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Italian Pages [241] Year 1998
Françoise Frontisi- Ducroux Jean-Pierre Vcrnant ULISSE E LO SPECCHIO Il femminile e la rappresentazione di sé nella Grecia antica
Saggi. Ani .: lettere
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Perché, nella Grecia antica, gli uomini rifiutavano di guardarsi allo specchio? E perché il suo uso era riservato solo alle donne? At torno al tema dello specchio ruota l'argomentazione di questo li bro, che si apre e si chiude sulla figura di Ulisse. Tornato ad Itaca, l'eroe deve riconquistare la propria identità, insieme con il proprio status di re. Ma simile riconquista sarà possibile solo con il pieno benestare di Penelope. Per Ulisse è dl;lnque questione di identità: di identità maschile, giacché solo i maschi per quella cultura ne han�o diritto. Ma le donne sono costantemente presenti in questa ricerca di sé da parte dell'uomo greco. Senza di loro, questo riconosci mento non sarebbe possibile. Lo specchio, messo in mano alle donne, diviene dunque il me diatore simbolico del rapporto tra i sessi, la via per il riconosci mento di sé, attraverso la mediazione del femminile. Non a caso lo specchio di Venere- il cerchio sopra la croce che ancor oggi rappre senta il simbolo della femminilità- si riflette nell'arco di Apollo- il cerchio da cui sale una freccia obliqua che denota il maschile- che ad esso in qualche modo si ispira. A partire da una ricchissima messe di materiali artistici e lettera ri, Jean-Pierre Vernant e Françoise Frontisi-Ducroux mostrano in questo libro godibilissimo come i greci percepivano se stessi e ve devano le loro donne, ripercorrendo i primi fondamenti dell'auto
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rappresentazione nella storia della nostra civihà.
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Françoise Frontisi-Ducroux, membro del Centre Louis-Gernet e vicedirettore al Collè ge de France, ha pubblicato di recente Du masque au visage. Aspects de l'identité greèque. Jean-Pierre Vernant, uno dei più prestigiosi e autorevoli studio i del mondo greco antico, è professore onorario al Collège de France. È autore di numerose opere fondamentali, tra cui Mito e pensiero presso i greci, Torino 1978, e La morte negli occhi. Figure dell'altro nell'antica Grecia, Bologna 1987.
ISBN
L
35.000
88-7989- 421-8
l l ll l
9 788879 894210
ULISSE E LO SPECCHIO
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Indice
P·
IX
Premessa
3 Ulisse in persona di Jean-Pierre Vernant
L'occhio e lo specchio di Françoise Frontisi-Ducroux
35
I. Specchio, piccolo specchio...
51
II. Parole, cose e immagini
75
III. Tra specchio e conocchia
93
IV. Figure
109
v. La vista: istruzioni per l'uso
119
VI. Aristotele e il ciclo mestruale
125 1 43 1 47 16 1
VII. Un oggetto paradossale VIII. Il filosofo e il vizioso IX. Al di là dello specchio x. Narciso e
i suoi doppi
177
XI. Le metamorfosi di Narciso
19 1
XII. Riflessioni
201 Allo specchio di Penelope di Jean-Pierre Vernant
227 Bibliografia v
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----- Frontisi-Ducroux e Vernant, Ulisse e lo specchio
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Elenco delle illustrazioni 1. Afrodite con la colomba, tra due eroti,specchio con supporto. Parigi, Louvre (Br 1689). 2. Era si prepara a comparire davanti a Paride, cratere lucano. Parigi, Biblioteca Nazionale (BN 422). 3. Viso femminile,specchio a scatola. Parigi, Louvre (Br 1714). 4. Scena di toletta,specchio a scatola. Parigi, Louvre (Br 1713). 5. Lo specchio appeso al muro del gineceo, lekythos a fondo bianco. Bruxelles, Musées royaux d'Art et d'Histoire (A 1019). 6. Lo specchio appeso al muro del gineceo, lekythos a fondo bianco. Berlino, Staatliche Museen (F 2443). 7. Danae fecondata dalla pioggia d'oro di Zeus,cratere. San Pietroburgo, Hermitage (B 1602) (da A. B. Cook, Zeus m, p. 457,fig. 293). 8. Serve e dame,hydria. Parigi, Petit-Palais (318). 9. Faccia a faccia di profilo,lekythos. Boston, Museum of Fine Arts(00.340) (disegno F. L.). 10. Lo specchio in mano,coppa. Utrecht, Università (376). 11. Guardando lo specchio,lekythos. Laon, Musée archéologique municipal (37.954). 12. La donna perfetta,coppa. Parigi, Louvre (S 1350). 13. La toletta della sposa,hydria. Parigi, Louvre (CA 161). 14. Specchio e capelli,amphoriskos. Oxford, Ashmolean Museum (539). 15. Toletta al maschile,skyphos. Bruxelles, Musées royaux d'Art et d'Histoire (A 11). 16. Toletta a/femminile,skyphos. Bruxelles, Musées royaux d'Art et d'Histoire (A 11). 17. Lo specchio della barba, lekythos. Parigi, Petit-Palais (335). 18. Lo specchio della barba,lekythos. Parigi, Petit-Palais (336). 19. Lo specchio decorato in mano,lekythos. Bruxelles, Biblioteca reale (10). 20. Lo specchio decorato appeso,lekythos. Boston, Museum of Fine Arts(13.189) (disegno R L.). 21./l letto nuziale e lo specchio,pyxis. Varsavia, Museo Nazionale (lnv. 142319). 22. Il visitatore,alabastron. Parigi, Biblioteca Nazionale (312). 23. Specchio o conocchia?,lekythos. Stoccarda, Wumenbergisches Landesmuseum (KAS 126). 24. Conocr:hiavuota/conocrhiapiena,pyxis.Atene,MuseoArcheologicoNazionale(inv. 1584). 25. Conocr:hia vuotalconocr:hiapiena,pyxis.Atene,MuseoArcheologico Nazionale (inv. 1584). 26. Tra lo specchio e la conocchia, lekythos. Karsruhe, Badisches Landesmuseum (inv. 56/81) (disegno F. L.). 27. L'arrivo da Elena,siphon. Atene, Museo della Ceramica (disegno F. L.). 28. Il letto, la conocchia e la tessitura,pyxis. Parigi, Louvre (CA 587). 29. Conversazione amorosa con {datrice, coppa. Berlino, Staatliche Museen (31 426). 30. Oreste inseguito dalle Erinni: l'ombra di Clitemnestra appare sullo specchio,nestoris lucana. Napoli, Museo Archeologico Nazionale (inv. 8212) (da Inghirami).
Referenze iconografiche
Salvo indicazioni diverse, le fotografie sono degli autori. Atene, Museo Archeologico Nazionale: figg. 24, 25. Berlino, Preussischer Kulturbesitz: fig. 29. Oxford, Ashmolean Museum: fig. 14. Parigi, Biblioteca Nazionale: fig. 2; Musée du Petit-Palais {photo Bulloz): figg. 1 7, 18; Réunion des musées nationaux: figg. 3, 4, 1 2, 1 3, 28. VI
Ulisse e lo specchio
a
Claude e Claude
Nota del traduttore Per le citazioni dall'Iliade e dall'Odissea, si è ritenuto opportuno fare riferi mento alla traduzione italiana di Maria Grazia Ciani (Marsilio, Venezia 1 992 e 1 994), riportandone fedelmente il testo. Per il passo di Aristotele tratto da Dei sogn� si è ricorsi alla traduzione italiana di Renato Laurenti (Aristotele, Ofere, Laterza, Bari 1 973, II, pp. 637-8). Per le Metamorfosi di Ovidio ci si è rifatti alla lettura di Piero BernarClmi Mazzolla (Einaudi, Torino 1 979 e 1 994). Rispetto all'edizione originale francese sono state aggiunte, ove lo si è ritenu to necessario, delle brevi note atte a chiarire i riferimenti a fatti mitologici e l'uso di termini non molto noti al grosso pubblico. C.D.
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ULISSE E LO SPECCHIO
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Premessa
Quest'opera, suddivisa in tre parti, è un libro a due voci. L'apertura e la chiusura raccontano la progressiva riconquista da parte di Ulisse della propria identità e del suo status di re di ltaca, riconquista che ottiene pienamente solo con il benestare di Penelope. Al centro, c'è lo specchio, oggetto culturale privilegiato (la cui forma schematizzata un cerchio sormontante una croce - funge ancora oggi da simbolo del genere femminile, lo specchio di Venere, opposto all'arco di Apollo un cerchio da cui sale in obliquo verso destra una freccia e che denota il genere maschile); lo specchio serviva nell'antica Grecia da strumen to emblematico per pensare il rapporto tra i due sessi. Per lo specchio, come per Ulisse, è una questione d'identità, dell'i dentità maschile, perché nell'antichità non esistono soggetti che non siano tali; ma le donne sono costantemente rappresentate in questa ricerca di se stesse da parte dell'uomo greco. Donne pensate e imma ginate dagli uomini, per nulla reali, perché queste ultime in ogni caso, non avevano voce in capitolo. Figure femminili dunque, necessarie all'uomo per pensarsi e definirsi, ma utilizzate in modo diverso a seconda delle epoche. Considerate, nei poemi omerici, come indispen sabili ausiliarie dell'uomo, in un contesto culturale che sembra porre la complementarità dei sessi e la reciprocità dei loro ruoli in una coppia, in età classica esse si vedono relegate in un'alterità radicale in cui hanno prima di tutto una funzione di repulsione. Su questo punto almeno, lo iato tra il mondo di Ulisse e quello dello specchio è incontestabile. Per esplorare alcuni segmenti di quest'immaginario collettivo, cer tamente lontano, ma di cui il nostro universo culturale è ancora forte mente segnato, i due autori hanno operato molto più nella comple mentarità che nella differenza. Se i lari testi sono circoscritti e identiIX
------ Frontisi-Ducroux e Vernant, Ulisse e lo specchio
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ficabili senza equivoci, c'è comunque un dialogo di amicizia, antico e costante, che li sottende. I nostri ringraziamenti vanno a tutti coloro che ci hanno aiutato a portare a termine questo saggio, con il loro ascolto, la lettura attenta, le critiche, i suggeri menti, i consiçli e gli incoraggiamenti. In particolare a François Lissarrague, la cui valida amiciz1a ci ha sostenuti in tutte le tappe di questo lavoro, a Stella Georgoudi, Annie-France Laurens, Claude Mossé, Nicole Sels e Frema Zeitlin, a Miche! Casevitz, Marcel Detienne, Riccardo Di Donato, Louis Marin, Piero Pucci, Charles Segai, Miche! Tardieu, Pau! Veyne, Pierre Vidal-Naquet e François Villard. La nostra gratitudine va allo stesso modo a André Miquel che ci ha dato l'occasione di presentare al Collège de France, in conferenza serale, una prima ver sione di un capitolo di questo libro. Si ringraziano anche tutti gli uditon dei semi nari dell'EPHE, sezione di Scienze Religiose.
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Ulisse in persona
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ULISSE E LO SPECCHIO
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Ulisse in persona
In questo primo mattino del suo ritorno a Itaca, sulla spiaggia dove lo hanno deposto addormentato i marinai feaci, navigatori notturni, Ulisse si sveglia. È l'alba. Dopo vent'anni di prove, di peregrinazioni, di sofferenze, è di nuovo a casa. Apre gli occhi e si guarda intorno. Che cosa vede, sotto quale forma gli appare la riva di una patria che ritro va dopo averla invano, così a lungo, appassionatamente cercata? Possiamo immaginare facilmente il paesaggio che si offre alla sua vista; a due riprese, il poeta ci ha descritto il quadro: una rada racchiusa da due punte rocciose che protendono, una di fronte all'altra, le loro rupi scoscese; all'entrata di questo porto naturale, sulla spiaggia dove Ulisse ha dormito, un grande ulivo protende le sue fronde e, lì vicino, la vasta grotta voltata che l'eroe, in tempi lontani, aveva così sovente visitato per offrire dei pii sacrifici alle Naiadi. Infine, dominante la baia, l'altu ra del Nèrito, rivestita dei suoi boschi. Quando si aprono gli occhi di Ulisse sono come ciechi di fronte allo scenario di questa costa, tante volte frequentata: Si svegliò intanto il divino Odisseo, che sulla terra dei suoi padri dormiva: ma non la conobbe, da troppo tempo era lontano. Intorno a lui nebbia diffu se Pallade Atena, la dea figlia di Zeus, per farlo irriconoscibile' [ . ] perciò tutto gli appariva straniero, i lunghi sentieri, i porti, gli approdi, le ripide rocce, gli alberi in fiore (XIII, 187-196). .
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Balzato subito in piedi, al proprio risveglio, Ulisse contempla la terra paterna temendo di trovarsi nuovamente proiettato in un paese sconosciuto, presso un popolo forse maligno e selvaggio. ' O, secondo un'altra lettura: «perché non riconoscesse nulla•. Sull'ambiguità di tutto questo passo, cfr. P. Pucci 1986.
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----- Frontisi-Ducroux e Vernant, Ulisse e lo specchio
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Come spiegare quest'improvviso disconoscimento nell'uomo che i primi versi del poema celebrano come colui che ha visto (ide) e cono sciuto (egn6) tanti paesi e tanti popoli, colui la cui idea fissa era di vedere (ideein) i suoi e la sua casa, nel momento stesso del ritrova mento di ltaca ?2 O piuttosto, come spiegare ancora questa meta morfosi che, attraverso lo sguardo dell'eroe, trasforma in uno spetta colo sconosciuto e inquietante le forme familiari e rassicuranti del dolce «ritorno», la cui memoria - secondo Du Bellay - rimanderebbe alla nostalgica felicità di Ulisse rientrato a casa?
Felice chi come Ulisse... Atena, abbiamo detto, ha sparso attorno a Ulisse una nebbia. Non è la prima volta che agisce con lui in questo modo. Quando un dio rico pre qualcuno d'un nembo, è per nasconderlo, per sottrarlo agli sguardi e renderlo per qualche tempo invisibile. Così ha già fatto la dea, quando sotto l'aspetto d'una giovinetta, ha incrociato Ulisse sul cammino che lo porta al palazzo di Alcinoo, nella terra dei Feaci: indicandogli la strada da seguire per arrivare fino alla sala dove dovrà gettarsi supplicando ai piedi della regina, lo avvolge per precauzione in una nube che lo rende invisibile lungo tutto il tragitto; ella la dissiperà solo all'ultimo momen to, quando, apparendo improvvisamente agli occhi degli spettatori stu pefatti, Ulisse avrà già toccato le ginocchia della padrona di casa. Attraversò la sala il paziente divino Odisseo, avvolto nella nebbia che Atena gli versava intorno, e giunse accanto al re Alcinoo e a Arete. Alle ginoc chia di Arete stese le braccia Odisseo e ecco allora la magica nebbia si sciolse. Tacquero tutti nella sala, al vederlo (phOta idontes), lo guardavano con mera viglia (thaumazon d'horoontes) (VII, 143-145).
Ma quando Ulisse si sveglia a Itaca, quella stessa nube che Atena ha sparso su di lui, come lo rende invisibile allo sguardo altrui, rende diverso al suo sguardo ciò che lui vede. Sulle strade dei Feaci la nebbia che camuffa la presenza di Ulisse fino a quando lui non avrà messo la propria sorte nelle mani di Arete risponde a esigenze di sicurezza ben comprensibili. Ma come spiegare questa nube che gli fa vedere la sua patria come una terra straniera? Un dettaglio dell'episodio dei Feaci, proprio in quanto apparentemente incongruente, ci può forse fornire una risposta. Atena non si accon tenta di rendere Ulisse invisibile e lo avviluppa di nebbia; ella gli rac comanderà, quando la seguirà, di «non guardare in faccia alcun essere 'Questo è il problema posto da S imon Goldhill 1991, p. 7.
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------- Ulisse in persona
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umano», come se l'invisibilità non potesse essere pienamente acquisi ta se non a condizione di non incrociare, durante il cammino, lo sguar do di chiunque potesse vederlo. Tra vedere ed essere visto la recipro cità s'impone così rigorosamente che il miglior modo di nascondersi alla vista degli altri è evitare di fissare qualcuno con lo sguardo: affin ché l'occhio altrui non rischi di perforare il nimbo di oscurità che ci avvolge, per rimanere ignoti, l'ideale è evitare di dirigere verso gli altri il pr�prio sguardo, farsi cieco verso chi, visto da noi, non deve «cono scerci». A ltaca però, il problema per Ulisse non è quello di rimanere invi sibile, di penetrare nel suo palazzo senza che nessuno lo veda: la riu scita del piano che ha macchinato la mente scaltra di Atena non esige che lui dissimuli la sua presenza, ma che muti completamente la pro pria apparenza, esige che lo si scambi per un altro, uno straniero, lui, il signore dei luoghi, e che tutti, pur vedendolo lì, in carne e ossa, non lo possano mai identificare. Al suo ritorno a casa, mentre vede con i propri occhi quanto ardentemente è desiderato, i suoi servi, la moglie, i figli, la sua terra, la sua casa, Ulisse deve entrare nella pelle di un altro, cessare di essere se stesso, rendersi irriconoscibile dalla testa ai piedi, anche agli occhi dei più intimi. Rileggiamo integralmente il testo che abbiamo appena citato: Si svegliò intanto il divino Odisseo, che sulla terra dei suoi padri dormiva: ma non la conobbe, da troppo tempo era lontano. Intorno a lui nebbia diffu se Pallade Atena, la dea figlia di Zeus, per farlo irriconoscibile' e rivelargli ogni cosa, perché la sposa e i cittadini non lo riconoscessero prima che avesse fatto scontare ai Proci tutta la loro insolenza. Perciò tutto gli appariva straniero.
