Mozart era un figo, Bach ancora di più. Come farsi sedurre dalla musica classica, innamorarsene alla follia e diventarne dipendenti per sempre 8867151843, 9788867151844

Che cos'è la musica classica? "È un'avventura dello spirito, uno spiraglio verso altri mondi, un toccasan

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Mozart era un figo, Bach ancora di più. Come farsi sedurre dalla musica classica, innamorarsene alla follia e diventarne dipendenti per sempre
 8867151843, 9788867151844

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Matteo Rampin Leonora Armellini

MOZART ERA UN FIGO, BACH ANCORA DI PIÙ Come farsi sedurre dalla musica classica, innamorarsene alla follia e diventarne dipendenti per sempre

Salani (mJ) Editore

ISBN 978-88-6715-184^

La citazione a p. 139 è tratta da: Thomas Mann, Doctor Faustus © 1949 Arnoldo Mondadori Editore SpA, Milano. Per gentile concessione dell * editore.

Per essere informato sulle novità del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita: www.illibraio.it www.infinite storie .it

Copyright © 2014 Adriano Salani Editore s.u.r.l.

ADEtAHO IAIAHI tDÌTOCE D* 150 pUi fthd con un libro

Gruppo editoriale Mauri Spagnol Milano www.salani.it

Sommario

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Introduzione 1. Dove una storia truce e sanguinosa ci offre lo spunto per esporre I’abc della musica Il cacciator cacciato L’abc della musica Fisica e metafisica E la matematica? Urti e cozzi

11 11 14 22 25 31

2. Dove si narra di un prete che non diceva messa, e si illustrano i fondamenti della composizione 34 A teatro 36 Imitazione & C. 43 In forma! 52

3. In cui una mente prodigiosa ci introduce ai segreti più riposti della musica 58 Fuga 67 La musica e la forza di gravità 70 Labirinti sonori 73 L’ultimo enigma di Bach 83

4. Nel quale, grazie a un angelico demone, si impara qualcosa sugli strumenti e sulle orchestre 89 Le voci della musica 93 Wolfi e i suoi amici 101 Luce, colori, ombre e sfumature 107 5

5. Dove un supereroe del pentagramma ci spiega perché la musica ha contribuito a forgiare il pensiero moderno 114 In lotta contro il fato avverso 119 Tempo 129 Ritmo 135 Forma-sonata 137 Piaudite amici 143

6. Dove i romantici ci ragguagliano su qualche altro genere di musica 146 Paganini 146 Liszt 152 Berlioz 157 Schubert 159 Schumann 161 Wagner 165

7. Dove un’odissea nello spazio... sonoro ci conduce a riflessioni metafìsiche sulla condizione umana e sul destino della civiltà 173 Alle soglie del Novecento 173 Crisi! 177 Tabula rasa 183 Elettronica 189 Classica vs leggera? 195 Rapsodia finale 197 Bibliografìa

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Introduzione

Leós Janàcek, uno dei maggiori compositori a cavallo tra Ottocento e Novecento (la data di nascita è il 1854), era già avanti negli anni quando compose un quartetto d’archi intitolato Lettere intime. Il titolo faceva riferimen­ to alle epistole amorose da lui spedite alla signora di cui si era invaghito: una donna che aveva, oltre a un marito e un figlio, anche la metà dei suoi anni. Pare che Leós abbia spedito più di settecento appassionate lettere all’amata (ricevendone in cambio molte meno). Sulla morte del compositore circola una voce non di­ mostrata: pare che il pover’uomo si sia buscato una pol­ monite dopo essere frettolosamente uscito dalla finestra della camera da letto della sua amata, al sopraggiungere improvviso del marito. La cosa notevole è che questo succedeva nel 1928: ossia quando il maestro aveva settantaquattro anni. Una bella età, per questo genere di im­ prese.

Uno degli intenti di questo libro è dimostrare che i musi­ cisti che oggi sono definiti ‘classici’ non sono affatto te­ diosi come alcuni ritengono ma, al contrario, personalità affascinanti che meritano di essere conosciute. Un altro scopo del libro è suggerire che, stando così le cose, anche le opere di questi personaggi - la musica che 7

oggi chiamiamo ‘classica’ (torneremo sulla definizione nell’ultimo capitolo) - meritano di essere ascoltate, per­ ché capaci di riservare altrettante sorprese insospettabili da parte di chi si pasce solo di jingle pubblicitari, canzoni buone per ima sola stagione e ritmi ossessivi da cultori di peyote e altri funghi che non troverete nel piatto in una malga alpina. La musica classica non è quella melassa che si ascolta in sottofondo in alcune librerie chic: quelli sono brani se­ lezionati appositamente per le loro proprietà ipnotiche, che fanno cadere in trance i clienti inducendoli a cedere con maggiore arrendevolezza alle seduzioni degli esperti di marketing. Non è nemmeno quel ronzio che fa capoli­ no da qualche canale ‘specialistico’ mentre scorrete il cursore dell’autoradio cercando una stazione: quelli sono in genere pezzi destinati a un pubblico di intenditori (nel caso dell’Italia, così pochi che stanno per essere inseriti nell’elenco delle specie protette). La musica classica, tanto per cominciare, è l’ingrediente che rende appassionanti molti film: pensate ai pezzi d’au­ tore sfruttati come colonna sonora. Ma è anche ciò che rende memorabile una pubblicità imprimendosi nella memoria e rimanendovi per tutta la vita. Inoltre, è ciò che ha fornito il materiale da cui a volte hanno tratto ispirazione, più o meno consapevolmente, autori come i Beatles, Elton John, Gianna Nannini. Ed è uno dei modi migliori per creare atmosfera, evo­ care emozioni, indurre cambiamenti negli stati d’animo in tutti gli esseri umani, compresi i neonati e quelli che ancora soggiornano nella pancia della loro mamma, e persino in alcuni animali; è una meravigliosa ginnastica 8

per la mente, e all’occorrenza anche per il corpo; un’av­ ventura dello spirito; uno spiraglio verso altri mondi; una miniera di invenzioni e ritrovati dell’ingegno e della creatività; una stratigrafia della storia umana, e un modo per rendere vivi e presenti in mezzo a noi alcuni tra i più grandi artisti e pensatori e per ricreare le atmosfere delle epoche in cui hanno vissuto; un mezzo per crescere me­ glio, anzi, uno strumento per estrarre il meglio dagli es­ seri umani; un toccasana per la salute mentale e fisica; uno strumento formativo per tutte le età, un ausilio peda­ gogico insostituibile per i cervelli più freschi e un ottimo modo per tenere in forma quelli più in avanti con gli an­ ni; una palestra mentale e comportamentale, specie per chi studia uno strumento; un mezzo per veicolare siste­ maticità, metodo e forma mentis strategica; un gioco; un modo per elevarsi al di sopra degli aspetti banali del quotidiano; una sonda per scendere in profondità dentro noi stessi; una strada per superare le differenze culturali e sociali; un tesoro di motivazioni potentissime; l’ingre­ diente supremo per stabilire un contatto tra persone che non si conoscono; la via maestra per il mondo della fan­ tasia e dei sogni; una strada insospettabile per avvicinarsi al mondo della matematica, della scienza e del rigore lo­ gico; un fenomeno culturale e biologico ricchissimo di implicazioni; un mistero appassionante per i neuroscien­ ziati; poesia senza parole; pittura senza colori; scultura senza materia; architettura senza mattoni; vibrazione che supera le barriere mentali; forma di terapia e... fer­ miamoci qui, perché nessuno riuscirebbe a descrivere adeguatamente tutto ciò che là musica classica è. Il suo solo difetto è che tende a trasformarsi rapida­ mente in ‘droga’: dopo un po’ che l’avrete assaggiata non riuscirete più a staccarvene. Questa è una caratteri­ 9

stica positiva, se non altro per il fatto che così eviterete di impegnare l’udito e la mente in occupazioni di utilità non altrettanto provata, come ascoltare le liti dei vicini, quel­ le dei parlamentari nei talk show o degli ospiti dei reality. Nelle prossime pagine troverete aneddoti relativi alla vita dei grandi musicisti, accenni a che cos’è e come funziona la musica, e alcuni suggerimenti su quali pezzi ascoltare per iniziare il vostro viaggio d’esplorazione nei magici territori dell’arte dei suoni. Scoprirete così che la musica classica ha il potere di sal­ vare l’umanità dal collasso, che insegna a pensare meglio, che può ispirare passioni profonde e nobili ideali, e che chi pensa che Vivaldi, Beethoven, Bach & C. siano poco affascinanti ignora fatti fondamentali come quelli relativi all’eroico decesso del nostro Leós Janàcek. * E soprattutto per colmare lacune imperdonabili come questa, che abbiamo scritto il libro che tenete in mano. Buona lettura.

* In verità, non tutti i musicisti sono trapassati in modo così epico, e qualcuno che abbia esalato l’ultimo respiro in modo og­ gettivamente ridicolo, a cercar bene, lo si trova. Ci viene in mente per esempio Giovanni Battista Lulli (o Lully, come si faceva chia­ mare dopo essersi trasferito in Francia dalla natia Firenze): stava dirigendo l’orchestra con un grosso bastone metallico (la bacchet­ ta di allora) quando, preso dall’empito della musica, si diede una tremenda mazzata sul piede, procurandosi una ferita che - seguen­ do il costume delle ferite dell’epoca - in poco tempo si infettò, si trasformò in cancrena e, secondo le migliori tradizioni dell’era pre-antibiotica, condusse il musicista alla tomba. Quando sì dice: ‘Tirarsi la zappa sui piedi’. (N.d.A.)

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1 Dove una storia truce e sanguinosa ci offre

lo spunto per esporre I’abc della musica

Il cacciator cacciato Il nome del primo ospite della nostra rassegna quasi sicu­ ramente non vi dirà nulla. Eccolo: Gesualdo da Venosa. Nàcque a Venosa (l’avreste mai detto?) nel 1566, da una famiglia nobile e influente: un suo zio era il cardinale Borromeo, ben noto ai numerosi ammiratori di Manzoni. A diciannove anni pubblicò la sua prima opera, un pez­ zo vocale dal titolo profetico di Ne reminìscaris, Domine, delieta nostra (Non ricordare, Signore, i nostri peccati). Il termine latino per ‘peccati’ usato nell’originale, delieta, tra poche righe risalterà in tutte le sue sinistre implicazioni. Aveva ima smodata passione per la caccia. Con il sen­ no di poi si può dire che questo particolare avrebbe dovu­ to suggerire qualcosa riguardo all’indole del Nostro: in­ vece non suggerì nulla, e la storia seguì fatalmente il suo corso. A vent’anni Gesualdo sposò la cugina ventiquattrenne, che era a sua volta appassionata di caccia - benché di un altro genere, visto che si diede a tradire il marito con un bellimbusto della nobiltà locale. Gesualdo non apprezzò, e un giorno, uscito di casa annunciando che andava a fa­ giani (le sigarette non erano ancora state inventate), atte­ se invece il calar della notte e poi, col favore delle tene­

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bre, rientrò surrettiziamente nella magione coniugale co­ gliendo in... fallo la sposa fedifraga. Quel che successe dopo fornì abbondante materia a ro­ manzieri e drammaturghi nei secoli seguenti: per farla breve, Gesualdo trucidò selvaggiamente la sposa e il suo ganzo, dopodiché, ancora lordo di sangue, se la squa­ gliò, memore forse del suggerimento di Pietro Aretino, autore dell’immortale frase tratta da Za Talantcr. ‘Diamo­ la a gambe, perocché è meglio che si dica: qui fuggì il Tinca, che: qui morì il Tinca’. Parole da riferirsi, nel caso di Gesualdo, alla probabile vendetta dei parenti dei morti ammazzati più che alla possibilità di passare qualche guaio con la giustizia, dato che all’epoca il ‘delitto d’o­ nore’ veniva guardato con occhi molto liberali (forse per­ ché erano occhi - quelli dei giudici - maschili). E infatti, il giorno dopo - i tempi della giustizia non erano i nostri - il viceré di Napoli, con sovrano distacco, dispose l’ar­ chiviazione del caso. Gesualdo si rifugiò nella fortezza che portava il suo nome, ma poiché non si sentiva ancora tranquillo, per meglio individuare l’arrivo degli eventuali sicari fece ra­ dere al suolo l’intera foresta che rivestiva la collina di fronte al maniero. Questo particolare conferma l’idea che il maestro non fosse proprio quel che si dice un uomo dalle mezze misure, e di questa informazione vi preghia­ mo di tener conto per quello che diremo tra poco a pro­ posito della sua musica. Trasferitosi poi a Ferrara presso i duchi d’Este, si spo­ sò con la cugina del padrone di casa (a quanto pare aveva un debole per le cugine, anche quelle degli altri). Un di­ plomatico alla corte degli Estensi lo descrive così: ‘pieno di affettazioni di grandezza e di galanteria di gusto spa­ gnolesco’, sempre pronto a discorrere di musica e di cac-

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eia ‘con irrefrenabile loquacità’, nonché (e per fortuna è la descrizione di un diplomatico) ‘meridionalmente indo­ lente’. Indolente? Allo scoccare dei trent’anni Gesualdo si ri­ tirò nella sua fortezza, rimessa a nuovo e trasformata in centro culturale capace di attirare i migliori cervelloni dell’epoca, e si dedicò anima e corpo alla composizione, attività nella quale raggiunse vette di originalità e inven­ tiva straordinarie: le sue opere colpiscono anche noi mo­ derni, sopravvissuti alle più strane arditezze delle avan­ guardie sperimentali (torneremo poi sul tema ‘avanguar­ die’, mentre ora, per far capire quello che intendiamo, ci limitiamo ad accennare a qualche pezzo prodótto dagli autori appartenenti a quelle correnti di pensiero, come i brani di musica aleatoria intitolati Paesaggio immagina­ rio di John Cage, che si eseguono con apparecchi radio al posto degli strumenti musicali, o il Quartetto per archi ed elicotteri di Karlheinz Stockhausen). Avrete intuito che da un tipo come Gesualdo non ci si può aspettare una musica placida e pacata, di quelle buo­ ne per addormentare i neonati. E infatti è così: la sua mu­ sica, benché scritta cinque secoli fa, è tuttora considerata da molti una delle più ardite e particolari della storia, tan­ to che abbiamo iniziato ad apprezzarla veramente solo nel Novecento. E ima musica sorprendentemente aspra, piena di durezze, imprevisti, emozioni' forti espresse at­ traverso procedimenti inconsueti. E soprattutto ci toma utile per illustrare alcuni concetti necessari per proseguire.

