139 108 2MB
Italian Pages 212 [225] Year 2012
INCHIESTE a cura di Luca Carbonara
Fabio Sanvitale - Armando Palmegiani
Morte a via Veneto Storie di assassini, tradimenti e Dolce Vita
© 2012 SOVERA MULTIMEDIA s.r.l. Via Leon Pancaldo, 26 – 00147 Roma Tel. (06) 5585265 – 5562429 www.soveraedizioni.it e-mail: [email protected] I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i paesi.
IL CASO WANNINGER
Capitolo 1 “C’è una donna che grida”
Un pigro pomeriggio qualsiasi, di quelli in cui ti gusti in bocca il sapore del caffè, cercando di prolungare il piacere della pausa e forse anche di dimenticare che sei seduto in una Fiat 1100 verde militare della Polizia, che scorre per via Paisiello, tra gli eleganti palazzi dei Parioli, in servizio di perlustrazione. Un giro da fare col gomito di fuori, che è maggio a Roma e fa già caldo. Poi, la radio che parla, di colpo, e dice qualcosa. L’ordine di portarsi dalle parti di via Veneto, dove una donna sul pianerottolo del quarto piano sta chiedendo aiuto. La sirena. È il 2 maggio 1963, sono le 14.34 ed il caso Wanninger inizia così. Come se niente fosse. Quando pochi minuti più tardi la Volante Siena Monza 85 inchioda davanti al numero 81 di via Emilia, tutto quello che si sa è che c’è una donna ferita. L’ascensore ha il rosso fisso, è bloccato. E allora la guardia Boccanelli e l’autista Cafaggi corrono su per le scale di marmo, salendo e salendo, incontrando quelli del palazzo che dicono che su, più su, dev’essere successo qualcosa. E il qualcosa li aspetta al pianerottolo del quarto: un ragazza col cappotto verde sta a terra, con poco sangue che le scorre da sotto, gli occhi sbarrati, quasi accovacciata all’angolo tra l’interno 14 e l’interno 15. È un pianerottolo davvero piccolo, di 6 metri per 1,40. Intorno, tre donne: la portinaia, che si sta sentendo male; una signora che tasta il polso alla ferita; un’altra, che suona insistentemente al campanello del 15 e insiste e ancora. E lei, la ragazza col cappotto verde, con gli occhi sbarrati, un rantolo che esce dalla bocca; e già non s’accorge più di tutto quello che le accade intorno. Nella confusione si direbbe che la portinaia è quella che ha tro7
vato la ragazza; ecco perché s’è sentita male. E proprio lì, nel suo palazzo! Ma proprio a lei doveva capitare? Ecco, fatela sedere. Portatele dell’aceto! C’è tutto il palazzo adesso per le scale, a guardare, a sussurrare, mentre, girando l’angolo, una via Veneto da dopo pranzo nemmeno si accorge del dramma che si consuma, se non fosse per il capannello di gente che s’è formato davanti al portone. Il comando delle operazioni è stato assunto dalla signora Blasetti, trentanove anni, figlia del grande regista Alessandro, coniugata Venturoli. È stato il figlio Giorgio, di quindici anni, a chiamarla per dirle che era successo qualcosa, di salire al piano di sopra, perché le signore non sapevano che fare. E lei si è precipitata, in pantofole. La ragazza sul pianerottolo boccheggiava. È stata la Blasetti ad avvicinarsi, a vedere come stava. Gli occhi erano fissi, il polso non si sentiva. L’ascensore era bloccato lì, al quarto: con le porte interne aperte e quella di ferro, esterna, chiusa. È sempre la Blasetti a far allontanare suo figlio e a dire di procurare le chiavi dell’ascensore. È in quegli attimi in cui rimane accanto alla sconosciuta con gli occhi sbarrati che nota che ha delle bellissime mani, da cui mancava un’unghia. Eccola lì, pensa, per terra, vicino l’ascensore. Qualcuno intanto è già andato a prendere le chiavi: è la signora Di Carlo, del piano di sotto, che abbiamo trovato attaccata al campanello del 15. Arriva e apre la porta, i poliziotti caricano come possono la ragazza, mentre sotto arrivano l’ambulanza ed un’altra auto della Polizia. Siena Monza 85 sgomma e, a sirene spiegate, corre verso il Policlinico Umberto I. Ma non ce n’è bisogno. Mentre al Pronto Soccorso un uomo di mezz’età ed in camice bianco si mette gli occhiali, prende un foglietto e scrive “Giunta cadavere. A disposizione dell’autorità giudiziaria”, sul pianerottolo è rimasta una macchia di sangue, non grande, ma fresca. È tutto quel che resta della ragazza in verde. I documenti nella borsetta dicono che si chiama Christa Wanninger, ha ventitré anni, è nata a Monaco, in Germania Ovest. I medici diranno che è stata accoltellata sette volte, non una. Ma adesso è il brigadiere D’Ancona che continua ostinatamente, 8
rabbiosamente, a suonare quel campanello dell’interno 15. Impiegherà altri cinque minuti prima di sentire una voce che, bella calma, chiede chi è? La scena è surreale. Sono le 14.50, adesso. La porta dell’appartamento si apre davanti ad un sacco di gente: a lui, ad altri poliziotti, a quelli del palazzo e ai giornalisti ed i fotografi – e non chiedete come facevano ad essere già lì come fulmini. Appare una ragazza in vestaglia, un po’ spettinata, con la faccia a forma di punto interrogativo. Dice di chiamarsi Gerda Hodapp,
Christa Wanninger
9
ventitré anni anche lei. E stava dormendo. Perché, che è successo? Il commissario Migliorini, che è arrivato un minuto dopo l’apertura della porta, si guarda intorno un attimo e non sa se mettersi a ridere o prenderla a sberle. Indica il sangue, allora. C’è da fare un bel po’ di domande a Gerda, anche perché la portinaia - identificata per Barbonetti Francesca - dice che la Wanninger stava andando proprio da Gerda, se non altro perché era sua amica. Tedesche tutte e due; e Christa non era la prima volta che l’aveva vista entrare, lei. Eccome no! È Gerda a dire dove abitava l’amica: in via Sicilia 24, lì dietro. Una volante parte e si fionda, in cerca di tracce utili. Interno 6, Pensione Leonardi, dove la Wanninger dormiva su una brandina in tinello, in una stanza di passaggio dietro un paravento scucito... I poliziotti fanno una perquisizione, chiedono, sequestrano le agendine coi numeri telefonici della vittima. Ma sono andate davvero così le cose? Ma che sta succedendo? Una tedesca morta. Un’altra che non ha sentito nulla. Un assassino invisibile, sfuggito a tutti dentro un palazzo. Un perché che non si trova. E quella brandina vuota. L’altra faccia della Dolce Vita che si manifesta così, brutalmente, come un sogno di cristallo che cade e si frantuma, dietro l’eleganza del cappotto verde. Verbale della Squadra Mobile di Roma del 2 maggio 1963, recante l’elenco del contenuto del reperto numero 5, borsetta della predetta Wanninger Christa. Passaporto, portafogli di colore avana contenente un gettone per il telefono ed una moneta da 5 marchi, pacchetto di sigarette marca Winston mancante di una sigaretta, agendina di colore rosso anno 1963, agendina di colore verde con incollate nell’interno due fotografie e altre due inserite nei fogli, un paio di occhiali da sole da donna di colore nero, una penna stilografica nera marca Hempett Junior, una scatola di fiammiferi tipo Minerva quasi a metà, un portacipria di forma rotonda, bigiotteria, un pettine color nero da donna marca Bolta, un bocchino bianco e nero, dieci chiavi, un 10
paio di forbicine, uno specchietto quadrangolare, tre fotografie, un fazzoletto da donna color verde, tre flaconi di cosmetici, un paio di scarpe da donna nere. Intanto Migliorini ed i suoi danno un’occhiata alla casa della Hodapp, che poi è del suo uomo, Giorgio Brunelli. E Christa, ce l’aveva un fidanzato? Massì che ce l’ha, dal 1961, si chiama Angelo Galassi, che per un po’ aveva bazzicato nel cinema ed ha delle rappresentanze nell’abbigliamento. Dov’è adesso? E perché questa stramaledetta tedesca non ha sentito nulla? Se è la morte a darci il primo giorno di quiete, se è lei a renderci finalmente liberi, allora Christa deve aver raggiunto adesso la dimensione del silenzio. Ma questi non sono ragionamenti da poliziotto. Roba da giornalisti, semmai. Meglio non perdere tempo, caricare la Hodapp in macchina e portarsela in Questura e farsi raccontare dai vicini cos’è questa storia dell’uomo vestito di blu che hanno visto scendere le scale. Anche la Scientifica fa la sua parte. Sulla scena del crimine viene rinvenuto un frammento di impronta palmare, 15 cm sotto il pomello dell’anta sinistra della porta dell’appartamento. Armando si rigira tra le mani il rapporto dei poliziotti di allora. Provo a buttare là un «Si poteva fare di più?» «Siamo negli anni ’60 con tutta una limitazione delle tecniche scientifiche - fa Armando con l’aria di saperla lunga - vediamo un attimo i rilievi che sono stati fatti. Il personale della Polizia Scientifica trova sul pianerottolo esclusivamente una traccia di sangue: Sul pavimento in prossimità dell’angolo anteriore destro e più precisamente davanti l’imposta sinistra della porta del suddetto interno 15, si osserva una macchia di liquido coagulato di colore rosso scuro (presumibilmente sangue), parte della quale abbiamo prelevato ed inviato all’Istituto di Medicina Legale per gli esami del caso. Dopo aver descritto quel pianerottolo, gli operatori procedono con la descrizione dell’abitazione della Hodapp secondo i canoni classici della Polizia Scientifica: Varcata la soglia si osserva un in11
La scena del crimine
gresso rettangolare esteso longitudinalmente, il quale immette a destra nello studio, anteriormente in un ambiente; a sinistra nel salone, la cui porta di comunicazione munita di due imposte con legno con pannelli di vetro opaco, è chiusa regolarmente a chiave. Quella che ci viene descritta e riportata, nelle 36 foto allegate, è una casa sostanzialmente spoglia, con poco mobilio. Una cucina non proprio ordinata, dove sul coperchio che copre il piano cottura sono accatastati bicchieri ed altri utensili. Una casa utilizzata più come una camera d’albergo che non come una casa vissuta. Troviamo, infatti, nel salone, delle scatole, probabilmente contenenti scarpe, e in un angolo alcune valige. Ed in questa descrizione tralasciamo, per decenza, le condizioni del bagno». «Ma, Armando, cosa poteva fare la Polizia Scientifica oltre la fase documentativa?» 12
«Poco in una situazione del genere, sicuramente non è stata trascurata una ricerca di impronte latenti sulle porte presenti nel pianerottolo, però non si fece molto di più: tranne che effettuare una campionatura di sangue dalla gora formatasi sotto il cadavere, che confermò il gruppo sanguigno della Wanninger. Ecco, allora ci si fermava lì…» Deposizione di Barbonetti Francesca, di anni trentatré, portinaia dello stabile sito in via Emilia 81. L’orario dell’arrivo della Wanninger? Non riesco a dirlo con assoluta certezza, era certo dopo le 14.00. Prese l’ascensore, l’ho vista io. Due-tre minuti dopo mi ricordai che dovevo recapitare una raccomandata al terzo piano, all’interno 8. Mi recai prima dalla vicina fruttivendola, Quacquarini Giuseppa, il cui negozio è sito in via Emilia 79, per pregarla di dare un’occhiata al portone, durante la mia assenza. Immediatamente dopo mi portai a piedi al terzo piano. Quanto mi fermai nell’interno 8? Cinque-dieci minuti, non so, a parlare con la signora Di Carlo Claudia. Certo la storia del campanello non sentito da Gerda risulta strana… ma non troppo. Poteva sentirlo? Armando rigira tra le mani il fascicolo di sopralluogo e mi mostra una foto: “rilievo numero 9) Particolare della porta d’ingresso vista dall’interno”. Guardo la foto e riguardo lui: e quindi? «Fabio, cosa noti in questa foto, a parte contatori della luce di un’altra epoca e serrature di un’altra generazione? Guarda in alto sopra alla porta e nota il campanello… ne parleremo più avanti, però…» Mentre Armando mi lascia col dubbio, torniamo alle dichiarazioni della portiera. Come ha detto? Cinque-dieci minuti? Rileggendo il vecchio verbale della Mobile, io e Armando ci guardiamo in faccia. «Un momento. Christa è stata dieci minuti sul pianerottolo? Con l’assassino?» 13
«Ne convieni che non è possibile - dice Armando - o Christa conosceva l’assassino, cosa che al momento non possiamo escludere, o il tempo in cui l’assassino e la vittima sono stati insieme sul pianerottolo è stato decisamente più breve». Torniamo a leggere. Ad un tratto sentii un forte urlo provenire dal piano superiore. La signorina Cobo Anna, che era con noi, aprì subito la porta e io la seguii avviandomi al quarto. Incontrai l’individuo di cui ho parlato, negli ultimi gradini della rampa di scale, cioè negli ultimi vicini al pianerottolo. Si trattava di un individuo dell’apparente età di trenta-trentadue anni, statura alta, circa 1,75, corporatura alquanto robusta, senza baffi, capelli scuri, indossava un abito scuro che mi parve blu, aveva il viso pallido giallastro. Non feci caso alle mani e cioè se avesse una o entrambe le mani in tasca. Gli chiesi cosa fosse accaduto e mi rispose: “una signora che strilla, non so”. Giunta al quarto ho notato il corpo della Wanninger giacente a terra davanti alla porta dell’interno 15. Quando notai la ragazza cercai di sollevarla. Vidi che era ferita e aveva il respiro affannoso, allora cominciai a gridare e accorse altra gente. Abbiamo bussato e suonato ripetutamente per vari minuti alla porta di tale interno, ma con esito negativo. L’ascensore era fermo al piano ma le porte interne dell’ascensore erano aperte. Quel giorno sono stata ferma davanti alla portineria dalle ore 13, ma non vidi entrare il giovane di cui ho parlato, né ho notato tale giovane entrare quando io mi recai dalla fruttivendola né in altre occasioni. Non ero nella guardiola nel tempo immediatamente precedente l’ingresso della ragazza nel portone, per cui non posso dire con certezza se qualcuno sia entrato prima di lei. Comunque, quando vidi che era ferita, ho chiamato il 555-555 della Pubblica Sicurezza. E mentre la Barbonetti racconta, tutta scarmigliata, coi capelli scomposti, nella sua vestaglia a fiori, in un’altra stanza c’è la Hodapp che viene interrogata. Però, che strana ragazza. Quando deve 14
raccontare di cose che non c’entrano direttamente con quel pomeriggio è loquace, quando le chiedono di cosa è successo al momento del delitto, se dormiva o no, cosa ha fatto nelle ore precedenti, beh, Gerda diventa a dir poco monosillabica. Da quanto tempo stava insieme al Brunelli? Parecchio. A che ora è tornata a casa ieri sera? Tardi. Oppure, quando è in difficoltà, finge di non capire e risponde in francese. Per il commissario Migliorini - che sta già maledicendosi per non aver i suoi uomini sfondato la porta dell’interno 15 prima che la tedeschina si decidesse ad aprirla - è uno stillicidio. Uno di quegli interrogatori in cui vorresti mettere le mani al collo del teste e ti trattieni solo per non passare dalla parte del torto. Tra le poche cose che apprende dalla Hodapp c’è che dorme dieci ore e usa sonniferi. Come vorrebbe sapere, adesso, Migliorini, se hanno sbagliato ad aspettare che la tedesca aprisse con le buone. Certo, senza autorizzazione del magistrato non potevano entrare così, rompendo tutto. Ma il sospetto di aver sbagliato ce l’ha: il sospetto, fortissimo, che dietro quella porta si nascondesse la chiave di quello che è già un rompicapo, un delitto strano, subito difficile, subito poco chiaro. Deposizione di Quacquarini Giuseppa, di anni cinquantasette, fruttivendola nel negozio sito in via Emilia 79. La Barbonetti arrivò mentre stavo facendo le pulizie ed aveva una raccomandata in mano, erano le 14.25. Io rimasi nel negozio e non vidi se qualcuno era entrato dopo, nel palazzo. In un’altra stanza ancora c’è un ragazzo, di diciassette anni. È il commesso della fruttivendola, o come ci verrebbe da dire in questa storia romana, della “fruttarola”, quella da cui è entrata la portinaia. E che dice? Cominciamo a leggere. Deposizione di Lanni Gilberto, commesso della frutteria sita al civico 79 di via Emilia. Lavoro da un mese nella frutteria. Qualche minuto dopo essere 15
rientrato al negozio da una commissione venni incaricato dalla mia padrona di recarmi al portone affianco per andare a prendere una forchetta. Andai, ma nessuno rispose all’alloggio della portiera. Mi fermai qualche attimo per bussare sul vetro della portineria. Stavo per farlo quando sentii sbattere violentemente una porta e subito dopo udii delle grida di donna che si lamentava per il dolore in lingua straniera. Sentii successivamente come uno stropiccio di passi di persone che colluttano e poi un tonfo. Quando udii le grida, indeciso sul da farsi, mi allontanai alquanto dall’alloggio della portiera e potei così constatare che era accesa la spia rossa dell’ascensore e che esso, chiamato ad un piano superiore, aveva già iniziato la sua corsa sicchè io ne vidi l’ultima parte mentre saliva. Uscito,vidi che l’orologio all’angolo tra via Emilia e via Lombardia faceva le 14.30. Va anche detto che, due giorni dopo, Lanni cambia idea sull’ordine in cui ha visto e sentito queste cose: e dice che prima vidi accendersi la luce rossa dell’ascensore e salire la cabina. E dopo un minuto una voce femminile gridare con tono lamentoso, in una lingua che non conosco. Armando mi interrompe. «Però ricordiamoci che all’epoca non esistevano gli orologi radio controllati e quelli in strada erano spesso abbinati a cartelloni pubblicitari: venivano regolati sommariamente solo al cambio della pubblicità, quando avveniva… quindi non affidiamoci all’esattezza di questo particolare». Giusto. Torniamo a Lanni. Dico meglio: quando sentii il rumore della porta sbattuta guardai verso le scale e vidi la spia rossa dell’ascensore accesa. Non ricordo di aver sentito il rumore dell’ascensore in movimento. Io pensai che fosse stato chiamato in quel momento. «Ma se io dico che Lanni vide la luce rossa sì, ma fissa; e quindi su questa visione, avvenuta di colpo, costruì mentalmente la salita dell’ascensore?» «Sì, Fabio, ci può stare. La memoria funziona a schemi generali, la luce probabilmente l’ha vista ed ha associato di 16
conseguenza la salita dell’ascensore. Ma hai notato che non ha parlato mai di rumore? Stiamo parlando di ascensori dell’epoca, rumorosi ed aperti, lui non ha indicato il rumore della salita della cabina. La memoria funziona così, all’evento primario reale (luce dell’ascensore) si associa un evento secondario creato (salita della cabina), entrambi visivi. Difficilmente si sarebbe associato, nella memoria, un evento secondario irreale come il rumore dell’ascensore». La presunta salita dell’ascensore è, probabilmente, una proiezione del testimone, un completamento della visione della luce rossa fissa.
17
Capitolo 2 Nel palazzo del delitto
Il delitto di via Emilia finisce sui giornali con titoli che la dicono lunga. Uno per tutti, quello di “Paese Sera”: Una bellissima tedesca uccisa a coltellate presso via Veneto. Guardo Armando, che sorride: sì, in quel titolo ci sono tante cose. C’è il fascino della straniera (che si sottolinea essere debitamente bellissima), quindi implicitamente della sua disinibizione (rispetto alle tradizionaliste ragazze italiane), la morbosità (uccisa come? Ma a coltellate, ovvio!), e c’è via Veneto (come a dire: la morte è piombata dove non doveva, nel regno dei lustrini). Negli articoli di quei giorni si scrive che Christa è passata per un’infinità di letti, ha frequentato uomini d’ogni risma, è stata pervicace nel tornare alla sua fondamentale professione di peripatetica di lusso. D’altra parte non era una che lo facesse sempre e soltanto per denaro e neanche per avidità fisica. Parole forti, senza appello, scritte già il giorno dopo. Vedremo dopo quanto vere possano essere. Di vero, c’era sicuramente però quest’altra osservazione: Christa, dopo ogni abbandono alle sue torbidità, si sentiva struggere dal desiderio di una vita pulita e ordinata. Dopo ogni tradimento garantiva il proprio riscatto. Armando però, mi richiama al motivo per cui siamo qui: qui, davanti al portone di via Emilia. Ci siamo venuti pensando la stessa cosa. A tutti i testimoni che, in perfetta buonafede, hanno visto quello che non c’era. Per la dinamica dell’aggressione - che vedremo dopo - è improbabile che l’ascensore sia stato chiamato dall’assassino, subito dopo aver accoltellato la ragazza. 19
Decidiamo allora di farci le scale a piedi, vogliamo rifare il percorso esatto dell’assassino. Sul pianerottolo del quarto piano il tempo sembra essersi fermato. Di fronte all’ascensore c’è la seconda porta dell’appartamento di Brunelli e, subito a destra, la porta principale, col campanello cui Christa non arrivò mai. È davvero uno spazio piccolo: ne siamo stupiti entrambi. Dopo aver colpito Christa con almeno sette coltellate, l’individuo non prende l’ascensore, un comportamento comune in caso di omicidio (evita all’aggressore di rimanere intrappolato, gli dà più vie di fuga: ci sta), ed inizia a scendere per le scale…
La scena del crimine oggi
20
Queste procedono in senso antiorario, con due rampe per piano intervallate da un lungo pianerottolo. Percorso il pianerottolo l’assassino incrocia la portiera Barbonetti, la prima delle testimoni oculari che si trovavano al terzo piano e che, appena sentì le grida, iniziò ad accorrere a quello superiore. Ha, quindi, il tempo di vederlo mentre sta scendendo l’ultima rampa, formata da undici lunghi scalini, che vengono percorsi dall’assassino con passo deciso, ma non veloce. Le scale sono larghe circa un metro e quindi, quando lo incrocia, magari al primo o secondo scalino dal pianerottolo del terzo piano, l’individuo misterioso le sfiora le braccia. La portiera ha tutto il tempo di voltarsi e di vederlo percorrere il pianerottolo. Ci fermiamo un attimo proprio in questo spazio e vediamo l’ingresso dell’interno 8, dove si trovava la Barbonetti. «Fabio, subito dopo le grida davanti a quell’ingresso si trovavano: la Di Carlo, la Cobo e la Marchese. Quest’ultima però era all’interno dell’abitazione e lo vide fugacemente passare». Deposizione di Di Carlo Claudia, inquilina del palazzo sito in via Emilia 81, terzo piano, int. 8. Ore 16.35 del 2 maggio 1963. La portiera si fermò a parlare da noi cinque-dieci minuti, dopo aver consegnato la raccomandata. L’individuo da me notato, mentre salivo al quarto piano, era dell’apparente età di venticinqueventotto anni. Altezza 1,75 circa. Corporatura regolare, più magro che robusto. Non aveva baffi. Capelli con attaccatura frontale talmente alta da sembrare stempiato, scuri ma folti e soffici, zigomi un po’ sporgenti e guance un po’ incavate. Indossava un abito che a me sembrava grigio scuro. Era calmo, aveva la camicia bianca pulita. Non notai tracce di sangue. Quando arrivai al quarto piano vidi la donna ferita e la portiera che chiedeva cosa bisognasse fare. Non so dire se le porte dell’ascensore, che era fermo al quarto piano fossero aperte o chiuse. Dall’interno del mio appartamento si può sentire l’ascensore in movimento, ma quel giorno non ci feci caso. 21
Deposizione di Cobo Anna, traduttrice, inquilina presso l’abitazione della predetta Di Carlo. La portiera si fermò dai cinque ai dieci minuti. Udii prima delle persone che colluttavano e sbattevano contro i muri, quindi un grido. Non so dire se ci fu uno sbattere di porte. L’individuo che ho visto era di circa trent’anni, 1,75, snello, molto magro, faccia pallida, naso lungo ed affilato, non aveva baffi, indossava un abito grigio scuro con camicia bianca. Rispose quasi seccato alla domanda “che sta succedendo?” e disse: “una donna che strilla”. Suonai ininterrottamente per circa un minuto al campanello dell’interno 15, ma senza avere risposta. L’ascensore era fermo al quarto e non feci caso se le porte fossero aperte o chiuse. Se l’ascensore si fosse mosso, mentre la portiera era da noi, l’avrei sentito. È impressionante, ci sembra davvero di essere nel 1963. Tutto è come allora. Le porte, le mattonelle, il corrimano in legno delle scale. Poco più in là vediamo l’ingresso dell’interno 11 dove abitava il ragazzo (poco più che quattordicenne) Giorgio Venturoli con la mamma, Mara Blasetti. Usciranno dalla Questura con lei che tira lui come un bambino, per la giacca. Perché Giorgio, che è più alto della mamma, è in giacca e cravatta, come si conviene per l’epoca. Deposizione di Venturoli Giorgio. 2 maggio 1963, ore 20.30. Oggi, verso le ore 14.30, mente mi trovavo nella mia abitazione, ho sentito delle grida che non si poteva distinguere da dove provenissero. Allo scopo di accertare cosa fosse accaduto, sono uscito di casa fermandomi sul pianerottolo adiacente la mia abitazione, sita al 3° piano. Appena uscito ho notato la presenza di due signore che parlavano tra di loro e nel contempo una terza signora che usciva dall’appartamento sito allo stesso pianerottolo. Sempre in questo frattempo saliva anche la portiera. Contemporaneamente ho notato che dal piano di sopra scendeva un signore con comportamento naturale. Una delle signore che erano presenti ha chiesto all’individuo che scendeva cosa fosse accaduto. Questi ha risposto con tre 22
o quattro parole, di cui però non ne posso precisare la natura. A questo punto la portiera si è portata al piano di sopra dove ha scorto per terra tanto sangue ed una signorina distesa a terra, semisvenuta. La portiera, senza scendere, ha chiesto aiuto. Quindi mi sono portato anch’io al piano di sopra ove ho notato la portiera che sorreggeva la signorina. Sono subito sceso in casa a prendere un bicchiere di acqua. L’ho portato alla signorina che però non è riuscita a bere. Sono ridisceso a chiamare mia madre e l’ho accompagnata di sopra, ove nel frattempo erano salite anche altre signore, ad eccezione della terza di cui ho fatto cenno, e cioè quella abitante all’interno 9. A.D.R.: I connotati dell’individuo da me notato scendere le scale sono i seguenti: altezza m. 1,76-78. Longilineo, capelli castani chiari, lisci, pettinati indietro, viso magro, vestiva un completo grigio chiaro con camicia e cravatta, colorito normale. Scendiamo fino al primo piano, dove si trovavano i testi Graziani e Pazzi, che l’hanno incontrato per ultimi. Deposizione di Pazzi Auber, impiegato presso l’istituto di bellezza “Eve of Rome”. 4 maggio 1963, ore 13.50. Sentii degli strilli, come un urlo bestiale. Ero con il ragionier Graziani negli uffici in via Veneto 116, che hanno un ingresso secondario in via Emilia 81, int. 1. Uscimmo sul pianerottolo e Graziani disse “che succede?”. Nessuno rispose. Dopo qualche istante sentimmo come una risata, una voce di donna sommessa e confusa, tanto che dissi: “non deve trattarsi di qualcosa di grave”. A questo punto ho sentito dei passi scendere. Stavamo per rientrare e ci siamo fermati. Abbiamo visto un giovane con andatura calma e l’abito blu, che a domanda del ragionier Graziani, rispose: “una donna che strilla”, indicando con la mano sinistra i piani superiori mentre la destra era nella tasca dei pantaloni. Muoveva la testa, come dire che non era successo niente di grave ed aveva una smorfia che era quasi un sorriso. 23
Quell’uomo appariva così sicuro e poi non si sentiva più gridare nessuno... Così i due se ne tornarono in ufficio senza più nulla sentire di tutto il casino che era avvenuto dopo, fin quando, uscendone verso le 22.00, la portiera aveva detto loro: ma come, nun lo sapete che è successo? E s’erano precipitati alla Polizia. Certo che l’assassino aveva avuto una fortuna mostruosa: se solo le sue coltellate avessero provocato una fuoriuscita maggiore di sangue, le donne accorse al quarto piano avrebbero gridato di fermarlo e tutta questa storia sarebbe andata in un altro modo. Invece no; ce n’era poco e tutto sotto il corpo di Christa. Non lo videro, pensarono si fosse sentita male e d’altronde tutto potevano immaginare tranne che, a casa loro, fosse stato appena commesso un omicidio. Alcuni di loro notarono che l’uomo aveva una mano in tasca. E nessuna traccia di sangue: camicia bianca e pulita. Solo quando la girarono capirono cos’era successo. Ma ormai l’uomo era svanito nelle strade di Roma. «Fabio, è ora di capire come è stata colpita Christa, sfogliamo un attimo l’autopsia… Eccola». Soggetto di sesso femminile dell’apparente età di venti anni, della statura di cm. 160 e del peso di kg. 49, in buone condizioni generali di nutrizione. Ecco il punto in cui il Medico Legale, Dr. Cesare Gerin, con l’aiuto di Cesare Signoracci, inizia a descrivere le ferite. Ne riscontra ben undici, di cui sette coltellate e circa quattro lesioni secondarie. Sul torace riscontriamo tre ferite, di cui una piccola, assimilabile ad una escoriazione nell’aureola mammaria. Poi altre due ferite: quella sicuramente mortale, che il medico contrassegnerà con il numero 2, nella regione “precordiale” con andamento dall’alto verso il basso; ed una meno profonda nell’angolo inferiore destro dell’epigastrio (addome), che viene contrassegnata con il numero 3. La ferita numero 2 trafigge il cuore della tedesca e penetra per circa 13 centimetri: ed è questo l’unico dato approssimativo che abbiamo per capire quale sia il mezzo lesivo utilizzato. Una quarta ferita la troviamo nella zona ascellare destra, altre tre nella schiena: contrassegnate dai numeri 5, 6 e 7. Tranne la 6 che è 24
poco più di una escoriazione, tutte le ferite hanno un andamento dall’alto verso il basso, con margini netti. Armando ci pensa su. «La morfologia delle ferite ci permette di determinare che è stata utilizzata una lama monotagliente della lunghezza di almeno 13 centimetri e della larghezza di circa 2. Ma ora proseguiamo con il numero 8, vedi? Una grossa ferita lunga circa 7 centimetri, presente sul braccio destro: questa, insieme ad un’altra estesa ferita sul dorso della mano destra, zona radiale, sono le principali ferite “da difesa”. Certo, Fabio, sembra curioso che con tutte queste lesioni il sangue sul pianerottolo sia così poco, ma probabilmente quello fuoriuscito dal corpo è stato assorbito dagli abiti. La lunga ferita al braccio deve aver causato una grandissima fuoriuscita di sangue. L’unica spiegazione per il poco che è stato trovato, allora, è che le persone che sono accorse nell’immediatezza si siano più preoccupate di cauterizzare quest’ultima ferita, ben visibile, che le altre, che pure erano presenti...» Sono ben sette persone ad aver visto l’assassino. Oltre la Barbonetti l’hanno visto infatti gli inquilini Cobo, Venturoli, Di Carlo, la domestica Marchese e poi i signori Pazzi e Graziani. Sulla base di tutte queste deposizioni viene disegnato l’identikit dell’assassino, quello che i giornali dell’epoca chiamavano il “ritratto-robot”. «Mi colpisce l’importanza centrale che ebbe, all’epoca, la ricostruzione del volto dell’uomo in blu. Un ritratto che fu pubblicato su tutti i giornali. Nel 1963 era proprio importante nell’indagine di polizia, ma quanto poteva essere davvero utile, Armando?» 25
«Guarda l’identikit, è disegnato a mano: non esisteva il personal computer, anche se alcuni kit di sistemi semi-standard (che si avvalevano di figure componibili) già stavano uscendo. Questo tipo di identikit era eccessivamente legato alle qualità artistiche dell’operatore che lo eseguiva. Poteva dare un’idea dell’attaccatura dei capelli, del viso allungato e della sporgenza dei padiglioni auricolari, ma nulla di più. Il naso era pressoché schiacciato e gli occhi “standard”. L’evoluzione dell’identikit negli anni si è indirizzata su due fronti. Il primo di tipo grafico, con l’avvento di software che hanno al loro interno una banca dati di connotati fisiognomici e permettono, anche a chi non è un artista, di produrre un risultato di qualità. Il secondo fronte è invece legato all’aspetto psicologico del testimone. Quante volte ci siamo domandati se saremmo in grado di descrivere l’autore di un reato, se lo vedessimo? Ecco, l’abilità di chi si appresta a creare un identikit è anche, e possiamo dire maggiormente, quella di tirar fuori gli elementi che il testimone pensa di non aver visto o di non ricordare. Ma c’è un altro particolare importante per quanto riguarda il riconoscimento della persona: ed è sicuramente l’assenza dell’arma nelle mani dell’omicida. Fabio, mi guardi perplesso: senti qua, invece. Quando il testimone di un crimine vede l’omicida con l’arma in mano, la sua attenzione è concentrata sul mezzo lesivo, perché l’innato istinto di sopravvivenza ci fa concentrare sul mezzo atto a nuocerci. Si chiama effetto “viewpoint”: l’attenzione viene concentrata esclusivamente sull’arma e quindi generalmente il testimone non riesce a fornire alcun particolare del volto di chi la impugnava! Nascondendo l’arma e quindi non osteggiandola, in maniera sicuramente inconsapevole l’omicida di via Emilia ha favorito il suo riconoscimento». Fatto sta che la pubblicazione del “ritratto-robot” scatenò decine e decine di telefonate in Questura: che non servirono, però, a niente. Bisognava capirli, i giornali: nel dopoguerra, Christa era il diciassettesimo omicidio di donna rimasto insoluto nella Capitale. Alcuni rimarranno famosi: come quello della piccola Annarella Brac26
ci (il delitto passa alla storia col nome del sospettato: “il biondino di Primavalle”), quello di Antonietta Longo (la “decapitata di Castelgandolfo”), quello di Wilma Montesi e quello di Maria Martirano (“il caso Fenaroli”). Intanto, sugli stessi giornali fiorivano duemila ipotesi sul delitto: Christa lo conosceva. No, non lo conosceva. Un maniaco, che le ha fatto proposte oscene. Non è un maniaco, ma smaniava per lei, le ha messo le mani addosso, impazzendo di colpo. L’omicida avrebbe ucciso chiunque si fosse presentato su quel pianerottolo. Macchè! Avevano una storia e lei voleva troncare. Oppure avevano un appuntamento da Gerda, che li avrebbe lasciati soli; oppure aveva una storia con tutte e due e Christa lo scoprì quel pomeriggio. Oppure con Gerda e non doveva saperlo nessuno, per questo è morta! No, no: lui sfruttava Christa. Macchè, lei faceva parte di un’organizzazione di spionaggio e doveva essere punita. Ma che dite, è roba di droga! Poi però si cominciò a parlare anche di tratta delle bianche. Tutto sbagliato! Un tentativo di rapina finito male: ovvio, no?
27
Capitolo 3 Chiamata per il 461102
Usciti dal portone di via Emilia, cerchiamo di capire cosa è accaduto subito dopo che la Hodapp ha aperto la porta. Seguiamo allora la Volante che, quasi subito, è corsa alla Pensione Leonardi di via Sicilia. Qui ha trovato una piccola Pensione familiare, con il corridoio invaso dall’odore di cavoli bolliti: la gestisce, insieme a sua zia, il signor Arnaldo Sciamanna, che ha sessantasette anni. È lui quello che spiega, che dice cosa sa e cosa è successo. Proprio perché è un delitto così assurdo che diventa importante ogni particolare, ogni minimo aspetto. È Sciamanna a dire che, quel giorno, Christa è stata svegliata dalla cameriera della Pensione alle 12.30 - e quanto dorme ’sta ragazza? - e che è uscita alle 14.00, per andare da Gerda, dicendo che sarebbe tornata alle 17.00. Un quarto d’ora dopo una voce in tedesco chiamò: cercava Christa. Aveva risposto la cameriera, la quale aveva però scambiato l’accento toscano di Galassi per tedesco (e ce ne vuole!). Passano altri cinque minuti - ed è qui che alla Questura si guardano in faccia - e fu proprio Sciamanna, pensando che prima si trattasse del cognato della ragazza, ad andare al telefono del corridoio, mettersi gli occhiali e leggere il numero di Gerda scritto sul foglietto attaccato al muro, togliere il lucchetto dal telefono, comporre il 461102 e avvisarla. Avvisare Christa che suo cognato la cercava. Sono parole che esplodono come bombe a mano: se vi fate due conti, vuol dire che alle 14.20 Gerda era sveglia. Ricapitoliamo: alle 14.00 Christa esce dalla Pensione. Verso le 14.10-14.15 una voce che viene scambiata per tedesca la cerca. Verso le 14.15-14.20 Scia29
manna si fa due conti, pensa che la Wanninger sia arrivata dall’amica e chiama la Hodapp. Ma Sciamanna sbaglia i tempi, perché qui l’unico che guarda un orologio è il garzone della fruttarola ed è lui che ci dice che l’ora del delitto è le 14.30, tant’è che la prima Volante ricevette l’ordine di recarsi in via Emilia alle 14.34. Resta un dato di fatto: che a Sciamanna la Hodapp aveva risposto che ora non poteva parlare, che avevano fatto del male alla Wanninger e che l’avrebbe richiamato lei, più tardi. Una telefonata che era successa prima, ben prima che la porta dell’interno 15 si aprisse sulla piccola folla del pianerottolo… Gerda era sveglia, allora, mentre Christa moriva. E allora perché non aveva aperto? Cosa sapeva del delitto? Nascondeva qualcuno, qualcosa? Ma ora stanno interrogando Gerda e lei nega. Nega e basta. Sciamanna mente, io dormivo. Non c’è verso di farle uscire di bocca nient’altro: né in tedesco, né in italiano, e nemmeno in tutte le altre lingue del mondo. Continua a negare anche quando, interpellate, le guardie di Pubblica Sicurezza entrate nell’appartamento confermano che non è arrivata nessuna telefonata mentre erano lì. Che l’unica telefonata partita fu quella in cui la tedesca, su richiesta della Polizia, aveva chiamato Sciamanna per farsi dire il civico della Pensione. Quindici secondi e basta. Una telefonata che Gerda aveva fatto dalla camera da letto, prima di spostare il telefono in sala da pranzo. Tutto qui. Stop! Ma come, su quel pianerottolo è successo di tutto! C’è stata la morte, veloce e orribile, c’è stato un coltello che nel primo pomeriggio ha trafitto sette volte una ragazza, senza nessun apparente motivo. Non può essere così semplice come racconta Gerda. Christa non può essere morta nella più totale banalità, mentre lei dormiva e un assassino - che nessuno ha visto entrare ma tutti uscire - se ne andava salutando. La fine di una vita di ventitré anni non può essere così semplice. Ma forse per dare un senso a tutto questo dovremmo capire prima le due protagoniste. Già: chi era Christa? E Gerda, chi è? Cos’è successo nelle loro ultime ore per arrivare a questo? Intanto, si spediscono telegrammi alle Questure di altre città 30
per avere informazioni su pregiudicati che possano commettere delitti con arma bianca. Deposizione di Hodapp Gerda del 3 maggio 1963, alle ore 4.30. Sono nata ad Achern, in Germania Ovest, l’8 luglio del 1940. Circa quattro anni fa facevo la ballerina in una Compagnia di riviste e a Genova conobbi Giorgio Brunelli e mi fidanzai con lui, che voleva sposarmi. Andammo a vivere insieme e lasciai la Compagnia. Ci trasferimmo in seguito a Roma, dove lui aveva degli affari. Nel gennaio 1962, nel ristorante “Tullio”, conobbi la Wanninger, la quale conviveva con Angelo Galassi. Lavorava in un magazzino dove vendevano bambole, ma dopo aver litigato con Angelo tornò in Germania, dove aveva trovato lavoro. Era il settembre 1962 e da lì mi scrisse quattro-cinque volte. Tornò a Roma nel dicembre dello stesso anno. Quindi ripartì il 6 gennaio 1963, per riprendere il lavoro in Germania, ma mi scrisse che sarebbe tornata per sposare Angelo. Tornò infatti a Roma, prima di Pasqua, l’8 aprile. Ricordo che la vidi alle 11.30 del 13 aprile, da Doney. Qui mi disse che aveva rotto con Angelo e aveva conosciuto in Germania tale Heinrich Sauter, col quale si era recata a Milano, a Zurigo e Lugano. Sauter le dava denaro, le aveva promesso un’auto ed un conto in banca, ma questo poi non era avvenuto perché a me la Christa disse spesso che era a corto di soldi e che da quando era tornata a Roma non lo aveva più rivisto. Il 30 aprile, tuttavia, aveva passato la notte con un certo Maurizio all’albergo Delle Muse, ciò era secondo la Christa avvenuto per far ingelosire il Galassi, che le rimproverava la relazione col Sauter; così come lei gli rimproverava quella con una donna sposata. Accompagnata da me, era infatti entrata in casa di Angelo mentre lui era andato a Firenze, e vi aveva trovato degli indumenti femminili nella camera da letto di lui. La Christa mi diceva che Sauter aveva quarant’anni ed i capelli bianchi. Però un amico del Sauter l’aveva informata che egli aveva moglie e figli e non li avrebbe mai lasciati. Mi vidi con lei il 19 aprile e saltuariamente fino al 24. Dal 27 al 31
2 maggio ci vedemmo tutti i giorni. In quel periodo essa manifestava la sua preoccupazione di non riuscire a rintracciare il Sauter, perché era a corto di denaro. Non stava infatti lavorando. La Wanninger mi disse che aveva bisogno dei soldi di Sauter per pagare la pensione e che era tornata a Roma proprio per incontrarlo più facilmente. In più, nei giorni prima del delitto non aveva avuto le mestruazioni e voleva dirlo al suo amico. Mi disse anche che gli avrebbe chiesto 200-300 mila lire e se li sarebbe tenuti, fosse stata o no incinta. Mercoledì 1 maggio ricevetti la visita della Wanninger ed alle 22.00 ci recammo al Cinema Cola di Rienzo insieme ad un amico, Franco, a vedere “Come si ingannano i mariti”. Uscimmo alle 00.30 e ci fermammo in un bar di via Sardegna per consumare qualcosa. Ci trattenemmo lì fino all’1.30-1.45. Accompagnammo quindi la Wanninger in via Sicilia, dove abitava. Io andai con Franco in via Fleming, anzi nei pressi, e restai con lui fino alle 2.30, quando mi riaccompagnò in via Emilia. Mi sono messa a letto ed ho letto un libro giallo fino alle 4.30-5.00, quando mi sono addormentata. Il 2 maggio ricordo che la Christa mi chiamò verso le 12.30-13.00 preannunciandomi la sua visita per le 14.00. Le dissi subito che avevo troppo sonno per andare a pranzo con lei e mi rimisi a dormire. Verso le ore 14.30, pur avendo udito squillare il campanello della porta d’ingresso, non mi sono curata di alzarmi per andare ad aprire, pur sapendo che doveva venirmi a trovare la Christa. Ho continuato a dormire e sono stata svegliata dal suono delle sirene delle auto della Polizia che erano sotto la mia abitazione, allorquando ho aperto la finestra che dà sulla via Emilia. Mentre ero ancora alla finestra ho udito suonare ripetutamente il campanello della porta d’ingresso per cui sono andata ad aprire dopo aver indossato la vestaglia da camera (…) solo allora ho appreso quanto era accaduto, davanti alla porta di casa, alla mia amica. Strano tipo, Gerda. La settimana prima la Blasetti ha avuto una perdita d’acqua dal piano di sopra e ha chiesto alla sua cameriera di andare ad avvisare l’inquilino, cioè Brunelli, che non conosce. Ma 32
la cameriera si rifiuta, perché dice che quelli di sopra non aprono la porta, che è già successo. Allora lei chiama il padrone di casa dell’appartamento e anche lui conferma: sono contrari ad aprire la porta, a meno che non vengano preavvertiti per telefono. La stessa portiera Barbonetti conferma, ad una stupita Blasetti, che nemmeno lo stagnino che doveva fare dei lavori in quella casa è riuscito a finirli: perché non poteva entrare. Proprio strani, quelli dell’interno 15. Chissà poi, la Blasetti che avrebbe pensato dei suoi vicini se avesse visto il loro appartamento: la confusione totale, quell’aria di provvisorio, di accampamento, le pareti bianche, i cumuli di carte per terra, le bottiglie piene e vuote nel corridoio e in cucina, i fiaschi. Usciamo dal palazzo e ci dirigiamo in via Veneto, verso i tavolini di Doney, dove sono passati tutti i protagonisti di questa storia. È un caldo primo pomeriggio romano ed il passaggio di una Jaguar rossa ci distrae un po’. Armando tira fuori le vecchie pagine dell’autopsia e inizia a sfogliarle mentre arrivano i caffè. Pagine in cui i periti rivelano lo scempio compiuto dall’aggressore sulla Wanninger. «Ma scusa - gli chiedo - ecco, in base a questo referto possiamo capire come si svolse il delitto, cioè dove si trovavano aggressore e vittima quando tutto è iniziato?» Armando riprende a sfogliare il verbale dell’autopsia: «Ritorniamo sul discorso ferite, la perizia ci indica che la loro direzione è antero-posteriore o postero-anteriore (a seconda delle ferite alla schiena ed al torace). Hanno tutte un andamento dall’alto verso il basso e questo ci permette di capire come sia stato tenuto il coltello dall’aggressore, ben stretto nel pugno con l’estremità del manico fermata dal pollice e con la lama in direzione ulnare. La sequenza dei colpi è stata rapida, l’aggressore inizia con il colpire Christa da davanti, si trova di fronte a lei e le sferra il primo colpo, quello che la colpisce al cuore, nella regione “precordiale”. Questa è la ferita mortale, la forma è verticale con la parte ottusa in alto e la “codetta” in basso. Vedi la ferita, Fabio, è proprio da coltello monotagliente, dove la parte “senza lama” lascia un margine ottuso e la parte con la lama lascia invece un margine sottile. Pene33
tra per circa 13 centimetri e ci fornisce la lunghezza minima che doveva avere la lama. L’assassino la sorprende e Christa ha appena il tempo di portare la mano sinistra sul petto, per protezione. Il colpo che le ferisce la mano sinistra, è probabilmente lo stesso che la ucciderà. Poi Christa si piega sul suo fianco destro e ruota leggermente il tronco a sinistra, qui riceve il colpo che causa la ferita che viene contrassegnata dal medico legale con la numero 3, nella parte superiore centrale dell’addome sotto le costole. La profondità di quest’ultima è minore, il corpo della povera tedesca è già piegato all’indietro, la ferita non è più verticale, lei era inclinata. È piegata verso sinistra e sta ruotando per la forza dei due colpi ricevuti: adesso offre il fianco destro all’assassino. È qui che arriva il terzo colpo, all’ascella destra: il corpo, ruotando, a questo punto si trova più vicino all’aggressore e quindi il colpo viene inflitto con più potenza e penetra per una decina di centimetri. Le pugnalate probabilmente in questo momento sono due, una che come abbiamo detto la colpisce all’ascella ed una al braccio destro e le infligge un taglio di circa 7 centimetri. Continuando la rotazione Christa, che sta perdendo tutte le forze, ormai offre le spalle all’aggressore che la colpisce, senza intensità, per altre tre volte alla schiena. Sono dei colpi non forti, che potremmo definire più simbolici, forse perché il suo assassino non ha più energia, forse perché lei è ormai a terra, comunque sono colpi che non hanno più l’incisività del primo. So cosa stai pensando: tutto questo non si sarebbe potuto svolgere nell’ascensore. Nè l’omicida si sarebbe potuto avvicinare da dietro, perché in questo caso Christa si sarebbe dovuta girare dalla sorpresa: ma appunto non sarebbe mai stata perfettamente davanti al suo aggressore e quindi il colpo contrassegnato con il numero 2 avrebbe avuto anche una direzione, oltre che dall’alto verso il basso, anche da destra verso sinistra. No, l’aggressore si è posto davanti alla vittima».
