Nello specchio della scuola 9788815291196, 9788815361875

Ripensare il sistema scolastico per cambiare il Paese È tempo di investire in educazione, non solo per superare l’emerge

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Nello specchio della scuola
 9788815291196, 9788815361875

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Table of Contents Frontespizio Premessa La scuola, lo sviluppo, la solidarietà 1. La pandemia e la scuola 2. La scuola, i diritti e la solidarietà 3. Autonomia e territorio 4. Eguaglianza e crescita Crescita e competenze per lo sviluppo 1. La bassa crescita italiana e le trasformazioni della società globale 2. La Quarta rivoluzione industriale e la necessità di nuove risorse umane 3. Le nuove competenze per lo sviluppo I risultati della nostra scuola 1. Il ritardo italiano nei livelli di istruzione 2. Le nuove disuguaglianze fra territori e persone 3. Una nuova povertà educativa Scuola, Stato, nazione 1. La formazione delle classi dirigenti e la formazione della comunità 2. Origini del capitalismo e affermazione dello Stato nazionale 3. La scuola nel Regno d’Italia Formazione della persona e sviluppo 1. I compiti sociali della scuola e la formazione della persona 2. L’economia dell’educazione 3. La rosa dei venti dell’educazione per lo sviluppo 4. Gli investimenti in educazione in Italia Costituzione, autonomia, territorio 1. La Costituzione come guida per il rilancio del paese 2. L’autonomia della scuola nella società delle autonomie 3. Il ruolo del territorio e il COVID-19

4. Diritti e solidarietà nell’emergenza nazionale Attraverso lo specchio 1. La scuola oltre il virus: innanzitutto le persone 2. La formazione della comunità e lo sviluppo 3. La formazione delle classi dirigenti Tre questioni e dieci temi per un dibattito nazionale sulla scuola e sullo sviluppo 1. Quale scuola per quale paese 2. Povertà educativa e dispersione scolastica 3. Autonomia e territorio 4. Le persone al centro del nostro sviluppo 5. Sviluppo e democrazia Riferimenti bibliografici



Ripensare il sistema scolastico per cambiare il Paese È tempo di investire in educazione, non solo per superare l’emergenza Covid, ma per guardare oltre, per ritrovare quel cammino di sviluppo che sembra essersi perduto nei lunghi anni in cui hanno prevalso individualismo e populismo e che deve fondarsi sui valori definiti nella nostra Costituzione. Il nuovo secolo della connessione continua ha bisogno di cittadini portatori, oltre che di contenuti, di creatività, lavoro di squadra, capacità di astrazione e di sperimentazione, senso di orientamento per poter navigare in mari aperti. La scuola deve rispondere a queste esigenze e muoversi, insieme al Paese, nel senso di marcia di uno sviluppo inclusivo e sostenibile. Patrizio Bianchi è professore ordinario di Economia applicata e titolare della Cattedra Unesco in Educazione, crescita ed eguaglianza presso l’Università di Ferrara, dove è stato Rettore fino al 2010. Assessore alla scuola, università, ricerca, formazione e lavoro della Regione Emilia-Romagna fino agli inizi del 2020, ha poi coordinato il Comitato degli esperti presso il ministero dell’Istruzione. Con il Mulino ha pubblicato numerosi volumi, tra cui "Il cammino e le orme. Industria e politica alle origini dell’Italia contemporanea" (2017) e "4.0. La nuova rivoluzione industriale" (2018).



Patrizio Bianchi

Nello specchio della scuola Quale sviluppo per l'Italia



Copyright © by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Per altre informazioni si veda http://www.mulino.it/ebook Edizione a stampa 2020 ISBN 9788815291196 Edizione e-book 2020, realizzata dal Mulino - Bologna ISBN 9788815361875

Indice

Premessa

I.

La scuola, lo sviluppo, la solidarietà

II.

Crescita e competenze per lo sviluppo

III.

I risultati della nostra scuola

IV.

Scuola, Stato, nazione

V.

Formazione della persona e sviluppo

VI.

Costituzione, autonomia, territorio

VII.

Attraverso lo specchio

Conclusioni

Tre questioni e dieci temi per un dibattito nazionale sulla scuola e sullo sviluppo

Riferimenti bibliografici

Ringraziamenti Debbo molti ringraziamenti. Innanzitutto ai miei studenti dell’Università di Ferrara, dove sono giunto quasi venticinque anni fa per fondare una nuova facoltà di economia, Università di cui sono stato rettore e in cui sono tornato con la Cattedra UNESCO in Educazione, crescita ed eguaglianza, dopo essere stato per dieci anni assessore della Regione Emilia-Romagna a Scuola, educazione, università, ricerca, formazione e lavoro. Un ringraziamento va alla Commissione nazionale UNESCO e al suo presidente Franco Bernabè. Debbo infine ringraziare il ministro Azzolina, che ha nominato il Comitato per il rilancio della scuola dopo il COVID-19, da me coordinato in questo difficile 2020. Il Comitato ha presentato un primo Rapporto intermedio il 27 maggio, con le indicazioni per la riapertura, e ha consegnato al ministro il 13 luglio il Rapporto finale sul futuro della scuola italiana. Un ringraziamento particolare va dunque a Lorella Carimali, Giulio Ceppi, Domenico Di Fatta, Amanda Ferrario, Maristella Fortunato, Daniela Lucangeli, Alberto Melloni, Cristina Pozzi, Andrea Quacivi, Flavia Riccardo, Mario Ricciardi, Mariagrazia Riva, Arduini Salatin, Aldo Sandulli, Mariella Spinosi, Stefano Versari e Alberto Villani, che generosamente hanno partecipato a questo Comitato, con cui abbiamo condiviso un’intensa esperienza di ricerca sul futuro del nostro paese. Per me è stato un onore coordinare un gruppo di persone così straordinarie. A loro debbo molto e a loro va la mia gratitudine. Un ringraziamento speciale a Maria Amodeo e a Elena Rossi per aver letto pazientemente queste pagine. Infine molto più di un ringraziamento a mia moglie Laura Tabarini, che ancora una volta ha condiviso con me questo lavoro.

Premessa Esiste uno stretto legame fra educazione e sviluppo. Uno sviluppo socialmente ed economicamente sostenibile nel tempo si fonda sulla capacità di organizzare le competenze, le abilità manuali e il giudizio critico delle persone, e di trasformare queste in quel valore aggiunto che è la vera ricchezza di una comunità. La scuola è il luogo in cui si formano quelle competenze, quelle abilità, quel giudizio, elementi costitutivi della personalità degli individui, ma ne strutturano anche la partecipazione alla vita collettiva. Tuttavia non è vero che la scuola sia «di per sé», per sua natura, luogo di integrazione e di eguaglianza. Storicamente la scuola è stata il luogo in cui si evidenziavano le differenze sociali e si consolidavano le disuguaglianze fra le classi. Per questo le parole scritte nella nostra Costituzione sono ancora più rilevanti, quando statuiscono che la scuola italiana deve essere aperta a tutti ed essere il primo presidio di uno Stato che vuole rimuovere ogni ostacolo che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impedisca «il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese». Per questo la nostra Costituzione resta nei momenti più difficili della Repubblica la guida sicura per capire quale paese volere. Libertà ed eguaglianza sono del resto i fondamenti di una crescita fondata sul pieno dispiegarsi di quelle competenze, abilità e capacità, con cui tutti i cittadini partecipano alla «ricchezza della nazione», in particolare in una fase storica in cui la globalizzazione ha posto a confronto storie nazionali diverse e ha evidenziato un’accelerazione nella diffusione delle tecnologie della comunicazione tale da definire questa nostra epoca come la «società della conoscenza». È tuttavia proprio in questa fase di così intenso cambiamento strutturale che si corre il rischio di cadere nella «trappola della bassa crescita», quella sorta di equilibrio perverso per cui, attribuendo poche risorse alla scuola, non si riescono più a garantire quelle competenze e abilità necessarie per accelerare l’economia e quindi disporre nella fase successiva di maggiori risorse per l’educazione. Si innesca così un circolo vizioso che perpetua una condizione di stagnazione, la quale si traduce in disuguaglianza fra persone e fra territori e che a sua volta vincola lo sviluppo economico e sociale del paese, segnandone profondamente anche i profili democratici; ed è

questa la trappola in cui è caduto il nostro paese negli ultimi vent’anni ed è per questo che la richiesta di tornare dopo il COVID-19 alla «normalità» preesistente non può essere la soluzione per riprendere un cammino di sviluppo. Agli shock si reagisce innovando e ritrovando un nuovo percorso, che sappia far tesoro anche della tragedia, o ci si affloscia nella ricerca vana di un passato che per definizione è già dietro alle nostre spalle. Per procedere innovando occorre avere coscienza delle radici profonde che determinano i fenomeni in cui siamo coinvolti e di cui spesso siamo in balìa. Il COVID-19, come il terremoto – ma credo tutti i disastri –, toglie la normalità della scansione quotidiana e fa emergere il bisogno di qualcosa che veniva dato per scontato. È in queste condizioni estreme che si scopre che «la scuola è il battito della comunità», come avevamo scritto nei giorni del sisma dell’Emilia, dal 20 al 29 maggio 2012, quando due micidiali scosse abbatterono o lesionarono gravemente tutti gli edifici scolastici fra Reggio Emilia e Ferrara, e si decise per una ricostruzione che ripartisse proprio dalle scuole, perché forte si era imposta la consapevolezza che lì batteva il cuore dell’intera comunità e dalla loro riapertura si attendeva il via per una ripresa della vita collettiva. Questo libro vuole essere il mio contributo al percorso di orientamento in quel complesso insieme di legami che riuniscono la scuola, lo sviluppo, la democrazia in questo nostro tormentato presente. Attraverso lo specchio della scuola possiamo prefigurare quale democrazia volere per il nostro paese, ma attraverso la scuola possiamo anche domandarci quale sviluppo predisporre per noi e per i nostri figli, esplorando il legame fra organizzazione e risultati della nostra scuola e modalità di crescita del nostro paese.

I.

La scuola, lo sviluppo, la solidarietà

1. La pandemia e la scuola La pandemia ci ha tolto la scuola, almeno la scuola come la conoscevamo, la scuola che c’era e ritmava le giornate delle famiglie. La giornata scandita sugli orari della scuola, le classi, le aule, i banchi, i programmi, le discipline. Il lockdown – parola che abbiamo imparato a usare per dire che tutto era sotto sequestro – ha imposto la chiusura degli edifici scolastici e quindi, un po’ affannosamente e un po’ impreparate, le scuole hanno lanciato forme di insegnamento a distanza, e nel corso dell’estate è cresciuta l’attesa per una riapertura a settembre che riportasse la scuola alla normalità precedente al virus; ma quella «normalità» non può più bastare. L’Italia è il paese d’Europa con i più bassi livelli di istruzione, i più alti tassi di dispersione scolastica e il più alto numero di NEET, cioè di ragazzi che non studiano e non lavorano, con un grado di divergenza fra Nord e Sud dichiaratamente intollerabile. Non a caso quest’Italia è anche il paese d’Europa che è cresciuto meno negli ultimi vent’anni e si è presentato all’appuntamento fatale con la pandemia con un tasso di crescita annuale dello 0,3% su base nazionale, che significa quindi con le Regioni del Nord appena sopra la stagnazione e le Regioni del Mezzogiorno già in recessione. Per questo non possiamo accontentarci di tornare alla situazione precedente, ma diviene ormai indifferibile avviare una vera fase costituente per la scuola, per aprire una nuova stagione in cui la scuola torni a essere, o forse meglio divenga, il motore di una crescita di un paese che da troppo tempo è bloccato.

2. La scuola, i diritti e la solidarietà Quattro sono i temi che è necessario affrontare in questa difficile fase. Il primo: a che cosa serve la scuola nell’epoca di internet? Non certo a raccattare informazioni, essendo tutti noi travolti quotidianamente da informazioni (vere, false, presunte). La scuola deve essere il luogo in cui far crescere capacità critiche, visioni del mondo oltre il presente, il luogo in cui – issandosi sulle spalle dei giganti del passato – imparare ad affrontare un futuro che oggi appare come non mai incerto e fragile. Questo implica pensare innanzitutto ai contenuti e ai modi di una didattica che sia veramente inclusiva e rivolta a dare ai nostri ragazzi strumenti per comprendere questo mondo così

complesso, ma soprattutto che insegni loro a «fare comunità», cioè a ricomporre diritti e solidarietà di una società molto più articolata del passato. Diritti e solidarietà sono del resto l’asse fondante della nostra Costituzione, a cui tornare sempre e con forza, in particolare nei momenti di incertezza. Gli artt. 33 e 34 dichiarano che la scuola deve essere aperta a tutti e basata sulla libertà di insegnamento, ma queste affermazioni hanno la loro radice nei primi due articoli, in cui si dice che la Repubblica, fondata sul lavoro (non sui privilegi di casta o di censo), riconosce i diritti inviolabili dell’uomo – «riconosce» perché i diritti vengono prima della Repubblica – ma contestualmente «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Un’educazione alla solidarietà diviene quindi asse portante di una scuola che vuole uscire non solo dalla lunga notte del COVID-19, ma ancor più vuole ritrovare un sentiero di crescita, sostenibile, inclusivo, umano. Educare alla solidarietà vuol dire partire dalle effettive realtà locali, per ricostruire con i ragazzi percorsi di conoscenza condivisa, anche laboratoriale, in cui ognuno – non uno di meno – possa partecipare della scoperta collettiva, che costruisce comunità solidali. Questo significa uscire dagli schemi concettuali del Novecento, dalla scuola basata su programmi, orari, discipline strutturate da ordinanze e disposizioni centrali. E questo implica che il dirigente scolastico non si senta l’ultimo anello di una catena gerarchica che da Roma arriva al suo istituto, ma sia il promotore di una nuova alleanza con il suo territorio, di cui la scuola sia percepita come pilastro essenziale. Sono molte le esperienze in cui questi principi sono divenuti realtà, anche nei mesi della pandemia. Ne cito uno per tutti: l’Istituto statale di istruzione superiore Natta che opera nel centro di Bergamo, il cuore della pandemia, e che è riuscito, nelle settimane più buie, a mantenere accesa la fiaccola della scuola.

3. Autonomia e territorio Ecco allora il secondo punto: quale autonomia per la scuola italiana? L’autonomia scolastica è stata introdotta già nel 1997, allorché il governo Prodi – con Luigi Berlinguer all’Istruzione – promosse una vasta azione di ridisegno della società italiana, in vista dell’entrata nell’euro e dell’apertura dei mercati internazionali con la sottoscrizione nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio del World Trade Agreement, che nel 2000 avrebbe dato il via alla globalizzazione delle economie. In quel disegno l’autonomia scolastica non era lo scaricabarile delle responsabilità dal ministero all’ultimo preside, né il «liberi tutti», come qualcuno tutt’oggi banalizza. Si trattava invece di un disegno di unità del paese, che vedeva l’assunzione di obiettivi formativi comuni da

raggiungere in ogni parte d’Italia, ma riconosceva la possibilità di costruire percorsi che tenessero conto delle effettive diversità di partenza, dotando i territori delle necessarie risorse per poter raggiungere i fini comuni. L’uniformità è il modo più semplice di governare, imponendo a tutti una stessa regola, ma non è efficiente, né giusto, perché consolida le disuguaglianze, tra l’altro ponendo a carico degli ultimi il costo umano dell’inseguimento senza possibilità di raggiungere, se non raramente, chi era partito già avvantaggiato. L’autonomia scolastica tuttavia si è insabbiata negli anni successivi, in anni di individualismo prima e di populismo poi, per tornare a riecheggiare nei più recenti atti di governo, lasciando quindi sperare in una prospettiva di ripresa futura di uno dei cardini di una democrazia matura. Il terzo punto è il rapporto con il territorio. A vedere i numeri, appare evidente che si è aperta una nuova «questione meridionale». Se il tasso di uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione nelle Regioni del Nord si avvicina alla media europea, cioè al 10%, nel Sud – con punta massima in Calabria – siamo a oltre due volte la media europea, vale a dire che perdiamo per strada molti ragazzi, condannandoli a una povertà educativa che non può che essere fonte di nuova miseria materiale. Nel Rapporto INVALSI pubblicato nel 2019 – che misura i risultati educativi riportati dalle scuole italiane – emerge con chiarezza che al Sud e nelle Isole i risultati educativi sono più bassi della media nazionale e che questa divergenza si aggrava con l’avanzare nel percorso di studi. La media nazionale è del 34,4% per l’italiano e del 38,7% per la matematica, e già di per sé questi dati sono preoccupanti per un paese che vuole dirsi avanzato e democratico, ma il dato del Mezzogiorno è drammatico: nel Sud e nelle Isole il 45,9% degli studenti giunti alla licenza media non arriva al livello ritenuto minimo nelle prove di italiano e il 55,7% nelle prove di matematica, con punte che sfiorano il 60% in Calabria. Il Sud e le Isole presentano inoltre una maggiore variabilità tra scuole e tra classi, con una polarizzazione che crea nuove disuguaglianze all’interno della stessa area più arretrata. Secondo il Forum Disuguaglianza e Diversità, l’arcipelago del fallimento formativo ed educativo coinvolge oggi in Italia 1 milione e 300.000 bambini e ragazzi in povertà assoluta e altri 2 milioni e 300.000 in povertà relativa; tutto ciò si traduce in una sacca di povertà educativa, concentrata in particolare in Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna, che costituisce un vincolo per la crescita sociale ed economica non solo del Sud, bensì dell’intero paese.

4. Eguaglianza e crescita

E qui sta l’ultimo punto: perché l’Italia è cresciuta meno degli altri paesi europei negli ultimi vent’anni? E che cosa occorre, quali competenze servono per una ripresa dell’economia italiana in quest’età della digitalizzazione e della globalizzazione oltre che della pandemia? L’Italia è cresciuta poco perché troppo piccola, è l’area geografica in cui si concentrano imprese in grado di muoversi a livello internazionale con capacità di innovazione, ma soprattutto troppo pochi sono i giovani abbastanza preparati da sorreggere questa nuova crescita a livello internazionale, in cui servono meno competenze frammentate ed esecutive e occorre invece la capacità di gestire problemi complessi e lasciare spazio alla creatività. L’educazione alla solidarietà e al «fare comunità» diviene quindi la competenza principale per una ripresa che non sia effimera; allargare a tutto il paese la battaglia per sconfiggere le vecchie e nuove povertà educative diventa il modo per ritrovare un’Italia in crescita in un’Europa che torni a essere orgogliosa di sé stessa.

II.

Crescita e competenze per lo sviluppo

1. La bassa crescita italiana e le trasformazioni della società globale L’Italia che è stata aggredita dal COVID-19 già non godeva di buona salute. Da almeno vent’anni l’Italia cresce meno degli altri paesi industrializzati, e questo è ancora più grave considerando che da tempo è in atto in tutto il mondo una trasformazione dei sistemi produttivi che sta ridisegnando in profondità non solo l’economia, ma la vita quotidiana di tutta la popolazione. Il ridotto tasso di crescita dell’economia italiana è efficacemente illustrato dalla variazione annuale percentuale del prodotto lordo reale dell’economia mondiale, dei paesi avanzati e dei paesi emergenti, così come presentato dai dati del Fondo monetario internazionale per il periodo che va dal 1980 agli inizi del 2020, quindi precedente alla diffusione pandemica. Guardando il grafico proposto nella figura 1 ci si domanda dunque: perché noi cresciamo meno degli altri? Procediamo con ordine. Questa straordinaria trasformazione strutturale dell’economia mondiale dipende dal sovrapporsi di due rivoluzioni: da una parte la globalizzazione, con il già menzionato World Trade Agreement del 2000, che implica l’entrata della Cina sui mercati mondiali e avvia una profonda riorganizzazione della produzione su scala mondiale; dall’altra la rivoluzione di internet, che mette in connessione continua milioni di persone, aprendo lo spazio a un mercato di servizi mai visto in passato. Anche questo sistema di collegamento a livello mondiale ha compiuto un balzo in avanti nel 2000, con il passaggio delle tecnologie di comunicazione mobile dalla cosiddetta 2a generazione (2G), costituita da reti completamente digitali, alla 3a (3G), caratterizzata dall’adozione di standard comuni, e dunque da un’interconnessione ancora maggiore. Apertura dei mercati e standardizzazione delle reti digitali aprono l’epoca della globalizzazione, che dal punto di vista economico avvia il nuovo secolo con una fase di crescita impetuosa, trascinata dalle economie emergenti, ma anche da un’euforia finanziaria che porta alla fine del primo decennio del secolo alla prima grande crisi della globalizzazione, che travolge uno dopo l’altro tutti i paesi del mondo.

FIG. 1.

Tasso di crescita annuale percentuale del prodotto interno lordo (paesi emergenti, mondo, paesi sviluppati, Italia) e passaggi di tecnologia di connessione. Legenda: 1G-5G = le successive generazioni delle tecnologie di comunicazione mobile. Fonte: Fondo monetario internazionale, 2020.

Tuttavia è proprio nella crisi più profonda che si predispongono le condizioni per le trasformazioni più radicali, e infatti proprio negli anni fra il 2009 e il 2012 si creano le condizioni per il nuovo salto, che si concretizzerà nel passaggio alle tecnologie di connessione di 4a generazione (4G), quello – per intenderci – dal telefonino per scambiare messaggi vocali allo smartphone che permette di inviare video, foto e soprattutto dati – moltissimi dati. Sono gli anni in cui Microsoft (1975), Apple (1976), Amazon (1997), Google (1998) e Alibaba (1999) si riposizionano sul mercato del web, generando piattaforme che divengono gli snodi centrali del mercato mondiale degli scambi. Ugualmente, imprese come Facebook (2004), YouTube (2005), Airbnb (2007), Uber (2009), WhatsApp (2009) e Instagram (2010), nate per fornire servizi specifici online, si affermano come aziende globali; e proprio basandosi su queste piattaforme entrano poi sul mercato decine di imprese, essenzialmente americane o cinesi, che offrono minuto per minuto servizi con un’estensione e una specializzazione impensabili anche solo per la generazione precedente. Secondo le stime di Ericcson, dal 2010 al 2019 il volume di exabyte scambiati mensilmente da apparati mobili (unità di misura dell’informazione o della quantità di dati trasmessi pari a un miliardo di miliardi di byte) sale da poco più di zero nel 2010, quando prevaleva

ancora la voce, a circa 2 nel 2013, a 8 nel 2016 e a 20 nel 2019, con una crescente rilevanza dei video e dei dati[ ]. 1

Tuttavia proprio in quegli anni l’Italia registra la sua crisi più grave, perché mentre a livello internazionale si stava delineando un profondo cambiamento strutturale, che ha aperto la via a una nuova economia basata sulla digitalizzazione della produzione e degli scambi, il nostro paese sprofondava nella crisi fiscale dello Stato, con un deficit e un debito il cui peso sottraeva risorse a educazione e ricerca e quindi a quell’innovazione necessaria per capire e affrontare la trasformazione dell’economia e della società. Nella transizione tra il governo Berlusconi IV (8 maggio 2008-16 novembre 2011) e il governo Monti (16 novembre 2011-27 aprile 2013) si registra il vero collasso dell’economia italiana, con uno spread fra i titoli emessi dal Tesoro italiano e i titoli tedeschi arrivato a 550 punti, a dimostrazione di una sfiducia generalizzata nei nostri confronti. L’Italia arriva così in condizioni malandate a fine decennio, tanto da segnare a fine 2019 un misero 0,3% di crescita su base nazionale, dato medio per un paese che a un numero ristretto di territori e di settori in crescita – essenzialmente il comparto meccanico nell’area di Milano, Bologna e Venezia – contrapponeva vaste aree del Mezzogiorno già in depressione cronica. La crescita di questo nuovo triangolo industriale – che risulterà poi il più colpito dalla diffusione del virus – è stata trainata quasi esclusivamente dalle esportazioni, mentre le attività produttive legate alla domanda interna, a partire dall’edilizia, stavano attraversando da anni una lunga fase di depressione. Le esportazioni riguardavano sia la vendita di macchine di produzione, quindi tecnologie, verso i paesi emergenti – e innanzitutto verso la Cina –, sia la vendita di quel «Made in Italy» rivolto alla fascia alta di consumatori particolarmente in crescita in un mondo in cui aumentano vorticosamente le disuguaglianze. Si acuiscono in questa fase le divergenze fra territori orientati all’export e aree vincolate al mercato interno, gli uni che vedono nella mancanza di risorse umane un limite alla loro crescita, le altre che invece segnalano la crescita di dispersione scolastica e giovani che non studiano e non lavorano.

