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Copyright © 2022, il nuovo melangolo s.r.l. Genova - Via di Porta Soprana, 3-1 www.ilmelangolo.com
ISBN 978-88-6983-322-9
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Paolo Ercolani
Nietzsche l’iperboreo Il profeta della morte dell’uomo nell’epoca dell’Intelligenza artificiale
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A Domenico Losurdo (1941-2018) Maestro che esattamente vent’anni fa aprì il mio sguardo sull’abisso di Nietzsche
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«Chi lotta contro i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. Se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te». (JGB: § 146) «Guardiamoci in viso. Noi siamo Iperborei - sappiamo abbastanza bene di vivere in disparte […] Al di là del Nord, dei ghiacci, della morte - la nostra vita, la nostra felicità… Noi abbiamo scoperto la felicità, noi conosciamo la via, noi trovammo l’uscita da interi millenni di labirinto […] Si deve essere superiori all’umanità per forza, altezza d’animo, per disprezzo…». (AC: § 1 e Prefazione)
Noi iperborei
«Né per acqua né per terra Potrai trovar la via Che mena agli Iperborei». (Pindaro)
«Al di là del nord, del ghiaccio, della durezza, della morte - la nostra vita, la nostra felicità! ». (VIII, I: p. 189)
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ABBreVIAzIoNI Per le opere di Nietzsche, tutte curate da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, l’edizione italiana a cui faccio riferimento è la seguente: Opere di Friedrich Nietzsche, Adelphi, Milano 1967 sgg., di cui cito la sigla della singola opera e/o il volume, la pagina e/o il numero del paragrafo. Nel caso dei frammenti postumi, riporto soltanto il numero del volume e la pagina. Per le edizioni tedesche, utilizzo le seguenti, citate con l’acronimo eventualmente seguito dalla sigla della singola opera, dal volume e dal numero della pagina e/o dell’aforisma: KSA = Sämtliche Werke. Kritische Studienausgabe, Walter de Gruyter, Berlin – New York 1967-1977 (Deutscher Taschenbuch Verlag, Munich 1980); KGW = Nietzsche Werke: Kritische Gesamtausgabe, Berlin – New York 1967 sgg. Per l’epistolario: KGB = Briefwechsel. Kritische Gesamtausgabe, De Gruyter, Berlin – New York 1975 sgg.. Mi avvalgo anche della seguente edizione, per i frammenti postumi: WzM = La volontà di potenza (1906), a cura di Maurizio Ferraris e Pietro Kobau, Bompiani, Milano 1992. Sigle delle principali opere di Nietzsche citate nel testo: ST: Socrate e la tragedia (1870); DW: La visione dionisiaca del mondo (1870); GT: La nascita della tragedia (1872); BA: Sull’avvenire delle nostre scuole (1872); CV: Cinque prefazioni per cinque libri non scritti (1872): 1, Sul pathos della verità; 2, Pensieri sull’avvenire delle nostre scuole; 3, Lo Stato greco; 4, Il rapporto della cultura schopenhaueriana con una cultura tedesca; 5, Agone omerico; PHG: La filosofia nell’epoca tragica dei greci (1873); WL: Su verità e menzogna in senso extramorale (1873); DS: Considerazioni inattuali, I (1873); HL: Considerazioni inattuali, II (1874); Se: Considerazioni inattuali, III (1874); WB: Considerazioni inattuali, IV (1876); MA: Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi, di cui costituiscono la seconda parte i testi VM (Opinioni e sentenze diverse, 1879) e WS (Il viandante e la sua ombra), (1878-1886); M: Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali (1887); FW: La gaia scienza (1882); DD: Ditirambi di Dioniso (1882-1888); zA: Così parlò Zarathustra (1883-1885); JGB: Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire (1886); GM: Genealogia della morale (1887); WA: Il caso Wagner (1888); GD: Crepuscolo degli idoli (1888); AC: L’Anticristo (1888); NW: Nietzsche contra Wagner. Documenti processuali di uno psicologo (1888); eH: Ecce Homo. Come si diventa ciò che si è (1888). Non si dà notizia delle modifiche apportate alle traduzioni italiane eventualmente consultate. Ciò non soltanto in riferimento alle opere di Nietzsche, ma per tutti i testi letti e citati in lingua originale. Il corsivo nelle citazioni è stato mantenuto, soppresso o aggiunto a seconda delle necessità espositive.
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INTroDuzIoNe
IL FILoSoFo CHe SCrIVeVA CoN IL SANGue
«un filosofo è un uomo che costantemente vive, vede, sente, intuisce, spera, sogna cose straordinarie, che viene colpito dai suoi propri pensieri come se venissero dall’esterno, da sopra e da sotto, come dalla sua specie di avvenimenti e di fulmini; che forse è lui stesso un temporale gravido di nuovi fulmini; un uomo fatale, intorno al quale sempre rimbomba e rumoreggia e si spalancano abissi e aleggia un’aria sinistra». (JGB: § 292) «Ammettere la non verità come condizione della vita: ciò indubbiamente significa metterci pericolosamente in contrasto con i consueti sentimenti di valore: e una filosofia che osa questo si pone, già soltanto per ciò, al di là del bene e del male». (JGB: § 4)
Nessuno vorrebbe conoscere la verità. Specie se si presentasse con volto di mostro e caratteristiche che fanno traballare quella che Nietzsche chiamava l’umana (troppo umana!) aurora boreale delle illusioni. Sì, con questa espressione il grande filosofo indicava la fortezza esistenziale che l’uomo si sarebbe costruito, nella convinzione di proteggere la propria vita all’interno di un orizzonte di senso. È proprio questo che ha fatto l’umanità, secondo Nietzsche, a partire già da Socrate e Platone: edificare nei secoli un muro di illusioni ideali con cui oscurare il lato orrorifico e insensato della propria esistenza. In ciò dimenticando la lezione dei tragediografi antichi e perfino di omero, che ben prima di 11
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ungaretti aveva utilizzato la similitudine delle foglie per rappresentare la fragilità della condizione umana: «Tale e quale alla stirpe delle foglie è la stirpe degli uomini», e l’uomo stesso, di cui «non c’è niente di più miserevole fra tutti gli esseri che respirano e arrancano sulla faccia della terra»1. Senza la fortezza protettiva delle illusioni, infatti, all’uomo non resta che guardare la propria esistenza come un abisso popolato da mostri. e Nietzsche lo sapeva molto bene, infatti scriveva: «Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. Se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te»2. È per questo che l’uomo preferisce rivolgere lo sguardo da un’altra parte, a tutela della propria incolumità. Ma non Nietzsche. Lui, in compagnia di pochi altri speleologi del male, decise di indirizzare lo sguardo della mente dritto verso quell’abisso, al di là della confortante aurora boreale delle umane illusioni (da qui il suo definirsi come un «iperboreo»). Forse è proprio da tale atteggiamento che proviene il fulcro al tempo stesso «osceno» e terrificante del suo pensiero. Il pensiero di un filosofo – quindi di un «cercatore di verità» – che si è spinto a terremotare non soltanto la quasi totalità dei duemila e cinquecento anni di cultura che lo hanno preceduto; non soltanto il senso stesso del «pensare» e la possibilità di raggiungere un qualcosa come «la» verità, attraverso lo strumento umano (ancora una volta: troppo umano!) della ragione, ma anche il fragilissimo equilibrio dell’uomo in generale e, alla fine, quello della propria stessa mente. È stato Nietzsche – il filosofo che per primo ha utilizzato la formula del «senso della vita»3 – ad aver svelato all’uomo la sua 1. omero, Iliade: VI, v. 146 e XVII, vv. 446-7. Lo stesso concetto veniva ripreso in Odissea: XVIII, vv. 130 sgg., dove si può leggere che: «Nessun essere nutre la terra più meschino dell’uomo, fra quanti respirano e si aggirano in terra». 2. JGB: VI,II, § 146. 3. Nietzsche utilizzava questa espressione, ovviamente in senso negativo, in un frammento postumo del 1875 (KSA: VIII, p. 32). Devo tale informazione a Volker Gerhardt (1992: p. 21).
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condizione di mezzo e non fine, ingranaggio e non fulcro, pedina e non giocatore di quel meccanismo impersonale che chiamiamo vita. e che appunto non ha alcun senso, o perlomeno nessuno di quelli che l’uomo ama conferirgli. L’uomo si illude che questa vita gli appartenga, quindi di esserne il protagonista che da sveglio progetta e dispone se stesso e le cose del mondo. In realtà non solo non è protagonista della propria vita e neppure sveglio, ma rischia di essere la comparsa dormiente del sogno (o dell’incubo) di qualcun altro, come si può dedurre dalla celebre frase finale de La tempesta di William Shakespeare, drammaturgo inglese destinato a esercitare un’influenza decisiva sul pensiero del filosofo tedesco: «Noi siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni; e la nostra piccola vita, è un sonno che la avvolge»4. Con una consapevolezza tanto drammatica e angosciante, sanguinerebbe anche l’animo più solido, e il filosofo tedesco non faceva eccezione. Sì, egli «scriveva con il sangue» – come ebbe ad affermare George Bataille, peraltro citando lo stesso Nietzsche – non soltanto perché rifondeva il proprio male di vivere nella scrittura, ma perché riteneva quest’ultima strettamente collegata alla morte. Nella misura in cui pretendono di fermare e fissare il flusso continuo del pensiero sotto forma di verità – secondo un’idea che il drammaturgo francese Antonin Artaud avrebbe ripreso proprio da Nietzsche – «i libri sono delle tombe» e l’inchiostro sulle loro pagine è il sangue dell’autore che è consapevole di operare tale scempio5. 4. Shakespeare, The Tempest: IV,1. Anche Nietzsche ha riflettuto sul tema del sogno, vedendo in esso nientemeno che l’origine della metafisica: «Nelle epoche di civiltà rozza e primordiale l’uomo credeva di conoscere nel sogno un secondo mondo reale; è questa l’origine di ogni metafisica. Senza il sogno non si sarebbe escogitato alcun motivo per scindere il mondo [in terreno e trascendente, n.d.A.]» (KSA: MA, II, p. 27). 5. Bataille (1973): VI, p. 15. Lo stesso Nietzsche pronunciava queste parole tramite zarathustra: «Di tutto quanto è scritto io amo solo ciò che uno scrive col suo sangue. Scrivi col sangue: e allora imparerai che il sangue è spirito» (zA: VI,I, p. 42). Per la citazione di Artaud, si veda Id. 1956 - 1994: v. XIII, p. 136. Per un’analisi generale cfr. Dumoulié 1992: pp. 168-9.
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In questo senso si parla del sangue di Nietzsche, ma evitando di essere superficiali dobbiamo riconoscere che si tratta anche del nostro, quello di un’umanità gravata da molteplici ferite, da una condizione esistenziale in cui è terribile lo scarto fra gli ideali altissimi di cui siamo portatori e le bassezze di una realtà che sembra costruita apposta per smentirli e abbatterli quando ancora sono in volo. Tali altezze e bassezze connotano la galassia vitale in cui è immerso ciascuno di noi, così che a fare la differenza è soltanto la volontà e la capacità che abbiamo di riconoscerle e analizzarle in profondità. Perché non siamo altro di essenziale – sosteneva Nietzsche – se non viandanti che percorrono una strada circondata dall’oscurità più disarmante. Nella migliore delle ipotesi possiamo arrivare a scorgere la luce fioca che illumina un cartello enigmatico, su cui v’è scritto «che noi non abbiamo verità»6. L’unica verità a cui può aspirare l’uomo – secondo Nietzsche – è la consapevolezza dell’assenza di ogni verità. Questa la sentenza inquietante del filosofo tedesco, su cui si appoggiano tutti i fondamenti del suo controverso capolavoro filosofico e psicologico. un capolavoro realizzato grazie al fatto di aver vissuto sulla propria pelle le altezze di un pensiero forse mai così alato, pagando per questo il prezzo del precipitare negli abissi più bassi e patologici a cui può essere condannato chi troppo osa. Tutto in una stessa vita7. Ciò in un duplice senso. Come pensatore: capace di una sensibilità che gli ha permesso di scavare nei sentieri più nasco6. KSA: VI,I, p. 382. 7. «Io, parlando per enigmi, come mio padre sono già morto, come mia madre vivo ancora e invecchio. Questa doppia discendenza, come dire dal più alto e dal più basso germoglio sulla scala della vita, décadent e inizio al tempo stesso - questo solo, se mai, può spiegare quella neutralità, quella libertà da qualunque partito di fronte al problema generale della vita, che forse mi contraddistingue. Mai nessuno ha avuto un fiuto più fine del mio per i segni dell’ascesa e della caduta, io sono il maestro par excellence di tutto questo, conosco l’una e l’altra cosa, sono l’una e l’altra cosa» (KSA: VI,III, p. 262).
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sti della condizione umana, salvo poi spingersi a dividere rigidamente l’umanità in malriusciti (i più) e benriusciti (i pochissimi), proponendo un’inquietante «eliminazione di milioni di malriusciti» in nome della legge che tutto governa e che egli chiamava «volontà di potenza». Ma anche come uomo, di cui molti personaggi autorevoli del tempo ebbero modo di ammirare il genio e l’acume, salvo poi ritrovarsi profondamente turbati dal suo graduale piombare in una follia che lo spinse a vaneggiare e a scrivere frasi insulse. Fino a mangiare e bere i propri escrementi, stando al rapporto medico dell’istituto che lo ebbe in cura per qualche mese dopo il collasso mentale. Queste distanze siderali, presenti nel medesimo individuo, suggeriscono una serie di questioni talmente stringenti e affascinanti, da condurci ben oltre il caso specifico e suscitando più di una considerazione sul mistero e la problematicità della condizione umana. Malattia creativa?
Sul piano filosofico, innanzitutto: lo straordinario acume mostrato nello svelare gli aspetti più nascosti e complessi della condizione umana, di cui Nietzsche è stato capace forse come nessun altro, deve essere separato dalla grande ombra di un pensatore che sarebbe arrivato a proclamare con fierezza la necessità di eliminare senza alcuna pietà tutto ciò che odorava di umanità, compassione e «razze decadenti», ispirando per questo (e non solo) i grandi protagonisti del nazifascismo? Ma ancora: Nietzsche è piombato all’improvviso nell’abisso della demenza, tanto da costringere l’osservatore a separare nettamente le altezze del genio dalla ripugnanza del folle, oppure la sua opera è sempre stata innervata dagli eccessi di un deragliamento cognitivo che attendeva soltanto il momento di aprire le porte alla tragedia esistenziale? Se fosse vero il secondo caso, si imporrebbe una questione ancora più radicale: quanto, proprio quei semi di follia sparsi nella mente del grande filosofo, possono aver contribuito alla 15
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crescita della pianta imponente e dirompente che è stata la sua opera? Del resto, vi sono stati scienziati della mente che hanno parlato di «malattia creativa», attribuendola a vari autori (tra cui Freud e Jung) e, nello specifico del caso qui studiato, ritenendo che Nietzsche avesse elaborato le sue idee più originali proprio nella fase più acuta di una tale patologia8. Insomma, che si debba ricondurre anche al male di vivere la sua indiscutibile capacità di uscire dagli schemi, di gettare lo sguardo là dove l’occhio umano trema ad addentrarsi? Male di vivere che, in tal caso, gli avrebbe permesso scoperte tanto scomode e inquietanti, quanto puntuali nel descrivere il mare nero in cui si dimena quella «bestia» contraddittoria e incline all’illusione che è l’uomo. Non sarebbe cosa di cui meravigliarsi, considerando che Nietzsche stesso scrisse di essere molto più debitore nei confronti della sua infermità che della salute, di dovere alla propria condizione di malato perenne una salute di ordine «superiore». È stato lui stesso ad ammettere di dovere alla malattia nientemeno che la propria stessa filosofia, poiché «soltanto il grande dolore è l’estremo liberatore dello spirito»9. Sì, filosofia e biografia sono inscindibili in questo filosofo. Non si può conoscere l’una senza considerare l’altra, e viceversa. Nell’affrontare questo tipo di conoscenza, si comprende come le questioni appena ricordate non hanno riguardato soltanto Nietzsche, figura indubbiamente controversa e contradditto8. Mi riferisco, fra gli altri, a quello che forse è il più autorevole storiografo della psichiatria del Novecento, ossia lo psichiatra svizzero Henri ellenberger (1970): p. 889. 9. NW: VI,III, p. 411. In un frammento postumo, riferibile sempre alla sua produzione più tarda, il filosofo tedesco ribadiva il concetto, scrivendo che: «La perfetta limpidezza e serenità di spirito si conciliano in me non solo con la più profonda debolezza fisiologica, ma addirittura con un estremo sentimento di dolore». Secondo Nietzsche soltanto le «torture infernali» a cui lo sottoponeva la sua salute inferma – peraltro descritte fin nei dettagli più disgustosi – lo avevano reso l’unico filosofo in grado di operare una «trasvalutazione di tutti i valori» (VIII,III: pp. 397-9).
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ria di suo10. Infatti, proprio il caso del filosofo dalla penna insanguinata ci fa vedere come la follia è consustanziale all’uomo in quanto tale, costituendone al tempo stesso il lato oscuro ma anche la chiave per aprire porte di comprensione che preferiremmo (o dovremmo?) lasciare chiuse. Del resto, non era forse stato già Platone – pensatore ferocemente criticato (ma letto) da Nietzsche – a scrivere che «i beni più grandi ci arrivano dalla follia», e che «la follia che proviene dal dio è assai più bella della saggezza di origine umana»11? Lo stesso Nietzsche, in uno dei suoi frammenti postumi più lucidi, si era fatto beffe di coloro che pensano di «conoscere» le cose attraverso la razionalità, cioè di quelli che riportano «qualcosa di estraneo a qualcosa di noto, familiare». Costoro si illudono di eliminare dalla realtà gli enigmi o i problemi, semplicemente «cercando la regola», quando in verità risultano ignari del fatto che «dietro a questa sicurezza intellettuale sta l’acquietamento della paura: vogliono la regola, perché essa toglie al mondo il suo aspetto pauroso. La paura dell’incalcolabile come istinto segreto della scienza». Pochi decenni dopo (si era nel 1923), il filosofo spagnolo ortega Y Gassett si ispirava proprio a Nietzsche per individuare «il tema del nostro tempo»: ossia la contrapposizione fra un razionalismo che privilegia la verità assoluta e immutabile (abbandonando in questo modo la vita), e un relativismo che predilige il fluire dell’esistenza e lo scetticismo soggettivistico12. 10. Basti solo pensare a una delle teorie più famose del Nietzsche maturo, quella sull’«eterno ritorno dell’identico», che costituiva un ribaltamento totale di quanto egli stesso aveva scritto in un frammento postumo del 1873: «Sarebbe utilissimo se tutto si ripetesse (come intendono i Pitagorici): in quel caso bisognerebbe conoscere il passato e la costellazione, per poter riconoscere con precisione questo ripetersi. Invece nulla si ripete», (VIII,III: p. 282). 11. Platone, Fedro: 244a e 244d. 12. VIII,I: p. 177. ortega Y Gassett 1923: v. III, p. 168. Il filosofo spagnolo aggiungeva nella medesima pagina che «non c’è cultura senza vita, non c’è spiritualità senza vitalità […] Lo spirituale non è meno vita né più vita di ciò che non è spirituale». È proprio cercando di fondere «ragione» e «vita» che il pensatore spagnolo – ispirandosi a Nietzsche, avrebbe teorizzato il «razio-vitalismo» (1932: v. IV, p. 403).
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Perfettamente coerente con questi presupposti teorici, Nietzsche mostrò uno straordinario coraggio nel non adagiarsi sulla terra nota, spingendosi ben oltre quella superficie di cui spesso l’uomo si accontenta, perlopiù in cambio di briciole di illusione. Per questo – lo abbiamo detto – pagò un prezzo altissimo: la malattia, radicale, costante, logorante, distruttiva. Ma qui finisce il «problema» di Nietzsche e comincia il nostro. Sì, perché l’autore di Così parlò Zarathustra non si è limitato a subire la malattia. L’ha tradotta in filosofia, intrecciandola con il suo pensiero fino al punto di rendere le due cose indistinguibili. In questo modo è diventato egli stesso quella malattia. Soprattutto lo è diventato il suo pensiero, nichilista, distruttivo e anti-umano come soltanto una malattia mortale sa essere. Il guaio è che tale «malattia» ha prodotto metastasi pari soltanto al successo clamoroso che lo ha caratterizzato. Le influenze che la filosofia nietzscheana ha esercitato su moltissimi pensatori e molteplici correnti culturali è stata impressionante, tanto che il poeta e scrittore tedesco Gottfried Benn – a cinquant’anni esatti dalla morte di Nietzsche – scrisse che in lui avevano trovato «formulazione definitiva» tutte le grandi questioni su cui si era divisa e aveva sofferto la propria generazione. Tutto quello che è venuto dopo il filosofo tedesco è stata un’esegesi del suo pensiero. L’intera psicoanalisi, tutto l’esistenzialismo «erano opera sua», tanto da farlo emergere senza ombra di dubbio come «la gigantesca figura dominante dell’epoca post-goethiana»13. oggi, a distanza di ulteriori settanta e passa anni dalle considerazioni di Benn – che peraltro sottoscrivo in larga parte – occorre prendere atto che c’è lo zampino decisivo di Nietzsche anche dietro al fenomeno complesso del post-modernismo, con le sue recentissime derive anti e post umane che ho cercato di ricostruire nel libro. ecco perché ho ritenuto comunque di affrontare l’ormai antica querelle sul Nietzsche ispiratore o 13. Benn 1950: v. I, p. 482.
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meno del nazifascismo, ma in un’ottica rinnovata e protesa ad aprire spazi interpretativi sull’oggi. L’ombra di Nietzsche sul presente post-umano
Sì, perché al contrario di quanto auspicava Bertrand russell nella sua magistrale Storia della filosofia occidentale (1945), i seguaci del pensiero di Nietzsche «hanno avuto il proprio turno»14, ma purtroppo il discorso non si è esaurito con gli orrori della prima metà del Novecento. ormai è necessario fare i conti con qualcosa di altrettanto inquietante, però riferito all’attualità. La carica nichilistica, irrazionalistica e soprattutto anti-umana insita nel pensiero di Nietzsche – infatti – si è così tanto diffusa lungo i centoventidue anni successivi alla sua morte (1900), da trovare più di un riscontro ed esercitare una significativa influenza anche nel tempo presente. Quello della post-verità, del relativismo assoluto, dell’individualismo estremo, di una comunità umana e sociale che si è sfaldata, per lasciare spazio a monadi isolate e incomunicanti, private di quel collante formidabile che è dato dall’aspirazione collaborativa alla conoscenza, a una società giusta, al rispetto e a una solidarietà reciproca fra le persone, come anche a una cura collettiva e responsabile per l’ecosistema che ospita e consente la vita umana. oltre due anni di pandemia – non ancora conclusa al momento in cui sto scrivendo – ci hanno catapultato in un tempo di barbarie idealmente iniziato con la sciagurata affermazione di Nietzsche secondo cui «i fatti non esistono, esistono solo interpretazioni»15. Da questa prospettiva nasce l’idea dell’individuo 14. russell 1945: p. 773. 15. WzM: § 481 e VIII,I, pp. 299-300. risiede qui il «prospettivismo» nietzscheano, ossia l’idea per cui il mondo non è «conoscibile» in un solo senso, ma interpretabile in più sensi, che sono quelli della prospettiva di ciascuno, cioè dell’istinto di potenza che risiede in ognuno. «Ciascuno ha la sua prospettiva, che vorrebbe imporre come norma a tutti gli altri istinti», scriveva Nietzsche.
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che non può mai essere soggetto, né aspirare ad alcuna verità o coltivare propositi di miglioramento personale o della società in cui vive. A un uomo siffatto non resta che abbandonarsi a quella volontà di potenza che, in quanto regola universale, governa e dirige ogni cosa e ogni persona. Per questa strada, attraverso un percorso che ricostruisco nel libro, si arriva a quello che potrebbe essere l’ultima espressione della volontà di potenza umana. Mi riferisco al progetto odierno di creare una nuova umanità perfetta attraverso il potenziamento dell’Intelligenza artificiale e la prefigurazione di quel superuomo in carne e componenti bioniche che è il cyborg. Il tutto, all’interno di un contesto esistenziale regolato da una nuova forza cosmica e sempre più onnipervasiva, chiamata «algoritmo» (l’equivalente odierno del «fato» di cui parlava il filosofo tedesco). Fino ad arrivare a quella vera e propria forma di «nuova metafisica» (chiamata «metaverso») contenuta nella filosofia transumanista, che pervade molte delle figure chiave operanti nel campo delle tecnologie digitali. Questa nuova metafisica racconta all’uomo odierno di una dimensione ulteriore dell’esistente – quella virtuale – in cui la sua anima potrà trasferirsi una volta che il corpo avrà terminato il proprio ciclo vitale. Ben oltre la promessa di una vita dopo la morte contenuta nel messaggio cristiano – per di più in un Aldilà indefinito – i teorici del transumanesimo e i guru dell’intelligenza artificiale in genere promettono all’uomo odierno un’apparentemente più realistica immortalità terrena. eccolo, nel suo eterno ritornare, il sommo desiderio di cui si è sempre nutrita l’umanità, stavolta realizzabile senza neppure doversi proiettare in un fantomatico mondo trascendente. Si tratta di un nuovo sogno metafisico, da parte di quel soggetto narcisista ed egocentrico che è l’uomo, che non sarebbe stato concepibile senza la distruzione della vecchia metafisica platonico-cristiana operata proprio da Nietzsche. occorreva proclamare la morte di Dio, infatti, perché l’uomo potesse illudersi di prenderne il posto, diventando dio di se stesso. Del resto, come scriveva Jean Paul Sarte, «ciò che rende meglio concepibile il progetto fondamentale della realtà umana, è che l’uomo è l’essere che 20
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progetta di essere Dio». Per realizzare tale progetto – possiamo aggiungere citando rené Girard – il medesimo uomo deve passare attraverso l’ateismo più radicale, nella consapevolezza che «la negazione di Dio non sopprime la trascendenza, ma la fa deviare dall’aldilà all’aldiqua»16. Il guaio è che tutto ciò comporta un prezzo altissimo per l’uomo, a cominciare da quello di spogliarsi della sua umanità e lasciarsi contaminare con una «super-umanità» tecnologica, che di umano rischia di avere ben poco se non nulla. La seconda parte del libro – dopo che la prima ha ricostruito il pensiero di Nietzsche in questa chiave attualizzante – prova a dimostrare come proprio tale pensiero ha esercitato un ruolo determinante nella deriva post-umana del mondo contemporaneo. Sto parlando del nostro mondo, governato a tutti i livelli da un sistema tecno-finanziario che ha ridotto l’uomo a strumento per fini che sono quelli della tecnica e della finanza, ma non i suoi. e che anzi potrebbero distruggerlo. Ciò grazie al dominio di una teologia economica (neoliberismo) che – malgrado la cosa sia stata pressoché ignorata – presenta punti di contatto decisivi con la filosofia nietzscheana. I suoi contemporanei non riuscirono a cogliere la portata dirompente del pensiero nietzscheano, cosa di cui del resto egli era perfettamente consapevole, sentendosi un uomo che parlava al futuro. Lo scriveva chiaramente nella sua autobiografia intellettuale, dove annotava che «ci sono uomini che nascono postumi». oppure ne La Gaia scienza, in cui faceva dire all’«uomo folle»: «Vengo troppo presto […] non è ancora il mio tempo»; oppure ancora, esprimendosi per il tramite del suo alter ego zarathustra: «essi non mi intendono: io non sono la bocca per questi orecchi»17. 16. Sartre 1943: p. 612 e Girard 1961: p. 65. 17. eH: VI,III, p. 307; FW: V,II, p. 130; zA: VI,I, p. 12. uno dei più autorevoli interpreti di Nietzsche ebbe modo di considerare nel 1936 che «l’epoca presente non ha accolto l’insegnamento di Nietzsche, ma all’inverso: Nietzsche ha pre-detto e con ciò mostrato la verità verso cui la storia moderna avanza, poiché essa già ne proviene» (Heidegger 1936: 295).
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Grazie al dialogo serrato e spregiudicato con colui che a suo tempo aveva destato scandalo annunciando la «morte di Dio», insomma, scopriamo che l’unico cadavere con cui rischiamo di avere a che fare è quello dell’uomo che «gioca» al superuomo. Superuomo che Nietzsche aveva auspicato come una nuova forma di umanità in seguito alla caduta degli idoli e alla «trasvalutazione» di tutti i valori. Per ottenere questo, tuttavia, occorreva versare del sangue, a cominciare dal suo. È giunto il momento di mettere le mani in quel «sangue» che Nietzsche ha utilizzato come inchiostro con cui scrivere la vera storia della tragedia umana, fino a pervenire, stremato, angosciato e folle, all’insostenibile verità che ancora oggi viene considerata una verità insostenibile. una verità che l’umanità si sforza di rimuovere da oltre due millenni, e che il grande filosofo tedesco ha drammaticamente affrontato a viso aperto, ben consapevole che «non è il dubbio, ma la certezza a far diventare pazzi… Ma solo dalla profondità si può sentire così, bisogna essere un abisso, un filosofo… Abbiamo tutti paura della verità…»18. una verità che nessuno vuole conoscere proprio perché tutti ne hanno appunto paura, ma che rappresenta il lascito più grande e sconvolgente del filosofo dell’abisso. Tale verità ci dice che l’umanità abita uno scenario costellato dalla morte. Quest’ultima precede e segue la breve parentesi della sua vita (anch’essa comunque permeata di frammenti di morte), rivestendola di un abito nero di cui l’uomo non si può spogliare in alcun modo. Non potendo spogliarsi della morte che lo avvolge, l’uomo arriva paradossalmente a desiderarla (avrebbero accolto questa lezione Freud e Heidegger, fra gli altri), a provare un impulso inconscio ma inesorabile verso di essa, cioè a desiderare di annientarsi pur di non dover vivere una vita nella costante angoscia del pensiero della morte. Ad accettare questa visione tragica dell’esistenza sono stati, secondo Nietzsche, i filosofi presocratici (in particolar modo 18. eH: VI,III, p. 295.
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empedocle ed eraclito). Ma a partire da Socrate e Platone – sempre sempre secondo il filosofo tedesco – l’umanità non ha fatto altro che degradarsi, coltivando illusioni metafisiche legate a divinità e speranze di salvezza che non hanno nessun motivo di esistere. La religione, la scienza e il sapere in genere, la rivoluzione, la democrazia, la Storia, il capitalismo e il progresso non sono stati altro che degli artifici con cui l’umanità ha provato a fornire di senso ciò che senso non ha, illudendo l’uomo di rivestire un ruolo centrale nell’universo. Cullandolo nella falsa ebbrezza di poter rimuovere il pensiero della morte in vita e trovare una salvezza dopo il trapasso. Perfino la filosofia, scriveva Nietzsche riprendendo una riflessione di Leopardi, si è rivelata per l’uomo del tutto inutile, se non per la possibilità di utilizzarla allo scopo di disingannare l’uomo, liberandolo da quelle «verità» che essa stessa lo ha illuso di aver raggiunto19. Nel momento in cui il filosofo tedesco scriveva, a suo dire si era raggiunto il livello massimo di una tale degradazione dell’umanità. Da qui il suo annuncio secondo cui l’umanità è un qualcosa che va superato (e annientato), per lasciar spazio a dei superuomini chiamati a danzare eroicamente nell’insensatezza del tutto e abitare la morte. Il problema è che su questi fondamenti della filosofia nietzscheana si è appoggiata tutta una tradizione teorica e non che – da Hitler e Mussolini a Heidegger, Bataille e Foucault – di fatto ha postulato (e talvolta prodotto) la «morte dell’uomo», ideale ma non solo. Fino ad arrivare alla nostra epoca post e transumana, in cui i deliri di onnipotenza tecno-scientifici possono mettere a repentaglio le sorti dell’intera umanità e del suo ecosistema. Naturalmente Nietzsche non è stato soltanto questo, poiché stiamo comunque parlando di un pensatore geniale e imprescindibile. I due aspetti viaggiano di pari passo e non sono contrad19. Leopardi 1817-1832: v. 1, p. 211. Nietzsche definiva ironicamente la scienza in generale come «una sottile legittima difesa contro la verità» (KSA: GT, I, p. 13). Mentre per la sua critica alla filosofia, fra le altre cose colpevole di «ascrivere la più alta utilità alla conoscenza», cfr. KSA: MA, II, p. 28.
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dittori. Anzi, volendo parafrasare ciò che lo stesso Nietzsche affermava a proposito di Schopenhauer, potremmo dire che spesso «gli errori dei grandi uomini sono venerabili, perché più fruttuosi delle verità dei piccoli uomini»20. ovviamente occorre stare attenti che non si tratti di frutti avvelenati, come in certi punti è avvenuto con il lascito filosofico del Nostro. ecco perché credo che Nietzsche vada letto e conosciuto in tutta la sua carica suggestiva e destabilizzante. Purché si sia disposti a riconoscere la parte nichilista e distruttiva del suo pensiero, che l’umanità non può permettersi di seguire (e ancor meno attuare) se non mettendo seriamente a rischio la propria stessa esistenza. Al fondo di tutto, penso che molti aspetti del suo pensiero sono quelli di un filosofo geniale rimasto bambino. L’umanità che si ostinasse a fare suoi proprio quegli aspetti, si precluderebbe per ciò stesso, e in più sensi, la conquista dell’età adulta. (rimini, Giugno 2022)
20. Cit. in Strauss - Cropsey 1987: p. 849.
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I.
IL NArCISo DISPerATo
1.
Lo specchio in frantumi dell’Occidente cristiano
Se l’uomo in quanto tale avesse un nome, al di là dei singoli individui che ne posseggono uno proprio, questo sarebbe «Narciso». Non solo e non tanto il personaggio mitologico condannato a innamorarsi della propria immagine, quanto piuttosto la figura che la psicologia ha fatto propria per definire icasticamente una patologia specifica. Patologia che, secondo un senso comune ormai diffuso, connoterebbe il narcisista come una persona semplicemente incline a ostentare o a vantarsi rispetto alle proprie qualità presunte. Quando in realtà, come già spiegava Plotino1 ben prima della scienza psicologica, si tratta di una persona che, a fronte di una fragilità e insicurezza radicali, oltre che di un’incapacità di indagare le cose in profondità, non riesce a vedere la bellezza che porta dentro di sé. In questo modo si autocondanna al culto dell’esteriorità, al bisogno continuo di attestati e conferme che gli arrivino dall’esterno, di essere o quantomeno sentirsi al centro dell’attenzione, salvo poi esercitare atteggiamenti crudeli e di sfruttamento verso le persone che gli danno ciò che vuole. Il suo è un bisogno costante e patologico di essere salvato dall’angoscia di riconoscersi come il semplice ingranaggio di un tutto sempre mutevole 1.
Plotino, Enneadi: I,6,8 e V,8,2.
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e sfuggente, che lo fa evaporare nell’oblio e scivolare nell’irrilevanza2. Insomma: l’angoscia di Narciso è quella di sperimentare il nulla e la morte da vivo, ben sapendo che in realtà è evidente:
«Come alle spalle di ognuno sta la sua ombra, la sua cupa compagna di viaggio! […] è morte e silenzio di morte l’unica cosa sicura e a tutti comune di questo futuro! Come è strano che questa unica sicurezza e solidarietà non abbia quasi nessun potere sugli uomini, e che essi siano ben lontani dal sentirsi quasi la confraternita della morte!»3.
rifacendosi a tutta una tradizione di pensiero che da Platone arrivava a Schopenhauer, passando per Leopardi, Shakespeare e de Sade, Nietzsche esprimeva con chiarezza il ruolo centrale che la «morte» assume nella vita umana. Contro tutte le visioni consolatorie, ottimistiche oppure angosciate rispetto a questo evento decisivo, il filosofo tedesco amava farlo attraverso le parole con cui Sileno (seguace di Dioniso) metteva a nudo la condizione tragica dell’umanità:
«Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto»4.
Si tratta di un insegnamento antico che Giacomo Leopardi, autore molto letto da Nietzsche, aveva deciso di far proprio per esempio nel Dialogo di Tristano e un amico. In questa operetta 2. La definizione scientifica parla di persone affette da «incertezza cronica», «insoddisfazione di sé» e inclinazione a sfruttare gli altri nonché a trattarli con crudeltà. Non riescono a distinguere fra l’immagine che hanno di sé e quella di chi sono effettivamente. Amano la propria immagine e non il proprio sé reale, tanto da optare per azioni che incrementano la prima anche a discapito del secondo. Infine: «Senza l’approvazione e l’ammirazione degli altri, l’ego narcisistico si sgonfia, non essendo connesso con l’amore di sé né da tale sentimento nutrito (Lowen 1985: pp. 6-7, 25 e 31). 3. FW: V,II, p. 161. 4. KSA: GT, I, p. 35.
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morale, attraverso le parole del personaggio principale, il poeta italiano arrivava a esprimere la disillusione più amara e radicale rispetto a quella che ormai definiva la «favola della vita», fino a preferirle la morte come liberazione estrema e unica forma di consolazione accettabile: «oggi non invidio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei». Prima ancora del poeta italiano, possiamo leggere un concetto del genere nel drammaturgo inglese Shakespeare, anch’egli molto letto da Nietzsche, che faceva esprimere al suo personaggio più celebre la seguente considerazione:
«Morire per dormire. Nient’altro. e con quel sonno poter dire di terminare i dolorosi battiti del cuore, e le mille offese naturali di cui è erede la carne! Questa è una conclusione da desiderarsi con devozione […] Morire, dormire. Dormire, forse sognare…Ah, qui risiede l’inghippo: quali sogni possano venire in quel sonno di morte, dopo che ci siamo scrollati di dosso questo viluppo mortale – ecco su cosa indugiare. È la riflessione che dà alla mala sorte una così lunga esistenza: chi sopporterebbe le frustate e gli oltraggi del tempo, le angherie dell’oppressore, le contumelie del superbo, gli spasimi dell’amore sprezzato, i ritardi della giustizia, l’insolenza del potere, e gli insulti che l’indegno riserva al merito paziente, quando lui stesso potrebbe pareggiare ogni conto con un nudo pugnale? Chi porterebbe simili fardelli, imprecando e sudando sotto il peso della vita, se non fosse che il terrore di qualcosa dopo la morte – la terra inesplorata dai cui confini nessun viaggiatore fa ritorno – strazia la volontà e ci spinge a subire quei mali che conosciamo piuttosto che fuggire verso quelli che non conosciamo? Così la coscienza fa di noi tanti codardi […]»5.
È indubbio: ci troviamo di fronte a un tipo di consapevolezza fatta propria da un gruppo ristretto di pensatori e autori, evidentemente inclini al nichilismo e alla visione tragica della vita. La grande maggioranza degli uomini, d’altra parte, ha sempre escogitato ogni espediente che aprisse l’orizzonte verso scenari più confortanti, che assicurassero un senso al proprio vivere e allontanassero quanto più possibile lo spettro della morte. 83.
5.
Leopardi 1824-1832: v. 2, p. 220; Shakespeare, Hamlet: III,I, vv. 60-
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Perché il tormento di una vita piena di drammi e colpi inferti dalla sorte beffarda, è pur sempre preferibile al nulla oscuro e angosciante a cui la morte spalanca le porte, come abbiamo appena letto nell’Amleto shakespeareano. A pensarci bene, potrebbe risiedere proprio in questo l’essenza dell’uomo: una creatura che riesce ad andare incontro alla vita in misura proporzionale a quanto quel procedere è uno sfuggire alla morte. Si tratta di una contraddizione esistenziale soltanto apparente che, come aveva messo in evidenza Freud, ritroviamo anche nella psiche dell’uomo: una creatura il cui inconscio è incapace di rappresentarsi la propria morte (quindi di crederla possibile), pur ospitando al proprio interno una «pulsione di morte» che lo spinge al ripristino della situazione precedente alla vita6. Quello dell’uomo, insomma, si rivela alla stregua di un disperato e affannoso tentativo di guadagnare terreno rispetto al grande nulla che lo circonda e gli toglie il respiro, a causa di quel claustrofobico «infinito prima» e «infinito dopo» che si interrompe soltanto per il tempo breve e tormentato che chiamiamo «esistenza». Ma proprio perché questa esistenza è preceduta dal nulla e in esso è destinata a sciogliersi, il suo unico senso consiste nel contraddirsi continuamente, nel consumarsi polverizzando tutte quelle illusioni con cui l’uomo si è attrezzato per affrontarla:
«Lotta, sofferenza e tedio si avvicinano all’uomo, per rammentargli ciò che in fondo è la sua essenza – qualcosa di imperfetto che non può essere mai compiuto. e quando infine la morte porta il desiato oblio, essa sopprime insieme il presente e l’esistenza, imprimendo in tal modo il sigillo su quella conoscenza – che l’esistenza è solo un interrotto essere stato, una cosa che vive del negare e del consumare se stessa, del contraddire se stessa»7.
Da un angoscioso e oscuro nulla siamo preceduti, insomma, e verso un nulla ancora più terrificante siamo diretti, una volta che il nostro esistere in questo mondo sarà giunto al termine. Perché il nostro, scrive Nietzsche distruggendo a colpi di 6. 7.
Freud 1915: v. VIII, p. 147 e 1938: v. XI, pp. 575-6. HL: III,I, p. 263.
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martello la concezione teleologica (quindi speranzosa) che fa da sfondo a tutte le sfaccettature della cultura occidentale, è un «tempo senza meta»8:
«Pensiamo questo pensiero nella sua forma più terribile: l’esistenza, così com’è, senza senso e senza scopo, ma inevitabilmente ritornante, senza un finale, nel nulla: l’”eterno ritorno”. È questa la forma estrema del nichilismo: il nulla (la “mancanza di senso”) eterno!»9.
Come se ciò non bastasse, alla condanna di tale condizione si aggiunge il fardello della piena consapevolezza che a questo destino è impossibile sfuggire. ogni uomo, nel momento stesso in cui inizia a vivere, è per ciò stesso destinato a morire. e lo sa. Considerata in questi termini, la vita può essere vista come il breve tempo che ci è concesso per escogitare tutti gli stratagemmi possibili volti a rimuovere una tale condizione gravosa e inaccettabile. In uno scenario del genere, sottomettersi a quello che Lacan chiamava il «grande calabrone alato della tirannide narcisistica» potrebbe rivelarsi perfino necessario, perché l’alternativa per l’uomo sarebbe solo quella di arrendersi davanti al «Padrone assoluto che gli è dato nella morte»10, e a quel punto si rivelerebbe fatale riconoscersi come il frammento di un nulla costantemente mutevole. La vita è la nostra partita persa in partenza contro il nulla («il più inquietante fra tutti gli ospiti»11), ma dal momento che essa apre le porte al nostro pensare, al desiderare e al prefigurare scenari ulteriori alla vita stessa, costituisce anche l’occasione che l’uomo possiede per illudersi di essere quantomeno il centro di un grande meccanismo oscuro, sebbene non disponga del libretto di istruzioni. Di qui la sua natura di Narciso disperato e accentratore, alla ricerca costante di scenari e trame che gli consentano un ruolo da protagonista, una possibilità di esistere autenticamente. 8. 9. 10. 11.
FW: V,II, p. 274. Cfr. Galimberti 1999: p. 59 e Figal 1999: p. 122. VIII,I: p. 201. Lacan 1948: pp. 121-2. VIII,I.: p. 112.
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Tuttavia, oltre duemila e cinquecento anni di pensiero hanno avuto modo di scalfire più di una delle confortanti illusioni con cui l’uomo si è convinto della propria centralità nel mondo. Ciò è accaduto quando Copernico ha destituito di fondamento l’illusione che la terra fosse il centro del mondo12, oppure quando Darwin ha smontato quella secondo cui l’uomo era il centro della creazione. Con Marx si è appreso che l’essere umano finisce strumento anche della sua stessa capacità di produzione delle merci, mentre Freud ci ha svelato che non esiste nessun «Io» padrone nella casa di Psiche, poiché a dettare legge nella dimensione profonda dell’individuo sono pulsioni che provengono da un luogo misterioso e inconscio. Come se tutto questo non bastasse, poco oltre la metà del XX secolo un signore di nome Marshall McLuhan ha fissato i termini che spiegano come l’uomo può finire a recitare il ruolo di strumento anche nei riguardi di quei «media» che, a dispetto del nome, si rivelano piuttosto in grado di modificare e controllare la percezione e perfino la cognizione di chi ne fa uso nella convinzione di poterne disporre a proprio piacimento. Tutte ferite narcisistiche, appunto, che quel Narciso disperato dell’uomo ha dovuto subire nel corso dei secoli, vedendo frustrate le sue aspirazioni a una centralità che in nessuno di quegli ambiti ha trovato conferma13. Ma per comprendere come quelle aspirazioni non fossero realizzabili a monte, occorre fare riferimento proprio a Nietzsche, cioè al filosofo che più di ogni altro ha decostruito la pretesa tutta umana che, da Platone a Hegel (salvo rare eccezioni) passando per il Cristianesimo e la scienza, ha convinto l’uomo di essere centro e motore di ogni cosa in questo mondo14. Padrone della natura e in grado di costruire il futuro secondo i propri 12. era lo stesso Nietzsche a riconoscere che «da Copernico in poi l’uomo scivola dal centro verso una x» (VIII,I, p. 114). 13. Cfr. ercolani 2019: pp. 199-201. 14. Filosofia pagana (attraverso Platone) e cristianesimo venivano bollati da Nietzsche alla stregua dell’antica verità che ora egli smascherava come la «menzogna più malvagia» (KGW: VI,3, p. 371).
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disegni. Fruitore e legislatore del mondo dei fenomeni e delle cose, ma anche in grado di pensare e financo aspirare alla dimensione metafisica delle idee o entità superiori. Tale pretesa si è appoggiata sostanzialmente su una facoltà che le contiene tutte: la ragione. Nella fattispecie, quella ragione che configura l’uomo come un essere che grazie ad essa è in grado di individuare il fondo sostanziale delle cose, quindi di padroneggiare la conoscenza di sé e del mondo circostante ma anche immaginare razionalmente una dimensione metafisica da cui attingere motivi di speranza e perfino salvezza. Chi si è ispirato all’insegnamento di Nietzsche, invece, come nel caso del filosofo tedesco ortega Y Gasset (18831955), preferiva credere che «non viviamo per pensare ma, al contrario, pensiamo per riuscire a sopravvivere», perché del resto «ciò che le cose sono primariamente è ciò che sono quando non pensiamo ad esse: ciò che sono quando abbiamo coscienza di esse, cioè allorché le viviamo»15. Ma questa concezione rappresenterebbe una diminuzione della propria centralità, agli occhi del Narciso disperato, e soprattutto il rischio che non può assolutamente permettersi di vedere la propria ragione ridotta al ruolo di comprimario nello scenario dell’esistenza. L’uomo, piuttosto, ha bisogno di poter confidare sul fatto che la propria ragione è lo strumento indispensabile e sicuro con cui estrarre alcune certezze da quel terreno per definizione incerto che è la vita. Figura cardine nella costruzione di questa certezza è stata quella di Descartes, che oltre a essere considerato il fondatore della scienza moderna, al di là di questa comoda e schematica etichetta tradizionale si è rivelato come il pensatore in grado di giustificare razionalmente la visione di Dio e di un mondo metafisico affiancati alla realtà terrena16. 15. ortega Y Gasset 1933: t. V, p. 304 e (1932-1933): p. 89. 16. Poiché troviamo in noi l’idea di un Dio o ente perfettissimo, scriveva Cartesio, ma noi uomini non apparteniamo a tale perfezione e il nulla non può essere autore di alcuna cosa, è evidente per «luce naturale (lumine naturali)»
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Cos’altro era l’uomo, secondo Descartes, se non quella formidabile creatura perfettamente capace di costituire l’anello di congiunzione fra il mondo delle cose sensibili e quello delle idee e di un aldilà metafisico, grazie alla sua natura di essere pensante? È in questo ruolo di essere mediano fra il mondo delle cose e quello delle idee che l’uomo può aspirare a dominarli entrambi, il primo grazie alla capacità tecnica di manipolare gli oggetti, il secondo con la ragione in grado di pervenire alla verità tramite la formulazione di idee chiare e distinte17. Si tratta di un percorso filosofico che ha caratterizzato l’occidente in tutte le sue sfaccettature principali, da quella metafisica a quella scientifica, fino a costituirne l’ossatura culturale di fondo. Così è stato per il filosofo metafisico Platone, allorché ritenne di separare nettamente il mondo ultraterreno delle idee da quello terreno delle cose (intese come copie imperfette di quelle stesse idee). Ma allo stesso modo è avvenuto per lo scienziato Francis Bacon, anch’egli disposto a riconoscere un mondo delle verità eterne (abitato da Dio) affiancato a quello delle leggi naturali. entrambi questi ambiti sono alla portata dell’uomo, il primo attraverso la fede, il secondo per mezzo della scienza: «Infatti a causa del peccato originale l’uomo perdette l’innocenza e il dominio sul mondo creato. Tuttavia entrambi si possono che questa idea corrisponde all’esistenza effettiva di quel Dio: «Poiché è cosa certa che chi conosce qualcosa di più perfetto di sé non si è dato l’essere, altrimenti allo stesso modo si sarebbe attribuite tutte le perfezioni di cui avrebbe avuto conoscenza; e quindi che non potrebbe esistere per opera di nessun altro che di colui che possiede in effetti tutte queste perfezioni, cioè Dio» (Descartes 1644: v. VIII, pp. 11-12). 17. «Io non ammetto nulla che non sia necessariamente vero» – scriveva Cartesio – e ad essere vero è che «io, parlando in termini precisi, non sono altro che una cosa che pensa, cioè a dire uno spirito, un’intelligenza o ragione». Poiché «tutte le scienze non sono altro che l’umano sapere», chi vuole investigare «la verità delle cose» non deve far altro che curarsi di «aumentare il lume naturale della ragione». Questa ragione, usata in termini «pratici», mette gli uomini nella condizione di diventare «padroni e possessori della natura». (Descartes 1640-1641: v. IX, p. 21; Id. 1627-1628: v. X, pp. 360-1; Id. 1637: v. VI, pp. 61-2).
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in parte recuperare già in questa vita, la prima per mezzo della fede e della religione, il secondo con le arti e le scienze», scriveva il filosofo inglese18. Platone utilizzava il metodo deduttivo, per cui dall’individuazione di «idee» somme e metafisiche conseguite grazie alla «ragione» (idea del Bene, della Giustizia, etc.), si deduceva necessariamente l’esistenza delle copie di quelle idee nel mondo umano. Ciò al punto che il grande filosofo antico si spingeva a scrivere nel Fedone che le «idee» sono criteri di valutazione ed esse stesse valori, ed egli non avrebbe ammesso altre cause delle cose se non le «ragioni (logoi)» delle cose stesse, cioè la perfezione o il fine a cui sono destinate a ritornare19. È in questo modo che l’uomo, in grado di utilizzare correttamente il logos teoretico, può innalzarsi rispetto alla dimensione terrena e attingere al «Bene» inteso come verità trascendente e causa di tutte le cose che vediamo nel mondo: «Le cose conoscibili non derivano dal bene soltanto la loro conoscibilità, ma anche l’essere e la sostanza, quantunque il bene non sia sostanza ma per volere e potere stia anche al di sopra della sostanza», per riprendere le parole inequivocabili dello stesso Platone20. Francis Bacon, invece, da filosofo empirico prediligeva il metodo induttivo, per cui il vero scienziato è colui che «procede per gradi successivi» sulla scala della conoscenza partendo dalle cose più semplici presenti in natura e compiendo esperimenti sulle stesse fino a poter formulare delle leggi generali che siano il parto indotto dall’esperienza materiale21. In entrambi i casi, seppur attraverso modalità opposte di 18. Bacon 1620: v. I, p. 538. 19. Platone, Fedone: 75c-d e 99e. 20. Platone, Repubblica: 509b. Va precisato che si tratta di un’interpretazione alquanto scolastica di Platone, poiché in realtà il celebre filosofo antico, incline come Nietzsche a pronunciarsi in maniera contraddittoria e per sua stessa ammissione mai autore di alcuno scritto propriamente suo (Lettere: VII, 341c-e), era ben consapevole che l’uomo rappresenta un «piccolo frammento» all’interno del grande cosmo, talmente piccolo da non accorgersi che non è la vita ad avvenire per lui, bensì egli ad essere generato per la vita cosmica (Leggi: X, 90). 21. Bacon 1607-1609: v. VII, p. 139.
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conoscenza, sia la tradizione metafisica sia quella empiristica individuavano nell’uomo la figura mediana fra il mondo ultraterreno e quello terreno. un uomo che, o con la ragione teoretica (Platone) o con quella sperimentale (Bacon) poteva comunque aspirare ragionevolmente alla verità e al progresso della propria condizione, fino ad acquisire una «potenza» con cui dominare la natura22. Da Platone, il Cristianesimo (definito da Nietzsche «platonismo per il popolo»23) ha tratto la visione del mondo divino separato da quello umano, con l’aggiunta decisiva di un Dio che per «amore» ha creato l’uomo e ha mandato sulla terra suo Figlio come anello di congiunzione fra umanità e divinità. Da Francis Bacon hanno tratto la propria ispirazione il capitalismo e il socialismo, che pur nella loro opposizione si figurano l’uomo come elemento centrale che lavora i prodotti della natura per dominarla e per aprire scenari infiniti di progresso tecnico ed economico, nel caso del socialismo pervenendo anche a una società giusta in cui non vi sia più una divisione in classi (una sorta di paradiso in terra). Comunque la si volesse vedere, insomma, emergeva un’identità dell’occidente che, pur contemplando al proprio interno delle differenze anche notevoli, procedeva compatta e animata dalla convinzione di realizzare il «dominio dell’uomo sull’universo»24. Proprio questa identità era al centro degli strali lanciati da Nietzsche, con cui egli ha inteso non soltanto smascherare la grande illusione dell’uomo occidentale, ma anche ripristinare la giusta proporzione fra l’enorme potenza del tutto e l’incorreggibile irrilevanza dell’uomo, che di quel tutto rappresenta soltanto un trascurabile ingranaggio. 22. Lungo tutta la sua opera Francis Bacon sosteneva la piena coincidenza di scienza e potenza, intendendo dire che aumentando la propria conoscenza delle leggi naturali, l’uomo acquisiva un potere proporzionale sulla natura stessa (Bacon 1608-1620: v. VII, pp. 375-6; Id. 1620: v. I, I-3, p. 241 e II-4, p. 344). 23. JGB: VI,II, p. 4. Allo stesso tempo, il filosofo descriveva il proprio pensiero come un «platonismo alla rovescia» (III,III,I: p. 203). 24. Bacon 1602-1603: v. VII, p. 17.
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Secondo il grande filosofo tedesco, infatti, l’elemento unificante della menzogna fatale con cui l’occidente si è illuso di poter dominare l’universo è rappresentato dall’uomo, che in ognuna delle suddette visioni (platonismo, cristianesimo, scienza, marxismo) si presuppone come entità centrale di un mondo che egli può conoscere e padroneggiare attraverso l’uso del proprio pensiero, o tutt’al più di quella ragione servile che consiste nella devozione verso una divinità salvifica. Ma per Nietzsche le cose non stavano così, perché quella del «pensare» intesa come attività che presuppone un soggetto pensante definito e identificabile con l’uomo, costituisce in realtà una confortevole quanto fallace «finzione» da rigettare o perfino capovolgere:
«una volta si credeva all’”anima”, come si credeva alla grammatica e al soggetto grammaticale: si diceva: “Io” è condizione, “penso” è predicato e condizionato – il pensare è un’attività per la quale un soggetto deve essere pensato come causa. Si cercò allora, con un’ostinazione e un’astuzia mirabili, se non fosse possibile districarsi da questa rete, ci si domandò se non fosse vero caso mai il contrario: “penso” condizione, “Io” condizionato; “Io” dunque soltanto una sintesi che viene fatta dal pensiero stesso»25.
Insomma:
«Nella coscienza sentiamo come se volessimo o dovessimo esser tutto, arriviamo a fantasticare di un “io” contrapposto a tutto il resto, al “non io”. Smettere di sentirsi come questo fantastico ego! Imparare gradualmente a liberarci di questo presunto individuo! Scoprire gli errori dell’ego! Capire l’egoismo in quanto errore! L’opposto non è affatto altruismo, che sarebbe amore per altri presunti individui. No! Al di là di “me” e di “te”! Sentire in modo cosmico!»26. 25. JGB: VI,II, p. 60. Nei frammenti postumi Nietzsche ribadisce che il «soggetto» non è un dato, bensì un’interpretazione dei nostri stati interiori che noi, arbitrariamente, raggruppiamo in base alla categoria dell’uguaglianza: «“Soggetto” è la finzione derivante dall’immaginare che molti stati uguali in noi siano opera di un solo sostrato; ma siamo noi che abbiamo creato l’”uguaglianza” di questi stati; il dato di fatto è il nostro farli uguali e sistemarli, non l’uguaglianza (che anzi è da negare)» (VIII,II: p. 116). 26. KSA: IX, p. 443.
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In questa posizione anti-cartesiana risulta evidente la vicinanza con la psicoanalisi: non soltanto a partire dal quasi contemporaneo Freud, il quale affermava che «lo pischico non coincide affatto con ciò che è cosciente, e quindi «l’Io non è padrone in casa propria»27, ma soprattutto con Jacques Lacan, teorico dell’individuo come abitato da una “x” loquente e profonda (l’Es o «significante»). Questa si configura, secondo Lacan, alla stregua di quella che Freud chiamava «l’altra scena»28 governata dal macchinario dell’inconscio, in grado a sua volta di dominare la dimensione psichica dell’uomo fino al punto da farsene legislatrice incondizionata. In tal senso non è possibile affermare che l’uomo parla, ma piuttosto che egli «è parlato», attraversato da una forza o pulsione strutturante rispetto alla quale l’«Io» finisce con l’essere soltanto un sintomo, «il sintomo umano per eccellenza, la malattia mentale dell’uomo». Di qui la polemica contro il «cogito filosofico», definito il «miraggio che rende l’uomo moderno così sicuro di essere sé nelle sue incertezze su se stesso»: in tale direzione può essere letta l’affermazione criptica, ancora di Lacan, secondo cui «penso dove non sono, dunque sono dove non penso», ovvero «penso a ciò che sono là dove non penso affatto di pensare»29: l’uomo non è soggetto del proprio pensiero, ma strumento inconsapevole di un «Altro» (l’inconscio) che lo vincola ai propri pensieri e che gli fa credere di esprimerli come se quegli stessi pensieri fossero suoi. Qui viene posta una pietra tombale sulla categoria di «soggetto», «coscienza» o «Io», con cui il Narciso umano ha cercato di credersi attore e protagonista consapevole della scena esisten27. Freud 1917: v. 8, p. 663. Non è questione di poco conto rilevare come lo stesso Freud scriveva queste parole in una lettera del 1931 a Lothar Bickel: «Nello sforzo di capire un filosofo, ho sempre pensato che sarebbe stato inevitabile impegnarsi nelle sue idee e sottoporsi alla sua guida durante il proprio lavoro. Per questo ho rifiutato lo studio di Nietzsche, anche se mi era chiaro che potevano essere trovate in lui concezioni molto simili a quelle della psicoanalisi» (Hessing 1977: p. 224). 28. Lacan 1958: p. 167. 29. Lacan 1958²: p. 628; Id. 1953-4: p. 20; Id. 1957: p. 517.
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ziale. Se a porre questa pietra è stato il pensiero psicoanalitico, bisogna essere consapevoli che esso ha potuto farlo utilizzando le profonde intuizioni elaborate da Nietzsche nel contesto filosofico (a sua volta fortemente debitore di Schopenhauer). È con questa consapevolezza che Paul ricoeur inseriva Freud e Nietzsche (insieme a Marx) all’interno di quella «scuola del sospetto» che ha compiuto la frattura rispetto alla scienza moderna iniziata da Descartes. Secondo quest’ultima si poteva mettere in dubbio ogni cosa ma non la coscienza dell’individuo che dubita, tanto da poter partire proprio dalla certezza di questa coscienza per ordinare la conoscenza del mondo circostante secondo i criteri della «chiarezza e distinzione»30. Con la scuola del sospetto, invece, «dopo il dubbio sulla cosa siamo entrati nell’epoca del dubbio sulla coscienza», quindi della messa in questione dell’essenza stessa dell’essere umano, cioè del luogo da cui originano tutte le «falsità» di cui esso ama convincersi pur di sfuggire alla «tirannia del dolore»31. In questo senso va intesa l’affermazione dello stesso Nietzsche, il quale, dopo aver preso atto che i suoi scritti «sono stati chiamati una scuola di sospetto e ancor più di disprezzo», scriveva: «Che mai potete sapere di tutta la falsità che ancora mi è indispensabile, perché io possa continuare a permettermi il lusso della mia veridicità?»32. La cruda veridicità delle affermazioni nietzscheane, nelle intenzioni del pensatore tedesco, era evidentemente costruita parallelamente alla demolizione dell’edificio di menzogne costruito lungo tutta la storia del pensiero umano che lo aveva preceduto. Che si tratti di far uso della virtù razionale o di quella morale, insomma, il Narciso umano si è costruito per Nietzsche 30. obiettivo dichiarato di Descartes era quello di «non comprendere nei miei giudizi nulla di più di quello che si presenta così chiaramente e distintamente alla mia intelligenza da escludere ogni possibilità di dubbio» (Descartes 1637: v. VI, p. 18). 31. ricoeur 1965: p. 21; M: § 114 per la tirannia del dolore. 32. MA: prefazione, § 1.
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il proprio specchio che gli restituisce un’immagine confortante del cosmo, all’interno della quale egli può riconoscere l’esistenza di una propria identità, di una o più verità da raggiungere con la ragione, di un senso o una direzione definibili verso cui il mondo si dirige (l’aldilà, il mondo delle idee, Dio) o può essere diretto dall’uomo stesso per mezzo delle proprie facoltà (progresso, società giusta, sviluppo, ricchezza). Il problema è che a un certo punto è arrivato Nietzsche, il distruttore di idoli venuto ad annunciare il crepuscolo dell’occidente cristiano. Colui che con il suo martello filosofico ha mandato lo specchio in mille pezzi. 2.
Al di là del bene e del male
Grazie allo specchio, attraverso cui illudersi che le immagini che vuole vedere riflesse corrispondano effettivamente al vero, il Narciso della cultura occidentale sembra non avere grandi problemi con le domande fondamentali dell’esistenza. Sul «chi» può averlo creato insieme alle cose del mondo, egli trova sempre un dio più o meno benevolo che può fungere anche da risposta alle domande sull’«origine» del tutto e sul «dove» l’uomo stesso potrà essere diretto dopo la breve parentesi della vita. Per tutto il resto egli ha a disposizione la ragione, quel formidabile strumento con cui si conosce e riconosce simile a Dio o parte di esso, ma che soprattutto gli consente di cogliere il «come» delle faccende del mondo. Con l’utilizzo della ragione razionale o sperimentale egli può aspirare a comprendere le leggi naturali con cui funzionano tutte le cose dell’universo, facendosene in questo modo padrone e legislatore, come abbiamo visto esemplificato dai casi di Descartes e Bacon. Ma sempre grazie alla ragione, seppure declinata nei termini mistico-religiosi del «cuore» e dell’«amore», l’uomo individua ed entra in contatto con quelle «verità» religiose e metafisiche che, in un modo o nell’altro, lo confortino rispetto a una vita dopo la morte. era il caso del filosofo cristiano Blaise Pascal, il 38
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quale scriveva che «noi conosciamo la verità non soltanto attraverso la ragione, ma anche con il cuore; per mezzo di questa seconda opzione comprendiamo i primi principi»33. Ma prima ancora era la Bibbia a spiegare in termini chiari che «chi non ama, non conosce Dio, perché Dio è amore. L’amore di Dio per l’uomo si è tradotto in Gesù Cristo, per cui chi «riconosce» (il verbo utilizzato è «omologhéo»: avere lo stesso lógos) in Gesù il figlio di Dio, lo stesso Dio permane in lui e lui in Dio, mediante quell’anello di congiunzione mistica fra umanità e divinità che è l’amore incarnatosi nel Cristo34. Tuttavia, questa visione apparentemente completa e sicuramente confortante delle cose, che per Nietzsche l’uomo si costruisce esclusivamente all’interno della propria mente e senza che la realtà esterna vi corrisponda in qualche modo, presenta un punto debole evidente e pericoloso, perché in grado di far crollare l’intero edificio delle umane (troppo umane) costruzioni. Sì, una volta soddisfatte le domande sul chi (Dio), sul da dove e per dove (regno dei cieli), nonché sul come (per amore), si erge un quesito imponente e irrisolto: «perché?». Perché un dio avrebbe dovuto crearci? Perché la nostra vita, quale il senso di questo breve ma intenso affannarsi se poi ognuno muore e ogni cosa finisce lì? Insomma, l’edificio sapientemente costruito su risposte confortanti rispetto al chi, al come, al dove o verso cosa, potrebbe facilmente crollare se a mancare fosse la risposta alla domanda che rischia di contenerle tutte: perché? Perché la vita, perché noi gettati nel duro mestiere di vivere? Perché, semplicemente, qualcosa piuttosto che il nulla? L’esigenza di trovare una risposta alla domanda sul «perché» manifesta nell’uomo quello che 33. Pascal 1669: § 479. Poco prima, nel paragrafo 474, scriveva che «tutto il nostro ragionare si riduce a cedere al sentimento». 34. Biblia sacra: 1 Gv 4, 8-16. È in questo senso che Sant’Agostino avrebbe poi parlato di una conoscenza in grado di contenere l’amore («cum amore notizia»), poiché nessun pensiero incapace di riconoscere l’amore di Dio sarà in grado di conoscere il Padre e il suo Verbo (Agostino Santo 419: IX, 10, 15).
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Nietzsche chiamava l’«ideale ascetico», il bisogno di innalzarsi rispetto all’insensato caos presente nel mondo terreno per assurgere alle armonie di un aldilà fornito e fornitore di «senso»:
«Se si prescinde dall’ideale ascetico, l’uomo, l’animale uomo non ha avuto fino ad oggi alcun senso. La sua esistenza sulla terra è stata vuota di ogni meta; “a che scopo” fu una domanda senza risposta; mancava la volontà per uomo e terra; dietro ogni grande destino umano risuonava, a guisa di ritornello, un ancor più grande “invano”. Questo appunto significa l’ideale ascetico: che qualche cosa mancava, che un’enorme lacuna circondava l’uomo – egli non sapeva giustificare, spiegare, affermare se stesso, soffriva del problema del suo significato…Non la sofferenza in se stessa era il suo problema, bensì il fatto che il grido della domanda “a che scopo soffrire?” restasse senza risposta. L’uomo, l’animale più coraggioso e più abituato al dolore, in sé non nega la sofferenza; la vuole, la ricerca persino, posto che gli si indichi un senso di essa, un “perché” del soffrire. L’assurdità della sofferenza, non la sofferenza, è stata la maledizione che sino a oggi è dilagata su tutta l’umanità – e l’ideale ascetico offrì a essa un senso! È stato fino a oggi l’unico senso; un qualsiasi senso è meglio che nessun senso…; la sofferenza venne interpretata; l’enorme vuoto parve colmato; si chiuse la porta dinanzi a ogni nichilismo suicida»35.
Consapevole del grande pericolo nel lasciare irrisolta tale questione, l’uomo, secondo Nietzsche, a partire da Socrate e Platone in filosofia, poi seguiti dal cristianesimo e dagli «ebrei» nella religione36, si è costruito la disciplina con cui rispondere alla domanda delle domande. Questa disciplina ha preso il nome di «morale», che per Nietzsche rappresentava soltanto una «falsa interpretazione»37 di certi fenomeni di cui si faceva interprete la parte più abietta dell’umanità: si tratta «dell’istinto del gregge 35. GM: VI,II, p. 366. 36. «Sono stati gli ebrei ad aver osato, con una terrificante consequenzialità, stringendo ben saldo con i denti dell’odio più abissale (l’odio dell’impotenza), il rovesciamento dell’aristocratica equazione di valore (buono = nobile = bello = felice = caro agli dèi) […] Ha inizio con gli ebrei la rivolta degli schiavi nella morale, quella rivolta che ha alle sue spalle una storia bimillenaria e che oggi non abbiamo più sotto agli occhi per il semplice fatto che – è stata vittoriosa… (GM: VI,II, pp. 232-3). 37. VI,III: p. 95.
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contro i forti e gli indipendenti, dell’istinto dei sofferenti e dei malriusciti contro i felici, dell’istinto dei mediocri contro le eccezioni». Tutti elementi di una casta sacerdotale e filosofica malata, che però trovano nella morale il mezzo per acquisire forza ed esercitare la propria volontà di potenza nonostante la radicale impotenza. una tale origine miserevole spingeva il filosofo tedesco ad affermare «l’esigenza di una critica dei valori morali»38. La divisione fra il mondo vero del Bene e delle idee contrapposto a quello falso delle copie e delle apparenze, divisione iniziata in filosofia da Platone, portava con sé in maniera perfettamente conseguente anche la distinzione fra un «bene» che si richiama al mondo ideale e un «male» che invece caratterizza quello terreno: lo stesso Platone era convinto che fosse possibile «definire razionalmente l’idea del bene»39. Da qui deriva secondo Nietzsche anche la visione che accosta al bene entità come Dio, l’anima, la ragione, lo Stato, la conoscenza, i fatti e la verità, rispettivamente contrapposti al Diavolo, al corpo, alle passioni (o all’istinto), all’egoismo, all’opinione (doxa), alle interpretazioni o alla falsità, tutti ricondotti semplicisticamente alla dimensione del male:
«Fino ad oggi non si è neppure avuto il minimo dubbio o la minima esitazione nello stabilire “il buono” come superiore, in valore, al “malvagio”, superiore in valore nel senso di un avanzamento, di una utilità, di una prosperità in rapporto all’uomo in generale (compreso l’avvenire dell’uomo). Come? e se la verità fosse il contrario? Come? e se nel bene fosse insito anche un sintomo di regresso, come pure un pericolo, una seduzione, un veleno, un narcoticum, attraverso il quale a un certo punto il presente vivesse a spese dell’avvenire?»40.
38. VIII,II: p. 82; KSA: V, p. 253. 39. Platone, Repubblica: 534b. 40. GM: VI,II, p. 219. Scriveva opportunamente Gianni Vattimo (1974: p. 97) che sotto il concetto della morale Nietzsche pensava «la ratio socratica, platonica e cristiana nel suo dispiegarsi come totalità di vita sociale e individuale». Carattere essenziale di questa totalità è quello di «contrapporre un mondo vero a un mondo falso, un dover essere a un essere di fatto», ed è in ciò che queste tradizioni «si fondano su una prospettiva essenzialmente morale».
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La morale si fonda sulla capacità di individuare e quindi distinguere il «bene» dal «male», fornendo al tempo stesso all’uomo la risposta all’insidiosa domanda di cui sopra: tutto è stato creato in nome del «Bene» e dell’amore, ogni cosa deve essere rivolta o indirizzata verso un bene finale e anche l’uomo, finalmente, trova la risposta al «senso» del suo esistere. egli è chiamato a operare in nome della virtù, a divenire lui stesso virtuoso e a realizzare varie forme di bene che gli consentiranno di risultare adeguato al ricongiungimento con il Bene supremo, che sia il mondo delle idee di Platone o il regno dei cieli della cristianità. A tal proposito si può fare riferimento al passo in cui Platone riconosceva al pensiero il compito etico di trovare «i ragionamenti persuasivi per spingere i giovani all’amore del bene e del giusto, nonché per indurli a stringere legami di amicizia e di solidarietà reciproci», oppure a quelli della Bibbia in cui si specifica che «Dio è amore» e, in virtù di questo, «la sua volontà è che tutti gli uomini vengano salvati»41. Si tratta di una disciplina che secondo Nietzsche era sconosciuta al mondo presocratico, intelligentemente impegnato a cogliere il continuo divenire delle cose come un tutto regolato dal caso e dalla necessità, entrambi «innocenti» e non ingabbiabili all’interno di umanissime sostanze ferme come il «bene» o il «male». Mentre un filosofo come Platone si preoccupava di distinguere con nettezza il necessario e il bene, Parmenide parlava espressamente di «sovrana Necessità» ed eraclito scriveva che «tutto accade di necessità»42. Nietzsche si inseriva nella tradizione dei due presocratici: «Perciò una teodicea non fu mai un problema ellenico: ci si guardò dall’addossare agli dèi l’esistenza del mondo e, quindi, la responsabilità per la sua configurazione. Anche gli dèi sono sottomessi all’anánche [«necessità»,
2,4.
41. Platone, Lettere: VII, 328d; Biblia sacra: 1Giovanni 4,8; 1Timoteo
42. Platone, Repubblica: 493c; Parmenide, Frammenti: B-8; eraclito, Frammenti: B-80.
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in greco antico nel testo]: questo è un riconoscimento della più rara sapienza»43. Ancora una volta emerge con nettezza la rottura operata da Nietzsche rispetto alla cultura occidentale, che nella sua versione «scientistica» riteneva con Bacon lo scienziato capace di ergersi a «soggiogatore della necessità», mentre nella sua componente religiosa pensava con Sant’Agostino che Dio, ben lungi dall’essere sottoposto anch’egli all’ordine cosmico, ne fosse piuttosto il «signore e padrone»44. Quella dei filosofi presocratici, invece, era per Nietzsche una visione «tragica» e al tempo stesso realistica dell’esistenza, che consentiva loro di «dire sì alla vita» non mortificando o rimuovendo del tutto dimensioni umane assai più veraci e proficue come quelle dell’istinto, del corpo, degli appetiti anche sessuali nonché dell’eroismo nell’accettare le disposizioni immodificabili del destino che governa su tutte le cose (amor fati). In questo senso la morale rivela per Nietzsche tutto il suo statuto di finzione illusoria, di sovrastruttura intellettuale dell’uomo che, così facendo, vuol credere di padroneggiare anche i meccanismi fisiologici che originano da fattori invisibili all’occhio umano. In conseguenza di ciò, la morale non è altro che la presunzione umana di regolarizzare il regno dell’oscurità e del mistero appigliandosi a valori metafisici: «Nelle epoche di civiltà rozza e primordiale l’uomo credeva di conoscere nel sogno un secondo mondo reale; è questa l’origine di ogni metafisica. Senza il sogno non si sarebbe trovato alcun motivo di scindere il mondo». Quel che è certo, comunque, consiste nel fatto che la morale «tende ad ingannarci sulla natura, cioè a farci guidare da essa lasciandoci intendere che siamo noi a guidarla»45. Con Socrate e soprattutto con Platone, ancora una volta 43. DW: III,II, p. 57. «Guardiamoci dal dire che esistono leggi nella natura. Non vi sono che necessità: e allora non c’è nessuno che comanda, nessuno che presta obbedienza, nessuno che trasgredisce» (FW: V,II, p. 137). 44. Bacon 1603: v. VI, p. 447; Agostino Santo 413-426: IV, § 33. 45. KSA: MA, II, p. 27; Jaspers 1936: p. 139.
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seguiti dal mondo ebraico-cristiano e dall’intero pensiero filosofico occidentale salvo rarissime eccezioni, secondo Nietzsche si è affermata la «morale» come visione con cui l’uomo soddisfaceva due bisogni estremi: da una parte quello di trovare risposta alla domanda delle domande e, quindi, un senso al suo esistere apparentemente privo di un’origine e una meta razionali, oltre che di un criterio oggettivo in base al quale condurre la propria esistenza; dall’altra realizzare una forma più subdola di volontà di potenza, soprattutto da parte di quelle istituzioni (la Chiesa) e quegli individui (filosofi moralisti, sacerdoti, profeti etc.) che intendevano affermare il proprio potere facendo leva sul «risentimento» che i deboli, i mediocri, i malriusciti e gli oppressi provano verso i forti e il loro libero e fisiologico istinto di dominio e sopraffazione verso tutto ciò che gli è inferiore46. È in questo modo che, secondo Nietzsche, valori «contronatura» come la bontà, la carità, la fratellanza, l’amore per il prossimo etc., hanno costituito il grimaldello con cui la variegata casta sacerdotale dei moralisti (da Socrate e Platone fino alla Chiesa cristiana, passando per Kant) ha potuto scardinare il portone messo a protezione di tutto ciò che è vitale, forte e naturale. Ciò avveniva al tempo stesso inducendo il «senso di colpa» e la «cattiva coscienza»47 nei forti e benriusciti, da una parte, e giustificando il «risentimento» dei deboli e malriusciti per la loro condizione di sottomissione e inferiorità rispetto ai primi, dall’altra. Configurata in questi termini da Nietzsche, quella scienza del bene e del male che chiamiamo morale si staglia come una delle più antiche e imponenti opere di auto-illusione e falsificazione compiute dalla filosofia occidentale. 46. «Nella morale la rivolta degli schiavi ha inizio quando il ressentiment diventa esso stesso creatore e genera valori» (VII,II: pp. 235-6). 47. Con la «cattiva coscienza», scriveva Nietzsche, fu introdotta «la più grande e sinistra delle malattie, da cui fino ad oggi l’umanità non è guarita, la sofferenza che l’uomo ha dell’uomo, di sé: conseguenza di una violenta separazione dal suo passato d’animale, di un salto e di una caduta, per così dire, in nuove situazioni e condizioni esistenziali, di una dichiarazione di guerra contro gli antichi istinti, sui quali fino allora riposava la sua forza, il suo piacere e la sua terribilità» (GM: VI,II, pp. 284-5).
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Auto-illusione perché, in realtà, non esiste secondo Nietzsche alcun criterio oggettivo che possa demarcare nettamente una qualsiasi cosa come «buona» o «cattiva» in sé. La natura stessa, e con essa l’ordine umano e terreno delle cose, non prevede l’individuazione di sostanze a tal punto definite (bene o male, vero o falso, etc.), trattandosi piuttosto di un incessante divenire in cui il giusto e lo sbagliato risultano soggettivi e alternantisi alla stessa maniera del giorno e della notte: l’uno è inconcepibile senza l’altro e naturalmente entrambi dipendono dal punto di vista, che nel caso del giorno e della notte è perfettamente difforme in due osservatori posti agli antipodi del pianeta terra. un’osservazione fredda e oggettiva della natura, secondo il filosofo tedesco ci fa vedere come l’istinto di prevaricazione e sottomissione da parte di tutto ciò che è più forte verso ciò che è più debole costituisce la costante che sempre si ripete ed eternamente ritorna, senza che all’interno della natura stessa vi sia alcun parametro morale su cui si regolino le creature animali e vegetali48. Insomma, il giudizio morale sul comportamento altrui o perfino sui meccanismi della natura è cosa prettamente umana, una sorta di presunzione egocentrica da parte di chi vuole mettersi al centro o addirittura innalzarsi al di sopra di un meccanismo di cui in realtà è soltanto semplice ingranaggio. Qui vediamo l’origine per cui si deve provare vergogna della morale («pudenda origo»): «e dietro questa follia non sta anche il più immodesto di tutti i riposti pensieri, quello di essere noi stessi il principio del bene, poiché è alla nostra stregua che si misura bene e male?»49. Soltanto l’uomo, a parere di Nietzsche, nella sua disperata e 48. JGB: VI,II, § 259. un concetto simile era stato espresso nell’antichità da Seneca, quando scriveva che l’uomo è persino peggiore dell’animale, perché prova piacere nel «distruggere un altro uomo»; in epoca più vicina a Nietzsche da Leopardi, che sottolineava l’«odio verso i nostri simili» che caratterizza tutte le specie animali, al punto che è impossibile chiudere in una stanza due esemplari dello stesso sesso senza che il più forte uccida il più debole (Seneca, Lettere a Lucilio: 103,2; Leopardi 1817-1832: v. 2, p. 1183). 49. M: VI,I, pp. 70-1.
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al tempo stesso narcisistica condizione di produttore seriale di illusioni confortanti, coltiva la pretesa di individuare questi due misuratori gerarchici di valore (il Bene e il Male), sostanzialmente per non rassegnarsi al dominio della natura e del destino ma per cercare di orientare ideali, valori e azioni secondo criteri quanto più possibile conformi alla ragione umana. ragione umana che ovviamente si auto-assegna il ruolo di giudice supremo e termometro infallibile rispetto a ciò che è giusto o sbagliato, bene o male, umano o disumano, colpevole o peccaminoso. Si percepisce in maniera netta la lezione di due autori come Hobbes e Spinoza, che ispirandosi a un’etica amorale e materialistica identificavano come «colpevole» soltanto quell’azione, omissione e volontà che siano state compiute contro la ragione di Stato o in disobbedienza delle sue leggi50. Siamo di fronte a una presunzione clamorosa, secondo il Nietzsche che aveva fatta proprio una tale lezione, quando pretendiamo di introdurre dei criteri morali oggettivi, poiché in realtà non soltanto la natura e gli animali non operano e agiscono secondo i suddetti criteri, ma neppure l’uomo riesce a rispettarli nella loro perfezione astratta. Sì, perché anch’esso è mosso in realtà da un radicale istinto egoistico, che a differenza di quanto avviene per la natura e per gli animali ama nascondersi dietro a una sofisticata finzione altruistica, efficacemente descritta nell’aforisma 57 di Umano, troppo umano: «La ragazza che ama desidera poter sondare l’infedeltà dell’amato, la devota fedeltà del suo amore. Il soldato desidera cadere sul campo di battaglia per la sua patria vittoriosa: poiché nella vittoria della sua patria vincono insieme i suoi più alti desideri. La madre dà al figlio ciò che toglie a se stessa, il sonno, il miglior cibo e, in certi casi, la salute e gli averi […] Non è evidente che in tutti questi casi l’uomo ama qualcosa di sé, un pensiero, un’aspirazione, una creatura, più di qualche altra cosa di sé, che egli, cioè, scinde il suo essere e ne sacrifica una parte all’altra? […] Nella morale l’uomo tratta se stesso non come individuum, ma come dividuum»51.
50. Hobbes 1642: XIV,17, v. II, p. 197; Spinoza 1677²: IV,37, sc. 2, v. II, p. 239. 51. KSA: II, p. 76.
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Questo il punto. La morale vuole individuare motivazioni altruistiche per atti che in realtà sono una perfetta conseguenza di bisogni e inclinazioni presenti nel soggetto che quegli atti li compie. Certo che la madre ama il figlio, come è certo che il soldato ama la sua patria, la ragazza l’amato e il benefattore il beneficiario, ma questi sentimenti non rispondono a istanze morali (dover corrispondere a un presunto bene – o male – che non esiste), bensì a istinti che danno «piacere» anzitutto a chi li compie. Si tratta, appunto, di una forma più sofisticata di istinto o piacere, rispetto al puro soddisfacimento delle pulsioni e dei bisogni primari ricercato dagli animali. Tale forma più sofisticata consiste nel proiettare su un’altra creatura il proprio sé, procurando piacere a se stessi per interposta persona. oltre a rappresentare una finzione assolutamente non riscontrabile all’interno della natura, cioè un’illusione che anzi finisce col rivelarsi in antitesi rispetto alle dinamiche della natura stessa (in realtà portata a elevare ciò che è forte, egoistico, dominante), nella visione di Nietzsche la volontà tutta umana di certificare l’esistenza del «Bene» e del «Male» si configura anche come una falsificazione che deriva dai rapporti di forza sussistenti nella società o nella cultura di un determinato tempo e luogo: «I nostri doveri sono i diritti di altri su di noi», scriveva in Aurora, come del resto il diritto che altri possono esercitare su di noi «è la concessione che il nostro sentimento di potenza fa al sentimento di potenza di questi altri»52. Insomma, in qualunque azione l’uomo si produca, dalla più crudele alla più buona, dalla più sorprendente e geniale a quella più misera e stupida, secondo Nietzsche egli compie quell’azione in quanto mosso dalla volontà di potenza, che nel suo caso si traduce in ricerca del proprio piacere. Fare del male a qualcuno 52. M: V,I, pp. 79 e 81. In Il viandante e la sua ombra, Nietzsche esplicita il concetto con chiarezza ancora maggiore: «Il contenuto della nostra coscienza è tutto ciò che negli anni dell’infanzia ci fu regolarmente richiesto senza motivo da parte di persone che veneravamo o temevamo». La coscienza «non è dunque la voce di Dio nel petto dell’uomo, bensì la voce di alcuni uomini nell’uomo» (WS: IV,III, p. 165).
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dà piacere all’uomo esattamente come fargli del bene. Non sono male e bene i motori dell’agire umano, essi si configurano semmai alla stregua di alibi intellettuali e morali, bensì la ricerca del «godimento di sé»53. In questo senso, a stabilire le leggi morali è sempre un potere (società, Stato, Chiesa, partito etc.) che, sfruttando il bisogno tutto umano di ricercare e stabilire delle cause morali per il proprio agire, che altrimenti sarebbe regolato dal caso o dalla necessità, vuole sostituirsi a quella forza cosmica che è la volontà di potenza nell’istituire e dirigere i codici mentali e comportamentali dell’uomo:
«Fino ad oggi si sono avute pessime meditazioni sul bene e sul male: è sempre stata una questione troppo pericolosa. La coscienza, la buona reputazione, l’inferno, in certe circostanze anche la polizia, non hanno permesso e non permettono spregiudicatezza: appunto alla presenza della morale, come di fronte a ogni autorità, non si deve pensare, ancor meno parlare: qui si ubbidisce!»54.
Ma Nietzsche si sente anche in questo uno spartiacque, un profeta in grado di gettare le basi per lo smantellamento dell’edificio morale in piedi fin dalla notte dei tempi: «Qui nulla ricorda l’ascesi, la spiritualità e il dovere: qui a parlarci è soltanto un’esistenza vitale, anzi trionfante, in cui ogni cosa che esiste è riconosciuta come divina, non importa se sia buona o cattiva»55. La sua convinzione di un tempo che ormai è giunto («la morale sta crollando»), è pari soltanto all’enfasi con cui ne annuncia l’inizio: si tratta di «un grande spettacolo in cento atti, che viene riservato ai due prossimi secoli europei, il più tremendo, il più problematico e forse anche il più ricco di speranza tra tutti gli spettacoli […]»56. 53. MA: IV,II, § 103. 54. M: V,I, p. 4. «Con la morale il singolo viene educato a essere funzione del gregge, e ad attribuirsi valore solo come funzione», scriveva Nietzsche in maniera perentoria (FW: V,II, p. 124). 55. KGW: GT, III,1, p. 31. 56. KSA: GM, V, pp. 410 sgg.
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Giunti a questa consapevolezza, secondo l’ottica dell’«immoralista» Nietzsche, operare una «trasvalutazione di tutti i valori» conducendo l’uomo «al di là del bene e del male»57, equivale a distruggere la secolare finzione moralistica, quindi a liberarsi dalle catene subdole di una tradizione capace di scaldare il cuore con i suoi valori rassicuranti ma del tutto falsi: «Quanto più, rispetto alla scala di valori del passato ti avvicini al gelo totale, tanto più ti avvicini anche ad un fuoco nuovo»58. emerge l’intenzione profonda di Nietzsche: ricondurre l’umanità all’identità che le è propria, facendole sentire il gelo di un mondo privo di morale ma almeno autentico. Proprio da questa autenticità può generarsi il calore di un fuoco nuovo per la stessa umanità, in grado però di bruciare tutte le sue speranze. Quindi di polverizzarla. 3. L’insensatezza della vita: volontà di potenza e gerarchia umana
Incapace di sostenere il gelo della propria condizione effettiva, l’umanità ha impiegato secoli per attizzare il fuoco fatuo della morale. una morale in grado di produrre quel tepore che deriva dal fornire la vita di senso, introducendovi le categorie del bene e del male e assegnando all’uomo il compito di immolarsi sull’altare del primo. Il guaio è che, secondo Nietzsche, la vita non è nulla di tutto questo. essa non corrisponde minimamente alle sofisticherie con cui gli uomini hanno preteso di «disinnescarla» a esclusivo 57. JGB: VII,II, p. 180. È il caso di precisare che sarebbe un errore vedere in Nietzsche l’apologeta della «cattiveria» tout court, perché la sua intenzione principale era semmai quella di ridefinire i presupposti su cui basare il nostro intendimento di ciò che è bene o male: «Io non nego, come va da sé – ammesso che non sia pazzo – che molte azioni dette non etiche siano da evitare e da combattere, e così pure che molte, dette etiche, debbano essere compiute e perseguite; però penso che nell’uno come nell’altro caso si debba partire da fondamenti diversi da quelli esistiti fino ad oggi» (M: V,I, p. 72). 58. VII,I,I: p. 181.
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uso e consumo dei propri timori e delle proprie insicurezze, illudendosi in questo modo di poterla controllare e perfino dirigere. Infatti la vita non ha un senso, o perlomeno questo non è individuabile da quella creatura al tempo stesso terrorizzata ed egocentrica che risponde al nome di uomo: «Non c’è nessun fatto concreto, tutto è fluido, inafferrabile, cedevole; le cose più durature sono ancora le nostre opinioni […] Dare un senso – questo compito resta assolutamente da assolvere, posto che nessun senso vi sia già»59. Né si può pensare che la vita si sviluppi seguendo la patetica e miserevole logica moralistica istituita dall’umanità. Spogliata da ogni maschera tranquillizzante, infatti, la vita si rivela piuttosto come «qualcosa di essenzialmente immorale», in riferimento a cui le categorie morali del giusto e dello sbagliato (o del bene e del male) finiscono con l’assumere un carattere distruttivo e di negazione rispetto all’autenticità della vita stessa: pretendere che tutto diventi morale significherebbe cedere alla «volontà di morte», cioè «vorrebbe dire togliere all’esistenza quella grandezza che è il suo carattere, vorrebbe dire castrare l’umanità e ridurla a misera cineseria»60. Il paradosso è che non è solo la vita in quanto tale a essere immorale, ma lo è per primo lo stesso inventore della morale, l’uomo, e ciò proprio nel momento in cui decide di istituire questa finzione «contronatura», così da esercitare la propria volontà di potenza sulla vita stessa (volendo illudersi di esserne il protagonista) e sugli altri individui (riuscendo spesso effettivamente a sottometterli a un proprio codice di «valori»). Ma in cosa consiste, questa radicale immoralità della vita e della condizione umana in genere? Quale, insomma, l’elemento scandaloso individuato da Nietzsche e in grado da solo di polverizzare in un battere di ciglia la secolare illusione con cui l’umanità ha voluto occultare i termini reali della propria identità e condizione effettive? Per comprenderlo occorre innanzitutto spogliarsi dalla 59. VIII,I, p. 88 e p. 140. 60. GT: III,I, p. 11 e eH: VI,III, p. 379.
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costruzione secondo cui il mondo è governato dalla morale, cioè dalle presunte leggi del bene e del male. Nulla di tutto ciò esiste realmente, se non nella fantasia dell’uomo. A regolare ogni cosa è piuttosto la natura, che Nietzsche identifica con il «fato», ed essa non conosce neppure, né certamente tiene in alcuna considerazione, le leggi del bene e del male. Cioè non tiene conto degli irrilevanti voleri dell’uomo, e infatti «noi non accusiamo la natura di immoralità, quando essa ci manda un temporale e ci bagna. Perché diciamo immorale l’uomo che fa il male? Perché qui noi supponiamo una volontà libera, che regna capricciosamente, e lì necessità. Ma questa distinzione è un errore»61. La natura regola le faccende del mondo in assenza di alcuna regola e, se ne può essere certi, in totale spregio di quelle categorie morali con cui l’uomo vuole imprimere un senso di bontà o cattiveria al corso delle cose. Assumere la natura o il fato come legislatore delle cose del mondo, insomma, significa spogliarsi di tutte le ipocrisie con cui la mente umana si è illusa di codificare il mondo secondo il proprio metro di giudizio. L’umanità ha ben pensato di realizzare la propria rivoluzione «francese», almeno a partire da Socrate e lungo il corso dei secoli, all’insegna di parole d’ordine come libertà, uguaglianza, fraternità. Ma l’«antico regime» della natura funziona in maniera del tutto opposta: non v’è alcuna libertà per l’uomo, che piuttosto deve scoprirsi e accettarsi come il semplice ingranaggio di un meccanismo molto più grande di lui, che opera in maniera necessaria, oscura, impersonale e priva di alcuna finalità: «e sapete voi cos’è per me il “mondo”? […] Questo mondo è un mostro di forza, senza principio, senza fine, una quantità di energia fissa e bronzea, che non diventa né più grande né più piccola, che non si consuma, ma solo si trasforma, che nella sua totalità è una grandez61. MA: IV,II, p. 79.
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za invariabile, un’economia senza profitti né perdite, ma anche senza incremento, senza entrate, circondata dal “nulla” come dal suo limite»62.
Né v’è alcuna fraternità a regolare i rapporti fra le creature, perché un occhio profondo e sincero vedrebbe piuttosto che le cose del mondo sono regolate da un continuo tentativo di prevaricazione di ciò che è più forte nei confronti di ciò che è più debole. Ma soprattutto, e qui arriviamo alla distruzione radicale del fondamento stesso della morale, non v’è alcuna uguaglianza fra le creature del mondo. Analizzare l’esistenza con mente lucida e spregiudicata, secondo Nietzsche, equivale a prendere atto del fatto che il principio in base al quale viene regolata ogni cosa, dalla più piccola alla più grande, è quello della gerarchia. L’umanità si divide in una grande massa di malriusciti, a cui si contrappone un esiguo numero di individui benriusciti, di spiriti liberi, di uomini superiori anche e soprattutto nella misura in cui riescono a rifiutare la finzione della morale63:
«L’uomo di specie nobile sente se stesso come determinante il valore, non ha bisogno di riscuotere approvazione, il suo giudizio è “quel che è dannoso a me, è dannoso in se stesso”, conosce se stesso come quel che unicamente conferisce dignità alle cose, egli è creatore di valori»64.
I pochi benriusciti, in buona sostanza, sono coloro la cui superiorità consiste nel comprendere questo funzionamento della natura, questo ordinamento superiore imposto dal fato, accettandolo senza nascondersi dietro alla gonna materna della morale ma anzi conformandosi quanto più possibile a quell’ordinamento stesso. 62. WzM: § 1067, p. 561. 63. «La maggioranza degli uomini non ha diritto all’esistenza, ma costituisce una disgrazia per gli uomini superiori» (WzM: § 872, p. 480), a cui corrisponde questo frammento postumo: «Ai malriusciti io non riconosco neppure il diritto [all’esistenza]. Ci sono anche popoli malriusciti» (KSA: XI, p. 102). 64. JGB: VI,I, p. 179.
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In tal senso gli individui di lignaggio superiore non sono né buoni né cattivi, ma soprattutto non regolano le proprie azioni secondo ciò che la morale comune vorrebbe imporre come giusto o sbagliato, umano o disumano. Il loro conformarsi all’unico ordine esistente, quello innocente e immorale della natura65, li spinge a operare senza compassione o sensi di colpa in vista della realizzazione del proprio piacere e dell’accrescimento della propria potenza. Tutto ciò all’insegna di quello che Nietzsche chiamava «pathos della distanza», che in sintesi estrema sta a significare la consapevolezza di superiorità da parte degli aristocratici e la loro conseguente (e perfettamente legittima, secondo il filosofo) volontà di mantenere ogni tipo di distanza nei confronti del «gregge» e della sua morale per deboli: «il pathos della nobiltà e della distanza […] il perdurante e dominante sentimento fondamentale e totale di una superiore schiatta egemonica in rapporto a una schiatta inferiore, a un “sotto” – è questa l’origine dell’opposizione tra “buono” e “cattivo”»66. Solo in questo senso era possibile per Nietzsche la distinzione fra un «buono» e un «cattivo», fra un bene e un male, cioè nella misura in cui è buono e bene tutto ciò che conduce all’innalzamento del più forte, al suo naturale dominio su tutto ciò che è più debole: in questa dialettica del dominio risiede la possibilità di un accrescimento della vita in genere, della natura e conseguentemente delle creature che ne fanno parte. Volendosi formare un’idea concreta di ciò che Nietzsche intendeva per malriusciti e deboli, è sufficiente ricorrere alla distinzione primaria all’interno del genere umano: quella fra uomini e donne. Queste ultime rappresentano per il filosofo tedesco l’epito65. «La piena irresponsabilità dell’uomo per il suo agire e per il suo essere è la goccia più amara che chi persegue la conoscenza deve inghiottire, se era abituato a vedere nella responsabilità e nel dovere il titolo di nobiltà della sua umanità» (MA: IV,II, p. 83). «Da quanto tempo ormai mi sforzo di dimostrare la perfetta innocenza del divenire!» (KSA: XI, p. 553). 66. GM: VI,II, p. 225.
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me di tutto ciò che è espressione di debolezza, ipocrisia, pavidità e, quindi, malattia per quella pianta bisognosa di vigore (e virilità) che è la vita. Né si limitano a questo ruolo già di per sé funesto, ma come ogni creatura debole esse esercitano la propria volontà di potenza cercando di indebolire anche tutto ciò che è forte, virile, attivo e combattivo. In questo ruolo le donne risultano le migliori alleate dei preti e dei moralisti, perché insieme a loro intenzionate ad affermare un codice valoriale finalizzato alla castrazione degli istinti maschili, della sessualità libera e in generale di ogni azione che esalti la virilità. Non potendo sottomettere il maschio sul terreno della forza e della razionalità, le donne si alleano con i preti per inibirlo sul terreno della morale: instillando negli uomini il senso di colpa per la loro virilità libera e dominante, contribuiscono all’affermazione di un ordine sociale in cui proprio i valori deboli, antivitali e contronatura prendono il potere. È interessante notare come si trattasse di un concetto già accennato dal marchese de Sade, laddove questi parlava del «clero» come di una moltitudine di fannulloni intenta a svolgere il compito ozioso di servire Dio e le donne»67. Si deve evitare l’errore di pensare che queste idee di Nietzsche relegassero la questione all’aspetto squisitamente filosofico e teorico, poiché facendo tali considerazioni egli teneva presente il contesto storico in cui si trovava a scrivere, caratterizzato dall’ emergere in maniera organizzata del movimento di emancipazione femminile, insieme ad altri fenomeni sociali accomunati da un giudizio di condanna da parte del pensatore tedesco68: «Virilizzazione della donna è l’espressione corretta per “emancipazione della donna”. ossia: plasmano se stesse in base all’immagine che possiede l’uomo odierno e desiderano i suoi diritti. Aspetto in cui
67. Per un approfondimento di tali questioni, nonché per i riferimenti precisi, rimando alle pagine su Nietzsche in ercolani 2016. Per la citazione del marchese de Sade, cfr. Sade 1995: p. 318. 68. L’avvento della «democrazia», degli «arbitrati di pace» al posto della guerra, dell’«uguaglianza», dei «diritti delle donne», della religione e della compassione, erano tutti aspetti della modernità considerati da Nietzsche alla stregua di sintomi di una «vita declinante» (KGW: VI,II, p. 421).
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io noto una degenerazione nell’istinto delle donne attuali: dovrebbero sapere che, su questa strada, distruggono la loro potenza. Quando non vorranno farsi più mantenere e faranno veramente concorrenza all’uomo a livello borghese-politico, quindi rinunceranno a quel modo mite e indulgente con il quale sono state trattate fino ad oggi, allora […] ovunque lo spirito dell’industria ha scalzato lo spirito militare e aristocratico, oggi la donna aspira all’autonomia economica e giuridica di un commesso» – scriveva Nietzsche – ma tutto questo è solo un sintomo «del crescente infiacchimento e ottundimento degli istinti più femminili», frutto di un’operazione di «sfemminizzazione» e «disincantamento della donna», che in questo modo «viene resa più isterica e più inadatta al suo «primo e ultimo compito, quello di dare alla luce figli vigorosi»69.
Per lui, questo movimento di emancipazione delle donne rappresentava uno dei molti aspetti della modernità colpevoli di distruggere l’impianto aristocratico delle società premoderne, condotto da donne di natura malata o impotente che riversavano tale debolezza infeconda su istinti e propositi contronatura. L’uomo di stirpe superiore non prova alcuna attrazione per questa tipologia di donna impegnata a rifiutare la natura, poiché egli desidera due cose sopra ogni altra, il pericolo e il gioco, e perciò ama la donna soltanto quando essa incarna la parte del «giocattolo più pericoloso». La conclusione è netta: «L’uomo deve essere educato per la guerra e la donna per il ristoro del guerriero: tutto il resto è sciocchezza»70. Non v’è dubbio sul fatto che Nietzsche rappresenta l’apice filosofico della misoginia, ma nel nostro caso ciò si rivela ancora più interessante, se non altro per il tipo di deduzioni che si possono trarre dalle argomentazioni che egli proponeva. Allo stesso modo degli uomini e delle donne, tutte le creature del mondo rientrano per il filosofo all’interno di una gerarchia stabilita dalla natura, rispetto alla quale ogni tentativo di modificare il ruolo assegnato a ciascuno dal fato si rivela come un abominio illusorio e persino funesto per le sorti evolutive dell’intera umanità. 69. KGW: III,1, p. 277 e VI,2, pp. 181 sgg. 70. KGW: VI,1, p. 81.
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Sì, perché ben lungi dall’essere stata creata da un dio che per di più le concede il dono del libero arbitrio, e quindi la possibilità di modificare l’ordine delle cose, l’umanità si rivela per Nietzsche come un’entità inserita all’interno di una rappresentazione in cui il copione è stato già scritto. Quanto più ogni individuo si conforma a tale copione, rispettando il ruolo assegnatogli, tanto più egli farà il proprio bene e quello dell’umanità nel suo insieme. In questo copione v’è scritta una parola sola, perché essa soltanto regge, governa e dirige tutti gli esseri del mondo. Questa parola è «potenza»:
«Togliamo la bontà suprema dal concetto di Dio: è indegna di un Dio. Togliamone la suprema sapienza – la vanità dei filosofi è colpevole della stravaganza di un Dio che è un mostro di sapienza: Dio doveva somigliare a loro il più possibile. No! Dio è la suprema potenza – e basta! Da lei deriva tutto, da lei deriva il “mondo”»71.
Se dalla potenza deriva ogni cosa, ogni cosa è retta da un istinto primario a corrispondere a tale potenza, seppure in un grado inferiore man mano che si scende nella scala gerarchica delle entità mondane. Allo stesso modo ogni uomo è titolare di quella potenza, ne è come attraversato e non può fare a meno di asssecondarla, pena lo scadere nella miseria della morale contronatura che indebolisce lui stesso e tutto il genere umano di conseguenza. In nome di questa scoperta Nietzsche correggeva quello che lui stesso considerava l’ottimistico (perché finalistico) assunto di Darwin, secondo cui la vita è una selezione delle specie più adatte in vista di un continuo miglioramento dell’umanità (qui, appunto, il finalismo darwiniano). Assolutamente no, la vita è contrassegnata dal dominio degli individui più potenti, è selezione naturale della potenza che vede prevalere quei soggetti che non soltanto posseggono a un grado più alto la volontà di potenza, ma sono disposti a riconoscerla come unico motore 71. WzM: § 1037, p. 546.
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della vita stessa e non si fanno scrupoli a sottomettere tutto ciò che è più debole rispetto a loro. Senza alcun rimorso o senso di colpa, perché non c’è colpa nell’assecondare l’istinto primario che necessariamente governa ogni forma di vita: «È implicito nel concetto del vivente che esso necessariamente cresca, che allarghi la sua potenza e che, quindi, accolga necessariamente in sé forze estranee»72. Ma anche senza la convinzione di contribuire, così facendo, a qualche presunto obiettivo dell’umanità nel suo insieme, poiché nulla di tutto questo è previsto all’interno di quel meccanismo senza senso e senza scopo che chiamiamo vita. Insomma, al contrario di quello che pensava Darwin, non sono gli individui che si adattano all’ambiente, perché semmai è quest’ultimo ad adattarsi alla volontà di potenza incarnata dagli individui e dalle stirpi più forti, al loro istinto di «appropriazione» e «assimilazione» che si traduce in un «voler sopraffare, formare, modellare e rimodellare, finché il vinto sia passato interamente sotto il potere dell’aggressore, accrescendolo»73. In questo senso, la natura, l’uomo, la società, la Storia, ogni cosa è partecipe ed esecutrice della volontà di potenza, per una sorta di emanazione cosmica che ne fa l’unica, inevitabile e al tempo stesso imperscrutabile legge che governa il tutto: «l’ultimo fatto a cui perveniamo scendendo in profondità», cioè «l’intima essenza dell’essere»74. Ciò è vero al punto che perfino conoscere ciò, assumerlo senza cadere preda delle allettanti scorciatoie della morale, si rivela come la forma più alta, nobile ma anche tragica di volontà di potenza. Tragica poiché porta con sé la consapevolezza che tutto ciò che è debole deve essere dominato, che la vita è prevaricazione 72. VIII,III, p. 167. 73. VIII,II, p. 77. 74. VII,III, p. 348 e VIII,III, p. 50. Questa visione della volontà di potenza come «carattere fondamentale dell’ente in quanto tale», spinse Heidegger (1961: pp. 745 e 751) a individuare anche nella filosofia di Nietzsche un’essenza metafisica che pure il filosofo aveva combattuto lungo tutta l’evoluzione del suo pensiero.