Per dimorare presso i Feaci nascosto nella sua nube d'invisibilità Ulisse doveva guardarsi dall'incrociare lo sguardo con quello degli altri; allo stesso modo, a ltaca, affinché nessuno lo riconosca, i luoghi natali che si svelano alla sua vista, quando apre gli occhi, devono dap prima apparirgli come un paesaggio sconosciuto. Il suo incognito, per essere sicuro, esige di rimando il mancato riconoscimento dello scena rio a lui più familiare, la sua isola4• Nella reggia di Alcinoo, il nimbo che camuffava Ulisse si dissolveva di colpo, per volere di Atena, dal ' Nell'edizione originale l'autore preferisce invece la lettura di Vietar Bérard: ophra min autoi agnoston. Se si legge: ophra min auton agnoston teuxeien, •per farlo [Uiisse] irricono scibile•, la reciprocità tra •non riconoscere quello che si vede• e •essere irriconoscibile• rimane più direttamente insita nel testo. Quest'isola che, per bocca dell'indovino Aliterse, il poeta definisce nel canto 11 come •ltaca b en visibile•, Ithakés eudeielos (v. 167) [ •ltaca piena di sole• nella lettura di Maria Grazia Ciani, n.d.t.], e dove U lisse deve rientrare •ignoto a tutti•, agnostos pantessi (v. 175). •
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momento che l'eroe aveva ottenuto lo scopo prefisso: come se, spun tando dalla notte, l'eroe apparisse bruscamente alla luce, manifestando agli occhi stupiti degli ospiti del palazzo la sua autentica presenza. Sulle sponde di ltaca, Atena dissiperà la nube, quando sembrerà arri vato per Ulisse il momento più opportuno', ma deve metterlo alla prova: dopo avere raggiunto il sogno di «vedere» i suoi, di ritrovarli, saprà assumere così intimamente l'aspetto e il ruolo di uno straniero da riuscire a rendere credibile il cambiamento stesso di fronte ai suoi cari ? Atena deve essere sicura che Ulisse sia pronto a fare quello che ella si aspetta da lui: condurre nelle regole, fino in fondo, senza errori, il gioco dell'alterità. È allora che al suo protetto, sempre intento a pen sare, a dispetto di quanto lei stessa gli fa asserire (che si trova su una terra straniera), la dea dichiara: Ora ti mostrerò la terra di ltaca, perché tu mi creda. Ecco il porto di Forco, il vecchio del mare, e all'entrata del porto l'olivo dalle foglie sottili; accanto c'è la grotta avvolta di nebbia e sacra alle Ninfe che chiamano Naiadi: eccolo, l'an tro vasto e profondo dove spesso offrivi alle Ninfe ecatombi perfette. Ed ecco il monte Nerito, coperto di boschi (XIII, 342-352).
Che cosa significa cambiare identità nel «mondo di Ulisse», in una società di confronto, in questa cultura dell'onta e dell'onore, in cui cia scuno è sottoposto al giudizio altrui e si riconosce solo nello specchio dell'immagine fornitagli dagli altri, in rapporto alle parole di lode o di biasimo, d'ammirazione o di disprezzo ? Lo stato sociale e personale di un individuo - quello che si è agli occhi degli altri e ai propri - non è separabile dall'apparenza, o come sarebbe meglio dire dall' «apparire», cioè dal modo in cui si è visti, conosciuti, riconosciuti, nei due sensi dell'ultimo termine; ciò implica contemporaneamente il riconosci mento della propria identità - il nome, la patria, i genitori -, e l'ap prezzamento esatto del proprio «valore», della propria fama. Così non è sufficiente, per truccare la propria identità, cambiare il nome, darsi un'altra origine, una falsa patria e dei genitori fittizi, inventarsi un pas sato illusorio, indossare panni stranieri; è quello che noi stessi di colpo diamo a vedere, il nostro viso, quel prosopon, che significa Ietterai' Si è qualche volta interpretata questa nube come una foschia reale che, invadendo il paesaggio, ne dissimulava l'identità agli occhi di tutti. Ulisse, se così fosse, avrebbe visto la nebbia, o meglio non avrebbe visto nulla, ma non è così . Il testo impl ica che vedeva molto chiaramente, ma altra cosa da quello che era. La nube non modifica il paesaggio, ma la visio ne che ne ha Ulisse. Allo stesso modo, nell'Iliade (v, 126-130) Atena allontana dagli occhi di Diomede la nube che durante il combattimento gli impedisce di distinguere gli dèi dai mor tali e gli fa scambiare gli uni per gli altri. La nube non è sparsa sul campo di battaglia; essa copre gli occhi di Diomede, che per il resto vede molto bene.
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------- Ulisse in persona -------
mente «ciò che si presenta di fronte alla vista» che ci rende irricono scibili. Il prosopon dunque, è la prima cosa da cambiare. Ma la faccia non vale che come parte scoperta, apparente, del corpo nella sua inte rezza, con la sua taglia, la sua corporatura, la sua prestanza, la sua andatura, la sua carnagione particolare. Riferirsi a un altro corpo per non somigliare a se stessi. Dunque, la dissomiglianza da sé si può otte nere in due modi, a seconda che si operi verso l'alto o verso il basso. E Ulisse, più di una volta, ha conosciuto questa doppia forma di disso miglianza da sé di cui la prima, per «sovrassimilazione», realizza il per sonaggio nella sua piena dimensione eroica, nel suo status di agathos aner, di uomo valoroso, «rendendolo simile a un dio», la seconda per «sotto-assimilazione» lo riduce a non essere più nessuno, alterandolo, imbruttendo il suo stesso essere attraverso il corpo, fino a quando, per mancanza di similitudine, di rapporto, perde l'aspetto umano. Prendiamo, ancora dall'episodio dei Feaci, un esempio di questa doppia possibilità di scarto massimo dall'aspetto abituale di una perso na, come se, per ciascuno, dopo la forma ordinaria, media, del suo «apparire», esistesse nei due sensi un margine di variazione i cui limiti estremi sarebbero, da un lato, un'intera «restaurazione» della propria figura, nella pienezza dei valori che essa rappresenta, nelle sembianze di un dio; dall'altro, un deterioramento, o perfino una totale degradazio ne, nell'indegnità di una dissomiglianza completa rispetto all'umano. Abbandonando Calipso sulla zattera che si è costruito, con l'aiuto della ninfa ricciuta, Ulisse naviga solitario lungo le rotte in mare aper to. Dopo diciassette giorni non ha ancora chiuso occhio (v, 271 ); per governare con sicurezza l'imbarcazione, nemmeno una volta, nel corso delle notti, ha distolto lo sguardo dalle stelle: le Pleiadi, il Boote6 e l'Orsa. La sua salvezza esigeva che tenesse tali costellazioni costan temente alla sua sinistra. Il diciottesimo giorno, sul mare nebbioso, le coste dei Feaci «appaiono» vicine (v, 279). È in questo momento che Poseidone, al ritorno dai confini del mondo dove aveva partecipato a un banchetto presso gli Etiopi, scorge Ulisse che vaga sulla zattera. Il dio lo vede (ide) e, preso da rabbia, avvolge terra e mare nell'oscurità di una medesima notte, quindi scatena la tempesta. La zattera si rove scia; Ulisse morirebbe se Ino Leucotea non lo vedesse (iden, v, 333) a sua volta e non lo soccorresse. Per due giorni e due notti Ulisse, a nuoto, va alla deriva, sballottato dalle onde; al terzo giorno il vento cade e subentra la calma. L'eroe vede (v, 392) la terra vicinissima e la Costellazione vicina aii'Orsa Maggiore, la cui sagoma ricorda quella di un uomo che con una mano tiene i cani da caccia e con l'altra stringe una clava [n.d.t.]. •
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----- Frontisi-Ducroux e Vernant, Ulisse e lo specchio -----
fruga con lo sguardo (v, 394). Prova la stessa gioia di quella dei bam bini che vedono il loro padre riprendersi dopo una lunga malattia (v, 394). Appena riuscito a guadagnare la terraferma, all'imboccatura di un fiume, spossato, Ulisse cerca, per stendersi, un luogo dove nascondersi al riparo di ogni sguardo. Mimetizzato sotto un mucchio di foglie (v, 488 e 491), è deciso, nonostante la stanchezza, a non lasciarsi vincere dal sonno per timore di farsi sorprendere; ma ecco che Atena, versandogli negli occhi il sonno come un'oscura nube, stende sulle sue palpebre un nascondiglio di oscurità e lo addormenta (v, 493). L'eroe riemerge dal sonno e dai cespugli dove era nascosto tra le acute grida lanciate dalle ancelle di Nausicaa, quando la loro padrona lascia cadere nel gorgo di una cascata la palla dei loro giochi. Ulisse esce dal suo ricovero come un leone di montagna con occhi che getta no fiamme. Avanzando verso le giovani donne, « apparve loro coperto di salso, orribile» (vi, 137). Tutte fuggono spaventate. Solo Nausicaa non si muove di un passo. Ma se è spaventoso da vedere, Ulisse è pia cevole da ascoltare quando afferma di non aver mai visto prima con i propri occhi (idon... ophtalmoisi, VI, 160) bellezza uguale alla giovane donna che gli sta di fronte; a vederla, un sacro rispetto lo invade (141). Simile solamente, ai suoi occhi, a una giovane palma che vide una volta elevarsi verso il cielo, a Del o. E come la vide (idon) restò estasiato: «e così te io ammiro, e stupisco». Per sostenere tali propositi, che smen tiscono la sua sordida apparenza, Ulisse non può fare a meno d'incu riosire la figlia del re e guadagnarsi la sua simpatia: «Tu non mi sembri (eoikas) né malvagio né folle» (vi, 187). Alle sue ancelle Nausicaa comanda di portare a questo straniero di che vestirsi degnamente e anche dell'olio per ungersi dopo il bagno. Ulisse si lava nelle acque del fiume, purifica il suo corpo, la sua testa, il suo viso dalle impurità e dalla sporcizia che gli ricoprono la pelle; si spalma di olio e indossa i vestiti che hanno depositato presso di lui; e allora Atena, figlia di Zeus, lo fece più alto, più grande e i capelli sul capo glie li rese ricciuti, simili al fiore di giacinto. Come quando un esperto artigiano ricopre con l'oro e l'argento: a lui insegnarono l'arte Efesto e Pallade Atena, egli compie lavori stupendi; così sulla testa e sul corpo di Odisseo versò bel lezza la dea. Ed egli andò a sedersi sulla riva del mare, in disparte, splendente di grazia (VI, 229-236).
All'inizio un Ulisse spaventoso, orribile come un leone selvaggio con occhi fiammeggianti; alla fine, un Ulisse bello, raggiante ora di fascino e grazia. Questo ritorno della figura di Ulisse nell'integrità del suo splendore si realizza in due tempi. Poiché il suo «apparire» mani8
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festa chiaramente agli occhi degli altri, come un emblema, il suo auten tico valore, deve cominciare a liberare il corpo da tutto quello che lo copre, sale e fango, per restituirgli in tutte le sue parti, attraverso delle pratiche igieniche, il suo aspetto normale. Ma non è sufficiente: è necessario un sovrappiù di cui solo la divinità si può far carico. Lo stesso potere che le fa «spandere» su un uomo una nube d'oscurità che talvolta lo dissimula alla vista, talaltra avvolge i suoi occhi nella notte del sonno, permette ad Atena anche di «spandere» sulla persona scel ta un fiotto di luce capace di farlo apparire, con questo fascino, più grande, più bello, più splendente7• Nausicaa, che ha assistito a questa metamorfosi di Ulisse, ne fissa il senso nella breve formula che sussurra, in confidenza, alle sue ancelle: «Mi sembrava un miserabile (aeikelios) prima, ma ora (theoisi eoike) somiglia a uno degli immortali che possiedono il cielo infinito» (VI, 242-243). Per ridiventare pienamente se stesso, Ulisse deve apparire più che se stesso: deve sembrare un dio. Prima era a-eikelios, diverso, sconveniente, sfigurato, indegno, volgare. Questo stato di degradazio ne che getta un individuo ai margini della decenza, fuori della propria identità, è quello che mira a realizzare, sul cadavere dell'avversario, la pratica dell'aeikia Aeikizein, oltraggiare il cadavere del nemico, non consiste solo nel privare il guerriero caduto sul campo di battaglia dei riti funebri che lo farebbero accedere allo status di «bella morte», assi curandogli la possibilità di sopravvivere nella memoria degli uomini con lo splendore di una gloria perenne. Abbandonando le sue spoglie ai cani e agli uccelli, trascinandolo nella polvere per strappargli la pelle, come Achille fece con Ettore, lasciando la sua figura marcire e decom porsi, mangiata dai vermi, in pieno sole, si cerca, riducendola al mini mo grado di convenienza e di somiglianza, di distruggere interamente la sua identità, il suo valore, per ridurla a essere niente. .
' I l rinnovamento della figura di Ulisse nella pienezza d 'uno splendore che lo fa appari re •simile a un dio» si ripete, sempre grazie ad Atena, davanti ai Feaci {VIli, 18-23); davanti a Telemaco {XVI, 172-176); davanti a Penelope ( XXIII, 156-163); allo stesso modo Atena modi fica la figura di Penelope addormentata (xvm, 189-96), e quella di Laerte all'uscita dal ba �no, ( XXIV, 365-375). Nell'episodio dove Ulisse, toccato dalla bacchetta d'oro di Atena, si fa nco noscere da suo figlio, Telemaco non crede ai propri occhi nel vedere un vecchio mendicante cencioso, il cui aspetto miserevole ne denunciava l'indegnità, trasformarsi di colpo in un altro essere (alloios, XVI, 181), la cui prestanza è tale che il giovane principe non può che dirgli: «Tu poco fa eri un vecchio, e vestivi miseri (aeike) cenci: e ora somigli agli dei che il vasto cielo possiedono» (nun de theoisi eoikas: XVI, 200). Nella sua risposta, per confermargli che altri non è che Ulisse (ou [ ... ) et'allos) l'eroe fornisce la chiave di quello che significa, attraverso la trasformazione dell'apparenza, questa ripresa d'identità: «È facile per gli dei, che il vasto cielo possiedono, fare splendido (kudena1) o m iserabile (kakosa1) un monale» (xvi, 212).
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Quando si mostra agli occhi spaventati dei servi, Ulisse, sfigurato, con il corpo sciupato e segnato dalla salsedine, non è arrivato all'estre mo stadio di deterioramento; un deterioramento che si è verificato a sua insaputa, senza che lo abbia voluto. A ltaca la situazione è differente, anche se il risultato deve essere simile. Per trasformare da cima a fondo il suo aspetto e renderlo irriconoscibile, Atena deve essere convinta che Ulisse, in accordo con lei, sia fermamente deciso a mascherare i suoi trat ti, a indossare un'altra identità, a entrare nei panni di un vecchio e mise ro mendicante. Saprà trasformarsi e restare in incognito al cospetto di tutti mentre ella gli farà apparire la terra natale straniera e sconosciuta? Abituato a udire nelle sue parole mille menzogne che rassomigliano a verità, questo bugiardo matricolato ha superato le sue prove anche nel l'arte del travestimento. Ascoltiamo Elena narrare a Telemaco, fra le importanti imprese di suo padre, uno dei successi più brillanti:
Inflisse al suo corpo indegne ferite (plégeisin aeike/ieisz), si gettò sulle spalle dei cenci, e così, somigliante a uno schiavo (oikei eoikos), penetrò nella città nemica, a Troia dalle ampie strade. Aveva celato se stesso e un altro sembrava- un mendi cante- e lui non era tale di certo presso le navi dei Danai. Così entrò nella città dei Troiani e non gli fece caso nessuno, io sola lo riconobbi, così ridotto (IV, 244-250). Il racconto di questo colpo da maestro in cui Ulisse si trasforma in un mendicante per penetrare a Troia e compiere la sua missione di spionaggio funziona nel testo dell'Odissea come un preludio al suo ritorno a casa per esercitare la sua vendetta e ritornare se stesso (cfr. XIII, 386)1• È Atena questa volta che s'incarica dell'operazione renden dolo aeikelios, non riconoscibile, così come lo ha già reso e lo renderà theoisi eikelos, simile agli dei. Affinché resti ignoto alla moglie e al figlio, ella gli annuncia quello che progetta di fare:
Ma ora io ti farò, per tutti, irriconoscibile: la morbida pelle avvizzita sul l'agile corpo, via dal tuo capo i biondi capelli, e come abito cenci che facciano orrore a chi te li vede addosso; offuscherò (knuzoso) i tuoi bellissimi occhi per ché tu ispiri ribrezzo aeikelios alla sposa e al figlio che lasciasti nella tua casa (XIII, 398-402 e cfr. XIII, 430-438). Orribile al cospetto degli altri, con gli occhi sciupati e guasti, il perso naggio ormai incarnato da Ulisse, la figura che appare alla luce del giorno, si profila agli antipodi rispetto a quella dell'eroe eccezionale simile a un dio. In quanto (aeikelios) la sua sembianza, il suo comportamento non può che apparire negativo: viso sfigurato, spirito avvilito, luce e fascino ' Si tratta di non ripetere l'errore fatale che ha commesso Agamennone nel tornare a casa, senza diffidenza, senza precauzioni, senza dissimulare niente, per offrirsi direttamente ai colpi di Clitemnestra ed Egisto; è quello che spiegano Atena (Xlii, 333 sgg.), e Ulisse (Xlii, 383 sgg.). Cfr., su questo punto, M. Anhur 1 99 1 .