34
Capitolo 4 Christa e Gerda
Ma torniamo alla Wanninger e alla Hodapp. E alla Dolce Vita, senza la quale questa storia sarebbe molto diversa. Un periodo irripetibile, mitizzato, troppo celebrato. Che secondo i giornalisti inizia nel 1953 con lo spogliarello di Aichè Nanà al “Rugantino” (che però stava all’inizio di viale Trastevere) e finisce con la contestazione del ’68. Sarà vero? Diffidiamo delle date troppo precise. Quello che sappiamo è che “La Dolce Vita” di Federico Fellini era uscito nelle sale giusto tre anni prima. Ma la vera Dolce Vita è finita prima della contestazione giovanile: è finita quando tutti si sono comprati la macchina - come dice Enrico Lucherini, il press agent che ne fu uno dei protagonisti - e parcheggiare davanti a Doney (e dunque ritrovarsi lì) era diventato impossibile per quelli che ci andavano. In quel caffè, con le inconfondibili tovaglie a scacchi e le bandiere di tutte le nazioni del mondo (ogni tavolino ne aveva una diversa), ci trovavi Patroni Griffi, Novella Parigini, Rossella Falk, Luchino Visconti, Giorgio Albertazzi, Vittorio Gassman. Via Veneto era il loro punto di ritrovo dopo una “prima”: si ritrovavano tutti lì a discutere, anche a litigare. E di persona, visto che Facebook non era ancora stato inventato. Che anni! All’Harry’s Bar incontravi Anthony Franciosa con Ava Gardner, al Cafè de Paris c’erano la Bardot e Ursula Andress, all’Ambasciatori trovavi Charlton Heston e mentre all’Excelsior Visconti discuteva con Trombadori, alla “Taverna Flavia” mangiavano due miti come Suso Cecchi D’Amico ed Ennio Flaiano… ma anche in quei salotti, in quei caffè si parlava, come no, del caso Wanninger. Come si parlerà del caso Bebawi. 35
Erano anni di intellettuali, registi impegnati e donne in abito da sera: non di trucidi coi tatuaggi e risse a Campo dè Fiori. C’era un livello, ecco; a parte i lustrini, la Dolce Vita esprimeva un fervore di idee che infatti, non a caso, generarono un periodo irripetibile per il cinema ed il teatro italiano. Christa e Gerda sono due ragazze che arrivano in mezzo a tutto questo quasi nello stesso periodo. Ci arrivano però per vie diverse. Christa ha cinque tra fratelli e sorelle, viene da una famiglia di commercianti all’ingrosso di tabacco, che sognano per lei una buona sistemazione: anche se lei di voglia di lavorare non ne ha molta. Gerda, invece, è cresciuta con una zia ed è una che fa preoccupare parecchio il signor Hodapp, di professione verniciatore: nell’aprile 1958 viene infatti fermata dalla polizia di Vienna perché trovata, minorenne, in un albergo con un uomo. La polizia non credette ai due, quando dissero che erano fidanzati… La ragazza era andata a Vienna a lavorare: come modella, poi ballerina. Passa un anno e nel maggio del 1959 il signor Otto Hodapp scrive al Consolato Generale dell’Austria per dire che da novembre 1958 la figlia viveva a Genova, dove aveva conosciuto un italiano. Lamentava di non ricevere notizie da lei, che gli aveva promesso di tornare in famiglia ma che invece non rispondeva più alle lettere dei genitori. Parentesi: in quel momento Gerda aveva diciotto anni, ma per la legge tedesca (e anche per la nostra) era ancora minorenne, per l’epoca. Hodapp invita allora il Consolato a rimpatriare immediatamente la figlia; anche perché, a parte il fatto che l’uomo con cui convive si chiama Giorgio, di costui non sanno nulla. Il Consolato segnala che la minore è stata rintracciata nell’abitazione di Brunelli Giorgio, che la ragazza è sprovvista di permesso di soggiorno, che è stata fermata e affidata ad un istituto di suore cattoliche. Nello stesso maggio 1959 la rispediscono in Germania. Ma nel novembre 1960 siamo punto e a capo: la testarda ragazzina è di nuovo in Liguria, col Balletto Strozbel stavolta, sempre con Brunelli, e dice di volerlo sposare. 36
Gerda Hodapp
Brunelli, commerciante di liquori, a cui sua madre scriverà una lettera pesantissima di insulti (i più delicati sono: “sei un cretino” e “mi fai schifo”) a lui ed alla sua intelligenza, dicendogli senza mezzi termini quello che per lei è la Hodapp: soltanto una donna da marciapiede, che lo rovinerà. 37
È stato, comunque, un piano ben congegnato: Gerda sapeva che il Balletto sarebbe passato da Genova ed è lì che lo saluta con la manina, mentre Brunelli per 5.000 dollari la riscatta dal contratto e dalla tournée. Si trasferiscono a Roma, ma Gerda non diventa la signora Brunelli, semmai resta la sua mantenuta. Negli anni il clima era cambiato ed ora la Hodapp litigava con il suo uomo, perché lui rivoleva indietro la Jaguar - sua ma che le aveva intestato - e lei diceva che se l’auto si doveva rivendere allora doveva tenersi lei i soldi. Di fondo, la questione era ben altra: Brunelli voleva che lei facesse momentaneamente ritorno a casa; un avverbio che alla ragazza aveva fatto chiaramente capire che lui voleva ormai rompere la relazione. D’altronde, era un pezzo che litigavano. Nel gennaio-febbraio del 1962 era successo per la relazione tra lei e Franco Galassi, fratello di Angelo che stava con Christa. Brunelli non aveva affatto gradito e l’aveva fatta pedinare da un investigatore privato dell’agenzia “La guida” per scoprirlo. Ed erano stati fuoco e fiamme. E chissà che avrebbe detto, se avesse saputo di quell’altra storia che Gerda aveva avuto con Michele Sakkara successivamente, alla fine del 1962. Con lui finse di essere incinta, per avere soldi. E lui non si risparmierà commenti poco eleganti su Gerda: una ragazza fredda, dirà, sotto ogni aspetto. In qualcosa Gerda e Christa si assomigliano: il loro obiettivo è lo stesso. Stare al centro della Dolce Vita, farsi mantenere, mettere su famiglia. Gli uomini che cercano sono sempre benestanti e con un portafoglio ben gonfio di lire, in grado di fare regali, offrire viaggi, pagare il conto dei ristoranti di via Veneto. Con loro vanno a mangiare da “Tullio”, alla “Grotta del Piccione” di via della Vite, a prendere il caffè da “Doney” in via Veneto, a ballare al “Club 84” (che è praticamente di fronte al palazzo di via Emilia) o al “Pipistrello” di via Emilia ed allo “Shaker” di via Archimede. Qui bisogna sempre essere vestita a puntino. La sera in golf e gonna non si entra in nessun locale, scriveva Christa alla sorella. Sono anni diversi dai nostri. Anni in cui c’è - a rigore di Codice 38
Civile - il Pater Familias che comanda, anni in cui il divorzio è roba da marziani, in cui la donna è ancora l’angelo di casa e accudisce la prole. Anni in cui lui può fare quello che vuole perché, si sa, l’uomo è cacciatore: e lei lo lascia sfogare, l’importante è che torni a casa e le apparenze siano salve. Ma a tutto questo Christa e Gerda non ci pensano: la fedeltà è argomento che non le riguarda. E infatti in quel 1963 macchiato di sangue Angelo Galassi aveva già lasciato Christa e Giorgio Brunelli era ai ferri corti con Gerda… Angelo e Giorgio, che incarnavano proprio questo stereotipo maschile. Tanto che dai verbali della Mobile di allora, impietosi per definizione, in sole ventiquattro ore salta fuori tutto, anche che Galassi Angelo aveva frequenti congressi carnali con Cecconi Maria Maddalena, coniugata, di anni trenta, la quale dichiara di avere avuto nel 1958-59 una relazione con il predetto e comunque di essere sempre rimasta in contatto con lui; di avere le chiavi di casa del Galassi, che solitamente frequenta. Tombola.
Gerda Hodapp
39
Eppure, nonostante tutto, Christa è anche una ragazza romantica, bugiarda ma in cerca del grande amore, probabilmente affascinata come tante da quel mix tutto italiano di galanteria e fisicità che, perlomeno negli anni Sessanta, era il nostro slogan. E affascinata anche da una ricerca di libertà che l’aveva portata fino a Roma: da cui non poteva tornare a casa, senza dichiarare il fallimento della sua ricerca. Apriamo con delicatezza le lettere che scriveva ad Angelo dalla Germania. Sono fogli che il vento di Roma, tra i tavolini di questo caffè, spettina. È come tornare indietro nel tempo, ad una lontana primavera del 1963. Ecco quella col cuore rosso, fatto col pennarello a mo’ di sigillo che chiude la busta. Ecco le sue parole, la sua grafia: non giocare troppo alle corse. Lo chiama Schatzi. Lo ama. E poi Christa che vuole una sottoveste per il tailleur. Che gli chiede se lo tradisce. Christa che gli chiede di avere più fiducia in lei: ho smesso con la vita che ho fatto fino ad un anno fa. Christa che scrive che le manca, che ha voglia di lui. Sono lettere tenere, ingenue, in un italiano sgrammaticato che cede il passo all’inglese ed al tedesco quando è in difficoltà. È gelosa della segretaria di Angelo, delle amiche, di tutte quelle che vede. In una lettera aggiunge una postilla alle 21.30, perché lui ha detto che l’avrebbe chiamata e non l’ha fatto e allora lei si risente di stare ad aspettare. Diventa triste e preoccupata, pensa che ci sia un’altra, perché lo ha chiamato alle 8.00 di domenica mattina e non lo ha trovato a casa. Ma in fondo è tollerante: anche se è convinta che lui l’abbia tradita, in fondo le sta anche bene. Basta che lui smetta quando lei torna in Italia… solo che da Roma giungono rare lettere da Angelo e altrettanto poche sono le telefonate. La situazione si è capovolta, ora è lei che lo cerca e Schatzi che sfugge. Altra luce sulla personalità di Christa, poi, la porta la testimonianza di Helga Sammer, sua amica, sentita dalla Polizia Tedesca. Era ad Helga che la ragazza col cappotto verde raccontava tutto. Scorrendo le vecchie carte della Mobile, con le mani impolverate, alla fine il ritratto di Galassi che esce fuori è questo: un uomo eccessivamente geloso, uno che la picchiava per sapere chi erano gli 40
uomini i cui numeri stavano nelle sue agende, che le chiedeva se era lesbica, se aveva preso parte a delle orge. E la Wanninger preferiva ammettere queste cose, che essere picchiata. Era molto sottomessa a lui, dice la Sammer. Impediva che lei lavorasse: proprio per evitare che conoscesse altri uomini. Di contro, lei gli rimproverava di avere un’amante, la Cecconi Maddalena, appunto. A Christa piaceva Sauter, di professione ricco industriale, ma dice la Sammer che riteneva che essendo sposato non se ne potesse ricavare nulla, così nello stesso periodo fece sesso anche col suo segretario. Tuttavia, tornata a Roma, continuava a scrivere alla Sammer di essere molto innamorata di Galassi. E la Sammer conferma il racconto di Gerda: il 27 aprile, a mezzanotte e mezza, per telefono aveva buttato giù dal letto l’amica, dall’abitazione di Galassi dove si trovava con Gerda (ricordate?), per dirle che vi aveva trovato molta biancheria intima femminile… la conferma dei suoi sospetti. Va bene, ma che tipo era Christa? Non era una gran lavoratrice, puntava in alto e pensava prima a se stessa. Era pigra sul lavoro ma di animo buono, risponde l’amica.
41
Capitolo 5 Si mette male per Gerda
In un caldo maggio romano del 1963 la Mobile riascolta Sciamanna, il “signor Leonardi”, ultrasessantenne energico dal viso a forma di teschio che, esattamente ventiquattr’ore dopo il delitto, fa due precisazioni che diventano fondamentali: spostano tutto in avanti. Christa non è più uscita alle 14.00, ma alle 14.20, dice. E la Hodapp mi ha richiamato non si sa bene se un quarto d’ora o mezz’ora dopo che l’avevo chiamata io. La sua deposizione è confermata da Maria Concetta Basti, la cameriera della Pensione, una ragazza col fazzoletto in testa. Non è roba da poco. Probabilmente l’uomo ha letto i giornali, ha visto che i conti non tornano con quello che ha detto lui e si è accorto dell’errore, perché infatti adesso tutto ha un senso. Seguiteci: - Christa esce dalla Pensione Leonardi alle 14.20 (e infatti via Sicilia è vicinissima a via Emilia, ci sta), passa dalla tintoria al 18 della stessa strada dove abita (doveva ritirare un abito che però non era pronto, come racconterà la stiratrice Anna D’Amico) e percorre i 220 metri che vanno dalla Pensione al portone del palazzo dove morirà; - arriva, orologio alla mano, alle 14.25 circa in via Emilia 81; - passa davanti alla Barbonetti, sale con l’ascensore, suona; l’amica non risponde, resta davanti alla sua porta pochi minuti. Quasi subito arriva l’assassino (ma quando è entrato?); - alle 14.30 il garzone della fruttivendola, Gilberto Lanni, si allontana dopo aver sentito gridare; - qualche minuto dopo le 14.32 la Polizia riceve la telefonata d’allarme; - alle 14.35 una voce in tedesco cerca Christa alla Pensione Leonardi; 43
- pochi minuti dopo la Volante SM 85 frena in via Emilia e gli agenti si lanciano per le scale; - alle 14.40, mentre la Polizia sta portando via Christa verso l’ospedale e l’ambulanza si è appena fermata davanti al portone del palazzo, Sciamanna chiama la Hodapp, la quale risponde che hanno fatto male a Christa e che richiamerà lei; - alle 14.50 la Hodapp apre finalmente la porta al brigadiere D’Ancona; - tra le 14.55 e le 15.10 (Sciamanna non è chiaro sui tempi), la Hodapp, su richiesta della Polizia, richiama la Pensione per chiederne il civico. Gerda, allora. Quello che lei dice non collima con quanto affermato da Sciamanna e dalla Basti, che insistono sulla loro versione così come insiste lei. È proprio qui che si gioca la partita, infatti. Poche ore dopo il precedente interrogatorio, appena giorno la Hodapp è di nuovo lì, in Questura, negli uffici della Mobile. Deposizione di Hodapp Gerda del 4 maggio 1963, già in atti generalizzata. Ore 11.00. Circa i miei movimenti di ieri mattina preciso quanto segue: alle 10.00 mi ha telefonato il mio amico Antonio Migliavacca, che cercava Brunelli, il quale tuttavia era fuori Roma. Alle 11.00-11.30 ha chiamato la segretaria di Brunelli per dirmi che Giorgio sarebbe partito nel pomeriggio e di riferirlo a Migliavacca. Cinque o dieci minuti dopo ho chiamato il Migliavacca, che si trovava all’Hotel Moderno, ma senza trovarlo. Alle 12.30 mi ha telefonato la Wanninger, preannunciandomi la sua visita ed alla quale risposi di chiamarmi quando stava per uscire. Le dissi anche che se non avessi aperto avrebbe dovuto ritelefonarmi per farsi aprire. Prima delle 13.00, quindi, mi ha richiamato il Migliavacca. A domanda rispondo che ho il telefono accanto al letto e che dopo ogni chiamata mi riaddormentavo. Successivamente mi sono svegliata perché ho sentito suonare alla porta, ma non mi sono alzata perché è mia abitudine non aprire la porta e la Christa lo sapeva. A 44
domanda rispondo che quando ho sentito suonare, alle 14.30, ho capito che era lei ma ugualmente non ho aperto. Non so perché ho agito così. Ero nel dormiveglia e forse pensai che se non avessi aperto se ne sarebbe andata, telefonando successivamente. È passato un po’ di tempo prima che sentissi bussare. Poi ho sentito la sirena ed in quel momento ho sentito bussare ancora e, pensando fosse la Wanninger, ho aperto. Non posso aver detto a quelli della pensione che la Wanninger si era sentita male, perché ho saputo solo più tardi dalla polizia cosa era successo.
Gerda Hodapp
«Che possiamo osservare su questo interrogatorio? Armando, che ne pensi? Questa strana cosa di farsi telefonare per aprire, ecco, come la vedi? È una pigrizia estrema, ma che ci sta, o è proprio indizio di qualcosa, come ritenne la Mobile di allora?» «Non so, certo la situazione era particolare. Giriamo e rigiriamo il fascicolo di sopralluogo, ma del telefono nessuna traccia, non se ne parla: penso che comunque possa trattarsi di quei telefoni di co45
lore nero molto pesanti, con il selettore a disco… e oltre che pesanti anche molto rumorosi… Mi pare strana questa situazione del farsi telefonare prima, però la vita delle due tedeschine, basata su orari sicuramente singolari, non me la fa apparire impossibile». Per la Polizia il racconto della tedesca restava comunque troppo strano. Fuori da ogni logica. Mentre i flash dei reporter lampeggiano ad ogni arrivo della Hodapp in Questura e i cronisti inseguono Migliorini per i corridoi, gli scatoloni delle perquisizioni vengono capovolti sui piani di vetro delle scrivanie. Da quello della Pensione cade sul tavolo un album di collage della Wanninger. Ecco Christa davanti alla torre di Pisa, con gli amici in birreria, che balla sopra un tavolo vestita da marinaretta, che gioca a fare Brigitte Bardot. Eccola nei ristoranti romani nell’immancabile scatto del fotografo ambulante, tra piatti vuoti e sigarette accese. Le foto dei ristoranti non mancano mai, sono un classico dell’epoca: le ha anche la Hodapp, insieme a quelle dietro il mobile bar di casa Brunelli e quelle in cui, provocante, sta su una poltrona con le gambe rannicchiate. E queste foto di lei che esce nuda dalla vasca da bagno, chi gliele ha scattate, signorina Hodapp? Veramente non ricordo, risponde lei senza guardare. È un delitto che fa il botto, sui giornali: e si capisce il perché. Perché erano anni in cui la criminalità a Roma era tutta un’altra cosa. E anche la Polizia era tutta un’altra cosa. Da non molto tutte le auto erano in contatto radio tra loro: fino ad allora era normale che ogni tanto le volanti si dovessero fermare e chiamare la Questura, da qualche telefono pubblico, coi gettoni, per avere informazioni e ordini… Oppure, se era notte, ci si dava convenzionalmente appuntamento, ad una certa ora, in qualche bar aperto. Sembra incredibile, ma nel 1962 l’ordine pubblico a Roma era mantenuto con quindici auto e venti moto. Fu così che in quegli anni, per inseguire meglio i criminali che avevano auto più veloci, la Questura si dotò del46
la Ferrari guidata dal maresciallo Armando Spatafora, una vera leggenda della Polizia italiana, che dette vita ad anni di inseguimenti folli nelle strade di una Roma notturna. Ma anche i pregiudicati erano diversi: quando li bloccavi lottavano, come oggi, ma si arrendevano anche al più forte, non sparavano mica, anche perché non andavano in giro armati. La maggior parte dei reati avveniva di notte: ed erano le stesse ore in cui il malavitoso andava a spendere i soldi che aveva guadagnato rubando. Quindi era il turno da mezzanotte alle sette che era il più difficile. Ma erano diversi anche i reati: c’erano soprattutto i furti con destrezza, i falsari. Potevi lasciare la macchina aperta in via Veneto fino alle 4.00 del mattino e non succedeva nulla. Tanto c’erano poche auto, se la rubavano la ritrovavi subito, dove andavano? Anche in casa i ladri non venivano, non c’era niente da rubare! Così, si facevano soprattutto i negozi. E, sembra incredibile, ma era da poco, soltanto dal 1962, che a tutti i poliziotti avevano dato il giorno di riposo settimanale, che prima non esisteva… In gergo la chiamavano “la giornata Fanfani”, perché l’aveva varata lui, quando era Ministro dell’Interno. La Scientifica torna dal sopralluogo nell’abitazione di Giorgio Brunelli. Un salone, una camera da letto, uno studio, una cucina, un piccolo balcone ed un bagno. Molto disordine, molte carte dell’uomo. Chiuse le due porte della stanza da letto, notano che il suono del campanello si percepisce distintamente. In modo attenuato il bussare. Non si percepisce la voce di chi sta sul pianerottolo: sempre se non grida, s’intende… «Questi sono però esperimenti empirici - interviene Armando, scettico - magari fatti ad ore e date differenti, molto utilizzati all’epoca, ma sicuramente poco rispondenti alla realtà. Con la polizia nel palazzo, la concentrazione degli abitanti dello stabile era sicuramente finalizzata a curiosare su quello che si stava facendo: mi immagino la scena: tutti i condomini con la televisione e la radio spenta e magari dietro le porte ad origliare. No, non credo che possa considerarsi un test attendibile». 47
Ogni giorno, ogni giorno interrogano Gerda per ore. Poi, la sera dell’8 maggio, polizia e giudice non ne possono più. E pensano che per far parlare la ragazza ci sia un solo modo. Eccola scendere le scale in mezzo a funzionari in borghese, giacca e cravatta e faccia da poliziotti, seri. Lei sembra un po’ smarrita, ha l’aria preoccupata nel suo tailleur chiaro e i fotografi man mano indietreggiano per coprire meglio coi flash tutta la scena. Una scena surreale. La ragazza e gli uomini che scendono in silenzio, i fotografi che urlano di girarsi, di guardare di qua, più in basso. Di diventare protagonista, di firmare la propria vergogna, la propria accusa. È successo che hanno arrestato Gerda, per favoreggiamento. È il 6 maggio, sono passate le 16 e la stanno portando dentro, tra il crepitio delle Rolley dei fotografi. E lei ci va così, nel suo tailleur alla moda. E pensare che era venuta in Italia per camminarci in via Veneto. Dolce Vita, eh? Sono strani giorni, giorni in cui tutti si interrogano su quello che evidentemente sa e non dice Gerda e soprattutto sul perché. Giorni in cui alla tedesca - lo stesso giorno dell’arresto, per la precisione giunge una busta da Norimberga, con dentro un cartoncino bianco. Sopra c’è scritto, in linguaggio Morse: GERDA TACI NON TI MUOVERE ALTRIMENTI FAI LA STESSA FINE.
Il problema è che lei, il Morse, proprio non lo conosce. Ci pensa la Polizia a tradurre, ma chi diavolo le ha spedito quel biglietto? E perché? Uno dei fascicoli più belli dell’istruttoria è e resta quello delle immancabili lettere anonime giunte in Questura in quei giorni: che sono ben 47. E vanno tutte contro la Hodapp. Come questa: la colpevole è Gerda vestita da uomo, che somma la tedesca con l’uomo in blu, in un’unica figura… La più spassosa, invece, questa: perché non si procede contro la Hodapp con delle piccole torture sempre con moti di “allegretto andante” essendo una giovane donna? Provi a minac48
ciarla di tagliarci i cappelli (!) a zero e anche di torturarla, vedrà come poi parlerà, perché una giovane per quanto bella che sia, senza cappelli (!) diventa un rospo. Inevitabile l’annotazione posta a fianco da Migliorini: una sequela di punti interrogativi ed esclamativi. Ma Gerda sta rubando la scena all’amica morta. Con i suoi silenzi, le sue mezze parole, con quel modo di rispondere che è dettagliato e fluviale quando si tratta di particolari lontani e di monosillabi quando deve spiegare cos’è accaduto quel giorno. Un modo di fare che fa andare ai matti Migliorini. Ci sta uscendo pazzo. La tedesca sembra non capire quello che le chiedono, è stranamente laconica e meno parla più dà l’impressione di nascondere qualcosa, tanto incredibile è il suo racconto: quel non aver sentito un omicidio che avveniva a pochi metri da lei e che ha richiamato mezzo palazzo davanti alla sua porta. A Rebibbia, non appena arrivata, piomba in uno dei suoi famosi e lunghissimi sonni.
49
Capitolo 6 Brunelli, Galassi e le tedesche
Naturalmente anche Giorgio Brunelli c’è finito in mezzo; e con lui Angelo Galassi. Alibi controllati. Il primo era in Liguria a votare; il secondo, dalle 13.20 alle 14.30, da “Tullio”, dove aveva pranzato con dei testimoni… Risultava anche che avesse telefonato, dal ristorante, a Firenze, dalle 14.38 alle 14.41, per fare gli auguri di compleanno al padre. E poi alla Pensione Leonardi (non solo non aveva trovato Christa, ma l’avevano pure scambiato per tedesco…) ed infatti gli orari tornavano: Sciamanna non collocava forse questa chiamata alle 14.35, cioè giusto prima dell’altra? Quindi Angelo Galassi era uscito, aveva preso il caffè da Doney; alle 15.10, andando in edicola, aveva notato un gruppo di persone davanti al portone di via Emilia. Che è successo? Un garagista gli rispondeva che hanno ferito n’americana e lui se ne andava dal barbiere. Brunelli e Galassi, però, erano due bei soggetti: prendiamo il primo, ad esempio. Anche lui un tipo molto geloso: d’altronde aveva capito con chi aveva a che fare. Uno che quando usciva, peraltro senza dire per fare cosa, voleva che Gerda rimanesse in casa. Una bella lotta, lui e la Hodapp: con ognuno che rinfocolava la guerra col proprio comportamento, le proprie pretese e le proprie libertà. Litigavano spesso e altrettanto spesso erano liti che finivano con lui che prendeva a sberle lei. Una volta era stata lei a spingerlo, facendolo cadere; un’altra, lui le aveva lasciato dei lividi sul collo. Certo che anche Christa e Angelo non scherzavano. Erano due che, anche se lui l’aveva mollata, non riuscivano a lasciarsi. La 51
sera del 30 aprile, ad esempio: negli interrogatori successivi si scopre che Gerda e Christa erano uscite insieme ma, al ritorno verso casa, verso via Veneto, avevano visto proprio Galassi ai tavolini di Doney. La Wanninger era andata da lui, la Hodapp a casa. Al mattino dopo (e siamo al 1 maggio, il giorno prima del delitto) la Wanninger le aveva raccontato - sai la novità - di aver litigato con Galassi in mezzo al bar, di avergli dato un calcio dopo che lui l’aveva insultata, tanto che un amico le aveva consigliato di non tornare a dormire in Pensione. Consiglio interessato (l’amico in realtà avrebbe voluto passare la notte con Christa), ma basato su altri episodi del passato, in cui Angelo aveva aspettato Christa sotto la Pensione per vedere a che ora tornava e con chi: liti in mezzo alla strada, anche queste, finite con altre sberle e lacrime. E altri racconti da fare all’amica che ormai s’era stufata di sentire tutte le lamentele della Wanninger a proposito di Angelo e di Sauter e questo e quell’altro… Oggi, quelle liti in mezzo alla strada, avrebbero attirato senz’altro l’attenzione della gente, ma in quegli anni a via Veneto era normale amministrazione assistere a scenate di gelosia particolarmente plateali tra “fidanzati” della Roma bene. E sì, perché Christa non rinunciava comunque a tenere i piedi in due staffe. Così, la mattina dopo - il 1 maggio - aveva comunque telefonato a Sauter, verso le 15.00, per dirgli che non aveva le mestruazioni e temeva di essere incinta. Il metodo classico per chiedere soldi per abortire... già usato anche dalla Hodapp in altri casi, se il maschio di turno ci cascava, per evitare lo scandalo e una gravidanza di cui non aveva alcuna voglia. In questo quadro avviene l’interrogatorio di Angelo Galassi, che passerà diverse ore a descrivere i suoi rapporti con Christa. A raccontare perché dalla convivenza nella casa di lui, in via Panama 110, si era giunti alla rottura di un rapporto sempre contrastato: come a settembre 1961, quando lei gli aveva promesso di aver strappato dalla sua agenda i numeri di telefono di quelli con cui era stata prima. Ma poi lui aveva scoperto che in una scatola lei aveva 52
conservato quei ritagli. Le aveva dato due schiaffi e avevano litigato. Nel gennaio 1962, poi, Galassi aveva contratto la gonorrea, da Christa, capendo dunque che lei lo aveva ancora tradito. A metà marzo 1962 si era allora deciso a lasciarla e l’aveva mandata via da casa. S’erano rivisti per Pasqua e avevano ripreso a frequentarsi, saltuariamente… perché in realtà Galassi voleva sempre sposarla. Da lì in poi era stato tutto un tira e molla di prendersi e lasciarsi, liti e riappacificazioni. Ma quando lei era ripartita per la Germania siamo arrivati a gennaio 1963 - in lui si era fatta strada l’idea che Christina si stesse divertendo lontana da lui, che non conducesse insomma la vita di una ragazza desiderosa di sposarsi. E arriviamo al 24 marzo 1963, quando non le perdona gli ennesimi tradimenti e le dice che si è fatta pagare da alcuni uomini. Fogli scritti col fuoco, parole che fanno male, col sapore dell orgoglio ferito e di una perdita totale della fiducia: Ancora dieci minuti fa, al telefono, hai voluto mentire ancora per confermare la tua natura stupida e cattiva (…) È triste constatare che non hai voluto cambiare vita (…) Forse per essere amati da donne come te bisogna essere molto diversi da come sono io. L’epilogo è quello classico. Lei qualche tempo dopo passa da Fiumicino mentre è con Sauter, prende la lettera e gliela rimanda in busta chiusa. Non si sentono più fino a verso Pasqua 1963, quando si incontrano al cinema, per caso, facendo - come si usa in questi casi - finta di non vedersi. Poi lui la vede un’altra volta di notte, affacciata alla finestra della Pensione di via Sicilia. Fino alla notte tra l’1 ed il 2 maggio, cioè dopo la lite tra i tavolini di Doney, quando Christa entra in casa di Angelo così, senza preavviso, di notte, con le chiavi che le erano rimaste. Si erano riconciliati, gli aveva detto che non poteva vivere senza di lui ed avevano fatto l’amore, finché alle 5.00 del mattino lui, in auto, l’aveva prima portata a Porta Pia dove s’erano presi un caffè e poi l’aveva riaccompagnata in via Sicilia. Per rivederla in prima pagina sul giornale, due giorni dopo, e scoprire che Christina era all’obitorio. 53
Insomma, due ragazze infedeli e due uomini infedeli e gelosi sono le pedine del caso. Solo che i due uomini avevano l’alibi, una ragazza era nel frigorifero dell’Istituto di Medicina Legale e l’altra in carcere. E non si trovava un motivo a tutto questo, nemmeno mezzo.
54
Capitolo 7 Cinque agendine ed un’unghia finta
Un delitto come gli altri? E chi l’ha detto? Roma fa un sacco di ipotesi, nei bar. Dove stava l’assassino? - È salito subito dopo ‘a tedesca, no? L’ha pijata in ascensore, poi quanno se n’è annato er cancelletto s’è richiuso, chiaro. - Ma no, macchè! Nun l’hai capito che l’ha aggredita mentre usciva dall’ascensore? No, dico, ma te la prenderesti a cortellate una, dentro a n’ascensore? - Ma che state a ‘ddi? Nun l’avete capito che quello è uscita dall’appartamento dell’amica e l’assassino la stava a’ aspettà? Ha cercato de pijà l’ascensore, ma quello l’ha afferrata, chiudendo er cancelletto! Devono fa parlà ‘a tedesca! E se ne parla talmente tanto che “Il Tempo” del 5 maggio indice addirittura un concorso a premi tra i lettori. Dove è stata aggredita la Wanninger? Gentili lettori, troverete il fondo alla pagina il talloncino da compilare e rispedire nella nostra redazione. Barrate con la x la casella: accanto alla porta? Nell’appartamento? O sulla soglia dell’ascensore? Passano un po’ di giorni e la musica non cambia. Gerda continua a rispondere a spizzichi e bocconi. L’11 maggio arriva intanto - ad un giornale della sera, proprio come in un giallo - una bella busta bianca, con su scritto “Paese Sera-Roma”. Quando la aprono, in redazione, dentro trovano un’unghia color fucsia. Sì, un’unghia finta. «Il biglietto che ci sta insieme dice che è stata trovata nell’ascensore, anzi in una delle intercapedini che stanno sotto la porta dell’a55
scensore. Chi l’abbia spedita non si sa, visto che la firma non l’ha messa. Certo sarà stato qualcuno del palazzo. L’unghia finisce naturalmente in Questura: è proprio quella che mancava dal dito medio sinistro delle mani di Christa e la domanda è: ma allora l’aggressione è davvero iniziata nell’ascensore? Confesso che è uno dei particolari di questa storia che mi affascinano di più». «Non credo Fabio, l’unghia poteva finire nell’incavo delle porte dell’ascensore ben dopo l’aggressione. Ricordiamoci che in quel pianerottolo stretto, con un corpo a terra, c’erano moltissime persone. Anche dopo che Christa fu portata via arrivarono, investigatori, giornalisti ecc., tutti a salire e scendere con quell’ascensore. Lo sai qual è il problema? Nessuno ha mai pensato al quel pianerottolo come ad una scena del crimine, da chiudere, sigillare ed analizzare. Si è abituati, nell’ambiente, a considerare una “stanza” la scena del crimine, un appartamento intero, addirittura un prato se ci viene trovato un cadavere, ma un pianerottolo di passaggio, no. In quel posto transitavano persone, salivano e scendevano dall’ascensore, entravano ed uscivano dalle altre porte: era una zona di passaggio, ma non una scena del crimine». Ma se si parla così tanto della Hodapp è perché quest’uomo che i giornali definirono subito “in blu” (ma che per Venturoli, Di Carlo e Cobo è grigio scuro, mentre per Pazzi e Graziani è blu; da dove uscì fuori che era “in blu” non si sa, tanto più che per la Barbonetti era genericamente un abito scuro…) non si trova. Non se ne sa nulla. A questo punto qualsiasi nome maschile trovato nelle agendine della vittima potrebbe essere quello giusto. È così che entra nelle indagini Giuseppe Lima, un palermitano che il 2 maggio, nel pomeriggio, è sparito da Roma. Nella sua camera di Pensione a via Gioberti la polizia trova molte foto porno ed un abito blu. In realtà Lima non c’entra nulla e più che sparito è solo partito in fretta, diciamo… senza pagare il conto. Ed esce dalle indagini così come ci era entrato. Non sarà l’unico: sono cinque le agendine di numeri telefonici 56
che Christa aveva, per la maggior parte numeri di locali notturni o di uomini. E naturalmente su queste agendine si scatenano le supposizioni, l’immaginazione di tutti. Peccato che non portino a nulla: interrogati, si scoprirà che quegli uomini hanno tutti un buon alibi o che non la vedevano da tempo. Il problema è proprio questo: che la ragazza col cappotto verde non aveva nemici, ma amici. Non c’era nessuno, insomma, che poteva avere un qualsiasi motivo per accoltellarla su un pianerottolo, così, nel primo pomeriggio. Sono le avvisaglie della caduta di interesse verso il delitto di via Emilia. Il 18 maggio la polizia gioca la carta dell’orrore. Col pretesto di un riconoscimento ufficiale portano Gerda in obitorio e aprono il frigo dove, da sedici giorni, sta il cadavere della Wanninger. E glielo mettono davanti. Uno spettacolo terrificante, seguito da un interrogatorio. Un tentativo, insomma, di scuotere la freddezza della ragazza; ma che non serve a nulla. Il 2 giugno i cronisti si tirano un attimo su, quando il distinto signor Hermann Sauter viene a Roma, con tutta calma, per rispondere alle domande dei giudici. È proprietario della Società Industria Meccanica Bergamasca, in Italia, più altra roba in Germania. Ha conosciuto, dice, la Wanninger nel febbraio precedente, durante il carnevale, e dice di averla vista cinque volte, senza averle mai dato del denaro. Più di tanto da dire non ha, a parte che quel 2 maggio si trovava all’aeroporto di Monaco, alla volta di Zurigo e quindi di Milano, dove era atterrato alle 14.55. Ma in fondo non era più nemmeno cronaca nera: pettegolezzi in giarrettiera. Le settimane passano, novità non ce ne sono, Gerda tace e il caso scivola in seconda pagina, poi in quarta, poi a mezza altezza, quindi diventa un articolo laggiù in fondo e poi il nulla. La Hodapp continua ad escludere di aver voluto favorire l’assassino e di essere stata reticente. La polizia ed il giudice continuano a contestarglielo. Lei continua a negare di aver detto a Sciamanna, prima di aprire alla polizia, che la Wanninger s’era fatta male. La polizia ed il giudi57
ce insistono: mente. Così, alle 22.00 dell’11 giugno, a Rebibbia la mettono a confronto con Maria Concetta Basti, la cameriera della Pensione di via Sicilia. È un muro contro muro, nessuna delle due cede di fronte al Giudice Istruttore, che si chiama Salvatore Zhara Buda. La tedesca insiste nell’affermare che fu soltanto alle 16.00 che ricevette una telefonata dalla Basti, la quale però nega assolutamente di aver chiamato. E d’altronde, perché mai avrebbe dovuto farlo? Ancora, Zhara Buda ci riprova il 21 giugno. Ma niente. Insiste nel negare di aver ricevuto quella telefonata da Sciamanna e insiste con quella della Basti. Smuovere Gerda è impossibile ed in fondo è chiaro il perché. Perché, se ammettesse la versione di Sciamanna e della Basti, dovrebbe ammettere che sapeva della morte di Christa ben prima di aprire la porta alla polizia e qui sì che ci sarebbero delle spiegazioni da dare, allora… E allora vediamo se si riesce a cavare il ragno dal buco mettendo a confronto la Hodapp direttamente con Alfredo Sciamanna. Seduti di fronte, su due sedie di legno scuro, in una saletta grigia di Rebibbia, con Zhara Buda a un capo del tavolo, Sciamanna insiste di aver chiamato un quarto d’ora dopo l’uscita della Wanninger. Insiste che la Hodapp gli disse che avevano fatto molto male a Christa. Gerda nega: Non è vero! Fui io a chiamare lui, dopo, per avere il civico della Pensione! No! Replica l’uomo coi capelli bianchi. La mia seconda telefonata è avvenuta circa mezz’ora dopo la prima! E non c’era motivo che la Basti chiamasse nel frattempo la Hodapp, visto che già si sapeva che qualcosa era successo alla Wanninger, no? Impiegherà ancora altri interrogatori, Gerda, per ammettere quello che era evidente: e cioè che la telefonata di Sciamanna era effettivamente giunta, che tra loro insomma di chiamate ce n’erano state due, non solo quella in cui lei chiedeva il civico della Pensione, ma anche quella di lui che chiedeva della Wanninger. Lo ammetterà solo con ritardo, dicendo però che era avvenuta mentre la Polizia era già in casa. 58
Ma per tenere Gerda dentro occorrevano delle prove; e prove non se n’erano trovate. Contraddizioni tante, ma prove nemmeno mezza. L’assassino col suo abito blu (o grigio) era sparito in fondo alle scale, e da lì, inghiottito dentro il ventre della città, chissà dove, col suo coltello. C’era solo Gerda, ma Gerda non parlava. Sembrava un nastro rotto: dormivo, non ho telefonato, dormivo, che altro c’è da dire? Così, il 17 giugno non restava che arrendersi e concederle la libertà provvisoria. A Zhara Buda non rimaneva che sfogare la frustrazione battendo i tasti della sua macchina da scrivere nera, in ufficio. Certo è che l’atteggiamento tenuto dalla Hodapp al momento del fatto è a dir poco sconcertante; sa dell’arrivo dell’amica; pur tuttavia sentendo squillare il campanello non va ad aprire la porta e giustifica questo suo strano modo di agire affermando che non apriva quasi mai anche a persone che attendeva, specialmente se era a letto. Senza dubbio sul piano meramente logico questa sua asserzione è discutibile, ma potrebbe essere perfettamente coerente col suo sistema di vita e con le sue abitudini e quindi non è probante né in senso positivo né in senso negativo. Ma la circostanza che suscita più dubbi e perplessità è rappresentata dal lungo tempo che ha impiegato prima di aprire la porta (…) giustificandosi con l’affermare di non aver sentito suonare perché si trovava in stato di dormiveglia e di essersi svegliata solo al rumore della sirena. (…) Si può ritenere che la Hodapp potesse aver udito - conoscendone la causale - quello che stava succedendo all’amica e non avesse aperto la porta per non essere coinvolta nella vicenda. Appare però evidente che si opera solo su un piano di mere supposizioni, non essendo sorrette da alcuna prova (…) La Hodapp ha escluso di aver ricevuto telefonate dopo le ore 13.00, ha negato, pur essendo stata smentita, di aver ricevuto da parte dello Sciamanna quella telefonata che, per l’ora in cui è stata effettuata e per il suo 59
tenore, avrebbe inequivocabilmente dimostrato che essa sapeva della sorte toccata all’amica, prima ancora dell’ingresso della polizia nel suo appartamento. In una successiva deposizione ha modificato parzialmente tale dichiarazione, ammettendo di avere effettivamente ricevuto la predetta telefonata ma dopo l’arrivo della polizia; davanti al PM è tornata nella sua iniziale posizione, affermando che nella confusione creatasi non poteva ricordare di averla ricevuta o meno.