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e desiderio di sottomissione in ogni sua sfaccettatura, che chi abita i gradini più bassi della scala umana e naturale dovrà essere eliminato dal ciclo inesorabile della potenza. Verso la fine della sua vita cosciente Nietzsche, con toni enfatici e proporzioni universali, arrivò a teorizzare l’opportunità e perfino la necessità di tutto questo, facendosi promotore di un «partito della vita» di cui egli stesso sarebbe stato la guida e che avrebbe dovuto realizzare un programma decisamente inquietante:
«Arriva il tempo in cui verrà condotta la lotta per il dominio della terra – verrà condotta in nome di teorie filosofiche fondamentali». Solo a partire da questa sua iniziativa si realizzerà sulla terra una «grande politica», che metterà fine «inesorabilmente a tutto quanto è degenerato» e con cui si procederà alla fisiologica «estirpazione della parte degenerata», alla «castrazione dei criminali» nonché all’«annientamento di milioni malriusciti»: «Qui si deve sopprimere, annientare, muovere guerra»75.
È superfluo constatare che questa radicalizzazione inequivocabile dei toni avrebbe aperto uno squarcio non rimarginabile, fra gli interpreti del suo pensiero in chiave di ispirazione filosofica per la deriva nazista e coloro che lo avrebbero considerato un teorico della liberazione dai lacci della tradizione e del potere castrante (liberazione possibile comunque per pochissimi, stando alla visione aristocratica propria del filosofo). Qualunque fosse l’intenzione di Nietzsche, ad ogni modo, la sua esposizione cruda, spregiudicata e altamente tragica dell’influenza che la volontà di potenza esercita sulle cose del mondo, non avrebbe più consentito a nessuno di presentare il mondo 75. KGW: V,2, p. 444, VIII,3, p. 452, VI,3, p. 364, VIII,2, p. 145 e VIII,3, p. 12. In uno degli ultimissimi appunti del dicembre 1888, Nietzsche sembrava fugare il dubbio che la sua fosse un’operazione dai connotati etnici, di ceto o comunque specificamente politici: «Io conduco una guerra. Non tra popolo e popolo […] Non tra i ceti […] Io conduco una guerra che passa attraverso tutti questi casi assurdi come popolo, ceto, razza, professione, educazione, istruzione: piuttosto una guerra fra l’ascesa e il declino, tra volontà di vita e sete di vendetta contro la vita, tra onestà e malvagia bugiarderia» (KGW: VIII,3, p. 452).
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umano come caratterizzato dalla libertà, dall’uguaglianza e dalla fraternità. In alcuno degli ambiti ritenuti fondamentali (identità, ragione, conoscenza, natura, politica, etc.) gli uomini sono legittimati a scorgere un carattere essenziale di libertà, di uguaglianza o di fraternità, se non altro per il fatto che queste sono tutte aspirazioni umane (troppo umane!) che risultano prive di fondamento e senso, specie in un mondo che di umano ha ben poco. 4. Il «peso più grande»: il «Superuomo» di fronte all’eterno ritorno del nulla
Quella di Nietzsche come filosofo ha tutti i connotati di una missione. Si tratta nientemeno che di porre fine a oltre due millenni di illusioni, di menzogne filosofiche, di un clamoroso autoinganno da parte dell’umanità che, sostanzialmente per paura della morte, è stata disposta a degradare la propria vita con l’affermazione di concetti e valori destinati a immiserire e depotenziare la vita stessa. una missione epocale, grandiosa e decisiva per due ragioni sostanziali: da una parte l’enorme passato con cui fare i conti, composto da grandi pensatori come anche da concetti che si sono talmente sedimentati nel tempo da assurgere al rango di un senso comune arduo da estirpare. Dall’altra la sfida del futuro, quell’epoca a venire cui Nietzsche era fortemente convinto di rivolgersi, perché nel proprio tempo non c’erano orecchie pronte ad ascoltare un messaggio tanto devastante e sconvolgente: «Gettiamo lo sguardo avanti di un secolo, ipotizziamo che il mio attacco a due millenni di contronatura e deturpamento dell’uomo abbia avuto successo. Quel nuovo partito della vita, che si fa carico del più grande di tutti i compiti, l’allevamento dell’umanità al superamento di se stessa, comprendendovi l’inevitabile annientamento di tutto ciò che è degenere e parassitario, renderà nuovamente possibile quel sovrappiù di vita sulla terra, da cui dovrà risorgere ancora una volta anche lo spirito dionisiaco. Io prometto un’epoca tragica: l’arte suprema del dire sì alla vita, la tragedia, sorgerà nuovamente, una vol-
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ta che l’umanità saprà di avere alle sue spalle le guerre più dure, ma più necessarie, senza più soffrirne»76.
una missione per la «vita»77, insomma, quella di Nietzsche, nelle sue intenzioni destinata a spalancare all’umanità un futuro di autenticità e rigenerazione, sostanzialmente recuperando la visione tragica e dionisiaca che dell’esistenza possedeva l’antica Grecia, prima di essere corrotta dalle menzogne teoretiche di quei «sintomi del decadimento» e «strumenti della dissoluzione greca» che erano stati Socrate e Platone78. Qui arriviamo al punto. Sì, perché se quella di Nietzsche è una lotta per la vita, un «dire sì alla vita», allora la domanda diventa cogente: dire sì a quale vita? Di quale vita stiamo parlando, infatti, se l’uomo dovrà assistere al crepuscolo di tutti i suoi idoli, se dovrà acquisire la consapevolezza che non esistono fatti ma soltanto interpretazioni, che non è possibile fermare alcun «essere» poiché l’esistenza è soltanto un caotico e oscuro divenire? Come sopportare il peso di un’esistenza in cui non poter contare su alcun «io» né dio che lo salvi? Su alcuna verità né conoscenza che la rassicuri? Come può fare il Narciso disperato senza il suo specchio, con cui almeno illudersi di vedere immagini che non siano in realtà la propria maschera deformata?79 Nietzsche era ben consapevole dell’enorme difficoltà a cui si trovava di fronte. Si trattava non solo e non tanto di distruggere l’intero impianto filosofico della tradizione occidentale, 76. KGW: eH, VI,3, p. 311. 77. Lo stesso Nietzsche si autocelebrava come il «filosofo della vita» (KGW: V,2, p. 366). 78. KGW: GD, VI,3, p. 62. Nietzsche era uno strenuo sostenitore della grandezza dei greci antichi, detentori del coraggio di «guardare in faccia il dolore e di conoscere e sentire i terrori e le atrocità dell’esistenza» senza rifugiarsi in vane speranze ultraterrene come poi avrebbero fatto a partire da Socrate e Platone (GM: III,I, p. 32). 79. «Muovendo dalla necessità di esser stabili nella nostra fede per prosperare, abbiamo fatto sì che il mondo “vero” non sia un mondo che muta e diviene, ma un mondo che è» (VIII,II, p. 112).
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compito già di per sé immane, ma anche di riaffermare una visione della vita e del mondo assolutamente tragica, priva di ogni forma di conforto, rassicurazione o illusione:
«Conosco la mia sorte. un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di […] una crisi quale mai si era vista sulla terra, la più profonda collisione della coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che finora è stato creduto, preteso, consacrato. Io non sono un uomo, sono dinamite. e con tutto ciò non c’è nulla in me del fondatore di religioni. […] Non voglio “credenti”, penso di essere troppo malizioso per credere a me stesso, non parlo mai alle masse […] Ho una paura spaventosa che un giorno mi facciano santo. […] Ma la mia verità è tremenda: perché fino ad oggi si chiamava verità la menzogna. Trasvalutazione di tutti i valori: questa è la mia formula per l’atto con cui l’umanità prende la decisione suprema su se stessa, un atto che in me è diventato carne e genio. Vuole la mia sorte che io debba essere il primo uomo decente, che sappia oppormi a una falsità che dura da millenni […] Io vengo a contraddire come mai si è contraddetto […] Solo a partire da me ci sono nuove speranze. Con tutto ciò io sono necessariamente anche l’uomo del fato»80.
Con toni enfatici e imbarazzante convinzione di sé, seppure senza farsi mancare note di gustosa ironia, Nietzsche riteneva che fosse giunto per lui il tempo di smontare il «tutto» illusorio e fallace con cui l’umanità aveva riempito e circondato la propria esistenza, per sostituirlo con il «nulla» che in realtà quell’esistenza la rappresenta autenticamente e fino in fondo. In termini strettamente filosofici ed esistenziali, insomma, occorreva recuperare quella visione «nichilistica» di tutte le cose che è la sola a fornire una rappresentazione corretta del mondo. Il nichilismo è un tema che ha riguardato in modo particolare l’ultimo Nietzsche, come si può evincere fin da un suo frammento dell’autunno 1885 in cui si domandava: «Il nichilismo è alle porte, donde ci viene questo che è il più inquietante fra gli ospiti?»81. 80. KGW: eH, VI,3, pp. 363 sgg. 81. VIII,I, p. 112.
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esattamente due anni dopo, sempre in un frammento postumo, il filosofo ne chiariva quantomeno i connotati: «Nichilismo: manca il fine, manca la risposta al “perché?”; che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi perdono ogni valore»82. Lo abbiamo visto, l’assenza di una risposta alla domanda fondamentale («perché», perché qualcosa e non il nulla?) è quella che ha rischiato fin dall’inizio di mettere a repentaglio la tenuta del fragile edificio delle illusioni umane, almeno fin da quando il sofista Gorgia aveva sollevato la questione in termini espliciti: «Nulla esiste. Se anche qualcosa esiste, non è comprensibile all’uomo. Se pure è comprensibile, è per certo incomunicabile e inspiegabile agli altri»83. Non si tratta, evidentemente, di negare l’esistenza delle cose che vediamo, quanto piuttosto di comprendere che non ne possiamo cogliere l’essenza, il perché sono in un modo invece che in un altro. Soprattutto, ci è precluso il senso ultimo delle cose stesse, il fine per cui esistono e poi si consumano, e quindi il fine del mondo stesso e dell’esistenza umana con esso. A questo tragico «inconveniente» la filosofia socratico-platonica aveva risposto con la divisione fra un mondo apparente (quello delle copie, in cui siamo immersi nella nostra esistenza) e uno vero (quello delle idee, in cui regnano fra le altre le idee del Bene e del Vero)84. Tale «soluzione» era stata ripresa dal cristianesimo in forma più evoluta, con la divisione fra la terra, «valle di lacrime» e regno del «peccato», e l’Aldilà, caratterizzato dalla presenza di Dio come garante di ogni «verità» e di una meta a cui l’essere umano può aspirare dopo la morte. Nietzsche decideva di rifiutare la visione del mondo umano come dimensione dell’apparente, ma non per identificare un 82. VIII,II, p. 12. 83. Gorgia, Frammenti: B-3. 84. Tale assurda divisione è frutto dell’«ideomania» di Platone, affetto da un «delirio quasi religioso per le forme» e, in questo senso, inventore della metafisica come quella scienza che «si occupa degli errori fondamentali dell’uomo – però come se fossero verità basilari» (KSA: FW, III, p. 597 e MA, II, p. 40). Quando in realtà per Nietzsche tutto l’esistente è «apparenza, fuoco fatuo e danza di spiriti e niente più» (KSA: FW, III, p. 417).
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nuovo mondo vero contrapposto all’Iperuranio platonico o all’Aldilà cristiano, bensì per certificare che l’apparenza è la cifra che determina ogni cosa. Non esiste alcun mondo vero, se non nelle farneticazioni del Narciso disperato. Per conformarsi all’unica verità che gli è concessa, cioè il nulla caotico, l’uomo deve spogliarsi di tutte le credenze coltivate fino a quel momento, votandosi alla forma estrema di nichilismo che già un autore considerato da Nietzsche l’erede moderno della tragedia greca, come Shakespeare, aveva espresso in Macbeth: «La vita non è che un’ombra che cammina, un misero giocatore che si pavoneggia e si agita per la sua ora sopra il palcoscenico, e poi non si sente più. una storia raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, ma priva di alcun significato»85. In questa operazione, paradossalmente, ad essergli utile è proprio il cristianesimo in quanto momento di estrema illusione e ultimo appiglio per tenersi stretti alla finzione metafisica, ma anche forma più alta e sofisticata di ricerca della verità, secondo Nietzsche. Proprio quest’ultima caratteristica, portata alle sue estreme conseguenze, permette al cristiano di realizzare il proprio anelito di veracità e rigore, fino ad abbandonare le confortanti ma cialtronesche fantasie della metafisica divina: «Si vede che cosa fu propriamente a vincere sul Dio cristiano: la stessa moralità cristiana, il concetto di veracità preso con sempre maggior rigore», scriveva Nietzsche nella Gaia Scienza, per poi aggiungere in Genealogia della morale: «In tal modo il cristianesimo come dogma è crollato per la sua stessa morale; in tal modo anche il cristianesimo come morale deve ancora crollare – noi siamo alla soglia di questo avvenimento»86. Nietzsche era convinto di rappresentare questa soglia. Proprio lui, che aveva demolito due millenni di pensiero metafisico, era perfettamente in grado di cogliere nel cristianesimo quello che al tempo stesso si rivelava il momento più alto (e più falso) 85. Shakespeare, Macbeth: V,5, vv. 23-27. In un frammento postumo giovanile, Nietzsche vedeva Shakespeare come il più degno continuatore della tragedia greca, fino poi a paragonarlo ad omero (III,III,I, p. 307 e GT: III,I, p. 27). 86. FW: V,II, p. 229 e GM: VI,II, p. 365.
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di una tale tradizione bimillenaria ma anche l’inizio della sua fine. Si trattava di compiere il passo fatale, assumersi il coraggio e la pesante responsabilità dell’annuncio dopo il quale nulla sarebbe stato più come prima: «Dio è morto!», intendendo con questa affermazione che si spalancava davanti all’umanità l’epoca tragica ma veritiera in cui essa avrebbe smesso di proiettarsi verso un mondo ultraterreno e imparato a restare «fedele alla terra», all’unica vita che ha a disposizione87. eloquente la sintesi di eugen Fink su questo aspetto del pensiero di Nietzsche:
«Ciò che finora valeva come “essere” in contrapposizione al “divenire” non esiste, mentre esiste il divenire soltanto; non c’è alcun essere al di là dello spazio e del tempo; nessun intelligibile regno degli spiriti e nessun mondo delle idee eterne; c’è soltanto il mondo esperibile sensibilmente, che qui si mostra nello spazio e nel tempo; c’è soltanto la terra sotto questo cielo; ci sono soltanto le innumerevoli cose “tra cielo e terra”»88.
Ma qui si ripropone con forza la domanda pressante: di quale vita stiamo parlando? Priva di speranze e illusioni, la vita dell’uomo è tragedia compiuta, avvolta da un nulla che la circonda da ogni parte e a cui essa è condannata a tornare costantemente. L’uomo che acquisisce una tale consapevolezza è colui che porta sulle spalle «il peso più grande»89, quello di sapere che la 87. «La morte di Dio esprime il tramonto della dimensione metafisica che, a partire da Platone, pensa Dio, l’Iperuranio, il Sovrasensibile come “causa suprema”, come “spiegazione” e “fondamento” delle cose sensibili, verso cui è protesa la volontà di potenza dell’uomo» (Heidegger 1953: p. 198). 88. Fink 1960: p. 150. 89. È il titolo dell’aforisma 341 de La gaia scienza, in cui il lettore viene messo di fronte a un’alternativa drammatica: se un demone dovesse rivelare che la vita già vissuta deve ricapitare un numero infinito di volte, due potrebbero essere le reazioni: rotolarsi a terra, «digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato»; oppure ammettere di aver vissuto un «attimo immenso» e riconoscere nel demone un dio. Anche in questo secondo caso, però, la domanda «”Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte” graverebbe sul tuo agire come il peso più grande (das grösste Schwergewicht)!» (FW: V,II, p. 202).
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vita umana è un eterno ritorno delle stesse cose e situazioni, intendendo con ciò che non vi è un inizio né una fine, non una speranza di cambiamento della situazione data, perché si tratta di un meccanismo arido e impersonale governato solo e soltanto da una caotica necessità, che vede gli uomini per primi nel ruolo di pedine a cui è stato assegnato un ruolo immodificabile nella scacchiera priva di ordine dell’esistenza. Si tratta di una questione, quella della possibilità di rivivere la propria vita, che in qualche modo era stata anticipata dal poeta Giacomo Leopardi, da Nietzsche molto letto e apprezzato. Ma con esiti ben diversi rispetto a quelli cui sarebbe arrivato il filosofo tedesco. Nel Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere, infatti, Leopardi fa dire al passeggero che «avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro». Questo poiché «si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere». Ma quella del poeta italiano era una visione tragica che lasciava aperte le porte alla speranza, seppure nella forma inconsistente e poco convinta del «futuro»: «Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura». oppure ancora: «Il piacere umano […] si può dire ch’è sempre futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro»90. ora, posto che in Leopardi vi erano svariati motivi per pensare che anche lui, come abbiamo visto, contemplasse una sorta di eterno ritorno all’insegna della disperazione (per esempio quello delle speranze umane che continuamente vengono smentite da una natura cinica e indifferente), la visione di una realtà eternamente ritornante ancora più vicina a quella intesa da Nietzsche è possibile leggerla in Schopenhauer, il quale scriveva che: 90. Leopardi 1824-1835: v. 2, p. 210; 1817-1832: v. 1, p. 306. Sempre nello Zibaldone, il poeta italiano rincarava la dose scrivendo che «se anche desideriamo ancora vivere, ciò non è che per l’ignoranza del futuro» (1817-1832: v. 2, p. 1145).
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«Per quanto sul teatro del mondo cambino i drammi e le maschere, gli attori sono sempre i medesimi. Sediamo insieme e parliamo e ci sollecitiamo gli uni con gli altri, e gli occhi rilucono e le voci diventano più forti: proprio allo stesso modo migliaia di anni fa altri sono stati così a sedere: era la stessa cosa, erano le stesse persone: e così sarà tra mille anni»91.
Ma non v’è dubbio che è con il teorico della volontà di potenza che assistiamo a un salto qualitativo dirimente. Privata delle speranze in un aldilà pieno di risposte e soluzioni, la vita umana, con tutto il suo carico di maschere, divenire caotico e impossibilità di alcuna verità ferma, si rivelava per Nietzsche come il «nulla eterno»92, l’interminabile accadere di un movimento circolare che proprio nella sua circolarità non apre l’esistenza umana a possibilità diverse rispetto al nulla che è sempre stato. Ci troviamo, in questo senso, di fronte al paradosso più tragico e claustrofobico: quello di un essere, l’uomo, inserito in una dimensione «temporale» che egli chiama vita e che, tuttavia, gli si rivela alla stregua di una gabbia con le rotelle. egli vi è dentro, percepisce il proprio muoversi, ma gli è precluso ogni orizzonte di libertà, ogni possibilità di stabilire la mèta di quel movimento. In uno scenario siffatto, l’uomo non vive il proprio tempo, ma semmai ne è schiavo, come aveva sentenziato con parole scolpite nella pietra William Shakespeare, nell’opera Pericle, principe di Tiro: «Da questo vedo che Tempo è il re degli uomini, al tempo stesso loro genitore e tomba. e dà loro quel che egli vuole, non ciò che quelli bramano»93. All’interno di una condizione del genere, non possono essere la fede o la conoscenza a regolare la vita dell’uomo, poiché non esiste alcuna divinità in cui riporre la propria fede né 91. Schopenhauer 1851: v. II, p. 377. un’origine ancora più antica del concetto la si può rintracciare nei filosofi Stoici, i quali pensavano «che tutta la sostanza si cambi nel fuoco spermatico, e che di nuovo da questo si ricostituisca il cosmo quale era in precedenza» (Stoici antichi, Frammenti: p. 645). 92. KGW: VIII,1, p. 217. 93. Shakespeare, Pericles, Prince of Tyre: II,3, vv. 45-7.
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alcun «essere» da conoscere al di fuori dell’incessante divenire: «Quel che è non diviene, quel che diviene non è», scriveva Nietzsche94. In una dimensione del genere, l’unica facoltà a disposizione dell’uomo è la consapevolezza, accompagnata da un’eroica forza d’animo che gli permetta di sostenere un peso esistenziale così gravoso e, anzi, arrivare ad accettarlo e perfino celebrarlo come realtà autentica e titanica. In fondo, se l’uomo platonico-cristiano ha cercato per due millenni di placare la propria angoscia esistenziale «imprimendo al divenire il carattere dell’essere», si tratta ora di innalzarsi a una consapevolezza superiore, conscia del fatto che «tutto ritorni è l’estremo avvicinamento del mondo del divenire a quello dell’essere»95. Tale consapevolezza è l’unica che consenta una parvenza di «fermo-immagine»: tutto «è» eterno ritorno di una forza cosmica che diviene. oltre a questa pallida, incerta e scivolosa percezione di una «sostanza» il cui essere consiste in un continuo mutamento, l’umanità non può spingersi. Il fatto è che per un’impresa del genere non basta l’uomo come lo si era conosciuto fino a quel momento. era necessario un nuovo tipo umano, capace di ricavare dentro di sé un estremo «sì» dall’estremo «no» che gli sbatte in faccia l’esistenza, di assurgere a una suprema spensieratezza che egli riesce a opporre all’abissale malinconia derivante dalla condizione effettiva dell’umanità: «Quali uomini si riveleranno allora i più forti? I più moderati, quelli che non hanno bisogno di principi di fede estremi, quelli che non solo ammettono, ma anche amano una buona parte di caso, di assurdità, quelli che sanno pensare, riguardo all’uomo, con una notevole riduzione del suo valore, senza diventare perciò più piccoli e deboli: i più ricchi di salute, quelli che sono all’altezza della maggior parte delle disgrazie – gli uomini che sono sicuri della loro potenza (die ihrer Macht sicher sind) e che rappresentano con consapevole orgoglio la forza raggiunta dall’uomo»96.
94. KGW: VI,III, p. 69. 95. VIII,I, p. 297. 96. VIII,I, p. 206.
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un uomo nuovo che impari ad «amare il proprio abisso», nella consapevolezza che soltanto il coraggio di penetrare nei piani bassi del tragico può consentire la generazione di altezze altrimenti irraggiungibili. Infatti:
«Donde vengono le montagne più alte? – chiedevo in passato. e allora imparai che esse vengono dal mare. Questa testimonianza sta scritta nelle loro rocce e nelle pareti delle loro cime. Dall’abisso più fondo, la vetta più alta deve giungere alla sua altezza»97.
un compito così arduo e inaudito richiede un uomo altrettanto ardito e mai visto fino a quel momento sulla faccia della terra. Questi è il «Superuomo», l’eroe tragico che si è spogliato dei vestiti lisi e ormai inutilizzabili di due millenni di tradizione platonico-cristiana, per tornare alla consapevolezza virile dei pensatori presocratici e dare inizio a una nuova umanità finalmente liberata dalle catene della morale, della metafisica e di una tradizione che ha negato la vita travestendola con la maschera rassicurante della finzione. Per restituire questo tornante complesso della filosofia, attingo direttamente dalle parole evocative e suggestive di Nietzsche:
«L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo – un cavo al di sopra dell’abisso. un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso guardarsi indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi. La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto. Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, perché essi sono una transizione. Io amo gli uomini del grande disprezzo, perché essi sono gli uomini della grande venerazione e frecce che anelano all’altra riva. Io amo coloro che non aspettano di trovare una ragione dietro le stelle per tramontare e offrirsi in sacrificio: bensì si sacrificano alla terra, perché un giorno la terra sia del superuomo»98.
Consapevole che «tutto ciò che è profondo ama la maschera» come anche che la «natura ama nascondersi»99 – per ripren97. KGW: VI,1, p. 191. 98. zA: VI,I, p. 8. 99. JGB: VI,II, p. 46; eraclito, Frammenti: B-23.
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dere le parole del filosofo eraclito, da cui Nietzsche ha sempre tratto forte ispirazione – il Superuomo è colui che prende atto della «morte di Dio». Accetta e anzi cerca l’abisso del nichilismo, quindi trasforma lo stesso nichilismo in un momento di transizione verso la tragica e gravosa consapevolezza dell’«eterno ritorno» dell’identico. Il passaggio cruciale che il Superuomo deve compiere consiste nell’abbandonare quello che Nietzsche chiamava «nichilismo passivo» (la resa supina agli idoli di una volontà che vuole «il nulla» pur di volere qualcosa, e questo nulla al sommo grado è Dio100), per convertirsi al «nichilismo attivo»101. Insomma, è fondamentale lasciarsi alle spalle il nichilismo dell’uomo che si sottomette volontariamente agli idoli partoriti dalle proprie speranze e illusioni, per farsi promotori di un ben altro nichilismo, quello del Superuomo che riconosce in quegli idoli il nulla illusorio e menzognero e li abbatte trovando la propria realizzazione autentica, nonché una forma di tragica beatitudine, nella virile accettazione del fatto che «il mondo non è infinito come una missione morale», bensì è determinato «esattamente come un cerchio senza inizio e senza fine che rimane identico a sé medesimo»: caotico, identico a se stesso, governato dalla necessità e eternamente ritornante è il mondo, e tale deve comprendere di essere anche l’uomo, che senza dubbio
100. «In Dio è divinizzato il nulla, è consacrata la volontà del nulla» (KGW: VI,3, p. 185); «Non si dice il “nulla”: si dice invece: “al di là”, oppure “Dio”; oppure “la vita vera”; oppure nirvana, redenzione, beatitudine […] Questa innocenza retorica, proveniente dal regno dell’idiosincrasia religiosa e morale, appare subito molto meno innocente, se si comprende quale tendenza si nasconde qui sotto il mantello delle sublimi parole: una tendenza ostile alla vita» (AC: VI,III, p. 173). 101. «Può essere un segno di forza: l’energia dello spirito può essere cresciuta tanto, che i fini finora perseguiti (“convinzioni, articoli di fede”) le riescano inadeguati. […] D’altra parte un segno di forza non sufficiente per porsi ora nuovamente, in maniera creativa, un fine, un perché, una fede. Il suo massimo di forza relativa, lo raggiunge come forza violenta di distruzione, come nichilismo attivo» (VIII,II, pp. 12-13).
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appartiene «al carattere del mondo», ribadiva Nietzsche con ferma convinzione102. Dio era la maschera del nulla, così come i presunti valori metafisici e morali erano la maschera dell’uomo. Compito del Superuomo è quello di spogliare (e spogliarsi di) tutte le maschere, per raggiungere l’unica e più alta vetta concessa all’umanità, che consiste nel riconoscere l’eterno movimento di un mondo terreno e determinato che costantemente si ripresenta sotto il segno dell’identico e della necessità. un mondo che, proprio perché chiuso a ogni forma di trascendenza e infinità, consente all’uomo di esserne il protagonista in misura proporzionale a quanto egli se ne riconosce parte e vi si conforma, senza abdicare alla propria natura sottomettendosi ai parti illusori e sciagurati della sua ragione narcisistica e disperata:
«Tutta la bellezza e la sublimità che noi abbiamo conferito alle cose reali o immaginarie, io la voglio rivendicare come proprietà e opera dell’uomo: come la sua più bella apologia. L’uomo come poeta, pensatore, Dio, amore, potenza: con quale regale generosità egli ha donato alle cose per impoverirsi e sentirsi misero! Il suo maggiore altruismo consisteva nel fatto che egli ammirava, adorava e sapeva nascondersi che era egli stesso il creatore di ciò che ammirava»103.
Qui Nietzsche andava ben oltre un autore da lui letto e apprezzato (fra i pochissimi) come Ludwig Feuerbach. Questi, infatti, opponendosi all’idea cristiana di un Dio che avrebbe creato l’uomo a propria immagine e somiglianza, sosteneva piuttosto che è stato l’uomo ad alienare la propria essenza in un Dio ultraterreno, deificando il quale deificava in fin dei conti se stesso. Quest’ultima operazione l’uomo la compieva riconoscendosi al tempo stesso come il centro e il fine unico della creazione e delle azioni divine, attribuendosi in questo modo la facoltà e il diritto di esercitare un pieno dominio sulla natura. L’obiettivo principale di Feuerbach consisteva nel voler negare 102. Fink 1960: p. 171; VIII,I, p. 25. 103. VIII,II, pp. 251-2.
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l’esistenza di quel Dio, che a suo dire non era altro che il frutto dell’umana «facoltà di astrazione e immaginazione»104. L’obiettivo di Nietzsche, invece, seppure mai espresso con sistematicità, consisteva nel voler prefigurare un’umanità libera dai lacci e dalle catene delle sue paure, che finalmente divenisse creatrice dei propri valori in conformità con quella legge di «potenza» che governa la natura e tutto ciò che in essa è contenuto. L’intento di Feuerbach era teologico e filosofico, mentre quello di Nietzsche aveva a che fare con la «psicologia», da lui considerata la principale scienza dell’uomo nonché l’unica in grado di predisporre l’umanità a sostenere il «peso più grande» dell’eterno ritorno:
«Mai sino ad oggi un più profondo mondo della conoscenza si era dischiuso a navigatori e avventurieri temerari, e lo psicologo in tal modo […] potrà per lo meno pretendere che la psicologia sia nuovamente riconosciuta come signora delle scienze, al servizio e alla preparazione della quale è destinata l’esistenza delle altre scienze. La psicologia, infatti, è ormai di nuovo la strada per i problemi fondamentali»105.
Perché il «programma» di Nietzsche si realizzasse, infatti, non era tanto e soltanto necessario un lavoro sul piano delle idee, quanto soprattutto un lavoro sulla psiche umana, che da una parte la disponesse a liberarsi dal bisogno di illudersi e dalle conseguenti illusioni da essa prodotte lungo i secoli; e che, dall’altra parte, le desse la forza per accettare senza scappatoie un’esistenza in cui adeguarsi all’unica legge che governa il tutto (e quindi anche l’uomo che ne è parte): la potenza che eternamente ritorna, muove tutte le cose e produce una realtà in ogni ambito gerarchica. Nietzsche dovette prendere atto del fatto che il suo tempo non era quello del Superuomo, bensì della transizione ad esso: l’epoca in cui tutti gli idoli stavano crollando senza che però se ne presentassero di nuovi all’orizzonte. 104. Feuerbach 1841: pp. 48, 242 e 231; Id. 1845: pp. 42, 58-9 e 81. 105. KGW: VI,2, p. 29.
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Il Superuomo sarebbe stato un affare del futuro, quel futuro a cui il filosofo abbiamo visto rivolgersi: «L’uomo è qualcosa che deve essere superato», faceva dire al suo alter-ego zarathustra, salvo poi aggiungere in un frammento del 1884 che «lo scopo non è l’umanità, ma il superuomo»106. Il fatto è che Nietzsche pareva ignorare che non si trattava tanto di un fattore cronologico, nella difficoltà di pervenire alla realizzazione del superuomo, quanto proprio di una questione psicologica. È in questo ambito che rischiava di emergere tutta la carica utopistica della sua proposta: è mai possibile, infatti, un’umanità in grado di reggere l’enorme peso esistenziale di una condizione come quella descritta da Nietzsche, per giunta da accettare con titanico entusiasmo? un’umanità, insomma, che sia disposta a spogliare se stessa e tutte le cose dalle maschere rassicuranti, riuscendo infine a guardare negli occhi i mostri eternamente ritornanti che sotto quelle maschere si nascondono? In oltre duemila anni l’umanità non c’era riuscita, preferendo far indossare alle cose e indossare essa stessa qualunque maschera che distogliesse lo sguardo dai mostri della volontà di potenza, del nichilismo radicale e dell’eterno ritorno dell’identico. Mentre erano bastati pochi anni, a Nietzsche, per decidere di togliere le maschere e riuscire a guardare quei mostri negli occhi. Salvo uscirne sconfitto, devastato e folle. 5.
La volontà di vivere del «sottouomo»
Quello di Nietzsche è pensiero paradossale per antonomasia (para-doxa: al di là dell’opinione comune). Ciò nel bene e nel male, nella sua grandezza come anche nelle inevitabili cadute, non soltanto di stile. Per nulla accomodante, ma anzi, fermo nel voler abbattere ogni minimo tentativo di conforto che il Narciso disperato avanza per rendere più sostenibile e gratificante la propria esistenza, 106. zA: VI,I, p. 6; VII,II, p. 192.
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volendo ricorrere a una cifra espressiva che rappresenti il pensiero di Nietzsche nella sua totalità, si può ricorrere alla nota definizione del suo estimatore George Brandes («radicalismo aristocratico»), che il filosofo stesso definì «l’espressione più perspicace che ho letto finora su di me»107. È certo che pochissimi altri pensatori sono andati come lui a scandagliare la radice profonda della condizione umana, sfoltendola da qualsiasi forma di abbellimento o anche solo di nascondimento degli aspetti più tragici e inquietanti; come lo è il fatto che quasi nessuno si è prodotto in una divisione tanto netta e spregiudicata dell’umanità in forti e deboli, in «servi» e «signori», con questi ultimi chiamati a esercitare un dominio duro e impietoso sui primi: «L’uomo superiore si distingue da quello inferiore per la sua intrepidezza e sfida all’infelicità» e, del resto, «la decadenza si tradisce in questa preoccupazione per la felicità», scriveva Nietzsche108. Per utilizzare una formula sintetica, si può dire che il grande critico della morale, come anche di un’ipocrita e inesistente divisione fra bene e male, non pago di ciò si era trasformato anche in un implacabile «immoralista», teorico del fatto che l’eliminazione di suddetta divisione avrebbe dovuto aprire le porte al fisiologico assoggettamento di tutto ciò che è più debole da parte di ciò che è più forte. Il fatto è che queste teorie di Nietzsche presentano dei problemi di non poco conto, sul piano strettamente logico-filosofico come su quello politico-esistenziale in senso lato. rispetto al piano logico-filosofico, il pensatore tedesco fondava il proprio immoralismo sull’argomentazione per cui «non
107. KGB: III,5, p. 206. 108. VIII,II, p. 262 e VIII,III, p. 60. Dall’altra parte, la morale comune ama credere che «Dio ha creato l’uomo felice, ozioso, innocente e immortale: la nostra vita reale è un’esistenza falsa, decaduta, peccaminosa, un’esistenza di punizione […]. Il dolore, la lotta, il lavoro, la morte vengono ritenuti obiezioni e interrogativi nei confronti della vita, qualcosa di innaturale, qualcosa che non deve durare; contro cui si ha bisogno di rimedi – e si hanno rimedi!» (VIII,II, p. 304).
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esistono fatti ma soltanto interpretazioni». ossia, negando qualsiasi fondamento ontologico al bene e al male (o al giusto e allo sbagliato), egli poteva sostenere che l’unico riferimento attendibile fosse dato dalla natura (o fato), di cui andavano seguite le disposizioni in maniera appunto fisiologica, adeguandosi all’istinto e lasciando perdere le costruzioni fallaci della ragione moralistica. A questa posizione si è potuto ribattere che anche quella di Nietzsche è a sua volta un’interpretazione, che quindi non si capisce in virtù di quale fondamento superiore (che abbiamo visto non esistere, secondo lo stesso filosofo) possa aspirare a uno statuto di verità (un fatto) rispetto alle altre che invece sarebbero «soltanto» interpretazioni (a cominciare da quella che vuole il bene e il male esistenti e distinti). L’aspetto curioso è che lo stesso filosofo era ben consapevole della propria autocontraddizione («Ammesso poi che anche questa fosse un’interpretazione», scriveva riferendosi alla sua stessa affermazione per cui non esistono fatti ma soltanto interpretazioni), a cui tuttavia si degnava di fornire una risposta esclusivamente ironica e beffarda: «ebbene, tanto meglio (um so besser)»109. Come che sia, bisogna considerare che pur nella sua logica stringente tale obiezione non annulla del tutto l’argomentazione nietzscheana, poiché infatti si potrebbe controreplicare che il filosofo aveva sì negato l’esistenza dei fatti, riducendo tutto a interpretazione, ma questo non gli aveva impedito di distinguere fra interpretazioni corrette e fallaci. e lui aveva ampiamente argomentato la bontà della propria. Tutto questo senza contare che l’obiettivo polemico di Nietzsche non erano tanto le presunte «verità» altrui, quanto piuttosto il concetto stesso di verità, che egli riteneva aleatorio per le «tragiche» condizioni conoscitive in cui versa l’essere umano. Insomma, su questo terreno si rimane sul piano di uno scontro fra interpretazioni rispetto al quale la posizione di Nietzsche non esce scalfita più di tanto110. 109. JGB: VI,II, p. 28. Cfr. Clark 1990: pp. 3 e 22, che imputa a Nietzsche la caduta in un’«autocontraddizione senza via d’uscita», al punto da ritenere «erronea e confusa» la sua concezione radicale della verità. 110. Babich 1994: pp. 48-53, ead. 2004: p. 140
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Ben diversa è la questione dell’ambito politico-esistenziale. Sì, perché qui la distinzione nietzscheana fra benriusciti e malriusciti (o fra servi e signori) non si limitava a considerazioni ontologiche o di principio, bensì era volta a prefigurare una nuova umanità in cui i pochi «signori» avrebbero imparato a sostenere il «peso più grande» della condizione umana, accettando la volontà di potenza come unico fondamento di tutte le cose e, con essa, il proprio destino immodificabile di individui privilegiati tenuti a sottomettere e sfruttare i più deboli. Ma il problema è dato proprio da questi ultimi. In nome di cosa, infatti, anch’essi, che per giunta sono di gran lunga i più numerosi secondo Nietzsche, dovrebbero rassegnarsi passivamente all’amore per un «fato» che li ha destinati alla condizione di subordinazione dura e inesorabile? Se bisogna volere il divenire, poiché l’«essere» è un’utopia irrealizzabile, come sosteneva esplicitamente Nietzsche, perché mai un «servo» (o sottouomo, o malriuscito) dovrebbe rinunciare all’idea che questo divenire possa essere trasformativo della propria infausta condizione di partenza? Certo, l’eterno ritorno è un eterno ritorno dell’«identico», che quindi per definizione esclude ogni tipo di trasformazione rivoluzionaria rispetto a quanto stabilito dal fato in origine, ma del resto non è stato lo stesso Nietzsche a sostenere che questa unica verità (altra contraddizione, per un distruttore del concetto di verità…) è talmente tragica e angosciante al punto che soltanto un numero ristretto di individui titanici è in grado di sostenerne il peso?! ecco i motivi, peraltro intuiti dallo stesso filosofo della potenza, per cui la gran parte dell’umanità, la più debole e contronatura, non avrebbe aderito al suo «partito della vita». Tanto più che per loro più che di vita si sarebbe trattato di «morte», visto che l’ultimo Nietzsche si spingeva a teorizzare nei loro confronti il «nichilismo posto in atto» (Nihilismus der That): sì, ai malriusciti incapaci di sostenere il peso dell’esistenza finalmente compresa nella sua crudezza, non rimane altro che quel «suicidio» a cui vanno incoraggiati e da cui invece il cristianesimo li aveva colpevolmente salvati parlando loro di un’immortalità dell’anima e di una vita ultraterrena (una forma di «suicidio lento»): «Con quali mezzi – si domandava Nietzsche – si potreb75
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be realizzare una forma rigorosa di grande nichilismo contagioso, una forma di nichilismo che con scientifica ingegnosità insegnasse e mettesse in pratica la morte volontaria (e non il debole vegetare in vista di una falsa esistenza postuma)»111. Proprio quell’umanità debole e contronatura che, come abbiamo visto, sempre a detta di Nietzsche non è neppure sprovvista di una sua peculiare forma di volontà di potenza con cui quantomeno provare a occultare o mascherare l’insostenibile verità imposta dal fato. Questa peculiare forma di volontà di potenza consiste nell’atavico istinto metafisico che Nietzsche aveva abilmente decostruito sul piano filosofico, come abbiamo visto, ma non per questo eliminato su quello esistenziale. e del resto, come avrebbe potuto se la ciclicità ritornante da cui è avvolto il mondo tende a riproporre sempre l’identico?! Insomma, se quella dell’occidente è stata la storia secolare del grande inganno metafisico che si è sempre riproposto sotto rinnovate spoglie, quale presuntuosa illusione poteva pensare che fosse facile porre fine a tutto ciò?! Forse che Nietzsche, nella sua geniale ma ingenua furia iconoclasta, aveva pensato che bastasse annunciare la «morte di Dio» per far desistere la debole umanità dall’escogitare nuovi idoli e rinnovate divinità con cui sostituire quelle superate?! Si tratterebbe davvero di una grossa ingenuità, da cui per esempio si era tenuto ben lontano un filosofo come ortega Y Gasset proprio in virtù del notevole insegnamento che egli aveva ritenuto di trarre dallo stesso Nietzsche. Secondo il pensatore spagnolo, infatti, nel suo insopprimibile «spirito servile» l’uomo di fronte al grande mistero dell’esistenza non è nulla di più che un cane in cerca del padrone: «Lo spirito incapace di mantenersi in piedi da solo anela a una tavola con cui salvarsi dal naufragio e si guarda intorno, con docile sguardo da cane, in cerca di qualcuno che gli dia dimora. L’anima superstiziosa è, infatti, un cane in cerca del padrone […] l’uomo sente un irresisti-
111. KSA: XIII, pp. 221-2. Cfr. Losurdo 2002: pp. 638-641 e Bull 2011: pp. 60-1.
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bile senso di servitù. Vuole innanzitutto servire: un uomo, un imperatore, uno stregone, un idolo. Qualunque cosa prima di provare il terrore di affrontare da solo, col proprio petto, i colpi dell’esistenza»112.
Il ritornante istinto metafisico era in realtà rimasto ben vivo, nascosto dietro la «morte» del Dio trascendente ma prontamente capace di sostituirlo con idoli mondani, forse proprio per questo ancora più influenti nel dirigere l’agire degli uomini. Per esprimersi in termini nietzscheani, insomma, sulla tragica e titanica volontà di potenza del Superuomo ha finito col prevalere l’illusoria ma confortante «volontà di vivere» del «sottouomo», con tutto il suo portato di debolezze e credenze. Del resto già Schopenhauer, da cui Nietzsche trasse molte delle proprie intuizioni, aveva compreso che «il soggetto del gran sogno della vita è in un certo senso uno soltanto: la volontà di vivere», solo che questi, prendendo atto dell’illusorietà della ragione e della vanità del volere umano, aveva optato per una «rinuncia» alla volontà di vita:
«Il nostro stato è piuttosto qualcosa che sarebbe meglio non fosse [… ] Perciò, se uno osa sollevare la questione del perché non il nulla piuttosto che questo mondo, il mondo non si lascia giustificare in base a se stesso, non si può trovare in esso stesso nessuna ragione, nessuna causa finale della sua esistenza […] ciò è spiegabile invero col fatto che il principio della sua esistenza è espressamente privo di fondamento, ossia è cieca volontà di vivere […] ed ecco che la vita viene poi spacciata per un dono, mentre è chiaro come il giorno che ognuno, se avesse potuto vedere e saggiare in anticipo il dono, lo avrebbe rifiutato con tanti ringraziamenti»113.
Al contrario Nietzsche, pur partendo dalle medesime considerazioni, invitava a un entusiastico amore verso l’«eterno sì dell’essere», a una virile adesione allo «stemma della Necessità» impresso sulla vita114. 112. ortega Y Gasset 1924: t. III, pp. 229-230. 113. Schopenhauer 1851: v. I, p. 304 e Id. 1819: pp. 2077 e 2081. 114. DD: VI,IV, p. 61. Cfr. Cacciari 1977: pp. 13-29 e Galimberti 2005: pp. 477-83.
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Ma l’umana volontà di vivere, nel suo statuto di istinto primario, si è imposta come via mediana fra la rinuncia pessimistica di Schopenhauer e la reazione superomistica di Nietzsche. Questa umana volontà di vivere ha optato per una «fuga dalla libertà» che, stando all’analisi dello psicologo erich Fromm (1941), nel momento stesso in cui illude l’uomo di spogliarsi dall’angoscia di essere il solo responsabile di un’esistenza senza riferimenti ulteriori, finisce col sacrificare l’integrità dell’individuo conducendolo verso una «nuova forma di servitù»115. Il nichilismo passivo dei «servi», quello che preferisce credere al nulla degli idoli inventati piuttosto che arrendersi a un’esistenza senza fedi, ha continuato a prevalere sul nichilismo attivo e distruttore di idoli prefigurato da Nietzsche dopo l’annuncio della morte di Dio. L’eterno ritorno dell’identico ha finito col declinarsi in un eterno ritorno alla metafisica, cioè in un costantemente rinnovantesi desiderio umano (troppo umano) di genuflettersi di fronte a qualche divinità. Toccava ancora una volta a un autore debitore dell’insegnamento di Nietzsche, come emil Cioran, rimarcare un secolo dopo il filosofo tedesco la verità che quest’ultimo non aveva sviluppato fino alle estreme conseguenze: «Gli uomini preferiranno sempre disperare in ginocchio piuttosto che in piedi»116. Si tratta di un meccanismo che possiamo constatare con chiarezza nel nostro tempo. Ammesso e non concesso, infatti, che la fede nel Dio trascendente sia venuta scemando con il XX secolo, come pure è stato sostenuto per esempio dal filosofo americano Sam Harris117, quello che è difficile da mettere in dubbio riguarda un’umanità che ha trovato dei potenti surrogati, a partire 115. Fromm 1941: p. 283: «La fuga non ristabilisce la sua [dell’uomo] sicurezza smarrita, ma lo aiuta soltanto a dimenticare che il proprio sé è ridotto a un’entità separata. egli trova una nuova e fragile sicurezza al prezzo di sacrificare l’integrità del proprio sé individuale. Sceglie di perdere il proprio sé dal momento che non può sopportare di essere solo. Questo tipo di libertà – intesa come libertà da – conduce verso una nuova servitù». 116. Cioran 1956: p. 931. 117. In un controverso testo del 2004, il filosofo americano Sam Harris giungeva alla conclusione che «le nostre tradizioni religiose sono intellettualmente defunte e politicamente nefaste» e, tuttavia, viviamo in società che sono
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dalla «tecnica» e dal «mercato», due prodotti dell’attività umana innalzati a idoli o arconti ormai in grado di dettare l’agenda politica ai governi e il sistema di valori alle persone. La nostra epoca, ben lungi dall’essere quella auspicata da Nietzsche, in cui una nuova umanità ha prevalso all’insegna della liberazione dell’uomo dalle catene di poteri moralistici che cercano di asservirlo, si rivela piuttosto quella in cui l’essere umano è ridotto a strumento per fini non suoi. Mai come oggi, infatti, il valore di ogni individuo sembra essere misurato in base ai criteri esclusivi di quanto esso contribuisce al profitto finanziario e al progresso tecnologico. Nell’ambito del «fondamentalismo del mercato» è opportuno richiamare quanto scriveva nel 1976 un economista liberista come Gary Becker, sostenendo che «l’approccio economico fornisce un quadro utile per comprendere tutto il comportamento umano»118; invece, per il riconoscimento in termini di inevitabilità «religiosa» attribuito alla tecnologia, si possono leggere le considerazioni del fondatore di «Wired» Kevin Kelly, che definisce il technium come «la forza più potente del mondo», invitando l’umanità a concentrare i suoi sforzi su di esso piuttosto che sull’incremento del cervello umano: «Il potere della mente può essere accresciuto solamente di poco attraverso una consapevole autoriflessione; riflettere sul pensiero non ci renderà molto più intelligenti. Il potere del technium, al contrario, può essere incrementato all’infinito riflettendo su se stesso la propria natura trasformatrice […]. La tecnologia, in definitiva, deriva la propria supremazia non dal fatto di essere nata nella mente umana, ma dal fatto di originarsi dalla stessa autorganizzazione che ha generato le galassie, i pianeti, la vita e la mente»119.
Ad affermarsi, insomma, è stata una sorta di «teologia tecno-finanziaria» con tanto di nuovi «preti» o sacerdoti (per usare il
ancora «vincolate da leggi religiose e minacciate dalla violenza delle religioni». Il fallimento della diffusione di educazione e benessere, insomma, ancora oggi ci mette di fronte al problema di individuare «approcci ai comportamenti etici e all’esperienza spirituale che non facciano appello alla fede» (Harris 2005: pp. 222-224). 118. Becker 1976: p. 14. 119. Kelly 2010: pp. 173 e 68-9.
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linguaggio di Nietzsche), cioè di interpreti, depositari e annunciatori del «Verbo» proclamato dalla suddetta teologia, che nella sua «razionale irrazionalità» – riprendendo le parole di Herbert Marcuse – ha costruito un universo in cui la tecnologia e la finanza provvedono a «una formidabile razionalizzazione della nonlibertà dell’uomo, dimostrando l’impossibilità “tecnica” di essere autonomi e di decidere personalmente della propria vita»120 . A comporre il nutrito gruppo di apostoli del nuovo vangelo troviamo teorici liberisti, tecnocrati, tecno-entusiasti, finanzieri, esperti di marketing, uomini della comunicazione e dello spettacolo che, ai vari livelli e nei rispettivi ambiti, si adoperano nel plasmare un’«opinione pubblica» i cui membri ricordano assai più i «servi» che non i «signori» di cui parlava Nietzsche. Basti solo pensare alla massa di soggetti omologati che, ormai succubi dei mass media e delle nuove tecnologie in particolare, tendono a replicare in larghissima parte le stesse attività (selfie, storie sui social, etc.), i medesimi comportamenti, le stesse idee preconfezionate all’insegna di un aggressivo e protervo schierarsi «di qua o di là», di un aderire al bianco o al nero privo di conoscenza effettiva e ragionamento. Insomma, all’annuncio nietzscheano della morte di Dio non è certo seguito l’affermarsi del Superuomo. Quello che, secondo gli interpreti benevoli nei confronti di Nietzsche, sarebbe stato in grado di condurre l’umanità verso l’emancipazione intellettuale ed esistenziale, all’insegna di un’entusiastica accettazione dell’eterno ritorno dell’identico. Piuttosto, a un nuovo livello e in condizioni mutate, sembrano essersi riprodotti quei «rapporti di forza» di cui Nietzsche parlava e che perfino auspicava, in cui una ristrettissima élite di individui detiene un preponderante potere economico e finanziario da una parte, mentre dall’altra possiede quei mezzi tecnologici con cui esercitare una notevole influenza anche sulle menti e sulle abitudini della gran parte delle persone. A fronte di ciò, coloro che hanno visto in Nietzsche un teorico della liberazione umana (in alcune parti della sua opera sem120. Marcuse 1964: pp. 11 e 164.
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brava effettivamente porsi questo scopo) dovrebbero prendere atto di un proposito che ha continuato a essere sconfitto anche durante il corso della storia che è venuta dopo di lui e il suo annuncio della morte di Dio. Dall’altra parte, invece, coloro che – alla maniera dello storico di Princeton Arno J. Mayer121 – hanno visto in Nietzsche il «principale menestrello» della riproposizione dell’«antico regime» aristocratico e antidemocratico in epoca moderna, cioè un regime abitato da un’umanità necessariamente divisa fra pochi signori e una massa di servi (il pensatore tedesco è stato anche e forse soprattutto questo), potrebbero tranquillamente sostenere di aver trovato conferma delle loro analisi direttamente in quel tribunale implacabile che comunemente chiamiamo «Storia». Già, la Storia, quel «mattatoio» senza senso e senza uno scopo di cui parlava anche Hegel122, poco propenso a confermare le idee e i propositi spesso manichei dell’uomo. Proprio quella Storia che, a proposito di Nietzsche, nel momento stesso in cui lo ha inserito tra gli sconfitti ha anche suggellato l’immortalità di alcune sue intuizioni, confermandone al di là di tutto la straordinaria attualità. Infatti è proprio oggi che dobbiamo fare i conti fino in fondo col pensiero di Nietzsche, nell’epoca in cui abbiamo appurato che Dio non è morto, mentre non possiamo dire la stessa cosa dell’uomo. 121. Mayer 1981: pp. 285 sgg. Secondo questo storico, Nietzsche sarebbe stato il più importante autore a fondere darwinismo sociale e elitismo, nell’ottica di una battaglia contro il «livellamento» politico, sociale e culturale. In questo senso, il suo pensiero si rivelava coerentemente antiliberale, antidemocratico e antisocialista (in una parola: antimoderno), e ispirandosi ai modelli sociali elitari della Grecia classica e del rinascimento intendeva ripristinare un regime aristocratico e castale. 122. «Se consideriamo con la più profonda compassione per la loro angoscia senza nome, gli individui, non possiamo concludere se non nel compianto per questa universale transitorietà […] Ma, pure quando consideriamo la storia come un simile mattatoio, in cui sono state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli stati e la virtù degli individui, il pensiero giunge di necessità anche a chiedersi in vantaggio di chi, e di quale finalità ultima siano stati compiuti così enormi sacrifici» (Hegel 1837: v. I, p. 68).
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II.
IL FILoSoFo «CoNTro» e L’ANIMALe DA GreGGe
1.
Contro la rivoluzione
Il Narciso disperato possiede, fra le altre, la peculiarità di ritenersi un animale fornito di «ragione» e, in quanto tale, di appartenere al consesso «politico». Cioè di fare parte a pieno titolo della «polis», di essere un membro razionale e attivo di quello Stato che non per caso gli antichi latini definivano con nome inclusivo: «res publica». Ma attenzione: un membro non di questo o altro Stato, non di un regime specifico di governo delle cose, perché qui già ci troveremmo a uno stadio successivo che è il risultato di molteplici fattori (storici, geografici, economici, di rapporti di forze etc.). Almeno a partire da rousseau e dalla rivoluzione francese del 1789, entrambi oggetto degli strali più infuocati di Nietzsche, l’uomo viene concepito come un esponente effettivo di quella «volontà generale» da cui non solo proviene la legittimità del governo qualunque esso sia (repubblicano, democratico, aristocratico, monarchico etc.), ma che si ritiene deputata anche ad orientare l’azione stessa del governo sulla base dei principi stabiliti da una sorta di «intelletto generale». Infatti, scriveva rousseau, nella costituzione di uno Stato o contratto sociale: «Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi, come corpo, riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto […] Il patto sociale ha una natura particolare ed esclusivamente sua, in quanto il popolo stipula il contratto soltanto con se stesso, cioè il
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popolo, collettivamente (en corps), come sovrano, con i privati come sudditi»1.
In questo senso, ciascun individuo spogliandosi della propria identità e fondendosi con tutti gli altri all’interno di quell’entità collettiva che è lo Stato, realizza il senso profondo del proprio esistere. Del resto, aggiungeva il filosofo ginevrino, «l’uomo è morto dove lo Stato è dissolto», e da qui possiamo intendere che «il corpo politico è un essere morale che possiede una volontà», e questa volontà generale «tende sempre alla conservazione e al benessere del tutto e di ogni sua parte». Ciò al punto che ogni membro dello Stato la riconosce come la «fonte di tutte le leggi» nonché «la regola di ciò che è giusto e ingiusto», così che si può dire che «la voce del popolo è in effetti la voce di Dio»2. Insomma, stando alla ricostruzione di Nietzsche, quando all’uomo socratico che si riteneva fornito di «ragione» e a quello aristotelico che si concepiva fisiologicamente incline alla politica e alla società3, si è aggiunto l’uomo di rousseau, che in quan1. rousseau 1762: v. 2, pp. 432-3. 2. rousseau 1755-1782: v. 1, pp. 241-3. A questo riconoscimento formale della notevole dignità posta in ogni cittadino, si aggiunga un altro elemento che non poteva non suscitare lo sdegno di Nietzsche: rousseau riteneva innaturale e contraria al concetto di umanità tanto la schiavitù individuale quanto quella di un popolo nel suo insieme, mentre il filosofo tedesco sosteneva che «Gli schiavi esistono: dovunque esista una civiltà. Trovo orribile sacrificare la civiltà per amore di uno schema. Dov’è che gli uomini sono uguali? Dov’è che sono liberi?» (rousseau 1762²: v. 2, I,4; KSA: VII, p. 138). 3. Nella misura in cui riconosceva che tutti gli uomini possiedono la «ragione», facoltà con cui modificare le disposizioni del fato, Socrate veniva definito da Nietzsche in maniera sprezzante come il «prototipo dell’ottimista teoretico» (KSA: GT, I, p. 100). Dal suo canto, Aristotele scriveva che l’uomo è «un animale politico per natura» (Politica: I, 2, 1253a 2-3), precisando però che la stessa natura distribuisce l’intelletto in maniera difforme fra gli individui, e in seguito a ciò l’uomo governa sulla donna e sul bambino e gli uomini sono liberi o schiavi fin dalla nascita (Politica: I, 5, 1254b e 1255a 2). Premesso ciò, l’intelletto è il divino che c’è nell’uomo, così come una vita condotta secondo l’intelletto lo è anch’essa (divina) nell’ambito della vita umana (Etica nicomachea: X, 7, 1177b 30-1).
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to esponente della volontà generale contiene in sé sia l’aspetto razionale che quello fisiologico, è stato in quel momento che si è completata l’illusione aberrante di pensare l’umanità capace di modificare l’ordine delle cose stabilito dal fato. In termini politico-sociali, questa trasformazione di una realtà consolidata assume il nome di «rivoluzione». Stando a quanto sostenuto dalla filosofa Hannah Arendt nel 1965, i presupposti stessi di un atto rivoluzionario contrastano con l’intendimento di fondo della filosofia di Nietzsche, che in linea con il pensiero presocratico (e degli stoici) contemplava una visione ciclica della Storia (quindi estranea a fratture e nuovi inizi sconvolgenti). Secondo la Arendt, infatti, parlare di rivoluzione significa riferirsi a un fenomeno strettamente moderno e sconosciuto agli antichi, con il quale si pensa di operare una frattura nel corso della Storia e di produrre un «nuovo inizio» caratterizzato inequivocabilmente dal «sorgere della libertà»4. Mettendo da parte tale premessa, perché si possa parlare di rivoluzione nel senso che qui mi interessa occorrono tre presupposti che poi rappresentano l’oggetto della critica più aspra da parte di Nietzsche. Il primo presupposto è la razionalità dell’uomo, cioè il possesso di quella facoltà (la ragione) con cui egli riesce a cogliere le contraddizioni oggettive all’interno della società del proprio tempo. Il secondo riguarda lo statuto politico dell’individuo, inteso in almeno due direzioni: il suo riconoscersi ed essere riconosciuto come legittimato a far parte della comunità dei cit4. Arendt 1963-1965: pp. 21 e 29. Già ai tempi della rivoluzione francese anche il filosofo Condorcet scriveva che il termine rivoluzionario «si applica soltanto a quelle rivoluzioni che hanno la libertà come obiettivo», precisando poco più avanti che «le leggi e le misure rivoluzionarie sono, come le altre, soggette a regole severe di giustizia; sono delle leggi di sicurezza e non di violenza» (Condorcet 1793: v. 12, pp. 615 e 621). La precisazione era sicuramente in polemica con robespierre, il giacobino che condusse la rivoluzione al «terrore» e che, soltanto un anno dopo, in un discorso pubblico teorizzò apertamente la necessità di applicare il «terrore» per un governo popolare nella fase rivoluzionaria, sostenendo che «il governo della rivoluzione è il dispotismo della libertà contro la tirannia» (robespierre 1950-1967: v. 10, p. 357).
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tadini abilitati a intervenire sulle questioni collettive; la sua inclinazione sociale, ossia la volontà di impegnarsi in questioni che riguardano la società nel suo complesso e non per forza soltanto il proprio tornaconto personale. Il terzo presupposto concerne quella che Nietzsche considerava la «visione ottimistica» di fondo: cioè la convinzione per cui, in virtù dei due presupposti summenzionati, l’essere umano sia in grado di modificare una realtà considerata ingiusta e dannosa per costruirne una migliore impostata su valori «buoni» come quelli di libertà, uguaglianza e fraternità. Peccato che per il filosofo tedesco nulla di tutto questo appartiene alla dimensione umana. La ragione è soltanto un’illusione con cui l’uomo pensa di poter padroneggiare il reale al punto da coglierne le storture e migliorarlo, ritagliandosi un ruolo di protagonista attivo di un orizzonte esistenziale e sociale entro il quale in realtà svolge solo la funzione di ingranaggio. L’uomo tende a interpretare se stesso in maniera intellettualistica allo scopo di attribuirsi un’identità specifica e coerente, poiché l’alternativa sarebbe quella di essere soltanto parte della natura caotica e casuale del tutto5. Nella pratica l’essere umano è investito da pulsioni e istinti inconsci che egli non governa minimamente, ma che lo attraversano imponendogli determinate inclinazioni che la ragione fa di tutto per condannare moralmente e rimuovere fattualmente, secondo un meccanismo che Freud avrebbe di lì a breve descritto con la sistematicità del medico:
5. «Noi cerchiamo inconsciamente i principi e le teorie che sono adatti al nostro temperamento, sicché da ultimo sembra siano stati i principi e le teorie a creare il nostro carattere e a dargli sostegno e sicurezza; mentre è andata proprio nel modo inverso. Del nostro pensare e del nostro giudicare si fa in seguito, così sembra, la causa del nostro essere: ma in realtà è il nostro essere la causa del fatto che pensiamo e giudichiamo così e così. e che cosa ci induce a questa quasi inconscia commedia? L’indolenza e la comodità e, non da ultimo il desiderio della vanità di essere trovati coerenti da cima a fondo, uniformi nell’essere e nel pensare: giacché ciò procura rispetto, dà fiducia e potenza» (MA: IV,II, § 608).
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«Per quanto uno faccia progredire la sua conoscenza di sé, nessuna cosa potrà mai essere più incompleta del quadro di tutti quanti gli istinti che costituiscono la sua natura. Difficilmente potrà dare un nome ai più grossolani di essi: il loro numero e la loro forza, il loro flusso e riflusso, il giuoco all’interno dell’uno con l’altro e soprattutto le leggi del loro nutrimento gli resteranno del tutto sconosciuti. Questo nutrimento diventa dunque un’opera del caso […]»6.
Sulla vetta più alta di quegli istinti risiede la volontà di potenza che, come abbiamo visto, in termini politici connota l’uomo non come un animale sociale, bensì come un individuo egoista e prevaricatore, interessato soltanto a procurarsi piacere e potere soprattutto a spese dei più deboli. Declinandosi in termini morali, invece, la ragione coltiva la presunzione di poter cambiare in meglio l’ordine delle cose. Peccato che nel fare questo non soltanto si attribuisce una capacità che non possiede neppure lontanamente (la ragione è il frutto illusorio di una realtà che l’uomo non riesce ad accettare, non la creatrice di alcuna realtà effettiva), ma soprattutto punta a degli scopi moralistici che nulla hanno a che vedere con la realtà naturale. In questo senso, per riprendere una considerazione che era già stata del maestro poi ripudiato di Nietzsche, Arthur Schopenhauer, la rivoluzione francese, con il suo sciagurato tentativo di imporre l’affermazione di parole d’ordine come «libertà», «uguaglianza» e «fraternità», aveva tentato di calpestare l’«aristocrazia della natura»7: quest’ultima, piuttosto, impone infatti allo sguardo dell’osservatore lucido l’osservazione della «servitù», della «disuguaglianza» e della «prevaricazione» sul più debole come le protagoniste indiscusse dello scenario umano. 6. M: V,I, pp. 89-90. Potrebbe non essere casuale che Freud individuasse nella «rimozione» il «pilastro su cui poggia l’edificio della psicoanalisi», subito dopo aver confessato di essersi privato dell’«alto godimento delle opere di Nietzsche» per non lasciarsi influenzare dalle profonde intuizioni psicoanalitiche del filosofo tedesco (Freud 1914: v. 7, p. 389). Ad ogni modo, il padre della psicoanalisi traeva da tutto ciò la conclusione che «compito dell’analisi è eliminare le resistenze che l’Io manifesta a occuparsi del rimosso» (Freud 1922: v. 9, p. 480). 7. Schopenhauer 1851²: v. IV, p. 219.
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In questo senso, la pretesa tutta umana di rivoluzionare un tale ordine di cose si rivela per Nietzsche come una perfetta illusione, per di più dannosa nella misura in cui si propone di costruire una realtà ideale e contronatura, fondata sul sentimento di « invidia » e « vendetta » che per esempio il movimento socialista instilla nei lavoratori e nelle classi sociali subalterne8. Il problema, secondo il filosofo tedesco, è che la storia umana fin dai tempi antichi ha proceduto cercando di realizzare disperatamente questa innaturale illusione. Volendo farsene un’idea, è sufficiente ricostruire brevemente le argomentazioni utilizzate da Nietzsche per polemizzare con alcune delle figure di spicco della vicenda umana. In particolar modo coloro che egli definiva spregiativamente i «quattro grandi democratici», sacerdoti delle diverse fasi del grande ciclo rivoluzionario dell’umanità, ma soprattutto predicatori del nulla9. Seguendo l’ordine cronologico troviamo Socrate, il filosofo antico accusato da Nietzsche di aver tradito l’eroica visione tragica della vita concepita dai pensatori che lo hanno preceduto, sostanzialmente per affermare l’assunto secondo cui tutti gli uomini possiedono la «ragione» e, con essa, la possibilità di modificare la propria condizione di partenza, potendo aspirare all’acquisizione di conoscenza, giustizia, bellezza e armonia con il mondo delle idee: 8. KSA: AC, § 57. Queste argomentazioni si inseriscono in una consolidata tradizione antirivoluzionaria: il fiero oppositore della rivoluzione francese edmund Burke denunciava i pericoli che «invidia» e «rapacità» rappresentano per la grande proprietà e la società nel suo complesso; in Francia ernest renan lo seguiva a ruota attribuendo alla «gelosia» la rivendicazione rivoluzionaria dell’uguaglianza; sempre in Francia Alexis de Tocqueville, riferendosi esplicitamente al socialismo, si scagliava contro «il gusto depravato per l’uguaglianza che porta i deboli a voler degradare i forti al loro livello e che riduce gli uomini a preferire l’uguaglianza nella schiavitù alla disuguaglianza nella libertà» (Burke 1790: v. 5, p. 107; renan 1947: v. 1, p. 486; Tocqueville 1835: v. I,I, p. 53). 9. Il filosofo tedesco stava facendo riferimento a «Socrate, Cristo, Lutero e rousseau» (KSA: XII, p. 348).
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«Socrate credette di dover correggere l’esistenza: egli, in quanto singolo, entra con aria di sprezzo e superiorità quale precursore di una civiltà, di un’arte e di una morale completamente diverse in un mondo dove ascriveremmo a nostra massima fortuna di riuscire a coglierne con venerazione un frammento»10.
Ad ogni modo, l’idea di un uguale sviluppo intellettuale per tutti gli uomini era qualcosa di aberrante per il filosofo della volontà di potenza. Quindi è la volta di Gesù Cristo, biasimato in termini «politici» da Nietzsche per aver affermato che gli uomini sono tutti figli di Dio, in quanto tali fratelli nella loro umanità e uguali nella condizione sociale. Non a caso annoverato dal filosofo tedesco tra «i livellatori (Gleichmacher)», il figlio di Dio gli appariva come «un santo anarchico che chiamò il basso popolo, i “reietti” e i “peccatori”, i ciandala all’interno dell’ebraismo, a contraddire l’ordine dominante – con un linguaggio, se si deve prestar fede ai Vangeli, che ancor oggi condurrebbe in Siberia». Insomma, un «delinquente politico, nella misura in cui erano possibili delinquenti politici in una società assurdamente impolitica»11. È proprio sulla base di tali premesse «politiche» che l’essere umano può concedersi l’atto apparentemente rivoluzionario, ma per Nietzsche autolesionistico12, di alzare gli occhi al cielo e sapere che, seppure nella vita dopo la morte, verrà il momento in cui tutte le ingiustizie saranno riparate e tutte le 10. KSA: GT, I, pp. 89-90. Secondo Nietzsche Socrate aveva il torto di nutrire disprezzo per la «sapienza inconscia», «istintiva», in generale per tutto «ciò che è istintivo». Da qui il suo bollarlo come un «fanatico della conoscenza», un «fanatico della dialettica», ovvero un «dialettico fanatico» (KSA: ST, I, p. 542; VII, pp. 41, 22 e 17). 11. KSA: XII, p. 380 e AC, § 27. Considerando le prediche del Cristo, «se uno ne avesse detto solo la centesima parte, meriterebbe, come anarchico, la morte» (KSA: XII, p. 381). 12. Il filosofo tedesco si chiedeva retoricamente: «A che scopo l’aldilà, se non fosse un pretesto per insozzare l’aldiqua?». Ma anche: cos’è questa mortificazione dell’aldiqua se non l’affermazione di «una mortale inimicizia contro la realtà?» (KSA: GD, § 34 e AC, § 27).
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disuguaglianze superate. un messaggio per deboli e malriusciti che non hanno neppure il coraggio di tentare una rivoluzione concreta in questa vita, secondo il filosofo, ma comunque esiziale nella misura in cui ha rappresentato un autorevole appiglio ultraterreno per coloro intenzionati a sovvertire l’ordine gerarchico e aristocratico della natura e quindi del mondo. Dal Nietzsche fiero oppositore della Chiesa di roma ci si sarebbe potuto aspettare più di un moto di simpatia nei confronti di Martin Lutero, il frate agostiniano suo connazionale che fondò il protestantesimo proprio sulla base della radicale contestazione al clero cattolico. Invece, al netto di alcuni riconoscimenti giovanili di carattere perlopiù nazionalistico («quello spirito tedesco virile, serio, malinconico, duro e ardito, quello spirito mantenutosi sano dall’epoca del riforma, del figlio di minatori che è Lutero»13), ad emergere preponderante è la pesante condanna che Nietzsche rivolge agli aspetti da lui ritenuti più rivoluzionari e «plebei» del messaggio luterano: mi riferisco alla sua idea per cui ogni cristiano può leggere e interpretare la Bibbia facendo a meno dell’intermediazione clericale, oltre al fatto che lo stesso clero veniva privato della sua aura di purezza:
«egli mise a disposizione di ognuno le Sacre Scritture, affinché cadessero finalmente nelle mani dei filologi, vale a dire dei distruttori di ogni fede che riposa sui libri […] egli restituì al prete il commercio sessuale con la donna, ma tre quarti della venerazione di cui è capace il popolo, soprattutto la donna del popolo, ha la sua base nella fede che un uomo eccezionale su questo punto sarà un’eccezione anche su altri punti»14.
Si tratta di due aspetti oggettivamente rivoluzionari, perché a prescindere da ogni distinzione dottrinaria ripristinavano l’originaria uguaglianza dei cristiani di fronte a Dio, seppure in
13. KSA: BA, I, p. 749. In seguito lo inserisce fra quei tedeschi illustri (Beethoven e Wagner) che, serenamente consapevoli del tragico dell’esistenza, «hanno sofferto profondamente della vita e tornano a volgersi ad essa per così dire col sorriso del convalescente» (KSA: WB, I, pp. 480-1). 14. KSA: FW, § 358.
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ambiti limitati quali erano quello dell’esegesi del testo sacro e dell’illibatezza del sacerdote. un’uguaglianza tanto enfaticamente declamata nei confronti del mondo esterno quanto sconfessata all’interno della Chiesa stessa, che si era costruita nei secoli in termini eminentemente gerarchici. Proprio questa vena elitaria e aristocratica della Chiesa di roma spingeva Nietzsche a uno dei rarissimi pronunciamenti in suo favore, riconoscendo nell’istituzione cattolica «il nobile scetticismo, quel lusso di scetticismo e tolleranza che ogni potenza vittoriosa, sicura di sé, si concede». rispetto a tutto ciò Lutero (stavolta accomunato da Nietzsche al rivoluzionario italiano Mazzini) esprimeva un sentimento plebeo di fede nell’uomo buono della rivoluzione, in ciò concordando con rousseau15. Insomma:
«Il protestantesimo è una rivolta popolare in favore di ciò che è probo, semplice, superficiale […] Ma soltanto la rivoluzione francese ha posto completamente e solennemente lo scettro nelle mani dell’ “uomo buono” (della pecora, dell’asino, dell’oca e di tutto ciò che è inguaribilmente piatto e schiamazzante e maturo per il manicomio delle “idee moderne” […] In tutti i problemi cardinali del potere, le qualità di Lutero furono disgraziatamente sommarie, superficiali, malaccorte, essendo lui soprattutto un uomo del popolo al quale faceva difetto tutta l’eredità della casta dominante, ogni istinto di potenza»16.
La riforma protestante di Lutero, in buona sostanza, contrastava proprio con la visione gerarchica di Nietzsche, che per definizione si scagliava contro ogni elemento destinato a impedire qualsivoglia distinzione fra ciò che è superiore e inferiore. Insomma, pur di mettersi di traverso rispetto a tutto ciò che poteva affermare l’uguaglianza ai vari livelli dell’esistenza, il filosofo tedesco non si faceva scrupoli a cadere nella contraddizione e manifestare riconoscimenti verso quella chiesa cattolica per tanti altri versi da lui vituperata. 15. KSA: FW, § 358 e XIV, pp. 274-5. 16. KSA: FW, §§ 350 e 358. Ciò fino all’esito paradossale per cui Lutero «operò all’interno dell’ordinamento sociale della Chiesa la stessa cosa che con tanta intransigenza aveva combattuto relativamente all’ordinamento civile – una “rivolta di contadini”» (§ 358).
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In riferimento a un periodo più recente, spicca con significativa chiarezza il giudizio difforme che il filosofo tedesco pronunciava nei confronti di due autori appartenenti all’Illuminismo come Voltaire e rousseau. L’Illuminismo, nato in Inghilterra e sviluppatosi soprattutto in Francia nel XVIII secolo, era un movimento culturale che si proponeva di valorizzare la ragione in tutte le sue forme e nei diversi ambiti. Soprattutto, quella ragione umana che grazie al pensiero critico e alla conoscenza fosse in grado di emanciparsi dalle superstizioni e dai dogmi imposti dalla tradizione, per votarsi alla scienza e rendere in questo modo l’uomo libero da tutele e costrizioni superiori. ebbene, il Nietzsche che ha vissuto una fase «illuminista» del suo pensiero, nell’ambito di questo movimento filosofico e culturale manifestava un’alta considerazione del Voltaire anticristiano e anti-clericale, fustigatore della religione e delle superstizioni in genere. Ciò nella misura in cui lo stesso filosofo francese, sul piano squisitamente politico, si faceva promotore del dispotismo illuminato e, in senso generale, manifestava una visione aristocratica della conoscenza come anche della capacità del genere umano di attingerla: celebre, da questo punto di vista, la sua considerazione secondo cui «quando la popolazione viene coinvolta nell’attività del ragionare, tutto è perduto»17. Proprio nell’opera principale della sua fase illuminista (Umano, troppo umano), Nietzsche prendeva Voltaire a esempio della lotta contro la democrazia e, in generale, contro un’epoca connotata dal diffuso «carattere demagogico»18 portato avanti 17. La frase è contenuta in una lettera che Voltaire scrisse a madame Damilaville il 1 aprile 1766, in cui fra le altre cose il filosofo scriveva che i lavoratori non hanno «il tempo né le capacità per istruirsi», che «morirebbero di fame prima di diventare dei filosofi». Per la società è necessario che vi siano dei mendicanti ignoranti, perché del resto vale la pena di spendere tempo e risorse per istruire soltanto il «buon borghese»: «Io sono dell’avviso di coloro che vogliono far diventare i trovatelli dei buoni lavoratori piuttosto che dei teologi» (Voltaire 1766: p. 1028). 18. KSA: MA, § 438. Nietzsche, che subito dopo la Comune di Parigi (1871) aveva chiamato a schiacciare la «testa d’idra internazionale» (del fanati-
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dai rivoluzionari à la Rousseau. Ciò ha recentemente spinto uno studioso americano di Nietzsche a parlare di «illuminismo antidemocratico» a proposito del filosofo tedesco, che peraltro esprimeva un sentimento presente nel suo tempo, visto che anche uno scrittore come Flaubert in quegli stessi anni denunciava l’«assoluto clericalismo» imposto dalla «bestialità democratica» di chi aveva rimosso la lezione di Voltaire per fare propria quella di rousseau19. A colpire è la virulenza del giudizio di Nietzsche su rousseau, per via delle sue idee politiche e sociali in base alle quali si riconosceva al popolo il potere sovrano, si conferiva a ogni cittadino la facoltà di partecipare a quella «volontà generale» in cui risiede l’autorità legislativa e si condannava la schiavitù. Insomma, a torto o a ragione rousseau veniva considerato l’ispiratore della rivoluzione francese, cioè il primo grande evento della storia contemporanea nato in nome del contrasto concreto ai privilegi e alle ingiustizie della società aristocratica. In virtù di tutto questo la stroncatura di Nietzsche è totale: l’uomo di rousseau – secondo la Terza inattuale – «fa appello alla santa natura», quindi a un ottimismo sterile e catastrofico per motivare le sue «decisioni terribili», con l’obiettivo di realizzare un nuovo sistema sociale nel quale non vi sia più posto per le «caste pretenziose», la «ricchezza spietata», la «cattiva educazione» e tutti gli altri aspetti che hanno ammalato il corpo sociale20. Il ginevrino credeva a una «miracolosa bontà originaria», corrotta dalle cattive istituzioni di una società, quella aristocratica, che egli si proponeva di rovesciare al fine di erigere «il più superbo tempio di bella umanità», ma è proprio da questa visione dell’uomo e della società che sono derivati «lo spirito ottimismo rivoluzionario), due anni dopo condivideva uno scambio epistolare in cui ci si preoccupava di combattere il nuovo fanatismo sostituendo la classica espressione voltaireana (Écrasez l’infame! = schiaccia il famigerato): «Écr[asez] l’Int[ernationale]! dovrebbe scrivere un Voltaire dei giorni nostri» (KGB: II,4, p. 288). 19. Dombowsky 2014: pp. 58-9. Flaubert 1867: v. 10, p. 375 (Lettera a Jules Duplan, del 15 dicembre 1867). 20. KSA: Se, I, p. 369.
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stico della rivoluzione» e il suo portato di terrore: la credenza di rousseau è una «superstizione (Aberglaube)» e coloro che si collocano sulla sua scia sono dei «fantasticatori politici e sociali». L’uno e gli altri si fanno portatori di una teoria della rivoluzione che è «follia», «fanatica», capace di trascinare con sé tutto ciò che di «semifolle», «esageratamente sentimentale» ed «ebbro di sé» vi è nel mondo21. La stessa terminologia utilizzata da Nietzsche ci riporta ai capisaldi della critica illuministica contro il fanatismo, la credulità popolare e la superstizione, al netto però del rifiuto radicale di tutti quegli aspetti dell’illuminismo socialmente rivoluzionario incarnati da rousseau. La rivoluzione francese finì nel terrore, come è noto, aprendo le porte al trionfo della restaurazione, ma comunque segnò un confine rispetto al quale non si sarebbe più potuti tornare indietro. realizzò delle conquiste politiche e sociali che, seppure in buona parte terminate con essa, avrebbero poi ispirato i movimenti riformatori e rivoluzionari del XIX secolo, a partire da quel socialismo di cui Nietzsche sembrava ignorare i fondamenti teorici (pare che non avesse letto nulla di Marx) ma che, tuttavia, inseriva fra i grandi mali della sua epoca. esso rappresentava in ordine di tempo l’ultimo passo di quella marcia rovinosa che per la vicenda umana è stata la «rivoluzione», in ogni tempo condotta sulla base dell’ideale illusorio e nefasto dell’«ottimismo»: nell’ambito del lungo ciclo rivoluzionario sviluppatosi in occidente, il nuovo pericolo che ora l’umanità doveva affrontare era proprio il socialismo, da Nietzsche considerato come «un frutto di quell’ottimismo» che aveva già provocato tanti orrori e di cui lui si era potuto liberare in gioventù grazie alla lettura di Schopenhauer22. È appena il caso di notare come, ancora una volta, il filosofo della potenza che menava vanto della propria «inattualità» 21. KSA: MA, § 463 e WS, § 221. 22. KSA: VII, p. 379 (per il socialismo come frutto dell’ottimismo). KGB: I,2, p. 140 (per il riconoscimento che Nietzsche attribuiva a Schopenhauer di avergli «tolto dagli occhi le bende dell’ottimismo»).
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fosse tutt’altro che isolato nel suo tempo rispetto a una tale visione del socialismo: a ridosso della Comune di Parigi, il filosofo ernest renan riassumeva i mali che affliggevano la Francia imputandoli all’idea di «felicità volgare» nonché alla pretesa di realizzare una società in cui «gli individui che ne fanno parte godano della più grande porzione di benessere possibile»; sempre in Francia, Tocqueville accomunava e condannava in blocco tutta la filosofia «sensualista e socialista», mentre in Italia Antonio rosmini malediceva la «terrena e carnale felicità», che a suo parere sintetizza l’obiettivo utopistico di tutte le tendenze socialiste e comuniste. Tutti costoro, portatori di una visione politicosociale reazionaria o aristocratica, erano concordi con Nietzsche nel considerare la visione ottimistica dell’esistenza una malattia dell’uomo con gravissime ripercussioni sul piano ideologico e sociale23. A tutto questo aggiungiamo l’ulteriore e imperdonabile colpa della dottrina socialista, ossia di proiettarsi, ovviamente «in modo del tutto ingenuo», in direzione dei valori supremi del «bene», della «verità» e della «bellezza» (con un evidente influenza risalente a Platone), richiamandosi a quella dottrina dei «valori simpatetici e della compassione» che secondo Nietzsche era nata con la rivoluzione francese ma continuava a svolgere il suo ruolo nefasto «in tutti i sistemi socialisti»24. Stiamo parlando delle caratteristiche che a parere di Nietzsche connotano ogni proposito rivoluzionario, e che lo conducono verso un esito tanto inevitabile quanto nefasto: ossia quello 23. renan 1847: v. 1, p. 482; Tocqueville 1951 sgg.: v. XV,2, pp. 107-8; rosmini 1849: v. XXXVII, p. 100. In una lettera a Gersdorff del 28 settembre 1869, Nietzsche sosteneva che l’ottimismo si manifesta «nelle forme più bizzarre». Certo nel «socialismo», ma anche nel «vegetarianesimo» e persino nella «cremazione», ossia in tutte quelle dottrine e pratiche che ai vari livelli si propongono di riformare o modificare l’esistenza umana, rimuovendone il carattere di «rovina completa» (KGB: II,1, p. 58). 24. KSA: XI, pp. 480 e 487; M: § 132. Contrastare la «compassione socialista» costituiva un elemento essenziale per la lotta contro la rivoluzione, secondo Nietzsche: «La compassione puzza di plebe […] Io annovero il superamento della compassione fra le virtù nobili» (KSA: JGB, § 21 e eH: § 4).
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di uniformarsi alla morale, riassumendo in tal senso tutto ciò contro cui vale la pena combattere senza remora alcuna per il filosofo tedesco25. Insomma, che si trattasse di filosofia (Socrate e Voltaire), di religione (Gesù e Lutero), oppure di politica (rousseau e il socialismo), l’elemento che tiene insieme il pensiero di Nietzsche sembra definito e definibile. Pur fra i continui cambiamenti di cui il filosofo tedesco è stato capace, infatti, molti dei quali hanno evidenziato delle vere e proprie contraddizioni logiche, il filo che tiene uniti i molteplici e difformi anelli della sua speculazione sembra essere quello della netta opposizione a tutto ciò che può rappresentare un superamento della gerarchia, cioè a dire della disuguaglianza e del dominio del più forte sul più debole. Soprattutto se questo superamento si propone di affermare ideali inesistenti come la felicità o la realizzazione di una sorta di società perfetta o paradiso terreno:
«La retta ragione ci risparmi dal credere che l’umanità sia sul punto di trovare un giorno, quando che sia, ordinamenti ideali definitivi, e che a quel punto la felicità debba risplendere con raggio sempre identico, come il sole dei paesi tropicali, sugli uomini in tal modo organizzati […] Non un’età dell’oro, non un cielo libero dalle nubi è destinato a queste generazioni future […] Neanche la bontà e la giustizia sovrumana sarà tesa sui campi di questo futuro come un immobile arcobaleno»26.
un concetto, quello della gerarchia, indubbiamente appartenente alla costellazione ideologica della destra politica, ma che nel caso di Nietzsche costituisce il pretesto per due operazioni ulteriori e fondamentali: da una parte leggere la Storia (del pensiero e dei fatti) bollando come moralisti, preti, malriusciti, opportunisti e seminatori di illusioni tutti quei personaggi che hanno contribuito nella teoria e nella pratica a far uscire l’umanità dallo stato di natura (quello in cui effettivamente regna un modello unico e indiscu25. Al pari della «teoria politica», anche il «linguaggio della morale» esige «”diritti uguali per tutti”» (KSA: WA, § 7). 26. KSA: WB, I, p. 506.
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tibile di gerarchia: la legge del più forte che si fa diritto, come scriveva Hobbes27). Dall’altra fare riferimento a un modello di umanità e società che oscuri tutte le più edificanti conquiste della pur intricata e contraddittoria vicenda dell’uomo moderno, riportando indietro le lancette della Storia fino a tornare a un’epoca in cui imperavano la schiavitù o servitù, l’istruzione per pochi, il dispotismo oligarchico e il privilegio aristocratico. Per Nietzsche l’uomo è nella natura e della natura. Tutto ciò che abita il mondo è natura, e questa non prevede alcuna possibilità di rivoluzionare le sue stesse disposizioni. Per quanto l’uomo possa trovarle caotiche, senza senso o perfino angoscianti, a lui è data una sola possibilità: rimuovere ogni ideale di felicità o anche solo di miglioramento e conformarsi a quelle regole. 2.
Contro la democrazia
Democrazia è il nome che si potrebbe attribuire alla stella cometa che ha illuminato il cammino dell’umanità verso l’estensione dei diritti e delle libertà. un cammino glorioso ma al tempo stesso tortuoso e travagliato, con caratteristiche piuttosto controverse: per lungo tempo ha visto esclusa una larga fetta di popolazione (discriminata su basi razziali, sessuali o censitarie); è stato condotto dai paesi militarmente e poi economicamente più forti a spese di quelli più deboli; ancora oggi riguarda un numero relativamente ridotto di nazioni del pianeta, al netto di un sistema tecno-finanziario che imperversa preponderante 27. Hobbes 1640: I,13, v. IV, pp. 85-6. Il filosofo inglese sosteneva che «la natura ha dato a ciascuno il diritto su ogni cosa», ma questo «stato di natura» produce una «libertà sterile» perché chi può fare tutto in base alla propria volontà dovrà inevitabilmente scontrarsi con la volontà altrui, lasciando che sia la maggiore forza a stabilire chi veramente potrà ottenere ciò che vuole. Per questo occorre sapere che, al di fuori della dimensione regolata dello Stato, avviene «il dominio delle passioni, la guerra, la paura, la povertà, l’incuria, la solitudine, la barbarie, l’ignoranza e la crudeltà» (Hobbes 1642: I,10, v. II, p. 9; X,1, v. II, p. 127). Cioè, a conti fatti, tutto quello che Nietzsche ha stabilito come perfettamente in linea con le disposizioni della natura.
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limitando significativamente le conquiste democratiche ottenute negli ultimi due secoli di lotte politico-sociali. Ciò anche in quei paesi che hanno realizzato storicamente un maggiore sviluppo democratico alle condizioni appena descritte. Insomma, malgrado il termine compaia già nei classici antichi del pensiero come Platone e Aristotele, che peraltro lo hanno diffusamente massacrato con buona pace della retorica sulla «democrazia» ateniese28, è evidente che ci troviamo dinnanzi a un ideale oltremodo complesso, che ha cominciato a trovare timide applicazioni soltanto in tempi relativamente recenti. Non a caso uno studioso di lungo corso dell’argomento, quale era Giovanni Sartori, scriveva nel 1987 che «la democrazia come la conosciamo oggi possiede un’infinità di compiti e funzioni in più rispetto a quante ne aveva cinquant’anni fa»29. Di sicuro un ideale regolativo. Cioè un traguardo impossibile da tagliare definitivamente per quel corridore dal fiato corto e dal percorso limitato che è l’uomo. Senza contare l’enormità dell’obiettivo a cui egli si trova di fronte, come si può evincere dal significato enfatico e utopistico della parola stessa (democrazia: «governo del popolo»). 28. Platone nel Menesseno (238d), per rinforzare la sua teoria secondo cui il popolo è fisiologicamente incapace di governarsi e le migliori costituzioni sono espressioni non del demos bensì di minoranze qualificate, metteva in bocca a Pericle la frase secondo cui ciò che viene chiamata democrazia «in realtà è un’aristocrazia con l’approvazione della massa». Lo stesso Pericle, invece, stando alla testimonianza di Tucidide non aveva dubbi nel definire «democrazia» il suo governo in cui si amministra lo Stato non nell’interesse dei pochi ma della maggioranza (Le storie: II,37). Sempre Platone, stavolta nella Repubblica (562a), affermava che la caratteristica principale della tirannide è di essere una «degenerazione» della democrazia. Anche Aristotele sosteneva che la democrazia «somiglia in molti punti a una tirannide», poiché se si riconosce il potere a una maggioranza, si può star certi che questa agirà ingiustamente, confiscando i beni della minoranza ricca. Del resto, concludeva Aristotele, se basta il potere sovrano di una maggioranza a rendere giusta una legge, «allora anche gli atti del tiranno devono essere necessariamente giusti, poiché anch’egli fa uso della forza coercitiva che deriva dal suo maggiore potere» (Politica: III,10 1281a e VI,3, 1318a). 29. Sartori 1987: p. 399.
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A tal proposito è opportuna una precisazione: con democrazia possiamo intendere sostanzialmente due percorsi differenti. Il primo, seguendo il significato letterale del termine, rimanda al fantomatico, mai realizzato e per molti versi inquietante governo del popolo su se stesso; il secondo, ispirato a un’interpretazione più elastica e realistica, conduce a un sistema di governo in cui alla parte più ampia possibile del medesimo popolo sia riconosciuto il potere legislativo (in epoca moderna tramite rappresentanti eletti), ma soprattutto quello elettivo e quindi di destituzione di un governo ritenuto insoddisfacente poiché non ha contribuito all’accrescimento del benessere generale. Intesa nel primo senso, la democrazia è stata pressoché unanimemente rifiutata da tutti i grandi autori classici della politologia fino ai giorni nostri, con l’accusa di essere utopistica, demagogica e dannosa per il buon funzionamento della società. Concepita nel secondo, invece, ha gradualmente aperto la strada all’estensione dei diritti e delle libertà fin da tempi insospettabili. Come nel caso di Marsilio da Padova, il filosofo italiano del tardo Medioevo che nella sua opera principale da una parte condanna, sulla scia degli autori antichi, la democrazia intesa come potere diretto del popolo, dall’altra ne riconosce una forma (politeia) in cui spetti «a tutto il corpo dei cittadini o alla sua parte prevalente» l’autorità di «fare le leggi»: infatti, è quando tale potere spetta alla comunità nel suo intero che la legge viene osservata con maggiore rigore, «poiché tutti i cittadini osservano meglio quella legge che ciascuno ritiene di essersi imposto». Senza contare, inoltre, che in tal modo si avrebbe la garanzia di una legge scritta in maniera più efficace, poiché se invece essa fosse stata concepita dai pochi, «questi ultimi potrebbero non discernere e non desiderare il vantaggio comune così bene come lo discerne e lo desidera l’intera moltitudine dei cittadini»30. 30. Marsilio da Padova 1324: I, XII, §§ 8 e 6; I, XIII, § 5. Nel senso negativo, invece, il medesimo autore definiva la democrazia come «un governo nel quale la massa (vulgus) o la moltitudine degli indigenti stabilisce il governo o governa da sola, fuori della volontà o consenso degli altri cittadini e non del tutto per il vantaggio comune secondo la giusta proporzione» (Marsilio da Padova 1324: I,VIII, §§ 2-3).
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In questi termini può essere visto come un assertore del governo democratico anche quello Spinoza che pur risultava essere fra i pochissimi pensatori stimati da Nietzsche. Sì, anche il filosofo olandese scorgeva le basi della democrazia in quel meccanismo per cui «ciascuno trasferisce tutta la sua potenza alla società», in modo tale che soltanto essa (e nessun individuo o gruppo specifici) detenga il potere sovrano a cui ogni cittadino è tenuto a ubbidire. Proprio in virtù di tale meccanismo, Spinoza definiva il «governo democratico (imperium democraticum)» come «il più naturale e il più conforme alla libertà che la natura conceda a ciascuno». Questo poiché in democrazia «nessuno trasferisce il proprio diritto naturale ad un altro», ma soltanto alla società di cui è membro, e «in questo modo tutti rimangono uguali come lo erano prima nello stato di natura»31. Insomma, concepita in questi termini non letterali, non si è certo dovuta aspettare la metà del Settecento per trovare in rousseau un filosofo che non trattasse la democrazia soltanto in termini di dannosità e pericolosità per l’equilibrio e il benessere della società. Lo stesso rousseau, peraltro, sebbene per primo avesse teorizzato in termini espliciti che la legittimità del potere sovrano deriva formalmente dal popolo, ammetteva compiacente che «volendo prendere il termine nella sua rigorosa accezione, una vera democrazia non è mai esistita né mai esisterà. È contro l’ordine naturale che il grande numero governi e che il piccolo sia governato»32. 31. Spinoza 1670: XVI,3, § 8, v.III, p. 193 e § 11, p. 195. Del resto, se il «governo ottimo» è quello sotto cui gli uomini trascorrono la vita nella concordia, tale governo non può che essere istituito da una «moltitudine libera (libera moltitudo)» e non ad essa imposto in virtù di un qualsiasi elemento di forza (Spinoza 1677: V, §§ 5-6, v. IV, p. 296). 32. rousseau1762²: v. 2, III,IV. Quella del «numero», rappresentava una vera e propria costante del Nietzsche anti-democratico. Per esempio in Crepuscolo degli idoli, dove lamentandosi dei troppi diritti concessi all’«operaio» (fra cui quello al voto), lo descriveva a guisa di un parassita sociale che «si trova troppo bene per non domandare sempre di più smoderatamente. Dopo tutto, egli ha dalla sua parte il vantaggio del gran numero…» (GD: VI,III, p. 141; cfr. KSA: XIII, p. 30). Più avanti, vedremo che parlava anche di «idiozia numerica».
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Di fronte a un ideale tanto complesso ed elevato quale è la democrazia, due sembrano essere gli atteggiamenti possibili: da una parte il rifiuto, additando la motivazione dell’utopia o della pericolosità (spesso le due cose coincidono); dall’altra l’adattamento alla prospettiva «gradualistica» tematizzata in tempi a noi più vicini da Karl Popper33, che attraverso tentativi ed errori, contraddizioni e battute d’arresto, provi comunque a realizzare un avanzamento verso quell’ideale regolativo che, appunto, può fungere quantomeno da ispiratore per il presente. Volendo schematizzare, possiamo dire che la Storia ha adottato il secondo atteggiamento, mentre Nietzsche si è schierato fieramente fra quei pensatori «reazionari» che, in tempi moderni a partire da Thomas Hobbes34, hanno fatto di tutto per contrastare la pur travagliata e contraddittoria evoluzione dei diritti umani e delle libertà sociali. Del resto un filosofo che, come abbiamo visto, si oppone a ogni evento rivoluzionario in grado di ampliare la libertà e l’uguaglianza fra gli individui non può che essere contrario alla democrazia. Ciò senza contare che Nietzsche, con la schiettezza e la radicalità che lo caratterizzavano, non si opponeva alla 33. Sebbene il filosofo austriaco ammettesse che «soltanto una minoranza delle istituzioni sociali sono state consapevolmente progettate, mentre la grande maggioranza è giusto “cresciuta” (grown) come risultato non premeditato di azioni umane», tuttavia si faceva promotore di una forma di «ingegneria sociale gradualistica (piecemal social engineering)» in base alla quale gli uomini possono far evolvere la società non cercando di realizzare ideali inarrivabili, bensì operando continui aggiustamenti e riaggiustamenti. Si trattava, insomma, di aderire a un’ingegneria sociale «gradualistica» e rifiutare quella «utopica», quest’ultima all’origine di fenomeni totalitari e liberticidi (Popper 1957: p. 65; 1945: v. 1, p. 21). Per approfondire l’argomento, rimando a ercolani 2011: pp. 197 sgg. e ruelland 1991: pp. 55 sgg.. 34. La posizione antidemocratica del filosofo inglese era molto chiara: poiché ciascun governante tende ad abusare del proprio potere per voler arricchire se stesso e la gente che ha intorno, un monarca unico tenderà a fare pochi danni rispetto a un regime democratico, dove demagoghi e oratori che hanno presa sulle masse spuntano fuori come funghi e molto più ampia è la lista dei loro amici (Hobbes 1642: X,6, v.II, pp. 131-2. Il concetto veniva ribadito anche in Hobbes 1651: II,XIX, v. III, p. 175).
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democrazia ritenendola semplicemente utopistica, bensì considerando contronatura e quindi esiziale il concetto stesso e le sue applicazioni per le sorti dell’umanità. Questa ostilità sul piano concreto, oltre che su quello filosofico, vede una ragione precisa e paradossale al tempo stesso: tale ragione riguarda il fatto che la democrazia come la intendiamo nei giorni nostri, quindi nella sua connotazione più tipicamente rivoluzionaria, aveva cominciato ad affermarsi proprio negli anni in cui il filosofo componeva le sue opere. Sì, Nietzsche poteva assistere in diretta e con profondo sconforto all’affermarsi di alcune conquiste politiche e sociali destinate a rivoluzionare gradualmente l’identità degli stati occidentali. Proprio lui, fiero oppositore della modernità nella misura in cui questa comportava un «progresso» nei diversi ambiti, si trovava a dover fare i conti con l’esplodere iniziale ma fragoroso di un tempo moderno destinato a liquidare in buona sostanza l’«antico regime»35. A cominciare dalla faticosa e graduale estensione del diritto di voto (affermatasi a quel tempo in Germania e Francia, ma non in Inghilterra), una pietra miliare nella costruzione dell’edificio democratico che Nietzsche vedeva in maniera frontalmente contrapposta rispetto al fulcro del proprio pensiero: «Mi trovo costretto a ristabilire la gerarchia nell’epoca del suffrage universel, cioè nell’epoca in cui ciascuno ha diritto di erigersi a giudice di tutto e di tutti»36. Bersaglio del grande filosofo erano Bismarck e le istituzioni rappresentative adottate dalla Germania del cancelliere di ferro, simbolo inequivocabile dell’«epoca meschina della miopia plebea». Quell’epoca a cui secondo Nietzsche bisognava porre fine: «Nell’insieme desidererei che l’idiozia numerica e la superstizione delle maggioranze non si stabilisse in Germania come tra le razze lati-
35. Per quelli come Nietzsche – scriveva Charles Taylor 2007: p. 717 – «il progresso significava equità, il più infimo comune denominatore, il declino della grandezza, del sacrificio e dell’autosuperamento. Nietzsche è stato il più influente costruttore di questa linea di attacco all’interno della nostra cultura». 36. WzM: § 854.
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ne; e che alla fine si inventasse ancora qualcosa in politicis! C’è poco senso e molto pericolo nel lasciare che l’abitudine, ancora così breve e sradicabile, del suffragio universale metta radici più profonde, dato che anche la sua introduzione fu solo una misura adottata al momento per necessità»37.
A parere del filosofo tedesco, insomma, estendere il diritto di voto equivaleva a un errore imperdonabile, che consiste nel fornire voce (e quindi potere) a quella massa di persone che egli vedeva invece alla stregua di un gregge, nato per obbedire alle norme stabilite da pochi eletti. Conferire una facoltà del genere al volgo dei malriusciti poteva rappresentare soltanto l’origine dei mali più grandi, poiché così facendo ci si arrendeva alla «legge del numero», esponendo la comunità alle deliberazioni di chi non è in grado neppure di orientare la propria vita, figuriamoci quella di una nazione. ecco allora che la democrazia, a dispetto del nome, non equivale in alcun modo a innalzare la posizione di un popolo, bensì rappresenta la condizione portante della sua distruzione. Fornire quel popolo di un potere che esso non è fisiologicamente in grado di gestire, infatti, sarebbe come affidare il governo della nazione al «fanciullo bisognoso di un tutore o protettore che difenda la sua persona e la sua autorità», di cui parlava Hobbes, o le sorti del mondo al bambino che governa il regno del tempo giocando a lanciare i dadi, di cui scriveva eraclito38. È bene precisare che ci troviamo di fronte a un’argomentazione che Nietzsche ha potuto trarre non soltanto della tradizio37. KSA: XI, pp. 353 e 456-7. L’allusione finale di Nietzsche riguardava il fatto che istituzioni rappresentative e il suffragio universale erano stati un espediente tattico di Bismarck, con l’obiettivo di estendere il consenso all’unificazione del paese promossa dall’alto. ora che ciò era stato ottenuto, si era ancora in tempo per tornare indietro e inventarsi qualcos’altro, secondo il parere del filosofo tedesco. 38. Hobbes 1651: II,XIX, v. III, p. 177. Poco righe innanzi lo stesso filosofo inglese aveva scritto che «non vi è grande Stato, la cui sovranità sia riposta in una grande assemblea, che non si trovi, quando si tratta di consultarsi sulla pace e la guerra o di fare leggi, nella stessa condizione di un governo guidato da un bambino». Per la frase di eraclito, cfr. Frammenti: B-52.
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ne antidemocratica in quanto tale, bensì a un topos che ha caratterizzato per molto tempo la stessa teoria liberale, impegnata a ostacolare in ogni modo l’estensione dei diritti politici a una larga fetta della popolazione. A tal proposito si può ricordare il celebre intervento del whig inglese edmund Burke, che in polemica con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo (1789) denunciava questa teoria eversiva che concede voce alle rivendicazioni politiche e sociali di «parrucchieri» e «candelai», «per non parlare di molteplici attività ulteriori ancora più servili di queste», ossia alla «moltitudine suina» e in generale a persone la cui «occupazione sordida e mercenaria» comporta di per sé «una prospettiva meschina delle faccende umane». Ma persino un esponente della rivoluzione francese come l’abate emmanuel Joseph Sieyès, autore del più celebre manifesto rivoluzionario, in quegli stessi anni parlava indifferentemente dei lavoratori salariati a guisa di «macchine da lavoro», «macchine bipedi», ovvero come di una «moltitudine sempre bambina»39. Il Nietzsche che abbiamo visto suddividere l’umanità in benriusciti e malriusciti, nobili e plebei, geni e massa, provava una repulsione innata per il gregge numeroso degli individui costretti a lavorare per vivere, a cui contrapponeva l’individuo distinto e aristocratico che possiede «la capacità di stare in ozio, l’assoluta convinzione che in ogni caso un mestiere, se anche non disonora, comunque snobilita». Né possono esserci dubbi 39. Burke 1790: v. 5, pp. 154 e 105-106. Sieyès 1985: p. 80. Lo stesso padre del liberalismo, per giunta in un’opera teoretica, affermava che «la maggior parte dell’umanità», impegnata a lavorare, è «resa schiava (enslaved) dalle necessità della sua condizione mediocre», da una vita consumata a preoccuparsi della sopravvivenza (Locke 1689: IV,XX,2, v. 2, p. 283). Nietzsche si aggiungeva a questa autorevole tradizione, apostrofando i lavoratori salariati come «macchine intelligenti» o «strumenti di trasmissione» (KSA: AC, § 57 e XII, pp. 4912). È molto probabile che tutti costoro si ispirassero al mondo antico, di sicuro Nietzsche che ne era un fine conoscitore. Mi riferisco in particolar modo ad Aristotele e alla sua definizione dello schiavo come «strumento d’azione (praktikon) chiamato a trasmettere il movimento agli «strumenti di produzione (organa poietika)» (Politica: 1253b 33 e 1254a 8); come anche all’erudito reatino Marco Terenzio Varrone, che utilizzava il termine «instrumentum vocale» per qualificare il lavoratore salariato (De re rustica: I,17).
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sul fatto che Nietzsche stesse facendo riferimento alla «nobiltà di nascita», cioè che la sua fosse una posizione rigorosamente classista, e tutt’altro che metaforica, a favore dell’aristocrazia di sangue ma anche di quella censitaria, come si può evincere da un frammento del 1888: «Se si viene al mondo poveri, già per parte dei genitori, che abbiano in tutto solo dissipato e non accumulato, si è allora “incorreggibili”, ossia maturi per il penitenziario o il manicomio»40. Fatto sta che la modernità stolta e plebea si era sciaguratamente incaricata di procedere a passo spedito verso la realizzazione di riforme tese a esaltare proprio il grande numero e la moltitudine, mortificando secondo Nietzsche tutto ciò che è nobile ed elevato, tutto ciò che si distingue, per affogarlo nella melma stagnante e omologante della massificazione più indifferenziata. La musica di Wagner costituiva una perfetta colonna sonora di questo film dell’orrore, in cui si rappresentava un’epoca dove «tutto è escogitato per convincere le masse», in cui lo stesso musicista teutonico «non vuole altro che l’effetto»: «Il grande successo, il successo di massa non sta più dalla parte dei genuini – si deve essere commedianti per ottenerlo! […] Si prospetta così innanzi, per il commediante, l’età dell’oro», lamentava il Nietzsche ormai distante rispetto alle posizioni del vecchio amico e maestro musicista41. Ciò che si eleva rispetto alla massa è raro, secondo Nietzsche, per cui una società forte e vitale dovrebbe facilitare quelle condizioni che permettono l’emergere dei geni e degli individui straordinari. Invece la sua epoca, proprio a partire dalla Germa40. KSA: XI, pp. 543-4 e XIII, p. 290. 41. KSA: WA, §§ 7,8 e 11. Vi sono pochi dubbi sul fatto che l’obiettivo polemico di Nietzsche fosse l’emergente epoca democratica e delle masse, quella in cui gli «epilettici dell’idea», eredi di Savonarola, Lutero, rousseau, robespierre e Saint-Simon, «agiscono sulla grande massa», poiché sfortunatamente «i fanatici sono pittoreschi, l’umanità preferisce vedere gesticolamenti piuttosto che ascoltare ragioni». Al tempo stesso, però, è abbastanza chiaro che il grande filosofo tedesco avesse previsto la deriva novecentesca, in cui attraverso la nazionalizzazione delle masse e la psicologia delle folle si pervenne a regimi disumani e a due guerre mondiali devastanti.