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ju’ABC della musica Tutti sanno che cos’e una scala musicale. Prendiamo la più celebre: Do Re Mi Fa Sol La Si È una successione di suoni via via più acuti (o ‘alti’); se la eseguite al contrario (iniziando da destra: Si, La, Sol, Fa, Mi, Re, Do) otterrete una sequenza di suoni via via più gravi (o ‘bassi’). Nel primo caso la scala si chiama ascendente, nel secondo discendente. Prendete ora due suoni qualsiasi di questa scala (per esempio il Do e un altro a piacere), e suonateli simulta­ neamente (due suoni simultanei fanno un bicordo, tre suoni o più fanno un accordò). L’effetto può essere pia­ cevole oppure stridente — a prescindere, s’intende, dalle doti dell’esecutore. Se l’effetto è piacevole (cioè dà un senso di compiutezza, di riposo, di fusione) diciamo che i due suoni sono consonanti; se invece è spiacevole (dà un senso di incompiutezza, come se qualcosa fosse fuori posto, come se i conti non tornassero, è ‘aspro’) si dice che sono dissonanti. Al nostro orecchio occidentale risultano dissonanti la sovrapposizione del Do con il Re e quella del Do con il Si; le sovrapposizioni del Do con ogni altra nota della scala risultano consonanti. È necessaria una precisazione per comprendere meglio

ciò che segue: quando in musica si parla di intervalli, si in­ tende la differenza di altezza tra suoni, non la distanza tem­ porale tra quando viene suonata una nota e quando viene suonata quella successiva. Così, per esempio, nella scala:

Do Re Mi Fa Sol La Si 14

si dice che tra Do e Re c’è un intervallo di seconda” , tra Do e Mi un intervallo di terza” , tra Do e Fa un intervallo di quarta, e così via. Non è necessario che la nota di par­ tenza sia un Do, poiché la stessa cosa vale partendo da una qualsiasi altra nota: tra Fa e Sol c’è un intervallo di seconda (così come tra Sol e La, tra Re e Mi ecc.), tra Fa e La un intervallo di terza, tra Fa e Si un intervallo di quarta ecc. L’intervallo tra il Do e il Do successivo, quando la scala ‘ricomincia’, si chiama intervallo di otta­ va. Se due strumenti suonano la medesima nota (per esempio lo stesso Do), stanno producendo un unisono. I musicisti sono molto affezionati agli intervalli, e quindi li chiamano semplicemente ottava, seconda, quinta ecc., omettendo l’espressione ‘intervallo di’. Una musica fatta solo di accordi dissonanti sarebbe sgra­ devole, susciterebbe sensazioni di tensione, disannonia, conflitto, malessere... insomma, nessuno la sopportereb­ be a lungo. Ma anche una composizione consonante dal­ l’inizio alla fine non sarebbe molto piacevole, perché do­ po un po’ inizierebbe a risultare stucchevole, dolciastra, piatta, banale. L’effetto migliore si ottiene aggiungendo a una successione di accordi consonanti qualche tocco dissonante qua e là. Infatti la dissonanza non è solo fonte dì fastidio: opportunamente dosata, conferisce dinami­ smo e movimento al pezzo, perché crea un senso di ten­ sione o attesa che esige ima soluzione o lo scioglimento dell’attesa. In pratica l’accordo dissonante ‘chiama’ un accordo consonante, sul quale l’orecchio si riposa; questo ‘richiamo’ anima la musica, la rende palpitante, viva. È

come il sale in un impasto: persino nelle torte più dolci è necessario un pizzico di sale, altrimenti il gusto risulta piatto e scipito. L’alternanza tra tensione e rilassamento, 15

attesa e soddisfacimento, asprezza della dissonanza e dolcezza della consonanza è uno dei ‘motori’ più impor­ tanti della musica occidentale. * Nel corso dei secoli la presenza della dissonanza nella musica occidentale è andata via via aumentando. I com­ positori provavano a inserirne ima, con moltissima caute­ la e con mille stratagemmi per non farla sentire troppo; dopo un po’ di tempo la gente si abituava a quella disso­ nanza, e non la percepiva più come disturbante; a quel punto i compositori ne introducevano un’altra, sempre con molta cautela. La cosa andò avanti lentamente fino all’ottocento, quando all’improvviso, non essendovi più dissonanze a disposizione, con un’improvvisa accele­ razione si diede il via libera a tutti i miscugli di suoni, anche i più strani. Ne riparleremo nell’ultimo capitolo. All’epoca di Gesualdo le dissonanze ammesse erano pochissime, anzi quasi nessuna. Anche a causa di questo limite, comporre un pezzo, soprattutto per voci, era una faccenda intricata: occorreva rispettare una serie enorme di vincoli severissimi, che servivano a garantire, tra l’al­ tro, che le dissonanze non turbassero l’orecchio degli ascoltatori, pur garantendo al pezzo una certa quantità di ‘dinamizzazione’ e varietà.

* A voler essere precisi, per realizzare la dinamica tensione/rilassamento servendosi di accordi musicali non è necessario che ci siano dissonanze, perché già di per sé gli accordi costruiti sulle di­ verse note di ima scala suscitano sensazioni di tensione o di riposo l'uno rispetto all’altro: per esempio, l’accordo costruito suonando una nota sì e una nota no a partire dalla prima nota della scala (l’accordo Do - Mi - Sol) produce una sensazione di riposo, men­ tre l’accordo costruito con lo stesso criterio sulla quinta nota della scala (Sol - Si - Re) produce una sensazione di tensione verso il riposo. Queste però sono raffinatezze. (N.d.A) 16

Erano molti gli espedienti per dissimulare le dissonan­ ze, ossia per far sì che non venissero percepite consapevol­ mente dagli uditori. I vincoli e gli espedienti servivano, in pratica, a ‘regolare il traffico’ delle varie voci, a far sì che i suoni si incontrassero e si scontrassero producendo una varietà equilibrata di dolci fusioni e cozzi violenti, unioni docili e accoppiamenti selvaggi. Le leggi della composi­ zione regolavano incontri e scontri di ogni nota con tutte le altre emesse in un dato istante. Poiché a quell’epoca le note non si chiamavano note ma ‘punti’, l’arte di combi­ nare nota contro nota venne chiamata punctus contra punctum, da cui il termine moderno contrappunto. Il termine punctum veniva usato perché le note erano rappresentate graficamente come piccoli quadrati. C’era­ no anche altre forme: la vìrga, il pes, la clivis, \o scandicus, il climacus, il torculus, il porrectus. Questo arsenale costituiva la scrittura reumatica, che era nata dal tenta­ tivo di fissare sulla carta i movimenti delle mani dei di­ rettori di coro, che a loro volta cercavano di imitare il movimento della linea melodica. La posizione sul penta­ gramma (o rigo musicale: le famose cinque linee) del punto o di un’altra figura indicava (e indica ancora) di quale nota si tratti: un Do, un Fa ecc.

Se avete visto uno spartito, o anche solo un pentagram­ ma, avrete notato che le note non sono soltanto poste su altezze diverse, ma spesso hanno anche un aspetto di­ verso: alcune sono nere, altre bianche, alcune con il gam17

bo e altre senza, quelle con il gambo possono averne uno semplice o con vari tratti orizzontali od obliqui...

Queste particolarità servono a indicare la durata di quel­ la nota. Non si potevano usare semplicemente i secondi? No. Per meglio dire, oggi si potrebbe (e alcuni composi­ tori contemporanei lo fanno), ma agli albori della scrittu­ ra musicale gli orologi da polso non esistevano, e sarebbe stato scomodo stabilire che una nota a forma di pallino bianco senza gambe ‘durava tre secondi’, perché i poveri esecutori potevano contare (è proprio il caso di dirlo) solo sulla clessidra, la meridiana, candele segnate e simili. In­ dicazioni come ‘questa nota deve durare esattamente il tempo impiegato da quattromila granelli di sabbia per ca­ dere nell’ampolla inferiore della clessidra’ non avrebbero ottenuto il favore degli esecutori. Si stabilì allora un siste­ ma che non faceva riferimento al tempo scandito dall’o­ rologio, ma solo alla musica: vale a dire che i valori delle note non erano espressi in termini assoluti, ma relativi. In uno spartito moderno (diciamo più o meno degli ul­ timi quattro secoli) la durata maggiore di una nota viene rappresentata, a parte rarissime eccezioni, da questo sim­ bolo o

che indica la semibreve. Considerato questo nome, non occorre essere Sherlock Holmes per sospettare che da qualche parte esista anche una breve. Ma se esiste una breve deve esistere anche una lunga... e in effetti è pro­ 18

prio così. Abbiamo detto però che non troviamo note così lunghe nella musica degli ultimi quattro secoli: dove so­ no finite allora la lunga e la breve? Non si usano più: si sono estinte, come i dinosauri. Conclusione: se abbiamo eliminato i valori che ci sembravano via via troppo lun­ ghi, vuol dire che per noi il tempo scorre con un’urgenza che i nostri avi ignoravano. Beati loro. Proseguiamo nel familiarizzare con la scrittura della musica. Una nota che duri metà tempo rispetto alla semibreve si chiama minima. Eccola:

Si dice che la minima vale ‘due quarti’: rispetto alla se­ mibreve, evidentemente, la quale vale dunque quattro quarti. Ecco perché diciamo che la durata della musica è regolata secondo criteri relativi, e non assoluti. La semiminima

vale metà della minima, owerossia ‘un quarto’. Si procede poi via via dimezzando:

croma (che vale un ottavo) semicroma (un sedicesimo) biscroma (un trentaduesimo)

semibiscroma (un sessantaquattresimo) 19

fino alla fusa (un centoventottesimo)

che deve il nome, probabilmente, al fatto che se uno vo­ lesse tenere il tempo contando quante di queste notine ra­ pidissime deve eseguire, gli si fonderebbe il cervello. Per evitare che fonda il nostro, di cervello, riprendia­ mo ora il discorso da dove l’avevamo interrotto, e cioè dal contrappunto. Scrivere un contrappunto è un po’ come risolvere un cru­ civerba: si deve tener conto contemporaneamente della dimensione verticale (la simultaneità delle note, che sulla carta da musica risultano sovrapposte, in colonna) e della dimensione orizzontale (lo svolgersi della musica sul ri­ go musicale, da sinistra verso destra). Nel contrappunto l’aspetto orizzontale è importantissimo: si deve aver cura del fatto che ogni voce canti una melodia sensata, esteti­ camente gradevole, capace di ‘funzionare’ anche se tutti gli altri cantori dovessero essere colti da un improvviso attacco di panico e davanti al principe o al vescovo di tur­ no ne rimanesse solo uno. È piuttosto curioso, ma se provate a scrivere un con­ trappunto rispettando tutte le regole previste dagli antichi trattati di composizione otterrete un pezzo musicale in perfetto stile dell’epoca. Ciò suggerisce che gli antichi compositori avessero codificato un algoritmo, una proce­ dura numerica in grado di produrre un risultato in qual­ che modo predeterminato: in effetti, una volta impostati i vincoli per combinare le note e tradotta in pratica l’appli­ cazione, si ottiene automaticamente una musica difficil­ mente distinguibile da quella che ascoltavano i nostri an­

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tenati all’epoca del Rinascimento e del Barocco. La cosa viene da sé. Da ciò si capisce che la composizione musicale ha a che fare con procedure logico-numeriche, cioè con il cal­ colo. Rassicuratevi: non siamo esperti di matematica, e quindi non vi imporremo formule o equazioni; però, se nonostante le nostre ingloriose imprese scolastiche pro­ viamo un po’ d’amore per il misteriosissimo universo della matematica, lo dobbiamo proprio alla musica, arte che ha la prodigiosa capacità di produrre poesia, godi­ mento, rapimento, estasi e trance ipnotica servendosi del­ la matematica. La relazione tra musica e matematica non risiede solo nel fatto che le note sono sette o che gli intervalli si chia­ mano ‘di quinta’, ‘di nona’ e simili, e nemmeno nel fatto che il tempo musicale è organizzato in forma di frazioni (‘tempo in tre quarti’, ‘in sei ottavi’ ecc.), né tantomeno nel fatto che le note hanno una durata convenzionalmente stabilita in valori frazionari. Non è nemmeno necessario avere una grande attitudine per l’aritmetica per essere bra­ vi musicisti. È pur vero che Einstein suonava il violino,

ma pare che tutti quelli che lo ascoltarono gli avessero consigliato di concentrare i suoi sforzi sulla fisica, più che sull’archetto; e Beethoven, tanto per citare un nome di un certo peso, aveva problemi talmente seri con la ma­ tematica che in un’occasione, non riuscendo a calcolare 17 x 5, caparbiamente sommò il numero 17 cinque volte. In che senso, allora, la musica ha a che fare con la ma­ tematica? Per rispondere a questa domanda bisogna aprire una parentesi e spiegare che cos’è il suono.

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Fisica e metafisica Perché ci sia un suono occorre che ci sia un mezzo ela­ stico che lo trasmette: l’acqua se siete pesci o sub, un to­ race se siete medici muniti di fonendoscopio, il terrena della prateria se siete pellerossa e tenete l’orecchio ap­ poggiato al suolo per capire quanti soldati del Settimo Cavalleggeri stanno arrivando per farvi la pelle. Normal­ mente il mezzo elastico che trasmette il suono è l’aria. Nel vuoto il suono non si propaga, quindi tutte le volte che in un film di fantascienza vedete un’astronave esplo­ dere e ne sentite il boato, sappiate che il regista sta met­ tendo in scena un fenomeno impossibile dal punto di vi­ sta fisico. E ora che sapete che nel vuoto il suono non si propaga, finalmente sapete anche come fare a impedire ai vostri vicini di disturbarvi con le loro voci cacofoniche: basta aspirare tutta l’aria dal loro appartamento. Il suono è un’onda: nell’aria è un fronte sferico di stra­ ti alternati di gas compresso e gas rarefatto, che si propa­ ga divenendo sempre più grande. Quante alternanze di strati si susseguono in un secondo? Un numero molto va­ riabile. Più ce n’è, più il suono risulta acuto. Per quanto riguarda le capacità percettive dell’orecchio umano, in un secondo gli strati di pressione vanno da 20 Hz (sotto non sentiamo alcun suono, e parliamo di infrasuoni) a 20.000 Hz (sopra - e parliamo di ultrasuoni - non sentia­ mo alcun suono, a meno che non siamo cani o pipistrelli). Quando tocca il vostro timpano, l’onda lo colpisce da 20 a 20.000 volte al secondo. Com’è possibile che il tim­ pano vibri, cioè si sposti avanti e indietro, migliaia di volte al secondo? L’unico modo è che si sposti di poco, di pochissimo. E infatti gli spostamenti del timpano sono

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piccolissimi, infinitesimali: più piccoli - udite udite - di un atomo di idrogeno! Come faccia una struttura anatomica come il timpano a essere così pronta, sensibile e delicata da muoversi nel­ l’ambito di una dimensione subatomica, lo sa Iddio. Del resto, non si capisce nemmeno come faccia il maschio della zanzara a percepire, grazie a certi peletti posti sulle antenne, le vibrazioni prodotte dalle ali della femmina in volo. E quando c’è vento? Affari loro. Tornando agli umani: il timpano, messo in vibrazione dall’onda sonora, fa vibrare a sua volta una catena di tre minuscoli ossicini, che fa vibrare una struttura ossea a forma di chiocciola (detta ‘chiocciola’), che fa vibrare una microscopica spazzola, che genera con effetto piezoelettrico una serie di scariche elettriche, che iniziano a percorrere i nervi acustici, che propagano il loro impulso fino a certe aree del cervello: a questo punto (sono passati solo pochi mil­ lisecondi da quando l’onda sonora ha raggiunto il timpa­ no), finalmente, si ode il suono.