60
Capitolo 8 Ricostruiamo finalmente il delitto
Tuttavia, una ricostruzione del delitto a questo punto la possiamo fare. Rimettendo insieme tutte le tessere si riesce a capire anche il comportamento della Hodapp. In realtà, le cose andarono così. Christa esce dalla Pensione di via Sicilia. L’assassino è già lì e la aspetta, pronto a colpire. Colpire quando? Ha bisogno di una buona occasione. Per il momento mettiamo da parte il movente, che resta un mistero. Dunque, inizia a seguire a distanza la ragazza. Che passa in tintoria e poi imbuca via Emilia. L’ha già seguita altre volte e, vedendola imboccare la strada, sa già in che portone entrerà e a che piano. L’uomo dell’identikit la vede entrare nel portone. Sa bene che c’è una portiera e si ferma, indeciso sul da farsi. In quel momento il caso l’aiuta. Vede uscire una che può essere solo la portiera, la vede entrare dalla fruttarola, forse addirittura sente anche cosa si dicono. Capisce che è il suo momento. Lascia che la donna rientri, dà un’occhiata al negozio, vede che la fruttarola resta dentro e si avvia. Via libera. Come abbiamo supposto prima, sa già che la Wanninger è salita al quarto. Chiama l’ascensore, cosa che da piano terra è possibile. L’ascensore riscende dal quarto. Intanto, Christa sta suonando alla porta di Gerda che non ha nessuna voglia di aprire. Pigrizia? Forse non ha voglia di vedere l’amica? O forse solo troppe interruzioni al suo sonno? Fatto sta che Gerda pensa a se stessa e non apre, non ne ha voglia e basta. Ora Christa s’è stufata e sta per scendere le scale: non potrebbe in ogni caso chiamare l’ascensore dal quarto, non ha le chiavi. In quel momento l’assassino arriva e si rende conto che la preda sta per 61
andarsene. Esce di colpo dalla cabina, così in fretta che lascia aperte le porte interne. «Aspetta, Fabio: e se non fosse andata così? Ma siamo sicuri che Christa abbia suonato a quel campanello? Te ne avevo accennato prima… Vediamo le fotografie del sopralluogo, in particolare fai caso al tipo di campanello che si trovava dalla Hoddap, ora non esistono più. Era di quelli elettromeccanici a martelletto, mi spiego meglio. Quando si premeva il pulsante si chiudeva il circuito e quindi il magnete faceva battere ripetutamente il martelletto. Il classico suono in cui sono cresciuti i più grandicelli (le stesse sveglie a carica manuale avevano un suono similare), diversamente da oggi che quando si preme il pulsante si attivano melodie, più o meno accentuate. Allora no, il campanello era il “campanello”: quando suonava si sentiva anche ai piani inferiori. Poi la struttura della casa era singolare (aveva un doppio ingresso), con la camera da letto non troppo distante. Ecco, probabilmente Christa non arrivò mai a quel campanello: l’avrebbero sentito tutti». Ci guardiamo e mi convinco che è una ipotesi credibile; e poi c’è anche un testimone che non ricorda proprio di aver sentito campanelli… ma allora rimane soltanto un’altra ipotesi. Una a cui non ha pensato nessuno, finora. Christa non è stata seguita, ma anticipata. Armando continua, perché in questo caso l’ipotesi si sdoppia: l’omicida era già sul pianerottolo da molto prima, oppure attendeva la vittima fuori dalla pensione, riuscendo ad anticiparla per strada. Iniziamo con questa seconda ipotesi, ci sembra più verosimile. Continua, Armando. «L’assassino conosceva le abitudini di Christa, magari l’ha seguita per qualche giorno: non è una ipotesi improbabile, per alcuni aspetti la vita delle tedeschine era abbastanza prevedibile, notte brava e sveglia dopo l’ora di pranzo. Ipotizziamo che abbia provato qualche giorno a seguirla e magari erano alcuni giorni che faceva appostamenti. La vede uscire, ma in questo caso invece di seguirla la anticipa. Ormai sa che potrebbe andare dalla sua amica e la pre62
cede di quel tanto: Christa si era appena svegliata e non credo che avesse un passo spedito. Appena uscita dalla pensione lei entra in tintoria, lui ne approfitta per precederla. Insieme imboccano via Emilia ed ecco che vi è il momento cruciale. Anche la ragazza tedesca gira, è quello che lui aspettava, allunga il passo per i pochi metri che lo separano dal portone e vi entra. Certo, a questo punto la portiera è ancora lì, non è ancora salita, ma può non aver visto l’assassino per diecimila motivi, magari s’è distratta un attimo, è andata in un’altra stanza. Intanto lui sale le scale di corsa, senza prendere l’ascensore, e mentre lo sente muovere è già sul piano con il respiro affannoso a calmarsi, a cercare di placare l’adrenalina che ha in corpo, ma il tempo è troppo breve e vede la cabina fermarsi. La porta si apre ed esce lei, Christa, appena vede lo sguardo dell’uomo capisce subito che deve fuggire, si gira, cerca di riaprire la porta ma è troppo tardi e non gli rimane che alzare le mani per difendersi». Le coltellate e solo adesso le grida. Le coltellate, subito, ma certo! Prima che suoni il campanello e chiami aiuto. Christa perde poco sangue e comunque è tutto sul pianerottolo, non nell’ascensore. «È indubbio che le coltellate sono tutte fuori dall’ascensore - ribadisce Armando - perché al contrario di altri mezzi lesivi, quali per esempio i colpi d’arma da fuoco, causano una immediata fuoriuscita di sangue. Si, è così, non può essere entrato dopo di lei, aspettare che salisse con l’ascensore al piano per poi richiamarlo: no non è possibile. Al massimo l’ha aspettata e sono saliti insieme, ma è andata così».
L'ingresso di via Emilia 81
«Sono basito, questa proprio non me l’aspettavo! Tutti a chiedersi come avesse fatto ad entrare l’assassino con la portiera che entrava e usciva dalla fruttarola e in63
vece…» Corro a controllare le dichiarazioni della Barbonetti, ed è vero: in effetti non dice mai cosa ha fatto prima di aver visto entrare Christa. Un momento, ecco! Qui, questa intervista: prima non avevo visto nessuno, ma non ero stata sempre in portineria. Dunque, tutto torna. L’assassino l’ha preceduta! Ed è durante l’aggressione - che non avviene nell’ascensore, quindi - che Christa perde l’unghia che, infatti, la Blasetti testimonierà d’aver visto proprio sul pianerottolo, subito dopo. Gerda, che è sveglia, si alza di colpo, riconosce le grida dell’amica, capisce che sta succedendo qualcosa. Cosa? La porta non ha l’occhio magico, può solo sentire, ma quello che sente non lascia spazio a dubbi. Deve decidere ed ha pochissimi secondi. Aprire? Potrebbero ammazzare anche lei. Potrebbe fare altro: potrebbe urlare, richiamare l’attenzione. Correre al telefono e chiamare la polizia. Rimane paralizzata, sono pochi secondi ma intanto è tutto finito. Cerca di ragionare ma la portiera è su, grida, è il panico. Intanto l’assassino si rimette il coltello in tasca e scende le scale con calma: è la sua unica via di fuga, d’altronde. Gerda non sa più che fare, ora è lei ad essere nel panico. Capisce al volo che la sua indecisione sarà inspiegabile e in quell’istante iniziano a suonare alla porta. Sente le voci fuori, il loro giudizio su di lei, i loro commenti. In quell’istante chiama Sciamanna e lei dice quello che non ha visto, ma che ormai sa: hanno fatto male a Christa, molto male. Poi cominciano a tempestare la porta di pugni, il campanello urla. Si infila la vestaglia, pensa in fretta ad una versione, una qualsiasi da dare. A come giustificare la sua paura e anche il suo egoismo. Capisce che, se avesse aperto, Christa sarebbe ancora viva. L’ha fatta grossa. Ma l’unica cosa, la più semplice da dire è: dormivo. Non c’è più tempo per pensare altro. Deve aprire. Apre.
64
Capitolo 9 Sono io, l’assassino!
Dieci mesi dopo il delitto, il 6 marzo del 1964, quando ormai non se ne parla più, squilla un telefono, nel salone della cronaca della redazione di “Momento Sera”. Sono le 17.30 ed al 688641 risponde il giornalista Maurizio Mengoni. Dall’altra parte c’è un uomo, che vuole rimanere anonimo e che dice di avere importanti informazioni sul delitto di via Emilia. Quale, quello della Wanninger? Proprio quello. Dice che le vuole vendere al giornale. La voce chiede 500.000 lire di acconto subito e altri 4.500.000 di lire a saldo. Che nel 1964 sono bei soldi. La voce dice di aver assistito al delitto, che è stato commesso da un suo fratello paranoico e quindi irresponsabile: una storia strana, che però è condita con particolari veri, molto veri. Il ventiquattrenne Mengoni rimane colpito dalla proprietà di linguaggio dell’uomo misterioso. E ragiona: non dev’essere un mitomane, che senso ha? Ormai è una notizia fredda, una cosa vecchia! Qualcosa lo colpisce: la voce dice che Christa indossava un cappotto verde oliva. Come fa a saperlo? Mengoni allora ci pensa su e dice che si potrebbe fare, ma deve sentire i suoi superiori. Così, si accorda con la voce per risentirsi verso le 19.00. Quando, alle 19.05, lo sconosciuto richiama, non sa che nel frattempo è successo qualcosa. Una cosa davvero sorprendente: e cioè che Mengoni ha telefonato ai carabinieri. Nel momento stesso in cui inizia la seconda telefonata il giornalista schiaccia il tasto rosso del registratore Geloso e il nastro magnetico comincia a girare nelle bobine. Nel frattempo, altre orecchie sono in ascolto. Quelle di due marescialli dell’Arma. Il giornalista ha un compito preciso: tratte65
nere il più possibile la voce all’altro capo della cornetta. E farlo parlare. È un gioco per lui quello che ha fatto, lui gioca con la mente… poi tutto ad un tratto… reagisce e fa quello che aveva architettato come un gioco… (…) questa persona, chiamiamolo mio fratello… nessuno l’ha visto, non è conosciuto… non è una persona normale… si comporta normalmente… però ha queste crisi maniacali… (…) lui normalmente è una persona gentile,timido… non è un delinquente, soltanto… è molto malato, soltanto, praticamente per lui non sono malvagità (…) vorrei citare un particolare, non era vestito di blu… effettivamente aveva ragione quel ragazzo, era vestito di grigio scuro… è successo questo, ho visto a distanza mio fratello, si tratta di mio fratello esattamente… fino a quel momento non mi rendevo conto che fosse pazzo fino a questo punto… vengo ai particolari… quando lui è entrato, io sono entrato un momento dopo di lui… lui è andato su con l’ascensore ed io sono andato su a piedi (…) tutto il fatto è cominciato quando l’ascensore saliva… evidentemente i colpi che ha ricevuto al petto sono stati dati nell’ascensore… ed io ho visto l’uccisore vibrare, poi, le pugnalate alla schiena della ragazza che cercava di uscire… lui stava ancora dietro e colpiva… Ascoltata la parte più interessante della telefonata, la centrale della Teti (che all’epoca gestiva l’esercizio telefonico) di Santa Maria in Via localizza la chiamata: proviene da una cabina pubblica di Piazza San Silvestro. I due marescialli mollano le cuffie e insieme a due carabinieri raggiungono sgommando la piazza, si guardano intorno e puntano decisi verso la cabina accanto ai bagni pubblici. La voce che sta dentro viene sorpresa, la chiamata interrotta. È così che entra in scena l’uomo che cambia il caso Wanninger. Si chiama Guido Pierri. Ha trentadue anni. Ed è identico, letteralmente identico, alla faccia dell’identikit. Talmente identico che il giorno dopo il quotidiano titola: 66
Drammatica telefonata a Momento Sera. “Sono il fratello dell’assassino della Wanninger” Trovato in possesso di un acuminato coltello, è stato tratto in arresto. Ha detto di essere l’uomo in blu e di aver assistito all’omicidio. Le contraddizioni fanno supporre che si tratti di un maniaco, ma non si esclude che veramente non sia estraneo al delitto di via Emilia. Sotto, accostate, la faccia di Pierri e quella dell’identikit rimbalzano l’evidenza di una somiglianza che davvero è innegabile. Altra cosa interessante è che, quando lo perquisiscono gli trovano, nella tasca interna della giacca, un coltello lungo 30 cm. Molto interessante… Il tenente colonnello Luigi Margiotta, che guida le indagini, si aggiusta il nodo della cravatta e comincia a pensare che quell’uomo forse non voleva fare solo una truffa. Mengoni stesso, d’altronde, racconta ai carabinieri di aver avuto l’impressione che sapesse qualcosa di più sul delitto, qualcosa che non poteva aver letto sui giornali. La voce disse, infatti, che l’assassino era vestito di grigio, un dato che era stato riferito solo da alcuni testi. E lo colpisce anche l’affermazione che l’aggressione è iniziata nell’ascensore, altro particolare nuovo ma verosimile con le risultanze dell’autopsia, per la quale la prima coltellata era stata sferrata quando vittima e assassino era frontali e che lui doveva essere più alto di lei; a giudicare dall’angolazione del colpo. Ora, la Wanninger era alta 1 metro e 60 e Pierri, bastava guardare la carta d’identità, 1 e 78, che per l’epoca era un’altezza considerevole: teniamo conto che, negli ultimi quarant’anni l’altezza media degli italiani è cresciuta di circa 10 centimetri. Piazza San Silvestro è cambiata da allora, ma non tanto. Soprattutto non ci sono i punti di riferimento che c’erano quel pomeriggio di marzo di tanti e tanti anni fa. Io e Armando ci guardiamo intorno. 67
Niente cabina, niente bagni pubblici. «Eh sì - fa Armando - adesso è diventata un’isola pedonale con grandi panchine di marmo, una bellissima piazza, allora sicuramente era più caotica: c’era la Posta Centrale, quindi con orari più ampi delle normali succursali. Vedi? Era lì. Ci si veniva da tutta la città, per poter effettuare delle operazioni. C’erano anche i capolinea di molti autobus ed era un crocevia per molte linee urbane. Il luogo ideale per potersi nascondere tra la gente». «Però, mi chiedo: Armando, con questi elementi in mano come si sarebbe agito oggi, verso Pierri?» «Oggi come ieri, nel caso di omicidi particolarmente efferati e con un alto impatto mediatico, c’è sempre la problematica di “eliminare” quella serie di mitomani che cercano di addossarsi la colpa dell’omicidio. Per esempio, proprio nel nostro caso, il 9 maggio del ’63, poco prima delle ore 21.00, un giovane dall’aria sconvolta, a piazza Vittorio, fermò una pattuglia della Polizia confessandogli di essere l’omicida della tedesca. Era Nicola Canella, di ventisette anni, abitante a piazza Re di Roma. Dopo essere stato interrogato venne addirittura portato sul luogo del delitto per essere messo a confronto con la portiera, che non lo riconobbe nell’uomo in blu. Dopo pochi altri accertamenti si scoprì della sua fuga da una casa di cura… E poi facciamo un’altra considerazione. Voglio dire, è una storia incredibile, questa. È tutto così surreale, più ci penso e più la storia sembra davvero incredibile: dopo quasi un anno di indagini, dopo aver passato al setaccio la vita delle due tedeschine e dei loro frequentatori, dopo lo scoraggiamento di non sapere più da che parte dirigere le indagini… esce fuori Pierri. Oggi avremmo agito forse con più determinazione, gli elementi per iniziare un’azione penale ci sono tutti. L’unica differenza è che viviamo in uno stato di diritto e quindi alcune garanzie pro imputato che oggi sono normali allora non c’erano. Per esempio, se al68
lora Pierri fosse stato incriminato avrebbe atteso il processo agli arresti, mentre oggi difficilmente il Tribunale della Libertà concederebbe gli arresti cautelativi, mancandone i presupposti che ricordo sono il pericolo di inquinare le fonti di prova, di reiterare il reato e di fuga». Siamo rimasti al fermo di Guido Pierri: vediamo che accade dopo. Altri militari partono verso l’albergo Croce di Malta di via Borgognona 28, dove Pierri alloggia. Qui, nella sua stanza, la 18B, viene trovato un altro coltello, da cucina. Anche l’atteggiamento dell’uomo colpisce. Interrogato sul perché di quella richiesta di soldi al giornale, dice: Perché volevo che il cronista credesse che io sia l’assassino della Wanninger. Poi si corregge, dice che Margiotta non ha capito bene: Perché credesse che io fossi l’assassino, precisa Pierri. Ora, è molto chiaro che tra il congiuntivo presente e quello imperfetto ci stanno un’ammissione di colpevolezza e la sua negazione. Sta di fatto che a molte domande, nelle ore successive, l’uomo seduto sulla sedia rifiuta di rispondere, dando la sensazione di stare prendendo tempo. E di risposte ne deve dare, anche perché in quella stanza d’albergo non è stato trovato solo un grosso coltello da cucina, ma soprattutto cinque diari - quaderni con la copertina rigida rosso mattone - in cui sono contenuti degli appunti davvero strani; e che sembrano parlare a voce alta del delitto. Vanno dal 1949 al 1964. Ce li rigiriamo tra le mani, notando la grafia ordinata, elegante. Ad esempio, su uno c’è scritto: Escursione all’isola numero 1. Percorso quasi per intero lo stesso cammino. Avvicinato al vestibolo. Pericolosissimo. Inutilmente… come mai? Poi ho capito. Il mio subconscio mi spingeva a far ciò che avevo finora così facilmente evitato proprio per mettermi nell’impossibilità di realizzare il numero 2. Numero 1? Numero 2? Il diario appare, fin dalle prime pagine, come un luogo di indicazioni cifrate, misteriose, di una lotta tra Pierri e se stesso... ma per fare o non fare cosa? Il primo rompicapo da risolvere è esattamente capire di cosa stia 69
parlando Pierri… L’isola numero 1, per gli uomini di Margiotta, dev’essere l’edificio di via Emilia 81, cioè del primo delitto. Dunque Pierri è andato sul luogo del delitto, addirittura quasi entrando nell’androne? Perché? Se è così, quest’altra frase acquista un senso preciso, inquietante: Non faccio altro che girare sul luogo del n. 1; ieri ho preso il caffè nello stesso bar dove entrò la n. 1, vicinissimo alla prima tana ed oggi, subito dopo lo scacco, ci sono tornato di nuovo, probabilmente con la segreta speranza che qualcuno degli spettatori (i testimoni, nda) ci venisse e mi vedesse. In quel caffè, subito dopo, ho mangiato dei panini e bevuto una birra. Non c’è dubbio, anche uno stupido capirebbe che si tratta del famoso bar di via Lombardia 7, giusto all’angolo con via Emilia, dove andava la Wanninger... Qualche pagina più in là, invece, parla meglio del numero 2 e fa riferimento al sentiero di Joseph Ferraiolo 35B.5. Se non fossimo alle prese con un caso d’omicidio sembrerebbe uno dei giochi della Settimana Enigmistica: certo che questo Pierri è uno contorto, pensa Margiotta. Ragionandoci un po’ i carabinieri capiscono che è un modo per cifrare un’altra strada: via Giuseppe Ferrari 35, scala B, al cui interno 5 abita, guarda caso, una giovane francese di bassa statura (che in altre pagine del diario, secondo i militari, è nascosta dietro la definizione, non priva di una certa ironia, di microgallica), Micheline Robitaille. Qualche domanda alla straniera e si scopre che Pierri, rispondendo ad un annuncio per una stanza in affitto, si era recato da lei, sia il 21 che il 25 novembre dell’anno prima - sei mesi dopo il delitto - col pretesto di voler affittare una stanza per sua sorella. Sì, la Robitaille riconosce Pierri; come lo riconosce Maria Donatella Rosa (che nel diario è invece nascosta dietro Rosa Donata), presso cui abita la francese. La Rosa lo riconosce: quel giorno aveva, dice, uno sguardo anormale, tra l’estatico e l’ammirazione, ed ebbi l’impressione che volesse solo conoscere donne. Rimase stupita della visita di Pierri, visto che l’annuncio era, chiaramente, per sole donne. Sì, va bene, ma chi è Pierri? È nato nel 1932. Ha quattro fratelli 70
e tre sorelle. A scuola andava bene, ma preferiva i viaggi immobili garantiti dai libri di Salgari e Dumas, la dimensione dell’avventura. Così, ripete ben tre volte la terza media. Convinti i genitori a lasciar perdere la scuola, a diciotto anni comincia a lavorare in una ditta di costruzioni meccaniche, sempre con in testa la sua passione per il disegno e le arti visive, però. Avvia una storia con una collega di lavoro più grande di lui. La famiglia si trasferisce a Roma e lui li segue presso la filiale della stessa ditta, che però lascia nel 1961 per a suo dire - gli odi e le invidie dei colleghi. Nel febbraio ’62 lo troviamo a Parigi, dove annusa la “vie de boheme” che tanto lo affascina: quella dell’artista. Ma è indeciso, timido, non fa nessun tentativo reale di vivere davvero quella vita: si limita a sognarla, a guardarla da dietro il vetro. Tornato a Roma, trova difficoltà ad avere un nuovo lavoro e iniziano di nuovo i casini con i familiari, in particolare col padre Ciro. Rimane senza far nulla fino all’ottobre ’62, quando il padre lo piazza alla segreteria dell’Istituto Parificato “Archimede”, di viale Somalia. Qui era rimasto a lavorare fino all’agosto del 1963. «Qualcuno ha scritto che il delitto perfetto è quello che rimane insoluto. Se quello di via Emilia lo era, sembra incredibile quest’esigenza di Perri di raccontarsi in un diario dopo aver, forse, commesso proprio lui il delitto, no? Non ti sembra molto ingenuo, telefonare, scrivere?» Armando sorride con l’aria di saperla lunga. «Perché ci dobbiamo meravigliare? Nella nostra Italia dei misteri siamo tutti convinti che molti autori di delitti efferati, stragi e rapimenti ci racconteranno tutto un giorno, magari in punto di morte. Sorrido, pensando che anche io rientro in questa categoria: un giornalista spera fino all’ultimo nello scoop “modello estrema unzione”. Più passa il tempo - continua Armando - e più siamo fiduciosi, intanto il tempo corre e passano sessant’anni dal delitto di Wilma Montesi, più di trenta da quella di Ustica, venti dalla strage di via dei Georgofili e degli autori nessuna traccia. Vi piacerebbe sperar71
lo, ma ormai dobbiamo convincerci che gli autori non parlano. Nessuno tende ad infangare il proprio nome prima di tirare l’ultimo respiro, forse lo fa per i propri parenti, per essersi autoconvinto, con il trascorrere del tempo, di essere stato un semplice spettatore della propria vita o di avere un ruolo marginale. Comunque, nessuno parla. In questo caso abbiamo una situazione diversa: l’autore ha problemi psicologici, una forza interiore che lo spinge a rivelare le proprie azioni, a confessare. Persona complessa ma debole, vuole rivelare ma non ne ha il coraggio: e quindi crea un personaggio nuovo, il fratello. Anche in questo caso vuole depersonalizzarsi ed essere uno spettatore dell’accaduto, non vuole prendersi la responsabilità di quello che è successo. Però poi, in fondo, lo spirito di protagonismo, la voglia di dire e “vantarsi” di quello che ha compiuto hanno in parte il sopravvento. Sicuramente Pierri è una persona complessa, lo sai chi mi ricorda nella cronaca odierna? Michele Misseri, che si accusò dell’omicidio della nipote Sarah Scazzi, scomparsa senza lasciare traccia mentre si recava a piedi proprio a casa dello zio. Quando, dopo molti giorni di mistero, le indagini erano ad un punto morto, lo zio ha fatto ritrovare, inventando una storia surreale, dopo trentacinque giorni, il cellulare della piccola Sarah, per poi solo successivamente confessare di averla uccisa. Sensi di colpa? Spirito di protagonismo? Ma questa è un’altra storia...
72
Capitolo 10 Cosa sa Pierri?
L’idea degli uomini in divisa, comunque, è chiara: cifrare indirizzi e nomi nasconde il delitto Wanninger (il numero 1) e un nuovo sopralluogo, fatto per saggiare quanto fosse possibile fare una seconda vittima (il numero 2). Per Pierri la risposta è questa. La persona da me definita microgallica non esiste e non è mai esistita.(…) Joseph Ferrajolo è esistito solo nella mia fantasia, mentre la sigla 35.B.5 non ha alcun riferimento a cose o persone esistenti, come pure la frase “ospite di rosa donata”. Gli contestano immediatamente che sanno della Robitaille e di Rosa Maria Donatella. Niente. In realtà per Pierri la spiegazione è assai semplice. Voleva scrivere un romanzo giallo, ispirato ai fatti di via Emilia. Nient’altro. È così semplice! Per farlo, per essere il più verosimile possibile, aveva scelto di immedesimarsi con l’assassino, di fare come lui. Seguire donne, portare un coltello, chiamare i quotidiani, gironzolare sul luogo del delitto: ma senza aver mai voluto passare all’atto, s’intende. Era il suo personaggio che voleva farlo, non lui… Sostengo ancora che quanto da me scritto è per la maggior parte frutto della mia fantasia. (…) Non ricordo di aver mai conosciuto la cittadina straniera che voi dite chiamarsi Robitaille Micheline. Tutti i diari, gli appunti, le carte ritrovate; tutto, insomma, è solo e soltanto materiale per un libro da scrivere. Il suo diario è in realtà il diario di un assassino di carta, da romanzo, inventato? «È come un sogno, Fabio… e se non fosse tutto inventato? Quando si sogna o si delira c’è sempre una base di verità, che sia l’ambiente, le persone vicine, che sia un avvenimento, ma c’è sempre un qualcosa di vero». 73
Armando ha detto bene, in quelle pagine di diario Pierri si tormenta anche - e molto - sull’esecuzione di quello che sembra davvero voler essere il suo secondo delitto, il “famoso” numero 2, che non riesce a trovare la forza di compiere: Notte fra il 26 e 27 febbraio 1964. Dimenticavo: in questi giorni ho fatto moltissime escursioni sul terreno stesso del numero 1, di giorno e di notte. Due volte, di notte, sono passato dinanzi alla tana, soffermandomi persino un poco ad osservarla. È incredibile la mia incoscienza ed il rischio che corro, specialmente di giorno. Pure, sono quasi indifferente. Di giorno, nell’ora fatidica, ho seguito diverse piste con l’intenzione di realizzare il numero 2 nello stesso posto. Chissà se l’AZIONE lo farà… Se questi sono davvero i diari ed i pensieri di un assassinio, siamo di fronte a qualcosa di assolutamente unico nella storia del crimine: perché una possibilità simile di entrare nella testa dell’omicida non sappiamo quante altre volte sia successa. Affogate in una razionalità ossessiva, in un miliardo di sensi di colpa e di perché, quelle pagine sono un documento eccezionale. E per Margiotta le sorprese non sono finite. Non è tutto qui. Ma intanto la vita, a via Veneto, scorre “tranquilla” come sempre: 15 marzo 1964. Arrestati al Pipistrello. Due giovani ed una ragazza sono stati arrestati al “Pipistrello” mentre spendevano denaro rubato… il giovane, dopo qualche giorno di pedinamento, è stato sorpreso a spendere denaro nel night in compagnia di un complice. 21 maggio 1964. Pornografia a via Taranto. Film ‘cochon’ fatti in casa… Organizzavano, interpretavano, giravano e smerciavano nei lussuosi bar di via Veneto e piazza del Popolo filmetti pornografici di tutte le lunghezze e per tutti i gusti. Il prezzo: dalle quindici alle ventimila lire. 74
21 settembre 1964. Per due ore sulla cupola dell’Excelsior. Si tratta di uno studente colombiano: ‘Voglio volare’, ha detto ai vigili che lo hanno salvato. Via Veneto paralizzata dalla drammatica “quattordicesima ora”. … e poi arrivò il clamoroso “giallo del baule”. 18 novembre 1964. Un marocchino biondo e drogato nel baule diplomatico della RAU (Repubblica Araba Unita, si trattava di una unione politica tra l’Egitto e la Siria avvenuta negli anni Sessanta n.d.a.). Spionaggio, dice la polizia. Il giovane prigioniero ha un passaporto israeliano. Il ratto in via Veneto. I lamenti nella cassa, all’aeroporto. La fuga verso Ostia e l’inseguimento degli agenti. Rapito in via Veneto, forse dentro il famoso Cafè de Paris, rinchiuso una notte ed una mattina intere in un appartamento dei Parioli, un uomo è stato poi drogato, sistemato in un grosso baule e trasportato all’aeroporto di Fiumicino: stava per essere caricato su un quadrigetto di linea in partenza per la RAU, quando un finanziere ha sentito un lamento e si è insospettito. ‘Ma che cosa cercate? Ci sono solo degli strumenti musicali li dentro…’, è quello che, bruscamente, gli ha risposto un funzionario, primo segretario dell’ambasciata egiziana presso la capitale, che accompagnava la valigia diplomatica… …un baule che ora è esposto al Museo Criminologico di Roma. Ma torniamo ai diari… si scopre, infatti, che c’è un’altra persona reale nascosta in questi appunti che Pierri vuole far passare come quelli per un romanzo da scrivere e che invece giorno per giorno, ora per ora, si fanno reali, con personaggi che respirano e non sono fatti d’inchiostro. Un altro estratto fa davvero impressione: 6 marzo ’64. Credo che tra le ragioni che mi hanno impedito l’atto c’è che lei aveva, oggi, i capelli pettinati all’insù, diversamente dal 75
solito modo. Ciò ha reso la cosa diversa da come me l’ero immaginata, facendomi dubitare che anche tutto il resto potesse essere diverso (…)…non posso farlo (il numero 2, nda) se non ho l’aspetto che mi piace; non sopporterei di essere giudicato male da lei. Infine, era vestita non più di turchese ma di rosso. Con questo colore appariva meno bella, ma è sempre molto affascinante. Questi cambiamenti, apparentemente insignificanti, mi sconvolgono… non sopporto che tutto non sia esattamente come me l’ero immaginato e divento indeciso (così è stato per il cambiamento di pettinatura; così è per le variazioni di orario). Oggi non ho nemmeno provato per due ragioni, credo: una è la stessa di ieri: pioveva, tutto era brutto ed io stesso non ero soddisfatto del mio aspetto. Il numero 2, realizzato in queste circostanze, non sarebbe stato bello e perfetto… Ma qui si parla di un’altra donna, non della francese! I carabinieri cominciano a cercare nella zona di via Emilia e scoprono che la ragazza dal vestito rosso esiste davvero! È la venticinquenne austriaca Margaret Strele, abitante alla Pensione Borgnino di via Sicilia 66 - qualche civico più in là di dove alloggiava la Wanninger che, interrogata, si ricorda di aver preso l’ascensore con uno sconosciuto il 5 marzo, pochi giorni prima della telefonata da piazza San Silvestro, verso le 14.00. Ma non ricorda che faccia avesse, quel tale. Niente problemi! È lo stesso Pierri a confermare l’episodio, indicando la Strele come modello ipotetico di vittima numero 2 - per il suo assassino immaginario, s’intende - ai carabinieri. Anzi, specifica che la prima volta che l’aveva seguita aveva un tailleur color turchese; quando era salito invece con lei, in ascensore, aveva un vestito rosso. Nega, invece, nega risolutamente che la numero 2 sia una persona reale: per lui la Strele è un modello, una simulazione della vittima. Anche se dai suoi appunti si capisce che aveva il coltello in tasca, quando salì in ascensore con lei… Armando alza lo sguardo e mi pone una domanda: «Ma hai notato che anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una straniera? Non credo che sia un caso e possiamo interpretare questa scelta in 76
due modi: il primo riguarda lo stereotipo che caratterizzava le giovani e graziose straniere (in una Italia di vecchio stampo si vedeva la straniera come una donna emancipata della quale si raccontavano aneddoti e fantasie di tutti i generi…), il secondo è invece legato alla lingua, la scelta di una donna che non parlasse italiano, almeno come dato presunto, permetteva di frapporre tra lui e la vittima una nuova barriera, un ulteriore elemento di depersonalizzazione della vittima. La vittima è un oggetto, un mezzo per soddisfare il proprio impulso omicidiario o sessuale che sia, quindi non deve elevarsi al di sopra dell’oggetto stesso, non deve essere e non deve essere considerata una persona». Continuiamo a leggere il diario. I tormenti continuano, la battaglia all’ultimo sangue tra volontà e incertezza dilaniano Pierri in quello che sempre più sembra il diario di un assassino. 1 marzo ’64, ore 15.00. Non riesco più a sopportare me stesso. Oggi si è presentata l’occasione perfetta (…) e non l’ho fatto! Quale odio contro me stesso! Quale abominio! Era la stessa, incredibilmente bella ed elegante dell’altro ieri. Avevo aspettato dall’una fino alle due. È arrivata con mezz’ora di ritardo. Sul principio, quando ho cominciato ad aspettare ero sicuro (?) di me. Poi, passata l’ora dell’altro ieri (13.15) ero ormai sicuro che non sarebbe più venuta. Ho cominciato a maledirmi per aver sprecato quella bellissima occasione, a dirmi che non si sarebbe mai più ripetuta così invitante, a rimpiangere di non averlo fatto quando avrei potuto. Ad un tratto (…) l’ho vista arrivare! (…) Ho voluto vedere e, come per il numero uno, sono salito insieme a lei. Non ho neppure tentato. (…) Vedendola mi è sembrato impossibile farlo. (…) Così è stato e mi sono sentito impazzire, non conosco sensazione più orribile e insopportabile di questo sentimento d’odio contro di me, contro la mia incapacità di fare ciò che voglio, contro questa maledetta emotività nervosa. Posso dire di non averlo fatto perché nella scatola dell’entrata (l’androne, nda) c’era un P (portiere nella guardiola, 77
nda) e perché la tana è vicinissima ad un fortino di PP (posto di polizia, nda), ma questo non mi tranquillizza. Rimandare, non trovare la forza sembra distruggerlo dentro: il rimandare continuamente e ormai da troppo tempo il n. 2 mi causa tormenti indicibili. Sono contemporaneamente teso e depresso… per il continuo esasperante contrasto tra le due forze: positiva (devo-voglio farlo) e negativa. Quest’ultima specialmente mi fa soffrire perché non è chiara né tanto meno desiderata ed ostacola la prima in maniera latente, traditrice e vergognosa. È insidiosa, sorge all’improvviso e si limita a contrastare la prima senza tuttavia superarla mai, ma semplicemente creando un blocco momentaneo che ferma l’AZIONE, come una rete ma non la intacca né la trasforma minimamente nella sua essenza. Non dice: no, non ora, non è il momento, non è l’occasione ideale oppure - e questo è peggio - senza una scusa né giustificazione crea un blocco totale della mia capacità di volere ed agire; sto fermo e basta, lasciando sfuggire l’occasione in una specie di stupida ebetudine, in assenza totale di sentimenti. È una cosa sfibrante ed insopportabile; come se facessi ogni volta sforzi terribili per catturare una lepre e poi una volta l’avessi nella rete, vedessi me stesso aprire la rete e lasciar fuggire l’animale. Una specie di supplizio di Tantalo… un continuo tradimento di me stesso… il non averlo fatto finora mi fa temere che non sarò in effetti mai capace di farlo, che la prima volta è stato solo un caso… devo provare a me stesso che sono capace di ciò che voglio, che sono al di sopra che non sono legato ma libero completamente. Che non sono cambiato. Vincere, schiacciare, annullare la parte di sé che resiste, che lo fa sentire un verme. Andare oltre, trovare l’energia, forzare le resistenze ed agire. Madonna, sembrano o no le riflessioni di un assassino? Proprio strano… In quelle pagine, scritte con una grafia molto ordinata ed elegante, ricca di svolazzi, Pierri stesso si definisce come il risultato di una forza che lo domina e di cui non riesce a liberarsi, al punto di aver meditato il suicidio. Parla di un mostro che 78
lo rende schiavo; e lo fa in una poesia che porta una data che lascia di stucco. Mezz’ora dopo l’assassinio di Christa Wanninger. Da quando nacqui, non sono che il servitor d’un Mostro. Di me si nutre il Maledetto per i suoi fini, vuoti; e a me non resta, impotente spettator di me stesso, esterrefatto che il pianto ed il dolore. Oh! Mi rapisse, alfine il vortice del Nulla! 2.5.63 (ore 15.00 circa) Ovviamente gli chiedono spiegazioni: per Pierri, però, la poesia l’ha scritta dopo il 2 maggio e se ha quella data è stato solo per immedesimarsi a fini poetici. Una spiegazione assai contorta. E colpisce anche questo: che il diario si interrompa, finisca proprio con quella poesia. Ma come, gli appunti per il romanzo che si interrompono di colpo! Perché? 79
Ma ci vogliono i riscontri. Altri. Mentre i militari li cercano in giro per Roma, la spiegazione di Pierri alle loro contestazioni è contorta, ma sempre la stessa. Sono uno scrittore, un poeta; indeciso tra letteratura e pittura avevo deciso di scrivere un romanzo, ispirato proprio al delitto Wanninger. E mi ero così immedesimato nell’assassino da andare in giro con un coltello, da essere arrivato a seguire in ascensore una straniera allo scopo di provare le stesse sensazioni che l’assassino aveva provato, da aver scritto quella poesia.
80
Capitolo 11 Chi è Guido Pierri
Certo che questo Guido Pierri è uno originale, come minimo. Ha un lavoro da due lire, ma mangia in buoni ristoranti, tipo al “Re degli Amici”, dove se lo ricordano bene, per la sua abitudine di bere solo del Porto e solo quello “Sandeman”. Il caffè va a prenderlo in posti come “Berardo” e “Alemagna”, per viverne l’atmosfera di lusso ed eleganza, per sentirsi più grande; le sigarette le acquista da “Canova”, a Piazza del Popolo, un caffè costoso, mica da un tabaccaio qualunque. Giusto per allungare la lista delle stranezze di quest’uomo etichettato da subito, dal primo articolo di giornale, come un maniaco, c’è anche che tra febbraio e maggio del 1963, mentre lavorava all’Archimede, era andato via di casa, sì, ma viveva in albergo, al “Milano” di Piazza Montecitorio, nella stanza 81, come se fosse il personaggio di un film. Insomma, uno che si colloca al di sopra delle sue possibilità: e infatti eccolo lì, sempre in bolletta. Trovare una stanza per stare per i fatti suoi è talmente una preoccupazione costante nella vita di Pierri (altri ancora saranno i ritorni a casa e altre ancora le cacciate da parte del padre) che, arrestato, scriverà, con la consueta ironia, che questo gli aveva permesso di risolvere in modo inusitato ancorché affatto piacevole… il problema dell’alloggio. Vogliamo saperne di più, di lui. Questi fogli vecchi di tanti anni, forse possono dirci ancora qualcosa. Ed infatti abbiamo appuntamento, qui in Piazza San Silvestro, proprio con chi può dirci qualcosa in più, compiendo un’analisi che non fu tentata. È il momento di chiedere il parere di un’esperta, che possa parlarci della persona81
lità di Pierri proprio partendo dalla sua grafia. È il momento di parlare con Marisa Aloia, che vediamo avvicinarsi ai tavolini del bar dove siamo seduti. Marisa si siede con noi. Mentre il cameriere va a fare i due cappuccini e il caffè che gli abbiamo chiesto, le domando: «Allora, che ne pensi di Pierri?» «Ma cos’ha fatto, che ha combinato?» risponde lei. «Come, non lo sai?» le chiede Armando. «Pensavamo ti fossi documentata» aggiungo io. «No, non lo faccio mai: per non essere influenzata. Non conoscevo questo caso e non ho cercato nulla. Che ha fatto, allora?» «Senti, facciamo così - le dico - tu dicci cosa hai trovato e poi vediamo se coincide…» Armando annuisce. Intanto il cameriere è arrivato e, nel caldo di una mattinata di giugno, ci mettiamo ad ascoltare Marisa. «Ho fatto su Pierri quella che è una vera e propria autopsia psicologica attraverso l’analisi della scrittura», inizia lei. «Sappiamo bene cos’è: quella tecnica che si usa, ad esempio quando qualcuno si suicida e, in particolare, nei casi di morte dubbia. La usano le Procure attraverso i loro consulenti, per spiegare il gesto». «Ma anche per valutare se la persona si può realmente essere tolto la vita spontaneamente, oppure se sia stato indotto al suicidio, oppure se può essere un omicidio camuffato… - aggiunge Marisa - Si procede attraverso due esami paralleli: da una parte lo psichiatra forense, che ricostruisce tutta la storia clinica del paziente attraverso colloqui con familiari, amici e colleghi, leggendo le cartelle cliniche ed infine formulando un giudizio. Dall’altra c’è l’autopsia psicologica, invece: che viene condotta attraverso l’analisi della scrittura della vittima e permette di esaminare tutte le scritture del soggetto, siano essi appunti personali e casuali e, là dove è possibile, il suo biglietto d’addio». Marisa, infatti, è convinta da tempo che uno degli elementi che possono farla da padrone nell’autopsia psicologica sia proprio la grafologia, anzi che tramite questa si possa velocizzare l’indagine. Vediamo cos’ha scoperto. «È una persona estremamente subdola, Pierri, sapete? Non è quello che appare. Ha segni molto preoccupanti: guardate ad esem82
pio come replica il taglio della lettera “t”, è come se lo facesse due volte per paura di non essere “compreso”… in realtà, questo indica una spiccata tendenza a voler coprire delle azioni fatte attraverso un’intensa attività logorroica. In pratica, il voler coprire quello che si è fatto, raccontando balle. Esiste poi un altro segno grafico molto particolare, rappresentato in principal modo dalla lettera F e anche questo è interessante: è molto particolare e ci parla, unitamente ad altri segni, del rapporto col femminile. In Pierri non c’è idealismo, emotività, affetto, no. Solo senso del dovere, materialità. Lui voleva essere affettivamente indipendente, ma non ci riusciva. Sapeva che la donna andava rispettata, sì: ma non lo sentiva. Scriveva in modo molto estetico, vedete? Sembra molto presente, ma in realtà alcuni allunghi delle lettere inferiori vanno ad intrecciarsi con quelle superiori del rigo sottostante, questo perché lo spazio lasciato tra le righe è molto stretto e il fatto di “confondere” ed “arruffare” gli allunghi mi dice che Pierri non distingueva se quello che aveva fatto era reale o no. Appariva, ripeto, molto controllato, quasi rigido: era senz’altro l’ottimo vicino di casa, che si presenta molto curato nell’aspetto, elegante e formalmente rispettoso, la persona da cui non te lo aspetteresti mai… invece. Talmente calmo, freddo, controllato, da apparire maniacale e affetto da un disturbo ossessivo-compulsivo. Tanto da avere bisogno di riti, da pianificare tutto con metodicità: bastava un solo elemento fuori posto per farlo ricominciare a programmare…. Sì, ma cosa? Tanto controllo apparente per tanti focolai nascosti di passionalità che non controllava per nulla, anche se ci provava. Aveva, ecco, aveva le sue esplosioni, ma poi faceva finta di nulla. E una serie di fantasie contorte, non solo nella sessualità. Ricordiamoci che per lui realtà e fantasia sono un tutt’uno!» Io e Armando ci guardiamo, con la faccia stupefatta. È il ritratto di Pierri! L’idealismo del cavaliere medievale, il matrimonio con una donna molto più grande (e quindi una unione più formale che altro). Le bugie raccontate a telefono, la contorsione dei quadri. Marisa ci guarda: «Che c’è?» «Niente, niente, vai avanti…» 83
«Dicevo… ha una enorme facilità dialettica, proprio per coprire le sue azioni. E se ci fate caso la sua grafia non cambia mai, neppure quando descrive i suoi tormenti: un logorroico, sì, ma che copre se stesso, quello che è. E vi dirò: non credo che volesse risolverle, le sue tensioni. Non era uno che sarebbe andato in analisi, non gli interessava. Lui non ne aveva certo bisogno!» E Marisa non sa ancora nulla della criptoscrittura contenuta nei quaderni, cioè dei riferimenti cifrati che ci stanno dentro… «… No, in analisi no. Ma si metteva alla prova, questo sì. Perché ci provava ad essere normale, anche se non ci riusciva. Comunque, ripeto, la sua grafia mi ha colpito davvero tanto: sembra zeppa di croci, come dei fendenti. Ma insomma, si può sapere che ha fatto questo Pierri?» «Questo è troppo!» Dico io. Con Armando raccontiamo tutta la storia: le scale, l’ascensore, la cabina di piazza San Silvestro, i pedinamenti, i suoi quaderni, i rapporti col padre, la vita in albergo, le ambizioni da bohemienne, il matrimonio, i suoi disegni contorti. Marisa è esterrefatta e noi pure: quello che ha fatto è il disegno perfetto di Pierri. Lo stiamo conoscendo sempre meglio… un uomo che sotto una scorza di ghiaccio covava il fuoco della contorsione, che non distingueva la realtà da ciò che immaginava (come nella telefonata…), che si metteva alla prova con i suoi omicidi… e che dire di quando Marisa ha detto che aveva le sue esplosioni, ma poi faceva finta di nulla? Sembra di vedere Pierri che scende le scale. «A questo punto si spiega anche cosa fosse l’ascensore per lui – dice Marisa – quell’ascensore che probabilmente aveva già preso in passato con Christa, per sapere bene dove andava. Era un luogo chiuso, dove stavano solo loro due, quasi come una coppia. L’avete detto voi, no? Cosa disse Pierri? Che non poteva uccidere il tal giorno perché “non era vestito bene e non poteva sopportare che lei lo giudicasse male”. Appunto! Aveva bisogno di schemi fissi che lo rassicurassero. E nelle sue opere grafiche, certo, avrà incanalato la sua aggressività, ma non penso proprio che fosse soddisfatto così. Ormai però era sotto l’occhio di tutti, non poteva più uccidere ancora. 84
Vi vedo stupiti, ma d’altronde la scrittura è una proiezione della personalità sul foglio: ecco perché parla di noi! Badiamo bene, ragazzi: non è con un solo segno che si può tracciare un profilo di personalità. Quelli che vi ho indicato è perché “spiccano” tra gli altri per forma, intensità e frequenza! Ma il lavoro di analisi ha richiesto molte ore ed è stato la somma di grafometrie, grafoscopia e grafologia!» Marisa si allontana nel caldo impossibile di Roma. Rimaniamo un attimo ancora seduti, con gli appunti di questa conversazione davanti. Già, non poteva più uccidere. Una volta di più, quella telefonata da piazza San Silvestro era servita a qualcosa. Pierri si era azzoppato da solo. Restava Christa, rantolante sul pianerottolo del quarto piano; e dei quaderni pieni di croci, come dei fendenti.
