1718, per stabilire quanti soldati poteva sostentare ciascuna comunità, lo zar decise di effettuare un nuovo censimento l’anno successivo. Chiunque vi si fosse sottratto si sarebbe visto confiscare le proprietà, che sarebbero andate a chi aveva passato l’informazione. Ogni volta che si avvicinava un nuovo convoglio di funzionari a cui si doveva dare vitto e alloggio a spese dei locali, i cittadini andavano nel panico. I soldati acquartierati nella comunità facevano da poliziotti, informatori e vigilanti per conto dei funzionari di Pietro. Soldati e agenti drenavano costantemente le risorse locali, per di più l’unico lavoro utile che effettuavano per la nobiltà locale era quello di impedire la fuga dei contadini.2 A ogni investitore che contribuiva volontariamente ai progetti di Pietro si offrivano favori: per promuovere l’industria, lo zar permise agli investitori di acquistare interi villaggi e mettere i contadini a lavorare nelle fabbriche, con i medesimi obblighi che aveva la servitù della gleba nei confronti dei nuovi padroni. Per quanto i contadini fossero vincolati alla terra, Pietro 370
esentava gli eventuali fuggiaschi se trovavano lavoro nelle fabbriche; potevano dunque tenersi il nuovo lavoro.3 Se riteneva che una risorsa non fosse sfruttata a fondo, Pietro non faceva altro che decretarne lo sviluppo. Lo stato ne assumeva il controllo, poi si radunavano i lavoratori e li si insediava nella nuova destinazione. Tra le nuove comunità fondate da Pietro, Ekaterinburg – che prendeva il nome dall’imperatrice e fu costruita negli Urali da 25.000 servi della gleba coscritti – divenne il centro dell’industria dell’acciaio.4 Chiunque tentasse di nascondere il proprio patrimonio agli esattori delle tasse si sarebbe visto sottrarre le proprietà. In effetti, i funzionari governativi o i grandi proprietari si impadronivano con tanta facilità delle ricchezze, con un pretesto o l’altro, che la maggior parte dei russi occultava il proprio patrimonio. I contadini seppellivano il denaro che possedevano, cosa che teneva a freno il commercio; l’oro e l’argento accumulati anziché investiti, una volta scoperti dagli agenti di Pietro, venivano dichiarati un salasso parassitario per l’economia, lo stato se ne impossessava e il ciclo ricominciava.5 Vita di corte Pietro era ostentatamente disinvolto con tutti, indipendentemente dal rango – contadini, sacerdoti, servi, soldati, boiardi, stranieri e così via – e non si atteneva a un rigido protocollo; tuttavia si incupiva quando si riteneva offeso; inoltre gli piacevano le barzellette crudeli e oscene, soprattutto se parlavano di nani. Si aspettava che i suoi cortigiani bevessero con il suo stesso accanimento, anche se nessuno possedeva la sua capacità di resistenza; non gli piacevano fasti e lussi, cenava allegramente con il cibo più semplice e dormiva nei letti più umili. Si vantava inoltre di essere in grado di sopportare tutti i sacrifici che infliggeva ai soldati e ai marinai.6 Pietro preparò il figlio Alessio per la successione, ma questi cedette sotto la pressione di un padre tanto iperattivo. I rapporti 371
si raffreddarono quando Alessio si prese una contadina come amante fissa e si sparò a una mano per evitare il servizio militare. Poiché si aspettava da un momento all’altro una punizione per la sua disobbedienza, fuggì dalla Russia e trovò asilo prima in Austria, poi in Italia. Pietro lo rintracciò e gli ordinò di tornare in patria, promettendogli che se fosse tornato l’avrebbe perdonato, mentre in caso contrario gli avrebbe dato la caccia per sempre. Alessio abboccò e fece ritorno in patria. Per un po’ le cose parvero andare bene, finché Pietro non ebbe l’occasione di rimuginare sul tradimento del figlio. Chi a palazzo aveva aiutato Alessio a fuggire? Chi aveva disobbedito allo zar? Fece dunque arrestare e torturare il figlio, affinché rivelasse i nomi dei suoi complici, poi, sotto la supervisione dello stesso Pietro, Alessio venne frustato a sangue per svariati giorni finché non morì in agonia.7 Nessuno poté godere per sempre del favore di Pietro. Nel 1724 uno dei suoi principali consiglieri, Willem Mons, cadde in disgrazia e fu accusato di prendere tangenti: torturato per estorcergli una confessione, alla fine fu fatto a pezzi in pubblico per punizione. Secondo la leggenda, però, il vero delitto di Mons era quello di intrattenere una relazione con la seconda moglie di Pietro, Caterina, così Pietro ne fece porre la testa appena mozzata in un vaso pieno di alcol, che fu collocato sul comodino della donna affinché le tenesse compagnia. Per molti anni la testa sotto spirito di Mons e quella di sua sorella Anna (la presunta organizzatrice della relazione) si poterono ammirare nella Kunstkamera, il museo della scienza di Pietro, insieme alla collezione di nani.
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Grande guerra del Nord Bilancio delle vittime: 370.0001 Posizione: 90 Tipologia: guerra per l’egemonia Contrapposizione di massima: tutti contro gli svedesi Periodo: 1700-1721 Luogo: Europa orientale Principali stati partecipanti: Svezia contro Russia, Polonia, Danimarca, Sassonia Stati secondari: Turchia, Brandeburgo, Hannover A chi diamo la colpa di solito: Pietro e alleati Ennesimo esempio di: guerra per l’equilibrio di potere in Europa combattuta a colpi di moschetto Quando un adolescente inesperto divenne il nuovo re di Svezia, gli ambasciatori di Danimarca e Sassonia si presentarono da Pietro il Grande con un piano per spezzare una volta per tutte l’egemonia svedese sul Baltico. Immaginavano che, se fosse stata coinvolta ogni nazione dell’Europa settentrionale, sconfiggere quel ragazzino sarebbe stato piuttosto facile. Si sbagliavano. Il sedicenne Carlo XII di Svezia risultò essere un esperto nato nelle operazioni di guerra e riuscì a protrarre la guerra per ventun anni. Dopo aver fornito un comodo pretesto e aver emesso tutte le opportune dichiarazioni di guerra, ogni alleato attaccò la porzione più vicina del territorio svedese. Carlo XII puntò dritto sull’armata russa che aveva invaso l’Estonia. A Narva, a novembre, attaccò 40.000 russi con 8000 svedesi durante un’improvvisa bufera di neve, che nascose tanto il suo avvicinamento quanto il numero ridotto dei suoi soldati. I russi 373
sbandarono e fuggirono in preda al panico, lasciando 8000 morti sul campo. Nel frattempo, 15.000 svedesi occupavano la capitale danese, cacciando i danesi fuori dalla guerra. Pietro il Grande iniziò immediatamente a riorganizzare l’esercito russo in rotta lungo le linee occidentali. Inoltre, con la sua caratteristica testardaggine, penetrò una seconda volta nel territorio svedese sul Baltico e cominciò a costruire la sua nuova capitale, San Pietroburgo. Augusto di Sassonia era anche il re della Polonia, così, subito dopo, gli svedesi marciarono appunto sulla Polonia. Dopo aver sbaragliato un paio di armate che gli ostruivano la strada, Carlo XII mise il proprio fantoccio sul trono di Varsavia; poi, nell’agosto del 1706, si volse contro la Sassonia stessa e occupò la capitale Dresda. Successivamente, come condizione di pace costrinse Augusto a rinunciare al trono di Polonia. Nel 1708 Carlo XII condusse il suo esercito di 40.000 unità fuori dalla Polonia verso il cuore della Russia, ma le grandi distanze lo disorientarono. Inizialmente aveva pianificato di riunirsi con i 16.000 svedesi del generale Lowenhaupt, che stavano uscendo dalla regione baltica con i tanto necessari rifornimenti, invece cambiò bruscamente direzione e si diresse a sud, per raggiungere alcuni cosacchi ribelli dei campi di grano dell’Ucraina. Il contingente di Lowenhaupt, abbandonato, restò bloccato in mezzo al nulla, e fu annientato nel settembre del 1708 da Pietro presso Lesnaja. Intrappolato dal rigido inverno russo, l’esercito svedese di Carlo XII si ridusse a soli 18.000 uomini. Nel giugno 1709, mentre gli svedesi stavano attaccando la roccaforte russa di Poltava nell’Ucraina centrale, sopraggiunse Pietro con 80.000 russi: Carlo XII fece dietrofront e aggredì il nuovo esercito, riuscendo quasi a sconfiggerlo, ma Pietro aveva riserve fresche a disposizione, e Carlo XII nemmeno un uomo. Ammettendo la sconfitta, questi abbandonò il suo esercito distrutto e fuggì in Turchia. Di solito si cita Poltava come il classico esempio del perché 374
non si dovrebbe mai invadere la Russia (vedi anche Guerre napoleoniche e Seconda guerra mondiale), ma la guerra non si concluse subito. Siccome tutti gli itinerari più diretti per la Svezia erano bloccati dai suoi nemici, Carlo XII non tornò in patria per cinque anni. Dal momento che i turchi erano ben lieti di vedere che la guerra si trascinava il più possibile, trattennero il re svedese e rifiutarono la richiesta russa di estradizione. Quando i russi mandarono un contingente per riportarlo indietro, i turchi arrestarono l’ambasciatore russo e dichiararono guerra, ma la loro controffensiva fu inutile e alla fine dovettero cedere: liberarono così Carlo XII, che tornò in patria attraverso i piccoli stati tedeschi alleati. Nel frattempo, i suoi nemici avevano ridotto in pezzi il suo impero alla deriva. Pietro portò la guerra fino in Finlandia, che all’epoca era parte integrante della Svezia. Per impedire che Carlo XII sfruttasse le risorse della Finlandia, i russi ne devastarono le campagne. I finlandesi ricordano questo avvenimento come la «grande collera», con i russi che saccheggiavano i raccolti e il bestiame, incendiando tutto ciò che non potevano portare via. Quando sopraggiunse la carestia, la popolazione finlandese precipitò da 400.000 a 330.000 individui.2 Nel momento in cui Carlo XII giunse in patria, non era rimasto più niente dell’impero svedese se non la Svezia stessa. Egli raccolse un nuovo esercito e attaccò la Norvegia (territorio danese, allora), ma restò ucciso in battaglia nel 1719. Senza Carlo XII, la pace divenne presto una possibilità concreta. Il nuovo re svedese era disposto a essere una potenza secondaria. Nel corso dei due anni successivi i diplomatici stipularono trattati di pace che prevedevano l’espansione del territorio dei vari alleati e la riduzione di quello svedese.3
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Guerra di successione spagnola Bilancio delle vittime: 700.0001 Posizione: 61 Tipologia: disputa dinastica Contrapposizione di massima: tutti contro la Francia Periodo: 1701-1713 Luogo: Europa occidentale Principali stati partecipanti: Francia, Spagna contro Austria, Inghilterra, Olanda Stati minori partecipanti: Piemonte, Baviera (alleati dei francesi) contro Danimarca, Portogallo (alleati degli austriaci) A chi diamo la colpa di solito: Luigi XIV Ennesimo esempio di: guerra per l’equilibrio di potere in Europa combattuta a colpi di moschetto A volte per una nazione la fortuna si esaurisce. In Spagna le cose erano andate sempre bene, ma secoli di endogamia degli Asburgo alla fine avevano prodotto un re capace a stento di comportarsi da adulto, Carlo II. Unico figlio sopravvissuto del matrimonio tra zio e nipote,* Carlo era disastrato per tantissimi motivi: non parlò fino all’età di quattro anni e camminò soltanto a otto; l’unica attività adulta che praticava con entusiasmo era la caccia. Per via di una pesante mascella deforme, masticava a stento e parlava in maniera appena intelligibile e, a causa dell’eiaculazione precoce, non riuscì ad avere figli. Si guadagnò il soprannome di Carlo lo Stregato, perché era evidente che gli era capitato qualcosa di tremendo. Suo acerrimo nemico era il cognato, Luigi XIV di Francia, il quale aveva sposato la sorellastra di Carlo, figlia maggiore del 376
precedente re di Spagna. In quanto Re Sole, con la sua reggia di Versailles Luigi stabilì i criteri della magnificenza in Europa. Nel 1700 aveva già combattuto quattro guerre contro il resto dell’Europa, nel tentativo di appropriarsi dei territori spagnoli delle Fiandre e della Borgogna, sul confine orientale della Francia. Per evitare che la Francia conquistasse un potere eccessivo, contro di lui Austria, Inghilterra e Olanda avevano fondato la Grande Alleanza. Carlo lo Stregato era sempre parso destinato a una vita breve; molti si aspettavano che morisse durante l’infanzia, ma sopravvisse molto più a lungo di quanto chiunque ritenesse possibile. Ciò malgrado, davanti all’imminente estinzione degli Asburgo di Spagna, nel corso di svariati congressi l’Europa discusse della successione. Vennero fuori svariati pretendenti e qualche progetto di spartizione e alla fine si decise di ridar vita agli Asburgo di Spagna utilizzando un altro Carlo, il fratello dell’imperatore Giuseppe d’Austria, mentre si sarebbe rabbonita la Francia con qualche isolato territorio degli Asburgo sparso per l’Europa. Carlo lo Stregato si irritò molto nel vedere che le altre grandi potenze parlavano di lui come se lo dessero già per morto, pronte a spartirsi l’impero spagnolo senza nemmeno consultarlo. E così, per dispetto, nel 1700, sul letto di morte modificò le proprie volontà per impedire la divisione del suo vasto e magnifico impero, che diede per intero al pretendente francese, il nipote della sorellastra, nonché nipote anche di Luigi XIV. In tal modo le due principali potenze europee si sarebbero congiunte, lasciando tutti gli altri parecchio indietro; fu così che il resto del mondo decise che tale unione andava impedita.2 Lo stile di guerra In quest’epoca la guerra aveva raggiunto un livello di sviluppo tale da fissare tattica e armamenti per il secolo seguente. I 377
moschetti a pietra focaia, nei quali una pietra focaia appunto accendeva la polvere da sparo, avevano rimpiazzato i meno affidabili fucili a miccia, nei quali un filo a combustione era immerso in un focone. Non c’era più bisogno dei picchieri a sostegno della linea di fuoco, sostituiti dalle baionette; si erano standardizzate le uniformi in modo da rispecchiare la nazionalità, anche se i soldati venivano ancora reclutati qua e là, a volte anche molto lontano. Meno della metà dell’esercito di Luigi XIV, per esempio, era composta da francesi. Gli eserciti europei di quest’epoca si erano inoltre ingrossati, fin troppo per il vettovagliamento delle truppe da combattimento. Luigi diede inizio alla guerra con 375.000 soldati e 60.000 marinai a disposizione, nonostante sul campo le singole armate si aggirassero intorno ai 60.000 uomini. Questi grossi eserciti erano legati alle linee di rifornimento fissate ai capisaldi fortificati, il che rallentava il ritmo della guerra, perché gli eserciti si concentravano sulla difesa o la conquista di questi forti con un assedio alla volta. Alle funzioni di supporto provvedeva ancora per lo più il seguito: per esempio, l’esercito svedese che nello stesso periodo conduceva una campagna in Russia (vedi Grande guerra del Nord), costituito da 26.500 uomini, era seguito da 4000 servitori maschi, 1100 amministratori civili e 1700 donne e bambini, un seguito che provvedeva a cucinare, lavare, stilare documenti, rammendare vestiti, raccogliere legna, portare acqua, sorvegliare e macellare il bestiame, condurre carri, custodire le salmerie mentre l’esercito era in battaglia, curare i feriti e seppellire i morti.3 La successione spagnola Luigi XIV entrò rapidamente in territorio spagnolo per far valere le proprie rivendicazioni e la Grande Alleanza si mosse a sua volta per fermarlo. Le truppe austriache, comandate dal principe Eugenio di Savoia (un veterano della guerra austro-turca), 378
invasero l’Italia per impadronirsi dei territori spagnoli di Milano e Napoli. Il generale inglese John Churchill, duca di Marlborough, impose una battuta d’arresto ai francesi nei Paesi Bassi. Marlborough era rientrato nelle grazie del re soltanto da poco, dopo aver trascorso qualche settimana nella Torre di Londra con l’accusa (probabilmente falsa) di aver congiurato per rovesciare il sovrano. La guerra giunse al culmine nel 1704, quando Marlborough marciò verso il Danubio e si ricongiunse con Eugenio di Savoia per affrontare l’esercito francese che in quel momento imperversava in Germania. Malgrado i due eserciti disponessero di un numero più o meno pari di uomini, 50.000, i francobavaresi detenevano una posizione forte, con l’ala destra collocata sul Danubio, la fanteria saldamente insediata in tre villaggi distanti un chilometro e mezzo l’uno dall’altro (in particolare Blenheim, sul fiume) e la cavalleria schierata tra questi tre capisaldi. Con una furtiva marcia notturna, gli anglo-austriaci giunsero inosservati a breve distanza, così al mattino i francesi furono costretti a disporsi precipitosamente in linea. L’avanguardia alleata e il cannoneggiamento dell’artiglieria contro i villaggi bloccarono la fanteria francese, mentre Marlborough spingeva il grosso delle truppe contro la cavalleria al centro; allorché questa fu spazzata via, la fanteria francese restò isolata e circondata in alcune sacche che furono annientate dalla fucileria e le cannonate degli inglesi. Al termine della battaglia, francesi e bavaresi avevano avuto l’80% di perdite, tra morti, feriti e prigionieri, mentre la Grande Alleanza ne contava soltanto un 20%. Fu la prima grossa sconfitta dei francesi dopo più di cinquant’anni. La battaglia di Blenheim pose fine agli scontri sul Danubio e allontanò la minaccia diretta contro l’Austria, ma il vento della guerra cambiò per caso a favore della Francia nel 1711, allorché l’imperatore austriaco Giuseppe I morì senza aver messo al mondo figli in grado di superare l’infanzia. Divenne dunque 379
imperatore il fratello, Carlo VI, per di più ex pretendente austriaco al trono spagnolo. Inghilterra e Olanda furono colte dal panico: un’eventuale unione di Spagna e Austria era quasi peggio di quella tra Spagna e Francia, così raggiunsero un accordo con i francesi. Il trattato finale siglato a Utrecht segnò la spartizione dell’eredità. Tutti i territori spagnoli d’Europa, con l’eccezione della stessa Spagna, andarono agli Asburgo d’Austria, mentre la Spagna e le colonie d’oltremare passarono a un ramo collaterale dei Borbone di Francia, che sarebbe rimasto separato dal trono francese.
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Guerra di successione austriaca Bilancio delle vittime: 500.0001 Posizione: 70 Tipologia: guerra per l’egemonia Contrapposizione di massima: tutti contro l’Austria Periodo: 1740-1748 Luogo: Europa centrale Principali stati partecipanti: Francia, Prussia contro Austria, Inghilterra Stati minori partecipanti: Baviera, Sassonia-Polonia A chi diamo la colpa di solito: Federico il Grande Ennesimo esempio di: guerra per l’equilibrio di potere in Europa combattuta a colpi di moschetto L’imperatore austriaco Carlo VI d’Asburgo non ebbe mai un figlio maschio e purtroppo ognuno dei suoi territori disponeva di leggi dinastiche proprie che affrontavano la cosa in maniera diversa. Per esempio, in alcune terre passare la sovranità a una figlia o a un cognato non costituiva un problema, in altre invece le donne non potevano ereditare i titoli e si preferiva piuttosto la successione mediante zii o cugini. L’imperatore tuttavia voleva che andasse tutto alla figlia maggiore, Maria Teresa, perciò fece in modo che le potenze europee firmassero un accordo (la Prammatica Sanzione), secondo il quale si sarebbero adeguate e non avrebbero sollevato difficoltà. Non doveva essere un problema, dunque. Tuttavia il nuovo re di Prussia, il giovane Federico II (che sarebbe ben presto divenuto Federico il Grande), era alla ricerca di un pretesto per andare in giro per l’Europa a fare conquiste. E così, alla morte di Carlo, andò a scovare un patto medievale tra 381
principi morti che concedeva alla Prussia la provincia austriaca della Slesia, purché non andasse a una donna. Nessuno, in Europa, trovò convincente l’iniziativa, tanto che si liquidò l’invasione della Slesia (oggi nella Polonia occidentale) da parte di Federico come un atto di folle avventurismo, destinato a fallire contro la più grande potenza dell’Europa centrale. Nel primo scontro, a Mollwitz, gli austriaci respinsero facilmente la cavalleria prussiana, in cui si trovava anche Federico, quindi si volsero contro la fanteria isolata; ma quando questa restò salda e trucidò la cavalleria nemica all’attacco, la disciplina e l’addestramento dei prussiani sorpresero tutti. Quindi con un contrattacco i prussiani travolsero anche la fanteria austriaca. Maria Teresa fu dunque obbligata ad accettare la perdita della Slesia. La conquista della Slesia fece agevolmente aumentare di un milione la popolazione prussiana, mentre i protestanti tedeschi assimilati si insediavano in una terra fertile lungo un fiume navigabile. Federico si ritirò dalla guerra per godersi il nuovo territorio, ma, con un’Austria a terra, la Francia si rese conto che si presentava ora l’ottima occasione di sferrare calci alle costole, al volto e all’inguine del nemico caduto; e dunque dichiarò guerra. A essa si unirono anche Baviera e Sassonia, che fremevano per spezzare l’egemonia austriaca in Germania. Frattanto l’Inghilterra si scontrava già con la Francia sul mare e oltreoceano, inoltre gli inglesi erano legati per via dinastica allo stato tedesco di Hannover, perciò sovvenzionarono gli austriaci. La guerra fece ribollire tutti i consueti campi di battaglia e le vie dell’Europa centrale, ma ognuno degli alleati aveva mire diverse, quindi non coordinarono mai la propria strategia. Alla fine gli austriaci riuscirono a respingere i saprofagi che li accerchiavano e a limitare le perdite alla sola Slesia.
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Guerra sino-zungara Bilancio delle vittime: 600.0001 Posizione: 67 Tipologia: conquista Contrapposizione di massima: Cina contro zungari Periodo: 1755-1757 Luogo: Asia centrale A chi diamo la colpa di solito: Qianlong Da qualche parte, in mezzo al nulla, molto tempo fa, i cinesi spazzarono via una tribù di cui solo pochi hanno sentito parlare. La maggior parte della storia è fatta di eventi simili. Gli zungari erano una specie di mongoli. I cavalieri nomadi della steppa centroasiatica che abbiamo già incontrato in precedenza, come gli unni e i mongoli, avevano rappresentato una costante minaccia per la civiltà. Solo qualche capitolo fa, cavalieri come i manciù e i tatari terrorizzavano la Cina e la Russia. Ora, grazie alle armi da fuoco, il vento della guerra si era rivolto contro questi nomadi, la cui indipendenza era minacciata dall’avanzata della civiltà. I soldati all’avanguardia della civiltà che ora si spingevano nella steppa in genere l’avevano lasciata solo da poche generazioni: turchi, cosacchi e, nel caso della Cina, manciù (vedi Crollo della dinastia Ming). L’imperatore Qianlong portò l’impero Qing della Cina alla sua massima espansione, conquistando i territori confinanti con le zone periferiche della Cina, soprattutto nel deserto occidentale dello Xinjiang e nella terra degli zungari.
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Genti e luoghi di cui non avete mai sentito parlare Fino alla sua morte, nel 1745, Galdan Tsereng, khan della Zungaria, aveva mantenuto uno stretto controllo su tutte le tribù che formavano il suo impero. Il suo successore, suo figlio, tuttavia, era crudele e degenerato, a tal punto che la nobiltà zungara lo fece accecare e imprigionare. Dopo di lui fu la volta di una specie di monaco smidollato, che permise a diverse tribù di guadagnarsi l’indipendenza prima di venire assassinato in un colpo di stato. Mentre il nuovo khan Dawaji consolidava la propria supremazia, parecchi degli sconfitti nella lotta per il potere trovarono rifugio in territorio cinese, dove chiesero aiuto. L’imperatore Qianlong fu ben contento di renderli debitori. Un esercito cinese prese la capitale zungara Kuldja e pose sul trono il genero rifugiato di Galdan Tsereng, Amursana. Dopo un inseguimento attraverso il deserto, l’ex khan Dawaji venne catturato dai cinesi, che invece di ucciderlo lo confinarono in un comodo ritiro forzato. Dal momento che i cinesi non volevano un forte stato zungaro sul proprio confine, anziché ristabilire un impero zungaro riunificato riconobbero l’autonomia di molte tribù; tuttavia, nella speranza di ereditare il grande regno di suo suocero, Amursana organizzò una ribellione. Qianlong si sentì tradito personalmente da un tale atto di slealtà e, di conseguenza, si ostinò a spazzare via gli zungari dalla faccia della terra. I dettagli di questa pulizia etnica sono abbastanza tipici: chi non si tolse di torno fu ucciso, chi lo fece morì di fame.2
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Guerra dei Sette anni Bilancio delle vittime: 1,5 milioni1 Posizione: 40 Tipologia: guerra per l’egemonia Contrapposizione di massima: tutti contro la Prussia Periodo: 1756-1763 Luogo: Europa, oceani, colonie Principali stati partecipanti: Austria, Francia, Russia contro Prussia, Inghilterra Stati minori partecipanti: Svezia, Sassonia A chi diamo la colpa di solito: Federico il Grande Ennesimo esempio di: guerra per l’equilibrio di potere in Europa combattuta a colpi di moschetto
Gli Junker Disteso senza continuità territoriale sulla pianura nordeuropea, il regno di Prussia mancava di confini naturali. C’era la Prussia vera e propria sul Baltico orientale, il Brandeburgo attorno a Berlino, la Pomerania sulla costa centrale del Baltico e qualche piccola unità territoriale come Ravensberg e Kleve, verso i Paesi Bassi. Stati del genere erano destinati a essere calpestati dagli eserciti che li attraversavano per attaccare quelli che contavano davvero; e solo costruendo un esercito di livello mondiale un paese come la Prussia poteva convincere i generali rapaci a rispettare la loro neutralità e a prendere un’altra strada. Il padre di Federico il Grande, Federico Guglielmo, ci era riuscito per mezzo della sobrietà personale. Anziché costruirsi sontuosi palazzi, finanziò l’esercito; invece dei servi, aveva i 385
soldati. Il resto dell’Europa considerava tutto questo come una bizzarria invece che come una politica nazionale, e ci scherzava sopra invece di preoccuparsi. Il risoluto fanatismo con il quale i prussiani costituirono il loro esercito fu ripagato dalla formazione di soldati superiori a tutti quelli contro cui si trovarono a combattere. I prussiani non vacillavano né indugiavano, l’addestramento e la disciplina consentivano loro di sparare nello stesso lasso di tempo cinque colpi contro i due della fanteria austriaca. Le armate prussiane di quest’epoca proseguirono l’evoluzione che le allontanò dalle bande di mercenari del secolo precedente; andavano trasformandosi in un esercito nazionale reclutando di villaggio in villaggio, al rullo del tamburo, giovani contadini annoiati. Ciascuna unità era acquartierata in un distretto da cui si radunavano nuove reclute; e così tre quarti dell’esercito prussiano erano formati da veri prussiani. Questo potenziale umano non era certo il massimo che aveva da offrire la Prussia. Di solito gli eserciti rappresentavano la feccia della società, perché uomini utili come operai, bottegai e artigiani erano troppo importanti per l’economia nazionale per essere reclutati. Al contrario, gli eserciti consistevano di gente di cui si poteva fare a meno: criminali, contadini senza terra, adolescenti, vagabondi e ubriaconi. E dato che non aveva di meglio da fare, l’aristocrazia prussiana – gli Junker – ricopriva i ruoli di ufficiale. La marmaglia incapace che riempiva i ranghi si poteva controllare soltanto con la disciplina più brutale: la punizione tipica per quasi ogni trasgressione era affidata a pesanti frustate, a meno che il fatto non fosse abbastanza grave da richiedere qualcosa di peggio. Ordini prestabiliti rendevano complicato disertare: non ci si accampava vicino ai boschi, non si facevano marce notturne, non si andava in cerca di cibo senza controlli. La cavalleria pattugliava i margini dell’esercito, soprattutto per tener dentro i prussiani, non per tenere fuori il nemico.2 386
Inizia la guerra Dopo aver perduto la Slesia contro la macchina bellica prussiana (vedi Guerra di successione austriaca), la regina Maria Teresa d’Austria aveva trascorso il successivo periodo di pace a sottrarre alleati a Federico. La cosa si rivelò assai facile, dato che nessuna delle altre grandi potenze voleva che un nuovo attore dinamico come la Prussia rimpiazzasse una vecchia potenza in tranquillo declino come quella austriaca. In tale rivoluzione diplomatica, il maggiore successo di Maria Teresa fu l’avvicinamento con la Francia, per più di un secolo nemico mortale dell’Austria. Al gruppo opposto a Federico si unì anche l’imperatrice Elisabetta di Russia. Quando divenne evidente che questa nuova alleanza si stava preparando ad attaccare per la primavera del 1757, ai primi caldi, nell’agosto del 1756 Federico sferrò un attacco preventivo contro quella che supponeva fosse la loro testa di ponte, ossia il ducato indipendente di Sassonia. Purtroppo quest’ultima non si era unita ufficialmente alla coalizione antiprussiana, perciò Federico non fece altro che invadere uno stato neutrale senza avvertimento e senza essere provocato. Ciò rese più facile, per il resto d’Europa, dichiarargli guerra. Il nuovo schieramento metteva insieme tutti i cattolici, così Federico cercò di persuadere l’Inghilterra e altri paesi dell’Europa settentrionale a unirsi a lui per solidarietà tra protestanti, cosa che fu percepita come un cinico espediente. Secondo un inglese dell’epoca, Federico «gridava religione come la gente che vuole aiuto grida al fuoco». In ogni caso, all’Inghilterra non importava molto da che parte stare, purché dalla parte opposta ci fosse la Francia.3 Il popolo prussiano, che contava 4,5 milioni di persone, si ritrovò così ad affrontare 70 milioni di nemici,4 ma il fattore decisivo per le dimensioni di un esercito che un paese poteva schierare sul campo era il denaro, non la popolazione. All’inizio della guerra Federico disponeva di un fondo di 11 milioni di 387
talleri e, una volta che la guerra ebbe preso il via, gli inglesi lo sostennero con 4 milioni ogni anno; in più ogni anno dalla Sassonia occupata si potevano spremere altri 5 o 10 milioni. Federico il Grande è divenuto celebre per lo schieramento asimmetrico in battaglia. Prima tratteneva un’ala dell’esercito, minacciosa ma sganciata dal nemico, poi caricava l’altro fianco e lo lanciava contro l’ala nemica più ridotta che si trovava davanti. Questa veniva sopraffatta e in tal modo si costringeva la linea nemica a un progressivo tracollo, mentre ciascun reparto veniva attaccato al tempo stesso frontalmente e da un fianco. A un certo momento dello scontro i prussiani si ritrovavano con una superiorità numerica che consentiva loro di abbattere pezzo per pezzo la linea nemica. Altri paesi tentarono di imitare tale tattica, ma senza soldati disciplinati come i prussiani e una mente acuta come quella di Federico non funzionava. La guerra dei Sette anni fu una vicenda avventata e forsennata, che serpeggiò per l’Europa centrale facendo a pezzi gli eserciti ogni volta che venivano alle prese l’uno con l’altro. L’abilità di Federico di attaccare in ogni direzione e di respingere in pratica l’Europa intera per sette anni continua a stupire gli storici militari, che ne hanno studiato e analizzato alacremente la tattica. Vinse importanti battaglie in condizioni straordinariamente avverse e si riprese miracolosamente dalle sporadiche sconfitte, ma la svolta finale che gli consegnò la vittoria fu più una questione di fortuna che di abilità. Nel gennaio del 1762, mentre i russi si avvicinavano a Berlino, capitale della Prussia, morì di colpo l’imperatrice russa Elisabetta, che lasciò il trono al giovane figlio Pietro III, ammiratore di Federico sin da piccolo, allorché giocava con i soldatini. Lo zar richiamò dunque le truppe russe dalla zona di guerra e a maggio siglò un trattato, preparandosi a intervenire al fianco di Federico. Venne però presto detronizzato e assassinato dalla moglie Caterina (la Grande), che ritirò del tutto la Russia dalla guerra. In quel momento gli eserciti non erano nella condizione di 388
sferrare un’altra offensiva di vaste proporzioni: il potenziale umano si era ridotto ai veterani sfiniti e alle reclute inesperte. Nell’autunno del 1762 i francesi furono respinti oltre il Reno, circostanza che alla fine convinse tutti che era inutile combattere ancora. Il trattato di pace fu firmato a Parigi nel febbraio del 1763. Una guerra mondiale Siccome gli europei portarono la loro guerra in tutto il mondo, alcuni autori – per esempio Winston Churchill – hanno affermato che la guerra dei Sette anni meritava il titolo di prima vera guerra mondiale. Due delle principali potenze europee, Francia e Inghilterra, utilizzarono la guerra europea quale pretesto per combattersi altrove. In America del Nord, i francesi vinsero le prime battaglie sulle distese degli Appalachi che separavano i loro insediamenti, ma alla fine un nuovo esercito britannico conquistò il Québec e così l’Inghilterra si ritrovò a controllare l’intero continente nordamericano. In India, nella battaglia di Plassey gli inglesi sconfissero l’alleato locale dei francesi, aprendosi così la strada verso il dominio su tutto il subcontinente.
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Guerre napoleoniche Bilancio delle vittime: 4 milioni (3 milioni di soldati e 1 milione di civili, anche nelle guerre rivoluzionarie francesi)1 Posizione: 26 Tipologia: conquista del mondo Contrapposizione di massima: i sostenitori di Napoleone direbbero che egli contrappose le virtù dell’Illuminismo all’Ancien Régime in decadenza; il resto d’Europa direbbe semplicemente Napoleone contro il mondo Periodo: 1792-1815 Luogo: Europa, Levante, Caraibi Principali stati partecipanti: Austria, Francia, Prussia, Russia, Regno Unito Stati minori partecipanti: Baviera, Brunswick, Danimarca, Egitto, Napoli-Sicilia, Paesi Bassi, PiemonteSardegna, Portogallo, Sassonia, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Turchia ottomana, Württenberg A chi diamo la colpa di solito: Napoleone Bonaparte Ennesimo esempio di: guerra per l’equilibrio di potere in Europa combattuta a colpi di moschetto
Libertà, uguaglianza, ecc. Poco prima del 1790 la Francia si dirigeva chiaramente verso la bancarotta. In parte lo si doveva alle leggendarie stravaganze dei cortigiani imparruccati di Versailles, ma il grosso del debito della corona si era accumulato con le guerre, finanziate con i prestiti provenienti dal ceto imprenditoriale emergente. Per il 390
modo in cui andavano le cose, la borghesia sarebbe stata salassata due volte, prima in quanto unica classe ricca che pagava le tasse e poi nel caso la corona non avesse restituito i prestiti. E così la borghesia si agitava per ottenere delle riforme. Alla fine, per calmare i borghesi eccessivamente tassati e rimettere in sesto le finanze disordinate, re Luigi XVI fu costretto a convocare la prima seduta del Parlamento francese dopo oltre un secolo. Le prime due assemblee legislative (gli «stati») rifiutarono di partecipare al pagamento delle tasse, perciò il terzo stato, che rappresentava la borghesia – sia ricca che povera – si proclamò unico organismo legislativo legittimo. Si approvò subito un programma progressista: vennero revocati i privilegi delle classi alte e del clero, si sistemarono le finanze e si portò il bilancio in pareggio. Dopo un dibattito furibondo, si confiscarono i beni della Chiesa e si legò il clero alla pubblica amministrazione. Purtroppo, mentre avveniva tutto ciò, per le strade di Parigi imperversavano masse di poveri infuriati, che linciavano i nobili e i funzionari reali che si trovavano per caso sul loro cammino. La famiglia reale fu presa dal panico e cercò di fuggire in cerca di salvezza verso i congiunti austriaci (la regina francese Maria Antonietta era figlia di Maria Teresa), ma fu catturata, riportata a Parigi e imprigionata. Inorriditi da questa pericolosa esplosione di liberalismo e spaventati dall’idea di un possibile contagio, i monarchi d’Europa si radunarono in una coalizione e si disposero a salvare il re francese. La cosa risultò tuttavia controproducente. Con gli eserciti stranieri che confluivano verso la patria, la politica francese si radicalizzò ancor di più e prevalse la fazione giacobina di Maximilien Robespierre: venne così abolita la nobiltà in quanto classe giuridica e, per farla finita, si decapitò il re. Presto sulla ghigliottina lo seguì la moglie Maria Antonietta, mentre il delfino, il loro figlio ed erede, scomparve misteriosamente nelle prigioni della nuova repubblica. Il suo destino è rimasto il più grande mistero del XVIII secolo, tanto che qualche decennio dopo 391
a rivendicarne l’identità nel giro dei salotti furono in parecchi.* Una volta infranto il sacro tabù dell’uccisione del re, la Francia esplose. I nobili furono trascinati via dalle loro case e trucidati secondo modalità tanto orribili quanto fantasiose, il regime del Terrore vide la decapitazione di circa 40.000 nemici dello stato, per lo più senza il fastidio di un processo. Nella regione della Vandea, nella Francia centro-occidentale, nacque una rivolta dei contadini contro il governo centrale a favore del re e della Chiesa: Parigi rispose inviando ai commissari l’ordine di ristabilire l’ordine con ogni mezzo, il che significò spesso l’esecuzione di massa di intere famiglie. Liquidare così tanti nemici dello stato esigeva un’abilità perversa: a Nantes i condannati di ogni età e sesso furono rinchiusi nudi sottocoperta dentro delle chiatte fluviali, che vennero poi fatte affondare nella Loira. Dopo averle tenute immerse per un tempo sufficiente a colmare d’acqua tutte le sacche d’aria, le chiatte vennero risollevate, svuotate e riempite di altri prigionieri. In totale nella guerra civile trovarono la morte mezzo milione di persone.2 Alla fine, però, la rabbia cessò, lo stesso Robespierre finì sulla ghigliottina e in Francia tornò un governo borghese e ragionevole. Le guerre rivoluzionarie Anche se nelle guerre che seguirono la rivoluzione francese vennero tirate dentro tutte le nazioni, quelle da ricordare sono soltanto cinque grandi potenze: la Francia a un capo dell’Europa, la Russia all’altro, la Prussia e l’Austria ora alleate contro la Russia dopo essersi spartite la Polonia, infine l’Inghilterra che indugiava al largo. Non contava nessun’altra nazione, perché nessuna era in grado di mettere in campo un esercito tale da contrastare da solo una di queste grandi potenze. Nella migliore delle ipotesi le nazioni minori d’Europa costituivano delle pedine, nella peggiore la scacchiera stessa. 392
La prima coalizione che nel 1793 invase la Francia quasi da ogni parte immaginava una conquista facile. I rivoluzionari avevano giustiziato o esiliato tutti i loro ufficiali e a difendere la patria mandarono una marmaglia indisciplinata. Ciò di cui non si resero conto le vecchie monarchie era però che, ora che la Francia era governata dai francesi, valeva la pena combattere per lo stato. E così, per la prima volta da generazioni, a motivare un esercito fu un autentico patriottismo. I francesi respinsero gli invasori e si inoltrarono in tutti i piccoli territori al di là del confine orientale, diffondendo il vangelo della rivoluzione. Nella ricostruzione del mondo secondo un ordine razionale, fino all’ultimo dettaglio, i rivoluzionari facevano sul serio. Si unificarono nel nuovo sistema metrico decimale tutte le diverse misure che variavano da villaggio a villaggio; si ricodificarono secondo linee ragionevoli che prevedevano la logica, la pietà e i diritti dell’uomo tutte le leggi irregolari e arbitrarie del Medio Evo, che cambiavano da provincia a provincia; si riformò il calendario in razionali unità decimali, con tanto di mesi uguali, nomi naturali e l’anno della rivoluzione considerato come il primo; si riconsacrarono le chiese in quanto templi della ragione. Era un mondo nuovo, in cui a ognuno era permesso arrivare ovunque lo portassero le sue qualità. Il lato negativo di tutto questo si manifestò presto, con la comparsa di un individuo pericolosamente dotato. Arriva Napoleone Nato in una grande, rispettabile e influente famiglia della piccola, disdicevole e insignificante Corsica, nella parte italiana della Francia, Napoleone Bonaparte non vi si adattò mai davvero. Benché all’inizio sperasse nel sacerdozio, come suo fratello, suo padre lo mandò in Francia all’accademia militare, dove apprese il proprio mestiere e si fece pochissimi amici. Sognava di liberare un giorno la Corsica della Francia, ma con il 393
progredire della rivoluzione francese fu attratto da progetti più grandiosi: liberare il mondo intero. Nella sua prima esperienza bellica di rilievo, Napoleone comandò l’artiglieria che respinse i monarchici e i loro alleati inglesi dal porto mediterraneo di Tolone. L’abilità e la determinazione che mostrò nello scovare e dispiegare un’artiglieria sufficiente per contrastare i cannoni inglesi impressionarono i suoi superiori. Bonaparte e chi lo appoggiava riuscirono a stento a sopravvivere all’epurazione operata dai radicali, ma i suoi protettori mutarono rotta alla svelta per seguire il vento nuovo e si procacciarono incarichi nel nuovo governo. Bonaparte li seguì a Parigi in qualità di comandante dell’artiglieria della capitale: quando i suoi cannoni fecero a pezzi una folla infuriata che prendeva d’assalto il palazzo del governo, fu chiaro che in lui la spietatezza era pari all’abilità militare. Ecco dunque un uomo che il governo poteva utilizzare. All’età di ventisei anni, appena sposato con la sua amante e patrocinatrice Giuseppina, Bonaparte si vide assegnare il comando della lacera armata francese che combatteva contro gli austriaci nella pianura dell’Italia settentrionale. Si accattivò immediatamente le simpatie dei soldati ammettendo che il governo di Parigi li aveva abbandonati, lasciati senza paga né cibo e aveva inviato dei generali politici incompetenti per farli ammazzare in sconfitte umilianti. Per contro, Bonaparte offriva loro le ricchezze d’Italia da depredare, e i soldati lo amarono per questo.3 Anziché affidarsi ai rifornimenti discontinui dalla Francia, il suo esercito sarebbe vissuto alle spese della terra, ma per farlo avrebbe dovuto dividersi in corpi più ridotti e tenersi in movimento. Nelle mani di un generale meno dotato ciò avrebbe provocato il disastro, ma Napoleone si dimostrò un ottimo prestigiatore, tenendo sempre i corpi sparsi abbastanza vicini, in modo da poter affrontare qualunque occasione strategica gli si fosse presentata. Inizialmente il popolo italiano era stato indotto ad accogliere i francesi come liberatori dagli austriaci e dai loro fantocci, ma 394
si ritrovava adesso a sopportare stupri e saccheggi da parte dell’esercito conquistatore. Persino quando Milano si arrese senza combattere, Napoleone lasciò che i suoi uomini depredassero indisturbati per giorni, e quando la popolazione locale insorse, inviò le truppe nel vicino villaggio di Binasco. Qui diedero alle fiamme le case, allinearono tutti gli uomini e i ragazzi e li fucilarono.4 Ben presto Napoleone cominciò a inviare alle casse francesi un bottino tale da trasformare in profitto l’invasione. Nell’aprile del 1797 aveva ormai sbaragliato tutte le armate che l’Austria gli aveva inviato contro e si stava avvicinando a Vienna: si trattava di un inganno o di pura e semplice audacia, perché chiaramente non disponeva degli uomini sufficienti per prendere e tenere la città, tuttavia i nemici della Francia furono i primi a cedere e a sollecitare la pace. La carriera di Bonaparte non fu mai agevole: nel corso dei due decenni del suo dominio l’Europa fu trascinata nelle sregolate oscillazioni del suo gioco d’azzardo, nelle sue sconfitte e nelle sue vittorie. Alla fine della campagna d’Italia, Bonaparte aveva raggiunto una vetta vertiginosa: fu accolto in patria come un eroe e si godette l’adulazione del popolo francese. Poi giocò d’azzardo e perse. La campagna d’Egitto Nessuno sa davvero perché Bonaparte invase l’Egitto controllato dai turchi. Apparentemente si trattava di un primo passo in direzione dell’attacco contro gli inglesi in India e pubblicamente rientrava nel quadro della dichiarata politica francese, cioè portare la civiltà repubblicana e razionale ai popoli arretrati dell’Oriente. I nemici di Napoleone all’interno del governo francese (e di nemici ce ne sarebbero stati sempre di più) volevano mandarlo il più lontano possibile, mentre lui stesso voleva imitare Alessandro e Cesare. Tuttavia, a causa di una scarsa pianificazione, truppe e vettovagliamenti non si 395
materializzarono come promesso nei porti d’imbarco. E nell’unico momento di fortuna che gli si presentò, l’armata francese riuscì a sfuggire per il Mediterraneo senza farsi prendere e catturare dalla superiore flotta inglese.5 A luglio del 1798, dopo un nauseante approdo sulla spiaggia, Bonaparte rimise in piedi i suoi soldati malfermi e li condusse nel deserto senza acqua sufficiente né mappe aggiornate, puntando vagamente verso Il Cairo. Tormentata per tutto il cammino dalla guerriglia dei beduini, la colonna si imbatté infine nei sobborghi del Cairo, dove Napoleone dichiarò l’Egitto liberato da secoli di malgoverno turco. Frattanto la flotta inglese dell’ammiraglio Nelson si scontrava con le navi francesi nella baia di Abukir, sul delta del Nilo, riaffermando con il sangue la superiorità inglese sul mare e lasciando il corpo di spedizione di Bonaparte in difficoltà a migliaia di chilometri dalla patria. I tredici mesi che Napoleone trascorse in Egitto aprirono questa terra antica e misteriosa agli studiosi europei, però non ebbero quasi alcuna conseguenza sulla carriera del generale. L’irreparabile isolamento del suo esercito implicava che nessuno, in Francia, aveva saputo dell’aggravarsi delle condizioni dell’armata, dell’epidemia di peste bubbonica, dei massacri degli indigeni turbolenti, di un’inutile incursione in Palestina e del suicidio degli ufficiali disperati. Tutto quel che venne a sapere Parigi fu che sotto le piramidi Napoleone aveva sgominato la temuta cavalleria esotica dei mamelucchi. Non contava che gli egiziani avessero appreso in fretta a evitare la battaglia in campo aperto, optando per una tattica di attacco a sorpresa che fiaccava il morale della truppa; Bonaparte si era dimostrato il nuovo Cesare.6 Nell’agosto 1799 abbandonò al suo destino l’esercito malconcio e se ne tornò di soppiatto in Francia, dove ottenne di nuovo un’accoglienza da eroe. Il suo paese aveva bisogno di lui: tutti i nemici esterni che aveva sconfitto si erano riuniti nella seconda coalizione e attaccavano. 396
1799: le coup d’état c’est moi Ma partiamo dall’inizio. La repubblica francese procedeva nel consueto caos, affrontando trame e sommosse dei nemici interni, di sinistra quanto di destra. I monarchici tentavano di restaurare la monarchia, mentre i radicali intendevano ridistribuire la proprietà ai poveri. Poi Bonaparte giunse trionfalmente dall’Egitto, e nessuno gli chiese perché non avesse l’esercito con sé. Dopo aver tanto complottato dietro le quinte, e con il sostegno dell’esercito in patria, una combriccola di cospiratori integrò il debole e litigioso organismo elettivo che governava la repubblica (il Direttorio) con tre potenti capi dell’esecutivo (i «consoli»), ossia Bonaparte e altri due che ritenevano di poter stare al passo con lui. Quando Napoleone chiese ai cittadini di approvare questo cambiamento, il popolo francese appoggiò l’idea con una maggioranza schiacciante del 99% dei voti. In termini tecnici, a sostenere veramente l’idea fu soltanto il 30% dei votanti, ma siccome a contare i voti era il fratello minore di Napoleone, in qualità di ministro dell’Interno, il voto annunciato fu per il 99% a favore di Napoleone.7 Questi era ormai pronto a respingere la seconda coalizione. Contro ogni aspettativa, durante l’inverno varcò le Alpi, poi con una rapida e sanguinosa campagna in Italia convinse il resto d’Europa a lasciar stare la Francia, almeno per il momento. Seguirono cinque anni di pace senza precedenti. Nel 1804, all’età di trentacinque anni, Bonaparte era ormai abbastanza saldo nella sua posizione da abbandonare la finzione del regime repubblicano. Decise che quello di console era un titolo sciocco e così si trasformò da cittadino Bonaparte in imperatore Bonaparte. Per guadagnarsi rispettabilità agli occhi degli altri monarchi, ripristinò il ruolo ufficiale della Chiesa cattolica, rimise la domenica nel calendario e tornò a contare gli anni a partire dalla nascita di Cristo. Inoltre restaurò la schiavitù nelle colonie dei Caraibi. Nel 1809 l’imperatore Napoleone 397
piantò Giuseppina, la sgualdrinella eccitante che aveva sposato in gioventù, e sposò la figlia adolescente dell’imperatore d’Austria, la quale fu tutt’altro che entusiasta di questo nuovo incarico, visto ciò che i francesi avevano fatto alla prozia Maria Antonietta. Tuttavia con il tempo si innamorò e gli si aggrappò disperatamente, spesso distraendolo nei momenti cruciali della storia. La leggenda di Napoleone si scatenò nel 1805, alla ripresa della guerra contro la terza coalizione, quando l’imperatore guidò i suoi eserciti per l’Europa, schiacciando i nemici come un rullo compressore. Vinse grosse e sanguinose battaglie contro russi, prussiani e austriaci ad Austerlitz e Ulm (1805), a Jena e Auerstädt (1806), Eylau e Friedland (1807), Aspern e Wagram (1809), per nominarne solo qualcuna. Se siete degli appassionati di tattica, questa è la vostra parte preferita, ma al resto di voi basti sapere che Napoleone si mostrò inarrestabile, indipendentemente dal numero di paesi che si coalizzavano contro di lui e dalle dimensioni dei loro eserciti. Li sconfisse tutti con straordinaria abilità. L’intera Europa a ovest del fiume Elba finì sotto il dominio di Napoleone, diretto o dei suoi familiari, che nominò re degli stati satelliti. Ad Austria e Prussia concesse di restare indipendenti, ma furono assottigliate fino a ridurle a dimensioni meno minacciose. La guerra peninsulare Le uniche battute d’arresto che Napoleone conobbe durante il suo apogeo si ebbero in relazione alla Spagna. Nel 1800 aveva costretto gli spagnoli a un’alleanza che univa la loro flotta alla sua. Sulla carta cominciava a sembrare che Napoleone potesse sfidare gli inglesi per il controllo dei mari, ma nel 1804 Nelson annientò la flotta franco-spagnola a Trafalgar, ponendo così termine alle speranze napoleoniche di espansione dell’impero al di là dell’Europa. Facendo affidamento sulle forze restanti, cercò di piegare l’Inghilterra con il divieto del commercio tra 398
continente e Regno Unito: ogni paese che rompeva l’embargo veniva occupato dalle truppe francesi e annesso all’impero. Per rafforzare il controllo dei porti, Napoleone si annesse direttamente molta della costa europea, dal mar Baltico a nord fino alla costa croata a sud. Tuttavia il Portogallo si tenne ostinatamente fuori dal blocco continentale. Napoleone inviò un esercito per cancellare quella macchia filobritannica dalla carta d’Europa, cosa che richiedeva una lunga linea di rifornimenti attraverso la Spagna. Quel pesante traffico militare portò a un attrito con gli spagnoli, che provocò dapprima risse, poi tumulti e infine una vera e propria rivolta. Nel 1808 una totale invasione francese mise sul trono di Madrid, al posto del re Borbone, il fratello di Napoleone, ma la popolazione locale continuò a combattere con quell’attacco a sorpresa divenuto noto come guerrilla, termine spagnolo che sta per «piccola guerra». Come di routine, i francesi torturarono e giustiziarono tutti i sospetti ribelli che cadevano nelle loro mani (e viceversa), circostanza che offrì lo spunto a una serie ossessiva di disegni di Goya, ma non fece nulla per spezzare la ribellione. Alla fine a sostegno dei ribelli giunsero in Portogallo le truppe regolari inglesi, comandate dal duca di Wellington. Lo stile di guerra La differenza più significativa tra la guerra sotto Napoleone e quella delle generazioni precedenti sta nelle passioni nazionalistiche scatenate dalla rivoluzione francese. La Francia fu in grado di combattere contro l’Europa intera perché dietro gli ideali dell’uguaglianza e della ragione si mobilitò l’intera patria, contro i pigri coscritti contadini comandati da ufficiali nobili che caratterizzavano il modo di fare la guerra delle monarchie. Grazie al coinvolgimento dell’intera nazione aumentarono le dimensioni delle armate, dai 60.000 uomini che combatterono da entrambe le parti a Marengo nel 1800, ai 165.000 di Austerlitz nel 1805, fino ai 300.000 di Wagram del 399
1809.8 La guerra napoleonica costituì il culmine dell’epoca del moschetto: ciò significa che gli eserciti si schieravano, si sparavano ininterrottamente a vicenda e poi caricavano. A noi questo sistema appare stupido, ma la potenza di fuoco dell’era napoleonica era talmente inefficace che l’unico modo per scalfire l’avversario consisteva nel concentrare insieme centinaia di moschetti e sparare scariche ordinate e costanti. Per disgregare la linea nemica la fanteria faceva affidamento su un rapido fuoco di massa, anziché sui colpi tirati con precisione. Del resto i moschetti erano progettati per essere caricati e per sparare in fretta, non per farlo in maniera accurata. Si infilavano nella bocca da fuoco polvere, palla e stoppaccio con movimenti disciplinati e meccanici; la canna ad anima liscia rendeva più facile caricare, però indeboliva il colpo, riduceva la gittata e guastava la mira. Con la loro canna ad anima rigata e più stretta, i fucili erano più precisi dei moschetti, ma a loro volta erano più lenti e difficili da caricare perché potessero avere un certo effetto sul campo di battaglia, se non per qualche sporadico tiro di precisione o per tormentare il nemico.9 Per consentire agli ufficiali di distinguere tra nemici e amici su un campo di battaglia invaso dal fumo, i soldati indossavano peculiari uniformi dai colori vivaci e combattevano in formazioni geometriche sotto stendardi giganteschi. Ogni unità dell’esercito napoleonico rispondeva a precise caratteristiche matematiche – velocità di movimento, lunghezza del fronte, ritmo di fuoco, capacità di resistenza – che i bravi generali sapevano calcolare con un’occhiata. Con un’attenta manovra, una linea era capace di far aumentare la potenza di fuoco sulla linea nemica. Se un reggimento riusciva a cogliere da un lato la fanteria nemica, poteva mettere in azione un numero di moschetti superiore a quelli del nemico. Meglio ancora, un reggimento poteva essere in grado di prendere il nemico tra due fuochi, poi, quando tra le file nemiche c’era ormai scompiglio, si potevano inastare le baionette e caricare, nella speranza di 400
coprire il campo aperto prima che il nemico riuscisse a sparare più di un paio di scariche. Attaccare in linea (disposti lungo un fronte ampio ma privo di profondità) era difficile perché una linea sottile poteva perdere facilmente coesione. Alcuni soldati si muovevano più veloci di altri, altri ancora restavano indietro, qualcuno poteva sbandare a sinistra o a destra; e così si formavano rapidamente dei vuoti. I generali preferivano per lo più attaccare in colonna (meno uomini sulla linea di fronte, ma molti di più in profondità): in questo modo i vuoti costituivano un problema secondario, perché, per ogni eventualità, alle spalle c’era una grande quantità di soldati di rimpiazzo. Per quanto l’esplosione di proiettili d’artiglieria faccia tanto cinema avvincente, in genere per spezzare le formazioni di fanteria si utilizzavano delle semplici palle di cannone. In tal modo si apriva uno squarcio in ogni linea di soldati che stava davanti e si infliggevano ferite orribili: ogni parte del corpo colpita si spappolava facilmente e nelle file vicine si disseminavano, come schegge di bomba, frammenti di ossa scarnificate. A portata più ravvicinata, contro le formazioni di fanteria si sparava a mitraglia (l’equivalente per i cannoni di una scarica di pallini da caccia). Su una colonna il cannone mieteva perdite più pesanti rispetto ai moschetti perché era più profonda e affollata, mentre per la linea valeva il contrario: un cannone che sparava contro una linea magari poteva fare a pezzi uno o due soldati, prima di impantanarsi nel fango per il rinculo. Nonostante tutti i rischi che comportava, restare fermi in formazione a fare da bersagli per l’artiglieria era comunque più sicuro di correre. La cavalleria era sempre pronta ad avventarsi con sciabole e lance per abbattere ogni fante disperso che veniva individuato. Questo non riguardava soltanto la cavalleria nemica, ma anche quella amica, che di solito aveva l’ordine di impartire una punizione esemplare a imboscati e disertori. Il perfezionamento dei moschetti aveva ridotto l’impatto della cavalleria sulla battaglia e l’aveva sospinta ai fianchi. Attaccare 401
un blocco di fanteria era quasi sicuramente letale, tuttavia la cavalleria poteva disperdere e trucidare le formazioni slegate delle avanguardie, dare la caccia ai cecchini o massacrare la fanteria che rompeva le righe e si metteva a correre. Quando attaccava l’artiglieria, la cavalleria cacciava gli artiglieri dalle loro postazioni e poi piantava chiodi di ferro nei foconi dei cannoni, per renderli inutilizzabili. Per la fanteria la difesa migliore contro i cavalieri era rappresentata da un quadrato compatto, irto di baionette da tutte le parti, che però offriva un bersaglio migliore per l’artiglieria.10 Come in una morra cinese mortale, nessuna formazione specifica andava bene contro tutti i nemici. Lo scopo della battaglia napoleonica non era quello di fare strage dell’avversario a tutti i costi, bensì di demolire la disciplina e la coesione del nemico, reggimento per reggimento, di spuntarne gli attacchi, squarciarne le linee con l’artiglieria, cacciare i soldati nemici dal campo di battaglia con una carica di fanteria e tenerli in fuga con l’inseguimento della cavalleria. Verso la fine della giornata i generali di entrambe le parti si ritrovavano con numerose unità inutilizzabili, non solo in termini di perdite, ma anche per il numero di chi era disperso, spossato, perso nel fumo o era intento a depredare i morti, a nascondersi o a evacuare i feriti. Nei settori dove il nemico poteva essere più vulnerabile a un ultimo colpo, i generali inviavano le riserve fresche. Tuttavia non funzionava sempre: a Waterloo, al termine della giornata la strage dell’ultima riserva di Napoleone (la Vecchia Guardia) annientò ogni speranza di ripresa da parte dell’imperatore francese.11 Lontano dal campo di battaglia All’epoca la medicina si basava ancora in gran parte sui rimedi popolari e sulle teorie greco-romane, perciò molti soldati morivano di malattia e non in battaglia. Spesso radunare negli accampamenti militari migliaia di giovani provenienti da tutto il 402
continente significava esporli alle malattie infantili come il morbillo e il vaiolo, verso le quali non avevano mai sviluppato un’immunità. Le razioni scarse provocavano lo scorbuto, le ferite le infezioni; latrine e pozzi mal concepiti diffondevano le malattie trasmissibili con l’acqua, come la febbre tifoidea e la dissenteria, mentre indossare per giorni e giorni la stessa uniforme consentiva alle floride colonie di pidocchi e pulci di spargere malattie quali tifo e peste bubbonica. In ambienti particolarmente malsani, malattie strane e nuove potevano paralizzare un esercito: quando Napoleone cercò di ristabilire il controllo sull’isola ribelle di Haiti, i francesi dovettero rinunciare all’invasione dopo aver perso metà degli uomini a causa della febbre gialla. Per contro va detto che si cominciavano ad effettuare le prime vaccinazioni e che, in epoca napoleonica, si incentivò il campo della salute pubblica, poiché gli stati dovevano affannarsi a mantenere in vita un numero sufficiente di bambini tale da rifornire gli eserciti. Non fu probabilmente una coincidenza il fatto che nel 1806 la Prussia stabilì una campagna di vaccinazioni gratuite in tutto il paese, subito dopo che il suo esercito era stato sbaragliato da Napoleone nella battaglia di Jena.12 I civili finivano di rado sotto il fuoco diretto. Per schierarsi gli eserciti avevano bisogno del campo aperto, perciò evitavano di combattere nelle città. In genere i campi di battaglia erano piccoli abbastanza da consentire a ogni famiglia di contadini del luogo di sloggiare al primo segno di guai in vista. D’altro canto, le città sotto assedio venivano regolarmente bombardate: nel 1807, nel corso del bombardamento di Copenaghen la flotta inglese uccise 1600 civili.13 Il raggio d’azione delle campagne napoleoniche era limitato dalle esigenze degli animali da tiro. Se un esercito si allontanava per più di qualche giorno da un fiume o da un porto marittimo, nei carri non c’era spazio per nient’altro che il fieno che alimentava gli animali. Oltre a questo, l’unico altro modo 403
per procacciare il foraggio era mandare avanti delle formazioni a confiscare il fieno che i contadini mettevano da parte per i loro animali. Percorrendo l’Europa avanti e indietro, quel numero senza precedenti di soldati requisiva il cibo dalle fattorie che attraversava. Uccidevano il bestiame a loro uso e consumo, comprese galline e mucche, che si sarebbero utilizzate meglio per la produzione di uova e latte. Le armate si impossessavano di cavalli e buoi da trasporto, arruolavano gli uomini abili e lasciavano vecchi, giovani e malati a provvedere a sé stessi. Questo perdurava anno dopo anno, incessantemente. Si è calcolato che in conseguenza di queste guerre nell’Europa nordoccidentale morì un milione di civili. Se nelle ricche terre dell’Europa nordoccidentale gli eserciti si procacciavano facilmente le provviste, i paesi agli aspri confini del continente erano troppo accidentati o primitivi per alimentare le enormi armate di cui aveva bisogno Napoleone per vincere. In Spagna e in Russia, Bonaparte si ritrovò con le armate che perlustravano le campagne senza poter raccogliere le provviste indispensabili per sostenere la lunga e spietata azione di repressione della popolazione locale. La campagna di Russia L’invasione della Russia fu la campagna più terribile delle guerre napoleoniche, forse addirittura dell’intero XIX secolo. Quando la Russia rifiutò di interrompere i commerci con l’Inghilterra, Napoleone radunò in tutta l’Europa occupata 611.900 soldati e 25.000 civili di supporto nella Grande Armata. Nel giugno 1812 ne guidò personalmente 250.000 lungo l’asse principale dell’avanzata verso Mosca, mentre le armate minori dei suoi marescialli lo seguivano come riserva oppure gli coprivano i fianchi.14 Per i russi era perfino inconcepibile l’idea di fermare un esercito grosso quanto quello napoleonico, tuttavia ritirandosi devastarono le campagne che si trovavano 404
sulla strada dei francesi, lasciandoli in tal modo senza provviste. Le malattie assottigliarono i ranghi dei francesi e altrettanto fece l’esigenza di lasciare delle guarnigioni a protezione della via del ritorno, così quando a settembre a Borodino finalmente i russi si fecero incontro a Napoleone, la Grande Armata si era quasi dimezzata. Napoleone li strapazzò comunque in una battaglia disordinata che aprì la strada alla conquista di Mosca. Tuttavia, poco dopo l’ingresso dei francesi a Mosca, dove intendevano svernare, la città vuota fu spazzata dagli incendi. Sapendo di non poter sopravvivere all’inverno russo tra le rovine, a ottobre Bonaparte diede inizio alla ritirata, durante la quale la tattica della terra bruciata attuata dai russi mieté vittime per la seconda volta. Mentre i francesi se ne tornavano barcollando in patria con le razioni ridotte, la neve sopraggiunse in anticipo. Si mangiarono i cavalli e si abbandonarono i cannoni. «Le labbra si incollavano» scrisse un sopravvissuto, «le narici congelavano. Sembrava di marciare in un mondo di ghiaccio».15 I cosacchi percorrevano la scia dei francesi in ritirata e uccidevano gli sbandati con fantasia e gioia. A dicembre soltanto 70.000 sopravvissuti malconci dell’armata di Napoleone attraversarono l’ultimo fiume verso la salvezza, lasciandosi alle spalle mezzo milioni di morti, prigionieri o dispersi. L’impero francese era ormai ferito a morte, i lupi si svegliarono e lo circondarono per finirlo. Gli stati precedentemente pacificati come Austria e Prussia misero insieme nuovi eserciti e, sull’esempio dei francesi, mobilitarono il popolo con appassionati appelli al patriottismo. Napoleone si precipitò in patria e raccolse tutti i giovani che avevano raggiunto la maggiore età da quando era partito per la Russia, smantellò i distaccamenti delle truppe e richiamò i veterani in pensione. Con un esercito che, sulla carta, era tornato ai livelli di prima della Russia, Bonaparte si abbatté sul cuore della Germania per impedire agli alleati di demolire il suo impero. La battaglia che si combatté a Lipsia per quattro giorni fu la 405
prima della storia, da quando si hanno testimonianze affidabili, con più di mezzo milione di combattenti, nonché una delle poche che Bonaparte combatté sulla difensiva o in una città. L’esercito di Napoleone, non collaudato e in inferiorità numerica, ebbe la peggio e i suoi alleati della Sassonia cambiarono fronte nel bel mezzo delle manovre. L’imperatore cercò dunque di ritirarsi oltre il fiume Elba, ma i ponti furono fatti saltare prima che completasse l’operazione, così decine di migliaia di francesi si ritrovarono isolati dalla parte sbagliata del fiume. Malgrado la sconfitta, era ancora Napoleone e a ogni passo verso la Francia diede filo da torcere ai nemici. Gli eserciti alleati lo spinsero progressivamente in Francia e a marzo del 1814 presero Parigi. Ad aprile Bonaparte ammise finalmente la sconfitta, abdicò e finì in esilio sulla minuscola isola mediterranea dell’Elba, dove era libero di governare su una corte altrettanto minuscola e di passare in rassegna un esercito minuscolo. Quindi i monarchi d’Europa inviarono i loro rappresentanti al Congresso di Vienna per dar vita a un nuovo assetto che tenesse a freno il risorgente liberalismo. Napoleone fece esattamente come alla fine di un film dell’orrore, in cui il cattivo è sconfitto e dato per morto, ma poi riemerge di soppiatto da un abisso senza fondo o da una cascata ribollente e, grondante di sangue e infuriato, attacca all’improvviso per un’ultima volta proprio quando il protagonista ha deposto la propria arma o la protagonista si è spogliata per andare a letto. Metaforicamente parlando, irruppe dalla finestra e cercò di strangolare una ragazzina urlante in camicia da notte. Tornato furtivamente in Francia nel febbraio del 1815, Napoleone richiamò i suoi sostenitori e condusse l’esercito in Belgio, nella speranza di abbattere una alla volta le armate alleate che si avvicinavano, prima che si congiungessero in un’orda imbattibile. Sconfisse la retroguardia inglese a QuatreBras, poi i prussiani a Ligny, quindi si volse di nuovo contro gli 406
inglesi prima che potessero riprendersi dal primo colpo. A Waterloo gli inglesi di Wellington tennero la posizione per tutto il giorno contro l’attacco furibondo dei francesi, finché questi, ormai sfiniti, non furono respinti dal sopraggiungere dei prussiani. La battaglia demolì l’esercito napoleonico privandolo di ogni possibilità di ripresa, perciò non restava altro che ritirarsi e venire a patti con i vincitori. Il piano originario di Napoleone prevedeva la fuga in America, che gli fu impedita dal controllo dei mari da parte degli inglesi. Per lo più i suoi nemici lo volevano morto, ma la Gran Bretagna non era mai stata invasa da Napoleone e alla fine furono proprio gli inglesi a mostrarsi un po’ più compiacenti, ad esempio, dei russi: Napoleone fu imbarcato su una nave da guerra inglese e sbattuto in una casetta strettamente sorvegliata, in uno dei luoghi più remoti e inabitabili del mondo, l’isola tropicale di Sant’Elena, nell’oceano Atlantico. E lì rimase, negli ultimi sei anni di vita, come privato cittadino agli arresti domiciliari. Un’eredità mondiale Senza il controllo dei mari, Napoleone non poté imporre la propria volontà al di fuori dell’Europa, ma pur non essendosi mai spinto oltre il bacino del Mediterraneo portò scompiglio su scala globale. L’emisfero occidentale fu quasi totalmente trasformato dalla carriera di un uomo che non ci mise mai nemmeno piede. L’invasione francese della Spagna lasciò alla deriva le colonie spagnole d’America, le quali, costrette a badare a sé stesse mentre la madrepatria era in tumulto, opposero resistenza allorché la restaurata monarchia spagnola tentò di riprenderne il controllo. Dopo un decennio di sanguinose guerre coloniali, le comunità latinoamericane ottennero finalmente l’indipendenza. Negli Stati Uniti la politica estera si divise a seconda delle linee di partito: i jeffersoniani erano totalmente a favore di chi 407
uccideva i re e sostenevano la Francia, vecchia alleata dell’America contro gli odiati inglesi; per contro i federalisti erano maggiormente influenzati dai tradizionali legami etnici ed economici con l’Inghilterra e dal timore della rivoluzione diffuso tra la borghesia. Il dibattito si fece a tal punto furibondo che, quando il Congresso approvò un trattato favorevole con la Gran Bretagna, venne accoltellato il presidente della Camera. Con i federalisti al potere, l’America combatté una guerra navale non dichiarata con la Francia, ma nel 1800 l’elezione di Thomas Jefferson alla presidenza ristabilì l’amicizia dell’America con la Francia e l’ostilità contro l’Inghilterra. Allorché ebbe bisogno di fare cassa, Napoleone vendette a Jefferson i possedimenti nordamericani, raddoppiando così le dimensioni degli Stati Uniti e mettendo a portata di mano la costa del Pacifico. Dieci anni dopo, nel 1812, mentre Napoleone arrancava in Russia, l’America entrò in guerra contro l’Inghilterra per il blocco dell’Europa napoleonica: il tentativo da parte americana di conquistare il Canada fu respinto, tuttavia fallirono analogamente gli attacchi inglesi contro Baltimora e New Orleans. La guerra si concluse in parità e l’America ne guadagnò almeno il proprio inno nazionale. Le guerre in Europa arrivarono a scuotere persino le estremità più lontane dell’Africa e dell’Asia. Dopo l’annessione dei Paesi Bassi alla Francia, gli inglesi si impadronirono della Colonia del Capo olandese, dalla quale in seguito sarebbe nata la turbolenta nazione del Sudafrica. Inoltre gli inglesi tolsero agli olandesi lo strategico stretto di Malacca, dove ben presto costruirono la città di Singapore. A paragone degli altri eventi del mio elenco, le guerre napoleoniche spiccano per due motivi. Sono una delle poche ecatombi gigantesche che si sono concluse quando l’autore è stato effettivamente catturato e rinchiuso, nonché tra i pochi eventi che hanno ucciso più soldati che civili. In effetti, se ignoriamo questi ultimi e contiamo soltanto i soldati morti, in totale le guerre napoleoniche e rivoluzionarie 408
rappresenterebbero il terzo conflitto più sanguinoso della storia, dopo le due guerre mondiali.
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I conquistatori del mondo Non è che si possa attribuire l’agognato titolo di «conquistatore del mondo» a chiunque si faccia avanti e lo chieda. Ci vogliono dei criteri. Ovviamente nessuno è mai riuscito a conquistare il mondo intero, però qualcuno ci ha provato. Ecco alcuni uomini e donne – va bene, uomini – che sono andati in giro ad attaccare tutti i paesi a portata di mano e ne hanno sconfitto la maggior parte. Questi sono i conquistatori più micidiali della storia: Hitler: 42 milioni di morti in Europa; Gengis Khan: 40 milioni di morti in tutta l’Asia; Tamerlano: 17 milioni di morti in Asia; Napoleone: 4 milioni di morti in Europa; Federico il Grande: 2 milioni di morti in due guerre per la Sassonia e per l’egemonia in Europa; Luigi XIV: 1,5 milioni di morti nelle sue guerre;1 Shaka Zulu: 1,5 milioni di morti nell’Africa meridionale; Gaio Giulio Cesare: affermava di aver ucciso in battaglia 1.192.000 nemici stranieri;2 Alessandro Magno: 450.000 uccisi in Medio Oriente. Forse vale la pena menzionare anche un paio dei conquistatori del mondo meno vittoriosi della storia. Questi signori della guerra attaccarono tutti i vicini e furono pesantemente sconfitti ogni volta: Saddam Hussein: le sue guerre hanno fatto circa 640.000 morti, senza comprendere i 300.000 iracheni ammazzati per la tirannia interna. Prima invase l’Iran, nella speranza di approfittare dalla rivoluzione iraniana e conquistare alcune province ricche di petrolio. Dopo un avvio promettente, il vento cambiò e Saddam fu obbligato a difendere le sue stesse province petrolifere (in quella guerra trovarono la morte 600.000 persone). Poi invase il Kuwait, ma fu cacciato da una coalizione 410
internazionale (altri 25.000 morti). Alla fine gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq e lo hanno rimosso del tutto (13.000 morti nell’invasione). Solano López: 480.000 morti per la guerra della Triplice Alleanza, durante la quale il Paraguay combatté contro tutti i paesi confinanti.
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Rivolta degli schiavi di Haiti Bilancio delle vittime: 400.000 (350.000 haitiani, 50.000 soldati europei)1 Posizione: 81 Tipologia: rivolta di schiavi Contrapposizione di massima: schiavi contro padroni Periodo: 1791-1803 Luogo: Saint-Domingue (oggi Haiti) Principali stati partecipanti: Francia, Inghilterra, Spagna A chi diamo la colpa di solito: un numero sorprendente di persone incolpa gli schiavi Fattori economici: schiavi, zucchero La colonia francese di Saint-Domingue, nel mar dei Caraibi, era abitata da due classi nettamente distinte: una piccola minoranza di cittadini bianchi che deteneva tutti i diritti e un’enorme maggioranza di schiavi neri che non ne aveva nessuno. Una terza classe indistinta di mulatti liberi, numerosi quanto i bianchi, occupava poi una posizione scomoda: era consentito loro avere proprietà e formare famiglie, però per la legge o la politica non contavano niente. Tutte le rivoluzioni liberali seguite all’Illuminismo dovettero affrontare la contraddizione di una schiavitù legale in un paese libero. In alcuni casi fu abolita, in altri si giunse a un compromesso; i francesi oscillarono, a seconda di chi era al potere in un determinato momento. Dopo la rivoluzione francese Parigi decise di introdurre un po’ più di democrazia a Haiti, concedendo il diritto di voto a ogni uomo libero che possedesse delle proprietà, meticci compresi. Naturalmente i bianchi della colonia non accettarono di buon grado una legge 412
che ne dimezzava il peso politico, perciò le proteste portarono a qualche tumulto e nel 1790 si giunse ad alcuni scontri sporadici. Poi all’improvviso la cosa perse d’importanza, cioè quando nell’agosto del 1791 nel nord dell’isola gli schiavi insorsero, trucidarono duemila padroni bianchi e diedero alle fiamme più di milleduecento piantagioni di caffè e duecento di zucchero. A loro volta i bianchi sopravvissuti reagirono e uccisero diecimila schiavi. Ben presto tutti ammazzavano tutti.2 Nel frattempo Parigi abolì la legge sul diritto di voto. I mulatti liberi, sotto il comando di Jean-Jacques Dessalines, si unirono agli schiavi e spinsero i bianchi all’interno di tre enclave difensive. Di solito i ribelli trucidavano ogni bianco che non fuggiva in tempo, indipendentemente dall’età e dal sesso. Nel 1793 giunsero dalla Francia dei commissari per sistemare le cose. Si trattava di radicali, maggiormente propensi a schierarsi con gli schiavi che con i padroni, infatti cominciarono a soddisfare la lista dei desideri dei mulatti. Frattanto la popolazione bianca prese a sfollare verso altre isole meno volubili o verso gli Stati Uniti.3 Il disordine rese Saint-Domingue vulnerabile alle altre potenze coloniali, perciò nel settembre 1793 arrivarono truppe spagnole e inglesi per spartirsi la colonia. Con la marina britannica che controllava il mare, la Francia non poteva inviare truppe per impedirlo, ma il governo francese diede la stoccata finale: proclamò liberi tutti gli schiavi, nella speranza che combattessero contro inglesi e spagnoli al posto suo. E funzionò davvero. Insieme alle forze spagnole era arrivata un’armata di ex schiavi francesi comandata da Toussaint Louverture. Allorché nel 1794 il governo francese abolì del tutto la schiavitù nelle colonie, Toussaint passò dalla sua parte. E l’isola tornò francese.4 Una breve pausa nelle ostilità globali tra Francia e Inghilterra fornì a Napoleone l’occasione di inviare un esercito per reprimere i ribelli haitiani, nel frattempo ritornati schiavi (Napoleone aveva infatti restaurato la schiavitù). Nel febbraio 413
1802 a riprendere l’isola mandò il cognato Charles Leclerc, al comando di 20.000 uomini. Dopo qualche sconfitta, Dessalines e parecchi altri signori della guerra minori riconobbero l’autorità francese, invece Toussaint proseguì ostinatamente la lotta. Alla fine Leclerc rinunciò e riconobbe in Toussaint il legittimo sovrano di Haiti. A giugno dello stesso anno Leclerc invitò Louverture a una cena celebrativa, durante la quale questi prima ricevette le congratulazioni, poi gli fu tesa un’imboscata, fu arrestato e spedito in Francia in catene. I francesi lo sbatterono in una prigione sulle montagne del Giura, dove nel giro di un anno morì di freddo, ormai dimenticato.5 Ad Haiti intanto le malattie portavano a termine ciò che non erano riusciti a fare i ribelli: alla fine metà delle truppe d’invasione francesi – Leclerc compreso – morirono di febbre gialla. Benché Napoleone continuasse a spedire rinforzi, chi sopravviveva alle febbri tropicali non era nelle condizioni di contendere il controllo della colonia. Quando gli haitiani si accorsero della crescente debolezza dei francesi, la ribellione si intensificò e Dessalines riprese la lotta. Nel maggio 1803 ricominciarono le ostilità tra Francia e Inghilterra e si interruppero i rifornimenti francesi, perciò Napoleone finalmente cedette. Rinunciando alle proprie ambizioni, l’armata francese e 1800 profughi civili lasciarono l’isola a novembre di quell’anno, durante una tregua che prevedeva che fossero lasciati ottocento malati e feriti troppo deboli per muoversi, i quali sarebbero tornati in patria una volta guariti. Invece pochi giorni dopo gli haitiani caricarono i pazienti dell’ospedale su delle imbarcazioni, li portarono al largo e li gettarono in mare.6 Oltre alla fondazione del secondo stato indipendente d’America, il lascito principale della rivolta degli schiavi di Haiti fu il terrore che seminò tra i padroni di tutto l’emisfero occidentale, inducendoli a non prendere nemmeno in considerazione l’idea di liberare i loro schiavi. Guardate cosa è successo a Saint-Domingue, dicevano; volete che accada anche 414
qui? Subito dopo la Rivoluzione americana, negli Stati Uniti le società per l’emancipazione erano diffuse allo stesso modo tanto negli stati schiavisti quanto in quelli abolizionisti, ma dopo Haiti nessun sudista autentico consentì la minima discussione sull’argomento, cosa che inasprì le divisioni localistiche.
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Guerra d’indipendenza del Messico Bilancio delle vittime: 400.0001 Posizione: 81 Tipologia: rivolta coloniale Contrapposizione di massima: Spagna contro Nuova Spagna Periodo: 1810-1821 Luogo: Nuova Spagna (Messico) A chi diamo la colpa di solito: Spagna
Il grido di Dolores Per gli abitanti delle colonie spagnole le gerarchie erano importanti. La loro società era organizzata rigidamente: al vertice stavano i peninsulares (nati in Spagna), poi i criollos (creoli, nati in Messico ma di pura stirpe spagnola), seguiti dai mestizos (di stirpe indo-ispanica) e in fondo i veri e propri indios. Quando nel 1808 Napoleone conquistò la Spagna e ne imprigionò il re Borbone, i coloni dell’America spagnola non seppero più da chi prendere ordini, se dal nuovo re di Spagna (fratello di Napoleone) o dall’assemblea legislativa nazionale fondata dai ribelli spagnoli. Di fronte a tanta confusione su chi deteneva il potere, alcune persone influenti cominciarono a chiedersi se non fosse il momento di proclamare l’indipendenza dagli arroganti peninsulares. Nel settembre del 1810 le autorità del Messico diedero avvio a un giro di vite contro una lista di rivoluzionari che tramavano nell’ombra, allora don Miguel Hidalgo, parroco cattolico della città di Dolores, che sapeva di essere il prossimo sulla lista, 416
prese in mano la situazione. Nel timore che l’atteggiamento anticlericale della rivoluzione francese potesse attecchire in Messico, don Hidalgo infiammò una folla furibonda di poveri che richiedeva l’uguaglianza razziale, una riforma agraria e la recisione dei legami tra il Messico e la decadente Europa. Nel nome della Vergine di Guadalupe, la folla iniziò una marcia verso Città del Messico e ben presto si trasformò in un esercito di 25.000 uomini e donne, per lo più indios poveri armati di mazze, archi, lance e machete; solo meno di mille erano equipaggiati come veri soldati. Entrambe le parti fecero il gioco sporco. Il comandante dei realisti incaricato di reprimere la rivolta, il generale Félix Calleja, incendiò i villaggi, fucilò gli ostaggi e giustiziò ogni prigioniero che catturava. Per contro, quando i ribelli di Hidalgo presero la ricca città di Guanajuato massacrarono tutti i notabili, cosa che indusse la borghesia creola a riconsiderare il proprio sostegno al movimento indipendentista. Ciò nonostante l’esercito dei ribelli raggiunse presto le 80.000 unità e Hidalgo colpì le linee nemiche a Monte de las Cruces; tuttavia nello scontro morirono duemila ribelli, mentre i realisti si ritirarono in buon ordine. Con il trascinarsi dell’offensiva le forze ribelli si disgregarono: 40.000 disertarono prima dello scontro successivo, una battaglia che ridusse le truppe di Hidalgo a settemila uomini dotati soltanto di seicento moschetti. Nel gennaio del 1811, infine, i realisti sconfissero duramente i ribelli in una battaglia nei pressi di Guadalajara. Hidalgo fuggì verso gli Stati Uniti, ma fu catturato e riportato indietro per affrontare la Chiesa cattolica (che lo scomunicò) e il governo (che lo fucilò): la sua testa mozzata restò in cima a un palo a Guanajato, fin quando il Messico raggiunse l’indipendenza, dieci anni dopo. Iturbide La seconda fase della guerra fu più confusa e discontinua. Il 417
comando dei ribelli passò a un altro parroco, José María Morelos y Pavón. La realtà aveva infranto la speranza che un’insurrezione spontanea potesse cacciare gli oppressori dal potere, perciò Morelos evitò lo scontro. Le truppe realiste, per lo più composte da creoli messicani, ammontavano a 80.000 uomini e la loro strategia era concentrata sulla riduzione delle sacche di resistenza una dopo l’altra. Nel gennaio 1812 il generale Calleja distrusse la città di Zitacuaro, al centro di una zona ribelle particolarmente turbolenta, e fece il deserto nei villaggi degli indios che la circondavano. Nel novembre del 1815 il generale Agustín de Iturbide catturò Morelos, che fu scomunicato e giustiziato prima della fine dell’anno. Piegata la forza principale dei ribelli e morto il capo, la guerra si evolse in cinque anni di guerriglia che progressivamente si attenuò. In Spagna, una volta scomparsi i Bonaparte e tornati i Borbone, il Parlamento aveva obbligato il re Ferdinando IV ad accettare una costituzione liberale, cosa che preoccupò i conservatori che amministravano il Messico; così uno alla volta i generali incaricati di sedare la ribellione cominciarono a cambiare partito. A gennaio del 1820 il generale realista Rafael de Riego si dichiarò favorevole alla repubblica. Nel febbraio dell’anno successivo il generale Iturbide annunciò a sua volta che non avrebbe più preso ordini dal viceré spagnolo e, dopo una trattativa con i capi della rivoluzione, passò dalla loro parte e marciò contro l’esercito del viceré, che sconfisse in una serie di battaglie. Il nuovo governo indipendente instaurato da Iturbide lasciò più o meno le cose come stavano, se non per il fatto che proclamò criollos e peninsulares giuridicamente uguali. Gli ideali repubblicani della prima rivoluzione non durarono molto a lungo. Nel giro di un paio d’anni Iturbide si proclamò imperatore, ma non durò nemmeno questo, perché fu deposto nel 1823. Dopodiché la storia politica del Messico procedette in maniera discontinua.2 418
Shaka Bilancio delle vittime: 1,5 milioni di morti a causa del suo potere Posizione: 40 Tipologia: conquistatore Contrapposizione di massima: zulu contro chiunque altro Periodo: al potere dal 1816 al 1828 Luogo: Africa meridionale A chi diamo la colpa di solito: Shaka
Un bastardo totale Quando Senzangakona, capo degli zulu, venne a sapere di aver messo incinta una ragazza di nome Nandi, cercò di minimizzare la gravidanza liquidandola come un parassita intestinale che le aveva interrotto il ciclo mestruale. E quando la gravidanza andò avanti fino a dare alla luce un figlio illegittimo, attorno al 1787, il nuovo figlio del capo fu denominato Shaka, cioè parassita. Siccome aveva legami di parentela troppo stretti con il capo e quindi non poteva diventarne moglie a pieno titolo, Nandi fu vergognosamente nascosta all’interno dell’harem come moglie di secondo grado. Alla fine fu rispedita al villaggio di famiglia, dove Shaka trascorse il resto dell’infanzia in un esilio senza padre, respinto, intimidito e preso in giro dagli altri bambini.1 Anni dopo, quando Shaka salì al potere, il suo esercito sorprese quel villaggio con una furtiva marcia notturna: dopo aver radunato gli abitanti, Shaka uccise tutti i prepotenti della sua infanzia impalandoli alle palizzate dei kraal (i recinti del bestiame) e poi diede loro fuoco. Agli abitanti che erano rimasti 419
a guardare quelli che avevano preso in giro Shaka fu concessa clemenza: gli si spaccò il cranio con una mazza per assicurare una morte rapida. Fu risparmiato soltanto un uomo che riuscì a provare un precedente gesto di gentilezza nei confronti di Nandi.2 Impi e assegai All’inizio del XIX secolo, i vari clan del popolo nguni si stavano consolidando in due grosse confederazioni: gli ndwandwe (capeggiati da Zwide) e gli mthethwa (con a capo Dingiswayo). Non affezionatevi a nessuno dei due perché alla fine del capitolo saranno scomparsi. Gli zulu erano un clan soggetto agli nguni di Dingiswayo. Allorché Shaka divenne adolescente e la sua classe fu richiamata per il servizio militare, Dingiswayo notò il coraggio e l’audacia del ragazzo e lo avviò al ruolo di capo. Si raccontavano varie storie su Shaka, di come era rimasto impassibile davanti a un leopardo e lo aveva poi ucciso o di come aveva ammazzato personalmente un guerriero gigantesco. Alla morte del padre di Shaka, nel 1816, Dinsgismayo stabilì che a prendere il controllo degli zulu sarebbe stato lo stesso Shaka, anziché i suoi fratellastri più legittimi. All’epoca le battaglie tribali erano gare rituali di spavalderia che si combattevano a distanza con giavellotti leggeri (l’assegai). Tra gli uomini in battaglia e le donne ai margini ci si scambiavano beffe e atteggiamenti di sfida in gran quantità, ma i i morti erano pochi. Si trattava di chiassose occasioni di festa, con tanto di danze, canti e grida. Tuttavia Shaka prendeva la guerra molto più seriamente e addestrava i suoi guerrieri a uccidere in maniera fredda e spietata nel corpo a corpo. Inoltre aumentò le dimensioni dello scudo ovale di cuoio dei suoi uomini e li armò di pesanti lance di ferro acuminato da lui stesso progettate, denominate ixlwa, probabilmente dal suono che producevano quando venivano conficcate nelle budella del 420
nemico e poi estratte. Gli zulu appresero a correre e a combattere ai limiti della velocità e della resistenza umane. I soldati di Shaka rinunciarono ai sandali larghi e lenti per combattere a piedi nudi, con le piante indurite dalle lunghe corse tra i rovi e le rocce; chiunque esitasse durante questi esercizi di addestramento veniva ucciso sul posto.3 Shaka schierava i suoi impi (reggimenti) come una fitta falange e non in una lunga linea d’attacco. A ogni impi si infondeva grande orgoglio, a tal punto che Shaka li incitava a una fiera rivalità tra loro: spesso occorreva manovrarli separatamente in battaglia, perché se fossero stati troppo vicini si sarebbero combattuti a vicenda. Gli uomini che avevano «lavato la lancia» – cioè cavato sangue in battaglia – potevano portare un caratteristico e prestigioso anello con una testa. I reggimenti attaccavano secondo lo schieramento «a bufalo»: una testa compatta che urtava direttamente contro la prima linea nemica, un corpo di rinforzo alla prima ondata e due corna ricurve fatte di corridori veloci che percorrevano i fianchi e le spalle del nemico per impedirne la fuga. Tutto era progettato per annientare chiunque si trovasse davanti.4 Nella prima battaglia in cui si fece ricorso a questa formazione, le corna zulu circondarono sia i guerrieri nemici sia le donne che li incitavano, tutti trucidati senza alcuna pietà. Quando gli zulu scatenarono contro i vicini la nuova tattica, nessuno riuscì a opporre resistenza. Shaka combatteva per annientare e faceva pochi prigionieri; solo una resa immediata, totale e assoluta poteva risparmiare una tribù da una inesorabile distruzione. Di solito si sterminavano le tribù nemiche fino all’ultimo essere vivente, a eccezione dei ragazzi, che venivano spesso arruolati nell’esercito zulu, e le ragazze, che finivano negli harem.5 Nel corso della sua carriera, Shaka conquistò più di trecento comunità, il cui elenco completo sarebbe tanto impressionante quanto noioso.6 Siccome in genere gli zulu assimilavano i clan sconfitti, è improbabile sentirne i nomi al di fuori della biografia di Shaka; persino i clan che oggi 421
mantengono un’identità separata sono ancora nascosti all’ombra degli zulu. Attorno al 1817, Disgiswayo morì in una battaglia con Zwide, della confederazione ndwandwe. In seguito, nel 1820, Shaka vendicò la morte del suo mentore e sgominò l’esercito ndwandwe nella battaglia del fiume Mhlatuze; Zwide riuscì a sfuggire con un pugno di uomini, ma Shaka scovò donne e bambini della confederazione e ne fece strage. Come vendetta speciale rinchiuse la madre di Zwide, una maga potente, all’interno di una capanna piena di iene affamate. Sui genitali dei tiranni Credetemi, non voglio parlare del pene di Shaka più di quanto voi vogliate leggerne, ma l’argomento si presenta inevitabilmente nelle biografie, soprattutto in quelle scritte da studiosi di scuola freudiana. Nel corso dell’infanzia, gli altri bambini del villaggio prendevano in giro Shaka per il suo pene minuscolo («come un lombrico»), ma spesso negli anni successivi egli andò in giro disinvoltamente nudo per mostrare che il pene aveva ormai assunto dimensioni normali, grazie. È comunque probabile che il tormento dell’infanzia avesse segnato la sua psiche: un elemento ricorrente della tirannia di Shaka è l’ossessiva attenzione per la vita sessuale dei suoi sudditi.7 Shaka organizzò le ragazze zulu in reggimenti di non combattenti analoghi a quelli degli uomini. Proibì ai soldati di sposarsi prima dei quarant’anni e, venuto il momento, era lui stesso ad assegnare una moglie dal reggimento femminile corrispondente. Il sesso extraconiugale era assolutamente vietato: una donna nubile che restava incinta di uno dei guerrieri veniva messa a morte, e la stessa sorte toccava all’amante. In effetti Shaka uccideva le sue stesse mogli se restavano incinte, ma non si sa perché. Tra le altre, queste sono le ipotesi avanzate: a) temeva la nascita di un figlio che potesse 422
trasformarsi in un rivale (giustificazione dello stesso Shaka); b) era impotente, perciò le mogli potevano avere una gravidanza soltanto grazie all’infedeltà; c) la stessa cosa, ma anziché impotente era omosessuale. Tuttavia le pratiche sessuali degli zulu erano abbastanza estranee a quelle occidentali, perciò parole come omosessuale o impotente non hanno senso. Probabilmente con le mogli Shaka si concedeva soltanto l’ukuhlobonga (non è facile tradurre), che garantiva che nessuna restasse incinta senza inganni.8 Quando morì sua madre Nandi, Shaka impose il lutto stretto, mentre lui sprofondava nel dolore: non si potevano seminare le colture, non si potevano mungere le mucche e ovviamente nessuno poteva fare sesso. Se una donna rimaneva incinta durante il periodo di lutto, venivano uccisi sia lei che il padre del bambino, anche se erano sposati.9 Alla fine furono uccisi 9000 zulu perché non avevano mostrato sufficiente tristezza. A ogni nuovo episodio della sua folle sete di sangue, Shaka perdeva consensi, finché i fratellastri non lo uccisero dentro il suo kraal. Mentre veniva abbattuto, tutti i cortigiani, i servi, i vicini e gli abitanti del villaggio fuggirono per il terrore all’idea di poter essere incolpati. Il cadavere di Shaka restò abbandonato per tutta la notte nella città vuota, l’unica a proteggerlo dalle iene in cerca di preda fu una delle mogli predilette della sua adolescenza, che gli restò accanto. La mattina successiva fu sepolto in fretta, con una cerimonia ridotta. Le sue ossa si trovano probabilmente sotto una strada della città sudafricana di Stanger. Mfecane Shaka provocò una insurrezione di massa denominata Mfecane, parola che deriva da «schiacciare». Sfuggendo alla furia di Shaka, i popoli più deboli dell’Africa meridionale crearono delle onde di instabilità che turbarono lo status quo fino al centro del continente. La prima ondata fu spesso costituita dai 423
predoni zulu che volevano instaurare i loro regni sconfiggendo i popoli non abituati alla loro nuova tattica; poi le tribù sconfitte entravano in collisione con la cerchia successiva di vicini, finché tutti si ritrovavano in movimento. Le nazioni si urtarono l’una con l’altra durante tutta la generazione successiva e le comunità dei discendenti dei fuggiaschi dell’Africa meridionale si trovano oggi sparse dappertutto in Kenya, Malawi, Tanzania, Uganda, Zambia e Zimbabwe.10 Ecco alcuni dei movimenti più importanti: Gli swazi furono spinti verso le aspre montagne che oggi costituiscono lo Swaziland, un piccolo regno indipendente circondato da ogni parte dal Sudafrica. Uno dei generali di Shaka, Mzilikazi, ebbe un dissidio con il capo e fuggì con tutto il suo clan, i khumalo, in una marcia di ottocento chilometri, che ebbe come meta lo stato degli ndebele (o matabele), nello Zimbabwe. Shoshangane, uno dei capi fuggitivi della sconfitta confederazione ndwandwe, formò lo stato di Gaza, in Mozambico, e invase svariati insediamenti dei portoghesi, i quali dovettero fuggire sulle navi e guardare le loro città in fiamme. Un’altra banda di profughi ndwandwe, capeggiata da Zwangendaba, nei venti anni successivi migrò per milleseicento chilometri prima di stabilirsi in Tanzania. Cobbing Shaka trascorse tutta la sua carriera oltre l’orizzonte del mondo alfabetizzato, perciò riguardo alla sua vita disponiamo soltanto di racconti di seconda mano. Gli europei in visita presso la sua corte tornavano con storie raggelanti su un folle re selvaggio che seminava morte e distruzione ovunque andasse. Le tribù 424
locali si tramandarono leggende, dicerie e storie orali che furono trascritte soltanto molto dopo gli eventi, il che lascia ampio spazio alla riscrittura della storia come più ci piace. Per lungo tempo gli afrikaner bianchi hanno sostenuto che lo Mfecane lasciò l’interno del Sudafrica vuoto di indigeni e disseminato di ossa, comodamente pronto per l’arrivo dei loro antenati boeri, che giunsero un paio di decenni dopo. Gli africani neri giurano che lo Mfecane non fu nemmeno lontanamente così distruttivo, fu al contrario l’intromissione dei mercanti bianchi di schiavi a metterlo in moto. La teoria secondo cui gli orrori dello Mfecane sono per lo più frutto della propaganda dei bianchi (denominata ipotesi Cobbing, dal nome dello studioso che l’ha resa pubblica nel 1987) ha guadagnato terreno, ma è ancora un’opinione minoritaria. Il dibattito è tutt’altro che chiuso ed è soggetto più al vento della politica che alle prove concrete.11 Nel 1838 Henry Francis Fynn, uno dei bianchi in visita presso Shaka, il cui diario è una delle fonti principali di ciò che si è scritto di lui, propose il primo bilancio delle vittime per mano di Shaka: un milione.12 A un anno dalla pubblicazione del diario di Fynn, lo spionaggio militare di Città del Capo trasmise la cifra a Londra.13 Nel 1900 lo storico George McCall Theal alzò la cifra a 2 milioni e da allora quasi ogni storico moderno non fa che ripetere tali numeri senza grossi dubbi14 o evita del tutto le cifre. Benché a sostegno di un bilancio delle vittime di un milione o più non esista alcuna prova inconfutabile, il fatto che molti storici lo accettino è convincente di per sé. Se davvero fossero stati scontenti di questa stima, avrebbero comunque avuto due secoli per sostituirla. E non l’hanno fatto.
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Conquista francese dell’Algeria Bilancio delle vittime: 775.0001 Posizione: 57 Tipologia: conquista coloniale Contrapposizione di massima: francesi popolazione locale Periodo: 1830-1847 Luogo: Algeria A chi diamo la colpa di solito: Francia
contro
Con l’Algeria la Francia aveva già una disputa aperta a proposito dei pirati berberi (vedi Tratta degli schiavi in Medio Oriente); poi, nel 1827, mentre negoziava il pagamento di un debito contratto dai francesi con alcuni mercanti nordafricani ai tempi delle guerre napoleoniche, Hussein, il sovrano di Algeri, schiaffeggiò stizzito il console francese con lo scacciamosche. A Parigi, il re Carlo X era largamente detestato, e tentò di migliorare la propria popolarità vendicando quell’offesa alla dignità francese, quindi inviò le navi da guerra francesi a mettere il blocco ad Algeri. Quando gli algerini spararono a una delle navi, i francesi reagirono occupando tutte le città della costa. All’interno e all’esterno della Francia le critiche denunciarono la conquista come un atto di puro avventurismo aggressivo. Persino la conquista dell’Algeria non riuscì a rendere popolare re Carlo, tanto che nel 1830 il popolo francese lo cacciò e mise sul trono un re più liberale. Questi, il nuovo re Luigi Filippo, sperava di uscire dal Nordafrica, ma il trono era troppo vacillante per rischiare di alienarsi le simpatie degli imperialisti con la rinuncia alla guerra, perciò continuò 426
riluttante a intensificare la lotta contro l’opposizione araba locale. Nel 1831, davanti alla penuria di cittadini disposti a combattere nella guerra, la Francia diede vita a un esercito speciale per combattere i beduini del deserto, la Legione Straniera. Vi si arruolarono da tutto il mondo le canaglie e gli assassini più duri e malvagi, attratti dalla promessa dell’immunità, della cittadinanza, della paga regolare e dell’avventura. Per svariati anni i francesi non seppero decidersi a proposito dell’Algeria e non andarono oltre le poche città costiere che avevano occupato. Alla fine, nel 1834 accolsero ufficialmente l’Algeria come colonia e cominciarono a organizzarvi un’amministrazione. In quel periodo gli anziani delle tribù avevano scelto Abd el-Kader, figlio di un importante sceicco sufi, quale comandante dell’indomita regione interna che aveva come capitale Tlemcen. Con il compattarsi della resistenza, gli algerini presero a tormentare le truppe francesi con incursioni e imboscate: non abituati a una guerra del genere, gli occupanti costituivano infatti dei facili bersagli. La città interna di Costantina sopportò parecchi anni di attenzioni da parte dei francesi. Appollaiata su un altopiano roccioso, era difficile da raggiungere, tanto che nel 1836 fu respinta facilmente la prima offensiva francese. Gli arabi diedero la caccia ai francesi in ritirata con il fuoco di precisione e gli attacchi notturni, che li ridussero a una debole e misera porzione del nucleo originario. Nel 1837 i francesi tentarono di nuovo e presero Costantina dopo un bombardamento, un combattimento casa per casa e dei massacri furibondi, che lasciarono per le strade ben 20.000 civili morti.2 Nel maggio del 1841 le truppe francesi schierate in Algeria raggiunsero il numero di 60.000 uomini, tuttavia armamenti e tattica progettati per sbaragliare grossi eserciti sui campi di battaglia europei non davano risultati contro le brevi schermaglie adottate da arabi e berberi. A un certo punto il 427
nuovo comandante francese, il maresciallo Thomas Robert Bugeaud, nominato nel 1841, riconsiderò l’intera operazione: alleggerì gli zaini dei soldati francesi e ne caricò le salmerie sui muli, anziché sui carri. Inoltre lasciò indietro l’artiglieria pesante, che nelle lunghe marce costituiva un impaccio, e altrettanto fece con gli ausiliari irregolari indigeni, perché la loro presenza rendeva troppo difficile distinguere i nemici dagli alleati, cosa che induceva troppe unità francesi a non sparare contro gli indigeni non identificati nel timore di trucidare le proprie stesse truppe. Bugeaud riprogettò la formazione di marcia, collocando le truppe da combattimento attorno a tutto il perimetro, pronte in un momento a respingere un’imboscata dei locali. Ora le sue colonne volanti erano in grado di inseguire Abd el-Kader con la stessa velocità con cui si ritirava, senza dargli tregua.3 Bugeaud incitò i suoi subalterni a trattare senza pietà le tribù ostili. Nel giugno del 1845 una tribù ribelle trovò rifugio insieme alle proprie famiglie in una grotta presso Dahra, nel nordovest, e rifiutò la resa. Il colonnello francese Aimable Pélissier ordinò di accendere un falò all’imboccatura della grotta che consumò tutto l’ossigeno e la riempì di monossido di carbonio. I soldati spediti in seguito all’interno in esplorazione «tornarono pallidi, si dice, tremanti, atterriti, sembrava che a stento osassero affrontare la luce del giorno. […] Avevano trovato tutti gli arabi morti, uomini, donne, bambini, tutti morti!»4 Quel giorno morirono asfissiate almeno cinquecento persone. Il rapporto ufficiale di Pélissier a Parigi descrisse con orgoglio sinistro l’episodio come un ottimo esempio di abile tattica, al punto che il colonnello restò sconcertato quando l’opinione pubblica francese protestò per la sua brutalità. In ogni caso la sua carriera progredì. Un suo collega, il colonnello Armand Jacques Saint-Arnaud, imparò la lezione, così quando ad agosto serrò dentro una grotta altri cinquecento indigeni che vi avevano trovato rifugio, mantenne il segreto. Mentì ai suoi uomini e ai superiori, a cui 428
raccontò che le grotte erano vuote e che erano state fatte saltare in aria per precauzione. Anche la carriera di Saint-Arnaud continuò a progredire, fino al ruolo di ministro della Guerra e comandante dell’esercito francese nella guerra di Crimea.5 Prima che lo scontro in Algeria giungesse al termine, ci vollero parecchi tentativi. Nel 1836 Abd el-Kader sembrava sconfitto, così accettò un trattato di pace che divideva l’Algeria tra il dominio diretto e quello indiretto dei francesi, ma nel 1839 questi si intromisero nella regione del controllo indiretto e la guerra ricominciò. Nel 1843 Abd el-Kader fu spinto in Marocco, da dove continuò delle scorrerie sul confine fino al dicembre del 1847, quando infine si arrese. I francesi gli permisero di ritirarsi pacificamente in Libano.
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Rivolta dei Taiping Bilancio delle vittime: 20 milioni1 Posizione: 6 Tipologia: insurrezione messianica Contrapposizione di massima: ribelli Taiping contro dinastia manciù della Cina Periodo: 1850-1864 Luogo e principale stato partecipante: Cina Principali entità non statali partecipanti: Adoratori di Dio, Taiping Tianguo, Armata Sempre Vittoriosa A chi diamo la colpa di solito: Hong Xiuquan, dinastia mancese in decadenza Ennesimo esempio di: rivolta contadina cinese La domanda senza risposta che si fanno tutti: e se Hong Xiuquan fosse stato veramente il figlio di Dio? La classica versione breve della rivolta dei Taiping suona come un episodio di Star Trek: esseri umani viaggiatori dello spazio atterrano su un mondo primitivo, turbando quella pacifica società con le loro armi avanzate, con bizzarre nozioni scientifiche e tecnologie magiche. Gli esseri umani violano la Prima direttiva parlando apertamente di molte cose sconosciute, incluso il loro Dio onnipotente che mandò suo figlio a salvare l’umanità e che un giorno tornerà. In mezzo a queste voci confusionarie, un nativo contrae una febbre terribile e ha delle visioni deliranti, in cui sarebbe lui stesso il nuovo figlio di Dio che tutti attendono. Confida la cosa agli amici, raduna i seguaci e si lancia in una crociata che sconvolgerà il pianeta portandolo alla follia più distruttiva. Per rimettere le cose al loro posto, ora gli esseri umani devono ricorrere alla loro tecnologia superiore 430
per schiacciare questa rivolta e far tornare il mondo alla sua condizione precedente. Preludio: la guerra dell’oppio Per molta parte della storia documentata, un osservatore imparziale avrebbe considerato la Cina come la civiltà tecnologicamente più avanzata della terra. I cinesi erano autosufficienti, indipendenti e soddisfatti. Per limitare al minimo la contaminazione esterna, i manciù al governo della dinastia Qing segregarono gli occidentali limitandone la presenza ad alcuni porti: se volevano un qualunque bene locale, soprattutto tè, seta e porcellane, i mercanti europei dovevano pagare sull’unghia, rigorosamente in contanti sotto forma di argento. Di certo i cinesi non volevano nessuna delle scadenti merci occidentali di quei barbari di marinai portoghesi, olandesi o britannici. Alla lunga, la Cina svuotò le casse europee di troppa moneta pesante, cosicché l’Occidente dovette trovare qualcosa da vendere ai cinesi per recuperare il proprio denaro. La soluzione perfetta era l’oppio. Gli inglesi disponevano di forniture costanti dall’India e in Cina la domanda di stupefacenti era in crescita, mentre il prepotente avvento delle idee e delle tecnologie straniere lacerava la sua struttura sociale. Purtroppo per l’Occidente, il governo cinese vietò completamente l’oppio, a meno che non fosse accompagnato da un’adeguata tangente. Inizialmente ciò non costituì un grande problema. Le mazzette, di solito, erano meno alte dei dazi doganali che gli europei avrebbero dovuto pagare per il commercio legale, ma poi, quasi per caso, per eliminare la dipendenza dall’oppio la corte cinese nominò un commissario onesto. A differenza dei suoi predecessori, Lin Zexu sfruttò davvero la propria autorità per combattere la diffusione dell’oppio piuttosto che per taglieggiare i commercianti. Rinchiuse la comunità straniera e distrusse diecimila casse d’oppio, così inglesi e francesi dichiararono guerra. 431
Malgrado nel corso della storia la Cina sia stata spesso considerata la civiltà più avanzata del mondo, gli europei l’avevano già superata da tempo in ciò che più contava: la tecnologia militare. Nella prima guerra dell’oppio, le forze anglo-francesi fecero a pezzi la flotta cinese e distrussero l’esercito riportando appena qualche graffio. Nell’ambito del trattato di pace del 1842 i cinesi legalizzarono il commercio dell’oppio e istituirono relazioni diplomatiche con gli europei su un piano paritario; promisero di smettere di definire barbari gli europei, concedendo loro inoltre di stabilire stazioni commerciali («fabbriche») nei porti previsti dal trattato, lungo le coste e i fiumi navigabili. Oltre ai mercanti, arrivarono anche i missionari cristiani, che si diffusero nelle campagne. L’oppio dei popoli L’atteggiamento della loro società indusse molti cinesi a riconsiderare antiche certezze spirituali, così il cristianesimo guadagnava terreno. La cosa non era del tutto nuova: i cristiani ficcavano il naso negli affari cinesi da secoli. Tantissimo tempo prima, con le carovane provenienti dalla Persia era arrivata la corrente nestoriana della religione; nel XVI secolo con i navigatori portoghesi erano approdati i missionari gesuiti. Entrambi raggiunsero un successo limitato, ma, fino alla guerra dell’oppio, il cristianesimo non aveva mai superato il grado di interessante culto straniero al quale talvolta si convertivano gli eccentrici. Hong Xiuquan sarebbe stato uno di quegli eccentrici. Viveva nell’estremo sud, nel profondo dell’entroterra di Hong Kong e di Canton (Guangzhou), dove tirava avanti come maestro di scuola. Una notte, nel 1837, mentre Hong attraversava un periodo di convalescenza dopo una grave malattia, in una visione gli comparve un uomo dai capelli dorati, in un abito nero, che gli disse di purificare la terra. Poiché la visione non aveva alcun significato per lui, per alcuni anni Hong la stipò in 432
un angolo della propria mente e proseguì con la sua solita vita. Poi, dopo il ripetuto fallimento agli esami di stato necessari per l’avanzamento di carriera nella società cinese, la sua professione conobbe una battuta d’arresto. Un giorno, nel 1843, mentre si trascinava sconfortato per la grande città dopo avere fallito per l’ennesima volta un esame, qualcuno gli diede degli opuscoli protestanti. Si convertì dunque al cristianesimo e iniziò a studiare dai missionari battisti americani. Ben presto, Hong riconobbe gli elementi cristiani contenuti in quella visione che aveva quasi dimenticato: si rese conto che l’uomo della sua visione era Dio stesso, inoltre si ricordò che questi aveva affermato che lui era il suo secondo figlio, il fratello minore di Gesù.2 Qualche tempo dopo, Hong fondò la Società degli Adoratori di Dio. Inizialmente tenne segreta la propria parentela con il Messia, predicando semplicemente una sorta di fusione dei principi confuciani e cristiani con una particolare enfasi sui Dieci comandamenti. Man mano che il numero degli adepti aumentava, Hong si scagliava sempre più contro il culto degli idoli, distruggendo quelli confuciani e quelli legati al culto degli antenati. Inoltre fondò diverse comunità nella campagna locale, battezzando un numero sempre maggiore di convertiti, finché nel 1850 gli Adoratori di Dio non arrivarono a contare 20.000 seguaci.3 Il seguito maggiore gli Adoratori di Dio lo guadagnarono all’interno del gruppo etnico a cui apparteneva Hong, gli hakka. E chi erano gli hakka? Permettetemi di semplificare al massimo una questione complessa. La gente che la maggior parte degli stranieri chiama «cinesi» in realtà non è un gruppo etnico uniforme; più che altro costituisce un raggruppamento culturale di popoli che condividono un’eredità e una lingua scritta comuni, ma non una lingua parlata comune. Essi si definiscono han. Poiché non è fonetica, la scrittura cinese sussiste in modo indipendente ed è usata per parecchie lingue diverse che, benché simili, risultano praticamente incomprensibili l’una all’altra nel 433
parlato. La più diffusa e prestigiosa delle lingue han è il mandarino, che affonda le proprie radici nel nord ed è la lingua ufficiale della Cina. Al sud esistono parecchie lingue han, come il cantonese, la più comune fra le comunità di immigrati cinesi di tutto il mondo. Gli hakka sono cinesi han fuggiti dal nord verso il sud nel XIII secolo durante la conquista mongola, i quali costituirono un’enclave settentrionale nell’area culturale meridionale. Hanno conservato molte antiche tradizioni e rifiutato molti dei costumi più moderni, come l’usanza di fasciare i piedi. Il loro nome significa «ospiti». Se può aiutarvi, provate a pensare agli hakka come agli amish o ai cajun, estranei alla zona circostante, antiquati, ma non aborigeni. La differenza principale è che di hakka ne esistono diversi milioni. Sebbene gli Adoratori di Dio di Hong avessero conquistato seguaci fra i cinesi di ogni etnia, il cuore che guidava il movimento religioso era hakka, cosa che li rendeva lievemente estranei alla maggior parte dei meridionali.4 Il regno del Cielo Possono i cinesi considerarsi ancora uomini? Da quando i manciù hanno avvelenato la Cina, la fiamma dell’oppressione è salita fino al cielo, il veleno della corruzione ha contaminato il trono dell’imperatore, l’odore disgustoso si è diffuso oltre i quattro mari e l’influenza dei demoni ha afflitto l’impero, mentre i cinesi, col capo chino e gli animi sconfortati, si arrendono alla sottomissione e all’asservimento. Pamphlet dei Taiping5 Gli Adoratori di Dio si allontanarono talmente tanto dalla tradizionale concezione di vita cinese che l’attrito era inevitabile. Si organizzarono in formazioni paramilitari e nel 434
dicembre del 1850 si scontrarono per la prima volta con le autorità Qing. Nel gennaio del 1851, un esercito di Adoratori di Dio di 10.000 uomini sconfisse i Qing nella battaglia di Jintian. Forte della sua vittoria, Hong si proclamò messia del Taiping Tianguo o «Regno celeste della grande pace»: dichiarò cinque dei suoi più intimi seguaci re dell’est, dell’ovest, del sud e del nord e (dopo avere esaurito le direzioni) del quinto elemento. Hong assunse per sé il titolo di re celeste, assicurando la discendenza messianica anche al figlioletto. Di fronte all’aggressione imperiale, i Taiping abbandonarono la loro base e iniziarono a spostarsi, marciando verso nord per quasi 2500 chilometri attraverso un territorio ostile. Allorché conquistarono Yongan, gli adepti erano arrivati a 60.000. Il movimento continuò a crescere in maniera esponenziale: i minatori convertiti contribuirono con la propria esperienza allo scavo di gallerie e nell’uso degli esplosivi, cosa che agevolò l’assalto alle città munite di mura. Nel settembre del 1852 una forza di 120.000 Taiping attaccò Changsha e quando occuparono Wuchang, nel gennaio del 1853, erano arrivati a mezzo milione. Nell’aprile di quell’anno sfondarono le linee delle armate Qing che circondavano la città e quando a settembre presero Nanchino contavano due milioni di seguaci sparsi per tutto il loro territorio. Alla caduta di Nanchino, i Taiping inseguirono e massacrarono i 40.000 residenti manciù della città, di cui solo 5000 erano soldati. Gli uomini, le donne e i bambini manciù furono separati, fatti a pezzi, legati e gettati nel fiume oppure bruciati.6 Poco dopo, lo slancio dei Taiping ebbe una battuta d’arresto. Una colonna di 70.000 uomini, che era stata mandata a prendere Pechino, venne respinta e inseguita verso sud per diversi mesi del biennio 1853-1854, martoriata, consumata e, alla fine, eliminata dai Qing. Dopo la sconfitta, Hong abbandonò l’offensiva per consolidare il proprio controllo sul Fiume Azzurro e insediare una corte vera e propria a Nanchino. 435
I Taiping non erano il solo movimento che si opponeva ai manciù, ma non riuscirono mai a coordinarsi con altre due rivolte in atto nelle vicinanze, quella dei Nian a nord e quella dei Turbanti Rossi a sud. A volte tentarono di legarsi ai banditi e ai pirati del fiume, che odiavano le autorità ed erano esperti nel combattimento, ma i Taiping tendevano all’ascetismo puritano, così, inevitabilmente, prima o poi i criminali perdevano interesse. I Taiping proibivano l’oppio, la prostituzione, l’omosessualità e l’alcol. Gli uomini e le donne erano tenuti rigorosamente separati, anche se nelle armate si reclutavano persone di entrambi i sessi. La nuova società era strutturata in una specie di esercito santo, con un’impostazione militaresca. La terra era comune. L’eccedenza del raccolto di un villaggio si utilizzava per sopperire alla carestia in un altro: così, tutti gli uomini dell’impero potranno godere assieme dell’immensa felicità del Padre celeste, del Signore supremo e del Dio grande. Ove ci sono campi, lasciate che tutti possano coltivarli; ove c’è nutrimento, lasciate che tutti possano mangiare; ove ci sono indumenti, lasciate che tutti li possano indossare; ove c’è denaro, lasciate che tutti lo possano spendere, in modo che non esista disuguaglianza alcuna e ogni uomo sia ben nutrito e coperto. [...] E lo stesso vale per il grano, i legumi, la canapa, il lino, i tessuti, la seta, i polli, i cani, ecc. e il denaro; poiché tutto l’impero è la famiglia universale del nostro Padre celeste, Signore supremo e Dio grande.7 Come si conviene a un paradiso in terra tutti i giovani ragazzi devono andare in chiesa ogni giorno, dove il sergente deve insegnare loro a leggere l’Antico e il Nuovo Testamento, come pure il libro delle leggi del Prescelto. Ogni sabato i caporali devono condurre gli uomini e le donne in chiesa, dove 436
i maschi e le femmine dovranno sedere in file separate. In quel luogo, ascolteranno i sermoni, canteranno gli inni e offriranno sacrifici al nostro Padre celeste, Signore supremo e Dio grande.8 Il nuovo movimento abolì la pratica di fasciare i piedi delle ragazze, che venivano stretti nelle bende affinché acquisissero una forma piccola, delicata e poco pratica, considerata bella dai cinesi. Inoltre abolirono il codino di capelli intrecciati che tutti gli uomini cinesi erano costretti a portare in segno di sottomissione ai loro padroni manciù. Questo conferì agli eserciti Taiping un aspetto primitivo, poiché le donne e gli uomini scendevano in battaglia rispettivamente con piedi provocatoriamente grandi e lunghi capelli incolti. A scapito degli ideali utopistici della società dei Taiping, l’ipocrisia abbondava. Per la maggior parte dei membri del movimento, gli uomini e le donne restavano rigorosamente separati, ma i capi possedevano harem come i re dell’Antico Testamento, per non parlare di assistenti, servi e sfarzi adeguati alla loro posizione. Chi si incontra nel Regno del Cielo Nel 1853, Hong aveva già iniziato a estraniarsi dalle questioni secolari del suo Regno celeste e a dedicarsi alla propria crescita spirituale. Sebbene sia il re dell’ovest che quello del sud fossero stati uccisi nelle battaglie che avevano condotto al potere il Regno celeste della grande pace, c’erano ancora altri tre re a occuparsi dei dettagli della gestione dell’impero. Yang Xiuqing, il re dell’est, rimasto orfano, aveva iniziato come carbonaio, ma aveva un tale istinto per la tattica militare che, in seguito, divenne l’artefice di molti dei successi dei Taiping. Anche Yang iniziava ad avere le proprie visioni mandate da Dio e, se si sa qualcosa dei messia, si può indovinare la natura di queste visioni. A quanto pare, Dio era 437
totalmente deluso da Hong e adesso voleva promuovere Yang al suo posto, quale proprio erede. Nel settembre del 1856 le voci sulle ambizioni di Yang raggiunsero Wei Changhui, il re del nord, che fece dunque ritorno dal fronte col proprio esercito per attaccare il palazzo di Yang, massacrando lui e la sua famiglia. Le truppe di Wei portarono trionfalmente in parata per le vie di Nanchino la testa di Yang impalata, finché Hong non uscì dal suo isolamento per condannare questa atrocità. Hong catturò Wei e lo condannò a morte tramite una pubblica fustigazione. Invitò i superstiti del clan di Yang ad assistere alla pena, tuttavia dopo il loro arrivo scattò una trappola. Si scoprì che Hong e Wei erano in combutta e ora che gli Yang restanti erano usciti allo scoperto e si trovavano tutti riuniti in un altro posto, Wei e Hong li eliminarono definitivamente. Shi Dakai, il re del quinto elemento, in quel periodo era lontano, impegnato in una campagna militare. Proveniva da una famiglia agiata e aveva convinto molti parenti ricchi a contribuire con donazioni di denaro e proprietà terriere alla causa del nascente movimento dei Taiping. Tornato a Nanchino, Shi espresse qualche perplessità a Wei riguardo all’opportunità di aver sterminato gli Yang. Wei prese tale critica come una sfida e Shi riuscì a malapena a darsi alla fuga, però Wei catturò e uccise comunque la moglie e la madre di Shi. Dopo aver trovato rifugio tra le proprie truppe, Shi marciò su Nanchino con 100.000 soldati, assetato di vendetta. Hong comprò subito il suo favore regalandogli la testa mozzata di Wei. Shi Dakai era ormai l’ultimo dei re minori, probabilmente il meno folle. Soddisfatto della testa di Wei, ritornò per un breve periodo a far parte della cerchia di Hong, ma alla fine ruppe radicalmente con l’intero movimento dei Taiping. Prese quindi il suo esercito e raggiunse il bacino del Sichuan, dove istituì una propria enclave indipendente. La risposta dell’Occidente 438
Nel frattempo il governo Qing agiva in maniera implacabile per contenere la sommossa. I funzionari riuscirono a tenerla lontana da Canton decapitando entro il maggio del 1856 oltre 32.000 persone sospettate di essere simpatizzanti dei Taiping. Un testimone oculare riferì che sono state decapitate migliaia di persone, centinaia gettate nel fiume, legate assieme a gruppi di dodici. Ho visto i loro cadaveri putridi galleggiare trasportati dalla corrente, persino corpi di donne. Molti sono stati tagliati a pezzi vivi. Ho subito l’orribile vista di cadaveri senza arti e senza testa, soltanto una massa di carne scorticata [...] che ricopriva a decine tutto il suolo della carneficina.9 I Taiping speravano di raggiungere un accordo con i paesi occidentali. Non solo condividevano con gli europei un cristianesimo nominale ma, dal 1856, francesi e britannici stavano pure combattendo una seconda guerra dell’oppio contro la Cina dei Qing. Al termine del conflitto, nel 1860, gli europei avevano già preso e distrutto il palazzo d’estate dell’imperatore fuori Pechino. L’Occidente valutò le proprie possibilità. Forse era tempo di assumere il controllo totale della Cina e di sostituire la dinastia Qing, corrotta e xenofoba, con dei fantocci occidentalizzati. Per parecchi anni, gli occidentali avevano creduto che i Taiping fossero dei veri cristiani, degni perlomeno di un certo sostegno morale; ma quando divennero più evidenti le stravaganti eresie di Hong, l’Occidente tornò ad appoggiare il diavolo che già conosceva, l’impero Qing. Quindi accettò un trattato di pace che lasciava la Cina praticamente immutata. Non furono solo gli statisti e il clero occidentali a cambiare idea sui ribelli: a Londra, Karl Marx si mostrò altrettanto disilluso. Nel 1853 aveva sperato che la rivoluzione cinese «accendesse la miccia dell’attuale sistema industriale, innescando l’esplosione della crisi generale ormai pronta a 439
scoppiare da lungo tempo». (Per usare una metafora, Marx era come un cane che rosicchia un osso, determinato a ricavarne quanta più carne riesce a spolpare). Nel 1862, comunque, egli considerava già i Taiping come «un abominio ancora maggiore per le masse che per i vecchi governanti [capaci solo di] distruggere nella forma più grottesca e detestabile; una distruzione senza alcuna volontà di ricostruzione».10 Sperando di unirsi ai loro presunti simpatizzanti occidentali, nel 1860 una colonna di Taiping si diresse a Shanghai, che nel 1854 era diventata un protettorato internazionale sotto il controllo occidentale. Ignari del mutato atteggiamento degli occidentali, i Taiping non si aspettavano che la polizia europea aprisse il fuoco contro di loro per difendere la città all’esterno. Supponendo che si trattasse di un errore, i Taiping subirono 300 perdite senza neanche rispondere al fuoco. Ben presto, gli europei iniziarono ad aiutare molto più apertamente il governo Qing. La città portuale di Ningbo era caduta in mano ai Taiping nel 1861 senza alcuna opposizione e gli abitanti si erano abituati facilmente ai loro nuovi governanti. Nel 1862, una spedizione anglo-francese riconquistò la città e la trasferì al controllo dei Qing, che per rappresaglia torturarono e uccisero degli abitanti a caso, come monito per tutti gli altri.11 Inoltre mercenari indipendenti aiutavano il governo cinese addestrando gli eserciti e fornendo armi di ultimo modello. Contro i ribelli combatté l’Armata Sempre Vittoriosa, una banda di quei mercenari reclutati soprattutto al porto di Manila, che era controllata dagli spagnoli, guidati da un comandante americano, Frederick Ward.12 Quando questi restò ucciso in battaglia, il comando passò a un ufficiale britannico veterano di nome Charles Gordon, che si sarebbe conquistato una fama ancora maggiore molti anni più tardi, allorché si ritrovò a Khartum sotto l’assedio dei dervisci urlanti del Sudan (vedi Guerra mahdista). Tuttavia, ben più importanti dei mercenari stranieri furono le armate cinesi locali, addestrate e armate come eserciti 440
occidentali. Lungo i fiumi i Qing dispiegarono cannoniere moderne per mettere in azione l’artiglieria pesante contro le città murate dei Taiping. Grazie ai nuovi eserciti modernizzati, nel corso degli anni Sessanta i generali manciù sgretolarono poco a poco il regno dei Taiping, ma la riconquista fu rallentata dalla politica dei Qing, che non intendevano fare prigionieri. Questo costrinse anche i Taiping più disillusi a combattere fino all’ultimo uomo. Nel luglio del 1863 le truppe dei Qing invasero l’enclave del Sichuan di Shi Dakai, l’ex re del quinto elemento, che fu catturato e fatto a fettine in pubblico, mentre i suoi seguaci vennero massacrati malgrado la precedente promessa che ciò non sarebbe successo. Alla fine, i Qing posero sotto assedio la stessa città di Nanchino. Hong Xiuquan si ammalò e morì nel maggio del 1864, ma nessuno sa come. È il veleno il colpevole più probabile: la maggior parte degli storici propende per il suicidio, ma anche l’omicidio ha i suoi sostenitori. Un’altra possibilità è che sia stato accidentalmente avvelenato da una combinazione letale di elisir e pozioni che prendeva per potenziare il proprio vigore sessuale. Comunque, la sua morte prematura sopraggiunse solo un paio di mesi prima di quella dei suoi seguaci. Nanchino cadde nelle mani del governo nel luglio del 1864, fatto a cui seguì un massacro generale degli abitanti. Secondo il generale Qing presente sulla scena, «non si arrese nemmeno uno dei 100.000 ribelli di Nanchino, ma in molti casi essi si riunivano assieme e si davano fuoco, andando incontro alla morte senza alcun ripensamento».13 Dopo la caduta di Nanchino, il figlio quattordicenne di Hong, che era stato proclamato nuovo re del Cielo, si diede alla fuga, ma i fratelli minori erano fra le migliaia di ribelli uccisi quando cadde la città. Il giovane Hong provò a scomparire nelle campagne, ma fu catturato, imprigionato e tagliato a pezzi. L’eredità 441
Probabilmente il gioco del mahjong fu inventato dai soldati Taiping annoiati. A parte quello, la ribellione dei Taiping è caduta nell’oblio della storia. Quando Hollywood cominciò a sondare la possibilità di un film basato sul libro di Caleb Carr, The Devil Soldier, la storia dell’americano Frederick Ward, mercenario nella rivolta dei Taiping, una delle prime cose a essere modificate fu l’ambientazione.14 Alla fine, l’idea di fondo è stata portata sullo schermo con il titolo L’ultimo samurai, la storia di un mercenario americano del XIX secolo coinvolto in una guerra civile, ovviamente ambientata in Giappone. La ribellione dei Taiping è l’esempio perfetto della vecchia massima secondo cui i libri di storia li scrivono i vincitori. Molti autori trattano i Taiping come contadini poveri e illusi che seguirono le allucinazioni di un pazzo, ma, se si va più in profondità, ci si rende conto che è esattamente così che nasce la maggior parte delle religioni (non la vostra religione, ovviamente, ma tutte le altre). La sola differenza fra Hong e alcuni profeti di successo della storia è che se un professore, un romanziere o un vignettista mancasse di rispetto a Hong Xiuquan, non ci sarebbero folle furiose a pretenderne la testa. La paura ispirata dai suoi seguaci è veramente la prova migliore dell’autenticità di una religione? Ammetto che, di norma, questo è il parametro che uso anche io, ma forse sarebbe bene ricordarsi che, se i Taiping avessero vinto, oggi potrebbero essere considerati perfettamente legittimi e cristiani in tutto e per tutto, quanto i mormoni («fondamentalmente, più o meno»).
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Guerra di Crimea Bilancio delle vittime: 300.0001 Posizione: 96 Tipologia: guerra internazionale Contrapposizione di massima: tutti contro la Russia Periodo: 1854-1856 Luogo: mar Nero Principali stati partecipanti: Russia contro Turchia, Francia, Inghilterra A chi diamo la colpa di solito: tutti tranne i turchi Ennesimo esempio di: guerra di trincea con idioti assalti frontali L’unica cosa che tutti dovrebbero conoscere della guerra di Crimea è la sbalorditiva incompetenza mostrata da tutti i partecipanti. Questa guerra ci ha dato La carica della brigata leggera di Tennyson – una delle più celebri poesia in lingua inglese –, che descrive l’ottuso coraggio di un inutile assalto frontale. Fu la prima guerra a essere fotografata e raccontata dai corrispondenti dei quotidiani; e fu anche la prima guerra a sconvolgere e fare inorridire chi era in patria. L’unico individuo di cui la storia si ricorda volentieri è una donna, Florence Nightingale, che si assunse il compito di curare i soldati malati e feriti dopo che l’esercito si fu dimostrato incapace di farlo. La guerra cominciò anche in modo stupido. Il clero ortodosso e cattolico di Gerusalemme litigava per chi avesse la precedenza nei luoghi santi. Gli ortodossi si appellarono allo zar di Russia Nicola I affinché perorasse la loro causa presso il sultano ottomano, sovrano della Palestina. I russi reagirono in maniera eccessiva e insistettero per farsi riconoscere quali protettori e 443
portavoce di tutte le minoranze cristiane sotto la sovranità turca. Di fatto questo avrebbe trasformato la Turchia in un protettorato russo, incapace di fare la minima azione senza il permesso della Russia. A peggiorare le cose, come negoziatore i russi inviarono un uomo che odiava a morte i turchi, da quando una loro palla di cannone lo aveva castrato in una precedente guerra russoturca. Quando i turchi risposero negativamente alle richieste dello zar, per forzare le cose l’esercito russo si mosse contro i vassalli turchi dei Balcani, i principati rumeni di Valacchia e Moldavia. La flotta russa di Sebastopoli, in Crimea, raggiunse e distrusse quella turca nei pressi di Sinope, sulla costa della Turchia. Naturalmente il resto dell’Europa non poteva permettere che la Russia conquistasse indisturbata l’impero ottomano, e così inglesi e francesi misero insieme una flotta e un corpo di spedizione che inviarono a sostegno dei turchi. Frattanto l’esercito turco era risalito lungo la costa del mar Nero per scontrarsi frontalmente con i russi, che aveva costretto a una battuta d’arresto poco a sud del Danubio. Poi fu la volta degli austriaci, che emanarono un ultimatum alla Russia: o se ne andava subito o sarebbe stata attaccata anche da loro. Brontolando e smaniando, i russi si ritirarono all’interno dei propri confini. La guerra era finita. Senonché gli alleati inglesi e francesi ormai avevano fatto tutta quella strada e non volevano tornarsene a casa senza far saltare in aria qualcosa. In fondo erano rimasti a languire negli accampamenti lungo lo stretto dei Dardanelli, a morire di tifo e colera, in attesa di un’occasione per attaccare. Decisero dunque di colpire dall’altra parte del mar Nero e distruggere la base navale russa di Sebastopoli, sulla penisola di Crimea. Nel settembre 1854 gli alleati sbarcarono a nord della città e sconfissero la piccola armata russa presso il fiume Alma. La via per la presa di Sebastopoli era così aperta, tuttavia gli alleati si schierarono in posizione di assedio e si misero in attesa. Nelle 444
battaglie di Inkerman e Balaclava gli alleati vanificarono il tentativo di respingerli da parte dei russi, poi arrivò l’inverno. Nessuno era preparato ad affrontare l’inverno russo e l’esercito alleato si ritrovò a languire per il freddo, il congelamento e la fame. Al ritorno della primavera i sopravvissuti non erano nelle condizioni di portare a termine l’assedio, perciò gli eserciti si limitarono a restare fermi, mese dopo mese, a morire di dissenteria e febbre tifoidea. Dopo quasi un anno le armate alleate avevano finalmente risolto i loro problemi il minimo necessario per rimettere in moto la guerra. A settembre del 1855, un assalto francese conquistò un forte cruciale della linea russa, mentre i russi abbandonarono Sebastopoli dopo avere distrutto le installazioni militari e aver affondato la flotta. Le trattative si trascinarono a lungo e, nonostante tutti gli sforzi in senso contrario, la pace ritornò nel 1856.2 Dinamismo Quella di Crimea fu la prima grande guerra combattuta dopo l’avvento della rivoluzione industriale. Le fabbriche sfornavano enormi quantità di armi da fuoco, stivali, pallottole, tende, berretti e borracce, tutti identici; ferrovie e navi a vapore rifornivano a grande distanza eserciti sempre più numerosi. Con l’invenzione nel 1848 della prima cartuccia di facile carica prodotta in serie (la pallottola Minié), sul campo di battaglia i fucili sostituirono rapidamente i moschetti a canna liscia, migliorando la gittata e la precisione del fuoco di fanteria. A Waterloo (vedi Guerre napoleoniche) i moschetti avevano messo a segno un solo colpo su 459 sparati, ma in Crimea un proiettile su sedici colpì qualcuno.3 Inoltre la guerra di Crimea fu probabilmente la prima guerra tra grandi potenze che non si poté combattere con la tattica di quelle precedenti, anche se non impedì a una gran quantità di generali cocciuti i tentativi di assalto contro i fucilieri trincerati 445
secondo il sistema della carica napoleonica. D’ora in avanti, ogni nuova guerra dovette essere concepita da zero, in genere dopo che era stata fatta a pezzi la prima ondata spedita in battaglia. Con il massiccio incremento della potenza di fuoco, per i reggimenti all’attacco divenne più difficile raggiungere le linee nemiche. Le guerre di quest’epoca tendenzialmente cominciavano con manovre e attacchi in aperta campagna, ma dopo che tutti i soldati che stavano in piedi sul campo di battaglia erano stati spazzati via dalla nuova potenza di fuoco, la guerra si concludeva con la fanteria in trincea, in attesa mese dopo mese in assedi fangosi attorno agli snodi di comunicazione essenziali. Con gli eserciti che si accovacciavano attorno alle città, come a Sebastopoli (1854), Petersburg (1864) e Parigi (1871), la guerra di movimento rallentò fino a interrompersi. Questa tendenza sarebbe poi culminata nella guerra di trincea del primo conflitto mondiale.4
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Rivolta dei Panthay Bilancio delle vittime: 1 milione1 Posizione: 46 Tipologia: insurrezione religiosa Contrapposizione di massima: han (confuciani) contro hui (musulmani) Periodo: 1855-1873 Luogo: provincia delloYunnan Principale stato partecipante: Cina dei Qing Principale quasi-stato partecipante: Nanping Guo A chi diamo la colpa di solito: troppo poco conosciuta per questo Ennesimo esempio di: rivolta contadina cinese Esempio più sanguinoso dello stesso genere: rivolta dei Taiping Fattore economico: argento Le miniere d’argento nella provincia meridionale interna dello Yunnan andavano progressivamente esaurendosi. Nell’inverno del 1855, parecchi minatori han abbandonarono la loro miniera esaurita e tentarono di ottenere un lavoro in un’altra ancora funzionante, gestita da cinesi convertiti all’Islam, denominati hui. Malgrado non ci sia alcuna differenza tra hui e han all’infuori della religione, essa è stata sufficiente ad alimentare il rancore per generazioni. Quando i minatori han si videro rifiutare un lavoro, centinaia di han del luogo si scatenarono contro la comunità musulmana, tentando di impadronirsi delle sue miniere. Furono assalite circa 700 famiglie hui, cui si rubò il bestiame, si diede fuoco alle case e si uccisero i componenti. Il governo Qing ignorò questi avvenimenti finché gli hui non 447
reagirono alle aggressioni. A quel punto, il governo ordinò severe rappresaglie per punire gli hui. La milizia han, guidata dal magistrato locale, stanò e trucidò 2-3000 musulmani di ogni età e sesso. La comunità hui si mobilitò sotto il comando di Du Wenxiu, che proclamò il Regno del Sud Pacificato (Nanping Guo). Governando come sultano Suleyman, Du stabilì la propria capitale a Dali (Xiaguan). Man mano che le armate hui si infoltivano e si organizzavano, la ribellione si diffondeva, tanto che nel 1863 gli hui soggiogarono l’importante città di Kunming. Nella zona di guerra presero a comparire segni e presagi minacciosi: i ratti di Kunming cominciarono a spuntare alla luce del giorno, correndo in giro come impazziti, per poi cadere di colpo morti stecchiti. A quanto pare, nel caos della ribellione i ratti dello Yunnan si erano uniti ai ratti della Birmania superiore, vicino alle sorgenti del fiume Saluen, che per molto tempo era stato uno dei maggiori centri della peste bubbonica. Nel 1871 a Kunming la gente iniziò a morire, mentre gli eserciti e i profughi ben presto diffusero la peste in tutto lo Yunnan. Nel 1894, l’epidemia raggiunse i porti sul golfo del Tonchino e il contagio si sparse rapidamente per tutto il globo trasportato da navi a vapore e ferrovie. Fu il principio della terza pandemia di peste bubbonica, che nel corso dei decenni successivi uccise 13 milioni di persone, specialmente in Asia. La terza pandemia sfiorò appena l’Occidente, soprattutto nei porti marittimi; tuttavia, le pulci infettate fecero l’autostop verso l’entroterra, accendendo nuovi focolai di peste dovunque tra le popolazioni di roditori che non erano ancora stati contagiati, come gli scoiattoli dell’America occidentale, dove attende un’altra occasione per scoppiare.2 Per un lungo periodo, i governanti manciù della Cina erano stati troppo occupati a sedare la rivolta dei Taiping per preoccuparsi del secondario tradimento degli hui, ma dopo la sterminio di tutti i Taiping, Pechino poté affrontare la rivolta dei 448
Panthay. Governatore generale dello Yunnan in tumulto fu designato l’esperto e crudele Cen Yuying, che circoscrisse il Regno del Sud Pacificato e fece strage dei traditori. Non appena gli eserciti imperiali si avvicinarono alla capitale, il sultano Du Wenxiu tentò il suicidio con una dose fortissima di oppio, ma fallì e cadde nelle mani del generale Qing, Yang Yuke. Du implorò chi lo aveva catturato di mostrare un po’ di pietà nei confronti della sua gente e sul momento ottenne una risposta positiva. Ma poi cambiarono idea. Tre giorni dopo, a Dali iniziarono i massacri: Du fu giustiziato e alla fine, a riprova della loro vittoria, Cen e Yang inviarono a Pechino diecimila paia di orecchie.3
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Guerra civile americana Bilancio delle vittime: 620.000 soldati1 e 75.000 civili2 Posizione: 65 Tipologia: guerra civile di matrice ideologica Contrapposizione di massima: Nord contro Sud Periodo: 1861-1865 Luogo e principale stato partecipante: Stati Uniti d’America Principale stato quantico partecipante: Stati Confederati Ennesimo esempio di: guerra di trincea con idioti assalti frontali A chi diamo la colpa di solito: gli schiavisti del Sud Fattori economici: cotone, schiavi
Riassunto Negli Stati Uniti il dibattito sulla schiavitù si fece talmente acceso da mandare in pezzi le vecchie alleanze politiche. Entrambi i partiti si divisero in un’ala nordista e in una sudista, tanto che alle elezioni presidenziali del 1860 i candidati furono quattro. Allorché venne eletto Abraham Lincoln, del Partito Repubblicano antischiavista, gli stati del Sud favorevoli alla schiavitù pestarono i piedi con stizza, instaurarono una confederazione indipendente e, così facendo, si impossessarono di tutte le proprietà federali del Sud. Il tutto culminò nell’aprile del 1861 con il bombardamento della guarnigione federale di Fort Sumter, nei pressi del porto di Charleston, episodio che aprì ufficialmente le ostilità. Ci volle un po’ per il reclutamento e l’addestramento, ma 450
nella primavera del 1862 le due fazioni disponevano di grossi eserciti con tanto di uomini e armamenti, pronti alla gloria. Un’avanzata lentissima e potente come quella di un ghiacciaio condusse l’esercito dell’Unione da Washington a qualche chilometro dalla capitale dei ribelli, Richmond, in Virginia, dove il nuovo generale dei confederati, Robert E. Lee, attaccò e li respinse nella battaglia dei Sette giorni, un incessante scontro a fuoco attraverso svariate contee a est di Richmond (luglio 1862). La guerra accelerò all’improvviso e nel corso dell’anno successivo il territorio tra le due capitali nemiche vide una sanguinosa catena di offensive, senza che nessuna delle due parti riuscisse a prevalere. Un nuovo attacco dei federali verso sud fu fermato a Manassas (agosto), seguito da un attacco dei ribelli verso nord, respinto a Antietam (settembre). Quindi prima a Fredericksburg (dicembre) e poi a Chancellorsville (maggio 1863) vennero annullate due incursioni dei federali, che a loro volta respinsero i ribelli a Gettysburg (luglio 1863). I campi di battaglia attorno alla Virginia erano disseminati di decine di migliaia di cadaveri di soldati morti. «Si riteneva gran cosa sferrare una carica contro una batteria di artiglieria o un terrapieno fiancheggiato dalla fanteria» ricordò un generale confederato. «All’epoca eravamo assai prodighi di sangue».3 A ovest dei monti Appalachi, invece, la guerra avanzava ininterrottamente verso sud e ogni scontro si risolveva a favore dei federali. Mentre a est la guerra procedeva in modo altalenante, a ovest i federali del generale Ulysses S. Grant conquistarono due trinceramenti nemici (Fort Donelson e Vicksburg), respinsero una risoluta controffensiva (Chattanooga) e consolidarono il controllo sul fiume Mississippi e svariate ferrovie cruciali. Nel 1864 Grant assunse il comando delle operazioni a est per piegare l’esercito di Lee, così il conflitto si trasformò ben presto in una guerra di logoramento. Per tutti i mesi di maggio e giugno, l’esercito ribelle si ritrovò arenato e respinto verso le 451
linee di assedio presso il nodo ferroviario di Petersburg, mentre a ovest l’ultima grossa armata della Confederazione veniva colpita e intrappolata ad Atlanta. Dopo diversi mesi di fucilate, bombardamenti, assalti diretti e ai fianchi, le armate ribelli furono stanate dalle trincee e annientate. Il retaggio La guerra civile rappresentò uno scontro tra due opposte visioni dell’America, una determinata dalla nazionalità (i bianchi anglosassoni e protestanti) e l’altra determinata dall’ideologia (tutti gli uomini sono creati uguali). Si tratta probabilmente del conflitto centrale della storia americana: se si comprende infatti questa guerra, si è sulla buona strada per la comprensione degli Stati Uniti. Ovviamente l’esito principale della guerra fu la liberazione degli schiavi, che però sarebbe arrivata comunque. È possibile che la guerra fosse inevitabile – non la evitarono non molti paesi schiavisti –, eppure anche con la massima ostinazione gli Stati Uniti non si sarebbero aggrappati alla schiavitù più a lungo di Cuba (1886) o del Brasile (1888). Di maggiore rilievo furono invece il quattordicesimo e il quindicesimo emendamento della Costituzione, che concessero agli ex schiavi piena cittadinanza e pari protezione da parte della legge. Prima della guerra nessuno avrebbe osato proporlo, ma di fronte alla sconfitta della definizione nazionalistica dell’America e al trionfo di quella ideologica, fu facile trovare le supermaggioranze necessarie per approvare le leggi. I due emendamenti ricostruirono l’intero sistema politico del paese. Prima della guerra, i singoli stati erano autonomi e non erano vincolati alla Dichiarazione dei diritti federale, cosa che avvantaggiava le élite locali, non solo consentendo di tenere in schiavitù i neri, ma anche di espellere i neri liberi o di privarli dei diritti. I governi statali erano inoltre liberi di appoggiare una religione ufficiale o di proibire la diffusione di idee impopolari. 452
Il quattordicesimo emendamento subordinò per la prima volta gli stati al governo federale sulle questioni dei diritti umani, una vittoria ideologica che ha suscitato per un secolo e mezzo l’irritazione dei conservatori. Nonostante i fautori di una definizione nazionalistica dell’America abbiano gradualmente e a denti stretti ampliato la nozione di americano fino a includere occasionalmente i non bianchi, non anglosassoni e non protestanti, il conflitto regola ancora il dibattito politico negli Stati Uniti. L’inglese dovrebbe essere la lingua ufficiale dell’America, o soltanto la più comune? L’America è una nazione cristiana, oppure semplicemente una nazione con tanti cristiani? Ogni volta che si applica il quattordicesimo emendamento per imporre la giurisdizione federale in materia di diritto penale, istruzione, occupazione, pena capitale o favoritismo religioso, risuonano gli echi della guerra civile.