Se prendete un’onda sonora, la trasformate in un segnale elettrico con un microfono e ne guardate la forma con un oscilloscopio, vedrete che essa può essere costituita da onde molto regolari, che si ripetono più volte sempre uguali a se stesse (segnale periodico) oppure da onde molto irregolari con un andamento abbastanza casuale, senza alcuna ripetizione (segnale aperiodico) oppure dal­ la sovrapposizione di queste due tipologie. In acustica un suono aperiodico si definisce rumore, mentre per i segna­ li periodici si parla di suono. Questo dal punto di vista fisico, ma il confine tra suono e rumore è anche una que­ stione soggettiva: i pensionati che abitano vicino al parco considerano fastidioso il tambureggiare dei bonghi dei 23

ragazzi che oziano lì tutto il pomeriggio, i quali invece lo reputano un suono sublime. Valga perciò la celebre defi­ nizione di uno studioso di acustica, secondo cui ‘il rumo­ re è il suono prodotto dagli altri’. I suoni differiscono tra loro per tre parametri: altezza, intensità e timbro. L’altezza (o frequenza) è quella che vi fa capire se un suono è acuto o grave: la voce delle donne e dei bambini è più acuta di quella degli uomini. Se un maschio adulto ha la voce acuta, è grave (scusateci: non abbiamo saputo re' sistere). L’altezza dipende dal numero di vibrazioni al se­ condo, e si misura in Hertz. Ogni nota può essere identi­ ficata per il suo numero di Hertz: per esempio il ‘La’ sul quale in tutto il mondo si accordano gli strumenti dagli anni Trenta del Novecento corrisponde a 440 Hz (la scel­ ta di quanti Hertz attribuire al ‘La’ è sempre stata arbitra­ ria e convenzionale; il valore di 440 è stato scelto per pra­ ticità, sulla base del fatto che era il valore usato dalle ban­ de militari, le quali spesso si spostavano di Paese in Paese al seguito dei rispettivi eserciti - i quali non avevano sempre, a dire il vero, le migliori intenzioni). L’intensità è quello che di solito viene chiamato ‘vo­ lume’: piano, forte, pianissimo, fortissimo ecc. Si misura in decibel, e dipende dall’energia con cui viene sollecita­ ta la fonte del suono (se accarezzo un gong ne otterrò una vibrazione lieve e un suono a volume basso, se lo percuo­ to con forza ne otterrò una denuncia per schiamazzi). Perché due suoni siano uguali non basta che abbiano la medesima altezza e il medesimo volume: la stessa no­ ta prodotta da un violino e da una tromba suona comple­ tamente diversa. La differenza è data dal timbro, che di­ pende dalle caratteristiche fisiche dello strumento che produce quella nota, le quali determinano la forma del­

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l’onda. Il timbro è per i compositori quello che il colore è per i pittori: non per niente si parla di ‘impasti timbrici’ a proposito di certe, fusioni di sonorità ottenute facendo suonare più strumenti assieme. In effetti, ricorrendo alla diversa voce dei tantissimi strumenti inventati dall’uomo si possono ottenere gli effetti più sublimi e anche quelli più strani, come sa chi ha avuto la ventura di ascoltare l’opera del tedesco naturalizzato inglese Johann Pepusch (1667-1752) in cui sei fagotti imitano il grugnito di sei maiali, e un flauto gli strilli di un maialino. C’è ancora qualcosa da dire a proposito della forma dell’onda: proprio come un raggio di luce bianca è com­ posto da sette colori che noi non vediamo se non quando il fascio luminoso si rifrange in un cristallo. In modo si­ mile un suono periodico può essere composto da molti suoni periodici, che noi non sentiamo separatamente, di­ stinti uno dall’altro, ma come uno solo, con una frequen­ za ben precisa detta ‘frequenza fondamentale’. Questi suoni periodici che sovrapposti formano un unico suono si dicono suoni armonici (o semplicemente ‘armonici’ o, per le pari opportunità, ‘armoniche’). La forma di un’on­ da sonora dipende dai suoi armonici. Ed è qui che entra in gioco la matematica, che speravate ci fossimo dimentica­ ti, ma che ci svelerà qualcosa di portata... metafisica.

E la matematica?

Entrate in un laboratorio di fisica acustica, prendete una nota qualsiasi, prodotta da imo strumento o da una gola umana, ficcatela in un analizzatore di spettro e osserva­ tene le componenti armoniche. La componente con il suono più grave (il suono fondamentale) ha una certa fre­

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quenza; quella successiva ha una frequenza doppia; la se­ guente ce l’ha tripla; la successiva quadrupla. Se guardia­ mo la frequenza di ciascuno di questi armonici e la con­ frontiamo con la frequenza dell’armonico precedente, scopriamo che i rapporti tra tali frequenze possono essere espressi per mezzo di proporzioni tra numeri semplici:

2 3 4 5

: : : :

1 2 3 4

Fin qui, niente di strano (almeno per chi capisce qualcosa di aritmetica). La cosa inizia a farsi interessante quando scopriamo che il primo armonico è il suono più conso­ nante possibile rispetto al fondamentale, il secondo ar­ monico è anch’esso molto consonante (ma appena appe­ na un po’ meno) rispetto al fondamentale, e così il terzo (ma appena un po’ meno se confrontato con il secondo), e che le consonanze sono via via meno perfette man ma­ no che i rapporti numerici tra frequenze diventano più complessi: per esempio, l’intervallo (dissonante) tra Do e Re è espresso dalla proporzione 9:8, e quello (dissonan­ tissimo) tra Do e Si è espresso dalla proporzione 15:8. Ma questo non è ancora niente. Seguiteci ora in un al­ tro esperimento. Procuratevi uno spago e un guscio di tartaruga (va bene anche una scatola qualsiasi), fissate i due capi dello spago ai bordi del guscio in modo che sia in tensione (lo spago, non il guscio) e pizzicatelo. Il suo­ no che ne risulta mette in vibrazione anche le pareti del guscio, e voi potete sentirlo facilmente (senza guscio non avreste sentito quasi nulla: è il concetto di ‘cassa di riso­ nanza’, che ricordiamo qui solo di passaggio). Ora viene 26

il bello. Dividete lo spago in due parti uguali in lunghez­ za (basta appoggiare il dito a metà strada) e pizzicatelo di nuovo: la frequenza del suono sarà esattamente il doppio della frequenza del suono di prima. E con ciò? Con ciò, se aveste due pezzi di spago (e due casse) e suonaste si­ multaneamente le due note ottenute con la corda ‘libera’ e con la corda dimezzata, scoprireste che si produce un bicordo perfettamente consonante (per i più erniosi: un intervallo di ottava). Tenete a mente questo dato e prose­ guite nell’esperimento: poggiate il dito a un terzo della lunghezza dello spago; otterrete un suono di frequenza tripla rispetto alla frequenza del suono di partenza, e an­ cora ima volta il bicordo formato da questo suono e da quello della corda libera produrrà una consonanza perfet­ ta, solo un po’ meno (un intervallo di quinta). Se poggia­ te il dito a un quarto dello spago, la frequenza del suono prodotto sarà il quintuplo del suono fondamentale, e il bi­ cordo sarà ancora consonante, ma appena un po’ meno (intervallo di quarta). Per farla breve, l’esperimento mo­ stra che quando lo spago è diviso in parti che corrispon­ dono a proporzioni numeriche semplici si ottengono suo­ ni perfettamente consonanti (anche se via via un po’ me­ no perfettamente). Vi risparmiamo ulteriori prove e vi an­ ticipiamo che, quando lo spago è diviso in parti che non corrispondono a proporzioni numeriche semplici (per esempio, otto noni, oppure otto quindicesimi), si ottengo­ no suoni dissonanti. Vi ricorda qualcosa? Non state avendo un déjà-vw. le frequenze dei suoni ottenuti dividendo lo spago a metà, a due terzi, a tre quarti e a quattro quinti stanno in relazio­ ne tra loro secondo uno schema che ripete esattamente quello che abbiamo incontrato parlando dei suoni armo­ nici, ossia: 27

2 3 4 5

: : : :

1 2 3 4

In altre parole, dopo aver fatto i nostri esperimenti di fì­ sica sappiamo che: 1. al nostro orecchio risultano consonanti i suoni le cui frequenze stanno tra loro in rapporti numerici espressi da proporzioni semplici, e dissonanti i suoni le cui frequen­ ze stanno tra loro in rapporti espressi da proporzioni non semplici; 2. tali rapporti tra frequènze sono gli stessi che com­ pongono la struttura di un suono, come vediamo scinden­ dolo con l’oscilloscopio. Insomma il nostro orecchio, senza sapere né come né perché, obbedisce a leggi di natura aritmetica. Questo fatto non dipende dalla cultura o dall’educazione, perché in tutte le civiltà che conoscono la musica esistono gli in­ tervalli espressi da rapporti numerici semplici: l’ottava (in cui il rapporto tra i due suoni è 2 : 1), la quinta (3 : 2) e la quarta (4 : 3). E generalmente questi intervalli so­ no considerati consonanti. È ancora più interessante il

fatto che anche i cavernicoli li conoscevano: è stato tro­ vato un flauto primitivo i cui fori sono stati praticati in modo che suonandolo si ottengano questi intervalli. Infi­ ne, anche il verso di alcuni animali, come uccelli e ceta­ cei, contempla l’uso degli stessi intervalli. Pare dunque che esista una sorta di legge universale valida per tutte le culture, per tutte le epoche e addirittura per alcune spe­ cie animali, secondo cui i suoni con frequenze basate su rapporti numerici semplici hanno un posto d’onore nella percezione. 28

Il rapporto tra consonanza e numeri non mancò di im­ pressionare gli studiosi di tutte le epoche, a partire dai primi che lo notarono, gli antichi greci (c’è qualcosa che i greci non furono i primi a notare?) Pitagora (570490 a.C. circa) pensava che l’universo avesse una struttu­ ra numerico-matematica, e la sua scoperta di una compo­ nente aritmetica insita nella musica gli confermò la vali­ dità delle sue teorie. Tra l’altro Pitagora aveva notato che i numeri implicati nei rapporti tra frequenze nel caso di quelle che lui considerava consonanze perfette (l’uniso­ no, l’ottava, la quinta e la quarta, ossia i numeri 1, 2, 3, 4) quando venivano sommati davano 10, numero che Pi­ tagora considerava sacro, essendo rappresentabile in for­ ma di triangolo equilatero (e si sa, Pitagora aveva un de­ bole per i triangoli):

O

O O o o o o o o o Pitagora riteneva che la realtà fosse musicale perché ba­ sata sui numeri, o basata sui numeri perché musicale? Non si sa: il suo pensiero ci è pervenuto in forma di fram­ menti enigmatici, il Maestro non lasciava mai nulla di scritto e confidava i suoi pensieri a una setta di iniziati che si esprimevano servendosi di simboli e di un linguag­ gio oscuro. La sostanza, comunque, non cambia: se oggi sappiamo che la natura si comporta in modo regolare e prevedibile e che la sua prevedibilità può essere descritta con formule matematiche, lo dobbiamo al fatto che il 29

pensiero occidentale ha scommesso su questa ipotesi (vincendo) anche grazie alle fantasie mistico-musical-nu­ meriche di Pitagora. Infatti non era per nulla scontato che vi fosse un ordine nel cosmo: molte culture non erano mai arrivate a intuire questa idea, e lo stesso Einstein, al colmo dello stupore di fronte ai misteri della natura, continuava a pensare che la cosa più incomprensibile del­ l’universo fosse la sua comprensibilità, cioè il fatto che la realtà esibisca regolarità descrivibili sotto forma di leggi espresse matematicamente.

Che ci sia una certa affinità tra musica e struttura dell’u­ niverso, oggi lo sappiamo anche grazie alle neuroscien­ ze: possiamo infatti affermare che la musica ci piace per­ ché l’orecchio e il sistema nervoso sono costruiti in modo tale che vi è una certa ‘corrispondenza’ tra essi e le carat­ teristiche fisiche del suono, tra struttura dei suoni e strut­ ture biologiche preposte a tradurli in forma di percezioni, sensazioni ed emozioni. Cosi come i suoni che compon­ gono una nota stanno tra loro in proporzioni numeriche semplici, anche le strutture anatomiche dell’orecchio e i relativi sistemi neurali contengono, in qualche modo, una specie di ‘impronta’ di queste regolarità numeriche. Dal punto di vista evolutivo la cosa ha un senso: in na­ tura esistono onde sonore di tutti i tipi, ma gli organismi viventi hanno maggiori probabilità di sopravvivere se captano con più facilità le onde prodotte da altre strutture biologiche (il verso di un animale, il richiamo di un al­ tro), le quali sono spesso dotate di una certa fisionomia, di un profilo che ‘spicca’ dal contesto. Il cervello che ri­ conosce più prontamente un suono coerente (che può es­ sere il verso di un predatore o di una preda), discriminan­ dolo tra tutti i rumori presenti, è avvantaggiato, così co­ 30

me quello che individua i versi di un consimile distin­ guendoli da quelli di organismi di altre specie. Che cosa succederebbe se ima zanzara maschio scambiasse lo stor­ mire di una fronda per il frullo d’ali di una zanzara fem­ mina? Non osiamo pensarlo. Le onde sonore dotate di spiccata fisionomia - i suoni, e soprattutto i suoni prodotti dalla voce umana e dagli strumenti musicali - sono dunque quelle a cui reagiamo meglio: ascoltare questo tipo di suoni innesca reazioni di piacere e gratificazione, il vecchio trucco con cui la na­ tura premia le risposte utili per la sopravvivenza. Quando ascoltiamo sovrapposizioni di suoni (accordi) che ripeto­ no esattamente lo ‘spettro’ dei primi suoni armonici la gratificazione è ancora maggiore: è tanto grande che l’accordo formato con i primi suoni armonici (uno tra tut­ ti: l’accordo Do - Mi - Sol) è stato chiamato ‘accordo perfetto’. Quando invece la sovrapposizione non rispetta questo schema, proviamo una sensazione di attrito, ten­ sione, irritazione. Possiamo ora chiudere questa parentesi mistico-fisicomatematica e tornare al punto, anzi al contrappunto, dove l’avevamo aperta: le combinazioni consonanti e disso­ nanti di suoni.