La scrittura del Pierri
85
La scrittura del Pierri
Ma torniamo allo squattrinato uomo che viveva in albergo. Senza una lira, tanto che aveva solo due vestiti: uno grigio scuro invernale, di lana, a minuti quadretti grigio chiaro, ed uno blu estivo. Armando Spinelli, portiere di notte del “Milano”, lo descriverà come un tipo silenzioso, che rincasava a notte inoltrata, anche verso le 3.30-4.00. Consultando i registri dell’albergo, però, salta fuori un’altra cosa, decisamente interessante: che Pierri ha lasciato la sua stanza il 5 maggio 1963. Perché proprio tre giorni dopo il delitto? La faccenda appare assai strana, alla luce dei suoi pessimi rapporti con il padre. Fatto sta che Pierri si è fiondato a casa sua due giorni dopo il delitto, con armi, bagagli e senza preavviso. Gli uomini in divisa nera non credono alle coincidenze: nel loro mestiere non esistono. Sanno che Pierri ha lasciato l’albergo, il giorno 5, pro86
prio quando l’identikit è stato diffuso sui giornali. Per tornare a casa. Casa che poi aveva di nuovo lasciato il 19 febbraio 1964, insofferente, come al solito, dell’atteggiamento autoritario del signor Ciro, il padre. A parte tutto questo, non è solo con la Strele e la Robitaille che lo mettono a confronto, ovviamente. Perché c’è quel maledetto identikit, che non può essere ignorato. È un momento importante: i quattro testimoni che stavano sulle scale ed i pianerottoli del palazzo e che hanno visto meglio l’assassino sfilano, uno per uno. E in tre lo riconoscono, anche se con vari gradi di certezza. Ad esempio, Graziani nel confronto afferma che Pierri assomiglia moltissimo all’uomo che incontrò al primo piano, ma non può affermarlo categoricamente. Il suo collega Pazzi dice che Pierri gli assomiglia. Per Venturoli la somiglianza è notevole. «Ecco, mi chiedo: ma l’identikit quanto contava, all’epoca? Oggi magari sorridiamo, vedendo un disegno come quello e pensando che possa aiutarci a prendere un assassino. Ma allora? E oggi che tecniche si usano?» Armando, cui il cappuccino non è bastato, prova a nascondersi dietro una pizzetta bianca, pur di non fare una dotta spiegazione di storia della criminalistica. Ma insisto. Dopo aver poggiato, con vero rammarico, la pizzetta bianca, mi fa: «Dell’identikit ne abbiamo già parlato, le tecniche erano elementari, vedendolo credo che nemmeno siano state usate tecniche di montaggio di connotati fisiognomici pre-impostati… Per esempio, in quegli anni inizieranno a comparire delle bellissime scatole in legno dove vi erano delle strisce componibili che venivano innestate su un supporto rigido. Vi erano almeno venti tipologie di occhi ed altrettante per la bocca. Un modo per permettere anche a chi era meno esperto di disegno di produrre un risultato accettabile. Oggi una cosa simile, ovviamente, è effettuata al pc, esistono dei programmi, come per esempio il “Faces”, che permettono di creare immagini relativamente buone. Però vorrei sottolineare una cosa: quante volte abbiamo visto un fumetto dove il protagonista era un personaggio reale e noto ed il di87
segnatore con il solo contorno del volto, quindi una linea singola senza sfumature, ed il taglio della bocca ce lo ha fatto apparire identico? Non sempre l’immagine deve essere uguale alla realtà, è la somiglianza generale che conta; e quello che si riesce a trasmette a chi la osserva».
L'Identikit
Il Pierri
Una sola teste, comunque, dice che non è Pierri quello dell’identikit: quella che lo vide per prima, la Barbonetti. Anche se comunque la descrizione che dette dell’assassino corrisponde a Pierri e anche se è stato un confronto, va detto, assai affrettato. Il tempo è passato, la portiera è assai scocciata di stare ancora coi carabinieri e non vede l’ora di andarsene, piuttosto che fare il riconoscimento. «Effettivamente non è deontologicamente corretto eliminare una testimonianza soltanto perché contrasta con le altre - fa Armando però se ne abbiamo molte che vanno in una direzione - e ricordiamo che abbiamo sette persone che vedono l’assassino - e che concordano con il riconoscimento, è possibile che una di queste non sia attendibile». 88
Certo che, a parte tutto, Pierri non ha l’aria di dire cose molto sensate, molto logiche. Appare centrato, sì, non è uno che delira: ma è la ricostruzione che offre che è inverosimile. Un romanzo? E dove sta? Non se ne trovano che appunti. Immedesimarsi con l’assassino? E che significa? Il primo rapporto dell’Arma sull’episodio di Piazza San Silvestro è di soli tre giorni dopo, il 9 marzo 1964 ed elenca tutto quello che riconduce Pierri al delitto del quarto piano, allegando anche le fotocopie di quelle pagine dei diari. E qualche dubbio al magistrato gli viene. D’accordo, in questo momento l’accusa è soltanto tentata truffa, ma i sospetti dei carabinieri un qualche fondamento ce l’hanno. Anche più d’uno. Sì, Pierri ha dato da subito, a Mengoni, la sensazione di non starci troppo con la testa. E in fondo anche i carabinieri se ne sono accorti, che è strano. Pur prendendolo sul serio. Così, il giudice dispone, per non saper né leggere né scrivere, una perizia psichiatrica. Incaricato è il professor Fontanesi, che si mette all’opera. È il 12 marzo 1964: ci sono voluti solo tre giorni, dopo il rapporto Margiotta, per chiedersi se l’arrestato ha tutte le rotelle a posto. E, mentre lo psichiatra lavora, anche i carabinieri continuano ad accumulare elementi contro Pierri che, esattamente un mese più tardi, il 9 aprile, inviano al magistrato. In questo secondo rapporto sempre firmato da Margiotta, appaiono due testimonianze importanti circa l’alibi che Pierri ha fornito per il pomeriggio del delitto: ero al lavoro. E il suo lavoro - da 63.000 lire al mese - era nella segreteria dell’Archimede di viale Somalia 164, come sappiamo: dove Pierri dice di essere stato nel giorno e l’ora del delitto. La prima testimonianza è quella del suo collega Francesco Polizzi, il quale ricorda che Pierri riscosse anticipatamente lo stipendio di maggio - o parte dello stipendio - con un assegno emesso il venerdì 3 dello stesso mese, ma incassabile solo il lunedì 6, per via del sabato 4 e domenica 5 che c’erano di mezzo. Se vi chiedete che diavolo c’entri lo stipendio di maggio, è sem89
plice: era il solo modo per accertare la presenza o assenza dell’accusato. Fu proprio Polizzi a spiegare agli investigatori, infatti, che non era possibile rilevare le assenze di Pierri in quanto non era tenuto a firmare la presenza. D’altronde, non c’era un registro firme degli impiegati, all’Archimede, c’era solo quello dei professori. Ed il direttore della scuola, Guido Mancini, confermò quel che Polizzi aveva detto. Anzi, disse che Pierri faceva come orario 14.45-21.30, ma che quel giorno non s’era visto. Come se lo ricordava? Semplice. Proprio per la faccenda dello stipendio. Certo che a Mancini Pierri non doveva stare molto simpatico. E per forza: non era un gran dipendente. Uno che all’inizio era stato puntuale, per poi divenire via via più trascurato e superficiale, nelle pratiche come negli orari. Uno che arrivava in ritardo all’Archimede e non ci metteva molto entusiasmo: voleva fare l’artista, diceva. Portava i capelli lunghi, faceva l’originale: ma era solo un impiegato ed ecco che i suoi colleghi lo prendevano in giro. Insomma, cortese e tranquillo, certo, ma non un gran lavoratore. Inizialmente, Mancini dice che, durante il mese di maggio ’63, Pierri si era assentato per due-tre giorni, ma che ormai non ricordava più quali. Poi però Mancini ci pensa bene e dice: sì, mi ricordo che giorno era, come no! Io telefonai il 2 maggio a casa Pierri proprio perché quel giorno non era venuto al lavoro né aveva dato notizie di sé. Ricordava benissimo che aveva composto il 5121719 per chiamare il padre Ciro, per dirgli di far tornare Guido al lavoro, perché era stato lui, cancelliere della Corte di Cassazione, a far ottenere al figlio quel posto. E per corroborare la cosa aggiunge la faccenda dell’assegno: consegnato, appunto, solo il 3 perché il 1 maggio era ovviamente festa ed il 2, appunto, Pierri non s’era visto al lavoro. La storia dell’assegno rappresenta e rappresenterà un autogol enorme, per Pierri. Perché è un riscontro documentale oggettivo, sul quale si possono fare poche fantasie. Lui stesso ammise che la richiesta dell’anticipo a Mancini era per pagare il conto dell’albergo “Milano”. 90
E suo padre, Ciro, ammise che il figlio era andato da lui, a Palazzo di Giustizia, sabato 4 a farselo cambiare. Guido, d’altronde, aveva fretta di saldare il debito con l’albergo, quello stesso giorno. Segno che aveva avuto l’assegno il giorno prima e non, come sostenne di fronte ai carabinieri, il 2 maggio - giorno del delitto - a scuola. Perché, se così fosse, sarebbe potuto andare tranquillamente in banca la mattina di venerdì 3, a incassarlo, no? Che dice Pierri di tutto questo? Che si sbagliano, lui quel giorno, il 2, è andato al lavoro. Certo che c’è andato. Che non capisce perché mentano. Dichiara che non sarebbe potuto rientrare in famiglia il 5, se fosse mancato tutti quei giorni prima dal lavoro; e che tornò perché aveva troppe spese da solo e non ce la faceva. Ma il rapporto Margiotta numero due accerta anche altre cose. Ad esempio che nel bar di via Lombardia 7 (quello che frequentava la Wanninger) l’hanno visto spesso, sia nel 1963 che nel 1964. La notizia dell’assiduità della tedesca nel bar non era stata pubblicata dai giornali. Ma per Pierri è un caso. Non sapeva che la Wanninger ci si recasse e ci andò per meglio impersonare l’assassino: così disse.
91
Capitolo 12 Come niente fosse
Ci alziamo dal bar: ora sappiamo molte cose in più rispetto a prima. Sappiamo che la posizione di Pierri era decisamente critica e le sue spiegazioni vaghe. Conosciamo meglio la sua personalità. Ricapitoliamo, allora: Pierri possiede un pugnale compatibile con quello del delitto e gira armato. Non ha alibi, anzi si è allontanato senza motivo dall’Archimede proprio il 2 e 3 maggio 1963. Di più: ha abbandonato precipitosamente la stanza all’albergo “Milano” di piazza Montecitorio proprio in concomitanza con la pubblicazione su tutti i quotidiani romani dell’identikit dell’assassino. Possiede sia un abito grigio che uno blu (anche se non prova nulla: erano i colori della moda maschile di allora). È stato visto spesso nei pressi del luogo del delitto. Ha scritto un diario compromettente, pieno di riferimenti al delitto Wanninger, che definisce appunti per un romanzo: ma che si interrompe proprio il giorno del delitto. Ha l’abitudine di seguire le donne straniere, come la Strele e la Robitaille, ad esempio. È uguale all’identikit. È stato riconosciuto come uguale o assai somigliante da tre testi dei quattro che l’hanno visto meglio. Ce n’è abbastanza per arrestarlo, si direbbe. Ma la ruota della Giustizia gira in un modo davvero incomprensibile, alle volte. Perché passa un altro mese (si fa il 13 maggio) e Pierri ottiene la libertà provvisoria. Un mese durante il quale qualsiasi magistrato l’avrebbe interrogato e rinviato a giudizio per omicidio premeditato. Invece no. Non solo non lo interroga nessuno, ma lo scarcerano. Impossibile non chiedersi, tanti anni dopo, che diamine sia successo a Palazzo di Giustizia. E la spiegazione che troviamo io e Armando è 93
questa: che Pierri non è stato visto per quel che era. Il diario, le sue assurde spiegazioni, i pedinamenti l’hanno fatto sembrare un assassino agli occhi dei carabinieri, ma un mezzo svitato a quelli del Pubblico Ministero, che non lo hanno proprio preso sul serio. Anzi, il Pm Dore, ricevuti i due rapporti Margiotta, non aveva trovato di meglio che inoltrarli al Giudice Istruttore Zhara Buda, che per legge aveva l’ultima parola sull’indagine, ma solo per unire quei fogli agli atti dei procedimenti in corso, così, senza prendere alcuna iniziativa. Proprio così: Dore non aveva compiuto alcuna attività istruttoria, nemmeno mezza. Perché perdere tempo con quel matto stravagante di Pierri, quell’artistoide? E di colpo l’artista si ritrova fuori dal carcere, a dover rispondere solo della tentata truffa a “Momento sera”, ma niente di più grave. Una volta fuori Pierri, nell’aria fresca di un mattino di quasi estate, non più costretto da nessuno e allergico all’idea che uno psichiatra potesse scandagliargli il cervello, si guarda bene dall’andare agli appuntamenti con Fontanesi. Lo psichiatra, incredibilmente, non vedendolo più si scorda di lui e non segnala la cosa al giudice. E la perizia finisce nel nulla. Abbiamo per le mani le carte di allora: le lettere in cui, molti anni dopo, altri giudici chiederanno a Fontanesi perché la sua perizia era sparita nella nebbia. Le sue risposte: non so, devo chiedere a mia moglie, dobbiamo consultare gli appunti di allora, vediamo. E una sola ipotesi, alla fine: che se ne sia scordato anche lui. «Sono stupefatto: perché una storia del genere non l’avevo mai sentita». «Normale Fabio, normale.. Di solito questi grandi periti, che siano psichiatri o esperti in altre discipline, difficilmente effettuano da soli i loro lavori. Generalmente il loro staff cura decine e decine di casi durante l’anno e quindi è più che comprensibile che nessuno di questi gli rimanga impresso. Che poi sia la moglie a tenere gli appunti, beh… magari possiamo supporre che gli facesse da segretaria. 94
In quei giorni succede pure che nel carcere di Regina Coeli una amica della Wanninger, l’austriaca Erika Cassinger di ventidue anni, cerchi di togliersi la vita. Era reclusa per non aver adempiuto ad un foglio di via obbligatorio ed essere rimasta a vivere la sua via Veneto. Cerca il suicidio con un gesto ricco di disperazione: ingoiando una forchetta». Passa quasi un anno. E avviene un piccolo gesto, di cui non si accorge nessuno. Incredibilmente, il 10 febbraio 1965 Dore dà parere favorevole alla restituzione a Pierri dei quaderni, delle lettere, dell’agendina sequestrati a suo tempo. Tutta roba che con la tentata truffa non c’entra nulla, certo. Alle 11.45 di quello stesso giorno le possibili prove di un omicidio vengono riconsegnate al probabile assassino nei locali della Cancelleria del Tribunale di Roma. Pierri firma la ricevuta, prende tutto e se ne va aprendo la porta sull’inverno romano. Ma l’indagine resterà senza conclusione ancora a lungo. Tanto che il primo dicembre 1965 la Questura chiede di mettere sotto controllo i telefoni delle abitazioni della Hodapp - che ora abita in via Gallia 60 - e del suo ex amante Brunelli. Non ne cavano fuori nulla. È l’ultimo atto dell’inchiesta. Era talmente difficile arrendersi all’idea che qualcuno da dietro la porta avesse sentito tutto e non dicesse, tuttavia, nulla che potesse aiutare le indagini, faceva talmente male pensare che quella bestia se ne fosse andata così, semplicemente scendendo le scale, passando davanti a tutti e parlandoci pure, che la Hodapp alla fine impiegherà due anni e mezzo per uscire definitivamente dall’indagine. Quando ne viene chiesto ufficialmente il proscioglimento per insufficienza di prove, quando insomma il Giudice Istruttore chiude il fascicolo contro di lei (per favoreggiamento) e contro ignoti (per omicidio volontario), è addirittura il 17 febbraio del 1966. E, per lei, solo con l’insufficienza di prove. Una strana chiusura: perché, contemporaneamente, quasi con stizza, è dichiarata indesiderabile ed 95
espulsa dall’Italia, in quanto “priva di mezzi di sostentamento”. Priva di mezzi di sostentamento? Ma in quel momento la Hodapp, già incinta, stava per sposarsi! Andrà a finire così: che la polizia, in esecuzione al decreto d’espulsione, la accompagna al treno per il confine. Che lei scende alla fermata successiva, si sposa e fa una bambina. Che fa causa contro l’espulsione e la vince. Che fine abbia fatto, dopo, Gerda Hodapp, Dio solo lo sa. Non se ne sono più avute notizie. Le indagini sul caso Wanninger, nonostante le lunghe e scrupolose indagini svolte, si chiudevano qui. La morte della tedesca rimaneva un omicidio a carico di ignoti. Il 23 agosto 1966 si estingueva, per intervenuta amnistia, l’accusa a Pierri per la tentata truffa a “Momento Sera”. A carico di ignoti. Ignoti? Il caso Wanninger tornò rapidamente nel dimenticatoio. Piano piano non ci furono più notizie sullo strano tipo arrestato nella cabina di Piazza San Silvestro e tutti finirono col dimenticarsi di quella storia. Il 1966 se ne andò via. Il 1967 se ne andò via. Il 1968 se ne andò via. Il 1969 se ne andò via. Il 1970 se ne andò via. L’uomo atterrava sulla luna, gli studenti occupavano le università, una bomba esplodeva in Piazza Fontana, c’erano scioperi dappertutto e fare la spesa costava il doppio di prima.
96
Capitolo 13 L’edicola di Monaco di Baviera
Siamo in Germania, a Monaco di Baviera. 10 marzo del 1971. Una ragazza sta davanti ad un’edicola, cercando una rivista femminile che le interessa. L’occhio le cade sul settimanale più diffuso dalle sue parti, “Quick”. Si parla del delitto di via Emilia, quello di tanti anni prima. Christa? Ma è mia sorella! pensa Gertrud Wanninger. “Ciò che la giustizia tace nel caso Christa Wanninger” è il titolo del lungo articolo, con diverse imprecisioni ma con tutti gli elementi d’accusa contro Pierri ben allineati, che sta dentro quel numero di “Quick”. Un articolo che Gertrud divora. Dopo averlo fatto esce di casa e va dal suo avvocato. Perché sul settimanale sono scritte molte cose interessanti. Si dice che Pierri è ambidestro, si racconta la faccenda della numero uno e due, della telefonata a “Momento Sera”, dei testi che riconobbero Pierri, del suo alibi mancante, che la prima coltellata era stata inferta al petto della vittima, della fuga dalla Pensione… non solo è una ricostruzione che chiaramente ha preso spunto dal rapporto Margiotta, c’è di più. Il settimanale insinua che il padre di Pierri - all’epoca cancelliere capo a Palazzo di Giustizia - abbia avuto un ruolo nel rilascio così rapido del figlio e che siano spariti i due rapporti Margiotta dal fascicolo Wanninger. Ma come hanno fatto i tedeschi a sapere che i due rapporti sono spariti? Chi gliel’ha detto? È a questo punto - è il 22 aprile del 1971 - che Gertrud inoltra al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma un esposto, per richiamare l’attenzione sull’articolo apparso in Germania e chiedere indagini. Ma l’articolo di “Quick” ha già richiamato l’at97
tenzione della stampa italiana e così, un mese prima che la sorella di Christa si rivolga ai giudici, i giornalisti si sono già fiondati da Guido Pierri. Intervistato dall’“Europeo”, il pittore risponde: “Non sono abituato a pentirmi e non rimpiango niente di ciò che ho fatto nella mia vita. Ma è certo che esser tirato nuovamente in ballo per una vicenda dalla quale fui riconosciuto assolutamente estraneo mi ha dato fastidio”. Pentito o no, Pierri rifila, in questa come in un’altra intervista, una balla e cioè che, in base al registro delle presenze dell’Archimede, era stato possibile scagionarlo nel 1964 per il giorno e l’ora del delitto, quando invece quel registro non esisteva... È un ritorno d’interesse a 360 gradi, quello che la stampa fa registrare sul delitto di via Emilia. Saltano fuori nuovi testimoni (o presunti tali). Uno che farà solo perdere tempo lo trova, non a caso, “Novella 2000”, che nel marzo 1971 intervista l’organizzatore cinematografico Enrico Gozzo, che a suo tempo aveva fatto fare qualche particina alla Wanninger. Gozzo racconta di averla incontrata una settimana prima del delitto, il 25 aprile, a via Sistina, e che la ragazza gli era apparsa preoccupata. Gli aveva detto di aver paura, di trovarsi in una gabbia di belve. Il giorno dopo lei lo aveva chiamato per chiedergli un buon avvocato, promettendo di richiamarlo. E siamo al giorno del delitto. Quel giorno, alle 14.00, a telefono, alla domanda di Gozzo sul perché non lo avesse poi richiamato come promesso, lei risponde che non può dirlo per telefono e che ha bisogno di vederlo. Che lo avrebbe chiamato in serata perché alle 15.00 aveva un appuntamento da “Tullio”. Solo che Gozzo dovrebbe mentire meglio. Perché quel 2 maggio non risulta che la Wanninger abbia ricevuto nessuna telefonata alla Pensione (tranne la voce in tedesco, ricordate? Ma era appena uscita, a quel punto) e che parlò solo alla Hodapp; perché né in pensione né dalla sarta sembrò preoccupata; perchè non si capisce che ci andava a fare dall’amica alle 14.30 se doveva stare mezz’ora dopo al ristorante. Insomma, un racconto evanescente, che tuttavia prese corpo quandò saltò fuori la 98
cosidetta pista Riffeser, che vedremo tra poco, disegnando un mare di nuove ombre intorno all’omicidio di via Emilia… Il Procuratore decide intanto di non ignorare la richiesta di Gertrud Wanninger e dispone l’acquisizione degli atti del processo Pierri (quello della telefonata del 1964) e anche il fascicolo del delitto di via Emilia, ovviamente. È da questo momento che i tempi della Giustizia giocano un ruolo fondamentale in tutta questa storia. Perché l’inchiesta riprende stancamente, tra le mille emergenze del terrorismo anni Settanta e di un Paese sull’orlo del baratro. Come se non bastasse, il fascicolo dell’omicidio viene spedito, un anno dopo, in visione a Milano, al giudice Gerardo D’Ambrosio che, perquisendo ad aprile ’72 lo studio dell’agenzia di stampa “Montecitorio”, diretta dal giornalista Lando Dell’Amico, nell’ambito di un’inchiesta sui finanziamenti ai gruppi eversivi di destra, ha trovato qualcosa. E che c’entra la Wanninger in tutta questa storia? C’entra, perché tra le carte di Dell’Amico erano stati ritrovati degli appunti - ed una lettera che li accompagnava - che facevano riferimento al delitto di via Emilia come a qualcosa che riguardava un traffico di armi. Le carte coinvolgevano Raimondo Riffeser, indicato dai giornali già nel 1963 come amico di Christa, ma soprattutto fratello del genero del petroliere Monti che, si diceva, finanziava i movimenti di estrema destra. Attilio Monti, classe 1906, ravennate, era, con la società di raffinazione Sarom, uno dei protagonisti del mondo industriale italiano; proprietario anche dell’Eridania (zucchero), dei quotidiani “Resto del Carlino”, “La Nazione” e “Stadio”. Giampaolo Pansa l’aveva soprannominato il “cavalier artiglio”. Proprio nell’ambito di un’indagine sui possibili rapporti tra l’industriale e il movimento di estrema destra “Ordine Nuovo”, D’Ambrosio era finito a perquisire lo studio di Dell’Amico, che dirigeva un’agenzia di stampa voluta e pagata da Monti per far circolare le notizie che più gli piacevano e servivano. Il possibile scenario era questo: Monti è vicino all’estrema destra 99
italiana, suo cognato, Bruno Riffeser, è invece vicino ai gruppi terroristi sudtirolesi. I servizi segreti italiani, cioè il Sifar, tengono d’occhio Christa, perché tengono d’occhio Raimondo Riffeser, fratello di Bruno: la ragazza quindi potrebbe o involontariamente aver saputo qualcosa o volutamente aver aiutato Raimondo. Ma aiutato Raimondo in cosa? Nel traffico d’armi verso i gruppi terroristici, appunto. Ecco, potrebbe aver saputo qualcosa di troppo ed essere stata uccisa per questo. E da chi? È qui che si blocca la ricostruzione, sul capire chi potesse avere interesse a uccidere Christa Wanninger. Oppure i servizi sono intervenuti semplicemente dopo, per evitare che il nome Riffeser fosse coinvolto nella storia? Ora, la lettera sequestrata all’agenzia “Montecitorio” e che accompagnava quegli appunti, anonimi ma compromettenti, era firmata da Antonio Urbinati, giusto un collaboratore di Monti: ed assicurava il suo destinatario che tutto era stato messo a tacere. Che grazie alla mediazione di Dell’Amico i nostri servizi segreti si erano adoperati per risolvere tutto sotto un quintale di silenzio. Era andata così? Un giornalista di razza come Roberto Chiodi si lanciò sull’inchiesta, cercando di mettere a fuoco lo scenario di una morte che poteva essere stata davvero diversa. Chi era Raimondo Riffeser? Chiodi ne notava la somiglianza con l’uomo dell’identikit, afferma che aveva una relazione con Christa e che doveva vederla quel giorno. In questa ricostruzione il capo del Sifar, il servizio segreto di allora, Giovanni Allavena, avrebbe fatto allontanare immediatamente Raimondo - che era ritenuto la pecora nera della famiglia, scostante, incline a grandi idee, uno che preferiva fare il playboy a lavorare - per rispedirlo in Germania ed evitargli ogni contatto col caso. Terminato di capirci qualcosa per la sua inchiesta e non avendo peraltro trovato connessioni tra Monti e “Ordine Nuovo”, D’Ambrosio, a novembre 1972, rimandava per competenza gli atti a Roma. I fascicoli scendevano dal treno, venivano messi su un carrello 100
di ferro, scaricati nel bagagliaio di un’auto blu, entravano nei garage del Palazzo di Giustizia e da qui, su un altro carrello di ferro, venivano ammonticchiati su una scrivania. L’inchiesta su Guido Pierri poteva finalmente avere inizio. Il primo gesto sarebbe stato quello di svolgere una perizia sulle carte di Dell’Amico, che erano l’elemento nuovo e potevano disegnare uno scenario assolutamente diverso. Nel frattempo, anche “Mister R” veniva interrogato e dichiarava di aver conosciuto la Wanninger dopo Pasqua del ’63, in occasione della venuta a Roma del cognato di lei, Anton Kirchdorfer e che l’aveva vista una volta sola. Ora, che l’avesse vista una volta o cento e qualunque fossero i legami tra i due, il punto era dimostrare un legame tra Riffeser e tutta la faccenda. Ma le perizie finirono per dimostrare che quegli appunti e quella lettera erano dei falsi. Non solo risultavano battuti dalla stessa macchina da scrivere ma certo, se Urbinati avesse voluto favorire Riffeser, non avrebbe firmato - su carta intestata della Sarom, poi, per cui lavorava - una lettera in cui metteva per iscritto che c’era stato l’intervento dei Servizi… «Che ne pensi? - chiedo ad Armando - a me sembra la consueta dietrologia italiana di vedere Servizi ovunque, quando non riusciamo a spiegarci qualcosa. Un po’ come spiegare tutto col sovrannaturale, con un’entità superiore e inafferrabile, che ci tolga il compito di accettare una spiegazione magari assai più semplice, banale. E, per questo, sconcertante». Armando dice la sua. «Vedi, qui tocchiamo un argomento ed un pensiero interessante: “l’entità superiore”, penso che sia la trasposizione moderna del mistero della fede. Ci si affida a lei in due casi distinti: quando la spiegazione è troppo complicata o quando è troppo semplice. Solamente negli estremi. Quando è troppo complicata, quando la soluzione del nostro giallo supera la normale immaginazione, cerchiamo di ri101
correre al soprannaturale, ad un ente supremo che controlla le nostre azioni e indirizza la storia che stiamo percorrendo. Se poi la soluzione è troppo semplice, è meglio “complicarla” con l’innesto di elementi che riconducono, di solito, ai Servizi. Eppure una delle regole principali dell’investigazione è l’applicazione del “Rasoio di Occam”. È un principio metodologico sviluppato dal frate francescano inglese Guglielmo da Occam. Il principio, che è alla base del pensiero scientifico moderno, è sintetizzato da: “a parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire”. Che poi viene integrato con altre tre affermazioni: “Non moltiplicare gli elementi più del necessario”; “non considerare la pluralità se non è necessario” ed infine “è inutile fare con più ciò che si può fare con meno”. Per sintetizzare, quando si affronta un’ indagine occorre cercare la soluzione più semplice e logica, che non deve essere la più ingenua, ma senza incorrere in costruzioni fantasiose e piene di agenzie governative».
102
Capitolo 14 Un ex maresciallo dà la sveglia
Il 1973 se ne va per finire le perizie. E, di nuovo, la Giustizia torna a russare. Fino quasi a metà del 1974, quando qualcosa fa togliere i faldoni del caso Wanninger dalla polverosa pila poggiata per terra, in qualche ufficio della Procura della Repubblica di Roma. È il 29 maggio del 1974 quando entra in scena un ex maresciallo capo dei carabinieri. Si chiama Renzo Mambrini, ha quarantuno anni ed anche lui si presenta dai giudici per fare il suo esposto. Mambrini, a congedo dal 1970, asserisce che il secondo rapporto Margiotta - quello che più pesantemente coinvolgeva Pierri - era stato omesso nei confronti del Giudice Istruttore, il quale insomma non l’aveva nemmeno visto e dunque, per questo, non aveva proceduto contro di lui. Talmente omesso che lo stesso ex maresciallo lo allegava al suo esposto, non sia mai i giudici pensassero che fosse matto. Era un colpo di scena che dette di nuovo la sveglia a Palazzo di Giustizia. Si rilessero le carte ed ecco che il 17 luglio 1974 la lumaca divenne lepre. Quel giorno, alle 7.15 di mattina, Guido Pierri si vedeva arrivare in casa i carabinieri, che gli notificavano una comunicazione giudiziaria molto diversa dalla precedente: perché stavolta si parlava di omicidio volontario. Erano passati undici anni dai fatti di via Emilia ed era un uomo diverso, quello che apriva la porta ai militari, quel giorno. Innanzitutto, la porta si apriva alla periferia di Carrara, dove Pierri si era trasferito nel 1969. Si apriva e dietro l’uomo in pigiama, di quarantuno anni, appariva una donna, vent’anni più grande di lui, che chiedeva che stesse succedendo. Era Nella, la moglie. E gli uomini in di103
visa che si appoggiavano su un tavolo, per fargli firmare la ricevuta, non potevano non notare i disegni che ingombravano la stanza: Pierri era diventato pittore. La stanza da letto fungeva da studio, nella piccola casa fatta da un ingresso, un soggiorno, una cucina ed una soffitta. Anche il viso era diverso: alla moda degli anni Settanta, aveva una gran barba nera. Uguali erano rimasti i rapporti familiari: con il resto della famiglia, che invece era rimasto a Roma, non aveva da tempo rapporti. Tranne con un fratello, Attilio, che continuerà a difenderlo. I carabinieri hanno ordine da Roma di fare anche una perquisizione, alla ricerca dei diari del 1963: ed è qui che scoprono, dalla voce di Pierri, che quella roba lui l’ha buttata, ma da un pezzo. Come si fa quando si buttano quelle carte vecchie che non servono più. Addio prove! Nel frattempo, a Roma, ci andava di mezzo anche Mambrini: per sottrazione di rapporto giudiziario e pubblicazione di notizie segrete. Non è che puoi aprire un fascicolo giudiziario, fare copia di un rapporto e allegarlo ad un esposto, come se niente fosse. Il giustiziere si trasformava così in giustiziato. C’era da chiedersi, naturalmente, cosa ci guadagnasse Mambrini a tirarsi dentro questa storia, visto che ci aveva beccato anche una prevedibilissima denuncia. Ma, a parte il fatto che sapeva benissimo quanto il suo fosse un reato lieve, la sua risposta, comunque, fu che i colleghi, quando era ancora in servizio, gli avevano parlato del caso Wanninger come di un caso abnorme, strano, dai contorni ambigui. Che gli avevano riferito che il secondo rapporto dei carabinieri era sparito dal Palazzo di Giustizia e che per questo, non essendo stato valutato, Pierri era uscito dal delitto. Ad un giornale disse che “il mio esposto pone inquietanti interrogativi relativi anche al modo in cui sono state condotte le indagini ufficiali. Se si pensa che la persona che io indico ai magistrati (Pierri, nda) ha dei legami di parentela con un funzionario del palazzo di giustizia di Roma (cioè il padre, nda), è legittimo il dubbio”. Mambrini disse che il suo senso di giustizia lo aveva obbligato a fare quell’esposto, senza tuttavia cogliere l’assurdità di pensare che 104
il motivo dell’uscita di Pierri dalle indagini del 1964 potesse essere nell’eventuale intervento del padre. Come se un cancelliere potesse essere così importante, a Palazzo di Giustizia, da farsi aiutare a coprire lo scandalo del figlio in galera. C’era anche da capire, poi, dove diamine Mambrini avesse preso la copia del rapporto Margiotta. Questo in realtà lo spiegò lui stesso: da Giorgio Staffieri, ex dirigente della Narcotici di Roma che aveva avuto per le mani quelle carte chissà quando e perché. Sul punto sono sempre rimasti dei dubbi, ma a dimostrare che quanto Mambrini diceva fosse vero c’è un altro particolare, finora mai emerso: e cioè che lo stesso Mengoni - il giornalista che prese la telefonata a “Momento Sera” - rivelò ai giudici che Staffieri, quel rapporto, lo aveva offerto anche a lui. E qui possiamo fare qualche ipotesi. Perché se offro un rapporto riservato ad un giornalista è per fare soldi, non per spirito civico. Fu con lo stesso spirito che Staffieri lo offrì al più ricettivo Mambrini? Forse. «Ma che ci guadagnava l’ex maresciallo capo? Notorietà? La risposta era molto buona, visto che diversi mesi prima dell’esposto, nel 1973, aveva pubblicato un suo libro, “Christa”, ispirato giusto giusto alla vicenda… Mambrini, per sua stessa ammissione, era un uomo che non si era sentito ben valutato dall’Arma: prima messo ad indagare su omicidi e poi trasferito di qua e di là. Più che legittimo, insomma, che, andatosene in pensione, desiderasse rimettersi al centro dell’attenzione come i suoi superiori non gli avevano consentito di fare. Per dimostrare quanto valeva». «Vero, sono d’accordo, uno spirito di riscatto e di protagonismo è normale in questi casi. Persone che hanno vissuto nell’arma dei Carabinieri o in Polizia, che comunque hanno dato molto alla loro Amministrazione di appartenenza si vedono spesso a dover interpretare un ruolo di secondo piano. Alcune volte vengono escluse dalle stesse indagini, quando si trovano nel pieno della loro carriera, per esigenze di Servizio. Ecco, è allora che la frustrazione cova dentro di loro fino ad esplodere, quando la persona non ha più vin105
coli istituzionali. Ma, Fabio, Mambrini non ti ricorda il commissario Dosi, di cui ci siamo occupati nel caso Girolimoni? Una carriera al servizio dello Stato, ed ogni volta che stava per emergere per le sue qualità veniva immancabilmente trasferito o redarguito dai suoi superiori. Quando, dopo la seconda guerra mondiale, è andato in pensione, ha dato il meglio di sé riuscendo persino a partecipare alle riunioni formative della nascente associazione mondiale delle forze di Polizia, che dovrà proprio a lui il nome Interpol». L’intervento di Mambrini, certo, non poteva non apparire paradossale e fuori luogo anche a chi aveva seguito la pista Riffeser qualche anno prima. Chiodi tornò ad occuparsene sulle colonne di “Repubblica”. Secondo la sua ipotesi, neanche dopo la morte di Christa gli uomini del Sifar si sentivano al sicuro dalle chiacchiere intorno a questa vicenda ed allora era uscito fuori Mambrini (indicato come ex agente del Sifar ed ex addetto stampa del generale De Lorenzo, che lo aveva diretto) che dapprima aveva scritto il libro “Christa” per deviare il ritorno d’attenzione da Riffeser e poi aveva presentato un vero e proprio esposto per sviare l’attenzione dal Sifar e portarla su un capro espiatorio: Pierri, appunto. E sei mesi dopo, guarda un po’, l’ex maresciallo era andato a schiantarsi con la sua 850 contro un camion a Monterotondo, dove lavorava come caposervizio alla Snamprogetti, una società del gruppo Eni che aveva tra i suoi consiglieri proprio il generale Allavena… Era andata così? Nelle sue indagini, il Giudice Istruttore Michele Gallucci mostrò di non crederci nemmeno un attimo. Se i servizi avessero voluto eliminare la Wanninger non avrebbero agito sul pianerottolo ma in modo più anonimo e meno pericoloso scrisse, notando quanto rischio aveva corso l’assassino nell’aggredire la sua vittima non solo in pieno giorno, non solo dentro un palazzo, ma pure in uno spazio comune come il pianerottolo; col rischio di essere fermato per le scale. No, nessun agente di nessun servizio del mondo avrebbe mai corso il rischio di farsi prendere così, come un dodicenne. Semmai si sarebbe reso invisibile, come ben sanno fare. E 106
concluse, Gallucci: è di estrema rilevanza istruttoria concludere che nessuno aveva motivo di uccidere la Wanninger. Questa era soltanto una bella ragazza, piena di vita e di gioia di vivere, che non era coinvolta in alcun giro o traffico equivoco o in ambienti più o meno loschi, che non aveva nemici, ma solo amici ed ammiratori. La lepre intanto qualche scoperta la fa. Scopre, controllando bene la faccenda, che non è come dicono “Quick” e Mambrini: qui non è sparito un bel nulla dal fascicolo! Il primo rapporto Margiotta c’è sempre stato, solo che era finito dal Pretore, competente per la tentata truffa a “Momento sera” (e fin qui è la prassi) ed il secondo stava esattamente dove doveva stare, nel fascicolo Wanninger. Il problema, insomma, non era che fosse sparito qualcosa, ma che sia il Pubblico Ministero Dore che il Giudice Istruttore Zhara Buda, pur avendo letto i rapporti, non gli avevano dato alcun peso. Al punto che né la requisitoria dell’uno, né la sentenza dell’altro, al momento di chiudere il caso, vi avevano fatto alcun cenno... E infatti scrivono i nuovi giudici: “La posizione di Pierri, indicato nei due successivi rapporti dei Carabinieri quale possibile autore dell’omicidio, non è stata valutata e approfondita, al fine di chiarire la sua partecipazione o estraneità all’omicidio; anzi, il primo rapporto è andato al Pretore (ipotesi della tentata truffa e porto abusivo d’arma), mentre il secondo è rimasto inserito nell’incartamento Wanninger e del Pierri non si fa cenno, né nella requisitoria del Pubblico Ministero, né nella sentenza del Giudice Istruttore, che dichiara di non doversi procedere contro ignoti…” «A me questa cosa fa proprio impazzire. Va bene tutto, ma che non si approfondisca nemmeno, non si cerchi nemmeno un mezzo riscontro a due rapporti del carabinieri - che non sono due lettere anonime - è davvero surreale. Come te lo spieghi?» «Non so quello che sia successo allora, posso soltanto pensare che tali rapporti siano giunti direttamente nei relativi fascicoli e poco ne abbia saputo la polizia giudiziaria che si occupava del caso. 107
Non ci vedo del dolo, vedo soltanto un poco di sfortuna e di mal gestione, non vi era in quel momento un responsabile reale delle indagini: i rapporti giunsero nei fascicoli come se fossero esaustivi della fase investigativa. Non era di certo così, senza nulla togliere a Mambrini: ma lui non aveva poteri di polizia giudiziaria per effettuare interrogatori, o ricercare altri elementi investigativi, per cui i rapporti erano quindi incompleti. Invece di metterli nei fascicoli dovevano essere spediti a chi si era occupato del caso in modo che potessero essere vagliati ed approfonditi. Un vero errore procedurale». Nonostante tutto, però, il pittore Pierri è bello tranquillo. I giornalisti gli chiedono che diavolo ci facesse con un coltello quando l’arrestarono e perché seguisse le donne per strada: “Seguii la Strele così, per tentare di iniziare un rapporto, così come avevo fatto già altre volte a Roma”. E che fosse il metodo d’approccio più originale dell’emisfero occidentale, ovviamente, neanche a parlarne. Ancora più surreale la spiegazione sul possesso del coltello: “Fin da ragazzo mi sono auto educato verso il modello corrispondente alla mia personalità. Leggevo libri sulle vicende cavalleresche antiche. Se dovevo immedesimarmi in qualche personaggio non era certamente in un assassino, ma in Sandokan, in D’Artagnan, in un cavaliere medievale. Sono rimasto molto attaccato a questo mondo poetico. Devo ammettere di avere un lato donchisciottesco, in me. Sono un idealista.(…) Portavo il coltello come un cavaliere antico la spada. Io non potevo certo andare in giro con la spada, perciò avevo una spada simbolica, che non si vedeva. Ma con lo stesso animo dei cavalieri antichi, pronto a usare l’arma in difesa dei deboli, delle donne. Non certamente per un’azione bassa e vergognosa quale è aggredire una donna. (…) E come indossavo il soprabito a guisa di cappa, così, giocosamente, mi divertivo a portare quell’arma. E poi giravo spesso di notte, all’epoca. Di notte, per Roma, non camminano solo i poeti. Ci sono anche i teppisti”. Appunto. Pochi giorni dopo la visita dei carabinieri a Pierri, il 22 luglio 1974, viene chiesto di riprendere la perizia Fontanesi - quella inter108
rotta per disinteresse di Pierri e per l’incredibile dimenticanza del perito - e di riprenderla proprio da dove si era fermata. Al perito se ne aggiungono altri due, i professori Citterio e Semerari (illustre criminologo che, anni e anni dopo, finirà decapitato dalla camorra, con cui faceva affari): a loro i giudici chiedono di capire se quel diario è una confessione oppure no. Di valutare tutto: il coltello, i brani scritti, i codici linguistici, le menzogne, il senso di quei sopralluoghi, la telefonata a “Momento Sera”, tutto. Per sapere se gli scritti di Pierri hanno caratteristica di diario - come suppongono i magistrati ed allora sono una confessione - o se sono davvero degli appunti per un romanzo mai scritto, come risponde Pierri. E per sapere, anche, se Pierri Guido ci sta o no con la testa. Di fronte ai tre periti c’è un uomo che ha gesti energici, nervosi, fa discorsi studiati, ampollosi. Ma non devono valutarlo per com’è ora quanto, paradossalmente, per quello che è stato in passato, nel 1963. Era un altro Pierri. Indeterminato nelle scelte da seguire, non sapeva che fare: scrivere? Dipingere? Voleva scrivere, dice lui, ma una cosa è sicura: si impegnava poco per farlo. Ne parlava, lo sognava: poi la realtà di tutti i giorni era quella di poco più che un bidello. Un impiegato che viveva in albergo e mangiava al ristorante per darsi un tono, ma sempre tale restava. Perizia, comunque, non facile: il pittore si rifiuta infatti di sottoporsi ai test proiettivi, non vuole essere scavato troppo, sta sulle sue, non vuole esporre luoghi che ritiene privatissimi di sé … Noi però vogliamo saperne di più e così Armando ha avuto una buona idea, quella di far rivedere i test cui fu sottoposto Pierri da Antonella Pomilla, psicologa ed esperta testista. È con lei che abbiamo appuntamento a Piazza Cavour, stamattina. La Vespa di Armando l’abbiamo parcheggiata e la aspettiamo seduti ai tavolini di un bar. Di fronte a noi l’immensa mole del Palazzo di Giustizia -er palazzaccio- dove lavorava Ciro Pierri, dove Guido venne a farsi cambiare quell’assegno e dove rientrò in manette, tenuto da due carabinieri, per spiegare la telefonata a “Momento sera”. 109
Antonella si siede ed attacca subito a parlarci, è troppa la voglia di raccontarci quello che ha scoperto… «Sì, cercando in internet tra le cronache dell’epoca ho letto qualcosa del caso Pierri, incuriosita da quello che mi avevi detto quando mi parlavate della stesura del libro… Non mi sarei documentata se avessi ricevuto un incarico ufficiale di valutazione psicodiagnostica nel procedimento peritale, per rimanere neutra, ma così… È il tipico caso che ben rappresenta quegli anni della “dolce vita”: c’è la giovane, affascinante e vitaiola aspirante attrice-modella straniera, il giovane fidanzato italiano “innamorato ma non troppo”, un “condominio bene” della Roma dell’epoca ed un locale di grido, un presunto maniaco, e tanta, tanta cronaca alla ricerca costante dello “scoop” che fa da contorno». Armando e io ci guardiamo, colpiti da come Antonella si è preparata per l’occasione, mentre lei, senza prendere fiato, continua. «Ma comunque, voi mi avete chiesto di rivedere i test e quindi non mi dilungo… Allora, i protocolli che mi avete consegnato fanno riferimento a tre Test psicodiagnostici: uno di livello intellettivo, così detto poiché volto alla valutazione delle capacità di intelligenza del soggetto cui viene somministrato, che è la cosiddetta Forma I della Scala di Intelligenza Wechsler-Bellevue; un test grafico proiettivo di natura percettivo/riproduttivo-motoria che è il Bender Visual Motor Gestalt Test; ed un test grafico proiettivo di natura proiettivo-motoria che è il Disegno della Figura Umana. Si aggiunge a questi un’altra prova grafica, che è il Test del Disegno Libero. Tutti somministrati nel 1964, in quel primo incontro peritale che so essere stato condotto da Fontanesi a seguito dell’arresto di Pierri». Capiamo che la cosa si fa complicata e quindi posiamo per un attimo i tramezzini che stavamo addentando, ma l’esperta testista continua implacabile… «La Scala di Intelligenza Wechsler-Bellevue, pubblicata da David Wechsler nel 1939, è stata la prima scala ideata per la valutazione dell’intelligenza. Da essa ha avuto origine, con opportune modifiche, la Wechsler Adult Intelligence Scale del 1955, 110
divenuta poi nel 1981 la nota WAIS-R (revised) che si usa ancora oggi. Costituita da una batteria di prove eterogenee facili da somministrare, aveva inizialmente lo scopo di valutare il livello di intelligenza globale del soggetto, ovvero la misura quantitativa del cosiddetto “Quoziente Intellettivo o QI”, confrontato per mezzo di una scala standardizzata con media 100 e deviazione standard 15 al punteggio del resto della popolazione. In parole povere, il QI serviva per dire “quanto” il soggetto era intelligente, rispetto al punteggio di altri individui. Ma la Scala si rivelò utile anche per individuare un eventuale deterioramento mentale, ovvero un decadimento cognitivo che poteva insorgere per invecchiamento fisiologico o per patologia organica o mentale, e soprattutto per descrivere “in che modo” si esprimeva l’intelligenza del soggetto sottoposto all’esame. Si poteva quindi capire se era più abile in prestazioni di natura verbale o di natura pratica. Insomma, uno strumento straordinario, che ancora oggi è basilare nelle indagini psicodiagnostiche di natura clinica, di ricerca e peritale. Ora, come ho detto, i criteri di codifica, attribuzione del punteggio ed interpretazione dell’epoca erano diversi da quelli odierni … ma diciamo che, se questo fosse un protocollo di oggi, la prima cosa che si nota dalla cosiddetta “Scheda di Notazione” (la prima pagina del protocollo del test, dove l’esaminatore riassume tutti i risultati) è che Pierri aveva ottenuto punteggi elevati nell’espressione quantitativa dei QI: si tratta infatti di un soggetto con un QI Verbale di 134, un QI di Performance di 112, ed un QI Totale di 125. Se consideriamo che il punteggio medio della popolazione si colloca tra 90 e 110, come prima cosa possiamo dire quindi che stiamo parlando di un soggetto con un quoziente intellettivo superiore alla media, ovvero “più intelligente” della media della popolazione. Peraltro, il punteggio più elevato viene ottenuto nelle prestazioni di natura “verbale”, ovvero in quelle rivolte agli aspetti teorico-astratti della sfera cognitiva: si tratta dunque di un soggetto maggiormente abile in attitudini di natura teorico-concettuale, verbali, di ragionamento logico». 111
Mentre sentiamo questo ripensiamo agli interrogatori di Pierri che abbiamo letto, certo che aveva davvero uno spiccato senso logico quando si difendeva dalle varie accuse. Antonella continua… «Infatti, i risultati più elevati li ottiene nei subtest “Informazione” e “Definizione di Vocaboli o Vocabolario”, che si rivolgono alla valutazione della cultura generale del soggetto, all’estensione delle conoscenze acquisite dalla formazione, dall’educazione ricevuta e dall’ambiente socio-ambientale di vita, dunque alle doti di apprendimento; e nel subtest “Analogie”, volto alla valutazione delle funzioni logiche e di formazione dei concetti. Deficitarie sono invece le prestazioni al subtest “Associazione SimboliNumeri”, volto alla valutazione della velocità psicomotoria, al coordinamento mente-braccio. E questi risultati… mi hanno incuriosito, sapete?» «E perché? - chiede Armando - cosa ti ha colpito?» «Questo. Vedete, all’epoca della somministrazione dei test, nel 1964, Pierri aveva trentadue anni e la Scheda di Notazione della Wechsler-Bellevue riporta come titolo di studio la licenza media inferiore. Ora, all’epoca come anche adesso, la scala di intelligenza di Wechsler è sensibile al livello di scolarizzazione, nel senso che le prestazioni nei subtest che compongono la scala, ed in particolare quelli della Scala Verbale e proprio i subtest che prima ho citato, risentono del livello di acquisizioni scolastiche di cui il soggetto è in possesso. Può un soggetto che ha concluso la scuola dell’obbligo diciotto-diciannove anni prima, senza poi acquisire altra formazione, avere queste prestazioni? Intendo dire: che il livello di QI di un soggetto con titolo di studio superiore sia più elevato è normale, dovrebbe essere così… mentre è inconsueto per uno che ha minori anni di formazione. Questo mi fa pensare che Pierri sapeva “giocare bene le sue carte”, mostrare di sé le doti migliori, ed in tal modo essere facilitato nella propria vita e nei propri rapporti sociali. Non dico che simulava, nell’accezione propriamente diagnostico-peritale che oggi si usa… ma insomma, sapeva mostrare 112
il meglio di sé. Ovviamente questa non è una diagnosi… solo un’impressione». Senza guardare Armando, so benissimo che stiamo pensando a quanto sia davvero impressionante che quanto Antonella ci sta dicendo vada nella stessa direzione di quanto ci ha detto Marisa. Coincide. «Poi abbiamo il Bender Visual Motor Gestalt Test, si tratta di un test grafico-proiettivo di tipo strutturato, così detto perché si presentano al soggetto nove schede raffiguranti dei disegni geometrici, chiedendogli di riprodurli così come li vede. Dal modo in cui egli riproduce i disegni, sia nella forma che nella collocazione spaziale, si valuta la rappresentazione mentale e riproduttiva dello stimolo ed il coordinamento motorio, ed eventuali lesioni cerebrali, disordini mentali e regressioni che su tali processi possono influire. Ora, il problema dei test grafici è che, oltre che dall’esecuzione vera e propria del test, l’esaminatore ricava molte informazioni anche dall’atteggiamento generale che ha il soggetto mentre lo svolge: se si lamenta o apprezza quello che sta facendo, se sorride, se ad esempio usa la gomma per cancellare e rifare una parte, e poi i tempi di esecuzione. Io con Pierri non c’ero, quindi tutte queste cose me le sono perse… ma per quanto riguarda l’esecuzione grafica quello che posso dirvi è che la rappresentazione di Pierri è perfetta: i disegni vengono riprodotti senza alcuna anomalia di natura percettivo-grafica, quindi non evidenziano deficit organici o deficit o regressioni a livello psichico… Il tratto è fluido e leggero, non ci sono sbavature… anzi, le figure sono fin troppo ben eseguite! In questo caso si potrebbe dire che questo Pierri era uno preciso, meticoloso, direi anche ossessivo… e capite, questo è in contrasto con quella poca “capacità manuale” che nel test di Wechsler si era evidenziata…» Ecco, qui ci siamo decisamente persi: Antonella ci guarda negli occhi e capisce che deve venirci incontro e salvarci… «Poi però gli altri test grafici mostrano l’esatto contrario… ed infatti le indicazioni più interessanti si ricavano dal Test del Disegno 113
della Figura Umana, che sono questi tre disegni che mi avete fornito. In questo caso si tratta di un test semi-strutturato, poiché l’input, o meglio la consegna che si dà al soggetto è quella di “disegnare una figura umana”… e capite bene che, ognuno di noi, può disegnare l’immagine che ha di una figura umana praticamente come vuole… Senza che mi dilungo sui vari modelli interpretativi che si sono succeduti negli anni, oggi il test viene utilizzato per rilevare lo sviluppo intellettivo e le caratteristiche che rappresentano la personalità del soggetto che lo esegue, sia nelle dinamiche interiori che in quelle di natura relazionale. Il test indaga il livello di maturazione dei processi di identificazione di un soggetto, ovvero l’identificazione di genere sessuale, cronologica e di ruolo. Il disegno è generalmente la rappresentazione di sé, ma può essere anche la rappresentazione del proprio “ideale dell’io”, o la rappresentazione di una figura significativa. Anche in questo caso, poiché non ero presente durante la somministrazione… tutto ciò che riguarda la disamina della fase esecutiva ci rimane sconosciuta. Ad ogni modo, quello che si evidenzia, in primo luogo, è che le figure disegnate sono macrografiche, ovvero occupano l’intera estensione del foglio. In particolare la figura femminile, come vedete, non entra per intero nel foglio: questo è indicativo di una persona sicura di sé, se non proprio narcisista, con Io ipertrofico, che fatica a riconoscere l’altro… e delle stesse cose è espressione la posizione centrale, sul foglio, del disegno eseguito. Fra l’altro, la figura femminile sembra essere la prima ad essere stata disegnata… vedete qui? C’è un “1 donna”… l’esaminatore deve segnare la prima figura disegnata dal soggetto. Pierri disegna quindi una donna come prima figura, forse una figura per lui rappresentativa? Chi è secondo voi?» Ovviamente stiamo pensiamo tutti alla povera tedeschina… «Guardate bene, le figure sono “rigide”, la loro espressione sembra bloccata… come rigida e coartata è l’emotività di colui che l’ha disegnata… E la linea? È discontinua, sfilettata, pesante, in alcuni 114
punti più marcata ed annerita… tutti questi elementi possono indicare la presenza di componenti aggressive, istintive. Poi, ancora, entrambe le figure non sono complete: nella donna, ad esclusione del volto che è ben definito, il resto del corpo, nel busto, è appena accennato… di nuovo, come se l’altro non venisse riconosciuto nella sua interezza, nel suo essere “persona”. Ma poi ecco una cosa importante, entrambe mancano di definizione nella parte inferiore, sono senza piedi… questo è un dettaglio molto importante, indica la mancanza di contatto con il piano della realtà. La figura maschile è molto curiosa… la prima cosa che ho pensato quando l’ho vista è stata… “ma questo è l’uomo con il vestito blu! Quello che scappava per le scale del condominio in cui veniva uccisa la tedeschina! Con la mano in tasca… che nasconde?” Perché, vedete, in questa figura mancano entrambe le mani, sono nascoste dietro la schiena… e questo indica una copertura dell’Io, un modo per nascondere se stesso agli altri… Allo stesso modo, il vestiario è indice della maschera sociale che il soggetto offre di sé e questo, così ben definito nell’elegante abito della figura maschile, indica uno che vuole mostrarsi in modo forse migliore di ciò che è in realtà. Ed infine c’è l’ultimo disegno, il disegno libero, quello dell’albero, vedete? Qui Pierri ha dato espressione alle proprie componenti emotive più profonde, che in questo caso sono molto cupe, tenebrose. Non ci interessa l’oggetto del disegno, che comunque è un fitto bosco, quanto la modalità grafica: ancora una volta la linea è molto pesante, annerita, rimarcata, molto piena, è decisamente un disegno molto intenso! Comunque nel complesso, dalla disamina di tutti i test, si può dire che Pierri era una persona che voleva mostrarsi diversa da ciò che era in realtà. Uno che si nascondeva nel rapporto con gli altri, che magari gestiva i propri rapporti sociali, anche affettivi, senza particolare trasporto emotivo, piuttosto in modo opportunistico e falso. Ma anche un narciso, uno convinto delle proprie capacità e delle 115
proprie doti, tanto convinto di sé da ritenere di poter “sfidare” gli altri. Poi c’è la questione dell’emotività, è un soggetto incapace di controllarla, incapace di trovarne una adeguata espressione, ha uno scarso contatto con la realtà. Questi sono i tratti essenziali, certamente non gli unici rintracciati nei test, ma almeno i più evidenti…» Siamo colpiti, il quadro personale di Pierri diventa sempre più chiaro: e intanto possiamo riprendere in mano, con calma, i tramezzini…
116
Capitolo 15 Buon Natale, Pierri!