2. La Quarta rivoluzione industriale e la necessità di nuove risorse umane Il profondo cambiamento strutturale che ha travolto il mondo dopo la crisi del 2009 ha ridisegnato dunque tutta la società facendo emergere nuovi bisogni e nuovi modi di produzione, tanto da far parlare di una nuova rivoluzione industriale per indicarne il carattere di pervasività rispetto alla vita quotidiana di ognuno di noi, una rivoluzione

basata sull’acquisizione, accumulazione ed elaborazione di dati, che noi stessi produciamo e che scambiamo continuamente, generando nuovi bisogni e nuovi mercati. È in questa fase che cambiano i rapporti di forza fra imprese, mentre declinano i grandi gruppi del settore dell’auto, della siderurgia, della chimica, imponendo ai loro paesi drastici processi di riorganizzazione e clamorose fusioni. Si afferma nel frattempo il potere dei nuovi colossi del web, e aumentano le divergenze fra le regioni di vecchia e nuova industrializzazione. Sempre più nettamente si apre una frattura fra le aree che già all’inizio del nuovo secolo guadagnavano dalla globalizzazione e quelle che dell’apertura dei mercati internazionali percepivano solo gli effetti negativi, con la richiesta sempre più esplicita di chiusure e protezione, al di fuori del controllo dei vecchi partiti che sempre meno potevano dare rappresentanza a un mondo in così rapida trasformazione. È in questa fase che emerge con forza il bisogno di nuove competenze, nuove abilità, nuove capacità critiche per comprendere questi straordinari processi di riorganizzazione dell’economia e della società e nel contempo di nuove modalità di organizzazione dei processi educativi, non solo per i ragazzi, ma anche per gli stessi adulti, che sempre più devono dotarsi di strumenti concettuali e operativi per rispondere alle esigenze di complessità che il nuovo mondo impone. La chiave per comprendere questa rivoluzione, tuttavia, è nel superamento del paradigma organizzativo fordista, che aveva governato per anni non solo l’industria, ma tutta la società. Nel Novecento si era affermato come modello di efficienza un fordismo generalizzato a ogni situazione operativa, basato su frammentazione delle conoscenze, linearizzazione delle funzioni e gerarchizzazione delle responsabilità – in altre parole sulla catena di montaggio – in una prospettiva della crescita industriale basata sulla produzione in grande scala di prodotti omogenei, la cui competitività sui mercati era affidata unicamente al prezzo. Funzionali a quel modello di industrializzazione, le competenze richieste erano a loro volta frazionate, in ragione dei livelli gerarchici che ognuno ricopriva nell’organizzazione produttiva – i dirigenti con il colletto bianco, i tecnici con la giacchetta nera e gli operai con la tuta blu –, ciascuno vincolato ai propri tempi, ai propri metodi e quindi alla propria preparazione professionale. Su questo modello si forgiarono le relazioni industriali e i modelli organizzativi estesi a tutti i settori produttivi, che pure non avevano le stesse dimensioni di scala del settore dell’automobile, che fu in America come in Europa il vero modello di riferimento della modernizzazione. Questo modello, basato sulla linearizzazione dei processi, sulla separazione dei saperi e sulla frammentazione delle conoscenze, si estese anche alle pubbliche amministrazioni, le quali del resto fin dai tempi

di Napoleone avevano assunto come forma organizzativa di riferimento la struttura militare, ugualmente centralizzata, gerarchica, frammentata[ ]. 2

L’organizzazione fordista dell’industria andò in crisi fin dagli anni settanta del Novecento. Allorché quel modello di consumi di massa si scontrò con la saturazione dei mercati di primo acquisto e dimostrò la sua insostenibilità sociale, divenne necessario individuare modalità di organizzazione del lavoro – e quindi delle competenze produttive – che permettessero di introdurre con continuità innovazioni nelle produzioni. Mentre in altri paesi si reagì con modificazioni strutturali dei sistemi di produzione all’interno della grande impresa, organizzando il lavoro per squadre che condividevano tutte le informazioni relative a processi complessi, in Italia la risposta fu essenzialmente un decentramento produttivo che ricompose sul territorio reti di subfornitura, le quali permettevano all’impresa leader di rispondere a un mercato sempre più instabile con un’offerta sempre più differenziata e flessibile, riabilitando così anche vecchi mestieri artigiani, seppure dentro filiere sempre più strutturate. Tuttavia ciò che ne conseguì fu un’ulteriore divaricazione territoriale fra le aree della vecchia industrializzazione – Piemonte, Liguria e parte della Lombardia, dove comunque permanevano enormi problemi di ristrutturazione delle grandi fabbriche – e le aree marginali del Mezzogiorno, in cui l’industrializzazione forzata degli anni cinquanta aveva riproposto i grandi impianti del modello fordista. A queste si aggiunge quella Terza Italia – il Nord-Est, l’Emilia-Romagna, la Toscana e poi la linea adriatica fino alla Puglia – in cui il primo decentramento lasciava il posto a una nuova generazione di imprese di media dimensione, che richiedeva competenze, abilità, capacità critiche più rivolte al lavoro di squadra. Conoscenze tecniche per gestire un continuo cambiamento tecnologico superiore rispetto al passato. Contestualmente all’uscita dalla crisi del 2009, e in particolare con il passaggio a nuove tecnologie digitali, vi è stato un ridisegno delle catene del valore a livello globale, con una riduzione del tasso di crescita degli scambi fisici e un aumento degli scambi di dati e immagini anche per il controllo remoto di sistemi produttivi automatizzati e robotizzati. Mentre la produzione finale viene spostata più vicino alla domanda finale, la progettazione, la gestione e l’innovazione di questi cicli produttivi ben più complessi del passato sono legate alla capacità di disporre di infrastrutture di supercalcolo e intelligenza artificiale in grado di governare interi cicli produttivi globali, ma anche e sempre più rilevanti per la gestione di grandi sistemi urbani, di politiche della salute, dell’ambiente e della vita collettiva. Il vero vincolo è tuttavia dato dalla disponibilità di risorse umane

adeguate, in grado di comprendere e gestire queste complessità, e dalla capacità di diffondere conoscenze e competenze legate alla pervasività delle nuove tecnologie di connessione. La nuova scuola quindi deve predisporre competenze e abilità rivolte a comprendere queste nuove realtà complesse e a predisporre le persone ad affrontare un cambiamento continuo. Purtroppo, fra il 2009 e il 2012, mentre il mondo si stava attrezzando per uscire dalla prima crisi globale e cogliere le opportunità legate alla transizione tecnologica, l’Italia è rimasta impantanata nella crisi fiscale e politica dello Stato, tagliando in maniera significativa le risorse per educazione e ricerca.

3. Le nuove competenze per lo sviluppo La necessità di uscire dalla crisi del COVID-19 impone oggi, sotto il peso di un’emergenza globale, quel ripensamento sul futuro del mondo che le Nazioni Unite avevano proposto, in verità da tempo, fra le sfide del millennio. Per noi il COVID-19 rischia di essere la coperta sotto la quale nascondere tutti i problemi accumulati nel tempo, che ci hanno impedito di cogliere i vantaggi offerti dalle nuove tecnologie. Infatti le tecnologie che definiamo di Quarta rivoluzione industriale si basano sulla possibilità di dare risposte produttive non più di massa, ma basate sulla qualità, quindi anche su quella creatività produttiva e quella capacità di ascolto che permettono di offrire risposte personalizzate, qualità che ha costituito il motivo di successo di molte imprese italiane negli ultimi anni, ma non di tutto il paese. Questa modalità di sviluppo, oggi limitata a un gruppo troppo ridotto di imprese e di territori, richiede una disponibilità generalizzata di competenze in grado di comprendere e risolvere problemi complessi, che richiedono creatività e lavoro di squadra, non solo specializzazioni individuali, ma sempre più capacità di rendere fra loro complementari competenze localizzate anche in luoghi lontani fra loro, ma sempre più interconnesse in reti che occorre però saper governare unitariamente, utilizzando appieno intelligenza artificiale e big data. Non bisogna nascondersi però che la digitalizzazione, l’automazione, le nuove tecnologie possono portare a una chiara divaricazione nelle competenze e nei livelli formativi richiesti, creando sempre nuove fratture sociali. Da una parte vi sono attività ad alto valore aggiunto che richiedono un lavoro di squadra fortemente interattivo e interdisciplinare. Si tratta di un lavoro tutelato e stabile, sempre più orientato a offrire servizi di qualità, che possono essere proposti anche in remoto, anche da casa, essendo tutti lavori svolti tramite computer e relazioni personali.

Dall’altra parte sussistono attività talmente povere di competenze da non giustificare l’acquisto di complesse macchine automatizzate o di conoscenze tecniche più elaborate. Questa divaricazione si accompagna sempre più, anche nel nostro paese, a polarizzazioni sociali, e ora anche etniche, che possono essere focolai di un malessere crescente e generare all’interno dello stesso corpo sociale diffidenze e paure, che sono diventate in America, in Europa e anche in Italia la culla di populismi che, dove hanno conquistato il vertice dello Stato, non possono che determinare nuove tensioni irrisolte. Questione centrale dell’Italia di questi nostri giorni è quindi la qualità professionale, civile, personale delle nostre risorse umane, ma anche della classe dirigente, che ha il compito di traghettare il paese fuori dalla palude in cui è finito da troppo tempo. Se il vero vincolo alla crescita del paese è dato dalla qualità delle nostre risorse umane, allora la scuola diviene il perno di ogni politica di rilancio. Abbiamo bisogno di più scuola, ma soprattutto di una scuola che si liberi delle scorie del Novecento, per appropriarci di una scuola che permetta ai ragazzi di vivere nel loro futuro, con quel profondo bisogno di ricostruire comunità solidali che anni di individualismo e populismo hanno svuotato di quell’identità che la nostra Costituzione ancora ci indica. Da anni le istituzioni internazionali segnalano come l’Italia sia al di sotto della media dei paesi sviluppati per spesa pubblica in educazione, università e ricerca [OECD 2019], e anche nella disponibilità di quelle competenze rivolte alla risoluzione dei problemi complessi, le cosiddette problem-solving skills, che oggi sembrano essere sempre più rilevanti per lo sviluppo, il quale a sua volta deve avere sempre più i caratteri di sostenibilità e inclusività[ ]. 3

Le stesse fonti segnalano del resto come si sia acuita negli ultimi anni una divaricazione fra le Regioni del Nord e del Sud del paese, ove si stanno evidenziando pericolosi segnali di una crescente povertà educativa, essa stessa vincolo allo sviluppo.

Per un’analisi più approfondita rimando a Bianchi [2018].

[1] [2]

Sul superamento dei modelli burocratico-fordisti di organizzazione del lavoro sia nell’industria che nelle

pubbliche amministrazioni si veda l’immensa produzione scientifica di Federico Butera. Si veda la dettagliata analisi di Allievi [2020, 96-99].

[3]

III.

I risultati della nostra scuola

1. Il ritardo italiano nei livelli di istruzione Il Rapporto sui livelli di istruzione in Italia dell’ISTAT [2020] ci offre un quadro crudo della nostra situazione: gli italiani sono fra gli ultimi in Europa per livello di istruzione. Mentre nell’Unione europea il 78,7% della popolazione fra i 25 e i 64 anni ha almeno un diploma di scuola superiore, questo dato in Italia scende al 62,2%[ ]. 1

Certamente i giovani italiani sono più istruiti dei loro padri e dei loro nonni, a testimonianza del cammino percorso dal nostro paese negli ultimi quarant’anni, e sarebbe sbagliato disconoscerlo. Nel 2019 avevano almeno il diploma di scuola secondaria superiore [ibidem]:

Classi di età

25-34 anni 35-44 anni 45-54 anni 55-64 anni

% diplomati 76,2

68,3

57,7

50,3

Tuttavia, lo svantaggio dell’Italia rispetto al resto dell’Europa nei livelli di istruzione della popolazione, pur riducendosi nelle classi di età più giovani, resta comunque elevato: la quota di popolazione di 25-34enni con un titolo di studio terziario, cioè con una laurea o un titolo equivalente, in Italia arriva al 19,6% sul totale dei giovani della classe, mentre la media europea è arrivata al 33,2%, con la solita differenza fra Nord e Sud Europa, che diviene ancora più evidente all’interno del nostro paese. Quindi se la media europea è uguale a 100, per i laureati il dato per l’Italia scende a 59. Va evidenziato a questo proposito che il titolo di studio influenza anche la possibilità di trovare un’occupazione, tanto che tra i 25-34enni il tasso di disoccupazione per chi ha un basso titolo di studio è più che doppio rispetto a chi è laureato[ ]. 2

L’Unione europea aveva considerato come obiettivo fondamentale per una «società della conoscenza» la presenza di almeno il 40% di giovani fra i 30 e i 34 anni laureato. Nel 2019, in Italia, la quota di giovani laureati non cresce e rimane bloccata al 27,6%, ovvero sotto di 13 punti percentuali rispetto all’obiettivo fissato. Mentre l’Unione europea ha già superato

questo traguardo, l’Italia resta dunque al penultimo posto nell’UE, seconda solo alla Romania. Tuttavia è nelle differenze fra uomini e donne che si registrano le disuguaglianze più stridenti, evidenziando un divario più marcato rispetto alla media UE: nonostante i livelli di istruzione delle donne siano più elevati – una giovane su tre è laureata, mentre solo un giovane su cinque ha una laurea – il tasso di occupazione femminile è molto più basso di quello maschile: il 56,1% delle femmine, contro il 76,8% dei maschi, ha un lavoro[ ]. 3

La distanza dalla media europea è ancora più rilevante se si considerano i giovani stranieri[ ]. 4

L’ISTAT sottolinea che la bassa quota di giovani con un titolo terziario, cioè il livello universitario, risente anche della molto limitata disponibilità di corsi erogati dagli istituti tecnici superiori. Nonostante essi siano diffusi solo in alcuni paesi europei, in Spagna e in Francia danno origine a circa un terzo dei titoli terziari conseguiti, mentre in Italia gli istituti di questo tipo (cioè corsi di due anni postdiploma fortemente professionalizzanti) oggi formano poche migliaia di studenti.

2. Le nuove disuguaglianze fra territori e persone Se dunque esistono ancora significative disuguaglianze fra le persone, negli ultimi anni è aumentato considerevolmente il divario territoriale all’interno del nostro paese: nel Mezzogiorno si laurea circa un giovane su cinque, contro poco meno di uno su tre del Centro-Nord. Nel 2019 nel Nord si è laureato il 31,4% dei giovani, nel Centro il 31,3% e nel Mezzogiorno il 21,2%. Nel complesso i livelli educativi della popolazione residente nel Mezzogiorno sono più bassi di quelli registrati nel Centro-Nord: poco più della metà degli adulti ha conseguito almeno il diploma di scuola secondaria superiore e nemmeno uno su sei ha raggiunto un titolo terziario, con una differenza sostanziale con il Centro-Nord. Se nel Mezzogiorno le donne che raggiungono una laurea aumentano considerevolmente la loro partecipazione al mercato del lavoro e riducono il divario con gli uomini e con le donne del Centro-Nord, i tassi di occupazione femminile nel Mezzogiorno restano molto più bassi che nel resto del paese e quelli di disoccupazione molto più alti, anche tra chi ha un titolo di studio elevato. E poi ci sono i cosiddetti NEET (Neither in Employment nor in Education and Training), cioè i giovani che non lavorano né sono inseriti in un percorso scolastico o formativo. Il popolo dei NEET in Italia è salito alle stelle durante la recessione del 2009, poi ha cominciato a scendere a partire dal 2015, ma dopo dieci anni la quota di NEET in Italia è la più elevata tra i paesi dell’Unione: l’ISTAT sostiene addirittura che nel 2018 i giovani di 15-

29 anni non occupati e non in formazione siano in Italia 2 milioni e 116.000, pari al 23,4% del totale[ ], contro il 12,9% dell’UE 28. 5

Vediamo adesso il fenomeno dei NEET dal punto di vista del titolo di studio. Per l’ISTAT nel 2018 l’incidenza dei NEET è pari al 22,7% tra chi ha al più un titolo secondario inferiore, sale al 24,8% tra i diplomati, ma scende tra i laureati. Nonostante negli ultimi anni vi siano stati un deciso calo dell’incidenza di NEET tra i laureati, una diminuzione significativa tra i diplomati e una più contenuta tra i giovani con al più la scuola secondaria inferiore (tab. 1), sono proprio i laureati e ancor più i diplomati a registrare nel 2018 un’incidenza di NEET ancora marcatamente superiore a quella del 2008, il che sta a evidenziare una difficoltà del mercato del lavoro a riconoscere il diploma o la laurea come quell’ascensore sociale che a maggiori studi garantisca un migliore posizionamento lavorativo. TAB. 1. Incidenza percentuale dei NEET e riduzione dell’incidenza per titolo di studio,

2018

Scuola secondaria inferiore 22,7 –1,2 Diploma scuola superiore 24,8 –3,5 Laurea

20,2 –6,2

Fonte: ISTAT [2020].

Guardiamo meglio all’interno delle medie nazionali relative a questo fenomeno. Tra le donne, ad esempio, la quota di NEET è del 25,4% (del 21,5% per gli uomini), ma quelle interessate a lavorare sono il 60,8% (contro il 78,5% degli uomini). Tuttavia è nel Mezzogiorno che l’incidenza dei NEET è più che doppia rispetto al Nord e molto più alta di quella rilevata al Centro. Anche il miglioramento registrato dal 2015 è stato più forte al Centro-Nord, ampliando così il differenziale territoriale. Peraltro, nel Mezzogiorno il gruppo dei NEET interessati a entrare o rientrare nel mercato del lavoro è più numeroso di quelli del Nord e del Centro (tab. 2). TAB. 2. Incidenza percentuale dei NEET, riduzione annuale e disponibilità a rientrare al

lavoro per area geografica, 2018

Nord 15,6 –3,2 60,4 Centro 19,6 –2,9 60,4 Sud

33,8 –2,0 75,1

Fonte: ISTAT [2020].

Tra gli stranieri i NEET sono il 33,5% contro il 22,2% degli italiani. Tale differenza è dovuta quasi esclusivamente alla componente femminile (sono il 43,5% le straniere, il 23,2% le italiane), mentre è praticamente nulla tra gli uomini (1,4 punti). Puntiamo adesso l’attenzione sul momento delicatissimo della transizione dalla scuola al lavoro (tab. 3). Per misurare il fenomeno l’ISTAT utilizza il tasso di occupazione dei 2034enni, con un diploma o una laurea conseguiti negli ultimi tre anni. Nel 2018, in Italia, i valori sono marcatamente inferiori a quelli medi UE 28 (compresa la Gran Bretagna) e mettono bene in luce le forti criticità nel momento della transizione dalla fase formativa al mercato del lavoro e le evidenti carenze nel raccordo tra i due mondi. TAB. 3. Tasso di occupazione dei giovani (20-34 anni) con diploma o laurea conseguiti

negli ultimi tre anni



Totale Diplomati Laureati

Italia 56,5 50,3

62,8

UE

85,5

81,6 76,8

Fonte: ISTAT [2020].

A livello territoriale, nell’ultimo quadriennio la ripresa dell’occupazione tra i giovani in transizione dalla scuola al lavoro è stata più accentuata nel Nord, ampliando il divario con il Mezzogiorno specialmente per i diplomati. Come si vede nella tabella 4, nel 2018 il tasso di occupazione a uno-tre anni dalla laurea è quasi doppio nel Nord rispetto al Mezzogiorno; il tasso a uno-tre anni dal diploma scende a meno della metà nel Mezzogiorno, attestandosi a meno di un terzo dei giovani meridionali, a testimonianza di una frattura fra scuola e sviluppo. A margine di questi dati l’ISTAT segnala negli ultimi quattro anni una ripresa occupazionale più intensa per la componente maschile diplomata e per quella femminile laureata, segnalando quindi quanto sia ancora rilevante la discriminazione di genere nel nostro paese.

TAB. 4. Tasso italiano di occupazione per area geografica dei giovani (20-34 anni) con

diploma o laurea conseguiti negli ultimi tre anni



Diplomati Laureati

Nord 65,7

77,6

Sud

32,6

41,3

Italia 50,3

62,8

Fonte: ISTAT [2020].

Dobbiamo ora approfondire meglio il tema della dispersione scolastica e della nuova povertà educativa che si nasconde dietro gli effettivi esiti scolastici. A questi dati bisogna aggiungere qualche riflessione sull’emigrazione degli italiani all’estero. Le fonti ufficiali dichiarano che tra il 2014 e il 2019 si è trasferito all’estero oltre un milione di italiani, ma secondo Allievi [2020] questo dato è fortemente sottostimato, tanto che nel 2018 a fronte dei 128.000 espatriati ufficiali – cioè registrati all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero – vi sarebbero state circa 300.000 uscite a fronte di circa 47 rientri [ibidem, 53]. Ciò che invece appare certo è che il livello di istruzione degli emigranti odierni è molto più alto di coloro che rimangono in Italia, tanto che il tasso di emigrazione è doppio fra i laureati e i diplomati rispetto a chi non ha un titolo di studio, evidenziando come la nuova emigrazione italiana dreni soprattutto fra coloro che hanno le competenze più necessarie per lo sviluppo[ ]. 6

3. Una nuova povertà educativa Il Rapporto finale del Comitato degli esperti del ministero dell’Istruzione, consegnato il 13 luglio 2020 (d’ora in poi semplicemente Rapporto finale), pone l’enfasi sulla dispersione scolastica e sull’impatto di una nuova povertà educativa sullo sviluppo del paese. Il documento afferma che il tasso di dispersione scolastica è certamente migliorato negli ultimi quindici anni, passando dal 20,8% del 2006 al 13,3% del 2016, tuttavia il miglioramento è avvenuto in modo disomogeneo, con forti differenze tra le diverse Regioni rispetto al raggiungimento dell’obiettivo, stabilito dall’UE, del 10% entro l’anno 2020 in tutta Europa. Rispetto al traguardo UE, il Veneto raggiunge nel 2019 l’8% di abbandoni, ma la Sicilia e la Sardegna si fermano al 24% e la Campania al 23%, con punte più alte di quasi 10 punti nelle aree metropolitane. Per dare una dimensione del fenomeno si pensi che dei

515.000 ragazzi che nel 2014 hanno sostenuto l’esame in terza media, cinque anni dopo ne ritroviamo solo 350.000 circa in quinta superiore. Il Rapporto finale precisa tuttavia che: Se l’aspetto più noto della dispersione è quello esplicito, è la dispersione implicita a preoccupare, dato che i suoi effetti a livello individuale e collettivo sono tutt’altro che irrilevanti. I dispersi «impliciti» sono infatti coloro che, anche se conseguono un titolo o un diploma, non possiedono le competenze adeguate ad affrontare in maniera agevole la vita adulta.