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oscurati, onore annientato. Per quel che lo riguarda, il mendicante che Ulisse è diventato per farsi invisibile non è effettivamente nessuno. Nessuno: Outis, è il nome che Ulisse sceglie di attribuirsi per ingannare il Ciclope sulla propria identità. Ma questo Outis, dietro il quale Ulisse si nasconde, fa apparire in trasparenza, per un gioco di parole, esattamente ciò che dà all'eroe il potere di sbeffeggiare e di nascondersi', métis, l'astuzia, questa sottile forma d'intelligenza argu ta che è sua prerogativa presso i mortali, come lo è di Atena presso gli dèi. Ridendo sotto i baffi, Ulisse lo dirà senza mezzi termini: l'ingan no che ha causato la rovina del Ciclope è, afferma, il suo falso nome, Outis, e la sua raffinata astuzia, métis10• Quello che non è alcuno, né altri che il polumetis Odusseus, il poikilometis, Ulisse dalle mille astuzie. Ma cominciamo dall'inizio. Sbarcando sulla spiaggia dominata dal l'alto dalla vasta caverna dove il Ciclope vive solitario, con il suo greg ge di pecore e capre, i dodici uomini del gruppo guidato da Ulisse si arrampicano fino all'antro del mostro; penetrano dentro in sua assen za, fanno man bassa dei formaggi, degli agnelli e delle capre. Tutti pre gano il loro capo di filare al più presto per ricongiungersi al resto del l' equipaggio che veglia sulla nave pronto a riprendere il mare, ma inva no. Ulisse non ne vuole sapere; rifiuta di partire prima di aver «visto» l'abitante della grotta e comprendere con quale genere d'ospite hanno a che fare. Gli uomini restano dunque seduti nell'antro ad attendere. Tutti i guai verranno da quest'esigenza di conoscere de visu, una curio sità che il Ciclope, «apparendo ai loro occhi», farà pagare molto cara. Lui ritorna, fa rientrare il suo gregge, attende ai lavori pastorali quoti diani, ravviva il fuoco; li «vede» (esiden). Prima domanda: chi siete ? Risposta prudente di Ulisse. Niente di preciso sulla loro identità. Sono degli Achei, reduci da Troia, deviati dai venti dalla loro rotta; hanno servito Agamennone, il cui nome sale fino al cielo. Il solo elemento preciso è una menzogna: la loro nave - la stessa che li attende alla fonda nella rada - sarebbe stata rotta e loro, soli sopravvissuti, sono là a implorare, ai suoi piedi, supplicando la sua ospitalità. La risposta non si fa attendere. Il Ciclope afferra due di loro, li sbatte a terra come dei piccoli cuccioli, prima di divorarli pezzo per pezzo. Lo stesso scenario ' Come hanno ben visto Norman Austin 1994 e Simon Goldhill 1991. " Ou e me hanno valore equivalente di negazione. •Il gioco su outis/Outis si prolunga nel gioco outislmétis•, scrive Miche! Casevitz, osservando che il bisticcio su •nessuno• (outis) (IX, 366) e il nome proprio inventato per la circostanza Outis (IX, 4 14 sgg.) non è &ra tuito poiché la testimonianza della métis di Ulisse (IX, 4 14) assicura l'impunità alla cfurb1zia salvif1ca• ( 1989, p. 55). 11
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si ripete il giorno dopo, due uomini il mattino, due uomini la sera. Metà del gruppo è già stata inghiottita nel ventre di questo selvaggio, ma, da un giorno all'altro, Ulisse ha modo di mettere a punto il piano che permetterà ai superstiti di scampare alla morte e di «apparire» (IX, 466) agli occhi rallegrati dei compagni, di guardia alla nave. Il piano preparato per far cadere in trappola il Ciclope presenta molti risvolti. Dapprima nella grotta: il vino e l'ebbrezza del mostro, il nome Outis che nasconde la presenza di Ulisse e lo rende irriconoscibile, il sonno del bruto, il palo temprato al fuoco la cui punta incandescente consuma e distrugge, nel mezzo della fronte, l'unico occhio del Ciclope, rinchiuso ormai nel buio della cecità. Fuori della grotta poi: la fuga tra volgente, giù per il sentiero, fino alla spiaggia, l'imbarco, la partenza della nave e l'ultima bravata di Ulisse, tornato se stesso, che getta in faccia al mostro, deturpato nell'occhio cieco (IX, 504), le parole che rivelano di colpo la vera identità di chi gli ha tolto la luce, «Ciclope, se tra i mortali ti chiede qualcuno di quest'occhio orrendamente accecato, rispondi che te l'ha tolto Odisseo, distruttore di città, il figlio di Laerte, che in ltaca ha la dimora». Tra i due episodi, per passare dall'interno all'esterno della grotta senza essere riconosciuto, c'è la trovata che nasconde Ulisse e i suoi compagni sotto il ventre dei montoni, nella spessa nube lanosa dei loro velli. Privo della vista, il mostro che cerca di impedire loro di uscire avrà un bel palpare la schiena delle sue bestie, non gli verrà mai l'idea di tastarle sotto: «E non capì, lo stolto, che al petto delle bestie lanose erano legati gli uomini. Ultimo uscì dalla porta ariete, il vello gravato da me, uomo di arditi pensieri» {Ix, 442-443). Doppio peso dunque, ma di Ulisse, trasformato in Nessuno, quello che pesa di più non è tanto la car cassa di Outis avvolta nel vello quanto i suoi pensieri ben stretti, com patti, privi d'errore (IX, 445), che fanno di lui l'eroe della métis, lo scaltro, il furbo, il mentitore, capace sempre di togliersi dai guai e realizzare i suoi piani: non più Nessuno, ma Ulisse in persona11• Nel racconto di questo dramma, il gigantismo del mostro, l'orrore dei festini cannibaleschi, per l'eccesso stesso di una disgrazia che con trasta ancor di più con l'ambiente bucolico e pastorale dell'episodio, assumono un aspetto comico che non sfuggirà a Euripide. Un tema che porta al riso, o al sorriso. Di fronte all'enorme bruto, caratterizza to dal suo stato selvaggio, Ulisse prigioniero, votato alla più orribile delle morti, possiede - come il poeta dell'Odissea - armi dialettiche " Nell'edizione originale suona meglio il gioco di parole: «non plus Personne, mais Ulysse en personne• [n.d.t.]. 12
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con cui gioca sottilmente, per provocare, attraverso il solo uso delle parole, il ribaltamento a suo favore di una situazione che sembra disperata. Enunciando, nel suo discorso, un vocabolo adattato alle cir costanze, che lo definisce nascondendolo, Ulisse mette la parola in corrispondenza diretta con la realtà. Come la divinità cambia l'aspetto e lo status di un essere umano versando su di lui luce od oscurità, allo stesso modo, appropriandosi di un nome fittizio, accuratamente scel to, Ulisse modifica efficacemente il suo «apparire» come già aveva fatto a Troia, martirizzando il suo corpo con dei colpi deturpanti. Tra il nome, il volto (prosopon), l'aspetto visibile del corpo, la fama - l'o nore (timé) che ci è riconosciuto, la gloria (kleos) che ci accompagna i legami sono così stretti che non sarebbe possibile agire sull'uno senza influire sull'insieme. Ma vediamo nei dettagli come si realizza questa evasione nell'invisibile, questa rimozione della presenza di Ulisse nel momento voluto, per effetto di un'azione linguistica. Il Ciclope ha appena scolato la prima coppa di vino che gli offre il Greco, che subito cambia tono. Avvinto, affascinato da questo nettare divino, prodotto di una cultura raffinata di cui ignora le dolcezze - e i pericoli - non avendo mai gustato altro che il vinello di uve selvatiche, il bruto stabilisce con Ulisse l'abbozzo di un rapporto umano: una sem bianza di ospitalità. «Dammene ancora, ti prego, e dimmi il tuo nome, subito, ora perché possa darti un dono ospitale che ti dia gioia». Affinché si stabilisca questa corrispondenza di scambi di regali che di due stranie ri sconosciuti tra loro faccia due ospiti, uniti per il futuro da un vincolo d'amicizia, come possono esserlo dei parenti prossimi, da una rete di favori e obblighi reciproci, bisogna ancora che ciascuno sappia chiara mente chi è l'altro, da dove proviene e qual è il suo nome. Questa è la richiesta che, prima della partenza di Ulisse per ltaca, formula chiara mente Alcinoo: tutto è pronto, la nave con l'equipaggio, i doni d'amici zia, i regali che ricordano all'ospite i suoi nuovi amici, dal momento che la gioia deve essere comune a tutti, unendo chi ospita agli invitati. È il momento in cui Alcinoo, non senza solennità, si rivolge a Ulisse: E quindi non mi nascondere ora nella tua mente accorta, quello che ti domando. È meglio se parli". Dimmi il nome con cui ti chiamano tuo padre e tua madre e quelli della tua città e coloro che vivono intorno.
" Già una prima volta Alcinoo aveva insistito con Ulisse perché dichiarasse la sua identità: •Nessuno degh uomini è senza nome (pampan anonumos), né il nobile né il miserabile (kakos, esthlos), una volta che è nato; a tutti lo impongono i genitori, quando li mettono al mondo. Dimmi dunque qual è la tua terra, e il popolo, e la città (gaia, demos, polis)• (VIII, 548-555). Attesa delusa: Ulisse si defila, preferenao restare fino all'ultimo momento •completamente senza nome•, fuori dalla consuetudine umana, alla maniera degli animali, outis, insomma. 13
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Ulisse subito obbedisce: Ma il nome dirò ora, per �rimo, perché lo sappiate, perché anche in futu ro, sfuggito al giorno fatale, 10 sia per voi un ospite anche se vivo lontano. Sono Odisseo, figlio di Laerte, per la mia astuzia noto fra gli uomini, la mia fama va fino al cielo (IX, 16 sgg.).
Nella grotta di Polifemo come nella terra dei Feaci, se Ulisse vuole otte nere il regalo che suggella l'accordo di ospitalità, deve dunque, senza astuzia, rivelare la propria identità. Ascoltiamolo: Tu mi chiedi il mio nome glorioso (onoma kluton), Ciclope, io te lo dirò, ma tu dammi il dono che mi hai promesso. Nessuno (Outis) è il mio nome, Nessuno mi chiamano padre e madre e tutti gli altri compagni (IX, 364-367).
Queste due dichiarazioni d'identità si corrispondono, compo nendo come in specchi opposti un gioco sconcertante di riflessi in cui si confonde la realtà di Ulisse. In quale momento l'eroe rivela la sua vera identità ? Quando, senza simulare o giocare d'astuzia, come lo hanno pregato di fare, svela il suo nome, quello del padre, quello del suo paese? Ma per essere completo, quest'annuncio deve fare men zione delle «furbizie» di Ulisse, famose dappertutto e che fanno parte della sua stessa notorietà, della sua gloria, della sua identità, tanto che ci si può domandare se Ulisse, senza astuzia, senza trave stimento sotto cui nascondersi, un Ulisse franco e leale, sia ancora pienamente Ulisse. Al contrario, quando Ulisse mente, come fa con il Ciclope, celandosi sotto il falso nome di Outis, non gli rivela nien te col gioco di parole di cui scherzosamente si gloria: outis-métis, è questo lo spirito di astuzia che lo rende, agli occhi di tutti, conforme a ciò che nel profondo è l'autentico Ulisse. Questo Nessuno sareb be, come vuole far credere, il suo nome «conosciuto». Falso ma vero. Klutos (famoso) si riferisce al fatto che lo chiamano così tutti i suoi (kikleskousin ), cosa che è pura invenzione. Ma klutos evoca anche il kleos, la reputazione, la celebrità di Ulisse, sia negli eventi attuali cantati dall'aedo, che in quelli futuri, attraverso i racconti delle prove di colui che incarna ancora ai nostri occhi l'eroe glorioso dell'astuzia, della métis. Tale è Ulisse quando Atena lo motteggia al loro primo incontro a ltaca: «Scaltro sarebbe davvero chi ti superasse nelle tue astuzie, anche se fosse un dio. O uomo tenace, ingegnoso, mai sazio d'inganni, neppure adesso che sei nella tua terra vuoi rinunciare alle bugie, alle invenzioni che ti sono care» (xm, 291 -295). Tale è ancora Ulisse, sia quando si traveste, sia quando mente su se stesso, sia quando dice la sua verità. Di queste formule paradossali, dove il vero 14
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e il falso confluiscono come due fiumi l'uno nell'altro, i greci sono assai ghiotti e talvolta gli danno dignità di proverbio. Così, ad esempio, nel celebre paradosso del bugiardo: Epimenide afferma che tutti i Cretesi sono bugiardi; Epimenide è cretese; non dice dunque il vero quando pretende che i Cretesi siano tutti bugiardi; ma se i Cretesi sono sinceri, anche Epimenide dice la verità ecc. Ma di que sto genere di sottigliezze il Ciclope non si cura. Per acume mentale, così come per il senso di ospitalità, la sua replica mostra come ancora abbia molto da imparare: «Per ultimo io mangerò Nessuno, dopo i compagni, gli altri li mangerò prima. Questo è il mio dono ospitale» (IX, 369-370). Il poveretto non sa di dire il vero: è proprio nessuno che, in effetti, mangerà per ultimo, quando Ulisse sarà già lontano. Con l'u nico occhio accecato, avrà un bel chiudersi con il gregge nell'antro dove sono anche i greci, urlare e chiamare in aiuto i Ciclopi vicini. Svegliati in piena notte, essi arrivano alla grotta e gli chiedono, dall'e sterno, cosa gli sia successo: Perché, Polifemo, con tanta angoscia hai gridato, nella notte divina e non ci lasci dormire? Forse CJ.Ualcuno (me tis), ti ruba, tuo malgrado, le pecore? Forse qualcuno (me tis) t1 vuole uccidere con la violenza o l'inganno? E dalla grotta rispose loro Polifemo possente: Nessuno (Outis) mi uccide amici, con l'inganno, non con la violenza. Di rimando essi risposero: se nessuno (mé tis) ti usa violenza e sei solo, il male che viene da Zeus, non puoi evitarlo.
E se ne vanno, lasciando il Ciclope che si lamenta e Ulisse-Nessuno che se la ride di cuore (IX, 405-409). La storia non è ancora finita. Scappato dalla grotta con i suoi com pagni, scampato al ventre di Polifemo, Ulisse, dalla nave che già fila a remi verso il largo, non sa resistere a provocare il Ciclope che, preso dalla rabbia, lancia alla cieca enormi massi verso questa voce incorpo rea; è in un'ultima beffa che Ulisse rivela alla vittima la sua vera iden tità, perché non si ignori, sepolto nell'oscurità dell'oblio, il nome del l'inventore di questa brillante arguzia: «Ciclope, se fra i mortali ti chie de qualcuno di quest'occhio orrendamente accecato, rispondi che te l'ha tolto Odisseo, distruttore di città, figlio di Laerte, che in ltaca ha la dimora» (IX, 502-505). Bisogna pensare che al termine del racconto Nessuno, Outis, scom paia e che, dissolta l'illusione della menzogna quando appare la verità, non resti in scena che Ulisse con la sua métis? Certamente no. Nell'oscuro cervello del Ciclope, al nome di Ulisse, tutto si spiega. Glielo avevano ben detto. Sapeva per averlo inteso dalla bocca dell'in dovino dei Ciclopi che un giorno sarebbe stato accecato dalla mano 15
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d'Ulisse. Se non ha diffidato, non è soltanto perché Ulisse ha nascosto il suo nome; è che il personaggio che pretendeva di chiamarsi Nessuno non era effettivamente un gran che: come confida al suo caro monto ne, senza sapere che Ulisse si nascondeva sotto il ventre dell'animale; tutte le sue sofferenze gli sono venute da questo outidamos outis, da questo Nessuno da nulla (IX, 460). Quando dietro il falso Nessuno arriva alle sue orecchie la voce del vero Ulisse, l'opinione del Ciclope non cambia: «lui [l'indovino Telemo] mi disse che tutto questo sareb be avvenuto, che della vista mi avrebbe privato Odisseo. Ma sempre aspettavo che qui giungesse un uomo di bell'aspetto, alto e dotato di una forza immensa. E invece un essere piccolo, debole, un uomo da nulla (outidamos) mi ha accecato, dopo avermi ubriacato col vino» (IX, 5 1 0-5 1 6). Certo, data la taglia del mostro, tutti gli umani devono sem brargli dei nani, ma Ulisse non è il primo uomo che ha visto e questo mortale «grande e bello, vestito di una forza straordinaria», doveva essere, lo sapeva, un umano (phOs), fatto dunque di conseguenza alla stregua di Ulisse. No, al posto di quello che attendeva e che doveva vincerlo, un uomo bello, grande, forte, cioè «simile a un dio», ha visto arrivare q�alcuno che ai suoi occhi, nell'evidenza del suo apparire, non era propno nessuno. Ulisse dunque non era nessuno e dovrà ridiventarlo, rimanere tale, per anni, perfino nel ritorno a casa, presso i suoi: per pagare il prezzo di quest'occhio accecato per le vie oscure dell'astuzia, dovrà affronta re la collera di Poseidone, padre di Polifemo, di cui il dio esaudirà la preghiera: Fa che non torni in patria il distruttore di città Odisseo, figlio di Laerte, che in Itaca ha la dimora. Ma se è destino che riveda (ideein) i suoi cari, che torni alla casa ben costruita e alla terra dei padri, tardi e male vi giunga, dopo aver perduto i compagni, sopra una nave non sua, e in casa trovi sventure (IX, 530-535).
Le peregrinazioni di Ulisse hanno origine da quest'occhio acceca to. Come indicato da Zeus, all'inizio del poema, davanti all'assemblea degli dèi (I, 68-75) e da Tiresia agli Inferi (XI, 1 00-1 03), come gli ricor da ancora Atena (Xlii, 341 -343) - per giustificarsi di aver abbandonato il suo protetto senza avergli prestato aiuto durante i pericoli, fino allo sbarco nella terra dei Feaci - tutto il male deriva dal risentimento del dio marino: «Ma non volli - dichiara la dea - lottare con Poseidone, il fratello di mio padre, che l'ira covava nel cuore contro di te perché gli accecasti suo figlio». Le sue peregrinazioni porteranno i Greci, alla fine del viaggio, a offendere l'occhio per eccellenza, l'occhio celeste, sor16
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gente di ogni luce, di ogni vista, il Sole, e a provocare una maledizio ne, che dopo quella di Polifemo esaudita da Poseidone, Zeus in perso na s'inc4richerà di portare a termineu. Lasciando l'isola del Ciclope, l'eroe entra, per restarvi, prova dopo prova, in un mondo del nulla, in uno spazio-altro. Il figlio di Poseidone, Polifemo, è stato, per mano d'Ulisse, privato della luce; Ulisse si vede, a sua volta, privato dell'universo degli uomini, di quel mondo civiliz zato di mangiatori di pane in cui ciascuno - con la sua figura, il suo nome, la sua reputazione, il suo stato sociale - esiste agli occhi degli altri. Privato dei compagni, solo, sconosciuto, ignorato dai suoi, nascosto a ogni sguardo, privato anche della presenza di Atena, sua protettrice, senza nome né gloria, Ulisse durante i dieci anni in cui è considerato disperso, sta per trovarsi come inghiottito nell'invisibile, privato dell'identità, anonimo e straniero perfino a casa sua.