Gli anni sono passati per tutti. Per l’inchiesta e per i testimoni, che la legge impone di risentire. Un’inchiesta diventata rapidamente paradossale: una richiesta di processo contro Pierri che arriva dieci anni dopo, quando l’Italia è un’altra Italia e le emergenze del terrorismo e delle stragi sono ben altra cosa, rispetto ad una tedesca morta un secolo prima. È così che si spiega la lentezza dell’inchiesta? Nella seconda metà del 1974 alcuni testi sono trasferiti, altri deceduti (come il preside Mancini), altri partiti per ignota località. Solo la Barbonetti è ancora la portiera dello stabile. Ha avuto un sacco di lutti in famiglia, è passato tanto tempo, non si ricorda niente, ha avuto pure l’esaurimento. Migliorini è Questore di Palermo. La Strele e la Robitaille non si trovano. Renzo Mambrini, lo sappiamo, era morto in un incidente d’auto il 26 novembre 1974, pochi mesi dopo aver presentato il suo esposto, scontrandosi contro una betoniera sulla via Salaria. Più o meno negli stessi giorni la perizia Fontanesi è finalmente conclusa, a nove anni dal suo inizio: sì, è un diario quello che è finito nel bidone della spazzatura. Un diario di cui si sono conservati, grazie ai carabinieri di Margiotta, qualche fotocopia e qualche trascrizione. Un diario che è la confessione di un delitto compiuto e di uno progettato da un uomo che, undici anni prima, era incapace di intendere e di volere. Ma per venire a capo delle indagini, per concluderle, incredibilmente, ci vuole ancora tempo. Molto tempo. Passa il 1975. 117
Passa quasi tutto il 1976 e il via-vai di via Veneto scorre tranquillo, anche se la Dolce Vita sta diventando un ricordo lontano, come il boom economico della fine degli anni Sessanta. Sono le 22.00 del 23 dicembre di quell’anno quando alcuni uomini si presentano a casa Pierri, che nel frattempo si è trasferito a Marinella di Sarzana, di fronte al mare. Non è una visita per fare gli auguri di Natale. È un ordine di cattura. La relazione Fontanesi è stata, insieme a quanto già si sapeva ed era contenuto nei rapporti Margiotta, decisiva: tanto che i giudici affermano che sono state fatte indagini perfino in Germania e che questo ha consentito di escludere che qualcuno avesse motivo di uccidere la Wanninger. Quindi, a maggior ragione, secondo loro chi l’ha uccisa l’ha fatto sulla base di processi psicologici anomali. Ed ecco che Pierri finisce ancor di più nei guai. Ora tutto si ribalta contro di lui. La distruzione dei manoscritti diventa il gesto di un colpevole che elimina le prove. Osserva infatti il giudice che quelle carte non dovevano costituire un ingombro tale da essere buttate per forza e che, se erano abbozzi di un romanzo, allora avrebbe dovuto conservarli a maggior ragione. E com’è strano questo Pierri, che non sa neppure spiegare la genesi del suo libro… In una saletta di Regina Coeli, di quelle con i muri verniciati per metà bianchi e per metà grigi, Pierri risponde, subito dopo Natale, alle domande del Pubblico Ministero Nicolò Amato (che di lì a poco guiderà tutte le carceri italiane, affrontando il durissimo periodo delle rivolte e del brigatismo) e del Giudice Istruttore Achille Gallucci (che più tardi sarà Procuratore della Repubblica di Roma): due magistrati eccellenti. Ma per Pierri le risposte sono facili, assai più delle domande dei giudici. La telefonata a “Momento Sera”? Fu una birbonata, una ragazzata, ci avevo già provato con “Il Tempo”, con “Le Ore”. La feci perché il personaggio del mio romanzo decide di fare una telefonata per ottenere del denaro da un giornale e così feci anche io. 118
Come faceva a sapere che l’aggressione era iniziata nell’ascensore? Era sui giornali. Poi si scorda quello che aveva detto dodici anni prima e si contraddice: Ah, quella poesia! L’avevo scritta prima del 2 maggio, certo, quando invece negli interrogatori dell’epoca aveva messo a verbale di averla scritta dopo, per immedesimarsi poeticamente… Insomma, prima o dopo non importa: l’importante è non nella data che, guarda caso, è la sola scritta di tutta questa storia: 2 maggio 1963, il giorno in cui Christa restò senza vita su quel pianerottolo. Ammette, a sorpresa, Pierri, per dimostrare quanto per lui fosse cosa normale, di aver seguito anche un’altra ragazza con cui ebbe una breve storia, Gorda Navolavic, di Zagabria (ah, la passione per l’estero che ritorna…) e che ciò era successo all’uscita da Regina Coeli, nel 1964. E si stupisce - lui, figuriamoci noi - di come adesso venga perseguito: in fondo, i giudici di dodici anni prima avevano avuto per le mani tutti i diari, non solo gli estratti di oggi, e l’avevano accusato solo di truffa, mica di omicidio… Dice anche che quell’interruzione di ottanta giorni nei suoi appunti (improvvisamente interrotti dal giorno del delitto per quasi tre mesi) è dovuta al fatto che, tornato a casa, non ero più nelle condizioni di avere stimoli psichici per la mia produzione artistica. Afferma anche che ha dichiarato che l’assassino aveva incominciato a colpire al petto - proprio come detto in autopsia - perché l’aggressione per lui era iniziata in ascensore, dove le persone stanno una di fronte all’altra; che aveva detto, durante la telefonata, che l’assassino indossava un abito grigio perché lui lo indossava quando faceva i sopralluoghi e che comunque aveva letto sui giornali che alcuni testimoni avevano parlato di un abito grigio. Infine, che il suo non era un diario, perché solo il giorno del delitto passò dall’idea letteraria di inventare un delitto all’immedesimarsi nell’essere l’assassino del caso Wanninger. Già ed allora cos’era? La risposta venne dai periti, cui era stato chiesto, oltre che di accertare il vizio mentale, il nesso tra le produzioni grafiche di Pierri e la sua personalità, in rapporto al delitto. 119
Che c’entrano le produzioni grafiche, direte voi. Beh, per i giudici un nesso poteva esserci. Guardavano i cataloghi delle mostre del pittore e si chiedevano il perché di quei corpi aggrovigliati, di quella giungla di donne e uomini e organi interni e coleotteri e mani curate e ali di farfalla. E pugnali. Vedo Armando che guarda e riguarda le opere di Pierri, le riproduzioni dei quadri che stiamo vedendo nel fascicolo processuale sono veramente molto inquietanti. «Però… sicuramente, Pierri era dotato di un bel tratto. I disegni molto spesso possono aiutare nella determinazione della personalità del soggetto che li ha effettuati, come ci ha detto prima Antonella Pomilla. Ovviamente in questo caso ci si addentra in un terreno minato, la libera creatività artistica potrebbe non essere legata a delle patologie. Questa storia mi ricorda il famoso “Un sogno di fantascienza” sequestrato a casa di Pacciani nel 1990, un quadro inquietante che diede molto da fare, a livello interpretativo, agli investigatori di allora. Lo stesso psichiatra De Fazio, il noto criminologo che per primo venne incaricato di effettuare il “profiling” sul Mostro di Firenze, nella sua perizia scrisse: Quanto alle ipotesi diagnostiche il quadro potrebbe suggerire la presenza di una paranoia. Si tratta di una patologia mentale, caratterizzata da un delirio a lenta evoluzione, coerente e fanatico, che si sviluppa su una personalità egocentrica, diffidente, permalosa, dogmatica, scarsamente socievole; l’intelligenza non é messa in gioco, ma viene utilizzata al servizio del delirio, ed eventualmente alla sua dissimulazione o alla sua difesa. Ciò che fa pensare alla paranoia è la prospettiva rigorosamente centrica, l’utilizzazione di un simbolismo conscio e coerente, una scelta motivata degli elementi, dei segni e finanche del colore, tutti strumentalizzati in funzione di un messaggio e della propria visione del mondo. Solamente in un secondo momento, quando ormai il quadro era stato portato nell’aula di tribunale, si scoprì, a seguito della telefonata del lettore di un quotidiano che aveva visto la foto che ritraeva 120
il dipinto, che questi non era altro che una stampa di Christian Olivares, un pittore cileno che voleva raffigurare gli orrori della dittatura che stava vivendo, e che era stato semplicemente colorato da Pacciani… dopo averlo rinvenuto in una discarica». E i periti scrissero. E certo che era un diario! Dissero subito. Sono proprio i suoi tentativi di criptografia che dimostrano chiaramente che scriveva per celare agli altri, non per far leggere! Gli scritti avevano dunque lo status del diario. E spiegarono, finalmente, chi era Guido Pierri. Scrissero a Gallucci ed Amato che il loro uomo non era un esibizionista né un istrionico, ma uno che viveva un perfezionismo sconcertante, uno che voleva vincere, con una suprema prova di volontà, la parte di se stesso che si opponeva all’atto perfetto, puro: l’uccisione di un altro essere umano. Gli altri, tanto, per Pierri erano strumenti da manipolare, oggetti. Talmente da manipolare, talmente oggetti che adesso tornava anche questo brano del diario: Dovrà servirmi (lo sfruttamento commerciale del numero 1, nda) a realizzare meglio il numero 2 e cioè con tutti i contorni sognati e con la certezza di conseguenze piacevoli. Alla caccia della perfezione impossibile, che lo avrebbe riscattato dalle accuse di nullità paterne, Pierri aveva ridotto tutte le sue insicurezze, le sue paure, ad una sola. Aveva scelto di uccidere per superare le sue paure di essere nessuno, aveva scelto di uccidere come si sceglie un frigorifero o una lavatrice. Razionalmente, per trovare una soluzione al suo problema. Sono nessuno, nessuno capisce la mia vocazione artistica? Bene, compirò il gesto che più di tutti esprime forza, volontà, determinazione, decisione. Il gesto più difficile: uccidere. Uccidendo guarirò. Uccidendo sarò salvato da me stesso, dalla mia parte malata. E dimostrerò, alla faccia che vedo allo specchio, che posso essere altro, che sono altro. Cercare l’atto puro, l’atto perfetto che lo avrebbe riscattato voleva dire, naturalmente, anche annientare la parte di lui che si opponeva all’omicidio, che non ne aveva il coraggio. I due episodi falli121
ti, quello della Robitaille e della Strele, rappresentavano infatti proprio due sconfitte, per Pierri. Ma è qui che ci perdiamo: come si fa a scegliere, per vincere il proprio complesso di inferiorità (che hanno milioni di altri uomini, che però non vanno in giro ad ammazzare nessuno sui pianerottoli) di compiere un gesto che è di morte? Non c’era altro modo per guarire? Eppure Pierri voleva questo, come fosse una prova, passare da Uomo e Superuomo. A questo punto - spiegano Citterio, Fontanesi e Semerari - Pierri era inevitabilmente isolato dagli altri, perché s’era separato dal mondo. Viveva nella contemplazione di un solo problema: sono capace o no di uccidere e di essere quindi superiore, di manifestare la mia volontà fino in fondo, di superare i miei problemi? I periti trovavano i suoi scritti: esaltati, freddi, sofisticati, estranei al mondo, come qualcosa che infrange la simmetria del mondo volutamente, che eccede volutamente. I versi del 2 maggio 1963, quelli della poesia, adesso prendevano un’altra piega. Riletti dai tre periti in questa logica si rivelavano manieristi, non sentiti, una ripetizione di modelli esterni, senza originalità. La scelta di uccidere per guarire. Sconcertante, sì. Era andata così: era stato con questo movente che Christa Wanninger, che Pierri nemmeno lo conosceva, s’era ritrovata, sorridente nei suoi ventiquattro anni, dentro questo vortice di confusione e turbe di una personalità sballata e carica di problemi molto, molto seri. Christa era stata, quel giorno di maggio, la persona sbagliata nel posto sbagliato. Conclusione: nella mente del pittore, nel maggio del 1963, c’era il buco nero della “schizofrenia a carattere autistico”, ecco perché al suo senso di inferiorità aveva dato una risposta - l’omicidio - così abnormemente diversa da quella di chiunque di noi. Questa malattia spiegava anche quella freddezza nello scendere le scale, nel lasciarsi - letteralmente - alle spalle il delitto. Per Pierri, in fondo, la 122
Wanninger era solo un simbolo, la rappresentazione di un problema tutto suo, che andava superato e solo in quel modo. Il nostro uomo non stava nella realtà: era vuoto, dentro, come una scatola vuota. Nessuna emozione, nessuna partecipazione. Sì, Christa era stata solo un simbolo per lui e quindi, che rimorso poteva avere? L’aveva anche detto, vero? Ricordate quell’intervista? Non sono abituato a pentirmi e non rimpiango niente di ciò che ho fatto nella mia vita. Ecco perché. Perché è tipico dello schizofrenico commettere un crimine ed, esaurita la spinta, riprendersi e comportarsi freddamente, senza rimorso. E, a causa di questo, versava per infermità in tal stato di mente da scemare grandemente la capacità di volere e di intendere. Ma non era più pericoloso. Perché la sua aggressività di ieri si era oggi cristallizzata nella sua produzione grafica: e infatti non aveva più commesso aggressioni. Totalmente incapace di intendere e di volere, insomma.
123
Capitolo 16 Il processo
Terminata l’istruttoria, il processo per l’omicidio di Christa Wanninger poteva iniziare, di fronte alla Corte d’Assise di Roma, ai primi di dicembre del 1977. Erano passati quasi quindici anni dal delitto, sei e mezzo dall’articolo su “Quick”. Il tenente colonnello Margiotta, nel frattempo, era diventato Generale. Quindici anni, una vita. «Rasentiamo il record - sentenzia Armando - solo recentemente, per alcuni tipi di processo, c’è stato un aumento consistente della lunghezza. Questo è stato causato, probabilmente, dalla legge che istituisce la figura del collaboratore di giustizia, nel parlare comune il “pentito”. Specialmente nei primi anni si sono riaperti molti casi che si erano chiusi senza un colpevole e quindi, come nel nostro caso, i processi si sono conclusi anche dopo vent’anni. Idem nei processi per le stragi dove, specialmente per gli stralci d’accusa ai mandanti, si è potuto procedere solamente dopo le confessioni dei pentiti, anche qui a distanza di anni. Un altro caso dove i processi sembrano infiniti è quando ci si trova in un “palleggio” tra le sentenze emesse ed i rinvii della Corte di Cassazione. Quest’ultima sentenzia solo sulla legittimità dello svolgimento del processo, quindi se la Cassazione rinvia un processo ad uno dei gradi inferiori di giudizio è perché ha riscontrato un vizio procedurale. Ma non è tutto qui, prendiamo il caso del processo per l’uccisione del Commissario Calabresi, avvenuta a Milano nel 1972. Nel 1988 Leonardo Marino si accusò di aver partecipato all’omicidio 125
con Ovidio Bompressi ed indicò come mandanti Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. Nel 1997 si arrivò alla fine del processo, con la condanna di Leonardo Marino ad undici anni di reclusione e a ventidue per gli altri tre. Ma, nonostante la sentenza definitiva passata anche al vaglio della Cassazione nell’ottobre del 1999, si cercò di riaprire il processo. Fu chiesta la revisione e iniziò la revisione, un vero e proprio processo che però non accolse le asserite nuove prove presentate dalla difesa degli imputati. Ecco, se contiamo anche questa fase il processo si concluse ventotto anni dopo i fatti e tredici anni dopo l’inizio». Non ci furono grandi colpi di scena e d’altronde non se li aspettava più nessuno. Era passato troppo tempo, s’era posata troppa polvere sui faldoni e tra i ricordi di tutti. Quella che veniva rievocata era una vecchia storia di tanti anni prima, una storia piena di testimoni deceduti o che non si ricordavano più e confermavano quanto dichiarato in istruttoria. Quello che c’era da dire era stato detto; anzi, l’aveva detto e firmato Margiotta ai primi degli anni Sessanta. Era, quella, una storia che veniva da un mondo lontano, dorato, di auto eleganti che sfilavano silenziose sull’asfalto di via Veneto, era la storia di un sogno che aveva attratto americani e tedeschi a Roma, era la storia dei flash dei fotografi davanti a Doney e di Re Feisal d’Egitto che risaliva ubriaco la strada di notte. Una storia di eccessi, di amori e di follie. Una specie di grande film, di grande sceneggiatura, che doveva concludersi col lieto fine, come una speranza collettiva di rinnovamento. Ma, come tutte le cose nuove, aveva spazzato quello che c’era prima, il mondo quasi paesano della via Veneto degli anni Cinquanta. L’odore del cornetti caldi alla mattina e i poeti che andavano in bicicletta per via Veneto erano stati sostituiti da una piccola dose d’orrore, quanto bastava a ricordare che la modernità era arrivata, con le sue regole più dure, meno allegre, le sue nevrosi e le sue tensioni. Una tedesca c’era andata di mezzo, un pomeriggio. Ma era roba vecchia. Era straniera, era morta ed erano passati quindici an126
ni. C’erano cose più serie in quel dicembre 1977, tipo il terrorismo e lo Stato che vacillava seriamente. Si stava progettando il sequestro di Andreotti o di Moro. Il caso Wanninger era solo una vecchia storia, buona per i cronisti dalla memoria lunga. E per Gertrud Wanninger, che appariva come parte civile. I fatti erano chiari. Il problema era determinare la pena. Nicolò Amato non poteva ignorare quella perizia: e chiese l’assoluzione per incapacità di intendere e volere, come prescrive il nostro codice penale. E a ragione: perché se sei matto, ma davvero, al cento per cento, non sei responsabile delle tue azioni e quindi che senso ha incarcerarti? La pena deve essere rieducativa e un matto vero non lo rieduchi in nessun modo. Certo, potrebbe essere pericoloso per gli altri, potrebbe rifarlo. Ma la perizia aveva escluso questo rischio: Pierri non era socialmente pericoloso. La difesa anche chiese l’assoluzione, ma per non aver commesso il fatto. Alle 14.45 del 10 gennaio 1978 la Corte si ritirava per decidere. E, alle 22.50, usciva con la sentenza scritta su un foglio di carta. Una sentenza di quelle che lasciano a bocca aperta. Assolto. Pierri veniva assolto per insufficienza di prove. Sembrava incredibile e lo sembrava ancora di più dopo aver letto le motivazioni della sentenza. Una puntuale e lucida ricostruzione dei fatti, che rimetteva in fila uno per uno tutti gli elementi che conducevano a lui. Come avevano potuto assolverlo? Eppure, si erano accorti perfino di quanto si fosse tradito in quella telefonata. Ricordate? A Mengoni disse che l’abito della Wanninger era verde oliva. Certo, nelle foto dell’obitorio il cappotto appariva marrone. Ma avevano avuto problemi a svilupparle, quelle foto, alla Scientifica. Qualcosa era andato storto con i filtri. Non lo sapeva nessuno. Bastava leggere il rapporto dei medici legali per capirlo. Loro, che il cappotto l’avevano visto come l’assassino, sapevano bene di che colore fosse. E l’avevano scritto a pagina 1 del referto. 127
Verde oliva. Ma tutti questi, per la Corte d’Assise di Roma, erano indizi, molto seri, ma indizi. Il giorno stesso Guido Pierri veniva scarcerato e se ne tornava in Toscana, dalla moglie. La storia era vecchia, comunque uscì sui giornali, per un paio di giorni se ne riparlò. Anvedi, e l’hanno pure assolto! E te credo, nun c’è più nessuno che se fa la galera. Qua stanno tutti fori! Senza sapere che la Giustizia si sarebbe addormentata di nuovo; e per un bel pezzo. Il 1978 se ne andò via. Il 1979 se ne andò via. Il 1980 se ne andò via. Il 1981 se ne andò via. Il 1982 se ne andò via. Il 1983 se ne andò via. Il 1984 se ne andò via. Il processo d’Appello iniziava in un’altra Italia, in un altro mondo, un’altra epoca; con altre macchine per le strade, senza terroristi a spasso, senza bombe. E la televisione a colori dappertutto. Iniziava dopo la strage alla stazione di Bologna, dopo Ustica, dopo Pablito e l’Italia Mundial, con Craxi al potere. Era l’8 novembre del 1985 quando iniziava l’Appello, che si svolgerà esclusivamente sulle carte del primo grado, che vennero in parte rilette in aula, come è giusto che fosse. Non vennero riascoltati i testimoni: a distanza di oltre vent’anni sarebbe stato inutile. Inoltre, alcuni erano troppo anziani o addirittura deceduti. Lo stesso Pierri cercò di dare la colpa ai servizi segreti, cercò di far capire che era stato incastrato: “Ad un pazzo non si chiede il perché, il suo comportamento esce fuori dai binari della logica. Ecco, nel caso Christa Wanninger, io ero il pazzo che permetteva la quadratura del cerchio in una vicenda altrimenti destinata a rimanere senza risposta”. Una settimana dopo arrivava la sentenza: assolto 128
perché incapace di intendere e di volere al momento del fatto. Che stavolta voleva dire: è colpevole, ma siccome era totalmente incapace nel 1963, non può andare in galera. La sentenza d’appello calava come una ghigliottina su quella d’Assise di sette anni prima. Con parole pesanti: “Il dispositivo della impugnata sentenza non ha alcuna rispondenza logico-giuridica con la motivazione. In essa, invero, dopo un accurato esame delle risultanze processuali, vengono analiticamente esposti i molteplici fatti e circostanze indizianti emersi a carico dell’imputato, viene attribuito agli scritti valore di confessione, e infine viene dato atto che trattasi di indizi univoci e seri alla quale, però, non si poteva pervenire per un certo qual margine di perplessità”. Traduzione: ma come avete fatto, con quale logica, a elencare tutte le prove contro di lui e poi ad assolverlo? Il 15 marzo 1988 la Cassazione confermava. Il caso Wanninger aveva ufficialmente un colpevole: l’assassino era stato proprio lui, Guido Pierri. Erano passati solo venticinque anni dal delitto. C’erano due che commentavano la notizia da un ferramenta, quella mattina. Mò faccio un delitto pur’ io. E perché? È a vorta bbona che ammazzo mì suocera: tanto per venticinque anni stò a posto, no? E c’hai ragione, c’hai! Nonostante tutto, non c’erano parole per spiegare quello che era avvenuto tanti anni prima su quel pianerottolo del quarto piano di via Emilia. Guido Pierri non sapeva che nome aveva la sua vittima e non gli importava. Aveva bisogno di uccidere e nemmeno per essere qualcuno, ma solo come personale terapia per vincere i suoi mostri. La spiegazione del caso Wanninger era, alla fine, di una semplicità sconcertante, una semplicità che davvero lasciava senza parole. Perché un movente simile era quantomeno privo di senso. Perché qualsiasi altra ragazza straniera, incrociata per caso per stra129
da, avrebbe potuto essere cadavere, al posto di Christa. Ecco, era il ruolo enorme del caso che lasciava stupefatti. E allora torniamo dove tutto è iniziato, in quei pochi minuti che furono gli ultimi di vita di Christa, quelli tra via Sicilia 24 e via Emilia 81. Era un pomeriggio caldo, quella che chiamano primavera romana. Un tempo perfetto per uccidere per un assassino che non poteva farlo se non c’era bel tempo, se pioveva, se tutto non era bello e perfetto come diceva lui. Pochi minuti, il tempo tra la vita e la morte. Pochi gesti, tranquilli, automatici, i soliti. Camminare, passare in tintoria, prendere l’ascensore. Incontrare qualcuno in ascensore. Eccoci qui, di fronte al palazzo di via Emilia. La fruttarola non c’è più, il portierato nemmeno. Semmai, un doppio portone per entrare. Un filippino ci saluta sorridente e gentile, uscendo per buttare la spazzatura. Un delitto perfetto, ma buttato via. Tanto si era impegnato Pierri a uccidere per sentirsi il Superuomo di Nietzsche, per poi buttare via tutto così, con una telefonata, per fare due lire e saldare il conto di un altro albergo. Forse, anche per rivivere la gloria del suo delitto, visto che il secondo non era stato capace di farlo, chissà. Tutta questa grande filosofia a motivare un omicidio e poi un conto d’albergo a rovinare tutto, a farsi prendere come un ragazzino, con la fionda in mano, davanti al vetro rotto. La verità era che Pierri del grande criminale non aveva la stoffa: semmai dell’ingenuo e del tormentato. Che sarebbe successo se non avesse telefonato? Il caso Wanninger sarebbe rimasto irrisolto. Nessun nesso tra vittima e assassino, incontro casuale. Vittima scelta a caso. Praticamente da manuale dell’omicidio insoluto, uno di quei casi che non fanno dormire di notte quelli della Mobile. No, davvero non ha un senso. Ma era andata così. Restava un movente, quasi troppo assurdo per essere vero: ma vero. 130
Restavano venticinque anni per trovare un colpevole. Assurdo anche questo: ma vero. E Christa, che ce l’aveva fatta a far parlare di sé, ma non come immaginava, era morta così, mentre stava per suonare un campanello, in un pomeriggio qualsiasi nella Dolce Vita.
Christa Wanninger
131
IL CASO BEBAWI
Capitolo 1 Un tonfo, poi le grida
Roma. Un appartamento in silenzio, al terzo piano di una traversa di via Veneto. Le dieci di mattina. Un’ombra scura sul pavimento, vicino una finestra. Qualche stanza più in là, una chiave che gira nella toppa. La porta si apre su una figura minuta, che si avvia verso una scrivania, delle carte, una penna. Dà un’occhiata, cerca qualcosa. Fruga. Niente. Fa qualche passo, percorre un corridoio, gira l’angolo, attraversa una stanza, fino a quella del principale. Bisogna trovare la sua rubrica del telefono, chiamare un po’ tutti. Ma dove diavolo è finito? Perché non risponde agli amici da giorni? Cos’è quella roba per terra? La figura getta un grido immenso: in quell’ombra, confusa col pavimento, c’è quello che un tempo era stato il suo principale. Il signor Farouk Chourbagi. E corre via. Il giallo di via Lazio 9 è appena iniziato. È il 20 gennaio 1964, un lunedì. Venti metri più in basso una coppia di americani, in occhiali da sole, passa ridendo per strada, con delle buste colorate in mano. Nel tardo pomeriggio gli strilloni già urlano nelle vie di Roma il titolo di “Paese Sera”: Egiziano ucciso in via Veneto! Ma quando è avvenuto il delitto? Senza dubbio, per una serie di ragioni, nel pomeriggio del 18 gennaio precedente, sabato, due giorni fa. Verbale di dichiarazioni di Luparelli Isabella, abitante nell’appartamento sottostante l’interno 6 ove fu rinvenuto il Chourbagi. 135
Mentre ero nella mia camera da letto, pregando, tra le 18.1518.30 sentii come un tonfo, poi due grida di donna e basta. Passò quasi niente: un tonfo e le grida. La mia stanza era esattamente sotto quella del Chourbagi. Gli strilli che udii provenivano dalla stessa stanza di sopra. Allora mi sono affacciata ed ho richiamato l’attenzione del portiere Simoni, che si trovava nel cortile. “Aldo - ho detto - ma che fanno di sopra? Qua si sentono botti, strilli, rumori”. Verbale di dichiarazioni di Simoni Aldo, portiere dello stabile sito al civico 9 di via Lazio. …E certo che stavo nel cortile, dottò! Li strilli l’avevo sentiti pur’io, allora me so’ affacciato. Ma nun jo dato peso. Questi strillavano sempre! E nun se capiva gnente, erano egiziani! Comunque sò stato un po’ in cortile e sa che ho visto? Ho visto che era accesa ‘a luce dell’ufficio dell’egiziano e che poco dopo s’è accesa anche la luce della stanza vicina. Poi gnente, sò rientrato a casa, dottò! Alle 18.15 anche Enrica Volpi e Vera Paolini, nel loro laboratorio di sartoria che sta sul lato opposto del palazzo, nel cortile, hanno sentito qualcosa. Degli spari. Una delle due aspettava con ansia una telefonata e guardava di continuo l’orologio: dell’ora è certissima. Ma questa è la strada degli ammazzamenti! aveva detto la prima, ripensando alla Wanninger. Ma che, siamo a Capodanno? aggiungeva l’altra. Gli spostamenti di Farouk Chourbagi, comunque, ci dicono che fino alle 17.30 di quel giorno è stato visto vivo da più persone, non ultimo il portiere del palazzo dove abita, in via Savastano 7, ai Parioli, dal quale è uscito con la sua Mercedes grigia. Che ora se ne sta parcheggiata in modo assurdo proprio all’incrocio tra via Lazio e via Emilia, col muso che sporge ben oltre l’incrocio. Via Emilia… sì, proprio quella del caso Wanninger. Perché il portone di via 136
Emilia 81 e quello di via Lazio 9 distano al massimo trenta secondi a piedi: come in uno di quegli scherzi che solo il caso riesce ad organizzare in modo tanto impeccabile e sorprendente. E dunque la Morte, la Grande Consolatrice, lo scheletro nel mantello nero che impugnando la falce troneggia immensa sul vescovo inginocchiato, negli Arcani Maggiori, è tornata a farsi un giro dietro via Veneto. Ma quanto sono diversi questi delitti, che in comune hanno solo uno straniero come vittima: a via Veneto non muoiono gli italiani, dirà un giornalista. Pensate a Christa, pranzo con cornetto e cappuccino e la speranza della cena offerta da qualcuno. Pensate a Farouk, cameriera personale e dopocena dall’ambasciatore. L’unica cosa amaramente in comune è un abito blu: quello che si disse aveva indossato l’assassino in via Emilia e che è diventato quello sicuramente indossato dalla vittima di via Lazio. Per il resto: due mondi. Farouk è sparito da sabato, ma l’allarme è scattato domenica, quando la sua cameriera si accorge che non ha dormito a casa, un fatto che non accadeva mai. Ed è da domenica che i suoi parenti lo cercano per Roma, senza però essere passati per via Lazio: altrimenti avrebbero visto la Mercedes, inconfondibile con la sua targa svizzera GE 374Z e gli interni di pelle rossa. Mentre la Polizia interroga la figura minuta, la segretaria di Chourbagi, che risponde al nome di Arbib Karin, un medico legale si china sul cadavere, lo rivolta scoprendone la posa innaturale e Via Lazio 9 137
ridicola che ogni cadavere assume quando si irrigidisce e diventa un blocco unico. E vede un po’ di cose: ferite sulla tempia sinistra, ferite che sono fori d’ingresso di colpi di pistola. E poi altri fori nella metà sinistra del torace. E poi ustioni, sulla parte sinistra del volto. Ustioni? Un momento, come ha detto, ustioni? Chiede il capo della Mobile, Nicola Scirè. Sì e guardi queste scolature, le vede? Queste, che arrivano fino al collo. Direi che è vetriolo. Anzi, vede qui? Qui? Esatto, questi righi brunastri… Gli schizzi di acido hanno colpito la vittima anche alla regione parietale sinistra e sull’area mediana della fronte. Gliel’hanno lanciato addosso, sul viso. Ma chi è che oltre ad uccidere un uomo vorrebbe anche sfigurarlo da vivo? Che senso ha? Si chiede Scirè.