I risultati delle rilevazioni nazionali dell’INVALSI [2019] ci dicono che la dispersione scolastica implicita è un problema che riguarda un ragazzo su cinque[ ]. 7

Le tabelle 5 e 6 raffigurano in maniera plastica il malessere italiano[ ]. Considerando il livello 3 come livello di adeguato raggiungimento dei traguardi per ogni grado di studio secondo le Linee-guida ministeriali, l’INVALSI [ibidem, 9] giunge a risultati estremamente preoccupanti, dichiarando che al grado 8, cioè alla licenza media, quasi un ragazzo su tre non raggiunge il livello adeguato di competenze (in base alle Indicazioni nazionali) nella comprensione di un testo in italiano e nella soluzione di un problema di matematica, mentre al grado 13, cioè all’età del diploma, questo esito negativo riguarda nel Sud e Isole il 50% dei ragazzi per la lingua italiana e il 60% per la matematica[ ]. 8

9

TAB. 5. Percentuale di alunni che non raggiungono il livello 3 di competenza in italiano



8o grado 10o grado 13o grado

Nord-Ovest 30

21

22

Nord-Est

28

20

23

Centro

32

29

34

Sud

40

40

46

Sud e Isole

46

44

50

Fonte: INVALSI [2019].

TAB. 6. Percentuale di alunni che non raggiungono il livello 3 in matematica



8o grado 10o grado 13o grado

Nord-Ovest 32

25

27

Nord-Est

28

22

26

Centro

35

37

43

Sud

48

51

55

Sud e Isole

56

57

60

Fonte: INVALSI [2019].

L’ultima considerazione fa riferimento alla pubblicazione il 19 giugno 2020 da parte della Commissione europea del Digital Economy and Society Index (DESI), cioè dell’indice composto che misura le capacità e le competenze di cui dispone un paese in ambito digitale (figg. 2 e 3). Tenendo conto di condizioni di connettività, disponibilità di capitale umano e competenze adeguate, uso dei servizi di internet, integrazione delle tecnologie digitali e servizi pubblici digitali, la Commissione europea classifica l’Italia fra gli ultimi in Europa, seguita solo da Romania, Grecia e Bulgaria. Tuttavia, se nella connettività il nostro paese è appena sotto la media europea, è proprio nella disponibilità di competenze e capitale umano adeguato che l’Italia risulta definitivamente ultima fra i paesi europei, rendendo esplicito il grado di impreparazione con cui il nostro paese si è presentato all’appuntamento con la rivoluzione digitale e da ultimo con lo spettro del COVID-19. E quindi non è un caso che il nostro paese, con i più bassi tassi di istruzione d’Europa, sia anche il paese che negli ultimi vent’anni – gli anni che abbiamo chiamato dell’economia della conoscenza – è quello cresciuto meno di tutti. Il COVID-19 ha esasperato queste fragilità di sistema, aumentandone ancor più le disuguaglianze, ma nel contempo minando il potenziale di crescita dell’intero paese. Tutto male quindi? Certamente no. L’Italia ha fatto passi da gigante dal dopoguerra e sono decine e decine gli istituti scolastici che potremmo definire di eccellenza, non di meno i numeri sono numeri e ci descrivono un paese in cui il prolungato sottoinvestimento in educazione ha generato effetti strutturali che pesano significativamente sul suo stesso sviluppo.

FIG. 2. DESI: indice composito. Legenda: AT = Austria, BG = Bulgaria, BE = Belgio, CY = Cipro, CZ = Repubblica Ceca, DE = Germania, DK = Danimarca, EE = Estonia, ES = Spagna, EU = Unione europea, FI = Finlandia, FR = Francia, GR = Grecia, HR = Croazia, HU = Ungheria, IE = Irlanda, IT = Italia, LT = Lituania, LU = Lussemburgo, LV = Lettonia, MT = Malta, NL = Paesi Bassi, PL = Polonia, PT = Portogallo, RO = Romania, SE = Svezia, SI = Slovenia, SK = Slovacchia, UK = Regno Unito. Fonte: Commissione europea.



FIG. 3. DESI: indice risorse umane. Legenda: AT = Austria, BG = Bulgaria, BE = Belgio, CY = Cipro, CZ = Repubblica Ceca, DE = Germania, DK = Danimarca, EE = Estonia, ES = Spagna, EU = Unione europea, FI = Finlandia, FR = Francia, GR = Grecia, HR = Croazia, HU = Ungheria, IE = Irlanda, IT = Italia, LT = Lituania, LU = Lussemburgo, LV = Lettonia, MT = Malta, NL = Paesi Bassi, PL = Polonia, PT = Portogallo, RO = Romania, SE = Svezia, SI = Slovenia, SK = Slovacchia, UK = Regno Unito. Fonte: Commissione europea.

Non solo si apre una nuova «questione meridionale», basata essenzialmente su una povertà educativa, che diviene focolaio di nuova povertà materiale, ma sempre più chiaramente l’accumularsi di disuguaglianze riduce l’area che può trainare il paese verso processi di innovazione. In altre parole in questi anni le divergenze sono aumentate dimostrando una fragilità dell’intero corpo nazionale che pone il tema dell’educazione come la vera questione dell’unità nazionale oggi. È tuttavia giunto il tempo di esplorare più a fondo il rapporto tra educazione e sviluppo, domandandoci quali siano stati i compiti che nella storia dell’Occidente la società ha affidato alla scuola, come questi abbiano influito sulla sua organizzazione e come la scuola sia stata rilevante per determinare le condizioni per lo sviluppo.

In altre parole, assumendo uguale a 100 la media europea dei cittadini aventi almeno un diploma superiore,

[1]

l’Italia si ferma a 79. Va ancora peggio se ci confrontiamo con la Germania che è a 110 rispetto a una media europea pari a 100. Sul totale della popolazione fra i 25 e i 64 anni questo dato può essere influenzato dai ritardi accumulati nel

[2]

passato – come abbiamo visto i vecchi sono meno istruiti dei giovani –, ma l’ISTAT segnala che anche l’attuale tasso di crescita del numero dei laureati è più lento in Italia rispetto agli altri paesi dell’Unione, con un incremento nell’ultimo quinquennio di 2,7 punti contro quello di 3,9 punti a livello europeo. All’aumentare del livello di istruzione il differenziale si riduce: le donne in possesso di un diploma hanno un

[3]

tasso di occupazione di 25 punti superiore a quello delle coetanee con basso livello di istruzione e la differenza tra laurea e diploma è di 16,6 punti, con scarti molto più alti degli uomini per i quali la differenza fra i tre livelli non è così marcata. Nel 2019, in Italia, solo il 12,8% dei 30-34enni stranieri ha un titolo terziario, a fronte del 38,7% nell’UE.

[4]

Ancora più negativo il confronto con il 34,3% della Germania, il 31,3% della Spagna, il 42,8% della Francia e addirittura il 55,7% del Regno Unito, dove le politiche dell’immigrazione hanno teso a «importare» laureati per far fronte ai loro ritardi interni. Secondo l’ISTAT, il 39,2% dei NEET cerca attivamente un lavoro, il 30% non lo cerca ma sarebbe disponibile a

[5]

lavorare, il restante 30,8% non cerca un impiego e non è disponibile. Si tratta di circa 652.000 giovani, per i quali il prolungarsi di tale condizione di sospensione può comportare non solo danni psicologici, ma crescenti difficoltà di inserimento lavorativo. Su questo punto Allievi, riportando anche la ricerca di Saint-Blancat [2017], dimostra come il 35% di questi

[6]

nuovi emigranti venga dal Nord Italia e quasi un quarto abbia fra i 34 e i 49 anni (a cui segue un 22% di 18-34enni); sottolinea inoltre l’elevato livello educativo dei nuovi emigranti, che ricercano in Francia, Germania e Gran Bretagna opportunità occupazionali nei settori a più alto contenuto di conoscenza [Allievi 2020, 54-55].

L’INVALSI (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione) considera

[7]

i livelli di raggiungimento delle competenze in ragione del grado di istruzione: ad esempio il grado 8 è pari alla licenza di scuola media inferiore, il grado 10 corrisponde all’obbligo scolastico (i sedicenni) e il grado 13 al diploma. «Differenze analoghe a quelle che si riscontrano fra le macroaree in italiano e in matematica si osservano

[8]

anche nella distribuzione degli studenti per livello di conoscenza della lingua inglese, con percentuali che crescono nel corso dell’itinerario scolastico in tutto il paese mentre nel contempo si ampliano le differenze tra le macroaree: al grado 13 la percentuale di studenti che non raggiunge il livello previsto (B2) dalle Indicazioni nazionali e dalle Linee-guida per il secondo ciclo è di circa il 50% nelle due macroaree del Nord-Italia, del 64% nel Centro, del 79% nel Sud e di ben l’84% nel Sud e Isole» [INVALSI 2019, 10]. [9]

Alla rilevazione 2019 dei livelli di apprendimento degli studenti delle scuole italiane hanno partecipato:

28.716 classi di seconda primaria (grado 2) per un totale di 525.563 alunni; 29.670 classi di quinta primaria (grado 5) per un totale di 560.550 alunni; 29.231 classi di terza secondaria di primo grado (grado 8) per un totale di 572.229 alunni; 26.845 classi di seconda secondaria di secondo grado (grado 10) per un totale di 541.147 alunni; 25.884 classi di quinta secondaria di secondo grado per un totale di 479.482 alunni [INVALSI 2019, 7].

IV.

Scuola, Stato, nazione

1. La formazione delle classi dirigenti e la formazione della comunità L’educazione e la cultura sono sempre state monopolio delle classi dominanti e, anche laddove l’educazione dei figli era affidata ai padri, nella perpetuazione dei privilegi familiari, questa funzione era sostenuta e regolata dallo Stato, a garanzia del mantenimento dell’ordine costituito. Nel libro III della Repubblica, scritto tra il 390 e il 360 a.C., Platone descrive sia l’organizzazione dello Stato ideale, sia il suo modello organizzativo delle attività educative. Nello Stato ideale proposto da Socrate – adottato da Platone come voce narrante – la divisione del lavoro è infatti alla base della creazione di una comunità di cittadini, i quali sono costretti a collaborare specializzandosi individualmente (Repubblica 369e). Quindi vi saranno tre classi: gli artigiani, per procurare i beni materiali a tutta la comunità, i guardiani, per proteggere lo Stato, i governanti per reggere lo Stato con saggezza. Queste classi non sono caste attribuite alla nascita, ma è durante l’educazione che avviene la selezione e quindi viene determinato a quale attività l’individuo sia più adatto nell’interesse della comunità. Il sistema educativo aveva quindi una funzione di selezione e preparazione delle classi dirigenti nello Stato ideale [Gradstein, Justman e Meier 2005, 10]. Nell’antica Roma la funzione educativa, principalmente legata all’addestramento militare, era in carico alla famiglia, ma aveva una funzione pubblica, dovendo garantire la perpetuazione degli ordini sociali che strutturavano lo Stato. Negli anni della decadenza questa funzione passò alla Chiesa, così come la funzione educativa venne acquisita in tutti i regimi teocratici direttamente dalle scuole religiose, che divennero il perno – sia in Occidente sia in Oriente – della stessa organizzazione di uno Stato la cui legge civile era basata sulla norma religiosa. Nonostante diverse iniziative imperiali in epoca carolingia, l’educazione divenne sempre più monopolio della Chiesa [D’Amico 2010, 4-10]. È in questa prospettiva che la scuola come funzione comunitaria divenne un fondamento della Riforma protestante. Il superamento del ruolo centrale del clero nella pratica religiosa imponeva un’alfabetizzazione di base di tutta la popolazione, per poter accedere

direttamente alla lettura biblica e contestualmente alla musica come base stessa della preghiera collettiva. Lo stesso Lutero produsse la prima traduzione della Bibbia in tedesco. L’opera, con le illustrazioni di Lucas Cranach il Vecchio, fu fondamentale nello sviluppo di quella lingua e venne realizzata con un immenso lavoro di squadra tra il 1522 e il 1534. Scritta nel tedesco popolare della Sassonia per renderla più accessibile alla gente comune, fu diffusa capillarmente grazie alla stampa inventata da Gutenberg quasi un secolo prima. Questa imponente operazione consolidò quel principio di un rapporto diretto fra pratica religiosa e comportamento civile quale fondamento della costruzione di una comunità prospera e autonoma, che Max Weber individua come l’elemento essenziale nella nascita del capitalismo. Qui nasce la nuova funzione della scuola, non solo come perpetuazione della classe dirigente, ma come luogo di strutturazione degli elementi fondativi di una comunità, che – assumendo carattere unitario ed esclusivo – si consoliderà con l’affermazione dello Stato nazionale. La traduzione della Bibbia di Lutero non solo sottrae la Sacra Scrittura al latino monopolizzato dalla casta ecclesiastica, restituendo al popolo un testo fondamentale, ma «normalizza» questa lingua, traducendo le diverse forme orali della comunicazione locale in una sua unitaria definizione scritta, dettando a tutti i popoli di origine germanica, non sempre fra loro comunicanti, una comune lingua identitaria[ ]. 1

D’altra parte questa diffusione sistematica della comune lingua, insegnata come strumento base di diffusione di confessioni cristiane protestanti, diviene lo strumento di costruzione di un’etica diffusa, basata su comuni principi costitutivi di comunità gelose della propria identità e delle proprie regole.

2. Origini del capitalismo e affermazione dello Stato nazionale L’Inghilterra, dopo la frattura con la Chiesa di Roma risalente a Enrico VIII e il lungo regno di Elisabetta, che ristabilì la Chiesa anglicana come Chiesa nazionale, cadde alla metà del Seicento in una lunga guerra civile tra realisti e fautori del Parlamento, guerra così sanguinosa che Hobbes giunse a teorizzare il bisogno di uno Stato assoluto per porre fine alla condizione animalesca degli uomini. Dopo il ritorno del re e il tentativo di riportare il Regno nell’alveo della Chiesa cattolica, nel 1688-89 una nuova rivolta, definita «Rivoluzione gloriosa», cacciò il re «per grazia di Dio» e il Parlamento chiamò a regnare, ma non a governare, un re «per volontà della nazione». Fu in quegli anni che si avviò quel profondo mutamento sociale che predispose l’Inghilterra per quella straordinaria trasformazione che

fu la Prima rivoluzione industriale, in un contesto di eccezionale fervore delle arti e delle scienze. Nel 1690 John Locke dette poi forma teorica a questa transizione politica nei Due trattati sull’arte del governo, in cui il potere era attribuito a un esecutivo legittimato da un Parlamento rappresentante dei commons, cioè di quella borghesia produttiva che fondava il proprio potere non nel diritto di nascita, ma nella capacità individuale di produrre ricchezza; intanto, nel 1687, Isaac Newton aveva pubblicato Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, che si affermò rapidamente come il canone di una nuova scienza sperimentale, superando in via definitiva i presupposti metafisici che avevano governato il sapere fino a quel tempo. Questo lungo percorso richiedeva tuttavia che una nuova classe dirigente rappresentativa disponesse di modalità di educazione e selezione a cui potessero accedere sempre più anche i borghesi, che si affermavano con le proprie capacità, contrapponendosi, ma sempre più anche integrandosi, alla classe aristocratica, già dominante. Nel secondo Trattato, Locke sintetizza le sue riflessioni sull’educazione indirizzandosi alla formazione del gentleman, che deve saper coniugare la tradizione nobiliare con l’inserimento nella nuova vita produttiva, integrando i principi della rispettabilità e dell’onore all’utilizzo delle nuove conoscenze e delle nuove tecniche. Nel frattempo occorreva promuovere working schools per i figli dei poveri, che dovevano fornire forza lavoro per quelle nascenti attività produttive, che divenivano sempre più il modo con cui la nuova classe dirigente si affermava anche dal punto di vista politico. La Rivoluzione industriale divenne il luogo dell’affermazione di questa nuova classe borghese, che per la propria legittimazione al potere aveva bisogno di una scuola in cui formare non solo la sua nuova classe dirigente, ma anche i valori unitari di un paese in crescita e nel contempo ne fornisse competenze adeguate per sostenere lo sviluppo. Un chiaro riferimento al rapporto tra organizzazione della produzione, competenze ed educazione come base del nuovo ordine sociale si trova nella Ricchezza delle nazioni, che Adam Smith pubblica nel 1776 e che costituisce il manifesto della nuova Rivoluzione industriale. Smith scrive un trattato in cui la ricchezza di una nazione non è data dai tesori del re o dal latifondo dei nobili, ma dal lavoro, o meglio dalla capacità di organizzare le competenze, le abilità, le capacità critiche delle persone, che peraltro si accrescono proprio nel continuo apprendimento legato all’accumularsi dell’esperienza. Per Smith i miglioramenti nelle capacità produttive del lavoro, e la maggior parte delle skills, dexterity and judgements (competenze, capacità manuale e conoscenze critiche), sono effetti della capacità di organizzare la produzione [Smith 1976, 13].

Come ricorda Robbins [1956, 33-35], il ruolo dello Stato in Smith non si può ridurre a quello di un irrilevante guardiano notturno [ibidem, 35]. Tre sono le funzioni principali dello Stato: innanzitutto il dovere di difendere la società dalla violenza che può venire dall’esterno, il dovere di tutelare ogni membro della società dall’ingiustizia e dall’oppressione di qualche altro membro della società, e infine il dovere di realizzare quelle opere pubbliche che nessun privato potrebbe profittevolmente realizzare. Quindi difesa [Smith 1976, 689], giustizia [ibidem, 709] e lavori pubblici e pubbliche istituzioni sono necessari per il funzionamento del paese e il suo sviluppo [ibidem, 723], ed è a quest’ultimo proposito che Smith distingue le istituzioni rivolte all’educazione dei giovani [ibidem, 758] e quelle per l’educazione di persone di tutte le età [ibidem, 788]. Discutendo delle entrate e delle spese dello Stato, Smith analizza i metodi di insegnamento già in vigore nel Regno, esplicitando che lo Stato dovrebbe favorire, anzi imporre un’educazione di base – leggere, scrivere e far di conto – a tutta la popolazione, traendone in cambio una forza lavoro molto più dotata di quelle competenze, capacità manuali e critiche che sono la base stessa della ricchezza della nazione, ma anche più incline a imparare rapidamente le nuove tecniche di produzione, legate a un’organizzazione più avanzata della produzione stessa. Ugualmente pone l’enfasi sull’educazione delle persone di tutte le età, ricordando in questo il ruolo che ha avuto la Riforma protestante nelle isole britanniche, come forte propulsore di un’educazione religiosa diffusa anche nelle più piccole comunità. Il peso della Riforma fu tra gli elementi fondanti delle colonie americane, sorte con l’arrivo dei Padri pellegrini, che insediarono sulle coste del Nuovo mondo una colonia puritana, in cui la Bibbia era il testo fondamentale di un sistema educativo rivolto alla formazione di cittadini di piccole comunità autonome e gelose, stabilendo fin dall’inizio quel carattere decentrato e autoregolato che il sistema educativo mantenne anche dopo la fondazione degli Stati Uniti. Thomas Paine, uno dei padri fondatori del nuovo Stato, scrisse che un paese ben governato non doveva lasciare nessuno senza istruzione, diversamente dai regimi monarchici e aristocratici, che invece vivevano dell’ignoranza del popolo. Paine propose un sistema di voucher con cui lo Stato poteva finanziare l’educazione dei poveri [cit. da Gradstein, Justman e Meier 2005, 13]. In Francia invece la Rivoluzione vide nella scuola il modo unitario per formare quella Nazione che diveniva nuova fonte di legittimazione del potere centrale. Napoleone codificò definitivamente questa visione della scuola, il cui compito principale era uniformare comportamenti individuali e azioni collettive a un principio di Stato nazionale, con una gestione centralizzata e strutturata amministrativamente come l’organizzazione dello