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nia governata da Bismarck, si ostinava a procedere in direzione contraria, tanto da spingere il filosofo a mettere in guardia chi «non vuole appartenere alla massa» e non vuole essere «merce di fabbrica». Seppure in chiave reazionaria e antidemocratica, emergeva con forza tutto il fascino di un messaggio anche pedagogico, rivolto all’individuo che vuole essere libero e legislatore di se stesso, che non intende seguire in maniera acritica le ideologie dominanti e i miti del tempo, inchinandosi «ad un’epoca retta non da uomini viventi, ma da pseudonimi con una opinione pubblica»42. Grande era destinata ad essere la frustrazione di Nietzsche: non soltanto l’estensione del suffragio, infatti, si poneva a ostacolo per i suoi propositi, ma anche l’istituzione della scuola pubblica, che fin dal 1791 un rivoluzionario autentico come Condorcet aveva ritenuto «un dovere della società nei riguardi dei cittadini», teorizzando «la necessità di conservare a una parte dell’istruzione un’indipendenza assoluta da ogni potere sociale», poiché soltanto in questo modo si può garantire che l’istruzione verrà regolata sulla base del progresso dei lumi e non sull’interesse delle classi potenti della società»43. Nulla di più lontano dall’intendimento del filosofo tedesco. Concepita con l’intenzione di eliminare il fenomeno dell’istruzione riservata ai soli figli delle famiglie aristocratiche e benestanti, nonché presentata da Bismarck come un rimedio contro l’oppressione religiosa, tuttavia la scuola pubblica veniva considerata da Nietzsche sinonimo di «comunismo». un’operazione secondo lui concepita con l’intento di illudere le classi plebee, uniformare le menti, mescolare i pochi geni alla massa
42. KSA: Se, I, p. 338. Quest’ultima espressione, «pseudonimi con una opinione pubblica», possiede una notevole carica profetica, specie se confrontata con quella dei «docili robot» di cui avrebbe parlato Charles Wright Mills (1959: p. 171), oppure con le «solitudini comunicanti» del nostro tempo, intendendo con ciò degli individui alienati nei «profili» social, veicolatori di contenuti omologati al solo scopo di elemosinare quelle attenzioni fredde che sono i «like» (ercolani 2019: pp. 21, 158, 190, 237 e 243). 43. Condorcet 1790-1791: v. 7, pp. 169 e 309-10.
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ignobile del popolo e in questo modo disinnescarne il potenziale critico ed eversivo: «Se si vogliono degli schiavi – e di essi si ha bisogno – non si devono educare come padroni»44. Quella di Nietzsche nei confronti del «genio» può essere descritta come una vera e propria metafisica, che ritorna costantemente lungo tutta l’evoluzione del suo pensiero. Nelle pagine giovanili si può leggere questo appunto: «Marciare in fila. Avversione per il genio. L’uomo “sociale” – il socialismo»45. Si tratta, invece, di riconoscere «la gerarchia naturale del regno dell’intelletto», quindi comprendere ed insegnare a comprendere che bisogna inchinarsi «dinanzi al grande genio, la guida per tutte le epoche»46: «ogni uomo, con tutta la sua attività, acquista una dignità solo in quanto sia, coscientemente o incoscientemente, uno strumento del genio», per cui si rivela blasfemo nei confronti del «sacro ordine della natura» voler concedere istruzione e libertà a coloro che «sono nati per servire, per obbedire» ai «grandi eroi di un’epoca, i quali procedono solitari», modellando e plasmando a proprio piacimento la «creta» rappresentata dalla massa»47. 44. KSA: XIII, p. 30 e GD, § 40. Nietzsche ammetteva il pericolo dell’oppressione religiosa, che spingeva tutte le classi sociali a un desiderio ardente di «istruzione (Bildung)», tuttavia si preoccupava di precisare che il sistema statale della scolarizzazione diffusa era per lui un «rimedio disperato», senza contare che «la servitù della massa, la sua obbedienza sottomessa, il suo istinto di fedeltà», sono tutelate dal radicamento degli «istinti religiosi» e delle «immagini mitiche», non ancora estirpati dall’introduzione dell’istruzione o dagli appelli all’«emancipazione» (KSA: BA, I, pp. 668-9). Altrove il filosofo si lamenta del fatto che «non ci sono più braccia per il lavoro nei campi. L’istruzione distrugge la razza dei lavoratori e conseguentemente l’agricoltura» (KSA: XIII, p. 123). Né poteva mancare l’accusa al movimento socialista e rivoluzionario, con tanto di invettiva contro quei «maledetti seduttori che hanno distrutto lo stato d’innocenza dello schiavo per mezzo del frutto dell’albero della conoscenza» (KSA: CV, I, pp. 765-6). Il delitto imperdonabile della «canaglia socialista» è di «minare l’istinto, il piacere, il sentimento di semplicità senza pretese (Genügsamkeit) dell’operaio con la sua piccola esistenza» (KSA: AC, § 57). 45. KSA: VII, p. 259. 46. KSA: BA, I, pp. 699 e 671. 47. KSA: CV, I, p. 776 e BA, I, p. 698.
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Si trattava di concetti già sentiti, per esempio nel filosofo americano ralph Waldo emerson, accuratamente letto e fortemente apprezzato da Nietzsche, che in uno scambio epistolare lo definiva l’«eccellente emerson»48. In quest’ultimo l’autore di Zarathustra aveva potuto leggere che «è naturale credere nei grandi uomini», che «ogni mitologia si apre con semidei» mentre «la natura sembra esistere solo per colui che eccelle». Il mondo stesso è sostenuto dalla veracità di questi uomini superiori che «rendono la terra un posto salutare». La vita è dolce e «tollerabile» soltanto se pensiamo a una società di geni, e del resto ogni madre non desidera che un «figlio genio», anche a costo che tutto il resto sia «mediocre»49. Ma con Nietzsche ci troviamo di fronte a un salto di qualità abbastanza inedito, motivato dalla consapevolezza che «la creazione del genio […] è il fine di ogni società». Si dovrebbe allora operare conseguentemente per realizzare la «dura necessità di lavorare per il genio, in modo da rendere possibile il suo sorgere». Ma disgraziatamente il tempo moderno (in cui Nietzsche si trovava a vivere) è quello in cui domina una tendenza opposta: «Si democratizzano i diritti del genio»50. In questo contesto bisogna intendere l’istituzione dell’istruzione pubblica e in generale le riforme in senso democratico adottate dal governo dell’odiato Bismarck. Stiamo parlando di quella stessa Germania che, nei medesimi anni e in buona compagnia delle altre principali nazioni europee, decideva di attuare una massiccia legislazione sociale sostanzialmente in vista di due scopi, uno esplicito e l’altro implicito: quello palese consisteva nel promulgare delle leggi con l’obiettivo di estendere i diritti e le tutele sociali, migliorando la condizione esistenziale e sociale delle classi subalterne e in generale delle categorie umane fino a quel momento scarsamente tutelate; quello meno evidente aveva a che fare con il comprensibile opportunismo dei governi liberali, chiamati a raccogliere un 48. KGB: II,3, p. 258. 49. emerson 1850: v. 4, pp. 9 e 27. 50. KSA: Se, I, p. 358 e BA, I, p. 666.
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maggiore consenso popolare a fronte del pericolo socialista e comunista che stava montando con una forza inaudita. Nietzsche non poteva che provare una sconfinata ripugnanza di fronte a entrambi i propositi e, anche in questo caso, il suo linguaggio era perfettamente conseguente a un sentimento tanto infuocato. Soprattutto contro intellettuali e giornali: i primi accusati di essersi venduti al governante di turno, in cambio di riconoscimenti paludati o della gloria plastificata che deriva dal consenso della grande massa; i secondi messi sul banco degli imputati per il loro fungere da cassa di risonanza di un potere dominante che si rivela ignorante e plebeo, soprattutto nella misura in cui cerca il consenso del volgo dispensando piccole e sapienti dosi di democrazia51. In aggiunta a questo, la carta stampata in genere era oggetto degli strali di Nietzsche, principalmente in quanto fautrice della diffusione presso ampi strati della popolazione di questioni e attività che avrebbero dovuto restare affare esclusivo dei pochi aristocratici in grado di occuparsene degnamente: insomma, l’avanzare della «cultura generale», il «leggere giornali» e il «far politica» (naturalmente da parte di un numero sempre più diffuso di individui) venivano dal filosofo considerati tre aspetti di un unico processo di massificazione e degenerazione della società52. Suscita una certa sorpresa il fatto che Nietzsche, pur di contrastare il processo democratico destinato a coinvolgere un numero sempre più alto di persone nelle questioni sociali e politiche, con il suo attacco ai giornali di fatto legittimava per le masse popolari la vita all’ombra del campanile, in balìa di quell’oppio ideologico rappresentato dalla religione e dai suoi 51. Nietzsche lamentava una diffusa «prostituzione dello spirito» (KSA: FW, § 31), riconosceva a Bismarck un solo pregio, quello di essere almeno «diffidente nei confronti degli intellettuali» (KSA: XI, p. 256), e infine rimarcava una orgogliosa distanza rispetto agli intellettuali di successo, affermando che «prendere in mano un mio libro mi sembra una delle più rare distinzioni che uno si possa concedere […] È una distinzione senza pari poter entrare in questo mondo nobile e delicato» (KSA: eH, Perché scrivo libri così buoni, §§ 1 e 3). 52. KSA: JGB, § 239.
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testi sacri che il fedele deve utilizzare per la sua preghiera quotidiana: palese il contrasto con l’odiato Hegel, per esempio, che in due aforismi della sua fase jenese paragonava la «lettura mattutina dei giornali» a «una sorta di realistica preghiera», ma anche con uno scrittore come Stendhal (molto amato da Nietzsche), che nel suo più celebre romanzo composto alla viglia della rivoluzione di Luglio (1830), oltre ad aver evidenziato la «paura» che ai «tirannelli» incute anche la «sola vicinanza dei giornali di Parigi», si chiedeva con tono speranzoso: «Potrà mai il giornale sostituire il curato?»53 È bene precisare che Nietzsche, ben lungi dal rivelarsi «inattuale», anche in questa sua avversione per la carta stampata attingeva da un’ampia tradizione reazionaria molto delineata in quel tempo: il sacerdote e politico italiano Vincenzo Gioberti lamentava il fatto che stampa e giornali, diffondendosi presso il «popolo», contribuivano ad «accrescere il sentimento dei suoi mali e il desiderio di riscattarsene»; il filosofo cristiano Kierkegaard auspicava che il governo, prima ancora degli alcolici, proibisse i giornali, «che sono e saranno il principio del male nel mondo moderno» insieme ai giornalisti, i quali prendono la folla completamente priva di opinione e la convincono che è giusto «che ogni uomo ne abbia una». Né poteva mancare il filosofo Schopenhauer, che in uno scambio epistolare del 1849 denunciava la sciagura di tempi oscuri «in cui nessuno apre più un libro e giornali indegni usurpano il monopolio delle letture»54. Tuttavia, quella che poteva sembrare a prima vista una querelle esclusivamente culturale o di costume, con questi filosofi nel ruolo di rappresentanti di una élite tutt’al più snob, grazie a Nietzsche e alla sua schiettezza priva di ipocrisie si rivelava per 53. KSA: BA, I, pp. 698-9 per l’opportuna servitù della massa e sottomissione agli «istinti religiosi»; KSA: XI, pp. 68-9 per la sconsolata denuncia che «il giornale subentra alle preghiere quotidiane»; Hegel 1969-1979: v. II, p. 547; KGB: III,5, pp. 27-8 e KSA: XI, p. 254 per la lettura entusiastica e l’alta considerazione che Nietzsche aveva di Stendhal (da lui definito «amico»); Stendhal 1830: pp. 239 e 199. 54. Gioberti 1851: v. 1, p. 99; Kierkegaard 1834-1855: v. 1, pp. 574-5 e v. 2, pp. 640-1; Schopenhauer 1849: v. I, p. 635.
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quella che è: una faccenda politica in cui si trattava di contrastare quegli strumenti che, pur non esenti da limiti e contraddizioni, contribuivano a ridurre le distanze fra le classi aristocratiche e il popolo. Non solo il «giornale» è il «piffero dei socialisti accalappiatopi», affermava il filosofo tedesco, ma «parlamentarismo» e «stampa» rappresentano «i mezzi con i quali l’animale del gregge si fa padrone»55. Questo il punto cruciale e dolente al tempo stesso: la democrazia e le sue colonne portanti (istruzione, suffragio universale, parlamentarismo, stampa) riducevano quella «distanza» fra la ristretta élite benriuscita e la massa plebea che Nietzsche riteneva fondamentale per il buon funzionamento della società, in buona compagnia di altri pensatori reazionari del suo tempo meno trasparenti rispetto a lui. In questo contesto trovano una spiegazione i toni non meno aspri che il filosofo tedesco riservava a «parlamento» e «partiti politici». Il primo accusato di essere l’omaggio rivolto ad un «gregge» ottuso, fornito della «pubblica autorizzazione a poter scegliere tra cinque fondamentali opinioni politiche», in cui operano «intermediari» e «rappresentanti» tanto dispendiosi e incapaci quanto scaltri nel pretendere di rappresentare i bisogni delle masse popolari (ovviamente, in testa a tutti rispetto a questa requisitoria vi erano i deputati socialisti, veri e propri professionisti del farsi paladini delle condizioni di miseria da posizioni evidentemente privilegiate). I secondi (partiti), descritti sostanzialmente come macchine di potere grazie a cui ignoranti e opportunisti assurgono alle leve del comando, arrivando scandalosamente a prendere decisioni vitali per le sorti di una nazione, ovviamente a discapito della competenza che sarebbe richiesta per un compito tanto arduo. Tutto questo, anche in virtù del fatto che il «partito» è stato concepito ed elaborato in maniera tale da convincere ogni suo aderente a trasformarsi in un «seguace incondizionato»56. 55. KSA: M, § 206 e XI, p. 480. 56. KSA: FW, § 174 e XI, p. 475 (per la critica a parlamento e parlamentari); KSA: VM, §§ 318 e 305 (per la denuncia dei partiti in quanto veicoli di incompetenza). In altri scritti Nietzsche sosteneva di parlare come membro del
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A fronte di questo complesso di fattori, la democrazia si rivelava per Nietzsche una sorta di meccanismo di livellamento e involgarimento generalizzato, ovvero uno strumento con cui una borghesia mediocre e ignorante destituisce l’aristocrazia dal comando nei luoghi strategici della società. Il tutto grazie al consenso di un gregge popolare a cui, in cambio dell’appoggio incondizionato, viene garantito il mediocre benessere quotidiano della salute, del lavoro e del divertimento, che peraltro è del tutto inutile, perché:
«Non lo stato di bisogno né la bramosia, ma l’amore della potenza è il demone degli uomini. Si dia loro tutto, salute, nutrimento, abitazione, svago – essi sono e resteranno infelici e balzani: poiché il demone attende e attende e vuole essere soddisfatto»57.
Condivisibile o meno che fosse l’analisi del filosofo tedesco, quello che emerge è che la vicenda stava prendendo una direzione opposta a quella da lui auspicata. La democrazia, con tutto il suo carico di massificazione e omologazione, ma anche con il portato di emancipazione umana e sociale, stava cominciando a plasmare inesorabilmente le nazioni occidentali di fine ottocento. una tendenza destinata a protrarsi ben oltre il tempo del filosofo, fino al punto da condurre un seguace di Nietzsche come ortega Y Gasset, ormai nel 1930, a lamentarsi di essere piombati in una sorta di «iperdemocrazia (hiperdemocracia)» in cui la massa si era arrogata le «attività speciali» fino ad allora esercitate da «minoranze qualificate» (le funzioni di governare o di giudicare pubblicamente sui pubblici affari), tanto che ormai «non ci sono più protagonisti: c’è soltanto un coro»58. nuovo «partito» aristocratico, riferendosi a «un’aristocrazia etica che nessuno può raggiungere, se non è già nato in essa e per essa» (KSA: XI, p. 543 e VII, p. 809). 57. KSA: M, § 262. 58. ortega y Gasset 1930: t. IV, pp. 147, 148 e 145. È opportuno precisare che il filosofo spagnolo giungeva a queste considerazioni partendo da un fondamentale presupposto identico a quello di Nietzsche (seppure espresso in maniera molto più edulcorata). Infatti se il tedesco divideva l’umanità in benriu-
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Apparentemente un bel paradosso, ma di sicuro una gravosa contraddizione per chi, come Nietzsche, si era fatto apostolo di un identico sempre ritornante nella Storia, all’insegna di modelli politici e culturali di natura aristocratica e oligarchica che invece sembravano destinati a sparire, quantomeno nell’occidente cristiano e liberale. 3.
Contro il liberalismo (e il capitalismo)
Se la democrazia è un ideale regolativo le cui origini si perdono nella notte dei tempi, quando parliamo di liberalismo ci riferiamo a una teoria dalle origini definite (il XVII secolo) che, pur nella sua evoluzione travagliata e problematica, ha plasmato in termini precisi le nazioni che l’hanno adottata. Tanto la democrazia ha a che fare con i diritti e le libertà spesso evanescenti di una comunità (il demos appunto), quanto il liberalismo è nato come una filosofia politica tesa a definire ed affermare le libertà specifiche dei singoli individui. A cominciare da quella che John Locke chiamava la «proprietà sulla propria persona», nonché sul lavoro del proprio corpo e delle proprie mani. Ciò avendo come presupposto l’affermazione e la difesa di «una parte dell’esistenza umana che di necessità resta individuale e indipendente, di diritto fuori da ogni competenza sociale»: quindi libera dalle costrizioni esterne, che provengano da altri individui oppure dallo Stato, per riprendere le considerazioni stavolta di Benjamin Constant59. sciti e malriusciti, ortega non aveva dubbi sul fatto che «la divisione più radicale che andava operata in seno all’umanità è questa, in due classi di creature: coloro che esigono molto e accumulano sopra di sé molteplici difficoltà e doveri, e coloro che non esigono nulla di speciale, fino al punto che per loro vivere significa essere in ogni istante ciò che già sono, senza alcuno sforzo nel perfezionare se stessi, galleggianti che vanno alla deriva» (ortega Y Gasset 1930: t. IV, p. 146). 59. Locke 1690: v. 4, II,27, pp. 353-4. Poco prima, lo stesso liberale inglese aveva scritto che la libertà dal potere assoluto e arbitrario è necessariamente e strettamente connessa alla conservazione stessa di un uomo (II,23, p. 451); Constant 1815: p. 1105. Si trattava, per il liberalismo, di dare vita a un
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Si trattava di affermare un principio fino a quel momento ignorato, ma fondamentale per il prosieguo della civiltà occidentale e per la costruzione degli stati moderni: al di là della polis, dell’etnia, della nazione o di qualsivoglia altra entità collettiva, a contare veramente sono i singoli individui. Gli unici che esistono in quanto tali e che agiscono con il pensiero e con il corpo rendendo possibile l’evoluzione del genere umano nel suo complesso. Di questi individui va affermata e tutelata la libertà, specialmente all’interno di un contesto come quello dello Stato, in cui essi si uniscono rinunciando a una parte di quella libertà per darsi delle regole comuni. un principio soltanto all’apparenza semplice e lineare, se è vero che lo aveva fatto proprio anche quel Maximilien robespierre il cui radicalismo rivoluzionario lo avrebbe condotto a realizzare un regime di «terrore» durante la rivoluzione francese: «La libertà consiste nell’obbedire alle leggi che ci si è date e la servitù nell’essere costretti a sottomettersi ad una volontà estranea», affermava il rivoluzionario francese, e in tal senso l’aristocrazia è quel regime in cui soltanto una parte dei cittadini è sovrana, mentre la restante è sottomessa. La peggiore di tutti, concludeva, è l’«aristocrazia dei ricchi»60. Ma vediamo come sono andate effettivamente le cose. Quando l’astro nascente del liberalismo cominciava a diffondere la propria luce, infatti, le grandi nazioni del tempo erano nel pieno del cosiddetto «assolutismo», ossia quel regime di governo in cui il re e la sua cerchia ristretta avevano un potere assoluto (di vita e di morte) su tutte le persone e le cose, mentre gli individui erano relegati al ruolo di sudditi costretti a muoversi entro lo spazio angusto di una società castale. In un contesto siffatto, si può comprendere quello che persino Marx riconosceva essere «il ruolo altamente rivoluzionaindividuo messo nelle condizioni di incarnare il ruolo di «guardiano e vero responsabile dell’ordine sociale», in pieno possesso di quella libertà che, riprendendo ancora le parole di Constant, «costituisce lo scopo di ogni associazione umana, senza la quale non vi può essere «pace», «dignità» né «felicità» per gli uomini (Audard 2009: p. 729; Constant 1815: p. 1232). 60. robespierre 1950-1967: v. 7, p. 162.
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rio»61 rappresentato da una teoria che per la prima volta affermava dei principi oggi dati per scontati: la libertà di pensiero e di esprimerlo, la libertà di avere una proprietà privata, di scegliersi un lavoro, di intraprendere un’attività, di votare una parte politica e dei rappresentanti deputati al potere legislativo. All’elenco di quelle «positive», si aggiungevano le libertà che Isaiah Berlin definiva «negative»62: quella di una sfera privata entro cui nessuno possa esercitare alcun potere, la libertà di non essere ridotti in servitù o schiavitù, di non essere costretti a proseguire la professione famigliare (servitù della gleba), di non subire dal potere governativo delle costrizioni che oltrepassino quanto consentito dalla carta costituzionale e dalle leggi (a cui è sottomesso anche il re: monarchia costituzionale). Insomma, il liberalismo nasceva come teoria tesa ad ampliare quanto più possibile le libertà individuali e contenere al massimo grado ogni potere collettivo, a cominciare da quello del Governo. Tutto ciò è vero se però si tengono presenti due precisazioni strettamente legate fra loro. La prima riguarda il fatto che almeno fino a tutto l’ottocento il liberalismo ha coscientemente evitato di «universalizzare» quei diritti individuali che pur teorizzava. ossia, tanto la teoria liberale quanto la pratica messa in atto dai governi che a quella si ispiravano, hanno affermato una serie di diritti che però prevedevano tre evidenti clausole di esclusione: censitaria, razziale e sessuale. Insomma, di volta in volta e a seconda delle zone geografiche, il liberalismo escludeva dal godimento di certi diritti (tanto politici che sociali) una
61. Marx 1848: pp. 8-9. Il rivoluzionario tedesco riconosceva persino troppi meriti al liberalismo, per esempio laddove affermava che «dove è giunta al potere, la borghesia ha distrutto tutti i rapporti feudali, patriarcali, idilliaci». Secondo lui, «la borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. 62. Con libertà «negativa» il filosofo britannico intendeva «l’assenza di ostacoli che bloccano l’azione umana». Non gli ostacoli creati dal mondo esterno, di natura biologica, fisiologica o piscologica, bensì quelli «prodotti dall’uomo, intenzionalmente o meno» (Berlin 2002: p. 325).
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più o meno ampia fascia di categorie umane sulla base del reddito economico, del colore della pelle, del genere sessuale63. La seconda precisazione è che almeno fino a tutto l’ottocento il liberalismo è stato pressoché unanimemente di impianto liberistico. Cioè per tutto il XIX secolo autori e paesi liberali hanno scritto e si sono comportati sulla base dell’assunto per cui la libertà è più importante dell’uguaglianza esattamente come il Mercato lo è rispetto allo Stato. Anzi, proprio in riferimento a quest’ultimo aspetto, è sufficiente leggere Tocqueville per rendersi conto della virulenza con cui i liberali si opponevano all’intervento statale perfino in un’ottica di giustizia sociale. Nel celebre discorso del 12 settembre 1848, pronunciato affinché l’Assemblea costituente respingesse quella rivendicazione di «diritto al lavoro» che era stata già repressa sanguinosamente nelle giornate di giugno, Tocqueville affermava che «non vi è nulla che autorizzi lo Stato ad intromettersi nell’industria». È piuttosto da imputarsi alle «dottrine socialiste» la legislazione che riduceva l’orario di lavoro giornaliero a un massimo di dodici ore, quindi da condannare senza appello. È sempre espressione di socialismo e dispotismo ogni misura volta ad alleviare la miseria delle «classi inferiori» tramite il contenimento del costo degli affitti, mentre anche una assai contenuta redistribuzione del reddito costituisce un intollerabile attacco alla libertà e alla proprietà: sì, per Tocqueville era del tutto illegittimo quel regime politico che, pur «nell’assicurare ai ricchi il godimento dei loro beni, protegga allo stesso tempo i poveri dall’eccesso della loro miseria, esigendo dai primi una porzione del loro superfluo in modo da accordare il necessario ai secondi»64. Perno centrale e indiscutibile del liberalismo classico, insomma, era la libertà economica. Da cui seguiva la convinzione che una società si può considerare tanto più libera quanto più essa è lasciata funzionare alla maniera di un mercato. ossia quanto più 63. Cfr. ercolani 2013 e 2016², Losurdo 2004. 64. Tocqueville 1864-67: v. 9, pp. 551 sgg.; 1951 sgg.: v. VIII,2, p. 38, v. XV,2, p. 182 e v. XVI, p. 126.
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al suo interno è consentita la libera concorrenza fra gli interessi individuali e quanto più è ridotta ai minimi termini l’attività statale, tesa a governare in vista del bene comune e a limitare gli effetti più negativi del conflitto sociale fra i singoli egoismi. un’idea che veniva fatta propria da Nietzsche fin nei suoi anni giovanili, per esempio quando citava con favore il suo maestro Schopenhauer sostenendo che questi:
«Dello Stato, come è noto, pensava che i suoi unici scopi fossero di fornire la difesa all’esterno, la difesa all’interno e la difesa contro i difensori, e che se gli venivano attribuiti altri scopi oltre a quello della difesa, ciò poteva facilmente mettere in pericolo il vero scopo»65.
Ciò valeva a partire da Adam Smith, il padre del liberalismo economico, teorico della necessità di «garantire a ciascuno di perseguire autonomamente il proprio interesse personale su un piano liberale di uguaglianza, libertà e giustizia», perché «conformemente al sistema della libertà naturale» ogni uomo deve poter mettere in concorrenza «il suo lavoro o il suo capitale» senza ostacoli di sorta: sì, «lo sforzo naturale di ciascun individuo in vista del miglioramento della propria condizione» è garanzia di ricchezza e prosperità per tutta la società, purché esso non sia impedito dalle «centinaia di inopinati impedimenti con i quali la follia delle leggi umane troppo spesso intralcia la sua azione». Sennonché, quando dal piano dei principi universali si trattava di scendere su quello del reale funzionamento del lavoro, lo stesso padre del liberismo doveva abbandonarsi a un’ammissione decisiva: «Nei paesi civilizzati, il lavoro e il tempo del povero sono sacrificati al mantenimento del ricco nell’agio e nel lusso»66. 65. KSA: Se, I, p. 409. Ma anche in Umano, troppo umano il filosofo ribadiva che «lo Stato è una saggia istituzione per la protezione degli individui gli uni contro gli altri: se si esagera nel nobilitarlo, l’individuo finisce con l’esserne indebolito, anzi dissolto – l’originario fine dello Stato viene così vanificato nel modo più radicale» (KSA: MA, § 235). 66. Smith 1776: v. II.2, pp. 664 e 687 e v. II.1, p. 540; Id. 1982: v. V, p. 340. È il caso di sottolineare come Smith utilizzasse ampiamente l’aggettivo «naturale» per riferirsi agli interessi economici e individuali, in contrapposizione agli effetti deleteri prodotti dalle leggi positive emanate dai governi.
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Questa contraddizione di una libertà economica di fatto per i pochi veniva sostanzialmente riprodotta lungo tutto il corso del pensiero liberale classico, spesso senza che gli autori in questione mostrassero l’onestà intellettuale di Adam Smith. Mandeville non aveva dubbi sul fatto che «la parte più meschina e povera della nazione» è destinata per sempre a svolgere un «lavoro sporco, tipico dello schiavo», tanto che fornirle un’istruzione si rivela un rimedio dannoso e perfino controproducente; mentre Burke rincarava la dose affermando che si trattava di gente impegnata in occupazioni «mercenarie» e «proprie dello schiavo». In compenso Tocqueville, durante il suo viaggio nell’ Inghilterra che aveva dato i natali al liberalismo e si trovava agli albori della rivoluzione industriale, annotava una considerazione di un certo rilievo: «Di qui lo schiavo, di là il padrone, di là la ricchezza di alcuni, di qui la miseria del più gran numero», ma questa condizione non deve spingere il popolo a cedere alle sirene della rivoluzione, perché ciò che vi è di «permanente e necessario» nelle leggi economiche ce le rivela come scaturenti da un «diritto divino» e, per ciò stesso, al di fuori di ogni possibilità rivoluzionaria. Non a caso, nel tracciare un bilancio della rivoluzione del 1848, il liberale francese la imputava al movimento socialista, reo di voler far «credere che le miserie umane siano opera delle leggi e non della provvidenza, e che si potrebbe sopprimere la povertà cambiando l’ordinamento sociale»67. È su queste basi che il liberalismo non ha avuto problemi ad escludere larghe porzioni di umanità da quei diritti politici e sociali che esso stesso teorizzava. Mi concentro a titolo esemplificativo sulla lunga e travagliata vicenda della conquista del suffragio universale. Tre sono le date che l’hanno scandita: 10 67. Mandeville 1705-1733: v. 1, pp. 119 e 302; Burke 1790: v. 5, pp. 105106; Tocqueville 1951 sgg: v. V,2, pp. 80-82; v. XVI: p. 241 e v. XII: pp. 92-4 e 84. Il caso dell’Inghilterra, primo paese capitalista per antonomasia, era piuttosto esemplare. Significativamente uno storico dell’economia, nel 1926, a proposito del suo paese nei secoli precedenti testimoniava di «un atteggiamento verso il nuovo proletariato industriale notevolmente più duro […] tanto da non trovare riscontro ai nostri tempi se non nel comportamento dei più abietti colonizzatori bianchi verso i lavoratori di colore» (Tawney 1926: p. 269).
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agosto 1792, febbraio del 1848 e 1917 (rivoluzione in russia). Si tratta di tre episodi non soltanto estranei alla tradizione liberale, ma da essa fortemente contestati. Prendiamo le dichiarazioni di tre illustri liberali francesi negli anni che precedono la rivoluzione del 1848, in polemica con il movimento per l’estensione del suffragio. Adolphe Thiers, in seguito presidente della repubblica francese, ammetteva che «32 milioni di uomini sono governati dal voto di 240 mila. Ci sono 240 mila uomini che comandano e 32 milioni che obbediscono. Certo, una «sproporzione spaventosa», ammetteva lo storico e statista francese, ma in realtà ci si era spinti fin troppo in là (e in basso) nella concessione dei diritti politici, visto che «si è già discesi a una classe che non ha sufficiente tempo libero, cultura e proprietà per prendere interesse alle questioni politiche». A ridosso della rivoluzione, nel 1847, lo storico e politico liberale François Guizot rincarava la dose e radicalizzava i toni affermando che: «Non sorgerà mai l’alba del suffragio universale, non si leverà il giorno in cui tutte le creature umane, senza distinzione, possano essere chiamate a esercitare i diritti politici». Sempre Tocqueville, invece, stavolta a proposito degli Stati uniti riconosceva che se per un verso «in quasi tutti gli stati [del Nord] in cui la schiavitù è abolita si sono concessi al negro i diritti elettorali», per l’altro «se egli si presenta per votare, rischia la vita». Sto parlando di quegli stessi Stati uniti in cui bisognerà attendere il 1920 perché un emendamento alla Costituzione vietasse la discriminazione femminile rispetto al voto, con l’allora Presidente Wilson che non si faceva problemi ad ammettere candidamente che non si trattava tanto di riconoscere un diritto sacrosanto anche alle donne, ma del fatto che «i paesi europei stavano raggiungendo e sorpassando in questo campo gli Stati uniti, ed egli riteneva che la democrazia americana non potesse restare indietro»68. 68. Thiers 1879: v. 2, pp. 484 sgg.; Huard 1991: p. 19; Tocqueville 1835: p. 319. Non a caso Tocqueville giudicava con sdegno la rivoluzione del 1848: «fatta esclusivamente al di fuori della borghesia e contro di essa», la sua «filosofia» si ispira a «teorie socialiste» e gli stessi borghesi ne rappresentano i «veri e unici vinti» (Tocqueville 1951: v. XII, pp. 92 e 94 sgg.). Per la vicenda statunitense e la dichiarazione del Presidente Wilson, cfr. Schlesinger sr. 1967: p. 439.
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Paradigmatico il caso di John Stuart Mill, autore liberale non alieno dall’assumere posizioni in qualche modo anche democratiche ante litteram (per esempio nei confronti delle donne). Siamo in Inghilterra e quando scriveva si era già imposto il suffragio universale maschile in Francia. Questo, se anche veniva «regolato» e in un certo senso vanificato dal regime bonapartista, rappresentava comunque una conquista difficile da contestare in linea di principio. Infatti Mill proclamava che nessuna persona che non fosse sotto una qualche tutela o il cui operato non andasse contro il bene comune poteva essere esclusa dall’esprimere il voto. Ma, subito dopo questo riconoscimento di principio, poneva le basi per la sua teoria del «voto plurale» (il voto delle persone economicamente e culturalmente elevate doveva contare di più rispetto a quello dei lavoratori e dei culturalmente modesti), una misura che di fatto faceva rientrare dalla finestra ciò che si sosteneva di aver cacciato dalla porta (la discriminazione elettorale). Sì, che tutti abbiano diritto a far sentire la propria voce è un conto, sosteneva l’autore liberale, «ma che ciascuno debba avere una voce uguale a quella degli altri rappresenta una proposizione del tutto differente»: contrastare il suffragio universale pieno equivaleva a evitare uno stato di cose in cui «la maggioranza dei votanti di quasi tutti i paesi, nello specifico anche il nostro, siano lavoratori manuali, così che il doppio pericolo di un livello troppo basso di intelligenza politica e di una legislazione di classe continuerebbe a sussistere ad un alto grado di pericolosità»69. Il messaggio era chiaro: a costituire un fattore determinante di discriminazione era il denaro. Ciò è talmente vero che il filosofo inglese, proprio nella sua celebre opera dedicata alla libertà, si spingeva a scrivere che 69. Mill 1861: v. 19, p. 473. Il liberale inglese aggiungeva nelle medesime pagine che anche l’assemblea che vota le tasse generali o locali sia eletta esclusivamente da coloro che pagano una parte di queste tasse: «Quelli che non pagano le tasse, disponendo col proprio voto del denaro altrui, hanno tutte le ragioni per essere generosi e non risparmiare. Fino a che si tratta di questioni denaro, ogni diritto di voto posseduto da costoro, si rivela una violazione del principio fondamentale di un governo libero» (p. 471).
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«le leggi che in molti paesi del Continente vietano il matrimonio a coloro che non possono dimostrare di avere i mezzi per mantenere una famiglia», non solo non eccedono i legittimi poteri dello Stato, ma non sono neppure imputabili di violare la libertà. Va detto, peraltro, che con queste considerazioni ci troviamo perfettamente sulla scia di quanto aveva già affermato un secolo prima lo «scandaloso» economista e demografo Thomas Malthus, quando per esempio proponeva che fosse abolita ogni forma di sostentamento pubblico ai poveri, o che fosse negato il soccorso parrocchiale a quei bambini nati da un matrimonio contratto un anno dopo la promulgazione della legge di assistenza ai poveri, come anche a tutti quelli illegittimi nati due anni dopo la medesima legge70. Come minimo una questione spinosa, per chi militava nella tradizione che si faceva vanto di difendere una dimensione personale entro cui nessun potere esterno aveva il diritto di mettere bocca. Ad ogni modo, Mill aveva un bel da fare a tirare in ballo lungo tutto il libro che sto citando (Considerazioni sul governo rappresentativo, 1861) fattori come l’intelligenza, l’istruzione e il buon senso, perché quando si trattava di specificare gli elementi attraverso cui stabilire a chi attribuire un voto più influente, le sue parole erano inequivocabili: «un datore di lavoro è più intelligente di un lavoratore, per il fatto che egli deve svolgere la sua mansione anche con la testa e non soltanto con le sue 70. Mill 1859: v. 18, p. 304. Malthus 1798-1826: v. 2, p. 201. Anche Tocqueville, dopo aver ammesso che i reclusi del «sistema penitenziario» sono «gli indigenti che non possono e coloro che non vogliono guadagnarsi da vivere mediante un lavoro onesto», in una nota di diario del 4 febbraio 1851 scriveva che: «È evidente che dobbiamo rendere spiacevole l’assistenza [pubblica], dobbiamo separare le famiglie, fare della casa di lavoro una prigione e rendere la nostra carità ripugnante». Sempre Tocqueville, che peraltro si era richiamato al «principio di popolazione di Malthus», biasimava «tutti gli eccessi dell’intemperanza» diffusi tra le «classi inferiori», la loro «imprevidenza», ovvero la loro inclinazione a vivere «come se ogni giorno non avesse un domani», e soprattutto «questi matrimoni precoci e imprudenti, i quali sembrano non avere altro fine che quello di moltiplicare il numero degli infelici sulla terra» (Tocqueville 1951 sgg.: IV,1, p. 319; Brogan 1991, in Tocqueville 1951 sgg.: VI,2, p. 35; Tocqueville 1951 sgg.: VII, p. 283 e XVI, p. 142).
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mani […] un banchiere, un negoziante, un fabbricante saranno probabilmente più intelligenti di un bottegaio, poiché hanno interessi più vasti e più complicati da gestire […] A tali condizioni, si potrebbero accordare due o tre voti ad ogni persona che svolgesse una di queste funzioni superiori». Si trattava, secondo Mill, di fare tesoro degli eventi che avevano caratterizzato l’ultimo quarto di secolo, che non solo ha insegnato a ogni classe sociale a prendere consapevolezza della propria «forza collettiva», ma ha posto gli individui di più bassa condizione sociale nella condizione di mostrare una maggiore «audacia» verso le classi elevate, di esprimere un voto in disaccordo con le preferenze dei propri superiori, di non subirne la coercizione ma di esprimere le proprie idee e preferenze politiche secondo la propria visione parziale: «I molti vizi dell’attuale sistema elettorale rappresentano una prova di tutto questo» – ne deduceva Mill – a cominciare dal fatto che «gli stessi elettori stanno diventando l’oligarchia»71. Siamo di fronte a una costante del liberalismo classico, che peraltro si è tramandata fino alla fine del Novecento. È possibile rilevarlo quando per esempio leggiamo un autore come Friedrich von Hayek, profeta del neoliberismo odierno e premio Nobel per l’economia nel 1974, nonché ideologo di riferimento dei governi di ronald reagan (usa) e Margaret Thatcher (GB) negli anni ottanta del secolo scorso. Le similitudini con le argomentazioni che abbiamo appena letto in autori del Sette e ottocento sono a dir poco sorprendenti, specialmente in riferimento a John Stuart Mill. Come quest’ultimo, infatti, Hayek partiva da una premessa di principio tanto agiografica nei confronti della tradizione liberale quanto falsa: 71. Mill 1861: v. 19, p. 475 e 492. Più avanti, nello stesso testo, il filosofo inglese ribadisce che per conferire il «voto plurale» è fondamentale l’uso onesto ed economo del denaro, cosa che peraltro si rivela molto più determinante nei corpi locali che non nell’assemblea nazionale. Pertanto è un fatto di giustizia, oltre che di opportunità politica, «riconoscere un’influenza superiore e proporzionale ha coloro che hanno in gioco degli interessi pecuniari superiori» (p. 536).
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«La battaglia per l’uguaglianza formale, cioè contro ogni discriminazione fondata sull’origine sociale, sulla nazionalità, sulla razza, sul credo religioso, sul sesso, etc., costituiva una delle più forti caratteristiche della tradizione liberale»72.
Non solo questa affermazione sembra provenire da qualcuno che non conosce o disconosce le basi della Storia, come ho avuto modo di mostrare attraverso una rapida ricostruzione del liberalismo classico, ma era destinata ad essere smentita perfino da colui che ne era stato l’incauto autore. Sì, perché Friedrich von Hayek, fra le altre cose, è stato un liberale che, volendo criticare le democrazie occidentali in quanto, a suo dire, fin dal 1944 innervate di troppi elementi socialisti e quindi totalitari, ancora alla fine degli anni Settanta del XX secolo si spingeva a proporre un sistema alternativo di governo. Con l’obiettivo dichiarato di lasciarsi alle spalle quello democratico, infestato da una «sovranità popolare» per cui non «vi è più limite al potere dei legislatori»73. Questo sistema alternativo, che Hayek chiamava «demarchia», fra le altre cose escludeva dal diritto di voto (e di essere votati) gli «impiegati di governo», «coloro che ricevono sussidi o altri supporti finanziari» (notare la genericità dell’espressione), «pensionati anziani» e «disoccupati». Ciò perché l’autore liberale riteneva disdicevole che a eleggere (o essere eletti in) un’assemblea che avesse il compito di legiferare con norme specifiche, legate a interessi determinati, fossero le medesime persone destinate a beneficiare di quelle stesse norme. Anche perché coloro che non contribuiscono ai «mezzi» della ricchezza di una società, limitandosi a goderne i «risultati», non possono usufruire degli stessi diritti degli altri cittadini, secondo un intendimento che a vario titolo era stato espresso da Tocqueville (che celebrava l’elezione indiretta del Senato americano), da renan (che riprese l’idea dopo la Comune di Parigi del 1870) e dallo stesso Nietzsche, per il quale si dovrebbe attingere da una 72. Hayek 1978: p. 142. 73. Hayek 1944: p. 61.
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cerchia di «uomini onesti e degni di fiducia di un paese, che allo stesso tempo fossero maestri e specialisti in una stessa materia», quindi operare «una cernita più ristretta» e fare in modo che all’interno del corpo legislativo siano abilitati a «decidere solo i voti dei competenti più specializzati», così che «la legge fosse rigorosamente il frutto dell’intelligenza dei più intelligenti»74. Ma torniamo ad Hayek e alla sua tesi assai drastica: a rientrare fra coloro che non producono ricchezza erano tutti i lavoratori dipendenti. Questo fornisce la misura del numero considerevole di persone che l’economista austriaco intendeva escludere di fatto dai diritti politici. Anche considerando che nello spiegare la propria idea secondo cui non tutti devono avere diritto al voto, lo stesso Hayek faceva riferimento con pieno consenso a quella che definiva la «più vecchia ed efficace» delle democrazie occidentali, ossia la Svizzera in cui (nel 1960!) «le donne sono ancora escluse dal diritto di voto, apparentemente con l’approvazione della maggior parte di loro»75. Insomma, al contrario delle letture acritiche a apologetiche, è giusto prendere atto del fatto che il liberalismo, ossia l’ideologia dominante dell’occidente, per almeno tutto il XIX secolo non ha contemplato la democrazia così come la intendiamo ai giorni nostri, continuando a metterla in discussione anche nel XX secolo per bocca di alcuni suoi esponenti non certo di secondo piano. Il lungo elenco di fatti e misfatti consiglierebbe piuttosto una lettura problematica: sfruttamento e discriminazione dei poveri o comunque non possidenti, delle donne e delle persone non bianche; forte restrizione del diritto di voto come anche di 74. KSA: VM, § 318. Queste considerazioni, con cui si potrebbe perfino convenire in un’ottica di valorizzazione dell’intelligenza e della competenza, assumono tutta un’altra valenza non appena le si accostasse a quelle in cui Nietzsche intendeva negare al lavoratore il diritto all’istruzione, aggiungendo che l’ideale sarebbe quello di costituire in ceto (Stand)», quindi in una sorta di casta esclusa dalla mobilità sociale e destinata a riprodursi ereditariamente, «una specie di uomini modesta e paga di sé, di tipo cinese» (KSA: GD, § 40); Tocqueville 1835: pp. 200 e sgg.; renan 1947: v. I, pp. 386-7. 75. Hayek 1982: v. 3, pp. 119-120 e 1960: pp. 103-5 e 443.
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associazione; assenza di un intervento statale volto alla tutela delle classi sociali lavoratrici (previdenza sociale, infortuni sul lavoro, orari di lavoro massacranti, sfruttamento del lavoro minorile, etc.); missione imperiale contro paesi ed etnie estranee all’occidente, verso i quali è stata condotta una sistematica politica di conquista, sfruttamento e decimazione della popolazione, di volta in volta in nome di un «destino manifesto», della superiorità etnica e civile delle nazioni occidentali, dell’esportazione della democrazia. Sono fatti che hanno spinto autorevoli storici e sociologi statunitensi a parlare di quella liberale come di una «democrazia per il popolo dei signori (herrenvolk democracy)»76, cioè di un regime che riservava diritti e privilegi ai soli individui uomini, bianchi e benestanti, malgrado formalmente li teorizzasse per tutti i soggetti. Certo, sarebbe riduttivo e scorretto ridurre a questo il liberalismo, se non altro per il fatto che le alternative si sono rivelate ancora più liberticide e funeste, e comunque libertà e democrazia non rappresentano delle conquiste ottenibili dalla sera alla mattina. Ma rimuoverne i macroscopici elementi di ingiustizia e crudeltà non agevolerebbe una comprensione obiettiva della Storia moderna e contemporanea. Soprattutto, potrebbe facilmente incoraggiare l’idea per cui Nietzsche, con le sue teorie anche ripugnanti, insieme al terrore nazifascista che anche da quelle stesse teorie ha tratto forte ispirazione neanche un trentennio dopo la morte del grande filosofo, rappresentino una specie di deviazione imprevedibile e inaudita rispetto al corso ordinario della vicenda occidentale. Da questo punto di vista, invece, è opportuno prendere atto del fatto che Nietzsche ha rappresentato l’apoteosi di quel liberalismo politico che per tutto il 1700 e 1800 ha non solo teorizzato e contemplato le clausole di esclusione a beneficio di una 76. Per il «destino manifesto» della razza «bianca e anglosassone» di conquistare, sfruttare e schiavizzare le altre, si vedano zinn 1980: pp. 149 e 153, Schlesinger Jr. 1986: p. 128; per la «herrenvolk democracy»: Van Den Berghe 1967; Fredrickson 1982; Jennings 2003.
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ristretta élite socio-culturale, ma anche contribuito a una visione dell’umanità e del mondo in virtù della quale la «Herrenvolk democracy» occidentale aveva tutto il diritto (e perfino il dovere!) di conquistare e sfruttare il resto del pianeta in nome della superiorità etnica, culturale e razziale. Così John Stuart Mill, il liberale inglese che all’apice della dominazione imperialistica del suo paese non aveva alcuno scrupolo a riferirsi a quelle «società arretrate (backward state of society)» in cui «la razza stessa (the race itself)» può essere considerata come «minorenne (nonage)», sostenendo che nei confronti di queste popolazioni ed etnie anche il «dispotismo» si rivelava come una «forma legittima di governo». Perfino una temporanea «schiavitù» o «dittatura», se si trattava di «razze non civilizzate» da educare alla disciplina del lavoro. Del resto, ci aveva già pensato Tocqueville ad affermare in modo perentorio che:
«La razza europea ha ricevuto dal cielo o ha acquisito coi suoi sforzi una superiorità così incontestabile su tutte le altre razze che compongono la grande famiglia umana, che l’uomo da noi collocato, a causa dei suoi vizi e della sua ignoranza, all’ultimo gradino della scala sociale, è ancora il primo presso i selvaggi».
È forse partendo da questo assunto che l’autorevole liberale francese giustificava la conquista dell’Algeria da parte del suo paese con parole di sorprendente crudeltà, biasimando per giunta coloro che avanzavano dei comprensibili scrupoli morali: «Ho spesso udito in Francia uomini che rispetto ma che non appoggio considerare riprovevole il fatto che si brucino i raccolti, che si svuotino i silos e che infine ci si impadronisca degli uomini disarmati, delle donne e dei bambini. Si tratta, secondo me, di necessità spiacevoli, ma alle quali sarà costretto a sottomettersi ogni popolo che vorrà fare la guerra agli arabi»77.
Non meno significativo il caso di John Calhoun, il senatore americano da più parti considerato una sorta di genio e presto destinato alla carica di vicepresidente degli usa sotto ben due 77. Tocqueville 1951 sgg.: IV,1, p. 271 e III,1, pp. 226-227.
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presidenti diversi (uno degli unici due casi nella storia americana), anch’egli mosso dalla perentoria e indiscutibile idea della «supremazia della razza europea» (da cui provenivano i fondatori degli Stati uniti). Questi, nel 1837 e con una logica molto simile a quella di Mill, si opponeva all’abolizione della schiavitù sostenendo che grazie ad essa la razza nera africana aveva raggiunto una condizione di «civilizzazione» e sviluppo non soltanto fisica, ma anche «morale e intellettuale», mai vista prima. un risultato non di poco conto, per una razza che si distingue da quella bianca per «caratteristiche fisiche e intellettuali» che sono state colmate grazie alla relazione schiavistica (definita in questo senso «un bene, altro che un male»): del resto, concludeva l’autore statunitense utilizzando un’argomentazione che ci riporta dalle parti di Nietzsche, «ritengo che non sia mai esistita una società ricca e civilizzata in cui una parte della comunità non abbia di fatto vissuto sul lavoro dell’altra»78. rispetto a tutto questo, Nietzsche va inquadrato come il pensatore che ha radicalizzato la visione aristocratica e dispotica insita nel liberalismo classico, tirando via quel velo di ipocrisia dei buoni sentimenti per cui lo stesso liberalismo teorizzava (e applicava) dispotismo e schiavitù in nome della civilizzazione e dello spirito paternalistico nei confronti delle razze non evolute. Sì, Nietzsche non si preoccupava di edulcorare il suo messaggio, proclamato negli anni in cui l’espansione coloniale dei paesi europei si dispiegava più impetuosa e terribile che mai: ispirandosi alla grande lezione storica impartita da Napoleone, per il grande filosofo era tempo che un’«europa unita» si facesse «signora della terra»79. 78. Mill 1859: v. 18, p. 224 e 1861: v. 19, pp. 394-5 e 403; Calhoun 1837: pp. 475 e 472-4. 79. KSA: FW, § 362. A questi proclami sembrano rispondere letteralmente le parole accorate e drammatiche pronunciate quasi un secolo dopo dal filosofo anticolonialista Franz Fanon, laddove denunciava che «l’europa ha preso la direzione del mondo con ardore, cinismo e violenza». Quell’europa che non smette mai di parlare dell’uomo, di proclamare la sua inquietudine per le sorti dell’umanità, eppure in nome del proprio «spirito d’avventura» ha «giustificato i suoi crimini e la legittimità della schiavitù in cui manteneva i quattro quinti dell’umanità» (Fanon 1961: pp. 301 e 303).
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Anzi, con l’acume che lo caratterizzava, il teorico della volontà di potenza si produceva in considerazioni e proposte che indirettamente smascheravano tutta l’ipocrisia insita nel liberalismo. Vediamo come, analizzando le fasi del suo argomentare. Dapprima si dichiarava nemico dello Stato e dell’idea ad esso sottesa di voler porre rimedio ai mali della vita, per esempio in Aurora e nei frammenti scartati della medesima opera:
«Stato, il meno possibile […] lo so cosa farà perire questi stati, il non plus ultra dello Stato, che è quello dei socialisti: e di esso io sono l’avversario, e l’odio già nello Stato attuale […] Le grandi lamentele sulla miseria umana non mi commuovono, non mi inducono a partecipare a quel lamento».
Insomma, questo «enorme deliberato proposito di smussare tutte le asperità e le angolosità della vita», l’ideale della «sicurezza generale», si inserisce tra gli «obiettivi vili» oltre che funesti: ci si è immessi «sulla strada migliore per fare dell’umanità sabbia». ed eccoci al punto: invece di pietire sicurezza e garanzia dallo Stato, Aurora incoraggia piuttosto gli operai tedeschi ed europei a intraprendere l’avventura coloniale: «Meglio emigrare, in selvagge e fresche contrade del mondo cercar di divenire padrone, e soprattutto padrone di me stesso: mutar luogo finché continua ad ammiccarmi un qualsiasi segno di schiavitù; non abbandonare la strada dell’avventura e della guerra, e per i casi peggiori tenermi pronto alla morte, purché sia finita questa indecorosa condizione servile, sia finito questo inaridirsi e invelenirsi e questo atteggiarsi a cospiratori».
Soprattutto con l’occhio rivolto alla sua Germania, ove in quel tempo molte erano le voci che si alzavano per raccomandare la conquista imperiale, Aurora proseguiva vaticinando «entusiastiche spedizioni di colonizzatori», in seguito a cui l’europa avrebbe cessato di essere «sovrappopolata» e «intanfita» dalla presenza di «operai» che sono «malcontenti, irritabili e avidi di godimento». La conclusione spazza via il campo da eventuali dubbi interpretativi: «Quel che all’interno del paese natale cominciava a degenerare in pericolosa scontentezza e in crimi127
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nale tendenza, acquisterà fuori di lì una selvaggia e bella naturalezza e prenderà il nome di eroismo»80. La scala gerarchica dell’umanità era ben chiara a Nietzsche: le classi lavoratrici e subalterne dei paesi occidentali potevano trovare più di un motivo di riscatto rifacendosi sulle popolazioni colonizzate, evidentemente costituite da persone che di quella stessa scala abitano i gradini ancora più bassi. Per il filosofo tedesco non v’era alcun dubbio sul fatto che, parlando di operai e schiavi, si affrontava la feccia dell’umanità, con i primi perfino in una posizione più disagiata, poiché «gli schiavi vivono più sicuri e più felici del moderno operaio sotto tutti i riguardi». Perfino «il lavoro degli schiavi è ben poca cosa rispetto a quello dell’operaio»81. Tematiche che Nietzsche aveva avuto modo di affrontare fin dai suoi primissimi studi giovanili, come quello dedicato al poeta antico Teognide, che cadeva durante gli anni della guerra di Secessione negli Stati uniti (1861-1865). Inutile dire che i passi citati con maggiore enfasi e accordo sono quelli in cui il poeta greco si abbandonava alla condanna fisiologica dello «schiavo»: «Mai la testa di uno schiavo è dritta / ma sempre piegata, e tòrto egli ha il collo. Non germoglia da una scilla una rosa o un giacinto / mai da una schiava nasce un figlio libero». Quale vana e criminale stoltezza può illudersi di modificare un tale ordine della natura, considerava Nietzsche citando nuovamente i versi di Teognide, con cui evidentemente si identificava: «Con l’insegnamento non farai mai di un cattivo un buono». Del resto, grande era lo sdegno del poeta antico per «il sangue nobile contaminato dai matrimoni con gente nuova», così come grande è il sospetto che Nietzsche, citando con favore anche questo argomento, avesse ben presente 80. KSA: MA, § 179; IX, p. 294; M, §§ 174 e 206. Bersaglio polemico principale di Nietzsche erano l’imperatore Guglielmo I e il cancelliere Bismarck, l’uno con la sua retorica a difesa del lavoro e dei lavoratori, l’altro con le sue misure di legislazione sociale. Si faceva di tutto, a opinione del filosofo, per evitare i conti con la cruda realtà: «Qui ha effetto semplicemente la legge del bisogno (Noth): si vuole vivere e ci si deve vendere, ma si disprezza colui che sfrutta questo bisogno e compra l’operaio (Arbeiter)» (KSA: FW, § 40). 81. KSA: MA, § 457.
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il contesto storico del razzismo statunitense in genere e il tema della miscegenation nello specifico (dal latino miscere genus, mescolare le razze), contro cui mettevano in guardia i teorici americani della schiavitù nonché della supremazia bianca proprio negli anni in cui il filosofo studiava Teognide con palese consenso. Per intendere tale contesto, è utile leggere un profondo conoscitore della realtà statunitense come Tocqueville:
«È vero che nel nord dell’unione la legge consente a negri e bianchi di contrarre matrimoni legittimi, ma l’opinione bolla come infame il bianco che si unisce a una negra, e sarebbe molto difficile citare l’esempio di un fatto simile […] oppresso, egli [il negro] può lamentarsi, ma non trova che dei bianchi fra i suoi giudici. La legge, tuttavia, gli apre il banco dei giurati, ma il pregiudizio lo respinge. I suoi figli sono esclusi dalle scuole in cui si istruiscono i discendenti degli europei. A teatro egli non può, neanche a peso d’oro, comprarsi il diritto di sedersi a fianco di chi gli fu padrone; negli ospedali, giace a parte. Al nero si permette di implorare lo stesso Dio dei bianchi, ma non di pregarlo allo stesso altare. egli ha i suoi preti e suoi templi. Non gli sono precluse le porte del cielo: tuttavia l’ineguaglianza termina appena sulla soglia dell’altro mondo. Quando il negro muore, si gettano le sue ossa in disparte, così che la differenza delle condizioni si ritrova perfino in quella condizione di uguaglianza che è la morte», secondo il racconto dettagliato che Tocqueville faceva degli Stati uniti di quel tempo82.
82. Nietzsche 1864: v. III, pp. 57, 59 e 29; Tocqueville 1835: p. 319. Il divieto di mescolanza delle razze colpiva negli usa della prima metà dell’ottocento sia i neri che i bianchi (a subire la punizione era anche il prete che avesse celebrato l’eventuale unione). oltre alla norma giuridica, sappiamo di vere e proprie bande di vigilantes impegnate a spiare, intimidire e colpire quei bianchi che dessero l’impressione di subire il fascino delle schiave e delle donne di colore in genere (Wood 1968: pp. 53 sgg. e Williamson 1980: p. 66). Si tratta di un fenomeno che ha vissuto perfino un rafforzamento a cavallo tra la fine dell’ottocento e i primi anni del Novecento in parecchi stati dell’America del Nord, al punto da spingere gli storici a parlare a proposito degli usa di un vero e proprio «stato razziale» (Pascoe 2009: pp. 134 sgg.). Quanto a Nietzsche, la sua piena adesione al modello di società schiavistica, tutt’altro che metaforica bensì reale, è riscontrabile anche dai dettagli apparentemente secondari, come nel caso della feroce polemica contro il romanzo abolizionista della Beecher-Stove, La capanna dello zio Tom (KSA: XI, p. 61).
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una storia secolare, quella che da Aristotele a Nietzsche ha visto autorevoli pensatori esprimere la convinzione per cui esistono esseri umani di rango diverso, ovvero che è la natura a stabilire fin dall’inizio e in maniera immodificabile quali individui sono destinati a svolgere un ruolo subordinato e strumentale all’interno del grande consesso umano. Inutile girarci intorno: è la storia del razzismo. un marchio infamante, che non può essere attribuito né al filosofo antico né a quello tedesco con superficiale perentorietà, considerando nel secondo caso le molteplici prese di posizione contro il razzismo espresse da Nietzsche. Fatto sta, però, che se leggiamo le pagine di quello che probabilmente è stato il principale ideologo del razzismo moderno – mi riferisco ad Arthur de Gobineau (18161882) – troviamo concetti e affermazioni molto simili a quelle del filosofo tedesco, per esempio sul fatto che «universalità» è sinonimo di «volgarità», o ancora che una buona società è quella organizzata in maniera tale da marcare le distanze fra i «ben nati» e gli «inferiori per nascita», secondo quanto aveva già rilevato ernst Cassirer nel 1946 comparando Nietzsche e Gobineau83. In perfetta coerenza con tali presupposti, Gobineau tesseva un elogio dell’antica società greca che ricorda molto da vicino i toni nietzscheani. Si trattava di una vera e propria apoteosi della Grecia classica, «che si gerarchizzò secondo la superiorità di nascita», semmai con il limite di permettere al proprio interno troppi «matrimoni con individui inferiori», come poi sarebbe accaduto alla Germania. Sì, con un tono e con delle argomentazioni che Nietzsche – ma anche l’Aristotele teorico della «schiavitù per natura» – avrebbe sottoscritto entusiasticamente, anche per il teorico moderno del razzismo il motivo di cruccio più forte non è tanto il pensiero della «morte», quanto piuttosto la certezza che l’umanità vi arriverà «degradata», avendo consentito la mescolanza delle razze superiori con quelle inferiori ed eliminato gradualmente la distinzione tra servi e signori84. 83. Cassirer 1946: pp. 236 e 238. 84. Gobineau 1853-1855: v. II, pp. 21 e 563-4. Quanto ad Aristotele, oltre alla celebre teoria sulla schiavitù per natura, egli sosteneva che gli schiavi
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Al tempo stesso, per un occhio lucido e obiettivo è impossibile non rilevare i notevoli punti di contatto che Nietzsche ha avuto con quegli autori che hanno promosso il liberalismo economico (o liberismo), specie nella misura in cui questo ha: 1) sminuito il ruolo della ragione umana e politica nella costruzione della democrazia (a favore dell’affermazione di un ordine «provvidenziale» e «spontaneo» del mercato, per riprendere le espressioni rispettivamente di Smith nel Settecento e Hayek nel Novecento85); 2) promosso una visione della società e del consesso umano in generale come luogo di concorrenza spietata e contrapposizione fra gli interessi egoistici dei singoli, dove la darwiniana selezione della specie applicata alla società produce la «sopravvivenza del più adatto», per esprimersi alla maniera di – al pari di animali come il bue, il cavallo e tutti gli altri – sono incapaci di conseguire la felicità in quanto privi di «virtù (areté)», cioè la facoltà che consente di innalzarsi rispetto al regno animale e vivere una vita degna di un uomo, (Etica nicomachea): 1177a 8-10, 1099b 32-3, 1095b 19-20; (Etica eudemia): 1215a 25-35; (Politica): 1329a 20-4 e 1280a 33-4. Anche in ambito politico era evidente per il filosofo antico che soltanto alcuni individui sono capaci di realizzare pienamente la natura dell’uomo (che appunto è la «virtù»), e che quindi soltanto questi possono essere «utili alla vita civile», mentre agli altri spetta il ruolo di strumenti per l’esistenza materiale dello Stato, (Politica): 1254b. Del resto, la Grecia classica era quella in cui gli schiavi venivano chiamati «esseri dai piedi umani (andrapoda)», per giustificare la deumanizzazione operata nei loro confronti, che si spingeva fino a marchiarli come bestiame (Finley 1980: p. 99). 85. Il padre del liberalismo economico sosteneva che l’uomo è essenzialmente homo oeconomicus, che i suoi sentimenti naturali sono l’«egoismo» e la «rapacità», mentre il suo unico interesse riguarda il proprio tornaconto e la gratificazione dei suoi «insaziabili desideri». Il mercato è quella dimensione la cui natura «provvidenziale» fa sì che gli egoismi individuali si armonizzino a beneficio della società nel suo complesso (Smith 1759: v. I, pp. 184-185). Negli anni Settanta del secolo scorso Hayek attribuiva al mercato (che lui chiamava «ordine spontaneo») un ruolo pressoché totalizzante all’interno della società: «In tutte le società libere il coordinamento delle attività di tute le organizzazioni separate, come di tutti gli individui, è reso possibile dalle forze che compongono l’ordine spontaneo. La famiglia, la fattoria, l’industria, la corporazione, insieme alle varie associazioni e tutte le istituzioni, compreso il governo, sono organizzazioni integrate all’interno di un più comprensivo ordine spontaneo» (Hayek 1982: v. 1, p. 86).
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Herbert Spencer86; 3) combattuto l’idea dei diritti universali dell’uomo e della ricerca di una giustizia sociale che possa bilanciare la libertà economica con l’uguaglianza di diritti, possibilità e tutele, come ancora una volta è il caso di Hayek87. Quindi affermato in linea generale un modello di società in cui i più ricchi e potenti possono esercitare un dominio (o uno sfruttamento, per stare alla terminologia marxiana) sui più poveri e deboli senza essere gravati dal moralistico «senso di colpa». L’abbrivio nietzscheano è di impianto esistenzialistico, apparentemente votato all’individuazione di una legge cosmica. egli mira all’affermazione dell’«innocenza di ogni esistenza», l’«innocenza di ogni azione» come anche di ogni «opinione» e naturalmente del «divenire» in quanto tale (Unschuld des Werdens), anche se già in questa fase non manca un seppur vago riferimento alla questione sociale: «È possibile svellere dai suoi cardini la giustizia mondana – con la teoria della piena irresponsabilità e innocenza di tutti: ed è stato già fatto un tentativo in ugual direzione proprio in base all’opposta teoria
86. Il filosofo inglese di fine ottocento, premettendo che i problemi sociali iniziano quando un governo, basandosi sul falso assunto per cui ogni «sofferenza sociale» deve essere rimossa, decide di estendere il proprio intervento a tutte quelle situazioni in cui vede un’ingiustizia, teorizzava apertamente «i benefici effetti della sopravvivenza del più forte». Sì, riferendosi esplicitamente a Darwin e alla sua «selezione naturale», Spencer semmai lamentava che nella sua epoca proprio le persone più colte, che ben conoscevano il lavoro benefico prodotto dal principio della sopravvivenza del più adatto, come mai prima nella storia mondiale si stavano adoperando per la «sopravvivenza del più inadatto (survival of the unfittest)» (Spencer 1892, pp. 297, 308 e 358). 87. Secondo l’autore austriaco, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 (non riconosciuta dalla Cina e da Città del Vaticano, fra i paesi non propriamente liberali…), insieme ai pronunciamenti del presidente americano Franklin Delano roosevelt (in particolare quello sulla «libertà dal bisogno», rappresentavano il momento culminante di quel «declino della dottrina liberale» a suo dire iniziato nel 1870 con la Comune di Parigi. Per Hayek si trattava di segnali che annunciavano il tentativo funesto di affermare un criterio da lui ritenuto assurdo come quello della «giustizia sociale», ovvero un aperto tentativo di «fondere i diritti della tradizione liberale dell’occidente con la completamente diversa concezione derivante dalla rivoluzione marxista in russia» (Hayek 1978: p. 134 e 1982: v. 2, p. 103).
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della piena responsabilità e colpevolezza di tutti [palese l’allusione del filosofo al cristianesimo, n.d.A.]». «Da quanto tempo ormai mi sforzo di dimostrare la perfetta innocenza del divenire! e quali strane vie ho già percorso in proposito […] e a che scopo tutto questo? Non era per procurare a me stesso il sentimento dell’assoluta irresponsabilità?»88.
Le argomentazioni di stampo esistenzialistico erano destinate a lasciare presto il posto in Nietzsche a quelle con marcati riferimenti alla realtà sociale. Il tutto, con evidenti similitudini rispetto ad alcuni dei più rilevanti pensatori liberali di ogni tempo, anche quello più vicino al nostro. Sì, nel secolo precedente a quello di Nietzsche erano Malthus e Burke ad affermare che non ha senso rimproverare alle «istituzioni umane» quella miseria sociale che è il «risultato necessario e inevitabile delle leggi di natura», perché del resto altrettanto naturali e «conseguenza delle leggi di Dio» sono le stesse «leggi del commercio» (che sovente causano povertà, ingiustizie, prevaricazione)89. Nel secolo del filosofo, invece, erano autori come Spencer e Schopenhauer a prendersela con la superstizione che affida la speranza di miglioramento delle condizioni sociali a determinate forme istituzionali, quando in realtà quelle istituzioni «sono fatte di uomini», e alla fine dei conti dipende dalla natura di questi la stabilità di quelle; oppure a tuonare contro i «demagoghi» che mettono sul «conto di governi, leggi e istituzioni pubbliche» quella miseria che invece è «inseparabilmente connessa all’esistenza umana in quanto tale»90. Nel Novecento basta affrontare Mises per leggere che ad alimentare la richiesta di «giustizia sociale» è il «risentimento verso la condizione di coloro che hanno ottenuto maggior successo», che spinge i falliti della vita a mettere in discussione l’ordine economico e sociale vigente in nome di ideali ipocriti e irrealistici: «essi sublimano il loro odio in una filosofia, la filosofia dell’anticapitalismo, per non udire la voce interiore che gli dice che il 88. KSA: M, § 56; XII, p. 386; WS, § 81 e XI, p. 553. 89. Malthus 1798-1826: v. 2, p. 12; Burke 1795: v. VII, p. 404. 90. Spencer 1892: p. 112; Schopenhauer 1851²: v. V, p. 275.
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fallimento personale è da imputarsi esclusivamente alla propria responsabilità». oppure ancora una volta Hayek, secondo il quale parlare di giustizia sociale era totalmente assurdo, di fronte a uno stato di cose che non è «il risultato della volontà consapevole» di qualcuno, perché non essendo stato «deliberatamente prodotto dagli uomini, non possiede né intelligenza, né virtù, né giustizia né alcun altro attributo dei valori umani: il vangelo della giustizia sociale, piuttosto, si fonda per Hayek su «sentimenti sordidi» come il disappunto verso le persone migliori e di successo, ovvero l’«invidia»91. Ma leggiamo Nietzsche, per esempio nella durissima requisitoria che lanciava contro gli «uomini del ressentiment», gli invidiosi delle fortune e del benessere altrui, «esseri fisiologicamente e sciaguratamente bacati», un’«intera terrestre genia tremante di sotterranea vendetta, inesauribile, insaziabile nei suoi accessi contro i felici»: il loro obiettivo principale, avendo subìto l’onta della sconfitta esistenziale, consiste nell’unica e perversa rivincita possibile, quella di avvelenare la «coscienza dei felici, così che questi comincino un giorno a vergognarsi della loro felicità e si dicano forse tra loro: essere felici è un’infamia! esiste troppa miseria!». Insomma, quel motivo dell’innocenza delle istituzioni tanto caro alla tradizione liberale, conosceva in Nietzsche un processo di radicalizzazione che lo conduceva alla guerra teorica e verbale contro i sostenitori di una questione sociale (a partire da socialisti e cristiani): essi sono «animati dalla volontà di eliminare il maltempo, magari per compassione verso la povera gente»92. In buona sostanza il punto centrale è questo: Nietzsche ha raccolto l’eredità di idee proprie della tradizione liberale, magari radicalizzandole ma non certo stravolgendole. egli si è anche trovato a vivere e scrivere nel periodo storico in cui il liberalismo, al tempo stesso, dispiegava al massimo grado le idee appena analizzate ma cominciava anche a vivere una «frattura» al proprio interno. Sì, nell’ultimo ventennio del XIX secolo, 91. Mises 1956: p. 15; Hayek 1982: v. 3, p. 136 e v. 2, p. 98. 92. KSA: GM, § 14 e eH, Perché io sono un destino, § 4.
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accanto ad autori liberali che sostenevano la visione aristocratica di una «democrazia per il popolo dei signori» di cui abbiamo visto, ne emergevano altri che, è il caso per esempio di Hobhouse e Thomas Hill Green, accogliendo molte istanze della tradizione socialista e democratica sostenevano il valore dell’«uguaglianza» e dell’intervento statale teso a limitare la «libertà di contratto», specialmente se si trattava di salvaguardare la salute degli individui, per esempio limitando l’orario di lavoro di donne e bambini e imponendo condizioni di rispetto della salute93. Secondo i «nuovi» liberali, diritti e le libertà consentite a una parte ristretta di popolazione dovevano in qualche modo essere «universalizzati», cioè garantiti anche a quelle categorie umane e sociali che fino a quel momento ne erano rimaste escluse. Con particolare riferimento a tale ultimo aspetto va letta la critica di Nietzsche al liberalismo. Sì, il liberalismo che veniva tacciato dal filosofo tedesco di essere anch’esso titolare di una visione «ottimistica» dello scenario umano, era quello che in qualche modo prometteva diritti politici e sociali, ma anche lavoro e benessere economico per tutti94. Quello che, soprattutto 93. Hobhouse, partendo da una premessa che rivoluzionava i capisaldi del liberalismo classico («la libertà implica l’uguaglianza»), criticava la versione classica e «ottocentesca» dello stesso per i suoi forti limiti nel realizzare una libertà uguale per tutti, facendosi promotore di un nuovo liberalismo che garantisse il «benessere (welfare)» degli individui e la presenza di diritti che rendano possibile la piena realizzazione di tutti i membri della società. Per ottenere ciò non serviva una rivoluzione, ma soltanto un sistema in cui «lo Stato fosse investito di una certa sovranità rispetto alla proprietà in generale e di un potere di supervisione sull’industria, in maniera tale da garantire quella «giustizia economica» che egli riteneva fondamentale nell’ambito di un vero liberalismo. Insomma, la «buona libertà «non è quella di chi guadagna a spese degli altri, ma quella che può essere goduta da tutti coloro che vivono insieme (Hobhouse 1911: pp. 17, 108 e 41). Inutile dire che per queste sue posizioni il liberale inglese fu oggetto della polemica di Hayek, che ancora nella sua ultima opera sosteneva sarcasticamente che Hobhouse avrebbe dovuto intitolare Socialism il proprio libro, e non Liberalism come da originale (Hayek 1988: p. 110). Hill Green 1880: v. III, p. 373. 94. Nietzsche riteneva di individuare un «ottimismo» filisteo negli «economisti politici», i quali parallelamente alla «produzione nella massima quantità possibile», pensano di poter realizzare anche «la felicità nella massima quantità
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grazie all’intervento dello Stato, iniziava a prevedere una serie di misure sociali volte a tutelare i più deboli e le classi subalterne, estirpando di fatto l’idea di un agone sociale caratterizzato dall’«innocenza del divenire». La visione socialdarwinistica, insomma, propria di un certo liberalismo che intendeva applicare al piano sociale la teoria darwiniana sulla sopravvivenza dei più adatti, lasciava il passo al liberalismo democratico. Quello che si preoccupava non soltanto di proteggere il campo da «gioco» dei singoli interessi egoistici (il mercato), ma anche di curare il terreno sociale perché offrisse quantomeno una «giusta uguaglianza di opportunità», come la chiamava il filosofo americano John rawls, così da permettere a tutte le persone dotate e motivate di scegliere la propria attività economica o occupazione95. un terreno sociale in cui il numero più alto di individui avrebbe potuto competere ad armi ragionevolmente pari e in cui gli sconfitti dal «gioco concorrenziale» non fossero abbandonati a una sorte di povertà estrema e inedia. evidentemente Nietzsche, da individualista impenitente, per di più convinto della radicale inadeguatezza della grande maggioranza degli individui, non poteva che esprimere la sua fiera opposizione di fronte a una teoria che non abbandonava i più deboli e gli sconfitti alla propria sorte naturale96. possibile». Si tratta di combattere l’«ottimismo liberale» che si diffonde sulla scia della «moderna economia del denaro» ma anche di liquidare l’«ottimismo delle teorie politiche ed economiche» nel suo complesso. Insomma, in questo senso illudersi di realizzare il progresso e lo sviluppo rigenerante grazie alle forze produttive, piuttosto che con la rivoluzione politica e sociale, era perfettamente equivalente: un sogno utopistico e filisteo che spingeva il filosofo a parlare di «tartuferia dell’economia politica» (KSA: VII, pp. 378, 346 e 61; XI, p. 285). Sempre dai frammenti postumi scopriamo che la denuncia dell’«ottimismo economico» caratterizzava il filosofo tedesco anche nella fase finale del suo pensiero (KSA: XII, p. 463). 95. rawls 1971-1999: p. 243. 96. È quantomeno doveroso precisare che questa lenta e faticosa evoluzione in senso «democratico» del liberalismo, avveniva soltanto all’interno degli stessi stati occidentali e liberali, che per il resto ancora a cavallo tra otto e Novecento perpetuavano (e anzi all’epoca di Nietzsche radicalizzavano) la politica di conquista, colonizzazione e sfruttamento delle nazioni ed etnie più
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L’indelebile impronta aristocratica del pensiero di Nietzsche, che di fatto lo portava ad essere un nostalgico dell’Ancien regime, è fondamentale anche per comprendere il suo giudizio sul capitalismo. Abbiamo visto, infatti, i notevoli punti di contatto fra la teoria liberista e alcuni capisaldi del pensiero nietzscheano. Ciò potrebbe indurre a pensare che il filosofo desse un giudizio positivo del sistema di produzione che caratterizzava la società liberale. Ma non è così. Seppure accomunati da una visione individualistica e agonistica del consesso umano, nonché dalla ferma contrapposizione alla democrazia e all’intervento dello Stato in vista della giustizia sociale, Nietzsche e il capitalismo differivano per aspetti sostanziali. Il filosofo, infatti, vedeva nel sistema di produzione del liberalismo la fattiva e notevole potenzialità di generare una popolazione livellata sui «disvalori» dell’utilità, del profitto, della ricchezza e, in generale, di una mediocrità e omologazione diffuse. Il tutto all’insegna di individui impoveriti nel pensiero e nella capacità bellica (otium et bellum), le due caratteristiche che più contavano per Nietzsche e che connotavano secondo lui l’uomo benriuscito. Si trattava, piuttosto, di contrapporre alla cultura diffusa e uniforme dell’accumulazione il desiderio di distinguersi dalla massa, rifuggendo da ogni «forma non personale di vita» in quanto «volgare e spregevole», ma anche esercitando «un nuovo grande disprezzo, per esempio dei ricchi, dei funzionari» e di tutti coloro afflitti da mediocrità e spirito gregario. L’obiettivo di Nietzsche è chiaro e perfettamente coerente con l’impostazione aristocratica (e non plutocratica) del suo pensiero, arrivando a declinarsi in termini perfettamente antiliberali: «È assolutamente necessario che sia l’intelligenza superiore a dirigere la ricchezza»: povere. Non per caso un liberale anomalo come John Hobson (letto e apprezzato da Lenin) evidenziava nel 1902 che proprio la grande impresa imperialistica, specie quella condotta in Cina, risultava così «enorme» ed «espandibile» da aprire la possibilità di «elevare intere popolazioni bianche dell’occidente al livello di signori indipendenti» (Hobson 1902: p. 313). Detto in termini semplici: gli stati liberali concedevano più diritti al proprio interno compensando ciò con la radicalizzazione dell’imperialismo e dello sfruttamento sulle popolazioni di altre etnie.
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«Solo chi ha spirito dovrebbe avere proprietà; altrimenti la proprietà è un pericolo pubblico. Il possidente, cioè, che non sa fare nessun uso del tempo libero che la proprietà potrebbe consentirgli, continuerà sempre a cercare di procurarsi altra proprietà; questa attività sarà il suo divertimento, il suo stratagemma nella lotta contro la noia».
Il biasimo di Nietzsche era rivolto in particolare contro quella ricchezza smodata che pretende di «mascherarsi di cultura e arte», che grazie al denaro riesce a «comprare la maschera», suscitando «fra i poveri e gli incolti» non soltanto sentimenti di risentimento, rabbia e invidia, ma anche e forse soprattutto la convinzione che «tutto dipende dal denaro», quando in realtà «certo qualcosa dipende dal denaro, ma molto di più dipende dallo spirito»97. A emergere con evidenza è l’ostilità di Nietzsche nei confronti dell’homo oeconomicus, cioè dell’individuo borghese che si abbandona al pensiero calcolante, alla dittatura dell’utile e in generale a quell’inclinazione nefasta che lo spinge ad accumulare compulsivamente beni e cose rinunciando a coltivare la propria persona e il proprio spirito. Al di là delle peculiarità culturalmente anacronistiche e politicamente reazionarie del filosofo, ancora una volta è opportuno concentrarsi sulla sua capacità profetica. Sì, egli si stava scagliando contro quella società «commerciale» o dei consumi che si sarebbe pienamente realizzata quasi un secolo dopo. Quella in cui assistiamo alla comparsa dell’«uomo alienato», che ha smarrito la propria identità, messo da parte le proprie facoltà e inclinazioni specifiche per abbandonarsi «senza riserve alla cosa» e non vedere nulla al di là, secondo l’espressione di Bataille98. L’alienazione subentra nel momento in cui il desiderio di quelle cose diventa talmente totalizzante da trasformare l’uomo stesso in cosa, stravolgendone l’identità fino al punto da ridurlo a nemico involontario di sé e della propria natura. Lo aveva compreso bene un altro attento lettore di Nietzsche come Jean Baudrillard, esattamente un secolo dopo: 97. KSA: IX, pp. 444 e 472 e VM, § 310. 98. Bataille 1967: v. VII, pp. 129-130.
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«L’uomo alienato non è soltanto l’uomo diminuito, impoverito ma comunque intatto nella sua essenza – è un uomo sfigurato, mutato in male e in nemico di se stesso, rivolto contro se stesso. Su un altro piano, è il processo che Freud descrive nella rimozione. Il rimosso risorge attraverso la stessa istanza di rimozione. È il corpo di Cristo in croce che si cambia in donna per ossessionare il monaco che ha giurato di essere casto. Nell’alienazione sono le forze viventi e oggettivate dell’essere che si cambiano ad ogni istante in lui e a spese di lui, conducendolo in questo modo fino alla morte»99.
La società del profitto e consumo elevati a dogmi indiscutibili e sistemi valoriali di riferimento (a fronte di un impoverimento culturale e di una degenerazione etica ampiamente diffusi), è per antonomasia quella in cui l’uomo abdica a se stesso, lasciando che la sua esistenza sia orientata in maniera da dare vita alle cose a spese della propria. Ciò che colpisce, nuovamente, è che lo spirito radicalmente antimoderno di Nietzsche si esprimeva in perfetta sintonia con la sua capacità di comprendere quella stessa modernità fin nelle sue pieghe più nascoste. una modernità che poi sarebbe diventata il mondo in cui siamo pienamente immersi nel nostro tempo, dove l’alienazione è «insuperabile» perché costituisce la struttura stessa della «società commerciale»100. Il punto è che se questa alienazione conduce fino alla morte, come sosteneva Baudrillard, a noi non resta che rinforzare un dubbio che già si è affacciato da queste parti. ossia, quanto leggere il teorico della «morte di Dio» equivale in realtà a fare i conti con la morte dell’uomo? Soprattutto tenendo conto del fatto che si sta parlando della morte peggiore. Quella che accade da vivi.
99. Baudrillard 1970: p. 306. 100. Baudrillard 1970: p. 307.
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4.
Contro la religione
Il più delle volte la Storia non scherza, né è possibile prenderla alla leggera. Anzi, spesso tende a svolgere la funzione di «tribunale» implacabile della vicenda umana nel suo complesso, stando alle parole di Hegel in tal senso interpretate da Popper e da Löwith101. Sulla punta di codici precisi ma oscuri, essa si incarica di condannare inesorabilmente gli ideali e le illusioni con cui l’uomo è solito addolcire la durezza della propria esistenza. Tuttavia questo non impedisce di scorgervi una certa «ironia» (o astuzia?), che specie col senno del poi può aiutare a illuminare uno scenario altrimenti connotato da alcune ombre. Credo che una cosa del genere sia avvenuta, in campo religioso, il 30 giugno del 1729, quando accadde un episodio la cui portata era destinata a spiegarsi ben oltre il suo tempo, spingendosi almeno fino a Nietzsche, perfino illuminandone e per molti versi chiarendone la posizione nei confronti della religione che andrò ad analizzare. Nella piena consapevolezza di utilizzare un’iperbole, potrei spingermi a dire che quanto accadde a partire da quella data del 1729, presso la parrocchia rurale di Étrépigny (a Mézières, nelle Ardenne), rappresentò la più clamorosa conferma ante litteram di quanto Nietzsche avrebbe scritto un secolo e mezzo dopo a proposito della fede, del cristianesimo e della casta sacerdotale. ecco perché, prima di entrare nel vivo della vera e propria invettiva pronunciata da Nietzsche contro la religione, intendo ripercorrere alcuni tratti salienti del Testamento che il curato della parrocchia di Étrépigny aveva lasciato in seguito al suo decesso. Il suo nome era Jean Meslier, ed alle spalle, oltre a quarant’anni 101. Hegel 1821: § 340, p. 265; Popper 1945: pp. 251 e 667. Löwith (1949: p. 58) interpretava questa espressione hegeliana («la storia del mondo è il tribunale del mondo [Die Weltgeschichte ist das Weltgericht]» come tanto religiosa (nella misura in cui prevede un giudizio alla fine della storia), quanto irreligiosa (nella misura in cui implicava che tale giudizio si verificasse durante lo stesso processo storico in quanto tale).
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di onorata guida della sua parrocchia, poteva vantare un’irreprensibile e stimata carriera ecclesiastica. Sennonché, appunto, il 29 giugno del 1729 costui vedeva la fine dei propri giorni all’età di 65 anni, lasciando sulla propria scrivania un documento indirizzato «al Signor curato di…», senza alcun’altra precisazione. Quindi apparentemente rivolto al primo confratello che lo avesse trovato. Il problema è che fin dall’incipit si poteva intuire l’inconfessabile che, tuttavia, stava per essere confessato: «Arrivato a questo punto credo di non avere più alcuna difficoltà a dire la verità». Iniziava così quella che viene ricordata a giusto titolo come «la requisitoria più estrema mai scritta contro la religione e la fede»102. Almeno prima che arrivasse Nietzsche, è il caso di aggiungere. Sì, l’irreprensibile curato di campagna che aveva impartito i sacramenti per ben quattro decadi stava lasciando un testamento in cui confessava di aver perso la fede fin da giovanissimo, perché secondo lui la religione non è altro che «errore, menzogna e raggiro». Meslier intendeva condividere il proprio pensiero con gli altri sacerdoti, invitandoli perfino alla ribellione: «Considerate le ragioni in base alle quasi si crede o non si crede, ciò che ci insegna la nostra religione obbligandoci a credervi in maniera assoluta. Sono certo che se voi seguiste la luce naturale dei vostri intelletti, vedreste con chiarezza pari alla mia che tutte le religioni del mondo sono invenzioni umane, e che tutto ciò che la religione vi insegna e vi obbliga a credere, come il soprannaturale e il divino, alla fine dei conti non è che errore, menzogna, illusione e raggiro»103.
In virtù di tutto questo, ma anche del fatto che molteplici sono «i popoli che soffrono, come potete constatare tutti i giorni, 102. Minois 1998: p. 299. 103. Meslier 1970-1972: v. III, pp. 203 e 185. «Vi divertite, Signori, a interpretare e a spiegare in senso figurato, allegorico e mistico delle scritture vuote che definite malgrado ciò sacre e divine; conferite alle stesse il senso che voi volete, facendogli dire tutto ciò che volete per mezzo di questi stessi presunti significati spirituali e allegorici che voi create per loro, e che voi decidete di fissare per loro, allo scopo di trovarci e di farci trovare delle presunte verità che non ci sono, né mai ci sono state» (p. 197).
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sotto il giogo insopportabile della tirannia e delle superstizioni», la richiesta dell’Abate ai propri confratelli si faceva ancora più concreta: «e se, tenuto conto che anch’io non mi sono spinto oltre, non avete il coraggio di dichiararvi durante le vostre vite contro errori tanto detestabili, dovete quantomeno stare zitti, per ora, e almeno alla fine dei vostri giorni dichiararvi in favore della verità»104. Non si trattava soltanto di un pronunciamento esclusivamente contro la religione in quanto tale, perché Meslier univa a quello anche un forte sentimento politico e sociale, in nome del quale rimproverava i sacerdoti di «non protestare contro le rapine pubbliche né contro le palesi ingiustizie dei governanti che depredano, calpestano e rovinano i popoli». L’atto d’accusa contro la Chiesa era quello di un giacobino ante litteram, oltre che di un illuminista e materialista ateo: «È compito vostro educare i popoli, non agli errori dell’idolatria o alle varie superstizioni, ma nella conoscenza della verità e della giustizia, nonché nella conoscenza di ogni tipo di virtù e di buoni costumi. Siete pagati per questo»105. Quello contro Dio, invece, era l’atto di accusa di un teologo costretto a farsi filosofo per palese mancanza del suo oggetto di studio e riferimento (il Creatore, appunto). Nel negarne l’esistenza, infatti, utilizzava argomentazioni proprie della filosofia: «Se ci fosse veramente qualche divinità o qualche essere infinitamente perfetto, che intendesse essere amato e adorato dagli uomini, farebbe parte della sua stessa ragion d’essere, oltre che della giustizia e del dovere di tale presunto essere infinitamente perfetto, di manifestarsi, o almeno di farsi conoscere in qualche modo da quelli e da quelle da cui vorrebbe essere amato, adorato e servito»106.
Il punto era proprio questo. La Chiesa e i sacerdoti, da Meslier definiti spregiativamente «cristicoli» (déichristicoles), 104. Meslier 1970-1972: v. III, pp. 187-8. 105. Meslier 1970-1972: v. III, pp. 199 e 182. Il vero e proprio appello alle masse per un’azione rivoluzionaria trovava significativamente posto nell’accorata parte finale del testamento (v. III: cap. 96). 106. Meslier 1970-1972: v. II, p. 334.
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volevano un homo religiosus, disposto a credere in maniera semplicistica a quanto gli viene raccontato, abbandonandosi a una fede che non conosce il «dubbio» né riconosce i lumi chiari della ragione. Dubbio e ragione rappresentavano, invece, i capisaldi con cui Meslier invitava a vivere una vita dignitosa e con la schiena dritta, in questo superando perfino il «dubbio metodico» e il «cogito» con cui Descartes era arrivato alla certezza dell’Io e del Dio come idea ad esso connaturata. Le cose non stavano così per Meslier, poiché se anche è indubitabile il fatto che noi pensiamo, ciò a cui pensiamo e il nostro stesso pensare sono legati solo ed esclusivamente alla materia, oltre alla quale regna il «nulla»: «Non vediamo, non sentiamo e non conosciamo di certo nulla in noi che non sia la materia. Chiudete gli occhi! Cosa vedremo? Nulla. Turate gli orecchi! Cosa sentiremo? Nulla. Fate a meno delle mani! Cosa toccheremo? Nulla, se non in maniera impropria attraverso le altre parti del corpo. Fate a meno della testa e del cervello! Cosa penseremo, cosa conosceremo? Nulla».
Insomma, era evidente per Meslier che tutto alla fine si riduce alla materia, trovando inizio e fine in essa, che è l’unica realtà eterna. Si può parlare a tal proposito di un «materialismo nichilista», al punto che la stessa «anima», oggetto delle idee e delle elucubrazioni più ardite da parte di filosofi e religiosi (la metempsicosi, idea «francamente ridicola» per l’Abate), veniva definita da Meslier come semplicemente «la parte più raffinata e più tormentata di materia presente in noi rispetto all’altra parte di materia più rozza che compone le membra e le parti visibili del nostro corpo». Si trattava di chiari riferimenti al pensiero degli atomisti antichi (Democrito, Lucrezio, epicuro), e anzi, per la prima volta nella storia dopo questi, con Meslier si tornava a definire la materia «non creata»: «L’essere materiale non può essere stato fatto né essere stato creato, di conseguenza esso è sempre stato»107.
107. Meslier 1970-1972: v. III, pp. 43-4, v. II, p. 190, v. III, p. 44 e ancora v. II, p. 190. Nel cosiddetto Anti-Fenelon era contenuta una difesa dell’atomi-
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Se tutto è riconducibile e riducibile alla materia, allora, e se la materia è l’elemento principale di cui si compone la natura, risulta evidente che è a quest’ultima che dobbiamo attribuire le caratteristiche che i religiosi vogliono vedere in un essere invisibile: «Vediamo con chiarezza che la natura è ovunque, che agisce e che è sempre lei a creare tutto, è molto più naturale e probabile dire che è per se stessa ciò che è, piuttosto che dire che un altro essere non visibile e che non si sa dove sia sarebbe per se stesso ciò che si immagina soltanto egli possa essere». È interessante notare come ci troviamo di fronte a un argomento, quello del Dio che non si vede, ripreso sempre in Francia, e sempre nello stesso secolo, dal «diabolico» marchese de Sade, il quale utilizzava il celebre discorso del non vedente per sostenere che una divinità che l’uomo non può percepire in alcun modo, non può neanche esistere se non come entità concenzionale: «Dio rappresenta in modo assoluto per l’uomo l’equivalente di ciò che i colori significano per un non vedente»108. Ai dogmi astratti e oscuri della religione, insomma, che mortificano l’uomo e il suo spirito, occorreva sostituire «i lumi evidenti della ragione umana», servendosi di quel buon senso che Meslier definiva come «l’unico senso proprio e veritiero», in opposizione alla lettura allegorica di cui abusa la teologia per coprire le falsità della religione e affermare «una verità che non esiste né mai potrà esistere»109. smo di epicuro (v. III, pp. 48-52). Nel suo poema De rerum natura (I sec. a.C.) il poeta e filosofo epicureo Lucrezio parlava del nostro mondo composto da atomi che si disposero al proprio posto non in seguito al disegno di una mente preveggente, bensì seguendo delle leggi fisse determinate da una necessità meccanica (foedera naturae) (De rerum natura: I, vv. 1021-1028; V, vv. 419-431; I, vv. 586-7; II, vv. 300-302 e V, vv. 923-924). Nel V sec. a.C. il filosofo Democrito, inventore dell’atomismo, sosteneva che le cose dell’universo sono frutto della composizione e scomposizione degli atomi, mentre lo stesso universo è infinito poiché non generato in alcuna maniera da un Demiurgo (Democrito, Frammenti: A-37 e 39). 108. Meslier 1970-1972: v. III, p. 236; Sade (Pensée sur Dieu): t. 1, pp. 518-9. 109. Meslier 1970-1972: v. I, p. 333. Con toni strettamente illuministici l’Abate affermava che «la ragione naturale è la sola strada che mi sono sempre
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Quello che possiamo conoscere e a cui dobbiamo attenerci, in buona sostanza, è ciò che vediamo con gli occhi e percepiamo con i sensi, poiché tutto ciò che si spinge (e ci spinge) oltre questa dimensione del sensibile, costituisce un salto in quel «vuoto» che teologi e sacerdoti utilizzano per dare sostanza alla propria autorevolezza e al proprio potere sulla massa dei credenti. Desta sorpresa, certo, che fosse proprio un sacerdote a riprendere con forza quel discorso nichilista che, a partire dagli antichi sofisti per arrivare fino a Heidegger e Sartre nel Novecento, raccontava la più radicale tragedia umana: ossia quella di un uomo irrimediabilmente sospeso sull’abisso incolmabile che separa la dimensione materiale e visibile degli «enti» da quella oscura, vuota e per questo angosciante dell’«essere». Senza alcuna possibilità di contatto, intermediazione, di conciliazione fra i due mondi, che non sia l’angoscia quotidiana che l’uomo patisce per quella distanza incolmabile, per quel nulla che abita in lui e da cui pure è attratto in quanto costituisce la sua essenza110. Certo, a questo proposito il cristianesimo riuscì a giocarsi la sua carta apparentemente risolutiva, trovando nel figlio di Dio proposto di perseguire nei miei pensieri», l’unica che ciascuno dovrebbe sempre ragionevolmente seguire nel proprio percorso conoscitivo, ma soprattutto l’unica in grado di fornire delle conferme realistiche e credibili ai propri pensieri (Meslier 1970-1972: v. I, p. 372). 110. La storia del nichilismo può essere fatta iniziare con la celebre affermazione del sofista antico Gorgia che abbiamo già incontrato. Nello specifico del discorso che sto analizzando, invece, si può fare riferimento a quanto sosteneva un altro sofista come Protagora: «L’uomo è limite e giudice delle cose; e le cose che cadono sotto i sensi sono, quelle che non cadono sotto i sensi non sono nelle forme dell’essere» (Protagora, Frammenti: B-16). Nel Novecento troviamo Heidegger chiedersi: «Che ne è dell’essere? Dell’essere ne è nulla. e se proprio qui si rivelasse l’essenza del nichilismo, finora rimasta nascosta?» (Heidegger 1953: p. 238). Infine, con Sarte, giungiamo alla terribile consapevolezza che quel nulla origina dall’uomo, che gli abita dentro: «La condizione per cui la natura umana possa negare tutto il mondo o una sua parte, è quella di portare in sé il nulla». Da qui nasce l’angoscia come distinta dalla paura, sosteneva il filosofo francese riprendendo Kierkegaard, perché la paura è paura delle cose del mondo, mentre l’angoscia è «angoscia di fronte a me stesso. La vertigine è angoscia nella misura in cui io temo non di cadere nel precipizio, ma di gettarmici io stesso» (Sartre 1943: pp. 63-4)
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che si è fatto uomo la possibile intermediazione fra il mondo terreno e l’aldilà. Sì, Gesù si era fatto «materia» per testimoniare l’esistenza di Dio e il suo amore nei confronti degli uomini, quell’ «amor che move il sole e l’altre stelle», per riprendere l’ultimo verso del Paradiso di Dante Alighieri111. Meslier a tal proposito non aveva dubbi nel riconoscere l’effettiva esistenza di Gesù Cristo, salvo apostrofarlo come «un uomo da nulla, senza talento, spirito, scienza, avvedutezza, completamente disprezzato dalla gente: un pazzo, uno squilibrato, un povero fanatico e una miserabile canaglia». Senza contare che a questo fanatico sono stati attribuiti miracoli e false profezie riprese dalle favole e dalle invenzioni dei poeti pagani, a cui ormai potrebbero credere soltanto delle persone meravigliosamente sedotte, abusate, accecate e credulone. Se davvero fosse stato chi diceva di essere, avrebbe rappresentato l’emblema della più sonora «sconfitta di Dio», per usare le parole del teologo Sergio Quinzio, perché con lui anche la fede alla fine muore crocifissa nella storia del mondo112. Con quale altro nome, se non sconfitta, chiamare infatti l’azione di una divinità che volendo riscattare il genere umano dal peccato originale, manda suo figlio sulla terra per farlo uccidere da quegli stessi uomini che, così facendo, vengono obbligati a commettere un secondo peccato ben più grave del primo?!: «È come dire che Dio infinitamente saggio e buono si sia sentito oltraggiato dagli uomini e si sia irritato con loro con tanta severità per un nulla e una sciocchezza [il furto della mela], e che si sia riappacificato e riconciliato con altrettanta misericordia con loro attraverso il più efferato dei crimini? Attraverso un orribile deicidio che essi avrebbero commesso, crocifiggendo e facendo morire il suo caro e divino figlio in maniera crudele e vergognosa?»113.
111. Alighieri 1304-1321: Paradiso, XXXIIII, v. 145. 112. Quinzio 1992: p. 100. 113. Meslier 1970-1972: v. I, pp. 497, 180-7 e 281-330. In un altro passaggio si riferiva a Gesù come a «un uomo di alcun valore e talento, privo di ogni spirito e scienza, che aveva sbagliato tutto nel mondo» (v. I, p. 391).
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Insomma, la requisitoria anticristiana di Meslier era violenta, terribilmente argomentata in senso logico e senza appello. Nessuno prima di lui, e forse neanche dopo, aveva e avrebbe raggiunto tali livelli di estremismo antireligioso, e naturalmente a lasciare basiti è che lo abbia fatto colui che era stato un sacerdote esemplare lungo tutto il corso della sua vita. Per ritrovare un estremismo simile, con una profondità filosofica e una capacità argomentativa assai più raffinate (è il caso di dirlo), toccherà aspettare proprio Nietzsche, di cui l’Abate francese aveva purtuttavia anticipato molte argomentazioni di fondo114. Ma a suscitare più di una riflessione è il fatto che Nietzsche aveva ampiamente trattato, e in un certo senso esaltato, tanto il tema della «maschera» quanto quello della «menzogna»:
«Nell’uomo – scriveva il pensatore tedesco – quest’arte della finzione raggiunge il suo culmine: qui l’illudere, l’adulare, il mentire e l’ingannare, il parlar male di qualcuno in sua assenza, il rappresentare, il vivere in uno splendore preso a prestito, il mascherarsi, le convenzioni che nascondono, il far la commedia dinanzi agli altri e a se stessi, in breve il continuo svolazzare attorno alla fiamma della vanità costituisce a tal punto la regola e la legge, che nulla, si può dire, è più incomprensibile del fatto che fra gli uomini possa insorgere un impulso onesto e puro verso la verità»115.
Tuttavia la questione non era così semplice. Del resto, non lo è quasi mai con Nietzsche. Sì, perché il suo intendimento di «maschera» e «menzogna» non è quello a cui siamo abituati, riferendoci per esempio a una persona che abbia l’intento di mentire o comunque di nascondere delle cose a un’altra. Piuttosto, secondo lui, proprio ciò che l’uomo vuole intendere per «verità», si rivela in effetti come la forma più subdola e insidiosa di maschera menzognera. L’incapacità di accettare la visione tra114. Le differenze principali consistevano nell’anelito sociale e protocomunista di Meslier, nella sua fiducia sulla ragione umana e nel non teorizzare l’opportunità della religione per tenere soggiogate le masse (quella che in filosofia viene chiamata «doppia morale»). 115. WL: III,II, p. 356.
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gica, irrazionale e insensata delle cose, che sarebbe l’unica attraverso cui comprendere la realtà effettiva del mondo umano, spinge l’uomo a illudersi di abbellire, controllare e infine salvare la propria esistenza attraverso delle verità menzognere. A questo e non ad altro servono in fondo la metafisica, la morale, la scienza e la religione, ossia a vestire di autorevolezza scientifica e razionale l’insopprimibile volontà umana di menzogna, da cui secondo Nietzsche si erano tenuti distanti soltanto i greci antichi:
«La concezione del mondo in cui ci si imbatte sullo sfondo di questo libro – scriveva il filosofo riferendosi al suo testo incompiuto, La volontà di potenza. Trasvalutazione di tutti i valori – è singolarmente fosca e spiacevole; fra i tipi di pessimismo finora conosciuti sembra che nessuno abbia raggiunto lo stesso grado di cattiveria. Qui manca la contrapposizione tra un mondo vero e uno apparente: c’è solo un mondo, ed è falso, crudele, contraddittorio, corruttore, senza senso… un mondo così fatto è il vero mondo…Noi abbiamo bisogno della menzogna per vincere questa realtà, questa «verità», cioè per vivere. Che la menzogna sia necessaria per vivere, anche ciò fa parte di questo terribile e problematico carattere dell’esistenza…la metafisica, la morale, la religione, la scienza – in questo libro vengono prese in considerazione solo come diverse forme di menzogna: col loro sussidio si crede nella vita […] Sono nient’altro che creature della sua volontà d’arte, di menzogna, di fuga davanti alla “verità”, di negazione della “verità”. Questa stessa facoltà, grazie alla quale egli violenta la realtà con la menzogna, questa stessa facoltà artistica per eccellenza dell’uomo – egli l’ha in comune con tutto ciò che è; egli stesso è anzi una parte di realtà, di verità e di natura – egli stesso è anche una parte del genio della menzogna»116.
In un contesto del genere, l’esaltazione che Nietzsche operava tanto della menzogna che della maschera va intesa nel senso di una polemica verso tutte quelle dimensioni in cui qualcuno 116. VIII,II, pp. 396-7. Fra gli elementi di grandezza della cultura greca antica, vi era secondo Nietzsche l’aver costruito una cultura sociale in cui trovavano spazio «il dominio dell’arte sulla vita» e l’«immediatezza dell’inganno» (WL: III,II, p. 371). Del resto, avrebbe poi aggiunto in Umano, troppo umano: «Nella vita quotidiana riusciva loro difficile tenersi liberi da menzogna e da finzione: così come ogni popolo di poeti ha un simile gusto per la menzogna, e oltre a ciò anche l’innocenza di essa» (MA: IV,II, § 154).
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pretende di affermare una «verità» oggettiva, universale e immodificabile, in genere per questioni di potere o comunque di influenza sugli altri. orbene, quale migliore rappresentazione del potere suggestivo della maschera, quindi della menzogna nelle sue diverse sfaccettature, che la storia di questo insospettabile curato di campagna, serenamente in grado di mentire a tutti e forse anche a se stesso (salvo durante la composizione del suo diabolico testamento), lungo tutti i quarant’anni di stimato sacerdozio? Chi avrebbe potuto anche solo immaginare, se non forse la Storia, una vicenda così paradossale e al tempo stesso potente nell’esprimere il più radicale nichilismo? Non mi risulta che Nietzsche avesse letto Meslier, né che lo conoscesse anche solo per sentito dire. Tuttavia, resto profondamente convinto che per comprendere appieno i termini dell’atto di accusa alla religione compiuto dal filosofo tedesco, è opportuno riferirsi alla vicenda come anche all’opera dell’Abate francese. Quantomeno perché, se costui ha messo in scena la parola e l’atto di più radicale «nichilismo», se non altro rispetto alla dimensione religiosa, tenendolo presente si può comprendere più agevolmente in che senso Nietzsche avesse condotto al limite estremo proprio il nichilismo, proponendosi al tempo stesso di oltrepassarlo: «Ciò che racconto è la storia dei prossimi due secoli. Descrivo ciò che verrà, ciò che non potrà più venire diversamente: l’insorgere del nichilismo». Qualunque cosa ciò significasse nelle reali intenzioni del pensatore tedesco, è cosa certa che egli si proponeva di dare vita a un «contromovimento» (rispetto a quello della cultura tradizionale) che in un futuro molto lontano prendesse il posto di quel «perfetto nichilismo», senza mai smettere tuttavia di presupporlo logicamente e psicologicamente. Sì, per Nietzsche era giunto il momento di annunciare «ciò che non può venire se non dopo il nichilismo e dal nichilismo»117. 117. VIII,II, pp. 392-3.