Dal mondo del nulla a/limitar delle tenebre Al momento dello sbarco con le sue navi nel paese dei Ciclopi, Ulisse avrebbe dovuto intuire di avere superato una frontiera e cambiato oriz zonte. Ormai si dovrà confrontare con un «altro mondo» . Queste vaghe distese, lontane dalle rotte marittime, dalle regole e dal tempo della navi gazione, sconosciute ai timonieri, tagliate fuori dal resto dell'universo e chiuse nei loro spazi di solitudine, con gli esseri che vi s'incontrano, non rappresentano più i pericoli della lontananza: sono l'immagine dell'i naccessibile. Per un mortale, trovarsi reietto e perduto, non è solo espor si alle tempeste, alla deriva delle correnti, alla furia delle onde, a popoli ostili e selvaggi, quanto esplorare, ai margini del mondo, gli estremi limi ti della nostra condizione di esseri umani, di creature civilizzate, votate alla morte, vive, vedenti, visibili al chiarore del giorno. A ciascuna tappa del suo viaggio, Ulisse è messo alla prova nel suo radicamento, nella sua fedeltà alle tradizioni antiche, al suo status, alla sua identità. L'ultimo rischio di questa relegazione entro confini in cui - nei paesi dei Cimmerii, immersi in una bruma mai attraversata da raggio di sole - si apre l'ingresso delle tenebre, l'entrata degli Inferi, è il modo in cui lag giù si dividono e si ripartiscono, secondo poli contrapposti, gli aspetti della realtà. Questi ultimi, fuori e dentro di noi, formano i punti di rife rimento che orientano il corso della nostra esistenza terrena: luce e oscu rità, giorno e notte, veglia e sonno, memoria e oblio; apparire o restare nascosti, mostrarsi e dissimularsi, essere conosciuti o ignorati, esaltati o " Cfr. C. Segai 1 992. 17
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Frontisi-Ducroux e Vernant, Ulisse e lo specchio
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disprezzati, brillare come un dio nello splendore del suo valore o eclis sarsi come un niente nel buio del disonore. Tutto si rovescia, nel viaggio, quando la flotta doppia il capo Malea. Ulisse pensa allora di essere alla fine del percorso e di poter sbarcare il giorno stesso, sano e salvo, nella sua patria. Ma i venti funesti che subi to si levano e soffieranno per nove giorni lo portano lontano dalla punta Malea, verso un altro spazio rispetto a quello praticato fino al quel momento. «Il decimo giorno - racconta Ulisse a Alcinoo e ai Feaci riuniti a ascoltarlo - approdammo alla terra dei Lotofagi, i man giatori di loto» (IX, 84). Come scrive François Hartog, «Il Malea è il luogo dove ci si gioca tutto. Il capo Malea, dove si passa da uno spazio all'altro: da quello degli uomini mangiatori di pane allo spazio non umano dei racconti presso Alcinoo»14• Prima del capo Malea, c'erano stati i Ciconi di Tracia, il saccheggio d'Ismaro, la battaglia in schiere davanti ai vascelli, la disfatta dei greci, i morti lasciati sulla spiaggia, l'imbarco, la fuga delle navi e anche la tempesta: dolore, tristezza, angoscia - ma, sfortuna o successo, tutto scorre come ci si può atten dere nei combattimenti tra uomini o nelle vicissitudini di mare. Presso i Lotofagi le cose cambiano. Non è alla vita degli stranieri che mirano; al contrario, appena incontrati, offrono loro i frutti dolci come il miele di cui essi stessi si nutrono. Prima anomalia che avrebbe dovuto allar mare Ulisse. Al posto dei mangiatori di pane, i mangiatori di fiori. Sulla loro rotta, ora, i Greci non incontreranno più nessuno che non si differenzi per un regime alimentare diverso fuori dalle norme dell'u manità civilizzata: infatti i Ciclopi, pastori cannibali, i Lestrigoni, pescatori antropofagi, Circe, e Calipso, nutrite d'immortalità, «non mangiano il pane né bevono il vino• alla maniera degli uomini. L'episodio dei Lotofagi dà subito a questa variante tutto il suo significato. Mandati a esplorare chi fossero i «mangiatori di pane» abitanti queste terre (IX, 89), i tre Greci che, strada facendo, accetta no di dividere con i Lotofagi le loro consuete pietanze di fiori, ces sano di colpo di essere ciò che erano: per loro non esiste più famiglia, né patria, né compagni cui rendere conto della missione per cui sono stati scelti; tutto il loro passato è annientato; lo stessa voglia di tor nare a casa si è cancellata, perduta nel fondo dell'oblio (nostou lathe ta� nostoio lathetai, IX, 97 e 1 02)15• Essi non aspirano ad altro se non " F. Hanog, Des lieux et des hommes, in Homère, Odyssée, trad. di Philippe jaconnet, p. 420.
" Ancora un'altra volta è presente il gioco tra Casevitz 1 989, p. 55, n. 5.
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lotos
e lathetai, il fiore e l'obho;
M.
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a restare là dove sono, per sempre. Ulisse dovrà imbarcarli a forza sulle navi che riprendono il mare. Al di là del capo Malea dunque, subito all'inizio del nuovo periplo, c'è l'oblio. Ma come lo sguardo, come la visione, l'oblio implica reci procità, funziona in due sensi. Dimenticare il ritorno, non avere più il ricordo dei propri cari, della casa, della patria, è come uscire dalla memoria di coloro che hanno smesso di pensare a noi. Cancellando il ricordo che ci lega al mondo al quale apparteniamo, noi stessi ci tro veremo nella condizione di essere dimenticati. Perciò, che si sia corag giosi o vili, principi o villani, saremo ugualmente inghiottiti nelle tene bre dove sprofonda, laggiù, la folla anonima dei «non memorabili», dei «senza nome», nonumoi: coloro che, per non aver lasciato - della loro persona, delle loro imprese e della loro gloria - una traccia che gli uomini possano sempre essere ricordati, sono condannati a scompari re per sempre dall'orizzonte dei vivi. Se il paese dei Lotofagi è l'anticamera dell'oblio, la piccola isola che, fiancheggiando la terra dei Ciclopi, permette ai naviganti di approda re è un luogo notturno, sfuggito all'occhio dei timonieri. Invisibile, nascosto nella notte, chi potrebbe, se non un dio, condurvici ? « Qui noi arrivammo, nella notte oscura un dio ci guidava, invisibile (oude prouphainet' idestat). Fitta nebbia era intorno alle navi, in cielo non splendeva la luna (oude prophaine), che le nubi velavano tutta. Nessuno con i suoi occhi vide quell'isola (esedraken ophthalmoist); nemmeno le lunghe onde vedemmo (esidomen) frangersi contro la riva prima che vi approdassero le navi dai solidi banchi» (Ix, 1 42 - 1 48). Un dio per guida, delle onde che dirigono i protagonisti, li spingono, li depositano sulla riva, una terra tenebrosa in cui essi, sbarcati senza averla vista, vi si addormentano subito: l'avventura presso i Ciclopi, che dà adito alla vendetta con la quale Poseidone non smetterà più di perseguitare Ulisse fino alla fine delle sue peregrinazioni, inizia alla maniera di una fiaba piuttosto che di un racconto di viaggio. L'arrivo sull'isola non deve niente a quell'arte della navigazione in cui, in altri passaggi, Ulisse si comporta come un esperto e un maestro, come quando regge la barra del timone, senza }asciarla ad altri, per nove giorni, dall'isola di Eolo, fin quando appare (x, 28-30) la terra d'ltaca così vicina da }asciarne vedere i fuochi e gli uomini; o quando, senza fermare l'occhio, questa volta da solo sulla sua zattera, governa da uomo di mestiere (v, 270), lo sguardo fisso sulle stelle per sorvegliare il capo fino a che non apparissero, simili all'umbone di uno scudo posato sul mare, i monti dei Feaci rivestiti dei loro boschi scuri. 19
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Sulla cima dell'Olimpo, nel cielo più alto, gli dèi, eternamente gio vani, risiedono nello splendore di una luce inalterabile. Al fondo della terra, gli dèi infernali e la folla indistinta dei morti popolano un'oscu rità compatta, in cui non filtra mai il minimo raggio di sole; ma per gli esseri umani, qui in basso, la vita si divide in fasi alterne, tra il chiaro re del giorno e le tenebre della notte. Ciascuno di noi, come in un'eco, porta in sé una parte notturna che si chiama sonno, oblio, vecchiaia, morte, oscurità, cecità dello spirito, bruttezza, indegnità1'. Per ritrova re la patria, la sposa, la famiglia, lo scettro reale, Ulisse deve superare delle prove, affrontare dei disagi; ma il pericolo che rischia più diretta mente di fargli perdere l'identità è che le forze di ottenebramento che sono in lui, o che lo minacciano dall'esterno - che sono le stesse - non arrivino a estendere la loro zona d'ombra fino a cancellare tutto della luce che lo rende nello stesso tempo visibile e vedente. Ecco alcuni esempi che concordano e si rafforzano: dopo la tem pesta che l'ha spinto dal capo Malea all'isola dei Lotofagi, quando di nuovo, dopo essere scappato dal Ciclope, Ulisse, grazie a Eolo, sta per raggiungere la meta e si vede vicinissimo alla propria terra, il sonno un dolce sonno (glukus hupnos, x, 3 1 ) - gli chiude gli occhi, spossati dalla veglia e li ricopre della propria oscurità. È tutto da rifare. Vedendolo addormentato, i suoi compagni deci dono di sciogliere il nodo dell'otre in cui Eolo, per compiacere Ulisse, aveva racchiuso tutti i venti impetuosi, lasciando libero solo un dolce Zefiro per portare la nave a casa. Appena liberate, le burrasche si sca tenano, riportano la squadra al suo punto di partenza, presso Eolo, in quell' «isola galleggiante», quel «nulla» circondato da tutte le parti da un infrangibile muro di bronzo. Ulisse avrà un bel spiegare le sue ragioni al signore dei venti, nella speranza che gli accordi una seconda possibilità. La mente accecata dei miei compagni, gli spiega, mi ha rovinato, e con essa un perfido sonno (hupnos scheltios, x, 68-69): fiato sprecato. «Vattene da quest'isola, presto - gli intima Eolo - obbrobrio degli uomini (elenchiste zoonton, x, 72). Non è giusto che io offra aiuto e scorta a un uomo che è in odio agli dei beati. Vattene, è per l'o dio degli immortali che sei qui di ritorno». Quando Ulisse era sbarcato la prima volta sull'isola, Eolo lo aveva accolto in amicizia e trattato per un mese con tutti gli onori (cfr. x, 38). Relegato con i suoi sull'isola, tagliato fuori da tutto e da tutti, il mae stro dei venti non voleva perdere l'occasione di sapere quello che acca16
Sulla progenie della Notte, cfr. Esiodo, Teogonia, 2 1 1 -232 e C. Ramnoux 1 959.
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deva altrove, presso gli uomini: sperando di conoscere tutto nei detta gli, Eolo domanda e Ulisse racconta. Ma questa volta il suo ospite non è più per lui il testimone d'imprese eroiche, il cantore della presa di Troia e del ritorno dei Greci. Inviso agli dèi, inghiottito nella notte dal sonno nel momento stesso in cui i suoi occhi stavano per vedere la costa di ltaca, Ulisse è diventato elenchistos zoonton, la più vile, la più disprezzabile delle creature. Quando reimbarca l'animo desolato, con gedato a dispetto delle lacrime, è «nessuno» che riprende il mare, senza che «ci sia alcuna guida» (x, 79) per condurlo in quest'orizzonte sco nosciuto. La stessa debolezza coglie l'occhio dell'eroe in un altro momento decisivo, sull'isola della Trinacria, dove pascolano le vacche del Sole, ma questa volta il prezzo da pagare è molto più alto. Dopo aver sog giornato presso Circe per un tutto un anno, l'intero equipaggio d'Ulisse muore, la nave colpita da un fulmine, come delle cornacchie, tutti i compagni, con i corpi sballottati dalle onde, galleggiano senza vita attorno al battello nero. Consultato all'entrata degli Inferi, Tiresia aveva nondimeno formulato, con molta chiarezza, il suo allarme. La sola possibilità di arrivare al termine nonostante il rancore di Poseidone, aveva detto, è di rispettare sulla sua isola i buoi di Helios, del Sole, quest'occhio divino che dall'alto del cielo vede tutto e la cui luce fa apparire ogni cosa e la rende visibile (XI, 1 09 sgg.). «Se non toc chi le bestie, se pensi al ritorno, allora, pur tra molti dolori, potrete giungere a ltaca. Ma se fai loro del male, allora io ti dico che sarà la fine per te e per i tuoi uomini». Il dilemma è dunque chiaro: o mettere le mani sulle vacche sacre, proprietà del dio Sole, per disturbarle e ucci derle, o guardarsene come dalla peste, pensando intensamente al ritor no, avendolo sempre nella memoria, anche se, attanagliati dalla fame, alla vista delle bestie vi sommerge il desiderio della carne. Tutto l'episodio delle vacche del Sole è sotto il segno di quattro delle potenze dell'oscurità che, secondo Esiodo, la Notte partorì all'o rigine del mondo, senza unirsi a nessuno, come se le avesse generate dalla propria sostanza tenebrosa: Morte e Sonno, Oblio e Fame17• Cominciamo dalla fame. Ulisse e il suo equipaggio sono appena scappati da Scilla e Cariddi, non pena e senza perdite. I sopravvissuti sono sfiniti. Quando appare l'isola del Sole, Ulisse, conscio di quanto sarebbe loro capitato se avessero toccato le vacche sacre, avverte i com" Esiodo, Teogonia, 2 12, per Thanatos e Hypnos, Morte e Sonno; 227 per Lethé e Limos, Oblio e Fame, associate a Algea dakruoenta, Dolori lacrimosi.
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pagni del pericolo e propone loro di bruciare le tappe e andarsene senza fermarsi. Tutti a bordo protestano: l'indignazione è unanime. Euriloco s'indirizza a Ulisse; per bocca sua, è il ventre di ognuno che prende la parola per esigere i propri diritti. Il ventre, gaster, o meglio la pancia, le viscere, quel gaster che Omero qualifica come odioso, malefico, spregevole e da cui, secondo lui, «proviene tutto il male•. Tu sei fatto di ferro, risponde Euriloco a Ulisse, tutti noi siamo sfiniti e affamati, è ora di mangiare. « Cediamo, invece, alla notte nera, e accan to alla nave preparia!flO la cena» (xn, 291 ) . Detto, fatto: ancorano la nave; sbarcano i viveri; preparano la cena; «per calmare la sete e la fame•, per riprendere le forze, mangiano bocconi doppi. Tuttavia prima Ulisse, costretto a cedere, aveva vincolato i compagni a un solenne giuramento: nessuno di loro, se avesse incontrato la mandria, avrebbe dovuto uccidere neppure la più piccola di quelle bestie, ma limitarsi saggiamente a mangiare le provviste, il pane e il vino, cibi umani, che Circe aveva loro donato. Eccoli dunque accampati, per la sosta, sulla riva. Ma durante la notte si leva il Noto•• che, soffiando in burrasca, li trattiene per un intero mese sull'isola, impedendogli di riprendere il mare. Fino a quando hanno a sufficienza pane e vino, gli uomini, nel loro bisogno vitale di nutrirsi, non toccano alcun animale; ma quando non gli resta più niente dei viveri della nave, bisogna tenta re la sorte e dare la caccia agli uccelli o ripiegare sulla pesca. «Mordeva il ventre la fame, (eteire de gastera limos)• (XII, 332). Che fare ? Ulisse come ultima risorsa decide di appellarsi agli dèi. Lascia i compagni, si reca nel centro dell'isola e indirizza all'Olimpo la sua preghiera. Gli dèi, in cambio, gli chiudono gli occhi con il più dolce dei sonni. Con Ulisse addormentato, la fame ha campo libero e tocca di nuovo a Euriloco farsene portavoce. Dimentico del giuramento e disinteressato al ritorno in patria, eccolo esortare i compagni: cosa potrebbe esserci di peggio per loro della più orrenda delle morti, mori re di fame e per di più, con davanti agli occhi, le più belle vacche che si possano sognare ? Il problema è subito liquidato: tutti, come fossero a caccia, accerchiano la mandria per accaparrarsi i capi migliori; li sgoz zano, li scuoiano, li tagliano a pezzi e li mettono a cuocere. Quando Ulisse, svegliatosi, ritorna verso i suoi, il fumo dei grassi e delle carni grigliate, lungo il cammino, l'avviluppa e lo mette sul chi vive. Comprende subito quanto è accaduto, implora e grida il suo pianto agli dèi immortali: «Per mia disgrazia mi avete immerso in un sonno 11
Vento del Sud, tra i più violenti [n.d.t.].