138
Capitolo 2 Monsieur Farouk e il sopralluogo della Scientifica
Ora che è morto in quello che è stato il suo ufficio, la Polizia cerca di capire chi sia stato in vita questo Farouk Chourbagi. Innanzitutto, uno giovane e ricco: ventisette anni, presidente della società di import-export tessile Tricotex, con sede appunto in via Lazio. Tanto ricco da essere nipote di un ex ministro del Tesoro egiziano. Educazione ad Oxford e due o tre Mercedes nel garage. Insomma, niente male: il lavoro che vorremmo fare tutti. Era arrivato in Italia nel settembre 1962. La Tricotex, che si occupava del commercio di maglieria e confezioni, possedeva anche l’Italmatch, per produrre stuzzicadenti ed una terza società che investiva in terreni, l’Investur. Chourbagi, poi, era anche amministratore della società edilizia Uniorient. A Roma faceva una vita brillante: locali notturni, molte amicizie, feste nella villa di campagna dei Badini Confalonieri. Un ragazzo molto educato, molto riservato. Con intorno molte donne, attratte da quel connubio, perfetto per dare sicurezza, fatto da una solida posizione, giovinezza, bellezza. Quella mattina, proprio quella del delitto, alle 9.20 Farouk si era recato all’Hotel Ambasciatori per incontrarsi con un ministro arabo, Ali Alireza, che poi con la sua auto aveva accompagnato all’ambasciata. Aveva quindi pranzato con lui al “Cafè de Paris” di via Veneto e lo aveva accompagnato a Fiumicino. Era tornato quindi a casa, in via Savastano. Ma c’era stato poco, un quindici-venti minuti, il tempo di una barba e una telefonata. C’era d’altronde la testimonianza di Mustapha Demerdache, un coinquilino del palazzo, che lo aveva visto uscire di casa alle 17.20. Era arrivato in via Lazio alle 17.30 circa. Su quest’orario si po139
teva esser certi, visto che il portiere Simoni l’aveva visto entrare. E non solo lui. Il benzinaio sotto l’ufficio, Ercole Cesarini, seduto sulla sedia di paglia fuori dalla pompa Agip, lo aveva visto parcheggiare la sua Mercedes 220 SE osservando divertito che, per come l’aveva iniziata, la manovra, quello là aveva ben poche possibilità di concluderla bene e infatti… Poco dopo le 17.30, poi, aveva tentato di chiamarlo Elisabetta Tizerin, una sua ex, ma il 481850 della Tricotex dava occupato. Aveva richiamato più tardi e non rispondeva nessuno. La morte era passata di lì e Farouk stava sul pavimento, diventando sempre più freddo. Il telefono squillava nel silenzio. «Chourbagi, però, oltre che essere fortunato, era anche uno che lavorava duro per farsi soldi suoi, visto che la società gli era stata aperta con quelli di famiglia, da cui cercava di affrancarsi per creare una posizione personale. Grazie alle prime dritte date dalla Karin, vengono subito interrogati parenti ed amici della vittima. E tra questi quello che dà subito una svolta alle indagini è Mounir Chourbagi, lo zio. E sì, perché dice qualcosa che attira l’attenzione. Quando gli chiedono se eleva sospetti su qualcuno, lui la risposta ce l’ha pronta e forse sono mesi che non vede l’ora di dirla: fa il nome di Claire Bebawi, egiziana anche lei. Claire, che ha avuto una lunga e tempestosa relazione con Farouk. Farouk, che zio Mounir descrive come un ingenuo, uno che non aveva capito che donna fosse quella là. Di Claire parla come di una piovra, una nevrotica, innamorata in modo ossessivo di lui, innamorata anche del tipo di vita brillante che poteva condurre con lui. Altri testi, in quei giorni, dissero che Farouk aveva riferito loro le minacce di morte ricevute da Claire». Vedo Armando che ha una gran voglia d’interrompermi. Il sopralluogo del delitto di via Lazio, come tutti quelli effettuati sulle scene del crimine, ebbe subito una enorme importanza, per la singolarità dell’omicidio stesso. «Cosa trovò la Polizia Scientifica?» gli chiedo. Armando apre la sua borsa e tira fuori un vecchio fasci140
colo che ha l’aria di essere passato per molte, molte mani. È il sopralluogo originale del 1964. «Abbiamo un fascicolo di sopralluogo molto corposo. Dopo l’intestazione, che ci descrive i luoghi e le persone presenti, si inizia con il descrivere la porta d’ingresso ed il singolare sistema di chiusura fatto di cordicelle e chiavistelli: un metodo che rendeva possibile chiudere la porta dall’esterno senza fare uso delle chiavi. È una descrizione minuziosa, che denota una attenzione particolare, da parte degli investigatori, fin dai primi momenti delle indagini, a questo meccanismo. Leggi qua: internamente, al bottone, posto all’estremità del mandante della serratura centrale, è legato un pezzo di spago il quale, se fatto passare sopra il nottolino di arresto del mandante medesimo e nella fessura tra il battente e controbattente, rende possibile, dall’esterno, tirandolo, l’abbassare del nottolino di arresto che, bloccando il mandante, consente il contemporaneo scorrimento dello stesso nell’apposita piastra di alloggiamento. Tale operazione serve ad ottenere la chiusura della porta senza far uso della chiave. Quindi un sistema, semplice ed invisibile, per chiudere la porta con uno dei chiavistelli, ma da fuori e senza l’utilizzo delle chiavi. Poi si continua con la descrizione degli ambienti, te la riporto fedelmente, è interessante farvi alcune considerazioni: Accedendo (all’appartamento n.d.a) si osserva un corridoio, esteso longitudinalmente, che immette: a destra in uno studio; anteriormente in un primo ufficio; a sinistra nel bagno e nella segreteria. Lo studio, a sua volta, comunica a sinistra, con l’ufficio del presidente. Il primo ufficio, invece, è intercomunicante: a destra, con il già menzionato ufficio del presidente; anteriormente, con un disimpegno e con l’attigua cucina. Due cose che mi colpiscono sai quali sono? L’aver denominato l’ufficio di Chourbagi “ufficio del presidente” ed il fatto che fosse raggiungibile da due diversi accessi, sia passando dallo studio che dal primo ufficio. E cosa vede la Polizia Scientifica nell’Ufficio del presidente? In141
nanzitutto, un ambiente sobrio e con una scrivania sostanzialmente ordinata. Sul piano d’appoggio di quest’ultima c’è la “24 ore” del “presidente”, mentre i cassetti della scrivania, uno per lato, risultano chiusi. Nella poltrona posta nell’angolo anteriore destro è poggiato un cappotto da uomo, di colore nero. Ma sotto la finestra, posta in una rientranza della parete destra della stanza, c’è il corpo senza vita di Chourbagi con la testa rivolta verso l’angolo destro della rientranza della finestra e con i piedi in direzione della parete sinistra. Continuiamo a leggere la descrizione del cadavere, come tradizionalmente viene fatta dagli operatori della Polizia Scientifica, che ci fa sentire il corpo della vittima ancora più distante di quanto questi anni trascorsi ce lo possano far sentire: … è integro, inodore, rigido e continua con la descrizione della sua postura. Vicino al cadavere si rinvengono quattro proiettili e quattro bossoli ed i conti tornavano, tutti calibro 7,65 con i bossoli riportanti sul fondello la scritta “2-T-62-T”. Tre proiettili vengono rinvenuti a terra, uno in particolare sotto il corpo di Chourbagi; un quarto viene rinvenuto conficcato per circa quattro centimetri all’interno del muro sotto la finestra».
La piantina scena del crimine
142
Dopo essere scappata gridando, Arbib Karin, però, dice una cosa molto importante. Alla domanda ha notato nulla di particolare?, risponde che quando è arrivata, quel lunedì mattina, ha visto che la porta d’ingresso era stata chiusa con quel particolare sistema, noto solo a pochissimi frequentatori dell’ufficio. Armando ha spiegato il modo per chiudere la porta da fuori, facendo scattare tutto il sistema delle serrature, senza averne le chiavi. Bastava tirare, una volta usciti, una cordicella che pendeva a sinistra, accanto allo stipite: qualcosa di tanto invisibile che nemmeno quello che faceva le pulizie l’aveva mai notato. Ecco, bisognava proprio essere dell’ufficio per saperlo, vous voyez… È Simoni, il portiere, che aggiunge a questo punto: massì! A’ mattina de domenica l’ho vista pur’io ‘a cordicella! Pendeva fuori dalla porta, dottò, e l’ho rimessa a posto io! Che nun lo sa che era n’invenzione mia? Strano davvero, allora, che dal cappotto della vittima manchino le chiavi dell’ufficio, se non servivano a chiudere la porta. Perché l’assassino le ha portate con sé? «Questa è una cosa strana - interviene Armando - ma tutto il sistema di chiusura è sicuramente anomalo. Perché avere un modo che permetta di chiudere la porta da fuori, quando questa operazione è possibile effettuarla semplicemente con le chiavi dell’appartamento? Farouk dimenticava spesso di chiudere la porta quando usciva?» È la Karin a riferire delle numerose amicizie femminili del suo principale, tra cui quella con una signora Bebawi, con la quale aveva avuto alcune telefonate piuttosto agitate. Ma la Karin non ha finito, si ricorda anche qualcos’altro. Che proprio il giorno prima di morire la vittima aveva fatto una tempestosa telefonata, piena di urli e di manate sbattute sulla scrivania, proprio con questa Claire Bebawi. Bien sur, la centralinista aveva passato proprio il suo numerò, Losanna 229460. «Armando, era proprio un altro mondo, vero? Cordicelle per chiudere le porte, centraliniste per telefonare…» «E sì, tutte cose, 143
diciamocelo pure, Fabio, che erano molto di aiuto alla Polizia, specie centraliniste e portieri, perché alla fine annotavano tutto e magari alcune volte si “impicciavano” un po’ troppo. Pensa quanto è strano, siamo passati dalle centraliniste al selettore automatico, che era costituito da un sistema elettromeccanico senza memorizzazione della chiamata, e quindi praticamente inutile ai fini investigativi. Come, ad esempio, è successo nell’omicidio di Simonetta Cesaroni, avvenuto nell’agosto del 1990. L’uffiLa porta vista dall'interno cio dove venne rinvenuta morta, in con il singolare sistema di chiusura via Poma, era situato nella zona Prati che, allora, era gestita da un sistema di selettore automatico elettromeccanico: quindi non fu possibile avvalersi di tabulati del telefono che avrebbero permesso di chiarire alcuni particolari fondamentali avvenuti quel pomeriggio del 7 agosto. Solo qualche anno dopo, con l’avvento dell’informatica e quindi con la gestione delle chiamate da parte di grandi server computerizzati, il telefono è tornato ad essere un elemento utile ai fini investigativi». Più che una telefonata, comunque, era stata una lite. No, la Karin non aveva capito cosa s’erano detti. Però, subito dopo, lui le aveva dato un espresso da spedire a Losanna, a questa Bebawi. E le aveva detto: non mi passi più sue telefonate! Dica che sono partito, che sono a Milano, d’accordo? Ah, sì, ricorda anche di un’altra telefonata tra i due. Era avvenuta il 10 gennaio precedente . Lui ad un certo punto aveva gridato: io non posso sposarti, non posso! Dimmi tu cosa devo fare! Cherchez la femme, allora. 144
Capitolo 3 I Bebawi
Già, ma Claire Ghobrial coniugata Bebawi dov’è? Vive in Svizzera, a Losanna, spiega Mounir. Contattata la polizia svizzera, però, Scirè apprende che la signora e il signor Bebawi in Svizzera non ci stanno proprio: sono partiti qualche giorno prima per Roma. Roma? Già, proprio così. Ma Roma dove? Si controllano i cartellini degli alberghi e, beh, se non è un altro scherzo del caso questo… a Roma hanno soggiornato, solo per qualche ora, all’Hotel “La Residenza”, che sta esattamente al capo opposto di via Emilia, a pochi minuti di strada dal luogo del delitto. Per ripartire il giorno stesso del loro arrivo, cioè esattamente quel 18 gennaio in cui Farouk è stato assassinato. Che poi, è strano: prima di decidersi a prendere una stanza in via Emilia i Bebawi ne avevano fissata e disdetta un’altra, in un hotel di viale Buozzi. E prima ancora erano già stati una prima volta a “La Residenza”, ma non gli era andata bene la stanza, troppo piccola. Un atteggiamento quanto mai convulso, per un soggiorno di poche ore. Ce n’è abbastanza per cercarli e fare loro due domande e anche di più: ma dove sono finiti nel frattempo, i Bebawi? Lui, Joussef, ha trentotto anni; lei, Claire, ha trentuno anni. Lui l’ha sposata quando ne aveva quindici. Hanno tre figli: due maschi, di quindici e nove anni, una femmina, di sette. Ma sono due tipi molto diversi. Lei, bellissima donna e gran signora, di quelle che hanno come principale occupazione del pomeriggio passarsi lo smalto e che non prendono in mano un mestolo in cucina nemmeno per dare una giratina al sugo. Lui, industriale nel campo del cotone, molti soldi, buoni agganci, uomo d’affari, gelosissimo di lei. Gente 145
abituata a prendere l’aereo ogni tre per due, come gli altri il tram. Gente che fa affari in tutto il Mediterraneo, facoltosi ma senza i capitali di un Chourbagi. Si sono trasferiti in Svizzera dal luglio del 1961, quando in Egitto ha preso il potere Nasser: trasferimento con annessi capitali al seguito, per evitare di perdere tutto. Solo che nella placida Losanna lei si annoia: la Svizzera, si sa, è la patria degli orologi a cucù e non offre molto ad una bella donna con la passione per i viaggi internazionali. Fino all’incontro con Farouk, s’intende: ma questa era tutta una storia che la Squadra Mobile romana aveva una gran voglia di approfondire. Intanto, i poliziotti lavorano per ricostruire le ultime ore della vittima. E si dirama all’Interpol un ordine di ricerca dei Bebawi, che come minimo vanno ascoltati. Sono giorni d’inverno, a Roma, col termometro che non supera i dieci gradi. Nell’ordine di ricerca viene specificato, in particolare, il probabile arrivo in Grecia. Probabilmente alla Mobile avevano controllato le prenotazioni aeree e visto che avevano un biglietto per Atene… Portano via il corpo di Chourbagi. Sulla poltrona dell’ufficio è rimasto, appallottolato, il suo cappotto; e, cosa strana, ha la fodera interna bucherellata da tanti piccoli, stranissimi forellini. Squadra Mobile di Roma. Deposizione di De Blanck Patrizia. Conoscevo Farouk da circa un anno. L’ultima volta che lo vidi fu il 16 gennaio, per una festa a casa sua. Era molto nervoso, così come da un mese. Parlava a scatti, si arrabbiava spesso, mi disse che stava risolvendo un problema, ma non mi parlò mai della Bebawi. La sera in cui è morto sarebbe dovuto venire a prendermi alle 23.30, per andare ad un ricevimento all’ambasciata del Brasile. Siccome era molto puntuale, mi preoccupai quando non lo vidi arrivare. Sì, qualche mese prima mi aveva chiesto di sposarlo: ma pensai ad uno scherzo e poi io ero ancora in attesa di divorzio. Avevamo solo rapporti di amicizia, noi. Quella sera Farouk non era arrivato a prendere la De Blanck. Ed il suo smoking era rimasto là dove lo trovò la cameriera: sdraiato sul 146
letto di casa, senza mostrarsi al conte Sforza, al principe Francesco Borghese, ai Caracciolo, ai Dragonetti De’ Torres. Se questo era quello che avrebbe dovuto fare la sera del 18 gennaio, che spostamenti avevano compiuto invece i coniugi Bebawi? Si scopre che sono atterrati a Fiumicino alle 14.50. La navetta li ha lasciati al terminal di via Giolitti, cioè a Stazione Termini, alle 16.15. A “La Residenza” invece sono entrati esattamente alle 16.35, dicendo che volevano restare fino a lunedì. Cos’hanno fatto in quelle quattro ore? Hanno visto una stanza, ma non andava bene: era singola. Se ne sono andati, poi sono tornati e Joussef ha detto che poteva andar bene, ma ha chiesto di farvi trasferire un altro letto singolo. Sono stati poco, nella camera 23, perché sono scesi verso le 17.00. Si sono seduti nella hall ed hanno chiesto due tè. Poi, lei è entrata nella cabina del telefono, seguita dagli occhi di un uomo che stava alla reception. Erano le 17.20. Poi sono usciti a passo svelto. Lei in pelliccia e con un foulard in testa, lui in cappotto grigio e colbacco. Proprio mentre la Tizerin chiamava Farouk e trovava occupato. Squadra Mobile di Roma. Deposizione di Micangeli Gianfranco, segretario dell’albergo “La Residenza”, sito in via Emilia 22. Prima di uscire, quel giorno, lei fece una telefonata, ma parlava così forte, era così agitata, che si sentiva da fuori la cabina. La telefonata mi sembrò strana perché, nei passati soggiorni da noi, lei aveva sempre telefonato non appena il marito era uscito, mentre stavolta lo aveva fatto con lui presente. Quindi salirono in stanza e una volta scesi andarono via. Saranno state le 17.30. Sono tornati, insieme, alle 18.20, dicendo di voler partire subito per Napoli. Se lo ricordano bene, in albergo, il rientro della signora: passo svelto, viso rivolto avanti, senza salutare, con le mani incrociate all’altezza del corpo a tenere chiusa la pelliccia. Tanto era stata affabile all’arrivo, tanta era adesso l’alterigia del rientro. E, chiamato un taxi (anzi, due: perché mentre non arriva quello 147
dell’albergo è Claire che va in strada a cercarne nervosamente un altro), se ne vanno a prendere un treno a Termini, lasciando la camera prenotata fino a lunedì. A questo punto, mentre le indagini accertano che sabato 18 i Bebawi hanno preso un treno per Napoli, dove hanno pernottato nella stanza 813 dell’Hotel Royale, arriva un dispaccio dell’Interpol che comunica alla Mobile l’avvenuto rintraccio dei due egiziani: ecco dove sono, ad Atene, sono scesi all’Esperia. È la sera del 20 gennaio. Su Roma cala la notte e Farouk è intanto in una cella frigorifera dell’obitorio. 21 gennaio 1964: saranno quasi le 20.00, quando la polizia greca si reca all’Esperia, bussa alla stanza 819 e si porta via i Bebawi per interrogarli, al comando di polizia di via Babulinas, non dopo avergli perquisito i bagagli. Claire vi entra da gran signora, indossando la pelliccia di astrakan beige, con collo di visone, lui senza colbacco: e non immaginano quello che sta per accadere. La prima cosa è un lapsus quanto mai indicativo: perché Claire, di fronte alla Polizia greca, continua a chiamare l’albergo di Roma “La Resurrezione”. Arrivammo lì, non vi trovammo una stanza per due, allora andammo all’albergo “Parioli”; nemmeno questo andava bene e siamo tornati alla “Resurrezione”. Aridaje: sarà stata proprio una vera resurrezione per lei, quel viaggio a Roma. Deve essersi proprio tolta un peso, evidentemente. Quando la riportano in albergo, sembra che le luci della sua stanza siano rimaste accese tutta la notte... Da Roma stanno intanto chiedendo notizie ai colleghi svizzeri su questi Bebawi: chi sono? Che fanno? E gli svizzeri si recano a casa loro, a Losanna, al secondo piano di avenue Eglantine, al 5, per una perquisizione… Quattro camere da letto, cucina, due tinelli e tre bagni, in un quartiere residenziale, con un bel po’ di Mercedes parcheggiate per strada. E cominciano a rovesciare i cassetti.
148
Capitolo 4 Un’altra Roma
Sui giornali italiani la faccenda è chiara. C’è poco da ragionarci su. Appare romanzesco che lei lo abbia ucciso per vendetta, questo sì. Ma tuttavia è lei l’assassina, sia per il movente che per il vetriolo: e ci si interroga sul ruolo del marito. Gli egiziani, si sa, sono perfidi, strani, misteriosi come le piramidi e gli aspidi. E poi lui è ombroso, lei uno schianto di femmina. Gli ingredienti perfetti per un giallo perfetto… Il delitto di via Lazio ha tutti i motivi per essere ricordato. Nella Roma dei primi anni Sessanti dicevi “delitto” e pensavi alle borgate più malfamate: il Quarticciolo, Primavalle, Tor Marancio, alle baracche di Borgata Gordiani. Pensavi a Trastevere, che allora voleva dire malavita, pensavi anche a Ponte Milvio, mentre sapevi invece che zone come Monteverde, Monte Mario e l’Eur non destavano preoccupazione. Ma chi s’aspettava il morto in via Veneto, la vetrina luccicante di Roma? In quel mondo di stranieri che, alla maggior parte delle persone, appariva misterioso? In quei locali dove si entrava solo con la cravatta e il portafogli ben gonfio? Di notte via Veneto era un mondo nel mondo, qualcosa riservato a pochi: c’era in esilio Re Faruk, c’era la principessa Soraya, c’erano registi e i divi. C’era il jet-set, gli attori e le attrici in carne e ossa. Quello che da fuori non si vedeva era quello che invece ad un osservatore come Ennio Flaiano non poteva sfuggire: una società del caffè che folleggia tra l’erotismo, l’alienazione, la noia e l’improvviso benessere. (…) In questi ultimi anni Roma si è dilatata, distorta, arricchita. La gente vive all’aperto, si annusa, si studia, invade 149
le trattorie, i cinema, le strade. (…) Via Veneto diventa sempre più festaiola. Com’è cambiata dal ’50, quando vi arrivavo a piedi ogni mattina. L’aria era limpida, il traffico quieto, dal negozio del fornaio veniva il profumo delle brioches calde, c’era una gaia animazione paesana, giornalisti e scrittori prendevano l’aperitivo. Dal barbiere incontravo Mario Soldati che mi diceva “sto scrivendo un romanzo”. Come può cambiare una strada! Gli altri, le persone normali, quelli famosi andavano invece a vederli al cinematografo in centro: al Barberini, al Fiamma. Le persone normali leggevano sui rotocalchi, il giorno dopo, quello che le persone speciali avevano fatto e vissuto in via Veneto; impegnavano le loro cose al Monte di Pietà, perché c’era, soprattutto, la speranza del domani, del cambiamento. E tutto questo avveniva in una città che, a raccontarla oggi, è davvero di un altro secolo. Dati ufficiali del 1962: a Roma sono avvenute 91 rapine (di cui, 58 risolte dalla Polizia), 14 omicidi (12 risolti), 27 estorsioni (21 risolte), 922 truffe di cui per ben 682 s’era trovato il colpevole e 7 infanticidi. Cose di un altro secolo, come questi titoli dell’epoca: Davanti a Doney un cane morde alla mano un uomo: forse era affamato. Un mattone cade da un’impalcatura. Se erano notizie queste, figuriamoci il resto! Ma era proprio il livello della criminalità ad essere di un altro pianeta. Ad esempio… Palombaro truffa la vedova. Due evadono con la lima da Regina Coeli. A parte che vorremmo vederlo, un tizio vestito da palombaro raggirare una vedova… era davvero una città dove si truffava ogni 150
tre per due: addirittura sui falsi biglietti ferroviari, e poi quadri, banconote, orologi. Ma c’erano anche notizie paradossali, come questa: Mentre si abbottonava la giacca, l’attore Antonio Tafinetti, 50 anni, da Viareggio, teneva tra le labbra uno spillo. Un colpo di tosse e gli è finito nello stomaco. Al San Giacomo l’hanno tranquillizzato. Lo digerirà in tre giorni. Insomma: una città tranquilla, se le notizie di cronaca erano queste. Una città in cui essere ammazzati non era ancora un’abitudine, un fatto usuale, ma un’eccezione, un evento abnorme, una minaccia potente. Ogni giorno aprivi il giornale e trovavi notizie così: Tre feriti per l’esplosione di una bombola di gas. Si getta nel Tevere ma poi ci ripensa. È colpa del freddo se il video “trema”. Il mago di Tobruk sfida il mago di Napoli. Si incendia e scoppia un televisore. Fino agli spettacolari: Piomba dal quarto piano mentre scuote la tovaglia dalla finestra. Un bambino di quasi due anni cade in una vasca di acqua tiepida. Affida ad un amico lo scheletro della madre. Che sono anche il segno, nella voluta ironia del titolista, di un mondo che sapeva prendersi in giro, che sdrammatizzava, che se la 151
cavava romanamente con una battuta. D’altronde anche la pubblicità era sullo stesso tono. Facile trovare questo annuncio: È transitato nella nostra città il signor Cosimo Friedech, celebre per aver brevettato la frase “l’occhio del padrone ingrassa il cavallo e l’occhio di pernice è il peggior callo”. Poveretto, come soffre! Si ostina a non usare il celebre callifugo del dott. Ciccarelli, che si trova in ogni farmacia a sole 150 lire. Anche la cronaca nera, dicevamo, parlava questa lingua. Vediamo che succedeva in città. Barricato in casa minaccia di uccidersi con i nove figli. Vendeva riviste pornografiche l’edicolante di Largo Chigi. È stato arrestato dalla Buon Costume. Sabotata all’alba la Centrale del Latte. Ignoti aprono i rubinetti dei serbatoi. A Via Veneto, poi, non succedeva granché. Rubate di notte le valigie dall’auto di due turiste in via Firenze. Tra 6 automobilisti rissa in via Veneto. Oppure la notizia era che la banda del buco, passando dal Bar Strega, era entrata nell’agenzia di viaggio vicina per rubare. In una città così ogni omicidio non poteva non essere un fatto enorme. A maggior ragione se succedeva in via Veneto e sapeva di mondi lontani.
152
Capitolo 5 Il cerchio si stringe
Negli uffici della Mobile la faccenda è meno chiara, invece. Anche perché l’altro portiere de “La Residenza”, Gustavo Ventura, dichiara di aver visto Bebawi passeggiare davanti l’albergo alle 17.40 circa, il che indirizza, insieme all’uso del vetriolo, sempre più il discorso sulla moglie che sul marito. Certo, questo non vuol dire che Joussef, solo, non potesse commettere l’omicidio dopo le 18.00. Anche perché sappiamo che l’ora del delitto si colloca alle 18.15: ce lo dice la sarta che ha guardato l’orologio di continuo. Intanto, la sera del 21 gennaio, verso le 23.00, mentre trattengono ancora il marito, uscita dagli uffici della Polizia, Claire cerca una farmacia e compra una scatola gialla e bianca. È una pomata, il Burnol. Da Losanna arrivano altre novità interessanti. La Polizia svizzera ha rintracciato il commesso della drogheria Georgette, in Avenue Rumine 3, una grande arteria a trecento metri da via Eglantine. Si chiama Daniel Viret, è un ragazzo dal sorriso aperto e contagioso, pulito, con il ciuffo sulla fronte. E che dice? Dice che Claire Bebawi è sua cliente abituale e che ha acquistato dell’acido da lui, qualche giorno prima. «Il fatto è che, in Svizzera, il vetriolo si vende semplicemente e si usa per pulire maioliche e lavandini di marmo. Anche in Italia era comunque facile procurarselo, Fabio, anche se era decisamente più facile lasciare tracce dell’acquisto. Siamo in anni in cui la grande distribuzione non esisteva, anni in cui c’erano ancora i negozi di quartiere che, specialmente ai clienti non abitudinari, facevano vere e 153
proprie “radiografie”: possiamo comprendere perché Claire preferì acquistarlo a Losanna. Negozi, ormai, in via d’estinzione, dove il “casalinghi”, vero e proprio emporio dei tempi andati, riusciva a vendere di tutto e se ci pensiamo un attimo anche moltissime cose che potevano servire per intenti criminali: veleno per topi, vetriolo, corde, accette. Veramente degli empori del crimine…» Polizia Cantonale di Ginevra. Deposizione di Lussu Arnalda, proprietaria di una boutique e conoscente sia di M. Chourbagi che di M.me Bebawi. Erano stati profondamente innamorati, volevano sposarsi. Poi la relazione si era guastata perché il padre di lui si era opposto al matrimonio e Joussef, d’altronde, aveva scoperto la tresca. Farouk voleva rendersi finanziariamente indipendente, per sposare Claire. Lei era contrariata per questo ritardo, per l’opposizione al matrimonio della famiglia di lui; lui le chiedeva di pazientare e lei aveva perso la voglia di sposarlo. Claire era una donna molto nervosa ed isterica. Si picchiavano. Lei lo aveva minacciato di morte e di sfigurarlo. Oui, c’est vraie, Farouk mi raccontò di essere stato minacciato più volte dalla Bebawi, sia di morte che di essere sfigurato. Gli aveva detto che lui riteneva di poter avere tutto con la sua bellezza e che quindi meritava di essere sfigurato, mi ricordo bene. So che nell’estate 1963 lei lo graffiò davanti a tutti, in un ristorante di Londra. Invece, nel settembre ’63 gli lanciò una caraffa di vino ed un bicchiere, in un ristorante di Trastevere, perché lui aveva salutato una ragazza che stava entrando. Nel novembre 1963 mi impressionò quanto Farouk fosse angosciato da questa relazione, non lo avevo mai visto così. Aveva molta paura di Claire, era stanco della loro relazione. Diceva di voler rompere con lei, ed anche lei mi diceva lo stesso con lui, ma credo mentisse perché poi Farouk mi raccontava che lei lo cercava per avere relazioni intime e che voleva sempre sposarlo. Ero molto meravigliata che lei, madre di tre bambini, li lasciasse spesso per raggiungere lui per l’Europa. Lei 154
aveva avuto la rivelazione di cosa fosse l’amore fisico dalla storia con lui. Joussef, invece, era molto riservato e freddo, era a conoscenza della relazione tra i due ed aveva del rancore verso Farouk ma, in quanto arabo, non lo manifestava. Col marito era divorziata dal 1963, ma continuavano a vivere insieme. È una deposizione centrale, quella della Lussu: ci dà un quadro, adesso, più chiaro dei rapporti tra la vittima e Claire Bebawi. Dunque: lei è scontenta del rapporto col marito e di vivere nella quiete soporifera di Losanna. Incontra Farouk, giovane e ricco. E pensa: al diavolo la Svizzera, mio marito e tutto il resto! Mi metto con lui che è molto meglio e mi garantisce di continuare a fare la signora; e mi trasferisco a Roma. Problema numero uno: Joussef sarà una noia, ma è geloso all’eccesso, come ogni uomo che è dipendente dalla donna che ama. Non concederà tanto facilmente a Claire la possibilità di fare quello che le pare. Inizia un periodo d’inferno. La accusa, le rinfaccia di tradirlo; urla, liti, lei nega, nega, nega. Problema numero due: in questo tira e molla, piano piano, anche Farouk comincia a cambiare idea su di lei… e Claire si ritrova, dall’essere ad un passo dal suo progetto di felicità, a stare ad un passo dal baratro. Senza nessun uomo che la mantenga e le faccia fare una bella vita, senza Roma e senza nemmeno Losanna… può essere qui il movente, se è stata lei? È, comunque, tanto vera la deposizione della Lussu, che anche il padre di Farouk conferma che il figlio gli aveva parlato delle minacce ricevute non solo da Claire ma anche da Joussef. Ma di tutta quella storia, vissuta con un fitto scambio di lettere e telegrammi, se ne trova, nelle perquisizioni, metà. Le lettere di Claire, infatti, sono sparite dall’ufficio di via Lazio, dove Farouk le teneva. Intanto, mentre a Ginevra la Lussu firma la sua deposizione, a Roma, gli operai che riparavano l’ascensore del palazzo di via Lazio, quel sabato pomeriggio, dichiarano alla Polizia che funzionava a tratti. Lo mettevano in funzione ogni tanto, ma sostanzialmente bisognava andare a piedi: e, comunque, non hanno visto nes155
suno salire o scendere. Neanche Simoni, il portiere del palazzo, ha visto entrare i Bebawi. Anche se non era la prima volta che vedeva Claire! Era venuta già diverse volte! Occorrevano le 5 lire per prendere l’ascensore e spesso Claire le aveva chieste a lui… «Fabio, questo portone, come quello che abbiamo visto nei giorni scorsi nel palazzo della Wanninger… ma non ti sembrano tutti uguali? Grandi atri sorvegliati a vista dal portiere che, tranne una breve pausa a pranzo, è sempre presente. Ma poi, nella realtà… sembra che gli assassini di questi due casi abbiano una corsia preferenziale: attraversano l’androne del palazzo senza essere visti, raggiungono gli appartamenti, uccidono le loro vittime e poi spariscono, ma ti sembra normale? Al giorno d’oggi i portieri non ci sono più, sostituiti da una ulteriore cancellata, come in via Emilia 81 ma non credo che la situazione sia migliorata. Noi stessi, Fabio, siamo riusciti ad effettuare i nostri sopralluoghi riuscendo comunque ad entrare e muoverci tranquillamente nello stabile…» Se ancora s’è tenuta parlando con la Polizia, uscendo dal commissariato, con i giornalisti del “Messaggero”, la Lussu - che sarà indicata nell’articolo solo come A. L., “una che li conosceva bene” - ci va giù pesante, come se non vedesse l’ora di sfogarsi. Claire è una donna viziata e senza mezzi termini, che era stata scossa dalla passione provata con Farouk. Il marito l’aveva ripudiata, aveva divorziato per salvare l’onore, ma segretamente sperava di riaverla, visto che con Farouk le cose andavano male. Claire aveva capito di essere stata respinta dall’amante ed era rimasta a vivere col marito, che la voleva comunque e se ne era separato per orgoglio. Lei era tornata dal marito, anche se sentiva Farouk e lo voleva ancora. Ricordo che, dopo una notte tempestosa in un albergo di Ginevra, Farouk disse a Claire che tutto era finito e lei reagì con graffi e percosse. Queste liti erano ormai all’ordine del giorno, anche col marito. “Sono decisa a tutto pur di non perdere Farouk”, mi disse Claire, “anche ad uccidere o uccidermi”. E vi garantisco che Farouk mi disse che era terrorizzato dalla donna e dalle sue minacce. 156
Capitolo 6 Il proiettile mancante
A questo punto, qualche giorno dopo il delitto, gli uomini del commissario Scirè hanno un quadro sempre più chiaro. È arrivato il responso della perizia balistica: i proiettili che hanno ucciso Farouk Chourbagi sono stati fabbricati nell’arsenale di Thun. Thun, in Svizzera. Come Losanna, che sta in Svizzera. Inoltre, il medico legale ha fornito le prime risultanze dell’autopsia, i colpi che hanno ferito e ucciso il Chourbagi sono quattro: un proiettile è penetrato nell’emitorace sinistro con andamento postero anteriore, direzione da sinistra verso destra e andamento leggermente dal basso verso l’alto; il colpo è terminato nella zona sottocutanea ascellare destra. Altri tre colpi invece hanno attraversato la testa dell’egiziano: uno penetra nella zona parietale sinistra ed è uscito in quella frontale destra; un secondo nella zona occipitale ed è uscito nella zona anteriore parietale destra; l’ultimo nella zona temporale sinistra è fuoriuscito nella zona parietale destra. Gli ultimi due colpi alla testa, secondo la dichiarazione del medico legale, potrebbero essere stati esplosi da una distanza relativamente breve, al contrario dei primi due che non sono stati esplosi a breve distanza. Armando però mi guarda perplesso, riprende quei vecchi fogli in mano e li rilegge una seconda volta, c’è qualcosa che non torna. «Abbiamo visto i rilevi della Scientifica, che aveva rinvenuto quattro bossoli e quattro proiettili ed adesso cosa scopriamo nell’autopsia? Che dei quattro colpi che feriscono Chourbagi uno di essi, quello che penetra nella metà sinistra della schiena, non esce. Il proiettile viene estratto durante l’autopsia, sotto la cute, in prossi157
mità dell’ascella. Addirittura, nella perizia medico legale, è presente una fotografia del rigonfiamento sottocutaneo causato dal proiettile prima dell’estrazione. Ma allora, sai che significa questo? Che i colpi sparati sono cinque. Quattro proiettili recuperati dalla Scientifica sulla scena del crimine ed uno recuperato dal corpo di Farouk…» Guardo Armando allibito: «Possibile che nessuno se ne sia accorto?» Lui prosegue. «Quattro bossoli recuperati e cinque proiettili esplosi. Manca un bossolo. Nei rilievi della Scientifica, tra l’altro molto accurati, non ve ne è traccia. L’ambiente austero dell’“ufficio del Presidente” permetteva di lavorare con la necessaria tranquillità, senza perdersi tracce importanti. Ed allora le possibilità sono tre: la prima, che durante i rilievi non ci si è accorti di un bossolo magari finito sotto una poltrona o in un interstizio del suo cuscino; la seconda, che il bossolo è stato portato via dall’omicida o, ultima ipotesi, le pistole erano due di cui una revolver, che quindi non espelle il bossolo… La prima ipotesi la scarterei, ci troviamo davanti ad un omicidio, tra l’altro molto efferato: l’impegno del personale della Scientifica sicuramente è stato altissimo. La seconda possibilità mi sembra inverosimile, perché portarsi via un solo bossolo quando ne sono sta-
Foro sotto la finestra
158
ti lasciati a terra altri quattro? Non rimane che l’ultima ipotesi: sì, Chourbagi è stato colpito da due diverse armi da fuoco. Ma, come vedremo dopo, di arma ne è saltata fuori una sola…» «Ma non è stata effettuata una comparazione balistica?» Chiedo perplesso. «Incredibile a dirsi, ma no! Abbiamo perizie finalizzate alla ricostruzione delle traiettorie, che hanno permesso di determinare che sicuramente il primo colpo esploso è quello che lo prende alla schiena e poi successivamente arrivano i colpi che lo feriscono alla testa. Però, negli atti processuali, non ci sono perizie balistiche che abbiano messo in comparazione i proiettili tra loro: guarda». Scorriamo il fascicolo del processo: non ce n’è traccia. «Probabilmente il ragionamento che venne adottato all’epoca fu legato al fatto che i quattro bossoli rinvenuti erano sicuramente provenienti dalla stessa arma e si ritenne inutile effettuare comparazioni tra proiettili. Alla luce di quanto abbiamo visto e dalle immagini dei rilievi della Scientifica, è possibile che relativamente ai colpi rinvenuti, il proiettile che viene recuperato conficcato per ben quattro centimetri nel muro, sotto la finestra, non sia uno di quelli che attraversa il corpo. Vedi l’immagine? Quella sopra è del fascicolo dei rilievi della Polizia Scientifica che accosta i quattro proiettili rinvenuti, sotto è riportata la stessa immagine ma con un doppio riferimento metrico.
I proiettili, immagine tratta dal fascicolo di sopralluogo
I proiettili, immagine elaborata
159
Il secondo riferimento è stato posizionato sotto i bossoli: osserva ora bene l’immagine ottenuta, i proiettili 2, 3 e 4, da destra, hanno un diametro di circa 7-8 millimetri, compatibile con il calibro 7,65 dell’arma del delitto. Di questi il secondo proiettile, quello più chiaro tra l’altro, è con ogni probabilità quello recuperato dalla parete; vedi, non risulta imbrattato di sangue e poi non è affatto deformato dato che ha frenato la sua corsa nel gesso di cui era costituito il punto d’impatto. Ma ora guarda bene il primo proiettile di destra, vedi che è diverso?» «Sì, lo vedo. Indubbiamente diverso». «Con il riferimento metrico in quella posizione vediamo che è largo circa 9 millimetri: pur supponendo che si sia parzialmente schiacciato a seguito dell’impatto, non torna. Inoltre c’è anche una leggera differenza nel solco della crimpatura, quel piccolo canale che permette di stringervi più saldamente, in fase di assemblaggio della cartuccia, l’orlo superiore del bossolo. Le foto ci danno un risultato chiaro, le armi utilizzate sono state due. Una 7,65 ed una 38». Armando mi ha lasciato a bocca aperta, questo cambia totalmente la faccenda. Due armi. E quanti assassini?