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Per raggiungere tale obiettivo, si trattava di fare i conti anche con la religione. In particolar modo con quel cristianesimo il cui nichilismo consisteva nel voler sostituire un tutto lucente (Dio), ma illusorio, al nulla oscuro e reale che governa la vicenda umana. Se l’autore dello Zarathustra avesse conosciuto Meslier, avrebbe potuto commentare che l’Abate francese, con la sua storia di vita, aveva pronunciato la più grande verità servendosi anche della maschera e della menzogna. Al contrario del cristianesimo, che pronunciò la menzogna per eccellenza vestendola della più grande «verità», cioè di quella maschera illusoria e mendace che è la fede in Dio. L’illusione funesta
Con la fine della Grecia classica il discorso filosofico e scientifico si era trasformato sostanzialmente in un discorso religioso, stando all’idea di fondo di Karl Löwith118, allievo di Martin Heidegger. Questo per dire che al mondo esclusivamente terreno dell’Attica pagana, in cui ogni pensare e agire era rivolto al qui e ora della dimensione umana, si era sostituita una visione escatologica per cui ogni teoria e ogni prassi erano proiettate verso un fine indefinito, illimitato e metafisico. È così che hanno assunto un rilievo inaudito espressioni come progresso, salvezza, verità, regno dei cieli. Fino ad arrivare ovviamente a Dio. 118. «I Greci ricercavano primariamente il logos del kosmos, non già il Signore e il significato della storia», scriveva con brillante sintesi Karl Löwith, rimarcando che dalla comparsa del cristianesimo in poi la vicenda dell’occidente sarebbe stata un graduale inserirsi delle categorie religiose nell’orizzonte di senso dell’intera civiltà cristiana. Per esempio si cominciò a credere nella progressività della storia, «determinata da un inizio e una fine assoluti», fino a che la creazione e il peccato originale iniziali, come anche la redenzione e il giudizio universale finali, furono «secolarizzati e volgarizzati nell’idea moderna di un progresso indefinito da una primitiva arretratezza a forme di civilizzazione sempre più evolute» (Löwith 1949: pp. 4 e 217).
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Da quel momento in poi, l’uomo si è comportato come se non fosse più soltanto un trascurabile elemento della natura fisica, ma come se fosse un abitante di quella «verità» che conferisce senso a ogni sua attività fino a metterlo in contatto col mondo ultraterreno. Verità è un termine per cui gli antichi greci non possedevano neppure un’espressione specifica119, mentre a partire dal mondo cristiano è diventato la parola chiave del discorso religioso. Discorso religioso che, da quel momento in poi, ha riguardato tutta l’esistenza umana, assurgendo al rango di unico in grado di fornirla di senso, rigorosamente sotto il segno della provvidenza divina. In tutto questo ambito, Nietzsche rappresenta al tempo stesso colui che ha pronunciato l’espressione più ardita di quel discorso, ma anche colui che ha provato con tutte le forze a terminarlo. L’espressione più ardita («Dio è morto!») è quella pronunciata da chi, annunciando con un secolo abbondante di anticipo il dileguarsi dell’orizzonte divino nello scenario umano, al contempo ne svelava l’ineffabile significato recondito: «Finora l’uomo non ha fatto null’altro che inventare Dio per non ammazzarsi»120. In questa frase nietzscheana non alberga soltanto la visione tragica della vicenda umana (quella per cui senza un Dio l’uomo si trova da solo a fare i conti con la realtà angosciante del «Nulla»), contrapposta all’ottimismo teologico e teleologico proprio della narrazione cristiana («ogni cosa concorre al bene»), ma viene svelato il ruolo strumentale che l’uomo assegna a Dio, come peraltro si poteva già evincere dalle stesse parole dell’a119. Per esprimere il concetto di «verità» gli antichi greci usavano «aletheia», che in realtà significava «non-nascosto», «non dimenticato» (Chantraine 1999: pp. 618-9). Da ciò si evince l’estrema cautela con cui questa gloriosa civiltà antica si rapportava alla verità, intendendola più come una concessione del destino che non come una conquista della ragione. 120. KSA: XIII, p. 144.
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postolo Paolo (riprese sul piano filosofico sia da Sant’Agostino che da Tommaso d’Aquino, per poi essere condotte a sistema da Hegel): «Tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno»121. Insomma, Dio è la condicio sine qua non perché tutto possa andare bene. Chiamarsi o trovarsi fuori dal suo «disegno», equivale all’esclusione da quel «bene». In questo senso Nietzsche ha rappresentato il vertice estremo del discorso religioso, arrivando a eliminarne l’oggetto illusorio (Dio) come anche i predicati cristiani (bontà, amore, compassione etc.)122, salvo lasciarne in piedi l’autore concreto (l’uomo). un uomo a quel punto «atterrito» (nel significato di ricondotto alla terra) di fronte al fantasma della propria illusione, prima ancora che di fronte al grande nulla che lo sovrasta. Ma proprio a fronte di ciò, mai come in questo caso padrone di un orizzonte di possibilità pressoché infinito: «Niente è vero, tutto è permesso», dice l’ombra a zarathustra. Si tratta di un concetto ripetuto in più punti della sua opera da Nietzsche, che non può non richiamare alla mente la celebre frase di Dostoevskij ne I fratelli Karamazov: «Se Dio non c’è, allora tutto è permesso»123.
121. Biblia sacra: rom., 8,28. Sant’Agostino parlava di un Dio che ha fornito di «armonia» le varie parti del creato, senza privare delle «leggi della sua provvidenza» ogni ambito umano; Tommaso d’Aquino affermava perentoriamente che «tutte le cose sottostanno alla divina provvidenza, considerata non solo universalmente ma anche singolarmente (Agostino Santo 413-433: V,11; Tommaso d’Aquino 1259-1273: I, q. 22, a. 2, resp.). Quanto a Hegel, su un piano rigorosamente teologico più che fideistico, egli scriveva: «Dobbiamo prendere in considerazione la storia universale e quale sia il suo scopo finale: questo scopo finale è quanto Dio ha voluto col mondo. Per questo scopo finale vengono celebrati tutti i sacrifici sull’altare del mondo» (Hegel 1822-1823: p. 22). 122. Löwith 1967: p. 147. 123. zA: VI,I, p. 332, ma anche VII,II, pp. 83, 140 e 273. Dostoevskji mette questa frase in bocca a Ivàn Karamazov: «Se Dio non c’è, allora tutto è permesso», facendola significativamente interpretare da rakitin come la «stupida teoria» di Ivàn: «Se non c’è l’immortalità dell’anima, allora non c’è neppure la virtù, e dunque tutto è permesso […] teoria seducente per i furfanti» (Dostoevskji 1880: pp. 350-1 e 107). Interpretazione significativa per due ragio-
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In tal modo, concentrando la sua attenzione sull’unico oggetto realistico di quel discorso religioso (cioè l’autore: l’uomo), nel momento stesso in cui ne raggiungeva il vertice, il filosofo tedesco poneva anche le basi per il superamento delle modalità con cui era stato declinato fino a quel momento. Sì, secondo Nietzsche non si trattava più di immaginare e «definire» il Dio dell’aldilà, l’entità divina esterna all’uomo e al mondo terreno, ma semmai rivolgere lo sguardo verso l’enigma profondo che alberga in colui che immagina e definisce, cercando disperatamente quel Dio e la salvezza fuori di sé. Perché questo fa l’uomo, perfino al punto di degradare in tal modo la propria natura e umiliare la propria dignità, pur di elemosinare un «senso della vita e del mondo» che devono trovarsi per forza di cose «fuori dello spazio e del tempo», secondo l’espressione del logico e filosofo del Novecento Ludwig Wittgenstein124. Certo, già Feuerbach prima di Nietzsche aveva intuito il capovolgimento ontologico nel rapporto fra uomo e Dio, per cui è il primo a creare il secondo (e non viceversa, come statuito per definizione dalle religioni monoteistiche). In questo modo l’uomo proietta sulla figura divina tutte quelle caratteristiche e facoltà che lo rassicurano rispetto alle sue angosce e paure più radicali, facendogli intravvedere una credibile salvezza:
ni: da una parte perché ciò che venne dopo Nietzsche, specialmente in Germania, dimostra che in effetti i «furfanti» trassero molteplici motivi di ispirazione tanto dalla frase di Ivàn che dalla sentenza pronunciata nello Zarathustra; in secondo luogo, perché si sostiene come a interessare l’uomo non sia tanto l’esistenza di Dio in sé, quanto il fatto che tale Dio gli garantisca l’immortalità dopo la vita terrena. 124. Nei suoi diari di guerra, precisamente l’8 luglio del 1916, Wittgenstein annotava che «credere in un Dio vuol dire comprendere la questione sul significato della vita (Sinn des Lebens)», «vedere che i fatti del mondo non sono poi tutto» e che «la vita ha un senso». Considerazioni che trovarono una trasposizione nel suo capolavoro filosofico di pochi anni dopo, in cui scrisse che «la risoluzione (Lösung) dell’enigma (Rätsel) della vita nello spazio e nel tempo si trova fuori dello spazio e del tempo», quindi in una dimensione trascendente rispetto a quella umana (Wittgenstein 1914-1916: p. 74 e 1922: p. 87).
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«L’essere spirituale che l’uomo pone al di sopra della natura come quello che la fonda e la crea non è altro che l’essenza spirituale dell’uomo stesso, che gli appare tuttavia come un altro essere, diverso e non confrontabile con se stesso, in quanto ne fa la causa della natura, la causa di tutti gli effetti che la mente, la volontà e l’intelletto umano non è capace di produrre» – scriveva Feuerbach in L’essenza della religione (1846) – inferendone che Dio non è altro che «una creazione della fantasia umana«, o meglio «un prodotto dell’autodivinizzazione dell’uomo». Si trattava di una deduzione estrema rispetto a quanto precedentemente stabilito nel suo capolavoro del 1841 (L’essenza del cristianesimo) – in cui aveva scritto che «il fine della religione è il benessere, la salvezza, la beatitudine dell’uomo; la relazione dell’uomo con Dio non è altro che la relazione del medesimo con la propria salvezza [… ] Tutte le determinazioni religiose positive di Dio esprimono questa relazione con la salvezza. Il nucleo più sublime e più intimo della religione si compendia nel pensiero: Dio è l’amore che si è fatto perfino uomo per l’uomo»125.
Questo Nietzsche lo sapeva bene, avendo letto e apprezzato il suo predecessore. Ma egli decideva di spingersi oltre. Non si trattava di limitarsi a negare l’esistenza del Dio trascendente, quanto piuttosto di fare i conti con quella «fame» di divino e genuflessione che muove inesorabilmente l’uomo di ogni tempo, a partire dalla stessa civiltà greca fino ai giorni nostri, come ha evidenziato con acume un grande grecista del secolo scorso: «Che il culto ellenistico del capo fosse sempre insincero, che fosse una montatura politica e niente altro, non lo crederà nessuno che abbia osservato, ai giorni nostri, il costante aumento dell’entusiasmo delle masse nei confronti di re, di dittatori, o, in assenza di questi, di atleti. Quando i vecchi dèi si ritirano, i troni vuoti reclamano a gran voce un successore»126.
Fare i conti con l’anelito religioso che alberga nell’uomo, significava per Nietzsche anzitutto due cose: 1) combattere tutte quelle istituzioni e figure (a cominciare dalla Chiesa e dal clero) che si servono della suddetta fame per acquisire o incrementare 125. Feuerbach 1846: pp. 61-2 e 1841: p. 201. 126. Dodds 1951: p. 242.
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il proprio potere sugli uomini e sulla società; 2) prefigurare una nuova umanità, finalmente in grado di mantenere una posizione dignitosa ed eretta di fronte al Nulla che la circonda, perché ha trovato dentro di sé il nutrimento per quella fame di divino che la invade dalla notte dei tempi. In buona sostanza, è nel punto due che può avvenire il passaggio dall’«ultimo uomo»127, quello più spregevole, ancora metafisico, debole e servile, succube della speranza e dell’illusione, al «superuomo» (o «oltreuomo» che dir si voglia). Quest’ultimo, fieramente ancorato alla terra, con testa dritta e animo fermo guarda al suo destino tragico senza cercare scappatoie, ma anzi, si spinge eroicamente a «superare se stesso per non finire nella nullità del nichilismo sorto dalla morte di Dio», stando alla sintesi efficace di Karl Löwith. e del resto: «Quest’uomo dell’avvenire, che ci redimerà tanto dall’ideale perdu-
rato sinora, quanto da ciò che dovette germogliare da esso, dal grande disgusto, dalla volontà del nulla, dal nichilismo, questo rintocco di campane del mezzodì e della grande decisione, il quale nuovamente affranca la volontà, restituisce alla terra la sua meta e all’uomo la sua speranza, questo anticristo e antinichilista, questo vincitore di Dio e del nulla, dovrà un giorno venire»128.
Sì, Nietzsche stava invocando e prefigurando la nuova umanità di superuomini, capaci di aderire finalmente a un’esistenza del tutto mondana, quindi insensibile alle false sirene di ogni trascendenza. Non si trattava più soltanto di superare il teismo di coloro che si servivano della «fede» per (illudersi di) entrare in contatto con la divinità, ma anche il deismo di coloro 127. Il tempo dell’«ultimo uomo» è quello in cui «la terra sarà diventata piccola», ed esso vi saltellerà «rimpicciolendo ogni cosa» (zA: VI,I, pp. 10-11). Secondo Charles Taylor (2007: pp. 319-20), il filosofo tedesco (ancora una volta sulla scia dei pensatori reazionari) stava descrivendo gli esseri degradati del tempo moderno, quello in cui gli individui sono omologati e massificati dal sistema democratico e capitalistico, fieramente proni di fronte al «dispotismo mite» purché vengano garantiti loro i «piaceri piccoli e volgari» di cui parlava già Tocqueville nell’ottocento (Tocqueville 1835: p. 648). 128. Löwith 1967: p. 138. GM: VI,II, p. 297.
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che, alla maniera di Voltaire, ritenevano di utilizzare la ragione per argomentare l’inevitabilità dell’esistenza divina. I superuomini preconizzati da Nietzsche – anche in questo lettore attento di Dostoevskji e del personaggio Kirillov, ne I Demoni – si sarebbero lasciati alle spalle tanto la fede quanto la ragione, poiché per loro non si trattava più di andare alla ricerca degli dèi, ma di diventarlo essi stessi: «Questi signori della terra dovranno ora sostituire Dio, e procurarsi la fiducia profonda e assoluta dei dominati»129. In tale direzione, il cristianesimo non poteva che rivelarsi come l’ostacolo ultimo e al tempo stesso più alto contro l’affermazione della nuova umanità vagheggiata da Nietzsche. Ma l’oggettiva condanna della religione, con tutte le sue implicazioni ideali e pratiche, non si traduceva per il filosofo tedesco in un rifiuto anche della religiosità. Ciò perché il dileguarsi dell’orizzonte divino e metafisico, in termini generali, non comporta assolutamente il venir meno di quel «senso del mistero» di cui parlava Norberto Bobbio, come anche non impedisce l’elaborazione di quegli interrogativi radicali che animano l’uomo fin dalla sua comparsa sulla terra. Anzi, da questo punto di vista, come ebbe modo di evidenziare il pensatore americano Leo Strauss, non si può escludere che il «filosofo del futuro» immaginato da Nietzsche fosse mosso da una «religiosità» improntata sul «non-ateismo», poiché solo su queste basi si poteva «tornare a venerare il dio Dioniso» come l’unico interlo129. VII,III, p. 304. Sul «deismo» di Voltaire (ossia la maniera di arrivare a Dio tramite la ragione piuttosto che con la fede), si può considerare questa frase celebre del filosofo francese: «Sarei sempre convinto che l’orologio prova l’esistenza di un orologiaio, e che l’universo prova l’esistenza di un Dio» (Voltaire 1738: v. XV, p. 755). Quanto al celebre personaggio dostoevskijiano Kirillov (il giovane ingegnere nichilista e suicida), si tratta di colui a cui lo scrittore russo faceva dire che ci «sarà piena libertà quando sarà indifferente vivere o non vivere». A tal proposito, «verrà l’uomo nuovo, felice e superbo. e colui al quale sarà indifferente vivere o non vivere, quello sarà l’uomo nuovo. Colui che vincerà il dolore e la paura, quello sarà Dio. e non ci sarà più l’altro Dio» (Dostoevskij 1873: pp. 161-2). Nietzsche, lettore attento dell’opera di Dostoevskij, sembra aver tratto notevole ispirazione da questo personaggio per la sua configurazione del Superuomo.
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cutore credibile per l’uomo, una volta lasciatosi alle spalle il Dio cristiano130. Quindi, proprio la religiosità poteva essere concepita come quella dimensione specificamente umana che, se rettamente intesa e canalizzata, avrebbe liberato l’uomo stesso dalla condizione di miserevole e umiliante sudditanza verso idoli metafisici e illusori, conducendolo piuttosto alla dignitosa comprensione (e accettazione) della propria umanità. Per ottenere questo obiettivo, Nietzsche si è impegnato lungo tutta la sua opera a decostruire schemi mentali e inclinazioni emotive che spingevano l’uomo vero una canalizzazione errata della propria indole religiosa, protesa verso la ricerca di riferimenti e idoli metafisici. Innanzitutto si trattava di sradicare l’idea per cui la vita fosse fornita di un «senso», cioè che il fluire delle cose e degli eventi prevedesse un punto di partenza ma soprattutto un esito finale, possibilmente benefico e salvifico, come si evince dal passo di San Paolo che ho citato sopra. Questo immotivato e assurdo anelito «teleologico» si era affermato secondo Nietzsche a partire da Socrate e Platone131, ma soprattutto in coincidenza con l’emergere del cristianesimo. Cioè quando alla visione insensata e quindi tragica delle cose, sostenuta dai filosofi presocratici con la loro individuazione di un principio primo (arché) e impersonale della vita, non riconducibile a una dimensione trascendente e disinteressato alle 130. «Il senso del mistero – scriveva Norberto Bobbio (2000: p. 7) – è comune tanto all’uomo di ragione che all’uomo di fede. Con la differenza che l’uomo di fede riempie questo mistero con rivelazioni e verità che vengono dall’alto, e di cui non riesco a convincermi. resta però fondamentale questo profondo senso del mistero, che ci circonda, e che è ciò che io chiamo senso di religiosità». Per quanto concerne Leo Strauss (1973: p. 179). 131. «Bisogna leggere «la filosofia da Socrate in poi come sintomo di malattia e quindi come preparazione del cristianesimo» (KSA: XII, p. 202). In particolar modo Platone, non senza toni anti-giudaici che si possono leggere anche nella feroce critica nietzscheana di Socrate, veniva considerato l’incarnazione dell’«antipaganesimo», un «antielleno» e «semita per istinto» (KSA: XIII, p. 114), a partire dal quale «la filosofia è sotto il dominio della morale» (KSA: XII, p. 259).
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vicende umane, si era sostituita appunto l’idea socratico-platonica e poi cristiana. Socrate e Platone, pur inseriti chiaramente all’interno della tradizione pagana, avevano infatti rappresentato una rottura rispetto ai filosofi precedenti, e ciò in due direzioni: 1) da una parte dividendo la realtà in due dimensioni (si parla di «dualismo»132), quella perfetta e autentica delle idee e delle forme da una parte, e quella imperfetta delle cose e del mondo fisico dall’altra; 2) assegnando all’uomo, fornito di un’anima anche razionale, la facoltà di innalzarsi rispetto alla dimensione corrotta dei corpi e delle apparenze, per attingere alla verità del mondo delle idee (in particolare quella del Bene, che è la più elevata)133. Questa separazione dei due mondi rappresentava il fondamento filosofico alla base della visione teleologica, per cui l’uomo si trovava investito di uno scopo e un senso che consistevano nell’emanciparsi dall’imperfezione e dalla corruzione del mondo terreno fino a raggiungere quello perfetto e puro della conoscenza e delle idee. Su questa visione già di per sé confortante e ottimistica delle cose, a parere di Nietzsche, si inseriva il cristianesimo con l’aggiunta di almeno due elementi decisivi: 1) un Dio mosso da «amore» nei confronti della sua creatura, quindi intenzionato a proteggere e salvare l’uomo non soltanto nella sua vita terrena ma soprattutto in quella che lo aspetta dopo la morte. L’uomo 132. Di «dualismo tra materia e spirito», tra «causa divina» «causa necessaria» parlava per esempio uno studio dedicato al «problema di Dio in Platone», in cui si diceva anche che «la divisione del mondo in due ambiti, il regno delle ombre e quello della luce, quello delle apparenze e dell’essere», insieme all’esigenza di metterli in relazione, aveva occupato interamente la vita filosofica di Platone (Legido Lopez 1963: pp. 164-5 e 111). 133. Platone scriveva nella Repubblica che per l’essere umano esiste un oggetto supremo di studio e insegnamento (megiston mathema). Si tratta dell’«idea del Bene» di cui parlava Socrate, ed essa è tanto conoscibile quanto esprimibile. Il filosofo antico dava il nome di «eudaimonia» a questa conoscenza che l’uomo riesce a conseguire del Bene (Platone, Repubblica: 504 d 2-3, e 4-5; 505 a 2, 508 e 4, 517 b8-c1, 516 b 4-7, 518 c 9-10, 532 a5-b2, 534 b3-d1; 498 c 3, 532 e 2-3, 540 b6-c2. Cfr. Szlezák 2001: pp. 345-7.
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stesso, scriveva Sant’Agostino, non entra nella «verità» (cioè in Dio) se non attraverso l’«amore (caritatem)»134. Questo il commento di Nietzsche a tal proposito: «L’artificio più fine che il cristianesimo ha in più, rispetto alle altre religioni, è una parola: esso parlò di amore. Così diventò la religione lirica (mentre nelle altre due creazioni il semitismo ha donato al mondo religioni eroico-epiche)». Si tenga presente che la concezione classica su questo argomento era rappresentata dalla considerazione di Aristotele, secondo cui Dio è talmente distante e superiore a livello ontologico da non poter contemplare alcun tipo di sentimento nei confronti dell’uomo135; 2) la comparsa di Gesù Cristo in veste di figlio di Dio, a testimonianza di una divinità che è anche persona (e in quanto tale soffre come l’uomo) ma soprattutto a conferma della fede che l’uomo deve avere nell’aldilà divino: Dio esiste, e lo ha dimostrato lui stesso con quel gesto che Nietzsche definiva di «raccapricciante paganesimo (schauderhaftes Heidenthum)»136 che è stato l’aver sacrificato suo figlio in croce per la remissione dei peccati terreni. Sì, Gesù è la prova incarnata dell’esistenza divina, e se l’uomo manterrà la fede in lui anche nelle situazioni più avverse e dolorose, gli sarà garantita la resurrezione e una nuova vita beata nel giardino celeste: «Chiunque ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha inviato – afferma Gesù nel Vangelo di Giovanni – ha la vita eterna e non è soggetto al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita […] Io sono la resurrezione e la vita; colui che crede in me, quand’anche morisse, vivrà; e chiunque vive e crede in me non morrà mai»137.
Ma proprio qui si riproponeva un problema già incontrato più volte in Nietzsche: tale problema consisteva nel fatto che il Cristo rappresentava una testimonianza di speranza e salvezza 134. Agostino Santo 391: 32,18. 135. KSA: VM, § 95; Aristotele, Etica nicomachea: VIII,7. Cfr. de ruggero 1967: v. 1, pp. 37-8. 136. KSA: AC, § 41. 137. Biblia sacra: Giov. V,24 e XI, 25-26.
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per tutti gli uomini indistintamente, e inoltre egli nella sua vita aveva lanciato chiari messaggi (e fornito indubitabili esempi) di una personalità orientata alla difesa degli umili e dei deboli. Questo conduceva il nostro filosofo a bollare Gesù come un «democratico» e un «livellatore» al pari degli esecrati Socrate, Platone, Lutero, rousseau, ma anche di Francesco d’Assisi, uno che «in nome della povertà» combatté contro la «gerarchia»138. Quindi, il Cristo come una figura deleteria e ripugnante agli occhi di Nietzsche. Ad ogni modo, con la comparsa della religione biblica, al cosmo asettico e meccanico della cultura pagana in cui l’uomo recitava la parte di un essere miserevole, ininfluente e completamente sottomesso all’arbitrio capriccioso degli dèi (e del Fato) – stando ai testi mitologici di omero come anche a quelli filosofici di un empedocle139 – si sostituiva quello benevolo e provvidenziale della teologia cristiana. Ma soprattutto: a una vita priva di senso e di aspettative, se ne sostituiva un’altra in cui quel senso e quelle aspettative risultavano ben definite. Con tanto di lieto fine più o meno garantito. 138. Il filosofo tedesco scriveva che è in Cristo che il «gregge» aveva imparato ad affinare il suo istinto a favore dei «livellatori (Gleichmacher)» e il suo «odio contro la gerarchia» (KSA: XII, pp. 379-380). Per l’inserimento di Cristo fra i «quattro grandi democratici» (a cui si doveva aggiungere Platone), cfr. KSA: XII, p. 348. Per Francesco d’Assisi, KSA: XIII, p. 196. 139. Dalla lettura di Iliade e Odissea si evince chiaramente che la condizione dell’uomo è quella di chi vede determinato tanto il proprio «intelletto (noos)» quanto il proprio comportamento più o meno virtuoso dalla volontà divina: «Tale è infatti è l’intendimento degli uomini in terra, in base alla sorte che stabilisce per quel giorno il padre di uomini e dèi. […] Perciò nessun uomo sia iniquo, in alcuna occasione, ma accetti in silenzio quei doni che gli offrono gli dèi» (omero, Odissea: XVIII, vv. 136-7 e 141-142). Quindi: «È zeus che agli uomini dà e toglie la virtù (areten) a suo piacimento, poiché egli è il più potente di tutti» (omero, Iliade: XX, vv. 242-243). Quanto al filosofo empedocle, è significativo che in un contesto in cui raccontava le proprie reincarnazioni, con la sua anima che aveva vagato tra la dimensione vivente e quella dei defunti, concludesse con queste parole: «oh, sciagura! oh, stirpe miserevole dei mortali, oppure infelice, da tali contese siete nati e da questi lamenti, e precipitando da quale dignità e dalla grandezza di quanta felicità» (empedocle, Frammenti: B124 e 119).
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Da quel momento in poi, la storia del pensiero umano si sarebbe inesorabilmente divisa fra coloro che denunciavano la sofferta e irrimediabile presenza del «male» nel mondo, e coloro che ne negavano l’esistenza o, quantomeno, ne limitavano la portata, inserendolo tra gli inconvenienti propri di una dimensione imperfetta come quella terrena. Fra i primi troviamo autori provenienti dalle più diverse scuole di pensiero, a cominciare da quell’epicuro che, per via della sua visione materialistica delle cose umane, fu l’unico filosofo (insieme alla sua «scuola») a guadagnarsi un posto nell’Inferno di Dante Alighieri («Suo cimitero da questa parte hanno/con epicuro tutti i suoi seguaci,/che l’anima col corpo morta fanno»)140. Forse perché l’antico filosofo greco si era espresso con una logica strettissima, pari soltanto alla gravità dell’argomento: «La divinità o vuole abolire il male e non può; o può e non vuole; o non vuole e non può; o vuole e può. Se vuole e non può, dobbiamo ammettere che sia impotente, cosa che contrasta con l’intendimento di divinità; se può e non vuole, che sia invidiosa, cosa allo stesso modo aliena all’essenza divina; se non vuole e non può, che sia insieme impotente e invidiosa; se poi vuole e può, la sola cosa coerente con la sua essenza, da cosa mai derivano i mali e perché non li elimina?».
Si è trattato di una questione più che bimillenaria, considerato che ancora nel Novecento il filosofo francese Paul ricoeur si arrovellava su temi equivalenti, chiedendosi «come si possono affermare insieme, senza contraddizione, le tre seguenti proposizioni: Dio è onnipotente, Dio è assolutamente buono, tuttavia il male esiste»141. Volgendo lo sguardo al secolo precedente (l’ottocento) si può leggere Giacomo Leopardi, l’autore fortemente considerato da Nietzsche che, sulla scia di un relativismo etico molto simile a quello di Protagora e degli antichi sofisti, sottolineava l’assurdità del considerare il bene e il male come concetti assoluti, tan140. Alighieri 1304-1321: Inferno, X, vv. 13-15. 141. Lattanzio 314: 13,20; ricoeur (1986): pp. 7-8.
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to più che la conoscenza umana deriva in ultima analisi da sensazioni soggettive e irriducibili:
«Non v’è altra possibile ragione per cui le cose debbano assolutamente e necessariamente essere così o così, buone queste e cattive quelle, indipendentemente da ogni volontà, da ogni accidente, da ogni cosa di fatto, che in realtà è la sola ragione del tutto, e quindi sempre e solamente relativa, e quindi tutto non è buono, vero, cattivo, brutto, falso, se non relativamente; e quindi la convenienza delle cose fra loro è relativa, se così si può dire, assolutamente»142.
Scendendo di un ulteriore secolo e riferendosi al Settecento, troviamo l’illuminista Voltaire il cui pensiero era stato per tutta la prima parte della sua vita improntato a un ottimismo di fondo, tipico di un’epoca in cui si pensava che la ragione potesse garantire al genere umano un progresso pressoché inarrestabile. Ma un evento traumatico era destinato a frantumare la visione dell’illuminista francese. Mi riferisco al terribile terremoto del 1 novembre 1755, che distrusse la città di Lisbona provocando decine di migliaia di morti e di persone che rovistavano tra le macerie alla ricerca dei loro cari sepolti vivi. La reazione di Voltaire fu al tempo stesso caustica contro i filosofi ottimisti e sconfortata rispetto alla condizione umana: 142. Leopardi 1817-1832: v. 1, pp. 483-4. eliminate le visioni assolutistiche, comunque, il filosofo e poeta italiano riconosceva al male uno statuto «ordinario», in quanto elemento imprescindibile e perfino «essenziale» al «sistema» della natura (v. 2, p. 1184). La prima negazione del valore assoluto conferito a un presunto «bene» o «male», è attribuibile all’antico filosofo sofista Protagora, secondo il quale ciascuno di noi è «misura (metron)» delle cose e il sapiente è proprio colui che insegna agli uomini l’arte di comprendere la relatività di ciò che è inteso come buono o cattivo (Protagora, Frammenti: A-21a). In epoca moderna tale discorso era stato ripreso dal filosofo empirista David Hume, non senza un riferimento a quell’arte oratoria che anche per i sofisti era determinante nel far giudicare una cosa buona o cattiva: «Non esistono modi di comportarsi così innocenti e ragionevoli da non risultare odiosi o ridicoli se misurati con parametri sconosciuti alle persone che li adottano; specialmente, poi, se ci si avvale un po’ dell’arte dell’eloquenza, aggravando alcune circostanze e attenuandone altre, come meglio conviene allo scopo del proprio discorso» (Hume 1751: v. 4, p. 416).
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«Filosofi fuorviati che gridate “Tutto è bene”, accorrete, contemplate queste orribili rovine […] Bisogna confessarlo, il male è sulla terra […] Questo mondo, questo teatro di orgoglio e di errore è pieno di sventurati che parlano di felicità»143. La visione difforme, per non dire opposta, la si trova man mano che ci si avvicina agli autori cristiani, perlopiù sostenitori della cosiddetta «teodicea» (giustizia divina) nello svolgersi di tutte le cose, anche quelle all’apparenza più funeste. È il caso di Tommaso d’Aquino, promotore di una visione al tempo stesso dialettica e realistica della presenza del male nel mondo: «In verità, se si impedissero tutti i mali, molti beni verrebbero a mancare nell’universo. Per esempio non vi sarebbe la vita del leone, se non vi fosse la morte di altri animali; né vi sarebbe la pazienza dei martiri se non vi fosse la persecuzione dei tiranni»144. Ma è stato con Sant’Agostino, molti secoli prima dell’Aquinate, ad affermarsi la visione che quantomeno su questo argomento era destinata a rappresentare la posizione canonica con cui sarebbe stato identificato il cristianesimo. Sì, Agostino inquadrava il male per via negationis, cioè intendendolo come una privatio boni (mancanza di Bene, invece che presenza di Male) che salvaguardava tanto il buon operato della divinità nell’atto della creazione del mondo quanto l’esistenza del libero arbitrio umano. In tal senso, il male non è una realtà positiva, ma appunto soltanto una «corruzione o della misura o della forma o dell’ordine naturale», ed è reso possibile dal fatto che la volontà umana, creata da Dio in forma perfetta come tutte le altre cose, «diventa cattiva soltanto in quanto l’uomo ne fa un uso deleterio». un concetto, quello del libero arbitrio e della volontà umana inesorabilmente rivolti al male (qualora liberi dalla «servitù» verso Dio), che in maniera più sfumata era stato espresso fin da San Paolo nella Bibbia, per poi essere ripreso in maniera radicalizzata da Martin Lutero e da Giovanni
143. Voltaire 1756: pp. 309-11. 144. Tommaso d’Aquino 1259-1273: I, q. 22, a.2.
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Calvino nell’epoca della riforma145. Il filo rosso che legava tutte queste posizioni era principalmente uno soltanto: quanto più l’uomo si allontana (o si emancipa) da Dio, tanto più cede al male e sprofonda nella servitù verso il peccato. Se invece accetta di farsi servo di Dio, allora gli si apre luminosa la strada del bene e della salvezza finale. Questa visione comunque ottimistica e provvidenziale (teleologica) delle cose, a patto che l’uomo riconosca Dio e gli si sottometta, si fondava su un’inclinazione umana che per Nietzsche andava debellata in quanto funesta e illusoria. Sto parlando dell’insopprimibile tendenza a voler vedere una ragione, un ordine e insomma un’armonia prestabilita nello scorrere di tutte le cose. ovviamente garantita da un’entità provvidenziale e benefica di origine trascendente. Proprio questa «armonia» nelle cose del mondo era stata rifiutata con parole di fuoco da Dostoevskji146, attraverso i personaggi più famosi dei suoi romanzi. Si tratta di una visione che Nietzsche, lettore attento dello scrittore russo, definiva col termine «apollineo», volendo con ciò identificare una sorta di finzione estetica rispetto al ben più cogente e realistico elemento 145. Agostino Santo 399: I,4 e II,18,48. In un’altra opera, il medesimo pensatore cristiano specificava che: «Senza il soccorso di Dio non fai nulla, intendo nulla di buono. Infatti senza il soccorso di Dio hai solo la volontà, libera per quanto non sia libera, di fare il male» (Sermones: 156,II,12). San Paolo parlava della condizione degli uomini come o «schiavi del peccato» (e quindi «liberi dalla giustizia» divina), oppure «servi di Dio» (e quindi «liberi dal peccato») in Biblia sacra: romani 6, 17-22. Martin Lutero identificava il libero arbitrio con una «volontà malvagia» che «non può volere che il male (liberum arbitrium nihil nisi malum posse)», in Luther 1525: v. 18, p. 712. Giovanni Calvino decretava che «l’uomo non ha libero arbitrio per fare il bene se non aiutato dalla grazia divina», perché la sua volontà è «prigioniera nella servitù del peccato» e quindi incapace di concepire e realizzare il bene (Cauvin 1536: II,III,5, v. 1, p. 154). 146. «Non voglio l’armonia, per amore stesso dell’umanità non la voglio». «A quella suprema armonia oppongo un netto rifiuto», esclamava con voce ferma e sofferta Ivàn Karamazov, sostenendo di non farsene nulla della presunta giustizia divina (ammesso che essa vi sia), se serve a giustificare in qualche modo le ingiustizie e le sofferenze terrene (Dostoevskij 1880: pp. 327-8).
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«dionisiaco» insito nella realtà delle cose. Quello irrazionale, istintuale, primordiale, vitale nel sublimare attraverso forme (e azioni) estreme l’essenza tragica e sofferente di cui è permeata l’esistenza:
«Dioniso contro il “crocifisso”: eccovi l’antitesi. Non è una differenza in base al martirio – solo esso ha un altro senso. […] Si indovina che il problema è quello del senso del dolore: del senso cristiano o del senso tragico […]. L’uomo tragico afferma anche il dolore più aspro: è abbastanza forte, ricco e divinizzatore per ciò. Il cristiano nega anche il destino più felice in terra: è tanto debole, povero e diseredato da soffrire ogni forma di vita […] ”Il Dio in croce” è una maledizione della vita, un’esortazione a liberarsene. Il Dioniso fatto a pezzi è una promessa alla vita: essa rinascerà e rifiorirà eternamente dalla distruzione»147.
Del resto, quella creatura debole e desiderosa di tutele superiori che è l’uomo, preferisce di gran lunga convincersi che a prevalere sia la fasulla «armonia» che alberga nella propria mente «illuminata»148 (e si traduce anche in forme artistiche lineari, pacifiche e a lieto fine), piuttosto che prendere atto della tragica ed enigmatica ironia che scorre come sangue impetuoso nelle vene del mondo. Preferisce riconoscersi come creatura «simbolica» (da synballein: legare, mettere insieme, unire)149, che in quanto tale riesce a unire i fili e le trame dell’esistenza 147. VIII,III: pp. 56-7. Il filosofo canadese Charles Taylor (2007: p. 599), a questo proposito, parlava di un Nietzsche che voleva sostituire la moralità canonica con lo «scatenamento controllato della volontà di potenza, dove l’ordine apollineo è messo al servizio della forza dionisiaca». 148. Separato da Dioniso e dal fondo tragico dell’esistenza, Apollo diviene per Nietzsche il simbolo dell’«illuminismo» e delle «convinzioni politiche illuministiche»: si tratta di un dio «infuso di lumi (aufgeklärt)», archetipo dell’individuo «apollineo, sereno e assennato, ma un po’ immorale» (KSA: BA, I, pp. 701-2). 149. L’etimologia della parola religione non è certa né univoca. Tra le varie ipotesi (Cicerone, Lucrezio, Sant’Agostino), scelgo quella di Lattanzio, che la faceva derivare dal verbo latino «re-ligare» (unire insieme, legare) (Lattanzio, Divinarum institutionum libri septem: IV,28,3). Cfr. Mancuso 2011: p. 116 e 2013: p. 283.
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secondo un ordine umano, quindi eliminandone i conflitti e le disgrazie, piuttosto che accettarsi come entità «diabolica» (da diaballein: separare, dividere, produrre conflitti), cioè partecipe e generatrice essa stessa di quelle guerre sanguinose e passioni peccaminose che pervadono il mondo terreno, tenuto insieme da fili intricati e caotici. Con l’apollineo (simbolico = religioso) e il dionisiaco (diabolico), insomma, ci troviamo di fronte a una vera e propria scissione, secondo Nietzsche, che afferisce al campo dell’arte soltanto in un senso formale e comunque parziale. Perché in realtà concerne l’intero campo dell’esistenza umana, quantomeno nella misura in cui:
«ogni arte, ogni filosofia, possono essere considerate come un mezzo di cura e di aiuto al servizio della vita che cresce e che lotta: esse presuppongono sempre sofferenze e sofferenti. Ma vi sono due specie di sofferenti: quelli che soffrono della sovrabbondanza della vita, i quali, dunque, vogliono un’arte dionisiaca e quindi una vita e una conoscenza tragica della vita, e quelli che soffrono dell’impoverimento della vita, i quali cercano riposo, quiete, placido mare, liberazione da se stessi attraverso l’arte e la conoscenza, oppure invece l’ebbrezza, lo spasimo, lo stordimento, la follia»150.
Sintetizzando l’intero discorso con due termini, possiamo affermare che è tutta una questione di morte e amore. Sì, secondo Nietzsche l’uomo vuole rimuovere dal proprio orizzonte esistenziale l’idea che a illuminare quella sua esistenza sia la luce nera della «morte», l’ombra oscura di un Nulla eterno che precede e segue la breve parentesi della vita umana, peraltro innervando anche quest’ultima di tragedia insensata e caos dionisiaco. Si tratta di quello che emil Cioran, epigono di Nietzsche, connotava efficacemente in termini di «rifiuto metafisico»151 da parte dell’uomo dell’unico avvenimento che davvero conti per chi intenda comprendere la vita nella sua autenticità (la morte, per l’appunto). 150. KSA: FW, § 370. 151. Cioran precisava che «tutto ciò che mira ad agire sull’uomo – ivi comprese le religioni – è viziato da un sentimento grossolano della morte» (Cioran 1956: p. 965).
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un tema che è stato trattato ampiamente dalla filosofia di ogni tempo, se è vero che per esempio l’intero pensiero di Platone era una sorta di pedagogia della morte, nel senso che per lui i veri filosofi non hanno altra «autentica occupazione se non quella di morire e di esser morti», poiché morire significa rendersi «simili a Dio», diventando «giusti», «santi» e insieme «sapienti». Se da Atene ci si sposta a roma, troviamo l’imperatore e filosofo Marco Aurelio intimare a se stesso:
«Non sminuire la morte, ma tienila nella giusta considerazione perché anch’essa è una delle cose stabilite dalla natura […] Quindi, è consono all’uomo saggio non mostrarsi di fronte alla morte né superficiale, né ostile o sdegnoso, ma piuttosto attenderla come qualsiasi altro evento naturale. e come ora stai attendendo che il bimbo esca dal ventre di tua moglie, così preparati al momento in cui la tua anima abbandonerà questo involucro»152.
Muovendo dal mondo antico a quello moderno, poi, leggiamo il grande pensatore francese Michel de Montaigne, il quale equiparava la «meditazione della morte» alla «meditazione della libertà», e quindi imparare a morire equivaleva a imparare l’arte di non essere servi, affrancandosi da ogni soggezione e costrizione. Mentre Spinoza, altro autore letto con entusiasmo da Nietzsche, nella sua opera principale definiva l’«uomo libero» come quello che meno di ogni altra cosa si dà pena per la morte, poiché la sua saggezza consiste piuttosto in una «meditazione della vita»153. Tale percorso di riflessione sulla centralità della morte culmina nel Novecento con la figura di Martin Heidegger, che anche su questo tema aveva tratto spunti rilevanti dall’opera di Nietzsche. 152. Platone, Fedone: 64a e 67e; Teeteto 176a-b. Marco Aurelio, Pensieri: IX,3. Sempre nel Fedone (81a), Platone parlava dell’«esercizio di morte (melete thanatou)» come di un’occupazione che dovrebbe riguardare i filosofi. 153. Montaigne 1580-1588: I,20, p. 74; Spinoza 1677²: v. 2, IV,67, p. 261.
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Heidegger biasimava il pensiero calcolante moderno, incapace secondo lui di concentrarsi sugli aspetti teoretici e quindi autentici dell’essere (fra cui anche la morte), perché interamente impregnato di una logica materialistica che lo proietta verso fini esclusivamente pratico-produttivi154. un pensiero siffatto, essenzialmente non pensante, prefigurava una vita «inautentica» per l’uomo proprio andando incontro al suo bisogno più radicale: quello di rimuovere il suo «esseregettato nella morte» come condizione coessenziale e costante rispetto alla sua stessa esistenza. Si trattava, in buona sostanza, di rimuovere il dato originario e più angosciante: quello per cui ogni individuo, fin da quando fa il proprio ingresso nello scenario della vita, è già abbastanza vecchio per morire. Questa condizione dovrebbe spingerlo a «essere-per-la morte» lungo tutta la sua vita, poiché la morte non è la fine della vita stessa (non è il morire), ma ciò che sovrasta quella vita lungo tutto il suo accadere. È un evento che può verificarsi in qualsiasi momento perché qualsiasi momento della vita è anche morte stessa. La consapevolezza di ciò è alla base del sentimento di «angoscia» che pervade l’essere umano nel suo animo più profondo, poiché nell’assumere quella consapevolezza ogni individuo viene inchiodato alla propria solitudine più irriducibile155. 154. Se il mondo umano dovrebbe essere quello del «pensiero pensante», l’epoca del pensiero calcolante, secondo Heidegger, è quella in cui il mondo appare come un oggetto a cui il pensiero come calcolo (Denken als Rechnen) sferra i suoi assalti, ai quali, si ritiene, nulla è più in grado di opporsi, mentre la natura si trasforma in un unico gigantesco serbatoio di energia al servizio dell’industria e della tecnica» (Heidegger 1959: pp. 34 e 29). Questo in virtù del fatto che «la scienza non pensa», scriveva l’autore di Essere e Tempo, poiché essa «è operativa nella sua stessa essenza. Ma quanto più la scienza si fa operativa, pervenendo in tal modo alle sue più alte realizzazioni, tanto più grande diviene in essa la minaccia del “mero operativismo”, dietro cui sta in agguato il semplice affarismo, che assume l’apparenza di realtà suprema che rende possibile il compimento del lavoro scientifico» (Heidegger 1954: p. 41 e 1938: p. 80). Per il debito con Nietzsche, basti considerare che quest’ultimo definiva la «paura dell’incalcolabile» come «istinto segreto della scienza» (VIII,I: p. 177). 155. Heidegger 1927: sezione II, cap. I, pp. 289-324. In particolare laddove il filosofo scriveva che «la morte è un modo di essere che l’esserci [l’uomo] assume da quando c’è» (p. 300), che ciò che la certezza della morte ha di
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Proprio il rifiuto e la rimozione di una tale consapevolezza esistenziale, sono alla base di quell’inclinazione che spinge inesorabilmente l’uomo a cercare divinità e conforti superiori, che lo sollevino dall’acqua stagnante e nauseabonda della disperazione. A darcene conferma indiretta è un’autrice fermamente credente come Simone Weil. Anch’ella, infatti, proprio da una posizione cristiana, asseriva nella sua opera della maturità (i Quaderni del 1941-1942) che il timore della morte è «fondamento della schiavitù», salvo però precisare che il modo di condurre la vita all’insegna di «una preparazione all’istante della morte» consiste nel vedere la stessa come «il dono più prezioso della Provvidenza divina». Del resto, la «salvezza» è l’«unico bisogno dell’anima», e può arrivare all’uomo soltanto dall’amore di Dio, proprio nel momento per lui più angosciante, quello della fine. Perché sì, in fondo la fede è questo: «Credere che Dio è amore e nient’altro», che la realtà stessa non è nient’altro che amore, purché intesa come il frutto del suo disegno»156. Siamo di fronte a una visione che non avrebbe potuto soddisfare Nietzsche, né i suoi antesignani o epigoni, perché quell’ostinato e ottuso voler credere soltanto al lato del «pianeta» illuminato da amore, si fonda sul non voler vedere il lato oscuro del medesimo pianeta: quello che porta con sé la morte come elemento essenziale del pianeta stesso, in veste di inestirpabile alter-ego di amore. Ce ne possiamo accorgere anche nella dimensione più semplice della vita quotidiana, dove la morte è accompagnata dall’ amore (per esempio di coloro che sono in lutto) più caratteristico è che essa «è possibile a ogni attimo» (p. 314), che «la morte non “appartiene” indifferentemente all’insieme degli esserci ([degli individui], ma pretende l’esserci [l’uomo] nel suo isolamento» (p. 320), e infine che il costante essere-per-la morte che l’uomo sperimenta lungo tutta la sua vita biologica «è essenzialmente angoscia», ma l’accettazione di questa angoscia, declinandosi come «possibilità di essere se stesso, in una libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del Si [così Heidegger definiva il pensiero generico e inautentico], effettiva, certa di se stessa e piena di angoscia» (p. 323), si traduce in termini di «libertà per la morte». Tutto questo, di fatto, costituiva il fondamento irrinunciabile del «superuomo» di cui parlava Nietzsche. 156. Weil 1941-1943: v. 2, p. 187; v. 3, p. 160 e v. 4, p. 300.
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esattamente come l’amore è inscindibile dalla morte, per esempio quando quell’amore finisce, portandosi via con sé una parte di noi (che quindi muore); oppure quando nell’amore sperimentiamo quella parte di «io» che dobbiamo lasciar andare, se vogliamo realizzare il «noi» della «coppia» che altrimenti sarebbe impossibile. Lo sapeva bene il poeta Leopardi, che prima di Nietzsche componeva il verso: «Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte/Ingenerò la sorte»; allo stesso modo ne era consapevole Freud, che dopo Nietzsche e su un piano più scientifico ha tentato di scandagliare l’«enigma della vita» supponendo che le due pulsioni compresenti nel mondo umano (amore e morte, Eros e Thanatos) «abbiano lottato l’una contro l’altra fin dalle prime origini dell’esistenza», evidentemente senza che nessuna abbia nettamente prevalso sull’altra. Ma soprattutto, è stato ancora una volta George Bataille a denunciare il lato contraddittorio, inquietante e perfino «violento» insito in ogni passione amorosa, soprattutto quella slegata dal commercio dei corpi:
«Non dovremmo mai dimenticare che, nonostante le promesse di beatitudine che l’accompagnano, [la passione amorosa] introduce fin da subito conflitto e turbamento. La stessa passione felice innesta un disordine così violento che la felicità in questione, prima di essere una felicità di cui è possibile godere, è così grande da essere paragonabile al suo contrario, alla sofferenza»157.
Ma il terrore e la disperazione rendono malgrado tutto l’uomo un animale tenace, nel suo bisogno di schematizzare la complessità del reale in cambio di illusioni confortanti. ecco perché, da una parte, vuole rimuovere lo scenario della morte dal proprio orizzonte esistenziale, mentre dall’altra, allo stesso tempo, prova ad illudersi che quella sua medesima esistenza sia connotabile all’insegna dell’«amore» (amore di e per Dio, per il prossimo, per la conoscenza, per se stesso etc.), cioè di un’armonia apollinea e superiore che garantisce all’uomo l’ottenimento dei frutti di quell’amore (salvezza nell’aldilà, verità e 157. Leopardi 1835-1845: v. 1, Canto XXVII, Amore e Morte, vv. 1-2; Freud 1920: v. 9, p. 246; Bataille 1957²: v. X, p. 25.
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pace sulla terra, equilibrio con se stesso)158. Pur di sradicare dalla propria esistenza quell’orizzonte angosciante di nulla, morte e abbandono che lo circonda, l’uomo è disposto ad allestire il grande spettacolo di «amore», che poi è quello in cui il sentimento solitario che egli nutre per sé viene sublimato attraverso l’individuazione di soggetti e persone che illusoriamente gli diano proprio quell’amore, del tutto inappagante finché vissuto soltanto con se stesso. È in virtù di questa dinamica che l’individuo, come spiegava lo psicologo di origine messicana Norman Brown, «vuole amare se stesso e soddisfa questo amore di sé indirettamente, amando un oggetto simile a sé, oppure trovando un oggetto che lo ami come egli ama se stesso»159. Proprio qui possiamo scorgere l’essenza dell’anelito del tutto umano (troppo umano, secondo Nietzsche) a voler sconfiggere quello che San Paolo definiva l’«ultimo nemico»160: la morte. e sempre qui troviamo il nerbo di quel sentimento religioso che non è sradicabile dall’uomo se non al prezzo del suicidio, perché nasce con l’uomo stesso e gli è originariamente consustanziale, fino a diventarne il padrone: «Il “credente” non si appartiene, egli può essere soltanto un mezzo, egli deve essere usato, sente la necessità di qualcuno che lo usi […]. ogni specie di fede è, per se stessa, un’espressione di spersonalizzazione, di autoalienazione», scriveva Nietzsche a tale proposito161. In termini strettamente filosofici, possiamo dire che l’uomo religioso vuole credere di poter aspirare a una relazione con l’«essere» di Parmenide e i suoi derivati, quindi con identità stabili (a cominciare dal proprio Io), definite, immutabili e per ciò rassicuranti, quando in realtà la sua vita è esposta al costante 158. «Per i nietzscheani – scriveva Charles Taylor (2007: p. 635) – come per coloro che credono di trovare supporto nella biologia e nella teoria dell’evoluzione, nel vedere l’aggressività, la differenza di genere o la gerarchia profondamente radicate nella nostra natura, l’armonia risulta una mèta irraggiungibile, e anzi risulta perfino una forma di colpevole debolezza credere in essa o sforzarsi di raggiungerla». 159. Brown 1959: p. 65. 160. Biblia sacra: 1 Corinzi 15,26. 161. KSA: AC, § 54.
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«divenire» di cui parlava eraclito162. Cioè, una situazione in cui ogni elemento dell’esistenza (a cominciare dall’individuo stesso e dalla propria identità) è sottoposto a una continua trasformazione, a un incessante mutamento di maschere spesso contrarie e contraddittorie fra loro, per cui risulta impossibile ogni relazione stabile e rassicurante con un Dio, con gli altri uomini, perfino con se stessi163. Il nulla la fa da padrone in un mondo siffatto, in cui il divenire rimescola continuamente le carte facendo perdere di vista la partita e perfino il gioco a cui si sta giocando. Il Cristianesimo ha rappresentato in questo senso la risposta ideale a tutte le richieste più radicali e inconfessabili dell’uomo religioso (apollineo e simbolico), fornendogli l’essere per eccellenza (Dio) da cui discendono tutte quelle verità con cui vestire di una logica rassicurante il manichino enigmatico e impersonale che muove i fili della trama umana164. Lo stesso figlio di Dio, peraltro, si era presentato davanti al procuratore romano Ponzio Pilato, che stando alla testimonianza del grande storico Tacito lo aveva condannato al «supplizio» in quanto fondatore della detestata (dai romani) setta dei cristiani, 162. Parmenide sosteneva che «dell’essere c’è verità, e del divenire (ginomenon) opinione», aggiungendo che «lo stesso è pensare (noein) ed essere (einai)» (Parmenide, Frammenti: B-1 e B-3). Dall’altra parte eraclito, su un piano diametralmente opposto, affermava che «l’uomo per natura è irrazionale (alogon)» e che la realtà è talmente mutevole e incostante che «non si può discendere due volte nel medesimo fiume», né «toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato» (eraclito, Frammenti: A-16 e B-91). 163. In questo senso Parmenide era ritenuto da Nietzsche estraneo all’autentica filosofia greca, in virtù del suo pensiero che si rivolge «verso la rigida quiete morale del più freddo e vuoto concetto, dell’essere», mentre eraclito ne costituiva il punto più alto, con la sua autentica e tragica visione della realtà che si esprime attraverso «un nascere e un perire, un costruire e un distruggere, che siano privi di ogni imputabilità morale e si svolgano in un’innocenza eternamente uguale» (KSA: PHG, I, pp. 844 e 830). 164. In realtà Nietzsche non si stancava mai di ribadire i presupposti della sua filosofia, per i quali non vi è alcun Dio, alcuna «energia finale», né fine, scopo o anche solo un «senso» nell’eternamente identico fluire delle cose (WzM: §§ 595 e 1062).
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proprio con queste parole apodittiche: «ego sum veritas!», ricevendo dal governatore romano una risposta tanto emblematica («Quid est veritas? [che cos’è verità?]») quanto rimarcata con entusiasmo da Nietzsche: «Il nobile sarcasmo di un romano, dinanzi al quale si sta facendo un vergognoso abuso della parola “verità”, ha arricchito il Nuovo Testamento dell’unica parola che abbia un valore – la quale è la sua critica, persino il suo annullamento: “Che cos’è verità?”»165. Gesù Cristo, clamorosamente e letteralmente definito un «idiota»166 da Nietzsche, sarebbe stato condannato a morte di lì a breve dal popolo giudeo. Ma il messaggio di «amore» e «verità» di cui si era fatto drammatico apostolo di Dio avrebbe preso il sopravvento su tutto il corso della storia occidentale (complice anche la sua «falsa» resurrezione, come la definiva il filosofo tedesco167), fino a far diventare il «cristianesimo» epitome dell’intera identità culturale, politica e morale dell’occidente. Quella stessa identità di cui Nietzsche si sarebbe fatto fiero e drastico oppositore, violento distruttore, temerario «anticristo», non senza però connotare il proprio pensiero di toni a sua volta apodittici, tipici di colui che si sente portatore di una «verità» alternativa ma non per questo meno assoluta. In ciò assomigliando molto di più al Cristo tanto esecrato per la sua
165. KSA: AC, § 46. Tacito, Annali: XV,44. Naturalmente, siamo di fronte a un’interpretazione nietzscheana dell’episodio in chiave palesemente anticristiana. C’è stato chi invece, anche in tempi recenti, ha visto in Ponzio Pilato una figura favorevole a Cristo, e nella fattispecie come il governatore romano che, stimolato da Gesù («ego sum veritas»), giungeva finalmente a porsi per la prima volta l’unica domanda che davvero contasse («quid est veritas?») (Carroll 2007: p. 202). 166. KSA: AC, § 29. Nietzsche utilizzava questo termine nel senso letterale, come contrapposto a «polita». Messa così, Gesù era un idiota in virtù della sua capacità di distaccarsi dalle miserie del mondo e degli uomini, riuscendo a innalzarsi a una forma di purezza solitaria e decadente, che però conduce all’isolamento e alla rovina: «La vita del redentore non è stata nient’altro che questa pratica – anche la sua morte non fu null’altro» (KSA: AC, § 33). 167 KSA: AC, § 42.
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presunzione, che non al procuratore romano Pilato tanto ammirato per lo scetticismo:
«La mia verità è tremenda. Perché fino a oggi ad essere chiamata verità è stata la menzogna. – Trasvalutazione di tutti i valori: questa è la mia formula per l’atto con cui l’umanità prende la decisione suprema su se stessa, un atto che in me è diventato carne e genio. Vuole la mia sorte che io debba essere il primo uomo decente, che sappia oppormi ad una falsità che dura da millenni…Io per primo ho scoperto la verità, proprio perché per primo ho sentito la menzogna come menzogna, la ho fiutata…Il mio genio è nelle mie narici […]; solo a partire da me ci sono di nuovo speranze»168.
Comunque sia, è certo che il cristianesimo, questa concretizzazione «geniale» e funesta della religiosità dell’uomo, rappresentava ai suoi occhi la summa di tutto ciò contro cui Nietzsche si scagliava con la massima violenza, fino a definirlo «l’unica grande maledizione», la più «intima depravazione» e perfino «l’unica immortale macchia d’infamia dell’umanità»169. Cristiani in genere e preti nello specifico, erano ai suoi occhi i deboli, cinici e opportunisti esecutori della propria volontà di potenza, che utilizzavano la finzione del Dio e il «risentimento» vendicativo dei malriusciti per affermare la loro autorità sulle masse, spodestando i guerrieri, gli aristocratici e in generale i «benriusciti» della vita, che non avevano bisogno di un’ipocrita bontà per prevalere sul «gregge»: «Il giudizio e la condanna morale è la vendetta preferita degli spiritualmente limitati su coloro che lo sono meno di loro, nonché una specie di rivalsa per essere stati dimenticati dalla natura», sentenziava Nietzsche170. 168 KSA: eH, § 1. In una lettera dello stesso anno (1888), contrapponendosi al cristiano Wagner definito «genio della menzogna», Nietzsche si autoproclamava «genio della verità» (KGB: III,5, p. 452). un autorevole studioso italiano ha notato che questo costituiva uno dei tanti esempi in cui Nietzsche smarriva clamorosamente il criterio filosofico dell’«autoriflessione», ossia dell’applicazione delle sue stesse categorie di giudizio al proprio pensiero (Losurdo 2001: p. 984). 169. KSA: AC, § 62. 170. JGB: VI,II, p. 127. e del resto, aggiungeva in Genealogia della morale: «Nella morale la rivolta degli schiavi ha inizio da quando il ressenti-
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Nasce da qui l’assurda (e «contronatura») mortificazione di tutto ciò che è «vita» e «vitale» da parte del cristianesimo, con la sua condanna degli istinti, della sessualità, della prevaricazione e insomma di ogni forma di volontà di potenza che non sia la sua:
«Cristiano è un certo senso di crudeltà verso sé e gli altri, l’odio contro coloro che pensano diversamente; la volontà di perseguitare. […] Cristiana è la mortale inimicizia contro i signori della terra, contro i “nobili” – e al tempo stesso una nascosta, segreta rivalità […]. Cristiano è l’odio contro lo spirito, contro l’orgoglio, il coraggio, la libertà, il libertinage dello spirito; cristiano è l’odio contro i sensi, contro le gioie dei sensi, contro la gioia in generale...»171.
Sì, contronatura preti e cristiani a vagheggiare un Dio inesistente di fronte a cui l’uomo doveva sottomettersi e perfino annullarsi; ma per esempio contronatura anche Kant, che non solo parlava di legge morale dentro di sé e di imperativi categorici che imponevano di trattare l’uomo come fine e non come mezzo, ma di fatto aveva evidenziato i limiti della ragione con lo scopo di «aprire le porte alla fede»: Kant fu «accalappiato dall’imperativo categorico – scriveva polemicamente Nietzsche – e con quello in cuore rifece il cammino all’indietro smarrenment diventa esso stesso creatore e genera valori; il ressentiment di quei tali esseri a cui la vera reazione, quella dell’azione, è negata e che si consolano attraverso una vendetta immaginaria. Mentre ogni morale aristocratica germoglia da un trionfante sì pronunciato a se stessi, la morale degli schiavi dice fin dal principio no a un “di fuori”, a un “altro”, a un “non-io” […] Questo necessario dirigersi all’esterno, anziché a ritroso verso se stessi – si conviene appunto al ressentiment: la morale degli schiavi ha bisogno, per la sua nascita, sempre e in primo luogo di un mondo opposto ed esteriore, ha bisogno, per esprimerci in termini psicologici, di stimoli esterni per potere in generale agire – la sua azione è fondamentalmente una reazione. Si ha il contrario nel caso di una maniera aristocratica di valutazione: questa agisce e cresce spontaneamente, cerca il suo opposto soltanto per dire sì a se stessa con ancor maggiore gratitudine e gioia […]» (GM: VI,II, pp. 235-6) 171. AC: § 21. Qualche paragrafo prima Nietzsche aveva scritto che il cristianesimo «ha preso le parti di tutto quanto è debole, abietto, malriuscito; della contraddizione contro gli istinti di conservazione della vita forte ha fatto un ideale…» (AC: § 5).
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dosi in “Dio”, “anima”, “immortalità”, come una volpe che, smarritasi, ritorna nella sua gabbia. ed era stata la sua forza e accortezza a forzare questa gabbia!»172. Non esisteva per Nietzsche alcun Dio ultraterreno a cui immolarsi, sacrificando gli istinti e i valori mondani (per di più inginocchiandosi di fronte alla squallida casta sacerdotale), così come del tutto irrealistica gli risultava la visione kantiana di una legge morale interna all’uomo e rivolta al bene universale173. A parere del filosofo di zarathustra, infatti, non esiste l’uomo in quanto tale che deve essere trattato come fine, bensì la natura insegna (e impone) che ci sono soltanto pochi uomini di rango, rispetto ai quali la restante mandria del gregge umano deve svolgere il ruolo di strumento e armento. Questo e nient’altro fa parte della vita reale, del sangue che scorre nelle vene selvagge e impetuose della bestia umana. Tutto il resto è miserevole utopia, 172. KSA: VM, § 27 e FW, § 335. Il Kant della Critica della ragion pura aveva inserito Dio fra gli errori e le illusioni della ragione dialettica, definendo come «impudente arroganza di una certezza apodittica» quella di chi pretende di affermarne l’esistenza effettiva. Senza contare l’abisso tragico in cui piomba una ragione che, contemplando l’idea di un essere eterno e onnipotente, si trova poi a non saper rispondere alla domanda più ovvia: da dove proviene quello stesso essere supremo? (Kant 1781-1787: p. 887). Nella Critica della ragion pratica, invece, per giunta all’interno di una visione morale del mondo, sembrava aver modificato la posizione sull’esistenza divina, operando delle aperture che evidentemente non avevano raccolto il consenso di Nietzsche. Per esempio laddove affermava che «il reggitore del mondo ci permette solo di arguire, ma non di scorgere o dimostrare chiaramente, la sua esistenza e il suo dominio; mentre la legge morale in noi, senza prometterci o minacciarci nulla con certezza, esige da noi un rispetto disinteressato; e, per il resto, solo quando tale rispetto si sia fatto efficace e prevalente, e solo per questa ragione, ci permette di lanciare qualche occhiata nel regno del soprasensibile, e, anche in questo caso, con debole vista». Il filosofo tedesco concludeva il ragionamento sostenendo che lo studio della natura e dell’uomo conduceva a questo insegnamento: «L’imperscrutabile saggezza, grazie a cui noi esistiamo, è non meno degna di venerazione per ciò che ci ha precluso che per quello che ci ha concesso» (Kant 1788: p. 315). 173. Secondo Kant poteva aspirare a definirsi filosofo soltanto colui che «potesse indicarne i segni inequivocabili nella propria persona (nel dominio di sé e nell’interesse indubitabile che egli rivolge principalmente al bene universale)» (Kant 1788: p. 233).
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rifugio in un luogo immaginario pieno di rassicurazioni e conforti fasulli e ingannevoli. Insomma, tanto il paganesimo era un «dire sì alla vita», secondo Nietzsche, quanto il cristianesimo ne negava ogni aspetto, rinchiudendo l’uomo in una gabbia di conforto e finzione da cui restava fuori l’aspetto eroico e tragico dell’esistenza. Senza comprendere ed accettare tale aspetto irrimediabile dell’esistenza, l’uomo non potrà mai uscire da quella gabbia e assurgere al «superuomo», che invece secondo Nietzsche rappresentava ormai il compito dell’umanità. Certo, un compito rinviato a un’epoca ben posteriore alla sua, poiché egli sentiva bene di essere in anticipo sui tempi. Ma non si dimentichi la colpa finale del cristianesimo: l’aver diffuso una morale e dei valori a cui si sono ispirati anche i rivoluzionari e i socialisti per suffragare e giustificare la propria lotta contro l’aristocrazia (e i forti, e i ricchi) in nome della difesa dei deboli, delle classi sociali subalterne, dei poveri e delle categorie umane emarginate in genere: «I socialisti fanno appello agli istinti cristiani» – scriveva Nietzsche – e del resto:
«Si è anzitutto insegnato all’umanità a balbettare in religione il principio dell’uguaglianza, più tardi se n’è fatto per essa una morale. Perché poi meravigliarsi se l’uomo finisce per prenderlo sul serio, con il prenderlo praticamente, vale a dire politicamente, democraticamente, socialisticamente, con il pessimismo dell’indignazione?»174.
L’unione tra cristianesimo e socialismo rappresentava, agli occhi del nostro pensatore, il connubio filosofico-politico più orrendo e nefasto della Storia, un abominio che praticamente sintetizzava tutto ciò contro cui egli aveva costruito la sua visione del mondo. Solo per un aspetto sostanziale Nietzsche era disposto ad ammettere l’utilità del cristianesimo, e ciò in perfetta coerenza con quello che abbiamo visto essere l’impianto radicalmente 174. KSA: XIII, p. 424. Aggiungiamo pure che «sono gli apprezzamenti cristiani di valore quel che ogni rivoluzione ha semplicemente tradotto nel sangue e nel crimine» (KSA: AC: § 43).
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aristocratico del suo pensiero: «La religione cristiana è molto utile, perché in essa l’obbedienza del servo (Servilität) prende le sembianze di una virtù cristiana, e viene meravigliosamente abbellita»175. È sostanzialmente per questo che, a fronte di una timida e pietosa simpatia per la figura del Cristo, Nietzsche ne contestava tuttavia il messaggio di fondo, poiché ispirato a una condotta di vita che faceva della fratellanza, della carità e della difesa dei più deboli i suoi fondamenti irrinunciabili. Si può parlare a tutti gli effetti di una «doppia morale», peraltro esplicitamente teorizzata dal filosofo tedesco, per cui ciò che valeva per il popolo non doveva riguardare i signori: «Noi immoralisti e anticristiani vediamo il nostro vantaggio nel fatto che la Chiesa continui ad esistere», e del resto è «nell’istinto di coloro che dominano (si tratti di individui o di classi) patrocinare ed esaltare le virtù grazie alle quali gli assoggettati risultano maneggevoli e devoti»; solo in tal senso «anche i “signori” possono divenire cristiani»176. Sì, egli vedeva la religione come un elemento positivo della società, nella misura in cui essa disinnescava le illusioni rivoluzionarie del popolo, insegnandogli a porgere l’altra guancia nel mondo terreno, a incanalare il ressentiment per la propria condizione di miseria verso se stesso, rinviando a fantomatiche dimensioni come l’aldilà e la giustizia divina il momento in cui le disuguaglianze si sarebbero finalmente livellate e i torti raddrizzati. In questo senso, e rigorosamente soltanto in questo, perfino i «signori» e i «filosofi» potevano dirsi «cristiani», cioè nella misura in cui essi fingevano di credere alle fandonie religiose pur di fornire il buon esempio al popolo. È proprio in tal modo che il medesimo popolo veniva educato al rispetto di quelle superstizioni e ottusità da cui i pochi benriusciti si tengono segretamente ben distanti. L’esplicita teorizzazione di una doppia morale rispetto alla religione, consente di ripercorrere alcuni dei capisaldi della filosofia di Nietzsche che abbiamo già avuto modo di incontrare: 175. KSA: MA, § 115. 176. KSA: GD, Morale come contronatura, § 3 e XII, p. 568.
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«”Io soffro, qualcuno deve averne la colpa” – così pensa ogni pecora malaticcia. Ma il suo pastore, il prete asceta, dice ad essa: “Bene così, la mia pecora! Qualcuno deve averne la colpa: ma sei tu stesso questo qualcuno, sei unicamente tu ad averne la colpa, sei unicamente tu ad aver colpa di te stesso!”...Questo è abbastanza temerario, abbastanza falso, ma se non altro una cosa in tal modo è raggiunta, in tal modo, come si è detto, la direzione del ressentiment…è mutata». «Per i forti, gli indipendenti, coloro che sono preparati e predestinati a comandare, nei quali si incarna la ragione e l’arte di una razza dominatrice, la religione è un mezzo in più per vincere le resistenze, per poter dominare (Herrscher), essendo essa un vincolo che unisce dominatori e sudditi e rivela ai primi, consegnandola nelle loro mani, la coscienza morale degli ultimi, la loro parte più segreta e più intima che ben volentieri si sottrarrebbe all’obbedienza». Insomma: «Il filosofo come lo intendiamo noi, noi spiriti liberi – come l’uomo che ha la responsabilità più vasta e per cui lo sviluppo complessivo dell’uomo è un fatto di coscienza: questo filosofo si servirà della religione per la sua opera di allevamento e di educazione, allo stesso modo in cui utilizzerà le condizioni politiche ed economiche del momento». Il punto è chiaro: l’umanità è organizzata dalla natura secondo una rigida scala gerarchica, e rispetto a ciò «al vertice la visione dev’essere grandiosamente libera. Le due cose si accordano benissimo»177.
Questa doppiezza morale, oltre a trovare dei precedenti illustri in autori fra loro diversi, ma rigorosamente accomunati da un’indole aristocratica e antirivoluzionaria (come l’illuminista Voltaire e il liberal-conservatore Tocqueville), si rivelava perfettamente coerente con la visione nietzscheana di un’umanità divisa in due (servi e signori), in cui la parte forte è chiamata a esercitare un doveroso dominio su quella debole, che deve accettarlo passivamente. Nella misura in cui ogni religione agevola una tale dinamica, spingendo i fedeli a «contentarsi dell’or-
177. KSA: GM, III, § 15; VIII: p. 482; GD, Morale come contronatura, § 3; XII, p. 568, JGB, § 61 e VII, p. 385. Fin dagli scritti giovanili, e significativamente su quello dedicato all’insegnamento, Nietzsche esprimeva la convinzione per cui la critica della religione e dell’ideologia non deve insinuarsi nelle masse, celebrando piuttosto la «salutare incoscienza», la «sana sonnolenza», il «sonno sano e ristoratore» in cui è immerso ed è bene che continui a essere immerso il popolo» (KSA: BA, I, p. 699).
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dine reale», si rivela accettabile e perfino opportuna per il filosofo tedesco178. Ma proprio qui arriviamo al punto focale. Sì, perché ritornando là dove abbiamo iniziato questa analisi del pensiero nietzscheano sulla religione, possiamo ritenere enfatica e tuttavia realistica l’idea per cui l’uomo non ha fatto altro che inventarsi un Dio pur di non suicidarsi. In fondo lo ammetteva anche un teologo come Dietrich Bonhoeffer, che nelle sue lettere del 1944 dal carcere di Berlino riprendeva un’immagine nietzscheana scagliandosi contro la visione del Dio «tappabuchi (Lückenbüsser)», e in particolare contro quell’apologetica cristiana che vorrebbe imporre al mondo divenuto adulto «il “tutore” Dio», l’unico in grado di fornire 178. KSA: JGB, § 61. Molto nutrita la tradizione che, prima del filosofo tedesco, ha più o meno apertamente teorizzato la doppia morale. Penso alla forte inclinazione intellettualistica che spingeva Voltaire all’ateismo, ma che veniva sempre temperata da un pragmatismo sociale impostato proprio sulla doppia morale: «Penso di concepire degli amatori che si concedono un concerto di musica erudita e raffinata. Ma che si guardino bene dall’eseguire un tale concerto davanti al volgo ignorante e brutale Se si ha una città da governare, bisogna che essa abbia una religione» (Voltaire 1764: v. 20, voce Religion, p. 341. Cfr. Beeson – Cronk 2009: p. 49). Il reazionario inglese edmund Burke, convinto che il popolo «non deve ritrovarsi sradicati ad arte i principi della propria subordinazione naturale», cosa che stava accadendo con la rivoluzione francese, sosteneva di salvaguardare privilegi e proprietà riservati ai pochi insegnando al popolo stesso a «consolarsi con gli aggiustamenti finali della giustizia eterna» (Burke 1790: v. 5, p. 432). Tocqueville, da parte sua, pur definendosi assolutamente non credente né devoto, si lamentava del diffondersi dell’«incredulità» con la rivoluzione francese, sostenendo che essa andava contro l’interesse dei «governi» e di tutti coloro che avevano un personale interesse a «mantenere lo Stato ordinato e il popolo nell’obbedienza» (Tocqueville 1951 sgg.: v. IX, p. 46; v. XV,2: p. 29 e 1859: pp. 1042 e 1045). Il liberale Constant distingueva fra gli spiriti elevati, che evidentemente possono fare a meno del sentimento religioso, e la «massa degli uomini volgari», che qualora ne fossero privi gli sembravano come privati di una facoltà preziosa e diseredati dalla natura (Constant 1815: pp. 1219-20). Infine, Montesquieu riteneva che la religione avesse come funzione principale quella di rendere gli uomini «buoni cittadini», aggiungendo che meno la religione sarà reprimente e più dovranno esserlo le leggi civili (Montesquieu 1748: XXIV,14, p. 377).
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all’uomo risposte confortanti sui misteri finali (colpa, morte etc.)»179. Da tale punto di vista, Nietzsche eliminava il tappabuchi e al contempo promuoveva la comparsa di una nuova umanità che sapesse prendere atto della morte di quel Dio fittizio e riscoprire la propria fedeltà alla terra. Ma allora è necessario porsi una domanda fondamentale: quale alternativa egli stava offrendo alla larga parte della stessa umanità, quella cioè che a detta del medesimo filosofo non era in grado di compiere il deicidio e innalzarsi al rango di «superumanità»? Cosa avrebbe dovuto fare la larga parte di esseri umani che egli qualificava di volta in volta come malriusciti, sottouomini, plebe, servi o gregge? Suicidarsi dopo aver preso atto della morte di Dio, o meglio ancora della sua non esistenza? rassegnarsi a un mondo terreno in cui essere costantemente sottomessi ai signori e ai forti? Quale guadagno avrebbe ottenuto la maggior parte degli uomini nel riconoscere la morte di Dio, abbandonando ogni velleità e riferimento trascendente, lasciando che i pochi superuomini divenissero, a quel punto, «dèi» incontrastati di un consorzio umano per giunta privo di ogni speranza dopo la morte? e infine: se è vero che in nome del Dio cristiano sono stati compiuti anche soprusi e perfino massacri, quale prospettiva di un mondo non ancora più violento e terribile se ad assurgere al rango di divinità fossero delle creature o comunque delle creazioni umane? Perché mai il dominio incontrastato dei superuomini avrebbe dovuto garantire una realtà terrena preferibile rispetto a quella creata e governata da un Dio illusorio ma almeno trascendente? Tutte domande alle quali Nietzsche non aveva potuto fornire una risposta, sia perché egli stesso non se le era poste, pre179. Bonhoeffer 1951: pp. 382 e 399-400. Sembra evidente la connessione con quanto Nietzsche scriveva in Così parlò Zarathustra osteggiando il cristianesimo: «Lo spirito di questi redentori era fatto di buchi; ma in ogni buco essi avevano ficcato la loro illusione, il loro tappabuchi da loro chiamato Dio» (zA: VI,I, pp. 109-110).
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ferendo attuare un pensiero drastico, assertivo e per nulla sistematico; sia perché il suo è stato fondamentalmente un monologo, dato che lo scarso successo che le sue opere avevano ottenuto in vita non aveva favorito un confronto diretto e dialettico con altri filosofi e in generale con la comunità scientifica (che preferì in larga parte snobbarlo). Che si trattasse di un quesito decisivo per le sorti stesse dell’umanità era proprio Nietzsche ad affermarlo, senza mezzi termini: «Sorge all’orizzonte il contrario del mondo che veneriamo, e del mondo che viviamo e che siamo. Non resta che o eliminare le nostre venerazioni o eliminare noi stessi»180. È in virtù di ciò che la questione di fondo resta tutta e pesa come un macigno. eccola: Nietzsche, nell’ambito del discorso religioso, ha pronunciato la sentenza più ardita («Dio è morto!»). Contemporaneamente, tramite la sua analisi spietata del fenomeno religioso, ha quantomeno provato a porre fine anche al discorso religioso in quanto tale, decretando che l’uomo nella sua millenaria vicenda non ha fatto altro che inventare Dio per non ammazzarsi, come abbiamo letto all’inizio di questo capitolo. Il guaio è che se anche tutto questo corrispondesse al vero, vi sono pochi dubbi sul fatto che, con la sua filosofia aristocratica e deicida, il filosofo tedesco toglieva anche quella miserevole alternativa alla stragrande maggioranza dell’umanità (credere o uccidersi). Lasciandole soltanto l’opzione del suicidio. 5.
Contro l’umanità
Nietzsche filosofava armato di un «martello» ideale, con l’obiettivo di distruggere idoli e illusioni di quell’animale perennemente sgomento che è l’uomo. Ma sarebbe superficiale fermarsi a credere che quelle «fantasiose costruzioni» da abbattere riguardassero soltanto i prodotti «esterni» dell’umano agire 180. VIII,I: p. 116. Cfr. anche FW: V,II, p. 211.
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e pensare, di cui ho parlato fin qui: democrazia, capitalismo, socialismo, Stato, religione etc. Sì, perché il filosofo della volontà di potenza mirava a un obiettivo molto più radicale e definitivo: a dover essere distrutta era l’idea stessa di «umanità», come ammetteva anche Gilles Deleuze nel suo lavoro su Nietzsche del 1962181. Soprattutto nella misura in cui tale umanità viene concepita a guisa di un’essenza originaria che garantisce a ogni individuo alcune facoltà potenziali: quella di riconoscersi come un’identità definita, portatore di una coscienza certa (di sé e del mondo esterno), titolare di diritti umani universali e indiscutibili, depositario (o comunque cercatore trovante) di alcune verità con cui governare la propria esistenza e in generale quella del mondo esterno. Per Nietzsche l’uomo non è nulla di tutto ciò. Innanzitutto, l’uomo non è «uomo». ossia non è un’entità generica e astratta che si vuole connotare con questo nome, perché a esistere sono soltanto i singoli individui specifici, che per nulla possono essere ricompresi all’interno di una categoria che li accomuni tutti quanti. In virtù di ciò non ha senso neppure parlare di un’«umanità», parola di origine moralistica con cui ci si vuole illudere di far sentire abitanti di un orizzonte comune (l’umanità, appunto) dei soggetti che in realtà l’istinto vitale spinge a competere costantemente per il dominio del più forte sul più debole, nonché per la realizzazione della propria volontà di potenza e per l’affermazione del proprio egoismo. A riconoscere il «grande merito di Nietzsche» in questo superamento della visione moralistica dell’umanità fu il filosofo tedesco oswald Spengler, con parole che lasciano pochi margini di dubbio rispetto alle categorie effettive con cui dividere gli esseri umani: «I buoni sono i potenti, i ricchi, i felici [… Cattivi, vili, miserabili, infelici sono, nel senso originario di tale termi181. «All’interno della medesima polemica – scriveva il filosofo francese – Nietzsche ingloba cristianesimo, umanismo, egoismo, socialismo, nichilismo, teorie della storia e della cultura, nonché la stessa dialettica» (Deleuze 1962: p. 188).
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ne, gli impotenti, i poveri, i falliti, gli imbelli, i piccoli esseri, i figli di nessuno»182. È in questo contesto ideale che, riprendendo teorie già espresse da celebri autori liberali come Alexis de Tocqueville e John Stuart Mill183, Nietzsche si scagliava contro un modello di società (quella liberale e democratica) che a suo dire procedeva nel senso dell’omologazione e massificazione, eliminando le condizioni stesse per l’emersione dei pochi individui geniali. Così come sempre in questo senso va letta la sua repulsione per l’«esangue entità astratta “uomo», poiché del resto «i più non sono nessuna persona», non sono rubricabili sotto la categoria di uomo o individuo, dato che «si tratta di portatori, strumenti di trasmissione» alla maniera degli schiavi descritti da Aristotele184. Non esiste alcun «uomo» universale e titolare di diritti in quanto tale, al contrario di ciò che pensava un filosofo come Hegel185, a cui Nietzsche si è contrapposto con disprezzo e decisione lungo tutto lo sviluppo del proprio pensiero, né ha senso parlare di «umanità» per vincolare gli individui a un’etica del 182. Spengler 1918-1923: pp. 1155-6. Cfr. Sternhell 2006: pp. 518-21. 183. Il liberale francese lamentava il fatto che «viviamo in un tempo e in una società democratica in cui gli individui, anche i più grandi, sono ben cosa», per poi chiedersi retoricamente: «Perché quando la civilizzazione si estende, gli uomini eminenti diminuiscono? Perché quando le conoscenze diventano l’appannaggio di tutti, i grandi talenti intellettuali diventano più rari? Perché quando non ci sono più classi inferiori, non ci sono neppure classi superiori? Perché quando l’intelligenza del governo arriva alle masse, vengono a mancare i grandi geni alla direzione della società? L’America ci pone con forza questi problemi, ma chi potrà risolverli?». Dal canto suo, il liberale inglese denunciava che «oggi gli individui si perdono nella folla […]. Il solo potere che meriti di essere chiamato tale è quello delle masse, e dei governi finché si rendono espressione delle tendenze e degli istinti delle masse». Anche per Mill si trattava di un effetto provocato dall’avanzare della civilizzazione (e della democrazia), il fatto che il l’importanza e il potere delle masse prende il sopravvento su quello degli individui più intelligenti (Tocqueville 1951 sgg.: v. VIII,2, p. 369 e V,1, p. 188; Mill 1859: v. 18, p. 268 e 1836: v. 18, pp. 121 e 126). 184. KSA: M, XII, p. 492. 185. Secondo Hegel l’individuo andava appreso come «persona universale», poiché l’«uomo ha valore così, poiché è uomo, non perché è ebreo, cattolico, protestante, tedesco, italiano etc.» (Hegel 1821: § 209).
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bene e del rispetto reciproci che non trova alcuna conferma nella natura delle cose. Concetti astratti come quelli di «uomo» e «umanità» costituiscono, semmai, agli occhi di Nietzsche soltanto delle false rappresentazioni, con cui la grande massa dei deboli intende rimuovere la condizione di specificità e quindi di solitudine che investe ogni individuo, nonché il contesto di competizione e lotta reciproca a cui quei medesimi individui sono vincolati nello scenario conflittuale che chiamiamo vita. Così come non ha senso parlare di uomo e umanità, allo stesso modo secondo Nietzsche è insensato per ogni individuo connotarsi nei termini di un «Io» (o soggetto) certo e definito, per di più fornito di una coscienza di sé che gli apre le porte alla conoscenza del mondo. Attingendo ampiamente dal suo maestro Schopenhauer e prefigurando insieme a lui uno scenario concettuale che la psicoanalisi avrebbe fatto proprio di lì a breve, l’autore di zarathustra individuava nella psicologia del profondo il suo terreno principale di azione, e nell’«inconscio» quella categoria interpretativa che Freud avrebbe ripreso dichiaratamente da lui, connotandolo in termini di «regno dell’illogico»186. Sì, si trattava di riconoscere che ogni individuo è un fascio di pulsioni e istinti perlopiù inconsci che governano tanto i suoi pensieri quanto le sue azioni. È un’illusione bella e buona quella che si è affermata a partire da Cartesio, secondo cui ogni uomo è un «Io» stabile e con una coscienza piena di sé e delle proprie inclinazioni. Per non cadere nell’angoscia derivante dal prendere atto del «nulla» che lo pervade, come anche del luogo enigmatico da cui genera ogni sua inclinazione esistenziale, l’uomo si è costruito questa falsa «rappresentazione» di un «Io» che ha 186. Schopenhauer (1851: v. 2, p. 813) scriveva che «tutto ciò che nell’uomo è originario e perciò genuino agisce, come le forze della natura, in modo inconscio». In una lettera a Lothar Bickel del 6 giugno 1931 Freud ammetteva chiaramente di essersi adeguato all’«uso linguistico di Nietzsche» nel chiamare l’inconscio «es» (in Hessing 1977: p. 224). Quanto all’inconscio come «regno dell’illogico», si veda Freud 1938: v. 11, p. 599.
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piena coscienza di sé. Quando in realtà, secondo Nietzsche, «tutta la nostra cosiddetta coscienza è un più o meno fantastico commento di un testo inconscio, forse inconoscibile, e tuttavia sentito». Tutto questo in virtù del fatto che «la grande attività fondamentale è inconscia», anche se l’uomo non vuole arrendersi al dominio di questa «altra scena», consapevole che «ogni cedimento agli istinti, all’inconscio, porta a fondo». Si tratta di una lezione fatta propria nel secolo successivo (il ‘900) da Jacques Lacan, laddove descriveva lo psicoanalista come una figura non in grado di rispondere alla domanda di senso e spiegazione avanzata dal paziente, poiché «rispondervi equivale necessariamente a deluderla». Questo perché «ciò che viene domandato, è in ogni caso Altra-Cosa», in quanto ad essere altra è la scena da cui proviene la domanda (l’inconscio): una scena «oscena», nella sua estraneità rispetto all’illusoria dimensione consapevole dell’individuo (l’«Io»)187. Giustappunto per non annegare nelle acque oscure e profonde della realtà inconscia ed enigmatica che lo abita e governa, l’uomo si dipinge come soggetto fornito di un «Io» e una ragione strutturati e stabili, con cui poter raggiungere le «verità» della vita e assurgere alle luci della superficie. Si tratta di una sorta di trinomio indissolubile per la civiltà occidentale, quello che accorpa coscienza, conoscenza e verità. Ma per Nietzsche nessuna di queste tre categorie si rivela corrispondere alle convinzioni che gli uomini ripongono in esse. Come può, il vero, essere conoscibile dall’individuo – sosteneva Nietzsche – se la verità per sua stessa essenza «ama nascondersi» alla maniera della natura di cui parlava eraclito188, 187. M: VI,I, p. 89; V,II, p. 296; GD: VI,III, p. 67; Lacan 1967: p. 343. In un frammento degli ultimi tempi Nietzsche ribadiva che «”Soggetto” è la finzione derivante dall’immaginare che molti stati uguali in noi siano opera di un solo sostrato; ma siamo noi che abbiamo creato l’”uguaglianza” di questi stati; il dato di fatto è il nostro farli uguali e sistemarli, non l’uguaglianza (che anzi è da negare)» (VIII,II, p. 116). 188. Il filosofo antico scriveva che gli uomini sono incapaci di comprendere il logos che è sempre, e questo è probabilmente spiegabile con il fatto che «la natura ama nascondersi» (eraclito, Frammenti: B-1 e B-123).
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se indossa continuamente delle maschere, così che quella che chiamiamo «conoscenza» non è altro che la rappresentazione di una coscienza e un «Io» illusori?! Insomma: come può l’uomo conoscere la «verità» se quella stessa verità è causa (e non prodotto) dell’uomo medesimo?! Lo sapeva bene la sapienza dei presocratici, che non a caso – su questo insisteva molto Heidegger – per definire la verità utilizzava un termine (aletheia) che gliela faceva cogliere piuttosto come «disvelamento», cioè come una deviazione (clinamen), uno sporadico, spesso casuale e comunque mai definitivo squarcio di luce in quello che per il resto è il regno dell’oscurità189. L’uomo pensa, si illude di essere padrone delle proprie idee e azioni, ma è soltanto il tramite tra una forza oscura e inconscia che governa e stabilisce quelle medesime idee e azioni, e una realtà caotica di cui è piuttosto ingranaggio che non artefice. ogni uomo, per usare le parole di Nietzsche, «è soltanto uno strumento di fenomeni della volontà infinitamente più grandi di quanto egli possa considerare se stesso, nella figura del singolo individuo»: sembrava trovare conferma l’idea di una «natura matrigna» di cui parlava Leopardi, che nell’esclusivo rispetto di leggi soltanto sue, si rivela «essenzialmente, regolarmente e perpetuamente persecutrice di tutti gli individui, di ogni genere e specie, ch’ella dà in luce», cominciando a perseguitarli dal momento stesso in cui li fa venire al mondo190. Si tratta di un’acquisizione che la psicoanalisi avrebbe tematizzato tramite il concetto di «inconscio», affermando che di «oggettivo» vi sono soltanto le rappresentazioni illusorie con cui l’uomo appunto si illude di riconoscersi come soggetto effettivo di una realtà oggettiva e quindi conoscibile, padroneggiabile. La crisi dell’uomo, incapace di farsi una ragione dell’inevi189. «Se traduciamo alétheia, invece che con “verità”, con “svelatezza”, allora questa traduzione non è solo più letterale, ma contiene anche l’indicazione che induce a pensare e a ripensare il concetto abituale di verità, come conformità dell’asserzione, in quell’orizzonte non ancora capito della svelatezza e dello svelamento dell’ente» (Heidegger 1930-1943: p. 144). 190. CV, 3: III,II, p. 226; Leopardi 1817-1832: v. 2, p. 1175.
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tabile iato che separa la propria soggettività da un’oggettività del mondo non conoscibile né padroneggiabile, diventava anche la crisi della psicologia («scienza» soggettiva per antonomasia che aspira a un’impossibile oggettività) e quindi delle scienze nel loro complesso, come magistralmente documentato da edmund Husserl, sostenitore del fatto che «la soggettività non può essere conosciuta da alcuna scienza oggettiva»:
«Ben presto ci renderemo conto che alla problematica che è propria della psicologia, non soltanto ai giorni nostri ma da secoli, alla “crisi” che le è peculiare, occorre riconoscere un significato centrale; essa rivela le enigmatiche e a prima vista inestricabili oscurità delle scienze moderne, persino di quelle matematiche; essa rivela l’enigma del mondo di un genere che era completamente estraneo alle epoche passate. Tutti questi enigmi riconducono all’enigma della soggettività e sono quindi inseparabilmente connessi all’enigma della tematica e del metodo della psicologia»191.
Purtuttavia, in balia di un tale inconscio che ne governa istinti e pulsioni, quel Narciso disperato che è l’uomo deve costruirsi uno scenario di finzione, un palcoscenico senza pubblico su cui far recitare le sue «maschere» tranquillizzanti. Certo, perché in realtà questa è la vera tragedia abissale con cui deve fare i conti l’uomo: non esiste alcun «Io» a cui aggrapparsi, né una «Verità», un «Dio» o anche solo un’«umanità». A esistere sono soltanto le rappresentazioni che l’uomo si fa del suo Io, del suo Dio, delle sue verità nonché di quell’umanità di cui ha un terribile bisogno di sentirsi parte accettata, compresa, supportata. In quanto rappresentazioni, egli le modella a proprio piacimento e secondo i suoi bisogni, servendosi del proprio tratto paranoide per convincersi che non di sue rappresentazioni si tratta, bensì di fatti oggettivi e reali. Sul confine critico tra la realtà soggettiva e oscura dell’inconscio e quella ritenuta oggettiva della realtà, si incontrano filosofia e psicologia, con quest’ultima a svelare le illusioni oggettivistiche della prima, come argomentato con mirabile chiarezza da un lettore attento di Nietzsche quale era Jung: 191. Husserl 1934-1937: pp. 353 e 35.
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«Le idee che i filosofi giudicano a priori sono in realtà un che di secondario e derivato (Sekundäres und Abgeleitetes)», perché in realtà «ogni scienza è funzione della psiche, e ogni conoscenza ha nella psiche le sue radici […] Il tragico è che la psicologia non dispone di una matematica che sia sempre uguale a se stessa, ma soltanto di un calcolo di pregiudizi soggettivi. Le manca quindi l’enorme vantaggio di un punto archimedeo come quello su cui può contare la fisica […] Non mi stupisce affatto che la psicologia sfiori la filosofia, perché il pensiero che sta alla base della filosofia è un’attività psichica che, come tale, è oggetto della psicologia […] Poiché di contro a tutte le filosofie e a tutte le religioni stanno i fatti della psiche umana, la quale decide forse in ultima istanza su ciò che è verità e ciò che è errore»192.
Sulle rappresentazioni di verità credute e spacciate a guisa di verità incontrovertibili, l’uomo occidentale ha fondato la costruzione di un proprio mondo autentico che, in realtà, è illusione somma. Ciò, secondo Nietzsche, a partire da Platone passando per il tramite di Cartesio e arrivando fino ai suoi giorni. Per la precisione fino a lui, che da spregiudicato distruttore di idoli si è incaricato di mostrare a tutti quel teatrino di «maschere sinistre»193 in cui l’uomo solitamente vive e che ha bisogno di scambiare per la realtà. Quando è proprio quella 192. Jung 1947-1954: v. 8, pp. 180, 234 e 294-5. In un testo precedente, sempre lo psicoanalista svizzero aveva sottolineato lo statuto originario della psicologia, facendo balenare l’idea che essa sia veramente in grado di conseguire la verità, non certo la filosofia. Ciò in virtù del fatto che: «Dalla psiche procede assolutamente ogni esperienza umana, e a lei ritornano infine tutte le conoscenze acquisite. Anzi essa non è soltanto l’oggetto della sua scienza, ma ne è anche il soggetto. Questa situazione eccezionale tra tutte le scienze implica da un lato un dubbio costante sulla sua possibilità in generale, dall’altro assicura alla psicologia un privilegio e una problematica che appartiene ai compiti più ardui di una vera filosofia» (Jung 1936-1937: v. 8, p. 143). Dal canto suo, Freud biasimava pesantemente la filosofia che si riteneva depositaria di verità, paragonando i «sistemi dei nostri filosofi» alle «formazioni deliranti del paranoico», come anche scrivendo che «il delirio paranoico è la caricatura di un sistema filosofico». Del resto, è «tipica la propensione dei paranoici a elaborare sistemi di tipo speculativo» (Freud 1919: v. 9, p. 125; 1912-1913: v. 7, p. 79; 1914: v. 7, p. 406 sgg.). 193. Se: III,I, p. 372.
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realtà oggettiva a non esistere, come non esiste il «soggetto» che vorrebbe possederla conoscendola, perché infine non è data neppure alcuna «conoscenza» in quanto tale. In discussione non è soltanto la filosofia, ma la scienza in generale:
«“Ci sono solo fatti”, io direi no; proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni. “Tutto è soggettivo”, dite voi; ma già questa è un’interpretazione. Il “soggetto” non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l’immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo. Nella misura in cui la parola “conoscenza” ha senso, il mondo è conoscibile; ma esso è interpretabile in modi diversi, non ha dietro di sé un senso, ma innumerevoli sensi»194.
e d’altronde:
«Che cos’è il “conoscere”? Il riportare qualcosa di estraneo a qualcosa di noto, di familiare. Prima proposizione: ciò a cui siamo abituati non viene più da noi considerato un enigma, un problema. Smussamento del sentimento del nuovo e dello strano: tutto ciò che accade regolarmente non ci sembra più problematico. Perciò quello di “cercar la regola” è il primo istinto di chi conosce, mentre naturalmente per il fatto che sia trovata la regola niente ancora è “conosciuto”! – Di qui la superstizione dei fisici: dove possono perseverare, cioè dove la regolarità dei fenomeni consente di applicare formule abbreviate, credono che sia conosciuto. Sentono “sicurezza”, ma dietro questa sicurezza intellettuale sta l’acquietamento della paura: vogliono la regola, perché essa toglie al mondo il suo aspetto pauroso. La paura dell’incalcolabile come istinto segreto della scienza»195.
Non che Nietzsche sia stato l’unico, certamente non il primo, a proporre un simile scetticismo rispetto alle illusioni umane su una «regolarità» scambiata per conoscenza oggettiva. Già il filosofo scozzese David Hume, infatti, in pieno Settecento, partendo dal presupposto che l’«abitudine (custom)» è in realtà «la grande guida della vita umana» e che senza di essa saremmo «completamente ignoranti su ogni materia di fatto» (al di là di ciò che è immediatamente presente alla memoria e ai sensi), 194. VIII,I: pp. 299-300. 195. VIII,I: p. 177.
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spiegava che la sequenza di cause ed effetti che noi scopriamo nella natura è il frutto della nostra «esperienza» e non della nostra «ragione». Di conseguenza, tutti quei processi di causa ed effetto che noi diamo per scontati, considerandoli a guisa di conoscenze certe, non sono altro che inferenze della nostra mente che si è abituata ai processi di cui sopra (che il sole sorga ogni mattina, che il pane sfami, etc.), quindi anticipazioni di un qualcosa per noi destinato ad accadere soltanto in virtù del fatto che a determinate condizioni ci siamo abituati a vederlo accadere (il sole che sorge dopo ogni notte). Sennonché, l’abitudine a constatare la correlazione tra due fatti (o una relazione di causa ed effetto) non è sinonimo di conoscenza e quindi non garantisce necessariamente che quanto siamo stati abituati a constatare fino ad oggi si ripeta necessariamente anche domani: «L’abitudine può condurci verso una falsa comparazione di idee», concludeva il filosofo scozzese196. un secolo dopo Nietzsche, invece, seppure da una prospettiva per tanti versi antipodica, ad aver fatto tesoro del suo insegnamento in tal senso è stato nientemeno che l’epistemologo Karl Popper. Questi partiva dal presupposto che la scienza non è un sistema di asserzioni certe, o stabilite una volta per tutte, né un sistema che avanzi costantemente verso uno stadio definitivo. Da ciò ne inferiva che la nostra scienza non è conoscenza nel senso di «episteme», poiché essa non può aspirare al raggiungimento della verità né di quel pallido sostituto che è la probabilità: «Noi non sappiamo: noi possiamo soltanto tirare a indovinare (guess), scriveva il filosofo austriaco, e i nostri tentativi sono guidati dalla «fede» non scientifica, metafisica (per quanto biologicamente spiegabile) nelle leggi, nelle regolarità che possiamo svelare, scoprire. Consapevole che anche la scienza si fonda su una fede in leggi e regolarità tutt’altro che certe, Pop196. Hume 1748: v. 4, I,V e I,IV, pp. 54-5, 35 e 46; Id. 1740: v. 1, I,III,IX, pp. 157-158. Il filosofo scozzese conferiva una tale importanza al ruolo dell’abitudine (e della ripetizione) da ritenere che essa giocasse una parte fondamentale anche nell’accrescere o stemperare le nostre passioni, nel convertire il piacere in dolore e il dolore in piacere (Hume 1740: v. 2, II,III,V, p. 177).
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per invocava congetture e «anticipazioni» quanto mai immaginative e «ardite», perché poi sarà compito dello stesso metodo scientifico controllare rigorosamente quelle anticipazioni, senza che nessuna debba essere difesa dogmaticamente. Al contrario, si tratta di tentare di rovesciarle con tutte le armi logiche, matematiche e tecniche di cui la scienza dispone, cercando di «provare che le nostre anticipazioni erano false», per sostituirle con nuove anticipazioni altrettanto ardite e premature197. Ma non v’è dubbio sul fatto che Nietzsche è stato uno spartiacque, quindi, un investigatore di quell’abisso profondo in cui sfumano tutti i contorni di un’umanità che non è così definita come si vorrebbe. Solo, uno spartiacque tutt’altro che privo di elementi insidiosi, oltre che di contraddizioni all’interno del suo stesso pensiero. Sì, perché il filosofo che assestava un colpo inaudito all’intero impianto razionale, etico e umanistico della tradizione occidentale, era anche colui che su quel colpo fondava alcuni elementi pericolosi o perfino inaccettabili del suo pensiero. una volta distrutta l’umanità attraverso la polverizzazione degli elementi fondanti che la connotano (identità, coscienza, razionalità, conoscenza, compassione, etc.), infatti, Nietzsche promuoveva una contro-filosofia dai tratti fortemente disumani: una trasvalutazione di tutti i valori che procedeva come uno schiacciasassi verso l’affermazione dei più evidenti dis-valori. Insomma, dopo aver rivendicato più volte un pensiero capace di sfuggire alle etichette preconfezionate della morale falsa e ipocrita, così da innalzarsi verso una dimensione «al di là del bene e del male», con le sue teorie e i suoi propositi disumani verso tutto ciò che è più «debole», Nietzsche sembrava piuttosto piombare in uno scenario filosofico governato dal «male». 197. Popper 1959: pp. 278-9. Il filosofo austriaco riteneva che la scoperta di un errore costituisce un acquisto reale di sapere e un punto di partenza per il progresso: in questo atteggiamento vi è non solo l’essenza del «fallibilismo» (cfr. ruelland 1991: p. 101), ma anche una reazione al nichilismo epistemologico di Nietzsche senza però scadere in un nuovo dogmatismo scientista.
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A conferma di ciò, credo non sia casuale che il filosofo novecentesco Bataille, fortemente influenzato da Nietzsche su questi e altri temi, vedesse nella morte la possibilità per il soggetto di non dover abdicare alla sovranità su se stesso, di non cedere alla servitù in cui piomba inevitabilmente colui che vuole restare attaccato disperatamente alla vita, illudendosi sulla possibilità di una salvezza. In questo senso, il pensatore francese parlava di una morale impostata sul «Bene», intendendola come quella per mezzo della quale l’essere si assicura (o crede di assicurarsi) la sua «durata», mentre la morale impostata sul «Male» è quella attratta dalla «morte». Tale attrazione si spiega col fatto che la morte è l’unica dimensione capace di svelare la debolezza dell’essere, il suo voler «durare» a tutti i costi in una condizione, quella del «Bene», che alla fine coincide con l’utile e l’interesse materiale. Secondo Bataille, insomma, aderire alla morale del male si rivela come l’atto estremo di emancipazione da parte dell’individuo che non intenda farsi ingabbiare dalle maglie strette di una società ormai votata soltanto al profitto e alla considerazione dei beni materiali. Stare dalla parte del male, in questo senso, equivale a scegliere la libertà, poter aspirare a quell’«eroismo» e perfino a quella «santità» che derivano dal rifiuto del «Bene»198. Difficile stabilire quanto vi fosse effettivamente di Nietzsche in questa teoria di Bataille, anche se rispetto a tale argomento può tornare utile la passione del filosofo tedesco per Shakespeare, e in particolare per la figura di Amleto. È in questo personaggio tragico e controverso che Nietzsche vedeva il modello dell’«eroe» dionisiaco, ed è sempre a questo personaggio che Shakespeare aveva fatto pronunciare la frase celebre 198. Bataille 1957: v. IX, pp. 279 e 299. Molte pagine prima, il medesimo autore aveva scritto che per aderire a una tale concezione del «male» non occorre liberarsi della visione morale, quanto piuttosto aderire a una forma di «ipermorale (hypermorale)», intesa come una trasgressione rispetto al culto dell’avvenire. Si tratta, insomma, di riscoprire il valore dell’«istante, dell’immediatezza spogliata di ogni utopia teleologica (v. IX: p. 180).