Stato, quindi con un ministro, che tramite i suoi prefetti giungesse a gestire e controllare l’intero apparato educativo fino all’ultima scuola dell’ultimo villaggio. La legge Guizot del 1833 estese in via definitiva il controllo statale su tutte le scuole, sostituendo in questo il ruolo che la Chiesa cattolica aveva avuto fino a quel momento; mentre la legge Ferry del 1882 rese obbligatoria, universale e gratuita la scuola di base e affidò ai lycées e ai collèges il compito di selezionare le classi dirigenti. Solo alla fine della Seconda guerra mondiale a essi si aggiunsero i collèges techniques per la formazione tecnica e professionale delle classi svantaggiate, creati anche per dotare il paese di forze produttive in grado di sostenere la crescita del paese stesso, in una fase in cui la competizione internazionale diveniva cruciale per la sua affermazione come grande potenza su scala mondiale. Nell’Impero asburgico l’istruzione primaria obbligatoria fu introdotta dall’imperatrice Maria Teresa nel 1775 per tutti i ragazzi e le ragazze fra i 6 e i 12 anni, superando la precedente condizione in cui l’istruzione era impartita solo nei collegi religiosi, accessibili per il loro costo solo alle classi più elevate. Mentre per i maschi era prevista la possibilità di iscriversi successivamente a scuole superiori o tecniche, per le femmine questa opportunità si aprì solo nel 1892. L’estensione a tutti i sudditi dell’Impero di un’istruzione pubblica di base diveniva un elemento omogeneizzante di un’entità statale che si estendeva dalla Polonia alla penisola italiana. Tuttavia fu in Prussia che l’educazione divenne in modo esplicito lo strumento di affermazione di una crescente volontà di espansione economica e di affermazione politica. Landes [1978] illustra la progressiva emersione della Prussia all’interno del mondo germanico come Stato guida di un processo aggregativo che avrebbe portato, dopo la sconfitta di Napoleone III, alla fondazione del nuovo Reich tedesco, con imperatore proprio il sovrano di Prussia. Già nel 1717 e nel 1737 Federico Guglielmo I aveva emanato ordinanze per diffondere l’obbligo scolastico, mantenendo uno stretto controllo su scuole che rimanevano essenzialmente governate da religiosi; nel 1794 venne stabilita la cosiddetta Volksschule, la scuola elementare, come istituzione dello Stato finanziata essenzialmente dalla tassazione locale. Nel 1817 venne creato il ministero dell’Educazione e degli Affari religiosi, mantenendo sempre la stretta commistione fra scuola pubblica e disciplina luterana. La scuola prussiana forniva infatti ai propri allievi gli elementi fondanti di una cultura basata sul tedesco come unica lingua insegnata, imponendo così l’assimilazione della popolazione polacca nella cultura germanica, ma disponeva questo insegnamento in uno schema etico, in cui obbedienza e rigore, derivati da una stretta osservanza luterana, divenivano i cardini

educativi dei sudditi di un Regno che del resto assumeva sempre più caratteri militari, alimentato dalla tradizione che ne voleva le origini nell’antico Stato monastico dei Cavalieri teutonici. Bloccata a oriente dall’Impero zarista, la Prussia si orientò verso occidente per espandere la propria potenza verso il vecchio corpo di quell’Impero germanico che da secoli altro non era che un agglomerato di Stati feudali retti da principi, che si vantavano di essere grandi elettori di un imperatore che da Carlo V era appannaggio degli Asburgo. Questa espansione verso occidente richiedeva però non solo una potenza militare ma soprattutto una potenza economica, per poter competere con la Gran Bretagna, che in quel tempo deteneva la superiorità tecnologica. Landes [ibidem, 183] ricorda che in questa rincorsa della Prussia, entrata da late-comer nel gioco delle potenze europee, un ruolo fondamentale giocò proprio la fondazione di un sistema educativo che poi avrebbe fortemente qualificato la successiva storia tedesca. Accelerare l’acquisizione di competenze e conoscenze tecniche diveniva quindi uno strumento necessario e indifferibile non solo per garantire l’indipendenza tecnologica del paese, ma perché quest’ultimo si potesse affermare come potenza emergente. Così, accanto al percorso educativo fondato sul Gymnasium per le classi dirigenti e a una varietà di corsi locali di arti manuali, disegno industriale e rudimenti di calcolo promossi dalle corporazioni o dai Comuni, lo Stato prussiano e uno dopo l’altro tutti gli Stati tedeschi passarono alla fondazione di scuole tecniche statali di grado intermedio (Gewerbeschulen), distribuite a livello provinciale, e di istituti per la formazione superiore (HauptbergwerksInstitute), i cui percorsi di studio portavano poi alle technische Universitäten, apice della struttura educativa professionalizzante tedesca. Federico il Grande, con il suo General-Landschul-Reglement, del 1763, aveva imposto la scuola per entrambi i sessi dai 5 ai 13 anni. La Technische Universität di Berlino fu fondata nel 1770 su iniziativa di Federico II di Prussia e rifondata nel 1799. Nel 1821 venne fondata la prima scuola tecnica, in cui si studiavano matematica, fisica, chimica, meccanica e le loro applicazioni industriali, dando il via a quel sistema duale che ancora oggi è il punto di forza del sistema educativo e dello sviluppo economico tedeschi. Anche la Francia postnapoleonica reagiva alla sfida inglese, rafforzando quelle grandes écoles create già alla fine del Settecento per formare i quadri tecnici dello Stato – come l’École des arts et métiers (1780), l’École polytechnique (1804) e le associate École des mines ed École des ponts et chaussées – per darsi una struttura educativa che al percorso classico aggiungesse un percorso educativo professionalizzante di uguale prestigio [ibidem, 198].

3. La scuola nel Regno d’Italia La nascita della scuola italiana può essere datata 13 novembre 1859, con la legge n. 3725 del Regno di Sardegna, con cui il ministro Gabrio Casati definiva in 380 articoli il funzionamento della scuola del piccolo Stato sabaudo, ma che dal 1861 venne estesa a un paese di 25 milioni di abitanti, unificato assemblando Stati aventi tradizioni e dotazioni educative diverse: dalla Lombardia dove vigevano le leggi di Maria Teresa sull’educazione obbligatoria fino ai 12 anni, agli altri Stati in cui l’educazione rimaneva o familiare o religiosa, in un paese che comunque registrava il 74% dell’analfabetismo fra i maschi e l’84% tra le femmine con punte del 95% nel Mezzogiorno. La legge Casati creava la scuola elementare di quattro anni, ma solo il primo biennio era obbligatorio e gratuito. Dopo aver guidato lo Stato sabaudo fino alla guerra contro l’Austria, Cavour era stato sostituito dal generale Lamarmora, con Rattazzi al ministero degli Interni. Quel governo avrebbe dovuto solo concludere la pace di Villafranca, ma nei fatti portò a termine in pochi mesi le tre leggi – riforma dello Stato, riforma elettorale e riforma della scuola – che divennero poi i pilastri del nuovo Stato. La legge, mai discussa in Parlamento, che porta il nome di Gabrio Casati, rimasto ministro pochi mesi, detta innanzitutto l’ordinamento della pubblica istruzione, definendone minutamente l’organizzazione: al vertice il ministro (Titolo I), poi l’istruzione universitaria (Titolo II), quindi l’istruzione secondaria classica, con i neoistituiti ginnasio e liceo (Titolo III), e l’istruzione tecnica (Titolo IV), e infine la scuola elementare, con l’obbligo scolastico fino agli 8 anni (Titolo V). Questa legge rimase in vigore fino al 1923, quando Giovanni Gentile rimise mano alla scuola italiana[ ]. 2

La legge Casati, che riprendeva le precedenti leggi Lanza e Buoncompagni, presentava essenzialmente una scuola volta a formare la classe dirigente, per la quale era ben sedimentato un percorso costituito da ginnasio, liceo e università, basati su una rigida tradizione umanistica. La scuola era organizzata integrando i due modelli allora vigenti, da una parte quello napoleonico, dall’altra quello prussiano, entrambi centralistici nella direzione, organizzati secondo modelli burocratico-piramidali, che avevano come riferimento organizzativo l’esercito. Coscrizione scolastica e coscrizione militare divenivano quindi i due pilastri per uniformare sotto la bandiera dei Savoia il neonato Regno d’Italia [Bertagna 2020, 60], che veniva sempre più unificato facendo coincidere lo Stato con la sua amministrazione centrale. Al vertice della scuola italiana c’era dunque il ministro, che controllava i livelli territoriali tramite i provveditori – istituiti secondo il modello dei prefetti –, che a loro volta controllavano i presidi e gli ispettori che sovraintendevano alle scuole elementari. Tuttavia questa struttura, che controllava in modo centralistico e gerarchico le attività delle scuole,

affidava la loro gestione agli enti territoriali: la scuola elementare era data in gestione ai Comuni, così come il ginnasio, e l’amministrazione centrale gestiva liceo e università, mentre le scuole tecniche, pur facendo capo alle Province (istituite dal decreto Rattazzi), erano dipendenti dal ministero dell’Agricoltura e del Commercio, quindi fuori dal sistema della pubblica istruzione. Come ben si vede, alcuni dei tratti identitari del nostro sistema scolastico risalgono alla sua fondazione, in una visione in cui la difficile unità nazionale trovava il suo tratto unificante in un’amministrazione centrale in cui confluivano sia le amministrazioni teresiane della Lombardia sia quelle borboniche del Regno delle Due Sicilie, integrate nello schema di ispirazione napoleonico-prussiana dei Savoia[ ]. 3

L’istruzione obbligatoria poteva comunque essere presa in carico dalle famiglie (scuole paterne), così che da una parte le classi superiori avevano modo di evitare le scuole pubbliche, in cui giungevano per definizione allievi dai diversi ceti, e dall’altra i più poveri potevano optare per corsi di formazione professionale istituiti da soggetti privati. Il punto più fragile del sistema era dato dalla formazione degli insegnanti elementari, che veniva demandata ai Comuni e che al più si risolveva in un corso di tre anni. L’obbligo scolastico venne innalzato di un anno dalla legge Coppino del 1877, che sancì quindi l’obbligo scolastico dai 6 ai 9 anni di età. La frase attribuita a Massimo d’Azeglio «Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani» delineava il compito di uniformare le culture dei sudditi del nuovo Regno, dando loro comuni valori di base, annullando le precedenti tradizioni e selezionando una nuova classe dirigente: questo il compito della legge Casati. Quest’ultima rimase in vigore fino alla riforma Gentile, che a sua volta doveva «rifare gli italiani», lasciando spazio negli anni del regime a una scuola il cui compito principale era allineare i giovani ai principi e alle regole del fascismo. Giovanni Gentile, fino al 1924 ministro della Pubblica Istruzione del governo Mussolini, accentuò il ruolo della formazione umanistica. Ai cinque anni di scuola elementare seguivano il ginnasio (cinque anni), che portava al liceo classico e quindi all’università, che divenne il mezzo di istruzione della classe dirigente, oppure tre anni di scuola media a cui seguiva il liceo scientifico, o una scuola tecnica, o magistrale (quattro anni), oppure una scuola di avviamento professionale (tre anni) senza ulteriori sbocchi. È a questa sistematizzazione gentiliana che risale quell’impostazione di una scuola «a scala», che vede al suo vertice il ginnasio-liceo classico, poi il liceo scientifico, le magistrali, le scuole tecniche, che poi si articoleranno anche in scuole professionali, e infine fuori dal sistema statale la formazione professionale per «coloro che non riescono a stare a scuola». Nel corso degli anni anche questa scuola «idealista» venne progressivamente asservita al bisogno di uniformare tutto il paese al

regime, fino alla riforma Bottai del 1939, che tuttavia non venne applicata per lo scoppio della guerra [Charnitzky 1996]. La riforma Gentile venne infatti ben presto riportata all’interno della stretta maglia organizzativa del regime, che prevedeva che già dai 3 anni ogni bambino fosse inquadrato in un’organizzazione paramilitare, assolutamente centralizzata e gerarchica, che prevedeva che gli stessi docenti fossero iscritti al Partito, facendo della scuola il luogo di adesione e conformazione del paese ai valori e ai precetti del fascismo, statuendo inoltre che la classe dirigente dello Stato non si formasse nella scuola, ma al di fuori, secondo canali di formazione politica, che ben poco coincideva con il merito scolastico. Ricordiamo qui che la riforma Gentile rimase in vigore fino al 1962, quando venne chiusa la scuola di avviamento professionale e fu unificata la scuola media, e che questo principio di una classe dirigente da formarsi al di fuori della scuola è una traccia che arriva fino a noi.

[1]

Questa lingua comune verrà riconosciuta nel 1807-8 da Fichte nei suoi Discorsi alla nazione tedesca come

l’elemento fondante della nazione. Nel momento in cui la Prussia viene sconfitta da Napoleone, Fichte tiene diversi discorsi in cui ritiene la lingua tedesca come l’unica «lingua vivente», base dell’identità originaria della nazione germanica e fonte della necessità etica e politica di una sua rinnovata unità. Sulla storia della scuola italiana si veda D’Amico [2010].

[2]

Per questa ultima lettura rimando a Bianchi [2017], in cui rileggo i tratti del processo dell’unità nazionale.

[3]

V.

Formazione della persona e sviluppo

1. I compiti sociali della scuola e la formazione della persona Questa ricostruzione delle origini dei diversi sistemi educativi ci segnala che la scuola ha avuto tre funzioni sociali. 1. Innanzitutto formare la classe dirigente e consolidare la separazione fra le classi. Se nella Repubblica di Platone l’obiettivo della scuola era dato dalla selezione e formazione dei saggi governanti, a prescindere dalla loro nascita, a Roma l’educazione veniva impartita nell’ambito della famiglia per consolidare la separazione di casta; questa tradizione si proietta nel nostro paese fino alla legge Casati e oltre. 2. A questo si aggiunse, con la Riforma protestante, un secondo obiettivo che divenne cruciale nella formazione degli Stati nazionali: la scuola doveva divenire di massa, per formare il popolo ai valori identitari della comunità. In questo, come ricorda Hobsbawm [1991], fondamentale fu la codificazione della lingua, come veicolo non solo di comunicazione interno alla comunità, ma come confine esterno alla comunicazione stessa. 3. Con l’affermazione del capitalismo diveniva quindi essenziale formare i lavoratori e tutto il personale che a diversi gradi gestiva i sistemi produttivi. Per poter affrontare l’Inghilterra nella competizione mondiale, i paesi più arretrati dovettero costruire un apparato di scuole tecniche che fornissero loro in tempi rapidi le abilità professionali divenute necessarie al loro nascente sistema industriale. In particolare la Prussia dimostrò come un investimento massiccio in strutture educative fosse lo strumento strategico per la formazione su larga scala di competenze tecniche, necessarie per consolidare una potenza economica, che diveniva sempre più requisito indispensabile per affermare anche la propria potenza politica e militare. La scuola diviene dunque il luogo in cui si afferma lo Stato nazionale, che attraverso la scuola detta i fondamenti della comunità, proponendone miti e regole, ma anche il luogo in

cui armare il paese delle competenze necessarie per vincere la sfida economica che dominava sempre più l’età dell’imperialismo. La Prussia, primo paese ad avere investito nella scuola, ne estese le regole a tutto il nuovo Impero per uniformarne valori e precetti, che così venivano interiorizzati fino a farne tratti caratteristici dell’intera popolazione. D’altra parte il nazismo in Germania, e il fascismo in Italia, hanno fatto della scuola il loro centro di ideologizzazione delle masse, saldamente inquadrate in un apparato organizzativo che ordinava ogni attimo della vita sociale, pur disponendo che la formazione della classe dirigente del regime avvenisse al di fuori dei percorsi educativi scolastici. Mentre nel dopoguerra sarà proprio la scuola il luogo in cui ricostruire conoscenze, competenze, percorsi di vita, in particolare nei paesi più provati dalle dittature. Ai tre sopra elencati obiettivi sociali, dal Settecento in poi – formazione della classe dirigente, formazione del popolo, formazione dei lavoratori – si unisce un quarto fondamentale obiettivo che emerge sia pur fra molte difficoltà: la formazione della persona, obiettivo che ai nostri occhi risulta oggi preminente. Locke ne scrive all’interno di una visione in cui l’educazione alla libertà e alla tolleranza costituisce la base stessa dello sviluppo, e in Francia, mentre si sviluppa la nuova cultura illuminista, Rousseau scrive Emilio o dell’educazione (1762). Rousseau aveva insegnato che la scuola non avrebbe dovuto aver mai a che fare con «studenti», nomi astratti, bensì sempre con nomi concreti, in carne ed ossa. Non è infatti lo studente che impara, bensì Emilio, con la sua storia, la sua testa, i suoi desideri, le sue esperienze singole, il suo particolare rapporto con il gouverneur, che è ben più di «un impiegato dello Stato» [Bertagna 2020, 59].

Da allora – attraverso l’illuminismo e il romanticismo, il positivismo e l’inquieto Novecento, la scoperta dell’educazione popolare e la difficile affermazione del concetto di individuo come persona a prescindere dalla sua origine, dal suo ceto, dalla sua appartenenza a una casta – si sviluppano teorie ed esperienze educative «dove il bimbo indossa finalmente la veste di soggetto di diritto dei processi educativi» [Frabboni 1974, X][ ]. 1

In particolare, se la scuola nasce sull’onda d’urto di interessi squisitamente politici [ibidem, 4], da un lato dovendo elevare i livelli di alfabetizzazione dei «lavoratori» e dall’altro per potenziare i coefficienti di consenso dei «cittadini», il lungo cammino della scuola pubblica, in particolare della scuola dei più piccoli, si muove nel dopoguerra per liberarsi del suo connotato assistenzialistico, per affermarsi come un servizio per la collettività, in cui il bambino possa sviluppare la propria personalità, la propria affettività e

la propria socialità, principi richiamati nella legge n. 444/1968 che istituisce le scuole dell’infanzia statali. Ciò che emerge sempre più nella letteratura e nelle molte esperienze che si sono accumulate nel nostro paese negli ultimi decenni è che occorre ragionare per diversi ordini di istruzione, perché i bambini crescono, e si modificano i loro linguaggi, i loro bisogni, il loro modo di esprimere affetto e amicizia, ma anche rabbia e delusione. Questo implica un’educazione che risponda a obiettivi generali, ma che parta e si rivolga al singolo bambino, ragazzo, adolescente, come titolare di un diritto alla propria formazione come persona e alla propria partecipazione in una comunità attenta all’inclusione di ognuno[ ]. 2

Da tutto ciò discende la necessità di disporre di un numero di insegnanti proporzionato ai bisogni degli allievi e non ai vincoli di bilancio statale, ma soprattutto diviene fondamentale una formazione di questi insegnanti che permetta di andare oltre ai vincoli amministrativi che hanno organizzato la vita della scuola in epoca fordista, i tempi, i metodi, gli spazi, i programmi a cui ognuno doveva sottomettersi, anziché utilizzare questi come strumenti per un’azione educativa che sfugga alla trappola dell’uniformità, perché nulla è più ingiusto che dare in parti uguali a chi ha avuto di meno.

2. L’economia dell’educazione Su questi obiettivi sociali si concentra anche la più recente letteratura su educazione e sviluppo. Lo studio economico dei sistemi educativi emerge come disciplina nei primi anni sessanta del Novecento, ma il suo concetto fondamentale, come rileva Psacharopoulos [1987, XV], risale a un’attenta lettura di Adam Smith, che individua già nella Ricchezza delle nazioni come il capitale umano sia il fattore dinamico dell’organizzazione della produzione: Smith ritiene infatti che le persone, oltre a una conoscenza di base, possano apprendere dallo stesso lavoro che stanno realizzando, cosicché all’aumentare delle attività aumenta la capacità di specializzarsi e nel contempo di ricercare complementarità con gli altri lavoratori coinvolti nello stesso ciclo produttivo; questo determina un’efficienza dinamica che dipende sia dal livello di istruzione di base, sia dalla capacità di gestire in maniera sistematica un processo di apprendimento. Gli investimenti in educazione di base e continua sono fondamentali per la formazione del capitale umano necessario per generare quegli aumenti di produttività che determinano l’accelerazione nella crescita economica di un paese[ ]. 3

Gary Becker, premio Nobel per l’economia nel 1992, estese il concetto di beni di investimento all’educazione dei figli, considerando proprio come la spesa in educazione

diventi il motore di una spinta alla crescita. Del resto le teorie sullo sviluppo endogeno, portate avanti negli anni ottanta da diversi economisti, fra cui Robert Lucas, Nobel nel 1995, e Paul Romer, Nobel nel 2018, dimostrarono che la crescita economica, prima ancora di essere influenzata da fattori esterni, è dovuta al capitale umano, quindi all’educazione, e al progresso tecnologico, anch’esso legato ai livelli di istruzione e ricerca. Amartya Sen, premio Nobel per l’economia nel 1998, ha sviluppato il concetto di capabilities, che pone al centro della dinamica economica la persona e la sua capacità di realizzare sé stessa, traducendo diritti formali in diritti effettivamente realizzati, indicando proprio il sistema educativo come il principale strumento per lo sviluppo [Sarojini Hart 2012, 275]. Seguendo questo approccio, Martha Nussbaum ha posto in evidenza i diritti dei disabili e delle persone più fragili, come il diritto a vedere riconosciute le loro capabilities quale contributo essenziale alla crescita dell’intera comunità. Ugualmente ampia è la letteratura di political economy dell’educazione, cioè sul rapporto fra organizzazione delle attività educative ed esiti in termini di sviluppo di un paese [Gradstein, Justman e Meier 2005]. Questi diversi approcci hanno dunque ripreso e legato fra loro i temi che abbiamo definito come compiti sociali della scuola. Gli economisti dell’Human Capital Approach hanno posto in evidenza il ruolo della scuola per lo sviluppo di competenze necessarie alla crescita e alla selezione di una classe in grado di dirigere lo sviluppo di un paese; la scuola del Capabilities Approach ha messo in evidenza come il diritto delle persone a realizzarsi sia la base stessa dello sviluppo e come l’eguaglianza nell’esercizio dei diritti sia la base per uno sviluppo sostenibile nel tempo, perché partecipato dall’intera comunità. Sia pur visti da angolature diverse, entrambi gli approcci convergono nel ritenere l’educazione, data dall’istruzione di base e dal successivo costante training educativo, l’elemento fondante della crescita e la base stessa della partecipazione democratica. Convergono anche nel ritenere che se un paese non investe in educazione e in qualità delle strutture educative non solo si condanna a una bassa crescita, ma anche a una crescente disuguaglianza interna, che a sua volta inciderà sulla qualità dello sviluppo e della stessa democrazia, incidendo negativamente sulla formazione della persona e della comunità, sulle competenze necessarie allo sviluppo e infine sulla formazione e selezione della classe dirigente.

3. La rosa dei venti dell’educazione per lo sviluppo Vediamo ora come rileggere i quattro obiettivi attribuiti alla scuola nel corso dei secoli per trarne una semplice schematizzazione che ci possa servire oggi da orientamento per capire meglio le funzioni della scuola nei nostri giorni.

1. Il primo compito emerso è stato la formazione della classe dirigente, o meglio nella maggior parte dei casi la perpetuazione delle classi dominanti: oggi potremmo rileggere questa funzione come la formazione di leadership in grado di orientare un’intera comunità verso la crescita. 2. Il secondo obiettivo è stato la formazione o meglio la conformazione delle popolazioni ai principi dello Stato nazionale: oggi potremmo rileggere questa funzione come la diffusione dei valori fondanti e unificanti di una comunità. 3. Il terzo obiettivo è stato la formazione delle diverse competenze necessarie allo sviluppo, con netta distinzione fra le condizioni operaie e i quadri dirigenti delle nuove organizzazioni produttive: oggi potremmo rileggere questa funzione come la ricerca delle competenze per uno sviluppo sostenibile nel tempo. 4. Infine la formazione della persona: oggi potremmo rileggere questa funzione come diritto individuale all’acquisizione delle conoscenze necessarie per poter consolidare la propria personalità e partecipare alla vita civile.

Ai due assi portanti della scuola rappresentati nella figura – l’asse che lega la persona alla comunità e quello che lega lo sviluppo alla leadership – possiamo unire altri due assi secanti i precedenti. Fra persona e sviluppo stanno le competenze specifiche che permettono di esplorare e risolvere gli specifici problemi legati alla crescita; tuttavia, come è chiaro fin dai tempi di Adam Smith, lo sviluppo non nasce dalle singole specializzazioni, ma dalla capacità di rendere le une complementari alle altre, cioè di organizzare le

conoscenze e le abilità individuali in azioni collettive, ossia di una comunità, a cui poter partecipare consapevolmente. Queste azioni collettive, a cui partecipare per costruire una comunità dinamica, richiedono persone in grado di assumersi responsabilità, che però si basino sulla libertà e l’autonomia dei singoli. Così il percorso verso l’individuazione di proprie competenze specifiche, da saper coniugare con le abilità di altri, in un processo educativo rivolto alla partecipazione alla comunità e alla responsabilità individuale, diviene un percorso verso quello sviluppo umano a cui la recente letteratura economica, ma anche la più attenta ricerca pedagogica ci portano. Gli investimenti in educazione, in un’educazione fondata sui principi della solidarietà e della partecipazione responsabile e consapevole alla comunità, sono i requisiti per la crescita, ma è tempo di tornare alla riflessione sui dati che riguardano il nostro paese.