160
Capitolo 7 Due mandati di cattura e una boccetta di vetriolo
Intanto, in Grecia, Joussef Bebawi è in stato di fermo anche senza le richieste degli italiani. Perché nella sua valigia, in albergo, hanno trovato qualcosa che proprio non dovrebbe esserci… Lui però dice che quello dei giorni scorsi a Roma è stato solo uno dei suoi tanti viaggi d’affari, nei quali spesso lo seguiva la moglie, nient’altro. I Bebawi, infatti, dicono di non essere entrati nel palazzo, di non sapere nulla, di essere solo passati da Roma. Di aver bevuto qualcosa al “Cafè de Paris” e di essere tornati in albergo, 40 minuti dopo. Di aver preso alle 19.00 il treno per Napoli, una notte là e poi via a Brindisi; Roma era stata solo una tappa verso Atene e alle 21.00 erano scesi al Royal. Farouk? Oui, l’ho sentito il giorno prima, c’est vraie - dice Claire - ma non gli avevo annunciato il mio arrivo a Roma. Aveva molti nemici, non so chi possa averlo ucciso, ma aveva ricevuto minacce da un altro uomo di cui aveva sedotto la moglie o la sorella, non ricordo. Relazione… oui, l’avevamo e continuava per le insistenze di lui, io no, absolument, mai lo avevo minacciato e quella porta di cui mi parla non sapevo come si chiudesse. Il marito conferma la deposizione della moglie e aggiunge che l’aveva ripudiata nel marzo 1963, proprio per la storia con la vittima. Ma il problema è che non hanno un vero alibi tra le 17.30 e le 18.30, anche se questo non vuol dire che siano colpevoli. C’è però l’assurdità del cambio di albergo a Roma, da via Emilia a viale Buozzi e ancora a via Emilia: cioè da vicino via Savastano a vicino via Lazio; l’acquisto del vetriolo; quell’improvvisa partenza per Napoli e Atene. E la stranezza di questa coppia che coppia non è, visto 161
che sono divorziati; però vivono insieme; però lei si vede con un altro; però lui le corre dietro. Uno di quei grovigli in cui possono scapparti, si sa, quei tre o quattro colpi di pistola così, per chiudere la discussione. Nessuno che li vede entrare, nessuna risultanza balistica, nessuna impronta completa, molte testimonianze che portano a loro, a Claire: ma nessuna prova. Guardo Armando e gli domando se è possibile procedere penalmente senza nulla di concreto alla fine, senza alcuna prova scientifica, e - ancor più strano - ma come diavolo è possibile non trovare impronte digitali all’interno di un’abitazione? «Altri tempi ed altra tecnologia: l’esame del DNA non esisteva, inoltre, come abbiamo constatato, l’unico accertamento tecnico, quello balistico, che sarebbe servito a dare un senso alle dinamiche omicidiarie, non è stato preso in considerazione. Per quanto riguarda le impronte, poi, non è inconsueto che su scene del crimine di questo tipo le superfici del mobilio non aiutino ad esaltare le impronte latenti presenti. I frammenti di impronte rilevati furono cinque, di cui due utili, che nel gergo della Scientifica significa che era possibile determinare abbastanza “minuzie” per poterli utilizzare ai fini identificativi. Allora come oggi, a livello giuridico, bastano sedici punti, cioè “minuzie”, di analogia tra le impronte in comparazione per poter determinare l’identità di una persona. Per “minuzie” si intendono, nella figura dell’impronta digitale, quelle caratteristiche quali: una linea papillare che termina improvvisamente, che si biforca, che lascia un punto singolo, che forma la figura di un’asola ecc… Le impronte utili vennero ovviamente comparate con quelle dei coniugi Bebawi ma il confronto fu negativo. Poi, tutto sommato, le dichiarazioni di Claire e Joussef sono state così tempestive, già da subito, che non hanno di certo spinto gli investigatori dell’epoca a cercare altri elementi che li potessero accusare». Ma, se è stata lei, se voleva a tutti i costi sposare Farouk, allora che stramaledetto motivo aveva per ucciderlo? E, se è stato lui, se 162
voleva a tutti i costi riconquistare lei, che motivo aveva di ucciderle l’uomo che amava? Guardiamo cosa c’è nella valigia di Joussef: camice, cinte, profumo, rasoio elettrico, penna stilografica e… ecco cosa hanno trovato i poliziotti greci: una pistola. Una Smith&Wesson a tamburo, calibro 38 con un tot di cartucce, arma che risulterà acquistata appena il 4 gennaio precedente. Ma l’arma che ha esploso i suoi colpi a Roma non è calibro 38, almeno per gli investigatori che stanno procedendo… È una 7,65. Come quella di cui la polizia svizzera, invece, ha trovato la custodia vuota nell’ovattata stanza da letto dei Bebawi a Losanna; ma che da qualche parte dev’essere, visto che risulta essere stata acquistata da Joussef, il 3 dicembre precedente, insieme a una bella scatola da cinquanta proiettili, di cui però nei cassetti del comò ne trovano solo la metà. Arma che Joussef dice di aver venduto ad un americano, Kramer. Nella casa di via Eglantine la polizia elvetica ha trovato la madre di Claire, Estelle: una donna che difende ovviamente la figlia e che dà assolutamente addosso al marito. È venuta da un po’ a stare con loro, a Losanna, per cercare di mettere pace nel loro matrimonio allo sbando. Ed è lei ad occuparsi dei nipoti, adesso. Alla Mobile ed al giudice non serve molto altro: è tutto troppo strano e tutto sembra andare in una sola direzione. Così, mercoledì 22 gennaio viene spiccato il mandato di cattura contro i Bebawi e i greci ne vengono informati. Scirè manda ad Atene, il giorno stesso, il commissario Vincenzo Sucato. Il 23 gennaio 1964 funzionari della Polizia Italiana arrivano anche in Svizzera, per ulteriori indagini. Telegramma da Atene. È Sucato. Donna interrogata dichiara essere partita con marito et aver preso alloggio hotel residenza stop precisa aver lasciato roma stessa sera ore 19 perché non soddisfatta sistemazione albergo stop afferma non avere mai lasciato marito 163
et avere occupato tempo soggiorno roma passeggiando via veneto stop medesima claire teneva sua stanza pomata marca burnol usata per curare lievi ustioni su mano destra et viso stop commissario pubblica sicurezza Sucato. A Napoli, la locale Squadra Mobile registra intanto la testimonianza di un cameriere: si chiama Francesco Zerrone ed ha servito i Bebawi al tavolo di un bar di piazza Garibaldi. Ricorda che la donna aveva delle picchiettature, come dei foruncoletti sul viso. Claire non viene arrestata subito, ma giovedì 25 gennaio. Intanto, a Roma, si fa vivo un tassista. Questura di Roma. Deposizione di Verdirosi Tito, conducente d’auto pubbliche. Riconosco, nelle foto che mi mostrate, la coppia che salì a bordo del mio taxi, una Fiat 600 multipla, nel pomeriggio del 18 gennaio scorso. Salirono a Stazione Termini, alle 16.25. Arrivammo a “La Residenza” alle 16.35: scese lui, entrò, uscì e mi disse di andare all’albergo “Parioli”. Quando fummo lì, cominciai a scaricare i bagagli, ma i due tornarono e mi dissero di tornare di nuovo a “La Residenza”, dove arrivammo alle 17.00. Mi colpì il fatto che la corsa costava 1010 lire, ma l’uomo aveva solo 1000 lire, così fu lei ad aggiungerne ben 100 con le sue mani, senza volere il resto e fu lì che le potei osservare: non recavano alcun segno. D’altronde, in tutto questo ebbi modo di osservare bene la signora e non notai alcun segno nemmeno sul suo viso. Ne sono certo. 26 gennaio: a sorpresa, Claire chiede di parlare da sola con Sucato. Non parlerà più coi greci. Vuole essere sentita da lui: il giorno dopo all’Averos, il carcere femminile, ripete però di essere innocente. Un’ora e mezza di colloquio senza colpi di scena, senza novità, in una stanza a piano terra, in cui la vedono gesticolare spesso. Ha un’aria abbattuta. Senza colpi di scena? Un momento. Ci sono delle macchie stra164
ne sulle mani della donna, tra pollice e indice di una mano, e sul viso. Le hanno già notate i greci. Le vede Sucato, che ci riflette su. Cosa possono essere? Non è vetriolo! Dice Claire. Mi sono scottata in cucina! Joussef, poi, nega completamente di avere a che fare con l’acido: non sono stato io, gettare vetriolo su un cadavere è orribile! «Sai - interviene Armando - forse, al giorno d’oggi, gli investigatori non penserebbero subito che si tratti di vetriolo, ma allora vedere sfigurata una persona faceva subito nascere l’idea dell’acido. Il medico legale appura subito l’origine di quelle bruciature sul corpo tramite le cartine indicatrici Merck, che vengono poste sulla cute interessata dalla ustioni. Risultato: “intensa reazione acida”». Il vetriolo. Questo famoso vetriolo. Che poi sarebbe acido solforico. Vediamo un po’ di saperne di più: i dettagli ci servono ad entrare nella mente degli assassini. Oleoso, incolore, inodore. I contadini lo conoscono bene come antiparassitario, i meccanici perché sta nelle batterie delle macchine, gli esplosivisti perché si usa per fare la nitroglicerina. Vetriolo: il pavimento dell’ufficio, colpito dagli schizzi, è diventato friabile in superficie, la vernice sulle pareti si è rigonfiata, la carta da parati è stata carbonizzata e scolorita. Ma il vetriolo è finito anche sulla faccia di Claire? Sarà un medico greco, il dottor Kapsaskis, a visitare Claire e a dichiarare che no, non sono affatto ustioni, quelle. Qualunque cosa siano, il vetriolo non c’entra… ma quei segni, allora, che sono? «Pur non volendo sminuire l’analisi del medico greco però, Fabio, quando in seguito il medico legale incaricato anche dell’autopsia di Chourbagi, l’illustre Gerin (a cui fu intitolata in seguito l’Aula Magna dell’Istituto di Medicina Legale della Sapienza di Roma), riesaminò Claire, non si sentì di escludere categoricamente che tali bruciature fossero attribuibili a schizzi di vetriolo prontamente lavati». Riprendiamo il fascicolo della Polizia Scientifica: non abbiamo immagini che ritraggono l’interno del lavabo della cucina o del la165
vandino del bagno. Speravamo in qualche indizio o qualche particolare che ci potesse confermare il suo eventuale utilizzo da parte dell’assassino... «Oggi è diverso, sai? - osserva Armando, richiudendo il fascicolo - La ripresa fotografica di questi punti della casa è ormai una operazione standard in caso di sopralluogo sulla scena del crimine. Inoltre al giorno d’oggi, con l’avvento dell’esame del DNA, si procede sempre ad effettuare campionature che permettano di rilevare un’eventuale sostanza ematica (per esempio se l’omicida si è lavato le mani dal sangue della sua vittima). In questo caso sarebbe bastato verificare l’eventuale uso del lavandino per fornire senz’altro un ulteriore elemento d’accusa». Una cosa però è certa: il vetriolo sfigura e fa parte di una concezione barbarica del delitto. Nel lancio, perfettamente inutile, dell’acido, c’è qualcosa di più che uccidere. È un distruggere la memoria, la bellezza, la gioventù. Chiunque era stato, aveva voluto portare il segno della deformità proprio là dove prima era stato un sorriso. Ma il vetriolo è roba di un altro mondo. Andiamo a vedere i vecchi giornali. Prendiamo la Vespa di Armando e parcheggiamo a Largo Argentina. Ci immergiamo nelle ovattate stanze dell’Emeroteca del Senato. 23 agosto 1959. Sfregia col vetriolo il fidanzato infedele. L’uomo l’ha abbandonata dopo averle sottratto con inganno il denaro. Un giovane è stato sfigurato da un bicchiere di vetriolo gettatogli in faccia dalla fidanzata. Il fatto è avvenuto stamane in via Mosso (Milano n.d.a.) dove il 21 enne Giovanni C., nell’uscire dal portone della sua abitazione, è stato affrontato dalla sua fidanzata Vincenzina A. di 30 anni, con la quale aveva avuto un litigio… 166
È stato ricoverato all’ospedale Fatebenefratelli dove gli hanno riscontrato gravi ustioni che mettono in pericolo le facoltà visive del giovane.
6 aprile 1962. Tragedia della gelosia. L’ha accecato con il vetriolo. Ines M. di 26 anni, incinta di otto mesi, ha gettato del vetriolo in faccia all’ex fidanzato, Umberto M. di 21 anni. Il M. ha perduto l’occhio destro e si dispera anche per quello sinistro. 1 febbraio 1966. Pazza di gelosia sfigura con il vetriolo e accoltella la giovane segretaria del marito. La feritrice è madre di due bimbi. La ragazza, venticinquenne, da un mese abitava nello stesso condominio. La donna (38 anni), convinta di una relazione tra i due, dopo una scenata in casa si è armata ed è scesa nel negozio, quindi l’improvvisa aggressione. La vittima è in gravissime condizioni, se si salverà forse non potrà riacquistare la vista. Amanti abbandonate che usano il vetriolo per colpire i loro ex, che vogliono sfigurarne il volto che una volta hanno amato, per dire: “se non sarai mio, non sarai di nessun altro”. Il vetriolo: una vendetta facile da reperire ed ancor di più da usare, qualcosa che caratterizza l’immaginario collettivo dagli anni Venti, per sfumare il suo valore simbolico solo nella violenza degli anni Settanta. Come scrisse la giornalista Clara Grifoni: Qualcuno disse che il vetriolo sta alla rivoltella come la scarpa su misura sta alla scarpa 167
in serie. Difatti, è meno difficile premere un grilletto che proiettare uno zampillo di liquido; e anche le conseguenze, in un caso e nell’altro, sono diverse. Proprio a causa di esse, il vetriolo ebbe quasi sempre un uso extra-coniugale. Ci si pensava due volte prima di sfigurare un marito o una moglie coi quali bisognava trascorrere, bene o male, il resto dei propri giorni. Ma le donne vetrioleggiavano con delizia una rivale - cosi imparerà, l’infame, a turbare la pace delle famiglie - o un amante sazio e pronto alla fuga. Dato che, se intendeva andarsene, non c’era probabilità di riacchiapparlo, tanto valeva sistemargli i connotati e renderlo per sempre incollocabile. Il simbolismo di quest’acido era talmente forte che nell’aprile del 1955 il grande giornalista americano Victor Riesel fu accecato dai gangsters di New York, per punirlo del suo impegno contro la criminalità organizzata. Lui non si dette per vinto e divenne un simbolo della libertà di stampa. Nel frattempo il sicario che lo colpì venne ucciso, pochi giorni dopo, dai suoi stessi compagni: era stato ormai individuato e mancava poco al suo arresto. La prova regina del suo crimine? Le ferite alle mani, che si era causato quando aveva gettato il vetriolo. Ma torniamo alla nostra storia, i telex e le telefonate si inseguono, tra la squadra guidata dal commissario Cetroli, che con la collaborazione della polizia elvetica sta cercando di capirci qualcosa a Losanna, e il commissario Sucato, che ad Atene tiene sotto pressione i Bebawi. Gli strilloni, che si sono evoluti e fanno anche da snack bar volanti, sono già per strada: giornali imbottitiiiiiiii! Panini illustratiiiiiiiii! Ultime notizie sul delitto di via Venetooooo! Giornali imbottitiiiiiiii! Un’abrasione sulla mano tra le prove contro l’amante dell’egiziano ucciso 168
titola “Paese Sera”. È una frase che la dice lunga. Che titolo: l’amante dell’egiziano ucciso. Sa di esotico e di morboso insieme. L’amante torbida. L’egiziano misterioso. Solo che la vittima di misterioso aveva ben poco e l’amante, più che torbida, appare confusa…
169
Capitolo 8 Joussef cambia tutto
Ma adesso il telefono squilla, alla Questura di Roma. Chiamata dalla Svizzera per il dottor Scirè: c’è Losanna in linea, Cetroli ha delle novità. La femme de menage, la donna di servizio di Losanna, Antonia Ghulia, dichiara di non aver visto nessuna bruciatura sul viso e sulle mani della padrona. La signora non era mai a Losanna, sempre in giro per l’Europa, col marito o senza. Quando era in casa, la signora passava molto tempo a se maquiller, a truccarsi, a telefonare. In casa pensava a tutto sua madre, la signora Estelle. La signora trovava noiosa e provinciale Losanna e voleva vivere a Roma, monsieur. Interrogata, Estelle Ghobrial, madre di Claire, dice, candidamente, che la figlia, prima di partire, non aveva riportato nessuna bruciatura alle mani. Di più: Cetroli ha scoperto anche che da casa Bebawi erano state fatte varie telefonate, a gennaio, all’ufficio di via Lazio: il 10, il 14, oltre che il 17. Ognuna era durata circa dieci minuti. L’ultima, appunto, proprio il giorno prima del delitto, quando c’era stata quella lite… sì, proprio quella di cui aveva parlato la Arbib… Passano I giorni. Il delitto di via Lazio passa in quarta pagina, poi a mezza pagina, poi in fondo, poi sparisce. Il 28 febbraio Claire manda una lettera a Sucato: dear Mr. Sucato, I wish to go to Italy as soon as possible and answer to all your questions. Will you please come and ketch me. Gentile Dott. Sucato, desidero venire in Italia al più presto possibile per rispondere a tutte le vostre domande. Per 171
cortesia, vuole venirmi a prendere? Certo, le carceri greche devono essere un po’ scomode: alla fine è sempre meglio la Dolce Vita, anche se vista da dietro le sbarre. Ce ne vuole, però, prima di riportare i Bebawi in Italia. Tra telex, Ministeri, Procure, telegrammi, ambasciate, vengono estradati solo il 17 aprile. È il 19 aprile 1963, alle 16.10, quando Joussef Bebawi rilascia la sua prima deposizione al giudice in Italia: è questo il momento in cui il delitto di via Lazio diventa un mistero nel mistero, acquista cioè la sua straordinaria unicità. Finora hanno entrambi negato. Ora succede molto di più. Joussef cambia tutto. Procura della Repubblica di Roma. Dichiarazione di Bebawi Joussef. Quando uscimmo dall’albergo, lei mi disse che andava dalla parrucchiera, ma io vidi che prendeva un’altra direzione e la fermai, chiedendole dove stesse andando. Fu allora che mi disse che andava da Farouk, che voleva parlarci da sola, per chiudere la cosa. L’accompagnai davanti al portone, poi me ne andai. L’aspettai davanti “La Residenza”, mi vide anche un portiere dell’albergo. Tornò e mi disse “I shot him” (“gli ho sparato”, nda). Risalimmo in stanza. Lei allora prese un fazzoletto dalla borsetta e intravidi la Walter 7,65: le chiesi perché l’avesse fatto e lei: “mi aveva rovinato la vita”. In albergo la vidi vuotare in bagno una bottiglietta e lei mi spiegò che era vetriolo, che l’aveva buttato su Farouk per accertarsi che fosse morto. Presi la decisione di partire subito. Chiesi gli orari per la prima città che mi venne in mente, Napoli. L’arma me l’aveva sottratta lei e l’aiutai io, dopo, a gettarla nelle acque del golfo di Napoli, durante una gita in barca. Così come l’aiutai a gettare via la boccetta dell’acido, dal finestrino del treno. Ma perché ha aiutato sua moglie in tutto? Gli chiede il giudice. Perché, pur avendola ripudiata, era la madre dei miei tre figli e volevo evitare lo scandalo. 172
L'Albergo La Residenza
«Armando, ma non ti sembra strano che se, come abbiamo visto, sono state due armi a fare fuoco loro si sono sbarazzati solo della calibro 7,65?» «Non tantissimo, loro si sbarazzano dell’arma che ha lasciato la traccia, dell’arma che ha lasciato i bossoli a terra. Non hanno cognizioni tecnico-scientifiche, non seguivano in televisione, come invece accade oggi, tutte le puntate di CSI per farsi una cultura criminalistica. Il ragionamento che fecero era semplice: i bossoli che erano a terra li ha lasciati la 7,65, mentre il bossolo dell’altra arma è rimasto nella pistola... Insomma, non si sono sbarazzati dell’arma perché, per loro, non aveva lasciato tracce». A questo punto è chiaro che Joussef ha cambiato completamente la storia. La versione di Atene - non ne sappiamo nulla, eravamo di passaggio in via Veneto - non c’è più. Il gioco al massacro è iniziato. Claire viene interrogata il 21 e sulle prime dichiara che non sa 173
chi ha ucciso il suo ex amante, cioè dice quello che diceva in Grecia. Quando le chiedono se ha avuto una relazione intima con la vittima, preferisce non rispondere. È a questo punto che le dicono che Joussef l’ha chiamata assassina. L’accusa del marito la colpisce come una sberla. Ed allora è lei che accusa lui. È incredula nel pensare che lei avrebbe potuto far male a Farouk, visto che la loro storia era acqua passata. Sì, era salita per troncare, vero, quando era apparso il marito con la pistola, forse la porta era rimasta aperta. Era apparso, insultando Farouk; che aveva risposto a parole e pugni, anzi aveva aggredito Joussef col vetriolo, lei terrorizzata era scappata in bagno e da lì aveva sentito i colpi di pistola. Farouk c’est fini. «Ma c’è una cosa che non torna, Armando. Vedi il verbale d’interrogatorio? Alla fine Claire non lo ha firmato nemmeno e anche questo ha un senso, secondo me: colta di sorpresa dall’accusa del marito, che proprio non s’aspettava, ha dovuto probabilmente mettere su la sua versione mentre parlava, all’impronta. Ora, dicendo che quel verbale conteneva cose confuse e non firmandolo, sperava forse, ingenuamente, di poter aggiustare meglio la sua versione nei prossimi interrogatori, dopo averci ripensato in cella. Sperava che, non firmando, le sue prime parole sarebbero state più rimaneggiabili in futuro. Che ne pensi, Armando?» «Che non era proprio così come la pensava Claire, Fabio, ci troviamo all’epoca del vecchio codice di Procedura Penale, un modello inquisitorio. Le garanzie dell’imputato, rispetto ad oggi, erano senz’altro ridotte. Il fatto che avesse o meno firmato le sue dichiarazioni cambiava poco la situazione…» Quando la interrogano di nuovo, il 23 aprile successivo, Claire precisa infatti le sue parole. Ad esempio - devono averle contestato che passare tre ore a Roma non aveva senso - adesso spiega che il 18 gennaio era venuta a Roma non perché fosse di passaggio ma per cercare di affittare un appartamento, il famoso appartamento in vista del trasferimento in Italia. Claire era sdegnata: io non ho mai preso in mano un’arma in vita mia! Negava. Negava di aver mai minacciato Farouk, negava che lui le avesse detto, in quella telefona174
ta, che non poteva sposarla. Negava di aver mai chiesto a Farouk di sposarla, anzi il contrario. Negava che le scalfitture alle mani fossero dovute al vetriolo, quanto al tentativo d’aprire una scatola, nella cucina di Losanna. Negava di aver ancora una storia con Farouk: l’aveva lasciato lei. Negava di sapere della cordicella alla porta, perché ogni volta che c’era stata aveva trovato la porta già aperta. Ma anche Joussef precisa, eccome se precisa. Interrogato poche ore dopo dice che la 7,65 l’aveva lasciata in un cassetto del guardaroba della camera da letto a Losanna, che s’era portato dietro solo la 38 ma l’aveva lasciata in albergo, una volta arrivati a Roma; che la moglie aveva imparato da lui come inserire la pallottola nella canna e togliere la sicura; che una sola volta aveva visto la moglie sparare, nel deserto; che era uscito da “La Residenza” alle 17.45, aveva lasciato la moglie sulle scale dello stabile di via Lazio, per tornare poi in stanza. Era stato dieci minuti su e quindi s’era messo a passeggiare avanti e indietro l’ingresso dell’albergo. Aveva quindi incontrato uno della reception e dopo un quarto d’ora era tornata lei. E gli aveva confessato il delitto. Sulle prime quello che dice Joussef Bebawi ha credito, se non altro perché in effetti il portiere Ventura conferma di averlo visto passeggiare davanti “La Residenza”, come lui ha detto. Ma passeggiare alle 17.45 non significa non fare in tempo a commettere il delitto alle 18.15, specie se tra l’albergo e l’ufficio di via Lazio ci sono solo tre minuti e mezzo di distanza. In ogni caso, Ventura si rimangerà, tempo dopo, la sua dichiarazione: mi ero confuso con un altro giorno, disse quando il giudice, a muso duro, gli chiese spiegazioni. È il momento di andare sul posto a capire i tempi. Con Armando fermiamo la Vespa proprio davanti a “La Residenza”. Quasi di fronte c’è “Il pipistrello”, dove andava a ballare Christa con gli amici. Ecco il marciapiede su cui hanno camminato i Bebawi. Da qui, la fine di via Emilia si vede benissimo, si vede il palazzo dov’era la Tricotex. 175
“La Residenza” ci appare ancora oggi maestosa. Certo, pensiamo tra noi, i Bebawi potevano permettersi di prendere una camera un solo pomeriggio per riposarsi... Ripercorriamo la strada che fecero: escono dal cancello del cortile, attraversano la strada, passano davanti a “Il pipistrello” e continuano a camminare. Percorrono via Emilia e proprio mentre stanno girando per via Lazio, si accorgono che all’incrocio c’è l’auto di Chourbagi che, come abbiamo visto, ingombrava la carreggiata. Ed è li che hanno l’ulteriore riprova che lui si trova in ufficio. Comunque, le reciproche accuse tra i due non paralizzarono la Mobile. Gli uomini di Scirè sapevano che dovevano cercare un movente, anzi due. Quello di lui e quello di lei. E credettero di averli trovati ricostruendo con precisione cosa era accaduto nelle vite dei tre protagonisti del dramma di via Lazio.
176
Capitolo 9 Nella mente di Farouk, Claire e Joussef
Dobbiamo a tutti i costi capire cosa c’era nella mente di marito e moglie se vogliamo capire cosa è successo. La spiegazione del giallo sta tutta qui: nel modo in cui arrivarono a Roma, quel 18 gennaio 1964, i signori Bebawi. Vediamo allora i due moventi, così come si presentarono nei rapporti della Squadra Mobile. E cosa c’era nella testa di Farouk. Claire aveva tenuto sulla corda entrambi gli uomini, ma quando Joussef la ripudia si rende conto che perderà soldi, posizione e figli; che divorziare non sarà indolore; che avere stabilità non è tanto facile. Diventa incerta e dimostra tutta la sua mancanza di programmazione, la sua impulsività. Un matrimonio raggrinzito con figli o la splendente Dolce Vita con amante, ma senza figli? Losanna o Roma? Claire stava lì a mordersi le mani: aveva detto di no alla proposta di matrimonio del suo amante a marzo 1963, tanto che Farouk aveva passato un bel po’ di tempo a scriverle lettere sdegnate… mentre lei trovava tutti i difetti della loro relazione, diventava gelosa del suo fascino. Lui non aveva capito come lei si fosse rivoltata, di colpo. Soffriva, da ingenuo. Lei, forse, godeva anche nel tenere sulla corda due uomini che sbavavano per lei. Solo che non sapeva che fare, non aveva le idee chiare. Non poteva rinunciare a nulla: ai figli, ai soldi, alla scoperta del sesso. Quando si decide, inizia lei a cercarlo! Dio santo, doveva avere una confusione enorme nella sua testa. Ora le parti s’erano invertite: era lei che gli chiedeva insistentemente di sposarla, tra l’altro rosa dal dubbio della fedeltà di lui. Claire non sapeva che fare, ora più che mai. 177
Tanto che quando torna a Roma, per starci le ultime due settimane di ottobre ’63, Farouk la lascia spesso sola in albergo. Litigano a Capri e lei lo rimprovera di non avere il coraggio di sposarla. Claire dice allora che a lui interessano altre donne; Farouk, non più adorante, reagisce e lei si limita a piangere. Perché voleva sempre venire a Roma, ma poteva accettare solo lo status di moglie di Farouk, non certo quello di amante più o meno ufficiale. A dicembre Farouk è più freddo, nelle sue lettere. Ora è chiaro per Claire che lui sì, è sempre affascinato da lei (lo stesso mese si vedono a Roma e vanno a letto insieme) ma vede altre, esce con altre e non ha neanche mezza intenzione di fare di lei la signora Chourbagi. Anzi. Non a caso, è il momento della dichiarazione alla De Blanck. Marisa Valenti, un’altra teste, dice che aveva conosciuto Farouk in un locale notturno ed era stata assiduamente in sua compagnia dal novembre 1963. Per Claire questo atteggiamento dell’ex amante è un colpo tremendo. Farouk ha aperto gli occhi. Lei resta spiazzata dal suo allontanarsi. Le resta la prospettiva più debole, meno scintillante: Losanna e Joussef. Ma questo non basta a decidere un omicidio. C’è un altro elemento che per la Polizia è centrale. Claire voleva Farouk perché era il solo tipo d’uomo che poteva volere: ricco e amante del suo fascino. Ora, invece, si sentiva rifiutata. Intollerabile. Rifiutata e ricacciata nella situazione meno piacevole, madre e sposa in un matrimonio già fatto e finito, già impolverato. Joussef, il marito. Che strano marito. È alla fine del ’62 che Joussef si accorge che la moglie lo tradisce. Troppi viaggi a Roma e per fare cosa, poi? Reagisce come gli hanno insegnato, per quello che sa. L’orgoglio, innanzitutto. Joussef s’era separato da lei per orgoglio. Aveva ripudiato Claire il 25 marzo 1963. Lei si lamentava con il suo avvocato che lui continuava ad obbligarla a vivere insieme a Losanna, senza darle i soldi pattuiti e la possibilità di cercarsi un lavoro o quant’altro. Cercava, insomma, di non farla andar via. 178
L’aveva ripudiata ma vivevano ancora insieme ed avevano avuto, questo Claire non lo diceva, rapporti intimi negli ultimi mesi, perlomeno fino a settembre 1963. Joussef la rivoleva per sé, la voleva ancora. Sì, lui aveva una storia con Gisela Henke, la loro governante, ma più per ripicca verso Claire. In realtà, faceva di tutto per riavere la moglie. Probabilmente aveva avviato la storia con la governante per dimostrare più che altro a se stesso che non aveva bisogno di Claire… Lei però stava ancora dietro a Farouk e quindi il ragazzo, per Joussef, era ancora un ostacolo. Partito dall’ostentazione di disdegnare una moglie violatrice del talamo coniugale, si era ridotto a contenderla all’amante. Era schiavo del desiderio di lei? Era geloso? Chi dei due era il più forte, chi il più debole? Joussef deve essersi fatto queste domande, solo che quella che a noi oggi pare una umana e comprensibile debolezza ai suoi occhi doveva apparire come perdita di dignità, il cui primo testimone era Farouk, che assisteva al suo cedimento vergognoso e visibile. Ma c’era un’altra reazione automatica, per Joussef, dopo quella dell’orgoglio: evitare lo scandalo. Poteva separarsi, ma non poteva accettare che tutti vedessero che lui non aveva alcuna autorità sulla moglie, che non comandava lui e che lei avesse un amante più giovane. Questo era intollerabile e lo diveniva sempre più, col passare dei mesi. Ad un certo punto, si era accorto che tra i due la situazione si andava raffreddando. Lui, che aveva sempre odiato Farouk, è in questa crepa che infilò la sua volontà omicida, nata ben prima di quella della moglie. Molto tempo prima. Uccidendo Farouk sperava forse di riconquistare definitivamente la moglie, che peraltro dipendeva economicamente da lui? Voleva assicursi che l’amante non avrebbe più potuto mettersi tra loro? Un assassinio che poteva evitare di trasformarsi nella perdita definitiva di lei… solo se anche lei fosse stata d’accordo. E poi, per lui l’uccisione di Chourbagi era anche il modo di sfogare un odio lungamente represso, per riscattarsi della lunga, tollerante inerzia interiore, che per tutti quei mesi l’aveva fatto sentire un mezzo uomo, incapace di farsi rispettare dalla sua donna. 179
Su questo terreno si erano incontrate le loro voglie di uccidere? Scirè si accese la centomilionesima sigaretta. Ne era convinto, era andata così: dovevano essersi scoperti entrambi vittime della slealtà e della perfidia di Farouk, testimone del sentirsi rifiutata, lei, e dell’infamia, lui. È allora che Joussef e Claire dovevano essersi riavvicinati, ma non per riprovarci insieme, come gli amici comuni avranno pensato vedendoli più vicini, stranamente più vicini, a fine anno del 1963. Claire che chiede se lui le compra un gioiello e lui che promette di sì, Claire e Joussef in vacanza insieme a Gstaad, il loro stare insieme nel novembre-dicembre 1963, che apparve strano ad alcuni amici che sapevano come stavano messi. No, non per riprovarci. Non era per la vita. Era per la morte. C’erano due odi che si incontravano e che avevano bisogno l’uno dell’altra, per farsi forza nel gesto terribile di decidere del destino di un altro. Ma chi aveva parlato per primo? Joussef o Claire? Chi aveva cominciato il discorso? La Squadra Mobile non aveva la risposta a questa domanda. Forse i loro rancori non si erano spiegati l’un l’altro, forse non ci fu un discorso esplicito: ad ognuno bastava sapere che l’altro era d’accordo. Dopo sarebbero stati meglio, dopo sì che tutti i loro problemi sarebbero stati risolti. E Joussef sperava anche, nel profondo di sé, che eliminato l’avversario, la moglie sarebbe rimasta a Losanna con lui. Vediamola ora dal punto di vista di Farouk. La relazione tra loro era iniziata, si sa, in Libano nel 1960. Lui era affascinato da questa donna più grande, di una bellezza felina, lunatica, di gran mondo. Indiscutibilmente, Claire era una preda ed una signora elegante, al contempo. Lui la voleva sposare, era pazzo di Claire. Joussef se ne era accorto. Uno degli snodi di questa storia avviene molto tempo prima del delitto, quando l’orgoglio inizia a gridare. Claire e Farouk
180
Lettera del 20 febbraio 1963 di Joussef Bebawi a Farouk Chourbagi. Farouk, ti può interessare sapere che sono pienamente al corrente della relazione disgustosa che continua tra mia moglie e te. Trovo orribile che un ragazzo della tua età scenda così in basso da insidiare una donna che è pure più anziana. Particolarmente odioso è il fatto che io ti ho considerato sul principio un amico di famiglia. Tu sei uno sporco ragazzo degenerato. Non c’è voluto molto perché io scoprissi questo. Mia moglie non rimarrà oltre nella mia casa. Ora è disponibile. Joussef Bebawi. Lo stesso giorno Claire scrive, firmando col nome in codice di Farida, un telegramma a Farouk per informarlo che la situazione è precipitata. I’m facing disaster, sto affrontando la catastrofe. Ancora qualche ora ed è Farouk a scrivere a Claire. Questa è la seconda lettera che ti scrivo in due ore. Non posso agire, non posso lavorare, non posso respirare. Sono diventato disperato, pensieroso, incostante e nervoso. Penso al mio futuro, al mio destino, che mi appare denso di nubi. Non sono mai stato così depresso, disperato e frustrato nella mia vita. Sono di umore nero e totalmente demoralizzato. 26 febbraio 1963. Mia adorata, smetti di avvilirmi, smetti di insultarmi. Circa la tua accusa che io stia tra le braccia di altre, è troppo ridicola per essere ribattuta. 12 marzo 1963. Ti prego di cessare questa tortura, sono diventato nevrotico, mi agito e mi muovo in continuazione. Mi sento male e proprio non posso continuare così. Nelle tue lettere ti contraddici. Ecco le contraddizioni: 1) egli è sordidamente geloso 2) egli vuole divorziare 3) egli divorzierà tra pochi giorni 4) egli desidera trattenermi sotto strette condizioni. 5 maggio 1963. O resti con lui o vieni a vivere con me. Stai pero attenta se scegli me, perché egli è tipo da fare qualsiasi cosa. Ci si può aspettare tutto nello stato in cui si trova. Dire che anche Farouk fosse confuso è dire poco. Ma come? Il 181
marito la lascia libera e Farouk che scrive? Stai però attenta se scegli me, perché egli è tipo da fare qualsiasi cosa. Ma insomma, non era questo che voleva? Piano piano, le mattane di Claire stancano Farouk, il suo carattere lunatico finisce per annoiarlo, diventa stanco marcio delle continue scenate di gelosia di lei, dell’aggressività e della sua posizione di donna sposata. Così, comincia a dirle di lasciarlo in pace e che non potevano andare da nessuna parte. Gli amici noteranno che appariva molto infastidito da lei, negli ultimi tempi. Mounir Chourbagi aveva detto a Joussef, incontrandolo a Roma nel novembre 1963, di voler troncare quella relazione: lui aveva risposto che la moglie era come impazzita e non c’era modo di farla ragionare. Gli scatti violenti di Claire erano ben noti: altri avevano ricevuto confidenze da Farouk sugli atteggiamenti violenti della donna, durante le sue scenate di gelosia. Ma quando ritenne che fosse finita, Farouk iniziò ad uscire con altre donne, l’abbiamo visto. Solo che incontrava ancora Claire, forse perché quella preda era irresistibile. D’altronde, Farouk stesso diceva che Claire aveva molta influenza su di lui. A settembre 1963 lui diceva che la relazione era “quasi finita”, ad un’amica comune, ma l’impressione dei suoi amici è che non le avesse mai detto esplicitamente che per lui era così... C’è ancora una lettera di ottobre 1963, tra le carte del processo, in cui lui le dice di amarla. Insomma, nella tragedia di via Lazio nessuno dei tre protagonisti ha posizioni chiare: ognuno è confuso, altalenante, sovrapposto agli altri, in un intreccio che alla fine si rivelerà disastroso per tutti e fatale per uno solo.
182
Capitolo 10 Un processo epocale
C’era mai stato un dubbio che fossero stati loro? No, nemmeno uno. Addirittura già il 22 gennaio 1964 il Pubblico Ministero firmava, con la sua bella stilografica nera, un rapporto in cui indicava la responsabilità di entrambi. E altrettanto avrebbe fatto Scirè. Già a gennaio 1965 iniziava il processo. Una falsa partenza, però. Dopo una cinquantina di sedute ci si accorgeva che era tutto sbagliato. Una cosa che si chiamava “difetto di requisiti di alcuni giudici popolari”: qualcuno s’era accorto che alcuni dei giudici non avevano l’età giusta o il titolo di studio minimo richiesto dalla legge. Tutto azzerato. Era il 6 maggio 1965. Altra Corte, altra giuria, stessi imputati. Si ripartiva da capo, come se non fosse successo niente. C’era però una costante tra il processo numero uno ed il numero due: i flash dei fotografi. Il crepitare delle Rolley, quella era una costante, con quelle sparate al magnesio che illuminavano a giorno. La protagonista era lei, la straniera sinuosa che si presentava a deporre in pelliccia. Ogni accavallare di gambe di Claire su quella sedia di legno era un sospiro per i maschi presenti ed un commento nuovo, il giorno dopo, al bar o dal barbiere o dalla fruttarola. Perché certo lei non si risparmiava nell’opera di seduzione: la sua bellezza imbronciata era presente ad ogni udienza. Qualcosa con cui proprio non si poteva non fare i conti, col rischio di parlare più di lei che del morto, che proprio il prezzo di quella femmina aveva pagato, sul pavimento del suo ufficio. 183
Il punto era questo. Era stata lei? Era stato lui? Chi aveva sparato? Chi gettato il vetriolo? Era stato uno solo dei due o si erano divisi i compiti? Sarebbe toccato al processo capirci qualcosa e la faccenda non si presentava facile, visto che i Bebawi si accusavano a vicenda. Sarebbe stata, quella, una mossa di importanza incalcolabile. Sfilarono, su quella sedia, la bellezza di numero centoventi testimoni. Era il 1966 e quell’estate la regina d’Inghilterra - nel senso dei Mondiali - sarebbe stata Pelè. Ma ora rivediamo i fatti, così come stavano nei faldoni del processo. Rimettiamo in fila tutto quello che ci fa pensare che fossero lì entrambi, innanzitutto. Perché ci sono una serie di gesti che appartengono solo a Claire ed altri che sono solo di Joussef. È lo stesso compito che dovette affrontare la Corte, mentre stava lì a chiedersi: sarà stato lui? Sarà stata lei? Non lo sapevano ancora, ma l’errore stava proprio, tutto, dentro questa semplice domanda. L’uso delle pistole parla di lui: lui sapeva usarle, lui si esercitava, lui le aveva comprate nell’imminenza del delitto. E lui mentiva, asserendo di aver rivenduto proprio l’arma che aveva sparato in via Lazio ad un fantomatico Kramer che, ovviamente, non esisteva. Joussef si era stabilito da due anni in Europa: perché avvertiva proprio ora il bisogno di comprare due pistole per difendersi? L’acquisto del vetriolo parla invece di lei. L’acquisto del Burnol, ad Atene e non a Losanna, quindi dopo il delitto, parla sempre di lei. E la cordicella? Se avesse ucciso solo Joussef, come avrebbe potuto sapere a che serviva lo spago? I moventi portati da ognuno dei due per spiegare l’omicidio dell’altro erano poi ridicoli. Lui disse che lei aveva reagito alla grave offesa, fatta da Farouk, di offrirle del denaro per liquidarla a fine relazione; lei che lui aveva reagito all’aggressione, a base di vetriolo, di Farouk. Ridicolo. La modalità dell’omicidio parla di Joussef. L’angolazione di tiro di ciascuno dei tre colpi alla testa è infatti diversa ed è propria solo 184
di un esperto tiratore, che colpisce in rapida sequenza e con precisione un corpo in movimento. Assurdo anche il motivo di venire a Roma a cercare l’appartamento, perché in realtà quel 18 gennaio non lo cercarono e d’altronde era sabato. Sarebbe stato un gran processo, uno di quelli che riempiono i quotidiani ed i cinegiornali. Prima del film, in quel 1966, ti sciroppavi questi venti minuti in bianco e nero di pura cronaca, puro racconto della realtà. D’altronde la tv, sempre in bianco e nero, aveva un canale solo. I Bebawi possono permettersi grandi nomi come avvocati: la signora ha scelto Sotgiu e Leone. Il signore, Vassalli e Lia. Un colpo di scena avviene quando Giovanni Leone - che diverrà Presidente della Repubblica alcuni anni dopo, a Natale del 1971 - si ritira dalla difesa di Claire, il 29 settembre 1965, nell’imminenza del processo, senza dare un perché, con un piccolo foglietto quadrato, scritto a macchina, di pochissime parole. Un mistero che rimarrà tale fino ad una sua intervista, rilasciata quando era già al Quirinale. E poi, come si faceva a non parlarne? Il caso Bebawi è stato il primo delitto internazionale che abbiamo visto, intriso d’un fascino d’esotismo incredibile: il misterioso Oriente - di cui nessuno sapeva nulla, dove nessuno era stato, a meno che non fosse ricco. La Svizzera stessa era un paese lontano, dove si arrivava dopo ore e ore di treno, un paese dove andavamo ad emigrare, fatto tutto a modo suo, strano, dove le auto si fermavano persino se ti vedevano all’inizio delle strisce. Quando si vedeva uno curioso, a Roma gli si diceva ahò, ma che sei svizzero? Ed erano anni in cui si volava pochissimo, in pochissimi, dove a bordo dell’Alitalia i piatti erano di ceramica e le posate erano quelle vere, di metallo. Roba da ricchi: e i Bebawi prendevano aerei, anzi avion, come niente fosse. Tutti questi stranieri della Dolce Vita erano invariabilmente danarosi, portatori di mondi lontani: pianeti misteriosi per definizione, proprio perché non li conoscevamo. E guarda qui cos’era successo. Accusati due stranieri, vittima idem. E 185
sullo sfondo confini e dogane varcate più volte, radici afro-mediterranee, ma scena del crimine italiana. In quegli anni Il Cairo era alla moda e Beirut voleva dire jet set, ricconi abbronzati in piscina; e Sharm el-Sheik non la conosceva nessuno. Al massimo, le piramidi sui libri di scuola. Che, appunto, sono misteriose per definizione. Come gli occhi verdi di Claire, come la freddezza di Joussef. Claire sui giornali era: viziata, indolente, prepotente, passionale, nevrotica. Joussef era: freddo, calcolatore, impenetrabile. Sì, sarebbe stato un gran processo. Ma c’è subito bisogno di ulteriori accertamenti, bisogna chiarire alcuni particolari di questa storia… E quindi ecco che la Polizia Scientifica effettua un nuovo sopralluogo. «Ma è mai possibile che la Corte chieda nuovi accertamenti dopo tutto questo tempo, Armando?» «Sì, non ci trovo nulla di strano, la segretaria di Chourbagi, Arbib Karin, è un testimone chiave nel processo, è lei che ha sentito gridare il suo capo: Io non posso sposarti, non posso! Dimmi tu cosa devo fare! È lei che ha indirizzato subito le indagini sulle tracce dei Bebawi. Come accade spesso in questi casi l’attendibilità del testimone deve essere oggetto di riscontro su tutti i particolari che dichiara. E quindi ecco la finalità dei nuovi accertamenti: la Arbib poteva vedere, come ha dichiarato, il corpo di Farouk dall’ingresso del suo studio? In quell’ora, con una imposta chiusa, nella penombra della stanza? La segretaria viene fatta tornare nello studio e ripercorrere la strada che aveva compiuto, vengono messi dei segni in gesso sul pavimento e per ogni punto dove lei dichiara di essere stata viene scattata una foto per far vedere alla Corte quello che lei poteva osservare. Poi la Scientifica documenta le macchie gialle rinvenute sulla carta da parati e gli schizzi di sangue che sono ancora presenti sulle pareti. In quegli anni la BPA, la Bloodstain Pattern Analysis, l’analisi delle tracce di sangue, non era sviluppata: infatti, nello stesso fasci186
colo di sopralluogo, non si era tenuto conto di alcuni piccoli schizzi a forma di punto esclamativo, i migliori per determinare le traiettorie, che vengono invece fotografati negli accertamenti successivi disposti dalla Corte. Sono due piccole tracce, poste sulla parete sinistra dell’“ufficio del Presidente” e la loro posizione è un poco incongruente con la dinamica dei fatti: sono praticamente al lato opposto di dove è stato rinvenuto il cadavere. Entrambe hanno direzione verso il basso, con la parte terminale particolarmente densa. Difficile capire come delle tracce di sangue siano finite lì, dall’altra parte della stanza…» Armando inizia a pensarci. Corte d’Assise di Roma. Maggio 1966. Deposizione di Ghobrial Claire di Mourad, coniugata Bebawi, nata a Il Cairo il 30 gennaio 1933. …Sì, la Henke. Nel 1963 la Henke era la nostra governante, a Losanna. Ed era l’amante di mio marito. Joussef andava a ballare con lei, mentre ero a Roma con Farouk ed ero già divorziata. Non gli contestai la relazione con la Henke perché non gli contestavo mai nulla; era una cosa volgare e neppure una relazione. Joussef dopo il divorzio da una parte si divertiva con lei, dall’altra però era geloso pazzo, correva a Roma a vedere che facevo, si fingeva malato per attirare la mia attenzione; e quando veniva a Roma io andavo a dormire in albergo con lui, perché così pretendeva che fosse. Da quando mio marito volle che ritornassi a dormire con lui avemmo rapporti intimi. Era l’unico modo per poter dormire, altrimenti litigava tutta la notte, ma non dissi nulla a Farouk. Fu per i miei figli che rimasi vicina a mio marito. Menzogna: quali figli? La maggiore era in collegio e lei partiva ogni tre per due col marito per girare l’Europa. Ecco perché serviva la governante. Farouk però mi disse che gli sembrava di impazzire perchè dopo il divorzio io vivevo ancora con mio marito. Avemmo una lite ter187
ribile. Farouk era molto geloso di me. Litigai con lui anche per portare via tutti miei vestiti da casa sua, non voleva, asserendo che se lo avessi fatto non sarei più tornata e lui si sarebbe ucciso. Fece una scenata, ingoiando pillole di sonnifero davanti a me! Mi disse che potevamo sposarci a Londra, un giorno che mi raggiunse mentre ero lì con Joussef. Anche a Londra litigammo, ci schiaffeggiammo, io gli tirai dietro gli occhiali. Successe all’Hilton. La sua famiglia, poi, mi odiava e parlava male di me, volevano che Farouk sposasse sua cugina e poi c’è che io ero cristiana copta e loro no. E avevo tre figli. Lo rimproverai di non aver detto loro la verità e gli dissi di dire ai suoi che tra noi era finita. Da luglio 1963, comunque, non scrissi più a Farouk, scriveva lui decine di lettere. Però con Joussef continuavano le liti perché volevo lasciarlo: mi diceva che non mi avrebbe mai fatto condurre la vita che volevo e che avrebbe speso ogni suo soldo per buttarmi in una fogna. E Farouk, intanto, continuava a inseguirmi nei miei spostamenti con Joussef per l’Europa senza capire dove fossi… e scriveva dappertutto. Qualche volta ci vedemmo, aveva bisogno del mio appoggio morale. Verso il 7-8 dicembre 1963 ricordo che andai con Joussef a Roma, per l’appartamento che finalmente voleva prendere per me ed i bambini. Alloggiammo a “La Residenza”. Rientrammo il 19 dicembre 1963 a Losanna. Mi incontrai con Farouk in quei giorni, a Roma: pianse, si inginocchiò, mi baciò le scarpe, chiese perdono. Comunque, dopo i litigi, io e lui ci riappacificammo e la nostra relazione non finì: io posi però fine ai discorsi sul matrimonio. Gli dissi che le nostre famiglie si sarebbero opposte, che non volevo lasciare i miei figli, che era troppo giovane, che eravamo di religioni diverse. Con lui ebbi l’ultimo rapporto il 19 dicembre 1963. Menzogna: sappiamo bene che per Farouk la faccenda era bella che finita. Ma Claire deve far vedere che le cose andarono diversa188
mente. Non può proprio tollerare che lui l’abbia scaricata. E deve motivare l’omicidio compiuto, dice, dal marito. Il giorno dell’omicidio, sì. Quel giorno portavo a Farouk una medicina, da Losanna. Mi allontanai da Joussef, una volta che uscimmo dall’albergo, dicendo che andavo dalla sarta. Farouk non era ancora arrivato ed io lo attesi per le scale, quindi salimmo insieme. Io non mi curai della porta, Farouk entrò, lo seguii e spinsi la porta dietro di me: era lui che doveva preoccuparsi di chiuderla. Il colloquio con lui in ufficio? Stavamo seduti sul divano. Mi chiese: mi ami? No, dissi. Non ti credo, disse lui. Ho caldo, apro la finestra, risposi. Sei spettinata. Ti sono mancato? Sì, gli dissi io. Dopo dieci minuti che eravamo nel suo ufficio entrò mio marito e iniziò una lite con me e lui. Farouk colpì Joussef ad un occhio… Menzogna: ad Atene lui non reca nessun segno sul viso. … Io scappai in bagno, quando ne uscii dopo qualche minuto sentii gli spari, vidi Farouk a terra. Mi raccontò poi Joussef che Farouk tirò fuori dalla tasca del cappotto una bottiglietta di vetriolo e minacciò mio marito di gettarglielo in faccia; lui allora, preso dal panico, aveva sparato. Mio marito, quando mi vide, agitò le mani furiosamente verso di me e alcune gocce caddero sulla mia fronte, sul mio avambraccio destro e sul foulard che avevo in testa. Non vidi se aveva la bottiglia in mano. Io, quando lo vidi venire verso di me, pensai volesse colpirmi e mi nascosi con le mani, ecco perché ebbi dei segni anche lì. Capii che era vetriolo e corsi a lavarmi. Non fui io a gettarlo, ma lui! Non ricordo nulla del viaggio in treno verso Napoli e della notte trascorsa lì. Lo seguii a Napoli senza capire, in stato di shock. Litigammo tra Bari e Brindisi, in treno. Mi rendevo finalmente conto di ciò che era successo e graffiai mio marito, che mi chiese perdono. Gli dissi che non avrei più vissuto con lui, adesso che non c’era più Farouk non c’era nessun altro per me, e che se fossi usci189
ta da quella confusione sarei entrata in convento. Ad Atene andai dal parrucchiere dell’Hilton per farmi nascondere le bruciature in fronte. E fu Joussef, ad Atene, a portarmi una pomata per le bruciature. Menzogna: i testi della farmacia videro lei, non il marito. In cella mio marito mi disse di prendermi tutta la responsabilità del delitto. Anche l’avvocato Totomis, che ci difendeva ad Atene, mi spingeva a questo e così io scrissi a Sucato, a Roma. Accettai di prendermi la responsabilità perché, se lui fosse rimasto in galera, nessuno avrebbe badato ai nostri figli e quello è il mio punto debole. Menzogna: sappiamo bene che Claire, a Sucato, disse che lei non c’entrava nulla. E che dei figli non se ne occupava, troppo impegnata a fare la signora. Poi dice: Non conoscevo il sistema della cordicella per chiudere la porta, non ne sapevo nulla. Esce un articolo di Oriana Fallaci. Che strano delitto signor Bebawi, signora Bebawi. Si uccide per la polizza, per sposare l’amante, non per odio o gelosia, come fate voi. Si uccide per interesse, oggi come oggi. Che ci guadagnavate? Lui perdeva la moglie, lei non guadagnava l’amante, tutti e due perdevate la pace. C’è talmente tanta passione nel vostro delitto da essere fuori moda, è un delitto illogico. Peccato che non sappiate sostenere la grandezza di quel crimine assoluto che avete commesso, che lo neghiate anzi, quando avete saputo abbandonarvi come nessuno alla suprema passione dell’amore. Negate il delitto, non sapendo che c’è il delitto d’onore e che qui, in Italia, in tre, massimo sette anni, sareste fuori. Che strano processo signor Bebawi, signora Bebawi. 190
Quindi tocca a Joussef. L’uomo che depone, avvalendosi di un interprete, sembra sdoppiarsi. Difendersi dalle sue ombre. Quando parla di Claire prima del divorzio dice ma femme, mia moglie, ma se ne parla dopo il divorzio dice semplicemente elle, lei. Non la chiama mai per nome. Per Joussef Bebawi, Claire, un anno oltre i fatti, è ancora una ferita aperta. Corte d’Assise di Roma. Maggio 1966. Deposizione di Bebawi Joussef di Yacoub, nato a Samalout il 24 aprile 1926. Fu lei a dirmi che partiva per Roma, qualche giorno prima di quel 18 gennaio; e sabato mattina mi decisi anche io. Così si occupò lei del mio biglietto. Decisi di partire con lei perché la mia famiglia non sapesse i nostri veri rapporti, il nostro stato di crisi. Menzogna: la spiegazione è patetica. Se Joussef vuole scaricare la colpa sulla moglie deve prima spiegare che senso avrebbe avuto, per lei, portarsi dietro, a Roma, un testimone pericolosissimo come lui. Del loro stato di crisi, poi, lo sapevano anche i lampioni di Losanna. Quando, arrivati a “La Residenza”, scendemmo per prendere due tè, lei si allontanò per chiamare Farouk, ma io non lo sapevo che chiamava lui. Menzogna: Claire parlava così forte che il teste Micangeli la sentì dalla reception, pur senza ovviamente capire nulla di arabo. Usciti, ci recammo verso via Veneto, ma mi avvidi che non mi seguiva. All’incrocio con via Ludovisi le chiesi dove andava: dal parrucchiere, disse. Ma la vidi superarlo, allora la rincorsi e le chiesi di nuovo dove andava. Mentre parlavamo arrivammo davanti al portone di via Lazio dove lei mi disse che andava da Farouk, a dirgli che non voleva più vederlo. Entrammo. Poi, per le scale, lei mi fece cenno di allontanarmi. Salii solo alcuni gradini delle scale e tornai in albergo. 191
Strano: un uomo così geloso, possessivo, che brucia per lei e… beh, si gira e come un cagnolino se ne va, quando lei va ad incontrare l’amante? La pistola? L’avevo acquistata io, sì, il 2 dicembre 1963. La gettammo nelle acque di Napoli, ma prima Claire limò la matricola con un pezzo di acciaio che si era portata dietro da Losanna. Le comprai la pomata, ad Atene, perché lei me lo chiese. E sempre lei ebbe l’idea del parrucchiere. Avevo con me, ad Atene, anche la pistola cal. 38 che avevo comprato il 3 gennaio 1964, a Stoccarda, e che portavo sempre con me in ufficio, quella che la polizia ha trovato in albergo, nel bagaglio. Confermo che mi esercitavo al tiro, quando ero in Egitto, in un club apposito. Quando arrivò la polizia ci portò nei loro uffici e mentre andavamo lei mi chiese, in arabo, se doveva confessare o no: io non risposi. Mi misero in cella dove stetti due o tre notti da solo, poi ci misero anche lei. Aveva paura di aver lasciato qualche impronta o capello nell’ufficio. Mi decisi ad aiutarla perché non pensavo di poter essere accusato, sennò non l’avrei fatto. Perché avrei dovuto uccidere Farouk? Avevo un bell’avvenire, una donna giovane che mi piaceva (la Henke, nda) e che già da settembre 1963 volevo sposare, era assurdo distruggere tutto. Menzogna: la Henke, che aveva prestato servizio dai Bebawi da agosto 1962 a settembre 1963, deporrà che sì, dal marzo ’63 i suoi rapporti con Monsieur Bebawi erano divenuti intimi, ma che non aveva mai detto di volerla sposare. Nell’autunno 1962 avevo iniziato a sospettare della loro relazione. Quando ne fui certo, volli il divorzio, ma quello civile era troppo lungo, così l’unica soluzione era che da cristiano copto diventassi musulmano. Il 5 marzo ’63 divenni musulmano ed il 25 dello stesso mese ottenni il divorzio, ripudiandola. Decisi questo con grande travaglio, per evitare una causa per adulterio che avrebbe nuociuto alla mia famiglia. 192
Erano passate centoquarantadue lunghissime udienze. È il 22 maggio del 1966. La Corte entra in Camera di Consiglio alle 11.45. Trenta ore dopo viene detto di far tornare gli imputati. Gli avvocati sentono addosso il peso di una tensione tremenda e si vede: chi è di cera, chi rosso congestionato, chi sudato, chi si muove come una macchinetta. Alle 17.34 gli imputati rientrano in aula, lui guarda dappertutto come a cercare solidarietà, lei tormenta un fazzoletto, tremando. Alle 17.40, la sentenza. Quando il Presidente La Bua pronuncia “art 479”, due avvocati scoppiano a piangere, uno si morde le labbra e l’altro è pallido. Claire ha capito e si è stretta il fazzoletto agli occhi; Joussef, invece, solo quando la traduttrice ha spiegato in inglese. Allora si è stretto alla balaustra di marmo, immobile, non una contrazione. Il pubblico applaude. Assolti! Tutti e due! Per insufficienza di prove! È il caos intorno agli ex coniugi Bebawi. Lui, intervistato, parla di lei come di una donna che va a scatti, insofferente. Ne parla incupendosi, senza chiamarla per nome ma ripetendo solo elle. E “lei” dice ai giornalisti che non vuole più avere a che fare con lui, ci parlerà tramite gli avvocati, per i figli. Fanno due conferenze stampa separate, ognuno con i propri avvocati, ma entrambi sorridenti come non mai. Joussef, dopo la sentenza, raggiunge la sorella al Nomentano, lei i genitori a Montesacro. Vicini, ma lontanissimi… Assolti! Per insufficienza di prove! Com’era possibile? Per i giudici ognuno dei due aveva sì dei motivi per uccidere, ma perché divenisse un’unica decisione questa avrebbe dovuto essere preceduta da una riconciliazione, che non sembrava esserci stata. Nemmeno l’acquisto delle armi era prova di volontà omicida, per loro. E non c’erano prove che lei avesse versato il vetriolo, infatti alla visita del medico greco non era risultato. Nemmeno l’evidente complicità dei due era poi una prova perché, secondo loro, anche se fosse stato colpevole uno solo dei due si sarebbero salvati a vicenda comunque, per evitare alla famiglia scandalo e sofferenza. Certo uno di loro era colpevole, ma chi? I colpi erano stati sparati da di193
stanza ravvicinata e quindi poteva esser stata anche lei. Le minacce fatte da lei a Farouk, poi, potevano benissimo essere solo uno sfogo. Lo stesso grido di donna udito dalla teste Luparelli andava nella direzione di una esclamazione di dolore o sorpresa di fronte ad un fatto grave e inaspettato. Molti indizi, molti dubbi, ma era impossibile accertare come fossero andate davvero le cose. Assolti. Da non crederci. E infatti non ci credevano nemmeno loro: troppa grazia, Sant’Antonio! Ma l’errore della corte d’Assise era stato quello di pensare che tutto fosse stato svolto dalla stessa persona, e da qui l’assoluzione; di non riuscire ad immaginare che fossero stati tutti e due o quantomeno di non riuscire a graduare le responsabilità, cosa che invece era possibile. Claire si mostrò disposta al cinema, poi a scrivere un libro, poi si ritirò in un appartamento di Montesacro col padre dove concedeva interviste e sferruzzava maglioni. Ebbe una storia con uno dei due avvocati, quindi andò all’estero, dove da subito s’era involato il marito. L’anno dopo iniziava il processo d’Appello. Claire mandò un bel certificato medico da Alessandria d’Egitto. Joussef non si fece vedere. I giudici dell’Appello la pensarono a modo loro. Non stettero lì a capire se fosse stato l’uno o l’altro. Trovarono motivi più che sufficienti per pensare che fossero stati tutti e due. Il 15 gennaio 1968 li condannavano a ventidue anni a testa per omicidio aggravato dall’abuso di ospitalità, stranamente senza l’aggravante della crudeltà e della premeditazione. Alla Cassazione venne da ridire sulla sentenza e l’annullò nel dicembre 1970. La Corte d’Assise d’Appello di Firenze, nel giugno 1972, confermò i ventidue anni. Nell’ottobre 1974 la Cassazione confermò definitivamente e chiuse la faccenda. Ma era tardi, troppo tardi. La Dolce Vita era finita da un pezzo. Una banca era saltata in aria a Milano, una piazza a Brescia, un treno in una galleria. Un altro mondo, dove la voglia di uscire la sera 194
tra drink scintillanti e cravatte giuste era pari a zero. In quel clima da coprifuoco, Farouk Chourbagi aveva avuto giustizia, ma dieci anni dopo. Troppo tardi. Claire ormai faceva la guida nelle crociere sul Nilo, tre lingue parlate e cinque cambi d’abito al giorno, sulla motonave Hotp. Si risposò e divenne la signora Murad. Lui era tornato a fare l’uomo d’affari in Svizzera. Svizzera, Egitto: due paesi con cui non c’erano accordi per l’estradizione. E tanti saluti all’Italia, che aveva fatto loro il favore di assolverli.