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Rivolta degli hui Bilancio delle vittime: 640.0001 Posizione: 66 Tipologia: insurrezione religiosa Contrapposizione di massima: han (confuciani) contro hui (musulmani) Periodo: 1862-1873 Luogo: Provincia del Gansu Principale stato partecipante: Cina A chi diamo la colpa di solito: dipende Ennesimo esempio di: rivolta contadina cinese Esempio più sanguinoso dello stesso genere: rivolta dei Taiping Fattore economico: canne di bambù I cinesi musulmani, gli hui (vedi Rivolta dei Panthay), si erano abbastanza diffusi nel nordovest, lungo le vie carovaniere verso il Medio Oriente, a ridosso dei territori turchi dell’Asia centrale. Durante la rivolta dei Taiping, per difendere le piccole comunità dalle loro scorrerie, i funzionari Qing avevano formato in tutto il paese delle milizie locali, mentre nella provincia occidentale dello Shanxi gli hui costituirono delle milizie per proteggersi dai loro vicini han, con cui erano in aperta ostilità. Alcuni soldati hui sulla via del ritorno dopo il combattimento con i Taiping si ritrovarono a discutere sul prezzo delle canne di bambù nel mercato di Huanzhou: scoppiò una lite, nella quale restarono uccisi molti hui.2 Quella notte, gli han del luogo incendiarono il quartiere hui e da quel momento gli scontri si trasformarono in una vera e propria guerra civile. Man mano 454
che il conflitto devastava le campagne, si esaurivano le scorte di generi alimentari, combustibile e foraggio, perciò i prezzi si impennarono oltre le possibilità di buona parte degli abitanti. Sopraggiunse la carestia. Le milizie hui misero sotto assedio le città di Tongzhou e di Xian, ma le truppe Qing che si trovavano all’interno tennero duro, tanto che nel giro di qualche mese costrinsero i ribelli a ritirarsi a ovest nel corridoio del Gansu, una striscia di terra fertile incastrata tra le montagne occidentali e i deserti che avevano tradizionalmente collegato la Cina con la Via della seta verso il Medio Oriente. A quel punto la guerra ebbe un momento di stallo. Nel 1868 approdò a Xian un nuovo comandante cinese, Zuo Zongtang: ex studioso, si era distinto nella repressione della rivolta dei Taiping. Da organizzatore meticoloso qual era, impiegò del tempo nell’addestramento e nell’approvvigionamento, pianificando la propria offensiva. Si aprì la strada combattendo città dopo città, attraverso il corridoio del Gansu, e alla fine individuò uno specifico capo hui, Ma Hualong, come uomo chiave da schiacciare prima di tutti gli altri.3 Ma Hualong rimase sotto assedio a Jinjibao, la capitale degli hui, per sedici lunghi mesi, in preda alla fame. Dopo la resa dei ribelli hui nel marzo 1871, il generale Zuo ammazzò Ma Hualong, la sua famiglia e altri ottanta dei suoi funzionari, tagliandoli a fettine.* Suzhou, l’ultima delle grandi città hui, cadde nel novembre del 1873, subito dopo un massacro generale, ma la guerra proseguì nelle campagne ancora per parecchi anni. Molte decine di migliaia di superstiti fuggirono a ovest, nelle terre controllate dai russi. Confusione confuciana Odio ammetterlo, ma mi ci è voluto parecchio tempo per capire che questa rivolta dei musulmani cinesi del Gansu non è affatto 455
la stessa rivolta dei musulmani cinesi dello Yunnan che ho descritto in uno dei capitoli precedenti. Molti libri mescolano tutte le rivolte contro i Qing avvenute verso la metà del XIX secolo in un calderone gigantesco, ma per il momento cerchiamo di tenerle separate. Esiste un’altra possibile fonte di confusione: i russi chiamano gli hui di questa regione caduti sotto il loro controllo in seguito a migrazioni e conquiste con il nome di dungani, così spesso si definisce questa guerra come rivolta dungana. Ciò non ha nulla a che fare con gli zungari che abbiamo incontrato in un capitolo precedente (vedi Guerra sino-zungara). E per concludere, anche se ho dedicato tre capitoli distinti al pandemonio cinese del XIX secolo, la lista non si esaurisce qui. In questo stesso periodo scoppiarono la rivolta dei Nian, la ribellione dei Turbanti Rossi e le guerre dei clan punti-hakka, che forse, però, non fecero abbastanza vittime per rientrare nella mia classifica.
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Guerra della Triplice Alleanza Bilancio delle vittime: 480.0001 Posizione: 79 Tipologia: guerra per l’egemonia Contrapposizione di massima: Paraguay contro tutti Periodo: 1864-1870 Luogo: Sudamerica Principali stati partecipanti: Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay A chi diamo la colpa di solito: Francisco Solano López Ennesimo esempio di: guerra di trincea con idioti assalti frontali Fattore economico: accesso ai traffici commerciali Qualsiasi elenco di conquistatori folli che attaccano i vicini in cerca di gloria e ricchezze non sarebbe completo senza Francisco Solano López, dittatore del Paraguay. Figlio irascibile del dittatore precedente, López aveva ereditato il più grosso esercito del Sudamerica, insieme al paese più povero. Purtroppo, alcuni degli aneddoti migliori sulla sua follia autodistruttiva sono soltanto frutto della propaganda diffusa allora dai nemici brasiliani e argentini. Più si tenta di approfondire, più la sua storia si fa meno interessante. (Maledizione, cercate!) Tanto per cominciare, il conflitto ebbe inizio a causa di noiosi intrighi politici e non per una sua dissennata sete di sangue. Il Rio de la Plata è un ampio estuario che conduce nel cuore del Sudamerica, dove alcuni grandi fiumi navigabili mettono in comunicazione i traffici di quattro paesi: Paraguay, Argentina, Brasile e Uruguay. È l’unico luogo del Sudamerica in cui gli 457
stati confinano l’uno con l’altro in zone popolose, perciò è naturalmente qui che si combatté la più sanguinosa guerra tra stati dell’emisfero occidentale. Nel corso di una controversia sui confini tra Brasile e Uruguay, il partito di opposizione uruguayano, il partito Colorado (Rosso), si unì al Brasile in un colpo di stato contro il partito Blanco al potere. In tal modo l’Uruguay divenne un satellite del Brasile, compromettendo così l’accesso al mare dall’entroterra paraguayano. López decise dunque di muoversi per rovesciare sia i brasiliani che i colorados.2 All’inizio una guerra propriamente accettabile sembrava impossibile, perché il Paraguay non riusciva ad aggredire l’Uruguay. I primi colpi si spararono tra navi da guerra al largo della costa uruguayana, ma poiché López non poteva prendere il controllo del mare, era fuori discussione un attacco anfibio. L’unica via tra i due stati belligeranti attraversava una striscia di territorio argentino, pertanto quando l’Argentina negò il passaggio a López, questi attaccò comunque nel dicembre 1864, portando così anche l’Argentina in quella che divenne la triplice alleanza contro il Paraguay: undici milioni di persone di tre paesi contro una nazione di solo mezzo milione di abitanti. L’offensiva paraguayana penetrò in profondità nel territorio brasiliano, ma il Brasile è un paese vasto che masticò e risputò l’esercito paraguayano nel corso di un’aspra campagna. Nel 1866 i sopravvissuti furono respinti in Paraguay, mentre altrove gli alleati avevano già dato il via alla loro controffensiva. Nel 1865 il Brasile aveva acquistato da Europa e Nordamerica un numero così elevato di corazzate che ormai disponeva della più grande marina moderna del mondo, con la quale distrusse la flotta di navi in legno di López nel Rio de la Plata e aprì all’attacco l’estuario e i fiumi. Le armate e le cannoniere alleate risalirono il fiume Paraná fino a fermarsi di fronte alle trincee paraguayane poste a protezione del congiungimento tra i fiumi Paraguay e Paraná, attorno alla città di Humaitá. Ci vollero tre anni e 100.000 vite 458
umane perché gli alleati riuscissero a superare arrancando i cinquanta chilometri successivi, attaccando una dopo l’altra ogni nuova linea di trincee paraguayane. Mese dopo mese, anno dopo anno, López perlustrò il paese alla ricerca di reclute per rinfoltire le linee, abbassando progressivamente per disperazione i criteri di arruolamento. Naturalmente fucilava ogni uomo che si sottraeva all’assolvimento del proprio dovere fino allo stremo e disseminò l’esercito di spie affinché gli riferissero di ogni tentativo di sedizione da parte dei soldati. Nel maggio 1868 gli alleati infransero infine la situazione di stallo e cacciarono gli ultimi 20.000 soldati paraguayani, per lo più adolescenti smunti, anziani e storpi. Con l’approssimarsi dei nemici, López colpì alla cieca contro le congiure che sapeva lo avrebbero abbattuto. Si incarcerarono dunque e si giustiziarono svariate centinaia di cittadini paraguayani, tra cui i suoi fratelli, i cognati, ministri del governo, vescovi e giudici; uccise più di duecento stranieri, anche molti diplomatici, e fece persino fustigare e condannare a morte sua madre. A dicembre gli alleati conquistarono la capitale Asunción e vi insediarono il loro governo fantoccio. Dichiararono vinta la guerra, se ne tornarono in patria e lasciarono soltanto una piccola forza per fare pulizia. López si tenne nascosto nella giungla, «a raccogliere un altro esercito di 13.000 unità, che comprendeva diciottenni con la barba finta armati di bastoni».3 Intraprese la guerriglia e col passare del tempo impazzì ulteriormente. Alla fine, ormai sconfitto e rimasto con soli duecento uomini, fu trafitto da un granatiere brasiliano mentre fuggiva attraverso un fiume. L’amante, Eliza Lynch, un’ex cortigiana di Parigi che aveva fatto inorridire l’alta società di Asunción con i suoi modi arroganti, la prodigalità esasperata e l’umile origine irlandese, gli restò accanto fino a quell’amara conclusione. Dopo l’ultima battaglia nella giungla, sotto minaccia delle armi i brasiliani che l’avevano catturata la costrinsero a scavare personalmente la 459
tomba di López. Oltre ai cambiamenti territoriali che consegnarono ai suoi nemici ampie porzioni di paludi, montagne e giungla del Paraguay, la guerra aveva ridotto la popolazione da 525.000 a 221.000 persone, di cui soltanto 28.000 erano uomini. E fu così che, quale unica risorsa per badare all’enorme numero di vedove e orfani, tra i paraguayani sopravvissuti divenne norma la poligamia informale.4
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Guerra franco-prussiana Bilancio delle vittime: 435.000 (185.000 soldati1 e 250.000 civili2) Posizione: 80 Tipologia: guerra per l’egemonia Contrapposizione di massima: Francia contro Prussia, ovviamente Periodo: 1870-1871 Luogo: Francia Stati minori partecipanti: Baviera, Württenberg A chi diamo la colpa di solito: Bismarck, Napoleone III Ennesimo esempio di: guerra di trincea con idioti assalti frontali La Spagna non si riprese mai davvero dall’occupazione napoleonica. Nel mezzo secolo che seguì alla restaurazione dell’antico regime il paese fu lacerato da una guerra civile dopo l’altra, inframmezzate da deboli tregue. Alla fine, nel 1868, fu cacciata la regina e gli spagnoli si diedero alla ricerca di un nuovo monarca. Per paradosso, in realtà la Spagna non partecipa ai massacri di questo capitolo, però i disordini spagnoli hanno la tendenza a irradiarsi verso l’esterno e a turbare il resto del mondo (vedi anche Guerra di successione spagnola e Guerra civile spagnola). Il trono vacante fu offerto a un principe prussiano, la Francia lo vietò assolutamente, allora la Prussia, pur brontolando, fece un passo indietro. Poi la Francia si ostinò a chiedere al re di Prussia, Guglielmo II, la promessa di non prendere mai più in considerazione quella proposta, richiesta che Guglielmo ritenne ridicola. La crisi era quasi risolta per via 461
diplomatica, quando il cancelliere prussiano Otto von Bismarck osservò che l’unica cosa che univa i piccoli stati tedeschi era l’odio verso i francesi. Se tutti si fossero infuriati a sufficienza, si sarebbe potuta sfruttare una crisi abbastanza ampia per unificare i piccoli principati tedeschi sotto la sovranità prussiana; così Bismarck provocò i francesi a proposito del trono spagnolo finché il loro imperatore, Napoleone III, non dichiarò guerra. Nel giro di qualche settimana gli eserciti si schierarono per chilometri in aperta campagna lungo il confine a ovest del Reno. Agli analisti esterni l’esito della guerra appariva imprevedibile: i francesi disponevano di fucili migliori e di mitragliatrici rudimentali, mentre i tedeschi erano superiori nell’artiglieria. Inoltre i primi avevano un esercito di professionisti (400.000 volontari), ma le forze armate tedesche erano più numerose: 1,3 milioni tra regolari e riservisti, per lo più di leva, mobilitati entro le primissime settimane. In pratica i tedeschi prevalsero dal principio alla fine. Nella battaglia inaugurale i tedeschi attaccarono con l’ala sinistra contro l’ala destra francese e la spinsero verso sud, in pieno scompiglio. Mentre i tedeschi aprivano il varco e puntavano su Parigi, si ritirò anche l’ala sinistra dei francesi, sia pure in direzione opposta, verso nord. Il grosso delle truppe tedesche spinse la metà dell’esercito francese fino a Metz, dove lo isolò e lo mise sotto assedio. A sua volta l’ex ala destra francese si rimise in linea frapponendosi tra i tedeschi e Parigi. Dal punto di vista militare questo mezzo esercito non aveva alcuna possibilità di sconfiggere il nemico, ma a livello politico i francesi dovevano tentare comunque. Quando avanzarono per liberare i concittadini assediati a Metz, i tedeschi li accerchiarono e li colpirono a Sedan, facendo prigioniero lo stesso Napoleone III. Con l’imperatore nelle mani dei tedeschi, il popolo francese proclamò il ritorno della repubblica e ballò per le strade, poi si ricordò che i tedeschi dovevano ancora arrivare. Offrirono una 462
trattativa, ma il prezzo dei tedeschi era troppo alto. Allora il governo francese si ritirò nella più sicura città di Tours, nella valle della Loira, e si affannò a reclutare un nuovo esercito nelle province. I parigini radunarono la milizia, portarono il bestiame in città e si prepararono all’arrivo delle armate nemiche. L’accerchiamento della città da parte dei tedeschi fu talmente stretto che il governo si vide obbligato a spedire messaggi e funzionari rispettivamente con i piccioni viaggiatori e in pallone. L’assedio di Parigi si trascinò per mesi e mesi; esaurite le provviste di cibo, gli abitanti furono costretti a mangiare insetti, animali dello zoo e animali domestici. Frattanto l’artiglieria tedesca bombardava la città. Mentre la capitale moriva di fame, il governo francese batteva l’entroterra alla ricerca di riserve sufficienti per radunare un nuovo esercito. Si rabberciarono due nuove armate da inviare contro i tedeschi, una sulla Loira e un’altra nei pressi del confine svizzero: nessuna delle due sortì qualche effetto e alla fine la Francia si arrese. 3 Pur avendo perso un imperatore con la caduta di Napoleone III, l’Europa se ne guadagnò un altro allorché re Guglielmo di Prussia fu promosso a imperatore di tutti i tedeschi. Frattanto il disordine politico in Francia vide giungere al potere nella capitale il primo governo socialista d’Europa, la Comune di Parigi. Quando il governo nazionale cercò di disarmare la milizia parigina, la Comune rifiutò, allora l’esercitò francese entrò in città e annientò i comunardi quartiere per quartiere. Ogni volta che si arrendeva una sacca di resistenza, i ribelli venivano messi in riga e fucilati; nel corso degli scontri furono giustiziati sommariamente duemila prigionieri e tra le macerie trovarono la morte per caso fino a 25.000 parigini.4
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Carestie dell’India Britannica Bilancio delle vittime: 26,6 milioni di morti nelle carestie1 (esclusa la carestia del Bengala della seconda guerra mondiale) Posizione: 4 Tipologia: sfruttamento commerciale Contrapposizione di massima: la Gran Bretagna che opprime l’India Periodo: maggiori carestie negli anni 1769-1770, 18761879, 1896-1900 Luogo: India Principale stato partecipante: Regno Unito, che governava direttamente metà dell’India in quanto colonia Stati secondari partecipanti: principi indigeni che governavano l’altra metà come vassalli autonomi A chi diamo la colpa di solito: la maggioranza delle persone non ne ha mai sentito parlare, quindi nessuno ne viene incolpato Fattore economico: cereali
La misera scienza La carestia sembra tanto facile da spiegare. Se non c’è abbastanza cibo, la gente muore di fame; se non piove, i raccolti vanno male e la gente muore di fame; se al momento sbagliato compaiono il gelo o le cavallette, la gente muore di fame. Il problema è che l’inedia non si distribuisce mai equamente all’interno di una società: anche di fronte a un cattivo raccolto, i ricchi e i potenti restano grassi e felici. 464
Una teoria relativamente nuova tra gli esperti di scienze politiche sostiene che le carestie più letali non si verificano nelle democrazie. Grazie a questa teoria nel 1999 Amartya Sen ha vinto il premio Nobel: «Non è affatto sorprendente che, in tutta la storia, non ci sia mai stata una carestia in una democrazia funzionante» scrive in Lo sviluppo è libertà.2 A prima vista, la spiegazione più semplice e noiosa di una tale affermazione sembrerebbe essere che la democrazia, in genere, è tipica dei paesi ricchi, in cui il cibo abbonda. Tuttavia Sen osserva che la ricchezza di una nazione non ha alcuna importanza, «che fosse ricca (come l’Europa occidentale e gli Stati Uniti ai nostri giorni) o relativamente povera (come l’India, il Botswana o lo Zimbabwe dopo l’indipendenza)». Il fattore determinante sarebbe il fatto che i governi eletti devono mantenere felici gli elettori: lasciare che i cittadini muoiano di fame provoca un ulteriore calo di voti, oltre all’ovvia perdita di elettori. La vicenda dell’India sembrerebbe sostenere la teoria di Sen. Dall’indipendenza del 1947, l’India, paese povero spesso sospeso sull’orlo della fame, non ha mai vissuto una carestia totale, malgrado i numerosi momenti di difficoltà; al contrario, sotto la dominazione britannica le carestie si presentarono piuttosto frequentemente. Alla base di tale teoria c’è il presupposto che l’azione governativa possa sempre impedire la mortalità dovuta alle carestie, almeno in epoca moderna. Se è vero, vuol dire che ogni volta che la carestia colpisce è chi governa che l’ha permesso. La teoria di Sen si trova in diretto conflitto con gli insegnamenti di Adam Smith, il venerato filosofo settecentesco del capitalismo liberista. Nel 1776, Smith scrive che le carestie si verificano soltanto quando i governi interferiscono con le naturali forze di mercato. «La carestia non è mai scaturita da altra causa se non la violenza di un governo che tenta, con mezzi impropri, di rimediare all’incomodo della scarsità».3 Nell’Inghilterra imperialista, la parola di Adam Smith era la parola di Dio. 465
1769-1770 Grazie alla vittoria a Plassey (vedi Guerra dei Sette anni), gli inglesi (sotto forma della Compagnia delle Indie Orientali) finirono col governare il Bengala, ma partirono subito col piede sbagliato. Nel 1769 in India non arrivarono le piogge stagionali, così la conseguente carestia del biennio 1769-1770 uccise qualcosa come 10 milioni di persone, un quarto della popolazione del Bengala. Di chi fu la colpa? Un capitano della marina olandese della zona scrisse: «Questa carestia è stata causata in parte dal cattivo raccolto del riso dell’anno precedente; ma deve anche essere attribuita principalmente al monopolio inglese sull’ultimo raccolto di questo prodotto, che i britannici hanno voluto mantenere a un prezzo talmente elevato che gli abitanti meno fortunati [...] non hanno potuto comprare nemmeno la decima parte di quanto gli occorreva per vivere».4 Era un prologo funesto per i due secoli di dominio britannico a venire. 1876-1877 Facciamo un balzo in avanti di cento anni, fino al periodo in cui l’India intera sottostava al controllo britannico e l’autorità della Compagnia delle Indie Orientali era passata alla corona. Nel 1874, una siccità nelle province indiane nordorientali del Bengala e del Bihar rovinò il raccolto. Su milioni di contadini sfortunati incombeva l’inedia, ma il funzionario locale, sir Richard Temple, si mise in azione e istituì un sistema previdenziale modello per alleviare la fame: importò mezzo milione di tonnellate di riso dalla Birmania, che distribuì liberamente ai poveri. Grazie al tempestivo intervento di Temple, soltanto ventitré persone morirono di fame in quella carestia. Quello fu definito come «l’unico sforzo britannico di salvataggio coronato da sicuro successo in tutto l’Ottocento».5 466
Temple fu rimproverato severamente per lo sperpero di risorse agricole di cui si rese responsabile nel tentativo di dare nutrimento agli indigeni affamati. L’Economist lo biasimò perché aveva insegnato agli indiani che «è dovere del governo tenerli in vita». Si guadagnò così il disprezzo di tutta la classe dirigente, che lo accusò di aver sprecato denaro pubblico ed essersi immischiato nell’ordine naturale delle cose.6 Umiliato dalle critiche, Temple imparò la lezione e volle fare ammenda. L’opportunità si presentò ben presto, nel 1876, quando le piogge monsoniche non sopraggiunsero in un’area molto più grande. La terra inaridì e si esaurì, i raccolti si seccarono, il bestiame denutrito deperì. Allorché assunse il compito di supervisionare la gestione degli aiuti in questa nuova carestia, Temple doveva assolutamente dimostrare che non avrebbe sforato il bilancio. «Tutto deve essere subordinato» promise «al dovere finanziario di sborsare la minima somma di denaro compatibile con la salvaguardia della vita umana».7 Questo fece una buona impressione al viceré dell’India, Robert Bulwer-Lytton, che aveva bisogno di tutta la liquidità a disposizione nelle casse dello stato per combattere una nuova guerra di conquista in Afghanistan. Il primo ministro Benjamin Disraeli aveva assegnato Bulwer-Lytton all’India proprio per ampliare i confini dopo una precedente sconfitta: entrambi gli uomini erano decisi ad accollare tale costo ai contribuenti indiani, senza gravare sui britannici. Nel frattempo, la regina Vittoria era appena stata proclamata imperatrice dell’India,* e lord Lytton trascorse gran parte del 1876 a progettare qualcosa di spettacolare per celebrare la promozione della regina. Si riunirono tutti i signori indiani affinché assistessero alla magnificenza della loro nuova padrona. Il culmine si raggiunse con la festa, durata una settimana, per 68.000 sovrani locali, la più grande celebrazione del genere della storia. Dunque, nella lista delle priorità del governo britannico per 467
l’India il sostegno alle vittime della carestia figurava soltanto al terzo posto. Da sempre, i sovrani indiani come i Moghul avevano accantonato il raccolto degli anni migliori come scorta per gli anni più magri, ma sotto il governo britannico i precedenti buoni raccolti erano stati esportati in Inghilterra. Di conseguenza, quando nel 1876 in India i raccolti vennero a mancare, non c’erano riserve a cui attingere. Tale penuria determinò un aumento dei prezzi che li rese proibitivi per un indiano medio. E intanto i commercianti accumulavano provviste di cereali nella speranza che i prezzi salissero ulteriormente. Mentre i contadini affamati si riversavano per le vie per trovare il cibo, i blocchi stradali tenevano i profughi lontani dalle città di Bombay e di Pune. A Madras (ora Chennai, nell’India sudorientale) la polizia espulse 25.000 occupanti abusivi affamati. Alla fine, il governo coloniale organizzò campi di lavoro in cui gli affamati avrebbe costruito canali e ferrovie in cambio di un pasto. La filosofia guida di allora era quella di concedere aiuti molto difficilmente, in modo da scoraggiare i poveri dal contare sui sussidi governativi.8 Ci si aspettava che i destinatari di tali aiuti lavorassero duramente per guadagnarsi il pane, scavando fossati e spaccando pietre. Per i progetti di lavori pubblici i campi accettavano soltanto persone forti e sane e impiegavano soltanto i lavoratori che provenivano da almeno quindici chilometri di distanza, in base alla teoria secondo cui un lungo cammino avrebbe eliminato i più deboli: centinaia di migliaia di individui furono così respinti proprio perché troppo gracili per essere di qualche utilità. Le autorità britanniche concordavano quasi unanimemente sul fatto che aiutare i poveri non avrebbe fatto altro che creare un ciclo di dipendenza. Il ministro delle Finanze dichiarò: «Ogni tentativo benevolo volto a mitigare gli effetti della carestia e delle carenze sanitarie può soltanto aumentare i mali 468
della sovrappopolazione». Lytton affermò che la popolazione indiana tendeva «a crescere più rapidamente degli alimenti che spuntano dalla terra» e che qualunque soccorso sarebbe stato assorbito dall’ulteriore procreazione sfrenata.9 Un successivo rapporto governativo concludeva: «Se il governo spendesse più della sua rendita in aiuti, una percentuale ancora maggiore della popolazione cadrebbe nell’indigenza». La razione che Richard Temple distribuì a ogni lavoratore di questi campi di lavoro rappresentava soltanto i due terzi di quanto aveva elargito nel 1874, durante la sua riuscita opera di sostegno, ossia 1627 calorie giornaliere invece di 2500. Anzi, la nuova razione quotidiana del 1876 per gli indiani conteneva 123 calorie in meno della razione destinata a ogni internato del campo di concentramento nazista di Buchenwald, nel 1944. La razione di Temple – poco meno di mezzo chilo di riso al giorno, senza carne né verdura – era la metà di quella riservata ai criminali delle prigioni indiane.10 A tutte le terre sotto il proprio controllo Temple e Lytton imposero l’Anti-Charitable Contributions Act del 1877, una legge che vietava tutte le donazioni private che avrebbero potuto abbassare il prezzo dei cereali fissato dal libero mercato. La legge era accompagnata dalla minaccia di incarcerazione per tutti i trasgressori. Nel frattempo, mentre la popolazione indiana moriva di fame, venivano esportate dall’India all’Europa oltre 300.000 tonnellate di cereali.11 Chi nutriva fiducia nel futuro e nella modernità aveva sperato che la nuova, brillante tecnologia dell’era moderna, in particolare le ferrovie, avrebbe reso obsoleta la carestia grazie al trasporto dei prodotti alimentari nelle aree colpite, ma nella pratica la tecnologia ebbe l’effetto esattamente opposto. Le zone meglio servite dalle ferrovie soffrirono di più perché i binari permisero ai commercianti di esportare i raccolti locali verso mercati più redditizi.12 Lord Salisbury, il segretario di Stato per l’India, tentennò nel rispondere in modo deciso alla carestia. Da un lato, egli cercò di 469
prendere le distanze dai propri connazionali che «idolatravano l’economia politica come una specie di ‘feticcio’» e che consideravano la carestia come «terapia salutare per la sovrappopolazione». Dall’altro, si congratulò con Disraeli per non essersi fatto condizionare da quella «idea sempre più diffusa che l’Inghilterra dovrebbe pagare un tributo all’India per averla conquistata». Salisbury accusò di essere «figlia del comunismo internazionale» l’opinione di chi riteneva che «la ricca Britannia dovrebbe accettare di penalizzare i suoi traffici per il bene della povera India».13 Fra i grandi potentati indigeni, fu soltanto il nizam di Hyderabad, nell’India centromeridionale, a offrire il proprio caritatevole aiuto. Migliaia di affamati percorrevano diversi chilometri per raggiungere i suoi centri di distribuzione e spesso morivano lungo la strada. Un editore inglese provò a convincere i suoi colleghi giornalisti a studiare il fenomeno in atto in India: Per lunghi anni abbiamo chiesto la sospensione di questi kist [tasse sulla terra] quando viene la carestia, ma invano. Privi di una legge sulla povertà nelle campagne, con la vecchia politica ancora una volta pronta a lasciar morire la gente se non sa cavarsela, come succede, […] noi e i nostri contemporanei dobbiamo parlare senza riserve e senza renderci complici nel crimine degli assassinii di massa commessi da uomini ciechi alla vera natura di ciò che stiamo infliggendo a questo paese.14 Nel 1878 un rapporto governativo sulla carestia assolse il governo da ogni responsabilità, addossando al clima l’intero disastro. La stima ufficiale parlava di 5,5 milioni di individui morti in territorio britannico, senza contare gli stati autoctoni, ma vari studiosi, in seguito, produssero stime di 10,3, 8,2 o 6,1 milioni di morti in tutta l’India a seguito della carestia del 1876.
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1896-1897 Allorché fu assodata la morte di molti milioni di indiani durante la carestia del 1876, il governo mise insieme rapporti, progetti e un fondo speciale per la carestia con l’obiettivo di assicurarsi che un tale evento non si ripetesse mai più. Vent’anni più tardi, accadde di nuovo e si scoprì che gran parte del fondo per la carestia era già stato speso senza che nessuno se ne fosse accorto.15 Il governo di Londra aveva finanziato il fondo per la carestia con le entrate provenienti dall’India, non dalla Gran Bretagna. Secondo il solito schema politico, i liberali in Parlamento provarono a mantenere il fondo assicurativo stabilendo un’imposta sul reddito dei ricchi e tagliando le spese militari, mentre i conservatori preferirono rimpinguare il fondo con l’imposta sul sale e il ripristino della tassa di concessione sui piccoli commercianti, cosa che ricadde molto più pesantemente sui poveri indiani. Il piano dei conservatori passò in Parlamento, ma, come di consueto, questo afflusso di contanti venne reindirizzato verso i progetti che più stavano a cuore ai politici, piuttosto che essere risparmiato per le carestie future. Nel 1879, il denaro in eccesso consentì a Lytton di cancellare il dazio sulle merci di cotone che entravano in India dalla Gran Bretagna, in tal modo agevolando le aziende tessili britanniche del Lancashire e impoverendo l’industria indiana del cotone. E rimaneva ancora denaro in abbondanza per invadere l’Afghanistan.16 Nel 1892, un quarto del totale delle entrate del governo indiano serviva per mantenere il peso del governo stesso: alimentava le pensioni britanniche, il ministero dell’India e l’interesse sul debito. Solo una minima parte tornava nel circuito dell’economia locale; la maggior parte andava alle banche e ai pensionati britannici. Queste spese interne consumavano qualsiasi eccedenza che l’economia agricola riusciva a produrre, compresi i cereali dei raccolti più 471
abbondanti che, di norma, si sarebbero dovuti accantonare per ammortizzare le cattive annate.17 Poi, nel 1896, le piogge monsoniche non arrivarono e i raccolti vennero nuovamente a mancare. Ancora una volta il prezzo dei cereali aumentò vertiginosamente, divenendo inaccessibile per l’indiano medio. E, ancora una volta, la gente morì di fame. Un testimone descrisse un bambino di cinque anni che trovò tra i contadini affamati: Le braccia erano larghe come il mio pollice, le gambe poco più grosse, le ossa pelviche spiccavano, le costole sulla schiena e sul davanti spuntavano dalla pelle come una gabbia per uccelli. Gli occhi erano fissi e persi nel vuoto, l’espressione del piccolo teschio solenne, vecchia e desolata. Volontà, forza e forse persino la sensibilità erano annichiliti in questo piccolo scheletro che avrebbe potuto essere un piccino felice e grassottello. Sembrava non sentire quando gli rivolgevi la parola. Quando lo sollevai tra pollice e indice, non pesava più di tre o quattro chili.18 Un missionario descrisse invece un agricoltore musulmano che vendette la sua terra, poi la sua casa e infine i suoi utensili da cucina per comprare il cibo per la famiglia. Quando fu terminato, consegnò suo figlio ai missionari perché lo mantenessero in vita. Dopo che, in lacrime, ebbe rassicurato il ragazzo che il suo gesto non significava affatto che non lo amava, ma solo che non aveva scelta, l’uomo si allontanò, lasciando che il figlio fosse cresciuto come un cristiano.19 1899-1900 Oggi sappiamo che questi periodi di siccità furono causati da El Niño-Oscillazione Meridionale, un riscaldamento sporadico della superficie dell’oceano Pacifico meridionale al largo dalla 472
costa del Perù, che altera ovunque i sistemi climatici, portando abbondanti precipitazioni dove solitamente è asciutto e siccità dove solitamente piove. Dopo una breve pausa, El Niño si ripresentò nel 1899 per un periodo di siccità ancora più lungo. Malgrado tutta la pratica che avevano fatto le autorità in passato, questa nuova carestia finì male esattamente come le precedenti. Il nuovo viceré dell’India, lord Curzon, ripeté la maggior parte delle politiche errate che avevano già ucciso tante persone in passato. I principi indiani non si comportarono meglio. Il maharaja di Indore pose il veto su tutte le spese per gli aiuti, mentre Curzon deportò i rifugiati provenienti dai principati indipendenti.20 Nelle regioni colpite, un contadino su sette andava in fallimento e veniva sfrattato; e quando i contadini indiani, totalmente in rovina, si riversarono nelle città, gli inglesi rafforzarono il controllo sul subcontinente.21 Con la locale penuria di cereali, i prezzi degli alimenti s’impennarono. Un metodista di Hyderabad scrisse: «Il popolo non aveva riserve di forza o di grano a cui fare ricorso, i debiti della carestia precedente gli gravavano ancora sulle spalle, i soldi erano introvabili perché chi li prestava aveva stretto i cordoni della borsa non vedendo possibilità di recuperare i prestiti».22 Le autorità britanniche vedevano imbroglioni ovunque e sospettavano che molti degli indiani che facevano domanda per ricevere gli aiuti avessero «mucchi di grano e gioielli».23 Nella presidenza di Bombay, i criteri di valutazione concepiti per tenere quanti più indiani possibile lontani dal sussidio di disoccupazione impedirono a milioni di persone di raccogliere aiuti.24 Dalla provincia settentrionale del Berar si esportarono oltre 200.000 quintali di cereali, anche se lì stavano morendo di fame 143.000 persone.25 Quando i populisti statunitensi del Kansas spedirono 200.000 sacchi di grano di aiuti «per solidarietà con gli agricoltori dell’India», i funzionari britannici tassarono la spedizione.26 L’ordine per i funzionari era: «bisogna a tutti i 473
costi raccogliere le entrate».27 Il colera decimò i profughi affamati. Un medico occidentale descrisse un campo in questo modo: «Milioni di mosche potevano molestare indisturbate le vittime infelici. Una giovane che aveva perso tutti i cari ed era impazzita era seduta sulla soglia a fissare con occhi vacui le scene orrende attorno a lei. Nell’intero ospedale non ho visto un singolo indumento decente. Stracci, solo stracci, e sudiciume».28 Malgrado l’esplosione demografica mondiale che ha caratterizzato il XIX e il XX secolo, tra il 1895 e il 1905 la popolazione dell’India subì un netto declino: era la prima volta che avveniva dal 1872, anno del primo censimento.29 Le tre stime più attendibili circa la mortalità dovuta alla carestia del 1899-1900 sono rispettivamente di 19, 8,4 e 6,1 milioni, lo stesso ordine di grandezza della carestia del 1876. Questa volta, però, il rapporto governativo britannico redatto a cose fatte riconobbe che la carestia fu provocata più dall’economia che dagli effetti del clima. Infatti, in Birmania e nel Bengala ci fu sempre una grande abbondanza di cereali, che si sarebbero potuti spedire a sud e a ovest per nutrire gli affamati: Grazie all’eccellente sistema di comunicazioni che adesso mette ogni angolo della Presidenza in stretto rapporto con il mercato più ampio, le forniture di cibo sono state sempre sufficienti e vale la pena di ripetere che le gravi privazioni sono state dovute in primo luogo alla mancanza di impiego nell’agricoltura e negli altri settori, anche se i mancati raccolti hanno causato la perdita di reddito normale in un’enorme area «a un livello mai visto».30
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Guerra russo-turca Bilancio delle vittime: 500.0001 (208.000 o 283.000 soldati) Posizione: 70 Tipologia: scontro di culture Contrapposizione di massima: turchi contro cristiani Periodo: 1877-1878 Luogo: Balcani Principali stati partecipanti: Russia, Turchia ottomana Stati minori partecipanti: Austria-Ungheria, Valacchia, Moldavia Principali entità non statali partecipanti: bosniaci, bulgari A chi diamo la colpa di solito: Turchia Nel 1876 in Bosnia scoppiò una rivolta contro i turchi, che si diffuse rapidamente presso gli altri sudditi cristiani del sultano all’interno dei Balcani, macedoni, serbi e bulgari. I più lontani, cioè i bosniaci, furono presi sotto la protezione dell’Austria, mentre i più vicini, ossia i bulgari, purtroppo furono facile preda della punizione ottomana: quando giunsero per sedare la rivolta, le truppe turche spazzarono via i villaggi ribelli e trucidarono 30.000 bulgari di ogni età e sesso. I massacri fecero inorridire l’Europa e tutti cominciarono a chiedere che qualcuno facesse qualcosa. Inizialmente il governo russo esitò: dopo tutto si trattava di una questione interna e nessuno aveva voglia di iniziare una guerra generale in Europa per una sciocchezza qualsiasi che riguardava i Balcani. I trattati vietavano alla Russia di ingerire negli affari turchi, ma molti ufficiali idealisti dell’esercito russo si dimisero e si unirono ai 475
ribelli per combattere comunque accanto ai confratelli slavi. Con il favore dell’opinione pubblica europea, nell’aprile del 1877 i russi sferrarono infine un attacco a sorpresa a sud, lungo la costa del mar Nero, e liberarono la Bulgaria dalla dominazione turca. Ben presto questa divenne l’unica guerra popolare in tutta la storia della Russia, tanto che per anni nel reclutamento i volontari superarono nel numero i coscritti. I russi andarono avanti nonostante parecchi tentativi di fermarli da parte degli ottomani. A luglio, avvicinandosi a Costantinopoli i russi si impantanarono di fronte alla trincee appena fuori dalla città turca di Pleven. Mesi di assalti inutili logorarono l’esercito russo, così, quando a novembre la città si arrese, la guerra si era protratta a sufficienza perché nelle capitali d’Europa l’idealismo fosse rimpiazzato dal pragmatismo. In Occidente l’opinione pubblica si allontanò dall’idea di fermare i turchi e si preoccupò invece della loro salvezza. E quando la flotta britannica fece rotta verso la zona di guerra, parve inevitabile una replica della guerra di Crimea, a meno che tutti non facessero un passo indietro.2 Alla fine l’impero ottomano si ritrovò stretto in una morsa in favore delle varie nazionalità locali. Il primo trattato imposto dai russi tentò di dare vita a una grossa nazione bulgara che comprendesse più o meno tutto ciò che i turchi possedevano ancora in Europa, tuttavia le altre potenze non lo consentirono; un secondo trattato negoziato a Berlino ridusse la Bulgaria alla sola riva meridionale del basso Danubio e la divise in due. Ai vassalli turchi di Serbia e Romania si concesse la piena indipendenza, mentre l’Austria poté occupare la Bosnia, senza tuttavia impossessarsene. Inoltre i turchi concessero l’isola di Cipro agli inglesi, quale ringraziamento per l’amicizia mostrata nel momento del bisogno.3 Per purificare i loro territori dalle tracce del nemico, i bulgari espulsero con notevole brutalità più di mezzo milione di residenti musulmani, migliaia dei quali trovarono la morte nell’esodo.
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La cultura popolare The sons of the Prophet are brave men and bold And quite unaccustomed to fear, But the bravest by far in the ranks of the shah, Was Abdul Abulbul Amir. Now the heroes were plenty and well known to fame In the troops that were led by the Czar, And the bravest of these was a man by the name Of Ivan Skavinsky Skavar. One day this bold Russian, he shouldered his gun And donned his most truculent sneer, Downtown he did go where he trod on the toe Of Abdul Abulbul Amir.* PERCY FRENCH, Abdul Abulbul Amir, 1877 Anche se gli inglesi si tennero fuori dalla guerra, il conflitto russo-turco lasciò nel loro vocabolario uno strano cimelio. Oltre alla canzone Abdul Abulbul Amir, scritta da uno studente del Trinity College di Dublino, vi fu un altro successo del varietà basato sugli eventi dell’attualità, una canzonetta arrogante di G.H. «The Great» MacDermott: We don’t want to fight but by Jingo if we do, We’ve got the ships, we’ve got the men, we’ve got the money too, We’ve fought the Bear before, and while we’re Britons true, The Russians shall not have Constantinople.** Da questo ritornello ha origine la parola inglese jingoism, che sta per sciovinismo esaltato. 477
Le due canzoni rappresentano esattamente le due opposte visioni che affiorano in ogni dibattito sull’eventualità di un intervento esterno. Da una parte c’è l’atteggiamento secondo il quale non si può stare a guardare mentre gli stranieri fanno qualcosa di atroce, dall’altra quello che sostiene che quegli stessi stranieri si ammazzano da anni e che continueranno a farlo, indipendentemente da ciò che facciamo noi. Le perdite Fino a questo punto del libro, per lo più dopo le battaglie gli eserciti lasciavano i feriti dov’erano caduti, a gemere finché l’esercito non se ne andava a dormire: combattere una battaglia era spossante. Raccogliere e curare i feriti richiedeva troppo tempo e troppe risorse perché un esercito si spingesse al di là di un semplice sforzo simbolico, mentre il nemico era ancora nei paraggi e minacciava di riprendere l’attacco. In realtà, aiutare a evacuare i feriti nelle retrovie veniva visto come uno stratagemma da codardi per mettersi al sicuro, non a caso spesso gli eserciti avevano regole che lo impedivano.4 Nel corso del decennio e mezzo che precedette la guerra russo-turca, in Occidente i filantropi si erano occupati di mettere in piedi un’organizzazione neutrale dedita all’evacuazione dei soldati feriti dal campo di battaglia verso gli ospedali, senza stare ad aspettare i generali. Siccome non stava da una parte o dall’altra, alla Croce Rossa era consentito muoversi liberamente sul teatro di guerra per compiere la propria missione. Dopo un avvio promettente in una piccola guerra scoppiata tra Prussia e Danimarca nel 1864, il movimento ottenne un consenso più ampio durante il conflitto franco-prussiano del 1870, ma conobbe il primo intoppo in quello russo-turco. In una guerra tra musulmani e cristiani, i soldati turchi avevano difficoltà a credere che quegli stranieri con la croce rossa non fossero nemici. Così, per placare i loro sospetti, da quel momento in poi nei paesi islamici la Croce Rossa si trasformò 478
in Mezzaluna Rossa. Bilancio delle vittime L’esercito russo registrò circa 35.000 morti in battaglia e 83.000 periti per malattie o incidenti,5 le vittime militari turche sono state stimate tra 90.0006 e 165.000.7 Nessuno dei calcoli delle vittime civili in cui mi sono imbattuto ispira grande fiducia. Il demografo sovietico Boris Urlanis calcolò un numero eccessivo di civili morti in Russia compreso tra 300.000 e 400.000, anche se la guerra non fu combattuta lì.8 I nazionalisti turchi giurano che i bulgari massacrarono 260.000 turchi nel corso dell’epurazione del loro paese dagli ex oppressori, ma questo calcolo l’ha fornito per primo Justin McCarthy, il quale ha posizioni piuttosto originali.9 Per quanto siano discutibili i dettagli, tra queste cifre disorientanti probabilmente si nasconde un bilancio di una paio di centinaia di migliaia di vittime civili, ma non possiamo dire chi, come e dove. A splash in the Black Sea one dark moonless night Caused ripples to spread wide and far, It was made by a sack fitting close to the back, Of Ivan Skavinsky Skavar. A Muscovite maiden her lone vigil keeps, ’Neath the light of the cold northern star, And the name that she murmurs in vain as she weeps, Is Ivan Skavinsky Skavar.***
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Guerra mahdista Bilancio delle vittime: 5,5 milioni Posizione: 21 Tipologia: rivolta messianica Contrapposizione di massima: mahdisti («dervisci») contro chiunque altro Periodo: 1881-1898 Luogo: Sudan Principali stati partecipanti: Mahdiya (territorio del Mahdi) Stati minori partecipanti: Etiopia, Inghilterra, Darfur, Egitto Fattori economici: schiavi, debito A chi diamo la colpa di solito: il Mahdi e il Khalifa La domanda senza risposta che si fanno tutti: perché così tanti uomini devoti non hanno avuto problemi riguardo alla schiavitù?*
La radice di tutti i mali A causa del consueto insieme di guerre insensate e sovrani spreconi, nel 1879 il governo dell’Egitto procedeva vacillando verso la bancarotta. Preoccupati per la sicurezza del canale di Suez, inglesi e francesi si gettarono insieme a raddrizzare le finanze egiziane. Poco dopo i nazionalisti all’interno dell’esercito egiziano si ribellarono contro quei contabili stranieri e siccome i francesi non riuscirono ad arrivare in tempo, la rivolta fu repressa esclusivamente dalle truppe inglesi. E così un protettorato internazionale si trasformò in una colonia 480
britannica, circostanza che ebbe enormi ripercussioni diplomatiche, per le quali occorre aspettare il prossimo capitolo (vedi Stato Libero del Congo).1 Per quanto riguarda questo capitolo, l’unica cosa da sapere è che di colpo gli inglesi assunsero il controllo dell’Egitto. Volevano solamente la restituzione dei loro prestiti e la sicurezza del canale, per questo cercarono di restare nell’ombra e da lì sorvegliare tranquillamente il governo locale. Purtroppo quest’ultimo aveva già irritato in svariati modi i tradizionalisti arabi: Il Cairo era corrotta e decadente, gli abitanti bevevano apertamente alcol e suonavano musica, le classi alte studiavano le lingue, la scienza e la medicina degli occidentali nelle loro scuole. Ormai l’Egitto era sotto il giogo dei signori europei. La goccia che fece traboccare il vaso giunse allorché Il Cairo – su sollecitazione inglese – cercò di abolire la tratta degli schiavi, che costituiva il pilastro economico degli arabi residenti nella provincia egiziana del Sudan, nell’alto corso del Nilo. I sudanesi si ribellarono dunque nel 1881. La guida Il Sudan si raccolse attorno a Muhammad Ahmad, un sant’uomo errante che sfidava le autorità da anni. Nato e cresciuto nell’alta valle del Nilo, preferì lo studio dell’Islam al mestiere di famiglia, quello di falegname: da adolescente seguì i mistici sufi, i dervisci, poi entrò nella cerchia di parecchi degli uomini più devoti del Sudan, finché non decise di essere più santo di tutti gli altri messi insieme. Se ne separò e cominciò a raccogliere discepoli attorno a sé. Ben presto insinuò – e alla fine dichiarò apertamente – di essere il Mahdi, «il ben guidato da Dio», un titolo messianico. Il calendario islamico si avvicinava alla svolta del secolo (1882-1183 d.C. = 1300 dall’Egira), perciò la società era pervasa da inquietudini apocalittiche. All’inizio le autorità egiziane di Khartum, capitale della 481
provincia, cercarono di comprarlo, ma quando Muhammad Ahmad si dimostrò serissimo e incorruttibile, mandarono i soldati ad arrestarlo. Nel corso della notte due compagnie di truppe egiziane fecero a gara su strade diverse per essere le prime a catturare il Mahdi e riscuotere la ricompensa. Verso l’alba giunsero simultaneamente a destinazione da direzioni opposte e finirono per spararsi accidentalmente a vicenda, quindi apparvero le milizie del Mahdi, che trucidarono entrambe le compagnie.2 La forza successiva di 4000 uomini al comando di Yusuf Pascià era così poco disciplinata e talmente fiduciosa di poter sconfiggere i selvaggi che non fece nemmeno appostare le sentinelle: i mahdisti attaccarono di notte e annientarono fino all’ultimo uomo anche quest’armata, utilizzando lance, spade e poco altro. Poi fu la volta di una migliore truppa egiziana, stavolta di 8000 uomini capeggiati da Hicks Pascià, un mercenario britannico convertito all’Islam, che attaccò il territorio dei mahdisti da Khartum, ma dopo che per settimane ebbe inseguito senza meta i ribelli in pieno deserto, questi interruppero i rifornimenti degli egiziani. Così ben presto la colonna vacillò, sbandò e si disintegrò per il calore e la sete, finché i dervisci non tesero un’imboscata e la massacrarono al completo. La testa di Hicks fu portata al Mahdi, mentre il corpo fu lasciato ai dervisci esultanti, che lo trafissero con le lance.3 Ormai a corto di soldati, il governo egiziano rinunciò e nel febbraio 1884 inviò a Khartum Charles Gordon, un mercenario inglese che aveva contribuito a reprimere i Taiping in Cina (vedi Rivolta dei Taiping), con l’ordine di evacuare tutti gli europei e gli egiziani della città, 7000 soldati e 27.000 civili. Giunto sul posto, Gordon decise che sarebbe stato crudele abbandonare i distaccamenti avanzati egiziani alla mercé dei dervisci, pertanto si mise ad attenderne il rientro a Khartum. A maggio, mentre era ancora in attesa, i mahdisti isolarono la città: Gordon era in trappola. 482
Quando l’opinione pubblica inglese venne a conoscenza dell’eroica situazione di Gordon, fece pressioni affinché il governo si precipitasse a soccorrerlo. A ottobre al Cairo si mise insieme un corpo di spedizione di 10.000 uomini, comandato da lord Garnet Wolseley, che fu inviato milletrecento chilometri a sud, a Khartum, nel cuore della rivolta. Mentre la colonna si avvicinava i dispacci inviati in Inghilterra facevano fremere i lettori dei quotidiani, ma poi venne il giorno in cui Wolseley raggiunse la meta, dove trovò i dervisci sulle mura di Khartum. Due giorni prima, il 25 gennaio 1885, nell’imminenza dell’arrivo dei rinforzi britannici, il Mahdi aveva ordinato un assalto disperato contro la città, che era caduta: erano seguiti stupri e il massacro della popolazione in trappola. Le donne erano state distribuite negli harem dei mahdisti privilegiati e la testa mozzata di Gordon fu presentata al Mahdi, anche se non l’aveva chiesta. Il califfato In Gran Bretagna l’insuccesso nel salvataggio di Gordon causò la caduta del governo liberale di William Gladstone. Frattanto il generale Wolseley abbandonò il Sudan al suo destino e riportò in patria il proprio esercito. Per lo più i libri di storia sorvolano sui quindici anni successivi perché non vi sono coinvolti gli inglesi, ma in ogni caso sotto il dominio dei mahdisti il Sudan se la passò male. I morti della sola guerra anglo-sudanese non bastano per introdurre questo evento nel mio elenco, però con guerre su tutti i fronti, carestie e l’intensificarsi delle scorrerie degli schiavisti la popolazione del Sudan precipitò. Degli 8 milioni di persone che abitavano in Sudan prima della rivolta, dopo la riconquista il governo egiziano ne poté contare solamente 2,5 milioni.4 Khartum fu lasciata in rovina, infestata di erbacce, disseminata di ossa e depredata di tutto quel che c’era di utile, mentre dall’altra parte del fiume, nel complesso del Mahdi 483
attorno a Omdurman, sorgeva un’altra capitale, che raggiunse i 150.000 abitanti. I mahdisti imposero una rigida legge islamica. Si diffusero sempre più fustigazioni, mutilazioni e decapitazioni, l’elemosina che l’Islam suggerisce quale finalità virtuosa si trasformò in una tassa obbligatoria, che andava in larga parte a finanziare il dispendioso stile di vita dei capi del movimento. Il Mahdi bandì tutto ciò che era estraneo alla cultura araba – istruzione, industria e medicina europee –, persino portare il fez, che faceva troppo turco. Nel giugno del 1885, poco dopo avere vietato la medicina occidentale e avere espulso o giustiziato tutti i medici, il Mahdi si ammalò di tifo e morì. Il comando della Mahdiya passò a uno dei suoi seguaci più prossimi, il Khalifa («successore») Abdullahi.5 A formare la spina dorsale del califfato di Abdullahi era il clan nomade dei Taaisha Baqqara (in arabo «mandriani») del Kordofan, il cui titolo alla successione era tuttavia contestato dai parenti del Mahdi, i quali ritenevano che ne fosse degno uno di loro: tale rivalità provocò una guerra civile a bassa intensità. All’epoca il Sudan era ancora in larga parte una società tribale: molti clan se ne stavano nei propri territori, ma altri intraprendevano con quelli confinanti faide sanguinose che duravano per intere generazioni; ciò nonostante, le uniche armi moderne a disposizione erano i fucili tolti a migliaia agli egiziani morti, che il Khalifa distribuiva soltanto ai suoi amici. Abdullahi portò l’intero Sudan sotto il proprio controllo. Massacrò gli arabi kababish del Kordofan, che avevano rifiutato il Mahdi e venduto cammelli a Gordon; massacrò i juhaina del Nilo Azzurro (il ramo orientale che si congiunge con il Nilo Bianco a Khartum), senza tener conto del fatto che coltivavano il grano di Omdurman. Inoltre una rivolta nel Darfur suscitò l’ira di Abdullahi e due anni di scontri furibondi nella regione.6 Ripresero infine le scorrerie in territorio pagano in cerca di schiavi. Allorché si ribellò la tribù araba dei batahin, Abdullahi ordinò 484
di radunare ogni maschio della tribù e di portarlo a Omdurman per il castigo. Prima che gli ultimi settanta fossero giustiziati in pubblico, in carcere ne morirono a decine. Al diciottesimo impiccato la corda si spezzò, allora per i successivi Abdullahi passò alla decapitazione, infine agli ultimi ventisette fece mozzare mani e piedi e li lasciò a morire dissanguati oppure a mendicare al mercato.7 Il Khalifa proibì il tradizionale pellegrinaggio alla Mecca e quale nuovo dovere sacro impose invece il pellegrinaggio presso la tomba del Mahdi, a Omdurman. Con le minime precipitazioni del 1888, la generale scarsità di grano indotta dal massacro degli juhaina e dalla guerra inesorabile si trasformò in una vera e propria carestia. Su ordine del Khalifa, i soldati sudanesi si diedero a perlustrare le campagne e a confiscare tutto il grano che trovavano, che veniva poi riportato nella capitale e ridistribuito alla popolazione a seconda dei legami di fedeltà. Con la carestia che stringeva il paese, divenne difficile mantenere le strade di Omdurman sgombre di cadaveri. Nel 1887 i mahdisti invasero l’impero cristiano dell’Etiopia (all’epoca denominata anche Abissinia) e portarono la desolazione nelle province di frontiera. Quando l’imperatore etiope Giovanni IV si mosse con il suo esercito per fermarli, una parte dei mahdisti lo prese alle spalle e conquistò la capitale Gondar: i sudanesi stuprarono e uccisero gli abitanti e poi la diedero alle fiamme. Nel 1889 Giovanni attaccò le fortificazioni dell’esercito sudanese a Metemma: fu l’ultima battaglia della storia combattuta prevalentemente con la forza dei muscoli e le armi da taglio. Nonostante l’attacco etiope fosse iniziato bene, Giovanni fu ferito a morte e ricondotto al campo; ciò demoralizzò gli etiopi e compromise l’attacco.* Mentre gli etiopi preparavano il corpo dell’imperatore per il funerale, i parenti iniziarono a litigare per il trono e si precipitarono a casa per ottenere un vantaggio nell’imminente guerra civile. 485
Approfittando di questa confusione, i mahdisti attaccarono fuori Metemma e dispersero gli etiopi rimanenti, che abbandonarono la bara dell’imperatore, incrostata di gioielli. Dopo aver trovato questo trofeo nell’accampamento vuoto, i mahdisti spedirono la testa dell’imperatore a Omdurman, dove fu esibita con orgoglio per le strade e aggiunta alla collezione.8 La riconquista Pur avendo ignorato il Sudan per un decennio e mezzo, a un certo punto gli inglesi furono presi dalla preoccupazione che i francesi, i quali stavano consolidando un impero all’interno dell’Africa, si avvicinassero al Nilo, cosa che non si poteva consentire. Si temeva che, se avessero messo piede nell’alto corso del Nilo, i francesi avrebbero utilizzato le moderne opere di ingegneria per deviare tutta l’acqua preziosa dall’Egitto. Così nel 1898 un’armata di 17.000 egiziani e 8000 inglesi, comandata da sir Herbert Kitchener, partì alla riconquista del Sudan. Kitchener, un uomo dai baffi imponenti che parlava correntemente l’arabo, era stato ufficiale subalterno di Wolseley nella campagna del 1884-1885; siccome non aveva alcun compatriota sotto assedio da soccorrere, poté muoversi con maggiore tranquillità rispetto al suo predecessore. Ad aprile gli inglesi uccisero 3000 mahdisti nel primo scontro, che avvenne quando una colonna di dervisci cercò di distruggere la ferrovia che gli inglesi stavano costruendo ad Atbara a sostegno della propria offensiva. I mahdisti avevano fama di essere inarrestabili e fanaticamente sordi al dolore, cosa che indusse i fucilieri britannici a utilizzare i proiettili dumdum, pallottole di piombo morbido a espansione che si portavano via intere parti del corpo e aprivano grossi squarci ovunque colpissero. Anziché rischiare di restare uccisi da un ultimo disperato tentativo di difesa, spesso gli inglesi uccidevano i dervisci feriti a terra. I sudanesi non li hanno mai perdonati. 486
Dopo una marcia ordinata verso Khartum, a settembre gli inglesi subirono l’attacco dell’intero esercito mahdista nei pressi di Omdurman. Si erano portati dietro una nuova invenzione straordinaria, la mitragliatrice Maxim, e quando i dervisci urlanti attaccarono, li abbatterono a migliaia. Quella di Omdurman fu una delle battaglie più asimmetriche della storia: vi restarono uccisi 10.000 dervisci, altri 20.000 furono gravemente feriti e non riuscirono a fuggire. Per contro gli inglesi persero soltanto uno 0,5% di quella cifra, cioè 48 uomini, in gran parte quando un ufficiale di cavalleria in cerca di gloria guidò i suoi uomini contro i nemici ammassati in una carica totalmente non autorizzata, priva di appoggio e inutile. Fu l’ultima carica di cavalleria mai tentata dall’esercito britannico. Gli inglesi rasero al suolo la tomba del Mahdi e ne gettarono le ossa nel Nilo, tranne il cranio, che dapprima fu offerto a Kitchener, poi a un museo inglese e infine sepolto di nuovo con tutti i riti islamici quando la regina Vittoria, inorridita, venne a saperlo e ordinò alle sue truppe di lasciare in pace i resti di quell’uomo. L’ultimo barlume dello stato mahdista si spense allorché a novembre del 1899 il Khalifa Abdullahi, in fuga, fu scovato e ucciso in battaglia.
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Stato Libero del Congo Bilancio delle vittime: 10 milioni Posizione: 14 Tipologia: sfruttamento commerciale Contrapposizione di massima: europei che sfruttano gli indigeni Periodo: 1885-1908 Luogo: bacino del Congo, Africa centrale Principali stati partecipanti: nessuno Principali entità non statali partecipanti: Stato Libero del Congo A chi diamo la colpa di solito: Leopoldo II, re del Belgio Fattori economici: gomma, legname, avorio Veramente, a quell’epoca [l’Africa] non era già più uno spazio vuoto. Dagli anni della mia fanciullezza s’era riempito di fiumi e laghi e nomi. Aveva cessato di essere uno spazio vuoto avvolto di delizioso mistero – una macchia bianca su cui un ragazzo poteva sognare i suoi sogni di gloria. Era diventato un luogo di tenebra. Ma aveva questo di speciale: che in esso c’era un fiume, un fiume enorme, straordinariamente simile, sulla carta, a un immenso serpente srotolato, con la testa nel mare, il corpo disteso che si snodava lontano entro una regione vastissima, e la coda che si perdeva nelle profondità del continente. E mentre nella vetrina guardavo la carta di quel luogo, esso mi affascinava come un serpente affascina un uccello – uno sciocco uccellino. Mi rammentai allora dell’esistenza di una grossa impresa, di una 488
Compagnia che esercitava il commercio su per quel fiume. «Al diavolo, – pensai, – con tutta quell’acqua dolce non potranno fare a meno d’un qualche tipo di imbarcazione per i loro traffici – di un qualche battello a vapore! Perché non cercar di ottenere il comando di uno di essi?» Ripresi a camminare lungo Fleet Street, ma non mi riuscì di liberarmi di quell’idea. Il serpente mi aveva ammaliato. JOSEPH CONRAD, Cuore di tenebra L’uomo che collocò il fiume Congo sulla carta geografica fu il giornalista della giungla Henry Stanley. Dopo essersi guadagnato la notorietà con il probabile ritrovamento del dottor Livingstone, tornò in Africa per dare una risposta a tutte le grandi domande della geografia. Con un’imbarcazione portatile, la Lady Alice, partì da Zanzibar e penetrò nell’entroterra lungo le piste degli schiavisti arabi dell’Africa orientale, dapprima circumnavigò il lago Tanganica, poi il lago Vittoria e quindi localizzò una volta per tutte le sorgenti del Nilo. Avendo risolto il grande mistero geografico dell’epoca, si lanciò con l’imbarcazione trasportabile – e delle canoe acquistate sul posto – lungo un grande fiume misterioso che scorreva dai laghi verso ovest. Si trattava del Congo. La favolosa spedizione di Henry Stanley lungo il Congo portò nell’esplorazione dell’Africa la potenza di fuoco degli europei, che spazzò via qualunque opposizione tentata dagli indigeni. Quando nel 1870 Stanley riapparve dal Congo sulla costa atlantica, era finita l’età dell’oro delle esplorazioni africane. I suoi dispacci dall’Africa stimolarono la fantasia degli occidentali. Purtroppo, mediante lettere che lo avevano atteso pazientemente per anni, Stanley apprese la notizia terribile che la sua fidanzata Alice, il cui ricordo lo aveva animato e ispirato mentre percorreva l’Africa più profonda con l’omonima imbarcazione, aveva sposato un altro circa un anno dopo la sua 489
scomparsa. Depresso e inconsolabile, trasformò i suoi diari in un best seller dedicato alla sue avventure nel continente nero. Impressionato dalle enormi ricchezze del paese, Stanley aveva sperato di spingere il governo britannico a insediarvi una colonia, ma la cosa non suscitò interesse. E così rimase l’ultimo grande esploratore che non riuscì a far interessare un governo al bacino del Congo. I fautori della causa organizzavano congressi e scrivevano editoriali appassionati che si esprimevano sull’utilità di aprire mercati alle merci europee, sul numero di anime pagane da salvare, sulle ricche risorse naturali pronte da conquistare, sui cannibali selvaggi che avevano bisogno di una riforma alimentare e sugli sventurati mercati di schiavi che occorreva chiudere. Nessuno era interessato. I governi europei assumevano l’atteggiamento ragionevole della borghesia, secondo cui le colonie costavano più di quel che valevano. Ancora nel 1870 gli unici funzionari nordeuropei a sud del Sahara si trovavano in Sudafrica – dove il clima era adatto all’insediamento dei bianchi – e nelle città costiere come Libreville e Freetown, fondate nel quadro del movimento contro la schiavitù. I missionari penetravano nel cuore dell’Africa, ma lo facevano a proprio rischio, senza la protezione dei loro governi. Un uomo facoltoso e di classe Tra coloro che non riuscivano a convincere un governo ad accollarsi il «fardello dell’uomo bianco» c’era il re del Belgio Leopoldo II, un edonista pericolosamente intelligente in cerca di terre remote da conquistare. Era nato nel 1835 e aveva soltanto cinque anni meno del suo piccolo stato, ma coltivava grandi ambizioni. «Non esistono nazioni piccole» diceva Leopoldo «ma solo piccole menti». La Spagna voleva vendere le Filippine? Nessuno sembra sfruttare quella distesa desolata dell’Argentina, e se ce la prendessimo noi? Magari è libero il Borneo, o la 490
Nuova Guinea. Purtroppo il Parlamento belga non era più interessato alla conquista di colonie della propria controparte inglese, perciò le ambizioni di Leopoldo non approdavano a nulla. Dopo averne letto il libro, il re tentò di persuadere Stanley, piuttosto riluttante, a entrare in società con lui. Nei suoi viaggi per l’Europa con lo scopo di promuovere il libro, ogni volta che il re si trovava nella stessa città Stanley riceveva cortesi inviti per un pranzo o un tè. Leopoldo stava accarezzando l’idea di aggirare del tutto i governi europei e dare vita a una colonia indipendente, lo Stato Libero del Congo. Prese a modello il più antico e piccolo insediamento di ex schiavi, la Liberia: lo Stato Libero del Congo avrebbe vietato l’importazione di armi da fuoco e alcol, avrebbe imposto la pace a tutte le tribù, abolito la tratta degli schiavi, ma soprattutto avrebbe costituito una zona protetta di libero scambio dove avrebbero attecchito le tre C: Commercio, Cristianesimo e Civiltà. A settembre del 1876 Leopoldo finanziò un congresso a Bruxelles, durante il quale si presentarono studi scientifici e antropologici sull’Africa, quindi creò un’organizzazione di facciata denominata Association Internationale Africaine. Il gruppo si riunì di nuovo un anno dopo, per poi scomparire. Ma non importava, perché era servito allo scopo: era durato abbastanza per convincere il mondo che Leopoldo era affidabile. Stanley accettò di tornare in Congo e costruire una strada attorno alle cascate Livingstone, la lunga serie di cateratte che separa l’estuario costiero dall’ampio e lento tratto di fiume navigabile che penetra per più di 1500 chilometri nel cuore dell’Africa. A partire dal 1879 installò della stazioni commerciali lungo il fiume e negoziò con i capi locali le servitù di passaggio contro beni di scambio. Approvato a occhi chiusi 491
Oltre a far infuriare la popolazione locale e a suscitare la rivolta descritta nel capitolo precedente (vedi Guerra mahdista), l’occupazione inglese dell’Egitto nel 1879 irritò anche il resto d’Europa. Nonostante nel vecchio continente nessuno volesse davvero l’Africa per sé, non ci si sognava nemmeno di farla prendere a qualcun altro, perciò non appena gli inglesi allungarono una mano incerta gli altri paesi saltarono su e reclamarono la loro parte. Se gli inglesi controllavano l’Egitto, tutti gli altri – Francia, Germania, Portogallo, Italia – volevano partecipare. Nel 1884 i rappresentanti di più di dodici nazioni si riunirono a Berlino per spartirsi equamente l’Africa. Naturalmente nessuna delle nazioni rappresentate al congresso era africana, ma c’era bisogno di dirlo? Non furono invitati nemmeno gli stati africani occidentalizzati come il Transvaal e la Liberia. Oltre a suddividere le sfere d’influenza delle varie nazioni, i delegati approvarono formalmente il progetto di Leopoldo: il Congo sarebbe divenuto una colonia privata sotto la sovranità personale del monarca, non un possedimento dello stato del Belgio. In parte si trattava di un compromesso: nessuna grande potenza voleva che il Congo cadesse nelle mani di un’altra grande potenza, tuttavia concederlo al re del piccolo Belgio neutrale sembrava una cosa sicura. In quell’epoca di capitalismo sfrenato, la concessione alle imprese private di comportarsi come nazioni sovrane presentava concreti precedenti. Per tutti i secoli XVII e XVIII la Compagnia delle Indie Orientali olandese aveva gestito colonie e flotte navali in Estremo Oriente senza la supervisione governativa; a sua volta la Compagnia delle Indie Orientali britannica conquistò l’India e la governò in maniera indipendente finché nel 1858 sopraggiunse la corona; fino al 1868 la Compagnia della Baia di Hudson controllò un sesto del Nordamerica. Perciò lo Stato Libero del Congo non sarebbe stato nient’altro che l’ennesima colonia privata.
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Il caucciù rosso All’inizio lo Stato Libero non fu un’operazione riuscita. Come avevano previsto gli scettici del Parlamento belga, le colonie costavano di più e producevano di meno di quanto aveva immaginato in origine Leopoldo. Dopo dieci anni, lo Stato Libero era avviato verso la bancarotta e Leopoldo stava per chiedere al governo belga di toglierglielo dalle mani; fu salvato, però, da un’impennata della domanda mondiale di caucciù. Nel 1888 Dunlop aveva inventato il pneumatico in gomma per le biciclette e nel 1895 Michelin fece altrettanto per le automobili. Di colpo Leopoldo disponeva di qualcosa che volevano tutti.1 Per molti aspetti, lo Stato Libero operava con un inganno elaborato. Sulla carta, si poteva rappresentare graficamente con tanto di riquadri e frecce un’organizzazione incredibilmente complessa che serviva soltanto a mascherare il fatto che tutto quel denaro andava a finire direttamente nelle tasche di Leopoldo. La colonia era divisa in due parti. La più piccola era concepita come una zona di libero scambio, nella quale agli investitori si offrivano concessioni che garantivano l’esclusivo diritto commerciale su un determinato servizio, prodotto, regione o manifattura. A un gruppo finanziario fu venduto il contratto per la costruzione della ferrovia attorno alle cascate Livingstone, a un altro fu concesso il diritto esclusivo di sfruttamento dei minerali del Katanga, mentre un altro ancora sfruttava i giacimenti di diamanti del Kasai. In queste operazioni Leopoldo riusciva quasi sempre a impossessarsi di sostanziosi pacchetti azionari, per esempio possedeva il 50% della Anglo-Belgian India Rubber Company.2 La parte più estesa della colonia costituiva invece la proprietà privata dello stato (il Domaine Privé). I funzionari governativi avevano salari bassi, ma guadagnavano commissioni redditizie basate su ciò che riuscivano a estorcere al loro distretto. Il denaro che versavano nelle casse dello stato serviva a coprire le 493
spese operative. Una volta coperte le spese, fu instaurata una terza zona (il Domaine de la Couronne), proprietà personale di Leopoldo stesso. Era gestita secondo i medesimi criteri del Domaine Privé, ma il denaro andava direttamente al re. Oltre alle risorse naturali del bacino del Congo, lo Stato Libero saccheggiò anche l’abbondante manodopera locale. Per scavare una strada o posare i binari nella giungla si poteva precettare l’intera popolazione di una qualunque città vicina. Se la compagnia ne aveva necessità, si potevano utilizzare gli abitanti come portatori, e se questi morivano spossati per il troppo lavoro, alla tappa seguente della pista se ne sarebbero trovati altri. I villaggi si vedevano assegnare quote regolari di caucciù, avorio e legname da raccogliere nella giungla; ogni lavoratore che non riusciva a produrre la sua quota di caucciù era passibile di punizione. Si cominciava col fustigarlo pesantemente con una frusta di ippopotamo, si poteva inoltre prendergli la moglie e tenerla in riscatto per il caucciù.3 Di solito fuori dagli avamposti delle compagnie c’era un certo numero di donne sporche e smunte incatenate, in attesa che i mariti portassero la loro quota di caucciù al comandante della stazione commerciale. Quando gli squadroni della sicurezza delle compagnie commerciali venivano inviati a compiere spedizioni punitive, si raccomandava loro di non sprecare munizioni: un colpo, un morto. Inoltre non dovevano adoperare le munizioni dell’azienda per la caccia grossa sportiva. Quale prova della loro parsimonia, ci si aspettava che riportassero una mano mozza per ciascuna pallottola consumata.4 Un testimone oculare descrive così i soldati che tornano da un’incursione: Immaginateli di ritorno da un’azione contro i ribelli, guardate a prua della loro canoa il palo e su di esso appeso un fagotto. Quelle sono le mani (mani destre) di 16 guerrieri uccisi. «Guerrieri?» Non vedete tra gli 494
arti le mani di bambini e bambine? Io le ho viste. Ho visto quando l’amputazione è stata eseguita, mentre il povero cuore batteva ancor tanto forte da lanciare il sangue scaturente dalle arterie recise fino a una distanza di oltre un metro.5 Le mani mozzate diventarono una specie di prova monetaria dell’obbedienza agli ordini. Un cesto di mani annerite dal fumo copriva ogni calo della produzione, e se non si riusciva a ottenere caucciù, la Force Publique, la polizia dello Stato Libero, andava in giro a raccogliere una quota di mani. Ben presto gli indigeni impararono che il sacrificio volontario di una mano risparmiava loro la vita. E non solo mani. Quando un comandante brontolò perché i suoi uomini sparavano soltanto a donne e bambini, dalla spedizione successiva i soldati tornarono con un cesto di peni. Le notizie delle atrocità non raggiungevano l’Europa perché i viaggi verso, da e all’interno dello Stato Libero erano strettamente regolati. Se un impiegato risentito e nauseato sperava di andarsene, «non [sarebbe riuscito] ad uscir vivo dal paese, poiché tutte le vie di comunicazione, le stazioni di rifornimento, eccetera, sono nelle mani dell’amministrazione ed è impossibile fuggire usando una canoa indigena poiché ogni natante, se non ne è nota la destinazione e non ne è notificato il viaggio da stazione a stazione, può essere fermato, dato che agli indigeni non è concesso di spostarsi liberamente sulle vie d’acqua, tutte controllate strettamente».6 La storia trapela Nel 1899 un espatriato polacco che scriveva in inglese con il nome di Joseph Conrad pubblicò il suo breve romanzo Cuore di tenebra a puntate su una rivista letteraria inglese. Basato sugli anni che l’autore aveva trascorso come pilota di un battello fluviale sul Congo, raccontava la storia di un agente 495
commerciale che risaliva un cupo e misterioso fiume africano per riportare alla civiltà un farabutto, un mercante di avorio. Alla sua prima comparsa, la storia spaventosa di Kurtz, venerato come un dio furente dagli indigeni del luogo, con la stazione commerciale circondata da una palizzata che in cima esibiva delle teste mozze, riscosse un ampio successo. I lettori ipotizzarono che si trattasse di pura fantasia. Per anni i filantropi all’antica, quelli dell’epoca del movimento antischiavista, erano venuti a conoscenza dei racconti degli orrori del Congo e li avevano riferiti, ma nessuno li aveva presi sul serio. Erano schierati troppo strettamente con i radicali del Parlamento britannico e i loro appelli alla moralità e alla buona volontà venivano ignorati o messi in ridicolo. Ma poi a scoprire gli altarini dello Stato Libero del Congo arrivò qualcuno che stava addentro alle cose. Nel 1890, a diciassette anni, Edmund Morel, di origini miste anglofrancesi, era divenuto impiegato della Elder Dempster Shipping. Attiva da Liverpool verso il centro del commercio africano, la Elder Dempster aveva un appalto per i trasporti verso il Congo. Per dieci anni Morel lavorò diligentemente come impiegato e intanto intraprese una seconda attività, quella di giornalista economico: la sua reputazione di esperto di investimenti in Africa si accrebbe ed egli difese abilmente lo Stato Libero del Congo da quelle fastidiose accuse di crudeltà che perseguitavano ogni impresa coloniale.7 Poi nel 1900, nel suo lavoro di impiegato di una società di spedizioni, Morel si accorse infine della scarsità di esportazioni verso il Congo: la bilancia commerciale era troppo favorevole, i profitti troppo facili. In Europa arrivava tutto quel caucciù, ma non usciva nulla per ripagarlo, soltanto le munizioni: l’unica conclusione possibile era che le compagnie commerciali lo rubavano. Rilevò inoltre che, per nascondere il tutto, i libri contabili ufficiali erano falsificati.8 Scrisse dunque una denuncia anonima che lo portò all’attenzione di quei benefattori di professione che tutti 496
ignoravano. A questi consigliò di dimenticare la filantropia e di attaccare invece Leopoldo a proposito della creazione di monopoli, circostanza che violava gli accordi di Berlino sul libero scambio. Consigliò inoltre di suscitare lo sdegno della Gran Bretagna per la sua esclusione da quel commercio redditizio. Una volta che la gente fosse stata indotta a guardare cosa c’era dentro il Congo, avrebbe visto da sé le atrocità.9 Nel 1903 Morel fondò una propria rivista e cominciò a pubblicare una serie di libri, a partire da Red Rubber. Entrare in Congo non gli era consentito, tuttavia ben presto furono le soffiate ad arrivare a lui: siccome la posta che partiva dal Congo veniva censurata, per portargli le notizie i suoi informatori erano costretti ad attendere il ritorno in Europa. Le pressioni ebbero successo allorché il ministero degli Esteri britannico chiese la stesura di un rapporto al proprio console in Africa centrale, Roger Casement. Questi aveva girato per il Congo per quasi dieci anni, poi aveva lavorato per un po’ di tempo con Stanley, quindi con la Elder Dempster Shipping, aveva trasportato avorio, si era unito ai missionari battisti, talvolta scomparendo per lunghi tratti nella giungla con i suoi cani.10 «Lui sì che ha cose da raccontare» disse di lui l’amico Joseph Conrad, «cose che io ho cercato di dimenticare, cose che non ho mai saputo».11 Ma fino a quel momento nessuno si era interessato a ciò che aveva visto Casement. Quale console britannico in Congo, egli consegnò un rapporto, accuratamente basato sui racconti dei testimoni oculari affidabili, che rivelò enormi atrocità. Nel 1904 Morel e Casement fondarono l’Associazione per la Riforma del Congo. Tra gli attivisti celebri dell’epoca quella divenne la causa alla moda: sull’argomento tennero conferenze e scrissero Anatole France, Arthur Conan Doyle, Booker T. Washington e Mark Twain; il milionario quacchero della cioccolata William Cadbury contribuì con denaro. Leopoldo rispose al colpo. Nei primi giorni della denuncia, 497
durante una cena un ospite prese in disparte Morel e in seguito riferì il loro colloquio: Che cos’erano per me gli indigeni del Congo? […] Ero giovane. Avevo famiglia... e allora? Correvo seri rischi. E poi un’allusione velata, molto velata, al fatto che i miei interessi permanenti sarebbero stati serviti meglio se... «Una bustarella?» Oh, santo cielo, no, niente di tanto volgare, di tanto meschino. Ma vi era sempre un modo di sistemare quel genere di faccende. Si poteva risolvere la questione in maniera vantaggiosa per tutte le parti. Fu un colloquio molto piacevole, che durò fino a tarda notte. «Così nulla scuoterà la vostra determinazione?» «Temo di no». Ci salutammo sorridendoci a vicenda.12 Tutti i nemici di Leopoldo si ritrovarono presto sotto pressione: Morel fu accusato di essere sul libro paga dei concorrenti commerciali di Leopoldo, svariati giornali tedeschi importanti di colpo cessarono di criticare le condizioni del Congo e iniziarono a proporre un punto di vista più ambiguo. Nessuno si seppe spiegare quella svolta improvvisa, finché per sbaglio Leopoldo si dimenticò di rimborsare la persona che pagava le tangenti a quei giornali: presto divenne di dominio pubblico uno scambio di telegrammi su di chi doveva pagare e per cosa. Si scoprì che un giornalista battagliero era in vacanza con l’amante, allora Leopoldo li invitò a pranzo. Malgrado il fascino della sua persona, il re non riuscì a distogliere il giornalista dai suoi racconti sul Congo, così ne rese pubblico il segreto sentimentale con una mossa ingegnosa: non fece altro che inviare dei fiori alla moglie del giornalista, con un biglietto d’accompagnamento che diceva quanto era stata gradevole la sua compagnia a pranzo. Inutile dire cosa sarebbe successo se Leopoldo avesse scoperto che Casement era un omosessuale nascosto, visto che era passato solo qualche anno dall’incarcerazione di Oscar Wilde per lo stesso reato.13 498
Il re fece un viaggio in America e si mise in contatto con i vertici del Congresso e dell’industria: donò alla Smithsonian Institution tremila manufatti provenienti dal Congo e offrì enormi concessioni agli imprenditori americani che operavano nello Stato Libero. Nonostante il presidente Theodore Roosevelt fosse dalla parte di Morel e dei riformatori del Congo, quando questi cercò di inviare degli investigatori in Congo il Congresso si oppose. Il più grosso errore di Leopoldo fu quello di ingaggiare Henry Kowalsky, l’avvocato più veemente di San Francisco, per migliorare la propria immagine pubblica ed esercitare generose pressioni sul Congresso. Quando si rese conto della pericolosa eccentricità di Kowalsky, Leopoldo cercò di liberarsene: furente per il tradimento, l’avvocato vendette le lettere di Leopoldo a William Randolph Hearst, il quale appoggiò la causa del Congo con la sua catena di giornali.14 L’amato esploratore Henry Stanley morì nel 1904. Sebbene si fosse ritirato da tempo a vita privata, la sua fama di eroe e visionario aveva protetto dalle critiche lo Stato Libero del Congo. Finché c’era stato Stanley a garantire per Leopoldo, a molti era bastato, ma quando morì il re restò indifeso. Nel 1908 i maltrattamenti della popolazione del Congo erano ormai innegabili, il clamore era incontenibile. La comunità internazionale alla fine costrinse Leopoldo a mollare lo stato africano; riluttante, il Parlamento belga lo acquistò dal proprio re a un prezzo esorbitante e promise di amministrarlo equamente alla luce del sole. Leopoldo morì un anno dopo. Bilancio delle vittime Quando, in preparazione del proprio rapporto, Casement attraversò i distretti di produzione del caucciù, era evidente quanto avessero sofferto quei villaggi nel decennio trascorso dal suo primo viaggio. Così annotò nel diario:
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5 giugno. Campagna deserta, nessun indigeno. 25 luglio. Ho attraversato alcuni villaggi, nel più vicino la popolazione è stata decimata. Sono rimaste solo 93 persone su molte centinaia. [...] 6 agosto. Ho preso molti appunti su quanto mi hanno detto gli indigeni... Vengono frustati a sangue quando arrivano tardi con le ceste [di gomma]... […] 22 agosto. Bolongo è morta. Ricordo con chiarezza che nel nov. 1887 era molto popolata; ora vi sono in tutto quattordici adulti. […] Alle 6.30 ho superato il lato deserto di Bokuta... Mouzede dice che gli abitanti sono stati portati tutti con la forza a Mampoko. Povere anime disgraziate. [...] 30 agosto. Sedici uomini, donne e bambini legati e portati via dal villaggio di Mboye, vicino alla città. Vergognoso. Gli uomini sono stati chiusi in prigione. I bambini sono stati liberati dopo il mio intervento. Vergognoso. Un sistema vergognoso, scandaloso.15 Il rapporto iniziale di Casement calcolò che erano morti 3 milioni di congolesi. A sua volta Morel stimò che la popolazione del Congo, in origine di 20 o 30 milioni, era precipitata a soli 8 milioni di abitanti. Per gran parte del XX secolo è stato questo il bilancio delle vittime maggiormente citato.16 Nel 1977 il giornalista Peter Forbath, in L’Africa del fiume Congo, ha fissato il bilancio delle vittime in 5 milioni.17 Oggi si segue unanimemente il calcolo proposto da Adam Hochschild in Gli spettri del Congo, secondo cui le atrocità dimezzarono una popolazione originaria di 20 milioni di individui.18 Tutto quel che si può dire con certezza è che nei due decenni dello Stato Libero la popolazione del Congo diminuì in maniera spaventosa. La maggior parte delle morti fu causata dalle malattie che si diffusero con il rimescolamento delle 500
popolazioni, la fame e il lavoro eccessivo. Il vaiolo, endemico nelle zone costiere, si propagò all’interno; la malattia del sonno, endemica all’interno, si diffuse all’esterno. A mietere vittime fu anche l’oppressione diretta: soltanto in un anno in uno dei distretti di produzione del caucciù si registrò che i soldati avevano consumato 40.000 pallottole, per le quali presumibilmente dovettero esibire un numero pari di mani mozzate per dimostrare che non sprecavano munizioni.
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Rivoluzione cubana Bilancio delle vittime: 360.0001 Posizione: 93 Tipologia: rivolta coloniale Contrapposizione di massima: Spagna contro ribelli cubani Periodo: 1895-1898 Luogo: Cuba Principali stati partecipanti: Spagna Stato quantico partecipante: Cuba Vincitore: Stati Uniti A chi diamo la colpa di solito: Spagna Fattore economico: zucchero
La seconda guerra d’indipendenza Il primo tentativo da parte del popolo cubano di rovesciare la dominazione spagnola era fallito nella guerra dei Dieci anni (1868-1878) e aveva provocato 200.000 vittime. La generazione successiva decise di riprovarci. L’industrializzazione della lavorazione dello zucchero concentrava in poche mani la macinatura, causando in tal modo una disoccupazione diffusa e molti fallimenti, cosa che a sua volta spinse i poveri verso posizioni più radicali. Nel 1895, dal suo esilio di New York il poeta e giornalista José Martí proclamò l’indipendenza di Cuba e tornò in patria per guidare la lotta, ma nel giro di qualche mese trovò la morte in un’imboscata. I suoi seguaci proseguirono comunque e nel 1896 misero a segno un successo straordinario. I contadini 502
solidali spiavano le mosse delle truppe spagnole, che i ribelli tormentavano con agguati e incursioni. Questi ultimi cercarono persino di rendere inutile Cuba per la Spagna con l’eliminazione della produzione di zucchero: distrussero le piantagioni isolate ed evitarono lo scontro aperto con i regolari bene armati. Per contribuire al contenimento della ribellione gli spagnoli divisero l’isola con la Trocha (la Trincea), una catena di fossati, filo spinato e casematte fortificate che impediva la libera circolazione tra la metà orientale e quella occidentale dell’isola. A gennaio del 1897 il governo spagnolo affidò l’incarico di reprimere la rivolta al generale Valeriano Weyler, il quale avrebbe inventato un nuovo orrore, ripreso poi nei campi di concentramento di tutto il mondo. A un mese dal suo arrivo sull’isola, Weyler infatti radunò circa 300.000 contadini presenti nella zona di guerra e li rinchiuse all’interno di campi fortificati, dopodiché tutti i cubani sorpresi all’esterno venivano considerati ribelli e di conseguenza uccisi. In tal modo Weyler sperava di esaurire il sostegno ai ribelli. Frattanto nei campi imperversavano malattie e fame in assenza in qualunque cura, uccidendo i contadini a migliaia. Nell’agosto del 1897 un anarchico assassinò Cánovas del Castillo, primo ministro conservatore del governo spagnolo, così il generale Weyler perse il suo principale sostenitore. Rassegnò quindi le dimissioni nelle mani del nuovo capo del governo, il liberale Práxedes Mateo Sagasta. La guerra ispano-americana Una delle poche cose su cui concordavano le due parti in lotta era la necessità di tenere fuori dalla guerra gli Stati Uniti. Tanto la Spagna quanto i rivoltosi sapevano infatti che, qualora provocati, gli americani non avrebbero fatto altro che avventarsi su Cuba per impadronirsene. L’economia cubana era dominata dagli investitori americani e negli Stati Uniti si era cominciato a parlare dell’annessione di Cuba già ottant’anni prima, quando 503
l’espansione americana aveva raggiunto il golfo del Messico. L’unico grosso settore della popolazione cubana che guardava agli Stati Uniti in cerca di salvezza erano i proprietari terrieri, i quali volevano soltanto che la guerra finisse e tornasse la stabilità. Nel complesso il popolo americano simpatizzava con i ribelli, i quotidiani alimentavano l’odio contro gli spagnoli sbattendo alacremente in prima pagina ogni nuova atrocità. Gli Stati Uniti indugiavano sull’orlo dell’intervento, per questo durante i tumulti in città inviarono la nave da guerra Maine al porto dell’Avana, per tenere d’occhio gli interessi americani. Poi, all’improvviso, la notte del 15 febbraio 1898 un’esplosione spezzò la nave da guerra, ne distrusse la prua e uccise un terzo dell’equipaggio. Probabilmente l’esplosione ebbe origine da un incendio fortuito nella stiva del carbone, ma all’epoca non vi fu alcun dubbio: quegli spagnoli maledetti avevano attaccato la Maine. La febbre della guerra salì e l’America emanò un ultimatum alla Spagna, imponendole di lasciare Cuba. Gli spagnoli rifiutarono. La guerra fu rapida ed efficace. Sia nelle Filippine che a Cuba le navi da guerra americane distrussero facilmente quelle spagnole, antiquate e dotate di una minore potenza di fuoco, da una distanza di sicurezza, procurandosi appena qualche graffio. A sua volta un corpo di spedizione americano, messo insieme in fretta e furia, prese Cuba in dieci settimane. In totale agli Stati Uniti la guerra costò soltanto 385 morti in combattimento. Gli americani avevano sostenuto in lungo e in largo l’indipendenza cubana, perciò non potevano annettersi direttamente l’isola. Furono costretti a darle una parvenza di sovranità, ma nei trattati inserirono delle clausole che per molti anni a venire garantirono il controllo americano sul governo cubano.2
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L’arte occidentale della guerra La prima metà del XX secolo vide l’apice della dominazione dell’Occidente sul resto del mondo. Le motivazioni di questa ascesa sono molte – il capitalismo, la geografia, il monoteismo, il vaiolo e la lattasi (l’enzima che fa digerire il latte) –, ma qui ci interessa solo la guerra. A prima vista potrebbe sembrare che a dare vantaggio all’Occidente sia stata una superiorità negli armamenti, eppure in molti scontri gli eserciti occidentali erano armati peggio dei loro nemici. Gli armaioli algerini fabbricavano fucili migliori di quelli di cui disponevano i francesi che li conquistarono, mentre spesso i ricchi eserciti orientali acquistavano le ultimissime armi dalle industrie occidentali come la Krupp, la Enfield o la Winchester molto prima di quelli europei con cui si scontravano, scarsamente finanziati. Gli eserciti occidentali vinsero le guerre perché erano regolarmente superiori nell’atteggiamento, nel consenso e nella disciplina. L’Occidente combatte le guerre in maniera peculiare e freddamente efficace: si può tracciare una tradizione comune che inizia con la falange greca, passa per la legione romana e la linea di baionette inglese e prosegue con gli sbarchi americani in Normandia e a Iwo Jima. Per prima cosa si dichiara apertamente guerra, poi i soldati vanno in battaglia in massa sotto le bandiere o in uniforme, con le armi bene in vista. Lo scontro mira a sopraffare il nemico e a conquistare il prima possibile una vittoria netta e decisiva. Infine la guerra si conclude con un trattato di pace formale.1 Dai soldati occidentali ci si aspetta che siano dei professionisti disciplinati, che si addestrano ripetutamente in modo da rendere meccanico il coordinamento tra tutti gli uomini. Il coraggio non si determina nell’esasperato 505
combattimento individuale, uomo contro uomo, bensì nel restare risolutamente accanto ai commilitoni. Non è un caso che la prima guerra mondiale e le guerre napoleoniche siano le uniche ecatombi gigantesche del mio elenco nelle quali persero la vita più soldati che civili. L’arte occidentale della guerra è così terribilmente distruttiva nei confronti degli eserciti che per arrivare ad ammazzare un numero simile di civili deve fare uno sforzo supplementare straordinario. In effetti, storicamente la guerra occidentale è stata talmente letale che spesso un esercito occidentale ha perso più soldati vincendo una battaglia contro un altro esercito occidentale che perdendone una contro delle truppe indigene. Per esempio, gli Stati Uniti persero più soldati vincendo una battaglia contro i ribelli del Sud, scarsamente equipaggiati, rispetto a quando vennero annientati dai sioux a Little Bighorn. Nelle serie di guerre sudafricane i boeri (1899-1902) uccisero in battaglia un numero di inglesi cinque volte superiore a quello provocato dagli zulu, nonostante la ferocia leggendaria di questi ultimi e la sbalorditiva vittoria di Isandlwana. Benché i soldati occidentali siano clementi né più né meno di quelli delle altre culture, la filosofia occidentale della guerra cerca di evitare l’uccisione dei civili e si concentra per prima cosa sull’eliminazione dei combattenti. Uccidere i civili si considera come una distrazione, un danno minore al nemico, come pestare i piedi a qualcuno anziché attaccarlo alla giugulare. Inoltre si incoraggia a mostrare clemenza nei confronti dei prigionieri, se non per ragioni morali, almeno per motivi pratici: mette fuori gioco un numero enorme di soldati nemici senza la seccatura di doverli intrappolare e ammazzare fino all’ultimo uomo. In una guerra occidentale lo scopo è neutralizzare una minaccia, non uccidere per il puro gusto di farlo.* Le regole secondo le quali i paesi civilizzati dovrebbero condurre la guerra furono codificate nel 1899 con la Convenzione dell’Aia, che cercò di dividere nettamente tutti 506
quelli che si trovano nella zona di guerra tra chi è belligerante e chi è inoffensivo. Finché il primo combatteva in divisa e il secondo – civili, prigionieri, feriti, medici e giornalisti – abbassava la testa e non reagiva, i non belligeranti erano considerati intoccabili. Gli articoli dal 25 al 27 della Convenzione dell’Aia consentono il bombardamento di città difese, cosa che poteva andar bene nel 1899, quando bombardare significava sparare qualche proiettile a caso contro una città assediata per indurre i difensori alla resa. Di solito i civili erano troppo lontani per essere colpiti, perciò in una città sotto assedio mieteva più vittime la fame che il fuoco dei cannoni; poi, però, l’invenzione dell’aviazione ha reso possibile tempestare di fuoco e morte una città che contiene un oggetto militarmente utile – una torre della radio, uno scalo ferroviario, una fabbrica o una centrale elettrica –, posta alle spalle delle linee nemiche, lontano dal concentramento delle truppe. Dunque secondo l’arte occidentale della guerra, la bomba atomica del 1945 su Hiroshima è giustificata come un legittimo atto di guerra, mentre si condanna come terrorismo l’attentato suicida del 1983 a Beirut contro la caserma dei marines statunitensi. La differenza sostanziale è che la prima fu sganciata apertamente su un nemico dichiarato che aveva l’opportunità di reagire o arrendersi, invece il secondo fu vile. Altre filosofie della guerra condannerebbero quello di Hiroshima come un attacco contro un obiettivo in larga misura civile e giustificherebbero Beirut in quanto obiettivo militare. Nella seconda metà del XX secolo l’arte occidentale della guerra si è dissolta, perché l’Occidente non ha mai concepito un modo efficace per sconfiggere la guerriglia. Dalla Spagna napoleonica fino all’Algeria e al Vietnam, il sistema migliore per battere gli eserciti occidentali è stato quello di evitare di affrontarli alle loro condizioni. La classica reazione contro la guerriglia prevede che si abbandonino tutte le tutele garantite dalle leggi di guerra a chi 507
non combatte. Se non si riesce a distinguere tra ribelli e civili, allora tutti sono nemici. E quindi un esercito che combatte la guerriglia fucilerà gli ostaggi, incendierà le case, arresterà intere famiglie, distruggerà i beni immobili, torturerà i prigionieri e radunerà intere popolazioni all’interno di campi pesantemente sorvegliati, nella speranza che la gente comprenda che è troppo rischioso appoggiare l’insurrezione. Raramente funziona. Le guerre più sanguinose combattute dalle grandi potenze europee (solo perdite militari) Seconda guerra mondiale
19391945
Francia, Gran 14 milioni nel Bretagna, teatro di Russia, America guerra europeo contro Germania, Italia
Prima guerra mondiale
19141918
Francia, Gran 8,5 milioni Bretagna, Russia, America, Italia contro Germania, Austria, Turchia
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Guerre rivoluzionarie francesi e guerre napoleoniche
17921802 e 18021815
Francia
3 milioni
contro Prussia, Inghilterra, Russia, Austria
Guerra dei Sette anni
17561763
Francia, Austria
ca. 650.000
contro Prussia, Inghilterra Guerra di successione spagnola
17011713
Francia contro Austria, Inghilterra, Olanda 509
400.000700.000
Guerra di successione austriaca
17401748
Francia, Prussia
450.000
contro Austria, Inghilterra
Guerra dei Trent’anni
16181648
Francia, Svezia
ca. 350.000
contro Austria, Spagna Guerra di Crimea
18541856
Francia, Inghilterra, Turchia
ca. 300.000
contro Russia Grande guerra del Nord
17001721
Svezia contro 510
ca. 300.000
Russia, Polonia Guerra della Grande Alleanza
16881697
Francia
233.000
contro Austria, Inghilterra, Olanda Guerra francoprussiana
18701871
Francia
188.000
contro Prussia Guerra francoolandese
16721678
Francia contro Austria, Inghilterra, Olanda
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175.000
Rivoluzione messicana Bilancio delle vittime: 1 milione1 Posizione: 46 Tipologia: stato fallito Contrapposizione di massima: poveri contro ricchi Periodo: 1910-1920 Luogo: Messico Assassinii: Carranza, Madero, Villa, Zapata Ultimo rimasto: Álvaro Obregón A chi diamo la colpa di solito: tutti
Fuori Díaz Nei tre decenni della sua dittatura, iniziata nel 1876, Porfirio Díaz aveva trasformato il Messico in una proprietà personale: l’esercito rispondeva soltanto a lui, tutta l’economia dipendeva dai suoi favori e in un modo o nell’altro passava per le sue mani. I suoi unici rivali potenziali erano i grandi proprietari terrieri, che si comportavano come signori feudali. Il figlio di uno dei più importanti tra essi, Francisco Madero, si era formato all’estero, dove aveva appreso tutte le idee liberali. Le elezioni del 1910 erano pura apparenza: non era previsto che vi fosse una contesa, invece Madero si candidò, costringendo così Díaz a reagire. Fece arrestare 5000 esponenti del malcontento – compreso Madero – prima che potessero guastare le elezioni, annunciò la sua rielezione con una maggioranza schiacciante e spedì Madero in esilio negli Stati Uniti, dove si appellò al popolo messicano affinché si sollevasse e rovesciasse Díaz.2 512
Non c’era bisogno di particolare incoraggiamento. La rivoluzione era nell’aria e lo scontro elettorale non aveva fatto che mettere in luce la vulnerabilità del regime di Díaz. Il sistema agricolo basato sull’hacienda manteneva i contadini messicani indebitati, privi di terra e di speranza, cosa che nello stato meridionale di Morelos provocò una rivolta capeggiata dall’anarchico indio Emiliano Zapata. A nord una sommossa confluì attorno al reboante bandito Pancho Villa, sostenuto dai piccoli allevatori, dai mandriani disoccupati e da altri relitti umani legati all’allevamento del bestiame. L’insurrezione si diffuse in tutto lo stato di Chihuahua, finché a maggio dopo una dura battaglia i ribelli presero la città di frontiera di Ciudad Juárez. A quel punto, mentre tutti si preparavano a un duro scontro in direzione della capitale, Díaz li sorprese dimettendosi e andandosene in esilio. Fuori Madero e Huerta Al suo ritorno in patria, Francisco Madero, divenuto nuovo presidente, si rivelò più conservatore di quanto avevano sperato i suoi sostenitori. Il Messico era ormai pieno di enormi masse di contadini e operai armati, i quali avevano nutrito la speranza di veder ridistribuire le ricchezze del Messico al popolo, invece Madero voleva soltanto portare nel paese le elezioni e il capitalismo del libero mercato. La rivoluzione si frantumò: mentre Zapata manteneva la sua enclave socialista nello stato di Morelos, fuori dalla portata del governo centrale, uno dei principali generali della rivoluzione, Pascual Orozco, irritato dall’esiguità delle riforme di Madero, si ribellò a nord nel marzo del 1912. A capo dell’armata inviata per fermare Orozco c’era Victoriano Huerta, un protetto dell’ex dittatore Porfirio Díaz. A ottobre, una feroce campagna di logoramento aveva piegato Orozco e lo aveva messo in fuga verso gli Stati Uniti, così Huerta tornò nella capitale per complottare insieme ai 513
conservatori messicani e all’ambasciatore statunitense (che probabilmente agiva senza l’autorizzazione di Washington). Dopo aver visto il presidente Madero indugiare nell’inettitudine per circa un anno, nel febbraio 1913 Huerta guidò un colpo di stato militare contro di lui. Madero si arrese alla giunta, perciò Huerta non aveva un pretesto per ucciderlo lecitamente in pubblico, tuttavia durante un trasferimento da una prigione a un’altra l’auto dell’ex presidente deviò dalla propria meta e si fermò. La scorta tirò fuori Madero e gli sparò, poi crivellò di colpi l’auto per far credere a un’imboscata dei ribelli.3 Nel novembre dello stesso anno nel nord del Messico contro Huerta si formò un’alleanza ribelle tra il governatore del Coahuila Venustiano Carranza, Pancho Villa e Álvaro Obregón, un politico e piccolo coltivatore che iniziava allora a mettere in mostra un talento militare naturale e a farsi largo. Nei sei mesi successivi le armate ribelli consolidarono e ampliarono i propri territori. Il nuovo presidente americano Woodrow Wilson rifiutò di riconoscere la legittimità del governo di Huerta e appoggiò invece i ribelli. Tra i due governi si intensificò la tensione al punto che, quando nell’aprile del 1914 le autorità locali di Tampico offesero alcuni marinai americani, le truppe americane si impadronirono del porto di Veracruz. In tal modo Huerta si ritrovò senza i redditizi dazi doganali che costituivano all’incirca un quarto delle entrate del governo. All’avvicinarsi delle armate ribelli, nel luglio del 1914 Huerta si dimise e fuggì all’estero. Qualche anno dopo giunse negli Stati Uniti, dove si mise in contatto con il suo ex nemico Pascual Orozco, anch’egli in esilio, per progettare un rientro; tuttavia, mentre cercavano di attuare il loro piano, sopraggiunsero i ranger texani, che uccisero Orozco e arrestarono Huerta per violazione delle leggi di neutralità americane. Quest’ultimo morì in carcere prima ancora che gli americani decidessero che farne.4
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A congresso Scomparso Huerta, nell’agosto 1914 Obregón occupò Città del Messico in nome della rivoluzione, mentre Carranza si proclamò presidente, tuttavia, una volta sconfitti i nemici comuni, i rivoluzionari cominciarono a litigare fra loro. Alla fine, per appianare le divergenze le fazioni provenienti da tutto il Messico si riunirono in territorio neutrale, nella città turistica di Aguascalientes. Il congresso svuotò d’importanza la carica di presidente e mise in atto buona parte del programma radicale di Zapata, che mirava a ridistribuire ai poveri le grandi proprietà. Alla Convenzione di Aguascalientes si adeguarono tutti tranne Carranza, circostanza sfortunata perché gli Stati Uniti volevano proprio lui, un centrista moderato, come presidente. Sebbene il popolo americano avesse un debole per Pancho Villa, il governo statunitense stabilì che Carranza avrebbe riportato con maggiori probabilità la stabilità in Messico, per di più non aveva alcun piano di confisca e redistribuzione della terra di proprietà degli stranieri. A novembre del 1914 le truppe americane si ritirarono da Veracruz e la consegnarono a Carranza, che se ne servì come base per riprendere la guerra civile. A dicembre a Città del Messico giunsero Zapata da sud e Villa da nord, pronti a prendere la città per conto dei convenzionisti. Il contrasto tra le due forze ribelli si fece evidente nel corso dell’occupazione congiunta della capitale: gli uomini di Zapata erano educati e disciplinati, i banditi di Villa, invece, quando arrivarono cominciarono a trascinare i cittadini eminenti fuori dalle case e a fucilarli contro il primo muro utile. Dopo qualche episodio del genere, estorsero denaro a chiunque volesse sottrarsi a un destino analogo. Nel gennaio 1915 Carranza si mosse da Veracruz e riscosse una vittoria convincente contro le forze dei convenzionisti a Puebla, che pare essere il luogo in cui ogni esercito sulla via tra Veracruz e Città del Messico combatte una battaglia decisiva. A 515
luglio nella capitale giunse Carranza, che rivendicò la presidenza. Obregón cambiò fazione e portò una nuova grossa forza a combattere contro Villa per conto di Carranza, Zapata prese il suo esercito e se ne tornò a casa a Morelos, così il nuovo governo si dedicò a sbarazzarsi di Pancho Villa. In una serie di battaglie Obregón respinse quest’ultimo, il quale alla fine azzardò il tutto per tutto a Celaya, nel Messico centrale. Convinto che bastassero slancio e coraggio, Villa lanciò inutilmente varie ondate delle sue truppe alla carica contro le trincee di Obregón, cosa che mandò irreparabilmente in pezzi la sua Divisione del Nord. I sopravvissuti vennero spinti per centinaia di chilometri di montagne e boscaglie verso la terra di Villa, e da migliaia si ridussero a centinaia. Dopo avergli dato la caccia per tutto il deserto del nord senza prenderlo, i federali decisero di ignorare Villa. Fuori Villa Prima o poi tutte le fasi della guerra parevano convergere verso il confine settentrionale. Il controllo delle città lungo la frontiera con gli Stati Uniti permetteva ai ribelli di restare in contatto con i sostenitori esterni, di raccogliere denaro pregiato e contrabbandare armi. Siccome molte di queste città erano divise a metà tra il Messico e gli Stati Uniti, spesso gli americani si riunivano sui tetti per osservare i messicani che combattevano nella metà meridionale della città; a loro volta i messicani dovevano porre particolare attenzione a non sparare per caso dall’altra parte del confine, suscitando in tal modo una grave reazione americana. Nel novembre del 1915 Villa attaccò le truppe di Carranza nella città pesantemente fortificata di Agua Prieta, sul confine, ma stavolta gli americani permisero al governo messicano di spostare i rinforzi lungo le ferrovie degli Stati Uniti, dove Villa non poteva fermarli. E quando Villa tentò di superare le trincee 516
federali con un assalto notturno, i suoi uomini vennero individuati e accecati dai riflettori nemici alimentati dalle centrali elettriche sul lato americano della frontiera.5 Furente per queste violazioni della rigida neutralità, Villa fermò il primo treno passeggeri di passaggio a Santa Isabel, in Messico, tirò fuori tutti gli americani, li mise in riga e li fucilò.6 Nel 1916 Villa si avventurò in una scorreria oltreconfine: l’episodio si concluse con uno scontro a fuoco con il distaccamento dell’esercito statunitense di Columbus, nel Nuovo Messico, dove si procurò armi americane e fece provviste, per poi ritirarsi in Messico. Per porre fine una volta per tutte a questa minaccia, un grosso corpo di spedizione invase il Messico, diede invano la caccia a Villa per il deserto settentrionale e alla fine rinunciò dopo circa un anno. Villa restò in libertà, ma fu sempre più irrilevante, finché nel 1920 un indulto non gli permise di ritirarsi in pace. Tre anni dopo, i suoi nemici tesero un agguato alla sua auto e la crivellarono con una mitragliatrice. Fuori Zapata Durante la rivoluzione messicana, per i soldati era normale cambiare fazione a seconda dell’umore. Talvolta erano svelti a farlo per sfuggire alle esecuzioni sommarie che in genere si infliggevano agli ufficiali catturati, altre volte si trattava di una mossa ponderata con più attenzione in rapporto alla carriera. Quando il colonnello Jesús Guajardo, uno degli astri della cavalleria federale, venne sbattuto in carcere perché beveva in servizio, Zapata gli inviò un biglietto per chiedergli se voleva passare dalla sua parte. Il comandante federale intercettò il messaggio e con le minacce indusse Guajardo a congiurare con il governo. Fino a quel momento Zapata era rimasto in disparte, ma era ancora un ribelle da eliminare. Guajardo valutò la situazione ed escogitò un piano infallibile. Tornato in servizio, con la sua cavalleria inscenò un 517
ammutinamento e, per guadagnarsi credibilità con Zapata, attaccò i suoi, la guarnigione federale della città di Jonacatepec, dove uccise parecchi soldati, spingendo il resto a una ritirata precipitosa. E per dimostrare che faceva sul serio, alla vittoria fece addirittura seguire il massacro di cinquanta prigionieri. Zapata fu impressionato dalla sua spietatezza, gli diede fiducia e accettò un incontro, ma appena entrò in città a cavallo tra gli uomini di Guajardo, questi alzarono i fucili apparentemente per una salva di saluto, invece gli spararono. Fuori Carranza Nel marzo 1920 Obregón si ammutinò contro Carranza e marciò sulla capitale. Carranza scappò verso Veracruz con ventuno treni, 20.000 soldati e una fortuna in monete d’oro. A Veracruz, al suo arrivo il governo sarebbe stato protetto dal fedele generale Guadalupe Sánchez, il quale invece passò dalla parte del vincitore e si mosse per intercettare Carranza. In un’imboscata i treni del governo in fuga vennero fatti deragliare e furono distrutti, mentre Carranza riuscì a fuggire a cavallo con un piccolo drappello di uomini. Quella notte, spossato e perduto, fu scoperto e ucciso mentre dormiva nella capanna di un contadino. Morti tutti tranne Obregón, la guerra finalmente si concluse e il Messico si stabilizzò come stato monopartitico. Obregón portò al governo tutte le fazioni in lotta e le comprò attribuendo loro una fetta di potere. Chiunque ne restò fuori e rifiutò di collaborare fu escluso dal governo e per parecchie generazioni, fino al 2000, nessuno poté spezzare il saldo potere del Partito Rivoluzionario Istituzionale.
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Prima guerra mondiale Bilancio delle vittime: 15 milioni (8,5 milioni di soldati1 e 6,6 milioni di civili,2 per arrotondamento), senza contare i morti per l’influenza postbellica e quelli delle varie guerre civili che seguirono Posizione: 11 Tipologia: guerra per l’egemonia Contrapposizione di massima: Germania contro tutti Periodo: 1914-1918 Luogo: Europa, Vicino Oriente, Atlantico settentrionale Principali stati partecipanti: Austria-Ungheria e Germania contro Francia, Italia, Russia e Regno Unito (ognuno di questi stati mobilitò più di 5 milioni di uomini e ne perse più di mezzo milione) Stati minori partecipanti: quasi tutti gli altri, forse è più facile elencare chi se ne tenne fuori Non partecipanti: in Europa: Danimarca, Norvegia, Paesi Bassi, Spagna, Svezia e Svizzera; in Oriente: Afghanistan, Cina, Etiopia e Siam; gran parte dell’America Latina A chi diamo la colpa di solito: nessuno in particolare, solo il sistema internazionale degli stati-nazione in generale. Spesso si dà la colpa al Kaiser Guglielmo e all’aristocrazia militare tedesca di aver aggravato una contesa regionale fino a trasformarla in una guerra mondiale Ennesimo esempio di: guerra di trincea con idioti assalti frontali La domanda senza risposta che si fanno tutti: fu davvero stupida come sembra?