4. Gli investimenti in educazione in Italia Qui riprendiamo il filo del discorso sull’Italia che abbiamo lasciato prima di questa lunga digressione sugli obiettivi riconosciuti alla scuola. Come è andata la spesa pubblica in Italia, in particolare in quel cruciale passaggio dato dall’uscita dalla crisi del 2009 e dalla transizione verso le nuove tecnologie dell’informazione? La spesa in educazione nel nostro paese raggiunge i 72 miliardi di euro nel 2009, per ridursi a partire da quell’anno in poi a poco più di 65 miliardi (fig. 4). Secondo i dati dell’UNESCO (indice Expenditure on Education as Percentage of Total Government Expenditure), la spesa per l’educazione in Italia era per tutti i settori pari al 9,21% della spesa pubblica nel 2009 e si ridusse all’8,4% nel 2012, per poi scendere fino al 7,81% nel 2016, mentre la Germania nello stesso periodo passava rispettivamente dal 10,19 all’11,03% e al 10,93%. Mentre la media europea di spese per l’educazione si assestava sopra il 10% del totale della spesa pubblica, in Italia si riduceva ulteriormente, ponendosi alla coda del resto d’Europa.

FIG. 4.

Andamento della spesa pubblica in istruzione in Italia dal 2008 al 2017 (miliardi di euro). Il taglio delle risorse all’istruzione avviene nella difficile fase di uscita dalla crisi del 2008-9, che coincide in tutti i paesi con la riorganizzazione produttiva e con il passaggio tra le tecnologie 3G e 4G, che ha ridisegnato il mercato a livello globale e determinato i riposizionamenti competitivi nella nuova industria, centrata sull’emergere di nuove competenze e nuovi saperi. Mentre in Germania si affrontavano la crisi e il rilancio dell’economia investendo in educazione, in Italia si tagliava sull’istruzione, mantenendosi poi per anni su un livello di sussistenza. Qui si colloca la radice del ritardo italiano. Il taglio della spesa per l’educazione proprio nel momento del rilancio e del passaggio di tecnologia ha inciso sullo sviluppo delle tecnologie digitali e soprattutto sulle competenze, pregiudicando la ripresa dell’economia e lasciando spazio per una nuova povertà educativa che scava fossati fra Nord e Sud del paese. Confrontando questi dati con gli esiti del sistema educativo riportati in precedenza, e in particolare con i dati sulla nuova povertà educativa e sul ritardo nelle competenze digitali, appare chiaro perché siamo arrivati impreparati all’emergenza COVID-19. Ugualmente si confronti la figura 4 con la figura 1 riportata a pagina 26, che rappresenta l’andamento della crescita italiana, e se ne vedrà la netta correlazione. Nel momento cruciale dell’uscita dalla prima grande crisi della globalizzazione, che coincideva peraltro con il salto tecnologico verso la digitalizzazione, l’Italia tagliava i propri investimenti sulla scuola, condannandosi a una bassa crescita. Non si tratta solo di ritrovare la quotidianità della scuola dopo la sospensione del COVID19, ma di ridisegnare una scuola che sia fattore di sviluppo per l’intero paese, agendo sulle competenze, la libertà, l’indipendenza delle persone, che costituiscono la vera ricchezza di una nazione.

In questa come in tutte le fasi difficili si torni alla Costituzione e alla responsabilità dei cittadini per ritrovare una scuola che possa essere motore di una nuova crescita.

Sugli sviluppi della pedagogia esiste un’immensa letteratura: rimandiamo in particolare ad Avalle, Cassola e

[1]

Maranzana [2001], che ricostruiscono il percorso storico della cultura pedagogica da Locke alla fine del Novecento. Si ricordi che, come ci ha insegnato Andrea Canevaro, la ricerca sui diritti dei disabili ha innovato la riflessione

[2]

su tutta la scuola. Qui ricordo il lavoro pionieristico sul rapporto tra investimenti in istruzione e sviluppo di Quadrio Curzio

[3]

[1973].

VI.

Costituzione, autonomia, territorio

1. La Costituzione come guida per il rilancio del paese La Costituzione italiana raccoglie i principi fondanti della nostra democrazia e fissa con chiarezza gli obiettivi sociali della nostra scuola. L’art. 34 statuisce che «La scuola è aperta a tutti», definendo gli obiettivi di un’istituzione pubblica il cui compito essenziale è quello di garantire a tutti – nessuno escluso – il diritto all’educazione. Nella scuola aperta a tutti l’insegnamento è libero, perché libere sono le arti e le scienze, ma la Repubblica detta le norme generali sull’istruzione (art. 33), cosicché l’autonomia dei singoli e delle istituzioni scolastiche si esprime nell’ambito di un interesse generale, che deve garantire l’eguaglianza e la libertà di ciascuno. L’art. 3 infatti precisa: È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese,

così da rendere concreto il principio per cui: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

Fra gli «ostacoli» vi sono quelle condizioni di accesso al sapere, alle conoscenze, alla loro espressione che costituiscono limiti al pieno sviluppo della persona umana e alla partecipazione alla vita della Repubblica. La Costituzione assume come compito della scuola gli obiettivi storicamente consolidati, ma ne inverte l’ordine, ponendo innanzitutto fra gli scopi della Repubblica il pieno sviluppo della persona, poi l’effettiva partecipazione dei lavoratori alla vita del paese, statuendo i valori che definiscono il carattere della comunità intera. La scuola, come istituzione fondamentale della vita democratica, trae il suo fondamento nei primi due articoli della nostra Carta costituzionale, il primo che ricorda che la nostra Repubblica è «fondata sul lavoro», non sul censo, non sul diritto di nascita, ma sulle capacità delle persone, e il secondo che immediatamente precisa:

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

I «diritti inviolabili dell’uomo» sono riconosciuti e non dati dalla Costituzione, perché i diritti vengono addirittura prima della stessa Legge fondamentale, che affida alla Repubblica il compito di tutelarli e soprattutto di renderli realizzabili. In particolare, il diritto a un’educazione per tutti svolge la funzione fondante non solo di rendere credibile la promessa di un pieno sviluppo della persona umana, ma anche di rendere praticabile la partecipazione della persona come cittadino consapevole alla vita della Repubblica. Alla scuola viene quindi demandato il compito di rendere effettiva la democrazia affermata dalla Costituzione. La scuola ha dunque il compito di fare in modo che ognuno disponga delle capacità critiche e operative per partecipare effettivamente alla vita della Repubblica, esprimendo pienamente la propria personalità. Per la nostra Costituzione la scuola è l’istituzione fondante sia della nostra democrazia – una democrazia aperta, in cui nessuno venga escluso perché non ha le parole per esprimersi – sia dello sviluppo, che ora richiede come non mai competenze di relazione per affrontare insieme la soluzione di problemi sempre più complessi. Queste parole divengono oggi ancora più chiare considerando che molti ragazzi giungono qui da paesi lontani e per non sentirsi stranieri devono trovare nella scuola uno Stato che li accolga e permetta loro non solo di integrarsi ma di realizzarsi in un paese che ha bisogno anche di loro per ritrovare la via della crescita. Di questo solido impianto fa parte il diritto allo studio come azione necessaria per permettere a chiunque, a prescindere dalle disponibilità familiari, di accedere ai più alti gradi dell’istruzione; un diritto allo studio universale ed effettivo diviene quindi il modo per garantire una piena applicazione del dettato costituzionale. Rileggendo i dati esposti nel capitolo 3 è necessario tuttavia domandarsi se stiamo attuando a pieno i principi della Costituzione o se invece non sussistano ancora quegli ostacoli che, limitando libertà ed eguaglianza, vincolano il nostro sviluppo e la nostra democrazia. Per questo il riconoscimento dei diritti e la loro effettiva affermazione richiedono un esercizio della solidarietà come atto consapevole di adesione alla vita della nostra comunità. Un’educazione alla solidarietà diviene quindi parte fondamentale di una nuova scuola che vuole andare non solo oltre il COVID-19, ma anche ben oltre i vincoli esplicitati in precedenza, che limitando la libertà e l’eguaglianza determinano anche la bassa crescita di questo nostro paese.

2. L’autonomia della scuola nella società delle autonomie Le parole della Costituzione accompagnano il lungo cammino della scuola italiana che solo nel 1962, tuttavia, con il superamento dell’avviamento professionale e l’unificazione della scuola media, inizia ad andare oltre la scuola gentiliana, pur rimanendo strettamente all’interno di un’organizzazione centralista e gerarchica, che quella riforma non scalfisce. È a questa scuola, che non comprende, cioè non capisce ed esclude, che si oppone nel 1967 don Milani nella Lettera a una professoressa[ ]. 1

Nel 1973, in un periodo di intense riforme che vedevano tra l’altro l’istituzione delle Regioni, la legge n. 477 attribuiva al governo la delega per assegnare maggiori autonomie alle istituzioni scolastiche, coinvolgendo le famiglie e i territori nella loro gestione. Come scrivono Cominelli e Ribolzi [2020], la richiesta di partecipazione si spense contro la forza immobile dell’amministrazione centralistica della scuola gentiliana, che i decreti intendevano ristrutturare ma non mettere in discussione [ibidem, 44]. Il tema dell’autonomia venne ripreso nel 1990 nella Conferenza nazionale della scuola voluta dall’allora ministro della Pubblica Istruzione Sergio Mattarella. La relazione introduttiva, affidata a Sabino Cassese, invitava a ripensare la scuola come un servizio collettivo pubblico nazionale, ma non statale perché dotato di propria autonomia. L’istruzione era affidata a un impianto gestionale in cui prevalevano gli aspetti professionali piuttosto che quelli burocratici [Campione e Contu 2020, 19]. Quell’indicazione, dopo una serie di tentativi, si concretizzò nell’art. 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59, con cui veniva introdotta l’autonomia scolastica come parte di una vasta azione che il governo, guidato da Romano Prodi, aveva posto in campo per predisporre il paese ad affrontare le imminenti discontinuità che sarebbero derivate dall’apertura dei mercati internazionali e dall’introduzione dell’euro. Il progetto di autonomia, voluto dall’allora ministro Luigi Berlinguer, si fondava su una maggiore responsabilizzazione della singola istituzione scolastica nell’ambito del territorio, che a sua volta sperimentava una maggiore autonomia[ ]. 2

Questa riforma deve quindi essere intesa all’interno di un sistema nazionale unitario. Mentre il comma 7 chiarisce che «le istituzioni scolastiche hanno autonomia organizzativa e didattica, nel rispetto degli obiettivi del sistema nazionale di istruzione e degli standard di livello nazionale»[ ], i commi 8 e 10 riguardano gli obiettivi dell’autonomia. Il comma 8 precisa che: 3

L’autonomia organizzativa è finalizzata alla realizzazione della flessibilità, della diversificazione, dell’efficienza e dell’efficacia del servizio scolastico, all’integrazione e al miglior utilizzo delle risorse e

delle strutture, all’introduzione di tecnologie innovative e al coordinamento con il contesto territoriale. Essa si esplica liberamente, anche mediante superamento dei vincoli in materia di unità oraria della lezione, unitarietà del gruppo classe e modalità di organizzazione e impiego dei docenti, secondo finalità di ottimizzazione delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche, materiali e temporali.

Il comma 10 puntualizza che: Nell’esercizio dell’autonomia organizzativa e didattica le istituzioni scolastiche realizzano, sia singolarmente che in forme consorziate, ampliamenti dell’offerta formativa che prevedano anche percorsi formativi per gli adulti, iniziative di prevenzione dell’abbandono e della dispersione scolastica […] iniziative di utilizzazione delle strutture e delle tecnologie anche in orari extrascolastici e a fini di raccordo con il mondo del lavoro, iniziative di partecipazione a programmi nazionali, regionali o comunitari e, nell’ambito di accordi tra le regioni e l’amministrazione scolastica, percorsi integrati tra diversi sistemi formativi[4].

La norma del 1997 dettava poi le modalità di partecipazione delle famiglie e delle comunità locali attraverso la creazione di organi collegiali che coinvolgevano direttamente il territorio nella gestione della scuola; e infine attribuiva la qualifica dirigenziale ai capi istituto, contestualmente all’acquisto della personalità giuridica e dell’autonomia da parte delle singole istituzioni scolastiche.

3. Il ruolo del territorio e il COVID-19 L’apparato normativo approvato nel 1997 si configurava come strumento per la progettazione e realizzazione di un’offerta didattica che potesse rispondere ai bisogni degli studenti, tenendo insieme sia una dimensione nazionale, che doveva nello spirito della legge avere una dimensione unitaria, di garanzia e di valutazione, sia una territoriale, in cui la scuola si inseriva nella propria comunità locale, divenendone motore e riferimento per i ragazzi, le famiglie, le istituzioni, la società tutta. Questo vigoroso impianto tuttavia si è progressivamente insabbiato in una struttura che ha continuato a basarsi su una modalità organizzativa centralizzata, che di fatto ha ostacolato il trasferimento ai territori e alle istituzioni scolastiche di tutte le competenze per potersi muovere in autonomia. È di quell’autonomia responsabile e solidale che oggi abbiamo bisogno per andare oltre l’emergenza COVID-19. Un’emergenza che, per essere affrontata, richiede responsabilità, flessibilità e semplificazione amministrativa, che dell’autonomia costituiscono i principi base[ ]. 5

L’autonomia richiede anche e necessariamente un efficace processo di valutazione, che deve essere percepito dalle stesse istituzioni scolastiche come atto di responsabilità indispensabile per poter raggiungere l’obiettivo di un’autonomia solidale, che coniughi i bisogni di ogni territorio e l’unità del paese. In altri paesi europei si è impostata un’autonomia competitiva fra istituzioni scolastiche[ ]. La situazione italiana impone invece di enfatizzare l’aspetto solidale, per permettere a tutti di raggiungere gli obiettivi del sistema nazionale di istruzione e formazione, dando alle autonomie scolastiche che hanno già acquisito questi risultati strumenti per consolidarli e diffonderli nel paese e a quanti sono valutati negativamente di avere supporti organizzativi e didattici adeguati ad affrontare e risolvere i loro problemi. 6

La legge del 1997, del resto, collocava l’autonomia scolastica in un contesto di generale riforma dello Stato, in cui le scuole erano poste in un rapporto diretto con le istituzioni del territorio, le organizzazioni produttive e sociali e il volontariato, potendo programmare una propria offerta formativa, che – nel rispetto degli standard nazionali da raggiungere – potesse essere radicata nella comunità locale di riferimento[ ]. D’altra parte, proprio la scuola italiana ha una presenza sul territorio che non trova eguali in nessun’altra istituzione: oltre 8.000 istituzioni scolastiche per 7 milioni e mezzo di allievi nelle scuole statali, a cui aggiungere gli oltre 850.000 nelle paritarie[ ]. 7

8

A questo proposito devo ricordare che il Comitato degli esperti del ministero dell’Istruzione aveva formulato già nel suo Rapporto intermedio del 27 maggio 2020 la proposta di predisporre un piano organico per il rilancio dell’autonomia scolastica, paventando il rischio che l’emergenza COVID-19 si traducesse in una riduzione delle autonomie imponendo comportamenti uniformi, in condizioni fra loro diverse, riducendo la responsabilizzazione dei dirigenti, del personale, delle famiglie, delle autorità locali in un momento in cui invece massima doveva essere la solidarietà di tutta la comunità locale attorno alla propria scuola. Si richiamava la necessità di rilanciare gli organi collegiali e stipulare Patti educativi di comunità, necessari per integrare le specifiche offerte didattiche, nello spirito di una norma che – seppur disattesa – è tuttora legge dello Stato. Ed è in questa prospettiva di rilancio dell’autonomia che il ministero deve valorizzare il proprio ruolo di guida strategica, non solo definendo gli obiettivi educativi a cui l’intero paese deve tendere, ma anche ristabilendo una nuova alleanza con le Regioni (a cui sono attribuite le funzioni di programmazione nel territorio) e con gli enti locali (a cui sono demandate le competenze sulle strutture scolastiche).

4. Diritti e solidarietà nell’emergenza nazionale

Il Rapporto intermedio aveva anche delineato, sulla base della Costituzione e delle norme sull’autonomia, la visione di una scuola aperta a tutti, che si dà come propria missione il pieno sviluppo della persona umana, della partecipazione alla vita della propria comunità, una scuola in cui si coltivano i futuri possibili per gli alunni, le alunne, i giovani cittadini e le giovani cittadine della nostra Repubblica fondata sul lavoro[9].

È nella prospettiva di un rafforzamento dell’autonomia che occorreva, secondo il Comitato, impostare la riapertura delle scuole per il nuovo anno scolastico. A questo scopo esso indicava la necessità di intervenire con alcune semplificazioni normative che potessero permettere alle singole istituzioni scolastiche di programmare la loro attività didattica, garantendo le condizioni di sicurezza; in particolare si richiedevano deroghe agli ordinamenti scolastici per poter formare classi con meno di 15 allievi, un incremento temporaneo di personale docente del 10-15% sul totale, una «parziale esimente» di responsabilità per il dirigente scolastico e per il personale, norme per facilitare gli acquisti da parte dell’istituzione scolastica, semplificazioni procedurali transitorie per interventi di edilizia scolastica, interventi per garantire più continuità didattica, superando in particolare la deroga per i posti di sostegno agli studenti con disabilità, nuove norme per il dimensionamento delle istituzioni scolastiche e l’esonero dal servizio per commissioni di concorso. Tuttavia non è possibile rivolgersi alla scuola italiana senza tener conto delle effettive situazioni locali, in particolare del Mezzogiorno. Ragionare solo su un’astratta situazione nazionale significa far torto a quanti si sentono oggi esclusi dalla scuola e quindi dalla comunità nazionale. È invece proprio in queste aree più fragili che è sommamente necessario ricostruire un tessuto sociale in cui la formulazione di Patti educativi di comunità può diventare lo strumento per una ricostruzione di contesto in cui riconoscersi e partecipare[ ]. 10

L’emergenza ha imposto di affrontare il tema della numerosità degli allievi nelle singole classi e quindi la necessità di aumentare il numero degli insegnanti e di cercare nuovi spazi educativi. In realtà questi erano i temi che da molti anni venivano posti alla scuola italiana e il rischio è che queste necessità, anziché essere viste come linee su cui indirizzare tutta la scuola, vengano assunte come palliativi temporanei per affrontare l’emergenza in attesa di un ritorno a una presunta «normalità»[ ]. 11

Bisogna sfuggire alla facile tentazione di considerare gli spazi aggiuntivi al di fuori della scuola come sua dépendance: essi devono invece essere considerati un’opportunità per esplorare il mondo attorno alla scuola. Così la riduzione del numero degli allievi in classe,

ancorché motivato dal distanziamento, deve essere occasione per superare la classe come unità amministrativa e recuperare quel dialogo personalizzato che l’allievo deve avere con l’adulto di riferimento, ricercando e potenziando tutte quelle attività che alle competenze aggiungono un carattere di ritrovata socialità. Quali sono queste attività? Il computer in quanto principale mezzo di socializzazione dei millennials e il coding, cioè la programmazione informatica come modo per imparare la logica rivolta a risolvere i problemi complessi ed esplorazione anche giocosa della logica computazionale; l’arte e la musica come strumenti di creatività e aggregazione; la scoperta della vita collettiva della propria comunità e le regole dell’educazione civica, che in una parola possiamo definire polis; lo sport come recupero del proprio corpo. Tutti questi nuovi ambiti dell’azione collettiva possono essere sintetizzati con l’acronimo CAMPUS (Computer/Coding, Arte, Musica, Polis, Sport), a sottolineare come la nuova scuola debba essere un «campo» in cui allenarsi insieme a una vita in cui l’obiettivo fondamentale sia costruire comunità solidali e coese; ed è per questo che bisogna coinvolgere in queste attività anche il volontariato e tutte le istanze vive della comunità attraverso i Patti educativi di comunità. Obiettivo dei Patti educativi di comunità è l’educazione alla sostenibilità dell’ambiente in cui si vive insieme, un’educazione che per essere credibile agli occhi degli stessi allievi deve essere da essi riscontrabile nella loro vita quotidiana e percepibile come comune investimento sul loro futuro; ma per questo occorre che sia radicata in un’azione che vede coinvolta tutta la comunità a cui i ragazzi appartengono, e da questa proiettata verso un mondo di cui si sentano protagonisti. L’idea dei Patti educativi di comunità è quindi di aprire alla scuola reali spazi di arricchimento formativo e, a un tempo, rendere la comunità corresponsabile dell’educazione dei giovani, dando piena attuazione alla legge sull’autonomia. Qui diviene cruciale il rapporto con l’università e i centri di ricerca, che devono avere la possibilità di costruire relazioni più strette con la scuola, in modo da garantire un «travaso» continuo dei loro studi e la loro messa a disposizione di un sistema educativo che deve poterli tradurre – soprattutto per quanto riguarda le materie scientifico-tecnologiche (Science, Technology, Engineering and Mathematics, STEM), cioè quelle più legate all’evoluzione delle scienze sperimentali – nella capacità di lavorare in gruppo per risolvere problemi complessi. Del resto, le imprese che stanno affrontando oggi la transizione verso la Quarta rivoluzione industriale richiedono proprio queste competenze – le cosiddette soft skills –, basate sull’antico principio già chiarito da Adam Smith secondo cui l’efficienza non nasce dalla specializzazione individuale, ma dalla capacità di rendere fra loro complementari le singole specializzazioni, in un contesto che sappia affrontare e risolvere problemi complessi e

inediti. In questo senso allora, come accade già in molti casi, diviene necessario che le stesse imprese mettano a disposizione i loro laboratori e si sperimentino modalità educative in cui non si insegua più un’alternanza scuola/lavoro, ma si vada verso forme di integrazione in cui reciprocamente le imprese, le scuole, gli enti di ricerca si rendano fra loro complementari. Ricordo a questo proposito la lunga esperienza dei Programmi di inserimento lavorativo, lanciati oltre quindici anni fa dall’Università di Ferrara, in cui si chiedeva alle stesse imprese di divenire luoghi di educazione nell’ambito di un territorio che si concepiva nella sua interezza come un ambiente di educazione permanente[ ]. 12

Per questo, in una fase che chiamiamo della «società dell’informazione e della conoscenza», si deve immaginare – culturalmente prima che organizzativamente e politicamente – una stagione, dopo quella dei distretti industriali, dei distretti educativi, dove la filiera corta scuola-impresa-centro di ricerca territoriale si sposi con quella delle connessioni globali. A questo proposito ricordo che sono già tantissime le esperienze vive e concrete di «scuola-fuori-dalla-scuola» che prefigurano questi distretti, o che almeno richiamano con forza l’idea di un territorio che si percepisce nel suo insieme come una comunità educativa. Fra tutte richiamo la straordinaria vicenda dei Maestri di strada di Napoli, la Scuola sconfinata di Milano, la Casa laboratorio di Cenci di Franco Lorenzoni [2018] in Umbria e la Scuola nel bosco, una rete che raccoglie esperienze ormai in tutta Italia, che spingono a pensare la scuola al di fuori degli stretti spazi chiusi in cui ci siamo confinati e che rischiano ora di essere ancora più costrittivi in questa fase di convivenza con il COVID-19. Far crescere e diffondere queste esperienze, ma anche renderle praticabili nelle diverse situazioni tramite i Patti educativi di comunità, vuol dire ripristinare la fiducia dei bambini e dei ragazzi nella loro comunità, attraverso il recupero di un territorio da considerare «amico». Coinvolgere in maniera sistematica il territorio, con le sue istituzioni, con le persone, con i volontari, vuol dire aprire la scuola a una visione costruttiva della comunità, spingendo i giovani ad «ascoltare» tutti i segnali che il mondo manda loro[ ]. 13

Ricordiamo anche il progetto Piccole scuole dell’INDIRE (Istituto nazionale per la documentazione, innovazione e ricerca educativa), che riguarda 200 scuole e 300.000 studenti in circa 3.500 Comuni montani italiani, e che mette in luce come proprio queste scuole periferiche abbiano sviluppato modalità fortemente innovative di utilizzo delle tecnologie digitali, che potrebbero costituire un punto di riferimento anche per i grandi istituti, i quali si sono confrontati con la formazione a distanza solo come strumento d’emergenza non adeguatamente predisposto il cui peso, proprio per questo motivo, è stato scaricato soprattutto sulle famiglie.