195
Capitolo 11 L’assassinio: cosa fece Claire, cosa fece Joussef
Sono passati poco meno di cinquant’anni da allora. Però tutto l’intreccio dei fatti di quel 18 gennaio 1964 ce l’abbiamo chiaro. Abbiamo rivisto le vecchie carte, ora faremo di più. Se vuoi prenderli, ragiona come loro: è il solo modo. Ed allora ragioniamo e sentiamo come Claire e Joussef e rimettiamo a posto tutte le tessere dei loro comportamenti. Per capire davvero e finalmente chi fece cosa. Inverno 1963. Senza che Claire lo sappia, Joussef s’è accorto di ogni minimo segno, s’è accorto che la moglie è inquieta, sofferente più del solito, instabile. Capisce che tra lei e l’amante qualcosa non va. È ben prima della lite di fine anno sulle nevi di Gstaad che le due volontà omicide si incontrano. Avviene una lite furiosa, che la dice lunga: dimostra che la loro riconciliazione era di facciata, una cosa per gli amici. Certo, perché non era necessaria una riconciliazione tra i due per uccidere: anzi, finchè ci fosse stato Farouk di mezzo, non sarebbe stata minimamente possibile. È già a novembre che sono d’accordo, perché ai primi di dicembre Joussef compra una pistola, un revolver, la prima: un’arma, come abbiamo scoperto, che esploderà un solo colpo. Arma che non avrebbe comprato, per uccidere, se non fosse stata d’accordo anche lei, perché lui non avrebbe mai ucciso se non avesse sperato che, così facendo, l’avrebbe fatta tornare. Il 3 gennaio 1964 Joussef compra la seconda arma. È deciso, si farà. Ma quella che sarà l’arma principale del delitto, che colpirà Chourbagi almeno tre volte, è la prima, una Walter PPK 7,65 acquistata il 3 dicembre 1963 a Losanna. È lo stesso Bebawi a dire che 197
aveva con sé nel viaggio verso Roma insieme a questa pistola, un bel po’ di cartucce oltre il caricatore. È la seconda pistola: una Smith & Wesson cal. 38, quella che sparerà almeno un colpo, con tantissime cartucce di scorta, oltre quelle già inserite nell’arma. Ecco, sono proprio le cartucce che ci dicono che fu Joussef a prendere le armi, e non Claire. Perché le cartucce di scorta erano un’abitudine di lui ed erano conservate nella sua borsa. Dunque i Bebawi partono da Losanna con ben due armi e una tonnellata di cartucce, per andare a colpo sicuro. Perché due armi? Il marito dirà che le portava abitualmente, per difesa personale. Ma due pistole, sarete d’accordo, sono troppe per difendersi: posto che la moglie non aveva la stessa esigenza. Dunque la seconda arma era preordinata all’esecuzione del delitto. Per dire questo basta osservare come sono diverse tra loro: la 7,65 a distanza ravvicinata può essere micidiale, l’altra invece esprime una potenza che consente di sparare da maggior distanza. Ecco perché Joussef ha acquistato due armi: per essere sicuro di uccidere in ogni circostanza. Dunque, partono con questo peso in valigia. E la voglia di uccidere. «Armi, scatole di munizioni, vetriolo… il tutto imbarcato tranquillamente su un aereo dell’Alitalia. Non esistevano metal detector, le persone non venivano perquisite, non vi erano limitazioni sulle tipologie di prodotti che potevano essere portati in cabina e non esistevano le porte antiproiettili che dividono tutt’oggi la cabina di pilotaggio dall’area passeggeri. Altro che oggi, che è praticamente impossibile passare al controllo con una bottiglietta “trasparente” contenente acqua e che tutti i prodotti per l’igiene devono essere contenuti in micro bottigliette visibili! Sicuramente saranno diminuiti gli attentati aerei, i dirottamenti, però che stress per imbarcarsi oggi…» Armando me lo dice con un velo di malinconia negli occhi. 198
Arrivano a Roma e perché tutto quel cambiare alberghi? Anche a questo c’è una risposta. Se oscillano tra i due alberghi, a Roma, è perché uno (“La Residenza”) è vicino l’ufficio di Farouk e l’altro (il “Parioli”, che era in viale Bruno Buozzi 54) vicino casa sua. Esitano, perché non sanno ancora dove tenderanno l’agguato. Ma erano disposti a ucciderlo anche a casa sua. E prenotano per tre giorni, perché ancora non sanno se lo uccideranno sabato, domenica o lunedì: dipende da quando è libera la vittima per farsi ammazzare. E poi se davvero non avessero avuto niente da nascondere, a che serviva allora fermarsi a Roma per poche ore? Guardiamo i vecchi orari dei voli. Armando ha trovato qualcosa e me la indica col dito ed un sorriso soddisfatto. «Guarda, dopo la sosta di un’ora e cinquanta a Ginevra, partiti da Losanna, Bebawi, se avesse voluto andare ad Atene, come disse, se Roma fosse stata solo uno scalo, beh, avrebbe potuto prendere il volo 380, della Swissair, alle 15.20, che l’avrebbe portato ad Atene alle 18.45… o, guarda qui, da Fiumicino il volo delle 16.00 che arrivava alle 18.50… non regge». E invece… era stato proprio lui, all’atto della partenza, a chiedere alla Swissair di Ginevra un biglietto che prevedeva espressamente lo scalo a Roma. «Ricordi, Armando? Dove lo abbiamo letto? Fu lo stesso Joussef a dichiarare quanto di malavoglia venisse a Roma: a me ha dato fastidio venirci. Non mi ci sentivo a mio agio, data la presenza di Farouk e per quanto vi era successo tra lui e mia moglie. Se era stata lei, come poteva esserci venuto così, a rimorchio di Claire, come un bravo barboncino?» «Cercavano davvero casa per lei? Così disse Claire. Ma quando la volevano cercare ’sta casa? Sabato pomeriggio? Domenica? Lunedì prima di partire? Non comprarono nemmeno le riviste di annunci! Non regge». 199
Ovviamente sarete d’accordo se diciamo che, una volta usciti dall’albergo, era ridicola l’affermazione che Claire si fosse allontanata da Joussef dicendogli che andava da Farouk a dirgli che tutto era finito perché lei non aveva mai ammesso col marito quella relazione. E d’altronde, se voleva andare a Roma a chiudere con Farouk che stramaledetto bisogno aveva di portarsi dietro il marito da Losanna? Come è altrettanto ridicola l’affermazione di Claire che il marito fosse entrato solo perché la porta era aperta. Nessuno di noi lascia, mai, una porta d’ingresso aperta. Dunque, Claire sale. Non da sola. Ma la Arbib ricorda che, dopo la telefonata di Claire, il giorno prima del delitto, Farouk le dette un espresso da spedire a lei, a Losanna: segno che non sapeva che lei sarebbe venuta il giorno dopo… Possiamo immaginare la sua sorpresa quando lei lo chiamò dall’albergo! E infatti fu subito una lite, li sentirono strillare in arabo. Come lo convinse, allora? C’era un solo modo: dirgli che era finita e che rivoleva le lettere che gli aveva spedito. Certo, visto che Farouk non voleva più sentirla nemmeno per telefono, Claire non poteva sperare di incontrarlo e ricevere baci e carezze, come disse mentendo… Dunque lei arriva e non deve affatto aspettarlo per le scale: era solo un’affermazione che le serviva per dire Farouk ha aperto, io venivo dietro e non ho nemmeno chiuso la porta. Non deve aspettarlo perché lui è già lì: infatti ha avuto anche il tempo di telefonare e la Tizerin ha trovato occupato. Lei suona, entra, parlano. Non c’è lite: la Luparelli, al piano di sotto, non sente gridare, prima di quei due strilli. Farouk le ridà le lettere e non gli sembra vero che si chiuda tutto. Sappiamo che le teneva nel cassetto destro della sua scrivania e non sono mai state trovate, probabilmente perché dimostravano che lei fino all’ultimo gli aveva chiesto di sposarla e, forse, l’aveva anche minacciato per iscritto. Ma bisogna aprire la porta a Joussef, che è salito con Claire e 200
aspetta dietro la porta, stringendo nella tasca del cappotto, con la mano, la pistola nera. Ha scelto la 7,65 perché è automatica, meno rumorosa e più rapida nel tiro. Probabile che Claire ad un certo punto abbia detto: vado in bagno un momento. Gira l’angolo, è fuori dalla vista di Farouk. Due metri in più e la porta è aperta. Uno sguardo al marito, non una parola. Lo precede. Entrano nella stanza. Farouk è colto di sorpresa. Non c’è nessuna lite tra i due uomini e non solo perché Joussef apre subito il fuoco. Perché non aveva ragione, Farouk, di avere del vetriolo, di essere un amante rabbioso. Perché, accettando un incontro in un palazzo semivuoto al sabato, dimostrava di non temere agguati. E poi, non è il vetriolo un mezzo di arresto adeguato… Joussef stende il braccio, ha un’espressione violenta sul viso. Farouk vede l’arma, non fa in tempo a capacitarsi, istintivamente si gira e l’altro spara. Lui, non lei: che Claire non fosse esperta nell’uso delle armi lo dice lei e lo conferma anche il marito, d’altronde. Colpi in rapida successione. Tre. Joussef spara, quindi si volta. Uno sguardo alla moglie, un’intesa, l’accordo fatto a Losanna che dev’esser rispettato. Claire estrae dalla sua borsa la 38 ed esplode un colpo da distanza ravvicinata, uno solo: è quello a destra nell’immagine numero 45 del sopralluogo della Scientifica, il più grande, quello largo nove millimetri, che il medico legale stesso indicherà come esploso da distanza ravvicinata. Poi Joussef spara il suo quarto e ultimo proiettile. E infatti la Volpi ha sentito prima tre colpi, pausa, quindi due. Magari in quel momento viene incitata dal marito, addirittura potrebbe essere Joussef che l’aiuta a tenere la pistola ferma nelle sue mani tremanti. Ma era troppo importante, per la loro unione, che entrambi contribuissero all’omicidio, che venisse compiuto da entrambi. Claire, da così vicino, da meno di mezzo metro, non poteva sbagliare bersaglio. Ma i primi colpi esplosi non erano semplici, Bebawi ha agito con rara perizia: il bersaglio è stato colpito in movimento, mentre si muove201
va con andamento imprevedibile e rapido, mentre cadeva, in punti vitali. Claire, dopo aver sparato, dopo aver realizzato cosa ha fatto, grida. Due volte, d’orrore. Si scuote. Apre la sua borsa, che si scopre solo ora a stringere con forza esagerata, prende la boccetta del vetriolo, si avvicina restando in piedi e lascia cadere l’acido sul viso di Farouk. Poi si abbassa, per vedere l’effetto. Quello che non sa è che il vetriolo, scolando sul viso, è intanto arrivato a contatto col sangue che contiene acqua e con cui l’acido reagisce, violentemente. Il sangue ribolle letteralmente, diventando giallo arancione carico. Gli schizzi in una frazione di secondo finiscono sotto il davanzale, sullo stipite sinistro della finestra e sul cappotto di Farouk, che infatti è bucherellato nella fodera. E sul viso di lei, ma senza farla urlare perché non è un dolore feroce. È più una sensazione di calore molto forte, quella che si prova. La perizia medico legale misurerà quegli schizzi come capaci di arrivare ad un’altezza anche di un metro e mezzo. Ma Claire è più alta: ecco la prova che si è abbassata… A questo punto, solo a questo punto, Claire corre in bagno, non prima. Infatti, è dopo tutti gli spari che Simoni vede accendersi le luci della stanza accanto all’ufficio di Chourbagi: le luci del bagno, appunto. «Ecco cosa ci facevano sulla parete sinistra dell’ufficio, dalla parte opposta a dove tutto era successo, le due piccole tracce di sangue!» «Sì, Fabio: quando Claire si è chinata per gettare il vetriolo sulla faccia di Farouk è stata raggiunta da alcuni schizzi di vetriolo misto a sangue e nel repentino correre verso il bagno, per lavarsi, sono partite le due gocce che sono finite sulla parete più lontana. Questa è, ancor di più, la riprova dello stato di agitazione che in quel momento ha vissuto la Bebawi, correndo ed agitando le sue mani imbrattate del sangue della persona che aveva amato. Sangue che, quarantotto anni dopo, ci ha raccontato quella scena di morte…» 202
Particolare della scena del crimine
Ora lo sappiamo per certo: è stata lei a gettare il vetriolo, come dicono le ustioni viste da Sucato, la bugia dell’essersele fatte in cucina a Losanna e l’acquisto del Burnol, guarda caso ad Atene. E Joussef era lì, non può mentire, perché quando dice - vi ricordate? non sono stato io, gettare vetriolo su un cadavere è orribile, i poliziotti pensavano ancora che fosse stato gettato quando Farouk era vivo, come si usava nell’Ottocento… non da morto! Il medico greco Kapsaskis, poi, avrebbe fatto involontariamente il gioco della difesa, sbagliando referto aveva negato che i segni sul viso e sulle mani di lei fossero piccole ustioni. Il fatto è che sulla pelle il vetriolo crea danni permanenti, certo, ma se viene lavato subito la bruciatura è praticamente nulla. Se poi arriva in faccia mischiato al sangue di Farouk, beh, è già meno corrosivo. Ma Kapsaskis a queste cose non ci pensò e finì per confondere le idee a tutti. Perché gettò il vetriolo? Per esser certa della morte, per sfregiare chi l’aveva rifiutata, per sottrarre ad altri o assicurare a se stessa il ricordo ultimo del viso che aveva amato. E sappiamo anche quello che finora nessuno sapeva: che spara203
rono entrambi. Così, tutti e due mentivano e, contemporaneamente, dicevano la verità quando si accusavano a vicenda perché ognuno sapeva che l’altro aveva sparato. Sì, è andata così. «Sai cosa penso? - dice Armando - che se fin dall’inizio si fosse pensato all’utilizzo di due armi da fuoco e gli investigatori non si fossero ingannati sul numero quattro (quattro i colpi che attingono Chourbagi, quattro i bossoli sulla scena del crimine e quattro i proiettili rinvenuti), forse, fin dal primo grado i coniugi Bebawi sarebbero stati condannati e non staremmo qui a raccontare questa storia. Era così lineare, questo delitto scandito dal numero quattro, dove gli autori del reato erano stati scoperti così presto, dove nessuno aveva apparentemente nascosto le tracce… che nessuno si prese la briga di fare una comparazione balistica. Si fecero perizie per le traiettorie, per le ferite sulla pelle di Claire e decine di accertamenti di tutti i tipi, anche all’estero, ma non venne effettuata nessuna perizia sui colpi esplosi, per capire se fossero stati sparati dalla stessa arma; ed il proiettile estratto dal corpo del povero Farouk rimase senza importanza nell’Istituto di Medicina Legale. Eppure la Volpi lo aveva detto, ricordava abbastanza bene, dopo tre colpi in successione c’era stato un breve intervallo e poi ne aveva sentiti esplodere altri due. Altro elemento trascurato dagli investigatori: una testimonianza che non verrà approfondita e che non verrà messa in comparazione con le risultanze balistiche. Forse semplicemente perché faceva portare i colpi a cinque e questo rovinava la ricostruzione di Scirè: uno di quei classici casi in cui si adatta la realtà alla propria tesi, invece di fare il contrario…» Ma torniamo in via Lazio. Ormai il delitto è compiuto. Joussef fruga nel cappotto di Farouk, mentre lei è in bagno a lavarsi la faccia: prende le chiavi, per chiudere l’ufficio e ritardare la scoperta del corpo. Lo lascia appallottolato sulla poltrona. Quando però arrivano sul pianerottolo, lei tira istintivamente la cordicella e lui le chiede: ma che fai? Avevo le chiavi. Quindi il ritorno in albergo, la corsa alla stazione, a Napoli, in Grecia. Il resto lo sappiamo. 204
E qui potreste farvi un’altra domanda, la stessa che ci siamo fatti anche noi. Perché, allora, dopo l’assoluzione, non tornarono insieme, ma si separarono? Perché non bastava la morte di Farouk a salvarli come coppia: questo era ciò che Joussef proprio non riusciva a vedere. Lo avevano ucciso perché s’era creata una comune volontà omicida. Qualcosa di irripetibile, come due pianeti lontani che gli astronomi ti dicono che s’avvicineranno, fino a sfiorarsi quasi, ma solo stanotte. Già in Grecia Joussef s’era accorto di essersi illuso. Claire era frastornata, stava sulle sue, era confusa, ma non di quella confusione che la faceva tornare tra le sue braccia. E poi, che ingenui: pensare che bastasse varcare un confine per essere al sicuro. Se n’erano accorti subito che la faccenda era diversa e grave. Il massimo della pianificazione che avevano fatto era stata fare un biglietto aereo Losanna-Roma-Atene-Khartoum, tutto qui. Il resto era stato improvvisato sul momento. Quando la polizia greca era piombata in camera loro non avevano preparato nessun piano, e d’altronde marito e moglie erano impulsivi, di carattere. Nessuna pianificazione, un delitto da cretini. Ormai erano nei guai e Joussef aveva dovuto aprire gli occhi: lei non aveva nessuna intenzione di tornare con lui. Così, perso per perso, l’aveva accusata. E lei aveva accusato lui. Ecco, com’era nata la faccenda: senza una vera pianificazione, che non era nella logica dei Bebawi, ma dal caso, dal concatenarsi unico e irripetibile degli eventi. E infatti, quand’è che si accusano? In Italia, appena arrivati. Appena arrivati, quando, a norma del vecchio Codice di Procedura Penale, gli imputati ancora non potevano vedere i loro difensori, ma solo magistrati e poliziotti. Non fu, dunque, una strategia suggerita da Vassalli o da Sotgiu, ma nata così, da come si misero le cose. Un capolavoro da Corte d’Assise, nato per caso e cavalcato poi dagli avvocati. Un caso da manuale, nato da un piano da cretini, elaborato da due dilettanti che la fortuna aveva baciato in Corte d’Assise. E poi dicono che la realtà supera la fantasia: proprio vero.
205
Capitolo 12 Un vecchio monitor in bianco e nero
Le immagini sono di un bianco e nero lattiginoso, quasi incredulo. C’è un omino baffuto di fianco ad una ricca scrivania, in piedi, una mano appoggiata al piano di vetro. È vestito tutto di nero. La scrivania è quella del Presidente della Repubblica, è il Quirinale quello. Armando guarda, forse è quello che cercavamo tra questi vecchi nastri! Sono immagini di prima dei tv color, forse saranno del 1974 o 1975, dopo che la Cassazione aveva chiuso il caso. L’omino è Giovanni Leone, allora era Presidente della Repubblica. Parla con la sua voce, stentorea e nasale, ed una netta inflessione napoletana. Guardiamo nel piccolo monitor. Armando alza il volume, avvicina il viso allo schermo come se volesse cogliere qualcosa che non si vede. Feci parte del collegio di difesa di Claire Bebawi, un collegio molto nutrito essendo composto, oltre che da me, da illustri colleghi come l’avvocato Sotgiu. Chiesi alla Bebawi, un giorno, in carcere, se fosse colpevole e lei mi disse sì, sono stata io. A quel punto lasciai immediatamente la sua difesa, perché la mia coscienza e la mia dignità professionale mi impedivano di assistere e difendere una persona che sapevo essere colpevole. Era dunque andata così. Questo era il mistero che si nascondeva dietro le pochissime righe con cui l’avvocato Leone aveva lasciato il collegio di Claire. Dietro quel foglietto minuscolo e dattiloscritto. Sì, la realtà supera la fantasia. E non è mai troppo tardi, mai, per scoprire la verità.
207
Claire
208
Dietro il velo di via Veneto
Sono le tre di notte, solo a quest’ora si sente il pieno scroscio della fontana… La puoi sentire solo a quest’ora, quando quasi tutti gli stranieri l’hanno lasciata. Siamo seduti sugli scaloni, qui a Fontana di Trevi, e vediamo i riflessi dell’acqua, le monetine che sono state tirate con tanta speranza da chi vuole un giorno tornare qui, nella fontana incastonata tra i vicoli, che si apre alla vista come un’apparizione, un miracolo. Stranieri che passano una sola volta nella vita nella nostra Roma, ma ai quali è rimasta nel cuore e vogliono credere che basterà un gesto semplice per assicurargli il ritorno. Ripercorriamo i nostri racconti, vissuti invece da stranieri che non hanno gettato la monetina: una ragazza tedesca che ha puntato sulla fortuna, che purtroppo le girò le spalle troppo presto, una coppia di ricchi egiziani che si doveva vendicare… Queste sono le nostre storie e le ripercorriamo qui, davanti la fontana simbolo della Dolce Vita e mentre parliamo ci sembra di vedere una donna bionda, dai capelli lunghi, che cammina nell’acqua ed un uomo con il vestito scuro che la vede e la va a prendere. Dietro una cinepresa riusciamo anche a vedere il regista col cappello e la sciarpa rossa che suggerisce, indica, si muove per compiere il suo capolavoro. È ora di andare, ci alziamo e ci allontaniamo, pochi metri e prendiamo vicolo dei Modelli. Dietro di noi ci sembra di sentire l’eco di una voce: Marcello… Marcello… 209
Restiamo in silenzio, mentre il suono dell’acqua si allontana, piano piano. «Ma lo sai, Fabio, che proprio al numero 65 ci lavorava mio padre Romano? Uno degli ultimi artigiani… aveva un piccolo laboratorio galvanico di “Argentatura, Doratura”. Sai, la maggior parte dei locali di via Veneto esponeva posate d’argento, con grande sfarzo e per la gioia dei clienti, ma non tutte le posate erano veramente d’argento. Erano laboratori come quello di mio padre che le rivestivano. Ecco, questo mi sembra lo spirito che aleggiava a via Veneto: un mondo non d’oro, ma dorato». Sì, un mondo che sembrava qualcosa ed era qualcos’altro. Fatuo e vero allo stesso tempo, dove tutto si confondeva, come una moneta che sembra d’argento e lo è solo in parte e che, col suo luccichio, ti trae in inganno. Nella notte romana mi accendo un sigaro e il fumo si dissolve nell’aria, finalmente fresca. «È che, sotto la patina dorata del lusso, c’erano le storie vere di ragazze squattrinate che dormivano dietro la tenda di una camera di passaggio, di affitti non pagati, di signore lasciate dal giovane amante. Questa era la vera via Veneto, come un grande set cinematografico dove dietro le facciate era tutto finto… dove ti poteva capitare di venire a cercare la celebrità e trovarla da morta, di indossare una pelliccia solo per nascondere odio e ossessione. Armando, Via Veneto è stato il set di un film durato anni e anni, che ogni sera si riempiva di divi, attori, attrici, figuranti e comparse che facevano magari solo una posa e via». La fontana, adesso, non si sente quasi più. Succedeva a Roma, ai primi degli anni Sessanta.
210
BIBLIOGRAFIA
Felice Borsato, “Siena Monza chiama Doppia Vela 21”, Ciarrapico Editore, 1976. Carmen Spatafora, “Il poliziotto con la Ferrari”, Rubbettino, 2010. Cesare Fiumi, “L’Italia in nera”, Rizzoli, 2006. Enzo Rava, “Roma in cronaca nera”, Manifestolibri, 2005. Quotidiani e Periodici “Paese Sera”, numeri da gennaio a maggio 1963 e da gennaio a maggio 1964. “Il Giornale d’Italia”, dal 21 al 24 maggio 1964. “Il Messaggero”, dal 21 al 31 gennaio 1964 e numeri di maggio 1963. “L’Unità”, numeri di maggio 1963; del 24 marzo, 9 e 31 dicembre 1966; del 5 marzo 1971. “E il mio ufficio era un tavolo di Doney”, articolo di Gloria Satta su “Il Messaggero” del 28 luglio 2007. “L’Avvenire”, 10-21 maggio 1966. “L’Europeo” numero 23 del 1966, articolo di Nerio Minuzzo. “Tempo” del 30 novembre 1966, servizio di Mirella Delfini. “Oggi” del 9 e del 16 ottobre 1974. “Polizia e Democrazia”, intervista di Ettore Gerardi a Nino Marazzita, maggio/giugno 2008. “Repubblica” del 9 ottobre 1985; 15 e 16 marzo 1988. “Der Spiegel” numeri del 15 maggio 1963, 8 luglio 1963, 23 ottobre 1963. 211
Archivi Atti del Processo Wanninger, Corte d’Assise di Roma. Atti del Processo Bebawi, Corte d’Assise di Roma. Archivio Fotografico de “L’Unità”. Emeroteca del Senato della Repubblica, Roma. Sitografia Wikipedia, voce “vetriolo” e “Attilio Monti”. www.ecomancina.com/documenti/rumoridifondo.htm
212
INDICE
IL CASO WANNINGER Capitolo 1 “C’è una donna che grida” Capitolo 2 Nel palazzo del delitto Capitolo 3 Chiamata per il 461102 Capitolo 4 Christa e Gerda Capitolo 5 Si mette male per Gerda Capitolo 6 Brunelli, Galassi e le tedesche Capitolo 7 Cinque agendine ed un’unghia finta Capitolo 8 Ricostruiamo finalmente il delitto Capitolo 9 Sono io, l’assassino! Capitolo 10 Cosa sa Pierri? Capitolo 11 Chi è Guido Pierri Capitolo 12 Come niente fosse Capitolo 13 L’edicola di Monaco di Baviera Capitolo 14 Un ex maresciallo dà la sveglia Capitolo 15 Buon Natale, Pierri! Capitolo 16 Il processo
7 19 29 35 43 51 55 61 65 73 81 93 97 103 117 125
IL CASO BEBAWI Capitolo 1 Un tonfo, poi le grida Capitolo 2 Monsieur Farouk e il sopralluogo della Scientifica Capitolo 3 I Bebawi
135 139 145
Capitolo Capitolo Capitolo Capitolo
4 Un’altra Roma 5 Il cerchio si stringe 6 Il proiettile mancante 7 Due mandati di cattura e una boccetta di vetriolo Capitolo 8 Joussef cambia tutto Capitolo 9 Nella mente di Farouk, Claire e Joussef Capitolo 10 Un processo epocale Capitolo 11 L’assassinio: cosa fece Claire, cosa fece Joussef Capitolo 12 Un vecchio monitor in bianco e nero
149 153 157
Dietro il velo di via Veneto
209
Bibliografia Quotidiani e periodici Archivi Sitografia
211 211 212 212
161 171 177 183 197 207
NELLA STESSA COLLANA
I N C H I E S T E
www.soveraedizioni.it 00147 ROMA - VIA LEON PANCALDO, 26 - TEL. 06 5562429 - 06 5585265 FAX
Ferdinando Fabi La finestra su Piazza Montecitorio Storie di intercettazioni flessibili e di giustizia creativa 2009, pp.128, € 10,00 - ISBN 88-8124-860-3
Questo libro è la storia dell’odissea di un uomo normale che, dopo aver passato la vita a fianco di chi decide i destini del Paese si sente dire da un servitore dello Stato come lui che lui non è più lui. Si sente negare la sua stessa identità umana e sociale. Secondo qualcuno lui lo Stato lo avrebbe fregato. Per questo lo Stato lo manda in carcere: senza se e senza ma. Qell’odissea dopo anni finirà. Quell’uomo alla fine avrà ragione e la sua innocenza verrà riconosciuta. La sua onestà verrà certificata dalla sentenza di un giudice di primo grado.
Flaminia Festuccia Do re mi fa sol tabù La censura musicale in Italia dal Dopoguerra a Morgan 2010, pp. 80, € 10,00 - ISBN 88-8124-913-8
Esistono ancora censura e tabù nella musica italiana? A partire dal recente caso di Morgan a Sanremo sembra di sì. Ma è una storia che affonda le sue radici nell’Italia del Dopoguerra, con la diffusione di massa di radio e tv. Morta la censura fascista, inizia quella dei benpensanti, di destra e di sinistra, laici e cattolici. Ognuno con la sua morale e la sua lista di proscrizioni. I casi più eclatanti e i più nascosti in un libro inchiesta per scoprire piccole e grandi nefandezze e i tabù che hanno segnato la storia della nostra musica leggera.
Maurizio Martucci 11 novembre 2007 L'uccisione di Gabriele Sandri una giornata buia della Repubblica 2008, pp. 160 + 16 tft, € 11,00 - ISBN 88-8124-787-9
L'11 Novembre 2007 l'Italia vive una delle pagine più nere della sua recente storia. Poco dopo le 9 del mattino, lungo l'autostrada Roma-Firenze il ventiseienne romano Gabriele Sandri viene ucciso da un colpo d'arma da fuoco esploso da Luigi Spaccarotella, agente della Polizia Stradale. Il reato è omicidio. I mass media si scatenano per coprire mediaticamente l'evento ed è un susseguirsi di dirette TV, dibattiti, edizioni speciali di TG e tavole rotonde. Il mondo del calcio va nel pallone insieme a quello della politica e delle istituzioni.
Maurizio Martucci Cuore tifoso Roma-Lazio 1979 2010, pp. 208 + 32 tft a colori, € 16,00 - ISBN 88-8124-862-X
“Un razzo ha distrutto la mia famiglia” Gabriele Paparelli racconta”. A circa un’ora dal fischio d’inizio, dalla Curva Sud giallorossa vennero sparati due razzi nautici. Volteggiarono in aria per oltre 200 metri. Il secondo razzo colpì mortalmente al volto Vincenzo Paparelli. Fu il primo caso in Italia di un tifoso morto dentro uno stadio di calcio. A distanza di trent’anni dalla tragedia il figlio e la vedova, per la prima volta raccontano in questo libro mozzafiato come la loro vita sia stata spezzata da quel gesto sconsiderato.
Pino Nazio Il bambino che sognava i cavalli 779 giorni ostaggio dei corleonesi 2010, pp. 384, € 19,50 ISBN 88-8124-925-1
Una terribile storia vera. Una storia che non doveva essere scritta perché non doveva esistere. Ma non è andata così. I fatti e i personaggi sono tutti veri e ogni riferimento alla realtà non è casuale. Questo libro contiene un capitolo chiuso, che può essere saltato senza perdere nessun elemento della narrazione. È chiuso perché arrivati lì si possa essere liberi di decidere di non scendere i gradini che portano in un abisso, in un inferno che spaventa e inorridisce perché inesorabilmente vicino a noi.
Fabio Sanvitale Armando Palmegiani Un mostro chiamato Girolimoni 2011, pp. 176, € 15,00 - ISBN 88-6652-003-0
Gino Girolimoni: un nome che a Roma vuol dire infame. Il nome di chi avvicina le bambine, le cerca. le vuole, le prende. Un nome usato ancor oggi. Già, ma chi era davvero Gino Girolimoni? Un uomo benestante, coinvolto nella Roma degli anni Venti in una storia molto più grande di lui, così, dall’oggi al domani. Arrestato, accusato di ben sette tra stupri e omicidi a danno di bambine. Peccato che Girolimoni fosse completamente innocente, peccato che ogni prova fosse inventata di sana pianta per placare l’isteria, la follia che ormai s’era impossessata dei quartieri della città, della gente. Fabio Sanvitale e Armando Palmegiani, con l’aiuto di esperti di primo piano, ricostruiscono la vicenda dandone il quadro storico e criminologico completo. Rifacendo le indagini, passo passo, strada per strada, sospetto per sospetto, con le tecniche investigative di oggi.
T R A P O C O IN LIBRERIA Pino Nazio Il segreto di Emanuela Orlandi Lunedì 14 maggio 2012, la lapide che copre il sarcofago di Enrico De Pedis viene alzata. I resti del capo della banda della Magliana sono lì da 20 anni, in molti pensano che siano vicini a quelli di Emanuela Orlandi, scomparsa il 22 giugno del 1983. La ragazzina, figlia di un commesso del Papa e cittadina vaticana, sparì misteriosamente tra i vicoli del centro di Roma. Indagini, rivelazioni, depistaggi e decine di ipotesi: intrigo internazionale o ricatto interno al Vaticano, festini sessuali o maniaco isolato? Una vicenda ambigua, oscura ma che, se si mettono in relazione alcuni fatti salienti, rivela un chiaro disegno. L’analisi oggettiva di quanto è accaduto in questi 30 anni è servita all’autore - che ha incontrato decine dei protagonisti, visitato tutti i luoghi, raccolto testimonianze inedite per proporre una ricostruzione che permette di leggere questo libro come la trama di un romanzo e la documentazione di un saggio. Dalla prima all’ultima pagina.
Finito di stampare nel mese di ottobre 2012 presso la Tipolitografia C.S.R. - Centro Stampa e Riproduzione 00158 Roma - Via di Pietralata, 157 - Tel. 064182113 r.a.