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Nonostante per il conto complessivo delle vittime, civili compresi, nella mia lista la prima guerra mondiale sia soltanto undicesima, considerando soltanto i soldati raggiungerebbe facilmente la seconda posizione. Quel conflitto fu infatti un tritacarne che uccise più soldati delle prime quattro guerre che vi vengono in mente, tranne ovviamente il suo seguito, la seconda guerra mondiale. Lo sfinimento indotto dal conflitto portò alla cacciata di quattro delle dinastie più potenti del mondo, nostre vecchie conoscenze: gli Asburgo, i Romanov, gli ottomani e gli Hohenzollern prussiani. Anche dopo che l’armistizio ebbe garantito la pace tra i maggiori partecipanti, continuarono a infuriare almeno altre tre guerre locali. La prima guerra mondiale distrusse un sistema cooperativo internazionale basato sui legami tra le monarchie e gli investimenti multinazionali, sostituendolo con un mondo di ideologie concorrenti tra loro. Tutti i conflitti, le lotte e le tragedie divenuti in seguito il marchio di fabbrica del XX secolo trassero origine dalle macerie della prima guerra mondiale. Perché? Facendo propria la lezione dei giganteschi eserciti nazionali che avevano conquistato l’Europa per conto di Napoleone (vedi Guerre napoleoniche) e la Francia a nome di Bismarck (vedi Guerra franco-prussiana), nel XIX secolo molti regimi europei adottarono la leva di massa. La leva era popolare in entrambi gli schieramenti politici. La sinistra l’approvava perché gli eserciti moderni cancellavano le distinzioni di classe e promuovevano per merito, mettendo le armi nelle mani del popolo anziché in quelle dell’aristocrazia; il servizio nella riserva offriva alla nazione l’opportunità di fornire alle classi lavoratrici una piccola parte di istruzione, di cure mediche e di reddito. Alla destra la leva era gradita perché promuoveva l’obbedienza, riuniva le masse per ripulirle e disciplinarle e forniva al governo 520
uno strumento di intimidazione contro stranieri e dissidenti. In tutto il continente la coscrizione obbligatoria creò dunque enormi eserciti che si fronteggiavano lungo i confini contesi.3 Rifornire, radunare e schierare questi giganteschi eserciti nazionali richiedeva la presenza delle ferrovie, e per farlo bene ci volevano degli orari pianificati con attenzione. In caso di guerra, le unità della riserva si sarebbero dovute presentare presso la stazione di un villaggio a un’ora precisa per prendere il treno esatto che gli era stato assegnato. Questi treni sarebbero poi confluiti verso il confine nemico a intervalli prefissati, per svuotarsi rapidamente e poi tornare indietro a caricare altre truppe, il tutto senza battute d’arresto o scontri con altri treni provenienti dalla direzione sbagliata al momento sbagliato. In caso di una guerra vera, contava la velocità. Chi riusciva per primo a mobilitare il proprio esercito e a disporlo sul confine conteso poteva attaccare e penetrare in un territorio sostanzialmente indifeso per vari chilometri per ogni giorno di ritardo del nemico.4 Per anni, le zone di confine contese avevano diviso i paesi di tutta Europa. La Germania e la Francia litigavano per l’Alsazia e la Lorena, Austria e Serbia rivendicavano entrambe la Bosnia, l’Italia e l’Austria si contendevano il Tirolo, e lo stesso facevano Bulgaria e Grecia per la Tracia, o Germania e Danimarca per lo Schleswig-Holstein. I confini etnici d’Europa erano talmente contorti che ogni nazione aveva al suo interno delle enclave estranee che avrebbero preferito appartenere a un paese confinante. Per quanto possa apparire assai complicato, tutto ciò diede vita a una politica estera semplicissima: il tuo vicino è il tuo nemico; il vicino del tuo vicino è nemico del tuo vicino, quindi è tuo amico. Su scala più ampia, le nazioni erano inoltre in concorrenza per la supremazia nella gerarchia internazionale. Con la sconfitta della Francia nel 1871, la Germania era diventata il capobranco d’Europa e di recente aveva avviato un enorme programma di costruzioni navali per sfidare gli inglesi nel 521
controllo dei mari. Austria e Russia a loro volta erano in concorrenza per sostituire nei Balcani la potenza della Turchia in declino. Per portare avanti queste rivalità ogni nazione andava a caccia di alleati che l’appoggiassero in tempo di crisi. La Francia, per esempio, aveva bisogno di qualcuno avverso alla Germania per far sì che quest’ultima ci pensasse due volte prima di intraprendere un’altra invasione. I francesi potevano legarsi a Russia o Austria – non importava davvero –, ma non appena ne avessero scelta una l’altra si sarebbe immediatamente unita alla Germania. Dopo una generazione di piccoli movimenti, di colpetti e di pose aggressive, l’Europa si era divisa in due blocchi di potenze: la Triplice Alleanza tra Germania, Austria e Italia e la Triplice Intesa tra Francia, Gran Bretagna e Russia.* Un minimo conflitto tra due paesi qualsiasi tra quelli, nel giro di qualche settimana si sarebbe facilmente trasformato in una guerra tra sei potenze. Se una parte non fosse riuscita a mobilitarsi prima dell’attacco dell’altra, sarebbe stata spacciata. Ciò non significa che la politica estera fosse una trappola per topi destinata a scattare all’istante: l’intervento umano avrebbe potuto interrompere la procedura in qualunque momento ed evitare la guerra. Per esempio l’Italia – o, per meglio dire, gli uomini che prendevano decisioni per conto dell’Italia – stabilì di non dover partecipare alla fase iniziale della contesa e in tal modo si astenne dalle prime dichiarazioni di guerra, nonostante il trattato la obbligasse a prestare aiuto a Germania e Austria. La scintilla Il 28 giugno 1914 Gavrilo Princip creò il XX secolo. Quasi tutte le tendenze geopolitiche che si sono sviluppate sul pianeta negli ottant’anni successivi risalgono al giorno in cui questo terrorista serbo assassinò nella capitale della provincia della BosniaErzegovina l’erede al trono degli Asburgo di Austria-Ungheria. Dopo il movimentato arresto, gli austriaci che lo interrogarono 522
vennero a sapere che l’assassinio era stato pianificato a Belgrado. Da qui scaturì un ultimatum alla Serbia: fate ciò che vi diciamo, altrimenti guai a voi. La Serbia oppose un rifiuto e l’Austria-Ungheria le dichiarò guerra. La Russia non poteva permettere che l’Austria distruggesse una nazione slava e ortodossa e si prendesse un altro pezzo dei Balcani, perciò dichiarò guerra all’Austria. A sua volta la Germania non poteva consentire che una nazione germanica con la quale condivideva il confine più esteso fosse piegata dai russi, quindi anche i tedeschi saltarono il fosso. Poi questi chiesero alla Francia la garanzia che non sarebbe saltata addosso alla Germania mentre era occupata a invadere la Russia; volevano inoltre che i francesi permettessero alle truppe tedesche l’occupazione di alcune essenziali fortificazioni di confine francesi, in modo che la Francia non potesse nuocere. Naturalmente questa rifiutò e la Germania dichiarò guerra anche a essa.5 Da tempo i tedeschi si erano resi conto che l’alleanza tra Francia e Russia li avrebbe stretti in una morsa, perciò lo stato maggiore aveva già elaborato tutti i dettagli e aveva pronto un piano per affrontare un’occasione del genere. Davanti a una guerra su due fronti, i tedeschi dovevano mettere fuori combattimento in maniera rapida e risoluta uno dei nemici. Ma quale? La Russia era troppo grande ed estesa in profondità per un’invasione lampo, il che faceva della Francia un obiettivo ancor più allettante. La sua capitale era più vicina (la distanza tra il confine tedesco e San Pietroburgo era il doppio di quella tra la Germania e Parigi),6 per di più le armate francesi si sarebbero mobilitate molto prima, quindi la Germania doveva agire in fretta. Per fortuna, la mobilitazione del vasto e indolente impero russo avrebbe richiesto un po’ di tempo, cosa che sembrava dare alla Germania tempo sufficiente per occuparsi prima della Francia. Purtroppo, però, il confine con la Francia era breve e i tedeschi non avrebbero mai trovato un varco entro cui portare l’affondo: avrebbero dovuto aggirare 523
la linea francese. Ciò significava attraversare il Belgio neutrale, cosa che quasi sicuramente avrebbe fatto infuriare gli inglesi, ma se tutto fosse filato liscio si poteva conquistare Parigi prima che gli inglesi potessero mobilitarsi e attraversare la Manica. I tedeschi dunque invasero rapidamente il Belgio e per assicurarsi velocità repressero spietatamente ogni accenno di resistenza che individuarono nella popolazione belga. Spesso il tiro a casaccio di un cecchino era punito con l’esecuzione di tutti gli uomini della cittadina: ad Andenne si fucilarono 211 civili belgi, 384 a Tamines e 612 a Dinant. Nella città di Lovanio i tedeschi giustiziarono 209 civili e distrussero 1100 edifici, tra cui la biblioteca con 230.000 libri. In tutto, per mettere a tacere la popolazione i tedeschi di passaggio uccisero circa 5500 civili belgi.7 Essendo penetrato in profondità per l’intero Belgio, l’esercito tedesco piegò a sinistra e dilagò oltre il confine francese lungo un fronte piuttosto ampio, dove scoprì sulla propria pelle che gli armamenti moderni erano adatti alla difesa più di quanto sospettasse chi aveva elaborato i piani prima della guerra. Le mitragliatrici eliminavano senza pietà gli attaccanti, perciò questa fase della campagna iniziale è passata alla storia in Germania con il nome di Kindermord, cioè strage degli innocenti. L’esercito tedesco era costretto a rimettere sempre nuovi soldati nelle posizioni per compensare la perdita di quelli che venivano trucidati attaccando in campo aperto; e ciò comportava il rafforzamento e la riduzione delle proprie linee offensive. I francesi dal canto loro scoprivano il rovescio della medaglia. Siccome le mitragliatrici erano ottime per ammucchiare i cadaveri dei tedeschi, si potevano estendere e assottigliare le linee difensive. Allorché le avanguardie dell’avanzata tedesca raggiunsero la Marna, a breve distanza da Parigi, i francesi le avevano aggirate e le fermarono con un contrattacco. Mentre le armate principali si trinceravano fuori da Parigi, i 524
fianchi si allargarono nel tentativo di aggirare il nemico senza farsi aggirare. Questa corsa al mare terminò quando non ci furono più fianchi da aggirare. Piantati nel fango Molti libri di storia fanno apparire questa guerra più stupida di quel che fu davvero, cosa tutt’altro che facile. Gettarsi alla carica contro le mitragliatrici delle trincee sembra veramente stupido, ma alla fine molti generali impararono a non farlo. Perfezionata alla fine degli anni Ottanta del secolo precedente, la mitragliatrice sprizza proiettili a una velocità tale che è fisicamente impossibile per i soldati attaccare in campo aperto senza farsi abbattere, indipendentemente dal numero e dalla velocità con cui corrono. Nei primi mesi gli eserciti si accorsero che era finita l’epoca dei puri e arditi assalti frontali: l’unica cosa che restava da fare era trincerarsi ed escogitare un piano B.8 Le trincee della prima guerra mondiale erano una meraviglia di tecnica ingegneristica, a dimostrazione del fatto che la guerra è la cosa che gli esseri umani sanno fare meglio. Più spessa e impenetrabile della Grande Muraglia cinese, creata da uno scavo più impegnativo di quello che si usa per un grosso canale e alimentata da un numero di chilometri di ferrovie superiore a quello che si potrebbe trovare in svariati paesi, la rete delle trincee era una lunga e sottile città sotterranea con più di un milione di residenti, alle cui spalle stavano scali ferroviari, ospedali, teatri, chiese, magazzini, pub e bordelli, divisa tra due bande di strada rivali. Le trincee erano profonde quanto bastava per permettere ai soldati di muoversi liberamente senza doversi accovacciare e strette in modo tale da non offrire un comodo bersaglio all’artiglieria; inoltre non erano mai rettilinee, bensì contorte e piene di recessi, in tal modo nessun singolo nemico poteva irrompere e spazzare con la mitragliatrice per tutta la lunghezza 525
della linea di fuoco. Questo zigzag riduceva inoltre l’impatto delle esplosioni delle bombe. Avendo a disposizione tempo sufficiente su un fronte statico, per tenere in ordine il terreno i soldati potevano aggiungere un pavimento di fortuna fatto di assi e paletti oppure dei muri di assi. Sottoterra correvano dei cunicoli pesantemente rinforzati che servivano da alloggi o da rifugi durante i bombardamenti; con i periscopi si teneva d’occhio il nemico. Nel terreno erano scavati gradini e piattaforme, così i soldati potevano arrampicarsi a livello del suolo per sparare contro chi attaccava. Sul bordo del parapetto cumuli di sacchi di sabbia estendevano la copertura oltre il livello del suolo, ma erano sistemati in modo da lasciare delle minuscole feritoie attraverso cui mirare e sparare. Davanti alla terra di nessuno era disteso un groviglio di filo spinato che serviva a rallentare l’avanzata del nemico e a ostacolare i soldati nemici per il tempo sufficiente ai difensori per sventagliarli con il fuoco della mitragliatrice. Le uniformi presero colori grigiastri, quasi invisibili che si confondevano con il terreno, mentre gli elmetti d’acciaio rimpiazzarono i berretti di stoffa, per proteggere i soldati in trincea dai proiettili che esplodevano sopra la testa e dalle schegge che piovevano attorno.9 Alle spalle della linea di fuoco le trincee di comunicazione procedevano a zigzag fino alle retrovie, in modo da spostare avanti e indietro rifornimenti, vittime, messaggeri e rinforzi. Le linee telefoniche sotterranee tenevano i comandanti in contatto con il fronte. Fuori dalla portata dell’artiglieria nemica, al sicuro, era costruita una seconda linea di difesa, così la conquista della trincea del fronte diventava soltanto il primo passo su una strada lunga e difficile. Infine alle spalle della seconda stava una terza linea di difesa. Una volta completata la rete delle trincee, era quasi possibile camminare sotto il livello del suolo dalla Svizzera al canale della Manica. Non per tutto il tempo, naturalmente: qua e là fiumi e dirupi spezzavano la linea, mentre sul terreno umido era 526
necessario costruire fortificazioni sopraelevate, anziché scavarle al di sotto della falda freatica. Anche in presenza di rocce resistenti bisognava costruire i forti sopra e non sotto, ma era pur sempre possibile percorrere chilometri e chilometri con la testa sottoterra. Per contrastare la superiorità difensiva della mitragliatrice si sperava di utilizzare altre risorse tecnologiche. Nel 1915, nella battaglia di Ypres i tedeschi provarono il gas mostarda (iprite), un veleno che provoca vesciche su ogni tessuto contaminato. Creò un nuovo modo orribile di morire (per i liquidi rilasciati dai polmoni gonfi di vesciche), ma non fu utile per lo sfondamento. Nel 1916 gli inglesi impiegarono i primi rudimentali carri armati, che superavano buona parte degli ostacoli con i cingoli. Uno scafo corazzato proteggeva l’equipaggio e ai lati spuntavano mitragliatrici e un cannone leggero con cui si spazzavano le trincee nemiche.10 A differenza dei carri armati più moderni, i primi modelli non avevano la torretta, perché si temeva che il peso eccessivo potesse far ribaltare il carro. All’epoca il senso comune diceva che «l’artiglieria conquista, la fanteria occupa».11 Il metodo prediletto per superare le trincee prevedeva all’inizio una cortina di fuoco di copertura dell’artiglieria, denominato fuoco di sbarramento. In tal modo si mandava in pezzi il filo spinato e si costringevano le truppe in difesa a cercare riparo sottoterra, da dove non potevano sparare contro le linee degli assalitori. Con il giusto tempismo questi dovevano arrivare nel momento esatto in cui si schiantava l’ultimo colpo di artiglieria in programma, poi, mentre il fuoco di sbarramento si spostava in avanti per tagliare fuori i rinforzi, gli assalitori balzavano dentro le trincee nemiche e se ne impadronivano prima che i difensori si precipitassero fuori dai loro rifugi a prova di bomba. Era semplicissimo. Purtroppo un intoppo qualsiasi poteva far saltare il programma del fuoco di sbarramento. Se gli assalitori avanzavano troppo rapidamente o lo sbarramento stesso non si 527
interrompeva in tempo, era facile che l’artiglieria finisse per bombardare le proprie truppe, ma se il fuoco di sbarramento si alzava troppo presto o gli assalitori tardavano, i difensori potevano ridispiegarsi e falciare gli assalitori presi allo scoperto. Senza radio portatili affidabili, i soldati di fanteria della prima guerra mondiale non avevano modo di cambiare i piani in base alle circostanze sul campo.12 Siccome i cannoni diventarono più potenti, i proiettili atterravano ben lontano dalla vista di chi tirava, perciò gli aerei dovevano volare in alto per individuare gli obiettivi. Si trattava di biplani fragili inadatti al trasporto di armi pesanti che potessero incidere direttamente sulla battaglia di terra, ma per principio generale i piloti nemici cominciarono a spararsi a vicenda ogni volta che le loro rotte si incrociavano. Ben presto si svilupparono così dei duelli aerei tanto vistosi e formali quanto sostanzialmente inutili. I tedeschi sperimentarono per primi la difesa in profondità. Si resero conto che non aveva senso ammassare l’intero esercito nelle trincee di prima linea, sotto il facile tiro dell’artiglieria nemica: tutto ciò che serviva era una prima linea di contrasto che suonasse l’allarme e un numero di mitragliatrici sufficienti per ritardare l’attacco di fanteria il tempo necessario a far entrare in azione l’artiglieria. In tal modo si poteva tenere il grosso dell’esercito oltre la portata dell’artiglieria, in una seconda linea di trincee, da cui lo si poteva mandare avanti solo in caso di necessità. Le grandi battaglie Gli anni della guerra di posizione produssero delle vere battaglie in cui gli eserciti stilavano piani, attaccavano, si ritiravano, si raggruppavano e contrattaccavano. La speranza diffusa era di sfondare le trincee e raggiungere l’aperta campagna al di là, dove nel calcolo tattico potevano rientrare le manovre e l’abilità. Se non funzionava, la speranza era invece di 528
ammazzare un numero di nemici superiore a quello delle proprie perdite, finché l’ultimo rimasto avrebbe vinto la guerra. Giusto nel caso vediate un nome su un libro o a un esame, ecco un elenco delle grandi battaglie: BATTAGLIA
DURATA
MORTI
MASSIMA
ESITO
AVANZATA
Seconda dell’Artois Gallipoli
9 maggio-16 giugno1915 19 febbraio 1915-19 gennaio 1916 Somme 1o luglio-18 novembre 1916 Verdun 21 febbraio16 dicembre 1916 Passchendaele 31 luglio-16 novembre 1917
50.000 125.000
5 nulla chilometri 3 un bel chilometri niente
306.00014 13 zero chilometri 305.00015 9 niente chilometri di niente 150.00016 6 nada chilometri
L’unico dettaglio assolutamente indispensabile che bisogna sapere di queste battaglie è che il primo luglio 1916, primo giorno della battaglia della Somme, restarono uccisi 19.240 soldati britannici, la maggior parte nei pochi minuti di carica attraverso la terra di nessuno.17 Per pura concretezza, il numero di inglesi morti il primo giorno della Somme equivale a 1270 tonnellate di tessuto e ossa in putrefazione sparsi per il campo di battaglia. Uno smaltimento di quelle dimensioni sarebbe stato un incubo logistico persino in tempo di pace, ma in guerra per le squadre addette alla sepoltura era troppo rischioso raccogliere i cadaveri nella terra di nessuno. Alla fine si scoprì che nelle zone di trincea una prospera popolazione di ratti avrebbe ripulito gli scheletri dalla carne con grande velocità, perciò si stabilì ufficialmente di lasciarli compiere il loro lavoro.18 529
Siccome la guerra si combatteva tra società istruite, in libri e archivi di tutta Europa si sono raccolte le lettere spedite a casa, nelle quali è documentata l’atroce esperienza della battaglia. Aprite una qualunque storia della guerra e ci troverete decine di storielle che raccontano cosa significava stare là in mezzo. Siamo strisciati sul ventre fino al margine della foresta, mentre sopra di noi fischiavano e sibilavano le bombe, che facevano a brandelli tronchi e rami degli alberi. Poi sono cadute di nuovo sul margine della foresta, sollevando nuvole di terra, pietre e radici e avvolgendo tutto in un vapore giallo-verdastro disgustoso, vomitevole. […] Sono saltato su e sono corso più veloce che potevo per prati e campi di barbabietole, saltando trincee, cespugli e grovigli di filo spinato, poi ho sentito qualcuno che gridava davanti a me «Qui dentro! Tutti qui dentro!» Davanti a me c’era una grossa trincea, sono saltato dentro in un attimo […] sotto i miei piedi c’erano inglesi morti e feriti. […] Ecco perché quando ero saltato ero atterrato sul morbido. […] Sopra la nostra trincea ha preso a infuriare una tempesta di ferro. Alla fine, alle dieci, la nostra artiglieria ha aperto il fuoco in questo settore. Uno... due... tre... cinque... e così via. Spesso nelle trincee inglesi davanti a noi esplodeva una bomba. Quei poveri diavoli sciamavano come formiche dal formicaio e noi ci siamo lanciati addosso a loro. In un lampo abbiamo attraversato i campi davanti a noi e dopo un sanguinoso corpo a corpo li abbiamo cacciati dalle trincee, una dopo l’altra. Moltissimi alzavano le mani sulla testa. Si falciava chiunque rifiutasse di arrendersi. E così abbiamo ripulito una trincea dopo l’altra. Siamo avanzati quattro volte e ogni volta siamo stati costretti a ritirarci. Della mia compagnia accanto a me 530
era rimasto soltanto un altro, poi è caduto pure lui. Un colpo mi ha strappato per intero la manica sinistra della giubba, ma sono rimasto illeso per miracolo.19 E il giovane autore della lettera, Adolf Hitler, sopravvisse alla guerra. Altrove Più di ogni altra guerra, il primo conflitto mondiale uccise persone che si potrebbero incontrare in tutt’altro contesto. Henry Moseley, il fisico che aveva scoperto il segreto dei numeri atomici, fu abbattuto a Gallipoli; lo scultore futurista Umberto Boccioni morì in un incidente di addestramento; lo scrittore inglese H.H. Munro e il poeta americano Joyce Kilmer caddero in combattimento; lo scultore cubista francese Raymond Duchamp-Villon morì di febbre tifoidea; George Llewelyn Davies, uno dei bambini che ispirarono il Peter Pan di J.M. Barrie, fu ucciso da un colpo alla testa nelle Fiandre. Fu la guerra più democratica della storia: le nazioni d’Europa vi sacrificarono un’intera generazione, indipendentemente dalle doti, dalle imprese e dai legami personali dei singoli. È più facile immaginare la prima guerra mondiale come un buco nero o un enorme rogo: una linea statica di trincea che taglia l’Europa occidentale divorando famelica le risorse di un intero mondo. A gettare tra le fiamme i propri figli non furono solamente le nazioni vicine al fronte, come Germania, Francia e Inghilterra; per alimentare il mostro si importarono giovani da tutto il pianeta: America, Australia, India, Senegal. Naturalmente non è tutto qui, infatti la guerra mondiale di certo fu all’altezza del proprio nome. La Turchia ottomana, che controllava gran parte del Medio Oriente, vi entrò per impedire alla Russia, il nemico di sempre, di trarre qualche vantaggio nei Balcani. Ciò portò i piccoli eserciti coloniali, soprattutto britannici, a rosicchiare i margini dell’impero ottomano, nel 531
tentativo di portare un affondo e agganciarsi ai russi. Dall’Egitto gli inglesi entrarono in Palestina, conquistarono Gerusalemme e tra l’altro combatterono una battaglia a Megiddo (cioè Armageddon: sì, è un luogo reale). Un’armata proveniente dall’India Britannica invase la Mesopotamia, ma fu intrappolata e posta sotto assedio a Kut: dopo aver mangiato per svariati mesi cavalli, ratti e cinture, le truppe si arresero ai turchi. L’impresa più ambiziosa contro la Turchia cominciò con un attacco navale inglese direttamente nello stretto dei Dardanelli, inteso a conquistare Costantinopoli e aprire l’accesso ai porti russi del mar Nero (febbraio 1915). Il piano fallì sin dall’inizio, soprattutto perché gli inglesi non avevano considerato la possibilità che questa rotta cruciale nel cuore del territorio nemico potesse essere pesantemente sorvegliata. Le mine marittime e le batterie di terra affondarono tre navi da guerra e danneggiarono il resto della flotta. Gli Alleati optarono allora per uno sbarco sulla penisola di Gallipoli, con il quale si sarebbero prese le batterie turche, invece purtroppo non fecero altro che portare truppe sufficienti da far sfilare a Costantinopoli dopo la sua caduta. La flotta attraversò il Mediterraneo per prelevare le inesperte truppe australiane che si addestravano in Egitto, poi restò in attesa dell’arrivo dei veterani dal fronte occidentale. Il ritardo offrì ai turchi la possibilità di rafforzarsi e trincerarsi: così gli Alleati furono trucidati appena sbarcati sulle spiagge, poi ancora mentre cercavano di evadere dalla testa di ponte e di nuovo mentre strisciavano verso i difensori. Dopo aver picchiato invano contro i turchi per diversi mesi, alla fine gli Alleati rinunciarono e se ne andarono. Dopo circa un anno di neutralità, l’Italia andò in cerca dell’offerta migliore e si unì agli Alleati quando questi le offrirono le Alpi e la costa adriatica appartenenti all’AustriaUngheria. Siccome il breve confine tra Italia e Austria era costituito per lo più da aspre montagne, ben presto anche questo fronte si ripiegò sull’ennesima linea statica che macinò gli eserciti in una vana offensiva dopo l’altra. 532
Alla fine i Balcani furono in larga parte invasi dagli imperi centrali. Con il sopraggiungere della guerra e delle forze di occupazione, furono flagellate, depredate e messe alla fame Serbia, Montenegro, Albania e Romania. La Grecia stava per unirsi agli imperi centrali, ma un colpo di stato appoggiato dagli Alleati ne allontanò il re filotedesco. Il fronte russo era più lungo di quello occidentale (all’incirca 1600 chilometri contro 500):20 le truppe erano schierate in maniera più assottigliata e ciò rendeva più agevole aggirare le linee nemiche o penetrarvi. Nei primi anni il fronte si spostò avanti e indietro a seconda del ridotto vantaggio conquistato da una parte o dall’altra, con enormi retate di prigionieri. Tali oscillazioni portarono molte più distruzioni fra la popolazione rispetto allo statico fronte occidentale. Gli eserciti in movimento smuovevano e oltrepassavano colonne di profughi, calpestavano i raccolti e saccheggiavano le città; inoltre trucidavano il bestiame e diffondevano le malattie. Un terzo di tutte le morti di civili della Grande guerra si registrò in Russia, causate soprattutto dalla fame e dal tifo. Gli armeni Nel 1915 un’offensiva turca contro i russi nel Caucaso andò a finire decisamente male: bisognava trovare un colpevole. I generali turchi si guardarono attorno alla ricerca di un comodo capro espiatorio e individuarono gli armeni cristiani che vivevano proprio accanto alla zona di guerra. Naturalmente era stato il tradimento armeno a compromettere lo sforzo bellico della Turchia. Una prova ulteriore arrivò allorché i sudditi cristiani del sultano accolsero come una liberazione il contrattacco russo. Con l’indebolimento dell’impero ottomano, la Turchia si era fatta sempre più paranoica rispetto al nazionalismo delle minoranze sottomesse, tanto che ogni attività sospetta poteva innescare un terribile massacro preventivo. Nel 1894 i turchi 533
avevano massacrato senza alcun motivo 200.000 armeni, poi ne avevano uccisi altri 30.000 nel 1905, ma stavolta decisero che era troppo pericoloso lasciare una minoranza cristiana scontenta così vicino alle prime linee. Bisognava sbarazzarsi completamente degli armeni, una volta per tutte, così attaccarono e cancellarono sistematicamente la presenza armena dall’impero ottomano. E già che c’erano estirparono anche la comunità assira (i cristiani di Siria). Si disarmarono gli armeni di leva nell’esercito turco, che vennero riassegnati ai battaglioni di lavoro, dove morivano di fatica. Nell’aprile del 1915 si procedette allo sgombero degli armeni da Costantinopoli. A giugno furono radunati, portati in campagna e uccisi 15.000 armeni della città di Bitlis; a luglio toccò ad altri 17.000 a Trebisonda.21 Poi i soldati turchi cominciarono a svuotare i villaggi armeni delle province nordorientali e quelli assiri a sud: si radunavano e fucilavano gli uomini, mentre si deportavano a sudovest donne, bambini e anziani, anche se talvolta bambini e ragazze carine venivano presi dalle famiglie turche, che li avrebbero cresciuti come musulmani o li avrebbero tenuti come servi o mogli. Quei grossi spostamenti di popolazione si trasformarono in marce della morte per montagne e deserti: gli armeni venivano fucilati, uccisi con la baionetta o con una mazza o semplicemente abbandonati nel nulla quando cadevano a terra.22 Documenti turchi scoperti di recente dimostrano che in questa pulizia etnica morirono 972.000 armeni.23 I civili Per rompere l’impasse militare, le potenze belligeranti misero sotto pressione le popolazioni civili. Per puro spregio i tedeschi impiegarono un gigantesco cannone che lanciava proiettili a casaccio su Parigi, da una distanza di centoventi chilometri, e uccise un totale di 250 cittadini sventurati. Inoltre inviarono dirigibili a sganciare bombe sull’Inghilterra, ammazzando 550 534
civili. Tutto ciò non incise nemmeno lontanamente sull’esito della guerra; tuttavia lo fece il blocco navale tedesco. I sottomarini tedeschi affondavano ogni nave che si avvicinava alle isole britanniche, nella speranza di piegare gli inglesi mediante la fame. Per un po’ questa strategia ebbe successo, grazie alle nuove tecnologie sviluppate nei decenni precedenti: i sommergibili rendevano infatti possibile avvicinarsi furtivamente a distanza di tiro e a loro volta i siluri consentivano di affondare le navi con un solo colpo ben assestato. Come la guerra aerea del secondo conflitto mondiale, quella sui mari del primo conflitto si mosse in una torbida zona grigia di ambiguità morale. Il diritto internazionale aveva elaborato complesse regole di ingaggio tra navi da guerra e imbarcazioni civili. Per esempio si dovevano fermare e perquisire i mercantili disarmati e si doveva evacuare l’equipaggio, ma montare delle armi da difesa su una nave civile la rendeva facile bersaglio di un attacco immediato. In teoria sembrava tutto giusto, ma nella pratica era largamente improponibile. Rispetto alle navi di superficie, i sottomarini erano inferiori in tutto (velocità, armamenti e gittata) tranne che per la sorpresa. Se fossero emersi in superficie, avessero dato l’altolà e ritardato l’attacco per perquisire una nave sospettata di contrabbando, avrebbero perso l’unico vantaggio di cui disponevano. Per questo dovevano affondare immediatamente ogni nave sospetta tutte le volte che se ne presentava la possibilità. Naturalmente l’affondamento indiscriminato di ogni nave che si avvicinasse alle acque britanniche mandò in fondo all’oceano molti passeggeri inermi. Il 7 maggio 1915 nei pressi dell’Irlanda fu affondato il transatlantico Lusitania, proveniente da New York: trovarono così la morte 1200 persone, tra passeggeri ed equipaggio. Lo sdegno tra gli americani neutrali fu così forte da far sospendere per un po’ il programma della guerra sottomarina. Alla fine gli inglesi iniziarono a spostarsi in convogli e in tal 535
modo resero più arduo per i sottomarini tedeschi individuare gli obiettivi, perché le navi si muovevano a gruppi anziché allinearsi lungo l’Atlantico. Anche se si imbatteva in un convoglio, il sommergibile tedesco probabilmente non riusciva a sparare più di un paio di colpi prima che le navi in superficie, più veloci, riuscissero a portarsi fuori tiro. Per di più i tedeschi sopravvalutarono la dipendenza della Gran Bretagna dalle importazioni: quando il traffico sull’oceano si fece più rischioso, gli inglesi coltivarono più terra per compensare il deficit di prodotti alimentari. Il blocco inglese dei porti tedeschi fu imposto per lo più dalle mine e dalle navi di pattuglia in superficie. Siccome in genere obbediva al diritto della navigazione, vi fu meno clamore a livello internazionale, anche se nel complesso fu ben più letale. La collocazione della Germania sul mare del Nord offriva agli inglesi delle utili strozzature, che resero più efficace provocare una penuria di generi alimentari. La stima ufficiale dice che in tempo di guerra morirono di fame 763.000 civili tedeschi, soprattutto nei mesi conclusivi del blocco, quando la Germania perse l’accesso alle fattorie dell’Europa orientale occupata. Dopo l’armistizio, nonostante la cessazione delle ostilità gli Alleati mantennero in vigore il blocco allo scopo di tenere sotto pressione i diplomatici tedeschi che negoziavano a Versailles. Per compromettere la stabilità dei loro avversari le potenze belligeranti fecero tutto il possibile. Quando nel 1917 il governo russo cominciò a vacillare, i tedeschi rispedirono in patria il leader comunista Lenin dal suo esilio svizzero, proprio perché causasse dei guai. Come disse Churchill: «Trasportarono Lenin dalla Svizzera alla Russia su un treno sigillato, come un bacillo della peste». Inoltre i tedeschi appoggiarono i ribelli irlandesi, che diedero vita alla rivolta di Pasqua del 1916. Tra i sudditi britannici colti a collaborare con i tedeschi per la causa della libertà dell’Irlanda vi era Roger Casement, eroe del Congo (vedi Stato Libero del Congo), il quale finì impiccato per tradimento.24 Dalla parte opposta, il colonnello britannico 536
Thomas Lawrence – noto alla tradizione popolare e al cinema come l’ardito Lawrence d’Arabia – si legò ai ribelli arabi per compromettere la posizione ottomana nel Vicino Oriente. Il tracollo Dopo tre orribili anni di guerra, passando davanti a un drappello di generali le truppe francesi che marciavano in battaglia qualche volta belavano come pecore: sapevano di essere inviate al macello. A maggio del 1917, dopo l’ennesima offensiva insensata in cui restarono uccisi o feriti 100.000 francesi, i soldati si rifiutarono di proseguire. Disertarono a decine di migliaia e metà dell’esercito – cinquantaquattro divisioni – rifiutò di prendere altri ordini dall’alto. L’ammutinamento dei francesi si risolse con una combinazione di esecuzioni e riforme: i capi furono fucilati o incarcerati sull’isola del Diavolo, mentre molti soldati comuni vennero mandati per un po’ in licenza a casa. L’alto comando ristabilì infine la fiducia dell’esercito con offensive ridotte che garantivano successi più limitati, invece dei colossali azzardi sanguinosi cui si era abituati. Per anni il fronte italiano non aveva visto altro che una battaglia inutile dopo l’altra sul fiume Isonzo: quattro nel 1915, cinque nel 1916, tre nel 1917. Nella dodicesima battaglia dell’Isonzo, avviata nell’ottobre del ’17, le forze austrotedesche alla fine sfondarono il fronte italiano, dispersero i difensori in preda al panico e raccolsero un altissimo numero di prigionieri. Nel giro di un mese furono catturati 280.000 italiani, 350.000 disertarono. Anche se in seguito il fronte si stabilizzò quasi cento chilometri più indietro prima che andasse perduto qualche pezzo vitale dell’Italia, per l’andamento della guerra l’esercito italiano non ebbe più alcun peso.25 La situazione peggiore, però, era quella della Russia. Perdendo una battaglia dietro l’altra i russi avevano gettato via circa un milione di vite umane e si erano procurati parecchi 537
milioni di feriti. Le finanze del governo erano esaurite e nelle città non arrivava più cibo. A marzo del 1917 una serie di ammutinamenti e di rivolte cacciò l’imperatore e il paese si sgretolò in un’atroce guerra civile che merita un intero capitolo a parte (vedi Guerra civile russa). A loro volta le truppe tedesche occuparono immense aree del paese e cominciarono a inviare in patria generi alimentari e rifornimenti. Con la caduta della Russia le divisioni tedesche si spostarono a ovest: le truppe aumentarono a sufficienza per riprendere l’offensiva con la nuova tattica dell’infiltrazione, appena elaborata.** Una rinnovata offensiva tedesca, tanto lenta e sanguinosa quanto efficace spinse gli Alleati indietro, verso Parigi. Col passare delle settimane, però, gli Alleati impararono a contrastare la nuova tattica dei tedeschi: inoltre l’offensiva si arrestò allorché le truppe fresche provenienti dagli Stati Uniti sferrarono un contrattacco. Per anni gli Stati Uniti avevano cercato di tenersi alla larga dalla follia dell’Europa. I vincoli economici li legavano a entrambe le parti; l’affinità storica spingeva il paese verso la Gran Bretagna, da cui lo distoglieva d’altro canto la consistente immigrazione irlandese e tedesca delle generazioni precedenti alla guerra. Tuttavia i ripetuti attacchi tedeschi contro le navi civili indignavano l’opinione pubblica americana. Fortunatamente per la Germania, la guerra europea non era l’unica in corso: era in piena ebollizione la rivoluzione messicana e le truppe americane erano appena rientrate dal Messico, dove avevano dato la caccia a Pancho Villa. I tedeschi proposero al governo messicano un’alleanza segreta, nella speranza di tenere gli americani impegnati nel loro emisfero, ma quando la proposta divenne pubblica gli americani infuriati dichiararono guerra alla Germania (aprile 1917).26 Per la mobilitazione di tutto il potenziale americano ci volle quasi un anno. La prima grossa azione fu intrapresa solo nel marzo del 1918, ma in ogni caso l’afflusso costante di due milioni di truppe fresche si rivelò superiore alle possibilità della 538
Germania. Davanti ai rinnovati attacchi degli Alleati i tedeschi cominciarono a ripiegare: con le linee che arretravano inesorabilmente, Berlino andò nel panico. Sul futuro si profilava la conquista. Aspettare la completa distruzione dell’esercito avrebbe significato privare la Germania di ogni potere contrattuale; e così a ottobre il Parlamento cominciò a sondare l’ipotesi di un cessate il fuoco. Mentre i telegrammi andavano e venivano, gli alleati della Germania abbandonarono la causa. Un’offensiva degli Alleati partita dalla Grecia inaspettatamente stava per investire gli eserciti nemici nei Balcani, e così Bulgaria, Turchia e Austria decisero di chiudere la partita rispettivamente a settembre, ottobre e novembre. E visto che c’erano gli austriaci rovesciarono addirittura l’imperatore. La Germania ritardava, perciò gli Alleati chiarirono che l’imperatore tedesco avrebbe dovuto abdicare prima dell’entrata in vigore del cessate il fuoco. Il Kaiser Guglielmo lasciò il 9 novembre, due giorni dopo cessarono i combattimenti. Più o meno. «La guerra dei giganti è finita» dichiarò Churchill. «Sono cominciate le risse dei pigmei».27 Dopo la guerra sotto la cenere covavano le braci. La Russia era tormentata dalla guerra civile, altrettanto accadeva in Finlandia; Ungheria e Romania combatterono una nuova guerra a proposito dei confini comuni e lo stesso avvenne tra Russia e Polonia. Grecia e Turchia cominciarono a scontrarsi per i confini, mentre in Turchia lo scontro interno vedeva contrapposti i fautori della monarchia e quelli della repubblica. Nel 1919 le potenze belligeranti si riunirono nei tranquilli quartieri attorno a Parigi per negoziare i dettagli precisi dei trattati di pace, ma la pace durò giusto il tempo per far sì che le nazioni rivali crescessero una nuova generazione di soldati. L’eredità La lezione principale del primo conflitto mondiale è che la 539
guerra è cattiva. Sembra l’ovvia lezione di quasi tutte le guerre, ma la generazione precedente di europei aveva conosciuto un’epoca di pace inaudita, perciò aveva dimenticato com’era la guerra. Nella memoria recente le guerre erano state per lo più vittorie facili o nette sconfitte. La prima guerra mondiale ricordò ai governanti del mondo che le guerre non vanno sempre come si è pianificato: quasi ogni progetto ebbe effetti contrari e moltissime nazioni uscirono dalla guerra piegate e a pezzi. Nei capitoli a seguire vedremo che molti dei miei cento massacri si possono far risalire agevolmente alla Grande guerra. La seconda guerra mondiale fu la rivincita, la guerra civile russa una conseguenza, altri massacri sono stati originati indirettamente dalla prima guerra mondiale: Stalin emerse dalla rivoluzione russa, la guerra di Corea derivò dalla seconda guerra mondiale. Le ripercussioni si percepiscono ancora oggi. Il primo commento pubblico di Osama bin Laden sugli attentati dell’11 settembre 2001 annunciò la fine degli ottant’anni in cui il mondo islamico aveva sofferto per causa dell’Occidente: si tratta con ogni probabilità di un riferimento alla suddivisione postbellica dell’impero ottomano e dell’occupazione britannica della Palestina, che ebbe inizio (sarà un caso?) l’11 settembre 1922.28 In effetti, alcuni dei paesi più inquieti della storia recente sono nati quando i vincitori spezzettarono gli imperi dei vinti: Burundi, Ruanda: due pezzi dell’Africa orientale tedesca andarono ai belgi. In tal modo si misero insieme tutsi e hutu, nonostante si odiassero. Nel mezzo secolo passato i massacri sono stati innumerevoli, dall’una e dall’altra parte. Cecoslovacchia, Polonia: dai territori slavi di Austria, Germania e Russia si ritagliarono due nuove nazioni poliglotte. Si sperava che facessero da cuscinetto tra nemici implacabili, invece durarono il tempo sufficiente per provocare una nuova guerra mondiale e farsi conquistare rapidamente. 540
Darfur: per solidarietà islamica, durante la Grande guerra il sultano del Darfur, nel Sahara, rifiutò l’obbedienza agli inglesi e la offrì ai turchi ottomani. Allora gli inglesi occuparono e abolirono il sultanato, unendolo al Sudan. Oggi il Darfur affronta il genocidio per mano dei suoi padroni sudanesi. Iraq: tutte le province petrolifere dell’impero ottomano furono riunite e assegnate alla Gran Bretagna, benché in un unico paese si fossero mescolati insieme sunniti, sciiti e curdi. Questi tre gruppi si combattono nell’attuale guerra civile per il controllo del paese e i profitti del petrolio. Israele: questa fetta di impero ottomano fu assegnata agli inglesi e ben presto fu riservata all’immigrazione ebraica. Per più di mezzo secolo i paese arabi confinanti hanno cercato di cancellare questa macchia etnica. Libano: dall’impero ottomano si ritagliarono delle enclave cristiane, in modo da creare un piccolo paese a maggioranza cristiana. Nel corso degli anni Settanta e Ottanta i musulmani del luogo hanno combattuto con i cristiani una guerra civile per la condivisione del potere. Unione Sovietica: quando la Russia sfinita dalla guerra passò al comunismo, diede vita a una nazione mostruosamente potente, ideologicamente contrapposta all’Occidente. Per riportare la Russia sulla stessa pagina del resto d’Europa ci sono voluti tre quarti di secolo e la quotidiana minaccia di un annientamento nucleare. Jugoslavia: gli slavi balcanici dell’impero austriaco vennero uniti alla Serbia, in una grande nazione poliglotta. Durante gli anni Novanta hanno combattuto tutti una serie di guerre civili per uscirne.
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Guerra civile russa Bilancio delle vittime: 9 milioni1 (di cui 1 milione di militari, 5 milioni di morti per la carestia e 2 milioni per le epidemie; il resto è costituito da civili uccisi dal terrorismo, dal fuoco incrociato, ecc.) Posizione: 14 Tipologia: guerra civile di matrice ideologica, stato fallito Contrapposizione di massima: Rossi contro Bianchi Periodo: 1918-1920 Luogo: Russia Stati partecipanti: Francia, Germania, Gran Bretagna, Giappone, Stati Uniti Stati quantici partecipanti: Armenia, Estonia, Finlandia, Georgia, governo provvisorio russo, Lettonia, Lituania, Polonia, Russia sovietica, Ucraina Quasi-stati partecipanti: Armata Verde, Armata dei Volontari, cosacchi del Don, governo provvisorio della Siberia autonoma, Komuč, Legione Ceca, Territorio Libero A chi diamo la colpa di solito: la sinistra accusa la destra e la destra accusa la sinistra
Fine della dinastia dei Romanov La prima guerra mondiale fu un caos colossale per tutti, tanto che molti partecipanti ne uscirono con i governi irreparabilmente distrutti. Il primo grosso paese a crollare per la tensione fu la Russia. La vita nelle città era turbata dalla carenza di cibo e dagli scioperi, mentre la penuria di approvvigionamenti e una strategia idiota mandarono in pezzi 542
l’esercito. Con il protrarsi di quell’infinita carneficina, migliaia di soldati russi semplicemente lasciarono perdere e se ne tornarono a casa, portandosi dietro le armi in caso qualcuno avesse tentato di fermarli. Quando le proteste nella capitale Pietrogrado si fecero violente, ebbe inizio la rivoluzione di Febbraio (in realtà nel marzo 1917).* I soldati inviati a sedare lo sciopero vi si unirono. Lo zar Nicola era su un treno che lo riportava in fretta a Pietrogrado dove intendeva ripristinare la sua autorità, quando divenne evidente che gli eventi ormai lo avevano superato, perciò abdicò formalmente quando si trovava ancora fuori dalla città. La corona fu offerta ai parenti, ma nessuno della famiglia Romanov voleva ereditare quel disastro in cui si era trasformata la Russia. Per il momento il potere restava nelle mani del Parlamento, anche se la maggior parte degli operai era controllata dal soviet di Pietrogrado, il gruppo operaio locale, cosa che lo rendeva la fazione più turbolenta della capitale. Uno dei suoi membri, Aleksandr Kerenskij, ex appartenente al Partito Socialista Rivoluzionario, divenne il politico più influente della Russia.** Per qualche mese il nuovo governo cercò di cavarsela alla meglio con un minimo di mutamenti nel tessuto sociopolitico della Russia; intanto la guerra contro la Germania continuava senza che se ne vedesse la fine. Nel 1903 uno scisma aveva diviso i socialisti russi tra una minoranza moderata e una maggioranza radicale. I radicali sono dunque passati alla storia con il nome di bolscevichi, dal termine russo che sta per maggioranza, mentre i moderati erano noti come menscevichi, dalla parola minoranza. A capo dei bolscevichi c’era un intellettuale laborioso, veemente e privo di senso dell’umorismo nato con il nome di Vladimir Ul’janov, ma meglio noto con lo pseudonimo di Lenin; esiliato dalla Russia per attività rivoluzionaria, per molti anni aveva vagato per l’Europa occidentale. Allo scoppio della prima guerra mondiale, i partiti socialisti di tutta Europa si erano allineati dietro ai vari governi nazionali a sostegno del 543
conflitto, anziché unirsi superando i confini nazionali per imporre una fine a quella follia. Lenin li maledisse per il loro fiacco patriottismo, tanto che in poco tempo divenne sgradito in tutto il continente, finché non trovò un rifugio sicuro nella neutrale Svizzera. Dopo la rivoluzione di Febbraio, fu riaccolto in patria chi era finito in carcere o in esilio per motivi politici sotto il regime zarista. I tedeschi permisero a Lenin e al suo seguito di passare per la Germania fino al mar Baltico, da dove ritornò a Pietrogrado attraverso la Svezia neutrale. Lì iniziò immediatamente a mobilitarsi per l’attuazione di un programma radicale, che prevedeva in cima alla lista l’uscita della Russia da quella guerra insensata. Più le cose sul fronte di battaglia russo continuavano a peggiorare, più i bolscevichi di Lenin guadagnavano consensi e maggiore forza: alla fine con la rivoluzione di Ottobre (novembre 1917) presero il controllo del governo. Nei mesi successivi consolidarono il proprio potere e spostarono la capitale a Mosca, più all’interno, per evitare le armate tedesche e le folle turbolente che minacciavano il governo di Pietrogrado. A dicembre Lenin invocò un cessate il fuoco con la Germania e avviò i negoziati di pace. Secondo il trattato di Brest-Litovsk, siglato a marzo del 1918, la Russia sovietica accettava la sconfitta e rinunciava alle province baltiche, ucraine e bielorusse occupate dai tedeschi. La guerra civile Molti libri si fermano qui e sorvolano rapidamente sui pochi anni seguenti della storia russa. A quest’epoca era già successo tutto ciò che avrebbe influenzato il resto del secolo. La Russia era comunista e fuori dalla guerra, nell’ampio flusso della storia era quel che contava davvero. Il resto è inutile e deprimente, quindi occupiamocene. Non tutti erano disposti a fare marcia indietro e accettare il 544
gioco di potere dei bolscevichi. Dopo la rivoluzione d’Ottobre le altre fazioni del governo russo fuggirono da Pietrogrado e cominciarono a radunare armate nelle province. Ovviamente i paesi capitalisti occidentali non erano lieti di accogliere nella comunità delle nazioni il primo governo comunista della storia. A loro volta le minoranze etniche dell’impero russo volevano approfittare del caos per dare vita a nuovi stati. Le cose volgevano al peggio. Si può ridurre la cronologia della guerra civile a pochi, semplici eventi, uno per ogni anno: dal novembre del 1917 al novembre del 1918 prevalsero i tedeschi, mentre i bolscevichi erano succubi dal novembre 1918 al novembre 1919, partiti i tedeschi, i bolscevichi furono sulla difensiva contro gli antibolscevichi; dal novembre 1919 al novembre 1920 i bolscevichi intrapresero un’offensiva contro gli antibolscevichi dopo il novembre 1920, gli antibolscevichi erano scomparsi e i bolscevichi consolidarono il potere. La mappa della guerra civile russa è semplice e complessa insieme. La semplicità sta nel fatto che i comunisti (i Rossi) detenevano il centro ed erano attaccati su tutti i lati da forze ostili, note in genere come Bianchi. La complessità sta invece nel fatto che da ogni parte attaccavano forze ostili completamente diverse tra loro: non solo i Bianchi russi, ma anche tedeschi, polacchi, cosacchi, inglesi, francesi, americani e giapponesi.2 Li descriverò in senso orario, a partire dalle 4.30. I cosacchi (a sudest) I cosacchi del Don rifiutarono quasi sin dall’inizio di riconoscere l’autorità dei bolscevichi, tanto che nel luglio del 1918 reclamarono l’indipendenza con la forza delle armi: episodio considerato di solito come inizio ufficiale della guerra 545
civile. Nei primi mesi del 1919 i Rossi tentarono di imporre la propria autorità imperversando nel territorio cosacco e giustiziando sistematicamente 12.000 controrivoluzionari. Una nuova rivolta dei cosacchi contro questo terrore favorì l’offensiva della vicina Armata Bianca del generale Anton Denikin.3 I tedeschi (a sudovest) L’occupazione tedesca non raggiunse il cuore etnico della Russia, ma in ogni caso i tedeschi si impossessarono delle terre europee abitate dai non russi, cioè quelle che nel 1991 sarebbero diventate repubbliche indipendenti. La Germania iniziò a organizzarle come stati vassalli, tuttavia l’armistizio mondiale del novembre 1919 provocò un ritiro frettoloso; allora gran parte dei territori occupati cercarono di rivendicare la propria indipendenza. Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia ci riuscirono, ucraini e popoli del Caucaso no. I Bianchi (a nordovest) Quando i tedeschi sgomberarono dalla Russia, a ottobre del 1919 il generale Nikolaj Judenič guidò una piccola armata di Bianchi dall’Estonia verso Pietrogrado. Per alcune settimane, fu una lancia letale puntata contro il vacillante regime bolscevico, ma l’armata fu respinta più o meno nello stesso momento in cui le offensive dei Bianchi cedevano anche altrove. Gli Alleati (a nord) Nel luglio 1918 nei porti subartici di Arcangelo e Murmansk cominciarono ad affluire alcune migliaia di soldati inglesi e americani, che avevano il compito di sorvegliare le scorte di materiale bellico degli Alleati e impedire che cadessero nelle mani dei tedeschi o dei bolscevichi. Con il crescere del caos in 546
Russia, le truppe aumentarono. Siccome ogni paese occidentale voleva guadagnarsi un seggio alla conferenza di pace finale e magari accaparrarsi qualche preziosa concessione commerciale o qualche colonia all’interno della nuova Russia, inviarono piccole unità anche tutti gli altri Alleati, come australiani, francesi, canadesi, italiani, serbi e così via. Allorché gli Alleati iniziarono a disporre dei perimetri difensivi attorno ai porti, si ritrovarono sporadicamente in aperto conflitto con i bolscevichi, sia pure in maniera riluttante. Nessuno si aspettava sul serio che quelle truppe alleate potessero condizionare l’esito della guerra civile, perciò dopo un paio di anni, quando scorsero la strada intrapresa dalla Russia, gli Alleati abbandonarono del tutto i porti settentrionali russi. Nella battaglia contro i bolscevichi restarono uccisi 304 americani – più del doppio di quelli uccisi in combattimento durante la guerra del Golfo del 1991 –, ma agli americani non piace parlarne, forse perché persero, ma forse anche perché quell’intervento parve giustificare la paranoia dei russi durante la guerra fredda. Per questo nella lista ufficiale delle guerre dell’America non si vedrà mai la guerra civile russa.4 I Bianchi (a est) Probabilmente la cosa che confonde di più in qualunque mappa della guerra civile è la comparsa di un’armata ceca comandata da un ammiraglio russo, attiva in mezzo alla Siberia, a migliaia di chilometri da Praga e dagli oceani navigabili. Nel corso della Grande guerra, per contribuire a liberare la Boemia dall’impero austriaco, gli Alleati avevano organizzato 60.000 prigionieri e disertori slavi dell’esercito austro-ungarico sul fronte russo nella cosiddetta Legione Ceca, ma dopo il ritiro della Russia dalla guerra i bolscevichi non ne avevano bisogno, perciò la Legione Ceca fu inviata altrove, a unirsi agli Alleati. Il piano prevedeva di far tornare in guerra i cechi per vie traverse, cioè dalla ferrovia transiberiana verso il Pacifico, l’unico modo 547
in cui i tedeschi non potevano bloccarli.5 In una stazione ferroviaria della Siberia le forze sovietiche locali cercarono di disarmare i cechi, cosa che riuscì solo a farli infuriare; e così fecero marcia indietro e cominciarono a farsi strada con le armi all’interno della Russia, lungo la ferrovia. Alla fine divennero la spina dorsale delle armate bianche a est.6 L’ammiraglio sulle mappe della Siberia era Aleksandr Kolčak, ex comandante della flotta russa sul mar Nero, il quale si era dimesso nel giugno del ’17, prima che arrivassero al potere i bolscevichi. Per un po’ vagò per le comunità di rifugiati politici russi, poi finì per organizzare le forze antibolsceviche in Manciuria, infine si spostò nell’entroterra, a Omsk, dove divenne ministro della Guerra del governo conservatore russo. Nel novembre del 1918 l’ammiraglio Kolčak prese il potere a Omsk con un colpo di stato. 7 L’anno seguente a livello internazionale fu considerato come il capo di stato ufficiale della Russia, ma a novembre del 1919, dopo il fallimento della sua offensiva contro i bolscevichi, Kolčak abbandonò Omsk. A gennaio del 1920, i Bianchi si erano ritirati a Irkutsk, lungo la Transiberiana, dove caddero in trappola quando il governo locale passò di mano. In cambio di un lasciapassare per il ritorno in patria, la Legione Ceca consegnò l’ammiraglio alle nuove autorità: i Rossi lo fucilarono e ne gettarono il corpo nel fiume più vicino.8 Gli Alleati (in Estremo Oriente) Sulla costa del Pacifico un altro corpo di spedizione alleato composto da francesi, inglesi e americani occupò il porto di Vladivostok e il suo entroterra siberiano. Le prime unità del genio erano già arrivate durante la prima guerra mondiale, con lo scopo di contribuire a far funzionare la Transiberiana e altre ne giunsero in seguito. Inoltre arrivarono anche 70.000 soldati giapponesi. Il Giappone passò la prima metà del XX secolo a cercare di conquistare la costa asiatica del Pacifico: si era già 548
preso la Corea e Taiwan e ben presto sarebbe andato a caccia della Cina. Frattanto i giapponesi sfruttarono quel disordine per invadere la Siberia: alla fine dovettero abbandonare questo punto d’appoggio nel 1922, un anno dopo il ritiro degli altri Alleati. Il Komuč (a sudest) Per un po’ la città di Samara ospitò un governo socialista denominato Komuč, che è la contrazione in russo di Comitato di qualcosa che comincia per uč.*** Accoglieva un numero di profughi ex appartenenti all’assemblea legislativa di Pietrogrado sufficiente per proclamarsi governo legittimo di tutta la Russia. Benché controllasse buona parte del bacino del Volga, era troppo moderato per stimolare il consenso delle masse. Quando i bolscevichi dispersero il governo di Samara, i resti in ritirata li assorbì il governo provvisorio della Siberia autonoma.9 Il Turkestan (nell’estremo sudest) Per qualche mese, tra la fine del ’17 e l’inizio del ’18, le terre centroasiatiche dell’impero russo conobbero una loro guerra civile, allorché i nazionalisti islamici e i comunisti si scontrarono sulla direzione da intraprendere per liberarsi dal passato imperiale russo. Dalla lotta uscirono vittoriosi i Rossi, perciò i Bianchi e le forze britanniche attaccarono dall’Iran senza successo. A Bukhara si instaurò temporaneamente uno stato comunista indipendente, che fu poi riassorbito dalla Russia. I Neri (a sud) Come se non bastasse l’anarchia metaforica che lacerava la Russia, una fazione tentò di fondare una vera società anarchica nell’Ucraina centro-orientale, uno stato senza stato di assoluta 549
uguaglianza tra i contadini. Tra l’autunno del 1918 e l’estate del 1919, l’Armata Nera degli anarchici di Nestor Makhno si ritagliò un Territorio Libero all’interno dell’Ucraina immersa nel caos. Costretti a scegliere da che parte stare, alla fine i Neri si unirono ai Rossi contro i Bianchi, ma una volta liberatisi di questi ultimi i Rossi si volsero contro l’Armata Nera. Per fortuna le spie anarchiche intercettarono gli ordini segreti di Mosca e Makhno, allertato, scappò in Occidente. 10 I Verdi (a sud) I contadini ucraini stufi sia dei Bianchi (tra cui c’erano troppi ex latifondisti) sia dei Rossi (che fucilavano i preti e requisivano le proprietà) si organizzarono nell’Armata Verde comandata da un cosacco di nome Nikifor Grigoriev. L’Armata Verde passò circa un anno a combattere contro Rossi e Bianchi, ma poi i bolscevichi la spinsero nel territorio dei Neri: gli anarchici catturarono Grigoriev e la moglie di Makhno lo giustiziò personalmente. I Bianchi (a sud) I generali Lavr Kornilov e Anton Denikin, comandanti in capo del fronte russo, furono arrestati nell’agosto del 1917 con l’accusa di progettare di impadronirsi di Pietrogrado, ma quando al potere sopraggiunsero i bolscevichi i due evasero e fuggirono nella Russia meridionale, dove organizzarono l’Armata Bianca. Alla morte di Kornilov, ucciso nell’aprile del 1918, Denikin assunse il comando. Da maggio a ottobre del 1919 Denikin andò all’offensiva, ma una vittoria dei Rossi a Orël lo costrinse a una ritirata durante la quale perse continuamente disertori. A marzo del 1920 quel che restava dell’armata era stipato in Crimea, così il mese seguente Denikin lasciò l’esercito al suo vice Pëtr Vrangel’ e si rifugiò in Francia. Riconosciuta finalmente la sconfitta, a novembre del 550
1920 Vrangel’ e gli ultimi Bianchi abbandonarono precipitosamente la Crimea a bordo di navi francesi e britanniche. I pogrom (a sud) A prescindere dall’ideologia, all’epoca buona parte dei russi odiava gli ebrei, che subirono dovunque le violenze di Bianchi, Rossi, Verdi e Neri. La persecuzione fu peggiore in Ucraina. Tra i Bianchi circolava ampiamente la voce che la rivoluzione bolscevica fosse in sostanza un complotto ebraico, perciò per tutto il 1919 Bianchi, cosacchi e nazionalisti ucraini annientarono circa cinquecento comunità ebraiche che si trovavano sul loro cammino. In un massacro dopo l’altro furono fucilati, bruciati vivi, annegati, picchiati a morte o fatti a pezzi tra 60.000 e 150.000 ebrei: fu l’esplosione di antisemitismo più sanguinosa verificatasi tra i tempi di Bar Kokhba (vedi Guerre giudaiche) e l’Olocausto (vedi Seconda guerra mondiale).11 I polacchi (a ovest) Dopo il cedimento delle armate bianche in Ucraina, i polacchi avanzarono per prenderne il posto. Nel maggio del 1920 conquistarono Kiev, ma furono rapidamente respinti da una controffensiva dell’Armata Rossa. Per un po’ parve che la Polonia stesse per essere riassorbita all’interno dell’impero russo, ma la controffensiva si fermò ad agosto a breve distanza da Varsavia. A sentire i polacchi, la battaglia alle porte di Varsavia fu uno dei momenti cruciali della storia moderna: se non fosse stato per il valore dell’esercito polacco, le orde dei comunisti avrebbero infestato l’intero continente europeo. Un’altra interpretazione potrebbe essere questa: l’Armata Rossa era talmente sfinita che la poterono sconfiggere persino i polacchi. Come che sia, la reazione polacca sgomberò completamente 551
il territorio della Polonia dai Rossi e ritornò a metà strada verso Kiev, per poi essere nuovamente fermata dai russi. Fu qui che si stabilì il nuovo confine tra Russia e Polonia, che pose qualche milione di ucraini e di bielorussi in Polonia, come minoranze problematiche.12 I Rossi (al centro) Di fronte a un paese che si sgretolava, la risposta di Lenin a tutti i suoi problemi era quella di fucilare qualcuno. A gennaio del 1918 ordinò di «fucilare sul posto uno su dieci tra chi sarà giudicato colpevole di oziare». In seguito decretò «l’arresto e la fucilazione di chi prende tangenti, truffatori, ecc.»13 Per quel che ci interessa, l’evento più importante di questo capitolo si verificò nel dicembre del 1917, poco dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi, quando Lenin istituì una commissione del Ministero dell’Interno per contrastare le attività di sabotaggio e controrivoluzionarie. Le cinque parole che ne componevano il nome completo erano un problema da pronunciare, scrivere o addirittura ricordare, perciò la maggior parte delle volte si abbreviava con l’innocuo nome di Commissione Straordinaria, e ancor più comunemente con le due lettere iniziali russe, Če Ka. Il nome dell’organizzazione sarebbe cambiato nel corso degli anni, ma il terrore che incuteva sarebbe rimasto costante. I documenti rimasti mostrano che durante la guerra civile la Čeka giustiziò quasi 13.000 controrivoluzionari, e si tratta soltanto degli assassinii dimostrabili. Molti di più ne fucilò spontaneamente, senza lasciare tracce sulla carta. In totale, durante la guerra civile la Čeka uccise un numero di cittadini compreso tra 50.000 e 200.000.14 All’inizio il governo bolscevico condivise il potere con i socialrivoluzionari di sinistra (un gruppo scissionista collaborativo proveniente dall’originario Partito Socialista Rivoluzionario), che godevano di un forte consenso tra i 552
contadini, ma che si infuriarono per le condizioni di capitolazione del trattato di Brest-Litovsk. Nel luglio del 1918 i socialrivoluzionari assassinarono l’ambasciatore tedesco, facendo sembrare l’omicidio opera della Čeka, nella speranza di creare un dissidio tra Lenin e la Germania. Lenin appianò le cose con la Germania, quindi si mise ad arrestare i socialrivoluzionari di sinistra, i quali a loro volta presero in ostaggio il capo della Čeka.15 Lenin richiamò le truppe, che liberarono il capo e distrussero i socialrivoluzionari, allontanando in tal modo gli ultimi estranei dal governo bolscevico. Mentre facevano pulizia a Mosca, i bolscevichi affrontarono un altro problema urgente. Sin dalla rivoluzione, la famiglia reale era stata imprigionata in varie tenute di campagna e si trovava al momento confinata a Ekaterinburg, sui monti Urali. Siccome l’avanzata dei Bianchi erodeva il territorio accerchiato dei Rossi, bisognava fare qualcosa. Lo zar Nicola, sua moglie, cinque figli e i fedeli servitori furono condotti in una piccola stanza e lì fucilati alla meno peggio, colpiti con le baionette e il calcio dei fucili, quindi fucilati di nuovo finché non furono chiaramente morti. Poi si portarono i corpi in un bosco, dove vennero sfigurati con l’acido e sepolti in una fossa anonima.16 Nell’agosto del 1918 un assassino precedentemente appartenente ai socialrivoluzionari ferì Lenin, episodio che diede il via al Terrore Rosso e intensificò le esecuzioni di massa. Con gli ordini intesi a dare un giro di vite contro il dissenso e il comportamento antisociale, Lenin così istruiva un soviet locale: «Dovete […] introdurre immediatamente il terrore di massa, dovete fucilare e deportare centinaia di prostitute che fanno ubriacare soldati, ex ufficiali, ecc. Non si deve perdere un minuto». Nello stesso mese ordinò ai vertici di un’altra città: «Dovete impiccare non meno di un centinaio di noti kulaki [contadini agiati], ricconi e sanguisughe, e assicurare che queste esecuzioni avvengano pubblicamente».17 Alla fine del 1919, Lev Trockij, un altro intellettuale che in 553
origine era stato esiliato in Occidente dallo zar, volse il vento della battaglia a favore dei bolscevichi. Trockij era tornato in Russia con la rivoluzione e Lenin gli aveva assegnato l’incarico di negoziare la pace con la Germania. Poi gli fu dato il comando dell’esercito: mediante una leva di massa tra i contadini in territorio sovietico portò l’Armata Rossa a un milione di uomini. I commissari politici, che avevano il compito di intimidire o rimettere in riga le truppe quando necessario, rafforzarono queste nuove reclute incerte. Alle spalle delle truppe di prima linea, Trockij schierò delle unità politiche speciali, che abbattevano i soldati in fuga, nel caso in cui qualcuno si azzardasse a ritirarsi. Come spiegò nella sua autobiografia: Non si può costruire un esercito senza repressione. Non si possono condurre masse umane alla morte, se il comando non dispone nel suo arsenale della pena di morte. Finché le scimmie senza coda che si chiamano «uomini», orgogliose della loro tecnica, costruiranno eserciti e si combatteranno, il comando di questi eserciti dovrà porre i soldati di fronte all’alternativa tra una morte probabile al fronte e una morte sicura nelle retrovie.****18 A differenza di altri leader bolscevichi, Trockij era disposto a utilizzare gli ex ufficiali zaristi quali consiglieri e talvolta come comandanti, purché ci fossero i commissari politici a tenerli d’occhio. La rivoluzione russa provocò una delle più grandi ridistribuzioni di ricchezza mai viste, ma per lo più i comunisti non andarono porta a porta a requisire le proprietà: si limitavano semplicemente a non imporre le leggi sulla proprietà quando la gente comune rubava ai ricchi. I contadini coltivavano la terra che volevano, sapendo che il governo non li avrebbe cacciati; gli operai prendevano il controllo delle fabbriche e la polizia non li sgomberava. La gente si appropriava del bestiame o 554
traslocava all’interno di edifici abbandonati, e i proprietari non potevano farci nulla. Chiunque si opponeva veniva linciato dalla folla oppure giustiziato sommariamente dalla Čeka. All’indomani della prima guerra mondiale spuntarono delle repubbliche sovietiche anche in Baviera e in Ungheria, tanto che per un breve istante Lenin sperò – e il resto del mondo temette – che ciò avrebbe condotto a una catastrofica ondata rivoluzionaria in tutto il mondo. Poi la Baviera cedette nel maggio del 1919 e l’Ungheria nell’agosto successivo e l’epidemia del marxismo fu posta in quarantena all’interno della Russia. Nel momento in cui si sollevò il fumo, sulla riva del Baltico cinque nuovi paesi erano riusciti a rendersi indipendenti da una Russia indebolita. Altrove i bolscevichi avanzavano per assimilare le altre piccole repubbliche che si erano instaurate nell’ex territorio dello zar. Nel dicembre 1922 tutti i governi comunisti locali che avevano attecchito nel vecchio impero russo furono riuniti ufficialmente nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, o URSS. L’eredità Una generazione fa la rivoluzione russa spiccava come l’evento geopolitico più importante del XX secolo. Tutti i grandi dittatori erano caduti, le due guerre mondiali erano finite e perdevano importanza, le guerre più recenti erano state lunghe e vane, ma l’Unione Sovietica incombeva inevitabilmente sull’intero secolo, minacciosa, combattiva, in crescita e in evoluzione. L’insurrezione che aveva dato vita all’URSS era centrale per la storia moderna. Oggi la rivoluzione russa è una materia facoltativa di storia antica, rappresenta un ottimo esempio di come i cambiamenti del presente si ripercuotono sul passato e lo trasformano. Dissolta l’Unione Sovietica, tutti quei dettagli su bolscevichi, menscevichi, Rossi e Bianchi sono diventati pure inezie. 555
Per contro, ha acquisito maggiore importanza un evento che nei corsi di storia di quando andavo a scuola per lo più si ignorava. La decisione presa nel 1922 di organizzare l’ex impero russo in una federazione di repubbliche etniche teoricamente autonome sembrava un’operazione di facciata. Nessuno credeva sul serio che quelle «repubbliche» fossero altro che province di un impero russo, perciò nomi e confini non contavano. Abbiamo sempre chiamato «russi» i cittadini dell’URSS, raramente «sovietici». Tutti sapevano chi gestiva davvero la baracca. Poi, nel 1991, quelle «repubbliche» dichiararono l’indipendenza e all’improvviso fu importante stabilire se la Crimea era nella repubblica russa o in quella ucraina, o se la patria di ceceni, bielorussi e tatari aveva il pieno statuto di repubblica, o quanti armeni vivevano nell’Azerbaigian. Dall’Unione Sovietica vennero fuori quindici paesi e se non ci fossero state quelle comode linee tratteggiate lungo cui tagliare, la disgregazione sarebbe stata molto più disordinata. Ciò malgrado, sono scoppiate cinque piccole guerre, perché non a tutti andava bene come erano stati disegnati i confini delle ex repubbliche sovietiche.
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Guerra greco-turca Bilancio delle vittime: 400.0001 Posizione: 81 Tipologia: stato fallito Contrapposizione di massima: greci contro turchi Periodo: 1919-1922 Luogo: Turchia A chi diamo la colpa di solito: i greci accusano i turchi e i turchi accusano i greci: mai metterli nella stessa stanza I turchi ottomani uscirono pesantemente sconfitti dalla prima guerra mondiale, perciò il sultano di Costantinopoli si ritrovò a vivere sotto il dominio delle potenze alleate vittoriose, che lo costrinsero a cedere il suo impero. Francesi e inglesi si presero gran parte delle province arabe, mentre gli italiani sbarcarono una forza di occupazione nell’Anatolia meridionale (la penisola della Turchia asiatica). A loro volta i greci intendevano espandersi sulla costa turca, dove sotto la sovranità ottomana vivevano ancora delle minoranze greche. Purtroppo greci e turchi erano mescolati per tutta l’Anatolia, quindi non era facile tracciare un confine netto tra loro. Nel maggio del 1919, il primo ministro greco Eleftherios Venizelos, principale architetto del golpe di palazzo che aveva portato la Grecia dalla parte dei vincitori della Grande guerra, fece sbarcare un’armata a Smirne (l’odierna Izmir) per annettersi questa città in larga parte greca. Più o meno nello stesso tempo, però, Mustafa Kemal (in seguito detto Atatürk) ripudiò il sultano e i suoi trattati e cercò di ravvivare lo spirito nazionale in declino della Turchia. Nell’estate del 1920 l’esercito greco da Smirne invase 557
l’interno verso Ankara, ma nell’attraversamento del territorio turco i soldati si mostrarono indisciplinati e brutali. Quando dalla zona di guerra trapelarono i racconti del comportamento dei greci verso i civili turchi, la Grecia perse molto di quel consenso internazionale di cui godeva all’inizio delle ostilità. Nell’ottobre dello stesso anno, re Alessandro di Grecia morì per un’infezione dovuta al morso di una scimmia,* così il trono tornò a suo padre Costantino, che era stato rovesciato nel 1917 per le sue simpatie filotedesche. Più o meno nello stesso periodo, inoltre, il primo ministro Venizelos non fu rieletto. Re Costantino era ancora piuttosto irritato per la cacciata, perciò epurò dal governo gli amici del figlio: furono così licenziati moltissimi ufficiali greci sul campo, sostituiti da altri ufficiali inesperti fedeli al nuovo regime. «La susseguente esibizione di incompetenza militare fu sbalorditiva, tanto che [il corrispondente di guerra Ernest] Hemingway raccontò che i nuovi ufficiali di artiglieria ‘massacravano la loro stessa fanteria’».2 Nel corso del 1921 i turchi risposero a ogni offensiva dei greci e imposero loro una battuta d’arresto: il vento cambiò nella sanguinosa battaglia del fiume Sakarya, nell’agosto di quell’anno.3 Un anno dopo, nell’agosto 1922, Mustafa Kemal sferrò un’offensiva che piegò i greci e li respinse verso la costa. Risentiti per la sconfitta, i greci «nella fuga di villaggio in villaggio davano tutto alle fiamme, lasciandosi dietro una scia di rovine fumanti».4 I greci ripiegarono verso il porto di Smirne, tirandosi dietro migliaia di profughi: erano i civili greci che sfuggivano alla ritorsione dei turchi. L’esercito greco riuscì a ripartire dalla città, ma per evacuare i civili le navi non erano sufficienti. Ben presto sopraggiunse l’esercito turco, che si diede a depredare il quartiere armeno, seminandovi il terrore. Gli incendi che vi furono appiccati si diffusero nel quartiere greco grazie al vento e ai turchi stessi. Dal 13 al 15 settembre l’incendio infuriò per tutta la città, mentre greci e armeni disperati sciamavano sui 558
moli alla ricerca di navi che li conducessero in salvo. Durante la notte arrivavano i turchi, che violentavano le donne o gettavano i profughi in mare oltre la banchina: si fermavano soltanto quando le navi alla fonda nel porto li illuminavano con i proiettori e minacciavano di far fuoco con i propri cannoni. I turchi radunarono tutti gli armeni maschi in età da combattimento e li condussero nell’entroterra: di loro non si seppe più nulla. Nell’incendio morirono ufficialmente 2000 persone, ma scomparvero almeno 200.000 greci e armeni, che non furono mai ritrovati. I turchi giurano che l’incendio fu accidentale e che non poterono far nulla per domarlo, eppure per combinazione il quartiere turco fu risparmiato dalla devastazione che distrusse il resto di Smirne. Allorché gli eventi bellici determinarono che il confine sarebbe rimasto immobile, i due paesi vi riversarono la popolazione per adattarvela. Allo scopo di prevenire qualunque futuro pretesto per una nuova invasione greca, i turchi radunarono rudemente ed espulsero tutti i greci. Allora la Grecia decise di fare spazio ai greci in arrivo con l’espulsione di tutti i turchi. Siccome i turchi finirono per controllare tutti i territori contesi, dalla parte sbagliata del confine i greci erano il triplo rispetto ai turchi. Furono così sradicati e mandati in esilio all’incirca 375.000 turchi e 1,25 milioni di greci: si trattò del più grande reinsediamento di massa della storia fino a quel momento. Nella pulizia etnica i greci ebbero decisamente la peggio, infatti vennero cacciati con meno preparativi e meno spazio a bordo delle navi. La Grecia era in difficoltà ad assorbire tutta quella gente nuova: Atene e Salonicco si ritrovarono con il doppio della popolazione normale, inoltre per sopravvivere 875.000 profughi – quasi tre quarti del totale – avevano bisogno del sostegno del governo. Nel 1923 la mortalità tra i nuovi arrivati sfiorava il 45%, a causa dell’imperversare tra gli sfollati di malaria, dissenteria e febbre tifoidea.5 559
Guerra civile cinese Bilancio delle vittime: 7 milioni (5 milioni di morti nella prima fase + 2 milioni di morti nella seconda, senza contare i 10 milioni di vittime della guerra sinogiapponese) Posizione: 19 Tipologia: guerra civile di matrice ideologica, stato fallito Contrapposizione di massima: signori della guerra contro nazionalisti contro comunisti contro giapponesi Periodo: 1926-1937, 1945-1949 Luogo: Cina Stati quantici partecipanti: Repubblica Cinese, Manzhouguo Principale stato partecipante: impero del Giappone A chi diamo la colpa di solito: Chiang Kai-shek e Giappone Riassunto in poche parole: «Il potere politico nasce dalla canna del fucile», Mao Zedong Ennesimo esempio di: crollo di una dinastia cinese
Il Drago esce di scena All’inizio del XX secolo, l’impero cinese era in agonia. La corruzione endemica del governo imperiale, assieme alla crescente frenesia coloniale delle potenze occidentali, avevano minato la credibilità della dinastia manciù al trono. L’unico collante che la teneva insieme era la ferrea volontà dell’imperatrice vedova Cixi, una ex concubina che governava l’impero come reggente attraverso una serie di imperatori 560
bambini che selezionava di volta in volta per la loro remissività. Praticamente Cixi era l’unica responsabile della conservazione dell’impero dopo le ribellioni del XIX secolo, ma quando morì nel 1908 il nuovo imperatore bambino si ritrovò alla deriva in un mondo ostile. Nell’ottobre del 1911, mentre il movimento di riforma stava ancora definendo i dettagli della trasformazione, più o meno agevole, dell’impero in un moderno governo repubblicano, nella città di Wuhan una bomba costruita da una cellula rivoluzionaria esplose accidentalmente in faccia ai sovversivi. Le indagini della polizia scoprirono estese documentazioni e liste di rivoluzionari. Sapendo di dover affrontare l’arresto poiché erano compresi in quelle liste, i repubblicani all’interno della guarnigione militare della città si ammutinarono e assunsero la direzione del governo locale. Ben presto, si unirono all’ammutinamento i distaccamenti militari sparsi in tutta la Cina, che si trascinarono dietro i loro governi provinciali. Alla fine, l’imperatore Puyi abdicò, sebbene, forse, fosse troppo giovane persino per capire bene il significato di quel gesto. Il primo presidente della repubblica doveva essere Sun Yatsen, un cristiano formatosi in America, intellettuale e leader ideologico del movimento repubblicano. Tuttavia, dato che era stato l’esercito ad avviare la rivoluzione, fu il comandante di Pechino, il generale Yuan Shikai, ad assumere la carica. Per un po’, Yuan fu un presidente onesto con un’assemblea legislativa nazionale, ma nel corso degli anni successivi accumulò un potere sempre maggiore fino a trasformarsi in un vero e proprio dittatore. Naturalmente, più egli provava a controllare i governi provinciali, più questi lo ignoravano; addirittura il Tibet e la Mongolia dichiararono apertamente la propria indipendenza. Quando Yuan morì di cancro nel 1916, l’amministrazione centrale era ormai in larga misura fittizia. Fu così che si aprì l’epoca dei signori della guerra, che, però, non dovette essere poi così negativa quanto potrebbe sembrare. I signori della guerra, infatti, si scontrarono solo di rado in 561
battaglia. Il cittadino cinese medio pagava sempre le stesse tasse, le stesse tangenti e la stessa somma di denaro per ricevere protezione agli stessi funzionari locali e per la stessa mancanza di servizi, esattamente come aveva sempre fatto. E i funzionari locali ne giravano una quota al capo provinciale, come sempre. La sola differenza era che ora il capo provinciale si teneva l’intera somma invece di spartirla con Pechino. Tuttavia una Cina dilaniata era comunque peggio di un impero stabile, seppur corrotto. Il tracollo dell’amministrazione centrale rese i banditi più sfrontati nel saccheggio delle campagne. Da un rapporto ufficiale risulta che in un distretto della provincia dello Henan furono tenuti in ostaggio diecimila città e villaggi, allo scopo di ottenere un riscatto; inoltre mille di questi vennero saccheggiati. «Quando catturano una persona per un riscatto, prima le perforano le gambe con filo di ferro e poi le legano assieme come un baccalà appeso a una corda. Una volta tornati ai covi dei banditi, i prigionieri vengono interrogati e lacerati con le falci per fargli rivelare dove tengono le ricchezze nascoste».1 La spedizione contro il nord Mentre il resto del mondo era impegnato a combattere la prima guerra mondiale, il Giappone tentò di costringere la Cina a trasformarsi in un protettorato. Il governo di Pechino, nello stato in cui verteva, provò a resistere, ma alla fine cedette. Quando nel 1919 l’accordo divenne di pubblico dominio, gli studenti infuriati marciarono e si scontrarono con la polizia (il 4 maggio); fra loro c’era un assistente bibliotecario dell’università di Pechino, Mao Zedong, che cominciava a interessarsi di politica. A seguito dell’impennata nazionalista del movimento del 4 maggio, Sun Yat-sen fu eletto capo di una specie di governo. Il suo partito nazionalista, il Guomindang, instaurò un regime rivale nella città meridionale di Guangzhou (Canton). In 562
seguito, nel 1925, Sun Yat-sen morì di cancro e il governo del Guomindang passò al comandante dell’esercito e suo cognato postumo, Chiang Kai-shek.* Nel luglio del 1926, l’esercito del Guomindang lanciò diversi reparti verso nord da Guangzhou, con lo scopo di riunificare la Cina. Dopo un anno di scontri contro ogni signore della guerra che incontrava sul proprio cammino, l’esercito di Chiang Kai-shek arrivò al Fiume Azzurro, dove si fermò per riprendere fiato, mentre passava l’inverno.2 Alla foce del Fiume Azzurro c’era Shanghai, il cuore industriale della Cina. L’esercito nazionalista dovette avvicinarsi con molta attenzione alla città, perché le zone franche straniere che ne occupavano la maggior parte erano territorio sovrano. Nel marzo del 1927, le indisciplinate truppe nazionaliste avevano derubato e ucciso parecchi stranieri a Nanchino, quindi le navi da guerra occidentali si preparavano ad affrontare qualche problema.3 Shanghai ospitava la metà delle fabbriche cinesi, il che significava anche la metà del proletariato industriale della Cina. Il Guomindang allora era a capo di una vasta coalizione che comprendeva anche i comunisti, i quali, a quel punto, a marzo indissero uno sciopero generale a sostegno dell’esercito nazionalista che si stava avvicinando. Con la città bloccata, Chiang Kai-shek riuscì a prendere il controllo del settore cinese di Shanghai e assicurò agli occidentali che presto la vita sarebbe tornata alla normalità; tuttavia, le varie fazioni del partito cominciarono a lottare per la distribuzione delle cariche e la coalizione si spaccò quando le truppe nazionaliste aprirono il fuoco con le mitragliatrici sui partecipanti a un raduno di protesta dei comunisti.4 La spaccatura della coalizione nel 1927 viene considerata come l’inizio formale della guerra civile cinese. La sinistra si separò e stabilì un regime rivale a Wuhan, mentre i comunisti insorgevano per le vie di Guangzhou. Chiang Kai-shek impiegò alcune settimane per soffocare i tumulti, ammazzando migliaia 563
di rivoltosi nelle strade delle città di tutta la Cina meridionale. Poi estorse del denaro alla comunità straniera di Shanghai per la sua protezione, denaro che servì a finanziare il passo successivo della spedizione contro il nord, oltre le sponde del Fiume Azzurro. Allorché nel giugno del 1928 fecero il loro ingresso a Pechino, le truppe nazionaliste avevano già piegato i signori della guerra oppure avevano stipulato con loro delle alleanze vantaggiose. Dopo che Chiang Kai-shek ebbe stabilito a Nanchino la nuova capitale di una Cina teoricamente riunificata, il nome Beijing (Pechino), che in cinese significa «capitale del nord», si dovette cambiare di nuovo, tornando al vecchio nome Beiping, «pace del nord». Con il governo del Guomindang al sicuro a Nanchino, la sua portata fu circoscritta alla sola valle del Fiume Azzurro. I signori della guerra che si erano andati a rintanare durante le incursioni dell’esercito nazionalista ora facevano capolino con prudenza, riprendendo in mano il governo delle loro province. I comunisti delle campagne si ritagliarono a fatica delle oasi territoriali isolate, dove organizzarono i contadini in soviet. Le corazzate occidentali presidiavano i fiumi per proteggere il commercio e i missionari. Il Sol Levante Tra le parti della Cina controllate dagli stranieri c’erano le ferrovie. La maggioranza di esse era stata costruita con capitali stranieri e per questo i soldati stranieri vigilavano sui binari per proteggerli dai banditi. Di proprietà dei giapponesi, e da loro sorvegliate, c’erano le linee che attraversavano la Manciuria nei lontani territori nordorientali. Nel corso dei sessant’anni precedenti, i giapponesi avevano fatto di tutto per diventare esattamente come gli europei: avevano costruito fabbriche e navi da guerra, si vestivano in giacca e cravatta, avevano eletto un parlamento e avevano 564
provato a conquistare tutte le popolazioni autoctone lungo le coste asiatiche del Pacifico. Proprio come i loro mentori europei, i giapponesi possedevano depositi di carbone, colonie e concessioni sparse in tutta la Cina. Nonostante nel Parlamento giapponese i progressisti si opponessero alla conquista sistematica di ogni vicino, le fazioni militariste tendevano ad assassinare chiunque si esprimesse troppo apertamente contro l’espansione del loro impero. Ben presto, i restanti capi dell’opposizione impararono ad abbassare la testa e a tenere la bocca chiusa. Spesso, comunque, il dibattito a Tokyo non aveva alcuna importanza. L’esercito faceva qualunque cosa ritenesse necessaria per accrescere la gloria dell’imperatore, con o senza permesso. Nel 1931, un’esplosione misteriosa distrusse qualche metro di binari: i soldati giapponesi reagirono prendendo immediatamente tutti i principali centri nevralgici della Manciuria e proclamando il paese indipendente del Manzhouguo. Proclamarono Puyi, l’ultimo imperatore mancese della Cina ormai disoccupato, sovrano di questa nuova nazione e lasciarono truppe sul posto per assicurarsi che egli facesse quanto gli si diceva. Sebbene si sospettasse largamente l’esercito giapponese di aver collocato la bomba che aveva innescato l’esplosione per avere una scusa che giustificasse una reazione vigorosa, il resto del mondo mormorò e si infuriò senza grandi effetti.5 La Lunga Marcia Nel 1927 Mao Zedong lasciò la sua seconda moglie e i loro tre bambini per stabilirsi nelle campagne e organizzare una rivolta contadina. Sua moglie, Yang Kaihui, non lo rivide mai più. Aveva cominciato condividendo la compassione comunista per i poveri, ma si era gradualmente disillusa di fronte alla realtà della guerra civile. Quindi abbandonò la politica e tentò di dare un significato al suo mondo scrivendo le proprie memorie. 565
«Uccidi, uccidi, uccidi! Questo è l’unico suono che udivano le mie orecchie!» scrisse verso la fine. «Perché gli esseri umani sono così cattivi? Perché sono tanto crudeli?» Nel 1930, quando aveva ventinove anni, un anno dopo aver scritto queste parole, le attività di guerriglia di suo marito arrivarono troppo vicino a casa, così i funzionari locali la presero e la fucilarono.6 Chiang Kai-shek tentò di estirpare il comunismo che infestava le campagne, sferrando parecchi attacchi sempre più terribili volti all’annientamento, ma fu soltanto alla quinta campagna che riuscì a disperdere la forza principale dei comunisti, il soviet del Jiangxi. Nell’ottobre del 1934 tutti i comunisti abili, 100.000 individui forti e robusti, intrapresero una lunga ritirata leggendaria per raggiungere una base operativa più sicura, verso nord e verso ovest. I comunisti abbandonavano deboli, malati e feriti lungo il cammino, tra cui il fratello minore febbricitante di Mao, che successivamente venne ucciso dal Guomindang, e il figlio appena nato della sua terza moglie, che fu smarrito e scomparve nella massa di bambini senza nome né radici di cui brulicava la guerra.7 I rossi si sottrassero all’accerchiamento del Guomindang e iniziarono un’ardua ritirata, attraversando ben diciotto catene montuose, ventiquattro fiumi e percorrendo 10.000 chilometri in un anno. Solamente 8000 persone raggiunsero nell’ottobre del 1935 il nuovo rifugio situato in un’ansa polverosa e montuosa del Fiume Giallo. Ma la Lunga Marcia è all’altezza del suo nome? E com’è in confronto ad altri spostamenti militari? La marcia di Sherman attraverso la Georgia e la Carolina non supera i 1200 chilometri;8 l’invasione dell’Italia attraverso le Alpi compiuta da Annibale è una passeggiata nel parco di soli 1600 chilometri; la spedizione di Lewis e Clark se la cava appena, con quasi 13.000 chilometri fino alle coste del Pacifico e ritorno, esattamente come Stanley che attraversò l’Africa, 11.300 chilometri da costa a costa. L’importanza della Lunga Marcia non consiste nell’aver 566
salvato il comunismo in Cina, dato che c’erano molti più rossi nei territori da dove provenivano i partecipanti; è più rilevante che il loro numero si ridusse progressivamente per una selezione naturale particolarmente intensa. Le battute d’arresto e gli errori dei primi mesi innescarono una lotta di potere tra i capi dei vari rami e fazioni. Quando la ritirata ebbe inizio, Mao Zedong era solo uno tra le decine di uomini prominenti, ma non era un membro del comitato di governo; alla meta, invece, emerse come capo indiscusso del partito. Soltanto i rivoluzionari più indistruttibili, insensibili e impegnati sopravvissero alla Lunga Marcia: furono loro a costituire il nucleo attorno al quale si sarebbe ulteriormente sviluppato il movimento. Con questi individui ai vertici, non ci sarebbero state mezze misure o compromessi. Guerra sino-giapponese Nel 1937, Mao scrisse La guerra partigiana, il manuale studiato da ogni movimento ribelle per imparare come si sconfigge una forza schiacciante: Nella tattica di guerriglia, fingi di arrivare da est e attacca da ovest; evita i punti più solidi e colpisci invece quelli più vulnerabili; attacca; ritirati; scaglia un colpo fulmineo, prendi decisioni inaspettate. Quando devi affrontare un nemico più forte, se il nemico avanza, ritirati; se il nemico si ferma, disturbalo; se il nemico è stanco, attaccalo; se il nemico si ritira, inseguilo. Nella strategia di guerriglia, la retroguardia, i fianchi e altri punti vulnerabili del nemico sono i suoi punti vitali e proprio lì deve essere colpito ripetutamente, assalito, sbaragliato, sfinito e annientato. La pubblicazione fu provvidenziale: un nuovo, potente nemico aveva attaccato proprio nel cuore della Cina. 567
Nel luglio del 1937, lungo il fiume Yongding, fuori Pechino, i soldati del Guomindang scambiarono delle raffiche con i soldati giapponesi che stavano conducendo delle manovre dall’altra parte del fiume. Sebbene nessuno fosse rimasto ucciso, il giorno successivo mancava all’appello un soldato giapponese. I giapponesi accusarono i cinesi di averlo catturato e fecero scattare l’allarme tra le loro forze. Prima ancora che il soldato mancante tornasse dalla sua visita al bordello locale e chiedesse da cosa dipendeva tutta quella confusione, i servizi segreti giapponesi avevano già localizzato le truppe cinesi nazionaliste che si dirigevano verso il confine.9 Scoppiarono degli scontri isolati, quindi, dopo alcune settimane, l’esercito giapponese irruppe in territorio cinese attraverso il ponte Marco Polo.10 Comunisti e nazionalisti smisero subito di combattersi a vicenda per concentrare gli sforzi sugli invasori. Mese dopo mese, i giapponesi spinsero le forze di Chiang Kai-shek verso sud: nell’agosto del 1937 il fronte di battaglia si spostò verso Shanghai, dopo una dura campagna in cui Chiang perse 250.000 soldati tra morti e feriti, mentre i giapponesi riportarono 40.000 perdite. Nonostante il gran numero di uomini a cui attingere, un rapporto di sei a uno era comunque più di quanto l’esercito nazionalista potesse sopportare. Pressato dalle forze giapponesi, il Guomindang cadde in confusione nella capitale Nanchino.11 La carneficina dei civili e dei prigionieri che i giapponesi realizzarono dopo la presa della città nel dicembre del 1937 probabilmente è il massacro più sanguinoso meglio documentato della storia. Furono trucidati quasi tutti i prigionieri di guerra cinesi catturati all’interno e nei dintorni della città, alcuni a colpi di mitragliatrice accanto al fiume per potersi disfare dei cadaveri facilmente, altri legati con una cinghia e presi a colpi di baionetta per addestrare e divertire le reclute giapponesi. Nei due mesi successivi, i cittadini di Nanchino dovettero affrontare la morte quotidianamente, attaccati per le strade, 568
accerchiati, fucilati, picchiati, pugnalati, annegati e bruciati senza pietà. Decine di migliaia di donne subirono stupri di gruppo; spesso, dopo, venivano uccise o mutilate ed esposte in pubblico per terrorizzare i locali. Ogni uomo cinese in età di leva era considerato un prigioniero fuggito e quindi abbattuto. Alcuni testimoni occidentali raccontarono di aver visto cadaveri in ogni isolato, assieme a mucchi di teste mozzate. La crudeltà raggiunse un tale livello che persino i nazisti implorarono il Giappone di mostrare una certa pietà e un uomo d’affari tedesco che si trovava sul posto, John Rabe, istituì una zona sicura dove i rifugiati cinesi potevano nascondersi sotto la protezione internazionale. Le organizzazioni umanitarie private a Nanchino registrarono la sepoltura di 155.000 vittime, mentre altre decine di migliaia di corpi furono gettati nel fiume o sotterrati in fosse comuni senza essere registrati, sotto il controllo giapponese. Secondo il Tribunale Militare Internazionale per l’Estremo Oriente, che dopo la guerra processò i comandanti giapponesi, nel cosiddetto Stupro di Nanchino furono uccise 260.000 persone, tra civili e prigionieri. Malgrado alcuni giapponesi minimizzino le prove e riconoscano soltanto la fucilazione sporadica di guerriglieri, saccheggiatori e prigionieri evasi, o poco altro, persino loro di solito ammettono un totale approssimativo di 40.000 morti, il che mette tale episodio sullo stesso piano dei singoli massacri di ebrei da parte dei nazisti. Per rallentare l’offensiva giapponese, nel 1938 i nazionalisti cinesi abbatterono le dighe del Fiume Giallo e inondarono i territori lungo il percorso dei giapponesi. Il fiume, quindi, si scavò un nuovo corso, sfociando in un tratto di mare completamente differente rispetto a prima, a centinaia di chilometri dal vecchio sbocco. Le acque dell’inondazione distrussero undici grandi città e 4-5000 villaggi, lasciando 2 milioni di persone senza un tetto. I contadini cinesi furono avvertiti del sopraggiungere dell’inondazione e fu detto loro di allontanarsi, ma l’evacuazione fu fatta a casaccio e subito dopo 569
colpì la carestia, con un numero di vittime che si aggira intorno alle centinaia di migliaia.12 Nell’ottobre del 1938, il governo cinese si ritirò nel Sichuan, il bacino dell’alto corso del Fiume Azzurro incorniciato dalle montagne che ho citato come ultimo rifugio degli sconfitti in molti dei miei capitoli precedenti. Qui i nazionalisti stabilirono una nuova capitale a Chongqing. Il resto del mondo fece del proprio meglio per salvare il Guomindang senza che si scatenasse una guerra vera e propria: gli inglesi costruirono la Strada di Birmania per trasportare rifornimenti dall’India a Chongqing; i piloti sovietici e americani andarono a costituire la spina dorsale dell’aeronautica cinese (in via ufficiosa, naturalmente). Inoltre gli inglesi rinegoziarono i trattati iniqui che avevano paralizzato i precedenti governi cinesi, acconsentendo finalmente a trattare la Cina in maniera equa. Se Chiang Kai-shek se la fosse cavata, la Cina avrebbe avuto almeno una probabilità di diventare un partner alla pari negli affari mondiali. Al momento, quello era un grosso punto interrogativo. Con la Cina fuori gioco, i giapponesi organizzarono le loro conquiste in quattro stati fantoccio per mantenere l’ordine, poi, iniziarono a valutare nuovi territori per l’espansione. Proprio a nord, la vasta Siberia deserta con il suo legname e le sue miniere d’oro chiedeva solo di essere conquistata. I giapponesi ci avevano già provato in passato, durante la guerra civile russa, ora tentarono di nuovo. L’esercito giapponese fece capolino oltre il confine mancese per verificare se Stalin tenesse particolarmente a quella terra. E risultò di sì: voleva proprio tenersela. Il contrattacco corazzato sovietico del 1939 convinse i giapponesi a cercare altrove delle possibilità di espansione. I due paesi firmarono un patto di non aggressione per concentrarsi su altre zone critiche. Quando nel dicembre del 1941 si schierarono contro le potenze occidentali, entrando insieme agli americani nella seconda guerra mondiale, i giapponesi si impadronirono delle 570
concessioni straniere di Hong Kong e Shanghai. Dopo che i giapponesi ebbero reindirizzato la propria attenzione verso la guerra del Pacifico contro l’Occidente, il fronte cinese conobbe una fase di stallo; il suo maggiore contributo allo sforzo bellico globale fu quello di tenere impegnati i due quinti del potenziale umano di cui disponeva il Giappone, nonché di fornire campi d’aviazione per i bombardieri americani a lungo raggio.13 In quanto partner a pieno titolo nella grande alleanza contro l’Asse (la coalizione dei paesi fascisti), Chiang Kai-shek ricevette denaro, armi e un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite; tuttavia, man mano che la guerra si protraeva, la missione americana in Cina rimaneva sempre più disgustata dalla corruzione e dall’incompetenza del governo nazionalista. Nonostante l’impatto limitato che ebbe sul sostegno americano durante la seconda guerra mondiale, tale delusione soffocò comunque l’entusiasmo persino eccessivo che gli occidentali avevano avuto nell’aiutare i nazionalisti. Con il crollo della Germania, nel maggio 1945, l’Unione Sovietica dichiarò guerra al Giappone e spostò le proprie unità a est. Lungo il confine della Manciuria si ammassarono così oltre un milione di veterani freschi della vittoria contro Hitler, di fronte a una guarnigione che era già stata spogliata dei suoi migliori soldati per la guerra del Pacifico. Il 9 agosto, dopo un breve bombardamento devastante, l’Armata Rossa rovesciò le forze giapponesi e conquistò la Manciuria in una settimana, facendo 600.000 prigionieri. Intanto, le bombe atomiche lanciate dagli americani sulle isole del Giappone convinsero l’imperatore Hirohito che resistere ulteriormente sarebbe stato inutile: nonostante le obiezioni dello stato maggiore, egli ordinò alla propria nazione di arrendersi agli americani. La guerra civile cinese, seconda fase La caduta del Giappone lasciò la Manciuria nelle mani dei sovietici, che tergiversarono piuttosto a lungo prima di mettere 571
al potere i loro uomini. Malgrado i sovietici avessero collaborato con i nazionalisti e li avessero sostenuti, l’occasione di mettere dei veri comunisti al comando era una tentazione troppo grande per lasciarsela sfuggire. Con l’incoraggiamento sovietico, l’esercito di Mao si lanciò verso nord in una marcia forzata per imporre il controllo comunista sulle campagne il più rapidamente possibile. I sovietici a loro volta fecero in modo che finissero nelle mani dei cinesi rossi tutti gli armamenti giapponesi requisiti, incluse centinaia di aerei e di carri armati, migliaia di pezzi di artiglieria e mitragliatrici.14 Anche con un numero minore di armamenti, i comunisti si erano comportati piuttosto bene nella guerra contro il Giappone. Facendo appello al patriottismo e liberi dal tormento dei nazionalisti, avevano incrementato il numero di affiliati al partito, portandoli da 100.000 a 1,2 milioni fra il 1937 e il 1945. Nelle condizioni della resa gli americani ordinarono ai giapponesi che si trovavano in Cina di arrendersi solo alle forze nazionaliste. Per accelerare tale processo, gli americani portarono le forze nazionaliste nelle grandi città con un ponte aereo, mentre i marines americani sbarcavano a Tianjin e si inoltravano velocemente nell’entroterra per raggiungere e prendere Beiping per conto dei nazionalisti. Gli Stati Uniti fecero prestiti a Chiang e gli vendettero armi a prezzo scontato, ma la vecchia delusione nei confronti della corruzione in tempo di guerra aveva intaccato fortemente la solidarietà occidentale. Nel 1947 si chiuse la missione americana che coordinava gli aiuti militari, di fatto lasciando la Cina al proprio destino. Per un paio di anni i comunisti presidiarono le città nazionaliste in Manciuria senza causare grossi problemi, ma alla fine decisero di fare sul serio e interruppero le ferrovie che portavano i rifornimenti. Nel maggio del 1948 i comunisti isolarono la città mancese di Changchun, chiudendola in un assedio spietato, in cui intrappolarono mezzo milione di cittadini, dei quali solo 170.000 sopravvissero fino alla fine.15 Mentre nuovi assedi 572
spuntavano come funghi in tutta la Cina settentrionale, i soldati del Guomindang in trappola furono costretti a ridimensionare le proprie aspettative: la corteccia d’albero costituiva un buon pasto e un topo morto era addirittura «Delizioso! Era carne». A Changchun, dove ogni giorno morivano di fame 500 civili, la carne umana si vendeva per 2 dollari e 60 al chilo.**16 La guerra mancese scatenò un’ondata di 30 milioni di profughi che sommerse il sud, lontano dal fronte. Un giornalista della rivista Time seguì il lungo e tortuoso percorso che molti dovevano percorrere per mettersi in salvo. I nazionalisti che difendevano la città erano ben contenti di lasciare andare per la propria strada tutti coloro che fuggivano da Changchun, perché questo significava avere una maggior quantità di provviste a disposizione, ma solo dopo aver perquisito i profughi in cerca di sale, monete di valore e ogni oggetto di metallo che si poteva fondere per forgiare pallottole. Poi, i profughi oltrepassavano la linea di difesa esterna costituita dai fortini per entrare in quella terra di nessuno denominata san bu guan, «ignorata dai tre», dove nessuno tra comunisti, nazionalisti e amministrazioni locali si curava di imporre l’ordine. Qui sui rifugiati si avventavano i banditi, solitamente dei disertori, che li depredavano di ogni cosa utile o di valore, compresi gli indumenti che non erano ancora ridotti a brandelli. Chi opponeva resistenza o veniva scoperto nel tentativo di nascondere un braccialetto o un orecchino in una cucitura del vestito veniva picchiato o fucilato. Alla fine, i profughi giungevano alle linee nazionaliste della città assediata di Mukden, dove li si registrava e li si perquisiva di nuovo, stavolta in cerca di oppio, armi e valuta comunista. Poi venivano caricati sui carri bestiame e spediti a sud. Oltre il termine della linea ferroviaria c’era un’altra zona san bu guan, dove i derelitti venivano definitivamente spogliati di qualsiasi altro valore recuperabile. I banditi delusi picchiavano e sparavano con maggiore foga. Quindi appariva in lontananza il fiume Daling, l’ultima barriera prima del confine con la zona di 573
guerra. Per impedire l’infiltrazione di comunisti, i soldati del Guomindang sparavano contro le barche e contro tutti coloro che cercavano di guadare o attraversare il fiume a nuoto, permettendo ai rifugiati solo di camminare in bilico sopra le travi contorte di un ponte ferroviario saltato in aria. A Shanhaiguan, dove la Grande Muraglia incontra il mare, i profughi si potevano infine sistemare al sicuro in un campo vero e proprio. Il giaciglio è la nuda terra coperta da un telo per impedire alla pioggia di entrare. Il gabinetto è un tubo di acqua corrente. Al deposito, gli indumenti rattoppati verranno aggiustati o si scambieranno stracci irrecuperabili con indumenti in condizioni migliori. Ai bambini sotto i cinque anni si dà gratis mezza ciotola di latte; poi, se il bambino non vomita il liquido a cui il suo stomaco non è abituato, potrà avere un’altra mezza ciotola.17 Per concludere, a ottobre, le due armate nazionaliste che difendevano Changchun pianificarono una controffensiva. La 7a armata, i veterani del fronte di Birmania addestrati dagli americani, attaccarono verso l’esterno, invece gli scoraggiati militari di leva della 70a armata, originari dello Yunnan, si ammutinarono. Allorché la 7a armata non riuscì a spezzare le linee comuniste, nella ritirata verso Changchun la 70a aprì il fuoco contro di essa, quindi consegnò la città ai rossi. Mukden capitolò nello stesso mese. La perdita delle guarnigioni urbane dei nazionalisti distrusse alcune delle migliori unità di combattimento del loro esercito, che peraltro non erano mai state poi tanto straordinarie. I comunisti, allora, si avvicinarono a Beiping e la presero nel gennaio del 1949, proseguendo l’avanzata verso sud; fra aprile e novembre occuparono la maggior parte delle città della Cina senza molta resistenza. Chiang Kai-shek fuggì a Nanchino per andarsi a rifugiare sull’isola di Taiwan, mentre Mao proclamò la 574
Repubblica Popolare Cinese nella capitale ristabilita a Pechino. In un anno, i cinesi rossi avevano spazzato via la maggior parte dei signori della guerra e di quei frammenti quasi indipendenti del vecchio impero. Invasero il Tibet nel 1950, ma riconobbero con riluttanza l’indipendenza della Mongolia comunista, divenuta un protettorato sovietico. Per il momento ignorarono Taiwan. Bilancio delle vittime Nessuno sa esattamente quanta gente trovò la morte nell’interregno cinese, ma attraverso la lettura delle fonti emergono chiaramente un milione qui, un milione là, quasi buttati a caso. Tra i vari frammenti: il Guomindang ha ammesso che 1 milione di civili furono uccisi o morirono di fame nella quinta campagna di annientamento;18 tra il 1932 e il 1934 la guerra ridusse la popolazione del Sichuan settentrionale di 1,1 milioni di individui;19 si dice che tra il 1925 e il 1930 la popolazione della provincia dell’Hubei subì un calo di 4 milioni di persone, con un tasso di emigrazione bassissimo e nessuna carestia naturale.20 Secondo una banca dati comune relativa alle statistiche di guerra, la guerra tra comunisti e nazionalisti, nel 1930-1935, avrebbe ucciso 200.000 persone in combattimento. Nel 1928, una rivolta islamica contro il governo ne uccise altre 200.000.21 In una versione anteriore, la stessa banca dati stimava che la guerra fra i comunisti e i nazionalisti avesse ucciso 500.000 persone.22 Nel complesso, non sarebbe irragionevole supporre che per effetto della guerra civile morirono all’incirca 5 milioni di cinesi.23 Siccome gli eserciti tengono traccia dei propri soldati meglio di quanto non facciano con i danni collaterali, disponiamo di numeri più attendibili per i militari morti che per i civili. Il conto complessivo dei caduti nella guerra sino-giapponese, nel 575
periodo 1937-1945, ammonta a circa 2,5 milioni di soldati: nazionalisti: 1.310.22424 comunisti: 446.73625 alleati cinesi del Giappone: 240.00026 giapponesi: 388.600 morti in Cina27 Il bilancio delle vittime civili della guerra sino-giapponese dipende dal numero che si sceglie: se si aprono tre libri a caso sull’argomento, probabilmente si trovano tre cifre differenti comprese tra 2 e 15 milioni.28 La media tra le ipotesi sembra essere 8 milioni di civili morti. Nel corso della seconda guerra civile cinese restarono uccisi 263.800 soldati comunisti, mentre i nazionalisti ne persero 1.711.110, tra feriti e morti; questi ultimi costituivano forse un quinto del totale (circa 370.000).29 A volte mi capita di imbattermi in stime del totale dei morti della seconda guerra civile comprese tra 1 e 3 milioni, militari e civili insieme, ma nessuna di queste spicca per particolare autorevolezza.30 Facciamo un compromesso e diciamo 2 milioni in tutto.
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Iosif Stalin Bilancio delle vittime: 20 milioni (anche per carestia e per qualche milione di atrocità commesse durante la seconda guerra mondiale) Posizione: 6 Tipologia: dittatore comunista Contrapposizione di massima: Stalin su tutti Periodo: al potere dal 1928 al 1953 Luogo e principale stato partecipante: Unione Sovietica A chi diamo la colpa di solito: Stalin in persona e il comunismo in generale La domanda senza risposta che si fanno tutti: come fece a ritrovarsi tra i buoni nella seconda guerra mondiale?
L’ascesa al potere A una prima occhiata, Iosif Stalin era una delle persone che avevano meno probabilità di diventare leader della Russia sovietica. Nato in Georgia nel 1879 con il nome di Iosif Džugašvili, imparò il russo solo in seguito, a scuola. Fu mandato in un seminario di gesuiti, da cui fu espulso per motivi che restano in parte misteriosi. Abbondano le congetture, ma nessuna è stata provata, perciò diciamo che fu espulso perché era Stalin. Dopo il seminario fece tutto ciò che ci si aspetta da un aspirante ribelle: scrisse e stampò libelli rivoluzionari, organizzò scioperi, rapinò banche, fu arrestato, evase e andò due volte in esilio in Siberia. Nel 1913 assunse lo pseudonimo di Stalin, dalla parola russa che sta per «acciaio», un 577
miglioramento rispetto al soprannome della sua infanzia, Čopura, cioè Butterato, per via dei segni del vaiolo che aveva sul viso.1 Quando scoppiò la prima guerra mondiale si trovava ancora in Siberia. Nel 1917 il nuovo governo repubblicano amnistiò tutti i detenuti politici dello zar e così Stalin tornò alla civiltà. Ancora anonimo nel 1917, si fece strada con la guerra civile: per il servilismo arrendevole si guadagnò l’appellativo beffardo di Portavoce di Lenin. Il suo principale rivale nella conquista dei favori di Lenin era il carismatico intellettuale Lev Trockij, il liberatore della guerra civile. Nel 1922 Lenin pose Stalin a capo del Partito Comunista, perché nessun altro voleva quel posto, all’epoca secondario e noioso. Tuttavia stare a capo del partito fornì al pignolo Stalin la possibilità di epurare i trotzkisti e promuovere i suoi. Quando i comunisti presero il controllo della Russia, la base del partito si era ampliata. Gli intellettuali urbani che avevano costituito la spina dorsale del movimento negli anni della clandestinità furono sopraffatti dall’afflusso di membri che non erano altrettanto edotti sulle finezze della teoria marxista. E questi nuovi membri si identificavano maggiormente con lo schietto Stalin anziché con gli ebrei di città come Trockij. Poco tempo dopo, Lenin fu indebolito da un infarto, circostanza che lasciò il governo nelle mani dei tirapiedi rivali che discutevano su quale fosse la vera volontà del capo. In quanto suo portavoce, Stalin controllava in larga parte il dialogo tra Lenin e il mondo esterno, ma quando alla fine questi morì, nel 1924, si era inasprito nei confronti di Stalin. Il suo testamento avrebbe disconosciuto quest’ultimo a vantaggio di Trockij, ma Stalin lo intercettò e lo fece sparire. Negli anni successivi l’Unione Sovietica fu amministrata da un comitato invece che da un dittatore. Stalin si legò a un paio di radicali, Grigorij Zinov’ev e Lev Kamenev, con i quali costituì un triumvirato che escluse Trockij. Quando nel 1925 questi fu definitivamente allontanato dal governo, Stalin scaricò 578
i suoi primi compagni e si mise insieme a due moderati, Nikolaj Bucharin e Aleksej Rykov: mantenne in azione la trojka solo per il tempo sufficiente a privare chiunque altro del potere. In realtà non è necessario conoscere queste quattro persone, però le cito in modo che quando Stalin le farà uccidere tutte voi possiate riconoscerne i nomi. In ogni caso l’esito di queste manovre fu che Trockij nel 1929 fu mandato in esilio e Stalin regnò incontrastato.* Nel 1932 un episodio portò scompiglio nella vita privata di Stalin, allorché, dopo una lite in pubblico con la moglie Nadežda, la donna si ritirò e si suicidò poco dopo. Alcuni biografi sostengono che ciò distrusse gli ultimi rimasugli di umanità di Stalin, che da semplice carogna si trasformò in un mostro. La liquidazione dei kulaki A partire dal 1929 Stalin cercò di allineare l’agricoltura alla teoria comunista con l’abolizione della proprietà privata e l’istituzione di fattorie collettive per tutti i contadini. Qui potevano condividere i moderni macchinari e li si poteva costringere a vendere il raccolto a prezzi stabiliti dal governo. I contadini che si opponevano venivano fucilati oppure, con più probabilità, venivano deportati verso climi insalubri, dove lavoravano a progetti governativi senza che nessuno lo sapesse. Pur di non cedere i loro animali, i contadini li macellavano e se li mangiavano. Per ritorsione, contro ogni resistenza Stalin arrivò a negare i generi alimentari alle comunità disobbedienti e a razionare il cibo delle famiglie a seconda della loro fedeltà allo stato. I contadini agiati (i kulaki) diventarono il capro espiatorio universale per tutto quel che non andava in Unione Sovietica. Non solo si addebitava ogni carenza di cibo al loro affarismo, ma tutti sapevano che i kulaki diffondevano le malattie veneree, avevano una scarsissima igiene e sfruttavano il lavoro altrui. Si sradicarono e si inviarono verso un esilio 579
mortale intere famiglie di kulaki. Maltrattati, deprivati e sfiniti dai lunghi viaggi, i cadaveri dei kulaki si accumulavano nelle stazioni ferroviarie di campagna.2 Lo sconvolgimento dell’agricoltura sovietica mise in crisi l’intera infrastruttura, non solo le fattorie, ma anche trasporti e mulini, soprattutto in quel granaio che era l’Ucraina. Il sistema si tese e infine si spezzò. Nel 1932 in tutta l’Unione Sovietica dilagò un’enorme carestia, che nel giro di un paio d’anni provocò la morte di 7-10 milioni di persone. Nonostante in Ucraina milioni di contadini fossero già alla fame, i commissari sovietici continuavano a prelevare il grano per soddisfare le rigide quote; portavano via persino i semi necessari per la semina dell’anno successivo. Intanto morivano 5 milioni di ucraini.3 Chiunque nelle zone colpite non mostrava il ventre gonfio e gli arti esilissimi per l’inedia veniva accusato di fare incetta di cibo e quindi punito.4 Vivere cinque anni alla volta Quando Stalin giunse al potere per la prima volta, in Russia era ancora attiva la «nuova politica economica» (NEP) di Lenin, che nel tentativo di ricostruzione dell’economia devastata dalla guerra consentiva un capitalismo su piccola scala. Questo non solo irritava sul piano filosofico i comunisti intransigenti, ma pareva anche insufficiente a riportare in pieno vigore la Russia in tempo per la prossima guerra. «Noi siamo cinquanta o cento anni indietro rispetto ai paesi avanzati» disse Stalin nel 1931, «dobbiamo annullare questa distanza in dieci anni. O lo facciamo, o saremo schiacciati». Perciò, con una serie di piani quinquennali tra i bacini carboniferi dell’Ucraina e il versante asiatico dei monti Urali si costruirono enormi e nuove città industriali, collegate alle loro risorse vitali da ferrovie e canali. Per generare energia e irrigare, dighe e laghi artificiali domarono alcuni dei più grandi fiumi del mondo. 580
Per lo sviluppo di questi progetti Stalin ampliò la detenzione politica fino a trasformarla in una rete di campi di lavoro forzato organizzati sotto la Direzione Principale dei Campi di Lavoro Correttivi (in russo Glavnoe Upravlenie ispravitelno-trudovykh Lagerej, abbreviato in GULAG). Il sistema fu riempito di emarginati, agitatori, facinorosi, dissidenti e altri pericolosi nemici dello stato, insieme ai loro familiari e a chiunque si fosse inimicato qualche potente. L’NKVD, cioè la polizia segreta,** sospettava di chiunque fosse entrato in contatto con idee estranee, o perché era stato all’estero, o perché era stato fatto prigioniero durante la prima guerra mondiale, o ancora perché semplicemente collezionava francobolli. Spessissimo il semplice fatto di presentarsi tardi al lavoro faceva sì che una persona fosse marchiata come sabotatore e arrestata. Se serviva più manodopera, per soddisfare le rigide quote richieste l’NKVD arrestava degli individui a caso. Nel 1939 la rete dei campi di lavoro, prigioni e colonie ospitava 2,9 milioni di persone.5 Nei gulag morirono milioni di persone, eppure l’espressione «campo di lavoro» non era un mero eufemismo: Era più probabile che il grosso apparato della polizia segreta […] arrestasse, condannasse e dimenticasse le persone per un decennio o due anziché cavar loro gli occhi. Il «tritacarne», come ha definito Solženicyn il sistema della repressione sovietica, non era fatto principalmente per uccidere o torturare, bensì per ridurre gli individui alla condizione di animali, che valeva la pena nutrire soltanto se potevano contribuire a far crescere le cifre della produzione. Per lo più l’orrore delle guardie dei campi sovietici non sta nel loro sadismo, ma nella loro indifferenza verso il destino dei prigionieri.6 La valle del fiume Kolyma, nelle gelide e remotissime distese dell’Artico, costituiva un ricco bacino geologico colmo di oro, carbone e uranio. Qui, per tutto l’istmo della Siberia si 581
estendeva un enorme complesso di campi di concentramento dediti all’estrazione delle risorse del bacino. I prigionieri morivano ogni giorno per il crollo delle miniere e le temperature sotto lo zero, il cibo era limitato al minimo necessario per sostenere il lavoro, magari con qualche extra per la buona condotta. La fuga nelle lande artiche era impossibile, anche se i fortunati alla fine potevano essere rilasciati sulla parola e mandati a vivere a Magadan, lo squallido capoluogo del distretto. Nel complesso della Kolyma trovarono la morte tra 250.000 e 1.000.000 di persone.7 A 3800 chilometri da lì – ma sempre entro il Circolo polare artico, dove non crescono alberi – c’erano i bacini carboniferi del campo di lavoro di Vorkuta, dove morirono forse 100.000 prigionieri. «Ho gettato carbone nella fornace per quindici anni» ha detto un ex internato. «Di notte dormivamo su ripiani di legno duro, perciò tanta gente moriva di fame e di freddo». «Non avevamo vestiti adatti all’inverno, gli stivali erano pieni di buchi e ogni giorno da mangiare avevamo dei pezzi di pesce salato e una piccola patata gelata. Per la mancanza di vitamine mi sono caduti tutti i denti» ha detto un altro. «Ci facevano lavorare quattordici ore al giorno nelle miniere, molti uomini semplicemente morivano. Di notte dormivamo con i vestiti addosso su un materasso imbottito di trucioli di legno».8 Le grandi purghe Sergej Kirov è più importante da morto che da vivo. Finché non fu ucciso nel suo ufficio, nel dicembre del 1934, questo intraprendente capo del partito di Leningrado appariva come il possibile successore di Stalin. L’assassino, il tipico solitario inquieto, fu catturato nelle vicinanze in stato confusionale e portato via. Immediatamente Stalin ipotizzò che l’assassinio rientrasse in un complotto più ampio, perciò diede ordine di neutralizzare chiunque fosse sospettato di essere un nemico del popolo. E 582
così si addebitarono ai sabotatori controrivoluzionari che insidiavano la società sovietica tutti i problemi del decennio precedente: mancanze, carestie, persino i disastri naturali. Al centro di tale complotto si disse che c’era Trockij, il quale creava deliberatamente un disordine che avrebbe aperto la porta al suo ritorno. E così l’irrefrenabile paranoia di Stalin si trasformò nel principio guida del governo. L’assassino fu accusato di essere in combutta con Trockij e fucilato9 insieme a una ventina di suoi compagni. Fu arrestato pressoché ognuno dei perdenti nella precedente scalata al potere (Bucharin, Kamenev, Rykov e Zinov’ev, per esempio; vedi sopra): con le torture li si indusse a confessare, poi apparvero in processi farsa e infine vennero fucilati.10 Inoltre fu inviato un assassino a dare la caccia a Trockij nel suo esilio messicano: questi cadde nel tranello e diede fiducia all’uomo, che gli spaccò il cranio con una piccozza.*** Stalin rivolse la propria attenzione anche all’esercito, dal quale eliminò 43.000 ufficiali e fece giustiziare tre marescialli su cinque, poi quindici generali d’armata su diciotto, sessanta generali di corpo d’armata su sessantasette e centotrentasei generali di divisione su centonovantanove. In tutto fu arrestato e fucilato un terzo di tutti gli ufficiali, più di quelli che sarebbero morti nell’imminente conflitto mondiale.11 Le purghe colpirono persino il capo dell’NKVD, Genrich Jagoda, un ex farmacista la cui specialità era avvelenare tranquillamente quei sovietici particolarmente in vista che Stalin aveva bisogno di far sparire senza grande clamore. Nel 1936 il dittatore licenziò Jagoda perché non era riuscito a scoprire prove sufficienti per condannare Bucharin; e quanto si deve essere incompetenti per non riuscire a ottenere una condanna in un processo farsa totalitario? Malgrado tutto Jagoda e i suoi collaboratori furono arrestati e fucilati nello stesso periodo del nuovo processo contro Bucharin. Al posto di Jagoda andò Nikolaj Ežov, il cui nome divenne 583
sinonimo delle grandi purghe: Ežovščina, come si chiama talvolta in russo quell’epoca. Ežov, un piccolo burocrate gioviale e laborioso, in soli due anni fu probabilmente responsabile di 7 milioni di arresti, un milione di esecuzioni e 2 milioni di morti nei campi di prigionia. Nel 1938 cadde a sua volta in disgrazia e venne sostituito da Lavrentij Berija, il quale lo giustiziò nel 1940 e sopravvisse a Stalin quale suo probabile successore, ma poco dopo la morte del dittatore fu arrestato e fucilato.12 Le grandi purghe pervasero tutti i settori della società. Nelle foreste prossime a tutte le grandi città, l’NKVD istituì degli enormi cimiteri che avrebbero cominciato a rivelare i loro segreti cinquant’anni dopo. Nella foresta di Bykivnia, nei pressi di Kiev, nelle fosse comuni sono stati scoperti almeno 200.000 corpi.13 Attorno a Leningrado (San Pietroburgo) 30.000 vittime furono sepolte a Rzevskij e 25.000 a Levashovo. A Butovo, nei pressi di Mosca, gli investigatori hanno rinvenuto i resti di 25.000 vittime;14 si sono scoperti degli scheletri persino sotto lo zoo di Mosca.15 A Kuropatij, vicino Minsk, sono state trovate decine di fosse contenenti circa 100.000 cadaveri. Gli anziani raccontano che tra il 1937 e il 1941 ogni giorno e ogni notte si udivano colpi d’arma da fuoco provenienti dai boschi: i nemici del popolo venivano allineati lungo dei fossati appena scavati, imbavagliati e uccisi con un colpo di pistola alla nuca.16 Le grandi purghe non furono solo ideologia e lotte per il potere. Berija sfruttò la propria posizione di capo dell’NKVD per far rapire le ragazze – spesso minorenni – che colpivano la sua attenzione, le quali venivano poi condotte a casa sua, e violentate. La grande guerra patriottica Nel 1938 era evidente che la Germania si stava avviando verso una nuova guerra di conquista. Il primo conflitto mondiale 584
aveva mostrato che per mettere in riga la Germania ci volevano almeno tre grandi potenze, ma Francia e Gran Bretagna non se la sentivano di trattare con la Russia comunista e gli Stati Uniti non erano interessati, perciò Hitler faceva quel che voleva mentre francesi e inglesi recriminavano impotenti. Stalin prese quest’indifferenza dell’Occidente come un fatto personale. Quando Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia firmarono l’accordo di Monaco, che ridimensionava la Cecoslovacchia, senza neanche consultarlo, vide la circostanza come un segno dell’imminente tradimento dell’Occidente. Doveva dunque precederli. L’anno seguente Germania e Unione Sovietica siglarono un accordo segreto con il quale si spartivano l’Europa orientale. Un paio di settimane dopo Hitler invase la Polonia; a loro volta i soldati di Stalin avanzarono e si presero la loro parte, cioè metà del paese. I governanti polacchi furono radunati e mandati in un gulag fino alla primavera successiva, quando furono condotti nei boschi e fucilati 15.000 ufficiali e 7000 civili eminenti. Nel 1940 Stalin si impadronì delle tre repubbliche baltiche, Estonia, Lettonia e Lituania, dove i sovietici arrestarono chiunque potesse causare problemi: si deportarono 85.000 persone, delle quali 55.000 furono uccise o morirono per altri motivi. 17 Poi Stalin cercò di obbligare la Finlandia a rivedere i confini a vantaggio dell’URSS, e quando i finlandesi opposero un rifiuto invase il paese. La guerra mostrò quanto fosse enormemente peggiorato l’esercito sovietico da quando Stalin aveva epurato la classe degli ufficiali. I finlandesi resistettero alla piena potenza della Russia e addirittura riuscirono a mettere a segno una controffensiva vittoriosa. Alla fine, però, prevalsero le pure e semplici dimensioni e i sovietici spostarono il confine di qualche decina di chilometri indietro. L’intera guerra costò ai sovietici almeno 127.000 vite umane, contro le 23.000 dei finlandesi.18 La Finlandia mantenne l’indipendenza, ma serbò un rancore che ne fece l’unica democrazia del mondo intero che si unì a Hitler nella successiva guerra mondiale. 585
L’invasione tedesca della Russia, iniziata il 21 giugno 1941, colse i sovietici del tutto alla sprovvista: nella prima settimana di guerra restò tramortito persino lo stesso Stalin, talmente scosso da non poter rivolgersi via radio alla nazione fino a luglio. Alla fine riprese il controllo, ricomparve per chiamare a raccolta il suo popolo ed emanò ordini che non consentivano né la ritirata né la resa. Si doveva difendere ogni posizione; ogni ufficiale sospettato di esitazioni, proteste o incompetenza veniva regolarmente giustiziato. In pochi mesi di guerra i sovietici persero milioni di soldati: uccisi, feriti o fatti prigionieri. Le fabbriche che si trovavano sulla traiettoria dell’esercito tedesco furono smantellate precipitosamente e spostate a est, al di là degli Urali, per riprendere la produzione di materiale bellico. Tra i prigionieri di guerra catturati al primo assalto c’era Jakov Džugašvili, il figlio di Stalin: Hitler propose uno scambio con un generale tedesco, ma Stalin rifiutò. Alla fine Jakov morì durante la prigionia, gettandosi contro la recinzione elettrica in un tentativo di fuga fallimentare o di suicidio riuscito. Da ultimo, lo spazio sterminato, le risorse naturali e il potenziale umano della Russia mutarono il vento della guerra e schiacciarono i tedeschi, ma il costo fu sbalorditivo. Uomini e donne**** venivano lanciati contro le posizioni tedesche con uno scarso addestramento, poche armi e una pianificazione minima: per fermare l’invasione nazista morirono circa 8,7 milioni di soldati sovietici. È difficile sostenere che 8,7 milioni di morti non costituiscono un colossale sperpero di vite umane, ma la storia non è mai semplice. «Un dato imbarazzante rende difficile accettare l’ipotesi che fosse il sistema sovietico, in quanto tale, a sprecare i suoi effettivi in guerra: tra il 1914 e il 1917 le armate zariste ebbero perdite medie giornaliere di 7000 uomini, rispetto ai 7950 caduti giornalieri tra il 1941 e il 1945. […] Questo sembra indicare in modo piuttosto preciso che la spiegazione non deve essere cercata nel sistema sovietico, ma nella tradizione della vita russa, e in particolare della vita militare russa».19 586
Stalin trattò il suo popolo senza pietà. I dati ufficiali mostrano che nel corso della guerra furono condannati alla pena capitale per codardia, diserzione o manchevolezze simili 158.000 soldati; altri 442.000 trasgressori furono obbligati a prestare servizio nei battaglioni della morte, cui erano assegnate missioni suicide come marciare nei campi minati davanti ai ben più preziosi carri armati. La via d’uscita più probabile da una di queste unità era la morte o le ferite, ma qualcuno si riconquistò la libertà con atti di particolare eroismo.20 In definitiva non fu l’autorità di Stalin a spingere i sovietici a combattere con tanta tenacia: fu la consapevolezza che vivere sotto Hitler sarebbe stato – non ci crederete – persino peggio. I tedeschi massacravano centinaia di migliaia di ebrei russi, lasciavano morire nell’indifferenza milioni di prigionieri di guerra, fucilavano migliaia di ostaggi per rappresaglia contro gli attacchi partigiani e requisivano cibo, bestiame, veicoli e attrezzature agricole in misura così elevata che i contadini morivano di fame. Nell’invasione tedesca trovarono così la morte circa 18 milioni di cittadini sovietici. Malgrado ciò, era dura scegliere da che parte stare. Penetrando in territorio sovietico, i tedeschi cominciarono a scoprire le prove della ferocia di Stalin. Nei dintorni di Smolensk, nella foresta di Katyn portarono alla luce una fossa comune che conteneva 4000 degli ufficiali polacchi catturati nel 1939. A Vinnicja scoprirono fosse con 10.000 ucraini morti. La cosa avrebbe fornito ai nazisti un prezioso argomento di propaganda per giustificare l’invasione della Russia, se non che ormai avevano messo in giro così tante menzogne che nessuno gli credeva più. Nell’esercito tedesco prestarono servizio almeno un milione di cittadini sovietici, un quarto dei quali erano cosacchi.21 La maggior parte di questi Hiwi (dal tedesco Hilfswilliger, assistenti volontari) furono rilasciati dai campi dei prigionieri di guerra affinché svolgessero mansioni di servizio, come quelle di approvvigionamento e supporto. Nella sacca di Stalingrado 587
insieme alla 6a armata tedesca ne restarono intrappolati fino a 50.000: i dati sono scarsi, ma è improbabile che sopravvissero in molti: chiunque di loro veniva ricatturato dai russi era destinato a un’esecuzione certa. Forse 250.000 cittadini sovietici furono invece reclutati nelle Osttruppen, soldati da combattimento pienamente riconosciuti. E come giustificarono la cosa i nazisti rispetto al loro fanatismo razziale? Il modo più semplice fu quello di non dirlo a Hitler.22 I soldati nemici catturati dall’Armata Rossa venivano inviati a lavorare come schiavi nel sistema dei gulag: moltissimi di loro furono rilasciati e rimpatriati solo alla morte di Stalin, avvenuta nel 1953. Dei 4,3 milioni circa di prigionieri presi dai sovietici, in prigionia ne morirono pressappoco 580.000.23 Non appena i sovietici cominciarono a riprendersi il territorio perduto, Stalin rivolse l’attenzione alle persone che avevano collaborato con i conquistatori. In realtà, per guadagnarsi la sua sfiducia non era necessario il collaborazionismo: ai suoi occhi a macchiare milioni di persone bastava il semplice fatto di essere sopravvissuti all’occupazione tedesca. Che genere di patti avevano stipulato con i fascisti? Da quali idee pericolose erano stati contaminati? Ovviamente nemmeno Stalin avrebbe potuto uccidere ogni persona infettata dal contatto col nemico, tuttavia come esempio per tutti gli altri si potevano punire alcune nazionalità più piccole. Così nel 1943 furono deportati in massa in Siberia ceceni e svariati altri popoli del Caucaso, cui non fu consentito il ritorno fino al 1957, quando Stalin fu denunciato dopo la morte. Di questi esuli morirono di stenti approssimativamente 231.000 persone.24 Stalin punì tutti i suoi concittadini caduti nelle mani dei tedeschi. Nel quadro di un patto di guerra tra gli Alleati, tutti i cittadini sovietici in mano tedesca – esuli, profughi, prigionieri di guerra e lavoratori schiavi – furono rimpatriati, volenti o nolenti. Sotto la minaccia delle armi gli Alleati occidentali costrinsero decine di migliaia di persone a tornare indietro verso una morte quasi certa, soprattutto per chi era sospettato di 588
collaborazionismo con i tedeschi, tuttavia nella rete finirono anche innumerevoli lavoratori ed esuli innocenti, che furono rispediti in patria. Forse 1,5 milioni di prigionieri di guerra sovietici liberati – tutto quel che restava dei 5 milioni catturati dai tedeschi – non furono riaccolti con favore in patria, anzi furono spediti nei gulag, come punizione per l’insuccesso e perché fossero depurati dalle idee pericolose. A far loro compagnia nei campi finirono anche 2,7 milioni di civili sovietici che erano stati portati via dai tedeschi come schiavi. Molti non riacquistarono la libertà se non dopo la morte di Stalin.25 La cortina di ferro Alla fine della seconda guerra mondiale, nel 1945, Stalin era deciso a controllare tutti gli stati cuscinetto che si trovavano tra Russia e Germania, in modo da prevenire un eventuale altro attacco da ovest. La guerra si era conclusa con i sovietici che occupavano l’Europa orientale e le zone settentrionali di Cina, Corea e Iran, dove si accinsero a insediare dei governi fantoccio. Stalin epurò i moderati dai partiti comunisti locali e quali leader nominali dei paesi conquistati mise al governo i suoi protetti più brutali. Germania e Austria furono divise tra le potenze vincitrici: le guarnigioni sovietiche rimasero nei quadranti orientali finché Stalin fu in vita. In tutta la loro zona di occupazione della Germania Est i sovietici misero insieme nuovi detenuti politici – sia ex nazisti che probabili antistalinisti –, 65.000 dei quali nei cinque anni successivi trovarono la morte per mano dei sovietici. Il vecchio campo di concentramento nazista di Buchenwald restò aperto ancora per un po’ di tempo, come campo di concentramento sovietico, dove morirono tra 8000 e 13.000 nuovi prigionieri politici.26 La soluzione di Stalin per i confini contesi nei territori controllati dall’Unione Sovietica era brutalmente semplice: 589
traccia i confini e sposta la popolazione per adattarcela. Gli italiani furono espulsi dalla Jugoslavia, i polacchi dall’Unione Sovietica e i turchi dalla Bulgaria; i magiari che vivevano in Romania vennero deportati in Ungheria. Il controllo sovietico sui paesi occupati non ebbe sempre un risultato scontato. La Cecoslovacchia aveva profonde tradizioni democratiche che in tempo di pace tentavano di riaffiorare: alle elezioni del 1946 i comunisti ottennero la minoranza, ma grazie all’esercito di occupazione sovietico avevano il controllo della polizia. Gli scioperi destabilizzarono il governo di coalizione non comunista, i tumulti minacciarono i moderati; molti politici cechi fuggirono, la maggior parte fu costretta a dimettersi. Uno degli ultimi a opporre resistenza, il ministro degli Esteri Jan Masaryk, nel 1948 morì cadendo misteriosamente da una finestra. Lotte analoghe accompagnarono la presa del potere da parte dei comunisti in Polonia, Romania, Bulgaria e Ungheria, ma i giochi di potere dei comunisti fallirono in Grecia, Italia e Finlandia, soprattutto perché si trattava di paesi estranei all’occupazione sovietica, in cui l’Armata Rossa non si trovava sul posto a far pendere la bilancia da una certa parte. Stalin continuò a saggiare fino a che punto poteva farla franca, per questo nel dopoguerra il raggio d’azione dell’influenza sovietica fu in costante mutamento. Sovietici e inglesi avevano occupato l’Iran neutrale nel 1941 e avevano deposto lo scià filotedesco a vantaggio del figlio, maggiormente collaborativo, ma nel 1946, quando Stalin tentò di organizzare la zona di occupazione in un paio di stati comunisti indipendenti, gli Stati Uniti lo indussero a restituire quelle province alla sovranità iraniana. Nel 1949 il dittatore sovietico cercò di bloccare l’accesso degli occidentali alle loro zone di occupazione di Berlino, ma un deciso ponte aereo degli Alleati mantenne operativa Berlino Ovest il tempo sufficiente perché Stalin rinunciasse. La posta in gioco in questa rivalità tra Est e Ovest si alzò nel 1949, quando i sovietici sperimentarono la loro prima bomba atomica. L’anno successivo Stalin approvò e 590
sostenne l’invasione nordcoreana della Corea del Sud: ci vollero un grosso impegno di truppe occidentali e 3 milioni di morti, ma almeno la Corea del Sud sopravvisse. Alla fine del 1952 cominciò a tener d’occhio il proprio entourage e a chiedersi quanti dei suoi stessero attivamente complottando per la sua caduta. Quindi si preparò a fare piazza pulita, ma prima di poter avviare una nuova purga il primo marzo 1953 subì un colpo apoplettico. Per un giorno intero, mentre era riverso a terra, impotente, il suo staff terrorizzato non osò bussare alla porta. E persino quando lo scoprirono e mandarono a chiamare i medici, i suoi intimi sospettarono di un inganno e si aggirarono nervosamente attorno al suo capezzale, timorosi di dire qualcosa che si potesse ritorcere contro di loro in seguito. Per fortuna non era un inganno: Stalin morì la mattina del 5 marzo.27 Sparare al messaggero Quando nel 1937 diede avvio al nuovo censimento sovietico, Stalin si aspettava di trovare una popolazione che scoppiava di benessere socialista; al contrario, il conteggio si fermò 16,7 milioni indietro rispetto alle previsioni.28 In uno stato totalitario, nel quale ogni abitante veniva attentamente sorvegliato, non era plausibile pensare che gli autori del censimento si fossero semplicemente persi 16 milioni di persone. Esiliate, morte o semplicemente non nate che fossero quelle persone, il fatto che mancassero all’appello gettava un certo discredito sulle capacità di Stalin in quanto amministratore del paese. Perciò, per tenere nascoste le cattive notizie, si annullò il censimento e si spedirono in Siberia i vertici dell’ufficio statistico, con l’accusa di calunnia ai danni della nazione. Quante persone ha ucciso Stalin? Per quel che riguarda il numero di cittadini sovietici morti per opera sua esistono tre scuole di pensiero. All’estremo superiore troviamo stime che oscillano tra 40 e 591
60 milioni: molte di queste cifre ebbero origine come ipotesi azzardate durante la guerra fredda, quando gli archivi sovietici erano sigillati e quindi si poteva sparare qualunque cifra, messa insieme a partire da ogni frammento e racconto che si poteva scoprire. Benché le ricerche recenti negli archivi sovietici, aperti non da molto, non convalidino le cifre più elevate, molti ci si sono così affezionati da non volervi rinunciare. Il grosso problema di queste stime è che non sono molto lontane dall’affermare che nel corso degli anni Trenta Stalin uccise ogni maschio adulto dell’Unione Sovietica.29 All’estremo opposto troviamo storici che ammettono una vittima soltanto se si scopre un vero cadavere o un certificato di morte. Durante la guerra fredda, quando la storia sovietica era chiusa alle indagini, Stalin disponeva di parecchi apologeti che ridicolizzavano apertamente le cifre elevate. In assenza di solide prove, questi apologeti potevano cavarsela ammettendo soltanto qualche decina di migliaia di morti per mano di Stalin. Oggi le prove in favore di qualche milione di morti sono troppo forti, per questo il partito di chi minimizza ammetterà con riluttanza 786.098 esecuzioni registrate ufficialmente30 e 1.590.378 morti ufficialmente registrate nei campi,31 ma questo è il massimo cui possono spingersi. Molti di loro ritengono la carestia fortuita e del tutto incontrollabile da parte di Stalin, per cui quei morti non rientrano nel conto.32 Quando nel 1968 lo storico Robert Conquest propose per la prima volta la cifra di 20-30 milioni di morti,33 inizialmente fu deriso, ma quella cifra si è ormai trasformata nella terza categoria, su cui converge il consenso generale. Non che quella di Conquest in origine fosse basata su prove più solide rispetto a tutte le altre stime della guerra fredda, il fatto è che le ricerche più recenti l’hanno confermata. Allorché si cominciano a sommare tutte le efferatezze documentate e le si arrotonda per eccesso in modo da colmare le lacune, si scopre che la cifra di 20 milioni circa è perfettamente credibile.34
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Tiranni impazziti Chi è peggio, Stalin o Hitler? Sono certo che la domanda cui vorrete davvero una risposta è: chi è il più malvagio della storia? Purtroppo non è facile rispondere. Talvolta ci si imbatte nella esplicita asserzione che Stalin uccise più persone di Hitler, però il dibattito razionale si inceppa su due problemi sfuggenti. Il primo è che ovviamente tutti i numeri sono in fondo ipotesi approssimative. Stalin uccise tra 3 e 50 milioni di esseri umani, le stime riguardanti Hitler oscillano tra 11 e 25 milioni. A seconda della coppia di cifre che si sceglie possiamo ritenere Stalin un assassino cinque volte peggiore di Hitler o quest’ultimo un assassino tre volte peggiore di Stalin. Il secondo problema sta nel fatto che nessuno riesce ad accordarsi su quali morti vandano considerate come omicidi imputabili. Bisogna contare soltanto la cinica uccisione di persone inermi o dare inizio a una guerra costituisce già un crimine contro l’umanità? Provocare una carestia vale come negligenza criminale? Con i campi di concentramento e la polizia segreta Stalin e Hitler fecero ammazzare un numero analogo di vittime, ma se a queste aggiungiamo i morti per la guerra prevale Hitler. Se contiamo i morti per la carestia, allora è Mao il vincitore. Tuttavia se ci si attiene a una definizione ristretta e si conta soltanto l’assassinio a sangue freddo di vittime inermi al di fuori del campo di battaglia, un elenco incompleto e discutibile di tiranni assetati di sangue potrebbe essere il seguente:* Hitler (Germania, 1933-1945): 15.000.000 di omicidi diretti di ebrei, slavi, zingari, malati di mente, ostaggi, prigionieri di guerra.1 593
Stalin (Unione Sovietica, 1928-1953): 13.000.000 di morti tra esecuzioni e campi della morte, senza però contare la carestia. Mao Zedong (Cina, 1949-1976): 10.000.000 di omicidi, carestia esclusaLeopoldo II (Belgio, 1865-1909): 10.000.000 di indigeni morti nello Stato Libero del Congo. Idi Amin (Uganda, 1972-1979): 300.000 delitti. Francisco Franco (Spagna, 1939-1975): 175.000 oppositori politici giustiziati.2 Vlad Dracula (Valacchia, 1456-1462): 100.000 impalati o uccisi in altro modo.3 Murad IV (impero ottomano, 1611-1640): 100.000 colpevoli di aver offeso l’autorità del sultano messi a morte.4 Ezzelino da Romano (Padova, 1236-1259): 55.000 persone uccise tra cittadini, rivali, prigionieri di guerra, mendicanti e altri.5 Francisco Macias Nguema (Guinea Equatoriale, 19691979): 50.000 omicidi.6 Sékou Touré (Guinea, 1958-1984): almeno 50.000.7 Hissène Habré (Ciad, 1982-1990): 40.000 omicidi.8 François Duvalier (Haiti, 1957-1971): circa 30.000 persone assassinate.9 Ivan il Terribile (Russia, 1533-1584): almeno 3700 individui uccisi a casaccio per l’ira, tra 18.000 e 60.000 persone massacrate a Novgorod nel 1570.10 Hastings Banda (Malawi, 1966-1994): 18.000.11 Tiberio (impero romano, 14-37): 10.000 esecuzioni paranoiche.12 Cornelio Silla (repubblica romana, 82-79 a.C.): 4700 morti durante le sue purghe. Augusto Pinochet (Cile, 1973-1990): 3000 morti e scomparsi. Tuttavia, come si dice, la morte di un uomo è una tragedia, un milione di morti è statistica.** Numeri a parte, in genere 594
l’Occidente considera Hitler peggiore di Stalin, perché il male di Hitler risulta più ripugnante sul piano emotivo. Il volto umano dell’Olocausto è Anne Frank, una ragazzina innocente ricercata e sterminata a causa di una pericolosa pseudoscienza razzista. Il volto umano dei gulag è Aleksandr Solženicyn, un vecchio eccentrico con la barba incolta che è sopravvissuto. Inoltre Hitler rende di più come racconto morale. Facendo appello alle paure e agli odi della gente, eccitò le masse al parossismo e si pose a capo di una libera democrazia, che piegò rapidamente ai suoi voleri. Commise atrocità senza precedenti nel tentativo di conquistare il mondo, alla fine si spinse troppo oltre e fu rovesciato dall’ira di un mondo riunito nel furore apocalittico conclusivo. È un racconto più appagante, che alla gente piace continuare a raccontarsi. Stalin invece è un tiranno più tipico, in linea con quelli della storia. Si nascose nell’ombra, si fece strada fino al vertice di un’autocrazia preesistente, consolidò il suo potere in maniera brutale e ampliò il suo impero conducendo abilmente un doppio gioco. E a un’età veneranda morì nel proprio letto, imbattuto, impunito, pianto da una nazione adorante.