Urti e cozzi Tra le regole più restrittive in vigore nel Cinquecento ve n’era una che proibiva l’uso di un particolare intervallo, che risultava così perturbante, molesto e pericoloso da meritarsi l’epiteto, scomodo in epoca di roghi, di diabolus in musica. È l’intervallo di quarta aumentata, che po­

trete apprezzare suonando simultaneamente il Fa e il Si 31

della vostra scala. Per i curiosi, il rapporto tra le frequen­ ze di questi due suoni è espresso dal rapporto 11 : 8. L’aura satanica di questo povero intervallo derivava dal fatto che esso era difficile da cantare (se il vostro vi­ cino di coro cantava un Fa, per voi era difficile beccare un bel Si... e lo è anche oggi, in effetti) e dal fatto che l’esecuzione simultanea dei due suoni produceva una sensazione di così impellente tensione verso un compi­ mento da richiamare molto da vicino altre sensazioni di urgenza e tensione, cosa che evidentemente turbava gli animi dei coevi di Gesualdo. Ma non di Gesualdo: egli si distinse proprio per l’ardi­ tezza dei cozzi, degli urti, delle dissonanze che inseriva nelle sue opere, e per i modi ingegnosi con cui le presen­ tava, le faceva apprezzare nella loro tensione drammatica e infine le lasciava riassorbire nel soffice tessuto della consonanza. Gesualdo scrisse principalmente musica vocale, in particolare mottetti (composizioni a più voci su testi sa­ cri) e madrigali (idem, ma su testi profani). Precisiamo che ‘a più voci’, in musica, non significa che ci sono tan­ te persone che cantano una stessa melodia, ma che ci so­ no tante melodie diverse cantate simultaneamente (da persone diverse, ovviamente, a meno che non abbiate di fronte la protagonista del film L’esorcista o vi troviate in Mongolia, dove si pratica il canto diplofonico, in cui un cantante emette più note simultaneamente). Se pensate che la musica di quell’epoca sia ingessata, statica e fredda, ascoltate qualche madrigale di Gesualdo e capirete perché lo abbiamo scelto come primo perso­ naggio della nostra galleria. All’udire le sue composizio­ ni sembra di vedere lui: esse sono la traduzione sonora del suo carattere, del suo temperamento e delle sue pas-

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sioni, che come abbiamo visto non erano proprio tiepide. Da bravo cacciatore, Gesualdo cercava di scovare proce­ dimenti innovativi con la stessa dedizione con cui si met­ teva sulle tracce di fagiani e cinghiali; inseriva asprezze taglienti come la lama di un coltello facendole balenare il tempo sufficiente per provocare un brivido o -un singulto, poi le rinfoderava lasciando però nell’ascoltatore l’im­ pressione di aver assistito a qualcosa di straordinario; forzava i canoni estetici dell’epoca per conferire ai testi letterari le tinte del sangue, dell’eros, del pentimento, della rabbia, della vendetta, della tenerezza, della colpa, della contraddizione. Per la violenza dei chiaroscuri e il gioco di tensione e appagamento delle sue sonorità, potremmo paragonarlo al quasi coevo pittore Caravaggio, il quale aveva alle sue spalle un omicidio, come vi racconteremmo se que­ sto fosse un libro sulla pittura, ma non lo è; quindi vol­ tiamo pagina e occupiamoci di un altro grande composi­ tore. Questa volta il nome lo conoscete già.

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2 Dove si narra di un prete che non diceva messa, e si illustrano i fondamenti della composizione

Benché la sua opera più celebre si intitoli Le quattro sta­ gioni, tutto si può dire di Antonio Vivaldi, tranne che la sua musica sia una pizza. Il giorno in cui nacque a Venezia, nel 1678, un violen­ to terremoto colpì la città. Niente male come inizio, per un musico, se si pensa che il terremoto è un suono - per la precisione, un infrasuono (il suono è, secondo i fisici, una ‘perturbazione che si propaga nei mezzi elastici’, e il terremoto, purtroppo, può ben essere considerato una perturbazione). Il bambino, appena messo al mondo, non aveva un aspetto molto sano, tanto che fu battezzato in fretta e fu­ ria dalla levatrice, com’era uso in quei casi. Vista la si­ tuazione, la giovane madre offrì un voto al Signore: se il piccolo fosse sopravvissuto, sarebbe diventato sacerdo­ te. Sopravvisse, e venne spedito in seminario - con quale sincera vocazione, lo possiamo immaginare. Suo padre, che nel frattempo aveva abbandonato la professione di barbiere per dedicarsi a quella di violinista (esempio ante litteram di flessibilità e ricollocazione nel mercato del lavoro), fu il suo primo insegnante di musica. Presi gli ordini, Antonio non celebrò molte messe, per­ ché dopo pochi mesi le autorità religiose lo esentarono. Sui motivi dell’esenzione ancora si dibatte. Le ipotesi

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più accreditate sono due. Prima ipotesi (che coincide con la sua versione dei fatti): che soffrisse di frequenti attac­ chi di asma che gli impedivano di officiare il rito. Secon­ da ipotesi: che semplicemente ciurlasse nel manico, pre­ ferendo dedicarsi alla musica più che alle cose sacre. A conforto della seconda tesi vi sarebbe l’episodio se­ condo cui ‘il Prete Rosso’ (nomignolo dovuto al colore dei capelli; i veneziani hanno ancora oggi la mania di af­ fibbiare nomignoli, anche se la loro specialità sono i di­ minutivi come Cicio e Nane, che sono curiosamente in­ tercambiabili, nel senso che in genere vanno bene per tut­ ti i nomi) abbandonò in fretta e furia l’altare nel bel mez­ zo di una celebrazione. I maligni che non credono all’i­ potesi ‘attacco d’asma’ sostengono che Antonio avesse avuto, invece, l’improvvisa ispirazione di un tema musi­ cale di quelli che spingono a mollare qualsiasi cosa si stia facendo (incluso dire messa) e affrettarsi a trascrivere l’i­ dea sul primo pezzo di carta disponibile, per non dover poi rimpiangere per tutta la vita di non averlo fatto. L’Inquisizione, chiamata a indagare sull’increscioso episodio, mandò assolto Vivaldi ritenendolo (testualmen­ te) ‘musicista, cioè pazzo’. Sollevato dagli obblighi da sacerdote, il giovanotto si ritrovò con molto tempo libero a disposizione. Amava stare in compagnia dei musicanti e degli attori di teatro, con cui faceva lunghe gite in barcone sui fiumi della campagna veneta. Si prodigava anche nell’insegnamento della musica alle fanciulle dell’ospedale della Pietà, un ricovero dove le bambine di famiglia disagiata e le orfa­ ne venivano accolte e educate alla professione di musiciste. Come vedremo, qualche anno più tardi il suo apprez­ zamento per la compagnia femminile gli costò caro, ben­ ché non vi sia alcuna prova che il maestro fosse uso avere 35

quei comportamenti licenziosi cui i più insolenti di voi sicuramente stavano già pensando. Tra una gita fluviale e una lezione di violino scrisse un sacco di musica, sacra e profana, e un centinaio di opere liriche.

A teatro

L’opera lirica, o melodramma o teatro musicale o teatro in musica, era (ed è) ima rappresentazione teatrale in cui al posto degli attori vi sono cantanti, e le scene si svolgo­ no in musica. In pratica si va a teatro e si assiste a una tragedia (opera seria) o a una commedia (opera buffa) messi in scena non da attori ma da cantanti; l’intreccio è lo stesso di un’opera teatrale, ma i protagonisti, anziché recitare, cantano: da soli, in duetti, terzetti, quartetti ecc., spesso anche con un coro, sempre con un adeguato orga­ nico strumentale. L’opera nacque a Firenze nel 1600, quando alcuni in­ tellettuali desiderosi di far rivivere la tragedia greca, non sapendo come questa fosse fatta, decisero che era fatta così. In brevissimo tempo l’opera lirica si assestò su un modello che in seguito, con poche variazioni, è rimasto uguale fino a oggi: scene parlate (o quasi, nel senso che i cantanti declamano il testo cantando su pochissime note, per cui si può dire che un po’ cantano e un po’ re­ citano, da cui il nome recitativo) si alternano a scene di canto vero e proprio (arie). Durante if recitativo si svol­ gono i fatti previsti dalla trama, mentre alle arie sono ri­ servate le oasi liriche, il dispiegarsi del sentimento e del­ le emozioni in relazione a quanto accade sulla scena. Vivaldi, come del resto tutti gli artisti, si beccò la sua 36

dose di critiche e caricature, nonché le critiche contenute in un pamphlet anonimo (per modo di dire: tutti sapevano che l’autore era il musicista Benedetto Marcello) in cui il suo cognome veniva storpiato nell’altamente enigmatico anagramma ‘Aldiviva’. Per molti secoli la storia della musica ha registrato il sorgere di fazioni agguerritissime che si azzuffavano a colpi di pamphlet, pettegolezzi, schiamazzi, fischi, polemiche, arrivando anche alla rissa. Fazioni tra che cosa? Per esempio tra chi apprezzava l’o­ pera italiana e quella francese; tra buffonisti (seguaci del­ l’opera buffa italiana) e antibuffonisti; tra gluckisti e piccinnisti (dal nome di due compositori, Gluck e Piccinni); tra chi amava Verdi e detestava Wagner e viceversa; an­ che oggi, nel mondo musicale ‘classico’, è piuttosto netta la divisione tra chi apprezza la ‘musica contemporanea’ (espressione con cui si intende la musica scritta all’incirca dalla metà degli anni Quaranta del Novecento) e chi la ritiene un bluff o una pagliacciata. I detrattori di Vivaldi lo accusavano di scrivere musica popolare. Bisogna dire che tutte le opere liriche, e non solo quelle di Vivaldi, erano in effetti un genere popola­ re: tutte le classi sociali, dalla nobiltà più supponente al popolino più ‘basso’, accorrevano festose nei teatri, che faticavano a contenere il pubblico e che quindi continua­ vano a sorgere. Venezia ne ebbe a un certo punto ben centocinquanta, ma vi erano moltissimi teatri anche a Napoli, Ferrara, Mantova, Roma e in tutte le più impor­ tanti città italiane e poi europee. Non dovete pensare che quelle rappresentazioni fossero eventi sofisticati e chic: si trattava di baraonde inimmaginabili. Accadeva di tut­ to, per ore e ore, ogni sera: la gente si portava la cena da casa; cospiratori, mercanti e faccendieri si davano conve­ gno nei corridoi; nei palchi si giocava d’azzardo, si amo37

raggiava, si dormiva; gli spettatori cantavano assieme agli artisti che si esibivano in scena, li fischiavano sono­ ramente, si producevano in argute variazioni estempora­ nee sul testo delle arie (quest’ultimo vezzo è durato al­ meno fino all’epoca di Verdi, nell’ottocento; si tramanda per esempio la variazione sull’originale testo verdiano tratto dal Rigoletto ‘se mi punge una qualche beltà’, che diventa, con scrupolosa osservanza della quadratura del verso, * ‘se mi punge una vespa sul cui’). Durante l’esecuzione i musicanti dovevano fermarsi spesso per accordare gli strumenti, i cantanti improvvisa­ vano sull’onda dell’estro costringendo gli strumentisti a seguirli nelle più arzigogolate variazioni, i motivetti più facili diventavano all’istante di dominio pubblico e

* La quadratura del verso è un grattacapo per chi vuole mettere in musica versi poetici, soprattutto nella lingua italiana. Infatti la musica ha un suo andamento ritmico e la poesia un altro: occorre farli incontrare, altrimenti il risultato è traballante. Tanto per dime una, le frasi musicali finiscono di solito con un tempo forte, cioè con una nota accentata (l’equivalente sonoro del punto alla fine di una frase), e richiedono quindi parole altrettanto accentate, cioè parole tronche (città, babà, cucù ecc.). Siccome le parole tronche in italiano sono poche, ne discende che chi scrive testi per opere o canzoni (comprese quelle pop) - se disdegna certi espedienti (pa­ role passepartout, come ‘sì’, aggiunte a fine verso o locuzioni ar­ caiche come ‘amor’) - una volta esaurita la riserva di ‘babà’ e ana­ loghi, deve pescare a piene mani dai verbi al passato remoto (‘can­ tò’) e al futuro (‘sarà’), il che conferisce alle nostre opere/canzoni ima configurazione temporale peculiare. Il legame tra poesia e musica è comunque assai stretto: nell’antichità le due arti erano riunite in una sola (la poesia veniva sempre cantata). L’aspetto musicale della poesia è centrale, e molta musica è costruita su schemi ritmici desunti dalla poesia classica. (N.d.A) 38

il pubblico, come detto, cantava a squarciagola assieme ai cantanti. Se il pubblico non gradiva l’esibizione lo fa­ ceva notare senza mezzi termini, urlando improperi e lanciando sul palco di tutto. Spesso le primedonne litiga­ vano in scena strappandosi parrucche e nèi finti. A volte i teatri prendevano fuoco. Insomma, uno spasso. Popolari o meno, le opere liriche vivaldiane meritano di essere ricordate, se non altro, per gli imperdibili titoli che testimoniano del gusto dell’epoca e fanno ritenere che i preti aspettassero le cerimonie del battesimo come i mo­ menti più divertenti del loro ministero. Ecco ima breve rassegna di nomi di persona, che corrispondono ad altret­ tanti titoli di opere: Griselda, Rosmira,Arsilda, Cunegon­ da, Dorilla, Ipermestra, Alvilda (quasi un altro anagram­ ma), Argippo, Montezuma, Ernelinda, Feraspe, Artabano, l’impagabile Teuzzone e l’algida, regale Tieteberga. Dopotutto, non sorprende che i veneziani avessero la fissa dei diminutivi. Non bisogna però credere che tutte le opere di Vivaldi avessero per titolo un nome astruso: altri titoli erano più articolati, e citeremo qui soltanto Creso tolto alle fiam­ me, L’inganno trionfante in amore e Orlandofìnto pazzo. Gli ultimi due testimoniano dell’amore del pubblico set­ tecentesco per l’inganno e le trame intricate e macchino­ se, in cui non mancavano mai trucchi, sostituzioni di per­ sona, camuffamenti, scambi di sesso, doppifondi, tradi­ menti, voltagabbana, tranelli, trabocchetti e sorprese di tutti i tipi; insomma, una specie di anticipazione della po­ litica italiana di tre secoli dopo (e di allora, probabilmen­ te). Vivaldi stesso non doveva disdegnare simili procedu­ re d’inganno, consone peraltro alla sua città natale, che è labirintica e piena di anfratti, viuzze tortuose, sottopassi oscuri, e dove la gente era stata per secoli costantemente 39

impegnata in traffici, mercanteggiamenti, piraterie, ca­ priole diplomatiche e sotterfugi di alto livello. Difatti, quando l’imperatore d’Austria gli manifestò la sua bene­ volenza, il maestro, per ringraziare l’augusto sovrano, gli fece dono del manoscritto dell’opera La cetra', o almeno, questa era la panzana che gli rifilò, dato che Vivaldi - co­ me gli storici scoprirono molto tempo dopo - non poten­ do disporre all’istante dello spartito, ne abborracciò un altro in poche ore facendo un collage di pezzi tratti da al­ tre sue creazioni e spacciandolo per l’originale. La cosa, peraltro, non era così anomala: in fin dei conti quella era l’epoca dei ‘pasticci’, compilation dei brani d’opera più apprezzati dal pubblico e che venivano messi in scena in una stessa serata, benché provenienti da opere diverse scritte da autori diversi, con il collante di un filo condut­ tore sulla cui consequenzialità logica lasciamo a voi giu­ dicare. Il Prete Rosso scrisse davvero tantissimo. Molti lavori sono andati perduti, anche se per fortuna ogni tanto ne salta fuori qualcuno nuovo in occasione di repulisti di soffitte, fondi di magazzino e archivi parrocchiali (il cu­ rato chiede al sacrestano: «’Scolta, Cicio, dove ti ga messo quela cartela che go trova’ in sofita? Go pensa’ che magari se trata de qualcossa de grosso... » Risponde il sacrestano: « Quela carta vecia, tuta piena de puntini neri? Don Nane la ga usada per scender el camineto »). La più celebre di tutte le sue opere è la serie di concerti nota come Le quattro stagioni: essa esprime in modo in­ comparabile i sentimenti e le emozioni suscitate dalla vi­ ta agreste, zanzare e temporali compresi. Ma il pubblico veneziano era assai volubile: rapida­ mente la moda cambiò, gli impresari teatrali volevano 40

solo opere di autori napoletani, e Vivaldi pensò bene (an­ zi, male) di tentare la sorte altrove, e precisamente a Fer­ rara. Qui però ricevette il secco niet dell’arcivescovo lo­ cale, che era infastidito dai pettegolezzi sulle sue (di Vi­ valdi, non del vescovo) frequentazioni femminili - il Pre­ te Rosso era pur sempre un prete. Anticipando la triste­ mente nota fuga di cervelli italiani all’estero, Antonio se ne andò allora a Vienna (a dire il vero, per un venezia­ no anche Ferrara era all’estero), dall’imperatore Carlo vi d’Asburgo, che era un suo fan: dopo aver incontrato il compositore in occasione di un evento mondano, Carlo ebbe a vantarsi di aver trascorso più tempo con lui che con i suoi ministri nei due anni precedenti. Ma in breve tempo si verificò una serie impressionante di sventure: l’imperatore morì, scoppiò una guerra, la figlia di Carlo fu costretta a fuggire in Ungheria, i viennesi chiusero a tempo indeterminato i loro teatri (tutti: gli austriaci, quando fanno ima cosa, la fanno bene) e il povero Vivaidi - che aveva dato fondo alle sue ricchezze per imbar­ carsi nell’avventura viennese - dovette ridursi a svende­ re, una dopo l’altra, le poche opere che ancora aveva con sé. Finì in tale miseria da non potersi nemmeno permettere. il viaggio di ritorno in terra natia. A distanza di pochi me­ si, nel 1741, seguì l’imperatore nella tomba, nell’indiffe­ renza generale: aveva ormai pochi estimatori, e i suoi con­ temporanei lo consideravano sì un violinista abile ma, tanto per citarne uno (Carlo Goldoni), ‘un mediocre com­ positore’. Tuttavia, molti giganti della musica stranieri ebbero di lui un’opinione ben diversa da quella del suo concittadino Goldoni, e lo considerarono un grandissimo. Solo nel Novecento il suo talento fu valutato nel modo giusto, e ciò si deve anche al tiro mancino giocato dal