In ogni caso, proprio il COVID-19 e la necessità di ritrovare una «scuola oltre la scuola» rilanciano la centralità della figura dell’insegnante come adulto di riferimento, che guida e orienta i più piccoli – e quindi i più preziosi – membri della nostra comunità attraverso un percorso di formazione umana, che si svolge oggi in una particolare fase di incertezza collettiva. È così riemerso il tema da tempo rinviato dell’adeguamento del numero dei docenti e del personale tecnico; ancora una volta, però, una materia che avrebbe dovuto essere il centro di una programmazione di lungo periodo è stata affrontata in termini emergenziali[ ]. 14

Molte delle proposte avanzate dal Comitato sono state poi adottate dall’amministrazione in diversi decreti successivi (a partire da quelle relative all’aumento del personale e delle risorse finanziarie e alle condizioni necessarie per ricercare nuovi spazi), sempre comunque nel rispetto dei vincoli definiti dalle autorità sanitarie. L’aver scelto di attivare di volta in volta i diversi provvedimenti ha fatto però venir meno la visione complessiva, nella quale le misure per affrontare l’emergenza erano legate a un nuovo disegno di scuola che, basandosi sulle norme dell’autonomia, permettesse a tutto il paese di tornare ad avere fiducia nelle proprie scuole, perché nella scuola – come abbiamo imparato nei giorni durissimi del terremoto dell’Emilia – sta «il battito della comunità».

Per un’analisi dell’influenza che quel libro ebbe sulla cultura italiana rimando all’edizione critica delle opere di

[1]

don Milani [2017] a cura di A. Melloni. La legge n. 59/1997 avviava la riforma della pubblica amministrazione, come passaggio fondamentale per la

[2]

modernizzazione del paese [Bassanini 2020, 21]. La legge conferiva al governo il potere di riorganizzare il «servizio istruzione» mediante il potenziamento dell’autonomia intestata alle istituzioni scolastiche ed educative; questa norma trovò prima applicazione con la legge 18 dicembre 1997, n. 440 – Istituzione del Fondo per l’arricchimento e l’ampliamento dell’offerta formativa e per gli interventi perequativi – ed è stata regolamentata dal d.P.R. n. 275/1999, che disciplinava l’autonomia scolastica. [3]

«L’autonomia didattica è finalizzata al perseguimento degli obiettivi generali del sistema nazionale di

istruzione, nel rispetto della libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa da parte delle famiglie e del diritto ad apprendere. Essa si sostanzia nella scelta libera e programmata di metodologie, strumenti, organizzazione e tempi di insegnamento, da adottare nel rispetto della possibile pluralità di opzioni metodologiche, e in ogni iniziativa che sia espressione di libertà progettuale, compresa l’eventuale offerta di insegnamenti opzionali, facoltativi o aggiuntivi e nel rispetto delle esigenze formative degli studenti» (comma 9). Sugli aspetti organizzativi, giuridici ed educativi dell’autonomia rimando a Summa [2011] e Campione e Contu [2020]. «Le istituzioni scolastiche autonome hanno anche autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo nei limiti

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del proficuo esercizio dell’autonomia didattica e organizzativa» e «Le università e le istituzioni scolastiche possono

stipulare convenzioni allo scopo di favorire attività di aggiornamento, di ricerca e di orientamento scolastico e universitario» (comma 12). [5]

Campione e Contu [2020, spec. 67] si interrogano sui motivi di questo progressivo svuotarsi della legge

sull’autonomia, posto che tutti i ministri dopo Berlinguer hanno rilanciato l’autonomia come primo obiettivo del proprio mandato. Certamente l’apparato centrale dello Stato, già considerato da Cassese, ha continuato a muoversi secondo modalità legalistiche, che proponevano un principio di efficienza basato più sull’adesione a norme uniformi che a perseguire localmente esiti sottoposti a responsabilità sempre soggette al vaglio centrale. Io concordo con Bertagna [2020] quando ritiene che il vero problema sia l’identità tra pubblico e statale e tra statale e pubblica amministrazione centrale, che continua a reggere i rapporti tra istituzioni fin dall’Unità d’Italia, in cui forzatamente le leggi sabaude, tra cui la legge Casati, vennero imposte a un paese che aveva condizioni molto diverse al suo interno e gestite manu militari specialmente nel Mezzogiorno da governi che vedevano nel controllo burocratico l’unico modo per tenere unito un paese fragile. Si veda su questo punto il già citato Bianchi [2017]. Diversi sono gli approcci all’autonomia scolastica nei diversi paesi occidentali. Dutto [2019] offre un’ampia

[6]

panoramica delle esperienze che in tutta Europa e in tutto il mondo hanno portato a sviluppare forme di responsabilizzazione da parte delle diverse istituzioni scolastiche, in termini di gestione delle risorse, organizzazione dell’insegnamento, gestione del personale e pianificazione e gestione delle strutture, giungendo a una classifica che pone indicatori di autonomia al cui vertice stanno l’Olanda e il Regno Unito, che esprimono un’autonomia competitiva, in opposizione ad esempio alla Finlandia, che ha individuato un modello più cooperativo. Bono [2020] ricostruisce vent’anni di legislazione scolastica, in particolare la legge n. 107/2015 che articolava

[7]

gli strumenti per dare corpo all’autonomia, in termini di organizzazione del monte-ore, potenziamento del tempo scolastico e programmazione plurisettimanale delle attività educative [ibidem, 97]. Ricordo a questo proposito anche Spinosi [2017; 2018]. La scuola italiana si basava nel 2019 su 8.094 istituzioni scolastiche, che operavano con 40.749 sedi sparse in

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tutto il paese. Alla scuola statale erano iscritti 7.559.259 studenti, strutturati in 369.769 classi. Fra questi studenti 259.757 erano disabili. A questi si aggiungevano 866.805 studenti in 12.564 scuole paritarie. Ricordo infine che la scuola ha un ruolo di presidio di legalità nel territorio, in particolare in quelle situazioni di degrado sociale in cui lo Stato appare assente, come ci ha insegnato l’esperienza di Domenico di Fatta, che nelle condizioni più difficili ha svolto il proprio ruolo di dirigente scolastico nella città di Palermo. Il Rapporto intermedio evidenziava poi come la scuola debba essere «il luogo in cui attuare quei principi che

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descrivono il senso democratico della nostra Repubblica» e aggiungeva: «La scuola aperta è un organismo vivente, una comunità educante consapevole del proprio ruolo, delle proprie relazioni e delle dinamiche che la caratterizzano. È fatta di persone, di emozioni, di relazioni e cura reciproca. Una società che vuole un futuro investe nella scuola e nella valorizzazione dell’importante ruolo dei “maestri”: guide cui affidiamo i nostri giovani per la scoperta del mondo, perché acquisiscano il giusto equipaggiamento per affrontare il cambiamento, a volte anche difficile, che come persone e come comunità dovranno gestire con fiducia per poter costruire il proprio futuro». Nelle molte audizioni che il Comitato ha realizzato sono emerse le esperienze condotte dalle associazioni di

[10]

volontariato che partecipano attivamente a progetti realizzati «fuori dalla scuola», ma all’interno di una progettazione scolastica condivisa, dimostrando che proprio laddove il tessuto sociale è più fragile possono ottenersi i risultati migliori, misurati nella riduzione della dispersione e della povertà educativa. Fra le tante esperienze si permetta di ricordare quella dei Maestri di strada di Napoli: su questo tema rinvio a Rossi Doria

[2007]. Del resto si proponeva al ministero di accompagnare le istituzioni scolastiche attivando a livello locale tavoli per la stesura dei Patti educativi di comunità. Si veda il protocollo sulle linee per la formulazione dei Patti educativi di comunità dell’Ufficio scolastico regionale per l’Emilia-Romagna [2020]. Il Comitato suggeriva che a livello centrale e territoriale venissero avviati sin dalla fine di maggio «rapidi

[11]

percorsi per l’individuazione di spazi formativi aggiuntivi, nei quali sviluppare attività didattiche con modalità formali, non formali o informali». Per reperire spazi si suggerivano accordi-quadro a livello centrale fra il ministero dell’Istruzione e i ministeri di Difesa, Interni, Beni culturali ed Economia e Finanza, a livello nazionale tra associazioni imprenditoriali, cooperative, Conferenza episcopale italiana, a livello regionale tra Uffici scolastici regionali e Regioni, associazioni di categoria, terzo settore e a livello locale accordi specifici per rendere operativi gli accordi nazionali e regionali. I Programmi di inserimento lavorativo (PIL) vennero definiti all’Università di Ferrara, poi estesi alle altre

[12]

università della Regione, già nel 2004 e consistono nella possibilità per lo studente di compiere un periodo in impresa dato da un tirocinio curricolare di sei mesi prima della laurea e sei mesi di tirocinio lavorativo dopo la laurea, così da cumulare una lunga fase di transizione monitorata da un docente e da un tutore aziendale, che svolge anche la funzione di correlatore alla tesi. [13]

Devo questa riflessione alla maestra Paola, che insegna in una piccola scuola dell’infanzia a Talamello in

Valmarecchia, dove molto ho imparato sul valore delle piccole scuole come riferimento di tutte quelle comunità periferiche che sono state a rischio di estinzione, per la caduta demografica e l’emigrazione, che trovano nella loro scuola di prossimità il loro più importante elemento di ancoraggio al territorio. [14]

Già nel suo Rapporto intermedio, consegnato a maggio 2020, il Comitato degli esperti del ministero

dell’Istruzione aveva suggerito di autorizzare «nell’anno scolastico 2020/2021 […] l’incremento dei posti di personale docente […] in organico di fatto. L’incremento dovrà riguardare, in particolare, le sezioni di scuola dell’infanzia, le classi di scuola primaria e il primo biennio della secondaria di I grado, ove, in considerazione della ridotta età degli alunni, si ritiene educativamente necessario, quanto più possibile e sempre commisurata al rischio, realizzare una didattica in presenza». Le valutazioni del Comitato ritenevano opportuno un incremento tra il 10 e il 15% dell’organico di diritto già autorizzato per l’anno scolastico 2020/2021 (organico dell’autonomia, posti comuni) quindi una forbice fra gli 80 e i 110.000 docenti in più, suggerendo che tale ipotesi venisse sottoposta alle organizzazioni sindacali nell’ambito del rinnovo del Contratto collettivo nazionale di lavoro, scaduto il 31 dicembre 2018.

VII.

Attraverso lo specchio

1. La scuola oltre il virus: innanzitutto le persone Il virus ha messo in evidenza tutte le problematiche già presenti da tempo nella scuola italiana e in fondo nell’intera comunità nazionale, mettendo in luce i limiti che noi stessi abbiamo posto alla nostra democrazia. Attraverso lo specchio della scuola abbiamo l’occasione di riflettere su quale paese vogliamo per noi e per i nostri figli, quale progresso e quindi quale società vogliamo costruire. Educare alla solidarietà come investimento sullo sviluppo vuol dire cogliere l’essenza di una comunità in cui le diverse capacità possano comporsi fra loro per darsi come obiettivo una crescita collettiva, i cui valori siano effettivamente condivisi. Questo è stato il tema centrale del Rapporto finale, testo a cui nelle prossime pagine mi riferirò ripetutamente, ancora una volta esprimendo la mia personale visione, senza far carico ai colleghi del Comitato delle mie posizioni, contando che nel frattempo il documento sia diventato accessibile a chiunque. La struttura di questo capitolo segue lo schema basato sugli obiettivi a cui storicamente la scuola deve rispondere, partendo tuttavia dalle persone, come indica la nostra Costituzione che, anziché essere oggetto di continui tentativi di manomissione, dovrebbe essere il testo base per l’educazione dei nostri giovani e la guida sicura per la nostra rinascita. Le persone, per la scuola, sono innanzitutto i bambini e le bambine, gli adolescenti e i giovani che, messi tutti assieme, sono un esercito – o meglio una comunità – di circa 10 milioni e 240.000 allievi, che a sua volta, comprendendo anche le famiglie, raccoglie almeno la metà degli italiani[ ]. 1

Tuttavia questi numeri vanno ponderati per quanto riguarda gli esiti educativi illustrati all’inizio della nostra riflessione. Non tutti hanno gli stessi esiti, né tutti si trovano nelle stesse condizioni di accesso. Innanzitutto vi sono circa 260.000 ragazzi disabili, la cui inclusione diviene misura di effettiva apertura per tutta la nostra scuola e deve diventare occasione di formazione per tutti gli studenti[ ]. 2

L’area della fragilità tuttavia va ben oltre il numero già significativo di disabili. I dati riportati in precedenza sulla dispersione scolastica e sulla povertà educativa, certificata dall’INVALSI, ci offrono un quadro di degrado che apre la via a nuove fratture del paese, sia territoriali sia sociali, fra chi sa disporre della propria capacità di giudizio e di espressione e chi invece non possiede gli strumenti per affermare una propria autonomia. Una fragilità che in questi anni di così intensa trasformazione strutturale è aumentata, alimentata dal rapido cambiamento tecnologico e dalla globalizzazione dell’economia: ripensare a fondo le stesse modalità di concepire la scuola è dunque ormai un imperativo indifferibile. Già nel 1993, del resto, la Commissione internazionale UNESCO sull’educazione per il XXI secolo presieduta da Jacques Delors aveva individuato la necessità di rivedere gli obiettivi dell’educazione per predisporre competenze adeguate al nuovo secolo. La Commissione Delors aveva delineato quattro pilastri – imparare a vivere assieme, imparare a conoscere, imparare a fare, imparare a essere – che, ponendo l’apprendimento al centro del processo educativo, avrebbero costituito essi stessi i fondamenti ineludibili di un nuovo sviluppo umano. Quella che la Commissione Delors prefigurava quasi trent’anni fa era dunque una scuola che non fosse più un serbatoio di nozioni, ma una palestra di apprendimento, che doveva proiettarsi ben oltre l’età giovanile per divenire una costante della vita di ognuno nella nuova «società della conoscenza»[ ]. 3

Questi stessi pilastri sono stati da allora ripresi più volte, fino alla Raccomandazione del Consiglio europeo del 2018 relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente, in cui si afferma: Il pilastro europeo dei diritti sociali sancisce come suo primo principio che ogni persona ha diritto a un’istruzione, a una formazione e a un apprendimento permanente di qualità e inclusivi, al fine di mantenere e acquisire competenze che consentono di partecipare pienamente alla società e di gestire con successo le transizioni nel mercato del lavoro[4].

D’altra parte, i dati proposti in precedenza mettono in evidenza l’urgenza di un massiccio investimento per innalzare i livelli di istruzione di tutta la popolazione italiana. In particolare è necessario recuperare gli adulti a bassa scolarità e svantaggiati; fra questi i molti immigrati che sono giunti in Italia non possedendo le condizioni linguistiche per garantirne l’inserimento sociale. La formazione permanente diviene del resto necessaria per tutti nel momento di un cambiamento tecnologico, in cui un nuovo solco generazionale si sta scavando fra i giovani, adusi fin dalla nascita alla comunicazione digitale, e i loro genitori, che possiamo definire «alloglotti digitali». Tuttavia, bisogna cominciare dall’inizio: una speciale attenzione va quindi dedicata alla fascia di età 0-6 anni, ribadendo

l’importanza fondamentale per lo sviluppo della personalità di una presenza educativa adeguata e mirata fin dai primissimi anni di vita[ ]. 5

Non è certo questa la sede per affrontare una tematica così rilevante, essendo questo libro volto in particolare a esplorare il nesso fra educazione e sviluppo; tuttavia, appare evidente che il concetto di sviluppo racchiude anche il benessere dei bambini e la loro formazione fin dai primi anni di vita. Una rete di scuole dell’infanzia che copra tutto il territorio nazionale e la creazione delle condizioni materiali affinché tutti i bambini possano dai 3 anni accedere a una scuola diventano misura dello stesso sviluppo del paese e precondizione affinché i percorsi di vita di questi bambini possano realizzarsi con successo. Anche in questo caso si notano le differenze fra le diverse parti del paese, con una presenza significativa dei servizi integrati nel Nord, dove già dal dopoguerra è cresciuta una cultura dell’educazione dell’infanzia, che ha trovato nella tradizione municipale il suo principale riferimento, e una diffusione molto più scarsa delle scuole dell’infanzia nel Sud[ ]. 6

Diviene quindi necessario ripensare i percorsi di studio rilanciando una nuova alleanza con il territorio, così come occorre agire sull’articolazione fra i diversi gradi di istruzione e in particolare fra un ciclo e l’altro, laddove si creano fratture che divengono motivo di dispersione scolastica per molti allievi e dove si manifestano più evidentemente le carenze del sistema di orientamento, che dovrebbe accompagnare i ragazzi da un grado di istruzione al successivo. Già con la legge n. 53 del 28 marzo 2003 l’obbligo scolastico è stato innalzato dai 14 ai 16 anni, senza però che questa norma abbia avuto come seguito un progetto formativo. Alla fine di questo percorso non c’è un riconoscimento formale del biennio effettuato. È proprio il passaggio tra la scuola media e la scuola superiore uno dei punti più critici della scuola italiana, in cui più alti sono i rischi di discontinuità nel percorso educativo. Ed è proprio qui, al momento dell’uscita dalla scuola secondaria inferiore, che diventa più necessario garantire percorsi professionalizzanti con la stessa dignità di quelli liceali o tecnici che però permettano di raggiungere a 16 anni una qualifica professionale in grado di consentire l’accesso al mondo del lavoro[ ]. 7

Ricordo che, accanto agli istituti professionali di Stato che offrono un diploma quinquennale, la formazione professionale (FP) è competenza regionale e quindi viene gestita dalle Regioni attraverso il finanziamento di corsi triennali. Questi corsi, erogati da soggetti privati accreditati, largamente finanziati con il Fondo sociale europeo, rilasciano una qualifica professionale. I risultati sono oggettivamente

molto differenziati da Regione a Regione, e in particolare nel Mezzogiorno vi è una carenza evidente, ma non vi è ambiguità nelle competenze nazionali e regionali: vi è piuttosto la necessità di considerare l’intero complesso delle attività di istruzione e formazione professionale (IeFP) come un sistema integrato e complementare, anche per recuperare quei ragazzi che la scuola statale ha espulso, consegnandoli all’abbandono se non addirittura alla criminalità. La FP, oltre a essere necessaria per la crescita delle piccole e medie imprese, deve costituire il principale strumento per ridurre la dispersione scolastica, permettendo a molti ragazzi di ottenere una qualifica professionale, e di conseguenza un lavoro e la dignità sociale. È soprattutto grazie a una FP diffusa e capillare (regolata con la legge regionale n. 5/2011) che in Emilia-Romagna la dispersione scolastica si è ridotta ai livelli europei, passando dal 16,5% del 2010 al 9,9% del 2018. Il rilancio della formazione professionale diviene essenziale non solo per offrire ai giovani prospettive concrete di realizzazione lavorativa e umana, contribuendo in maniera significativa a ridurre la dispersione di risorse e di talenti, ma anche per garantire la crescita alle imprese che hanno necessità di specifiche competenze tecniche accompagnate da capacità di giudizio e visione, che permettano al singolo di affrontare anche fasi di rapido cambiamento[ ]. 8

È però indispensabile – e qui il riferimento alla Germania è d’obbligo – che questi percorsi siano legati insieme da un’unica filiera progettuale, che consenta, dopo la qualifica, di accedere a corsi più avanzati. A questo proposito merita una particolare riflessione la realtà degli istituti tecnici superiori (ITS): si tratta di un’offerta formativa biennale postsecondaria professionalizzante, di livello terziario ma non universitario, rivolta a favorire l’inserimento diretto nel modo del lavoro tramite corsi gestiti insieme da scuole e imprese, sul modello delle scuole di alta formazione applicata tedesche (Fachhochschulen), che diplomano quasi un milione di studenti all’anno. Nati nel 2010, a seguito del d.p.c.m. 25 gennaio 2008, gli ITS sono fondazioni di partecipazione, costituite da scuole, enti locali, università e imprese, basate su corsi biennali, di cui generalmente uno direttamente in impresa o comunque direttamente in forma di tirocinio sul lavoro. A maggio 2020 vi erano 104 fondazioni ITS, con oltre 2.758 soggetti partner e 616 percorsi, ma con un totale di soli 15.752 iscritti nei corsi attivi[ ]. 9

Dopo dieci anni dalla sua istituzione, questa importante forma di istruzione superiore, nonostante l’altissimo indice di occupazione degli studenti, non è ancora pienamente decollata, sia perché le istituzioni e le imprese non hanno investito risorse finanziarie e

umane per costruire questi percorsi e renderli visibili alle comunità come valide soluzioni educative di tipo terziario, sia perché molti di questi ITS non hanno ancora acquisito un’identità precisa, che sia appetibile per gli studenti e le loro famiglie; fra l’altro patiscono la concorrenza delle università, che a loro volta propongono corsi professionalizzanti[ ]. 10

L’insieme delle attività di IeFP va dunque ripreso promuovendone la diffusione capillare in tutto il territorio nazionale e in particolare al Sud, dove è evidente la sua carenza, disegnando «ponti» fra l’istruzione statale o parificata, che si è sempre più strutturata secondo un modello «scuola-centrico» quinquennale, e la formazione professionale triennale, gestita dalle Regioni e sempre più orientata a un rapporto diretto con le imprese. L’integrazione fra i due modelli va plasmata sul territorio e richiede una diretta partecipazione delle imprese, così da poter garantire a ognuno un percorso personalizzato e non perdere nessuno per strada. Oggi occorre diffondere la FP in tutto il paese, definendo, anche con il concorso dello Stato, modalità di allineamento e integrazione fra le diverse procedure predisposte dalle Regioni – uniformando cioè le condizioni di attribuzione delle qualifiche professionali – fino a giungere a un sistema integrato nazionale in cui sia possibile per i ragazzi muoversi tra i diversi sistemi regionali e nel contempo scegliere fra le varie scuole che offrono corsi di istruzione professionale. Ugualmente è indispensabile che i ragazzi con qualifiche di FP possano, eventualmente dopo un periodo di lavoro anche in apprendistato, accedere ai corsi di ITS, così da generare modelli flessibili, in cui ognuno possa disegnare un proprio percorso personale di apprendimento e di vita. Infine non possiamo dimenticare che proprio la transizione verso la Quarta rivoluzione industriale richiede di proiettare la propria formazione ben al di là dell’età scolare, così da delineare itinerari formativi professionalizzanti che permettano diversi rientri nel sistema educativo. Ciò diviene necessario non solo per i giovani e le imprese, ma anche per la scuola, che così può e deve integrarsi in un mondo produttivo che richiede sempre più la capacità di aggiornarsi velocemente. Cruciale diviene come non mai il ruolo degli insegnanti e di tutte le professionalità necessarie per far funzionare l’autonomia delle istituzioni scolastiche. Per i 7 milioni e mezzo di studenti delle scuole statali vi erano, nel 2018, 737.243 docenti, di cui quasi i tre quarti con più di 45 anni. In particolare, vi erano 87.748 docenti nella scuola dell’infanzia statale, 246.437 insegnanti nella scuola primaria, 157.253 nei tre anni della scuola secondaria inferiore e 245.805 nei cinque anni della scuola secondaria superiore. I docenti con più di 45 anni erano il 65,4% nella scuola dell’infanzia, il 73,4% nella primaria, il 75,4% nella secondaria inferiore e il 72,1% nella secondaria superiore. Ogni anno circa 90.000

docenti di ruolo vanno in pensione: i posti vengono riassegnati con i concorsi, tuttavia ciò avviene in modo discontinuo, generando un esercito di circa 200.000 precari in attesa di stabilizzazione. La necessità di ridare alla figura dell’insegnante una rilevanza sociale adeguata alla responsabilità che essa assume nei confronti della società diviene oggi un tema cruciale per riposizionare la scuola al centro di un processo di sviluppo del paese. Diviene pertanto indifferibile affrontare il tema della preparazione iniziale[ ], della selezione e della formazione permanente, in particolare in questa fase in cui è necessario ripensare l’intera offerta didattica e uscire dalle «trappole» del Novecento. 11

Scrive a questo proposito il Rapporto finale: Vanno rivisti e ristrutturati i percorsi di formazione iniziale, sviluppati secondo un modello strutturato, organico e articolato. In tale prospettiva è importante instaurare un collegamento più forte con i meccanismi di reclutamento e di selezione, valutando il fabbisogno professionale, presente e futuro. Infine occorre promuovere la ricerca educativa come garanzia di qualità attraverso azioni sistematiche di accompagnamento lungo tutto il ciclo di vita lavorativa, incentivando l’adozione di strumenti quali i bilanci di competenze e i patti per lo sviluppo professionale continuo.

2. La formazione della comunità e lo sviluppo Occorre domandarsi a cosa serva la scuola oggi, nell’epoca di internet, di Wikipedia, dei mille social che creano sempre nuove relazioni out of control fra i ragazzi, a volte determinando nuove dipendenze, altrettanto pericolose quanto le vecchie droghe, come ha sottolineato Fuggetta [2018]. Liberata dall’obbligo di fornire soprattutto nozioni, proprio in questa situazione la scuola torna a essere necessaria in quanto «maestra di vita», dovendo insegnare ai ragazzi a comprendere fenomeni complessi su cui esercitare una capacità di giudizio, che permetta loro di affrontare situazioni incerte e difficili con la capacità di costruire comunità, che possano usare tutti gli strumenti offerti dalla tecnologia senza esserne usati[ ]. Questo richiede una scuola che investa di più in cultura scientifica, non in opposizione alla cultura umanistica, ma che integri le conoscenze relative alle STEM in una visione della persona che deve potersi fondare su una cultura dell’uomo e della società che costituisce la base del sapere. 12

Disporre di una solida formazione matematica significa aumentare il nostro grado di libertà nei confronti delle tecnologie che oggi dominano la nostra vita. Significa aumentare il nostro grado di comprensione di fenomeni complessi, senza cadere nella trappola di

sempre nuove dipendenze tecnologiche, come chiaramente indica Carimali [2018], che esorta a cogliere il valore delle STEM nella loro integrazione con la cultura umanistica come fattore fondamentale di libertà. Se dunque l’approccio scientifico-matematico deve fornire ai giovani gli strumenti metodologici per strutturare una capacità di ragionamento più sistematico – che impieghi allo stesso tempo capacità di astrazione e strumenti di sperimentazione – le discipline umanistiche offrono a quel ragionamento la profondità che permette di posizionare i propri giudizi nel tempo e nello spazio. La tanto bistrattata storia e l’ormai dimenticata geografia divengono oggi più che mai strumenti essenziali per affrontare la complessità di eventi altrimenti incomprensibili. L’insegnamento dell’italiano serve del resto a dare a tutti «le parole per dirlo», cioè il primo strumento per esprimere con autonomia e appropriatezza un pensiero, senza che siano altri ad appropriarsi dei nostri sentimenti, parlando per noi o formulando luoghi comuni passati per buon senso. Un’attenzione particolare è rivolta agli alunni di origine straniera, soprattutto a quelli di seconda generazione, che con la conoscenza della lingua acquisita devono in molti casi agire da referenti anche della loro famiglia, assumendo quindi un ruolo fondamentale nell’integrazione dell’intero nucleo familiare. Per permettere alle istituzioni scolastiche di progettare curricula in grado di garantire un adeguato svolgimento sia delle attività di base sia delle attività sul territorio è indispensabile prevedere il tempo pieno. Purtroppo anche il tempo pieno è distribuito in modo disuguale sul territorio nazionale, con gli estremi a Milano, dove circa il 90% dei bambini delle primarie poteva nel 2018 frequentare scuole a tempo pieno, e a Palermo, dove invece si scendeva al 4-5%, con una media nazionale che secondo il MIUR si assestava intorno al 33% del totale delle classi della scuola primaria. È comunque in una scuola a tempo pieno che può essere sviluppato quell’insieme di attività volte a costruire una nuova socialità, a partire proprio dal momento in cui si mangia insieme, momento fondamentale per un’educazione civica nel senso più pieno del termine. Per queste ragioni il Rapporto finale ha attribuito molta enfasi alle materie CAMPUS (Computer/Coding, Arte, Musica, Polis, Sport: cfr. cap. 6, par. 4) e all’educazione alla creatività e all’affettività, da condividere e costruire con il territorio tramite i citati Patti educativi di comunità: sono questi i cardini per costruire comunità che vogliano ritrovare la via dello sviluppo dopo la crisi[ ]. 13

In questo ambito va avanzata una riflessione sull’utilizzo della didattica a distanza e più in generale sulla disponibilità delle nuove tecnologie digitali. Abbiamo visto in precedenza

due importanti criticità: il ritardo italiano nello sviluppo di competenze digitali (evidenziato dall’indice DESI della Commissione europea) e l’età avanzata dei nostri docenti. La chiusura imposta dalle autorità sanitarie per evitare il dilagare del contagio ha trovato la scuola italiana impreparata a utilizzare le nuove tecnologie digitali a scopi didattici, nonostante da oltre trent’anni le università italiane svolgano studi ed esperienze sugli strumenti digitali come integrativi alla formazione in presenza[ ]. 14

In questa situazione di emergenza, nella maggioranza dei casi la didattica a distanza non è stata una scelta, ma il modo in cui le scuole hanno mantenuto il contatto con i propri allievi, affidandosi a docenti che hanno utilizzato in modo analogico il mezzo digitale, riproponendo in modalità remota la scansione e i modi della lezione in presenza, senza sfruttare appieno gli strumenti che le nuove tecnologie mettono a disposizione. Tuttavia, molti insegnanti hanno sviluppato inedite strategie e nuovi metodi per far utilizzare ai ragazzi stessi gli strumenti digitali al fine di esprimere la loro creatività e comprendere meglio le discipline studiate. È a partire dall’esperienza di questi docenti che la didattica a distanza nel periodo del lockdown va ripensata e valorizzata in quanto strumento per rispondere in maniera mirata a bisogni specifici all’interno di approcci educativi personalizzati[ ]. Nelle parole del Rapporto finale, la didattica a distanza 15

va intesa come una risorsa che può supportare e integrare la didattica in presenza nel rispetto, però, dell’età degli allievi e delle allieve e dei loro percorsi educativi. Tutto questo richiede però un rapido completamento della copertura nazionale della rete di connessione, così come un’integrazione fra tecnologie di broadcasting. In secondo luogo occorre procedere a una forte essenzializzazione del curricolo che va reso più coerente con la centralità delle nuove competenze e più attento alla continuità educativa tra i vari ordini di scuola.

Questa varietà di approcci si può combinare efficacemente solo in un contesto di autonomia responsabile e partecipata. Come chiarito fin dalla legge n. 59/1997, l’autonomia funziona solo se sorretta dalla partecipazione delle famiglie, del territorio, delle istituzioni locali, cioè se la scuola è considerata non un servizio assistenziale, o peggio un parcheggio per i figli, bensì il perno dello sviluppo dell’intera comunità. Questo implica un’interazione fondamentale fra le istituzioni scolastiche e il livello nazionale, che deve definire gli standard da raggiungere in tutto il paese (a partire dai previsti ma non ancora attuati Livelli essenziali delle prestazioni, LEP), unitamente a un rilancio del Sistema nazionale di valutazione (SNV), indispensabile per permettere a ogni istituzione di verificare e migliorare il proprio posizionamento. Anche in tal caso bisogna tener conto delle condizioni delle aree periferiche e marginali, le più fragili del paese, che richiedono – come scritto nel Rapporto finale – un piano di accompagnamento: a partire dal

Mezzogiorno, dove oggi si rilevano i fenomeni più preoccupanti di divario nei risultati scolastici e i dati più preoccupanti in termini di abbandono e di dispersione scolastica e formativa. L’autonomia è del resto lo strumento necessario per permettere alla scuola di uscire dalle proprie mura e «invadere» il territorio: non solo per consentire ai ragazzi di conoscere il proprio ambiente, ma anche per fertilizzare il contesto territoriale, che però deve presentarsi come comunità educante nel suo insieme, anche utilizzando quei Patti educativi di comunità descritti in precedenza. È in questa prospettiva di una scuola che superi i confini delle aule che occorre lanciare un grande piano nazionale per una nuova architettura scolastica, volta a ridisegnare gli spazi educativi affinché siano al servizio delle proposte didattiche che la scuola vorrà attuare e non il vincolo che riporta sempre gli studenti dentro a classi intese come unità amministrative da cui non si può sfuggire[ ]. 16

Durante il terremoto dell’Emilia abbiamo sperimentato le molteplici possibilità di «fare scuola» fuori dai rigidi spazi dell’aula, ma abbiamo anche verificato le possibilità di progettare e realizzare spazi di apprendimento più flessibili e liberi di quelli che il sisma aveva abbattuto. Quello straordinario patrimonio di scuole ricostruite nei pochi mesi successivi al sisma è ancora presente sul territorio, come un catalogo vivente delle diverse possibilità disponibili per un’architettura scolastica in cui la forma degli spazi non determini i contenuti educativi[ ]. 17

Infine, riguardando nell’insieme tutti i temi finora trattati, si rende evidente l’emergere oggi di una nuova «questione meridionale», che il COVID-19 ha messo in drammatica evidenza e che deve essere affrontata in quanto problema dell’intera nazione. Non è solo la mancanza di connessione digitale che ha impedito di raggiungere tutti gli studenti durante il blocco delle attività scolastiche: molti ragazzi nelle aree marginali e periferiche non sono stati raggiunti perché là è mancata una presenza della scuola mirata ad affrontare quelle specifiche situazioni di disagio. Per affrontare questa emergenza è necessario non solo investire nelle strutture materiali, ma soprattutto in dirigenti, docenti e personale, affinché nel Mezzogiorno e in tutte le aree ai margini si verifichino le condizioni che permettano alle loro istituzioni territoriali di mettere in pratica l’autonomia e agire, dal basso, per affrontare quei ritardi che costituiscono il vero ostacolo allo sviluppo dell’intero paese.

3. La formazione delle classi dirigenti

Qui si pone il tema, oggi ineludibile, della formazione delle classi dirigenti del paese, argomento quasi tabù in un’epoca che pare disconoscere le competenze e irridere le esperienze. D’altra parte la scuola sembra essere diventata un ascensore immobile, non più in grado di portare chiunque ne abbia le capacità e la volontà ai piani alti della nostra struttura economica e sociale. Come abbiamo evidenziato in precedenza, già prima della pandemia in Italia quasi un ragazzo su due aveva un diploma che non era sufficiente a garantirgli un lavoro; nel Sud solo un diplomato su tre trovava un impiego al termine degli studi; la stessa laurea non era più garanzia di crescita sociale, se poco meno di quattro laureati su dieci in Italia – ma quasi sei su dieci nel Mezzogiorno – non trovavano soddisfazione alle loro ambizioni di lavoro. Ricostruire curricula scolastici che permettano di formare i ragazzi e conquistare competenze, abilità e capacità di giudizio diviene quindi necessario, ma diviene altrettanto fondamentale che queste siano «virtù» riconosciute e condivise come condizioni necessarie per lo sviluppo dalle imprese, dalle istituzioni e dalla società tutta. Se nel secolo scorso le competenze richieste erano frammentate, specialistiche, gerarchiche, oggi occorre la capacità di affrontare l’incertezza, di gestire situazioni complesse, di fare squadra, di esprimere creatività, e che ciascuno sia posto nella condizione di utilizzare al meglio i propri talenti; in altre parole, occorre formare le persone a esprimere la loro capacità di costruire solidarietà e consolidare la comunità. I nuovi leader devono essere in grado di fare tesoro delle proprie esperienze, ma anche saper valorizzare le abilità e le conoscenze di quanti operano per una crescita che abbia l’ambizione di prolungarsi nel tempo, perché socialmente e umanamente (oltre che ecologicamente) sostenibile. Le imprese oggi richiedono scuole per rispondere non solo alle loro esigenze tecniche ma sempre più per disporre di persone, in posizioni sia apicali sia intermedie, in grado di vedere oltre la siepe dell’incertezza. Competenza e visione diventano oggi quanto mai necessarie per chi si candida a guidare la res publica, dove per troppo tempo le carriere si sono forgiate al di fuori, e a volte contro la scuola, in una separatezza nei confronti della società che, nonostante tanti affermino il contrario, sembra essersi allargata.

Per la precisione, ai circa 8 milioni e mezzo di allievi delle scuole statali e paritarie vanno aggiunti 1.721.790

[1]

iscritti alle università nel 2018/19, a cui si sommano i 76.072 iscritti alle accademie di formazione artistico-

musicale (fonte: Portale dei dati dell’istruzione superiore del MIUR), a cui si aggiungono i 15.752 iscritti ai 616 corsi dei 104 istituti tecnici superiori (fonte: INDIRE). «Una scuola aperta a tutti ha come priorità l’attenzione al tema della fragilità e ai bisogni delle persone, a

[2]

partire dagli alunni disabili, la cui presenza deve costituire un’opportunità di arricchimento per tutti, studenti e docenti. Essa infatti costringe a porre più attenzione anche a quell’educazione all’emotività e all’affettività che diviene strumento sempre più rilevante per una scuola che si propone di costruire comunità inclusive e partecipate» (Rapporto finale). [3]

Si rilegga oggi l’intero Rapporto della Commissione [Delors 1997] per verificare quanti dei rischi allora

prefigurabili si sono effettivamente materializzati nel nostro secolo, primo fra tutti «il rischio di creare un abisso tra una minoranza di individui capaci di trovare la loro strada in questo mondo globale e la maggioranza che ha la sensazione di essere in balìa degli eventi e di non avere voce in capitolo nel futuro della società, generando così rischi di regresso della democrazia e del diffondersi della rivolta» [ibidem], una rivolta che ha preso la forma in molti paesi di un populismo che ha disvelato tutti i suoi tratti autoritari. La Raccomandazione del Consiglio europeo relativa a sistemi di educazione e cura della prima infanzia di alta

[4]

qualità (COM-2018-271 final, Bruxelles, 22 maggio 2018) afferma inoltre «il diritto di ogni persona a un’assistenza tempestiva e su misura per migliorare le prospettive di occupazione o di attività autonoma, alla formazione e alla riqualificazione, al proseguimento dell’istruzione e a un sostegno per la ricerca di un impiego. Promuovere lo sviluppo delle competenze è uno degli obiettivi della prospettiva di uno spazio europeo dell’istruzione che possa […] sfruttare a pieno le potenzialità rappresentate da istruzione e cultura quali forze propulsive per l’occupazione, la giustizia sociale e la cittadinanza attiva e mezzi per sperimentare l’identità europea in tutta la sua diversità». A questo proposito così scriveva il Consiglio europeo nella sua Relazione sulla Raccomandazione citata alla

[5]

nota precedente: «I primi anni della vita di una persona sono i più formativi per quanto riguarda lo sviluppo delle competenze di base e l’apprendimento di attitudini che influenzano enormemente le successive prospettive d’istruzione e d’impiego e in generale i successi e le soddisfazioni dell’esistenza. Il pilastro europeo dei diritti sociali stabilisce che i bambini hanno diritto a educazione e cura della prima infanzia a costi sostenibili e di buona qualità. Esso prosegue affermando che i bambini provenienti da contesti svantaggiati hanno diritto a misure specifiche tese a promuovere le pari opportunità». Il Rapporto finale mette in evidenza come nel comparto 0-3 la quota dei bambini che frequentano i nidi (50%

[6]

comunali e 50% paritari) sia del 24,7% del totale contro una media del 33% in Europa; questa media va dal 47,1% della Valle d’Aosta all’8,6% della Campania. La situazione della scuola dell’infanzia è migliore rispetto a quella del nido, anche grazie alla presenza massiccia delle scuole statali (il 60% del totale, oltre a un 10% di scuole comunali, in gran parte al Nord) e a quella significativa delle paritarie (30%). Il d.lgs. n. 65/2017 propone un sistema integrato 0-6 che ponga sotto la guida pubblica un sistema composto da scuole statali, comunali e paritarie, mettendo a disposizione delle Regioni fondi per garantire una pari qualità del servizio. Nel caso della formazione professionale misuriamo ancor più la divergenza fra il Nord Italia dove, sia pure con

[7]

modelli diversi di selezione e controllo da parte delle amministrazioni regionali dei corsi offerti dai soggetti accreditati, vi è una fitta rete di relazioni tra formazione, amministrazioni e imprese, e il Sud dove, tranne in Puglia, vi è una mancanza pressoché generalizzata di formazione professionale. [8]

Sulla relazione tra competenze e conoscenze e sui rischi di un approccio per sole competenze si veda il

dibattito già ricco dieci anni fa in Ribolzi [2011] e Pellerey [2011].

I dati sono ricavati dal Monitoraggio nazionale INDIRE del maggio 2020, nel quale si specifica inoltre che le

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fondazioni sono 49 nel Nord (di cui 20 nella sola Lombardia), 26 nel Centro e 29 nel Sud e Isole. Di queste, 41 sono inerenti alle tecnologie del «Made in Italy» e le restanti alle tecnologie per la produzione e i servizi. A riprova di questo si veda l’esempio di successo dell’Accademia italiana della Marina mercantile di Genova

[10]

(AIMM), un ITS per la mobilità sostenibile che offre diversi corsi post-secondari che permettono di conseguire il titolo professionale presso l’Autorità marittima nazionale, creato per rispondere a un preciso fabbisogno educativo: consentire ai ragazzi diplomati all’istituto nautico, da tempo in crisi, di diventare sottoufficiali e ufficiali della Marina mercantile; un percorso, questo, in precedenza acquisibile solo con percorsi individuali non strutturati. A una denominazione chiara – che fa pensare all’Accademia navale della Marina militare – corrisponde un percorso strutturato che porta a un titolo riconosciuto e prestigioso. L’altro esempio di successo è l’ITS MAKER di ModenaReggio Emilia, il quale, pur mantenendo l’acronimo ITS che richiama troppo da vicino la scuola superiore, offre corsi disegnati e gestiti direttamente con le imprese del settore meccatronica e packaging e quindi ha trovato una sua collocazione in un sistema territoriale fortemente caratterizzato da una diffusa cultura meccanica, che riconosce e premia la formazione applicata. [11]

Sui temi della formazione degli insegnanti e sulla necessità di provvedere a un percorso formativo che

preveda almeno un anno di tirocinio, rinvio interamente al Rapporto finale. Su questo si segnala, quale rilevante strumento per diffondere nelle scuole la cultura della solidarietà come

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educazione civile, l’importante protocollo Attivazione progetti finalizzati a promuovere l’educazione alla convivenza civile, sociale e solidale, quale parte integrante dell’offerta formativa, firmato dal ministero dell’Istruzione e dalle associazioni pedagogiche professionali, scientifiche e universitarie il 27 agosto 2020. Per me questa considerazione è indissolubilmente legata all’esperienza del terremoto dell’Emilia e al ruolo

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giocato dalla scuola civica di musica Fratelli Andreoli di Mirandola, che ha costituito, immediatamente dopo il sisma e poi nel periodo della ricostruzione e del rilancio, il vero collante della comunità educativa di quel territorio, tenendo uniti i ragazzi e i bambini dell’area colpita, rilanciando una creatività sostenuta dallo studio e un’affettività che era rivolta in particolare ai più fragili e ai disabili. Sulla base di questa esperienza la Regione Emilia-Romagna ha approvato il 16 marzo 2018 la legge regionale n. 2 (Norme in materia di sviluppo del settore musicale), con cui legare le scuole civiche di musica – derivate largamente dalle esperienze delle antiche bande municipali – e la scuola come referente del territorio. Ricordo che la prima forma di didattica a distanza è stato il programma Non è mai troppo tardi, trasmesso

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dalla RAI nel 1960, con cui il maestro Alberto Manzi ha insegnato a leggere e a scrivere a milioni di italiani, in un paese che negli anni del miracolo economico aveva ancora una rilevante quota di analfabeti. L’archivio e i documenti della straordinaria esperienza del maestro Manzi sono conservati presso l’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna. Sulla formazione a distanza ricordo il convegno organizzato dal CNR il 28-29 marzo 1994 dal titolo Multimedia and Distance Learning for Science and Technology. Per quanto riguarda la ricerca sull’apprendimento a distanza è tuttora utile il lavoro di Bagnara e colleghi [2014]. [15]

Sulle motivazioni, emozioni e sperimentazioni della didattica a distanza nella fase del COVID-19 è stata

realizzata una ricerca approfondita sulle scuole di Bergamo e Brescia, per la quale ringrazio Maria Amodeo, dirigente dell’Istituto comprensivo Natta di Bergamo. Molti sono stati i casi di successo nell’uso della didattica a distanza: ad esempio, durante il lockdown i ragazzi dell’Istituto professionale alberghiero Vergani di Ferrara – come ricorda il suo dirigente Max Urbinati – hanno girato dei video sulla loro esperienza che sono stati discussi collettivamente per poi essere materia di una lezione partecipata. D’altra parte, già nel 2010 lanciammo come

assessorato regionale dell’Emilia-Romagna «ScuolAppennino», un’esperienza di connessione continua fra piccole scuole dell’Appennino, molte delle quali pluriclasse, che si trovarono quindi a poter interagire grazie alle loro lavagne multimediali in una «scuola grande come la regione». La scuola statale dispone (i dati sono del 2018) di 58.842 edifici scolastici, di cui 21.000, quindi poco più di un

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terzo, costruiti dopo il 1976, mentre 23.800 sono datati tra il 1946 e il 1976 e 3.800 prima del 1946. Sul rapporto fra architettura e pedagogia si veda il volume curato da Tosi [2019], che raccoglie le riflessioni di un gruppo di ricercatori dell’INDIRE sulla necessità di creare spazi flessibili, riorganizzando gli ambienti scolastici senza bisogno di interventi strutturali. Sulle tante esperienze di scuola che voglia uscire dalle sue mura si veda Lorenzoni [2018]. Durante il terremoto dell’Emilia il presidente della Regione Vasco Errani, nominato commissario delegato per

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l’emergenza sisma, lanciò due bandi per la costruzione di scuole, il primo relativo a opere di primo intervento, il secondo a edifici stabili. Si decise che una stessa impresa potesse costruire non più di due scuole, cosicché sul territorio operarono in contemporanea una molteplicità di aziende, con tecnologie diverse, ma rispondenti agli stessi requisiti. Una raccolta sistematica della ricostruzione delle scuole è in Regione Emilia-Romagna [2013].