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Guerra d’Etiopia Bilancio delle vittime: 750.0001 Posizione: 59 Tipologia: conquista coloniale Contrapposizione di massima e principali stati partecipanti: Italia contro Etiopia Periodo: 1935-1941 Luogo: Etiopia (all’epoca denominata anche Abissinia) A chi diamo la colpa di solito: Mussolini Quando il cuore della civiltà occidentale si spostò verso l’Europa del nord, l’Italia rimase indietro rispetto alle tendenze più moderne. Per di più divenne un paese unitario soltanto a metà del XIX secolo e, quando gli europei si spartirono l’Africa, per poco non perse l’occasione di accaparrarsene una fetta. Essendo l’ultima arrivata, le furono assegnati soltanto dei tratti costieri di deserto che nessun altro voleva. E allorché nel 1896 cercarono di ampliare i propri possedimenti con la conquista dell’Etiopia, gli italiani subirono una pesante sconfitta che fece dell’Etiopia l’unico stato indigeno dell’Africa capace di sopravvivere alle ambizioni degli europei, oltre a fare dell’Italia lo zimbello degli imperialisti di tutto il mondo. Giunto al potere, Benito Mussolini fece un nuovo tentativo, stavolta mettendo in campo la moderna potenza di fuoco. Nel 1935 due colonne entrarono in Etiopia dalle altre due colonie italiane, la Somalia a sud e l’Eritrea a est; l’aviazione italiana bombardò e mitragliò le truppe etiopi, villaggi e città. Si falciarono i soldati etiopi con le mitragliatrici e li si asfissiò con i gas. Benché non fosse affatto costituito da uomini nudi armati di lancia contro i carri armati come immaginava l’Occidente, 596
l’esercito dell’Etiopia fu completamente surclassato e sopraffatto: perse infatti quasi venti soldati per ogni italiano ucciso. Malgrado ciò, gli etiopi a dicembre e gennaio si misero all’offensiva. Siccome l’imperialismo sfacciato dal XIX secolo non andava più di moda, il mondo condannò Mussolini. L’imperatore d’Etiopia Hailé Selassié pronunciò a Ginevra, presso la Società delle Nazioni, un caloroso appello per salvare la propria antica terra, così la comunità internazionale impose all’Italia delle sanzioni economiche. Fu una delle prime volte in cui si fece ricorso a questa tattica, che divenne però uno dei primi esempi del miserevole fallimento delle sanzioni stesse. Molti statisti e strateghi proposero di estendere l’embargo al petrolio o di chiudere il canale di Suez alle navi italiane, misure che sarebbero state più efficaci ma che furono liquidate come inattuabili o inutilmente provocatorie. Nessuno voleva davvero far infuriare gli italiani. Nel maggio del 1936 l’esercito italiano prese la capitale Addis Abeba, dopodiché l’Etiopia fu tranquilla per un po’; intanto i resti dell’esercito locale organizzavano una resistenza clandestina. Nel febbraio 1937 la guerriglia tentò di uccidere il generale Rodolfo Graziani, perciò per rappresaglia ad Addis Abeba gli italiani intrapresero un massacro che si protrasse per tre giorni, durante il quale trovarono la morte migliaia di civili. A maggio gli italiani annientarono il monastero copto di Debra Libanos, dove giustiziarono parecchie centinaia di monaci. La guerriglia e le ritorsioni degli italiani andavano avanti di pari passo. Alla fine, la seconda guerra mondiale portò l’Etiopia all’interno del più ampio scontro tra Italia e Gran Bretagna, nel quale le colonie italiane divennero facile preda dell’offensiva alleata. Gli inglesi spostarono Hailé Selassié in Sudan nel 1941, in attesa che le truppe britanniche ripulissero l’Africa orientale dagli italiani. Quando tutto era ormai al sicuro, gli fu restituito il trono.2 597
Guerra civile spagnola Bilancio delle vittime: 365.0001 Posizione: 91 Tipologia: guerra civile di matrice ideologica Contrapposizione di massima: nazionalisti (destra) contro repubblicani (sinistra) Periodo: 1936-1939 Luogo e principale stato partecipante: Spagna Stati minori partecipanti: Germania, Italia Principali entità non statali partecipanti: Falange, Brigate Internazionali A chi diamo la colpa di solito: i nazionalisti All’inizio degli anni Trenta la Spagna attraversava una della sue sporadiche parentesi democratiche: il Fronte Popolare, una coalizione di sinistra che andava dai progressisti moderati ai comunisti intransigenti, aveva messo da parte i propri dissapori giusto il tempo di vincere le elezioni in un blocco compatto. Piuttosto che firmare la legislazione di sinistra che la coalizione iniziò a sfornare, il re se ne andò, cosa che al Fronte Popolare andava benissimo, dato che in ogni caso non gli piacevano i re (da qui il suo nome nella guerra imminente: repubblicani). Per più di cento anni la Spagna era stata un caos, peggiorato dalla Grande Depressione. L’omicidio politico era diventato comune nella vita del paese: con agghiacciante regolarità si uccidevano a colpi di pistola, si facevano saltare in aria o si picchiavano a morte giornalisti, poliziotti, sindacalisti e sacerdoti di tutti i partiti. Quando perse una vittima di particolare spessore, la destra perse anche la pazienza riguardo all’incapacità del governo di mantenere l’ordine. In lega con la 598
Falange, il partito fascista spagnolo, si ammutinò la guarnigione militare del Marocco spagnolo, ben presto seguita da altri reparti dell’esercito in tutta la Spagna. Il comandante del Nordafrica, Francisco Franco, fu proclamato capo del governo nazionalista ribelle che controllava alcune città sparse per il paese. Con l’esercito contro, l’unico appoggio militare di cui disponeva il governo veniva dalle milizie messe in piedi dai sindacati; tuttavia ciò spostò i repubblicani da una posizione di centrosinistra a una rivoluzione comunista in piena regola. Gli operai occuparono le fabbriche e i contadini le terre, si incendiarono le chiese e si uccisero i preti per ritorsione contro il sostegno della Chiesa cattolica all’insurrezione militare. Frattanto i ribelli fascisti radunavano e assassinavano chiunque fosse ritenuto marxista o antispagnolo: subirono un’esecuzione sommaria membri del Fronte Popolare, funzionari sindacali, massoni e giornalisti di sinistra. Il poeta Federico García Lorca fu arrestato e fucilato perché omosessuale. Nell’agosto del 1936, a seguito della conquista dell’Estremadura, nella Spagna centrale, nella plaza de toros di Badajoz i nazionalisti fucilarono almeno 2000 prigionieri repubblicani. Nei primi giorni caotici della sollevazione, le città sotto il controllo dell’una o dell’altra fazione erano disseminate a casaccio per tutto il paese. Ben presto i nazionalisti consolidarono il controllo sul centro della Spagna e puntarono dritti su Madrid, ma il governo repubblicano era riuscito a rimediare truppe sufficienti per respingerne gli attacchi. Allora i fascisti si impegnarono altrove e si diedero a cancellare le enclave repubblicane abbarbicate ai margini della Spagna. Prima si procedette a rastrellare il sud, attorno a Siviglia, poi la regione basca, sulla costa settentrionale. Gli altri regimi fascisti inviarono truppe – tra 40.000 e 50.000 gli italiani, almeno 10.000 i tedeschi – sia per aiutare i nazionalisti, sia per mettere alla prova tattiche e armamenti nuovi. Nel 599
quadro di questo sforzo congiunto, i bombardieri in picchiata tedeschi contribuirono a punire e terrorizzare la popolazione nemica con una devastante incursione aerea contro la città basca di Guernica: fu uno dei primi bombardamenti urbani della storia, una carneficina di più di mille civili inermi che fece inorridire il mondo, e che sarebbe ormai dimenticata e messa in ombra da ben peggiori atrocità successive se Pablo Picasso non ne avesse congelato per sempre la barbarie in una delle opere d’arte probabilmente più celebri e incisive del XX secolo. I nazionalisti invasero quindi la valle dell’Ebro, in direzione della costa, cioè di Barcellona. Alla fine, tutto quel che restava nelle mani dei repubblicani erano Madrid e le strade che conducevano alla costa. Madrid cadde ben presto, mentre le strade verso la costa si intasarono degli ultimi profughi del governo repubblicano, che tentavano di fuggire dal paese. Il grande affresco Mentre sotto il peso della Grande Depressione le democrazie crollavano una dietro l’altra, quelle che sopravvivevano avevano difficoltà a stabilire quale tra le due, l’estrema destra o l’estrema sinistra, costituisse il pericolo maggiore per la civiltà. Spesso i liberali negavano e mettevano a tacere i peccati dei comunisti, e altrettanto facevano i conservatori con i fascisti; tuttavia il tentativo di rovesciare il governo spagnolo democraticamente eletto fu troppo, tanto che il fascismo perse molti dei suoi simpatizzanti all’interno delle democrazie. Gli appartenenti alla sinistra spagnola sotto assedio si trasformarono così negli eroi tragici del mondo. La guerra civile spagnola fu l’ultimo conflitto romantico della civiltà occidentale, nel quale giovani idealisti andarono a combattere volontari per una nobile e grande causa. Le Brigate Internazionali, finanziate dai partiti comunisti di tutto il mondo, reclutarono ovunque 40.000 volontari per difendere il Fronte Popolare: per la causa combatterono 10.000 francesi, 5000 600
tedeschi e altrettanti polacchi; nella brigata «Abraham Lincoln» partirono volontari 2700 americani, un terzo dei quali morì in guerra. Per la causa si mobilitò in particolare il mondo letterario: lo scrittore francese André Malraux organizzò l’aviazione repubblicana e trattò l’acquisto di velivoli dalla Francia; Ernst Hemingway militava nelle Brigate Internazionali come giornalista; lo scrittore Arthur Koestler spiava i nazionalisti fingendosi un giornalista loro simpatizzante; il poeta W.H. Auden guidava l’ambulanza. Sia il poeta inglese Stephen Spender che il romanziere americano John Dos Passos cercarono di organizzare il rilascio di detenuti politici; George Orwell combatté nella fanteria repubblicana, finché entrò in conflitto con i consiglieri militari inviati da Stalin e fu costretto a fuggire.2
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Seconda guerra mondiale Bilancio delle vittime: 66 milioni (20 milioni di soldati e 46 milioni di civili, compresi quelli della guerra sinogiapponese, della carestia del Bengala, dell’Olocausto e delle atrocità belliche di Stalin, ma non quelli delle purghe e dei conflitti del dopoguerra)1 Posizione: 1 Tipologia: conquista del mondo Contrapposizione di massima: Asse (per lo più fascisti) contro Alleati (per lo più democratici o comunisti) Periodo: 1939-1945 Luogo: Europa, Asia orientale, Nordafrica, oceano Pacifico, oceano Atlantico settentrionale Principali stati partecipanti: Cina, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Stati Uniti, Unione Sovietica (ognuno di essi mobilitò più di 4 milioni di uomini) Stati minori partecipanti: tutti gli altri, con una dozzina circa di renitenti Non partecipanti: in Europa: Irlanda, Portogallo, Spagna, Svezia e Svizzera; in Oriente: Afghanistan, Nepal, Tibet, Turchia e Yemen A chi diamo la colpa di solito: l’Asse, in particolare Hitler Fattori economici: petrolio, acciaio, cereali, Grande Depressione
Perché si dovette fare una seconda guerra mondiale? I tedeschi erano andati talmente vicini a vincere la prima guerra 602
mondiale che non riuscivano a credere di non averlo fatto. Nel 1917 avevano messo fuori gioco Russia, Serbia e Romania, avevano indotto l’esercito francese ad ammutinarsi e si erano spinti a qualche chilometro da Parigi. Persino dopo essere stati respinti dall’offensiva alleata conclusiva, si erano ritirati in buon ordine, senza panico e senza arrendersi. Siccome non avevano mai capito fino in fondo di essere stati completamente sconfitti, molti soldati tedeschi addebitavano la sconfitta a una «pugnalata alle spalle» inferta da chi stava in Germania: ebrei, profittatori di guerra o comunisti, tutti affetti da un atteggiamento disfattista. Dopo tutto era stato il governo civile a sollecitare la pace, non l’esercito. Ora che era cresciuta una nuova generazione di uomini pronti a riempire i ranghi e si erano sviluppate nuove tecnologie in grado di sgominare le mitragliatrici delle trincee, i militaristi tedeschi erano desiderosi di una rivincita. Tutto ciò che serviva era un pretesto e un governo compiacente.* Tra i veterani scontenti che si aggiravano per la Germania lamentandosi della pugnalata alle spalle da parte degli ebrei c’era Adolf Hitler. Nato in Austria nel 1889, aveva trascorso un breve e spiacevole periodo a Vienna, la capitale poliglotta e cosmopolita. Non era riuscito a farsi ammettere all’accademia di belle arti per via dell’incapacità di ritrarre persone, probabilmente metafora – se non vero e proprio sintomo – di un grave problema psicologico. Aveva condotto una vita grama come pittore di cartoline, quindi per sfuggire alla miseria, al multiculturalismo e alla leva militare austriaca si era trasferito a Monaco, in Germania, ma allo scoppio del primo conflitto mondiale si arruolò in un reggimento tedesco. Quando il fronte occidentale si impantanò nelle trincee, Hitler assunse il difficile compito di portaordini, che lo espose ai gas e gli fece guadagnare alcune medaglie.2 Nella Monaco postbellica Hitler si imbatté nel movimento fascista e contribuì alla fondazione del Partito Nazionalsocialista (Nazista). Il fascismo era nato nell’Italia di 603
Mussolini (che fu al governo dal 1922 al 1943): a differenza del conservatorismo tradizionale, che difendeva la classe dirigente composta da nobiltà, clero e capitalisti contro il populismo radicale dei poveri, il fascismo era di per sé un populismo radicale favorevole a ideali conservatori. Come i comunisti, i fascisti richiamavano le masse con la promessa della piena occupazione, di nuovi consumi e di una unità nazionale di intenti, ma divergevano dai comunisti per la dedizione a idee come patria, Dio e ordine naturale delle cose. Analogamente ad altri partiti radicali della Germania del dopoguerra, come i comunisti, per terrorizzare l’opposizione i nazisti misero in campo delle squadre paramilitari (le Squadre d’Assalto, SA, o Camicie Brune). All’inizio i nazisti ottennero poco nelle elezioni tedesche, ma nel 1929 il tracollo dell’economia mondiale fece spostare gli elettori disoccupati verso i partiti contrassegnati da un programma radicale. Questo avveniva quasi ovunque, tanto che nel mondo il numero delle democrazie precipitò con la stessa rapidità degli indici economici. Per un po’ non fu chiaro se la Germania andasse verso l’estrema sinistra o l’estrema destra, ma al momento della scelta la destra offrì di più (un ritorno ai vecchi tempi) e richiese di meno (nessuna confisca delle proprietà). E allorché nel 1933 i nazisti emersero come il partito prevalente in un Parlamento tedesco disperatamente diviso, Hitler ne divenne cancelliere. Nel giro di pochi mesi schiacciò, disperse o arrestò l’opposizione; istituì il primo campo di concentramento a Dachau, nei pressi di Monaco, per accogliere il crescente numero di detenuti politici. Ben presto il fascismo permeò ogni aspetto della società, dalle grandi adunate urbane fino alla Gioventù Hitleriana, che sostituì i multinazionali boy scout. La primavera di Hitler Dopo aver conquistato il potere, Hitler si dispose a istituire il 604
Terzo Reich, ossia l’egemonia tedesca sull’Europa, rassicurando frattanto Francia e Gran Bretagna che non era affatto questa la sua intenzione. Cominciò a riportare l’esercito tedesco (la Wehrmacht) ai livelli precedenti il 1914, incorporandovi tutte le ultimissime tecnologie. L’Asse Roma-Berlino del 1936 stabilì una collaborazione con l’Italia; nel 1938 fu annessa l’Austria, mentre si rese neutrale la Cecoslovacchia e la si spartì. Ancora scosse per il bagno di sangue della Grande guerra, le potenze occidentali esitarono ad avviare un altro conflitto con la Germania, ma alla fine raddrizzarono la schiena e dichiararono che non avrebbero più consentito ingerenze nei paese confinanti. La cosa non impensierì affatto Hitler: un patto segreto con l’Unione Sovietica gli assicurava carta bianca a est, perciò nel settembre del 1939 avviò una massiccia invasione della Polonia, che travolse in poche settimane. Francia e Gran Bretagna allora dichiararono guerra. Anziché attaccare immediatamente la Francia, Hitler si assicurò il nord con l’invasione di Danimarca e Norvegia, poi volse l’attenzione a ovest e travolse i Paesi Bassi, il Belgio e la Francia in sei settimane, mentre i resti distrutti dell’esercito britannico fuggivano dal porto di Dunkerque. Frattanto Stalin approfittava di queste distrazioni per espandersi a danno dei vicini più piccoli dell’Unione Sovietica, appropriandosi di pezzi di Polonia, Romania e Finlandia e ingoiando completamente Lituania, Lettonia ed Estonia. Anche Mussolini tentò di ampliare i possedimenti italiani, stavolta dall’Albania (annessa nel 1937) verso la Grecia e dalla Libia verso l’Egitto, ma incontrò una resistenza inattesa. Non potendo permettersi una situazione instabile sul suo fianco meridionale, Hitler dovette precipitarsi in soccorso dell’alleato, e visto che c’era passò sopra a una Jugoslavia che si era dimostrata poco collaborativa. A questo punto il risultato era il seguente: in poco più di tre anni la Germania si era accaparrata dieci paesi, la Russia se ne era annessi tre e uno l’aveva spartito con la Germania, mentre l’Italia se ne era annesso uno. L’intera Europa continentale era 605
caduta in mani tedesche, o direttamente o mediante alleati come l’Ungheria o stati neutrali obbedienti come la Spagna. Gli unici paesi ancora in gioco contro questi tre aggressori erano nei domini sparsi del Commonwealth britannico. E la Cina. Come ricorderete (vedi Guerra civile cinese), nel 1937 i giapponesi avevano cominciato a ridurre la Cina alla sottomissione e in un paio di anni avevano consolidato il controllo della costa e del nord. Intanto Chiang Kai-shek manteneva il suo governo nazionalista nell’entroterra profondo, a Chongqing, rifornito da inglesi e americani.** La guerra di Russia E venne infine la resa dei conti che Hitler progettava da anni, la crociata contro la roccaforte giudaico-slavo-bolscevica della Russia sovietica. Anche se col senno di poi si considera l’invasione un errore, la prima guerra mondiale aveva visto la Francia sopravvivere mentre la Russia cedeva, perciò se ora la Germania era in grado sconfiggere la Francia, la Russia sarebbe stata una passeggiata. Lo confermò l’attacco iniziale del maggio 1941, che colse del tutto alla sprovvista i sovietici. I tedeschi bombardarono l’aviazione russa a terra, inoltre sfondarono e aggirarono agevolmente le prime linee russe. La disfatta fu tale che vennero annientate intere armate: tra luglio e agosto nella sacca di Smolensk, a est della Bielorussia, le truppe tedesche uccisero 486.000 sovietici e ne catturarono 310.000; a settembre accerchiarono Kiev, in Ucraina, e la conquistarono, uccidendo altri 616.000 soldati sovietici e facendone prigionieri 600.000.3 Inoltrandosi nella Russia, la Wehrmacht era seguita dalle Einsatzgruppen, unità speciali designate a uccidere ebrei, comunisti e altri indesiderabili. Alla caduta di ogni grande città sovietica seguiva un massacro. Alla fine di settembre del ’41 gli ebrei di Kiev furono condotti al fossato di Babij Jar, dove furono spogliati, fucilati e bruciati; l’ufficiale incaricato stilò un rapporto meticoloso: 33.771 uccisi in tre giorni.4 A ottobre, agli 606
alleati rumeni della Germania bastarono due giorni per uccidere 39.000 ebrei a Odessa e nei dintorni.5 Tra novembre e dicembre, i tedeschi condussero 28.000 ebrei nella foresta di Rumbula, vicino Riga, dove li spogliarono, li allinearono e li abbatterono a fucilate.6 Nell’aprile del 1942 i rapporti delle Einsatzgruppen riferivano dell’uccisione di un totale di 518.388 vittime.7 Nel giro dei primissimi mesi, furono spediti in territorio tedesco all’incirca 3,9 milioni di prigionieri di guerra sovietici, alcuni destinati ai lavori pesanti, altri ai battaglioni dei voltagabbana, altri ancora agli esperimenti medici, ma la maggior parte all’inedia, al gelo e al tifo in squallidi campi di prigionia. A primavera ne erano sopravvissuti soltanto 1,1 milioni.8 Dei 5,7 milioni di sovietici fatti prigionieri in tutta la durata della guerra, 3,3 milioni morirono per le mancate cure o per la brutalità, nel quadro delle politica deliberata dai nazisti per estirpare i subumani slavi. I prigionieri provenienti da nazioni culturalmente affini, come Gran Bretagna e America, venivano trattati molto meglio, infatti per lo più sopravvissero.9 A causa della vastità del territorio sovietico,*** sconfiggere i russi stava prendendo più tempo delle poche settimane che ci erano volute per piegare i francesi, tuttavia a dicembre le armate tedesche avevano pressoché accerchiato Mosca. Malgrado ciò, i mesi di combattimenti continui avevano esaurito l’efficienza bellica dell’esercito tedesco, che non riuscì a stringere l’accerchiamento prima del sopraggiungere dell’inverno. E in quel momento lo slancio passò all’Armata Rossa, che aveva attinto alle proprie enormi riserve di potenziale umano e industriale per riconvertirsi in una capace macchina da guerra. I sovietici respinsero i tedeschi dai sobborghi di Mosca, senza però intaccarne più di tanto le capacità belliche. I tedeschi ripresero l’offensiva con la primavera, stavolta a sud, verso i giacimenti petroliferi del Caucaso. Per coprire la propria avanzata i tedeschi avevano la necessità di assicurare la propria linea a Stalingrado (oggi Volgograd): questo non solo avrebbe impedito alle armate sovietiche a sud di 607
ricevere rinforzi, ma avrebbe fornito agli stessi tedeschi un punto d’appoggio al di là del fiume Volga, ultima barriera naturale del margine orientale dell’Europa, prima dei monti Urali. Nell’agosto del 1942, dopo essere dilagati alla periferia della città, furono fermati da una disperata difesa sovietica a qualche isolato dal fiume. I russi trasformarono le macerie degli edifici in una fortezza e lo scontro scese al livello di piccole intense sparatorie strada per strada, isolato per isolato e – nelle grandi fabbriche e nei grandi magazzini – stanza per stanza. Di giorno i cecchini attendevano pazientemente tra le rovine per infilare una pallottola in qualunque parte visibile del corpo di un tedesco, di notte i siberiani e i tatari armati di coltelli e baionette strisciavano verso le posizioni tedesche isolate, dove facevano strage di un nemico impreparato allo scontro corpo a corpo.10 La guerra urbana stritolò il potenziale umano dei tedeschi con una tale ferocia che a tenere le aree rurali del fronte di Stalingrado furono gli alleati italiani e rumeni. A novembre contro questi fianchi i russi lanciarono due grossi attacchi a tenaglia, li sbaragliarono e crearono una sacca nella quale, all’interno della città devastata, restarono intrappolati 275.000 uomini. Nel corso dei pochi mesi che seguirono la sacca fu messa alla fame, bombardata e assaltata, finché a febbraio del 1943 i miseri resti si arresero. Smunti, colpiti dal congelamento e malnutriti, in larga parte quegli uomini non riuscirono nemmeno a sopravvivere al trasferimento nei campi di prigionia sovietici, ai quali scampò un numero ancora minore. Probabilmente nella battaglia di Stalingrado morirono 750.000 soldati e 140.000 civili, il che ne fa la seconda battaglia più sanguinosa della storia.11 Ebbene sì, fu soltanto la seconda: la più sanguinosa fu quella contemporanea per Leningrado, nella quale trovarono la morte 1,5 milioni circa tra soldati e civili.12 Nel settembre del 1941, quando i tedeschi erano giunti alla periferia di Leningrado (San Pietroburgo), i loro alleati finlandesi chiusero l’accerchiamento da dietro e isolarono la seconda città per grandezza dell’Unione Sovietica. Siccome 608
l’alto comando sovietico aveva fatto ben poco per evacuare la popolazione, nella città restarono intrappolati senza speranza di rifornimenti 3 milioni di civili. A differenza della battaglia di Stalingrado, in questo caso non ci sono oscillazioni tattiche da raccontare: l’esercito sovietico si trincerò e tenne duro per novecento giorni, sotto il peggior trattamento che potesse infliggergli la Germania. Gli abitanti di Leningrado, tagliati fuori dagli aiuti esterni, dapprima assottigliarono il più possibile le proprie razioni, poi si diedero a mangiare animali, erba, cinture, corteccia d’albero, poi si mangiarono a vicenda, infine morirono di fame a centinaia di migliaia.13 Durante l’inverno i sovietici costruirono una strada sulla superficie gelata del lago Ladoga in modo da far arrivare rifornimenti in città e far uscire i civili, ma era vulnerabile agli attacchi aerei e al primo disgelo affondò nel lago. Sebbene il bilancio ufficiale delle vittime civili sia fissato in 632.000, nell’assedio potrebbero essere scomparsi più di 1 milione di leningradesi.14 Alla fine l’Armata Rossa aprì uno stretto corridoio verso la città, comunque sempre esposto al tiro dell’artiglieria e dell’aviazione tedesche. L’assedio si concluse però soltanto a gennaio del 1944, quando le battaglie in altre zone fecero indietreggiare le prime linee verso la Germania. La guerra del Pacifico Alla caduta della Francia, i giapponesi cercarono di impadronirsi delle sue colonie dell’Indocina, rimaste orfane. Nel contempo gli americani tentavano di tenersi fuori dalla guerra, ma continuavano a fare pressioni economiche per indurre i giapponesi a cedere. Prima vietarono alle navi nipponiche il canale di Panama, controllato dagli Stati Uniti, poi seguì un embargo di petrolio e acciaio che minacciò di paralizzare la macchina bellica giapponese. L’unica soluzione praticabile per chi pianificava a Tokyo era di togliere le Indie Orientali, ricche di petrolio, a inglesi e olandesi, entrambi 609
impegnati a combattere i nazisti. Nel 1941 il Giappone spostò dunque truppe, aerei e navi da guerra nell’Indocina francese. Ormai era evidente a tutti che il Giappone si preparava ad attaccare al di là degli arcipelaghi del Sudest asiatico, eppure quando a dicembre l’offensiva infine si concretizzò, i giapponesi colsero tutti di sorpresa e si spinsero a metà del Pacifico per colpire con un rovinoso attacco aereo la flotta americana ancorata a Pearl Harbor, nelle Hawaii. Nei mesi successivi navi e truppe giapponesi raccolsero le ricche risorse degli arcipelaghi in origine appartenuti a olandesi, inglesi e americani. Con meraviglia di tutti, la guarnigione britannica di Singapore (composta da 85.000 uomini, in gran parte indiani) si arrese pressoché immediatamente: fu la più grossa sconfitta della storia britannica. Seguirono parecchi mesi di anarchia durante i quali i giapponesi massacrarono forse 25.000 abitanti cinesi della città. Con altrettanta sorpresa, la guarnigione americana delle Filippine (125.000 uomini, per lo più filippini) resistette più a lungo di quanto ci si aspettasse. Alla fine si arresero anche loro, e fu la più grossa disfatta della storia americana. Infuriati per il ritardo, i giapponesi deportarono i prigionieri nella penisola di Bataan senza concedere acqua o riposo: chiunque inciampava veniva fucilato, colpito con la baionetta o picchiato a morte. Morirono in migliaia. Una volta assunto il controllo sulle Indie Orientali, i giapponesi dovevano instaurare un perimetro difensivo tra le piccole isole del Pacifico centrale e cacciarne gli ultimi americani; tuttavia grazie all’intercettazione e alla decodifica delle trasmissioni radio giapponesi, gli americani conobbero in anticipo obiettivo e tempi dell’offensiva giapponese contro l’isola di Midway. Ricognitori e radar confermarono l’avvicinamento della flotta giapponese, che gli americani attaccarono in alto mare con una serie di ondate di aerei provenienti dalle portaerei. I giapponesi ripagarono con la stessa 610
moneta, tuttavia la fortuna e la pianificazione erano dalla parte degli americani, che affondarono quattro portaerei nemiche, più di quante i giapponesi avrebbero potuto rimpiazzare con facilità. L’iniziativa sul Pacifico passò dunque agli americani. L’Europa in bilico Dopo la completa cacciata dal continente europeo, per gli inglesi non era facile mantenere un ruolo attivo nella guerra, essendo peraltro costretti a stare sulla difensiva. Hitler cercò di piegare la tenacia britannica con un blocco sottomarino e spietati attacchi aerei. Nella battaglia d’Inghilterra, la Germania attaccò l’isola per parecchi mesi del 1940, durante i quali restarono uccisi 60.000 civili, senza tuttavia conquistare il controllo assoluto dei cieli o spostare in alcun modo l’equilibrio militare. I sommergibili tedeschi perlustravano le rotte navali attorno all’Inghilterra per tagliarla fuori dai rifornimenti essenziali. Come nel primo conflitto mondiale, il blocco tedesco provocò un attrito con gli americani, in teoria neutrali, che portò a un’aperta guerra navale, seppure non dichiarata, tra le due potenze. Alla fine, nel dicembre del 1941, qualche giorno dopo Pearl Harbor, Hitler presentò una formale dichiarazione di guerra agli Stati Uniti. I decrittatori britannici escogitarono infine il modo per individuare i sottomarini tedeschi, mentre l’aviazione americana e inglese di base nelle isole dell’Atlantico settentrionale forniva una copertura efficace ai convogli per gran parte della rotta. Per qualche anno gli inglesi poterono soltanto colpire qua e là ai margini dell’Europa fascista: bloccarono facilmente il tentativo da parte italiana di impossessarsi di Egitto e Grecia, ma poi furono respinti dalle truppe tedesche giunte a rinforzo degli italiani. In Grecia le cose si risolsero in favore dell’Asse; non in Egitto, però, dove alla fine la difesa inglese si rafforzò e fermò l’offensiva nemica. Poi cominciarono i contrattacchi: inglesi e americani riuscirono a ripulire il Nordafrica e 611
sbarcarono in Italia. In tal modo l’Italia fu messa fuori combattimento, mentre i tedeschi si trincerarono a metà della penisola, da dove fu difficile smuoverli. Nel 1943 sul fronte russo si era ormai sviluppato uno schema prevedibile: i russi attaccavano d’inverno e i tedeschi d’estate. Per l’estate del ’43, appunto, l’alto comando tedesco progettò l’operazione «Cittadella», intesa a schiacciare il saliente di Kursk tra due energiche offensive di carri armati e annientare l’armata sovietica locale. Quella di luglio fu la più grande battaglia di mezzi corazzati della storia, tuttavia gli attacchi tedeschi dapprima rallentarono, poi si fermarono del tutto, infine indietreggiarono davanti alla controffensiva. Per la prima volta in due anni i russi vinsero dunque una battaglia senza il favore della neve. In questa operazione, durata tre settimane, perirono in tutto 325.000 soldati ed è significativo che le perdite russe furono soltanto tre volte e mezzo quelle tedesche.15 Si trattò di un miglioramento di sei volte rispetto al primo anno di guerra, allorché tra le perdite dei sovietici e quelle dei tedeschi il rapporto era di venti a uno.16 L’Olocausto Come tutti quelli che costruiscono imperi, i nazisti sfruttarono la manodopera a basso costo dei paesi conquistati. Nel 1944 c’erano in Germania 8 milioni di stranieri, per lo più civili, condotti lì per lavorare come schiavi.**** Altri due milioni lavoravano nei territori sotto l’autorità tedesca. Erano assegnati al lavoro nei campi, nelle fabbriche o nelle case private; fornivano un quarto della manodopera dell’industria chimica e un terzo di quella degli armamenti.17 Tuttavia Hitler aveva progetti più grandi per il Terzo Reich. Per purificare il suo nuovo impero, classificò chiunque non rientrasse nella società tradizionale e ne programmò lo sterminio: omosessuali, testimoni di Geova, massoni e malati di mente furono così incarcerati, gassati, fucilati e castrati a decine 612
di migliaia. In cima alla lista degli obiettivi di Hitler stavano gli ebrei. Oltre alla tradizionale diffidenza degli europei nei loro confronti, in quanto appartenenti a una religione estranea, e al sospetto paranoico che controllassero la società con le banche e gli imperi dell’informazione, i nazisti aggiungevano il timore pseudoscientifico di una contaminazione genetica da parte degli ebrei che vivevano tra loro. Quando assunse il controllo della Germania, Hitler ne limitò le libertà civili: una dopo l’altra furono proibite agli ebrei le professioni e vietata la frequentazione della gente per bene. Nella notte tra il 9 e il 10 novembre del 1938 (la Kristallnacht, ossia la notte dei cristalli) la folla picchiò gli ebrei e ne depredò i beni; quando ebbe inizio la guerra due terzi degli ebrei di Germania e Austria avevano capito da che parte andava la storia ed erano fuggiti in altri paesi.18 Tuttavia, la conquista dell’Europa portò altri milioni di ebrei sotto l’autorità di Hitler: non erano soltanto più di quanti potesse espellere, ma si rivelarono persino più di quanti si potessero massacrare facilmente. Per pianificare la soluzione finale della questione ebraica, nel gennaio del 1942 in una villa presso Wannsee, nei dintorni di Berlino, si riunirono molti quadri intermedi del regime nazista. Ogni volta che i tedeschi conquistavano un nuovo territorio, registravano immediatamente tutti gli ebrei presenti. Alcuni venivano fucilati sul posto, ma la gran parte veniva ammassata nei ghetti locali. Da ultimo i ghetti più piccoli furono spazzati via o riuniti in ghetti più ampi, il maggiore dei quali era quello di Varsavia. Separati dal resto della città dalle mura, gli ebrei potevano uscire solo per lavorare, altrimenti erano tenuti in quarantena. Le malattie e la malnutrizione ne riducevano drasticamente la popolazione, ma siccome anche questo non avveniva con sufficiente rapidità, i tedeschi cominciarono a deportarli nei campi di concentramento, per utilizzarli come schiavi.19 613
I nazisti si resero conto che la sola fucilazione risultava inefficace, perché impegnava camion e truppe e per di più era uno spreco di munizioni. Una raffica di mitragliatrice contro una fila di ebrei lasciava a terra troppi feriti, che poi era necessario finire con un colpo di pistola alla testa. La sepoltura aggiungeva ulteriore lavoro a questa procedura e il rumore metteva in allarme gli abitanti dei dintorni. Il rimedio stava nel gas di cianuro. Ci volle un po’ prima che si appianassero le difficoltà, ma alla fine tutto si risolse nei campi di sterminio sparsi per la Polonia. Con il pretesto di un reinsediamento a est, si raccoglievano gli ebrei nelle stazioni dei ghetti e li si deportava su vagoni merci; all’arrivo nei campi di sterminio li si divideva rapidamente per età, sesso e capacità di lavoro. Chi non era utilizzabile per i lavori pesanti veniva spogliato dei suoi effetti personali e inviato alle docce, dove, dai fori del soffitto, anziché acqua cadeva Zyklon B, nome commerciale dell’acido cianidrico, che evaporava trasformandosi in un gas velenoso. Dopo svariati minuti frenetici di urla e di agitazione, le vittime cadevano nel silenzio, quindi si aspirava il gas e si portavano i cadaveri nei crematori ad alta capacità. In un solo anno, dalla metà del 1942 alla metà del 1943, a Bełżec furono uccise 600.000 persone, e Bełżec era soltanto il terzo campo per capienza. Il più grande, Auschwitz, restò aperto per tre anni, durante i quali furono ammazzati 1,1 milioni di esseri umani. Nell’unico anno di attività di Treblinka si uccisero 800.000 persone; un terzo di milione trovò la morte a Chelmno e un altro quarto a Sobibór. Il sistema era efficiente a tal punto che Treblinka operava con meno di 150 addetti al campo, integrati dalla manodopera degli internati, che si liquidavano una volta assolto il compito. Alla fine del 1943 gli ebrei caduti sotto l’autorità tedesca erano in larga parte morti, tanto che si chiusero tutti i campi di sterminio, tranne Auschwitz.20 Alcuni alleati dei tedeschi (Croazia e Romania) furono assolutamente lieti di collaborare alla soluzione finale, tanto che 614
istituirono dei propri campi di concentramento, mentre altri (Bulgaria, Finlandia, Ungheria e Italia) cercarono di tenersene fuori. Ciò nonostante, la maggior parte dei paesi dell’Asse registrò gli ebrei locali, ne limitò la partecipazione alla vita pubblica e deportò volentieri gli ebrei estranei verso i paesi controllati da Hitler. Per quanto riguarda gli ebrei italiani e ungheresi, la riluttanza dei loro governi a ucciderli costituì soltanto una dilazione temporanea: quando le sorti della guerra volsero al peggio per la Germania, entrambi i paesi cercarono di sganciarsi dall’Asse, ma le truppe tedesche si precipitarono a deporre i governi esitanti. Dopodiché gli ebrei locali furono messi nei vagoni piombati, deportati e gassati con sbalorditiva efficienza.21 Un’altra delle minoranze prive di radici vituperate e prese di mira dai nazisti fu il popolo rom, gli zingari, da sempre calunniati come ladri e stregoni, ai quali si diede la caccia fino a uno sterminio pressoché completo, simile a quello avvenuto per gli ebrei. La stima più comune sostiene che ne morirono 250.000, ma nessuno lo sa davvero. Potrebbero essere stati più di 1 milione.22 Il continente asiatico Frattanto, allo scopo di interrompere la linea dei rifornimenti tra le forze nazionaliste cinesi e il mondo esterno, i giapponesi conquistarono agli inglesi la Birmania, ma presto scoprirono che in quella parte del mondo le vie di trasporto terrestri andavano inutilmente da nord a sud, dall’interno alla costa, mentre le rotte marittime costeggiavano pericolosamente la penisola malese, dove stavano in agguato i sommergibili alleati. Poiché il loro esercito si stava aprendo la strada verso l’India, i giapponesi avevano bisogno di collegare direttamente la loro testa di ponte in Thailandia con il fronte birmano. E così radunarono la manodopera locale per costruire, contro la natura geologica del territorio, una ferrovia attraverso la giungla, sulle 615
montagne e nelle aspre valli fluviali; nel progetto lavorarono fino alla morte tra 50.000 e 100.000 birmani e 16.000 prigionieri di guerra alleati.23 Nello stesso periodo l’esercito britannico di stanza in India ammassava truppe e materiale bellico a est, sull’itinerario dell’esercito giapponese in avvicinamento. Purtroppo, con la conquista della Birmania, la risaia del Sudest asiatico, i giapponesi interruppero le esportazioni di prodotti alimentari che avevano sostentato una buona parte della popolazione indiana; a loro volta gli inglesi requisirono per esigenze militari tutti i mezzi di trasporto e nell’India orientale inviarono solamente truppe e munizioni. Senza i trasporti, le importazioni di beni civili si arrestarono, mentre i mercanti di cereali fecero incetta dei raccolti locali in vista di una rivendita redditizia. Con la consueta mancanza di interesse per la popolazione indiana (vedi Carestie dell’India Britannica), gli inglesi si rifiutarono di toccare i prezzi del cibo stabiliti dal libero mercato, che salirono alle stelle, lasciando così a morire di fame la popolazione del Bengala. Prima che qualcuno se ne preoccupasse, morirono almeno 1,5 milioni di indiani, forse addirittura 3 o 4 milioni.24 Il primo ministro Winston Churchill si scrollò di dosso il problema dando la colpa al fatto che gli indiani «si riproducono come conigli».25 I giapponesi intanto cominciavano a sfruttare i popoli conquistati dell’Asia. Quando i raccolti furono requisiti per dar da mangiare al Giappone, in Indocina e Indonesia milioni di persone furono ridotte all’inedia; a rallegrare le guarnigioni giapponesi venivano inviate le schiave del sesso cinesi e coreane, le «donne di conforto». In Manciuria i giapponesi istituirono un laboratorio segreto di biologia di guerra, l’Unità 731. Qui si ferivano deliberatamente i prigionieri, in modo che i medici potessero sperimentare delle pericolose procedure chirurgiche, altri erano legati e vivisezionati senza anestesia per rivelare i misteriosi meccanismi interni del corpo umano. Per sviluppare dei germi 616
sperimentali si utilizzarono come cavie i prigionieri di guerra. Nel 1940 l’aviazione giapponese cosparse la città costiera di Ningbo, nella Cina centrale, di pulci infettate dalla peste; nel 1942 sui villaggi cinesi dello Yunnan, al confine con la Birmania, lungo la via dei rifornimenti degli Alleati gli aerei nipponici diffusero il colera: nell’epidemia che ne seguì si calcola che morirono 200.000 civili.26 Il Reich si restringe Prima che gli americani mobilitassero appieno il loro enorme potenziale umano e la loro industria ci vollero un paio d’anni, ma nel 1944 erano ormai pronti a tentare un attacco su ampia scala contro il continente europeo. Radunarono le forze in Inghilterra e il 6 giugno 1944 sferrarono un attacco anfibio in massa contro le fortificazioni tedesche sulla costa normanna della Francia. Alla fine del primo giorno – il D-Day – gli Alleati angloamericani erano riusciti a far sbarcare sulle spiagge 133.000 uomini e 20.000 veicoli, avevano lanciato 23.500 paracadutisti dietro le linee nemiche e si erano aperti la strada verso l’entroterra per conquistare i crocevia essenziali, il tutto al prezzo di circa 3000 vittime.27 Dopo circa un mese le forze alleate erano aumentate a sufficienza per uscire dalla penisola della Normandia, così le divisioni corazzate angloamericane spazzarono la campagna francese verso il confine tedesco e il Reno. A dicembre, una controffensiva tedesca – che gli storici seri chiamano offensiva delle Ardenne e nella memoria degli americani è nota come «battaglia della sacca» – ritardò di un paio di mesi l’attraversamento del Reno, ma sgretolò le ultime riserve della Germania. In primavera le truppe americane detenevano le loro teste di ponte al di là del Reno, da dove si riversarono nel cuore della Germania. A est, nel giugno del 1944 i sovietici sferrarono una propria offensiva, l’operazione «Bagration»: quattro enormi colonne di 617
carri armati e di fanteria sfondarono le linee tedesche in Bielorussia e confluirono rapidamente all’interno di quella che era stata la Polonia. Probabilmente fu la più grande vittoria sovietica sul fronte orientale: le divisioni tedesche venivano intrappolate e annientate a decine. Dopo tre anni di guerra, le qualità belliche dell’Armata Rossa avevano finalmente surclassato quelle della Wehrmacht. Nella loro ritirata all’interno della Polonia, i tedeschi scavarono una nuova linea difensiva lungo il fiume Vistola, agganciata a Varsavia. Poi, quando l’Armata Rossa ebbe una battuta d’arresto perché aveva superato le proprie linee di rifornimento, l’Armata Nazionale polacca diede vita a un’insurrezione partigiana contro i tedeschi, nella speranza di istituire un governo indipendente a Varsavia prima che arrivassero i sovietici con i loro fantocci al seguito. Poiché né tedeschi né russi volevano vedere i nazionalisti polacchi al governo della Polonia, i sovietici interruppero l’avanzata e rimasero a guardare le mosse dei tedeschi dall’altra parte della Vistola. I nazisti ridussero sistematicamente in macerie Varsavia e massacrarono la popolazione in quella che, fra le singole atrocità della guerra, si considera la peggiore.28 Nella rivolta di Varsavia morirono circa 225.000 polacchi.***** Per capire la differenza tra i due fronti, si mettano a confronto il destino di Varsavia con quello di Parigi. Il progetto originario degli americani prevedeva di aggirare completamente Parigi e concentrarsi sull’annientamento delle armate tedesche sul campo, anziché dirottare risorse preziose per alimentare e prendersi cura di quei milioni di civili dei quali sarebbero stati responsabili se avessero conquistato la città. Il piano originario di Hitler era infatti di distruggere la città, piuttosto che lasciarla cadere. Esattamente come a Varsavia, il movimento clandestino francese insorse conto la guarnigione tedesca, ma il fronte occidentale era assai più civilizzato di quello orientale, perciò l’esito fu molto diverso. Il comandante tedesco impedì la distruzione di una città tanto splendida, mentre a loro volta gli 618
Alleati permisero alle truppe della Francia Libera di avanzare e mettere la città il prima possibile sotto la protezione alleata.29 I due fronti in avvicinamento, quello angloamericano da ovest e quello sovietico da est, avevano già stabilito di riunirsi sul fiume Elba, nella Germania orientale, lasciando a Stalin la sanguinosa battaglia finale per Berlino. Col procedere dell’Armata Rossa all’interno dei territori tedeschi della Prussia Orientale, la linea di condotta ufficiale divenne la vendetta contro l’invasione tedesca: non solo si depredarono e si spedirono in Russia tutti i beni mobili, ma pressoché ogni donna che si trovava sulla strada dell’offensiva fu stuprata, gettata da una parte e quindi stuprata di nuovo all’arrivo di ogni nuovo reparto dell’Armata Rossa.30 Davanti all’avanzata delle prime linee i civili tedeschi si sparpagliarono in preda al panico, così nel tentativo di sfuggire alla brutalità dei sovietici morirono centinaia di migliaia di profughi. Si stipavano di civili e di soldati feriti le navi tedesche, che poi partivano dai porti del Baltico verso ovest, salvo venire silurate dai sommergibili sovietici. La Wilhelm Gustloff, una nave da crociera trasformata in nave caserma, fu affondata con più di 9000 persone a bordo, tra passeggeri ed equipaggio: il naufragio più disastroso della storia. A sua volta il mercantile Goya andò a fondo con più di 6000 rifugiati. I soldati tedeschi tennero le posizioni senza alcuna aspettativa di vittoria, solamente nella disperata speranza di poter fermare i sovietici per il tempo sufficiente a fuggire e arrendersi agli inglesi e agli americani, più clementi. Hitler invece aveva altri piani. Dal suo posto di comando nel bunker sotto la Cancelleria di Berlino, non aveva alcuna intenzione di andare incontro allo stesso destino di Mussolini, che era stato appena catturato dai partigiani, fucilato e appeso in piazza come un maiale squartato. Hitler intendeva morire nello splendore della gloria, portandosi appresso la sua nazione indegna. I sovietici erano disposti a dare il loro contributo. L’Armata Rossa si arrestò al fiume Oder, l’ultimo ostacolo prima di 619
Berlino, quindi diede inizio a un bombardamento a tappeto sulle alture di Seelow che dominano il fiume. Puntando le fotoelettriche della contraerea sulle posizioni tedesche, in modo da accecare i difensori, i sovietici assaltarono i dirupi: dopo un giorno di scontri sanguinosi, la strada per Berlino era ormai spalancata. In una settimana di furibondi scontri per le strade della città restarono uccisi 100.000 civili,31 mentre si stringeva il cappio attorno al bunker di Hitler. L’avanzata dei sovietici si misurava per isolati ed edifici. In quel momento l’esercito tedesco era composto da anziani e ragazzi che non potevano certo tener testa ai veterani dell’Armata Rossa. Nella difesa di Berlino morirono forse 225.000 soldati tedeschi, contro i 78.000 sovietici morti nell’attacco.32 Alla fine la guerra si ridusse ai pochi isolati attorno alla Cancelleria: ormai incapace di procrastinare oltre, Hitler si suicidò sparandosi alla testa, dopo aver avvelenato il cane e la sua nuova moglie. I suoi ne incendiarono il corpo e ne sparsero i resti prima dell’arrivo dei russi.****** Bilancio delle vittime per teatro delle operazioni
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Da un’isola all’altra Dopo aver arrestato l’offensiva giapponese sull’oceano Pacifico con la sconfitta di Midway, gli Stati Uniti affrontarono il problema di un contrattacco sull’oceano più vasto del mondo: l’unica possibilità era procedere un passo alla volta. Anziché liberare ogni isola dell’oceano, gli americani aggiravano le grandi basi giapponesi, tagliavano le rotte dei rifornimenti e mettevano così alla fame le guarnigioni. Quindi procedevano alla ricerca di isole secondarie abbastanza grandi per poter allestire delle basi avanzate, ma troppo piccole per un grosso concentramento di truppe giapponesi. Ciò consentì una guerra più intermittente rispetto a quanto avveniva altrove sulla terraferma. Per prima cosa sommergibili e portaerei statunitensi isolavano l’isola presa di mira distruggendo le imbarcazioni giapponesi presenti sul luogo, poi le portaerei e le corazzate al seguito indebolivano il distaccamento giapponese con le incursioni aeree e il fuoco di sbarramento dell’artiglieria. Infine sulle spiagge sbarcavano le 621
truppe di terra, che si aprivano la strada verso le difese giapponesi. Dopo qualche settimana, anche prima che si fossero individuati e sterminati gli ultimi giapponesi sull’isola, gli americani costruivano delle basi aeree, da cui lanciavano i bombardieri che andavano a indebolire il successivo obiettivo della lista; da ultimo radunavano truppe fresche e rifornimenti sull’isola. Poi tutto ricominciava, un passo alla volta verso il Giappone.33 Persino queste guarnigioni minori costituivano dei bersagli ostici, infatti ogni attacco anfibio costava centinaia di vite umane agli americani e decine di migliaia ai giapponesi. Il codice d’onore nipponico non consentiva la resa, perciò quando la situazione si faceva disperata anziché scendere a patti i soldati si lanciavano alla carica contro le posizioni americane, per morire gloriosamente in battaglia. Questo rifiuto della resa era talmente radicato nella mentalità nazionale che persino i civili si uccidevano a migliaia, pur di non subire l’umiliazione di essere presi vivi. Alcuni soldati giapponesi particolarmente tenaci si inoltrarono nella giungla e rifiutarono di arrendersi fino agli anni Settanta.34 L’unica grande città del Pacifico devastata dai combattimenti per le strade fu Manila, nelle Filippine. Il generale americano Douglas MacArthur voleva che i giapponesi la dichiarassero città aperta (il che significava che attacchi e difese avrebbero dovuto aver luogo all’esterno della città), ma i giapponesi si trincerarono nel centro. Anche se MacArthur ritardò l’eliminazione del nemico, la frustrazione dei giapponesi si rivolse contro gli abitanti civili: migliaia di civili e di prigionieri furono uccisi a colpi di baionetta, picchiati, fucilati o legati all’interno degli edifici che poi venivano dati alle fiamme. Tra gennaio e febbraio del 1945 furono così massacrati quasi 100.000 abitanti di Manila. Quando gli americani attaccarono, i giapponesi combatterono fino all’ultimo uomo, portandosi appresso la città.35 Nella primavera del ’45, quella per l’isola di Okinawa – 622
ultimo passaggio prima del Giappone – si trasformò nella battaglia più sanguinosa della seconda guerra mondiale al di fuori del fronte russo. Al termine gli americani avevano perso 12.000 uomini, caduti in terra o in mare, e contarono i corpi di 110.000 soldati giapponesi sparsi a pezzi per l’isola. I 20.000 giapponesi che restavano si ritirarono per un’ultima difesa nelle grotte, dove furono sepolti dall’esplosivo americano. Si è calcolato che per il fuoco incrociato, il suicidio di massa o (per i meno fanatici) il suicidio obbligato morirono 160.000 civili, un terzo della popolazione di Okinawa. La vicenda è divenuta leggendaria tanto per il numero quanto per la varietà dei suicidi dei giapponesi. La guerra aveva stritolato i piloti giapponesi con una tale rapidità che non si potevano addestrare i loro rimpiazzi alla perizia del combattimento aereo e del bombardamento di precisione, per questo i giapponesi optarono per gli attacchi suicidi contro le navi americane. I piloti kamikaze facevano schiantare i loro aerei carichi di esplosivo sulla flotta statunitense. La fierezza della difesa nipponica convinse gli strateghi americani a scartare l’invasione della madrepatria e a cercare di piegare i giapponesi con i bombardamenti.36 La guerra delle macchine La principale innovazione nella tattica di terra della seconda guerra mondiale fu l’impiego delle divisioni corazzate. Secondo il principio del Blitzkrieg – la guerra lampo –, i carri armati, con l’appoggio dell’aviazione, aprivano dei varchi nel fronte, che venivano poi sfruttati dall’artiglieria mobile e dalla fanteria meccanizzata. Spesso dal cielo si lanciavano i paracadutisti che si impossessavano dei punti strategici davanti alle colonne in avanzata. In aperta campagna, come in Russia, Francia e Nordafrica, uno sfondamento nemico isolava decine di migliaia di soldati di fanteria centocinquanta chilometri alle spalle delle prime linee in rapido movimento, dove non avevano altra scelta 623
se non quella di trincerarsi e sperare in un cambiamento delle sorti. Fu la distruzione di queste sacche a produrre molti di quei tragici bilanci di vittime che accompagnarono la seconda guerra mondiale. Siccome i mezzi meccanizzati potevano agevolmente sopravanzare qualunque soldato in fuga a piedi, per la prima volta le battaglie di annientamento entrarono regolarmente a far parte della guerra. L’aumentato impiego delle macchine ebbe il suo costo. Durante la guerra civile americana, l’esercito degli Stati Uniti subì una perdita accidentale ogni undici morti in battaglia; nel secondo conflitto mondiale il rapporto passò da uno a quattro.37 I soldati venivano schiacciati dalle jeep, morivano nello schianto di un aereo, bruciavano in un camion, venivano ustionati o avvelenati da nuove sostanze chimiche, maciullati e folgorati dagli armamenti pesanti o fatti a pezzi mentre maneggiavano male le munizioni pesanti. La seconda guerra mondiale diede vita alle prime battaglie navali della storia in cui le flotte opposte non si vedevano mai. Invece dei cannoni, erano i caccia guidati dal radar a sganciare i colpi mortali tra le navi, separate da chilometri di oceano vuoto. Le vicende del conflitto mondiale rafforzarono l’ovvia idea secondo la quale la guerra stimola l’innovazione tecnologica. Il radar, l’aereo a reazione, il computer, il sonar, gli antibiotici e i missili guidati furono alcune delle nuove tecnologie impiegate per la prima volta nella seconda guerra mondiale. Inoltre a determinare l’esito della guerra contribuirono i laboratori segreti di tutto il mondo: quello di fisica nucleare americano a Los Alamos, la stazione britannica per la decodifica di Bletchley Park, quello missilistico tedesco di Peenemünde. Per contro, sarebbe eccessivo concentrarsi troppo sulla tecnologia, perché fu soltanto l’esercito americano che arrivò a combattere una guerra quasi completamente meccanizzata. A parte le divisioni specializzate dei panzer, la Wehrmacht continuò a trascinarsi nel fango con i pezzi di artiglieria e i convogli di rifornimenti trainati da cavalli. Si corre il rischio di 624
esagerare persino la fredda efficienza industriale dei campi di sterminio. La maggior parte delle vittime dell’Olocausto morì infatti per cause note da secoli: malattie, superlavoro, fame e massacri a opera dell’uomo. Nonostante gli sfondamenti ottenuti di tanto in tanto grazie ai mezzi corazzati, gli eserciti per lo più combatterono come avevano fatto nella prima guerra mondiale: i fucilieri si trinceravano o attaccavano e le mitragliatrici difendevano con la copertura dell’artiglieria. Sul fronte russo, dove si verificò il grosso degli scontri, l’artiglieria campale che sparava su obiettivi invisibili utilizzando le coordinate geografiche fece più vittime di qualunque altra arma. Da sola, l’artiglieria consumò l’80% di tutte le munizioni sparate e causò il 45% dei morti in battaglia. L’esame dei morti e dei feriti mostrò che un altro 35% di morti fu provocato dagli armamenti della fanteria pesante (mitragliatrici, mortai e l’artiglieria leggera che mirava a vista). L’aviazione causò il 5% dei morti in battaglia, stessa percentuale ottenuta dai mezzi corazzati, mentre le armi della fanteria leggera che costituiscono l’ingrediente principale dei film di guerra (fucili, pistole, granate) servivano essenzialmente per l’autodifesa e inflissero il 10% delle morti in battaglia.38 La forza aerea Nel corso della seconda guerra mondiale gli aerei divennero i maggiori artefici della distruzione. L’impiego più efficace dell’aviazione era il bombardamento di precisione di obiettivi militari e industriali, assolutamente lecito secondo le leggi di guerra internazionali. Ci voleva tuttavia un misto di informazioni dello spionaggio, ricognizioni e progettazione dei bombardieri. Inoltre occorreva che questi ultimi si avvicinassero direttamente nella piena luce del giorno, contro una cortina di fuoco della contraerea e sciami di caccia nemici. A causa di tali difficoltà, le forze aeree erano indotte a distruggere indiscriminatamente obiettivi più facili. All’inizio 625
del conflitto si attaccavano le città bombardando a casaccio, soltanto per terrorizzare gli abitanti, ma all’aumento delle dimensioni dell’aviazione corrispose l’aumento del numero delle vittime. Il bombardamento di Rotterdam, ad esempio, compiuto dai tedeschi il 14 maggio 1940, nel quale restarono uccisi circa 850 civili, fece inorridire il mondo.39 Un anno dopo, il 6 aprile 1941, nella prima incursione aerea tedesca su Belgrado morirono 17.000 civili,40 mentre il primo bombardamento di Stalingrado, il 23 agosto 1942, ne uccise 40.000.41 Ben presto l’annientamento delle città si trasformò in una scienza. Nel corso di una notte si inviava un migliaio di aerei contro l’obiettivo: la prima ondata di bombardieri sganciava esplosivo in tutta la città per dare alle fiamme gli edifici in legno, seguivano poi le ondate successive, nelle quali si spargevano bombe incendiarie per appiccare piccoli incendi. Presto tutti questi confluivano in un unico gigantesco incendio che creava un clima particolare, con venti impetuosi e un calore talmente intenso da deformare i metalli, spaccare le opere murarie e carbonizzare i corpi. Un incendio del genere poteva cancellare una città dalla faccia della terra e risucchiare l’ossigeno dai rifugi sotterranei, asfissiando così chi pensava di essere al sicuro. Gli inglesi sferrarono il primo bombardamento incendiario della guerra nella notte tra il 28 e il 29 luglio 1943, contro Amburgo, nel quale restarono incenerite 42.000 persone.42 Nella notte tra il 13 e il 14 febbraio 1945 i bombardieri alleati annientarono Dresda e 35.000 civili;******* tra il 9 e il 10 marzo dello stesso anno i bombardieri americani devastarono Tokyo, uccidendo 84.000 abitanti.43 Sin dall’inizio della guerra i fisici del mondo avevano riferito ai loro rispettivi governi che la scissione di atomi radioattivi avrebbe liberato un’energia immensa, che poteva essere utilizzata per cancellare interi eserciti semplicemente schiacciando un tasto; perciò la speranza era che il nemico non ci arrivasse prima. Per sondare questo potenziale si istituirono 626
programmi segreti di ricerca in Germania, America, Russia e Giappone. In quanto maggiore potenza industriale del mondo, gli Stati Uniti furono i primi a risolvere tutti i problemi di ordine tecnico. E il 6 agosto 1945 un aereo sganciò una sola bomba sul Giappone, che cancellò la città di Hiroshima e 120.000 dei suoi abitanti.44 Tre giorni dopo, un altro attacco nucleare annientò Nagasaki e 49.000 dei suoi abitanti.45 Siccome la guerra era comunque pressoché finita e si utilizzarono le bombe contro le città e non contro eserciti o flotte, ancora oggi infuria il dibattito sulla necessità dei bombardamenti. Spiccano però altre due circostanze: i giapponesi ruppero l’esitazione e si arresero incondizionatamente qualche giorno dopo il bombardamento di Nagasaki; sin da allora, i paesi dotati di armamenti nucleari hanno evitato accuratamente di combattere tra loro guerre di grosse proporzioni. Scosse di assestamento La fine dell’Asse non pose fine alla carneficina. Molti paesi riemersero dall’occupazione nemica con un quadro politico a pezzi, perciò all’oppressione si sostituì il caos. In Cina, comunisti e nazionalisti ripresero la guerra civile che era stata interrotta dai giapponesi (vedi Guerra civile cinese), mentre anche in Grecia destra e sinistra intrapresero una guerra civile per decidere il futuro del paese. Nell’Asia orientale, un paio di colonie che erano state occupate dai giapponesi – l’Indocina francese (vedi Guerra d’Indocina) e le Indie Orientali olandesi – colsero l’attimo e si ribellarono, per impedire agli ex padroni di rivendicare la propria sovranità. In Europa orientale, le nazioni che erano state (liberate? conquistate? calpestate?) dall’Unione Sovietica cercarono di istituire delle democrazie pluripartitiche, ma i partiti comunisti sostenuti dai sovietici presero rapidamente il sopravvento. Nei paesi appena liberati c’erano parecchi conti da regolare. I 627
partigiani comunisti (in gran parte serbi) che avevano preso il controllo della Jugoslavia uccisero più di 100.000 compatrioti (per lo più croati) che venivano associati al governo fascista del tempo di guerra. Dopo la liberazione i francesi uccisero 10.000 collaborazionisti, soltanto 800 dei quali a seguito di un processo formale. A loro volta gli italiani uccisero dai 10.000 ai 15.000 criminali di guerra; nei Paesi Bassi si giustiziarono 40 collaborazionisti, in Norvegia 25.46 I processi formali degli alti gerarchi nazisti responsabili di crimini di guerra a Norimberga e in altri luoghi della Germania Occidentale occupata portarono a 486 esecuzioni. A differenza dei nazisti, i militaristi giapponesi non avevano concentrato il potere nelle mani di un dittatore onnipotente. In quanto generale, ministro della Guerra o primo ministro, per buona parte del conflitto al centro del potere si era visto Tojo Hideki, il quale fu debitamente processato e impiccato dagli americani, insieme ad altri sei generali e ministri. I processi minori provocarono altre 900 esecuzioni circa,47 tuttavia, allo scopo di placare il risentimento dei giapponesi per l’occupazione, gli americani consentirono all’imperatore Hirohito di mantenere il trono. Decine di migliaia di ebrei sopravvissuti fuggirono dall’Europa per intraprendere una nuova vita nella colonia britannica della Palestina, che in breve tempo divenne lo stato indipendente di Israele. La guerra immediata tra quest’ultimo e i suoi vicini arabi nel 1947 fu la prima delle tante che sarebbero scoppiate per molto tempo ancora, quasi una per decennio. Cifre da capogiro La seconda guerra mondiale uccise il più grande numero di individui della storia in base a parecchi criteri diversi. Nel complesso, fu l’evento più sanguinoso della storia, anche per molte singole nazioni – Russia, Polonia, Giappone, Indonesia e Paesi Bassi, per nominarne solo alcune – e per tanti gruppi di 628
vittime non nazionali, come soldati, prigionieri di guerra ed ebrei.
L’Indagine sul bombardamento strategico condotta dagli Stati Uniti asserì che «probabilmente hanno perso la vita più persone nell’incendio di Tokyo nell’arco di 6 ore (9-10 marzo 1945) che in qualunque momento della storia dell’uomo».48 Può darsi che sia vero, dipende dai numeri che si accettano, ma io sono più propenso a credere che, nella storia, il maggior numero di persone uccise nel tempo più breve per opera dell’uomo siano le 120.000 uccise quasi all’istante a Hiroshima.******* Il massacro di 1,1 milioni di persone ad Auschwitz ha impiegato più tempo, ma probabilmente va considerato come il maggior numero di persone uccise nel luogo più piccolo. Forse la battaglia più sanguinosa della storia fu l’assedio di Leningrado (se si contano 629
sia i soldati sia i civili), però anche se non lo fosse, le altre possibili battaglie candidate furono comunque combattute sul fronte russo. La tabella alla pagina seguente mostra rispettivi danni e sofferenze dei partecipanti alla seconda guerra mondiale mediante l’elenco del numero di milioni di non combattenti morti. Sono inclusi soltanto i bilanci delle vittime che superano la soglia delle 250.000, perché per le proporzioni di quella guerra le decine di migliaia cambiano davvero poco. I numeri non si sommano con esattezza in quanto vi sono delle sovrapposizioni e parecchie incognite. La colonna del totale comprende tutto – omicidi, negligenza, incidenti e vittime innocenti colpite dal fuoco incrociato –, mentre quella dei responsabili annovera soltanto quelle morti ritenute ampiamente deliberate, evitabili o eccessive. Guardare questi grandi bilanci delle vittime è solo uno dei modi possibili per scorgere la colossale distruttività di quella guerra. Si potrebbe anche sbirciare nei piccoli angoli dimenticati, per vedere quanti morti si verificarono tra quei popoli di cui nessuno si accorge mai, come i neozelandesi. La Nuova Zelanda è lontana quasi da tutto e non era sotto la minaccia diretta di nessuno. Anche se avessero conquistato il resto del mondo, probabilmente le potenze dell’Asse l’avrebbero lasciata perdere, esattamente come avevano ignorato Svizzera e Svezia. Piccolo paese il cui contributo avrebbe difficilmente spostato gli equilibri, la Nuova Zelanda avrebbe potuto restarsene fuori, invece si gettò nel conflitto e perse 12.000 uomini in una guerra che non aveva bisogno di combattere. Quanti sono 12.000? Pensateli come otto Titanic che affondano. La guerra mise tanta gente in situazioni estreme, perciò un numero senza precedenti di individui morì in modi sorprendenti e insoliti. Allorché gli inglesi intrappolarono un reparto giapponese sull’isola di Ramree, in Birmania, i soldati nipponici tentarono di fuggire attraverso delle paludi impenetrabili: si dice 630
che vi entrarono in mille ma ne uscirono solo in venti. I dispersi erano stati mangiati dai coccodrilli. Il maggiore attacco di squali della storia si verificò quando l’incrociatore statunitense Indianapolis fu silurato da un sommergibile giapponese. La nave affondò con tale rapidità che non fu possibile lanciare un SOS adeguato, cosa che ritardò i soccorsi per parecchi giorni: dei 900 marinai che andarono alla deriva con i loro giubbotti di salvataggio, soltanto 316 sopravvissero all’accerchiamento degli squali.
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Il revisionismo Non c’è aspetto della seconda guerra mondiale che non sia soggetto a controversia, tuttavia ci sono dibattiti che bruciano più energia di altri. Per la generazione precedente di studiosi, il dibattito più acceso riguardava la strategia di Hitler, cioè se la conquista del mondo e il genocidio fossero del tutto programmati oppure se non si fosse limitato a cogliere le 631
opportunità che si presentavano. Era un’epoca più garbata, oggi si mettono in discussione aspetti fondamentali della guerra. Ovunque si guardi, chi nega l’Olocausto non fa altro che rifiutare di ammettere che i nazisti cercarono di estirpare gli ebrei dall’Europa. In alcuni paesi islamici lo si insegna nelle scuole, mentre in certi paesi d’Europa è vietato esprimere in pubblico idee del genere. Rispetto alla questione i sentimenti si sono polarizzati a tal punto che, a tutti gli effetti, a livello mondiale si è cancellato l’Olocausto quale argomento di disaccordo costruttivo. Poiché sarebbe difficile trovare un evento storico con una documentazione maggiore di quella dell’Olocausto,******** è più spontaneo chiedersi com’è possibile che qualcuno possa metterlo in dubbio. Per prima cosa occorre che ci sia la volontà di dubitare, dopodiché risulta facile. Se un’ideologia non riesce a suscitare consenso perché assomiglia troppo al nazismo, allora si vorrà riscrivere la storia per rendere meno spaventosi i nazisti. Si riconoscerà che alcuni ebrei morirono – nei ghetti e nei campi di lavoro le malattie imperversavano, le truppe tedesche giustiziavano i partigiani e così via –, ma la guerra è un inferno e cose del genere succedevano dovunque. Chi nega l’Olocausto sostiene che non vi fu alcuno sforzo sistematico indirizzato contro gli ebrei e che il bilancio delle vittime non fu peggiore, tanto per dire, di quello dei bombardamenti delle città tedesche. A favorire i negazionisti c’è il fatto che nella ritirata i tedeschi distrussero deliberatamente molte delle prove legali, per esempio camere a gas, cadaveri e testimoni. In Germania le maggiori controversie si incentrano sull’ampiezza del consenso di cui i nazisti godevano tra i cittadini comuni. La maggior parte dei tedeschi vorrebbe poter addebitare l’Olocausto a una ristretta cricca di fanatici, ma circostanze sgradevoli continuano a dimostrare che all’operazione contribuì un numero preoccupante di cittadini comuni, dagli impiegati pubblici ai soldati semplici. Ogni persona importante che nel mezzo secolo passato si è fatta 632
avanti dal mondo germanofono – che si tratti di un esperto di missilistica, di un segretario generale delle Nazioni Unite, di un governatore della California, di un premio Nobel per la letteratura o di un papa – ha affrontato imbarazzanti rivelazioni sui suoi legami passati con il nazismo. Nel mondo anglofono le maggiori controversie mettono in discussione gli stereotipi della storia ufficiale – Alleati/buoni e Asse/cattivi –, o minimizzando i peccati dell’Asse (per esempio l’Olocausto e l’avvio della guerra) oppure esagerano quelli degli Alleati (per esempio lo stalinismo e Dresda). In effetti c’è una significativa minoranza che sostiene apertamente che le democrazie occidentali combatterono dalla parte sbagliata. Patrick Buchanan, l’onnipresente commentatore americano, in un libro del 1999 dal titolo Republic, Not an Empire, ha scritto che le democrazie occidentali avrebbero dovuto starsene in disparte e lasciare che Hitler e Stalin si prendessero a pugni. «Rivoltando contro sé stessi il primo colpo di Hitler, Gran Bretagna e Francia fecero guadagnare tempo a Stalin, che ebbe due anni in più per prepararsi all’attacco di Hitler, perciò salvarono il comunismo in Unione Sovietica. […] Se Inghilterra e Francia non si fossero fatte garanti della Polonia, quasi sicuramente Hitler avrebbe sferrato il primo grosso colpo alla Russia. […] E se Hitler avesse conquistato l’URSS a costi enormi, poi avrebbe intrapreso una nuova guerra contro l’Europa occidentale, verso la quale non nutrì mai ambizioni?»64 Persino George W. Bush ha condannato la decisione dei suoi predecessori di allearsi con Stalin. «L’accordo di Jalta seguì l’iniqua tradizione del patto di Monaco e di quello MolotovRibbentrop. Ancora una volta, quando trattarono i grandi governi, la libertà delle nazioni più piccole risultò sacrificabile».65 In questo caso, i revisionisti paiono dimenticare che il mondo entrò in guerra contro Hitler perché era pericoloso, non perché era cattivo: nelle relazioni internazionali è una distinzione importante. Nel proprio paese si può fare quel che si vuole, ma 633
se si cominciano a invadere i vicini il resto del mondo si innervosisce. Non importa quanto Stalin fosse brutale con il suo popolo, sta di fatto che si accontentò di starsene dentro i confini dell’Unione Sovietica. Quando iniziò a impossessarsi di piccoli stati, l’Occidente si era già impegnato nella guerra con Hitler. Non c’era alternativa tra combattere contro Hitler o contro Stalin, o si combatteva contro Hitler o contro tutti e due. Per di più i sovietici sconfissero lealmente i tedeschi. Produssero da sé il 94% delle proprie munizioni e il 66% dei veicoli, causando l’80% delle perdite tedesche di tutta la guerra.66 Nel momento in cui l’Inghilterra era a un punto morto e gli Stati Uniti erano ancora in corso di mobilitazione, loro avevano già mutato il corso degli eventi a Stalingrado. La si scampò per un soffio, e senza dubbio il contributo occidentale spostò l’ago della bilancia, ma l’Occidente aveva bisogno di Stalin più di quanto lui avesse bisogno dell’Occidente. Senza i sovietici, gli Alleati occidentali avrebbero dovuto affrontare da soli molti milioni di tedeschi in più. E per tutta la guerra ciò conferì a Stalin una migliore posizione contrattuale.
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Espulsione dei tedeschi dall’Europa orientale Bilancio delle vittime: 2,1 milioni1 Posizione: 36 Tipologia: pulizia etnica Contrapposizione di massima: polacchi e cechi contro tedeschi Periodo: 1945-1947 Luogo: Europa orientale Principali stati partecipanti: Polonia, Cecoslovacchia Stati minori partecipanti: Unione Sovietica, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia A chi diamo la colpa di solito: Polonia, Cecoslovacchia La domanda senza risposta che si fanno tutti: si possono davvero biasimare? A soffrire di più durante la seconda guerra mondiale fu la Polonia. Fu il primo paese a essere conquistato, poi fu spartita, quindi soggetta a massacri che si trasformarono in un genocidio, poi la guerra ritornò dalla parte opposta e dilagò un’altra volta nel paese. Alla sua conclusione, era morto un sesto dei polacchi, cioè tre milioni di ebrei e tre milioni di non ebrei. I vincitori intuirono che la Polonia meritava una ricompensa per tutta quella sofferenza, in particolare dal momento che Stalin si teneva per sé i territori orientali del paese, dove si assimilavano all’Unione Sovietica le maggioranze ucraine e bielorusse locali. Dopo la guerra, il confine tra Germania e Polonia fu spostato a ovest, al fiume Oder. A differenza dei mutamenti di confini successivi al primo conflitto mondiale, per cui si era privata la 635
Germania soltanto dei distretti dove c’era una maggioranza non tedesca, in questo caso l’intento dello spostamento era chiaramente punitivo. Si consegnarono alla Polonia terre che erano tedesche da secoli – la Prussia Orientale, la Pomerania, la Slesia –, dalle quali si cacciarono gli abitanti. Un pezzetto di Prussia Orientale contenente il porto di Königsberg andò alla Russia e, con il nuovo nome di Kaliningrad, divenne la base avanzata della flotta sovietica nel Baltico. I russi sostituirono a tal punto i tedeschi che oggi questo distretto è più russo della stessa Russia. Succedeva dappertutto. Come pretesto per le sue invasioni Hitler aveva utilizzato presunti maltrattamenti delle minoranze tedesche nell’Europa orientale, perciò si pensò che era meglio sbarazzarsi una volta per tutte dei tedeschi che si avevano in casa. La seconda minoranza tedesca per numero era quella della Cecoslovacchia, paese che la Germania aveva smantellato e occupato ancor prima della Polonia. Inoltre esistevano minoranze urbane e villaggi tedeschi in Ungheria, Romania e Croazia, rimasti lì dai tempi in cui l’impero austriaco si distendeva su tutta l’Europa orientale: dovevano andarsene anche quelli. Le espulsioni passarono per tre fasi. Nella prima, durante la guerra 5 milioni di tedeschi sfuggirono all’avanzata sovietica, spesso soltanto con poche ore di preparativi. Dei circa 2,4 milioni di tedeschi della Prussia Orientale, 1,9 milioni abbandonarono questa lontana enclave e fuggirono a ovest; con il sopraggiungere della guerra probabilmente il 20% di questi profughi morì lungo le strade e nei villaggi, a causa delle incursioni aeree, dei naufragi, del fuoco dell’artiglieria o degli stupri di gruppo. Breslavia, capoluogo della Slesia nonché maggiore città che passò di mano nel ridimensionamento postbellico della Germania, aveva già conosciuto enormi spostamenti di popolazione durante il periodo nazista, quando erano state deportate le minoranze ebraica e polacca. Poi, nel febbraio del 636
1945, arrivò l’Armata Rossa e la Wehrmacht si trincerò per difendere la città. Il governo tedesco ordinò a tutti i non combattenti di andarsene immediatamente: mezzo milione di civili furono così costretti a fuggire nella neve e nel ghiaccio verso i centri di raccolta che si trovavano a chilometri di distanza. Per il freddo morirono in 80.000. La seconda fase fu quella delle espulsioni «selvagge». Dopo la cessazione delle ostilità, le folle infuriate cacciarono in maniera spontanea e brutale le minoranze tedesche del luogo: spogliavano i tedeschi dei loro beni, costringevano i contadini ad abbandonare le case, i raccolti, il bestiame, linciavano i sospetti collaborazionisti e i loro familiari, mentre i soldati sovietici occupanti ignoravano tutto. A luglio del 1945 avvenne una misteriosa esplosione in una fabbrica della città cecoslovacca di Ústí nad Labem: si disse che si era trattato di un sabotaggio e la popolazione attaccò i vicini tedeschi. Al primo assalto, la folla sciamò contro una famiglia tedesca che si trovava su un ponte, ne prese il figlio e lo gettò nel fiume. Alla fine dei tumulti erano morti tra i 1000 e i 2000 tedeschi, uccisi dalle percosse, dalle armi da fuoco o annegati.2 A giugno, a Postoloprty in alcuni giorni si rastrellarono 2000 tedeschi dei Sudeti, che furono poi fucilati o picchiati a morte. Due anni dopo, nell’agosto del 1947, le autorità ceche riesumarono tacitamente le fosse comuni e bruciarono tutti i cadaveri, in modo che «i tedeschi non [avessero] alcun monumento da indicare quale fonte della sofferenza del loro popolo».3 La terza fase comportò i reinsediamenti formali operati dai governi europei. Ancora in esilio durante la guerra, Beneš, presidente passato e futuro della Cecoslovacchia, presentò il proprio piano di sgombero dei tedeschi dei Sudeti dai confini montuosi della Cecoslovacchia: «Dobbiamo sbarazzarci di quei tedeschi che nel 1938 hanno pugnalato alle spalle lo stato cecoslovacco» dichiarò. Il governo Churchill appoggiò ufficialmente questa linea di condotta sin dal 1942, l’anno 637
successivo americani e sovietici fecero altrettanto.4 Ad agosto del 1945, nella conferenza postbellica di Potsdam, le principali potenze autorizzarono l’azione finale. Nel giro di alcune settimane, Beneš privò gli appartenenti alla minoranza tedesca della cittadinanza cecoslovacca, a meno che non vi fossero circostanze attenuanti, come il matrimonio con un cittadino slavo o documenti che comprovassero la partecipazione alla lotta contro l’occupazione nazista. A novembre, il Consiglio di Controllo Alleato, che gestiva l’Europa postbellica, ordinò il reinsediamento in Germania dei 3 milioni di tedeschi che vivevano in Cecoslovacchia e dei 3,5 milioni presenti all’interno dei confini della Polonia prebellica. Quindi 6 milioni di polacchi furono allontanati dai 181.000 chilometri quadrati a est presi dall’Unione Sovietica e reinsediati nei 124.000 chilometri quadrati che la Germania aveva ceduto alla Polonia. Churchill alla fine ebbe qualche ripensamento: nel discorso del 1946 che regalò al mondo l’espressione «cortina di ferro», passò a denunciare la brutalità di quella nuova politica: «Il Governo polacco dominato dai russi è stato incoraggiato ad avanzare enormi e ingiuste pretese sulla Germania, e sta avendo luogo in questo momento un’espulsione in massa di milioni di tedeschi, su una scala atroce e mai sognata prima d’oggi».5 Frattanto l’espulsione e il transito costituivano soltanto metà del problema. I deportati tedeschi dell’Europa orientale furono gettati nel bel mezzo di una grande carestia. Costretti ad abbandonare i propri mezzi di sussistenza, si ritrovarono in una terra bombardata e devastata sulla quale si muovevano mutilati, vagabondi e profughi. Siccome le città tedesche erano ridotte in macerie, si stiparono i nuovi arrivati nelle fattorie, nelle caserme e persino negli ex campi di concentramento. Chiunque avesse spazio in più aveva l’ordine di accogliere un profugo. Purtroppo i tedeschi provenienti da est parlavano dialetti strani, che alle orecchie dei tedeschi occidentali suonavano quasi come lingue straniere, perciò li insultavano con il nome di Polacken. I locali 638
se la prendevano con gli immigrati, pericolosi concorrenti rispetto agli alloggi e al cibo già scarsi: i rifugiati dovevano spesso arrangiarsi da soli e non era raro che morissero di fame. Alla fine dall’est furono espulsi tra 12 e 14 milioni di tedeschi. Ne arrivarono così tanti che, nonostante le vittime della guerra, nel 1950 la popolazione della Germania Federale era cresciuta del 20% rispetto a prima della guerra. Questo aumento della popolazione fu più consistente nelle aree rurali, che in alcuni distretti conobbero una crescita del 60%.6 Nel 1967 l’ufficio statistico della Germania Federale calcolò che in quegli anni duri erano morti 267.000 dei tedeschi espulsi dalla Cecoslovacchia,7 1.225.000 di quelli espulsi dalla Polonia e 619.000 provenienti da Ungheria, Romania, Jugoslavia e paesi baltici. A conti fatti, il numero totale di morti tra i profughi orientali si stima in 2.111.000.8
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Guerra d’Indocina Bilancio delle vittime: 393.000 Posizione: 88 Tipologia: rivolta coloniale Contrapposizione di massima: Francia contro Viet Minh Periodo: 1945-1954 Luogo: Indocina francese Principale stato partecipante: Francia Principali quasi-stati partecipanti: Cambogia, Laos, Vietnam Principale entità non statale partecipante: Viet Minh A chi diamo la colpa di solito: Francia Figlio di un insegnante vietnamita, Nguyen Sinh Cung nacque nel 1890 e trascorse la giovinezza spostandosi per i vari centri del pensiero comunista: l’università di Parigi, la Mosca postrivoluzionaria e Shanghai prima del giro di vite di Chiang Kai-shek. Nel 1919 alla conferenza di pace di Versailles tentò di persuadere gli alleati vittoriosi a liberare il suo popolo dal dominio francese. Non vi riuscì, perciò tornò in patria per organizzare un movimento indipendentista. Prima che se ne facesse qualcosa, l’occupazione giapponese delle colonie dell’Occidente gettò nello scompiglio l’Asia orientale, ma Nguyen era pronto a dar vita a una resistenza nazionalista indipendentemente dall’autorità al governo. Dunque non fece altro che rivolgere i propri sforzi contro il Giappone e istituì una forza ribelle denominata Viet Minh, da cui trasse il suo pseudonimo: Ho Chi Minh. Nell’agosto del 1945 la fine del Giappone lasciò il Vietnam in un limbo. Senza che vi fossero truppe alleate a impartire 640
ordini diversi, i reparti giapponesi cominciarono a collaborare con il Viet Minh nell’amministrazione locale; dopo l’insediamento nella capitale coloniale Hanoi, Ho Chi Minh proclamò l’indipendenza del Vietnam. Poi, a settembre, giunsero per assumere il controllo le forze nazionaliste cinesi, gli alleati più vicini a portata di mano, le quali però per lo più non fecero altro che depredare Hanoi e lasciare al proprio destino il resto della colonia. E così, mentre soldati in congedo, prigionieri liberati, disertori e capi di organizzazioni criminali si affannavano ad arraffare tutto ciò che potevano prima che arrivasse qualcuno a fermarli, l’Indocina precipitò nel caos. In alcune regioni le autorità francesi appena rilasciate dalle prigioni giapponesi, vessate e in inferiorità numerica, raggiunsero degli accordi con i ribelli di Ho Chi Minh per il ripristino dell’ordine. A Parigi, il governo provvisorio del generale Charles de Gaulle annunciò che la Francia non intendeva rinunciare a nessuna delle sue colonie; per quel che riguardava il generale, l’indipendenza non ci sarebbe mai stata.1 Quando venne a saperlo, Ho Chi Minh si fece meno collaborativo riguardo all’ingresso in Vietnam di altre truppe e di nuovi funzionari francesi. Con un cessate il fuoco in vigore, le trattative si trascinarono e le tensioni aumentarono. Nel novembre del 1946 i francesi richiesero il pieno controllo della città portuale di Haiphong, ma il Viet Minh rifiutò l’evacuazione. Per tutta risposta, le navi da guerra francesi bombardarono i quartieri del Viet Minh e fecero a pezzi 6000 civili; a loro volta i carri armati e l’aviazione francesi attaccarono le posizioni dei ribelli all’interno della città, dalla quale il Viet Minh fu sgomberato del tutto dopo combattimenti casa per casa.2 Con l’arrivo di nuove truppe dall’Europa i francesi assunsero saldamente il controllo di tutte le città dell’Indocina, tuttavia il Viet Minh prevaleva nelle campagne isolate e tendeva imboscate alle truppe francesi che si avventuravano nel suo territorio. 641
A loro volta i francesi cercarono di ridimensionare il movimento indipendentista tramite la riorganizzazione della colonia in entità subordinate autonome ma collaborative. In ciascuna parte della colonia posero dei monarchi locali, cui conferirono un’indipendenza formale sotto la guida di un’organizzazione sovranazionale denominata Unione Francese. Nel 1949 la presa del potere da parte dei comunisti in Cina raggiunse il confine con il Vietnam, circostanza che offrì ai ribelli l’accesso a maggiori rifornimenti di armi. Poiché il Viet Minh cercava di tenersi in contatto con l’Esercito Rosso cinese e i francesi cercavano di impedirlo, la guerra si spostò nelle regioni di confine. Nel dicembre 1953 i paracadutisti francesi occuparono e fortificarono Dien Bien Phu (nell’attuale Laos), una grossa base sulla linea dei rifornimenti dei comunisti, nella speranza di attirare i ribelli in una battaglia in campo aperto, cosa che avrebbe favorito i francesi. Al contrario il generale vietnamita Võ Nguyên Giáp mise sotto assedio il caposaldo: nel marzo dell’anno successivo i reparti da combattimento (che contavano 70.000 uomini) e quelli di supporto isolarono 5000 francesi trincerati e il generale Giap diede avvio ai suoi attacchi. Cinquantasei giorni di incursioni, di fucilate di precisione e di bombardamenti logorarono i francesi e li schiacciarono in una zona sempre più ridotta, quindi Dien Bien Phu si arrese. La sconfitta convinse il governo francese che era inutile protrarre lo scontro. Subito dopo si avviarono i negoziati di pace, che concessero l’indipendenza all’Indocina francese, dalla quale nacquero quattro stati: il Laos, la Cambogia e un Vietnam diviso in due parti, una ai comunisti l’altra ai non comunisti. Non sarebbe durato a lungo. Bilancio delle vittime Dalla parte dei francesi i soldati morti furono circa 93.000, ma soltanto 20.700 erano francesi veri e propri. Il resto erano alleati indocinesi (18.700), truppe coloniali indocinesi (26.700), truppe 642
coloniali africane (15.200) e appartenenti alla Legione Straniera (11.600). Ovviamente uno dei vantaggi del possesso di un impero sta nel fatto che si possono mandare a combattere le truppe coloniali. Le stime delle vittime tra i vietnamiti sono approssimative: probabilmente per combattere i francesi restarono uccisi 175.000 appartenenti al Viet Minh, e oltre 125.000 civili.3
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Partizione dell’India Bilancio delle vittime: 500.0001 Posizione: 70 Tipologia: pulizia etnica Contrapposizione di massima: indù e sikh contro musulmani Periodo: 1947 Luogo e principali stati partecipanti: Pakistan, India A chi diamo la colpa di solito: indù e musulmani, in particolare Jinnah La fine della dominazione coloniale in India doveva essere un trionfo dello spirito umano. Un’India libera, seconda entità politica più popolosa del pianeta, avrebbe liberato un sesto della popolazione umana. Frutto della stessa ispirazione, la liberazione si era compiuta senza violenza: per convincere gli inglesi ad andarsene Mohandas Gandhi aveva organizzato marce, digiuni, boicottaggi e scioperi di massa. Si era ben lontani, dunque, dalle lunghe e sanguinose rivolte che avevano portato alla liberazione dell’emisfero occidentale. L’unico intoppo per il movimento indipendentista stava nel fatto che molti musulmani dell’India non erano disposti a diventare una minoranza sotto l’autorità indù. Il loro leader, Muhammad Ali Jinnah, chiese uno stato separato composto da quelle regioni dove i musulmani erano in maggioranza. Gandhi, per contro, inorridiva all’idea di un’India spezzata, tanto che propose persino il dominio dei musulmani su tutti gli indù, se questo serviva a mantenere intatta l’India. A questa proposta, però, erano i nazionalisti a inorridire. A metà degli anni Trenta, quando avevano finalmente preso 644
in considerazione l’indipendenza dell’India, gli inglesi avevano collocato la data esatta in un vago futuro, ma poi la seconda guerra mondiale logorò a tal punto la Gran Bretagna da indurla a rinunciare molto prima al proprio impero. Il progetto primitivo prevedeva una federazione di stati autonomi, ma nel 1946, nel fare gli ultimi aggiustamenti, Jawaharlal Nehru, capo degli indù, accennò distrattamente al fatto che esso era soggetto a cambiamenti. Sentendosi ingannati, i musulmani di Calcutta insorsero: in tre giorni nei pogrom che si scatenarono nella città tra musulmani e indù restarono uccise 5000 persone. E quando i tumulti si diffusero per tutto il paese il bilancio delle vittime quadruplicò: i cadaveri ammucchiati per le strade intasavano il traffico. Alla fine gli animi si raffreddarono il tempo sufficiente a concepire un nuovo piano: le regioni a maggioranza musulmana dell’India Britannica furono riunite tra loro a formare lo stato sovrano del Pakistan. Quelle di frontiera a ridosso dell’Iran e dell’Afghanistan erano completamente islamiche, perciò era facile assegnarle al Pakistan, però due province interne, il Bengala e il Punjab, erano particolarmente intricate, con le due religioni ugualmente diffuse e intrecciate tra loro. Occorreva dividerle in regioni a maggioranza musulmana e a maggioranza indù. Il compito ingrato e impossibile di ritagliare dei confini equi fu assegnato a sir Cyril Radcliffe, un commissario britannico, il cui titolo principale era quello di non essere mai stato in India, per questo presumibilmente non avrebbe dovuto avere pregiudizi. Lo misero sotto chiave con le mappe censuarie socio-etniche, una matita, una gomma e l’autorità assoluta di fare ciò che voleva. I confini precisi furono annunciati soltanto il 14-15 agosto 1947, la notte dell’indipendenza.2 Ultimo viceré dell’India era stato nominato lord Louis Mountbatten, che voleva farla finita e togliersi il pensiero. Mentre i consiglieri suggerivano un programma graduale mediante il quale si sarebbe ceduta progressivamente la sovranità, un pezzo alla volta, Mountbatten si ostinava a volersi 645
liberare d’un colpo del subcontinente, entro un anno. Non voleva farsi sorprendere dalla guerra civile incombente.3 Ancor prima dell’arrivo dell’indipendenza, la violenza di massa cominciò a epurare le comunità delle minoranze, in modo da ridurre il rischio di essere assegnati al paese sbagliato. I primi a commettere gli omicidi furono gli indù, infuriati contro i musulmani perché avevano imposto la divisione, ma presto la carneficina fu perpetrata da entrambe le parti, che cercavano reciproca vendetta. Milioni di indiani tentarono di sfuggire a questa violenza, che si protrasse anche dopo il giorno dell’indipendenza. Spesso si tendeva una trappola alle colonne di profughi in fuga dalle proprie case, i quali venivano trucidati; molte volte i treni dovevano procedere tra il fuoco delle mitragliatrici disposte lungo i binari; se si fermavano, i passeggeri venivano tirati giù urlanti e trucidati a decine, centinaia e infine migliaia.4 Nelle stazioni arrivavano dei silenziosi «treni fantasma», con i vagoni merci carichi di morti e agonizzanti, che gemevano in pozze di sangue rappreso.5 Accampato a Calcutta, Gandhi digiunava per protesta contro la violenza etnica, indebolendosi ancor più per la fame. L’autorità spirituale che esercitava sugli indiani era tale che gli obbedirono, e infatti il Bengala riuscì a evitare le violenze peggiori. Nel novembre del 1947 la carneficina si interruppe di colpo: tutti quelli che erano stati colti dalla parte sbagliata del confine erano morti o in esilio. In quei mesi caotici, avevano lasciato la propria casa più di 14 milioni di persone: 7,3 milioni di indù e sikh dal Pakistan, 7,2 milioni di musulmani dall’India.6 Per quel che vale, il fatto che un numero pressoché uguale di persone si trovasse nel paese sbagliato probabilmente significa che Radcliffe aveva tracciato i confini con la massima equanimità umanamente possibile. Tuttavia alla violenza della partizione restava ancora una vittima da reclamare. Nel gennaio del 1948 un fanatico indù 646
assassinò Mohandas Gandhi perché aveva tradito i suoi e si era preoccupato della vita dei nemici.7
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Mao Zedong Bilancio delle vittime: 40 milioni Posizione: 2 Tipologia: dittatore comunista Periodo: 1949-1976 Luogo: Cina Contrapposizione di massima: il nuovo contro il vecchio Principale stato partecipante: Repubblica Popolare Cinese A chi diamo la colpa di solito: Mao in persona e il comunismo in generale Ennesimo esempio di: folle repubblica popolare Come quelle di molti di coloro che resero la metà del XX secolo un’epoca assai pericolosa in cui vivere, la vita di Mao Zedong è intrecciata a parecchi dei miei primi cento massacri, ma qui compare al secondo posto soltanto come uomo che governò la Cina per un quarto di secolo. Per l’ampiezza della rovina che provocò all’interno di un singolo paese, Mao è quasi certamente l’individuo più micidiale della storia. Mao era un autentico ideologo. Invece di rilassarsi e godersi la propria condizione di padrone assoluto di ogni cosa a cui poteva arrivare, volle mettere continuamente mano ai meccanismi di funzionamento del suo paese. Ovviamente, questo lo rese molto più pericoloso del tipico dittatore che si limita ad appropriarsi di una percentuale degli appalti governativi o a portarsi a letto le mogli dei tirapiedi ambiziosi. Al contrario, dapprima dissestò il sistema agricolo di un paese pericolosamente sull’orlo della carestia, poi esortò le masse furiose ad attaccare chiunque mancasse del giusto entusiasmo 648
per la sua politica. La vittoria della rivoluzione Nell’aprile del 1949, Chiang Kai-shek fuggì dalla Cina per raggiungere l’esilio di Taiwan (vedi Guerra civile cinese) e dopo un po’ di pulizia, il primo ottobre, Mao Zedong proclamò la nuova Repubblica Popolare Cinese. Nel primo anno di questa nuova fase la Cina fu governata da un branco di cani da guardia comunisti collocati ai vertici della vecchia burocrazia nazionalista, ma chiaramente la situazione non poteva durare per sempre. Fu la guerra di Corea a offrire a Mao tanto un motivo quanto un pretesto per serrare ulteriormente il controllo.1 Gli anni Cinquanta videro una serie di movimenti politici apparentemente concepiti per modellare la nuova Cina secondo le linee marxiste, ma che, nella maggioranza dei casi, semplicemente alzarono la tensione e impedirono alle strutture di potere rivali di mettere radici. Lo scopo di ogni campagna si riduceva a una lista numerata e a dei manifesti appesi ai muri: per qualche mese si prendeva di mira una determinata classe con accuse, tradimenti, arresti, suicidi, purghe e pestaggi, finché Mao non si stancava di quell’andazzo e intraprendeva un’altra campagna. Si denunciavano e perseguitavano nuovi nemici, si liberavano e riabilitavano i superstiti delle campagne precedenti che erano stati incarcerati, mentre i loro vecchi persecutori diventavano all’improvviso il nuovo oggetto di denuncia.2 La prima salva fu la Campagna di soppressione dei controrivoluzionari (ottobre 1950-ottobre 1951), che spazzò via ogni traccia del vecchio regime nazionalista: si diede la caccia a «banditi» e «spie», cioè in genere chiunque avesse sostenuto attivamente il regime precedente. Furono portati allo scoperto i simpatizzanti dei nazionalisti in pensione, che venivano pubblicamente umiliati, picchiati oppure cacciati in esilio. Il 9 maggio del 1951 un rapporto interno dichiarò con orgoglio che la popolazione era stata intimidita: «Non si diffondono più 649
dicerie e l’ordine sociale si è stabilizzato».3 Si confiscarono tutte le armi accumulate in un venticinquennio di guerra civile e si vietò ogni cambio di residenza senza permesso. La criminalità organizzata fu pressoché eliminata, visto che i gangster, i pirati e i banditi veri furono tutti uccisi o incarcerati senza tante formalità. La contemporanea Campagna di riforma agraria vide lo smantellamento della classe dei proprietari terrieri. Si spinsero i contadini a impadronirsi della terra e ad attaccare i padroni. Per ottenere il massimo effetto, Mao preferiva le uccisioni pubbliche. «Una giovane mezza cinese proveniente dall’Inghilterra fu testimone di un raduno al centro di Pechino, in cui circa 200 persone furono prima fatte sfilare, poi si sparò loro alla testa, tanto che la loro materia cerebrale schizzò sugli astanti».4 Milioni di prigionieri furono spediti a lavorare nei campi di recente costituzione, denominati laogai («riforma attraverso il lavoro»); la maggior parte degli autori calcola che in queste prime purghe restarono uccisi tra 1 e 3 milioni di persone. La Campagna dei tre anti (fine 1951-maggio 1953) puntò a eliminare l’uso improprio dei soldi del governo da parte degli impiegati publici. Le parole d’ordine erano: anticorruzione, antispreco e antiburocratismo. Quasi 4 milioni di funzionari governativi furono presi e interrogati in modo molto sbrigativo. Mao decretò che si dovessero condannare a morte almeno 10.000 malversatori, ma poi risultò che aveva sovrastimato il grado di corruzione del vecchio regime e ne furono scoperti relativamente pochi. Comunque, lo scopo di fondo della campagna era quello di trasferire le finanze statali definitivamente sotto il controllo di Mao, e funzionò. Poi fu la volta della Campagna dei cinque anti (gennaio 1952maggio 1953). Si accusarono collettivamente gli imprenditori di insidiare l’integrità fiscale dello stato, mentre i comunisti procedevano nel tentativo di sradicare l’evasione fiscale (primo anti), la corruzione (secondo), le frodi nell’assegnazione degli 650
appalti governativi (terzo), lo spionaggio economico (quarto) e la sottrazione di beni dello stato (quinto). Inizialmente, gli imprenditori furono trascinati in sedute di autocritica di gruppo durante le quali li si incoraggiava a confessare i propri crimini e a denunciare i propri concorrenti. Poi i comitati dei lavoratori sfilarono in parata con tamburi e insegne per incoraggiare l’attività di denuncia. Gli imprenditori erano portati alle riunioni pubbliche dove venivano ulteriormente insultati. Anche se furono uccisi soltanto in pochi, le umiliazioni, le violenze e le molestie spinsero molti al suicidio. La Campagna dei cento fiori Nel febbraio del 1956, tre anni dopo la morte di Stalin, il nuovo leader dell’Unione Sovietica, Nikita Chruščëv, era abbastanza saldo al potere da poter finalmente denunciare la repressione stalinista. Allora Mao decise di farlo meglio. Nel febbraio del 1957, invitò apertamente alla critica del partito e della direzione che stava imboccando la società. «Lasciate che cento fiori sboccino» esortò nella sua richiesta di espressione di idee nuove. Mao voleva che gli intellettuali della Cina si sentissero liberi di discutere di politica, incoraggiò il popolo a esprimere le proprie idee. Voleva suggerimenti e critiche. Davvero, non era un trucco. Si appesero ai muri manifesti che criticavano il regime, e lì restavano incollati. Allorché alcune caute voci iniziarono a esprimersi liberamente senza ricevere alcuna punizione, la gente si rese lentamente conto che, forse, Mao diceva sul serio. Quindi cominciò a proporre alcuni suggerimenti, e presto esplosero tutti i malumori che la gente aveva covato per otto anni.5 O forse era un trucco. Mao considerava Chruščëv un debole, perché aveva aperto la società sovietica e aveva trascinato nel fango il buon nome di Stalin. Ad aprile Mao disse così a pochi intimi: «l’atteggiamento degli intellettuali si sta facendo […] da cauto a più ardito […]. Un giorno il castigo ricadrà sopra le loro 651
teste […]. Lasciamoli parlare apertamente. Non ve ne fate un baffo e consentite loro di attaccarci! […] Lasciate che quei diavoli-bue e quei demoni-serpe […] inveiscano contro di noi per qualche mese». Come spiegò successivamente: «Come possiamo catturare i serpenti se non li facciamo uscire dalle tane? Volevamo che quei figli-di-tartaruga uscissero fuori dai loro buchi perché potessero cantare e scorreggiare […] adesso possiamo catturarli».6 I detrattori di Mao sostengono che il suo piano diabolico era sempre stato quello; chi lo difende spiega invece che era partito con intenzioni oneste, ma che poi, quando cominciarono a prendersela con lui, fu stupito, offeso e, francamente, un po’ ferito, perciò fece punire tutti (sinceramente non capisco come questo possa essere considerato meglio di: «il piano era sempre stato quello»).7 Quando a giugno del 1957 ebbe inizio la Campagna contro gli elementi di destra, i «cento fiori» furono colpiti dal diserbante. Ora che il governo aveva individuato precisamente gli scontenti, si poteva epurare il ceto intellettuale. Naturalmente furono esentati gli scienziati, in particolare quelli nucleari, ma chiunque altro si fosse espresso liberamente fu spedito nei campi di lavoro a tagliare legna o in miniera a estrarre minerali radioattivi. Mao inoltre sfruttò la Campagna contro gli elementi di destra per indebolire i membri della sua cerchia ristretta che si stavano affermando troppo pericolosamente. Incoraggiò i fanatici a mettere alla prova la lealtà dei moderati verso i gradini più alti del potere. Spinti da una pressione proveniente dal basso, vecchi alleati come Zhou Enlai e Liu Shaoqi furono costretti a umiliarsi davanti al congresso del partito, tutti i loro amici li rinnegarono e i compagni li denunciarono. Malgrado non si trattasse di una epurazione, vennero comunque piegati, così Mao si mise al sicuro dalle loro manovre, almeno per un po’. Lo stile di vita 652
Mao trasse il massimo vantaggio dal fatto di essere il padrone di un quarto dell’umanità. Disponeva di squadre di bellissime donne selezionate per il suo piacere, possedeva oltre cinquanta ville di campagna. Montagne intere e distese di laghi furono isolate per riservarle al suo personale diletto. Divenne un assiduo frequentatore di ogni città importante, in cui destinava un’area lussuosa esclusivamente al suo uso.8 Mao era notoriamente poco amante dell’igiene. Preferiva vecchi vestiti comodi e finì per imporre il suo stile anche all’intero paese. Non si lavava mai i denti, piuttosto risciacquava la bocca col tè e ne masticava le foglie. I suoi denti erano ricoperti di una patina verde e qualcuno ballava leggermente, dondolando nelle gengive che trasudavano infezioni. Si è detto che per un quarto di secolo non fece un bagno: lo definiva «una perdita di tempo». Al contrario, si faceva strofinare da un domestico con un asciugamano caldo. Ma la trascuratezza nell’igiene non era dovuta a un’avversione per l’acqua: Mao amava nuotare, anche nei luridi liquami dei fiumi pericolosamente inquinati. In particolare gli piaceva nuotare nelle piscine private con il suo harem di donne di piacere completamente nude.9 La politica estera Nel 1953 erano già stati cacciati dalla Cina quasi tutti gli stranieri non sovietici. Furono allontanati i missionari, medici e ingegneri fuggirono, insegnanti, giornalisti e commercianti furono espulsi. I turisti non osavano avvicinarsi. Per i venti anni successivi, la Cina sarebbe rimasta celata agli occhi indagatori degli stranieri. Sulla scena mondiale Mao rappresentava una mina vagante. Fino agli anni Settanta, le Nazioni Unite e l’Occidente continuarono a riconoscere il governo nazionalista rifugiatosi a Taiwan quale legittimo governo della Cina. Tuttavia non era solo testardaggine da parte dei capitalisti: un’offerta britannica 653
di riconoscimento della Repubblica Popolare fu respinta perché il Regno Unito si rifiutava di troncare le relazioni con Taiwan.10 Nel 1950 Mao lanciò un paio di milioni di soldati nella guerra di Corea contro le Nazioni Unite, gli Stati Uniti e il Regno Unito, rendendo quello scontro l’ultima guerra aperta tra grandi potenze nella storia (almeno finora). Fra le centinaia di migliaia di cinesi che restarono uccisi c’era anche uno dei figli di Mao.11 Dopo la morte di Stalin nel 1953, Mao iniziò ad allontanarsi anche dal blocco comunista. Nel 1964, dopo che un immane sforzo di ricerca ebbe fagocitato ogni risorsa economica, i cinesi fecero esplodere una bomba atomica. Nel 1969 la Cina combatté una piccola guerra di confine contro i sovietici: di fronte alla prima guerra aperta mai combattuta tra potenze nucleari, il mondo rimase col fiato sospeso, finché lo scontro non si risolse senza alcun disastro nucleare. Il risultato di tutto ciò fu che, per molti anni turbolenti, il paese più popoloso della terra fu in ebollizione; una nazione isolata dal mondo, misteriosa, xenofoba e fanatica, nonché dotata delle armi più potenti che l’uomo abbia mai conosciuto. Il Grande balzo in avanti A cominciare dal 1958, Mao tentò subito, d’autorità, di superare la produzione industriale del resto del mondo. Garantì ai consiglieri preoccupati che la Cina possedeva risorse alimentari sufficienti (più che sufficienti, anche troppe a dire il vero) e che quindi si potevano tranquillamente riassegnare i contadini al lavoro nelle fabbriche. L’ideologia comunista non si fidava dei contadini. Erano considerati troppo arretrati per capire le forze storiche coinvolte in una rivoluzione e troppo timidi per spezzare le proprie catene. Trasformandoli in proletari veri e propri, la rivoluzione sarebbe progredita. Mao trasformò i villaggi rurali in gigantesche comuni. Tutte le terre, gli animali, le abitazioni e gli alberi di proprietà privata 654
dovevano essere ceduti alla comune. L’abitazione di una famiglia poteva persino essere smantellata per utilizzarne le parti, se necessario; i residenti dovevano mangiare in mense comuni invece che in casa propria. L’intera popolazione della Cina fu obbligata a indossare le uniformi grigie e sformate di Mao, che nascondevano ogni individualità. Per un po’ Mao tentò di smembrare le famiglie e di far vivere l’intera nazione in caserme ordinate per età e sesso. Poiché era convinto che i dati sulla produzione dell’acciaio e del ferro fossero la misura effettiva della forza di una nazione, decretò che tutti dovessero lavorare per raddoppiare la produzione nazionale d’acciaio in un solo anno. Ove non ci fossero fabbriche a disposizione, si doveva fondere il metallo in casa; per raggiungere le quote di produzione stabilite in maniera arbitraria, le comuni furono costrette a raccogliere gli strumenti di metallo, gli utensili da cucina, le forcine per capelli e le maniglie delle porte per fonderli. Grazie a questo sforzo enorme, la produzione d’acciaio crebbe da 5,3 milioni a 10,7 milioni di tonnellate l’anno, ma soltanto quello usato dalle acciaierie aveva un valore, mentre i 3 milioni di tonnellate del nuovo acciaio fatto in casa erano del tutto inutilizzabili.12 Questa urbanizzazione imponente strappò 90 milioni di contadini dalle aziende agricole, spogliando la terra non solo della sua mano d’opera, ma anche dell’esperienza e della saggezza popolare.13 Scomparvero completamente generazioni di conoscenza su come lavorare i campi, mentre gli ideologi di Pechino dettavano la politica agricola. Assieme al numero di agricoltori precipitò anche la quantità di superficie coltivata in ettari. Poi arrivò anche la siccità. Questa combinazione di fattori causò la peggiore carestia della storia, in cui trovarono la morte decine di milioni di persone. La produzione di cereali crollò dai 200 milioni di tonnellate del 1958 ai 144 milioni del 1960; tra il 1957 e il 1961 il numero di maiali subì una diminuzione del 48%. La gente ricavava qualcosa da mangiare dai noccioli d’albicocca, dalle 655
bucce del riso e dalle pannocchie di granturco, mentre Pechino si rifiutava di ammettere che in tutto ciò ci fosse qualcosa di sbagliato. Per dimostrare al mondo che il Grande balzo in avanti era un successo, nel 1959 la Cina esportò quasi 5 milioni di tonnellate di cereali.14 La carestia fu davvero colpa di Mao? Fu la cattiveria, la crudele negligenza o la semplice disattenzione a uccidere 30 milioni di persone? È ovvio che nessuna di tali motivazioni sarà sufficiente a elaborare un giudizio positivo sul suo lavoro, ma possono tutte rappresentare una discriminante nella valutazione degli storici, a seconda che essi elenchino Mao tra i dieci personaggi più diabolici della storia o soltanto tra i dieci più incompetenti. Maurice Meisner: Mao Zedong, il principale artefice del Grande balzo in avanti, ovviamente porta il peso della maggiore responsabilità morale e sociale per il disastro umano derivato da tale impresa. Ma questo non rende Mao un assassino di massa, sullo stesso piano di Hitler e di Stalin, come ora va di moda dipingerlo. […] C’è una grande differenza morale tra le conseguenze non intenzionali e impreviste delle azioni politiche [...] e un genocidio deliberato.15 Il fatto specifico che la Cina, nonostante i risultati assai più lusinghieri nella riduzione della deprivazione endemica, abbia conosciuto una carestia gigantesca nel periodo 1958-61 [...] c’entra molto con la mancanza di libertà di stampa e di opposizione politica. Le politiche disastrose che hanno spianato la strada alla carestia non sono state cambiate per tre anni mentre la fame imperversava, e questo è stato reso possibile dal quasi totale oscuramento delle notizie sulla carestia e dalla totale assenza di critiche nei mezzi di comunicazione riguardo quello che stava avvenendo allora in Cina.16 656
Jung Chang e Jon Halliday: Il Balzo quadriennale rappresentò un monumentale spreco di risorse naturali e di sforzi umani, unico per dimensioni nella storia mondiale. A differenza degli altri regimi inefficienti e rovinosi che derubarono la popolazione in modo predatorio, dopo averle concesso di lavorare con ritmi più blandi e in modo meno sistematico, quello di Mao prima sfruttò tutti fino all’osso e senza tregua, quindi si appropriò di tutto, e infine lo dissipò.17 La mediocrità del Grande balzo in avanti continuò a uccidere ancora per molti anni dopo la sua conclusione. Nel 1961, nei fiumi della provincia dello Henan fu messa assieme una enorme rete di dighe e bacini idrici progettati male e costruiti peggio; un ingegnere che si permise di criticare la progettazione e la costruzione di quel sistema idrico venne epurato come «opportunista di destra». Poi, nell’agosto del 1975, le piogge persistenti fecero straripare i due bacini principali. Mentre le acque in aumento si riversavano nel canale del fiume, crollò l’intera rete di 62 dighe. Nella sciagura trovarono la morte 85.000 persone (ufficialmente) o 230.000 (ufficiosamente).18 Il Tibet L’ex stato del Tibet era stato occupato immediatamente dopo la guerra civile cinese, nel 1950, ma la cultura indigena fu lasciata praticamente intatta fino al marzo del 1959, quando la carestia e le confische del Grande balzo in avanti scatenarono i tumulti nazionalisti nella capitale Lhasa. Le truppe cinesi che entrarono nella città per soffocare i rivoltosi ricevettero l’ordine di sradicare qualsiasi focolaio di nazionalismo tibetano. I cinesi demolirono così innumerevoli templi e distrussero sistematicamente statue, dipinti e libri. Nel giro di appena qualche anno si cancellarono interi secoli 657
di storia: dei 2500 monasteri che sorgevano in Tibet prima del 1959, due anni dopo ne restavano soltanto 70; il numero dei monaci e delle monache precipitò da 100.000 a 7000, ma soltanto 10.000 di quelli che mancavano all’appello riuscirono a mettersi in salvo all’estero. Con la repressione della resistenza perirono per mano cinese innumerevoli migliaia di tibetani:19 la popolazione del Tibet crollò dai 2,8 milioni del 1953 ai 2,5 milioni del 1964.20 La grande rivoluzione culturale proletaria Il fallimento del Grande balzo in avanti spezzò la ferrea presa di Mao sul governo, dotando i moderati di una maggiore influenza. Mao fu estromesso dalla gestione del potere reale e relegato in una posizione di facciata, puramente rappresentativa, mentre le cariche importanti furono divise tra vari moderati. Liu Shaoi divenne capo di stato e Deng Xiaoping presidente del partito. Piuttosto che accettare un pensionamento forzato, Mao decise di ricorrere all’ultima arma ancora nelle sue mani, il proprio ascendente spirituale sul popolo cinese. Se fosse riuscito a scatenare una nuova ondata di entusiasmo rivoluzionario, avrebbe potuto allontanare i moderati dal potere. Poiché i principali centri di potere si erano rivoltati contro di lui, egli contò sulla sua quarta e ultima moglie, Jiang Qing, e sulla sua cerchia di amici. Fra i più importanti c’era Lin Biao, capo dell’esercito.21 L’esordio della rivoluzione culturale fu solo un piccola prova. Nel novembre del 1965 un critico letterario stroncò uno spettacolo popolare che conteneva una palese satira di Mao sotto le spoglie di un imperatore Ming.22 Nel giro di sei mesi, i muri delle grandi città erano coperti di manifesti che denunciavano tutti i moderati di maggior spicco in Cina. Con l’apparato del partito nelle mani dei moderati, Mao fomentò i disordini tra i quadri ideologici studenteschi per spingerli a fare il lavoro sporco. Lui, invece, si mantenne distante dalle lotte. 658
La prima morte sotto tortura documentata fu quella del 5 agosto 1966. Uno sciame di studenti denunciò e aggredì la direttrice di una prestigiosa scuola femminile per le figlie di importanti esponenti di governo. La presero a calci e la calpestarono, costringendola a spostare mattoni finché non crollò e, alla fine, la picchiarono a morte con cinghie e bastoni.23 Due settimane dopo, Mao indossò di nuovo la sua uniforme militare per la prima volta dalla guerra civile e salì in cima alla porta di Tiananmen per assistere a una parata della nuova organizzazione di studenti entusiasti, le Guardie Rosse. Nel corso di quella stessa settimana, le Guardie Rosse trascinarono in una biblioteca trenta fra i più noti scrittori, musicisti e artisti del paese per ammonirli e picchiarli, mentre in un falò bruciavano libri, opere d’arte e altri prodotti della cultura. Nella sola Pechino, durante i mesi di agosto e settembre 34.000 abitazioni furono sottoposte a incursioni. Si bruciarono antichi manoscritti, si squarciarono dipinti, si fracassarono strumenti musicali; circa 1800 persone furono picchiate o torturate a morte, mentre vennero distrutti 5000 dei 7000 monumenti storici registrati della città.24 Nel corso della rivoluzione culturale le Guardie Rosse furono incoraggiate a scatenarsi, a distruggere tutte le vestigia del passato proibito, sventolando il libretto rosso delle citazioni di Mao che ognuno, in Cina, era obbligato a comprare. Chi la pensava nel modo sbagliato veniva scovato e trascinato in parata per le vie con un berretto a cono in testa. Si doveva cancellare ogni traccia dell’influsso occidentale o della tradizione confuciana;25 si picchiavano gli uomini soltanto perché possedevano delle cravatte.26 Nel gennaio del 1967, il ministro del Carbone divenne il primo alto funzionario cinese a essere torturato a morte. Venne tagliato a fette, percosso e sbattuto contro un pavimento di calcestruzzo. Il capo di stato Liu Shaoqi e sua moglie furono picchiati e torturati in pubblico, in una sala affollata da Guardie Rosse urlanti; successivamente lui fu ucciso in prigione. 659
Vennero ammazzati anche due dei loro figli. Deng Xiaoping fu spedito in un campo di lavoro. Zhou Enlai sopravvisse all’epurazione solo perché era rimasto amico della moglie di Mao, Jiang Qing, quando negli anni Cinquanta lei era caduta in disgrazia.27 Nella provincia meridionale del Guangxi, le masse fanatiche fecero a pezzi e mangiarono almeno cento nemici dello stato. Le mense aziendali esponevano i corpi appesi a ganci per carni e li utilizzavano per preparare i pasti dei lavoratori; gli studenti uccidevano, cucinavano e mangiavano i loro presidi.28 Uno studio ha ipotizzato che la maggior parte delle Guardie Rosse in preda al fanatismo era costituita dai figli di genitori appartenenti alla borghesia, vittime di epurazioni precedenti. Nessuno può dire se stessero cercando di provare la propria lealtà o solo di ottenere vendetta, probabilmente un po’ tutte e due le cose. Di regola, comunque, si trascinavano fuori dalle case intere famiglie e le si puniva per tutti i crimini che pendevano sulla loro testa. Mao iniziò a porre un freno alle forze della distruzione solo dopo il 1968. Come per molti dei suoi programmi, dopo un paio d’anni divenne chiaro che la rivoluzione culturale stava minando la vitalità stessa della Cina. Giacché durante quel periodo era stata chiusa la maggior parte delle scuole cinesi, un’intera generazione sarebbe entrata nell’età adulta priva dell’istruzione di base. Ora che le Guardie Rosse avevano annientato con successo i moderati, era tempo di smantellarle. Furono disperse nelle campagne a lavorare nelle aziende agricole e a rinvigorire la loro identità di lavoratori. Fu un’operazione di facciata ben riuscita, che servì a diluire il potere concentrato nelle mani delle Guardie Rosse. Quelli che tentarono di rimanere nascosti in città vennero stanati e ammazzati dai soldati di Lin Biao.29 Il tramonto 660
Benché Lin Biao fosse riconosciuto quale successore di Mao, all’inizio degli anni Settanta ci fu un momento in cui alcuni osservatori esterni si resero conto che non lo si vedeva da un po’. Questo avvenne quasi un anno prima che il governo cinese fornisse una spiegazione sensata e mostrasse alcune fotografie prive di alcuna utilità. A quanto pare Mao sospettava che Lin attendesse con una certa impazienza la sua morte per cause naturali. La sfiducia reciproca cresceva e, nel 1971, Lin percepì che il suo capo si accingeva a puntare nuovamente contro la destra. Progettò dunque un colpo di stato, ma il piano venne scoperto, forse dalla moglie di Mao, una radicale di spicco che si muoveva all’interno della stessa cerchia di Lin, ma che temeva di perdere i propri privilegi se suo marito fosse stato destituito. Mentre Lin tentava di fuggire in Russia, il suo aereo si schiantò prima di giungere a destinazione, uccidendo, vantaggiosamente, la sua intera famiglia e tutto il suo entourage.30 Forse si trattò di un incidente, forse no. Con la fazione radicale appannata dal tradimento di Lin, tornarono in auge i moderati di Zhou Enlai. Chi di loro era ancora in vita fu progressivamente rilasciato dai campi di lavoro, ripulito, rimesso in carne e riportato al potere. Il più importante di loro era Deng Xiaoping, che, alla fine, sarebbe diventato il leader della Cina durante la sua fase di demaoizzazione negli anni Ottanta e Novanta. La fazione radicale, ora capeggiata dalla moglie di Mao, Jiang Qing, perse il proprio primato, ma finché Mao fosse rimasto in vita poteva ritenersi al sicuro. Poco dopo la sua morte, però, tutti i suoi membri finirono in carcere e passarono alla storia come la famigerata Banda dei quattro. All’inizio degli anni Settanta ormai la vecchiaia aveva colto Mao in pieno. Durante la sua fase di demenza, si ritirò dallo sguardo dell’opinione pubblica, tanto che si dubitava della sua stessa esistenza, se non che periodicamente veniva portato in pubblico e messo in mostra davanti agli obiettivi. Il suo regime 661
andò avanti per inerzia ancora per un paio d’anni in attesa del decesso, che avvenne nel 1976. Bilancio delle vittime Finché la Repubblica Popolare Cinese non cadrà e verranno aperti gli archivi, nessuno avrà certezze, ma l’opinione condivisa è che Mao fu responsabile della morte di decine di milioni di persone. Il rapporto Walker presentato nel 1971 al Congresso degli Stati Uniti stimò che nella Repubblica Popolare furono uccise da 32 a 59,5 milioni di persone.31 Nel 1997, il Libro nero del comunismo ha calcolato 65 milioni di morti sotto il regime di Mao;32 a loro volta, in Mao: la storia sconosciuta, Jung Chang e Jon Halliday fissano il totale in 70 milioni di vittime.33 I difensori di Mao (e ne ha) preciseranno che queste tre fonti difficilmente si possono considerare imparziali, il che è vero, ma, ovviamente, molta gente ragionevole ritiene plausibile un alto numero di vittime. Sono incerti anche i bilanci delle vittime di specifiche uccisioni di massa. Le stime del numero di avversari politici uccisi durante le prime purghe successive alla presa del potere sono sparse, ma per lo più sono comprese tra 1 e 3 milioni.34 Buona parte del sovrappiù di morti verificatesi sotto il regime di Mao fu causata dalla carestia del periodo del Grande balzo in avanti. Jasper Becker cita parecchi studi che collocano il numero totale delle vittime della carestia tra i 19 e i 46 milioni, ma definisce la stima di Judith Banister, 30 milioni di individui, «la più affidabile in nostro possesso».35 Il numero di uccisioni durante la rivoluzione culturale è una pura congettura: ho rintracciato una stima di seconda mano, per lo meno, che tocca i 20 milioni.36 Tuttavia la maggior parte dei commentatori ipotizza un numero compreso tra il mezzo milione e un paio di milioni di morti.37 Semplicemente sommando il numero di morti di questi tre 662
episodi avremmo un numero di vittime plausibile che varia dai 20,5 ai 51 milioni, e molto verosimilmente attorno ai 33 milioni. Le prime purghe, il Grande balzo in avanti e la rivoluzione culturale rappresentano i tre picchi più elevati nel tasso di mortalità relativi al regime di Mao, ma quanta gente morì nell’ordinaria tirannia quotidiana del suo governo? Le ipotesi sul numero di morti nei campi di lavoro variano da 15 milioni (Harry Wu)38 a 20 milioni (Jean-Louis Margolin)39 fino a 27 milioni (Jung Chang e Jon Halliday),40 ma si basano in gran parte sulla popolazione presunta dei campi e sui presunti tassi di mortalità annuali estrapolati dai piccoli esempi aneddotici. Sono troppe le congetture perché ci si possa fare affidamento. In termini realistici, il tasso di mortalità annuale dovuto alla repressione ordinaria probabilmente non superò quello relativo agli anni davvero molto brutti delle prime purghe (1-2 milioni in quattro anni?) e della rivoluzione culturale (sempre 1-2 milioni in quattro anni?). Ciò significa che ci dovremmo aspettare molto meno di mezzo milione di persone uccise in ogni anno monotono, ossia, al massimo, altri 9 milioni di morti non collegati a quel numero compreso tra 1,5 e 5 milioni di vittime dei principali movimenti sopra elencati. In breve, la migliore congettura sarebbe 30 milioni di morti causati dalla carestia, a cui occorre forse aggiungere 3-4 milioni di persone giustiziate, massacrate, spinte al suicidio o morte in prigione durante le maggiori campagne e probabilmente il doppio per comprendere le epurazioni minori e le morti avvenute nei campi di lavoro, per un totale di circa 40 milioni.
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Guerra di Corea Bilancio delle vittime: 3 milioni di soldati e civili1 Posizione: 30 Tipologia: guerra civile di matrice ideologica Contrapposizione di massima: comunisti contro capitalisti Periodo: 1950-1953 Luogo: Corea Principale stato partecipante: Stati Uniti Principali quasi-stati partecipanti: Repubblica Democratica Popolare di Corea (Nord), Repubblica Popolare Cinese, Repubblica di Corea (Sud) e Nazioni Unite Stati secondari partecipanti: Australia, Belgio, Canada, Colombia, Etiopia, Francia, Grecia, Filippine, Paesi Bassi, Regno Unito, Unione Sovietica, Thailandia e Turchia persero soldati nella guerra A chi diamo la colpa di solito: Corea del Nord (ultimamente si è cercato di addossare parte della colpa alla Corea del Sud, ma, dato che la sostenne il mondo intero rappresentato dall’ONU, è un po’ troppo tardi per farci cambiare idea) Ennesimo esempio di: guerra di terra tra superpotenze in Asia
La divisione La seconda guerra mondiale si concluse con l’esercito sovietico in Manciuria, pronto a impadronirsi dell’intera colonia 664
giapponese della Corea; gli americani invece insistettero per un’occupazione congiunta, così i vincitori si divisero la penisola lungo il 38o parallelo in una zona sovietica e una zona americana. In ciascuna le due potenze insediarono dei fantocci compiacenti per creare una nazione a loro immagine e somiglianza. I sovietici avevano tenuto Kim Il-sung al sicuro in Siberia proprio per un’occasione del genere. Kim aveva guidato i partigiani coreani contro gli occupanti giapponesi dal 1932 al 1941, anno in cui era fuggito in Russia. Fece poi ritorno in Corea come maggiore dell’Armata Rossa, con le forze di occupazione sovietiche. Per la metà meridionale, gli americani scelsero Syngman Rhee, un coreano cristiano con un Ph.D. preso a Princeton. Per guadagnarsi una certa credibilità, ogni bravo padre fondatore postcoloniale necessita di almeno una condanna sulla propria fedina penale: per fortuna Rhee era stato incarcerato nel 1897 perché aveva guidato delle manifestazioni contro i giapponesi. Quando nel 1904 per effetto di un’amnistia generale gli fu revocato l’ergastolo, frequentò delle scuole in America e alla fine, nel 1912, venne esiliato dalla Corea per sempre. Durante l’insurrezione del 1919 contro il Giappone, fu proclamato presidente del governo coreano in esilio, ma la rivolta fallì, cosicché non arrivò mai a esercitare la propria autorità. Jeju Le elezioni nella Repubblica Coreana del Sud erano previste per il maggio del 1948. Non ci si aspettava che fossero regolari, ma che confermassero Rhee alla presidenza. Mentre la gente di destra fuggiva dal Nord comunista per riversarsi nel Sud capitalista, orientando i voti sempre più a favore di Rhee, quelli di sinistra scesero in piazza per protestare contro lo smembramento della Corea. A causa dell’agitazione, l’isola di Jeju, una roccaforte del partito laburista sudcoreano, rischiava di 665
rimanere esclusa dalle elezioni di maggio, cosa che avrebbe ulteriormente indebolito la sinistra nel Sud. Gli animi si scaldarono: a Jeju la polizia aprì il fuoco sui dimostranti, il 3 aprile i ribelli risposero con un’incursione nella locale stazione di polizia, uccidendo 50 poliziotti. L’isola cadde nel caos più profondo. Rhee inviò sull’isola soldati, polizia, paramilitari e criminali per ristabilire l’ordine con qualsiasi mezzo. Questi, a notte fonda, trascinarono via i dissidenti, bruciarono i villaggi, violentarono le donne e lasciarono i corpi insepolti sulle spiagge. Alla fine furono uccise circa 60.000 persone, un quinto degli abitanti dell’isola;2 i sopravvissuti si nascosero nelle caverne, a curare i feriti e a piangere i familiari, in preda agli incubi. Le superpotenze furono coinvolte solo in maniera marginale nelle violenze di Jeju, gli americani avevano per lo più lasciato la reazione al governo sudcoreano. Alla fine del 1948, non appena si insediarono i governi locali, i sovietici ritirarono le proprie forze di occupazione e gli americani fecero lo stesso agli inizi dell’anno seguente. In Corea del Nord, Kim Il-sung aveva sperato che l’insurrezione di Jeju si diffondesse, allontanando Rhee dal potere. Siccome questo non avvenne, i comunisti dovettero farlo con le maniere forti. L’attacco Le due Coree si scambiavano aggressioni lungo il confine fin dal 1948, ma entrambe le loro potenze patrocinanti cercavano di evitare che sfociassero in una guerra civile. Anzi, gli americani avevano evitato deliberatamente di fornire troppe armi pesanti alla Corea del Sud proprio per impedire che Rhee invadesse il Nord. Del resto né i sovietici né gli americani volevano che il conflitto definitivo per il futuro della civiltà si combattesse lì; al contrario avevano gli occhi rivolti all’Europa. 666
Kim Il-sung, tuttavia, sapeva che il momento migliore era quello. Alcuni anni di pace avrebbero soltanto stabilizzato e rafforzato la Corea del Sud. Durante una visita a Mosca implorò dunque Stalin per ottenere il suo benestare, ma il dittatore sovietico esitò: voleva l’opinione di Mao prima di acconsentire. Kim si precipitò a Pechino per dire a Mao che il papà avrebbe detto di sì se anche la mamma era d’accordo (non furono proprio queste le sue parole). Mao approvò.3 Il 25 giugno del 1950 l’attacco di 120.000 soldati nordcoreani oltre il 38o parallelo colse il mondo di sorpresa; l’esercito sudcoreano si sbriciolò e si diede alla fuga nel disordine. Inizialmente si pensò che gli americani non avrebbero considerato di vitale importanza la difesa di quella parte del mondo e che stavolta avrebbero passato il turno, ma il presidente Harry Truman stupì tutti dichiarando la propria intenzione di difendere la Corea del Sud. Si gettarono dunque nella mischia le truppe americane che occupavano il Giappone: i primi reparti furono smembrati rapidamente e ricacciati vacillanti a sud. I comandanti americani giudicavano riuscita un’azione se i loro soldati ritardavano il nemico e poi si ritiravano senza abbandonare le armi pesanti e i feriti. Ma era piuttosto raro: fermare per davvero i nordcoreani andava al di là delle loro capacità.4 Truman chiese alle Nazioni Unite di autorizzare l’intervento internazionale. Il destino volle che questo passo seguisse quasi immediatamente la guerra civile cinese (terminata nel 1949), mentre l’Unione Sovietica boicottava l’ONU per la controversia su quale governo cinese avrebbe meritato un seggio. Ciò significa che, quando l’ONU autorizzò un’azione di polizia internazionale per bloccare l’invasione nordcoreana, i sovietici non erano lì per esercitare il proprio veto. Davanti all’offensiva nordcoreana, i soldati e la polizia sudcoreani radunavano e fucilavano quanti più membri della sinistra e dissidenti potevano, anziché lasciarseli alle spalle a rafforzare e assistere gli invasori. Probabilmente ne furono 667
uccisi 1000 a Suwon, 4000 a Taejon e almeno 10.000 a Pusan.5 Poi sopraggiunsero i nordcoreani, che massacrarono i nemici di classe e gli amministratori comunali che avrebbero potuto trasformarsi nel fulcro della resistenza contro il governo comunista. Come risultato, ogni sudcoreano noto per avere delle opinioni, una formazione, beni o capacità rischiava di essere fucilato da una parte o dall’altra. Non appena presero a diffondersi le voci sulle stragi, all’avanzare del fronte scapparono fino a 2 milioni di profughi. Talvolta alle colonne di profughi civili si mischiavano gli infiltrati comunisti, che intendevano giungere di soppiatto abbastanza vicino alle truppe nemiche da far scattare un’imboscata, perciò ben presto gli americani iniziarono a impedire ai rifugiati di attraversare le loro linee. Durante la caotica ritirata verso sud, le truppe americane avvertivano i civili con raffiche di mitragliatrice: a volte sparavano in aria, a volte per terra, altre volte ancora tra la folla. I piloti dei caccia americani, che non erano in grado di distinguere un gruppo di coreani da un altro, sparavano su ogni massa di persone che individuavano. L’episodio peggiore di cui si abbia traccia ebbe luogo a No Gun Ri, dove centinaia di profughi rimasero accampati per parecchi giorni sotto un ponte appena oltre le linee americane, fin quando non arrivò l’ordine di ucciderli tutti. Gli americani mitragliarono la folla finché nessuno si mosse più. Quel giorno vennero uccisi circa 300 uomini, donne e bambini. L’esercito sudcoreano venne ricacciato fino a un’ultima linea difensiva intorno al porto di Pusan (oggi Busan), sulla punta estrema della penisola, che resistette disperatamente a tutti gli attacchi dei comunisti. Durante l’avanzata i nordcoreani avevano subito perdite cospicue, quindi non erano in grado di spingere i nemici fuori dalla loro ultima roccaforte. I comunisti arruolarono rapidamente tutti i giovani del territorio conquistato, compresi i prigionieri di guerra sudcoreani, ma l’addestramento avrebbe richiesto un po’ di tempo. 668
Il contrattacco Quando il fronte si stabilizzò intorno al perimetro di Pusan, gli esperti americani tornarono a pensare a come far risorgere lo stato della Corea del Sud. Nel settembre del 1950, le truppe americane del generale Douglas MacArthur misero in atto un assalto anfibio a Incheon, il porto di Seul; in tal modo si trovarono alle spalle l’esercito nordcoreano e a un passo dalla sua linea di rifornimento. Non appena anche le forze dell’ONU attaccarono all’esterno di Pusan, i comunisti si precipitarono indietro nel panico, abbandonando decine di migliaia di prigionieri. Gli americani inseguirono i rimanenti e li ricacciarono oltre il 38o parallelo. La guerra sarebbe potuta finire lì, quattro mesi dopo il suo inizio, ma i servizi segreti riferirono che 30.000 soldati nordcoreani erano scampati alla disfatta nel sud e che erano quasi pronte per essere schierate altre 30.000 reclute.6 Allora MacArthur volle procedere oltre il 38o parallelo e annientare una volta per tutte l’esercito nordcoreano; assicurò al presidente Truman che non sarebbe stato un problema liberare la Corea del Nord dalle grinfie dei comunisti. Con il cauto permesso di Truman, MacArthur inseguì l’esercito in ritirata oltre il vecchio confine, fino alla capitale del nord Pyongyang, e poi fino al fiume Yalu, che separa la Corea dalla Cina. Nella riconquista di Seul, i sudcoreani e gli americani scoprirono molti cadaveri – prigionieri di guerra, studenti, poliziotti, funzionari, uomini d’affari, insegnanti – allineati nelle fosse con le mani legate dietro la schiena con del filo spinato. Simili scoperte accompagnarono la rioccupazione di quasi ogni comune sudcoreano, ma non sappiamo ancora con certezza a chi vadano addossate le maggiori responsabilità. I soldati del Sud in ritirata potrebbero avere ucciso circa 100.000 prigionieri politici di sinistra, mentre, secondo il governo della Corea del Sud, quelli del Nord avrebbero ucciso 26.000 nemici di classe (e una sua stima successiva calcolò addirittura un numero di 129.000) 669
per spianare la strada al governo comunista.7 La città di Taejon, per esempio, subì un doppio massacro, quello di luglio, per mano dei sudcoreani, e quello di settembre, operato dai nordcoreani. Nei due episodi restarono uccisi circa 5000-7500 civili, ma gli Stati Uniti addebitarono tutti gli assassinii al Nord, mentre il Nord, ovviamente, incolpò il Sud. Indipendentemente da chi abbia ammazzato la maggior parte dei civili, i quarantadue prigionieri di guerra americani trovati legati e fucilati a Taejon furono sicuramente opera dei nordcoreani. La ritirata dei comunisti si andò a sommare alla sventura dei prigionieri catturati: di solito, infatti, i nordcoreani uccidevano i prigionieri stranieri a meno che non potessero sfruttarli per propaganda. Nell’ottobre del 1950, quando la caduta di Pyongyang era ormai imminente, i nordcoreani stiparono i loro prigionieri americani sui treni diretti a nord. A decine morirono di freddo e di fame durante quel trasferimento di cinque giorni, e altri sessantotto furono trascinati fuori dal treno e fucilati sotto il tunnel di Sunchon, nell’estremo nord. In sostanza, ogni otto americani fatti prigionieri durante la guerra tre morirono nelle mani dei comunisti.8 Le truppe sudcoreane cominciarono subito a uccidere i sospetti collaborazionisti nei territori appena rioccupati. Sebbene l’alto comando americano di solito ignorasse tali azioni, gli inglesi alla fine intervennero. «Il 7 dicembre, nella Corea del Nord occupata, gli ufficiali britannici salvarono 21 civili già schierati in fila per la fucilazione, minacciando di sparare all’ufficiale sudcoreano responsabile. Successivamente, nello stesso mese, per impedire ulteriori stragi le truppe britanniche occuparono la ‘Collina delle esecuzioni’, nei dintorni di Seul».9 Il contro-contrattacco Un esercito americano che premeva contro il confine preoccupava i comunisti cinesi. Mao sapeva della volontà 670
dell’Occidente di attraversare il fiume Yalu e occuparsi della Cina già che si trovava in zona, così iniziò a mandare truppe in Corea per infoltire i resti dell’esercito nordcoreano. Le prime ondate di soldati erano composte da giovani volontari fanatici che nel corso della propria vita non avevano mai conosciuto altro se non la guerra. Erano cresciuti in quelle enclave comuniste che Mao aveva difeso dai giapponesi e avevano strappato il controllo della Cina a Chiang Kai-shek.10 In una sola settimana, 100.000 veterani cinesi dell’Esercito Popolare di Liberazione riuscirono a sgattaiolare oltre il confine, senza farsi scoprire dai servizi segreti occidentali. Il primo sintomo di cambiamento della guerra si manifestò quando le avanguardie americane e sudcoreane furono sopraffatte e costrette alla fuga in preda al panico da soldati freschi, che indossavano strane uniformi imbottite. Poi, tra i prigionieri nordcoreani cominciarono a spuntare alcuni di questi soldati: parlavano una strana lingua tonale che confondeva e preoccupava coloro che per primi li interrogarono. Ben presto, le truppe cinesi si concentrarono a sufficienza per contrattaccare in forze, respingendo gli americani di nuovo verso sud.11 Le forze dell’ONU che si trovavano più a nord ripiegarono verso la costa orientale per l’evacuazione via mare, mentre quelle restanti si misero in marcia verso sud. Gli aggressori cinesi erano implacabili e numerosissimi. Il freddo intenso devastava le dita di mani e piedi dei soldati e congelava il sangue delle ferite. Alla fine di novembre, il bacino idrico di Chosin e lo sciame di soldati nemici bloccarono la ritirata americana nell’estremo nord e al centro della penisola. Ventimila marines americani dovettero sottostare al fuoco di 200.000 cinesi, tuttavia i primi mesi di combattimento avevano insegnato agli americani come uscire da una brutta situazione. Lottando con i denti, gli americani si aprirono la strada oltre la sacca e fuggirono a sud, in buon ordine e praticamente integri, se non nel fisico, quanto meno nel morale. I comandanti americani sul campo tentarono di fissare la 671
linea del fronte nei pressi del vecchio confine sul 38o parallelo, ma i rinforzi necessari erano stati bloccati. Washington temeva che l’intervento cinese in Corea rappresentasse solo la prima fase di un’aggressione comunista globale, con tutti i mezzi a disposizione. Sebbene gli Stati Uniti stessero ampliando in fretta e furia la propria forza militare con il richiamo alle armi delle riserve e con l’estensione della leva, si tenevano le nuove reclute in attesa, nell’eventualità di un’invasione sovietica della Germania, della Turchia o dell’Iran, anziché inviarle in Corea.* Washington prese addirittura in considerazione la proposta di MacArthur, cioè scatenare la guerra direttamente contro la Cina con un blocco navale, degli attacchi aerei e un’offensiva da Taiwan da parte dell’esercito nazionalista. Dopo lunga discussione, l’idea fu abbandonata. Sicuramente il presidente Truman non intendeva alimentare una guerra che gli americani stavano già perdendo. Purtroppo MacArthur continuò a sostenere questo piano in pubblico, compromettendo così lo sforzo, da parte di Truman, di risolvere rapidamente e favorevolmente la guerra per via diplomatica. La guerra verbale montò a tal punto che, alla fine, Truman destituì MacArthur. Nel frattempo, la notte di San Silvestro, un attacco comunista oltrepassò il vecchio confine e Seul cadde di nuovo. Gli americani decisero segretamente di abbandonare del tutto la penisola se si fossero ritrovati ancora una volta con le spalle al muro a Pusan. Alla fine, dopo aver occupato la metà della Corea del Sud, i comunisti si spinsero troppo oltre la propria linea di rifornimento e s’impantanarono. Ben presto le pattuglie americane scoprirono quanto fosse disorganizzato il nemico, e lo contrattaccarono infliggendo grosse perdite.12 La situazione di stallo Il contro-contro-contrattacco americano spinse il fronte nuovamente lungo il 38o parallelo e, poi ancora oltre, finché i comunisti non si risollevarono, si fermarono, fecero i loro piani 672
e contro-contro-contro-contrattaccarono. La linea del fronte si assestò infine nuovamente nei pressi del vecchio confine. Nel corso di un intero anno di scontri, il fronte era rimbalzato da una parte all’altra della Corea, andando su e giù come un tergicristallo; una volta si era persino spostato sul territorio della penisola da Pusan al fiume Yalu, quindi non c’è da stupirsi degli orrendi danni collaterali. Nessuno lo saprà mai con sicurezza, ma nella guerra trovarono la morte all’incirca 2 milioni di civili, più a causa delle sofferenze generalizzate che per premeditazione. Ci vollero diversi mesi di piccole battaglie prima che gli americani mettessero a punto, definitivamente a proprio favore, la nuova linea del fronte, nome in codice Kansas-Wyoming. Si trattò soprattutto di togliere le alture ai comunisti trincerati. L’ultima collocazione della linea Kansas-Wyoming venne fissata nel giugno del 1951, dopodiché, con i sudcoreani che mantenevano il vantaggio tattico lungo tutta la linea, le forze dell’ONU non fecero altro che schierarsi in attesa che la diplomazia facesse il resto.13 Le trattative di pace furono intralciate dalla questione della restituzione dei prigionieri di guerra. L’Occidente non voleva che si ripetesse quanto era accaduto alla fine della seconda guerra mondiale, quando si erano rimpatriati a forza i recalcitranti prigionieri sovietici in mano ai tedeschi, puniti poi da Stalin come traditori. Si scoprì che molti prigionieri di guerra trattenuti nella Corea del Sud erano coscritti che non volevano tornare nelle mani dei comunisti: il più delle volte i soldati nordcoreani erano sudcoreani catturati dai comunisti durante l’occupazione del nord e, spesso, a loro volta i soldati cinesi erano nazionalisti catturati da Mao durante la guerra civile cinese, ora costretti a combattere per la Repubblica Popolare.14 Le Nazioni Unite insistettero per offrire a ogni prigioniero la possibilità di restare, così quasi la metà dei nordcoreani prigionieri, alla fine, decise di rimanere al Sud.15 I nordcoreani temporeggiarono come meglio poterono, ma 673
dopo due anni di discussioni accettarono il fatto che nulla sarebbe cambiato. Le ostilità cessarono del tutto il 27 luglio del 1953, anche se, tecnicamente, la guerra era soltanto temporaneamente sospesa e non conclusa. Non è mai stato firmato alcun trattato di pace.
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Corea del Nord Bilancio delle vittime: 3 milioni1 Posizione: 30 Tipologia: dittatura comunista Contrapposizione di massima: lo stato contro l’individuo Periodo: dal 1948 Luogo e principale stato partecipante: Repubblica Democratica di Corea A chi diamo la colpa di solito: Kim Il-sung, Kim Jong-il Ennesimo esempio di: folle repubblica popolare
Il Grande Leader A volte l’umanità passa davvero una giornataccia, come il 15 aprile del 1912. Quel giorno il transatlantico Titanic, colpito a morte, affondò nelle acque gelide dell’Atlantico settentrionale, uccidendo 1500 passeggeri. Nel frattempo, a mezzo globo di distanza, in Corea, nasceva Kim Il-sung. Dei due eventi, il secondo fu probabilmente il peggiore. Nato come Kim Sung-ju, egli assunse il nome di battaglia di Kim Il-sung da un leggendario combattente per la libertà della Corea. Kim era uno dei pochi superstiti di un esercito di guerriglieri antigiapponesi che nel 1941 erano stati sconfitti e cacciati in Unione Sovietica. Dopo la seconda guerra mondiale, i conquistatori sovietici misero Kim Il-sung a capo della metà settentrionale dell’ex colonia giapponese (vedi Guerra di Corea). Kim era conosciuto al suo popolo semplicemente come «Grande Leader» ed è tuttora ovunque nella Corea del Nord. 675
Osserva dai murali delle stazioni della metropolitana, degli edifici governativi e a ogni angolo di strada; le sue frasi celebri, tanto profonde quanto banali, sono incise su placche d’ottone o stampate sui manifesti. Una statua di Kim che supera i diciotto metri torreggia sulla piazza del Museo delle Rivoluzioni e, passandoci davanti, i bambini si inchinano cantando «Grazie, padre».2 Kim Il-sung diede inizio alla pratica che impone a ogni nordcoreano sopra i ventuno anni di indossare un distintivo con il suo volto stampato sopra. Alla fine c’erano venti tipi differenti di distintivi, ciascuno che denotava lo status sociale di chi lo portava. I coreani impararono presto a riconoscere i distintivi importanti e a comportarsi di conseguenza ogni volta che incontravano uno sconosciuto. A tempo debito, entrò in uso anche una serie di distintivi che riportavano il volto di suo figlio, Kim Jong-il.3 Il regno eremita Di ciò che è successo in Corea del Nord negli ultimi cinquanta anni sappiamo pochissimo. Nel 2003, in un paese di 23 milioni di abitanti, c’erano soltanto trecento stranieri.4 Si stima che il paese, in qualunque momento della sua storia, abbia sempre avuto 150.000-200.000 detenuti, ma fino a pochissimo tempo fa solo un pugno di essi riuscì a fuggire dal paese e a raccontare le proprie vicende alla stampa occidentale. Questa è la sorte di chi non ci riesce: «I poliziotti che recuperano i fuggitivi introducono nelle guance e nel naso di quei traditori della nazione, che hanno osato abbandonare la madre patria, un filo di ferro. Una volta riportati a casa, li aspetta l’esecuzione. E le loro famiglie vengono mandate in un campo di lavoro».5 I nordcoreani possono essere sbattuti in prigione per l’offesa più banale, come per esempio sedere su una foto del presidente in un giornale, scherzare sul suo fisico minuto o canticchiare un motivetto pop sudcoreano che potrebbero aver udito da un 676
amico. Di solito per i crimini di un singolo membro viene punita l’intera famiglia: si arrestano i genitori perché hanno un figlio ribelle, si portano via le sorelle se un fratello che non vedono da anni viene dichiarato nemico dello stato. Un cittadino modello ben introdotto potrebbe essere incarcerato all’improvviso, se un’indagine nei vecchi archivi dovesse rivelare che molti decenni prima suo padre ha commesso un delitto politico. La società comunista senza classi è divisa in tre grandi classi: centrale, indecisa e ostile, a seconda delle credenziali comuniste dei loro progenitori. Ai fortunati discendenti di un combattente per la libertà del periodo giapponese potrebbero essere garantiti tutti i privilegi derivati dall’appartenenza alla classe dei centrali, mentre i discendenti di banchieri, proprietari terrieri o coreani del sud sono tenuti alla larga dai lavori decenti e dalla capitale, come scarti della classe degli ostili. Quasi un quarto dei nordcoreani è stigmatizzato come membro della classe ostile, basta un solo passo falso e finiscono nei campi di lavoro. La maggior parte dei nordcoreani, comunque, resta sullo sfondo tra gli indecisi, senza i privilegi né l’infamia delle due classi più importanti.6 Il lavoro dei prigionieri politici come schiavi è diventato un elemento fondamentale dell’economia: tagliano il legname, scavano le miniere e fabbricano le merci per l’esportazione e per il consumo interno. In cambio ottengono una razione quotidiana che consiste forse in una manciata di farina di granoturco, qualche foglia di cavolo e un po’ di sale. In quanto stato comunista, la Corea del Nord vieta la pratica della religione, ma a colmare la lacuna c’è la filosofia dello juche, spirito di autorealizzazione. In teoria, lo juche è una sorta di umanesimo marxista che afferma che l’uomo è padrone del proprio destino; in pratica, significa mettere la Corea al primo posto. I coreani possono autorealizzarsi a livello individuale non infastidendo lo stato con richieste di favori, oppure in maniera collettiva, tenendo la Corea lontana dall’influenza straniera. Come un figlio di genitori divorziati che osserva il padre e la 677
madre comportarsi in modo strano, Kim fu turbato dalla morte di Stalin nel 1953 e dalla successiva spaccatura sino-sovietica. Dato che non poteva più contare sui suoi giganteschi genitori co-comunisti per salvaguardare i propri interessi, nel 1955 adottò lo juche per aiutare la Corea del Nord a cavarsela da sola. I rapporti con l’esterno L’espressione «stato sponsor del terrorismo» ha perso molta della sua efficacia a causa di un uso eccessivo, ma la Corea del Nord è davvero uno stato che finanzia il terrorismo. L’uccisione degli odiati stranieri si pianifica ai livelli più alti e viene eseguita da professionisti addestrati. Le grandi potenze, naturalmente, hanno sempre abusato del proprio potere, intromettendosi negli affari interni delle nazioni minori, ma provocare in maniera sfacciata il resto del mondo, sfidandolo a reagire, è un atteggiamento meno comune per una nullità di paese come la Corea del Nord. Nel 1974, la Corea del Nord tentò di assassinare il dittatore sudcoreano Park Chung Hee, ma i sicari ne ammazzarono invece la moglie. Nel 1983, un nucleo operativo nordcoreano fece esplodere una bomba a una conferenza a Rangoon, in Birmania, per eliminare un altro presidente della Corea del Sud; uccisero diciassette alti funzionari dell’entourage del presidente, tra cui quattro funzionari del governo, ma mancarono il presidente. Nel 1987, un’altra bomba piazzata da agenti nordcoreani fece scoppiare un aereo di linea sudcoreano, uccidendo tutti i 115 passeggeri. Nel corso degli anni, la Corea del Nord ha rapito a casaccio centinaia di cittadini comuni sudcoreani e giapponesi, che sono detenuti al nord, costretti a insegnare le sottigliezze della cultura pop alle spie nordcoreane, in modo che queste possano mimetizzarsi nel mondo esterno. Dato che punire la Corea del Nord avrebbe solo innescato nuovamente la guerra di Corea, il mondo non ebbe molta scelta, se non quella di ignorare tali provocazioni. Juche significa 678
anche che la Corea del Nord ha poche importazioni o esportazioni che si possano interrompere, inoltre è il paese più militarizzato del mondo, con un milione di uomini armati. Qualsiasi attacco punitivo probabilmente fallirebbe e provocherebbe un furioso contrattacco con orde urlanti di comunisti che si riversano come uno sciame sul loro vicino meridionale. Il Caro Leader Quando nel 1994 Kim padre morì, il suo titolo divenne quello di «Grande Leader Eterno», il che rende la Corea del Nord il solo stato della terra con un cadavere per presidente. L’attività quotidiana del governo, tuttavia, passò nelle mani del figlio, Kim Jong-il, il «Caro Leader». Kim Jong-il probabilmente è venuto alla luce nel 1943, in Unione Sovietica, durante l’esilio di suo padre, ma la storia ufficiale racconta che è nato in un campo segreto di ribelli, sulle montagne sacre della Corea, accompagnato da presagi gloriosi. Secondo una biografia ufficiale, «al momento della sua nascita, ci furono lampi e tuoni, l’iceberg nello stagno sul monte Paektu emise un suono misterioso spaccandosi e dalla fenditura scaturì un doppio arcobaleno luminoso».7 Nel 1992 si anticipò di un anno la nascita ufficiale di Kim Jong-il, in modo che la Corea del Nord potesse celebrare in uno stesso festeggiamento nazionale sia il cinquantesimo compleanno del figlio sia l’ottantesimo del padre. Più Kim Jong-il cresceva, più morivano uno dopo l’altro i suoi familiari. Quando aveva cinque anni, il fratello minore Shura annegò mentre giocavano insieme in uno stagno, la madre morì di parto un anno dopo, con il bimbo che portava in grembo. Jong-il aveva anche una sorella, Kim Pyong-il, ma non se ne conosce la storia.8 Per certi versi mi ricorda la vita familiare di iene, cuculi e altri animali sgradevoli, in cui i cuccioli più forti uccidono i propri fratelli rivali nel nido; non 679
che lo si possa dire con certezza, ovviamente. Dal momento che l’ideologia comunista favorisce la meritocrazia rispetto alla monarchia, era arduo giustificare il passaggio del trono da padre a figlio. Per questo Kim figlio è stato introdotto gradualmente nel governo, attraverso una serie di posizioni crescenti, ma quel che vuole fare davvero è dirigere. Avido cinefilo, Kim possiede una collezione vastissima di migliaia di film. Ha fatto addirittura rapire dai propri agenti un’attrice sudcoreana di rilievo e il marito regista in modo che potessero produrre film meravigliosi solo per lui. All’inizio, all’indomani della dipartita del Grande Leader si nutrì qualche speranza di miglioramento delle condizioni: Kim Jong-il aveva una reputazione di uomo insignificante e di playboy. Con un po’ di fortuna, si sarebbe rivelato corruttibile e sarebbe diventato un dittatore comune, più interessato a costruirsi un harem che a imporre un’ideologia spietata. Un’altra ipotesi era che i militari lo rovesciassero, cosa che costituiva un punto interrogativo, ma che lasciava aperta la possibilità che il nuovo capo si rivelasse più duttile rispetto al vecchio e allentasse la repressione totalitaria.9Nessuno previde quello che poi è accaduto realmente, ossia che il nuovo Kim sarebbe rimasto saldo al potere e che si sarebbe trasformato in un clone di suo padre. Sul lastrico Nella divisione originaria, il nord urbanizzato si accaparrò la maggior parte delle miniere, delle dighe e delle fabbriche, mentre il sud rurale ottenne soprattutto i raccolti e il bestiame. In effetti, fino agli anni Settanta, l’economia industriale della Corea del Nord mantenne un reddito pro capite più alto rispetto a quello prodotto dall’economia contadina della Corea del Sud. Poi, nel corso della generazione successiva, l’economia sudcoreana decollò, producendo automobili di livello internazionale e componenti elettronici, e in tal modo oltrepassò quindi la soglia 680
tra il terzo mondo e il primo, mentre l’economia nordcoreana ristagnava nell’era del cemento e delle ciminiere. Il divario si ampliò quando, tra il 1989 e il 1992, i regimi comunisti crollarono ovunque: priva dell’appoggio di partner commerciali comunisti come la Russia, negli anni Novanta l’economia nordcoreana subì una contrazione fino a dimezzarsi. Tuttavia il governo di Pyongyang compie sforzi straordinari per mantenere il popolo nell’ignoranza riguardo a quanto vanno davvero male le cose. Gli si racconta che al di fuori del paese la situazione è ancora peggiore e che i nordcoreani sono fortunati a vivere in una terra in cui il Caro Leader si prenderà cura di loro. Per tenere in piedi questa messinscena, alla gente non è permesso avere alcun contatto con gli stranieri. I selettori delle radio sono fissati in modo che si possano ricevere soltanto stazioni nordcoreane, tutti gli ospiti stranieri consegnano i propri telefoni cellulari al confine e devono avere sempre una scorta composta da due coreani.10 L’agricoltura nordcoreana è stata pesantemente industrializzata e sovvenzionata. Per decenni aveva prodotto adeguate derrate alimentari, però trattori e mietitrebbia erano alimentati con carburante economico proveniente dall’Unione Sovietica. E quando i nuovi capitalisti della Federazione Russa iniziarono a stabilire i prezzi in base al libero mercato, e non all’ideologia, l’agricoltura nordcoreana si arrestò. Bastò un periodo di maltempo (piogge persistenti nel 1994) per trasformare le difficoltà generali in una carestia micidiale che nel corso degli anni successivi decimò la popolazione.11 Alla fine, la Cina si fece carico di sovvenzionare la Corea del Nord, e la carestia si attenuò. La Corea del Nord iniziò a rincorrere l’obiettivo di possedere armi nucleari a metà degli anni Cinquanta, ma era troppo indietro per progredire tanto rapidamente; tuttavia, la tenacia ripagò e all’inizio degli anni Novanta i nordcoreani erano prossimi al successo. Di fronte alla prospettiva di un’altra folle potenza nucleare nel mondo, nel 1994 il presidente americano 681
Bill Clinton comprò Kim: in cambio dell’interruzione delle attività nucleari, si diede il via alle importazioni essenziali di prodotti alimentari e combustibile. La crisi si dissolse e il mondo tirò un sospiro di sollievo fino al 2002, quando il successivo presidente americano, George Bush (il giovane), scelse una linea più dura e tagliò tutte queste sovvenzioni. Kim recuperò immediatamente le proprie ambizioni nucleari, Washington a sua volta ritenne che la Corea del Nord stesse bluffando o esagerando, perciò ignorò quasi del tutto la minaccia. Dopo alcuni anni di insistenza sul fatto che stavano per compierli – niente più scherzi, stavolta si faceva sul serio – nel 2006 la Corea del Nord sperimentò qualcosa che fece un gran botto, probabilmente un’arma nucleare, benché le prove siano controverse. Nel 2009 si è verificata un’esplosione più convincente.