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violinista Fritz Kreisler, un personaggio da romanzo col vizio di spacciare per opere di grandi geni del passato pezzi scritti da lui medesimo (badate bene, l’umile Kreis­ ler non attribuiva a sé i pezzi di qualche famoso prede­ cessore, ma il contrario!) Tra questi, ne presentò uno at­ tribuendolo al Prete Rosso; era in realtà una riuscitissima imitazione dello stile del Prete Rosso, ma il solo sentire quel pezzo bastò a catalizzare l’attenzione del mondo musicale su quell’oscuro veneziano finito in miseria. * E da allora, giù tutti a declamare l’uso sapiente delle sue armonie, i chiaroscuri, il gioco dei contrasti, la purez-

* La storia dei falsi in musica è ricca di aneddoti divertenti, ma ce n’è uno che probabilmente li batte tutti. Si tratta del concerto per violino e orchestra K 294a Adelaide comparso misteriosamente nel 1933 grazie al violinista Marius Casadesus, che disse di averlo ela­ borato sulla base di una traccia di Mozart. Molti esperti ci cascaro­ no, e il concerto sarebbe entrato definitivamente nel catalogo delle opere mozartiane se la casa discografica emi non ne avesse realiz­ zato un’incisione: infatti in quell’occasione Formai ottantaquattrenne Casadesus (il cui nome e cognome non sarebbero piaciuti a Mozart, che aveva un’idiosincrasia per la desinenza ‘us’, tanto che a volte si prendeva in giro firmandosi Wolfgangus Amadeus Mozartus) fece causa alla emi perché il suo nome non compariva sul disco, come avrebbe dovuto in quanto autore dell’armonizza­ zione del pezzo. In tribunale il vegliardo, preso dalla foga di difen­ dere la sua posizione, cadde in contraddizione, si confuse e infine, messo alle strette, confessò di essere l’autore non solo dell’armo­ nizzazione e della trascrizione, ma di tutta l’opera. E non è finita: Casadesus spiegò che aveva imbastito tutta la faccenda perché al­ trimenti avrebbe dovuto sconfessare la pletora di musicisti e studio­ si che, in occasione della sua prima esecuzione, unanimemente avevano attribuito la paternità del brano a Mozart. Noi, memori di un celebre scherzo in cui false sculture di Modigliani ripescate da un fiume erano state dichiarate autentiche da schiere di esperti, poi sconfessati dagli autori della burla, gli crediamo. (N.d.Ai)

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za e linearità delle melodie: aspetti che ognuno di noi può apprezzare ancora oggi. Abbiamo appena citato le armonie. Che cosa sono, o meglio che cos’è l’armonia? Chi scrive un contrappunto bada, come abbiamo detto, anzitutto alla linea melodica di ogni singola voce, e solo in un secondo momento si cura che l’incontro tra le singole voci dia un buon effetto all’ascolto. L’attenzione del compositore, però, può esse­ re posta anche in modo prioritario sull’effetto prodotto dai singoli ‘blocchi’ risultanti in un dato momento dalla sovrapposizione delle note; in questo caso l’importante è che una singola voce risalti più delle altre, e che queste, che perdono di autonomia e non sono più individuali, fungano da sostegno, da accompagnamento, da ‘sfondo’. L’armonia è la disciplina che studia gli accordi e le loro concatenazioni. C’è un certo grado di sovrapposizione tra il dominio del contrappunto e quello dell’armonia, ma quest’ultima si è sviluppata, a un certo punto, come un filone autonomo. Anche l’armonia, come il contrap­ punto, è soprattutto una questione di regole e vincoli da rispettare: ma per vostra fortuna qui non ce ne occu­ peremo, perché abbiamo cose più divertenti da proporvi.

Imitazione & C. Per godere pienamente delle invenzioni vivaldiane con­ viene familiarizzarsi con il concetto di imitazione. L’imitazione è un procedimento usato dai compositori, anzi forse è il procedimento fondamentale e più usato in assoluto. In poche parole si tratta di questo: prendete un fram­ mento musicale, anche piccolissimo, e dopo averlo fatto 43

sentire una volta fatelo sentire altre volte, non però sem­ plicemente ripetendolo, ma avendo l’accortezza di suo­ nare (o cantare) qualche cosa che gli assomigli senza es­ serne la copia fedele. Ecco tutto. Si possono imitare le note, la distanza tra una nota e l’altra, il ritmo, l’andamento melodico generale, e molti altri parametri: l’importante è far sentire più volte qual­ cosa che ricordi (nella struttura) lo spunto iniziale. Que­ sto assicura una certa regolarità pur nella varietà. L’equilibrio tra regolarità e varietà è il perno centrale della musica, perché essa, a differenza per esempio della pittura, scorre nel tempo, e quindi per essere apprezzata è necessario che la mente connetta ciò che sente in un dato istante con quello che ha sentito sino a quel momento. La musica quindi ha a che fare anche con la memoria. Se ascoltassimo sequenze di note che non hanno alcuna somiglianza con alcunché, non le considereremmo ‘mu­ sicali’, ma casuali. Il caso, in qualche modo, è nemico della musica; o meglio, la musica imbriglia il caso, o se preferite il caos, conferendogli una certa riconoscibili­ tà, permettendo alla mente di attribuirvi un certo signifi­ cato, o senso. Il cervello, per sue ragioni cui accennava­ mo e che hanno a che fare con la giungla e la lotta per la sopravvivenza, preferisce il senso al non senso, e l’ordine al caos; ‘preferisce’ significa che, quando è in presenza di ordine e di senso, produce scariche di piacere, pre­ miando in questo modo la persona e motivandola quindi a ricercare altre situazioni analoghe. La musica è bella anche perché attiva meccanismi primordiali di ricompen­ sa e gratificazione, ottenuti sollecitando i nostri sistemi neurali di riconoscimento delle strutture (acustiche, in questo caso) significative.

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Tutto questo discorso l’abbiamo fatto partendo dall’imi­ tazione. Vivaldi era uri autentico fenomeno quando si trattava di riprendere gli spunti enunciati e costruire con questi entusiasmanti escalation di tensione drammatica (sfrut­ tando artifici detti ‘progressioni’), o di dare vita a mecca­ nismi ‘rotanti’ in cui un’idea melodica viene ripresentata sempre uguale ma sempre nuova, come in una sfera so­ nora che lentamente gira su se stessa. Un’altra caratteristica di Vivaldi era la sapienza nell’altemare il clima creato dal pezzo: a una sfuriata tem­ poralesca seguiva un’oasi paradisiaca, a uno strumento solista che canta malinconicamente seguiva il ‘tutti’ maestoso e solenne dell’intero ensemble strumentale, a una frase di femminea eleganza e sensualità ne seguiva una dal virile carattere tranchant. Lasciatevi trasportare dalle sue linee melodiche: presto sentirete il dolce accen­ to di ragazze veneziane che chiacchierano nei campielli, il canto degli uccelli palustri o lo sciabordio delle onde contro la gondola che vi sta cullando nei rii della città più bella del mondo... D’accordo, torniamo con i piedi per terra. Dicevamo che, quando un frammento viene ripetuto rimanendo identico, non si tratta propriamente di un’imi­ tazione: ma è ugualmente qualcosa di interessante. Pren­ dete l’inizio di Fra’ Martino campanaro', iniziate a can­ tarlo, e fate in modo che, quando siete alle parole ‘dormi tu’, un vostro amico (riconoscerete che si tratta di un vero amico proprio dal fatto che accondiscenderà a tale vostra richiesta) attacchi col suo ‘Fra’ Martino’, proprio mentre voi attaccate la sillaba ‘dor-’ di ‘dormi’. Da lì in poi ognuno può proseguire per conto suo, e sentirete che per magia le voci si incastreranno alla perfezione, senza

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produrre dissonanze fastidiose. E non è finita: se un se­ condo amico vuole partecipare, può inserirsi sul ‘dor-’ del secondo cantante, e di nuovo la cosa procederà senza produrre dissonanze, e lo stesso accadrà perfino se un ter­ zo amico prenderà parte al gioco inserendosi sul ‘dor-’ del secondo! (Se per caso non dovesse funzionare, conso­ latevi: almeno siete certi di avere tre amici che vi voglio­ no bene.) Quello che avete appena eseguito si chiama canone. Il canone è un procedimento basato sull’imitazione, in cui le imitazioni successive (che possono essere mere ri­ petizioni, come nel nostro caso, ma di solito sono qualco­ sa di più complesso) si sovrappongono man mano che le varie voci fanno il loro ingresso. Non tutti i frammenti musicali si prestano a questo procedimento, anzi in realtà quelli che lo permettono sono pochissimi, ed è molto dif­ ficile trovarli. Ecco perché alcuni ci arrivano dall’anti­ chità più remota: sono così ben congegnati che sono so­ pravvissuti resistendo all’usura del tempo. Prendiamo ora le note corrispondenti alla melodia ini­ ziale di Fra ’ Martino campanaro'. Do

Re

Mi

Fra’Mar- ti-

Do

Do

Re

Mi

no cam- pa- na-

Do

Mi

Fa

ro dor- mi

Fa

Sol

tu? Dor- mi

tu?

Sol

Mi

Ebbene, non crediate che i musicisti si siano limitati a combinare i loro giochi acustici semplicemente prenden­ do certe sequenze di suoni e riproponendole qua e là così come stavano: sono andati alla ricerca di altre modalità di combinazione e, seguendo speculazioni persino alchemico-cabalistiche che affondano le loro radici nei tempi più remoti, hanno escogitato altre curiose procedure, al­ cune delle quali vi spiegheremo ora. 46

Prendiamo le prime tre note del solito tema: Do Re Mi

e immaginiamo di lavorare solo su questo materiale po­ verissimo. Ne possiamo ottenere il retrogrado (detto anche ‘cancrizzante’, con riferimento al granchio, che cammina all’indietro):

Mi Re Do V inverso (ottenuto capovolgendo gli intervalli, cioè se un intervallo è ascendente diventa discendente e viceversa): Do Si La

e il retrogrado inverso: La Si Do Si può agire anche sulla durata delle singole note, per esempio duplicandola, triplicandola, dimezzandola ecc. Naturalmente, occorre che i risultati di queste trasforma­ zioni siano compatibili con un’accettabile (cioè preva­ lentemente consonante) esecuzione simultanea dei vari pezzettini ottenuti: questo dipende anche da quanto dura­ no le singole note e da dove si fanno iniziare i singoli pezzettini rispetto ai precedenti. Insomma, come potete immaginare, c’è da farsi venire un bel mal di testa. Ma la cosa peggiore è che questo lavoro, che qui avete visto fare per tre sole note, veniva fatto partendo da pezzi molto più lunghi, complessi, con ritmi tutt’altro che ele-

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mentali, e a beneficio di molte voci. I più abili in questi rompicapo acustici erano i fiamminghi: arrivarono a scri­ vere canoni per trentasei voci! È ovvio che in tali guaz­

zabugli nessuno riusciva a capire il testo di ciò che veni­ va cantato, e fu anche per questo motivo che la Chiesa cattolica iniziò a disciplinare la materia ordinando ai compositori di fare in modo che i fedeli capissero il testo, e soprattutto non dessero di matto nel tentativo di distri­ care la sempre più ingarbugliata matassa di voci. Come effetto di queste disposizioni ecclesiastiche, nel Cinquecento e nel Seicento si ebbe la fioritura di opere polifoniche (cioè per coro, in cui le diverse voci - sopra­ ni, contralti, tenori e bassi - cantavano ciascuna una li­ nea melodica diversa) di purezza ed equilibrio insuperati. Tra queste merita ricordare quelle di Pierluigi da Pale­ strina. Un’innovazione cruciale fu quella introdotta in alcune chiese italiane, particolarmente nella basilica di San Mar­ co a Venezia, dove esistevano due zone riservate al coro, e quindi due cori (nonché due organi). Si tratta della pra­ tica dei ‘cori battenti’, due cori che interagivano, direm­ mo oggi, in stereofonia, creando curiosi effetti di va e vieni, di eco, di suono avvolgente, e sviluppando sempre più l’idea di un dialogo tra varie parti: per esempio un co­ ro poneva una domanda e l’altro rispondeva; un coro ri­ maneva in sospeso su una pausa gravida di attesa e l’altro scioglieva la tensione. Questa dinamica di domanda-ri­ sposta, o di dialogo, nata a Venezia nel Rinascimento, in­ fluenzò niente meno che l’intera produzione musicale eu­ ropea successiva, fino ai giorni nostri. Vedremo come. Ora ritorniamo per un momento ai cori polifonici rina­ scimentali, i quali comprendevano voci maschili e fem­ minili: nulla di strano, se non fosse per il fatto che alle 48

donne era proibito entrare a far parte dei cori. * Come ri­ solsero il problema quei galantuomini? Ricorrendo a due pensate geniali, una indolore (l’impiego, al posto delle donne, dei pueri cantores, ossia i bambini, dato che la voce prepubere ha un’estensione simile a quella delle vo­ ci femminili), l’altra leggermente più fastidiosa: la ca­ strazione. E non stiamo scherzando. Si sapeva dall’anti­ chità che l’escissione dei testicoli (pratica necessaria per­ ché i proprietari di harem potessero contare su custodi di­

sinteressati) effettuata entro una certa età permetteva di ottenere una voce dall’estensione amplissima e dal tim­ bro smagliante ma dotata al tempo stesso di una potenza simile a quella che solo un torace e un diaframma di un uomo adulto possono offrire. Gli eunuchi, o evirati o ca­ strati che dir si voglia, erano quindi dei cantanti senza pa­ ri. La pratica della castrazione era passibile di scomuni­ ca, ma di fatto non veniva scoraggiata del tutto da parte delle autorità ecclesiastiche. Infatti, che ci crediate o me­ no, la castrazione rimase in atto fino al Novecento: fu abolita dal papa Pio x, in seguito fatto santo, pare, anche