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crudele, e intanto i miei compagni hanno commesso un grave misfat to» (XII, 372-373). Ma gli dèi non si curano della sua pena, sono trop po occupati a prestare orecchio alle minacce profferite da Helios furi bondo. «Se non pagheranno la giusta pena, io scenderò nell'Ade e splenderò per i morti (nekuessi phaine)» (XII, 382-383). La luce che illumina il dominio delle tenebre, la notte che invade cielo e terra, è il mondo alla rovescia che minaccia Helios se un'oscura morte non casti gherà i colpevoli; non hanno essi stessi, in un'orrenda parodia di sacri ficio, invertito tutte le regole del rito alimentare, per soddisfare i ven tri che sono diventati nel consegnarsi in toto alla Farne, progenie della Notte come il Sonno, la Morte e l'Oblio ? Zeus sa che cosa deve fare: «Sole, continua a risplendere (phaeine) per gli dei immortali e per gli uomini, sulla terra feconda, e io, con la mia vivida folgore, gli colpirò la nave veloce, la farò in tanti pezzi sul mare color del vino» (XII, 385388). I compagni di Ulisse passano sei giorni a banchettare, rimpin zandosi di cibo a dispetto dei prodigi che gli dei mostrano loro. Il set timo giorno, il vento cala; riprendono il mare. Quando sono al largo, Zeus stende sullo scafo una nube tenebrosa che oscura il mare. Zefiro si scatena, l'albero cade, fracassando la testa al pilota; Zeus tuona e affonda la nave. I cadaveri di tutti i banchettanti, precipitati in mare, ora galleggiano sballottati dalle onde come fossero cornacchie. Ulisse è l'unico a cavarsela; i venti di morte lo riportano, aggrappato a ciò che resta dello scafo, verso Scilla e Cariddi, ormai solo, senza più nessuno al suo fianco. Tutti i suoi compagni sono morti. Fino a quando non approderà alla terra dei Feaci, ultima tappa prima di Itaca, Ulisse è murato nella solitudine, tagliato fuori da ogni contatto con gli altri, da ogni presenza umana: privo di legami sociali, nessuno.
Luce del ricordo, oscurità dell'oblio Perdere la propria identità, non essere più nessuno, vuoi dire, per un Greco dell'età arcaica, che si sono cancellati i riferimenti che con feriscono a un individuo, nella sua singolarità, lo status di essere umano: il suo nome, la sua patria, i suoi genitori, la sua discendenza, il suo passato, la sua eventuale gloria. Quando questi segni si sbiadisco no o si confondono, qualsiasi mortale, per quanto grande, cessa di essere se stesso. Senza un luogo fisso dove radicarsi nella vita presen te, senza una tradizione cui rifarsi, non c'è più un posto da assegnargli nel mondo dei «rnangiatori di pane». La sua figura, il suo nome, la sua memoria scompaiono inghiottiti dalla stessa Notte in cui affondano, appena discesi nell'Ade, tutti coloro che non lasciano dietro di sé alcu23
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na traccia, alcun ricordo di ciò che furono da vivi. Eclissati, i loro fan tasmi si perdono nella folla indistinta dei morti senza viso, senza nome, senza ricordo; formano la massa che Esiodo, per apporli agli eroi famosi, chiama nonumnoi, i «senza nome». «Nessuno degli uomini - dichiara Alcinoo a Ulisse nello spingerlo a dichiarare la sua identità è senza nome, né il nobile né il miserabi le, una volta che è nato» (vm, 552-553). Essere senza nome, per una creatura che vive alla luce del sole, è trovarsi fuori dall'umanità, essere come una bestia. Tale è la prova che la maga Circe riserva, sull'isola d'Eea19 dove stanno per approdare, a quei compagni di Ulisse che erano scampati al massacro dei Lestrigoni: erano stati arpionati sulle loro navi come dei tonni, cibo per i giganti. Tra i sopravvissuti - l'e quipaggio del vascello che l'astuto Ulisse aveva saputo preservare - la metà forma una piccola truppa che si reca al maniera dove risiede la dea, nella speranza di trovare rifugio prima di riprendere il mare. Circe li accoglie con finta dolcezza; li introduce nella sala, li fa accomodare, offre loro in una coppa una bevanda di conforto in cui ha versato una pozione fatta da lei. L'effetto magico che ella si aspetta è «che scordas sero la patria, per sempre» {x, 238}. E affinché l'oblio del ritorno sia completo e definitivo, con un colpo di bacchetta la maga trasforma le sue vittime umane in una mandria di porci, che chiude subito nei suoi recinti per nutrirli con il consueto pastone dei maiali, quello che ognu no di loro è ormai diventato. Essi ne hanno tutta l'apparenza, il corpo, la testa, la voce, il pelo; hanno perduto il ricordo della loro patria d'o rigine e il desiderio di ritrovarla; ma in loro, la capacità di pensare (il nous) è rimasta intatta, «che era quella di prima» {x, 240}: non sono pervasi dello spirito del maiale più di quanto non lo siano dello spiri to di belva sanguinaria le altre vittime, trasformate poco prima da Circe in leoni e lupi di montagna {x, 2 1 2}. La dea, per trattenere nella sua isola di solitudine tutti i viaggiatori perduti in mare che qui appro dano, li spoglia della loro identità di uomini senza che, per questo, nel loro intimo, essi diventino vere bestie selvagge. Ulisse, avendo in pugno Circe grazie all'antidoto fornitogli da Hermes, ha appena otte nuto che la maga restituisca al loro aspetto originario quelli che aveva mutato in porci, che subito - e nel medesimo istante - questi ridiven tano uomini e ritrovano il loro spirito, tanto che, vedendo Ulisse di -
" Isola situata all'estremo oriente dell'Oceano. Nel testo francese (Aiétés) si parla •d'i sola di Eeta• (Aietes, x, 137), fratello di Circe, fi � lio del Sole e di Circe, re della Colchide e possessore del Vello d'oro; noi tuttavia, per identtficare il luogo, preferiamo il toponomasti co Eea, usato da Omero (Aiain, x, 135) [n.d.t.].
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fronte a loro, lo riconoscono, vanno verso di lui e gli prendono la mano singhiozzando. La metamorfosi in animale, se spoglia dell'iden tità umana colui che la subisce, non si allontana di molto dalla trasfor mazione di un vivo in un morto. I fantasmi dei defunti perdono, con la vita, ogni capacità di cono scenza. Non c'è più in loro il nous, tranne in un'eccezione: Tiresia, che Ulisse dovrà giustamente incontrare ai confini del mondo, nel paese senza luce dei Cimmerii, affinché, risalito dagli Inferi, lo illumini con i suoi consigli e gli faciliti il ritorno. Anche morto, Tiresia ha conser vato tutta la sua capacità di pensare; le sue phrenes, i suoi pensieri, il suo nous, il suo spirito, i suoi precordi intatti (x, 493-494). Se ha potu to conservare nelle tenebre dell'Ade una piena lucidità è perché, al contrario, nel pieno sole della sua vita terrena, l'indovino, anche se cieco, aveva una perfetta percezione dell'invisibile. Vita e morte, l'al di qua e l'al di là non si contrappongono per lui come due regni incom patibili, separati da una frontiera che si può infrangere solo cessando di essere se stessi per trasformarsi in un fantasma oscuro, un'ombra inconsistente. Alla maniera di un dio come Hermes, Tiresia poteva, conservando lo stesso aspetto, circolare tra il chiarore del giorno, pres so i vivi, e l'oscurità della notte, presso i morti; avendo pagato con la cecità il dono della doppia vista, egli rimaneva a metà strada tra il visi bile e l'invisibile, tra la luce e le tenebre; conosceva, nello stesso tempo, ciò che è il presente per i vivi, ciò che è confuso nel passato e quel lo che si prepara in segreto per il futuro. Chiusi in un corpo di bestia, i compagni di Ulisse stregati da Circe si trovano in una situazione analoga. Non sono più degli uomini senza essere tuttavia degli animali. Hanno cessato di essere se stessi, nell'oblio del ritorno; essi non sono perciò completamente altri poiché in loro lo stesso nous, immutabile, continua a vegliare. Costretti ai confini della loro identità, al limite dell'umano - così come Circe e la sua isola sono ai margini del mondo -, essi trovano in questa esperienza estrema, imposta, in quest'esilio fuori della loro condizione normale di esistenza, occasione di una sorte di rinnovamento, una cura di giovinezza, un'ini ziazione che, per rigenerare, deve comportare il passaggio attraverso lo stato momentaneo di morte apparente. Ridiventati uomini, ritornati in sé, sono in effetti «più giovani di prima e molto più belli e più alti a vederli» (x, 395-396). Rafforzati da un'avventura che non avevano cer cato né meritato non mancheranno al momento opportuno di rammen tare a Ulisse: «Ricordati della tua patria, Odisseo, se pure è destino che ti salvi e ritorni alla bella dimora, nella terra dei padri» (x, 472). 25
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Quando lo dimenticheranno di nuovo, divorando le vacche sacre del Sole, la punizione non si farà attendere e sarà senza appello. Questa volta non sarà loro concesso di conservare in un corpo di bestia lo stes so nous che pervade la loro forma umana. Quando fulminati da Zeus passeranno, dal primo all'ultimo, la frontiera dei vivi, è per scompari re completamente e per sempre nell'invisibile, senza sepoltura, senza traccia sulla terra degli uomini, con i cadaveri galleggianti sul mare tra i rottami della nave, simili a cornacchie sballottate dalle onde. L'episodio di Calipso fa da pendant con quello di Circe. Ulisse li associa nel preambolo al racconto, - che si accinge a fare ai Feaci - , di tutto ciò che ha dovuto sopportare nelle peregrinazioni del suo ritor no da Troia: «Mi tratteneva Calipso divina nella sua concava grotta, desiderosa di farmi suo sposo; e anche Circe, l'astuta Circe di Eea, mi tratteneva nella sua casa, desiderosa di farmi suo sposo. Ma non riu scivano a persuadere il mio cuore» (IX, 28-33). Due donne, due dee desiderose di avere per sempre con loro Ulisse come congiunto. Le due avventure, parallele, non si ripetono, anzi si spiegano a vicenda attraverso il loro contrasto: ciascuna trova in quello che la distingue dall'altra, apponendola, il suo necessario complemento. La tappa presso Circe è puntualmente raccontata da Ulisse, con dovizia di particolari; il soggiorno presso Calipso invece, che dura ben più a lungo immobilizzando il nostro eroe per sette anni, non è men zionato da Ulisse che per brevi cenni, senza entrare nei dettagli. Noi li conosciamo non più attraverso il racconto in prima persona di Ulisse, ma sotto la forma oggettiva che l'autore dell'Odissea dà alla sua espo sizione dei fatti. Nell'economia d'insieme dell'opera, Calipso occupa un posto centrale e il poema si può leggere, seguendo uno dei suoi assi maggiori, come la narrazione del periplo che, dopo Calipso, riporta Ulisse a Penelope, passando per Nausicaa. All'inizio del canto I, subi to dopo l'invocazione alla Musa affinché racconti le imprese dell'uo mo dai mille viaggi, i primi versi fissano per i lettori il tema che l'aedo ha scelto di sviluppare: «Tutti gli eroi che scamparono all'abisso di morte, che sfuggirono alla guerra e poi al mare, erano a casa. Solo lui, che bramava il ritorno e la sua donna, una dea tratteneva in una grot ta profonda: la ninfa bellissima Calipso, che voleva farlo suo sposo» (I, 1 1 - 1 5). È per regolare questa situazione, per metterle fine (e perché il poeta avesse materia per tessere il suo racconto), che gli dèi decidono di intervenire. Due riunioni li raccolgono sull'Olimpo, in assenza di Poseidone, partito per banchettare presso gli Etiopi. Atena espone i fatti. Sostenuto dall'assemblea dei suoi pari, Zeus taglia corto: invia 26
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Hermes dalla ninfa affinché le comunichi che, a dispetto dei suoi sen timenti e di tutto quello che può sperare, ella deve, senza più indugi, lasciare ripartire Ulisse per ltaca. In confronto, la tappa presso Circe appare come un avvenimento minore: un semplice incidente di percorso, a fianco all'altro episodio dello stesso tipo. Del resto esso riguarda non tanto Ulisse, quanto i suoi marinai, vittime dei trucchi magici che la ninfa credeva di poter usare contro l'eroe, come contro i suoi uomini. All'inizio Circe non voleva fare di Ulisse il suo compagno di letto, ma spedirlo, trasforma to in maiale, a raggiungere i compagni che aveva già rinchiuso nel por cile. L'episodio mira a illustrare l'astuzia e il sangue freddo che per mettono a Ulisse di ribaltare una situazione, disperata per chiunque tranne che per lui - di restituire ai Greci un'identità umana che lui solo era riuscito a preservare e di assicurarsi, da parte dell'ex-nemica, una benevolenza perenne. Quando, al termine di lunghi mesi, al ritor no della primavera, Ulisse e i suoi compagni pensano di riprendere il mare per ritornare a ltaca, Circe non fa la minima obiezione, non tenta nulla per trattenerli: «Figlio di Laerte, Odisseo dal grande inge gno, non dovete più rimanere per forza nella mia casa» (x, 488). Alla partenza, fornisce i consigli e le provviste di cui avranno bisogno; invia il vento che li deve condurre alla prossima tappa, sulle rive del fiume Oceano, nel paese oscuro dei Cimmerii, dove s'apre l'ingresso degli Inferi. Al ritorno dall'Ade, come resuscitati, Ulisse e i compa gni, nel breve scalo che fanno nuovamente da Circe, non sono solo confortati, coccolati, nutriti di carne e pane, dissetati dal vino. La ninfa indica la rotta, segnala in anticipo, per metterli in guardia, i peri coli, le insidie, per evitar loro, per quanto possibile, ulteriori soffe renze, fino all'arrivo a ltaca. Al contrario, è solo Ulisse - Ulisse senza nessuno al suo fianco che possa condividerne il destino - ad essere messo in discussione nella sua identità, nel suo status di uomo dal soggiorno presso Calipso. Lungi dall'ingaggiare con lui, quando approda all'isola, una prova di forza, la dea lo ha accolto come si salva un naufrago perduto in mare, spossato, quasi allo stremo, senza speranza. Che cosa si aspetta dall'ultimo sopravvissuto di un equipaggio scomparso ? Che cosa si aspetta da Ulisse ? Niente altro che un confronto amoroso incessante, una vita a due che continuerà senza fine lontano da tutto e da tutti, una coppia la cui intimità unirà nell'esilio di una completa solitudine, una forma di éros, estraneo al mondo degli dèi come a quello degli uomini. Per una dea, condurre la propria esistenza con un mortale, raggiungerlo a letto 27
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ogni sera, è ben peggio che derogare: è escludersi dal divino, infrange re le più potenti frontiere mai stabilite, cessare di avere il posto che le spetta nell'universo, trovarsi relegata fuori dal mondo. Fuori dal mondo: Calipso lo era già, in qualche modo, prima dell'arrivo di Ulisse. L'isola dove risiede è posta «ai confini del mondo» (v, 55), separata dall'immensità delle acque marine tanto dagli insediamenti umani, dalle città (v, 1 0 1 ) che dal soggiorno degli dei (v, 80 e 1 00). Persino una divinità veloce, rapida come il vento o il pensiero, perfino Hermes il viaggiatore, il messaggero, storce il muso all'idea di dover correre, per compiacere Zeus, a casa del diavolo in quest'isola del nulla dove si nasconde la dea. Calipso: come un emblema, il suo nome dichiara ciò che è c ciò che fa; ella è «nascosta» e nello stesso tempo è «colei che nasconde» . L'idillio che ha intrecciato con Ulisse non può perpetuarsi che nel segreto, al riparo di ogni sguardo, dissimulato nell'invisibile, nascosto in un silenzio che non potrebbe tradire alcuna indiscrezione. Quando gli dèi se ne accorgono, è lo scandalp. Hermes sbarca all'improvviso in questo angolo del mondo dove non ha mai messo piede. La ninfa si meraviglia: «Hcrmes, che porti l'aurea verga, tu che io amo e rispetto, perché sei venuto ? non lo fai spesso». Impaziente di rientrare, Hermes va dritto allo scopo: «Zeus mi ha ordinato di venire qui, mio malgra do [ ... ]. Egli dice che qui c'è un uomo, infelicissimo tra coloro che intorno alla città di Priamo combatterono [ ... ]. Ora Zeus ti comanda di farlo partire al più presto: non è destino che egli muoia in quest'isola, lontano dai suoi, ma è scritto che riveda i suoi cari, che all'alta dimora ritorni, e alla terra dei padri» (v, 87- 1 1 3). Se Calipso non può far altro che obbedire, non di meno approfitta per dire agli dèi come stanno le cose. Alle giustificazioni addotte da Hermes, ella oppone la vera ragio ne che motiva, a suo avviso, la decisione di Zeus: «Spietati siete, dei, e più di ogni altro gelosi, voi che invidiate le dee quando sposano un uomo che amano e apertamente dormono accanto a un mortale [ ... ]. Così anche ora, dei, provate invidia che io abbia accanto un uomo mortale« (v, 1 1 8 sgg.). Ma per il compagno mortale, per Ulisse, l'esistenza clandestina che è costretto a condurre in quest'angolo sperduto, dove nessun essere umano approda, riveste un significato ben differente. Per tutto il tempo in cui egli dimora «nascosto» in questo luogo, rimangono inter rotti i legami con tutto ciò che esprimeva agli occhi degli altri, e ai suoi stessi occhi i tratti della sua identità: nativo di ltaca, figlio di Laerte, sposo di Penelope, conquistatore di Troia, le cui arguzie sono famose 28
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dappertutto e la cui gloria sale fino al cielo. Purché accetti di dimora re per sempre, in incognito, presso di lei, rinunciando al suo perso naggio di eroe di resistenza, pronto ad affrontare di nuovo mille morti per ritornare a casa e ritrovare se stesso, Calipso gli offre di affrancar lo dalle limitazioni della sua condizione umana: è pronta a renderlo immortale ed eternamente giovane. Niente più morte, niente più vec chiaia, a condizione che egli dimentichi, che non pensi più al ritorno, al suo paese, alla sua sposa, ai suoi cari, al suo passato glorioso e che avendo così tutto dimenticato - cancelli se stesso dal ricordo dei suoi, che esca dalla memoria degli uomini, ora e sempre. Bisogna che rinun ci alle sue prove, alle sue imprese, alla sua fama, insomma a tutto ciò che lo rende Ulisse; tutto resterà nascosto per sempre con lui, sprofon dato nel silenzio, senza che alcun'eco arrivi agli uomini, senza che nes suno possa celebrarne le imprese nei suoi canti. Ai semplici marinai Circe imponeva l'oblio del ritorno, escluden doli dalla condizione umana con una metamorfosi «verso il basso»: li trasformava in bestie. Calipso, invece, non impone nulla a Ulisse, ma gli propone uno scambio: se vuole, lo farà uscire dalla condizione umana «verso l'alto», liberandolo dalle infermità proprie delle creature umane; lo tramuterà in un dio. Il prezzo da pagare non è che il suo nome e la sua persona, che al posto di essere lodati e celebrati, resteranno ignorati da tutti. La non-morte che gl i è proposta salvaguarda la sua vita e la sua giovinez za, ma lo spoglia della sua identità come della sua umanità: una non morte impersonale, «anonima», come è anonima la coorte oscura dei defunti di cui i vivi non hanno nulla da dire, niente da ricordare di ciò che furono e hanno compiuto altre volte, alla luce del sole. «C'è una massima presso gli uomini - canta Pindaro - che quando si è compiu ta un'impresa non deve restare nascosta (kalupsai) nel silenzio. Quello che necessita è la divina melodia dei versi di lode» (Nemee, IX, 1 3 - 1 7). Se Ulisse, dimentico e dimenticato, tagliato fuori dall'esistenza umana, restasse «nascosto» presso Calipso, in un'inalterabile giovinezza, non ci sarebbe l'Odissea, per evocare incessantemente, di generazione in generazione, col canto poetico, le avventure memorabili che compon gono la sua vita mortale. Il dilemma di fronte al quale Ulisse si trova è dunque chiaro: o sta bilizzarsi nel quotidiano di un reciproco amore senza fine, identico giorno dopo giorno, senza che col passare del tempo possa usare le sue forze e la sua vitalità, senza dovere mai scendere nell'oscurità dell'Ade, ma senza brillare del chiarore luminoso della gloria; o ritornare alla 29
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dura vita degli uomini, con le sue prove, le sue sofferenze, l'invecchia mento inesorabile, il trapasso che non si può evitare, assicurandosi però, con la morte, una gloria immortale. Fino a quando l'eroe deve restare recluso, nascosto presso Calipso, non è né vivo in mezzo ai vivi, né morto in mezzo ai morti: è fuori gioco. Nonostante sia sempre in vita, è già tagliato fuori dalla memo ria umana. Ad Atena che, sotto l'apparenza di Mentore, tenta di per suadere Telemaco che suo padre è sempre in vita e che riprenderà pre sto il posto nel suo palazzo, il giovane risponde che gli dèi, nella loro malignità, hanno fatto di Ulisse «il più invisibile degli uomini» (aiston). Se fosse morto, se fosse perito a Troia o al ritorno tra i suoi compagni, avrebbe avuto una tomba e, con la sua fama, avrebbe con ferito a suo figlio un'immensa gloria (mega kleos). Ma egli è svanito, cancellato, come se le Arpie, portandolo improvvisamente via, l'aves sero sottratto agli sguardi, facendolo sparire senza lasciare traccia. Ulisse è scomparso invisibile e ignorato (aistos, apustos), fuori dalla portata di quello che possono cogliere l'occhio e l'orecchio degli uomini. Inghiottito nell'oscurità e nel silenzio, si è eclissato (akleios) senza gloria. Per un eroe il cui ideale è di lasciare di sé un kleos aphthi ton, una gloria imperitura, scomparire akleios, senza gloria, significa semplicemente non essere nessuno. E Ulisse che cosa fa? Come si comporta in quest'isola lontana, in questo luogo dell'aldilà che appare agli occhi meravigliati (v, 73-75) di Hermes, quando vi sbarca, come un giardino dell'Eden, un paradiso in miniatura? Il dio messaggero entra nella grotta; Calipso non ha biso gno di averlo già visto per identificarlo subito; pur così lontani ai con fini del mondo, gli dèi si riconoscono sempre. Ma non c'è Ulisse: «Non trovò nella grotta il valoroso Odisseo: seduto in riva al mare, là dov'era sempre, piangeva straziando il suo cuore con gemiti e lacrime» (v, 8 1 -83). Calipso può ben giocare la carta della seduzione: intratte nendolo con incessanti litanie di dolcezze amorose: come spiega Atena all'assemblea degli dèi (1, 56-57), ella cerca di incantarlo, ammaliarlo «perché si scordi di ltaca»; ma Ulisse «si strugge dal desiderio di vede re anche soltanto il fumo che sale dalla sua terra» . L'uomo dai mille viaggi, il maestro della resistenza, si rivela, in questa ultima e decisiva prova che gli è imposta, come l'eroe della memoria, della fedeltà ai suoi, al suo passato, a se stesso. Resta imperturbabile, radicato nella propria vita mortale, nel suo destino singolare di creatura effimera, con � suo� dol.ori e le sue gioie, le sue separazioni e la speranza di ritrovare l SUOI can. 30
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Sulla riva di quest'isola, dove non aveva che da dire una parola per diventare immortale, seduto su una roccia, di fronte al mare, Ulisse si lamenta e singhiozza. Si scioglie in lacrime. Il suo succo vitale, il suo aion fluisce incessantemente nel rimpianto della sua sposa, così come all'altro capo del mondo, all'altro polo della coppia, specularmente, Penelope consuma il suo aion piangendo, nel ricordo di Ulisse scom parso. Tutto preso dalla nostalgia che prova verso un passato il c'!_i ricordo lo assilla, non apprezza più il fascino della ninfa (v, 1 53). Se alla sera va a dormire con lei, è perché deve farlo. La raggiunge a letto, lui che non vuole, lei che vuole (v, 1 54 - 1 55). Non c'è éros, himéros, amore, né desiderio per la ninfa divina. Sentendosi bloccato per sem pre in quest'isola d'immortalità, Ulisse non desidera altro che morire, thanein himeiretai (r, 59). l Per decisione divina, la situazione infine si sblocca. Sulla zattera che lu i stesso ha costruito, Ulisse si prepara a salpare. Non è che all'inizio delle sue pene, ma quando mette piede nella terra dei Feaci, presso i suoi «traghettatori» situati tra due mondi, intraprende un cammino che lo riporta al paese degli uomini, fin dentro il suo palazzo di ltaca, che lo fa gradualmente ritornare se stesso. Ritornare se stesso attraver so lo sguardo di coloro che, a turno, saranno portati a riconoscere nel l'orrendo e cencioso mendicante Ulisse in persona. Ma è nello spec chio degli occhi di Penelope, quando questi gli restituiscono, intatta, la sua immagine, che Ulisse riconquista pienamente la sua identità eroica e si ritrova nel ruolo che gli compete: sposo, padre e re.
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L'occhio e lo specchio
Uno degli eresiarchi di Uqbar aveva dichiarato che gli specchi e la copulazione erano abominevoli, perché moltiplicavano il numero degli uomini. J.-L. Borges, Finzioni
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ULISSE E LO SPECCHIO
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I. Specchio, piccolo specchio ...
«Laide, di cui il tempo ha avvizzito la luminosa bellezza, non tol lera alcuna testimonianza della sua età né delle sue rughe; ha preso in odio il suo specchio, testimone crudele del suo passato splendore, e lo ha consacrato alla sua sovrana: accetta da me, o Citerea•, questo disco che fu il compagno della mia giovinezza, poiché la tua bellezza non ha niente da temere dal tempo»2• Il nome di Laide è ricordato nei poemi dell'Anto logia Palatina3• Alcuni epigrammi funerari, evocando la sua tomba, le dedicano degli epitaffi e piangono la morte di questa cortigiana la cui figura e la cui car riera hanno presto acquisito dimensioni leggendarie. La storia conosce due famose etere con questo nome, sovente confuse tra loro, una che fu l'amante di Alcibiade, l'altra che servì da modella al pittore Apelle e annovera tra i suoi amanti l'oratore Demostene, il filosofo Aristippo, che si rovinavano per lei due mesi l'anno, e Diogene il Cinico che «con sumava» senza pagare. Il corto poema che leggeremo fa parte di un gruppo d'epigrammi votivi, che si pensa accompagnino la dedica di uno specchio ad Afrodite, e cantano il ritratto della celebre cortigiana, «la cui bellezza fu in grado di sottomettere quella Grecia che le armi dei Medi non avevano potuto vincere»\ Nonostante la sua data tarda - l'autore, di nome Giuliano, era prefetto d'Egitto sotto Giustiniano, nel VI seco-
' Uno degli appellativi di Afrodite, in quanto nativa dell'isola di Citera [n.d.t.]. ' Antologia Pal4tina, VI, 1 8. ' Raccolta di corti poemi di diverse epoche (dal VII a.C. al X secolo d.C.) che prende nome dal manoscritto [redatto dal bizantino Costantino Cefala e conservato alla Biblioteca Palatina di Heidelberg, n.d.t.] che ne conserva i primi quindici libri. ' Antologia Pal4tina, VI, 20.
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Frontisi-Ducroux e Vernant, Ulisse e lo specchio
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lo della nostra era -, questo passo è in ogni punto conforme alla tradi zione. Altri poeti avevano trattato il tema prima di lui: « lo, il cui riso altero sfidava la Grecia intera, io che avevo nella mia anticamera uno sciame di giovani, io consacro il mio specchio alla dea di Pafo, perché non voglio vedermi come sono, e quale ero prima, non posso», si può leggere, sempre nell Antologia Pa/atina, sotto la firma contestata dai filologi, ma molto suggestiva - di Platone5. Da un poema all'altro, gli ingredienti che entrano nella costruzio ne di questi pezzi di raffinato virtuosismo, si ritrovano identici: la donna desiderata e corteggiata da tutti, il tempo che passa, la bellezza sfiorita, l'abbandono dello specchio offerto ad Afrodite, protettrice delle professioniste della bellezza e dell'amore. Altri epigrammi dello stesso tipo sembrano meno convenzionali, anche se non totalmente autentici. Essi chiamano in causa cortigiane meno note: Nicia, stanca per l'età, che si ritira «avendo passato la cinquantina»; Calliclea, che rinuncia al mestiere perché è riuscita a maritarsi. Nel loro caso, lo specchio trova posto tra altri attributi funzionali e simbolici della pro fessione - sandali raffinati, riccioli posticci, cintura dorata, nastri prezio si, reggiseno trasparente, pettine di bosso e... olisboi (falli di cuoio) - di cui fanno offerta alla dea. Tuttavia lo specchio gode di un ruolo ben diverso rispetto agli altri oggetti: è un compagno (hétairos), un amico (philos). Lui, da solo, basta a rappresentare la donna nella sua relazio ne con la bellezza e l'amore. '
Il mondo delle donne Dunque lo specchio greco è cosa da donne. È questo un punto sul quale tutte le categorie di testimonianze concordano, a cominciare dagli stessi oggetti: gli specchi antichi che ci sono pervenuti hanno sovente un manico o un supporto a forma di donna, nuda o vestita, che tiene qualche volta una colomba o è scortata da Amorini, attributi che designano senza dubbi Afrodite [fig. U. La sirena, donna-uccello, seduttricc tra le più pericolose, è anche frequente. In questa parte del l'oggetto la rappresentazione di figure maschili sono piuttosto rare: quando sono alate, s'identificano con Eros. Le immagini confermano questa relazione esclusiva. Sulle pitture che decorano i vasi, gli specchi non appaiono che tra le mani delle donne, o per definire un luogo come spazio femminile. Quando, ecce' lbid. , l . •
Specchio con suppono, Louvre, B r 1 689. 36
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Specchio, piccolo specchio ...
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zionalmente, un uomo reca uno specchio, si tratta di un regalo desti nato a una donna, in un contesto di corteggiamento'. Se è di un giova ne che egli spera di ottenere i favori, offrirà una lepre, un gallo ... o un cosciotto d'agnello. I testi rendono espliciti i molteplici rapporti tra la donna e lo spec chio. Relazione utilitaristica, quasi fisica, innanzitutto. Tra lo specchio e la sua proprietaria, il faccia a faccia è permanente: «Ah se potessi essere uno specchio, in modo che tu mi possa guardare sempre>>, sospi ra l'autore di un grazioso poema anacreonticd. I versi seguenti con fermano che il destinatario di questa promessa d'amore è certamente ' Per esempio, su due épinetra, copri-coscia utilizzati per filare (cfr. M.-Ch. Villanueva Puig 1 992, pp. 1 06-7); Palermo, 1 9 10 (ABV 480/8); Leida, 1, 1955/ 1.2. ' Anacreontee, 22 (West). Per la datazione di queste opere (fine dell'età ellenistica), West 1990.
l.
Afrodite con 14 colomba, tra due eroti, specchio con supporto. Parigi, Louvrc {Br 1 689). 37
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femminile: «Possa io farmi tunica, affinché possa stare sempre con te. Voglio diventare acqua per lavare la tua pelle. Possa io farmi unguen to profumato, donna, per ricoprire il tuo corpo». L'invocazione «donna» (guné) non lascia spazio a equivoci. Ma dai primi motti del poema, il lettore o l'uditore antico capiva: chi dice specchio dice don na. Lo strumento che cattura irresistibilmente lo sguardo della bella occupa il primo posto nella serie delle metamorfosi alle quali aspira l'a mante avido di contatto con la sua beneamata: specchio, tunica, acqua e profumo, il mondo femminile si definisce con la toletta e l'abbiglia mento'. Il sospirante innamorato non esita a divenire oggetto, almeno verbalmente, per penetrare in quest'universo. La sottomissione «cor tese» che ostenta questo poeta non è frequente nella letteratura greca e non è attestata che tardivamente. Questo tipo di comportamento incontra in effetti una severa riprovazione in epoca classica, che vede nella vicinanza eccessiva alle donne e nella fusione con l'amata un indi ce di effeminatezza. Questo poema, la cui tematica può sembrarci con venzionale, non è dunque rappresentativo dell'erotismo greco domi nante. Esso colloca la donna in una posizione eccezionale di soggetto di riguardo, e l'uomo, amante-specchio, volontariamente strumenta lizzato, in situazione di oggetto (ma che, in quanto soggetto dell'e nunciato, conserva la matrice del discorso). Proprio all'inizio della nostra era, Ovidio tenta di sbarazzare i suoi contemporanei da simili scrupoli, che i Romani condividevano con i Greci: « [davanti la donna amata] non ti devi vergognare - tanto anche se è disonorevole ti deve piacere - di reggerle lo specchio» e fa l'esem pio di Ercole sottomesso a Onfale10• Anche una favola del poeta latino Fedro dà la misura di questa contraddizione: si parla di una piccola fanciulla brutta, gelosa d'un fratello più grazioso, «che accusa» di fron te al padre il ragazzo che giocando «ha toccato una cosa da femmine»1 1• Così lo specchio diventa, sul piano simbolico, un significante del femminino, almeno fino a quando, nel II secolo della nostra era, Artemidoro ne stabilisce, nell'Interpretazione dei sogni, un repertorio di cui spiega il significato, enumerando i segni che si riferiscono alla donna: «Un uomo innamorato non vedrà mai colei che ama, ma un ' I latini definiscono il mundus muliebris con un ravvicinamento tra mundus, cii mondo• e munditia, «la toletta• (l'ito Livio, XXXIV, 7), in un gioco parallelo a quello che fanno i �reci tra i diversi sensi del termine cosmos, «ordine•, « mondo• e «abbigliamento• . Si veda injra e R. Cappelli 1987. " Ovidio, L'Arte di amare, n, 2 1 5. " Fedro, m, 8.
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Specchio, piccolo specchio ...
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cavallo, uno specchio, una nave, il mare, una femmina di animale sel vaggio o ancora un indumento femminile»12• Niente di sconveniente, per i Greci, in quest'elenco. Il penultimo termine della lista non mera viglia affatto, perché la donna è una creatura selvaggia, temibile come una belva. Se la ragazza da sposare è un'arsa, che importa, si può addo mesticarla come il cavallo o almeno ammansirlan; invece la cortigiana rimane una pantera, che pratica la caccia all'uomo con feroce efficacia. Ciò che ci si attende da lei, Socrate stesso lo testimonia, secondo Senofonte che lo mostra prodigo di consigli di seduzione nei confron ti di una cortigiana troppo ingenua14• La nostra signora dello specchio, la bella Laide, la cui tomba a Corinto era sormontata da una leonessa accovacciata che ghermisce un cerbiatto, era famosa per la sua selvati chezza (agriotès), termine che nel suo caso denotava violenza, crudeltà e rapacità, piuttosto che un carattere feroce. È forse questo che l'uni va a Diogene il Caneu. L'interesse di questo passo dell'Interyretazione dei sogni consiste nell'opposizione di due categorie di significati atti a rappresentare la donna. Da una parte, elementi naturali, incontrollabi li, come il mare (e non la terra)16, che circonda, separa o unisce le città e le contrade di uomini e animali; dall'altra, oggetti fabbricati, prodot ti dalla tecnica e dal lavoro degli artigiani, come ad esempio la nave, termine femminile in greco. La sua capacità di evocare la donna si rife risce forse (oltre che alla sua relazione col mare) a quello che rappre sentano le «concavi navi», anch'esse destinate a contenere e portare ? La rappresentazione rientrerebbe allora nel campo della metafora. Per quanto riguarda il vestito femminile, a stretto contatto col corpo, che adorna e nasconde, si tratta piuttosto di metonimia. In quanto allo specchio, il suo valore emblematico mette in evidenza due tipi di tropi17: la sineddoche18 - perché quest'accessorio, come vedremo dalle " Artemidoro, Interpretazione dei sogni, IV, l . " Per gli ateniesi, questo succedeva nel santuario di Artemide di Brauron, in Attica, dove una delegazione di fanciulle, in rappresentanza delle loro coetanee, andavano a •fare l'orsa•, durante un periodo di reclusione ntuale, i cui dettagli restano oscuri. Si veda C. Sourvinou Inwood 1988. " Senofonte, Memorabili, 1 11 , I, l , 5. Teodote, ragazza apparentemente semplice e facile, a cui Socrate consiglia di usare degli artifici per la caccia agh amanti (in 111, Xl, 5 sgg.). " Il soprannome di Cane (kyon in greco) gli venne affibbiato per il suo tenore di vita [n.d.t.]. " La terra da arare rappresenta, presso tutti gli autori antichi, la sposa nella sua funzione riproduttrice. Questo passo di Artemidoro riguarda la donna in generale. La terra costituisce, fra i modelli 11reci positivi per la donna, quello che ha avuto maggiore successo presso gli sto rici delle religioni. Si rimanda alle analisi di N. Loraux raccolte in Né de la terre, 1996. " Il tropo è una figura retorica che implica il trasferimento del significato da un termine a un altro [n.d.t.]. 11 Figura retorica che consiste nell'esprimere un'immagine per mezzo di un'altra (n.d.t.). 39
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immagini, quasi saldato alla mano delle donne, sembra un prolunga mento del loro corpo - e la metafora, poiché la progenie delle donne discende, secondo Esiodo, da Pandora, bambola meravigliosa, modella ta e adornata dagli artigiani divini, Efesto e Atena, che, per disgrazia degli uomini, hanno realizzato questo gioiello pernicioso1', infinitamen te più dannoso dello specchio, oggetto prezioso esso stesso, disco cesel lato nel bronzo, che i maschi, come vedremo, si rifiutano di guardare. La lista di Artemidoro ci fornisce una delle chiavi dell'immagina rio greco, immaginario maschile in cui la donna, lungi dall'essere pen sata nella sua differenza in rapporto simmetrico all'uomo, è definita come radicalmente diversa, un'alterità che oscilla tra due poli, il sel vatico e l'artificiale. E in questa seconda dimensione lo specchio occu pa una posizione estrema: oggetto di lusso, questo prezioso manufat to è esso stesso produttore di false sembianze, di copie vane, illusorie e ingannevoli. La donna è intimamente legata al suo specchio: questa relazione si legge anche in un passo di Aristotele, che fa apparire in maniera sor prendente il rapporto tra specchio e femminilità, nei suoi aspetti più misteriosi. Allude all'ombra di sangue che si forma sulla superficie degli specchi quando le donne vi si contemplano nel periodo del ciclo mestruale20• Aristotele menziona questo fenomeno - che egli reputa certo - per illustrare l'estrema sensibilità della vista e degli specchi, specialmente quando sono nuovi e perfettamente lisci, perché in quel caso la macchia non può sparire. Ritorneremo sul modo in cui il filo sofo si sforza di spiegarne il processo. Per il momento l'essenziale è stabilire la stretta intimità, nelle rappresentazioni greche, della donna con lo specchio. Quello che il metallo lucido fa apparire, non è tanto la bellezza - capitolo sul quale per i maschi essa è in stretta concor renza con il giovane - quanto il segno della sua differenza essenziale, d'una alterità irriducibile, che vi s'imprime ... definitivamente fino a quando il suo fedele compagno è nuovo e ancora puro.