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Il capitolo nero del comunismo Non fidatevi mai di chi si esprime contro il comunismo sulla base della teoria. Ci troviamo di fronte a uno dei più grandi esperimenti sociali della storia fallito in maniera plateale, eppure, invece di usare la prova scientifica più lampante, ossia che abbiamo provato a mettere in pratica il comunismo e che non funziona, qualcuno preferisce prendere la strada più lunga e discutere di diritti e teorie sulla proprietà privata. Ovviamente, costoro non si preoccupano del successo o del fallimento del comunismo; è la teoria a interessarli e ne avrebbero un’opinione negativa anche se avesse funzionato perfettamente. Dunque è morto. E allora? Anche i dinosauri e Roma sono morti, ma il loro successo è durato ben più a lungo della maggior parte delle specie e delle istituzioni. Il comunismo è sopravvissuto più a lungo del fascismo, del jazz, di John Wayne, di Bonanza e della American Motors Corporation. Purtroppo, il problema del comunismo non sta nel semplice fatto che non è durato per sempre. Il problema maggiore è che ogni regime comunista della storia ha ucciso una grandissima parte della propria popolazione. Se la storia avesse assistito solo a uno o due cattivi esempi di repubblica popolare tra altri perfettamente rispettabili, allora potrei accettare l’idea che alcune mele marce hanno regalato all’intero movimento una pessima reputazione, ma siccome morte e distruzione hanno caratterizzato ogni singolo regime comunista mai instaurato, sembrerebbe esserci una falla da qualche parte nel sistema.1* In linea di massima, sono cinque le ondate di massacri che caratterizzano un regime comunista. 1. Si cominciava con una guerra civile durante la quale i ribelli marxisti strappavano il controllo dalle mani di un regime brutale e autoritario. Durante questa prima fase di cambiamento di 683
regime, di solito i comunisti erano preferibili allo stato di cose esistente: diffondevano l’istruzione, condividevano la proprietà, fornivano cure mediche gratuite, applicavano una giustizia reale ed equa nell’arbitrio delle controversie. Per contro, i dittatori che cercavano di rovesciare saccheggiavano, violentavano e svendevano la giustizia al miglior offerente. Vale la pena notare che il comunismo, a differenza del fascismo, della rigorosa shari’a e di altre forme di oppressione, non ha mai preso il posto di una libera democrazia. Il voto sembra rendere immune una società dal comunismo. Guerra civile russa (1918-1922): 9.000.000 morti Guerra civile cinese (1927-1949): 7.000.000 Guerra del Vietnam (1960-1975): 3.500.000 in Vietnam Jugoslavia (parte della seconda guerra mondiale, 19401945): 1.400.000 Guerra civile cambogiana (1970-1975): 600.000 Nicaragua (1972-1979): 30.000 Cuba (1955-1959): 5000 Totale approssimativo: 21 milioni 2. Dopo la vittoria comunista, i nuovi capi giustiziavano la base di potere del vecchio regime. Cina (1950-1953): 2.000.000 Cambogia (1975): 400.000 con esecuzioni dirette1 Jugoslavia (1945): 175.0002 Russia (1918-1922): 100.000 esecuzioni durante la guerra civile russa Vietnam (dopo il 1975): 65.000 Mongolia (1936-1938): 35.000 Polonia: 30.0003 Bulgaria: 20.0004 Cuba (1959-1960): 50005 Totale approssimativo: 3 milioni 3. Alla fine, a questo seguiva la ridistribuzione della terra, il trasferimento della popolazione e una riorganizzazione dell’economia che, solitamente, si rivelavano grandi errori e 684
portavano le masse a morire di fame. Cina (Grande balzo in avanti, 1959-1962): 30.000.000 di morti per la carestia Unione Sovietica (1932-1933): 7.000.000 Corea (1995-1998): 2.000.000 Etiopia: 1.000.000 Cambogia (1975-1979): 800.0006 Totale approssimativo: 41 milioni 4. In seguito, il partito comunista si rivoltava contro sé stesso, epurava i moderati e concentrava il potere nelle mani di un singolo dittatore. Russia (Grandi purghe, 1934-1938): 7.000.000 Cina (rivoluzione culturale, 1966-1969): 1.000.000 Corea del Nord (purghe intermittenti): 100.0007 Etiopia (Terrore rosso): 80.000 Totale approssimativo: 8 milioni 5. Quando i regimi comunisti salirono al potere in diversi paesi, soprattutto negli anni Settanta, la situazione si ribaltò e il mondo fu testimone di una serie di insurrezioni anticomuniste che, venti anni prima, sarebbero state considerate un ossimoro. Afghanistan (1979-1989): 1.500.000 Mozambico (1975-1992): 800.000 Angola (1975-2002): 600.000 Nicaragua (1981-1990): 30.000 Ungheria (1956): 5000 Totale approssimativo: 3 milioni Dopo che le purghe avevano fatto il proprio corso ed era ormai scomparsa la prima generazione di ideologi, il regime comunista medio si trasformava in burocrazia indolente e corrotta, che mollava lentamente la propria presa sulla popolazione e alla fine cedeva il potere senza alcuna lotta. Non tutti i regimi comunisti attraversarono queste cinque fasi. Alcuni ebbero percorsi più semplici e altri più complicati. Sullo sfondo di ogni regime, inoltre, troviamo una presenza costante di morti nei campi di lavoro e nelle prigioni. Per chi preferisce i 685
totali suddivisi per paese, qui di seguito riporto alcune ragionevoli stime del numero di vittime dei regimi comunisti dovute a esecuzioni, campi di lavoro, carestie, pulizia etnica e fughe disperate su barconi sgangherati: Cina: 40.000.000 Unione Sovietica: 20.000.000 Corea del Nord: 3.000.000 Etiopia: 2.000.000 Cambogia: 1.700.000 Vietnam: 365.000 (dopo il 1975) Jugoslavia: 175.000 Germania Orientale: 100.0008 Romania: 100.0009 Vietnam del Nord: 50.000 (all’interno, 1954-1975) Cuba: 50.000 Mongolia: 35.00010 Polonia: 30.000 Bulgaria: 20.000 Cecoslovacchia: 11.00011 Albania: 500012 Ungheria: 5000 Totale approssimativo: 70 milioni (Questo totale approssimativo non include i 20 milioni di individui uccisi nelle guerre civili che condussero i comunisti al potere o gli 11 milioni di morti nelle guerre per procura della guerra fredda. Probabilmente, in una certa misura ne hanno colpa entrambe le parti. Dato che queste due categorie si sovrappongono, una volta eliminati i doppioni, sembra che nelle guerre di ispirazione comunista abbiano trovato la morte circa 26 milioni di persone). Considerando che l’ammontare totale delle vittime del comunismo supera forse quello della seconda guerra mondiale, potreste domandarvi perché non abbia inserito il comunismo al numero 1 della mia lista di eventi orribili. Principalmente perché considero ogni regime come evento a sé stante e l’intero movimento comunista è troppo vasto per essere 686
contato come caso unico. Se accorpassi tutti i regimi comunisti per creare un nuovo numero 1, dovrei tralasciare i miei vari capitoli su Mao, su Stalin, su Pol Pot e su Kim Il-sung. La fine In contrasto con gli abissali fallimenti nell’agricoltura, il comunismo ha riscosso un generale successo nel campo dell’industria pesante. Nell’epoca delle grandi economie industriali, quando il mondo moderno ruotava intorno a giganteschi progetti come dighe, centrali elettriche, miniere di carbone e acciaierie, i comunisti riuscirono facilmente a mobilitare forza lavoro e risorse sufficienti per mettersi alla pari con i ricchi paesi occidentali. In tal modo la popolazione urbanizzata abbastanza fortunata da sopravvivere alle purghe e alle carestie assistette a un costante miglioramento del tenore e dell’aspettativa di vita.13 Tuttavia, una volta prodotto il necessario, le economie a pianificazione centralizzata si rivelarono troppo rigide per prevedere e soddisfare la mutevole domanda di beni di consumo. Ne derivarono spreco di eccedenze, qualità scadente e penuria. La penuria costante implicava che solo chi aveva degli agganci era in grado di acquistare beni e servizi, il che alimentò rancore e cinismo in un sistema che avrebbe dovuto basarsi sull’idealismo e la solidarietà. Il crollo del comunismo fu ritardato di quasi un decennio perché, dopo l’aumento vertiginoso dei prezzi del greggio degli anni Settanta, le esportazioni di petrolio sovietico pomparono nell’economia russa denaro liquido proveniente dall’Occidente, ma alla fine non bastò neppure quello. Non appena i riformatori consentirono alla gente di scegliere il sistema che preferiva, nessuno optò per il mantenimento dello status quo.14
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Guerra d’indipendenza algerina Bilancio delle vittime: 525.000 Posizione: 69 Tipologia: rivolta coloniale Contrapposizione di massima: francesi contro arabi Periodo: 1954-1962 Luogo: Algeria Principale stato partecipante: Francia Principali entità non statali partecipanti: Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), Organizzazione Armata Segreta (OAS) A chi diamo la colpa di solito: Francia
Scenario Nel tempo, le colonie europee d’oltremare rientrarono in due categorie: o la popolazione nativa fu adeguatamente spazzata via e sostituita dagli europei (Australia e Nuova Zelanda) oppure gli insediamenti europei non attecchirono mai per davvero (Nigeria e Birmania). Quando giunse il momento, fu facile liberare le colonie del primo tipo, perché gli abitanti erano come quelli della madrepatria, perciò gli si poteva affidare l’autogoverno. Altrettanto facile fu liberare quelle del secondo tipo, in quanto gli abitanti erano completamente diversi, e a nessuno importava più di tanto cosa gli sarebbe successo. L’Algeria apparteneva a una terza categoria scomoda. Gli europei che vi si erano insediati erano sufficienti per poter pensare di proseguire la dominazione francese, ma non abbastanza per renderla particolarmente probabile. C’erano 1 688
milione di occidentali con tutti i diritti civili su una popolazione di 9 milioni di arabi e berberi che non ne avevano nessuno. I coloni europei, i pieds-noirs, godevano di una vita migliore sotto ogni aspetto: le loro ricchezze erano in media dieci volte superiori a quelle dei locali ed erano tassati soltanto della metà rispetto ai loro compatrioti in Francia. La manodopera era poco costosa e le città sulla costa mediterranea erano civilizzate e raffinate esattamente quanto il resto della Francia. L’insurrezione Nel dicembre del 1954 i ribelli algerini del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) attaccarono obiettivi dell’esercito e della polizia in tutta la colonia. L’insurrezione si intensificò e assunse rapidamente aspetti brutali. Nell’agosto del 1955, infatti, facendo a pezzi 123 civili francesi nel villaggio di Philippeville l’FLN inaugurò una nuova tattica, cioè l’uccisione di coloni francesi e di musulmani voltagabbana anziché di soldati. I soldati francesi infuriati reagirono immediatamente sparando in maniera indiscriminata a tutti gli arabi che trovavano nelle vicinanze. Durante le vicendevoli atrocità che esplosero, i ribelli torturavano e mutilavano regolarmente tutti i soldati o i coloni francesi che catturavano, e spesso ne abbandonavano il corpo con i genitali mozzati nella bocca. In particolare l’FLN prese di mira i poliziotti e i loro familiari, circostanza che compromise la capacità, da parte dei francesi, di mantenere l’ordine. Per tutta risposta i francesi reclutarono 150.000 harkis, truppe locali irregolari che combattevano con la stessa brutalità dell’FLN. Dopo qualche anno di terrore nelle campagne, l’FLN si spostò nelle città. Nel 1957 gli algerini scatenarono dunque una serie di attentati in tutta la città di Algeri, a cui i francesi risposero con l’abbandono di ogni restrizione e procedura legale, con l’istituzione di posti di controllo e del coprifuoco e con l’incarcerazione di ogni individuo sospetto. Dopo aver estorto le 689
confessioni, si giustiziava sommariamente chi era più sacrificabile: nel corso della battaglia di Algeri nel periodo di detenzione scomparvero 3000 arabi.1 Tra il 1957 e il 1960 il governo francese reinsediò 2 milioni di algerini delle zone rurali all’interno di campi fortificati, in modo da isolare i ribelli dal sostegno popolare di cui godevano. Per interrompere i rifornimenti e l’appoggio che i ribelli ricevevano dal mondo esterno, minarono e rafforzarono con recinzioni i confini con la Tunisia e il Marocco. In origine i soldati che combattevano dalla parte dei francesi appartenevano per lo più a unità di duri professionisti, come la Legione Straniera o i paracadutisti, che non si tiravano indietro davanti a qualche tortura e a un assassinio, se servivano a ottenere risultati, a vendicarsi o per lo meno a sfogarsi. Tuttavia quando la richiesta di potenziale umano aumentò (e le truppe arrivarono fino a 400.000), Parigi iniziò a inviare in Algeria i comuni soldati di leva. Questo fece sì che il grande pubblico cominciasse ad apprendere direttamente quanto fosse divenuta barbara quella guerra, circostanza che in breve tempo suscitò l’avversione dei francesi. Quella sanguinosa situazione di stallo mise in moto la crisi politica più pericolosa che colpì la Francia dopo la seconda guerra mondiale. Tra le democrazie tradizionali dell’Europa occidentale fu quella che nel dopoguerra sfiorò più da vicino la dittatura. Nel maggio 1958, mentre a Parigi si andava sgretolando il consenso politico verso la guerra, gli intransigenti dell’esercito francese tentarono un golpe militare ad Algeri, che fallì ma gettò nel caos il governo nazionale; soltanto Charles de Gaulle, l’eroe in congedo della seconda guerra mondiale, godeva del rispetto necessario per ristabilire l’ordine. A giugno gli fu conferita l’autorità di governare per decreti fino al termine della crisi e alla fine si riscrisse la costituzione francese, in modo da trasferire il potere da un Parlamento diviso e litigioso a una presidenza rafforzata; era nata la V Repubblica.2 In un discorso alle Nazioni Unite del settembre 1959, in 690
riferimento all’Algeria De Gaulle pronunciò la parola proibita: «autodeterminazione». La cosa offese i falchi della linea dura, i quali si ostinavano a dire che l’Algeria era, e sarebbe rimasta, parte integrante della madrepatria francese. Davanti a un De Gaulle che parlava apertamente di un’indipendenza possibile, l’Organizzazione Armata Segreta (OAS) – gli irriducibili all’interno delle forze armate francesi – cominciò a progettare un golpe o per lo meno un assassinio. Benché non fosse certo il tipo da tirarsi indietro di fronte alla scontro, comprensibilmente De Gaulle si irritò per i frequenti attentati alla sua vita e si volse contro i falchi. Si rese conto, infatti, che se la guerra si fosse protratta la Francia sarebbe rimasta nel disordine. E siccome la vittoria era impossibile, si liberò dell’Algeria nel luglio del 1962. A qualche mese dall’indipendenza fuggirono dall’Algeria 900.000 cittadini francesi. Poi, quando se ne furono andati, le folle algerine scovarono e trucidarono decine di migliaia di compatrioti che avevano appoggiato la dominazione coloniale, ma che i francesi sconfitti avevano abbandonato. Bilancio delle vittime Le forze armate francesi persero 17.456 soldati, 7000 dei quali non erano francesi, ma appartenevano alla Legione Straniera. Secondo le stime ufficiali francesi, l’FLN subì 141.000 perdite in combattimento, più altre 12.000 per le epurazioni interne. Inoltre fu ucciso un totale di 2788 civili francesi. A livello ufficiale il governo algerino sostiene che nel corso della guerra morirono 1 milione di algerini, cifra sulla quale la maggior parte degli studiosi ha qualche dubbio. Di solito gli storici propongono un bilancio delle vittime compreso tra 200.000 e 500.000 algerini. Io ho diviso la differenza e l’ho sommata ai 173.000 sopra citati. In queste cifre rientrano le migliaia di algerini (30.000 o 150.000, a seconda delle stime) linciati dopo la guerra per vendetta, perché avevano aiutato i 691
francesi.3
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Guerra del Sudan Bilancio delle vittime: 2,6 milioni (500.000 nella prima guerra,1 1,6 milioni nella seconda,2 200.000 nel Darfur3) Posizione: 35 Tipologia: guerra civile di matrice etnica Contrapposizione di massima: arabi musulmani del nord contro neri animisti e cristiani del sud Periodo: 1955-1972, 1983-2005, 2003-oggi Luogo e principale stato partecipante: Sudan Principali entità non statali partecipanti: Esercito Popolare di Liberazione del Sudan Ennesimo esempio di: guerra civile africana Esempio più sanguinoso dello stesso genere: seconda guerra del Congo A chi diamo la colpa di solito: gli arabi Dopo aver conquistato lo stato mahdista (vedi Guerra mahdista), gli inglesi istituirono la colonia del Sudan, con confini definiti e un’amministrazione congiunta anglo-egiziana. Il Sudan britannico comprendeva non soltanto il nucleo arabo lungo il tratto intermedio del Nilo, ma anche una regione nera a sud, nelle paludi del Sahel, che non aveva nulla in comune con il resto del Sudan, tranne il fatto che nel corso della storia gli arabi sudanesi vi avevano fatto scorrerie per la cattura degli schiavi. Poiché la schiavitù era ormai illegale e al governo c’erano gli inglesi, l’odio vicendevole che c’era tra queste due regioni non aveva alcuna importanza: c’erano gli inglesi a dividerli. Gli inglesi trattarono il sud come una riserva culturale, i cui popoli – i nuba, i dinka, ecc. – furono infestati dai missionari. 693
Qui i costumi tradizionali africani restavano forti, anche se la minoranza cristiana dava alla regione un atteggiamento occidentale. Se tolleravano a malincuore i cristiani, i musulmani non avevano però la stessa considerazione per quei pagani mezzi nudi. Prima guerra civile sudanese (1955-1972) Facciamo un rapido salto in avanti al 1955, quando il Sudan si preparava all’indipendenza. Le due regioni sarebbero finite nello stesso stato e sembrava che il governo federale sarebbe stato amministrato soprattutto dagli arabi, che gli inglesi prediligevano. Al sud le proteste si trasformarono in tumulti, si sparò e per sedare la rivolta fu richiamato un reparto militare del sud, che invece si ammutinò. Nel momento in cui nel 1956 gli inglesi consegnarono le chiavi a un governo eletto, già infuriava la guerra civile. Perché il nord non si limitò a lasciar andare il sud? Purtroppo il nord (dove vive la maggior parte della popolazione) non è altro che una striscia precaria di terra fertile lungo il Nilo, in mezzo a un deserto vasto e inabitabile. Al contrario il sud dispone di un dedalo di fiumi che alimentano il Nilo, di oro, più terra fertile, pascoli e acqua, quindi il nord era naturalmente restio a perdere tutte quelle ricchezze. Le cose peggiorarono ulteriormente nel 1979, quando sempre a sud si scoprirono dei giacimenti petroliferi. Per di più il rapimento e la vendita di schiavi del sud costituivano ancora un’attività remunerativa, illegale ma spesso impunita. Il governo eletto messo in carica dagli inglesi al momento della partenza fu rovesciato dal primo golpe militare del 1958. Una specie di democrazia tornò soltanto nell’ottobre del 1964, grazie a una sollevazione popolare, quando i vari partiti politici si raggrupparono e tornarono in Parlamento. La guerra continuò: nel 1969 nel sud c’erano 12.000 soldati governativi che combattevano contro 5-10.000 ribelli. Poi, nello 694
stesso anno, un nuovo golpe portò al potere il generale Jaafar Nimeiri, che nel decennio successivo governò con la stessa benevolenza di tutti gli altri dittatori di questa parte del mondo. Spartì il potere e portò al governo le fazioni contrapposte; quindi la guerra si attenuò e le due parti avviarono i negoziati. Alla fine, il trattato di Addis Abeba del marzo 1972 concesse l’autonomia al sud. Seconda guerra civile sudanese (1983-2005) Per molti anni il Sudan era stato un satellite dell’Unione Sovietica, ma nel 1976 Nimeiri passò dalla parte degli americani. L’anno seguente consentì ai suoi avversari – soprattutto fondamentalisti islamici – la partecipazione diretta alla vita politica: sembrava che pace e libertà fossero ormai dietro l’angolo, invece la situazione precipitò. Nimeiri cambiò rotta e si fece più dittatoriale.4 Nel 1983 il presidente proclamò il Sudan stato islamico, sottoposto alla shari’a, la rigida legge islamica; poco dopo dichiarò lo stato di emergenza e sospese i diritti costituzionali. Il sud perse molta della propria autonomia, mentre la legge islamica si applicava a chiunque vivesse al nord, indipendentemente dalla religione di appartenenza. Una serie di scioperi, di disordini e infine la guerriglia disgregarono il sud. Nel 1985, quando un colpo di stato popolare rovesciò Nimeiri, si sperò in un allentamento della crisi. Si ritirò la shari’a e dopo le elezioni ragionevolmente libere del 1986 si ripristinò l’autorità civile, tuttavia il capo dell’Esercito Popolare di Liberazione del Sudan (SPLA), il colonnello John Garang, un dinka formatosi in America, liquidò il nuovo regime come «iene sotto nuove spoglie» e continuò la lotta. Nel 1986 in Sudan c’erano 20.000 ribelli armati dell’SPLA e 750.000 profughi. Malgrado ciò, per qualche anno tornò una certa calma: c’erano molteplici partiti politici e più libertà di litigare di quanta ce ne fosse in qualunque altro paese africano.5 695
Poi, a maggio del 1989, un nuovo colpo di stato condusse al potere il generale Omar al-Bashir, uomo di punta del Fronte Nazionale Islamico, un gruppo di fanatici intransigenti sotto la guida ideologica di Hassan al-Turabi che addebitò l’insurrezione agli americani e ai sionisti e rifiutò le trattative. Turabi diede vita a una polizia spaventosamente efficiente, in un paese che fino ad allora era stato poco più di una caotica cleptocrazia. Pur con tutte le vicissitudini precedenti, il popolo sudanese era stato in grado di esprimere opinioni contrastanti, ma ora si vietarono la stampa indipendente e i sindacati e si procedette a cacciare le voci dissidenti dalle forze armate, dalle università e dalla magistratura.6 Nel 1991, in tutto il paese, sia al nord che al sud, furono introdotte le aspre punizioni della shari’a, come la lapidazione per adulterio, la fustigazione per il possesso di alcol e l’amputazione per il furto. Nel 1993 il governo federale rimpiazzò con dei musulmani perbene tutti i giudici del sud e trasferì tutti i giudici non musulmani dal sud al nord, dove era più agevole controllarli. Nuove leggi imposero ai cittadini del sud di vestirsi come musulmani, anche se non lo erano; la conversione dall’Islam a un’altra religione divenne un crimine punito con la pena capitale. Nel 2000 il governo di Khartum cercò di impedire alle donne di lavorare nei luoghi pubblici. Con l’intensificarsi degli scontri, l’economia del sud andò in pezzi. Ben presto non vi furono più banche, occupazione e denaro liquido. Beni e servizi circolavano soltanto mediante il baratto o il furto, la sopravvivenza dipendeva dagli aiuti delle organizzazione internazionali.7 I capi ribelli si appropriavano delle cose migliori e ai bisognosi andava il poco che restava. Nel 1999 Bashir (il generale) e Turabi (l’ideologo) si scontrarono per il potere reale nel paese. Quando si posò il polverone Turabi finì in carcere con l’accusa di tradimento, mentre Bashir fu rieletto l’anno dopo in elezioni truccate, e tutto si sistemò.8 Dopo un anno di stallo, nel gennaio del 2005, a Nairobi, le 696
parti belligeranti siglarono un trattato di pace. Anche se sulla carta il sud ottenne gran parte di quanto voleva, per qualche anno il nord parve non rispettare l’accordo, ma dopo un periodo di conciliazione nel 2011 il sud ha avuto la possibilità di votare a favore dell’indipendenza. La conseguente divisione del Sudan è stata la prima volta in cui non si è delineata una nazione africana lungo i confini coloniali. Il Darfur (dal 2003) Più o meno nello stesso periodo in cui nel sud si concludeva la guerra civile, a ovest scoppiò un nuovo conflitto. Ebbe inizio come una piccola rivolta contro il dominio arabo nella provincia del Darfur, ma quando Bashir ordinò di reprimere i ribelli senza fare prigionieri si trasformò nella peggiore crisi umanitaria del pianeta. Nel sistematico sradicamento delle tribù africane locali – per lo più il popolo fur, insieme ai meno numerosi masalit e zaghawa –, l’esercito non si preoccupava di distinguere tra combattenti e civili. Come per le tribù ribelli del sud, i gruppi presi di mira erano i neri, che però sono musulmani come i governativi. Per evitare di vedersi accusato di genocidio nel Darfur, il governo ritirò gran parte delle truppe, lasciando lo sterminio alle milizie arabe locali, denominate janjawid, che Khartum ha neanche troppo segretamente finanziato e foraggiato. I janjawid hanno sistematicamente cancellato i villaggi africani, hanno ucciso uomini e bambini, violentato le donne e distrutto o depredato tutte le proprietà. In un paio di anni sono morte 200.000 persone e 2,5 milioni di africani – quasi l’intera popolazione non araba del Darfur – sono stati cacciati e spinti nei campi profughi.9
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Guerra del Vietnam Bilancio delle vittime: 4,2 milioni (3,5 milioni in Vietnam, 600.000 in Cambogia, 62.000 in Laos, escluse le purghe postbelliche) Posizione: 24 Tipologia: guerra civile di matrice ideologica Contrapposizione di massima: comunisti contro capitalisti Periodo: 1959-1975 Luogo: Sudest asiatico Principali stati partecipanti: Vietnam del Sud, Vietnam del Nord, Stati Uniti, Cambogia, Laos Stati secondari partecipanti: Australia, Filippine, Corea del Sud, Thailandia Principali entità non statali partecipanti: Viet Cong, Khmer Rossi, Pathet Lao A chi diamo la colpa di solito: il presidente degli Stati Uniti Lyndon Johnson Ennesimo esempio di: guerra di terra tra superpotenze in Asia La domanda senza risposta che si fanno tutti: come ha fatto la più grande superpotenza del pianeta a farsi battere da un pugno di sprovveduti del terzo mondo?
I due Vietnam 1954: il trattato che stabilì l’indipendenza del Vietnam dal governo francese non era concepito per sancire per sempre la divisione del paese in due metà distinte. Si trattava di una 698
misura di ripiego. Benché nella cacciata dei francesi il grosso del lavoro l’avessero fatto i ribelli comunisti di Ho Chi Minh, era assolutamente impensabile che le grandi potenze permettessero a un paese comunista nuovo di zecca di emergere incontrastato. Come scrisse in seguito il presidente Eisenhower: «Non ho mai parlato con una persona informata sugli affari indocinesi che non concordasse sul fatto che, se all’epoca della guerra si fossero tenute le elezioni, probabilmente l’80% della popolazione avrebbe votato per il comunista Ho Chi Minh». 1 Al contrario, l’Occidente permise il controllo comunista soltanto nella metà settentrionale, ad Hanoi, mentre stabilì una tradizionale monarchia costituzionale nel sud, a Saigon. Nel nord seguì la consueta eliminazione dei nemici di classe da parte dei comunisti, con l’uccisione di decine di migliaia di proprietari e contadini ricchi. Nel sud, l’imperatore venne rapidamente spodestato da un golpe militare che sancì la nascita della Repubblica del Vietnam (RVN), una dittatura della élite cattolica sotto Ngo Dinh Diem. Si incarcerarono così 100.000 oppositori, inclusi sia i comunisti che i «comunisti»; inoltre si promise che, in seguito, sarebbero state indette le elezioni, ma si sa come vanno queste cose. Diem non era né abbastanza carismatico né abbastanza abile per rappresentare una figura di potere forte. Incline all’arroganza e al nepotismo, aveva come più intimi consiglieri i fratelli: il generale Ngo Dinh Nhu e l’arcivescovo Ngo Dinh Thuc. La prima donna del clan era la bella e sarcastica madame Nhu, la moglie del generale. Lentamente, nel Sud si sviluppò un’insurrezione comunista. Nel corso del 1959, gli insorti assassinarono 1200 funzionari governativi locali, mentre nel 1961 fu la volta di altri 4000. Poiché i capi veramente importanti erano ben protetti, i comunisti presero di mira funzionari secondari e comuni spettatori. Quando l’insurrezione si trasformò in un’autentica guerra civile, Saigon escogitò un piano per radunare tutti i contadini lealisti all’interno di villaggi in posizione strategica. 699
Chiunque fosse rimasto all’esterno sarebbe stato considerato un ribelle, costituendo un facile bersaglio. Si presupponeva che questi villaggi fossero economicamente indipendenti e ben difesi, ma erano stati costruiti con il lavoro forzato dei contadini e il generale Nhu ne gestiva molti come piantagioni, per il suo arricchimento personale. In origine, molto tempo prima, i francesi avevano invaso il Vietnam per difendere i missionari cristiani e, in quella occasione, la Chiesa cattolica si conquistò una posizione privilegiata nella colonia. Anche dopo l’indipendenza, Diem mantenne una politica a favore dei cristiani, che lo mise sempre più in conflitto con la maggioranza buddista. Un inutile divieto contro le insegne durante la celebrazione di una festività buddista provocò la consueta serie di proteste, che si trasformarono in pestaggi, fucilazioni, arresti, omicidi e sommosse, fenomeno che si ripropone in ogni società in tensione; i tumulti raggiunsero il culmine con i monaci buddisti che si davano fuoco, il che, invece, è insolito. Madame Nhu non parve affatto impressionata e promise che avrebbe applaudito di fronte a «un altro barbecue di monaci».2 Alla fine, nel 1963, gli elementi insoddisfatti all’interno delle forze armate vietnamite decisero di sbarazzarsi del presidente Diem. Come prima cosa, chiarirono questo obiettivo con i loro contatti americani nella CIA, i quali non dissero di non farlo, cosicché il colpo di stato proseguì come previsto. Diem e il generale Nhu furono arrestati e, inizialmente, sembrò che tutti concordassero per l’esilio, ma poi quella soluzione apparve troppo problematica, quindi Diem e Nhu vennero semplicemente fucilati.3 Il golpe generò un vuoto di potere, durante il quale il governo passò di mano in mano, per molti anni, senza che a Saigon emergesse un uomo forte, fino all’elezione di Nguyen Van Thieu alla presidenza, nel 1967. L’odore del napalm al mattino 700
Nell’agosto del 1964, due cacciatorpedinieri della marina degli Stati Uniti che andavano spiando per il golfo del Tonchino riferirono un attacco da parte di immagini radar sospette nel nord del Vietnam, che avrebbero potuto essere sia siluri che pesci. Furioso, il Senato americano autorizzò il presidente Lyndon Johnson a usare qualsiasi mezzo necessario per pareggiare i conti.4 Prima di tentare qualcosa, Johnson attese di essere rieletto a novembre. Dopo aver appreso che il governo di Saigon era sull’orlo del collasso, il presidente autorizzò regolari bombardamenti contro il Vietnam del Nord, quindi incrementò le forze di terra americane per difendere le basi aeree impiantate di recente. Nell’aprile del 1965, Johnson mandò delle unità di combattimento americane per affiancare quelle del Vietnam del Sud nell’offensiva. Entro il 1968, oltre mezzo milione di soldati americani combatteva in Vietnam, quasi altrettanti rispetto ai 670.000 vietnamiti del Sud.5 In Vietnam, due importanti innovazioni tecnologiche distinsero lo stile di combattimento da quello della guerra delle superpotenze della precedente generazione: gli elicotteri e i fucili d’assalto. Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta gli eserciti cominciarono a equipaggiare la propria fanteria con fucili d’assalto, che potevano sparare sia come fucili che come mitragliatrici leggere. Gli studi sul combattimento nella seconda guerra mondiale avevano indicato che la maggior parte degli scontri a fuoco di fanteria erano avvenuti a una distanza molto più ravvicinata di quanto non si fosse creduto in precedenza, il che significava che i soldati non avevano bisogno di sparare pesanti pallottole in grado di colpire da lunga distanza. Al contrario, la fanteria poteva passare a munizioni più leggere, a gittata intermedia. Dato che i soldati ora potevano portarsi dietro una maggiore quantità di cartucce, era possibile sprecare munizioni in raffiche di fuoco automatiche piuttosto che limitarsi a singoli colpi mirati con precisione. Quegli stessi 701
studi, inoltre, avevano illustrato anche l’efficacia di piccole squadre rispetto a formazioni più ampie. I piccoli gruppi legavano meglio e combattevano con una maggiore motivazione individuale rispetto alle grandi masse anonime del passato. I fucili d’assalto, quindi, compensavano perfettamente la perdita nella potenza di fuoco. In maniera più controversa, gli studi sulla seconda guerra mondiale indicavano anche che le abilità di combattimento di un soldato al fronte raggiungevano l’apice dopo alcuni mesi di esperienza, per poi entrare in una fase di costante peggioramento con l’aumentare dell’esaurimento psicofisico. L’esercito degli Stati Uniti optò per una rotazione che prevedeva il ritorno a casa di tutti i soldati dopo un anno di combattimento, scelta che sollevò ampie critiche, in quanto creava un incentivo a evitare rischi e sopravvivere per un anno, piuttosto che combattere senza risparmiarsi per la vittoria quale unica via d’uscita. Nei dieci anni precedenti, la tecnologia aveva portato in aria la guerra meccanizzata. Gli elicotteri si rivelarono più versatili dei veicoli blindati terrestri. Potevano aggirare gli ostacoli, le fortificazioni e il terreno accidentato sfruttando le tre dimensioni. Gli elicotteri militari come il Cobra potevano essere equipaggiati con lanciarazzi, mitragliatrici Gatling e cannoni, armi che prima appartenevano solo ai carri armati. Gli elicotteri da trasporto mantenevano costante il rifornimento delle truppe e portavano i rinforzi, mentre gli elicotteri per l’evacuazione medica trasportavano via i feriti. Malgrado fossero riforniti da sovietici e cinesi, i Viet Cong (i rivoltosi del Sud) e i nordvietnamiti (truppe alleate inviate da Hanoi) disponevano di armamenti meno avanzati e contavano maggiormente sulla sorpresa per uccidere o demoralizzare gli americani. Trappole esplosive e mine uccisero e mutilarono moltissimi americani. Le tattiche di agguato e di infiltrazione potevano offrire un breve vantaggio tattico prima che gli americani avessero l’opportunità di mettere in azione la loro 702
maggiore potenza di fuoco. I Viet Cong si mescolavano tranquillamente alla popolazione civile, attaccavano all’improvviso e poi scomparivano. La via dei rifornimenti comunisti era sfuggente quanto i suoi soldati. Il «sentiero di Ho Chi Minh» aggirava la zona demilitarizzata (il confine tra i due Vietnam), attraversando il Laos e la Cambogia, che erano neutrali, e rientrava nel Vietnam del Sud. Gli americani provarono varie volte a bombardarlo, ma non c’era nulla da colpire, solo un sentiero polveroso da qualche parte sotto la volta della giungla. Lo scopo degli americani era quello di creare una situazione in cui le forze comuniste si sarebbero trovate esposte alla schiacciante potenza di fuoco e quindi annientate. A tal fine, era necessario eliminare civili, vegetazione e giungla dalla zona di guerra. Due armi chimiche contribuirono a cancellare la vegetazione, lasciando i guerriglieri completamente scoperti e vulnerabili al massacro. Il napalm, una benzina gelificata, spargeva fiamme vischiose in un’ampia distesa di fuoco, mentre il cosiddetto «agente arancio», un erbicida defoliante, privava gli alberi delle foglie. Ovviamente, entrambi erano pericolosi per chiunque si trovasse nel mezzo. Gli americani, inoltre, tentarono di stabilire delle zone di fuoco libero da cui si evacuavano con la forza tutti i non combattenti. Nel complesso, nel 1968, 5 dei 17 milioni di vietnamiti del Sud erano già stati scacciati dai propri villaggi.6 In teoria, allontanando tutti i civili dalla zona di guerra, i soldati di pattuglia potevano sparare liberamente su qualsiasi cosa si muovesse, senza mettere in pericolo la popolazione che avrebbero dovuto difendere. Gli aerei e l’artiglieria potevano martellare queste zone con tutta la forza militare della più grande potenza industriale del mondo e gli unici a restare uccisi sarebbero stati i cattivi. Naturalmente, molti contadini si rifiutavano di abbandonare tutto ciò che possedevano alla distruzione degli americani, così decidevano di restare, in balia del pericolo.7 703
Poiché i Viet Cong non sarebbero mai riusciti a fronteggiare e combattere i superiori armamenti degli americani, la guerra fu principalmente una questione di implacabili pattugliamenti. Un minimo indizio, una voce o un sospetto sulla presenza di una base vulnerabile di Viet Cong scatenavano gli americani in una missione cerca-e-distruggi. Ogni pattugliamento poteva essere tanto una missione riuscita quanto un falso allarme o addirittura un’imboscata, perciò la continua incertezza logorava i nervi dei soldati, rendendoli pericolosamente suscettibili. Con il venir meno della disciplina, i soldati americani, furiosi e frustrati, presero a massacrare la popolazione civile tra cui si nascondevano i guerriglieri. Nel marzo del 1968, il giorno dopo aver perso degli uomini in un’esplosione causata da un ordigno piazzato dai Viet Cong nei pressi del villaggio di My Lai, una compagnia di soldati americani occupò la cittadina e iniziò a trascinare i civili fuori dalle loro case. Quasi 100 abitanti vennero radunati in piazza e fucilati dai soldati. Decine di donne anziane vennero uccise con un colpo alla nuca mentre erano inginocchiate a pregare in un tempio, altre persone furono allineate lungo un canale d’irrigazione e fucilate. Alcuni si salvarono nascondendosi tra i cadaveri.8 Alla fine, inorridito da quel che vedeva sorvolando il villaggio, l’equipaggio di un elicottero americano intervenne di propria iniziativa, minacciando di sparare sui soldati se il massacro non fosse cessato. Quel giorno furono ammazzati 500 civili.9 My Lai non fu l’unica strage di civili. Nell’autunno del 1967, infatti, un’unità speciale americana denominata Tiger Force aveva il compito di pacificare un territorio conteso senza commettere errori. Nei mesi trascorsi sul campo, l’unità accumulò oltre 1000 uccisioni al proprio attivo, sebbene fosse evidente che molte delle vittime non erano quei soldati nemici di cui parlavano i rapporti. Un soldato spaccò a calci i denti dei civili giustiziati per prendersi le otturazioni d’oro. [Un soldato 704
semplice] tagliò la gola a un prigioniero con un coltello da caccia prima di scotennarlo, poi appuntò lo scalpo all’estremità del fucile. [...] I documenti mostrano che vennero individuati due uomini parzialmente ciechi i quali vagavano per una valle: scortati fino a un’ansa del fiume Song Ve, furono fucilati. Due abitanti di un villaggio, tra cui un adolescente, furono giustiziati perché non si trovavano nei campi di trasferimento. [...] I membri del plotone infilavano le orecchie dei morti nei lacci da scarpe, per appendersele a mo’ di collane attorno al collo, racconta un rapporto. Vi fu un periodo in cui quasi tutti avevano una collana di orecchie. [...] Una ragazza di tredici anni venne fatta a pezzi dopo una violenza sessuale e una giovane madre venne fucilata dopo che i soldati ne ebbero incendiato la capanna.10 Un’indagine segreta dell’esercito scoprì ottantaquattro omicidi evidenti commessi da almeno diciotto soldati, ma non venne mai formulata alcuna accusa. Inefficace tanto quanto l’azione militare fu la parallela campagna diretta ai cuori e alle menti, durante la quale l’America riversò in Vietnam una cospicua quantità di denaro per la costruzione di strade, ospedali, centrali elettriche e scuole. Gli americani assillavano il governo di Saigon affinché ridistribuisse la terra tra i contadini. La spesa fu sbalorditiva, i risultati di grande effetto, ma gli esiti furono nulli. In una guerra popolare, questi programmi sociali avrebbero rappresentato la prova suprema della benevolenza americana, ma accanto ai bombardamenti, ai massacri e alle deportazioni, la campagna fu catalogata come il tentativo ipocrita di coprire gli orrori. Entrambe le parti intrapresero programmi segreti volti ad assassinare le autorità civili dell’opposizione, ma le vittime furono soprattutto pesci piccoli o passanti sfortunati. Gli attentati terroristici da parte dei comunisti negli anni Cinquanta avevano preceduto la guerra aperta e sarebbero continuati anno 705
dopo anno. Nel 1967, per esempio, i Viet Cong uccisero circa 6000 capi locali. La CIA rispose con il programma «Phoenix», che coordinava sotto lo stesso comando i vari programmi di contro-insurrezione della Repubblica del Vietnam, e uccise un numero di civili tra 20.587 (stima del direttore della CIA) e 40.000 (stima di Saigon) sospettati di essere dirigenti o sostenitori dei Viet Cong, per mezzo di incursioni che penetrarono in profondità nel territorio nemico. Altre decine di migliaia di persone furono catturate e incarcerate, per essere trasformate in spie che facevano il doppio gioco, oppure liberate dopo il pagamento di una congrua tangente ai propri rapitori.11 L’offensiva del Têt Tradizionalmente Saigon e Hanoi si accordavano per un cessate il fuoco in occasione della grande festività popolare buddista del Têt; tuttavia, il 31 gennaio del 1968, dei Viet Cong infiltrati ruppero la tregua e sferrarono attacchi simultanei a sorpresa contro obiettivi politici in tutto il paese, invadendo persino la principale città del Sud, la vecchia capitale imperiale Huế. La maggiore vittoria propagandistica la ottennero quando un pugno di Viet Cong prese d’assalto l’ambasciata americana a Saigon, anche se alla fine vennero circondati e uccisi. Inoltre si mise sotto assedio la base americana di Khe Sanh, nel cuore del territorio nemico, la quale però resistette a qualsiasi aggressione comunista. Dopo la riconquista di Huế, le truppe di Saigon e degli Stati Uniti cominciarono a scoprire tombe ancora fresche colme di civili legati assieme, prima alcune centinaia, poi migliaia. Durante la loro breve occupazione di Huế, i Viet Cong avevano catturato chiunque avesse una macchia occidentale – funzionari di governo, insegnanti, medici, preti, studenti – fucilandone almeno 2800. Altri 3000 che mancavano all’appello non furono mai trovati. L’offensiva del Têt rappresentò chiaramente una vittoria 706
tattica per gli americani: il nemico fu trucidato ovunque spuntasse. La metà dei 20.000 comunisti che attaccarono Khe Sanh vennero uccisi o feriti gravemente, mentre i 6000 uomini della difesa americana riportarono soltanto 200 morti e 850 feriti.12 In effetti, dopo il Têt i Viet Cong cessarono di essere un’efficace forza di combattimento e furono i regolari nordvietnamiti a dover portare avanti la guerra. Tuttavia, l’opinione pubblica statunitense percepì la vittoria tattica come qualcosa di irrilevante. Il governo aveva rassicurato la gente che i comunisti erano troppo distrutti e disorganizzati per resistere ancora a lungo, ma ora il nemico attaccava molto più profondamente nel territorio controllato dagli americani, con forze molto più grandi di prima. Sembrava non avere alcuna importanza il fatto che l’offensiva si fosse risolta a tutto vantaggio dell’esercito americano, permettendogli di utilizzare la propria enorme potenza di fuoco contro i Viet Cong disarmati. Ancorché sconfitti, i Viet Cong suscitavano solidarietà. Le immagini che scossero l’opinione pubblica statunitense furono quelle di una foto e di un film ampiamente pubblicizzati, in cui un ufficiale sudvietnamita faceva saltare il cervello di un prigioniero in lacrime per le vie di Saigon. Il movimento pacifista in America Il governo americano dovette affrontare un dilemma. C’era un limite al numero di perdite che l’opinione pubblica americana era disposta ad accettare senza che fosse in gioco un chiaro e vitale interesse nazionale.13 Poiché lo scopo dichiarato della guerra era quello di portare pace e libertà al popolo assediato del Vietnam del Sud, trasformare l’intero paese in un deserto fumante e pieno di crateri non faceva bene a nessuno. La migliore opportunità che l’America aveva di vincere militarmente sarebbe stata quella di distruggere le capacità belliche dei comunisti alla radice, nel Vietnam del Nord, ma agire in tal modo avrebbe rischiato di scatenare una guerra con 707
la Cina, che in quella fase della storia era un paese follemente xenofobo, dotato di armamenti nucleari; per di più, probabilmente scatenare l’apocalisse in quel momento avrebbe ucciso più americani e vietnamiti di quanti chiunque fosse disposto ad accettare. Gli sporadici bombardamenti del Nord, pressoché rituali, solitamente erano destinati a inviare un messaggio piuttosto che a distruggere il paese. Ai piloti si forniva una lista molto ristretta di obiettivi approvati. Nondimeno, il mero tonnellaggio delle bombe sganciate sul Vietnam del Nord ammontò a più di tre volte il peso complessivo delle bombe lanciate dagli americani durante la seconda guerra mondiale. La mira era spesso imprecisa, e si è calcolato che in questi raid aerei restarono uccisi 65.000 civili nordvietnamiti. Man mano che la guerra si trascinava senza uno scopo evidente e nessuna conclusione in vista, la maggioranza degli americani si schierò contro. La categoria di dissidenti più visibile fu quella degli studenti dei college in età di leva, i quali possedevano la motivazione, l’organizzazione sociale e le attitudini politiche per allestire grandi proteste furibonde. L’America riempiva le forze armate di soldati di leva fin dalla guerra di Corea, ma quello che un tempo era stato un dovere necessario della maggiore età ora si era trasformato in un incubo da evitare. La Risoluzione del Golfo del Tonchino, che in origine aveva autorizzato il presidente a intraprendere la guerra, era passata al Senato degli Stati Uniti con solo due voti contrari, ma fin dall’inizio della campagna presidenziale del 1968, alle spalle di candidati pacifisti come Robert Kennedy si andava formando una grossa fazione del Partito Democratico al governo. Dopo gli scarsi risultati delle primarie, il presidente Johnson capì che il suo partito non lo avrebbe più candidato, quindi si ritirò dalla corsa. Robert Kennedy doveva sostituirlo, ma il suo assassinio a giugno privò la fazione pacifista di un candidato presentabile. La nomination dei democratici andò dunque al vicepresidente 708
Hubert Humphrey, un vecchio esponente del liberalismo sociale che non aveva dichiarato la propria opposizione alla guerra. Le violente battaglie urbane fra i dimostranti pacifisti e la polizia locale durante la convention dei democratici a Chicago minarono il sostegno al partito e, a novembre, il candidato repubblicano, Richard Nixon, fu eletto presidente per una manciata di voti. Una guerra più grande, una guerra più piccola In tutto, quando Johnson lasciò la propria carica, in Vietnam erano rimasti uccisi 30.000 americani.14 Nel corso delle elezioni del 1968, fu subito evidente che l’America se ne sarebbe andata dal Vietnam, indipendentemente da chi avrebbe vinto le elezioni o la guerra. Il solo problema era come farlo senza perdere la faccia. Nixon diede il via al ritiro delle truppe non appena si insediò, cercando di scaricare il fardello sulle spalle dell’esercito sudvietnamita. Nel frattempo i comunisti sferrarono un’altra offensiva. Anche se Nixon stava provando attivamente a disimpegnare gli Stati Uniti dai combattimenti di terra, durante il suo primo anno di presidenza furono uccisi circa 10.000 americani.15 Ormai da diversi anni i comunisti vietnamiti operavano a partire dai rifugi nella Cambogia neutrale, a ovest, che gli americani avevano cominciato a bombardare e attaccare in segreto, non appena Nixon era salito al potere. Il principe Sihanouk di Cambogia permise tacitamente, sia pure con riluttanza, le incursioni americane, non che avesse molta scelta. Per rappresaglia, i Viet Cong armarono, addestrarono e infiltrarono una forza di Khmer Rossi (cambogiani rossi) all’interno della Cambogia per tormentare il governo di Sihanouk. Il principe provò a mantenere una neutralità equilibrata di fronte all’espandersi della guerra, ma il suo primo ministro, Lon Nol, spingeva per intraprendere una linea più dura contro i Khmer Rossi. Nel marzo del 1970, mentre il principe 709
trascorreva le vacanze in Francia, Lon Nol lo destituì e dichiarò la Cambogia una repubblica. Piuttosto che accettare un tranquillo ritiro in Francia, come il suo collega ex monarca del Vietnam, Sihanouk si precipitò in Cina e stabilì contatti con i rappresentanti dei Khmer Rossi, con i quali fece fronte comune.16 Di fronte al rapido peggioramento della situazione in Cambogia, a maggio le truppe sudvietnamite e quelle americane la invasero apertamente per distruggere i rifugi dei Viet Cong. L’idea era di chiudere i comunisti in un angolo e annientarli, ma non furono in grado di distruggerli in Cambogia esattamente come non lo erano stati in Vietnam. Anzi, l’invasione straniera fomentò il nazionalismo cambogiano e allargò il consenso verso i Khmer Rossi. L’improvviso allargamento della guerra, inoltre, provocò una nuova esplosione di proteste in America, durante le quali la Guardia Nazionale aprì il fuoco su una folla di dimostranti alla Kent State University, uccidendone quattro. Nel 1971, le truppe sudvietnamite invasero il Laos per chiudere il sentiero di Ho Chi Minh, ma furono respinte dai nordvietnamiti. Il ritorno alla guerra civile All’epoca delle successive elezioni presidenziali, nel 1972, l’impegno americano si era ridotto di oltre il 90%: sul campo restavano soltanto 40.000 soldati americani, ma i comunisti si rifiutavano ancora di consentirne il ritiro. I colloqui di pace a Parigi procedevano da anni in modo confuso e ormai si erano trasformati in una farsa, con continui battibecchi sulle procedure più banali. Nixon migliorò le relazioni diplomatiche con i due giganti comunisti, la Cina e la Russia, nella speranza di ritornare al tranquillo e pratico modo di fare ottocentesco, quando le grandi potenze decidevano le sorti dei piccoli stati. Benché entrambe le potenze comuniste stessero perdendo soldi nella guerra di Indocina e avessero quasi azzerato le sovvenzioni, i 710
nordvietnamiti persistevano. Nella primavera del 1972 sferrarono una nuova grande offensiva.17 Per disperazione, nel dicembre di quell’anno gli americani ripresero i bombardamenti pesanti contro il Vietnam del Nord, con lo scopo di costringere i comunisti a lasciar ritirare gli americani con una certa dignità.18 Finalmente il Vietnam del Nord acconsentì e il cessate il fuoco entrò in vigore nel gennaio del 1973. I termini della tregua erano complessi, perché includevano la promessa di elezioni, la condivisione del potere, sistemazioni territoriali, il rimpatrio dei prigionieri e così via; ma nulla di tutto ciò interessava davvero. Il punto cruciale era che ai comunisti veniva concesso di mantenere i propri eserciti sul posto, e in cambio avrebbero dovuto starsene tranquilli mentre gli americani se ne andavano via senza che la si chiamasse ritirata. La guerra civile proseguì ufficiosamente, con il Vietnam del Sud che guadagnava lentamente terreno, anche se cominciava a essere chiaro che entrambe le parti erano ormai allo stremo delle forze. Nonostante l’economia del Vietnam del Sud in tempo di guerra fosse basata sulla corruzione, il furto, la prostituzione e il mercato nero, almeno era in qualche modo un’economia prospera, ma con il ritiro dei soldati americani i soldi se ne andarono con loro. Le masse di contadini sospinti nelle città ora non disponevano più di alcun reddito. Per contro, gli attacchi dei comunisti scialacquatori e caparbi, anno dopo anno, avevano sgretolato e consumato l’esercito nordvietnamita. Nell’ottobre del 1973, sia la Russia che la Cina si rifiutarono di rifornire il Vietnam del Nord; il primo ministro cinese si rivolse così al leader vietnamita: «Per il Vietnam e per il resto dell’Indocina, sarebbe meglio starsene tranquilli per cinque o dieci anni».19 Negli Stati Uniti, l’animosità intorno alla guerra stava portando la politica sempre più sull’orlo dell’anarchia e della dittatura. L’amministrazione Nixon fu scoperta nel tentativo di soffocare l’opposizione interna attraverso una rete di attività illegali e, nell’agosto del 1974, il presidente fu costretto a dimettersi; un 711
evento senza precedenti nella storia degli Stati Uniti. Tuttavia, come poi risultò, il Vietnam del Nord aveva in serbo ancora un’ultima offensiva. Il primo attacco irruppe sugli altipiani centrali, isolando le città del nord. Il comandante sudvietnamita si mise in salvo fuggendo in aereo e lasciò 200.000 soldati e i relativi familiari a cercarsi da soli una via di fuga. Quindi i comunisti si rivolsero contro Huế. Ricordando il massacro del 1968, la popolazione si lasciò prendere dal panico e provò a scappare. I civili invasero l’aeroporto e si lanciarono in mare, saltando a bordo delle barche o annegando nel tentativo. Huế cadde il 25 marzo del 1975; Da Nang poco tempo dopo. Le lunghe colonne di profughi in fuga dai comunisti si trovarono intrappolate sotto il fuoco incrociato, e furono così trucidate decine di migliaia di persone. In varie azioni sparse, i soldati sudvietnamiti furono malamente sconfitti oppure scapparono senza combattere, spogliandosi delle uniformi e mescolandosi alle colonne di civili per evitare i campi di prigionia comunisti.20 All’inizio della fine, il Congresso degli Stati Uniti votò in larga maggioranza per restare fuori da tutto ciò. Negli Stati Uniti è ancora aperto il furioso dibattito sul mancato ritorno degli americani per salvare un alleato fallito in un paese da cui erano stati cacciati, ma realisticamente non era possibile che l’America tornasse indietro. Punto. Sia Saigon che Phnom Penh caddero nell’aprile del 1975. Seguì un enorme regolamento di conti, ma questa è un’altra storia (vedi Vietnam postbellico e Kampuchea Democratica). Bilancio delle vittime Prima che le offensive finali ne impedissero la contabilità, l’esercito del Vietnam del Sud registrò 223.748 morti fra i suoi uomini. Gli Stati Uniti ne registrarono 58.177. Per lunghissimo tempo, nessuno ebbe idea di quanti fossero i comunisti o i civili 712
morti, ma tutti sapevano che erano tanti. Nell’aprile del 1995, in occasione del ventesimo anniversario della conclusione della guerra, Hanoi annunciò le sue stime ufficiali, che denunciarono come quella guerra fosse stata due volte più distruttiva di quanto chiunque avesse mai osato ipotizzare prima. Hanoi dichiarò che, in due decenni di conflitto, tra il 1954 e il 1975, avevano trovato la morte 1,1 milioni tra Viet Cong e soldati nordvietnamiti, oltre a 2 milioni di civili vietnamiti.21 Lo ha ampiamente confermato l’indagine sulla salute mondiale del 2008, che ha calcolato 3,8 milioni di morti violente avvenute nel Vietnam in quel periodo.22 Inoltre si è calcolato che nella guerra civile cambogiana (1970-1975) morirono 600.000 persone senza distinzioni di causa o di fronte.23 Nel Laos le morti stimate furono 62.000.24
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La guerra fredda Lo scontro Est-Ovest In quarant’anni di conflitto globale tra i due blocchi, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica furono ossessionati dalla conquista di spazi sulla scacchiera. Entrambi tentarono di controllare quanti più paesi fosse possibile senza badare al loro valore strategico o economico. Infatti, se si legge la lista delle guerre calde combattute durante la guerra fredda, ci si trova di fronte al più grande assortimento di paesi privi di alcun valore che si possa immaginare. A eccezione dell’Indonesia, nessuno di quei paesi si distingue come importante fornitore di petrolio, metalli, prodotti alimentari o colture redditizie e, tranne Indonesia, Etiopia e Grecia, nessuno è attiguo a un’importante rotta di navigazione. Il fatto che milioni di persone siano morte per il controllo di questi stati può rappresentare la migliore prova del fatto che i due antagonisti della guerra fredda erano schiettamente motivati dall’ideologia. Se l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti fossero stati allettati soltanto da personali interessi economici, avrebbero lasciato andare questi paesi senza la minima lotta. Invece, in realtà essi persero vite umane e denaro senza ottenere quasi nulla di tangibile in cambio. D’altra parte, le guerre che non erano redditizie per un paese nel suo complesso potevano comunque produrre un certo profitto per alcune fazioni potenti. La guerra fredda generò una retroazione continua in cui la minaccia di nemici ideologici potenti richiedeva l’impiego di grandi eserciti regolari, cosa che, a sua volta, richiedeva enormi investimenti militari, che creavano un ceto influente la cui ricchezza e la cui sussistenza dipendeva da incessanti spese militari, giustificabili soltanto con una costante minaccia di guerra. Inoltre, la pronta disponibilità 714
di questo complesso militare-industriale rendeva estremamente semplice e allettante, per i vertici delle grandi potenze, ricorrere alle armi ogni volta che insorgeva una controversia internazionale. Questa è una rapida lista delle guerre per procura più micidiali dell’era del bipolarismo, a cominciare dalla più sanguinosa: Vietnam (1959-1975): 3.400.000 di morti in Vietnam. Coinvolgimento americano diretto in nome del governo contro i ribelli comunisti. Corea (1950-1953): 3.000.000 di morti. Coinvolgimento diretto dell’Occidente in nome della Corea del Sud e coinvolgimento diretto della Cina per conto della Corea del Nord. Afghanistan (1979-1992): 1.500.000 morti. Coinvolgimento sovietico diretto in nome del governo contro i mujaheddin ribelli. Mozambico (1975-1992): 800.000 morti. Ribelli filooccidentali contro un governo comunista. Cambogia (1970-1975): 600.000 morti. Coinvolgimento americano diretto in nome del governo contro i ribelli comunisti. Angola (1975-1994): 500.000 morti. Coinvolgimento diretto di Cuba in nome del governo contro i ribelli filo-occidentali. Indonesia (1965-1966): 400.000 morti. Un governo filooccidentale massacrò l’opposizione di sinistra. Guatemala (1960-1996): 200.000 morti. Ribelli di sinistra contro un governo filo-occidentale.1 Grecia (1943-1949): 160.000 morti. Ribelli comunisti contro un governo filo-occidentale.2 El Salvador (1979-1992): 75.000 morti. Ribelli di sinistra contro un governo filo-occidentale. Laos (fino al 1973): 62.000 morti. Assistenza americana in nome del governo contro i ribelli comunisti.3 Corea del Sud (1948-1949): 60.000 morti. Ribelli di sinistra 715
contro un governo filo-occidentale. Filippine (dal 1972): 43.000 morti. Ribelli comunisti contro un governo filo-occidentale.4 Argentina (1976-1983): 30.000 morti. Un governo simpatizzante con l’Occidente che opprime l’opposizione di sinistra.5 Nicaragua (1972-1979): 30.000 morti. Ribelli comunisti contro un governo filo-occidentale.6 Nicaragua (1982-1990): 30.000 morti. Ribelli filooccidentali contro un governo comunista.7 Il totale ammonta all’incirca a 11 milioni di persone morte in vari conflitti in cui gli americani sostenevano una fazione e i sovietici quella opposta. Sebbene sia ben oltre la portata di questo libro riuscire a districare meticolosamente ciascuno di questi conflitti per attribuire la colpa ai comunisti o all’Occidente, se sentite qualcuno affermare che l’equilibrio nucleare tra le superpotenze produsse un’epoca di pace internazionale senza precedenti, probabilmente si sta dimenticando di questi 11 milioni di vite umane.
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Purghe indonesiane Bilancio delle vittime: 400.0001 Posizione: 81 Tipologia: epurazione ideologica Contrapposizione di massima: esercito contro militanti di sinistra Periodo: 1965-1966 Luogo e principale stato partecipante: Indonesia A chi diamo la colpa di solito: Suharto, la CIA Le domande di facile risposta che si fanno tutti: Sukarno e Suharto sono la stessa persona? Non hanno un nome di battesimo?*
Un anno vissuto pericolosamente Il primo settembre 1965 un piccolo gruppo di ufficiali subalterni rapì sei alti generali indonesiani. I dettagli non sono chiari, ma pare che si trattasse della prima fase di un colpo di stato. Quando il piano fallì, gli insorti furono presi dal panico e uccisero i prigionieri, poi ne gettarono i corpi in un pozzo. L’unico a sopravvivere fu il generale Abdul Nasution, che era riuscito a sfuggire al rapimento – nel quale restarono uccisi la figlia di sei anni e il suo attendente – saltando nel giardino del suo vicino, l’ambasciatore iracheno. Dopo essersi sottratto al tentativo di rapimento, il generale Nasution fece rapporto al generale Suharto, il più alto ufficiale sopravvissuto, che per qualche motivo non era nella lista degli obiettivi da assassinare. Questi accusò del golpe il PKI, il Partito Comunista Indonesiano, all’epoca il terzo maggior partito 717
comunista del mondo, di orientamento maoista. Alcuni trovano decisamente sospetto il fatto che i cospiratori avessero completamente dimenticato di inserire Suharto nella lista degli obiettivi: non solo sopravvisse senza un graffio, ma gli attentati si risolsero certamente a suo vantaggio. All’epoca presidente dell’Indonesia era Sukarno, il vecchio combattente per la libertà che dopo la seconda guerra mondiale aveva portato il paese fuori dall’impero olandese. Negli anni Cinquanta Sukarno aveva contribuito alla fondazione del movimento dei non allineati, che cercava di organizzare un «terzo mondo» al di fuori dei due blocchi contrapposti, sovietico e americano. All’inizio era stato un presidente pienamente democratico, stampa ed elezioni erano libere, ma col passare degli anni intessé attorno a sé uno stretto bozzolo di potere dal quale nel 1963 uscì come una farfalla con la carica di presidente a vita. Con una formula che Sukarno battezzò «democrazia guidata», i parlamentari indonesiani erano nominati anziché eletti, in tal modo si teneva pienamente sotto controllo l’opposizione. Dopo il tentativo di golpe del settembre 1965, per qualche settimana in Indonesia regnò la calma, ma ben presto i militari cominciarono ad arrestare e uccidere chiunque fosse sospettato di essere un simpatizzante comunista. Si stilarono elenchi che comprendevano militanti di sinistra di ogni genere – ovviamente comunisti, ma anche sindacalisti, studenti e giornalisti –, che venivano sommariamente giustiziati a migliaia. Alcuni furono uccisi durante incursioni che cancellarono intere famiglie o distrussero villaggi poco collaborativi, altri furono trascinati nelle carceri, sottoposti a brutali interrogatori e poi ignorati per settimane, fino a che arrivava il giorno in cui venivano condotti in un posto opportunamente desolato e fucilati. Secondo alcuni ex funzionari statunitensi, uomini dei servizi segreti americani fornirono alle forze armate indonesiane i nomi di centinaia, forse migliaia di persone che volevano fossero tolte di mezzo.2 I soldati e i vigilantes che collaboravano con loro presero di mira 718
anche i cinesi indonesiani, appartenenti a una comunità mercantile che aveva fatto parte per intere generazioni della cultura del Sudest asiatico; si diceva che fossero tutti agenti di Mao. Di solito le incursioni avvenivano di notte, allorché degli uomini in maschera ghermivano nell’oblio i prigionieri. Un testimone oculare racconta che una notte si nascose in un bosco e vide i vigilantes in maschera che arrivarono lungo la riva di un fiume con dei camion carichi di prigionieri, molti dei quali riconobbe come suoi vicini e insegnanti. Quindi li fecero scendere e li decapitarono con il machete, poi misero le teste dentro dei sacchi mentre gettarono i corpi nel fiume.3 Durante le epurazioni fu arrestato e ucciso quasi mezzo milione di persone, 600.000 finirono in carcere senza processo, spesso per anni. Altre migliaia furono esiliate nelle colonie penali dell’arcipelago, dove molti trovarono la morte per la fatica. Il presidente Sukarno fu incapace di controllare le forze armate e rinunciò ufficialmente a provarci nel marzo del 1966, quando cedette il controllo del paese al generale Suharto, che prima fu solo un facente funzione, poi si promosse a vero e proprio presidente. Suharto staccò l’Indonesia dal movimento dei non allineati e spostò sempre più la politica estera verso il blocco americano.4
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Guerra del Biafra Bilancio delle vittime: 1 milione1 Posizione: 46 Tipologia: guerra civile di matrice etnica Contrapposizione di massima: Nigeria contro Biafra Periodo: 1966-1970 Luogo: Nigeria A chi diamo la colpa di solito: generalmente Ojukwu, talvolta Gowon, raramente entrambi Ennesimo esempio di: guerra civile africana
Lo scoppio Come la maggior parte dei paesi africani, la Nigeria nella sua struttura non ha senso. Nacque come enclave della Costa degli Schiavi presa dagli inglesi allo scopo di vigilare sulla tratta degli schiavi. Poi, per evitare che l’interno finisse nelle mani dei francesi, quell’enclave si espanse verso l’entroterra. La Nigeria è divisa tra un nord islamico e un sud cristiano, con una molteplicità di tribù sparse ovunque. Nei primi anni successivi all’indipendenza del 1960 fu una federazione di province fortemente autonome ripartite secondo i maggiori gruppi etnici, in particolare la regione del nord (per lo più delle etnie hausa e fulani, musulmane), quella orientale (di etnia ibo o igbo, cristiana) e quella occidentale (yoruba, sempre cristiani). Sotto la dominazione britannica gli igbo erano quelli che si erano più assimilati ai costumi occidentali: erano più ricchi, più istruiti e avevano un influsso sproporzionato sull’esercito. Nel gennaio del 1966 gli ufficiali delle forze armate nigeriane 720
cercarono di rovesciare il governo civile corrotto e inefficiente della I Repubblica. Un generale igbo fedele al governo impedì il golpe, ma risparmiò i congiurati e si proclamò presidente per ristabilire l’ordine. Allorché iniziò a stipare il governo di altri igbo, i musulmani della regione settentrionale avviarono a loro volta un progetto di golpe, che a luglio mise il governo nelle mani delle truppe del nord. Tuttavia, per placare le preoccupazioni della metà cristiana del paese questa nuova giunta conferì la presidenza a Yakubu Gowon, un colonnello appartenente a una tribù cristiana minore che non era stato coinvolto in nessuno dei due colpi di stato. Con i suoi trentadue anni, Gowon era il più giovane capo di stato di tutta l’Africa; bello e carismatico, era benvoluto tanto in Nigeria quanto all’estero. Anche se sovrintese a una guerra che uccise un milione di suoi compatrioti, la storia è stata gentile con la sua reputazione: le colpe sono in gran parte ricadute sull’altrettanto giovane ma meno carismatico governatore militare della regione orientale, un igbo di nome Chukwuemeka Odumegwu Ojukwu. La famiglia di Ojukwu era la più ricca del paese e la sua fortuna servì molto per rifornire l’esercito del Biafra nel corso della guerra imminente. Dopo il secondo golpe di luglio nel nord islamico scoppiarono dei pogrom contro i cristiani, in particolare gli igbo. Per la rabbia contro i congiurati del golpe di gennaio le folle uccisero circa 30.000 igbo e ne respinsero un milione nella regione orientale. Quando le proteste e i negoziati con il governo centrale si rivelarono inutili a proteggere gli igbo, Ojukwu proclamò una nuova nazione nel quarto sudorientale della Nigeria, il Biafra. La guerra Il primo tentativo di riconquista della provincia attuato dall’esercito federale fu respinto agevolmente: l’esercito biafrano addirittura seguì i federali in ritirata oltre il fiume 721
Niger, nella regione occidentale, arrivando a minacciare la capitale Lagos. Nel giro di alcune settimane si contenne e respinse l’incursione, dopodiché il Biafra si mise completamente sulla difensiva. La Nigeria è lo stato più popoloso dell’Africa, perciò alla fine l’esercito federale mise insieme 250.000 uomini, mentre quello biafrano arrivò a un massimo di 45.000. Nessuno dei due impressionò gli osservatori per le prodezze militari: ogni volta che si scontravano, pareva che l’obiettivo tattico più importante fosse quello di fare più rumore possibile. In una tipica offensiva federale, l’artiglieria apriva il fuoco per scatenare l’inferno contro le presunte posizioni biafrane, senza controllare che la presenza del nemico fosse confermata o se in mezzo vi fossero dei civili. In ogni caso le truppe del Biafra di solito si ritiravano alla prima bomba, perché non disponevano di una propria artiglieria con cui rispondere. Poi avanzava la fanteria federale, che sparava all’impazzata con le mitragliatrici in direzione del nemico fino a consumare tutti i colpi. Terminato il fuoco, potevano contrattaccare i biafrani, mentre le truppe federali si ritiravano in attesa di altre munizioni.2 La carestia Gradualmente l’esercito federale mise alle corde il Biafra. Si aprì la strada a est lungo il confine con il Camerun, separando il Biafra dai contatti esterni via terra. Poi con un attacco anfibio conquistò Port Harcourt e in tal modo tagliò l’ultimo contatto diretto che il Biafra aveva con il resto del mondo. Ormai soltanto gli aerei potevano portare i rifornimenti, che però non bastavano mai. L’inedia uccise centinaia di migliaia di biafrani in trappola: dalle copertine delle riviste di tutto il mondo spuntarono le fotografie di bambini smunti con il ventre rigonfio. Mentre la Nigeria accerchiava il Biafra e lo riduceva a un decimo delle sue dimensioni originarie, al di là del blocco erano 722
ammessi esclusivamente gli aiuti umanitari. Poi, nel giugno del 1969, Gowon strinse il cappio e vietò i voli della Croce Rossa in Biafra: anche se le proteste internazionali costrinsero il presidente ad abrogare il decreto soltanto due settimane dopo, la crisi diede il via a una reazione a catena. Per ottenere il permesso di entrare nella zona di guerra, la Croce Rossa doveva mantenere un equilibrio precario, il che significava che doveva fare un gioco politico. Allora un gruppo di medici francesi operanti in Biafra criticò a gran voce la Croce Rossa perché faceva favoritismi, quindi cominciò a organizzare l’assistenza medica aggirando la politica. Negli anni successivi sarebbero diventati i Medici Senza Frontiere, organizzazione istituita come canale estraneo alla politica per portare aiuti sanitari nei paesi in difficoltà, cosa che, per paradosso, era stato uno dei motivi della fondazione della Croce Rossa. La resa Mentre in quegli anni l’enclave si riduceva, Ojukwu inasprì la sicurezza interna e per mezzo della propaganda indusse i biafrani a credere che la resa avrebbe portato a un genocidio. Le parti in lotta si accusavano a vicenda di massacri contro i civili, quindi invitarono nella zona di guerra degli osservatori esterni per dimostrare che obbedivano a tutte le leggi della guerra civilizzata, a differenza di quei selvaggi dell’altra parte. Il Biafra combatté finché non rimase molto da difendere: l’ultimo caposaldo fu abbandonato nel gennaio del 1970 e Ojukwu fuggì in Costa d’Avorio. Tuttavia non ci fu il consueto castigo che seguiva in genere le guerre civili del terzo mondo: né massacri, né esecuzioni, soltanto un’amnistia generale e la riconciliazione. Ovviamente vi furono delle voci in tal senso, ma nessuno le sottopose a un’indagine esterna. Si lodò ampiamente Gowon per l’inconsueta indulgenza, il che dimostra soltanto quanto sia davvero rara.3
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Genocidio bengalese Bilancio delle vittime: 1,5 milioni1 Posizione: 40 Tipologia: pulizia etnica Contrapposizione di massima: Pakistan Occidentale contro Pakistan Orientale Periodo: 267 giorni del 1971 Luogo: Pakistan Orientale Principale stato partecipante: Pakistan Stato quantico partecipante: Bangladesh Stato minore partecipante: India A chi diamo la colpa di solito: Agha Muhammad Yahya Khan
La geografia Inizialmente lo stato del Pakistan era costituito da due territori distinti ai lati opposti dell’India, che non condividevano nulla se non la religione musulmana e un passato imperiale britannico. L’ala occidentale del paese, il Pakistan Occidentale appunto, era il centro etnicamente eterogeneo del potere politico, mentre il Pakistan Orientale era in larga parte di lingua bengalese ed era trattato dall’ala occidentale come la colonia povera del delta. Il fatto che vi vivesse una popolazione lievemente superiore lo rendeva una miscela pericolosa. Quando nel novembre del 1970 sul Pakistan Orientale si abbatté un ciclone devastante, il governo federale reagì in maniera confusa. Il dittatore militare del paese, Agha Muhammad Yahya Khan, si preoccupò piuttosto delle gravose 724
questioni della politica globale: in quanto alleato di Cina e Stati Uniti, il Pakistan faceva da intermediario nell’organizzazione dei colloqui tra Nixon e Mao. Quando accadde il disastro, Yahya Khan si trovava appunto in Cina. Malgrado le centinaia di migliaia di suoi concittadini trascinati in mare dall’ondata di tempeste, Yahya fece ben poco per soccorrere i sopravvissuti. Prima ancora del Pakistan, si mossero altri paesi, come Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania Ovest, ecc. A causa dell’indifferenza del governo federale, in tutto il Pakistan Orientale guadagnarono consensi i nazionalisti bengalesi della Lega Awami, che si preparavano a vincere le elezioni imminenti. La politica Potrebbe sembrare strano che in Pakistan vi fossero nello stesso momento delle elezioni e un dittatore, ma per loro è normale. Storicamente il governo del Pakistan ha oscillato tra una specie di democrazia e una specie di dittatura; e in effetti non è insolito che i due elementi in qualche modo convivano. In genere ci sono un Parlamento, una stampa libera e una magistratura indipendente (più o meno), ma al governo del paese si alternano militari e civili. Al vertice c’è o un uomo forte delle forze armate che consente alla pubblica amministrazione di gestire lo stato finché non esplode nulla, oppure un presidente eletto che governa tramite tangenti e mazzette e non obbliga l’esercito a fare ciò che non vuole. Di solito il governo si incentra sulla personalità del suo leader, indipendentemente dalla carriera che lo ha condotto al potere. Alle elezioni del dicembre 1970 la Lega Awami guidata da Mujibur Rahman conquistò quasi tutti i seggi del Pakistan Orientale e ottenne così una solida maggioranza a livello nazionale, tuttavia ciò servì soltanto a convincere Yahya Khan che le elezioni libere erano state un errore. La giunta non avrebbe mai ceduto il governo a Mujibur Rahman, però doveva 725
affrontare lo spiacevole effetto collaterale del ripristino della democrazia in Pakistan. Finché restavano uniti dietro la Lega Awami, i bengalesi avrebbero avuto il potere di amministrare l’intero paese. Inoltre il voto mostrò che a prevalere nel Pakistan Occidentale era il Partito del Popolo Pakistano, il cui leader, Zulfiqar Ali Bhutto, rifiutò comunque di sedere in un Parlamento retto da Mujibur. Propose invece una federazione tra le due componenti del paese che, non c’è da sorprendersi, poneva lo stesso Bhutto al vertice della metà occidentale. I colloqui trilaterali tra Bhutto, Mujibur e Yahya si trascinarono stancamente, finché gli animi si accesero. Mujibur indisse una serie di scioperi e di proteste nel Pakistan Orientale bengalese e per tutta risposta, nel febbraio del 1971, Yahya Khan inviò i soldati per ripristinare l’ordine. «Uccidetene tre milioni» disse il presidente Yahya Khan ai suoi «e il resto mangerà dalle nostre mani».2 Chi lo difende ancora oggi si ostina a dire che non lo intendeva in senso letterale. Il massacro Il 7 marzo 1971 il generale Tikka Khan assunse il comando dell’esercito nel Pakistan Orientale: in poche settimane cominciò a massacrare i bengalesi a partire dalle università. Si diede inoltre la caccia agli intellettuali e ai politici bengalesi. Il primo giorno, il 25 marzo, a Dacca l’esercito uccise 3000 persone e per lo meno altre 30.000 nei pochi giorni successivi, mentre la città si svuotava per il panico. «La notte tranquilla si trasformò in un momento di lamenti, urla e fiamme» ha scritto nelle sue memorie un generale pakistano. «Il generale Tikka scatenò tutto ciò che aveva a disposizione, come se avesse di fronte un nemico. Anziché disarmare le unità bengalesi e incarcerare i leader, come gli era stato ordinato, fece ricorso all’uccisione dei civili e alla politica 726
della terra bruciata».3 All’università i soldati pakistani diedero fuoco al dormitorio femminile e mitragliarono le studentesse che fuggivano.4 I pakistani stipavano i prigionieri dentro un magazzino abbandonato della cittadina di Hariharpara, nei pressi di Dacca; di notte li spingevano fuori legati a gruppi di sei o più e li facevano immergere fino alla cintola nel fiume, infine, alla luce di potenti lampade ad arco, gli sparavano e abbandonavano i corpi alla corrente.5 Il 28 marzo il console americano a Dacca, Archer Blood, telegrafò al suo governo i dettagli del massacro in atto, implorando invano un intervento: «Qui a Dacca siamo testimoni muti e inorriditi di un regime di terrore da parte delle forze armate pakistane». Il Dipartimento di Stato, però, aveva bisogno di Yahya Khan come tramite con Mao, perciò impartì l’ordine di non infastidire i pakistani.6 Prima dell’inizio del massacro nel Pakistan Orientale non c’era stato un movimento separatista armato, ma ora i sopravvissuti cominciarono a riunirsi in milizie per reagire con qualunque arma riuscissero a rimediare. Intanto, nel corso di quei mesi, all’interno furono sradicati 30 milioni di bengalesi e per sfuggire ai massacri si riversarono in India tra i 6 e 10 milioni di profughi. Sopraffatta da questo massiccio afflusso di gente affamata e disperata, l’India decise di rendere sicuro il Pakistan Orientale, in modo che la popolazione potesse farvi ritorno. Il 3 dicembre, dunque, invase il Pakistan Orientale e già il 16 le truppe locali pakistane si arresero. Ciò permise la creazione di un Bangladesh indipendente.7
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Idi Amin Bilancio delle vittime: 300.0001 Posizione: 96 Tipologia: despota Contrapposizione di massima: Idi Amin contro tutti Periodo: 1971-1979 Luogo e principale stato partecipante: Uganda Stati minori partecipanti: Tanzania, Libia A chi diamo la colpa di solito: Idi Amin Idi Amin era un uomo enorme, era alto più di un metro e novanta e pesava 120 chili, però sapeva a malapena leggere e scrivere. Campione di pugilato e soldato professionista fino al midollo, Amin si fece strada all’interno dell’esercito coloniale britannico fino a diventare capo di stato maggiore del primo presidente eletto dell’Uganda, Milton Obote. Amin era in larga misura considerato un gioviale omaccione, talmente privo di fantasia da non costituire una minaccia; e siccome proveniva da una insignificante tribù sudanica non vantava i legami necessari per causare problemi. Proprio quando il presidente Obote stava pensando di sbarazzarsi di lui, nel gennaio 1971 Amin prese il potere con un colpo di stato. Quasi subito epurò dall’esercito gli appartenenti alle tribù acholi e lango, che avevano costituito il nucleo del seguito politico di Obote: ne uccise circa 10.000, all’interno di un esercito che peraltro non era tanto numeroso. Nello stesso tempo li rimpiazzò con uomini delle tribù sudaniche reclutati nel nord dell’Uganda e oltreconfine, nei territori islamici più affini alla sua gente. 728
Nel 1972 espulse 70.000 ugandesi di discendenza asiatica (per lo più indiana) e ne confiscò i beni; pur essendo popolare e temporaneamente remunerativo, il provvedimento distrusse l’economia. Gli antenati degli espulsi erano stati portati in Africa dagli inglesi per riempire i ruoli della pubblica amministrazione ed essi stessi costituivano la spina dorsale della borghesia del paese.2 Idi Amin allontanò dal paese i consulenti militari britannici e israeliani e si orientò verso una solidarietà tra musulmani, tanto che per contribuire a puntellare il suo regime presto arrivarono truppe dalla Libia. Quando nel 1976 alcuni palestinesi dirottarono un aereo di linea israeliano, trovarono un rifugio sicuro nell’aeroporto ugandese di Entebbe. E mentre Amin si beava dell’attenzione rivoltagli perché si trovava al centro di una crisi, irruppero dei commando israeliani che liberarono gli ostaggi. Naturalmente nessuno di questi è il motivo per il quale Idi Amin è diventato il nome più noto tra i criminali del terzo mondo: lo conosciamo perché venne alla ribalta facendo il pagliaccio. Durante tutte le crisi internazionali degli anni Settanta, la stampa mondiale poté sempre contare su un commento scandaloso che veniva dall’Uganda. Amin consigliò agli stati arabi di spedire piloti kamikaze contro Israele, rivolse al presidente Richard Nixon i sinceri auguri di «una pronta ripresa» dopo lo scandalo Watergate, per risolvere una controversia sui confini sfidò a un incontro di boxe il presidente di uno stato vicino, si conferì da solo la Victoria Cross britannica e si propose come re di Scozia. Persino il suo presunto cannibalismo fu trattato più come un vezzo affascinante che come una violazione dei diritti umani. Tra i titoli che si assegnò ci sono quello di «Signore di tutte gli animali della terra e dei pesci del mare» e quello di «Conquistatore dell’impero britannico», ma il suo preferito era Dada, cioè «Grande padre».3 Amin mantenne per tutto il tempo un regime tirannico tra i 729
più feroci della storia. Si gettavano i cadaveri nel Nilo perché non si faceva in tempo a scavare le tombe per le sue vittime: a un certo punto quella procedura fu troppo persino per i coccodrilli del Nilo, tanto che i cadaveri gonfi che galleggiavano intasarono le paratie della principale diga idroelettrica del paese, interrompendo così l’alimentazione elettrica. Non ebbe mai un seguito stabile, perché promuoveva o destituiva consiglieri e mogli con rapidità imprevedibile. Per sopravvivere i prigionieri erano costretti a mangiarsi a vicenda. Alla fine, quando l’Uganda si impoverì al punto che non rimase nulla da depredare, Amin spedì l’esercito in Tanzania a saccheggiare le terre di confine contese. L’esercito tanzaniano reagì in forze, invase l’Uganda e rivelò la verità sul suo regime. Accanto al palazzo prediletto di Amin, nel quartier generale dello State Research Bureau (la polizia segreta ugandese), furono ritrovati «tra i 20 e i 30 corpi sparsi per la stanza in diverso stato di decomposizione e mutilazione. Quasi tutti mostravano i segni di torture e il pavimento era coperto di macchie di sangue». Dalle carceri furono liberati detenuti laceri e distrutti, si esumarono le fosse comuni, che rivelarono crani sfondati con il calcio del fucile, braccia e gambe legate, bambini impalati.4 Frattanto Amin scappò in Libia, e da lì si spostò in Arabia Saudita, dove visse comodamente fino alla morte nel 2003.5
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Menghistu Hailè Mariàm Bilancio delle vittime: 2 milioni1 Posizione: 37 Tipologia: guerra civile di matrice etnica, regime comunista Contrapposizione di massima: Etiopia contro le sue minoranze Periodo di tempo: 1974-1991 Luogo e principale stato partecipante: Etiopia Stati minori partecipanti: Somalia, Cuba Stati quantici partecipanti: Eritrea, Tigrè Principali entità non statali partecipanti: Fronte di Liberazione degli Afar, Fronte Rivoluzionario Democratico del Popolo Etiope, Fronte di Liberazione Eritreo, Fronte Popolare di Liberazione Eritreo, Partito Rivoluzionario del Popolo Etiope, Fronte di Liberazione Oromo, Fronte di Liberazione della Somalia Abissina A chi diamo la colpa di solito: Menghistu Hailè Mariàm Ennesimo esempio di: guerra civile africana Dopo la seconda guerra mondiale, l’ex colonia italiana dell’Eritrea lungo la costa del mar Rosso fu unita all’Etiopia, sia come sbocco al mare sia quale ricompensa per tutti i problemi che l’Italia aveva causato agli etiopi. Siccome il popolo eritreo non assomiglia affatto a quello etiope, l’unione doveva configurarsi come una federazione che assegnava un alto grado di autonomia all’Eritrea, ma gli etiopi si fecero avidi e cominciarono ad amministrare da padroni la nuova provincia. Quando nel 1962 l’imperatore Hailé Selassié (vedi Guerra d’Etiopia) procedette all’annessione unilaterale dell’Eritrea, la 731
popolazione locale si ribellò. E così nei trent’anni successivi la costa etiope costituì una zona di guerra. A peggiorare questa guerra cronica provvide una carestia che colpì l’Etiopia nel biennio 1973-1974, uccidendo 100-200.000 persone nella provincia orientale del Tigrè; intanto il paese precipitava sempre più nel caos. Il Terrore rosso Nel settembre del 1974 una cricca di ufficiali dell’esercito denominata Derg (Consiglio) prese il potere nella capitale Addis Abeba e mise agli arresti l’imperatore Hailé Selassié. Il primo capo del governo provvisorio, il generale Aman Andom era eritreo, per questo non ci si fidava di lui, infatti fu assassinato dopo un paio di mesi. Al suo posto andò Tafari Bante, che proclamò l’Etiopia stato socialista. Dopo un anno di arresti domiciliari, Hailé Selassié fu strangolato nel suo letto e sepolto sotto una latrina del palazzo reale. Inoltre, nel primo anno di governo del Derg si giustiziarono senza processo cinquantasette alti funzionari, tra i quali gli ex primi ministri e diciassette generali. Nel complesso, durante le prime epurazioni trovarono la morte 10.000 presunti oppositori del nuovo regime. Nel 1977, durante una riunione del governo, il vicepresidente – il tenente colonnello Menghistu Hailè Mariàm – e i suoi trovarono una scusa per allontanarsi e lasciare la stanza. Un attimo dopo, Menghistu fece irruzione con degli uomini armati e aprì il fuoco contro tutti i presenti. Nella sparatoria, che si spostò nelle altre sale del palazzo, restarono uccisi Bante e i suoi sostenitori.2 Quindi Menghistu proseguì con l’epurazione delle fazioni marxiste rivali. In un discorso del maggio 1977 dichiarò fuorilegge il Partito Rivoluzionario del Popolo Etiope: «Morte ai controrivoluzionari! Morte all’EPRP!» Si organizzarono squadre di operai e di impiegati statali che andavano casa per 732
casa a scovare i sospetti da fucilare o strangolare con il filo metallico. Durante il Terrore rosso si gettavano i corpi per la strada con un cartello appeso al collo: «Se sostieni l’EPRP succederà anche a te». Nel corso del suo regime Menghistu fece uccidere a sangue freddo circa 80.000 avversari e detenuti politici.3 Guerra e ancora guerra Per gran parte della storia moderna, sembra che l’Etiopia abbia sempre avuto un paio di guerre in atto contemporaneamente: alcune sono guerre civili, altre sono conflitti di frontiera. Nel periodo del Derg, oltre a quella in Eritrea, le guerre infuriarono anche alle due estremità del paese: a sud si ribellarono i somali del deserto dell’Ogaden, nel Tigrè i comunisti intransigenti. In totale, per un motivo o un altro questi conflitti causarono la morte di un numero di persone compreso tra 400.000 e 600.000.4 I somali costituiscono una delle etnie più peculiari e numerose di tutta l’Africa, ma in epoca coloniale erano divisi tra cinque diverse giurisdizioni (di qui la stella a cinque punte che campeggia nella bandiera della Somalia). L’indipendenza ne mise insieme tre – i territori italiani e britannici, oltre all’angolo nordorientale del Kenya –, lasciando in tal modo al di fuori della nazione somala l’enclave francese del porto di Gibuti e il deserto dell’Ogaden, in Etiopia. Mentre quest’ultima era messa a dura prova dalla guerra civile, la carestia e le lotte intestine tra la varie fazioni, il dittatore somalo Mohamed Siad Barre decise che era il momento giusto per una conquista territoriale. Nel luglio del 1977 le truppe somale varcarono il confine con l’Etiopia e occuparono l’Ogaden, a sostegno dei ribelli somali locali. Le onde d’urto della guerra giunsero in tutto il mondo. Siccome si poteva usare il Corno d’Africa per bloccare l’afflusso di petrolio dal golfo Persico al canale di Suez, ogni 733
superpotenza voleva delle basi militari nell’area. L’Occidente aveva appoggiato la monarchia di Hailé Selassié e a loro volta i sovietici si erano tenuta buona la dittatura oltranzista della Somalia. Ora, però, con i comunisti al governo ad Addis Abeba, i russi erano passati a controllare l’intero Corno d’Africa, anche se la guerra nell’Ogaden metteva l’Unione Sovietica nella scomoda condizione di fornire armi a entrambe le parti in una guerra tra suoi alleati. Quando con il taglio degli aiuti alla Somalia i sovietici cercarono di porre fine all’invasione, Siad Barre cacciò i consiglieri sovietici e divenne amico dell’Occidente. Nel 1980 agli americani fu dunque concesso l’uso delle infrastrutture aeree e navali che i sovietici avevano costruito nella capitale somala Mogadiscio. Frattanto, per combattere al fianco degli etiopi arrivarono 24.000 cubani. I soldati cubani combatterono al posto dei sovietici in svariate guerre civili africane: innanzi tutto, rispetto ai russi avevano più un aspetto da terzo mondo (cioè, erano più scuri e trasandati) e molti avevano origini africane, perciò c’erano meno sgradevoli implicazioni coloniali. In secondo luogo, il dispiegamento diretto di truppe sovietiche avrebbe alzato la posta in gioco, trasformando il conflitto in una guerra tra grandi potenze. Con il contributo dei cubani, gli ultimi invasori somali furono respinti nel marzo 1978. La carestia È quasi inutile dire che la presa del potere dei comunisti in Etiopia portò all’ennesima carestia. Se abbiamo imparato qualcosa dai capitoli precedenti, è che i regimi comunisti non trassero alcuna lezione dai loro predecessori: non appena i comunisti cominciano a mettere mano nell’agricoltura la gente finisce alla fame. Il governo di Menghistu collettivizzò l’agricoltura con la brutalità e l’ostinazione tipiche dei comunisti di tutto il mondo, e la produzione di generi alimentari 734
crollò. Si cominciò con la siccità nel Tigrè e in Eritrea, che nel 19841985 divenne fame di massa. Ovviamente nessuno può dirlo con certezza, comunque la carestia uccise un numero imprecisato tra 0,5 e 2 milioni di esseri umani.5 Menghistu tentò di occultare l’ampiezza della carestia, cosa che impedì agli aiuti esterni di raggiungere l’Etiopia. Non fu soltanto l’ideologia a intensificare la carestia. Le guerre misero in moto migliaia di profughi, mentre Menghistu, allo scopo di affamare i ribelli, trasferì a forza centinaia di migliaia di contadini dalle province orientali lacerate dalla guerra verso ovest. Funzionò fin troppo bene, al punto che vennero ridotti alla fame sia i ribelli che i contadini, e la carestia si propagò. Alla fine l’Occidente se ne accorse e cominciò a inviare cibo. La reazione più visibile fu il concerto del Live Aid, che radunò decine di band e raccolse milioni in denaro liquido per alleviare la carestia. Non si trattò della prima azione di beneficenza internazionale organizzata nell’ambito del rock – il concerto di George Harrison per il Bangladesh è precedente –, però per molti aspetti fu la più grande. Quando alla fine arrivò il cibo dall’esterno, Menghistu tentò di distribuirlo a seconda della fedeltà della sua gente al regime; moltissime agenzie umanitarie occidentali lo avevano previsto, e non lo consentirono, in ogni caso anche questo causò ritardi, controversie e annullamenti che una popolazione morente di fame non poteva permettersi. La caduta Quando a metà degli anni Ottanta l’Unione Sovietica cominciò a prendere le distanze da un comunismo rigido, il leader Michail Gorbačëv tagliò gli aiuti all’Etiopia: senza questa stampella il regime di Menghistu prese a zoppicare. Nel 1988 l’Eritrea era ormai in larga misura nelle mani dei ribelli. Il Tigrè la seguì di lì 735
a breve. Nel maggio del 1991, mentre i gruppi ribelli convergevano attorno ad Addis Abeba, Menghistu fuggì nello Zimbabwe, dove si trova ancora oggi, in un comodo esilio. Con la prima soddisfazione della vittoria, tutte le varie fazioni si riunirono in un governo provvisorio dotato di un’ampia base e indissero delle elezioni, che furono quasi regolari. L’intermezzo democratico non durò molto prima che una fazione prendesse il sopravvento, ma quanto meno ci provarono. Il nuovo regime ritrovò lo scheletro dell’imperatore Hailé Selassié, che fu sepolto adeguatamente in una chiesa. A un anno dalla sconfitta di Menghistu, un referendum sostenuto dall’ONU offrì finalmente l’indipendenza all’Eritrea, un’opportunità che gli eritrei colsero con una maggioranza schiacciante. Era la prima volta che un movimento separatista riusciva davvero nel suo intento nell’Africa postcoloniale, facendo dell’Eritrea la prima nazione africana di seconda generazione.
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Vietnam postbellico Bilancio delle vittime: 365.0001 Posizione: 91 Tipologia: epurazione ideologica Contrapposizione di massima: comunisti contro ex anticomunisti Periodo: 1975-1992 Luogo e principale stato partecipante:Vietnam A chi diamo la colpa di solito: governo comunista del Vietnam unificato, pirati malesi Ennesimo esempio di: folle repubblica popolare La domanda senza risposta che si fanno tutti: questo significa che gli americani avevano ragione a entrare in Vietnam e torto ad andarsene? Nei giorni caotici che precedettero la caduta di Saigon, gli americani riuscirono a evacuare 175.000 alleati vietnamiti che sarebbero diventati gli obiettivi più ovvi della vendetta: funzionari governativi, ufficiali dell’esercito e figli di coppie miste. Nonostante i molti salvati, il nuovo governo comunista si ritrovò un’abbondanza di sudvietnamiti americanizzati e sospetti di cui occuparsi. Ai funzionari, agli insegnanti, agli ex ufficiali, alle fidanzate e agli studenti fu ordinato di presentarsi per un seminario di un mese in campi di rieducazione speciali. L’ardua prova non passò tanto rapidamente quanto promesso. Dovevano essere tenuti in quarantena, separati dalla nuova società, per essere trasformati in leali marxisti. I campi funzionavano sulla base di una specie di fervore religioso dedito a convertire questi casi ostici in cittadini modello, ma innanzi tutto occorreva piegarne la volontà, spesso con le torture, il 737
superlavoro, la fatica e la fame. Molti furono tenuti rinchiusi nei campi per dieci o quindici anni, a lavorare duramente ricevendo solo razioni minime. La disciplina era rigorosa: le caviglie e i polsi dei prigionieri erano sfregiati dalle catene e dalle manette. «Un tenente colonnello provò a fuggire dal campo di rieducazione di Lang Son corrompendo una delle guardie» raccontò un testimone. «Il suo piano fu scoperto, gli spararono a una gamba e lo presero. Il giorno dopo lo seppellirono vivo. Morì dopo quattro giorni».2 Quasi 1 milione di persone passarono per questi campi, in cui probabilmente ne furono giustiziate 65.000 e altre 100.000 morirono per mancanza di cure, per malattia o per il troppo lavoro. I campi di rieducazione vennero chiusi in occasione dell’amnistia generale del 1992, quando finalmente si liberarono migliaia di prigionieri che vi erano stati rinchiusi per diciassette anni. I boat people Di fronte ai nuovi spietati governanti, molti vietnamiti tentarono di fuggire dal paese. Diedero fondo a tutti i contanti che avevano a disposizione per corrompere i funzionari e comprare qualsiasi tipo di imbarcazioni, molte delle quali erano a mala pena in condizione di navigare, buone per un singolo viaggio di andata, forse, ma spesso nemmeno per quello. I rifugiati politici costituivano soltanto una parte di coloro che affrontavano l’esodo. Quando nel 1979 scoppiò una guerra di confine tra la Cina e il Vietnam, Hanoi perseguitò pesantemente ogni vietnamita di discendenza cinese come sospetto traditore. Probabilmente in pochi anni fuggirono dal Vietnam un milione di boat people e un quarto di loro trovò la morte in mare.3 I fuggitivi andavano alla deriva sotto il sole cocente in barche fallate, che affondavano lentamente, spesso esaurendo prima cibo e acqua. I morti venivano gettati fuori bordo. Oltre ai comuni rischi legati al mare, i boat people erano 738
vittime di pericoli dal volto umano. Le nazioni limitrofe, infatti, non li volevano: le guardie costiere locali li ricacciavano in mare aperto e quando approdavano su spiagge straniere i vigilantes li aggredivano. Molte barche venivano catturate dai pirati malesi: i vietnamiti venivano derubati di ogni avere, le donne stuprate, gli uomini picchiati. Come prima tappa, i boat people raggiungevano per lo più la Malaysia, Hong Kong, l’Indonesia e le Filippine, dove attendevano nei campi profughi che li accogliessero i paesi più ricchi. Il numero maggiore si sistemò negli Stati Uniti, ma anche Francia e Australia fecero entrare molte migliaia di persone.4 Verso la fine degli anni Ottanta arrivò un’altra ondata di boat people che rischiarono la vita per uscire dal Vietnam. Purtroppo, nel frattempo, il mondo li aveva classificati come rifugiati per motivi economici invece che politici. Furono considerati un fastidio e riscossero meno solidarietà. In un incidente del 1989, sette pirati armati di fucili da caccia e martelli hanno assaltato furiosi una imbarcazione di profughi che aveva lasciato il Vietnam il 14 aprile, con più di 130 persone a bordo, tra cui 20 bambini [...]. I pirati hanno sparato e hanno ucciso i due piloti e hanno violentato la maggior parte delle 15-20 donne e ragazze a bordo. Poi hanno incendiato l’imbarcazione. Nel panico che è seguito, molti rifugiati hanno afferrato boe, taniche e galleggianti e si sono tuffati in mare. […] I pirati hanno usato dei bastoni per impedire ai rifugiati di attaccarsi agli oggetti galleggianti. Ci fu un solo superstite, che andò alla deriva aggrappato ad alcune tavole galleggianti.5
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Kampuchea Democratica Bilancio delle vittime: 1.670.000 Posizione: 39 Tipologia: regime comunista Contrapposizione di massima: Khmer Rossi contro tutti Periodo: 1975-1979 Luogo: Cambogia (nome ufficiale: Kampuchea Democratica) A chi diamo la colpa di solito: Pol Pot e i Khmer Rossi Ennesimo esempio di: folle repubblica popolare
Urla del silenzio L’insurrezione comunista in Cambogia non andò molto oltre il livello delle bande di predoni delle campagne, finché i bombardamenti e l’invasione da parte degli americani allargarono oltreconfine la guerra del Vietnam. Allorché la Cambogia si fece inghiottire dal conflitto, vacillarono la credibilità e la stabilità del governo di Phnom Penh. La capitale cadde nelle mani dei Khmer Rossi il 17 aprile 1975. Quasi subito essi cominciarono a spingere la popolazione della città verso le campagne. Alla gente si diceva che gli americani stavano per bombardare, perciò bisognava affrettarsi, lasciarsi tutto alle spalle e raggiungere la campagna prima possibile. Chiunque disobbediva veniva fucilato, altrettanto accadeva a chi veniva scoperto nella lista dei nemici di classe. In tutta la Cambogia le città furono abbandonate da centinaia di migliaia di persone che non avrebbero mai più rivisto le proprie case. 740
La popolazione si spostò dunque nelle zone rurali. In una certa misura si trattava di una risposta puramente pratica alla penuria di cibo che affliggeva le città dopo anni di guerriglia, ma a guidare quello spostamento era anche l’ideologia. I Khmer Rossi non prendevano nemmeno in considerazione due sistemi più semplici, collaudati nel tempo, per far arrivare i generi alimentari negli insediamenti urbani: gli aiuti stranieri e il libero mercato.1 I Khmer Rossi credevano che l’unico stile di vita accettabile fosse quello semplice del più umile dei contadini cambogiani. Autosufficiente, soddisfatto e operoso, il contadino era sopravvissuto per secoli senza sfruttare il lavoro altrui: incarnava dunque l’ideale comunista. E così ci si aspettava che, ormai liberi dallo sfruttamento capitalistico, i contadini cambogiani triplicassero la produzione, dalla media di una tonnellata di riso per ettaro di prima della guerra a tre tonnellate di riso per ettaro. Nella realtà la produzione non ci arrivò neanche lontanamente. Negozianti, camerieri, impiegati, segretarie e chiunque avesse fatto parte della moderna società urbana furono classificati come «nuova gente», origine di tutto ciò che c’era di sbagliato nel mondo. Furono condotti a lavorare nelle fattorie, ma erano chiaramente sacrificabili. Se si adattavano alla vita contadina andava bene, ma se morivano di fatica era lo stesso. Furono classificate come Nuova Gente anche le minoranze etniche, sistematicamente spazzate via. Nei pochi anni successivi morì un terzo dei chăm – una minoranza etnica musulmana –, metà dei cinesi della Cambogia e circa il 40% dei laotiani e dei thailandesi che vivevano lungo il confine. Probabilmente ogni cambogiano di origine vietnamita che non scappò o si nascose in tempo finì per morire per mano dei Khmer Rossi. Non si è trovato nessuno che sia sopravvissuto a quell’epoca vivendo allo scoperto.2 Quando i Khmer Rossi cominciarono a cancellare gli intellettuali dalla Cambogia, fu chiusa ogni istituzione del 741
paese: templi, scuole, moschee, botteghe. Ovviamente si ammazzarono subito insegnanti, studenti, giornalisti e membri del clero, ma si sospettava di chiunque fosse macchiato dall’istruzione. Portare gli occhiali o conoscere una lingua straniera bastava per dimostrare che una persona era stata avvelenata da un pericoloso grado di cultura. Si uccidevano anche questi, dunque, insieme ai genitori, ai coniugi e ai figli. Come per le purghe sovietiche o la rivoluzione culturale di Mao, la macchia di nemico di classe ricadeva su tutti gli appartenenti a una famiglia. La scuola superiore Tuol Sleng, alla periferia di Phnom Penh, fu trasformata nella prigione S-21. I documenti mostrano che solo 7 dei 14.000 detenuti che entrarono nell’edificio sopravvissero alla visita. Sette e basta, non settemila.3 Il resto sono ormai soltanto fotografie contenute dentro dei faldoni e ossa nel terreno. Dopo che i sospetti avevano confessato qualunque crimine di cui li si accusava (e confessavano sempre), li si portava a gruppi nel vicino villaggio di Choeung Ek, dove li si fucilava e si gettavano i corpi nelle fosse comuni. Un quarto di secolo dopo, a Choeung Ek gli archeologi forensi hanno esumato quasi 9000 scheletri contenuti in ottantanove fosse; ne restano molte altre da esplorare. Il 1975 fu ribattezzato anno zero, il primo giorno era il 17 aprile. Fu abolito il denaro, nella nuova società non era necessario. L’agricoltura provvedeva a tutto ciò di cui aveva bisogno una persona, secondo una formula semplice: chi lavorava riceveva cibo, alloggio e vestiti, chi non lo faceva veniva fucilato. I quadri del partito imponevano la disciplina in tutte le campagne. Nelle fattorie i sovrintendenti dei Khmer Rossi uccidevano sommariamente le persone per la pigrizia o l’insolenza, perché rallentavano dopo quel ciclo incessante di duro lavoro, cibo scarso e poco sonno, perché rubavano il cibo per integrare le proprie magre razioni, perché mostravano rabbia o tristezza quando veniva ucciso qualcun altro. Il resto lo colpì 742
la carestia. Al di là del confine con la Thailandia spuntarono i campi profughi, che alla fine del regime ospitavano 600.000 cambogiani terrorizzati. Quando cominciarono a trapelare i racconti delle atrocità, il mondo ne fu sconvolto, e se non fu sconvolto fu solo perché prevalse lo scettismo. Nessuno aveva mai visto una cosa del genere, nessun’altra rivoluzione aveva completamente cancellato con altrettanta rapidità le tracce delle vecchie abitudini. Né mai un tale sterminio di massa era stato perpetrato contro un popolo dalla sua stessa gente. Pol Pot A differenza di gran parte degli altri regimi comunisti, in Cambogia a circondare chi deteneva il potere non c’era alcun culto della personalità. Inizialmente il volto pubblico del regime fu il principe Sihanouk (vedi Guerra del Vietnam), che dopo circa un anno fu arrestato e tenuto nascosto. Per quanto se ne sapeva, ad amministrare la Cambogia era la riservata Angkar (Organizzazione), una oscura cricca di ideologi anonimi,4 il cui leader era noto al pubblico soltanto con l’appellativo di «Fratello Numero Uno». Nato con il nome di Saloth Sar da una famiglia di contadini agiati in un momento imprecisato degli anni Venti, il Fratello Numero Uno era stato educato dai monaci buddisti, dalle suore cattoliche e dai professori di Parigi. Avevano cercato di insegnargli mestieri utili come la falegnameria e la radioelettronica, ma lui era più interessato alla politica, perciò lasciò svariate scuole. Dopo essersi unito ai ribelli del Viet Minh nella lotta contro i francesi, andò a studiare a Parigi. Abbandonati gli studi, tornò a Phnom Penh per insegnare (il lavoro diurno) e contribuire a organizzare il piccolo contingente cambogiano del Viet Minh in un movimento separato destinato a rovesciare la monarchia (l’hobby). Nel 1961 un giro di vite della polizia nella capitale lo costrinse a fuggire nelle 743
campagne, dove assunse il nome di battaglia di Pol Pot.5 Asceso al ruolo di segretario generale del partito comunista, procedette all’eliminazione dei meno puri tra i suoi colleghi: cacciò stranieri, moderati e intellettuali. Quando i Khmer Rossi conquistarono il potere in Cambogia, nell’organizzazione restavano soltanto i più puri. Questo enorme ricambio aveva rimosso gli anziani e i veterani esperti del movimento e ne aveva gremito i ranghi di adolescenti fanatici – spesso ragazzini –, il che potrebbe spiegare molta della ferocia impulsiva del regime.6 La terza guerra d’Indocina In quanto cambogiani, i Khmer Rossi avevano ereditato un odio di matrice etnica nei confronti dei vietnamiti che trascendeva la solidarietà tra comunisti. Quando cercarono di intimorire i vietnamiti con incursioni al di là del confine, i cambogiani suscitarono un vespaio. L’esercito vietnamita varcò il confine in forze nel dicembre del 1978: presto lo scontro divenne una guerra per procura tra Cina (che appoggiava la Cambogia) e Russia (che sosteneva il Vietnam). I vietnamiti giunsero a Phnom Penh in due settimane, mentre l’Angkar fuggì nelle campagne. Presto i Khmer Rossi furono respinti e isolati nelle boscaglie, dove potevano fare meno danni. Per uno di quei paradossi alla Orwell, per cui «l’Oceania era sempre stata in guerra con l’Eurasia», gli Stati Uniti si unirono alla Cina nel sostegno ai Khmer Rossi in fuga, nella loro lotta contro i fantocci sovietico-vietnamiti insediati a Phnom Penh. Nonostante ormai tutti fossero a conoscenza delle atrocità, i Khmer Rossi mantennero il seggio presso le Nazioni Unite quale governo ufficiale della Cambogia fino al 1992, allorché quasi tutte le fazioni in lotta nella guerra civile accettarono la cessazione delle ostilità e l’indizione di libere elezioni sotto il patrocinio dell’ONU. Pol Pot scomparve nella giungla nel 1979 e non si vide più 744
fino al luglio del 1997, quando venne alla luce un video che mostrava un uomo debole sottoposto a un processo per tradimento in un’enclave dei Khmer Rossi. I suoi ex compagni lo condannarono agli arresti domiciliari in una capanna vicino al confine con la Thailandia.7 Dopo qualche altro mese di silenzio, nell’aprile del 1998 nella capanna furono condotti giornalisti e funzionari a cui fu mostrato il cadavere di Pol Pot, morto d’infarto.8 Bilancio delle vittime Probabilmente l’autogenocidio cambogiano è secondo soltanto all’Olocausto come assassinio di massa più studiato del XX secolo, perciò è facile rinvenire i conteggi dei morti. A un estremo c’è il governo cambogiano instaurato dai conquistatori vietnamiti, il quale asserì che sotto il precedente regime di Phnom Penh erano morti 3,3 milioni di cambogiani.9 Si tratterebbe di circa metà della popolazione originaria: siamo al limite massimo della plausibilità. All’estremo opposto, la stima di Michael Vickery – 400.000 morti – è il bilancio delle vittime più basso proposto seriamente da uno storico che sa il fatto suo.10 Gran parte degli autori calcola un numero di vittime compreso tra 1 e 2 milioni; la cifra precisa che riscuote il maggiore consenso è probabilmente quella proposta da Ben Kiernan, cioè 1.670.00011 (approssimativamente un quinto della popolazione).
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Guerra civile del Mozambico Bilancio delle vittime: 800.0001 Posizione: 55 Tipologia: guerra civile di matrice ideologica Contrapposizione di massima: Frelimo contro Renamo Periodo: 1975-1992 Luogo e principale stato partecipante: Mozambico Stato minore partecipante: Sudafrica Principale entità non statale partecipante: Renamo A chi diamo la colpa di solito: Renamo Ennesimo esempio di: guerra civile africana Gli europei abbandonarono le proprie colonie africane per lo più tra il 1955 e il 1965, dopodiché l’ultimo ostinato bastione del dominio bianco sul continente rimase un blocco di terre a sud: i regimi dell’apartheid di Sudafrica e Rhodesia, stretti alle colonie portoghesi di Angola e Mozambico. Nel 1962 all’interno dell’Africa Orientale Portoghese un’ampia coalizione di ribelli si costituì nel Fronte di Liberazione del Mozambico (Frelimo), che negli anni successivi tenne sotto pressione il governo portoghese con una guerra civile nelle foreste, nella speranza che alla fine gli imperialisti rinunciassero e se ne tornassero a casa. Nel 1974 un colpo di stato a Lisbona pose fine alla dittatura portoghese e instaurò la democrazia: l’anno seguente il nuovo governo concesse l’indipendenza alle colonie d’oltremare. Il Frelimo assunse il controllo del Mozambico, quindi il governo si proclamò comunista, ottenendo l’appoggio dei sovietici. E il Mozambico si trasformò nel rifugio e nel centro di addestramento dei ribelli che combattevano contro i regimi 746
dell’apartheid dei paesi confinanti. Per ritorsione, Rhodesia e Sudafrica organizzarono emarginati, scontenti e dissidenti di ogni genere in una nuova organizzazione ribelle, la Resistenza Nazionale Mozambicana (Renamo), che non aveva un’ideologia unitaria o degli obiettivi politici precisi, se non il rovesciamento del Frelimo. I vertici della Renamo provenivano dalle «autorità tradizionali cadute in disgrazia – piccoli capi, curandeiros (guaritori), medici stregoni, medium – scartati dal Frelimo nel momento in cui si gettavano le fondamenta di un nuovo millennio panetnico e socialista. Nel tener alto lo spirito guerresco della Renamo la magia svolgeva un ruolo utile: se i combattenti si sfregavano il corpo con delle erbe, le pallottole del Frelimo ‘si trasformavano in acqua’».2 La truppa invece era formata dai contadini costretti dal Frelimo a cedere anche la più piccola parte di terra che possedevano per andare a lavorare nelle fattorie collettive. La Renamo cercò di destabilizzare il governo terrorizzando i civili e danneggiando l’economia. I ribelli distruggevano ponti e centrali elettriche, mettendo così il paese in ginocchio. Peggio ancora, gli attacchi contro la popolazione erano progettati per amplificare al massimo il terrore: spesso si tagliavano orecchie, naso e labbra agli abitanti dei villaggi, che poi venivano lasciati liberi come monito per gli altri. Nel 1988 un rapporto del Dipartimento di Stato statunitense calcolò che a metà degli anni Ottanta la Renamo aveva manifestamente ucciso 100.000 persone con scorrerie, rapimenti e fucilazioni a caso. Le loro atrocità spinsero in esilio 1 milione di profughi; altri 3,5 milioni dovettero spostarsi all’interno del paese.3 Dopo anni di guerra, la Banca Mondiale classificò il Mozambico come il paese più povero del mondo; non il secondo o il terzo, non «tra i più poveri», bensì all’ultimissimo posto.4 Nel 1990 si avviarono i colloqui tra le parti, e subito dopo sia la Russia comunista che il Sudafrica dell’apartheid finirono nella pattumiera della storia.* In tal modo il Mozambico non fu più una pedina all’interno di lotte più ampie: senza 747
sostenitori che li rifornivano di nuove munizioni, nel 1992 i due contendenti accettarono un cessate il fuoco. Il Frelimo si confermò al potere con le elezioni libere che si tennero nell’ottobre del 1994, mentre la Renamo divenne un legittimo partito d’opposizione, dotato di un consenso sorprendente.
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Guerra civile dell’Angola Bilancio delle vittime: 500.0001 Posizione: 70 Tipologia: guerra civile di matrice ideologica Contrapposizione di massima: MPLA contro UNITA Periodo: 1975-1994 Luogo e principale stato partecipante: Angola Stati minori partecipanti: Cuba, Sudafrica Principale entità non statale partecipante: UNITA A chi diamo la colpa di solito: Jonas Savimbi Fattori economici: petrolio, diamanti Ennesimo esempio di: guerra civile africana A una prima occhiata questa potrebbe sembrare la replica esatta della guerra del Mozambico (vedi Guerra civile del Mozambico), anche se con nomi diversi. Quando nel 1975 se ne andarono i portoghesi, assunsero il potere i guerriglieri marxisti (in questo caso il Movimento Popolare di Liberazione dell’Angola, o MPLA) sostenuti dagli aiuti sovietici. Per evitare che si immischiassero nei suoi affari, a sua volta il Sudafrica appoggiò un’insurrezione. La guerra si esaurì con la scomparsa dei finanziatori stranieri. Insomma, sostituiamo la Renamo con l’UNITA e il capitolo è bello e pronto. Negli anni Ottanta i ribelli dell’Unione Nazionale per l’Indipendenza Totale dell’Angola (UNITA), capeggiati dal carismatico delinquente Jonas Savimbi, riuscirono a ritagliarsi un’enclave autonoma corrispondente a un terzo del paese. Nella sua lotta contro il governo dell’MPLA, oltre che dal Sudafrica Savimbi ottenne aiuti dagli Stati Uniti, dalla Costa d’Avorio e da Mobutu Sese Seko dello Zaire (Congo). 749
A differenza del Mozambico, l’Angola dispone di evidenti risorse naturali: diamanti e petrolio. La guerra teneva bassa la produzione, facendo così alzare i prezzi, perciò le poche imprese disposte a rischiare di farsi prendere tra due fuochi riscuotevano ottimi profitti. In genere esse dovevano mantenere grossi eserciti privati, il che offriva loro mano libera nello sfruttamento di tutte le risorse senza concorrenza o controversie sindacali. Spesso si sparava a chiunque venisse colto nei pressi delle miniere delle compagnie a cercare di scavare diamanti per sé. Si arrivava a sparare persino ai contadini che zappavano nei campi, scambiandoli per minatori illegali.2 Rispetto alla media dei conflitti africani, la guerra angolana risucchiò al proprio interno più truppe straniere. Al fianco dell’MPLA combatterono 50.000 soldati cubani,3 mentre spesso i soldati sudafricani varcavano il confine per dare la caccia agli insorti dello stato satellite del Sudafrica stesso, la Namibia. Nel 1978, a Cassinga, in Angola, i sudafricani massacrarono 600 profughi namibiani, con la scusa che quella comunità dava rifugio ai terroristi; tuttavia per una gran parte, se non tutti, non erano combattenti. Nel 1991 si negoziò un cessate il fuoco e l’anno successivo si indissero delle elezioni democratiche, ma quando Savimbi si rese conto che avrebbe perso, tornò a combattere. Prima che gli si proponesse un accordo per la condivisione del potere, in un altro anno di guerra restarono uccisi altri 100.000 angolani. Savimbi rifiutò, ma ormai i suoi sostenitori ce l’avevano con lui; l’UNITA fu sottoposta a un embargo e finalmente nel 1994 il presidente americano Bill Clinton riconobbe l’MPLA quale governo legittimo. In genere si considera questo il termine ufficiale della guerra. Senza i finanziamenti stranieri, gli unici fondi a cui Savimbi poteva arrivare erano legati al contrabbando di diamanti, e così fu spinto sempre più lontano dalle zone importanti del paese. Nel 2002 fu infine ucciso in uno scontro con le truppe governative, dopodiché l’UNITA si è placata. 750
Guerra dei boschi dell’Uganda Bilancio delle vittime: 500.0001 Posizione: 70 Tipologia: guerra civile Contrapposizione di massima: Obote contro Museveni Periodo: 1979-1986 Luogo e principale stato partecipante: Uganda Principale entità non statale partecipante: Esercito di Resistenza Nazionale A chi diamo la colpa di solito: Milton Obote Ennesimo esempio di: guerra civile africana Dopo aver cacciato Idi Amin (vedi Idi Amin), la Tanzania trasferì il controllo del paese a una commissione di ugandesi, che nei pochi mesi successivi sperimentarono e scartarono una serie di capi di stato inefficienti. Alla fine, nel dicembre del 1980, delle elezioni truccate premiarono Milton Obote, il primissimo presidente del paese (1962-1969). Benché la prima volta fosse stato un presidente relativamente rispettabile e soltanto lievemente corrotto, in esilio Obote si era inasprito. Stavolta amministrò l’Uganda quasi esclusivamente per conto di un pugno di tribù predilette – i teso, gli acholi e i lango, la sua stessa gente –, le quali avevano sofferto sotto la tirannia di Amin. Obote creò rapidamente una dittatura iniqua esattamente quanto quella di Idi Amin, sia pure meno pittoresca ed eccentrica, perciò il mondo per lo più lo ignorò. L’opposizione contro Obote confluì attorno all’Esercito di Resistenza Nazionale di Yoweri Museveni. Questi, a differenza di Amin e Obote, era un bantu del sud, precisamente apparteneva alla tribù dei banyankole; inoltre era più istruito 751
degli altri due, essendosi laureato in Tanzania. La resistenza era particolarmente forte nel triangolo di Luwero, a nord della capitale Kampala, dove i soldati di Obote portarono il terrore cacciando due terzi della popolazione. Le donne subivano regolarmente stupri di gruppo, mentre le forze armate apprendevano le ultimissime tecniche di tortura dai consiglieri nordocoreani. A metà del 1981 l’esercito massacrò sessanta persone nel centro della Croce Rossa. I ribelli di Museveni reclutavano in massa tra gli orfani creati dalle stragi dell’esercito di Obote, però li educavano alla politica moderata, anziché al consueto estremismo dei fronti rivoluzionari. La goccia che fece traboccare il vaso fu la strage di parecchie decine di civili, tra cui un religioso anglicano, avvenuta nel maggio 1984 a Namugongo, appena fuori Kampala. Il mondo condannò Obote per un’atrocità tanto evidente e nel luglio dell’anno seguente il presidente fu deposto dal suo comandante nel triangolo, un acholi di nome Bazilio Olara-Okello. Obote fuggì in esilio nello Zambia, ma Olara-Okello cominciò davvero male, perché le sue truppe si scatenarono nella capitale, uccidendo e saccheggiando impunemente. Anche se il consenso passò rapidamente ai ribelli, Museveni attese il momento in cui l’odio per il regime di Olara-Okello sarebbe divenuto schiacciante. Museveni era uno studioso di Mao, il Mao buono, il Mao ribelle che si muoveva come un pesce nell’oceano della gente comune. Quando nel gennaio 1986 conquistò la capitale, non vi furono omicidi, né si verificarono atrocità allorché i suoi eliminarono la resistenza nelle campagne. Museveni stabilì rapidamente un notevole livello di pace e sicurezza in un paese che per una generazione aveva incarnato l’inferno del terzo mondo.2
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L’Africa postcoloniale Le guerre civili di Angola, Mozambico e Uganda sono rappresentative dei conflitti che sono infuriati in tutta l’Africa nei quarant’anni passati. Ecco una breve lista delle guerre civili più micidiali del continente dopo l’indipendenza: Congo (1998-2002): 3.800.000 Sudan (1983-2005): 1.900.0001 Nigeria (1966-1970): 1.000.000 Ruanda (1994): 937.000 Mozambico (1975-1992): 800.000 Etiopia (1962-1992): 500.000 Somalia (dal 1991): 500.000 Angola (1975-1994): 500.000 Sudan (1955-1972): 500.000 Uganda (1979-1986): 500.000 Burundi (1993-2004): 260.0002 Liberia (1989-2003): 250.0003 Darfur (dal 2003): 200.000 Non preoccupatevi se non riuscite a collocare tutti questi paesi africani: nomi e contorni non sono importanti. Raramente, infatti, gli stati africani corrispondono a una autentica entità nazionale. Il continente fu spezzettato arbitrariamente dalle potenze coloniali ai tempi dei grandi congressi del XIX secolo. Un forte sulla costa o una missione cristiana bastavano come pretesto per ricavare un piccolo territorio dalla campagna circostante; inoltre il modo più facile per delimitare un territorio consisteva generalmente nel tirare una linea diritta tra due punti qualunque della carta geografica. Queste piccole enclave furono poi riunite in vasti imperi che spedivano oltreoceano caucciù, avorio, oro, rame, caffè e diamanti. All’inizio del secolo scorso si davano questi territori in 753
cambio di concessioni altrove, oppure si mettevano sul banco come fiches del poker durante ogni guerra europea. Di solito all’interno di ciascuna colonia le potenze europee sceglievano un gruppo etnico rispetto agli altri, al quale offrivano un’istruzione per farne impiegati pubblici e graduati delle forze armate; in tal modo si crearono delle minoranze locali che sostenevano lo status quo, nonché un circolo vizioso di privilegi e rancori che perdurò fin oltre l’indipendenza. I paesi africani che furono liberati negli anni Sessanta e Settanta non avevano alcuna identità specifica, se non quella di ex colonie di qualcun altro. In genere ogni nuovo stato conteneva un’infelice miscela di nemici tradizionali che litigavano come gatti dentro un sacco. Tuttavia l’imperialismo fu solo l’inizio: i paesi africani sono in larga parte indipendenti quasi quanto lo erano ai tempi della dominazione coloniale e dopo l’indipendenza sono stati ugualmente maltrattati dai governanti locali. Di solito questi leader facevano ricorso alla retorica dell’anticolonialismo, dell’anticomunismo o dell’anticapitalismo – uno a caso purché funzionasse – per riscuotere consensi in patria e all’estero, oltre che per ottenere carta bianca nel saccheggio del proprio paese a scopo personale. I migliori si potevano davvero esaltare come i despoti illuminati dell’Europa settecentesca. Certo, si appropriavano di qualcosa, mettevano i parenti sul libro paga e sbattevano in carcere i giornalisti che parlavano chiaro, però c’era di buono che ridistribuivano una parte delle tasse per la costruzione di scuole, ospedali, strade e reti elettriche e costringevano le multinazionali a pagare un giusto prezzo per l’estrazione delle risorse nazionali. I tiranni mediocri dell’Africa hanno rubato di più, oppresso di più e hanno dilapidato somme enormi in vistosi progetti frutto di vanagloria, oltre ad aver ceduto allegramente le risorse nazionali in cambio di tangenti. I peggiori hanno istituito paranoici culti della personalità, per poi sbarazzarsi di chiunque mancasse di apprezzare il loro splendore. Soltanto negli anni Novanta abbiamo cominciato a vedere alcuni paesi 754
africani diventare vere e proprie democrazie.* I diplomatici africani sostengono che ridisegnare i confini non è tra le priorità, prima occorre risolvere i tanti problemi sociali ed economici dell’Africa. Eppure in futuro in Africa probabilmente vedremo un altro gran numero di guerre o per adeguare i confini alla distribuzione etnica oppure per adeguare quest’ultima ai confini. In ogni caso vi saranno coinvolti gli eserciti.
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Invasione sovietica dell’Afghanistan Bilancio delle vittime: 1,5 milioni1 Posizione: 40 Tipologia: guerra civile di matrice ideologica Contrapposizione di massima: comunisti contro mujaheddin Periodo: 1979-1992 Luogo: Afghanistan Principali stati partecipanti: Afghanistan, Unione Sovietica Principali entità non statali partecipanti: molti signori della guerra A chi diamo la colpa di solito: Leonid Brežnev Ennesimo esempio di: guerra di terra di una superpotenza in Asia La domanda senza risposta che si fanno tutti: questo causò la fine dell’Unione Sovietica?
Colpi di stato e contro-colpi di stato All’inizio della guerra fredda l’Afghanistan era stato un tiepido alleato e satellite dell’Unione Sovietica. Non era comunista, però i sovietici erano impazienti di rendere stabile quel vicino della porta accanto, perciò fornivano alla monarchia di Kabul tutte le armi e il denaro necessari per mantenere l’ordine. Nel luglio del 1973, mentre il re dell’Afghanistan era in vacanza in Francia, un golpe del primo ministro, il generale Mohammed Daud Khan, cugino di primo grado del re, rese inutile il viaggio di ritorno. Da una pigra monarchia 756
l’Afghanistan si trasformò in una pigra dittatura, cui le Nazioni Unite rivolsero appena un’occhiata; tuttavia tale interruzione dello status quo indusse a un riesame i due avversari della guerra fredda. Daud non aveva un programma o un orientamento politico precisi, ma quando l’Iran (che all’epoca dello scià era un satellite degli americani) cominciò a riversare denaro nel paese per comprare l’amicizia di Daud, i comunisti afghani stabilirono il loro gioco di potere. Nell’aprile del 1978 i comunisti delle forze armate afghane si impadronirono del governo e uccisero Daud. Il nuovo leader, Nur Mohammad Taraki, avviò le consuete riforme comuniste miranti a tirare fuori il paese dal Medio Evo, cosa che in tutto l’Afghanistan accese una piccola guerra civile tra comunisti e tradizionalisti. Taraki cominciò inoltre a imprigionare ribelli e dissidenti nel nuovo carcere di Pul-I-Charki, edificato dai sovietici nei pressi di Kabul, dove nei dieci anni successivi si uccisero migliaia di persone e se ne gettarono i cadaveri nelle fosse comuni. A seguito della rivoluzione islamica verificatasi in Iran (tra gennaio e aprile del 1979), i russi si fecero diffidenti nei confronti delle minoranze musulmane all’interno dell’Unione Sovietica, inoltre erano preoccupati che l’Afghanistan sfuggisse al loro controllo. Quindi aumentarono gli aiuti e assegnarono più consiglieri al governo. A marzo di quell’anno, gli operai afghani che erano tornati di recente dall’Iran con idee islamiste si ribellarono ai programmi laici dei comunisti nella città occidentale di Herat. Si ammutinò anche il reparto locale dell’esercito, che prese il controllo della città. Scovarono e uccisero decine, forse centinaia, di consiglieri sovietici e loro familiari, poi ne trascinarono i corpi mutilati per le strade. Per tutta risposta i carri armati afghani e l’aviazione sovietica spianarono la città, uccidendo 20.000 abitanti.2 A settembre il leader sovietico Leonid Brežnev si incontrò con Taraki, ma continuò a rifiutare la richiesta afghana di un invio di truppe di terra sovietiche: Brežnev sapeva che un 757
intervento esplicito avrebbe spinto il popolo afghano contro il governo comunista. Quasi subito dopo il suo ritorno a Kabul, Taraki restò ucciso in un contro-colpo di stato guidato dal suo vice, Hafizullah Amin, un comunista indipendente formatosi negli Stati Uniti. Brežnev restò sconvolto dall’assassinio del suo ospite recente e riprese in considerazione l’intervento.* A dicembre comparvero dal nulla dei commando sovietici, che assaltarono il palazzo e uccisero Amin. Poi, per assumere il potere, tornò dall’esilio sovietico l’uomo scelto da Brežnev quale presidente dell’Afghanistan, Brabrak Karmal. E Brežnev approvò rapidamente la richiesta di un grosso contingente di truppe di terra sovietiche avanzata da Karmal.3 La guerra A questo punto, a pochi giorni soltanto dall’invasione, tutti sapevano che i sovietici avevano già perso la guerra. O per lo meno è ciò che hanno asserito in seguito. Nelle loro memorie tutti i generali sovietici giurano che avevano tentato di dissuadere Brežnev dall’invasione del paese; i consiglieri del presidente americano Jimmy Carter affermano di aver ridacchiato e saltellato allegramente per i corridoi della Casa Bianca,** ora che la Russia stava per andare incontro al suo Vietnam. Nella pratica, ci volle quasi un decennio perché l’Unione Sovietica si rendesse conto che non poteva vincere quella guerra. Il conflitto afghano non rientra in una struttura narrativa tradizionale: fu per lo più una questione di pattugliamenti, incursioni e offensive localizzate contro un mosaico di signori della guerra e di alleanze ribelli. Nel 1984 i sovietici avevano 115.000 uomini in Afghanistan, di cui solo il 15%, però, era a disposizione per le offensive. Il restante 85% era vincolato alle funzioni di presidio, eppure riuscirono a controllare quasi soltanto le grandi città e le strade che le collegavano. Il resto del 758
paese apparteneva ai guerriglieri e ai signori della guerra. I mujaheddin (i ribelli musulmani) potevano contare sul Pakistan e l’Iran quali rifugi sicuri dove addestrarsi e riprendersi al di fuori della portata dei sovietici. Attraverso il Pakistan, gli Stati Uniti e gli stati islamici conservatori come l’Arabia Saudita facevano arrivare finanziamenti e rifornimenti ai ribelli, i quali erano sostenuti anche dalla nuova repubblica fondamentalista dell’Iran, ancorché assolutamente non in associazione con gli Stati Uniti. Ai tempi sia dei sovietici che dei talebani, la valle del Panshir la tennero i ribelli di etnia tagika, capeggiati da Ahmad Shah Massoud. Siccome la valle si diramava dalla strada principale tra Kabul e il confine sovietico, il controllo del Panshir era vitale per l’esito della guerra. Qui i sovietici sferrarono invano ben nove enormi offensive corazzate contro le roccaforti dei ribelli. Quando i ribelli si dimostravano difficili da prendere, spesso le forze comuniste reagivano uccidendo tutti quelli che riuscivano a scovare: ostaggi, familiari, astanti dall’aria sospetta. Malgrado la censura sulla stampa, dalla zona di guerra filtrava qualche racconto delle atrocità. Ogni attacco dell’artiglieria ribelle poteva provocare una feroce rappresaglia sovietica. Nel 1979 le forze sovietiche e quelle governative afghane uccisero 1300 abitanti dei villaggi della provincia di Konar.4 All’inizio del 1985 i sovietici massacrarono centinaia di civili nella provincia settentrionale di Kunduz;5 come rappresaglia per l’attacco a un convoglio nei pressi di Kandahar, nell’ottobre del 1983 furono cancellati tre villaggi dei dintorni.6 Il rallentamento Nel 1985 i mujaheddin erano quasi piegati, ma i sovietici non lo sapevano. Anzi, a Mosca il nuovo regime riformista di Michail Gorbačëv cominciò a riconsiderare l’intera avventura afghana. Tra il 1985 e il 1986 i sovietici si ritirarono dalle vaste 759
operazioni di combattimento, lasciando all’esercito afghano il grosso degli scontri; loro intraprendevano soltanto piccole incursioni con dei commando speciali. Nel 1987 la linea di condotta sovietica prevedeva di combattere solamente battaglie difensive, e soltanto quando era necessario. Il presidente Karmal fu mandato in pensione a Mosca nel maggio del 1986 e il governo dell’Afghanistan passò nelle mani di Mohammad Najbullah, capo della polizia segreta, che nel corso del 1987 cercò di essere meno autoritario e di portare al governo l’opposizione moderata, in modo da dividere la ribellione. In un colloquio privato del settembre 1987, il ministro degli Esteri sovietico Eduard Shevardnadze cercò di coinvolgere il segretario di Stato americano George Shultz in un approccio comune alla questione dell’Afghanistan. Shevardnadze provò a convincere il suo omologo statunitense che presto per l’Occidente il fondamentalismo islamico sarebbe stato più pericoloso del comunismo, pertanto le superpotenze avrebbero dovuto ricostruire congiuntamente quella nazione lacerata dalla guerra. Non se ne fece nulla, ma si tratta di una di quelle occasioni perse che col senno di poi appaiono sempre più grandi, soprattutto dopo l’11 settembre 2001, quando i mujaheddin che operavano al di fuori dell’Afghanistan attaccarono gli Stati Uniti. A ottobre del 1987, mentre la guerra rallentava, nei campi profughi del Pakistan c’erano 2,9 milioni di afghani, e altri 2,3 milioni si trovavano in Iran.7 Nell’aprile del 1988 si firmarono gli accordi di Ginevra, che normalizzarono le relazioni tra Afghanistan e Pakistan: di solito li si considera l’inizio della fine della guerra, anche se riguardavano soltanto gli stati sovrani e non furono siglati dai mujaheddin. I sovietici avviarono il ritiro delle truppe a maggio, l’ultimo soldato se ne andò nel febbraio del 1989. Fu l’ultimo conflitto della guerra fredda; oggi si è ormai chiarito che l’Unione Sovietica non poteva permettersi di stare 760
al passo con gli avversari americani. Ai sovietici la guerra in Afghanistan era costata più o meno quanto sarebbe costata agli americani la guerra del Golfo del 1991 (rispettivamente 708 e 619 miliardi di dollari), ma i risultati furono estremamente diversi. Per i sovietici quei miliardi erano stati scovati e distribuiti in dieci anni, erano costati 13.310 perdite e avevano portato a una sconfitta, alla bancarotta e alla prostrazione. All’incirca per lo stesso prezzo – spiccioli, per i criteri occidentali – gli americani poterono combattere una guerra più concentrata, che vinsero in meno di un anno riportando soltanto 383 perdite.*** Guerra senza fine Contraddicendo ogni pronostico formulato all’epoca, il governo comunista di Kabul resistette per vari anni dopo il ritiro dei russi. Riuscì a tenere a bada i ribelli e ad abbatterlo furono soltanto le divisioni interne. All’approssimarsi dei ribelli il presidente Najbullah si dimise e passò il governo a un subalterno, il quale nemmeno riuscì a reggere. Nel 1992 i fondamentalisti islamici della milizia talebana conquistarono Kabul e fecero prigioniero Najbullah, il quale languì in carcere per qualche anno, finché nel settembre del 1996 fu dato in pasto alla folla, evirato, quindi finito con una pallottola e appeso a un semaforo. Per concludere il capitolo sulla guerra in Afghanistan il linciaggio di Najbullah va bene. Buona parte del paese rimaneva sotto il controllo dei signori della guerra locali e il mondo intero non riconobbe quello dei talebani come governo legittimo, ma non c’era più l’alternativa del comunismo, perciò il mondo ignorò gli afghani per parecchi anni. Da allora la guerra ha preso un’altra direzione, che, finora, non ha causato la morte di un numero sufficiente di persone per farla rientrare nel mio elenco.