* La proibizione del coro in chiesa alle donne era ancora in au­ ge nel 1834, quando l’arcivescovo di Parigi impedi l’esecuzione di un Requiem scritto dall’italiano Luigi Cherubini, perché esso pre­ vedeva anche voci femminili. Cherubini era un tipo accomodante, e aggirò l’ostacolo scrivendo un altro Requiem, questa volta senza donne, e pensato per i suoi stessi funerali. Se vi sembra strano che simili proibizioni discriminanti siano perdurate fino all’ottocento, vi ricordiamo sommessamente che il diritto di voto alle donne fu garantito, in Italia, solo nel 1946 e, se è per questo, in Svizzera so­ lo nel 1971 (ma questo non è tanto strano, se si pensa che la Co­ stituzione elvetica ha sancito la parità tra uomini e donne nel 1981). (N.d.A) 49

per aver dato un taglio netto (sic) alla questione, e che f^ benvoluto da tutte le generazioni successive di seminari^ sti, cui aveva risollevato il morale (sic). Non ci stupiremo mo di scoprire che, fino all’avvento del buon Pio, schiera di giovani avviati al sacerdozio fingessero di essere tern-, bilmente stonati («Mi scusi, maestro direttore, ma soiiq proprio negato per il canto»), con il non disprezzabile proposito di evitare di ricevere di soppiatto una rasoiata nel sonno. * Peraltro i castrati, fin dalla nascita dell’opera lirica (cioè dall’anno 1600 tondo tondo: almeno una data facile da ricordare), furono i primi divi della storia moderna: ammirati, ricercati, coccolati, corteggiati, viziati, strapa­ gati, giravano il mondo esibendo le loro voci meraviglio­ se, suscitando leggende, concedendosi tutti i vezzi e le megalomanie tipiche delle star e comportandosi in modi

* In realtà, la procedura non si era sempre basata sull’uso di ferri chirurgici, ma all’inizio (almeno stando a quanto ci ha raccon­ tato anni fa un vecchio maestro di musica, che speriamo si sba­ gliasse) era stata ben peggiore. Invitiamo il lettore debole di stoma­ co a evitare di proseguire nella lettura della presente nota, in cui stiamo per spiegare come avveniva l’intervento di castrazione. Se state ancora leggendo, vuol dire che avete il pelo sullo stomaco; speriamo non abbiate sul medesimo anche il pranzo (questo era l’ultimo avviso). Orbene, pare che uno dei modi in cui avveniva la castrazione fosse questo: in una stanza sufficientemente calda (tra poco capirete il perché) il candidato sedeva candidamente (da cui il nome) su una sedia munita di foro collocato in corrispon­ denza... be’, avete capito; un figuro dalla mano ferma, apposita­ mente pagato (chissà che cosa scriveva alla voce ‘professione’ sul­ la carta d’identità), si assicurava che gli ‘organi’ si affacciassero dal foro (ecco il perché della temperatura della stanza), e poi con due pietre provvedeva a schiacciarli in un colpo solo. (N.d.A) 50

bizzosi e dispettosi - ammetterete che avevano buone ra­ gioni per farlo, in fondo in fondo (sic). Perdonate l’inciso (sic). Eravamo partiti dall’imitazio­ ne, e ora vi ritorniamo. La musica di Vivaldi si basa molto sull’imitazione: for­ se troppo, tanto che alcuni critici continuano a mettere in giro la voce che le sue opere siano troppo ‘facili’. In realtà sono così belle che si imparano al primo ascolto, e infatti sono conosciute in tutto il mondo e sono state replicate in­ finite volte in infiniti contesti, dalle colonne sonore dei film alle musichette delle segreterie telefoniche: potrem­ mo dire che non sono troppo facili, ma troppo belle. La loro bellezza folgorante deriva dal fatto che hanno una struttura naturale: nel senso che rispecchia la natura, cioè le proprietà neurofisiologiche del cervello umano, il quale apprezza la ripetizione e l’imitazione perché ama riconoscere qualcosa, ma al tempo stesso apprezza anche la novità e il cambiamento, perché ama anche l’ignoto e l’esplorazione, ama conoscere. Una giusta alternanza tra conoscere e riconoscere è una delle basi fisiologiche del piacere estetico. Vivaldi scrive opere dotate di un ecce­ zionale equilibrio di noto e ignoto, di temi già ascoltati prima e di loro varianti, di simmetrie perfette ma percor­ se da continue, leggere mutazioni.

Fu anche un grande innovatore, e le maggiori novità fu­ rono quelle da lui introdotte nel concerto. La parola concerto non connota solo l’evento cui ci si reca per ascoltare musica, ma è anche il nome di una pre­ cisa forma musicale, che consiste essenzialmente nell’al­ ternanza tra parti suonate da uno strumento solista (o da un gruppo di pochissimi strumenti) e parti suonate dal re­ stante gruppo di strumenti. Per esempio, il violino suona 51

un po’, poi tace e lascia che l’orchestra suoni un po’, p^ il violino riprende a suonare (magari accompagnato i^ sottofondo da qualche tocco di alcuni strumenti dell’oc chestra), poi è ancora la volta dell’orchestra e così vi^ Anche questa struttura deriva dai ‘cori battenti’ della ba, silica di San Marco a Venezia. Lo schema del contrasto ‘solo ->), * diventa la leva cui poggiare la ricerca dell’infinito che si realizza infine nel superamento dell’ego e nell’abbraccio rivolto agli al­ tri, come dicono le parole teWInno alla gioia di Frie­ drich Schiller messe in musica nella Nona Sinfonia, nel brano che oggi è divenuto l’inno europeo.

Piaudite amici

Negli ultimi anni Ludwig soffrì sempre più spesso di di­ sturbi addominali, che a un certo punto un amico medico

* A qualcuno forse potrà interessare sapere che questo celeber­ rimo incipit costituì la sigla di apertura delle trasmissioni che Ra­ dio Londra destinava ai partigiani delle nazioni occupate dai nazi­ sti durante la Seconda guerra mondiale. Il tema del ‘destino che bussa alla porta’ fu scelto dagli Alleati perché il ritmo (ta-ta-ta taaa) corrispondeva, nel linguaggio Morse, a tre punti e una linea, ossia la lettera V: vittoria. 143

dall’azzeccato nome di Malfatti pensò di curare con un rimedio schizoide: bevande ghiacciate a base di alcol. Il fegato cominciò a dare segni di malfunzionamentoRecentemente alcuni scienziati hanno esaminato i capelli di Beethoven, trovandovi tracce di piombo; è noto che amava usare coppe di cristallo (che all’epoca erano rea­ lizzate con elevate percentuali di piombo), e che per di più addolciva il vino aggiungendovi un sale di piombo. Pare che alcuni dei suoi sbalzi d’umore siano compatibili con il saturnismo, l’intossicazione cronica da piombo. Fatto sta che a un certo punto i disturbi digestivi aumen­ tarono, il colorito della pelle già sui generis divenne ver­ dognolo, e iniziò a stare male seriamente. Una sera, di ritorno a Vienna dalla campagna, Ludwig chiese un passaggio a un carro scoperto, su cui viaggiò sotto una pioggia gelida stipato tra i bidoni del latte; per­ nottò in una taverna priva di riscaldamento, in una stanza dalle finestre simpaticamente senza vetri (era dicembre); infine, il mattino dopo, si rimise in viaggio sul carretto del latte, con indosso gli stessi vestiti fradici. Non ci do­ vrebbe sorprendere il fatto che si beccò una polmonite, e dopo qualche settimana, congedatosi dal mondo con le parole «Piaudite, amici: comoediafinita est», mentre in­ furiava una tempesta, rese l’anima a Dio. Lasciò una serie di appunti e schizzi di opere scorren­ do i quali si può intravedere quali altre portentose inno­ vazioni avrebbe regalato al pensiero umano. Se Bach aveva portato alla perfezione tutti i generi in cui si era cimentato, e se Mozart aveva innovato tutti i generi che aveva toccato (e li aveva toccati tutti), Beethoven aveva deliberatamente impresso ima svolta innovativa, spesso introducendo elementi in opposizione a quelli pre­ cedenti, allo scopo di rendere nota a tutti la sua visione

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del mondo. Dopo di lui la musica, il suo ruolo, il ruolo del musicista e quello dell’artista non sarebbero mai più stati gli stessi. E la sua eredità sarebbe stata subito raccolta dai romantici, ad alcuni dei quali è dedicato il prossimo capitolo.

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6 Dove i romantici ci ragguagliano

su qualche altro genere di musica

Paganini

Uno dei pezzi più famosi per violino fu scritto da Giusep­ pe Tartini (1692-1770) dopo che gli era apparso il demo­ nio (in sogno, beninteso) intento a cavare dallo strumento una serie mirabile di passaggi, che al risveglio il maestro mise su carta realizzando cosi II trillo del diavolo. Un precedente illustre nella storia dei rapporti tra il demonio e il violino, rappòrti che raggiunsero il loro apice con Niccolò Paganini, nato a Genova nel 1782. Poco prima della nascita la madre aveva sognato un angelo, il quale le aveva promesso che avrebbe esaudito ogni suo deside­ rio: e la brava donna, nonostante fosse genovese, non do­ mandò un conto in banca inestinguibile, ma si limitò a chiedere che il figlio diventasse il più grande violinista di tutti i tempi. All’età di sei anni Niccolò si ammalò di morbillo e morì. Anzi, no: perché durante la messa funebre qualcu­ no si accorse che da sotto il sudario si stava muovendo qualcosa, e il piccolo scampò a una sorte degna di un rac­ conto di Edgar Allan Poe. Come Mozart e come Beethoven, anche Niccolò aveva un padre esigente in fatto di educazione musicale: arrivò a chiuderlo a chiave in camera anche per dodici ore con­ 146

secutive, perché studiasse. E poiché in camera non c’era­ no televisione né pc, e nemmeno imo straccio di cellula­ re, ma solo un violino e un archetto, il ragazzino non potè fare altro che esercitarsi. Divenne presto abilissimo. Du­ rante una messa in cui suonava assieme ad altri strumen­ tisti, all’improvviso al posto delle melodie previste i fe­ deli udirono il ragliare di un asino, poi lo starnazzare di una gallina, il miagolio di un gatto, l’abbaiare di un ca­ ne... Tutto questo proveniva dal violino dell’adolescente, che con aria beffarda traeva dal suo strumento una serie di imitazioni perfette dei versi degli animali! Resosi autonomo dal padre, recuperò in fretta il tempo perduto durante l’adolescenza, gettandosi a capofitto in una serie interminabile di avventure galanti. Era brutto, pallido ed emaciato, aveva un fisico spettrale che volon­ tariamente rendeva abnorme vestendo di nero e tenendo i capelli lunghi sulle spalle: ciononostante era ammirato dalle donne più belle dell’epoca, che lo adoravano. Amava circondarsi di una fauna di parassiti, perditem­ po e giocatori d’azzardo. Anch’egli dissipava somme enormi nel gioco, e fondò un casinò dove i clienti pote­ vano giocare e ascoltare musica, ma andò in fallimento. Si diede a fare tournée solo dopo i quarant’anni, per­ ché prima considerava più importante sollazzarsi che viaggiare per mantenere quella fama che lo precedeva ovunque arrivasse. Le cronache del tempo ci raccontano i suoi concerti. Entrava in scena vestito completamente di nero, il volto cadaverico, gli occhi protetti da un paio di occhiali dalle lenti blu, i lunghi capelli spettinati, l’atteggiamento sbi­ lenco, le braccia lunghissime; iniziava a suonare con mo­ vimenti legnosi da marionetta. Eseguiva passaggi tal­ mente difficili da essere rimasti impraticabili fino a pochi 147

decenni fa, a velocità strabilianti e ‘impossibili’, e sem­ pre con un’intonazione perfetta. Il bello è che per princi­ pio suonava un violino scordato! Riusciva a suonare una melodia con due dita, mentre con le altre tre pizzicava un accompagnamento; a volte pareva che a suonare fossero tre persone. Spesso durante il concerto una corda del vio­ lino si spezzava e schizzava via come ima frusta, feren­ dolo al volto; imperterrito e sanguinante, continuava a suonare con le altre tre. Ma ecco che un’altra corda sal­ tava, e allora lui continuava con le due rimanenti. Infine, anche una terza corda saltava: e il virtuoso finiva il con­ certo con l’unica corda rimasta. Le sue improvvisazioni erano memorabili. Se i concerti ricevevano critiche nega­ tive, quadruplicava il prezzo dei biglietti e la gente accor­ reva lo stesso a riempire il teatro. Alcuni medici ebbero modo di osservare le sue mani, e ne diedero descrizioni piuttosto impressionanti: pare che le falangi distali delle sue dita potessero spostarsi lateral­ mente, che riuscisse a toccare con le dita della sinistra l’avambraccio sinistro, che potesse piegare all’indietro il pollice fino a toccare il mignolo, che i movimenti della mano sembrassero quelli di un arto privo di ossa o di un fazzoletto appeso all’estremità di un bastone, che la ma­ no sinistra fosse addirittura più lunga della destra... la co­ sa più probabile è che gli effetti prodigiosi che cavava dal suo strumento fossero resi possibili anche grazie a un continuo esercizio, che a quanto risulta arrivava a sette ore al giorno. (Che cosa volete che fossero, rispetto alle dodici imposte dal paparino?) Consapevole che la sua fama era accresciuta dall’aura di mistero che aleggiava attorno al suo personaggio, ne coltivava gli aspetti più tenebrosi. Evitava di esibirsi in presenza di colleghi che avrebbero potuto carpirne le tec148

niche segrete, e per lo stesso motivo rifiutava di concede­ re bis (è questa la ragione del famoso ‘Paganini non ripe­ te’ che, pronunciato una volta in faccia al re Carlo Felice, gli costò la revoca del contratto e la sospensione delle re­ pliche dello spettacolo); scompariva improvvisamente dalle scene per lunghi periodi; mise in giro (o quanto me­ no non smentì) la voce secondo cui aveva codificato un metodo prodigioso per imparare a suonare come lui in una sola notte; sicuramente queste voci sinistre e sulfuree non contribuirono a rasserenare i rapporti con la Chiesa, che già erano tesi a causa dei suoi comportamenti disso­ luti e licenziosi. A un certo punto iniziò a soffrire di parecchie maga­ gne, che alimentava con una buona dose di ipocondria: era fissato soprattutto con la funzionalità del suo intesti­ no. Prendeva due volte al giorno cinque cucchiaiate di un certo purgante, nella sua formulazione più forte, il ‘grado Quarto’. Tale medicinale, l’elisir di Mr. Le Roy, veniva così pubblicizzato: ‘Il salasso è una pratica abominevole. L’uso delle sanguisughe è la più pericolosa di tutte le in­ venzioni umane. Il mercurio è uno dei nemici peggiori della razza umana. Il chinino è la causa di un numero in­ finito di disturbi, quasi tutti senza rimedio. La dieta è contro natura. C’è solo una medicina efficace: la purga. Essa sgombra, rimuove, purifica, rarefò, espelle, pulisce, lava, elimina il materiale che irrita e fa peggiorare la sa­ lute’. Aveva i denti traballanti, e quando doveva mangiare li legava con uno spago. A un certo punto gli furono tolti tutti i denti inferiori. Molti dei disturbi che lo afflissero furono sicuramente provocati dalle terapie mediche; al­ cune erano inoffensive (andare a cavallo, rimedio pre­ scritto per alleviare la stitichezza), altre disgustose (ap­ 149