Gli uomini allo specchio Nelle commedie di Aristofane, le donne, quantunque interpretate da uomini, non hanno affatto bisogno di specchio per farsi riconosce re. Al contrario, quando si presentano all'Assemblea per tentare di " Pandora è un daidalon, un oggetto prezioso lavorato artisticamente, come i gioielli e gli specchi. Su questo, si veda F. Frontisi-Ducroux 1974. " Aristotele, Dei sogni, 459-460; cfr. anche Plinio, Naturalis Historia, VII, 13 e XXVIII, 23. Si veda infra. 40
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Specchio, piccolo specchio . . .
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prendere il potere, nel recitare la parte dei cittadini, prendono in pre stito il mantello e il bastone dei loro sposi. Lo specchio, invece, effem mina l'uomo. In un'altra commedia, le Tesmoforiazuse, Aristofane mette in scena il poeta Agathon, che definisce come un «uomo donna». Lo specchio, come al solito, figura tra gli oggetti - vestito sfar zoso, bottiglietta, retina, reggiseno - che rivelano la componente fem minile di questo personaggio ambivalente. Il suo specchio riflette un viso bello, bianco e meticolosamente rasato. Lo specchio mantiene una relazione costante e ambivalente con il sistema pilifero. Destinato a riflettere la capigliatura luminosa delle donne, si dimostra incompati bile con il pelo maschile. Così Agathon si depila accuratamente. Assume perfettamente, diremmo noi, la sua omosessualità. Al contra rio, nella stessa commedia, un altro protagonista, il «parente di Euripide», che si camuffa da donna, dichiara che egli «non vede se stes so» quando guarda nello specchio che gli viene teso. Ciò che vede è un altro, «è Clistene», evocando il nome di un noto invertito. Si può meglio esprimere l'alienazione, e persino la «spersonalizzazione», cui un uomo è ridotto nel guardarsi in uno specchio ? All'inizio, lo stesso personaggio, per evidenziare il carattere bisessuale di Agathon, aveva esclamato: «Che cos'è dunque quest'alleanza tra specchio e spada ?». Si tratta di una citazione di Eschilo, che ci rivela in un contesto tragico che la spada prende il posto del bastone per denotare il maschile, con trapposto allo specchio delle donne21• Ritroviamo quest'opposizione tra specchio e spada in un epigram ma galante di età bizantina: un amante sguaina il suo gladio per sim boleggiare la sottomissione di Ares ad Afrodite, e anche per identifi carsi in quest'oggetto, suo fedele compagno, secco e affilato come lui, divorato dall 'amore, e che gli basta ampiamente come specchio ... fino al momento in cui si libererà delle sue sofferenze22• Presso questo cascamorto, la spada che fa le veci dello specchio indica l'uomo. Al contrario, gli uomini che non hanno armi, ma spec chi, perdono tutta la loro mascolinità. Così appaiono, nell'Oreste di Euripide, le guardie del corpo di Elena, una scorta di servitori asiatici, segno del lusso troiano. Questi schiavi, «preposti a specchi e profumi», sono verosimilmente degli eunuchi, e uno di loro dà, con tale convin zione, la misura del suo temperamento di codardo tanto che Oreste " Aristofane, Tesmoforiazuse, 1 36-1 40 (fr. degli Edonisti, di Eschilo). Sulla «femminilità» di Clistene, cfr. Aristofane, Nuvole, 355. " A ntologia Palatina, v, 238.
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rinuncia a uccidere un essere «che non è nato donna, ma che non fa più parte degli uomini»23• Queste creature indecise, che proteggono così male la loro regina, sono dei barbari, dei prigionieri portati dall'estero con i loro effemi nati costumi. Ma la barbarie può sorgere nel cuore di una città greca. Il suo nome è tirannia, e i suoi effetti perversi portano, tra le altre con seguenze, a mettere lo specchio in mani maschili. Il fatto avviene a Cuma sotto il regno di un tiranno che, dopo aver eliminato gli uomi ni adulti, prepara il futuro e mette in opera un programma educativo che inverte totalmente le regole della pedagogia civile. I fanciulli sono allevati come delle bambine: vestiti di lunghi abiti ricamati, con accon ciature a boccoli coronate da fiori, passano la loro infanzia nell'ombra, educati da istitutrici, lavati da balie, circondati da vasi di profumi. E lo specchio chiude la lista degli strumenti del loro asservimento24• Ma per l'uomo libero, per il cittadino greco, l'uso dello specchio è raro e disonorevole. Sognare uno specchio, quando si è uomini, signi fica o annuncia, secondo l'Interpretazione dei sogni di Artemidoro, una «donna pubblica»2s. La stessa riprovazione si ha presso i Romani: se la natura, dirà Seneca, ci dà la possibilità di vederci, in una sorgente trasparente o su una pietra lucida, «non è certamente perché noi ci radiamo davanti a uno specchio, né perché noi, uomini, possiamo lisciare il nostro viso»26• Di fatto le poche eccezioni a questo divieto non ne diminuiscono la portata. Lo specchio che Demostene si fa costruire su misura, per vedersi intero, è eccezionale, per dimensioni e finalità: è destinato a riflettere, piuttosto che il suo fisico, l'eloquenza dell'oratore, che tenta di migliorare così le sue prestazioni.27 «Ripete sempre le sue arringhe davanti al suo specchio come davanti a un mae stro», racconta Plutarco. Un uso professionale, insomma, che non impedisce a un altro oratore, Eschine, suo avversario abituale, di accu sarlo di omosessualità passiva21• Altra infrazione al divieto dello specchio per i maschi, il motivo dello specchio del filosofo attraversa l'antichità. Socrate ne raccoman da l'uso ai discepoli, ai giovani in particolare, «in modo tale che, se " Euripide, Oreste, 1 1 1 2; 1 528. " Dionir;i d' Alicarnasso, VII, 9. " Artem1doro, Interpretazione dei sogni ci t., v, 67. " Seneca, Naturalium questionum libri VII, I, XII, 2-5. " Plutarco, Demostene, 1 1 , 850e. Allo stesso modo Caligola si esercitava davanti allo specchio ad assumere espressioni che potessero incutere timore (Svetonio, Caligola, 50, 1 ). 21 Si veda K. J. Dover 1 982, pp. 97-8.
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erano belli, si rendessero degni della loro bellezza; se brutti, nascon dessero tale difetto con l'educazione». I:aneddoto può essere ben p�:e cedente a Socrate, tanto che lo si attribuisce a Biante, uno dei «Sette Saggi», vissuto, si suppone, nel VII-VI secolo a.G'. Ma l'alibi della conoscenza di sé e della toletta morale non sembra essere stato suffi ciente a far cadere i pregiudizi contro l'uso maschile dello specchio, tanto che, nel II secolo della nostra era, il romanziere latino Apuleio riprende questo motivo, citando l'esempio di Socrate, per discolparsi d'una accusa infame: «lui, un filosofo, ha uno specchio» (habet specu lum philosophus)30• E si lancia in un'argomentazione imbarazzata, per fino speciosa, insistendo sulla necessità di conoscere il proprio aspet to, e affermando la superiorità dello specchio sulle immagini prodotte dalle arti plastiche: lo specchio rende il movimento, le emozioni e il divenire; riflette l'evoluzione dell'individuo. Apuleio giustifica altresì l'uso maschile, perfino filosofico dello specchio, per le medesime ragioni che fanno sì che le donne ne abbandonino l'uso con la vec chiaia. Il filosofo, lui, deve vedersi vecchio. I:autore di satire Luciano evidenzia un aspetto comico del tema, mettendo in scena un filosofo cinico che viene sorpreso con, nel suo sacco, del profumo, un rasoio, uno specchio e dei dadi da gioco, cianfrusaglie che tradiscono delle cure perlomeno sconvenienti per un filosofo e, a maggior ragione, per un cinico31• In verità, un uomo non ha diritto di vedere il proprio viso in uno specchio se non dal barbiere e in pubblico. Là, può senza vergogna dare libero sfogo alla sua vanità. Plutarco descrive le mosse del perso naggio: «Quando si alza per lasciare la bottega del parrucchiere, si piazza davanti allo specchio e si acconcia, esaminando il taglio dei capelli e il risultato prodotto dall'operazione [ ... ]» (42b). Ma il maschio, preoccupato della propria apparenza, si guarda bene dal toccare lo specchio, come pure il rasoio: è il barbiere che maneggia questi due strumenti e gli presenta lo specchio32, che fa parte degli utensili del mestiere. Lo specchio figura in un poema dell'Anto logia Patatina accanto ad altri strumenti di lavoro: rasoi, feltri, forbici, raschietto, limetta per unghie, asciugamano e poltrona, che un bravo parrocchie-
" Diogene Laerzio, Vite dei fdosofi, 11, 33; Biante, in Diels- Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, 1 0, 3 (1, 65, 2); cfr. anche Seneca, Naturalium questionum libri VII, I, XVII, 4. 10 Apuleio, Apologia, XIII, 5 sgg. L'attacco s'inscrive nel quadro di un'accusa di stregone ria, dove lo specchio può giocare un ruolo imponante. " Luciano, Il pescatore o i resuscitati, 1, 45, 6. " Luciano, Contro un bibliomane ignorante, 29.
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re tessalo abbandona, per seguire, pieno d'entusiasmo, l'insegnamento dei discepoli di Epicuro. Quest'epigramma, che si considera votivo, è una parodia delle dediche di donne che, cessando di esercitare, consa crano il loro specchio, o che al contrario, abbandonano fuso, spola e un lavoro onesto per farsi cortigiane. Lo scritto si basa soprattutto su un «gioco di parole intraducibile» tra il nome di barbiere (koureus) e quello d' Epikouros. Ma anche se epicurea, la filosofia non nutre l'uo mo e il barbiere affamato deve ritornare al suo mestiere e riprendere rasoio e specchio33• Altro aspetto parodistico: lo specchio, se l'uomo è invitato a spec chiarvisi, non rifletterà che bruttezza, rughe e calvizie. È quello che suggerisce un poema ellenistico, che mette in scena il poeta arcaico Anacreonte, preda di alcuni scherzi femminili: «Anacreonte, tu sei vecchio, dicono le donne. Prendi uno specchio e guardati: non hai più capelli e la tua fronte è tutta rugosa». Nulla ci dice d'altronde che il poeta ceda all'invito. È probabile che - come il suo emulo Pallada, che riprende lo stesso tema pretendendo di subire lui stesso gli scherzi delle donne - il saggio vegliardo, piuttosto che contemplare il suo viso, preferisca annegare la malinconia nel vino: «Le donne scherniscono me che sono vecchio e mi dicono di guardare allo specchio ciò che resta della mia giovinezza. Ma non mi curo, mentre mi avvio verso la fine della mia vita, che i miei capelli siano bianchi o bruni. Profumato di oli, coronato da grandi pampini, annego nel succo di Bromio i miei amari pensieri»34. Questo passo rientra nella categoria degli epigrammi bacchici. È di fatto nel vino, al banchetto e in compagnia maschile, e nella decorazione delle coppe che l'uomo greco trova più sovente i suoi specchi. Esso è interdetto formalmente a colui che, nell'erotismo antico, gioca, di fronte all'adulto, un ruolo parallelo a quello della donna: il giovane efebo. Nel dialogo degli Amori, allegati alle opere di Luciano, gli specchi (esoptra) fanno parte dell'arsenale femminile che comporta ogni sorta di bottigliette, acquamanili, cofanetti, portagioie, belletti e altre diavolerie. Al contrario, lo specchio è bandito dagli attributi che definiscono l'efebo, il pais, oggetto dell'omosessualità maschile. Il tenero giovinetto deve alzarsi all'alba, lavarsi nell'acqua pura, uscire dalla casa paterna con gli occhi bassi e dividere il suo tempo tra gli " Antologia Pa/atina, VI, 307. " Anacreontee, 7. Si tratta ben inteso di uno pseudo-Anacreonte ellenistico; Antologia Pa/atina, XI, 54.
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esercizi fisici e lo stud io. I suoi p ri mi specc hi saranno le ta v o lette e i lib ri che esaltano le virtù e le im p rese deg li antichi. Un po' più tardi egli alzerà gl i occhi verso q uelli di un am an t e, in cui troverà, come i n u n o s pec c hi o, l 'imma gine del l o ro reci p roco amore. L'autore di questo di a l ogo tardo è i n perfetto acco rd o con Platone che su q ues to punto non fa altro che riprodurre l 'opinione dei suoi c on tem p o ran e i : lo spec chio m asch i le è l 'oc c hi o di un altro uomo, q uell o del simile e dell 'u guale, in cui ciascuno cerca e inc o n t ra la propria i mma g i ne, come Socrate che si ammirava in Alcibi a de c Alcibiade i n Socrate: cTu hai notato c o me il viso di colui c h e gua rda l 'occh io di q u a l cu no appare come in uno sp ecch i o (hosper en katoptrol) nell'occhio c h e si trova di fronte• . E lo s p ecc h i o p e rfetto è l ' occh io dell 'amante, d ice ancora Socrate a u n altro su o d isc e p ol o , il bel F edro : c Non si rende conto che nel suo amante, come i n uno specchio, è lui stesso che si vede•,�. Platone afferma c o sì il valore pedagogico c formativo della rel a zione orno -erotica. Per l 'amato (éromèn e), l 'erasto deve giocare il ruolo di un maestro, cosa che i n effetti Demostene, uomo fatto, ottiene dal suo s p e cc h io professionale.
L'identit.à
·
e
i sessi
Nella maggior p a r te delle rappresentazioni, d u n q ue, lo specc hio greco non è d i rettamente associato alla conoscenza d i se stessi, come noi siamo a bi t u a t i a p ensarlo . A l di là d i alcune eccezioni, d 'ord i ne fi losofico e i n tell e ttu a le, che r i m a n g o no margi nali e \'anno con tro corrente ris petto alle opinioni c o mu n i, l a coscienza d i sé non passa, per gli a n ti c h i G rec i , at tra ve rso lo specchio. Al contrario, tale coscienza sembra lo escluda, nella misura i n cui l a q u e s t i o n e d el l ' i dentità e d e l soggetto concerne solo l ' i nd i v iduo maschile, p recisa mente colui al q ual e lo specchio è i n terdett o. M a q u esto d iv i eto è cer r.nn e n t e s i gn ifican t e , come è significativo il fatto c o m p l e me n tar e che lo specchio sia st ret ta m e n te riservato alla donna. Questa l i mitazione dovrebbe servirei d a elemento ri l evatore per permetterei d ' i ntrave dere qualcosa d i un'eventuale • i d e n t i tà fe mm i n i le • . L' es p ress io n e si riferi sce a real tà c n o z i on i i nafferrabili, se c o n ciò s ' i ntende i l modo i n cui l e do n n e g rec h e pote v a no p e rc e p i re se s te s s e . Ma noi po ssia m o tentare di andare al di là dei d i scorsi ufficial i, esclusivamente masc h i l i , s v ela n do le contradd i zioni c he l 'attraversano, esaminando i term i -
" Platone, Alcibi.tar, l JJa.; Frdro, 2 !i5d . 45
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ni con cui i greci hanno esplicitamente risolto la questione (femmini le), o, più spesso, hanno rifiutato di porsela36• Ma domandiamoci innanzi tutto: l'occhio maschile, il solo specchio accettabile per l'uomo, è proprio totalmente maschile ? Non c'è niente di meno sicuro. Perché l'immagine che si disegna sul fondo dell'oc chio, l'eidolon, molto più piccola di chi vi si specchia, è assimilata a una silhouette femminile. La parte più bella dell'occhio, quella che costi tuisce la sede della visione, la «pupilla», quest'esile sagoma, dicono i latini, si chiama in greco koré, termine che designa anche la giovinetta. È una vera e propria giovinetta quella che i greci hanno posto al centro dell'occhio, lo specchio dei maschi. Stranamente l'uomo greco che riser va alla donna il riflesso dello specchio e rifiuta il confronto con esso riproposizione della clausura dei ginecei -, il cittadino virile che prefe risce contemplarsi nel proprio alter ego, finisce con lo specchiarsi nella forma fragile della più inquietante figura femminile, la giovinetta. È una delle molteplici ambiguità costitutive dello specchio: cosa femminile, strumento riservato alle donne, segno discriminante del genere e del sesso, serve spesso a designare lo schiavo barbaro, a sot tolineare apertamente l'effeminatezza estrema degli «invertiti», o a r� levare, a sua insaputa, la parte segretamente femminile nascosta in c1ascun uomo.
Bellezza divina Il legame tra specchio e bellezza non è meno ambiguo, soprattutto perché la bellezza è sempre ambivalente. Dai tempi di Elena e della guerra di Troia, la seduzione che esercita la bellezza è per tutti, uomi ni e donne, fonte di infinite sciagure. In un passo di Euripide, le Troiane prigioniere evocano amaramente «la figlia di Zeus, che tiene in mano degli specchi d'oro, strumenti del fascino delle vergini» . Ora, è proprio il termine koré che designa qui questa Elena allo specchio, fan ciulla divina, causa di tutti i mali37• Divina quasi come quella di Elena, la bellezza della cortigiana non è meno pericolosa. Laide, «i cui aman ti furono molto più numerosi dei pretendenti della figlia di Tindaro», ma per la quale non c'era affatto bisogno di battersi, era per i suoi con temporanei un téras, un mostro - di rapacità, tra gli altri difetti - e la " Nel campo, ormai molto esplorato, della storia delle donne e dell'antropologia dell'an tichità dal p unto di vista delle rappresentazioni dei generi e dei sessi, pretendo solo di appor tare un chiarimento molto limitato, •attraverso una piccola lente•, cioè sotto l'angolo dello specchio. È impossibile dare una bibliografia completa su un argomento così vasto. Si riman da a Pauline Schmitt Pantel (e altri) 1 990; come pure a Froma Zeitlin 1 996 e Ellen Reeder 1 996. " Euripide, Le Troiane, 1 07- 1 09.
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sua protettrice era Afrodite, u n ' Afrodite che portava l 'epiteto inquie tante di « Oscura•, se non « N era •, la Mélainis di Cori nto, che le appa riva in sogno per annunziarle l 'arrivo di amanti fortunati . La Ciprigna'' è l 'unica a possedere veramente q uesta bellezza di cui fa dono alle donne. Quella che accorda ai mortal i non è che un'imma gine fu ggitiva: appena lo specchio l 'ha captata, è già SYanita. Così gli s pecchi degli epigrammi, se sono più o meno associati al biancore delle carni, al c h iarore delle guance, alle chiome bri l lanti, ai bagliori degli sguardi, di fatto non riflettono più n iente. Essi seguono certamente le regole legate al genere, la dedica di un oggetto da cui ci si separa, ma non potrebbero riflettere che ru ghe, capelli bianchi e visi appannati; questo anche quando, eccezionalmente, sono d i retti a u n uomo: sono chiamati i n causa solo per raccontare la fine degli amori . Per i poeti lo specchio, così sembra loro, rinvia semp re al passato. Laide, in realtà, offrendo alla sua sov rana lo specchio d ' u n tempo, fedele compagno d iYentato delatore e ormai oggetto d i odio, i n • testi monianza di un dono • , le dice in u n altro epigramma, utilizzato per espri mere la sua riconoscenza, la parola • testi mone• (martu rie), l a stessa che serve per significare la • c rudele testimonianza • che lo specchio le rende. Restituzione di u n dono d'altri tempi, di questa fugace bellezza che esso ri flette, lo specchio, consacrato alla dea, testimonia ormai u n a bel lena c h e n o n teme p i ù le ingiurie d e l tempo. A questo epigramma votivo che ded ica uno specchio alla Cip rigna, corrispondono le dediche i ncise sugl i specchi che la ricerca archeolo gica ha portato alla luce. A frod ite vi è presente, ben i n teso, ma meno d i quanto sarebbe lecito pensare. Ciò è forse attribuibile alla casualità di ritrovamenti ? Ella comunque non è la sola a ricevere questo tipo di offerte, preceduta da A rtemide nello stesso p ri mato. Mohi oggetti, di diversa p rovenien1.a, recano una dedica ad A rtemide Li mnea (delle paludi), la Limnatis, che regna al margine delle città. E tutti gli specchi taluni in m i niatura - che sono stati trovati a Brau ron, con dedica o meno, sono stati consacrati ad A rtemide Rrauronia dalle giovani ate niesi al momento della loro preparazione al matri monio. Anche Atena riceve degli specc hi i n dono: uno di essi proviene da Sparta, c gli inven tari del Partenone ne menzionano divers i . A hri sono dedicati a Ilitia'", la Levatrice, a E ra, che presiede al matri monio, e alla stessa Persefone,
" Altro appelbtivo d1 A frodite, in q uanto, sf'Condo u n 'al tra versione del
C i pro (n.d.t.).
m1t0,
nativa di
" figlia di Zeus ed Era; ulvolu non è che u n ep iteto di Era, A m·mide o L>emetr� [n.d .t.). 47
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È pur vero che di questo tribunale, non può essere ceno uno spec chio a mutame la sentenza: chi contempla, chi giudica, chi decide della bellezza femminile e divina è piuttosto lo sguardo del principe-pasto re Paride, l'occhio di un uomo. La scelta che egli farà in questa circo stanza, decisiva a tale riguardo, gli procurerà l'amore della più bella tra le mortali. Ma l'epopea taccia di effeminatezza il bel Paride, conosci tore della bellezza femminile e seduttore di Elena: e allora ? Questo cri tico esperto, questo attento intenditore della bellezza femminile non sarà forse un amante-specchio ? Ceni autori tuttavia associano esplicitamente lo specchio ad Afro dite. Dapprima il poeta tragico Sofocle, nel suo Giudizio, un passo perduto, aveva descritto un'Afrodite caratterizzata da Hédonè, come a dire dea «del piacere», che si profumava e si contemplava allo spec chio, assieme a un'Atena - battezzata con gli epiteti di Saggezza, Ragione e Virtù- che si spalmava di oli e si scaldava i muscoli42• Lo stesso contrasto c'è nel poeta ellenistico Callimaco che descrive i pre parativi della disputa: «La Ciprigna, tenendo il bronzo lucente, accon cia parecchie volte i boccoli dei suoi capelli». E il poeta oppone la dea vanitosa alle altre due concorrenti che disdegnano l'oggetto. «Né Era, né soprattutto Atena guardano i loro lineamenti sul disco di bronzo o nei flutti diafani del Simoenta»41• Per Atena, niente profumo, «e nem meno specchio; il suo occhio è sempre molto bello»44• Per Afrodite, specchio e chioma, l'uno che riflette l'altro, la relazione è canonica. Sono soprattutto i capelli, con la loro morbidezza e lucentezza, che definiscono la bellezza, loro che costituiscono l'oggetto della toletta. Al contrario, l'occhio basta a qualificare Atena, quella «dagli occhi glauchi», «dallo sguardo di Gorgone», la Glaukopis, la Gorg opis, epi teto che ella deve allo splendore insostenibile del suo sguardo. Come l'occhio degli uomini, quello della vergine guerriera rifiuta gli specchi e, come per gli uomini, gli specchi da lei utilizzati non sono da donna. L'avventura di Perseo ne è testimonianza: lo specchio di Atena è un'ar ma; lo scudo bronzeo non riflette la bellezza di un viso divino, ma i tratti mostruosi, insostenibili a uno sguardo diretto, della Gorgone monifera. Un po' più tardi, secondo il mito, Atena inventa il flauto, per riflettere nelle sue strane sonorità, l'orrore della morte di Medusa. Ma mentre suona questo strumento, ella scorge, sulla superficie di un fiume, o in uno specchio teso da un satiro premuroso, i suoi tratti " Secondo Ateneo, l Sofisti a banchetto, xv, 6 87c. " Piccolo fiume nei pressi di Troia, affluente dello Scamandro [n.d.t.]. " Callimaco, // bagno di Pallade, 21-22 e 16-17.
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gonfi, orribilmente deformati dal soffiare, una faccia gorgonica insom ma. Gli specchi di Atena non restituiscono nulla dell'incontestabile bellezza del suo viso divino. I riflessi che vi si disegnano, per quanto effimeri e accidentali, rivelano un altro aspetto della sua natura di ver gine terribile, dal corpo avvolto nel metallo, di guerriera dall'impensa bile sessualità, impossibile da prendere in considerazione•s. Il disdegno dello specchio per Atena si può considerare come un rifiuto della fem minilità e come indice della sua virilità46• Lo scudo, che la dea predilige, si oppone, nella rappresentazione mentale dei Greci, allo specchio delle donne. Di bronzo come lo spec chio e spesso anche circolare, fornisce all'uomo uno dei suoi specchi, quello del guerriero. In tempo di pace, ai banchetti, è nella coppa da bere che si specchia il cittadino, cercando il proprio riflesso nel vino e sulle immagini dipinte che decorano i vasi47• Su ciascuno dei suoi uten sili maschili, equivalenti allo specchio delle donne, appare la figura della Gorgone, orribile femmina barbuta, incisa o dipinta, ostentata nel bla sone sul bronzo dello scudo o nascosta sul fondo delle coppe, dove la sua smorfia spia il bevitore. Coppa e scudo, proprio questi due termi ni, serviranno a Plinio come esempio per far comprendere ai suoi letto ri eruditi, senza dubbio maschi, come funzionano, a fianco dello spec chio piatto, le altre due categorie: quello concavo e quello convesso48•
" Si vedano le analisi di N. Loraux 1 990. "Gloria Ferrari, in uno studio in c.d.s., interpreta l'epiteto glaukopis, stabilendo un rap pono con gli occhi rotondi della civetta, come un segno della non-sottomissione di Atena all'aidos ( � li occhi che non si abbassano sono anaides); la dea fissa lo sguardo, come fanno gli uomim. " Si veda F. Lissarrague 1 987. " Plinio, Naturalis Historia, XXIII. Per Seneca, la coppa è, con il bronzo, uno dei proto tipi dello specchio (Naturalium questionum libri VI/, 1, XVII, 6).
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ULISSE E LO SPECCHIO
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Parole, cose e immagini
Le parole di una lingua sono spesso rivelatrici quanto gli scritti più eruditi. Quelle che i greci impiegano per designare lo specchio sono diverse, senza contare le metafore e le perifrasi, cui ricorrono i poeti, come «bronzo lucente» o «disco di bronzo».
Modi di dire Possiamo considerare tre termini principali: le parole esoptron, enoptron e katoptron. Quest'ultimo, che è il più conosciuto, non è tut tavia il più antico. Infatti, il vocabolo che per primo indica lo specchio in un testo greco non è tra questi. Si tratta della parola dioptron, usata in un frammento di Alceo, poeta lirico dell'inizio del VI sec. a.C.: «Il vino è per gli uomini uno specchio»1• Ma è l'unico caso e si può dun que pensare che si trattasse di una creazione poetica. Questo termine, tuttavia, proprio o figurato, non è senza interesse, perché molto più tardi la lingua greca conoscerà un doppione femminile, dioptra, che possiede due significati tecnici: strumento ottico, che serve a misurare le distanze, gli angoli e l'altezza- da cui proviene il nostro «diottro» e l'unità di misura ottica «diottria»- e sonda chirurgica, secondo il vo cabolario medico. Inventato o meno da Alceo, il termine dioptron poteva essere mes so in relazione con le parole usate da Omero, il verbo diopteuo, «spia re», e il nome diopter che significa «spia, esploratore» nell'Iliade, ma che più tardi designerà anche la sonda del chirurgo2• Il verbo parallelo, diorao, formato dagli stessi elementi- prefisso verbale dia e radice del ' Alceo, fr. 53. 'Omero, Iliade, x, 451 ;
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verbo «vedere» - non è attestato molto presto. In Senofonte significa «distinguere», in Platone «vedere chiaramente». Il prefisso dia può indi care sia la separazione e la discriminazione che la penetrazione: «attra verso». Il dioptron del poeta Alceo, questo specchio che è il vino, può trarre senso da entrambi i valori. È perciò verosimile che il secondo do mini: il vino che si assorbe agisce dall'interno, portando i pensieri allo scoperto; esso permette di vedere «attraverso» l'individuo, penetrando lo e svelandolo. Questo primo specchio, tutto metaforico, e per nulla ri servato alle donne, poiché concerne gli anthropoi, cioè la specie umana nella sua interezza, costituisce uno strumento di esplorazione interna. Il termine esoptron si incontra, nel V secolo, nel poeta Pindaro con valenza metaforica: il canto glorioso della poesia è uno specchio di bel le azioni1• Acquista il suo valore concreto nei poemi anacreontici. Mol to più tardi, in Plutarco, servirà da base a una serie di derivati che rin viano al fenomeno della riflessione esoptrismos4• Un poema dell'Anto logia Palatina attesta un doppione femminile, esoptris5• Il verbo parallelo eisorao, è costruito dal verbo vedere e dal prefis so eis che segna la direzione «verso», e il contatto in superficie, «so pra», verbo ricorrente, e ben attestato nei poemi omerici col significa to di «guardare, considerare, contemplare»; i contesti suggeriscono uno sguardo pieno di rispetto e ammirazione, o ancora uno sguardo penetrante, come quello di Helios, il Sole, che con luce penetrante, os serva gli uomini e le cose terrene, che illumina e rende visibili6• Infatti la vista è luce e la reciprocità del vedere e dell'essere visto è un dato fondamentale della concezione greca della visione. La parola katoptron figura dapprima presso Eschilo in senso me taforico, per denominare lo «specchio dell'amicizia», e di nuovo lo «specchio del vino»7• In seguito è molto frequente in senso proprio. Le iscrizioni attestano la forma katopton, e Callimaco utilizza il femmini le katoptris per designare lo specchio che Atena disdegna. Questo ter mine produce una serie di derivati che compongono il vocabolario del la «catottrica», scienza della riflessione negli specchi8• Il verbo simme trico kathorao, attestato da Omero, non denota più una visione neu tra. Come indica il prefisso kata, si tratta di uno sguardo dall'alto in ' Pindaro, Nemee, vu, 1 4 . Plutarco, M . 936f. Cfr. M . 890b; M . 92 1 a; M . 696a; M . 1 43c. 'Antologia Palatina, VI, 307. ' Omero, Iliade, XIV, 345; 23, 495. ' Eschilo, Agamennone, 839: (homilias katoptron); fr. 288. • Plutarco, M. 894d; 890f; 8 9 1 ; 892f; Ateneo, l Sofisti a banchetto, 1 5, 687c. •
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basso. La visione dall'alto è spesso un privilegio degli dèi che dalla sommità dell'Olimpo o dal monte Ida contemplano gli uomini e le lo ro battaglie, proprio come fa il Sole. Ma designa ugualmente uno sguardo che si sforza di penetrare dall'esterno verso l'interno, per ar rivare, tramite un esame, a una visione distinta. L'ultimo termine, enoptron, dopo avere designato concretamente l'accessorio femminile, nelle tragedie di Euripide per esempio, defini sce anche derivazioni tecniche, termini che evocano il riflesso nello specchio. Il verbo parallelo enorao, >, e l' «oggettualizzazione>> che implica il cercare di conoscere il proprio viso su uno strumento metallico, piuttosto che, come l'uomo, nella viva pupilla dei suoi simili ? Queste belle dame che Lekythos, Boston, 13.189 (ARV' 384/214). Su una oinochoe della fine del V secolo a.C., un'eikon ambi g ua riproduce un riflesso c/o il dorso decorato dello specchio; coli. privata (ARV' 1202/26b is); n. S61 del catalogo di Adricnne Lezzi-Hafter (1976) che ha tenuto a se gnalarmi che si tratta di una ridipintura, cosa di cui la ringrazio. " Si veda Frontisi-Ducroux 1995 ci t., pp. 70- l. l.l
20. /.o specchio decorato appeso, lekytbos. Boston,
Museum of Fine Ans ( 13.1 H'J) (disegno F. L). 70
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Parole, cose e immagini
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duplicano non già un riflesso fugace e impalpabile, ma delle immagini durevoli, solidamente cesellate, servono a mostrare la donna come un bell'oggetto, simile alla sua mitica antenata, Pandora, superbo artefat to uscito da mani divine ?Js La sposa e le altre
Le immagini che abbiamo appena passato in rivista sono spesso eti chettate come «scene di vita femminile>> e si possono classificare in di verse categorie. Quelle che mostrano delle donne tra loro, in un interno qualche volta segnalato dalla presenza di una porta, sono oggetto di una lettura immediata. Riconosciamo la signora della casa armoniosamente divisa tra le cure dei figli, la «gestione>> della servitù, le pulizie, il lavoro della lana e il mantenimento di una bellezza riservata allo sposo. Un pro gramma che non poteva che piacere agli ateniesi, e che soddisfaceva egualmente, dopo più di un secolo, un buon numero di greci dell'età el lenistica. Bisogna dire, per la verità, che questa visione serena dell'uni verso domestico è conforme a quella che raccomandano certi scritti, dal l' Economico di Senofontel'·, ai Precetti di vita coniugale di Plutarco. Su alcuni vasi figurano delle scene di matrimonio. Una pisside mo stra la preparazione del letto nuziale [fig. 2 1]. Uno specchio è appeso "Da parte di un artigiano, tuttavia, una tale concezione doveva essere meno sprezzante
che in Esiodo.
''·Quest'autore, partigiano piuttosto isolato di una bellezza femminile •naturale• sconsiglia anzi alle donne sposate l'uso stesso di ornamenti c trucco.
2 1. Il h·11o nuàah· ,. lo sp