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Saddam Hussein Bilancio delle vittime: 300.000 persone uccise all’interno1 Posizione: 96 Tipologia: despota Contrapposizione di massima: Saddam contro tutti Periodo: al potere dal 1979 al 2003 Luogo e principale stato partecipante: Iraq A chi diamo la colpa di solito: Saddam Fattore economico: petrolio La domanda senza risposta che si fanno tutti: era davvero così cattivo come l’ha fatto apparire il governo degli Stati Uniti? Malgrado l’uniforme che indossava di solito, Saddam Hussein non era mai stato un soldato: aveva trascorso la gioventù nelle risse di strada come militante del partito Ba’th, i nazionalisti rivoluzionari panarabi. Nel 1958 il rovesciamento della monarchia irachena provocò una serie di colpi di stato, in cui a volte il Ba’th vinceva e altre volte perdeva. Saddam Hussein rivestì il ruolo di vice del dittatore Ahmed Hasan al-Bakr, che nel giugno del 1979 mise da parte, uccidendo in breve tempo chiunque pareva opporsi. Anziché rispecchiare le identità locali, l’Iraq è un paese artificiale, con i confini tracciati per il tornaconto delle potenze coloniali europee (soprattutto della Gran Bretagna). In questo guazzabuglio multietnico, Saddam concesse vantaggiosi favori alla minoranza araba sunnita concentrata al centro del paese, in cambio del contributo a tenere sotto controllo la maggioranza araba sciita. In particolare promosse nei ruoli chiave familiari e amici provenienti da Tikrit, la sua città natale, spingendoli a 762
saccheggiare i loro vari feudi in una pressoché totale impunità, anche se poi chiunque dei suoi mostrasse un’ambizione che andasse oltre la semplice avidità veniva arrestato e ucciso.2 Lo stesso Saddam rappresentava il vertice idolatrato del potere. Fece erigere statue in suo onore e dove non c’era posto per le statue si appendevano grandi manifesti; i notiziari televisivi si aprivano con canti in sua lode.3 Manteneva un ferreo controllo sul suo popolo propagandandosi come grande eroe e poi faceva portare via nel cuore della notte chiunque osasse dissentire. Nelle prigioni di tutto l’Iraq si torturavano e uccidevano, oppure si torturavano e rilasciavano a monito per gli altri, decine di migliaia di agitatori. Si restituivano alle famiglie per la sepoltura i corpi mutilati dei nemici dello stato, in modo da diffondere voci sul barbaro trattamento subito nelle carceri.4 Come ulteriore punizione contro chi si metteva dalla parte sbagliata, si rapivano, stupravano, torturavano o uccidevano i familiari innocenti dei dissidenti.5 I curdi Mentre i dittatori dell’ultimo mezzo secolo per lo più si sono accontentati di starsene in patria a brutalizzare con calma soltanto il proprio paese, Saddam Hussein cercò due volte di espandersi al di là dei propri confini, prima in Iran (1980-1988), poi in Kuwait (1990-1991). Entrambe le volte fallì e rivolse la collera contro il proprio popolo. Dai tempi in cui si era formato il paese, cioè dopo la prima guerra mondiale, di tanto in tanto la minoranza curda a cavallo tra Turchia, Iran e Iraq si era opposta al dominio iracheno. Quando nel marzo del 1988 la cittadina curda di Halabja, appena entro il confine iracheno, cadde in mano agli iraniani a seguito di una loro avanzata, i curdi del luogo accolsero con favore la liberazione. Infuriato per il tradimento, Saddam scatenò l’inferno contro Halabja: parecchie incursioni aeree distrussero la città con esplosivi, napalm e gas velenosi, 763
uccidendo indiscriminatamente circa 5000 civili.6 In quel periodo Saddam prese di mira i curdi come capro espiatorio del fallimento della guerra con l’Iran. Tra febbraio e settembre del 1988, nell’operazione «al-Anfal» le sue truppe rastrellarono sistematicamente il territorio curdo, annientando gli abitanti delle campagne villaggio per villaggio. Gli uomini che avevano l’età per combattere venivano portati via sui camion per essere picchiati, fucilati e gettati nelle fosse comuni. Gli anziani finivano a morire di fame nei campi di concentramento a sud, mentre le donne venivano reinsediate, spesso vendute come mogli o entraîneuses dei locali notturni del mondo arabo.7 Nell’operazione Saddam causò la morte di 100-200.000 curdi.8 Gli americani Nel 1991, quando la coalizione guidata dagli americani cacciò Saddam Hussein dal Kuwait, si incitarono gli iracheni a deporre il dittatore che li aveva trascinati in una guerra contro il mondo intero. Quindi gli arabi sciiti delle zone paludose meridionali si ribellarono, aspettandosi che la coalizione giungesse in loro aiuto. Invece gli americani non erano disposti a farsi risucchiare in una guerra civile, perciò si ritirarono, mentre Saddam massacrava 50.000 sciiti: ribelli, simpatizzanti o semplici astanti. Non riuscì a farlo sloggiare nemmeno una contemporanea insurrezione dei curdi, che Saddam respinse sulle montagne del nord, dove poi, anche grazie a una copertura aerea degli americani, riuscirono a stabilire una zona autonoma. Dopo il 1990 il mondo mise in quarantena Saddam e l’Iraq perché avevano turbato la tranquillità internazionale, eppure quella non parve mai una soluzione soddisfacente. Era rischioso e infruttuoso lasciare una preziosa riserva petrolifera del mondo inutilizzata nelle mani di un dittatore paria. Nel marzo del 2003, nella speranza di trascinare un Iraq urlante e recalcitrante nella comunità delle nazioni e nell’economia globale, il presidente 764
americano George Bush (figlio) invase il paese, sostituendo maldestramente Saddam con quello che doveva essere un avamposto remunerativo e stabilizzante della civiltà occidentale nel cuore di un territorio ostile; invece è diventato soltanto caos e autobombe. Saddam è stato catturato, processato e impiccato dal nuovo regime nel 2006.
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Guerra Iran-Iraq Bilancio delle vittime: 700.0001 Posizione: 61 Tipologia: guerra per l’egemonia Contrapposizione di massima e principali partecipanti: Iran contro Iraq Periodo: 1980-1988 Luogo: golfo Persico A chi diamo la colpa di solito: Saddam Hussein Fattore economico: petrolio
stati
Per anni Iran e Iraq si erano disputati le terre di confine, ricche di petrolio, lungo il fiume Shatt al-’Arab, che sfocia nel golfo Persico. Poi, a un certo punto, Saddam Hussein cercò di sfruttare il caos scatenato dalla rivoluzione iraniana del 1979 per annettersi il territorio conteso. Nel settembre del 1980 le armate irachene entrarono in Iran e sfondarono le prime linee di difesa, ma quando si rafforzò la resistenza iraniana la guerra subì una battuta d’arresto nei dintorni della città di Abadan.2 Quando vanno in guerra due dei maggiori produttori di petrolio al mondo, il resto del pianeta deve per forza prendere partito, ma se la stessa guerra contrappone una feroce dittatura e una teocrazia fanatica è difficile decidere da che parte stare. In termini puramente pratici, però, è più facile schierarsi con i dittatori corrotti, perché in genere sono più disposti a fare affari. Perciò durante la guerra Iran-Iraq il mondo si schierò per lo più con l’Iraq. I paesi islamici moderati come Egitto, Pakistan e Arabia Saudita aiutarono apertamente gli iracheni, e altrettanto fecero i sovietici, che nella guerra fredda rappresentavano tradizionalmente i patroni dell’Iraq. Gli Stati Uniti fornirono 766
agli iracheni informazioni segrete e impegnarono la propria flotta nella salvaguardia dell’afflusso di petrolio dall’Iraq (e dell’afflusso di denaro nel paese). La repubblica islamica dell’Iran era troppo folle perché una nazione rispettabile la appoggiasse apertamente, eppure parecchi stati agirono sotto copertura. A sostenere quel paese emarginato furono altri stati emarginati del mondo – Israele, Sudafrica, Corea del Nord e Libia –, i quali in cambio di petrolio fornirono all’Iran tecnologia e consulenza militare. Aiuti segreti giunsero anche dalle superpotenze, purché in cambio gli iraniani esercitassero il loro influsso sui pericolosi fanatici musulmani dell’Afghanistan (URSS) e del Libano (USA).3 Nel maggio del 1982 una controffensiva iraniana ripristinò il confine prebellico, cambiando le sorti del conflitto: nei due anni successivi gli iraniani penetrarono progressivamente in Iraq, finché la guerra subì una seconda battuta d’arresto alla periferia di un grosso obiettivo, la città irachena di Bassora. Ormai entrambi i belligeranti erano alla disperazione, perciò combattevano in maniera più sporca del solito. Per terrorizzare la popolazione nemica si spedivano aerei e missili a rombare nel cielo delle città ben oltre le prime linee. Gli iracheni bombardarono i soldati nemici con il gas nervino, gli iraniani sfruttarono la loro superiorità numerica e il fanatismo religioso dei giovani per lanciare ondate di uomini contro le posizioni irachene, nella speranza che alcuni – non tanti – potessero sfondare. Tra metà febbraio e metà marzo del 1984 gli iracheni avviarono l’operazione «Kheiber» (Alba) per il controllo della strategica via di navigazione tra Bassora e Baghdad. Fu un rozzo e faticoso scontro fatto di assalti frontali iraniani e attacchi iracheni con i gas, nel quale in meno di un mese restarono uccisi 20.000 iraniani e 6000 iracheni, mentre altre decine di migliaia restarono mutilati o sfregiati.4 L’ultima grande offensiva fu la battaglia di Bassora, che divenne la più sanguinosa mai combattuta nel mondo dopo la 767
seconda guerra mondiale. Dal dicembre del 1986 all’aprile del 1987 furono trucidati approssimativamente 50.000 iraniani e 815.000 iracheni, senza che nessuna delle due parti riuscisse a ottenere qualcosa.5 Nessuno di questi sforzi riuscì a spezzare lo stallo, anzi non fece altro che elevare il conflitto al livello della guerra più sanguinosa per i soldati dai tempi del Vietnam. Nell’agosto del 1988, quando fu chiaro che non avrebbe vinto nessuno, i due paesi sfiniti accettarono un cessate il fuoco negoziato dall’ONU.
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Sanzioni contro l’Iraq Bilancio delle vittime: 350.0001 Posizione: 94 Tipologia: situazione di stallo internazionale Contrapposizione di massima: Iraq contro il mondo Periodo: 1990-2003 Luogo: Iraq Principali stati partecipanti: Iraq, Stati Uniti Principale entità non statale partecipante: Nazioni Unite A chi diamo la colpa di solito: gli Stati Uniti e Saddam Hussein Fattore economico: petrolio
La guerra del Golfo Allorché fu sventato il suo tentativo di espansione verso l’Iran, Saddam Hussein si volse dalla parte opposta e nell’agosto del 1990 invase il Kuwait. L’ONU impose quasi immediatamente delle sanzioni commerciali, a loro volta gli Stati Uniti spedirono truppe nella regione ed emanarono un ultimatum: Saddam doveva lasciare il Kuwait entro il 15 gennaio 1991, altrimenti peggio per lui. Con l’avvicinarsi della scadenza i pacifisti pregarono gli Stati Uniti di concedere più tempo, ma il presidente George Bush (padre) non era disposto ad attendere. Trascorsa la data fissata, la coalizione capeggiata dagli americani cominciò con gli attacchi aerei, cui seguì due mesi dopo l’attacco via terra. La guerra andò esattamente secondo i piani e gli iracheni furono rispediti rapidamente nel loro paese. La coalizione si 769
fermò poco prima di invadere l’Iraq e di deporre Saddam Hussein, perché nessuno voleva passare lunghi anni sanguinosi a occupare un paese ostile. Nella guerra del Golfo restarono uccisi forse 25.000 soldati iracheni e un paio di migliaia di civili, una cifra insufficiente per entrare nel mio elenco.2 A causa della guerra aerea, le infrastrutture industriali dell’Iraq subirono una batosta, ma nulla che un’economia sana non potesse ricostruire. Non ce ne fu mai l’occasione. Ritorna la pace Le condizioni del cessate il fuoco del 1991 stabilivano che le sanzioni economiche sarebbero rimaste in vigore fino a quando Saddam Hussein non avesse smantellato ciò che poteva minacciare i suoi vicini. In sostanza doveva consegnare o distruggere tutti gli impianti per la produzione e l’utilizzo di armi di distruzione di massa: doveva chiudere i laboratori per la produzione di armi chimiche e rinunciare ai missili terra-terra. Naturalmente, essendo un dittatore guerrafondaio, Saddam temporeggiò il più possibile alimentando la paura e il rispetto che conferiscono i grandi armamenti a un piccolo paese. Il blocco era imposto dalle corazzate della coalizione che pattugliavano il golfo Persico e ispezionavano ogni mercantile diretto in Iraq.3 Frattanto, senza esportazioni di petrolio, l’economia irachena crollò. L’istruzione si fece sporadica, i farmaci rari: la gente moriva negli ospedali per la banale mancanza di forniture comuni. Senza occupazione, i professionisti come avvocati e architetti finivano a guidare i taxi; la disoccupazione di massa distrusse il tenore di vita. Un tempo l’Iraq era stato uno dei paesi arabi più ricchi e cosmopoliti, ora era diventato il più lacero e reietto.4 Nell’agosto del 1991, quando divenne chiaro che le sanzioni stavano devastando la gente comune dell’Iraq, l’ONU propose di consentire le esportazioni di petrolio iracheno in cambio di 770
crediti da spendere esclusivamente in cibo, medicinali e altre necessità civili. Saddam rifiutò queste condizioni fino al 1995; lui personalmente non moriva di fame, per di più le carenze gli fornivano uno strumento utile per controllare il popolo e ricompensare i suoi compari.5 Come avviene in tutte le carestie – anche quelle artificiali come questa –, i potenti continuarono a vivere piuttosto bene. Saddam non sacrificò nulla del proprio benessere: spese centinaia di milioni di dollari nella «costruzione di palazzi, circa una dozzina dall’inizio delle sanzioni. […] Ha inaugurato un nuovo villaggio vacanze con tanto di parco divertimenti, stadi e una statua di bronzo che lo ritrae. La sua polizia ha ottenuto delle Hyundai nuove di zecca e per le strade sono comparsi nuovi ritratti del presidente, ben illuminati».6 Con gli ispettori dell’ONU che dovevano controllare gli armamenti Saddam Hussein si comportò come nel gioco delle tre carte e alla fine, nel 1998, li cacciò. Allora gli americani sferrarono degli attacchi aerei che distrussero gli ultimi impianti per la produzione di armi di distruzione di massa. Al di fuori dell’Iraq nessuno sapeva che in realtà la minaccia era svanita, né Saddam Hussein era disposto a riconoscere apertamente la propria impotenza davanti al mondo, perciò le sanzioni restarono in vigore. Lo stallo si protrasse fino alla deposizione del dittatore, avvenuta con l’invasione americana del 2003. Un’analisi Nel caso delle morti per privazioni, non è facile indicare i singoli e dire è morto questo, è morta quella e così via. Non è come per i morti in battaglia, in cui ci si limita a contare i corpi sparsi intorno. Si osserva invece un aumento del tasso di mortalità, davanti al quale tutto ciò che si può dire è che qualcuno sarebbe morto comunque, ma altri no. È una questione di statistica. Negli anni, per sottolineare la propria sofferenza il governo 771
iracheno ha diffuso una serie di bilanci delle vittime sempre più alti, da 700.0007 a 1 milione8 fino a 1,5 milioni.9 Per dovere, stampa e agenzie internazionali hanno ripetuto ogni nuova affermazione, ma non c’è motivo di credere a nessuna di esse. Se si vuole essere cortesi si può rilevare che queste stime così elevate «si basano sulle statistiche di fondo, peraltro piene di errori, della mortalità infantile in Iraq prima della guerra»;10 se invece si vuol essere scortesi allora si può dire che le hanno inventate i burocrati pagati dal dittatore. Le varie stime calcolate da osservatori esterni imparziali oscillano tra un minimo di 110.00011 e un massimo di 500.000. 12 Le sanzioni rappresentano una forma allettante di coercizione non violenta, ma nella sostanza implicano il mettere sotto assedio un intero paese, obbligandolo a piegarsi con la fame; e il tutto non è mai limpido come indica chi le propone. Al termine della prima guerra mondiale, la Germania perdeva più civili per la fame che soldati in battaglia. Secondo certe stime, il numero di civili giapponesi morti a causa della penuria del tempo di guerra e del blocco americano del 1945 supera di gran lunga quelli uccisi dalle bombe atomiche. Le sanzioni non sono proprio un sostituto della guerra, sono soltanto la guerra combattuta con altri mezzi.
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Caos in Somalia Bilancio delle vittime: 500.0001 Posizione: 70 Tipologia: stato fallito Contrapposizione di massima: tutti contro tutti Periodo: dal 1991 Luogo: Somalia Stati minori partecipanti: Stati Uniti, Etiopia Principali entità non statali partecipanti: somali A chi diamo la colpa di solito: i signori della guerra Ennesimo esempio di: guerra civile africana Quando nel gennaio del 1991 una sollevazione militare cacciò il dittatore somalo Mohamed Siad Barre, con lui se ne andò anche l’ultimo governo operante. In Somalia la gente si identifica di più nei clan di appartenenza che nel proprio paese, perciò quest’ultimo si disgregò ben presto in una serie di territori slegati gestiti dai signori della guerra del luogo. L’economia si fermò, mentre le bande armate si impadronivano di tutte le scorte di generi alimentari a portata di mano, lasciando alla fame la popolazione disarmata. Dopo la morte, secondo le stime, di 50.000 somali in combattimento e di altri 300.000 per fame, nel marzo del 1992 l’ONU negoziò una tregua tra i principali signori della guerra, allo scopo di portare cibo nel paese. A dicembre giunse una forza di pace (per lo più composta da truppe americane) destinata a sorvegliare le scorte alimentari importate dalle agenzie umanitarie internazionali. Nell’ottobre nel 1993, mentre cercava di catturare delle persone legate al signore della guerra Mohamed Farrah Aidid, a Mogadiscio 773
un’unità di soldati americani cadde in una trappola e fu fatta a pezzi. Nel grande flusso della storia si trattò di una battaglia di secondaria importanza, che tuttavia rese il governo americano talmente timoroso delle armi che l’anno successivo evitò di intervenire nel genocidio del Ruanda. Gli americani si ritirarono dunque dalla Somalia nel 1994, e l’anno successivo fecero altrettanto le Nazioni Unite.2 Nel 1996 è esplosa una nuova ondata di intensi combattimenti, tuttavia dopo l’uccisione del generale Aidid i tre maggiori signori della guerra rimasti si sono accordati per un reciproco cessate il fuoco. Al di fuori dei loro territori, la zona settentrionale del paese intanto ha raggiunto la stabilità con la nascita di due nazioni indipendenti, il Puntland e il Somaliland, anche se nessuno li riconosce ufficialmente come tali. Anni di guerra hanno lasciato Mogadiscio spoglia e in rovina, tanto che molti dei suoi abitanti (1,2 milioni) vivono in tende o tra le macerie. Scuole e attività commerciali sono state chiuse da un pezzo, tanti uomini trovano un’occupazione stabile solamente come sgherri dei signori della guerra, offrendo i propri muscoli in cambio di cibo e qat, il narcotico locale. Gli uomini armati rubano, stuprano e uccidono facilmente, senza conseguenza alcuna.3 Inoltre la Somalia è diventata un porto sicuro per i pirati che dirottano le navi che attraversano il canale di Suez. I signori della guerra vanno e vengono, probabilmente si impegnano in rivalità che hanno senso soltanto per chi vi partecipa, tuttavia non hanno mai attratto l’attenzione degli osservatori esterni. Ogni volta che qualcuno cerca di distinguerli, in genere li si classifica in base al grado di fondamentalismo islamico che vogliono imporre al paese. Nel 2006 le truppe etiopi hanno occupato Mogadiscio con l’intento di insediarvi un governo nazionale approvato dall’ONU, tuttavia l’azione non ha fatto altro che creare l’ennesima e inutile fazione locale.
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Bilancio delle vittime L’unica stima autorevole che circola è un rapporto delle Nazioni Unite, secondo cui nel primo anno e mezzo di caos trovarono la morte 350.000 persone. Con il protrarsi degli scontri divenne evidente che quella stima risultava inadeguata rispetto al crescente bilancio delle vittime. Siccome non compariva alcuna stima aggiornata, i giornalisti decisero di aggiornare la cifra in maniera ufficiosa, ecco perché si tende sempre più a parlare di un numero compreso fra il mezzo milione e il milione.
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Genocidio del Ruanda Bilancio delle vittime: 937.000 Posizione: 53 Tipologia: pulizia etnica Contrapposizione di massima: hutu contro tutsi Periodo: 100 giorni del 1994 Luogo e principale stato partecipante: Ruanda A chi diamo la colpa di solito: Belgio, Francia e il presidente americano Bill Clinton* Ennesimo esempio di: guerra civile africana La domanda senza risposta che si fanno tutti: perché nessuno l’ha fermato?
Lo sfondo** Molti secoli fa, gli alti allevatori nilotici del Sudan si spostarono a sud, più o meno nello stesso periodo in cui i tozzi bantu della gobba occidentale dell’Africa migravano a est. Si scontrarono e si mescolarono nella regione dei Grandi Laghi e, dopo intere generazioni di lotte e aggiustamenti di cui non possediamo documenti, l’aristocrazia tutsi nilotica finì per dominare sui contadini hutu di origine bantu. Questa era la situazione che trovarono i primi esploratori europei a metà del XIX secolo. Nella corsa coloniale all’Africa la regione fu spartita tra tedeschi e belgi. Alla fine della prima guerra mondiale i vincitori si divisero rapidamente le colonie tedesche d’oltremare. Due pezzetti interni dell’Africa Orientale tedesca adiacenti al Congo belga passarono nelle mani dei belgi, appunto, con un mandato della 776
Società delle Nazioni che, secondo le condizioni del trattato, doveva essere amministrato separatamente rispetto al resto delle colonie belghe. Per farsi aiutare nel governo sia i tedeschi che i belgi fecero ricorso alla nobiltà tutsi locale, alla quale offrirono in cambio privilegi negati invece agli hutu, come l’esenzione dai sessanta giorni di lavoro gratuito che tutti gli indigeni dovevano allo stato. Poiché secoli di incroci e di coesistenza avevano cancellato le differenze fisiche e culturali tra i due gruppi, i belgi rilasciarono documenti d’identità che etichettavano chiaramente ogni persona come appartenente all’uno o all’altro gruppo, in tal modo le autorità sapevano chi aveva diritto a un trattamento preferenziale. Chi era di ascendenza mista o incerta si vedeva assegnare l’identità etnica in modo del tutto arbitrario, sulla base dei capricci dei funzionari coloniali. In genere hutu e tutsi si identificavano a vicenda grazie a sottili differenze di classe, anziché per qualcosa di immediatamente evidente agli occhi degli osservatori esterni. All’epoca dell’indipendenza entrambi i gruppi parlavano la stessa lingua ed erano in maggioranza cattolici.1 Nel 1962 il mandato della Società delle Nazioni si trasformò in due stati indipendenti, il Burundi e il Ruanda. Purtroppo questa duplice divisione etnica creò una situazione intrinsecamente instabile: i sospetti cronici e l’astio tra hutu e tutsi provocarono una guerra civile endemica, costellata di tanto in tanto da massacri terrificanti. Fino a una certa altezza, il peggiore di questi massacri di cui si abbia memoria si verificò nel 1972, quando il regime tutsi al governo in Burundi trucidò tra i 100.000 e i 150.000 hutu, mandando migliaia di profughi pieni di rancore oltreconfine, nel Ruanda dominato dagli stessi hutu.2 In primo piano La generazione successiva avrebbe visto di peggio. Il 6 aprile 1994 i presidenti hutu del Burundi e del Ruanda tornavano dai 777
negoziati per un trattato di pace con i ribelli tutsi quando il loro aereo fu abbattuto da missili terra-aria. Nessuno sa da chi. I capi degli hutu accusarono i ribelli tutsi e diedero immediatamente il via a una serie di massacri per ritorsione, ma alcuni sostengono che gli estremisti hutu architettarono un pretesto per schiacciare i tutsi assassinando un paio di presidenti che li avevano venduti.*** In ogni caso, il giorno dopo i furibondi miliziani hutu della Interahamwe («coloro che combattono insieme») cominciarono a massacrare i tutsi in tutto il Ruanda. La mente del genocidio fu il ministro della Difesa Théoneste Bagosora, che gestì il genocidio con terribile efficienza. Nel giro di due settimane – prima che la comunità internazionale si scuotesse – erano stati fatti a pezzi 250.000 tra uomini, donne e bambini, spesso con quella che divenne l’arma tipica di quel genocidio, il machete.3 Tra i primi a morire ci fu il primo ministro Agathe Uwilingiyimana, una hutu moderata che fu prima stuprata a colpi di baionetta, quindi uccisa. I caschi blu belgi della sua scorta avevano l’ordine di non provocare i locali rispondendo al fuoco, perciò si arresero senza combattere, ma li evirarono, poi misero loro in bocca i genitali e li uccisero comunque. In tutto il paese, in attacchi coordinati e spronati dai propagandisti della radio come Ferdinand Nahimana, gli hutu si volsero contro i propri vicini tutsi. Gli insegnanti uccidevano gli studenti, le baby-sitter hutu uccidevano i bambini tutsi affidati alle loro cure, gli hutu riluttanti venivano presi da parte e minacciati di morte se non si univano alla carneficina. Le squadracce li prendevano, mettevano loro in mano un machete e ordinavano loro di uccidere, altrimenti sarebbero stati ammazzati. Le colpe della strage venivano condivise di proposito il più possibile da un’intera banda che faceva a turno a menare colpi.4 L’odio si radicò così in profondità che non c’era posto dove i tutsi potessero mettersi in salvo. A una settimana dall’inizio del genocidio, il sindaco di Nyarubuye condusse 7000 miliziani 778
nella locale chiesa cattolica e nel convento adiacente per massacrare i 20.000 tutsi che vi si erano rifugiati.5 Nella chiesa cattolica di Nyange il sacerdote ordinò agli operai di abbattere con le ruspe l’edificio addosso ai 1500 profughi riuniti all’interno.6 Svariati conventi accolsero i rifugiati per poi consegnarli ai miliziani: in quello di Sovu, le suore non solo chiusero a chiave i tutsi nel garage, ma fornirono anche la benzina per darlo alle fiamme.7 La Interahamwe si impegnò in maniera particolare a stuprare e umiliare le vittime femminili prima di farle a pezzi. Talvolta si uccidevano le donne subito dopo lo stupro; altre volte le lasciavano a morire per le bizzarre mutilazioni; altre volte ancora le rinchiudevano in gabbia per violentarle di nuovo in seguito. In un caso una donna fu immobilizzata contro il terreno con una lancia conficcata nel piede, mentre gli assalitori facevano un giro prima di tornare a stuprarla. I testimoni poterono vedere mesi dopo la prova di questa atrocità, «persino negli scheletri sbiancati. Le gambe piegate e aperte, in mezzo una bottiglia rotta, un ramo ruvido, addirittura un coltello. [...] Sono morte in una posizione di totale vulnerabilità, con la schiena distesa, le gambe piegate e le ginocchia divaricate».8 Alla fine, dopo tre mesi di stragi, i ribelli tutsi di Paul Kagame sfondarono le prime linee e giunsero in soccorso dei loro consanguinei sopravvissuti: per evitare ritorsioni gli hutu fuggirono a milioni nei paesi confinanti. All’incirca nello stesso periodo la comunità internazionale finalmente intervenne a scopo umanitario, circostanza che pose fine agli scontri ma permise anche a molti hutu delle milizie e delle forze armate di sfuggire alla giustizia (o alla vendetta, scegliete voi). Poco dopo le Nazioni Unite calcolarono che in soli tre mesi erano stati uccisi 800.000 ruandesi. Da ultimo il governo del Ruanda fissò il bilancio ufficiale delle vittime del genocidio in 937.000.9 Fu il peggior caso di puro genocidio in decenni, cinque volte più rapido dell’Olocausto. 10
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Giustizia, quasi Il genocidio del Ruanda è una delle poche atrocità raccontate in questo libro cui ha fatto seguito un tentativo sistematico di giudicare e punire i colpevoli per mezzo di processi imparziali. Nel giro di qualche anno in Ruanda si ristabilì un governo sorprendentemente stabile, guidato da Paul Kagame, ma la pura e semplice ampiezza del crimine rendeva difficile la giustizia. Quattro anni dopo il genocidio, 130.000 appartenenti alla Interahamwe erano ancora rinchiusi in carceri sudice e sovraffollate, in attesa di processo. Alla fine di dell’anno i tribunali ne avevano processati soltanto 330. 11 Nel 2005 i ruandesi hanno decentrato i processi con l’istituzione di appositi tribunali nei villaggi. Nei primi otto mesi di attività sono state esaminate più di 4000 cause ed è stato condannato l’89% degli imputati. All’epoca, però, moltissimi detenuti avevano già trascorso parecchi anni in carcere in attesa di processo: un qualunque segno di contrizione bastava per condannarli e rilasciarli subito dopo per decorrenza dei termini.12 Benché fossero stati condannati alla fucilazione all’incirca 450 detenuti, prima ancora che molte esecuzioni fossero effettuate il Ruanda ha abolito la pena di morte. Era l’unico modo per mettere le mani su quasi 45.000 fuggitivi sospetti che vivevano in paesi che non concedono l’estradizione dei detenuti se questi vanno incontro alla pena capitale.13
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Seconda guerra del Congo Bilancio delle vittime: 3,8 milioni Posizione: 27 Tipologia: guerra per l’egemonia Contrapposizione di massima: hutu contro tutsi, non importa chiunque altro si metta in mezzo Periodo: 1998-2002 Luogo: Congo Principali stati partecipanti: Repubblica Democratica del Congo contro Ruanda e Uganda Stati minori partecipanti: Angola, Zimbabwe, Namibia, Ciad (dalla parte del Congo) e Burundi (dalla parte del Ruanda) Principali entità non statali partecipanti: Alleanza delle Forze Democratiche per la Liberazione del Congo-Zaire, Forze Democratiche Alleate, Raggruppamento Congolese per la Democrazia, Interahamwe, Mai-Mai, Movimento per la Liberazione del Congo A chi diamo la colpa di solito: Paul Kagame (Ruanda), Laurent Kabila (Congo), Yoweri Museveni (Uganda)* Ennesimo esempio di: guerra civile africana Fattori economici: coltan, diamanti, legname La domanda senza risposta che si fanno tutti: è successo solo pochi anni fa, perché non ne abbiamo saputo niente? La seconda guerra del Congo sta alla fine di una reazione a catena che ebbe inizio nelle nebbie del passato e, procedendo a caso, ha finito per distruggere milioni di vite che non avevano nulla a che fare con l’inizio. Il genocidio del 1994 in Ruanda sparse milioni di profughi per la regione africana dei Grandi 781
Laghi. Per ironia della sorte, questi profughi non erano i tutsi vittime del genocidio, bensì gli hutu che lo avevano perpetrato, i quali, perso il controllo del paese, sfuggivano alla vendetta dei tutsi che si erano impadroniti del governo. Più di un milione di hutu trovarono rifugio nei campi profughi del Congo. Esce di scena Mobutu All’epoca del genocidio del Ruanda, il più grande dei due Congo (l’ex Stato Libero del Congo, vedi il capitolo omonimo) si chiamava Zaire ed era governato da Mobutu Sese Seko, un vecchio tiranno delinquente che per tre decenni aveva sistematicamente depredato il suo paese, accumulando una fortuna personale ritenuta tra le maggiori del mondo. Era sopravvissuto al consueto assortimento di colpi di stato, scorrerie di confine e guerre civili che assillavano ogni dittatore africano, però per quell’uomo anziano stordito dal cancro l’enorme afflusso di profughi che si riversavano in Congo era troppo. Perse dunque il controllo della situazione, tanto che le province di frontiera diventarono a tutti gli effetti terra di nessuno. Mentre le agenzie umanitarie internazionali viaggiavano su convogli armati e si sforzavano di mantenere vivibili i campi profughi, i miliziani hutu adoperavano questi ultimi come basi per ricostruire le loro organizzazioni, in vista di una riconquista del Ruanda. Si tenevano in allenamento combattendo contro i tutsi del Congo, noti come banyamulenge. Nel timore di una ripresa degli hutu, in Ruanda il governo tutsi di Paul Kagame intendeva disarmare gli hutu e arrestarne i capibanda, ma Mobutu non collaborava: bisognava rimpiazzarlo. I ruandesi avevano bisogno di un uomo di paglia congolese che guidasse la carica; lo scovarono in un ribelle congolese disoccupato, Laurent Kabila, il quale si era aggirato senza meta per l’Africa orientale nella speranza che accadesse qualcosa. Nel corso della crisi del Congo – una successione di guerre 782
civili che seguì immediatamente l’indipendenza del paese, acquisita nel 1960 – Kabila era rimasto all’ombra di uomini più carismatici. Era partito come uomo dell’amato presidente di sinistra Patrice Lumumba; dopo l’assassinio di quest’ultimo per mano dei ribelli nel 1961, Kabila aveva contribuito alla separazione di una provincia orientale del Congo, divenuta un’enclave marxista. Per combattere in nome di questa nuova nazione comunista era giunto persino Che Guevara, il leggendario rivoluzionario latinoamericano, che però si era disilluso rapidamente. Come scrive nel suo diario: «Ogni giorno era sempre la stessa storia: Kabila non arriva oggi, ma domani, se no dopodomani». «Kabila non mette piede al fronte da tempo immemore» lamentava il Che. Anzi, passava gran parte del tempo a Parigi, al Cairo e a Dar es Salaam, «nei migliori alberghi, a emanare comunicati e a bere scotch in compagnia di belle donne», oppure semplicemente passando «dal bar al bordello».1 Poi, quando negli anni Settanta l’enclave cadde nelle mani dell’esercito dello Zaire, Kabila scomparve, e in molti lo diedero per morto. Vi furono degli avvistamenti sporadici, che in genere riguardavano un rapimento o un affare losco, ma nessuno gli diede particolare attenzione finché non si fece amico il presidente dell’Uganda Yoweri Museveni, il quale lo propose ai ruandesi quale possibile presidente del Congo.2 Nell’ottobre del 1996, prudentemente legittimate dall’Alleanza delle Forze Democratiche per la Liberazione del Congo-Zaire (AFDL), le truppe ruandesi e ugandesi varcarono il confine per cacciare dal potere Mobutu e spingere ancor più lontano gli hutu. Davanti all’offensiva, i profughi registrati nello Zaire dalle agenzie umanitarie, 1,4 milioni, fuggirono in tutte le direzioni; quando la regione fu sufficientemente calma per la ripresa delle attività delle agenzie, più di 200.000 profughi hutu erano svaniti nella confusione.3 Cosa era loro successo lo sa soltanto Dio, probabilmente erano morti. Secondo Amnesty International molti li massacrarono l’AFDL e l’esercito ruandese.4 783
Mobutu lasciò la capitale nel maggio del 1997 e qualche mese dopo morì di cancro allo stomaco in Marocco; Kabila fece quindi il suo ingresso a Kinshasa, proclamando la nuova Repubblica Democratica del Congo. Così terminò la prima guerra del Congo. La guerra mondiale africana Una volta insediatosi nel palazzo presidenziale, Kabila allontanò rapidamente i suoi amici. Nei giorni dell’agonia, Mobutu era stato costretto ad allentare le limitazioni nei confronti dei diritti umani e dell’opposizione politica, ma Kabila revocò quei piccoli miglioramenti. Cercò di rendersi indipendente dai suoi sostenitori ruandesi con la rimozione del generale ruandese che fungeva da capo di stato maggiore del Congo, oltre che con il licenziamento della sua guardia del corpo, sempre ruandese. Infine, nel luglio del 1998 diede ordine a tutte le truppe straniere di lasciare il paese. Non è sicuro se il Ruanda ottemperò davvero gli ordini oppure fece solo finta, ma non importa, perché il 2 agosto 1998 si ammutinarono due reparti dell’esercito congolese distaccati lungo il confine, dando così inizio alla seconda guerra del Congo. Non appena Kabila reagì, giunsero in aiuto degli ammutinati le truppe ruandesi. Per impedire l’insorgere di ulteriori focolai, si diede ordine di disarmarsi alle unità tutsi dell’esercito congolese schierate nei pressi della capitale Kinshasa. Rifiutarono, ma furono attaccate da unità dell’esercito congolese appartenenti ad altre etnie, che le annientarono. In tutto il Congo si scatenò un pogrom generale contro i tutsi di ogni tipo, soldati, civili, uomini, donne e bambini. 5 Il 4 agosto un aereo carico di soldati ruandesi e ugandesi attraversò completamente il Congo fino alla sua estremità occidentale, dove atterrò in una base militare nella quale erano detenuti come prigionieri della prima guerra del Congo tra i 10.000 e i 15.000 ex lealisti di Mobutu. I prigionieri furono liberati, armati 784
e raggruppati in una nuova forza d’assalto che si avviò verso la capitale per scacciare Kabila. Frattanto l’intero arco politico congolese, dagli ex compari di Mobutu ai suoi ex nemici, formò il Raggruppamento Congolese per la Democrazia (RCD). Dopo un paio di settimane il destino di Kabila appariva segnato, ma poi il 28 agosto il corpo di spedizione mobutista-ruandeseugandese a ovest fu attaccato e annientato dalle truppe della vicina Angola, che aveva sopportato fin troppe guerre di confine e troppi intrighi con Mobutu per permettere ai suoi seguaci di riprendere il potere. Lo Zaire si era intromesso nella guerra civile dell’Angola (1975-1994), perciò ora quest’ultima intendeva restituire il favore.6 Torniamo un attimo indietro. Com’era entrata l’Uganda in questo conflitto? Come molti paesi subsahariani, l’Uganda doveva fronteggiare un brutto caso di insurrezione. Le Forse Democratiche Alleate (ADF) che agivano nei territori di confine tra il paese e il Congo non erano i maggiori o i peggiori ribelli ugandesi, tuttavia il governo si era reso conto che unendosi all’invasione ruandese aveva la possibilità di sgominarli. Nel febbraio del 1999, dunque, l’Uganda organizzò i congolesi disposti a collaborare nel Movimento per la Liberazione del Congo (MLC), composto per lo più da ex mobutisti della provincia dell’Equatore, patria dello stesso Mobutu. L’Uganda pose l’MLC al governo delle vicine province congolesi, in cambio l’MLC avrebbe usato la mano pesante contro l’ADF. Nel frattempo Kabila mobilitò i miliziani hutu ruandesi in esilio e accettò le truppe offerte da svariati paesi confinanti ansiosi di ripristinare la stabilità nella regione. A metà del 1999 tutti gli eserciti erano in azione, perciò non c’erano più sorprese. Il Congo si stabilizzò in una triplice suddivisione: l’Uganda teneva il nordest, il Ruanda il sudest e Kabila l’ovest. Al centro del paese correva un grosso taglio lungo il quale gli eserciti facevano incursioni, pattugliavano e depredavano in territorio nemico. Prima che finalmente prendesse piede un cessate il fuoco, vi 785
furono almeno venti tentativi da parte delle organizzazioni internazionali: nel luglio del 1999 fu siglato l’accordo per il cessate il fuoco di Lusaka, che sancì la divisione fino a quando non si fosse disposto qualcosa di meglio. Naturalmente le trattative si protraevano. Dato che la guerra portava molto denaro, le parti belligeranti non avevano alcuna fretta di andarsene. Il tracollo della legalità consentiva infatti di depredare i territori occupati di diamanti, oro, legname e coltan, un minerale raro indispensabile per la fabbricazione di cellulari e computer. Siccome il Congo fornisce l’80% del coltan di tutto il mondo, i prezzi salirono alle stelle, passando da 66 a 880 dollari al chilo; le miniere illegali spuntarono in tutta la zona di guerra e per procurarsi cibo i minatori sparavano ai gorilla e agli elefanti in pericolo di estinzione.7 Le truppe ugandesi e i ribelli loro alleati si impadronirono dell’intera riserva di legname e caffè del nord, prodotti che portarono in Uganda per esportarli a prezzi assai remunerativi.8 Esce di scena Kabila Il 16 gennaio 2001 una delle sue guardie del corpo assassinò Kabila. All’inizio il governo negò che fosse accaduto qualcosa di male al presidente: il capo di stato maggiore apparve in televisione per pregare la nazione di mantenere la calma. Ma alla fine, dopo giorni di illazioni, dovettero ammettere che Kabila era davvero morto. Due anni dopo, quello stesso capo di stato maggiore fu condannato con l’accusa di aver progettato l’assassinio nel quadro di un fallito colpo di stato, probabilmente in collaborazione con il Raggruppamento Congolese per la Democrazia e i ruandesi.9 Divenne così presidente il figlio di Kabila, Joseph, il quale (nel momento in cui scrivo) sembra migliore rispetto a suo padre. Oltre ad aver aperto il governo alle voci dell’opposizione, ha avviato delle serie trattative di pace. Nell’ottobre del 2006, le elezioni nazionali, che gli osservatori 786
esterni hanno unanimemente giudicato libere e regolari, lo hanno confermato presidente. Come ha dichiarato la BBC: «La guerra del Congo ha prodotto affari sporchi, ma Kabila non è stato implicato direttamente in alcuno di essi»;10 in questa parte del mondo è un modo abbastanza discreto per dire che si tratta di una persona onesta. Ruanda e Congo firmarono il cessate il fuoco a Pretoria, in Sudafrica, il 30 luglio 2002. Ufficialmente il Congo rifiutava di dare rifugio agli hutu implicati nel genocidio del Ruanda del 1994, ma accettò comunque di consegnarli ai ruandesi. In cambio il Ruanda accettò di ritirarsi dal Congo. Il 6 settembre dello stesso anno un altro accordo bilaterale mise fine alla guerra tra Uganda e Congo. Il ritiro delle truppe straniere lasciò sul campo le varie formazioni paramilitari dei ribelli, ai quali fu tuttavia assegnato un posto all’interno del nuovo governo di transizione. Nonostante i grossi spostamenti di truppe e la redistribuzione del potere politico, negli anni passati non sono mancati degli scontri saltuari. Qualcuno ha già cominciato a parlare di terza guerra del Congo, ma per motivi di tempo, spazio e semplicità, fermiamoci qui, con la storia della seconda. Lo stile di guerra Dopo un’inchiesta sugli abitanti della zona di guerra, nel 2005 l’International Rescue Committee emanò un rapporto nel quale si calcolava che, dallo scoppio della seconda guerra del Congo, si erano registrati 3,8 milioni di morti in più del solito, per lo più per le malattie e la carestia diffuse sulla scia della devastazione. Soltanto il 10-15% di queste morti era stato causato direttamente dalla violenza.11 Spesso le guerre più sanguinose della storia coinvolgono i soldati più efficienti e meglio equipaggiati che si trovano in quel momento sul pianeta. Eserciti al culmine dell’efficienza militare combatterono, per esempio, le due guerre mondiali o 787
conquistarono una parte del mondo per conto di Napoleone o di Gengis Khan. Erano i più distruttivi della loro epoca e, in conformità al loro addestramento, falciarono una fetta enorme di umanità. Gli eserciti della guerra del Congo erano di tutt’altro livello. Il conflitto fu combattuto da bande scarsamente disciplinate di adolescenti muniti di armi leggere antiquate, fedeli soltanto a chi li pagava. Erano sparsi lungo un fronte disomogeneo e raramente si impegnavano in battaglie pianificate che durassero più di un paio d’ore. La disciplina era brutale, la vita a buon mercato; per proteggersi in combattimento, più che all’addestramento ci si affidava agli amuleti magici; la corruzione e il saccheggio erano pratiche comuni; inoltre passavano più tempo a terrorizzare la popolazione locale che a combattere contro il nemico. Secondo le agenzie umanitarie, il 60% dei combattenti di quella guerra aveva il virus che provoca l’AIDS, per questo infettarono un terzo delle donne che violentarono.12 A spiccare per le violazioni dei diritti umani furono i MaiMai, un ampio insieme di miliziani locali che combattevano contro ruandesi e ugandesi al centro del Congo, anche se non necessariamente per conto del governo di Kinshasa. La cittadina di Kibombo passò di mano più volte, e ogni volta i soldati saccheggiavano o estorcevano e infine si ritiravano, portandosi dietro qualche donna. È tipica la vicenda di una ragazza di sedici anni. Nell’ottobre del 2002, Onya e sua madre si trovavano in un gruppo di 48 donne che erano andate insieme nei campi, cercando sicurezza nel numero. Non funzionò: si imbatterono in una pattuglia di Mai-Mai che le picchiarono, le fecero marciare fino al loro accampamento e cominciarono a violentarle. La madre di Onya fuggì qualche giorno dopo, ma la ragazza fu tenuta come «moglie» fino al marzo del 2004, costretta a coltivare, cucinare e fornire sesso. Alla fine i Mai-Mai fuggirono dopo aver perso una grossa battaglia, così la ragazza poté fare ritorno a 788
Kibombo.13
789
Classifica
I cento massacri più sanguinosi 1. 2. 4. 5. 6. 8. 9. 10. 11. 13. 14. 16. 17. 19.
21. 22.
Seconda guerra mondiale (1939-1945) Gengis Khan (1206-1227) Mao Zedong (1949-1976) Carestie dell’India Britannica (secoli XVIII-XX) Crollo della dinastia Ming (1635-1662) Rivolta dei Taiping (1850-1864) Iosif Stalin (1928-1953) Tratta degli schiavi in Medio Oriente (secoli VII-XIX) Tamerlano (1370-1405) Tratta degli schiavi sull’Atlantico (14521807) Conquista delle Americhe (dal 1492) Prima guerra mondiale (1914-1918) Ribellione di An Lushan (755-763) Dinastia Xin (9-24) Stato Libero del Congo (1885-1908) Guerra civile russa (1918-1920) Guerra dei Trent’anni (1618-1648) Caduta della dinastia Yuan (1340-1370 ca.) Caduta dell’impero romano d’Occidente (395-455) Guerra civile cinese (1927-1937, 1945-1949) Guerra mahdista (1881-1898) Periodo dei Torbidi (1598-1613) 790
66.000.000 40.000.000 40.000.000 27.000.000 25.000.000 20.000.000 20.000.000 18.500.000 17.000.000 16.000.000 15.000.000 15.000.000 13.000.000 10.000.000 10.000.000 9.000.000 7.500.000 7.500.000 7.000.000 7.000.000 5.500.000 5.000.000
23. 24. 25. 26. 27. 28. 30.
35. 36. 37. 39. 40.
45. 46.
Aurangzeb (1658-1707) Guerra del Vietnam (1959-1975) Tre Regni della Cina (189-280) Guerre napoleoniche (1792-1815) Seconda guerra del Congo (1998-2002) Giochi di gladiatori (264 a.C.-435 d.C.) Guerra dei Cent’anni (1337-1453) Crociate (1095-1291) Guerre di religione francesi (1562-1598) Pietro il Grande (1682-1725) Guerra di Corea (1950-1953) Corea del Nord (dal 1948) Guerra in Sudan (1955-2003) Espulsione dei tedeschi dall’Europa orientale (1945-1947) Rivolta di Fang La (1120-1122) Menghistu Hailè Mariàm (1974-1991) Kampuchea Democratica (1975-1979) Periodo degli Stati Combattenti (475-221 a.C.) Guerra dei Sette anni (1756-1763) Shaka (1816-1828) Genocidio bengalese (1971) Invasione sovietica dell’Afghanistan (19791992) Sacrifici umani degli aztechi (1440-1521) Qin Shi Huangdi (221-210 a.C.) Guerre servili (134-71 a.C.) Crollo dei maya (790-909) Crociata albigese (1208-1229) Rivolta dei Panthay (1855-1873) Rivoluzione messicana (1910-1920) Guerra del Biafra (1966-1970) 791
4.600.000 4.200.000 4.100.000 4.000.000 3.800.000 3.500.000 3.500.000 3.000.000 3.000.000 3.000.000 3.000.000 3.000.000 2.600.000 2.100.000 2.000.000 2.000.000 1.670.000 1.500.000 1.500.000 1.500.000 1.500.000 1.500.000 1.200.000 1.000.000 1.000.000 1.000.000 1.000.000 1.000.000 1.000.000 1.000.000
53. Genocidio del Ruanda (1994) 54. Guerre tra Birmania e Siam (1550-1605) 55. Invasione di Hulagu Khan (1255-1260) Guerra civile del Mozambico (1975-1992) 57. Conquista francese dell’Algeria (1830-1847) 58. Seconda guerra punica (218-202 a.C.) 59. Giustiniano (527-565) Guerra d’Etiopia (1935-1941) 61. Guerra gallica (58-51 a.C.) Conquista cinese del Vietnam (1407-1428) Guerra di successione spagnola (1701-1713) Guerra Iran-Iraq (1980-1988) 65. Guerra civile americana (1861-1865) 66. Rivolta degli hui (1862-1873) 67. Guerre Goguryeo-Sui (598 e 612) Guerra sino-zungara (1755-1757) 69. Guerra d’indipendenza algerina (1954-1962) 70. Alessandro Magno (336-325 a.C.) Guerra Bahmani-Vijayanagara (1366) Guerra russo-tatara (1570-1572) Guerra di successione austriaca (1740-1748) Guerra russo-turca (1877-1878) Partizione dell’India (1947) Guerra civile dell’Angola (1975-1994) Guerra dei boschi dell’Uganda (1979-1986) Caos in Somalia (1991-) 79. Guerra della Triplice Alleanza (1864-1870) 80. Guerra franco-prussiana (1870-1871) 81. Prima guerra punica (264-241 a.C.) Terza guerra mitridatica (73-63 a.C.) Invasione dell’Irlanda da parte di Cromwell (1649-1652) Guerra d’indipendenza messicana (1810792
937.000 900.000 800.000 800.000 775.000 770.000 750.000 750.000 700.000 700.000 700.000 700.000 695.000 640.000 600.000 600.000 525.000 500.000 500.000 500.000 500.000 500.000 500.000 500.000 500.000 500.000 480.000 435.000 400.000 400.000 400.000 400.000
88. 89. 90. 91. 93. 94. 96.
1821) Rivolta degli schiavi di Haiti (1791-1803) Guerra greco-turca (1919-1922) Purghe indonesiane (1965-1966) Guerra d’Indocina (1945-1954) Guerra austro-turca (1682-1699) Grande guerra del Nord (1700-1721) Guerra civile spagnola (1936-1939) Vietnam postbellico (1975-1992) Rivoluzione cubana (1895-1898) Sanzioni contro l’Iraq (1990-2003) Guerre giudaiche (66-74, 132-135) Seconda guerra persiana (480-479 a.C.) Guerra sociale (91-88 a.C.) Guerra di Crimea (1854-1856) Idi Amin (1971-1979) Saddam Hussein (1979-2003)
793
400.000 400.000 400.000 393.000 384.000 370.000 365.000 365.000 360.000 350.000 350.000 300.000 300.000 300.000 300.000 300.000
Che cosa ho scoperto: un’analisi Che cosa si può dedurre dalla mia classifica di stragi? Esiste, forse, una sola qualità che hanno in comune tutte e cento? Oltre ai consueti dettagli orribili, come la tortura, il cannibalismo, l’assassinio, la violenza, la castrazione, il tradimento e le teste mozzate, si possono individuare delle caratteristiche più ampie condivise da tutti questi massacri? A mio avviso, nemmeno una. In effetti, l’unico aspetto di rilievo che caratterizza la maggior parte di queste stragi, benché non tutte, è che i quattro quinti di esse sono guerre. Magari il fatto che le guerre uccidono più gente dei dittatori non è proprio una rivelazione sensazionale – dopotutto, in media una guerra mobilita più partecipanti attivi e permette una distruzione più indifferenziata rispetto a un qualunque stato di polizia –, eppure nell’atrocitologia esiste una scuola di pensiero piuttosto diffusa secondo cui le guerre non sono la principale causa di morte violenta. Alcuni studiosi del settore sostengono che un governo tirannico sia di gran lunga peggiore. Sembrerebbe sbagliato.* Alcuni dei cento eventi classificati presentano alcune analogie insolitamente peculiari. Lascio a voi decidere se si tratta di elementi significativi o di mere coincidenze. Defenestrazioni di Praga: due volte nel corso di questo libro qualcuno è stato gettato fuori da una finestra a Praga (guerra dei Trent’anni e Iosif Stalin). Molti dittatori provenivano da comunità appena fuori dai confini delle nazioni che avrebbero poi comandato. Napoleone era corso, non francese; Stalin era georgiano, non russo; Hitler era austriaco, non tedesco; Alessandro era macedone, non greco. Gli Stati Uniti furono risucchiati all’interno di tre guerre europee quando i belligeranti imposero dei blocchi 794
economici contro i propri nemici (guerre napoleoniche, prima guerra mondiale, seconda guerra mondiale). La conquista della Cina seguì per ben due volte lo stesso schema geografico: durante una guerra civile, un esercito proveniente dalla Manciuria prese Pechino, la resistenza cinese tentò di radunarsi a Nanchino, ma fu sconfitta e i superstiti si ritirarono a Taiwan, che strapparono agli stranieri (crollo della dinastia Ming, guerra civile cinese, seconda fase). Ai violenti signori della guerra piace farsi chiamare con nomi che ricordano il ferro e l’acciaio. Stalin proviene dalla parola russa che significa acciaio. Tamerlano e Temujin probabilmente derivano da temur, il termine mongolo per ferro. In alchimia e astrologia si adopera lo stesso simbolo per indicare Marte, la guerra, il ferro e il maschio; questi gentiluomini probabilmente apprezzerebbero l’equivalenza. Per tre volte l’Occidente provò a mettere degli uomini forti di religione cristiana a capo di paesi non cristiani dell’Asia orientale di recente fondazione (Chiang Kai-shek in Cina, Syngman Rhee in Corea, Ngo Dinh Diem nel Vietnam). La differenza di religione può essere un valido motivo per cui la maggior parte della popolazione locale non si mobilitò a loro sostegno nella guerra civile che seguì (guerra civile cinese, guerra di Corea, guerra del Vietnam). La Sassonia non riesce mai a decidere da che parte stare (guerra dei Trent’anni, guerra dei Sette anni, guerre napoleoniche). Benché la Russia si vanti di essere inconquistabile, anche gli eserciti che invadono l’Egitto vengono masticati e risputati (quinta crociata, invasione di Hulagu Khan, guerre napoleoniche, seconda guerra 795
mondiale). Visto che siamo in argomento, talvolta è anche possibile sconfiggere i russi in patria (mongoli, prima guerra mondiale). Qualcuno ha mai vinto veramente una guerra utilizzando gli elefanti? (Tamerlano, seconda guerra punica, Alessandro Magno). Andare in vacanza in Francia è una pessima mossa per la carriera dei monarchi (Cambogia, vedi Guerra del Vietnam; Afghanistan, vedi Invasione sovietica dell’Afghanistan); Per due volte, tradimenti e intrighi di palazzo spazzarono via una famiglia al potere, lasciando il trono nelle mani di un usurpatore. I disastri naturali testimoniarono la disapprovazione di Dio nei confronti dell’usurpatore, cosicché i contadini insorsero contro di lui (Dinastia Xin, periodo dei Torbidi). Il tabù del cannibalismo non è forte come si dice (troppi esempi da citare). Oltre il 60% degli oppressori e dei guerrafondai che furono i principali responsabili dei massacri registrati in questo libro, dopo averli compiuti, vissero felici e contenti (vedi grafico).
796
Fuori dai guai Sono sicuro che alcuni lettori (ma certamente non voi) esamineranno questa lista e dichiareranno con soddisfazione: «Aha! [Qualcuno che odiamo] ha causato sei ecatombi, mentre [qualcuno che ci piace] soltanto due, il che prova che [quello che odiamo] è ben peggiore di [quello ci piace], è così!» Potete sostituire le espressioni fra parentesi con chi volete: africani, belgi, cristiani, comunisti, francesi, gli empi, i mancini, i musulmani, le multinazionali, i razzisti, i russi o i bianchi. Purtroppo, questo ragionamento cade su un fattore molto importante. «Soltanto» due ecatombi non è qualcosa di cui essere fieri. Provocare una qualsiasi ecatombe è male, specialmente dal momento che esistono alcune attività e tipologie umane che non spiccano quali cause dirette dei miei cento massacri. Le api e/o i fiori. Considerando che il sesso determina tutte le azioni degli esseri umani, facendoli impazzire, verrebbe da 797
pensare che si sia combattuta almeno una guerra vera per il sesso. Secondo la leggenda, i greci distrussero Troia per riprendersi la bella Elena e gli scapoli di una Roma appena fondata rapirono le donne sabine per procreare, ma non riesco a trovare una grande guerra documentata che sia stata combattuta per il sesso da società organizzate in stati. L’evento più simile che mi viene in mente è un conflitto occasionale in cui il vincitore ottiene un vantaggioso matrimonio politico con una dote enorme. Ma, in quel caso, non si tratta veramente di sesso, no? Ciò non significa che il sesso sia completamente assente dalle guerre. Gli stupri fanno parte della guerra tanto quanto le uccisioni, i saccheggi e la schiavitù. I reclutatori militari hanno sempre convinto i ragazzi di campagna ad arruolarsi attirandoli con la promessa di avventure, mentre le donne hanno sempre perso la testa di fronte a un uomo in divisa, ma nessuna guerra è mai scoppiata a causa del sesso. Si combatte sempre per qualcos’altro. Tutto sommato, si possono mobilitare eserciti di massa facendo appello al patriottismo, a Dio, alla vendetta, alla gloria e all’avidità, ma i cittadini non si affolleranno certo dietro la bandiera per aiutare il presidente a farsi una scopata. Alcuni commentatori incolperebbero comunque il sesso. Parlerebbero di motivazioni nascoste, di libido repressa, testosterone scatenato, atteggiamenti da macho e di adolescenti in balia degli ormoni, ma tutto questo rappresenta l’altra faccia del problema affrontato analizzando le guerre sante. Fino a che punto possiamo prendere alla lettera le motivazioni dichiarate? Nel corso della storia, la gente è sempre stata disposta a fare la guerra in nome della religione, ma mai in nome del sesso. Alcuni studiosi trascurano tali dichiarazioni, sostenendo, invece, che, in fondo in fondo, tutte le guerre sono state combattute per il sesso e nessuna per la religione. A chi dobbiamo credere? I terroristi. È stato un atto terroristico a scatenare la prima guerra mondiale, ma il terrorismo in sé è poca cosa. Fatta 798
eccezione per alcune operazioni particolarmente distruttive, raramente il terrorismo uccide più di poche decine di persone alla volta. Neppure un’intera campagna terroristica ne ucciderebbe abbastanza da entrare nella mia lista. Dovendo scegliere tra sopportare qualche autobomba ogni tanto e intraprendere una guerra contro i terroristi, probabilmente nel primo caso le perdite umane sarebbero inferiori. Gli ebrei. Nel corso dei miei studi sulle atrocità, mi sono sempre imbattuto in una oscura e dissimulata tendenza a incolpare alcune sinistre minoranze di ogni malvagità del mondo. Un nazista omosessuale, ben presto epurato dal regime di Hitler (Ernst Röhm), è sufficiente perché qualcuno faccia dell’intero nazismo una presunta cricca di individui sessualmente deviati.1 Durante la guerra civile russa la presenza di un ebreo importante tra i bolscevichi (Lev Trockij) bastò per provocare dei pogrom di massa. Per quanto venga quasi naturale limitarsi a ignorare gente che sputa sentenze del genere, probabilmente dovremmo invece prendere l’abitudine di contestarle puntualmente. Se si permette alle opinioni più folli di passare senza discussioni, qualche osservatore esterno potrebbe pensare che siano comunemente accettate. Allora esaminiamo le statistiche. Soltanto in un caso la responsabilità di uno dei miei cento massacri, le guerre giudaiche, si può attribuire, anche parzialmente, agli ebrei. Facciamo qualche passo indietro e contiamo. Avreste delle serie difficoltà a trovare più di un paio di ebrei isolati che compaiono come esecutori secondari in un qualsiasi altro capitolo, soprattutto perché non ci sono mai stati abbastanza ebrei da causare tanti problemi quanti quelli di cui vengono incolpati. Eppure, ciò nonostante, c’è qualcuno che sostiene il contrario. Dietro a tutte le malvagità che accadono nel mondo non ci sono gli ebrei. I gay. Ecco un’altra minoranza molto diffamata che non risulta 799
tra i principali fautori di massacri. Se si provano a elencare tutte le persone che hanno provocato morti e devastazioni, tra loro non si trovano altrettanti gay di quanti si troverebbero in un elenco, per esempio, di scrittori, artisti, attori o re. Alessandro Magno proveniva da una cultura bisessuale; Giulio Cesare, Vespasiano e Tito a quanto pare saltavano addosso a chiunque; Federico il Grande e Shaka furono uomini misteriosi e senza figli. Ma nessuno dei principali carnefici della mia lista risultò mai sicuramente gay, persino quando l’omosessualità tra i loro contemporanei risulta ben documentata. Magari si può pensare che ciò sia dovuto semplicemente al numero relativamente ridotto di gay nella storia, ma sono minoranze anche gli alcolizzati, i pittori, i giganti e coloro che odiano i gatti (per esempio) e parecchi carnefici di questo libro rientrano agevolmente in tali categorie.** La colpa peggiore dei gay in questo libro è non assicurare, come monarchi, una successione regolare generando figli. D’accordo, questo e gettare un arcivescovo tra le fiamme crepitanti di un camino. Vichinghi, samurai, spartani, sikh e altri. Molte persone con la reputazione di feroci farabutti non hanno ucciso poi così tanta gente, al contrario di altre nazioni largamente ridicolizzate come branco di perdenti, vigliacchi e femminucce. Nei guai Mi ha stupito notare come alcuni aspetti della distruzione umana siano decisamente più comuni di quanto sospettassi all’inizio. Assedi. In genere la storia militare si concentra sulle battaglie e sfiora appena tutto il resto, come si trattasse di aspetti secondari della guerre. Gli assedi vengono liquidati come uno spreco di tempo tra le battaglie e nessuno presta loro molta attenzione: 800
sono noiosi. È più facile trovare racconti popolari su Gettysburg che su Petersburg, su Stalingrado invece che su Leningrado, sulla seconda guerra mondiale anziché sulla prima. Starsene attorno alle fortificazioni in attesa che i nemici crollino non è guerra vera; tuttavia scrivendo questo libro ho scoperto che l’evento più distruttivo e decisivo di molte guerre è stato un assedio, non una battaglia. Errori. È incredibile quanto spesso la causa scatenante di un conflitto sia un errore, un sospetto infondato o una voce. Nella storia la gente sembra muoversi alla cieca. Alcuni esempi di guerre iniziate prima che tutti i fatti pertinenti fossero noti sono la prima guerra mondiale, la guerra sino-giapponese, quella ispano-americana, quella del Vietnam, quella dei Sette anni, la seconda guerra di religione francese, la ribellione di An Lushan, le purghe indonesiane e il periodo dei Torbidi. E questa lista non include nemmeno le normali guerre ideologiche e religiose combattute a sostegno di idee che potrebbero benissimo essere sbagliate. Posso concedere che alcune di queste guerre sarebbero scoppiate comunque e che avevano solo bisogno di un pretesto per farlo, ma la storia sarebbe molto più gradevole se le persone non fossero precipitose. Donne. Anche se non mi sono mai fidato completamente di quel vecchio detto secondo il quale un mondo governato dalle donne sarebbe più pacifico, mi aspettavo comunque che questo libro parlasse soprattutto di uomini: Hitler, Stalin, Gengis Khan... non soltanto di uomini, ma di uomini consigliati e assistiti da uomini, ostacolati da altri uomini, in cui le donne sarebbero comparse soltanto come vittime, trofei o figure di sfondo. Con mia grande sorpresa, ho scoperto che molte più donne di quante avessi inizialmente immaginato furono causa di atrocità. Nel corso della mia ricerca, mi sono imbattuto in Caterina de’ Medici, Onoria, Maria Teresa, Jiang Qing, Marina Mniszech e un pugno di donne altrettanto difficili che hanno causato 801
problemi nella storia. Rappresentano ancora una piccola minoranza tra i nostri carnefici, ma questo libro contiene più donne che omosessuali o indù. Il che mi conduce a... Forse Ecco alcune categorie che, sia pure tutt’altro che innocenti, probabilmente non si sono rivelate tanto micidiali quanto ci si potrebbe aspettare. L’India e l’induismo. Le guerre di conquista raramente partirono dall’India. Una spedizione navale contro l’Indonesia nell’XI secolo e qualche incursione qua e là in Afghanistan si possono considerare gli unici attacchi della storia sferrati oltre i confini naturali dell’India. Chi altri potrebbe affermare di essere tanto inoffensivo? Certamente non gli inglesi, né i francesi, né gli americani o i turchi o i giapponesi. Va bene, non c’è abbastanza spazio per continuare la lista delle nazioni che, nel corso della storia, sono state più pericolose dell’India. Persino i mongoli e i portoghesi hanno causato più danni. Il dato si potrebbe spiegare con l’isolamento geografico, ma c’è da dire che le uccisioni di massa sono davvero limitate anche all’interno dei confini indiani. Considerando che l’India ha mediamente ospitato circa un quinto o un sesto della popolazione umana, quanto la Cina o l’Europa, perché non ricorre nella mia lista con la stessa frequenza di Cina ed Europa? Anche quando l’India compare nella classifica, le peggiori ecatombi le provocarono i non indù, Lytton, Yahya Khan e Aurangzeb. Ciò sembra rendere la cultura indiana indigena quasi misteriosamente innocua. Oppure vuol dire semplicemente che nessuno l’ha mai documentato per iscritto? La filosofia dell’induismo non è mai stata molto interessata alla realtà del mondo che ci circonda, il che significa che gli indù non si sforzano più di tanto per 802
registrare la catena di cause ed effetti che ci ha portati fin qui. Per lo più le società che hanno provocato delle ecatombi documentate hanno prodotto anche gli storici che le hanno registrate. Invece l’India non possiede una tradizione storiografica. Anche se un qualche signore della guerra indiano del IX secolo si fosse aperto la strada attraverso la pianura del Gange bruciando villaggi e trucidando uomini, probabilmente noi non ne avremmo alcuna testimonianza. Eppure ciò non spiega del tutto perché vi siano così poche ecatombi documentate dopo il 1000 d.C., quando insieme ai maggiori conquistatori musulmani giunsero gli storici. Dovrei anche precisare che sono riuscito a trovare due ecatombi (maya e aztechi) nella storia scarsamente documentata dell’America precolombiana; allora perché l’India no? Le monarchie ereditarie L’uomo non sarà mai libero finché l’ultimo re non sarà strangolato con le viscere dell’ultimo prete. DENIS DIDEROT In considerazione del fatto che tra i teorici della politica la monarchia ereditaria gode di una cattiva reputazione, ci si potrebbe aspettare di trovare molti più monarchi folli nel mio elenco; tuttavia, studiando la carriera degli individui più micidiali nella storia, si scopre che in maggioranza si tratta di uomini che si erano fatti da sé. Indipendentemente dall’appellativo con cui si facevano chiamare al culmine del proprio potere, Hitler, Napoleone, Tamerlano, Gengis Khan, Mao e Stalin hanno tutti dovuto farsi strada dal basso. Caterina de’ Medici, Boris Godunov e Wang Mang crearono problemi come reggenti e usurpatori legati per matrimonio alle famiglie reali. Persino le crociate ebbero inizio sotto un capo che era stato eletto (papa Gregorio). Nessuno di loro ereditò la propria posizione. Nel 1801, quasi ogni monarca in Europa era un folle 803
vaneggiante. Anche chi non era clinicamente pazzo era stravagante al punto che le generazioni successive potevano raccontarsi una grande quantità di strane storie su di lui. Si potrebbe pensare che, con tanti individui squilibrati al potere, paesi come l’Inghilterra (Giorgio III), la Russia (Paolo I), il Portogallo (Maria I), la Svezia (Gustavo IV Adolfo) e la Danimarca (Cristiano VII) costituissero una minaccia per la società, e invece no. I pazzi governavano ogni paese d’Europa tranne uno. Un dittatore militare perfettamente sano di mente, Napoleone Bonaparte, governava la Francia e fu proprio quello il paese che provocò tutti i problemi. Tra i monarchi della mia lista, nessuno ha raggiunto lo stesso livello di responsabilità personale di Hitler e di Tamerlano. Il più micidiale, re Leopoldo II, brutalizzò il Congo come amministratore delegato di una società da lui stesso fondata, e non come erede di uno stato sovrano. I monarchi che parteciparono brancolanti alla prima guerra mondiale furono seguaci più che capi, mentre quelli davvero tremendi, nati e cresciuti come eredi reali, non fanno la loro comparsa se non verso la metà della mia classifica: Pietro il Grande, Federico il Grande e Alessandro Magno.*** Esiste forse una ragione per cui la monarchia è relativamente benigna? Una risposta potrebbe essere l’assenza di meritocrazia. In un sistema in cui i governanti ereditano la loro posizione, il talento personale è un puro caso. Qualcuno sarà molto dotato, altri saranno incompetenti senza speranza, ma la maggior parte sarà estremamente mediocre. Per contro, in una repubblica o in una dittatura gli individui raggiungono il vertice e cadono in base alle proprie forze e alle proprie doti, quindi i cattivi di talento possono conquistare il potere con la stessa facilità dei virtuosi di talento. Un altro motivo potrebbe essere che, dato che la classe dirigente nelle monarchie è più ridotta, le strutture di potere rivali si possono distruggere con meno stragi. Riccardo III di Inghilterra fu in grado di eliminare i propri rivali con pochi 804
omicidi mirati; al contrario, quando i comunisti decisero di distruggere i capitalisti, ne dovettero ammazzare milioni. La natura. Certo, in effetti la natura ha ucciso molte persone, anzi, la maggior parte. Più del 95% di tutte le morti del XX secolo sono state provocate da eventi naturali. Detto ciò, c’è una tendenza in chi scrive di scienza in termini divulgativi a sopravvalutare il peso della natura nel plasmare la storia. A sentire certi scienziati, il genere umano sarebbe costantemente sballottato senza speranza da ogni sistema di alta pressione che incombe sul Pacifico o decimato da ogni insetto che striscia nella giungla. Gli imperi sorgerebbero e tramonterebbero a seconda delle oscillazioni solari o delle precipitazioni annuali.2 Le civiltà sarebbero immortali, se non ci fossero gli tsunami a travolgerle.3 A volte sembra quasi che le società restino immutate a meno che il clima o le malattie non le obblighino a cambiare. Recentemente ho letto un articolo che attribuiva la colpa del periodo dei Torbidi in Russia a un’eruzione vulcanica in Perù.4 Il succo era che la nuvola di polvere prodotta dal vulcano avrebbe modificato il clima, il che causò la carestia che condusse, poi, alla rivolta contadina. Le fluttuazioni climatiche sono piuttosto comuni, ma è più importante come gli uomini reagiscono a tali cambiamenti. Qualche anno fa il mio stato attraversò un periodo di siccità estiva che rovinò i raccolti locali, ma, chissà perché, questo non provocò alcuna rivolta contadina. In effetti, sono piuttosto sicuro che ogni anno, da qualche parte nel mondo, il clima compia qualche azione distruttiva, ma la maggior parte delle volte la gente se la cava. Quasi ogni decennio, nella storia documentata, da qualche parte c’è stata una grande epidemia, che per lo più non ha dato vita a una svolta storica. Soltanto quando una società è matura per una rivolta il maltempo provocherà una rivolta. Gli eventi sociali hanno una causa sociale, la natura non fa che fornire lo scenario. 805
Ovviamente molto dipende dalla filosofia della causalità. Se un’epidemia decima una popolazione che è già stata colpita e sradicata da una guerra, le morti sono causate dalla guerra stessa o dalla malattia? Se una siccità si rivela il punto critico di un sistema agricolo già duramente provato da una cattiva gestione, di chi è la colpa, delle politiche agricole o del clima? Prendiamo, ad esempio, un tipico caso di impatto climatico sulla storia: la mancata presa di Mosca da parte dei tedeschi nel 1941. Se l’inverno non fosse arrivato proprio al momento giusto, i nazisti avrebbero potuto prendere la capitale a dicembre. Ma siamo realistici: se l’Armata Rossa non si fosse parata loro davanti, i tedeschi avrebbero occupato Mosca molto prima, a giugno, dopo una comoda avanzata dal confine. In realtà, dovremmo attribuire un merito maggiore all’esercito russo, perché rallentò il nemico il tempo necessario a far sopraggiungere l’inverno. Il progresso La nostra ignoranza della storia ci fa calunniare i nostri tempi. Siamo sempre stati così. GUSTAVE FLAUBERT La metà dei massacri della mia lista si è verificata negli ultimi duecento anni, un terzo negli ultimi cento. Probabilmente non c’è bisogno di sottolineare che il XX secolo ha assistito a un orrore ineguagliabile. Comunque, ciò non significa necessariamente che il mondo si stia facendo sempre più pericoloso. Sì, le armi stanno diventando più micidiali e molte ideologie spietate sono nate e morte nelle ultime generazioni. D’altra parte, però, è possibile che nel XX secolo sia stata uccisa più gente semplicemente perché ce n’era di più da ammazzare. Quando gli stati mettono in campo eserciti di milioni di soldati anziché di decine di migliaia, è più facile uccidere mezzo milione di persone. Anche quel fattore potrebbe aver esagerato l’aumento del 806
numero di vittime. Forse, la sola ragione per cui ci sembra che siano stati uccisi così tanti uomini negli ultimi duecento anni sta nel fatto che disponiamo di un maggior numero di documenti riguardanti questo periodo. Faccio ricerche da anni ed è da molto tempo che non trovo una nuova strage del XX secolo di cui prima non si avesse notizia; tuttavia, sembra che ogni volta che apro un vecchio libro trovi altre centomila persone uccise nel lontano passato e dimenticate. Forse un cronista a suo tempo prese nota del numero di morti, ma ormai l’evento è svanito nel passato. Magari alcuni storici moderni hanno rivisitato l’evento, trascurando però il conto delle vittime perché non rientra nella loro percezione del passato. Non credono che sia stato possibile ammazzare tutta quella gente senza camere a gas e mitragliatrici, così liquidano la prova contraria come inattendibile. Altrettanto sbagliata è l’idea che l’uccisione dei civili sia divenuta sempre più diffusa. Di solito lo si dimostra paragonando la seconda guerra mondiale alla prima oppure un qualche recente bagno di sangue avvenuto nel terzo mondo alla guerra cavalleresca combattuta dai signori nell’epoca precedente alle mitragliatrici. Oltre alla scelta ben mirata degli esempi, questo atteggiamento si basa semplicemente sull’oblio del passato. Raramente i libri di storia precisano che la prima guerra mondiale, la guerra franco-prussiana, le guerre napoleoniche e la guerra dei Sette anni furono responsabili della morte di moltissimi civili anche senza incursioni aeree e campi di concentramento. Dal mio calcolo, circa il 3,5% di tutte le morti avvenute nel XX secolo è stato causato dalla guerra, dai genocidi o dalla tirannia. 5 È una percentuale sicuramente superiore al 2% di persone morte per le stesse cause nel XIX secolo, ma meno di quel 15% individuato da antropologi e archeologi come media per le società tribali e prestatali.6 Risorse... Non è facile individuare una concreta ragione 807
economica per molti di questi conflitti. Certo, tantissime guerre sono state combattute per il petrolio, per l’oro, per un bottino, per gli schiavi e per le rotte commerciali, ma per stenderne una lista occorre cercare a fondo e tralasciare parecchi esempi contrari. Fra i miei cento, ho trovato soltanto diciotto massacri che si spiegano facilmente come lotte per il controllo di risorse sfruttabili. Il resto si spiega meglio come lotte di potere, guerre sante, contrasti etnici, vendette ed errori (giusto per nominare solo alcune delle cause alternative). ...la terra, soprattutto. Dato che gli esseri umani sono creature visive, concentriamoci sui risultati che si possono illustrare. Un mutamento territoriale su una carta geografica è più facile da rappresentare rispetto a un cambiamento di regime, un debito, un accordo commerciale o un riassetto delle fazioni. Purtroppo, quando si illustrano soltanto le guerre che si sono risolte con un cambiamento territoriale, sembra che tutte le guerre si siano combattute esclusivamente per il territorio. Vi prego di notare, tuttavia, che i dodici massacri più recenti della mia classifica non hanno implicato alcun riassetto territoriale. E nemmeno prima il territorio passava sempre di mano. Le guerre civili, per esempio, non riguardano certo la terra. Al contrario, il territorio fa parte dell’intero pacchetto di premi che va al vincitore, comprensivo di controllo delle finanze, dei tribunali, delle chiese e delle scuole di un paese. La terra è solo il luogo del premio, non il premio stesso, e di solito tutto passa in nuove mani in un colpo solo. In molte guerre internazionali, i vincitori rinunciano all’espansione territoriale a favore delle riparazioni e del potere di veto sulla politica estera di chi perde. Anche quando il territorio viene riassegnato, la guerra riguarda spesso qualcos’altro, perciò la terra rappresenta solo un modo per segnare i punti. Il modo in cui l’Alsazia-Lorena è stata ceduta e ripresa alla fine di ogni guerra tra Francia e Germania ne è l’esempio più lampante. 808
Dittatori malvagi... Per ogni psicopatico crudele che ha trucidato centinaia di migliaia di persone senza pietà, ho trovato un altro governante dotato di una migliore reputazione storica che ne ha ammazzate altrettante. Idi Amin, Saddam Hussein e Adolf Hitler, per esempio, rientrano agevolmente nello stereotipo dell’incarnazione del diavolo, ma altre figure micidiali del mio elenco hanno lasciato un’eredità mista come legislatori (Giustiniano, Napoleone), modernizzatori (Pietro il Grande, Mao Zedong) e organizzatori (Qin Shi Huangdi). Una delle cose più spaventose che ho scoperto è che assassinare una miriade di gente non necessariamente rende qualcuno una cattiva persona, per lo meno agli occhi della storia. ...Hitler, soprattutto. L’altro giorno ho visto un video musicale pacifista in cui si proiettavano sullo schermo immagini di orrore, mentre il gruppo cantava la necessità di amarsi. È un nobile sentimento, certo, ma la mia prima impressione è stata che ogni immagine fosse politicamente cauta. Bambini feriti, la prigione di Abu Ghraib, il Ku Klux Klan, Adolf Hitler. Tutti odiamo Hitler. Non ci vuole coraggio a denunciare Hitler, è acqua passata ed è completamente screditato. Ci vuole più coraggio a denunciare qualcuno provvisto di ammiratori tra i benpensanti, come Atatürk, Arafat, Mao Zedong o Robert E. Lee. Gli ultimi due formano una coppia davvero interessante perché raramente li troverete denunciati all’interno dello stesso contesto. I conservatori americani, che non hanno problemi a elencare Mao tra i più grandi mostri della storia, stranamente tacciono sulla questione dei confederati. A loro volta le persone di sinistra, che non metterebbero mai una bandiera confederata sul proprio berretto, adornano allegramente le loro magliette di citazioni del presidente Mao. Come disse qualcuno una volta: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo?» 809
Che cosa ho scoperto: le nude cifre È impossibile individuare una causa comune per tutti e cento i massacri della mia lista, a meno di non sceglierne una troppo vaga per essere di qualche utilità («odio», «stupidità», «potere»). Se circoscrivo i miei criteri, mi accorgo che le categorie più specifiche arrivano di rado a coprire un ottavo del totale. Ovviamente, la maggior parte dei massacri elencati può rientrare in diverse tipologie – le rivolte coloniali possono diventare guerre civili ideologiche, i conflitti culturali possono apparire religiosi, tutte le guerre contengono un pizzico di genocidio –, ma se associo ogni evento soltanto a una o due categorie che meglio rappresentano l’intera atrocità, otterrò i totali che riporto qui di seguito. Il miglior modo di usare questi numeri è quello di applicarli a confronti generici delle cause. Per esempio, potrete notare che i conflitti religiosi sono quasi tre volte più comuni delle dispute dinastiche. Tuttavia, se aggiungere o togliere uno o due massacri capovolge completamente l’esito di un confronto, probabilmente il confronto non va considerato significativo. Per esempio, stabilire se la guerra civile americana fu un conflitto etnico anziché ideologico modificherebbe la causa più comune di massacri nella storia. Natura specifica Guerre per l’egemonia (13 massacri): paesi simili combattono per chi dev’essere il numero uno. prima guerra punica seconda guerra punica terza guerra mitridatica guerre tra Birmania e Siam 810
grande guerra del Nord guerra di successione austriaca guerra dei Sette anni guerra di Crimea guerra della Triplice Alleanza guerra franco-prussiana prima guerra mondiale guerra Iran-Iraq seconda guerra del Congo Stato fallito (12 massacri): crollo del governo centrale e suddivisione del territorio tra signori della guerra. periodo degli Stati Combattenti dinastia Xin Tre Regni della Cina caduta dell’impero romano d’Occidente crollo dei maya periodo dei Torbidi crollo della dinastia Ming rivoluzione messicana guerra civile russa guerra greco-turca guerra civile cinese caos in Somalia Conflitto religioso (11 massacri): seguaci di religioni rivali lottano per il predominio culturale. crociate crociata albigese guerre di religione francesi guerra dei Trent’anni invasione dell’Irlanda da parte di Cromwell rivolta dei Taiping rivolta dei Panthay rivolta degli hui 811
guerra mahdista partizione dell’India guerre civili sudanesi Guerra civile di matrice ideologica (10 massacri): fazioni diverse combattono all’interno dello stesso paese per l’affermazione di una determinata forma di governo. guerra civile americana rivoluzione messicana guerra civile russa guerra civile cinese guerra civile spagnola guerra di Corea guerra del Vietnam guerra civile dell’Angola guerra civile del Mozambico invasione sovietica dell’Afghanistan Guerra di conquista (9 massacri): il primo atto di violenza è scatenato da un paese che cerca di sottometterne un altro. seconda guerra persiana guerra gallica guerre di Giustiniano in Occidente guerre Goguryeo-Sui invasione di Hulagu Khan conquista delle Americhe guerra di Aurangzeb nel Deccan conquista francese dell’Algeria guerra d’Etiopia Pulizia etnica (9 massacri): gli esecutori tentano di sbarazzarsi di un’etnia odiata in uno slancio improvviso. conquista delle Americhe (slancio molto lungo) invasione dell’Irlanda da parte di Cromwell guerra sino-zungara 812
prima guerra mondiale (armeni) seconda guerra mondiale (ebrei, zingari) espulsione dei tedeschi dall’Europa orientale (periodo postbellico della seconda guerra mondiale) partizione dell’India genocidio bengalese genocidio del Ruanda Razzismo (8 massacri): i principali esecutori identificano le proprie vittime come razza fisicamente diversa e geneticamente inferiore, indegne di umano rispetto. tratta degli schiavi sull’Atlantico conquista delle Americhe rivolta degli schiavi di Haiti carestie dell’India Britannica Stato Libero del Congo guerra d’Etiopia seconda guerra mondiale guerra del Sudan Rivolta coloniale (8 massacri): il popolo di una regione lontana cerca di scacciare i propri padroni stranieri. guerre servili guerre giudaiche caduta della dinastia Yuan rivolta degli schiavi di Haiti guerra d’indipendenza messicana rivoluzione cubana guerra d’Indocina guerra d’indipendenza algerina Scontro di culture (7 massacri): paesi molto diversi combattono per chi dev’essere il numero uno. seconda guerra persiana guerra Bahmani-Vijayanagara 813
guerra di Aurangzeb nel Deccan guerra russo-tatara guerra austro-turca guerra russo-turca seconda guerra mondiale (guerra del Pacifico, fronte russo) Conquista del mondo (7 massacri): una nazione tenta di sottomettere ogni paese a portata di mano. Alessandro Magno periodo degli Stati Combattenti Gengis Khan Tamerlano guerre napoleoniche Shaka seconda guerra mondiale Dittatori comunisti (6 massacri): un governo o un dittatore comunista opprime il popolo. Iosif Stalin Corea del Nord Mao Zedong Menghistu Hailè Mariàm Khmer Rossi Vietnam postbellico Modernizzazione (6 massacri): urlante e recalcitrante, una nazione viene trascinata nel mondo moderno. Pietro il Grande guerre rivoluzionario-napoleoniche carestie dell’India Britannica Stato Libero del Congo guerra civile cinese Mao Zedong 814
Sfruttamento coloniale (4 massacri): la maggior parte delle morti avviene quando i responsabili prosciugano una regione straniera per il proprio profitto. tratta degli schiavi in Medio Oriente tratta degli schiavi sull’Atlantico carestie dell’India Britannica Stato Libero del Congo Disputa dinastica (4 massacri): ciascuna fazione lotta per innalzare al trono un diverso membro della famiglia reale. dinastia Xin guerra dei Cent’anni periodo dei Torbidi guerra di successione spagnola Guerra civile di matrice etnica (3 massacri): tribù diverse si combattono all’interno di uno stesso paese. guerra sociale guerra del Sudan guerra del Biafra Sacrificio umano (2 massacri): uccisioni rituali eseguite nella speranza di ottenere il favore delle forze sovrannaturali. giochi di gladiatori sacrifici umani degli aztechi Miscellanea Despota (3 stragi): un governante tirannico privo delle caratteristiche che farebbero rientrare il suo regno in un’altra categoria. Qin Shi Huangdi Idi Amin Saddam Hussein 815
Guerra civile comune (3 massacri): lotta intestina priva delle caratteristiche che la farebbero rientrare in un’altra categoria. ribellione di An Lushan rivolta di Fang La guerra dei boschi dell’Uganda Medie generali Guerre (78 massacri): la violenza scaturisce da eserciti organizzati che si combattono apertamente. Guerre internazionali (48 massacri): diverse nazioni sovrane si combattono a vicenda. Guerre civili (30 massacri): fazioni che combattono all’interno di uno stesso paese. Oppressione istituzionale (21 massacri): queste atrocità non prevedono abbastanza conflitti organizzati da poter essere considerate guerre vere e proprie. La maggior parte delle uccisioni è unidirezionale, dagli oppressori agli oppressi, sotto forma di dittatura, schiavitù e genocidio. Causa generale Massacri ideologici (29): sono guidati da una qualche ideologia fanatica e utopistica come il comunismo o la religione. Il punto è discutibile perché in ogni evento storico c’è chi partecipa per motivi personali e chi è mosso da principi più elevati. Ma se si dovessero inserire i miei cento massacri in uno spettro, alcuni risulterebbero più ideologici di altri. E con «alcuni» intendo 29. Tra cui: Religione (13 massacri): la più importante causa di omicidio è la fede in uno o più dei. Comunismo (6 massacri): tutti i principali esecutori sono comunisti. Guerre civili tra bianchi e rossi (4 massacri): comunisti 816
contro anticomunisti. Conflitti ideologici di vario tipo (4 massacri). Massacri etnici (28): conflitti interni o esterni, sorti unicamente perché gli altri sono diversi. In questa tipologia sono compresi i genocidi, le guerre civili di matrice etnica e i conflitti coloniali, ma non le guerre tra stati sovrani che si considerano alla pari. Avidità (18 massacri): a un certo punto, il controllo di una particolare risorsa o fonte di ricchezza diventa un’istanza che conduce al massacro, anche se non necessariamente la più importante. Fra le risorse contese più ricorrenti: Schiavi (6 massacri). guerre servili tratta degli schiavi in Medio Oriente tratta degli schiavi sull’Atlantico rivolta degli schiavi di Haiti guerra civile americana guerra mahdista Petrolio (5 massacri). seconda guerra mondiale guerra civile dell’Angola Saddam Hussein guerra Iran-Iraq sanzioni contro l’Iraq Debiti (4 massacri). terza guerra mitridatica guerre servili guerra mahdista seconda guerra mondiale Zucchero (3 massacri). tratta degli schiavi sull’Atlantico 817
rivolta degli schiavi di Haiti rivoluzione cubana Oro (3 massacri). tratta degli schiavi in Medio Oriente tratta degli schiavi sull’Atlantico conquista delle Americhe Cereali (3 massacri). guerre servili carestie dell’India Britannica seconda guerra mondiale Luogo principale Cina (14 o 16 massacri). periodo degli Stati Combattenti Qin Shi Huangdi dinastia Xin Tre Regni della Cina ribellione di An Lushan rivolta di Fang La caduta della dinastia Yuan crollo della dinastia Ming guerra sino-zungara rivolta dei Taiping rivolta dei Panthay rivolta degli hui guerra civile cinese Mao Zedong (Non unicamente in Cina: Gengis Khan, seconda guerra mondiale). Europa (7 o 8 massacri): diffusi e riguardanti più nazioni 818
all’interno dell’Europa, meno al di fuori. caduta dell’impero romano d’Oriente guerra di successione spagnola guerra di successione austriaca guerra dei Sette anni guerre napoleoniche prima guerra mondiale espulsione dei tedeschi dall’Europa orientale (dopo la seconda guerra mondiale) (Non unicamente in Europa: seconda guerra mondiale). Russia (6 o 7 massacri). guerra russo-tatara periodo dei Torbidi Pietro il Grande guerra di Crimea guerra civile russa Iosif Stalin (Non unicamente in Russia: seconda guerra mondiale). Francia (5 o 6 massacri). guerra gallica crociata albigese guerra dei Cent’anni guerre di religione francesi guerra franco-prussiana (Non unicamente in Francia: prima guerra mondiale). Impero romano (5 massacri): non solo l’Italia o singole province. prima guerra punica seconda guerra punica giochi di gladiatori 819
caduta dell’impero romano d’Oriente Giustiniano India (5 massacri): guerra Bahmani-Vijayanagara Aurangzeb carestie dell’India Britannica partizione dell’India genocidio bengalese Messico (4 o 5 massacri): crollo dei maya sacrifici umani degli aztechi guerra d’indipendenza messicana rivoluzione messicana (Non unicamente in Messico: conquista delle Americhe). Vietnam (4 massacri). conquista cinese del Vietnam guerra d’Indocina guerra del Vietnam Vietnam postbellico Corea (3 massacri). guerre Goguryeo-Sui Corea del Nord guerra di Corea Tendenze storiche Guerre civili dell’Africa postcoloniale (9 massacri): nemici tribali all’interno di un paese africano combattono una guerra apparentemente senza fine, spesso finanziata da interessi esterni, con armi leggere, poca disciplina e nessuna pietà. 820
Conquista romana e resistenza (6 massacri): l’ascesa di Roma, ma non la sua caduta. Guerre di trincea con idioti assalti frontali (6 massacri): inetti generali dell’era industriale lanciano i loro uomini all’attacco contro fucilieri trincerati. Dopo una disfatta rovinosa, si trincerano nelle loro posizioni, in attesa di un nuovo tentativo. Crollo di dinastie cinesi (5 stragi): tutto procede bene finché non si scatena l’inferno. Guerre per l’equilibrio di potere in Europa combattute a colpi di moschetto (5 massacri): monarchi imparruccati dell’Illuminismo giocano una colossale partita a scacchi con pedine umane. Rivolte contadine cinesi (4 massacri): i contadini cinesi sono obbedienti e sottomessi per antonomasia, tranne quando non lo sono. Invasioni mongole (4 massacri): al di là dell’orizzonte, i barbari aspettano di calare e travolgere la civiltà. Partecipanti francesi (18 massacri) cinesi (17 massacri) inglesi (16 massacri) russi (12 massacri) tedeschi (11 massacri) americani (11 massacri) romani (9 massacri) austriaci (7 massacri) spagnoli (7 massacri) polacchi (7 massacri) turchi (7 massacri) Numero complessivo dei morti* I cento massacri più sanguinosi: 455 milioni di vittime in 821
totale. Ciò equivale, più o meno, a oltre mezzo milione di persone uccise per ogni pagina di questo libro. Guerre: 315 milioni, di cui 49 milioni di soldati e 266 milioni di civili. In media, l’85% della gente uccisa nelle guerre è costituito da civili. Oppressione istituzionale: 141 milioni. Massacri ideologici: 142 milioni. Religione: 47 milioni** Comunismo: 67 milioni. Guerre civili tra bianchi e rossi: 26 milioni. Conflitti ideologici di vario tipo: 2 milioni. Massacri etnici: 74 milioni. Motivi economici: 154 milioni.
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Appendice I Sui primi cento Definizione Quali requisiti servono per entrare nella mia lista? Ho rimandato l’argomento alla fine perché qualunque definizione utile è talmente pedante e disorientante che vi avrebbe spaventato se l’avessi inserita all’inizio. E quindi: il mio calcolo comprende tutte le morti di individui altrimenti in vita che derivano da una specifica esplosione di violenza umana e di coercizione coordinate, sia direttamente (guerra, omicidio, esecuzione) sia indirettamente (peggioramento di una malattia, carestia evitabile), quando queste sono una evidente conseguenza dell’evento. Ho considerato tutte le morti allo stesso modo, che fossero militari o civili, dolose o accidentali, avvenute per noncuranza o autorizzate. Ho contato solo le morti sopraggiunte immediatamente o poco dopo l’evento, quindi non le morti per cancro, le complicazioni a lungo termine dovute a ferite, i suicidi dei veterani ossessionati dai ricordi, gli ordigni inesplosi che fanno saltare in aria i contadini cinquant’anni dopo. Adopero una definizione piuttosto ampia perché trovo indecente stare a discutere se alcune vittime meritano più compassione di altre. Se avessi contato soltanto l’uccisione intenzionale di civili, escludendo quella accidentale, avrei passato il tempo a cercare di stabilire il grado di premeditazione. Potrei anche arrivare a chiedermi perché uccidere in battaglia 3000 coscritti adolescenti sia moralmente accettabile mentre fucilare una mezza dozzina di agitatori 823
politici in carcere non lo è, oppure perché sparare deliberatamente su alcune decine di prigionieri di guerra sia illecito mentre bombardare a casaccio 10.000 civili no. Così cambierebbe l’argomento di questo libro, passando dalla storia alla filosofia. Se volete la filosofia, potete trovarla due scaffali più in là. Secondi classificati e squalificati Qualcuno potrà chiedersi perché certi eventi terribili non compaiono nella mia lista. Uno dei miei principi è di non voler essere io il primo a calcolare un bilancio delle vittime, perciò per me il semplice sospetto che morirono molte persone avrà un peso inferiore rispetto alla cifra – qualunque cifra – proposta in precedenza da uno storico. Per prevenire tali domande, citerò alcuni candidati valutati nel corso degli anni, insieme ad altri che per poco non sono rientrati nella stesura definitiva. I casi sono due: o sfiorano senza raggiungerlo il numero minimo di vittime necessario (300.000) o le cifre non sono verificate, oppure semplicemente non appartengono alla stessa lista di Hitler, Idi Amin e Gengis Khan. Guerra di Troia: secondo un racconto presumibilmente redatto da un superstite troiano di nome Darete, nella guerra restarono uccisi 866.000 greci e 676.000 troiani1. L’archeologia non ha scoperto niente che indichi che in quel luogo si combatté una grossa guerra. Sacco di Seleucia (167 d.C.): si dice che Avidio Cassio, un generale romano di Marco Aurelio, avesse massacrato 300.000400.000 abitanti di questa città mesopotamica; tuttavia non esistono abbastanza dettagli a sostegno.2 Guerra gotica (269 d.C.): Claudio II sconfisse i goti, di cui ne restarono uccisi 320.000.3 La cifra è contenuta nella Historia Augusta, «notoriamente inaffidabile».4 Guerra germanica di Probo (277 d.C.): durante la crisi 824
dell’impero romano, parecchie tribù germaniche varcarono il confine ed entrarono in Gallia. Dopo averle respinte, il nuovo imperatore Probo informò il Senato di avere ucciso 400.000 germani. Sempre dalla Historia Augusta.5 Battaglia di Comnor (385 d.C.): secondo la tradizione mormonica, 2 milioni di uomini (più le loro donne e bambini, il che porterebbero il totale ad almeno 6 milioni) furono uccisi in una battaglia tra Shiz e Coriantumr sulla collina di Comnor, nella parte settentrionale dello stato di New York.6 Non c’è assolutamente prova che questo evento sia realmente accaduto, né che Shiz e Coriantumr siano esistiti. Si legga il capitolo XVI di Vita dura di Mark Twain per un arguto ridimensionamento. Conquista musulmana dell’India (1000-1700): nella sua Storia della civiltà, Will Durant ha scritto che «La conquista musulmana dell’India è probabilmente la vicenda più sanguinosa della storia».7 Koenraad Elst, «un riconosciuto, benché discutibile, studioso del conservatorismo indù»,8 cita una stima di 50 milioni di indù morti nella conquista musulmana,9 ma probabilmente si tratta di un’esagerazione. Indipendentemente dal numero di vittime, questa conquista è troppo lunga e discontinua per contare come singolo evento. Reconquista (1085-1492): la riconquista della Spagna da parte dei cristiani del nord, una lunga e brutta serie di guerre, con molta probabilità provocò la morte di una grande quantità di persone; tuttavia, tranne qualche confuso riferimento in vecchi saggi religiosi, non ho mai trovato una stima del bilancio delle vittime.10 Battaglia del rio Salado, Portogallo (1340): si disse che vi furono uccisi 400.000 mori.11 Peste nera (1347-1351): la peste bubbonica giunse in Europa quando i mongoli lanciarono i cadaveri infetti oltre le mura di una città assediata; tuttavia ciò non basta per contarla come evento causato dall’uomo. Altre cose spaventose avvenute nell’Asia meridionale: molta storia è stata dimenticata, perciò forse alcuni eventi 825
mancano dal mio elenco semplicemente perché se ne sono persi i documenti. Poiché l’India è la regione più vasta con la storia più scarsamente documentata, è anche il più probabile scenario di ecatombi del tutto sconosciute in cui restarono uccisi milioni di individui. Altre cose terribili avvenute nell’Africa o nell’America precoloniali: uno dei vantaggi del vivere in una società senza una lingua scritta è quello di non lasciare alcuna traccia cartacea quando si commettono dei crimini contro l’umanità. Sengoku Jidai (periodo degli Stati Combattenti, Giappone, 1467-1603): l’ho esaminato, ma tutti gli autori descrivono i combattimenti dei samurai come atti rituali, in cui restava uccisa soltanto la casta dei guerrieri. Le persone utili, come contadini, artigiani e geishe, venivano risparmiate.12 Valdesi (1545): i polemisti protestanti del XIX secolo accusavano i cattolici dell’uccisione di 900.000 valdesi in un periodo di trent’anni; la denuncia salta fuori di tanto in tanto ancora oggi,13 ma la Cambridge Modern History stima un totale di 3000 massacri e 22 villaggi distrutti.14 Caccia alle streghe (dal XV al XVIII secolo): nel XIX secolo era comune denunciare la morte di 9 milioni di persone in tutta Europa durante la caccia alle streghe. Il dato si basava sugli eventi più famigerati avvenuti in Germania, estesi al continente intero. Gli studi moderni hanno mostrato che il totale relativo a tutto il continente era molto più basso, probabilmente nell’ordine delle decine di migliaia, ma la stima di 9 milioni si può ancora incontrare.15 Guerra franco-olandese (1672-1678): fu una delle guerre di Luigi XIV. Jack Levy16 riporta un bilancio di 342.000 vittime, ma le cifre che propone per le guerre di quell’epoca tendono a essere più alte di quelle della maggior parte degli autori. Altre fonti17 indicano che il conflitto provocò un numero di vittime pari a un quarto di quelle della guerra di successione spagnola, cioè 175.000 circa. Guerra della Grande Alleanza (detta anche guerra dei 826
Nove anni e guerra della Lega di Augusta, 1688-1697): un’altra delle guerre di Luigi XIV. Jack Levy calcola un numero di 680.000 morti,18 ma la cifra è probabilmente eccessiva (vedi sopra). Altre fonti indicano che la guerra causò la morte di un terzo delle vittime attribuite alla guerra di successione spagnola, cioè intorno alle 233.000. Circassi (1763-1864): i russi combatterono una lunga e spietata guerra di conquista contro i circassi sulle montagne del Caucaso e centinaia di migliaia di persone furono costrette all’esilio. I circassi superstiti sparsi per il mondo denunciano la morte di un numero di persone compreso fra 300.000 e 1,5 milioni, ma al riguardo non trovo né una prova attendibile né un dato condiviso. Ho cercato le parole «circasso» e «genocidio» in una gigantesca banca dati di notizie, senza tuttavia trovare qualcosa di imparziale: né una recensione, né un antefatto di conflitti recenti, né un diario di viaggio, niente di niente.19 Aborigeni australiani (1788-1920): in genere si calcola che la popolazione autoctona dell’isola principale ammontasse in origine a 300.000 individui, numero sceso a 60.000 prima del 1920. Non si tratta di una cifra sufficientemente alta per poterla inserire nella mia classifica, ma alcune stime meno diffuse indicano che potrebbero essere morti 600.000 nativi, per lo più a causa delle malattie.20 Thug (fino al XIX secolo): il numero di vittime assassinate da questa setta indiana di ladri è tradizionalmente di 2 milioni; tuttavia, il recente libro di Mike Dash ne calcola verosimilmente soltanto 50.000.21 Turchi (1821-1921): in risposta alle accuse greche e armene di genocidio, i turchi hanno a) negato di aver fatto qualcosa di male e b) contro-accusato greci e armeni di aver compiuto il genocidio di milioni di turchi. Justin McCarthy22 sostiene che nell’ultimo secolo dell’impero ottomano furono uccisi da vari oppressori cristiani 5,5 milioni di musulmani. Certamente a ogni sommossa di carattere etnico i massacri si perpetrarono dall’una e dall’altra parte, ma non esiste alcuna prova convincente che le 827
minoranze infuriate uccisero più di qualche migliaio di turchi non combattenti. Non riesco a trovare nemmeno uno storico imparziale che prenda sul serio le accuse di 5,5 milioni di morti. Una rapida confutazione si trova in Crisis of the Ottoman Empire di James J. Reid. 23 Grande carestia irlandese (1845-1849): le cause di questa carestia sono troppo complesse per definirla esattamente atrocità. Di solito non considero le carestie avvenute in tempo di pace, di matrice non comunista, come atrocità vere e proprie, a meno che circostanze particolarmente coercitive non le distinguano dal resto. Per quanto mi riguarda, le uniche carestie provocate direttamente dall’uomo che fanno storia a sé e di cui vale la pena parlare in questo libro sono le carestie dell’India Britannica e le sanzioni all’Iraq, ma solo queste due, non di più. Guerra filippino-americana (1899-1901): quando gli Stati Uniti sottrassero le Filippine alla Spagna, la popolazione locale intraprese una lotta. Poche stime (pochissime) del numero di vittime della conquista/insurrezione si avvicinano a 1 milione, mentre la maggior parte dei libri sull’argomento le addebitano la morte di 200.000-250.000 civili e circa 20.000 combattenti.24 Influenza spagnola (1918-1919): siccome i primi focolai della malattia furono diffusi dagli spostamenti delle truppe, c’è chi vorrebbe sommare tutti i decessi dovuti all’influenza alle morti in battaglia della prima guerra mondiale, portando quindi il numero di vittime della guerra da 15 milioni a più di 35; tuttavia non ho mai letto veramente una storia pubblicata della prima guerra mondiale che faccia una cosa simile. I principali sostenitori di tale orientamento sembrano gli epidemiologi, forse perché esso rende l’influenza parte integrante della storia piuttosto che un evento secondario, come la si descrive di solito. Il mio parere è che, sì, dovremmo contare i soldati e i profughi vittime dell’influenza nella zona di guerra (e così facciamo), ma ovviamente non i milioni di individui morti in Cina o in India lontano dai campi di battaglia, molto tempo dopo l’armistizio. Libia (1923-1931): Muammar Gheddafi ha asserito che 828
durante l’occupazione italiana furono uccisi 750.000 libici, cioè metà della popolazione totale del paese. Più comunemente, gli studiosi stimano che il numero di vittime fosse la metà della popolazione beduina, intorno ai 100.000 individui.25 Sigarette: di tanto in tanto ricevo il suggerimento di includere i dirigenti delle aziende del tabacco tra i peggiori assassini della storia, ma al fumo mancano due caratteristiche fondamentali condivise dai miei cento massacri: immediatezza e coercizione. Un’attività volontaria che potrebbe uccidere dopo trent’anni non è proprio la stessa cosa che essere fucilati, decapitati o avvelenati nelle camere a gas. Colombia (guerra civile conosciuta come La Violencia: 1946-1958): ho scoperto due autori che parlano di 300.000 morti, contro altri cinque che ne stimano 200.000. Ciò significa che il numero di vittime è probabilmente sotto la mia soglia. Guerre arabo-israeliane (dal 1947): sono i conflitti più pubblicizzati del mezzo secolo passato e molti lettori si sarebbero aspettati di trovarli all’interno di questo libro; però Israele è un piccolo paese e in quella parte del mondo non c’è una popolazione sufficiente per generare senza uno sforzo particolare bilanci di vittime a livello della mia soglia. Le stime vanno da 50.000 a 100.000 morti in totale. Tibet (in corso dal 1959): la maggior parte delle uccisioni inflitte al Tibet fa parte dell’eredità di Mao. Quindi le includo nel relativo capitolo. Aborto: a giudicare dalle e-mail che ho ricevuto nel corso degli anni, questa sarà l’assenza più controversa. Cerchiamo di mantenere un tono civile, faccio notare che la mia definizione comprende l’espressione «individui altrimenti in vita», il che esclude chi non è ancora nato. Timor Est (conquista da parte dell’Indonesia, dopo il 1975): solo una delle undici stime che ho trovato colloca inequivocabilmente l’evento oltre la mia soglia di 300.000 morti; una propone un numero tra 200.000 e 300.000, tutte le altre non ci si avvicinano nemmeno. Il valore medio tra tutte e 829
undici è 200.000. AIDS (dopo il 1981): a volte qualcuno mi dice che Ronald Reagan (o qualcun altro) meriterebbe di essere condannato come assassino di massa per aver permesso che l’AIDS sfuggisse di mano; tuttavia, non importa come i governi improvvisarono una risposta alla prima comparsa dell’AIDS, la cosa era semplicemente fuori dal controllo di chiunque. Bambini africani che muoiono di fame: per stare sulla mia lista dev’esserci un nucleo di violenza e coercizione, in cui esecutori identificabili uccidono, picchiano o saccheggiano vittime altrettanto identificabili. Altrimenti si tratta di economia, non di atrocitologia. Liberia (1989-2003): ennesimo esempio di guerra civile africana. A volte si incontrano stime che raggiungono la mia soglia, ma il numero di vittime ufficiale riportato dalla Commissione per la Verità e la Riconciliazione della Liberia è 250.000. Burundi (1993-2004): ennesima guerra civile fra hutu e tutsi. Ho trovato quindici articoli che riportano stime di morti che variano tra 200.000 e 500.000. Effettivamente la media supera la mia soglia di 300.000, ma la singola stima più autorevole è di 260.000 morti, calcolata nel 2004 dal Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione.26 Guerra d’Iraq (in corso dal 2003): dal momento che si tratta della guerra più controversa del XXI secolo (almeno finora), molti lettori vorrebbero ritrovarla nella mia lista. Nell’ottobre del 2006 un rapporto ampiamente pubblicizzato di Lancet ha calcolato che nella guerra hanno trovato una morte violenta 655.000 iracheni, tuttavia mi convincono maggiormente svariati altri studi (come uno dell’Organizzazione Mondiale della Sanità) che hanno stimato circa 150.000 morti.27 Sul numero uno 830
Devo ammettere un pregiudizio. È piuttosto arduo scuotere la mia convinzione che la seconda guerra mondiale sia l’evento provocato dall’uomo più distruttivo della storia. Negli anni mi sono stati segnalati diversi altri candidati al primo posto, come Stalin, la schiavitù, la conquista dell’America, Mao, e tutti questi si possono ritrovare nel libro, ma gli orrori della seconda guerra mondiale sono talmente complessi e ben documentati che mi riesce difficile accettare altri concorrenti senza una prova estremamente concreta. Nella seconda guerra mondiale troviamo tutti gli stati del pianeta, spesso sotto la dominazione di despoti e ideologie brutali, che si martellano a vicenda, su e giù attraverso tre continenti, con armi di distruzione di massa come le bombe atomiche. Paragonatela a ciò che successe in Cina sotto Mao. Sì, certo, fu il dittatore spietato della più grande nazione del mondo per un quarto di secolo. Di sicuro disponeva dei mezzi, della motivazione e dell’opportunità per commettere degli omicidi di massa su larga scala, ma fu soltanto un unico uomo in un unico paese. È soltanto una sensazione viscerale, ma ho il sospetto che una guerra totale fra Hitler, Stalin, Tojo e Mao avrebbe ucciso molta più gente che Mao tutto da solo. Ma non si tratta esclusivamente di una questione di dimensioni. Gli orrori della seconda guerra mondiale sono come dei frattali, hanno gli stessi contorni frastagliati sia da vicino che da lontano. L’eccidio di Babi Yar, il bombardamento di Dresda e l’offensiva delle Ardenne uccisero tutti più di 30.000 persone e ciascun evento è abbastanza importante di per sé da costituire l’argomento di singoli libri, eppure non sono il peggio che ha da offrire la seconda guerra mondiale. La guerra produsse infatti eccidi, bombardamenti e battaglie ben più sanguinosi. A paragone della seconda guerra mondiale, quel che accadde sotto Mao, per esempio, al microscopio appare più omogeneo, con meno eventi tremendi da descrivere. Malgrado una grande carestia, parecchie purghe e un paio di guerre, la cronologia del governo di Mao non ha la stessa densità della 831
seconda guerra mondiale. Mentre scrivevo il capitolo dedicato a quest’ultima, ho faticato a ridurre una trama tanto complicata agli elementi essenziali, mentre nel caso di Mao ho dovuto penare per trovare dettagli sufficienti a riempire il capitolo. Le sovrapposizioni Una grossa differenza tra stilare una classifica delle atrocità e stilarne una di persone sta nel fatto che queste ultime si definiscono con maggiore chiarezza. Se compilassi un elenco dei cento individui più importanti della storia, non troverei che Hitler e Stalin avevano una gamba in comune, che Napoleone in realtà era un collettivo di cinque persone e Martin Lutero un centauro. Nel caso delle atrocità, per contro, devo stabilire se le guerre rivoluzionario-napoleoniche francesi vanno contate come uno, due o sette eventi e se il genocidio armeno è un’atrocità a sé stante oppure fa parte della prima guerra mondiale. Ciò significa che un’altra persona che volesse redigere un elenco con le mie stesse cifre potrebbe rimescolare facilmente la mia lista solo separando alcune atrocità e accorpandone altre. Per affrontare il problema ho sviluppato alcune regole pratiche. Se la sovrapposizione fra due episodi è lieve, li tratto come eventi separati. Mao e la guerra di Corea compaiono ciascuno nel capitolo dell’altro, ma soltanto brevemente. Se un evento è interamente contenuto all’interno di un altro evento della mia classifica, quello minore non avrà un capitolo a sé. Per esempio, ho trattato l’Olocausto come componente della seconda guerra mondiale e non in quanto evento separato. Dopotutto, se dovessi assegnare un intero capitolo all’Olocausto, perché fermarmi lì? Diciassette episodi della seconda guerra mondiale presentano un bilancio delle vittime abbastanza grande da permettere di inserirli da soli fra i cento eventi più sanguinosi della storia: cinque battaglie, cinque teatri delle operazioni e sette campagne contro i non combattenti. Se 832
mi mettessi a spezzettare ogni grande evento nelle sue parti, un capitolo ogni sei parlerebbe di un aspetto specifico della seconda guerra mondiale. Tra questi criteri ovvi si trova un terreno intermedio scivoloso: dovrei unire tutti i massacri strettamente connessi o trattarli separatamente? Le guerre napoleoniche e la rivolta degli schiavi di Haiti scaturirono dalla rivoluzione francese, ma poi presero strade decisamente molto diverse. D’altro canto, in base al bilancio delle vittime le due guerre civili del Sudan potrebbero guadagnarsi dei capitoli separati, ma non posso descriverle singolarmente perché ciascuna è incompleta senza l’altra. In linea generale, ho contato i tiranni (Saddam Hussein, Pietro il Grande) separatamente dalle loro guerre (guerra IranIraq, grande guerra del Nord) a meno che quelle guerre non siano lo scenario di quasi tutte le loro stragi (Hitler e la seconda guerra mondiale, López e la Triplice Alleanza). È più probabile che io combini gli eventi più antichi e separi quelli più recenti. Quasi certamente non avrete bisogno di conoscere in ogni atroce dettaglio tutti i singoli conflitti della caduta dell’impero romano e di quello dei Ming, pertanto è sufficiente un capitolo unico che copra l’evento nel suo complesso. Allo stesso modo, tra cent’anni, l’intero sovvertimento dell’Indocina dal 1945 agli anni Ottanta probabilmente sarà considerato un evento unico, ma per il momento ho preferito trattare separatamente tutte le parti della recente storia vietnamita per fornire maggiori particolari su un’epoca che ci influenza ancora oggi.Spesso sono guidato dalle recriminazioni che sento nei dibattiti in cui si comparano i genocidi. Quando la gente critica il trattamento dell’indiano americano, si riferisce all’intera questione, da Colombo a Wounded Knee. E quando chiede quanti indiani morirono, vuole sapere il totale, non ogni singolo pezzo. D’altro canto, le proteste nei confronti della tirannia di Saddam Hussein di solito sono piuttosto diverse da quelle sulle sanzioni economiche 833
imposte all’Iraq durante gli anni Novanta; di conseguenza ho preferito trattare i due eventi separatamente.
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Appendice II L’Emoclisma Bilancio delle vittime: 150 milioni Posizione: l’altro numero 1 Tipologia: sconvolgimento tecnologico e politico Contrapposizione di massima: Noi contro Loro Periodo: inizio del XX secolo Luogo: Terra Principali partecipanti: umanità Con chi ce la prendiamo di solito: persone, tecnologia, economia Perché non è il vero numero 1 della mia classifica: perché raggruppa diversi eventi distinti. Se dovessi inserirlo come evento vero e proprio, dovrei sostituire un quarto dei miei capitoli (Iosif Stalin, prima guerra mondiale, ecc.) con un numero ancora maggiore di stravolgimenti dinastici dalla Cina medievale. Nessuno lo vorrebbe. Quando si afferma che il XX è il secolo più sanguinoso mai documentato, in realtà ci si riferisce a tutta quella serie di barbarie collegate tra loro che va dalla prima guerra mondiale alle vittime di Hitler, Stalin e Mao. Nonostante ciascuna di tali guerre e ogni singolo dittatore rappresentino un evento a sé stante, molti sono strettamente correlati tra loro. Hitler, Stalin e Mao non furono solo tiranni a tutti gli effetti, ma anche i principali protagonisti della seconda guerra mondiale, che fu chiaramente il seguito della prima. La guerra civile russa, che aprì la strada all’ascesa di Stalin, fu anch’essa un derivato di quel conflitto. L’anarchia che 835
imperversò in Cina all’indomani del rovesciamento della monarchia condusse Chiang Kai-shek al potere, pose Mao in conflitto con lui e incoraggiò l’invasione giapponese. La caduta dell’impero giapponese dopo la seconda guerra mondiale rese disponibile la Corea alla conquista e l’esercito di Mao fu tra quelli che tentarono di accaparrarsela. È assai probabile, quindi, che in futuro gli storici considerino questi eventi semplicemente come episodi di un unico enorme sconvolgimento – l’«Emoclisma», per dargli un nome (dal greco «inondazione di sangue») – che tolse la vita a circa 150 milioni di persone. Tutto sommato, oltre l’80% delle morti violente del XX secolo si è verificato nell’Emoclisma. Dal punto di vista geopolitico, l’Emoclisma scaturì dal declino di due antichi imperi e si può dividere nettamente in due parti: Emoclisma orientale ed Emoclisma occidentale. Quest’ultimo ebbe inizio quando il tramonto degli ottomani lasciò nei Balcani un ingorgo di piccoli stati sotto le influenze rivali di Russia e Austria-Ungheria. La guerra che scoppiò tra di esse si ampliò rapidamente fino a includere tutte le grandi potenze del mondo; inoltre essa devastò a tal punto eserciti e finanze che crollarono quattro delle monarchie più importanti d’Europa. Il conseguente vuoto di potere venne colmato dai nazisti in Germania e dai comunisti in Russia. Queste due ideologie opposte consolidarono il proprio potere in modo brutale, quindi si scontrarono nella seconda guerra mondiale, che nella sostanza fu una replica della prima. La morte di Stalin, avvenuta nel 1953, arrestò infine l’Emoclisma occidentale dopo una perdita di circa 100 milioni di vite umane. L’Emoclisma orientale cominciò quando la caduta dell’ultimo imperatore cinese spalancò le porte a quattro decenni di guerra civile che sollecitarono le ambizioni dei giapponesi. Nel 1949, il bagno di sangue dell’interregno ne scatenò uno ancora maggiore, allorché i comunisti affermarono il proprio potere con Mao, il quale morì nel 1976. Vista come un continuum, questa fase della storia cinese si rivela un incubo 836
di sessantacinque anni che, pressappoco, travolse 55 milioni di vite. Se non fosse per il fatto che la seconda guerra mondiale è ritenuta un evento a sé, probabilmente potremmo considerare distintamente le due metà dell’Emoclisma, l’orientale e l’occidentale, come parti della storia completamente indipendenti. Perché il mondo esplose all’improvviso in questa ondata di uccisioni senza precedenti? Le cause sono complesse, eppure, dopo anni di studio, penso di poter circoscrivere il campo a tre ragioni: 1. perché potevano, 2. perché volevano 3. e perché lo facevano anche tutti gli altri. O, se si preferiscono termini accademici più elaborati, diciamo: 1. la tecnologia, 2. l’ideologia 3. e il crescente ciclo di violenza. Perché potevano (la tecnologia) Non erano solo le mitragliatrici a falciare in massa la fanteria che avanzava, non erano solo gli aeroplani a seminare morte centinaia di chilometri oltre le linee nemiche: erano i camion e le ferrovie che potevano approvvigionare vastissimi eserciti in zone di battaglia desolate. I carri armati riportavano in azione le armate bloccate di fronte a fortificazioni impenetrabili, radar e sonar riuscivano a localizzare i nemici ben oltre l’orizzonte visibile a occhio nudo, la radio era in grado di coordinare le offensive da un continente a un altro. L’industria fabbricava enormi quantità di munizioni da sprecare uccidendo più del necessario. L’urbanizzazione ebbe come effetto la concentrazione di popolazioni numerosissime in aree circoscritte dove le si poteva polverizzare con i bombardamenti 837
aerei o radunare per un massacro o una deportazione. Burocrazie numerose e attente resero quasi impossibile sfuggire agli esattori delle tasse, alla leva e alla polizia segreta. Perché volevano (l’ideologia) Si potrebbe sperare di riuscire a collegare dal punto di vista ideologico i maggiori sconvolgimenti del XX secolo: nazionalismo (prima guerra mondiale) + socialismo (Iosif Stalin) = qualcosa di ancora peggiore: nazionalsocialismo (Hitler) Purtroppo, questa analisi risulta scorretta in due punti. In primo luogo, il nazionalsocialismo non era più «socialista» di quanto la Repubblica Democratica di Corea (del Nord) non sia una «repubblica democratica». I nazisti si facevano chiamare «socialisti» perché questo attirava un maggiore consenso da parte della classe operaia rispetto a «partito di quelli che schiacceranno chiunque gli si metterà tra i piedi», ma odiavano i veri socialisti e non sostennero mai nulla di inerente alla ridistribuzione economica, che costituisce il fulcro ideologico del socialismo autentico. In secondo luogo, non si può addebitare interamente al nazionalismo tutta la colpa della prima guerra mondiale. In effetti, è difficile attribuire la colpa della prima guerra mondiale a qualcosa in particolare, perché non siamo ancora sicuri delle sue motivazioni reali. Tuttavia, la Grande guerra rappresentò un trauma talmente catastrofico per la civiltà occidentale da provocare un’enorme revisione ideologica in tutta Europa. Nei paesi vincitori questo si espresse attraverso l’atteggiamento edonistico del dopoguerra e il nichilismo artistico, ma nei paesi sconfitti, il rifiuto della filosofia tradizionale fu più assoluto. La Russia sterzò a sinistra, verso l’ipermodernismo marxista, mentre la Germania si orientò a destra, verso l’iperprimitivo nazismo. Entrambe le filosofie disumanizzavano e 838
demonizzavano brutalmente l’opposizione e, con totale indifferenza, buttarono via le vite dei loro seguaci in nome di un bene superiore. Perché lo facevano anche tutti gli altri (il crescente ciclo di violenza) Ogni strage creava una schiera di orfani astiosi che sarebbero cresciuti per vendicare la morte del padre. Ogni campagna spingeva migliaia di profughi verso una vita di accattonaggio e saccheggio. Ogni chiamata alla leva metteva nelle mani di migliaia di giovani arrabbiati e alienati armi che avrebbero adoperato con la stessa probabilità tanto contro il proprio governo quanto contro il nemico. Ogni nazione conquistata doveva essere liberata. Ogni attacco a sorpresa trascinava un altro paese nella guerra. Ogni sconfitta doveva essere ribaltata. Nessuna vittoria era mai definitiva. Fu solamente dopo lo sviluppo degli armamenti nucleari e della prospettiva della fine del mondo che il ciclo di violenza andò a sbattere contro un muro e fu costretto a fermarsi.
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Ringraziamenti Un ringraziamento particolare va a Vincenzo Ostuni, per avermi avviato in questo progetto, e a Steven Pinker, per tutto l’aiuto e l’incoraggiamento alla pubblicazione. Devo molto ai miei amici Jennifer, Joanna, Sarah, Gopa, Leila, Frances, Lou, Andrew, Robert, Niki e Brian per le critiche ai primi abbozzi del progetto e la discussione di molti problemi spinosi. Grazie a mio fratello Peter per tutto l’incoraggiamento e l’interesse che condividiamo per la storia. Devo moltissimo a Brendan Curry, Melanie Tortoroli e Mary Babcock della W.W. Norton per l’aiuto nel portare a termine il libro, correggere i miei errori, contribuire a chiarirmi questioni complicate e in generale spingermi a scrivere meglio. Sono grato in particolar modo al mio agente e ai suoi colleghi – Max Brockman, Russell Weinberger e Michael Healey –, che mi hanno guidato nel nuovo mondo dell’editoria, a me estraneo. Infine vorrei ringraziare il personale delle sezioni accessioni della Richmond Public Library e della Virginia Commonwealth University’s Cabell Library, che non ho mai conosciuto, ma il loro lavoro anonimo nella conservazione di ampie raccolte storiche ha aiutato moltissimo le mie ricerche.
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Note Seconda guerra persiana 1 V.D. Hanson (Massacri e cultura: le battaglie che hanno portato la civiltà occidentale a dominare il mondo, Garzanti, Milano, 2002, p. 48) calcola che in entrambe le guerre persiane morirono 250.000 soldati persiani. P. Sorokin (La dinamica sociale e culturale, a cura di C. Marletti, utet, Torino, 1975, p. 809) stima a sua volta che furono uccisi o feriti 57.000 greci. Si tratta di stime approssimative, che tuttavia si aggirano intorno al numero di 300.000, civili compresi. 2 V.D. Hanson, op. cit.; B. Strauss, La forza e l’astuzia: i Greci, i Persiani, la battaglia di Salamina, Laterza, Roma-Bari, 2005.
Alessandro Magno 1 V.D. Hanson, Wars of the Ancient Greeks, Cassell, London, 1999, p. 178: «nell’arco di appena otto anni Alessandro Magno aveva trucidato ben più di 200.000 uomini nelle sole battaglie pianificate», «tra il 334 e il 324 furono completamente massacrati 250.000 abitanti delle città». Ho arrotondato per eccesso per includere anche le perdite dello stesso Alessandro Magno. 2 J. Keegan, La maschera del comando, Net, Milano, 2006, pp. 23-100. 3 F. Pratt, The Battles That Changed History, Dolphin, Garden City, 1956, pp. 17-37. 4 G.M. Rogers, Alexander: The Ambiguity of Greatness, Random House, New York, 2004.
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Periodo degli Stati Combattenti
1 I resoconti antichi sostengono che i soldati di Qin uccisero complessivamente 1,5 milioni di nemici in tutte le loro battaglie. Gli storici moderni non considerano letteralmente questo totale, ma lo citano come ordine di grandezza plausibile per i morti di tutti le parti coinvolte e per qualsiasi ragione (V.T Hui, War and State Formation in Ancient China and Early Modern Europe, Cambridge University Press, New York, 2005, p. 87; C. Peers, Warlords of China: 700 BC to AD 1662, Arms & Armour Press, London, 1998, pp. 58-59). 2 Lei Hai-tsung, The Warring States, http://www.sfu.ca/davidlamcentre/nacrp/articles/leihaizong/leihaizong.html 3 Ibid. 4 Ibid. 5 C. Peers, op. cit., pp. 55–57. 6 Ibid., p. 58. 7 Ibid., p. 61. 8 Qian Sima, Records of the Grand Historian: Qin Dynasty, trad. di Burton Watson, Columbia Universtiy Press, New York, 1993, p. 163. 9 J. Man, L’esercito di terracotta: il primo imperatore cinese e la nascita di una nazione, Mondadori, Milano, 2009, pp. 44-45.
Prima guerra punica 1 R.A. Gabriel, The Culture of War: Invention and Early Development, Westport, Greenwood Press, 1990, pp. 110–111: «Polibio la definì la guerra più sanguinosa della storia, è probabile infatti che le perdite da entrambe le parti, in maggioranza romane, sfiorassero i quattrocentomila uomini». 2 N. Bagnall, The Punic Wars 264-146 BC, Osprey, New York, 2002, p. 34.
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3 Ibid., p. 41.
Qin Shi Huangdi 1 C.P. Fitzgerald, La civiltà cinese, Einaudi, Torino, 1974, p. 127: «la tradizione popolare ha conservato il suo nome come oggetto di odio inestinguibile per aver costruito la Muraglia. Ancora oggi, dopo più di duemila anni, il popolo ripete che un milioni di uomini perirono in quell’opera». 2 C. Peers, op. cit., p. 66. 3 Ibid., pp. 62-64; L.A. DuTemple, The Great Wall of China, Lerner, Minneapolis, 2003, pp. 22-41. 4 C. Peers, op. cit., pp. 67-69; Qingxin Li, Maritime Silk Road, China Intercontinental Press, Beijing, 2006, p. 11. 5 C. Peers, op. cit., p. 69. 6 Ibid., p. 70. 7 Ibid., pp. 66-67.
Seconda guerra punica 1 Lo storico romano Appiano (Pun. XX,134) registrò 300.000 morti in battaglia tra i romani. T.A. Dodge, in Hannibal: A History of the Art of War among the Carthaginians and Romans (Boston, Houghton, Mifflin & Co., 1891), pp. 610-611, aggiunse le epidemie e ampliò la cifra a 500.000 soldati romani e 270.000 soldati cartaginesi morti per cause varie. 2 N. Bagnall, op. cit., pp. 50-52. 3 Ibid., pp. 54-55.
Giochi di gladiatori 1 Basandosi sul numero degli anfiteatri scoperti dagli archeologi, sulla frequenza delle feste, ecc., K. Hopkins e M. 843
Beard, in Il Colosseo: la storia e il mito (Laterza, Roma-Bari, 2006, pp. 110-111), hanno calcolato che in tutto l’impero si verificarono in ogni arena 8000 morti, compresi gli incidenti di addestramento. Questa cifra si dovrebbe moltiplicare fino a un massimo di 5,6 milioni di morti per tutti i 700 anni di combattimenti di gladiatori registrati o (con più probabilità) a 3,2 milioni, se questo tasso di morti si fosse mantenuto allo stesso livello nei 400 anni che dividono l’epoca di Spartaco da quella di Costantino. Come ipotesi personale, in questa scala ho scelto una cifra tonda per difetto. 2 D. Kyle, Spectacles of Death in Ancient Rome, Routledge, New York, 2001, p. 45. 3 Ibid., p. 106. 4 Ibid., p. 51. 5 Ibid., pp. 187-194. 6 Ibid., p. 187. 7 E.W. Bovill e R. Hallett, The Golden Trade of the Moors, M. Weiner Publishers, Princeton, 1995, pp. 5-7; J.D. Hughes, The Mediterranean, ABC-CLIO, Santa Barbara, 2005, pp. 37-38. 8 D. Kyle, op. cit., p. 86. 9 Ibid., p. 162. 10 R. Auguet, Cruelty and Civilization: The Roman Games, Barnes & Noble, New York, 1994, p. 55. 11 D. Kyle, op. cit., pp. 158-165. 12 T. Jones, Gladiators: The Brutal Truth, Medieval Lives, BBC, 1999; BBC Warner, 2008 (dvd). 13 Citando Origene, Gibbon (in Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, Einaudi, Torino, 1987, vol. I, cap. XVI, p. 482) stimò i martiri cristiani in circa 2000.
Guerre servili 1 Ateneo, I dotti a banchetto, VI, 272 (citato in Z. Yavetz, Slaves 844
and Slavery in Ancient Rome, Transaction Books, New Brunswick, 1988, p. 78); N. Lewis, Roman Civilization, Columbia University Press, New York, 1990, vol. II: The Empire, p. 245. 2 T. Mommsen, Storia di Roma antica, Sansoni, Firenze, 1979, vol. IV, pp. 94-95. 3 Ibid., pp. 163-166. 4 B. Strauss, La guerra di Spartaco, Laterza, Roma-Bari, 2009; T Mommsen, op. cit., vol. V, t. 1, pp. 653-559.
Guerra sociale 1 Velleio Patercolo, Storia romana, II, 15, 3 (morti da entrambe le parti). 2 T. Mommsen, op. cit., vol. IV, pp. 265-314.
Terza guerra mitridatica 1 Plutarco, Vite parallele, Cimone, Lucullo, a cura di S. Fuscagni e B. Scardigli, Rizzoli, Milano, 1989: nella terza guerra furono uccisi 300.000 abitanti del Ponto che combattevano per Mitridate (p. 369), mentre altri 100.000 armeni trovarono la morte combattendo per Tigrane (p. 441). 2 Plutarco dice 200.000, Appiano 160.000. 3 A.S. Bradford, With Arrow, Sword, and Spear, Praeger, Westport, 2001, p. 204.
Gli elvezi 1 La cifra di 700.000 è la media tra i due bilanci contraddittori che ci sono giunti: 1 milione secondo Plutarco, Vite parallele: Giulio Cesare, 15; 400.000 secondo Patercolo, Storia romana, II,47. 845
2 C. Meier, Giulio Cesare, Garzanti, Milano, 1993, pp. 246247.
L’incompetenza matematica degli antichi 1 C. Rubincam, Casualty Figures in Thucydides’ Descriptions of Battle, in Transactions of the American Philological Association, 1991, CXXI, pp. 181-198. 2 J. Heidenrich, The Gulf War: How Many Iraqis Died?, in Foreign Policy, n. 90, 22 marzo 1993. 3 R. Santana, 85,000 Iraqis Killed in Almost 5 Years of War, Associated Press, 14 ottobre 2009. 4 T. Susman, Poll: Civilian Death Toll in Iraq May Top 1 Million, in Los Angeles Times, 14 settembre 2007.
Dinastia Xin 1 D. Twitchett e J.K. Fairbank, (a cura di), The Cambridge History of China, vol. I: The Ch’in and Han Empires 221 B.CA.D. 220, Cambridge University Press, New York, 1986, p. 218. 2 Ibid., p. 219. 3 Wang Mang, in Encyclopaedia Britannica, XV ed., vol. I, Encyclopaedia Britannica, Chicago, 2005, p. 48. 4 G.R. Ricci, Introduction, in Cultural Landscapes: Religion and Public Life, Transaction Publishers, New Brunswick, 2006, http://www.etown.edu/History.aspx? topic=Introduction+to+volume+35; H.H. Lamb, Climate, History and the Modern World, Routledge, New York, 1995, p. 315. 5 D. Twitchett e J.K. Fairbank, op. cit., pp. 241-242. 6 Ibid., p. 243. 7 Ibid., p. 245. 8 Ibid., p. 247. 846
9 Ibid., p. 248. 10 Ibid., p. 250. 11 Stime sul crollo della popolazione, dalla più alta alla più bassa: Dan Usher sostiene che la popolazione calò da 58 milioni nel 2 d.C. a 15,1 milioni nel 31 d.C., con una perdita di 43 milioni di individui (Political Economy, Blackwell, Oxford, 2003, p. 12); J.D. Durand stima che la popolazione della Cina storica precipitò da 71 milioni a 43 milioni tra il 2 d.C. e l’88 d.C., un calo di 28 milioni (The Population Statistics of China, AD 2-1953, in Population Studies, n. 3, 1960, XIII, p. 221); P.M.G. Harris calcola 41 milioni di individui nel 23 d.C., il che indica un calo di 16 milioni dal 2 d.C. (The History of Human Populations, vol. I: Forms of Growth and Decline, Praeger, Westport, 2001, p. 241); William L. Langer afferma che la popolazione crollò da poco meno di 60 milioni nel primo anno dell’era cristiana a poco meno di 50 milioni nel 140 d.C., con un calo di circa 10 milioni (An Encyclopedia of World History, London, Harrap, 1972, p. 51); Rafe de Créspigny sostiene che nel 2 d.C. la popolazione dell’intero impero fosse di oltre 57 milioni di individui e di 48 milioni dal 140 d.C. fino alla fine del secolo, il che indica un calo di 9 milioni (South China under the Later Han Dynasty, 1990, http://www.anu.edu.au/asianstudies/decrespigny/south_china.html); Twitchett e Fairbank indicano un crollo di 8 o 9 milioni di individui tra il 2 d.C. e il 140 d.C. (op. cit., p. 240).
Guerre giudaiche 1 L.L. Grabbe, An Introduction To First Century Judaism: Jewish Religion and History in the Second Temple Period, Clark, Edinburgh, 1996, pp. 64-65. 2 J. Lendering, Messianic Claimants (18) Simon ben Kosiba (132-135 CE), in Livius.org, http://www.livius.org/menmh/messiah/messianic_claimants17.html. 847
3 W. Durant, Storia della civiltà, vol. III, Cesare e Cristo, Mondadori, Milano, 1966, p. 705. 4 Cassiio Dione, Storia romana, LXIX, 14. 5 W. Durant, op. cit., p. 708. 6 Per il computo della popolazione, cfr. tra gli altri: A. Byatt, Josephus and Population Numbers in First Century Palestine, in Palestine Exploration Quarterly, n. 1, 1973, CV, p. 15 (2.265.000); C.C. McCown, The Density of Population in Ancient Palestine, in Journal of Biblical Literature, n. 4, 1947, LXVI, p. 425 (meno di 1.000.000); A. von Harnack, Missione e propagazione del Cristianesimo nei primi tre secoli, Bocca, Milano, 1954 (500.000); S. Schwartz, Imperialism and Jewish Society, 200 B.C.E. to 640 C.E., University of Princeton, Princeton, 2001 (500.000).
Tre Regni della Cina
1 Romance of the Three Kingdoms, in TV Tropes, http://tvtropes.org/pmwiki/pmwiki.php/Literature/RomanceOfTheThreeKin 2 A. O’Hehir, John Woo on «Red Cliff» and the Rise of Chinawood, in Salon, 18 novembre 2009, http://www.salon.com/ent/movies/btm/feature/2009/11/18/john_woo/index. 3 É. Balazs, La burocrazia celeste: ricerche sull’economia e la società della Cina del passato, Il Saggiatore, Milano, 1971, p. 54. Soltanto nel 184 la repressione imperiale uccise mezzo milione di persone. 4 C.P. Fitzgerald, op. cit., p. 227. 5 Hong-Sen Yan, Reconstruction Designs of Lost Ancient Chinese Machinery, Springer, Dordrecht, 2007, pp. 275-277; J. Needham e C. Ronan, The Shorter Science and Civilisation in China: An Abridgement of Joseph Needham’s Original Text, Cambridge University Press, Cambridge, 1994, p. 170. 6 R. de Créspigny, The Three Kingdoms and Western Jin: A 848
History of China in the Third Century AD, edizione Internet, novembre 2003, http://www.anu.edu.au/asianstudies/decrespigny/3KWJin.html. 7 Non c’è niente di magico in questo; è solo che quando vi trovate di fronte a due numeri differenti (diciamo 16 e 10.000), fare la media aritmetica (16+10000/2=5008) è praticamente lo stesso che dividere il più alto a metà. Tuttavia, il ricorso alla media geometrica (radice quadrata (16*10.000)=400) dà un numero che risulterà intermedio fra i due livelli in modo più riconoscibile. A volte nella pratica funziona. Per esempio, dal mio conteggio nel XX secolo risultavano 47 massacri con un numero di vittime compreso tra 100.000 e 1.000.000. Il numero medio di vittime tra tutti e 47 è 297.766. In altre parole, il numero medio di vittime di un evento che ha ucciso «centinaia di migliaia» di individui è intorno a 300.000. Come si può vedere, questo risultato è più vicino alla media geometrica tra 100.000 e 1.000.000 (316.228) di quanto non sia la media aritmetica tra gli stessi (550.000).
Caduta dell’impero romano d’Occidente 1 Nel New Penguin Atlas of Medieval History (Penguin, New York, 1992, p. 38), C. McEvedy ha calcolato che la popolazione dell’impero romano all’epoca del crollo era di 36 milioni, e che tra il 400 e il 600 d.C. il territorio perse il 20% degli abitanti, ossia 7,2 milioni. 2 Citato in B. Ward-Perkins, La caduta di Roma e la fine della civiltà, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 31. 3 P. Howarth, Attila re degli Unni, Piemme, Casale Monferrato, 1997, p. 102. 4 J.B. Bury, The Invasion of Europe by the Barbarians, Norton, New York, 1967, pp. 114-119; M. Grant, Il declino dell’impero romano, Mondadori, Milano, 1976, pp. 48-49. 5 P. Howarth, op. cit., p. 53. 849
6 Ibid., pp. 111-113. 7 Gregorio di Tours, citato in ibid., p. 116. Si noterà che i cronisti restavano particolarmente turbati dall’uccisione dei sacerdoti, probabilmente perché erano gli stessi sacerdoti a scrivere le cronache. 8 E. Hildinger, Warriors of the Steppe: A Military History of Central Asia, 500 B.C. to 1700 A.D., Da Capo Press, Cambridge, 1997, pp. 69-70. 9 Ibid., p. 72. 10 M. Grant, op. cit., pp. 53-54. 11 Ibid., pp. 60-69. 12 Ibid., pp. 70-90. 13 Ibid., pp. 324-325. 14 Ibid., pp. 249-258. 15 B. Ward-Perkins, op. cit., pp. 3-15, 169-178. 16 Ibid., pp. 107-168. 17 «La popolazione dell’Europa (fino agli Urali) è stata stimata in 36 milioni verso il 200; verso il 600 sarebbe stata di 26 milioni. Un’altra stima, che esclude la ‘Russia’, indica un calo ancor più drastico, da 44 a 22 milioni» (F. Crouzet, Histoire de l’économie européenne: 1000-2000, A. Michel, Paris, 2000, p. 20).
Giustiniano 1 E. Ormsby, The Hidden Historian, in New York Sun, 21 settembre 2005. 2 E. Gibbon, op. cit., vol. III, cap. XL. 3 W. Rosen, Justinian’s Flea: Plague, Empire, and the Birth of Europe, Viking, New York, 2007, pp. 74-76. 4 Ibid., pp. 137-141. 5 Ibid., pp. 148-151. 850
6 Procopio di Cesarea, Storia segreta, XVIII. 7 T. Dick, The Philosophy of Religion: Or an Illustration of the Moral Laws of the Universe, Key & Biddle, Philadelphia, 1833, pp. 260-262; G.C. Beckwith, The Peace Manual: Or, War and Its Remedies, American Peace Society, Boston, 1847, pp. 39-42. 8 La stima moderna dei morti per peste afferma che l’impero di Giustiniano perse 4 milioni di persone nei primi due anni di epidemia: W. Rosen, op. cit., p. 261. 9 E. Gibbon, op. cit., vol. II, cap. XLII. 10 C. McEvedy, op. cit., p. 38.
Guerre Goguryeo-Sui 1 Secondo fonti cinesi (vedi sotto), i cinesi persero intorno ai 300.000 uomini in ogni guerra. Sebbene possa sembrare un’esagerazione, i cinesi registravano tutto meticolosamente ed erano capaci di mettere in campo eserciti di 100.000 o più unità, perdendone la maggior parte senza pensarci due volte. Se si aggiungono il fronte avversario e tutte le morti collaterali, quello di 300.000 caduti in ogni guerra non risulterà un numero irragionevole. 2 D.A. Graff, Medieval Chinese Warfare, 300-900, Routledge, New York, 2002, p. 145. 3 K.B. Lee, Korea and East Asia: The Story of a Phoenix, Praeger, Westport, 1997, p. 16. 4 Jae-un Kang e S. Lee, The Land of Scholars: Two Thousand Years of Korean Confucianism, Homa & Sekey Books, Paramus, 2006, p. 40.
Tratta degli schiavi in Medio Oriente 1 Commonwealth v. Turner, 26 Va. 678 (Va.Gen.Ct., November Term 1827). 851
2 R. Segal, Islam’s Black Slaves, Farrar, Straus & Giroux, New York, 2001, p. 146. 3 Ibid., p. 159. 4 Ibid. 5 Ibid., p. 156. 6 A. Weisman, Il mondo senza di noi, Einaudi, Torino, 2008, pp. 91-92. 7 Ibid. 8 R. Segal, op. cit., p. 148. 9 Ibid., p. 160. 10 Ibid., p. 167. 11 Ibid., p. 169. 12 Ibid., p. 171. 13 Ibid., p. 156. 14 G. Milton, White Gold: The Extraordinary Story of Thomas Pellow and Islam’s One Million White Slaves, Farrar, Straus & Giroux, New York, 2004, p. 16. 15 J. Keegan, La grande storia della guerra, Mondadori, Milano, 1996, pp. 37-45. 16 R.C. Davis, Christian Slaves, Muslim Masters: White Slavery in the Mediterranean, the Barbary Coast, and Italy, 1500-1800, Palgrave Macmillan, New York, 2003, p. 23. 17 R.C. Davis (op. cit.) ha stimato un tasso annuale di mortalità del 17%. A paragone, quello di una sana popolazione preindustriale superava raramente il 3% (E.A. Wrigley, Population History of England, 1541-1871: A Reconstruction, Cambridge University Press, New York, 1989, p. 181).
Ribellione di An Lushan 1 T. Newark, Medieval Warlords, Blandford Press, Poole, 1987, pp. 48-51. 852
2 Ibid., p. 52. 3 C.P. Fitzgerald, op. cit., p. 267. 4 T. Newark, op. cit., p. 55. 5 E.G. Pulleyblank, An Lu-shan Rebellion and the Origins of Chronic Militarism in Late T’ang China, in J. Curtis Perry e B.L. Smith (a cura di), Essays on T’ang Society: The Interplay of Social, Political and Economic Forces, Brill, Leiden, 1976, p. 41. 6 Ibid., p. 43. 7 D.A. Graff, op. cit., p. 219. 8 C.P. Fitzgerald, op. cit., p. 268. 9 T. Newark, op. cit., p. 63. 10 M. Graff, op. cit., p. 222. 11 C.P. Fitzgerald, op. cit., p. 309. 12 Li Bo, Zhan cheng nan. 13 C.P. Fitzgerald, op. cit., p. 310. 14 Du Fu, in Li Po, Tu Fu e Po Chu-i, Coppe di giada, a cura di Vilma Costantini, Milano, TEA, 1988, p. 235. 15 C.P. Fitzgerald, op. cit., p. 311. 16 Bai Juyi (Po Chu-i), in Coppe di giada, cit., p. 84. 17 I dati del censimento si possono trovare in: J.D. Durand, op. cit., pp. 209, 223 (esprime grossi dubbi sull’accuratezza); C.P. Fitzgerald, op. cit., p. 277 (meno dubbi); R. Hooker, World Civilizations, Washington State University, 1996, http://www.wsu.edu/~dee/TEXT/chememp.rtf (evidente accettazione); P.N. Stearns (a cura di), The Encyclopedia of World History: Ancient, Medieval, and Modern, VI ed., Houghton Mifflin, Boston, 2001, http://www.bartleby.com/67/370.html (lieve dubbio); P. Turchin, Dynamical Feedbacks between Population Growth and Sociopolitical Instability in Agrarian States, in Structure and Dynamics, n. 1, 2005, I, 853
http://www.escholarship.org/uc/item/0d17g8g9 (consenso). 18 J.D. Durand, op. cit., p. 223.
Crollo dei maya
1 M. Moran e M. Koumenalis, Royal Massacre Site Discovered in Ruins on Ancient Maya City, 18 novembre 2005, http://www.exploration.vanderbilt.edu/print/pdfs/news/news_maya_massac T.H. Maugh II, Maya War Crimes Scene Uncovered, in Los Angeles Times, 17 novembre 2005. 2 H.I. McKillop, The Ancient Maya: New Perspectives, ABCCLIO, Santa Barbara, 2004, pp. 97-98. 3 J. Diamond, Collasso: come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi, Torino, 2007, p. 189. 4 Citato in R.B. Gill, The Great Maya Droughts: Water, Life, and Death, University of New Mexico Press, Albuquerque, 2000, p. 351. Altre stime: The New York Times Guide to Essential Knowledge, St. Martin’s Press, New York, 2007, p. 495 (da 8 a 10 milioni di persone); J.E. Kicza, The Peoples and Civilizations of the Americas before Contact, American Historical Association, Washington, 1998, p. 12 (da 3 a 5 milioni); B.L. Persson, The Legacy of the Jaguar Prophet, Religionshistoriska Avd., Lunds Univ., Lund, 2000, p. 88 (2 milioni).
Crociate 1 Le stime del numero di persone uccise nel corso delle crociate iniziano con 1 milione (F. Wertham, A Sign for Cain: An Exploration of Human Violence, Macmillan, New York, 1966) e arrivano fino a 9 milioni (J.M. Robertson, A Short History of Christianity, Watts, London, 1902, p. 278) passando per 3 milioni (F.H. Garrison, Notes on the History of Military Medicine, Association of Military Surgeons, Washington, 1922, 854
p. 106) e 5 milioni (H.W. Elson, Modern Times and the Living Past, American Book Company, New York, 1921, p. 261). Io prendo per buona la media inferiore (il calcolo di Garrison), che rappresenta la media geometrica dei due estremi. 2 A. Wheatcroft, Infedeli, 638-2003: il lungo conflitto fra Cristianesimo e Islam, Roma-Bari, Laterza, 2004, pp. 189-190. 3 J. Riley-Smith, Breve storia delle crociate, Mondadori, Milano, 1994, pp. 26-27. 4 A. Wheatcroft, op. cit., p. 199; A. Maalouf, Le Crociate viste dagli Arabi, SEI, Torno, 1989, p. 10. 5 A. Maalouf, op. cit., pp. 31-32. 6 Ibid., pp. 47-48. 7 A. Wheatcroft, op. cit., pp. 201. 8 J. Riley-Smith, op. cit., pp. 67-68. 9 A. Maalouf, op. cit., pp. 55-56; A. Wheatcroft, op. cit., p. 205. 10 M.T. Ansary, Un destino parallelo: la storia del mondo vista attraverso lo sguardo dell’Islam, Fazi, Roma, 2010, p. 211. 11 A. Maalouf, op. cit., p. 215. 12 J. Riley-Smith, op. cit., pp. 173-183; J.J. Norwich, Bisanzio: splendore e decadenza di un impero: 330-1453, Mondadori, Milano, 2000, pp. 332-336. 13 J. Riley-Smith, op. cit., p. 197; J. Harpur, The Crusades: The Two Hundred Years War, Rosen Publishing Group, New York, 2008, pp. 82-83; C. Adams, Is the Children’s Crusade Fact or Fable?, in The Straight Dope, 9 aprile 2004, http://www.straightdope.com/columns/read/2503/is-thechildrens-crusade-fact-or-fable. 14 J. Riley-Smith, op. cit., pp. 28-29.
Uccidere per la religione 1 Ancorché verosimilmente esagerate, le cifre contenute in Esodo 32, Numeri 31, Giosuè 10, Giudici 1, Giudici 3, Giudici 855
20, Samuele 1:4, Samuele 2:8, Samuele 2:10, Samuele 2:18 e Cronache 2:25 sono plausibili, meno quelle di Giudici 8, Cronache 2:13, Re 1:20, ed Ester 9. 2 Japanese Martyrs, in Catholic Encyclopedia, http://www.newadvent.org/cathen/09744a.htm. 3 Bosnia Marks War Anniversary, BBC, 6 aprile 2002. 4 In Sati: Widow Burning in India (Doubleday, New York, 1992), Sakuntala Narasimhan afferma che durante la Presidenza del Bengala (1815-1828) furono bruciate vive 7941 vedove, e cita inoltre Rammohun Roy, secondo cui in Bengala gli episodi furono quasi dieci volte quelli verificatisi altrove. Io ho calcolato che in quattordici anni in tutta l’India vi furono 8735 sati (cioè 1,1 x 7.941), ossia circa 62.400 in un secolo. 5 C. Carlton, Going to the Wars: The Experience of the British Civil Wars, 1638-1651, Routledge, New York, 1992, p. 211. 6 J. Daniszewski, On 25th Anniversary of Civil War, Lebanese Rally for Account of Missing, in Los Angeles Times, 14 aprile 2000; Casualty Toll of Lebanese Civil War Put at 144,000, Associated Press, 9 marzo 1992. 7 Ten Dead in Fighting in Algeria, Agence France Presse, 23 giugno 2003; G. Trequesser, Bouteflika aides say Algerian Leader Ahead in Poll, Reuters News, 8 aprile 2004. 8 P.C. Phan, Vietnamese-American Catholics, Paulist Press, Mahwah, 2005, p. 88; B.B. Fall, Last Reflections on a War: Bernard B. Fall’s Last Comments on Vietnam, Stackpole Books, Mechanicsburg, 2000, p. 44. 9 W.B. Lincoln, I Bianchi e i Rossi: storia della guerra civile russa, Mondadori, Milano, 1994, p. 281. 10 E. Gibbon, op. cit., vol. III, cap. LIV; Paulicians, in Encyclopaedia Britannica, XI ed., University Press, Cambridge, 1910, vol. XX, p. 960. 11 J.L. Motley, Rise of the Dutch Republic, Harper & Bros, New York, 1855, p. 497; P. Schaff, History of the Christian 856
Church, Scribner, New York, 1910, p. 180. 12 P. Johnson, Storia degli ebrei, TEA, Milano, 1994, pp. 290291. 13 E. Gibbon, op. cit., vol. II, cap. XLVIII. 14 J. Gibbons, Recent Developments in the Study of the Great European Witch Hunt, in Pomegranate: A New Journal of Neopagan Thought, n. 5, 1998 (la stima oscilla tra le 40.000 e le 60.000 vittime).
Rivolta di Fang La 1 S. Lieu, Manichaeism in the Later Roman Empire and Medieval China, Mohr, Tübingen, 1992, p. 135, cita un’antica fonte cinese (Ch’ing-ch’i K’ou-kuei) che conta soltanto il numero di morti durante la rivolta, non quelli relativi al successivo crollo della frontiera. 2 W.H. McNeill, The Rise of the West: A History of the Human Community, University of Chicago Press, Chicago, 1990, pp. 311-313. 3 S. Lieu, Manichaeism in Central Asia and China, Brill, Boston, 1998; S. Lieu, Manichaeism in the Later Roman Empire and Medieval China, cit.; Youzhong Shi, The Taiping Ideology: Its Sources, Interpretations, and Influences, University of Washington Press, Seattle, 1967.
Gengis Khan 1 Mi baso grosso modo su C. McEvedy, The Atlas of World Population History, Penguin, New York, 1978. McEvedy sostiene che la popolazione della Cina nel corso del XIII secolo subì un crollo di 35 milioni di individui. Inoltre, a questa cifra vanno ad aggiungersi altri 2,75 milioni, ossia il calo della popolazione nelle regioni occidentali conquistate dai mongoli. Tutto considerato, sembra che, per effetto del passaggio dei 857
mongoli, l’Eurasia si sia ritrovata con 37.750.000 persone in meno. Ho arrotondato per evitare di fingere un’eccessiva precisione. 2 A. Osborn, Genghis Khan: He’s Mr. Nice Guy Now, in Hamilton Spectator (Ontario), 12 maggio 2005; J.S. Pocha, Once-Feared Invader’s Reputation Gets a Revival, in Boston Globe, 3 luglio 2005. 3 H. Mayell, Genghis Khan a Prolific Lover, DNA Data Implies, in National Geographic, 14 febbraio 2003, http://news.nationalgeographic.com/news/2003/02/0214_030214_genghis.h 4 J. Weatherford, Genghis Khan and the Making of the Modern World, Three Rivers Press, New York, 2004, p. 115. 5 Ibid., p. 117. Si raffronti il racconto con la certezza con la quale nella pagina precedente Weatherford riporta le atrocità degli europei. Descrive gli europei che giocano a calcio con le teste mozzate, che impiccano i prigionieri alle mura, che gli staccano gli arti e peggio ancora («Allora i tedeschi radunarono i bambini prigionieri e li legarono alle catapulte»), senza nemmeno un «a quanto pare» o «presumibilmente» (p. 116). Si noti inoltre che la morte in battaglia del genero è dipinta come un «omicidio». 6 E. Hildinger, op. cit., p. 113. 7 Ibid., p. 116. 8 J. Keegan, La grande storia della guerra, cit., pp. 165-170. 9 J. Weatherford, op. cit., p. 113-114. 10 E. Hildinger, op. cit., pp. 21-23; J. Keegan, La grande storia della guerra, cit., pp. 166-167. 11 J. Man, Gengis Khan: alla conquista dell’impero più vasto del mondo, Mondadori, Milano, 2006, pp. 118-119. 12 R. Grousset, Il Conquistatore del mondo: vita di Gengis Khan, Adelphi, Milano, 2011, p. 228. 13 J. Man, Gengis Khan, cit., p. 141. 14 Ibid., p. 146. 858
15 R. Grousset, op. cit., pp. 240-244. 16 Ibid., pp. 249-250. 17 Ibid., p. 270. 18 Ibid., p. 256. 19 Ibid., pp. 260-263. 20 Al-Ǧiuwainī, Genghis Khan, Mondadori, Milano, 1991, p. 157. 21 R. Grousset, op. cit., p. 273; J. Man, Gengis Khan, cit., pp. 146-151. 22 R. Grousset, op. cit., p. 300. 23 J. Man, Gengis Khan, cit., pp. 218-219; C. McEvedy, Atlas of World Population History, cit., p. 172; D. Morgan, Breve storia dei mongoli, Mondadori, Milano, 1997, p. 85, che a sua volta cita J.D. Langlois (a cura di), China under Mongol Rule, Princeton University Press, Princeton, 1981; A. Macfarlane, in The Savage Wars of Peace: England, Japan and the Malthusian Trap (Palgrave Macmillan, New York, 2003, p. 50), stima che la popolazione cinese sia calata della metà in cinquanta anni, 60 milioni di persone morte o scomparse. 24 J. Man, Gengis Khan, cit., p. 151; C. McEvedy, Atlas of World Population History, cit., pp. 78, 152-156. 25 J.D. Durand, op. cit. 26 R. Grousset, op. cit., p. 268. 27 D. Morgan, op. cit., p. 82. 28 Ibid., pp. 82-83. 29 J. Weatherford, op. cit., p. 114. 30 Ibid., p. 118. 31 J. Man, Gengis Khan, cit., pp. 148-149. 32 Merriam-Webster’s Collegiate Dictionary, X ed., MerriamWebster, Springfield, 1999, p. 842.
859
Crociata albigese 1 È il bilancio delle vittime che per tradizione si attribuisce alla guerra contro i catari. Non so da dove tragga origine, né l’ho mai incontrato in una storia accademica della Francia, tuttavia è la cifra che ritorna comunemente negli studi religiosi, per esempio: C. Brookmyre, Not the End of the World, Grove Press, New York, 1998, p. 39; M. Dimont, Jews, God, and History, Penguin, New York, 1994, p. 225; G. di Zerega, Pagans and Christians: The Personal Spiritual Experience, Llewellyn, St. Paul, 2001, p. 195; H. Ellerbe, Il lato oscuro del Critianesimo, Castelvecchi, Roma, 2011, p. 90; M. Newton, Holy Homicide, Loompanics, Port Townsend, 1998, p. 117. Si tratta di una cifra in circolazione da almeno un secolo; cfr. J.M. Robertson, A Short History of Christianity, Watts, London, 1902, p. 254 («Si è calcolato che furono trucidate un milione di persone, di ogni età e di entrambi i sessi»). 2 S. O’Shea, The Perfect Heresy: The Revolutionary Life and Death of the Medieval Cathars, Walker, New York, 2000, pp. 75-87. 3 Ibid., p. 106. 4 J. Riley-Smith, op. cit., p. 192. 5 Ibid., p. 193. 6 F. Chalk e K. Jonassohn, The History and Sociology of Genocide: Analyses and Case Studies, Yale University Press, New Haven, 1990, pp. 114-134.
Invasione di Hulagu Khan 1 Persino oggi, la maggior parte dei resoconti riporta un numero di 800.000 persone uccise a Baghdad. Mentre il dato mi pare chiaramente esagerato se riferito a una singola città, lo prenderò per buono ai fini della mia classifica, come se si riferisse agli esiti della guerra nella sua totalità. 860
2 I. Frazier, Destroying Baghdad, in New Yorker, 25 aprile 2005; D. Morgan, op. cit.
Guerra dei Cent’anni 1 B.W. Tuchman, Uno specchio lontano. Un secolo di avventure e di calamità: il Trecento, Mondatori, Milano, 1981, p. 92. 2 I. Mortimer, Poitiers: High Point of the Hundred Years’ War, in History Today, n. 9, settembre 2006, LVI, p. 41(7). 3 J. Bos, Charles VI of France, in Joan’s Mad Monarch Series, http://www.xs4all.nl/~monarchs/madmonarchs/charles6/charles6_bio.htm; B.W.Tuchman, op. cit., pp. 567-589. 4 J. Keegan, Il volto della battaglia, Il Saggiatore, Milano, 2010, pp. 80-120. 5 F. Pratt, op. cit., pp. 104-121. 6 P. Sorokin, op. cit., pp. 817-819. 7 P. Turchin, Historical Dynamics: Why States Rise and Fall, Princeton University Press, Princeton, 2003, p. 180. 8 P. Pregill, Landscapes in History, II ed., John Wiley, New York, 1999, p. 167 (la popolazione francese era all’inizio di circa 19 milioni, ma alla fine della guerra dei Cent’anni si era ridotta di un terzo); F.J. Baumgartner, France in the Sixteenth Century, St. Martin’s Press, New York, 1995, p. 65 (20 milioni nel 1340, 10 un secolo dopo); H. Heller, Labour, Science and Technology in France 1500-1620, Cambridge University Press, Cambridge, 2002, p. 202 (17 milioni all’inizio del XIV secolo, 9 milioni nel 1440). Nella maggior parte dei paesi la peste nera uccise un terzo della popolazione, che tuttavia in Francia a quanto pare calò della metà, perciò il sesto di morti in più (3,33 milioni circa) potrebbe essere stato causato dalla guerra. 9 E. Miller (a cura di), The Cambridge Economic History of Europe from the Decline of the Roman Empire, Cambridge 861
University Press, Cambridge, 1979, vol. II, p. 386.
Caduta della dinastia Yuan 1 F.W. Mote e D.Twitchett (a cura di), The Cambridge History of China, vol. VII: The Ming Dynasty, 1368-1644, parte I, Cambridge University Press, Cambridge, 1988, p. 60. 2 Ibid. 3 P.A. Lorge, War, Politics and Society in Early Modern China, 900-1795, Taylor & Francis, New York, 2005, p. 99; E.L. Farmer, Zhu Yuanzhang and Early Ming Legislation: The Reordering of Chinese Society, Brill, Leiden, 1995, p. 21. 4 F.W. Mote e D. Twitchett, op. cit., pp. 44-47. 5 S.L. Yang et al., Effect of Deposition and Erosion within the Main River Channel and Large Lakes on Sediment Delivery to the Estuary of the Yangtze River, in Journal of Geophysical Research, n. f2, 2007, CXII: «L’area della superficie del lago Poyang è diminuita, passando dai 5050 km2 del 1949 ai 3919 km2 del 1995». 6 P.A. Lorge, op. cit., pp. 102-103; M.E. Haskew et al., Fighting Techniques of the Oriental World, AD 1200-1860, St. Martin’s, New York, 2008, p. 234. 7 H. Franke e D. Twitchett, The Cambridge History of China, vol. VII: Alien Regimes and Border States, 907-1368, Cambridge University Press, New York, 1994, p. 622.
Guerra Bahmani-Vijayanagara 1 J. Scott, Firišta, Ferishta’s History of Dekkan from the First Mahummedan Conquests, J.&W. Eddowes, Shrewsbury, 1794, p. 26. 2 Ibid., pp. 27-30. 3 R. Sewell, A Forgotten Empire: Vijayanagar; A Contribution 862
to the History of India, Allen & Unwin, London, 1900.
Tamerlano 1 È la media di otto stime diverse. A.H. Godbey, The Lost Tribes, a Myth: Suggestions towards Rewriting Hebrew History, Ktav, New York, 1974, p. 385 («Si calcola che Gengis Khan abbia annientato venti milioni di persone, Tamerlano dodici milioni»); I. McWilliam, Uzbekistan Restores Samarkand to Boost Nationalist Pride, in Los Angeles Times, 23 agosto 1994 («Un conquistatore spietato che, con una stima per difetto, causò la morte di circa 7 milioni di persone»); P. Ford, ExRussian Satellite Enjoys Setting Its Own Agenda, in Christian Science Monitor, 3 giugno 1997 («Tamerlano […] fu responsabile della morte di 20 milioni di persone»); S. Kinzer, A Kinder, Gentler Tamerlane Inspires Uzbekistan, in New York Times, 10 novembre 1997 («Si dice che nella furia del XIV secolo il suo esercito di turchi e mongoli abbia ucciso 17 milioni di uomini, donne e bambini»); D. Carpenter, Barbaric Tamerlane Anointed a Whitewashed Hero in Uzbekistan, Associated Press, 5 gennaio 1998 («Si calcola che i suoi eserciti […] abbiano massacrato 17 milioni di persone»); H.D.S. Greenway, New Waves across the Steppes, in Boston Globe, 27 maggio 1998 («Si dice che abbia ucciso 15 milioni di persone»); J. Fenby, Crossroads of Conquest, in South China Morning Post (Hong Kong), 20 novembre 1999 («Un guerriero locale zoppicante per la ferita di una freccia marciò a nord, est, ovest e sud per fondare un proprio impero su circa 17 milioni di cadaveri»); C. McMahon, The Rehabilitation of Tamerlane, in Chicago Tribune, 17 gennaio 1999 («un bilancio delle vittime stimato in 17 milioni»). 2 S. Greenblatt, Vita, arte e passioni di William Shakespeare, capocomico: come Shakespeare divenne Shakespeare, Einaudi, Torino, 2005, pp. 199-203.
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3 J. Marozzi, Tamerlane: Sword of Islam, Conqueror of the World, Da Capo Press, Cambridge (Ma.), 2004, p. 326. 4 Ibid., p. 65. 5 Ibid., p. 132. 6 J. Picton, Tamerlane. The Curse of «The Viper» Reached Right into the 20th Century, in Toronto Star, 12 luglio 1987. 7 J. Marozzi, op. cit., pp. 113-114. 8 Ibid., p. 132. 9 Ibid., pp. 153-154. 10 E. Hildinger, op. cit., pp. 179-180; J. Marozzi, op. cit., p. 65. 11 J. Marozzi, op. cit., p. 190. 12 E. Hildinger, op. cit., pp. 179-180; R. González de Clavijo, Viaggio a Samarcanda: 1403-1406: un ambasciatore spagnolo alla corte di Tamerlano, a cura di P. Boccardi Storoni, Viella, Roma, 1999, p. 138. 13 J. Marozzi, op. cit., pp. 312-316. 14 Ibid., p. 82. 15 R. González de Clavijo, op. cit., pp. 207-208. 16 E. Hildinger, op. cit., p. 194. 17 D. Carpenter, op. cit.; P. Ford, op. cit.; S. Kinzer, op. cit.; C. McMahon, op. cit.; I. McWilliam, op. cit.
Conquista cinese del Vietnam 1 G. Wade, Ming Colonial Armies in Southeast Asia, in K. Hack e T. Rettig (a cura di), Colonial Armies in Southeast Asia, Routledge, New York, 2006, p. 84. Gli storici cinesi sostenevano che furono uccisi 7 milioni di individui e che le pianure si tinsero di rosso per il sangue. Per la classifica, ho diviso tale numero per dieci, ottenendo quindi 700.000, senza alcuna ragione specifica. Il censimento condotto dai Ming dopo la conquista contò 5,2 milioni di persone nel Vietnam. 864
2 Sun Laichen, Military Technology Transfers from Ming China and the Emergence of Northern Mainland Southeast Asia; c. 1390-1527, in Journal of Southeast Asian Studies, n. 3, ottobre 2003, XXXIV, p. 495; K. Hack e T. Rettig (a cura di), op. cit., pp. 83-88. 3 Minh Do, Le Loi’s Struggle: Under the Ming Dynasty, in VietNow Magazine, 31 luglio, 1997, p. 15.
Sacrifici umani degli aztechi 1 Bernal Díaz del Castillo, citato in D.L. Carrasco, City of Sacrifice: The Aztec Empire and the Role of Violence in Civilization, Beacon Press, Boston, 1999, p. 51. 2 Aztecs: Reign of Blood and Splendor, Time-Life Books, Alexandria, 1992, pp. 99-100. 3 M. Harris, Cannibali e re: le origini delle culture, Feltrinelli, Milano, 1979, pp. 122-123. 4 D.L. Carrasco, op. cit., pp. 196-197. 5 Ibid., pp. 204-207. 6 Aztecs, cit., p. 103. 7 M. Cocker, Rivers of Blood, Rivers of Gold: Europe’s Conquest of Indigenous Peoples, Grove Press, New York, 2001, p. 47. 8 Questa teoria è stata formulata recentemente e in modo molto persuasivo dagli antropologi Michael Harner e Marvin Harris negli anni Settanta, ma si può ritrovare anche nell’opera di E.J. Payne, History of the New World Called America, Clarendon Press, Oxford, 1899, vol. II, p. 550. 9 D.L. Carrasco, op. cit., p. 167; D. Kyle, op. cit., p. 152. 10 M. Harris, Materialismo culturale: la lotta per una scienza della cultura, Feltrinelli, Milano, 1984, pp. 336-343. 11 Juan Antonio Llorente, segretario generale dell’Inquisizione dal 1789 al 1801, fece una stima di 31.912 esecuzioni, dal 1480 865
al 1808: W. Durant, op. cit., vol. VI, La Riforma, Mondadori, Milano, 1970, p. 286. 12 J. Gibbons, op. cit. 13 P. Hessler, The New Story of China’s Ancient Past, in National Geographic, luglio 2003. 14 B. Keen, The Aztec Image in Western Thought, Rutgers University Press, New Brunswick, 1990, pp. 96-97. 15 M. Cocker, op. cit., p. 47; Harris, op. cit., p. 120. 16 Citato in M. Harner, The Enigma of Aztec Sacrifice, in Natural History, n. 4, aprile 1977, LXXXVI, pp. 46-51. 17 W. Prescott, La conquista del Messico, Einaudi, Torino, 1970, p. 46. 18 B. Keen, op. cit., p. 256. 19 M. Harner, op. cit.
Tratta degli schiavi sull’Atlantico 1 La mia stima è basata su varie percentuali citate in questo capitolo. Il numero totale delle vittime del commercio transatlantico di schiavi parrebbe compreso tra 14 e 18 milioni, ossia la somma dei 10-12 milioni di morti in Africa (metà del totale delle persone catturate), più 1-2 milioni di morti sull’oceano (dal 10 al 15% del numero di esseri umani trasportati), più altri 3-4 milioni di morti nel primo anno in America (un terzo di chi giunse a destinazione). Tutto ciò si traduce in un’ipotesi molto approssimativa, secondo la quale ogni due schiavi trasportati dall’altra parte dell’oceano ne morirono tre. Qualche altro calcolo: D.E. Stannard, Olocausto americano, Bollati Boringhieri, Torino, 2001, p. 259: da 30 a 60 milioni; R.J. Rummel, Statistics of Democide, http://www.hawaii.edu/powerkills/SOD.TAB2.1A.GIF: 13.667.000; J. Rogozinski, A Brief History of the Caribbean: From the Arawak and the Carib to the Present, Meridian, New 866
York, 1992, p. 128: 8 milioni di morti per portare nei Caraibi 4 milioni di schiavi; S. Drescher, The Atlantic Slave Trade and the Holocaust, in Alan S. Rosenbaum (a cura di), Is the Holocaust Unique? Perspectives on Comparative Genocide, Westview, Boulder, 1996, pp. 66-67: 6 milioni. 2 M. Meltzer, Slavery: A World History, Da Capo Press, New York, 1993, vol. II, p. 2. 3 H. Thomas, The Slave Trade: The Story of the Atlantic Slave Trade: 1440-1870, Simon & Schuster, New York, 1997, pp. 373-379. 4 A. Hochschild, Bury the Chains: Prophets and Rebels in the Fight to Free an Empire’s Slaves, Mariner Books, New York, 2005, p. 31. 5 J. Rogozinski, op. cit., p. 127. 6 D.E. Stannard, op. cit., p. 259; A. Hochschild, op. cit., p. 31 (il 50% moriva nelle marce forzate e nei recinti); C. Lloyd, The Navy and the Slave Trade: The Suppression of the African Slave Trade in the Nineteenth Century, Cass, London, 1968, p. 118 (il 50%, citando Buxton). 7 A. Falconbridge, An Account of the Slave Trade on the Coast of Africa, London, J. Phillips, 1788, p. 18. 8 H. Thomas, op. cit., didascalia all’illustrazione 75. 9 O. Equiano, L’incredibile storia di Olaudah Equiano, o Gustavus Vassa, detto l’Africano, a cura di G. Schiavi, Epoché, Milano, 2008, p. 40. 10 J. Rogozinski, op. cit., p. 127. 11 H. Thomas, op. cit., p. 416. 12 Ibid., p. 417. 13 Ibid., p. 804; J. Rogozinski, op. cit., p. 123. 14 Lo studio più importante sulle statistiche dei trasporti è probabilmente The Atlantic Slave Trade: A Census di Philip D. Curtin (University of Wisconsin Press, Madison, 1969): l’autore calcola che furono imbarcati 11,8 milioni di schiavi e che ne 867
giunsero a destinazione 9,4 milioni. Altre fonti: B. Davidson, Africa in History: Themes and Outlines, Touchstone, New York, 1991, p. 208 (10-12 milioni); A. Hochschild, op. cit., p. 32 (11 milioni partiti, 9,6 arrivati); M. Meltzer, op. cit., vol. II, p. 51 (10 milioni; lo studio cita a sua volta Curtin; le vecchie stime di 15-20 milioni erano «ipotesi inconsistenti»); D.E. Stannard, op. cit., p. 259 (da 12 a 15 milioni di sopravvissuti); H. Thomas, op. cit., p. 804 (13 milioni partirono dai porti africani e 11.328.000 giunsero in America). 15 B. Davidson, op. cit., p. 215 (10-15%); M. Meltzer, op. cit., vol. II, p. 50 (nel XVIII secolo il 12,5% moriva durante la traversata); J. Rogozinski, op. cit., p. 127 (13%); D.E. Stannard, op. cit., p. 259 (10%); H. Thomas, op. cit., p. 424 (9%, stima ragionevole per il XVIII secolo). 16 A. Hochschild, op. cit., p. 32; H. Thomas, op. cit., p. 709. 17 H. Thomas, op. cit., pp. 310-311. 18 «Attento alla Baia del Benin, / pochi escono, ma tanti entrano»: J.A. McMillin, The Final Victims: Foreign Slave Trade to North America, 1783-1810, University of South Carolina Press, Columbia, 2004, p. 61. 19 A. Hochschild, op. cit., p. 63 (un terzo nei primi tre anni); M. Meltzer, op. cit., vol. II, p. 50 (4-5% di morti in attesa nel porto, 33% durante l’ambientamento); D.E. Stannard, op. cit., p. 259 (durante l’ambientamento moriva la metà degli schiavi). 20 A. Hochschild, op. cit., pp. 63-66. 21 J. Rogozinski, op. cit., pp. 124, 138. 22 H. Thomas, op. cit., p. 805. 23 W.D. Jordan, Il fardello dell’uomo bianco: origini del razzismo negli USA, Vallecchi, Firenze, 1976, pp. 48-52. 24 J.P. Jackson e N.M. Weidman, Race, Racism, and Science: Social Impact and Interaction, ABC-CLIO, Santa Barbara, 2004, pp. 24-27; W.D. Jordan, op. cit. 25 S. Drescher, op. cit., p. 72. 868
26 M. Turner, Slaves and Missionaries: The Disintegration of Jamaican Slave Society, 1787-1834, Press University of the West Indies, Kingston, 1998, pp. 8-9. 27 C. Lloyd, op. cit., p. 118. 28 J. Walvin, Black Ivory, Blackwell, Malden, 2001, p. 265. 29 C. McEvedy, The Penguin Atlas of African History, Penguin, New York, 1995, p. 97. 30 R.M. Miller e J.D. Smith (a cura di), Dictionary of AfroAmerican Slavery, Greenwood Press, New York, 1988, p. 594.
Conquista delle Americhe 1 C. Colombo, Giornale di bordo del primo viaggio e della scoperta delle Indie, Rizzoli, Milano, 1992, p. 70. 2 Ibid., pp. 169-170. 3 Citato in H. Zinn, Storia del popolo americano. Dal 1492 a oggi, Il Saggiatore, Milano, 2010, p. 9. 4 C. Colombo, op. cit., p. 74. 5 M. Meltzer, op. cit., vol. II, p. 6. 6 H. Zinn, op. cit., p. 12. 7 M. Cocker, op. cit., pp. 34, 63-65. 8 M. Meltzer, op. cit., vol. II, p. 6. 9 J. Rogozinski, op. cit., pp. 26-27. 10 Unearthing Evidence of a Caribbean Massacre, in Los Angeles Times, 21 agosto 1997. 11 J. Rogozinski, op. cit., p. 31. 12 Ibid., p. 30. 13 M. Cocker, op. cit., p. 27. 14 V.D. Hanson, Massacri e cultura, cit., pp. 212-216; M. Cocker, op. cit., pp. 53-60. 15 M. Cocker, op. cit., pp. 94-95.
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16 B. Branford, History Echoes in the Mines of Potosi, BBC News Online, 18 ottobre 2004, http://news.bbc.co.uk/2/hi/americas/3740134.stm. Le stime del numero di minatori morti a Potosí arrivano alla cifra di 8 milioni, il che però equivale a 20.000 l’anno a causa della miniera, dal 1549 al 1949, all’interno di una comunità che raggiunse il limite di 200.000 unità per poi dimezzarsi quando le miniere si esaurirono. Significa almeno il 10% di morti ogni anno per quasi mezzo millennio. Dato che nemmeno il gulag riuscì a essere tanto letale, dubito di queste stime così elevate. 17 R. Thornton, American Indian Holocaust and Survival: A Population History since 1492, University of Oklahoma Press, Norman, 1987, p. 69. 18 H. Zinn, op. cit., p. 20. 19 W.M. Osborn, The Wild Frontier: Atrocities during the American-Indian War from Jamestown Colony to Wounded Knee, Random House, New York, 2000, p. 243. 20 Ibid., p. 139. 21 Ibid., p. 156. 22 R.L. Utley e W.E. Washburn, Indian Wars, Mariner Books, Boston, 1987, pp. 126-127. 23 Ibid., p. 129. 24 R. Thornton, op. cit., p. 118. 25 R.L. Utley e W.E. Washburn, op. cit., p. 203. 26 W.M. Osborn, op. cit., p. 217. 27 Ibid., p. 225. 28 Ibid., p. 240. 29 D. Ribeiro, Frontiere indigene della civiltà, Jaca Book, Milano, 1990, p. 45. 30 S.T. Katz, Uniqueness: The Historical Dimension, in A.S. Rosenbaum (a cura di), op. cit., p. 21. 31 Citato in B. Kiernan, Blood and Soil: A World History of 870
Genocide and Extermination from Sparta to Darfur, Yale University Press, New Haven, 2007, p. 227. 32 D.E. Stannard, op. cit., p. 117. 33 J.W. Loewen, Lies My Teacher Told Me, Touchstone, New York, 1995, p. 82. Nella prima frase si cita Karen Kupperman. 34 J. Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi, Torino, 1998, p. 55. 35 D.E. Stannard, op. cit., p. 182. Devo aggiungere che in ogni caso 100.000 è una stima molto più alta rispetto a quelle elaborate dalla maggior parte degli studiosi in relazione alla popolazione originaria. 36 D.E. Stannard, The Politics of Genocide Scholarship, in A.S. Rosenbaum (a cura di), op. cit., p. 178. Secondo una delle stime, 2,4 dei 5,1 milioni di vittime dell’Olocausto morirono di malattia nei ghetti e nei campi di concentramento. 37 R.J. Rummel, op. cit., http://www.hawaii.edu/powerkills/SOD.TAB2.1A.GIF. 38 The New York Public Library American History Desk Reference, Macmillan, New York, 1997, p. 15. 39 R. Thornton, op. cit., p. 23; D.E. Stannard, Olocausto americano, cit., p. 420. 40 M. Livi Bacci, Storia minima della popolazione del mondo, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 69; M. Coe, D. Dean e E. Benson, Atlas of Ancient America, Facts on File, New York, 1986, p. 13; C.C. Mann, 1491: New Revelations of the Americas before Columbus, Vintage, New York, 2005, p. 148. 41 La soluzione più facile sarebbe ipotizzare con una certa approssimazione che agli europei si possa addebitare un calo della popolazione compreso tra uno e due terzi, cioè da 11 a 24 milioni su un totale di 35. Se si preferisce costruire un’accusa caso per caso, occorre ignorare le congetture esagerate riguardo alle popolazioni precolombiane e contare esclusivamente il 871
numero documentato di indigeni che scomparvero sotto la dominazione europea, secondo quanto registrato tra un censimento e l’altro. Dopo che la prima ondata di malattie ebbe fatto il peggio e ormai comandavano gli spagnoli, tra il 1512 e il 1560 scomparvero 112.000 indigeni cubani, 5.300.000 messicani (1548-1605) e 700.000 peruviani (1572-1620) (M. Livi Bacci, op. cit., pp. 69-70). A Hispaniola la popolazione precipitò dalle 60.000 unità del 1508 alle 500 del 1548 (M. Meltzer, op. cit., vol. II, p. 8). Secondo Russell Thornton (op. cit., p. 90), nel corso dell’avanzata della frontiera americana, la popolazione indiana del Nordamerica tra il 1800 e il 1890 passò da 600.000 a 200.000 unità. Ci sono poi gli 800.000 indios della regione amazzonica scomparsi nel XX secolo. Dato che di solito delle cose brutte che accadono sotto i loro occhi si ritengono responsabili i governi, con qualche rapido calcolo si ottiene un numero di vite perdute sotto la dominazione occidentale pari a 7,3 milioni, che è un punto di riferimento dal quale partire. E nel conto non entrano i centroamericani, gli aztechi o gli inca, uccisi direttamente durante la conquista. Ciò indica dunque un’ampia gamma di morti addebitabili compresa tra 7 e 24 milioni, il che significa che, al di là del numero esatto di vittime, la conquista delle Americhe va inserita in alto nel nostro elenco, in una posizione non inferiore al numero 19, e forse addirittura al quarto posto.
Genocidio 1 J. Diamond, Il terzo scimpanzé. Ascesa e caduta del primate Homo sapiens, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, pp. 353, 364. 2 Ibid., p. 367. 3 È la media di dodici stime: cfr. http://www.necrometrics.com/20c5m.htm#Holocaust. 4 Media di sei stime: cfr. http://www.necrometrics.com/20c5m.htm#Holodomor. 872
5 Il bilancio delle vittime rappresenta la media geometrica tra la cifra più elevata (1 milione) e quella più bassa (250.000): I. Hancock, Responses to the Romani Holocaust, in A.S. Rosenbaum (a cura di), op. cit., pp. 39-64. 6 Di nuovo si tratta della media geometrica tra la cifra più alta (1,2 milioni di morti, secondo la stima del governo tibetano in esilio) e la più bassa (100.000, secondo J.N. Porter, Genocide and Human Rights, University Press of America, Washington, 1982). 7 Media di cinque stime pubblicate: cfr. http://www.necrometrics.com/20c5m.htm#Yugo. 8 M. Mennecke e E. Markusen, Genocide in Bosnia and Herzegovina, in S. Totten, W.S. Parsons e I.W. Charny (a cura di), Century of Genocide: Critical Essays and Eyewitness Accounts, II ed., Routledge, New York, 2004, p. 422. 9 S. Totten, Dictionary of Genocide: A-L, Greenwood Press, Westport, 2008, p. 26. 10 C. McEvedy, The Penguin Historical Atlas of the Pacific, Penguin, New York, 2002, p. 76. 11 Experts Double 1788 Estimate of Aborigines, Advertiser, February 26, 1987, che cita D.J. Mulvaney e J.P. White, Australians to 1788 (Broadway, NSW, Fairfax, Syme & Weldon Associates, 1987). 12 J. Diamond, Il terzo scimpanzé, cit.; M. Cocker, Rivers of Blood, cit., p. 177. 13 B. Kiernan, The First Genocide: Carthage, 146 BC, in Diogenes, n. 203, 2004, LI, pp. 27-39. 14 Media di tredici stime pubblicate: cfr. http://www.necrometrics.com/20c1m.htm#Burundi72. 15 Commissione per l’Accettazione, la Verità e la Riconciliazione di Timor Est (CAVR), Conflict-Related Deaths in Timor-Leste: 1974-1999, http://www.cavrtimorleste.org/updateFiles/english/CONFLICT873
RELATED%20DEATHS.pdf. 16 Giosuè, 8:11. 17 A.W. Crosby, Imperialismo ecologico: l’espansione biologica dell’Europa, 900-1900, Laterza, Roma-Bari, 1988, p. 74. 18 T. Pakenham, The Scramble for Africa, Avon, New York, 1991, p. 615: La popolazione dei nama si ridusse di 10.200 unità (da 20.000 a 9800), quella degli herero di 65.000 (da 80.000 a 15.000). 19 Numeri, 31; D. Plotz, The Bible’s Most Hideous War Crime, in Slate, 23 agosto 2006, http://www.slate.com/id/2146473/entry/2148272/. 20 J. Diamond, Il terzo scimpanzé, cit., pp. 343-347. 21 D. Mackenzie Brown, The Fate of Greenland’s Vikings, in Archaeology, 28 febbraio 2000. 22 D.L. Oliver, Polynesia in Early Historic Times, Bess Press, Honolulu, 2002, p. 255. 23 L.L. Cavalli-Sforza, P. Menozzi e A. Piazza, Storia e geografia dei geni umani, Adelphi, Milano, 2005, p. 685. 24 R. Segal, op. cit.; PBS, Muhammad and Jews of Medina, in Muhammad: Legacy of a Prophet, http://www.pbs.org/muhammad/ma_jews.shtml. 25 F. Chalk e K. Jonassohn, op. cit., p. 65. 26 Senofonte, Elleniche, II,2, a cura di M. Ceva, Mondadori, Milano, 1996, pp. 73-75.
Guerre tra Birmania e Siam 1 Peter Williamson Floris, un inglese che nel 1612 visitò Bangkok, descrisse queste guerre come «L’occasione per distruggere quasi totalmente il regno di Pegu, [la quale] causò la perdita di molti milioni di vite umane». Diversi testimoni contemporanei considerarono apertamente tali guerre 874
straordinariamente distruttive. Per la mia classifica, ho fissato il bilancio delle vittime di questi conflitti a 900.000, basandomi sulla somma dei conteggi di ciascun evento, che, lo ammetto, sono piuttosto imprecisi presi singolarmente, ma che nel complesso possono rispecchiare un ordine di grandezza piuttosto accurato. Anthony Reid, in Southeast Asia in the Age of Commerce (Yale University Press, New Haven, 1988), ritiene che le popolazioni dei due regni principali messe assieme si aggiravano intorno ai 5 milioni di individui, rispetto ai 23 milioni di tutto il Sudest asiatico. 2 G. Balbi, Voyage to Pegu, and Observations There, Circa 1583, in SOAS Bulletin of Burma Research, n. 2, autunno 2003, I, http://www.soas.ac.uk/sbbr/editions/file64288.pdf. 3 F.A. Neale, Narrative of a Residence at the Capital of the Kingdom of Siam, Office of the National Illustrated Library, London, 1852, p. 208. 4 Divine Rights, in Bangkok Post, 25 gennaio 2001; Mystery of a Princess, in Bangkok Post, 25 febbraio 1999; Princess to the Rescue, in Nation (Thailandia), 1 marzo 1999. 5 G. Sale, An Universal history, from the Earliest Account of Time. Compiled from Original Authors; and Illustrated with Maps, Cuts, Notes, &c. With a General Index to the Whole, Osborne, London, 1747, vol. VII, p. 108. 6 Warrior King Remains a Very Modern Mystery, in Nation (Thailandia), 30 aprile 2006.
Guerre di religione francesi 1 R.J. Knecht, The French Religious Wars 1562-1598, Osprey, Oxford, 2002, p. 91 («Il totale dei morti delle guerre è stato calcolato per approssimazione tra due e quattro milioni»). 2 L. Frieda, Catherine de Medici: Renaissance Queen of France, Harper Perennial, New York, 2006, p. 136. 3 R.J. Knecht, op. cit., pp. 38-41. 875
4 Ibid., pp. 41-46. 5 Henry III, in Encyclopaedia Britannica, XI ed., cit., vol. III, p. 291; A. Horne, La Belle France: A Short History, Vintage, New York, 2004, p. 89. 6 L. Frieda, op. cit., p. 255. 7 R.J. Knecht, op. cit., p. 53. 8 P. Turchin, Historical Dynamics, cit., p. 181. 9 L. Frieda, op. cit., p. 328. 10 A. Horne, op. cit., p. 91. 11 Ibid., p. 98. 12 Ibid., p. 97. 13 Monty Python and the Holy Grail (Monty Python e il Sacro Graal), regia di Terry Gilliam e Terry Jones, Sony Pictures, 1975.
Guerra russo-tatara 1 H. Troyat, Ivan il Terribile, Rusconi, Milano, 1985, p. 173. 2 J. Blum, Lord and Peasant in Russia: From the 9th to the 19th Century, Athenaeum, New York, 1961, p. 159. 3 L’ambasciatore inglese, Giles Fletcher, raccontò che tra le fiamme e il panico trovarono la morte 800.000 moscoviti, evidentemente un’esagerazione, anche se in città era penetrata un’ondata di profughi dalle campagne. In tempo di pace la popolazione moscovita contava all’incirca 100.000 abitanti; poi, dopo l’incendio, nel 1580, l’ambasciatore papale riportò un conteggio di soli 30.000 abitanti (B.G. Williams, The Crimean Tatars: The Diaspora Experience and the Forging of a Nation, Brill, Leiden, 2001, p. 50; I. de Madariaga, Ivan il Terribile, Einaudi, Torino, 2006, p. 314).
Periodo dei Torbidi 876
1 J.P. Duffy e V.L. Ricci, Czars: Russia’s Rulers for Over One Thousand Years, Barnes & Noble, New York, 1995, p. 174: «Sebbene non esistano delle cifre affidabili, si calcola che durante il Periodo dei Torbidi la popolazione sia precipitata da 14 a 9 milioni». Nella New Cambridge Modern History, vol. IV: The Decline of Spain and the Thirty Years War, 1609-48/49 (Cambridge University Press, New York, 1979, p. 602), J.P. Cooper propone una cifra inferiore, ma dello stesso ordine di grandezza: «I Torbidi costarono circa due milioni e mezzo di vite umane». 2 H. Troyat, op. cit.; J. Bos, Ivan IV of Russia, in Joan’s Mad Monarchs Series, http://www.xs4all.nl/~monarchs/madmonarchs/ivan4/ivan4_bio.htm. 3 N.V. Riasanovsky, Storia della Russia: dalle origini ai nostri giorni, Bompiani, Milano, 1993, pp. 161-162. 4 C.S.L. Dunning, A Short History of Russia’s First Civil War: The Time of Troubles and the Founding of the Romanov Dynasty, Pennsylvania State University Press, University Park, 2004, pp. 43-44. 5 H. Fisher, The Famine in Soviet Russia, 1919-1923: The Operations of the American Relief Administration, Books for Libraries Press, Freeport, 1971, p. 475. 6 N.V. Riasanovsky, op. cit., p. 167. 7 C.S.L. Dunning, op. cit., pp. 150-158. 8 Ibid., pp.164-166. 9 Ibid., p. 277. 10 Ibid., p. 45. 11 Ibid., pp. 83-90. 12 Ibid., pp. 75-82; N.V. Riasanovsky, op. cit., pp. 165-167, 178-179.
Guerra dei Trent’anni 877
1 F. Pratt, op. cit., pp. 158-159. 2 J.F.C. Fuller, Le battaglie decisive del mondo occidentale e loro influenza sulla storia, vol. II: Dalla sconfitta dell’Armada spagnola alla battaglia di Waterloo, SME-Ufficio Storico, Roma, 1988, p. 74. 3 F. Schiller, Storia della guerra de’ trent’anni, Storm & Armiens, Lugano, 1841, p. 93. 4 D. Hollway, Thirty Years’ War: Battle of Breitenfeld, in Military History, febbraio 1996, http://www.historynet.com/wars_conflicts/17_18_century/3030301.html. 5 A.S. Britt et al., The Dawn of Modern Warfare, Avery Pub. Group, Wayne, 1984, pp. 44-45. 6 Ibid., pp. 47-48. 7 In Le battaglie decisive del mondo occidentale, cit., Fuller ne ha stimati 350.000. A. Corvisier e J. Childs, in Dictionary of Military History and the Art of War (Blackwell, Oxford, 1994, p. 469), hanno invece calcolato 600.000 militari morti. 8 C.V. Wedgwood, La guerra dei trent’anni, Dall’Oglio, Milano, 1964, pp. 417-418. 9 Ibid., p. 417. 10 J.F.C. Fuller, The Conduct of War: A Study of the Impact of the French, Industrial, and Russian Revolutions, Da Capo Press, New York, 1992, p. 15. 11 C.V. Wedgwood, op. cit.: la popolazione calò da 21 a 13,5 milioni. 12 G. Parker, La guerra dei trent’anni, Vita e Pensiero, Milano, 1994, p. 336: la popolazione calò da 20 a 16-17 milioni. 13 Una rapida occhiata ad altre fonti mostra cifre diverse: N. Davies, Storia d’Europa, Bruno Mondadori, Milano, 2001, p. 630 (8 milioni); R.S. Dunn, The Age of Religious Wars 15591715, II ed., Norton, New York, 1979 (7-8 milioni); A. Macfarlane, op. cit. (7,5 milioni); J. Landers, The Field and the Forge, Oxford University Press, Oxford, 2003, p. 352 (5-6 878
milioni); C. McEvedy, Atlas of World Population History, cit., p. 68, Germany (confini moderni: 2 milioni). Per quel che vale, se si ricorre all’espediente esaminato in precedenza, la media geometrica tra la cifra massima (12 milioni) e quella minima (3 milioni) è 6 milioni. 14 M. Burger, The Shaping of Western Civilization: From Antiquity to the Enlightenment, University of Toronto Press, Toronto, 2008, pp. 232-236; S.A. Merriman, Religion and the Law in America: An Encyclopedia of Personal Belief and Public Policy, ABC-CLIO, Santa Barbara, 2007, vol. I, pp. 84-89.
Crollo della dinastia Ming 1 J.D. Spence, The Search for Modern China, Norton, New York, 1991, pp. 21-22. 2 P.E. Schellinger e R.M. Salkin (a cura di), International Dictionary of Historic Places, vol. V: Asia and Oceania, Fitzroy Dearborn Publishers, Chicago, 1996, p. 424; H.S. Williams, The Historians’ History of the World, Trow Press, New York, 1909, vol. XXIV, p. 554. 3 J.D. Spence, op. cit., pp. 20-21. 4 F. Wakeman Jr., The Shun Interregnum of 1644, in J.D. Spence e J.E. Willis (a cura di), From Ming to Ch’ing, Yale University Press, New Haven, 1979, pp. 43-52. 5 J.D. Spence, op. cit., p. 24. 6 J. Clements, Coxinga and the Fall of the Ming Dynasty, Sutton, Stroud, Gloucestershire, 2004, pp. 99-108. 7 F. Wakeman Jr., Great Enterprise: The Manchu Reconstruction of the Imperial Order in Seventeenth Century China, University of California Press, Berkeley, 1986, p. 507. 8 J.D. Spence, op. cit., p. 22. 9 Skeletons of Massacre Victims Uncovered at Construction Site, in Shanghai Star, 11 aprile 2002, 879
app1.chinadaily.com.cn/star/2002/0411/cn8-3.html. 10 J.D. Spence, op. cit., p. 37. 11 Ibid., p. 38. 12 Chang Hsien-chung, in Encyclopaedia Britannica, XV ed., cit., vol. III, p. 83. 13 C. McEvedy, The Atlas of World Population History, cit.; A. Macfarlane, op. cit. 14 Vedete i film di Kurosawa: I sette samurai, Kagemusha, Ran, La fortezza nascosta, Il trono di sangue, La sfida del samurai e Rashomon. Davvero, andate a vederli: sono grandi film. 15 J.D. Spence, op. cit.,, p. 23.
Invasione dell’Irlanda da parte di Cromwell 1 D.L. Smith, A History of the Modern British Isles, 1603-1707: The Double Crown, Blackwell, Oxford, 1998, p. 416 (la popolazione calò dai 2,1 milioni del 1641 agli 1,7 milioni del 1672); J.F.C. Fuller, op. cit., p. 111 (500.000 vittime). 2 Oliver Cromwell’s Letters and Speeches: Including the Supplement to the First Edition. With Elucidation. by Thomas Carlyle, vol. II, Harper & Brothers, New York, 1859, p. 493. 3 Oliver Cromwell’s Letters and Speeches: With Elucidation. by Thomas Carlyle, vol. I, Wiley & Putnam, New York, 1845, pp. 383-384. 4 G. Stevenson, Parallel Paths: The Development of Nationalism in Ireland and Quebec, McGill-Queen’s University Press, Montreal, 2006, p. 29. 5 N. Davies, Isole: storia dell’Inghilterra, della Scozia, del Galles e dell’Irlanda, Bruno Mondadori, Milano, 2004, p. 486.
Aurangzeb 880
1 Due milioni per la carestia, più 100.000 soldati l’anno per ventisei anni. La stima originale è di Niccolò Manucci (Storia del Mogol, a cura di P. Falchetta, F.M. Ricci, Milano, 1986), mercenario, medico e diplomatico veneziano che visse in India a quell’epoca. 2 B. Gascoigne, The Great Moguls, Harper & Row, New York, 1971, p. 229. 3 J. Keay, Storia dell’India, Newton Compton, Roma, 2001, p. 345. 4 Ibid., p. 363. 5 Ibid., pp. 356-357. 6 Ibid., p. 359. 7 Il calcolo di Manucci (op. cit.) viene riportato, quasi senza alcuno scetticismo, da S. Wolpert, Storia dell’India, Bompiani, Milano, 1998, p. 157; W. Hansen, The Peacock Throne: The Drama of Mogul India, Holt, Rinehart & Winston, New York, 1972, pp. 477-478; M. Clodfelter, Warfare and Armed Conflicts: A Statistical Reference to Casualty and Other Figures, 1618-1991, McFarland, Jefferson, 1992, vol. I, p. 56.
Guerra austro-turca 1 J. Levy, War in the Modern Great Power System, 1495-1975, University Press of Kentucky, Lexington, 1983, p. 90. 2 J. Goodwin, I signori degli orizzonti: una storia dell’Impero ottomano, Einaudi, Torino, 2009, pp. 229-235; A. Palmer, The Decline and Fall of the Ottoman Empire, Barnes & Noble, New York, 1992, pp. 8-15. 3 Hungarian Hero to Be Commemorated, in Turkish Daily News, 12 settembre 2005. 4 R.A. Selig, Carlowitz, The Rakoczi Revolt, and the Origins of German Settlement in Hungary, in German Life, 31 marzo 1999. 881
Pietro il Grande 1 La successione dei censimenti mostrò un calo della popolazione dei contribuenti russi di circa il 20% durante il regno di Pietro, ma non c’è accordo su come trasformare questo dato nelle cifre della popolazione in assoluto. Secondo George Vernadsky (Kievan Russia, Yale University Press, New Haven, 1948, pp. 103-104), lo storico russo Pavel N. Miliukov calcolò che la popolazione della Russia diminuì dai 16 milioni del 1676 (ipotesi approssimativa) ai 13 del 1725 (cifra ben documentata), ma un altro storico russo, P.P. Smirnov, contesta la cifra iniziale di 16 milioni, asserendo invece che in tutto il regno di Pietro la popolazione non calò, bensì rimase stagnante intorno ai 13 milioni. 2 V.O. Ključevskij, Pietro il Grande, a cura di V. Zilli, Laterza, Roma-Bari, 1986, pp. 102-107. 3 Ibid., p. 127. 4 Ibid., pp. 132-133. 5 Ibid., pp. 130-131. 6 Ibid., pp. 31-36. 7 M. Farquhar, A Treasury of Royal Scandals, Penguin, New York, 2001, pp. 115-119.
Grande guerra del Nord 1 Trecentomila militari morti, di cui 70.000 uccisi in battaglia (B. Urlanis, op. cit., pp. 45, 226), più 70.000 civili finlandesi. M. Clodfelter (op. cit., vol. I, p. 94) si spinge oltre e calcola che la guerra uccise 350.000 svedesi e finlandesi, tra soldati e civili, e anche di più tra gli altri partecipanti. J.F.C. Fuller, op. cit., pp. 159-183; W.C. Fuller, Strategy and Power in Russia: 16001914, Free Press, New York, 1992; V.O. Ključevskij, op. cit., pp. 55-63. 2 R. Tapio e L. Vincent, War and the Great Wrath, in Finnish 882
American Reporter, 28 febbraio 1995, VIII, p. 23; E. Solsten e S.W. Meditz (a cura di), Finland: A Country Study, Government Printing Office for the Library of Congress, Washington, 1988. 3 J.F.C. Fuller, op. cit., pp. 159-183; W.C. Fuller, op. cit.; V.O. Ključevskij, op. cit., pp. 55-63.
Guerra di successione spagnola 1 B. Urlanis (op. cit.) ha calcolato che morirono 700.000 soldati (p. 226), dei quali 235.000 uccisi in combattimento (p. 45); A. Corvisier e J. Childs (op. cit.) hanno dato una stima di 700.000 vittime da entrambe le parti (p. 469), di cui 500.000 francesi, sia civili che militari (p. 470). G. Bodart, H. Westergaard e V.L. Kellogg (Losses of Life in Modern Wars: Austria-Hungary, France, Clarendon Press, Oxford, 1916, p. 30) hanno fornito la cifra di 400.000 militari morti, confermata da M. Clodfelter, op. cit., vol. I, p. 73. 2 H.H. Rowen, A History of Early Modern Europe: 1500-1815, Bobbs-Merrill, Indianapolis, 1960, p. 538. 3 D.A. Bell, The First Total War: Napoleon’s Europe and the Birth of Warfare as We Know It, Houghton Mifflin, New York, 2007, p. 25.
Guerra di successione austriaca 1 R.S. Browning, The War of the Austrian Succession, St. Martin’s Griffin, New York, 1995, p. 377: «ai 100.000 uomini in armi che perirono a causa della guerra si devono aggiungere altri 400.000 civili. […] La guerra di successione austriaca uccise mezzo milione di persone». Le stesse cifre (100.000 + 400.000) compaiono in A. Starkey, War in the Age of the Enlightenment, 1700-1789, Praeger, Westport, 2003, p. 6; Urlanis (op. cit.) ha stimato 120.000 uccisi in battaglia (p. 45) e 450.000 soldati morti per altre cause (p. 226). 883
Guerra sino-zungara 1 J. DeFrancis, In the Footsteps of Genghis Khan, University of Hawaii Press, Honolulu, 1993, p. 175 («Nel 1755 erano già stati eliminati i nove decimi degli zungari e dei loro alleati, cioè circa 600.000 individui»); D. Carruthers, Unknown Mongolia: A Record of Travel and Exploration in North-west Mongolia and Dzungaria, Lippincott, Philadelphia, 1914, vol. II, p. 376 («Quando i cinesi invasero la Zungaria, ammazzarono tutta la sua popolazione fino all’ultimo uomo; di seicentomila abitanti non ne rimase nessuno»). 2 R. Grousset, L’empire des steppes: Attila, Gengis-Khan, Tamerlan, Payot, Paris, 1965, pp. 617-618.
Guerra dei Sette anni 1 Le stime variano, anche se per lo più gli studiosi concordano sulle dimensioni di fondo del conflitto. Clodfelter (op. cit., vol. I, pp. 99-100) lo ha definito «il più sanguinoso del XVIII secolo» e ha ritrovato un calcolo che parlava di 868.000 soldati morti per qualunque causa, oltre a un’altra stima che indicava 460.000 morti tra gli austriaci e gli alleati e 180.000 tra i prussiani. Altre fonti: S. Dumas e K.O. Vedel-Petersen, Losses of Life Caused By War, Milford, Oxford, 1923: 125.400 austriaci e 180.000 prussiani morti; B. Urlanis, op. cit.: 140.000 uccisi in battaglia, 550.000 soldati morti per altre cause (pp. 45, 226). La popolazione civile dell’Austria scese da 5.739.000 a 4.890.000 (p. 282); H.S. Williams, op. cit., vol. XII, p. 352: «La guerra dei Sette anni fu un glorioso mezzo di esaltazione personale per Federico […] eppure costò […] 180.000 vite tra i suoi, una complessiva diminuzione della popolazione della Prussia di 500.000 unità e un totale di 853.000 soldati uccisi da ambo le parti». Ciò indica che i soldati morti furono tra 500.000 e 900.000, oltre a un massimo di 1,3 milioni di civili. Benché sia probabilmente accettabile l’ipotesi di più di 2 milioni di morti in 884
totale, non ho voluto esagerare, perciò mi sono fermato alla cifra tonda inferiore. 2 A.S. Britt et al., op. cit., pp. 102-104. 3 H.H. Rowen, op. cit., p. 500. 4 J.F.C. Fuller, op. cit., pp. 195-196.
Guerre napoleoniche 1 G. Ellis, The Napoleonic Empire, II ed., Palgrave Macmillan, Basingstoke-New York, 2003, pp. 121-122: «Attualmente c’è unanimità sulle perdite di guerra degli eserciti di terra […] negli 89 dipartimenti che restavano alla Francia nel 1815 [per] un totale di circa 1,4 milioni per l’intero periodo 1792-1814. Questa cifra comprende chi fu ucciso in azione, la cifra più elevata di chi in seguito morì per ferite o malattia, le vittime della spossatezza o dell’assideramento e i prigionieri di guerra non rintracciati in seguito. […] Per quanto riguarda il totale dei morti di guerra di tutti gli eserciti europei durante le campagne napoleoniche, l’‘acuta ipotesi’ di Charles Esdaile corrisponde a una cifra di quasi 3 milioni; inoltre lo stesso autore calcola che le ulteriori perdite tra i civili ammontarono a circa un milione». 2 D.A. Bell, op. cit., p. 156. 3 A. Schom, Napoleon Bonaparte, Harper Perennial, New York, 1997, p. 42. 4 Ibid., p. 45. 5 Ibid., pp. 75-106. 6 Ibid., pp. 107-188. 7 Ibid., p. 235. 8 D.A. Bell, op. cit., p. 251. 9 R. Muir, Tactics and the Experience of Battle in the Age of Napoleon, Yale University Press, New Haven, 2000, pp. 76-77. 10 Ibid., pp. 130-131. 11 Ibid., pp. 235-239. 885
12 S. Watts, Epidemics and History: Disease Power and Imperialism, Yale University Press, New Haven, 1997, pp. 116117. 13 M. Clodfelter, op. cit., vol. I, p. 165. 14 A. Schom, op. cit., p. 595. 15 D. Grubin, Napoleon at War, in Napoleon, http://www.pbs.org/empires/napoleon/n_war/campaign/page_13.html.
I conquistatori del mondo 1 Basandosi su J. Levy, op. cit., J.A. Lynn (The French Wars 1667-1714, Osprey, Oxford, 2002, p. 90) calcola che nelle guerre di Luigi XIV i morti furono 2.250.000. In A. Corvisier e J. Childs (a cura di), op. cit., p. 470, si legge che le perdite per la Francia, sia civili che militari, furono le seguenti: guerra con l’Olanda, 1672-1678: 120.000; guerra dei Nove anni, 16881697: 160.000; guerra di successione spagnola: 500.000. Numero totale delle vittime francesi in queste tre guerre: 780.000. Se si raddoppia il totale per dar conto di entrambe le parti, si arriva attorno a 1,5 milioni. 2 Plinio il Vecchio, Storia naturale, VII,25.
Rivolta degli schiavi di Haiti 1 R.L. Scheina, Latin America’s Wars, vol. I: The Age of the Caudillo, 1791-1899, Brassey’s, Washington, 2003, p. 18. 2 Ibid., pp. 1-3. 3 J. Rogozinski, op. cit., p. 165. 4 Ibid., pp. 167-168. 5 Ibid., p. 172. 6 R.L. Scheina, op. cit., pp. 15-16.
886
Guerra d’indipendenza del Messico 1 Ibid, p. 84 («Si calcola che il numero degli individui uccisi oscilla tra 250.000 e 500.000»); M. Clodfelter, op. cit., vol. I, p. 534 (400-500.000 morti). 2 R.L. Scheina, op. cit., pp. 71-84.
Shaka 1 E.A. Ritter, Shaka Zulu, Penguin, New York, 1955, pp. 25-28. 2 Ibid., pp. 84-88. 3 Ibid., pp. 81-83. 4 J. Keegan, La grande storia della guerra, cit., pp. 33-37. 5 F. Chalk e K. Jonassohn, op. cit., pp. 227-228. 6 Ibid., p. 223. 7 E.A. Ritter, op. cit., pp. 28-31. 8 M.H. Wilson e L. Thompson, The Oxford History of South Africa, Oxford University Press, New York, 1971, vol. II, p. 344; D.R. Morris, The Washing of the Spears, Da Capo Press, New York, 1998, p. 54. 9 E.A. Ritter, op. cit., p. 333. 10 F. Chalk e K. Johassohn, op. cit., p. 223. 11 Cfr, per esempio, D. Wylie, Shaka and the Modern Zulu State, in History Today, n. 5, maggio 1994, XLIV, un buon compendio della scuola revisionista: l’articolo non concorda praticamente con niente di tutto ciò che ho detto in questo capitolo, fino ai minimi dettagli. 12 «Il numero di persone di cui ha causato la morte resta una congettura, ma supera il milione» (H.F. Fynn, The Diary of Henry Francis Fynn, Shuter and Shooter, Pietermaritzburg, 1986, p. 20). 13 «Si potrebbe definire Shaka come l’Attila sudafricano: si calcola che abbia annientato non meno di 1.000.000 di esseri 887
umani» (Maggiore Charters, Royal Artillery, Notices of the Cape and Southern Africa, since the Appointment, as Governor, of Major-Gen. Sir Geo. Napier, in United Service Journal and Naval and Military Magazine, W. Clowes & Son, London, 1839, parte III, p. 24). 14 Cfr., per esempio, D.R. Morris, op. cit., p. 60 («In un decennio che quasi spopolò [l’interno] morirono almeno un milione di persone, più probabilmente due»); V.D. Hanson, Massacri e cultura, cit., p. 367 («forse un milione di nativi africani furono uccisi o morirono di fame in diretta conseguenza delle fantasie imperiali di Shaka»); Shaka, in Encyclopaedia Britannica, XV ed., cit., vol. X, p. 689 («lasciò 2.000.000 di morti sulla sua scia»); S. Totten, op. cit., p. 280.
Conquista francese dell’Algeria 1 M. Bennoune, The Making of Contemporary Algeria, 18301987, Cambridge University Press, Cambridge, 2002, p .42: «Quale diretta conseguenza di questo tipo di guerra coloniale di conquista, nel complesso la popolazione urbana e rurale calò, secondo le stime, dai 3 milioni del 1830 ai 2.462.000 del 1876». B. Kiernan (Blood and Soil, cit., p. 374) sostiene che nella guerra perirono 825.000 algerini. La media tra i due numeri è 681.500, se si aggiungono le perdite francesi (92.329 soldati morti in ospedale e 3336 uccisi in battaglia, tra il 1830 e il 1851) e si arrotonda si arriva a 775.000. 2 B. Kiernan, Blood and Soil, cit., pp. 364-374. 3 D. Porch, Wars of Empire, Cassell, London, 2000, pp. 59, 7374. 4 J.R. Morell, Algeria: The Topography and History, Political, Social, and Natural, Cooke, London, 1854, p. 441. 5 D. Porch, op. cit., pp. 40-41.
888
Rivolta dei Taiping 1 Ping-ti Ho, La Cina: lo sviluppo demografico (1368-1953), UTET, Torino, 1972, pp. 344-345 («Alcuni osservatori occidentali del secolo XIX valutarono nell’ordine di 20.000.000 a 30.000.000 di persone le perdite subite dalla popolazione nel periodo dei Taiping. Ma le loro valutazioni, per quanto intelligenti, si basavano su quanto avevano tirato a indovinare i residenti dei ‘porti dei trattati’»). Riguardo a tali stime Ho è cauto e sembra considerarle troppo basse; l’unica prova inconfutabile che riesce a raccogliere è che le province più duramente colpite dalla ribellione avevano perso 19,2 milioni di persone tra il 1850 e il 1953. «Anche se le guerre civili e internazionali del secolo XX devono anch’esse aver influito sulla densità demografica di quelle province, i dati […] probabilmente riflettono le ferite permanenti inflitte alla popolazione delle province del basso Yang-tze dalla grande ribellione scoppiata alla metà del secolo XIX». Comunque, la stima di 20-30 milioni di morti è uno dei dati più comuni rintracciabile in tutti i dibattiti sulla ribellione dei Taiping. Per un esempio, cfr. J.D. Spence, op. cit., p. 805; C. McEvedy, Atlas of World Population History, cit., pp. 170-173; Taiping Rebellion, in Encyclopedia Britannica, XV ed., cit., vol. XI, p. 509; China, in MSN Encarta Encyclopedia, p. 20, http://encarta.msn.com/encyclopedia_761573055_20/China.html; R.L. Worden, A.M. Savada, R.E. Dolanet (a cura di), China: A Country Study, Federal Research Division, Library of Congress, Washington, 1987. 2 C.P. Fitzgerald, op. cit., pp. 506-507. 3 Ibid., p. 507. 4 J.D. Spence, op. cit., p. 176. Altri hakka di rilievo – come Sun Yat-sen e Deng Xiaoping – compariranno nei capitoli successivi. 5 Ibid., p. 173. 6 Ibid., p. 174. 889
7 The Land System of the Heavenly Kingdom, citato in Modern History Sourcebook: The Taiping Rebellion, 1851-1864, http://www.fordham.edu/halsall/mod/taiping.html. 8 Ibid. 9 J. Scarth, Twelve Years in China, Thomas Constable, Edinburgh, 1890, citato in J. Newsinger, The Taiping Peasant Revolt, in Monthly Review, n. 5, ottobre 2000, LII. 10 J. Newsinger, op. cit. 11 S. Uhalley, The Taipings at Ningpo: The Significance of a Forgotten Event, in Journal of the Hong Kong Branch of the Royal Asiatic Society, 1971, XI, http://sunzi.lib.hku.hk/hkjo/view/44/4401204.pdf. 12 C. Carr, The Devil Soldier: The American Soldier of Fortune Who Became a God in China, Random House, New York, 1992. 13 J.D. Spence, op. cit., p 178. 14 M. Kenney, Caleb Carr Probes Hearts of Darkness in His Novels, in Boston Globe, 10 novembre 1997.
Guerra di Crimea 1 J. Sweetman, The Crimean War: 1854-1856, Osprey, University Park, 2001, p. 89. Le stime oscillano tra 255.000 (G. Bodart, H. Westergaard e V.L. Kellogg, op. cit., p. 142) e 1 milione (R.B. Edgerton, Gloria o morte, Il Saggiatore, Milano, 2001, p. 17), ma la media di nove stime pubblicate dà come risultato 309.000. Cfr. http://www.necrometrics.com/wars19c.htm#Crim. 2 C. McEvedy e D. Woodroffe, The New Penguin Atlas of Recent History: Europe since 1815, Penguin, New York, 1998, pp. 20-22; R.B. Edgerton, op. cit.. 3 W.H. McNeill, Caccia al potere: tecnologia, armi, realtà sociale dall’anno Mille, Feltrinelli, Milano, 1984, pp. 190-192; R.B. Edgerton, op. cit., p. 63. 890
4 J. Keegan, La maschera del comando, cit., pp. 258-259.
Rivolta dei Panthay 1 R. Israeli, Islam in China, Lexington Books, Lanham, 2007, p. 286; D. Harper et. al., Cina, EDT, Torino, 2009, p. 743; M. Clodfelter, op. cit., vol. I, p. 401. 2 R.S. Bray, Armies of Pestilence: The Impact of Disease on History, Barnes & Noble, New York, 1996, p. 83. 3 B.E. Notar, recensione a The Chinese Sultanate: Islam, Ethnicity, and the Panthay Rebellion in Southwest China, 18561873, in Pacific Affairs, n. 1, 22 marzo 2007, LXXX; M. Dillon, China’s Muslim Hui Community: Migration, Settlement and Sects, Routledge, New York, 1999, pp. 58-60; J.D. Spence, op. cit., pp. 189-190.
Guerra civile americana 1 J.M. McPherson, Battle Cry of Freedom, Oxford University Press, New York, 1988, p. 854. 2 Ipotesi approssimativa basata sulle fonti seguenti: J.M. McPherson (op. cit., p. 619) ne ha stimati 50.000; R.L Ransom e R. Sutch (One Kind of Freedom: The Economic Consequences of Emancipation, Cambridge University Press, Cambridge, 2001, pp. 53-54) hanno calcolato che per effetto immediato della guerra morì l’1,6% degli afroamericani: su un totale di 3,5 milioni di neri della Confederazione, la cifra sarebbe attorno ai 56.000 morti. Ancora peggio, il generale Howard, capo del Freedmen’s Bureau, calcolò che nella zona di guerra trovò la morte un quarto dei neri. Gli indiani cherokee erano divisi a seconda delle alleanze: la guerra civile in miniatura che combatterono in Oklahoma ne ridusse la popolazione da 21.000 a 14.000 (R. Thornton, op. cit., p. 107). 3 D.H. Hill, citato in J.M. McPherson, op. cit., p. 476. 891
Rivolta degli hui 1 M. Dillon, op. cit., p. 60. Il generale Zuo riferì a Pechino che sopravvissero alla sommossa soltanto 60.000 dei 700.000 musulmani dello Shanxi. A sua volta, il colonnello Mark Bell, un osservatore britannico, asserì che la popolazione del Gansu precipitò da 15 milioni a 1 milione. 2 Ibid., p. 62. 3 J.D. Spence, op. cit., pp. 191-193.
Guerra della Triplice Alleanza 1 R.L. Scheina, op. cit., p. 331. 2 Ibid., p. 314. 3 P.H. Wilson, Latin America’s Total War: Peter H. Wilson Revisits the War of the Triple Alliance, Latin America’s Bloodiest Conflict, in History Today, n. 5, maggio 2004, LIV, p. 52. 4 R.L. Scheina, op. cit., pp. 313-332; E. Strosser e M. Prince, Stupid Wars: A Citizen’s Guide to Botched Putsches, Failed Coups, Inane Invasions, and Ridiculous Revolutions, HarperCollins, New York, 2008; T.L. Whigham e B. Potthast, The Paraguayan Rosetta Stone: New Insights into the Demographics of the Paraguayan War, 1864-1870, in Latin American Research Review, n. 1, 1 gennaio 1999, XXXIV, p. 174; P.H. Wilson, op. cit.
Guerra franco-prussiana 1 G. Bodart, H. Westergaard e V.L. Kellogg, op. cit., pp. 144152. 2 Per lo più per malattie, fame e stenti. Tra le stime pubblicate si trovano 590.000 morti in eccesso tra i civili francesi (G. Bodart, H. Westergaard e V.L. Kellogg, op. cit., p. 152), o 300892
400.000 morti tra i civili francesi e 200.000 tra quelli tedeschi (B. Urlanis, op. cit., p. 265). Inoltre «I movimenti di reclute non vaccinate diffusero il vaiolo tra quell’unico terzo di popolazione francese che era vaccinato, così morirono 60-90.000 persone. I prigionieri di guerra francesi portarono la malattia in Germania, dove uccise 162.000 tedeschi» (R.S. Bray, op. cit., p. 120). È difficile dar credito a cifre così elevate, ma i fatti sono fatti. Ho scelto la stima di Bray perché è più cauta, ma non ho considerato gli scontri della Comune di Parigi. 3 C. McEvedy e D. Woodroffe, op. cit., pp. 28-33. 4 A. Horne, op. cit., pp. 282-287.
Carestie dell’India Britannica 1 Le stime medie delle morti dovute a queste carestie sono di 10 milioni (1769-1770), 8,2 milioni (1876-1879) e 8,4 milioni (1896-1900). 2 A. Sen, Lo sviluppo è libertà, Mondadori, Milano, 2001, p. 22. 3 A. Smith, La ricchezza delle nazioni, Newton Compton, Roma, 1976, vol. II, p. 256. 4 S. Watts, op. cit., pp. 177-178. 5 M. Davis, Olocausti tardovittoriani: el niño, le carestie e la nascita del Terzo mondo, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 46. 6 Ibid., p. 46. 7 Ibid., p. 49. 8 Ibid., p. 68. 9 Ibid., p. 42. 10 Ibid., p. 48 11 E. Linden, The Global Famine of 1877 and 1899, in The Globalist, 6 settembre 2006, http://www.theglobalist.com/DBWeb/StoryId.aspx? StoryId=5516; M. Davis, op. cit. 893
12 E. Linden, op. cit. 13 M. Davis, op. cit., pp. 42-43. 14 Ibid., p. 63. 15 Ibid., p. 152. 16 S. Wolpert, op. cit., p. 230. 17 Ibid., p. 247. 18 M. Davis, op. cit., p. 164. 19 Ibid., p. 152. 20 Ibid., p. 175. 21 Ibid., p. 169. 22 Ibid., pp. 168-169. 23 Ibid., p. 173. 24 Ibid., pp. 170-171. 25 Ibid., p. 321. 26 Ibid., p. 172. 27 Ibid., p. 179. 28 Ibid., p. 178. 29 S. Wolpert, op. cit., p. 248. 30 M. Davis, op. cit., p. 169.
Guerra russo-turca 1 L.P. Brockett e P.C. Bliss, The Conquest of Turkey, or, the Decline and Fall of the Ottoman Empire, 1877-8, Hubbard Bros., Philadelphia, 1878, p. 697. 2 C. McEvedy e D. Woodroffe, op. cit., p. 38. 3 A. Palmer, op. cit. 4 R. Muir, op. cit., pp. 203-204. 5 S. Dumas e K.O. Vedel-Petersen, op. cit. 6 M. Clodfelter, op. cit., vol. I, p. 331. 7 M.R. Sarkees, The Correlates of War Data on War: An 894
Update to 1997, in Conflict Management and Peace Science, n. 1, 2000, XVIII, pp. 123-144, http://www.correlatesofwar.org/cow2%20data/WarData/InterState/InterState%20War%20Participants%20(V%203-0).csv. 8 B. Urlanis, op. cit., p. 265. 9 J. McCarthy, Death and Exile: The Ethnic Cleansing of Ottoman Muslims, 1821-1922, Darwin Press, Princeton, 1995. Su questi argomenti McCarthy è ciecamente filoturco: la cosa più nota è che non riconosce il genocidio armeno perpetrato dai turchi nel 1915. Ciò malgrado, il suo calcolo si è fatto largo anche in opere più meno anticonformiste, come D.P. Hupchick, The Balkans: From Constantinople to Communism, Macmillan, New York, 2004, p. 265.
Guerra mahdista 1 C. McEvedy, The Penguin Atlas of African History, cit., p. 110. 2 W. Churchill, Riconquistare Khartoum, Piemme, Casale Monferrato, 1999, cap. I. 3 D. Green, Three Empires on the Nile: The Victorian Jihad, 1869-1899, Free Press, New York, 2007, pp. 144-146. 4 F.M. Deng, War of Visions: Conflict of Identities in the Sudan, Brookings Institution, Washington, 1995, p. 51 (la popolazione del Sudan calò da 7 a 2-3 milioni); J.M. Jok, War and Slavery in Sudan, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 2001, p. 75 (da 8 a 2,5 milioni); D.D. Akol Ruay, The Politics of Two Sudans: The South and the North, 18211969, Nordiska Afrikainstitutet, Uppsala, 1994, p. 33 (calò da 8,5 a 3 milioni); E. Spiers (a cura di), Sudan: The Reconquest Reappraised, Cass, London, 1998, p. 12 (morirono 6 milioni su 8); H.C. Jackson, Osman Digna, Methuen & Co., London, 1926, p. 185 (la popolazione diminuì da 8,5 a meno di 2 milioni). 895
5 D. Green, op. cit., p. 207. 6 Ibid., p. 209. 7 Ibid., p. 229. 8 Ibid., p. 211.
Stato Libero del Congo 1 A. Hochschild, Gli spettri del Congo, Rizzoli, Milano, 2001, p. 198. 2 P. Forbath, L’Africa del fiume Congo, Rusconi, Milano, 1979, p. 355. 3 A. Hochschild, Gli spettri del Congo, cit., p. 201. 4 Ibid., pp. 205-207. 5 P. Forbath, op. cit., p. 360. 6 Ibid., p. 361. 7 T. Pakenham, op. cit., p. 590. 8 A. Hochschild, Gli spettri del Congo, cit., pp. 223-224. 9 T. Pakenham, op. cit., pp. 591-592. 10 A. Hochschild, Gli spettri del Congo, cit., pp. 239-243. 11 T. Pakenham, op. cit., p. 597. 12 A. Hochschild, Gli spettri del Congo, cit., pp. 235-236. 13 Ibid., p. 244. 14 Ibid., pp. 298-303; T. Pakenham, op. cit., p. 597. 15 A. Hochschild, Gli spettri del Congo, cit., pp. 247-248. 16 E.D. Morel, La croce del negro, Rassegna Internazionale, Roma, 1923, pp. 151-152: «Negli anni seguenti, dopo che la regione era stata esplorata in ogni direzione da viaggiatori di nazionalità diverse il calcolo oscillò tra i venti e i trenta milioni. In ogni caso nessuna scendeva sotto i venti milioni. Nel 1911 fu fatto un censimento ufficiale: non fu pubblicato nel Belgio, ma registrato in uno dei dispacci del Consolato inglese. Esso rivelò il fatto che rimanevano soltanto otto milioni e mezzo di 896
indigeni»; la stima appare anche in Congo Free State, in Encyclopaedia Britannica, XV ed., cit., vol. III, p. 535, e in B. Russell, Storia delle idee del secolo XIX, Mondadori, Milano, 1970, p. 585 (I ed. Allen & Unwin, London, 1934), che a sua volta cita sir H.H. Johnston, A History of the Colonization of Africa by Alien Races, University Press, Cambridge, 1899, p. 352. 17 P. Forbath, op. cit., p. 360. 18 A. Hochschild, Gli spettri del Congo, cit., pp. 274-285.
Rivoluzione cubana 1 Tra il 1895 e il 1899, la popolazione di Cuba calò da 1,8 milioni circa a 1,5 milioni: H. Thomas, Storia di Cuba: 17621970, Einaudi, Torino, 1973, p. 292; B. Anderson, Sotto tre bandiere: anarchia e immaginario anticoloniale, Manifestolibri, Roma, 2008, p. 175. Per malattia e fame morirono 300.000 cubani, 200.000 dei quali civili (R.L. Scheina, op. cit., p. 364). Inoltre, a Cuba trovarono la morte 62.853 soldati spagnoli, l’85% per malattia (S. Díaz-Briquets, The Health Revolution in Cuba, University of Texas Press, Austin, 1983, p. 199). 2 J. Rogozinski, op. cit., pp. 205-207; R.L. Scheina, op. cit., pp. 351-364, 415-425.
L’arte occidentale della guerra 1 La nozione trae origine da V.H. Davis, che la descrive in dettaglio nei suoi libri L’arte occidentale della guerra, Garzanti, Milano, 2001 e Massacri e cultura, cit.
Rivoluzione messicana 1 Si tratta della media tra diciassette stime pubblicate: cfr. 897
http://www.necrometrics.com/20c1m.htm#Mexican. 2 T.E. Skidmore e P.H. Smith, Modern Latin America, IV ed., Oxford University Press, New York, 1997, p. 234. 3 F. McLynn, Villa e Zapata: biografia della rivoluzione messicana, Il Saggiatore, Milano, 2003, pp. 181-191. 4 Ibid., p. 354. 5 Ibid., p. 355. 6 M. Boot, The Savage Wars of Peace: Small Wars and the Rise of American Power, Basic Books, New York, 2002, p. 188.
Prima guerra mondiale 1 Il bilancio canonico delle vittime militari è di circa 8,5 milioni. Cfr., per esempio: World Wars, in Encyclopaedia Britannica, XV ed., cit., vol. XXIX, p. 987 (8.528.831); M. Gilbert, A History of the Twentieth Century, Avon, New York, 1997 vol. I, p. 529; R. Overy (a cura di), The Times Atlas of the 20th Century, Times Books, London, 1996; R. Paschall, The Defeat of Imperial Germany 1917-1918, Da Capo Press, New York, 1994, che a sua volta cita Arthur Banks (8.513.000); J. Ellis e M. Cox, The World War I Databook, Aurum, London, 2001 (8.364.712). Durante la prima guerra mondiale le morti di civili non furono registrate con la stessa precisione di quelle dei militari, tuttavia la media delle varie ipotesi dà come risultato 6,6 milioni. Dalla più alta alla più bassa: World Wars, cit., p. 987 (13 milioni); Twentieth Century, in Encyclopedia Americana, Scholastic Library Pub., Danbury, 2006 (12,5 milioni); R. Overy (a cura di), op. cit., p. 36 (9 milioni); S.C. Tucker, L.M. Wood e J.D. Murphy (a cura di), European Powers in the First World War: An Encyclopedia, Garland, New York, 1996, p.172 (6,6 milioni circa); Losses of Life, in Dictionary of Military History, Blackwell, Oxford, 1994, p. 470 (6,6 milioni); J. Ellis e M. Cox, op. cit. (6,5 milioni circa); B. Urlanis, op. cit., p. 268 (più di 6 milioni); N. Davies, Storia 898
d’Europa, cit. (5 milioni). 2 J. Keegan, La grande storia della guerra, cit., pp. 361-363. 3 J. Keegan, La prima guerra mondiale, Carocci, Roma, 2000, pp. 27-33. 4 B.W. Tuchman, I cannoni d’agosto, Garzanti, Milano, 1963, p. 97. 5 J.L. Stokesbury, A Short History of World War I, Morrow, New York, 1981, p. 61. 6 J. Keegan, La prima guerra mondiale, cit., pp. 101-102; A. McDougall, Dirty Hands: Atrocities of World War I, Channel 4, 2002, http://www.channel4.com/history/microsites/H/history/cd/dirtyhands.html. 7 J. Keegan, Il volto della battaglia, cit., pp. 246-247. 8 K. Miller, Kelly Miller’s History of the World War for Human Rights, 1919, cap. X; http://www.gutenberg.org/files/19179/19179-h/19179-h.htm. 9 Ibid. 10 Frase attribuita al maresciallo francese Henri-Philippe Pétain. 11 J. Keegan, Il volto della battaglia, cit., pp. 228-229, 265. 12 E.J. Erickson, Ordered to Die: A History of the Ottoman Army in the First World War, Greenwood Press, Westport, 2001, p. 94. 14 M. Gilbert, op. cit., vol. I, p. 421. 15 H. Strachan, La prima guerra mondiale: una storia illustrata, Mondadori, Milano, 2005, p. 177. 16 M. Gilbert, op. cit., vol. I, p. 473. 17 J. Keegan, Il volto della battaglia, cit., pp. 274-275. 18 J.M. Barry, The Great Influenza: The Epic Story of the Deadliest Plague in History, Viking Penguin, New York, 2004, p. 103. 19 A. Hitler, Letter from the Western Front, febbraio 1915, in 899
The Holocaust Project, Humanitas International, http://www.humanitas-international.org/holocaust/hepplett.htm. 20 J.L. Stokesbury, op. cit., p. 61. 21 M. Gilbert, op. cit., vol. I, p. 357. 22 R.F. Melson, The Armenian Genocide as Precursor and Prototype of Twentieth-Century Genocide, in A.S. Rosenbaum (a cura di), op. cit.; R.P. Adalian, The Armenian Genocide, in S. Totten, W.S. Parsons e I.W. Charny (a cura di), op. cit.; F. Chalk e K. Jonassohn, op. cit., pp. 249-289. 23 S. Tavernise, Nearly a Million Genocide Victims, Covered in a Cloak of Amnesia, in New York Times, 8 marzo 2009, http://www.nytimes.com/2009/03/09/world/europe/09turkey.html: «Secondo un documento a lungo celato appartenente al ministro dell’Interno dell’impero ottomano, dai registri ufficiali della popolazione tra il 1915 e il 1916 scomparvero 972.000 armeni ottomani». 24 P. Forbath, op. cit., p. 362. 25 H. Strachan, op. cit., pp. 240-243. 26 F. McLynn, op. cit., p. 381. 27 W.B. Lincoln, op. cit., p. 352. 28 C. Suellentrop, What’s Osama Talking About?, in Slate, 8 ottobre 2001, http://www.slate.com/id/1008411.
Guerra civile russa 1 È la media tra undici stime: cfr. http://www.necrometrics.com/20c5m.htm#RCW. 2 H. Kinder e W. Hilgemann. Atlante storico: cronologia della storia universale, Garzanti, Milano, 1999, p. 443. 3 O. Figes, La tragedia di un popolo: la rivoluzione russa 18911924, Corbaccio, Milano, 1997, p. 793. 4 M. Boot, op. cit., pp. 207-230. 5 O. Figes, op. cit., p. 693. 900
6 Ibid.. 7 Ibid., pp. 703-704. 8 Ibid., p. 792. 9 Ibid., pp. 694-703. 10 A.J. Mayer, The Furies: Violence and Terror in the French and Russian Revolutions, Princeton University Press, Princeton, 2000, pp. 380-389; O. Figes, op. cit., p. 795. 11 A.J. Mayer, op. cit., pp. 523-525. 12 W.B. Lincoln, op. cit., pp. 348-375. 13 P. Johnson, Modern Times: The World from the Twenties to the Eighties, Harper & Row, New York, 1983, p. 69. 14 R. Service, Storia della Russia nel XX secolo, Editori Riuniti, Roma, 1999, p. 130. 15 Ibid., p. 126. L’autore fa questa osservazione interessante: «evidentemente [la Russia] non era ancora uno Stato di polizia perfettamente funzionante se il capo della Čeka poteva essere fatto prigioniero». 16 O. Figes, op. cit., pp. 765-768; A.J. Mayer, op. cit., pp. 275276. 17 P. Johnson, Modern Times, cit., pp. 69-70. 18 L. Trockj, La mia vita, a cura di L. Maitan, Mondadori, Milano, 1976, p. 385.
Guerra greco-turca 1 L’unica cifra ben documentata dice che l’esercito greco riportò circa 42.000 perdite, tra morti e dispersi (B. Urlanis, op. cit., p. 95). Se si ipotizza che i turchi subirono più o meno lo stesso numero di perdite, si arriva a un totale di 85.000 soldati morti in totale. In Stati assassini: la violenza omicida dei governi (Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005, pp. 282-283), R.J. Rummel calcola che i greci uccisero 15.000 civili turchi e i turchi 264.000 civili greci, di cui 100.000 nella sola Smirne. 901
Sulla base del numero di profughi che scomparvero tra un conteggio e l’altro, i greci sostengono che nelle comunità del mar Nero restarono uccisi 353.000 greci del Ponto (S. Totten, op. cit., p. 337). Tutti questi frammenti indicano un bilancio complessivo delle vittime compreso tra 364.000 e 453.000; e siccome non pretendo che questa sia nient’altro che una congettura, mi limito alla cifra tonda più prossima. 2 M. Stewart, Catastrophe at Smyrna, in History Today, n. 7, luglio 2004, LIV, p. 27. 3 M.R. Marrus, The Unwanted: European Refugees from the First World War through the Cold War, Temple University Press, Philadelphia, 2002, p. 98. 4 A. Toynbee, citato in M. Stewart, op. cit. 5 M.R. Marrus, op. cit., pp. 97-106.
Guerra civile cinese 1 P. Johnson, Modern Times, cit., p. 200. 2 J.D. Spence, op. cit., pp. 345-348. 3 Ibid., pp. 351-352. 4 Ibid., pp. 353-354. 5 J. Gunther, Inside Asia, Harper & Brothers, New York, 1939, pp. 112-115. 6 J. Chang e J. Halliday, Mao: la storia sconosciuta, TEA, Milano, 2006, pp. 103-104. 7 Ibid., p. 155. 8 J.M. McPherson, op. cit., p. 827. 9 J. Gunther, op. cit., p. 235. 10 J.D. Spence, op. cit., p. 445. 11 Ibid., p. 447. 12 D. Wallechinsky, The People’s Almanac Presents the Twentieth Century: History with the Boring Parts Left Out, 902
Little Brown & Co., Boston, 1995, pp. 89-90; J.K. Fairbank e A. Feuerwerker (a cura di), The Cambridge History of China, vol. XIII: Republican China 1912-1949, parte II, Cambridge University Press, Cambridge, 1986, p. 555. 13 J.D. Spence, op. cit., p. 470. 14 J. Chang e J. Halliday, op. cit., p. 342. 15 Ibid., pp. 369-371. 16 Ibid., p. 372; Time for a Visit? in Time, 1 novembre 1948. 17 30,000,000 Uprooted Ones, in Time, 26 luglio 1948 18 E. Snow, Stella rossa sulla Cina, Einaudi, Torino, 1974, p. 227, in cui sono citati alcuni funzionari del Guomindang. 19 Ho, op. cit., p. 348. 20 P. Johnson, Modern Times, cit., p. 200. 21 M.R. Sarkees, op. cit.. 22 R.L. Sivard, World Military and Social Expenditures 198788, XII ed., World Priorities Inc., Washington, 1988, p. 30. 23 Secondo Jan Lahmeyer (China: Historical Demographical Data of the Administrative Division, in Population Statistics, http://www.populstat.info/Asia/chinap.htm), tra il 1925 e il 1936 il totale della popolazione delle province cinesi diminuì di 5.643.300 di individui. Il dato potrebbe essere espressione di un declino reale della popolazione o semplicemente di una discrepanza tra fonti differenti. Secondo i dati di Lahmeyer, la popolazione subì un crollo in dieci province notevolmente devastate dalla guerra (Hunan, Shaanxi, Guangdong, Hubei, Zhejiang, Fujian, Guizhou, Henan, Gansu, Shanxi), mentre aumentò nelle altre. 24 Numero di morti del Guomindang nella guerra sinogiapponese: World Wars, cit., vol. XXIX, p. 1023, (1.310.224); J. Keegan (a cura di), Harper Collins Atlas of the Second World War, Harper Collins, London, 1997, p. 205 (1.324.000); M. Clodfelter, op. cit., vol. I, p. 412 (1.319.958); Information Please Almanac, Atlas and Yearbook 1991, 44a ed., Houghton 903
Mifflin, Boston, 1990, p. 311 (1.324.516); J. Ellis, World War II: A Statistical Survey, Facts on File, New York, 1993, p. 253 (1.400.000). 25 Ho, op. cit., p. 352. 26 Ibid. I regimi fantoccio persero 960.000 soldati, tra morti e feriti. Più o meno, un quarto di questa cifra sarebbe 240.000. 27 J. Ellis, op. cit., p. 256. 28 Numero di morti civili nella guerra sino-giapponese, in ordine crescente: R.L. Sivard, op. cit., p. 30 (civili, 1937-1941: 1.150.000; 1941-1945: 850.000); H. Kinder e W. Hilgemann, op. cit., p. 471 («5,4 milioni di civili cinesi»); J. Ellis, op. cit., p. 253 («Totale di vittime civili [...] 8.000.000»); sia J. Keegan (Harper Collins Atlas, cit., p. 205) che R. Overy (The Times Atlas of the 20th Century, cit., p. 103), riproducono molto dello stesso materiale su questo argomento (civili: «fino a 10.000.000»); J.A.S. Grenville, A History of the World In the Twentieth Century, Harvard University Press, Cambridge, 1994, p. 292 («Nessuno sa quanti milioni di cinesi siano morti nella guerra; la cifra potrebbe benissimo superare i 10 milioni»; questo includerebbe tanto i civili quanto i militari); W. Gruhl, Imperial Japan’s World War Two, Transaction Publishers, New Brunswick, 2010, p. 143 (15.554.000). Ho (op. cit., p. 353) cita uno studio che calcola in 335.934 i civili cinesi morti nelle incursioni aeree e in 1.073.496 i morti per altre cause. Questo vorrebbe dire 1,4 milioni di civili uccisi direttamente dalla guerra, nel periodo 1937-1945, ma il suo criterio non include espressamente il massacro di Nanchino e l’inondazione del Fiume Giallo. 29 Ho, op. cit., p. 353. 30 Numero totale dei morti nella seconda guerra civile cinese: D. Smith, The State of War and Peace Atlas, Penguin, New York, 1997, p. 25 (1.000.000); R.L. Sivard, op. cit., p. 30 (1.000.000); R.L. Walker, The Human Cost of Communism in China, rapporto alla Sottocommissione per la Sicurezza Interna 904
della Commissione per il Sistema giudiziario del Senato degli Stati Uniti, 1971 (1.250.000); L. Glennon (a cura di), Our Times: The Illustrated History of the 20th Century, Turner, Atlanta, 1995, p. 339 (3.000.000).
Iosif Stalin 1 S. Sebag Montefiore, Gli uomini di Stalin: un tiranno, i suoi complici e le sue vittime, Rizzoli, Milano, 2005; J. Simkin, Joseph Stalin, Spartacus Educational, http://www.spartacus.schoolnet.co.uk/RUSstalin.htm. 2 M. Gilbert, op. cit., vol. I, p. 761. 3 J.E. Mace, Soviet Man-Made Famine in the Ukraine, in S. Totten, W.S. Parsons e I.W. Charny (a cura di), op. cit.; B. Green, Stalinist Terror and the Question of Genocide, in A.S. Rosenbaum (a cura di), op. cit. 4 R. Conquest, citato in F. Chalk e K. Jonassohn, op. cit., p. 293. 5 R. Service, op. cit., p. 246. 6 A. Applebaum, My Friend, the Trotskyite, in Ottawa Citizen, 18 agosto 2002, p. A11. 7 A. Hochschild, The Unquiet Ghost: Russians Remember Stalin, Penguin, New York, 1994, p. 237. 8 J. Strauss, No Escape for Gulag’s Former Prisoners, in Daily Telegraph (Londra), 3 gennaio 2004. 9 R. Service, op. cit., pp. 235-236. 10 Ibid., pp. 236, 239. 11 A. Hochschild, The Unquiet Ghost, cit., p. 192. 12 S. Sebag Montefiore, On the Man Who Unleashed Stalin’s Terror, in Sunday Telegraph (Londra), 10 agosto 2008. 13 Bykivnia: R. Pearson, The Rise and Fall of the Soviet Empire, II ed., Palgrave, New York, 2002, p. 127: «quasi incredibile», 200.000; M. Hamm, Kiev: A Portrait, 1800-1917, 905
Princeton University Press, Princeton, 1993, p. 235: «Vi furono seppellite forse 120.000 vittime; ma un’altra stima propone la cifra di 225.000»; T. Kuzio, Ukraine: Perestroika to Independence, Canadian Institute of Ukrainian Studies Press, Edmonton, 2000, p. 95: «una fossa comune che si suppone contenga più di 200.000 corpi». 14 M. Franchetti, Russians Discover Mass Grave of 30,000 Stalin Victims, in Times (Londra), 15 settembre 2002. 15 F. Kaplan, Mass Grave Bears Stalin’s Touch, in Boston Globe, 13 agosto 1994. 16 Le stime del numero dei morti sepolti a Kuropatij oscilla tra 40.000 e 200.000. R. Overy, Russia in guerra: 1941-1945, Il Saggiatore, Milano, 2000, p. 303; M. Shimanskiy, Whose Remains Lie in the Forest near Minsk?, in Izvestiya, 28 agosto 1988, tramite il sommario delle notizie dal mondo della BBC, Commission Investigating Unmarked Graves in Belorussia, 13 settembre 1988; Soviet Weekly Provides Gruesome Details of Stalin-Era Massacre, Associated Press, 7 ottobre 1988; Belarus Police Break up Protest at Mass Grave Site, Agence France Presse, 8 novembre 2001. 17 K. Christie e R.B. Cribb (a cura di), Historical Injustice and Democratic Transition in Eastern Asia and Northern Europe: Ghosts at the Table of Democracy, RoutledgeCurzon, New York, 2002, p. 83. 18 R. Reese, The Soviet Military Experience: A History of the Soviet Army, 1917-1991, Routledge, New York, 2000, p. 99; M. Clodfelter, op. cit., vol. II, p. 791. 19 R. Overy, Russia in guerra, cit., p. 224. 20 Ibid., p. 171. 21 Ibid., p. 140. 22 W. Anders e A. Munoz, Russian Volunteers in the German Wehrmacht in WWII, http://www.feldgrau.com/rvol.html. 23 R. Overy, Russia in guerra, cit., p. 304. 906
24 Ibid., pp. 242-244. 25 N. Werth, Violenze, repressioni, terrori nell’Unione Sovietica, in S. Courtois et al., Il libro nero del comunismo: crimini, terrore, repressione, Mondadori, Milano, 2000, p. 216. Le cifre variano, nel capitolo sulla seconda guerra mondiale ricorro a una fonte diversa. 26 A. Bridge, Iron Curtain’s 100,000 dead, in Independent (Londra), 27 ottobre 1991; R. Moseley, Buchenwald Haunts Muses’ Valley, in Chicago Tribune, 11 giugno 1991. 27 A. Hochschild, The Unquiet Ghost, cit., p. 113. 28 E. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano, 1995, p. 460. 29 Tra le fonti in cui si rinvengono le stime più elevate: N. Davies, Storia d’Europa, p. 1405 (da 44 a 50 milioni); R. Medvedev, Lo stalinismo, a cura di D. Joravsky e G. Haupt, Mondadori, Milano, 1972; R.J. Rummel, Stati assassini, cit., p. 13 (42.672.000); A. Solženicyn, Arcipelago Gulag, 1918-1956, Mondadori, Milano, 1974. 30 A. Nove, Victims of Stalinism: How Many?, in J.A. Getty e R.T. Manning (a cura di), Stalinist Terror: New Perspectives, Cambridge University Press, New York, 1993, pp. 270-271. 31 Ho tratto questa statistica da A. Applebaum, Gulag. Storia dei campi di concentramento sovietici, Mondadori, Milano, 2005, pp. 605-607, ma invito a leggere la sua spiegazione di tutti i motivi per i quali la cifra è probabilmente incompleta e dovrebbe essere più alta. 32 Le stime minime si possono rinvenire in: J.A. Getty e R.T. Manning (a cura di), op. cit.; M. Ilič (a cura di), Stalin’s Terror Revisited, Palgrave Macmillan, Basingstoke, 2006; R.W. Davies e S.G. Wheatcroft, The Years of Hunger: Soviet Agriculture, 1931-1933, Palgrave Macmillan, New York, 2004. 33 R. Conquest, Il grande terrore: le purghe di Stalin negli anni Trenta, Mondadori, Milano, 1970. 34 Stime che oscillano tra i 15 e i 25 milioni si trovano, tra 907
l’altro, in: Stalinism, in Encyclopaedia Britannica, XV ed., cit., vol. XI, p. 205; Z. Brzezinski, Il mondo fuori controllo, Longanesi, Milano, 1993; S. Courtois et al., op. cit., p. 6; J. Heidenrich, How to Prevent Genocide, Praeger, Westport, 2001, p. 7; A. Hochschild, The Unquiet Ghost, cit., pp. XV, 138;. in Modern Tyrants: The Power and Prevalence of Evil in Our Age (Princeton University Press, Princeton, 1994, p. 126), D. Chirot definisce 20 milioni la stima minima credibile e 40 milioni la massima.
Tiranni impazziti 1 È la media di sette stime: cfr. http://www.necrometrics.com/20c5m.htm#Hitler. 2 Media di cinque stime: G. Jackson, La repubblica spagnola e la guerra civile (1931-1939), Il Saggiatore, Milano, 2009, p. 537 (200.000 giustiziati dai nazionalisti durante la guerra civile e altri 200.000 dopo); M. Gallo, Storia della Spagna franchista, Laterza, Bari, 1972, p. 88 (192.684 dopo la guerra civile); H. Thomas, Storia della guerra civile spagnola, Einaudi, Torino, 1963, p. 659 (75.000 durante e 100.000 dopo); J. Ruiz, Franco and the Spanish Civil War, in History Review, n. 59, 2007 (150.000 durante e dopo); S. Payne, The Franco Regime 19361975, University of Wisconsin Press, Madison, 1987, p. 216 (35.021 durante e 22.641 dopo). 3 R.T. McNally e R. Florescu, Storia e mistero del conte Dracula: la doppia vita di un feroce sanguinario, Casale Monferrato, Piemme, 1996, p. 113, che cita un resoconto redatto nel 1475 dal vescovo di Erlau. 4 Murad IV, in Encyclopaedia Britannica, XI ed., cit., vol. XIX, p. 15. 5 L. Ragg, Dante and His Italy, Methuen, London, 1907, p. 127. 6 Equatorial Guinea Accused, in Washington Post, 24 luglio 1978; Equatorial Guinea, in Encarta; C.H. Cutter, Africa, 2003, 908
Stryker-Post Publications, Harpers Ferry, 2003, p. 83. 7 M. Bah, As Guinea Turns 50 Sekou Toure’s Victims Want Recognition, Agence France Presse, 1 ottobre 2008 (50.000). 8 AP-Reuter, Ex-Ruler Murdered 40,000, Chad Says, in Toronto Star, 21 maggio 1992. 9 R.A. Haggerty (a cura di), François Duvalier 1957-71, in A Country Study: Haiti, Federal Research Division, Library of Congress, Washington, ricerca completata a dicembre 1989, http://lcweb2.loc.gov/frd/cs/httoc.html. 10 H. Troyat, op. cit., p. 161. Verso la fine della sua esistenza Ivan compilò degli elenchi di tutte le vittime che riusciva a ricordare e li inviò nei monasteri perché vi pregassero per loro: uno enumerava 3148 persone uccise, l’altro 3750. 11 H. Jensen, Old Style Dictator May Keep Power in Malawi, in Denver Rocky Mountain News, 17 maggio 1994 («la morte di almeno 18.000 persone torturate e assassinate, o il massacro di interi villaggi»). 12 Si tratta di una mia congettura basata su un’affermazione dello storico romano Svetonio, secondo cui, al culmine dei processi per tradimento, non passava giorno senza un’esecuzione e in alcuni giorni ce n’erano addirittura venti.
Guerra d’Etiopia 1 L’Italia subì circa 15.000 morti in battaglia, per lo più ausiliari africani e non italiani. Nel 1945 il governo etiope stilò un bilancio ufficiale delle vittime, fissato in 760.300 indigeni morti. A. Del Boca, La guerra d’Abissinia, 1935-1941, Feltrinelli, Milano, 1978: morti in battaglia: 275.000; morti per fame tra i profughi: 300.000; combattenti per la resistenza uccisi durante l’occupazione: 75.000; campi di concentramento: 35.000; massacro di Addis Abeba del febbraio 1937: 30.000 (molti storici ritengono che il bilancio fu di 3000 vittime, perciò ho sottratto la differenza); esecuzioni: 24.000; civili uccisi 909
dall’aviazione: 17.800. 2 R. Pankhurst, A History of Early Twentieth Century Ethiopia, serie di venti articoli in Addis Tribune, gennaio-maggio 1997.
Guerra civile spagnola 1 H. Thomas, Storia della guerra civile spagnola, cit., p. 659. La cifra comprende 200.000 morti in combattimento e 130.000 esecuzioni avvenute durante la guerra, non comprende invece i 100.000 circa giustiziati da Franco dopo il conflitto. Le altre stime recenti per lo più concordano sul totale approssimativo (magari con 100.000 morti in più o in meno), ma divergono enormemente riguardo alle cause specifiche della morte. I calcoli precedenti avevano contato 1 milione di spagnoli scomparsi e dati per morti, ma le indagini successive hanno appurato che molti di essi erano emigrati per sfuggire alla guerra. 2 W.S. Murphy, Lincoln Brigade Survivors Relive Wartime Exploits, in Los Angeles Times, 25 aprile 1986; G. Orwell, Omaggio alla Catalogna, Mondadori, Milano, 1948; J. Ruiz, op. cit.
Seconda guerra mondiale 1 È un mio calcolo (cfr. http://www.necrometrics.com/ww2stats.htm#ww2chart). La stima più comune del bilancio delle vittime della seconda guerra mondiale è di 50 milioni, che si può ritrovare in J. Haywood, Atlas of World History, Barnes & Noble, New York, 1997, p. 109; J. Keegan, La seconda guerra mondiale, Rizzoli, Milano, 2000, p. 594; C. Messenger, The Chronological Atlas of World War Two, Macmillan, New York, 1989, p. 242; G. Barraclough (a cura di), The Times Concise Atlas of World History: Revised Edition, Hammond, Maplewood, 1991, p. 132; J.M. Roberts, 910
Twentieth Century, Viking, New York, 1999, p. 432; B. Urlanis, op. cit., p. 292. 2 S.O. Zalampas, Adolf Hitler. A Psychological Interpretation of His Views on Architecture, Art and Music, Bowling Green State University Popular Press, Bowling Green, 1990, p. 138; L. Yahil, The Holocaust: The Fate of European Jewry, 1932-1945, Oxford University Press, New York, 1991, p. 45. 3 Per il numero dei sovietici uccisi in combattimento: J. Erickson, D. Dilks (a cura di), Barbarossa: The Axis and the Allies, Edinburgh University Press, Edinburgh, 1994, tavola 12.4. Per il numero di quelli fatti prigionieri: J. Keegan, La seconda guerra mondiale, cit., p. 193; C. Messenger, op. cit., p. 64. 4 M. Gilbert, op. cit., vol. II, p. 398. 5 U.S. Holocaust Memorial Museum, Historical Atlas of the Holocaust, Macmillan, New York, 1996, p. 74. 6 Ibid., p. 67. 7 M. Mazower, Le ombre dell’Europa, Garzanti, Milano, 2000, p. 172. 8 Ibid., p. 160. 9 R.-D. Müller e G.R. Ueberschär, Hitlers Krieg im Osten 19411945: Ein Forschungsbericht, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 2000, pp. 230-231; E. Hobsbawm, op. cit., p. 59. 10 R. Overy, Russia in guerra., cit., p. 184. 11 È una mia stima personale. I documenti dell’Armata Rossa mostrano che nella battaglia di Stalingrado restarono uccisi all’incirca 480.000 sovietici: J. Erickson e D. Dilks (a cura di), op. cit., tavola 12.4; A. Beevor, Stalingrado, Rizzoli, Milano, 1998, p. 432; R. Overy, Russia in guerra, p. 222. Inoltre normalmente si calcola che nella sacca morirono circa 150.000 tedeschi della 6a armata. E.P. Hoyt (199 Days: The Battle for Stalingrad, Tom Doherty Associates, New York, 1993, pp. 161, 911
166) indica che nelle settimane dei combattimenti di strada che precedettero l’accerchiamento da parte dei sovietici morirono più di 9700 tedeschi. I rumeni subirono perdite di ogni tipo che variano tra 120.000 e 160.000, perciò un quarto della metà darebbe una cifra di 35.000 uccisi. A loro volta gli italiani riportarono tra le 85.000 e le 130.000 perdite: un quarto della metà darebbe 27.000 soldati. Le perdite degli ungheresi furono comparabili a quelle di italiani e rumeni, perciò diciamo che ammontarono a 30.000. È difficile dire quanti tedeschi restarono uccisi al di fuori della sacca, ma per pura ipotesi facciamo almeno 10.000. Se si somma e si arrotonda si ottiene la cifra di 750.000. Per quanto riguarda le vittime civili, Yevgenia Borisova (Stalingrad Civilians Were Not Counted, in Moscow Times, 4 febbraio 2003) calcola che nel corso della battaglia da Stalingrado scomparvero all’incirca 350.000 civili. Rispetto al loro eventuale destino l’articolo propone cinque spiegazioni: soccombettero all’inedia e al freddo, furono uccisi dai bombardamenti, sfollarono durante la battaglia, furono spediti in Germania a lavorare come schiavi oppure riuscirono a fuggire con mezzi propri. Se attribuiamo uguali probabilità a ciascuno di questi cinque destini possibili, il numero di chi soccombette o restò ucciso equivale a due quinti del totale, cioè 140.000 circa. 12 H.E. Salisbury, I 900 giorni, Il Saggiatore, Milano, 2001, p. 485 (da 1,3 a 1,5 milioni); D.M. Glantz, L’assedio di Leningrado, 1941-1944: novecento giorni di terrore, Newton Compton, Roma, 2006, p. 8 (1,6-2 milioni). 13 H.E. Salisbury, op. cit., pp. 446-447; M. Jones, Leningrad: State of Siege, Basic Books, New York, 2008, pp. 214-219. 14 R. Overy, Russia in guerra, cit., p. 125. Il numero di vittime militari a Leningrado è ignoto, ma D.M. Glantz (op. cit., p. 206) afferma che i sovietici registrarono di aver perso irrevocabilmente 1.017.881 soldati (cioè uccisi, catturati o dispersi). 912
15 R. Overy (Russia in guerra, cit., p. 222) stima in 253.000 i morti sovietici a Kursk. Sia M. Clodfelter (op. cit., vol. II, p. 827) che J. Erickson (The Road to Berlin, Yale University Press, New Haven, 1999, p. 112) calcolano per contro 70.000 morti tra i tedeschi. 16 R. Overy, Russia in guerra, cit., p. 224. 17 M. Mazower, op. cit., p. 161. 18 H.W. Smith (a cura di), The Holocaust and Other Genocides: History, Representation, Ethics, Vanderbilt University Press, Nashville, 2002, p. 16. 19 D.L. Niewyk, Holocaust: The Genocide of the Jews, in S. Totten, W.S. Parsons e I.W. Charny (a cura di), op. cit., pp. 128129. 20 H.W. Smith (a cura di), op. cit., pp. 36-37. 21 D.L. Niewyk, op. cit., pp. 131-132. 22 I. Hancock, op. cit., pp. 39-64. 23 M. Gilbert, op. cit., vol. II, p. 527. 24 J. Keay, op. cit., p. 501. 25 Citato in J. Hari, The Two Churchills, in New York Times, 12 agosto 2010. 26- JA. Lockwood, Six-Legged Soldiers: Using Insects as Weapons of War, Oxford University Press, New York, 2009, p. 115. 27 June 6, 1944: UK’s Last Day as a Superpower, BBC, 3 giugno 2009. 28 R. Overy, Russia in guerra, cit., p. 255. 29 L. Collins e D. Lapierre Parigi brucia?, Mondadori, Milano, 1966. 30 M. Mazower, op. cit., pp. 217-218. 31 M. Sorge, The Other Price of Hitler’s War, Greenwood Press, New York, 1986, che a sua volta cita C. Ryan, The Last Battle, Simon & Schuster, New York, 1966 (trad. it.: L’ultima 913
battaglia, Garzanti, Milano, 1971). 32 J. Erickson e D. Dilks (a cura di), op. cit., tavola 12.4. 33 H.P. Willmott, The Second World War in the Far East, Cassell, London, 1999. 34 D. Wallechinsky, op. cit., pp. 742-745. 35 M. Gilbert, op. cit., vol. II, pp. 646-647; W. Manchester, American Caesar, Dell, New York, 1978, p. 483. 36 J. Keegan, La seconda guerra mondiale, cit., pp. 567-575; J. Toland, L’eclisse del Sol Levante, Mondadori, Milano, 1971, pp. 1039-1045; M. Gilbert, op. cit., vol. II, pp. 692-694. 37 Tecnicamente, intendo «le perdite non in battaglia» anziché «accidentali», perché è così che le classifica nelle statistiche l’esercito statunitense. Le perdite non in battaglia comprendono quelle dovute agli incidenti, all’annegamento, all’insolazione, al congelamento, all’omicidio e al suicidio, ma non alle malattie. Il numero di militari che morirono per casi del genere tra 1942 e il 1945 fu di 60.054 – E.L. Cook e J.E. Gordon, Accidental Trauma, in J.B. Coates Jr. (a cura di), Preventive Medicine in World War II, p. 247, http://history.amedd.army.mil/booksdocs/wwii/PrsnlHlthMsrs/chapter7.htm –, contro i 234.874 uccisi in battaglia nella seconda guerra mondiale, un rapporto di 3,9 morti in battaglia per ogni morto non in battaglia. Nella guerra civile l’esercito degli Stati Uniti subì 10.282 perdite non in battaglia, a fronte dei 110.070 soldati uccisi in combattimento, con un rapporto di 10,7 a 1; cfr. W.F. Fox, Regimental Losses in the American Civil War, 1861-1865 (1889), disponibile all’indirizzo http://www.civilwarhome.com/foxs.htm. 38 Strategy & Tactics Magazine (a cura di), War in the East: The Russo-German Conflict, 1941-45, Simulation Publications, New York, 1977, pp. 165-167. 39 M. Gilbert, op. cit., vol. II, p. 304. 40 Ibid., p. 366. 914
41 R. Overy, Russia in guerra, cit., p. 176. 42 M. Gilbert, op. cit., vol. II, pp. 514-516. 43 Tokyo: le stime arrivano a 130.000, tuttavia i numeri che ricorrono maggiormente ruotano attorno al calcolo effettuato dall’Indagine sul bombardamento strategico condotta dagli Stati Uniti, che fissò le vittime a 83.793. Questi bilanci si trovano in entrambi gli estremi dello schieramento politico: per esempio in P. Johnson, Modern Times, p. 424 e H. Zinn, op. cit., p. 293. 44 Hiroshima: il calcolo dei morti per le esplosioni atomiche varia a seconda di quante delle morti per cancro che seguirono in quell’area si attribuiscono alle radiazioni. Per esempio, il 6 agosto 2004 CBS News disse che sul cenotafio in memoria delle vittime di Hiroshima c’era un elenco di 237.062 morti, dei quali 5142 «deceduti lo scorso anno di cancro e altri disturbi di lunga durata». Ciò significa che nel conto erano comprese anche persone sopravvissute cinquantanove anni oltre il bombardamento, anche se nel mondo la maggior parte della gente non arriva nemmeno a cinquantanove anni di vita. In ogni caso, la cifra indicata nel rapporto stilato nel 1946 dall’amministrazione cittadina (118.661 morti e 3677 dispersi: Bulletin of the Atomic Scientists, n. 6, giugno 1986, XLII, p. 37) costituisce la stima più affidabile che si possa avere riguardo alle morti immediate a Hiroshima; tutte le altre stime delle morti per radiazioni a distanza di anni rappresentano semplici congetture. 45 M. Gilbert, op. cit., vol. II, p. 703. 46 M. Mazower, op. cit., pp. 230-231. 47 J. Keegan, La seconda guerra mondiale, cit., p. 592. 48 The United States Strategic Bombing Survey, Garland, New York, 1976, vol. X, p. 95. 49 In The Cambridge History of Russia, vol. III: The Twentieth Century, a cura di R.G. Suny, Cambridge University Press, Cambridge, 2006, p. 226, si calcola che 7,4 milioni di sovietici furono «uccisi a sangue freddo o per impeto», 2,2 milioni 915
vennero «condotti in Germania dove morirono di fatica» e altri 4,1 milioni «morirono di superlavoro, fame e malattia». A questo totale di 13,7 milioni di civili morti sotto l’occupazione tedesca vanno aggiunti 3,3 milioni di prigionieri di guerra morti. 50 R.J. Rummel, Stati assassini, cit., p. 165 (3.949.000). 51 Semplice ipotesi. I due principali crimini di guerra addebitati ai nazionalisti cinesi sono l’alluvione del Fiume Giallo e la brutalità con cui raccoglievano e maltrattavano i coscritti. Io ho calcolato qualche centinaio di migliaia per ciascuno dei crimini. 52 Secondo un rapporto governativo del 1947, durante la guerra morirono 6.028.000 civili residenti entro i confini della Polonia prebellica, dei quali solamente 521.000 per effetto diretto di operazioni militari: B. Urlanis, op. cit., p. 290. 53 Media di undici stime: cfr. http://www.necrometrics.com/20c5m.htm#Holocaust. 54 H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 198. 55 Si tratta di una stima postbellica dell’ONU, ripresa da R.B. Edgerton, Warriors of the Rising Sun, Norton, New York, 1997, p. 272; W. Gruhl, Imperial Japan’s World War Two, Transaction Publishers, New Brunswick, 2010, p. 111; T.G. Paterson, On Every Front, Norton, New York, 1992, p. 11; S. Seagrave, Gold Warriors: America’s Secret Recovery of Yamashita’s Gold, Verso, New York, 2003, p. 54. 56 È il bilancio ufficiale delle vittime della carestia del Bengala. 57 Bilancio ufficioso delle vittime della carestia del Bengala. 58 Morti per carestia: S. Karnow, Storia della guerra del Vietnam, Rizzoli, Milano, 2010, p. 57. 59 La stima ufficiale sostiene che in Germania i bombardamenti alleati uccisero 593000 persone (J. Keegan, La seconda guerra mondiale, cit., p. 596). La responsabilità va attribuita tanto agli Stati Uniti quanto alla Gran Bretagna. 60 M. Mennecke e E. Markusen, op. cit., p. 422. 916
61 Secondo le stime ufficiali in Giappone i bombardamenti convenzionali causarono la morte di 260.000 persone. Il numero dei morti delle bombe atomiche è ignoto, ma la gran parte delle ipotesi si avvicina ai 140.000 che servono per portare il totale a 400.000. P. Johnson, Modern Times, cit., pp. 424-426; J. Keegan, La seconda guerra mondiale, cit., p. 579. 62 B. Urlanis, op. cit., p. 290: 350.000 civili uccisi, soltanto 60.000 a causa di azioni militari. 63 È la somma dei prigionieri di guerra dell’Asse che furono uccisi (600.000), dei soldati sovietici giustiziati (400.000) e dei morti nei gulag (600.000; R. Service, op. cit., p. 300), dei morti delle minoranze del mar Nero e del Caucaso (200.000), delle minoranze del Baltico (200.000), dei sovietici rimpatriati uccisi dopo la guerra (più o meno 1.000.000) e dei civili tedeschi che morirono durante l’avanzata dell’Armata Rossa (1.000.000): J. Keegan, La seconda guerra mondiale, cit., p. 596. Per i dettagli si veda il capitolo su Stalin. 64 B. Macintyre, Britain to Blame for Holocaust, Says Buchanan, in Times (Londra), 23 settembre 1999; cfr. anche M. Kelly, Buchanan’s Folly, in Washington Post, 22 settembre 1999. 65 E. Bumiller, 60 Years after the Fact, Debating Yalta All Over Again, in New York Times, 16 maggio 2005, p. 18; D. Greenberg, Know Thy Allies, in Slate, 10 maggio 2005, http://www.slate.com/id/2118394/. 66 R. Overy, Russia in guerra, cit., pp. 206-207; A.L. Vecamer, A G ermany-Soviet Military-Economic Comparison, http://www.feldgrau.com/econo.html; JT Dykman, The Soviet Experience in World War Two, http://www.eisenhowerinstitute.org/about/living_history/wwii_soviet_exper
Espulsione dei tedeschi dall’Europa orientale 1 Ogni versione dell’evento riporta un diverso bilancio delle 917
vittime, tuttavia le stime rientrano in due gruppi. Buona parte degli storici sostiene che durante le espulsioni morirono o scomparvero senza lasciare traccia da 2 a 2,8 milioni di tedeschi orientali; una minoranza predilige dei criteri di prova più ristretti, che producono una stima di morti ben documentate tra le 400.000 e le 600.000. Che sia il numero 35 o l’85, l’evento rientra comunque nel mio elenco. 2 I.S. Pogany, Righting Wrongs in Eastern Europe, Manchester University Press, Manchester, 1997, p. 106. 3 H.-U. Stoldt, Revenge on Ethnic Germans: Czech Town Divided over How to Commemorate 1945 Massacre, in Spiegel Online, 4 settembre 2009, http://www.spiegel.de/international/europe/0,1518,646757,00.html. 4 J. Dornberg, Germany’s Expellees and Border Changes: An Endless Dilemma?, in German Life, n. 1, 31 luglio 1995, II, p. 18; CTK (Agenzia Stampa Ceca), Transfer of Germans from Czechoslovakia. notiziario nazionale CTK, 17 gennaio 1997. 5 W. Churchill, La seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano, 1970, vol. XII: La cortina di ferro, pp. 370-371. 6 A. Bell-Fialkoff, A Brief History of Ethnic Cleansing, in Foreign Affairs, n. 3, 1993, LXXII, p. 110; M. Krah, The Germans as Victims?, in Jerusalem Report, 17 giugno 2002, p. 30. 7 CTK (Agenzia Stampa Ceca), Organised Sudeten Deportations Began 50 Year Ago, notiziario nazionale CTK, 23 gennaio 1996. 8 Cfr. J. Keegan, La seconda guerra mondiale, cit., p. 597.
Guerra d’Indocina 1 S. Karnow, op. cit., pp. 59-61. 2 Ibid., p. 67. 3 M. Clodfelter, op. cit., vol. II, p. 1123.
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Partizione dell’India 1 Media di quattordici stime pubblicate: cfr. http://www.necrometrics.com/20c300k.htm#India. 2 A. Spaeth et al., The Price of Freedom, in Time, 11 agosto 1997. 3 L. Collins e D. Lapierre, Stanotte la libertà, Mondadori, Milano, 1989, p. 108. 4 M. Gilbert, op. cit., vol. II, p. 795. 5 L. Collins e D. Lapierre, Stanotte la libertà, cit., pp. 338-343. 6 Come risulta dai censimenti effettuati nel 1951 da India e Pakistan, citati in P. Sharma, Human Geography: The People, Discovery Publishing House, New Delhi, 2008, p. 129. 7 L. Collins e D. Lapierre, Stanotte la libertà, cit., pp. 374-378, 453-508.
Mao Zedong 1 M. Meisner, Mao’s China and After, III ed., Free Press, New York, 1999, p. 69. 2 J.D. Spence, op. cit., pp. 539-540. 3 J. Chang e J. Halliday, op. cit., p. 385. 4 Ibid., p. 384. 5 M. Meisner, op. cit., pp. 162-180. 6 J. Chang e J. Halliday, op. cit., p. 491. 7 D. Chirot, op. cit., p. 192. 8 J. Chang e J. Halliday, op. cit., p. 390. 9 N. Wade, Method & Madness: Lust for Power, recensione a Dr. Li Zhisui, The Private Life of Chairman Mao, in New York Times, 6 novembre 1994; D. Chirot, op. cit., p. 195. 10 J.D. Spence, op. cit., p. 525. 11 M. Meisner, Mao’s China and After, p. 70. 919
12 J. Chang e J. Halliday, op. cit., pp. 508-509; D. Chirot, op. cit., p. 196. 13 D. Chirot, op. cit., p. 195. 14 J.D. Spence, op. cit., p. 583; J. Chang e J. Halliday, op. cit., p. 504. 15 M. Meisner, op. cit., p. 237. 16 Citato in M. Davis, op. cit., p. 256. 17 J. Chang e J. Halliday, op. cit., p. 510. 18 Ibid., p. 505; Human Rights Watch, The Three Gorges Dam in China: Forced Resettlement, Suppression of Dissent and Labor Rights Concerns, Human Rights Watch Reports, n. 1, febbraio 1995, VII, http://www.hrw.org/reports/1995/China1.htm; T. Watkins, The Catastrophic Dam Failures in China in August 1975, http://www2.sjsu.edu/faculty/watkins/aug1975.htm. 19 J. Chang e J. Halliday, op. cit., p. 538. 20 J.-L. Margolin, Cina: una lunga marcia nella notte, in S. Courtois et al., op. cit., p. 512. 21 D. Chirot, op. cit., p. 197. 22 M. Meisner, op. cit., p. 313; J. Chang e J. Halliday, op. cit., p. 594. 23 J. Chang e J. Halliday, op. cit., p. 607. 24 Ibid., pp. 610-611. 25 J.D. Spence, op. cit., p. 606. 26 D. Chirot, op. cit., p. 205. 27 Ibid., pp. 204-205. 28 M. Mabry, Cannibals of the Red Guard, in Newsweek, 18 gennaio 1993, p. 38; D. Chirot, op. cit., pp. 205-206. 29 D. Chirot, op. cit., p. 206. 30. J. D. Spence, op. cit., pp. 616-617. 31 R.L. Walker, op. cit.
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32 S. Courtois et al., op. cit., p. 6. 33. J Chang e J. Halliday, op. cit., p. 13. 34 Stime delle morti nei primi anni: J.-L Margolin, op. cit., p. 448 (tra 1 e 5 milioni); J.D. Spence, op. cit., p. 517 («1 milione o più»); P. Johnson, Modern Times, cit., p. 447 («Almeno 2 milioni»), p. 548 («avrebbero potuto raggiungere i 15 milioni, ma è più probabile una stima di 1-3 milioni»); M. Meisner, op. cit., p. 72 («2.000.000 di persone giustiziate nei primi tre anni»); D. Chirot, op. cit., p. 187 («Zhou Enlai, in seguito, stimò che tra il 1949 e il 1956 fossero stati uccisi 830.000 individui. Mao [...] ne stimò [...] dai 2 ai 3 milioni»); J. Chang e J. Halliday, op. cit., p. 383 («Quasi tre milioni di persone morirono giustiziate, linciate dalla folla, o suicide»); R.J. Rummel, China’s Bloody Century: Genocide and Mass Murder since 1900, Transaction Publishers, New Brunswick, 1991, tav II.A, riga 37 (4.5 milioni). La media tra queste sette stime è 2 milioni. 35 J. Becker, La rivoluzione della fame, Il Saggiatore, Milano, 1998, p. 227. Altre stime delle vittime del Grande balzo in avanti: J.D. Spence, op. cit., p. 583 («Il risultato fu [...] una carestia che reclamò almeno 20 milioni di vite umane»); M. Meisner, op. cit., p. 237 («I demografi calcolano [...] 15.000.000 di morti legate alla carestia. […] Alcuni studiosi hanno concluso che perirono 30.000.000 di persone»); D. Chirot, op. cit., pp. 195-196 («Alcuni funzionari del partito in seguito stimarono oltre 40 milioni di morti. L’economista Nicholas Lardy [...] stima una cifra che oscilla tra i 16 e i 28 milioni di morti»); J. Chang e J. Halliday, op. cit., p. 515 («morirono di fame e di lavoro circa 38 milioni di persone»). 36 D. Chirot, op. cit., p. 198 («alcune stime arrivano a 20 milioni»). 37 Stime delle vittime della rivoluzione culturale: P. Johnson, Modern Times, cit., p. 558 («L’agenzia France Presse calcolò – 3 febbraio 1979 – che le Guardie Rosse avevano assassinato 921
400.000 persone, cifra ritenuta maggiormente valida»); M. Meisner, op. cit., p. 354 («Una cifra ampiamente accettata a livello nazionale è quella di 400.000 morti nella Rivoluzione culturale, un numero riportato per la prima volta nel 1979 dal corrispondente dell’agenzia France Presse»); J. Palmowski, Dizionario di storia del ’900, Il Saggiatore, Milano, 1998 («mezzo milione»); D. Chirot, op. cit., p. 198 («Almeno un milione di morti»); Z. Brzezinski, op. cit. (da 1 a 2 milioni); R.J. Rummel, China’s Bloody Century, cit., tav. II.A, riga 294 (1.613.000); J. Heidenrich, How to Prevent Genocide, cit., p. 7 (2 milioni); J. Chang e J. Halliday, op. cit., p. 642 («almeno 3 milioni di persone morirono di morte violenta»). La media di queste otto stime si aggira intorno a 1,5 milioni. 38 D. Aikman, The Laogai Archipelago, in Weekly Standard, 29 settembre 1997. 39 J.-L. Margolin, op. cit., p. 468. 40 J. Chang e J. Halliday, op. cit., pp. 384-385.