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(«essere, o non essere, questo è il dilemma»), che forse perde molto della sua enigmaticità se interpretata alla luce di quanto appena visto. Ma soprattutto è ad Amleto che il grande drammaturgo inglese aveva affidato il ruolo più osceno e sanguinoso, come forma di reazione alla crudeltà dell’esistenza: «oh, da questo momento i miei pensieri siano di sangue, oppure non siano»199. Comunque stiano le cose, è indubbio il ruolo fondamentale che il filosofo tedesco ha ricoperto nel conferire dignità alla morale del male, o per meglio dire a quella visione che Maurice Blanchot ha chiamato «filosofia dell’interesse e dell’egoismo integrali»200. Nel fare ciò, Nietzsche utilizzava argomenti che lo collocavano di diritto all’interno di una tradizione che risaliva al Callicle di Platone, in cui si affermava che la giustizia coincide con l’utile del più forte; a Hobbes, il quale affermava che «il potere irresistibile giustifica tutte le azioni, in senso reale e in senso proprio»; e financo al «diabolico» Marchese de Sade. Quest’ultimo, nell’opera clandestina La philosphie dans le boudoir (1795), si spingeva a definire la regola d’oro dei cristiani («Non fare agli altri ciò non vorresti fosse fatto a te») come una massima adottata da «imbecilli» che venivano perseguitati quotidianamente a causa del loro «sistema imbecille». Perché in realtà la natura ci consiglia «di divertirci, non importa a spese di chi […] Soltanto il più forte avrà ragione. ebbene, ecco lo stato pri199. Shakespeare, Hamlet: IV,4, vv. 65-6. Per l’identificazione nietzscheana dell’eroe shakespeariano con quello dionisiaco, cfr. III,III,I, p. 286. 200. Blanchot 1949: p. 19. È significativo che questo autore francese del Novecento, fortemente influenzato da Nietzsche, interpretasse la filosofia dell’«egoismo integrale» di de Sade nei termini seguenti: «La natura ci fa nascere soli, senza che vi sia alcun tipo di rapporto fra uomo e uomo. L’unica regola di condotta, quindi, è che io preferisca tutto ciò che mi fa sentire felice, senza tenere conto delle conseguenze che tale scelta potrebbe provocare su qualcun altro. Il più grande dolore degli altri conta sempre meno del mio piacere. Che importa se devo acquistare il più piccolo godimento per mezzo di una collezione inaudita di azioni malvage, dal momento che il godimento mi lusinga, essendo dentro di me, mentre l’effetto del crimine non mi tange proprio, essendo fuori di me?» (ibidem).
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mitivo di guerra e distruzione perpetua per cui la sua mano ci ha creati»201. La riflessione di Nietzsche si inscrive in un contesto siffatto, ma spingendosi ben oltre la presa d’atto di una morale del male che inevitabilmente si affianca a quella del bene nello scenario umano. Il punto più alto e dirompente di tale presa d’atto era avvenuto con Sigmund Freud. Il padre della psicoanalisi, infatti – peraltro ispirandosi alle teorie cosmologiche del filosofo empedocle, secondo cui tutto il mondo è governato dalle forze opposte di «Amore» e «Contesa» – aveva teorizzato la presenza nell’uomo di una «pulsione di morte» accanto a quella erotica di vita. Il lato oscuro dell’essere umano, insomma, accuratamente rimosso dall’individuo e imbavagliato dalla società civilizzata, è pronto a venire fuori alla prima occasione, «rivelando nell’uomo una bestia selvaggia alla quale è estraneo il rispetto umano per la propria specie»:
«una parte di vero dietro tutto questo c’è, anche se sovente non viene riconosciuta, ed è che l’uomo non è una creatura mansueta, bisognosa d’amore, capace al massimo di difendersi quando è attaccata; è vero invece che tocca attribuire al suo corredo pulsionale anche una buona dose di aggressività. Ne segue che egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale soccorritore e oggetto sessuale, ma anche un oggetto su cui può magari anche sfogare la propria aggressività, sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, abusarne sessualmente senza il suo consenso, sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, umiliarlo,
201. Sade 1795: t. 3, pp. 421 e 449. Platone faceva dire a Callicle che è la legge naturale a imporre il dominio del più forte sul più debole, e a Trasimaco che «la giustizia non è altro che l’utile del più forte» (Gorgia: 483 b-d e Repubblica: 338 c – 339 a). Il filosofo inglese Thomas Hobbes, nelle sue opere filosofiche e politiche, sosteneva che ognuno di noi ha diritto per natura a tutte le cose di cui può impossessarsi, nonché a esercitare un dominio su tutti gli altri. Se si è cercato di porre dei limiti a un tale diritto originario, è stato soltanto per impedire la distruzione dell’umanità che sarebbe derivata da questa guerra di tutti contro tutti. Ma, per il resto, sosteneva chiaramente di non trovare alcuna differenza tra la «volontà (Will)» di fare una cosa e il permesso di farla, così come tra un’azione e l’eventuale «peccato» contenuto in quell’azione (Hobbes 1651: v. III, pp. 345-6; 1642: v. II, pp. 12-3 e 206-7; 1654: v. IV, p. 250).
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farlo soffrire, torturarlo e ucciderlo. Homo homini lupus: chi ha coraggio di contestare questa affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia?»202.
Parole scolpite in una pietra durissima, certo. Ma comunque inseribili all’interno di una logica descrittiva rispetto alla quale Nietzsche si era spinto ben oltre. Non solo e non tanto descrizione, la sua, ma un vero e proprio intento normativo, che rivolto ai pochi superuomini suonava approssimativamente così: «Non lasciare nascosto il male che è dentro di te. Ma consapevolizzalo, valorizzalo, mettilo in pratica contro chi è più debole!». In un’ottica di tal fatta, se questa esistenza è avvolta dal nulla, da esso generata fino al punto di trasudare sangue e malvagità in ogni suo battito, allora è soltanto accettando quel male e facendolo proprio che si può reagire eroicamente. È ciò che possiamo ritrovare nelle parole del Macbeth di Shakespeare («Le cose originate dal male, trovano la loro forza nel Male!»), oppure in quelle a noi più vicine di Maurice Blanchot, secondo il quale l’uomo vero è colui che sa di essere solo e lo accetta, così che proprio partendo da questa consapevolezza:
«egli nega tutto ciò che in lui risuona come un retaggio di diciassette secoli di viltà, non rapportandosi ad altri che a se stesso. Per esempio
202. Freud 1937: v. 11, p. 529 e 1929: v. 10, p. 599. L’antico filosofo empedocle riteneva che il mondo fosse governato da due divinità immortali, nemiche e alternatamente dominanti sul proscenio della vita. Queste divinità erano «Amicizia (philia)» e «Contesa (neikos»). Il governo della prima conduce le anime a unirsi in una sorta di unità divina, quello della seconda le spinge a dividersi. Questo governo alternato delle due divinità è dettato dalla «necessità (ananke)», ma la cosa interessante, nell’ambito del nostro discorso, è che la vita terrena è il frutto del dominio di «Contesa», «folle contesa (neikos mainomenos)» secondo le parole di empedocle. Questa, infatti, avendo separato le anime prima riunite nell’unità divina, ha di fatto generato i singoli individui, la cui esistenza origina e avviene sotto il segno del conflitto (empedocle, Frammenti: B115). In questo senso credo non fosse casuale il riferimento di Freud a empedocle, dovendo descrivere l’influenza della «pulsione di morte» nella vita umana.
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la pietà, la gratitudine, l’amore, sono tutti sentimenti che egli distrugge, e nel distruggerli egli recupera tutta quella forza che avrebbe dovuto dedicare a questi impulsi debilitanti. e anzi, cosa ancora più importante, proprio da questa opera di distruzione egli ricava l’inizio di una energia autentica»203.
Insomma, il demone della «pulsione di morte», che Freud aveva individuato come consustanziale a quella natura umana su cui grava il peso di un inconscio «amorale»204, assumeva in Nietzsche un volto ancora più inquietante, ma soprattutto pericoloso: la pulsione inconscia si trasformava con lui in «volontà» vera e propria (di potenza, di male, di morte), con tutta la vasta gamma di interpretazioni e applicazioni che una tale formula poteva suscitare. Suicidio, omicidio, eliminazione dei più deboli o di coloro considerati inadatti a vivere, ognuna di queste pratiche e molte altre trovavano piena legittimazione nelle idee di Nietzsche. Sì, ben oltre il voler portare alla luce il lato oscuro della natura umana, il filosofo tedesco intendeva piuttosto distruggere tutto ciò che può essere rubricato nella categoria insidiosa di «Bene» (a cominciare dalla stessa idea del bene), ma soprattutto affermare la piena legittimità e perfino l’opportunità di tutto ciò che si è soliti inserire nell’altrettanto insidiosa (e fumosa) categoria di «Male». Non si tratta soltanto della divisione netta che Nietzsche operava all’interno dell’umanità, di cui abbiamo già parlato e in virtù della quale il grande filosofo individuava una ristretta minoranza di «benriusciti» che si contrappone alla grande massa dei «malriusciti». Né del fatto che quei benriusciti devono spogliarsi di ogni elemento di compassione e liberare il proprio fisiologico diritto di esercitare dominio e prevaricazione su tutto ciò che risulta più debole, come abbiamo visto fino all’eliminazione fisica. 203. Shakespeare, Macbeth: III,2, v. 55; Blanchot (1949): p. 44. 204. Il padre della psicoanalisi scriveva chiaramente che «l’es è assolutamente amorale, l’Io si sforza di essere morale, il Super-io può diventare ipermorale, e quindi crudele quanto solo l’es può esserlo» (Freud 1922: v. 9, pp. 515-6).
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Quello a cui faccio riferimento specifico riguarda i molti passi in cui il filosofo utilizzava il termine «razza» per marcare una «distanza» ontologica fra ciò che è alto e ciò che sta in basso, fra ciò che è nobile e ciò che è plebeo, oppure fra ciò che nobilita la vita e ciò che rispetto ad essa si rivela «decadente». una distanza non priva di effetti ulteriori, considerato che Nietzsche si esprimeva in termini di «annientamento delle razze decadenti», ovvero di «annientamento dei malriusciti», obiettivi tanto irrinunciabili da richiedere l’indispensabile emancipazione dalla «morale odierna»205. A questo si aggiungano senza tema di smentita i toni fortemente misogini adottati dal filosofo in molteplici occasioni, anche questi abbondantemente presenti già nel suo maestro Schopenhauer (che definiva la donna il «sesso anti-estetico») nonché nei rarissimi pensatori che Nietzsche lesse con favore e da cui trasse ispirazione, a cominciare da Montaigne e Spinoza206. Desta una certa sorpresa il motivo misterioso per cui il filosofo tedesco 205. KSA: XI, pp. 69 e 75. 206. Schopenhauer riteneva le donne utili soltanto a curare ed educare gli uomini quando sono bambini, ciò in virtù del fatto che esse per primi sono puerili, miopi e sciocche: esse occupano una specie di gradino intermedio fra il bambino e l’uomo, che è il vero essere umano. Per il resto: «Il sesso femminile, di statura bassa, di spalle strette, di fianchi larghi e di gambe corte, poteva essere stato chiamato il bel sesso soltanto dall’intelletto maschile, obnubilato dall’istinto sessuale […] Con molta più ragione si potrebbe chiamare il sesso femminile il sesso non estetico. All’atto pratico, fra le tante cose, la testimonianza in tribunale della donna doveva valere meno di quella dell’uomo» (Schopenhauer 1851: v. 2, §§ 363-364, 369 e 131). Secondo Montaigne, che per altri versi si era espresso a difesa degli animali e delle etnie non bianche, l’animo femminile è debole e malleabile come quello del volgo, dei fanciulli e dei malati, quindi esposto al raggiro. In generale il carattere della donna è di una tale superficialità e imprevedibile mutevolezza da sconsigliare all’uomo perfino di allacciare con essa un rapporto di vera e profonda amicizia (Montaigne, Essais: v. 1, I,27, p. 130 e I,28, pp. 1389). Il caso di Spinoza è ancora più significativo: questi, infatti, nella sua opera incompiuta per sopraggiunta morte dell’autore, proprio nell’ultimissima pagina che era riuscito a comporre (apprestandosi a trattare del governo democratico), dichiarava l’illegittimità dell’escludere dal voto e dalle cariche di governo tutti i cittadini. Fatta eccezione per i bambini, gli schiavi e ovviamente le donne, in quanto per natura sotto la potestà degli uomini in virtù della loro debolezza d’«animo» e di «ingegno» (Spinoza 1677: XI, §§ 3 e 4, v. IV, pp. 359-360).
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ritenne di non considerare, su questo argomento, le opinioni fortemente difformi espresse dal pensatore americano ralph Waldo emerson, definito un «fratello d’anima» a cui per altri versi ispirarsi in maniera pressoché letterale. Sì, l’autore d’oltreoceano, in netto contrasto con quelle che poi sarebbero state le posizioni di Nietzsche, criticava la visione stereotipata e generica della donna che la raffigurava «soltanto al plurale»; affermava che ogni opinione o movimento degno di nota si rivelava rivoluzionario soltanto quando vi aderivano le donne; rimarcava con forza la piena uguaglianza intellettiva fra i sessi, scrivendo che «non c’è sesso nel pensiero, nella conoscenza, nella virtù»; rifiutava il luogo comune secondo cui le donne chiedevano autonomia per uniformarsi agli uomini, spingendosi fino al punto di affermare che quello fra uomo e donna era un «matrimonio di menti», la «vera unità sociale», tanto che i figli non dovevano prendere il cognome di uno o dell’altro genitore, ma «un nuovo nome comune a entrambi»». Tutto questo in nome della profonda convinzione per cui la donna rappresenta il «potere della civilizzazione», poiché ella è in grado di «modificare ed emendare i metodi rozzi e sconsiderati degli uomini» e questa sua virtù rappresenta «il principale sottopancia o bendaggio a protezione della società». Insomma, secondo emerson «l’uomo non può mai dire alla donna quali sono i suoi doveri», ma anzi dovrebbe prendere atto della propria «inferiorità» e, così facendo, dare vita a una nuova cavalleria in nome dei «diritti della donna»207. Nietzsche esprimeva posizioni diametralmente opposte, tanto da arrivare a rappresentare l’apice della maledizione e del dileggio contro le donne: non soltanto esse e il femminile in genere costituivano l’epitome della tanto esecrata «debolezza»; non soltanto si poteva evincere niente meno che «la decadenza del mondo moderno» dal «femminismo profondamente radicato»208 in esso, ma rappresentava una missione fondamentale del207. emerson 1960-1982: v. 12, p. 568; v. 3, p. 192; v. 9, p. 195; v. 12, p. 357; v. 10, p. 83; v. 8, p. 381; Id. 1844²: v. 12, p. 406; Id. 1844: p. 398. Cfr. Myerson 2000: pp. 211-251. 208. KSA: GM, III, § 19.
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le donne quella di indebolire anche tutto ciò che è forte, a cominciare dagli uomini stessi, che cadono vittime del loro fascino mellifluo e inebriante. Ciò, peraltro, senza escludere il nostro stesso filosofo, che lungo tutta la propria vita si era distinto per una perfino comica incapacità anche solo di dialogare col sesso femminile. La tal cosa non gli aveva impedito di chiedere la mano di quasi tutte le donne con cui era entrato in contatto (richiesta puntualmente rifiutata). Già, il «matrimonio», uno degli argomenti in grado di spingere Nietzsche, autore ferocemente anticristiano, all’accordo con uno degli ideologi sommi del cristianesimo come Sant’Agostino. Sì, partendo dal presupposto che «ogni rapporto che non eleva abbassa, e viceversa», il filosofo tedesco ne traeva la conclusione per cui «gli uomini scendono alquanto, quando prendono moglie, mentre le donne vengono alquanto innalzate. Questo perché la donna, con la sua «naturale inclinazione» a un’esistenza e a dei rapporti condotti con spirito gregario e impulso a servire, lavora «involontariamente contro l’intimo impulso eroico dello spirito libero», ovviamente rappresentato dal maschio che, in questo modo, risulta danneggiato dalla sola vicinanza con un essere così debole. Si tratta di un argomento perfettamente rintracciabile in Sant’Agostino, sereno e netto nello scrivere che nulla è più da evitare del prender moglie, poiché non c’è cosa in grado di far regredire un «animo virile» come le lusinghe di una donna209. Ma il sorprendente consenso tra Nietzsche e i pensatori cristiani non finiva qui. Tale era l’empito misogino del filosofo, infatti, da spingerlo ad appoggiare perfino quel San Paolo di Tarso trattato come acerrimo nemico lungo tutta la sua opera. eppure quando l’ideologo del cristianesimo proclamava: «Taceat mulier in Ecclesia (Non si dia parola alla donna in Chiesa)», frase con cui si sottolineava l’inadeguatezza della donna a recitar messa, il filosofo tedesco sottoscriveva e prendeva lo spunto per sostenere che la donna deve tacere anche «in 209. MA: IV,III, §§ 394 e 431-432; Agostino Santo 386-387: I, 10, 17.
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politicis» (quindi nella realtà politico-sociale) nonché sulla sua stessa condizione («de muliere»). In quest’ultimo caso è chiaro il riferimento al movimento di emancipazione femminile che si sviluppava in quegli anni, attirandosi gli strali dell’autore di Zarathustra: sì, Nietzsche lamentava il fatto che nel suo tempo «ovunque lo spirito dell’industria ha debellato lo spirito militare e aristocratico», così che «oggi la donna aspira all’autonomia economica e giuridica di un commesso». Ci troviamo di fronte a uno degli aspetti più deleteri introdotti da quell’empito democratico e rivoluzionario che in nome del rifiuto della natura e della naturale gerarchia instillava nelle diverse categorie sociali lo spirito del risentimento e della vendetta:
«”emancipazione della donna” – questo è l’odio istintivo della donna malriuscita, cioè di quella che non può procreare, per la donna benriuscita […] In fondo le donne emancipate sono le anarchiche nel regno dell’“eterno Femminino”, le disgraziate, il loro istinto più profondo è la vendetta»210.
Lo stesso filosofo, peraltro, non si asteneva in altri luoghi della sua opera dal denunciare la vera e propria alleanza fra la donna e il cristianesimo, in nome di una sorta di rivolta comune da parte di coloro (donne e preti) fisiologicamente chiamati a rappresentare la disastrosa rivolta di tutto ciò che è debole nei confronti di ciò che è forte e virile211. Insomma c’era poco, o meglio, nulla da fare: l’inferiorità della donna rappresentava un dato biologico che la qualificava quale creatura irrimediabilmente malriuscita, una specie di «maschio menomato» (per citare la definizione di Aristotele 210. KSA: JGB, § 239 e eH: Perché scrivo libri così buoni, § 5. 211. In buona sintesi, la donna rappresentava per Nietzsche la metà dell’umanità «debole, tipicamente malata, variabile e incostante: la donna ha bisogno della forza per aggrapparvisi, per inventare una religione della debolezza che veneri come cosa divina l’essere deboli, l’amare, l’essere umili; o meglio, la donna rende deboli i forti, regna quando riesce a soggiogare i forti. La donna ha sempre cospirato con i tipi della décadence, con i preti, contro i “potenti”, i “forti”, gli uomini» (WzM: § 864).
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ripresa alla lettera da San Tommaso d’Aquino212) a cui andava rigorosamente vietata perfino «l’istruzione liceale», poiché la sua natura e ragione è irrimediabilmente compromessa nella stragrande maggioranza dei soggetti femminili, tanto da renderla sideralmente distante dalla capacità scientifica, dall’inclinazione verso la verità e dalla serietà di cui è portatore il maschio: «Che per nulla al mondo si estenda anche alle ragazze la nostra istruzione liceale»213, scriveva Nietzsche nell’epoca in cui, come abbiamo visto, faceva la sua comparsa nello scenario germanico ed europeo la scuola pubblica. Qui emerge un altro aspetto curioso: sì, allo stesso modo in cui la dannazione della donna aveva condotto Nietzsche a un sorprendente accordo con due autori cristiani come San Paolo di Tarso e Sant’Agostino, ora troviamo il filosofo tedesco ripercorrere le orme degli odiati rousseau e Kant nella mortificazione della donna che osi anche soltanto avvicinarsi alla cultura. Per il filosofo ginevrino una donna «colta» era il flagello del marito, dei figli, degli amici, dei domestici e di tutti quanti, senza contare che il prezzo della sua elevazione culturale consisteva nel disdegnare i suoi «doveri di donna». Ciò, senza contare che «quand’anche possedesse dei talenti effettivi, le sue pretese li svilirebbero. La sua dignità consiste nell’essere ignorata, la sua gloria risiede nella stima del proprio marito, i suoi piaceri albergano nella felicità della famiglia». Non da meno la requisitoria di Kant, i cui toni si facevano perfino dileggianti laddove constatava che le donne «adoperano i libri pressappoco come l’orologio, che portano per far vedere che ne hanno uno, sebbene esso sia fermo o non vada col sole»214. D’altro canto, per tornare alle parole di Nietzsche, «che cosa è più raro di una donna che sappia veramente cos’è la scienza? Le migliori nutrono un segreto disprezzo nei suoi riguardi», e conseguentemente «un pericolo non piccolo sorge 212. Aristotele, Generazione degli animali: II,3, 737a; Tommaso d’Aquino 1259-1273: I, q 92, art. I. 213. MA: IV,III, § 409. 214. rousseau 1762³: v. II, p. 670; Kant 1798: p. 203.
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quando vengono affidate loro la politica e certi settori della scienza (per esempio la Storia). Stiamo parlando, secondo Nietzsche, di una creatura fisiologicamente aliena alla verità: «Che importa la verità alla donna? Nulla, da che mondo è mondo, è più estraneo, ripugnante, ostile alla donna». Sempre di un dato biologico, di un «contrasto di natura» immodificabile, si parla quando si considera che la donna è vincolata alla «docilità» in confronto all’uomo che è titolare di «volontà»:
«La passione della donna, nella sua assoluta rinunzia ai propri diritti, ha proprio come presupposto che dall’altra parte non sussiste un tale pathos, una tale volontà di rinuncia […]; la donna vuole essere presa, acquisita come un possesso, vuole risolversi nel concetto di “possesso”, di “posseduta”; di conseguenza vuole colui che la prende, senza darsi e donarsi lui stesso, viceversa si faccia in “sé” precisamente più ricco – attraverso un incremento di forza, di felicità, di fede, quale gli dà la donna donando se stessa»215.
Con questi argomenti arriviamo fino a quello che pare a tutti gli effetti il colpo di grazia inferto da Nietzsche contro la donna: priva di razionalità e «stupida» perfino in «cucina», ella non può essere considerata propriamente neppure un «essere pensante», tanto è vero che nella storia si è rivelata il primo alleato del proprio carnefice (il maschio), nella misura in cui «è stata soprattutto proprio la donna a disistimare la “donna”»216. Ma sarebbe un errore pensare che il filosofo tedesco si limitasse soltanto a disvelare lo scenario umano pullulante di
215. KSA: FW, §§ 68 e 363. Cos’altro aspettarsi, del resto, da una creatura la cui indole è legata alla superficialità e all’istinto vanesio: basta guardarla «davanti alla vetrina di un negozio di moda», «la sua grande arte è la menzogna, la massima delle sue faccende è l’apparenza e la bellezza» (KSA: IX, p. 442 e JGB: § 232). 216. KSA: JGB, § 234 e 232. Per amore di precisione intendo specificare che Nietzsche contemplava anche l’esistenza di seppur rare «donne dall’anima nobile, eroica, regale, prontamente capaci di risposte, decisioni e sacrifici grandiosi, prontamente capaci di dominare gli uomini», salvo però affrettarsi a precisare che in esse «il meglio della mascolinità è divenuto, al di là del sesso, un ideale vivo e vero» (KSA: FW, § 70).
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«milioni di malriusciti», fra cui spiccano le donne in quanto tali, creando scandalo e soprattutto decostruendo secoli di una morale impostata sulla retorica dei buoni sentimenti, dell’uguaglianza, della dignità umana e del rispetto della persona. Nietzsche, infatti, profetizzava e invocava la «guerra» non soltanto con toni enfatici e inquietanti, ma attribuiva alla stessa dei poteri e in generale una funzione che col senno di poi non possono non richiamare alla mente Hitler e la sua ossessione sanguinaria per la costruzione di un impero mondiale217. una «grande guerra» che si sarebbe avverata di lì a pochi decenni (1914) e che, guarda caso, un ammiratore di Nietzsche come Heidegger avrebbe entusiasticamente celebrato, con toni e contenuti strettamente nietzscheani, come quella «voce terribile» che ha rivelato la «morte del Dio morale» e, con esso, di quei surrogati che sono la democrazia, il «pacifismo», il socialismo e la «felicità universale», ovvero la «felicità dei più»218. Insomma, è sulla scia di Nietzsche che Heidegger interpretava la Prima guerra mondiale come una sorta di purificatrice della modernità imborghesita e infiacchita, sostanzialmente appresso all’ideale della sicurezza e del benessere garantito alla grande massa. Del resto, come altro leggere quei passi di Umano, troppo umano in cui Nietzsche, parlando dell’europa del suo tempo, constatava che: «una tale umanità supercolta e quindi necessariamente fiacca, come quella degli europei di oggi, ha bisogno non solo di guerra, ma addirittura delle guerre più grandi e più terribili – ossia di temporanee cadute nella barbarie – per non perdere, nei mezzi della civiltà, la sua civiltà e la sua stessa esistenza».
217. Nell’epilogo del suo Mein Kampf Hitler, parlando a proposito del III reich che egli prefigurava di fondare e guidare, scriveva in maniera inequivocabile che «uno Stato che, nell’epoca dell’avvelenamento delle razze, si prende cura dei migliori elementi della propria stirpe, deve diventare un giorno signore della Terra» (Hitler 1925-1926: p. 526). 218. Heidegger 1937: v. 44, pp. 188 e 200; Id. 1936-1937: v. 43, p. 191; Id. 1940: v. 48, pp. 56, 168, 13 e 15.
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La guerra è invocata per conferire:
«a popoli che vanno infiacchendosi quella rude energia del campo di battaglia, quel profondo odio impersonale, quel sangue freddo omicida con buona coscienza, quell’ardore generale nella distruzione organizzata del nemico, quella superba indifferenza verso le grandi perdite, verso l’esistenza propria e quella delle persone care e quel cupo, sotterraneo scotimento dell’anima»219.
Come ho detto, i toni sono inquietanti, specie se si riflette con attenzione sulla precisione con cui da lì a pochi decenni si sarebbe realizzato nei dettagli quanto il filosofo della volontà di potenza andava evocando. Né ci si può accontentare di interpretare tali affermazioni in senso metaforico, se non altro perché, come scriveva lo stesso teorico della volontà di potenza nella seconda parte di Umano, troppo umano, «chi “spiega” il passo di un autore “più profondamente” di quanto esso non fosse inteso, non ha chiarito, bensì oscurato l’autore»220. Proprio facendo tesoro della sua stessa lezione, allora, richiamo alla mente quando Nietzsche scriveva che «per non morire di debolezza, bisogna diventare barbari»221. Si potrebbe evitare di prenderlo alla lettera, per spingersi piuttosto a considerare la carica simbolica e perfino culturale di un tale pronunciamento. Sennonché, ci pensava ancora una volta il filosofo stesso a precisare che non solo e non tanto di «guerra dotta» si trattava: «ora possono succedersi un paio di secoli bellicosi di cui non esiste l’uguale nella storia, insomma il nostro avvenuto ingresso nell’età classica della guerra, della guerra dotta e al tempo stesso popolare sulla più larga scala (di mezzi, di attitudini, di disciplina), verso la
219. KSA: MA, § 477. 220. KSA: WS, § 17. 221. KSA: XIV, p. 148. Nietzsche sosteneva il fatto che «l’istinto di ogni società civilizzata» tende alla sicurezza, al comfort, alla pace, all’«addomesticamento della bestia» umana, insomma all’affermazione di uno scenario in cui risultano impossibili o superflui quei «grandi uomini» che invece dovrebbero costituire l’obiettivo primario di ogni autentica «cultura» (KSA: XIII, pp. 485-6).
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quale tutti i secoli venturi si volgeranno a guardare invidiosi e veneranti quasi fosse un frammento di perfezione»222.
D’altro canto, mi sembra opportuno precisare che quelle di Nietzsche sulla «guerra» come elemento «rigenerante» di una modernità borghese e rammollita, erano considerazioni di cui di lì a breve avrebbero fatto tesoro sia pensatori fortemente implicati con il fascismo e il nazismo, come Giovanni Gentile e Martin Heidegger, sia uno studioso da questo punto di vista insospettabile come Sigmund Freud, a dimostrazione del fatto che comunque, e a prescindere dalle reali intenzioni, le riflessioni di un grande filosofo (quale Nietzsche è stato) possono al tempo stesso rispecchiare lo spirito di un’epoca, ma anche fornire un contributo fondamentale a plasmarlo, quello spirito223. 222. KSA: FW, § 362. Non a caso, scrive una studiosa dei nostri giorni, «fu proprio il suo elogio della guerra a rendere così interessante Nietzsche agli occhi di Hitler» (Sherratt 2013: p. 49). 223. Il filosofo italiano Giovanni Gentile, in occasione di una conferenza su «La filosofia della guerra», nell’autunno del 1914 celebrava lo scoppio della Prima guerra mondiale inneggiando alla ritrovata comunità, alla «sanguigna catena» che lega in una ritrovata unità tutti i cittadini, definendo la guerra un «atto assoluto»: «Attraverso il dolore l’anima umana si purifica e ascende ai suoi destini», potendo cogliere l’autentica «realtà spirituale [la quale] non è acqua stagnante, ma fiamma ardente» (Gentile 1914: pp. 7 e 13). Dal canto suo Heidegger, nel corso di lezioni del 1934-35, esaltava il «cameratismo dei soldati al fronte», sostenendo che esso trova il suo fondamento nel fatto che «la vicinanza della morte in quanto sacrificio collocava ognuno nella medesima nullità, in modo che questa diveniva la fonte dell’incondizionata appartenenza reciproca (unbedingtes Zueinandergehören)». Di conseguenza, «proprio la morte e la disponibilità al sacrificio creano innanzitutto lo spazio della comunità dal quale scaturisce il cameratismo» (Heidegger 1934-1935: v. 39, pp. 72 sgg.). Da questo clima di «superomistica» esaltazione della guerra, della comunità e della vita autentica non si discostava neppure Sigmund Freud, anche lui autore di queste considerazioni messe nero su bianco nell’immediatezza dell’esplosione della Prima guerra mondiale: «C’è in noi l’evidente tendenza a scartare la morte, a eliminarla dalla vita. Abbiamo cercato di metterne a tacere il pensiero […] La vita si impoverisce, perde d’interesse se non è lecito rischiare quella che, nel suo gioco, è la massima posta, e cioè la vita stessa […] La tendenza a escludere la morte dal libro mastro della vita ci ha così imposto molte altre rinunce ed esclusioni. Pure, il motto anseatico diceva: Navigare necesse est, vivere non necesse! Navi-
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Ma gli elementi inquietanti non finiscono qui. Soprattutto negli ultimi anni della sua vita, infatti, Nietzsche mostrava qualcosa di più di un interesse per quella scienza che, nata in Inghilterra ad opera di un cugino di Darwin (Francis Galton), passava sotto il nome di «eugenetica» e avrebbe poi giocato un ruolo centrale e tragico all’interno del nazifascismo. Sì, non soltanto una delle prime leggi promulgate dai nazisti (il 14 luglio del 1933, sei giorni prima che il Vaticano stipulasse il Concordato con Hitler…) si chiamava «La prevenzione di figli con disturbi ereditari», ma sono noti i programmi segreti e le sperimentazioni estreme che il regime favoriva negli ospedali e in altri istituti di ricovero. esperimenti condotti su malati, depressi e disabili (oltre che su ebrei, zingari e omosessuali), in aggiunta a vasti programmi di sterilizzazione attuati con l’idea di purificare la razza: non poche sono state le famiglie del reich a ricevere una lettera inaspettata dagli istituti dove erano ricoverati i loro famigliari, in cui si annunciava la «morte improvvisa» del proprio congiunto224. ebbene, nella sua corrispondenza privata Nietzsche dimostrava di aver letto bene Galton, riconoscendogli il merito di aver chiarito, oltre che la figura del «genio ereditario», anche quella del «delinquente ereditario», facendo luce sulla «storia delle famiglie di delinquenti». Ma soprattutto il nostro filosofo poteva aver letto quelle pagine in cui lo stesso fondatore dell’eugenetica esprimeva un concetto a lui estremamente caro: quello gare è necessario, vivere non è indispensabile! […] È chiaro che la guerra doveva spazzar via questo modo convenzionale di considerare la morte. La morte non può più essere negata; siamo costretti a crederci. Gli uomini muoiono veramente; e non più uno alla volta, ma in gran numero, spesso a decine di migliaia al giorno […] e la vita è nuovamente divenuta interessante, e ha ritrovato tutto il suo contenuto». Sì, essa elimina la patina di ipocrisia creata dalla civilizzazione, favorendo il ritorno di una dimensione autentica dell’umanità: «essa elimina le successive sedimentazioni depositate in noi dalla civiltà e lascia riapparire l’uomo primitivo […] Il problema che allora si impone è questo: non faremmo meglio a cedere, ad adattarci alla guerra […] Non sarebbe preferibile restituire alla morte, nella realtà e nel nostro pensiero, il posto che le compete?» (Freud 1915: v. 8, pp. 137-9 e 147 sgg.). 224. Dumbach – Newborn 1986-2006: pp. 65-6; Sherratt 2013: p. 218.
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per cui le considerazioni «morali» devono essere lasciate quanto più possibile fuori da questa scienza impegnata a migliorare in ogni modo le qualità innate di una «razza»225. È proprio mettendo da parte ogni forma di omaggio alla morale che Nietzsche sottolineava l’importanza dell’aristocrazia, che «come fondamento e condizione ha bisogno della schiavitù, qualunque sia la sua forma e qualunque sia il suo nome». orbene, proprio a tal proposito egli prefigurava «un allevamento sistematico, artificiale e consapevole», sia della casta o razza dei signori sia della casta o razza dei servi, poiché soltanto in questo modo sarà possibile disinnescare la «rivolta degli schiavi» nonché la «complessiva cospirazione del gregge»226. A questo si aggiunga l’inconveniente già messo in evidenza da Darwin e Malthus e ripreso da Nietzsche, quello per cui gli uomini di natura inferiore «hanno il vantaggio di una compromettente fecondità». In conseguenza di tale fatto, proponendosi di sventare la possibilità che il delinquente contribuisca a formare una «razza di delinquenti», il filosofo tedesco sosteneva che non bisogna esitare a «castrarlo», misura che del resto andava presa anche per «i malati cronici e nevrastenici di terzo grado» nonché per i sifilitici, perché occorre impedire la procreazione «in tutti i casi in cui un figlio sarebbe un delitto»227. I «buoni» propositi di Nietzsche trovavano un fiero avver225. KGB: III,5, p. 508; Galton 1904: p. 35. Per lo «sviluppo parallelo» di igiene razziale ed eugenetica in Germania, contemporaneamente alla diffusione in Gran Bretagna e Stati uniti, nonché per l’importanza conferita da Hitler e dal regime nazista a questa scienza che si prefiggeva di generare figli di qualità, cfr. Cornwell 2003: pp. 85 sgg. 226. KSA: XII, pp. 71-4. 227. KSA: XII, p. 479 e XIII, pp. 401-2. Charles Darwin aveva già notato che «gli indisciplinati, degradati e spesso viziosi elementi della società tendono a riprodursi a un tasso più veloce rispetto ai membri più previdenti e in generale virtuosi». Questo dato, secondo il grande biologo, veniva aggravato dalla consuetudine delle società civilizzate che, a differenza di quanto avveniva nei selvaggi, facevano del loro meglio per «controllare il processo di eliminazione» dei soggetti peggiori, costruendo asili per pazzi, storpi e malati, promulgando «leggi per i poveri» e spingendo la medicina a salvare la vita di chiunque anche all’ultimo minuto (Darwin 1871: v. 1, pp. 167 e 161-2).
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sario nel cristianesimo, la religione ufficiale dell’occidente che anche in questo caso finiva per svolgere una funzione secondo lui degenerante: «Invece di incoraggiarli alla morte e all’autodistruzione, sostiene tutti i falliti e i malati, inducendoli a riprodursi»: ma c’era di che sperare, per il filosofo, poiché seppur bloccate dalla morale e dalla religione cristiana, si profilavano all’orizzonte «grandi crisi di selezione e purificazione». Sì, il teorico del «nichilismo radicale» riteneva che questo principio distruttore, chiudendo ogni rapporto con la morale tradizionale, potesse agire «come un martello con cui distruggere le razze in via di estinzione e morenti, con cui toglierle di mezzo per aprire la via a un nuovo ordine vitale»228. Su questo argomento la filosofia di Nietzsche era una sorta di crescendo rossiniano, una costruzione argomentativa che conduceva in maniera inesorabile verso un esito «immoralista» (a definirsi così, del resto, era lo stesso filosofo della volontà di potenza: «io sono il primo immoralista»229). Insomma, emergeva una caratteristica fondante del suo pensiero: quella per cui alla critica della visione morale del mondo, egli ne contrapponeva una appunto immoralistica, che seguita alla lettera era destinata ad aprire all’umanità non certo le porte dell’emancipazione, come pure alcuni hanno teorizzato230, quanto piuttosto quelle della barbarie. Già in Zarathustra Nietzsche invitava a non lasciarsi ingabbiare dalle antiche e desuete tavole della legge e della morale cristiana («”Non rubare! Non uccidere!” – queste parole un tempo si proclamavano sante […] Nella vita stessa, in ogni vita, non vi sono rapina e omicidio? e col procla228. KSA: XIII, p. 222 e XI, p. 547. Lo stesso Nietzsche prendeva a pretesto questi argomenti per istituire una sorta di contrapposizione tra cristianesimo e darwinismo ante litteram: «Nel concetto dell’uomo buono si è preso partito per tutto ciò che è debole, malato, malriuscito, sofferente di per se stesso, di tutto ciò che deve perire (zu Grunde gehen soll) –, si è invertita la legge della selezione» (KSA: eH, Perché io sono un destino, § 8). 229. KSA: eH, Le considerazioni inattuali, § 2. 230 Per esempio Vattimo (1974): pp. 283 sgg., ma anche Heidegger, secondo cui il superuomo rappresentava al tempo stesso la realizzazione e la determinazione dell’essenza umana (cit. in Deleuze 1962: p. 194).
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mare sante queste parole, non si uccise forse la verità stessa?»), ma il tutto era destinato a tornare in forma assai radicalizzata e con ossessiva insistenza negli appunti degli ultimi mesi di esistenza cosciente, in cui il filosofo tedesco si lasciava andare a una sorta di delirio immoralista:
«La legge suprema della vita, formulata da zarathustra per primo, vuole che si sia senza compassione per ogni rifiuto e scarto della vita, che si distrugga ciò che per la vita ascendente non sarebbe che ostacolo, veleno, cospirazione, sotterranea ostilità, in una parola cristianesimo…È immorale, è contronatura nel senso più profondo dire «non uccidere». Il divieto biblico «non uccidere» è un’ingenuità in paragone al mio divieto ai decadenti di «non generare» – è qualcosa di ancora peggiore…Nei confronti dello scarto e del rifiuto della vita c’è solo un dovere, distruggere; essere qui compassionevoli, volere qui conservare a tutti i costi, sarebbe la forma suprema dell’immoralità, la vera e propria contronatura, l’inimicizia mortale contro la vita stessa»231.
una passione tale, quella per l’eugenetica e le leggi dell’allevamento, da costituire uno dei rari casi in cui il filosofo tedesco si sarebbe trovato d’accordo col suo acerrimo nemico Platone. Quest’ultimo, infatti, nella sua opera più celebre avanzava delle raccomandazioni eugenetiche affinché si mantenesse «pura la razza dei guardiani», la polis, la «mandria» umana in genere e non ci si ostinasse a rendere «lunga e miserabile ad un tempo» la vita dei «corpi di continuo internamente infermi», con ciò confermando quella visione di una Grecia antica tutta votata alla produzione di magnifici esemplari di animali umani, che proprio per tale motivo veniva tanto enfaticamente esaltata anche da Francis Galton232. 231. KSA: zA, III, Di tavole antiche e nuove, § 10; XIII, pp. 611-12. In altri luoghi il filosofo si abbandonava ad affermazioni non meno drastiche: «Ai malriusciti non riconosco neppure il diritto all’esistenza», «I deboli e i malriusciti devono perire […] e a tale scopo si deve essere loro anche d’aiuto» (KSA: XI, p. 102 e AC: § 2). 232. Platone, Repubblica: 459e, 460c, 407d-e. Galton (1869: pp. 340-1) celebrava con toni entusiastici la Grecia classica che «grazie ad un sistema di selezione in parte inconsapevole, costruisce una magnifica stirpe di animali umani».
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Abbiamo già visto Nietzsche correggere in senso «rafforzativo» la visione darwiniana, affermando che non di semplice «lotta per la sopravvivenza» si tratta nella selezione naturale delle specie, bensì di «volontà di potenza» vera e propria e di dominio che il più forte esercita (e deve esercitare) fisiologicamente sul più debole. Darwin scriveva che «tutti gli esseri viventi sono esposti a una accanita concorrenza» e che «nulla è più facile che ammettere a parole la verità della competizione universale per la vita», ma confessava anche il suo cruccio nel dover constatare una legge naturale di questa portata, senza peraltro abbandonare mai la visione ottimistica di una selezione naturale che comunque «può agire soltanto per mezzo e in vista del bene di ciascun essere»233. Inoltre, e qui emerge un’ulteriore e sostanziale differenza rispetto a Nietzsche, il biologo britannico aveva un’alta considerazione della virtù morale, arrivando a dire che uno degli aspetti della selezione naturale è dato proprio dall’alto grado di moralità presente nei componenti di una comunità: sì, una comunità in cui vi sia il più alto numero di individui moralmente elevati, forniti di spirito di patriottismo, fedeltà, obbedienza, coraggio, ma anche simpatia e disponibilità ad aiutarsi l’uno con l’altro nonché a sacrificarsi per il bene comune, sarà una comunità in grado di prevalere sulle altre234. Niente di più lontano da Nietzsche, per il quale il dominio del più debole sul più forte è una sorta di legge cosmica, priva di alcun obiettivo finalistico ispirato all’ottimismo. Ma soprattutto, secondo l’autore dello Zarathustra non deve sussistere alcuna visione morale che contempli la simpatia o l’aiuto reciproco fra esseri che sono chiamati soltanto a combattersi in vista del prevalere del benriuscito sul malriuscito. Insomma, quella che in Darwin appariva più che altro come una legge naturale in cui l’uomo si trovava inserito potendo fare poco o nulla per modificarla, in Nietzsche assumeva anche i contorni di un progetto concreto da portare avanti con consapevolezza e sistematicità. In questo senso le parole del filosofo tedesco, specie nella 233. Darwin 1859: p. 50 e 66. 234. Darwin 1871: v. 1, pp. 159-160.
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fase finale della sua vita cosciente, non lasciano spazio a molti dubbi: «Chi dev’essere il signore della terra? Questo è il motivo ricorrente della mia filosofia pratica», e a tal proposito «nessuno studio mi sembra più essenziale di quello delle leggi dell’allevamento», in cui si indagano e combattono non solo i «modi di vivere», ma anche le «unioni controproducenti». Per Nietzsche si trattava di:
«Conseguire quella enorme energia della grandezza allo scopo di formare l’uomo futuro, da un lato mediante il suo allevamento, dall’altro tramite l’annientamento di milioni di malriusciti: e non si deve venir meno a causa del dolore che si crea, un dolore quale non fu mai visto sinora»235.
Le parole hanno un peso, anche per un filosofo che menava vanto della propria «piena irresponsabilità», che peraltro Deleuze avallava come «il segreto più bello e nobile di Nietzsche»236. Vi sono pochi dubbi sul fatto che le parole del pensatore tedesco fossero pietre scagliate sul terreno incolto di un’umanità sempre pronta a generare anche l’orrore. Quell’orrore che non tardò poi molto ad arrivare, messo in atto da un regime che tanto nei suoi fondamenti culturali quanto nelle misure concrete sembrava avere un debito non di poco conto nei confronti del Nietzsche «immoralista» e «irresponsabile». Sì, pur considerando incomparabili gli orrori messi in atto dal III reich con gli aforismi più agghiaccianti del nostro filosofo, bisogna prendere atto che il nazismo aveva fatto propria questa logica nietzscheana secondo cui la produzione di una razza di benriusciti doveva inevitabilmente passare per l’eliminazione di coloro bollati col marchio di malriusciti. Basti pensare che lo stesso Hitler, lamentandosi nel Mein Kampf del fatto che la Germania dopo la I guerra mondiale fosse governata perlopiù da ebrei, che secondo lui operavano coscientemente per condurre al disastro la nazione tedesca, ne concludeva che: 235. KSA: XI, pp. 76, 480 e 98. 236. Deleuze 1962: p. 25.
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«Se all’inizio e durante la guerra [si riferisce alla I guerra mondiale, ndr.] si fossero tenuti sotto i gas venefici dodici o quindici migliaia di questi ebraici corruttori del popolo come dovettero restare sotto i gas, sul campo di battaglia, centinaia di migliaia dei migliori lavoratori tedeschi di tutti i ceti e di tutti i mestieri, milioni di vittime non sarebbero perite invano al fronte. eliminando in tempo dodicimila farabutti, si sarebbe salvata la vita a un milione di tedeschi, preziosi per l’avvenire».
oppure ancora, considerare che la ricerca condotta nel campo di sterminio di Auschwitz, come anche nei due ospedali vicini, vedeva quale obiettivo primario quello di favorire «la vita degna di riprodursi» e di eliminare quella «indegna di riprodursi»237. A destare ancora più impressione, dovrebbe essere la lettura dell’articolo che un giovane Benito Mussolini, in teoria ancora distante dall’ideologia fascista, scriveva nel 1909 incentrandolo proprio sull’apologia della filosofia nietzscheana. In questo articolo, infatti, il futuro Duce dapprima definiva il pensatore tedesco come «lo spirito più geniale dell’ultimo quarto di secolo», quindi se la prendeva con quella «morale della mediocrità» che si stava diffondendo per colpa del «cristianesimo» nonché del «popolo ebraico». Hanno avuto un bel da fare alcuni interpreti di Nietzsche nel sostenere che il filosofo usava toni e argomenti metaforici, in nulla accostabili gli orrori che il mondo avrebbe vissuto nel giro di pochissimi decenni. Ma qui abbiamo il futuro capo del fascismo, destinato a sua volta a esercitare una notevole influenza su Adolf Hitler, che riprendeva con una certa precisione (e con pieno assenso) le teorie del filosofo tedesco. Sì, perché dopo le premesse viste poc’anzi, Mussolini continuava l’articolo scrivendo che: «Col cristianesimo è la morale della rinuncia e della rassegnazione che trionfa. Al diritto del più forte – base granitica della civiltà romana – succede l’amore del prossimo e la pietà […] e per 20 secoli la follia cristiana ha imperversato. Non più il riso, la gaiezza del vivere, 237. Hitler 1925-1926: pp. 514 e 520; Haas – Kaupen 1993: p. 287.
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la serenità del morire, la lotta, la conquista; ma lunghe teorie di peccatori dai nervi sfiniti, dalle anime angosciate, dai corpi lacerati attraverso il cilicio, la penitenza, la flagellazione – uomini che alla vita non chiedevano se non la preparazione per il pauroso e misterioso al di là. L’amore del prossimo ha dato venti secoli di guerre, i terrori dell’inquisizione, le fiamme dei roghi e soprattutto – non dimenticatelo! – l’europeo moderno, questo mostriciattolo gonfio della propria irrimediabile mediocrità, dall’anima incapace di “fortemente volere”, non abbastanza reazionario per difendere il passato feudale, non abbastanza ribelle per giungere alle estreme conseguenze della rivoluzione, piccino in ogni suo atto e superbo del sistema rappresentativo che chiama la grande conquista del secolo, dal momento che permette una vasta politica a base di clientele elettorali e l’appagamento delle inconfessabili vanità».
Fin qui una ineccepibile e partecipe chiosa al pensiero di Nietzsche. Che però prosegue anche nella parte propositiva dell’articolo, in cui si fatica a evitare un senso di inquietudine tenendo conto del ruolo che di lì a breve avrebbe assunto l’autore dello stesso. Certo, Mussolini riprendeva la teoria del superuomo per annunciare la venuta imminente di «una nuova specie di “spiriti liberi”, fortificati nella guerra, nella solitudine, nel grande pericolo […] che ci libereranno dall’amore del prossimo, dalla volontà del nulla, ridonando alla terra il suo scopo e agli uomini le loro speranze – spiriti nuovi, liberi, molto liberi che trionferanno su Dio e sul nulla!». Insomma: «Il cristianesimo grida: siate buoni! Amatevi come fratelli! Proteggete i deboli, rialzate i caduti, consolate i dolenti!... Nietzsche insegna: a ciò che sta per cadere bisogna dare un urto. Colui al quale non potete insegnare di volare, spingetelo perché cada più presto. oh uomini, siate duri!»238.
Se questo era l’insegnamento di Nietzsche, pochi sono i dubbi sul fatto che il futuro Duce ne sia stato un discepolo solerte e puntuale. Anzi, si potrebbe addirittura affermare che Mussolini avesse compreso come Nietzsche – con il suo sguardo rivolto al futuro, alla costruzione di un «uomo nuovo» non più 238. Mussolini 1909: v. 1, pp. 174-183.
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sottomesso alle regole della morale borghese e cristiana – rappresentava il filosofo cardine con cui il pensiero controrivoluzionario e reazionario dei vari De Maistre, Bonald e Cortés potesse staccarsi dall’«Antico regime» ottocentesco e costruire una Destra moderna, buona per il Novecento:
«Le negazioni fasciste del socialismo, della democrazia, del liberalismo – scriveva Mussolini – non devono tuttavia far credere che il fascismo voglia respingere il mondo a quello che esso era prima di quel 1789, che viene indicato come l’anno di apertura del secolo demoliberale. Non si torna indietro. La dottrina fascista non ha eletto a suo profeta De Maistre».
Ammesso che il XIX secolo sia stato il secolo del socialismo e del liberalismo – concludeva il Duce – non è detto che debba esserlo anche il XX («le dottrine politiche passano, i popoli restano»), che invece dovrà essere «un secolo di destra», un «secolo fascista»239. eliminato in un sol colpo tutto il pensiero conservatore e reazionario, non restava che attingere da colui che al tempo stesso ne era il rappresentante più elevato, ma anche colui che lo aveva arricchito con formule nuove e buone per un radioso futuro di rinnovamento: Friedrich Nietzsche. Del resto, dovrà pur significare qualcosa il fatto che l’ideologo del nazionalsocialismo (Alfred rosenberg) inseriva Nietzsche tra i quattro unici e autentici «precursori del nazismo» (gli altri erano richard Wagner, Paul de Lagarde e Houston Stewart Chamberlain); oppure, per attenersi rigorosamente al piano delle idee, ricordare che l’ideologia del III reich era palesemente «antidemocratica», «antiliberale» e profondamente «antirazionale», cioè «incompatibile con ogni filosofia politica o dottrina che fa derivare il potere politico dalla volontà o dai bisogni dell’uomo», stando alla celebre ricostruzione di Franz Neumann. Come non riconoscere, in queste caratteristiche, i fondamenti del pensiero nietzscheano che ho fin qui ricostruito, anche tenendo conto che Hitler in persona, pur nella sua confusione 239. Mussolini 1932: v. 34, p. 128.
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ideologica e culturale, rimase folgorato dalle idee del filosofo tedesco, specie quelle riguardanti i «signori della terra», la critica alla democrazia, l’esaltazione della violenza e della guerra nonché la profezia sull’avvento di una «razza padrona» guidata da un superuomo onnipotente?! o come rimuovere il fatto su cui avevano già attirato l’attenzione autori come Nolte, Taureck e Losurdo, per cui gli scritti dell’ultimo Nietzsche contenevano una reiterazione quasi ossessiva del termine «annientamento»?!240. Sì, quell’ultimo Nietzsche che era arrivato a coltivare il proposito di fondare o contribuire a «fondare un partito della vita», potendo finalmente attuare una «grande politica» a cui il filosofo assegnava il compito (per l’appunto!) di mettere «fine inesorabilmente a tutto quanto è degenerato e parassitario». Con un riferimento strettamente politico alla «corruzione cristiana» e alla «corruzione socialista-comunista (una conseguenza di quella cristiana)», ovviamente in «reciproca connessione», rispetto a cui v’era una sola strategia possibile: «Qui non ci possono essere patti: qui bisogna distruggere, annientare, far guerra»241. Il programma nietzscheano di distruzione di tutti i vecchi idoli e di trasvalutazione di tutti i valori raggiunge qui il suo apice. Ben consapevole di trovarsi di fronte a un compito tanto immane, nonché di procedere in direzione ostinatamente contraria rispetto al proprio tempo e alla modernità, il grande filosofo 240. Neumann 1942-1944: pp. 198, 459 e 463; Sherratt 2013: pp. 26-8; Nolte 1963: p. 617 e 1990: pp. 193-4; Taureck 1989: pp. 34 e 255, Losurdo 2001: p. 644. Del resto, lo «sterminatore» più «celebre» del XX secolo, Adolf Hitler, attraverso un comunicato diramato tramite il suo quartier generale (il 30 luglio del 1943), desiderò rendere pubblica la notizia di aver regalato una splendida edizione speciale delle Opere di Nietzsche non a uno qualsiasi, bensì proprio a Benito Mussolini in occasione del suo sessantesimo compleanno (il 29 luglio 1943, pochi giorni dopo essere stato esautorato dal ruolo di Duce), con tanto di dedica autografata (in Domarus 1962: v. 4, p. 2803). 241. KSA: XIII, pp. 638 e 220. D’altronde non ci sono soltanto individui malriusciti, «ci sono anche popoli malriusciti», «razze in via di degenerazione e morenti». Tutte situazioni in cui non è il caso di attuare mezze misure: «Annientamento delle razze decadenti»! (KSA: XI, pp. 109 e 62).
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ormai sull’orlo del crollo psichico si proponeva di affiancare alla dinamite della sua filosofia anche la radicalità di un partito politico da lui stesso guidato. Ancora una volta, però, non senza elementi inquietanti di paradosso. Come altro definire, infatti, un «partito della vita» che come intento programmatico di fondo prevedeva la morte di tutto ciò che è riconducibile all’umanità242?!
242. «È significativo che i più importanti pensatori anti-umanisti della nostra epoca – Foucault, Derrida e prima di loro Bataille – abbiano tutti un debito pesante nei confronti di Nietzsche», annotava Charles Taylor (2007: p. 726).
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III.
LA MorTe DeLL’uoMo: DAL NAzISMo ALL’INTeLLIGeNzA ArTIFICIALe
1.
Smascherare gli idoli
Se esiste un fondo dell’abisso su cui si affaccia minacciosamente l’esistenza dell’uomo, Nietzsche è stato il pensatore che più di tutti è arrivato a toccarlo. Forse perfino a camminarci. Lo ha toccato da filosofo, attraverso la lente analitica e razionale, ma anche da essere umano, mettendo in gioco la propria stessa emotività fino al punto di piombare nel delirio finale. Nel fare ciò ha potuto attingere da una ridotta ma significativa tradizione di autori e pensatori del male, della morte e della disperazione, al tempo stesso ponendo delle fondamenta teoriche più solide per coloro che dopo di lui avrebbero continuato a impegnarsi sul lato oscuro della condizione umana. Fra questi ultimi spiccava emile Cioran, che nella sua opera più famosa (1949) riconosceva come l’«angoscia» di Nietzsche si fosse trasformata in «criterio», nell’«unica realtà» a cui lo stesso filosofo di origine rumena si ispirava per giungere alle conclusioni più disperanti: «Non c’è salvezza fuori del suicidio […] Che sia maledetta per sempre la stella sotto la quale sono nato, che nessun cielo voglia proteggerla, che essa si sbricioli nello spazio come una polvere senza onore»1. In termini metaforici possiamo dire che Nietzsche ha guardato negli occhi i mostri che popolano quell’abisso, ma lo ha fatto passando per un percorso riassumibile in questi termini: è 1.
Cioran 1949: pp. 732, 724 e 737.
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sceso nell’abisso, lì vi ha trovato gli idoli, che poi altro non sono che le maschere con cui l’uomo si illude letteralmente di «cambiare faccia» alla realtà abissale, abbellendola rispetto a come è veramente. Quindi ha smascherato quegli idoli, scoprendo i volti mostruosi dietro alle maschere. A quel punto ha iniziato un dialogo talmente profondo e serrato con quei mostri, da arrivare a comprendere di essere come di fronte a uno specchio. Ma uno specchio vero, in grado di riflettere immagini altrettanto veritiere per chi vi si pone innanzi. Non quel «Dio-specchio» creato appositamente dall’uomo religioso per vedersi tornare indietro un’immagine amorevole e confortante di sé e della propria condizione esistenziale, come nell’efficace descrizione lasciataci da Ludwig Feuerbach: nella religione «l’immagine subentra necessariamente al posto della cosa […] L’immagine è l’essenza della religione quando è l’espressione essenziale, l’organo della stessa», ma si tratta soltanto di un «pretesto della fantasia per poter esercitare senza impedimenti la sua signoria sull’uomo»2. uno specchio autentico si trovava davanti a Nietzsche, per rivelargli la notizia più agghiacciante: quei mostri erano ovunque, ne faceva parte lui stesso, l’umanità intera, tutti noi che la componiamo. Fino al dato più tragico e opprimente: la stessa esistenza umana è mostruosa. riconoscendosi circondato da mostri che vivono in una dimensione mostruosa, Nietzsche non ha potuto fare a meno di inquadrare anche se stesso come un mostro, senza più riuscire a tornare alla condizione precedente. Del resto, a che tipo di condizione precedente sarebbe potuto tornare, una volta compreso che l’unico e vero scenario abitato dall’uomo è quello mostruoso, rispetto al quale il mondo degli idoli si è rivelato come una grande illusione?! In questo vediamo che il Nietzsche filosofo giungeva a una verità completamente opposta rispetto a quella descritta da Platone nel celebre mito della caverna: il saggio di cui parlava il grande filosofo antico, infatti, riusciva a liberarsi dalle catene 2.
Feuerbach 1841: p. 91.
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per andare a vedere la «luce» fuori dalla caverna stessa. Questa luce era sostanzialmente l’«idea del Bene», che secondo Platone presiede a ogni cosa del mondo. Nietzsche, pur con i medesimi arnesi del filosofo, compiva un percorso inverso rispetto al saggio descritto da Platone, per di più facendolo in prima persona. Fuori dalla caverna le cose sono illuminate dalla luce del sole – quel «Bene» che governerebbe ogni cosa, secondo la concezione platonica – ma per Nietzsche occorre sapere che si tratta di una luce illusoria, tanto più luminosa quanto più in grado di allontanare l’uomo dalla visione realistica delle cose. È con una tale consapevolezza che egli decideva di scendere nell’abisso della caverna, sapendo che l’unica verità attingibile consiste proprio in quel buio mostruoso e senza vie di uscita. Governato da ciò che la nostra cultura occidentale (ma non Nietzsche) riassumerebbe col termine «Male». L’uomo saggio descritto da Platone guadagnava a fatica luce, bene e verità. Nietzsche, non certo con meno fatica e tormento, si addentrava nel buio, nel male, nell’assenza di ogni verità. Assenza di verità che si rivela, alla fine, come essenza di ogni cosa. L’unica verità di cui possiamo disporre, alla fine dei conti, è proprio la consapevolezza che nulla di vero è alla portata dell’umano intendere. Ma mentre sappiamo che il saggio descritto da Platone poteva e anzi doveva tornare dentro alla caverna, perché il suo dovere di filosofo consisteva nel raccontare agli uomini quella luce di cui essi vedevano soltanto le ombre, Nietzsche decideva di non uscire più dall’abisso in cui si era gettato. Sostanzialmente perché il medesimo abisso lo aveva inghiottito fino al punto di persuaderlo che non c’era nulla da cui uscire, nessuna realtà luminosa al di fuori del buio eterno che circonda ogni cosa, che è ogni cosa3. 3. Il mito della caverna, che in realtà Platone definiva una «similitudine» (eikóna), si trova in Repubblica: 514b – 520a. Per l’idea del «bene» come punto più alto del mondo intellegibile e causa di tutto ciò che è giusto e bello, rimando a Repubblica 517 b-c. Per un confronto tra la filosofia di Platone e quella di Nietzsche, invece, si veda il recente e stimolante saggio di Anderson 2014: in particolare pp. 169 e sgg.
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A esistere è soltanto l’oscurità, il freddo, il male. L’alternativa è illusione pura, mossa dal rifiuto di rassegnarsi a uno scenario così tragico e disperato. Ma soprattutto, per il filosofo tedesco non c’erano altri uomini a cui comunicare quella verità tragica e ineffabile. Chiunque la scopriva, si condannava per ciò stesso a ripiegare in se stesso, in una condizione di desolata solitudine che lui riconosceva benissimo, al punto da confessarla in più occasioni epistolari. È il caso della lettera a Franz overbeck del 12 febbraio 1884, in cui scriveva: «È possibile che qualcuno si sia mai sentito tanto solo? e che io finisca col rimanere muto? Almeno un paio di volte al giorno sono al punto che darei ragione a Napoleone, il quale ebbe a dire: “Ci sono cose che non si scrivono». La sua condizione esistenziale era tale per cui – in un’altra lettera del 1886 – arrivava ad esprimere il timore che un giorno «non riuscirò più a sopportare questa estraneazione»4. ora, se tutto questo riguardasse soltanto l’individuo Friedrich Nietzsche, si potrebbe anche finirla qui, magari limitandosi all’ennesimo bilancio personale su quello che è stato molto probabilmente il pensatore più controverso e suggestivo della vicenda umana. Ma il fatto è che quanto accaduto a Nietzsche non ha riguardato soltanto il filosofo tedesco. Il pensiero di questi, indissolubilmente collegato alla sua vicenda esistenziale, ha fortemente influenzato e perfino plasmato i tempi successivi, fino a diventare nell’epoca presente la nostra stessa vicenda esistenziale e sociale. Si tratta di un meccanismo magistralmente descritto dal filosofo novecentesco di origine rumena emile Cioran, al tempo stesso debitore e critico nei confronti di Nietzsche: «Non è affatto improbabile che una crisi individuale diventi un giorno la crisi di tutti e acquisti così un significato non più psicologico, ma storico. Non si tratta di 4. IV: p. 452 e KGB: III,3, p. 193. egli era ben consapevole che la «verità» è un qualcosa «che si stacca pezzo per pezzo dal cuore e in cui ogni successo costa un insuccesso» (KGB: III,5, p. 250), e il prezzo per una verità indicibile è l’isolamento. Sulla solitudine esistenziale del filosofo si veda Jaspers 1936: p. 93. Per quella effettiva, in cui piombò di fatto a soli 34 anni, dopo essersi ritirato dall’insegnamento nell’università di Basel (1879) per concentrarsi soltanto sui suoi libri, cfr. Chamberlain 1996: pp. 12-13.
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una semplice ipotesi; vi sono segni che bisogna abituarsi a leggere»5. Il punto è proprio questo. Quella che all’apparenza potrebbe sembrare soltanto la crisi di un uomo, pur se di natura geniale quale è stato Nietzsche, era destinata ad avere un effetto futuro su almeno due grandi epoche storiche. La prima di poco posteriore al pensatore tedesco, quando la teoria del superuomo e della volontà di potenza, nella loro connotazione immoralistica e con le forzature del caso, trovarono una realizzazione nel gruppo di uomini (i nazisti), nonché nel regime politico (il III reich di Hitler) forse più inquietanti e disumani della Storia. La seconda è la nostra. Cioè l’epoca in cui, con modalità all’apparenza meno traumatiche e soprattutto meno evidenti, all’inumano o disumano messi in campo dal nazifascismo si stanno sostituendo il «post-umano» e il «trans-umano». Tale sostituzione, graduale ma inesorabile, è passata attraverso l’affermazione di un pensiero «debole» e antiumanistico (in estrema sintesi definibile come «postmoderno») che è alla base del sistema governativo di matrice tecno-finanziaria oggi imperante. Tale sistema tecno-finanziario ha distrutto il ruolo della ragione e della politica, riducendo un animale fisiologicamente pensante e politico quale è l’uomo (con l’ecosistema in cui vive) in uno strumento per fini che sono esclusivamente quelli della tecnica e del mercato. Se nella prima epoca storica erano a rischio la libertà e la dignità dell’umano, insieme a tutto ciò che di più radicale intendiamo con questo aggettivo, nella seconda che ci troviamo a vivere è in gioco l’umano stesso. La prosecuzione della sua esistenza in questo mondo. Ma soprattutto, se vi sono stati conflitti interpretativi su quanto il realizzarsi dell’epoca nazifascista debba più o meno (o nulla) al pensiero di Nietzsche, occorre indagare e comprendere quanto il nostro tempo ne sia permeato quasi del tutto. Anche 5.
Cioran 1964: p. 1156.
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perché, che lo sia, rappresenta una delle tesi centrali di questo libro. Procediamo con ordine e concentriamoci sul ruolo che Nietzsche ha avuto nel plasmare quella che ho chiamato la «prima epoca», ossia il nazifascismo, con tutto ciò che ne è conseguito. Ai fini di un intendimento della questione nella sua complessità, occorre partire dal profondo istinto demistificatorio che muoveva il filosofo tedesco. Tale istinto nasceva dalla sua convinzione secondo cui davanti all’uomo, all’apparenza, si presentano due mondi, di cui uno fondato sulla pura illusione. Il paradosso consiste nel fatto che l’uomo, a partire da Platone, riconosce come «vero» proprio il mondo illusorio, perché costruito dalle proprie fantasie, sminuendo l’unico mondo che esiste realmente: quello terreno delle cose che appaiono e divengono continuamente. A tenere in piedi questa scenografia illusoria è tutta una serie di idoli di cui l’uomo si serve per non vedere il mondo tragico che caratterizza la propria condizione esistenziale. egli preferisce far finta di abitare il mondo illusorio, quello in cui Dio, la «verità» o l’«essere» (gli idoli, appunto) esistono e garantiscono quel senso e quella stabilità che mancano drammaticamente nel mondo delle cose materiali e terrene. Nietzsche partiva da questo assunto per affermare la necessità di abbattere quegli idoli illusori e, con essi, abolire il mondo che l’uomo chiama di volta in volta «reale», «vero» o «divino». Insomma, si trattava di decostruire l’ordine illusorio immaginato dall’uomo religioso, per lasciar sussistere soltanto quello terreno. Quest’ultimo è l’unico realmente esistente, seppure privo delle «verità» anelate dall’umana disperazione, come spiegava lo studioso americano richard Schacht in pagine di ammirevole chiarezza sul filosofo tedesco6. Allora vediamo che sono molteplici i passi in cui il teorico del superuomo si impegnava a liquidare quelli che di volta in volta chiamava «allucinazioni concettuali», strumenti di conso6.
Schacht 1983: pp. 156-9.
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lazione», «immagini illusorie», «idoli», «espedienti penosi» e «nomi ingannevoli luccicanti» di cui l’uomo si serve per trasfigurare la realtà, con l’obiettivo di occultare tutto ciò che di inquietante e terribile v’è in essa7. Fu proprio in questo ambito, peraltro, che Paul ricoeur coniò la celebre definizione di «scuola del sospetto», inserendovi idealmente lo stesso Nietzsche insieme a Marx e Freud, e ritenendo che tutti e tre, seppure seguendo vie e scopi diversi, avessero come obiettivo quello di «far coincidere i loro metodi “coscienti” di decrittazione con il lavoro “incosciente” di codificazione che essi attribuiscono rispettivamente alla volontà di potenza, all’essere sociale e alla psiche inconscia». Si trattava, secondo ricoeur, di «tre procedure convergenti di demistificazione», volte alla costituzione di una nuova «ermeneutica» la cui caratteristica ultima – rincarava la dose Michel Foucault – «consiste nell’obbligo di reinterpretarsi continuamente e all’infinito»8. Insomma, stando a questa lettura non priva di insidie, chi frequentava la scuola del sospetto imparava a non accontentarsi mai di verità acquisite come punti definitivi, ma soprattutto apprendeva la capacità di smascherare come fittizie proprio quelle «costruzioni» che l’uomo è solito elaborare in piena coscienza. Se Marx si incaricava di smascherare e quindi abbattere gli idoli illusori del capitalismo, e Freud quelli della psiche, a Nietzsche sembrava spettare una sorta di ruolo mediano e al tempo stesso complementare rispetto a quello degli altri due: per l’autore di Zarathustra, infatti, non si trattava di scardinare degli idoli appartenenti alla sola sfera sociale (come nel caso di Marx), o quelli che si trovano esclusivamente nella dimensione interiore dell’uomo (come nel caso di Freud). Bersaglio di Nietzsche erano quegli idoli con cui l’umanità aveva, al tempo stesso rassicurato e confortato la propria sfera interiore nonché abbellito quella del mondo esterno.
7. 8.
KSA: CV, I, p. 765; VII, pp. 140 e 336-7. Cfr. ercolani 2020: p. 386. ricoeur 1965: pp. 40 e 42; Foucault 1967: pp. 185 e 191.
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Ho già analizzato nel dettaglio gli idola che Nietzsche si era incaricato di abbattere. In questa sede mi interessa altro. e cioè l’obiettivo ulteriore che il filosofo tedesco si proponeva, oltre a detronizzare gli idoli e strappare quelle maschere che l’occidente aveva utilizzato in duemila anni di storia per non guardare in faccia i mostri. Sì, per Nietzsche non si trattava soltanto di affermare la visione tragica e disperata della condizione umana che, come abbiamo visto, aveva potuto leggere in omero e nei tragediografi antichi, come anche in Shakespeare e de Sade, oppure in Leopardi e Schopenhauer. Tutti costoro, pur nella difformità delle argomentazioni utilizzate e nei tempi anche ampi che li hanno separati, rappresentavano senz’altro la piccola schiera di autori a cui Nietzsche aveva potuto ispirarsi, nella sua furia iconoclasta contro la morale dominante dell’occidente cristiano, giudicata ottimista e perbenista. Agli occhi del filosofo tedesco si trattava di compiere un passo ulteriore: quello di lavorare fattivamente per la produzione di «grandi individualità» (i «superuomini»), che non avrebbero dovuto limitarsi all’impresa intellettuale e teorica di comprensione e accettazione dell’ordine delle cose. Il problema è che Nietzsche, nello spiegare perché questo sarebbe il nostro compito prioritario (produrre grandi individualità, appunto), faceva appello non certo all’altisonante metafisica, bensì alla più prosaica «biologia». ovvero alla visione social-darwinistica secondo cui gli esseri umani e le società umane, appartenendo al regno della biologia al pari delle piante e degli animali, possono essere «guidati» in maniera tale da favorire l’apparizione di specie e individui eccezionali, come ha notato con acume lo studioso americano Julian Young9. Insomma, secondo Nietzsche era giunto al termine il tempo in cui ci si poteva limitare a guardare i mostri negli occhi, dopo averli spogliati dalle maschere di idoli. Né si poteva più soltanto riconoscersi in essi. 9.
Young 2010: pp. 197-8.
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Piuttosto, era suonata l’ora di liberarli quei mostri, facendogli assumere il controllo di un mondo finalmente alleggerito da una morale fondata su idoli tanto buoni quanto falsi. Anzi, falsi in quanto buoni. Il filosofo del male e l’antiumanismo
Giunti a questo punto, è il momento di fare i conti con due questioni. La prima è quella che riguarda l’impianto teorico di fondo: i falsi idoli affermati da duemila anni di occidente cristiano (libertà, amore, pace, umanità, uguaglianza, Stato, fratellanza, morale, ragione, verità, etc.) avevano bisogno di essere supportati da una visione generale delle cose fondata sul «Bene». Con ciò si intende, per esempio, l’ideale cristiano del Bene divino da cui proveniamo e verso cui torneremo; oppure l’idea del sommo bene di cui hanno parlato vari filosofi a partire da Platone; o semplicemente la concezione di «bene» che ormai è diventata senso comune nella nostra civiltà occidentale, per cui è necessario reprimere quegli istinti violenti e perversi che comunque albergano nella natura umana, in modo da non nuocere a se stessi e agli altri. Insomma, due millenni di cultura cristiana e occidentale hanno costruito una visione del «Bene» inteso come tutto ciò che favorisce il progresso e la convivenza di individui razionali all’interno di una società organizzata secondo regole civili e valori morali, sotto l’egida di uno Stato che dovrebbe esercitare il potere e la guida in base a principi democratici diretti al bene comune. In netta opposizione a tutto ciò, Nietzsche ha evidentemente messo in campo una visione del mondo umano e della natura che, stando ai parametri dell’etica occidentale, può essere sintetizzata con il termine «Male». una dicotomia che egli rigettava categoricamente, come sappiamo, proclamandosi un pensatore «al di là del bene e del male». Il teorico della volontà di potenza non amava certe definizioni «moralistiche», e meno ancora le hanno adottate coloro che a lui si sono ispirati o si ispirano, con la significativa eccezione di Georges Bataille, che proprio nell’opera da lui dedicata 226
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all’analisi di Nietzsche scriveva: «Io credo che egli sia il filosofo del male». Decisamente significativo anche quanto il filosofo francese ne deduceva, e cioè che la sua considerazione su Nietzsche filosofo del male era «del tutto conciliabile con le condotte pratiche e politiche dedotte dal principio della “volontà di potenza”10. Questo per dire che la visione malefica affermata da Nietzsche non era certo destinata a un confinamento nell’ambito della semplice teoria. Comunque sia, è evidente che per operare la sua «trasvalutazione» di tutti i valori della tradizione occidentale e sostituirli con i propri (nichilismo, servo arbitrio, istinto, immoralismo, individualismo, egoismo, guerra, violenza, dominio, schiavitù, etc.), Nietzsche aveva bisogno di delineare un quadro generale dell’esistenza alternativo a quello dell’occidente, in cui la galassia controvaloriale fosse quella che il senso comune definisce con il termine «Male». un «male» che, però, forse per la prima volta nella Storia veniva concettualizzato in termini così esplicitamente ostili all’idea stessa di uomo e umanità, perlomeno come si erano venute delineando lungo la cosiddetta modernità liberale, cristiana e capitalistica tanto avversata da Nietzsche. È possibile constatarlo analizzando tutta una serie di autori che, pur se appartenenti a correnti ideologiche e politiche molto diverse, facendo proprie le intuizioni nietzscheane hanno proclamato la fine dell’umanesimo e dell’uomo come erano stati concepiti fino a quel momento (in linea di massima si fa riferimento ai decenni centrali del Novecento). In particolar modo, a essere in discussione era la plausibilità dell’individuo razionale e cosciente su cui si era fondata la concezione moderna a partire da Descartes. In questo senso si può leggere l’antropologo francese Claude Lévi-Strauss, assertore del fatto che il fine delle scienze umane è di dissolvere l’uomo, poiché «il mondo è cominciato senza l’uomo e finirà senza di lui». Lo stesso «Io» – proseguiva a conclusione di Tristi tropici – non è soltanto qualcosa di «odioso», 10. Bataille 1973: v. VI, p. 16.
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ma anche un’entità evanescente che non trova posto tra il «noi» e il «nulla». Sempre in Francia, il filosofo Michel Foucault si richiamava espressamente a Nietzsche per proclamare la «fine dell’uomo» come conseguenza necessaria della «morte di Dio». Questo, poiché all’illusoria centralità del soggetto razionale, Foucault sostituiva quella del linguaggio (il «Discorso») come entità sovrana che regola il mondo umano e, con esso, ogni attività dell’uomo medesimo11. Per chiarire tale concetto all’apparenza complesso, si può ricorrere allo psicoanalista Jacques Lacan, anch’egli assiduo lettore di Nietzsche. Proprio a partire dalla decostruzione del soggetto operata dal filosofo tedesco – nonché in connessione con la scoperta dell’inconscio come dimensione centrale dell’individuo, secondo l’insegnamento di Freud – Lacan sosteneva che «l’inconscio ha la struttura radicale del linguaggio» e, quindi, «non c’è da cercare la realtà del soggetto al di là del muro del linguaggio». Insomma, l’«altra scena» dell’umano (quella oscura) è «governata dal macchinario dell’inconscio», ed è qui che avviene l’azione del «discorso» in quanto significante, che solo in un secondo momento conferisce significato al soggetto di cui si impossessa. In questo modo, ci si rivela non soltanto la condizione generale dell’uomo come «servo del linguaggio», ma anche la razionalità umana come un’illusione con cui l’uomo si illude di padroneggiare ciò che non padroneggia, di essere attore di un’esistenza governata da qualcos’altro che opera attraverso di lui (il «Discorso» di cui parlava Foucault, oppure l’«es», nei termini stabiliti originariamente da Freud)12. Sempre dalla nazione transalpina proveniva il marxista Louis Althusser, secondo il quale con la scomparsa del sistema capitalistico – di cui rappresenta la sovrastruttura ideologica – sarebbero venuti meno anche l’umanesimo e l’uomo stesso in quanto oggetto di analisi critica13. Siamo di fronte a teorie che, pur nei differenti ambiti e con 11. Levi-Strauss 1955: pp. 495-6; Foucault 1966: pp. 396-7. 12. Lacan 1958²: p. 594, 1945: p. 208, 1958: pp. 165-7 e 1957: p. 495. 13. Althusser 1965: pp. 248-9.
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le dovute distinzioni tra gli autori che le hanno proclamate, trovavano un fondamentale punto di unione nel rifiuto dell’«umanismo», intendendo con tale termine una visione dell’uomo in quanto titolare di un’identità definita e razionale, in virtù della quale lo si possa ritenere soggetto centrale dell’esistenza in generale nonché padrone della propria esistenza specifica. Ai suddetti autori, che traevano una lezione principalmente dal Nietzsche filosofo, declinando ed elaborando il suo antiumanismo nei termini analizzati, bisogna aggiungere coloro che – anch’essi perlopiù francesi e arrivati a Nietzsche per il tramite di Heidegger14 – ritenevano di dedurre dal teorico della volontà di potenza soprattutto il messaggio pratico e politico. Questi ultimi osteggiavano la modernità liberale e cristiana (quindi umanistica) in quanto essa, dietro l’intento dichiarato di costituire una società all’apparenza civile e democratica, intendeva in realtà affermare una forma di governo più subdola sulle menti e sui corpi degli individui. Con la scusa di determinare un’ipocrita convivenza «sana» fra gli individui, infatti, secondo costoro la società liberale voleva in realtà «normalizzare», omologare o reprimere alcuni istinti naturali che appartengono all’uomo. ovviamente, si tratta di quegli istinti che, se liberati, non favorirebbero l’affermazione di un modello sociale ispirato all’etica «ordinata» del lavoro e del consumo, alla ricerca del profitto economico come obiettivo portante della propria esistenza. Certo, istinti anche distruttivi e autodistruttivi, sulla scia della nietzscheana «volontà di potenza», ma che comunque costituiscono una parte fondamentale della natura umana, che quindi non può ritenersi pienamente realizzata in un contesto «civile» (o umanistico) che ne reprime o sopprime il lato «oscuro» (o folle). ecco perché gli autori che hanno tratto ispirazione da Nietzsche in tal senso, si sono concentrati principalmente sui tratti antiumanistici, amorali e antidemocratici oggettivamente 14. Per la ricezione del Nietzsche «antiumanista» da parte della filosofia francese del Novecento – avvenuta in larga parte grazie all’interpretazione che del filosofo della volontà di potenza ha fornito Heidegger – cfr. rockmore 1995: pp. 130-1 e 186-7.
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contenuti nel pensiero del filosofo tedesco. Certamente rielaborandoli, fino a vedere nella liberazione degli istinti umani più naturali, compresi quelli violenti e «perversi», l’unico fattore possibile di emancipazione per l’uomo dai poteri civilizzanti. Questi poteri sono rappresentati prevalentemente dallo Stato borghese e capitalista – nonché dal suo contraltare «totalitario» affermatosi nei paesi comunisti – ma più in generale da tutte quelle istituzioni e quei rapporti sociali previsti dalle democrazie liberali (Scuola, Chiesa, istituti carcerari o di cura, ospedali psichiatrici, norme giuridiche e morali, costumi consentiti etc.). Colui che ha affermato una tale visione «malefica» del mondo umano, ispirandosi a Nietzsche e rappresentando una sorta di apripista per i pensatori successivi, è stato il filosofo francese George Bataille. egli è partito dal definire la dimensione dell’erotismo come «il regno della violenza e della violazione», salvo precisare che tale dimensione è strettamente connessa a quella del potere e della sovranità, poiché entrambe consistono in un processo di autolesionismo portato avanti nella convinzione di realizzare pienamente il proprio «sé». Il filosofo francese precisava, però, che erotismo non coincide con attività sessuale, trattandosi piuttosto di una peculiarità dell’uomo attraverso cui egli esprime il proprio lato «diabolico» e «folle». In questo senso la dimensione erotica coincide piuttosto con quella della morte, e proprio in virtù di ciò il nostro occidente cristiano ha elaborato il concetto di «taboo» (incesto, sessualità estrema, sodomia, pornografia, etc.), che in realtà per Bataille rappresenta soltanto il «rifiuto della natura», il tentativo di controllare e reprimere gli istinti radicali insiti nell’uomo: il male stesso, per lui, non è la trasgressione, ma la «trasgressione condannata», ossia quello che viene etichettato come «peccato»15. 15. Bataille 1961: v. X, p. 581; 1957: v. X, pp. 17, 35, 64-5 e 127. Stiamo parlando di un filosofo che ha espressamente dichiarato: «Io ho voluto e trovato l’estasi», poiché del resto la vita stessa non è che «un effetto dell’instabilità e del disequilibrio», Bataille 1944²: v. V, p. 264. Sembra quasi che l’autore francese avesse voluto incarnare l’eroe nietzscheano, quello che reagisce alla tragicità della vita sfidandola al «gioco» della morte.
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In questo senso, secondo Bataille, la società borghese e capitalistica impone all’uomo di sopprimere quelle pulsioni che invece rappresentano il lato creativo e libero della propria essenza (e che il filosofo francese intendeva invece riscoprire e valorizzare), condannando il medesimo uomo a una «vita miserabile», all’insegna dell’«omologazione» e di un moralismo sterile e frustrante16. Dietro a queste posizioni dell’autore francese operava la visione nichilistica e «malefica» affermata da Nietzsche, che Bataille riprendeva appieno sostenendo la tesi per cui «l’essere non è da nessuna parte», o perlomeno è irrecuperabilmente diffuso nella sua propria «costituzione labirintica», che ne rende impossibile una realistica individuazione da parte della ragione umana17. Basandosi su siffatti fondamenti teorici, Bataille costruiva un edificio filosofico con cui realizzare quella che ai suoi occhi era l’effettiva rivoluzione, sia sul piano umano sia su quello sociale. Nel primo caso si trattava di togliere le catene agli istinti più bestiali e liberatori (sesso estremo, stupro, degradazione, incesto, sadomasochismo etc.)18, anche per infrangere la gabbia claustrofobica e reprimente della morale borghese e cristiana. Nel secondo caso, invece, si doveva operare una rivoluzione fattiva e distruttiva del sistema capitalistico. una rivoluzione che 16. Bataille 1933: v. I, p. 340 e 1936: v. I, p. 402. 17. Bataille 1943-1954: v. V, pp. 98-9. Stiamo parlando di un autore secondo il quale perfino il desiderio di scambi umani, seppure del genere di quelli che «sfuggono alle convenzioni generali», diventa «desiderio di annientamento» (1970-1988: v. II, p. 143). 18. Bataille identificava la sessualità estrema con la rivoluzione effettiva (innanzitutto contro il Cristianesimo), abbondando in questo senso di similitudini tra la sfera erotica e quella politica: «le parti in cui si accumula la forza di eruzione sono necessariamente situate in basso». «Le deflagrazioni erotiche, rivoluzionarie e vulcaniche, sono in antagonismo con il cielo». Dopodiché, nella medesima opera, si lasciava andare a divagazioni tipo questa: «Voglio essere inghiottito violentando la ragazza a cui avrei potuto dire: tu sei la notte […] L’anello solare è l’ano intatto del suo corpo a diciotto anni, tanto accecante che nulla può essergli paragonato, ad eccezione del sole, sebbene l’ano sia la notte» (1931: v. I, pp. 85-6).
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non condannasse le classi sociali subalterne a una gabbia alternativa come quella del totalitarismo staliniano, ma che piuttosto utilizzasse gli elementi positivi del fascismo (fra i cui meriti c’era quello di aver liberato gli istinti vitali del popolo, salvo utilizzarli per una causa sbagliata), per spingerle alla violenza e all’uso della forza distruttiva. Agire con violenza e istinto predatorio, insomma, rappresentava agli occhi di Bataille l’unica modalità con cui ottenere una reale emancipazione e superare, in un colpo solo, tanto la gabbia dorata della società borghese quanto lo sterile intellettualismo rivoluzionario dei filosofi à la Sartre. Passava dunque attraverso Bataille l’idea di attingere dalla filosofia del male di Nietzsche, cioè dall’idea del filosofo tedesco di rivalutare gli istinti naturali in contrapposizione alla ragione normativa, con lo scopo di realizzare l’effettiva emancipazione umana e sociale in termini cari a una certa «sinistra» (perlopiù francese, postmoderna e antisovietica). Ciò perfino a costo di utilizzare i metodi violenti del fascismo. Perché questi servivano, secondo Bataille, se si voleva distruggere anche l’«altro» fascismo, quello più subdolo, mascherato e ipocrita rappresentato dalla società borghese, capitalistica e cristiana (con cui il comunismo «democratico» aveva trovato un compromesso storico conveniente a tutti tranne che al popolo). All’interno di una dinamica del genere, il percorso di Bataille si rivelava quasi obbligato: configurarsi come un anello di congiunzione tra la filosofia di Nietzsche e l’utilizzazione di quest’ultima in vista dell’elaborazione di un nuovo pensiero rivoluzionario (alternativo alla «modernità» liberale ma anche a quella sovietica, quest’ultima non meno liberticida e castrante per l’individuo). Per raggiungere un tale obiettivo, l’autore francese doveva dapprima rimarcare la netta incompatibilità tra Nietzsche e il nazismo («La distanza tra Hitler e Nietzsche è quella che passa tra una stanza della polizia e le altezze delle Alpi»; «La dottrina di Nietzsche non può essere asservita», tanto meno dai fascisti), quindi riprenderne la filosofia del male adattandola al proprio discorso:
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«Non è che il male sia contrario alla giustizia: questo implicherebbe appunto una luce a cui un’ombra è rimasta ribelle, ma la luce che cessa di essere ammessa come fondamento, la ragione che cessa di essere divina, restando il risveglio, non alla ragione, bensì all’assenza di ragione, a questo mistero più completo, alla ragione che si riconosce come la propria notte, la quale, in quanto ragione, si considera non irragionevole, ma non meno oscura dell’assenza di ragione […] Lo scatenamento delle passioni è il solo bene […] a partire dal momento in cui non vi è più Dio. Non v’è più nulla in noi che merita di essere chiamato sacro, o bene, fatta eccezione per lo scatenamento delle passioni»19.
Su questi fondamenti si è affermato il pensiero «antimoderno» del Novecento: un pensiero contro l’occidente «umanistico», quello accusato di essersi declinato, lungo i secoli della Storia moderna, nei termini di una morale civilizzante contronatura, di una democrazia finta e imperialistica, nonché di una logica omologante quale è quella dell’«utile» capitalistico. In tal senso Bataille ha svolto un ruolo determinante, da una parte spingendo fino alle estreme conseguenze le considerazioni nichilistiche, malefiche e antiumanistiche contenute nell’opera di Nietzsche, dall’altra preparando il terreno per quello
19. Bataille 1950: v. VIII, p. 637 e 1947: v. VII, p. 373. Per le critiche del filosofo francese al marxismo e allo stalinismo si veda Bataille 1933²: v. I, pp. 333-6 e 1936: v. I, p. 417. Per l’affermazione della dottrina nietzscheana che non può essere asservita né ridotta agli aspetti militaristici, nazionalistici e di «disciplina servilistica» propri del fascismo e del nazismo, si veda Bataille 1944: v. XI, p. 9 e 1937: v. I, p. 450. Per la condanna dell’olocausto, si legga Bataille 1947²: v. XI, pp. 226-8, il quale tuttavia permaneva in una inquietante ambiguità laddove definiva lo sterminio degli ebrei come «l’ultima esperienza umana», che in quanto tale non può essere elaborata né compresa (1947³: v. XI, pp. 2627). Per l’esaltazione della «violenza» e della rivoluzione in quanto forza distruttiva, che è realmente efficace poiché capace di infliggere pene dolorose e financo la morte, si veda Bataille 1929-1930: v. II, p. 67. Per la critica all’intellettualismo sterile di Sartre e la proposta di una politica come «rifiuto» e «rivolta» anche violenta, si veda Bataille 1947a: v. XI, p. 252 e 1949²: v. XI, pp. 425-6. Per un’analisi generale sugli aspetti nichilistici, perversi e «malefici» contenuti nell’opera di Bataille, si vedano Land 1992: pp. 111 sgg., Surya 1987: pp. 2256 e 411 e Hegarty 2000: p. 158.
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che Jan rehmann avrebbe chiamato il «nietzscheanesimo di sinistra». Ciò, si badi bene, non soltanto in senso teorico – così da poter spingere qualche interprete a leggere nelle teorie di Bataille una sorta di linguaggio metaforico (come peraltro è stato fatto con lo stesso Nietzsche) – ma anche in termini insolitamente pratici, calcolando che stiamo parlando comunque di un filosofo. Sì, perché questa «venerazione della sragione», come anche della follia, del mito e dell’eterogeneità in genere, si tradusse negli anni precedenti alla seconda guerra mondiale nella fondazione di una società segreta («Acéphale»). Tale società segreta, modellata sullo stile di un ordine religioso medioevale e di cui Bataille fu cofondatore insieme a roger Caillois, fra le altre cose operava sistematicamente dei sacrifici di animali, mentre gli stessi membri ragionarono seriamente e più volte sulla possibilità di contemplare anche sacrifici umani. Tutto questo, con lo scopo dichiarato di tornare a forme premoderne di comunità e religiosità, in alternativa alla spiritualità degradata e impoverita che ormai imperversava in occidente. In nome di una riabilitazione della «virilità» dai toni nietzscheani (e ormai nazifascisti, considerato il contesto storico), proprio roger Caillois concludeva la sua lezione inaugurale in «Acéphale» («Il vento invernale», del 1937) con la seguente profezia: «una pulizia irreversibile ha luogo nella natura […] c’è un vento crescente di sovversione nel mondo ora, un vento freddo, aspro, artico, uno di quei venti assassini […] che uccide il fragile e il malaticcio, che non gli lascia superare l’inverno». Come ha scritto lo storico americano richard Wolin, esprimersi con questi toni proprio nel periodo in cui emergevano i campi di concentramento, le teorie sull’allevamento degli ariani, quelle sulla pulizia razziale e sulla soluzione finale, era espressione di una sorta di «fascismo di sinistra» fortemente debitore del Bataille epigono entusiasta di Nietzsche. Lo stesso Bataille, peraltro, in quei medesimi anni si esprimeva con toni simpatetici e di forte ammirazione sia rispetto al fascismo sia nei confronti di Hitler e dell’«ordine teutonico», 234
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come recitava il titolo di un suo scritto che per fortuna del filosofo francese è andato perduto20. In compenso non è andata perduta la pagina manifesto (pubblicata sulla rivista «Contre-attaque») che Bataille firmò insieme ad André Breton e altri intellettuali francesi, in cui si diceva chiaramente di preferire la «brutalità anti-diplomatica di Hitler, di fatto più pacifica, all’eccitazione bavosa dei diplomatici e dei politicanti». Allo stesso modo è possibile consultare lo scritto su «Il fascismo in Francia», in cui Bataille denunciava l’irrimediabile stato di antagonismo in cui era piombata l’europa, rispetto al quale il fascismo rappresentava «il necessario lavoro di riassorbimento». In un occidente in cui il movimento operaio era «moribondo» e «miserabile», perché privo della necessaria volontà di potenza con cui distruggere il nemico e capace soltanto di fare la guerra al proprio interno, non c’era spazio che per società monarchiche, unificate sotto la volontà di un uomo solo al comando: insomma, non c’era spazio che per «grandi società fasciste»21. Col senno di poi, gli stessi Bataille e Caillois furono pronti ad ammettere la natura inquietante del proprio orientamento politico precedente la seconda guerra mondiale. In una serie di riflessioni critiche composte in un’epoca più tarda della sua vita, il primo dichiarò di avere ceduto a una sorta di «paradossale tendenza fascista» durante quel periodo, mentre il secondo constatò che «le forze oscure che avevamo sognato di scatenare si erano liberate da sole, e le loro conseguenze non furono quelle che ci eravamo aspettati»22. 20. Wolin: pp. 176-8. 21. Bataille 1970-1988: v. I, p. 398 e 1934: v. II, p. 212. In uno studio sulla Francia degli anni Trenta del Novecento, lo storico Daniel Lindenberg (1993: pp. 64 e 62) ricostruiva la continuità del pensiero politico di Bataille, a quel tempo deciso nell’affermare che la democrazia è «contro natura». In questo senso, il socialismo doveva sbrigarsi ad attuare un a rivoluzione violenta, anche ispirandosi al «nuovo ordine» instaurato da Hitler, capace di dare vita a una nuova tradizione e a ristabilire i diritti di una comunità tragica. Insomma, Bataille esprimeva toni e propositi che erano quelli della «filosofia ufficiale del fascismo». 22. Bataille 1970-1988: v. VII, p. 461 e Caillois 1970.
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In realtà, ritengo nient’affatto corretto definire paradossale l’anelito fascistoide che per qualche tempo aveva alimentato la filosofia di Bataille e dei suoi colleghi, perché le «forze oscure» che avevano evocato con i loro scritti, nella misura in cui evidentemente riprendevano il discorso anti-umanistico di Nietzsche, se tradotte in una qualche forma pratica non possono che condurre verso esiti disumani o comunque violenti. È possibile trovare una conferma a quest’ultima affermazione analizzando il pensiero di un altro autore francese, che passando per il tramite di Bataille rimase folgorato dall’antiumanismo nietzscheano. Sto parlando di Michel Foucault. Questi, scrivendo in un’epoca in cui il nazifascismo era finito da un pezzo, poté riprendere la filosofia nietzscheana soltanto in un’ottica di contestazione radicale del sistema politico e culturale che connota l’occidente borghese e liberale. Sì, senza più la presenza ingombrante del regime che si era richiamato a Nietzsche per attuare lo sterminio delle razze malate e dei soggetti malriusciti, in favore della creazione di un’umanità di iperborei e ariani, si trattava ora di agganciarsi al filosofo tedesco per valorizzare la carica emancipante del suo pensiero. A finire sul banco degli imputati era il sistema borghese e cristiano, accusato di attuare un tipo di potere più subdolo e ipocrita ma non per questo meno totalitario e liberticida rispetto ai regimi sanguinari della prima metà del Novecento. È in questo modo che, dopo aver ispirato il nazifascismo vero e proprio, come anche quella sorta di reazione fascista che abbiamo visto per esempio in Bataille, il pensiero di Nietzsche si trovava a rappresentare un fondamento irrinunciabile di quel «nietzscheanesimo di sinistra» di cui Foucault è stato un esponente di primo piano. Certo, stiamo parlando di una «sinistra» a quei tempi sui generis, cioé antisovietica, anticomunista ed extraparlamentare, nonché innervata da un anarchismo di fondo che ne costituiva il filo rosso portante. Insomma, trovava conferma l’idea secondo cui l’opera del filosofo tedesco si prestava a fungere da ispirazione per movimenti ideologici anche opposti fra loro, purché animati dal fuoco sacro dell’estremismo e della ribellione. Penso a Gilles Deleuze, che parlava del testo di Nietzsche come di un «campo 236
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di esteriorità in cui si scontrano forze fasciste, forze borghesi e forze rivoluzionarie», e quindi per orientarsi in quel vortice di correnti impetuose, bisogna di volta in volta individuare la «forza rivoluzionaria» che alimenta la corrente del momento. oppure, da una posizione avversa al nietzscheanesimo di sinistra, è stato Habermas a riconoscere il carattere di «critica totalizzante» insito nella filosofia di Nietzsche, cosa che gli permette di assurgere a modello di una contestazione della modernità tanto di destra quanto di sinistra, perché a dover essere abbattute a colpi di martello sono le «conquiste del razionalismo occidentale» codificate da Max Weber. Insomma – sosteneva Habermas – ciò che accomuna Nietzsche ai postmodernisti, come anche ad Horkheimer e Adorno, a Benjamin e fino a Peter Weiss, è una «ribellione» anarchica e surrealista «contro tutto ciò che è normativo»23. È in un contesto del genere che Foucault aderiva convintamente al pensiero del teorico della volontà di potenza, scorgendovi la possibilità di un nuovo modo di filosofare «entro il vuoto dell’uomo scomparso». Soprattutto le teorie nietzscheane sul «superuomo» e sulla «volontà di potenza», infatti, accendevano nel filosofo francese l’entusiasmo per un orizzonte filosofico con cui superare la modernità e realizzare un’umanità finalmente emancipata: «Nietzsche fu per me una rivelazione», le sue idee sono state d’incitamento a «rimettere in discussione la categoria del “soggetto”», a «strappare il soggetto a se stesso». L’annuncio nietzscheano della fine dell’uomo ha assunto per noi un valore «profetico», «Nietzsche e Heidegger insieme sono stati uno shock filosofico, ma alla fine «l’ha spuntata Nietzsche»24. 23. Deleuze 1973: pp. 145-6 e Habermas 1985: pp. 131, 145-6, 148, 152 e 409. Lo stesso Habermas (1980: p. 52) equiparava il nietzscheanesimo di sinistra al movimento della «rivoluzione conservatrice» che si era affermato in Germania dopo la I guerra mondiale, definendo come «giovani conservatori» coloro che, da Bataille a Foucault e fino a Derrida, si erano appoggiati alla speculazione nietzscheana per elaborare l’ideologia anarchica e ribellista che tanto avrebbe preso piede negli anni Settanta del Novecento. Cfr. rehmann 2004. 24. Foucault 1966: p. 354; 1954-1988: v. 2, p. 1599; 1954-1988: v. 1, p. 531 e v. 2, p. 1522.
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Con i regimi nazifascisti ormai crollati da un pezzo, Foucault non si poneva neppure il problema di distinguere tra le brillanti intuizioni e l’eventuale «protofascismo» del filosofo tedesco, né di argomentare come Bataille per marcare la distanza siderale fra il III reich e Nietzsche. Non si trova, nell’opera di Foucault, neppure un tentennamento nell’interpretare le parole del teorico della volontà di potenza in direzione di un dominio gerarchico da parte degli aristocratici nei confronti degli uomini piccoli e ignobili. Come avrebbe del resto potuto, è lecito chiedersi, visto che lo stesso Foucault – in un’intervista del 1975 – spiegava l’irrilevanza della «fedeltà» al testo, sostenendo che l’unico «segno di riconoscenza» nei confronti del pensiero nietzscheano consiste nel fatto «di usarlo, deformarlo, farlo stridere e gridare»?! eppure, anche senza essere dei filologi puntuali dell’opera nietzscheana, sarebbe bastata una dose sufficiente di onestà intellettuale per ammettere – come ebbe modo di fare Jacques Derrida da una posizione comunque simpatetica nei confronti di Nietzsche – la non casualità del fatto che «la sola politica che lo abbia effettivamente assunto come portabandiera sia stata la politica nazista». Questa concessione è ancora più significativa in quanto proveniente da un interprete di Nietzsche (Derrida, appunto) disposto a leggere in senso «metafisico» e non «biologico» le inquietanti affermazioni del filosofo tedesco sulla «bestia bionda» e sulle «razze» da eliminare. Malgrado ciò, osservava Derrida con realismo pieno di buon senso, «il nazismo non è nato nel deserto», ma piuttosto da un contesto storico-culturale nel quale è impossibile non riconoscere il contributo fondamentale di Nietzsche25. L’entusiasmo di Foucault nei confronti del filosofo tedesco, però, evidentemente travalicava tanto i confini della corret25. Sul Nietzsche «protofascista», si veda Taureck 1989: pp. 11-12, 22 e 177; per una efficace distinzione tra le brillanti «intuizioni» del filosofo tedesco e la sua «ossessione gerarchica», si confronti Boyer 1991: pp. 14 e 17; per l’ammissione di Foucault rispetto alla sua inesistente fedeltà filologica al testo nietzscheano, cfr. (1954-1988): v. 1, p. 1621. Infine, per le significative ammissioni di Derrida, si vedano (1984): pp. 83-4 e (1987): pp. 118 e 179.
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ta interpretazione di frasi peraltro inequivocabili, quanto il buon senso e l’onestà intellettuale. In questo modo l’autore francese rimuoveva completamente gli aspetti inquietanti dell’opera nietzscheana, ispirandosi piuttosto ad alcuni capisaldi per utilizzarli nella sua critica implacabile della società borghese e cristiana. Quest’ultima, appunto, accusata di promuovere un falso individualismo e di attuare un sistema tutt’altro che democratico. Sì, secondo il Foucault lettore entusiasta di Nietzsche, la società dell’occidente liberale è «tutta attraversata e penetrata da meccanismi disciplinari», ossia da un potere onnipervasivo che tuttavia si declina in termini «microfisici» (senza un «centro» e non localizzabile negli apparati di Stato). ossia una società che pretende di fondare la propria etica sulla «conoscenza» (di ciò che è buono, giusto, vero), quando in realtà proprio la conoscenza è un’«invenzione», il frutto di istinti di odio, di potenza e di prevaricazione, sulla base dei quali il più forte stabilisce la «distinzione del vero e del falso», che di fatto è soltanto «l’effetto di una falsificazione». Quello di Foucault, che chiaramente si ispira a Nietzsche in queste teorie, è un nichilismo epistemologico volto a dimostrare che ciò cui diamo il nome di «verità» non è altro che «la storia di un errore», mentre perfino la sola «volontà di sapere» va letta in termini di «accanimento inquisitorio, raffinatezza crudele, cattiveria», perché il volersapere – lungi dall’essere legato all’affermazione di un soggetto libero – si rivela come il mezzo più ipocrita per esercitare istinti di violenza e dominio26. Insomma, la società liberale, quella della morale, delle leggi, della scienza, perfino della Scuola e delle istituzioni sanitarie, si rivelava agli occhi di Foucault come il grande bluff con 26. Foucault 1975: p. 243, per il discorso sul potere; 1954-1988: v. 1, pp. 600, 1007, 1111-2 e 1023 per la teoria foucaultiana su verità e conoscenza. Il filosofo francese arrivava a tali postulati partendo dall’idea nietzscheana secondo cui perfino la «profondità ideale» della vera coscienza non è altro che un’invenzione filosofica (non esiste alcun soggetto titolare di una coscienza definita e libera), (1954-1988: v. 1, p. 596).
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cui i poteri dominanti sottomettono i corpi e le menti degli individui, nascondendosi dietro alla parvenza di un sistema «sano» e «normale». utilizzando in forma rielaborata le idee di Nietzsche, il filosofo francese operava una contestazione radicale dell’occidente cristiano e capitalista, accusato di omologare e massificare gli individui – peraltro non senza l’utilizzo di una malcelata violenza – per ridurli allo stato di consumatori e produttori passivi al servizio del Capitale. Sono le medesime conclusioni a cui giungeva un celebre testo del 1972, composto da due autori sempre francesi che, a loro volta, ammettevano il debito culturale nei confronti di Nietzsche. Sto parlando de L’anti-Edipo di Deleuze e Guattari, in cui da una visuale squisitamente psicoanalitica si denunciava «tutta la stupidità e l’arbitrarietà delle leggi», «tutto l’apparato perverso della repressione e dell’educazione» e, in generale, tutti quei «ferri ardenti» e «procedure atroci» con cui la società borghese vuole «plasmare l’uomo», «marcarlo nella sua carne» per inculcargli la logica «creditore-debitore», l’unica ammessa nell’ordine «sano» imposto dal capitalismo. L’intento sovversivo dei due autori è evidente (Nietzsche avrebbe parlato di «trasvalutazione» di tutti i valori), considerato che essi – citando Maurice Blanchot, a sua volta filosofo, amico di Bataille e sostenitore delle rivolte studentesche nel Sessantotto – propongono per l’uomo quel «coraggio» che «consiste nell’accettare di fuggire piuttosto che vivere falsamente e ipocritamente in falsi rifugi. I valori, le morali, le patrie, le religioni e le certezze private che la nostra vanità e il nostro auto-compiacimento ci concedono generosamente, sono altrettanti soggiorni ingannevoli che il mondo predispone per coloro che pensano in questo modo di tenersi in piedi e a riposo tra le cose stabili»27. Ci troviamo al cuore dell’ideologia che ispirò i movimenti di contestazione degli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, e 27. Deleuze-Guattari 1972-1973: pp. 225 e 408. La citazione di Maurice Blanchot è tratta da 1971: pp. 232-3.