Conclusioni

Tre questioni e dieci temi per un dibattito nazionale sulla scuola e sullo sviluppo

1. Quale scuola per quale paese Il cuore di questo libro è il rapporto tra educazione e sviluppo. Se si investe in istruzione, formazione, ricerca vi sono crescita economica e sviluppo sociale. L’Italia non ha investito in educazione, anzi dal 2009 in poi ha disinvestito, e quindi è stata inevitabile e prevedibile la caduta del nostro tasso di crescita, con il conseguente accrescersi delle divergenze territoriali e delle disuguaglianze sociali. Siamo caduti nella trappola della bassa crescita, cioè in quella situazione per cui un ridotto tasso di crescita dell’economia non permette di investire risorse finanziarie adeguate in educazione e ricerca, cosicché nella fase successiva mancano le risorse umane per sostenere lo sviluppo, reiterando un circolo vizioso che si traduce in un equilibrio di sottoccupazione da cui è sempre più difficile uscire. Nella nostra storia recente il momento più critico è costituito dagli anni fra il 2009 e il 2012, quando per uscire dalla prima grande crisi della globalizzazione e per affrontare il salto tecnologico – il passaggio dalle telecomunicazioni alla connessione in continuo – tutti i paesi hanno investito in competenze e infrastrutture. In Italia, presi nella morsa del debito pubblico, si decise invece di tagliare in istruzione e ricerca, con il risultato che il nostro paese si trova oggi all’ultimo posto in Europa per competenze digitali, con livelli d’istruzione più bassi della media europea e con una crescente povertà educativa che aumenta la divaricazione fra Nord e Sud e diviene il vero limite allo sviluppo. Proprio questa reiterata politica di taglio della spesa pubblica per l’educazione ha fortemente vincolato la scuola italiana nel suo cammino verso il superamento della «scuola fordista», che era l’obiettivo principale dell’autonomia scolastica. Andare oltre quell’ordinamento, che incasellava ciascuno in un ordine prestabilito e guidato dall’alto escludendo chi non era in condizione di conformarvisi, significa realizzare un sistema educativo che veda la persona come obiettivo della formazione, in una visione in cui, come scriveva l’UNESCO all’inizio degli anni novanta, imparare a vivere assieme, imparare a conoscere, imparare a fare e imparare a essere divengono gli ineludibili pilastri di un nuovo sviluppo umano.

Il COVID-19 rischia di riportarci indietro: a una scuola sempre in attesa dell’ultima ordinanza ministeriale, una scuola in cui ogni allievo viene confinato nello spazio chiuso di un’aula e poi nel recinto del proprio banco, in cui i movimenti di ognuno vengono misurati al millimetro e viene meno ogni discussione sui contenuti e sui modi di apprendimento e insegnamento. E invece è proprio in questa fase di crisi che bisogna ritrovare la natura profonda della scuola, del suo essere incubatrice di socialità o, meglio, costruttrice di comunità. Riemergono tutti insieme gli obiettivi storicamente affidati alla scuola: educare la persona e la comunità come insieme solidale di individui che vogliono condividere un cammino di sviluppo e formare i leader che li rappresentano. E allora in questo momento la riapertura delle scuole deve andare oltre i temi della salute pubblica, certamente imprescindibili, ma non sufficienti per riportare il paese nel suo insieme su un cammino di ripresa, e portare l’attenzione su uno sviluppo umano che abbia al centro la scuola stessa come istituzione indispensabile per tenere unita la comunità e permettere a ognuno di partecipare alla vita collettiva, mettendo a disposizione le proprie competenze ed esperienze. Nell’ottica di un rilancio dell’educazione come perno dello sviluppo umano sono tre le questioni, qui articolate in dieci temi, che occorre porre al centro della nostra attenzione: 1. lotta alla povertà educativa e alla dispersione scolastica; 2. rilancio dell’autonomia e rapporto con il territorio; 3. le persone al centro dello sviluppo. Vediamole in dettaglio nei paragrafi che seguono.

2. Povertà educativa e dispersione scolastica Per troppo tempo ci siamo illusi – come paese – di disporre di risorse umane di alta qualità, potendo contare su innate doti di intuizione, sulla pregressa esperienza e su una diffusa alfabetizzazione di base. Certamente grazie a queste caratteristiche abbiamo affrontato la ricostruzione del dopoguerra e dato vita a un primo boom economico, ma quanto più accelerano i cambiamenti tecnologici mutando il contesto in cui viviamo, tanto più quelle caratteristiche divengono insufficienti. Oggi tutte le statistiche dicono che la nostra dotazione di risorse umane non è adeguata alla globalizzazione e alla digitalizzazione che si sono imposte dall’inizio del nuovo secolo. Il tasso attuale di dispersione scolastica, sia esplicita (coloro che abbandonano in via definitiva la scuola senza raggiungere un titolo di studio) sia implicita (coloro che pur concludendo il ciclo di studi non dispongono delle competenze minime richieste), insieme al numero di quanti non studiano e non lavorano e di quanti se ne vanno altrove per

trovare uno sbocco soddisfacente al loro percorso di studi, sono oggi un limite alla crescita economica e minano anche le fondamenta della nostra democrazia, introducendo nel paese il virus dell’iniquità sociale. Per affrontare questa condizione di povertà educativa del paese sono necessari: 1. un grande piano nazionale contro la dispersione scolastica, per recuperare quanti hanno abbandonato o sono a rischio di abbandono; 2. un rilancio dell’istruzione e della formazione professionali per diffondere nel paese una base di competenze al passo con i tempi e ridurre lo spreco di talenti; 3. un progetto di alfabetizzazione digitale, che costituisca il punto di partenza di percorsi di formazione permanente che coinvolgano tutta la popolazione. Porre attenzione ai ragazzi con maggiori difficoltà, realizzando interventi di sostegno (anche con il ricorso ai Patti educativi di comunità) che permettano di mobilitare le forze presenti sul territorio, vuol dire ridurre lo spreco di risorse umane e rimettere in circolo le energie oggi inutilizzate; vuol dire ridurre i rischi di una frattura sociale i cui costi diverrebbero insostenibili nella fase successiva al COVID-19, in cui tutti saremo chiamati a una difficile fase di riassestamento. A tal fine è fondamentale la massiccia promozione in tutte le aree del paese di un più stretto rapporto tra l’istruzione professionale, gestita dallo Stato, e la formazione professionale, in mano alle Regioni. Una ricomposizione di questo quadro – rispettando le competenze delle Regioni, ma ridisegnandole entro un quadro di coerenza nazionale, estendendo la FP a tutto il territorio italiano e garantendone lo sviluppo fino al livello terziario con un massiccio intervento sugli ITS – diviene uno strumento fondamentale per superare il gap di competenze che ci separa dagli altri paesi europei. A questo si deve aggiungere uno sforzo capillare per sostenere la formazione permanente, specialmente per quanto riguarda l’alfabetizzazione degli adulti nelle nuove discipline legate alla digitalizzazione dell’economia e della società, una misura necessaria per evitare ulteriori barriere fra le generazioni e utilizzare al meglio tutte le forze disponibili.

3. Autonomia e territorio Uno sforzo di tale portata può essere sostenuto solo se tutta la società si pone in un’ottica di cambiamento, ma questo richiede un rilancio dell’autonomia e un maggiore coinvolgimento del territorio. Lo sosteneva già nel 1835, nel corso della sua permanenza nella giovane democrazia americana, anche Alexis de Tocqueville [1968, 790]: Ogni governo centrale adora l’uniformità; l’uniformità gli risparmia l’esame di un’infinità di particolari, di cui dovrebbe occuparsi se

occorresse fare le norme per gli uomini, invece di far passare indistintamente tutti gli uomini sotto la stessa norma.

Questo è in fondo il tema che si pone ora, guardando oltre una tragedia, quella del COVID-19, che ha chiamato tutto il paese a rispondere, unito, a una piaga che pure ha colpito in modo differenziato sul territorio nazionale. Tuttavia, per uscire da questa crisi, per evitare che proprio l’emergenza diventi l’unico collante del paese, occorre dare fiducia e strumenti operativi alla molteplicità dei soggetti, delle comunità e delle istituzioni che animano la vita del paese. La legge del 1997 ancorava le norme sull’autonomia scolastica a una visione più generale di un paese che, apprestandosi ad affrontare i grandi cambiamenti previsti con l’entrata nell’età della globalizzazione, della digitalizzazione e dell’euro, puntava sulla responsabilità e sulla partecipazione delle istituzioni regionali e locali e delle stesse famiglie, in una visione aperta e dinamica della società italiana. Quel disegno si è progressivamente arenato, non solo per le resistenze degli apparati amministrativi centrali, ma anche per la frammentazione e la debolezza delle istituzioni territoriali e delle organizzazioni sociali di un’Italia che, a centocinquant’anni dalla sua unificazione, fatica ancora a individuare un interesse comune e comuni obiettivi di sviluppo. Unità e autonomia non sono in contraddizione fra loro, ma devono essere considerate parti complementari di uno stesso progetto che, guardando al di là dell’emergenza, veda nella scuola e nella qualità delle sue risorse umane il principale fattore di sviluppo dell’intero paese. Anche in questo caso vi sono alcuni interventi necessari: 4. la rivisitazione e il rilancio delle norme sull’autonomia; 5. la messa a disposizione di risorse finanziarie e umane adeguate, con un piano nazionale di architettura scolastica coerente con i nuovi bisogni educativi; 6. la definizione dei rapporti fra amministrazione centrale, Regioni, Comuni e Province per garantire all’autonomia strutture adeguate. Rivedere le norme sull’autonomia scolastica con uno sguardo che abbia lo stesso slancio in avanti della legge del 1997 implica non solo un’effettiva azione di spostamento di poteri verso le scuole, ma anche un maggiore impegno degli organi centrali a definire gli obiettivi educativi da raggiungere da parte di tutti, garantendo a ogni istituzione scolastica la possibilità di offrire i Livelli essenziali di prestazione necessari affinché ogni allievo acquisisca effettivamente le competenze previste. Questo implica fornire a ogni scuola le risorse finanziarie indispensabili per gestire un proprio progetto educativo poliennale, aprendosi al territorio e potendo disporre delle professionalità necessarie. Il che impone di affrontare il tema delle strutture.

In Italia, diversamente che in altri paesi, si è ritenuto di non assegnare alle scuole la proprietà e la gestione delle strutture scolastiche, lasciandole – secondo lo schema derivato dalla legge Casati – ai Comuni per quanto riguarda le scuole dell’obbligo e umanistiche e alle Province per quanto riguarda le scuole scientifiche e tecniche. Si è poi attribuito l’obbligo di programmazione delle attività e dell’organizzazione scolastica sul territorio alle Regioni, che tuttavia non dispongono del personale, saldamente nelle mani degli Uffici scolastici regionali dipendenti dal ministero dell’Istruzione, né delle strutture, a carico degli enti locali. Su questo punto bisogna fare chiarezza, anche per superare fraintendimenti, conflitti e inerzie che si traducono in alibi per giustificare la mancata attuazione degli impegni assunti con i cittadini, e che non può più essere affidata alla labile richiesta di «leale collaborazione interistituzionale». Qui bisogna riprendere il cammino interrotto verso l’implementazione di solide relazioni fra Stato centrale e autonomie regionali come parte fondamentale dell’assetto costituzionale che il paese si vuole dare. In ogni caso, per gestire i bisogni finanziari e gli investimenti in strutture, bisogna adottare programmazioni poliennali coerenti con un disegno di offerta educativa che collochi la scuola nel territorio e garantisca lo sviluppo delle persone e della comunità in un tempo lungo. È in questa prospettiva che si deve affrontare un piano nazionale di architettura scolastica, quanto mai necessario se si pensa che è stato costruito dopo il 1976 solo un terzo degli edifici oggi disponibili, edifici che oggi divengono limiti per una pedagogia che vuole liberarsi dai vincoli dati dai vecchi (e nuovi) muri della scuola. È inoltre indispensabile tenere bene a mente che le dotazioni strutturali della scuola italiana vedono oggi la necessità di un piano straordinario per il Mezzogiorno e in particolare per le sue aree metropolitane, perché non si possono raggiungere obiettivi di una nuova unità nazionale partendo da dotazioni materiali così difformi.

4. Le persone al centro del nostro sviluppo Tuttavia, al centro del rilancio del paese devono stare le persone, e innanzitutto i nostri ragazzi, tenendo conto che la scuola è l’unica istituzione che vede progressivamente trasformarsi i suoi utenti, anzi è l’istituzione che deve garantire a ognuno il diritto a un cambiamento tale da consolidare la propria persona, e così facendo la propria capacità di partecipazione attiva alla vita e allo sviluppo della comunità. Per garantire questo impegno, che la Costituzione fissa tra i fondamenti della Repubblica, è necessario offrire ai ragazzi percorsi adeguati al tempo in cui vivono e in cui dovranno a loro volta assumersi

responsabilità; e allora la ridefinizione dei curricula, della durata degli studi, delle attività da condividere con il territorio diviene essenziale per garantire a tutti il raggiungimento degli obiettivi condivisi. Un rilancio del diritto allo studio oggi significa permettere a ogni allievo non solo di disporre degli ausili allo studio, ma anche delle condizioni per poter utilizzare appieno tutti gli strumenti tecnologici utili all’apprendimento, evitando – come in questi tempi di COVID-19 – che si creino nuovi spartiacque fra chi è in grado di disporre di tutti gli strumenti e di utilizzarli, a volte pure lamentandosene, e chi non è in condizione di farlo, e magari non è neppure in grado di dare voce al proprio malessere. Bisogna domandarsi se non sia giunto il momento di portare il ciclo secondario da cinque a quattro anni innalzando l’obbligo scolastico – da raggiungere anche con percorsi professionalizzanti che portino a una qualifica – dagli attuali 16 anni (senza riconoscimento di fine ciclo) ai 17. Le molte sperimentazioni già in corso da anni sui licei quadriennali sono in questo senso confortanti. D’altra parte per coloro che seguono il percorso triennale di FP si potrebbe delineare un quarto anno – già diffuso in molte Regioni del Nord – basato sui già citati Programmi di inserimento lavorativo (PIL), cioè con un tirocinio in parte curricolare e in parte lavorativo monitorato da un docente e da un tutor aziendale o con un apprendistato formativo, che potrebbe portare a un diploma con possibilità di accesso a un ITS, completando così la filiera. Si potrebbe poi formulare un piano, adeguatamente finanziato e dotato di personale strutturato, per permettere agli ITS – che ridenominerei «istituti superiori di tecnologie applicate» – di raggiungere l’obiettivo di 150.000 iscritti in quattro anni. Sarebbe opportuno per il nostro intero sistema produttivo, non solo per disporre di personale adeguatamente formato per affrontare i cambiamenti già prevedibili, ma anche per coinvolgere le imprese in attività educative, a loro stesse necessarie per aumentare la capacità di innovazione. Contestualmente bisogna interrogarsi se non sia tempo che tutti i bambini del nostro paese possano contare su una scuola dai 3 ai 6 anni come condizione necessaria per la loro crescita. Ciò richiede che tutte le Regioni dispongano di una fitta rete di scuole dell’infanzia e anche di nidi, come già avviene in molte aree del Nord. In ogni caso una scuola aperta, integrata con il territorio e inclusiva ha bisogno di investire sulle persone, dai bambini agli adulti, proprio per la necessità di innalzare la qualità delle risorse umane di tutto il sistema-paese, requisito essenziale non solo per riprendere un cammino di sviluppo, ma anche per ridare respiro a una democrazia minacciata dai facili populismi dei giorni nostri. Questo però implica investire sui bambini, sui ragazzi, sugli adolescenti, e anche sui loro docenti, sui loro maestri, sui loro professori, implementando percorsi formativi che alle

competenze disciplinari sommino quelle pedagogiche e incentivino capacità di lavorare insieme e interconnessione con le università e le istituzioni di ricerca, le quali a loro volta dovranno basare maggiormente le loro attività sul terreno della pratica scolastica quotidiana. Investire sui docenti vuol dire anche predisporre carriere che permettano loro di investire su sé stessi, liberi da condizioni di precariato che difficilmente consentono una crescita professionale. Bisogna investire anche sui dirigenti, a cui viene chiesto di governare strutture di grande complessità in assenza di specifici corsi formativi, così come sulle altre figure dell’autonomia e su tutto il personale, non sempre dotato di una preparazione adeguata, a cui in particolare nella fase di ripresa dopo il COVID-19 verrà chiesto di svolgere funzioni per cui occorrono competenze aggiuntive. Un rilancio degli organi di governo delle autonomie scolastiche richiede infine la partecipazione e la responsabilizzazione delle famiglie, che in questo periodo hanno dovuto subire passivamente le decisioni altrui e che invece devono tornare ad animare gli organi di governo delle scuole dell’autonomia. Affinché sia possibile andare oltre un’emergenza che ha diffuso incertezze e apprensione, è necessaria una più attenta presenza delle famiglie in una scuola che costituisca il legame fra la comunità locale e la comunità nazionale, fra il presente quotidiano e un futuro praticabile. I temi fondamentali in questo ambito sono: 7. l’elaborazione di un piano per il diritto allo studio e l’accesso alle nuove tecnologie; 8. la ridefinizione di contenuti, curricula e durata degli studi; 9. la preparazione degli insegnanti, dei dirigenti e di tutto il personale; 10. la partecipazione delle famiglie e il rilancio degli organi collegiali. In una fase così delicata come quella attuale sarebbe opportuno che questi temi divenissero gli argomenti centrali di un grande dibattito pubblico volto a rimettere l’educazione al centro del nostro sviluppo.

5. Sviluppo e democrazia Alla fine di questo difficile decennio ci ritroviamo in un altro momento delicatissimo per il nostro futuro, perché si sommano ancora una volta il peso di una crisi globale senza precedenti e un nuovo salto tecnologico dalle prospettive oggi non del tutto immaginabili. Per poter affrontare queste sfide servono persone, competenze, conoscenze. Nell’epoca dei big data e dell’intelligenza artificiale occorre tuttavia evitare che si creino nuovi dualismi – fra Nord e Sud, fra garantiti e abbandonati, fra inclusi ed esclusi – in una

società che deve invece saper trovare i valori unificanti non solo nei diritti dei singoli ma anche nella solidarietà collettiva, intesa come azione comune per rendere la democrazia effettiva per tutti ed evitare nuovi autoritarismi che in nome del popolo ne uccidono la sovranità. Per uscire dalla crisi sanitaria globale, che ha messo in discussione la stessa globalizzazione, e per poter trarre tutti i vantaggi dalla nuova transizione tecnologica, occorrono competenze, abilità e capacità critiche tali da permettere a tutto il paese di partecipare attivamente a questo ulteriore cambiamento strutturale e quindi di avviare una nuova stagione di sviluppo, che al proprio centro abbia una chiara sostenibilità ambientale, ma anche un’altrettanto necessaria sostenibilità sociale. Tuttavia tali competenze, abilità e capacità, di cui il nuovo secolo della connessione continua ha bisogno, sono diverse da quelle richieste nell’ormai passato Novecento. A livello personale servono più creatività, più lavoro di squadra, più capacità di astrazione e di sperimentazione, ma anche più senso di orientamento per poter navigare in mari aperti. A livello nazionale occorre saper guardare oltre il presente, dunque ci vuole più capacità di visione, per guidare sistemi istituzionali, politici e d’impresa che siano nel contempo coesi e articolati, utilizzando tutte le forze disponibili per muoversi insieme, nel senso di marcia di uno sviluppo inclusivo e sostenibile nel tempo. Chiunque si candidi al comando di sistemi sociali più o meno complessi deve aver acquisito – e dimostrare di possedere – competenze ed esperienze adeguate al livello di responsabilità sociale che deve gestire: infatti, nulla è peggio di un paese che non ha fiducia né stima nei confronti dei suoi rappresentanti. È dunque questo il momento di investire in educazione: non solo per superare l’emergenza COVID-19, ma per guardare oltre, per ritrovare quel cammino di sviluppo umano che, dopo essersi perduto nei lunghi anni in cui hanno prevalso individualismo e populismo, deve fondarsi sui valori definiti nella nostra Costituzione. È tempo di utilizzare l’apertura di credito di quest’Europa, che a sua volta ha bisogno di ritrovare la sua identità smarrita, per rilanciare quell’investimento in risorse umane necessario per uscire dalla trappola della bassa crescita e dimostrare che il confine meridionale dell’Unione, che si affaccia sulla frontiera più cruciale per la pace nel mondo, è affidato a una democrazia solida, solidale e matura e in grado di portare nuovo valore aggiunto alla costruzione europea. Dobbiamo evitare la triste sorte di un paese che deve sempre ricorrere all’ultima emergenza per realizzare interventi da tempo unanimemente ritenuti necessari e lavorare per ricostruire un’effettiva comunità nazionale, ricucendo le fratture che si sono create

negli anni della bassa crescita e che oggi si presentano come vincoli per una ripresa sostenibile nel tempo. La questione principale allora è quale paese vogliamo per noi e per i nostri figli e quindi quale scuola predisporre per realizzare un paese che non sia sempre in balìa dell’emergenza, ma sia capace di guardare avanti.

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