plicazioni di sanguisughe), ma di certo devastanti furono quelle a base di mercurio, usato allora contro la sifilide, una malattia venerea nota in Italia come ‘morbo celtico’ e in Francia (la patria dei Celti di Asterix) come ‘morbo italico’ (se è per questo, in Russia l’insalata russa è chia­ mata insalata italiana). Alla fine della sua vita Paganini divenne afono e come Beethoven, anche se per altri motivi, fu costretto a comu­ nicare per iscritto con gli altri esseri umani. Quando morì, nel 1840, la Chiesa proibì che fosse se­ polto in terra consacrata. Il suo corpo fu dunque imbalsa­ mato, disposto in una bara coperta con una lastra di vetro, e portato in giro per essere esibito a pagamento. Dopo mesi di questo macabro tour, il feretro approdò in un mercato del pesce, dove i curiosi sfilavano per dargli un’occhiata mentre passeggiavano tra spigole e capesante. I pescatori locali iniziarono a raccontare di strani suo­ ni e di figure demoniache che di notte svolazzavano at­ torno alla bara, che perciò fu sepolta di gran carriera in terra sconsacrata. Solo dopo più di trent’anni trovò riposo in un vero cimitero, a Parma. Paganini fu il primo artista a imporsi all’attenzione del grande pubblico in un modo che oggi potremmo definire ‘industrial-spettacolare’: dava molta importanza alla pub­ blicità nelle sue varie forme e, come si dice, curava l’immagine (mettendone in risalto gli aspetti più cupi, rivelan­ dosi anche in questo un precursore). Ciò non deve far pas­ sare in secondo piano le sue doti di compositore, che non furono affatto trascurabili: molte sue opere (non solo per violino: fu un virtuoso anche della chitarra) risultano, ol-, tre che tecnicamente inarrivabili, esteticamente assai pre­ gevoli, e non mancano di appassionare anche il pubblico più smaliziato. Molti lettori avranno sentito qualche volta

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il motivo della Campanella, che è il tema di un rondò. Il

rondò consiste in un tema che toma a ripresentarsi sem­ pre uguale o con minime variazioni, ma tra una presenta­ zione e l’altra si avvicendano episodi sempre diversi. Ma dal punto di vista della storia della musica classica, abbiamo voluto inserirlo qui perché con il suo atteggia­ mento, le sue strategie di marketing, l’importanza che diede al ‘personaggio’, stabili definitivamente ciò che Beethoven per primo aveva cercato di dire a tutto il mon­ do, e cioè che l’artista — quando è tale — merita di essere collocato, al pari dello scienziato, dell’inventore, del pro­ feta, dell’uomo politico, in una sorta di luogo ‘sopraele­ vato’: non tanto per ricevere l’applauso della folla ado­ rante, quanto perché, studiando e impegnando la propria intelligenza, è capace di indicare i nuovi sentieri del pen­ siero e della cultura, quelli da imboccare per proseguire il cammino dell’umanità verso traguardi sempre più ardui di umanizzazione.

Gli eredi di Niccolò decisero di regalare (regalare!) l’in­ tera opera di Paganini allo Stato italiano. Accettò, lo Stato italiano? Naturalmente no: con infal­ libile miopia e tipica supponenza, preferì creare ostacoli burocratici, trascinare le cose, rimpallarle, affossarle, di­

sperderle tra mille uffici, suscitare conflitti di competen­ ze, seguendo la radicata abitudine a svilire è disprezzare tutto ciò di cui qualunque altra nazione andrebbe fiera e di cui si farebbe un vanto, oltre che una risorsa economica. A proposito: in nessun’altra nazione al mondo si trova­ no così tante opere d’arte come in Italia. E dove sono te­ nute, molte di queste? Nei musei? Quasi: negli scantinati dei musei, delle fondazioni, degli archivi, delle bibliote­ 151

che, delle ville e dei palazzi gestiti da qualche ente pub­ blico. Un altro vizio italiano è quello di parlar male dell’Ita­ lia: siccome non vogliamo indulgere in questo cattivo co­ stume, precisiamo che la storia(ccia) dell’eredità paganiniana non andò proprio così. In realtà, quando nel 1908 si trattò di acquistare l’intera collezione dei manoscritti ine­ diti del violinista, non è vero che lo Stato si disinteressò completamente della cosa: diciamo che per accettare di assumerne la gestione si prese i suoi tempi. E vero che in Germania sarebbero stati più efficienti, ma da noi sa­ rebbe stato impossibile chiudere la vicenda in pochi me­ si: fu chiusa, infatti, nel 1971. Sessantatré anni non sono neanche tanti, per la nostra burocrazia.

Liszt Franz Liszt (1811-1886) è considerato da molti l’equiva­ lente per il pianoforte di quello che fu Paganini per il vio­ lino. Suo padre era un maggiordomo a servizio del prin­ cipe Esterhàzy in una magione sperduta nella sonnolenta provincia ungherese, ma sognava un avvenire più ecci­ tante. Essendo il figlio un valido musicista, lo spinse a dedicarsi all’arte dei suoni. Le speranze non erano molte, perché il bambino era malaticcio, fragile e veniva spesso colto da convulsioni febbrili; rischiò la morte dopo una vaccinazione antivaiolo, poi si riprese e manifestò un’e­ vidente inclinazione per la musica, arrivando a suonare benissimo il pianoforte a cinque anni, a improvvisare a otto e a comporre il primo pezzo a dieci e la prima opera a dodici, quando la sua fama di pianista virtuoso si era già diffusa in tutta Europa. Rimasto orfano del padre

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quattro anni dopo, dovette mantenere la famiglia, e que­ sto lo spinse a una frenetica attività concertistica. Studia­ va moltissime ore al giorno, e girava continuamente dan­ do concerti che mandavano in visibilio le folle. Durante uno di questi, tenuto a Parigi quando aveva ventiquattro anni, accadde un piccolo dramma, descritto da un testi­ mone con queste parole:

Quando iniziò il motivo finale, vidi che il viso di Liszt assumeva un’ espressione angosciata mescolata a sorri­ si radiosi, qualcosa che non avevo mai visto su nessu­ na faccia umana se non nei quadri del nostro Salvatore dipinti da alcuni degli antichi maestri. Il pavimento su cui io poggiavo vibrò come un filo metallico e tutto il pubblico era avvolto nei suoni, quando la mano e il corpo dell’artista caddero. Svenne tra le braccia di un amico che gli girava le pagine e lo portammo via in preda a un attacco isterico. L’effetto della scena era davvero spaventoso. Tutta la sala rimase senza fia­ to, terrorizzata, finché Hiller venne fuori a dire che Liszt si era già ripreso [...]. Mentre scortavo Madame de Circcoutt alla sua carrozza tremavamo tutti e due e io non tremo certo meno scrivendone ora. Ci fu chi disse che si trattava di una crisi epilettica, chi di sovraffaticamento, chi sostenne invece che era ‘tutta sce­ na’ per attirare più pubblico. La verità non è nota, ma è interessante osservare che in quel periodo iniziava ad af­ fermarsi la figura del virtuoso allo strumento, a fianco di quella, già esistente da molto tempo, del virtuoso con la voce, e che l’idea di un ricorso a espedienti come quelli ricordati nel paragrafo dedicato a Paganini può non esse­ re del tutto peregrina. Liszt inventò il recital, un concerto

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dedicato a un solo strumento. Fu anche il primo a esegui­ re un intero programma a memoria. Pose le basi del pia­ nismo moderno, scrivendo studi di difficoltà eccezionale. La sua produzione pianistica è sterminata. Liszt aveva un temperamento complesso nel quale convivevano sensualità e misticismo. Fu sempre sensibi­ le al fascino della spiritualità cristiana, oltre che a quello femminile, e cercò di mantenere assieme queste due pas­ sioni — cosa non facile, come tutti possono capire. Ebbe due figlie, attraversò periodi di esaltazione mistica e altri di depressione, tormentato dai sensi di colpa. A una certa età ricevette gli ordini minori per diventare abate. Aveva un aspetto piuttosto imponente (era alto un metro e ottan­ ta, cosa molto rara a quel tempo), teneva i capelli lunghi, e quando si esibiva al piano riusciva a trascinare l’udito­ rio in un gorgo di emozioni che, a detta dei fortunati ascoltatori, non aveva pari. Come compositore fu molto innovativo e audace. Scrisse dodici poemi sinfonici, opere orchestrali ispirate a un copione narrativo, che cercano di tradurre in musica. Ne parliamo perché ci offrono la possibilità di accen­ nare a qualche altro nome tecnico che i non iniziati pos­ sono avere l’occasione di sentire, ma che suona misterio­ so: nomi come follia, ciaccona, rapsodia, musica a pro­ gramma ecc. Stiamo parlando di forme e generi musicali. Distinguere la nozione di forma (che abbiamo definito prima) da quella di genere è impresa ardua: molte volte le due entità si sovrappongono e i confini sono labili. Procediamo quindi semplicemente a fornire qualche in­ formazione su alcuni di questi termini bislacchi. Abbiamo già accennato a madrigali e mottetti a propo­ sito di Gesualdo da Venosa, a canoni, fughe, suite e Con­ certi a proposito di Vivaldi e Bach, a sinfonie e variazioni 154

a proposito di Mozart e Beethoven. A proposito delle va­ riazioni, vale la pena citare quelle costruite su uno sche­ ma che si ripete sempre uguale dall’inizio alla fine del brano, e che viene affidato al basso (cioè è costituito dalle note più basse del pezzo); ne esistono vari tipi: la ciacco­ na, la passacaglia (ne abbiamo accennato a proposito di Bach e del suo orologio cosmico), la follia, il ground. La bravura del compositore sta nell’inventare sempre nuove figurazioni ogni volta che il frammento del basso si ripre­ senta (e che per questa insistenza prende il nome di ‘basso ostinato’). Un’altra dote che contraddistingue i composi­ tori eccelsi è quella di ‘mascherare’ lo schema ripetitivo, in modo che all’ascolto quasi ‘scompaia’. Un esempio di questa arte è il Lamento di Didone dall’opera Didone ed Enea dell’inglese Henry Purcell: un ground che ancora oggi, a dispetto della sua veneranda età (fu composto mezzo millennio fa), mette i brividi per la bravura nel rendere la descrizione psicologica dell’animo femminile straziato dal dolore per la perdita. Venendo ad altri generi, non serve molto acume per capire che la danza è un genere pensato, almeno inizial­ mente, per far ballare la gente, e non serve spiegare che la messa appartiene alla musica sacra, così come la pas­ sione (dove il coro e cantanti solisti interpretano brani tratti dalle Sacre Scritture). Di carattere religioso sono anche l’oratorio (una rap­ presentazione drammatico-musicale ma senza messa in scena, né costumi o azione teatrale) e il corale (il canto monodico o polifonico della liturgia cattolica e prote­ stante), così come la cantata sacra (composizione a una o più voci con accompagnamento strumentale su te­ sti sacri) e la cantata profana (la stessa cosa, ma su testi profani).

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A proposito di canto, , il Lied (plurale Lieder) è una composizione per voce solista, sulla quale tomeremo quando parleremo di Schubert. L’ouverture è il brano sinfonico con cui inizia un’o­ pera, e consta di un collage delle melodie più importanti che si incontreranno nel corso del melodramma, una spe­ cie di preludio in pillole. A proposito: il preludio è un genere strumentale che comprende composizioni lìbere, cioè di vario tipo e forma, e che solitamente precede un altro pezzo, anche se a volte può costituire un brano autonomo. Rimanendo nel genere strumentale, la toccata si ispira di solito all’improvvisazione: il suo nome deriva dalla pratica di ‘toccare’, sentire lo strumento (a tastiera, dì so­ lito) prima di iniziare a suonare un brano vero e proprio. La sonata è una composizione strumentale divisa in più movimenti contrastanti, diffusasi alla fine del Cin­ quecento e destinata a subire vari mutamenti nel corso dei secoli, fino alla ‘sonata classica’ in tre o quattro mo­ vimenti, il primo dei quali è in forma sonata. La musica a programma è musica strumentale che prevede un programma, un titolo o un racconto che illu­ stra contenuti extramusicali (eventi, luoghi, sensazioni ecc.). Affine è il pezzo di carattere, un breve pezzo stru­ mentale accompagnato da una didascalia che spiega le atmosfere evocate dalla musica, e comprende generi dal significato lampante come marce, marce funebri, bat­ taglie, cacce, danze, ballate, intermezzi, e altri dal signi­ ficato meno evidente come rapsodie, romanze, romanze senza parole, bagatelle, momenti musicali, impromptu (improvvisi), fogli d’album, berceuse, capricci, elegie, ecloghe. Meritano di essere menzionati a parte i pezzi di carattere serenata, notturno e cassazione: la serenata 156

va eseguita all’aria aperta di sera o di notte, come il not­ turno, e la cassazione, a dispetto del nome preoccupante, ha lo scopo di distrarre e divertire.

Berlioz

Hector Berlioz (1803-1869) fu. ritenuto, ancora in vita, un genio della musica da esperti del calibro di Schumann e Liszt. Altri invece, come Mendelssohn e Saint-Saèns, lo ritennero semplicemente un pazzo. In effetti, così come il suo temperamento non era molto equilibrato, la sua pro­ duzione musicale contiene momenti di genio e altri meno efficaci, i quali spesso coesistono all’interno della stessa opera. Da ragazzino pasticciava da autodidatta con vari stru­ menti; non riuscì mai a imparare a suonare il pianoforte. Essendo figlio di un noto medico, era stato spedito a Pa­ rigi a studiare per seguire le orme paterne. Il resoconto di alcune sue esperienze quale studente di medicina è tanto illuminante quanto raccapricciante: una mattina arrivò Robert [un amico] annunciandomi di avere acquistato un soggetto, ossia un cadavere, e mi portò per la prima volta nell’anfiteatro di dissezio­ ne dell’ospedale della Pietà. [...] tutte quelle membra sparse qua e là, i crani per metà aperti [...], gli sciami r di passeri che si disputavano lembi dì polmoni, i topi che se ne stavano negli angoli a rosicchiare delle ver­ tebre [...] mi riempirono di un tale orrore che, balzato giù dalla finestra dell’anfiteatro, presi la fuga a gambe levate.