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in questo senso possiamo intendere come si fosse arrivati a una paradossale utilizzazione di Nietzsche in un’ottica che era quella della Sinistra estrema, non comunista ed extra-parlamentare (nel suo non riconoscersi nelle istituzioni democratiche). Ma torniamo a Foucault. Basandosi sulla carica emancipante che egli intravedeva nell’opera di Nietzsche, il filosofo francese proponeva una nuova lotta di classe, messa in atto da forze proletarie non più pateticamente spinte dalla fame, ma finalmente assetate di potere: sì, da una parte si trattava di «liberare dall’assoggettamento il desiderio di potere» delle masse proletarie, attraverso un «lotta politica intesa come lotta di classe»; mentre dall’altra mediante la «distruzione» culturale del soggetto borghese, quindi attraverso la «soppressione dei tabù» sessuali, attraverso la «pratica dell’esistenza comunitaria» e perfino tramite la «disinibizione nei confronti della droga». Le pratiche esistenziali attraverso cui Foucault intendeva far scaturire la società del futuro – in questo seguito da molte correnti della contestazione studentesca e proletaria, come anche da movimenti culturali alternativi ed eversivi – erano «la droga, il sesso, la vita comunitaria, un’altra coscienza, un altro tipo di individualità». Senza eccessivi rischi di forzature, si può dire che questa è stata la strada ideale che da Dioniso ha condotto fino ai movimenti di controcultura giovanile hippie, come anche a quelle realtà politico-ideologiche che negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso contestavano la società borghese senza per nulla escludere metodi violenti e terroristici. Naturalmente, per il tramite fondamentale di Nietzsche. Del resto, il «vecchio» modello di società – moralistico, liberale, democratico e cristiano – era ritenuto colpevole di aver seguito «la linea storica ben precisa che ha condotto al capitalismo». Tale sistema, dunque, «è ciò di cui non bisogna tener conto se non come l’obiettivo da distruggere». Il discorso di Foucault convergeva nella direzione di una visione anarchica di comunità con cui sostituire la società liberale, quest’ultima vista a guisa di una dittatura di classe «che si impone attraverso la violenza, anche quando gli strumenti di questa violenza sono istituzionali e costituzionali». Tale domi241
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nio di classe, esercitato attraverso una repressione sistematica, capillare e in certi casi invisibile, è rintracciabile nelle istituzioni canoniche del sistema liberale (famiglia, scuola, università, medicina, sistema giudiziario, parlamenti, etc.). richiamandosi esplicitamente a Nietzsche, quello che era uno dei filosofi di culto nei cosiddetti «anni di piombo» affermava che la stessa idea di «giustizia» era stata «inventata» quale «strumento di una certa forma di potere politico ed economico». ecco perché il proletariato, insieme a tutte le forze di contestazione del modello sociale borghese e liberale, veniva chiamato da Foucault a dichiarare «guerra» alla classe dominante e al «sistema» nel suo complesso. Non perché – si badi bene – questa guerra fosse per forza di cose moralmente «giusta», ma perché «per la prima volta nella storia» le forze rivoluzionarie dovevano prendere veramente il potere, distruggendo un sistema moralistico e oppressivo anche a costo di utilizzare dei mezzi violenti e sanguinosi28. Insomma, sulla scia di quanto si era già visto nei primi del Novecento – con tutta una tradizione tedesca che celebrava gli «istinti di potenza» in contrapposizione all’omologazione borghese (da Weber a Jaspers, passando per Heidegger)29 – la volontà di potenza di nietzscheana memoria veniva ora proposta 28. Foucault 1954-1988: v. 1, pp. 1092, 1094, 1095, 1102-3, 1363, 13713. Il filosofo francese intrecciava argomentazioni marxiane e nietzscheane: marxiane, per esempio, quando sosteneva che lo stesso «diritto» in occidente è in realtà «commissionato dal re» e, in questo senso, «funge da strumento di dominazione»; nietzscheane quando aggiungeva che il sistema liberale non andava combattuto con le armi dell’ideologia, bensì con la guerra dei «rapporti di forza allo stato puro», da un «soggetto guerreggiante» per il quale si trattava ora «di istituire […] un diritto singolare» (in contrasto con le leggi pubbliche). Il filo rosso che teneva insieme fonti di ispirazione apparentemente contrastanti (Marx e Nietzsche, appunto) era la ribellione in quanto tale, l’esaltazione del vigore fisico, della forza e dell’energia che dovevano essere impiegati da una nuova «razza» rivoluzionaria, destinata ad affermarsi a mo’ di un «brulichio oscuro e talvolta sanguinoso», Foucault 1975-1976: pp. 23-4, 40 e 46-7. 29. riprendendo un giudizio formulato da Max Weber nel 1895, il filosofo Jaspers – nel 1932 – biasimava la classe operaia del suo tempo, priva di quella «energia catilinaria dell’azione» che invece aveva animato i rivoluzionari francesi. Per poi ribadire, a sua volta, che la classe operaia era priva «dei grandi
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dalla filosofia postmoderna francese quale ingrediente che era sempre mancato alle lotte degli oppressi. Sì, la volontà di potenza di Nietzsche era vista da più parti come l’ingrediente in grado di far compiere il salto di qualità risolutivo a un proletariato imborghesito e irretito nelle maglie strette (e imbelli) della morale liberale e cristiana. Si trattava di aggiungere Nietzsche a Marx, ossia la dinamite alla ragione, per realizzare la rivoluzione vincente degli oppressi ed emarginati che era sfuggita fino a quel momento. Fatto sta, che era esattamente ciò che avevano pensato di fare Hitler e Mussolini quando usarono quella dinamite per incendiare il mondo. Superuomini: gli esecutori del male
La filosofia del male, che Nietzsche ha abbracciato arricchendola con stimoli filosofici nuovi e suggestivi allo stesso tempo, ha percorso una strada molto lunga che non è compito di questo libro ricostruire. Piuttosto, una volta appurato il fondamento «malefico» che innerva la teoria di Nietzsche e che ha influenzato molteplici autori lungo tutto il Novecento, è tempo di affrontare la seconda questione. Questa concerne i soggetti chiamati a realizzare fattivamente il «male», ossia coloro a cui affidare la guida della «nuova umanità» prefigurata dal pensatore tedesco. Se il «vecchio» mondo degli idoli, frutto di duemila anni di cristianesimo e di filosofia del bene, aveva implicato la guida di quelli che Nietzsche chiamava di volta in volta preti, moralisti o sottouomini, il nuovo mondo dei «mostri» liberati doveva trovare attuazione grazie ai «superuomini», immoralisti, anticristiani e domiistinti di potenza», quando in realtà a destare la sua ammirazione è «la volontà di potenza innervata dallo spirito», nonché la «prassi politica di potenza», Jaspers 1932: pp. 430, 432 e 464. Quanto ad Heidegger, nella sua opera sono tutt’altro che sporadici i passi in cui il filosofo celebrava la salita al potere di Hitler come una liberazione dall’«idolatria del pensiero privo di radici e di potenza», tanto che vi è stato chi ha parlato di una vera e propria «metafisica della volontà di potenza» che la caratterizza, Vietta 1989: pp. 12 e 17.
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natori. Questi superuomini dovevano essere selezionati secondo Nietzsche all’interno di una ristretta élite da cui escludere la massa dell’umanità. Del resto, mentre i malriusciti abbondano nelle pianure affollate ai piedi delle grandi montagne, sono ben pochi gli iperborei che abitano le vette solitarie dell’umanità. ora, è proprio nel ruolo di profeta aristocratico di pochi superuomini destinati a guidare il mondo – per giunta all’interno di uno scenario malefico improntato sulla volontà di potenza, sull’immoralismo, il dominio, la schiavitù etc. – che Nietzsche ha suscitato gli entusiasmi di quella che ho definito come la prima epoca debitrice del suo pensiero: l’epoca del nazifascismo, ma anche della teoria reazionaria in genere. Sì, gli stessi ideologi ed esecutori del nazifascismo sono coloro che hanno potuto rintracciare nel suo immoralismo aristocratico e nichilistico, come anche nella «fascinazione estetica per la catastrofe», gli atteggiamenti di fondo con cui elaborare la propria «visione del mondo». In aggiunta a ciò, le teorie nietzscheane sull’«amor fati», sul vivere pericolosamente, sul superamento di sé, sull’allevamento di un’umanità più elevata, sullo sterminio (Vernichtung) di tutto ciò che è degenerato e parassita, che il filosofo tedesco aveva sempre espresso con grande forza, hanno rappresentato dei veri e propri fondamenti teorici di altissimo livello, su cui basarsi per realizzare la propria «missione» di creazione di un’umanità ariana30. Si spiegano in questo modo le parole del fascista francese Marcel Dèat – pronunciate nel bel mezzo della seconda guerra mondiale – con cui sosteneva che l’idea nietzscheana della selezione di «buoni europei», come anche della creazione di un’aristocrazia, una nobiltà di sangue, si stava realizzando grazie alla pulizia bellica 30. Sui propositi nietzscheani di allevamento di una razza superiore e di sterminio di ogni forma di vita inferiore e parassita, insiste Nolte 1990: pp. 1934, citando direttamente da Ecce homo. Per l’ispirazione che le SS (Schutz Staffel) – e in generale l’esercito del III reich – hanno tratto dal pensiero di Nietzsche in vista dell’esecuzione di propositi violenti, cfr. Lichtheim 1972: p. 176. A rimarcare il fatto che il pensiero di Nietzsche avesse fornito il nazismo di un più elevato pedigree filosofico e razionale, con cui supportare i principi centrali della propria weltanschauung, è stato Steven Aschheim 1992: pp. 235-6.
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intrapresa da Hitler, destinata a lasciare in vita quello che sarebbe stato lo zoccolo duro e puro dell’europa del futuro. In più di un’occasione gli ideologi del III reich non persero occasione per includere lo Zarathustra di Nietzsche fra i testi di riferimento (insieme al Mein Kampf di Hitler e al Mito del Ventesimo secolo di rosenberg), mentre ancora nel 1981 una autorevole rivista tedesca come Der Spiegel usciva in edicola con una copertina che raffigurava i volti di Nietzsche e Hitler, accompagnata da un titolo provocatorio: «Nietzsche pensatore, Hitler esecutore?»31. Non per caso lo stesso Mussolini, che da giovane era stato un socialista estremista, aveva elaborato una sua originale concezione di socialismo dopo essere rimasto folgorato dalla lettura – nel 1908 – delle Riflessioni sulla violenza di Georges Sorel. Quest’ultimo era un sindacalista rivoluzionario francese, che si era ispirato a Nietzsche per affermare un’idea di rivoluzione proletaria dai toni fortemente violenti e di destra32. rileggendo i precetti socialisti con la lente nietzscheana, insomma, il Duce italiano elaborò a sua volta a un’idea originale di rivoluzione, che di fatto lo distanziava dal marxismo giovanile trasformandolo in un «fascista antimarxista». Le parole di Mussolini non lasciavano campo a dubbi sulle influenze nietzscheane, visto che scriveva di essere pervenuto a una «concezione barbarica del socialismo», quest’ultimo da intendersi come «il più grande atto di negazione e distruzione che la storia registri», sinonimo di «movimento, conflitto, azione» («vivere non 31. Déat 1944: pp. 97-8. Per i tre libri a cui dichiarava ufficialmente di ispirarsi l’ideologia nazista e con cui il III reich volle commemorare i caduti tedeschi durante la battaglia di Tannenberg (1914), cfr. Peters 1977: p. 221. La vicenda della copertina di Der Spiegel del 1981 viene evidenziata in Wolin 2004: p. 32. 32. In particolar modo l’autore francese, proprio all’interno di un capitolo dedicato a Nietzsche, denunciava l’impossibilità di far trionfare il sindacalismo rivoluzionario se all’interno del mondo operaio avesse continuato a prevalere la «morale dei deboli (morale de faibles)»: insomma, «è alla violenza che il socialismo deve gli alti valori morali attraverso cui esso conduce alla salvezza il mondo moderno», Sorel 1908: pp. 199 e 210.
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è calcolare, bensì agire», scriveva sempre Mussolini, riprendendo il grido di Guyau)33. Sì, partivano proprio dal futuro Duce, lettore del nietzscheano Sorel, le considerazioni che abbiamo potuto leggere anche in autori insospettabili come Bataille e Foucault. Quelle sul proletariato incapace di realizzare una rivoluzione effettiva a causa dello sterile intellettualismo dei marxisti, che quindi aveva bisogno di un’iniezione di «autosuperamento» dionisiaco, così da trasformarsi nel «superuomo» di cui c’era bisogno per compiere il necessario salto di qualità. Certo, «la plebe sufficientemente cristianizzata e umanitaria, non comprenderà mai che possa essere necessario un maggior grado di malvagità perché prosperi il superuomo», ma il Duce – e poi con lui il fascismo – è lì per garantire che «il superuomo trionferà sulla plebe e su Dio. egli imporrà a tutti la sua “volontà leonina”». Stiamo leggendo il Mussolini che secondo lo storico tedesco ernst Nolte congiunge il pensiero di Lenin e di Nietzsche, quello che vuole risvegliare il proletariato dal torpore borghese e moralista con cui è stato irretito, convincendolo che «le rivoluzioni sono pazze, acefale, violente, idiote, bestiali. Sono come la guerra […] uccidono, saccheggiano, distruggono. È un cataclisma di uomini. In ciò sta precisamente la loro grande bellezza».34 Insomma, non solo la filosofia del male rigenerata da Nietzsche aveva ispirato molti e autorevoli estimatori a livello teorico, ma si stavano affacciando sul proscenio della Storia anche i «superuomini» in grado di realizzarlo concretamente, quel male. Sto parlando dei nazifascisti, coloro che ritennero di trovare nel teorico della volontà di potenza la base ideologica più suggestiva e autorevole per realizzare la propria «rivoluzione». una rivoluzione che non aveva come obiettivo soltanto il 33. Sznajder 2002: p. 250; Mussolini 1910: v. 3, p. 66; 1910²: v. 3, p. 206 e 1909²: v. 2, p. 53. 34. Mussolini 1909: v. 1, p. 183 e 1913: v. 5, p. 142. Per il Mussolini che fondeva Nietzsche e Lenin, cfr. Nolte 1960.
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«dominio sul mondo e lo sterminio degli ebrei – stando al bilancio dello storico del razzismo Francisco Bethencourt – ma anche l’asservimento delle «razze inferiori», che sarebbero state utilizzate dal III reich come «fonte di lavoro servile»35. Insomma, si trattava di una sorta di resa dei conti finale tra la stirpe aristocratica degli iperborei e la pseudo-umanità dei malriusciti e più deboli, in linea con una logica argomentativa che ricorda molto da vicino quella del teorico della morte di Dio. Quanto poi fosse effettivamente legittimo riferirsi a Nietzsche da parte dei nazifascisti, è questione che per molto tempo ha spaccato in due gli interpreti del grande filosofo tedesco. Da una parte i cosiddetti «innocentisti», cioè coloro che di volta in volta hanno rimosso, mascherato, edulcorato o al limite interpretato in chiave metaforica le affermazioni più radicali e sgradevoli di Nietzsche. Secondo costoro, insomma, ben lungi dall’essere l’autore di teorie che possono aver ispirato i regimi nazifascisti, Nietzsche è stato piuttosto vittima delle manipolazioni, come anche delle forzature, operate dopo la sua morte tanto dalla sorella elisabeth quanto dagli ideologi della destra estremista. Al punto più radicale di questa interpretazione, il pensatore tedesco viene considerato alla stregua di un «esteta», ossia un artista che utilizza a piene mani il registro retorico allo scopo di colpire il lettore, sconvolgerne le sicurezze, turbarne l’animo senza alcuna implicazione sul piano della traduzione pratica e letterale delle sue idee. Se proprio si vuole andare alla ricerca di una traduzione pratica del suo pensiero, a parere degli innocentisti, si può scorgere in Nietzsche piuttosto un teorico dell’emancipazione umana, che scardina le comode certezze per spingere l’individuo a ribellarsi contro i poteri omologanti e conformistici. Tra costoro, vale la pena citare l’interpretazione dello studioso americano (ma di origini tedesche) Walter Kaufmann, il quale, in una celebre ricostruzione del pensiero di Nietzsche, si spinse a scrivere che con la «volontà di potenza» il filosofo tedesco si era 35. Bethencourt 2013: p. 333.
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limitato a scavare in profondità le motivazioni dell’animo umano come nessun altro filosofo sistematico prima di lui. Con questi presupposti la teoria di Nietzsche veniva letta come quella di uno «psicologo» (piuttosto che uno storico) interessato alla sfera individuale e all’autorealizzazione del soggetto, senza implicazioni nella sfera politica e sociale. Gli stessi Übermenschen (sottouomini) andavano intesi come dei semplici «simboli del ripudio di ogni conformismo a una singola norma: antitesi alla mediocrità e alla stagnazione»36. Dall’altra parte troviamo i «colpevolisti», che al netto dell’innegabile profondità e grandezza delle teorie nietzscheane, hanno comunque intravisto nelle stesse una visione dell’umanità destinata a trovare applicazione pratica attraverso i regimi nazionalsocialisti e fascisti. Secondo questi interpreti, insomma, al di là delle iperboli, delle esagerazioni nonché delle provocazioni messe in atto da un filosofo estremo e controverso come Nietzsche, non v’è dubbio che il fulcro del suo pensiero poggiasse su una visione del mondo e delle cose che apriva le porte al dominio incontrastato del più forte sul più debole, dell’umanità nobile e benriuscita su quella plebea dei «sottouomini». Condotta alle estreme conseguenze, tale interpretazione si è spinta a vedere nel teorico della volontà di potenza un «protonazista» che aveva legittimato a livello filosofico la liberazione non certo dell’uomo in quanto tale, ma invece del male più radicale che alberga nella natura umana. Paradigmatica, in questo senso, la posizione del filosofo ungherese György Lukács, pronto a sostenere che la maggior parte delle affermazioni morali di Nietzsche «diventarono terribile realtà nel regime di Hitler», mentre la sua ideologia dell’«antiumanità», poiché fondata sulla «divisione qualitativa degli uomini in razze superiori e inferiori», dominava «l’intera Weltanschauung nazionalsocialista»37. 36. Kaufmann 1950-1974: pp. 216, 242-3 e 309. 37. Lukács 1954: pp. 343 e 748-9. Più in generale, tra i cosiddetti «innocentisti» – oltre al citato Kaufman – si possono segnalare, fra gli altri, gli autori francesi già considerati (Bataille, Deleuze, Foucault) e gli italiani Gianni Vattimo e Mazzino Montinari. Tra coloro che inglobano Nietzsche all’interno del
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La posizione dei colpevolisti è indubbiamente suffragata dagli esempi di autori – anche celebri – che fortemente influenzati dalla lettura di Nietzsche hanno contribuito alla galassia ideale del nazifascismo o vi hanno aderito formalmente, adottando categorie teoriche o comunque argomentazioni molto vicine a quelle del filosofo tedesco. È il caso dello piscoanalista svizzero Carl Gustav Jung, ancora oggi oggetto di una vera e propria venerazione da parte di più ambienti, anche in virtù delle sue teorie psicoanalitiche estremamente suggestive che, in certi casi, si spingono ben oltre il limite della razionalità scientifica. Fra questi ambienti pronti a osannare colui che era stato allievo entusiasta di Freud – salvo poi compiere un deciso «parricidio» in cui non mancò di tirare in ballo le origini ebraiche del fondatore della psicoanalisi – spiccano sicuramente i «postmodernisti» e un certo femminismo. Sì, da più parti si è ritenuto che molte idee dello psicoanalista svizzero avessero anticipato non solo il periodo e la cultura postmoderni, ma anche le critiche feroci alla «ragione occidentale» e al razionalismo in genere nazifascismo, o comunque imputano al suo pensiero di contenere elementi «protonazisti», vanno menzionati – oltre al già citato Lukács – Baeumler, Losurdo e Mittmann, il quale ultimo si spinge ad affermare che il filosofo tedesco «condivide idee e modelli di pensiero dei discorsi antisemiti del suo tempo». Sì, certo – ammette l’interprete tedesco di Nietzsche, in lui si possono leggere svariati aforismi in opposizione all’antisemitismo, ma in realtà erano stati composti perlopiù dopo la rottura con Wagner (cioè per irritare il grande musicista, dichiaratamente antisemita). Sta di fatto che «fino alla fine della sua evoluzione letteraria è praticamente impossibile rintracciare un cambiamento verso il riconoscimento delle qualità positive dell’ebraismo», e anzi, «i commenti antigiudaici più gravidi di conseguenze si trovano […] proprio negli scritti della fase finale, come L’Anticristo», Mittmann 2006: pp. 38-9 e 41. A mio parere, Mittmann sottovalutava l’importante distinzione fra antiebraismo, giudeofobia e antisemitismo. Per un’analisi generale del pensiero politico di Nietzsche – al netto della sterminata bibliografia – segnalo perlomeno Bergmann 1987, Detwiler 1990, Conway 1997, ottmann 1987, Fossen 2008. In lingua italiana, sono di assoluta rilevanza i lavori di Massimo Ferrini zumbini 2011 e di Maurizio Ferraris 1992 e 1999, il quale ultimo ha evidenziato con efficacia come le responsabilità della sorella di Nietzsche nella «nazificazione» del grande filosofo siano decisamente da ridimensionare rispetto alla vulgata diffusa.
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che poi sarebbero state riprese da autori come Foucault, Derrida e Lyotard38. Particolarmente accorato anche l’entusiasmo di quelle femministe che, volendo denunciare la «ragione maschilista e fallocratica», ritennero di trovare in Jung una sorta spirito alleato. In particolar modo la sua dottrina dell’anima – l’idea junghiana di un arcaico e femminile sé profondo, posseduto da entrambi i sessi – si riteneva lo qualificasse come un genuino precursore del femminismo della differenza: «L’anima di Jung come significante dell’inconscio inconoscibile – scriveva Susan rowland – rappresentava la sua incarnazione come Jung postmoderno»39. ora, sorge più di un sospetto che tanto i postmodernisti quanto le femministe che hanno visto in Jung il precursore di una nuova e più inclusiva teoria dell’anima, non abbiano letto determinati brani dell’opera del celebre psicoanalista. Mi riferisco a quelle pagine in cui Jung, quasi a bilancio della sua analisi sulla figura materna e sui vari archetipi che connotano la donna, se ne usciva definendo la «vacuità» come «un grande mistero femminile» assolutamente estraneo all’uomo, e anzi, capace di generare in lui un «senso di pena» dovuto alla «nullità» che esso ispira. In questo lo psicologo di zurigo riteneva di rintracciare nientemeno che il nerbo del «potente mistero dell’enigmaticità femminile». Certo, enigmatico era anche il modo di scrivere di Jung, che quindi potrebbe prestare il fianco a diverse interpretazioni. Proviamo a leggere, allora, la sua ultima intervista, che un ancora lucido ottantenne Jung concesse al popolare giornalista inglese Frederick Sands nel 1955. «L’interesse predominante di un uomo dovrebbe essere il proprio lavoro – affermava lo psicolo38. Per lo Jung ritenuto anticipatore di molte idee del postmodernismo, si veda Hauke 2000 e Young-eisendrath – Dawson 1998: p. XII. Mentre per il suo criticare la «ragione» e il «razionalismo» in nome di un entusiastico riconoscimento della lezione di Nietzsche, si veda Jung 1934-1939: p. 1335 e Domenici 2019: cap. 3.3. Infine, per lo Jung che ispirò la critica alla ragione scientifica occidentale operata dai postmodernisti, si può leggere Hauke 2000: cap. I. 39. rowland 2002: p. 140. Cfr. Wolin 2004: pp. 66-7.
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go svizzero – mentre per la donna è l’uomo il suo lavoro e interesse». Del resto – proseguiva – matrimonio significa «una casa» e questa è come un «nido», in cui non c’è spazio per tutti e due gli uccelli contemporaneamente. Mentre uno si occupa di fare la guardia e di tutte le faccende esterne, l’altro se ne sta all’interno a covare. «Le donne che parlano molto pensano poco» – affermava, e quanto alla loro natura è istinto delle donne catturare e tenersi stretto un solo uomo, mentre l’istinto dell’uomo è quello di conquistarsi quante più donne possibile. Arriviamo quindi al punto che, per deduzione logica, condanna la donna a una posizione fisiologicamente subordinata: «una donna è al massimo della sua forma soltanto quando ama un uomo. La relazione personale è il suo bisogno di base, e quando lo sente traballare, diventa insoddisfatta e polemica in una maniera tale che spesso conduce al divorzio». Per chi nutrisse dei dubbi sul grado di coscienza di uno Jung ormai vecchio, valgono le sue parole all’interno della medesima intervista, in cui precisava di non essersi mai aperto così tanto con qualcuno su tali argomenti: «Probabilmente mi caccerò nei guai, specialmente con le donne, per alcune delle cose che ho detto»40. In effetti sarebbe interessante sapere quante delle femministe – o anche solo delle donne – della seconda metà del Novecento e dei giorni nostri sottoscriverebbero le parole di un autore così entusiasticamente celebrato quale pilastro della rivoluzione culturale postmoderna. Celebrato e seguito per primo dalle molte donne psicoanaliste – perlopiù americane – che una parte considerevole hanno avuto nel costruire e perpetuare il mito di Jung fino ai giorni nostri, come documentò efficacemente lo storico della scienza americano richard Noll41. 40. Jung 1938-1954: v. 9.1, p. 97 per la «vacuità» come tratto predominante della donna, e Jung (1955): pp. 244-7 per le affermazioni contenute nell’intervista citata. È curioso il fatto che, pur pronunciandosi sulle donne in termini che Nietzsche avrebbe sottoscritto (e aggravato), Jung tendeva a giustificare i pronunciamenti del filosofo tedesco sul femminile, considerandole simboliche e tutt’altro che volte a screditare le donne stesse, cfr. Jung 1934-1939: v. 1, pp. 733-5 e 743-5. 41. Noll 1994: pp. 260-1.
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Ma la questione non finisce qui, perché il rinomato psicologo svizzero – negli anni del potere nazifascista – non mancò di pronunciarsi neanche sugli ebrei, su Hitler e su Mussolini. In particolar modo, all’interno del saggio Situazione attuale della psicoterapia (1934), scritto in un periodo in cui Jung si trovava nella sua casa di Küsnacht – quindi al riparo da eventuali minacce delle SS che potessero imporgli dei concetti specifici – lo psicoanalista svizzero istituiva una curiosa equiparazione fra donne ed ebrei. ricorrendo ad argomentazioni che abbiamo potuto leggere già in Nietzsche, egli affermava che le donne e gli ebrei condividono una comune debolezza fisica rispetto agli altri, e ciò spingerebbe entrambi a comportarsi alla stregua di parassiti pusillanimi, che trovano la propria forza soltanto nella ricerca dei punti di debolezza altrui. Questa premessa, per arrivare a teorizzare l’esistenza di un inconscio archetipico «ariano», che ovviamente si differenza da quello ebraico e delle razze inferiori per vigore, incisività e capacità di plasmare il futuro. Sono stati Freud e i suoi allievi che ne ripetevano pappagallescamente le tesi – semmai – a far passare sotto il marchio infame di «antisemitismo» questo dato scientifico, ma per fortuna ora c’erano lo stesso Jung (che per la cronaca aveva già ammesso in una lettera del 1913 il suo antisemitismo) e con lui il nazionalsocialismo a ristabilire la verità42. Fin dal 1932 Jung aveva celebrato i trionfi del fascismo italiano, secondo lui dovuti principalmente alla fortuna di aver trovato un Duce dalla forte personalità, mentre nella stessa conferenza – pubblicata due anni dopo – aggiunse che ora questa fortuna era toccata anche alla Germania, con il suo Führer. Führer che, ancora in un’intervista del 1939, definì come un «uomo medicina», un «semi-Dio o, ancora meglio, un mito». 42. Jung 1934: v. 10.1, pp. 236-7. Per la lettera del 1913, si veda Noll 1997: p. 114, libro in cui fin dal titolo si descrive Jung come un «ariano» e si documenta il fondamento völkisch (nazionalistico, etnico, razzistico) che informa tutta la sua ideologia di fondo. Per una posizione difforme si può leggere Gaillard 1995: cap. 6, in cui l’autore tenta di giustificare lo psicoanalista svizzero parlando di «passi falsi» ed «errori» di cui il potere nazista poté servirsi.
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Non si fermò certo qui, perché in un’intervista del 1933 si spinse addirittura a compromettere la propria reputazione scientifica, sostenendo i forti punti di contatto fra la sua «psicologia analitica» e la rivoluzione nazista43. Insomma, non è un caso che proprio negli anni del nazismo Freud, che per giunta era dovuto scappare dall’Austria, vedeva le sue teorie censurate e i suoi libri bruciati, mentre le idee di Jung vivevano una rinascita che ancora dura fino ai giorni nostri. Così come non fu un caso che nel 1946 l’ufficio esteri della Gran Bretagna accarezzo l’idea di processare Jung in quanto criminale di guerra, abbandonandola alla fine soltanto nella prospettiva di concentrarsi su pesci più grossi44. Infine, non è casuale nemmeno il fatto che stiamo parlando di un autore che mise per iscritto tutto il suo debito intellettuale verso Nietzsche, descrivendolo come uno dei più grandi spiriti che lo hanno influenzato: «Potremmo facilmente pensare che egli avesse conosciuto ciò che io so oggi» – scriveva Jung nei seminari dedicati allo Zarathustra di Nietzsche. «Perché no? Cosa si può pensare che avrebbe fatto, allora, se avesse posseduto la conoscenza analitica?». ora, sorvolando sulla malcelata superbia scientifica dello psicoanalista svizzero, mi sembra piuttosto significativo che si tratta di quei medesimi seminari in cui egli si abbandonava a considerazioni a dir poco razzistiche, denunciando il pericolo insito nella commistione delle razze (specialmente fra bianchi e neri, che spesso generano un «mulatto» affetto da un «cattivo carattere»). Sì, il mescolamento delle razze genera «quasi sempre» una certa disposizione fragile e sensibile, «poiché le unità non sono ben amalgamate fra loro», e questo è alla base di moltissimi casi di «insanità» e «psicopatologia». Jung, anche in questo ripercorrendo il percorso intrapreso da Nietzsche, non si preoccupava di tradurre le sue teorie 43. Per la conferenza del 1932-1934 si veda Jung 1934² p. 180. L’intervista del 1939 è contenuta in Jung 1939: pp. 115-135. Per l’intervista in cui si spinge a parlare di sincronicità fra la sua psicologia analitica e la rivoluzione nazista, cfr. Jung 1933: pp. 59-66. 44. roazer 1991: pp. 218-9.
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«scientifiche» in termini politici, imputando al cristianesimo e alla democrazia l’idea «metafisica» secondo cui ogni uomo ha lo stesso valore. Invece per lo psicoanalista esistono «tipi inferiori» e, quindi, pretendere di trattare l’«uomo inferiore» nello stesso modo di quello «superiore» sarebbe «crudele», «insensato» e «idiota». Non tutti gli uomini posseggono la medesima dignità e Dio stesso non guarda tutti loro allo stesso modo45. Come negare, pensando agli inevitabili collegamenti fra queste affermazioni e il piano politico-sociale, che Jung avesse fatto propria la lezione di Nietzsche in una direzione quantomeno funzionale alle aberrazioni avvenute nella prima metà del Novecento? Ma ora arriviamo al caso più eclatante. Quello di Martin Heidegger, celebre e monumentale filosofo tedesco del Novecento il quale, anch’egli sotto l’influenza dell’opera nietzscheana, aderì formalmente al nazismo mosso da una carica antisemita estranea a tutti gli autori che abbiamo analizzato finora. un antisemitismo radicale, poiché inserito all’interno del suo ragionamento speculativo, quindi intrinseco e consustanziale al pensiero di Heidegger come in nessun altro filosofo di tale spessore46. Ciò che in Nietzsche era rimasto latente o impossibile – 45. Jung 1934-1939: v. 2, p. 1301; v. 1, pp. 643-4 (il curatore di questi seminari, usciti soltanto in inglese, non si peritava giustamente di specificare che i genetisti di oggi hanno smentito in toto quanto affermato da Jung sugli effetti deleteri di una progenie che provenga da razze miste). Per le accuse a cristianesimo e democrazia, si veda Jung (1934-1939), v. 2, p. 1003. Per un confronto tra Jung e Nietzsche si può leggere l’ottimo lavoro di Gaia Domenici. Tale lavoro, però, non affrontando le implicazioni politiche contenute nell’opera indubbiamente suggestiva dei due grandi autori, giunge a una conclusione decisamente parziale: quella di considerarli entrambi «inattuali», cioè precorritori – e al tempo stesso annunciatori – di un tempo in cui l’uomo riuscirà finalmente a superare se stesso, insieme alle proprie illusioni e nevrosi, Domenici (2019): pp. 241-3. 46. Per il notorio antisemitismo «privato» di Heidegger (e della moglie), rimando a Brencio 2015: pp. 236 sgg. Che questo antisemitismo si fosse tradotto in forme di discriminazione (o preferenza) nelle decisioni accademiche, si veda Farias 1987-1998: pp. 417-20. Il filosofo ha negato in più occasioni il suo antisemitismo, sennonché almeno una testimonianza (fra le tante) sembra togliere
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come l’antigiudaismo che sfocia in antisemitismo, il parlare continuamente di razze superiori e inferiori senza scadere nel razzismo vero e proprio, oppure l’adesione formale a un regime politico considerato interprete della propria filosofia – quasi mezzo secolo dopo si verificava con l’autore di Essere e tempo. Se Nietzsche era stato il più grande dei filosofi che avevano preparato l’ambiente favorevole allo sviluppo del nazionalsocialismo, Heidegger rappresentava il frutto più maturo e succulento reso possibile da quel medesimo ambiente. Ciò che quest’ultimo aveva potuto leggere nel teorico della volontà di potenza, concerne la critica al «popolo eletto» (gli ebrei) e al suo Dio, accusati entrambi di essersi dati al «vagabondaggio in terra straniera», senza restarsene mai quieti e finendo col trovarsi ovunque a casa loro. Sì, il Dio di Abramo e il suo popolo venivano biasimati da Nietzsche per essere dei cosmopoliti, dimentichi della grande importanza di appartenere a un territorio, a una etnia, a una cultura specifica, secondo l’insegnamento tramandatoci dalle grandi civiltà greca e romana47. In Heidegger il concetto veniva ripreso tramite la definizione degli ebrei come «senza mondo» (nel duplice significato di popolo privo di terra e radici, ma anche capace di insediarsi ovunque), espressione di un modello sociale agli antipodi di quello che il nazionalsocialismo è in grado di realizzare. Il filosofo precisava che la questione riguardante il ruolo dell’ebraismo mondiale non andava declinata in termini razziali, bensì concerneva una «domanda metafisica» su quel tipo di «pseudoumanità» che, «essendo del tutto svincolata, potrà fare dello sradicamento di ogni ente dall’essere il proprio “compito” nella storia del mondo»48. ogni dubbio. Quella del discepolo e amico Heinrich W. Petzet, la cui opera è stata sottoposta all’attenta revisione di elfriede Heidegger-Petri (moglie del filosofo e antisemita a sua volta). Parlando di Heidegger, Petzet scriveva: «Se un certo tipo di vita urbana lo disgustava, ciò era ancora più vero per lo spirito mondano dei circoli ebraici che dominavano le grandi capitali dell’occidente», cit. in Farias 1987-1998: pp. 456-7. 47. AC: VI,3, p. 184. 48. Heidegger 1938-1939: v. 95, pp. 96-7 e 168-9; (1939-1941): v. 96, p. 243.
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Qui possiamo comprendere come, secondo la visione di Heidegger, la questione debba essere innalzata rispetto al piano semplicemente etnico o razziale, e venire delineata invece in termini chiaramente filosofici. In questo senso, allora, l’ebraismo – al pari del cristianesimo come anche dell’anglo-americanismo e del bolscevismo – si rivela uno degli arconti fondamentali di quella modernità che ha portato a compimento la metafisica. una modernità che, in questo modo, ha dimenticato l’essere per innalzare l’ente a sostanza assoluta, ha rimosso il pensiero teoretico (quello delle domande originarie) in favore di un pensiero esclusivamente «calcolante» (in vista dell’utile e del guadagno materiale), ha sradicato le identità e le appartenenze specifiche a beneficio del vuoto omologato e omologante di cui necessita la società a matrice capitalistica. Quella in cui sono il denaro, i beni materiali, le cifre quantitative a marcare i valori del vivere esistenziale e del convivere sociale. Quella in cui l’uomo, ridotto a cifra egli stesso (quindi privato di ogni altro tipo di identità e qualifica), è chiamato a vivere una vita inautentica all’insegna del vuoto intellettuale con cui si ricerca un «pieno» esclusivamente materiale (il profitto). In questo senso la Germania si trovava secondo Heidegger nel «mezzo», cioè culturalmente e geograficamente schiacciata dalla «tenaglia» in cui l’europa americanizzata da una parte e l’unione Sovietica dall’altra l’avevano stretta. Due civiltà o culture che sul piano filosofico sono guidate dalle medesime coordinate, consistenti nello scatenamento della tecnica e nella «massificazione dell’uomo»49. È in questo contesto che Heidegger utilizzava il termine «ebraico» per definire una modalità di pensiero all’insegna del «mero calcolo» o di una «vuota razionalità», intrecciando in maniera irrecuperabile la questione filosofica con quella «razziale»:
49. Heidegger 1935: v. 40, pp. 40-3. Secondo il filosofo tedesco, il bolscevismo non era altro che una variante dell’americanismo, Heidegger (1942): v. 53, p. 86.
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«Il momentaneo incremento di potere dell’ebraismo vede tuttavia in sé il proprio fondamento, che la metafisica occidentale, in specie nella sua declinazione moderna, ha fornito il punto di partenza per l’affermazione di una razionalità altrimenti vuota e un’abilità di calcolo, che in questo modo si è fatta rifugio nello “spirito”, senza poter cogliere da sé le ragioni nascoste. Più le decisioni future e le domande diventano originarie e radicali e più rimangono inaccessibili a questa “razza”»50.
Non solo sulla cultura ebraica, insomma, ma forse in misura maggiore su di essa, ricadeva la responsabilità di una modernità sradicata, inautentica e in cui la facoltà di pensare le questioni profonde dell’esistenza è andata smarrita. Ci troviamo di fronte a una questione fondamentale, perché è da questa analisi spietata della modernità – che il filosofo di Essere e tempo aveva ripreso in buona sostanza da Nietzsche, pur con aggiunte di rilievo – che Heidegger partiva per annunciare una «svolta», un nuovo inizio filosofico rispetto a cui la comparsa del nazionalsocialismo giocava un ruolo determinante. È lo stesso Heidegger a scriverlo: «Pensando in termini puramente metafisici, considerai negli anni 1930-1934 il nazionalsocialismo come la possibilità di un passaggio verso l’altro inizio e così lo interpretai». Si trattò di un’adesione filosofica, quindi, ammantata di un preteso rigore scientifico a cui si sono richiamati molti difensori del filosofo (dall’accusa di essere un nazista «rozzo»), ma che tuttavia non gli impedì – nel corso su Hölderlin del 1934-35 – di uscirsene con espressioni riguardo al «Führer» che rientra nella sfera dei «semidèi», o che «essere Führer è un destino e «”destino” è il nome per l’essere dei semidèi». Come se ciò non bastasse, il filosofo si preoccupava di specificare che «destino» non andava inteso nei termini di un’attesa passiva o di una «fatalità ottusa»51. Insomma, Führer e semidèi nazionalsocialisti erano chia50. Heidegger 1939-1941: v. 96, p. 46. Per l’ebraismo come sinonimo di «mero calcolo» e «vuota razionalità», cfr. 1938-1939: v. 95, pp. 96-7 e 19391941: v. 96, pp. 46 e 56. Per il riferimento ad americani, inglesi e bolscevichi, cfr. 1938-1939: v. 95, p. 325. 51. Heidegger 1938-1939: v. 95, p. 408 e 1942: v. 53, pp. 172 sgg. e 210.
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mati all’azione contro la modernità materialistica che stava dilagando grazie alla spinta congiunta del capitalismo americano e del bolscevismo sovietico (con gli ebrei ben inseriti ai vertici di entrambi i contesti). Contro siffatta modernità era chiamato anche tutto il popolo tedesco – da Heidegger considerato il «popolo metafisico» per eccellenza (quando ancora questo aggettivo non aveva assunto in lui una connotazione negativa), che doveva «imparare a conoscere Nietzsche quale destino occidentale e motivo di unità». Sì, è nel nome di Nietzsche – considerato il filosofo emblematico della svolta che la cultura germanica poteva imprimere e a cui il discorso rettorale di Heidegger (1933) rendeva grande omaggio – che l’autore di Essere e tempo chiamava alla «più ferrea unità e al servizio supremo del popolo»52. Come poteva essere altrimenti, del resto, considerato che è proprio dal teorico della volontà di potenza che Heidegger aveva tratto la sua filosofia antimoderna (nel senso di contro il socialismo, la democrazia, il liberalismo, il capitalismo, la scienza e il cristianesimo)? È dalle macerie operate dal martello nietzscheano che si poteva individuare un nuovo inizio, in grado imprimere una svolta all’occidente. Se Nietzsche era stato il geniale anticipatore teorico di questa svolta, il nazifascismo ne rappresentava la possibile realizzazione pratica – l’autentica rivoluzione con cui combattere il nichilismo colpevole di aver abbandonato l’essere –, con Heidegger nel ruolo di collante53. Sarebbe lecito pensare a una ricostruzione forzata, ma che le cose non stanno così lo si può dedurre leggendo quanto scriveva lo stesso filosofo. Per lui, infatti, non era un caso che Hitler e Mussolini, «i due uomini che hanno introdotto un contromovimento nei confronti del nichilismo, sono stati entrambi alla 52. Heidegger 1935: v. 40, p. 41; 1936-1937: v. 43, p. 281 e 1933 per il discorso rettorale. In tempi successivi il filosofo dichiarerà di aver visto e auspicato nel nazismo la possibilità di «un’interiore unità e rinnovamento del popolo tedesco», cfr. Losurdo 1991: p. 123. 53. Xolocotzi et al. (2014): p. 155.
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scuola di Nietzsche, sia pure in modo essenzialmente diverso». ed ora lui stesso – come scriveva in una lettera del 4 maggio 1933 al fratello Fritz Heidegger – decideva di entrare nel Partito nazista «non solo per una convinzione intima», ma anche nella consapevolezza che «solamente in questa forma è possibile una delucidazione e chiarimento di tutto il movimento»54. Ma c’è di più. Sì, perché Heidegger non si è limitato a svolgere – o pensare di svolgere – il ruolo di chiarificatore e ispiratore del III reich. È molto probabile che anche ben dopo la caduta del regime hitleriano il filosofo avesse continuato a pensarsi e ad operare come «Führer spirituale del nazismo», secondo la nota espressione di emmanuel Faye55. Lo dimostra con dovizia di particolari lo stesso studioso francese appena citato, ma soprattutto è possibile dedurlo dalla celebre intervista che Heidegger concesse a Der Spiegel, pretendendo che fosse pubblicata dopo la sua morte avvenuta nel 1976. In questa intervista/testamento, primariamente incentrata sui suoi rapporti col nazionalsocialismo, il filosofo ribadiva una distinzione già avanzata in altri luoghi, nella fattispecie quella secondo cui sarebbe esistito un nazismo originario intenzionato ad affrontare nel modo «giusto» il problema posto dal dominio incontrollato della tecnica56. Questo «buon inizio» sarebbe stato 54. Losurdo 1991: p. 120, per la frase di Heidegger su Hitler e Mussolini che sono stati alla scuola di Nietzsche; Heidegger 1910-1976: v. 16, p. 93 per la lettera del filosofo al fratello. Mentre, per una cronistoria dei rapporti fra Heidegger e il nazismo, che ne documenta anche i punti di frizione (come, per esempio, le dimissioni del filosofo da rettore dell’università di Friburgo, dopo soli 10 mesi e in polemica col regime), si veda Xolocotzi 2013: p. 138. C’è da dire che lo stesso Heidegger (1931-1938: v. 94, p. 348) vergò nei suoi famigerati Quaderni neri le proprie critiche all’idea di una «filosofia nazionalsocialista» fondata sugli assunti di rosenberg, Krieck e Bäumler. Ma il sospetto che si trattasse di una polemica per non essere diventato lui stesso il pensatore di riferimento del regime è piuttosto forte. 55. Faye 2005: p. 393. 56. Nel frammento 81 dei Quaderni neri il filosofo paventava l’affermarsi di un «nazismo volgare», fondato su un «torbido biologismo» impropriamente costruito su riferimenti «demenziali» al Mein Kampf (Heidegger 1931-1938: p. 142). Dalla qual cosa si potrebbe perlomeno dedurre che Heidegger riteneva seriamente argomentato il libro di Hitler…
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rovinato, a sua detta, dalla sprovvedutezza filosofica dei gerarchi. Procedendo nell’intervista Heidegger ribadiva il valore dell’«essenza tedesca», individuando in questa nazione, nella sua cultura e soprattutto nella sua lingua (in contrapposizione soprattutto a quella francese), l’unica possibilità per l’europa di tornare ai fasti che le erano appartenuti in tempi ormai remoti. Infine, il filosofo pronunciava una severa critica dell’attuale sistema democratico (si era nel 1967), ritenendolo incapace di far fronte alla massificazione e all’omologazione insite nella tecnicizzazione del mondo, a differenza di quanto era riuscito a fare il nazionalsocialismo delle origini, quello a cui lui aveva aderito convintamente per solide ragioni filosofiche57. ora, ci troviamo non tanto di fronte al caso, comunque eclatante, di un signore tedesco pronto a fare l’elogio del nazismo (seppure «delle origini»), a distanza soltanto di due decenni dai campi di sterminio e dalle atrocità commesse da quel regime. Quanto, piuttosto, assistiamo a un grande filosofo che, nell’atto di denunciare l’inadeguatezza della modernità – in cui una facciata democratica nasconderebbe l’impianto tecnocratico che omologa gli individui e annichilisce il pensiero autentico – tesseva l’elogio del nazismo come unico regime che fosse andato nella direzione di consentire un rapporto equilibrato fra l’uomo in quanto tale e l’essenza della tecnica. Il già citato Faye ne deduceva che Heidegger – con questa «intervista postuma» – ben lungi dal rifiutare la direzione presa dal nazismo, volesse in realtà farla rivivere dopo il 1945 ed esserne naturalmente (e finalmente!) la guida spirituale58. 57. Sia detto, en passant, che mai una sola parola è stata spesa da Heidegger per biasimare o anche solo ricordare gli orrori di cui si è macchiato il nazismo. Questo è stato dal filosofo criticato in termini squisitamente ed esclusivamente filosofici. Nessun cenno di pentimento o anche solo di denuncia morale per quanto era stato commesso da quegli sprovveduti «filosoficamente» che si sono rivelati essere i nazisti. 58. Faye (2005): p. 394. Più o meno alle medesime conclusioni giungeva Farias (1987-1998): pp. 584-5. Del resto, sembra che privatamente il filosofo avesse confessato all’amico Jaspers il suo proposito di «guidare la Guida (den Führer zu führen)», come riferisce Sluga (1993): p. 172.
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Insomma, quasi che Heidegger, con quell’intervista concessa nel 1967 e uscita nel 1976, avesse lasciato una sorta di testamento filosofico, in cui c’era scritto che occorreva recuperare il nazismo delle origini per restituire pensiero e autenticità a una modernità che li aveva smarriti. un’interpretazione radicale, certo, ma viene piuttosto naturale pensare che colui che si era impossessato di quel medesimo martello con cui Nietzsche aveva distrutto la modernità, volesse ora utilizzarlo per costruire le fondamenta della postmodernità. Il punto controverso è semmai un altro: cosa dobbiamo intendere quando si parla di «nazismo delle origini» e, soprattutto, cosa c’entra in concreto con la nostra epoca postmoderna? Il rapporto fra Nietzsche, il nazismo e ciò che ne è seguito ha presentato aspetti di notevole interesse, seppure inquietanti, ma stiamo per vedere che la questione non si è esaurita lì. Sì, perché l’antiumanismo, il nichilismo, la volontà di potenza, l’anelito a creare una nuova umanità di superuomini o oltreuomini, di cui il pensatore tedesco ha rappresentato soltanto l’apice teorico e, al tempo stesso, un nuovo inizio (con la proclamazione della morte di Dio) – mentre il nazifascismo li ha messi in pratica – da quel momento in poi sono stati tutti elementi centrali del mondo umano fino ai nostri giorni. Con tutti i cambiamenti del caso, certamente, ma costituiscono dei sintomi di un unico virus. Probabilmente sempre presenti, e tuttavia oggigiorno attivi come forse mai prima nella lunga vicenda della Storia dell’uomo. Proclamare la morte di Dio – cioè la fine di una dimensione metafisica a cui l’umanità potesse fare riferimento a vario titolo e di fronte alla quale gli uomini si riconoscessero sottomessi in misura uguale – ha evidentemente liberato e giustificato i peggiori istinti di nichilismo, dominio e morte che pure costituiscono la natura umana. Sì, alla morte di Dio è seguita la deificazione dell’uomo, cioè della creatura che ormai pretende di farsi creatore. Creatore di armi di distruzione di massa, di tecnologie e sistemi produttivi che strumentalizzano e mercificano altri uomini, mettendo a rischio l’ecosistema in cui l’uomo stesso può vivere. Creatore di 261
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se stesso, perfino, attraverso la realtà virtuale e l’intelligenza artificiale intesi come strumenti con cui ridefinire l’identità individuale e l’umano in quanto tale. Insomma, creatore di «mostri» illusori potenzialmente destinati ad ucciderlo, che finiranno per ricordargli nella maniera peggiore il suo essere soltanto un uomo. Umano, troppo umano, post-umano, trans-umano
Per suffragare quanto appena detto, possiamo in prima battuta ricorrere ad alcune affermazioni che, se lette in successione e quindi comparate, portano allo scoperto un filo rosso che lega autori e situazioni assai distanti. Non soltanto in senso cronologico. Iniziamo proprio da Nietzsche, in linea generale assertore del fatto che «l’uomo è qualcosa che deve essere superato». Addentrandosi maggiormente nella sua opera, si trovano affermazioni che ci restituiscono un senso più preciso, come quella per cui «ogni individuo è il tentativo di raggiungere una specie superiore all’uomo». oppure: «Ma se l’uomo è malriuscito: ebbene, coraggio!». «Il superuomo mi sta a cuore, egli è la mia prima ed unica cosa, – e non l’uomo: non il prossimo, non il miserrimo, non il più sofferente, non il migliore […] ciò che io posso amare nell’uomo è che egli sia un trapasso e un tramonto». e ancora: «Creare un essere più elevato di ciò che noi stessi siamo, questa è la nostra essenza. Creare oltre noi stessi! Questo è l’istinto della generazione, l’istinto dell’azione e dell’opera». Bisogna creare gli esseri «che stanno alti, al di sopra dell’intera specie umana». Tutto ciò, sino a una domanda finale ed eloquente: «Come si potrebbe sacrificare lo sviluppo dell’umanità, per favorire l’esistenza di una specie che sia più elevata dell’uomo?». Assai significativa la chiosa dell’illustre autore che aveva citato in sequenza questi propositi di Nietzsche, ossia Karl Jaspers: «Ma come ciò avvenga in realtà, Nietzsche non ha potuto dirlo. egli parla di questo comportamento volto al sacrificio, alla dipartita, al superamento. Ma l’idea illimitatamente grande che ogni autentico
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agire umano abbia come conseguenza l’elevazione dell’uomo, si trasforma in lui gradualmente nella rappresentazione biologica di una crescita umana, che dovrebbe portare alla nascita di un nuovo essere al confine tra la specie attuale dell’uomo e una più elevata»59.
Che poi, volendola dire tutta, non è propriamente esatto sostenere che Nietzsche non avesse potuto argomentare con quali mezzi raggiungere l’auspicata nuova umanità. Certamente egli era vissuto in un’epoca ben lontana dalle potenzialità cui ci mette di fronte la scienza odierna, anche se abbiamo visto che l’ideale eugenetico si era affermato proprio in quell’epoca e il filosofo tedesco ne era rimasto piuttosto affascinato. Tuttavia, in un appunto del 1883 egli si esprimeva in termini decisamente eloquenti, per non dire profetici:
«Modificazione dei caratteri. Allevare al posto di moraleggiare. Lavorare influendo direttamente sull’organismo invece che indirettamente con l’educazione etica. un’altra corporalità si creerà da sé un’altra anima e altri costumi. rovesciamo quindi il rapporto»60.
ora leggiamo in che termini Adolf Hitler descriveva la propria «creatura»: «Coloro che vedono nel Nazionalsocialismo niente più che un movimento politico, ne hanno una conoscenza assai scarsa. esso è anche più di una religione: è la volontà di ricreare l’umanità». Non sorprende per nulla il fatto che l’autore che ha messo l’accento su questa frase del Führer – ossia Jonathan Glover – bollasse alcune teorie di Nietzsche come «puro nazismo». Né sorprendono le parole dello stesso capo nazista, riportate sempre da Glover e rivolte contro quegli intellettuali che forse mai avrebbero immaginato l’avvento di qualcuno che traducesse in pratica le loro farneticazioni. ecco il sarcasmo di Hitler: «oggi le vecchie pettegole del mondo letterario non fanno altro che gracchiare contro di me, accusandomi di “tradimento dello spirito”! Ma sono stati essi stessi, con le loro frasi sofisticate, a tradire lo spi59. Jaspers (1936): pp. 144 e 161-2. 60. VII,I,I: p. 262.
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rito di questo tempo. Finché era vissuto come un passatempo letterario, essi ne andavano fieri. ora che ci siamo noi [nazisti] a fare le cose seriamente, questi spalancano i loro occhioni innocenti»61.
Già, la Storia stava impartendo al genere umano una delle sue lezioni più dure: arriva sempre, prima o dopo, qualcuno disposto a mettere in atto le teorie più estreme elaborate da menti tanto raffinate quanto irresponsabili. È accaduto nel 1933, con il regime hitleriano che attuava la sua follia sanguinaria allo scopo di ricreare l’umanità perfetta, sulla base di quegli aneliti antiumanistici, antimoderni e nichilistici culminati nel pensiero di Nietzsche. ebbene, con tutti i necessari e opportuni distinguo, dovuti a testi e contesti assai mutati, qualcosa del genere accade anche nel nostro tempo. Ho più di un motivo per credere che ciò stia avvenendo in seguito alla lunga scia di influenze provocate da quel cataclisma culturale che è stato il pensiero di Nietzsche. Sì, perché volendo riprendere le parole del filosofo tedesco, mai come oggi appare possibile «sacrificare lo sviluppo dell’umanità» in vista dell’affermazione di una specie superiore. e non soltanto di una parte dell’umanità – che fossero i malriusciti di cui parlava Nietzsche o gli ebrei di Hitler – ma l’uomo in quanto tale, almeno come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi, è destinato a sparire. Di questo sono convinti i teorici di un movimento eloquente già dal nome («postumanesimo»), e ancor di più i sostenitori di una radicalizzazione più recente del postumanesimo stesso, chiamata transumanesimo. Senza entrare per il momento nello specifico, vediamo cosa scriveva nel 2013 un’autorevole teorica del postumanesimo come rosi Braidotti. La filosofa di origini italiane – poi naturalizzata australiana e docente nei Paesi Bassi – partiva da un assunto decisamente nietzscheano: l’amor fati è l’atteggiamento corretto con cui intendere i processi vitali. In questo modo si comprende facil61. Cit. in Glover (1999): pp. 315 e 325-6.
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mente come l’era postumana rappresenta una nuova e necessaria «ondata del divenire», di fronte alla quale l’uomo – mettendo da parte il proprio Ego individuale – si adatta intendendosi come parte di un tutto che travalica la sola prospettiva dell’uomo stesso. Fino alla considerazione finale, con cui Braidotti non lasciava scampo a eventuali fraintendimenti:
«Non ho alcuna nostalgia per l’“uomo”, presunta misura di tutte le cose, né per le forme di conoscenza e auto-rappresentazione che egli ha elaborato. Piuttosto do il benvenuto ai molteplici orizzonti che si sono aperti con il tracollo storico dell’umanismo androcentrico ed eurocentrico. Intendo la svolta postumana come una benevola opportunità di decidere insieme cosa e chi siamo capaci di diventare, l’unica opportunità di cui l’umanità dispone per reinventare se stessa […] Dirò di più, è una chance per identificare le opportunità di resistenza e potenziamento su scala mondiale»62.
Il linguaggio è enfatico, profetico, fondato su un irrazionalismo di fondo con cui si mettono in discussione le conquiste (che in parte sono anche gli errori) della razionalità moderna. La teorica del postumano, infatti, non si riallaccia a Nietzsche soltanto sul piano sostanziale – aderendo a un amor fati sulla base del quale contestare la centralità dell’uomo e della ragione – ma evidentemente anche su quello formale, atteggiandosi a profetessa di una galassia esistenziale profondamente modificata in senso mistico. In questa galassia, l’uomo capisce di essere solo l’ingranaggio (e la tappa) di una forza impersonale che non coincide con l’umano, poiché include anche la «Vita» non umana. Braidotti chiamava «zoe» questa «forza inumana e impersonale che si protende oltre la vita», che «ci muove senza chiedere il nostro permesso per farlo»63. Quasi impossibile trattenere la mente dal fare associazioni con la visione cosmologica tratteggiata da Nietzsche, in cui quella forza misteriosa ma onnipervasiva che è la volontà di potenza irradia e governa ogni cosa. A partire proprio dall’uomo. 62. Braidotti (2013): pp. 131, 136, 190 e 195. 63. Braidotti (2013): pp. 137-8, 159 e 193.
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Sull’onda del postulato nietzscheano secondo cui l’uomo è qualcosa che va superato – specie una volta che ne è stato evidenziato il ruolo secondario all’interno della vita – la teoria postumana rappresenta tuttavia un momento fondamentale ma non definitivo. Tale passo definitivo ritengo sia stato compiuto dal «transumanesimo», radicalizzazione del postumanesimo nella misura in cui, a differenza di quest’ultimo, non si limita a proclamare l’anacronismo dell’uomo, ma ne prefigura la vera e propria estinzione. Sì, stando a quanto affermano coloro che lo teorizzano, il transumanesimo rappresenterebbe una nuova tappa dell’evoluzione della specie: questa tappa, detto in buona sostanza, prevede la graduale estinzione dell’uomo, destinato a contaminarsi gradualmente con le macchine fino a scomparire. A quel punto la terra non sarà popolata da altro che non siano cyborg o umanoidi. Cominciò questo discorso la filosofa americana Donna Haraway, nel 1991. In un’ottica da femminismo postmoderno, ella prefigurava un mondo di cyborg, cioè un mondo «senza genere e senza genesi», ma forse anche un mondo «senza fine». Siamo sempre sulla scia dell’irrazionalismo nietzscheano, con un riferimento che diventava pressoché esplicito quando la Haraway qualificava il cyborg come un essere «convintamente votato alla parzialità, all’ironia, all’intimità e alla perversione. È antagonista, utopico e completamente privo di innocenza». Per l’uomo, secondo la filosofa americana, si tratta di imparare a vivere le macchine con cui ibridarsi e contaminarsi con esse intendendole come dei «sé amichevoli»64. Qualche anno prima, nell’ambito più specifico degli studi sulla robotica, cibernetica e intelligenza artificiale, era possibile confrontarsi con lo scienziato transumanista Hans Moravec, il quale auspicava un mondo post-biologico in cui il cervello umano fosse liberato dalla gabbia del corpo e caricato in macchine autosufficienti e pensanti, che egli chiamava «i bambini della 64. Haraway (1991): pp. 150-1 e 178.
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mente». Si trattava, insomma, di lavorare affinché «il pensiero umano fosse liberato dalla schiavitù di un corpo», così che allo schema dell’evoluzione darwiniana – caratterizzato da un futuro oscuro per l’uomo – ne subentrasse un altro in cui possiamo stabilire da soli i nostri obiettivi futuri, assumendo nientemeno che il ruolo di coloro «che guidano la mano del grande orologiaio»65. Inutile dire che oggi la scienza ha fatto passi da gigante, tanto da rendere perfino superati i propositi espressi dai due transumanisti del secolo scorso appena citati. Sì, ai giorni nostri un guru del transumanesimo come ray Kurzweil, ex collaboratore di Google, può realisticamente sostenere che un’intelligenza artificiale autocosciente in grado di travolgere l’intelligenza umana comincerà a svilupparsi già a partire dal 2045:
«L’elemento determinante di questa mutazione, il cuore del progetto transumanista – riferisce Laurent Alexandre – è l’interfacciamento dell’IA con i nostri cervelli, che alla fine diventeranno degli ausiliari dell’IA. entro pochi decenni Google trasformerà l’umanità: “Fra circa quindici anni, Google risponderà alle vostre domande prima ancora che le abbiate formulate. Google vi conoscerà meglio del vostro compagno, meglio di voi stessi, probabilmente”, ha orgogliosamente dichiarato Kurzweil, convinto anche che si potranno trasferire la nostra memoria e la nostra coscienza in microprocessori già dal 2045, il che permetterebbe alla nostra mente di sopravvivere alla morte biologica»66.
Per ora mi fermo qui, con l’intenzione di affrontare più avanti il discorso su postumanesimo e transumanesimo, scendendo maggiormente in alcuni dettagli. Al momento, sappiamo quanto
65. Moravec (1988): pp. 4 e 158-9. Il riferimento è al biologo richard Dawkins (1986-1996): p. 21, il quale definiva la selezione naturale un «orologiaio cieco», perché «non guarda avanti, non considera le conseguenze e non agisce in base a scopi». 66. Alexandre (2017): p. 52. Nella stessa pagina Alexandre precisa opportunamente che Kurzweil può essere considerato soltanto un ideologo (specie dai suoi detrattori), «ma gli ideologi transumanisti posseggono i mezzi – finanziari e tecnologici – di favorire la sostituzione dell’intelligenza biologica con quella artificiale».
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basta per prendere atto del fatto che ci troviamo di fronte a una nuova e forse definitiva tappa di quel movimento che – passato anche per Nietzsche, che ne è stato l’esponente filosoficamente più alto e influente – coltiva il proposito di rigenerare l’umanità in una forma migliore, più potente e perfino immortale. Se vi fossero dei dubbi, sarebbe sufficiente andare a rivedere la definizione «collettiva» che di «transumanesimo» è stata fornita nel 1998, precisamente dalla World Transhumanist Association:
«Il transumanesimo è un approccio radicalmente nuovo alla futurologia e si basa sul concetto che l’essere umano non è il prodotto finale della nostra evoluzione, ma solo l’inizio. La definizione di transumanesimo è la seguente: 1. Lo studio delle ramificazioni, delle promesse e dei potenziali pericoli dell’uso creativo di scienza, tecnologia ed altri mezzi per il superamento delle fondamentali limitazioni umane. 2. Il movimento intellettuale e culturale che propone come possibile e desiderabile l’alterare la condizione umana usando ragione e tecnologia, quindi abolendo l’invecchiamento ed aumentando le capacità intellettuali, fisiche e psicologiche della razza umana»67.
Il punto è semmai un altro, per certi versi sempre lo stesso. Quale il prezzo da pagare per un obiettivo tanto alto? Sulle spalle di chi dovrà ricadere, soprattutto? Sì, perché sappiamo già che a fare le spese della realizzazione del Superuomo nietzscheano avrebbero dovuto essere i «malriusciti», i sottouomini che dovevano essere eliminati a milioni. Metafore, quelle del filosofo? Forse, ma in ogni caso perlomeno irresponsabili. In compenso non erano di sicuro metafore quelle dei nazisti, secondo i quali si sarebbe realizzata l’umanità ariana in seguito allo sterminio di ebrei, neri, zingari, omosessuali, disabili etc. Nel caso del transumanesimo siamo apparentemente ben lontani dalla furia e dalla pianificazione sterminatrice dei nazisti – questo deve essere chiaro, per non cadere in equivoci sgrade67. In Campa (2010): p. 34.
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voli – ma il prezzo da pagare sarebbe sempre quello più alto (la vita), e mai come in questo caso esteso (perché è tutta l’umanità, stavolta senza distinzioni di alcuna sorta, ad essere chiamata ad estinguersi nelle macchine, nella realtà virtuale e nell’intelligenza artificiale). Basti pensare che non un filosofo o un futurologo, bensì il celebre fisico e cosmologo Stephen Hawking, in tempi recenti ha dichiarato che l’arrivo dell’intelligenza artificiale sarà sicuramente il più grande evento della storia umana, ma col forte timore che possa essere anche l’ultimo. Questo perché noi uomini, così deboli e inferiori alle macchine, rischiamo di diventarne schiavi o, peggio, di essere semplicemente «sterminati»68. Se lo storico ernst Nolte aveva messo sarcasticamente in risalto l’inadeguatezza del nazismo hitleriano rispetto ai propositi ben più radicali del progetto nietzscheano (quanti potevano mai essere, gli ebrei e le categorie prese di mira dal III reich, in confronto all’umanità debole e malriuscita che andava sacrificata secondo Nietzsche?69), con il transumanesimo ci troviamo di fronte a una sorta di nuovo «nazismo» che – lo ribadisco, con tutte le differenze del caso – non si fa alcuno scrupolo a sostenere di operare in vista dell’estinzione dell’umanità in quanto tale. Se a questo aggiungiamo che stiamo parlando di una teoria ai cui obiettivi hanno aderito pressoché tutti i più grandi guru e 68. In Alexandre (2017): p. 252. Nella stessa pagina Alexandre specifica che secondo la visione transumanista (o comunque dei guru dell’AI) l’unica possibilità per l’umanità di evitare l’asservimento consiste nel congiungersi a sua volta col mondo del silicio, abbandonando quello dei neuroni. 69. Lo storico tedesco ernst Nolte (1990): pp. 194-5, rilevava giustamente che portando il pensiero di Nietzsche alle sue logiche conseguenze, ciò che dovrebbe essere sterminato è l’intera tendenza dello sviluppo umano a partire dalla fine dell’antichità classica: cristiani, illuministi, democratici, socialisti, insieme a tutta la mandria dei deboli e dei degenerati: «Se sterminio (Vernichtung) è da intendersi alla lettera – concludeva Nolte – allora il risultato avrebbe dovuto essere un’uccisione di massa in confronto alla quale la “Soluzione finale” nazista sarebbe sembrata microscopica». In un’opera precedente, il medesimo autore scriveva che Nietzsche ha «fornito al radicale antimarxismo politico del fascismo, con decenni di anticipo, il modello spirituale cui lo stesso Hitler non seppe mai essere del tutto all’altezza», Nolte (1963): pp. 616-7.
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proprietari delle multinazionali del digitale (cioè coloro che investono cifre economiche imponenti sullo sviluppo di nuove tecnologie, a partire dalla stessa intelligenza artificiale), possiamo formarci un’idea ben chiara di quanto lo spettro di Nietzsche e del suo «oltreuomo» si aggiri per le vallate entusiasmanti ma inquietanti della nostra contemporaneità. Nazismi
Il transumanesimo è strutturalmente inseparabile dallo tsunami tecnologico che sta investendo il nostro tempo con una radicalità molto più inquietante rispetto alla percezione che ne ha il grande pubblico (specie nel contesto tecnologicamente provinciale e poco rilevante dell’europa). Prima di addentrarci nell’argomento specifico, tuttavia, occorre compiere delle analisi preliminari, poiché anche questo fenomeno contemporaneo si presenta come il frutto maturo di una tradizione culturale che va ricostruita e non può essere semplicisticamente ricollegata al solo Nietzsche e all’influenza delle sue teorie. Per il momento, è sufficiente evidenziare che il teorico principale del transumanesimo – quel ray Kurzweil in genere così parco di riferimenti ai filosofi (a cui preferiva di gran lunga i tecnologi) – decideva di citare proprio una frase di Nietzsche («L’uomo è una fune, tesa tra animale e superuomo, una fune sopra un abisso») per sottolineare che dapprima «ci siamo spinti oltre gli altri animali, mentre cercavamo di diventare qualcosa di molto più grande», e adesso ci è chiaro che l’«obiettivo dell’umanità» consiste in una «trascendenza» che deve essere ottenuta «per mezzo della scienza e della tecnologia intrise di valori umani»70. Insomma, la tesi di fondo della filosofia transumanista, ossia che l’umanità è soltanto una componente del grande divenire che chiamiamo «destino», quindi sottoposta a un processo 70. Kurzweil (2005): p. 275. Cfr. anche Kurzweil – More (2002).
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evolutivo rispetto al quale – se vorrà «sopravvivere – dovrà trascendere se stessa – sembra a tutti gli effetti la versione aggiornata del pensiero nietzscheano. Per comprenderne la genesi e l’evoluzione, fino a determinare il ruolo centrale e decisivo che può avere sull’umanità del nostro tempo, occorre primariamente rivolgere l’analisi in due direzioni. La prima delle quali concerne il «vecchio» nazismo in quanto tale. L’errore che si commette ragionando su questo fenomeno storico, è quello di considerarlo come un’interruzione o deviazione improvvisa rispetto al normale fluire degli eventi. Quasi fosse stato un mostro (monstrum), o un alieno comparso da una specie di altra scena indefinita e piombato sulla vicenda umana per sconvolgerne il corso, fino a quel momento ritenuto contrastato ma «normale», «umano». Partendo da un presupposto del genere, di matrice quasi mistica, per non dire religiosa, risulta pressoché indispensabile spingersi alla ricerca del «peccato originale», di una sorta di «luogo» in cui sarebbe iniziato tutto ciò che ha prodotto la metamorfosi dall’umano al disumano. In questo senso la figura di Nietzsche è tornata utile ai colpevolisti per individuare lo spartiacque tra un «prima» – all’insegna della razionalità, del bene, dell’umanità e della democrazia – e un dopo, connotato da irrazionalismo, male, antiumanismo e autoritarismo. Certo, come abbiamo visto queste seconde componenti sono tutte presenti nel teorico della volontà di potenza, così come non mancano dei riferimenti urtanti alla «razza» o un antigiudaismo che talvolta reclina verso l’antisemitismo71. Tuttavia, si tratta di elementi già riscontrabili in altri pensatori cronologicamente vicini a Nietzsche o a lui contemporanei, per cui sarebbe molto più utile alla comprensione ragionare non in termini di 71. È opportuno precisare che vi sono storici del razzismo disposti a negare alcun tipo di sentimento antisemitico in Nietzsche – come per esempio Hannaford (1996): p. 314 – il quale addirittura sosteneva che nella visione del filosofo tedesco i giudei erano la «razza forte», mentre i germani quella «debole». Di qui il problema della loro convivenza.
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individuazione di un teorico «maledetto», quanto piuttosto di un ambiente storico-culturale diffuso, che poi è culminato in quella radicalizzazione estrema che è stata il nazifascismo. Sì, ben prima e ben dopo Nietzsche e lo stesso nazismo, la vicenda umana ci ha messo di fronte a orrori che non possono essere imputati alla macabra fantasia dei nazisti: il darwinismo sociale, l’eugenetica, la teoria della superiorità di una razza sulle altre, l’imperialismo e il dominio dell’occidente cristiano e liberale sulle etnie considerate selvagge, perfino la schiavitù (se ci si riferisce agli Stati uniti) e lo sterminio programmato, non avevano certamente fatto la loro comparsa nelle pagine controverse del filosofo tedesco o con l’avvento del III reich hitleriano. Prendiamo il paese simbolo dell’occidente, gli Stati uniti. La storia della democrazia americana nasceva senza gli americani, poiché quelle terre erano abitate da indigeni dal colore rosso della pelle. Fin dall’inizio si capì come sarebbero andate le cose, e cioè da quando Cristoforo Colombo, a proposito degli indigeni Aruachi che lo accolsero sulle coste delle attuali Bahamas, scrisse questo rapporto indirizzato ai due monarchi iberici che ne avevano finanziato la spedizione:
«Ci portavano pappagalli e matasse di filo di cotone […] insieme a tante altre cose […]. Non imbracciano armi né le conoscono, perché mostrai loro le spade ed essi, per ignoranza, si ferivano impugnandole per le lame taglienti […] Devono essere buoni e ingegnosi servitori […]. Le Altezze Vostre con una cinquantina di uomini li terranno tutti sottomessi e potranno fare loro tutto ciò che vorranno».
L’autorevole storico americano ha calcolato che soltanto un secolo dopo l’approdo del navigatore genovese, «la scoperta del nuovo mondo aveva provocato fra i 60 e gli 80 milioni di morti». Si trattò di uno sterminio totale, realizzato di proposito, di interi gruppi sociali, religiosi ed etnici, ossia i nativi Pellerossa e gli afroamericani deportati dai coloni inglesi ed europei per lavorare quelle terre sterminate. Insomma, «il più grande genocidio della storia dell’umanità», che si protrasse fino a quasi tutto l’ottocento in forme diverse e sempre più scientificamente violente: malattie appositamente indotte, razzie, asservimento, guerre e massacri. Alcuni storici, seppure attraverso stime con272
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troverse, hanno avanzato l’ipotesi secondo cui nella sola America del Nord la popolazione nativa sarebbe stata soppressa per il 95%. Da segnalare, in particolar modo, il virus del vaiolo indotto ad arte tra le popolazioni pellerossa (che ne furono decimate) e l’uccisione a sangue freddo di donne e bambini, secondo le testimonianze del tempo72. Ancora nel 1970, mentre negli usa imperversava la protesta dei neri (assumendo anche forme radicali), la filosofa Hannah Arendt – che pure era stata accolta in quel paese verso cui sentiva profonda gratitudine – tracciava un bilancio fortemente critico della storia americana a partire dai Padri fondatori. Sì, un «crimine originario» pesa sugli Stati uniti, cioè il «semplice e terribile fatto» che neri e indiani:
«non sono mai stati inclusi nel consensus universalis originario della repubblica americana. Non v’è nulla nella Costituzione o negli intenti dei suoi estensori che potesse essere interpretato in modo da inglobare gli schiavi nel patto originario. Perfino coloro che si dichiaravano favorevoli a un’eventuale emancipazione, pensavano in termini di segregazione dei neri o, meglio ancora, di espulsione».
Certo, a conclusione della sanguinosa guerra civile americana fra il Nord e il Sud (1861-1865), ci sono stati gli emendamenti Tredicesimo, Quattordicesimo e Quindicesimo che avrebbero dovuto evitare forme di discriminazione o violenza razziale, ma la cui sostanziale non applicazione ha soltanto messo in evidenza «l’incapacità o la riluttanza del governo federale a far rispettare le proprie leggi». Leggi contro la discriminazione razziale che sono rimaste «inapplicata per circa un centinaio di anni» – riscontrava sconfortata la Arendt – tanto che non il diritto, bensì la «disobbedienza civile» ha denunciato e fatto cono72. zinn (1980): p. 1, per la lettera di Colombo ai reggenti spagnoli; Stannard (1992): pp. 95 e 151 per le stime sullo sterminio di pellerossa e neri già alla fine del Cinquecento; Todorov (1982): p. 7, Stannard (1992): p. 281 e Diamond (1997): pp. 563 e 567 per il «più grande genocidio della storia dell’umanità», i dettagli e le stime sui morti totali; Calloway (1995): pp. 5 e 50-3 e (2010): pp. 46-8 e 81, per il vaiolo indotto ad arte e lo sterminio a sangue freddo di donne e bambini fra gli indiani d’America.
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scere il «dilemma americano», costringendo per la prima volta tutta la nazione a riconoscere «l’enormità del reato», non solo della «schiavitù», ma della «schiavitù mobile»73. La celebre filosofa di origini tedesche dimenticava di specificare che alla base della schiavitù imperversante negli Stati uniti vi era una solida e consolidata tradizione razziale. Basti pensare che ancora negli anni in cui scriveva Nietzsche, cioè a fine ottocento, Theodore roosevelt – di lì a breve Presidente degli usa insignito del premio Nobel per la pace – ribadiva che se una delle «razze inferiori» dovesse aggredire la «razza superiore», questa non potrebbe che reagire con una «guerra di sterminio»: alla maniera dei «crociati», i soldati bianchi sarebbero chiamati a «mettere a morte uomini, donne e bambini». Superfluo ricordare che sono gli anni in cui negli usa si scatenavano le bande violente, impegnate a ribadire la «supremazia bianca» tramite l’uccisione e la cancellazione dalla faccia della terra dei neri, che andavano gradualmente sterminati come si era fatto e si stava ancora facendo con gli indiani, anche attraverso l’utilizzo della dinamite74. Soprassediamo sulle forme di razzismo messe in atto negli usa contro i cittadini di origine germanica e giapponese nella prima metà del Novecento, che hanno portato alla comparsa dei campi di concentramento e alla marchiatura di individui tramite una stella gialla ben prima che di queste nefandezze si macchiassero i cosiddetti totalitarismi. rivolgo quindi la mia attenzione all’altro paese simbolo dell’occidente cristiano e liberale, ossia l’Inghilterra. Abbiamo 73. Arendt (1972): pp. 90-1 e 81. 74. roosevelt (1951 sgg.): v. I, p. 377; Woodward (1951): p. 332 e Gosset (1965): pp. 262-3. Che di sterminio si fosse trattato lo riconosce anche uno storico inglese contemporaneo come Niall Ferguson (2011): pp. 125-7, laddove riconosce che nel 1650 gli indiani d’America ammontavano a circa l’80 per cento della popolazione complessiva sia in Nordamerica che in Sudamerica (Brasile compreso). Ben diversa la situazione nel 1825, quando tutto era cambiato in maniera radicale. Nell’America spagnola gli indigeni rappresentavano ancora il 59 per cento della popolazione, mentre in Brasile solo il 21 per cento. ecco, in Nordamerica erano stati ridotti a meno del 4 per cento…
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visto che nacque qui la teoria eugenetica, definita da Francis Galton – il cugino di Darwin che la codificò – come la scienza che si propone di operare un miglioramento delle «qualità innate» della razza umana attraverso «l’evoluzione e la preservazione delle razze più elevate»75. ebbene, anche sorvolando sulle violenze e le conquiste compiute in giro per il mondo dall’impero inglese in nome della superiorità etnica e razziale, è sufficiente considerare le caratteristiche della spietata dominazione condotta contro il popolo irlandese. oltre alle violenze e uccisioni, il governo inglese promulgò misure per impedire i matrimoni misti, per escludere gli irlandesi da ogni tipo di istruzione, per discriminarli sul piano della proprietà e dell’industria in maniera da «degradarli a una casta perennemente servile, mai in grado di innalzarsi al livello dei suoi oppressori. Insomma, c’era il razzismo al fondo di queste politiche, quel razzismo che animava già Cromwell quando dette seguito alla politica di colonizzazione dell’Irlanda attraverso le stragi e vendendo come schiavi in America numerosi ribelli. Ciò è vero al punto che lo storico da cui ho tratto queste informazioni, quando alla fine dell’ottocento si impegnò per convincere il governo di Londra a una politica di compromesso con gli irlandesi, utilizzò l’argomento secondo cui in fondo anche gli irlandesi fanno parte della «grande razza ariana»76. Perché meravigliarsi, quindi, che ancora nel 1937 e con il regime di Hitler nel pieno del potere, l’ideologo del nazismo Alfred rosenberg celebrava gli Stati uniti quale «splendido paese del futuro», a cui andava riconosciuto il merito di formulare la felice «nuova idea di uno Stato razziale», lo stesso da cui la Germania nazista doveva adesso trarre ispirazione per realizzare con «forza giovanile» il medesimo progetto anche in europa? Del resto, parliamo di quella Germania nazista che, riprendendo quanto fatto da americani e inglesi nell’ottocento (e dalla democrazia di Pericle nel V secolo a.C.), vietava per legge la 75. Galton (1904): pp. 35 e 49. 76. Lecky (1883-1888): v. II, pp. 371 sgg.; v. I, p. 287-8 e v. II, p. 380 per l’appartenenza degli irlandesi alla «grande razza Ariana».
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miscegenation, cioè la contaminazione di sangue derivante dai rapporti sessuali e matrimoniali fra i membri della razza superiore (bianca o ariana) e quelle inferiori. Hitler in persona aveva più volte dichiarato «la propria ammirazione per l’”efficienza” della campagna americana di sterminio contro i nativi americani». Nel Mein Kampf, inoltre, tesseva l’elogio degli Stati uniti nonché della loro politica di Stato nazionale (e razziale) poiché «semplicemente escludeva certe razze dalla concessione della cittadinanza». Che non si trattasse soltanto di attestati di stima formali, è confermato dalla lettera che lo stesso Führer scrisse al «Daily Mail» il 4 settembre 1937, in cui dopo aver celebrato «l’attitudine coloniale storicamente unica e la forza navale della Gran Bretagna», auspicava un’alleanza di questa con la Germania, che successivamente coinvolgesse anche gli usa in modo da tenere alta la bandiera e «gli interessi del popolo bianco». Sentimenti di ammirazione che, soprattutto riguardo l’epocale ma sanguinosa conquista del Far West negli Stati uniti, erano pienamente condivisi anche da Benito Mussolini77. Sì, quegli Stati uniti che ben dopo il crollo del III reich tennero in piedi le misure eugenetiche, visto che ancora nel 1952 una trentina di stati dell’unione proibivano i «matrimoni interrazziali», considerando elementi di contaminazione non soltanto i neri, ma anche (a seconda dello Stato) i mulatti, gli indiani, i mongoli, i coreani, i cinesi e più in generale «ogni persona di discendenza negra o indiana fino alla terza generazione compresa, ovvero «ogni persona avente 1/8 o più di sangue negro, giapponese o cinese», o anche «avente 1/4 o più» di sangue kanaka (hawaiano). Certo, commentava nel 1952 l’autorevole storico della razza Ashley Montagu – da cui sto traendo queste informazioni – tali leggi contravvenivano alla Costituzione e agli emendamenti che erano stati promulgati dopo la guerra di Secessione, ma ciò non impedì ai tribunali di sostener77. Stannard (1992): p. 153; Lukacs (1998): p. 237; Toland (1976): p. 702; Losurdo (2007): pp. 96-7; Hitler (1925-1926): p. 368 e Kilzer (1994): p. 122.
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le e la stessa Corte Suprema degli Stati uniti non ha mai preso una decisione nei loro confronti78. Gli esempi che ho tratto dalla Storia, nel caso specifico riferiti soltanto ai due paesi simbolo della tradizione cristianoliberale (usa e Gran Bretagna), potrebbero essere agevolmente moltiplicati. Non si tratta di mettere sul banco degli imputati questa o quell’altra tradizione, questo o quell’altro paese, ma semplicemente prendere atto del fatto che gli elementi caratterizzanti l’orrore nazifascista (razzismo, sterminio scientifico e sistematico, imperialismo, eugenetica etc.), non sono spuntati dal nulla teorico e pratico, ma hanno sempre costituito un elemento fondante del pensiero e della prassi di quella dimensione controversa che chiamiamo umanità. Con l’occidente cristiano e liberale in testa – ci conferma l’autorevole storico inglese Niall Ferguson – visto che per esempio la seconda guerra mondiale può essere considerato un conflitto tra quattro differenti versioni della civiltà occidentale: il nazionalsocialismo, il comunismo, l’imperialismo europeo (messo in atto anche da Giapponesi e statunitensi) e il capitalismo americano. Nessuno di essi esente dall’aver adottato pratiche discriminatorie e sanguinose79. Insomma, è necessario abbandonare il ragionamento manicheo e schematico, innanzitutto riconoscendo il nazismo come fenomeno perfettamente umano, quindi inserendolo all’interno 78. Montagu (1966): pp. 386-8. Sono gli stessi storici americani ad ammettere che l’eugenetica, seppure nata in Inghilterra e destinata a prosperare durante il III reich, aveva trovato i suoi più entusiasti prosecutori (e finanziatori) proprio negli Stati uniti, cfr. Kühl (1994): pp. 105 e sgg., il quale documenta come gli studi sull’eugenetica stiano proseguendo in America seppure in forma più «mascherata» (non si ragiona più, formalmente, in termini di razze «superiori» e «inferiori»), e Black (2003): pp. 385-409. 79. Ferguson (2011): p. 253. Lo stesso storico inglese ricordava come tutti i partecipanti al conflitto crearono degli apparati di stato estremamente centralizzati e occhiuti, subordinando in vari modi la libertà individuale all’obiettivo della vittoria militare. Tutti i paesi diversamente alfieri della cultura occidentale, inoltre, discriminarono a vario titolo e con diverse modalità determinati gruppi etnici o razziali presenti nel proprio territorio, seppur non con la sistematicità e la crudeltà raggiunta da sovietici e nazisti.
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di un clima storico-culturale che già ne conteneva semi culturali evidenti, fra i quali spiccavano l’irrazionalismo, l’antiscientismo, l’antiumanismo e il fatalismo, che di fatto si traducevano in una radicale avversione alla modernità cristiano-borghese80. Solo così si può comprendere come Nietzsche, all’interno del cui pensiero erano presenti tutte le componenti di cui sopra, ha avuto certamente un ruolo fondamentale nell’arroventare quel medesimo clima. un clima che negli anni Venti e Trenta del Novecento condusse molti tedeschi della civilissima europa non soltanto a coltivare propositi di sterminio degli ebrei e delle razze considerate inferiori, ma anche a deumanizzare malati mentali, disabili e persone affette da un disturbo dello sviluppo: era degli anni Venti un libro scritto dall’ex presidente della Corte suprema tedesca (Karl Binding) insieme allo psichiatra Alfred Hoche, inquietante fin dal titolo vagamente nietzscheano (L’autorizzazione a distruggere la vita indegna di essere vissuta, sua estensione e forma). In questo testo i due autori parlavano chiaramente di uomini che hanno perso le loro caratteristiche umane, al punto tale che il prolungarsi della loro esistenza doveva essere riconosciuto come dannoso per essi stessi e per la società. Sì, non possedendo caratteristiche considerabili umane, venivano riconosciuti alla stregua di individui «completamente privi di valore». È questo il clima con cui si arrivò alle due guerre mondiali, che produsse la «catastrofe» di cui parlava lo storico Hobsbawm, e distrusse per sempre l’idea utopistica di una Storia che procede in senso lineare verso il progresso e la pace81. Insomma, il contributo di Nietzsche nel fertilizzare il terre80. Per una ricostruzione d’insieme del clima culturale che sfociò nel fascismo si veda Mosse (1964), che nelle pagine conclusive del suo prezioso libro (pp. 312-3) riconosceva i tratti comuni di tutti i fascismi, fra i quali spiccavano il disprezzo per i sistemi economici e sociali esistenti e l’inclinazione a una visione irrazionale del mondo, ispirata all’individualismo e all’acquisizione di un nuovo livello di realtà. 81. Noakes – Pridham (1988): v. 2, pp. 998-9 e Hobsbawm (1987): pp. 327-9. In queste stesse pagine lo storico inglese si discostava dalla mia interpretazione, vedendo in Nietzsche soltanto un «profeta» della catastrofe bellica. Al tempo stesso biasimava l’alone di nostalgia retrospettiva proprio di coloro che
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no della catastrofe imminente è fuori discussione, ma occorre evitare l’errore di pensare che egli ne sia stato «il» teorico e quindi il generatore. Contestualizzando il suo pensiero nel senso che ho spiegato, si comprende che v’è stato nazismo ben prima del nazismo e anche di Nietzsche stesso. Allo stesso modo c’è stato dopo, seppure in forme diverse perché adeguate ai tempi mutati. Basti solo considerare il fatto che di idee nietzscheane era impregnata, nella seconda metà del Novecento, la «Nuova Destra» di Alain de Benoist, ma in un contesto storico-sociale mutato i medesimi empiti antiumanistici, antiborghesi, giudeofobici, antidemocratici, antiegualitari, gerarchici e fatalistici non generarono alcun regime neppure lontanamente assimilabile a quelli nazifascisti82. Del resto, nessun libro (quindi nessun autore) è un «vangelo» che compare all’alba dei tempi, in una condizione in cui la Storia non ha ancora cominciato a dispiegare il proprio corso spesso sanguinoso. Allo stesso modo non può essere certamente consideravano quella precedente alla catastrofe di inizio Novecento «un’età dorata di ordine e pace». 82. Alain de Benoist, nella sua furia antiliberale e anticristiana, con disprezzo del buon senso è arrivato ad affermare che «il grado di omogeneità delle società occidentali attuali supera largamente quello delle società totalitarie del secolo scorso», mentre la libertà come la intendono i liberali si è ridotta a un miserabile «potere d’acquisto», de Benoist (2001): p. 19 e (2001²): p. 73. Praticamente ricalcava il Nietzsche che bollava il liberalismo come «imbestialimento in gregge», GD: VI,III, p. 137. È proprio sulle orme del grande filosofo tedesco che de Benoist accusava il Dio ebraico Iahvé – e con esso lo stato di Israele – di essere l’emblema del nomadismo e della «deterritorializzazione», de Benoist – Molnar (1986): p. 145; quindi affermava l’inesistenza del «paradigma umano» e rifiutava «la morale del bene e del male universale che caratterizza l’etica monoteista», (1983): v. 2, p. 104. Ancora, esaltava la natura e il conflitto, vere leggi della vita insieme ai principi di «selezione, disuguaglianza, gerarchia», (1977): p. 3, per poi accusare «la sinistra» di aver generalmente imposto «il principio che il mondo deve essere reso migliore», traendo dal cristianesimo l’idea nefasta che sia legittimo e perfino opportuno «il rifiuto di accettare le cose così come sono», (2000): p. 32. Sono solo alcuni dei topoi che hanno sempre connotato il pensiero della destra, fondandosi sulla visione della vita nietzscheana per cui la Storia non prevede né uno sviluppo lineare né un senso che la regoli, (1989): v. 2, p. 55.
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un filosofo, ma neppure una filosofia, a produrre uno scenario storico. Semmai è più verosimile il contrario. L’autore di Così parlò Zarathustra è direttamente imputabile per i campi di sterminio quanto Karl Marx lo è per i gulag e gli orrori compiuti in nome del comunismo. È tempo ormai di abbandonare questo tipo di speculazioni e argomentazioni ideologiche e riduttive. Se mai hanno avuto qualche senso, lo hanno perso del tutto oggi che la contrapposizione tra «mondo libero» e «totalitarismi» è stata superata dal corso degli eventi. oggi che il Novecento è alle nostre spalle e ci troviamo di fronte a un contesto sociale completamente trasformato e trasfigurato, in cui i nuovi totalitarismi sembrano emergere proprio nel cosiddetto mondo libero e democratico, in forme meno evidenti ma proprio per questo più capziose. Né questa cosa può meravigliare, perché si tratta di un fenomeno di cui erano consapevoli già Platone e Aristotele nell’antichità – mi riferisco alla democrazia come contesto favorevole alle degenerazioni autoritarie83 – ma che è ancora più significativo ai giorni nostri, quelli in cui vi sarebbero assai più strumenti perché «democrazia» significasse una qualche influenza maggiore del popolo sui meccanismi e sulle dinamiche del potere. Certo, in teoria, perché in realtà le cose non stanno in questo modo. Per accorgersene è sufficiente comparare due autori, assai diversi non soltanto per questioni cronologiche. Il primo è il filosofo italiano Norberto Bobbio, che già nel 1984 sottolineava i rischi antidemocratici insiti nella «computer-crazia» con queste parole: «Inutile dire che il controllo pubblico del potere è tanto più necessario
83. Secondo Platone (Repubblica): 562a, la caratteristica fondamentale della tirannide è di essere prodotta dalla «degenerazione della democrazia», mentre per Aristotele (Politica): 1281a e 1318a, la democrazia coincideva con una sorta di tirannia egoista, poiché «se […] si identifica la giustizia con la volontà di una maggioranza di persone, si può star certi che questa maggioranza agirà ingiustamente […], confiscando le proprietà di una ricca minoranza». Insomma, per Aristotele «una democrazia somiglia in molti punti a una tirannia», se non altro perché in quel regime di governo è sufficiente il potere sovrano di una maggioranza a qualificare come giusta una misura politica.
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in un’età come la nostra, in cui gli strumenti tecnici di cui può disporre chi detiene il potere per conoscere capillarmente tutto quello che fanno i cittadini è enormemente aumentato e praticamente illimitato. Se ho manifestato qualche dubbio che la computer-crazia possa giovare alla democrazia governata, non ho alcun dubbio sul servizio che può rendere alla democrazia governante. L’ideale del potente è sempre stato quello di vedere ogni gesto e di ascoltare ogni parola dei suoi soggetti (possibilmente senza essere né visto né ascoltato): questo ideale oggi è raggiungibile. Nessun despota dell’antichità, nessun monarca assoluto dell’età moderna, pur circondato da mille spie, è mai riuscito ad avere sui suoi sudditi tutte quelle informazioni che il più democratico dei governi può attingere dall’uso di cervelli elettronici».
La seconda è la filosofa e sociologa Shoshana zuboff, che ai giorni nostri – cioè nel tempo delle tecnologie digitali assurte a strumenti onnipervasivi nella mediazione tra l’essere umano e la sua esistenza – diagnostica il dominio di un «capitalismo della sorveglianza» descritto in questi termini:
«Il capitalismo industriale si fondava sullo sfruttamento e sul controllo della natura, con conseguenze catastrofiche di cui soltanto adesso ci rendiamo conto. ritengo invece che il capitalismo della sorveglianza si fondi sullo sfruttamento e sul controllo della natura umana. Il mercato ci riduce al nostro comportamento [in rete, sui social, in base al tipo di navigazione che svolgiamo, n.d.a.], trasformandoci in un’altra merce fittizia impacchettata perché altri possano consumarla. Nei principi sociali della società strumentalizzata, che per i giovani coincidono già con la vita stessa, possiamo vedere con chiarezza ancor maggiore come questo nuovo capitalismo voglia reinventare la nostra natura per i propri scopi. Saremo monitorati e telestimolati come i branchi e gli stormi di MacKay, come i castori e le api di Pentland e come le macchine di Nadella […] una nuova forma di potere che dichiara la fine del futuro umano, con la sua obsoleta fedeltà agli individui, alla democrazia e all’indipendenza necessaria per avere una morale»84.
La comprensione di un siffatto scenario odierno richiede
84. Bobbio (1984): p. 19 e zuboff (2019): p. 470. Lo stesso filosofo italiano, Bobbio (1990): p. 364, partendo dal presupposto che «il segreto è sempre uno strumento di potere», sosteneva che «il sapere tecnico sempre più specializ-
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delle chiavi di lettura non anacronistiche. ossia, intendere il nostro tempo presuppone delle categorie interpretative che non abbiano fatto il proprio, di tempo. Questo significa che per comprendere l’influenza del pensiero nietzscheano sul presente bisogna passare inevitabilmente per l’abbandono della querelle ormai anacronistica tra colpevolisti e innocentisti rispetto al Nietzsche protonazista o meno. Tanto più che parliamo di un filosofo che aveva visto interrompersi la propria vita cosciente nel 1888, quando si era ben distanti anche solo dal parlare di nazifascismo. Allo stesso tempo è evidente che – specie intendendo il nazifascismo nei termini di regimi determinati che hanno gestito un potere politico e militare fra il 1922 e il 1945 – vi sono solidi elementi sia per sostenere la «colpevolezza» del grande filosofo tedesco, sia per perorare la sua «innocenza». Soltanto un eccesso di colpevolismo (o di opportunismo, da parte dei nazifascisti) ha potuto spingere alcuni autori o protagonisti della Storia a vedere nel filosofo tedesco il teorico degli orrori messi in atto dal III reich guidato da Hitler. esattamente allo stesso modo in cui soltanto un eccesso di innocentismo (o ammirazione acritica e opportunistica) ha condotto autori e studiosi a considerare Nietzsche un pensatore del tutto «impolitico», un «esteta» le cui affermazioni riprovevoli e urtanti avevano appunto lo scopo artistico di «colpire» il lettore; oppure a vedere in lui il filosofo le cui teorie del superuomo e della volontà di potenza in nulla potevano ispirare l’operato di regimi politici. In pari misura, risulta debole (per non dire ridicola) l’argomentazione di chi ha inteso imputare la «nazificazione» del filosofo alla sorella elisabeth. Quest’ultima ha certamente riordinato in maniera arbitraria alcuni frammenti postumi del fratello (pubblicandoli sotto forma del libro La volontà di potenza, spesso annunciato da Nietzsche ma mai terminato), così come ne ha eliminati alcuni che si riferivano negativamente alla propria perzato diventa sempre più un sapere di élites, inaccessibile alla massa. In questo senso la tecnocrazia, così piena di arcana, si rivela per la massa come una forma di sapere esoterico, quindi incompatibile con la sovranità popolare».
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sona. Ma quei frammenti non li ha ideati né scritti lei, e obiettivamente sono perfettamente coerenti rispetto a quanto Nietzsche aveva intenzionalmente pubblicato durante la sua vita cosciente85. evidentemente, quella «nazificazione» era in qualche modo già nel pensiero del grande filosofo, come peraltro nel suo tempo e in tutta una tradizione di autori reazionari all’interno della quale il teorico della volontà di potenza rientra a pieno titolo. Sarebbe molto più ragionevole concludere che il nazifascismo ha rappresentato al tempo stesso la radicalizzazione e la tragica apoteosi di una tale tradizione. Ancora più ragionevole, per dirla tutta, sarebbe anche prendere finalmente coscienza del fatto che il nazifascismo, prima ancora di essere stato una teoria filosofico-politica e un regime di governo, costituisce un elemento inscindibile dalla natura umana, animale e vegetale. Quella stessa natura in cui convivono conflittualmente (e sorprendentemente) amore, solidarietà collaborazione, pace ed armonia, ma anche odio, prevaricazione, dominio del più forte sul più debole, concorrenza, conflitto, crudeltà (spesso gratuita), guerra. Sostenere che convivono, 85. Il lascito dei frammenti non pubblicati da parte di Nietzsche (noto col nome di Nachlass) è imponente. Basti solo pensare che concerne 4869 delle totali 7945 pagine che compongono l’edizione critica in tedesco di Colli e Montinari (KSA). All’interno di questo abbondante materiale, la sorella elisabeth Förster-Nietzsche e Peter Gast («due nullità filologiche e filosofiche», come li definì lo stesso Montinari) scelsero arbitrariamente 1067 aforismi (modificandone la composizione, l’ordine e talvolta le divisioni, ma senza mai inventare il testo, per quello che ne sappiamo), che diventarono La volontà di potenza. Tentativo di una trasvalutazione di tutti i valori. un «non libro» (come è stato chiamato) destinato a esercitare grande influenza sul nazismo ma anche su importanti filosofi (è noto che Heidegger lo considerava il testo principale di Nietzsche). Tutto ciò premesso, va detto che Nietzsche annunciò nelle sue stesse opere edite di stare lavorando su questo libro (di cui aveva comunicato titolo, sottotitolo e capitoli), e anche se alla fine vi dovette rinunciare (si «arrese», per usare l’espressione di Montinari), è molto probabile che molti aforismi li avesse composti per questo lavoro che egli stesso aveva annunciato come la sua opera somma, cfr. Schrift (2012): pp. 406-414.
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significa che spesso si intrecciano in maniera talmente intricata da assumere le fattezze di un gomitolo multicolore, rispetto al quale risulta pressoché impossibile operare delle distinzioni nette tra i vari fili (bene/male, buono/cattivo, giusto/sbagliato, torto/ragione etc.). Sì, come dimostrò lo psicologo americano Philip zimbardo con il suo celebre e controverso esperimento del 1971 a Stanford, i «luoghi oscuri che imprigionano la mente», il «lato brutale della natura umana» e in generale le molteplici forme in cui sospendiamo la nostra umanità, sono come batteri sempre presenti nell’organismo dell’uomo, pronti a risvegliarsi con facilità e velocità sorprendenti qualora i «processi situazionali e sistemici» (si legga: il contesto storico, sociale, personale etc.) si rivelassero funzionali a modificare personalità fino a quel momento pacifiche e «normali». È l’«effetto Lucifero»86. Soltanto un atteggiamento moralistico e illusorio – che peraltro Nietzsche per primo aveva studiato con impareggiabile precisione – potrebbe spingere a vedere nel nazifascismo (con tutto il suo portato di crudeltà, razzismo, imperialismo, guerra e sterminio) un alieno mostruoso, sceso improvvisamente su una terra fino a quel momento governata da pace e amore fra gli elementi che la abitano. Non a caso lo storico Niall Ferguson, a conclusione del suo ponderoso libro sul secolo più violento della Storia (il Novecento) – libro ispirato da un continuo confronto con il racconto di H.G. Wells apparso all’alba del XX secolo (La guerra dei mondi) – tracciava un bilancio che vale la pena riportare per intero, considerando le inquietanti note profetiche che ci conducono fino al tempo presente (era il 2006): «La guerra dei mondi rimane fantascienza. La guerra del mondo,
86. zimbardo (2007): pp. 444-5. In estrema sintesi, l’esperimento di zimbardo è consistito nel prendere un gruppo di persone mentalmente sane e simulare per loro un contesto carcerario in cui alcuni facevano le guardie e altri i detenuti. Al di là dei singoli casi e delle specifiche dinamiche, l’esperimento mostro la facilità con cui un contesto «fertile» sia in grado di risvegliare il batterio della crudeltà disumana anche in soggetti che non avevano mai dato alcuna prova di cattiveria nella loro personalità.
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invece, è un fatto storico. Forse, come nel racconto di Wells, il nostro mondo cesserà improvvisamente a causa dell’intervento di organismi microscopici come il virus dell’influenza aviaria, che potrebbero mutare in forma cattiva e produrre una pandemia peggiore di quella del 1918. Fino a quel momento, tuttavia, restiamo noi i peggiori nemici di noi stessi. Potremo evitare un altro secolo di conflitti soltanto se comprenderemo le forze che hanno animato quello che ci siamo lasciati alle spalle, le forze oscure che da una crisi economica hanno sprigionato conflitti etnici e rivalità imperiali, negando in questo modo la nostra comune umanità. Forze oscure che continuano ad agitarsi dentro ciascuno di noi»87.
riuscire a concepire il nazismo come un fenomeno interno all’umano ci spinge a comprendere come esso può sempre ripresentarsi, seppure con modalità anche molto diverse, quale segno di quell’istinto distruttivo e autodistruttivo che alberga nell’uomo e che lo stesso Nietzsche aveva concettualizzato nei termini più alti con il suo nichilismo. È bene sapere, insomma, che non si sono certo dovuti attendere gli orrori novecenteschi perché una parte di umanità volesse negarne (o sterminarne) un’altra, rivelandosi la medesima umanità come la peggior nemica di se stessa. Allo stesso modo, non andiamo lontano nella comprensione se non abbandoniamo la logica binaria (ispirata all’aut-aut) e ne assumiamo una più complessa, che il filosofo Hegel (tanto osteggiato da Nietzsche88) avrebbe definito «dialettica». 87. Ferguson (2006): p. 646. 88. L’incompatibilità fra i due filosofi tedeschi è facilmente intuibile, per esempio, da questo passo in cui il razionalissimo Hegel avrebbe potuto tranquillamente riferirsi all’irrazionalista Nietzsche: «un filosofare senza sistema non può esser niente di scientifico; e oltreché un siffatto filosofare per sé preso esprime piuttosto un modo di pensare soggettivo, è, rispetto al suo contenuto, accidentale […]: molti scritti filosofici si restringono in tal modo a esprimere soltanto pareri e opinioni», Hegel (1817-1830): § 14A. Malgrado ciò, c’è stato chi ha ritenuto i due filosofi contrapposti ma complementari. Per esempio nella critica al liberalismo, quella teoria che secondo loro sostiene la libertà dell’individuo senza problematizzare quali sono le condizioni interne (soggettive, per Nietzsche) ed esterne (oggettive, in Hegel) all’individuo stesso che rendono possibile (e fruibile) quella medesima libertà, Dudley (2002): specialmente le pp. 227 e 240.
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La logica dialettica è quella maggiormente in grado di tenere insieme i lati controversi del mondo umano, portando alla luce in ogni cosa che lo abita quella «contraddizione» che si rivela come la caratteristica «più profonda ed essenziale» per comprendere la conflittualità del tutto. Ma anche per accettare la plausibilità della coesistenza di comparse apparentemente inconciliabili all’interno di un medesimo scenario89. Nel caso specifico, ci aiuta a cogliere la possibilità di trovarsi contemporaneamente di fronte a un grande filosofo che è stato in grado, come pochissimi altri, di scandagliare la condizione umana. Al tempo stesso, però, il medesimo pensatore è stato anche l’autore di teorie estreme che, di lì a breve, avrebbero innervato per buona parte la politica di guerra e sterminio messa in atto dal nazifascismo. I filosofi non imbracciano fucili né scrivono le leggi, certo, ma in compenso con le loro opere possono diventare armi e ispirare determinati legislatori. utilizzando un metodo siffatto si arriva a comprendere anche la perfetta plausibilità di un filosofo che, al tempo stesso, teorizzava l’emancipazione umana e la schiavitù. Contraddizione irrisolvibile? No, se soltanto si ricorre ancora una volta a una categoria hegeliana come quella di differenziazione (o «distinzione»): si tratta cioè di distinguere il fatto che a emanciparsi, secondo Nietzsche, dovevano essere soltanto i pochi benriusciti, mentre il grande numero del gregge popolare doveva rassegnarsi a subire la condizione di schiavitù in cui l’aveva posto il destino. Acquisita una siffatta visione di insieme, che consente di comprendere al tempo stesso la complessità e la contraddittorietà del reale, è possibile occuparsi della seconda direzione verso cui intendo rivolgere il mio bilancio del pensiero nietzscheano. La prima direzione ha visto come obiettivo quello di considerare il nazifascismo nella sua concretezza storica, quindi come il momento di massima radicalizzazione (e realizzazione) di un contesto ideologico-culturale non certo cominciato con il 1922 o con il 1933 (né terminato con i regimi di Mussolini e 89. Hegel (1969-1979): v. VI, p. 75 (Scienza della logica); zizek (2012): p. 201.
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Hitler). In tale contesto, quindi, accostare Nietzsche a questo movimento è pertinente soltanto nel senso del contributo che la sua filosofia del male ha fornito a una tradizione di pensiero reazionaria, estremistica e antimoderna, che poi ha finito con innervare tanto l’ideologia di destra quanto quella di sinistra. Ma non ci si può certo fermare qui. Il filosofo attuale
La seconda direzione verso cui intendo rivolgere la mia interpretazione del filosofo tedesco – dopo aver riscontrato come egli abbia influenzato in vari modi tutto il Novecento – riguarda direttamente la nostra epoca. Come già accennato, infatti, ritengo esserci molto più Nietzsche negli anni Venti del XXI secolo di quanto ve ne fosse nel periodo compreso fra le due guerre mondiali o anche nei movimenti di contestazione degli anni Sessanta e Settanta del XX secolo. Ciò perché l’eterogeneo e multiforme movimento culturale che per molti versi ha tratto ispirazione dalla sua filosofia, con alcune semplificazioni definito post-modernismo, è pervenuto oggigiorno a uno stadio ulteriore e conseguente, in grado di innervare quasi completamente il tempo presente. Come cercherò di dimostrare, il teorico della volontà di potenza ha avuto un ruolo fondamentale nell’ispirare l’esito «anti-umano», «post-umano» e infine «trans-umano» vissuto dalla nostra epoca. Si tratta di uno stadio ulteriore o, meglio, dei veri e propri postumi di un ormai decennale sbornia quale è stata quella post-modernista. Certo, è evidente che arrivati a questo punto il libro si trova di fronte a una svolta: quello che è stato sin qui uno studio critico su Nietzsche, si trasforma ora in un’analisi a partire da Nietzsche, in cui le principali riflessioni del pensatore tedesco vengono applicate per interpretare il mondo contemporaneo. Il rischio di scadere nell’utilizzazione arbitraria di un grande filosofo è alto, anche se con Nietzsche sempre e comunque in agguato. Se non altro perché la complessità del suo pensiero, come anche la frammentarietà e la contraddittorietà che lo con287
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traddistinguono, rendono impossibile l’impresa di «comprenderlo» (Giorgio Colli parlava di «falsari», rivolgendosi a coloro che pretendono di interpretare le parole suggestive di Nietzsche per dare lustro alle proprie)90. Il filosofo tedesco va piuttosto esperito, come sosteneva Heidegger, e «giammai esperiremo chi è Nietzsche per mezzo di un resoconto storiografico sulla sua vita o attraverso un’esposizione del contenuto dei suoi scritti». Nietzsche, ancora secondo le parole del suo illustre epigono e compatriota, non è stato soltanto un filosofo fra gli altri, perché attraverso il suo pensiero ha portato a compimento un’epoca lunghissima. Quell’età che dai Greci antichi fino allo stesso Nietzsche – stando al parere di Heidegger – è stata connotata dal pensiero metafisico, e che con il teorico dell’eterno ritorno giungeva al suo stadio più alto e al tempo stesso «finale». ecco perché Nietzsche va interpretato oltre il suo pensiero, con tutti i rischi del caso e ben al di là del trascurabile consenso o dissenso rispetto alle sue idee:
«Sia che accogliamo la “filosofia” di Nietzsche nel nostro patrimonio culturale, sia che invece la lasciamo da parte, la cosa è, in entrambi i casi, ugualmente senza importanza. Fatale sarebbe soltanto se noi, senza la risolutezza per il domandare genuino, ci “occupassimo” semplicemente di Nietzsche e ritenessimo questa “occupazione” un confronto speculativo col suo solo pensiero […] Il mero trastullarsi con pensieri filosofici a fini di intrattenimento o di rinnovamento spirituale, un trastullarsi che accampando varie riserve si tiene fuori, è deprecabile; non sa infatti che cosa è posto in gioco nel ragionamento di un pensatore»91.
90. «un falsario è chi interpreta Nietzsche utilizzando le sue citazioni, perché gli farà dire tutto quello che vorrà lui, aggeggiando a suo piacimento parole e frasi autentiche. Nella miniera di questo pensatore è contenuto ogni metallo: Nietzsche ha detto tutto e il contrario di tutto. e in generale è disonesto servirsi delle citazioni di Nietzsche parlando di lui, poiché così si dà valore alle proprie parole con la suggestione che suscita l’introduzione delle sue», Colli (1974): p. 196. A mio avviso questa considerazione non rende del tutto giustizia al filosofo tedesco. Se infatti il suo pensiero è oggettivamente frammentario e contraddittorio, tuttavia non è privo anche di punti fermi ed elaborazioni qualificanti che spetta al duro lavoro dell’interprete portare alla luce. 91. Heidegger (1961): pp. 393 e 397-9.
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Con Nietzsche giunse alla fine l’epoca moderna e metafisica, perché armato del suo martello il filosofo tedesco abbatté tutti gli idoli di quella stessa epoca, riuscendo a guardarne negli occhi i mostri. Tuttavia questo non ha impedito che la nuova epoca, postmoderna, mondanizzata e decostruita dei vecchi idoli (Io, Dio, ragione, Scienza, Identità, umanità, Verità etc.), ne generasse di nuovi. Con un certo spirito nietzscheano, spetta al nostro tempo l’individuazione e l’abbattimento di questi nuovi idoli. Consapevoli che ciò comporterà il guardare negli occhi i nuovi mostri, i quali, a loro volta, dopo che li avremo spogliati dalle maschere, fisseranno i nostri. un rischio pressoché obbligato. Ma forse non il peggiore in un’epoca come la nostra che, al posto della liquidazione del moderno e della metafisica, sembra procedere spedita verso l’annullamento dell’umano. 2.
Un ponte fra le epoche
Nietzsche è stato un pontefice delle epoche. Con ciò non intendo in alcun modo affermare una sua presunta superiorità rispetto ad altri pensatori, di livello pari se non maggiore. Allo stesso modo, certamente, non voglio dire che egli sia stato il solo e neppure il principale a esercitare un’influenza destinata a durare nel tempo. È che lo ha fatto in una maniera del tutto peculiare, per non dire unica. Nietzsche è stato un filosofo epocale nel senso che le sue idee possono essere viste come un collante fra tre grandi epoche. Idee che, per prima cosa, hanno portato letteralmente a compimento una tradizione lunghissima (i duemila e cinquecento anni di «metafisica» che lo hanno preceduto); quindi hanno influenzato in maniera significativa quella che è venuta subito dopo (il Novecento del terrore nazifascista, prima, e del «postmoderno», poi); infine hanno prefigurato e posto le basi per l’era ancora successiva, che nella fattispecie è quella del tempo 289
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presente (il XXI secolo del «postumano» e del «transumanesimo»)92. Se il Novecento è stato caratterizzato dal «superamento di una doppia soglia» – come ha scritto il sociologo Marco revelli – cioè quella che separa «umano e Disumano» (nella prima metà «totalitaria» del secolo) e poi quella che divide «umano e Postumano» (nel finale tecnocratico del XX secolo)93, Nietzsche ha rappresentato il substrato teorico che ha reso possibile e accompagnato quel doppio superamento. In questo senso comprendiamo come egli non si è limitato soltanto a influenzare le epoche successive, ma ha costruito un ponte virtuale con cui è possibile collegare in maniera sorprendente il suo tempo al nostro. Quasi un secolo e mezzo di Storia. Lo ha fatto ben consapevole di quella che Cesare Pavese avrebbe chiamato «la portata del ponte»94: ossia, in questo caso, il lunghissimo arco di tempo che sarebbe occorso perché il messaggio di Nietzsche trovasse la sua piena comprensione e attuazione. Chiunque voglia intendere la frattura irreparabile avvenuta fra i duemila e cinquecento anni che hanno preceduto il filosofo tedesco e il XXI secolo, insomma, non può non percorrere quel ponte rappresentato dai pensieri frammentari e spesso contraddittori di Nietzsche. Del resto, già nel 1936 Karl Jaspers parlava del teorico della volontà di potenza come di uno che «spacca in due la storia dell’umanità», mentre vent’anni dopo Heidegger connotava il «Superuomo» come un qualcosa che «va oltre il tipo dell’uomo quale si è determinato fino ad oggi, e quindi è un passaggio, un ponte»95. Ma una cosa dev’essere ben chiara: siamo noi, oggi, che ci troviamo a fare i conti con gli effetti di quella spaccatura, con lo scenario al di là del ponte. 92. Non per caso c’è stato chi ha parlato di un Nietzsche al tempo stesso «premoderno, moderno e postmoderno», Pippin (1996). 93. revelli (2020): p. 11. 94. Pavese (1952): pp. 156 e 280. 95. Jaspers (1936): p. 144 e Heidegger (1957): p. 70. La metafora del ponte torna anche in Heidegger (1931-1938): v. 94, p. 349.
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Per questo è da ritenersi ormai anacronistico e riduttivo analizzare l’influenza che Nietzsche ha esercitato sul terrore nazifascista. Quest’ultimo, come detto, ha rappresentato la tragica apoteosi di una corrente impetuosa, la cui sorgente risaliva a ben prima del nostro filosofo. una corrente che, semmai, ha finito col trascinare anche lui insieme ad altri uomini e autori di indiscutibile spessore. Decisamente più attuale riflettere su un pensatore che, peraltro con ostentata consapevolezza delle proprie capacità profetiche, ha elaborato a fine ottocento dei concetti su cui la cultura non solo filosofica del Novecento si è appoggiata per condurci allo scenario odierno. Analizzare e comprendere tale scenario è lo scopo ulteriore di cui si fa carico il presente lavoro. un andare oltre Nietzsche con gli strumenti nietzscheani, si potrebbe dire, avendo netta l’impressione che il ruolo giocato dal pensatore tedesco nell’abbattere a colpi di martello i due millenni di cultura occidentale che lo hanno preceduto, è stato ancora più incisivo nel plasmare l’occidente in cui si trova ad abitare l’uomo odierno. Insomma, così come a suo tempo il filosofo tedesco non si è limitato a contemplare passivamente il tramonto dell’occidente metafisico, allo stesso modo il suo pensiero ha giocato un ruolo chiave nel prefigurare l’alba della nuova epoca – la nostra – quella in cui a tramontare è piuttosto l’uomo. In tal senso mi tornano utili due celebri interpretazioni che sono state fornite nel Novecento da Martin Heidegger e Karl Jaspers. entrambi esistenzialisti, il primo aveva aderito al nazismo anche a fronte di una specifica rielaborazione in chiave socio-politica delle idee di Nietzsche, mentre il secondo, a causa dello stesso regime politico, dovette abbandonare l’insegnamento universitario salvo poi affermarsi come uno degli psichiatri e psicologi che meglio seppero diagnosticare il male di vivere, anche grazie a uno studio profondo ed empatico del Nostro. Heidegger ritenne di vedere in Nietzsche l’ultimo prigioniero della metafisica occidentale, colui che riuscì come nessun altro ad abbattere le illusioni sull’esistenza di un mondo trascendente, ma per sostituirle con una sorta di deificazione dell’uomo 291
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(non liberandosi del tutto, quindi, dell’anelito metafisico). Che altro sono, in fondo – secondo l’interpretazione heideggeriana – la volontà di potenza e l’eterno ritorno, se non due ulteriori categorie metafisiche con cui dotare l’uomo di punti fermi per «dire sì alla vita» e illudersi di padroneggiare il divenire, dopo la fine delle certezze metafisiche e la morte di Dio? Secondo questa visione, Nietzsche sarebbe stato il punto più alto e finale di tutta la secolare storia dell’illusione metafisica a partire da Platone, ma proprio per questo un pensatore che non ha saputo abbandonare la pretesa dell’uomo (l’ente) di voler controllare il tutto (l’essere), riuscendo soltanto a esprimere l’«ultima parola della metafisica»96. Difforme e più empatica l’interpretazione di Jaspers. Secondo questi Nietzsche, consapevole di aver spento tutte le luci sacre dell’occidente, compresa la fiammella tenue dell’«esperienza religiosa», quella che pone l’uomo di fronte all’«abisso» nel momento in cui gli consente però anche di cogliere «una trasparenza dell’essere nell’esserci»97, aveva comunque sentito il desiderio di salvare l’umano dal buio totale. Ci aveva provato inserendo l’uomo entro due dimensioni (eterno ritorno e volontà di potenza) che ne salvaguardassero quantomeno la possibilità di continuare a vivere. Certo, purché fosse disposto ad accettare di non essere il soggetto e la misura di un mondo ritagliato sui suoi bisogni, bensì un «cerchio inscritto in quello più ampio della necessità cosmica», secondo le parole suggestive di umberto Galimberti. Ma leggiamo Jaspers: «L’ateismo di Nietzsche è l’espressione estrema della sua totale rottura con il contenuto storico tradizionale, nella misura in cui questo parla un linguaggio che aspira ad una validità universale: per lui tutti gli ideali dell’uomo sono tramontati; egli vuole rigettare la morale, abbandonare la ragione e l’umanità. Vede nella verità una menzogna universale, nella filosofia fino ad oggi un continuo inganno, nel cristianesimo una vittoria dei malriusciti, dei deboli e degli inetti; non c’è nulla di sacro, di valido, che non sia stato condannato dal suo giu96. Heidegger (1961): pp. 745 e 545; Galimberti (2005): p. 525. 97. Jaspers (1932-1956): v. 3, p. 130.
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dizio […] Nietzsche coglie il positivo non già nell’immanenza piattamente determinata, ma nell’orizzonte infinito, in ciò che è privo di limiti determinati. Ma nel momento in cui vengono sciolti tutti i vincoli e infranti tutti gli orizzonti chiusi, di fatto il pensiero si perde nel nulla […] Se, dopo aver rotto e perduto ogni fondamento, dopo essere andato a finire in mare col travolgente impeto della sua corrente, Nietzsche si àncora all’eterno ritorno e agli altri contenuti che diventano dogmatici, è come se si salvasse su una lastra di ghiaccio, destinata a sciogliersi»98.
Il punto è proprio questo: abbattere a colpi di martello tutti i fondamenti filosofici, politici e valoriali dell’occidente, da Nietzsche riassunti sotto il termine «metafisica», ha provocato un vuoto di riferimenti tale da coinvolgere anche l’uomo stesso. Del resto, di questo inevitabile coinvolgimento dell’umano nell’evaporazione dei fondamenti morali e culturali dell’occidente, era ben consapevole lo stesso Nietzsche, per esempio quando nell’aforisma 417 di Aurora scriveva che «già molti sono arrivati all’umiltà che dice: credo quia absurdum est, e offre in olocausto la sua ragione; ma nessuno, per quanto io sappia, è ancora giunto a quell’umiltà che dista soltanto un passo dalla prima, e che dice: credo quia absurdum sum». L’insensatezza e l’assurdità del tutto, che Nietzsche aveva denunciato consapevole di aprire all’umanità il destino di «naufragare nell’infinito», non poteva che divenire l’assurdità dell’uomo medesimo, almeno per come esso si era autorappresentato fino a quel momento99. Non è possibile decostruire tutte le cose principali che l’uomo si illudeva di conoscere, senza mettere in discussione anche il soggetto conoscente. offrire in olocausto la propria ragione non bastava più, perché l’uomo doveva ormai immolare tutto se stesso al tramonto dell’occidente. Nietzsche lo affermava in maniera fin troppo chiara proprio descrivendo il «superuomo», ovvero l’«oltreuomo» come scopo di una nuova visione del mondo proiettata al di là dello scenario metafisico tipico della 98. Jaspers (1936): pp. 397-8. 99. M: V,I §§ 417 e 575.
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vecchia umanità (e della modernità): «Non umanità, bensì superuomo è il fine»; l’uomo stesso «è qualcosa che deve essere superato»100. Questo oltreuomo non poteva più appoggiarsi sui valori umanistici con cui si è formato l’occidente cristiano, poiché umanesimo vuol dire centralità dell’uomo e delle sue facoltà. Ma Nietzsche prefigurava uno scenario di tipo nuovo, senza Dio e con l’uomo relegato a pedina di una scacchiera giocata dal Fato eternamente ritornante. In questo senso, anche se trovo l’interpretazione di Jaspers complessivamente più veritiera rispetto a quella di Heidegger, ritengo che sia stato quest’ultimo ad aver compreso le implicazioni in prospettiva futura del discorso nietzscheano. Sì, Heidegger aveva compreso che «il tratto specifico di ogni metafisica consiste nel suo essere “umanistica”. Pertanto ogni umanismo rimane metafisico»101. Quindi l’uomo stesso, perlomeno come lo si era inteso fino a quel momento, non poteva più pensare di sussistere al centro di una nuova galassia esistenziale da cui fosse stata eliminata la metafisica. Dissolta l’una, spariva con essa anche l’altro, e insieme a questi evaporava l’idea stessa di umanità su cui l’occidente cristiano aveva fondato la propria identità e superiorità, con annesso dominio sulle altre civiltà102. 100. VII,II: p. 192 e z: VI,I, p. 6. Per la questione della traduzione di Übermensch con «superuomo» o «oltreuomo», si veda Galimberti (2005): pp. 506-7 e, naturalmente, colui che ha proposto questa diversa traduzione, Vattimo (1974). 101. Heidegger (1947): p. 275. Per un’analisi ampliata della questione si veda Pippin (1991): cap. V e (1991²). 102. Il dominio dell’occidente sulle altre civiltà è stato tale che il primo non ha mai rinunciato al privilegio di usare criteri esclusivamente suoi al fine di distribuire selettivamente i «titoli di accesso alla vera umanità», che ovviamente è solo quella che gli somiglia e che viene riconosciuta a soggetti funzionali agli interessi dell’occidente stesso. A queste considerazioni giungeva la storica Sophie Bessis (2001): p. 239, in uno studio dedicato alla storia della supremazia occidentale sulle altre culture. Alle stesse conclusioni perveniva Serge Latouche (1989): p. 169, criticando la pretesa di universalismo accampata dall’occidente, quando in realtà essa è fondata sulle «nostre sole ragioni occidentali».
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In poche parole: con Dio muore anche l’uomo occidentale. o meglio, con la fede umana (troppo umana) in una dimensione trascendente, evapora anche l’uomo inteso come centro e scopo del divenire. Dall’altra parte, Jaspers connotava il pensiero di Nietzsche in termini quasi idealistici, sostenendo che il filosofo della volontà di potenza aveva «rischiato tutta la sua vita di pensatore alla ricerca della via per un avvenire che non sia tramonto dell’uomo»103. Volendo pervenire a un bilancio complessivo su tale questione, penso che Heidegger avesse sbagliato a definire Nietzsche come l’ultimo dei metafisici, perché in realtà il filosofo dello Zarathustra aveva abbattuto con estrema efficacia tutto l’impianto epistemologico, morale e politico della tradizione occidentale, effettivamente strutturato su fondamenti trascendenti rispetto alla realtà terrena. Proprio nel compiere tale impresa, però, insieme al tramonto dell’occidente Nietzsche aveva posto le condizioni anche per quel «tramonto dell’uomo» che secondo Jaspers egli avrebbe provato ad evitare lungo tutta la sua opera (quindi si era sbagliato anche Jaspers). In buona sostanza, piuttosto che essere identificato come l’ultimo dei metafisici, sostengo che Nietzsche vada semmai inquadrato come «il primo degli anti-umanisti». Questo perché la «morte di Dio» da lui annunciata, in realtà, aveva significato la fine di tutto quel cosmo umano che si era costruito in oltre due millenni di Storia attraverso riferimenti costanti a un presunto «mondo vero» e trascendente (che fosse l’Iperuranio di Platone, il regno dei cieli del cristianesimo, le Verità dei filosofi, i Progressi della scienza, i Valori della morale etc.). A morire non è stato tanto un Dio, a cui peraltro Nietzsche non credeva, quanto piuttosto tutta la galassia moderna in cui l’uomo e l’umanità erano visti come il centro. una morte lenta, graduale ma inesorabile, perché nello scenario completamente mutato della terra senza divinità l’uomo 103. Cit. in Galimberti (2005): p. 525.
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stesso aveva perso ogni riferimento: chi lo aveva creato, a chi sarebbe ritornato, su quali valori fondare e quale senso conferire a questo percorso travagliato che chiamiamo vita, diventavano a questo punto tutte domande senza risposta. Perfino il domandare stesso veniva meno, mentre l’uomo si scopriva come un burattino senza fili, senza un ruolo da recitare, senza un teatro stabile in cui rappresentarsi. In una parola: senza vita. Il solco tracciato da Nietzsche era netto, e l’umanità di fronte a un bivio: limitarsi ad accettare la propria morte simbolica (quindi rinunciando a ogni velleità metafisica, per abbandonarsi al nichilismo), oppure reinventarsi sotto una nuova forma che, peraltro, il filosofo tedesco aveva già prefigurato parlando di «oltreuomo»? Vedremo che l’opzione dominante è stata la seconda, attraverso dei passaggi di cui proprio nel tempo presente stiamo attraversando quella che sembra essere la fase finale. In questo senso – come rivelato giustamente da Michel onfray – l’«uscita dal cristianesimo» resa possibile da Nietzsche non ha funzionato «solo come una fine», ma è stata il preludio a «un compito temibile e riservato al futuro», quello cioè di pervenire a una nuova morale, una nuova etica, valori inediti e impensati perché fino a quel momento impensabili104. Ma cerchiamo di ricapitolare brevemente la questione, prima di procedere con l’analisi di quel graduale tramonto dell’umano anticipato e preparato dal pensiero di Nietzsche. Questi ha decretato la fine dell’epoca metafisica, che a suo avviso aveva connotato la vicenda umana a partire da Socrate e Platone fino a lui. Nell’ambito di una tale e lunghissima epoca, l’uomo fornito di logos si era autoproclamato quale figura centrale dell’intero cosmo. Potrebbe sembrare una contraddizione, quella dell’uomo come figura dominante in uno scenario governato dalla metafisica, poiché in fondo l’uomo per primo è strutturato fisicamente e si trova a vivere in una dimensione che è quella materiale. Ma non si tratta di una contraddizione. 104. onfray (2005): pp. 44-5.
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Non lo è perché soltanto l’uomo, anzi proprio l’uomo, grazie alla sua ragione si rivela come l’unica entità terrena in grado di intuire, pensare, elaborare e quindi costruire quella dimensione metafisica su cui orientare gran parte dell’esistenza terrena. Soltanto l’uomo è l’anello di congiunzione e comunicazione fra il mondo delle presunte verità assolute (Dio, la Verità, i Valori, le Idee, il Pensiero, l’Anima, la Scienza) e quello delle realtà materiali. Insomma, se il mondo terreno è strutturato sulla base di quello ultraterreno (o metafisico) e di questo ha bisogno per trovare i propri riferimenti stabili e sicuri, l’uomo si rivela come il solo e indispensabile elemento di congiunzione fra queste due galassie. Di volta in volta, e a seconda degli ambiti culturali e delle circostanze storiche, grazie alla ragione, alla logica, alla scienza o alla fede, l’uomo (occidentale) ha potuto essere di fatto l’attore principale del mondo terreno, se non addirittura il suo padrone indiscusso. Dalla filosofia di Socrate e Platone, passando per il cristianesimo, le scienze naturali, l’illuminismo, il positivismo, il capitalismo e la democrazia, le cose sono sempre andate in questo modo a partire dal V secolo a.C. fino al XIX secolo compreso. Basti solo pensare al fatto che, ben lungi dall’esaurirsi in una contrapposizione tra religiosi e pensatori, il binomio fede/ragione rappresenta il fondamento imprescindibile di una cultura occidentale che, grazie ad esso, ha potuto affermare il dominio dell’uomo sulle cose del mondo. Non è un caso che il primo grande sistematore della filosofia cristiana – origene – postulasse il primato della conoscenza razionale sulla fede, poiché è solo grazie al Logos che l’uomo si innalza rispetto alla materia sensibile, arrivando a contemplare l’essere e, più oltre, la potenza e la natura di Dio. Allo stesso modo Sant’Agostino scriveva la propria biografia interiore definendosi attraverso tre connotazioni rifiutate con sdegno dall’irrazionalista Nietzsche: «Io sono, io conosco, io voglio. Veda chi può come in queste tre cose ci sia una vita inseparabile, un’unica vita, un’unica mente, un’unica essenza», per poi aggiungere che soltanto l’uomo in quanto «essere razionale» arriva a comprendere Dio, perché malgrado sia stato «eguagliato alle bestie» (con la cacciata dall’eden), tut297
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tavia non si è spenta in lui una «fiammella di intelligenza», la stessa intelligenza nella quale è stato creato a immagine di Dio. Concetto sostanzialmente ripreso anche dal terzo mostro sacro del cristianesimo, quel Tommaso d’Aquino che definiva la fede come la regola del corretto procedere della ragione, poiché alla legge eterna che regola ogni cosa (e che si trova nella mente divina) l’uomo partecipa grazie alla sua natura razionale, quella che lo inclina a conoscere la verità e a vivere in società105. Che dietro al nesso fede/ragione vi sia sempre stata l’identificazione tra uomo e Dio, o quantomeno il tentativo del primo di essere una sorta di dio in terra e dominare su tutte le altre realtà terrene, è quanto aveva già certificato la Bibbia nel celebre passo della Genesi (I,27-28), in cui c’è scritto che «Dio creò l’uomo a sua immagine; e l’immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra”». Tutto questo ha iniziato a sgretolarsi con Nietzsche. egli, annunciando la fine dell’epoca metafisica attraverso la celebre formula della «morte di Dio», aveva di fatto prefigurato un nuovo scenario esistenziale in cui l’uomo e le creazioni della sua ragione non avrebbero più rappresentato il centro di tutto. Col regno di Dio sulle cose metafisiche, insomma, evaporava anche il regno dell’uomo su quelle fisiche. ecco perché il pensiero di Nietzsche è stato un colpo al cuore inferto non tanto e non solo alla religione, alla scienza, alla 105. origene (1856-1866): v. 14, In Joan. XIX,3 e VIII,19; Agostino Santo (401): XIII,11 e (413-433): XII,1 e XXII,24,2; Tommaso d’Aquino (12581264): I,7 e (1259-1273): II,1, q. 91, a. 1-2 e q. 94, a. 2. La più importante corrispondenza di questo concetto in ambito laico – direi perfettamente speculare – la troviamo non a caso nel filosofo a cui Nietzsche si contrapponeva frontalmente. Sto parlando di Hegel (1832): v. 1, p. 269, secondo il quale religione e filosofia dovevano essere riconosciute come momenti diversi di un unico processo: quello della conciliazione fra l’umano e il divino. La religione ha rappresentato la discesa del divino nell’umano (con l’incarnazione di Gesù), mentre la filosofia permette all’uomo di ascendere a Dio attraverso la ragione. In questo senso «l’uomo è già Dio immediato, presente», perché ontologicamente connesso allo spirito.
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morale, alla filosofia, alla democrazia etc., ma soprattutto all’uomo. Quell’uomo che, per mezzo della propria ragione, aveva ideato tutti questi fondamenti metafisici con cui illudersi di poter governare i vari ambiti dell’esistenza. Senza i quali gli venivano a mancare le stampelle per un’esistenza già di per sé claudicante. Distruggendo a colpi di martello la visione metafisica e antropocentrica del cosmo, Nietzsche aveva posto le basi per la fine della cosiddetta «modernità». Il nuovo scenario che si apriva, sarebbe passato alla storia col nome di postmodernismo, caratterizzandosi sotto molti punti di vista come un completamento di quell’antiumanismo che abbiamo già visto sia nella filosofia di Nietzsche sia in quella degli autori che a lui si sono maggiormente ispirati. Postmodernismo: la fase suprema dell’antiumanismo
Il Nietzsche che aveva distrutto la tradizione metafisica dell’occidente, avvalendosi di argomentazioni contro l’umanità poi riprese dai filosofi antiumanisti e messe tragicamente in pratica dai nazifascisti, era lo stesso autore il cui pensiero – con altri presupposti e soprattutto esiti – avrebbe ispirato il cosiddetto postmodernismo. Questo perché il postmodernismo si inserisce all’interno della medesima tradizione «anti-logocentrica» (o irrazionalistica) che Nietzsche aveva condotto al suo apice e il nazifascismo trasformato in tragedia. Assolutamente privo degli estremismi violenti e sanguinari messi in atto dai regimi di Mussolini e Hitler, nondimeno il postmodernismo aveva potuto attingere ampiamente da quella sorgente comune che è stata per tutti costoro la filosofia di Nietzsche, mettendo in atto quel «furore contro l’umanismo e l’eredità dell’Illuminismo» di cui parlava lo studioso americano richard Bernstein106. 106. Bernstein 1985: p. 25. È interessante notare come nella stessa pagina Bernstein lamentava il fatto che il postmodernismo mettesse in campo un atteggiamento esclusivamente distruttivo (proclamando la fine dell’individuo, della
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Soltanto all’apparenza si tratta di un paradosso, a fronte di ciò che ho già detto, ma col postmodernismo ci troviamo di fronte a un fenomeno culturale che – certamente complesso, articolato e composito – è stato fatto proprio da una certa «sinistra» teorica e politica che, pure, ha ritenuto di vedere in quello che Bobbio catalogava come filosofo della «destra»107 dei fortissimi elementi di ispirazione in vista di un’emancipazione umana alternativa sia a quella del capitalismo liberale che del comunismo marxista. Se questi ultimi si basavano su concetti razionali e universali forti (ragione politica, ideologia, classi sociali, socialismo scientifico, individualismo, progresso etc.), il postmodernismo perveniva a quello che è stato nominato «pensiero debole» sostanzialmente per far sfumare – o abolire del tutto – i fondamenti su cui si era formata la modernità occidentale. In questo senso Peter Carravetta ha potuto scrivere – ragionando sul piano astratto delle idee – che il postmodernismo «coincide con il declino definitivo dell’intero apparato metafisico ed epistemologico della civiltà occidentale», mentre in un ambito più sociologico Alin Touraine ha constatato che a partire da Nietzsche e Freud (quindi a cavallo fra XIX e XX secolo), con i loro «attacchi devastanti contro l’immagine razionalistica dell’uomo», era stata riportata in primo piano «la forza della volontà e dei desideri illimitati contro la ragione operativa»: «A partire da Nietzsche e Freud, l’individuo cessa di essere concepito soltanto come un lavoratore, un consumatore o anche un cittadino, non è più unicamente un essere sociale; diviene un essere di deside-
filosofia e della civiltà occidentale), mantenendo un’enorme confusione su cosa proporre dopo queste «fini». David Harvey (1991: p. 44) riteneva che il postmodernismo si richiamasse a quella corrente di pensiero – Nietzsche in testa – che sottolinea il caos profondo della vita moderna, nonché la scarsa maneggiabilità di questa da parte del pensiero razionale. 107. In un conosciuto pamphlet del secolo scorso, il filosofo italiano Norberto Bobbio (1994: pp. 76 sgg.) individuava in rousseau il pensatore emblematico della sinistra e in Nietzsche quello della destra. Ciò poiché il primo si faceva promotore dell’uguaglianza politica, mentre il secondo rivendicava fieramente il principio della gerarchia fra gli esseri umani.
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rio, abitato da forze impersonali e da linguaggi, ma anche un essere individuale, privato. Il che obbliga a ridefinire il soggetto. esso era il vincolo che legava l’individuo a un universale: Dio, la ragione, la storia; ora Dio è morto, la ragione è divenuta strumentale e la storia è dominata dagli Stati assoluti».
Insomma, considerava sempre Touraine:
«Se il pensiero modernista, tanto nella sua versione liberale che in quella marxista, si fonda sulla asserita corrispondenza tra la liberazione dell’individuo e il progresso storico – cosa che si traduce nel sogno di creare un uomo nuovo in una società nuova, Nietzsche e Freud hanno infranto l’idea di modernità»108.
Il fatto è che la cultura postmoderna, impregnata del fatalismo irrazionalistico affermato da Nietzsche e della distruzione dell’Io operata da Freud, ha colpito tanto il marxismo quanto il liberalismo democratico (e borghese), finendo col rivelarsi funzionale al ritorno in auge di un neoliberismo che – non per caso – fonda il proprio operare sulle leggi indiscutibili del mercato (contro quelle della ragione e dello Stato) e su una logica del profitto che si declina in termini impersonali (contro l’individuo titolare di diritti politici e sociali teorizzato dal liberalismo democratico). Insomma, se Dio era morto (e con lui «Io»), l’umanità come la si era conosciuta fino a quel momento sembrava seguirlo a ruota. Ma attenzione, perché se l’epoca postmoderna è stata il frutto più maturo della distruzione della metafisica e del regno di Dio sulle cose del mondo – con tanta enfasi proclamata da Nietzsche e fatta propria dai suoi epigoni – ciò non ha significato per nulla l’impossibilità di una nuova vocazione trascendente né della comparsa di nuovi dèi (il Mercato e la Tecnica sono tali, oggigiorno). D’altronde, come sosteneva il biologo evolutivo richard Dawkins, il compito principale che l’uomo assegna a Dio non è 108. Carravetta (2009): p. 442 e Touraine (1992): pp. 167 e 170.
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tanto quello di esistere, quanto piuttosto di fungere da «consolazione» rispetto alle difficoltà della vita, al punto che la vera e propria «sfida» per l’uomo consiste nel riuscire a sostituirlo con qualcos’altro nel caso se ne accertasse la non esistenza. Lo stesso Nietzsche teneva a precisare che con «la confutazione di Dio, propriamente soltanto il Dio morale è confutato», e anzi, a ridosso del tracollo della sua vita cosciente, perfino in se stesso egli vedeva rifiorire «l’istinto religioso, cioè l’istinto plasmatore di dèi»: «quanti nuovi dèi sono ancora possibili!», scriveva il filosofo tedesco.109. Già da questo possiamo intuire come il postmodernismo si sia strutturato sulla base della distruzione di quei fondamenti che avevano caratterizzato l’epoca moderna, ma in un’ottica che non è stata per nulla in grado di superare l’eterna inclinazione umana a generare nuovi dèi e nuovi idoli. Quell’inclinazione naturale che perennemente fa oscillare l’uomo tra l’elevazione dall’idolatria al teismo e la ricaduta dal teismo all’idolatria, come ebbe modo di osservare con acume il filosofo David Hume già nel XVIII secolo110. I tre concetti con cui Nietzsche aveva abbattuto la costellazione moderna, (la morte di Dio, l’eterno ritorno e la volontà di potenza), già di per se stessi non alieni dalla possibilità di configurarsi come nuovi riferimenti metafisici (il primo nella misura in cui apriva le porte a nuovi idoli immorali e soprattutto terreni; il secondo poiché deificava il «fato», riducendo la ragione al ruolo di ingranaggio che quel fato può solo intenderlo e rassegnarvisi; il terzo in quanto apriva le porte a una giustificazione degli istinti violenti e di morte), sarebbero diventate le colon-
109. Dawkins (2006): p. 352; KSA: XI, p. 624 e XIII, pp. 525-6. 110. Hume (1755): v. 4, p. 471. In tempi a noi più vicini il filosofo della scienza Daniel Dennett (2006): pp. 200 e 210, ha codificato questa dinamica parlando di «fenomeno del credere nella credenza». una sorta di microchip impiantato nell’anima dell’uomo che lo spinge a cercare un oggetto di credenza purché sia. È questo fenomeno che rende le persone riluttanti a riconoscere l’ovvio: «Che molte delle tradizionali storie su Dio non meritano un credito maggiore rispetto a quelle su Babbo Natale o Wonder Woman».
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ne portanti di quell’antiumanesimo che connotava la postmodernità. un antiumanesimo che il filosofo americano Charles Taylor definiva in questi termini eloquenti: «Non è soltanto un buco nero, un’assenza di valori, ma anche una nuova valorizzazione della morte e talvolta della violenza»111. Sì, in estrema sintesi a questo si è ridotto il più o meno ampio lasso di tempo che ha plasmato la nostra epoca: un insieme di teorie che, largamente debitrici nei confronti di Nietzsche112, hanno smontato l’impalcatura della ragione umana per sostituirla con un nuovo apparato culturale e valoriale in cui l’umanità non è più il centro dell’essere, il soggetto del divenire né il fine di ogni agire sociale. In maniera lenta e graduale, ma comunque inesorabile, l’epoca postmoderna è quella che ha visto realizzarsi sul piano culturale e sociale il programma filosofico antiumanistico di Nietzsche, spodestando altre filosofie umanistiche come quella del filosofo francese Jean Paul Sartre, il quale sosteneva che «il campo filosofico è l’uomo, cioè a dire che ogni altro problema non può essere concepito senza fare riferimento all’uomo». Sì, il Sartre esistenzialista remava contro la corrente nietzscheana che stava montando nell’epoca postmoderna, affermando che il suo punto di partenza era la «soggettività dell’individuo», che l’esistenzialismo era il solo a «donare una dignità all’uomo» in
111. Taylor 2007: p. 638. 112. È sufficiente sapere che lo stesso termine postmoderno era stato utilizzato per la prima volta, in forma aggettivata, nel 1917, in un contesto dichiaratamente ispirato al superuomo nietzscheano. L’autore, il filosofo tedesco rudolf Pannwitz (1917: p. 64), lettore appassionato di Nietzsche, parlava di «uomo postmoderno» intendendo l’individuo «temprato attraverso lo sport», «nazionalista convinto», «istruito militarmente» e «fervente religioso». Fra gli autori più celebri che hanno riconosciuto il debito del postmodernismo verso Nietzsche, ricordo Habermas (1985: p. 104), che lo definì la «porta girevole del postmodernismo»; resch (1989: p. 514), secondo il quale «la sinistra nietzscheana è stata un postmodernismo ante litteram», e Vattimo (1985: p. 172), sostenitore aperto del fatto che «la postmodernità filosofica nasce dall’opera di Nietzsche».
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quanto si fondava sul fatto che «non esiste determinismo», poiché l’«uomo è libero», è «libertà»113. L’epoca iniziata o comunque prefigurata da Nietzsche col suo pensiero dirompente, superando il moderno, poneva a vari livelli le basi per il superamento dell’uomo come titolare di ragione e libertà, quindi soggetto della propria esistenza. In tal modo, il filosofo che aveva terminato la propria vita cosciente da sconfitto ed emarginato, trovava una sorprendente rivincita nel nostro tempo, a partire dalla seconda metà del XX secolo. una rivincita a spese dell’umanità. Ma vediamo in cosa è consistita questa rivincita. 3.
La gaia incoscienza
Sappiamo che Nietzsche usava toni accesi contro la ragione umana e la sua pretesa di pervenire a una conoscenza su basi logiche. Da questo punto di vista, possiamo constatare che l’epoca postmoderna è quella in cui si è assistito a un costante processo di impoverimento, degradazione e lotta contro tutto ciò che afferisce alla sfera del logos (nel suo triplice significato di pensiero autonomo e critico, sapere razionale e discorso logicamente fondato). Gli effetti più macroscopici di un tale processo si vedono nell’epoca del Web, in cui sempre più individui sono ridotti al rango di «solitudini comunicanti» da macchine onnipervasive e social network che si rivelano come diffusori potentissimi di «demenza» e «solitudine» digitale. Soprattutto in riferimento ai 113. Sartre (1947): p. 283 e (1946): pp. 63 e 36-7. Nelle medesime pagine il filosofo francese riconosceva nietzscheanamente che «noi siamo soli, senza scuse», ma ne traeva una conclusione quanto mai opposta: «L’uomo è condannato a essere libero». Per chiarire i termini della questione posso ricordare che Heidegger, debitore della lezione antiumanistica di Nietzsche, si rifiutava persino di utilizzare il termine «uomo», preferendogli quello di «esserci (Dasein)». Con questo voleva respingere la visione dell’uomo come coscienza, soggetto della Storia, evidenziando piuttosto la sua posizione di ingranaggio gettato all’interno del divenire.
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più giovani, questa situazione ha spinto la psicologa americana Jean Twenge a parlare di una generazione «sull’orlo della più grave crisi di salute mentale giovanile degli ultimi decenni. In superficie, però, va tutto bene»114. Più in generale, il contesto sociale che ci si pone di fronte è quello di persone mediamente incapaci di mettere in campo un pensiero autonomo e critico, come anche uno studio informato e approfondito o un confronto dialogante che si innalzi rispetto alla rissa volgare che ormai dilaga a partire dalla rete. L’ignoranza diffusa, parallelamente al diffondersi dell’impoverimento cognitivo e dell’analfabetismo funzionale, sono lì a testimoniare questo trend ormai costante da molti anni. A tutto questo occorre aggiungere un fenomeno che probabilmente non sarebbe dispiaciuto al Nietzsche distruttore della «compassione» (soprattutto quella che i «forti» potrebbero provare nei confronti dei «deboli»): mi riferisco a ciò che gli studiosi hanno concettualizzato in termini di «scomparsa dell’empatia», la facoltà umana per eccellenza con cui gli individui entrano in sintonia profonda con gli altri, quella che li differenzia dalla meccanicità istintuale di un animale o algoritmica di una macchina115. 114. Demenza digitale e solitudine digitale, sono i titoli di due libri in cui lo psichiatra e neuroscienziato tedesco Manfred Spitzer (2012 e 2015) spiega dettagliatamente gli effetti delle nuove tecnologie digitali nell’indebolire le capacità cognitive e relazionali di coloro che ne fanno uso. Per la crisi di salute mentale si veda Twenge 2017: p. 93. La stessa autrice, più avanti (p. 169), riporta la seguente testimonianza di una ragazza di 22 anni: «Ci distraiamo online con cose futili e siamo costantemente “intrattenuti” […] Abbiamo smesso di riflettere sulla vita e i suoi significati profondi, lasciandoci piuttosto immergere in un mondo in cui il problema più grande per la gente consiste in quanti “like” ottiene con un post su Instagram». Nicholas Carr (2010: p. 141), in uno studio equilibrato e ben documentato lo scriveva chiaramente: «La rete porta alla riduzione delle capacità di conoscere un argomento in maniera autonoma, di costruire nella nostra mente quella ricca e idiosincratica serie di connessioni che porta all’emergere di un’intelligenza individuale». 115. A parlare di vero e proprio «declino dell’empatia» – documentato da studi accademici che attestano oggettivamente tale fenomeno – sono gli studiosi Howard Gardner e Katie Davis (2013: p. 110), i quali giustamente ricordano che l’assenza di empatia è un tratto distintivo della sociopatia.
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Il risultato, ben visibile anche solo a un’osservazione superficiale della «galassia Internet», è quello paradossale di una sfera pubblica (ormai frutto dell’intreccio confuso fra virtuale e reale, che si fondono in una dimensione spettacolare ma sterile) in cui – per un’ampia fetta di individui (Nietzsche li definirebbe «masse» o «gregge») – il livello di ignoranza, irrilevanza e carica aggressiva è direttamente proporzionale alla pretesa di conoscere e di intervenire su ogni aspetto dello scibile umano (nonché sulla vita altrui), ovviamente con una sicumera e una carica polemica che dovrebbero essere sconosciute a chi segue un metodo scientifico o anche solo il buon senso. Quale omaggio migliore al nichilismo nietzscheano, gradualmente sfociato nel relativismo postmodernista! Quello in cui la confusione tra reale e virtuale ha prodotto l’«età provinciale» di cui parlava Thomas eliot, in cui le persone sono condotte a confondere il contingente con l’essenziale, l’effimero con il sostanziale, scambiando la saggezza per conoscenza e quest’ultima con l’informazione. Né la cosa può sorprendere più di tanto, visto che «i promotori del Web 2.0 venerano l’amatoriale e diffidano del professionale», secondo la sintesi eloquente dello studioso di new media Geert Lovink116. L’essere piombati in uno scenario in cui la scienza è messa in discussione da chiunque (quando non mortificata), mentre conoscenza e metodo «oggettivi» sono considerati a guisa di orpelli anacronistici e mai davvero funzionanti, è un qualcosa che forse renderebbe fiero della sua semina il filosofo Nietzsche, ma che ha trasformato la società del nostro tempo in una realtà «virale», in un campo indefinito di ignoranza diffusa e anarchia etica in cui la guerra di tutti contro tutti si svolge mentre i profitti di tutto ciò vanno prevalentemente agli oligarchi della tecno-finanza. Ho utilizzato volutamente e provocatoriamente l’aggettivo 116. eliot 1945: p. 30. Già nel 2008 John Palfrey e urs Gasser (2008: p. 282) constatavano che «una delle cose più interessanti nello studio di Internet sta nell’aver realizzato come la linea che separa la sfera pubblica da quella privata è sempre più sfocata, se non addirittura scomparsa». Per il dilettantismo imperante nel Web, cfr. Lovink 2008: p. xi.
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«virale», perché a mio avviso la pandemia da Covid-19 – mi concedo una digressione legata all’attualità a scopo esplicativo – ha rappresentato la tragica occasione in cui sono venuti alla luce i fondamenti «nietzscheani» che innervano per tanti aspetti la società del nostro tempo. Le modalità con cui è avvenuta, è stata gestita ai vari livelli ed è stata recepita l’emergenza sanitaria – infatti – in termini estremamente generali e sintetici ha slatentizzato molti di quei fondamenti, rappresentandone una sorta di realizzazione pratica: 1) una sfiducia piuttosto diffusa nella scienza, negli scienziati e soprattutto nel metodo scientifico che – in particolare di fronte a fenomeni improvvisi e sconosciuti – non può che operare seguendo il modello popperiano della «prova e dell’errore». In alternativa vi è soltanto il modello «totalitario», che consiste nel pretendere di aspirare a un’utopistica perfezione con tanto di risoluzione immediata, totale e indolore di ogni problema. Questa sfiducia nella scienza e nei suoi metodi è presto sfociata in un proliferare di persone che, pur non avendo svolto studi medici e virologici, hanno ritenuto di intervenire sulle misure prese, sulla composizione dei vaccini, sulla loro efficacia o meno etc. (a riprova del fatto che l’irrazionalismo è spesso l’anticamera del comportamento antisociale). È nata da qui quella che chiamo la «sindrome di don Ferrante», il personaggio di Manzoni che ricorda l’Internauta dei giorni nostri, informato su tutto e per questo a conoscenza di nulla, accumulatore di erudizioni senza ragionamento. Non adottò alcuna misura di sicurezza, e prese la peste perché dall’alto della sua erudizione filosofica ne negava l’esistenza («le sostanze sono, o spirituali o materiali»), salvo poi maledire le stelle per quell’oscuro e irrazionale scherzo del Fato117; 2) una non trascurabile contestazione delle misu117. Il filosofo della scienza Karl Popper riteneva che l’arte politica, al pari della conoscenza, si fonda sulla negazione di verità assolute e definitive. Piuttosto è l’uomo, con il suo impegno e dialogo incessante basato sul «metodo della prova e dell’errore», quindi su una «ingegneria sociale gradualistica» e sul razionalismo critico, ad avanzare sia verso un grado più alto di conoscenza (e di capacità di pensiero) sia verso una società più giusta e libera, Popper – eccles 1977: pp. 429, 431 e 433 e Popper 1945: v. 2, pp. 442-3. Per un inquadramento
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re politiche, sanitarie e sociali – e quindi delle regole – che i governi (con tutte le differenze del caso) hanno adottato allo scopo di contenere la diffusione del virus e tutelare la salute collettiva; contestazione perlopiù ispirata a una logica egoistica, antidemocratica (negazione della responsabilità sociale e del bene comune) e socialdarwinistica, secondo la quale è assurdo fermare il processo produttivo o limitare la libertà individuale a fronte di una percentuale tutto sommato ridotta di vittime (per giunta anziane, in misura maggiore). In tutto questo vi sono le basi per quella che il filosofo spagnolo ortega Y Gasset definiva «invertebrazione» della società, riferendosi alla comparsa di uno scenario in cui «la massa rifiuta di essere massa – quindi di seguire la minoranza dirigente – la nazione si disfa, la società si smembra e sopravviene il caos sociale». A questo si aggiunga l’atteggiamento «paranoide» di chi ha voluto vedere un complotto mondiale, dei singoli governi nazionali o di fantomatici poteri occulti come causa della comparsa del virus e di tutto ciò che ne è seguito118; 3) una visione «fatalistica» dell’accaduto, generale sulla sfiducia nella scienza durante la crisi pandemica da Covid-19, si può leggere AA.VV. 2021 e Cross 2021. Quanto al personaggio di don Ferrante, Manzoni lo descriveva così: «Dice adunque che, al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de’ più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino all’ultimo, quell’opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenzazione». Del resto, «non si può spiegare quanto sia grande l’autorità d’un dotto di professione, allorché vuol dimostrare agli altri le cose di cui sono già persuasi». La colpa è della «fatale congiunzione di astri», alla faccia dei signori medici, che con «faccia tosta» vengono a dire: «Non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de’ corpi terreni, potesse impedir l’effetto virtuale de’ corpi celesti!». «Su questi bei fondamenti non prese alcuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle», Manzoni 18271842: cap. XXXVII, pp. 570-2. 118. Per la concezione socialdarwinistica della società vale quanto scriveva l’inglese Herbert Spencer (1851: pp. 322 sgg., 324 e 379) – annoverato da Nietzsche tra i grandi filosofi della morale – il quale scriveva che «può sembrare crudele che vedove e orfani siano lasciati a lottare per la vita o per la morte. Tuttavia, se considerate non isolatamente ma in connessione con gli interessi dell’universale umanità, queste dure fatalità appaiono piene della più alta beneficenza, della stessa beneficenza che porta a prematuri sepolcri i figli di genitori
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come se la comparsa del virus rappresentasse un accadimento fisiologico rispetto al quale le restrizioni adottate costituiscono una difesa ossessiva della «nuda vita» biologica, nonché l’intenzione del potere politico di affermare un perenne «stato d’eccezione» con cui tenere soggiogata la popolazione. In nome della difesa della nuda vita, con i lockdown e i limiti imposti, si sarebbe sacrificata la vita autentica, che è anzitutto caos e incertezza (ma in questo libertà), ossia un «divenire innocente» che la ragione umana (la scienza, la politica, la legge) non può pretendere di direzionare o contenere con le sue regole (salvo che poi, spesso, si tratta delle stesse persone che non si fanno alcuno scrupolo a ricorrere alla scienza per contrastare gli effetti fisiologici del tempo)119; 4) un teatrino mediatico che ormai – essenmalati e presceglie gli abbattuti, gli intemperanti e i debilitati come vittime di un’epidemia». Del resto, fa parte del «processo purificatore» che la società espella i suoi membri malati, inetti, ritardati, in capaci, sleali etc. Insomma, ogni sforzo della natura è volto a fare piazza pulita di questi soggetti per fare spazio ai migliori. Da questo punto di vista, Spencer (1873: p. 207) partiva dal presupposto per cui «nessuna legge umana ha valore se è contraria alle leggi di natura». Per la società «invertebrata» si veda ortega Y Gasset 1921: v. 3, pp. 93 e 103. Significativa e neppure tanto lontana dalla condizione personale di Nietzsche la definizione che uno psichiatra contemporaneo fornisce del «disturbo paranoide di personalità»: la persona che ne è affetta mostra un’ossessiva e costante ricerca dei significati oscuri, la verità nascosta dietro al significato apparente di una situazione. Secondo questa persona l’ovvio, il superficiale e l’apparente non fanno altro che mascherare la realtà, e la sua incapacità di rilassarsi, congiunta alla mancanza di flessibilità, la spinge verso convinzioni tanto rigide e salde quanto irreali (e irrealistiche), Gabbard 2014: pp. 399-401. 119. In questo caso avanzo soltanto l’esempio del filosofo italiano Giorgio Agamben, tipico esempio di pensatore postmoderno influenzato tanto da Nietzsche quanto da Foucault, con questi risultati: «Se i poteri che governano il mondo hanno deciso di cogliere il pretesto di una pandemia – a questo punto non importa se vera o simulata…» – scriveva nel 2020 in piena pandemia – ma soprattutto, aggiungeva nel medesimo anno con toni post-umanistici, irrazionalistici e complottistici: «Non rimpiangeremo questo mondo che finisce, non abbiamo alcuna nostalgia per l’idea dell’umano e del divino che le onde implacabili del tempo stanno cancellando come un volto di sabbia sul bagnasciuga della storia. Ma con altrettanta decisione rifiutiamo la nuda vita muta e senza volto e la religione della salute che i governi ci propongono», Agamben 2020 e 2020². una mia risposta sui temi specifici si trova in ercolani 2021.
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dosi appiattito sulla logica di Internet – si declina perlopiù in termini di enfasi, sensazionalismo e polemica a buon mercato, spesso incurante di fornire all’utente gli strumenti conoscitivi per distinguere il vero dal falso e piuttosto interessato a vincere la guerra perenne dell’audience e dei click. A questo scopo, il suddetto teatrino non si è fatto scrupolo alcuno a sfruttare gli altrettanto spregiudicati egocentrismi di scienziati e intellettuali in genere, disposti a invadere la scena televisiva e mediatica con dichiarazioni continue e inevitabilmente contraddittorie. Ciò ha prodotto un’arena mediatica e televisiva altamente caotica e distruttiva (a cui fanno da specchio i social network), che ha avuto come risultato quello di confondere il «gregge digitale», fino a spingerlo in non pochi casi alla distruzione dei recinti della razionalità e del rispetto delle regole120; 5) il ruolo centrale assegnato a quella volontà di potenza che anima sia la logica concorrenziale del profitto sia l’utopia distruttiva di una crescita illimitata. entrambe connotano la società a trazione tecno-finanziaria, che in ossequio a tali fondamenti ha proceduto ai tagli scriteriati della spesa e della sanità pubblica, quest’ultima risultata poi in grande difficoltà nel fornire assistenza alla grande mole di ricoverati per Covid-19. Inoltre, il fatto che pare vi siano gli allevamenti intensivi e lo sfruttamento scriteriato delle risorse del pianeta dietro alla proliferazione di quei virus che dagli animali si trasferiscono nell’uomo (il fenomeno è chiamato «zoonosi»). Infine, si aggiunga il dato che poche realtà finanziarie hanno fatto registrare ricavi vertiginosi anche durante i lockdown proclamati dai governi (con un ulteriore allargamento della forbice sociale e, quindi, della disparità economica), a riprova del fatto che esiste un’oligarchia tecno-finanziaria perfettamente in grado di trarre profitto anche dalle situazioni di tragedia sociale. Di fronte a tutto ciò, i governi e la politica in genere sono risultati di volta in volta impotenti o sottomessi 120. Sull’argomento del discutere sempre più aggressivo e sul ruolo giocato dai social network, rimando a Leslie 2020, mentre sugli ambienti online che favoriscono per le loro caratteristiche i comportamenti aggressivi a livello psicologico, si veda Wallace 2016: cap. 4.
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rispetto alle logiche finanziarie delle multinazionali, quando non corrivi con esse. Insomma, l’affermarsi del potere tecnofinanziario a tutti i livelli (politico, economico, culturale, ideologico, etc.), ha provocato un’anarchia che non di rado è sfociata nel caos sociale e in quella che ho chiamato «pandemenza» generalizzata121. In questo senso ho parlato di una società «misologa» – volendo riprendere l’espressione utilizzata da Platone e Pasolini122 – che si declina cioè in termini contrari rispetto a ciò che i 121. Gli scienziati mettono in guardia sul fatto che tre quarti delle nuove malattie che colpiscono gli esseri umani sono «zoonosi», ossia trasmesse dagli animali. Il crescente impatto umano sugli ecosistemi spiega l’aumento delle zoonosi: deforestazione, conversione dei terreni agricoli e intensificazione della produzione agricola rappresentano cambiamenti che avvicinano le popolazioni alla fauna selvatica, aumentando la possibilità per l’uomo di contrarre malattie dagli animali, Mouterde 2020. Secondo un rapporto della Banca svizzera d’investimento uBS, al culmine della crisi seguita all’emergenza Covid, cioè tra aprile e luglio 2020, proprio mentre milioni di persone avevano perso il proprio lavoro o stavano lottando per resistere alle stringenti restrizioni governative, i miliardari avevano aumentato la propria ricchezza di oltre un quarto (27,5%). I più ricchi, insomma, avevano tratto vantaggio principalmente dalle scommesse sulla ripresa dei mercati azionari globali quando questi erano al loro punto più basso, cioè durante i lockdown di marzo e aprile 2020. Joseph Stadler, capo del settore che si occupa dei patrimoni famigliari delle persone più ricche al mondo per conto della sudetta banca svizzera, ha dichiarato che i super-ricchi sono stati in grado di beneficiare della crisi perché hanno avuto lo «stomaco» per acquistare più azioni delle compagnie quando i mercati azionari di tutto il mondo stavano crollando. Inutile precisare che questa elite di super-ricchi comprende molti dei proprietari delle multinazionali legate al digitale, Neate 2020 e 2020². Più in generale, la situazione di disuguaglianza di patrimoni a livello mondiale è stata ampiamente documentata attraverso svariati studi, portando alla conclusione per cui «se le tendenze attuali in materia di disuguaglianza di patrimonio dovessero continuare così, nel 2050 lo 0,1% più ricco del globo possiederà da solo più del patrimonio di tutta la classe media mondiale», AA.VV. 2018: pp. 347-8 e escande – Charrel – De Vergès 2017. Di un tasso di disuguaglianze sociali tornato a livelli precedenti la Seconda guerra mondiale parla l’autorevole economista Thomas Piketty (2013: pp. 698 e 701), che paventa «traiettorie esplosive e e spirali di disuguaglianza fuori da ogni controllo». Per il concetto di «pandemenza», rimando a ercolani 2020². 122. Platone, Fedone: 89d e Pasolini 1966: pp. 137-8. Per un’ampia disamina della società misologa rimando a ercolani 2019: specialmente il capitolo 1.
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greci antichi intendevano col termine logos. una società che si è gradualmente affermata con la postmodernità e che, esattamente come quest’ultima, è fortemente debitrice nei confronti di Nietzsche. Specie ora che il corto circuito mediatico ha prodotto una popolazione mediamente ridotta al rango di «gregge digitale». ossia individui che, perlopiù con un basso stato di consapevolezza e cognizione, attuano comportamenti omologati all’interno di quell’orgia ignorante, narcisistica, aggressiva e inutilmente autorappresentativa che è la rete. Ben lungi dal costituire uno strumento finalizzato al potenziamento delle facoltà umane – infatti – le nuove tecnologie che predominano nella società postmoderna si rivelano piuttosto come dei mezzi in grado di assorbire e colonizzare le specificità umane. Sì, col velocissimo progredire della tecnologia, sempre più ci troviamo di fronte al meccanismo per cui le persone utilizzano macchine che, di fatto, le portano gradualmente a «funzionare» con i tempi e i modi delle macchine stesse, specialmente per ciò che riguarda l’attività cognitiva (perdita di pensiero autonomo e critico, difficoltà di attenzione su una sola questione per volta, incapacità di approfondimento, connessione ed elaborazione dei troppi dati forniti dalla rete, etc.): il filosofo Günther Anders già nel 1956 parlava di un tempo in cui «lo scopo degli scopi consiste oggi nell’essere mezzo dei mezzi». ecco perché ai giorni nostri c’è chi – come il neurobiologo Laurent Alexandre – si spinge a parlare di vera e propria «neurorivoluzione», quella che «stravolgendo l’intelligenza umana in tutte le sue dimensioni, inaugura una nuova era per la nostra civiltà. L’intelligenza è la leva di cui l’uomo si è servito per padroneggiare il mondo, e modificando questa leva in maniera radicale le neurotecnologie stanno ormai trasformando quel mondo». Sì: «Laddove il libro favoriva la concentrazione prolungata e creativa, Internet incoraggia la rapidità, il campionamento distratto e la percezione di informazioni frammentarie provenienti da numerose fonti. un’evoluzione che ci riduce ad essere dipendenti dalle macchine come mai prima, assuefatti alla connessione, incapaci di andare a reperire un’informazione senza il soccorso di un motore di ricerca, in
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possesso di una memoria difettosa e alla fine più vulnerabili alle influenze di ogni sorta».123
È risaputo: ciò che si conforma ai meccanismi e alle dinamiche di qualcos’altro, esegue, non agisce. Se a conformarsi è l’uomo alla macchina, il primo si condanna a funzionare. e ciò che funziona non pensa. Ma col pensiero viene meno la caratteristica specifica dell’umano. Come non riconoscere, in questo esito sempre più diffuso, una forte somiglianza con quella condizione umana prefigurata da Nietzsche? Quella in cui la maggior parte delle persone malriuscite non deve pensare, ma eseguire gli ordini dei superuomini e «funzionare» secondo le disposizioni del fato? o quella in cui le nobili e oziose attività del logos sono riservate ai pochi benriusciti, che finalmente oggi dispongono a proprio piacimento di una «plebaglia» con cui stare ben attenti soltanto a non contaminarsi? Come non vedere la comparsa di una nuova dimensione, quella della cosiddetta realtà virtuale, in cui gli individui si spogliano della propria personalità e funzionano come dei «docili robot», entusiasti di attuare comportamenti omologati in vista di una sterile autorappresentazione nella vetrina virtuale, in questo modo collaborando soltanto agli enormi profitti di poche multinazionali della tecnologia digitale?! Quale scenario più simile a quello prefigurato da Nietzsche, in cui la massa di sottouomini si dedica a una servitù volontaria nei confronti di pochi superuomini (i «tecnocrati» e i nuovi capita123. Che l’alternativa per l’uomo odierno sia sempre più limitata al funzionare (come le macchine) o esistere (come le persone), è quanto analizzato con acume dallo psicoanalista argentino Miguel Benasayag (2018: p. 101): «L’attuale tentazione del funzionamento ottimale, del fitness, della performance, dell’incremento si radica e si nutre nella paura in cui vivono le nostre società. Ma cedere alla paura e rifugiarsi nel funzionamento presuppone l’annientamento del desiderio di esistere, che si fonda sulla fragilità del vivente, sulla fragilità dell’esistenza. Günther Anders 1956: p. 250. Per gli effetti cognitivamente deleteri prodotti dalle nuove tecnologie e dall’umano conformarsi alle dinamiche di funzionamento delle medesime, si può leggere Turkle 2015: pp. 249-260 e rheingold 2012: pp. 50-62. Per le considerazioni del neurobiologo francese, si veda Alexandre 2017: pp. 88 e 91.
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listi) depositari del potere e del sapere?! Ma soprattutto, possiamo e dobbiamo chiederci in che misura quella dimensione anarchica, frammentaria, asistematica e destrutturata che è la rete possa rappresentare la realizzazione pratica del cosmo caotico e insensato descritto da Nietzsche. un cosmo in cui i social network ci hanno «istruiti a condividere qualsiasi cosa ci passi per la mente», non importa quanto dannosa o frutto di ignoranza, aiutandoci a ottenere la massima audience possibile e rendendo perfettamente normale il fatto che ogni giorno ognuno di noi sia «bombardato dai pensieri casuali» di altre persone, come sintetizza in maniera efficace la studiosa e psicologa Sherry Turkle124. La nostra epoca postmoderna, giunta al suo culmine, non è soltanto quella in cui a essere sotto scacco si trova tutto ciò che afferisce alla dimensione, specificamente umana, del logos. Già a partire dagli anni Settanta del Novecento, infatti, la risorgente ideologia liberista cominciava ad appoggiarsi su proclamazioni come quella concernente la «fine delle grandi narrazioni», ossia il graduale tramonto cui si avviavano quelle ideologie politiche fornite di un «pensiero forte» e di un programma radicale con cui progettare un sistema alternativo a quello capitalista125. Si trattava di mettere in discussione quella ragione politica con cui l’uomo coltivava la «presunzione fatale» di modificare in maniera costruttivistica ciò che veniva stabilito dalle «leggi naturali» del Mercato126. 124. Turkle (2011), p. 276. 125. Bell 1960: pp. 301-2; rehmann 2013: pp. 210-219 e Jameson 1991: cap. 2. Lyotard 1979: pp. 63-5, parlò di una società post-industriale impregnata di cultura postmoderna, in cui si è assistito al «declino della potenza unificatrice e legittimante da parte delle grandi narrazioni speculative ed emancipative», sottolineando il ruolo di Nietzsche nello smascherare i limiti delle stesse. 126. L’espressione «presunzione fatale» è del padre del neoliberismo, quel Friedrich Hayek di cui abbiamo già visto i notevoli punti di contatto con la filosofia nietzscheana. Basti solo pensare che la suddetta espressione – utilizzata da Hayek come titolo di un suo libro – si riferisce alla pretesa da parte dei socialisti (e dei costruttivisti in genere) di utilizzare la ragione politica per modificare e governare l’ordine spontaneo del mercato, sulla base di una «morale» che l’e-
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Abbiamo visto l’ostilità di Nietzsche non soltanto verso la ragione intesa come facoltà cognitiva, ma anche in quanto strumento con cui intervenire sulle disposizioni della natura (o del fato) in vista di una trasformazione dell’ordine sociale in un senso più equo e democratico. Si trattava di un’inclinazione non sorprendente in un filosofo che negava l’idea stessa di «bene» e di «male», deprecando qualsiasi forma di atteggiamento etico nei confronti dell’esistenza. Anche in tale contesto la sua filosofia ha impregnato l’epoca postmoderna – quella del passaggio dall’etica all’estetica come sistema di valori dominante, secondo la felice sintesi di David Harvey – ma anche quella in cui si è messa da parte la ragione politica con cui l’uomo affronta le contraddizioni della «materia» sociale, per abbandonarsi a una «ragione economica» che fonda il suo governo sul consumo compulsivo di virtualità e di immagini ritoccate anche del proprio sé127. Anche in questo aspetto c’era molto di Nietzsche. Non soltanto la sua esplicita avversione contro tutto ciò che odorasse lontanamente di socialismo, rivoluzione, Stato, democrazia o anche solo giustizia sociale. Ma soprattutto la sua idiosincrasia contro quella ragione politica – quindi umana – che coltivasse la conomista austriaco rifiuta come inadeguata. Inadeguata perché l’ordine economico deve seguire un’evoluzione spontanea che non può essere irretita all’interno di alcun impianto di tipo razionale o morale: «L’evoluzione non può essere giusta», rimarcava Hayek 1988: cap. V e p. 74. 127. ricordo che era lo stesso Nietzsche (GT: III,I, p. 45) ad affermare che la vita («la commedia dell’arte») non viene affatto rappresentata per noi, che non siamo per nulla i suoi veri creatori. Da questo egli ne deduceva che «solo come fenomeni estetici l’esistenza e il mondo sono eternamente giustificati». Nell’ambito del mio discorso, quindi, è significativo che Harvey (1991: p. 336) parlava dell’epoca postmoderna come quella in cui è avvenuto il passaggio dall’etica all’estetica come criterio dei valori dominante. In tal senso, soltanto un anno prima Fredric jameson (1990: p. 262) aveva visto nel postmodernismo la «logica del tardo capitalismo». In particolar modo quella che, eliminando le ideologie intese come possibilità di trasformazione razionale del reale, affermava che «il mercato è nella natura umana». Per una critica della nuova ragione che governa il mondo (ossia il neoliberismo) – più vicina ai giorni nostri – il punto di riferimento è Dardot – Laval (2009).
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presunzione di lottare per modificare le varie gerarchie umane e sociali stabilite da un fato oscuro quanto indiscutibile (o dalle «leggi naturali» dell’economia, che ne sono l’equivalente128). L’«indebolimento» del pensiero politico e sociale – insomma – comprensibilmente inteso come un antidoto contro il formarsi di ideologie politiche totalizzanti o inclini a sfociare nella violenza di regime, si è però tradotto nella nostra epoca in una pressoché totale evaporazione di ogni visione politica degna di questo nome. Il risultato è stato quello di aver assistito non tanto alla celebrata «fine delle ideologie», quanto piuttosto all’estinzione di ogni idea politica degna di questo nome (Baudrillard parlò di masse depoliticizzate nonché di «fine» del sociale e della politica), con il conseguente affermarsi incontrastato della dogmatica tecno-finanziaria e della sua capacità di trasformare le nostre comunità da «collettività sociali» a masse composte di «atomi individuali»129. Ad affermarsi in maniera graduale e inesorabile è stato un «fondamentalismo del mercato»130 che si rivela intollerante non 128. Non è un caso che Nietzsche (WzM: § 765, pp. 411-412) si scagliasse contro la ragione umana – colpevole di aver «privato l’esistenza in generale della sua innocenza, col suo ricondurre ogni modo d’essere a volontà, a intenzioni, ad atti responsabili» – la medesima per mezzo della quale l’uomo è solito cercare col pensiero quella giustizia umana e sociale che invece è negata dalla natura stessa. Il pensiero liberale, che per molto tempo ha coinciso con quello liberista, si esprimeva proprio in questi termini, qualificando il sistema sociale come un ordine armonico, guidato da una provvidenza superiore (di matrice naturale o addirittura divina). L’uomo non doveva alterare questo ordine con la sua ragione, con le leggi o con un’azione governativa troppo invasiva. Per un’analisi più dettagliata, da Adam Smith ad Hayek, passando per Mandeville, Bastiat, Tocqueville e lo stesso Nietzsche, rimando a ercolani 2012, pp. 39-45. 129. Baudrillard 1978: pp. 44-5. Questa visione veniva fortemente contrastata un anno dopo dal postmodernista Lyotard 1979: p. 31, che parlava di «rappresentazione paradisiaca di una società “organica” perduta». 130. A usare l’espressione «fondamentalismo del mercato» è stato il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz (2002: p. 74). Con ciò intendeva sia il riportare in vita le pratiche del laissez-faire in voga nel XIX secolo, sia soprattutto un atteggiamento che si appoggiava sulle virtù del mercato in maniera religiosa, negando i fallimenti storici che tale atteggiamento aveva provocato e che Stiglitz ha ricostruito in maniera magistrale.
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soltanto rispetto a visioni alternative della società, ma anche a ogni tipo di intromissione da parte dello Stato (altro grande nemico di Nietzsche) nelle questioni economiche, in vista di quel bene comune e di quella giustizia sociale che contrastano con l’individualismo antagonistico ed aristocratico promosso già a suo tempo dal filosofo tedesco. Abbiamo visto non essere un caso, in questo senso, che autori del Novecento rubricabili all’interno del «nietzscheanesimo di sinistra», avendo appreso dal maestro tedesco l’idiosincrasia per lo Stato e per tutto ciò che si qualifica come «potere costituito», avessero elaborato una sorta di anarchismo anti-istituzionale involontariamente funzionale al ritorno in auge del liberismo anarco-capitalistico131. A bilancio di una tale stagione, insomma, i cui risultati sono perfettamente sotto gli occhi di tutti in questo ventennio iniziale del XXI secolo, possiamo affermare che il postmodernismo, ben più che la fine delle ideologie, è stato teatro di una rappresentazione in cui è andata in scena la fine delle idee. e con esse, la fine dell’uomo razionale e politico, inteso come colui in grado di elaborare un «pensiero forte» con cui affrontare le contraddizioni, i conflitti e le ingiustizie del reale. In questo modo il campo sociale è stato lasciato al dominio incontrastato della 131. È significativo il fatto che Michel Foucault (1978-1979: p. 327) – proprio negli anni in cui la teoria neoliberista tornava in auge, cominciando a smantellare l’impianto keynesiano del welfare state (stato sociale) – biasimasse l’affermarsi di una «ragione governamentale», descritta come una tipologia di razionalità utilizzata nei procedimenti finalizzati a dirigere la condotta degli uomini mediante l’«amministrazione statale». ora, lungi dal voler negare abusi e storture presenti in ogni forma di potere, bisogna quantomeno ricordare che il lasso di tempo che va dalla fine della II guerra mondiale fino agli anni Settanta del XX secolo è stato definito «età dell’oro» dallo storico eric Hobsbawm (1994: pp. 176 e 257-8). Si è trattato di un periodo pressoché unico in tutta la storia del capitalismo, caratterizzato dallo straordinario sviluppo che i paesi capitalisti attraversarono in seguito all’adozione di politiche fortemente stataliste e interventiste. Quei livelli di benessere e giustizia, nonché di diffusione dei diritti politici e sociali – limitatamente all’occidente liberale – non erano mai stati raggiunti prima e hanno cominciato a scemare proprio dagli anni in cui Foucault denunciava il potere dello Stato liberale.
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logica e dei valori imposti dal sistema tecno-finanziario. Ma la nostra epoca postmoderna non è soltanto quella del pensiero lineare degradato e di quello politico «indebolito»132, poiché dobbiamo fare i conti anche con l’evaporazione del concetto stesso di «verità», senza il quale ogni tipo di pensiero perde il riferimento fondamentale con cui procedere. Possiamo dire, anzi, che tanto la crisi della dimensione «razionale» quanto quella della «teoria politica», rappresentano il frutto più coerente proprio dell’aver messo in discussione la possibilità umana di poter pervenire a delle verità o comunque alla conoscenza di fatti in qualche modo oggettivi. Anche qui, come non richiamare alla mente il Nietzsche fieramente convinto che «non esistono fatti ma soltanto interpretazioni», il filosofo armato di relativismo gnoseologico e nichilismo esistenziale, deciso nel proclamare che «conoscenza» e «verità» sono solo illusioni dell’uomo che vuole padroneggiare la propria esistenza? Con la prima l’uomo pretende di conferire alla propria ragione il potere di ordinare la realtà caotica, mentre con la seconda si convince che la medesima realtà sia strutturata in maniera tale da lasciarsi cogliere dalla mente umana. Quale conferma maggiore, per queste idee del filosofo tedesco, di un tempo come il nostro, per interpretare il quale ormai si applica la categoria di «post-verità»?! una categoria che descrive non soltanto la condizione oggettiva di un mondo reale gradualmente colonizzato da quello virtuale o della fiction (in cui il falso diventa un momento del vero e viceversa, avrebbe detto Guy Debord), ma anche la condizione soggettiva degli individui sempre più compiaciuti di trasformarsi nei «simula132. Ho fatto più volte riferimento al «pensiero debole», senza precisare che è stato concettualizzato prevalentemente da Pier Aldo rovatti (1983: p. 42) – pronto a riconoscere esplicitamente il debito nei confronti di Nietzsche e del suo nichilismo rispetto a concetti come «verità», «ragione», «scopo», «essere» etc. – e Gianni Vattimo (1983: pp. 26-7), il quale ultimo ammetteva il rischio che un pensiero «indebolito» perdesse la capacità di influire sul reale, spingendo gli individui a un’accettazione passiva dell’ordine dato.
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cri» di se stessi, con i loro «nickname», «avatar» e «profili» corredati da fotografie puntualmente filtrate e ritoccate (poiché ad essere messo in «scena» non è più il Sé autentico, bensì un ego autocelebrativo, figlio di quello che Baudrillard chiamava «nichilismo della trasparenza»)133. Quale scenario più ideale si sarebbe potuto mai immaginare, nell’intenzione di attuare il motto nietzscheano sull’esistenza delle sole «interpretazioni» in assenza di fatti, che quello odierno in cui spopolano le «fake-news» e il delirio interventista dei tuttologi improvvisati, per di più spesso nascosti dietro identità fittizie o nascoste?! o quello in cui alle figure professionali e competenti (gli scienziati) non viene quasi più riconosciuto il ruolo di intermediazione tra chi sa e chi no, perché il sapere stesso è sfumato in una sorta di magma indistinto a cui tutti pensano di poter accedere grazie alla fonte potentissima e inesauribile che è la rete?! Quale dimensione più efficace di quella che illude i componenti del «gregge digitale» di poter parlare di tutto anche senza conoscere nulla? Di padroneggiare il reale quando in effetti sono ingabbiati in un virtuale dominato dalla logica commerciale. una prigione dorata in cui si sono lasciati rinchiudere entusiasticamente a beneficio dei pochi detentori del «tecno-potere», che nel frattempo traggono rilevanti profitti (nella
133. Nel 2016 gli Oxford Dictionaries sceglievano «post-verità» come parola dell’anno, intendendo questo termine come correlato a, o denotante, «circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti nel plasmare la pubblica opinione rispetto agli appelli alla sfera emozionale e alla credenza personale», Wang 2016 e Flood 2016. Guy Debord (1967: §§ 9 e 10) parlava invece di «società dello spettacolo», intendendola a guisa di un «mondo rovesciato» in cui «il vero diventa un momento del falso» e ogni cosa, compresa la vita umana e sociale, si afferma come «mera apparenza». Baudrillard (1981: pp. 227-8) definiva «nichilismo della trasparenza» quello affermatosi in un’epoca – la nostra dominata dalla fiction – in cui ognuno di noi si riduce gradualmente a mezzo di comunicazione di una simulazione costante, in cui tutto smarrisce la propria identità per rifluire in un magma indistinto di trasparenza e intercambiabilità. Si tratta di un nichilismo del tutto particolare, che non si realizza più attraverso la «distruzione», ma all’interno di una simulazione generalizzata in cui le persone per prime sono ridotte a «simulacri».
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realtà) dal loro consegnarsi alla virtualità. L’epoca delle oligarchie tecnocratiche e della «fine del potere politico» somiglia molto, mutatis mutandis, al mondo sociale prefigurato da Nietzsche, quello in cui a governare è una ristretta élite e ci si è liberati della fastidiosa utopia della polis democratica. una ristretta élite – evidenzia Shoshana zuboff – su cui si è costruito il «capitalismo della sorveglianza», quello che opera nell’oscurità e incurante delle regole sociali, di cui Google «è l’Übermensch»134. Quasi superfluo precisare che un contesto siffatto è quello ideale nel far detenere i saperi effettivi a delle oligarchie ristrette, mai come oggi in grado di pianificare, controllare e dominare tanto i corpi quanto le menti delle grandi masse. Avviene qui l’affermarsi di quel tipo di potere che Foucault definiva «biopolitico», cioè in grado di esercitarsi sulla vita complessiva degli 134. Che ci troviamo di fronte a un progetto elitario è quanto confermato dal filosofo del digitale eric Sadin (2016: p. 161). Questi, raccontando della Singularity University (fondata nel 2008 dai transumanisti ray Kurzweil e Peter Diamandis) – contemporaneamente un think tank, un’accademia e un incubatore di imprese con sede nella Silicon Valley – informa che si tratta di un progetto fortemente voluto da Alphabet-Google, con lo scopo di «educare, sensibilizzare e coinvolgere gli alti dirigenti su scala mondiale nell’utilizzo di tecnologie esponenziali per affrontare le grandi sfide dell’umanità». Il commento di Sadin è caustico ed eloquente al tempo stesso: «Siamo di fronte alla solita antifona del tecnologismo estremista che deve essere professato alle elite». Tutto ciò è reso possibile da un’epoca, la nostra, in cui il «tecno-potere» si è alleato con la «nuova economia», in nome del principio secondo cui: «La priorità conferita all’accrescimento della ricchezza e della potenza collettiva attraverso i mezzi tecnici, è divenuta la scelta culturale fondamentale comune a tutte le componenti sociali dell’umanità», Sadin 2015: pp. 215-216. Il pericoloso binomio tra l’enorme mole di contenuti dal valore nullo e la preponderanza delle forze commerciali nella sfera pubblica online veniva già evidenziato dallo studio pioneristico di John Palfrey e urs Gasser (2008: pp. 267-8). A parlare di «fine del potere politico» è il politologo Moises Naim (2013: p. 201), il quale individua fra gli «obiettivi centrali del nostro tempo»: ripristinare la fiducia (nella politica), reinventare i partiti politici, individuare nuovi modi per far partecipare effettivamente i cittadini al processo politico». un elenco che Nietzsche avrebbe rigettato integralmente. Per l’analogia fra Google e il Superuomo, si veda zuboff 2019, p. 81.
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individui, ben oltre la semplice coercizione fisica e la manipolazione mentale135. Non è più il fantomatico sistema politico o statale ad esercitare un tale potere, perché gli stati sono ormai ridotti a passacarte del potere finanziario e la politica a una scatola vuota, dentro a cui non vi sono più idee degne di questo nome né soggetti in grado di esercitare un’autonomia e una rilevanza rispetto alle questioni sociali. Il disastro della politica, naturalmente, è figlio di un’opinione pubblica degenerata a sua volta in gregge digitale che segue passivamente le rotte di Internet. Questo anche grazie alla formidabile distrazione di massa che la società in rete produce con la sua «opulenza informativa». L’eccesso di informazioni veicolato dalla rete, infatti, supera di gran lunga la capacità della mente umana di gestire tutto quel carico, impedendo agli individui di distinguere il vero dal falso, la fonte attendibile da quella improvvisata, trasformando di fatto tutta quella opulenza informativa teorica in un’indigenza conoscitiva diffusa. Mai come oggi è vero ciò che Foucault aveva rimarcato sulla scia di Nietzsche, e cioè che «sapere» e «potere» coincidono: in un’epoca in cui regna sovrana l’illusione che il sapere sia a disposizione di tutti grazie alle nuove tecnologie mediatiche, si rivela ancora più forte e decisivo il potere di coloro che quel sapere lo posseggono effettivamente. Quindi ancora più subdola la forma di servaggio riservata al gregge digitale136. 135. Per «biopolitico» Foucault (1975: pp. 209-211 e 215-220) intendeva una «nuova tecnica di potere non disciplinare» che si applica non tanto all’«uomo corpo», ma all’uomo in quanto «essere vivente» (financo in quanto «specie»), riuscendo a governarne non tanto i corpi e le menti individuali, quanto piuttosto i processi collettivi e fondamentali che riguardano la nascita, la morte, la produzione, la malattia etc. In un tale contesto, interviene il razzismo biologico e di Stato a pretendere di «introdurre una separazione, quella tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire», configurando la biopolitica come una pratica di morte. 136. Nel 2006 l’antropologo Fredrik Barth scriveva che il più importante problema per la teoria sociale odierna consiste nel fatto che «la nostra conoscenza sta crescendo più velocemente della nostra capacità di conferirle chiarezza e forma». ora, considerando che «la quantità di informazioni disponibili, ma
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Il realizzarsi di uno scenario del genere, peraltro, induce a riconoscere che Nietzsche aveva ragione laddove sosteneva la necessità e la presenza della schiavitù in ogni tempo: l’alternarsi delle epoche ha visto soltanto il succedersi di diversi tipi di schiavitù (bellica, razziale, commerciale e infine salariale, se facciamo riferimento ai tempi del capitalismo selvaggio analizzato da Marx), ma quella del dominio di una ristretta élite sulla grande maggioranza della restante popolazione è una costante che ha sempre caratterizzato la Storia, seppure con modalità differenti a seconda dei tempi e dei contesti. La nostra è ormai da molto tempo l’epoca in cui ad affermarsi è stata una sorta di schiavitù «personale» (nel senso che punta direttamente al controllo sulla personalità complessiva dell’individuo). Dapprima si è declinata nei termini della «biopolitica» di cui parlava Foucault, quindi si è evoluta nella «psicopolitica»137 concettualizzata da Byung-Chul Han, e oggigiorno si è affermata come vera e propria «logopolitica». Cioè dapprima abbiamo assistito al potere economico che controlla e ridefinisce corpi e istinti, ammessi dal senso comune in funzione del sistema produttivo industriale138; poi all’intrusione da anche la velocità del loro ricambio, combutta contro un pensiero profondo e un lavoro intellettuale serio», capiamo fra le altre cose perché i servizi americani non erano riusciti a concentrarsi sulle informazioni ricevute rispetto a due uomini mediorientali iscritti a un corso di volo e tuttavia disinteressati alle nozioni sull’atterraggio. Cia ed Fbi ricevevano quotidianamente una mole sterminata di segnalazioni su individui e attività sospette, tale da rendere impossibile la distinzione tra le vere e le false (eriksen 2016: pp. 124-5 e 127). Quanto a Foucault (1954-1988: v. 2, p. 1438), nel 1973 egli proclamava di voler distruggere il mito dell’antinomia fra sapere e potere con queste parole: «È questo mito che Nietzsche ha cominciato a demolire, mostrando […] che dietro ogni sapere, dietro ogni conoscenza, ciò che è in gioco è una lotta di potere. Il potere politico non è assente dal sapere, è ordinato con esso». 137. Byung-Chul Han (2014: pp. 81-4) ha definito «psicopolitica» quel sistema volto ad affermare il sapere assoluto (e quindi il potere assoluto) dei big data. un sistema del tutto fondato sulla logica quantitativa e numerica, in cui la razionalità pensante dell’uomo viene sacrificata in nome della razionalità calcolante propria degli algoritmi. 138. Mi riferisco alla Storia della follia di Foucault (1972: pp. 85 e 1056), in cui il filosofo francese raccontava come il capitalismo borghese rinchiu-
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parte di un sistema mediatico nella psiche e nell’inconscio dei soggetti, allo scopo di rimodellarne la mente e la psiche alla luce del nuovo sistema produttivo informazionale139. Infine, ed è il nostro presente, a un potere «invisibile» in cui tecnica e finanza procedono all’unisono, con l’obiettivo di ridurre a uno stato di servitù volontaria l’essere umano con tutte le sue facoltà specifiche (cognitiva, emotiva, discorsiva, relazionale), fino all’esito finale ed estremo di sostituirlo con una «superintelligenza» artificiale140. In termini filosofici, con il governo logopolitico è avvenuta quella distruzione del soggetto (umano) tanto agognata da Nietzsche e dai suoi epigoni, nella forma di una sua evaporazione nella dimensione dell’«oggetto», che oggigiorno è rappresentata dalle macchine fornite di intelligenza artificiale. Sì, come giustamente rilevato da remo Bodei nel suo ultimo libro prima di morire141, l’epoca delle macchine fornite di deva – etichettandoli come «folli» – tutti coloro che con la propria condotta di vita infrangevano i due grandi pilastri etici della società industriale: la famiglia e il lavoro. In nome della «condanna etica dell’ozio», dell’«inutilità sociale» e di ogni comportamento esistenziale che non portava l’individuo a esercitare un lavoro o costituire una famiglia, specialmente fra il XVII e il XVIII secolo furono rinchiusi in maniera coatta e violenta migliaia di uomini e donne. 139. Qui tengo a mente lo studio pioneristico di Vance Packard (1958: pp. 219-220), in cui si dimostrava come la solida alleanza fra psicologia del profondo (motivazionale) e sistema mediatico (a quel tempo la pubblicità) stesse producendo una cittadinanza mediamente «eterodiretta», quindi incapace di un pensiero autonomo e critico tanto nell’acquistare prodotti quanto nell’esprimere consenso ai politici. Significativo il fatto che, alla fine del suo libro, l’autore esperto di comunicazione si lanciasse in una profezia che letta oggi mette i brividi: «In un futuro – diciamo nel 2000 – tutta questa manipolazione psicologica del profondo sembrerà ingenuamente anacronistica. Per quel tempo, probabilmente, i biofisici si saranno spinti oltre con il «biocontrollo», che è la persuasione del profondo portata alle sue estreme conseguenze. Il biocontrollo è la nuova scienza del governo sui processi mentali, sulle reazioni emotive e sulle percezioni dei sensi per mezzo di segnali bioelettrici». 140. A esprimersi in termini di «superintelligenza» – con riferimento all’AI – è il filosofo e neuroscienziato computazionale Nick Bostrom (2014: pp. 230-1), il quale pur adottando un atteggiamento equilibrato (la AI rappresenta secondo lui un rischio esistenziale ma anche un’opportunità per l’umanità di non finire vittima di meccanismi ben peggiori) non si esime dal definirla «la più rischiosa di tutte le tecnologie». 141. Bodei 2019, p. 319.
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intelligenza artificiale non si limita a produrre una nuova forma di schiavitù imposta dal più forte al più debole, ma apre le porte a una situazione in cui «non c’è più bisogno di esseri viventi (uomini e animali) in grado di capire quel che si richiede loro», né di macchine prive di intelligenza artificiale e che quindi vogliono l’intervento dell’uomo per funzionare. Tutto ciò che è soggetto (quindi umano) ne esce servo di quel padrone invisibile che gestisce ogni cosa attraverso gli algoritmi. una servitù perfetta e assoluta. Mai come in questo caso, probabilmente, il bacino di soggetti esposti a tale nuova forma di potere è così ampio. Infatti, a rischiare di finire ridotti a guisa di «schiavi» manipolabili, controllabili e sfruttabili da pochi tecnocrati, sono i tanti milioni di fruitori entusiasti di una realtà virtuale che ai suoi albori aveva promesso il potenziamento umano e democratico, salvo deludere clamorosamente le stesse promesse sotto la pressione imponente e cogente della logica tecno-finanziaria. La stessa per cui a qualunque cosa (uomo in primis) viene conferito valore soltanto nella misura in cui genera profitto finanziario e produce progresso tecnologico. e chi può farlo meglio di quella nuova stirpe di «oltreuomini» denominati cyborg?! 4. Neonazismo tecnocratico: sottouomini e supermacchine
Ciò detto, non finiscono certo qui i macro-aspetti per cui possiamo riconoscere il realizzarsi delle intuizioni nietzscheane nella società odierna, quella del post-modernismo giunto alla sua fase suprema. Mi riferisco alla convinzione del filosofo tedesco secondo cui l’uomo si illude di rappresentare un «Io» definito, un’identità certa e stabile che connoterebbe ogni individuo come unico e irriducibile a tutti gli altri. Ma soprattutto gli conferirebbe la possibilità di agire alla stregua di un «soggetto» della Storia, artefice della propria sorte personale nonché in grado di modificare e guidare per molti aspetti la vicenda umana nel suo complesso. 324
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Abbiamo visto Nietzsche smontare una tale illusione, operando quella che può essere definita a tutti gli effetti una «distruzione del soggetto». È stato Massimo Cacciari a rilevare nella critica dell’idea di «soggetto» il punto cruciale del «pensiero negativo» di cui Nietzsche è stato forse il massimo esponente142. Sì, l’uomo era per il filosofo tedesco soltanto l’ingranaggio di un meccanismo molto più grande di lui, per giunta regolato da leggi fatalistiche che sfuggono alla sua comprensione. ogni individuo che si crede titolare di un’identità definita e quindi razionale, secondo Nietzsche, andava piuttosto visto come un fascio di istinti profondi e pulsioni misteriose, governati da quell’energia imprevedibile e sconvolgente che egli chiamava «volontà di potenza». In questo senso è assurdo, prima ancora che del tutto irrealistico, parlare di un uomo «soggetto» della Storia e artefice della propria vicenda. Se a evaporare è lo stesso concetto di un «Io» che tiene la scena dell’individuo, come si può anche solo immaginare che l’individuo stesso riesca a ritagliarsi il ruolo di soggetto di quella scena? «La coscienza «non appartiene propriamente all’esistenza individuale dell’uomo, ma piuttosto a ciò che in esso è natura comunitaria e gregaria». Poiché forma solo una rete di connessione tra uomo e uomo, essa si rivela «piatta, esigua, relativamente stupida, generica», scriveva Nietzsche ne La gaia scienza. Insomma, l’uomo senza anima non può illudersi di essere lui ad animare il mondo che lo circonda, e questo malgrado la sua «invincibile tendenza a lasciarsi ingannare» dai propri desiderata e a ritrovarsi in ciò «come incantato di felicità»143. Si tratta di idee che il teorico della volontà di potenza aveva formulato soltanto in sede filosofica, ma di cui ancora una volta si può constatare la realizzazione concreta in un tempo a 142. Cacciari (1976): p. 60. Secondo lo studioso italiano Nietzsche biasimava l’illusione dell’uomo di ritenersi «Soggetto» in grado di conoscere il mondo oggettivo, perché dietro a tale illusione si nasconde l’anelito metafisico dell’umanità, che è quello di riconoscersi come «essere» invece che come processo di un continuo, oscuro e contraddittorio divenire. Per il riferimento specifico a Nietzsche si veda VIII,I: p. 127. Cfr. anche Manzocco 2015: p. 81. 143. KSA: FW, III, p. 591 e WL, I, p. 888.
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lui successivo, che nella fattispecie è quello della nostra società tecnologica e misologa. Quali «Io» definiti e certi, infatti, in quella dimensione fluida per eccellenza che è la realtà virtuale, in cui l’identità individuale viene ridotta a prodotto «preconfezionato»144, esposto nella vetrina di schermi colorati e in vendita per un tot di «like» o «follower»?! Quale scenario più adatto a rappresentare la subordinazione dell’uomo alla «macchinazione» di cui parlava Heidegger, per cui l’uomo stesso è degradato da «animale razionale» a entità che esegue, a servo della tecnica:
«Le nuove possibilità dell’organizzare diventeranno infinite e l’invasamento senza limiti. I legami a tutto ciò che è stato finora devono decadere in maniera molto veloce. un nuovo genere di “felicità” cala sul pianeta, alla scarsità della quale, all’occorrenza, si pone rimedio attraverso cinema e altri impianti “culturali”. un giorno nessuno vorrà più sapere cosa fu l’occidente. Animal rationale: Homo faber». In questo senso è utopistico – sempre secondo lo Heidegger dei Quaderni neri – pensare da una prospettiva umanistica che la tecnica sarà padroneggiata dalla razionalità politica o scientifica, poiché «ciò che per essenza già è servo, non può mai diventare signore»145.
Quali soggetti artefici della propria sorte se, in larga parte, gli individui del nostro tempo si stanno lasciando assorbire e ingabbiare dalle dinamiche e dalle logiche di funzionamento del mondo virtuale, autocondannandosi più o meno consapevolmente alla situazione paradossale per cui quanto più tempo si sentono protagonisti «online», tanto più si ritrovano ad essere irrilevanti nella vita reale? e poi ancora, soggetti di cosa, se si preoccupano di alimentare il proprio ego e la propria immagine ritoccati o ricostruiti per l’occasione virtuale, in maniera direttamente proporzionale a quanto trascurano o rimuovono la cura e lo sviluppo del proprio sé effettivo in quella reale? Ciò che fa 144. A parlare di «sé confezionato» nell’epoca dei social network, quindi costruito soprattutto dai più giovani in maniera da risultare produttivi, vincenti e di successo, rimuovendo i lati fragili e oscuri della personalità, sono Howard Gardner e Katie Davis nel loro Generazione App (2013: pp. 66-70). 145. Heidegger 1939-1941: v. 96, p. 270 e 1931-1938: v. 94, p. 472.
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di un individuo immaturo un soggetto adulto è proprio la costruzione faticosa di una identità personale equilibrata e verosimile – oltre che consapevole dei propri limiti e difetti – in base alla quale regolare e definire modi, luoghi e tempi con cui provare a incidere sui vari ambiti della realtà soggettiva e oggettiva146. Ma la società in rete è quella in cui il lavoro di introspezione e costruzione della propria identità non esiste più, perché i momenti di riflessione con se stessi (comunemente detti «tempi morti») sono stati colonizzati dalla forza distrattiva e onnipervasiva degli smartphone, da cui le persone fanno sempre più fatica a staccare occhi, menti e attenzione. Il risultato è quello di un Io frammentato e «diviso», perché nella sua continua azione nella dimensione virtuale, si ritrova sempre più privato dell’interazione con l’ambiente circostante e sempre più scisso dal proprio corpo fisico. È in un contesto del genere – terribilmente simile alla dimensione caotica e irrazionale descritta da Nietzsche, secondo il quale non esiste alcun Io quale causa del pensiero147 – che è potuta avanzare in maniera parossistica l’evaporazione dell’identità umana, persa in un attivismo sfrenato e compiaciuto all’interno della dimensione online (prevalentemente proteso all’esibizione di un «iper-Io» costruito e fittizio), a cui corrisponde distrazione, disinteresse e apatia crescente nella dimensione offline. Tutto ciò, a livello del singolo individuo, si traduce in quella profonda regressione del senso del sé tipica degli «schizofrenici», in cui lo smarrimento dell’«Io osservante» lascia il soggetto in balia di uno «stato originario indifferenziato», ossia del tentativo compulsivo e allucinatorio di soddisfare un desiderio che non trova mai pace, perché subìto in assenza 146. erikson 1968: pp. 135 e 141. Lo psicologo Alexander Lowen (1985: p. 226) scriveva in uno studio dedicato al narcisismo che «la comprensione e l’accettazione dei nostri limiti fa di noi delle persone autentiche e non dei narcisisti». Cfr. ercolani 2019: pp. 137-149. 147. Scriveva Nietzsche (JGB: VI,II, § 16): «Donde prendo il concetto del pensare? Perché credo a causa ed effetto? Che cosa mi dà il diritto di parlare di un io e perfino di un io come causa, e infine di un io come causa dei pensieri?».
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della capacità di introspezione e riflessione sull’esperienza immediata148. In questo senso non deve sorprendere che influenti movimenti filosofici e culturali ormai teorizzano apertamente l’assurdità del voler operare distinzioni perfino tra quelle identità che sembravano definitivamente acquisite dalla cultura occidentale. Sto parlando della distinzione tra maschile e femminile, tra uomini e animali, oppure ancora tra animali e macchine. L’estremizzazione del relativismo gnoseologico di Nietzsche, peraltro assai radicale già di suo, specie nel voler negare ogni forma di cornice oggettiva alle tele che compongono il reale, ha spinto movimenti culturali come la teoria «gender», il postumanesimo e il transumanesimo a mettere in discussione perfino la stabilità delle identità di cui sopra. Tali movimenti, adottando e stressando concetti come quello di «decostruzione», «contaminazione» e «differenza», elaborati da pensatori perlopiù francesi e fruitori dell’eredità nietzscheana (Derrida, Foucault, Deleuze), sono giunti alla conclusione che è finito il tempo dell’«umano» come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi. operando tutte le semplificazioni del caso, inevitabili in un lavoro che non si occupa specificamente di questi movimenti, è possibile comunque arrivare a delle sintesi esaustive. Nel caso del postumano, quindi, possiamo dire che si tratta di un movimento i cui fondamenti epistemologici devono molto alla critica nietzscheana del razionalismo cartesiano («penso, dunque sono»), come anche all’antiumanismo radicale del filosofo tedesco e al suo votarsi all’«amor fati» quale cifra centrale con cui «abbracciare i processi vitali»149. A partire da tali fonda148. Freeman 1969, pp. 137 e 163. Karl Jaspers (1959: pp. 688-9) considerava questa perdita della capacità di abitare le proprie azioni l’elemento principale dell’incomprensibilità schizofrenica. 149. I primi quattro punti del «Manifesto Postumanista», riportati in appendice al suo libro da robert Pepperell (1995: p. 177), sostengono quanto segue: 1) È ormai chiaro che gli umani non rappresentano più l’elemento centrale nell’universo; 2) tutti i progressi tecnologici della società umana sono
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menti, come abbiamo visto centrati sulla messa in discussione del potere che la ragione umana ha di padroneggiare, orientare e perfino conoscere il fluire caotico delle cose, il postumanesimo sostiene che l’umanità moderna ha operato una serie di violenze sulla natura e i suoi abitanti (compreso l’uomo stesso). È in nome della «ragione» e del suo potere, infatti, da intendersi nelle varie declinazioni (epistemologico, tecnico, politico, filosofico etc.), che l’uomo moderno e «illuminista» ha concepito le operazioni più distruttive (pensiamo alle guerre, ai regimi dittatoriali e poi totalitari, ai razzismi, alla scienza usata contro altri uomini, alla produzione che sfrutta le risorse del pianeta e ne contamina l’ecosistema etc.), discriminando, schiavizzando e perfino uccidendo i propri simili. In virtù di tali considerazioni la postumanista rosi Braidotti si è espressa in questi termini: «Non sono per nulla affezionata all’umanesimo o all’idea di umano che implicitamente sottende. L’antiumanesimo è talmente parte della mia genealogia intellettuale e personale, alla stessa maniera di un retaggio famigliare, che per me la crisi dell’umanesimo sembra un dato quasi banale»150. Gli stessi postumanisti sostengono che oggigiorno è a fronte dell’inguaribile «logocentrismo» dell’umano se quest’ultimo sta conducendo un’ormai insostenibile sfruttamento dell’ecosistema che lo ospita. In ossequio al valore sacro (di matrice illuministica) del progresso infinito e inarrestabile delle sorti umane, che nel tempo presente si declina in termini di «ragione economica» (orientata al profitto) e «ragione tecnica» (indirizzata al potenziamento delle capacità umane di sfruttare la natura), l’umanità si sta dirigendo secondo i postumanisti verso l’inevitabile distruzione del pianeta, quindi verso il suicidio collettivo. orientati verso la trasformazione della specie umana così come la conosciamo; 3) nell’epoca postumana molte credenze risultano ridondanti, a cominciare dalla credenza negli esseri umani; 4) gli esseri umani, al pari degli dèi, esistono soltanto nella misura in cui noi crediamo alla loro esistenza. Che tutto questo conduca all’amor fati di nietzscheana memoria, è quanto espresso esplicitamente da rosi Braidotti (2013: p. 190). 150. Braidotti 2013, p. 16.
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La lunga epoca dell’uomo come centro e misura di tutte le cose, insomma, è arrivata a un capolinea decisivo per le sorti del pianeta. Bisogna scegliere: o proseguire con l’epoca dell’«Antropocene» – quella in cui mai come oggi la Terra è in balia dell’agire in senso tecno-finanziario da parte dell’uomo occidentale151 – per il breve tratto che condurrà l’umanità e il suo ecosistema all’autodistruzione, oppure prendere atto dell’unica via di salvezza rispetto a questo tragico finale. Tale via di salvezza passa per l’abbandono di tutto ciò che ha connotato l’«umano» fino ad oggi, secondo i postumanisti. Nella fattispecie, occorre liberarsi dalla concezione individualistica di soggetti razionalmente strutturati che, in nome della propria ragione e dell’incapacità di accettare «differenze» e «contaminazioni», si sentano titolati ad arrogarsi una preminenza rispetto agli altri individui, alle altre specie e alla natura stessa. Secondo la medesima logica, si tratta di liberarsi anche del concetto di specie, sulla base del quale quella umana si sente investita di una superiorità che le consente di sottomettere e sfruttare le altre. In questo senso, la nuova umanità che si sia liberata del proprio «logocentrismo» ed «antropocentrismo»152, sarà quella che imparerà a concepirsi nei termini di una contaminazione pacifica e collaborativa con tutte le altre forme viventi, riconoscendo la vita stessa come il vero e unico fondamento di tutte le «differenze» finalmente poste sullo stesso piano (differenze di specie, di genere etc.). Continuare a misconoscere questo fondamento, equivale ad aprire le porte alla morte dell’umanità e alla «fine della natu151. A sottolineare i rischi insiti nell’era dell’«antropocene» è il filosofo e antropologo francese Bruno Latour (2015: pp. 166 e sgg., 288 e sgg. e 303), il quale invita a consapevolizzare il fatto che stiamo «dimorando nel tempo della fine». Sì, si tratta di essere apocalittici alla maniera del filosofo Günther Anders, non per un desiderio della fine o soltanto per il timore di essa, ma per escogitare strategie con cui evitare l’Apocalisse. 152. Per il postumanesimo come movimento che decostruisce le «strutture intransigenti del logocentrismo», si veda Wolfe 2010, pp. 13-14. Che il postumanesimo si concepisca anzitutto come «post-antropocentrismo», è quanto ricostruisce con chiarezza Francesca Ferrando (2019: pp. 55 sgg.).
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ra»153. Lo scopo «umanistico» della teoria postumana, insomma, è esplicitamente ammesso dai suoi maggiori esponenti. Teorizzare il «postumano», in questo senso, significa chiamare l’umanità a liberarsi di quell’umanesimo logocentrico e predatorio che la sta conducendo all’autodistruzione, permettendole in tal modo di salvarsi la vita. Naturalmente le cose non sono però così semplici, poiché è la stessa teoria postumana ad ammettere l’impossibilità di non fare i conti con l’«ospite inquietante» della nostra epoca, cioè quell’entità oltremodo nichilistica per l’umanità (nel senso di poterla letteralmente «annullare») che è la tecnologia, sempre più in grado di soverchiare e sostituire l’uomo. Sì, quella odierna è una tecnologia macchinica che, a differenza delle sue declinazioni precedenti, è perfettamente in grado di sviluppare un’intelligenza artificiale tanto più influente e pericolosa perché avviene nell’epoca in cui l’intelligenza umana si trova (o è costretta) a indietreggiare154. Insomma, il contesto entro cui ci troviamo è questo: da una parte abbiamo l’umanità logocentrica – affermano i postumanisti – autrice delle nefandezze più aberranti nella storia del pianeta e, al giorno d’oggi, neppure in grado di controllare in termini ecosostenibili lo sfruttamento anche eticamente deplorevole della natura. Per questo, a rischio fortissimo di condannarsi al suicidio. Dall’altra parte, però, la stessa umanità che i postumanisti chiamano all’abbandono della «ragione» e di molti dei fondamenti culturali e valoriali che l’hanno condotta fin qui, si trova a interagire con una nuova entità (le macchine) che rischia di farla sparire. 153. Vandenberghe 2006, pp. 127 sgg. 154. Per tutto il XX secolo si era registrato il cosiddetto «effetto Flynn» (dal nome dello studioso James Flynn che l’aveva osservato). Si trattava di un aumento costante del quoziente intellettivo medio della popolazione, che però faceva registrare un calo robusto e sorprendente nel 2016, quando fu pubblicato uno studio che si riferiva agli anni fra il 1990 e il 2009. Sì, gli anni della comparsa e sviluppo delle tecnologie digitali coincidono con la fine dell’effetto Flynn, con conseguente abbassamento del quoziente intellettivo medio della popolazione, Alexandre 2017, pp. 85-7.
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Del resto, teorizzare un indietreggiamento della ragione dallo scenario esistenziale (decostruendo l’identità individuale e razionale che l’occidente ha contemplato fino ad oggi), come anche spingere l’uomo verso una contaminazione con tutte le altre «presenze» che popolano la galassia dell’esistente (natura, macchine, animali, etc.), significa aprire un campo di possibilità in cui l’umanità può essere sottomessa o perfino estromessa da entità ben più potenti di lei. Per dirla in termini sintetici: privare la ragione umana della possibilità di codificare e determinare l’esistente, come anche togliere all’uomo il ruolo centrale di misura di tutte le cose, può realisticamente comportare che qualcun altro si assuma l’onere e l’onore di stabilire le leggi dell’esistenza e di occuparne il centro in qualità di misura di riferimento. Va detto che proprio tale possibilità è quella esattamente teorizzata e auspicata da un movimento filosofico e culturale anch’esso derivato dal postmoderno, nonché ispirato alla filosofia nietzscheana155. Mi riferisco al «transumanesimo», che costituisce una radicalizzazione del postumanesimo perché non si propone di andare oltre l’umano sminuendo il ruolo dell’uomo nell’universo, ma di farlo nella convinzione di potenziare l’uomo stesso (in questo senso si è parlato di «ultraumanismo»156). Il fatto è che tale potenziamento, nella visione dei transumanisti, è il frutto della contaminazione fra gli uomini e le macchine, al punto tale che il futuro non sarà più abitato da uomini 155. In realtà la questione è dibattuta, come è giusto che avvenga ogniqualvolta si tenti di stabilire un legame forte tra pensatori estremamente distanti. uno dei leader del movimento transumanista – Nick Bostrom (2005: p. 4) – ha rifiutato la visione di Nietzsche come precursore del movimento, parlando di semplici «somiglianze di facciata con la visione nietzscheana». Jurgen Habermas (2001: p. 43) ha invece riconosciuto delle somiglianze a un livello fondamentale tra l’«oltreuomo» nietzscheano e la teoria postumana e transumana, anche se le ha bollate entrambe come teorie elitarie che non hanno particolare seguito. Per una utile ricostruzione delle notevoli somiglianze – evidentemente sostenute anche da me – consiglio la lettura di Sorgner 2009. Sul fatto che la questione è dibattuta, si veda Tuncel 2017. 156. Ferrando 2019: p. 33.
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in carne ed ossa, ma da individui largamente composti di parti bioniche e robotiche e da coscienze «umane» trasferite all’interno dei computer. Superumanità: dagli ariani ai cyborg
Pur nell’ambito di una ricostruzione arbitraria, esistono tuttavia elementi significativi e sorprendenti al tempo stesso che, anche sul piano squisitamente storico, collegano il nazismo del Novecento al progetto transumanista e il pensiero di Nietzsche a quello espresso dai guru delle nuove tecnologie. In merito al primo aspetto, va ricordato che a porre le basi tecniche per la sconfitta del nazismo hitleriano fu colui che viene considerato unanimemente il padre del computer moderno e dell’intelligenza artificiale. Sto evidentemente parlando dello scienziato inglese Alan Turing, che alla guida di uno staff di studiosi riuscì a decodificare i codici segreti che i nazisti avevano creato grazie alla macchina «enigma», contribuendo a far svoltare in maniera decisiva le sorti della II guerra mondiale. È una pura casualità, fra l’altro, ma vale la pena di sottolineare che «enigma» è uno dei sostantivi più utilizzati proprio da Nietzsche per descrivere gli eventi esistenziali dell’umanità, governati in maniera totale e oscura dall’enigmatico fato di fronte a cui la ragione umana può e deve soltanto arrendersi. Turing, proprio grazie all’utilizzo della ragione umana – nonché di una volontà che non si arrende al fatalismo nichilistico – è stato colui che ha contribuito a sconfiggere il nazismo poco prima di porre le basi, con i suoi scritti, per la creazione dell’intelligenza artificiale. un’AI in grado di imitare quella umana, partendo dalla costruzione di una «macchina bambino», ma anche di superarla a fronte della legge evolutiva, in virtù della quale si parte dall’«educazione» di questa stessa macchina per arrivare a sviluppi imprevedibili157. Insomma, con tutte le 157. Cfr. Turing 1950: pp. 564 sgg., per la costruzione di macchine che pensano e apprendono, e Hodges 1983: pp. 209-259 e 273-308 per la vicenda di «enigma».
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cautele del caso, il grande scienziato inglese può essere visto come una sorta di trait d’union fra il progetto hitleriano di creare una superumanità di ariani e quello siliconiano di dare vita alla superintelligenza degli oltreuomini robotici. Il secondo aspetto concerne invece il grado di ideologia e retorica simile al nazifascismo che permea la galassia della Silicon Valley, fino ad arrivare alla sorprendente (e inquietante) influenza che Nietzsche ha esercitato su una figura di primo piano del mondo digitale come Steve Jobs. entrambe le questioni sono state poste con precisione dal filosofo e scrittore francese eric Sadin, che parla di un «tecnolibertarismo» incline a diffondere assiomi quali «fare del mondo un luogo migliore», «potenziare la vita», «costruire un futuro positivo», «spingere più in là i confini», «scommettere su un “coraggio di rottura”», «liberare le forze vitali della gioventù». Tutta una serie di principi e valori che «appartengono a quelli glorificati dal nazismo e dal fascismo mussoliniano», ma senza che questa parentela ideologica e semantica venga minimamente segnalata dal sistema mediatico e culturale, tutto proteso a esaltare lo «splendore del sole californiano»:
«Al pari dei sistemi totalitari della Storia, il siliconismo è portatore di un’energia rivoluzionaria che intende opporsi all’ “inerzia delle società”, alla loro “lenta e ineluttabile dissoluzione”, per innalzare nuove fondamenta depurate dalle scorie delle debolezze umane. Somiglianze evidenti – quanto al discorso – nell’utilizzare un identico registro lessicale, in cui tutte le parole affermano la necessità di operare una trasmutazione degli schemi costituiti, lisciando il pelo a forme di violenza con cui si arruolano e si incitano i giovani a realizzare tali obiettivi. Per un altro verso, v’è un linguaggio impregnato di spirito libertario che completa tale glossario. Si gioisce per la virtuosa presa di potere da parte degli individui e si celebrano “creatività”, “disintermediazione”, “collaborazione”, “partecipazione”, “condivisione” e “spirito dirompente”, inteso qui con una connotazione quasi controculturale. La forza del tecnolibertarismo non consiste tanto nell’operare una sintesi inedita fra ideologie storicamente inconciliabili, quanto nel riunirle e nel ridurle alla loro dimensione soft, presentandole in una veste seducente poiché assemblate incarnano una forma di “anticonformismo gioviale, volontarista e salutare”. una sorta di progetto politico-sociale abbellito con una nota di utopia, realizzabile grazie al coinvolgimento concreto e attivo di tutti gli spiriti ottimisti e ribelli del mondo».
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un mix di ribellismo, irrazionalismo, confusione ideologica, spirito utopistico, escatologismo, toni enfatici, ammiccamenti a misure drastiche e riferimenti a un’élite chiamata a realizzare una missione salvifica. Tutti aspetti che spingono il pensiero dalle parti di Nietzsche. Che non si tratta di una deduzione arbitraria è quanto possiamo leggere nella biografia su Steve Jobs, in cui l’autore della stessa racconta di:
«una figura chiamata a guidare il popolo, di cui Steve Jobs sosteneva di essere la personificazione. Secondo Steve soltanto alcune persone in ogni secolo nascono avendo qualche cosa in più rispetto agli altri, gente come einstein e Gandhi. Steve si contemplava fra queste – racconta Andy Hertzfeld, programmatore e membro della prima equipe di ideatori di Macintosh. egli viveva nella convinzione delirante, nietzscheana, di essere l’eletto che non deve arretrare di fronte a nulla, un visionario la cui missione consiste nel portare al popolo ciò che esso è troppo stupido per immaginare. “una volta mi ha anche detto, ed era molto serio, di considerarsi un essere eletto e illuminato”» 158.
In questa testimonianza sul fondatore di Apple convergono e trovano una sintesi le principali suggestioni e influenze che permeano il nostro tempo a trazione tecno-finanziaria: elitismo, profetismo, delirio tecnocratico, invasamento imprenditoriale etc. ovviamente Nietzsche non è estraneo a tutto questo, ma anzi il suo pensiero ne nutre quasi ogni punto. Al netto di tutto ciò, non v’è comunque dubbio sul fatto che il transumanesimo ha elaborato delle teorie autonome e ulteriori rispetto agli autori e alle correnti di pensiero che lo hanno preceduto, di cui qui mi limito a evidenziare le più sostanziali: innanzitutto il graduale ma inesorabile divenire anacronistico dell’intelligenza umana, sempre più lenta, piccola (in termini di memoria) e inadeguata rispetto alla velocità e alla potenza dell’intelligenza artificiale: «Produrremo macchine che ragionano, pensano e fanno le cose meglio di quanto possiamo fare noi» – ha affermato nel 2015 il fondatore di Google Sergej Brin – men158. Sadin 2016, pp. 156-7 e 181-2.
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tre contemporaneamente Sebastian Thrun (inventore della Google Car) dichiarava a The Economist che «per un essere umano sarà sempre più difficile fornire un contributo produttivo alla società. Le macchine potrebbero superarci in poco tempo. I camionisti saranno i primi a essere rimpiazzati dalle macchine, ma nessuna professione si trova al sicuro». Quindi, l’intelligenza artificiale è destinata dapprima a sottomettere l’intelligenza naturale, rendendola strumentale alla realizzazione del suo obiettivo principale, che consiste nel sostituirla integralmente realizzando un nuovo cosmo a misura di individui bionici. Il momento in cui l’intelligenza artificiale supererà quella umana è chiamato «singolarità» dai tecno-entusiasti. Questa «singolarità» segnerà la sparizione, insieme all’intelligenza naturale, anche dell’uomo come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi – che dell’intelligenza naturale è il portatore – poiché esso stesso sarà destinato a fondersi fisicamente con le nuove tecnologie fino a dare vita alla «nuova umanità» (o transumanità) dei cyborg. È in questo senso che Hans Moravec profetizzava – negli anni ottanta del secolo scorso – l’avvento di un’era in cui le macchine avrebbero convertito l’intero universo in una «entità pensante estesa», laddove per pensiero si deve intendere quello computazionale. Tale visione è ripresa oggigiorno dal transumanista Nick Bostrom, il quale fa intendere chiaramente che il momento di «esplosione dell’intelligenza» è funzionale alla rivoluzione in senso tecno-finanziario del sistema produttivo (dopo quella agricola e industriale), poiché il nuovo sistema economico del XXI secolo presenta degli aspetti di complessità per i quali sarà necessaria un’intelligenza ben superiore a quella umana. Sì, secondo il filosofo e neuroscienziato computazionale svedese, per quanto tempo si impiegherà a raggiungere un’«intelligenza macchinica di livello umano», comunque ci si accorgerà immediatamente che essa è solo una brevissima tappa evolutiva, perché immediatamente si renderà manifesta la necessità di un’«intelligenza macchinica di livello sovrumano (super-human-level machine intelligence)». È evidente che a queste condizioni non sarà l’uomo a diventare «super» – secon336
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do l’idea di Nietzsche – bensì le macchine. Per la precisione macchine «ultraintelligenti» che, come già scriveva il matematico Irvin John Good nel 1965, saranno «l’ultima invenzione che l’uomo dovrà mai realizzare». Purché le stesse siano sufficientemente docili da insegnare all’uomo come tenerle sotto controllo, si peritava di aggiungere159. essì, non si tratta tanto di far entrare le intelligenze umane individuali in connessione attraverso il World Wide Web, così da dare vita a una grande «intelligenza collettiva» (e connettiva) come auspicato dai pionieri di Internet e dai primi entusiasti delle nuove tecnologie digitali. Quella che viene richiesta e prefigurata dal movimento transumanista, infatti, è la vera e propria evaporazione dell’intelligenza umana e dell’uomo stesso in quanto tali, nell’ambito di una nuova galassia in cui a dominare la scena sarà la «Superintelligenza» computazionale, gli «oltreuomini» che ne saranno portatori e il cyberspazio in cui si trasferirà tutta la vita: nel regno virtuale – scriveva sempre Moravec – il «fuoco della Mente» renderà la vita sulla terra priva di significato e alla fine inghiottita dal cyberspazio160. Il tutto viene supportato da una visione evoluzionistica in pieno stile nietzscheano: coloro che si adegueranno alla nuova prospettiva umanoide sopravvivranno, mentre gli uomini che non rinunceranno alla propria umanità «integrale» si condanneranno all’inesorabile estinzione, perché rispetto ai cyborg si riveleranno come i malriusciti (o sottouomini) di cui parlava il filosofo tedesco. una libera scelta lasciata al singolo individuo, certamente, ma che non ha impedito ad alcuni studiosi di vedere nel transumanesimo i semi di un’«eugenismo» non più imposto dallo Stato, bensì lasciato alla coscienza individuale. Tuttavia, 159. Kurzweil 1999: cap. 6 e 2005: cap. 6; Alexandre 2017: pp. 46-7 e 523. Cfr. Jones –Whitaker 2012 per la trasformazione del corpo e del cervello umano attraverso la fusione dell’uomo con la tecnologia, Tirosh-Samuelson 2014: pp. 55-57 per la «singolarità». Moravec 1988: p. 116 e 1999: p. 163 e Bostrom 2014: pp. 2-4 per la superintelligenza computazionale. Good 1965: p. 33. 160. Di intelligenza collettiva, intesa come un sapere totale comunque dell’umanità e reso fruibile dalla rete, parlava Pierre Levy (1994). Moravec 1999: p. 167.
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sempre di eugenetica si tratta, di una «nuova forma di eugenismo che, con il pretesto di regolare un’anomalia, sviluppa nei fatti una selezione non naturale», secondo la sintesi implacabile di Laurent Alexandre. Del resto, la prospettiva transumanista di un potenziamento della specie attraverso l’ausilio degli impianti tecnologici, sembra non contrastare con il pensiero di Nietzsche. Infatti questi scriveva che normalmente un umano di stirpe più elevata non può semplicemente trasferire le proprie capacità eccezionali alla sua discendenza. Tuttavia, se vi fossero molti umani di rango più alto e fossero presenti anche altre condizioni, un tale step evoluzionistico potrebbe avvenire. La nostra è evidentemente l’epoca in cui quelle «altre condizioni» sono rappresentate dalle macchine161. Insomma, volendo pervenire a una sintetica (per questo azzardata) ricapitolazione della galassia filosofica di stampo post-metafisico e post-umanistico che caratterizza il nostro tempo – preannunciata e ispirata dal pensiero di Nietzsche – possiamo individuare tre filoni portanti: 1) L’antiumanismo. ossia un’inclinazione teorica che, partendo dalla trasvalutazione nietzscheana di tutti i valori, dal superamento dell’orizzonte metafisico, dall’evaporazione della coscienza individuale, nonché dalla destrutturazione dell’ordine razionale, ha operato a vario titolo la rivalutazione di ciò che la morale dominante aveva bollato a guisa di «male» (istinti primordiali e irrazionalistici, guerra, violenza, volontà di potenza, sessualità sfrenata, droghe, dominio del più forte sul più debole, competizione sociale, etc.). Con ciò è in buona parte avvenuta la liberazione di quelle pulsioni fisiologiche e vitali che la società cristiano-borghese era riuscita a reprimere o, quantomeno, contenere all’interno di confini accettabili per la sopravvivenza del consesso umano. A questa sopravvivenza era servita la morale umanistica e metafisica, che però viene ora tacciata di essere irrealistica, ipocrita e repressiva da parte degli antiumanisti che hanno fatto propria la lezione di Nietzsche. 161. Jousset-Couturier 2016: p. 95 e Alexandre 2012 per la questione eugenetica. KSA: XIII, pp. 316-317 per la citazione di Nietzsche.
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2) Il postmodernismo. un movimento estremamente composito e non certo limitabile all’ambito filosofico o delle scienze umanistiche, ma i cui elementi di fondo possono essere ricondotti al relativismo gnoseologico e al nichilismo esistenziale riscontrabili nella teoria nietzscheana. Il netto rifiuto di Nietzsche rispetto alla pretesa di individuare fatti oggettivi, verità scientifiche, ideologie salvifiche o comunque riferimenti certi (di natura etica, religiosa, politica, etc.) – pretesa secondo lui condotta in nome dell’infallibile facoltà razionale di cui l’uomo sarebbe titolare – rappresenta la base teorica su cui nei vari ambiti è stato costruito il grande edificio della narrazione postmoderna. 3) Postumanesimo e transumanesimo. rappresentano la fisiologica radicalizzazione dei primi due movimenti, a cui si aggiunge un’aura di nichilismo esistenziale. La messa in discussione dei riferimenti metafisici e della morale (nel caso dell’antiumanismo), come poi anche della ragione e della sua capacità di conoscere/stabilire fatti oggettivi (da parte del postmodernismo), si era limitata a decostruire determinati ordini di senso istituiti da quell’essere pensante, credente, legiferante e dominante che è l’uomo. ora si tratta di mettere alla sbarra direttamente l’uomo, contestando la sua stessa identità stabile e definita, la sua appartenenza a una specie distinta dalle altre nonché la sua centralità in un mondo ridotto a strumento e misura della ragione umana. Tutto questo, lo abbiamo visto, fino all’esito conclusivo che i teorici del transumanesimo ritengono imminente: l’eclissi dell’umano e l’alba di una transumanità cibernetica in cui i nuovi dèi saremo noi stessi, ma solo attraverso i nostri «discendenti iper-evoluti»162. In merito a quest’ultimo aspetto ci sono due dati molto interessanti da sottolineare. Il primo riguarda il fatto che al transumanesimo hanno aderito i principali guru, ideatori e proprietari delle multinazionali del digitale. Ciò significa che se anche stessimo parlando di un movimento filosofico e culturale relativamente marginale e di nic162. Manzocco 2015: p. 285.
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chia, quindi non destinato a imporsi a guisa di pensiero dominante della nostra epoca – come peraltro sembrava sarebbe accaduto con la filosofia di Nietzsche, fino a tutta la sua vita cosciente sconosciuto al grande pubblico – tuttavia i suoi obiettivi vengono perseguiti fattivamente da coloro che oggigiorno posseggono un enorme potere finanziario e il più sofisticato know-how tecnologico. Sto parlando, per esempio, di personaggi del calibro di Mark zuckerberg, il noto fondatore di Facebook che nel 2017 aveva annunciato di coltivare ambiziosi progetti nel campo dell’interfacciamento tra computer e mente umana. Ma anche di Sergey Brin e Larry Page, i due fondatori di Google che, già dal 2010, avevano dichiarato la loro piena adesione alla visione transumanista di creare un’intelligenza artificiale più potente di quella umana, intendendo connettere quest’ultima con i computer. Del resto, che non si trattasse di pulsioni intellettualistiche è confermato dal fatto che ray Kurzweil – il più famoso dei transumanisti – è stato assunto da Google come direttore del settore ingegneria, quello che rivolge un’attenzione specifica allo studio e alla progettazione dell’AI. Anche Bill Gates ed altri imprenditori del medesimo calibro hanno espresso la propria vicinanza al transumanesimo fin dai primi anni del 2000, senza contare le simpatie influenti dalle parti di Hollywood. Naturalmente la lista potrebbe continuare per molto163. D’altra parte, è opportuno sapere che lo sviluppo delle nano e biotecnologie, come anche di quella che zizek chiama «ossessione per l’intelligenza artificiale» – poiché «mira a produrre un cervello più potente di quello umano» – a prescindere dall’impianto teorico che può esserci o non esserci dietro, mette già di per sé a rischio la sopravvivenza dell’identità umana in un futuro più o meno prossimo. Non è certo in un’epoca come la nostra, in cui le stelle polari dell’agire sociale sono il profitto economico e il progresso tecnologico senza fine, che si può confidare sulla possibilità 163. Coenen 2021: pp. 101-104.
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che questa macchina venga fatta frenare di fronte al rischio di investire l’umanità164. Ma arrivo al secondo aspetto significativo, quello che evidenzia come l’evoluzione culturale avvenuta sulla scia della filosofia nietzscheana disegna una sorta di parabola paradossale. Sì, paradossale perché il filosofo tedesco aveva annunciato la fine dell’epoca metafisica – quella in cui l’uomo, secondo lui, non riusciva a restare fedele alla terra, a non cercare appigli, vie di fuga o di salvezza in qualche dimensione trascendente. eppure, l’esito dell’epoca post-metafisica inaugurata da Nietzsche – cioè il transumanesimo, che della medesima epoca dovrebbe essere il prodotto più coerente – pur traendo origine dalle idee antiumanistiche e nichilistiche del filosofo tedesco, finisce col riportare in vita proprio l’inclinazione metafisica che l’occidente cristiano e liberale aveva messo in campo per secoli e che il Nostro ha combattuto per tutta la vita. Sì, nel suo prospettare il prezzo più alto per l’uomo, ossia l’estinzione, il transumanesimo promette ciò che l’umanità di ogni tempo più desidera fin dalla sua comparsa sulla Terra: l’immortalità. Ma per realizzare tale immortalità, occorre evidentemente costruire una nuova dimensione in cui le personalità e le menti degli individui continuino a vivere dopo la morte dei rispettivi corpi biologici. Quale obiettivo più metafisico in senso stretto, verrebbe da chiedersi, di quello che trasla la stessa vita umana oltre i limiti della fisica?! L’umanità, destinata a confluire e quindi annullarsi nella tecnosfera digitale e cibernetica, secondo i transumanisti troverà in questa dimensione la possibilità di sopravvivere alla morte del proprio corpo. Trasferendosi dal corpo biologico all’infosfe164. zizek 2008: p. 436, per quanto concerne le considerazioni sull’intelligenza artificiale. Seppure in un contesto interpretativo lievemente differente al mio, sempre Slavoj zizek (2009: pp. 347-352) – in un libro specificamente dedicato al futuro prossimo – è arrivato a chiedersi cosa ne sarà della definizione stessa di umanità, a fronte delle manipolazioni biogenetiche fortemente invasive che sono allo studio.
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ra dell’intelligenza artificiale, l’umanità otterrebbe due obiettivi straordinari in un colpo solo: la vita dopo la morte, ma anche che questa seconda vita si realizzi in una dimensione metafisica e comunque terrena. Perché questo è il virtuale: una metafisica immanente. Sembra paradossale, dicevo, che l’epoca post-metafisica, annunciata e iniziata da Nietzsche, si concluda con un movimento – quello dei transumanisti – portatore di una nuova metafisica. Ma il paradosso è soltanto apparente, perché già il filosofo tedesco – nel suo teorizzare la fine dell’epoca metafisica («non resta che eliminare o le nostre venerazioni o noi stessi») – aveva scritto chiaramente che «tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé». La sua filosofia, in tal senso, non voleva il «riflusso di questa grande marea», ma semplicemente che l’uomo divenisse «Superuomo», quindi veneratore di se stesso, artefice della propria esistenza e Dio di se stesso. esattamente ciò che vuole la nuova religione transumanista, cioè un uomo che sia in grado perfino di ricreare se stesso, con un «io» che esista al di fuori del corpo e, quindi, sia immortale165. I grandi guru delle multinazionali tecnologiche sono profondamente e talmente convinti di una tale possibilità, da stare investendo cifre enormi per la sua realizzazione. Anche il nome di questa «iper-realtà» – metafisica ma terrena – sembra già pronto: «metaverso». Sulla scia di un tentativo precedente – anch’esso dal nome eloquente: «Second life» – questa nuova dimensione esistenziale sembra poter essere una realtà in cui trasferire ogni ambito della vita umana, dove le persone si incontreranno per mezzo dei rispettivi avatar e potranno fare tutto quello (e molto di più) che già fanno fuori dalla virtualità. Ancora si sa poco dei dettagli, ma c’è già chi avanza timori comprensibili: che metaverso si riveli un incubo, visto che le persone potrebbero ritrovarsi sottomesse al dominio delle stesse aziende che già oggi controllano internet. Ma anche che si piombi in una dimensione iper-capitalistica, in cui ogni cosa è 165. KSA: VIII,I, pp. 127 e 215; VIII,II, p. 237 e zA, IV, p. 14. Per la «nuova religione transumanista», cfr. Alexandre 2017: p. 269.
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subordinata alla logica del profitto e a una non ben definita Intelligenza artificiale166. L’epoca del post e transumanesimo, a conti fatti, è quella in cui si investono cifre esorbitanti sull’intelligenza artificiale, proprio mentre si lascia declinare quella umana nel contesto «misologico» di cui ho parlato. entrambi questi processi, peraltro – la costruzione di un’intelligenza artificiale sempre più potente, parallelamente alla decostruzione dell’intelligenza umana – avvengono attraverso la medesima tecnologia: quella digitale, che nello stesso tempo in cui sta degradando l’intelligenza naturale e annichilendo l’uomo nelle sue facoltà specifiche, viene fatta operare per lo sviluppo «oltreumano» dell’intelligenza artificiale. ritengo oltremodo significativo il fatto che anche coloro che sono scettici rispetto alla fattiva possibilità di realizzare i piani transumanisti, condividono tuttavia la preoccupazione per le sorti dell’intelligenza umana e di ciò che «può sostituirla». È il caso del filosofo Luciano Floridi. Questi, da una parte nega un aumento dell’Intelligenza artificiale che, al contempo, ci renda più stupidi; ma dall’altra riconosce che il mondo si sta trasformando in un «infosfera» sempre più adattata ai sistemi di funzionamento delle tecnologie digitali. Il tutto, con gli esseri umani che finiscono per essere integrati all’interno di tale meccanismo in maniera «inconsapevole»167. A mio avviso, invece, oltre alla gravità di quanto comunque ammesso anche dall’autorevole docente italiano di oxford, dobbiamo parlare di un consenso fattivo ed entusiasta da parte dell’uomo a questo esito anti o post-umano. A spiegarlo bene è lo scienziato ed Finn, al termine del suo libro dedicato a spiegare come gli algoritmi si stanno impossessando della vita umana. Ciò proprio grazie al fatto che l’uomo sta consegnando la propria vita agli algoritmi tramite il suo uso (e abuso) costante della tecnologia: «Impieghiamo così tanto tempo a preoccuparci della comparsa di un’intelligenza artificiale ribelle, che rara166. Buchter – Nezik 2022. 167. Floridi 2014: pp. 131, 143 e 146.
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mente ci fermiamo a considerare i molti modi in cui stiamo già collaborando con sistemi autonomi di varie intelligenze», ponendo le basi perché siano gli algoritmi stessi a suggerirci cosa pensare e dire, quindi come vivere168. È in tal senso, quindi, e con tutte le differenze del caso (di epoca, ideologia, metodi e mezzi a disposizione), che avanzo la provocazione di vedere il trans-umanesimo – ma in realtà tutto quel movimento assai più composito e variegato che ruota attorno alla progettazione dell’Intelligenza artificiale – alla stregua di un nuovo nazismo. Questo poiché, pur in assenza delle misure violente e sterminatrici con cui il nazismo «classico» intendeva raggiungere il proprio scopo – che era quello di dare vita a un’umanità composta soltanto da ariani iperborei – possiamo dire che il transumanesimo si propone un risultato perfino più ambizioso. Ad essere in gioco, infatti, è la trasformazione/eliminazione di tutto il genere umano in quanto tale, considerato ormai anacronistico e inadeguato rispetto alla nuova umanità di cyborg immortali che si affaccia all’orizzonte. Come peraltro avvenne con il nazifascismo del XX secolo, anche in questo caso ci troviamo di fronte a un appoggio fattivo dell’alta finanza, cui oggi si aggiunge quello della grande industria digitale. Anzi, direi perfino più marcato, poiché ora movimento ideologico e potere finanziario coincidono: transumanesimo e tecno-liberismo sono strettamente intrecciati in nome dell’intelligenza artificiale, in cui il primo vede una sorta di nuova religione della salvezza e il secondo la più grande opportunità di generare profitto. Nella nostra epoca il potere finanziario non deve sostenere un movimento politico altro rispetto a sé, come avvenne nel Novecento con il fascismo, chiamato a contenere la rivoluzione comunista in europa. oggi la sua scalata del mercato economico e commerciale coincide perfettamente con la «silicolonizzazione del mondo umano»169 – per utilizzare l’espressione conia168. Finn 2017: p. 191. 169. Sadin 2016.
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ta dal filosofo eric Sadin – almeno al pari di quanto quest’ultima incrementa i fatturati dell’industria digitale. La galassia dell’intelligenza artificiale sembra (cor)rispondere all’intento «nazionalsocialistico» anche da un punto di vista squisitamente politico, poiché i cyborg saranno tutti abitanti dell’unico mega-impero «infosferico», nonché apparterranno a un’unica super-specie biologica rispetto alla quale non avranno senso di esistere le tradizionali distinzioni di genere, di razza o di censo. Quest’ultimo aspetto sembra venire incontro anche all’ideale comunista, che come abbiamo visto si colloca all’estremo opposto di quanto desiderato da Nietzsche. La teoria comunista riteneva che la storia di «tutta la società si è svolta sinora attraverso antagonismi di classe, che nelle varie epoche hanno assunto forme diverse» – scrivevano Marx ed engels nel Manifesto del Partito comunista (1848). Da questo punto di vista, sul piano economico il comunismo doveva rovesciare il potere oppressivo e sfruttatorio della borghesia al fine di eliminare la «schiavitù salariata» e realizzare «l’annientamento di ogni dominio di classe». Ma sul piano internazionale era chiamato anche a realizzare la «liberazione» delle «nazioni oppresse» (per esempio Polonia e Irlanda), nonché a mettere fine alle «guerre piratesche» dell’«occidente europeo» contro i paesi colonizzati. Non finisce qui, perché la lotta di classe si declinava anche sul piano del genere: si tratta, infatti, del gruppo sociale più numeroso, che subisce l’«autocrazia» e attende la «liberazione». Sono le donne, vittime dell’oppressione esercitata dal maschio all’interno delle mura domestiche». Solo tenendo presenti queste tre declinazioni della lotta di classe (economica, geopolitica e di genere) possiamo comprendere in che senso Marx ed engels parlavano fin dai primi loro scritti di conseguire un’emancipazione non soltanto «politica» in senso stretto, ma anche «umana» e «universale»170. 170. Marx-engels 1955-1989: v. 4, p. 480; v. 17, p. 342 e v. 16, p. 14 (per la lotta di classe contro la borghesia); v. 4, pp. 416, 492-3 e 443, v. 32, p. 669 (per l’emancipazione delle nazioni oppresse); v. 16, p. 13 (per la lotta contro le guerre coloniali); v. 21, p. 158 (per l’emancipazione delle donne); v. 1, pp. 356,
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ed è proprio su questi fondamenti che alcuni autori hanno ritenuto di vedere nella società tecnologica e globalizzata del nostro tempo nientemeno che una riviviscenza della teoria comunista, opportunamente aggiornata. È il caso dello studioso italiano Maurizio Ferraris, che abbiamo già visto nella veste di interprete lucido e obiettivo del pensiero di Nietzsche. Ferraris scrive in un libro recentissimo che «quella definita dalle piattaforme è una società senza classi», «senza Stato», in cui la globalizzazione ha dato vita a una «nuova internazionale dei consumatori», ma in cui soprattutto «il prevalere dei servizi riduce la convenienza della proprietà privata» e il «populismo» è una sorta di «dittatura del proletariato» con cui quest’ultimo – grazie al controllo totale dei governanti reso possibile dalle nuove tecnologie mediatiche – riesce a dettare l’agenda alla politica. Insomma, a partire da questi presupposti la nostra sarebbe a detta di Ferraris «l’epoca più vicina al comunismo realizzato di ogni precedente età del mondo»171. Seguendo una lettura del genere – che a me convince poco o nulla – ci troveremmo nell’imminenza di un esito marxiano (l’«emancipazione umana» di cui sopra), raggiunto a partire dai presupposti nietzscheani di superamento della vecchia umanità. In questa ottica, si potrebbe inquadrare il transumanesimo come sintesi (felice o infelice?) delle due filosofie politiche che più si sono combattute nell’otto e Novecento, generando le cosiddette costellazioni ideologiche della «destra» e della «sinistra». Quindi, proiettandoci oltre, al transumanesimo corrisponderebbe il superamento di destra e sinistra. Con esso, in buona sostanza, verrebbero superati i conflitti che hanno costellato la modernità, generando un ordine umano e cosmico su un piano superiore. Su questo piano ulteriore rappresentato dal transumanesimo, troverebbero soluzione sia le contraddizioni oggettive del 370 e 390 (per l’emancipazione politica, umana e universale). Ai fini di una ricostruzione generale ed esaustiva dell’argomento, suggerisco la lettura di Domenico Losurdo (2013). 171. Ferraris 2021: pp. 284-289.
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capitalismo (conflitti sociali e sfruttamento dell’uomo e della natura), sia l’universalismo totalitario del marxismo (incapace di declinarsi in termini di libertà individuale). entrambi si estinguerebbero insieme alla vecchia umanità che li ha generati. In un colpo solo verrebbe realizzato il proposito di Nietzsche e dei filosofi che a lui si sono maggiormente ispirati: l’eclissi anche del capitalismo borghese, insieme a quella del comunismo marxista-leninista. Insomma, il transumanesimo raggiungerebbe lo scopo di realizzare l’umanità migliore e perfino immortale senza passare per le guerre, gli stermini e le misure totalitarie previsti dal III reich hitleriano o dal comunismo staliniano. una prospettiva teoricamente molto allettante, se solo l’umanità come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi fosse disposta ad accettare questa ulteriore tappa evolutiva che dovrebbe condurla verso il transumanesimo. Certo, anche in questo caso (come in quello del nazismo «classico») sarebbe assurdo e scorretto attribuire a Nietzsche un ruolo diretto ed esclusivo nell’affermazione dell’esito transumanista. Tanto più che il transumanesimo – come abbiamo visto – rimette in gioco nella maniera più drastica quell’inclinazione metafisica e finalistica (cioè salvifica per l’uomo, almeno nelle intenzioni) che Nietzsche voleva smantellare proclamando la morte di Dio e la dottrina dell’eterno ritorno. Tuttavia, credo vi siano pochi dubbi sul fatto che la dottrina transumanista rappresenti l’esito finale di una lunga, composita e variegata tradizione che ha tratto più di uno spunto dal pensiero del filosofo tedesco. rielaborando e modificando questi spunti, certo, ma comunque all’interno di un percorso coerente con i fondamenti da lui posti. In particolar modo, sono state le teorie nichilistiche e antiumanistiche, nonché l’idea di un’«oltreumanità» cui tendere ad accomunare pensatori fra loro anche molto diversi, che negli aforismi dinamitardi di Nietzsche hanno trovato il «combustibile» con cui «decostruire» da diverse angolature la società occidentale. Quest’ultima, di volta in volta e a seconda di chi su essa si pronunciava, è stata quindi bollata – anche in nome del filosofo 347
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tedesco – come metafisica e dogmatica, borghese e logocentrica, repressiva verso le minoranze, imperialista e colonizzatrice, fallocentrica (o patriarcale), crudele con gli animali e distruttiva per l’ecosistema in genere. Tutto ciò, non senza una palese contraddizione rispetto allo stesso Nietzsche, che come abbiamo visto non si faceva alcuno scrupolo (anzi) nel teorizzare apertamente la gerarchizzazione dell’umanità, il dominio anche violento del più forte sul più debole, l’inferiorità della femmina rispetto al maschio, l’eliminazione dei soggetti malriusciti in vista della costituzione di una stirpe di iperborei. Malgrado ciò, la variegata galassia antiumanistica, postmoderna, postumana e infine transumana, è fortemente debitrice nei confronti del filosofo tedesco e della sua idea rispetto alla necessità di superare l’«umanità» come è andata configurandosi lungo secoli di cultura occidentale e cristiana. Sì, nel bene o nel male e qualunque sia il giudizio che se ne voglia dare, Nietzsche ha contribuito come nessun altro a distruggere la «vecchia» umanità per come l’abbiamo conosciuta fino all’avvento della società tecnocratica e misologa. Non per caso è a lui che fanno esplicito riferimento i filosofi più estremisti, gli apologeti della galassia post-umana a cui arrivare facendo eclissare tutti i parametri dell’umano. È il caso dell’americana Shannon Bell, la quale – volendo tracciare l’apologia della performer trans-gender e transumanista Nina Arsenault – scrive che costei «nel continuare il progetto di svalutazione dei significati esistenti», può essere identificata con quella che Nietzsche chiamava «filosofia col martello». Tuttavia Arsenault usa il proprio corpo e uno scalpello al posto del martello – continua Bell – perché insegue il sogno di scolpire il proprio fisico rendendolo uguale a quello della donna più bella che lei abbia mai visto: un manichino. Sì, prosegue Bell, Nina Arsenault è rimasta talmente sconvolta dalla perfezione delle forme, dallo sguardo innaturale ma meraviglioso del manichino, dal suo andare ben oltre ogni imperfezione dell’umano, che è disposta a eseguire «lavori di ristrutturazione» del proprio viso e corpo pur di assomigliare il più possibile a quel modello di bellezza. Inutile sottolineare i toni simpatetici di Bell, secondo cui Nina Arsenault – seguendo l’ideale nietzscheano – metterebbe 348
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in atto e concilierebbe tanto lo spirito «apollineo» (nell’ideale di perfezione e bellezza ricercato) quanto quello «dionisiaco» (nel distruggere tutte le identità definite del maschile e femminile, dell’umano o artificiale etc., per trasformarsi in un cyborg)172. Il compiacimento che Shannon Bell dimostra per questa «operazione» è molto forte, almeno quanto è palese il riferimento a Nietzsche quale fonte di ispirazione massima per il superamento dell’umano così come si è configurato fino ad oggi. resta il dubbio, per ovvie ragioni irrisolvibile, se proprio Nietzsche sarebbe stato d’accordo con il fatto che i superuomini (o oltreuomini) di cui egli parlava, assumessero in realtà le fattezze delle «supermacchine» con cui abbiamo a che fare oggigiorno. Le stesse che, con la loro potentissima intelligenza artificiale e la capacità di sostituirsi in maniera radicale e pervasiva all’uomo, rischiano di trasformare quest’ultimo in un «manichino», prima di ridurlo allo stato di reperto biologico inutile e obsoleto. 5.
Dio è risorto! L’eterno ritorno dell’enigma umano
Nietzsche ha avuto talmente a che fare con il «male» in tutte le sue sfaccettature, che si potrebbe facilmente smarrire la capacità di distinguere chi è stato il soggetto e chi l’oggetto. Chi dei due (il filosofo o il male) si sia impossessato dell’altro per poi diventarne il motore trainante. Tanto è vero che il filosofo, quel male, lo ha subìto lungo tutta la sua vita. Poi ne è diventato investigatore sopraffino e disvelatore impavido. Infine se ne è fatto portavoce con una forza, una determinazione e una carica argomentativa tali da non far capire se fosse il male a parlare per bocca di Nietzsche o quest’ultimo ad utilizzare l’altro per esprimere l’ineffabile. La prima forma di male con cui Nietzsche ha fatto i conti fin da piccolo è stata la morte. Ad andarsene e lasciarlo solo in 172. Bell 2016: pp. 238-240.
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balìa delle due donne di casa (madre e sorella) furono nel giro di breve tempo l’adorato padre e il fratellino piccolo. Sì, la Signora di nero vestita aveva poggiato la sua gelida mano sul capo del filosofo fin dalla più tenera età, per poi non staccarla più. Non si tratta solo, e tanto, del venire a mancare di persone a lui care. A colpirlo, nelle sue varie sfaccettature, è stata la morte che accade da vivi, quella che ogni giorno strappa all’individuo una parte di sé, salvo poi condannarlo al supplizio di sopravvivere a quel momento. Fin da subito egli comprese che il proprio fisico era debole e che questa debolezza gli avrebbe provocato dolori, limitazioni, offese costanti alla propria integrità anche mentale. Le forti e ricorrenti emicranie lo costringevano a trascorrere intere giornate al buio, riducendolo fin dalla giovane età in una condizione di quasi cecità. Alla fine si convinse di soffrire della medesima patologia cerebrale che aveva portato il padre al collasso mentale e alla morte precoce173. Questa condizione di costanti tradimenti da parte del suo corpo ci mise poco a produrre in lui anche un malessere esistenziale: quello di colui che perde ogni affinità con le forze positive dell’esistenza, per rinchiudersi in un nichilismo angosciato ma eroico. Le tare provocate da un male radicale – che gli rosicchiava contemporaneamente corpo, anima e mente – coinvolsero anche la sua vita sociale: grande è stato per tutto il tempo il suo senso di inemendabile solitudine, scarsamente confortato dai pochissimi veri amici e dagli altrettanto pochi libri venduti. Né le cose gli andarono meglio nel campo affettivo, poiché le donne che conobbe furono quasi le stesse a cui chiese la mano, mentre quest’ultime furono esattamente pari a coloro che gliela negarono sdegnate o sbeffeggianti. L’unica volta che si innamorò sul serio – di un amore che sconvolse tutto il suo organismo, regalandogli un periodo di grande vigore prontamente pagato a caro prezzo – lo fece di una 173. Tutte considerazioni che Nietzsche metteva per iscritto in una lettera a Carl von Gersdorff del 18 gennaio 1876 (KSB: V, pp. 131-3).
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donna fatale. Quella Lou von Salomé con cui non riuscì ad andare oltre un presunto bacio vissuto con l’entusiasmo di un sedicenne, perché lei lo inchiodava a lunghe elucubrazioni filosofiche ed esistenziali, affezionata a un progetto di platonica convivenza a tre insieme allo stesso Nietzsche e al comune amico Paul rée. Convivenza all’insegna della libertà, della ribellione e della filosofia, ma non di quell’amore (né del sesso) che Nietzsche aveva cercato disperatamente senza mai trovarne traccia. Fino al disprezzo finale, alla sdegnata repulsione per un sentimento – l’amore appunto – ormai considerato da lui il sentimento «più egoistico», l’ennesimo miraggio per deboli e illusi174. Come se tutto ciò non bastasse a far parlare di una vita offesa, quel «fato» da lui tanto proclamato ed esaltato gli aveva riservato la più grande beffa possibile, almeno per chi scrive libri attendendosi un pubblico di lettori: la sua fama esplose detonante soltanto dopo aver atteso che il filosofo, in una gelida mattina del 3 gennaio 1889 – per la precisione a Torino – perdesse completamente il lume della ragione e della dignità, abbracciando in lacrime un cavallo da traino. ossia soltanto un attimo dopo che per lui era diventato impossibile rendersi conto di quel consenso tanto agognato. Iniziò quel giorno la sua seconda vita, priva di coscienza, senno e dignità. Durò undici anni, esattamente fino al 1900, in un crescendo di follia e degenerazione globale che lo condussero all’estremo di mangiare e bere i propri escrementi, a emettere suoni incomprensibili e gutturali nel corso della notte, terrorizzando quella madre e quella sorella che lui alla fine disprezzava, ma che per ulteriore beffa furono le uniche due infermiere naturali della sua ferita finale. Questa indecorosa degenerazione avveniva proprio mentre Nietzsche cominciava a diventare famoso e i suoi libri ricercati come perle rare e ambite175. 174. WzM: § 777. 175. Ho tratto queste e altre note biografiche del filosofo dalla consultazione dei seguenti testi: Diethe 1996, Prideaux 2018, Pletsch 1991: cap. 3, Cruz 2010: cap. 5, Verrecchia 1997 e Janz 1978.
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A tal proposito, va aggiunto che gli oltraggi del destino non si limitarono alle due vite – cioè al prima e al dopo la perdita del senno – ma in qualche modo costellarono anche quella sorta di esistenza postuma che succede a un filosofo quando è baciato da una gloria seppure tardiva. Sì, il male con cui era iniziata la vita di Nietzsche innervò anche la memoria che gli succedette, e la Signora di nero vestita sembrava non volerne sapere di togliere la mano dal suo capo. Non mi riferisco soltanto ai tantissimi ragazzi che partivano entusiasti per il fronte – in occasione della I guerra mondiale – portando nello zaino Così parlò Zarathustra, né alla dichiarata fonte di ispirazione che in lui trovarono personaggi malvagi come Hitler e Mussolini. Penso anche a quell’aura tragica e maledetta che è sempre girata attorno al suo nome e alle sue idee, che più volte hanno ispirato uomini comuni finiti sulle pagine della cronaca nera per essersi macchiati di atti efferati176. Fatta eccezione per quest’ultimo aspetto della memoria postuma offesa – di cui Nietzsche non avrebbe potuto essere consapevole – gli altri oltraggi del destino segnarono tanto la sua vita quanto la sua filosofia. In questo senso, se ogni filosofia è anzitutto la biografia di colui che l’ha espressa (cosa di cui lo stesso pensatore tedesco era profondamente convinto), possiamo comprendere la radice malefica e l’aura di morte che pervadono ogni aspetto della speculazione di Nietzsche. Allo stesso modo, se consideriamo che la sua filosofia ha segnato radicalmente tutto quello che è venuto dopo di lui, fino a raggiungere l’acme nel tempo presente, possiamo agevolmente comprendere perché anche la nostra epoca si trovi ad essere avvolta da quella stessa aura. 176. In Italia fece scuola il caso dell’omicidio della studentessa Marta russo, presso l’università «La Sapienza» di roma (9 maggio 1997). I due imputati, infatti, ricercatori universitari in filosofia del diritto, furono accusati di essersi esplicitamente ispirati al superomismo nietzscheano per mettere in atto l’omicidio perfetto.
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A rivestire un ruolo rilevante, all’interno di questa vicenda che ho cercato di ricostruire, è stato il modo in cui Nietzsche ha reagito ai colpi terribili e numerosi della sorte. Sì, lo sconforto, la disperazione e perfino la comprensibile depressione che lo hanno accompagnato lungo tutta una vita costellata da tragedie fisiche e morali, egli li tradusse in una filosofia votata all’apoteosi del fatalismo, dell’irrazionalismo e del nichilismo. Del resto, quale appiglio, fondamento o anche solo barlume di speranza poteva rintracciare nell’esistenza una persona che da quella medesima esistenza veniva emarginata e brutalizzata?! Forse può aver giocato un ruolo la debolezza del suo animo, visto che non tutti i grandi filosofi hanno reagito al male abbracciandolo. Sto pensando a Hegel, per esempio, la cui vicenda è assai meno nota ma non per questo meno interessante. Ancora più interessante se si considera che stiamo parlando dell’autore a cui Nietzsche – pur ammirandolo – maggiormente si contrapponeva sul piano filosofico, e a cui in nome di fondamenti nietzscheani si è contrapposta buona parte della cultura anti-razionale dell’epoca postmoderna177. Anch’egli dovette affrontare una crisi esistenziale terribile e potenzialmente distruttiva. Nulla o poco in confronto al destino tragico e costante toccato a Nietzsche, ma comunque un pas177. Il filosofo americano Cornel West (1987: p. 283), con felice abilità di sintesi, notava come le principali articolazioni del postmodernismo, dal rifiuto della mediazione dialettica degli opposti fino alla dissoluzione del soggetto «risalgono alla riesumazione deleuziana di Nietzsche contro Hegel». Innumerevoli sono i passi in cui Nietzsche si riferisce negativamente a Hegel, così come è oggettiva l’opposizione tra le due visioni del mondo e della vita. Tuttavia, l’ultimo Nietzsche definiva una «grandiosa iniziativa» il superamento del Dio morale compiuta da Hegel, specialmente perché si era tradotta in un panteismo «in cui il male, l’errore, il dolore non siano considerati argomenti contro la divinità» (KSA: XII, p. 113). Sempre Nietzsche, in più punti della sua opera, sosteneva che «noi tedeschi siamo hegeliani anche se un Hegel non fosse mai esistito, poiché attribuiamo per istinto al divenire, allo svolgimento un senso più profondo rispetto a tutto ciò che “è”» (KSA: FW, III, p. 599 e M, XII, pp. 166-167). Cfr. anche KSA: VII, p. 109.
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saggio destabilizzante a cui il filosofo della Fenomenologia dello spirito reagì in maniera completamente opposta: cioè attraverso l’elaborazione di un metodo estremamente razionale, per cui appunto la «ragione» si incarica di cogliere le contraddizioni, le fratture e la «grande forza del negativo» che caratterizzano la vita umana. Tuttavia, ciò non impedisce alla medesima ragione di riconoscere tutto quel «negativo» come un momento necessario nello svolgersi del divenire, il quale ultimo evidentemente si declina attraverso un rapporto dialettico tra positivo e negativo, tra pensiero e realtà, tra gioia e dolore. Insomma, anche l’oscurità più profonda – indubbiamente presente all’interno del processo esistenziale – è riconoscibile (al punto da farsene una «ragione») solo attraverso la compresenza di una parte in luce con cui l’interazione è costante, così da avere una realtà in cui si alternano luci e ombre. In questo modo Hegel ci ha insegnato che la galassia complessa del divenire non è certamente padroneggiabile dall’uomo, il quale tuttavia possiede lo strumento della ragione tramite cui è possibile interagire con quel caos (e in parte ordinarlo, anche se mai del tutto). L’uomo profondo è condannato a patire il male radicale, certamente, ma proprio in quella radice trova anche l’alimento per nutrire la pianta della sua vita. Ciò senza abbandonarsi al totale fatalismo, che spesso è l’anticamera del nichilismo e di un atteggiamento esistenziale orientato alla «morte perpetua», perché proprio quel fatalismo priva l’uomo dell’anelito vitale a «togliere il negativo» presente nel mondo178. Tutto il contrario di Nietzsche, che sulle offese del destino costruì un pensiero integralmente fatalistico, irrazionalistico e pessimistico, elaborato sulla scia dell’opposizione a quello che 178. Hegel 1913: p. 139. Sulla crisi esistenziale di Hegel, si veda Iannaco 2021. Sul Nietzsche critico di Hegel e della sua filosofia sistematica, si veda il passo in cui definiva come «una specie di impostura quando oggi un pensatore propone una totalità di conoscenze, un sistema; – la sappiamo troppo lunga per non nutrire il dubbio più radicale sulla possibilità di una siffatta totalità» (KSA: VIII, II, pp. 168 sgg. e V, I, p. 278).
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secondo lui era l’ottimismo hegeliano. In maniera conforme a quanto aveva scritto Dostoevskij in Delitto e castigo, Nietzsche sembrava la prova vivente del fatto che: «La sofferenza e il dolore sono sempre inevitabili per una coscienza sensibile e per un cuore profondo. Gli uomini veramente grandi […] devono provare una gran tristezza su questa terra»179. In coerenza con tale percorso, il pensiero nietzscheano era destinato a sfociare in un antiumanismo che non lasciava spazio alcuno alla reazione dell’uomo contro le forze del Fato. L’uomo, piuttosto, è condannato a subire la forza oscura ma necessitante della volontà di potenza, all’interno di un contesto esistenziale in cui Dio è morto e il divenire un continuo caos comunque innocente. Su tali basi Nietzsche avrebbe posto la volontà di potenza come forza cosmica che tutto pervade e governa, a spese del volere libero e razionale dell’uomo. Ma soprattutto, sulla base di una visione del cosmo per cui tutto è necessario e «matematicamente calcolabile» – compreso l’uomo, che si illude di essere libero quando in realtà è egli stesso un ingranaggio del grande meccanismo – pervenne all’esaltazione ante litteram di un «intelletto calcolatore onnisciente»: l’unico in grado di dimostrare all’umanità la sua nullità e irrilevanza: «Alla vista di una cascata noi crediamo di vedere negli innumerevoli incurvamenti, serpeggiamenti e spezzettamenti delle onde libertà della volontà e arbitrio; invece tutto è necessario, ogni movimento è matematicamente calcolabile. Così è anche delle azioni umane; si dovrebbe poter calcolare prima ogni singola azione, se si fosse onniscienti, come pure ogni progresso della conoscenza, ogni errore, ogni cattiveria. Chi agisce è veramente egli stesso nell’illusione della libertà; se in un momento la ruota del mondo si fermasse, e ci fosse
179. Nell’ultimo scritto pubblicato da Nietzsche il filosofo affermava chiaramente di considerare il pessimismo come «sintomo di una superiore forza del pensiero, di una più vittoriosa abbondanza di vita, rispetto a quella che aveva trovato la sua espressione nella filosofia di Hume, di Kant e di Hegel» (KSA: NW, VI, pp. 424-5). Per la citazione da Delitto e castigo, si veda Dostoevskij 1866: pp. 296-7.
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un intelletto calcolatore e onnisciente per utilizzare questa pausa, esso potrebbe predire l’avvenire di ogni essere fin nei tempi più lontani, e indicare ogni traccia su cui quella ruota roterà ancora. L’illusione di chi agisce su se stesso, l’ammissione della volontà libera, fanno parte anch’esse di questo calcolabile meccanismo»180.
Il passo successivo e finale non poteva essere che quello di proclamare la necessità di «superare» l’uomo e l’umanità come li abbiamo conosciuti per oltre due millenni. una proclamazione coerente rispetto a tutto l’impianto del pensiero nietzscheano, ma enigmatica e totalmente irrealistica sul piano della realizzazione concreta. Fino ad oggi. Cioè fino al contesto tecno-culturale odierno, quello in cui l’idea di un transumanesimo181 – con il suo prefigurare la comparsa della super-intelligenza artificiale – ha fornito senso e realismo tanto alla «morte di Dio» quanto al concetto di «oltreuomo». Sì, Dio è morto o meglio: è stato ucciso dall’uomo affinché quest’ultimo ne prendesse il posto. Ma per raggiungere un obiettivo tanto alto il medesimo uomo deve essere disposto a superare se stesso, a spogliarsi della propria umanità come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi e fornirsi di caratteristiche consone a una divinità. La prima e più essenziale di tali caratteristiche è l’immortalità, rispetto a cui la filosofia di Nietzsche era esplicitamente protesa: «Poter sopportare la nostra immortalità, questo sarebbe il massimo». Del resto la sua dottrina dell’eterno ritorno mirava proprio all’«eternizzazione» di questa esistenza, proponendosi
180. MA: IV,II, § 106. 181. Faccio riferimento al solo «transumanesimo» per comodità espositiva, ma è evidente che sarebbe più corretto esprimersi nei termini generali dell’affermazione di un contesto socio-esistenziale in cui l’intelligenza artificiale prende il sopravvento su quella umana, le apparecchiature digitali colonizzano il cosmo cognitivo, emotivo e fisico dell’uomo e in cui gli scopi dell’agire sociale sono quelli dettati dal progresso tecnologico e dal profitto finanziario. Il primato di tali scopi prevede la generale riduzione di tutto ciò che è umano a strumento per il conseguimento degli stessi.
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come primo risultato quello di costituire «un surrogato della fede nell’immortalità»182. Qui entra in gioco la galassia governata dall’intelligenza artificiale e dalle nuove tecnologie in genere, nella misura in cui queste – tramite opportuni accorgimenti su cui le multinazionali del digitale stanno lavorando alacremente – già consentono (o consentiranno presto) all’uomo che si è fuso mentalmente e corporalmente con le macchine, di superare le barriere spazio-temporali, di diventare onnisciente e onnipotente, e infine di essere immortale. Siamo ben oltre il surrogato di una fede nell’immortalità di cui parlava Nietzsche: ci troviamo piuttosto di fronte alla costruzione materiale di un impianto tecnologico volto a renderla realistica. In una parola, che dà il titolo a un libro dello storico israeliano Yuval Noah Harari, si tratta di spogliarsi dei panni umani e assurgere allo statuto di Homo Deus. Questi è il protagonista della «seconda rivoluzione cognitiva» che, dopo quello sul pianeta terra, dovrebbe conferire all’uomo l’accesso a nuovi e inimmaginabili regni, fino a farlo diventare il «signore della galassia». una storia cominciata più di cento anni fa, ricorda Harari, quando l’umanismo evoluzionistico ed Hitler provarono a realizzare l’antico sogno di generare i «superuomini». Allora si trattò di realizzare un sogno violento, mentre oggi siamo vicini a inverare un incubo pacifico183. ecco allora che si è di fronte a un bivio, a una scelta tanto urgente quanto decisiva. Da una parte, portare avanti il progetto della Superintelligenza artificiale seguendo dei criteri operativi coerenti con gli assunti nietzscheani e del transumanesimo. Secondo tale impostazione l’uomo dovrebbe essere effettivamente superato, all’i182. KSA: V,II, p. 401 e VII,I, p. 547. 183. Harari 2015: pp. 410-411. Lo storico precisava che al tempo di Hitler si provò a raggiungere lo scopo di una «superumanità» attraverso i metodi violenti dell’eugenetica e della pulizia etnica, mentre il «tecno-umanismo» odierno si prefigge il medesimo obiettivo in maniera «più pacifica», con l’ausilio dell’ingegneria genetica, della nanotecnologia e delle interfacce cervellocomputer.
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nizio ponendo la sua intelligenza al servizio di quella artificiale, poi operando per la sua «evoluzione» integrale verso la nuova specie dei cyborg (i «superuomini»), in un contesto cosmico sempre più governato dall’IA. A spingere verso questa direzione è un’élite di tecnocrati e magnati del digitale, che in nome del progresso incontrollato della tecnologia (oltre che dei loro profitti) sembrano non voler porre alcun limite al processo che deve condurre verso quella che loro stessi chiamano «Singolarità»: il momento in cui l’uomo non sarà più «in grado di capire cosa fanno i computer»184, perché l’Intelligenza artificiale avrà superato di gran lunga quella umana e sarà ormai in grado di procedere autonomamente verso la costruzione di una dimensione esistenziale «ultra-umana» Sarebbe il frutto del connubio fra un numero ristretto di guru della tecnica e di padroni della finanza – i nuovi oligarchi, in un certo senso – entrambi mossi dal culto smisurato per un’evoluzione regolata dall’«ordine spontaneo», che a questo punto non sarebbe più soltanto il prodotto della mano invisibile di cui parlava Adam Smith in campo economico, ma anche della mente autonoma e artificiale su cui stanno lavorando le multinazionali del digitale185. Il fondamento teorico fatalistico ed elitario è evidente, almeno quanto è palese che tale fondamento accomuna il pensiero nietzscheano e quello liberista, come abbiamo visto. Volendo contrastare questa visione, si tratta di lavorare per il contenimento dell’intelligenza artificiale – e del progresso tecnologico in genere – all’interno di un perimetro in cui tali fenomeni siano limitati a svolgere una funzione di utilità all’uomo e di tutela dell’ecosistema naturale in cui esso vive. Messa in questi termini potrebbe sembrare il proposito idealistico di un 184. Domingos 2015: p. 220. L’autore del libro citato riassume in maniera efficace un’affermazione del transumanista ray Kurzweil. 185. Per i nuovi oligarchi della tecnologia e il loro potere sempre crescente sulle menti e sulle esistenze degli individui si può leggere Foer 2017: in particolare la I parte. Per la vera e propria guerra pianificata che gli oligarchi della finanza e del pensiero neoliberista hanno condotto (e vinto) su gran parte dell’umanità, rimando a D’eramo 2020.
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filosofo, ma è bene sapere che ad essersi accorti dell’urgenza di una tale questione sono personaggi del calibro di elon Musk – imprenditore di successo mondiale nel campo delle nuove tecnologie – il quale ha dichiarato che «dobbiamo prestare una super-attenzione all’Intelligenza artificiale», perché «potenzialmente essa è più pericolosa delle armi nucleari». «Con l’Intelligenza artificiale, noi stiamo evocando il Demone». Con toni meno enfatici si è espresso il fisico e cosmologo Max Tegmark, cofondatore di un centro studi il cui scopo è promuovere una «AI benefica», sottoposta a un «controllo umano» che ne controlli lo sviluppo tutelando «dignità», «diritti» e «libertà» dell’uomo. Deve essere ben chiaro – secondo Tegmark – il precetto per cui tutte le tecnologie vanno concepite per «beneficiare e sostenere più persone possibile», in un’ottica di «bene comune» e di salvaguardia dell’«intera umanità»186. Nietzsche non sarebbe stato d’accordo, ovviamente. Questa seconda opzione di un’AI controllata e limitata dalla ragione umana, si fonda sull’assunto secondo cui l’umanità non può essere sacrificata sull’altare dei profitti o anche solo dei deliri di onnipotenza messi in campo da una élite tecno-finanziaria, poiché la tecnologia è un prodotto dell’uomo ed è accettabile soltanto nella misura in cui nuoce al minor numero possibile di persone e si rivela funzionale al più alto numero di esse. La nostra è ormai l’epoca in cui la ragione umana è chiamata a governare e controllare non soltanto gli eccessi del mercato capitalistico, ma anche quelli di un progresso tecnologico che procede a briglie pericolosamente sciolte. Il guaio è che mentre l’opzione di lasciare quelle briglie sempre più sciolte trova un appoggio teoretico nella filosofia transumanista, nella radice nietzscheana che la pervade e nel pensiero neoliberista – avendo alle spalle una lunga tradizione anti e postumanista che ho provato a ricostruire – la seconda manca di una teoria strutturata su cui fondarsi in vista di un agire pratico e condiviso. 186. Tegmark 2017: pp. 321-2 per le dichiarazioni di elon Musk e pp. 329-331 per il centro studi nato allo scopo di mantenere le innovazioni tecnologiche su un piano di utilità all’umano.
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Certamente non si può fermare né contrastare il progresso tecnologico. Sarebbe sciocco e perfino controproducente anche il solo pensarlo. Non solo questo progresso è impresso nel codice genetico stesso dell’uomo, ma se perseguito all’interno di parametri razionali e sostenibili, aprirà le porte a tutta una serie di possibilità di cui l’umanità non può e non deve fare a meno187. Al tempo stesso, però, queste grandi possibilità – proprio perché imponenti, epocali, inaudite – per risultare veramente tali e non rivelarsi distruttive devono essere governate e organizzate da una ragione umana che non si rassegni al fatalismo, all’ordine spontaneo o, peggio, all’irrazionalismo e al nichilismo. In altre parole, la scelta che l’umanità nell’epoca della rivoluzione digitale è chiamata a compiere – se intende sopravvivere alla legge dell’evoluzione biologica – parte dal rifiuto della filosofia nietzscheana quale ordine sottostante alla rivoluzione tecnologica stessa. Sì, il presupposto irrinunciabile da cui partire consiste nell’abbattere a colpi di martello i troppi fondamenti nietzscheani da cui è innervata la società contemporanea, che hanno avuto modo di sedimentarsi lungo più di un secolo dalla morte del grande filosofo. Per spiegarlo mi servo di una felice intuizione dello storico Harari, sostenitore del fatto che gli uomini conferiscono senso al mondo (e quindi lo controllano) perché «credono nelle fictions». Secondo Harari, l’umanità ha creduto in Dio grazie alle molteplici opere artistiche e letterarie che lo hanno rappresentato lungo i secoli, poi ha creduto nel capitalismo grazie alle creazioni artistiche di Hollywood e della pop-industry, o perché ha visto il «paradiso capitalista» con i propri occhi in TV. 187. Sarebbe superfluo e al tempo stesso impossibile riassumere qui tutti i benefici passati, presenti e futuri che la tecnologia ha portato e potrebbe portare all’umanità. Basti solo pensare ai supporti per le persone che soffrono di una qualche disabilità. È pertanto evidente che il mio discorso vuole concentrarsi esclusivamente sui fattori di rischio che uno sviluppo nocivo e incontrollato della tecnologia può presentare per l’umanità.
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orbene, il tempo presente è quello in cui a prendere il sopravvento è stata la «science-fiction» – a opinione dello storico israeliano – in cui film e serie tv impongono una narrazione che tende a «confondere l’intelligenza con la coscienza». Come risultato si è imposto il timore di una potenziale quanto irrealistica guerra fra robot e umani, quando in realtà dovremmo temere assai di più il conflitto tra una «piccola élite di superuomini rinforzata dagli algoritmi» e la vasta «sottoclasse depotenziata dell’homo sapiens». Nel riflettere sul futuro dell’AI – conclude Harari – Karl Marx è ancora una guida migliore rispetto a Steven Spielberg188. ecco, dovrebbe essere ormai chiaro il perché credo che al posto del regista americano, o se si vuole in aggiunta, vada annoverato proprio il nome di Nietzsche. Solo dall’abbattimento dei suoi fondamenti teorici potrà sorgere un nuovo ordine di idee, impostato sulla possibilità che ragione e coscienza umane governino il divenire, oltre a subirlo. Certo, nella consapevolezza dei limiti insiti nella ragione stessa, della sua fallibilità e degli errori anche gravi che sono stati commessi in suo nome o a fronte di un abuso che se ne è fatto. Ma forse mai come oggi, di fronte alla comparsa di un’altra intelligenza cosiddetta artificiale, rimettere al centro dello scenario umano quella biologica può rivelarsi decisivo ai fini della sopravvivenza della nostra specie. Da dove partire, in questo senso? Innanzitutto da una scelta decisiva: quale Dio vogliamo? L’Homo-Deus, divenuto onnisciente, onnipotente e immortale (perché trasformatosi in cyborg e confluito nell’Intelligenza artificiale), quello prospettato dai transumanisti e reso possibile dai magnati dell’industria tecnologica (oltre che dalla proclamazione nietzschena della morte del Dio cristiano)? oppure un Dio trascendente rispetto alla realtà terrena, che magari non esiste o non è interessato alle faccende umane ma, comunque, per il solo fatto di catalizzare tutte le pulsioni e le speranze metafisiche dell’uomo, impedisce quella pratica assai dannosa che consiste nella divinizzazione di entità terrene (come l’economia e la tecnica)? 188. Harari 2018: pp. 285-6.
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Se intendiamo prolungare l’esistenza dell’umanità, bisogna optare per la seconda soluzione. Quindi proclamare che «Dio è risorto!», a fronte della morte dell’homo-deus, ossia dell’uomo che coltiva la pretesa suicida di assurgere egli stesso al rango della divinità. Anche perché – come aveva profeticamente intuito il filosofo Max Stirner nell’ottocento – l’uomo che elimina Dio per divenire egli stesso l’unica divinità nei cieli, non può credere che l’uomo-dio sia effettivamente morto, se prima, oltre che Dio non sarà morto in lui anche l’uomo189. Si tratta, quindi, di rifondare le condizioni esistenziali che rendono possibile la centralità e la sopravvivenza dell’uomo, a partire dalla proclamazione della resurrezione di Dio. Assumendoci tutta la responsabilità di questa scelta, ammettendo che siamo stati noi a richiamarlo in vita, dopo che Nietzsche aveva detto che eravamo stati sempre noi uomini a ucciderlo. ovviamente non si tratta di una questione limitata al campo religioso – né strettamente legata alla fede o meno in un’entità trascendente – perché riguarda tutto lo scenario umano. A doverci interessare non è tanto il dio, quanto il concetto stesso di trascendenza: cioè il mondo ultraterreno, l’umano anelare (rivolgersi, riferirsi, votarsi, immolarsi) alla dimensione metafisica e, così facendo, salvare la presenza della ragione nel mondo terreno. L’umanità che assegna a Dio o a qualunque altra divinità un posto nel mondo dell’Aldilà, è un’umanità che ha posto il 189. «Non si è considerato che l’uomo ha ucciso il dio per diventare, egli stesso, “unico dio nei cieli”. È certo eliminato l’aldilà fuori di noi ed è compiuta la grande impresa degli illuministi; ma l’aldilà in noi è diventato un nuovo cielo e ci impone una nuova scalata al cielo: Dio ha dovuto cedere il posto non a noi, bensì all’uomo. Come potete credere che l’uomo-dio (Gottmensch) sia morto, se prima, oltre che il dio non sarà morto in lui anche l’uomo? (Stirner 1844: p. 170). Con queste espressioni, Stirner intendeva affermare che per l’individuo non è sufficiente liberarsi del concetto di «dio», ma anche di quello generico di «uomo». Soltanto dopo aver compiuto tutto ciò, può emergere l’individuo nella sua purezza e unicità, col proprio carico di unicità, egoismo e proprietà di se stesso.
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fondamento per assumersi le sue responsabilità nel mondo dell’Aldiqua. Ma soprattutto, l’umanità che utilizza la fede per rivolgersi alla dimensione metafisica, è la stessa cui non rimane che richiamarsi alla ragione in quella mondana. rimandare a una dimensione metaterrena l’eventuale e futura soddisfazione dei bisogni assoluti dell’uomo, è la precondizione indispensabile affinché quest’ultimo non concepisca assolutismi terreni nel presente. Insomma, quanto più l’uomo proietterà le proprie pulsioni di potenza e onnipotenza – ma anche di salvezza – in un aldilà trascendente, tanto più eviterà di illudersi che quelle medesime pulsioni si realizzino in maniera distruttiva e autodistruttiva nell’aldiqua. Se Dio abita in cielo, nessuno può aspirare a quel titolo in terra. Per troppo tempo ci siamo limitati a considerare quante nefandezze si sono compiute in nome della fede in un Dio assoluto. Ciò è innegabile, ma ora è il momento di prendere atto che senza quel meccanismo di credenza in un Dio assoluto rispetto alla realtà terrena, l’umanità piomba nella nefandezza peggiore: volersi sostituire a quel Dio e, così facendo, autodistruggersi. oggi che l’uomo è proiettato verso l’intelligenza artificiale e la contaminazione con le macchine, far risorgere Dio significa riaprire i rubinetti con cui innaffiare di linfa vitale l’umano e la sua possibilità di continuare a esistere come specie. Tra questi rubinetti, chiusi con rabbiosa e disperata forza da Nietzsche, v’è la ragione intesa come facoltà di pensare, indispensabile all’uomo per decifrare i meccanismi della vita e formarsi una volontà per quanto possibile libera e autonoma. Poi la conoscenza, facoltà basilare con cui l’umanità individua le varie scienze indispensabili alla sua sopravvivenza, all’interno di una galassia esistenziale che è anche pericolosa e ostile, oltre che enigmatica. Quindi la morale, tanto esecrata dal filosofo tedesco ma in realtà necessaria per disciplinare gli istinti distruttivi (e autodistruttivi) presenti nell’uomo, per sua natura sempre esposto alla possibilità di cedere al male radicale, alla pulsione di morte e al nichilismo che albergano in lui. Proprio la morale va intesa 363
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come l’arte di provare a individuare e distinguere il bene e il male (il giusto e lo sbagliato) – non in senso assoluto, ma umano – così da orientare tanto la condotta individuale dell’uomo quanto una sua possibile convivenza pacifica e fruttuosa con il mondo circostante: altri uomini, animali, ecosistema. Quest’ultimo obiettivo impone di ripensare anche i concetti di democrazia, uguaglianza e libertà, in una direzione che interrompa il monopolio del sistema tecno-finanziario attualmente dominante e permetta di costruire una società in cui finanza e tecnica siano strumenti dell’uomo, finalizzati al benessere del più alto numero di persone e alla tutela di un eco-sistema sano, senza il quale risulterà inutile ogni nostro sforzo (compreso quello in direzione dell’AI). In linea con la globalità di un tale discorso, sarà fondamentale tornare a considerare la centralità di un’altra categoria fortemente osteggiata da Nietzsche. Mi riferisco all’ «identità». Discorso centrale non soltanto perché sono differenti le identità di uomini e macchine, uomini e animali, piante, oggetti etc., ma anche perché sussistono delle differenze all’interno della stessa specie umana (maschi e femmine, omosessuali ed eterosessuali, bianchi e neri, atei e credenti, benestanti e disagiati etc.). Tali differenze vanno riconosciute, rispettate e valorizzate, senza cedere alle pulsioni post-umane di coloro che vorrebbero sopprimerle all’interno di una fluidità in cui a emergere sarebbe soltanto l’indistinto. È riconoscendo (e rispettando) i contorni mobili della propria e di ogni identità, che si creano i presupposti per la comprensione e il confronto costruttivo con le identità «altre»: «Il Sé è l’essere umano consapevole della propria identità e della propria unicità. A partire da questo primo riconoscimento si riconosce appartenente a una comunità, alla terra e al cielo, alla natura», scrive ai nostri giorni Francesco Varanini in un libro proteso a difendere l’umano dalle «leggi bronzee dell’era digitale»190. 190. Varanini 2020: p. 291. Invece, come giustamente sostenuto da Shoshana zuboff (2019: pp. 453-4), la nostra epoca dei social network è quella in cui soprattutto i giovani (ma non solo) faticano a formarsi un’identità definita ed
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Certo, dopo la vera e propria tempesta distruttrice innescata da Nietzsche, non è pensabile una semplice ricostruzione culturale e valoriale del mondo che è stato. Idee, valori e pratiche devono essere aggiornati rispetto a un universo umano ed esistenziale profondamente mutato. Può sembrare paradossale, ma ciò sarebbe possibile anche ispirandosi a quella parte dell’insegnamento nietzscheano che l’occidente cristiano e liberale ha perlopiù ignorato. Mi riferisco al Nietzsche che si è scagliato contro i sistemi sociali e culturali che premiano la mediocrità e mortificano il valore, a cominciare dal mondo universitario (che lui stesso abbandonò sdegnosamente). In generale egli lanciò anatemi contro quei meccanismi culturali che favoriscono l’ottusa e patetica specializzazione di chi sa soltanto fare la chiosa alle idee altrui, senza neppure concepire la possibilità (figuriamoci avere la capacità) di elaborarne delle proprie. Tutti elementi che secondo il pensatore tedesco conducevano al risultato più funesto: produrre un contesto socio-culturale destinato a mortificare e sopprimere le individualità geniali, salvo promuovere e valorizzare quelle inclini all’omologazione e al conformismo. Tale contesto socio-culturale è quello abitato da coloro che Nietzsche chiamava gli «ultimi uomini», il più funzionale all’affermazione del nuovo scenario esistenziale governato da un’intelligenza di tipo artificiale e connotato dalla graduale «robotizzazione» dell’umano. È lungo le dense e magnifiche pagine di Così parlò Zarathustra che Nietzsche descriveva l’«ultimo uomo», dopo averlo definito come «l’essere più spregevole di tutti», colui «che tutto rimpiccolisce». Gli ultimi uomini popolano un mondo e un tempo in cui «si continua a lavorare perché il lavoro equilibrata, perché quel mercato costante (e pressante) della propria immagine che è la rete li spinge piuttosto a un «Io camaleontico», pronto ad adattarsi e reinventarsi a seconda del contesto e del favore del pubblico. È quest’ultimo a stabilire chi sei, perché dalla sua approvazione e dai suoi like dipende la tua stessa esistenza. Gli altri pertanto non sono persone, ma il pubblico per il quale ci esibiamo: «Si potrebbe dire che un giovane che sente il bisogno di usare i social media stia lottando per la propria vita», conclude zuboff.
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intrattiene», ove c’è un solo gregge e nessun pastore, perché «tutti vogliono le stesse cose, tutti sono uguali: chi sente diversamente va da sé al manicomio». un contesto piccolo e misero, da cui è sparita ogni traccia di grandezza, di eroismo, di genialità: «una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte: ferma restando la salute»191. L’ultimo uomo è colui che ha ceduto volentieri buona parte della propria autonomia e libertà in cambio di una presunta sicurezza, colui che si illude di poter vivere la vita senza impegno e sacrificio, felice perché convinto di possedere l’intelligenza di chi sa tutto. Quale migliore descrizione del tempo attuale, quello in cui l’uomo si è immolato al potere ipnotizzante e trasformante della tecnologia, delegando alle macchine e investendo su di esse una parte sempre più ampia del proprio esistere?! Quanto, in qualità di ultimo uomo, l’essere umano del XXI secolo si percepisce felice perché onnipotente, grazie alle sue straordinarie invenzioni che gli «aumentano» la vita?! Quanto si sente appagato e sereno, convinto di sapere tutto perché informato su tutto, nell’epoca sciagurata in cui si scambia per conoscenza il flusso caotico di informazioni algoritmiche?! L’ultimo uomo del nostro tempo è colui che si trova a vivere la tappa intermedia di essere trasformato in un morto vivente, nell’attesa di sparire del tutto per lasciare campo aperto alla superumanità artificiale. Tappa intermedia che due studiosi brasiliani definiscono efficacemente con l’espressione «zoombificazione del cittadino-consumatore», quella che avviene nelle odierne società «tecnologicamente avanzate»: «Popolate da automi obesi, mediaticamente teleguidati, stabilizzati tramite psicofarmaci, dipendenti da un consumo (da uno spreco) monumentale di energia, che vivono come degli infermi sostenuti eteronomicamente da un’apparecchiatura che richiede una manutenzione delicata e assai costosa. Noi insomma, chiamati nel tempo più breve a porre un freno alla magnificenza dei nostri confortevoli stili di vita»192. 191. zA: VI,I, Prologo, § 5. 192. Danowski – Viveiros de Castro 2019: p. 176.
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Non si può pensare di contrastare tutto questo con un generico ritorno all’umanesimo, magari chiamandolo neo-umanesimo. occorre piuttosto entrare nell’ottica di un «inter-umanesimo». Con ciò intendo la necessità di rimettere l’uomo al centro del pensare e dell’agire sociale, ma non secondo la logica di solipsismo, dominio ed esclusivismo che hanno connotato l’umanesimo dei secoli scorsi. una logica che ci ha condotto alla deriva anti-umanistica oggi imperante. La società inter-umanista dovrà essere abitata da un’umanità consapevole, innanzitutto di essere fisiologicamente e inevitabilmente in continua interazione con altre entità: in particolare con l’ecosistema in cui vive, da tutelare anche tramite un concreto ripensamento della ricerca di profitto infinito. Mai come oggi, infatti, l’anelito ossessivo di un «iper-mondo» al di là dei limiti umani, sta ponendo le basi per uno scenario inabitabile dagli esseri umani stessi193. L’umanità capace di abitare i propri limiti è anche quella fisiologicamente pronta al superamento virtuoso e razionale di quei limiti, cioè a rinnovate forme di dialogo, confronto e cooperazione fra individui oggi troppo spesso ingabbiati nell’autoreferenzialità narcisistica ed egoistica della logica dominante. La stessa logica imposta nel nostro tempo dalla teologia neoliberista e dalla dimensione dei social network, per cui gli altri sono ridotti a competitori o strumenti in vista dell’appagamento dei nostri bisogni e desideri. Sto parlando della modalità di volta in volta strumentale, schiavistica o di potenza che Nietzsche ha perorato nel rapporto dei pochi individui privilegiati verso la grande massa dei più «deboli». In questo senso aveva perfetta193. «Così come un tempo abbiamo avuto orrore del vuoto, oggi proviamo un senso di ripugnanza nel pensare al rallentamento, alla regressione, alla ritirata, alla limitazione, alla frenata, alla decrescita, alla discesa…alla sufficienza. ogni cosa che rimanda a uno di questi movimenti in direzione di una sufficienza intensiva del mondo (piuttosto che a un superamento epico dei “limiti” alla ricerca di un iper-mondo), viene immediatamente tacciata di localismo ingenuo, primitivismo, irrazionalismo, cattiva coscienza, sentimento di colpa o perfino di contenere inclinazioni fascistoidi» (Danowski – Viveiros de Castro 2019: pp. 215-6).
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mente ragione il politologo americano Fukuyama, quando scriveva che «il relativismo di Nietzsche – proprio come nel caso del suo adepto Heidegger – ha cercato di eliminare tutti i sostegni filosofici della liberal-democrazia occidentale, per sostituirli con una dottrina della forza e della dominazione». Allo stesso modo mi sento di sottoscrivere le considerazioni avanzate in giorni a noi più vicini dal teologo Vito Mancuso, a opinione del quale il nostro tempo è quello in cui si è realizzata integralmente la filosofia di Nietzsche: ossia il tempo in cui l’etica è disprezzata e ritenuta un intralcio in ogni ambito dell’agire umano, mentre il denaro e la forza dettano le loro regole secondo una logica ispirata alla volontà di potenza194. La stessa logica messa in atto tanto dal liberismo capitalistico quanto dal comunismo autoritario del XIX e XX secolo – come ricordava opportunamente lo psicologo eric Fromm – specialmente nella costruzione rispettivamente di individui produttori/consumatori alienati da una parte e servi sottomessi e automatizzati dall’altra. Il guaio è che fin dal 1955 Fromm intravedeva una deriva incontrollabile nel processo di alienazione e automatizzazione, che trasforma gli esseri umani in «automi» con psicopatologie sempre crescenti: «Nel XIX secolo il problema era: Dio è morto! Nel XX secolo il problema è che l’uomo è morto. Nel XIX secolo inumanità era sinonimo di crudeltà, nel XX secolo equivale all’auto-alienazione schizoide. Il pericolo del passato era che gli uomini fossero ridotti a schiavi. Il pericolo del futuro è che possano diventare robot»195.
194. Fukuyama 1992: p. 333. Si tratta della stessa conclusione cui giunge nel presente il teologo Vito Mancuso (2020: p. 471), laddove scrive che «oggi sono i giorni di Nietzsche, e al contempo del nichilismo: i giorni nei quali l’etica è disprezzata e ritenuta un intralcio, e l’economia, la politica e l’estetica sentono di poter fare completamente a meno di essa; anzi, di doverlo fare per risultare vincenti, basandosi unicamente sulla forza: la forza del denaro, la forza del potere, la forza dell’arbitrio che prescinde da ogni canone, da ogni legge, da ogni oggettiva armonia». 195. Fromm 1955: p. 352.
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Quel futuro di cui parlava Fromm è il nostro presente. ecco perché una cultura inter-umanista sarà chiamata a contrastare le suddette modalità di alienazione, robotizzazione e sfruttamento degli individui. Il nostro tempo è quello in cui l’umanità sotto attacco da parte di forze non umane può soltanto serrare i ranghi, volendo fronteggiare tale attacco, e non indebolirsi a fronte di ulteriori divisioni al proprio interno. In un tale contesto, si rivela necessaria un’umanità che si attrezzi per l’interazione costante, oggi ineludibile, con le proprie scoperte tecnologiche: di fronte alle nuove apparecchiature digitali, infatti, occorre la consapevolezza che non si tratta più soltanto di oggetti che usiamo, di strumenti che utilizziamo in vista di scopi, ma di veri e propri «apparecchi esistenziali». Con tale espressione intendo delle macchine con cui interagiamo investendo tutta la nostra dimensione esistenziale (cognitiva, emotiva, relazionale), ma non a senso unico. Perché anch’esse interagiscono con noi, facendoci funzionare sempre più come macchine, nella misura in cui assorbono la nostra umanità che noi stessi doniamo loro, entusiasticamente o inconsapevolmente che sia. All’interno di questa dinamica sta avvenendo una sorta di scambio esistenziale, lo stesso che secondo i transumanisti condurrà alla fine dell’esistenza umana come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi, perché a iniziare sarà – in parte è già – una costellazione esistenziale considerata di tipo superiore: quella dei cyborg e dell’intelligenza artificiale. In questo senso l’«inter-umanismo» dovrà prevedere una nuova forma di interazione dell’uomo con le tecnologie digitali, che ovviamente non riproduca o rinforzi il meccanismo appena descritto. Bisogna fermare quello che ho chiamato lo «scambio esistenziale», affinché l’uomo conservi la propria umanità e le macchine svolgano una funzione di servizio e utilità a beneficio esclusivamente di questa stessa umanità. Infine, sostanzialmente per le ragioni che ho già espresso, l’uomo «inter-umanista» è chiamato a riprendere – anche qui con forme e modalità rinnovate – il dialogo con quella dimensione metafisica dell’esistenza che, se anche di dubbia esistenza (o forse proprio perché tale), ha sempre albergato nell’interiorità spirituale dell’uomo di ogni epoca. Tale dimensione metafisica 369
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deve tornare a rappresentare qualcosa di più che un elemento di conforto e speranza – funzionale soprattutto al potere terreno di chi si erge a intermediario fra l’uomo e l’Aldilà –, ma piuttosto un ideale regolativo di ricerca e miglioramento di sé per ogni individuo, nonché un «luogo» in cui rinviare ogni tipo di divinizzazione, che sostituisca la pericolosa attività di rivolgere tale divinizzazione su entità mondane. Ancora più pericolosa quando questa entità è il «Dio Mercato», che per sua natura non richiede soltanto fede e obbedienza, ma – come ha avuto modo di scrivere il teologo americano Harvey Cox – «ha bisogno di trasformare le persone da quel che erano una volta a persone inclini ad accettare e attuare il suo messaggio Devono essere rinati. Devono essere riconfigurati»196. Insomma, l’inter-umanesimo come rigenerazione di un’umanità che non proceda nella sua folle corsa verso l’autodistruzione, ma che piuttosto si rivela interessata alla tutela della vita in tutte le sue forme – a partire dalla propria – nella consapevolezza che tale vita è anche contraddizione, dolore e morte, ma rappresenta la precondizione necessaria di tutto ciò che abbiamo e siamo. Senza di essa non possiamo essere nulla, ma in compenso possiamo non essere più. Non sarà per nulla agevole realizzare tale progetto, considerato che viviamo nell’«epoca triste» di cui parlava Fukuyama. Tale epoca, frutto maturo degli ideali anti-umanistici e nichilistici affermati da Nietzsche e dai suoi epigoni, è quella in cui non è più l’uomo a fare la Storia, né quest’ultima si rivela come storia umana, poiché tutto è finalizzato al calcolo economico e alla soluzione di problemi tecnici197. A pensarci bene, potrebbe essere proprio questo il compito più arduo: superare il terribile equivoco del filosofo geniale che 196. Cox 2016: p. 193. 197. Fukuyama 1989: p. 18: «La fine della storia sarà un momento molto triste. La lotta per il riconoscimento, l’intenzione di rischiare la propria vita per uno scopo puramente astratto, la lotta ideologica mondiale che richiedeva audacia, coraggio, immaginazione e idealismo sarà sostituita dal calcolo economico, dall’infinito cercare di risolvere problemi tecnici, dalle questioni ambientali e dall’esigenza di soddisfare le sofisticate richieste dei consumatori».
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ci ha lasciato l’eredità più gravosa. Il suo male di vivere, che essendo quello di un genio è stato espresso in termini terribilmente suggestivi e persuasivi. Sì, Nietzsche ha scandagliato come forse nessun altro gli angoli bui e malefici tanto dell’essere umano quanto dell’esistenza nella sua complessità, consegnando ai posteri la ferma convinzione che l’uomo è nel mondo soltanto per lasciarsi ferire dalla violenza e dall’insensatezza dell’esistenza. Nel fare ciò non ha affermato nulla di falso: volontà di potenza, istinti distruttivi, nichilismo, gerarchia fra gli umani, divisione fra benriusciti e malriusciti, le illusioni della morale e della religione, la debolezza intrinseca dell’identità, della conoscenza e dell’umana capacità di pervenire a delle verità etc., sono tutte componenti che costellano la galassia esistenziale entro cui ci troviamo a vivere. Solo che, in parte sulla scia dei drammi subiti e in parte su quella di personali attitudini filosofiche, Nietzsche ha finito per assolutizzare il lato in ombra dell’esistenza. Fino ad arrivare, tramite una prosa letteraria straordinaria e coinvolgente, a riconfigurare quella stessa esistenza umana come se si trattasse esclusivamente di una notte assoluta e interminabile. Abitabile da chiunque tranne che dall’essere vivente che più è in grado di percepire e patire quel buio: l’uomo. Da qui il suo intendimento della vita quale enigma caotico e irrazionale, che l’uomo deve imparare a subire con l’animo eroico di un amante del fato. Non a caso «enigma» è uno dei termini più utilizzati dal grande pensatore tedesco198, sostanzialmente per nominare l’esistenza umana che, secondo lui, parla un linguaggio oscuro e indecifrabile. Per una serie di ironie della Storia – lo abbiamo visto – «enigma» era anche il nome della macchina nazista che Alan 198. Nietzsche riteneva i suoi scritti pervasi da «una buona volontà verso orizzonti illimitati», nonché se stesso come esponente del più autentico «istinto epicureo di un amante degli enigmi» (KSA: VIII,I, p. 142). In La gaia scienza scriveva che i filosofi come lui sono dei «divinatori di enigmi», «piantati fra l’oggi e il domani», «figli prematuri del secolo venturo» (KSA: FW, III, p. 574).
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Turing aveva decifrato, facilitando in questo modo la sconfitta della Germania nazista. Il medesimo scienziato, di lì a breve, avrebbe posto le basi per quell’intelligenza artificiale che oggi mette nuovamente l’umanità di fronte a un pericolo radicale. Tale pericolo consiste nell’essere fagocitata dalla sua stessa creatura superumana e «onnipotente», ovvero di piombare nello scenario gelido e inquietante descritto da George orwell (e prefigurato dalla filosofia di Nietzsche):
«Quando avremo raggiunto l’onnipotenza, non avremo più bisogno della scienza. Non ci sarà differenza fra il bello e il brutto. Non ci sarà curiosità, né la gioia del processo vitale. Tutti gli altri piaceri che potrebbero mettere a repentaglio un simile progetto saranno distrutti. Ma ci sarà sempre, sempre – tu non lo dimenticare, Winston – l’ebbrezza del potere, che diventerà sempre più forte e raffinata. Ci sarà sempre, in ogni momento, il fremito della vittoria, la sensazione di calpestare un nemico inerme. Se vuoi un’immagine del futuro, pensa a uno stivale che calpesti un volto umano in eterno»199.
L’insegnamento che possiamo trarre dallo scienziato Turing che non si arrese all’«enigma» dei nazisti, al netto di tutti i limiti che caratterizzano l’essere umano, riguarda la necessità di non arrendersi neppure di fronte all’enigma eternamente ritornante dell’esistenza. Ciò non significa illudersi di riuscire a svelare chissà quale mistero oscuro, fra i tanti che rivestono l’umano esistere, bensì non rinunciare all’utilizzo delle facoltà specifiche dell’uomo (ragione, conoscenza, empatia, etc.) per affrontare la vita con il suo inevitabile portato di limitazioni e mali. Proprio in questo senso ho parlato della necessità di un «inter-umanesimo». Non certo per affermare retoricamente la centralità dell’uomo generico in un universo indefinito, quanto piuttosto per ristabilire la sensatezza dell’impegnarsi affinché ogni individuo specifico – nel senso di specificamente in relazione con altri uomini e con un ambiente eco-sociale – possa abitare fecondamente e non nichilisticamente l’inemendabile contraddittorietà della condizione umana. 199. orwell 1949: p. 898.
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Colui che si abbandona al nichilismo esistenziale, inevitabilmente finisce per piombare in quella follia autolesionistica che vuole la mortificazione della dignità umana e l’annullamento dell’uomo stesso. Si tratta dell’atteggiamento magistralmente descritto da un ancora giovanissimo Gustave Flaubert in Memorie di un folle (1838):
«Sei grande e tuttavia muori come il cane e la formica, ma con più rimpianti di loro; poi marcisci e allora ti domando, quando i vermi ti avranno mangiato, quando il tuo colpo si sarà dissolto nell’umidità della tomba e non sarai più nemmeno polvere: dove sarai tu, uomo? Dove sarà anche la tua anima? Quell’anima che era il motore delle tue azioni, che muoveva il tuo cuore all’odio, all’invidia, a tutte le passioni, quell’anima che ti vendeva e ti faceva compiere tante bassezze, dov’è? esiste un luogo abbastanza santo per accoglierla? Tu ti rispetti e ti onori come un Dio, tu hai inventato l’idea della dignità dell’uomo, concetto che nulla in natura potrebbe immaginare vedendoti. Vuoi che ti si onori e ti onori da solo, vuoi persino che quel corpo, così vile durante la sua vita, siam onorato quando non c’è più. Tu vuoi che ci si scopra il capo davanti alla tua carogna umana che marcisce di corruzione, per quanto certamente più pura di te quand’eri in vita. eccola la tua grandezza, grandezza di polvere, maestà del niente!»200.
Tutto estremamente suggestivo e letterario, certo, non senza aspetti di tragica verità. Ma si tratta di un atteggiamento esistenziale a cui non ci si può abbandonare senza produrre la morte dell’uomo. Cioè senza produrre un contesto in cui – come aveva compreso bene un autore pur apprezzato da Nietzsche, quale Giacomo Leopardi – la mortificazione dell’uomo implica la resa all’«età delle macchine», quella in cui «non gli uomini ma le macchine, si può dire, trattano le cose umane e fanno le opere della vita». Del resto, sembra proprio questo l’obiettivo perseguito nel nostro tempo, per descrivere il quale riprendiamo ancora le parole del grande poeta italiano: «Che gli uomini si rimuovano dai negozi della vita il più che si possa, e che a poco a poco dieno luogo, sottentrando le macchine in loro scambio». Leopardi non può certamente essere annoverato fra gli 200. Flaubert 1838-1901: t. I, pp. 536-7.
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autori ottimisti e benevoli rispetto alla condizione dell’uomo – soprattutto in virtù di ciò era apprezzato dal filosofo tedesco – tuttavia non si era abbandonato a un atteggiamento distruttivo nei confronti dell’umanità, utilizzando semmai l’ironia per denunciare l’illusione tutta umana di sconfiggere la natura crudele, e perfino la morte, consegnandosi a «macchine al cielo emulatrici», che «crebbero e tanto cresceranno al tempo che seguirà»201. Sì, perfino Leopardi aveva compreso che l’alternativa all’utilizzo delle facoltà umane per fronteggiare le onde contrarie della vita, è quella di cadere nell’errore sostanziale di Nietzsche: non accettare quei mali e limiti, comunque insiti in ogni ambito in cui l’umanità si trova ad operare, e quindi approdare a un rifiuto dell’umanità stessa. È ciò che erich Fromm chiamava l’atteggiamento del «ribelle», precisando che Hitler e Mussolini erano stati dei ribelli ma non dei rivoluzionari. In loro, come del resto in Nietzsche – aggiungo io – veniva a mancare il criterio essenziale del rivoluzionario: l’amore per la vita, il desiderio di contribuire alla sua crescita e al suo sviluppo in ogni ambito202. Il ribelle è distruttivo rispetto a una vita che egli rifiuta per via delle incongruenze che la connotano, mentre il rivoluzionario si fa carico delle contraddizioni operando in vista di un miglioramento collettivo delle condizioni di vita. In termini politici, mi sento di confermare il giudizio espresso dal mio maestro Domenico Losurdo venticinque anni fa, laddove qualificava Nietzsche come il più grande dei pensatori reazionari, ma comunque il più reazionario dei grandi: «A stimolare certe parole d’ordine oggi francamente rivoltanti è quella stessa radicalità del progetto reazionario che stimola per un altro
201. Leopardi 1824-1832: v. 2, pp. 29-30 (Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi) e 1835-1845: v. 1, pp. 113-120 (Palinodia al Marchese Gino Capponi). 202. Fromm 1973: pp. 345-6. In questo senso emerge il mio disaccordo con Francesco Varanini (2020: pp. 243-4), che in maniera per me superficiale ritiene Nietzsche un autore di riferimento nell’opposizione alla deriva macchinica vissuta dalla società del tempo presente.
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verso una forte tensione demistificatrice e risultati teoretici di grande rilievo. La tragica grandezza del filosofo, il fascino e la straordinaria ricchezza di suggestioni di un autore capace di ripensare l’intera storia dell’occidente e di collocarsi, ben al di là dell’attualità, sul terreno della “lunga durata”, tutto ciò emerge pienamente solo se, rinunciando a rimuovere o a trasfigurare in un innocente gioco di metafore le sue pagine più inquietanti o più ripugnanti, lo si osa guardare in faccia per quello che realmente è, il più grande pensatore tra i reazionari e il più grande reazionario tra i pensatori»203.
Sul piano più generale, invece, il «viandante» Nietzsche non riuscì ad abitare l’imperfezione, la contraddizione e l’angoscia connesse alla condizione esistenziale dell’uomo. Così facendo sprofondò nell’unica alternativa all’essere inquilini dell’incertezza: restare senza una casa. La casa dell’umanità, nella fattispecie, da cui si sfrattò con le sue stesse mani. un errore sostanziale che il suo grande avversario filosofico – quell’Hegel accusato da più parti di essere stato un arido iper-razionalista – riuscì a evitare pur senza ignorare il tormento della condizione umana. Proprio nelle pagine finali della sua opera più speculativa, infatti, Hegel riconosceva che «il dolore è il privilegio delle nature viventi», e affermava che quella «contraddizione» che secondo alcuni non si può neppure pensare, ci appare come un’«esistenza reale» proprio nel «dolore del vivente»204. Con intento provocatorio si potrebbe sostenere il paradosso per cui Hegel, seppure defunto prima che Nietzsche nascesse al mondo, era riuscito tuttavia a diagnosticarne il limite radicale: l’incapacità di razionalizzare l’onnipervasiva e disturbante contraddizione presente in tutte le cose della vita. Non in grado di fare i conti con questa imperfezione strutturale dell’umanità, Nietzsche non seppe far altro che «distruggere»205 a colpi di 203. Losurdo 1997: p. 73. 204. Hegel 1812-1831: v. 2, p. 874. 205. «La sua lucidità è estrema ma disastrosa. egli la esercita soltanto per distruggere», scriveva Daniel Halévy (1909: p. 363). Lo studioso francese si riferiva agli ultimi giorni di vita cosciente del grande filosofo, ma per me la sua affermazione riassume efficacemente l’intera vicenda filosofica di Nietzsche.
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martello tutti i fondamenti dell’umanità stessa, salvo poi rifugiarsi nel preludio di una «superumanità» che oggi si vuole realizzare con rischi enormi. Lui fu l’iperboreo, che nell’empito di ergersi al di sopra dell’umano raggiunse delle altezze ingestibili per quell’essere senza ali che è l’uomo. Ciò lo portò a pagare il prezzo più salato: la caduta rovinosa nell’abisso da cui non si fa ritorno. Noi, oggi, viandanti di un tempo che ha ereditato tutto il nichilismo profuso da Nietzsche in maniera tanto suggestiva e suadente, siamo gli ultimi uomini che pencolano sulla soglia di quell’abisso. Titolari di un’unica possibilità: quella di decidere se abbandonarci eroicamente al nulla dell’esistenza o sfidare umanamente il tutto caotico della vita. A seconda della strada che sceglieremo – e ammesso che riusciremo a percorrerla fino in fondo – la terra sarà abitata da individui umani, magari troppo umani. oppure da super-uomini artificiali che, come delle macchine, potranno soltanto funzionare al di là del bene e del male.
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IL PeNSIero CHe L’uMANITà NoN Può PerMeTTerSI
Friedrich Nietzsche era perfettamente consapevole della portata esplosiva contenuta nel suo pensiero. Lungo tutta la sua opera non ha mai perso occasione per ribadire il concetto, attribuendosi una «filosofia col martello» da utilizzare per distruggere le fondamenta stesse della millenaria costruzione occidentale. Si è autodefinito «dinamite», senza farsi alcuno scrupolo a diffondere candelotti esplosivi pressoché in tutte le «stanze» delle scienze umane. Lo ha fatto non senza utilizzare espressioni inquietanti, tenendo conto quanto sarebbe avvenuto da lì a pochissimi decenni. Ma inquietanti anche per noi che stiamo piombando nell’abisso del post e trans-umano: «Conosco la mia sorte. un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di […] una crisi quale mai si era vista sulla terra, la più profonda collisione della coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che finora è stato creduto, preteso, consacrato. […] La mia verità è tremenda […] Io non sono un uomo, sono dinamite […] io vengo a contraddire come mai si è contraddetto […] Ci sarà guerra, come mai prima, sulla terra. Solo a partire da me ci sarà sulla terra grande politica»1.
Messa in questi termini, potrebbe apparire soltanto come la vicenda di un pensatore estremamente suggestivo, capace di fornire punti di vista alternativi, teorie inaudite e, al di là di tutto, una carica critica e polemica comunque benefica. Soprattutto per una 1. KSA: VI,III, pp. 63 sgg. e p. 167.
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civiltà come quella occidentale che, essendo millenaria, rischia di arenarsi nel magma dell’abitudine e dell’omologazione. In tal senso, direi che sono innegabili il fascino e l’apporto filosofico (e non solo) attribuibili a questo straordinario scrittore, profondissimo pensatore e formidabile polemista. Di certo la sua genialità non è mai stata in discussione all’interno di questo libro. Tuttavia sarebbe ingenuo, scorretto e financo pericoloso fermarsi alle suddette considerazioni. Lo sarebbe poiché l’originalità, la carica suggestiva e perfino la profondità di un pensiero non mettono al riparo il medesimo dal potersi rivelare pericoloso e nocivo. Non soltanto nei confronti di se stesso, ma anche di coloro che intendessero farlo proprio o addirittura applicarlo. Quindi, alla fine, nocivo e pericoloso nei confronti dell’epoca e dell’umanità che si trovassero a subirlo, quel pensiero. Né la cosa può sorprendere, perché quello di Nietzsche è stato un pensiero che in termini strettamente filosofici ha dispiegato tutto il nichilismo più tragico, irrazionalista e relativista. Mentre in termini politici si è connotato per una violenta carica aristocratica, gerarchica e reazionaria. Questi due fondamenti sostanziali della sua speculazione hanno poi trovato una convergenza nella proclamazione di un anti-umanismo netto e radicale. Anti-umanismo che, con tutti i distinguo del caso, abbiamo visto essere stato portato alle estreme conseguenze, più di un secolo fa, dal nazifascismo. Lo stesso anti-umanismo che, mutatis mutandis ma sempre con una chiara matrice riconducibile al pensiero di Nietzsche, ritroviamo nella nostra epoca cosiddetta «post-moderna». un’epoca impregnata di codici e valori tesi a superare la dimensione umana come l’abbiamo conosciuta fino ad ora (postumanesimo), affermati e imposti da un sistema tecnofinanziario che ormai governa tutto il nostro pianeta in maniera incontrastata. Lo stesso sistema che non si fa alcuno scrupolo, in nome della ricerca del profitto economico senza fine e dell’aspirazione illimitata al progresso tecnologico, a sacrificare l’uomo e il 378
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suo ecosistema in vista della realizzazione di obiettivi che non sono quelli dell’umanità nel suo insieme. Semmai si tratta degli obiettivi – e del bene – di una ristretta élite di persone, che oggigiorno esercita l’attività finanziaria e detiene la proprietà delle multinazionali tecnologiche. oltre a possedere un’influenza determinante su una dimensione politica che, da parte sua, è sempre più a corto di visioni alternative, oltre che di statisti in grado di progettare il futuro. Nel libro ho cercato di ricostruire il percorso attraverso cui, a partire dal pensiero aristocratico e antiumanistico di Nietzsche, si è arrivati fino alla nostra epoca «postumana». Colui che aveva proclamato la «morte di Dio», in buona sostanza, si era fatto artefice al contempo di una nuova galassia culturale in cui a essere divinizzato sarebbe stato l’uomo stesso. L’uomo con le sue attività terrene (la finanza e la tecnologia in primis), cariche di una «volontà di potenza» ormai libera di dispiegarsi con tutta la forza del relativismo e del nichilismo profusi dal pensiero di Nietzsche. Se Schopenhauer aveva operato una frattura nella metafisica occidentale, teorizzando che l’esistenza umana è ferita e offesa da un essere malvagio, sordido e imperscrutabile; Nietzsche si era spinto ancora oltre, affermando l’inesistenza di alcun essere superiore e deducendone la piena legittimità di ogni anarchia, crudeltà e irrazionalità nel mondo umano. In termini metaforici, Nietzsche aveva proclamato la morte del Dio onnipotente per sostituirlo con un uomo completamente libero di dispiegare la propria volontà di potenza. un uomo di tal fatta, convinto di potersi sostituire a Dio e realizzare nel proprio mondo quella dimensione metafisica altrimenti riconducibile alla divinità, è lo stesso che sta ponendo seriamente le basi per il superamento dell’umanità come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi. Chiunque fosse convinto della sciagura di un esito del genere – o comunque non lo ritenesse auspicabile – dovrebbe anzitutto rileggere il pensiero di Nietzsche con occhi diversi e con nuovi strumenti critici. Quelli che mi auguro di aver contribuito a fornire con il presente lavoro. Non certo con l’obiettivo di condannare o rimuovere il filo379
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sofo geniale, l’iperboreo capace di altezze speculative probabilmente non raggiunte da alcun altro. Ma per prendere atto del fatto che l’umanità, se vuole continuare ad esistere, non può permettersi né quelle altezze né quel pensiero.
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INDICe
Introduzione IL FILoSoFo CHe SCrIVeVA CoN IL SANGue
I. IL NArCISo DISPerATo 1. Lo specchio in frantumi dell’occidente cristiano 2. Al di là del bene e del male 3. L’insensatezza della vita: volontà di potenza e gerarchia umana 4. Il «peso più grande»: il «Superuomo» di fronte all’eterno ritorno del nulla 5. La volontà di vivere del sottouomo
II. IL FILoSoFo «CoNTro» e L’ANIMALe DA GreGGe 1. Contro la rivoluzione 2. Contro la democrazia 3. Contro il liberalismo (e il capitalismo) 4. Contro la religione 5. Contro l’umanità
III. LA MorTe DeLL’uoMo: DAL NAzIFASCISMo ALL’INTeLLIGeNzA ArTIFICIALe 1. Smascherare gli idoli 2. un ponte fra le epoche 3. La gaia incoscienza 4. Neonazismo tecnocratico: sottouomini e supermacchine 5. Dio è risorto! L’eterno ritorno dell’enigma umano
epilogo IL PeNSIero CHe L’uMANITà NoN Può PerMeTTerSI Bibliografia
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59 72
82 82 96 112 140 182 218 218 289 304 324 349 377
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Finito di stampare nel mese di agosto 2022 per i tipi de “il nuovo melangolo” dalla Microart - Avegno (Ge)
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