Guerra di Corea 1 Media tra le otto stime pubblicate: cfr. http://www.necrometrics.com/20c1m.htm#Ko. 2 Cheju April 3rd Massacre to Be Unearthed, in Korea Times, 3 aprile 2000 (da 30.000 a 80.000); G. Wehrfritz, B.J. Lee e H. Takayama, Ghosts of Cheju, in Newsweek, 19 giugno 2000 (60.000). 3 J. Chang e J. Halliday, op. cit., p. 425. 4 M. Hastings, La guerra di Corea: 1950-1953, Rizzoli, Milano, 1990, pp. 89-91. 5 C.J. Hanley e J.-S. Chang, Thousands Killed by US’s Korean Ally, Associated Press, 18 maggio 2008. 6 Center of Military History, The Korean War, 1950-1953, in American Military History, United States Army, Washington, 922
1989, p. 56; consultabile presso http://www.army.mil/cmhpg/books/AMH/AMH-25.htm. 7 Thousands Perished in North Korean Outrages during War, Associated Press, 13 ottobre 1999; A. Nahm, Historical Dictionary of the Republic of Korea, Scarecrow Press, Lanham, 2004, p. 111. 8 M. Hastings, op. cit., p. 392. 9 U.S. Allowed Korean Massacre in 1950, Associated Press, 5 luglio 2008. 10 M. Hastings, op. cit., pp. 199-200. 11 Ibid., pp. 192-211. 12 Center of Military History, op. cit., pp. 561-562. 13 Ibid., p. 565. 14 J.I. Matray, Revisiting Korea: Exposing Myths of the Forgotten War, in Prologue Magazine, n. 2, 2002, XXXIV, consultabile presso http://www.archives.gov/publications/prologue/2002/summer/koreanmyths-1.html; J. Chang e J. Halliday, op. cit., p. 434. 15 M. Hastings, op. cit., p. 481.
Corea del Nord 1 Si tratta di una mera ipotesi. Nella carestia potrebbero essere morti 1-2 milioni di individui, altrettanti nella repressione. Il numero reale potrebbe facilmente essere due volte tanto o la metà. Una stima (T. Omestad, Gulag Nation, in U.S. News & World Report, 23 giugno 2003, p. 12) sostiene che tra il 1973 e il 2003 morirono 400.000 detenuti politici; e all’epoca il regime aveva già venticinque anni. Secondo S. Courtois et al., op. cit., le vittime sarebbero state 2.000.000 (p. 6), delle quali 100.000 assassinate nelle purghe del partito e 1.500.000 morte nei campi di concentramento, senza contare la carestia (p. 530). 2 D. Chirot, op. cit., p. 248. 923
3 L. McGregor, Birthday Blues for the «Sun of Mankind», in Sydney Morning Herald, 29 aprile 1989. 4 P. Goodspeed, Grim North Korea Breaks Its Isolation: Reclusive, Impoverished Nation Cracks Open Its Doors to Foreign Tourists, Businessmen, in Edmonton Journal, 6 novembre 2005. 5 P. Rigoulot, Crimini, terrore e segreto nella Corea del Nord, in S. Courtois et al., op. cit., p 527. 6 Ibid., p. 526. 7 C. Clark, Kim Jong Il: «Dear Leader» or Demon?, in CNN Interactive, 2001, http://www.cnn.com/SPECIALS/2000/korea/story/leader/kim.jong.il. 8 D. Wallechinsky, Tyrants: The World’s 20 Worst Living Dictators, HarperCollins, New York, 2006, p. 41. 9 M. Goozner, World Watches North Korea; Early Signs Are «Encouraging», Clinton Says, in Chicago Tribune, 10 luglio 1994. 10 P. Goodspeed, op. cit. 11 Top Defector Say Famine Has Killed over Three Million Koreans, Agence France Presse, 13 marzo 1999; North Korea Admits Its Famine Has Killed Hundreds of Thousands, Associated Press, 10 maggio 1999 (i dati ufficiali nordcoreani indicarono 220.000 morti; la delegazione statunitense ne calcolò 2 milioni; i servizi segreti sudcoreani affermarono che la popolazione aveva subito un crollo di 3 milioni); T. Branigan, North Korea Life Expectancy Falls, Census Reveals, in Guardian, 22 febbraio 2010 (da 600.000 a 1 milione).
Il capitolo nero del comunismo 1 J.-L. Margolin, Cambogia: nel paese del crimine sconcertante, in S. Courtois et al., op. cit., p. 554. 2 Jugoslavia: le stime coprono l’intera gamma delle possibilità, 924
al punto che le più alte riportano cifre nove volte maggiori rispetto alle più basse. M. Mazower, op. cit., p. 234 (60.000); C. Sudetic, Piles of Bones in Yugoslavia Point to Partisan Massacres, in New York Times, 9 luglio 1990 (da 70.000 a 100.000); J.R. Lampe, Yugoslavia as History: Twice There Was a Country, Cambridge University Press, Cambridge, 2000, p. 227 (100.000); N. Malcolm, Storia della Bosnia: dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano, 2000, p. 259 (250.000); emigrati anticomunisti citati in C. Sudetic, op. cit. (500.000 circa); R.J. Rummel, Statistics of Democide: Genocide and Mass Murder since 1900, Lit, Münster, 1998, p. 172 (500.000). Sia la media geometrica tra minimo e massimo che il valore mediano si aggirano intorno ai 175.000 morti. 3 Polonia: T. Rosenberg, The Haunted Land: Facing Europe’s Ghosts after Communism, Vintage, New York, 1995, p. 145. 4 Bulgaria: A. Alexander, Bulgarians Reveal Labor-Camp Fate of Those Who Criticized Government, in Orange County Register, 1 luglio 1990. 5 Cuba: J. Rice, 40 Years of Revolution, in Star Tribune (Minneapolis), 27 dicembre 1998 («Lo storico Hugh Thomas calcola che entro il 1970 potrebbero essere state giustiziate 5000 persone»). 6 J.-L. Margolin, Cambogia: nel paese del crimine sconcertante, cit., p. 552. 7 P. Rigoulot, op. cit., pp. 516-518. 8 Germania Orientale: Reuters, 100.000 Died in E. Germany for Political Acts, in Los Angeles Times, 27 ottobre 1991 («morti in prigionia o giustiziati per crimini politici, in 44 anni»). 9 Romania: A. Mutler, AP Photos BUC101-103, Associated Press, 23 ottobre 2000 («Si ritiene che 100.000 persone circa, tra contadini, intellettuali e membri del governo precomunista, siano morte in carcere o nella costruzione del [canale Danubiomar Nero]»). 10 Mongolia: Expedition Unearths Mass Grave Dating to 925
Communist Rule, Associated Press, 22 ottobre 1991, notiziario del mattino («Da quel momento in poi, il bilancio delle vittime è stato ampiamente stimato intorno ai 35.000 morti»; le stime arrivano fino alla cifra di 100.000); Mass Grave of Buddhist Massacre Reportedly Found in Mongolia, Associated Press, 22 ottobre 1991, notiziario della sera. 11 Cecoslovacchia: CTK (Agenzia Stampa Ceca), Thousands of People Killed by Former Communist Regime, 28 maggio 1991 (260 giustiziati, da 9000 a 10.000 morti durante l’arresto o in prigione, 1800 scomparsi senza lasciare traccia). 12 - Albania: J Perelez, Tirana Journal: A Stalinist Dowager in Her Bunker, in New York Times, 8 luglio 1997 («i documenti mostrano che nel corso dei 40 anni di governo di Hoxha […] furono giustiziati 5000 detenuti politici»). 13 E. Hobsbawm, op. cit., pp. 305-307. 14 Ibid., pp. 558-579; M. Mazower, op. cit., pp. 355-386.
Guerra d’indipendenza algerina 1 P. Johnson, Modern Times, cit., p. 500. 2 W. Laqueur, Europe since Hitler: The Rebirth of Europe, Penguin Books, New York, 1982, pp. 468-470. 3 A. Horne, Storia della guerra d’Algeria, 1954-1962, Rizzoli, Milano, 1980, p. 606.
Guerra del Sudan 1 Media di otto stime: cfr. http://www.necrometrics.com/20c300k.htm#Sudan. 2 Media di sette stime recenti: cfr. http://www.necrometrics.com/20c1m.htm#Sudan. 3 Le stime arrivano fino alla cifra di 400.000, ma le grandi organizzazioni imparziali che seguono questi eventi 926
preferiscono quella di 200.000. Q&A: Sudan’s Darfur Conflict, BBC News, 29 maggio 2007, http://news.bbc.co.uk/go/pr/fr//1/hi/world/africa/3496731.stm (200.000); Human Rights Watch, Q&A: Crisis in Darfur, 29 gennaio 2007, http://hrw.org/english/docs/2004/05/05/darfur8536.htm (200.000); S. Dealey, An Atrocity That Needs No Exaggeration, in New York Times, 12 agosto 2007; A. de Montesquiou, As Darfur Violence Continues, Some Question Death Estimates, Associated Press, 29 novembre 2006. 4 B. Berkeley, The Graves Are Not Yet Full, Basic Books, New York, 2001, p. 211. 5 Ibid., p. 214; R.D. Kaplan, A Microcosm of Africa’s Ills; Sudan, in The Atlantic, n. 4, aprile 1986, CCLVII, p. 20. 6 B. Berkeley, op. cit., p. 198. 7 Ibid., pp. 201-202. 8 Country Profile: Sudan, BBC, 1 giugno 2007, http://news.bbc.co.uk/2/hi/middle_east/country_profiles/820864.stm. 9 Prosecutor Accuses Bashir Forces of Murder, Rape, Pillage, allAfrica.com, 2 marzo 2009, http://allafrica.com/stories/200903020185.html; R. Booth, No Money, Not Enough Food, Rampant Sickness, Night-Time Raids. Darfur Today, in Guardian, 7 dicembre 2007; H. Hissa, UN Envoy in Darfur Rebel Heartland to Muster Support for Peace Talks, Associated Press, 8 dicembre 2007.
Guerra del Vietnam 1 D. Eisenhower, Mandate for Change, New American Library, New York, 1963, citato in J. Simkin, The Vietnam War, Spartacus Educational, http://www.spartacus.schoolnet.co.uk/VietnamWar.htm. 2 Citato in M. O’Brien, John F. Kennedy: A Biography, Griffin, New York, 2006, p. 859. 927
3 S. Karnow, op. cit., pp. 188-189. 4 Ibid., pp. 233-243. 5 M. Boot, op. cit., p. 298. 6 Ibid., p. 308. 7 H. Zinn, op. cit., p. 333. 8 Ibid., pp. 334-335; D. Linder, An Introduction to the My Lai Courts-Martial, in Famous Trials, 1999, http://www.law.umkc.edu/faculty/projects/ftrials/mylai/Myl_intro.html. 9 N. Boyce, Hugh Thompson: Reviled Then Honored for His Actions at My Lai, in U.S. News & World Report, 20 agosto 2001, http://www.usnews.com/usnews/doubleissue/heroes/thompson.htm. 10 M.D. Sallah e M. Weiss, Rogue GIs Unleashed Wave of Terror in Central Highlands, in Toledo Blade, 19 ottobre 2003, http://www.pulitzer.org/works/2004-Investigative-Reporting. 11 S. Karnow, op. cit., p. 414. 12 P.B. Davidson, Vietnam at War: The History, 1946-1975, Oxford University Press, New York, 1988, p. 552; V.D. Hanson, Massacri e cultura, cit., p. 467. 13 S. Karnow, op. cit., p. 367. 14 Ibid., p. 413. 15 Ibid. 16 Ibid., pp. 414-418. 16 Ibid., pp. 446-448. 18 Ibid., pp. 454-456. 19 Ibid., p. 462. 20 Ibid., pp. 467-468. 21 Vietnam Discloses 1.1 Million Died in War, 600,000 Wounded, Associated Press, 3 aprile 1995; K.B. Richburg, To Vietnamese, Fall of Saigon Started the Peace; 20 Years After War’s End, Victors Looking Forward, in Washington Post, 30 aprile 1995. 928
22 Z. Obermeyer, C.J.L. Murray e E. Gakidou, Fifty Years of Violent War Deaths from Vietnam to Bosnia: Analysis of Data from the World Health Survey Programme, in British Medical Journal, n. 7659, 28 giugno 2008, CCCXXXVI, p. 1482. 23 K. Kiljunen (a cura di), Kampuchea: Decade of the Genocide: Report of a Finnish Inquiry Commission, Zed Books, London, 1984, p. 30. 24 Z. Obermeyer, C.J.L. Murray e E. Gakidou, op. cit.
La guerra fredda 1 S. Totten, W.S. Parsons e I.W. Charny (a cura di), op. cit., p. 321. 2 E. O’Ballance, The Greek Civil War: 1944-1949, Praeger, New York, 1966, p. 202. 3 Z. Obermeyer, C.J.L. Murray e E. Gakidou, op. cit. 4 V. Cabreza, 43,000 Killed In 34 Years Of Communist Rebellion, in Philippine Daily Inquirer, 29 gennaio 2003. 5 Refusing to Forget, pbs New Hour, 16 ottobre 1997, http://www.pbs.org/newshour/bb/latin_america/julydec97/argentina_10-16a.html, dove si cita Argentina Human Rights Information, http://www.derechos.org/humanrights/argentina.html: 30.000 scomparsi. 6 Central America, in Encyclopaedia Britannica, XV ed., cit., vol. XV, p. 692. 7 G.C. Kohn, Dizionario delle guerre, Armenia, Milano, 1989, p. 405.
Purghe indonesiane 1 È la media tra diciannove stime: cfr. http://www.necrometrics.com/20c300k.htm#Indonesia. 2 K. Kadane, U.S. Accused of Role in Massacre. Ex-Envoys Say 929
They Gave Indonesia Names of Its Enemies, in Chicago Tribune, 23 maggio 1990. 3 R. Cribb, The Indonesian Massacres, in S. Totten, W.S. Parsons e I.W. Charny (a cura di), op. cit. 4 N. Karmini, 40 Years on, Indonesian Victims of One of 20th Century’s Worst Massacres Wait for Justice, Associated Press, 30 settembre 2005; S. Lekic, Controversy over Elusive Document Revives Interest in 1965 Coup, Associated Press, 30 marzo 2000; K.L. Whiting, Indonesia Still Dealing with Carnage of 25 Years Ago after Failed Coup, in Los Angeles Times, 10 febbraio 1991.
Guerra del Biafra 1 È la media tra quindici stime: cfr. http://www.necrometrics.com/20c1m.htm#Nigeria. 2 R.B. Edgerton, Africa’s Armies: From Honor to Infamy: A History from 1791 to the Present, Westview Press, Boulder, 2002, p. 107. 3 Ibid., pp. 103-109; Ojukwu Blames Civil War on Gowon, in Vanguard Daily (Lagos), 1 marzo 2001; B. Harden, 2 Decades Later, Biafra Remains Lonely Precedent, in Washington Post, 27 giugno 1988, p. A1.
Genocidio bengalese 1 È la media di quindici stime: cfr. http://www.necrometrics.com/20c1m.htm#Bangladesh. 2 B. Kiernan, Blood and Soil, cit., p. 574. 3 H. Stockwin, East Pakistan’s Bloody Death, 30 Years On, in Japan Times, 25 marzo 2001. 4 C. Hitchens, Processo a Henry Kissinger, Fazi, Roma, 2003. 5 R. Payne, Massacre, Macmillan, New York, 1973, p. 55. 930
6 J. Galloway, We Are Mute and Horrified Witnesses to a Reign of Terror, in Knight Ridder Newspapers, 8 novembre 2004. 7 Ibid.; R. Jahan, Genocide in Bangladesh, in S. Totten, W.S. Parsons e I.W. Charny (a cura di), op. cit.; B. Kiernan, Blood and Soil, cit., pp. 572-576; H. Stockwin, op. cit.
Idi Amin 1 È la media di quattordici stime: cfr. http://www.necrometrics.com/20c300k.htm#Uganda. 2 B. Berkeley, op. cit., p. 230. 3 Who is This Man Field Marshal Idi Amin, Who Dares Do the Things He Does and Say the Things He Says, Associated Press, 27 febbraio 1977; Field Marshal Idi Amin Dada, Uganda’s «President for Life», Associated Press, 11 aprile 1979. 4 D. Chirot, op. cit., p. 392. 5 Ex-Ugandan Dictator Idi Amin, 80, Dies. A Bizarre, Brutal Leader, He Ruined the Economy and Killed Thousands, in Seattle Times, 16 agosto 2003.
Menghistu Hailè Mariàm 1 M.A. Fitzgerald, Tyrant for the Taking, in Times (Londra), 20 aprile 1991: «Sono morte più di due milioni di persone per le epurazioni politiche e la guerra civile, o per la denutrizione provocata dalle politiche governative»; L. Rapoport, Knives Are Out for a Bloodstained Ruler, in Sydney Morning Herald, 28 aprile 1990: «Più di due milioni di persone […] morirono a causa dei reinsediamenti, della detenzione, dei mancati aiuti durante la carestia, le perdite militari o le esecuzioni dirette». 2 M.A. Fitzgerald, op. cit.; N. Henry, Mengistu Leaves Ethiopia in Shambles, in Washington Post, 22 maggio 1991. 3 M.A. Fitzgerald, op. cit.; L. Rapoport, op. cit. 931
4 C. Sanchez, A Victory Tempered by Sorrow, in Washington Post, 26 maggio 1991 (400.000); N. Henry, op. cit. (500.000); Z. Obermeyer, C.J.L. Murray e E. Gakidou, op. cit. (579.000). 5 Bilancio delle vittime della carestia: 500.000 (J. Manthorpe, Mengistu’s Brutal Regime Lasted Surprisingly Long, in Toronto Star, 22 maggio 1991), 1 milione (N. Henry, op. cit.; C. Sanchez, op. cit.) o 2 milioni (L. Rapoport, op. cit.).
Vietnam postbellico 1 È una mia stima. Ossia: 200.000 boat people (W. Branigin, Vietnam Demands U.S. Halt Rescues, in Washington Post, 3 agosto 1979; Vu Thanh Thuy, Boat People Defeat Sea..., in San Diego Union Tribune, 20 luglio 1986) sommati a 165.000 morti nei campi di rieducazione (Postwar Strife Survival The Register Profiles O.C. Residents who Once Were Prisoners in Vietnam’s Re-education Camps, in Orange County Register, 29 aprile 2001; F. Kuo, Fallen, But Not Forgotten: Washington’s South Vietnamese Veterans, in Northwest Asian Weekly, 5 luglio 1996), in cui sono comprese 65.000 esecuzioni (J. Desbarats e K.D. Jackson, Vietnam 1975-1982: The Cruel Peace, in Washington Quarterly, n. 4, 1985, VIII). 2 J. Desbarats e K.D. Jackson, op. cit. 3 Oltre alle fonti sopra elencate, cfr. E. Becker, When the War Was Over, Public Affairs, New York, 1998, p. 534, che cita l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, secondo cui 250.000 boat people morirono in mare e 929.600 ottennero asilo; V.D. Hanson, Massacri e cultura, cit., p. 496 (da 50.000 a 100.000 morti); N. Chanda, Brother Enemy, Harcourt Brace Jovanovich, San Diego, 1986, p. 247 (da 30.000 a 40.000 morti in mare, stessa cifra che si ritrova in M.B. Young, Le guerre del Vietnam: 1945-1990, Mondadori, Milano, 2007, p. 348). 4 D. Butler, Agony of the Boat People, in Newsweek, 2 luglio 932
1979, p. 42. 5 Boat People; Their Endless Ordeal, in San Diego UnionTribune, 25 giugno 1989; L. Weiss, Timing Is Everything; Vietnamese Refugees in the U.S., in The Atlantic, n. 1, gennaio 1994, CCLXXIII, p. 32.
Kampuchea Democratica 1 D. Chirot, op. cit., p. 223. 2 B. Kiernan, The Cambodian Genocide, in S. Totten, W.S. Parsons e I.W. Charny (a cura di), op. cit., pp. 345-346. 3 K. Munthit, AP Interview: Ex-Khmer Rouge Leader Acknowledges for First Time that Regime Committed Genocide, Associated Press, 30 dicembre 2003. 4 D. Chirot, op. cit., p. 228. 5 Ibid., pp. 218-220. 6 Ibid., p. 229; B. Kiernan, The Cambodian Genocide, cit., pp. 339-342. 7 S. Jackson-Han, Pol Pot Said to Be Tried and Sentenced after 18 Years in Hiding, Agence France Presse, 29 luglio 1997. 8 K. Munthit, Khmer Rouge Leader Pol Pot Dies, Associated Press, 16 aprile 1998. 9 D. D. Gray, Cambodians Recall Khmer Rouge Massacres, Associated Press, 21 maggio 1987. 10 D. Chirot, op. cit., p. 209. 11 B. Kiernan, The Cambodian Genocide, cit., p. 348.
Guerra civile del Mozambico 1 P. Lawless, After the Terror, the Sun May Rise on Bloody Mozambique, in Sydney Morning Herald, 22 ottobre 1994 (500.000); H. Jensen, Peace Is as Difficult as War in Mozambique, in Rocky Mountain News, 23 ottobre 1994 933
(600.000); I. Christie, Mozambique Celebrates Year of Democracy, Reuters News, 23 ottobre 1995 (almeno 800.000); D.B. Ottaway, «Slave Trade» in Mozambicans Cited, in Washington Post, 26 novembre 1990 (tra 600.000 e 1 milione); T. Pakenham, Where a Million Died, recensione a W. Finnegan, Harrowing of Mozambique, in New York Times, 26 aprile 1992 (circa 1 milione); R.B. Edgerton, Africa’s Armies, cit., p. 109 (almeno 1 milione). 2 W. Finnegan, A Complicated War: Harrowing of Mozambique, University of California Press, Berkeley, 1996, citato in T. Pakenham, Where a Million Died, cit. 3 P. Lawless, op. cit.; I. Christie, op. cit.; R.B. Edgerton, Africa’s Armies, cit., pp. 109-114; D.B. Ottaway, op. cit.; T. Pakenham, Where a Million Died, cit.; H. Jensen, op. cit.. 4 U.S., Edging Higher, Ranks as World’s 7th-Richest Nation, in New York Times, 30 dicembre 1994.
Guerra civile dell’Angola 1 L. Duke, Will Peace Take Hold in Angola?, in Washington Post, 14 ottobre 1996 (500.000); C. Sieno, Angolan Peace Talks Restart as Fighting Continues, Associated Press, 29 luglio 1994 (500.000); P. Salopek, Inklings of Peace Intrude in Bereft Angola. Power Struggle over Oil and Diamonds May Be Near End as Government Forces Put Rebels to Rout, in Chicago Tribune, 14 gennaio 2000 (500.000); D.L. Marcus, Relentless War Wears on Angolans: Many Speak of Yearning for Peace Yet Strife Persists, in Dallas Morning News, 23 gennaio 1994 (più di 450.000). 2 R. Fisman, Diamonds Are a Guerrilla’s Best Friend: Why Was War Good for Angola’s Big Miners?, in Slate, 17 agosto 2007, http://www.slate.com/id/2172333. 3 GlobalSecurity.org, Cuba, http://www.globalsecurity.org/military/world/cuba/intro.htm. 934
Guerra dei boschi dell’Uganda 1 P. Williams, Uganda Marks 25 Years of Chaotic Independence Today, United Press International, 9 ottobre 1987 (500.000); H. Wasswa, Uganda’s First Prime Minister, and Two-Time President, Dead at 80, Associated Press, 10 ottobre 2005 (500.000); B. Berkeley, An African Success Story? Uganda, in The Atlantic, n. 3, settembre 1994, CCLXXIV, p. 22. (300.000); R.B. Edgerton, Africa’s Armies, cit., p. 155 (300.000); J. Marshall, Obituary: Milton Obote: The First Leader of an Independent Uganda, He Imposed Virtual OneMan Rule, but Was Twice Overthrown, in Guardian, 12 ottobre 2005 (100.000). 2 B. Berkeley, An African Success Story?, cit.; R.D. Kaplan, Starting Over; A New Government Has Brought Relative Stability to Uganda, for the Time Being, in The Atlantic, n. 4, aprile 1987, CCLIX, p. 18; J. Marshall, op. cit.; H. Wasswa, op. cit.; P. Williams, op. cit.
L’Africa postcoloniale 1 M. Burr, Quantifying Genocide in Southern Sudan and the Nuba Mountains, U.S. Committee for Refugees, Washington, 1998. 2 Burundi Civil War Claims 260,000 Lives - UNFPA, notiziario quotidiano della Panafrican News Agency (PANA), 25 aprile 2004. 3 Repubblica di Liberia, Commissione per la Verità e la Riconciliazione, Final Report: vol. I, Preliminary Findings and Determinations, 2009, p. 44; http://www.trcofliberia.org/reports/final/volume-one_layout1.pdf.
Invasione sovietica dell’Afghanistan 935
1 Media di svariate stime: cfr. http://www.necrometrics.com/20c1m.htm#Afghanistan. 2 D. Zucchino, The Americans... They Just Drop Their Bombs and Leave, in Los Angeles Times, 2 giugno 2002; S. Coll, La guerra segreta della CIA, Rizzoli, Milano, 2008, p. 59. 3 M.J. Porubcansky, Top Soviet Officer in Afghanistan Opposed Intervention, Associated Press, 19 settembre 1989; G. Nadler, Soviets Had Hand in Overthrowing Afghan President, United Press International, 4 maggio 1989. 4 S. Sussman, CIA Almost Sure of Afghan Massacre, Senator Says, Associated Press, 4 marzo 1980. 5 Soviet Military In Unconfirmed Report Linked To Massacre Of 900 Civilians, Associated Press, 27 marzo 1985; Hundreds of Civilians Reportedly Killed by Soviets in Afghanistan, Associated Press, 26 febbraio 1985. 6 S. Boulouque, Il comunismo in Afghanistan, in S. Courtois et al., op. cit., p. 670. 7 Here Is a Chronology of Some of the Main Events in the War in Afghanistan..., Associated Press, 15 febbraio 1989. 8 Afghan War Cost Soviet Union More Than 70 Billion Dollars, Reuters News, 7 giugno 1989. 9 S. Daggett, Costs of Major U.S. Wars, Congressional Research Service Report for Congress (RS22926), aggiornato al 24 luglio 2008, http://www.history.navy.mil/library/online/costs_of_major_us_wars.htm.
Saddam Hussein 1 N. Price, Survey: Saddam Killed 61,000 in Baghdad, Associated Press, 9 dicembre 2003, cita il governo statunitense (300.000 persone uccise da Saddam in tutto l’Iraq), «alcuni funzionari per i diritti umani» (500.000) e «alcuni partiti politici iracheni» (più di 1 milione). K. Roth, War in Iraq: Not a 936
Humanitarian Intervention, Human Rights Watch, gennaio 2004, http://www.hrw.org/wr2k4/3.htm (250.000). 2 D. Hirst, Saddam Hussein: Brutal and Opportunist Dictator of Iraq, He Wreaked Havoc on His Country, the Middle East and the World, in Guardian, 30 dicembre 2006, http://www.guardian.co.uk/Iraq/Story/0,1980293,00.html. 3 D. Chirot, op. cit., p. 303. 4 Ibid., p. 305. 5 D. Hirst, op. cit. 6 M.J. Kelly, Ghosts of Halabja: Saddam Hussein and the Kurdish Genocide, Praeger Security International, Westport, 2008, p. 34. 7 M. Leezenburg, The «Anfal» Operations in Iraqi Kurdistan, in S. Totten, W.S. Parsons e I.W. Charny (a cura di), op. cit., pp. 374-393. 8 Anfal: Campaign against the Kurds, BBC, 24 giugno 2007; M. Leezenburg, op. cit., pp. 374-393. I curdi parlano di 182.000, Human Rights Watch ne calcola 100.000.
Guerra Iran-Iraq 1 È la media di diciannove stime (delle sole vittime militari): cfr. http://www.necrometrics.com/20c300k.htm#Iran-Iraq. L’Iran sostiene ufficialmente che furono uccisi 11.000 civili iraniani. Questa è una delle poche grandi guerre del XX secolo in cui morirono più soldati che civili. 2 J. Bulloch e H. Morris, The Gulf War: Its Origins, History, and Consequences, Methuen, London, 1989; D. Pipes, A Border Adrift: Origins of the Iraq-Iran War, 1983, http://www.danielpipes.org/article/164. 3 M. Brzoska, Profiteering on the Iran-Iraq War, in Bulletin of the Atomic Scientists, n. 5, giugno 1987, XLIII; W. Hartung, Nations Vie for Arms Markets, in Bulletin of the Atomic 937
Scientists, n. 10, dicembre 1987, XLIII. 4 M. Clodfelter, op. cit., vol. II, p. 1072. 5 Ibid., p. 1084.
Sanzioni contro l’Iraq 1 C. Suellentrop, op. cit. 2 Iraqi Death Toll, Frontline: The Gulf War, PBS, 9 gennaio 1996, http://www.pbs.org/wgbh/pages/frontline/gulf/appendix/death.html; C. Conetta, The Wages of War: Iraqi Combatant and Noncombatant Fatalities in the 2003 Conflict, Project on Defense Alternatives, Research Monograph n. 8, 28 ottobre 2003, http://www.comw.org/pda/0310rm8.html. 3 J. Prescott, Iraq’s Contraband Trail Goes Inland as Sea Blockade Bites, in Lloyd’s List, 3 ottobre 1995. 4 L. Johnson, A Trip to Baghdad Reveals a Nation Sagging under the Weight of Sanctions, in Seattle Post-Intelligencer, 11 maggio 1999. 5 M. Welch, The Politics of Dead Children: Have Sanctions against Iraq Murdered Millions?, in Reason, marzo 2002, http://www.reason.com/news/show/28346.html. 6 L. Kaplow, Consequences of Kuwait: Sanctions Have Iraq Withering, in Atlanta Journal and Constitution, 13 giugno 1999. 7 P. Shenon, Washington and Baghdad Agree on One Point: Sanctions Hurt, in New York Times, 22 novembre 1998. 8 L. Howell, Churches Regret Calling for Sanctions, in Times Union (Albany), 21 marzo 1998. 9 B. Nelson e J. Arraf, Ten Years after Iraq’s Invasion of Kuwait and U.N. Sanctions Still Stand, in CNN WorldView, 6 agosto 2000, ore 18.00. 10 C. Conetta, op. cit., nota 93, http://www.comw.org/pda/0310rm8.xhtml#N_93_. 938
11 L. Kaplow, op. cit. 12 C. Suellentrop, op. cit.
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Genocidio del Ruanda 1 B. Kiernan, Blood and Soil, cit., p. 555; B Berkeley, The Graves Are Not Yet Full, cit., pp. 257-258. 2 B. Berkeley, The Graves Are Not Yet Full, cit., pp. 258-259. 3 C. Sperling, Mother of Atrocities: Pauline Nyiramasuhuko’s Role in the Rwandan Genocide, in Fordham Urban Law Journal, n. 2, 1 gennaio 2006, XXXIII, p. 637. 4 B. Berkeley, The Graves Are Not Yet Full, cit., p. 269. 5 Mayor Gets 30 Years for Genocide, BBC, 17 giugno 2004; F. Keane, Massacre at Nyarubuye Church, BBC, 4 aprile 2004. 6 Rwanda Genocide Priest Given Life, BBC, 12 marzo 2008. 7 C. Sperling, op. cit., p. 656. 8 Ibid., pp. 644-646: sono parole del generale Roméo Dallaire. 9 A. Asiimwe, Rwanda Census Puts Genocide Death Toll at 937,000, Reuters News, 4 aprile 2004. 10 C. Sperling, op. cit. 939
11 B. Berkeley, The Graves Are Not Yet Full, cit., p. 273. 12 Local Rwandan Courts Convict More Than 3,600 over Genocide, Agence France Presse, 1 gennaio 2006. 13 Death Penalty Abolition Spurs Quest for Justice, Inter Press Service, 7 agosto 2007.
Seconda guerra del Congo
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http://news.bbc.co.uk/1/hi/world/africa/2635295.stm. 10 Profile: Joseph Kabila, BBC, ultimo aggiornamento mercoledì 6 dicembre 2006, http://news.bbc.co.uk/2/hi/africa/6209774.stm. 11 International Rescue Committee, Congo Crisis, http://www.theirc.org/special-reports/congo-forgotten-crisis. L’IRC ha stilato quattro rapporti, in ognuno dei quali è stato rivisto il bilancio delle vittime: 2000 (1,7 milioni), 2001 (2,5 milioni), 2005 (3,8 milioni), 2008 (5,4 milioni). Lo studio del 2008 indica che in Congo l’indice di mortalità è ancora superiore alla media africana e ha causato più di un milione e mezzo di morti in eccesso dalla cessazione formale delle ostilità; tuttavia, la percentuale dei morti per violenza è calata fortemente dall’11,1 del periodo culminante dei combattimenti all’1,5% dopo il dicembre del 2006. L’IRC non la definisce più guerra, bensì crisi umanitaria. Per la classifica, ho addebitato alla guerra solamente i 3,8 milioni in più effettivamente morti nel corso della sua durata, secondo lo studio del 2005. 12 S. Nolen, The War on Women, in Globe and Mail (Toronto), 27 novembre 2004. 13 Ibid.
Che cosa ho scoperto: un’analisi 1 Per un esempio, cfr. Homosexuality in Nazi Germany, in Conservapedia, http://www.conservapedia.com/Homosexuality_in_Nazi_Germany. 2 D. Biello, Rise and Fall of Chinese Dynasties Tied to Changes in Rainfall, in Scientific American, 7 novembre 2008, http://www.scientificamerican.com/article.cfm?id=monsoonclimate-change-chinese. 3 W.J. Broad, In the Mediterranean, Killer Tsunamis from an Ancient Eruption, in New York Times, 2 novembre 2009. 4 K. Johnson, 1600 Eruption Led to Global Cooling, Social 941
Unrest, in National Geographic News, 29 aprile 2008, http://news.nationalgeographic.com/news/2008/04/080429peru-volcano.html. 5 In base alle stime di Carl Haub (How Many People Have Ever Lived on Earth?, in Population Today, n. 8, 2002, XXX, http://www.prb.org/articles/2002/howmanypeoplehaveeverlivedonearth.asp pare che in tutto il secolo scorso siano morte 5,5 miliardi di persone. Di queste, ne ho contate pressappoco 203 milioni morte a causa di massacri. 6 L. Keeley, War before Civilization: The Myth of the Peaceful Savage, Oxford University Press, New York, 1996, tav. 6.1.
Appendice I. Sui primi cento 1 Ditti Candiotto e Darete Frigio, Guerra e rovina di Troia: la storia raccontata dai vinti, MIR, Montespertoli, 2000. 2 Putnam’s Home Cyclopedia, Putnam, New York, 1852, p. 417 (400.000); T. Wilhelm, A Military Dictionary and Gazetteer, Hamersly & Co. Philadelphia, 1881, p. 310 (300.000). 3 Storia augusta, Vita di Claudio. 4 S.P. Mattern, Rome and the Enemy: Imperial Strategy in the Principate, University of California Press, Berkeley, 2002, p. 93. 5 Storia Augusta, Vita di Probo, XV. 6 Libro di Mormon, Ether 15:2. 7 W. Durant, op. cit., vol. I: L’Oriente, p. 528. 8 R. Srinivasan, The Roots of Hindu Anxiety: An Interview with Controversial Scholar Koenraad Elst, in India Currents, n. 11, 28 febbraio 1996, IX, p. 21. 9 K. Elst, India’s Holocaust: Belgium Scholar Analyzes «The Bloodiest Story in History», in Hinduism Today, 31 marzo 1999. 10 Ho trovato due libri del tardo Ottocento (M.D. Aletheia, The Rationalist’s Manual, Watts, London, 1897; W.W. Hardwicke, 942
The Evolution of Man: His Religious Systems and Social Customs, Watts, London, 1899, p. 275) con identiche liste di massacri perpetrati dai cristiani, che includono «7.000.000 durante i massacri saraceni. In Spagna durante le otto crociate perirono 5.000.000 di persone»; tuttavia, ho il sospetto che la punteggiatura sia sbagliata. Secondo quanto è scritto, troviamo dei massacri saraceni non meglio identificati avvenuti chissà dove e poi otto crociate in Spagna, ma nessuno di questi eventi rientra facilmente nella storia documentata. Tuttavia, se spostiamo il punto dopo «in Spagna», avremo dei massacri saraceni all’interno della Spagna e 5 milioni di morti in otto crociate al di fuori della stessa Spagna, il che rientra nelle famigerate crociate in Palestina. In ogni caso, non è la prova attendibile di un numero qualsiasi, anzi questa è di gran lunga la nota più noiosa di questo libro, che combina interrogativi oscuri su punteggiatura e statistica. 11 J.N. Hillgarth, The Spanish Kingdoms, Clarendon Press, Oxford, 1976, vol. I, p. 342, citato in P. Contamine, La guerra nel Medioevo, Il Mulino, Bologna, 1986, p. 348 nota. 12 A. Macfarlane, op. cit., pp. 56-59; M.E. Berry, The Culture of Civil War in Kyoto, University of California Press, Berkeley, 1994. 13 Per un esempio, H.H. Halley, Halley’s Bible Handbook, XXIV ed., Zondervan, Grand Rapids, 1965. 14 J.E.E.D. Acton et al., (a cura di), The Cambridge Modern History, University Press, Cambridge, 1903, vol. II, p. 290. 15 Cfr. per esempio J. Gibbons, op. cit. (a favore delle stime da 40.000 a 60.000 morti); N. Davies, Storia d’Europa, cit. (50.000); R. Grimm, Historians Take a Critical Look at Burning of Witches, Deutsche Presse-Agentur, 5 gennaio 1999, recensione a W. Behringer, Hexen: Glaube, Verfolgung, Vermarktung (in cui si citano favorevolmente le stime da 30.000 a 100.000 morti e in maniera sfavorevole quelle da 6 milioni a 13 milioni). 943
16 J. Levy, op. cit., p. 90. 17 A. Corvisier e John Childs, op. cit., p. 470. 18 J. Levy, op. cit., p. 90. 19 La più autorevole denuncia, ancorché l’unica, dell’alto numero di morti si trova in S. Shenfield, The Circassians: A Forgotten Genocide?, in M. Levene e P. Roberts (a cura di), The Massacre in History, Berghahn Book, New York-Oxford, 1999, p. 154 («Il numero di morti della catastrofe circassa degli anni tra il 1860 e il 1870 difficilmente, quindi, avrebbe potuto essere inferiore a un milione e potrebbe benissimo avvicinarsi al milione e mezzo»). Non ho trovato nessun autore importante che condivida tale stima. 20 J. Glascott, 600,000 Aborigines Died after 1788, Study Shows, in Sydney Morning Herald, 25 febbraio 1987. 21 M. Dash, op. cit. 22 J. McCarthy, op. cit. 23 J.J. Reid, Crisis of the Ottoman Empire: Prelude to Collapse, Steiner, Stuttgart, 2000, p. 42. 24 Dei quindici libri che ho trovato in cui si propone un preciso bilancio della vittime, otto denunciano la morte di 200.000 civili. 25 D. Mack Smith, Le guerre del Duce, Laterza, Roma-Bari, 1980, p. 54; J. Wright, Libya: A Modern History, Johns Hopkins University Press, Baltimore, 1982, p. 42. 26 Burundi Civil War Claims 260,000 Lives – UNFPA, notiziario quotidiano della Panafrican News Agency (PANA), 25 aprile 2004. 27 Iraqi Official: War Dead 100,000, BBC, 10 novembre 2006, http://news.bbc.co.uk/2/hi/middle_east/6135526.stm; New Study Says 151,000 Iraqi Dead, in BBC, 10 gennaio 2008, http://news.bbc.co.uk/2/hi/middle_east/7180055.stm; J. Steele e S. Goldenberg, What Is the Real Death Toll in Iraq?, in Guardian, 19 marzo 2008, 944
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982
Indice dei nomi 11 settembre (attacchi terroristici) Abadan Abd el-Kader Abdullahi (Khalifa) Abissinia Abu Ghraib (prigione) Abukir (battaglia) Accordi di Berlino (1884) Acheo Acri Adams, Richard E.W. Addis Abeba Adoni Adoratori Vegetariani della Divinità vedi Manicheismo Adriano (imperatore romano) Adrianopoli (battaglia) Adriatico (mare) Afar Afghanistan Africa centrale orientale orientale tedesca postcoloniale settentrionale sudoccidentale Agostino di Ippona Agra Agua Prieta (battaglia) Aguateca 983
Aguirre, Elvira de Aguirre, Lope de Ahmd, Muhammad (Mahdi) Ai (città biblica) Ai (imperatore cinese) Aidid, Mohamed Farrah Alabama Alamut Alarico Albania Aleppo Alesia Alessandria Alessandro di Grecia Alessandro Magno Alessio (figlio di Pietro I) Algeri (battaglia) Algeri Algeria Alì (nipote di Maometto) Alleanza delle Forze democratiche per la Liberazione del Congo-Zaire Alma (battaglia) Alpi Alsazia-Lorena Amazzonia Ambiorige (re degli euboroni) Amburgo (bombardamento ,1943) America centrale del Nord del Sud Amin, Hafizullah Amin, Idi Amnesty International 984
Amursana An Lushan (ribellione) An Qingxu Anabattisti Anastasio I (imperatore bizantino) Anatolia Ancien Régime Ande Andenne Andom, Aman Angkar Anglo-Belgian India-Rubber Company Angola Ankara Annam Annibale Anti-Charitable Contributions Act (1877) Antico Testamento Antietam (battaglia) Antiochia Antioco (Euno) Antonina Antonini Apollo Appalachi (monti) Appia (via) Aquileia Aquilio, Manio Aquitania Arabia Saudita Arafat, Yasser Arcadio (imperatore bizantino) Arcangelo Archimede Ardenne (offensiva) 985
Argentina Argento Arianesimo Ariovisto Armageddon Armata Nazionale Polacca Armata Nera Armata Rossa Armata Sempre Vittoriosa Armata Verde, Armeni (genocidio) Armenia Arsuf (battaglia) Artemide Artemisio Artù (re) Asburgo (dinastia) Asdrubale Asia centrale Minore orientale Aspern (battaglia) Assassini Asse Roma-Berlino (1936) Assiri Association Internationale Africaine Astianatte Astrakhan Asunción Atahualpa Ataulfo Atbara Atene Atenione 986
Atteone Attila (re degli unni) Auden, W.H. Auerstadt (battaglia) Augusto (imperatore romano) Augusto (re di Sassonia) Aurangzeb Auschwitz (campo di concentramento) Austerlitz (battaglia) Australia Austria Avarico (assedio) Ayn Jalut Ayutthaya Azerbaigian Azincourt (battaglia) Azov Azzorre (isole) Ba (regno) Babi Yar (massacro, 1941) Babilonesi Bacharach Badajoz Baghdad Bahmani (sultanato) Bai Juyi Al-Bakr, Ahmad Hassan Balaclava (battaglia) Balboa, Vasco de Balcani Balcari Balkh Baltico (mare) 987
Baltimora (battaglia) Baltimore (Irlanda) Banca Mondiale Banda, Hastings Banda dei quattro Bangladesh Banister, Judith Bante, Tafari Banu Qurayza Banyamulenge Bar Kokhba (rivolta) Barbados Bardarson, Ivar Barfleur (battaglia) Barrie, J.M. Al-Bashir, Omar Bassora (battaglia) Bassora-Baghdad (via di navigazione) Bastone Rosso Ba’th (partito) Bataan (penisola) Battaglia d’Inghilterra Battaglia dei Sette giorni, Battaglia della sacca Baviera Bayezid la Folgore Bayinnaung Bayonne BBC
Becker, Jasper Beiping Beirut Belgio Belgrado Belisario 988
Bełżec (campo di concentramento) Ben Kosiba, Simon Beneš, Edvard Bengala Bengalesi (genocidio) Bengasi Benin Bentham, Jeremy Beowulf Berar Berberi Berija, Lavrentij Berlino battaglia ponte aereo (1949) Béziers Bhutto, Zulfikar Ali Bianco (mare) Bibbia Bibracte (battaglia) Bielorussia Bihar Bijapur Bin Laden, Osama Binasco Birmania Bismarck, Otto von Bitinia Bitlis Blanco Blenheim (battaglia) Bletchley Park Blood, Archer Bocca del Tasso (passo) Boccioni, Umberto 989
Boemia Boemondo (principe di Taranto) Boeri Bolongo Bolscevichi Bombay Bonampak Bonaparte, Giuseppina Bonifacio Borah, Woodrow Borbone (dinastia) Borgogna Boris (zar di Russia) Boris Godunov Borneo Bosnia Bosnia-Erzegovina Botswana Boy scout Bram Brandeburgo Brasile Breitenfeld (battaglia) Breslavia Brest-Litovsk (trattato) Brežnev, Leonid Brigata Abraham Lincoln Brigate Internazionali Britannia Brown, John Browning, Michael Bruges Brunswick Bruxelles Buchanan, Patrick 990
Bucharin, Nikolaj Buchenwald (campo di concentramento) Budapest Buddismo Buenos Aires Bugeaud, Thomas-Robert Bukhara Bukka Raya I (imperatore di Vijayanagar) Bulgaria Bulwer-Lytton, Robert Burundi Bush, George H.W. Bush, George W. Butovo Bykivnia Cadbury, William Caesarea Cairo Cajamarca Čajkovskij, Pëtr Il’ič, Calais Calcedonia Calcidica (penisola) Calcutta California Caligola (imperatore romano) Calleja, Félix Calvino, Giovanni Cambogia Camerun Campagna contro gli elementi di destra (1957) Campagna dei cento fiori Campagna dei tre anti 991
Campagna di soppressione dei controrivoluzionari (1951) Campi Catalaunici (battaglia) Canaan Canada Canarie (isole) Cancuén Canne (battaglia) Cánovas del Castillo, Antonio Canton (Guangzhou) Cao Cao Cao Pi (imperatore cinese) Capo Verde Cappadocia Capua Carachi Caraibi Carcassonne Carlo VI (imperatore d’Austria) Carlo V (re di Francia) Carlo VI (il Pazzo, re di Francia) Carlo VII ( re di Francia) Carlo IX (re di Francia) Carlo X (re di Francia) Carlo I (re d’Inghilterra) Carlo II (re di Spagna) Carlo XII (re di Svezia) Carolina (stato) Carr, Caleb Carranza, Venustiano Cartagine Carter, Jimmy Casement, Roger Caspio (mare) Cassandra Cassinga 992
Cassio, Avidio Castro, Fidel Caterina I (imperatrice di Russia) Caterina II (la Grande, imperatrice di Russia) Caterina de’ Medici (regina di Francia) Caterina (regina d’Inghilterra) Catone, Marco Porzio Caucaso Cavalieri di Rodi, Cavalieri teutonici Ceceni Cecoslovacchia Čeka Celaya (battaglia) Cen Yuying Cesare, Giulio Cesare, Lucio Giulio Chagatai Khan Chăm Champlain, Samuel de Chancellorsville (battaglia) Chang, Jung Chang’an (Xian) Changchun Changping (battaglia) Changsha Chatham (isole) Chattanooga (battaglia) Chelmno (campo di concentramento) Chen Youliang (imperatore cinese) Cheng (imperatore cinese) Chengchang (battaglia) Chengdu Chennai Chiang Kai-shek 993
Chichén Itzá Chiesa ortodossa Chihuahua Chmel’nyc’kjj, Bogdan Choeung Ek Cholula Chongqing Chongzhen (imperatore cinese) Chosin Chruščëv, Nikita, Chu (stato) Chunchucmil Churchill, Winston S. CIA (Central Intelligence Agency) Ciad Cicerone, Marco Tullio Cile Cina imperiale nazionalista Repubblica Popolare Cinese Cipro Cirene Città del Capo Città del Messico Ciudad Juárez Cixi (imperatrice vedova cinese) Cizico Claudio (imperatore romano) Claudio II (imperatore romano) Cleone Cleopatra Clinton, Bill Cobbing Coligny, Gaspard de 994
Collina delle esecuzioni Colombia Colombo, Cristoforo Colonia Colonna Traiana Colorado Colorados Colosseo Commodo (imperatore romano) Commonwealth d’Inghilterra Comnor (battaglia) Compagnia della Baia dell’Hudson Compagnia britannica delle Indie Orientali Compagnia olandese delle Indie Orientali Comune di Parigi Concilio di Clermont (1095) Condé, Luigi di Borbone, principe di Confederazione Polacco-Lituana Conflitto arabo-israeliano Confucio Congo belga Repubblica Democratica del Congo Stato Libero del Congo Congo (fiume) Congresso degli Stati Uniti Connecticut Conquest, Robert Conquista normanna Conrad, Joseph Consiglio di Controllo Alleato Convenzione dell’Aia (1899), Convenzione di Aguascalientes (1914) Convenzione ONU per la prevenzione e punizione del crimine di genocidio (1948) 995
Cook, Sherburne Cooper, D.B. Corano Corasmia, Corea del Nord Corea del Sud, Corfinium Coriantumr Corno d’Africa Corrado III (re di Germania) Corsica Cortés, Hernán Cortina di ferro Cosacchi Costa d’Avorio Costa degli Schiavi Costantina Costantino I (il Grande, imperatore romano) Costantino III (imperatore romano) Costantino I (re di Grecia) Costantinopoli Costanzio (imperatore romano) Costituzione americana Cotta, Marco Aurelio Coutras (battaglia) Coxinga (Zheng Chenggong) Crasso, Marco Licinio Crécy (battaglia) Creek Cremlino Creoli Creusa Crimea (khanato) Crimea (penisola) Cristiano IV (re di Danimarca) 996
Cristiano VII (re di Danimarca) Croazia Croce Rossa Crociata albigese Crociata dei bambini Crociata dei pezzenti Crociate Cromwell, Oliver Cuba Cuitláhuac Curzon, George Custer, George Armstrong Cuzco Dacca Dachau (campo di concentramento) Dahmer, Jeffrey Dahomey Dahra Dai Viet Dali (Xiaguan) Daling (fiume) Damasco Damietta Da Nang Danimarca Dante Alighieri Danubio (fiume) Daoud Khan, Mohammed Dara (figlio di Shah Jahan) Dardanelli (stretto) Dares Darfur Dario I (il Grande, re di Persia) 997
Dario III (re di Persia) Darwin, Charles Dash, Mike Davis, Robert C. Dawaji (khan della Zungaria) D-Day Debra (monastero) De Gaulle, Charles Delfi Delhi Delo Demarest, Arthur Demetra Deng Xiaoping Denikin, Anton Derg Dessalines, Jean-Jacques Diamond, Jared Diaspora, Díaz del Castillo, Bernal Dichiarazione dei diritti federale Diderot, Denis Dieci Custodi Regolari Dien Bien Phu (battaglia) Dinant Dingiswayo Dinka Diocleziano (imperatore romano) Dione, Cassio Dipartimento di Stato americano, Direttorio Disraeli, Benjamin Divisione del Nord Dmitrij (principe) Dolores 998
Dong (dinastia) Dong Xian Dong Zhuo Dorgon il Barbaro Dos Passos, John Doyle, Arthur Conan Dresda (bombardamento, 1945) Drogheda Druso, Marco Livio Du Fu Du Wenxiu Dubs, Adolph Duca d’Alba (Fernando Álvarez de Toledo) Duchamp-Villon, Raymond Dungani Dunkerque Dunlop, John Boyd Dunning, Chester Dunning, Nick Durand, J.D. Durant, Will Duvalier, François (Papa Doc) Džugašvili, Jakov Ebrei Ebro (fiume) Eburoni Edessa Editto di Nantes (1598) Editto di Restituzione (1629) Edoardo III (re d’Inghilterra) Edoardo il Principe Nero Egadi (isole) Egira 999
Egitto Einsatzgruppen Eisenhower, Dwight D. Ekaterinburg, Elba (fiume) Elba (isola) Elder Dempster Shipping El Dorado Elena di Troia Elisabetta (imperatrice di Russia) Elisabetta d’Inghilterra Elisabetta di Valois (regina di Spagna) Elmina El N*ino-Oscillazione Meridionale El Salvador Elst, Koenraad Emoclisma orientale Enfield Enrico II (re di Francia) Enrico III (re di Francia) Enrico IV (re di Francia e III di Navarra) Enrico V (re d’Inghilterra) Enrico VI (re d’Inghilterra) Enrico I (duca di Guisa) Entebbe (raid, 1976) Equiano, Olaudah Ercole Erie (canale) Eritrea Erode, Erodoto Eruli Erzegovina Esercito degli Stati Uniti Esercito del Bosco Verde (o di Lulin) 1000
Esercito di Resistenza Nazionale Esercito Popolare di Liberazione (Cina) Esercito Popolare di Liberazione del Sudan Esfahan Esquivel, Francisco de Estonia Estremadura Etiopia Eugenio (principe di Savoia) Eulji Euno (Antioco) Eurasia Europa occidentale orientale Evans, Richard Eylau (battaglia) Ezio, Flavio Ezov, Nikolai Ežovščina Ezzelino da Romano Falange spagnola Fang La (rivolta) Fatimidi Federalisti Federazione Russa Federico I Barbarossa (imperatore del Sacro romano impero) Federico II (il Grande, re di Prussia) Federico Guglielmo I (re di Prussia) Fëdor I (zar di Russia) Fedor II (zar di Russia) Feng Guozhang Ferdinando IV ( re di Spagna) 1001
Ferdinando (arciduca di Stiria) Fiamminghi Fiandre Filadelfia Filippine Filippo II (re di Francia) Filippo II (re di Macedonia) Filippo II (re di Spagna) Filippo l’Ardito (duca di Borgogna) Filippo Augusto (re di Francia) Finlandia Firenze Firišta Fiume Azzurro Fiume Giallo Flaminino, Tito Flaubert, Gustave Flavio Giuseppe Florida Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione Fondo per la carestia (India Britannica) Fonte di Golia (battaglia) Forbath, Peter Force Publique Ford, Henry Fort Donelson (battaglia) Fort Mims Fort Sumter Fort William Henry Forze alleate (Alleati della seconda guerra mondiale) France, Anatole Francesco d’Assisi Francesco II (re di Francia) Francia Francia Libera 1002
Franco, Francisco Frank, Anne Franklin, Benjamin Fredericksburg (battaglia) Freetown French, Percy Friedland (battaglia) Fronte di Liberazione della Somalia Abissina Fronte di Liberazione del Mozambico (Frelimo) Fronte di Liberazione Eritreo Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) Fronte Nazionale Islamico Fronte Popolare di Liberazione Eritreo Fronte Popolare Fronte Rivoluzionario Democratico del Popolo Etiope Fronte russo (seconda guerra mondiale) Fu (principessa vedova cinese) Fu (dinastia) Fur Fynn, Henry Francis Galdan Tsereng (khan della Zungaria) Galilea Galles Gallia Gallipoli (battaglia di) Gandhi, Mohandas K. Gansu (corridoio) Garang, John García Lorca, Federico Gaugamela (battaglia) Gaza Gengis Khan (Temujin) Gengis Khan, 1003
Genova Genserico (re dei vandali) Georgia Georgia (Stati Uniti) Gerasimov, Michail Gerico Germania prima dell’unificazione (1871), impero e repubblica di Weimar (1933) periodo nazista (1945) Est (Repubblica Democratica) Ovest (Repubblica Federale) unita (dopo il 1990) Gerusalemme Gesù Cristo Gesuiti Gettysburg (battaglia) Ghana Gheddafi, Muammar Giacobini Giamaica Giannizzeri Giappone Gibbon, Edward Gibuti Gilles de Rais Ginevra Ginevra (accordi) Giorgio III (re d’Inghilterra) Giosuè Giovanna (la Pazza) di Castiglia Giovanna d’Arco, Giovanni IV (imperatore d’Etiopia) Giovanni I (re di Francia) Giovanni III Sobieski (re di Polonia) 1004
Giovanni Senza Paura (duca di Borgogna) Giovanni Primicerio Giove Gioventù Hitleriana Giura (monti) Giuseppe I (imperatore d’Austria) Giustina Giustiniano I (imperatore bizantino) Giustino I (imperatore bizantino) Gladstone, William Glazier, Dave Godunov, Boris Godunova, Irina Goffredo di Buglione Golconda Gondar Gongsun Yuan Gorbačëv, Michail Gordon, Charles Goti Governo provvisorio della Siberia autonoma Gowon, Yakubu Goya, Francisco de GPU
Gran Bretagna (vedi anche Impero britannico) 691 Granada Grande Armata Grande balzo in avanti Grande Canale (Cina) Grande carestia irlandese Grande collera Grande Depressione Grande Fiume degli Orsi Grande guerra del Nord Grande Muraglia cinese 1005
Grandi purghe (staliniane), Granico Grant, Ulysses S. Graziani, Rodolfo Graziano (imperatore romano) Grecia Grigoriev, Nikifor Groenlandia Grotta dei Rotoli Grotta delle Frecce Grotta delle Lettere Grotta degli Orrori Grousset, René Guadalajara (battaglia) Guajardo, Jesús Guan Yu Guanajuato Guanci Guangwu (imperatore cinese) Guangzhou (Canton) Guardia Nazionale (Stati Uniti) Guardie Rosse Guatemala Guernica (bombardamento, 1937) Guerra anglo-boera Guerra austro-turca Guerra Bahmani-Vijayanagara Guerra boera Guerra carolina Guerra civile americana Guerra civile cambogiana Guerra civile cinese Guerra civile dell’Angola Guerra civile dell’Uganda Guerra civile del Mozambico 1006
Guerra civile inglese Guerra civile russa Guerra civile somala Guerra civile spagnola Guerra civile sudanese Guerra d’Etiopia Guerra d’indipendenza algerina Guerra d’Indocina Guerra dei Cent’anni Guerra dei Dieci anni Guerra dei Sette anni Guerra dei tre Enrichi Guerra dei Trent’anni Guerra del Guerra del Biafra Guerra del Deccan Guerra del Golfo (1991) Guerra del Peloponneso Guerra dell’oppio Guerra della Grande Alleanza Guerra della Lega di Augusta Guerra della Triplice Alleanza Guerra delle Due Rose Guerra del Vietnam Guerra di Corea Guerra di Crimea Guerra di Re Filippo Guerra di successione austriaca Guerra di successione spagnola Guerra di Troia Guerra d’indipendenza del Messico Guerra edoardiana Guerra filippino-americana Guerra franco-olandese Guerra franco-prussiana 1007
Guerra fredda Guerra gallica Guerra germanica (227 d.C.) Guerra gotica (269 d.C.) Guerra greco-gotica (553) Guerra greco-turca Guerra in Iraq (2003) Guerra Iran-Iraq Guerra ispano-americana Guerra peninsulare Guerra russo-afghana Guerra russo-tatara Guerra russo-turca Guerra sino-giapponese Guerra sino-zungara Guerra sociale Guerra tra Ming e Han Guerre anglo-sudanesi Guerre fiorite Guerre giudaiche Guerre Goguryeo-Sui, Guerre indiane (Nordamerica) Guerre napoleoniche Guerre persiane Guerre puniche Guerre servili Guerre tra Birmania e Siam Guerrieri giaguaro Guevara, Ernesto «Che» Guglielmo II (imperatore di Germania) Gui (principe) Guinea Company Guinea Guinea (golfo) Guisa (famiglia) 1008
Gulag Guomindang (partito nazionalista cinese) Gurganj Guru Nanak Dev Guru Tegh Bahadur Gustavo Adolfo (re di Svezia) Gustavo IV Adolfo (re di Svezia) Habré, Hissène Hagia Sophia Hailé Selassié (imperatore d’Etiopia) Haiphong Haiti Al-Hakim (califfo) Hakka Halabja Halliday, John Han Liner Han (dinastia) Hannover Hanoi Hariharpara Harrison, George Hattin (battaglia) Hausa-Fulani He Jin Hearst, William Randolph Heidelberg Hemingway, Ernest Henan Henna Herat Herero Hicks, William (Hicks Pasha) 1009
Hidalgo, Miguel Hirohito (imperatore del Giappone) Hiroshima (bombardamento, 1945) Hispaniola Historia Augusta Historical Atlas of the Twentieth Century Hitler, Adolf Hiwi (Hilfswilliger) Ho Chi Minh Hochschild, Adam Hohenzollern (dinastia) Holodomor Hong Kong Hong Taiji (imperatore cinese) Hong Xiuquan Hongwu Ho Ping-to Ho Quy Ly (re del Dai Viet) Horseshoe Bend (battaglia) Howell, Edgar M. Hsenwi Hu Huanzhou, Huascar, Hubei Huerta, Victoriano Hui Huitzilopochtli Huizong (imperatore cinese) Hulagu Khan Humaitá Hume, David Humphrey, Hubert Hunan Hus, Jan 1010
Hussein, Saddam Hyderabad Ibn Abd al-Wahhab, Muhammad Ibn al-Athir Ibn Battuta Ibn Sina (Avicenna) Icaro Idaho Ilkhanato Illuminismo Imperatrice Wang Imperi centrali Impero austro-ungarico Impero azteco Impero bizantino Impero britannico (vedi anche Gran Bretagna) Impero germanico Impero ottomano Impero persiano Impero romano d’Occidente d’Oriente Inca Inchon India Indiano (oceano) Indie Occidentali Indie Orientali Indie Orientali olandesi Indocina Indonesia Indore Inghilterra 1011
Inkerman (battaglia) Innocenzo III (papa) Inquisizione Interahamwe International Rescue Committee Ionia Ippolito Iran Irkutsk Irlanda Irving, David Isabella (regina di Francia) Isandlwana (battaglia) Ishi Isola del Diavolo Isonzo (fiume) Israele Israeliti Isso Italia Iturbide, Agustín de Ivan IV (il Terribile, zar di Russia) Ivan V (zar di Russia) Ivry (battaglia) Iwo Jima Jackson, Andrew Jagoda, Genrikh Jalta (conferenza, 1945) James (fiume) Jamestown Janjawid Jebe Jefferson, Thomas 1012
Jeju Jena (battaglia) Jiang Qing Jiangxi Jin (dinastia) Jinjibao Jinnah, Muhammad Ali Jintian (battaglia) Johnson, Lyndon B. Jonacatepec Judenich, Nikolaj Jugoslavia Junker Jurchen Kabila, Joseph Kabila, Laurent Kabul Kagame, Paul Kaifen, Kalì Kaliningrad Kamenev, Lev Kampala Kampuchea Democratica Kansas Kansas-Wyoming (linea del fronte) Karmal, Brabrak Kasai Kashi Vishwanath (tempio) Katanga Katz, Stephen Kaufman, Konstantin Keegan, John 1013
Kemal, Mustafa (Atatürk) Kennedy, John F. Kennedy, Robert F. Kenya Kerenskij, Aleksandr Kesava Deo (tempio) KGB
Khalifa Khartum Khayyam, Omar Khe Sanh Khitan Khmer Rossi Khumalo Kibombo Kiernan, Ben Kiev Kilmer, Joyce Kilwa Kim Il-sung Kim Jong-il, Kim Pyong-il Kindermord (strage degli innocenti) Kinshasa Kirov, Sergej Kitchener, Herbert Kleve Knox, John Koestler, Arthur Kolčak, Aleksandr Kolyma (fiume) Komuč Konar Königsberg Köprülü (famiglia) 1014
Kordofan Kornilov, Lavr Kosovo Kowalsky, Henry Krishna Krishna (fiume) Krupp (industria di armamenti) Ku Klux Klan Kublai Khan Kulbarga Kuldja Kundizcha (battaglia) Kunduz Kunming Kunstkamera Kunyang (assedio) Kuo Tzu-hsing Kuropatij Kurosawa, Akira Kursk (battaglia) Kut Kuwait La Rochelle La Violencia Ladoga (lago) Lagos Lancashire Lango (tribù) Lao Ai Laos Laozi Las Casas, Bartolomé de L’Avana 1015
Lawrence, T.E. (Lawrence d’Arabia) Le (dinastia) Leclerc, Charles Lederman, Marty Lee, Robert E. Lega cattolica Lega di Augusta Legione Ceca Legione Straniera Le Loi (re del Dai Viet) Lemano Lenin, V.I. Leningrado (vedi anche San Pietroburgo) Leningrado (assedio) Leone I (il Grande, papa) Leopoldo I (imperatore d’Austria) Leopoldo II ( re del Belgio) Lepanto (battaglia) Lettonia Levante Levashovo Levy, Jack Lewis e Clark (spedizione) Lewis, Bernard Lhasa Liao (fiume) Libano Liberia Liberia (Commissione per la Verità e la Riconciliazione) Libia Libreville Ligny (battaglia) Lin (principe) Lin Biao Lin Zexu 1016
Lincoln, Abraham Ling (imperatore cinese) Linguadoca Li Po Lipsia (battaglia) Lisbona Li Si Little Bighorn (battaglia) Lituania Liu (dinastia) Liu Bei (imperatore cinese) Liu Kang Liu Penzi (imperatore cinese) Liu Shaoqi Liu Xian Liu Xiao Liu Xing Liu Xiu (imperatore cinese) Liu Xuan (imperatore cinese) Liu Xun Liu Yan Live Aid (concerto, 1985) Liverpool Livingstone (cascate) Livingstone, David Li Zicheng Llewelyn-Davies, George Locke, John Loewen, James Loira (fiume) Lon Nol Londra Los Alamos Loto Bianco (setta) Louisiana 1017
Louverture, Toussaint Lovanio Lowenhaupt (generale svedese) Lu (regno) Lu Buwei Lucullo, Lucio Licinio Lützen (battaglia) Luigi VIII (re di Francia) Luigi IX (re di Francia, san Luigi) Luigi XIV (re di Francia) Luigi XVI (re di Francia) Luigi-Filippo (re di Francia) Lulin (o del Bosco Verde, esercito) Lumumba, Patrice Lunda Lunga Marcia Luo Guanzhong Luoyang Lupo, Publio Rutilio Lusaka (accordo, 1999) Lusitania (affondamento, 1915) Luteranesimo Lutero, Martino Luwero Lynch, Eliza MacArthur, Douglas MacDermott, G.H. Macedonia Machares Machiavelli, Niccolò Machu Picchu Madeira (isole) Madero, Francisco 1018
Madianiti Madras Madrid Maenchen-Helfen, Otto Magdeburgo (saccheggio) Magonza Mahdi (guerra mahdista) Mahdiyah Ma Hualong Mai-Mai Maine (affondamento, 1898) Maitreya (Buddha futuro) Makhno, Nestor Malacca (stretto) Malawi Malaysia Mali Malinche Malraux, André Mamelucchi Mamertini Mampoko Man, John Manassas (battaglia) Manciù Manciuria Mandato del Cielo Mani Manica (canale) Manichei Manila Manzhouguo Manzicerta (battaglia) Mao Zedong Maometto 1019
Maori Maratona (battaglia) Marco Aurelio (imperatore romano) Marco Polo (ponte) Mare del Nord Marengo (battaglia) Margarita (isola) Margherita di Valois (regina di Francia) Margolin, Jean-Louise Maria Antonietta (regina di Francia) Maria I (regina del Portogallo) Maria Stuarda (regina di Scozia) Maria Teresa (imperatrice d’Austria) Maria Tudor Marina americana Mario, Gaio Marlborough, John Churchill, duca di Marlowe, Christopher Marna (fiume) Marocco Marocco spagnolo Marozzi, Justin Marra Marsi Marsiglia Marte Martí, José Marx, Karl Maryland Masada (assedio) Masalit Masaryk, Jan Massachusetts Massacro della foresta di Katyn Massoni 1020
Mathura Mauritania Maxim (mitragliatrice) Maya Mboye McCall, George McCarthy, Justin McEvedy, Colin Mecca Medici, Lorenzo de’ Medici Senza Frontiere Medio Evo Medio Oriente Mediterraneo (mare) Mehmet IV (sultano) Meisner, Maurice Melo Menghistu Hailè Mariàm Menscevichi Merv Mesoamerica Mesopotamia Messico Messina Metacom Metauro (fiume) Metemma Metz Mezzaluna Rossa Mfecane Mhlatuze (battaglia) Michele III (imperatore bizantino) Michelin Midway (isola) Milano 1021
Mileto Miller, Edward Min Chit Swa Minerve Ming (dinastia) Minié (pallottola) Ministero dell’India Minnesota Missione americana Mississippi (fiume) Mississippi (stato) Mitridate (re del Ponto) Mniszech, Marina Mobutu Sese Seko Mogadiscio Moghul Mohács (battaglia) Moldavia Mollwitz (battaglia) Molodi (battaglia) Molotov, Vyacheslav Monaco Monaco (accordo, 1938) Mongke Khan Mongoli Mongolia Mongolia interna Monofisiti Monrovia Mons, Willem Montagna Bianca (battaglia) Montana Monte Athos Monte de las Cruces (battaglia) Monte del Tempio 1022
Montereau Montesinos, Antonio de Montesquieu Montezuma II (imperatore degli aztechi) Montfort, Simon de Morel, Edmund Morelos Morelos y Pavon, José María Morgan, David Morgantina Mori Morris, Desmond Mosca Moscova (fiume) Moscovia Mosè Moseley, Henry Mountbatten, Louis Movimento del 4 maggio Movimento per la Liberazione del Congo Movimento Popolare di Liberazione dell’Angola Mozambico Mthethwa Mudgal Muhammad (sultano di Corasmia) Muhammad Shah (sultano di Bahmani) Mukden (Shenyang) Munro, H.H. Murad (figlio di Shah Jahan) Muret (battaglia) Murmansk Muro occidentale (muro del pianto) Museo (Tempio delle Muse) Museveni, Yoweri Mussolini, Benito 1023
Mussorgskij, Modest Mustafa, Kara Muzhou My Lai (massacro, 1968) Myanmar (vedi anche Birmania) Mystic (fiume) Mzilikazi Nagasaki (bombardamento, 1945) Nahimana, Ferdinand Nairobi Najibullah, Muhammad Nama Namibia Namugongo Nanchang Nanchino Nanchino (massacro, 1937) Nanda Bayin (re di Birmania) Nandi Nanping Guo (Regno del Sud Pacificato) Napoleone I (imperatore dei francesi) Napoleone III (imperatore dei francesi) Napoli Naresuan Narsete Narva (battaglia) Nasution, Abdul Navarra Nazionalisti spagnoli Nazioni Unite Nazismo Ndwandwe (confederazione) Nehru, Jawaharlal 1024
Nelson, Horatio Nepal Nero (mare) Nerone (imperatore romano) Nerva, Publio Licinio Nestoriani Nettuno Neunkirchen Nevada New Jersey New Orleans (battaglia) New York (città) New York (stato) Ngo Dinh Diem Ngo Dinh Nhu Ngo Dinh Nhu, Madame Ngo Dinh Thuc Nguema, Francisco Macias Nguni Nguyen Van Thieu Nian Nian (rivolta) Niassa Nicaragua Niccolò V (papa) Nicea Nicola I (zar di Russia) Nicola V (zar di Russia) Niger (fiume) Nigeria Nightingale, Florence Nika (rivolta) Nilo (fiume) Nilo Azzurro Nilo Bianco (fiume) 1025
Nimeiri, Jaafar Ningbo Ningxia Nishapur Nixon, Richard M. Nizam di Hyderabad Nižnij Novgorod NKVD
No Gun Ri Nordafrica vedi Africa settentrionale Nördlingen (battaglia) Norimberga (processo per i crimini di guerra) Norreni Northwest Territory Norvegia Nostradamus Nova politica economica (NEP) Novgorod Nuba Nuova Calabar Nuova Gente Nuova Guinea Nuova Spagna Nuova Zelanda Nuovo Messico Nuovo Mondo vedi Americhe Nuovo Testamento Nurhachi (imperatore cinese) Nyange Nyarubuye Obote, Milton Obregón, Álvaro Oder (fiume) 1026
Odessa Odoacre (re d’Italia) Ogaden (deserto) Ojukwu, Chukwuemeka Odumegwu Okello, Bazilio Olara Okinawa (isola) Olimpia Olimpiadi Olocausto americano (Stannard) Olocausto, Oman Omdurman Omsk Onoria Onorio (imperatore romano) Onya Operazione «Al-Anfal» Operazione «Bagration» Operazione «Cittadella» Operazione «Kheiber» Oracolo di Delfi Orda d’Oro Oregon Organizzazione Armata Segreta (OAS) Organizzazione Mondiale della Sanità 752 Orienzio (vescovo di Auch) Orléans Oromo (Fronte di Liberazione) Orozco, Pascual Orwell, George Ospedale amalfitano Ospitalieri Ostrogoti Osttruppen Otis, Elisha 1027
Otrepev, Grigorij Ottaviano vedi Augusto Otto immortali Ovando, Nicolás de Oyo Pace di Augusta (1555) Pachino (capo) Pacifico (oceano) Pacifico (seconda guerra mondiale) Padova Paesi Bassi Pakistan Occidentale Orientale Palatinato Palenque Palermo Palestina Palizzata dei Salici Pampa Panama Panama (canale) Pannonia Panshir (valle) Panthay (rivolta) Paolo di Tarso Paolo I (zar di Russia) Paraguay (fiume) Paraguay Paraná (fiume) Parigi (trattato, 1763) Parigi Parigi (trattato, 1229) 1028
Park Chung Hee Parlamento britannico Partenone Partito Comunista Indonesiano (PKI), Partito del Popolo Pakistano Partito Democratico (USA) Partito laburista sudcoreano Partito Liberale Partito nazionalista cinese (Guomindang) Partito Repubblicano (Stati Uniti) Partito Rivoluzionario del Popolo Etiope Partito Rivoluzionario Istituzionale messicano Partito Socialista Rivoluzionario Partizione dell’India Pashtun Pasqua (isola) Passchendaele (battaglia) Patay (battaglia) Pathet Lao Pearl Harbor (attacco, 1941) Pechino Pedrarias (governatore spagnolo) Peenemünde Pegu Pélissier, Aimable Penglai (monte) Pennsylvania Pera, Bruto Perchtoldsdorf Periodo degli Stati Combattenti (Cina) Periodo dei Torbidi (Russia) Periodo delle Primavere e degli Autunni (Cina) Persepoli Persia Persico (golfo) 1029
Perù Peste di Londra (1665) Peste nera Petersburg (battaglia) Petexbatún Pëtr (zar) Philippeville (massacro, 1955) Phitsanulok Phnom Penh Phra Maha Thammaraja (re di Thailandia) Pianura del Gange Picasso, Pablo Piccola Tartaruga Pickett (carica) Piedi neri Piemonte Pietro apostolo Pietro I (il Grande, imperatore di Russia) Pietro III (imperatore di Russia) Pietro II (re d’Aragona) Pietro l’Eremita Pietrogrado Pietrogrado (soviet) Pilato, Ponzio Ping (imperatore cinese) Pinochet, Augusto Pirenei Pizarro, Francisco Placidia, Galla Plassey (battaglia) Platea (battaglia) Pleven (battaglia) Plutarco Plymouth Poitiers (battaglia) 1030
Pol Pot Polo, Marco Polonia Poltava Pomerania Pomoná Pompei Pompeo Ponce de León, Juan Pontici Ponto Populisti/populismo Porfirio Díaz, José de la Cruz Port Harcourt Portogallo Postoloprty Potenze dell’Asse Potomac (fiume) Potosí (miniera) Potsdam (conferenza, 1945) Powhatan Poyang (lago) Praga Prammatica Sanzione Prescott, William Pretoria Priamo Prima coalizione Prima crociata Prima guerra civile sudanese Prima guerra del Congo Prima guerra dell’oppio Prima guerra mitridatica Prima guerra mondiale Prima guerra persiana 1031
Prima guerra punica Prima guerra servile Prima rivolta giudaica Primo Imperatore Princip, Gavrilo Probo (imperatore romano) Procopio Prussia Prussia Orientale Prut (fiume) Puebla (battaglia) Pul-i-Charki (carcere) Pune Punjab Punti-Hakka (guerre dei clan) Puntland Purghe indonesiane Pusan Pusan (perimetro) Puškin, Alexander Puyi (imperatore cinese) Pyongyang Qazwin Qi (regno) Qianlong (imperatore cinese) Qin Shi Huang Di Qin (regno) Qing (dinastia) Quarta crociata Quatre-Bras (battaglia) Quattordicesimo emendamento Québec (battaglia) Queztalcoatl 1032
Quindicesimo emendamento Quinta crociata Quinta Repubblica francese Rabe, John Radcliffe, Cyril Raggruppamento Congolese per la Democrazia (RCD) Rahman, Sheikh Mujibur Raichur Doab Raimondo (conte di Tolosa) Raimondo VI (conte di Tolosa) Rajput Ramree (isola) Ranger texani Rangoon Rapanui Rapporto Walker Ravenna Ravensberg Reagan, Ronald Reconquista Regime del Terrore Regione dei Grandi Laghi (Africa) Regione occidentale (Nigeria) Regione orientale (Nigeria) Regno del Sud Pacificato (Nanping Guo) Reid, James J. Reims Remarque, Erich Maria Renania Reno (fiume) Reno (valle) Repubbica di Corea (ROK) vedi Corea del Sud Repubblica d’Olanda 1033
Repubblica del Vietnam (RVN) Repubblica Democratica Popolare di Corea vedi Corea del Nord Repubblica romana Resistenza Nazionale Mozambicana (Renamo) Reykjavik Rhee, Syngman Rhodesia Ribbentrop, Joachim von Riccardo I (il Cuor di Leone, re d’Inghilterra) Riccardo III (re d’Inghilterra) Richelieu (cardinale) Richmond (battaglia) Riego, Rafael de Riforma Riga Rinaldo di Châtillon Rinascimento Rio de la Plata Rio Salado (battaglia) Risoluzione del Golfo di Tonchino (1964) Rivolta degli schiavi di Haiti Rivolta dei Paesi Bassi Rivolta dei Turbanti Gialli, Rivolta delle Cinque Staia di Riso Rivolta di Pasqua (1916) Rivoluzione americana Rivoluzione bolscevica Rivoluzione cubana Rivoluzione culturale Rivoluzione d’Ottobre (1917) Rivoluzione di Febbraio (1917) Rivoluzione francese Rivoluzione industriale Rivoluzione iraniana Rivoluzione messicana 1034
Rivoluzione russa (vedi anche Rivoluzione d’Ottobre) Roanoke (colonia) Robespierre, Maximilien Rocroi (battaglia) Rodolfo (lago) Röhm, Ernst Roma Romanov (dinastia) Romanov, Anastasija Romanov, Fëdor (Filarete) Romanov, Michail Romanzo dei tre regni Romolo Augustolo (imperatore romano) Roosevelt, Theodore Rotterdam (bombardamento, 1940), Rousseau, Jean-Jacques Royal Navy Ruanda Rubincam, Catherine Rumbula (foresta) Rummel, Rudolph J. Rupilio, Publio Rurik (dinastia) Russia (vedi anche Unione Sovietica) governo provvisorio imperiale Ruzi (imperatore cinese) Rykov, Aleksej Rzevskij (Squadre d’Assalto o Camicie Brune) Sacca di Stalingrado Sacco di Roma (409 d.C.) Sacro romano impero SA
1035
Sagasta, Práxedes Mateo Sagunto Sahara Sahawdithit Sahel Sahu (battaglia) Saigon Saint-Arnaud, Armand-Jacques Saint-Domingue Sakarya (battaglia) Saladino Salamina (battaglia) Sale, George Salisbury, lord Salsu (fiume) Saluen (fiume) Salvio Samara Samarcanda Sambhaji (re) San Marco (piazza) San Pietroburgo (vedi anche Leningrado) Sánchez, Guadalupe Sand Creek (fiume) Sandinisti Sandler, Stanley Sant’Elena (isola) Santa Alleanza Santa Isabel (massacro) Santo Sepolcro Saraceni Saraj Sardegna Sardi Sassonia 1036
Saurashtra Savimbi, Jonas Sayfi Schleswig-Holstein Sciiti Scipione l’Africano Sciti Scozia Sebastopoli (assedio) Seconda coalizione Seconda crociata Seconda battaglia dell’Artois Seconda guerra civile sudanese Seconda guerra del Congo Seconda guerra di religione francese Seconda guerra d’indipendenza (Cuba) Seconda guerra mitridatica Seconda guerra persiana Seconda guerra punica Seconda guerra servile Seconda Repubblica francese Sedan (battaglia) Seelow Segal, Ronald Sékou Touré, Ahmed Seleucia Sen, Amartya Senato americano (vedi anche Congresso degli Stati Uniti) Senato romano Sengoku Jidai Senofonte Sentiero di Ho Chi Minh Senzangakhona (capo degli zulu) Sequani Serapeo 1037
Serbi Serbia Serse (re di Persia) Sesta armata tedesca Sesta crociata Settantesima armata cinese Settima armata cinese Settima crociata Settimo Reggimento di Cavalleria americano Seul Severa, Marina Shah Jahan Shaka Zulu Shakespeare, William Shan Shang (dinastia) Shang, Yang Shanghai Shanhaiguan Shanxi Shao (imperatore cinese) Sharaf ad-Din Ali Yazdi Shatt al-Arab (fiume) Shenyang (Mukden), Sherman, William T. Shermer, Michael Shevardnadze, Eduard Shi Dakai Shi Siming Shimabara (rivolta) Shiraz Shiva Shivaji Shiz Shogun 1038
Shoshangane Shu (regno) Shultz, George Shun (dinastia) Siad Barre, Mohamed Siam Siberia Sichuan Sicilia Sierra Leone Sihanouk, Norodom Silla, Lucio Cornelio Sima Yi (imperatore cinese) Singapore Singh, Jai Sinope Sioux santee Siracusa Siria Sivas Siviglia Skraelings Slavi Slesia Sluis Smart, Nick Smirne Smith, Adam Smithsonian Institution Smolensk Sobibór (campo di concentramento) Società degli Adoratori di Dio Società delle Nazioni Sof’ja (sorellastra di Pietro I), Sofala 1039
Sogdian (stirpe) Solano López, Francisco Soluzione finale Solženicyn, Aleksandr Somalia Somaliland Somerset, James Somme (battaglia) Sommergibili Somnath (tempio) Song Ve (fiume) Song (dinastia) Song (regno) Soong (famiglia) Sopracciglia Rosse Sorokin, Pitrìm Southern Baptist Convention Sovu Spagna repubblicana Spagnola (influenza) Sparatoria della Kent State (1970) Sparta Spartaco Spender, Stephen Spira St. Clair, Arthur Stalin, Iosif Stalin, Nadežda Stalingrado (battaglia) Stalingrado (linea) Stanger Stanley, Henry Stannard, David State Research Bureau (polizia segreta ugandese) 1040
Stati Confederati Stati Uniti Stilicone Strada di Birmania Strada spagnola Strage degli innocenti Strage di San Bartolomeo (1572) Subotai Sudafrica Sudan Sudaniche (tribù) Sudest asiatico Sudeti Suebi Suez (canale) Suharto Sui (dinastia) Šujskij, Andreij Šujskij, Vasilij Sukarno Suleyman vedi Du Wenxiu Sun Quan (imperatore cinese) Sun Shangxiang Sun Yat-sen Suphankalaya Suwon Suzong (imperatore cinese) Svezia Svizzera Swazi Tabriz Tacito Taejon 1041
Taiping Tianguo (Regno celeste della grande pace) Taiping (rivolta) Taiwan Taj Mahal Talas (fiume) Talebani Tamerlano (Timur) Tamines Tampico Tang (dinastia) Tanganica (lago) Tangut Tanzania Taoismo Tapia, Andrés de Taraki, Nur Mohammad Tarda Antichità Tarim (bacino) Tashkent Tasmania Taylor, Frederick Tebe Tehran Templari Temple, Richard Temujin vedi Gengis Khan Tennyson, Alfred Tenochtitlán Teodora (imperatrice, moglie di Giustiniano I) 107 Teodora (imperatrice, moglie di Teofilo) Teodosio I (imperatore bizantino) Teodosio II (imperatore bizantino) Teofilo (imperatore bizantino) Termopili (battaglia) Terra Santa 1042
Terranova Territorio Libero Terza crociata Terza guerra del Congo Terza guerra d’Indocina Terza guerra mitridatica Terza guerra servile Terzo mondo Terzo Reich Terzo stato Tessalonica Teste Rotonde Testimoni di Geova Têt (offensiva) Thailandia Thököly, Imre Tiananmen (piazza) Tianjin Tiberio (imperatore romano) Tibet Tiger Force Tigrane (re d’Armenia) Tigranocerta Tigrè Tigri (fiume) Tikka Khan Tikrit Tilly, Johannes Timor Est Timur vedi Tamerlano Tippu Tip Tiro Tirolo Titanic (affondamento, 1912), Tito (imperatore romano) 1043
Tlacaelel Tlaloc Tlaxcala Tlemcen Toghon Temur Tojo, Hideki Toktamish Tokyo Tolone Tolstoj, Lev Tonchino (golfo) Tong Guan Tongzhou Toniná Tories (tóraidhe) Totila (re dei goti) Toungoo (dinastia) Tours Tracia Trafalgar (battaglia) Traiano (imperatore romano) Tran (dinastia) Transiberiana (ferrovia) Transoxia Transvaal Trasimeno (lago) Tratta degli schiavi sull’Atlantico Trattato di Addis Abeba (1972) Tre Regni della Cina Trebbia (fiume) Trebisonda Treblinka (campo di concentramento) Tribunale Militare Internazionale per l’Estremo Oriente Trifone Trinità 1044
Trinità di San Sergio (monastero) Triplice Alleanza Triplice Intesa Tripoli Trocha (trincea) Trockij, Lev Troia Truman, Harry Tsavo (fiume) Tso Tsung-t’ang Tsunami nell’oceano Indiano (2004), Tumbes Tungabhadra (fiume) Tunisi Tunisia Tuol Sleng Al-Turabi, Hassan Turbanti Rossi Turchi Turchi selgiuchidi Turchia Turkestan Turkmeni Turner, B.L. Tušino Tutsi Twain, Mark Ucraina Uganda Uglič Ugonotti Ulm (battaglia) Ulster 1045
Ungheria Unione Francese Unione Nazionale per l’Indipendenza Totale dell’Angola (UNITA) Unione Sovietica (vedi anche Russia) Unità 731 (laboratorio segreto di biologia di guerra) Università di Pechino Urali (monti) Urbano II (papa) Urlanis, Boris Uruguay Ussari alati polacchi Ustascia Ústí nad Labem Utrar Utrecht Uwilingiyimana, Agathe Uxmal Uzbekistan Valacchia Valdesi, Valente (imperatore romano) Valentiniano I (imperatore romano) Valentiniano II (imperatore romano) Valentiniano III (imperatore romano) Valeriano (imperatore romano) Valois (dinastia) Vandea Varanasi Varsavia 341 ghetto insurrezione (1944) rivolta del ghetto (1943) 1046
Vecchia Guardia Velázquez (governatore di Cuba) Venezia Venezuela Venizelos, Eleftherios Veracruz Vercingetorige Verdun (battaglia) Vergine di Guadalupe Vergini (isole) Vermont Versailles Versailles (conferenza di pace) Vespasiano (imperatore romano) Vestali Vesuvio Via del maestro celeste Via della seta Vickery, Michael Vicksburg (battaglia) Vienna assedio congresso (1815) Viet Cong Viet Minh Vietnam del Nord del Sud, Vijayanagar Villa, Pancho Vinnicja Virginia Visigoti Vistola (fiume) Vitaliano 1047
Vitige (re dei goti) Vittoria (lago) Vittoria (regina d’Inghilterra) Vlad III (l’Impalatore, principe di Valacchia) Vladivostock Volga (fiume) Voltaire Võ Nguyên Giáp Vonnegut, Kurt Vorkuta (campo di lavoro) Vosgi (monti) Wagram (battaglia) Wallenstein, Albrecht von Wang (dinastia ) Wang Feng Wang Gen Wang Mang Wang Shang Wang Wan Wang Yin Wang Yu Wannsee (conferenza, 1942) Ward, Frederick Washington, DC, Washington, Booker T. Wassy Watergate (scandalo) Waterloo (battaglia di) Weatherford, Jack Wehrmacht Wei (regno) 78 , 82 , Wei Changhui Wellington, Arthur Wellesley, duca di 1048
Wendi (imperatore cinese) Westfalia (pace, 1648) Weyler, Valeriano Wikipedia Wilde, Oscar Wilson, Colin Wilson, Woodrow Winchester (industria di armamenti) Winthrop, John Wolseley, Garnet, Woo, John Worms Wounded Knee (massacro, 1890) Wright, Lori Wright, Orville Wright, Wilbur Wu Wu, Harry, Wu Sangui Wuchang Wuhan Wurttenberg Wurzburg Wyclife, John Wyoming (valle) Xi Xiaguan (Dali) Xian (Chang’an) Xian (imperatore cinese) Xiao Xilonen Xin (dinastia) Xiongnu 1049
Xipe Totec Xu Fu Xuan (imperatore cinese) Xuanzong (imperatore cinese) Xuihtecuhutli Yahi Yahya Khan, Agha Mohammad Yalu (fiume) Yang Guifei Yang Guozhong Yang Kaihui Yang Xiuqing Yang Yuke Yangdi (imperatore cinese) Yangzhou Yaxà Yelang Yemen Yongan Yongding (fiume) Yoruba Ypres (battaglia) Yuan (dinastia) Yuan (imperatore cinese) Yuan Chonghuan Yuan Shikai Yucatán (penisola) Yue (regno) Yunnan406, Yusuf Pascià Zaghawa 1050
Zaire Zambia Zangi Zanzibar 118 , Zapata, Emiliano Zara Zaranj Zeloti Zhang Shougui (governatore della dinastia Tang) Zhang (fratelli) Zhang Xianzhong Zhao (regno) Zhaoji (regina vedova cinese) Zhejiang Zheng Chenggong (Coxinga) Zheng Ying (principe) vedi Qin Shi Huang Di Zhou (dinastia) Zhou Enlai Zhu Mian Zhu Yuanzhang (imperatore cinese) Zhuge Liang Zimbabwe Zingari Zinov’ev, Grigorij Zitacuaro Zona demilitarizzata Zucchero (piantagioni) Zulu Zungari Zuo Zongtang Zurigo Zwangendaba Zwide Zyklon B
1051
Indice Premessa, di Steven Pinker V Introduzione Seconda guerra persiana Alessandro Magno Periodo degli Stati Combattenti Prima guerra punica Qin Shi Huangdi Seconda guerra punica Giochi di gladiatori Guerre servili Guerra sociale Terza guerra mitridatica Gli elvezi L’incompetenza matematica degli antichi Dinastia Xin Guerre giudaiche Tre Regni della Cina Caduta dell’impero romano d’Occidente Giustiniano Guerre Goguryeo-Sui Tratta degli schiavi in Medio Oriente Ribellione di An Lushan Crollo dei maya Crociate Uccidere per la religione Rivolta di Fang La Gengis Khan Crociata albigese Invasione di Hulagu Khan Guerra dei Cent’anni 1052
Caduta della dinastia Yuan Guerra Bahmani-Vijayanagara Tamerlano Conquista cinese del Vietnam Sacrifici umani degli aztechi Tratta degli schiavi sull’Atlantico Conquista delle Americhe Genocidio Guerre tra Birmania e Siam Guerre di religione francesi Guerra russo-tatara Periodo dei Torbidi Guerra dei Trent’anni Crollo della dinastia Ming Invasione dell’Irlanda da parte di Cromwell Aurangzeb Guerra austro-turca Pietro il Grande Grande guerra del Nord Guerra di successione spagnola Guerra di successione austriaca Guerra sino-zungara Guerra dei Sette anni Guerre napoleoniche I conquistatori del mondo Rivolta degli schiavi di Haiti Guerra d’indipendenza del Messico Shaka Conquista francese dell’Algeria Rivolta dei Taiping Guerra di Crimea Rivolta dei Panthay Guerra civile americana Rivolta degli hui Guerra della Triplice Alleanza 1053
Guerra franco-prussiana Carestie dell’India Britannica Guerra russo-turca Guerra mahdista Stato Libero del Congo Rivoluzione cubana L’arte occidentale della guerra Rivoluzione messicana Prima guerra mondiale Guerra civile russa Guerra greco-turca Guerra civile cinese Iosif Stalin Tiranni impazziti Guerra d’Etiopia Guerra civile spagnola Seconda guerra mondiale Espulsione dei tedeschi dall’Europa orientale Guerra d’Indocina Partizione dell’India Mao Zedong Guerra di Corea Corea del Nord Il capitolo nero del comunismo Guerra d’indipendenza algerina Guerra del Sudan Guerra del Vietnam La guerra fredda Purghe indonesiane Guerra del Biafra Genocidio bengalese Idi Amin Menghistu Hailè Mariàm Vietnam postbellico Kampuchea Democratica 1054
Guerra civile del Mozambico Guerra civile dell’Angola Guerra dei boschi dell’Uganda L’Africa postcoloniale Invasione sovietica dell’Afghanistan Saddam Hussein Guerra Iran-Iraq Sanzioni contro l’Iraq Caos in Somalia Genocidio del Ruanda Seconda guerra del Congo Classifica. I cento massacri più sanguinosi Che cosa ho scoperto: un’analisi Che cosa ho scoperto: le nude cifre APPENDICE I. Sui primi cento APPENDICE II. L’Emoclisma Ringraziamenti Note Bibliografia Indice dei nomi
1055
www.illibraio.it Il sito di chi ama leggere Ti è piaciuto questo libro? Vuoi scoprire nuovi autori? Vieni a trovarci su IlLibraio.it, dove potrai: scoprire le novità editoriali e sfogliare le prime pagine in anteprima seguire i generi letterari che preferisci accedere a contenuti gratuiti: racconti, articoli, interviste e approfondimenti leggere la trama dei libri, conoscere i dietro le quinte dei casi editoriali, guardare i booktrailer iscriverti alla nostra newsletter settimanale unirti a migliaia di appassionati lettori sui nostri account facebook, twitter, google+ « La vita di un libro non finisce con l’ultima pagina »
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«Il male che gli uomini fanno sopravvive loro; il bene è spesso sepolto con le loro ossa», William Shakespeare, Giulio Cesare, atto III, scena 2. **
Per esempio, comuni opere di consultazione come The World Almanac e Wikipedia elencano meticolosamente il numero di soldati, marinai e marines uccisi in ogni guerra americana, ignorando i morti civili tra marinai dei mercantili, passeggeri, profughi, schiavi fuggitivi e, ovviamente, indiani e coloni lungo la frontiera.
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Nessuno sa quanti fossero. Erodoto sostiene che le truppe erano costituite da 2.640.000 soldati e marinai, di cui 1.700.000 fanti, ma nessuno ci crede.
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Cosa rendeva così vittorioso l’esercito romano? Per prima cosa, i romani erano organizzatori meticolosi che uniformavano ogni aspetto della guerra – l’accampamento, i viveri, le marce, la paga, i premi, la disciplina –, pertanto né errori né ritardi impedivano di affrontare il nemico. In secondo luogo, essi spezzarono la falange compatta utilizzata all’epoca dalla maggior parte degli eserciti in unità più piccole di diverse centinaia di uomini (prima in manipoli, poi, dopo una grossa riorganizzazione avvenuta nel 107 a.C., in coorti) che potevano manovrare e adattarsi con maggiore flessibilità alle circostanze del campo di battaglia. Tali unità erano a loro volta riunite in legioni di circa 5000 uomini ciascuna. In genere i soldati romani davano battaglia avanzando con calma, lanciando contro il nemico ammassato una gragnola di pesanti giavellotti (pila, singolare pilum), quindi si facevano sotto con le spade. Il pilum era talmente pesante che, anche se un soldato nemico lo bloccava con lo scudo, si conficcava comunque e con il suo peso abbassava lo scudo stesso. **
Se non è proprio il peggiore, si contende il primo posto con il naufragio della flotta di Kublai Khan, avvenuto nel 1281 a causa di una tempesta al largo della costa giapponese, nel quale, a quanto si dice, persero la vita 100.000 uomini.
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Non si sa con certezza quali fossero i segni con il pollice. In genere vengono etichettati come «pollice all’insù» e «pollice all’ingiù», ma per quanto ne sappiamo è possibile che fossero invece «pollice girato» e «pollice nascosto». La prova diretta è vaga (D. Morris et al., I gesti: origini e diffusione, Mondadori, Milano, 1983, pp. 232-239). **
Stranamente il rito sopravvisse per secoli in Vaticano: il papa morto, infatti, tradizionalmente veniva percosso sulla fronte con un martello d’argento per assicurarsi che fosse morto davvero.
1060
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Massima carica elettiva della repubblica romana, il console svolgeva le funzioni di capo dell’esecutivo e comandante supremo. I consoli furono sempre due e venivano sostituiti ogni anno in modo che non potessero accumulare troppo potere. Anche gli altri magistrati romani (tribuni, questori, edili e pretori, per esempio, in ordine di potere ascendente) erano eletti per un anno con funzioni minori. Chiunque ricoprisse un mandato come magistrato si guadagnava immediatamente un seggio a vita nel Senato, al quale era affidata l’autorità suprema di governo. Questo significava che ogni membro del Senato aveva avuto almeno un anno di esperienza pratica nella supervisione di quelle attività quotidiane, tutt’altro che affascinanti, che facevano funzionare bene la città e l’impero, come la costruzione e la manutenzione di strade e fognature, l’esazione delle tasse, i processi penali e il comando delle guarnigioni di frontiera. Il sistema manteneva il potere suddiviso in più mani. Sfornava a getto continuo un gran numero di amministratori esperti cui si poteva prontamente affidare qualunque incarico, militare, civile o giudiziario; in caso di fallimento, i sostituti a disposizione erano in abbondanza. Purtroppo implicava anche che non c’era un unico capo di stato a impedire ai singoli politici di ammazzarsi a vicenda per fare carriera (la politica romana era letteralmente brutale). Nel corso del tempo il potere a Roma prese a coalizzarsi attorno a fazioni e singole personalità anziché attorno a cariche costituzionali.
1061
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Tra le truppe romane che si trovavano nel teatro bellico a sud, come rivale di Mario emerse Lucio Cornelio Silla. Più tardi i due avrebbero combattuto la loro guerra civile per il potere a Roma, ed entrambi si sarebbero ritrovati dittatori per un breve periodo.
1062
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Ufficialmente il Senato romano aveva assegnato a Cesare soltanto quattro legioni. In seguito Cesare se ne finanziò altre due con il bottino realizzato in Gallia.
1063
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Una spiegazione forse troppo dettagliata dei nomi degli imperatori cinesi: innanzi tutto, in Estremo Oriente il cognome va per primo. Il padre di Wang Mang si chiamava Wang Wan, il fratello di Mao Zedong si chiamava Mao Zetan. Solitamente gli imperatori mantenevano il nome personale, come Liu Xiu, che significava Xiu della famiglia Liu, finché non salivano al trono; da quel momento in poi, erano conosciuti semplicemente come «l’imperatore» o un titolo simile. Dopo la morte, sono stati gli storici ad attribuire loro un nome convenzionale con cui sono passati alla storia, come l’imperatore Guangwu. Tale nome convenzionale spesso possiede un qualcosa di descrittivo in cinese, in questo caso «completamente marziale». In ogni libro di storia che ho visto, questi nomi convenzionali sono citati senza traduzione –Yuan, Cheng, Ai, Ping –, ma potrebbe essere più facile tenerli a mente pensando alla loro traduzione: «primo», «colui che aveva successo», «lacrimevole», «pacifico». Se vi può aiutare, pensate alla storia europea, fatta di personaggi chiamati Re Sole e Regina Vergine al posto di Luigi ed Elisabetta. **
Non vanghe o coltelli in senso letterale. Prima dell’invenzione delle moderne monete a forma di disco, i cinesi antichi coniavano le monete a forma di testa di vanga e lama di coltello.
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L’altro lato di questo stesso muro è il terzo luogo più sacro dell’Islam, perciò probabilmente si combatterà a causa sua per il resto dell’esistenza del genere umano.
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I cinesi amano le liste numeriche precise: è una tendenza che vedremo ricorrere diverse volte in questo libro.
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Non ho mai affermato che l’immaginario popolare sia molto preciso. **
Nessun racconto della caduta di Roma è completo senza rilevare il paradosso che l’ultimo imperatore recava il nome del fondatore di Roma seguito da quello del primo imperatore. ***
Perché ebbe luogo questo cambiamento? Rispondere non è facile. Sarebbe bello sapere che una nuova invenzione all’improvviso rese la cavalleria superiore alla fanteria, per esempio la staffa, che fornì ai cavalieri una piattaforma più solida per combattere, consentendo di scagliare frecce con maggiore stabilità e di puntellarsi negli attacchi con la lancia. La cavalleria antica non aveva le staffe, ma i cavalieri medievali sì; senza di esse non si poteva nemmeno giostrare. Ciò significa che la staffa comparve a un certo punto dell’alto Medio Evo. Se si potesse dimostrare che furono gli unni a portarla in Europa, si spiegherebbero facilmente la loro superiorità militare e la caduta di Roma con una lezione semplice (le staffe!), e il corso finirebbe prima. Questa linea di pensiero ha indotto alcuni storici a cercare di identificare le staffe in ogni frammento di metallo rinvenuto nelle tombe unne; purtroppo, testimonianze sufficienti in tal senso non compaiono in Europa se non qualche secolo dopo, troppo in ritardo rispetto agli unni. Vedi O. Maenchen-Helfen, World of the Huns: Studies in Their History and Culture, University of California Press, Berkeley, 1973, pp. 206-207; E. Hildinger, op. cit., p. 19.
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Wendi è composto dai due caratteri wen, che significa «civile», e di, «imperatore», ma è più facile ricordarne il nome se lo si pronuncia come quello della ragazzina di Peter Pan o della catena di fast-food. **
Il convenzionale nome postumo significa «imperatore pigro». È evidente che a un certo punto deve aver infastidito lo storico cinese sbagliato.
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La differenza principale stava nel fatto che in genere stuprare il proprio mulo era ritenuto illegale. **
Tratterò i dettagli riguardanti il movimento abolizionista nel capitolo dedicato alla tratta degli schiavi sull’Atlantico.
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Per ironia della sorte, poiché i khitan dominarono per breve tempo parte della Cina proprio quando l’Occidente si interessò per la prima volta a quei territori, in origine la Cina venne chiamata Catai proprio dal nome di queste genti non cinesi.
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Probabilmente no.
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uesto episodio di cannibalismo sembra l’unica cosa che sanno i musulmani delle crociate, e l’unica cosa che quasi nessun cristiano sa. Se si capisce la discrepanza, si comincia a intendere com’è difficile scrivere una storia imparziale. La gente si racconta sempre le storie che le piacciono e dimentica il resto. A tal proposito, questa vicenda non è frutto di pura propaganda: la descrivono almeno tre fonti contemporanee, la più plausibile delle quali è la relazione di un comandante al papa. Sembra che il cannibalismo sia stato in larga misura opera di una massa armata di pellegrini fanatici noti come tafur, i quali commettevano spesso atti del genere per esibire la propria durezza.
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A confondere la questione è l’ambiguità della religione dello stesso Hitler. In pubblico era cattolico: parlava di Cristo con benevolenza e non fu mai scomunicato. Molti dei suoi seguaci si consideravano con orgoglio dei cristiani che combattevano il comunismo ateo. Quali che fossero i progetti a lungo termine di Hitler nei riguardi del cristianesimo, lo trattò certamente con maggior garbo e rispetto in confronto a comunismo, ebraismo e omosessualità. È difficile specificare la religione personale di Hitler. In formale rottura con il cristianesimo, i nazisti intransigenti preferivano definirsi gottglaubiger («credenti in Dio»), mentre la categoria che meglio si addice a Hitler è quella ampia del deismo, ossia la fede in una superiore forza impersonale, fondata sulla ragione e la natura, senza rivelazione o miracoli. Questo lo pone nel medesimo sistema di credenze di Benjamin Franklin, Mark Twain, Voltaire e Thomas Jefferson, anche se ovviamente dalla parte opposta della gamma morale. **
Thug: The True Story of India’s Murderous Cult, Granta Books, London, 2005).
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Si tenga presente che neppure gli eventuali 16 milioni di discendenti potrebbero rimpiazzare il numero di persone eliminate da Gengis Khan. **
Non andate a cercare sul dizionario, non è una vera parola. Dal greco polemos che significa «guerra» e philos, «amante», indica un dilettante che frequentemente legge, guarda e discute libri, film e articoli che parlano di guerra: in breve, un maschio. ***
Per esempio, anche se il Sudafrica è un habitat relativamente ospitale per i cavalli, due terzi del mezzo milione di animali che l’esercito britannico utilizzò per combattere i boeri nel 18991902 perirono in quella guerra, soprattutto per l’eccessivo lavoro, per malattia e per la malnutrizione (J. Keegan, La grande storia della guerra, cit., p. 191). Durante la guerra civile americana, per ogni uomo caduto morirono circa tre cavalli, benché si trattasse di una guerra di fanteria in cui solo pochi cavalli venivano esposti direttamente alla battaglia (M.E. Derry, Horses in Society: A Story of Animal Breeding and Marketing, 1800-1920, University of Toronto Press, Toronto, 2006). ****
E Kublai Khan volle conquistare integra questa regione utile, cosicché fu meno distruttivo rispetto a suo nonno. *****
Suo padre era un ammiratore dei francesi, così diede al figlio questo soprannome.
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Come per molte citazioni storiche, non disponiamo della registrazione su nastro o di uno scritto di pugno dello stesso Simone, perciò la metà degli storici è pronta a giurare che non disse mai una cosa del genere.
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Nel seguito di Giovanna d’Arco c’era anche Gilles de Rais, maresciallo di Francia, il quale si coprì di gloria come uno dei più grandi guerrieri della nazione, anche se alla fine si guadagnò una fama maggiore come uno dei serial killer più sanguinari della storia dell’umanità. Dopo essersi ritirato dalla carriera militare nei suoi possedimenti, nel 1435, cominciò a rapire, sodomizzare e sventrare ragazzini. Quando nel 1440 fu catturato, confessò con tanto di dettagli vividi e convincenti ben centocinquanta omicidi. Fu rapidamente processato, condannato e impiccato, anche se a impressionare maggiormente i suoi contemporanei non furono tanto gli omicidi in sé quanto gli atti eretici e le bestemmie rituali che li accompagnavano. Tutto sommato, una nota crudele a un’epoca crudele (C. Wilson, Mammoth Book of the History of Murder, Carrol & Graf, New York, 2000, pp. 51-59).
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Tamerlano fu il solo a far combattere le donne nel proprio esercito, anche se probabilmente non erano molte (J. Marozzi, Tamerlane: Sword of Islam, Conqueror of the World, Da Capo Press, Cambridge, 2004, p. 102). **
Tuttavia non è questo il motivo per cui chiamiamo ottomana un poggiapiedi imbottito.
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Nelle Americhe gli animali grandi e saporiti si estinsero in larga misura con l’arrivo dei primi uomini. Probabilmente un legame c’è.
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In realtà l’oro proveniva dai depositi fluviali.
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Le conchiglie in Africa erano adoperate come monete. Oggi si potrebbe pensare che era sciocco vendere esseri umani in cambio di oggettini privi di valore come le conchiglie, ma, a pensarci bene, le conchiglie non sono intrinsecamente meno preziose dell’oro, per esempio. Dopo tutto, a parte la bellezza e la brillantezza, cos’ha di buono l’oro? Con esso, in effetti, le conchiglie hanno molto in comune: sono facili da identificare, è difficile falsificarle, sono abbastanza rare da essere preziose, ma abbastanza comuni da essere utilizzate come mezzo di scambio. ***
Potrebbe sembrare che il lavoro salariato fosse persino più feroce della schiavitù. Sì, certo, era così, se non per il fatto che ai lavoratori liberi era consentito sposarsi, tenere i figli, reagire, andare in tribunale, a scuola, in chiesa, evitare la Chiesa, risparmiare denaro, spenderlo, bere birra, whisky, bere troppo, leggere, spostarsi e possedere le mutande. Ma certo, a parte tutto questo... ****
Per la cronaca, i battisti del Sud non sono più a favore della schiavitù: vi hanno rinunciato nel 1995.
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La parola chiave è di solito. Questo non è l’elenco di chi merita la responsabilità maggiore. Custer è il più famigerato assassino di indiani della storia americana, ma non fu proprio il peggiore. È divenuto l’esempio della parte americana delle guerre indiane, ma il suo peccato imperdonabile non fu quello di colpire qua e là gli strani villaggi indiani, bensì quello di essere sconfitto. Andrew Jackson uccise di più, però vinse tutte le battaglie, perciò sta sul biglietto da venti dollari. **
Gli europei diffusero deliberatamente il vaiolo tra gli indios? La maggior parte delle voci in merito comparve a lunga distanza dagli eventi incriminati. L’unica vera documentazione in tal senso è uno scambio di lettere del 1761 tra le autorità britanniche, in cui si sonda la possibilità di fornire al nemico coperte infettate da malati di vaiolo. Non si sa se il progetto fu attuato; di certo sappiamo che subito dopo un’epidemia di vaiolo colpì gli indiani, ma il fatto stesso che ci fossero dei malati di vaiolo a portata di mano in ospedale dimostra che la malattia era già attiva e si propagava mediante il tradizionale contatto umano.
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Nella Convenzione per la prevenzione e punizione del crimine di genocidio del 1948, l’onu definisce il genocidio «ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro». Si tenga presente che questa definizione fu elaborata per finalità giuridiche, non accademiche, e approvata per consentire i procedimenti giudiziari, non per comprendere il fenomeno. Per quel che mi riguarda, la definizione delle Nazioni Unite è troppo ampia nella teoria (quasi ogni conflitto della storia si può descrivere con queste parole: «l’intenzione di distruggere, [...] in parte, un gruppo nazionale […] [causando] lesioni gravi [ai] membri del gruppo») e troppo ristretta nella pratica (ogni delibera per classificare ufficialmente una determinata atrocità come «genocidio» deve superare un numero quasi impossibile di ostacoli politici; tant’è che le corti internazionali hanno riconosciuto come genocidi solamente l’Olocausto e i massacri in Bosnia e Ruanda.
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Nanda Bayin è divenuto leggendario per i suoi pericolosi sbalzi d’umore. Su Internet (per esempio, Wikipedia e Snopes nel settembre 2008) si trova scritto che morì letteralmente dal ridere nel 1599, quando un mercante italiano in visita gli disse che Venezia era un regno senza re, ma secondo la Universal History di George Sale (1759, vol. VII, p. 111), l’ilarità di tale scoperta provocò solamente un attacco di tosse che «gli impedì di parlare per un po’».
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Un esito secondario dell’incidente di Enrico è che i farfugli mistici di un astrologo in visita a corte sembravano averlo previsto: ciò diede all’autore di quei versi, che andava sotto il nome di Nostradamus, una fama immediata, perché tutti si affannarono a cercare nei suoi versi altre predizioni utili, come i numeri vincenti della lotteria. **
L’aristocrazia polacca preferiva scegliersi come re degli stranieri deboli, in modo da evitare che una qualunque famiglia locale acquisisse un vantaggio politico. Era stata Caterina de’ Medici a fare pressioni per far ottenere questo comodo incarico al figlio disoccupato.
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Chi fosse il padre lo sa solo Dio.
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L’anabattismo è esattamente il tipo di cristianesimo che ci si aspetterebbe dai contadini. Predica l’uguaglianza, la pace, la semplicità, la condivisione e altre idee che attraggono chi sta in fondo alla piramide sociale. Ovviamente le autorità non possono permettere la diffusone di idee tanto pericolose. Oggi gli anabattisti sono rari; li abbiamo incontrati in un capitolo precedente con il nome di mennoniti, uno dei primi gruppi a schierarsi contro la schiavitù. Attualmente nel mondo sono soltanto un milione o poco più.
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Questo era un aspetto importante, anche se spesso trascurato, della costruzione di un impero. La storia è piena di rivolte che si sarebbero potute scongiurare semplicemente se i conquistatori avessero conosciuto in anticipo tutti quegli strani, piccoli tabù e stravaganze delle popolazioni assoggettate e, quindi, avessero evitato involontari comportamenti ritenuti offensivi, come l’esposizione della parte del corpo meno appropriata o il tentativo di nutrire le genti native con un tipo di animale sbagliato. Sarebbe una buona idea cercare di acquisire un minimo di pratica governando una piccola colonia, prima di cimentarsi nella dominazione del mondo. **
Sto tentando di rendere leggibili queste descrizioni evitando di nominare ogni luogo o personaggio della storia; non vorrei che vi sentiste sopraffatti. A volte è difficile decidere se sia meglio identificare «il primo ministro» o «la moglie del generale» chiamandoli per nome oppure no. Comunque, la cosa più importante da ricordare sul conto di Dorgon è che, a differenza dei suoi colleghi manciù, possedeva un gran bel nome per un signore della guerra barbaro. Avanti, ripetetelo ad alta voce: «Dorgon il Barbaro». ***
Zheng Chenggong è conosciuto nella letteratura occidentale come Coxinga, dal suo soprannome, Guoxingye, «colui che porta il nome imperiale».
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Questi cavalieri indossavano veramente ali gigantesche che facevano parte dell’uniforme. Era un’epoca in cui impressionare era più importante della praticità.
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Da parte delle generazioni successive e degli stranieri dell’epoca c’è la tendenza a trattare le leggi di Pietro sulla barba come una barzelletta, ma i capelli e il vestiario sono espressioni essenziali di una cultura. Quarant’anni fa, in molti luoghi i capelli lunghi di un uomo erano un’offesa pesante, inoltre ben più di recente ho sentito che «un distretto scolastico del Nevada ha accettato di pagare 400.000 dollari a una ragazza musulmana e alla sua amica, perché secondo le accuse altri studenti hanno minacciato di ucciderle per le scale perché portavano il velo religioso e il personale della scuola non ha fatto nulla per impedirlo» (Fox News, 8 aprile 2009).
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Altri esempi di un albero di famiglia che non si ramificò: i genitori di sua madre erano cugini di primo grado, come i bisnonni materni, mentre i bisnonni paterni erano zio e nipote. Ho rintracciato undici rami (e forse di più) secondo cui discendeva da Giovanna la Pazza di Castiglia, cosa che certamente non era di buon auspicio.
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Sembra ormai che la risposta più scontata sia sempre stata quella giusta: il delfino scomparso morì semplicemente in prigione. Nel 2000 si è dimostrato che il cuore essiccato di un giovane recluso, trafugato in carcere durante un’autopsia nel 1795 e circolante negli ambienti monarchici per due secoli, possiede lo stesso DNA mitocondriale di una ciocca di capelli della regina, che si conserva ancora oggi. La questione si sarebbe risolta qui, se non che i vuoti nella catena delle prove hanno lasciato spazio sufficiente al sospetto che quel cuore sia appartenuto a qualche altro membro della famiglia reale (J. Bondeson, The Great Pretenders: The True Stories behind Famous Historical Misteries, Norton, New York, 2004; N. Labi, Requiem for a Dauphin. DNA Analysis Reveals That the Young Heir to the French Throne Left to Die in Prison Was No Impostor, in Time, 1o maggio 2000.
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Se siete americani, avrete sicuramente sentito parlare di Zuo Zongtang (Tso Tsung-t’ang nella vecchia trascrizione). È lui il Generale Tso reso famoso dal cibo cinese d’asporto. Nessuno sa perché quei piccoli pezzi di pollo fritto prendono il nome da questo generale Qing. Il motivo più divertente, ancorché il meno probabile, è che derivi dall’umorismo macabro dei profughi cinesi che si stabilirono in America verso la fine del XIX secolo, i quali facevano riferimento alla tradizionale forma di esecuzione cinese, la «morte per mille tagli» (avreste assunto l’aspetto di questo pollo se aveste subito il trattamento mortale del Generale Tso). Purtroppo è più verosimile che la pietanza sia stata inventata a Manhattan negli anni Settanta e che le sia stato dato un nome a caso di un celebre eroe cinese (M. Browning, Who Was General Tso and Why Are We Eating His Chicken?, in Washington Post, 17 aprile 2002).
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A quei tempi la terra brulicava di imperatori, che governavano Russia, Brasile, Giappone, Austria, Cina e altri posti, il che significava che a una semplice regina come Vittoria, al governo della nazione più potente sulla terra, non si sarebbe concesso di sedere al tavolo delle consultazioni se si fossero riuniti tutti assieme. E la situazione divenne ancora peggiore nel 1871, quando il modesto re di Prussia fu proclamato imperatore della Germania appena unita. Dato che la regina Vittoria era rimasta indietro nella corsa al titolo, era necessario correggere tale situazione offensiva, ma era anche impensabile trasformare l’Inghilterra da regno a impero con un semplice schiocco delle dita. Per la regina Vittoria, Disraeli doveva trovare qualcosa di grande e di un certo effetto di cui diventare imperatrice. Ecco: l’India! Il nuovo titolo entrò in vigore il primo gennaio del 1877.
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«I figli del Profeta sono uomini valorosi e arditi / non avvezzi alla paura. / Ma di gran lunga il più prode tra le file dello scià / era Abdul Abulbul Amir. // Gli eroi erano tanti e celebri per fama / nelle truppe guidate dallo zar. / E il più prode tra loro era un uomo di nome / Ivan Skavinsky Skavar. // Un giorno questo russo ardito si mise in spalla il fucile / e con il ghigno più truce / se ne andò in città, dove pestò l’alluce / di Abdul Abulbul Amir». **
«Non vogliamo combattere ma perbacco se lo facciamo, / abbiamo le navi, abbiamo gli uomini, abbiamo anche il denaro, / abbiamo già battuto l’Orso e se siamo inglesi veri / i russi non avranno Costantinopoli». ***
«Un tonfo nel mar Nero in una cupa notte senza luna / increspò tanto le onde, / era il sacco stretto alla schiena / di Ivan Skavinsky Skavar. // Una fanciulla moscovita veglia solitaria / sotto la luce della fredda stella del nord / e il nome che sussurra invano mentre piange / è Ivan Skavinsky Skavar».
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Le spiegazioni potrebbero essere due. La prima è cinica: si può dire che tutte le grandi religioni appartengono alla classe dirigente, perciò ovviamente sono favorevoli a mantenere ognuno al proprio posto. La seconda è teologica: di solito le religioni pongo l’accento sul fatto che siamo tutti sottomessi a Dio indipendentemente dalla nostra condizione sulla terra. Schiavi o re, non importa; agli occhi di Dio siamo tutti parimenti umili. *
Preoccupati per la perdita di Metemma, gli europei cominciarono a rifornire di armi moderne l’esercito etiope, per aiutarlo a cacciare i mahdisti. Come effetto collaterale ne conseguì che l’Etiopia era armata a sufficienza per respingere l’invasione europea: fu infatti l’unico stato indigeno a sopravvivere alla corsa all’Africa (1880-1900 ca.).
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«La cosa più importante di questo enorme insieme di leggi è che, in termini giuridici, la guerra non serve per uccidere, bensì per costringere un nemico a piegarsi. Per farlo è lecito rendere inabili le truppe militari nemiche e danneggiare o distruggere obiettivi militari validi. Ma non si può mai uccidere o danneggiare ulteriormente un nemico che offre la resa o già reso inabile da malattie, ferite o dalla prigionia. […] Potevamo ucciderli o ferirli solo quando erano combattenti liberi ed esisteva la necessità di impedirgli di condurre ulteriori operazioni militari contro di noi. Non appena venivano resi inabili, entravano sotto la protezione sia dei principi di un’antica consuetudine, imposta dopo la seconda guerra mondiale con letteralmente migliaia di condanne per crimini di guerra, sia delle più comuni leggi di guerra» (Dave Glazier, professore alla Loyola Law School, citato in M. Lederman, John Yoo Appears to Confirm CIA Waterboarding, 17 marzo 2007, http://balkin.blogspot.com/2007_03_11_balkin_archive.html).
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Per confondere le acque, quando la guerra giunse davvero la Triplice Alleanza non divenne «gli Alleati», titolo che invece assunse la Triplice Intesa, mentre l’Alleanza avrebbe preso la denominazione di «potenze centrali», per via della loro posizione sulla carta geografica. **
Anziché mandare avanti ondate di uomini sotto la copertura dell’artiglieria, questa nuova tattica si affidava a piccole squadre che, muovendosi di soppiatto, riuscivano a prendere i capisaldi alle spalle delle prime linee senza l’allarme che avrebbe procurato un prolungato bombardamento preparatorio.
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Per legge ogni racconto della rivoluzione russa richiede una nota a piè pagina nella quale l’autore tenta di spiegare la nomenclatura disorientante. Tanto per cominciare, le rivoluzioni di Febbraio e Ottobre ebbero luogo a marzo e a novembre, perché all’epoca i russi adoperavano il calendario giuliano, che differiva di dieci giorni rispetto al calendario gregoriano che utilizziamo noi. Inoltre, durante la prima guerra mondiale i russi ribattezzarono San Pietroburgo Pietrogrado perché il nome precedente suonava troppo germanico. In seguito la chiamarono Leningrado perché Pietrogrado suonava troppo imperialista. Oggi la chiamano di nuovo San Pietroburgo perché Leningrado suona troppo comunista. Tra l’altro soviet non ha alcun significato speciale: è solo la parola russa per consiglio. **
Nel disordine della rivoluzione ci si dimentica facilmente dei socialisti rivoluzionari, che però fino all’ascesa dei bolscevichi costituivano il maggiore partito radicale del paese. Furono loro la forza trainante della fallita rivoluzione del 1905. La loro politica prevedeva la confisca e la redistribuzione delle terre ai contadini. La maggior parte dei socialisti rivoluzionari contrastò i bolscevichi, che sconfissero agevolmente nelle prime elezioni parlamentari indette dopo l’assunzione del potere da parte dei bolscevichi; ecco perché ben presto i socialisti rivoluzionari furono messi fuori legge e il Parlamento chiuso. ***
Di cosa fosse il comitato non importa.
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Per essere giusti, Trockij prosegue così: «Tuttavia non è il terrore a tenere insieme gli eserciti. Non è certo per carenza di punizioni che l’esercito zarista si sgretolò. […] Sulle ceneri della grande guerra i bolscevichi formarono un nuovo esercito. […] Il cemento più solido del nuovo esercito furono le idee della rivoluzione di ottobre»
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«Non è forse esagerato dire che duecentocinquantamila persone circa morirono per questo morso di scimmia» (W. Churchill, Crisi mondiale e Grande Guerra, 1911-1922, Il Saggiatore, Milano, 1968, vol. IV, p. 379).
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Sun e Chiang sposarono due sorelle della famiglia Soong, una dinastia ricca e potente di hakka cristiani educati in America. **
Per avere un termine di paragone, nel 1947 negli Stati Uniti un pezzo di arrosto di manzo costava 95 centesimi al chilo.
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Per il comunismo occidentale l’esilio di Trockij rappresentò un bivio. Da quel momento in poi i comunisti d’Occidente poterono comodamente distanziarsi dagli eventi orribili che si verificavano in Unione Sovietica proclamandosi trotzkisti. Essere trotzkisti comportava una purezza ideologica che mancava chiaramente agli stalinisti. Ovviamente chiunque sarebbe stato meglio di Stalin, tuttavia vale la pena osservare che il comportamento di Trockij durante la guerra civile mostrò che anche lui non era esattamente un tenero. **
La polizia segreta sovietica fu costantemente riorganizzata e ribattezzata. Le quattro apparizioni più famigerate sono la Čeka, la GPU, l’NKVD e il KGB, ma non è necessario sapere cosa stanno a significare tutte quelle lettere in russo, perché si tratta soltanto di piatto gergo burocratico. Gli agenti di solito venivano chiamati čekisti, dal nome della prima versione. ***
Le grandi purghe seguirono l’assassinio di Kirov in maniera talmente ravvicinata che alcuni studiosi nutrono il sospetto che fu Stalin stesso a progettare l’omicidio come pretesto; tuttavia una ricerca ufficiale condotta negli archivi segreti sovietici aperti dopo il 1898 non ha trovato alcuna prova in merito (D. Aaronovitch, Voodoo Histories: The Role of the Conspiracy Theory in Shaping History, Riverhead Books, New York, 2010, p. 84). ****
L’Armata Rossa fu il primo esercito moderno a fare un uso considerevole delle donne, per lo più (ma non solo) nelle unità di supporto.
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Questo elenco non stabilisce i diciassette peggiori tiranni della storia. Sono soltanto quelli per i quali disponiamo di qualche cifra. **
Normalmente si attribuisce questa frase a Stalin, ma a) nessuno sa indicarne data e luogo; b) la citazione gli fu attribuita soltanto molto tempo dopo la sua morte; c) l’ha detta prima Erich Maria Remarque.
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Probabilmente penserete che scherzo se dico che il motivo principale della seconda guerra mondiale fu che «si poteva fare», ma nel suo La seconda guerra mondiale (pp. 10-11) John Keegan si avvicina molto a proporre una spiegazione del genere. **
E per il momento questo è probabilmente tutto ciò che occorre sapere della Cina. Non è facile far entrare appieno il conflitto sino-giapponese nel mio elenco dei cento maggiori massacri. Ovviamente l’uccisione di circa 10 milioni di cinesi si guadagna un posto nel mio elenco, ma dove? Da solo al tredicesimo posto? Compreso nella seconda guerra mondiale? Nelle guerre civili cinesi? Ritengo sia meglio annoverare tutti i morti in Cina tra l’invasione giapponese del 1937 e la resa del 1945 nel quadro del conflitto mondiale; malgrado ciò, è più facile spiegare il flusso degli eventi come un episodio dell’interregno cinese, come ho fatto nel capitolo dedicato alle guerre civili cinesi. ***
Nel 1937 l’Unione Sovietica abbracciava 21.747.000 chilometri quadrati circa, all’incirca un sesto della superficie abitabile del pianeta, e conteneva 164 milioni di persone. Alla vigilia della guerra la Germania occupava 585.000 chilometri quadrati, con una popolazione di circa la metà rispetto alla Russia: 80 milioni. La popolazione francese era soltanto la metà di quella tedesca: 42 milioni (E.M. Howell, The Soviet Partisan Movement, Merriam Press, Bennington, 1997, p. 13; N. Smart, British Strategy and Politics during the Phony War, Praeger, Westport, 2003, p. 43). ****
Per avere un’idea, si noti che si tratta di due terzi degli schiavi africani trasportati al di là dell’Atlantico e di più del doppio del numero di prigionieri dei gulag nell’epoca di Stalin. *****
L’insurrezione di Varsavia (agosto 1944) non va confusa con la rivolta del ghetto di Varsavia (aprile 1943), nella quale gli ebrei del ghetto fecero un ultimo sforzo disperato per 1101
resistere alla deportazione nei campi di sterminio. ******
I sovietici rinvennero il cadavere abbastanza rapidamente, ma tennero segreta la scoperta per far leva sulle paure dell’Occidente. Speravano di poter utilizzare il mistero della sua scomparsa e l’incubo di un ritorno di Hitler per ottenere ulteriori concessioni dai governi occidentali. Hitler fu seppellito in una fossa anonima all’interno di una base sovietica della Germania Est fino al 1970, quando la base passò sotto l’autorità della DDR. Allora fu esumato e cremato, quindi si sparsero le ceneri nel fiume vicino per impedire che quello si trasformasse in un luogo di pellegrinaggio. *******
Il bombardamento di Dresda è diventato una metafora della carneficina insensata, soprattutto grazie a due libri pubblicati negli anni Sessanta. Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut (1969) è uno dei grandi romanzi del Novecento, una vivida testimonianza sulla seconda guerra mondiale che continuerà a segnare la nostra percezione dell’evento per molto tempo a venire. L’altro libro, Apocalisse a Dresda di David Irving (1963), è stato per una generazione il saggio decisivo sul bombardamento. Purtroppo Irving si è trasformato nel principale difensore al mondo della reputazione di Hitler e ormai si sa che nel libro non fece che ripetere in maniera acritica molta falsa propaganda nazista, come il bilancio di 135.000 morti e la totale assenza di obiettivi militari nella città. Il recente libro di Frederick Taylor, Dresda: 13 febbraio 1945 (2004), fa piazza pulita di molti degli errori più scandalosi di Irving. ********
«Per opera dell’uomo»: alcuni improvvisi disastri naturali, come lo tsunami che nel 2004 ha colpito l’oceano Indiano, hanno ammazzato più persone con la stessa rapidità. *********
Per la precisione: le prove iniziano con i racconti di migliaia di testimoni oculari, che descrivono dettagliatamente la vicenda in ogni sua parte, poi questi racconti si possono 1102
illustrare con le fotografie scattate all’epoca degli eventi. Inoltre si può scavare nei censimenti e nei registri fiscali per mostrare che milioni di ebrei vivi ancora negli anni Trenta scomparvero sotto l’occupazione tedesca. Infine abbiamo a disposizione interi faldoni di documenti ufficiali di chi perpetrò l’Olocausto, che contengono ordini, promemoria, rapporti, programmi e fatture. L’intera storia del mondo antico si basa su prove molto minori di queste (per altro ancora, cfr. M. Shermer, Why People Believe Weird Things?, Freeman, New York, 1997, capp. XII-XIV e R. Evans, Lying About Hitler: History, Holocaust, and the David Irving Trial, Basic Books, New York, 2001).
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Benché all’epoca la maggior parte della gente non lo sapesse, gli americani stavano già combattendo i sovietici nei cieli. I piloti russi facevano esperienza di combattimento e sperimentavano nuovi armamenti sulla Corea del Nord a bordo di jet cinesi, ma avevano l’ordine preciso di non farsi abbattere sopra il territorio dell’ONU. Stalin non voleva assolutamente che qualcuno scovasse una prova del coinvolgimento sovietico nei rottami di un aereo precipitato. Se è per questo, non lo volevano nemmeno gli americani, che avevano già i loro sospetti. Se si fosse saputo che le due superpotenze si scontravano già nei cieli, il conflitto coreano si sarebbe potuto intensificare rapidamente, trasformandosi nella terza guerra mondiale (S. Sandler, The Korean War: No Victors, No Vanquished, University Press of Kentucky, Lexington, 1999, p. 185; C. Malkasian, The Korean War, 1950-1953, The Rosen Publishing Group, New York, 2009, p. 54).
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Il regime comunista più benevolo sembra essere stato quello del Nicaragua. Le accuse peggiori al governo sandinista in cui mi sono imbattuto parlano di decine, forse centinaia, di civili, indios miskito, uccisi in un paio di incidenti controversi (massacri? battaglie? intenzionali? non autorizzati?) avvenuti nel 1981. Il dato si avvicina alla media di morti relativa a un paese dell’America Latina piuttosto che alla media di un paese comunista.
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* Risposte: no, no.
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* La Rhodesia dei bianchi era già diventata lo Zimbabwe dei neri nel 1979.
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* Con l’eccezione del Botswana, che è stato una democrazia sin dalla nascita, nel 1966. È un caso talmente insolito che merita una citazione.
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Alla reputazione di Amin a Mosca non contribuirono certamente i quattordici incontri sospetti con l’ambasciatore statunitense Adolph Dubs. Questi fu rapito da misteriosi assalitori nel febbraio 1979 e restò ucciso nel tentativo di liberazione: i sospetti di molti investigatori si concentrano su Taraki (S.S. Harrison, End of the Road, in Globe and Mail, Toronto, 11 febbraio 1989). **
Non esattamente, ma la sostanza è questa.
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In realtà gran parte del conto lo pagarono i paesi arabi ricchi di petrolio che gli Stati Uniti difendevano, ma questo non fa che accentuare il fatto che l’Occidente aveva molto più denaro dell’Oriente e che poteva spendere molto di più nel proprio apparato bellico.
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avvero. È più probabile che le versioni popolari del genocidio del Ruanda accusino l’Occidente di non averlo impedito piuttosto che gli hutu di averlo effettivamente compiuto. Per esempio, nel film (ottimo) Hotel Ruanda due dei personaggi principali sono osservatori stranieri che si lamentano dell’indifferenza internazionale, i quali compaiono sullo schermo più di molti personaggi indigeni. Ambizioso quanto mai, il senso di colpa bianco torna indietro nel tempo e accusa i belgi di aver diviso, dandogli quelle carte d’identità coloniali, un solo popolo che viveva in armonia in due categorie artificiali, gli «hutu» e i «tutsi». Perché si addossano così tante colpe a persone e istituzioni che non erano implicate nella carneficina? Del resto, è proprio questo il modo in cui alcuni considerano le vicende straniere: «Sì, triste, ma in che modo è un problema mio?» Certo, poi c’è gente che all’onu, all’Occidente o a Clinton affibbia ogni genere di colpa. **
Davvero. È più probabile che le versioni popolari del genocidio del Ruanda accusino l’Occidente di non averlo impedito piuttosto che gli hutu di averlo effettivamente compiuto. Per esempio, nel film (ottimo) Hotel Ruanda due dei personaggi principali sono osservatori stranieri che si lamentano dell’indifferenza internazionale, i quali compaiono sullo schermo più di molti personaggi indigeni. Ambizioso quanto mai, il senso di colpa bianco torna indietro nel tempo e accusa i belgi di aver diviso, dandogli quelle carte d’identità coloniali, un solo popolo che viveva in armonia in due categorie artificiali, gli «hutu» e i «tutsi». Perché si addossano così tante colpe a persone e istituzioni che non erano implicate nella carneficina? Del resto, è proprio questo il modo in cui alcuni considerano le vicende straniere: «Sì, triste, ma in che modo è un problema mio?» Certo, poi c’è gente che all’ONU, all’Occidente o a Clinton affibbia ogni genere di colpa. ***
In Burundi la morte del presidente riaccese la guerra civile latente, ma il bilancio delle vittime che ne seguì (260.000) non 1110
raggiunge la soglia fissata per entrare nella mia lista dei primi cento.
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Spero che si noti che due degli eroi dei capitoli precedenti sono i cattivi di questo. La storia è complicata.
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L’opinione che considera i governi tirannici responsabili di un maggior numero di morti rispetto alle guerre è diffusa tra i libertaristi radicali: a supporto si adducono le stragi interne compiute dai tiranni in tempo di pace (come la rivoluzione culturale), a cui si aggiungono gli omicidi di massa dei civili perpetrati durante le guerre (come l’Olocausto), per poi precisare che questo totale è superiore all’uccisione dei soldati in battaglia, socialmente approvata (cfr., per esempio, Rummel, Stati assassini, cit.). Io sono dell’opinione contraria: tutte le uccisioni che avvengono durante un conflitto dovrebbero essere annoverate tra le vittime di guerra. Dopotutto, gli americani non avrebbero bombardato Hiroshima in tempo di pace né i nazisti avrebbero potuto avvicinarsi a 3 milioni di ebrei polacchi senza prima conquistarli. La forzatura delle definizioni a sostegno di un determinato punto di vista si verifica anche dalla parte opposta. I pacifisti che tentano di dimostrare quanto sia micidiale la guerra spesso etichettano l’oppressione delle istituzioni (la rivoluzione culturale, le purghe staliniane, ecc.) come «conflitto» e ne accomunano le morti alle più evidenti vittime della guerra, nonostante l’oppressione istituzionale manchi di quella uccisione reciproca che caratterizza la guerra vera e propria. In questi casi, distinguerei la guerra dall’oppressione osservando cosa potrebbe fermare il massacro. Se la risposta è che entrambe le parti dovrebbero deporre le proprie armi, si tratta di una guerra; se una parte dovrebbe semplicemente e unilateralmente smettere di uccidere (senza arrendersi), allora si tratta di oppressione. **
Non un grandissimo numero. Più o meno in misura quasi proporzionale alla loro presenza in qualunque elenco di gente importante. ***
Riuscite a individuate un criterio per il quale si è considerati «grandi»?
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Ho calcolato il numero totale delle morti soltanto per le categorie più ampie. Il margine di errore è troppo alto e contiene troppe variabili per riuscire a operare più di un confronto generale. Per andare molto più in profondità, dovrei cominciare a suddividere il numero di vittime e decidere, per esempio, quante di quelle relative alla seconda guerra mondiale siano state provocate da un genocidio e quante dai combattimenti oppure quante morti nella tratta degli schiavi si possano attribuire ai re indigeni e quante, invece, agli europei. **
Una mia amica, una volta, si è chiesta ad alta voce quanta sofferenza fosse mai stata causata dal fanatismo religioso nella storia e io, in confidenza, basandomi su tale numero, le ho risposto: «Il 10%». Forse la domanda non andava presa proprio alla lettera.
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