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Quando abbandonò gli studi, suo padre gli tagliò i viveri. Per mantenersi iniziò a cantare in un coro. Seguiva intan­ to le lezioni di contrappunto al conservatorio sotto la gui­ da del maestro Reicha, celebre per la sua pedanteria, che lo disgustarono non meno di quanto aveva fatto l’espe­ rienza nella sala delle autopsie. Se la squagliò anche dal conservatorio. Le sue prime composizioni suonarono inconsuete, e la gente si divise tra ammiratori e detrattori. Provò alcune volte a concorrere al prestigioso premio di composizione Prix de Rome, scontrandosi però con il simpatico direttore del conservatorio di Parigi, il sempre­ verde Cherubini, che lo detestava. Alla fine riuscì a vin­ cere: il premio era un soggiorno di molti mesi in Italia, ma anche il Bel Paese (e soprattutto l’opera lirica italia­ na) gli risultarono fastidiosi, e fece di tutto per tornarsene in patria prima del tempo. Reintrodusse l’idea di musica a programma: una musi­ ca, cioè, che doveva rappresentare qualcosa e non sempli­ cemente sé stessa. Il concetto non era nuovo, e nei secoli si era riaffacciato periodicamente, ma con Berlioz l’effet­ to fu deflagrante. L’esempio più chiaro di questo modo di considerare la musica è la sua Sinfonia fantastica, com­ posta a ventisette anni sotto l’influsso emotivo di una re­ lazione tempestosa con la bionda Harriet Smithson, un’attrice che poi divenne la sua prima moglie. La sinfonia consta di cinque movimenti, e ha come sottotitolo Episodi della vita d’un artista. Il primo movi­ mento (intitolato Fantasticherie-Passioni) descrive Io stato d’animo precedente l’incontro con la donna e quello successivo al medesimo, con fluttuazioni che vanno dal­ l’abbandono languido, all’angoscia, al raptus di gelosia. Il secondo movimento (Un ballo) descrive l’incontro con l’amata durante una festa danzante. Il terzo (Scena 158

campestre) rappresenta un momento di pace, turbato pe­ rò dal riapparire della donzella. Il quarto (Marcia al sup­ plizio) descrive un sogno in cui il giovane artista imma­ gina di avere ucciso la donna e di essere condannato a morte e condotto alla forca. Il quinto (Sogno di una notte di sabba) dà vita a una scena infernale, in cui l’amata partecipa a una ridda orgiastica assieme a fantasmi e stre­ goni. Lungo tutta l’opera appare, sotto varie trasfigurazioni, una melodia che rappresenta la donna, e che opportuna­ mente Berlioz ha denominato idée fixe. L’organico orchestrale è gigantesco: Berlioz è il primo a introdurre alcuni usi particolari degli strumenti, e certi strumenti sino a quel momento trascurati dai compositori ‘seri’, come quelli per banda o le campane. Dopo Berlioz, tutti i compositori si sono dovuti cimen­ tare con le sue tecniche di orchestrazione, e l’idea stessa di orchestra non è più stata la stessa. Chissà come la pen­ serebbe al riguardo Mendelssohn, che aveva definito la Sinfonia fantastica « incredibilmente disgustosa ».

Schubert In tutt’altro clima ci conduce il viennese Franz Schubert (1797-1828). Suo padre era un maestro di scuola elementare, povero in canna ma molto attivo: non solo perché ebbe dicianno­ ve figli (secondo altri storici ‘solo’ quattordici), ma an­ che perché era molto interessato alla musica, tanto da creare un quartetto assieme a tre dei suoi figlioli. Franz studiò dapprima in un convitto musicale, e poi a Vienna, dove fu allievo (tanto per cambiare) di Salieri — il quale, 159

lo ricordiamo, non divenne milionario con le sue lezioni solo perché molto spesso le dava gratis. La grandezza di Schubert fu apprezzata, ancora in vita, solo da pochi intimi amici che lo aiutarono economica­ mente, permettendogli così di mantenersi e di scrivere seicento Lieder, le sinfonie e il resto della sua opera. Aveva una velocità di scrittura prodigiosa: risparmiava tempo anche perché quando componeva non suonava mai al piano quello che via via buttava giù sulla carta, perché sosteneva che questo lo avrebbe distratto. Non possedette mai un pianoforte. Gli amici organizzavano serate musicali (in cui lo stesso compositore suonava le sue creazioni), le Schubertiadi, altrimenti note come Wurstelball, perché oltre ad ascoltare le composizioni di Franz si ballava e si mangiavano salsicce. Mancava di senso pratico, non si curava del denaro, né delle rela­ zioni pubbliche, né tanto meno del suo aspetto fisico, che appariva scialbo e trasandato, era totalmente privo di ma­ lizia e viveva solo di musica: conservava così male le sue carte che la sua sinfonia più celebre e geniale, VIncom­ piuta, venne trovata solo trentasette anni dopo la sua morte (ragion per cui fu catalogata con il numero otto, benché fosse stata scritta sei anni prima della precedente e benché sia in realtà la decima composta da Schubert, se si tiene conto di tre sinfonie solo abbozzate). È stato

avanzato il sospetto che una parte della sua vena misantropa derivasse in realtà dalla sifilide, la quale si manife­ stava periodicamente sotto forma di chiazze cutanee visi­ bili a tutti, per cui, al sommo della vergogna, Franz si rin­ tanava in casa e non si faceva vedere da nessuno finché l’eruzione non fosse scomparsa. Il Lied è una canzone per voce solista, su un testo poe­ tico metricamente omogeneo; la voce è accompagnata da 160

uno strumento solista o da più strumenti. Fu un genere nel quale Schubert eccelse. Il suo Lied Margherita al­ l’arcolaio, ispirato a una poesia di Goethe, con l’accom­ pagnamento pianistico che allude al rumore prodotto dal filatoio, alla spinta del piede sul volano e al cavalletto fermo, è diventato emblematico del genere. Il Lied, es­ sendo un pezzo breve, è una sfida al compositore, che vi deve travasare la sua poetica e i sentimenti che intende esprimere. A proposito di brevità, Mark Twain zittiva con queste parole un editore che gli metteva fretta per avere uno scritto di due sole pagine: «In due giorni trenta pagine, per due pagine trenta giorni ».

Schumann

Quando si parla di artisti e di geni, li si associa spesso alla follia, e già gli antichi sostenevano che non c’è inge­ gno senza un tocco di pazzia. Abbiamo detto del caratte­ raccio di Beethoven e di quello di Bach, delle stranezze di Mozart, degli eccessi di Gesualdo, e potremmo prose­ guire nell’elenco, ma ci muoveremmo sempre sul filo di una stranezza ‘accettabile’, quasi inevitabile quando si ha a che fare con una mente anticipatrice e quindi, per definizione, sognatrice e libera dalle strettoie delle con­ venzioni. Il caso di Robert Schumann (nato in Sassonia nel 1810) è diverso: soffrì davvero di disturbi mentali, che aveva ereditato dai genitori. La madre andava incontro ad attacchi ricorrenti di depressione, e del padre sono no­ ti i periodi di straordinaria attività intellettuale: durante uno di questi, durato otto mesi, scrisse varie opere lette­ rarie tra le quali diciotto romanzi. La sorella e un cugino 161

del compositore si suicidarono, uno dei suoi figli diventò morfinomane, un altro impazzi a vent’anni e rimase in manicomio per trentasei. Robert era stato un bambino dolce, sensibile e sogna­ tore, appassionato di musica e poesia. Da ragazzo era benvoluto e ricercato da tutti, perché pieno di talenti e ri­ sorse. Tra le altre cose, riusciva a improvvisare al piano­ forte una specie di ‘ritratti musicali’, riproducendo con le note le movenze, i gesti, i tratti fisici delle persone. La madre volle che si iscrivesse a giurisprudenza, ima materia che lui odiava. Frequentando l’università si di­ stinse per la passione per lo champagne e i sigari, e per la prodigalità. Deciso a diventare un grande pianista, ar­ chitettò un metodo per allungare il tendine dell’anulare destro, che però non funzionò: anzi, gli rovinò il dito per sempre, costringendolo a rinunciare alla carriera di concertista e, per nostra fortuna, a ripiegare su quella di compositore. Alcuni sostengono che in realtà le cose non siano andate così, ma che, anzi, si sia trattato di una scusa per evitare il servizio militare o per dedicarsi alla composizione, che gli interessava molto di più della carriera pianistica, anche sé scrivere musica era una pro­ fessione molto meno sicura di quest’ultima. Si innamorò di Clara Wieck, figlia di un maestro di pianoforte, il quale per anni si oppose all’unione, ritenen­ do che il giovane pretendente fosse uno squilibrato. Alla fine si sposarono, e quell’anno Schumann scrisse qualco­ sa come un centinaio di Lieder. Fondò una rivista musicale e letteraria, della quale fir­ mò per molto tempo quasi tutti gli articoli. In quello stes­ so periodo fecero la loro apparizione le figure di Eusebio e Florestano: due pseudonimi con cui firmava gli articoli e che compaiono sotto varie forme nella sua ricca attività 162

immaginativa. Eusebio rappresentava la natura mite, in­ trospettiva, melanconica; Florestano dava voce alla natu­ ra selvaggia, irruente, aggressiva. Queste due polarità co­ vavano nell’animo del compositore, che faticava a gover­ narle. Aveva un’immaginazione vivissima e un’ispira­ zione incontenibile, tanto che Berlioz lo descrisse come un uomo ‘ossessionato dalla genialità’. Aveva anche un’altra ossessione, ben più preoccupante: temeva di di­ ventare pazzo. Da giovane aveva tentato il suicidio defe­ nestrandosi, e per tutta la vita ebbe il timore di commet­ tere di nuovo quel gesto, per cui visse sempre al pianoter­ ra, ovunque andasse ad abitare. Ogni volta, l’anniversario della morte di Beethoven lo mandava in crisi: andava in depressione e rimaneva in questo stato anche per mesi. Ai periodi di apatia e ritiro seguivano periodi di frenetica attività intellettuale, in cui componeva a ritmi incredibili. Disse: « Le mie sinfo­ nie sarebbero arrivate all’op. 100, se solo le avessi tra­ scritte [...] A volte sono così pieno di musica e così traboc­ cante dì melodia che mi sembra semplicemente impossi­ bile buttar giù qualche cosa sulla carta ». Era come se Eu­ sebio e Florestano gli dettassero le note. Queste due figure lo accompagnarono per anni, come gli amici immaginari dei bambini. Dopo qualche bicchierino di troppo, i due gli comparivano davanti e gli parlavano. Commentò con modestia la propria impressionante fa­ cilità creativa con queste parole: «Non mi pare che vi sia nulla di eccezionale nel comporre una sinfonia in un me­ se. Nello stesso tempo Hàndel scrisse un oratorio comple­ to». Avrebbe dovuto menzionare anche quella volta in cui cominciò e finì una sinfonia in quattro giorni: un tour de force che sarebbe parso difficile persino a Mozart. Verso i quarant’anni i segni di squilibrio mentale si fe­ 163

cero più evidenti. Iniziò ad avere allucinazioni acustiche, all’inizio angoscianti, con una nota che risuonava ininter­

rottamente nella testa per giorni interi, poi piacevoli, sot­ to forma di musiche di straordinaria bellezza e perfezio­ ne, che descriveva come suonate da ‘lontani ottoni’. Nel diario della moglie si legge: « Durante la notte Ro­ bert si svegliò e buttò giù una melodia che, a quanto dis­ se, gli avevano cantato gli angeli stessi. Poi si ridistese, e parlò in modo sconclusionato per tutta la notte, lo sguar­ do fisso al soffitto. Giunto il mattino, gli angeli si trasfor­ marono in demoni e si misero a cantare una canzone or­ ribile, accusandolo di essere un peccatore e minacciando­ lo di gettarlo all’inferno. Divenne agitato e prese a grida­ re forsennatamente che i demoni gli stavano balzando ad­ dosso come tigri e iene e lo stavano afferrando con i loro artigli. I due medici mandati a chiamare stentavano a te­ nerlo ». Nel 1854 uscì di casa in vestaglia e pantofole e si di­ resse verso il Reno e vi si gettò all’improvviso, sotto gli occhi di alcuni pescatori allibiti, che riuscirono a salvarlo nonostante i suoi tentativi di liberarsi. Fu ricoverato in una clinica per malattie mentali, e vi rimase fino alla morte, avvenuta due anni dopo. La vicenda di Schumann ci consente di accennare al problema del rapporto tra genialità e anomalia. Questo binomio è diventato uno stereotipo, ma è sorto dopo il Romanticismo, quando la figura dell’artista ha assunto caratteristiche di eccezionalità perfino sovrumane. Alcu­ ni antropologi e neuroscienziati hanno sostenuto che una dose di stranezza è necessaria per innovare: solo chi pen­ sa fuori dagli schemi riesce a vedere cose che gli altri non vedono. Per citare Paul Valéry: «Bisognava essere New­ ton per rendersi conto che la Luna cade verso la Terra, 164

quando tutti vedono che non cade affatto ». È vero che

molti geni del passato avevano vezzi e manie buffe: pare che Leonardo da Vinci (che era anche un musicista: di lui ci è pervenuto il soggetto di una fuga, o ‘ricercare’, come si chiamava allora) non si sia tolto gli stivali per anni. Questo non significa però che sia necessario soffrire di patologie mentali per produrre opere di genio. Alcuni di­ sturbi di interesse psichiatrico, come la sindrome mania­ co-depressiva, possono potenziare l’energia, la velocità di associazione mentale, la fluidità di pensiero, l’intensi­ tà emotiva, la rapidità di pensiero, l’acutezza sensoriale, e produrre a volte sintomi stranissimi come la capacità di improvvisare rime e giochi di parole. Una certa ipersen­ sibilità è la base di molte personalità artistiche, ma al tempo stesso essa rende queste persone più vulnerabili all’ansia, all’irrequietezza e all’angoscia esistenziale. Ol­ tre a ciò, bisogna dire che molti artisti o pseudoartisti ri­ tengono di dover assumere pose eccentriche per ragioni di marketing o perché, raggiunta la notorietà, in questo modo possono soddisfare le proprie esigenze narcisisti­ che. La nostra sensazione è che i più grandi artisti e scienziati siano persone profondamente umili, che hanno in genere un aspetto dimesso o persino insignificante, e che le pose bizzarre e strane siano spesso sintomo di una ‘genialità’ costruita a tavolino, quando non inesistente.

Wagner La Cavalcata delle Valchirie è un pezzo scritto da Ri­ chard Wagner che tutti hanno sentito almeno una volta: queste aggressive gentildonne hanno cavalcato in nume­ rosi film e spot pubblicitari. 165

In effetti molte colonne sonore contengono brani di musica classica, e il cinema, così come la pubblicità, ha permesso al grande pubblico di familiarizzare con opere che altrimenti non sarebbero mai giunte a tanta dif­ fusione. Peraltro, il genere ‘musica da film’ merita molta attenzione: non solo perché vi si sono dedicati grandi compositori, ma anche perché non pochi di questi lavori sono degni di figurare a fianco di quelli ormai ritenuti classici. Molti film devono la loro bellezza proprio alla musica. Un aneddoto: Steven Spielberg commissionò al suo compositore di fiducia, John Williams, le musiche per Schindler’s list', il compositore, vedendo le scene del capolavoro di Spielberg, gli confessò: